Tutorial pop up 24 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi. Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello.
così:
Ripiegate più volte su se stesso l’elemento per verificarne la chiusura e l’apertura:
Quindi incollate la linguetta D sul segno D (sul retro):
incollate poi il triangolo B sul segno B presente sulla pagina di destra:
mettiamo della colla sul triangolo C, quindi infiliamo la linguetta A nel taglio A praticato sulla pagina di sinistra; premiamo sul triangolo C quindi incolliamo anche la linguetta A sul retro della pagina:
Ed è fatta!
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 23 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi. Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello.
Incollate la linguetta laterale C sul lato C, in modo tale da chiudere l’elemento, così:
Infilate la linguetta A sul taglio A praticato sulla pagina di sinistra, ed incollatela sul retro:
Quindi incollate la linguetta B sul segno B presente sulla pagina destra:
Ed è fatta!
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 22 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi. Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello.
Incollate la linguetta C sul retro C, e la linguetta D sul retro D:
Infilate la linguetta A sul taglio A praticato sulla pagina di sinistra, ed incollatela sul retro, quindi incollate la linguetta B sul segno B tracciato sulla pagina di destra, ed è fatta!
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 21 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
Tutorial pop up 20 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi:
Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello; così:
Inserite la linguetta C nel taglio C praticato sulla pagina di sinistra, ed incollatela sul retro della pagina:
mettete della colla sui segni E ed F tracciati sulla pagina di destra:
ed incollate le linguette E ed F dell’elemento 1:
infilate la linguetta B dell’elemento 1 attraverso il foro H dell’elemento 2, così:
Incollate quindi anche la linguetta D in corrispondenza del segno D presente sulla pagina destra:
distendete le pieghe fatte per far passare l’elemento attraverso il foro e mettete della colla sull’estremità B:
quindi fissate la linguetta B dell’elemento 1 sul segno B presente sulla pagina di destra, e la linguetta D dell’elemento 2 sul segno D presente anch’esso sulla pagina di destra :
Ora infilate l’elemento 3 attraverso il foro G praticato sull’elemento 1, così:
ed incollate la linguetta A dell’elemento 3 sul segno A tracciato sulla pagina di sinistra, così:
Ed è fatta!
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 19 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
Tutorial pop up 18 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi. Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello; infilate poi le linguette dell’elemento 2 nei fori presenti nell’elemento 1, così:
Mettere la colla sul segno B presente nella pagina di destra ed incollatevi la linguetta B:
infilate la linguetta A nel taglio A presente sulla pagina di sinistra:
e incollatela sul retro:
Ed è fatta!
Questo è lo stesso modello realizzato con carta bianca da pittura e decorato dal bambino con colori ad olio:
E questo con carta bianca e disegni:
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 17 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
GIOCO GRAMMATICALE SUL NOME per la classe quarta della scuola primaria su nomi comuni, propri, primitivi, derivati, alterati, maschili, femminili, singolari, plurali e collettivi.
Il gioco può essere preparato agevolmente a mano, ma se preferite ho preparato una versione pronta, scaricabile e stampabile in formato pdf.
Preparare dieci buste, su ciascuna delle quali i bambini scriveranno, oltre al proprio nome, le indicazioni seguenti:
NOMI COMUNI
NOMI PROPRI
NOMI PRIMITIVI
NOMI DERIVATI
NOMI ALTERATI
NOMI MASCHILI
NOMI FEMMINILI
NOMI SINGOLARI
NOMI PLURALI
NOMI COLLETTIVI
(se volete potete stampare le buste già pronte da ritagliare e incollare)
Predisporre poi le striscioline di carta, sulle quali sono scritte i gruppi di parole per ciascun gioco (anche queste, se volete, già pronte per la stampa).
Gioco 1 – buste 1 e 2 (nomi comuni e propri) – Gruppi di parole CICLISTA BALDINI MONTE CERVINO ETTORE CALZOLAIO LAGO TRASIMENO VIALE CARDUCCI PASCOLI POETA MANZONI SCRITTORE NAZIONE FRANCIA PAPA GIOVANNI RE GUSTAVO ADOLFO CARLO ALBERTO PRINCIPE FIUMI ADDA TEVERE ARNO EMILIA SARDEGNA UMBRIA REGIONI
Gioco 2 – buste 3, 4 e 5 (nomi primitivi, derivati e alterati) – Gruppi di parole: RAGAZZINO RAGAZZETTO RAGAZZATA OMETTO OMACCIO OMINO BASTONE BASTONCINO BASTONATA BASTONATURA COLTELLO FORCHETTA CUCCHIAIO CUCCHIAINO CANNELLA CANNONE CANNUCCIA CAVALCATURA CAVALIERE CAVALLETTO CAVALLONE PEDATA PEDONE PIEDINO MANIGLIA MANINA MANONE MANUBRIO
Gioco 3 – buste 6 e 7 (nomi maschili e femminili) – Gruppi di parole: LIMONE ARANCIO ARANCIA DATTERO CILIEGIA QUERCIA ABETE LARICE ONTANO VITE LOMBARDIA ABRUZZO UMBRIA CAMPANIA ROMAGNA LAZIO FRIULI ITALIA FRANCIA BELGIO OLANDA CILE PORTOGALLO GERMANIA SVIZZERA ATENE FERRARA BRINDISI ASTI ACQUI PIREO TARANTO CAGLIARI AGRIGENTO CAIRO PROBLEMA OPERAZIONE TEMA RISOLUZIONE SVOLGIMENTO RISPOSTA GUIDA SENTINELLA SOLDATO RECLUTA AVIATORE GUARDIA
Gioco 4 – buste 8, 9 e 10 (nomi singolari, plurali e collettivi) – Gruppi di parole: CESPUGLIO PIANTA ALBERI PINETA BOSCO FRUTTETO SUONATORE BANDA MUSICISTI FANFARA SOLDATO SENTINELLA GUARDIA PLOTONE SQUADRA BATTAGLIONE TENENTE UFFICIALE API VESPA SCIAME MIELE ARNIA.
Al via dell’insegnante, i bambini dividono, tagliandole con le forbici, parola per parola, le striscioline di carta, e inseriranno ogni bigliettino con una parola sola nella busta voluta.
L’insegnante potrà poi ritirare le buste di tutti i bambini e controllato il contenuto potrà proclamare il campione di grammatica della classe.
Naturalmente il gioco può essere condotto anche in modo non competitivo, conducendo la correzione con tutta la classe insieme.
Tutorial pop up 16 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
Tutorial pop up 15 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
______________________________
MATERIALE OCCORRENTE
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi:
Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello e praticate i tagli richiesti; preparate la leva del meccanismo incollando le due linguette così:
Mettere la colla sulla linguetta di destra:
Stendete della colla sulla linguetta A:
ed incollatela sul segno A presente nella pagina di sinistra, così:
ora infilate la leva nel primo taglio:
e fatele uscire nuovamente sul davanti attraverso il secondo taglio:
mettete della colla sulla linguetta B, quindi fatela passare attraverso il taglio B presente sulla pagina di destra, e fissatela sul retro:
Ed è fatta!
Se usate come me carta di due colori contrastanti, potete mimetizzare la leva che scorre attraverso le pagine incollando sopra ad essa un rettangolo dello stesso colore dello sfondo, così:
Questo è lo stesso modello realizzato con carta bianca da pittura e decorato dal bambino con colori ad olio:
Tutorial pop up 14 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
Tutorial pop up 13 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
______________________________
MATERIALE OCCORRENTE
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi:
Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello; così:
Mettere la colla sulla linguetta di destra:
ed incollatela sul segno che si trova sulla facciata destra del foglio (contrassegnata C D):
Infilate la linguetta di sinistra nel taglio (A B) praticato sulla facciata sinistra del foglio:
Girate e incollate la linguetta sul retro:
Ed è fatta!
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 12 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
______________________________
MATERIALE OCCORRENTE
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Questo è uno dei classici meccanismi pop up che servono a produrre un rumore all’apertura della pagina.
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi:
Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello; così:
infilate la parte dentellata all’interno della fessura ritagliata, in questo modo:
incollate l’elemento a forma di sega in questo modo (D su D), dopo aver ripiegato ed incollato la linguetta che serve da rinforzo:
poi incolliamo la linguetta B sul segno B presente sempre sulla pagina di destra, ed infine la linguetta C sul segno C:
infiliamo l’elemento seghettato lungo all’interno del foro :
Infilate la linguetta di sinistra nel taglio A praticato sulla facciata sinistra del foglio:
Girate e incollate la linguetta sul retro:
Ed è fatta!
Questo è lo stesso modello realizzato con carta bianca da pittura e decorato dal bambino con colori ad olio:
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 11 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
______________________________
MATERIALE OCCORRENTE
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi:
Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello; così:
Mettere la colla sulla linguetta C e chiudete la piramide:
mettete la colla sulla linguette A e B ed infilate A nel taglio presente nella pagina di sinistra; incollate invece B in corrispondenza del segno B presente nella pagina di destra:
Ed è fatta!
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 10 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
______________________________
MATERIALE OCCORRENTE
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto)
e ritagliate i vari elementi. Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello; così:
Mettere la colla sulla levetta che andrà montata all’interno del cubo per sostenere il “tetto” e chiudere, così:
chiudere il cubo incollando la linguetta C e la linguetta del “tetto”, quindi incollare la levetta interna (B sul segno B):
Infilate la linguetta D nel taglio presente nella pagina di sinistra e incollarla sul retro:
Girate e incollate la linguetta sul retro. Mettere della colla sulla linguetta E ed incollarla sul segno presente nella pagina di destra:
Fissare la linguetta A della levetta interna al fondo:
Ed è fatta!
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 9 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
______________________________
MATERIALE OCCORRENTE
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi:
praticate il taglio richiesto dal modello:
fatte tutte le pieghe “a monte” e “a valle” richieste:
Preparate la levetta interna, che servirà a tenere in posizione il “coperchio” del maccanismo, così:
e incollatela in corrispondenza del segno C tracciato sulla pagina di sinistra:
chiudiamo il lato del cubo utilizzando la linguetta laterale:
inseriamo la linguetta A nel taglio A presente nella pagina di sinistra:
quindi incolliamo la linguetta B in corrispondenza del segno B presente sulla pagina di destra:
mettete della colla sulla linguetta della levetta di carta:
e sull’interno del “coperchio” dove andrà fissata la levetta:
Ed è fatta!
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 8 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
______________________________
MATERIALE OCCORRENTE
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi:
Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello; praticate il taglio richiesto:
inserite la linguetta A nel taglio A della pagina di sinistra:
ed incollatela sul retro della pagina:
mettete la colla sulla linguetta B:
e fissatela sul segno B presente sulla pagina di destra:
incollate la linguetta che serve a chiudere la piramide:
e fissatela:
Ed è fatta!
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 7 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
______________________________
MATERIALE OCCORRENTE
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi:
Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello; così:
inserire la linguetta A nel taglio A praticato nella pagina di sinistra:
mettete della colla sulla linguetta B:
ed incollatela in corrispondenza del segno B presente sulla pagina di destra:
Girate e incollate la linguetta A sul retro:
ora mettete della colla sulla linguetta che serve a chiudere l’elemento
e fissatelo:
Ed è fatta!
Questo è lo stesso modello realizzato con carta bianca da pittura e decorato dal bambino:
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 6 – questo è un meccanismo pop up semplice e di grande effetto, che non necessita di cartamodello.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
Le piegature richieste sono due piegature “a monte”:
______________________________
MATERIALE OCCORRENTE
carta forbici e taglierino colla da carta matita
COME SI FA
Riportate su un foglio la misura della pagina:
e ritagliatelo in modo che risulti un po’ più piccolo della pagina, e con due linguette sporgenti, così:
piegate le linguette, entrambe così:
poi incollate così la linguetta in alto, sulla pagina di sinistra:
tenete premuto bene finchè la colla non è ben asciutta:
poi incollate allo stesso modo la linguetta in basso, ma sulla pagina di destra, così:
Ed è fatta!
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Tutorial pop up 5 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figura di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
Tutorial pop up 4 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figura di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
Tutorial pop up 3 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figura di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
Tutorial pop up 2 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figura di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
carta cartamodello, da ingrandire a piacere (se volete) forbici e taglierino matita
COME SI FA
Riportate il modello sulla carta scelta (salvo diversa indicazione, sul diritto) e ritagliate i vari elementi:
Tagliate lungo le linee continue presenti nel modello:
Procedete con le piegature “a monte” e “a valle” come indicato nel modello; si tratta di uno dei meccanismi pop up più semplici, si tratta solo di prestare attenzione alle piegature. Per prima cosa fare quelle a monte, sul diritto del foglio, così:
poi procedete con quelle “a valle” (se le fate sul rovescio del foglio il lavoro è molto facilitato):
Ripiegate le pagine per verificare il meccanismo:
Ed è fatta!
Se utilizzate il modello come biglietto d’auguri, potete incollare un secondo foglio sul retro:
Come già detto, tutti i modelli proposti si prestano ad essere decorati ed interpretatati. Qui abbiamo aggiunto strisce di carta che sostengono cuoricini:
E questi erano gli “scarabocchi pop up” presentati qualche tempo fa, realizzati con la stessa tecnica:
Tutorial pop up 1 – modello pdf scaricabile e stampabile gratuitamente e istruzioni per realizzare pagine pop up coi bambini. Si tratta delle figure di base, da personalizzare a piacere aggiungendo elementi e decorazioni.
Per realizzare i modelli io ho usato la nostra carta marmorizzata, ma per tutti i pop up la carta migliore è il cartoncino lucido, che è resistente e scivola bene.
In un castello situato su un’altura abitava un re. Da lassù egli poteva rivolgere lo sguardo lontano e vedere tutta la terra. Il re aveva un figlio, che ogni giorno se ne stava per lunghissimo tempo alla finestre del castello. Che cosa poteva cercare il suo sguardo nelle lontananze del mondo? Cercava gli uomini, e osservava come vivevano, come operavano e come si trovavano nel bisogno. Un giorno disse a suo padre: “Gli uomini soffrono la miseria e la fame, lasciami andare da loro a portare del pane”.
Il re, che amava molto il proprio figlio, gli diede la sua benedizione per il lungo viaggio. Il figlio si spogliò dei suoi abiti regali, indossò tunica e scarpe da viaggio, prese con sè la bisaccia con il pane e si pose il cappello sul capo. Poi si mise in viaggio. Il cammino era arduo, ma il figlio del re non si concesse riposo: pensava solo alla miseria degli uomini e voleva giungere da loro il più presto possibile.
Finalmente arrivò alle case dove abitavano gli uomini. Bussò subito alla prima casa, ma la porta era chiusa a chiave. Guardò attraverso la finestra. Dentro sedeva un uomo, il capo tra le mani, e si poteva udire come si lamentava della sua triste povertà. Il figlio del re diede qualche colpetto al vetro della finestra e gridò: “Aprimi, io voglio aiutarti!”. Ma l’uomo non sollevò nemmeno lo sguardo e continuò a lamentarsi dicendo: “Nessuno mi potrà aiutare…” La porta rimase chiusa e il figlio del re dovette proseguire.
Anche alla casa seguente la porta era chiusa a chiave. Attraverso la finestra potè vedere una donna che con zelo stirava la sua biancheria. “Aprimi!”, gridò il figlio del re “C’è un ospite qui fuori che vuole farti visita…” Ma la donna aumentò ancora di più il suo zelo e gridò: “Non mi serve alcun ospite, io devo sempre e solo lavorare per poter nutrire i miei bambini!”. E la porta rimase chiusa.
Il figlio del re andò così bussando di casa in casa, ma ovunque trovò porte chiuse. Alla fine giunse ad una casupola, che era la più povera di tutte. Gli abitava Gianni, lo spaccalegna, con sua moglie. Aveva già visto il viandante che scendeva lungo la via e disse a sua moglie: “Si sta facendo notte, vogliamo dargli rifugio?”. La donna era d’accordo, ed entrambi si affacciarono sulla porta. Salutarono il viandante e lo invitarono a passare la notte con loro.
Il viandante entrò volentieri nella casupola. La donna gli offrì il posto a tavola, lo spaccalegna gli si sedette accanto, mentre la moglie preparava la cena. “Per fortuna abbiamo ancora una piccola crosta di pane”, mormorò tra sè la donna “e la nostra cara capra che ci dà il latte, così posso cuocere una zuppa…” Spezzettò il pane nella pentola, vi mise un pizzico di sale, vi versò un po’ di acqua bollente e poi il latte. “Ecco” disse all’ospite, mentre posava la pentola da cui usciva un caldo vapore “questa zuppa calda vi farà bene, dopo il lungo viaggio”.
Si sedettero insieme e gustarono con gioia la calda zuppa. Lo spaccalegna era così povero che nella sua casupola aveva solo un letto per sua moglie. Per se stesso aveva un pagliericcio. Durante la cena la donna pensò tra sè: “Il viandante sarà stanco, gli voglio offrire il mio letto, così che possa stare al caldo e riposarsi…”. “Qui” disse all’ospite, dopo che ebbero terminato di mangiare, e mostrò l’angolo dove era situato il letto “è il vostro giaciglio per la notte”.
Allo spaccalegna piacque che la moglie offrisse il suo letto al viandante. Prese dallo stanzino ancora della paglia per un altro letto, augurarono insieme al viandante la buonanotte e anche loro si coricarono. Al mattino la donna si alzò di buonora. Voleva mungere la sua capra prima che l’ospite si svegliasse, poichè quel latte era l’unica cosa che poteva offrirgli per colazione. L’ultimo tozzo di pane l’aveva già usato per la zuppa la sera prima.
Presto l’intera capanna fu desta. La moglie dello spaccalegna posò la brocca del latte sulla tavola e disse un po’ rattristata: “Purtroppo questo è tutto quanto vi posso offrire per colazione: non abbiamo nemmeno più un pezzettino di pane per voi”. Allora il viandante aprì la sua bisaccia e posò sulla tavola un intero pane. Fu una gioia, e per lo spaccalegna e sua moglie fu come se non avessero mai mangiato un pane così buono. Il viandante ringraziò per l’ospitalità e proseguì il suo cammino.
Il pane però lo lasciò sulla tavola, per lo spaccalegna e sua moglie. Così lo spaccalegna potè prenderne con sè un grosso pezzo quando andò nel bosco a lavorare. Anche la donna se ne tagliò un altro pezzettino e fece ancora un piccolo spuntino prima di riporlo nella madia. Quel pane era proprio una bontà. Ad un tratto sentì un bambino piangere là fuori. Il bambino aveva fame e non aveva niente da mangiare. Allora la moglie dello spaccalegna gli portò un pezzo del suo buon pane. Il bambino tornò presto felice e ne avanzò un pezzetto per il suo fratellino, che era con lui. Sulla via c’erano altri bambini e tutti vollero un po’ di quel pane che la moglie dello spaccalegna aveva dato al primo bambino, poichè affamati lo erano tutti quanti.
La moglie dello spaccalegna vide dalla finestra ciò che stava accadendo là fuori. Chiamò i bambini e con il suo grosso coltello tagliò una fetta di pane dopo l’altra e le distribuì. E sempre più bambini entravano nella casetta, e ognuno ne voleva un pezzetto. La moglie dello spaccalegna sorrise e disse: “Vedo già che mi toccherà affettare tutto il pane!” Ma che meraviglia fu quando si accorse che, nonostante continuasse ad affettare il pane, questo tornava intero! Presto tutti i bambini corsero fuori, gustandosi il loro pezzo di pane. La gente chiese loro da chi lo avessero avuto.
“Cosa? Dalla moglie dello spaccalegna? Ma non è possibile! Non hanno da mangiare neppure per loro stessi!”. Erano tutti curiosi, molto curiosi, e corsero dalla donna per farsi raccontare da chi avesse avuto tutto quel pane. La donna raccontò del viandante che avevano ospitato e che prima di partire aveva donato loro il pane. Nella casa dello spaccalegna, da allora in poi, non ci fu più miseria. C’era sempre pane a sufficienza; così anche la gente del paese poteva averne, quando rimaneva senza.
Adattamento da un racconto natalizio in uso nella scuola Waldorf, autore ignoto.
Fare libri con i bambini – LIBRO SPAZIALE. Si tratta di un libretto nato come regalo per il compleanno del papà, ma che si basa sull’interpretazione delle macchie e dei colori della carta marmorizzata fatta nei giorni precedenti.
Trovi il tutorial per fare la carta marmorizzata qui:
carta marmorizzata matite colorate forbici colla da carta una ciotolina per disegnare i cerchi carta azzurra, blu o nera
Fare libri con i bambini – LIBRO SPAZIALE
COME SI FA
Sfogliando la nostra carta marmorizzata, troviamo quelle macchie e quei colori che secondo il bambino rappresentano o ricordano uno stato d’animo o un particolare di una persona, o una cosa che piace alla persona (nel nostro caso al papà) e via via scriviamo sul retro del foglio un appunto, per non dimenticare.
Fatta la scelta della carta, ritagliamo i vari pianeti, e dei pianeti più piccoli per la copertina e le decorazioni delle pagine:
A questo punto possiamo incollare i pianeti sulle pagine:
e riportare sotto ad ogni pianeta il nome scelto dal bambino:
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
CARTA MARMORIZZATA tutorial per realizzarla facilmente coi bambini. E’ una classica attività manuale, semplice e di grande effetto. La carta ottenuta si presta a vari utilizzi, soprattutto perchè oltre al grande impatto decorativo, questa carta assume la robustezza della carta oleata. Particolarmente interessante è, coi bambini anche piccoli, giocare a interpretare le macchie.
Coi bambini più grandi possiamo parlare di peso specifico per spiegare come si crea l’effetto marmorizzato sulla carta: l’olio è più leggero dell’acqua; inoltre mentre il colore è solubile con l’essenza di trementina e con l’olio di semi, è insolubile in acqua.
Dopo aver realizzato i primi fogli, si apre la sperimentazione: è molto interessante verificare come i differenti colori si accostano tra loro, e come, in una certa misura, è possibile dominare la casualità con la quale le macchie si imprimono sulla carta, sia creando una certa tavolozza galleggiante prima di appoggiare il foglio, sia muovendo le macchie creando vortici, zig zag, ecc…
colori ad olio essenza di trementina eventualmente olio di semi contenitori di vetro o anche coperchi di vasetti pennelli o bastoncini ovattati (cotton fioc) una bacinella con acqua fogli di carta, di vario tipo (possiamo usare carta da stampante, da acquarello, carta da disegno, ecc… a seconda della qualità della carta, l’effetto finale può variare.
CARTA MARMORIZZATA tutorial – COME SI FA
Per prima cosa prepariamo i colori, diluendoli con l’essenza di trementina. Potete sperimentare vari tipi di diluizione a seconda dell’effetto che preferite. Potete anche provare ad aggiungere ai colori, oltre all’essenza di trementina, anche dell’olio di semi.
Allestiamo quindi il tavolino in modo tale che il bambino sia autonomo nel prendere i colori che preferisce e, quando lo desidera, i fogli di carta. Per i bambini più piccoli è meglio non usare fogli troppo grandi (ad esempio io ho diviso a metà dei fogli A4 sia da stampante, sia da pittura):
Utilizzando i bastoncini cotonati, il bambino comincia a schizzare le macchie di colore sull’acqua:
Quando lo desidera, posa il foglio di carta sulla superficie dell’acqua:
e quando il foglio è bagnato lo estrae:
Il foglio avrà catturato tutte le macchie:
Ed è pronto per essere steso ad asciugare:
Questo è il risultato, una volta asciutto:
Dopo varie esperienze, si può giocare a creare effetti diversi:
Dopo aver schizzato il colore nell’acqua, il bambino può provare a muovere il colore con un bastoncino cotonato:
quindi immergere il foglio:
Questo è il risultato una volta asciugato:
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
MARBLED PAPER tutorial to achieve it easily with the children. It is a classic manual activity, simple and highly effective.
The paper obtained lends itself to various uses, mainly because besides the great decorative impact, this paper assumes the robustness of greaseproof paper.
Is particularly interesting, with even small children, play to interpret stains.
With the older children we can speak of specific gravity to explain how you create the marbled effect on the paper: the oil is lighter than water, and the color is also soluble in turpentine and oil seeds , is insoluble in water.
After scoring the first sheet, opens the experimentation: it is very interesting to see how the different colors are combined with each other, and how, to a certain extent, it is possible to dominate the randomness with which the spots are printed on paper, or by creating some floating palette before placing the sheet, either by moving the spots, creating swirls, zig zag, etc…
MARBLED PAPER tutorial – ATERIALS REQUIRED
oil colors
turpentine
possibly seed oil
glass containers or lids of jars
brushes or cotton sticks
a tray with water
sheets of paper, of various types (we can use printer paper, for watercolor, drawing paper, etc … depending on the quality of the paper, the final effect may vary).
MARBLED PAPER tutorial – HOW TO DO
First prepare the colors, diluting with turpentine. You can experiment with different types of dilution depending on the effect you want. You can also try adding to the colors, as well as the essence of turpentine, even seed oil.
Then we set up the table in such a way that the child is autonomous in taking the colors that he prefers and, when he wishes, the sheets of paper. For younger children it is best not to use too large sheets (for example, I divided in half sheets A4):
Using cotton sticks, the child begins to squirt the spots of color on the water:
When he wishes, he puts the sheet of paper on the surface of the water:
and when the paper is wet, he takes it out:
The sheet will have captured all of the spots:
And it is ready to be hung out to dry:
This is the result, when dry:
After several experiences, you can play in creating different effects:
After the color splashed in the water, the child may try to move the color with a cotton swab:
then soak the paper:
This is the result after dried:
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
MARBLED PAPER tutorial to achieve it easily with the children. It is a classic manual activity, simple and highly effective.
The paper obtained lends itself to various uses, mainly because besides the great decorative impact, this paper assumes the robustness of greaseproof paper.
Is particularly interesting, with even small children, play to interpret stains.
With the older children we can speak of specific gravity to explain how you create the marbled effect on the paper: the oil is lighter than water, and the color is also soluble in turpentine and oil seeds , is insoluble in water.
After scoring the first sheet, opens the experimentation: it is very interesting to see how the different colors are combined with each other, and how, to a certain extent, it is possible to dominate the randomness with which the spots are printed on paper, or by creating some floating palette before placing the sheet, either by moving the spots, creating swirls, zig zag, etc…
MARBLED PAPER tutorial – ATERIALS REQUIRED
oil colors
turpentine
possibly seed oil
glass containers or lids of jars
brushes or cotton sticks
a tray with water
sheets of paper, of various types (we can use printer paper, for watercolor, drawing paper, etc … depending on the quality of the paper, the final effect may vary).
MARBLED PAPER tutorial – HOW TO DO
First prepare the colors, diluting with turpentine. You can experiment with different types of dilution depending on the effect you want. You can also try adding to the colors, as well as the essence of turpentine, even seed oil.
Then we set up the table in such a way that the child is autonomous in taking the colors that he prefers and, when he wishes, the sheets of paper. For younger children it is best not to use too large sheets (for example, I divided in half sheets A4):
Using cotton sticks, the child begins to squirt the spots of color on the water:
When he wishes, he puts the sheet of paper on the surface of the water:
and when the paper is wet, he takes it out:
The sheet will have captured all of the spots:
And it is ready to be hung out to dry:
This is the result, when dry:
After several experiences, you can play in creating different effects:
After the color splashed in the water, the child may try to move the color with a cotton swab:
RECITA NATALIZIA musicata con parti cantate e parti per flauto dolce, adatta a bambini della scuola primaria e, solo col canto, anche per la scuola d’infanzia. In uso nella scuola Waldorf, di autore ignoto.
Testo della prima parte cantata:
Sulle stelle sopra il sole va con passo lieve Maria prende per il suo piccino oro puro e calda armonia. Dalle stelle il coro guarda la Madonna mentre va, ciò che essa ha preparato al divino suo bambin. Chiama il sole per filare al suo bimbo un abito d’or e per lui chiede alla luna tanta gioia e immenso amor. La circodan le stelline come chiara aureola, l’accompagna per il cielo finchè a terra lei giungerà.
Maria: Dopo tanto peregrinare siamo stanchi Giuseppe, mio sposo. Chiediamo a quel casolare un letto per il nostro riposo.
Giuseppe: Quel taverniere conosco bene, senz’altro ci aiuterà. Solleveremo le nostre pene con la sua dolce carità.
Testo della seconda parte cantata:
Giuseppe: Bussa bussa, facci entrar. Taverniere: La casa è piena dovete andar. Giuseppe: Bussa bussa, non ci lasciar. Taverniere: Nella stalla vi posso ospitar.
Taverniere: Nella casa non potete restare, dentro la stalla dovete andare, con il bue e l’asino a riposare.
Testo della terza parte cantata:
Guarda guarda nella stalla nella greppia c’è un bambino. Una stella luminosa illumina il firmamento. Oh! Dolce tenera notte portato ha l’angelo un bimbo. Tutti gli uomini l’adoreranno gli animali lo rispetteranno ed i fiori gli si inchineranno, tutte le pietre umilmente ai suoi piedi, tutti gli esseri lo serviranno Cherubini e Serafini.
Maria: Un ciuffo di fieno, Giuseppe, prendiamo, ed al bambino un letto facciamo.
Bue ed asinello: Questo povero bambino sulla greppia tanto dura, riscaldiamo i suoi piedini con il fiato addirittura. Ih oh, ih oh. Muh, muh.
Testo della quarta parte cantata:
Tre angeli vengon volando il primo porge una fiamma tre angeli vengon cantando s’inchina un altro alla mamma tre angeli vengon cantando il terzo suona la nanna e canta tutti Osanna in cor.
Primo pastore: Brr, l’aria è gelata, questa pelliccia prendi.
Secondo pastore: Fratello, le pecore stringi, stiamo all’erta in questa nottata.
Testo della quinta parte cantata: Corri agnellin sul monte vicin su presto presto corri agnellin. Suona agnellin col tuo campanellin e suona suona suona agnellin. Dormi agnellin così piccolin su dormi dormi ti siamo vicin.
Parlano i pastori: Ehi, Tonio, hai sento l’angel che dal cielo è venuto? Da lui abbiamo saputo che a Betlemme dobbiamo andare il nuovo nato ad adorare.
I pastori suonano il flauto mentre si incamminano verso la stalla:
Recita natalizia IL PASTORELLO per bambini della scuola primaria. Testo in rima, in uso nelle scuole steineriane, di autore ignoto.
Personaggi: Maria Giuseppe primo bambino secondo bambino terzo bambino coro di bambini pastorello primo pastore secondo pastore terzo pastore coro di pastori un angelo re magi narratore
Maria (entra sorridendo): Ecco fatto: accudito è l’asinello con le pecore e l’agnello l’orto è stato ben curato ed il pranzo preparato. Or mi posso riposare e quest’aria respirare dove splende il caro sole che rallegra tutti in cuore. Cantan lieti gli uccellini dolci lodi sì piccini al buon Dio loro createre e con loro voglio gioire ringraziare il buon Signore dei suoi doni a non finire.
Primo bambino (entra e si rivolge agli altri bambini, ancora dietro le quinte): Su guardate, c’è Maria, ma sbrigatevi suvvia la dobbiamo salutare e con lei possiam giocare.
Maria (rivolgendosi al gruppo di bambini che entra in scena): O piccini, su venite e con me lieti gioite di quest’aria sì serena che cancella ogni pena.
Coro di bambini Salve, dolce e bella Maria, gioca un po’ con noi, suvvia
Maria Su prendiamoci per mano e un girotondo cominciamo.
Pendendosi le mani, Maria e i bambini fanno un girotondo cantando: Girotondo girotondo com’è bello questo mondo, gli facciamo un bell’inchino e poi alziamoci pianino ci stringiamo sul suo cuore poi ci apriamo come un fiore. Innalziam le mani al sole che scaldarci sempre vuole e abbracciamo bene il mondo tutto quanto tondo tondo. Salutiamo poi ogni cosa che la vita fa gioiosa. Riprendiamoci la mano stanchi a terra ci sediamo.
Pastorello (entra, camminando lento e triste con una gamba dura)
Maria Ma chi è mai questo bambino che cammina a capo chino ed avanza triste e solo procurandomi gran duolo?
Secondo bambino Lascia perdere, è lo storpio tanto lui non può giocare.
Terzo bambino Ma non vedi che è uno sgorbio? Non può correr nè saltare.
Maria (alzandosi) Ma che dite? Che parole mai pronuncia il vostro cuore? (al pastorello) Caro bimbo, mio piccino, vieni qui a noi vicino perchè solo te ne vai ed insieme a noi non stai?
Pastorello (dolce e triste) Io non posso mai giocare devo andare a lavorare: son pastore e sono zoppo qui da voi sarei di troppo.
Maria Caro mio bel pastorello guarda il cielo com’è bello tu ben lieto devi stare per le pecore guardare, così tenere e mansuete offron tanta pace e quiete.
Pastorello Ven ben che splende il sole e per lui è tutto il mio cuore e son lieto di guardare le mie pecore brucare, ma fatica la mia gamba e da soli ci si stanca: son sì brutto che nessuno mi vuol bene e con me sta.
Maria Cosa dici? Lassù uno il suo cuore a tutti dà. Guarda questo fiorellino non ti sembra sì piccino? Eppur Dio l’ha sì adornato che rallegra tutto il prato. Sii ben certo che anche tu sei amato da lassù. Lieto l’animo apri al mondo e lui saprà farti giocondo, perchè ognuno ha sue qualità sian le tue dolcezza e bontà. Io ti dono questo fiore che saprà scaldarti il cuore e voi bimbi ora andate e il pastore accompagnate.
Bambini (si alzano e prendono il pastorello per mano) Certo Maria, come vuoi tu, non resterà solo mai più.
Pastorello Grazie, non so che altro dire per il tuo dolce cuor riverire.
Maria Solo in un modo mi puoi ringraziare loda il Signore e non fare mai male. Ora vai, bimbo, felice al lavoro e sii nell’anima assai fiducioso perchè in terra non s’è mai vista cosa gioiosa o che sembri trista che non risponda alle leggi d’amore del nostro sommo divino Signore.
I bambini escono e Maria resta in piedi al centro della scena. Entra l’angelo con un giglio bianco in mano, e si inginocchia davanti a lei. Angelo O piena di grazie, a te m’inchino
Maria Chi mai spendente più chiaro fino ai piedi si china di un’umile fanciulla?
Angelo E’ il messaggero di Dio, Gabriele, che porta a te l’annuncio che in culla presto un bimbo avvolgerai in tele.
Maria (si inginocchia umilmente) Sono io che davanti a te mi inginocchio e a terra volgo l’indegno mio occhio ma perdona il mio ardire se chiedo come un figlio può avere chi marito non tiene?
Angelo Tu concepirai da Dio l’unico suo figlio dall’anima più pura di un candido giglio (offre a Maria il fiore) di voi tutti redentore sarà il re dell’amore e si chiede di lassù che il suo nome sia Gesù.
Maria Umile ancella mi piego al volere di chi dal sommo del suo potere ha donato a sì piccola serva l’onore di portare in grembo sì nobile fiore.
(Escono di scena, ed entrano i bambini col pastorello)
Primo bambino Orsù giochiamo in questo bel prato e tu non startene lì imbronciato.
Pastorello Ma io con voi non posso giocare qui in disparte lasciatemi stare.
Primo bambino Ma no, troviamo qualcosa che puoi fare anche tu insieme con noi.
Secondo bambino Dicci un po’: che cosa sai fare?
Pastorello Beh, il mio flauto so ben suonare.
Terzo bambino E allora che aspetti ad intonare una melodia per farci cantare?
(Il pastorello suona e i bambini cantano)
Primo bambino Ma sei ben bravo, bravo davvero lo devo dire, sono sincero.
Secondo bambino Fa le tue mani e le tue labbra ciò che non riesce a far la tua gamba.
Pastorello Sì, questo è vero, ma come vorrei corre con voi, amici miei.
Terzo bambino Ma troveremo mille maniere per giocare sempre tutti insieme.
Coro di bambini Or ti aiutiamo le pecore a chiamare così alle stalle le puoi riportare.
(Escono di scena, mentre sullo sfondo entrano Giuseppe e Maria)
Maria Caro Giuseppe, sento che è il tempo che ora si schiuda il mio grembo e mostri sl mondo il frutto soave donato dal cielo a domare ogni male.
Giuseppe Sei sicura Maria che sia proprio l’ora? Un riparo per la notte non abbiamo ancora…
Maria Son certa, Giuseppe, freme la vita che se ne stava prima sopita.
Giuseppe Lì poco più avanti mi pare una grotta darà a noi riparo ora che annotta.
Maria Stammi vicino, marito caro, ora che il bimbo divino verrà trema il mio cuore davanti al sovrano che le mie umili braccia terran. Come potrò esser mai degna di far da madre a chi in cielo regna?
Giuseppe Dolce Maria, non aver paura. l’anima tua è limpida e pura; abbi fiducia nel nostro Signore che al ventre tuo donò il salvatore.
Maria Preghiamo insieme perchè dall’alto scenda su noi fede e coraggio.
Maria e Giuseppe (si inginocchiano) Sudditi noi c’inchiniamo obbedienti che tu c’invii gioie oppur stenti sia fatta comunque la tua volontà che muove sempre da immensa bontà.
Si alzano ed entrano nella grotta (dei teli in un angolo che si richiudono su di loro). Dei pastori stanno seduti al centro della scena, e accendono un fuoco. Il pastorello sta sa un lato.
Pastorello Che strana notte, strana davvero, nell’aria si sente pungere il gelo eppure dolce scende un tepore che dona al sangue nuovo vigore e nella pace di questo momento sembra che tutto sia in pieno fermento.
Primo pastore (arrogante) Ehi, tu, pastorello, smetti di sognare non startene bel bello datti un po’ da fare: porta un po’ di legna che il fuoco non si spenga cerca almeno di far presto la tua gamba muovi lesto!
Compare in cielo la cometa, mentre il pastorello si alza. Pastorello Ma cosa succede, guardate lassù che splendida stella squarcia il cielo blu!
Secondo pastore (spaventato) Il ragazzo ha ragione, che mai sarà? La fine del mondo presto verrà!
Coro di pastori (terrorizzati) Su presto, di corsa, fuggiamo, fuggiamo, il più possibile lontano andiamo!
Pastorello Ma dove andate? Allor non udite? Il canto sublime voi non sentite?
Terzo pastore Saranno i diavoli che vengono in branchi via, prima che tutta la terra si squarci!
Pastorello Ma insomma, che cosa mai temete, non sentite com’è dolce questa quiete? Se qualcuno dovesse mai apparire sarà un angelo splendido oltre ogni dire.
Angelo Bene hai parlato, fanciullo caro, il tuo cuore vede assai chiaro, é questa una notte davvero speciale che fa dileguare le tenebre e il male. A voi pastori voglio annunciare la nascita in terra del vostro messia correte in fretta ad adorare il bimbo Gesù nato a Maria.
Narratore Nell’auro ricamo di stelle un cielo di mille fiammelle è apparsa la luce d’oriente che annuncia del bimbo incantato l’arrivo nel mondo stregato.
Intanto i pastori sono usciti seguendo l’angelo. Resta in scena il pastorello. Pastorello Ecco, l’angelo d’oro è sparito e i pastori gli hanno obbedito: sono corsi a riverire il bambino e in lui gioire. Ma come posso fare io con lo zoppicare mio da Maria ad arrivare e suo figlio anch’io osannare? Lento e storto io cammino troppo tardi arriverò e così io mai, tapino, il piccino adorerò. (Cammina lentamente) Lungo e duro è il sentire non ce la farò davvero. Ma un modo ci sarà perchè giunga anch’io fin là! (Appare l’angelo alle sue spalle. Al un certo punto il pastorello si ferma.) Certo è vero, un modo c’è perchè anch’io lodi il mio re: se le gambe mie van zoppe non del flauto le sue note danzeranno lor nel vento a festeggiare il lieto evento e alle orecchie di Maria porteran la mia poesia. (Prende il flauto e suona. Si illumina la stalla ancora chiusa.) Ma che succede, vedo un chiarore che accende il me un nuovo ardore odo una voce che forte mi chiama sono sicuro, è qualcuno che mi ama!
Angelo (mostrandosi) Certo, hai ragione, tenero bimbo, ora hai finito di viver nel limbo riconosciuta hai la voce d’amore che parla a chi ode il canto del cuore. Corri, che aspetti, non puoi più tardare, dal tuo signore ti vuoi inginocchiare?
Pastorello Come vorrei poter volare ed al mio re tutto donare, ma non ho altro che un piede storto che ne farà mai di un povero storpio?
Angelo Abbi fiducia, mio pastorello, non potrai fargli dono più bello della tua anima limpida e chiara che il signore così tanto ama.
L’angelo lo spinge dolcemente, e intanto si aprono i teli della grotta e la scena illumina la sacra famiglia con i Re e i pastori in adorazione.
Pastorello Ma che succede? Che cosa mi accade? Quasi mi sembra di poter volare! (Riesce a camminare bene e veloce). Ecco li vedo, splendon di sole ed è sì piccino il mio signore. Nato in un’umile e fredda stalla è lì deposto tra povera paglia.
Narratore Osanna dal fondo dei cuori di bimbi di re e di pastori che giungono qui a riverire tra la paglia di un caldo fienile il balsamo di tutti i mali donato dal cielo agli umani.
Pastorello Tutti si chinano innanzi a loro pastori e re con le corone d’oro. Sol presuntuoso un pastorello se ne sta ritto come alberello?
Angelo (spingendolo dolcemente verso terra) Su, piega il ginocchio dinnanzi al re che è sceso qui in terra anche per te.
Pastorello (inginocchiandosi) Ma mi posso inginocchiare!
Angelo Vedi come ti sorride è contento il buon Gesù; ora cosa gli vuoi offrire fagli un dono pure tu
Pastorello Al suo sguardo pien d’amore il mio corpo è un tremore ma di gioia e libertà chiedo sol la sua maestà. Da donare ho sol me stesso e mi offro tutto adesso d’ora in poi lui soltanto sarà re di me piccino e protetto dal suo manto sarà dritto il mio cammino: il vero sempre seguirò e della vita sol gioirò. Solo questo ho da donare che mi diede un dì tua madre (tira fuori il fiorellino) Sempre splende di sua vita la corolla colorita. (posa il fiorellino davanti a Gesù bambino).
Maria Gioisce il mio figliolo ti ringrazia del tuo dono ma tutti i giorni gli hai donato ciò che hai fatto di tua vita e la voce del tuo flauto fino in cielo si è sentita.
Angelo Ognuno offre quello che ha: pace in terra, gioia in cielo che dischiude il suo velo a chi ha buona volontà.
Narratore Avvolto da cori celesti coperto di umili vesti è apparso nel mondo un piccino che cela un mistero divino: del sole lui reca la luce e il calore che al vero conduce. Esulta gioioso ogni cuore è nato il re dell’amore.
(Recita in uso nelle scuole steineriane, autore ignoto).
MARI ITALIANI materiale didattico di autori vari per la scuola primaria.
Facciamo un viaggio per mare, imbarcandoci con la fantasia, su uno di quei pescherecci che vanno al lago a pescare sogliole e muggini, oppure su una nave da diporto che ci porterà in crociera toccando i porti più notevoli dei nostri mari, costeggiando le rive, godendo dei pittoreschi paesaggi delle nostre coste. Il mare dove l’Italia si stende è uno solo, il mar Mediterraneo, che i Romani chiamavano orgogliosamente Mare nostro. Ora non è più tutto nostro; nostri, cioè italiani, sono i mari che il Mediterraneo forma quando arriva a bagnare le coste della penisola. Si chiamano Mar Ligure, Mar Tirreno, Mar Ionio, Mare Adriatico. Il mar Ionio è il più profondo, il mar Adriatico il meno profondo ma in compenso il più pescoso. I pesci amano i fondali relativamente bassi dove trovano in abbondanza di che soddisfare il loro appetito. Se è vero che il pesce grosso mangia il piccolo, come dice il proverbio, è anche vero che tutti i pesci si nutrono del plancton che è composto da minutissime alghe e microscopici animaletti che vi dimorano. Quindi se vogliamo fare una partita di pesca sceglieremo l’Adriatico
Il Mar Ligure e il Mar Terreno Il Mar Ligure non è molto esteso. Prende questo nome dalla bellissima regione che esso bagna, una delle più pittoresche d’Italia. Palme, aranci, olivi, un cielo quasi sempre azzurro, un clima mite, un mare stupendo; ecco ciò che si presenta gli occhi di coloro che visitano questa meravigliosa regione. Nel cuore di tutta questa bellezza c’è Genova, la superba, coi suoi cantieri sonanti, i suoi traffici intensi, aerei oltre che marittimi, il suo popolo fiero, laborioso, generoso. Genova sorge in fondo a un grande golfo che ne prende il nome. Appena usciti dal golfo di Genova, ecco, in una profonda insenatura, una città che sembra fatta di ferro, un porto popolato anch’esso di navi di ferro, su cui il profilo dei cannoni mette un’ombra minacciosa. E’ La Spezia, uno dei maggiori porti militari d’Italia, una città forte, severa, risonante di lavoro e di fabbriche di armi. Dopo La Spezia, la costa si fa bassa, sabbiosa. E’ l’incantevole spiaggia toscana dove sorgono graziosissime cittadine balneari. Non vi si trovano grandi porti, eccettuato quello di Livorno, anch’esso risonante di lavoro perchè nel suo cantiere si costruiscono belle navi da carico e da trasporto. I costruttori livornesi sono conosciuti anche all’estero. Ed ecco in lontananza elevate ciminiere da cui escono nuvole di fumo denso e nero. Sono gli altiforni di Piombino, dove si lavora il ferro ricavato dalla vicina Isola d’Elba, il cui profilo si scorge all’orizzonte. Proseguendo nel nostro viaggio, dopo la costa toscana, superato appena il pittoresco promontorio dell’Argentario, ecco la costa laziale, un tempo brulla, malsana e infestata dalla malaria. E’ l’Agro romano, che oggi, per opera dell’uomo, è diventato una terra fertile, verdeggiante, salubre… Qui sfocia lento, torbido, solenne, il Tevere, il fiume di Roma, spettatore di tanta storia. Il fantasioso viaggio continua e ben presto lo sguardo si rallegra soffermandosi su una costa verde, coperta di una lussureggiante vegetazione fatta di olivi, viti, aranci. E’ la costa campana. Incontriamo prima Gaeta col suo piccolo ma delizioso golfo, e infine l’ampia insenatura in fondo alla quale sorge Napoli, dove cielo e mare sono inverosimilmente azzurri, dove la gente lavora lieta nel dolcissimo clima che dà ricchi prodotti e una terra fertile, ai piedi del Vesuvio.
Le isole del Mar Tirreno Le isole maggiori sono la Sicilia, isola ricca di agrumi, sulla quale si leva il vulcano più alto d’Europa, l’Etna; la Sardegna, bellissima nel suo paesaggio rude e roccioso dove esistono ancora i nuraghi, le antiche, misteriose costruzioni di un popolo la cui storia si perde nella notte dei tempi; la Corsica, che appartiene politicamente alla Francia. Non dimenticheremo le isole minori: l’Arcipelago Toscano con l’Isola d’Elba; l’Arcipelago Campano di cui fanno parte le gemme del Tirreno Ischia, Capri, Procida; l’Arcipelago Ponziano di cui l’isola di Ponza è la principale; il gruppo delle isole Eolie o Lipari, in una delle quali sorge lo Stromboli, il terzo vulcano attivo d’Italia. Più a ovest, ecco Ustica e infine il gruppo delle Egadi a ponente della Sicilia. Tra Sicilia ed Africa si trovano le vulcaniche isole Pelagie e l’isola di Pantelleria. Siamo così giunti allo stretto di Messina, un tempo terrore dei naviganti: chi passava lo stretto, correva il rischio, secondo la favola antica, di morire. Due terribili mostri, Scilla e Cariddi, vi facevano la guardia e chi sfuggiva alle insidie di Scilla, cadeva nell’inganno di Cariddi, e chi si salvava da Cariddi, non poteva evitare il tranello di Scilla. Favole. Che però avevano un fondo di verità. Le correnti dello stretto sono così impetuose che le antiche imbarcazioni, poco sicure, naufragavano facilmente; ciò giustificava la mitologica presenza dei due terribili mostri. Oggi lo stretto si attraversa agevolmente con le navi – traghetto, che trasportano treni ed automobili, e con i veloci aliscafi. Ottimi porti si aprono sulla costa tirrenica della Sicilia: Palermo e Trapani.
Il mar Ionio Siamo così giunti al mar Ionio, il più profondo d’Italia. Ampi porti si aprono in questo mare: Messina, Siracusa, Augusta, in Sicilia. Lasciandoci alle spalle l’isola maggiore d’Italia, bordeggeremo lungo il tacco dello stivale, dopo essere entrati nell’ampio golfo di Taranto, dove sorge il più grande porto militare in cui stanno alla fonda le navi da guerra. Al largo incontriamo le imbarcazioni che vanno alla pesca del pesce spada. Queste barche inalberano un lungo palo in cima al quale si aggrappa un uomo salito fin lassù per avvistare, nell’immensità del mare, il guizzare pesante dello squalo che poi sarà trafitto con la fiocina.
Il mar Adriatico Dopo aver superato il tacco dello stivale, e cioè la Penisola Salentina, eccoci nel Mar Adriatico, azzurro, pescoso e amarissimo. E’ infatti il più salato. Sono coste quasi rettilinee, uniformi, dove si trovano i porti di Brindisi, scalo per le navi che vanno in Oriente, Bari, Barletta, tutti ai limiti della fertilissima terra pugliese e il Tavoliere delle Puglie, dove si produce in quantità grano e vino. Lungo la costa ora non si trovano più insenature importanti e quindi non vi sono porti di rilievo, eccettuato quello di Ancona, situato in un gomito della costa stessa (il so nome in greco significa appunto gomito). Incontriamo però buoni porti pescherecci, situati negli estuari dei fiumi. Il principale di questi è San Benedetto del Tronto. Proseguendo oltre Ancona troviamo piccoli porti – canali sui ridenti lidi romagnoli dove si stendono ampie spiagge dalla sabbia dorata, popolate di bagnanti e di turisti; infine Ravenna e la Laguna di Comacchio che si chiama anche valle, ma soltanto in gergo peschereccio, perchè in queste valli non si raccoglie il grano bensì il pesce, di cui si fanno importanti allevamenti. E’ nelle valli di Comacchio che si pescano le saporitissime anguille. Eccoci poi nell’ampio golfo di Venezia. E’ questo un nome che fa sognare italiani e stranieri. E’ una città unica al mondo, costruita su numerose isolette dove, per recarsi da un luogo all’altro, ci si serve di strette vie (le famose calli) o dei numerosi canali solcati da gondole e vaporetti. Una città dove i palazzi di marmo sembrano sorgere dall’acqua, una città che nel passato estendeva i suoi domini fino ai paesi del Mediterraneo orientale. Non immaginavano certo questo splendido destino quei profughi che, per sfuggire all’invasione dei Barbari, andarono a rifugiarsi sulle deserte isole della laguna. Forse, queste popolazioni, in tempi diventati più sicuri, avrebbero abbandonato le loro provvisorie abitazioni, se non avessero trovato, in queste isolette, un tesoro: il sale. Il sale fu la prima moneta di Venezia, e se è vero come si dice che dove si semina sale non nasce più nulla, Venezia smentì clamorosamente questo detto perchè seminò sale e raccolse oro. Il sale, a quei tempi, era molto richiesto, e Venezia lo estrasse dal mare e lo esportò nei paesi dove le sue navi approdavano. Era una ricchezza che costava poco o nulla, e Venezia ne approfittò per aumentare la sua potenza. Siamo quasi alla fine del nostro viaggio. Non mancheremo di fare una visita a Trieste, la città italianissima, sul confine, col suo cantiere fervente di lavoro e col suo porto dove si svolgono traffici intensi.
Mari d’Italia La penisola italiana si spinge nel Mar Mediterraneo dividendolo in due grandi parti: l’orientale e l’occidentale, ed è bagnata da ben sei dei mari minori in cui il Mediterraneo si divide, e cioè: il Mare Ligure, il Mare Tirreno, il Mare di Sardegna, il Mare di Sicilia, il Mare Ionio ed il Mare Adriatico. Il Mediterraneo gode di una temperatura media superficiale di 23° – 24° nel periodo estivo, e di circa 12° nel periodo invernale. Una temperatura davvero mite. Le maree, ovvero il periodico innalzarsi e successivo abbassarsi delle acque, dovuto all’influsso della luna, provocano nel Mediterraneo differenze fra massimo e minimo soltanto di pochi decimetri: ad esempio 36 cm a Napoli e 27 cm a Genova; più accentuata la differenza a Venezia, circa un metro Il Mar Ligure si estende tra le zone settentrionali della Corsica e le coste liguri; è poco pescoso e piuttosto profondo (massima profondità 2800 m). Il Mar Tirreno è compreso fra le tre isole Sicilia, Sardegna e Corsica e la costa occidentale dell’Itala; è abbastanza pescoso e profondo (massima profondità 3700 m); numerose le isole. Il Mar di Sicilia è situato tra le coste africane e quelle meridionali siciliane; è ricco di pesci ma poco profondo (profondità massima 1600 m, in qualche punto). Il Mar di Sardegna è compreso fra la Corsica (Francia), le Baleari (Spagna) e le coste occidentali della Sardegna; è pescoso e profondo (profondità massima 3100 m). Il Mar Ionio si stende tra l’Italia, l’Africa e le coste occidentali della Grecia; è molto profondo ed anche caldo (profondità massima 4400 m). Il Mar Adriatico si allunga fra la Dalmazia e le nostre coste; non è molto profondo e appunto per questo è molto pescoso (massima profondità 1250 m, ma nel Golfo di Venezia non supera i 25 m). E’ il mare più salato.
L’Italia nel Mediterraneo Il Mediterraneo, chiuso fra le terre d’Africa, d’Asia e d’Europa, è ben riparato dai venti freddi del settentrione ed è favorito da un clima, assai dolce in inverno, che fa fiorire sulle sue sponde una ricca vegetazione, varia e sempreverde, d’agrumi e d’olivi, di palme e di cipressi, di lecci e di pini, e di altre piante che nel loro complesso costituiscono insieme la macchia mediterranea. Attratte dal clima e dalla ricchezza della vegetazione, fin dalle epoche più remote, molte genti si stabilirono sulle rive di questo mare il quale, col passare dei secoli, divenne il crocevia e il centro di fusione di molte antiche civiltà. In mezzo al Mar Mediterraneo, sì da dividerlo in due parti quasi uguali, si protende, snella e slanciata, la Penisola Italiana.
Le coste italiane Le coste italiane hanno uno sviluppo complessivo, comprese le isole (ma senza la Corsica) di circa 8000 km. Le coste del Mar Ligure disegnano un grande arco tra Capo Ferrat e Capo Corvo; alte e rocciose, con frequenti scoscesi promontori e minuscole insenature, offrono scorci panoramici vari e pittoreschi. Sulla Riviera di Ponente stanno Savona, Ventimiglia, Varazze, Bordighera, Sanremo, Imperia, Albenga; sulla Riviera di Levante stanno Genova, il nostro maggior porto mercantile; La Spezia, porto militare, il cui golfo è chiuso dalla penisoletta di Porto Venere; Rapallo, Chiavari e Sestri. Le coste del Mar Tirreno si sviluppano da Capo Corvo alla punta del Pezzo, sullo stretto di Messina. Lungo la Toscana, il Lazio e parte della Campania, le coste sono basse, scarse di porti e un tempo orlate di terreni palustri come nelle Maremme e nelle Paludi Pontine, ora quasi completamente bonificate. La maggiore insenatura è il golfo di Gaeta; i promontori più accentuati sono quelli di Piombino, dell’Argentario e del Circeo; Livorno e Civitavecchia i porti più attivi. Nella sua sezione meridionale, lungo la Campania e la Calabria, la costa tirrenica presenta sporgenze e coste alte e rocciose e insenature a fondo piatto. Le sporgenze più pronunciate sono la penisola Sorrentina, il Cilento, la penisoletta del Poro; le maggiori insenature sono i golfi di Napoli, di Salerno, di Policastro, di Santa Eufemia, di Gioia; il porto più attivo è Napoli, seguito a grande distanza dai porti di Torre Annunziata, Castellammare, Salerno. Le coste calabresi non hanno porti. Il Tirreno è il mare italiano più ricco di isole: arcipelago Toscano, isole Pontine, Partenopee, oltre a quelle contermini alla Sicilia e alla Sardegna. Le coste del Mar Ionio, generalmente basse e lisce, si sviluppano dalla punta del Pezzo al Capo di Santa Maria di Leuca; alle foci dei fiumi si hanno tratti di pianure alluvionali. Alcuni erti promontori, tuttavia, si spingono a punta nel mare: Capo delle Armi, Capo Spartivento, la penisoletta di Crotone. Tra le penisole calabrese e salentina si stende il golfo di Taranto; assai più piccolo, a sud, il golfo di Squillace. Rari i porti: Reggio Calabria, Taranto (militare), Crotone e Gallipoli. Le coste italiane del Mar Adriatico si sviluppano dal Capo di Leuca a Trieste. Mentre la costa dalmata è alta e rocciosa, spaccata da profonde insenature, frastagliata da lunghe isole parallele, la costa italiana è unita, bassa (tranne alla Testa del Gargano e al promontorio del Conero). A sud e a nord del Gargano ricorrono tratti paludosi e lagune (laghi di Lesina, di Varano, di Salpi); ma le lagune più importanti sono, come abbiamo detto, quelle della costa veneta. A nord l’Adriatico forma i golfi di Venezia e di Trieste. I porti più importanti, lungo la costa italiana, sono quelli di Brindisi e di Bari in Puglia, di Ancona nelle Marche, di Venezia e di Trieste in Veneto e Friuli.
Dettati ortografici
La vita dell’Italia è sul mare L’Italia deve ricorrere essenzialmente alle vie marittime per assicurare la vita materiale ed economica del suo popolo. L’Italia ha il suo territorio racchiuso nel Mediterraneo. Tutte le sue comunicazioni terrestri debbono attraversare la barriera delle Alpi, come tutte le sue comunicazioni marittime devono passare attraverso gli stretti situati a mille miglia dai nostri porti. Perciò possiamo dire che il mare è la linfa vitale, il sangue dell’Italia.
La pesca dell’Adriatico L’Adriatico, specialmente nella parte superiore, è più pescoso del resto del Mediterraneo. Lo percorrono in buona parte i bragozzi chioggiotti che si tengono, per la pesca, discosti dalle rive. Le barche di altre località, invece, si allontanano poco dalla costa, limitandosi alla pesca con reti fisse, collocate in luoghi adatti e con reti a strascico. D’estate e di primavera, però, si spingono al largo alla pesca delle sardine le quali attraversano date zone in sciami o branchi. (Mottini)
Mari d’Italia Il mar Ionio è il più profondo, il mar Adriatico il più pescoso. I pesci amano i fondali bassi dove trovano in abbondanza di che soddisfare il loro appetito perchè, se è vero che il pesce grosso mangia il piccolo, come dice il proverbio, è anche vero che tutti i pesci si nutrono del plancton, che è composto di minutissime alghe e di microscopici animaletti che fra esse dimorano. E il plancton si trova generalmente nei bassi fondali.
Le coste del Mar Ligure Sulla costa ligure vanno a veleggiare italiani e stranieri, famosa com’è in tutto il mondo, per la bellezza dei paesaggi e la dolcezza del clima. Palme, aranci, olivi, un cielo quasi sempre azzurro, un mare stupendo, delle coste pittoresche, ecco ciò che si presenta all’occhio di chi ha la fortuna di visitare questo bellissimo paese. Nel cuore di tutta questa bellezza sorge Genova, la Superba, coi suoi cantieri sonanti, i suoi traffici intensi, il suo popolo fiero e generoso.
La costa campana Costeggiando l’Italia verso sud, il nostro sguardo si potrà rallegrare soffermandosi su rive verdi, coperte di una lussureggiante vegetazione di olivi, di viti, di aranci. Incontriamo prima Gaeta, nel suo piccolo ma delizioso golfo e infine Napoli, il secondo porto d’Italia, dove il cielo e il mare sono inverosimilmente azzurri, il clima è dolcissimo e la terra fertilissima.
Lo stretto di Messina Una volta la traversata di questo stretto spaventava i navigatori, ma oggi non spaventa più nessuno. Basti dire che si può attraversare senza neppure scendere dal treno. Infatti questo viene istradato su una nave traghetto che compie la traversata, dopo di che il treno riprende la sua strada sull’altra riva. Messina fu distrutta da un tremendo terremoto, ma oggi è risorta più bella e attiva di prima.
I mostri dello stretto Un tempo chi attraversava lo stretto di Messina correva il rischio di sprofondare nel mare, almeno a quanto raccontava la leggenda. Due terribili mostri, Scilla e Cariddi, vi facevano la guardia e chi sfuggiva a Cariddi non poteva evitare Scilla. Leggende, naturalmente, ma che avevano un fondo di verità. Infatti, le correnti dello stretto sono così impetuose e le navi dell’epoca così fragili e malsicure, che i naufragi erano frequentissimi e tali da giustificare la fiabesca esistenza dei due terribili mostri.
Venezia E’ un nome che fa sognare italiani e stranieri. E’ una città unica al mondo, costruita su isolette dove, fatta eccezione per strettissime calli, non ci sono strade per recarsi da un luogo all’altro, bensì canali che bisogna percorrere in gondola o in vaporetto. Una città dove si costruivano stupendi palazzi di marmo quando ancora molte altre avevano capanne di fango; una città che divenne ricca e potente, riuscendo ad estendere il suo dominio fino al lontano oriente.
La cattura del pesce spada Sul mar Ionio si pratica la pesca del pesce spada. Sull’imbarcazione attrezzata per tale impresa, si leva un albero altissimo e un uomo sta lassù, aggrappato in cima all’asta dondolante, per tentare di scorgere, nell’immensità del mare, il guizzare del grosso pesce. Quando viene avvistato, l’imbarcazione tenta di avvicinarsi senza provocarne la fuga. Ed ecco un altro uomo all’opera. Armato di una lunga fiocina, cerca di colpire lo squalo, lanciando l’arma con mano abile e potente. La fiocina è assicurata da una corda e quando il pesce è colpito, non c’è che da tirarlo a bordo, sia pure con grande fatica e talvolta, date le dimensioni, anche con pericolo.
Parla il mare d’Italia Bella Italia, mia regina! Tirreno, Ionio, Adriatico, io non sono che un mare, il tuo mare! Vi fu un tempo che ti custodivo tutta in me: tu sei emersa, ma ancor oggi, nelle pieghe delle tue montagne, custodisci le sabbie e le argille che io vi ho deposto, serbi nelle tue pietre le conchiglie e le alghe di cui ti adornavo. Sei sinuosa di rive, facile agli approdi, dolce di lagune, traboccante di garofani e di rose, bianca di marmi, dorata di biade, fiammeggiante di vulcani, profumata di agrumi! Tutta io t’investo a temperare i freddi venti del settentrione e i brucianti fiati del sud.
Venezia Per sfuggire alle invasioni dei barbari, molti profughi andarono a stabilirsi su alcune isolette che sorgevano sulla laguna. Forse, in seguito, questi profughi avrebbero abbandonato le provvidenziali isolette se non si fossero accorte di avere, a portata di mano, un grande tesoro: il sale. Il sale fu la prima moneta di Venezia e se è vero quanto si dice, che dove si semina sale non nasce più nulla, per Venezia fu tutto il contrario: seminò sale e raccolse oro.
Il mare d’Italia Marinaro è il tuo popolo, Italia, e marinare sono le tue sorti! Sul mare vennero al lido tirreno le navi di Enea, nel mare crollò il potere di Cartagine e sorse l’impero mediterraneo di Roma; sul mare spiegarono le vele e gli stendardi, al traffico e alla guerra, i galeoni di Amalfi, di Gaeta, di Pisa, di Genova e di Venezia che fermarono le flotte turche e barbaresche, e Genova andò superba della propria ricchezza, e Venezia levò palazzi di trine marmoree e chiese dalle cupole d’oro. Sul mare, su tutti i mari, tentando nuovi passaggi, scoprendo isole e continenti, donando terre e imperi a sovrani, navigarono gli arditi marinai del Medioevo, navigarono Cristoforo Colombo, genovese, Giovanni Caboto, veneziano, Amerigo Vespucci, fiorentino, e Antonio Pigafetta che, al servizio del portoghese Magellano, fu il primo italiano a compiere il giro del mondo.
Le coste d’Italia Cinta per gran parte dal mare, l’Italia si allunga in una distesa di svariatissime coste, qua lentamente digradanti con dolce pendio, là scoscese e percosse dalle onde: ora selvose, ora nude, ora coronate di ridenti colline che si protendono in lunghi promontori e capi e file di scogli, o scavate in vasti golfi o porti amplissimi e sicuri contro ogni insidia del mare. Isole e isolette qua e là, in faccia alle spiagge, accrescono varietà e bellezza delle coste italiane.
Il mare Il mare è un immenso serbatoio di vita. Le sue acque contengono il sale, i pesci più svariati, le alghe da cui si ricavano sostanze medicinali e soprattutto assorbono lentamente il calore del sole e lo restituiscono lentamente alla terra. Quindi, mentre la terra rapidamente si riscalda e altrettanto rapidamente si raffredda, il mare ha una temperatura più costante e rende più mite, cioè più dolce, il clima, non solo delle spiagge, ma anche di un largo tratto dell’interno. (P. De Martino)
Mari, coste, pini e sole Tu credi che i mari si assomiglino tutti? Sono tutti fatti d’acqua, con tanta acqua salata… Ma è la luce che li fa diversi. Ci sono i mari del sole e quelli della nebbia, quelli azzurri e quelli grigi. Se tu hai visto qualche volta i mari dell’Europa settentrionale vedrai che il nostro è tanto più azzurro di quelli. Quasi verde l’Adriatico, cerulo lo Ionio, azzurro di cobalto il Mediterraneo, celeste chiarissimo il Tirreno. Attorno a Napoli, a Sorrento, a Procida, a Capri, l’azzurro è luminoso come uno smalto. E, come il colore del mare, varia all’infinito la bellezza delle coste. Siamo sulle rive di una stessa terra, ma la costa della Liguria come fai a confrontarla con quella veneta? E quella toscana con quella di Puglia? Due cose le ritrovi ovunque: i pini e il sole. (O. Vergani)
Mari colorati Talvolta, in prossimità delle coste, la superficie assume un colore giallo sporco per i materiali portati dai grandi fiumi; nelle calde notti estive, i mari tropicali hanno curiosi fenomeni di fosforescenza per l’azione di miliardi di microrganismi che emettono una luce simile a quella delle lucciole. Alcuni mari debbono il loro nome proprio al colore predominante delle acque: come il Mar Rosso, i cui riflessi rossastri sembra siano da attribuire a una grande quantità di alghe di quel colore; o come il Mar Giallo, così chiamato per il limo portato dal fiume Hoang-ho; il Mar Bianco, ovviamente, trae il suo nome dalla presenza dei ghiacci galleggianti sulle sue acque.
La sinfonia marina Arrivava l’onda con una veemenza d’amore o di collera sui massi incrollabili; vi si precipitava rimbombando, vi si dilatava gorgogliando, ne occupava, con la sua liquidità, tutti i meati più segreti. E quasi pareva che un’anima naturale oltresovrana empisse della sua agitazione frenetica uno strumento vasto e molteplice come un organo, passando per tutte le discordanze, toccando tutte le note della gioia e del dolore. Rideva, gemeva, pregava, cantava, accarezzava, singhiozzava, minacciava: ilare, flebile, umile, ironica, lusinghevole, disperata, crudele. Balzava a colmare sulla cima del più alto scoglio una piccola cavità rotonda come una coppa votiva; s’insinuava nella fenditura obliqua dove i molluschi prolificavano; piombava sui folti e molli tappeti di coralline lacerandoli o vi strisciava leggera come una serpe sul musco. (G. D’Annunzio)
A pesca nell’Adriatico Le principali barche da pesca dell’Adriatico sono le paranze e le lancette. Le prime sono di maggior grandezza, pescano sempre accoppiate e non rimangono in mare più di quindici giorni, provvedendo al trasporto del pesce a terra con battelli a vela o a remi. Le lancette sono barche di più piccola dimensione che navigano non discostandosi molto da terra. Lasciano la spiaggia la mattina prima dell’alba e, dopo una giornata di pesca, ritornano a terra, sì che la sera, verso il tramonto, empiono il mare di uno sbandieramento vivace, pittoresco, con la gaiezza delle loro vele scarlatte. (V. Guizzardi)
Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario di autori vari per bambini della scuola primaria.
I conventi Durante e dopo le incursioni dei Barbari, l’Italia offrì un ben triste spettacolo: rovine e stragi, i templi distrutti, i monumenti abbattuti, le opere l’arte e della letteratura abbandonate e neglette. Pareva che la vita non avesse più valore tanto erano ormai diventate realtà di tutti i giorni le morti, le stragi, le violenze. Questo stato di cose favorì lo sviluppo del cristianesimo. Più perdeva valore la vita terrena, più ne acquistava la vita eterna. Fu così che alcuni uomini si ritirarono in luoghi deserti, preferibilmente sulla sommità di alte montagne, per dedicarsi esclusivamente alla preghiera in solitudine. Questi uomini furono chiamati eremiti ed erano tenuti in grande considerazione. In seguito, questi religiosi si riunirono a far vita comune, dedicata esclusivamente a Dio e alle opere di bene. Sorsero così i conventi. Il convento più famoso, fondato in quell’epoca, fu quello di Cassino, sorto per opera di San Benedetto.
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – San Benedetto San Benedetto era nato a Norcia, paese dell’Umbria, da nobile famiglia. Fin da giovanetto aveva sentito l’attrazione per la vita eremitica e abbandonata la sua casa si era ritirato a vivere in una grotta, tra i monti di Subiaco e vi stette tre anni. La fama della sua santità si sparse dovunque e alcuni eremiti gli chiesero di far vita comune con lui. Sorse così un convento. Benedetto dettò la regola che fu però diversa dalle regole che governavano altri conventi. Infatti, mentre in questi si osservava soltanto l’obbligo della preghiera, a Montecassino i monaci dovevano anche lavorare. Anche il lavoro è preghiera, se dedicato a Dio. “Ora et labora” fu la regola dei monaci benedettini, i quali si dedicavano alle opere sia intellettuali che manuali. Chi si dedicava allo studio, alla salvaguardia dei vecchi codici e alla miniatura dei codici nuovi, chi zappava la terra, allevava le api, costruiva abitazioni. A causa dell’avvilimento a cui li avevano costretti le invasioni e le distruzioni dei barbari, gli uomini non pensavano più ai valori spirituali della vita, alle arti, alle belle scuole, alle opere letterarie scritte nelle età antiche, ai poemi, alle sculture. Fu per merito dei conventi e dei monaci in essi ospitati, se molte di queste opere furono salvate. I religiosi raccolsero gli antichi manoscritti, quando erano rovinati li ricopiarono pazientemente, li studiarono, li commentarono. Fu merito dei conventi se le opere di molti scrittori e poeti dell’antichità poterono giungere fino a noi. Ma l’opera dei monaci non si fermò qui. La miseria della popolazione era tanta e i conventi raccolsero i poveri, i derelitti, i perseguitati. Chiunque veniva accolto in un convento, centro di lavoro agricolo e artigiano oltre che di preghiera, era al sicuro dalla fame e dalle vendette dei nemici. Sorsero così nell’interno dei conventi ospedali, scuole, laboratori, opere di pietà e di assistenza. Tutti quelli che chiedevano asilo venivano accolti e confortati.
Notizie da ricordare Nel Medioevo si costituirono per la prima volta i conventi, luoghi dove si raccoglievano uomini votati esclusivamente a Dio. Il convento più famoso fu quello di Montecassino, fondato da San Benedetto. L’ordine benedettino aveva per regola il motto “ora et labora”, cioè prega e lavora. In questi conventi furono raccolti e restaurati preziosi libri manoscritti dell’antichità che furono così salvati dalla distruzione e dalla dispersione. Intorno ai conventi sorsero scuole, ospedali, laboratori, opere di pietà e di assistenza. Chiunque si rifugiava nel convento aveva diritto di asilo ed era al sicuro dalla vendetta dei nemici.
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – Questionario Come e perchè sorsero i conventi? Quali opere fecero i monaci? Perchè si dice che i conventi salvarono la cultura? Chi era San Benedetto? Quale regola dette ai monaci?
La vita nei conventi Ogni monastero, chiuso da un muro di cinta, era come una grande fattoria e provvedeva a tutti i suoi bisogni. Accanto alla chiesa e al convento vero e proprio, con le celle dei monaci e la cucina e il refettorio, c’era la biblioteca, in cui si conservavano i testi sacri e i manoscritti antiche che i monaci più colti, nelle ore dedicate allo studio, leggevano, commentavano oppure copiavano in bella scrittura sui grandi fogli lisci di pergamena. I fanciulli accanto a loro imparavano scrivendo con uno stilo aguzzo su tavolette cerate; la cartapecora era troppo rara e costosa, perchè mani inesperte la potessero scarabocchiare. Chi sapeva dipingere, ornava le pagine con miniature di bei colori vividi, che ritraevano il volto della Madonna, di Gesù, degli Angeli e degli Apostoli. Altri ragazzini imparavano a calcolare con i sassolini o si esercitavano a cantare le preghiere e gli inni in lode al Signore. Annesso al convento c’era il granaio, la cantina e il frantoio per estrarre l’olio dalle olive e i laboratori perchè i monaci provvedevano da sé a tutti i loro bisogni, dai sandali agli aratri, dalle vesti alle panche. L’acqua di un torrente, opportunamente incanalata, faceva girare la ruota del mulino; l’orto provvedeva gli ortaggi e i campi le messi. Chi entrava, raramente aveva bisogno di uscire se non per andare a far opera di bene, sia portando soccorsi, sia predicando. Gli ospiti che bussavano alla porta, erano ricevuti come Gesù in persona ed onorati in particolar modo se erano religiosi o pellegrini venuti da lontano. Quando ne era annunciato uno, il priore stesso gli andava incontro per il benvenuto e dopo una breve preghiera gli dava il bacio della pace e gli usava ogni cortesia. A mensa gli offriva l’acqua per le mani, come allora si usava sempre prima di mettersi a mangiare, dato che di posate si adoperava solo il cucchiaio e i cibi si prendevano con le dita. Dei poveri, in particolare, si doveva aver cura e anche ad essi si lavavano i piedi, come Gesù aveva fatto con i suoi apostoli. Vi erano nel convento celle pronte a dare asilo a chi domandava ospitalità, con letti sempre preparati. In quel tempo, ben pochi viaggiavano, perchè non si andava che a piedi e a cavallo, e le strade era scomode e malsicure, interrotte da frane o da alluvioni, e infestate da briganti. Non si trovavano alberghi per sostare la notte, poche erano anche le osterie in cui prender cibo e troppo spesso gli osti stessi erano ladroni che derubavano chi si fermava da loro. I conventi benedettini erano perciò asili sicuri a cui i pellegrini cercavano di giungere prima che cadessero le tenebre. La carità dei monaci li consolava dei disagi del viaggio ed essi si fermavano, talora, più di un giorno, prima di riprendere il cammino. Qualche volta non ripartivano più e chiedevano all’abate di accoglierli tra i suoi discepoli; nella luce del chiostro dimenticavano le bufere del mondo, dove sovrani si combattevano, popoli si strappavano l’un l’altro, con accanimento, i pochi beni della vita. (C. Lorenzoni)
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – Totila Tutti parlavano di San Benedetto, del grande monastero di Montecassino, della chiesa che vi era stata eretta e soprattutto parlavano del santo abate, che possedeva il dono della profezia e sapeva leggere nel cuore degli uomini solo guardandoli negli occhi.
Era in quel tempo re dei Goti, Totila, un barbaro valoroso ma rozzo, che combatteva strenuamente contro gli eserciti romani e seminava morte e distruzione ovunque passasse con le sue milizie; di religione era ariano e odiava i cattolici. Anche a re Totila però, era arrivata la voce che a Montecassino abitava un uomo prodigioso, a cui Dio rivelava il passato, il presente e il futuro e che compiva miracoli. E gli venne il desiderio di conoscere quest’uomo straordinario; perciò mandò al convento un suo messaggero a chiedere di essere ricevuto, e Benedetto rispose che sarebbe stato il benvenuto. Ma Totila, che credeva di essere astuto, volle allora tendere un tranello malizioso per vedere se fosse vero che il santo indovinava tutto. Fece chiamare un suo scudiero, di nome Rigo, gli fece indossare le sue vesti di re, gli diede la sua spada, il suo scettro, il suo cavallo e lo fece accompagnare dai tre baroni che lo seguivano sempre. Rigo doveva presentarsi al convento come fosse stato il re, e andare davanti a Benedetto che, non avendolo mai visto, non lo conosceva di persona. Così fu fatto. Il piccolo corteo fastoso salì alla cima del monte, bussò alla porta del monastero, entrò e fu introdotto nella sala del Capitolo dove l’abate aspettava. Ma Rigo non aveva ancora posato il piede sulla soglia che la voce di Benedetto lo arrestò: “Figliolo, metti giù codesti ornamenti che non sono i tuoi”. A queste parole, lo scudiero fu turbato tanto che cadde a terra, tremando in cuor suo per aver osato farsi beffe di quest’uomo di Dio; e si prostrarono a terra costernati anche i tre baroni e i paggi e i soldati del seguito. Quando poi Benedetto disse loro di alzarsi, non osarono avanzare fino a lui, ma ritornarono all’accampamento, pallidi e sgomenti, come mai era loro accaduto nella loro vita di guerrieri, avvezzi a sfidare la morte sul campo di battaglia. Rigo raccontò a Totila quanto era avvenuto e il re ebbe paura. Chi ha molti peccati sulla coscienza trema di tutto e il re goto sapeva di essersi macchiato di molte colpe in quegli anni di guerra spietata e crudele; se Benedetto sapeva tutto, doveva sapere anche questo, e al re pareva di non poter avere più requie se non andava da lui, non lo vedeva e non udiva la sua parola. E così un giorno si recò al monastero, non come un potente sovrano, ma come un penitente qualsiasi, e quando vide da lontano San Benedetto non osò più avanzare, ma si gettò a terra in atto di umile omaggio. E il Santo, che sapeva chi egli fosse, anche se non gli vedeva addosso le vesti regali, gli disse: “Alzati”. Egli, tutto tremante, non osava neppure levare il capo davanti a Benedetto, e allora il Santo si levò dalla sua sedia e lo fece alzare e lo fece sedere vicino a sè. Poi cominciò a parlargli con voce grave e volto accorato. “Perchè sei re e comandi un grande esercito, ti credi forse tutto permesso? Vi è qualcuno, su in cielo, che è ben più potente di te e che un giorno ti dovrà giudicare. Molti mali hai fatto e molti ne stai facendo ancora; se continui così perderai l’anima tua in eterno. Frena la tua iniquità, perchè non hai ancora una vita molto lunga davanti a te. Tu riuscirai a prendere Roma e dopo passerai il mare; ma Dio ti ha concesso solo nove anni di regno; il decimo morrai”. Così profetizzò Benedetto a re Totila, e re Totila, di cui tutti avevano paura, lo ascoltava sgomento e, dopo avergli chiesto di pregare con lui, se ne tornò molto turbato al suo accampamento. Si dice che da quel giorno egli fosse meno crudele. Certo, le profezie di Benedetto si avverarono tutte: Totila di lì a qualche tempo assediò Roma e la prese, poi passò in Sicilia; ma al decimo anno di regno combattendo in battaglia contro un nuovo generale che l’imperatore d’Oriente aveva mandato in Italia, perdeva la vita. (C. Lorenzoni)
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – San Benedetto San Benedetto fondò un ordine fra i più importanti della Chiesa. Il suo motto era: prega e lavora. Egli amò Dio non solo con la preghiera, ma anche con il lavoro. Infatti lavorare serenamente per amare Dio e per fare del bene al prossimo è come pregare. Il convento di San Benedetto si scorgeva lontano, col muro rosso e il melograno verde sulla soglia. Vi andavano le rondini a volo ed i poveri col passo stanco: per le une c’era una gronda, per gli altri, sempre, un tozzo di pane. Un anno, che ghignava la carestia e neppure la malerba attecchiva nei campi, i bisognosi aumentarono a dismisura; una fila lunga di cenci, di sospiri, su per il colle, all’uscio del convento. “Una crosta di pane, per carità!” “Una tazza di olio, in nome di Dio!” Regala oggi, largheggia domani gli orcioli dell’olio mostrarono presto il fondo: tutti, meno uno, piccolino, lasciato in disparte per condire le fave dei frati. E, quel giorno, il padre guardiano rimandò a mani vuote un vecchietto che era venuto con la sua ciotola. Quando il santo lo seppe, disse parole di rimprovero, scese in dispensa e ruppe l’orciolo prezioso: l’olio si sparse, lento, tra le anfore vuote. E quelle, appena toccate, si riempirono fino all’orlo del buon alimento. I frati gridarono al miracolo ed uscirono di cella a lodare il Signore: fuori, le rondini volavano ai nidi e il volto dei poveri aveva, nel sole, una ruga di meno.
Il monachesimo Le invasioni, la fame, le pestilenze, le continue guerre, avevano distrutto la vita civile in tutta l’Europa: nei villaggi spopolati non c’era più chi tramandasse ai superstiti l’arte di coltivare i campi o di costruire una casa; gli uomini vivevano a stento senza speranze per il futuro. Per trovare forza e conforto nella loro fede, alcuni uomini si ritiravano in solitudine nelle terre d’Oriente e vivevano in preghiera e meditazione: erano gli eremiti. In Occidente, e proprio in Italia, le cose andarono diversamente. Nell’anno 480 nacque a Norcia, in Umbria, un bambino di nobile famiglia. Si chiamava Benedetto e, ancora ragazzo, sentì dentro di sé una forte vocazione religiosa. Benedetto si ritirò in una grotta poco lontana da Subiaco, dove i boschi sono fitti e dove corrono le acque del fiume Aniene. In questa grotta trascorse alcuni anni; un po’ alla volta, la fama della sua santità corse per l’Italia. Vennero allora a Subiaco altri uomini stanchi e disperati, che volevano affidarsi a dio come Benedetto. Il santo, però, aveva capito che gli uomini del suo tempo non dovevano essere aiutati solo con le preghiere: era necessario guidarli con l’esempio e insegnare loro nuovamente a lavorare perchè i campi rifiorissero e le tecniche rendessero più facile la vita. San Benedetto uscì così dalla caverna di Subiaco e fondò dodici monasteri nella valle del fiume Aniene; poi fondò il monastero più famoso, quello di Montecassino. Qui preparò la Regola, cioè le leggi alle quali avrebbero dovuto obbedire i suoi monaci. La Regola si può riassumere in due parole: prega e lavora. Con la preghiera, infatti, il monaco invocava dio e ne riceveva la forza per non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà; con il lavoro, aiutava il prossimo a costruire una nuova società, rifacendosi alle esperienze e alle conquiste tecniche degli antichi. A voi forse sembra impossibile, ma la gente che viveva all’epoca di San Benedetto aveva proprio dimenticato quasi tutti i mestieri. Non sapevano più cosa fosse un aratro, né come si costruisse una strada o si alzasse un solido muro! Furono i monaci a raccogliere, a perfezionare e ad insegnare tutte le tecniche. San Benedetto aveva raccomandato ai suoi seguaci di portare una roncola appesa alla cintura, tutti così capivano che i benedettini erano sempre pronti a lottare contro la natura selvaggia per aprire un sentiero nelle boscaglie o per liberare un campo coltivabile. Il monaco Teodulfo insegnò tanto bene ai contadini del suo paese a lavorare la terra che, alla sua morte, il popolo pretese di appendere in chiesa il suo aratro. E fu proprio San Mauro a diffondere di nuovo l’uso dell’erpice e dell’aratro con il vomere di ferro. Per secoli, i monaci furono veri coloni agricoli; seguendo il loro esempio, i proprietari terrieri ricominciarono a liberare la buona terra dalle macchie e dai rovi, e cercarono di prosciugare le paludi. I monaci fondarono anche ospedali, aprirono ospizi e scuole, mentre nei loro magazzini si ammassavano le provviste per i tempi difficili. Inoltre, fecero rifiorire lo studio e, copiando e ricopiando gli antichi manoscritti, conservarono le opere degli antichi sapienti, latini e greci. Nei primi tempi i monasteri erano piccoli, con una chiesetta, pochi monaci e un pugno di terra da lavorare. Poi la comunità aumentò e intorno al monastero sorsero i villaggi, mentre le zone montane ridiventavano verdi per il rimboschimento. Fu merito dei monaci se molte popolazioni poterono superare carestie ed epidemie, perchè i magazzini delle abbazie venivano sempre aperte per distribuire sementi ed attrezzi agricoli. Fu merito dei monaci se tante famiglie sfuggirono alla morte durante le guerre e le invasioni, perchè gli indifesi potevano rifugiarsi nell’interno dell’abbazia al primo allarme. I monaci furono anche esploratori e viaggiarono molto nel nord Europa.
Visita a un monastero di san Benedetto Bussiamo, e il monaco portinaio ci apre dicendo: “Sia lodato Gesù Cristo”. Entriamo nel chiostro. In mezzo è il pozzo. Sotto le arcate si aprono le porte dei vari magazzini, perchè il monastero è una specie di fattoria. I monaci lavorano la terra, scavano canali d’acqua, fanno le bonifiche, e i loro raccolti sono abbondanti. Hanno stalle di buoi; il mulino, il frantoio delle olive, la cantina. Hanno officine. E infine una bella e luminosa biblioteca. Quanti libri! Sono stati salvati dai barbari che li volevano bruciare. E che cosa fanno tutti questi monaci curvi sui tavolini, con una penna d’oca in mano? Ricopiano pazientemente antichi volumi latini e greci, su pezzi di pelle di pecora, detta appunto cartapecora. Così, mentre i barbari devastavano le campagne, i monaci benedettini coltivano; mentre i barbari distruggono i libri, i monaci benedettini li salvano e li ricopiano. Se la civiltà non andrà perduta, si deve a questi uomini vestiti di bianco, chiusi in questi monasteri, che sono come nidi di pace in messo a un mondo pieno di strepiti d’armi (P. Bargellini)
San Benedetto Nacque a Norcia, nell’Umbria, nell’anno 480. Dopo qualche tempo, la sua infanzia fu rallegrata dalla nascita di una sorellina: Scolastica. Fratello e sorella crebbero buoni, amandosi teneramente fra loro. San Benedetto studiò a Roma, ma ben presto, stanco della città rumorosa e delle frivole compagnie, ottenne dal padre di ritirarsi a vivere in campagna. Nella quiete serena dei campi continuò a studiare; alternando lo studio ad una costante e fervida preghiera. Secondo la leggenda, un giorno avvenne che alla sua fedele nutrice si rompesse una pregevole anfora avuta in prestito. La disperazione della donna indusse il giovane padrone a prendere i pezzi del vaso e a rimetterli insieme; dopo una breve preghiera, ecco l’anfora ritornata come nuova. Fu il suo primo miracolo. La fama di santità che gli fu attribuita, dopo questo fatto, lo sgomentò: fuggì e trovò rifugio in una grotta presso Subiaco. Qui rimase tre anni, finché si decise ad accogliere, presso d sé, alcuni giovani che erano accorsi a lui, per condividerne la vita di sacrificio e di preghiera. Istituì così la prima regola di quello che sarà poi il grande ordine dei Benedettini. A Subiaco venne anche la sorella Scolastica, che vicina ai conventi del fratello fondò un eremo femminile. Dopo qualche anno entrambi lasciarono questo luogo e, giunti in Campania, al piè di un monte erto e boscoso di fermarono. Lì cominciò la costruzione della famosa abbazia di Montecassino; poco distante, nella vallata, santa Scolastica fondò un convento ove accolse le nuove sorelle. Una volta l’anno fratello e sorella si incontravano e trascorrevano la giornata conversando.
Torna il benessere attorno ai monasteri San Benedetto morì nel 543. Ma pochi anni dopo la sua morte i monasteri benedettini erano già diffusi in tutta l’Europa, fino in Gallia, in Germania, nella lontana Britannia. Esteriormente il monastero si presentava come una fortezza: alto su un colle, protetto di spesse muraglie e da robustissimi portoni. Tutt’intorno si era sviluppato un villaggio, costruito dai contadini e dagli artigiani, che avevano abbandonato le loro terre devastate dai barbari, per cercare rifugio all’ombra del monastero. In caso di attacco, infatti, gli abitanti del villaggio si ritiravano nel monastero finché la minaccia non si fosse allontanata. Oltre che a diffondere sempre più la religione cristiana, e ad insegnare a tutti ad apprezzare la cultura e il sapere, i monasteri divennero anche grandi propulsori di un rinnovamento civile ed economico. I monaci, infatti, bonificarono paludi, costruirono strade, restaurarono ed edificarono palazzi, fondarono scuole e ospedali. Le paludi bonificate si trasformarono in rigogliose campagne. Sulle nuove strade tornarono mercanti e viaggiatori, che trovavano rifugio per la notte nella foresteria, istituita presso ogni monastero. I monaci diedero poi vita a vere e proprie scuole artigianali, per far apprendere ai giovani le varie tecniche di lavoro, che erano state trascurate e quasi dimenticate nei terribili anni delle invasioni barbariche. Molto spesso, infine, il monastero e il villaggio che si era formato attorno ad esso acquistarono un notevole peso politico. All’Abate (padre, cioè il rettore della comunità) vennero riconosciuti privilegi, immunità e diritti, come quelli di amministrare la giustizia o di imporre e di riscuotere le tasse. Grandemente accresciuti durante il Feudalesimo, questi privilegi durarono fino alle soglie dell’età contemporanea.
La regola d’oro: prega e lavora Per disciplinare la vita della comunità, San Benedetto aveva dettato una regola. Essa si riassume tutta in due parole: prega e lavora (ora et labora). Il medesimo concetto era ripetuto anche nello stemma del monastero, che rappresentava la croce e un aratro. Benedetto credeva che la preghiera e il lavoro fossero i due doveri fondamentali del vero cristiano. I monaci dovevano quindi pregare e adorare Dio con tutte le loro forze. Ma nello stesso tempo avevano l’obbligo di lavorare per aiutare materialmente la comunità e tutti coloro che avevano bisogno: era questo un modo concreto di amare il prossimo. Il lavoro dei monaci era tanto intellettuale quanto manuale. Due ore al giorno venivano dedicate allo studio: ogni monaco doveva essere capace di leggere e scrivere. Altre sette ore erano poi dedicate al lavoro manuale. Ognuno aveva la propria attività: chi lavorava i campi, chi costruiva nuovi edifici o riparava quelli già esistenti, chi faceva da mangiare, chi fabbricava le scarpe, i vestiti, gli strumenti di lavoro per i confratelli e per i contadini che intanto cominciavano a raccogliersi attorno al monastero. C’erano poi i monaci scultori, i pittori, gli insegnanti, che facevano apprendere a chiunque lo desiderasse tutta la loro scienza. Infine c’erano i monaci amanuensi, che ricopiavano su grandi fogli di carta-pecora le grandi opere dell’antichità adornandone le pagine con deliziose miniature. Il lavoro di questi pazienti amanuensi ottenne un duplice effetto: salvò dalla scomparsa i capolavori antiche e lasciò a noi dei nuovi capolavori nell’arte della miniatura.
Il lavoro giornaliero L’ozio è nemico dell’anima. Per questo i confratelli devono occupare certe ore della giornata col lavoro manuale e in altre ore devono dedicarsi alla lettura sacra. Al mattino, lavorino dall’ora prima all’ora quarta (6-10) in ciò che è necessario. Dalla ora quarta alla sesta (10-12) si dedichino alla lettura. Dopo l’ora sesta, alzandosi da tavola, riposino nei loro letti. Se qualcuno invece vuol leggere, legga pure, purché non disturbi gli altri. Si faccia questo fino all’ora ottava (14) che è l’ora della preghiera. Poi si lavori di nuovo fino a sera. Il lavoro sia però proporzionato alle forze di ciascuno. I fratelli is servano l’un l’altro e nessuno sia dispensato dal servizio di cucina, se non per malattia o per occupazione da cui si ricavi maggior merito o carità. (Dall’articolo 48 della Regola)
La vita in un monastero benedettino Come si svolge la vita quotidiana in monastero benedettino? Alle tre di notte la campanella del monastero già suona la sveglia. I monaci lasciano il duro letto di tavole, su cui hanno dormito per poche ore, e in fila si recano in chiesa. Qui recitano per tre ore il “mattutino”, cioè le preghiere del mattino. Indossano un saio interamente bianco, chiamato l’abito di coro. Prima di iniziare il faticoso lavoro della giornata, ogni monaco si ritira nella sua celletta e si dedica soprattutto alla lettura dei libri sacri. Nella celletta vi sono umili arredi: un lettuccio, un attaccapanni, una acquasantiera e un armadietto, sufficiente per sistemare le pochissime cose di cui un monaco può disporre. Alle undici i monaci si riuniscono nel refettorio, dove consumano un frugalissimo pasto. Le pietanze sono sempre le stesse: un piatto di legumi, un pezzetto di formaggio, patate e frutta. Durante il periodo della Quaresima, che per i monaci dura alcuni mesi, essi si cibano soltanto di pane, acqua e frutta. Per sette ore al giorno i monaci sono impegnati in lavori manuali. Ciascuno di essi, secondo le proprie capacità, ha una mansione da compiere. Pur di fare bene al prossimo essi si sottopongono volentieri ai lavori più faticosi. Si presenta la necessità di costruire un ospedale o una scuola? Ecco che i monaci si trasformano in muratori e in falegnami. Le invasioni straniere riducono in miseria intere popolazioni? Ecco i monaci pronti a lavorare la terra e a distribuirne i prodotti ai più bisognosi. Oltre a ciò, i monaci raccolgono, istruiscono ed educano i bambini rimasti privi di assistenza. Al calare del sole infine, i monaci hanno già concluso la loro giornata di preghiera e di lavoro. Li attendono allora la squallida celletta ed il duro letto, sul quale si coricano vestiti dell’abito di coro. Ogni giorno si ripete la stessa vita di sacrificio, che i buoni monaci accettano per onorare dio ed aiutare il prossimo.
Come si entrava nell’Ordine di San Benedetto Prima di San Benedetto coloro che entravano in un monastero non facevano voto alcuno. Benedetto pensò che l’aspirante doveva invece seguire un noviziato e apprendere così, per esperienza diretta, le difficoltà della vita monacale. Solo dopo tale prova il novizio, se ancora lo desiderava, poteva prendere i voti. Con questi si impegnava allora, per iscritto, “a stare per sempre nel monastero, a obbedire e a riformare il suo carattere”, e il voto, firmato alla presenza di testimoni, doveva essere deposto sull’altare dallo stesso novizio, in rito solenne. Da questo momento il monaco non poteva abbandonare il monastero senza il consenso dell’abate. L’abate era scelto dalla comunità ed era tenuto a consultarla nelle cose di importanza; ma la decisione finale spettava a lui solo e gli altri dovevano obbedire in silenzio e in umiltà. I monaci dovevano parlare solo se necessario, non dovevano scherzare o ridere ad alta voce, dovevano camminare con gli occhi fissi a terra. Non si poteva tenere in proprietà privata “né un libro, né le tavolette (per scrivere), né una penna, niente del tutto”. Ogni cosa era di proprietà comune. Era ignorata e dimenticata la condizione precedente al suo ingresso al monastero; fosse stato libero o schiavo, ricco o povero, poco importava; ora era uguale a ogni altro. (W. Durant)
Recita: In un monastero benedettino Personaggi: l’abate, un ospite del monastero col proprio figlioletto Basilio, Paolo (fanciullo del monastero). Ospite: Vengo da lontano. I soldati longobardi hanno fatto un’irruzione nelle mie terre. Hanno calpestato le seminagioni, distrutto le piantagioni, annullato in poche ore i lavori che erano costati sudore e fatica immensi. Presi dalla paura, i coloni sono fuggiti, abbandonando le campagne. Con quello che m’era rimasto e con mio figlio, mi sono messo in viaggio per raggiungere la terra di alcuni miei parenti. Ma anche lungo il cammino ho incontrato soldati barbari che mi hanno tolto quel poco che avevo, gente che mi ha negato ospitalità… Solo qui mi è parso di trovare un piccolo paradiso. Voi monaci mi siete venuti incontro e mi avete abbracciato. Fra voi ho finalmente risentito una voce amica. Abate: Fratello, io sono l’abate del monastero. Per noi, l’ospite, il pellegrino, l’infermo, il perseguitato, devono essere ricevuti come fossero Gesù Cristo. Anche questo è nella Regola lasciataci dal fondatore del nostro Ordine, San Benedetto. (Passa vicino un fanciullo) Ospite: (meravigliato) Avete anche fanciulli? Abate: Sì, abbiamo anche fanciulli. Quello è Paolo, figlio di un patrizio che lo ha affidato a noi per la sua educazione. Paolo, vieni qui. Paolo: Eccomi, padre. Abate: (rivolto all’ospite) Fratello, vieni. Ti mostrerò le stanze destinate agli ospiti. Lasciamo che i fanciulli parlino fra loro. Paolo: Come ti chiami? Basilio: Mi chiamo Basilio. Paolo: Anche il tuo è il nome di un santo. Basilio: Come sei istruito! Qui forse i fanciulli imparano a leggere e a scrivere? Paolo: Sicuro, piccolo fratello. I monaci hanno un vero amore per la cultura. Se tu rimanessi qui, ti farei vedere quanti libri esistono nel monastero! I monaci non vogliono che essi vadano distrutti, perchè se no sparirebbe il meglio dell’umanità. Per questo vanno alla ricerca di libri dappertutto. Basilio: Anche in terre lontane? Paolo: Anche lontanissime. Anche a costo di enormi sacrifici. Ma tu vedessi che gioia, quando possono tornare al monastero, come le api all’alveare, portando con sé qualche prezioso codice! Basilio: E allora? Paolo: Allora, mio piccolo fratello, ci sono i frati amanuensi che ricopiano questi codici e ne fanno parecchie copie, in modo che i frati possano tutti leggere e studiare. Basilio: E’ meraviglioso. E voi, fanciulli, come fate a studiare? Leggete anche voi su quei libri? Paolo: Oh, no. Dapprincipio no. Ci sono libri apposta per noi. Basilio: E dove li trovano i frati? Paolo: Li scrivono loro stessi. Basilio: Quanto lavoro! Paolo: E’ vero. Ma tu saprai già che la Regola benedettina poggia proprio sul motto “prega e lavora”. La preghiera è il fondamento, ma subito dopo c’è il lavoro. La maggior parte dei monaci, si intende, si dedica al lavoro manuale. Lo stesso monastero è stato costruito e via via ampliato dai monaci. Essi, dando l’esempio, vangano, zappano, arano, piantano, tagliano legna, macinano grano, e così via. (R. Botticelli)
La Chiesa nell’epoca barbarica I barbari portano lo sfacelo: tutta la civiltà romana crolla sotto il loro dominio crudele e incapace di respirare l’aria densa di storia del grande impero abbattuto. Templi, opere d’arte, intere città sono dati alle fiamme; biblioteche intere vengono distrutte; sembra che debba calare il buio della preistoria sul mondo in rovina. Ma sulle macerie del mondo romano sorge il cristianesimo, che svolge così la funzione di baluardo della civiltà. Osserva lo storico francese Taine che per ben 500 anni la chiesa salvò quanto ancora c’era da salvare della cultura umana. Essa affrontai barbari e li doma. Davanti al vescovo in cappa dorata, davanti al monaco vestito di pelli, il Germanico convertito ha paura: quanto aveva intuito sulla giustizia divina, dettata dalla nuova fede e che si mescolava nel suo istinto religioso, risvegliava in lui terrori superstiziosi che nessuna altra forza avrebbe potuto suscitare. Così, prima di violare un santuario si domanda se non cadrà sulla soglia folgorato dall’ira divina. Si ferma, risparmia il villaggio, la città che vive sotto la tutela di un sacerdote. D’altronde, a lato dei capi barbari siedono vescovi e monaci nelle assemblee: sono i soli che sanno scrivere e parlare. Segretari, consiglieri, teologi partecipano agli editti, mettono le mani nelle cose di governo, si danno da fare per metter ordine nel grande disordine, per rendere più razionale e umana la legge, per ristabilire e conservare l’istruzione, la giustizia, il patrimonio privato. Nelle chiese e nei conventi si conservano le antiche conquiste dell’umanità: la lingua latina, la letteratura, la dottrina cristiana, le scienze, l’architettura, la scultura, la pittura, le arti e le industrie più utili, che danno all’uomo di che vivere, di che coprirsi e dove abitare; e soprattutto la migliore di tutte le conquiste umane e la più contraria al temperamento del barbaro nomade: l’abitudine e il gusto del lavoro.
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
I BARBARI materiale didattico vario e dettati ortografici di autori vari per la scuola primaria.
Decadenza dell’Impero romano L’impero romano sembrava ancora grande; in realtà non lo era più. Gli Imperatori che si succedevano, elevati al potere da truppe indisciplinate, non erano più gli strenui difensori e restauratori della potenza di Roma; erano deboli, crudeli, con un potere effimero. La nobiltà era corrotta, le frequenti guerre avevano impoverito le popolazioni; i piccoli agricoltori, esauriti e impoveriti per la lunga permanenza sotto le armi, lasciavano i loro campi, insufficienti a sfamarli, e si rifugiavano in città, oziosi e turbolenti, oppure diventavano servi dei ricchi. Gli schiavi, che col propagarsi della religione cattolica era diventati quasi tutti cristiani, pensavano al premio riservato in cielo agli umili e, pur restando ottimi servitori, non si curavano molto delle cose del mondo. Tutto l’insieme sociale e politico dell’impero si andava sfasciando sia dall’interno, che nelle lontane province e ai confini.
Gli stranieri Alle frontiere non c’erano più difese valide perchè i soldati delle legioni romane erano pagati per la loro opera e perciò facevano la guerra come un mestiere. Spesso, poi, si trattava addirittura di truppe straniere che non pensavano che alla paga e al bottino. Non solo, ma spesso queste truppe straniere erano consanguinee di quelle che premevano alla frontiera e quindi il loro spirito combattivo era assai scarso. Tutti i popoli forestieri, dai Romani erano chiamati Barbari perchè i Romani si ritenevano il popolo più civile di quel tempo. Effettivamente i popoli che furoreggiavano alle frontiere dell’Italia, erano veramente incivili e selvaggi. Vestivano di pelli, preferivano razziare ignorando il lavoro dei campi, non conoscevano le arti, la cultura, avevano barba e capelli incolti, erano rozzi, brutali, e dove passavano portavano rovina e morte. Alcune di queste tribù ebbero dai Romani il permesso di stabilirsi entro i confini dell’Impero, e poichè erano gravate di tasse, presero l’abitudine di andare a protestare a Roma. Ebbero, così, modo di vedere le fertili pianure, le ricche città dell’Impero e di constatare che non esisteva più l’antica forza che aveva permesso ai Romani di conquistare quasi tutto il mondo conosciuto. Per questi motivi, Roma era diventata una residenza poco comoda per gli Imperatori e fu per questo che Costantino, che regnò dal 307 al 337, decise di trasferirsi in un’altra capitale e scelse Bisanzio, passaggio obbligato per il commercio tra l’Asia e l’Europa. Prima di morire Costantino aveva diviso l’impero fra i suoi figli allo scopo di renderne più facile l’amministrazione. Al figlio Costantino assegnò la Gallia, a Costanzo l’Asia e l’Egitto, a Costante l’Italia, l’Africa e l’Illirico e le altre regioni ad altri suoi discendenti. Fu in questo periodo che si intensificarono le incursioni dei Barbari che, approfittando delle condizioni di debolezza dell’Impero, passarono le frontiere e invasero i territori.
Come vivevano i barbari Non avevano leggi fisse, e obbedivano ciecamente a un capo. Non avevano arte, non letteratura, non agricoltura. Vivevano di rapina e di guerra. Portavano lunghi capelli, barba e baffi. In capo trofei di fiere uccise, indosso vestiti di pelli e uno strano indumento sconosciuto ai Romani: i calzoni. Poichè venivano da paesi freddi, essi usavano ripararsi le gambe con tubi di stoffa spesso tenuti stretti con legacci. Dove passavano, distruggevano. Tagliavano alberi da frutta, viti e olivi per fare fuoco; abbattevano monumenti e cuocevano le statue di marmo per farne calcina; bruciavano le biblioteche con libri di carta arrotolata e detti appunto volumi. Mangiare, bere, rubare. Non conoscevano altro. E ammazzare, bevendo magari il sangue dell’avversario fatto di crani umani. Questi erano gli uomini che l’Impero romano si trovò contro e che la Chiesa dovette domare. (P. Bargellini)
I barbari
L’Impero Romano d’Oriente ebbe una vita lunga e senza gloria. L’Impero Romano d’Occidente, invece, crollò quasi all’improvviso. Le cause che favorirono la sua fine furono molte; innanzitutto l’estensione. Una linea di confine interminabile doveva essere difesa in tutta la sua lunghezza da legiooni di soldati, da torri di vedetta, fortezze, trincee. I Romani erano sempre stati considerati i migliori soldati del mondo; ora, il lusso e le ricchezze facevano loro disdegnare il servizio delle armi; preferivano occuparsi degli affari o divertirsi agli spettacoli del circo. Sorse così la necessità di arruolare soldati tra i popoli vinti, tra gli stranieri abitanti oltre i confini dell’Impero; ma occorreva pagare queste truppe a caro prezzo e non sempre esse erano fedeli e disposte a morire nel nome di Roma. I Romani erano stati anche ottimi contadini, affezionati alla loro terra ed al loro aratro. Poco alla volta avevano perso l’amore all’agricoltura e avevano abbandonato il lavoro dei campi affidandolo a schiavi e a liberti, gente senza scrupoli che portava le campagne in rovina. Lo Stato romano, sempre più avido di denaro, gravava di nuove tasse i cittadini e sovente erano i meno ricchi a sopportarne il peso maggiore. Furono queste le cause principali dell’indebolimento dell’Impero che, quando i popoli barbari si affacciarono minacciosi ai suoi confini, non seppe più opporre una valida resistenza. Chi erano i barbari? Erano popoli che abitavano nel Nord Europa, lungo i grandi fiumi come il Reno, il Danubio, la Vistola. Erano venuti da molto lontano ed erano giunti in Europa con marce faticose, portando sui carri le donne, i vecchi e i bambini, e trascinando con sè gli armenti. Benchè vinti più volte dai generali romani, erano diventati così forti che nessuno poteva fermarne l’impeto. Il loro nome incuteva terrore. I barbari vivevano di caccia e di pastorizia, usavano armi di ferro e di bronzo, si coprivano con pelli animali, non avevano leggi scritte e per fare la guerra eleggevano un capo che guidava gli eserciti in battaglia. Non portavano alcun rispetto per il nemico vinto e consideravano sacra la vendetta. Quando capirono che l’Impero romano si stava sfaldando, varcarono i confini ed occuparono le terre più fertili.
I Visigoti
I Visigoti, un popolo germanico, vennero in Italia guidati dal re Alarico. Dal lontano Oriente giunsero fino alle porte di Roma, dove i cittadini si fecero loro incontro offrendo oro perchè non distruggessero la città. Il feroce re accettò l’oro e si accampò nei dintorni, ma alla fine saccheggiò ugualmente Roma (410). Poi si diresse verso sud con l’intenzione di passare in Africa. Giunto in Calabria, Alarico morì improvvisamente; i suoi soldati ne seppellirono il corpo nel letto del fiume Busento, presso Cosenza, e lasciarono l’Italia.
Gli Unni
Gli Unni, provenienti dall’Asia, giunsero in Italia guidati da un terribile re, Attila, che fu chiamato “il flagello di dio”. Questi barbari vivevano in maniera del tutto primitiva: si cibavano di carni ammorbidite sotto la sella dei loro cavalli; avevano capelli lunghi che nascondevano il viso giallo dagli occhi piccoli e dagli zigomi sporgenti. Essi passarono le Alpi e, saccheggiando, si sparsero per la Pianura Padana. Incontro ad Attila mosse allora il papa Leone I che persuase il re barbaro a lasciare l’Italia.
Ritratti di Attila Figura deforme, carnagione olivastra, testa grossa, naso sottile, piccoli occhi affossati, pochi peli al mento, capelli brizzolati, corporatura tozza e nerboruta, fiero il portamento e lo sguardo, come un uomo che si senta superiore a quelli che lo circondano. Sua vita era la guerra. “La stella cade” diceva, “la terra trema, io sono il martello del mondo e più non cresce l’erba dove il mio cavallo ha posto il piede”. Avendolo un eremita chiamato “flagello di Dio”, adottò questo titolo come un augurio, e convinse i popoli che lo meritava. (C. Cantù)
I Visigoti, i Vandali, gli Unni Settantatre anni dopo la morte di Costantino i Visigoti comandati dal loro re Alarico, attraversarono l’Italia e arrivarono a saccheggiare Roma. Anche i Vandali, altro popolo barbaro che aveva invaso le regioni confinanti con l’Italia, passarono le frontiere distruggendo tutto ciò che incontravano sul loro cammino. Abbattevano templi, opere d’arte, tagliavano alberi, incendiavano case, biblioteche, fondevano l’oro e l’argento delle statue, e la loro opera di distruzione causò tanto spavento e tanta rovina che ancor oggi si dà il nome di vandalo a colui che distrugge per il piacere di distruggere. Dopo i Vandali, scesero in Italia gli Unni, comandati dal loro feroce re Attila. Ovunque Attila passava, portava la distruzione e la rovina. Fu chiamato per questo “flagello di dio”. Egli stesso diceva: “Dove posa lo zoccolo il mio cavallo non cresce più l’erba”. Attila si diresse verso Roma col proposito di distruggerla, ma mentre avanzava con le sue schiere, incontrò il papa Leone I (che doveva essere poi chiamato Leone Magno), andatogli incontro per tentare di fermarlo. Attila, che non aveva paura di nessuno, davanti a quel vecchio solenne che gli veniva incontro armato soltanto della croce, si intimorì e cadde in ginocchio davanti a lui. Dette poi ordine ai suoi soldati di abbandonare quel luogo e poco dopo lasciava l’Italia.
Fine dell’Impero romano d’Occidente Dopo gli Unni, calarono in Italia gli Eruli, comandati dal loro re Odoacre. Sul trono di Roma sedeva in quel tempo un fanciullo chiamato in senso dispregiativo Romolo Augustolo. Odoacre potè facilmente deporlo, mettendosi a governare in sua vece. Ciò accadeva nell’anno 476 dC e, dopo questa data, nessun altro imperatore romano venne eletto. Quest’epoca si ricorda quindi come la fine dell’Impero romano d’Occidente e Romolo Augustolo fu l’ultimo imperatore romano.
Comincia così la nuova epoca, detta Medioevo, che dal 476 dC arriva fino al 1492, anno della scoperta dell’America. Per dieci anni Odoacre governò indisturbato ma, nel frattempo, un altro popolo barbaro scendeva in Italia. Si trattava degli Ostrogoti con a capo Teodorico, che sconfisse Odoacre e governò l’Italia. Teodorico si era fermato a Verona che aveva eletto a sua capitale e nei primi anni del suo regno fu uomo giusto ed equilibrato, ma invecchiando divenne crudele e sospettoso tanto da mettere a morte anche i suoi più cari amici, tra cui il filosofo Boezio. Narra la leggenda che un giorno, mentre Teodorico prendeva un bagno nel fiume, apparve un cavallo nero e scalpitante. Teodorico gli salì in groppa e il cavallo lo portò a furibondo galoppo attraverso tutta l’Italia fino in Sicilia. Giunto sull’Etna (o secondo altra versione sul vulcano Lipari) il cavallo si impennò scaraventando il vecchio imperatore nel cratere fiammeggiante.
I Longobardi Sul trono di Oriente sedeva intanto Giustiniano, il quale riuscì a cacciare i Goti dall’Italia. Morto Giustiniano, i suoi successori non seppero mantenere il dominio sulla penisola che ricadde in preda ad altri barbari, i Longobardi, così chiamati per la loro lunga barba bionda e perchè armati di lunghe alabarde. Li conduceva il loro re Alboino, crudele e feroce che, come Teodorico, si stabilì a Verona. Alboino sposò Rosmunda, la figlia di un re nemico che egli stesso aveva ucciso. Durante un banchetto, questo re crudele e pazzo costrinse la sposa a bere nel cranio del padre ucciso. Per questo e per altri atti di crudeltà da lui compiuti, Alboino fu ucciso. I Longobardi furono i barbari che provocarono le maggiori rovine in Italia. Distrussero chiese, devastarono città, uccisero migliaia e migliaia di persone. I loro costumi feroci furono alquanto mitigati dalla regina Teodolinda, convertitasi al cattolicesimo, che aiutata dal papa di allora, Gregorio Magno, riuscì a convertire il suo popolo alla religione cattolica. La regina Teodolinda fondò belle chiese a Monza e a Pavia; nel duomo di Monza si conserva, ancor oggi, la Corona ferrea con la quale allora si incoronavano i re longobardi. Nella corona è racchiuso un chiodo che, secondo la tradizione, fu tolto dalla croce di Cristo. Dai Longobardi prese il nome la regione che oggi si chiama Lombardia.
Notizie da ricordare Le condizioni dell’impero romano, non più forte e agguerrito, permisero la calata in Italia di popoli che i Romani chiamarono Barbari. Scesero dapprima i Visigoti, comandati dal loro re Alarico. Seguirono i Vandali che seminarono il loro cammino di distruzioni e di stragi. Un altro popolo barbaro, gli Unni, con a capo il feroce re Attila, irruppe in Italia aumentando le rovine e le morti. Dopo gli Unni calarono gli Eruli, comandati da Odoacre che depose l’Imperatore romano che allora sedeva sul trono, un fanciullo chiamato per dispregio Romolo Augustolo, e si mise in sua vece a governare l’Italia. Finiva così l’Impero romano d’Occidente nel 476 dC. Da questa data ha inizio in Medioevo. Dopo dieci anni di regno, Odoacre fu scacciato da Teodorico, re degli Ostrogoti, barbari che nel frattempo erano calati in Italia. Se l’Impero romano d’Occidente non esisteva più, esisteva ancora, forte e potente, l’Impero romano d’Oriente e quando salì sul trono il grande imperatore Giustiniano fu ripresa la lotta contro i Barbari, che furono respinti. Morto Giustiniano, l’Italia tornò preda dei Barbari e precisamente dei Longobardi che si trattennero a lungo e soltanto dopo un periodo di distruzioni e di stragi, si convertirono al cattolicesimo per opera della loro regina Teodolinda.
Questionario Chi erano i Barbari? Come vestivano? Perchè fu loro possibile scendere in Italia? Chi furono i primi Barbari che conquistarono le terre dell’Impero? Chi era Attila? Da chi fu fermato? Chi era Odoacre? Chi stava sul trono di Roma in quell’epoca? Perchè si dice che nel 476 dC finì l’Impero romano d’Occidente? Chi era Teodorico? Quale leggenda si racconta sulla sua morte? Chi era Alboino? Che cosa comandò a Rosmunda? Per opera di chi, in seguito, i Longobardi mitigarono i loro costumi? Quali popoli erano chiamati barbari dai Romani? Quali furono le principali cause della rovina dell’Impero? Seppero i Romani opporre una valida resistenza quando i popoli barbari si affacciarono minacciosi ai confini dell’Impero? A quale stirpe appartenevano quasi tutti i barbari? Quali erano gli usi e i costumi dei Germani? Quale popolo barbaro assalì per primo l’Italia? Da chi era guidato? Dove fu sepolto Alarico? Chi erano gli Unni? Quando vennero in Italia? Comandati da chi? Da chi fu fermato Attila? Quando e da chi venne fondata Venezia?
La leggenda di Teodorico Sul castello di Verona batte il sole a mezzogiorno dalla Chiusa al pian ritorna solitario un suon di corno, mormorando per l’aprico verde il grande Adige va; ed il re Teodorico vecchio e triste al bagno sta. Il gridar d’un damigello risuonò fuor della chiostra: “Sire, un cervo mai sì bello non si vide all’età nostra. Egli ha i piè d’acciaio e smalto, ha le corna tutte d’or.” Fuor dall’acque diede un salto il vegliardo cacciator. “I miei cani, il mio morello, il mio spiedo” egli chiedeva; e il lenzuol, quasi un mantello, alle membra si avvolgeva. I donzelli ivano. Intanto il bel cervo disparì, e d’un tratto al re d’accanto un corsier nero nitrì. Nero come un corbo vecchio, e negli occhi avea carboni. Era pronto l’apparecchio, ed il re balzò in arcioni. Ma i suoi veltri ebber timore e si misero a guair, e guardarono il signore e no’l vollero seguir. In quel mezzo il caval nero spiccò via come uno strale, e lontan d’ogni sentiero ora scende e ora sale: via e via e via e via, valli e monti esso varcò. Il re scendere vorria ma staccar non se ne può. Il più vecchio ed il più fido lo seguia de’ suoi scudieri, e mettea d’angoscia un grido per gl’incogniti sentieri: “O gentil re degli Amali, ti seguii nei tuoi be’ dì, ti seguii tra lance e strali ma non corsi mai così. “Teodorico di Verona, dove vai tanto di fretta? Tornerem, sacra corona, alla casa che ci aspetta?” “Mala bestia è questa mia, mal cavallo mi toccò: sol la vergine Maria sa quand’io ritornerò”. Altre cure su nel cielo ha la vergine Maria: sotto il grande azzurro velo ella i martiri covria. Ella i martiri accoglieva della patria e della fè; e terribile scendeva Dio sul capo al goto re. Via e via su balzi e grotte va il cavallo al fren ribelle; ei s’immerge nella notte, ei s’aderge in ver’ le stelle. Ecco il dorso d’Appennino tra le tenebre scompar; e nel pallido mattino mugghia a basso il tosco mar. Ecco Lipari, la reggia di Vulcano ardua che fuma e tra bombiti lampeggia dell’ardor che la consuma: quivi giunto il caval nero contro il ciel forte springò annitrendo; e il cavaliero nel cratere inabissò. Ma dal calabro confine che mai sorge in vetta al monte? Non è il sole, è un bianco crine; non è il sole, è un’ampia fronte sanguinosa, in un sorriso di martirio e di splendor: di Boezio è il santo viso del romano senator. (G. Carducci)
Il paese, la casa, la vita dei Germani I Barbari erano quasi tutti di stirpe germanica. L’antica Germania era un paese in massima parte coperto da boschi e paludi, freddo e rattristato da nebbie, ma nondimeno abbastanza fertile, ricco di messi e di greggi e di magnifici pascoli, e popolato di selvaggina.
Invece di città esistevano soltanto alcuni villaggi, formati da gruppi di dodici o venti capanne al più, disposte senza alcun ordine, e circondate ciascuna dalla corte e da un tratto di terreno. Le capanne erano di legno, coperte di paglia e di giunco, addossate talvolta ad un albero gigantesco. Nell’atrio, in fondo, stava il focolare, sul quale raramente si estingueva il fuoco.
I Germani, dalla grande statura, dalla chioma bionda, dagli occhi fieri e azzurri, amavano in special modo la caccia e la guerra. Quando la guerra non c’era, passavano il più del tempo in ozio, dediti al sonno e al mangiare; i più forti, i più bellicosi, standosene inerti, lasciavano alle donne , ai vecchi, ai più deboli della famiglia il governo della casa e dei campi. Non trattavano nulla se non armati, e armati intervenivano ai banchetti. Usavano cibi frugali, ma non erano nel bere altrettanto temperanti; e avevano una tale passione per il gioco dei dai che, dopo aver perduto ogni bene, mettevano come posta la moglie, i figli e la propria libertà. Il vinto andava in schiavitù volontaria; e quand’anche più giovane e robusto del vincitore, si lasciava legare e vendere. Scarsi erano gli ornamenti del corpo e della casa. L’abito più importante, e comune a tutti, consisteva in una specie di mantello corto, fermato con una fibbia, o in mancanza di questa con una spina; nel resto erano ignudi. Indossavano anche pelli di animali, e i più ricchi si distinguevano per una sottoveste strettamente aderente alle membra. Le donne si vestivano come gli uomini; soltanto che spesso si coprivano di tessuti di lino di color rosso; e il loro vestito semplice e senza maniche, lasciava scoperte le braccia e la parte superiore del petto. Tutti i liberi, uomini e donne, portavano come segno onorifico del loro stato libero i capelli lunghi ondeggianti, i quali venivano tagliati a chi passava in servitù. Pochi attrezzi bastavano per gli usi domestici: il semplice mulino a mano per il grano, alcuni vasi d’argento, di bronzo martellato, d’argilla, qualche bicchiere di vetro; strumenti di lavoro erano l’ascia, la mazza, il cuneo, lo scalpello, la falce di bronzo. L’ospite non invitato, anche se sconosciuto, aveva ugualmente un’accoglienza gentile; i conviti erano rallegrati dall’unico genere di spettacoli che i German conoscessero, quello di giovani nudi che si slanciavano, con un salto, tra spade e lance minacciose.
La donna era molto rispettata perchè si credeva che in essa vi fosse qualcosa di santo; i servi erano trattati umanamente. Ogni casa aveva il suo cane fedele, che seguiva dovunque il padrone e, caduti gli uomini e perfino le donne, era l’ultimo a difendere la barricata dei carri che in guerra opponevano al nemico. (Trabalza e Zucchetti)
I Germani e i loro costumi
Lungo i confini premevano minacciosi, incalzati dagli Slavi e da altri popoli ferocissimi si razza asiatica (Mongoli), i Germani. Li imperatori, impotenti a contenere la marea barbarica, erano venuti più volte a patti con essa, concedendo ad alcuni popoli di stanziarsi nelle province di confine, purché prestassero servizio militare. L’esercito era costituito in massima parte da barbari: barbari erano perfino i generali. I Germani, distinti in Teutoni, Alani, Vandali, ecc… abitavano l’Europa centrale ed orientale fino al Mar Nero. Praticavano in modo primitivo l’agricoltura, abitavano miseri villaggi e la terra intorno a questi era proprietà comune. Solo in caso di guerra e di migrazioni di uomini liberi, i membri dell’esercito e dell’assemblea eleggevano un re (Konig). Questi conduceva l’esercito in battaglia, distribuiva le terre conquistate, divideva la preda. Passato il pericolo, cessava generalmente il suo potere.
Non avevano leggi: chi riceveva un’offesa, si faceva giustizia da sé, o i familiari della vittima si prendevano vendetta dell’offensore. Faida era detta la vendetta privata, ed era un debito d’onore: così gli odi e i delitti si perpetuavano di generazione in generazione tra famiglie rivali. Quando mancavano le prove della colpevolezza di un accusato, si ricorreva al giudizio di dio (ordalia), cioè a determinate prove, che potevano essere il duello, il fuoco o altro, ritenendo essi che dio aiutasse l’innocente a superarle. La loro religione ricorda un poco l’antica religione greca: adoravano cioè i fenomeni naturali personificati. Il dio supremo era Wotan o Odino, re dell’aria e delle tempeste, al quale sacrificavano anche vittime umane. Non avevano templi, ma consacravano agli dei selve e foreste. Da questi cenni vediamo che profonda diversità c’era tra i Romani e i barbari, quando questi irruppero nelle province dell’Occidente. Essi si trovavano ancora ad uno stadio primitivo di civiltà, da cui i Romani erano usciti da secoli. Si narra che i barbari erano comparsi in Italia fin da un secolo prima di Cristo, scivolando sui loro scudi per le chine ghiacciate delle Alpi, e che da allora molte altre volte avevano varcato i confini italici; e sempre erano stati dalle legioni romane ricacciati nelle loro foreste. Ma poi, spinti alle spalle da altri popoli barbari, irruppero da ogni parte e non fu più possibile fermarli.
Ancora sugli usi e costumi dei Germani
I barbari erano quasi tutti di stirpe germanica. Presso i popoli germanici era una vergogna, per il capo, essere superato in valore, durante la battaglia, e un disonore, per i guerrieri, non essere pari, in coraggio, al comandante. Ma la vergogna ancora maggiore, che durava tutta la vita, era tornare dalla battaglia lasciandovi morto il proprio capo. La maggior parte dei giovani germanici di nobile stirpe preferiva una vita travagliata dalla guerra ad una vita di ozio nella pace; perciò essi si trasferivano spontaneamente presso i popoli che, in quel momento, erano in guerra. I Germani amavano combattere piuttosto che arare i campi ed aspettare il succedersi delle stagioni per ottenere il raccolto. Per loro era segno di pigrizia e di viltà acquistare col sudore ciò che si poteva guadagnare col sangue, predando e saccheggiando. Ogni volta che i Germani non erano in guerra impiegavano il loro tempo nell’andare a caccia, ma più che altro nel non far nulla, limitandosi a mangiare e a dormire. Le donne, i vecchi e i più deboli della famiglia, intanto, avevano cura della casa e dei campi. Appena i giovani germanici si destavano dal sonno, che assai spesso si prolungava fino ad una tarda ora del mattino, si lavavano quasi sempre con acqua calda, come era in uso presso i popoli dove la stagione invernale era molto lunga. Dopo essersi lavati si mettevano a mangiare: ciascuno aveva il suo seggio e ciascuno la sua tavola. Poi si armavano e ne andavano a trattare i loro affari o, come avveniva assai spesso, a banchettare. Passare il giorno e la notte a bere non era una vergogna per nessuno… (riduzione ed adattamento da Tacito)
Quando una popolazione germanica abbandonava le proprie sedi per cercarne delle nuove, caricava sui carri le donne, i fanciulli, tutti i suoi averi e perfino alcune parti delle sue capanne. Esse, infatti, erano costruite su tronchi d’albero smontabili e con canne ricoperte di fango. I Germani non avevano moneta: scambiavano le varie merci con il bestiame tra cui, probabilmente, il vitello di un anno costituiva l’unità principale di valore. Le terre erano proprietà di tutti e venivano distribuite ai singoli componenti di una tribù, ogni anno. L’avversione al lavoro da parte dell’uomo cacciatore e guerriero faceva ricadere il peso della famiglia sulle spalle della donna, la quale però, godeva di grande autorità. Ella seguiva il marito ovunque, anche in battaglia. (riduzione e adattamento da Angeloni Zolla)
Gli Unni Sono più barbari della stessa barbarie. Non conoscono nessun condimento al cibo, nè usano fuoco a cuocerlo. Mangiano cruda la carne, dopo averla tenuta qualche tempo fra le loro gambe o il dorso dei cavalli che cavalcano. Piccoli di statura, agili di membra e robusti, sempre a cavallo, la loro faccia, più che a viso umano, somiglia a un pezzo informe di carne, con due punti neri e scintillanti invece di occhi. Hanno pochissima barba perchè usano tagliere col ferro il viso dei loro bimbi, affinché imparino prima a sopportare le ferite che a gustare il latte materno. Adorano per loro dio una spada conficcata al suolo e sotto forme umane vivono come animali. (Giordano)
La luce di Roma Il sole tramontava dietro la collina. Alla luce di quel tramonto infuocato, rosseggiavano i marmi come insanguinati e gli archi rotti, avvolti dall’edera, si levavano nel cielo sereno. Tutto era rovina e silenzio. I barbari erano passati sulle pietre di Roma coi loro piedi di sterminatori. Le case erano diroccate, i monumenti abbattuti e, sui ruderi, il rovo lanciava impetuoso i suoi rami spinosi in mezzo ai quali strisciavano le vipere. Ma non ancora sazi di preda, i barbari si aggiravano fra quelle rovine alla ricerca di tesori nascosti, di vasi, di statue da fondere in rivoli d’oro e d’argento. Grandi, nerboruti, villosi, sembravano più bestie che uomini. Frugavano fra i massi con le loro grosse mani, ma non trovavano nulla perchè a Roma più nulla di prezioso era rimasto. A un certo punto una grossa pietra sbarrò il cammino a quei barbari. Era collocata davanti a un antro di cui chiudeva il passaggio. Un barbaro la prese e la scosse violentemente. La pietra crollò lasciando un’oscura apertura. Nel fondo si vide brillare una tenue luce. I barbari trasalirono. Un segno di vita? Si volsero al sole che tramontava per vedere se fosse uno dei suoi raggi a riflettersi là in fondo. Ma i raggi avevano tutt’altra direzione. Allora quegli uomini, cautamente, entrarono nell’antro. E videro. Sopra una pietra nuda giaceva un giovane guerriero romano morto. Tutto cinto di armi, aveva il petto scoperto e sopra, una gran ferita dove il sangue si era ormai raggrumato. Una lapide portava scritto il suo nome, Pallante, e sulla sua tomba brillava una torcia accesa. Rise, un barbaro, del suo timore, e afferrata la torcia la portò fuori della grotta. La luce brillò alta, nell’oscurità della notte ormai sopraggiunta. Il vento violento che si era levato piegò la fiaccola, ma non la spense. Allora il barbaro, ostinato, vi soffiò sopra il suo alito greve. La fiamma ondeggiò, ma poi si levò più vivida e bella. “Muori dunque nel fango!” gridò il barbaro inferocito, e immerse la fiaccola in una pozza melmosa. La fiamma stridette come un ferro infuocato che si affonda nell’acqua, ma quando il barbaro sollevò la torcia, questa arse ancora vivida e bella. I barbari, al prodigio, impallidirono sotto le barbe irsute e la fiaccola tremò nelle mani di chi invano aveva tentato di spegnerla. Lento, questi tornò nell’antro e pose di nuovo la fiaccola sul capo del giovinetto eroe. Poi indietreggiò, sgomento, e con la pietra chiuse di nuovo il sepolcro. La luce di Roma brillò ancora nell’oscurità e si levò alta e splendente. Una luce che nonostante le tenebre della barbarie, non sarebbe mai tramontata. (M. Menicucci)
Abitudini barbare
I barbari amavano sopra ogni cosa il loro cavallo. Si può dire che essi vivessero sempre a cavallo. Non solo viaggiavano a cavallo. Non solo combattevano a cavallo. A cavallo dormivano; a cavallo mangiavano. La loro cucina si trovava addirittura sotto la sella del cavallo! Ecco in che cosa consisteva quella cucina. Quando un barbaro uccideva qualche animale, tagliava un pezzo della sua carne e la metteva sotto la sella. Galoppa, galoppa, galoppa, la carne, a forza di colpi, anche se era dura, diventava morbida. Con l’attrito della sella si riscaldava e, come si dice, si frollava. Arrivata la sera, il barbaro scendeva da cavallo, alzava la sella e trovava il pezzo di carne ridotto in una specie di polpetta. Non c’era bisogno neppure di metterlo sul fuoco e l’addentava di buon appetito. Per ornamento il barbaro sceglieva di preferenza corna di animali uccisi nella caccia e code o criniere di cavallo.
Forme di giustizia dei barbari
L’accusato di un delitto era calato nell’acqua legato a una fune. Se rimaneva a galla, era colpevole, se andava a fondo e, tirato su con la corda, ancora respirava, era innocente. Oppure si ricorreva alla prova dell’acqua calda: chi vi immergeva la mano senza scottarsi era innocente. Assai più pericolose erano altre prove: prendere in mano, ad esempio, un ferro rovente senza bruciarsi le dita o camminare sui ferri arroventati. Le cose andavano meglio se l’accusato era invece invitato a denudarsi, ad avvicinarsi alla barella sulla quale era stato esposto il cadavere dell’ucciso, dopo di che giurava che era innocente e toccava il morto. Se le ferite della vittima non riprendevano a sanguinare, era salvo: l’accusa era da ritenersi infondata. La distinzione delle pene viene fatta in conformità al delitto. I traditori e i disertori vengono impiccati. Gli ignavi e i codardi… vengono immersi nella melma di una palude, gettando sopra ai medesimi dei graticci… Ma anche per i delitti più lievi la pena è proporzionata alla colpa: difatti i rei convitti vengono multati di un certo numero di cavalli o di capi di bestiame. Una parte della multa tocca al re o alla città; una parte all’offeso o, se questo fosse morto, ai suoi parenti. D’altra parte non è concesso infliggere la pena di morte, né incarcerare, e neppure battere se non ai sacerdoti, ma non come pena o per comando di un capo, ma come per comando di un dio… Il silenzio nelle assemblee viene imposto dai sacerdoti, i quali hanno anche il potere di ricorrere a punizioni coercitive.
Giulio Cesare così descrisse i barbari
Cesare nel De bello Gallico prima, e Tacito in Germania un secolo e mezzo dopo, ne descrissero i costumi e il carattere. I Germani abitano fra il Reno e il Danubio, hanno gli occhi truci e cerulei, capelli rosseggianti, corpi grandi e validi solamente per l’assalto, sono abituati al freddo e alla fame, abituati a non portare che piccole pelli, e a non avere alcun vestito. Tutta la loro vita consiste nella caccia e negli esercizi bellici; fin da piccoli si induriscono nel lavoro e nelle fatiche… Non curano molto l’agricoltura e la maggior part del loro vitto consiste nel latte, nel cacio, nella carne, nei frutti selvatici…
L’erba folta
Alarico si avanza alla testa dei suoi Visigoti, e sembra spinto non dalla sua volontà, ma da una forza invisibile. Un monaco si getta sul suo cammino e tenta di fermarlo. Ma Alarico gli dice che il fermarsi non è in suo potere perchè una forza misteriosa lo spinge a distruggere Roma. Tre volte accerchia al Città Eterna e tre volte indietreggia. Vengono ambasciatori, per indurlo a levare l’assalto, gli dicono che dovrà combattere contro una moltitudine tre volte più numerosa dei suoi eserciti. “Sia pure!” risponde quel mietitore di uomini, “Quanto più folta è, tanto meglio l’erba si taglia!”.
La terribile notte del 24 agosto del 410
La notte del 24 agosto, forzata la Porta Salaria, le orde visigote irruppero in città dando fuoco alle prime case. L’incendio divampò dilagando e tutto distruggendo: ville, palazzi, monumenti di insigne bellezza. E non un Romano che ardisse difendere la sua città! Roma, la città che un giorno ebbe il popolo più valoroso del mondo, crolla così sommersa dalla viltà. E se spettacolo orrendo fu il vedere le fiamme divorare la meravigliosa città, se spettacolo terribile fu vedere i barbari girare urlando per le vie o irrompere nei palazzi, certo spettacolo ben più miserando fu vedere i Romani sperduti nel terrore della loro vergognosa ignavia.
I Visigoti incendiano Roma
Alarico e le sue orde entrarono nella città al suono delle trombe e al canto delle loro arie nazionali. Appena entrati dettero fuoco alle prime case. Svegliati di soprassalto dal tumulto, gli abitanti compresero subito di essere in mano al nemico, e il crescente chiarore fece intendere che gli incendi divampavano. Però si narra che al momento di passare la Porta Salaria Alarico fosse preso da un segreto terrore: quella che egli si accingeva a saccheggiare era anche una città considerata santa, così ordinò che fossero rispettate le basiliche di San Pietro e San Palo. Le fiamme, aiutate dal vento, divoravano tutto, e quel che sfuggiva al fuoco cadeva sotto lo scempio dei Visigoti che, avidi di denaro, tramutavano tutti i palazzi dei ricchi in teatri di tragedie. Una vedova di nobili natali che abitava nel suo palazzo, ma che nulla possedeva perchè tutto aveva dato ai poveri, non potendo accondiscendere alle richieste di denaro, fu talmente percossa che ne morì. Questo martirio di Roma durò tre giorni e tre notti; poi Alarico diede il segnale di partenza. Ma nulla o quasi rimase dietro di lui. Alarico passò oltre, diretto in Sicilia: ma morì lungo il cammino e venne sepolto, armato a cavallo, nel letto del fiume Busento. La mancata resistenza da parte degli italiani fu dovuta al fatto che essi, da qualche secolo, erano stati esentati dal servizio militare. L’Italia, quindi, mancava di una solida gioventù guerriera che difendesse le sue città proprio mentre i barbari irrompevano dalle frontiere.
Gli occhi per piangere
Dopo tre giorni di incursioni, Alarico promette ai Romani superstiti di abbandonare la loro città purché gli vengano portate tutte le ricchezze e tutti gli schiavi barbari della città. Gli chiedono allora i Romani: “Che di resterà dunque?”. E Alarico risponde: “Gli occhi per piangere”. Così dovettero portargli cinquemila libbre d’oro e trentamila d’argento oltre a panni di seta, pellicce e spezie. I Romani dovettero persino fondere la statua d’oro del Coraggio che essi chiamavano Virtù Guerriera.
Onorio aveva una gallina..
Quando per il mondo si sparse la terribile notizia che Roma era caduta nelle mani dei Visigoti i quali l’avevano messa a ferro e fuoco, lo sgomento dilagò ovunque. Solo l’imbelle imperatore Onorio non si turbò, anzi pareva non essersene neppure accorto, tutto intento com’era al suo allevamento di pollame nei pressi di Ravenna. E si dice che a un suo cortigiano che gli diceva che Roma era perita rispondesse: “Non è possibile! L’ho vista poco fa!”. E alludeva a una sua gallina a cui aveva dato il nome di Roma.
Più barbari dei barbari
E’ durante la seconda metà del IV secolo che gli Unni si affacciano alle grandi pianure orientali dell’Europa, e subito spargono il terrore attorno a sé, più barbari degli stessi barbari di cui invadono le terre. Robustissimi, dalla testa piccola, bruna e piantata sul collo corto e tozzo, di lineamenti orientali, già nell’aspetto incutevano spavento. Indossavano rozze brache di pelle di capra, su cui portavano una sorta di tunica; sul capo, quando non avevano gli elmi di battaglia di aspetto terrificante, tenevano una berretta aderente. Scrive Ammiano Marcellino che erano tutti di smisurata ferocia. E per dare un esempio dei loro truci costumi, riferisce che erano soliti ricoprire di profonde ferite le guance dei loro figli per impedire che, nell’età adulta, vi crescesse la barba. Mangiavano carne cruda e radici, perchè ignoravano ogni cottura e ogni condimento; tutt’al più, per frollarla, tenevano le carne tra le cosce e il pelo del cavallo mentre cavalcavano, sì che il sudore dell’uomo e dell’animale quasi la cuocesse. Ignoravano la casa, anzi quando la conobbero la odiarono con folle e superstizioso terrore: la loro dimora era costituita dai carri, anche quando si stanziavano per lunghissimi periodi o per generazioni intere in territori invasi. In guerra erano quasi sempre vincitori, malgrado avessero scarsa attrezzatura bellica; si può dire infatti che la loro unica arma fosse una specie di dardo dall’acuminata punta di osso, ma se ne sapevano servire con un’abilità insuperabile e sapevano spargere il terrore fra i nemici e sgominarne le file anche se meglio attrezzate perchè erano impetuosi e spericolati, e perchè emettevano grida gutturali dal suono spaventoso. Inoltre maneggiavano con abilità quasi da prestigiatori certe funi lunghissime e terminanti a cappio con le quali afferravano e scavalcavano i nemici con infallibile precisione. Questo era il popolo che per secoli e secoli si spostò fra le terre di Tartaria, da cui aveva origine, finché non trovò in Attila un grande capo, che aveva anche l’aperta visione del capitano. Meno selvaggio dei suoi sudditi, di intelligenza acutissima, aveva anche la qualità fino allora ignota fra i suoi delle fedeltà alla parola data. Era il condottiero che poteva dominarli, frenarli e portarli verso le pingui pianure d’Europa, dopo secoli di stenti fra i deserti mongolici. (C. Bini)
Attila
La carriera di questo re asiatico, che per vent’anni fu il terrore di tutta l’Europa, non cominciò bene: egli uccise il fratello con il quale avrebbe dovuto regnare sul popolo degli Unni e si dispose a governare da solo a suo piacimento. Era l’anno 444 dC e Attila, definitosi “flagello di dio”, stabilì il suo piano di conquista, forte di un grande esercito di feroci cavalieri avidi di sangue e di prede. I due imperatori di quel tempo, l’imperatore d’Oriente Teodosio e l’imperatore d’Occidente Valentiniano III, si disposero ad arginare l’invasione barbarica. Ma le orde dei cavalieri di Attila, dalle gialle facce barbute solcate di cicatrici, armati di lance e di mazze ferrate, si precipitarono sui campi fecondi e sulle città, spargendo il terrore e la morte. Dopo aver invaso la Gallia, Attila si gettò con particolare furore contro una terra ricca e allettante: l’Italia. Per prima investì Aquileia. Gli abitanti fuggirono terrorizzati su zattere e barche e si rifugiarono nei meandri della laguna veneta, e sugli isolotti e sulle isole costruirono capanne di frasche e di legno. Con il volger del tempo quelle capanne divennero palazzi e, a poco a poco, formarono la città di Venezia. Ma la meta di Attila era Roma; egli marciò fino al Mincio e… qui avvenne secondo la leggenda il miracolo: Attila incontrò il papa Leone I, il quale si era mosso da Roma, sereno e fiducioso, per esortare il “flagello di dio” a risparmiare la città di Pietro e a lasciare l’Italia. E così cadde la furia distruttrice di Attila. Il guerriero che non conosceva perdono fece levare il campo, e dopo pochi giorni, ripassò le Alpi con il suo esercito. Questa leggenda misteriosa nella sua semplicità, ha ispirato molti artisti che la hanno immortalata su tela e nel marmo: tra queste opere è celebre l’affresco di Raffaello in Vaticano.
La leggenda di Attila e Leone I
Un’immensa folla di cavalieri, accompagnata da carri, seguiva il re degli Unni. All’inizio dell’invasione di Attila, il papa Leone I aveva ordinato pubbliche preghiere in tutte le chiese, per implorare la protezione del Cielo contro l “flagello di dio”. Poi mosse incontro al re barbaro, seguito da molti fedeli. Al grido delle sue sentinelle che avevano avvistato la folla in cammino, Attila ebbe un fremito di gioia, pensando che l’esercito romano si avvicinasse al Mincio, presso cui egli era accampato, e diede ordine di prepararsi al combattimento. Ma poco dopo tornò da lui un ufficiale esploratore, sconvolto, descrivendo quello strano corteo di prelati, religiosi e di uomini disarmati che cantavano. Il loro capo, disse, era un vecchio dalla lunga barba bianca, tutto vestito di bianco, e montato sopra un cavallo bianco. Attila fece fermare l’esercito, galoppò verso il Mincio, spinse il cavallo in acqua e gridò, con violenza, rivolto al pontefice: “Qual è il tuo nome?” “Leone” rispose una voce e tutta la folla cessò di cantare. Attila attraversò il fiume e pose piede sull’altra riva: dal gruppo dei prelati si staccò il papa e venne davanti all’Unno. Nessuno saprà mai che cosa si dissero, ma improvvisamente si vide Attila scostarsi dal vecchio, attraversare il fiume e dare ordini agli ufficiali. L’esercito volse le spalle, risalì verso nord e scomparve. (M. Brion)
I Vandali
Quando gli Unni lasciarono l’Italia, apparvero i Vandali. Attraverso la Gallia, erano passati in Spagna e in Africa, dove avevano costruito un grande regno. Il loro re, Genserico, li condusse dall’Africa in Italia con una grande flotta. Essi occuparono Roma e, dopo un feroce saccheggio, la incendiarono (455). Poi tornarono in Africa con un immenso bottino. Le loro azioni furono tanto malvagie che ancora oggi si chiama “vandalo” colui che rovina e distrugge senza ragione.
La fuga da Aquileia “Su, Marco! Presto, Valeria! Dobbiamo andare, fuggire!” Valeria si mosse, stringendo al cuore la sua bambola, che non avrebbe abbandonato per nessuna ragione. Marco invece volle caricarsi, come tutti, di bagagli e la mamma gli affidò un sacchetto di provviste e un involto di indumenti. Al ragazzo quella fuga sembrava una bella avventura e non capiva perchè tutti avessero quell’aria preoccupata e ansiosa. Ben sapevano invece gli adulti perchè si dovesse fuggire: arrivavano i barbari! I vecchi ricordavano un’altra invasione, quella dei Gori, ma questi dovevano essere ben peggiori. Si sapeva che rubavano, distruggevano, uccidevano; erano Unni e il loro capo era un vero demonio. Si chiamava Attila, ma si faceva chiamare “Flagello di Dio” e la gente di Aquileia se lo immaginava come un demonio con gli occhi fiammeggianti. La città di Aquileia era troppo bella e importante perchè Attila la dimenticasse, perciò, tutti fuggivano con carri, cavalli, servi, cercando di porre in salvo i loro tesori. “Che il Signore ci aiuti!”disse la mamma di Marco e di Valeria, prima di uscire di casa. S’avviarono poi di buon passo per raggiungere il padre, che li aspettava più avanti. Le strade rigurgitavano di gente; molte donne piangevano. La mamma di Marco camminava col cuore stretto, guardando ancora una volta la città dov’era nata e vissuta: le case, le piazze, i colonnati, ma soprattutto la bella basilica cristiana. Anche Marco e Valeria vi entravano sempre volentieri; il pavimento a mosaico era la loro gioia e, tra una preghiera e l’altra, guardavano incantati le belle figure: c’era il buon Pastore con le sue pecorelle, v’erano uccelli, pesci, colombe, uva e spighe. Che peccato dover abbandonare tutto! Chissà quando sarebbero tornati ad Aquileia, la città ricca, piena di vita e movimento. “Ma dove andiamo?” chiese più volte Marco quando da un pezzo ormai stavano viaggiando. “Soltanto l’acqua ci può difendere,” spiegò il babbo: “Bisogna mettersi al sicuro sulle isole della laguna, perchè là gli Unni non potranno arrivare”. Marco e Valeria avevano sonno, erano stanchi, ma non ci si poteva fermare. Finalmente giunsero in vista delle isole della laguna, e riuscirono a raggiungerne una. Che povera isola! Non c’era che qualche capanna di pescatori e acqua, acqua dovunque volgessero lo sguardo. Eppure i fuggiaschi ringraziarono Dio e si inginocchiarono a baciare quella terra, che rappresentava la loro salvezza. Il padre di Marco levò le mani al cielo e pregò così: “O Signore, salva la città di Aquileia! Proteggila e difendila! Ma se non potessimo più farvi ritorno, concedici di trovare qui un asilo sicuro!” “Amen!” dissero gli altri in coro, compresi Marco e Valeria. Nessuno in quel momento sapeva che da quelle parole nasceva la città di Venezia. (G. Ajmone)
I materiale didattico vario e dettati ortografici Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
NUMERI DECIMALI esercizi per la quarta classe della scuola primaria, stampabili e scaricabili gratuitamente in formato pdf.
Come abbiamo già detto parlando delle frazioni, non ci troviamo sempre di fronte a quantità intere. Molto spesso ci troviamo di fronte a parti di intero. Se l’intero viene diviso in dieci parti uguali (o cento, o mille, ecc…), avremo un’unità frazionaria che rientra nel nostro sistema di numerazione decimale. Ognuna di queste dieci parti costituirà un nuovo ordine di unità, il decimo, che a sua volta potrà essere suddiviso in dieci parti uguali, e avremo il centesimo, da cui il millesimo, e così via.
Come scrivere questi numeri che seguono lo stesso ordine dei numeri interi? Semplicemente dividendo con una virgola la parte intera dalla parte decimale.
Ad esempio 0,2 (due decimi); lo stesso numero potrebbe essere scritto anche sotto forma di frazione: 2/10.
Che cos’è allora un numero decimale? Il numero decimale è un numero composto di unità intere e unità decimali. Le due parti sono separate dalla virgola.
Come nei numeri interi, ogni cifra vale dieci volte la cifra posta alla sua destra.
0,2 vuol dire 0 interi e 2 decimi; ossia l’intero è stato diviso in 10 parti uguali e se ne considerano solo 2.
Aggiungere degli zeri alla destra di un numero intero vuol dire moltiplicarlo per 10, 100, 1000, ecc…
Esempio: 4 – 40 – 400 – 4.000
Se invece gli zeri si aggiungono alla sinistra del numero, essi non hanno alcun valore. Se aggiungo uno o più zeri alla destra di un numero decimale, il suo valore non cambia:
Esempio: 2,4 – 2,40 – 2,400
Infatti si tratta sempre di 2 interi e 4 decimi.
Uno o più zeri, messi dopo la virgola, non modificano il numero se non sono seguiti da un’altra cifra:
Esempio: 2,0000000 = 2
Se si aggiungono degli zeri alla sinistra della parte decimale di un numero, questa parte decimale cambia di valore (diventa 10, 100, 1000 volte più piccola):
FRAZIONI esercizi per la quarta classe della scuola primaria, stampabili e scaricabili gratuitamente in formato pdf.
Finora abbiamo considerato l’unità intera. Ma, a volte l’intero viene diviso in parti. Se esso viene diviso in parti uguali, abbiamo le unità frazionarie. Che cos’è dunque l’unità frazionaria? Ognuna delle parti in cui viene diviso l’intero. Come viene scritta? Sotto forma di frazione. Che cos’è la frazione. Una parte di un’unità intera. Frazionare vuol dire dividere l’intero in parti uguali. Con la frazione possono essere indicate una o più unità frazionarie. Se l’intero è stato diviso, ad esempio, in quattro parti uguali e se ne sono considerate due, tale parte dell’intero viene indicata così:
La frazione è composta di due numeri separati da una linea che significa: diviso. I due numeri si chiamano numeratore e denominatore.
Il denominatore ci dice in quante parti è stato diviso l’intero, (ogni parte è un’unità frazionaria); il numeratore dice quante unità frazionarie sono state considerate. Se numeratore e denominatore sono uguali, la frazione è uguale a 1 (cioè all’intero) e viene detta apparente. Ad esempio:
Per trovare la frazione di un numero, si dovrà dividerlo per il denominatore e moltiplicare il risultato per il numeratore. Siano da trovare ed esempio i
si procederà così:
15: 5 = 3 (unità frazionaria)
3 x 3 = 6
Che cosa significa un mezzo? Che l’intero è stato diviso in due parti uguali. Come possiamo scriverlo? Sotto forma di frazione:
NUMERI CARDINALI E ORDINALI esercizi per la quarta classe della scuola primaria, scaricabili e stampabili gratuitamente in formato pdf.
All’inizio della quarta classe sarà bene accertarsi se i bambini hanno acquistato sicurezza e disinvoltura nella scrittura e la lettura dei numeri, insistendo soprattutto sui numeri fra i 10.000 e i 100.000 Dopo aver considerato i numeri cardinali (da cardine che significa fondamento, base), potremo soffermarci anche sui numeri ordinali, che indicano il posto occupato da una cosa in una successione o in una serie di cose appartenenti logicamente alla stessa specie. Essi sono: primo, secondo, terzo, quarto, ecc…
FRASE PAROLA SILLABA LETTERA esercizi per la classe quarta della scuola primaria, scaricabili e stampabili gratuitamente in formato pdf
La frase Il nostro discorso parlato o scritto è composto di frasi. La frase comincia con la lettera maiuscola e finisce col punto. Contiene sempre un verbo, espresso o sottointeso.
La parola Una frase è composta di parole.
La sillaba La pronuncia delle parole comporta una serie di emissioni di voce: me-la = due emissioni. Ogni emissione di voce corrisponde a una sillaba. Bisogna tener conto della corretta suddivisione in sillabe quando si deve riportate a capo parte della parola, in fin di rigo. Le parole fatte di una sola sillaba si chiamano monosillabe: qui, no, il, ecc… Quelle di due sillabe si chiamano bisillabe: me-la, pie-de, ecc… Quelle di tre, trisillabe: a-mo-re, e così via. Le parole di più sillabe si chiamano polisillabe. Vi sono sillabe formate da una sola vocale: a-mi-co, e-di-le, ecc… La sillaba può essere anche costituita da un dittongo, cioè da due vocali successive che si pronunciano con una sola emissione di voce: uo-mo, tie-ne, ecc… Se le due vocali successive si pronunciano con due emissioni di voce, si ha lo iato, che significa apertura, appunto perchè richiede una nuova apertura di bocca per la pronuncia della seconda vocale: be-a-to, mi-o, ma-e-stro, ecc… Se nella parole ricorre una consonante rafforzata, cioè doppia, questa viene suddivisa fra due sillabe: tap-pe-to, rac-col-ta, ecc… Se vi ricorre un gruppo di consonanti che comincia con l e n m la separazione delle sillabe ha luogo immediatamente dopo queste: al-tro, ar-to, ar-tri-te, pun-to, con-tro, cam-po, ecc… Se vi ricorrono gruppi di consonanti che non cominciano con una di quelle dette, tutte le consonanti appartengono alla sillaba successiva: no-stro, te-sta, ri-pre-sa, ecc…
Le lettere Le lettere dell’alfabeto italiano sono ventuno: cinque vocali e sedici consonanti. Per non creare confusione eviteremo di fare sottili distinzioni e ci limiteremo alle norme generali. Le vocali sono cinque, ma rappresentano sette suoni: a é è i ò o u. Le consonanti sono sedici e rappresentano ventun suoni, i più importanti dei quali sono: – la c ha suono dolce (o palatale) davanti alle vocali i ed e (cielo, cena); suono duro (o gutturale) davanti alle altre vocali e alle consonanti (cuoco, cane, crema, clamide). La c ha suono duro (o gutturale) anche davanti ad i e ad e, se seguita da h (chiesa, cherubino); – lo stesso vale per la g (girasol, gelo, ghirlanda, gheriglio, gola, gremito); – il digramma (dal greco “due lettere”) sc ha un particolare suono palatale davanti alla e e alla i (scena, scimmia), negli altri casi ha suono gutturale (scala, esclamare); – il digramma gn ha sempre suono palatale (legno, ogni); – salvo rarissime eccezioni, il digramma gl ha suono palatale liquido davanti a i seguita da vocale (giglio, maglia, raglio), ha suono gutturale davanti a i seguita da consonante (glicerina, geroglifico); – la lettera q è usata solo davanti a u seguita da vocale (aquila, qualità); ma vi sono casi in cui si usa la c per distinguere i quali bisognerebbe rifarsi all’origine latina del termine (cuore, vacuo); in un solo caso abbiamo la doppia qq: in soqquadro; in tutti gli altri casi la q viene rafforzata con la premessa di una c: acqua, acquistare – davanti alle lettere b e p si trova sempre la m, mai la n: gambo, campo.
IL NUMERO DEI NOMI esercizi per la classe quarta della scuola primaria scaricabili e stampabili in formato pdf.
Un nome è di numero singolare quando indica un solo essere (persona, animale o cosa). E’ di numero plurale quando indica più persone, cose o animali. I nomi che al singolare terminano in o e i, al plurale prendono la terminazione i (bambino – bambini). I nomi femminile in a prendono la e, i maschili in a prendono la i (finestre – finestre; automa – automi). I nomi terminanti al singolare in ca e ga, mutano la terminazione in chi e ghi, se maschili (patriarca – patriarchi); in che e ghe se femminili ( amica – amiche; strega – streghe). I nomi in cia e gia conservano al plurale la i quando su questa cade l’accento tonico (farmacia – farmacie) e quando la sillaba finale è preceduta da vocale (ciliegia – ciliegie), la perdono quando la sillaba finale è preceduta da consonante (lancia – lance; provincia – province). I nomi in co e go, hanno alcuni i plurali in ci e gi, altri in chi e ghi (medico – medici; gioco – giochi; dialogo – dialoghi; teologo – teologi). Talvolta hanno un doppio plurale (manico – manici o manichi; stomaco – stomaci o stomachi). I nomi in io conservano al plurale la i della sillaba finale, se su questa cade l’accento tonico (zìo – zii; logorìo – logorii); la perdono nel caso contrario (bacio – baci, talcio – talci). Alcuni nomi maschili in o hanno due plurali: uno in i maschile, l’altro in a femminile. Ma generalmente le due forme di plurale hanno significato diverso (labbro diventa labbri se di una ferita oppure labbra se della bocca; gesto diventa gesti nel senso di movimento o gesta nel senso di imprese). Alcuni nomi hanno soltanto il singolare o soltanto il plurale, come prole, umiltà, calzoni, forbici. Il plurale dei nomi composti, cioè formati da due parole, si forma in modi diversi: – se composti da due nomi, si forma il plurale solo del secondo: capolavoro – capolavori; capogiro – capogiri; arcobaleno – arcobaleni. Però per capofamiglia il plurale è capifamiglia;
– se composti da un nome e da un aggettivo, si forma il plurale dell’uno e dell’altro: terracotta – terrecotte, cassaforte – casseforti. Però terrapieno diventa terrapieni e palcoscenico diventa palcoscenici;
– se composti da un aggettivo e un nome, si forma il plurale del secondo: biancospino – biancospini, falsariga – falsarighe. Però altoforni diventa altiforni e malalingua diventa malelingue;
– se composti da un verbo e da un nome, restano invariati nel caso in cui il nome è già al plurale: il portalettere – i portalettere. Nel caso in cui il nome è singolare o restano invariati, come portabandiera, o assumono la desinenza del plurale come in portafoglio che diventa portafogli.
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.
E' pronto il nuovo sito per abbonati: la versione Lapappadolce che offre tutti i materiali stampabili scaricabili immediatamente e gratuitamente e contenuti esclusivi. Non sei ancora abbonato e vuoi saperne di più? Vai qui!
Abbonati!
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.