Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA per la scuola primaria.

Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA
Toscana gentile

Il paesaggio dell’Italia centrale annuncia subito clima più mite e mare vicino. L’ulivo che nell’Italia settentrionale appare soltanto lungo la riviera ligure e lungo le sponde eccezionalmente privilegiate dei laghi lombardi, in Toscana riveste ampiamente le pendici inferiori dell’Appennino e poi il suo caratteristico di pallido verde e di grigio argenteo. Tra gli ulivi svettano i cipressi agili e scuri, che al paesaggio toscano danno il tocco più elegante. E poi i vigneti, i famosi vigneti di Toscana, il cui succo va per l’Italia e per il mondo negli stapaesani fiaschi impagliati e attinge la dignità dei prodotti di gran classe.
Poiché la gente è solita dare ad ogni paese un epiteto semplice e riassuntivo, la Toscana è gentile. L’epiteto si addice bene ai costumi del popolo toscano, di moderato benessere e di educata affabilità, all’eleganza del suo parlare spontaneo e arguto. Ma l’attributo di gentilezza va inteso soprattutto nel suo senso più antico e più schietto di nobiltà. Tutto qui mostra la più felice e armonica fusione fra genio istintivo e raffinatezza del gusto, fra fantasia e misura.
Questo segreto ci svelano la poesia di Dante e Petrarca, l’umorismo del Boccaccio, la prosa ragionatrice di Galileo, l’architettura del Brunelleschi, la struttura delle città, ciascuna delle quali, piccola o grande che sia, è regina.

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Cielo toscano

Chi entra in Toscana si accorge subito di entrare in un paese dove ognuno è contadino. Ed esser contadini da noi non vuol dire soltanto saper vangare, zappare, arare, seminare, potare, mietere, vendemmiare: vuol dire soprattutto mescolare le zolle alle nuvole, fare tutt’una cosa del cielo e della terra. In nessun luogo, il cielo è così vicino alla terra come in Toscana; e lo ritrovi nelle foglie, nell’erba, negli occhi dei buoi e dei bambini, nella fronte liscia delle ragazze. Uno specchio il cielo toscano, così vicino che lo appanni col fiato: monti e poggi le nuvole, e tra quelli le ombrose valli, i prati verdi, i campi dai solchi dritti (e quando è terso vedi nel fondo, come in un’acqua limpida, le case, i pagliai, le strade, le chiese). Ad ogni colpo di zappa l’aria si mescola alla terra, e subito dalle zolle spunta una peluria d’erba verde e azzurra, nascono larve di cicale e allodole improvvise.
Basta toccarla, per sentir che la nostra terra è piena di bollicine d’aria, e in certi giorni si gonfia e lievita, par che da un momento all’altro debbano nascere forme di pane. E’ una materia leggera e pura, per poterne far statue e uomini…
(C. Malaparte)

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Tra colli digradanti

Rivedo il mio dolce paese di Toscana, là dove è più bello, più sereno, più consolante, in Valdarno.  Rivedo la verde pianura ad aiuole quasi di giardino, tutte alberate, che a mano a mano si libera come ridendo dalle strette dei colli digradanti e di quando in quando è rinserrata come in un nuovo abbraccio dai colli che risalgono e le si stringono sopra. Corre diritta nel mezzo la bianca strada maestra; scendono per una traccia di salici e canne i fiumiciattoli dai soavi nomi e con dolci mormorii corrono via sotto i ponticelli leggiadri giù all’Arno. Una processione lunga lunga di pioppi, le  cui cime ondeggianti perdono figura e mobilità nella caligine biancastra del vespero autunnale, segna e seguita la corrente del fiume.
E la pianura e i colli sono popolati di case rustiche, bianche o dipinte, con le due scale esterne che salgono a congiungersi nel verone impergolato sul quale è un’insegna gentilizia o una Madonna. Al pian terreno è la tinaia, il frantoio e le stalle; l’aia in faccia e a sinistra due o tre pagliai non anche manomessi, con un pentolino sullo stollo. Ai piedi dei pagliai si accucciano i cani.
Dietro ha il monte ripido; e sul monte una fila di cipressi gracili e austeri dentellano del loro verde cupo l’orizzonte settentrionale tinto in colore di perla. Anche più indietro è una torre o un castello. Il sole calante batte nelle vetrate del piano superiore della villa, e quelle paiono incendiarsi come al riflesso di  uno scudo incantato.
(G. Carducci)

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Passeggiate fuori porta

Tutto quel che c’è di poetico, di malinconico, di grigio e di solitario in me l’ho avuto dalle campagne di Toscana, dalla campagna ch’è intorno a Firenze. Mio padre mi portava ogni domenica, fin da bambino, fuori porta. Il babbo sapeva certe strade solitarie, deserte, fuori mano dove si camminava adagio adagio. Di sopra ai muri, in cui la strada era incassata, si spenzolavano i rami convulsionari dei bigi ulivi, o sfilavano i rosai nani, poveri e non curati, i rosai con le rose fradice e sbiancate che cascavano foglia a foglia giù nella zanella a marcire.  Quante miglia rasente a quei muri! Muri bassi, quasi muriccioli che invitavano la gente a sedere; muri umidi, toppati di licheni bigi e di fungaie verdi, colle scolature nere e luccicanti delle feritoie; muri altissimi con alberi grossi, neri e fronzuti in alto. Ogni tanto i muri si aprivano e succedevano le siepi vive, alte, prunose, bianche di brina e di neve in inverno, bianche di fiori in primavera, nere di more alla fine dell’estate. E più lontano ancora, sparivano muri e siepi, e la strada solinga e massicciata tra i cipressi o gli abeti e avevo là sotto le valli solcate e i prati  bagnati e i fondi di nebbia e l’illusione dell’infinito.
(G. Papini)

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Colline fiorentine

Per coloro che non conoscono Firenze o la conoscono poco, dirò come essa sia una città molto graziosa e bella, circondata strettamente da colline armoniosissime… E’ pregio inestimabile di queste colline l’essere disseminate di ville, di castelli costruiti nei punti più suggestivi, volti in tutti i sensi, di tutte le epoche, d’ogni stile, e che mai ne turbano l’armonia; circondati da parchi e giardini che invece di produrre un’atmosfera di irrealtà da sogno o da fiaba, per virtù di certa severità e raffinatezza, riescono a darci l’illusione della realtà più semplice, di intimità domestica, di nobiltà sicura, di sobrietà e saggezza. Alle ville e ai castelli si aggiungono le ville più piccole, le villette, le case, i casolari, i paesi e borgate che la varietà del suolo lascia apparire in un complesso che rende insaziabile l’occhio dell’osservatore per il numero inesauribile delle scoperte.
(A. Palazzeschi)

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Firenze

Era una di quelle belle giornate di freddo asciutto e di luce cruda che fan risaltare la bellezza realistica e insieme trascendentale di Firenze. Via Tornabuoni, illuminata dal sole, svelava le forme e lo spirito del Rinascimento, parlava il linguaggio dell’architettura di allora, si propagava nell’armonia miracolosa della pietra divenuta canto: Palazzo Strozzi, nel fondo Palazzo Antinori. Festosa l’aria, e così l’aspetto della gente. E il senso del Natale: al principio del muricciolo di Palazzo Strozzi, sull’angolo del chiassolo, la mostra di alberi di Natale, di agrifogli coi pallini rossi, ciocche di vischio dalle lacrime ceree.
(B. Cicognani)

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Arezzo

Dal muretto dell’orto della casa del Vasari, presso il tondo dell’acqua tra gli alberi da frutto, l’occhio riposato raccoglie in prospettiva i digradanti tetti di Arezzo, misura in basso gli spazi delle vie e delle piazze col nitido rilievo d’una incisione. Finché la campana grossa e vicina di Santa Maria in Gradi, e quella leggera di San Vito poi, e via via dell’Annunziata, di San Domenico, di San Lorentino e tutte le campane non riempiono il cielo e volgono la giornata.
(P. Pancrazi)

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Siena

Siena, da sotto il mio ciliegio, pareva un arco che non si poteva aprire più, e le sue case, giù per le strade a pendio, parevano frane che mi mettevano paura; con i tetti legati dalle edere cresciute su per le mura di cinta, le mura che non si apriranno mai. Ed io allora andavo a guardare la città da un’altra parte, quasi da quella opposta, dalla Porta Ovile. E vedevo i suoi orti squadrati entrare, con un angolo più alto degli altri, tra le case più rade; oppure, l’uno appresso all’altro, farsi largo e posto, ma fermati da una fila di cipressi la cui ombra oscurava il verde dell’erba; e qualche pesco fiorire e maturare accanto alle campane di una chiesetta, e qualche olivo chinarsi dietro tutta la campagna soave che impallidiva lontano, rasente i monti chiarissimi, talvolta più luminosa del sole.  E se guardavo la città dall’altra altura, da Vignanone, le voci degli uccelli si allargavano nell’azzurro come il vento. Le rose dei giardini, senza colore e senza profumo, la cingevano tutta: le finestre erano aperte. Da parecchie miglia lontano, io vedevo invece le sue torri come tizzi ritti che si spegnevano nella cenere del crepuscolo.
(F. Tozzi)

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Grosseto nell’Ottocento

Grosseto era una cittadina malinconica e serena, fatta di case che al primo entrarci odoravano di sigaro, di polvere, di spigo e di mele cotogne, come cassetti di vecchi mobili, chiusa in una cerchia rugginosa di vecchie mura bastionate e arborate come quelle di Lucca. Sotto le grandi acacie la domenica suonava la banda, e la gente ci portava a spasso il vestito delle feste, da mezzo pomeriggio fino al che il solito tramonto palustre affocato e torbido scendeva ad arrossare la piatta campagna sottostante dall’orizzonte brumoso agli spigoli del gran bastione stemmato con l’arma dei Medici. E quando veniva aprile, per certe strade deserte ed erbose, di là dalla vecchia chiesa di San Francesco, l’odore delle acacie fiorite scendeva ventate giù dalle mura, e dava al cuore. Le case avevano le grondaie piene d’ortiche e le persiane tutte verdi. E pareva che anche i muri avessero messo le foglie.
(G. Civinini)

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Fiera di quaresima a Firenze

Banchi e banchi, uno accanto all’altro, in due file dirimpettaie che si estendono nella lunghezza del quartiere e che straripano di frittelle, di torrone, di schiacciata tipica e di zucchero filato. E i brigidini.
Il brigidino è l’attrazione della fiera. Lo si impasta e cuoce sotto i vostri occhi. Lo si mangia tiepido e croccante.
E’ in virtù del suo richiamo che la gente affolla la fiera. Il brigidino è una cosa da nulla, appena un’ostia di più grandi dimensioni, pure ha una consistenza, una fragranza, un sapore che si scioglie in bocca. I carretti ne sono pieni, dapprima, ma via via che l’ora monta e la folla cresce, si formano le code in attesa davanti ai banchi dal fornelletto sul treppiede, ove l’esperto brigidinaio rigira le sue “schiaccie”.
I venditori sono tutti vestiti di bianco, con in testa copricapi da cuochi di grande albergo. Magnificano la merce a squarciagola, persuaso ognuno di essere eletto da Santa Brigida in persona a custode del segreto per la confezione del biscotto.
(V. Pratolini)

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Alpi Apuane

La mia ora per amarle, era la mattina; la mia stagione la primavera. Lassù, lassù, dal verde cupo delle pinete sul mare, al più chiaro verde dei castagneti a mezza costa, alle alture già nude e sovrane, le grandi moli si levano audacemente; e sagomavano altissime l’orizzonte, attendevano nel celeste pallido delle cime che trascoloravano.
E a un tratto la luce alitava dietro di loro: come una diffusa nebbia chiara, già orlava d’un tremito splendente le loro creste; poi, con una irruenza improvvisa, il sole balzava, raggiava maestoso e terribile, le velava d’una cortina di fulgore, ascendeva sicuro. La cortina si spegneva e le Apuane cominciavano le loro variazioni di colori e di rilievi; si disegnavano catena contro catena, in una diversità di azzurri che rivelavano le valli tra le fiancate di rupe; passavano dal più denso cobalto, ai glauchi più lattei, ai più ferrei grigi; fino a stare, nel meriggio, bianche e calcinate nella severità abbagliante; per ripigliare poi via via fino a sera i passaggi dal celeste all’azzurro, all’amaranto al viola; e bruciare, accendendosi d’un tratto in certi miracolosi tramonti, come spaventevoli torce senza fumo; e spegnersi del tutto, svanire; riapparire aeree, nell’ultimo crepuscolo; e, se c’era la luna, biancheggiare indefinibili come sogni, nella vastità sonnolenta.
(E. Cozzani)

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Il Valdarno

Di quelle passeggiate pomeridiane e vespertine mi restano molti ricordi; vaghi i più, e dove si mescolano il colore dei campi e dei cieli di quel mio caro Valdarno; l’incanto di certi solicelli distesi per piagge solitarie e tacite, di certi tramonti piedi di frulli di uccelli, con qualche voce di bifolco o qualche muggito o belato: lo splendore e il profumo delle siepi fiorite, la bianchezza della strada polverosa, dove d’improvviso piombano i primi radi goccioloni di una pioggia estiva che ci faceva correre verso casa a ripararci sotto un ponticello o in un capanno di contadini. Taluni ricordi invece  molto distinti e vivi, come quello di un bel ramo di mele lazzarole verdi e rosse rubato da noi in un campo per farne un presente al maestro.
(A. Soffici)

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Maremma

Sono nato e cresciuto in Maremma, a poca distanza dal mare, in un paese urbano e campagnolo, rustico e civile, che ha serbato intatto il secolare orgoglio della sua piccola cerchia antica, torreggiante e murata, e tiene la qualità di forestiero per indice di villania. Circondato da un territorio amplissimo e diverso d’aspetti e di natura, qui grasso e ferace, onusto di biade, di frumento, di vigne, di orti e di canneti, là isterilito e impraticabile per i sassi affliggenti della vecchia Etruria ventosa che biancheggiano un po’ da per tutto. E’ esposto a mare e monte, e ne sorveglia le strade, rifiata lo scirocco e la tramontana, ma i venti variano e passano su di esso come le eterne stagioni, né dal tempo dei tempi sono buoni di raccontargli più nulla. Il suo costume non cambia.
(V. Cardarelli)

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Il mutevole volto della Maremma

La varietà del paesaggio è una caratteristica comune a tante province d’Italia e a tanti altri luoghi del mondo, ma nel Grossetano essa è veramente spiccata e colpisce il visitatore: sulla costa, folte pinete si alternano a larghi arenili, strette insenature rocciose lasciano il posto a tratti rettilinei con laghi costieri; e una vasta laguna, limitata dai caratteristici tomboli, separa un’isola dal continente; nell’entroterra si allarga un’ampia pianura; poi, ecco gruppi collinosi complessi e frazionati, qualche volta rivestiti dalle colture e dalla vegetazione, altre volte con nude pareti impervie; nell’interno si elevano vere, imponenti montagne.
Incontriamo luoghi dove il tempo sembra essersi fermato ai secoli del Medioevo e alle più remote età degli Etruschi e, a poca distanza da essi, centri in continuo e rapido sviluppo.
Provincia di Grosseto e Maremma si possono considerare sinonimi, perchè il Grossetano ne comprende i nove decimi, lasciando a Livorno il tratto da Cecina a Follonica.

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