IL GENERE DEL NOME ESERCIZI PER LA QUARTA CLASSE

IL GENERE DEL NOME ESERCIZI PER LA QUARTA CLASSE Una raccolta di esercizi per la quarta classe della scuola primaria, scaricabili e stampabili gratuitamente in formato pdf.

Il genere dei nomi
I nomi possono essere di genere maschile o femminile. Sono maschili o femminili i nomi di persona o di animale che si riferiscono a maschi o a femmine. Tuttavia non sempre il genere si identifica col sesso.
Infatti alcuni nomi, pur riferendosi a maschi, sono di genere femminile: una sentinella, una guardia, una spia, una guida.
La maggior parte dei nomi degli animali indica tanto il maschio quanto la femmina: civetta, gorilla, formica, giraffa, aquila, serpente. In questi casi, quando si vuole specificare il sesso, bisogna aggiungere al nome l’indicazione maschio o femmina. Questo genere di nomi si dice promiscuo.
I nomi di cosa sono maschili o femminili, non essendo suscettibili di declinazione. Gli antichi credevano che anche le cose avessero un’anima. Perciò il diverso genere del nome.
Il genere del nome si riconosce o dall’articolo o dalla desinenza o dal significato.
Salvo casi particolari, i nomi di persona o animale sono mobili, cioè hanno due forme: una per il femminile e una per il maschile: cane – cagna, uomo – donna, bue – vacca.

IL GENERE DEL NOME ESERCIZI PER LA QUARTA CLASSE

PRIMA GUERRA MONDIALE materiale didattico vario

PRIMA GUERRA MONDIALE e il 4 novembre materiale didattico di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Il quattro novembre
Con questa data l’Italia vuole ricordare la vittoriosa fine della guerra 1915-18 e, insieme, celebrare l’unità della Nazione e la giornata delle Forze Armate.
L’Italia è una nazione libera, democratica, civile, che non ha alcuna intenzione di offendere, ma che non vuole essere offesa, che vuol salvaguardare la pace, senza abdicare alla sua dignità, che vuole l’unità europea, ma non per questo dimentica le sue tradizioni, le sue glorie, i suoi Morti, i suoi grandi uomini. Tutto questo costituisce un patrimonio spirituale che non va messo in disparte, ma ricordato e valorizzato senza falsa retorica, senza esagerazioni, ma con giusto orgoglio, per ciò che l’Italia ha fatto nel passato e per ciò che si propone di fare nell’avvenire.

4 novembre 1918
Questa data segnò la fine di una lunga guerra, che aveva insanguinato tutta l’Europa. L’Italia vi aveva partecipato per liberare le province di Trento e di Trieste, per ristabilire, quindi i suoi confini là dove la natura li aveva segnati con una corona di monti superbi.
Seicentomila soldati italiani morirono e alla loro memoria ogni comune dedicò un monumento o una lapide che ne reca incisi i nomi. Oggi, ragazzi, onoriamo quei Caduti, visitiamo quei monumenti, leggiamo quei nomi. Sono stati scritti perchè voi serbiate la memoria di chi è morto per darvi una Patria più grande e più gloriosa; tutta unita entro le linee che le Alpi scintillanti di ghiacci e i mari azzurri d’acque profonde hanno tracciato per lei.
Dopo quella guerra vittoriosa, altre guerre sono venute per la nostra Patria: innumerevoli sono stati i morti e i dispersi, le case distrutte, i campi devastati, le famiglie sterminate.
Per tutte le vittime, per tutti gli eroi, oggi il nostro ricordo e il nostro amore sono vivi e profondi.

Quattro novembre 
Nel secondo decennio del novecento, l’Italia era una giovane nazione che non aveva ancora completato la sua unità. Trento e Trieste erano ancora fuori dai nostri confini. L’Europa era devastata da una grande guerra. Per frenare l’imperialismo dell’Impero austriaco e di quello tedesco, e per liberare le terre italiane d’oltre confine, l’Italia scese in guerra!

Il Piave mormorava
calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio:
l’esercito marciava
per raggiunger la frontiera,
per far contro il nemico una barriera…
Muti passaron quella notte i fanti:
tacere bisognava andare avanti!
S’udiva, intanto, dalle amate sponde
sommesso e lieve il mormorio dell’onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero.
Il Piave  mormorò:
“Non passa lo straniero!”.

La guerra fu dura, lunga e atroce.  I soldati di batterono sulle colline pietrose, sui monti impervi, contro fortificazioni nemiche, che erano giudicate imprendibili… Quando dalle trincee di prima linea si segnalava l’ora dell’assalto, erano momenti terribili…

“Pronti? Alzo sette… Fuoco! Fuoco di batteria!”

Ma quando tutte le bocche
dei cannoni cantarono,
all’ora fissata,
per completare la strage,
l’ansia strinse ogni gola,
e ognuno sentò
tonfare dentro il suo cranio
come sopra a un timpano
spaventoso
il rombo.

Traballava la terra
come una casa di legno;
il cielo parve incrinarsi
ogni tanto come cristallo;
Pareva si dovesse
spezzare e precipitare,
a schegge celesti ogni tanto
tra gli schianti e gli strepiti.

E sulla prima linea
nessuno fiatava
sentendo sul cuore
ognuno battere,
come gocce di sangue,
i minuti terribili
che misurano il tempo
vicino all’assalto.

“All’assalto! All’assalto!”

Molti furono i morti e i feriti, molte le battaglie, molte le vittorie. I soldati italiani conobbero ogni sacrificio, ogni gloria. E quando la sciagura d’una sconfitta minacciò l’esistenza stessa della Patria, diventarono tutti eroi.

E ritornò il nemico
per l’orgoglio e per la fame:
volea sfogare tutte le sue brame.
Vedeva il picco aprico
di lassù: voleva ancora
sfamarsi e tripudiare come allora…
“No” disse il Piave. “No” dissero i fanti
“Mai più il nemico faccia un passo avanti!”.
Si vide il Piave rigonfiar le sponde!
E come i fanti combattevan l’onde…
Rosso del sangue del nemico altero,
il Piave comandò:
“Indietro va’, straniero!”

E venne infine, dopo quattro anni, il giorno della vittoria…

(Dal Bollettino della vittoria) La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto la guida di Sua Maestà il Re, duce supremo, l’esercito italiano, inferiore per numero e mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrottamente e asprissima, per quarantun mesi, è vinta.
La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre e alla quale prendevano parte 51 divisioni italiane, 3 britanniche, 2 francesi, 1 cecoslovacca e un reggimento americano contro 63 divisioni austro-ungariche, è finita.
La fulminea arditissima avanzata su Trento del XXXIX Corpo della I Armata, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte a Occidente dalle truppe della VII, della X Armata e delle Divisioni di Cavalleria ricaccia sempre indietro il nemico fuggente.
Nella pianura, Il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III Armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già gloriosamente conquistate, che mai aveva perdute.
L’esercito austro-ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni di lotta e nell’inseguimento; ha perduto quantità ingentissime di materiali di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e depositi: ha lasciato finora nelle nostre mani 300.000 prigionieri con interi Stati Maggiori e non meno di 5.000 cannoni.
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.
$ novembre 1918 . ore 12)

Per il lavoro di ricerca
Perchè commemoriamo il 4 novembre?
Quando iniziò e quando terminò la grande guerra?
Che cos’è la Patria?
Perchè molti eroi sono caduti per la Patria?
Sai raccontare un atto eroico compiuto da qualche soldato valoroso?
Conosci qualche leggenda patriottica?
Chi è il Milite Ignoto?
Conosci qualche canzone sull’eroismo e sulla resistenza dei fanti d’Italia?

I giovani soldati morti
I giovani soldati morti non parlano. Ma nondimeno si odono nelle tranquille case: chi non li ha uditi? Essi posseggono un silenzio che parla per loro di notte e quando la sveglia batte le ore.
Dicono: fummo giovani. Siamo morti. Ricordateci.
Dicono: le nostre morti non sono nostre; sono vostre; avranno il valore che voi darete loro.
Dicono: se le nostre vite e le nostre morti furono per la pace e una nuova speranza o per nulla non possiamo dire; sarete voi a doverlo dire.
Dicono: noi vi lasciamo le nostre morti. Date loro il significato che si meritano.
Fummo giovani, dicono. Siamo morti. Ricordateci. (Archibald Mac Leish)

La prima guerra mondiale
La prima guerra mondiale iniziò il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, dopo l’attentato che aveva ucciso l’arciduca ereditario austriaco Francesco Ferdinando, a Sarajevo. Fra le maggiori potenze coinvolte nella lotta furono: da una parte la Francia, l’Inghilterra, la Russia, la Serbia, la Romania, il Belgio, poi, l’Italia e gli Stati Uniti; dall’altra la Germania, l’Impero Austro-Ungarico, la Bulgaria, la Turchia.
L’Italia entrò in guerra il 24 maggio del 1915. Dopo alcune grandi battaglie campali in Belgio, in Francia e in Russia, il conflitto divenne guerra di trincea, sanguinosissima e lunga. Sul fronte italiano, dopo alcune importanti battaglie e vittorie (degli Altipiani, dell’Isonzo, di Gorizia, del Piave, ecc…) e una sconfitta (Caporetto), venne la prima vittoria decisiva di tutta la guerra con la battaglia campale di Vittorio Veneto, ove fu annientato l’esercito austriaco (dal 23 ottobre al 3 novembre 1918). Il 4 novembre fu dato l’annuncio della vittoria.

Il Milite Ignoto
Siamo nel 1921: Roma è tutta un fremito. Un affusto di cannone trasporta una bara di quercia coperta dal Tricolore. E’ la salma del Milite Ignoto, che va a prendere dimora sull’Altare della Patria perchè in lui gli Italiani ricordino tutti i Caduti della prima guerra mondiale.
Pochi giorni prima, nella città di Aquileia erano state presentate alla mamma di un caduto in guerra dodici salme di soldati sconosciuti, ed ella aveva alzato il braccio tra le gramaglie e ne aveva indicata una.
Ecco la motivazione della Medaglia d’Oro che l’Italia assegnò al Milite Ignoto, cioè a tutti i soldati morti in guerra: “Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che l a vittoria e la grandezza della Patria”.

Guerra di trincea
Sulle pianure grigie e malinconiche o a mezza costa dei monti dove la guerra s’era accanita, si alzavano lunghe strisce di intrichi che tendevano immobili le braccia al cielo, come boschetti di piantine scheletrite. Erano reticolati.
Dietro i reticolati si aprivano le trincee. Sprofondavano nel terreno, celate, traditrici; seguivano le pieghe più adatte del terreno, salivano faticosamente, scendevano a precipizio, si nascondevano tra le piante, tagliavano le strade, rigavano i prati; non erano larghe più di un metro e mezzo alla bocca e, quando erano finite, erano profonde due; gli uomini avanzavano a fatica in esse, inciampando e scivolando. Coi numerosi camminamenti, tortuosi e sottili, si allacciavano ai ricoveri e ai paesi dove le truppe stavano in riserva; un movimento di flusso e riflusso continuo le percorreva.
Davanti al reticolato e alla trincea, si stendeva, fino all’altro reticolato e all’altra trincea, la squallida “terra di nessuno”.
Fra i reticolati, le trincee e la “terra di nessuno”, stette schiacciata al suolo, per tre anni e mezzo, la folla senza nome dei fanti d’Italia, dei contadini, degli operai, dei piccoli impiegati. Milioni di uomini ai quali era toccata l’opera più tremenda tra i fanti del mondo.
Stavano essi a combattere sul più duro suolo che Dio avesse creato. Una parte era aggrappata disperatamente al Carso. L’Isonzo dinanzi formava il gran fosso. Gli Austriaci avevano fatto dell’altipiano di macigno, da Gorizia al mare, una fortezza che pareva inestricabile e inespugnabile. Già il terreno nemico si difendeva da sè. Sorgevano dappertutto piccoli monti duri e nudi, senza vegetazione, ognuno dei quali nascondeva un agguato. Il suolo impraticabile era seminato di  tagliole. Avvicinarsi al nemico era impresa pazza. Contro il sole o il vento non alberi; contro la sete non acqua; contro l’insidia nemica nessun riparo.
Quei fanti che non combattevano sul Carso stavano a guardia della montagna: impresa anch’essa durissima. Dall’ottobre cominciava a nevicare. Nella notte, spesso, un metro di neve cadeva a coprire i dormienti e i morti. Con le proprie mani, rompendo la roccia a palmo a palmo, accoppiando pietra con terra, il fante costruiva con pena la strada e il sentiero che salivano sui monti. Il cielo era gelido e muto. Attraverso le valli e sulle creste dei colli, gli zappatori scavavano con fatica e con pazienza la trincea; la neve continuava a cadere, il freddo era acuto, si sentiva al di là,  sordo, il lavoro del nemico che pure vigilava. (A. Gatti)

4 novembre …uno degli austriaci portava, alta, una bandiera bianca
Il cannone continuava a tuonare. Le nubi grigie ne rimandavano l’eco rimbombante; sembrava un tuono, ora più rabbioso, ora sordo; sembrava spegnersi, e poi tornava a farsi sentire più forte. La battaglia infuriava ovunque, ormai, dalle montagne giù giù sino al mare. La corrente impetuosa dei fiumi del Veneto recava con sè barche sfondate, pali anneriti dal fuoco, assi, rottami. Gli italiani gettavano ponti, e l’artiglieria austriaca li distruggeva. Ecco. Tra i relitti, qualche corpo umano. Un povero soldato, venuto da qualche lontana parte d’Italia per morire sul Piave…
Il cannone tuonava da ogni parte. L’offensiva italiana era cominciata il 24 ottobre 1918; si combatteva dallo Stelvio al Lago di Garda, e via via sino al Grappa, poi lungo il Piave sino all’Adriatico.
Si combatteva per riconquistare il Veneto occupato dagli austriaci, per liberare l’Italia, per vincere la guerra. Quella era la battaglia decisiva. Lo sapevano tutti, italiani ed austriaci.
E tutti s battevano, disperatamente, per guadagnare un po’ di terreno, o per difenderlo: “Tutto il popolo italiano guarda in questo momento a noi, cui sono affidate in quest’ora le sorti della Patria”: così aveva proclamato agli italiani il nostro comando; ed il comando austriaco, arrogante: “Sarebbe una vergogna senza nome” aveva gridato alle sue truppe e al mondo “se gli italiani dovessero vincere!”.
Si combattè furiosamente per cinque giorni; caddero migliaia di uomini.
La mattina del 29 ottobre, alla trincea del Gufo, vicino a Serravalle all’Adige, in val Lagarina, si udiva il cannone tuonare da ogni parte. Ma là, c’era una relativa calma. Le sentinelle tenevano d’occhio la strada, devastata dai bombardamenti, e la linea ferroviaria, che si perdeva su, su per la stretta valle verso Rovereto e Trento. Dietro agli avamposti, si ammassavano le truppe per un attacco; c’era quella atmosfera piena di orgasmo e di tensione e di attesa che precede la battaglia…
D’un tratto, lungo la scarpata della ferrovia, apparvero tre uomini. Tre austriaci. Venivano avanti tranquillamente, come se camminassero non tra due eserciti nemici, ma su una bella strada qualsiasi…
Le sentinelle italiane alzarono i fucili, pronte al fuoco.

No. Non spararono. Rimasero là, ad occhi sbarrati, a guardare i tre austriaci. Ciò che vedevano non lo avrebbero mai più dimenticato.
Non spararono. Perchè uno dei tre austriaci portava, alta, una bandiera bianca.
L’Austria chiedeva un armistizio.
Un ufficiale, un portabandiera ed un trombettiere, venivano ad accettare la “vergogna senza nome”, a riconoscere cioè, che gli italiani avevano vinto.
La richiesta di armistizio fu accolta dagli italiani, e nel pomeriggio del 30 ottobre, su alcune automobili, sei ufficiali austriaci iniziarono le trattative, in una bella villa a qualche chilometro da Padova. E là, nella Villa Giusti, attorno ad un lucido tavolo rotondo, gli ufficiali italiani dettarono le condizioni di resa. Si dovette discutere a lungo, per tre giorni. Laggiù, in quella sala elegante, non giungeva il rombo del cannone, nè il grido delle truppe lanciate all’assalto, nè il crepitio secco delle mitragliatrici. Ma, mentre si discuteva, l’attacco italiano continuava, e le truppe austriache erano sconfitte, travolte, poste in fuga, e poi accerchiate e catturate; ed il Veneto veniva riconquistato, e la nostra bella bandiera piantata a Trento ed a Trieste..
L’armistizio fu firmato il 3 novembre. Il giorno dopo, 4 novembre, su tutto il fronte scese un grande silenzio, e non si sparò più. La bandiera gialla e nera degli austriaci fu ammainata. Il tricolore prese il suo posto.
L’Austria, però, fece di tutto per non riconoscere la sua sconfitta. Nella speranza di salvare il suo esercito, propose di sospendere le operazioni militari; poi cercò di far credere che, in verità, gli italiani non avevano dovuto combattere veramente, per vincere. Pur di non consegnare la sua flotta all’Italia, la consegnò alla Jugoslavia…
Tutto ciò, però, non potè cambiare la realtà. E la realtà è che gli austriaci, ormai in grande disordine, con i soldati che non volevano più obbedire ai comandanti, e che si abbandonavano agli incendi e ai saccheggi, furono spazzati via dal Veneto, o catturati; la realtà è che, in conseguenza alla sconfitta austriaca in Italia, la Germania (che era alleata all’Austria, e che combatteva in Francia contro i francesi, gli inglesi e gli americani) si decise ad arrendersi.
La realtà è che, dopo la battaglia decisiva, “i resti di quello che era stato uno dei più potenti eserciti del mondo risalivano in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.
Così, il 4 novembre 1918, gli italiani vinsero l’ultima guerra del Risorgimento; vinsero la loro “grande guerra”. E così, sacrificando più di mezzo milione di uomini, tra i quali i più giovani, i più forti, i più sani, e moltissimi dei migliori, che avrebbero dovuto prendere la direzione ed il governo della nostra Patria, gli italiani portarono a compimento l’opera iniziata dai loro nonni più di cento anni prima; e ci diedero l’Italia tutta intera, fino ai suoi confini naturali, che non potranno mai più essere toccati e discussi.
Così vinsero, restando per mesi e mesi nelle trincee, piene di fango e di pioggia e di topi; o gettandosi all’attacco, sicuri di morire, su per le montagne bruciate dal fuoco e scavate dal ferro; vinsero soffrendo la fame ed il freddo sulle posizioni scavate nella roccia, o battendosi disperatamente tra le macerie dei paesi del Veneto martire. Così vinsero tenendo duro, in mezzo all’amarezza ed allo scoraggiamento, dopo sconfitte e ritirate, quando tutto sembrava crollare intorno. Vinsero umilmente, facendo il loro dovere senza chiasso e senza fanfare.
E sono i nostri trisnonni, quelli della guerra mondiale, sono i nostri bisnonni: loro sono quelli del Piave e di Vittorio Veneto.

La guerra 1915 – 18
All’inizio del 1900 Inghilterra e Germania sono rivali. Questa rivalità provoca la Triplice Intesa (Inghilterra, Francia, Russia) in opposizione alla Triplice Alleanza (Germania, Austria, Italia).
La Serbia, spalleggiata dai Russi, si assume il compito dell’irredentismo slavo e la penisola balcanica diventa il punto di partenza per un conflitto che in un primo tempo localizzato, dovrà far scaturire, poi, la scintilla che susciterà un incendio immane. Questa scintilla sarà l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando che avviene il 28 giugno 1914.
Scoppia la guerra fra Austria e Serbia. In breve, quasi tutte le Nazioni europee, per le rispettive alleanze, vengono coinvolte nel conflitto. In Italia, fallite le speranze di ottenere dall’Austria, in cambio della neutralità, Trento e Trieste, città italiane ancora sotto il dominio austriaco, prevale la corrente interventista. La guerra è dichiarata il 24 maggio 1915. Subito scoppiano violente battaglie contro il nostro schieramento che va dal Trentino all’Isonzo. L’Austria vuol punire l’audacia degli Italiani e li ferisce nel profondo catturando e suppliziando i martiri dell’irredentismo: Chiesa, Sauro, Battisti e Filzi. L’Italia reagisce all’offensiva delle armi e dello spirito e le nostre truppe occupano Gorizia (9 agosto 1916).
La guerra continua fra disagi e sofferenze di ogni genere. Dopo quattro anni di dura guerra di trincea, si diffonde fra i soldati un senso di generale stanchezza. Una propaganda pacifista scatenata nel momento più propizio, darà presto i suoi frutti. L’esercito italiano, indebolito e avvilito per la disfatta di Caporetto durante la quale gli Austriaci, fanno migliaia di prigionieri, è costretto a retrocedere al di qua del Tagliamento.
E’ il momento più critico della guerra. Ma gli Italiani si riprendono dal momentaneo smarrimento e si stringono in una disperata volontà di resistere. Sul Piave da una parte e sul Monte Grappa dall’altra, gli Austriaci trovano una resistenza inaspettata.
La Marina italiana compie imprese che hanno del leggendario. Nella famosa Beffa di Buccari, alla quale partecipò il poeta Gabriele D’Annunzio insieme a Luigi Rizzo e a Costanzo Ciano, tra nostri motoscafi attaccano di sorpresa due grosse navi mercantili austriache che si credevano al sicuro entro le ben riparate insenature della costa.
Nel novembre dello stesso anno, i nostri marinai affondano la Viribus Unitis, la nave ammiraglia della flotta austriaca, nel munitissimo porto di Pola.
Intanto, sul fronte nemico, era schierato un esercito di due milioni di uomini, ma gli Alpini, al canto di “Monte Grappa, tu sei la mia Patria”, si tenevano saldi, fieri nel loro motto: “Di qui non si passa!”. Nell’anniversario di Caporetto, le nostre truppe sferrano, sul Piave, un forte attacco con gli aiuti degli Alleati a cui si era aggiunta l’America, e questo attacco si conclude con la decisiva battaglia di Vittorio Veneto e l’occupazione di Trento e Trieste (24 ottobre e 4 novembre).
Fra l’Italia e l’Austria viene firmato l’armistizio. La guerra è finita.

4 novembre 1918
Oh, la gioia di quei giorni, quando il Bollettino di Diaz annunciò il trionfo! La guerra era durata quattro anni. Milioni di  soldati avevano combattuto nelle trincee, sul mare, nell’aria. Di loro, 600.000 non tornarono più. Ma il sacrificio dei fori dava la vittoria alla Patria. Trento e Trieste liberate si congiungevano alla gran Madre. Voi non eravate ancora nati. Eppure, per tutti voi, per l’Italia dell’avvenire, la guerra fu combattuta e vinta. (G. Fanciulli)

Il milite ignoto
Per rendere onore a tutti i seicentomila morti nella guerra 1915 – 18, se ne scelse uno senza nome, che fu portato con grandi onori a Roma e collocato ai piedi dell’Altare della Patria. Il Milite Ignoto rappresenta tutti i prodi che fecero olocausto della loro vita perchè l’Italia sopravvivesse e fosse più rispettata nel mondo. Chi onora la tomba del Milite Ignoto intende onorare, attraverso quello, i combattenti italiani di tutte le guerre.

La campana di Rovereto
E’ la sera del 2 novembre. Attraverso la radio si diffonde, in tutto il mondo, un suono lento, grave solenne: Don!… Don!… Don!… E’ la voce di “Maria dolens”, la campana di Rovereto. Essa ci ricorda i caduti, tutti i caduti della guerra: italiani, francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi, serbi, croati, giapponesi, americani… Sono migliaia e migliaia di uomini che rivivono nel suono della campana. Queste cose dice al nostro cuore il suono: Pace!… Pace!… Pace!… Vogliatevi bene! Siate tutti fratelli!… Soltanto la pace può rendervi felici! (R. Dal Piaz)

Il 4 novembre
Questo giorno così vicino a quello della commemorazione dei defunti, ci ricorda l’eroismo di coloro che caddero per la Patria, che sacrificarono la loro giovane vita per darci un’Italia più grande, più forte, più rispettata. Fanciulli, non dimenticate coloro che sono morti in guerra. Anch’essi avevano dei figli, una mamma, una famiglia. Eppure, per compiere il loro dovere, non esitarono a fare l’ultimo sacrificio.

Trincee
Dietro i reticolati si aprivano le trincee. Sprofondavano nel suolo, celate, traditrici; seguivano le pieghe del terreno, salivano faticosamente, scendevano a precipizio, si nascondevano fra le piante, tagliavano le strade, rigavano i prati; dove c’era un canaletto d’acqua, un arginello, una siepe folta, là si acquattavano, per ricomparire un momento su un dorso duro di colle e su un tratto di pianura pietrosa, e scomparire di nuovo, ingoiate dalla terra. (A. Gatti)

Zona di guerra
Nell’acqua non lampeggiava riso di colore. Una larga fascia d’ovatta avvolgeva uomini e cose. Dove la terra si confondeva col cielo, al di là dei fiumi che si coprivano di nebbia, si addormentavano le città e i paesi devastati. La solitudine e la disperazione pesavano sulla terra. Tra i reticolati, le trincee e la terra di nessuno, stette schiacciata al suolo, per tre anni e mezzo, la folla senza nome dei fanti d’Italia, dei contadini, degli operai, dei piccoli impiegati. Milioni di uomini, ai quali era toccata l’opera più tremenda tra i fanti del mondo. (A. Gatti)

Epigrafi del cimitero di Redipuglia
Che ti importa il mio nome? Grida al vento: “Fante d’Italia!” e dormirò contento.
Più che il metallo alla trincea fu scudo dell’umil fante il forte petto ignudo.
Mamma mi disse: “Va’!” ed io l’attendo qua.
Seppero il nome mio gli umili fanti, quando balzammo insieme al grido: “Avanti!”.
Ogni mattina, mamma, ed ogni sera, io sento l’eco della tua preghiera.

In trincea
Che fatica infinita! Gli occhi di tutti erano velati di stanchezza e di dolore. Nessuno che non abbia vissuto nelle trincee del Carso e delle Alpi può sapere quanta disperazione sta in certi momenti nel cuore dell’uomo. I giorni di battaglia erano spaventosi, ma la grandezza del pericolo esaltava le forze. I giorni soliti, i giorni tutti uguali, in cui la morte coglieva uno a uno i suoi, qua e là, senza parere… quelli erano i più terribili…Eppure, i fanti d’Italia resistevano, e combattevano, e vincevano. (A. Gatti)

La trincea
Nella notte, spesso un metro di neve cadeva a coprire i dormienti e i morti. Con le proprie mani, rompendo la roccia a palmo a palmo, accoppiando pietra con pietra, il fante costruiva con pena la strada e il sentiero che salivano i monti. Il cielo era gelido e muto. Attraverso le valli e sulle creste dei colli, gli zappatori scavavano con fatica e con pazienza la trincea; la neve continuava a cadere, il freddo era acuto, si sentiva al di là, sonoro, il lavoro del nemico che pure vigilava. (A. Gatti)

Cimiteri di guerra
Uomini sepolti in tutti i cimiteri di guerra d’Europa, d’Asia, del mondo; mi inginocchi sulle vostre tombe come se tutti mi foste fratelli. Uomini che irroraste col vostro sangue la terra, là dove giace la spoglia mortale di uno solo tra voi, là siete tutti. Là rendiamo omaggio al fante italiano caduto nella steppa e sugli affocati deserti africani, all’americano e al giapponese caduti nella giungla selvaggia delle isole dei mari del Sud, al tedesco morto all’ombra di un antico campanile italiano. L’identico destino, l’identica morte vi affratellano. (A. M. Kanayama)

Il prete dei soldati
Parlava così quel prete barbuto,  con la sua grossa voce
pacata, l’uomo dalla purpurea croce
stampata larga sul petto, qui sul lato
sinistro, dove sotto il grigio verde affaticato
batteva forte il suo puro cuore di crociato;
Parlava, il prete, diritto e grande sui gradini
di neve, dall’altare di neve lassù ai confini
della patria, agli alpini proprio accosto alla trincea:
immensità! neve: vette: cielo: non c’era
altro, parlava semplice tra la densa barba nera;
diceva: “Qualcuno di voi, quelli che tornano
di laggiù li han veduti; ma tutti certo li conoscono:
li avete visti stampati i grattacieli americani,
quei palazzi mostruosi, torri di venti di trenta piani
che, con le case di qui, sono come i giganti coi nani.
Quei palazzi sono armati, dentro, da una grande ossatura
di ferro: un gabbione di ferro che tiene la muratura.
E ci sono operai specialisti per quel primo lavoro
del ferro: non facile: pericoloso. E molti, i più tra loro,
sono nostri, italiani: gente che ha le mani d’oro.
Un giorno, uno di questi, molto bravo nel mestiere,
condusse il figlio, un bimbo di quattr’anni,  al cantiere.
Prese i ferri: e poi, che fa? piglia su il piccoletto,
se lo lega coi ferri alla cintola ben stretto,
e su, per le armature, a lavorare sull’orlo del tetto.
Tutti fuori, appesi a una fune, dondolandosi sulla voragine,
padre e figlio. E la gente, laggiù non si dava pace,
ferma sui marciapiedi a guardare: “Che matto!” “Che cuore!”
“E la polizia che fa?” “E’ suo figlio!” “Ah, sì? bell’amore
di padre!” “Povera creatura! Sarà già morto dal terrore!”
L’uomo badava al lavoro suo. E quando fu l’ora
di scendere, scese: tranquillo; e tutta la gente allora,
tutti addosso al bambino: “Uh, guarda che cera che ha!”
“Di’: hai avuto paura? Molto, è vero?” “Di’: vieni qua…”
Ma il bimbo, sorpreso, fece: “Paura? Io? No! C’era papà…”.
Silenzio. Lo guardavano senza un respiro gli alpini.
“Ebbene, vedete. Anche noi siamo come bambini,
piccoli, piccoli, deboli, in faccia all’incerta sorte,
sospesi anche noi, sempre, ad ogni attimo, sulla morte.
Oh, ma anche per noi c’è il padre nostro che è forte!
Lui ci vuole qui a combattere: lui, il padre onnipotente
è giusto. Siamo con lui! Siamo degni! E non temiamo più niente!
Come quel bimbo, fratelli! E allora, ditemi, quale minaccia,
quale nemico, quale pericolo volete più che ci faccia
paura, se noi stiamo, sempre, tra le sue braccia?”
Si voltò all’altare, e “Credo in deum patrem…” pregò:
e il giro delle piante ferrate sul gelo crocchiò.
Un giorno, poi, quel prete fu portato a un ospedaletto
da campo, grave molto: una pallottola nel petto.
Ma tranquillo. Perchè egli era un confidente bambino
tra le braccia del padre.
S’è battuto bene: da alpino:
con la sua bella croce sanguigna sul cuore: in Trentino. (G. Zucca)

Lettere dal fronte a Cecilia Dolceamore

Cecilia dolceamore,
volevo scriverti ieri sera, ma c’erano troppe stelle, tante che pareva bastasse allungare una mano per coglierle. E tu sei venuta da me per guardare insieme le stelle, come facevamo a casa, nelle sere d’estate.
Abbiamo ritrovato Cassiopea, il Gran Carro, Arturo, e la piccola Orsa, quella che ti piaceva tanto.
Faceva fresco e tu tremavi un po’ e allora tu sei abbracciata a me per riscaldarti. Ho detto a Vincenzo di suonare l’armonica. Anche  ora che siamo in guerra. Vincenzo è sempre lo stesso spensierato soldato che tu hai conosciuto. Ha tirato fuori l’armonica dalla tasca della giacca, se l’è passata sulle labbra e si è messo a suonare una canzonetta allegra. Tu hai sorriso e il tuo sorriso splendeva più delle stelle. Poi ti sei addormentata con la testina sul mio petto, dove il cuore batteva piano per non disturbarti.
Abbiamo passato la notte così, ma, stamattina, quando mi sono destato, non c’eri più, Cecilia dolceamore, e allora ho voluto scriverti perchè così mi pare di stare ancora con te.
Voglio raccontarti una storia che è un po’ triste, ma poichè tu vuoi sapere i fatti della guerra, è necessario che tu conosca anche le cose tristi. Se ci pensi bene, il dolore, in guerra, splende di un’altra luce. Cecilia dolceamore, anche la storia del soldatino mitragliere splende di una luce solare.
Devi dunque sapere che c’era, qui, un piccolo mitragliere. Era un ragazzo sardo, bruno e piccolo di statura. Il Capitano gli aveva promesso di proporlo a sergente, a patto che egli fosse riuscito a buttar giù un apparecchio nemico. E il piccolo sardo voleva diventare a tutti i costi sergente. Da quel giorno s’era appostato con una mitragliatrice e non aveva più levato gli occhi dal cielo. E tutti gli portavano da mangiare e da bere in buca perchè quello non si sarebbe mosso di lì.
Gli apparecchi arrivavano, ma passavano alti. Sdegnavano la nostra piccola postazione, per andare a sganciare le bombe dove c’era da fare più danni.
“Almeno si fermassero qui a tirar bombe!” sospirava il soldato mitragliere. E Vincenzo rispondeva, le bombe un corno, perchè non gli piaceva quella storia.
E così  i giorni passavano, e il soldatino sparava, sparava sugli apparecchi lontani, ma gli aerei pareva nemmeno si accorgessero di quelle sventagliate troppo corte.
Il mitragliere scriveva a casa che presto sarebbe stato sergente e la mamma rispondeva che nei giorni di licenza glieli avrebbe cuciti lei, i galloni, sulla manica della giubba. Ta ta ta, faceva la mitragliatrice, ma sparava sempre a vuoto, nel gran cielo turchino.
Un giorno, finalmente, un apparecchio passò a tiro. E il soldatino sparò come un pazzo, ma era un pazzo che aveva imparato a inquadrare una rondine nel mirino. L’apparecchio rimase colpito. Cadde giù a piombo con una coda di fumo che si allungava nel cielo. E mentre cadeva, sparava anche lui, sventagliate di ferro e di fuoco, sui soldati nascosti dalle rocce.
Lo videro, che andava a frantumarsi sul terreno e poco dopo c’era una gran colonna di fuoco.
Tutti gridarono di gioia, solo il piccolo sardo no. Era rimasto nella sua buca, rattrappito sull’arma, ma il suo viso splendeva perchè prima di morire aveva visto l’apparecchio cadere.
Cecilia dolceamore, adesso ti dirò che cosa ha fatto il Capitano, quello che aveva promesso al soldatino di proporlo per l’avanzamento a sergente, se avesse abbattuto un aereo. Quel Capitano, di nascosto, quando nessuno lo vedeva, andò ad attaccare i gradi d’argento sulla giubba del soldatino caduto. Di nascosto, perchè il regolamento non consente di promuovere i morti, ma proprio non gli reggeva il cuore di farlo seppellire senza quei galloni d’argento che egli aveva tanto desiderato.
Cecilia dolceamore, il piccolo sardo adesso dorme nel cimitero di guerra e i suoi occhi, bruciati dal troppo guardare, sono ormai chiusi per sempre, ma la sua bocca sorride. E il suo cuore non è più in ansia perchè il suo sogno è ormai appagato.
Figlietta, non essere triste. Forse, un giorno, di questa storia faranno una canzone e Vincenzo la suonerà sull’armonica. E allora, vedrai che non ti sembrerà più una storia triste.
Adesso ti debbo lasciare. Mi metto le tue manine fresche sul viso che brucia. Che sollievo! Mi pare di avere sulle guance due petali di rosa.
So che la mamma ti ha fatto un vestitino celeste. Ho bisogno urgente di vederti con quel vestitino. Cercherò di sognarti così.
Tu ancora dormi e qui il cannone ha già cominciato a sparare. Dormi con la mano sotto il viso e fiori, sul balcone, il canarino canta per salutare il nuovo sole. Qui, col sole, è cominciata la musica, una musica di rombi e di scoppi che fa assordire. Ma negli intervalli, io riesco a sentire il canarino che canta. E vedo le tue ciglia tremare per trattenere il sonno che vuole lasciarti.
E su quelle ciglia che lievemente tremano, Cecilia dolceamore, ti bacia il tuo papà.

Cecilia dolceamore,
il tuo papà ti bacia le manine che hai bianche e gentili e vi appoggia la faccia ispida, ma leggermente, per non farti male.
E col viso perduto nella freschezza delle tue mani, ti racconta una storia che non sa se allegra o triste: una storia vera di questa terribile guerra.
C’era stata battaglia, Cecilia dolceamore, e molti morti giacevano sul terreno. Molti morti, amici e nemici, e all’alba, i soldati della Croce Rossa e il Cappellano andarono per comporli piamente nel piccolo cimitero.
Cecilia, dolce bambina mia, non farmi vedere lacrime nei tuoi occhi, altrimenti io non potrò più raccontarti i fatti di questa guerra, la storia del soldato Girò, storia triste e allegra.
L’avevano trovato morto, il soldato Girò, su uno sperone di roccia e l’avevano riconosciuto dalle scarpe nuove gialle, così gialle da non poterle confondere con nessun altro paio di scarpe. Gliele avevano date la mattina e lui aveva riso vedendole così gialle. “Sembro un canarino!” aveva detto.
Lo avevano riconosciuto fra i morti solo per le scarpe, il soldato Girò. Cecilia dolceamore, non chiedere di più. Tu credi che i soldati che muoiono in guerra, restino tutti sorridenti, con un bel viso pulito e tranquillo? Non è così, figlietta, ma tu pensa sempre che sia così. E’ bello sapere che una bimba vede i morti in battaglia col viso irradiato di luce come gli angeli.
Ma il soldato Girò non aveva più viso e  l’avevano riconosciuto solo dalle scarpe gialle e nuove.
Lieve era caduta su di lui la terra e ora dormiva sotto una croce di legno dove c’era scritto il suo nome.
Ma l’indomani, il soldato Girò riapparve. Con le scarpe gialle e nuove. Lo guardai stupefatto. Salutò e mi disse che non era potuto venir prima perchè era rimasto nelle linee nemiche e solo durante la notte aveva potuto svignarsela. Uno sbaglio, soldato Girò, e gli mostrai la sua tomba.
La guardò e tacque. Passò un’ora a grattare il suo nome dalla croce, poi rimase a fissare la piccola zona grattata dove non c’era più scritto “Soldato Girò” e dove ormai non si poteva scrivere nessun altro nome.
Vincenzo, quando lo vide, rise.
“Sei resuscitato?”
Risero anche gli alti e gli fecero festa. Vincenzo suonò l’armonica in suo onore. I nemici, sentendo suonare e vociare, spararono. Qualche colpo come a domandare quello che succedeva.
Poi venne l’ordine di spostarsi. Facemmo in fretta i preparativi. Smontammo le mitragliatrici, ci agganciammo i sacchi sulla schiena. Dov’era il soldato Girò? Nessuno lo trovava. Vincenzo, per chiamarlo, si passò l’armonica sulle labbra e ne cavò un trillo.
Io lo sapevo dov’era e andai da lui. Era davanti alla tomba del soldato con le scarpe gialle. Aveva acceso un lumino. Si fece il segno della croce e venne via con me.
E mentre si marciava, quel lumino ardeva nella notte e pareva una stellina caduta dal cielo. Ed eravamo in due a voltarci, io e il soldato Girò.
Cecilia dolceamore, ho finito. Forse questa storia ti è sembrata troppo triste. Non è neppure un po’ allegra come mi sembrava in principio, ma io, vedi, dovevo raccontartela perchè quel lumino, in questa guerra così tremenda e spietata, è una cosa gentile. Soave e gentile come un fiore. E io so che ti piacciono le cose gentili.
Tu a quest’ora dormi perchè è tardi e sei stanca. Un tuo ricciolo biondo si è sfatto sul guanciale e pare una seta l’oro. Cecilia dolceamore, ho bisogno, un bisogno assoluto di posare il mio viso su quella seta d’oro.
Ti bacia il tuo papà.

Figlietta,
oggi ho visto un fiore giallo. Lo coltivava un soldato dentro il bossolo di un proiettile e lo annaffiava amorosamente con l’acqua della borraccia. Cecilia dolceamore, ho accarezzato i petali di quel fiore giallo, chiudendo gli occhi, e sognavo di accarezzare la tua guancia gentile. Oggi il soldato ha bevuto una volta sola, perchè con l’acqua ha innaffiato il fiore. Vedi, è necessario qualche volta amare un fiore, perchè altrimenti, questa guerra ci farebbe troppo duri e indifferenti. Così duri che si può essere chiamati Cuore di Sasso.
Era al Colonnello che avevano dato questo nome, un viso duro e asciutto dove non balenava mai la luce di un sorriso. Cuore di Sasso viveva nella sua baracca, non parlava mai con nessuno, solo per i terribili cicchetti che dava ai soldati. Erano loro che lo chiamavano Cuore di Sasso.
Gli facevano un rigido saluto quando passava. Pareva, quando passava il Colonnello, che una nuvola nera offuscasse il sole e tutti i visi diventavano scuri.
Ora senti, figlioletta, che cosa è avvenuto. Il motociclista era andato a prendere la posta. Non tornava. Tutti guardavano la strada e gli occhi dolevano per il troppo guardare. C’era un soldato, poi (si chiamava Esposito), più ansioso degli altri. Si sporgeva fuori dal riparo e il nemico, allora, sparava qualche colpo.
Il Colonnello l’aveva guardato col cipiglio e quello, sotto il suo sguardo, si rincantucciava.
“Mi deve nascere un bambino!” diceva sorridendo. Non aveva più soggezione nemmeno di Cuore di Sasso.
Cannocchiali, occhi bruciati dal sole fissi sulla strada.
“Bisogna andare a vedere” disse il Colonnello. “Può essere rimasto ferito. Ha gli ordini del Comando”.
“Vado io, signor Colonnello?” e il soldato Esposito sorrideva timidamente e alzava la mano come a scuola, quando i ragazzi vogliono essere interrogati. “Per via del bambino…”.
Cuore di Sasso accennò di sì con la testa e il soldato Esposito inforcò la motocicletta, felice.
I nemici gli spararono dietro, ma poi la moto scomparve nel polverone. Gli occhi si riposarono dal gran guardare. Ricominciò l’attesa, scandita dai colpi rari di artiglieria. Ricognitori altissimi nel cielo.
Poi, i soldati tornarono ad affacciarsi. Cuore di Sasso imprecava che stessero giù, , mica per loro, teste matte, ma perchè in guerra la vita d’ogni soldato è preziosa.
Infine, un lontano rombo scoppiettante. Tornavano. Una motocicletta sopraggiungeva; sopra l’erano due soldati curvi, troppo curvi.
Quando arrivarono, c’era tutta una striscia di sangue dietro a loro. Avevano tracciato una strada.
Li tirarono già dalla macchina. Il portalettere era ferito, ma in modo non grave; il soldato Esposito aveva la schiena spezzata.
Il motociclista raccontò. Un aereo l’aveva mitragliato. Era rimasto sulla strada, ferito, e la macchina resa inservibile. Poi era arrivato il soldato Esposito. L’aveva caricato sulla sua moto, ma era tornato l’aereo. Esposito si era accasciato sul manubrio, poi si era ripreso. Non l’aveva creduto ferito grave. E invece, era finito.
Ora, il soldato Esposito giaceva sopra una brandina e guardava, senza parlare. Guardava il sacco della posta con gli occhi lucidi e ansiosi.
Cuore di Sasso dette ordine di aprire. Ricevette la posta nelle sue mani ossute. C’era anche un telegramma.
“Per te” disse al soldato Esposito che sorrise, felice.
Il Colonnello aprì il telegramma. Lo lesse.
“E’ nato un bel maschietto. Si chiamerà Italo. Mamma e bambino stanno bene. Baci”.
Il viso del soldato Esposito si spianò dolcemente. Le palpebre calarono piano piano sugli occhi e la bocca rimase socchiusa nel sorriso.
Cuore di Sasso gli prese il polso, poi dette ordini per il seppellimento. Aveva la gola secca, non poteva parlare. Gli era rimasto il telegramma in mano; lo consegnò a me.
“Bisogna rispondere al Comando che il telegramma non è stato consegnato per morte del destinatario”.
Lo lessi. Comunicava che la moglie del soldato Esposito era morta in seguito a bombardamento, nell’ultima incursione sulla città.
Il telegramma mi cadde di mano; preso dal vento aleggiò come un fiore, un fiore giallo.
Cuore di Sasso ispezionava le cucine. Sentii che dava un formidabile cicchetto al cuoco perchè nel rancio aveva messo troppa conserva. E quello, ristupidito, diceva di sì e stava sull’attenti con due enormi mazzi di gavette in mano.
Cecilia dolceamore, quando tornerò tu mi prenderai la mano e mi condurrai nei giardini fioriti, vicino alle vasche dei pesci rossi. Tutto sarà molto nuovo per me.  E non finirò di ammirare. Ma se qualche volta vedrai un’ombra scendere sul mio viso, passaci sopra la tua manina. Bisogna cancellare dai miei occhi la visione di quel telegramma svolazzante come un fiore giallo. Perchè, vedi, se non si potesse cancellare quel ricordo, non sarei più capace di godere della vista dei giardini fioriti e dei pesci rossi. E la vita sarebbe troppo difficile.
Ti bacia il tuo papà.

(Mimì Menicucci)

Patria
O Patria, parola sì breve
sì grande, tra tante parole,
che brilli di fuoco e di neve,
e odori di scogli in un fervido accordo
le genti vicine e lontane,
e chiami a la prece e al ricordo
con voce di mille campane;
o Patria, sii tu benedetta
per ogni remota contrada,
sei sangue e rugiada, sei vita e bontà.
O Patria, dai monti alle sponde
sei tutta un sorriso di Dio!
Te cingon di fremiti l’onde
confuse in un sol balenio.
E tutta un’immensa bellezza
dal vivo tuo cuore s’espande
letizia, virtù, giovinezza
per culmini e lande, per campi e città. (L. Orsini)

Milite Ignoto
Non sappiamo il tuo volto, o Sconosciuto,
non il tuo nome rude di soldato,
è ignoto il luogo che santificato
fu dal tuo sangue quando sei caduto;
ma il tuo viso fu bello e fu divino:
forse un imberbe viso giovinetto…
Lo vedo all’ombra fosca dell’elmetto
sorridere con occhi di bambino.
Fu nostro sangue il sangue tuo vermiglio…
Sei senza nome, ed ogni madre, ignara,
inginocchiata presso la tua bara
singhiozza un nome, il nome di suo figlio;
E che risuona in tutte le fanfare…
Hai la tua casa in ogni casolare,
ed appartieni a tutti i reggimenti.
Sente ogni madre il suono della voce
nota al suo cuore, eppure tu sei muto…;
e là, sul campo dove sei caduto,
tutte le croci sono la tua croce.
Da quelle tombe un monito e un saluto
con severo silenzio tu ci porti:
son tutti i cuori dei fratelli morti
chiusi nel cuore tuo, o Sconosciuto! (P. Rocco)

FENOMENI METEOROLOGICI materiale didattico

FENOMENI METEOROLOGICI materiale didattico di autori vari, per bambini della scuola primaria.

L’aria

L’aria è un miscuglio di gas costituenti l’atmosfera e in cui vivono, nella parte inferiore, gli animali e le piante. I gas si presetnano più rarefatti e mutano di proporzione man mano che si sale in altezza.
L’aria è trasparente, inodore e incolore se in masse limitate; azzurra se in grandi masse. I suoi costituenti principali sono l’azoto e l’ossigeno. Contenuti in piccole quantità, l’argo, l’elio, il cripto, lo xeno, l’idrogeno, con quantità variabili di vapore acqueo, anidride carbonica, ammoniaca, ozono, ecc… Particelle solide, spore, microorganismi formano il pulviscolo atmosferico.
A causa della funzione clorofilliana per cui le piante, di giorno, assorbono anidride carbonica ed emettono ossigeno, l’aria dei boschi è più salubre.
La troposfera è lo strato più basso dell’atmosfera la quale raggiunge l’altezza di circa 1000 chilometri e circonda il nostro globo seguendolo nei  suoi movimenti.

La pressione atmosferica

L’atmosfera preme enormemente sulla superficie del globo e noi non ne rimaniamo miseramente schiacciati soltanto perchè la pressione si esercita sul nostro corpo non solo esternamente da tutte le parti, ma anche internamente, ciò che produce equilibrio. Quando questo equilibrio dovesse mancare, si avrebbero gravi disturbi e la morte.
Possiamo considerare che noi portiamo sulle nostre spalle il peso di tre elefanti ci circa cinque tonnellate ciascuno e ciò senza sentire il minimo inconveniente.
Un litro d’aria pesa poco più di un grammo, ma se si pensa all’enorme spessore dell’atmosfera, il paragone degli elefanti non può sorprendere.
La pressione non è uguale dappertutto. Sulle montagne, per esempio, è molto minore che al livello del mare. Inoltre dato che l’aria fredda è più pesante di quella calda, nello stesso luogo la pressione sarà anche in base alla temperatura.
Lo strumento per misurare la pressione atmosferica è il barometro che fu inventato da Evangelista Torricelli. Questi riempì di mercurio un tubo di vetro e ne immerse l’estremità aperta in una vaschetta, anch’essa piena di mercurio. Poté constatare che la colonnina di mercurio non andava al disotto dei 76 centimetri. Era chiaro, quindi, che la pressione di una colonna di mercurio alta 76 cm e dalla sezione di un centimetro quadrato veniva equilibrata da una pressione analoga che non poteva essere che quella dell’atmosfera.
Vi sono anche altri piccoli esperimenti che  possiamo fare per constatare l’esistenza della pressione atmosferica. Eccone di seguito alcuni.

Succhiamo una bibita con una cannuccia, poi quando il liquido è giunto alla nostra bocca, appoggiamo rapidamente un dito all’estremità superiore della cannuccia e teniamolo fermo. Il liquido non uscirà, e ciò perchè il suo peso esercita una pressione minore di quella atmosferica. Non appena si toglierà il dito, il liquido uscirà dalla cannuccia.

Prendiamo un comune bicchiere e riempiamolo d’acqua fino all’orlo. Poi appoggiamo sul bicchiere un pezzo di cartone o di carta, in modo che ricopra completamente l’orlo. Capovolgiamo rapidamente il bicchiere e togliamo la mano dal cartone. Questo non cadrà e l’acqua rimarrà nel bicchiere. Perchè? Perchè nel bicchiere non c’è aria, ma soltanto acqua, e questa ha un peso inferiore a quello esercitato dalla pressione dell’aria che spinge dal basso il cartone.

Il vento

L’aria è sempre in movimento. Lo si può constatare considerandone gli effetti. Osserviamo le foglie muoversi nella brezza, il bucato sventolare,  le nuvole correre nel cielo. Questo movimento si chiama vento.
Da che cosa dipende il vento? Per poter spiegare questo fenomeno bisogna dire qualcosa sulla temperatura dell’aria. L’aria ha una sua temperatura, più calda o più fredda, secondo la stagione, l’altitudine, l’azione del sole, ecc… Ebbene: l’aria calda è più leggera dell’aria fredda e tende a salire. L’aria fredda è più pesante e tende a discendere e ad occupare quindi il posto dell’aria calda.
Possiamo procedere ad alcuni piccoli esperimenti.

Proviamo a fare sul termosifone qualche bolla di sapone. Queste saliranno verso l’alto, ciò non accadrà o accadrà con minor effetto, per le bolle di sapone che faremo in un punto lontano dalla sorgente di calore.

Se potessimo misurare, a vari livelli, la temperatura di una stanza riscaldata, potremmo constatare che, verso il soffitto, l’aria è molto più calda che nei pressi del pavimento. Ebbene, è questa differenza di temperatura che produce il vento. Quando, fuori, l’aria calda sale, l’aria fredda si precipita ad occuparne il posto e forma, così, una corrente – vento che poi noi chiamiamo con diversi nomi a seconda del punto cardinale da cui proviene.
Pensiamo adesso a tutta l’aria che avvolge il nostro globo. Sappiamo che essa è freddissima nelle regioni nordiche e caldissima nelle regioni equatoriali. Ecco perchè l’atmosfera è sempre in movimento: l’aria fredda tende ad occupare il posto di quella calda che sale e quindi si formano venti che possono essere deboli, oppure violenti e disastrosi. Abbiamo detto che essi prendono il nome del punto cardinale da cui provengono. Abbiamo così Ponente, Levante, Ostro, Tramontana, rispettivametne provenienti da ovest, est, sud e nord. E poi venti intermedi: sud-ovest Garbino o Libeccio; sud-est Scirocco; nord-est Greco; nord-ovest Maestrale. Per stabilire la direzione del vento,  si usa la rosa dei venti.

Le nuvole

Nell’atmosfera ci sono le nuvole. Ci sarà facile invitare i bambini ad osservare il cielo e quindi le nuvole. Come sono le nuvole che si presume portino la pioggia? Quali nuvole si vedono nel cielo di primavera? In quello dell’estate? Nuvole grigie, pesanti, oscure; nuvole leggere e delicate; nuvoloni bianchi e bambagiosi. Se uno di noi capitasse in una nuvola si troverebbe in breve bagnato. Infatti tutte le nuvole sono formate da vapor acqueo parzialmente condensato in minutissime gocce e, negli strati superiori dell’atmosfera, in cristallini di ghiaccio.
Ma da dove provengono queste goccioline e questi cristallini di ghiaccio? Ammassi di vapore acqueo si elevano nell’atmosfera., resi leggeri dal calore del sole. Quando il vapore acqueo si condensa diviene visibile ai nostri occhi appunto sotto forma di nubi.

Esperimento scientifico per creare nuvole in vaso qui: 

Osservazione e classificazione delle nuvole qui: 

Il ciclo dell’acqua, dettati e letture, qui: 

La pioggia

Vediamo come accade il fenomeno per cui l’acqua cade sulla superficie terrestre. Le nuvole sono sospese in una massa d’aria, che, essendosi riscaldata, sta innalzandosi. Le gocce di cui le nuvole sono formate, divenute più pesanti per la ulteriore condensazione dovuta al contatto con strati di aria fredda cominciano effettivamente a cadere, ma l’aria calda che tende ancora a salire, le risospinge verso l’alto. Facciamo l’esempio di una pallina da ping pong che venga sollevata al disopra di un ventilatore. La pallina resterà sollevata in aria, sospinta dall’aria che sale dall’apparecchio. Lo stesso avviene per le goccioline d’acqua che formano le nuvole. Ma ecco che esse ingrossano anche perchè urtandosi, si fondono tra loro e diventano quindi più pesanti. E così le gocce cominciano a cadere sulla terra. E’ la pioggia.

Esperimento scientifico per creare la pioggia in un vaso qui: 

La nebbia

L’aria è piena di vapore acqueo che proviene dalla superficie del mare o dei laghi o del suolo, potendo con sè un po’ del calore degli oggetti che ha abbandonato. Per constatare questo fenomeno basta bagnare un dito con l’alcool ed esporlo all’aria. Si avvertirà subito una sensazione di freddo e ciò perchè l’alcool, evaporando, porta con sè un po’ del calore del dito. Se il vapore acqueo che si trova nell’aria è abbondante, si dice che l’aria è umida. Quando l’aria è molto umida, l’evaporazione diminuisce ed è allora che, nelle giornate estive molto umide e afose, il sudore ci si appiccica addosso.
Abbiamo avuto occasione di vedere, specie in un raggio di sole, il pulviscolo atmosferico, cioè minutissime particelle che danzano nell’aria. Questo pulviscolo è formato dalla polvere che si leva dal suolo, da piccolissime spore, da impurità di ogni genere. Quando il vapore acqueo che proviene dal suolo ancora caldo si raffredda a contatto dell’aria fresca notturna, esso si condensa attorno ad un minuscolo granello di polvere. Queste goccioline formano una specie di nuvola bassa sul suolo, che si chiama nebbia.
Quindi, la nebbia è una specie di nuvola bassa sulla terra, formata da vapore acqueo condensato e pulviscolo atmosferico. Essa si forma anche sul mare e sui laghi e non appena il sole la riscalda a sufficienza, sparisce perchè le goccioline d’acqua evaporano e salgono nell’aria.

Esperimento scientifico per creare la nebbia in vaso qui: 

La neve

Quando l’aria è molto fredda, il vapore si condensa in tanti piccoli cristalli di ghiaccio che riunendosi formano quelli che chiamiamo i fiocchi di neve. Questi sono leggeri e morbidi perchè inglobano grandi quantità di aria. Se si osservano con una forte lente di ingrandimento, si potrà vedere che sono di  forma diversa, ma tutti fatti a stellina con sei punte.

Qui un tutorial per realizzare bellissimi fiocchi di neve di carta: 

FENOMENI METEOROLOGICI materiale didattico

La grandine

Il fenomeno della grandine avviene prevalentemente in estate e c’è la sua ragione. In questa stagione, l’aria è talvolta molto calda e, come abbiamo visto, tende a salire. Nelle altissime regioni atmosferiche, l’aria calda incontra generalmente  correnti assai fredde, anzi, gelate. Allora, le goccioline d’acqua che l’aria contiene, cominciano a turbinare non solo, ma gelano e si trasformano in cristalli di ghiaccio. Anche qui avviene lo stesso fenomeno della pioggia; cioè i cristalli di ghiaccio cadono e incontrano,  nella loro caduta, altre gocce d’acqua a cui si uniscono. Le correnti d’aria calda li sospingono incessantemente verso l’alto finchè i ghiaccioli, divenuti ormai grossi e pesanti, precipitano sulla terra con gli effetti disastrosi che tutti conosciamo. Nel fiocco di neve è contenuta molta aria, nel chicco di grandine no. Ecco perchè questo è più pesante e compatto.

La rugiada

Abbiamo occasione di vedere la rugiada sulle piante e sulla terra, di mattina presto, quando il calore del sole non l’ha ancora fatta evaporare.
Come si è formata? La spiegazione è semplice. Durante la giornata, i caldi raggi del sole hanno riscaldato la terra, le erbe, i fiori. Durante la notte, invece, questi si raffreddano e il vapore acqueo vi si condensa in brillanti goccioline. In autunno o in inverno, quando le notti sono molto fredde, si forma invece la brina. Mentre la rugiada è benefica, la brina, come è noto, danneggia le piante e talvolta quella che si chiama una brinata o una gelata può distruggere un intero raccolto.

Lampi e fulmini

E’ facile, durante un temporale scorgere nel cielo i lampi e vedere cadere un fulmine. La spiegazione di questo fenomeno risale a quanto abbiamo detto a proposito della pioggia. Le goccioline di acqua che, sospinte dalle correnti calde si aggirano vorticosamente nell’aria, si caricano ad opera di questo movimento di elettricità. Questa elettricità si manifesta, appunto, nel lampo che è un’enorme scintilla elettrica che scocca fra due nubi cariche di elettricità (positiva e negativa).
Se la scarica colpisce il suolo, abbiamo il fulmine di cui conosciamo gli effetti talvolta drammatici.
Il tuono è il rimbombo dell’aria quando viene squarciata dal lampo e dal fulmine, ma non deve incutere paura perchè, quando il tuono si sente, il pericolo è già passato.

L’arcobaleno

Portiamo a scuola un prisma e con esso facciamo osservare ai bambini che un raggio di sole, apparentemente fatto di luce bianca, passando attraverso il prisma si scompone di sette bellissimi colori. Ciò avviene perchè i diversi colori di cui è composta la luce bianca sono dal prisma deviati in modo diverso. La stessa cosa avviene con l’arcobaleno. Le gocce di pioggia ancora sospese nell’aria vengono attraversate dalla luce del sole i cui raggi si piegano come nel prisma di cristallo. I colori dell’arcobaleno sono sette: rosso, giallo, celeste, verde, arancione, indaco e violetto.

Un arcobaleno nella noce qui: 

creare libri

L’arcobaleno nella leggenda del Lago di Carezza qui: 

Girandole e trottole per studiare lo spettro luminoso qui 

Dettati ortografici

L’aria atmosferica
La parte inferiore dell’atmosfera è costituita dallo strato gassoso che circonda il nostro globo e che lo segue nel suo movimento di rotazione. L’atmosfera è una massa gassosa alta mille chilometri.

La pressione atmosferica
L’atmosfera preme enormemente sulla superficie del nostro globo e noi non ne rimaniamo schiacciati perchè la pressione si esercita sul nostro corpo internamente ed esternamente, ciò che produce equilibrio. Quando questo equilibrio viene a mancare, come nel caso in cui l’uomo salga a grandi altezze senza essere munito di speciali apparecchi per respirare e per sostenere la mancanza di pressione, si rilevano gravi disturbi e quasi sempre la morte.

Tre elefanti sulle spalle
Chi porta elefanti sulle spalle? Chi è quest’uomo così robusto da non rimanere schiacciato non solo sotto il peso di tre elefanti, ma di uno soltanto? Siamo tutti noi, che sopportando il peso dell’aria, è come se portassimo un peso uguale a quello di tre grossi elefanti.

La pressione atmosferica
L’atmosfera pesa enormemente sopra di noi. E perchè non ne rimaniamo schiacciati? Perchè l’aria esercita questa pressione su tutte le parti del nostro corpo, non solo, ma anche nell’interno, e il risultato è che queste enormi pressioni, enormi ma uguali, si equilibrano e l’uomo può muoversi benissimo senza alcun disturbo.

La stratosfera
La stratosfera è chiamata la regione del buon tempo permanente. Il cielo è di una bellezza commovente: scuro, turchino, cupo o viola, quasi nero.
La terra, lontana, è invisibile: non si vede che nebbia. Soltanto le montagne emergono. Dapprima avvolte nelle nubi, si rivelano a poco a poco.  Una cima poi un’altra. Lo spettacolo è magnifico. (A. Piccard)

Le conquiste degli spazi
La conquista degli spazi è agli inizi. Chissà quanti palpiti, chissà quanta ammirazione, quanti evviva dovremo spendere per le sempre più meravigliose imprese future! Se siamo diversi dalle bestie, è proprio per questo insaziabile, anche se folle bisogno di andare sempre più in là, di svelare uno ad uno i misteri del creato. (D. Buzzati)

L’atmosfera
Noi siamo immersi completamente nell’aria, anzi, nella sfera d’aria che circonda la terra; meglio sarà se diremo atmosfera, che significa, appunto, sfera d’aria. La terra gira, gira vorticosamente, es e noi non ce ne accorgiamo dipende dal fatto che tutto gira con la terra, comprese le nuvole che fanno parte dell’atmosfera.

La conquista dello spazio
A ogni passo di là dalle conosciute frontiere, volere o no, il nostro cuore palpita. Al pensiero che un uomo come noi sta bivaccando lassù, nella vertiginosa e gelida parete trapunta di stelle, vien fatto di correre su per le scale, di affacciarsi sull’ultima terrazza e di agitare un lumino. Chi lo sa, se ci vede: si sentirà meno solo. (D. Buzzati)

Il lancio del missile
Il razzo, avvolto alla base da un bagliore di fiamma e da una nuvola di vapori, si stacca dalla piattaforma e sale sempre più velocemente verso l’alto. L’astronauta comincia con voce pacata a trasmettere a terra tutte le informazioni richieste dal suo eccezionale servizio e contemporaneamente esegue tutte le operazioni assegnategli come se fosse seduto davanti a una scrivania. Solo una volta, mentre la capsula ha raggiunto l’altezza di 185 chilometri, si lascia sfuggire un’esclamazione: “Che vista meravigliosa!”

Aria calda e aria fredda
Mutamenti improvvisi di temperatura molto spesso portano pioggia o tempo burrascoso. E’ per questo motivo che, alla fine di una calda giornata estiva, quando comincia a levarsi il vento e l’aria rinfresca e il cielo si copre di nuvole, si può essere quasi sicuri che ci sarà un temporale. L’aria, così calda per tutta la giornata, comincerà a salire, e quella fredda scende rapidamente a prendere il suo posto, portando con sè vento e pioggia. (J. S. Meyer)

Un oceano d’aria
Noi viviamo sul fondo di un oceano d’aria, che si innalza per chilometri e chilometri sopra le nostre teste ed è molto pesante. Se non ne sentiamo il peso è solo perchè la sua pressione si esercita sul nostro corpo dall’alto, dal basso e dai lati, in ogni direzione contemporaneamente. Inoltre c’è sempre aria nei nostri polmoni e in tutto il nostro corpo, e quest’aria che è dentro di noi e quella che è intorno a noi si bilanciano così che non di accorgiamo di quanto l’aria pesi. (J. S. Meyer)

L’atmosfera
La quasi totalità degli esseri viventi ha bisogno di aria per respirare. Anche gli alberi, le erbe, i fiori, hanno bisogno di aria; ma se potessero esistere senza di essa, sarebbero immobili come cose dipinte. Non una sola tra le innumerevoli foglie degli alberi si muoverebbe; non un solo filo d’erba si piegherebbe, e ramoscello o fronda stormirebbero ondeggiando alla brezza. E non potrebbero esserci ne api ne farfalle ne uccelli di alcuna specie, poichè come potrebbero volare se non di fosse aria a sostenerne il volo? Ogni cosa al mondo sarebbe silenziosa e muta, poichè il suono non può propagarsi se non attraverso l’aria. (J. S. Meyer)

L’aria
Senza aria o atmosfera non si avrebbe ne tempo bello ne tempo brutto, ne pioggia ne neve; e non si saprebbe che cosa sono il sereno, le nuvole, i temporali. Senz’aria non potrebbero vivere ne uomini ne animali, la quasi totalità degli esseri viventi ha bisogno di aria perchè questa necessita per respirare. ( J. S. Meyer)

Un oceano d’aria
Immaginate che cosa significherebbe vivere sul fondo dell’oceano. Supponete per un momento di poter camminare sul fondo oceanico, con tante migliaia di tonnellate d’acqua che premono su di voi e pesano come montagne. Naturalmente, non si potrebbe resistere poichè il nostro corpo non è fatto per sopportare un peso così enorme: si resterebbe schiacciati in meno di un minuto. Eppure tutti noi viviamo sul fondo di un oceano d’aria che si innalza per chilometri e chilometri sopra la nostra testa ed è molto pesante. (J. S. Meyer)

Salire nell’atmosfera
Quanto più saliamo nell’atmosfera, tanto minore è la quantità di aria sopra di  noi e minore sarà la pressione. Se potessimo salire per sessanta o settanta chilometri, difficilmente troveremmo ancora un po’ d’aria, e sarebbe la morte per noi. Il nostro corpo, infatti, è costituito per poter vivere sulla terra, nel fondo dell’oceano d’aria, e proprio dove l’aria è più pesante. (J. S. Meyer)

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Il vento

Venti e piogge
I venti non solo servono a ventilare decentemente questo nostro quartiere di residenza che è la terra, ma compiono inoltre l’alta funzione di distribuire la pioggia, senza la quale sarebbe impossibile lo sviluppo normale della vita animale e vegetale. La pioggia non è altro che acqua evaporata dagli oceani, dai mari chiusi, dalla terra arida e dalle foglie delle piante e dai nevai continentali e trasportata dall’aria sotto forma di vapore.  Quando i venti, che trasportano questo vapore, incontrano aria fredda si ha la pioggia. (Van Loon)

Il vento
Il vento è una corrente. Ma, cos’è che produce una corrente? Cos’è che la mette in moto? Le differenze di temperatura dell’aria. Di solito una parte dell’aria è più calda dell’aria circostante e quindi più leggera, e perciò tende a levarsi in alto. Levandosi, crea il vuoto. L’aria fredda delle regioni superiori, essendo più pesante, precipita turbinando nel vuoto. (Van Loon)

Vento e pioggia
Quando un vento, carico di vapore acqueo, incontra una catena di montagne, possono accadere due cose. O la sua violenza deve spezzarsi contro questo ostacolo, oppure, per poterlo oltrepassare, la corrente aerea deve innalzarsi a grande altezza. Trovando, così, una zona più fredda, il vapore acqueo si condensa, si trasforma in pioggia, e il vento, ormai diventato asciutto, passa oltre. Quindi la zona che è situata al di qua della catena di monti, avrà frequenti piogge e clima umido, la zona situata al di là avrà clima asciutto e cielo sereno. (Van Loon)

Altri dettati ortografici sul vento qui: 

Poesie e filastrocche sul vento qui: 

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Le nuvole

Le nubi che corrono all’impazzata per il cielo sono leggere, soffici e, spinte dal vento, sembrano bianchi agnelli in corsa. Si divertono qualche volta ad oscurare il sole, a cingere di un pallido alone la luna lucente, a coprire e a scoprire le cime lontane dei monti. Qualche volta si appesantiscono, si fanno nere e minacciose: sono allora foriere di temporale. Si scaricano in furiosi acquazzoni e non di rado in dannose grandinate. (R. Mari)

Le nuvole
Che cosa sono quelle nuvole soffici che vediamo pigramente e oziosamente fluttuare nel cielo azzurro? La maggior parte di esse hanno l’aspetto di fiocchi bambagiosi, delicati e soffici: sembrerebbe bello poter andar vagando qua e là per cielo, adagiati su di esse, spinti da un gentile venticello! Ma sappiamo che in realtà non si tratta di bambagia e tanto meno di fiocchi morbidi e leggeri.

Le nubi
Le nubi sono costituite da miliardi e miliardi di minutissime goccioline di acqua, ciascuna delle quali è così piccola che non si vede a occhio nudo. Di tali goccioline ce ne sono miliardi in una goccia di pioggia: di qui si potrà comprendere la piccolezza di ognuna e come possa essere invisibile a occhio nudo. (J. S. Meyer)

Forma delle nuvole
Quelle nuvole d’aspetto soffice e bambagioso sono chiamate cumuli. I cumuli spesso sono considerati come nuvole del bel tempo. Talvolta i cumuli si avvicinano e si uniscono sì che tutto il cielo ne è presto ricoperto. Non si tratta più di cumuli, ma di strati. Essi formano una specie di coltre e ci avverte che la pioggia può non essere lontana. Alte nel cielo, talvolta a quindici chilometri dalla terra, viaggiano quelle nuvole fini e delicate che sono dette cirri, che vuol dire riccioli. Sono freddissime  e invece che da goccioline d’acqua, sono costituite da minuti cristalli di ghiaccio. (J. S. Meyer)

Nuvole
La mattina, al primo chiarore, sorgono dai prati umidi. La sera sbucano in un batter d’occhio da qualche gola più oscura, si assottigliano, innalzandosi velocissime per le coste, si librano per le cime dei monti, poi, in un batter d’occhio, come scaturiscono, svaniscono. Il vento le incalza, le sbaraglia, le sgretola e le disperde dopo una lotta silenziosa di giganti. (G. Giacosa)

Le nuvole
Quando, levandosi dal suolo, l’aria calda le incontra, intorno ai mille o ai duemila metri, correnti o strati d’aria più fredda, il vapor acqueo in essa contenuto si raffredda e le minute goccioline di cui è composta si raggruppano insieme e formano gocce più grosse. Miliardi di gocce si ammassano e si condensano sempre più, formano cioè delle nuvole. A poco a poco si riuniscono tutte e in breve il cielo ne è completamente ricoperto. (J. S. Meyer)

Le nuvole
E’ appena giorno e io che mi sono svegliato presto ne approfitto per continuare a registrare le mie memorie nel mio caro giornalino, mentre i miei cinque compagni dormono della grossa.
Ieri l’altro dunque, cioè il 30 gennaio, dopo colazione, mentre stavo chiacchierando con Tino Barozzo, un altro collegiale grande, un certo Carlo Pezzi gli si accostò e gli disse sottovoce: “Nello stanzino ci sono le nuvole”.
“Ho capito!” rispose il Barozzo strizzando un occhio.
E poco dopo mi disse: “Addio Stoppani, vado a studiare” e se ne andò dalla parte dove era andato il Pezzi.
Io che avevo capito che quell’andare a studiare era una scusa bella e buona e che invece il Barozzo era andato nello stanzino accennato prima dal Pezzi, fui preso da una grande curiosità, e senza parere, lo seguii pensando “Voglio vedere le nuvole anch’io”.
E arrivato a una porticina dove avevo visto sparire il mio compagno di tavola, la spinsi e… capii ogni cosa.
In una piccola stanzetta che serviva per pulire e assettare i lumi a petrolio (ce n’erano due file da una parte, e in un angolo una gran cassetta di zinco piena di petrolio e cenci e spazzolini su una panca) stavano quattro collegiali grandi, che nel vedermi, si rimescolarono tutti, e vidi che uno, un certo Mario Michelozzi, cercava di nascondere qualcosa.
Ma c’era poco da nascondere, perchè le nuvole dicevano tutto: la stanza era piena di fumo e il fumo si sentiva subito che era di sigaro toscano.
“Perchè sei venuto?” disse il Pezzi con aria minacciosa.
“Oh bella, sono venuto a fumare anch’io”
“No, no!” saltò a dire il Barozzo “Lui non è abituato… gli farebbe male, e così tutto sarebbe scoperto”.
“Va bene, allora starò a veder fumare”
“Bada bene” disse un certo Maurizio Del Ponte, “Guai se…”
“Io, per regola” lo interruppi con grande dignità, avendo capito quel che voleva dire, “la spia non l’ho mai fatta, e spero bene!”
Allora il Michelozzi, che era rimasto sempre prudentemente con le mani di dietro, tirò fuori un sigaro toscano ancora acceso, se lo cacciò avidamente tra le labbra, tirò due o tre boccate e lo passò al Pezzi che fece lo stesso, passandolo poi al Barozzo che ripetè la medesima funzione passandolo a Del Ponte che, dopo le tre boccate di regola, lo rese al Michelozzi… e così si ripetè il passaggio parecchie volte, finchè il sigaro fu ridotto ad una misera cicca e la stanza era così piena di fumo che ci si asfissiava…
“Apri il finestrino!” disse il Pezzi al Michelozzi. E questi si era mosso per eseguire il saggio consiglio quando il Del Ponte esclamò:
“Calpurnio!”
E si precipitò fuori della stanza seguito dagli altri tre.
Io, sorpreso da quella parola ignorata, indugiai un po’ nell’istintiva ricerca del suo misterioso significato, pur comprendendo che era un segnale di pericolo; e quando a brevissima distanza dagli altri feci per uscire dalla porticina, mi trovai faccia a faccia con il signor Stanislao in persona che mi afferrò per il petto con la destra e mi ricacciò indietro esclamando: “Che cosa succede qua?”
Ma non ebbe bisogno di nessuna risposta; appena dentro la stanza comprese perfettamente  quel che era successo e con due occhi da spiritato, mentre gli tremavano i baffi scompigliati dall’ira, tuonò: “Ah, si fuma! Si fuma, e dove si fuma? Nella stanza del petrolio, a rischio di far saltare l’istituto! Sangue d’un drago! E chi ha fumato? Hai fumato tu? Fa’ sentire il fiato… march!”
E si chinò già mettendomi il viso contro il viso in modo che i suoi baffoni grigi mi facevano il pizzicorino sulle gote. Io eseguii l’ordine facendogli un gran sospiro sul naso ed egli si rialzò dicendo: “Tu no… difatti sei troppo piccolo. Hanno fumato i grandi… quelli che sono scappati di qui quando io imboccavo il corridoio. E chi erano? Svelto… march!”
“Io non lo so!”
“Non lo sai? Come! Ma se erano qui con te!”
A queste parole i baffi del signor Stanislao incominciarono a ballare con una ridda infernale.
“Ah, sangue d’un drago! Tu ardisci rispondere così al direttore? In prigione! In prigione! March!”
E afferratomi per un braccio mi portò via, chiamò il bidello e gli disse: “In prigione fino a nuovo ordine!”
(Vamba)

Poesie e filastrocche sulle nuvole qui: 

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La pioggia

Quando l’ammasso delle nuvole che si condensano con il freddo, si raffredda maggiormente, allora tutti i miliardi di goccioline che lo formano e che hanno già un discreto volume, diventano sempre più grosse e più pesanti e a un bel momento, cominceranno a staccarsi dalle nubi ed a precipitare sulla terra in forma di pioggia. La pioggia cade e le nuvole a poco a poco si dissolvono. (J. S. Meyer)

La pioggia
La pioggia non è altro che acqua evaporata dagli oceani, dai mari chiusi e dai nevai continentali e trasportata nell’aria sotto forma di vapore. Poichè l’aria calda può contenere molto maggior vapore che la fredda, il vapore acqueo viene trasportato senza molta difficoltà finchè i venti non incontrino aria fredda; quando ciò avviene, il vapore si condensa e precipita nuovamente alla superficie della terra in forma di pioggia o grandine o neve. (Van Loon)

Altri dettati ortografici sulla pioggia qui: 

Poesie e filastrocche sulla pioggia qui: 

Dettati ortografici sul temporale qui: 

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La nebbia

La nebbia è una nuvola bassa sulla terra formata da vapore acqueo e pulviscolo atmosferico. Essa si forma prevalentemente sul mare e sui laghi e non appena il sole la riscalda a sufficienza sparisce perchè le goccioline d’acqua evaporano e salgono nell’aria.

Altri dettati ortografici sulla nebbia qui: 

Poesie e filastrocche sulla nebbia qui: 

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La neve

La neve è una precipitazione atmosferica che avviene quando la temperatura dell’aria in cui il vapore acqueo si va condensando, diventa molto bassa. Per questo fatto, il vapore acqueo si condensa in minutissimi cristalli di ghiaccio disposti a forma di stella, i quali, cadendo, si raggruppano fra loro formando i fiocchi di neve.

Fiocchi di neve
Andate al’aperto con una tavola scura mentre nevica e studiate, mediante una lente di ingrandimento, le stelline graziose che vi cadono a miliardi dal cielo. Osserverete la mirabile costruzione di queste foglioline di cristallo, di questi grappoli di stelline, ognuno delle quali è un capolavoro che nessun gioielliere saprebbe mai imitare. (B. H. Burgel)

Altri dettati ortografici sulla neve qui:

Poesie e filastrocche sulla neve qui:

Un libretto fatto a mano sulla neve qui: 

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La brina

Dettati ortografici su brina,  gelo, ghiaccio, qui: 

Poesie e filastrocche su brina, gelo e ghiaccio qui: 

50 e più giochi da fare col ghiaccio qui:

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La rugiada

La rugiada compare sempre la mattina presto, di primavera, d’estate, e anche al principio dell’autunno. Se di giorno ha fatto molto caldo e la notte è fresca, è certo che al mattino seguente ci sarà molta rugiada sui prati. Sull’erba, sulle foglie, sui fiori ci saranno tante goccioline d’acqua che brillano come diamanti alla luce dell’alba. (J. S. Meyer)

Altri dettati e poesie sulla rugiada qui: 

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L’arcobaleno

Dettati ortografici sull’arcobaleno qui: 

Poesie e filastrocche sull’arcobaleno qui: 

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La grandine

La grandine è formata di granellini gelati che cadono da nuvole cineree. E’ preceduta spesso da un uragano nel quale si percepisce un rullio caratteristico causato, pare, dallo sfregamento dei granellini di ghiaccio che si muovono in moto vorticoso, rapidissimo. La grandine è sempre apportatrice di rovine; i granelli possono raggiungere anche la grandezza di un uovo e un peso notevole.

La grandine
D’estate, quando da noi fa un caldo insopportabile, a diverse migliaia di metri dal suolo la temperatura può essere bassissima; e allora succedono strane cose. L’aria calda che si solleva dalla terra comincia, a un certo punto, a turbinare e a trasportare con sè goccioline di acqua. Su, sempre più su le sospinge l’aria calda, finchè esse raggiungono gli strati d’aria dove la temperatura è molto bassa. Allora gelano, si trasformano in minuti ghiaccioli e cominciano a cadere. Così turbinando e cadendo, si uniscono fra loro e formano chicchi di ghiaccio che, per l’aumentato peso, precipitano sulla terra in forma di grandine. (J. S. Meyer)

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La bufera

La natura è bella anche nei suoi furori: una bufera è tanto più bella, quanto più è terribile e intensa. Ecco che il cielo si oscura e il sole si nasconde fra le nuvole scure, coi contorni neri, che si rincorrono, si inseguono come eserciti in battaglia. Guizzano i lampi e le nubi vibrano e si scuotono come invase da una corrente elettrica che le illumina, ora di una luce azzurra, ora dorata, ora argentea. Di quando in quando guizzi di lampi serpeggiano nell’oscuro esercito delle nuvole.
(P. Mantegazza)

Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

IL PANE materiale didattico

IL PANE materiale didattico vario: dettati ortografici, letture, ecc…, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Il pane

L’uomo preistorico abbrustoliva i semi del grano per mangiarli e imparò soltanto più tardi a triturarli e ad impastare e cuocere la farina che ne ricavava. Questo sistema è usato ancor oggi da alcuni popoli che ottengono in questo modo una galletta dura e compatta di difficile digestione. Soltanto in un secondo tempo l’uomo imparò ad usare il lievito. Di questo si conoscono due specie: il lievito di birra e il lievito di pasta. Entrambi sono prodotti da speciali fermenti. Il lievito di pasta, usato per la confezione del pane casalingo, si ottiene facendo fermentare per alcune ore all’aria un pezzo di pasta.
La fermentazione, cioè la lievitazione, avviene per opera di un fungo che si sviluppa nella pasta e che scompone l’amido della farina in alcool e anidride carbonica. La pasta lievitata rigonfia appunto, per opera dell’anidride carbonica, ed emana un odore di vino per opera dell’alcool che si è formato.
I principali componenti della farina sono il glutine e l’amido. Quest’ultimo è formato da tanti minutissimi granelli compatti, di un colore bianco candido. Il glutine è grigiastro, vischioso ed elastico.
Quando si aggiunge acqua alla farina preparata per fare il pane, i granellini di amido di rammolliscono e si gonfiano, aumentando di volume, e il glutine si riunisce a formare una massa molle e compatta, pronta a ricever l’azione del lievito.
Con la lievitazione, la pasta si solleva, si gonfia, in una parola fermenta. Durante la fermentazione, l’amido si trasforma in destrina e quindi in zucchero o glucosio. E’ appunto quest’ultima sostanza che produce, oltre all’alcool, l’anidride carbonica per opera della quale il pane diventa spugnoso, ricco di piccole cavità. Quando il pane cuoce nel forno, il gas, dilatandosi, allarga ancora queste cavità e la massa cresce ulteriormente di volume.
Il pane si può fare anche con altri tipi di farina: con le segale, meno ricca di glutine, con l’avena, con l’orzo, col granoturco, ecc…
Nei paesi caldi, come in Africa, il raccolto del grano si fa due volte l’anno. Nei paesi freddi dove il grano non potrebbe arrivare a maturazione, si coltiva l’orzo primaverile che matura in soli tre o quattro mesi. L’avena, che ama l’umidità e il clima piuttosto fresco, viene di preferenza coltivata nei paesi nordici dove si usa,  infatti, pane di avena.
Il pane può essere confezionato in diverse forme: pagnotte, sfilatini, panini, filoni, grissini, ciambelle. Il pane integrale, fatto con farina meno setacciata e quindi più scura, è più nutriente del pane bianco anche perchè utilizza l’embrione, elemento prezioso, che è fissato alla crusca e che assurdamente viene eliminato con questa, togliendo al pane gran parte delle sue qualità nutritive.
Con la farina di grano si fanno le paste alimentari di cui in Italia esiste una vasta e ottima produzione, oggetto di esportazione in tutto il mondo. La pasta è fabbricata prevalentemente a macchina e assume le più svariate forme.

Non sciupare il pane

Non sciupare il pane! Pensa che è costato tanta fatica e che il  contadino ha seminato in autunno per raccogliere soltanto in estate. Per tutto l’anno egli ha trepidato per le gelate, per i temporali, la siccità, la malattia. E soltanto quando ha potuto mettere il suo grano al sicuro egli ha tratto un sospiro di sollievo.

Il pane

Mi chiamano ciambella, sfilatino, panino, cornetto, ma sono sempre il pane. La mia crosta è dorata. La mollica è soffice, bianca, morbida. L’anno scorso ero ancora erba verde nei solchi dove le allodole facevano il loro nido. Sono stato poi spiga matura che l’uomo ha mietuto, trebbiato, macinato. Divenni bianca farina che il fornaio ha impastato con l’acqua, il sale,  il lievito, e poi ha cotto al forno.
Quando tu mangi un pezzo di pane, ricordati di quanto ti ho detto.

Il grano

Gli uomini trovarono un’erba dal lungo stelo, che da un seme solo fa tante spighe ed ogni spiga tanti chicchi, i quali macinati, danno una polvere così bianca, così molle e queste, intrisa e rimenata e cotta, dà un cibo così soave, così forte! Quell’erba è la divina vivanda che di fa vivere: il pane! (G. Pascoli)

Il pane

Quante fatiche, quante ansietà, quante pene sono contenute in un pezzo di pane! I grandi bovini che erpicano la terra, il contadino che lo buttò a manciate nel maggese invernale, i primi fili che vincono, teneramente, la scura umidità della terra, e i mietitori che piegano i colli anneriti, l’intera giornata  e c’è da legar le manne, da portarle sull’aia. (G. Papini)

I lavori per il pane

Dopo trebbiato bisogna aspettare un po’ di vento che non sia troppo fiacco, ma neanche forte per dividere, col vaglio, i chicchi buoni dalla pula e poi c’è da macinare e da toglier la crusca con lo staccio, e da sfiorar la farina e da scaldar l’acqua per impastarla, e da scaldare il forno con l’erba secca e le fascine; tutto questo c’è da fare, con amore  e pazienza prima di avere questo pane. (G. Papini)

L’arte di fare il pane

Gli uomini primitivi cuocevano il pane su pietre roventi. Essi facevano focacce non lievitate e non pagnotte e panetti, come noi. I primi forni pubblici, dove si cuoceva il pane e dove tutti potevano comperarlo, sorsero nell’antica Roma.
Nel passato i forni erano a legna, ora sono a legna; in essi non si depositano sul pane ne cenere ne polvere e il pane è più bello. (G. Ugolini)

Non sciupare il pane

Non sciupare il pane. Pensa che esso è costato tanta fatica.  Il contadino ha lavorato la terra, l’ha seminata. Quando le piantine sono spuntate, le ha mondate dalle cattive erbe. Venuto il caldo, egli ha mietuto le spighe mature. Le ha trebbiate, ha macinato il grano, ha impastato la farina per farne dei pani. I pani sono stati cotti al forno ed ora sono sulla tua tavola. Pensa a tutto questo quando stai per sciupare anche un sol pezzo di pane.

Esercizi di vocabolario
Pane: pagnotta, panificare, panificazione, pancotto, pangrattato, panettone, pandoro, panino, panetto, panone…
Pezzo, morso, tozzo, mollica o midolla, crosta, cantuccio, fetta.
Il pane può essere: fresco, duro, rifatto, raffermo, caldo, odoroso, croccante, stantio, ammuffito, ben cotto, crudo, lievitato, mal lievitato, bianco, grigio, integrale, azzimo, soffice, leggero, bruciato, tostato, abbrustolito, biscotto, biscottato, midolloso, mollicoso, affettato, asciutto, bagnato, inzuppato,…
Il pane si impasta, lievita, cuoce, brucia, si abbrustolisce, si mangia, si spezza, si gratta, si indurisce, si affetta, …
Modi di dire: essere pane e cacio; se non è zuppa è pan bagnato; mangiare il pane a ufo; magiare pan pentito; non è pane per i suoi denti; vender per un pezzo di pane; rendere pan per focaccia; spezza il pane della scienza.

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VULCANI materiale didattico vario

VULCANI materiale didattico vario

VULCANI materiale didattico

Sul Vesuvio

Salgo per un sentiero, il quale, serpeggiante ed angusto, in tutto rassomiglia ai sentieri di alta montagna: soltanto qui non vi sono cigli erbosi e neppure quei rari fiorellini dalle tinte intense che si trovano fino alle più grandi altezze, qui vi à la lava arida e granulosa nella quale il piede affonda come nella sabbia; qui non vi sono alberi od arbusti. Tutto è arido, tetro, arso… Arrivo sull’orlo del cratere. Larghissimo e concentrico è il cratere e le ripe, incurvandosi tutto intorno, danno l’idea di quello che doveva essere il monte prima dell’eruzione di Pompei, che ne sventrò la cima e ne fece un vulcano. (A. Moravia)

I vulcani attivi in Italia

Quattro sono i vulcani attivi in Italia: Vesuvio, Etna, Stromboli e Vulcano.

Il Vesuvio è un tipico vulcano a cono; il cratere attuale è il prodotto di un’antica eruzione che ha sventrato il cratere precedente. La più spaventosa eruzione storica del Vesuvio è stata quella dell’anno 79 dopo Cristo: le città di Ercolano, Pompei e Stabia furono annientate con tutti gli abitanti, e rimasero seppellite dalle ceneri eruttate dal vulcano.

I lavori di disseppellimento, che durano ormai da due secoli, hanno permesso di riconoscere in ogni particolare la vita degli antichi Romani, le loro abitazioni, i costumi, le suppellettili.

In attività eruttiva sono Vulcano e Stromboli, quest’ultimo in attività continua da più di 3000 anni. Passando con il piroscafo presso l’isola di Stromboli durante la notte, si vede il vulcano risplendere come un faro.

Il maggior vulcano italiano, l’Etna, è anche uno dei massimi coni eruttivi della Terra. Per altezza è il maggior monte dell’Italia peninsulare e insulare, poichè supera i 33oo metri, mentre il Gran Sasso non raggiunge i 3000 metri.

E’ un enorme cono costituito da colate laviche sovrapposte e da strati di tufo. Da millenni questo vulcano è in continua attività; attualmente si verifica un’eruzione ogni dieci anni circa.

Disastrosa fu l’eruzione del 1669: le lave sgorgate da una spaccatura lunga 18 chilometri formarono i Monti Rossi e coprirono una superficie di 50 chilometri quadrati. Vennero totalmente o parzialmente distrutti dodici centri abitati, tra cui buona parte della città di Catania, ove le colate di lava si spensero al mare. Si contarono 90.000 vittime.

La distruzione di Pompei

Dopo lunghi secoli di silenzio, nell’agosto del 79, il Vesuvio si risvegliò improvvisamente: tra boati e scuotimenti spaventosi, la sommità del monte si aprì, e dalla voragine si levò un fittissimo nembo di cenere e lapilli che oscurò il sole, e ricadendo sulla terra, coprì i campi e le case, seppellendo tutto sotto una coltre di morte. Le popolazioni, sbalordite per lo spettacolo mai visto, pazze di terrore, fuggirono incalzandosi per le vie, spargendosi per i campi, avventurandosi sul mare irato, inseguite sempre dalla pioggia implacabile di cenere e di sassi. I deboli cadevano e morivano, calpestati dai fuggitivi o soffocati dalle emanazioni micidiali del suolo; i più forti correvano senza meta, a tentoni nel buio fitto, urlando. Nè mancarono gli illusi che, sperando nella pronta fine del cataclisma, si serrarono nelle case, si stiparono nei sotterranei e morirono o schiacciati sotto le macerie o esausti dalla fame o asfissiati. (A. Manaresi)

I vulcani

Al centro della Terra si trova una enorme massa di materiale incandescente avvolto tra fiamme e gas, i quali di tanto in tanto provocano spaventose esplosioni. Quando avvengono queste esplosioni il materiale incandescente viene lanciato con tale forza che riesce a rompere anche la crosta terrestre e forma una larga spaccatura attraverso la quale giunge alla luce. Qui, a mano a mano che esce, si solidifica e dà origine ad un monte a forma di cono, che si chiama vulcano. Alla sommità del cono vi è il cratere, una grande apertura circolare, sempre pronta ad emettere da un momento all’altra lava, lapilli e cenere infuocata. In Italia vi sono tre vulcani ancora attivi, pronti cioè a mettersi in eruzione. Essi sono il Vesuvio, l’Etna e lo Stromboli.

Le formiche e il gigante

Un gruppo di uomini irsuti e vestiti di pelli si inoltra, a passo cauto, tra la vegetazione che ammanta la falda del monte. Sono armati di grossi randelli in cima ai quali hanno legato una pietra scheggiata a forma di lancia. Hanno avvistato un cerbiatto e poichè sono affamati, vogliono ucciderlo. Ma il cerbiatto è scomparso.
Ora gli uomini lo cercano fra gli alberi che coprono i fianchi della montagna. Sono alberi così fitti e così alti che il sole vi penetra a stento. Se gli uomini salissero su su, fino a raggiungere la vetta, vedrebbero gli alberi cambiare aspetto. Prima castagni fronzuti, poi querce possenti, infine abeti, pini e faggi, sempre più alti, sempre più oscuri.
Il paesaggio è selvaggio, come è selvaggio l’aspetto di quegli uomini che rassomigliano agli animali di cui vanno a caccia. Irsuti, muscolosi, fronte bassa e occhi infossati, braccia lunghe e aspetto selvatico, essi non conoscono che una legge: uccidere per mangiare.
Il monte è alto e scosceso, così alto che la sua cima, spesso, è avvolta dalle nubi. Gli uomini non sono mai saliti fin lassù: hanno paura di questo gigante. Quando le nubi si diradano e la vetta appare nitida nel cielo, essi la guardano con timore, così aguzza, spoglia e rocciosa, spesso coperta di bianco. Certo, quel monte è un nume potente che, dall’alto, guarda con disprezzo i piccoli uomini, simili a formiche, che si arrampicano per i suoi pendii. Se appena lasciasse cadere un masso su di loro, ne schiaccerebbe un bel mucchio. Se scatenasse le acque, che sgorgano fra le sue rocce, li spazzerebbe tutti, proprio come si spazza uno stuolo di formiche affaccendate. Se scuotesse appena le sue membra di pietra, li travolgerebbe in un diluvio di sassi, tra rombi spaventosi.
Gli uomini sanno tutto questo, perchè l’hanno provato. E perciò temono la montagna. La temono e l’amano. Quando le furie non la squassano, la montagna apre, benevola, le sue caverne a ripararli dalle intemperie; fornisce loro i nodosi randelli e le pietre con cui atterrare la preda; i suoi alberi maturano abbondanti frutti squisiti. Gli uomini amano la montagna nonostante le sue ire, purchè però non sputi fuoco. Anche questo, infatti, talvolta accade. Essi hanno visto con sbigottimento scaturire talvolta dalla cima di un monte un’immensa fiumana liquida che bruciava tutto ciò che incontrava lungo il suo cammino. Soltanto dopo che il gigante si era calmato, il fiume di fuoco diventava di nuovo pietra nera, consolidata lungo i fianchi. In seguito, l’avrebbero chiamata lava.
Ecco perchè le formiche hanno paura del gigante.
Eppure, il gigante sarebbe stato domato dalle formiche.
Siamo nello stesso luogo, ma mille e mille anni dopo. La montagna ha cambiato aspetto. I suoi versanti non sono più ricoperti da quella fitta vegetazione che impediva al sole di penetrare. Nelle zone più basse i campi coltivati si estendono a perdita d’occhio, solcati da strade su cui passano macchine velocissime. Graziose casette sorgono qua e là, fitte fitte, una vicina all’altra, e formano un paese da cui emerge la punta di uno svelto campanile.
Gli alberi non ammantano più i fianchi di questa montagna domata: sono stati abbattuti per fabbricare le case, le navi, per essere trasformati in tanti oggetti di cui l’uomo si serve perchè la sua vita sia sempre più comoda e facile. Forse ne ha abbattuti un po’ troppi. Soltanto in alto, la foresta è rimasta intatta, ma i fianchi della montagna sono ormai spogli. E la montagna si è vendicata lasciando precipitare le sue acque che, non più trattenute dai grossi tronchi, hanno portato devastazioni e rovine. L’uomo è corso ai ripari e ha imparato a rispettare gli alberi.
Ora la montagna è sua amica ed egli è salito sulla sua vetta e vi ha piantato la bandiera.
E’ vero che la vetta non è più così rocciosa e aguzza come al tempo degli uomini irsuti e coperti di pelli. Per troppi secoli si è eretta verso il cielo: le sue piogge l’hanno flagellata, le nevi che l’hanno ricoperta, ghiacciandosi, l’hanno spaccata in tutti i sensi; i torrenti, che per tanto tempo sono precipitati lungo i suoi fianchi, hanno trascinato pietre, terra, scavando profonde e ampie vallate dove si sono gettate le acque dei fiumi.
L’uomo è ormai amico della montagna. Le catene dei monti, che si stendono per migliaia e migliaia di chilometri, gli hanno permesso di difendersi dagli invasori meglio di una fortezza. Ed entro quelle catene egli ha stabilito i limiti della sua patria.
In tempo di pace, vi ha tracciato ampie strade su cui ha fatto passare le sue macchine rombanti e i suoi treni fragorosi. E per far questo, si è giovato dei valichi che si aprivano tra una vetta e l’altra. Talvolta, dove non era possibile servirsi dei valichi, ha scavato lunghe gallerie che hanno traforato addirittura la montagna da una parte all’altra.
Ecco perchè la montagna ha cambiato aspetto: quegli uomini che si arrampicavano lungo i suoi fianchi simili a formiche, così deboli in confronto della sua potenza, l’hanno dominata. Hanno imbrigliato le sue acque perchè non portassero devastazioni, ma fertilità; hanno sostituito la selvaggia vegetazione con campi e pascoli; hanno costruito comode abitazioni lungo i suoi fianchi, servendosi dei tronchi e delle pietre che la stessa montagna forniva; persino le lave, che essa aveva fatto scaturire fra un diluvio di fiamme, si sono trasformate, per opera degli uomini, in terreni fertili.
Le formiche hanno vinto il gigante.
(Mimì Menicucci)

La distruzione di Pompei

Da parecchi giorni la terra era scossa da un lieve terremoto; a un tratto le scosse divennero più violente. Una grossa nuvola nera di cenere, interrotta da lingue di fuoco, usciva dal cratere del Vesuvio e si ingrandiva sempre più: discese dal monte, coprì i campi e giunse fino al mare.
La terra sprofondò. Donne, uomini, bambini, fuggirono terrorizzati dalle loro case, urlando, piangendo, invocando gli dei. Non si vedeva nulla: i fanciulli chiamavano la mamma,  le mamme i figli, i mariti le spose. Sembrava giunta la fine del mondo.
Anche a Pompei si udì un terribile boato e sulla città sembrò scendere la notte. Moltissimi si trovavano nell’anfiteatro ad assistere ad uno spettacolo di gladiatori. I cittadini, impazziti di terrore, si riversarono sulla strada che conduceva al mare. Alcuni riuscirono a salvarsi, altri si attardarono nelle loro case per prendere i gioielli e i denaro. Di questi ultimi nessuno si salvò: morirono asfissiati dalle ceneri e dai vapori ardenti. Pompei fu sepolta e così Ercolano e Stabia.

La famosa eruzione del Vesuvio del 79

Lo scrittore romano Plinio il Giovane ci ha lasciato in una sua lettera questa viva e impressionante descrizione dell’eruzione del Vesuvio che nel 79 seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia. Lo zio dello scrittore, Plinio il Vecchio, considerato il più grande naturalista romano e autore di una Storia Naturale, spinto dall’amore della scienza, accorse, incurante del pericolo, per osservare da vicino il fenomeno, ma trovò la morte.
“La nube, che da lontano era difficile capire da qual monte sorgesse (solo più tardi si seppe che proveniva dal Vesuvio), somigliava per la sua forma ad un albero, più precisamente ad un pino, poichè, dopo essersi levata assai in alto, come un tronco altissimo, si ramificava intorno e appariva ora bianca, ora nerastra, secondo che era più carica di terra o di cenere.
Come era naturale, dato il suo amore alla scienza, mio zio credette che quel grandioso fenomeno fosse degno di essere esaminato più da vicino.
Ordinò dunque che gli si apparecchiasse la sua lancia (egli si trovava a Miseno, al comando della flotta romana) e stava già per uscire di casa, quando ricevette un biglietto di Rectina, moglie di Casco, atterrita dall’imminente pericolo, poichè la sua villa stava ai piedi del Vesuvio, nè altro scampo vi era se non per mare, e pregava affinchè egli volesse salvarsi da sì grande catastrofe.
Allora mio zio mutò consiglio e si accinse ad affrontare col più grande coraggio ciò che prima pensava di osservare con interesse di studioso.
Fece venire delle quadriremi, vi montò sopra egli stesso e partì per portare soccorso, non solo a Rectina, ma a molti altri, poichè la spiaggia bellissima assai era popolata.
A mano a mano che le navi si avvicinavano, una cenere più spessa e più calda pioveva su di esse; già cadevano tutt’intorno lapilli e scorie ardenti, già si era formata una improvvisa laguna, profotta dal sollevamento del fondo del mare, e il lido era reso inaccessibile peri cumuli di lapilli.
Allora, dopo essersi fermato, alquanto incerto se tornare indietro o procedere oltre, mio zio disse al pilota, che gli consigliava appunto di guadagnare l’alto mare: “La fortuna aiuta i forti: drizza la prua verso la villa di Pomponiano”.
Pomponiano si trovava a Stabia… Mio zio, portato là dal vento assai favorevole alla sua navigazione, abbraccia il suo amico tutto tremante, lo rincuora, lo esorta a farsi coraggio…
Frattanto dal Vesuvio, in più punti, si vedevano rilucere vasti incendi, il cui fulgore era accresciuto e fatto più palese dalle tenebre della notte…
Si consultarono fra loro se chiudersi dentro o se fuggire per l’aperta campagna; poichè, da un lato, le case ondeggiavano per i frequenti terremoti e sembrava che, schiantate dalle fondamenta, fossero gettate ora su un fianco ora su un altro e poi rimesse a posto; dall’altro lato, all’aperto, la pioggia delle pomici, sebbene leggere e porose, non incuteva minor paura. Tuttavia il confronto fra i due pericoli fece scegliere quest’ultimo partito: si scelse dunque l’aperta campagna…
Essi escono e si proteggono il capo, coprendosi con dei guanciali, che legano mediante lenzuoli, precauzione necessaria contro la tremenda pioggia che veniva dall’alto.
Altrove era giorno, ma là dove essi erano perdurava la notte, la più nera ed orribile fra tutte le notti, squarciata solo da un gran numero di fiaccole e da lumi d’altro genere.
Si credette bene accostarsi alla riva e vedere da vicino quello che il mare permettesse di tentare. Ma le onde erano sempre grosse e agitate da un vento contrario.
Qui, sdraiato sopra un lenzuolo che aveva fatto distendere per terra, mio zio chiede e bevve due volte dell’acqua fresca. Poi le fiamme e l’odor di zolfo, che le preannunciava, fecero fuggire tutti gli altri e costrinsero mio zio a levarsi in piedi. Si rizzò, appoggiandosi  a due schiavi, ma cadde immediatamente, come fulminato.” (Plinio il Giovane)

Storia di Roma IMPERIALE – Gli scavi di Pompei

Dopo diciassette secoli, furono iniziati gli scavi per riportare alla luce Pompei. Chi si reca oggi a visitarla, vede com’era una città al tempo di Roma antica: lunghe vie lastricate, il Foro, le terme, i templi, le case adorne di statue e affreschi, i colonnati, i giardini.
La vita a Pompei si è fermata, ma le rovine della città ci parlano ancora di quel tempo antico.

Storia di Roma IMPERIALE – La morte di Plinio

Plinio il Vecchio era un illustre scienziato. Durante l’eruzione del Vesuvio volle studiare da vicino il fenomeno e nello stesso tempo portare aiuto all’amico Pompeiano che si trovava a Stabia. Fece allestire alcune navi e partì.
Nonostante la pioggia di pietre e di ceneri ardenti, egli riuscì a giungere a Stabia.
L’indomani Plinio, Pompeiano e altri tentarono di avviarsi a piedi verso la spiaggia, ma lungo la strada l’aria, mista a vapori di zolfo, si faceva sempre più irrespirabile e Plinio morì soffocato, vittima della sua generosità.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Esercizi con le frazioni per la terza classe

Esercizi con le frazioni per la terza classe della scuola primaria stampabili in formato pdf.

Esercizi con le frazioni per la terza classe

Per calcolare la metà, la terza, la quarta o la quinta parte di un numero intero si divide quel numero per 2, per 3, per 4 o per 5.

Esempi:

la metà di 48 = 24, perché 48 : 2 = 24

1/3 di 60 = 20, perché 60 : 3 = 20

¼ di 200 = 50, perché 200 : 4 = 50

1/5 di 285 = 57, perché 285 : 5 = 57

Pronome personale esercizi per la classe terza

Pronome personale esercizi per la classe terza della scuola primaria, scaricabili e stampabili in formato pdf.

Pronome personale esercizi per la classe terza

I pronomi personali sono parole che si usano per sostituire il nome con lo scopo di evitare inutili ripetizioni. Essi sono:

– io, me, mi
– tu, te, ti
– egli, lui, esso
– ella, lei, essa
– noi, ce, ci
– voi, ve, vi
– essi, li, le, loro, esse.

IL VERBO esercizi per la classe terza

IL VERBO esercizi per  la classe terza della scuola primaria.

Scrivi le azioni compiute da:

uno scolaro

un automobilista

un pittore

un soldato

un maestro

un sarto

un contadino

una mamma

una sorella

un farmacista

un falegname

un musicista

un medico

un calzolaio

una sarta

un’infermiera

un fornaio

un parrucchiere

un fabbro

un giardiniere

un lattaio

un meccanico

un gatto

un cavallo

Rispondi:

Chi insegna, spiega, corregge, rimprovera, loda, classifica, incoraggia?

Chi taglia, sega, pialla, inchioda, incolla?

Chi misura, taglia, imbastisce, cuce, prova?

Chi coltiva, annaffia, pota, coglie?

Chi impasta, spezza,  inforna, sforna?

Scrivi le azioni che compi ogni mattina prima di venire a scuola e nel pomeriggio quando giochi. Ad esempio: Io mi alzo, mi lavo, preparo la cartella, saluto la mamma… Ora trascrivile in tutte le persone del tempo presente

Coniuga in tutte le persone del tempo presente le frasi:

Io ho molti fiori raccolti nel bosco.

Io non ho timore di sbagliare.

Io esco di casa e cammino velocemente verso la scuola.

Scrivi le azioni che hai compiuto ieri a scuola. Poi trascrivile in tutte le persone del tempo passato prossimo

Coniuga in tutte le persone del tempo passato prossimo le seguenti frasi:

Io ho prestato sempre attenzione alle spiegazioni del maestro.

Io ho eseguito con cura i compiti.

Io ho visto il tramonto del sole.

Trascrivi le seguenti frasi con il verbo prima al presente, poi al passato prossimo, e infine al futuro semplice:

Io andare dal nonno. Le rondini volare nel cielo. Tu accendere la luce. I cacciatori uccidere due lepri e un fagiano. Il contadino arare il campo per la semina. Noi mangiare volentieri un grappolo d’uva. Oggi arrivare gli zii di Genova. La pioggia cadere violenta. Il vento sradicare una grossa pianta. Il gatto fare le fusa.

Scrivi le azioni che compirai domani: Io mi alzerò, andrò a scuola, …

Ora trascrivile in tutte le persone del tempo futuro.

Coniuga in tutte le persone del tempo presente le seguenti frasi:

Ascoltare i consigli degli adulti. Cantare a orecchio le canzoni di successo. Leggere a voce alta e con sentimento.

Coniuga in tutte le persone del tempo passato prossimo le seguenti frasi:

Ascoltare i consigli degli adulti. Cantare a orecchio le canzoni di successo. Leggere a voce alta e con sentimento.

Coniuga in tutte le persone del tempo futuro semplice le seguenti frasi:

Ascoltare i consigli degli adulti. Cantare a orecchio le canzoni di successo. Leggere a voce alta e con sentimento.

Copia le seguenti frasi sostituendo una voce verbale adatta ai verbi espressi nell’infinito:

1. Il mese scorso mi comportare sempre bene a casa e a scuola.

2. L’autunno scorso mia sorella frequentare un corso di scherma.

3. Un mese fa aiutare una signora ad attraversare la strada.

4. La primavera scorsa una coppia di rondini costruire il nido sotto il mio tetto.

5. L’anno scorso un furioso temporale sradicare  molti alberi.

6. L’ultima estate un fulmine colpire quest’alto pioppo.

7. Le vacanze scorse mio cugino rinunciare  alla villeggiatura per fare compagnia ai nonni.

8. Alcuni giorni fa Marcella giungere in ritardo a scuola.

9. La settimana scorsa ricevere un bel libro in regalo.

Trascrivi le seguenti frasi con il verbo al passato prossimo, al passato remoto e al futuro:

Il vento solleva la polvere, schianta i rami, sbatte le porte, agita le foglie.

La mucca mangia l’erba, muggisce, ci dà il latte.

Il contadino zappa la terra, vanga, semina, miete, falcia.

Il treno fischia, corre sulle rotaie, entra in stazione, si ferma.

Il falegname sega, pialla, inchioda, costruisce i mobili.

Trascrivi le frasi seguenti con il verbo prima al presente, poi al passato prossimo, al passato remoto e infine al futuro:

Io andare dal nonno

Le rondini volare nel cielo

Tu accendere la luce

I cacciatori uccidere due lepri e un fagiano

Il contadino arare il campo per la semina

Noi mangiare volentieri un grappolo d’uva

Oggi arrivare gli zii di Genova

La pioggia cadere violenta

Il vento sradicare una grossa pianta

Il gatto fare le fusa

Coniuga nel tempo e nella persona adatta il verbo tra parentesi

Quando si (partire) per il mare si è contenti.

Mentre (uscire) di casa (sentire) cadere le prima gocce di pioggia.

Domani quei bambini (offrire) un dono alla loro mamma.

Ieri Lucia (scoprire) un gattino abbandonato nell’orto di casa sua.

L’autunno scorso Luisa (frequentare) un corso di taglio.

Un bambino che non (riflettere) (commettere) molti errori.

Ieri (assistere) ad una lite fra due bambini..

Un mese fa (giungere) a scuola in ritardo.

Domani (scrivere) alla nonna e le (descrivere) la mia nuova casa.

Mentre (leggere) il libro di Pinocchio, (giungere) le mie amichette.

Il mese scorso (andare) in campagna dalla nonna.

Quando il sole (calare) le nubi si (colorare) di rosa.

Ieri (studiare) la poesia e poi la (recitare) alla mamma.

Domani il maestro ci (spiegare) le divisioni e noi (stare) molto attenti.

Qualche mese da (stare) a casa da scuola per tre giorni.

SCOPERTA DELL’AMERICA materiale didattico vario

SCOPERTA DELL’AMERICA materiale didattico vario per la scuola primaria: dettati, letture, racconti, poesie e filastrocche sul tema.

Eric il rosso e i suoi figli

Un tempo, non c’erano libri che descrivessero terre lontane, non c’erano carte geografiche e nessuno tracciava itinerari che permettessero di andare in un luogo sconosciuto con una certa sicurezza. La gente non viaggiava molto e  credeva il mondo più piccolo di quello che non fosse in realtà.
I mezzi di trasporto erano primitivi, la gente andava a piedi, o tutt’al più, si serviva di carretti trascinati da cavalli, da asini o da buoi. Chi voleva andare per mare doveva accontentarsi di viaggiare su piccole navi che andavano un po’ a caso perchè la scienza della navigazione era ancora molto indietro.
Oltre tutto, i mari erano infestati da pirati e le strade da briganti; quindi, chi si metteva in viaggio, doveva essere anche un uomo di fegato.
Eppure, malgrado tutte queste difficoltà, c’erano uomini che arrivavano fino alle terre più lontane, sfidando disagi, pericoli e spesso rimettendoci anche la vita. Un po’ per smania di ricchezze, un po’ per amore dell’avventura, approdavano spesso a terre sconosciute e quando ne tornavano, raccontavano meraviglie.
Nelle terre del Nord dell’Europa, ghiacciate e desolate terre, prive quasi di vegetazione a causa del clima polare, abitava un popolo che , avendo poco da fare su quella terra così inospitale, era sempre in mare. Si chiamavano Vichinghi, ed erano arditi navigatori che non avevano paura di uscire nel gran mare aperto.
Uno dei più audaci, chiamato Eric il Rosso, sbarcò su quella terra che oggi noi chiamiamo Groenlandia. E i suoi figli, più audaci di lui, andarono ancora più in là, e approdarono in un territorio di cui ignoravano completamente l’esistenza e che chiamarono “terra delle viti”, perchè vi cresceva rigogliosa la pianta dell’uva. Era la parte più settentrionale di quella che oggi si chiama America.
Ma pochi si interessarono ai racconti che i figli di Eric fecero quando tornarono in patria e dell’avventura dei biondi Vichinghi nessuno parlò più.
Passarono cinquecento anni e i popoli europei avevano continuato a viaggiare. Attraversavano l’Asia per giungere alle Indie favolose, ricche di spezie, di sete, di gioielli e poichè le merci da trasportare erano tante e davano ricchi guadagni, la gente si cominciò a domandare se fosse stato meglio arrivarci per mare e caricare quelle preziose merci sulle navi invece che su carri e carretti.
Un italiano, disegnatore di carte geografiche, certo Toscanelli, era convinto che la Terra fosse rotonda, anche se pochi, a quell’epoca, erano della sua opinione. Disegnò, perciò, una carta secondo questa sua teoria e la mandò a un suo amico genovese, Cristoforo Colombo, che era fra quelli che cercavano una nuova via per le Indie e voleva arrivarci veleggiando verso Occidente.
Matto, lo diceva la gente. Com’era possibile raggiungere l’India e la Cina che si trovano a levante, mettendo, invece, la prua a ponente? Ma Colombo aveva studiato bene i venti e le correnti, e aveva visto che tanto gli uni quanto le altre si dirigevano verso ovest. Anche lui, come Toscanelli, era sicuro che la terra fosse rotonda, quindi, una nave che seguisse le correnti e fosse favorita dai venti, doveva arrivare alle Indie, pur facendo la strada opposta a quella fino allora fatta.
Tanto insistette, il navigatore genovese, che finalmente ottenne tre caravelle dalla regina di Spagna che lo stimava molto. Raccolse un equipaggio di uomini spericolati e avidi soltanto di guadagno, e si mise in mare.
“Fra sue mesi arriveremo alle Indie!” disse a quegli uomini rotti a tutti i rischi. Ma due mesi passarono e l’India non si vedeva.
Spericolati sì, avidi sì, ma a un certo punto quegli uomini si intimorirono. Cielo e mare, mare e cielo. E come sarebbero potuti tornare indietro se i venti continuavano a spingerli sempre nella stessa direzione?
Colombo, a un certo punto, rischiò la vita. L’equipaggio si ammutinò: o interrompere il viaggio e cercare di tornare in Patria, o quel genovese della malora avrebbe passato un brutto quarto d’ora.
Finalmente, in una brumosa mattina di autunno, fu intravista, all’orizzonte, una striscia di terra. Era il 12 ottobre 1492: una data che i ragazzi avrebbero studiato sui libri di geografia e anche su quelli di storia.
“E’ l’India!” disse Colombo. Ma non era l’India. Era un’isola sconosciuta e Colombo, grato a Dio che gli aveva salvato la vita, la chiamò San Salvador.
Alcuni uomini di pelle rossastra andarono incontro ai navigatori. Colombo li chiamò Indiani, come chiamò Indie Occidentali le terre che si intravedevano all’orizzonte. Veramente non si trattava ne di Indie ne di Indiani, ma questo Colombo non lo seppe mai.
Gli indigeni dalla pelle rossastra e dai capelli neri e setosi, che si chiamavano Occhio d’Aquila e Uragano di Primavera, fecero una festosa accoglienza a Colombo e ai suoi uomini. Erano ornati di collane e di monili d’oro che non esitarono a dare in cambio di specchietti e perline di vetro, cose che destavano la loro meraviglia perchè non le avevano mai viste.
Ma dopo i primi festosi incontri, le cose cambiarono. Gli Spagnoli, alla vista di tutto quell’oro, non capirono e non vollero altro. Per cercare il prezioso metallo si spinsero su altre isole, ma non lo trovarono. Decisero allora di tornare in patria a prendere altre navi e altri uomini. Era una terra favolosa, quella, e chissà quante ricchezze celava. Bastava saperle cercare.
Colombo fece in tutto quattro viaggi e scoprì altre isole. Ma ignorò sempre di aver scoperto un nuovo continente. Convinto di essere sbarcato nella favolosa terra delle sete e delle spezie, già descritta da Marco Polo nel suo libro “Il Milione”, fu deluso di non trovare ne le une ne le altre. E poichè non era riuscito a portare in Spagna i ricchi tesori che gli Spagnoli speravano, lo sfortunato e ardimentoso navigatore fu abbandonato da tutti e morì povero e solo dopo essere stato anche in prigione.
Gli Spagnoli continuarono i loro viaggi e parecchi di essi si stabilirono nelle nuove terre, alcuni a cercarvi l’oro, altri a coltivare canna da zucchero.
Trovarono finalmente la terraferma. Pianure e dopo quelle pianure, montagne. E su quelle montagne gran numero di Indiani che coltivavano granaglie, fagioli, tabacco, e andavano a caccia con archi e frecce.
Ma ben presto l’avidità e la prepotenza degli Spagnoli guastarono l’amicizia con gli indigeni, e fra Pellirosse e Visi Pallidi vi furono guerre lunghe e sanguinose.
Intanto si era scoperto che non si trattava delle Indie, ma di un continente di cui tutti, fino allora, avevano ignorato l’esistenza. E un fiorentino, Amerigo Vespucci, che l’esplorò e la descrisse, ebbe la fortuna di dargli il suo nome.
(M. Menicucci)

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IL RISPARMIO materiale didattico

IL RISPARMIO materiale didattico vario per bambini della scuola primaria: spunti didattici, dettati ortografici, letture, poesie e filastrocche sul tema del risparmio.

La giornata del risparmio
Il 31 ottobre in tutto il mondo si celebra la Giornata del Risparmio, si esalta una delle più nobili, delle più alte virtù umane.
Pensa: questa festa interessa tutti, piccoli e grandi, umili lavoratori e ricchi proprietari di campi o di industrie, uomini che vivono presso il gelido polo o che lottano contro le insopportabili calure dei tropici. Tutti sono accomunati dallo stesso pensiero: per nessuno il domani è certo; ognuno deve sapere che la vita non termina oggi e che quindi è necessario fondare fin d’ora con la previdenza e il risparmio un avvenire più lieto. (M. Missiroli)

Che cos’è il risparmio (conversazione)

Che cosa significa risparmiare? Spendere un po’ meno di quello che abbiamo a disposizione.
Potremo raccontare ai bambini la favola della cicale e della formica. Per cominciare dal significato morale, attireremo l’attenzione sulla spensieratezza della cicala che vive alla giornata, mentre la formica pensa al suo futuro. A chi si può paragonare la cicala? A colui che spende tutto quello che guadagna destinandolo non soltanto al necessario, il che sarebbe ovvio, ma anche al superfluo, acquistando cioè abiti troppo eleganti o ricchi per la sua condizione, dimorando in case troppo lussuose, divertendosi spensieratamente in costosi passatempi. Naturalmente, con questo regime di vita, se ne va tutto quello che l’imprevidente potrà guadagnare, anche se è molto. Ma ecco i tempi tristi più o meno inevitabili nella vita di un uomo, ecco le malattie, la mancanza di lavoro, ecco un qualsiasi guaio a cui si potrebbe mettere rimedio con una certa somma, ma lo spensierato non la possiede: ha soltanto quello che guadagna, ma, in questi casi, quello che guadagna non basta più. Se quel tale avesse risparmiato…
L’esempio della formica. A chi si può paragonare questo previdente insetto? A chi spende soltanto quello che gli è necessario, conducendo un regime di vita consono alle sue possibilità, mettendo a risparmio quel piccolo margine che resta.

Risparmio ed economia si possono considerare fratelli e buone abitudini, relative ad essi, hanno grande valore morale perchè implicano una capacità di dominio su se stessi, di vittoria su tentazioni e lusinghe, di adattamento a una vita semplice e ordinata.
Inoltre, possedere queste virtù significa discernere il limite delle proprie possibilità e non fare, come si dice con un adatto proverbio, il passo più lungo della gamba.
Il risparmio del singolo ha una grande importanza non solo nella vita di ogni individuo, ma anche nella vita di un intero Paese.

Potremo far notare che risparmiare significa anche non consumare, o, per lo meno, consumare entro i limiti del giusto. Infatti un bambino che non sciupa i vestiti fa risparmiare alla sua famiglia, mentre il bambino che rovina gli indumenti prima del tempo consentito, fa spendere alla sua famiglia più di quello che sarebbe lecito e giusto.
Sarà opportuno anche far notare che non solo non si deve sciupare la roba nostra, ma neanche quella che, comunemente, è considerata di tutti, e cioè il bene comune: strade, piante, arredi scolastici, materiale d’uso, ecc…  Spesso nei ragazzi, e non solo nei ragazzi, c’è la cattiva abitudine di considerare la roba del Comune e degli Enti pubblici come non appartenente a nessuno. E’, ovviamente, un grossolano e controproducente errore, perchè ciò che appartiene allo Stato e ai vari Enti è roba pagata con le nostre tasse.

Dal punto di vista dei bambini, il risparmio non ha che un significato: raggranellare una certa somma da adibire a un certo uso o per l’acquisto di un oggetto per cui non sono sufficienti le piccole somme che egli, saltuariamente, ha a disposizione. Ma non pretenderemo che il bambino pensi all’avvenire. Se egli acquista, sia pure in questo modo, l’abitudine al risparmio, sarà già un bel risultato.
Gli adulti, invece, risparmiano in funzione dei bisogni dell’avvenire. Lo Stato incentiva il cittadino a risparmiare attraverso i vari Istituti di previdenza e le varie forme assicurative che gli permettono di avere sussidi e pensioni in caso di malattie, di disoccupazione e di invalidità. Questa è una forma di risparmio, diciamo così, obbligatoria.

Ma vogliamo parlare anche del risparmio volontario. Quali sono gli Istituti di credito dove il risparmio può essere affidato? Le banche e le poste. E poi le industrie, sotto forma di prestiti (obbligazioni) e di partecipazione al capitale e quindi agli utili (azioni).
Se sarà possibile, potremo organizzare lavori di gruppo per fare delle piccole inchieste, interpellare impiegati di banca per sapere come si svolgono le operazioni a risparmio, quali sono le varie forme per conservare o per investire il denaro, come viene utilizzato questo danaro dalle banche o dalle industrie.  Ci potremo far dare dei moduli che poi osserveremo con calma in classe, che impareremo a riempire e che, magari, impareremo ad usare.  Ed ecco le distinte di versamento, ecco la conoscenza dei moduli di conto corrente, dei libretti a risparmio, delle azioni e delle obbligazioni. Impareremo, così, a fare come la formica e non come la spensierata cicala.

A proposito di questa favola, vogliamo correggere l’errore di storia naturale, in quanto la cicala, alla fine della sua stagione canora, finisce il suo ciclo vitale. D’altro canto, la formica, durante l’inverno, cade in letargo e non ha bisogno delle sue provviste in quanto non si nutre o si nutre molto poco.
Ed ora, una considerazione d’ordine morale. La cicala è spensierata e imprevidente, è vero, ma la formica è proprio un modello tutto da imitare? La previdenza non deve sconfinare nell’egoismo, nella mancanza di carità e soprattutto nell’avarizia. Impariamo il significato dei due termini: prodigalità e avarizia. Sono entrambi difetti, e specie l’ultimo, per nulla simpatico. Non ci si può chiudere nell’egoismo e non si possono inaridire il nostro cuore, il nostro spirito, nella grettezza. Quando è necessario, aiutiamo chi ha bisogno anche se è stato imprevidente.
(M. Menicucci)

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Risparmio

Il risparmio è forza come è forza il sapersi difendere da sè. Ma, come per diventare forti fisicamente è necessario fare, fin da ragazzi, una buona ginnastica, così per poter essere forti moralmente, bisogna abituarsi per tempo all’economia, al risparmio. Anche questa è una ginnastica che tutti i ragazzi devono fare: inoltre è salutare abituarsi ai piccoli sacrifici, alle piccole rinunce, per saper sopportare i grandi sacrifici, le grandi rinunce. Essere ragazzi sobri, virtuosi e forti vuol dire essere, domani, uomini virtuosi e forti. (C. L. Guelfi)

Saper risparmiare

Il risparmio è una solida virtù che mette al sicuro l’uomo dal bisogno. Bisogna risparmiare quando si ha, pensando che potrebbe arrivare un momento in cui non si ha più. Tutto, nella natura, ti insegna il risparmio, l’ape che succhia il nettare oggi per avere il miele domani, il seminatore che per un chicco che semina, domani ne avrà mille, la formica che riempie i suoi magazzini durante la buona stagione, per stare al sicuro durante la stagione fredda, e infine l’uomo saggio che vuole assicurarsi serenità e fortuna per la sua vita a venire.

Risparmia

Se ti viene regalato del danaro, voltalo e rivoltalo prima di spenderlo. Spesso ti struggi dal desiderio di possedere una cosa: quando poi sei riuscito ad ottenerla, non sei contento e ne vuoi un’altra ancora. In questo modo, vedi, si arriva al punto di spendere senza riflessione, e di trovarsi poi in bruttissimi impicci. Tutti abbiamo il dovere di badare all’economia, e di saper moderare i desideri e le spese. (M. D’Azeglio)

Il risparmio

Risparmio ed economia si possono considerare fratelli e le buone abitudini relative ad essi hanno un grande valore morale. Chi risparmia ha il dominio su se stesso, riporta una vittoria sulle tentazioni e le lusinghe che cercano di attirarlo ad ogni passo, si adatta volentieri a una vita semplice e ordinata. Impara a risparmiare da ragazzo e il tuo futuro sarà, in gran parte, nelle tue mani.

Il risparmio

Il risparmio dell’uomo singolo ha una grande importanza non soltanto nella vita di ogni individuo, ma anche nella vita di un intero paese. Popolo risparmiatore, nazione ricca. Abituati a risparmiare fin da ragazzo: diventerai un uomo sobrio che sa dominare i suoi desideri.

Pensa al domani
“Pensa al domani” è uno dei saggi consigli che l’esperienza d’ogni giorno raccomanda alla gente. La lotta per la vita è sempre incerta: oggi sorride l’abbondanza, domani può venire la carestia, se non per noi, per tanti altri che, per solidarietà umana, dobbiamo aiutare.
Il senso del risparmio, come previdenza, si manifesta anche negli animali e nelle cose, come equilibrio di leggi naturali fissate dal Creatore per la conservazione degli esseri, in cui è sempre presente una riserva di materiale energetico per il superamento di eventuali avversità ambientali.
L’organismo umano può sopportare anche un periodo lungo di digiuno.
Il cammello può attraversare il deserto senza alcun rifornimento.
Certi animali vanno in letargo e passano l’inverno senza bisogno di mangiare.
Il chicco di grano è ripieno di riserve di glutine che garantisce la vita del germe vegetale fino al tempo della semina.
Animali e piante sono provvisti di dispositivi particolari per regolare il consumo delle energie a seconda delle necessità.
Tra i vari animali, la formica e l’ape sono certamente le più previdenti creature che pensano al domani accantonando preziose riserve durante la bella stagione.
Queste considerazioni servono per provare che il risparmio non è un’invenzione dell’uomo, un ritrovato della scienza e del progresso, ma una cosa naturale cui è legata la conservazione della vita.
L’uomo nella sua storia plurimillenaria ha dovuto ricorrere a un previdente risparmio per passare dalla grotta alla capanna, dalla solitudine della foresta alla tribù, dalla caccia alla pastorizia, dalle greggi agli armenti, dall’agricoltura all’industria e al commercio.
Questi sono i frutti di un lavoro e di una saggia previdenza che, attraverso i secoli, hanno condotto l’uomo al benessere, al progresso e alla civiltà dei nostri giorni.

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Antenati del salvadanaio
Il salvadanaio, che ora si presenta sotto forma di un umile panciuto recipiente di coccio, ora di un elegante oggetto di terracotta, ora di una lucente cassettina di sicurezza, ha degli antenati fin da tempi remotissimi.
Nell’antica Cina si usavano salvadanai a forma di maialini. Il maiale per gli antichi era il simbolo della prosperità: tale forma quindi doveva essere di incitamento e augurio.
I bimbi indiani avevano, come custode dei loro risparmi, un salvadanaio a forma di elefante, simbolo della forza e del lavoro.
In Egitto il salvadanaio era fatto a forma di serpente o di dragone; i terribili guardiani dei preziosissimi tesori dei Faraoni dovevano difendere anche i risparmi dei piccoli egiziani.
Presso i Romani invece, il salvadanaio aveva la forma di una cassettina, ed era di terracotta.
In Estremo Oriente si usavano belle cassettine in legno durissimo, a volte laccato o intarsiato con avorio o pietre preziose, molto simili ai portagioie delle signore.

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Come nacque la moneta
Nacque un poco per volta. La strada seguita dall’umanità per arrivare alla moneta si perde nella notte dei tempi. All’inizio della convivenza è presumibile pensare che fosse in uso soltanto lo scambio degli oggetti o delle derrate. Più tardi l’uomo deve essersi accorto che il moltiplicarsi delle necessità di scambio rendeva troppo complicato il commercio. Si procedette allora per tentativi nella scelta delle cose più comode: qualche tribù ricorse alle conchiglie, qualche altra al sale (da cui la parola salario).
Sviluppandosi il commercio, i mercanti accettavano, come prezzo della loro merce, oggetti di metallo. Questi potevano essere facilmente conservati e trasportati; potevano eventualmente anche essere trasformati in armi o in oggetti di ornamento.
Più tardi, per evitare di pesare continuamente tali pezzi di metallo, si pensò di prepararli appositamente, in forma di piccoli dischi, con l’indicazione del peso reale. E siccome poi l’avidità di certi commercianti portava all’inganno, si ricorse all’autorità dello Stato per ovviare al pericolo delle falsificazioni. Sulle monete infatti oltre i simboli di varia natura che si riferiscono al tempo e al paese in cui sono state coniate, c’è spesso l’effige dell’autorità che le ha emanate.

La carta moneta
L’uso della carta monetata ha inizio con Giovanni Law, un finanziere scozzese del XVII secolo. Egli cominciò giovanissimo ad interessarsi di questioni bancarie e nel 1716 fondò in Francia una banca che emetteva biglietti convertibili con l’oro che la stessa banca custodiva in cassa a garanzia dei biglietti emessi.
La cosa andò bene per un po’, ma ben presto si trovò che, per l’inflazione dei biglietti emessi, l’oro della cassa non corrispondeva più. Subentrò la sfiducia dei cittadini che si precipitarono in banca per cambiare la carta in oro, ma l’oro non c’era. Si dichiarò il fallimento e Law fuggì a Venezia dove morì il 1729.
Ma l’importantissima invenzione non doveva morire. Nell’era moderna la moneta di carta ha sostituito quasi completamente quella metallica (salvo per i valori più piccoli).
Di solito la moneta di carta ha il suo corrispondente valore metallico (oro e argento) in deposito nelle casse delle banche emittenti, la cui garanzia si fonda sul credito dello Stato. E’ infatti cura di tutti i governi di regolare le spese dello Stato in modo da conservare alla moneta tutto il suo valore, e ciò per chiare ragioni di ordine sociale, per non creare la sfiducia nei cittadini e per stimolare il risparmio.

Il frustino e il risparmio
Ero un bimbo di cinque o sei anni. Un giorno di festa i miei parenti mi riempirono la taschina di soldi. Mi diressi subito verso una bottega dove si vendevano balocchi. Ma, cammin facendo, fui attratto dal suono di un frustino che un altro ragazzo scuoteva.
Supplicai allora il ragazzo di cedermelo e gli diedi in cambio tutto il mio denaro.
Tornai a casa felice e mi misi a scuotere il frustino in ogni canto.
I fratelli e le sorelle quando sentirono che avevo dato tutto ciò che possedevo per quel brutto arnese, mi canzonarono. Quante cose avrei potuto comperare al suo posto!
Mi misero talmente in ridicolo,  che io piansi di dispetto.
Ebbene, il ricordo del cattivo acquisto non uscì mai dalla mia mente.
Da quel giorno, quando provavo il desiderio di comprare cose non necessarie, dicevo: “Attento a non spendere troppo per un frustino!”.
E risparmiavo il mio denaro.
(B. Franklin)

La natura insegnò il risparmio
Il cane che seppelliva l’osso che neppure un appetito canino poteva finire, lo scoiattolo che raccoglieva noci per un ulteriore festino, le api che riempivano il favo di miele, le formiche che accumulavano provviste per un giorno di pioggia furono tra i primi ispiratori della civiltà…
Così l’uomo incominciò ad essere umano quando dall’incertezza della caccia passò alla maggior sicurezza e continuità della vita pastorale.
La natura ancora insegnò all’uomo l’arte di accantonare provviste, la virtù della prudenza, il concetto di tempo. Osservando ancora i picchi che ammassavano ghiande negli alberi, e le api che accumulavano provviste negli alveari, l’uomo concepì, forse dopo millenni di stato selvaggio imprevidente, l’idea di costruire una riserva di viveri per il futuro. Trovò modi per conservare la carne; ancor meglio costruì granai protetti dalla pioggia, dall’umidità, dai parassiti, dai ladri e vi ammassò i viveri per i mesi più improduttivi. A poco a poco comprese che l’agricoltura poteva offrire una riserva di cibo migliore e più sicuro della caccia. (W. Durant)

Il risparmio dei bambini
La virtù del risparmio è cosa da adulti, ma fin da bambini occorre prenderne l’abitudine e capirne il valore.
Perchè gli uomini risparmiano? Per preparare ai loro discendenti migliori condizioni di vita; per poter sopperire ai casi di bisogno; per poter disporre di una somma maggiore accantonando somme minori, e perchè, come nel caso del risparmio assicurativo, i contributi di tutti possano servire alle necessità di ciascuno.
Il primo caso non interessa i bambini se non indirettamente. E anche per quel che riguarda il secondo, i bambini non potranno risparmiare tanto da influire vantaggiosamente nell’economia della famiglia. Essi generalmente risparmiano per poter comprare, con la sommetta accantonata, qualche cosa di cui hanno desiderio. Ma cerchiamo di sollevarci un po’ dalla funzione utilitaristica del risparmio. Chi risparmia, chi non spende subito la piccola somma che ha a disposizione, esercita una capacità di dominio e una vittoria su se stesso, controlla i suoi desideri, si adatta a una vita semplice e ordinata. Queste sono le virtù implicite del risparmio.
La giornata del risparmio si celebra in tutto il mondo, in quanto questa virtù è anche una virtù sociale. Una nazione risparmiatrice è una nazione ricca. Non si risparmia soltanto accantonando una data somma; si risparmia anche spendendo, per esempio, cinquanta invece di cento. Riferiamoci ai nostri bambini. Una bambina desidera una bella bambola; costa, mettiamo, venti euro. Se ne compera una da quindici, sarà come se avesse risparmiato cinque euro. Avrà limitato i suoi desideri, si sarà accontentata di una bambola più modesta, avrà vinto la tentazione di ottenere un dono più ricco.
Il risparmio è fratello dell’economia. Un bambino ha un bel paio di scarpe il cui acquisto è costato un notevole sacrificio ai genitori.

 

Proverbi

Il lavoro procura il denaro, il buon senso lo conserva.

Le piccole spese, se fatte senza necessità, possono a lungo consumare un grande patrimonio.

Ogni uomo che risparmia è un pubblico benefattore e ogni scialacquatore un pubblico nemico.

Popolo risparmiatore, nazione ricca.

Risparmio più nobile è quello di chi meno guadagna. (G. Carducci)

Risparmia chi è saggio, chi sa amministrare bene le sue possibilità.

Virtù conservi quello che il lavoro procura.

Il risparmio è l’amico che non rifiuta mai un prestito.

Il risparmio è espressione di rinunce, di sacrifici, di amore per l’avvenire proprio e dei figli.

Risparmiare vuol dire dominare se stessi. Chi non tien conto del poco non diventerà padrone del molto.

La capacità di risparmio di ogni generazione concorre a determinare il rendimento del lavoro di quelle che ad essa succederanno.

Il valore del risparmio si apprezza nel giorno del bisogno.

Risparmiare significa compiere un atto di solidarietà fra la nostra generazione e quella futura.

Le piccole spese moltiplicate consumano i più grandi patrimoni.

Il risparmio è indipendenza per l’uomo e sicurezza per la famiglia.

Il risparmio si forma soltanto se viene praticato con amore  e continuità.

Avere o non avere è una questione di risparmio.

Il risparmio assicura una vecchiaia serena.

Il risparmio è l’atto volitivo di chi decide di non impiegare il frutto del suo lavoro in consumi immediati, ma in beni futuri.

Il risparmio è sinonimo di civiltà: dovere di tutti è quello di sollecitarne la formazione.

Compra soltanto ciò che è necessario; il superfluo è caro anche se non costa molto.

Spendi sempre qualcosa di meno di quanto hai guadagnato.

Il risparmio crea lavoro: risparmiare è la più bella forma di altruismo.

La proprietà comincia dal primo euro risparmiato.

Chi sa privarsi a tempo, a bene riesce. (G. Carducci)

Nella famiglia la maggior sorgente di ricchezze è l’economia.

Il risparmio e l’economia sono le più sicure forme di rendita.

Poesie e filastrocche

Alla formica

Chiedo scusa alla favola antica,
se non mi piace l’avara formica.
Io sto dalla parte della cicala
che il più bel canto non vende, regala. (Gianni Rodari)

Non per oggi
Ronza l’ape: “Non per oggi a questo fiore
volo intorno!
Io ne succhio il dolce umore
per avere tanto miele un altro giorno!”.
E chi semina, con lieto animo spera
che l’arato
campo splenda
tutto verde a primavera.
Egli dice: “Non per oggi ho seminato”.
Solo un chicco verso l’umile casina
la formica
lentamente,
affannandosi trascina.
Ma non oggi il premio avrà la sua fatica!
L’uomo saggio, con fidente animo spera
fortunato
l’avvenire,
e serena la sua sera.
Egli dice: “Non per oggi ho risparmiato!” (Milly Dandolo)

Il testamento della cicala

Cara formica,
ho trovato un fuscello,
mi servirà da pennino o pennello:
ecco, lo intingo nell’acqua infangata,
prendo per foglio una foglia gelata;
dal mio giaciglio di livido strame,
mi levo appena, morente di fame;
con la zampina tremante nel vento
ti scrivo il povero mio testamento.
In gola è spenta la gaia canzone;
me sciagurata, tu avevi ragione!
Così t’avessi ascoltato, o formica,
che m’insegnavi la santa fatica,
che promettevi un sereno avvenire
a chi sa in tempo lottare e soffrire!
Pazzo, dicevo, chi pensa a lottare
quando l’estate c’invita a cantare.
Tu m’indicavi la frutta matura
e mi dicevi: “L’estate non dura!”
Poi, nel tuo chiuso granaio, o formica,
portavi i chicchi con grande fatica.
Lieta irridevo il tuo saggio sermone,
me sciagurata, tu avevi ragione!
Così ti avessi ascoltata e imitata…
Or che mi resta? Una foglia gelata.
Sibila il vento ed oscilla la foglia,
piango, e di scrivere non ho più voglia.
Più non ci vedo nell’ombra che cala…
Addio. Firmato: la pazza cicala. (Milly Dandolo)

Il bimbo e la formica

“O formicola contadinella,
con il mazzo di chiavi al fianco,
lo sai fare il pane bianco?
Devi avere una casa bella
e così piena di ben di dio
che verrei a starci anch’io.
O formicola, perchè
non ti fermi un po’ con me?”
“Chi perde tempo non trova fortuna,
fa così presto a salire la luna.
D’un chicco mi cibo, ma un chicco nascondo.
Le cose del mondo
nessuno le sa.
Se oggi fa bello
domani, bambino,
che tempo farà?
Il mio formicaio
è un salvadanaio.” (Renzo Pezzani)

Lo scoiattolo e il boscaiolo

Nell’ora calda dormono tra i fiori
libellule e farfalle: tutto tace.
Ma nel bosco, tra i mille abitatori,
sol due ne trovi insonni e senza pace.
Nel grosso tronco d’una quercia antica
lo scoiattolo insonne s’è cercata
una casina; e dentro, con fatica,
la provvista invernale ha trasportata.
Manca una noce, qualche nocciolina,
mancano poche bacche; e, finalmente,
lieta sull’uscio della sua casina
si fermerà la bestia previdente.
Tra gli alberi e i cespugli il boscaiolo
cammina raccogliendo i rami secchi.
Un fascio? No, non basta un fascio solo:
ci vuole almeno un mese a far provvista
di legna per l’inverno; e ben lo sa
il boscaiolo, ma non si rattrista
pensando al brutto tempo che verrà.
Quando  la neve cadrà lentamente
la saggia bestia dormirà beata.
Nella casa dell’uomo previdente
s’accenderà la splendida fiammata. (Milly Dandolo)

Il risparmio

Un poco oggi ed un poco domani
spiga con spiga si fa un fascetto,
con un fascetto si fan tre pani
e ci campa un poveretto.
Perchè il molto ci vien dal poco;
la goccia d’olio tien vivo il lume;
da un filo d’acqua comincia il fiume;
da una favilla ci nasce il fuoco;
e dal soldino che sai serbare
ci può nascere un libretto,
e verrà giorno, ci scommetto,
che tutto il mondo potrai comprare. (Renzo Pezzani)

Perchè?

Oh, come somiglia
a un salvadanaio
il nido grondaio
che vedi lassù.
L’ha fatto con gioia,
volando, un uccello;
un’erba, un granello,
un poco ogni dì.
Il tenero fango
s’è fatto cemento
e nulla può il vento
che passa di qui.
L’alato operaio
vi trova la pace.
Lo scalda la brace
del piccolo cuor.
Perchè mai somiglia
a un salvadanaio
il nido grondaio
che vedi lassù? (Renzo Pezzani)

Il salvadanaio

Un soldo nel salvadanaio
da solo non canta, sbadiglia;
è povero come gennaio,
è nato per stare in famiglia.
E’ come un bambino
che vuole qualcuno vicino.
Se invece un compagno gli dai
e scuoti la palla di argilla,
udrai quel soldino che trilla
il canto dei salvadanai.
Che vivere è bello,
se trovi nel mondo un fratello.
E cento soldini riuniti
già fanno un allegro coretto.
Ti costano sforzi infiniti,
ma tu ti sei fatto un ometto,
un uomo piccino
che tiene già in pugno il destino. (Renzo Pezzani)

La cicala e la formica
La cicala, ch’ha pieno il corpicello
d’una rauca perpetua canzone
cantò tutta l’estate al tempo bello
e non si ricordò d’altra stagione.
Intanto inverno vien rigido e fello,
ed ella per mangiar non ha un boccone.
Ricorre alla formica, e le domanda
qualche soccorso, e a lei si raccomanda
dicendo: “Io dalla fame morrò tosto
prestami, amica, qualche granellino,
ch’io te ne pagherò poi quest’agosto
od il mese di luglio più vicino:
e non sol ti prometto dare il costo
ma di guadagno ancor qualche quattrino”.
Ma della formichetta, che non presta
e sol risparmia, la risposta è questa:
“E che facesti tu mentre co’ rai
scaldava il sol la terra al tempo buono?”.
Rispose l’altra: “Al passeggier cantai
la notte e il dì con ammirabil suono”.
“Oh, tu cantasti? Io l’ho ben caro assai;
ma nota e intendi ben quel ch’io ragiono:
tu vi dovevi a quel tempo pensare,
tu che cantasti allora, or puoi ballare. (G. Gozzi)

Scherzi dell’avarizia
Ho conosciuto un vecchio
ricco, ma avaro: avaro a un punto tale
che guarda li quattrini nello specchio
pe’ vede raddoppiato er capitale.
Allora dice: “Quelli li do via
perchè ce faccio la beneficenza:
ma questi me li tengo pe’ prudenza…”
E li ripone ne la scrivania.

Avarizia
Ci sono tanti modi
per fare economia
ma più di questo
non credo che ci sia.
Un vecchio Mandarino
che il caldo via cacciava
invece del ventaglio
la testa dondolava.
Un altro Mandarino
era più tirchio ancora…
Per fare economia,
il riso della gente
a volo intercettava
e, non lo crederete,
con quello si sfamava.

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Poesie e filastrocche LA SCUOLA

Poesie e filastrocche LA SCUOLA – una raccolta di poesie e filastrocche, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Il libro

Prese il libro il bambino:
l’aprì, lesse,  pensò.
Egli era in un giardino
di quanti fior non so.
Guardò intorno. Nel sole
splendevan cento colori,
ma disse: “Le parole
son più belle dei fiori”. (Renzo Pezzani)

Bambini a scuola

Oh, l’ala del tempo
ben rapida vola!…
finita è l’estate,
si torna alla scuola.
Bisogna lasciare
i laghi tranquilli,
le verdi vallate
dai freschi zampilli,
le morbide rene,
i tuffi nell’onde
che il vento ricama
di trine gioconde,
i colli beati
smaltati di fiori,
le vigne fragranti,
i boschi canori,
le corse frementi
per prati ed aiuole!
Bambini, bambine:
si apron le scuole!
Su via, non torcete
le bocche soavi;
non fate le bizze:
vi voglio più savi.
Se dopo il lavoro
più lieto è il piacere,
è giusto che a questo
poi segua il dovere.
Or dunque togliete
dai vostri cassetti
i bianchi quaderni,
i libri, i righetti,
le penne, i compassi,
ed ilari e franchi,
correte a sedervi
sui soliti banchi.
La scuola, materna,
le braccia vi schiude
e al dolce suo seno
felice vi chiude.
E voi salutatela
col cuore canoro:
è bello in letizia
tornare al lavoro.
Io, giunto alla fine
di questo preludio,
depongo la penna…
Bambini, buon studio. (Gino Striuli)

La maestra ha sorriso

La maestra è accigliata,
è triste, stamattina;
trepida la nidiata
per la cara maestrina.
Lettura. Sono intenti
i bimbi; ella tace, severa.
Maestra, ma non senti
che fuori è primavera?
Occhieggiano i bambini
dal libro, un po’ spauriti,
anche i più birichini
non osano farsi arditi.
Storia. “Perchè il ministro
Cavour…”. La mano bianca
si posa sul registro
come farfalla stanca.
Franco aveva pur detto
di saper la lezione…
Ma ora un sospirone
gli sale su dal petto.
Una lacrima scende
lenta, sul ciglio chiaro:
trema il labbro innocente.
“Che c’è, piccolo caro?”
Lo guarda, ella, gli prende
il mento: oh, il dolce viso
che di nuovo risplende!
La maestra ha sorriso. (M. Tomaseri Tamagnini)

Il vecchio quaderno

Le sere d’inverno,
posato in un canto,
il vecchio quaderno
ha un triste rimpianto::
“Il bimbo che lieto,
con trepida mano,
tracciò l’alfabeto,
riposa lontano!:
Lasciò la sua mamma
ancor giovinetto;
ardeva la fiamma
nel bel caminetto.
Ed or si consola
narrando alle stelle,
dei giorni di scuola,
le favole belle.
Son favole pure
di nuvole azzurre,
d’un mondo piccino,
d’un grigio topino.
Chissà se la sera,
in tutto segreto,
dirà la preghiera
oppur l’alfabeto? (A. Libertini)

Scuola elementare

Con l’autunno precoce e capriccioso,
tu lasci la tua casa e la tua mamma.
E te ne vai, felice e baldanzoso,
verso la nuova scuola. Già una fiamma
d’amore nuovo ti risplende in viso.
Io ti porgo il cappotto e la cartella
e mi trema nel cuore il tuo sorriso.
“Sarà piena di lode la pagella!”
Pieno di fede e di speranze, ardito
mi prometti sereno di studiare.
Ma il mio cuore è un po’ triste e un po’ smarrito:
“Resta ancora con me, bimbo a giocare!”
Dal berretto calato sulla fronte
sbuca un ciuffo ribelle di capelli.
“La penna e la matita sono pronte?”
Sì, ma i tuoi ricci come sono belli!
E te ne vai felice nella via
salutandomi ancora con la mano.
Io provo una sottile nostalgia
mentre tu mi sorridi da lontano. (M. Luisa Cortese)

Scuola elementare

Ricordo della scuola elementare:
colletto bianco col nastrino blu,
un desiderio intenso di imparare
le prima cose a, e, i, o, u.
Aste tracciate a segni colorati,
con la matita nuova rossa e blu,
quaderni rilegati ed ordinati
con l’esercizio: ma, me, mi, mo, mu.
Il sillabario ancora misterioso,
rivelava col segno la parola,
qualche visetto attento e giudizioso
sgranava assorto gli occhi di viola.
Ma una bambina spesso si incantava
a guardar fuori un po’ di cielo blu,
cullata dalla voce che spiegava
dolce e paziente: ma, me, mi, mo, mu.
O signorina, così buona e attenta,
quanta pena non dette al suo lavoro
la capricciosa bimba disattenta,
che già viveva in un suo mondo d’oro,
di smagliante ed ignara fantasia,
girando attorno quei suoi occhioni blu,
già viveva di sogni e di poesia
sul ritmo lento: ma, me, mi, mo, mu. (M. Luisa Cortese)

Primo giorno di scuola

E’ pronta la cartella, il grembiulino,
il colletto stirato come va.
Dunque, va proprio a scuola, il birichino!
Stamani in casa si respirerà!
Giornale e pipa, aah! beatamente
il nonno potrà starsene sdraiato,
una mattina intera. Strilli, niente.
Un bacio a tutti… Ecco. Se n’è andato.
Ma dopo un’ora… “Forse piangerà”
(pensa la mamma) E corre alla finestra.
“Sarà buona e paziente, la maestra?”
(sospira nonna). E il nonno: “Chi lo sa…”
Un’aria così greve intorno pesa!
Son tristi l’orsacchiotto, il pulcinella,
traditi da un’ignobile cartella.
Si parla a bassa voce, come in chiesa.
Nonno aggiusta le ruote di un trenino
perchè il bimbo sorrida, al suo ritorno…
Oh, com’è lungo questo primo giorno
che del pupo d’ieri fa un omino! (Zietta Liù)

Scuola di campagna

Solitaria scuoletta di campagna,
che sorridi tra il verde al primo sole,
grato un profumo sento di viole
intorno a te, che zeffiro accompagna.
Vedo di fiori ornata la finestra
dell’aula ancora nel silenzio assorta,
vedo i bimbi schierati sulla porta
in attesa che arrivi la maestra.
Son lì composti; han fatto molta strada
per giungere alla scuola; ma quegli occhi
da cui la gioia lor part che trabocchi,
brillano come stille di rugiada.
Io so che vi rallegra: è la parola,
bimbi, di chi v’insegna tante cose,
di chi circonda di cure amorose
il dolce tempo che passate a scuola. (Ascenso Montebovi)

Scuola di campagna

E’ fuor del borgo, due passi
di là dal più fresco ruscello,
recinta di muro e cancello,
la piccola scuola di sassi.
Agnella staccata dal branco
col suono che al collo le han messo
richiama ogni bimbo al suo banco,
nell’aula che odora di gesso.
C’è ancora la vecchia lavagna,
con su l’alfabeto mal fatto;
lo scrisse un bambino, distratto
dal verde di quella campagna.
E lei che mi vide a sei anni,
c’è ancora, la voce un po’ fioca,
vestita d’identici panni,
la vecchia signora che gioca.
Il tempo passò senza lima,
su queste memorie. Ritorno
lo stesso bambino di un giorno
sereno, nell’aula di prima.
E in punta di piedi, discreto,
nell’ultimo banco mi metto
e canto, nel dolce coretto
dei bimbi, l’antico alfabeto. (Renzo Pezzani)

Compagni di banco

Che cosa vuoi? Son pronto a darti tutto:
una penna, un quaderno, un taccuino,
purchè tu venga per un po’ vicino…
…Noi sederemo ad uno stesso banco
riordineremo i libri a quando a quando,
e rileggendo un compito e guardando
sul tavolino un grande foglio bianco… (Marino Moretti)

Ritorno a scuola

Oh, sì! prendiamo la cartella scura,
il calamaio in forma di barchetta,
i pennini, la gomma e la cannetta,
la storia sacra e il libro di lettura…
Andiamo, andiamo! Il tema è messo in bella!
Andiamo, andiamo! Il tema è messo in buona!
Dio, com’è tardi! La campana suona…
Fra poco suonerà la campanella…
Ma che dico? E’ domenica, è vacanza!
non c’è scuola, quest’oggi: solamente
c’è da imparare un po’ di storia a mente,
soli, annoiati, nella propria stanza… (Marino Moretti)

La scuola

Ha riaperto la scuola i suoi battenti;
l’insegnante sorride con amore:
ben sa che degli alunni c’è nel cuore
il rimpianto pei bei divertimenti.
Monti, campagna, mare… che concerti
d’urla felici! Che giocondo ardore!
In piena libertà correvan l’ore;
e adesso invece tutti fermi e attenti!
“Consolatevi” ei dice, “il tempo vola:
verranno un’altra vola le vacanze;
ma ora, ricordate, siete a scuola.
E nello studio certo troverete
la gioia che ha dolcissime fragranze,
se trarre buon profitto voi saprete!” (Livio Ruber)

La scuola

Chi mai l’ha costruita, un po’ appartata
all’altre case, come una chiesuola,
e poi che l’ebbe tutta intonacata
le ha scritto in fronte la parola “Scuola”?
E chi le ha messo al collo per monile
una campana senza campanile?
Chi disegnò per lei quei due giardini
con pochi fiori e giovani alberelli
difesi dall’insulto dei monelli
da fascetti di brocche, irti di spini?
Chi seminò con tanto amor le zolle?
Perchè, bambino, costruir la volle?
Non per un bimbo, ma per quanti sono
nel mondo, suona quella campana;
e la scuola ti sembra così bella,
e quell’aiuola un rifiorente dono,
perchè col giardiniere e il muratore,
vi mise mano, ogni dì, anche l’amore. (Renzo Pezzani)

A scuola

Come il mulino odora di farina,
e la chiesa d’incenso e cera fina,
sa di gesso la scuola.
E’ il buon odor che lascia ogni parola
scritta sulla lavagna,
come un fioretto in mezzo alla campagna.
Tutto qui dentro è bello e sa di buono.
La campanella manda un dolce suono,
e a una parete c’è una croce appesa…
pare d’essere in chiesa:
s’entra senza cappello,
si parla a voce bassa,
si risponde all’appello…
Oh, nella scuola il tempo come passa!
S’apre il libro, si legge e la signora
spiega, per chi non sa, or questo or quello
come in un gioco: un gioco così bello
che quando di fa l’ora
d’uscir, vorremmo che durasse ancora.
Come il mulino odora di farina
e la chiesa d’incenso e cera fina,
la casa prende odor dal pane nostro
e la scuola dal gesso e dall’inchiostro. (Renzo Pezzani)

 La scuola
La scuola è proprio come una chiesetta
che i suoi fedeli aspetta:
aspetta i suoi fedeli ogni mattina
questa allegra chiesina.
Talora nelle nobili città,
ha lustro e maestà;
talor, purtroppo, è misero abituro,
il luogo angusto e oscuro.
Eppure anche se povera e modesta
prende un’aria di festa
quando è piena di voi, bimbi, la scuola,
quando non è più sola.
Di fianco non le sorge col gentile
richiamo il campanile;
eppure anch’essa snocciola bel bello
un suon di campanello.
Ed entrano i fedeli a mano a mano,
con un libretto in  mano,
per andarsi a seder tutti, o sorpresa!
sui banchi come in chiesa.
Lo studio, bimbi, in certa qual maniera,
è anch’esso una preghiera. (L. Ambrosini)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

CHICCOLINO recita per bambini

CHICCOLINO recita per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Narratore: C’era una volta un chicco di grano, lo chiameremo Chiccolino, per distinguerlo dai mille e mille altri chicchi che gli stavano accanto, sopra e sotto, tutti raccolti insieme in un granaio. Un giorno il nostro Chiccolino trasse un lungo sospiro e disse…

Chiccolino: Ah, che triste è questo luogo, scuro… silenzioso… e come si sta male così pigiati, uno sull’altro.

Narratore: Gli rispose un altro chicco di grano, lì vicino

Secondo chicco: Hai ragione, fratellino, dobbiamo starcene qui stretti, noi che eravamo abituati all’aria aperta, laggiù nel campo dorato.

Chiccolino: Ricordi come si stava bene nel grembo della spiga? Il sole intorno sorrideva…

Secondo chicco: … e il vento sussurrava le sue dolci canzoni…

Chiccolino: … e le messi ondeggiavano.

Secondo chicco: E il canto degli uccelli… Te lo ricordi il canto degli uccelli, fratellino?

Chiccolino: Altro che… E i papaveri con i loro vestitini rossi che mettevano l’allegria…

Secondo chicco: Sembrava on dovesse finire mai quella bella vita. Invece un giorno vennero gli uomini, avanzarono con le loro macchine nel campo…

Chiccolino: Recisero le spighe, a cento a cento.

Secondo chicco:  E noi sgusciammo fuori e fummo raccolti nei sacchi, poi scaricati qua, nel granaio.

Chiccolino: Una vera prigione.

Secondo chicco: Triste destino davvero… la vita era cominciata tanto bene, ed è finita così male.

Narratore: I due chicchi di grano sospirarono. Per un momento regnò un gran silenzio nel granaio, poi si udì una nuova vocina…

Terzo chicco: Non scoraggiatevi, amici miei… Io vi dico che non è finita così.

Chiccolino: Chi sei, tu?

Secondo chicco: E che ne vuoi sapere?

Terzo chicco: Sono un chicco di grano come voi, come tutti gli altri, soltanto sono più anziano di voi e conosco un po’ il mondo.

Secondo chicco: Ma come puoi dire che la nostra vita non è finita qui?

Terzo chicco: So quel che dico: ne ho visti tanti e tanti di chicchi di grano… Ne ho visti arrivare e li ho sentiti lamentarsi proprio come fate voi…

Chiccolino: E poi?

Terzo chicco: E poi, un bel giorno, li ho visti partire per un nuovo destino.

Secondo chicco: E tu?

Terzo chicco: Il mio destino è stato diverso da tutti gli altri: quando fui versato nel sacco del granaio, sono quattro anni ormai, andai a finire in una fessura del tramezzo di legno, e così sono rimasto nascosto in un cantuccio ad osservare…

Chiccolino: racconta, racconta per favore…

Secondo chicco: Su, da bravo, non farti pregare.

Terzo chicco: Con piacere, amici miei. Dovete dunque sapere che…

Narratore: Il vecchio chicco di grano non ebbe tempo di cominciare il suo racconto perchè le porte del granaio furono spalancate, e risuonarono le voci degli uomini

Primo uomo: Su, svelti, riempite quaranta sacchi.

Secondo uomo: Avanti, voi, con i sacchi. Qui a me.

Primo uomo: Poi li caricherete sull’autocarro e li porterete al mulino.

Narratore: Per tutta la mattina gli uomini affondarono le pale nel grano. Che tramestio, che confusione in quel mare di  chicchi… Alfine le voci tacquero, le porte furono chiuse e nel granaio tornarono il silenzio e l’oscurità.

Terzo chicco: Chiccolino, Chiccolino! Dove sei?

Chiccolino: Eccomi, sono qui, vecchio chicco.

Terzo chicco: Oh, meno male! Ho tremato per te…

Chiccolino: L’ho scampata bella. Per due volte la pala mi ha sfiorato… Brrr, non mi sarebbe piaciuto finire un’altra volta in un sacco.

Terzo chicco: Ci saresti rimasto per poco. Ti avrebbero portato al mulino con tutti gli altri.

Chiccolino: Al mulino? Cos’è il mulino?

Terzo chicco: Il mulino è lo stabilimento dove si macina il grano: ogni granello viene stritolato fra due ruote di pietra, ridotto in polvere bianca, in farina.

Chiccolino: Questo non può essere, non è possibile che la mia veste dorata si riduca in polverina bianca.

Terzo chicco: La veste, o involucro, è color d’oro, ma dentro sei tutto bianco. Chiccolino, come me e come tutti gli altri; dopo che la macina del mulino ci ha stritolati, la farina viene passata allo staccio.

Chiccolino: E cosa accade allora?

Terzo chicco: Lasciami dire: passata allo staccio, il candido fior di farina sarà liberato dal cruschello; da una parte il cruschello dorato, dall’altra la candida farina.

Chiccolino: E poi?

Terzo chicco: E poi gli uomini lavorano la farina nei pastifici e nei forni, fanno il pane e la pasta, due dei loro alimenti principali.

Chiccolino: Se questo sarà il mio destino, sono già rassegnato…

Terzo chicco: C’è di meglio, Chiccolino, c’è di meglio. Può darsi che ti attenda un destino migliore.

Chiccolino: Che cosa c’è ancora?

Terzo chicco: Devi sapere che ogni anno una parte del grano che gli uomini raccolgono dai campi…

Narratore: Neanche questa volta il vecchio chicco potè continuare il suo racconto: le porte del granaio si spalancarono, risuonarono ancora le voci degli uomini.

Primo uomo: Sarà cosa da poco questa volta: basteranno cinque sacchi.

Secondo uomo: La provvista per la semina.

Narratore: Ancora un gran tramestio nel granaio, le pale si immersero nel mare di grano… Ad un tratto Chiccolino si sentì sollevare, ebbe appena il tempo di gridare…

Chiccolino: Addio, vecchio chicco di grano e grazie per la buona compagnia!

Terzo chicco: Addio, Chiccolino, addio, e buona fortuna!

Narratore: Come si stava male dentro il sacco… stretti stretti, sembrava di soffocare. Ma non durò a lungo. Il mattino seguente Chiccolino sentì che qualcuno sollevava il sacco, lo portava via, lo posava sul terreno. Chiccolino si chiese…

Chiccolino: Quale sarà il mio destino?

Narratore: L’imboccatura del sacco fu sciolta, una mano si immerse nel grano… Chiccolino fu trasportato in un sacchetto appeso alla cintura di un seminatore.

Chiccolino: Ah, finalmente! Un po’ di aria fresca e la gran luce del sole! E com’è bello andarsene per i campi…

Narratore: Ma ecco nuovamente una mano si immerge nel sacchetto: Chiccolino si ritrae, ma la mano si serra, lo prende con tanti altri granelli…

Chiccolino: Ah… che gran volo!

Narratore: Era stato lanciato nella terra smossa.

Chiccolino: Ben trovata, madre terra. Con te starò benissimo.

Narratore: Chiccolino si guardava intorno, non c’erano ne erbe ne i papaveri vestiti di rosso, ma soltanto terra umida e scura. Si stava domandando che cosa gli sarebbe accaduto, quando si sentì rotolare in mezzo alle zolle di terra, e fu sepolto.

Chiccolino: Nuovamente al buio, e solo, questa volta. Questa è proprio la fine…

Narratore: Non era la fine, anzi era il principio di una nuova storia che ogni anno, da migliaia e migliaia di anni, si ripete al sopraggiungere della stagione piovosa. Racchiuso nel seno della madre terra, Chiccolino dormì tranquillo per qualche tempo. Poi, un giorno…

Chiccolino: Che succede? Mi spunta come una bianca codina…

Narratore: Sì, qualcosa di nuovo avveniva nel corpo di Chiccolino: si rigonfiava, allungava dei piccoli tentacoli. Poi un piccolo stelo si allungava su su verso l’alto, in cerca d’aria e di luce.

Chiccolino: Che bello! Che bello! Aveva ragione il vecchio chicco, una nuova vita mi attende. Evviva il sole!

Narratore: Pian piano la nuova pianticella ruppe la crosta della terra, si innalzò verso il cielo. E Chiccolino? Chiccolino non c’era più, si era trasformato in una nuova pianta di grano e quando ritornò il sole dell’estate una bella spiga dorata ondeggiava al vento, sussurrava le sue canzoni in risposta al canto degli uccelli, scherzava con i rossi papaveri che mettono allegria.

G. Valle

LA BAMBINA TROPPO PIGRA racconto

LA BAMBINA TROPPO PIGRA racconto sulla pigrizia e  il lavoro per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

La bambina troppo pigra

C’era una volta una bambina tanto pigra che la pigrizia si sarebbe vergognata di essere sua sorella. Quella bambina non si scomodava nemmeno per portarsi il cibo alla bocca.
Un giorno, mentre sedeva in rima al fiume, si udì chiamare da un palmizio. Il palmizio cresceva sull’altra sponda.
“Ehi! Ehi!” le diceva, agitando i rami alla sua volta.

La bambina era troppo pigra per rispondere, e tanto più per attraversare il fiume e chiedere alla palma che volesse.
Infine la palma, stizzita, gridò: “Possibile che tu non sia nemmeno curiosa di sapere che cosa io desidero offrirti? Guarda, al tuo fianco c’è una barca. Montaci su, rema fin qui, e cogli i miei germogli”.
La bambina pigra a malincuore si alzò, entrò nella barca, remò fino all’altra sponda, e: “Eccomi!” disse alla palma.

La palma la picchiò lievemente con i suoi rami.
“Questo” le disse, “per punirti della tua pigrizia. Ora cogli i miei germogli, portali con te, lasciali asciugare un poco al sole, e poi con essi fabbricati una cesta. Guai a te se non mi obbedirai. Allora sì che te ne pentiresti!”
La bambina quasi piangeva a dover lavorare, ma non potè fare a meno di obbedire.
Colse i germogli, se li portò a casa, li mise ad essiccare al sole e cominciò ad intrecciare una cesta di modeste dimensioni.

Quando fu pronta, la cesta disse: “Brava, ragazzina! Ora portami sulla strada che va al mercato; deponimi là dove passa la gente, poi torna a casa”.
La ragazzina obbedì. Tornò a casa. La cesta rimase dov’essa l’aveva deposta.
Passò molta gente e non fece attenzione alla cesta.

Giunse un ricco signore, la scorse e si domandò: “Chissà chi l’ha perduta? La prenderò e la porterò con me al mercato. Se troverò il suo proprietario, gliela restituirò; se non lo troverò, me la terrò per metterci gli acquisti”.
La raccolse e andò al mercato. Lì domandò se qualcuno avesse perduto la cesta. Nessuno disse di averla perduta. Allora egli fece le sue provviste e la riempì di ghiottonerie. La riempì di noci, banane, torte, datteri, pesci, riso cotto, poi la depose accanto a un pozzo, e si intrattenne a conversare con alcuni amici.
Ma quando si voltò per riprenderla, la cesta non c’era più.

Aveva messo le gambe e correva a rotta di collo verso la casa della ragazzina pigra.
Correva e gridava: “Presto, presto, vienimi incontro; da sola non riesco a trascinare questo peso”.
La bambina, sia pure di malavoglia, uscì per aiutarla. E l’aiutò.
Poi, viste le buone cose che la cesta conteneva, si disse che metteva di conto di andare tutte le mattine a porla sulla via del mercato.
Così fece. Ogni volta, la cesta ritornava a casa da sola, colma di ghiottonerie.
Poi, all’improvviso, cessò di funzionare.
La bambina, però, intanto, era guarita dalla sua pigrizia.

Ogni giorno saliva sulla barca, remava fino all’altra sponda, coglieva i germogli di palma, intrecciava ceste e andava a venderle al mercato.

Con i denari guadagnati comprava noci, banane, torte, pesci, riso cotto e datteri. E tutto le pareva più buono, perchè se lo procurava col suo lavoro.

(P. Ballario)

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I DUE CAMPETTI racconto

I DUE CAMPETTI racconto per bambini della scuola d’infanzia e primaria, sul tema della pigrizia e del lavoro.

Uno di qua, uno di là dal fiume si stendevano due piccoli campi. Due fratelli li coltivavano, uno sollecito e l’altro pigro.
Il fratello sollecito si alzava all’alba e si metteva subito a lavorare il suo campetto. Vangava, concimava, seminava. Poi, a suo tempo, ripuliva i solchi, annaffiava, rincalzava le piante, le curava.
L’altro fratello si levava sul mezzogiorno. Dava alla peggio poche zappate. Gli faceva fatica star curvo sui solchi, annaffiare, potare. Lasciava crescere le erbe selvatiche.

Di quando in quando, sbadigliando, dava un’occhiata al campetto del fratello e diceva: “Quella è terra migliore. Deve essere esposta meglio al sole, più umida e più grassa”.
Tanto fece e tanto disse che convinse il fratello a fare il cambio.

Il fratello sollecito ripulì il campo mezzo selvatico. Lo lavorò di lena. Piantò, sarchiò, potò.
Il pigro invece, sicuro di avere ora il campo migliore, dormì anche di più e lavorò di meno.

Non passò molto tempo e il campo peggiore diventò il migliore, mentre il migliore diventò uno sterpaio.
“Come sono sfortunato!” disse il fratello pigro, vedendo che le coltivazioni del suo campo andavano in rovina. “Proprio ora che il mio campo migliorava, l’ho ceduto…”.

Tanto fece e tanto disse che lo rivolle per sè.
Ma dopo poco tempo si fu alle solite.

Il campetto del fratello sollecito prosperava. Quello del fratello pigro invece inaridiva.

“Colpa del seme! Colpa del sole! Colpa della pioggia! Colpa dell’erbaccia! Colpa dei bruchi! Colpa di tutti e di tutto!” pensava il fratello pigro.

E non si avvedeva che la colpa era tutta e soltanto sua.

P. Bargellini

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NUTRIZIONE E DIGESTIONE materiale didattico e letture

NUTRIZIONE E DIGESTIONE  materiale didattico e letture di autori vari, per bambini della scuola primaria.

La digestione

L’uomo, come tutti gli animali e le piante, per vivere e per crescere ha bisogno di nutrirsi, di introdurre cioè nell’organismo certe sostanze, dette alimenti.
La trasformazione degli alimenti in sostanze capaci di fornire energia e calore al nostro corpo si dice digestione. Ad essa provvedono gli organi che formano l’apparato digerente: la bocca, la faringe, l’esofago, lo stomaco, il fegato, il pancreas e l’intestino.

La bocca
Nella bocca il cibo viene masticato dai denti e impastato con la saliva. I denti sono 32: 8 incisivi a forma di scalpello, per tagliare; 4 canini appuntiti, per strappare; 8 premolari e 12 molari, larghi e piatti, per triturare.
La parte visibile dei denti è detta corona, la parte ricoperta dalla gengiva è detta colletto, e quella che li fissa alla mascella si chiama radice.
La saliva è una sostanza liquida che impasta i cibi; viene secreta da tre paia di ghiandole dette salivari. Nella bocca il cibo di trasforma in bolo.

Lo stomaco
Dalla bocca il bolo passa nello stomaco, attraverso un tubo detto esofago. Lo stomaco è come una borsa elastica che contraendosi e rilassandosi rimescola il cibo e lo innaffia con un liquido, detto succo gastrico, secreto da tante ghiandole disseminate nelle sue pareti.
Il cibo viene così trasformato in una poltiglia grigia, detta chimo. Questa trasformazione si chiama digestione.

L’intestino
Dallo stomaco il cibo, attraverso il piloro, passa nell’intestino, un tubo più volte ripiegato su se stesso, lungo circa 10 metri. Nell’intestino il chimo viene bagnato dal succo del pancreas e dalla bile del fegato e così nuovamente trasformato in un liquido biancastro, il chilo.
La parte buona e nutriente del chilo viene assorbita dai villi intestinali, attraverso i quali  passa nel sangue che la distribuisce a tutte le parti del corpo.
Così gli amidi, la carne, le uova, il formaggio ed i grassi sono trasformati in sostanze meno complesse, capaci di costituire materia vivente, ossia nuove cellule, e di fornire al corpo stesso energia.
La parte non assorbita viene espulsa.

Per il lavoro di ricerca
Perchè mangiamo? Perchè il nostro corpo può resistere solo 4 – 5 giorni senza nutrirsi?
Ordiniamo e raggruppiamo in tre categorie tutti gli alimenti: grassi, carboidrati e proteine. Perchè il nostro corpo soffrirebbe se noi ci nutrissimo solamente con una sola di queste categorie di alimenti?
Perchè è dannoso mangiare fuori pasto?
Perchè è bene non andare a dormire subito dopo i pasti? E nemmeno studiare?
Perchè se non mastichiamo bene avvertiamo dei dolori allo stomaco? Perchè questi dolori si avvertono anche se mangiamo troppo?
La bevanda migliore per l’uomo è l’acqua. Spiega il significato della parola ‘potabile’ e fai ricerche in merito.
Vai davanti allo specchio ed osserva attentamente come è fatta la tua bocca: lingua, palato, denti. A che cosa servono?
Non tutti i denti sono di uguale forma: disegnali, impara i loro nomi e cerca da solo di comprendere la particolare funzione che ognuno di essi ha.
Qual è la funzione della saliva? Che cosa la produce?
Ti lavi sempre i denti? Qual è la funzione dello spazzolino? E del dentifricio?

La nutrizione

Ogni essere vivente può essere paragonato ad una lampada che arde: la sua luce ed il suo calore si producono solo mediante la combustione dell’olio. E come la fiamma minaccia di spegnersi se la lampada non viene periodicamente rifornita di combustibile, così il corpo degli animali e delle piante deve venire costantemente rifornito di nuovi alimenti che sostituiscono la materia bruciata e rendono possibile lo sviluppo di nuove energie.
Come si manifesta in noi il bisogno di alimentarci? Si manifesta con due sensazioni caratteristiche che ben conosciamo, e cioè con la fame e con la sete.
Esse sono l’indicazione più evidente che il nostro corpo ha bisogno di ricostruire quelle energie che ha perduto attraverso il lavoro, la fatica e il movimento.
Il nostro corpo deve inoltre mantenere costante la propria temperatura; per servirci ancora una volta di un esempio, diremo che esso è come una stufa la quale, per mantenersi calda, ha bisogno di essere continuamente riempita di legna o di carbone.
La nutrizione si compie mediante tre funzioni strettamente collegate fra loro: la digestione, la circolazione e la respirazione.
Con la digestione gli alimenti che noi mangiamo vengono profondamente modificati; con la circolazione il sangue porta le sostanze nutritive elaborate a tutte le cellule; con la respirazione introduciamo nel nostro corpo l’ossigeno, un gas la cui presenza è indispensabile perchè nei vari tessuti avvenga la combustione delle sostanze alimentari.

La nutrizione

Ogni essere vivente può essere paragonato ad una lampada che arde: la sua luce ed il suo calore si producono solo mediante la combustione dell’olio. E come la fiamma minaccia di spegnersi se la lampada non viene periodicamente rifornita d combustibile, così il corpo degli animali e delle piante deve venire costantemente rifornito di nuovi alimenti che sostituiscono la materia bruciata e rendono possibile lo sviluppo di nuove energie.
Come si manifesta in poi il bisogno di alimentarci? Si manifesta con due sensazioni caratteristiche che ben conosciamo, e cioè con la fame e con la sete.
Esse sono l’indicazione più evidente che il nostro corpo ha bisogno di ricostruire quelle energie che ha perduto attraverso il lavoro, la fatica e il movimento.
Il nostro corpo deve inoltre mantenere costante la propria temperatura; per servirci ancora una volta di un esempio, diremo che esso è come una stufa che, per mantenersi calda, ha bisogno di essere continuamente riempita di legna o di carbone.
L’uomo prende i suoi alimenti dal mondo animale, dal mondo vegetale e dal mondo minerale. Il regno animale gli fornisce la carne, le uova, il latte, il burro, il formaggio, il lardo.
Il regno vegetale gli dà il pane, le paste alimentari, il riso, le farine (di frumento e di granoturco), i legumi, gli ortaggi, la frutta, gli oli.
La nutrizione si compie mediante tre funzioni strettamente collegate fra loro: la digestione, la circolazione e la respirazione.
Con la digestione gli alimenti che noi mangiamo vengono profondamente modificati; con la circolazione il sangue porta le sostanze nutritive elaborate a tutte le cellule; con la respirazione introduciamo nel nostro corpo l’ossigeno, un gas la cui presenza è indispensabile perchè nei vari tessuti avvenga la combustione delle sostanze alimentari.

La digestione

Il cibo masticato dai denti e abbondantemente inumidito dalla saliva che sgorga da tre paia di ghiandole (ghiandole salivari), i cui condotti si aprono nella cavità boccale, si trasforma in una poltiglia che, arrotolata dalla lingua sotto forma di una pallottola (bolo alimentare), viene spinta con l’atto meccanico della deglutizione (inghiottimento) nella faringe, il breve condotto a forma di imbuto che comunica con l’esofago; scende lungo questo tubo e cade nello stomaco. Qui si compie la digestione gastrica, ossia quel complesso di trasformazioni chimiche che una parte delle sostanze alimentari ingerite subisce per l’azione di speciali succhi prodotti da alcuni milioni di piccole ghiandole annidate nelle pareti dell’organo, le ghiandole gastriche.
Dallo stomaco, il cibo, ridotto in una massa semiliquida detta chimo, passa nell’intestino, che si divide in sue grandi tratti: intestino tenue, sottile e liscio, lungo otto metri circa, e intestino crasso, molto più corto (un metro e mezzo)., ma di diametro assai maggiore.
Nel tenue, il cibo riceve molti altri succhi tra i quali la bile prodotta dal fegato e il succo pancreatico elaborato dal pancreas, le due maggiori ghiandole del corpo, e si trasforma a poco a poco in un liquido lattiginoso, il chilo, destinato ad essere assorbito dalle pareti dell’intestino per passare nel torrente sanguigno. Quest’ultima importante funzione si chiama assorbimento intestinale.
Le materie ingerite formano le feci, che si accumulano nell’ultima porzione del crasso, detta retto, per essere poi espulse all’esterno con l’atto della defecazione.

La bocca

E’ la cavità limitata, anteriormente, dalle labbra, posteriormente, dal velo pendulo o palatino o palato molle, che la separa dal retrobocca o faringe, ai lati delle guance. Il velo pendulo o palato molle è fornito di un’appendice mediana detta ugola. Innalzandosi, il velo pendulo  chiude la comunicazione con le fosse nasali; abbassandosi tocca la lingua, interrompe la comunicazione con le fosse nasali; abbassandosi tocca la lingua, interrompe la comunicazione con la cavità della faringe e non permette che il cibo scappi giù durante la masticazione. Dai lati dell’ugola partono quattro ripiegature mucose (pilastri), due anteriori e due posteriori, tra le quali si trovano le tonsille, ghiandole che possono infiammarsi e restringere l’istmo delle fauci, cioè il passaggio dalla bocca al retrobocca. Allora sentiamo vivo dolore nel deglutire.

La lingua

Organo formato da fibre muscolari, mobilissimo, tappezzato da una mucosa ricca di ghiandole mucipare e di papille, giace, se possiamo esprimerci così, sul pavimento della bocca. E’ saldata posteriormente, all’osso ioide; rotto è tenuta da un filetto.
Oltre che sede dell’organo di senso del gusto, la lingua serve per parlare, per impastare il cibo, per inghiottire.

I denti

Nella bocca i denti masticano il cibo: usando uno specchietto ciascuno di noi può osservare come è composta la propria dentatura. Cominciando dal centro della mascella, superiormente, o dalla mandibola, inferiormente, verso sinistra o verso destra, dato che le due parti sono simmetriche, si notano due incisivi a forma di scalpello. Il loro nome indica la loro funzione: sono i denti che incidono i cibi.
Segue un canino un poco appuntito a piramide, che serve a strappare la carne. Poi vengono due premolari e due molari, larghi e quasi piatti superiormente, con piccoli rilievi utili per macinare il cibo, come la mola di un mulino. Gli adulti hanno tre molari invece di due: l’ultimo, detto dente del giudizio, spunta nell’età giovanile.
Allora voi avete complessivamente 28 denti; da adulti ne avrete 32. Ciascuno di voi ha cambiato alcuni denti all’età dai 6 agli 8 anni: erano i primi denti spuntati, detti anche denti di latte, ed erano incisivi, canini e premolari che, ad un certo momento, cominciarono a dondolare, sospinti fuori dai nuovi denti che già stavano spuntando, e caddero senza provocare alcun dolore.
Osserviamo la forma dei denti: gli incisivi, i canini e i premolari hanno una radice sola, i molari due, e ciascuno è infisso in una cavità, l’alveolo, nell’osso della mascella o della mandibola. La parte del dente che emerge dall’alveolo si chiama corona. Se potessimo segare un dente, vedremmo queste parti: all’esterno un rivestimento bianco lucido durissimo, lo smalto, che serve da protezione; la parte nell’alveolo è protetta dal cemento, meno duro, che fa aderire il dente all’osso. Più internamente c’è l’avorio, o dentina, una sostanza ossea compatta bianco giallastra, percorsa da una cavità riempita di polpa dentaria in cui giungono il sangue ed il nervo del dente collegato con il cervello.
Talvolta, per mancanza di un’accurata pulizia, i residui del cibo masticato fermentano fra i denti e producono la carie, che corrode prima lo smalto, poi l’avorio e giunge alla polpa, provocando ad un certo momento dolori notevoli e poi la caduta del dente.
Vedi anche:

Dentatura di latte e dentatura permanente

Il bambino nasce senza denti. Intorno ai sei o sette mesi cominciano a spuntare gli incisivi e, più tardi, i molari e i canini. Verso i due anni la dentatura consta di venti denti, così distribuiti: otto incisivi, quattro canini, otto piccoli molari. E’ questa la cosiddetta dentatura di latte, che permane fino all’età di sette anni. Poi, i denti di latte cominciano a cadere per riassorbimento della loro radice, e vengono sostituiti dai denti definitivi.
La dentatura si completa, poi, con la comparsa di sei grossi molari per mascella. Gli ultimi molari (due per mascella) spuntano soltanto verso il ventesimo anno e talora anche più tardi; sono perciò chiamati “denti del giudizio”.
La dentatura permanente è dunque composta di trentadue elementi, così distribuiti: otto incisivi, quattro canini, otto premolari, dodici grossi molari.

La saliva: a che cosa serve?
Nella bocca abbiamo la lingua, che ci fa sentire il sapore dei cibi e muovendosi sposta il boccone per sottoporlo ad una sistematica masticazione da parte dei denti.
Tre paia di ghiandole salivari comunicano con la bocca: due sono le parotidi che vanno soggette ad un’infiammazione provocata da una malattia, la parotite o orecchioni, che dà un notevole rigonfiamento vicino alle orecchie. Le ghiandole salivari emettono la saliva, che contiene una sostanza importante per la digestione: la ptialina.
Alla mattina prima di fare colazione provate a masticare lentamente un boccone di pane: lo sentirete sempre più dolce. Questa è l’azione della saliva: essa imbeve le sostanze che contengono l’amido e lentamente le trasforma con un’azione chimica in zuccheri solubili.
Un vecchio proverbio latino afferma che la prima digestione avviene nella bocca ed è vero, perchè qui avvengono le prime trasformazioni chimiche del cibo ingerito.

La faringe
E’ una cavità situata fra la bocca e l’esofago. E’ tappezzata da mucosa, comune all’apparato digerente e respiratorio. Il alto comunica con le fosse nasali e, lateralmente, con le trombe di Eustachio dell’orecchio; in avanti con la bocca, in basso con l’esofago e, anteriormente, con l’apertura della laringe.
L’epiglottide è la valvola  che, abbassandosi, chiude la comunicazione con la laringe, impedisce al cibo di penetrare in essa e lo costringe a infilarsi nell’esofago.

L’esofago
E’ un tubo a parete molle, lungo circa venticinque centimetri, molto elastico, che va dalla faringe allo stomaco, dietro alla trachea e parallelo alla colonna vertebrale. Il tubo dell’esofago è costituito da tre membrane. Internamente è di colore biancastro.

Lo stomaco
E’ un sacco della capacità di due litri circa, a forma di cornamusa, posto sulla sinistra della cavità addominale, sotto il diaframma. Comunica con l’esofago per mezzo del cardias e sbocca nell’intestino per il piloro.

L’intestino
Dopo essere stati nello stomaco, gli alimenti, trasformati in una poltiglia detta chimo, passano nell’intestino, lungo budello aggomitolato su se stesso.
L’intestino è lungo circa cinque volte la lunghezza del corpo. Si divide in tenue (lungo circa 6 m e largo cm 2,5), e crasso (lungo 1,5 m e largo cm 5). Il tenue si divide, a sua volta, in duodeno, digiuno ed ileo. Il crasso in cieco, colon (ascendente, traverso e discendente) e retto.

Intestino tenue
Presenta, a destra, una dilatazione a fondo cieco, che porta un’appendice vermiforme, lunga quasi un dito, la cui infiammazione può determinare la nota malattia detta appendicite.
Le sostanze passate dal tenue al crasso, vi permangono un certo tempo, per venire poi espulse attraverso il retto, che è la parte terminale dell’intestino.
L’intestino è sorretto dalla rete peritonea che lo avvolge tutto intorno, e che si attacca alla colonna vertebrale e alla parete addominale.
L’infiammazione del peritoneo causa la malattia che chiamiamo peritonite.

L’intestino tenue
L’intestino tenue è molto lungo e le sue pareti internamente sono tutte increspate in piccole appendici a forma di minuscole dita, aumentando così enormemente la superficie a contatto con il chilo. Ci sono qui delle cellule assorbenti, un poco come i peli assorbenti delle radici delle piante, che assorbono tutte le sostanze nutritive contenute nel chilo e le raccolgono nei vasi capillari del sangue per essere distribuite a tutte le parti del corpo.
La parte non utile viene scartata; passerà dall’intestino tenue all’intestino crasso, all’inizio del quale si trova una brevissima appendice cieca, quindi passerà all’intestino retto per essere espulsa all’esterno.

Il fegato
E’ la più grossa ghiandola del corpo. Ha color rosso bruno ed è posto nella parte destra della cavità addominale, subito sotto il diaframma. Secerne la bile, liquido giallo-bruno, fortemente amaro.
La cistifellea, o vescica biliare, è la vescichetta aderente al fegato, dove si raccolgono le secrezioni (bile) del fegato stesso. Per apposito condotto la bile sbocca nel duodeno. Se la bile entra nel sangue si ha l’itterizia; se nella bile si formano concrezioni solide si hanno i calcoli biliari.

Pancreas
Secerne un liquido incolore simile alla saliva, detto succo pancreatico.
La ghiandola, di forma allungata, è lunga da 15 a 20 centimetri. Nella sua linea mediana è percorsa da un condotto che porta il succo pancreatico nel duodeno. Questo succo si mescola col chimo e trasforma l’amido in zucchero, mentre nello stesso tempo la bile e i succhi intestinali dividono i grassi. Si ha così il chilo.

Alla fine di un percorso di otto metri
Della pasta, del pane, della carne, della verdura e della frutta che abbiamo mangiato, ormai non siamo più in grado di distinguere nulla; in mezzo a tutte le sostanze utili ve ne sono però alcune che rappresentano le scorie indigeribili che devono essere espulse. Esse proseguiranno il loro cammino, raggiungendo il colon, o intestino crasso, che è la parte terminale dell’apparato digerente.
Come il pancreas, anche l’intestino, ad esclusione del colon, secerne un succo che svolge, durante i processi digestivi, funzione analoga a quella del succo pancreatico.
A questo punto arrivano dei microbi che sono ospiti abituali del colon. Essi si trovano nelle scorie, in particolare in quelle della verdura e fabbricano la vitamina B1, che è indispensabile al lavoro delle cellule. Questi microbi sono, generalmente, dei collaboratori del nostro organismo: però in particolari condizioni possono diventare dei nemici, perchè in grado di provocare delle gravi infezioni.
Il percorso degli alimenti all’interno del nostro corpo si aggira normalmente sugli otto metri; pensate alla quantità di fenomeni che avviene in questo breve tragitto e resterete meravigliati della perfezione e delle mirabili capacità che possiede il nostro organismo.

La circolazione
La circolazione del sangue provvede a distribuire a tutte le cellule del corpo la parte del cibo assorbita dai villi intestinali (chilo). Il sangue circola continuamente in un sistema chiuso di vasi elastici che fanno capo ad un organo centrale: il cuore. I vasi sanguigni sono le arterie, le vene ed i capillari.

La respirazione
Come abbiamo già accennato, perchè nel nostro organismo ci sia sviluppo di calore e di energia non è sufficiente digerire i cibi, è necessario anche che essi brucino. Ciò è reso possibile grazie all’ossigeno che respiriamo.
Quando la nostra gabbia toracica si espande, cioè aumenta il suo volume, l’aria, attraverso le fosse nasali e la bocca penetra nella trachea, poi nei bronchi, i quali si ramificano in tubi sempre più piccoli e terminano negli alveoli polmonari, microscopiche vescichette che costituiscono la massa spugnosa dei polmoni.
Gli alveoli polmonari sono percorsi da una fittissima rete di capillari, ossia di vasi sanguigni. Quando noi respiriamo, l’ossigeno, attraverso le pareti degli alveoli polmonari, passa nei capillari, cioè nel sangue che, come abbiamo visto, provvede a trasportarlo nelle varie cellule del nostro corpo. Contemporaneamente l’anidride carbonica esistente nei capillari viene ceduta agli alveoli.
Quando la cassa toracica si riduce di ampiezza, cioè quando espiriamo, gli alveoli, quindi i polmoni, ci comprimono e l’aria impura, carica di anidride carbonica, viene espulsa dal nostro organismo.

Come deve essere il cibo?
Il cibo deve essere vario e contenere proteine (uova, latte, carne, pesce, formaggio, legumi), grassi (lardo, olio, burro), zuccheri (cereali, patate, bulbi, frutta, verdura, marmellata, miele), sostanze minerali (acqua, sali).
Tra i sali un vero e proprio alimento deve considerarsi il cloruro di sodio o sale da cucina, necessario per la formazione dell’acido cloridrico nel succo gastrico; condimenti (pepe, senape, anice,…), che stimolano la digestione, vitamine (la cui mancanza nell’organismo produce malattie gravi e anche mortali).

La nutrizione degli animali
Gli animali, secondo le specie a cui appartengono, si nutrono di cibi diversi. E’ quindi naturale che l’apparato digerente non sia lo stesso in tutti gli animali.
Tra i mammiferi, gli animali che si cibano di carne, cioè i carnivori come il cane e il gatto, hanno quattro canini lunghi e ricurvi, sporgenti dalle due file di denti, che servono a trattenere la preda.
Gli animali insettivori che, come il pipistrello, si cibano di insetti, hanno denti canini acuti e molari aguzzi, adatti a forare la dura corazza degli insetti.
I roditori, come il coniglio e il topo, hanno denti incisivi lunghi e affilati che ricrescono di continuo nonostante si logorino fortemente.
Gli erbivori ruminanti hanno lo stomaco formato da quattro cavità, poichè occorre molto lavoro per digerire i vegetali. L’erba introdotta nella bocca viene subito ingoiata nel rumine. Di lì risale nel reticolo e poi nuovamente in bocca, dove viene masticata e rinviata negli stomachi veri e propri: l’omaso e l’abomaso.
Gli uccelli granivori ingoiano i granelli che vanno a finire nel gozzo. Qui il cibo si inumidisce e poi passa nello stomaco che è diviso in due parti. La seconda, chiamata ventriglio, è come una macina che stritola tutto, anche oggetti durissimi.
I rettili ingoiano intera la preda. I denti hanno il compito di trattenere il cibo, non di masticarlo.
I pesci invece hanno diverse file di denti sottili e aguzzi che servono a stritolare i rivestimenti calcarei dei molluschi di cui si nutrono.

I cibi e le calorie
Il valore energetico degli alimenti si misura in calorie. Per piccola caloria si intende la quantità di calore necessaria per elevare da 14° a 15° centigradi la temperatura di un grammo d’acqua a pressione normale; la grande caloria è mille volte la più piccola, cioè la quantità di calore necessaria per aumentare da 14° a 15° centigradi la temperatura di un chilo d’acqua a pressione normale.
Ogni alimento ha un proprio valore calorico, fornisce cioè all’organismo un certo numero di calorie, che vengono utilizzate sia per mantenere la temperatura corporea costante intorno ai 36°-37°, qualunque sia la temperatura esterna, sia per fornire lavoro. Ad esempio cento grammi di carne magra di manzo forniscono 213 calorie, centro grammi di lardo affumicato 646 e cento grammi di pane biscottato 381.
Il nostro organismo, a seconda dell’età, dell’altezza, del peso e della superficie corporea, consuma giornalmente un certo numero di calorie, variabile secondo le stagioni (se calda meno, se fredda più), l’ambiente e il lavoro.
Un boscaiolo finlandese di trent’anni e corporatura media, che lavori in pieno inverno all’aria aperta, abbisogna di oltre 4600 calorie giornaliere e deve, perciò, introdurre una quantità di alimenti più abbondante di quella di cui necessita un impiegato della stessa età e corporatura, il quale lavori a Milano, nel pieno dell’inverno, ma in ambiente chiuso. Il nostro impiegato infatti raggiungerà in media un consumo di 2200-2500 calorie giornaliere; perciò potrà tenere un’alimentazione quantitativamente e qualitativamente inferiore a quella del boscaiolo.
Un bambino di un anno consuma una media di 800 calorie giornaliere ed il suo peso si aggira sui 10-12 chili, mentre un ragazzo di quattordici anni, nel nostro clima, necessita di 2800 calorie, con un peso di 45-55 chili; e il fabbisogno di un uomo di 70 chili, moderatamente attivo, è di circa 3000 calorie.
Come si vede, col passare degli anni, vi è una diminuzione proporzionale del fabbisogno calorico, perchè l’eccedenza di calorie, cioè l’eccedenza di alimentazione rispetto al peso, serve alla costruzione dell’organismo in fase di sviluppo. Sarebbe però un errore credere che basti somministrare dei cibi grassi, che forniscono un maggior numero di calorie, per ottenere lo scopo voluto: il corpo umano abbisogna di un’alimentazione varia che comprenda un po’ tutte le sostanze, alcune delle quali gli sono assolutamente indispensabili.
Il migliore tipo di alimentazione è quello che fornisce al corpo la maggiore varietà di alimenti, quando non esistono delle cause, malattie ecc., che suggeriscono la limitazione dei cibi, in modo che l’organismo possa usufruire di tutte le sostanze che gli sono necessarie. Senza esagerare con certi cibi che, se pur gustosi al palato, possono in quantità troppo grande danneggiare i tessuti.

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La pianta utilizzata ad esempio è quella del fagiolo. La tavola, oltre ad indicare le principali parti di cui si compone una pianta, ne illustra anche le quattro principali funzioni, che sono:
– assorbimento
– respirazione
– traspirazione
– funzione clorofilliana.

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