Autoritratti cubisti come Picasso e Braque

Materiali

  • carta da pittura
  • carta da lucido
  • fotocamera
  • stampante
  • colori a tempera
  • forbici e colla
  • pennarello nero
  • righello
  • pennelli grossi e fini

Risorse dal web

  • Cos’è il cubismo? Un corto animato di grande qualità di Tate Kids. In Inglese, ma è possibile guardarlo con i sottotitoli in Italiano con Youtube. Parla in particolare delle figure di Pablo Picasso e Georges Braque. La mia prima scelta perchè i bambini ne sono stati davvero catturati
  • Cos’è il cubismo? Della National Gallery of Scotland (Inglese con sottotitoli)
  • Cubismo in 9 minuti di Curious Muse (Inglese con sottotitoli)
  • Crea un ritratto cubista come Picasso, Peggy Guggenheim Collection, Kids Day, in Italiano. Il video tutorial che ha ispirato i nostri autoritratti

Opere che potremo ammirare al Museo Guggenheim di Venezia

Come abbiamo lavorato

  • Abbiamo parlato del cubismo guardando e commentando insieme il video prodotto da Tate kids.
  • In preparazione all’uscita didattica al Museo Guggenheim di Venezia abbiamo osservato e commentato insieme le opere presenti nella collezione.
  • Abbiamo realizzato il nostro autoritratto cubista ispirato al cubismo analitico
  • Abbiamo realizzato il nostro autoritratto ispirato al cubismo sintetico

Contenuti per l’insegnante

Parigi, 1908. Tutti gli artisti sono impegnati ad inviare le loro opere ai giudici che stanno allestendo un’importante mostra. Uno di questi giudici è Henri Matisse, un pittore molto rispettato e che all’epoca era uno degli artisti più famosi al mondo.

Ecco che arriva un giovane artista, con sei opere che spera impressioneranno il comitato della mostra. Si chiama Georges Braque ed ha 26 anni. Colleziona manifesti. Di notte li stacca dai muri di Parigi. Oltre ad essere un artista, è molto bravo negli sport.

Quando Matisse vede i quadri di Braque li trova assurdi. “Sono fatti di piccoli cubi!”, dice… un critico d’arte lo sente e nomina questa nuova arte cubismo.

Il cubismo è stato ideato da due grandi amici: George Braque e Pablo Picasso. Avevano la stessa età, ma erano molto diversi. Georges lavorava molto lentamente ed aveva un carattere introverso e solitario; Pablo lavorava molto velocemente ed aveva un carattere aperto e socievole.

Ma sai chi erano i loro eroi? I fratelli Wright, che avevano da poco inventato una macchina volante, Picasso e Braque misero perfino dei riferimenti al volo nei loro quadri, ed anche loro volevano essere degli inventori: volevano inventare una nuova arte che stupisse le persone.

Si ispirarono all’arte di tutto il mondo: le sculture africane, le stampe giapponesi, le pitture rupestri.

Notarono che quando guardiamo qualcosa, possiamo vederla solo da un punto di vista, ad esempio solo di fronte, o solo di lato, o solo dall’alto… quindi, invece di provare a dipingere le cose come le vedevano, iniziarono a dipingere le cose come le potevano immaginare.

Per questo hanno dipinto oggetti visti da molti lati contemporaneamente ed hanno quindi appiattito tutte queste visioni in un’unica immagine. In questo modo potevano rivelare in un’unica immagine diversi lati delle cose: potevano rivelare diversi lati delle cose nello stesso momento.

Ci sono molti tipi di cubismo; i più importanti sono:
. il cubismo analitico, che rompe la forma in forme geometriche. Nel cubismo analitico gli artisti sentono il colore come un elemento di distrazione, e per questo utilizzano solo i grigi ed i marroni
. il cubismo sintetico, che è più creativo e si basa sull’immaginazione dell’artista. Torna il colore.

Diamo un’occhiata a un esempio di cubismo analitico.

Georges Braque-Glass on a table.

Braque ha dipinto un bicchiere su un tavolo, ma è difficile da individuare perchè il bicchiere e il tavolo sono mostrati da molte angolazioni diverse. Possiamo vedere la parte anteriore, posteriore e laterale del bicchiere, tutto allo stesso tempo. E’ come se fosse in una stanza degli specchi, o come se lo stessimo guardando con una vista ai Raggi X.

Ora ecco un esempio di cubismo sintetico, un collage di Pablo Picasso.

Bottle of Vieux Marc, Glass, Guitar and Newspaper 1913 Pablo Picasso 1881-1973 Purchased 1961 http://www.tate.org.uk/art/work/T00414

Quali oggetti possiamo individuare? Un giornale, una bottiglia, un bicchiere, una chitarra.
Dove potremmo trovare tutte queste cose in un unico luogo? In un bar!
E’ come un puzzle o un indovinello, Picasso si diverte. Ti dà indizi riguardo all’immagine che stai guardando.
Osserva la chitarra: è davvero una chitarra? O sono parti di una chitarra? Picasso vuole che il tuo cervello metta insieme lo strumento.

In molti hanno provato a decifrare il cubismo nel corso degli anni, ma Picasso e Braque si sono sempre rifiutati di spiegarlo.

Altri artisti, oltre a Braque e Picasso, hanno iniziato a realizzare opere d’arte cubiste.

Questa, ad esempio, è una scultura di Henri Laurens:

Head of a Young Girl 1920 Henri Laurens 1885-1954 Presented by Gustav and Elly Kahnweiler 1974, accessioned 1994 http://www.tate.org.uk/art/work/T06807

E questo è un dipinto di Juan Gris:

Bottle of Rum and Newspaper 1913-4 Juan Gris 1887-1927 Presented by Gustav and Elly Kahnweiler 1974, accessioned 1994 http://www.tate.org.uk/art/work/T06808

Sonia e Robert Delaunay hanno inventato una versiona colorata del cubismo chiamata orfismo.
Questo dipinto di Sonia Delaunay illustra una poesia che descrive un viaggio attraverso la Russia sull’Espresso Transiberiano. Hai presente quando guardi fuori dal finestrino di un treno in corsa? Quando il paesaggio si offusca e diventa di tanti colori diversi? Questo è ciò che Delaunay ti mostra nel suo dipinto.

https://ilmanifesto.it/verso-la-siberia-in-viaggio-con-un-cadavere

Anche musicisti e scrittori sono stati ispirati dal cubismo.

Alla gente piaceva l’ottimismo del cubismo, il modo in cui offriva un nuovo modo di vedere le cose e di celebrare la vita moderna.

Poi, nel 1915, il cubismo si interruppe bruscamente con lo scoppio della prima guerra mondiale.
Braque prestò servizio come soldato e fu ferito sul fronte occidentale.
Picasso, nel frattempo, continuò a lavorare a Parigi e si interessò ad altre idee rivoluzionarie come il surrealismo.

Dopo la guerra Picasso e Braque si separarono, ma per sei entusiasmanti anni, dal 1908 al 1914, questi due artisti hanno creato qualcosa di rivoluzionario, un modo completamente nuovo di guardare il mondo.

Autoritratto secondo il cubismo analitico

Per ogni bambino scattiamo tre primi piani del volto: uno frontale, uno di profilo e uno dall’alto. Stampiamo le immagini

Dividiamo le tre immagini in tante forme diverse, cercando di mantenere intatti gli elementi principali del volto (occhi, nasi, orecchie, bocche)

Incolliamo gli elementi ritagliati su un cartoncino bianco, accostando le varie parti dei volti nel modo che più ci piace

Osserviamo la nostra composizione: noteremo che nel nostro collage si sono create delle linee che possiamo marcare con l’aiuto di un pennarello nero e un righello. Evidenziamo anche nasi, occhi, bocche e orecchie

quindi riempiamo gli spazi bianchi utilizzando tempera esclusivamente nei colori bianco, marrone e nero

Autoritratto secondo il cubismo sintetico

Per ogni bambino scattiamo tre primi piani del volto: uno frontale, uno di profilo e uno dall’alto. Stampiamo le immagini

Mettiamo un foglio di carta da lucido su ogni immagine e utilizzando un pennarello nero tracciamo i tre ritratti

Dividiamo le tre immagini in tante forme diverse, cercando di mantenere intatti gli elementi principali del volto (occhi, nasi, orecchie, bocche).

Tracciamo delle linee guida su un foglio bianco, quindi Incolliamo gli elementi ritagliati accostando le varie parti dei volti nel modo che più ci piace, tenendo come punto di riferimento le linee tracciate

Dipingiamo il nostro collage con i colori a tempera

Esperimento scientifico: eruzione vulcanica

Per eruzione vulcanica s’intende la fuoriuscita sulla superficie terrestre, in maniera più o meno esplosiva, di magma (una volta eruttato il magma prende il nome di lava) ed altri materiali gassosi provenienti dal mantello o dalla crosta terrestre. In genere un’eruzione vulcanica avviene o dal cratere principale di un vulcano o dai crateri secondari presenti nell’edificio vulcanico. 

Wikipedia

Con questo esperimento scientifico i bambini possono visualizzare l’aumento di pressione che si crea nella “camera magmatica” del vulcano per azione del calore e la conseguente fuoriuscita di gas e bombe vulcaniche.

https://www.lapappadolce.net/wp-content/uploads/2023/02/vulcano%20ok.mp4

Materiale occorrente

  • una beuta da 500 ml
  • una brocca d’acqua (all’acqua potete aggiungere colorante rosso e del detersivo per piatti)
  • un tappo di gomma da provette per la beuta
  • un tappo di gomma da provette per l’imbuto
  • un fornelletto da esterno
  • materiali leggeri come argilla espanza, terriccio da cactus, pezzetti di corteccia ecc.

Preparazione

1. praticare un foro al centro del tappo di gomma grande e inserire l’imbuto

2. riempire la beuta con 500 ml di acqua, quindi inserire sul collo della beuta il tappo con l’imbuto. Premere bene per fissarlo saldamente

3. appoggiare il tappo di gomma piccolo sull’apertura dell’imbuto, senza spingere. NON PREMERLO! (la beuta potrebbe esplodere)

4. riempire l’imbuto di materiali secchi (sempre senza spingere)

Esecuzione dell’esperimento

1. recarsi all’esterno (considerate che l’eruzione raggiunge vari metri di altezza, quindi meglio farlo all’aperto per evitare di colorare il soffitto!)

2. porre la beuta sul fornelletto

3. accendere il fornelletto e attendere a qualche metro di distanza

L’eruzione vulcanica fa parte della serie di esperimenti che vengono proposti durante la prima grande lezione cosmica in relazione alla formazione del pianeta Terra

Naturalmente questo esperimento deve essere eseguito da un adulto, mentre i bambini osservano, ma vale davvero la pena proporlo perchè è una rappresentazione più fedele alla realtà rispetto al vulcano bicarbonato di sodio e aceto. Inoltre l’eruzione è davvero spettacolare.

Se comunque preferisci proporre il secondo, qui trovi la mia proposta: Esperimento scientifico: eruzione vulcanica

Esperimento scientifico: un termometro fatto in casa

Esperimento scientifico: un termometro fatto in casa.

Scopo

Comprendere come funziona un termometro.

Età

Dai 9 anni.

Materiali

Acqua
cannuccia trasparente
plastilina o colla a caldo
colorante alimentare
bottiglia di plastica trasparente col tappo
alcol denaturato
un contagocce
olio
vaso col tappo
imbuto.

Note di sicurezza

Finché usiamo i materiali ragionevolmente questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato ad un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento ci farà comprendere come funziona un termometro

. nel vaso misceliamo una parte di acqua e una parte di alcol denaturato. Aggiungiamo del colorante alimentare. Dovremo preparare una quantità di soluzione che ci permetta di riempire completamente la bottiglia scelta, con un ciotolina di avanzo. Teniamo sempre coperta la soluzione, poiché l’alcol evapora molto facilmente

. versiamo la soluzione nella bottiglia evitando di farla traboccare

. per arrivare a riempirla fino al collo completiamo l’operazione con un contagocce. Teniamo coperta la soluzione col tappo o un bicchiere rovesciato

. inseriamo con delicatezza la cannuccia lasciando che almeno 10 centimetri di cannuccia rimangano fuori dalla bottiglia. La cannuccia non deve toccare il fondo della bottiglia e con la plastilina sigilliamo accuratamente la cannuccia attorno al collo della bottiglia

. se non abbiamo plastilina, possiamo praticare un foro nel tappo, far passare la cannuccia e sigillare tutto con la colla a caldo

. con il contagocce aggiungiamo nella cannuccia la soluzione che abbiamo tenuto da parte, di modo che nella cannuccia al di fuori della bottiglia ci siamo circa 5 centimetri di soluzione

. col contagocce inseriamo nella cannuccia poche gocce d’olio per isolare la soluzione alcolica e impedire che evapori

. possiamo fissare un pezzetto di cartoncino bianco alla cannuccia: questo ci permetterà di visualizzare meglio il liquido nella cannuccia, e ci permetterà di segnare il livello del liquido

. segniamo una tacca sul cartoncino per il termometro a temperatura ambiente

. mettiamo il termometro in una ciotola di acqua e ghiaccio e segniamo la tacca per il livello che il termometro raggiunge nella ciotola

. riportiamo il termometro a temperatura ambente, poi mettiamolo in un pentolino con acqua calda e segniamo la tacca per il livello che il termometro raggiunge nel pentolino

Chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

La piccola colonna d’aria fornita dalla cannuccia consente al liquido di espandersi verso l’alto quando l’ambiente si scalda.
Infatti, avrai notato che il liquido è salito nella cannuccia quando hai immerso il termometro nell’acqua calda. Avrai anche notato che il liquido è sceso nella cannuccia quando hai immerso il termometro nell’acqua col ghiaccio.
Tutta la materia è fatta di particelle e tutte queste particelle sono in costante movimento. L’energia coinvolta in questo movimento è chiamata energia cinetica. Quando la temperatura della materia diminuisce, le sue particelle si muovono più lentamente, si avvicinano tra loro e l’energia cinetica diminuisce.
Quando la temperatura aumenta, le particelle nella soluzione del termometro si muovono più velocemente e si allontanano tra loro quindi la soluzione si espande e sale nelle cannuccia.
Quando usi il termometro, trasferisci la temperatura e l’energia cinetica dell’esterno alla soluzione all’interno del termometro. La soluzione nel termometro cambia per adattarsi alle nuove condizioni della soluzione e i risultati sono visibili e possono essere misurati.
L’alcol è un liquido molto volatile, cioè evapora molto rapidamente. È per questo che mentre costruisci il termometro devi coprire i contenitori. Il termometro inoltre smetterà di funzionare una volta tutto l’alcol sarà evaporato.

Esperimento scientifico: bicchiere su bicchiere

Esperimento scientifico: bicchiere su bicchiere.

Scopo

Far diminuire la pressione interna ad un bicchiere tramite combustione.

Età

Dai 9 anni.

Materiali

Due bicchiere identici
fiammiferi
candela
carta igienica
acqua.

Note di sicurezza

Insegnare ai bambini come utilizzare i fiammiferi in sicurezza. Eseguire l’esperimento lontano da materiali infiammabili e legarsi i capelli.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato ad un piccolo gruppo di bambini o nell’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra che è possibile far diminuire la pressione interna ad un bicchiere facendo bruciare al suo interno una candela

. impiliamo 4 fogli di carta igienica uno sull’altro per ottenere un quadrato spesso di carta e ritagliamo al centro un foro circolare del diametro di almeno 3 cm

. mettiamo una candela al centro del primo bicchiere, eventualmente fissandola con della cera o un po’ di pasta da modellare

. mettiamo la carta sul bordo del bicchiere

. accendiamo la candela

. bagniamo la carta facendo gocciolare dell’acqua

. immergiamo il bordo del secondo bicchiere in una ciotola d’acqua e posiamolo capovolto sul primo bicchiere

. dopo un po’ di tempo la candela si spegnerà

perché la fiamma avrà consumato tutto l’ossigeno, e si sarà creato un vuoto parziale nei due bicchieri. Grazie a questo vuoto potremo sollevare i due bicchieri uniti tra loro:

Esperimento scientifico: accendi e spegni

Esperimento scientifico: accendi e spegni.

Scopo

Osservare come un combustibile brucia in presenza di ossigeno, ma non in presenza di anidride carbonica.

Età

Dai 9 anni.

Materiali

Piattini
due bottigliette di vetro
lievito in polvere
bastoncini per spiedini in legno e accendino oppure fiammiferi lunghi
bicarbonato di sodio
aceto o succo di limone
due bicchierini
acqua ossigenata.

Note di sicurezza

Insegnare ai bambini come utilizzare i fiammiferi in sicurezza. Eseguire l’esperimento lontano da materiali infiammabili e legarsi i capelli.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra che un combustibile brucia in presenza di ossigeno, ma non in presenza di anidride carbonica

. mettiamo sul tavolo le due bottigliette una accanto all’altra

. riempiamo la prima bottiglietta per circa un terzo con acqua ossigenata e aggiungiamo del lievito

. agitiamo la bottiglietta con delicatezza, copriamola con un bicchiere capovolto, e lasciamo riposare per circa 10 minuti

. versiamo nella seconda bottiglietta 4 cucchiaini di bicarbonato e aceto bianco o succo di limone, versandolo poco alla volta. Copriamo anche questa bottiglietta con un bicchiere capovolto

. accendiamo la punta dello spiedino (o un lungo fiammifero) e aspettiamo che si formi una bella brace prima di spegnere

Togliamo il bicchiere dalla prima bottiglietta e inseriamo lentamente il bastoncino: la fiamma si riaccenderà

. passiamo il bastoncino acceso nella seconda bottiglietta: il fuoco si spegnerà

Possiamo ripetere l’esperimento più volte finché l’ossigeno non si esaurirà completamente nella prima bottiglietta

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

Nella prima bottiglietta il contatto tra acqua ossigenata e lievito produce ossigeno perché l’acqua ossigenata è un veleno per il lievito. Il lievito si difende dall’acqua ossigenata trasformandola in composti innocui, cioè in acqua e ossigeno, per l’azione degli enzimi della perossidasi.
L’ossigeno è un comburente, cioè aiuta la fiamma a bruciare, e per questo il bastoncino si accende.
Nella seconda bottiglietta l’aceto e il bicarbonato di sodio subiscono una reazione chimica che porta alla formazione di anidride carbonica e di sodio acetato, un sale che rimane in soluzione.
L’anidride carbonica ostacola il fuoco soffocando la combustione, ed è per questo che il bastoncino si spegne.

Esperimento scientifico: l’estintore

Esperimento scientifico: l’estintore.

Scopo

Osservare che la candela brucia in presenza di ossigeno, ma non in presenza di anidride carbonica.

Materiali

Candele di compleanno o candele a stelo
aceto o succo di limone
lievito secco in polvere
vaso di vetro pulito
cucchiaio
fiammiferi
piccolo pezzo di pasta da modellare o cera.

Note di sicurezza

Insegnare ai bambini come utilizzare i fiammiferi in sicurezza.

Età

Dai 6 anni.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o nell’intera classe.

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra che la candela brucia in presenza di ossigeno, ma non in presenza di anidride carbonica

. prendiamo un piccolo pezzetto di pasta da modellare e pressiamolo bene sul fondo del primo barattolo

. incastriamo bene una candelina nella pasta

. versiamo con cura un cucchiaio di lievito dentro il vaso, tutto intorno alla candela, distribuendolo uniformemente

. accendiamo la candela con un fiammifero

. versiamo lentamente e delicatamente una piccola quantità di aceto nel barattolo

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

La candela brucia per un po’ e poi si spegne.
L’atmosfera terrestre è formata da vari gas, tra i quali ossigeno, azoto e anidride carbonica.
L’ossigeno e l’azoto sono leggeri. L’ossigeno ha la proprietà di aiutare il fuoco a bruciare.
L’anidride carbonica è più pesante degli altri gas e non permette alle sostanze di bruciare in sua presenza.
Quando aggiungiamo l’aceto al lievito, le due sostanze reagiscono tra loro. Questa reazione produce anidride carbonica, che è più pesante dell’ossigeno, e per questo riempie la parte più bassa del vaso, spingendo via l’ossigeno. Quando l’anidride carbonica prodotta dalla reazione riempie il vaso, la fiamma della candela si spegne. Il fuoco, infatti, non può ardere in presenza di anidride carbonica.
La fiamma della candela si spegne quando non ha più ossigeno da bruciare.
Lo stesso principio si applica agli estintori, che sono riempiti di anidride carbonica sotto pressione. Gli estintori infatti soffocano gli incendi togliendo l’ossigeno al fuoco.

Esperimento scientifico: pieghiamo la luce

Esperimento scientifico: pieghiamo la luce.

Scopo

Mostrare gli effetti della riflessione della luce.

Età

Dai 10 anni.

Materiali

Una bottiglia di plastica trasparente
punteruolo o forbici
acqua
torcia o puntatore laser
lavandino o bacinella
una stanza facilmente oscurabile.

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra gli effetti della riflessione della luce

. pratichiamo un foro nella bottiglia di plastica a circa 5 centimetri dal fondo

. copriamo provvisoriamente il foro con del nastro isolante o col dito e riempiamo la bottiglia di acqua

. avvitiamo il tappo alla bottiglia

. oscuriamo la stanza e togliamo il tappo della bottiglia: l’acqua fluirà in un arco

. facciamo brillare la torcia attraverso il flusso d’acqua puntandola sul lato opposto al foro. Se necessario copriamo una parte della torcia con le dita per restringere il raggio

Osservazioni e conclusioni

La luce si piega con l’arco d’acqua e crea un bagliore luminoso dove l’acqua tocca il lavandino. Quando la luce nella corrente d’acqua colpisce il confine tra l’acqua e l’aria, gran parte della luce viene riflessa nel flusso d’acqua.
La luce continua questa riflessione interna lungo tutto l’arco formato dall’acqua che cade.
Lo stesso principio è usato per trasmettere segnali luminosi attraverso fibre ottiche flessibili.

Esperimento scientifico: oggetti ignifughi

Esperimento scientifico: oggetti ignifughi.

Scopo

Dimostrare che l’acqua e i metalli assorbono calore impedendo a oggetti infiammabili di bruciare.

Età

Dai 9 anni.

Materiali

Candela
accendino o fiammiferi
2 Palloncini
una moneta
filo di cotone
2 scatoline di carta
2 sacchetti di plastica
2 bicchieri di plastica
acqua (eventualmente colorata con coloranti alimentari o acquarelli)
mascherina.

Note di sicurezza

Eseguire l’esperimento all’aperto o in una stanza ben aerata. Insegnare ai bambini come utilizzare i fiammiferi in sicurezza. Indossare una mascherina.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra che l’acqua e i metalli assorbono calore impedendo a oggetti infiammabili di bruciare

. accendiamo la candela

. mettiamo un pezzetto di filo di cotone sulla fiamma della candela: brucerà

. prendiamo un altro pezzo di filo, leghiamogli una moneta e mettiamolo sulla fiamma: il filo non brucerà

. mettiamo una scatolina sulla fiamma: brucerà

. versiamo dell’acqua in un’altra scatolina e mettiamola sulla fiamma: la scatolina non brucerà

. mettiamo un bicchiere sulla fiamma: brucerà

. mettiamo delle monete in un altro bicchiere e mettiamolo sulla fiamma: il bicchiere non brucerà

. gonfiamo un palloncino e mettiamolo sulla candela: esploderà. Mettiamo un po’ d’acqua in un altro palloncino e gonfiamolo

. avviciniamo lentamente il palloncino alla candela: il palloncino non esploderà

. mettiamo un sacchetto sulla fiamma: brucerà

. mettiamo dell’acqua in un altro sacchetto e mettiamolo sulla fiamma: il sacchetto non brucerà

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

L’acqua assorbe molto bene il calore. Le pareti sottilissime del palloncino consentono al calore di attraversarle senza problemi e riscaldare l’acqua all’interno. L’acqua più vicina alla fiamma si riscalda e inizia a salire, così l’acqua più fredda la sostituisce e assorbe il calore della candela. Il lo scambio di acqua calda e fredda continua a circolare all’interno del palloncino, che per questo motivo non scoppia.
La fuliggine sul fondo del pallone è in realtà carbonio che si è depositato lì dalla combustione dello stoppino: questa fuliggine rende il palloncino più resistente al fuoco.
Usare l’acqua per controllare il calore è un processo molto interessante: il nostro corpo, ad esempio, si raffredda espellendo il sudore.

Esperimento scientifico: barchette a sapone

Esperimento scientifico: barchette a sapone.

Scopo

Indagare l’effetto di diversi liquidi sulla tensione superficiale dell’acqua.

Età

Dai 6 anni.

Materiali

Sapone liquido
vari liquidi domestici, ad esempio: aceto, latte, olio da cucina, balsamo, soia di salsa
vaschetta del ghiaccio o portauova
un cartone del latte
pepe macinato o altra spezia
cotton fioc o bastoncini per spiedini
teglia o ampio contenitore.

Note di sicurezza

Dopo l’esperimento gettare l’acqua saponata per evitare che venga accidentalmente ingerita.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento indaga l’effetto di diversi liquidi sulla tensione superficiale dell’acqua

. prepariamo un vassoio per cubetti di ghiaccio o un contenitore per uova con una piccola quantità di diversi liquidi domestici in ogni compartimento

. mettiamo un po’d’acqua in un piatto fondo. Cospargiamo la superficie dell’acqua con pepe macinato o altra spezia

. immergiamo un’estremità del cotton fioc in un liquido alla volta e proviamo ad immergerla nell’acqua, osservando il risultato

. da ultimo immergiamo il cotton fioc imbevuto di sapone liquido

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni e scegliamo quale liquido è il migliore

. prendiamo un contenitore vuoto del latte e ritagliamo una barchetta lunga circa 4 cm. Ritagliamo una piccola tacca sul retro della barchetta

. riempiamo una teglia con acqua

. posizioniamo la barchetta sulla superficie dell’acqua

. immergiamo un cotton fioc nel detersivo liquido e usiamolo per toccare l’acqua vicina alla parte posteriore della barca

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

La superficie dell’acqua è un po’ come la superficie di un palloncino gonfio. Nel palloncino ogni molecola della gomma le molecole che le stanno intorno. La superficie dell’acqua è simile perché ogni molecola d’acqua tira le molecole che le stanno intorno.
Se si conficca uno spillo in un palloncino, la gomma si allontana da quel punto. Qualcosa di simile accade quando si mette del sapone sulla superficie dell’acqua.
Quando mettiamo il sapone accanto al retro della barchetta, l’acqua si muove la parte posteriore della barca è spinge la barca in avanti, proprio come i gas caldi che escono dal fondo di un razzo lo spingono verso l’alto.
In natura, quando un uccello sbatte le ali preme verso il basso l’aria, e di conseguenza va verso l’alto. Quando nuotiamo le braccia spingono l’acqua all’indietro e questo è ciò che ci fa muovere in avanti.
Nel caso della barchetta alimentata a sapone, l’acqua viene spinta all’indietro dal sapone, e per questo la barca va avanti.
Senza sapone, l’acqua tira la barca da tutte le direzioni, e di conseguenza il suo movimento è minimo.

Lo stuzzicadenti impazzito

Lo stuzzicadenti impazzito

Scopo

Dimostrare le proprietà della tensione superficiale dell’acqua.

Età

Dai 6 anni.

Materiali

Uno stuzzicadenti
shampoo
una bacinella d’acqua
forbici.

Note di sicurezza

Dopo l’esperimento gettare l’acqua saponata per evitare che venga accidentalmente ingerita.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra le proprietà della tensione superficiale dell’acqua

. arrotondiamo una delle punte dello stuzzicadenti con le forbici e usiamola per tamponare un po’ di shampoo

. mettiamo lo stuzzicadenti nella bacinella

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

Lo stuzzicadenti inizierà a muoversi nella direzione della punta appuntita.
Lo shampoo contiene agenti che riducono la tensione superficiale dell’acqua.
Non appena lo shampoo sulla punta dello stuzzicadenti si scioglie, riduce la tensione superficiale dell’acqua attorno, liberando così la presa dell’acqua su quella estremità dello stuzzicadenti.
L’acqua attorno all’altra estremità dello stuzzicadenti ha ancora tensione superficiale, quindi tira lo stuzzicadenti in quella direzione.

Esperimento scientifico: pepe in fuga

Esperimento scientifico: pepe in fuga.

Scopo

Dimostrare la tensione superficiale.

Età

Dai 5 anni.

Materiali

Acqua
un piatto fondo
pepe macinato (o altre spezie in polvere)
detersivo liquido.

Note di sicurezza

Dopo l’esperimento gettare l’acqua saponata per evitare che venga accidentalmente ingerita. Non toccarsi gli occhi e il naso dopo aver maneggiato il pepe.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra la tensione superficiale

. versiamo l’acqua nel piatto

. cospargiamo la superficie dell’acqua con pepe macinato

. versiamo una goccia di detersivo per i piatti sulla punta di un dito

. tocchiamo con la punta del dito la superficie dell’acqua, al centro del piatto

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni. Cosa è successo? Perché?

Osservazioni e conclusioni

La maggior parte dei granelli di pepe è sfrecciata ai lati del piatto e alcuni granelli sono caduti sul fondo.
La prima domanda da porsi è: “Perché i fiocchi di pepe galleggiano? Perché non affondano o si dissolvono nell’acqua?”
Il pepe è idrofobo, cioè l’acqua non è attratta dal pepe, e per questo il pepe non può dissolversi in essa.
I granelli di pepe galleggiano perché le molecole d’acqua si attraggono tra di loro e sulla superficie si comportano come un sottile film elastico. Poiché i fiocchi di pepe sono leggeri e idrofobi, la tensione superficiale li fa galleggiare sopra.
La domanda successiva a cui pensare è: “Perché il pepe fugge ai bordi del piatto quando il sapone tocca l’acqua?”
Il sapone riduce la tensione superficiale dell’acqua, riducendo la reciproca attrazione delle molecole d’acqua. Lungo i bordi del piatto, lontani dal sapone, la tensione superficiale dell’acqua non cambia, quindi attrae il pepe.
Il sapone quindi rompe la tensione superficiale e quando la tensione superficiale si rompe, il pepe viene tirato verso i bordi del piatto.
L’acqua da sola non è in grado di eliminare lo sporco da un piatto o un tessuto. I detersivi hanno grandi proprietà: si dissolvono nell’acqua, riducendo la reciproca attrazione delle sue molecole, mentre attirano e legano insieme piccole particelle di sporco.
In questo modo, lo sporco viene staccato dal piatto o dal tessuto e disperso in acqua, e questo consente un lavaggio efficace.

Facciamo la ricotta coi bambini

Facciamo la ricotta coi bambini.

Scopo

Conoscere i processi coinvolti nella produzione della ricotta.

Età

Dai 6 anni.

Materiali

2 parti di kefir
1 parte di latte intero.

Si può utilizzare kefir pronto oppure prepararlo con i granuli di fungo tibetano per kefir

Note di sicurezza

Spiegare ai bambini come evitare i pericoli legati uso dei fornelli e di materiali molto caldi.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato ad un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento ci aiuterà a conoscere i processi coinvolti nella produzione della ricotta

. portiamo il latte a ebollizione, quindi versiamo il kefir e mescoliamo. Il coagulo dovrebbe iniziare ad apparire dopo pochi secondi

. mescoliamo delicatamente tenendo il fuoco basso

. i grumi diventano sempre più grandi e il siero di latte si separa dai grumi

. mettiamo una garza o un panno di lino o un pezzo di collant in un colino e scoliamo il nostro composto

. facciamo gocciolare bene il siero

. quindi mettiamo la ricotta in un piatto

. condiamo con sale e se vogliamo aggiungiamo spezie a piacere e olio

. dopo la produzione di ricotta avremo come avanzo di produzione il siero di latte. Il siero di latte contiene molto calcio e altri sali minerali. Sfortunatamente, non ha un buon sapore. Puoi provarlo a bere, oppure darlo ai tuoi animali domestici (ai miei gatti piace) o usarlo per innaffiare le piante.

Osservazioni e conclusioni

Il latte è costituito da acqua, zuccheri, proteine (tra le quali la caseina), grassi e sali minerali uniti in una miscela chiamata colloide.

Un colloide è una miscela che non si separa col passare del tempo (come l’acqua e la sabbia) e nemmeno può essere separata con un normale filtraggio.

Normalmente le molecole di caseina si respingono a vicenda, ma se il pH del latte diminuisce, le molecole di caseina si attraggono improvvisamente l’una con l’altra. Questo le fa aggregare tra loro a forme una sostanza che non è latte, ma cagliata.

Questo processo è detto coagulazione.

Il liquido che rimane dopo la coagulazione è il serio di latte.

Il pH del latte può essere abbassato in diversi modi. Nella nostra ricetta abbiamo abbassato il pH aggiungendo il kefir, che è acido.

Il kefir avvia il processo di coagulazione e il calore accelera la reazione.

Facciamo lo yogurt coi bambini

Facciamo lo yogurt coi bambini.

Scopo

Comprendere che lo yogurt è il sottoprodotto di batteri che digeriscono il lattosio nel latte.

Materiali

Un litro di latte
4 cucchiai colmi di yogurt con fermenti lattici attivi
bagno di acqua calda o sole estivo
normale attrezzatura da cucina
garza
termometro da cucina (opzionale).

Note di sicurezza

Spiegare ai bambini come evitare i pericoli legati uso dei fornelli e materiali molto caldi.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato in un piccolo gruppo di bambini o nell’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra che lo yogurt è il sottoprodotto di batteri che digeriscono il lattosio nel latte

. riscaldiamo il latte a fuoco molto basso senza portarlo a ebollizione (dovrebbe essere intorno agli 80° C)

. togliamo il latte dal fuoco e lasciamolo raffreddare (fino a 45 ° C)

. aggiungiamo lo yogurt al latte e mescoliamo bene

. prepariamo una vaschetta di plastica con acqua calda (45°), versiamo il composto in più vasetti di vetro e immergiamoli nell’acqua calda

. in estate mettiamo la vaschetta al sole, in inverno teniamola su di un termosifone per 8-12 ore

. in estate possiamo anche semplicemente versare il composto in un vaso di vetro e metterlo in un luogo caldo e in ombra per 12 ore

. filtriamo con una garza se vogliamo uno yogurt più denso prima di gustare in nostro yogurt, teniamolo un paio d’ore in frigorifero

. mangiamolo al naturale o aggiungendo i nostri frutti preferiti

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

I batteri che “producono” yogurt più conosciuti sono: Lactobacillus acidophilus, Bifido bacterium, Lactobacillus bulgaricus e Lactobacillus casei.
Grazie all’azione di questi batteri il latte cambia la sua composizione e diventa più digeribile. Questi batteri partecipano anche alla produzione di alcune vitamine nel tratto digestivo, formano una barriera protettiva contro i microrganismi patogeni, possono essere mangiati anche da persone allergiche al latte vaccino.
Lo yogurt è il prodotto che deriva dalla fermentazione batterica del latte.
Quando acquisti yogurt che contiene “fermenti lattici attivi”, significa che in quello yogurt sono ancora presenti batteri viventi.
Alimentando questi batteri e mantenendoli alla loro temperatura ottimale, essi mangeranno, si moltiplicheranno e trasformeranno il latte in yogurt.
I batteri utilizzati nella produzione dello yogurt metabolizzano il lattosio, uno zucchero presente nel latte, per produrre energia e creare acido lattico come prodotto di scarto. Questo acido aiuta a dare allo yogurt la tipica consistenza e il sapore che conosciamo.
Quando riscaldiamo il latte le catene che formano le sue proteine si rilasciano.
Raffreddando il intorno ai 45 gradi, arriviamo alla temperatura ottimale affinché i batteri dello yogurt subiscano il metabolismo.
Poichè i batteri producono gradualmente acido lattico, le proteine si trasformano gradualmente in solidi e si coagulano delicatamente in una rete di catene. Questa rete è in grado di intrappolare il liquido all’interno e il prodotto finale è un gel liscio che si rafforza nel tempo.
Tempi di fermentazione più lunghi produrranno uno yogurt più acido e più forte.
Filtrando il prodotto si ottiene uno yogurt più denso perché la filtrazione separa fisicamente la cagliata solida dal siero di latte liquido.
Il grasso del latte non partecipa a questo processo, ma influenza la consistenza e il sapore del prodotto finale.
Se abbiamo accesso a un microscopio a luce composta, possiamo osservare i batteri dello yogurt ad alto ingrandimento.
Per preparare il vetrino usare lo stuzzicadenti per spalmare una piccola quntità di yogurt sul vetrino, aggiungere una goccia d’acqua e fermare col vetrino coprioggetto.
In generale, questi batteri si presentano in due forme principali: a forma di stelo oblungo (Lactobacillus) o a forma di piccola sfera (Streptococco).

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Facciamo il burro coi bambini

Facciamo il burro coi bambini.

Scopo

Conoscere i processi coinvolti nella produzione del burro.

Età

Dai 4 anni.

Facciamo il burro coi bambini
Materiali

. panna (la più grassa che trovi)
. un vaso di vetro o plastica con coperchio a tenuta grande 3 volte almeno la quantità di panna
. una bottiglia di plastica (facoltativa)
. una ciotola
. acqua corrente.

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Facciamo il burro coi bambini
Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. almeno cinque ore prima di eseguire l’esperimento tiriamo la panna fuori dal frigo, in modo che al momento di utilizzarla sia a temperatura ambiente

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. versiamo la panna nel barattolo e avvitiamo il coperchio con cura. Per iniziare si può usare una bottiglia di plastica, e poi travasare la panna in un vaso

. iniziamo a scuotere il barattolo (o la bottiglia) avanti e indietro, finché non si forma il burro: questa operazione potrebbe richiedere da 5 a 20 minuti

. scegliendo una colonna sonora per questa fase, e passandosi il barattolo a turno tra più bambini, scuotere il barattolo sarà più divertente

. di tanto in tanto chiediamo ai bambini di guardare all’interno del barattolo

. la panna si ispessisce gradualmente man mano che scuotiamo il barattolo. Ad un certo punto diventerà così densa che si muoverà molto meno mentre scuotiamo: la panna sarà diventata panna montata. In questa fase la panna potrebbe rivestire le pareti del barattolo, e può essere il momento di travasare la panna dalla bottiglia al barattolo

. continuiamo a scuotere il barattolo, finché non sentiremo come uno sciabordio. A questo punto infatti il burro si sarà separato dal siero. Questo cambiamento avviene all’improvviso, in pochi secondi

. il burro sarà di un colore giallo pallido, mentre il liquido sarà chiaro e lattiginoso. Il contenuto del barattolo sarà ben visibile adesso perché agitando il siero laverà le pareti del barattolo mentre il grumo solido di burro sbatterà di qua e di là

. apriamo il barattolo, vuotiamolo del liquido e rimettiamo il coperchio. Scuotiamo nuovamente per separare altro liquido dal burro. Ripetiamo l’operazione più volte

. togliamo il pezzo di burro dal barattolo e mettiamolo in una ciotola di acqua fredda

. laviamoci le mani e impastiamo delicatamente il burro per rimuovere eventuale altro siero presente

. ripetiamo più volte, usando ogni volta acqua fredda pulita. Questa operazione è molto importante, perché se non rimuoviamo accuratamente il liquido dal burro, questo non potrà conservarsi molto a lungo e diventerà presto rancido

. mettiamo il burro in un contenitore e poniamolo una decina di minuti in frigorifero

. spalmiamo un po’ del nostro burro su dei cracker o sul pane, così i bambini potranno assaggiarlo

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

Quando scuotiamo la panna abbastanza a lungo, i piccoli globuli di grasso che contiene si legano tra loro e inglobano le proteine, formando una sostanza solidificata: il burro. Il liquido residuo è il siero.
Il latte di mucca appena munto è composto da panna e latte insieme. La panna è meno densa del latte, quindi galleggia sulla superficie e può essere rimossa. Il latte scremato è il latte rimasto dopo la rimozione della panna.

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Esperimento scientifico: cagliare il latte

Esperimento scientifico: cagliare il latte.

Scopo

Conoscere i processi coinvolti nella produzione di una cagliata di latte.

Materiali

2 tazze di latte fresco intero (non a lunga conservazione)
1/4 di cucchiaino di sale da tavola
2 cucchiai di aceto bianco
carta casa
normale attrezzatura da cucina (pentole, ciotole, misurini, mestoli, ecc.)
scolapasta.

Note di sicurezza

Spiegare ai bambini come evitare i pericoli legati uso dei fornelli e di materiali molto caldi.

Presentazione

Questa attività può essere mostrata a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe.

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che con questo esperimento faremo una cagliata e scopriremo i processi chimici che la provocano

. versiamo il latte in una pentola

. riscaldiamo a fuoco lento, mescolando

. togliamo dal fuoco appena sembra che il latte stia per iniziare a sobbollire, cioè quando ha una temperatura di 80 gradi centigradi

. aggiungiamo al latte il sale e l’aceto e mescoliamo molto delicatamente per 5 secondi: il latte comincerà a separarsi in granuli bianchi e un liquido leggermente giallastro

. abbiamo ottenuto la cagliata e il siero di latte

. utilizzando un mestolo forato o un setaccio fine, trasferiamo delicatamente la cagliata in uno scolapasta foderato di carta assorbente

. la cagliata è un formaggio molto semplice. Puoi mangiarlo col cucchiaino o spalmarlo sul pane

. si conserva qualche giorno in frigorifero.

Osservazioni e conclusioni

Il latte è costituito da acqua, zuccheri, proteine (tra le quali la caseina), grassi e sali minerali uniti in una miscela chiamata colloide.
Un colloide è una miscela che non si separa col passare del tempo nel tempo (come l’acqua e la sabbia) e nemmeno può essere separata con un normale filtraggio.
Normalmente le molecole di caseina si respingono a vicenda, ma se il pH del latte diminuisce, le molecole di caseina si attraggono improvvisamente l’una con l’altra. Questo le fa aggregare tra loro a forme una sostanza che non è latte, ma cagliata.
Questo processo è detto coagulazione.
Il liquido che rimane dopo la coagulazione è il serio di latte.
Il pH del latte può essere abbassato in diversi modi. Nella nostra ricetta abbiamo abbassato il pH aggiungendo l’aceto, che è un acido.
L’aceto avvia il processo di coagulazione e il calore accelera la reazione.

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Merenda atomica

Merenda atomica, una dolce attività scientifica per conoscere la tavola periodica degli elementi.

 Scopo

Familiarizzare con la tavola periodica e la struttura atomica degli elementi.

Età

Dai 9 anni.

Materiali

– Confetti colorati tipo Smarties o M&M’s. Per chi non apprezza i confetti si possono sostituire con cereali o frutta
– grandi biscotti rotondi (diametro di almeno 10 cm) o pane ritagliato col coppapasta e crema spalmabile del nostro tipo preferito e di colore preferibilmente chiaro (ad esempio formaggio spalmabile con poco zucchero e aroma di vaniglia) ecc.
– in alternativa yogurt o gelato o budino o crema pasticcera in una scodellina tonda, sempre con l’aggiunta di confetti colorati
– tavola periodica stampata o da consultare online (ad esempio qui: https://www.ptable.com/?lang=it ).

Note di sicurezza

Verificare la presenza di eventuali intolleranze alimentari o allergie nei bambini.

Presentazione

. Questa attività può essere presentata a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che faremo insieme i modelli dei primi sei elementi della tavola periodica: idrogeno, litio, berillio, sodio, magnesio, e potassio. Saranno la nostra merenda!

. stabiliamo in che modo assegnare neutroni elettroni e protoni, ad esempio:
blu = elettrone,
rosso = protone
verde = neutrone
(oppure: elettroni=anellini di cereali, protoni=uvetta, neutroni = lamponi)

. prendiamo la base scelta decisi ad occuparci dell’idrogeno e calcoliamo i confetti (o gli altri ingredienti scelti) che ci servono consultando la tavola periodica

. leggiamo il numero atomico dell’idrogeno (il numero in alto a sinistra): 1

. leggiamo la massa atomica (sotto al simbolo dell’elemento) = 1,008 (arrotondato): 1 La massa atomica si arrotonda per eccesso o per difetto

. ricordiamo:
protoni = numero atomico = 1 confetto rosso
elettroni = protoni = 1 confetto blu
neutroni = (massa atomica – numero atomico) = (1 – 1) = 0 (l’idrogeno 1 non ha neutroni) = nessun confetto giallo)

. mettiamo il confetto rosso al centro (il nucleo è formato da protoni + neutroni)

. mettiamo il confetto blu verso il margine del disco (gli elettroni ruotano attorno al nucleo)

. allo stesso modo prepariamo il litio:

. nucleo: 3 protoni (rosso) + 4 neutroni (gialli)
elettroni: 3 (blu)

. il berillio


. nucleo: 4 protoni (rosso) + 5 neutroni (gialli)
elettroni: 4 (blu)

. il magnesio


. nucleo: 12 protoni (rosso) + 12 neutroni (gialli)
elettroni: 12 (blu)

il potassio


nucleo: 19 protoni (rosso) + 20 neutroni (gialli)
elettroni: 19 (blu)

Una tavola periodica preparata per la prima fiaba cosmica qui:

Esperimento scientifico: patata frizzante

Esperimento scientifico: patata frizzante.

Scopo

Osservare l’azione dell’enzima catalasi.

Età

Dai 10 anni.

Materiali

Perossido d’idrogeno (acqua ossigenata)
una patata cruda
un bicchiere.

Note di sicurezza

L’acqua ossigenata non va ingerita e non deve entrare in contatto con gli occhi.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra la presenza dell’enzima catalasi nella patata

. versiamo del perossido di idrogeno nel bicchiere e aggiungiamo una fetta di patata sbucciata

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni, facendo particolare attenzione alla presenza di bolle di gas.

Osservazioni e conclusioni

Nelle patate è presente un particolare enzima detto catalasi.
Gli enzimi si trovano in tutte le cellule viventi. Il loro compito è quello di scomporre le sostanze chimiche alimentari in qualcosa di più semplice e facile da elaborare.
La catalasi nella patata scompone il perossido di idrogeno in acqua e ossigeno.

Esperimento scientifico: legumi in crescita giorno per giorno

Esperimento scientifico: legumi in crescita giorno per giorno.

Scopo

Osservare germinazione e crescita di un fagiolo.

Età

Dai tre anni.

Materiali

Barattoli o vasetti di yogurt
garze, panno-carta, tessuto leggero o collant
elastici
fagioli.

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che con questo esperimento osserveremo germinazione e crescita di un fagiolo

. versiamo l’acqua nel primo vaso

. copriamo il barattolo con una garza e fermiamola con un elastico (oppure utilizziamo carta, filtri per caffè ecc.). Posiamo i fagioli in modo che restino sollevati ma a contatto con l’acqua

. al posto della garza possiamo usare filtri di carta o sacchetti per alimenti e carta assorbente

. possiamo preparare vari contenitori con più fagioli di varietà diverse. Questo aumenterà le probabilità di successo dell’esperimento

. mettiamo una brocca d’acqua o un piccolo annaffiatoio accanto ai barattoli, così i bambini potranno prendersi cura dei fagioli ogni giorno

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni per le tre settimane successive, poi le piantine saranno pronte per il trapianto il vaso.

Osservazioni e conclusioni

. giorno 1: i fagioli cominciano a gonfiarsi

. giorno 5. Iniziano a germogliare

. giorno 7: il germoglio cresce

. giorno 11: spuntano le prime foglie e le radici secondarie

. giorno 12: le foglie si innalzano verso la luce e le radici crescono

. giorno 18: le foglie crescono e ne spuntano di nuove. Anche le radici crescono

. giorno 22: foglie e radici continuano a crescere. Le foglie sono già abbastanza grandi …

. giorno 25. Il nostro seme è diventato una pianta sana e bella 🙂

Variante

Vuoi che il bambino visualizzi tutta la sequenza dal vivo? Pianta ogni giorno un fagiolo in un vasetto diverso. Spettacolare!

Quale forma è la migliore per una foglia?

Quale forma è la migliore per una foglia?

Scopo

Osservare come la forma delle foglie delle piante svolga una funzione di primaria importanza.

Età

Dai 9 anni.

Materiali

Ritagli di carta colorata
forbici
cannucce o spiedini
nastro adesivo
pistola ad acqua, siringa o spruzzino
acqua.

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato ad un piccolo gruppo di bambini o nell’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra che la forma delle foglie delle piante svolge una funzione di primaria importanza

. ritagliamo un rettangolo, un cerchio, una foglia a margini lisci e una foglia a margini seghettati

. attacchiamo ogni forma ad una cannuccia utilizzando il nastro adesivo

. usiamo la pistola ad acqua, lo spruzzino o la siringa per bagnare ogni “foglia” e osserviamo

. come scorre l’acqua su ogni superficie? Quali forme si dimostrano più efficaci nel drenare l’acqua?

. chiediamo agli studenti di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

Le forme naturali delle foglie aiutano a dirigere l’acqua lungo la superficie raccoglierla sulla punta, dove alla fine gocciola via.


In un temporale, questo impedisce che le piante non vengano fatte a pezzi dal peso dell’acqua accumulata sulle foglie.

Esperimento scientifico: il pittore delle piante

Esperimento scientifico: il pittore delle piante

Scopo

Dimostrare il processo di assorbimento e traspirazione che avviene nelle piante.

Materiali

Alcuni garofani bianchi (o cavolo cinese, o gambi di sedano con le foglie, o altri fiori bianchi)
colorante alimentare
acqua di rubinetto
bicchieri o vasetti di vetro trasparente.

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra il processo di assorbimento e traspirazione che avviene nelle piante

. decidiamo di quale colore ci piacerebbe far diventare il nostro fiore

. riempiamo il contenitore di vetro con acqua di rubinetto

. aggiungiamo il colorante alimentare all’acqua

. mettiamo il fiore scelto nell’acqua colorata

. possiamo eseguire questo esperimento con più fiori e più vasetti, mettendo in ognuno un colore diverso

. se utilizziamo il sedano o il cavolo cinese (o un fiore con un gambo abbastanza grosso,) possiamo provare a colorare lo stesso gambo con colori diversi, tagliando il gambo in due sezioni e immergendo ognuna in un colore diverso

. per osservare i risultati di questo esperimento bisognerà essere pazienti: per alcuni fiori serviranno poche ore, per altri potrebbero essere necessari 1 o 2 giorni

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

L’acqua viaggia verticalmente lungo gli steli e raggiunge foglie e fiori. Lo possiamo appurare con questo esperimento: l’acqua colorata del bicchiere arriva a colorare foglie e fiori.
Nelle piante non sono presenti strutture che spingono l’acqua dal basso verso l’alto, ma processi chimico fisici diversi agiscono insieme per permettere all’acqua di raggiungere fiori e foglie. Questi processi sono: osmosi, capillarità, traspirazione.


L’acqua del terreno passa per osmosi all’interno delle radici attraversando la loro membrana cellulare. All’interno delle radici c’è una concentrazione di sali maggiore di quella del terreno, e per questo la pressione aumenta. la membrana costituita dalle cellule epidermiche: si crea un gradiente di concentrazione tra l’esterno (soluzioni poco concentrate nel terreno) e l’interno della pianta (soluzioni molto concentrate nelle cellule). La pressione che si crea si chiama “pressione radicale”, ed è abbastanza forte da spingere l’acqua fino ad altezze maggiori di quanto permetta la capillarità.


Se consideriamo i minuscoli diametri dei vasi in cui scorrono acqua e sali minerali, è chiaro che la capillarità svolge un ruolo importante nella salita dell’acqua dalla radice alla foglia.
Tuttavia, anche la capillarità e la pressione radicale insieme non basterebbero a far salire l’acqua fino alla cima di un sequoia.


Il terzo elemento che permette all’acqua di salire all’interno della pianta è la pressione negativa che si crea nella pianta per effetto della traspirazione, cioè l’evaporazione dell’acqua dalle foglie. L’evaporazione avviene perché il sole, scaldando le foglie, porta l’acqua dallo stato liquido a quello gassoso (vapore).


Più del 90 per cento dell’acqua assorbita da una pianta viene persa per traspirazione, cioè eliminata attraverso le foglie. Questo processo che potrebbe sembrare uno spreco di energia e di acqua, genera nei vasi una depressione che aspira i liquidi verso l’alto.


La depressione dipende dalla dimensione della chioma e dall’intensità del calore solare, ma si calcola che può raggiungere le 15 atmosfere, cioè permette la risalita dei liquidi fino agli oltre 100 metri delle sequoie.
Proviamo a mettere un vaso in una stanza buia e una in una stanza soleggiata: quali garofani traspirano di più? Saremo in grado di dirlo perché il fiore con il colore più intenso sarà quello che ha traspirato di più.

Esperimento scientifico: insalata di germogli

Esperimento scientifico: insalata di germogli.

Scopo

Osservare la germinazione dei semi ed utilizzare i germogli a scopi alimentari.

Età

Dai 5 anni.

Materiali

Un barattolo di vetro
semi di grano, soia o girasole
acqua calda
collant, garza o tessuto leggero
elastico.

Note di sicurezza

Finché usi ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato ad un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che con questo esperimento faremo germogliare dei semi per poterci preparare una buona insalata

. versiamo dei semi in un barattolo, per un’altezza di due o tre centimetri

. copriamo i semi con acqua calda

. fissiamo sulla bocca del vaso un pezzo di collant (garza o tessuto) con un elastico

. cambiamo l’acqua ogni giorno, finché i semi non saranno germogliati

. per i primi 3 giorni teniamo i semi al buio, poi portiamoli alla luce

. rimuoviamo dal vaso eventuali germogli danneggiati

. quando i germogli saranno pronti, prepariamo insieme una bella insalata

I germogli non utilizzati si conservano bene in frigo per qualche giorno.

Esperimento scientifico: il seme di avocado

Esperimento scientifico: il seme di avocado.

Scopo

Osservare la germinazione del grosso seme dell’avocado.

Età

Dai 3 anni.

Materiali

Stuzzicadenti
un bicchiere o un vasetto
carta casa
coltello
un sacchetto per alimenti
acqua.

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento mostrerà come si sviluppa una pianta di avocado a partire dal seme

. rimuoviamo il seme da un avocado e laviamolo delicatamente in acqua tiepida.
. determiniamo la direzione in cui il nostro seme deve essere posto nell’acqua. Il fondo è più largo e ha una piccola rientranza al centro, ed è da lì che si formeranno le nuove radici

. usiamo gli stuzzicadenti per infilzare la parte superiore del seme di avocado, quindi immergiamolo in un piccolo vasetto d’acqua assicurandoci che il fondo sia rivolto verso il basso

. mettiamo il bicchiere in un luogo caldo lontano dalla luce solare diretta.

Altri modi per far germogliare un seme di avocato sono:

. tagliare mezzo centimetro ad ogni estremità del seme prima di metterlo in acqua

. avvolgere il seme in triplo foglio di carta casa, mettere in sacchetto per alimenti e aggiungere acqua (se gli altri metodi non funzionano, ho sperimentato che questo è infallibile)

. chiediamo ai bambini di osservare il seme nelle due settimane successive.

Osservazioni e conclusioni

. dovremmo vedere che le radici e lo stelo iniziano a germogliare non prima di 8 settimane

. la parte superiore del seme di avocado si ridurrà di volume e formerà una fessura

. la fessura si estenderà fino al fondo del seme

. nella fessura nella parte inferiore, inizierà a emergere un piccolo fittone

. il fittone continuerà a crescere e potrebbe formare delle diramazioni

. un piccolo germoglio sboccherà nella parte superiore del seme

. quando la radice avrà una lunghezza di circa 15 centimetri, tagliamola circa a metà per rinforzarla

. aspettiamo che la radice si ingrossi e il fusto abbia foglie nuove, quindi piantiamolo in vaso lasciando il seme a metà scoperto e annaffiandolo frequentemente

. non dimentichiamo che più luce del sole la pianta riceve, meglio è.

Esperimento scientifico: il dente di leone

Esperimento scientifico: il dente di leone.

Scopo

Usare gli steli del dente di leone per dimostrare l’osmosi e introdurre i concetti di idrofilo e idrofobo.

Materiali

Denti di leone appena colti
una bacinella d’acqua.

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra l’osmosi

. prendiamo uno stelo di dente di leone e dividiamolo nel senso della lunghezza tirando in direzioni opposte

. poniamo gli steli divisi in contenitore pieno d’acqua e osserviamo i gambi arricciarsi assumendo forme di spirale

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

L’interno dello stelo del dente di leone è idrofilo, cioè assorbe acqua. La parola idrofilo significa “amante dell’acqua”. L’interno dello stelo è infatti la parte che assorbe l’acqua.
Quando mettiamo lo stelo diviso nella bacinella, l’interno dello stelo ha la possibilità di assorbire davvero tanta acqua.
Attraverso il processo di osmosi l’acqua passa dalla bacinella alle cellule dell’interno dello stelo.
L’esterno dello stelo è idrofobo, cioè respinge l’acqua. La parola idrofobo significa “che odia l‘acqua.
Così mentre le cellule idrofile (interne) assorbono acqua e si gonfiano, le cellule idrofobe (esterne) rimangono della stessa dimensione.
La dimensione maggiore delle cellule su un lato del gambo forza lo stelo ad arricciarsi in varie forme.

Esperimento scientifico: l’arcobaleno in una stanza

Esperimento scientifico: l’arcobaleno in una stanza.

Scopo

In questo esperimento rifrangiamo la luce del sole attraverso l’acqua.

Età

Dai 4 anni.

Materiali

Luce del sole
torcia
contenitore trasparente
specchietto
vecchio cd
fogli di carta bianca
acqua.

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato ad un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe.

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra che la luce che percepiamo come bianca è composta dai colori dell’arcobaleno

. in una stanza in penombra illuminiamo un contenitore pieno d’acqua con la torcia

. proviamo varie angolazioni finché non vedremo apparire sul muro un piccolo arcobaleno

. ora usciamo all’aperto o andiamo in una stanza ben illuminata dai raggi del sole e versiamo l’acqua in un contenitore trasparente riempendolo circa a metà

. immergiamo lo specchietto in modo che la parte immersa dello specchietto venga colpita dai raggi del sole

. incliniamo lo specchietto finché non vedremo il nostro arcobaleno, quindi appendiamo in foglio di carta bianca per vederlo meglio

. lasciamo il foglio bianco appeso e proviamo a inclinare un cd in modo che riceva i raggi del sole

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

La luce, quando viene rifratta nel modo giusto, si separa nei colori che la compongono.
Con la parola rifrazione intendiamo il modo in cui la luce si piega quando passa attraverso mezzi diversi, come il vetro o l’acqua.
La luce che di appare bianca è una combinazione di tutti i colori visibili. Quindi, quando la luce si piega, tutti i suoi componenti (rosso, arancione, giallo, verde, blu e indaco) si piegano. Ognuno di questi colori si piega con un’angolazione diversa perché ogni colore viaggia a una velocità diversa all’interno dell’acqua o del vetro.

Un arcobaleno è un’eccellente dimostrazione della rifrazione della luce. Dopo o durante la pioggia, puoi vedere un arcobaleno se la luce del sole colpisce le goccioline d’acqua nell’aria ad una certa angolazione.

L’effetto dei nostri esperimenti non somiglia esattamente all’arcobaleno che vediamo nel cielo dopo la pioggia, ma condivide con esso le stesse caratteristiche generali per quanto riguarda i colori e il loro ordine. I nostri esperimenti e l’arcobaleno che appare nel cielo condividono gli stessi principi: la rifrazione e la riflessione.

Nella prima parte dell’esperimento, rifrangiamo la luce della torcia attraverso l’acqua. Quando facciamo brillare la luce bianca della torcia o del sole nell’acqua, la luce si piega. A seconda del tipo di torcia che abbiamo a disposizione l’effetto sarà più o meno marcato.

Nella seconda parte dell’esperimento i diversi colori della luce solare vengono rifratti da diversi angoli perché hanno lunghezze d’onda diverse. Di conseguenza, quando la luce bianca viene rifratta, viene separata in diversi colori, fenomeno che prende il nome di “dispersione”. Quando riflettiamo la luce fuori dall’acqua usando lo specchio, riflettiamo la stessa luce bianca ma scomposta dalla rifrazione nei colori dell’arcobaleno.

Nella terza parte dell’esperimento la luce non viene rifratta, ma diffranta. Nella rifrazione, come abbiamo visto, la luce subisce una deviazione passando da un mezzo a un altro. Nella diffrazione la luce non cambia mezzo, ma devia il suo percorso perché nel mezzo sono presenti degli ostacoli.

Il cd si comporta come un reticolo di diffrazione, uno strumento ottico usato in laboratorio per separare i colori della luce. In un cd le informazioni sono immagazzinate in una singola traccia a forma di spirale, molto densa, che corre dal centro al bordo del disco. I solchi del cd deviano e diffondono la lucei in modo diverso per le diverse lunghezze d’onda, cioè per i diversi colori: i colori si sparpagliano in modo simile alle onde del mare quando arrivano all’imboccatura di un porto: incontrando l’ostacolo, si irradiano in tutte le direzioni, interferendo non solo fra loro ma anche con quelle in arrivo.

I reticoli di diffrazione sono presenti anche in natura. Per esempio, i colori iridescenti delle piume del pavone, della madreperla, le ali delle farfalle e di altri insetti.

Perché i tramonti sono rosso arancio e il cielo azzurro?

Perché i tramonti sono rosso arancio e il cielo azzurro?

Scopo

Dimostrare che la luce del sole si riflette urtando le molecole sospese nell’aria, il che rende il nostro cielo blu e i nostri tramonti rossi, facendo brillare una torcia attraverso bastoncini di colla a caldo.

Età

Dai 5 anni.

Materiali

Una piccola torcia
bastoncini di colla a caldo
fogli di carta bianca
nastro adesivo trasparente.

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra la dispersione della luce nell’atmosfera

. mettiamo dei fogli di carta in fila sul tavolo

. mettiamo la torcia e un bastoncino di colla sui fogli bianchi

. teniamo la torcia vicino ad un’estremità di un bastoncino di colla a caldo, di modo che la luce risplenda attraverso la colla

. notiamo che l’estremità del bastoncino più vicina alla luce è di un colore diverso rispetto all’altra estremità: appare più bianca mentre la parte più lontana appare più gialla

. fissiamo insieme due bastoncini di colla e teniamoli insieme con del nastro adesivo trasparente

. ripetiamo la nostra indagine accendendo la torcia e notiamo le differenze di colore lungo i bastoncini

. continuiamo ad aggiungere bastoncini di colla legandoli col nastro adesivo e continuiamo ad i cambiamenti di colore e intensità lungo i bastoncini nella loro lunghezza complessiva. Noteremo che la luce diventa via via più rossa e fioca lungo i bastoncini fissati insieme, man mano che la luce si allontana dalla torcia

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

La torcia emette luce bianca, che è la somma dei colori dello spettro luminoso. Il bastoncino di colla diffonde la luce blu della torcia leggermente più di quanto non diffonda la luce gialla o rossa. Questo fa sì che l’estremità del bastoncino più vicino alla torcia ci appaia di colore bluastro mentre vedremo l’altra estremità gialla-arancione.
Quando aumentiamo la lunghezza aggiungendo altri bastoncini, una maggior quantità di luce blu viene dispersa, e l’estremità lontana dalla torcia assume un colore arancione.
Abbiamo realizzato un modello del fenomeno chiamato scattering (in italiano diffusione ottica o dispersione), grazie al quale vediamo il cielo azzurro e i tramonti rosso-arancio
Il cielo è blu perché la luce blu è più facilmente dispersa nella nostra atmosfera, proprio come la luce blu della nostra torcia è stata più facilmente dispersa nei bastoncini di colla.
Al tramonto il sole è basso, vicino all’orizzonte, e la luce viaggia attraverso un maggiore spessore di atmosfera di quanto non faccia quando il sole è alto nel cielo.
La luce della torcia viaggiando nei bastoncini di colla diventava più rossa man mano si allontanava dalla torcia. Allo stesso modo il tramonto appare rosso quando il percorso della luce solare si allunga.
Il sole produce luce bianca, che è costituita dalla luce di tutti i colori: rosso, arancione, giallo, verde, blu e viola. Anche la nostra torcia produce luce bianca.
La luce è un’onda e ognuno di questi colori corrisponde a una frequenza diversa e quindi a una diversa lunghezza d’onda della luce.
I colori nello spettro luminoso sono disposti in base alle loro frequenze: la luce viola e blu hanno frequenze più alte di quella gialla, arancione e rossa.
Quando la luce bianca del sole splende attraverso l’atmosfera terrestre, si scontra con le molecole di gas. Queste molecole diffondono la luce. Più è corta la lunghezza d’onda della luce, più è dispersa dall’atmosfera. Poiché la sua lunghezza d’onda è molto più breve, la luce blu è sparsa circa dieci volte di più della luce rossa.
La frequenza della luce blu, rispetto alla luce rossa, è più vicina alla frequenza di risonanza degli atomi e delle molecole che compongono l’aria. Cioè, se gli elettroni legati alle molecole nell’aria vengono spinti, oscillano con una frequenza naturale che è persino più alta della frequenza della luce blu.
La luce blu spinge gli elettroni con una frequenza vicina alla loro frequenza di risonanza naturale, che provoca la radiazione della luce blu in tutte le direzioni in un processo chiamato scattering.
La luce rossa che non è dispersa continua nella sua direzione originale.
La luce viola ha una lunghezza d’onda ancora più corta della luce blu. Allora, perché il cielo non è viola? In base al colore che subisce di più il fenomeno dello scattering, il cielo dovrebbe essere viola. Ci appare blu perché la nostra sensibilità ai colori di fa captare il viola in modo molto debole, mentre percepiamo in modo intenso il blu, presente in grande quantità e facilmente percepibile dai nostri fotorecettori specializzati a captare il blu, il verde e il rosso.
Lord John Rayleigh, alla fine del 1800, capì che il colore blu del cielo era il risultato di un fenomeno chiamato scattering: l’atmosfera non assorbe la luce, ma le molecole in sospensione la riflettono, e questa riflessione è più pronunciata per le lunghezze d’onda più corte, cioè il blu e il viola, alla fine dello spettro visibile.
Gli esperimenti di Newton con i prismi avevano dimostrato, duecento anni prima, che la luce bianca è composta dai colori dello spettro visibile: il rosso, l’arancio, il giallo, il verde, il blu e il violetto.
Mentre la luce attraversa l’atmosfera, gli atomi assorbono e riemettono luce. Non cambia l’intensità della luce, ma la direzione: e questo cambio di direzione, che chiamiamo scattering, è 10 volte più intenso per il viola rispetto al rosso.
È quello che chiamiamo scattering selettivo o scattering di Rayleigh (dal nome di chi l’ha studiato per primo).
La luce blu ha una lunghezza d’onda breve e ad alta frequenza, così viene diffusa molto facilmente. Quando guardiamo il cielo, tutta la luce che vediamo è stata diffusa, cioè redirezionata verso i nostri occhi. Siccome vediamo solo questa, ci appare blu.

Perchè i tramonti sono rosso arancio?

Perchè i tramonti sono rosso arancio? Un esperimento scientifico per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Scopo

Dimostrare che i tramonti ci appaiono rosso-arancio a causa delle lunghezze d’onda dei colori dello spettro solare e del movimento della terra intorno al sole.

Età

Dai 5 anni.

Materiali

Un contenitore trasparente
acqua
sostanza lattiginosa (sapone, latte, latte in polvere, yogurt, cera per pavimenti, ecc.)
una torcia elettrica che emetta luce bianca
una stanza buia.

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra che i tramonti ci appaiono rosso-arancio a causa delle lunghezze d’onda dei colori dello spettro solare, e del movimento della terra intorno al sole

. mettiamo il contenitore dove possa essere osservato da tutti i lati

. riempiamolo per ¾ con acqua. Mettiamo la torcia accesa contro una parete del contenitore così suo raggio passi attraverso l’acqua. Proviamo a individuare il fascio di luce nell’acqua: si potranno vedere particelle di polvere, tuttavia sarà piuttosto difficile individuare esattamente il fascio

. tenendo la torcia in posizione aggiungiamo goccia a goccia la sostanza lattiginosa finché il fascio di luce non diverrà ben visibile

. osserviamo il raggio: nella zona più vicina alla torcia apparirà azzurro, mentre nella zona più lontana apparirà rosso-arancio

. più sostanza lattiginosa aggiungiamo, più saranno visibili l’azzurro all’inizio e l’arancio alla fine. Più sostanza lattiginosa aggiungiamo all’acqua, più il fascio di luce si diffonderà nel liquido

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

La luce solare ci appare bianca perché contiene tutti i colori nello stesso raggio. Ognuno di questi colori si sposta con onde più o meno ampie.

Quando la luce entra nell’atmosfera si scontra coi gas e le altre particelle contenute nell’aria.
I colori con onde più corte, cioè il violetto e l’azzurro, si scontrano con le particelle e vengono deviati e riflessi in tutte le direzioni. Per questo, ovunque si guardi, i raggi che arrivano ai nostri occhi appaiono azzurri.
I colori con onde più lunghe, cioè il rosso e l’arancio, scavalcano le particelle e continuano il loro tragitto.
Per questo, all’alba e al tramonto, quando i raggi arrivano sulla terra lunghi e obliqui, vediamo il cielo rosso-arancio.
Quando il raggio della torcia viaggia attraverso l’aria, non possiamo vedere il fascio di lato perché l’aria è uniforme, e la luce della torcia viaggia in linea retta. Lo stesso vale quando il fascio viaggia attraverso l’acqua, poiché l’acqua è uniforme, e il fascio viaggia in linea retta. Potremo intravedere il fascio di luce solo se nell’aria o nell’acqua sono presenti particelle di polvere.
Quando abbiamo versato la sostanza lattiginosa nell’acqua, abbiamo aggiunto molte piccole particelle di proteine e grassi in sospensione nell’acqua
Che cosa significa questo esperimento e cosa ha a che fare col cielo azzurro e i tramonti arancio?
L’azzurro del cielo è luce solare dispersa dalle particelle di polvere nell’atmosfera. Se non ci fosse alcuna dispersione, e tutta la luce viaggiasse direttamente dal sole alla terra, il cielo apparirebbe nero avviene di notte. La luce viene diffusa dalle particelle di polvere nello stesso modo della luce della torcia dispersa dalle particelle lattiginose in questo esperimento.

Al tramonto o all’alba, la luce del sole effettua un percorso più lungo attraverso l’atmosfera rispetto a quanto avviene durante le ore del giorno e per questo puoi vedere i colori dall’altra parte dello spettro: rossi e arancioni.

Perché l’alba sembra diversa dal tramonto? E’, simmetricamente, lo stesso fenomeno, e se le condizioni atmosferiche fossero identiche nei due passaggi avremmo albe identiche ai tramonti.
La differenza sostanziale sta nella temperatura e nella quantità di polveri sottili sospese nell’aria. All’alba l’aria è più pulita e più fresca, al tramonto invece l’aria è più calda e ricca di particelle, soprattutto a causa delle attività umane.

Esperimento scientifico: l’angolo critico

Esperimento scientifico: l’angolo critico.

Scopo

Un materiale trasparente, come il vetro o l’acqua, può effettivamente riflettere la luce meglio di uno specchio, se si guarda dalla giusta angolazione.

Età

Dai 10 anni.

Materiali

Un contenitore di vetro trasparente
latte (o del latte in polvere)
un laser è la scelta migliore, se disponibile, altrimenti una torcia.

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra come il vetro o l’acqua possono effettivamente riflettere la luce meglio di qualsiasi specchio, guardando dalla giusta angolazione

. svolgiamo l’esperimento in una stanza buia

. riempiamo il contenitore trasparente con acqua

. teniamo il puntatore laser o la torcia a lato del contenitore, in modo che la luce risplenda nell’acqua

. aggiungiamo il latte una goccia alla volta, mescolando dopo ogni goccia, finché non si vede il raggio di luce che passa attraverso l’acqua

. dirigiamo il raggio di luce verso l’alto in modo che colpisca la superficie dell’acqua da sotto

. muoviamo la torcia in modo che il raggio di luce colpisca la superficie dell’acqua all’incirca ad angolo retto, poi cambiamo lentamente l’angolo in cui il raggio di luce colpisce la superficie dell’acqua

. continuiamo a sperimentare finché non troveremo l’angolo con cui il raggio trasmesso scompare completamente. A questo angolo, chiamato l’angolo critico, tutta la luce viene riflessa nell’acqua

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

In generale, quando un raggio di luce (il raggio incidente) colpisce l’interfaccia tra due materiali trasparenti, come l’aria e l’acqua, parte del raggio viene riflessa e parte di essa prosegue oltre. Il raggio di luce viene piegato, o rifratto, mentre passa da un materiale all’altro.
L’angolo critico (o angolo limite) è l’angolo oltre il quale si ottiene una riflessione interna totale.

A: normale riflessione acqua – aria
B: angolo limite o critico
C: riflessione interna totale.

La luce si sposta dall’acqua all’aria e si flette verso l’acqua. Ad un certo angolo, la flessione sarà così forte che il raggio rifratto sarà diretto proprio lungo la superficie; cioè, nessuno di questi uscirà nell’aria: questo è l’angolo critico o angolo limite.
Oltre l’angolo critico, tutta la luce viene riflessa nell’acqua, quindi il raggio riflesso è luminoso come il raggio incidente. Questo fenomeno è chiamato riflessione interna totale: viene riflesso quasi il 100 percento del raggio di luce.
L’angolo critico per l’acqua è misurato tra il raggio e una linea perpendicolare alla superficie ed è 49 gradi.

Esperimento scientifico: nelle profondità dell’oceano

Esperimento scientifico: nelle profondità dell’oceano.

Scopo

Dimostrare la legge di Pascal per i fluidi.

Materiali

Cartoni del latte vuoti o bottiglie di plastica
nastro isolante
uno spiedino o un chiodo
lavandino o bacinella
acqua
colorante (facoltativo).

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato in un piccolo gruppo di bambini o nell’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento dimostra la legge di Pascal. È una legge della fisica che ci dice che la pressione esercitata su un fluido viene trasmessa inalterata in ogni punto del fluido e sulla superficie del suo contenitore

. per provarlo pratichiamo dei fori identici disposti uno sotto l’altro lungo una parete del cartone o della bottiglia e copriamo provvisoriamente i fori con del nastro isolante

. teniamo il contenitore in orizzontale, strappiamo il nastro e osserviamo gli zampilli fuoriuscire tutti con la stessa forza

. ora prendiamo un cartone del latte e pratichiamo tre fori, come abbiamo fatto prima. Copriamo provvisoriamente i tre fori con del nastro isolante

. prendiamo un terzo cartone e pratichiamo anche qui tre fori, ma questa volta disposti in diagonale. Copriamo provvisoriamente con del nastro isolante

. riempiamo entrambi i cartoni di acqua (se vogliamo aggiungiamo del colorante)

. chiediamo ai bambini di prevedere cosa accadrà quando rimuoveremo il nastro: i getti saranno tutti lunghi uguali?
. strappiamo il nastro isolante dal cartone con i fori allineati. Osserviamo

. strappiamo il nastro dal cartone coi fori in diagonale. Osserviamo

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

La legge di Pascal
Osservazioni e conclusioni

Quando abbiamo tolto il nastro isolante dal contenitore con i fori allineati in orizzontale, tutti i getti erano della stessa lunghezza perché, secondo la legge di Pascal, la pressione dell’acqua a una data profondità è la stessa in tutte le direzioni.
Cosa è successo quando il nastro è stato rimosso dal contenitore con i fori in linea verticale? Dal foro più in basso è fuoriuscito il getto più lungo, perché più profonda è l’acqua, maggiore è la pressione).


L’acqua che fuoriesce dal foro più in basso è soggetta ad una pressione maggiore (ha più acqua/peso su di sè) e viene spinta fuori con molta più forza
L’acqua che fuoriesce dal foro superiore è sottoposta a una pressione molto molto più bassa, e il getto è di conseguenza corto e debole.
Quando i fori sono disposti in linea verticale, che sia perpendicolare oppure obliqua, i fori più in basso produrranno getti più potenti e quelli più alto getti più deboli.

Esperimento scientifico: i crateri lunari

Esperimento scientifico: i crateri lunari.

Scopo

Scoprire come si formano i crateri e perché sono di dimensioni diverse.

Età

Dai 9 anni.

Materiali

Ciottoli e sassi di forma e dimensione varia, palline non troppo pesanti, frutti di diverse dimensioni, ecc.
una scatola o cassettina o vassoio
farina
cacao in polvere
setaccio o scolapasta
eventualmente righello, penna e quaderno.

Note di sicurezza

Scegliere un luogo aperto per non mettere in pericolo persone, animali o cose durante i lanci.

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato a un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. mettiamo tutto il materiale necessario sul pavimento, o all’aperto, scegliendo una superficie l’appoggio dura (non sull’erba o sul tappeto) e con un sufficiente spazio intorno
. versiamo la farina nel vassoio e livelliamola. Lo strato di farina dovrebbe avere una profondità di almeno 5 cm

. col setaccio o lo scolapasta copriamo la farina con un velo di cacao

. sediamo a terra davanti al vassoio e lasciamo cadere uno ad uno i nostri “meteoriti”, lasciandoli cadere da diverse altezze e da diverse angolazioni

. osserviamo i crateri

. utilizzando le forbici togliamo i “meteoriti” con la massima delicatezza: questo ci permetterà di osservare ancora meglio i crateri

. prestiamo attenzione ai bordi


. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Osservazioni e conclusioni

I crateri sono depressioni a forma di ciotola circondate da un anello.
Si formano quando un meteorite si scontra con un pianeta o una luna e per questo i crateri sono più correttamente “crateri da impatto”.
Spesso il meteorite che crea il cratere esplode al momento dell’impatto, quindi il cratere è un ricordo vuoto della collisione. Studiando i crateri, comunque, gli scienziati sono in grado di risalire al tipo di oggetto che l’ha prodotto.
I crateri lunari hanno diametri diversi, inoltre alcuni sono molto profondi, mentre altri sono superficiali. La dimensione e la profondità di un cratere dipendono dalla velocità con cui il meteorite colpisce la superficie, dalla grandezza del meteorite, dall’inclinazione con cui cade sulla superficie.

Perchè il cielo è azzurro

Perchè il cielo è azzurro: un semplice esperimento scientifico per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Scopo dell’esperimento

Dimostrare che il cielo è azzurro perché il colore blu all’interno della luce solare è il più disperso dalle molecole d’aria e viene percepito meglio dai nostri occhi.

Materiali

– un contenitore trasparente (provare vari contenitori)
– acqua
– sostanza lattiginosa (sapone, latte, latte in polvere, yogurt, cera per pavimenti, ecc.)
– una torcia elettrica che emetta luce bianca
– una stanza buia.

Note di sicurezza

Finché usiamo ragionevolmente i materiali questa è un’attività molto sicura.

Età consigliata

A partire dei 5 anni.

Perchè il cielo è azzurro?

Presentazione

. Questo esperimento può essere presentato ad un piccolo gruppo di bambini o all’intera classe

. scegliamo una stanza facilmente oscurabile

. mettiamo tutto il materiale necessario sul tavolo

. spieghiamo ai bambini che questo esperimento ci spiega come mai vediamo il cielo azzurro, anche se la luce del sole è incolore ai nostri occhi.

. riempiamo il contenitore trasparente con acqua.

. oscuriamo la stanza

. sciogliamo un po’ di sostanza lattiginosa nell’acqua, per ottenere una soluzione torbida

. puntiamo la torcia verso la soluzione torbida, colpendola di lato

. giochiamo con l’angolazione della torcia fino a veder apparire l’azzurro

. se abbiamo difficoltà, proviamo a guardare il contenitore dall’alto

. chiediamo ai bambini di registrare le loro osservazioni e conclusioni.

Perchè il cielo è azzurro? Osservazioni e conclusioni

La luce “incolore” del sole è in realtà luce bianca: è composta infatti da tutti i colori dell’arcobaleno (rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco, viola) mescolati insieme.

La luce si piega quando passa attraverso mezzi diversi, in questo caso acqua e aria. Questa flessione della luce è chiamata rifrazione.

I diversi colori della luce solare vengono rifratti da diversi angoli perché hanno lunghezze d’onda diverse.

L’atmosfera della Terra contiene polvere, gocce d’acqua e altre minuscole molecole che non possiamo normalmente vederle a occhio nudo. In una giornata limpida, dunque. la luce del sole che filtra attraverso l’atmosfera si disperde in contrando le particelle contenute nell’aria.

Questa dispersione non è uguale per tutti i colori dello spettro: è molto più forte per i colori che hanno frequenze più alte e lunghezze d’onda più corte: il blu-viola. Quindi i colori violetto e blu si diffondono nell’aria più dei colori giallo rosso verde. Tra il viola e il blu, però, gli occhi umani sono più sensibili al blu.

Possiamo dire, dunque, che il cielo è blu perché il colore blu all’interno della luce solare è quello che si diffonde meglio nell’aria e che viene percepito meglio dai nostri occhi.

In questa dimostrazione la sostanza lattiginosa imita le particelle presenti nell’aria e, come queste, piega la luce (non del sole, ma della torcia).

Materiale didattico sulla seconda guerra di indipendenza

Materiale didattico sulla seconda guerra di indipendenza: dettati ortografici, letture, poesie per bambini della scuola primaria.

Astuzie di Cavour
Al principio della campagna del 1859, per arrestare l’avanzata austriaca, Cavour, allora Ministro della Guerra, diede l’incarico di allagare le campagne tra Vercelli e Novara all’ingegnere Carlo Noè, direttore dei canali statali, scrivendogli: “Caro ingegnere Noè, il suo omonimo salvò il genere umano dalle acque, lei, per mezzo delle acque salvi la Patria”

Gli Austriaci, all’inizio della seconda guerra d’indipendenza, erano convinti di conquistare Torino in pochi giorni. Alcuni loro ufficiali, con tale certezza, fecero inviare dai proprio familiari le lettere direttamente in quella città. Cavour ne venne in possesso e, consegnandole all’ambasciatore prussiano, che sostituiva in quel momento quello austriaco, disse: “Ecco qui alcune lettere destinate a persone che non siamo riusciti a trovare in città: vogliate farle pervenire ai destinatari”.

Le forze in campo
Esercito francese: 150 mila uomini. Comandante: Napoleone III, che era anche comandante supremo di tutte le forza alleate. Capo di stato maggiore, il generale Vaillant.
Esercito piemontese: 63 mila uomini. Comandante: Vittorio Emanuele II. Capo di stato maggiore, il generale Morozzo della Rocca.
Cacciatori delle Alpi: 3500 volontari male armati. Comandante: Giuseppe Garibaldi. La partecipazione di Garibaldi fu voluta dal re contro il parere del ministro della guerra La Marmora.
Esercito austriaco: 2oo mila uomini di cui  però solo 120 mila il linea. Comandante il generale Ferencz Giulay.

Solferino e San Martino
L’alba del 24 giugno, aprendo le sue pupille, vide una cosa meravigliosa: tutte le alture tra il Mincio e il Garda erano coronate dai soldati dell’Austria. Tutto l’esercito austriaco, rafforzato di nuove genti, aveva rivalicato il Mincio; lassù si era schierato, appoggiato dalle retrostanti fortezze.
All’alba Francesco Giuseppe contemplava il suo esercito e il generale Schlik disse: “La Maestà Vostra sta per assistere a una grande battaglia e a una grande vittoria”.
Vide la torre di Solferino e comprese che il nodo della battaglia era lì. Risalì a cavallo e, accompagnato dalle sue cento guardia dalle criniere bianche, mosse veloce verso Solferino. Nella corsa perse una spallina.
Risuonò il comando: “Avanti, cavalleggeri! Viva l’Imperatore!”. Baionette abbassate, senza sparare colpo, al rullo di cento tamburi, i Francesi vanno all’assalto. L’artiglieria nemica folgorava  da tutte le parti. Due volte la collina è presa dai Francesi, due volte è ripresa dagli Austriaci.
All’ultimo disperato assalto, la posizione è saldamente conquistata. La bandiera giallo-nera apparve, scomparve, riapparve sullo sprone di Solferino. Infine scomparve. Anche l’ufficiale che reggeva quella insegna scomparve. Sulla torre di Solferino sventola il tricolore di Francia.
I centro nemico è sfondato; tutte le alture sono prese. Da Cavriana partono gli ultimi colpi di cannone. Sono le quattro e tre quarti. Dodici ore è durato il duello.
Alle sette di sera Napoleone III entrava a Cavriana nella casa dove Francesco Giuseppe aveva il suo quartier generale: ma lo aveva dovuto lasciare, perché per poco non era stato fatto prigioniero anche lui.
La battaglia di Solferino era terminata; riprendeva come un uragano la battaglia a San Martino. Dalle nove del mattino i soldati italiani erano lanciati in disperati assalti sotto gli occhi del re. “Figlioli” diceva il re, “o si prende San Martino o i Tedeschi faranno fare a noi San Martino!” (Fioei, venta piè San Martin, se no gli aleman a lu fan fè a nui autri!).
All’ultimo assalto, con tutte le forze, San Martino è conquistata.
Dunque l’Imperatore entrò in quella casa di Cavriana che per breve era stata alloggio dell’altro Imperatore. Quelli che erano con lui dicono che un’espressione di tristezza e di stanchezza profonda era scolpita sul suo volto. Si sedette presso un tavolo coperto da una tovaglia verde, e rimase a lungo immobile e in silenzio.
“Sire, l’inseguimento, il coronamento della vittoria!”. Risponde l’Imperatore: “No, la giornata è finita”.
Alla luce del lungo tramonto si vedevano le colonne austriache ripassare in buon ordine il Mincio. Napoleone si ritira nelle sue stanze. Vede sulla parete, tracciate a matita, tre parole italiane: “Addio, cara Italia”. Un ignoto ufficiale di Francesco Giuseppe aveva segnato le tre parole profetiche. Quando il sole apparve, l’Imperatore era già con il pensiero a Villafranca.
(A. Panzini)

L’ordine del giorno di Vittorio Emanuele II dopo la vittoria di Solferino e di San Martino
Soldati!
In due mesi di guerra, dalle sponde della Sesia che sono state invase al Po, voi avete corso, di vittoria in vittoria, fino alle rive del Garda e del Mincio. Nella via gloriosa che avete percorso, in compagnia del nostro potente alleato, avete dato ovunque le più grandi prove di disciplina e di eroismo. La Nazione è fiera di voi; tutta l’Italia contra tra le vostre fila i suoi figli migliori, applaude il vostro coraggio e dalle vostre imprese trae fiducia per il suo destino futuro.
Ora avete riportato una nuova e grande vittoria, vincendo un nemico grande di numero e protetto da ottime posizioni.
Nella giornata ormai famosa di Solferino e di San Martino, avete respinto, combattendo dall’alba fino a notte, i ripetuti assalti del nemico e lo avete costretto a riattraversare il Mincio, lasciando nelle vostre mani il suo campo di battaglia, gli uomini, le armi e i cannoni.
Da parte sua l’esercito francese ha ottenuto uguali risultati e ugual gloria dando prova di quel valore che, da secoli, richiama l’ammirazione del mondo.
La vittoria è costata gravi sacrifici; ma da questo sangue versato per la più nobile delle cause, l’Europa imparerà come l’Italia sia degna di sedere tra le Nazioni.
Soldati!
Nelle battaglie precedenti ho spesso avuto occasione di segnalare all’ordine del giorno i nomi di molti di voi. Oggi io porto all’ordine del giorno l’intero esercito.
(Vittorio Emanuele, 25 giugno 1859)

Il dramma di Villafranca
L’8 luglio Cavour viene a sapere che il generale Fleury, primo scudiero dell’imperatore, è andato a Verona per proporre un armistizio a Francesco Giuseppe.
Cavour parte subito da Torino e si precipita dal re, che è alloggiato alla villa Melchiorri, in Monzambano sul Mincio. Appena il sovrano e il ministro si trovano soli, il tono della loro voce è così alto che rimbomba all’esterno della piccola sala della villa: l’argomento della discussione è davvero drammatico. Vittorio Emanuele è obbligato a confessare che, fin dalla vigilia di Solferino, Napoleone III gli ha confidato la decisione di trattare al più presto con l’Austria, dovuta all’attitudine alla minaccia degli Stati tedeschi. E il re si è dimostrato d’accordo dicendo che tutto sommato, questa guerra abbreviata gli farà conquistare almeno la Lombardia. Se la Francia abbandonasse la lotta, il Piemonte potrebbe continuarla da solo?
Ad ogni frase Cavour scattava sotto l’impulso della collera crescente, al pensiero di tutto quello che avrebbe potuto fare, di tutte le combinazioni che avrebbe potuto inventare, di tutte le leve che avrebbe potuto manovrare in quei diciotto giorni, se avesse conosciuto i piani di Napoleone III; tutto ciò lo rende furioso…
Vittorio Emanuele cerca di contraddirlo, di spiegargli le sue ragioni. Non è meglio concludere la guerra guadagnando la Lombardia, piuttosto che farsi nemica la Francia, col rischio di rientrare a Torino a mani vuote, sotto la minaccia delle baionette austriache e tutta l’Europa che ride di noi? Ma Cavour, che non riesce a trattenersi, grida:
“Allora, Sire, abdicate”
“Tacete! Ricordatevi che sono il Re!”
“Il vero re, in questo momento, sono io!”
“Voi il re? Voi non siete che un insolente!” gli urla Vittorio Emanuele, ed esce dalla sala sbattendo la porta.

Napoleone III e Vittorio Emanuele dopo Villafranca
Dopo il “tradimento” di Villafranca, Napoleone così spiegò le ragioni del suo comportamento:
“Se la rivoluzione varcasse gli Appennini, l’unità d’Italia sarebbe fatta, e io no voglio l’unità, ma soltanto l’indipendenza. L’unità rischia di portare a problemi interni per la questione di Roma, e a problemi esteri perché con l’unità  la Francia si ritroverebbe una grande nazione al suo fianco, che potrebbe far diminuire la sua influenza”.
Più tardi, Vittorio Emanuela II rispose a Napoleone rinfacciandogli il suo comportamento:
“Io sono vincolato dal patto con l’Europa, dal dovere di giustizia, dagli interessi della mia casa e sono vincolato al mio popolo, all’Italia. I Solferino, i San Martino riscattano talvolta i Novara, i Waterloo; ma le apostasie dei principi sono sempre irreparabili. Io sono commosso nel più profondo del mio animo per la fiducia e per l’amore che questo nobile e sventurato popolo ha riposto in me; e, prima di tradirlo, spezzo la spada e getto la corona come fece mio padre”.

Le annessioni
La fine della guerra porta alla cessione della Lombardia alla Francia, che la cede a sua volta al Piemonte, in cambio di Nizza e Savoia. Il Veneto rimane ancora sotto l’Austria.
Ma durante la guerra molte province sono insorte, hanno cacciato i sovrani,  hanno chiesto l’annessione al Piemonte. Dopo la Toscana e Massa Carrara, anche Modena insorge e, ai primi di giugno, costringe il Duca a lasciare la città. Il 13 giugno un movimento popolare sempre più forte travolge la reggenza lasciata dal Duca e proclama l’annessione al Piemonte.
A Parma il popolo è insorto fin da maggio: il 2 giugno costringe la Duchessa a fuggire e dichiara l’annessione al Piemonte.
Bologna e la Romagna, Stato del Papa, vengono tenute a freno da forti truppe austriache fino all’11 giugno, ma il 12 scoppia un’impetuosa dimostrazione popolare, e il potere passa nelle mani di un governo provvisorio: entro la mezzanotte del 13 tutta la Romagna è insorta e si è liberata del dominio austriaco e clericale. Nella discussione a Zurigo, per il trattato di pace, si propone di rimettere i sovrani sui loro troni. Ma le popolazioni si ribellano, si riuniscono in grandi assemblee e reclamano l’annessione al Piemonte.

Il trattato di pace: Zurigo, 10 novembre 1859
Si firma il trattato di page che pone ufficialmente fine alla guerra.
Nel trattato si confermano gli accordi di Villafranca, e si stabilisce che i principi italiani, che erano stati costretti a fuggire, debbono ritornare nei loro Stati. Ma come ciò sarà possibile? Non hanno eserciti propri, né possono contare sull’aiuto dell’Austria, perché questa, nel trattato, si è impegnata a rispettare il principio del “non intervento”.
D’altra parte le popolazioni sono decise a votare, per plebiscito, l’annessione al Piemonte.
Il trattato prevede che il futuro assetto dell’Italia sarà stabilito in un Congresso che sarà successivamente convocato.
Ma è impressione generale che saranno i fatti e l’autodecisione delle popolazioni, che daranno un nuovo volto all’Italia.

In margine al trattato di pace: la restituzione della Corona Ferrea
La corona ferrea, con la quale nel Medio Evo venivano incoronati i re d’Italia, e con la quale anche Napoleone fu incoronato “re d’Italia”, era stata tolta dal duomo di Monza, dove era conservata, e portata a Vienna dagli Austriaci, all’inizio della guerra.
Ora l’Austria, in virtù del trattato di pace, è obbligata a restituirla.
Sembra un presagio.

Vittorio Emanuele II
La sera del 23 marzo 1849, dopo che il suo esercito era stato sconfitto dagli Austriaci, il re di Sardegna Carlo Alberto abdicò alla corona in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Era un momento tragico per la storia italiana, ma il ventinovenne re superò questa prova con fermezza e coraggio, rifiutandosi di rinnegare ed abolire lo Statuto che suo padre aveva concesso e giurato.
Sinceramente convinto che il regno di Sardegna dovesse diventare il centro della lotta di tutti gli italiani, per l’unificazione e l’indipendenza nazionali, Vittorio Emanuele ebbe la fortuna di trovare in Cavour il geniale ministro che realizzò questo grande programma: e così i patrioti, sia monarchici sia repubblicani, si schierarono con il regno di Sardegna nella lotta all’Austria.
Vittorio Emanuele II fu sui campi di battaglia, distinguendosi nel 1859 a Palestro e a San Marino. Appoggiò la spedizione dei Mille e, ricevuto da Garibaldi a Teano il regno delle Due Sicilie appena conquistato, portò nel 1861 la corona dell’Italia unita. Fu ancora sul campo a Custoza (18669 e infine entrò, da re, in Roma libera (1870).
Carattere rude e fiero, regnò con lealtà e dignità, meritando il soprannome di “Re galantuomo”. Morì a Torino nel 1878.

Aneddoti
Un giorno il D’Azeglio disse al Re: “Ce ne sono stati così pochi nella storia di re galantuomini, che sarebbe veramente bello cominciare la serie”. “Devo fare il galantuomo?”, chiese senza ridere Vittorio Emanuele.
“Vostra maestà ha giurato fede allo Statuto, ha pensato all’Italia e non al Piemonte. Continuiamo allora a dare per certo che a questo mondo tanto un re quanto un individuo oscuro non hanno che una sola parola”
“Ebbene, il mestiere mi sembra facile” disse sua Maestà.
“E il re galantuomo l’abbiamo”, osservò il D’Azeglio.

A volte il re amava confondersi con la folla per sentirne i giudizi direttamente e per essere libero di esprimere i suoi. Nel primo anniversario dello Statuto si travestì da popolano indossando i suoi abiti da caccia, ed entrò di sera in una birreria in piazza San Carlo. Alcuni popolani che erano nel locale festeggiavano la ricorrenza e gridavano: “Viva il re! Viva lo Statuto!”.
Il re si sedette ad un tavolo, ordinò, bevve in fretta e poi, prima di uscire, si rivolse ai popolani gridando: “Viva la Repubblica!”.
Successe un parapiglia e il Re pensò di non riuscire ad uscirne, quando un operaio prese le sue difese e, siccome non riusciva a calmare i suoi compagni, gli venne l’idea di gridare: “Ma non vedete che è matto?”.
(L. Pollini)

Motti arguti 
Nel 1861 passavo in rassegna le truppe in Piazza d’Armi a Milano. Erano reggimenti di fanteria nei quali abbondavano i soldati lombardi e tra questi non pochi milanesi. Un reggimento stava davanti a me e al mio Stato Maggiore, ed i soldati, come la disciplina prescrive, tenevano gli occhi fissi nei miei. Due di quei soldati, mentre aveva gli occhi rivolti a me, tenevano senza scomporsi una conversazione, che anche se fatta a voce molto bassa, riuscii ad ascoltare parola per parola.
“Guarda” diceva uno, “El noster re come l’è bel grass”. E l’altro rispondeva: “El soo anca mi che l’è bel e grass; el se magna una provincia al dì, e te veut minga ch’el sia bel e grass?”

Il “miracolo” di Cavour
Cavour si preparava alla guerra, ma secondo i patti di Plombieres non poteva dichiararla lui: doveva aspettare di essere aggredito.
Lord Russel disse a Cavour: “Signor Conte, credo che lei stia sprecando le sue energie, perché l’Austria non le dichiarerà mai la guerra.”.
“Ma io saprò convincerla”, disse Cavour.
Il lord incredulo domandò allora ironicamente quando credeva possibile il miracolo diplomatico.
“Intorno alla prima settimana di maggio”, rispose serio serio Cavour.
E fu infatti così.
(F. Palazzi)

Il compito più difficile
Un giorno un gruppo di persone stavano tessendo le lodi di Cavour davanti a Napoleone III. Qualcuno disse:
“Sì, è un grande uomo politico; peccato che non sia lui a governare un grande Stato”.
Napoleone con molto buon senso rispose:
“Credo che il compito di fare grande  un piccolo Stato sia molto più difficile che non governare un grande Stato. Lasciatelo fare, Cavour è sulla buona strada”.

Un pensiero di Cavour
Cavour amava tanto il lavoro e le persone attive, che gli piaceva dire: “Quando voglio che una cosa sia fatta presto e bene, mi rivolgo alle persone che sono sempre occupate: i disoccupati non hanno mai tempo di far nulla”.
(F. Palazzi)

Sovrano popolare
Siamo a Torino, nel 1859, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza. La città è tutta in attesa, fremente di entusiasmo e di speranza.
Il popolo, che si era raccolto spontaneamente attorno allo stesso ideale, va una sera a fare una grande dimostrazione patriottica davanti alla dimora del conte Camillo Benso di Cavour, presidente del Consiglio dei Ministri.
La mattina dopo Cavour, molto soddisfatto, parla al Re del grande vociare di entusiasmo che gli è giunto dalla strada; ma il sovrano non ha l’aria di stupirsi.
“Vostra Maestà è stata già informata?”
“Cuntacc!” rispose il re,  “Ero anch’io fra il popolo a gridare -Viva Cavour!- “
(Vaccaro, da “Enciclopedia degli aneddoti”)

Il discorso della Corona del 10 gennaio 1859
L’apertura della sessione venne fissata al giorno 10 gennaio 1859.
La sera del 7 il conte Cavour ebbe una nuova conferenza col Re, il quale esaminò attentamente il discorso, scrisse di suo pugno alcune variazioni e concordò col suo ministro le parole diventate storiche, il grido di dolore, che erano state accennate e suggerite da Napoleone III…
La mattina del 10 gennaio l’aspetto dell’aula di Palazzo Madama era più che mai imponente. I ricordi del passato s’intrecciavano con le speranza e con la fiducia del futuro. Lì Vittorio Emanuele aveva pronunciato il giuramento solenne: lì sì era più volte appellato al buon senso e al patriottismo del parlamento e del suo popolo; lì quella mattina pronunciava le parole ardenti di chi sente nell’animo la gioia di un grande progetto.
Quando aprì il foglio di carta che doveva leggere, ci fu un silenzio profondissimo: tutti pendevano dalle sue labbra, il segreto era stato gelosamente custodito, e l’impazienza di sentire ciò che il Re avrebbe detto, era grandissima. Egli gettò uno sguardo intorno all’aula, e poi con voce che, fioca all’inizio, andò via via prendendo vigore e colorito, lesse…
Il discorso finiva così:
“L’orizzonte, in mezzo a cui sorge il nuovo anno, non è pienamente sereno. Ciò non di meno vi accingerete con la consueta alacrità ai vostri doveri parlamentari.
Confortati dall’esperienza del passato, andiamo risoluti incontro all’eventualità dell’avvenire. Questo avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull’amore della libertà e della patria. Il nostro paese, piccolo per territorio, ha guadagnato credito nei consigli europei perché grande per le idee che rappresenta e per le simpatie che ispira. Questa condizione non è priva di pericoli, perché mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi.
Forti e fiduciosi nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi.”
Ad ogni periodo il discorso venne interrotto da applausi fragorosi e dalle grida “Viva il Re!”, e alle parole “grido di dolore” eslose un entusiasmo indescrivibile. Senatori, deputati, spettatori si levarono in piedi e lo acclamarono.
I ministri di Francia, di Prussia e d’Inghilterra osservavano attoniti e commossi lo spettacolo. L’incaricato degli affari di Napoli aveva il volto bagnato di sudore.
(G. Massari)

L’eco a Milano del discorso di Vittorio Emanuele
La notizia del discorso giunse a Milano la stessa sera. Ero al teatro della Scala; a un tratto si vide un parlarsi l’un l’altro, con ansietà, con commozione, come di persone che si comunicano una grande notizia; e si osservò una sorpresa insolita anche nei palchi delle autorità e dei generali Austriaci. Quell’elettricità che era nell’aria, che era in tutti, doveva, poche sere dopo, scoppiare rumorosamente in quella stessa sala del teatro.
Si rappresentava la Norma di Bellini e, appena fu intonato il coro “Guerra, guerra!” tutto il pubblico scattò in piedi: dai palchi le signore sventolavano i fazzoletti e tutti in coro gridarono  “Guerra! Guerra!”e il coro fu fatto ripetere più volte.
Gli ufficiali della guarnigione che, come di solito, occupavano le due prime file della platea a loro riservate, non capirono sulle prime la ragione di quel chiasso. Esterrefatti, guardavano, quasi interrogando, nei due palchi riuniti di prima fila, dove stava il generale Giulay con parecchi ufficiali superiori.
Questi capirono ben presto di che cosa si trattasse e si misero ad applaudire essi pure “Guerra! Guerra!”. Anzi Giulay stesso ne diede il segnale, battendo ripetutamente la sciabola sul pavimento.
Chi avrebbe detto quella sera che la guerra sarebbe proprio scoppiata e che, cinque mesi dopo, egli avrebbe perduto a Magenta una grande battaglia?
Il segnale dato da Giulay fu subito seguito da tutti gli ufficiali, che si alzarono in piedi e, fissando il pubblico, applaudirono fragorosamente. Pensate che baccano! Da una parte si gridava entusiasticamente “Viva va guerra! Viva la guerra!, si sventolavano i fazzoletti, si chiedevano nuove repliche al coro; dall’altra si battevano in modo altrettanto provocante le sciabole a terra: il teatro fu attorniato dalla truppa, chiamata in fretta, e Giulay uscì, circondato dagli ufficiali accorsi in sua difesa. Il baccano quella sera durò a lungo: era l’esplosione del desiderio represso di vedere spuntare il primo giorno della guerra. Le parole di Vittorio Emanuele II aveva aveva acceso le polveri.
(G. Visconti Venosta)

 Napoleone III
Luigi Napoleone Bonaparte, nipote del grande imperatore, nacque nel 1808 a Parigi. Irrequieto ed avventuroso, si dedicò sin da giovanissimo alla politica, e nel 1848 fu eletto presidente della Repubblica francese. Nel 1851, con un colpo di stato, si impadronì del potere e l’anno dopo si proclamò imperatore, col nome di Napoleone III. Sotto il suo regno la Francia tornò  ad essere una delle massime potenze mondiali, pagando però grandezza e prestigio con la perdita della libertà.
Le ambizioni di Napoleone III tramontarono nel 1870 quando, dichiarata la guerra alla Prussia, venne sconfitto e catturato nella battaglia di Sedan. Mentre il suo impero crollava, egli andò esule in Inghilterra, dove morì nel 1873.
Napoleone III può essere considerato uno dei protagonisti del Risorgimento italiano. Nel 1849, egli mandò un esercito a soffocare la Repubblica romana; nel 1867, a Mentana, sbarrò a Garibaldi la via per Roma.
Questi sanguinosi episodi di ostilità, tuttavia, sono riscattati da quanto Napoleone III fece nel 1859, quando mise a repentaglio la fortuna sua e della Francia per aiutare gli Italiani a liberare la Lombardia. Malgrado tutto dunque, dobbiamo riconoscenza a Napoleone.

Nasce la Croce Rossa
Ferdinando Palasciano medico dell’esercito borbonico, aveva sostenuto dieci anni prima di Solferino, che “i feriti di guerra, nel momento in cui rimangono feriti, cessano di essere nemici e vanno raccolti e curati, indipendentemente dall’esercito a cui appartengono”.
Per questi suoi principi Ferdinando II l’aveva degradato e imprigionato. Ma la nobile proposta del Palasciano doveva essere raccolta, dieci anni dopo, da un medico svizzero che assistette alla sanguinosissima battaglia di Solferino.
In un libro intitolato “Un ricordo di Solferino” egli descrisse la tragica odissea di migliaia di feriti che, senza cure adeguate, senza assistenza, morivano dissanguati sul campo o in ricoveri improvvisati.
“Proclamiamo solennemente”, disse “che i feriti di guerra sono sacri e devono essere curati anche dai nemici”.
Le sue proposte, alla Conferenza Internazionale di Ginevra (1864) portarono alla nascita della Croce Rossa.
Il suo nome è Enrico Dunant.

Materiale didattico sulla seconda guerra di indipendenza. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Storia delle armi dalla clava a oggi

La storia delle armi per bambini della primaria con testi e immagini che possono essere d’aiuto per preparare carte delle nomenclature, linee del tempo ed altro materiale didattico.

Etimologia
La parola arma potrebbe derivare dal latino armus (armòs, in greco) che significa “omero” o “braccio. Per alcuni studiosi invece la parola potrebbe derivare dal celtico harn, “ferro”, o dall’antico germanico har  “esercito” o dallo svedese harnad, “guerra”.

Storia delle armi

I primi uomini avevano bisogno di proteggersi dagli animali e di cacciarli. Dalle prime armi naturali e che hanno a disposizione anche gli animali, le unghie e i denti, passarono ad utilizzare oggetti che noi oggi chiamiamo armi, cioè attrezzi da usare per difendersi e per cacciare. Sicuramente le prime armi utilizzate dall’uomo furono le pietre o i rami spezzati che venivano trovati per terra e scagliati contro il nemico o gli animali.

La più antica arma fabbricata dall’uomo fu la clava, un pesante pezzo di legno con un’estremità più grossa e pesante e un’impugnatura più sottile. Nell’estremità grossa poteva essere infilato un anello di selce o pezzi di selce, corno o osso per rendere l’arma più micidiale.

Nel Paleolitico inferiore, 250.000 anni fa, comparvero le lance che potevano avere una punta d’osso o di legno indurito al fuoco. Grazie alla scoperta del fuoco, l’uomo capì che bruciacchiando una lancia di legno verde, la sua punta si induriva e diventava quasi di pietra.  Scoprì che era meglio posizionare sulla sommità del bastone un sasso appuntito e scelse la selce, una pietra molto dura e facile da lavorare per ottenere delle punte affilate. Queste punte di pietra penetravano meglio e creavano ferite più grandi sugli animali, rispetto a quelle di legno indurito o di osso. L’uomo dell’età della pietra scoprì anche che poteva aggiungere al bastone della lancia il fuoco di sterpaglie accese.

Accanto alla lancia comparve anche la mazza, un’evoluzione della clava. Si tratta di un bastone con un’estremità appesantita da pietra. Per proteggersi da queste armi nel Paleolitico si sviluppò l’uso della corazza di pelle.

L’uomo dell’età della pietra trovò anche modi per aumentare la potenza di lancio del braccio umano, ad esempio estendendo la sua lunghezza: questo è il principio della frombola. La potenza della frombola nell’antichità è testimoniata dalla storia biblica di David e Golia. La frombola è composta da una sacca che contiene il proiettile (pietra) con due lacci. Facendo roteare velocemente la sacca, la forza centrifuga fornisce velocità al proiettile, che vola nell’aria quando si lascia il laccio.

Grazie a queste nuove armi l’uomo si trasformò da preda a cacciatore.

Nel Paleolitico superiore (circa 15.000 anni fa) vi fu la prima invenzione “meccanica”: l’arco con frecce, strumento che sfrutta l’elasticità del legno per lanciare la freccia. Il rilascio improvviso dell’energia immagazzinata dall’arco teso, quando torna alla sua forma naturale, è più rapida e più potente di qualsiasi impulso di cui i muscoli umani siano capaci. Probabilmente alla base dell’invenzione ci fu l’osservazione del trapano ad archetto, utilizzato dall’uomo preistorico per accendere il fuoco. Gli archi erano costruiti con legno di tasso o di olmo e le punte delle frecce erano di selce scheggiata, spesso con margini dentati per conficcarsi con fermezza nelle carni. L’arco segnò una vera e propria rivoluzione nella storia delle armi e da allora fu usato sia nella caccia sia nella guerra.

L’arco permise all’uomo di diventare un cacciatore più efficiente.  L’uso dell’arco è testimoniato nelle pitture rupestri di Altamira. Dalla sua invenzione, le civiltà di tutto il mondo hanno prodotto archi utilizzando il tipo di vegetazione che avevano a disposizione; gli archi cinesi erano fatti ad esempio di bambù.

Nel Neolitico si sviluppano l’agricoltura e la domesticazione degli animali. Questo creò abbondanza di cibo, e così gli uomini poterono dedicarsi alla guerra direttamente o sostenendo una classe di guerrieri professionisti. Risalgono all’8.000 aC le prime mura perimetrali di difesa.  Gerico è conosciuta come la “città più antica del mondo” (8.500-7.500 a.C.), fondata quando ancora non si praticava l’allevamento e non erano in uso recipienti di ceramica. Le esigenze difensive nei confronti di popolazioni rimaste ancora nomadi, costrinsero gli abitanti ad erigere una cinta di fortificazione in pietra, rinforzata all’esterno con un fossato.

Dopo la scoperta del rame puro in Anatolia, intorno al 6000 a C, la metallurgia del rame si diffuse in Egitto e in Mesopotamia. I Sumeri furono i primi ad usare armi di rame. A parte le mazze, che erano molto diffuse, per la maggior parte di trattava di oggetti troppo costosi e malleabili per essere armi efficaci. Anche i nativi americani usavano lame e coltelli di pietra focaia, ma usavano il rame per cerimonie e decorazioni. Il rame fu per molto tempo l’unico metallo noto agli umani.

Intorno al 4500 a C l’arte della metallurgia si diffuse in India, Cina ed Europa ed è con l’avvento del bronzo che le armi da taglio in bronzo divennero di uso comune. Il bronzo è una lega di rame e stagno ed è molto più duro del rame puro.

Fu ampiamente utilizzato in Asia: la civiltà della valle dell’Indo prosperò grazie al miglioramento della metallurgia. Il bronzo è stato prodotto su larga scala in Cina per le armi, tra cui lance, asce, archi compositi e elmi in bronzo o cuoio.

Il Khopesh era un’arma a forma di mezzaluna. Aveva un manico corto e una lama di bronzo. Venne inventato dai Sumeri nel 3000 a C per il bisogno di un’arma potente come un’ascia ma che non avesse il suo ingombro e il suo peso. Era l’arma principa bble delle tribù che vivevano vicino alla Mesopotamia e venne poi adottato dagli Egizi. Ramses II (1250 a C circa) fu il primo faraone ad usare il khopesh in guerra. Il Khopesh poteva essere usato come un’ascia, una spada o una falce, divenne l’arma più popolare in tutto l’Egitto e un simbolo del potere e della forza reale. Possiamo ritrovare il Khopesh anche nelle opere d’arte assire.

Circa nel 1500 a C compare l’arco composito, preciso fino a 300 metri. Furono gli Egizi a perfezionare quest’arma. Si chiama composito perché è costruito con strati di materiali diversi (tendini animali, strisce di corno, osso) che reagiscono in modo diverso sotto tensione o compressione. Questa tecnica di costruzione aumentò la distanza e la precisione del tiro e la capacità di penetrazione delle frecce, ora con la punta metallica. L’arco composito, così chiamato per il suo metodo di costruzione, è l’arco curvo corto, noto nell’arte come l’arco di Cupido. L’arco composito è più piccolo e potente dell’arco tradizionale, ed è quindi adatto ad essere usato da cavallo o da carro da guerra.

I Sumeri e gli Accadici vivevano nella Mesopotamia meridionale, l’attuale Iraq, una regione aperta agli attacchi nemici. Il guerriero sumero era equipaggiato con lance, mazze, spade e fionde. Sargon di Akkad, (2333-2279 a C) fu un grande capo militare e usò sia la fanteria che i carri da guerra a quattro ruote trainati da asini.

Per lungo tempo la posizione strategica dell’Egitto permise ai suoi abitanti di rimanere liberi da attacchi nemici, e in questo periodo non ebbero bisogno di addestrare un esercito per la difesa dei confini. Durante l’Antico ed il Medio Regno (2700 – 1650 aC) l’armamento egizio contava solo mazze di pietra, archi, frecce e giavellotti a punta di selce o bronzo, pugnale e scure in bronzo.

Tutto cambiò durante il Secondo Periodo Intermedio (1650 – 1550 a C) quando l’Egitto fu invaso dalla tribù degli Hyksos, proveniente dall’Asia Occidentale. Questi invasori possedevano armi più sofisticate degli Egizi e soprattutto usavano carri da guerra a due ruote tirati da cavalli. Con le loro invasioni queste tribù conquistavano territori, ma al tempo stesso diffondevano le loro conoscenze.  Gli Hyksos usavano archi compositi e archi ricurvi; a differenza dei Sumeri, avevano carri trainati da cavalli e non asini; indossavano protezioni per il corpo e elmi metallici; possedevano pugnali spade e asce migliori di quelli egizi.

Una volta cacciati dall’Egitto, ormai gli Egizi avevano appreso da loro l’uso dei cavalli in guerra, l’uso dei carri trainati da cavalli, nuove tecniche di lavorazione del bronzo e della ceramica e nuove armi.
Nel Nuovo Regno (1550 -1069 a C) il corredo militare egizio fu arricchito da daga, casco di cuoio, corazza di lino pressato, carro da guerra a due ruote raggiate. Il carro era montato da un combattente con arco, lancia e scudo.

Le armi del guerriero miceneo (2000 – 1200 a C) erano una spada in bronzo e una lancia in bronzo. Armi simili sono usate, molti secoli più tardi, dagli hopliti greci.

Dal 1100 aC i Fenici sviluppano la galera di guerra, con un ariete tagliente nella prua.

Un importante sviluppo tecnologico nella costruzione delle armi avviene quando il ferro prese il posto del bronzo (1200 a C). Lo stagno, uno dei componenti del bronzo, non è così diffuso sulla terra, mentre il ferro è il metallo più abbondante. L’uomo scoprì come indurire il ferro trasformandolo in acciaio nel 1100 a C circa e presto gli eserciti del mondo antico furono in grado di mettere in campo un numero molto maggiore di soldati, equipaggiato con armi devastanti e a costi relativamente bassi. Gli Ittiti furono probabilmente i primi a utilizzare le armi di ferro. Questo popolo si stabilì verso il 2300 a.C. in Anatolia (l’odierna Turchia). Gli Ittiti furono i primi a lavorare il ferro, di cui custodivano gelosamente il segreto. Il procedimento consisteva nel riscaldare, martellare e poi raffreddare con acqua il metallo. In questo modo ottenevano armi molto leggere e molto più resistenti di quelle in bronzo utilizzate dagli altri popoli, così sottomisero molte terre circostanti.

Gli Assiri adottarono le armi in ferro sistematicamente, così il primo esercito di ferro è quello assiro, noto dal 900 a C per i suoi brutali successi in una continua campagna di aggressione nei confronti dei suoi vicini.

Nell’800 a C i popoli della Cultura di Hallstatt dell’Europa centrale (predecessori dei Celti) forgiavano spade di ferro stupende, che portano con sé nelle loro tombe. Di lunghezza senza precedenti, queste armi venivano prodotte con una tecnologia d’avanguardia.

Il tridente era una lancia a tre punte che in origine erano di corno, e poi di metallo. Nell’antichità era usato per la pesca e la caccia soprattutto in Asia, e poi come arma. Il tridente era particolarmente popolare come arma nell’antica Grecia (800 – 338 a C). Nell’India antica è chiamato Trishula (tre lance). Successivamente il tridente è stato usato dai gladiatori romani. Anche le arti marziali orientali hanno numerose armi derivate dal tridente. Il tridente è un’arma associata a varie divinità: Poseidone, il dio indù Shiva.

I Persiani nel 600 a C, inventarono la trireme, una nave da combattimento che utilizzava come propulsione, oltre alla vela, tre file di rematori e che fu ampiamente usata dai Greci.

Gli Assiri sono noti per la loro bellicosità e la loro ferocia verso le popolazioni vinte. Il loro regno si estese in Mesopotamia dal 1770 al 612 a C. Per gli Assiri l’addestramento era importantee fondarono scuole militari. L’esercito assiro fu il primo a usare il ferro nelle sue armi e nell’ 800 a C cominciò ad utilizzare l’acciaio. Gli Assiri furono anche i primi ad utilizzare torri d’assedio, circa nell’850 a C. Prima degli Assiri l’ariete veniva portato dai soldati fino alle mura della città nemica e usato per aprire una breccia. I soldati però erano vulnerabili all’olio bollente e al lancio di pietre dei nemici. Gli Assiri perciò trasformano l’ariete e lo fissarono sul tetto di una struttura in legno con ruote. La struttura veniva spinta in posizione mentre i soldati rimanevano protetti al suo interno e potevano far oscillare l’ariete. Gli Assiri poi idearono la torre d’assedio, una struttura a ruote che aveva lo scopo di fornire ai soldati una piattaforma alta come le mura della città nemica, da cui essi potevano lanciare il loro attacco.

L’antica Grecia (800 – 338 a C) fu sempre circondata da nemici, così i Greci idearono un modello di guerra completamente diverso dagli altri popoli. La loro era una guerra di strategia: cercavano i punti di forza e di debolezza dei nemici e sceglievano le loro armi di conseguenza. I Greci usavano lunghe lance con punta di ferro, scudi, elmi e pettorali. Lo scudo dei greci era così forte da spezzare le lance. Se la loro lancia era rotta, usavano le spade per il combattimento ravvicinato.

Perfezionarono la triremi persiana e grazie a questo poterono contare su una formidabile flotta navale. A prua c’era un grande rostro di ferro (oggetto da sfondamento) mentre sul ponte operavano arcieri e frombolieri.

In guerra utilizzavano una formazione di combattimento chiamata falange greca: la fanteria pesante, armata di lance o picche (dory) e spada corta di ferro (xiphos) , rimaneva compatta e coesa e avanzava in formazione allineata, creando una foresta impenetrabile di lance e un muro di scudi (oplon). Dal nome dello scudo, questi soldati erano chiamati opliti.

I Greci perfezionarono la balista (o ballista), una potente catapulta che lanciava pietre sferiche o una grossa lancia, spesso infuocata, a lunga distanza. E’ a tutti gli effetti una versione statica della balestra.

I Macedoni governarono in Grecia dal 338 al 31 a C. Continuarono a seguire la strategia militare greca della falange, con la differenza che la fanteria macedone utilizzava la sarissa, una lancia lunga 15 piedi con una punta a forma di foglia.

L’esercito macedone aveva inoltre una cavalleria. I Macedoni utilizzavano, oltre alla balista,  armi portatili come la cheiroballistra.

I Macedoni idearono anche la catapulta a torsione. Nella catapulta a torsione l’energia viene immagazzinata in un elemento (fibre vegetali, tendini e pelli di animali) che viene fortemente avvolto su se stesso, come negli aerei ad elastico. Quando il perno viene rimosso, il braccio scatta in posizione verticale e la pietra viene scagliata. I Romani la chiamarono onagro.

A partire dal 390 a C i soldati dell’antica Roma erano divisi in due gruppi: Legionari e Ausiliari; i Legionari erano cittadini romani e gli Ausiliari provenivano da tribù alleate. I Romani usavano in guerra le armi più semplici e insolite, mentre l’esercito godeva di una organizzazione impeccabile e grande disciplina. La spada romana tradizionale era il gladio. Si trattava di una spada non più lunga di 60 centimetri, con lama di ferro e impugnatura di legno ricoperto di bronzo o altri materiali. Aveva un effetto limitato quando veniva maneggiato da cavallo.

Altra arma in dotazione ai soldati romani era il pilum, un giavellotto lungo circa 150 centimetri con una parte in legno e una lunga parte in ferro, lunga tanto da poter attraversare uno scudo e raggiungere il corpo del nemico. Di solito ogni soldato ne portava due, uno leggero ed un secondo più pesante.

Altre armi usate dai Romani erano l’arco e la frombola.  I Romani utilizzarono anche varie macchine da guerra. Tra queste c’erano: la balista, la catapulta, l’ariete, la torre mobile, la cheiroballista e la carrobalista, una balista posta su un apposito carro trainato da cavalli, che garantiva grande flessibilità perché spostabile durante la battaglia.

Altra macchina da guerra era  lo scorpio (o scorpione), arma molto precisa e potente, da cui discenderà la balestra. Gli scorpioni venivano collocati in formazione su alture dominanti distruggendo parecchi nemici.

Il corvo era un congegno che i Romani usava per abbordare le navi nemiche. Era una passarella mobile  con degli  uncini alle estremità che agganciavano la nave nemica, consentendo alla fanteria di combattere col nemico quasi come sulla terraferma. Con la crescita dell’esperienza nella guerra navale, il corvo fu abbandonato.

 

Nel 299 a C La tecnica dell’assedio romano viene migliorata dalla “tartaruga” che permette di avanzare e proteggersi dal nemico creando impenetrabili muri di scudi verso tutte le direzioni.

Dopo la morte di Marco Aurelio nel 180 d C Roma divenne vulnerabile alle invasioni barbariche e Germani  (Ostrogoti, Visigoti, Vandali, Franchi) e Unni penetrarono nel territorio romano. Nel 410 avvenne il Sacco di Roma, cioè la conquista e il saccheggio della città da parte dei Visigoti guidati dal loro re Alarico. Queste tribù combattevano prevalentemente a cavallo e utilizzavano l’arco composito con frecce a punta di ferro. Altre armi erano la spada lunga a doppio taglio e l’ascia da lancio.

Durante il regno di Giustiniano (527- 565), l’impero bizantino divenne una potenza militare e si impegnò nella cacciata dei barbari. I Bizantini avevano un esercito molto disciplinato e idearono nuove e potenti armi.  Intorno al 672 inventarono una sostanza incendiaria conosciuta come fuoco greco. Attraverso dei lanciafiamme montati sulle navi, sparavano questo fuoco sui nemici. Era un’arma davvero impressionante per la sua forza distruttiva e questo fuoco riusciva a rimanere acceso anche sull’acqua. Utilizzavano dei dispositivi di loro invenzione, che funzionavano con motore a torsione, per lanciare frecce con maggiore intensità. Dal 900 in poi adottarono per la costruzione delle loro armi le tecniche usate dai musulmani.

Il mondo islamico era molto più evoluto, nella costruzione delle armi, rispetto a tutti i popoli del Mediterraneo, soprattutto grazie alle relazioni commerciali con la Cina, da cui copiarono il trabucco. Si trattava di una grande macchina da guerra in grado di lanciare grandi pietre a distanza. Alcuni trabucchi venivano usati per gettare cavalli morti per diffondere malattie nelle città assediate. Il trabucco era composto da un lungo braccio con un contrappeso ad una estremità e una sacca all’altra estremità che funzionava come una grande fionda.

Intorno al 950, durante la dinastia Song, i cinesi iniziarono a produrre polvere da sparo (o polvere nera) e la lancia da fuoco fu la prima arma a utilizzarla. Era una comune lancia alla quale veniva abbinato un tubo contenente polvere da sparo e proiettili. All’accensione i proiettili venivano espulsi insieme alla fiamma per qualche metro.   A partire dal 1100 con la polvere da sparo i Cinesi realizzarono le prime bombe, i primi razzi e i primi cannoni.

Nel Medioevo, in Europa, una delle armi innovative e più usate era la balestra. La balestra fu inventata nel 300 a C in Cina, ma non arrivò in Europa che nel 1000. La caratteristica principale di quest’arma è che può essere caricata in anticipo, prima di essere usata.  Può lanciare quadrelli, frecce, strali, bolzoni, palle o dardi. La corda viene bloccata da un meccanismo chiamato noce, e lo scatto avviene facendo pressione su una sorta di grilletto o abbassando un piolo.

All’epoca delle Crociate (1000 – 1300) gli eserciti europei usavano lance, spade e pugnali; i soldati a piedi erano equipaggiati con una straordinaria gamma di armi inastate, che spesso riflettevano il loro luogo di origine. Le armi degli eserciti islamici non erano di molto diverse da quelle dei Crociati. Nell’esercito l’obiettivo fondamentale della cavalleria era caricare le linee nemiche e creare il caos. Per la carica iniziale i cavalieri usavano le lance, che poi venivano scartate per passare a spada, ascia e martello da guerra, che venivano usati per il combattimento corpo a corpo. La francisca, arma innovativa del Medioevo, fu inventata dai Franchi; è una scure da lancio perfettamente bilanciata, a manico corto e con lama a un taglio.

Dalla francisca si sviluppano varie armi inastate (montate su un’asta), prima fra tutte l’alabarda. Era un’arma tradizionale svizzera, costituita da una lama d’ascia sormontata da una punta, con un gancio o un piccone sul retro, in cima a un lungo palo. Quest’arma veniva usata dai soldati di fanteria contro la cavalleria.

Altra arma inastata del Medioevo era  il terribile martello di Lucerna che somiglia in realtà più a un spiedo che a un martello.

E tra le armi inastate non possiamo dimenticare il roncone. Era un’arma di grande potenza perché poteva colpire, tagliare, agganciare, strappare ed era in grado di danneggiare le armature e ferire gravemente i cavalli.

L’arco era un’altra tipica arma medievale molto diffusa in tutti i paesi europei. Il successo militare dell’Inghilterra, a partire dal 1200, deve molto all’invenzione dell’arco lungo (longbow).  A quel tempo l’Inghilterra era un paese rurale, e mancavano artigiani abili e risorse per costruire le balestre. L’arco lungo era costituito da un unico listello di legno di tasso, della lunghezza di circa 185 cm, ed era quindi molto economico da costruire. Grazie a quest’arma gli Inglesi sconfissero in più occasioni i loro nemici Francesi.

L’arma più importante del cavaliere era senza dubbio la spada.

I cannoni fecero la loro comparsa nel mondo musulmano e da lì a poco in Europa, verso il 1300. Venivano chiamati bombarde. La metallurgia europea dell’epoca, per quanto sviluppata, non consentiva la costruzione di fusti di grande resistenza, cosa che limitava precisione, potenza e soprattutto sicurezza dell’arma.

Insieme alle bombarde compaiono le prime armi da fuoco portatili, come ad esempio lo schioppo. Le armi da fuoco, in questo periodo, sostituirono solo le catapulte. Il cambiamento fu molto lento, anche perché inizialmente le armi da fuoco portatili avevano un costo troppo elevato e ricaricarle dopo uno sparo richiedeva troppo tempo durante le battaglie. Lo schioppo (in Inglese hand cannon , cioè cannone a mano) consisteva in una piccola bombarda montata su un’asta di legno. Originario della Cina, ebbe larga diffusione in Europa nel a partire dal 1300 e restò in uso sino 1500, quando venne sostituito dall’archibugio.  Era ad avancarica (si caricava dal davanti) ed era costituito da un tubo (canna) chiuso ad un’estremità. Si inseriva la polvere e si pressava sul fondo, poi si inseriva la palla. Per accendere la polvere si inseriva un bastoncino accesso in un foro che si trovava nella parte posteriore (il focone).

Le armi medievali continuarono ad essere usate anche durante il Rinascimento  e la spada rimase l’arma più popolare. Intorno al 1500 subì dei cambiamenti: vennero aggiunte le protezioni per la mano.

Nel 1500 gli eserciti erano equipaggiati con spada a doppio taglio, alabarda, arco e balestra, ma con l’aggiunta dell’archibugio, un’arma da fuoco portatile derivata dallo schioppo. Come tutte le armi da fuoco, utilizzava l’energia prodotta dall’accensione della polvere pirica per lanciare a distanza corpi solidi chiamati proiettili. L’accensione avveniva grazie all’otturatore a miccia (matchlock). Il sistema a miccia richiedeva agli archibugieri di portare con sé delle micce sempre accese. Come lo schioppo, doveva essere caricato col sistema dell’avancarica.  Era un’arma pesante, lenta e poco precisa, e venne usato in battaglia per due secoli insieme ad archi e balestre.  L’archibugio trovò poi sviluppo nel moschetto, dando origine al fucile moderno.

Il moschetto  è un’arma da fuoco portatile, ad avancarica,  derivata dall’archibugio e che fu usata fino agli inizi del 1900. Venne poi sostituita dai fucili a percussione e dai fucili a retrocarica. Il nome origina da mosca, che indicava il proiettile. Mentre l’archibugio veniva mantenuto in posizione appoggiandolo al petto, il moschetto vide l’introduzione del calcio, che permetteva di appoggiare l’arma alla spalla e di ottenere più precisione.

All’inizio il moschetto utilizzò il meccanismo a miccia (matchlock), come l’archibugio. Il meccanismo era formato da uno scodellino (un piccolo imbuto collegato alla canna), e una serpentina (un’uncino che sosteneva la miccia). Il moschettiere metteva della polvere nello scodellino e lo richiudeva. Dopo infilava la polvere e la palla di piombo nella canna (anteriormente) pigiando tutto sul fondo con un calcatoio (un’asta di legno, versione rimpicciolita di quella da cannone). Al momento dello sparo, tirando il grilletto la serpentina si muoveva verso lo scodellino mettendo a contatto la miccia accesa con la polvere: questa si incendiava e trasmetteva il fuoco alla polvere nella canna; a sua volta questa polvere esplodendo proiettava la palla lungo la canna e fuori da fucile.


In seguito, a partire dal 1540, il moschetto utilizzò il meccanismo a ruota (wheellock), che era simile ad un moderno accendino: una grossa molla, caricata con un’apposita chiave, al momento dello sparo metteva in movimento una ruota dentellata che sfregando contro un pezzo di pirite generava scintille, accendendo la polvere nella canna dell’arma. Questo meccanismo era comunque delicato e molto costoso e fu utilizzato più sulle carabine che sui moschetti.

Pochi anni dopo (1550) si diffuse un nuovo tipo di acciarino, lo snaphance (gallo che becca) che produceva le scintille facendo battere violentemente la pietra focaia su una piastra zigrinata. Dal “gallo che becca” si arrivò nel 1635 all’acciarino a pietra focaia, che utilizzava lo stesso principio, con un meccanismo migliorato. I moschettieri più addestrati potevano sparare 3 o 4 colpi al minuto.

La carabina era  un’arma da fuoco simile al moschetto, ma più corta e meno potente. Il termine carabina deriva dalla parola araba karab, che significa arma da fuoco. Questo tipo di arma venne ideato intorno al 1590 per essere usata dai soldati a cavallo.

Con tutte le armi ad avancarica il grosso problema da risolvere era la lentezza tra un colpo e l’altro. Le prime armi che cercarono risolverlo furono gli organi, detti anche ribadocchini o ribauldequin, che potevano sparare colpi in successione.

A partire dal moschetto con accensione a pietra focaia (1635), per rendere più veloce il caricamento, vennero inventate le prime cartucce. Inizialmente per ogni colpo il soldato doveva caricare manualmente la polvere da sparo ed il proiettile, e quindi predisporre l’innesco. Questo richiedeva molto tempo, e per questo vennero ideate le prime cartucce, che erano tubi di carta che contenevano già pronti polvere e proiettile da inserire nella canna.

Nel 1700 comparve la prima rudimentale bomba a mano: una palla vuota di ghisa riempita di polvere nera e innescata da uno stoppino acceso.

La baionetta fu ideata nel 1600: si trattava di un’arma da taglio montata sulla canna di un fucile e consentiva alla fanteria di combattere corpo a corpo col nemico dopo aver esaurito le munizioni. La baionetta venne montata sul moschetto e rimase in uso fino alla Prima Guerra Mondiale (1915-1918).

Il cannone erano ancora la componente più lenta dell’esercito e poteva richiedeva 23 cavalli per il trasporto, che comunque procedeva a passo d’uomo. A partire dal 1600 gli eserciti puntarono sui cannoni leggeri e che potevano essere presidiati da pochi uomini. Diversi progressi tecnologici resero il cannone più mobile, soprattutto il puntamento regolabile a piolo e l’affusto mobile. L’affusto era una struttura a forma di scivolo munita di ruote che permetteva il trasporto della bocca da fuoco tenendola appoggiata su un sostegno. Il dispositivo a piolo permetteva la regolazione in altezza mediante un piolo inseribile in una serie di fessure poste in serie . 

Gli scienziati si impegnarono nella ricerca di sostanze esplosive per potenziare le armi da fuoco, e già nel 1750 scoprirono il fulminato di mercurio, sostanza che poteva prendere fuoco ricevendo un colpo secco.

Il primo uso del fulminato fu ancora con le armi ad avancarica, nel 1812, quando fu inventata la capsula detonante. Si trattava di un involucro metallico a forma di bicchiere contente il fulminato. Dopo aver inserito nella canna la polvere e il proiettile, si poneva la capsula nel dispositivo dove veniva battuta dal percussore facendo partire il colpo.

Dalla scoperta del fulminato nacquero poi le armi a percussione. La prima di queste armi fu, nel 1814, il fucile ad ago, che aveva un sistema a retrocarica per cartucce di carta. Queste cartucce erano formate da un involucro di carta che conteneva la carica della polvere, la capsula detonante (che nelle armi a retrocarica si chiama innesco) e il proiettile. Premendo il grilletto, l’ago perforava la cartuccia e colpiva il fulminato, generando l’esplosione che faceva partire il proiettile.  A questo punto le armi ad avancarica caddero in disuso, e gli inventori continuarono a cercare sistemi sempre più efficaci per caricare la canna dalla parte posteriore (retrocarica). La cartuccia del fucile ad ago era costituita da un involucro di carta che conteneva la carica della polvere, l’innesco e il proiettile.

Tutti questi progressi portarono, nel 1866, ad un nuovo sistema d’accensione: il sistema a percussione. La cartuccia è costituita da un bossolo d’ottone, con una capsula a percussione alla base e una carica di polvere e il proiettile compressi all’interno. La capsula a percussione (innesco) si trova al centro della base del bossolo. Quando il percussore colpisce la capsula, questa viene deformata e spinta in davanti, provocando l’accensione del fulminato.

Il sistema a percussione consente la produzione di armi a più canne fisse o rotanti e porta all’invenzione del revolver (rivoltella o pistola a tamburo) ad opera di Samuel Colt, nel 1835. Si tratta della prima arma prodotta in serie.

Tra gli anni 1860 e 1865 vi fu in vero fiorire di invenzioni e miglioramenti nelle armi da fuoco. Nel 1862 fu brevettata la mitragliatrice Gatling, a manovella. Richard Gatling, il suo inventore, scrisse che aveva costruito l’arma per diminuire la dimensione degli eserciti e ridurre così il numero di morti, e per dimostrare la futilità della guerra. Questa mitragliatrice era costituita da un fascio di 10 canne che venivano fatte ruotare manualmente in posizione di sparo, alimentate con cartucce metalliche a percussione centrale.

Negli stessi anni i chimici raggiunsero numerosi progressi nel campo degli esplosivi. Nel 1846 viene scoperto il fulmicotone, e solo due anni dopo la nitroglicerina. Nel 1867 Alfred Nobel trovò il modo di stabilizzare la nitroglicerina scoprendo la dinamite.

Nel campo dei fucili militari vengono studiate e realizzate armi in cui le operazioni di caricamento delle cartucce e di espulsione dei bossoli avvengono automaticamente, sfruttando o la pressione dei gas di sparo o l’energia del rinculo e già nella Prima guerra mondiale vennero impiegati fucili e pistole a raffica, tra cui l’italiana Villar Perosa.

Il principio dello sfruttamento dell’energia di rinculo per ricaricare un’arma (la stessa forza che sposta in avanti il proiettile agisce nell’opposta direzione) viene utilizzato per realizzare la pistola semiautomatica. Essa viene costruita in modo da non funzionare in modo automatico (a raffica): l’espulsione del bossolo e la successiva introduzione nella camera di una cartuccia avviene in modo automatico, ma per esplodere i colpi occorre azionare ogni volta il grilletto.

Nel 1905 i Tedeschi costruiscono il primo sottomarino allo scopo di raggiungere l’Inghilterra e la Francia.

Nel 1913 viene presentato a Londra il primo biplano da guerra Vickers Fighting Biplane n. 1, da cui discenderà il caccia Vickers FB5, armato di mitragliatrice, utilizzato dall’esercito britannico dal 1915 al 1916

Nel 1914 viene inventato il gas lacrimogeno.

Nel 1915 appare il primo carro armato su cingoli.

Nel 1936 si registra il primo volo dello Spitfire, che diventerà l’aereo simbolo della Seconda guerra mondiale. Era armato con quattro mitragliatrici dotate di 300 colpi ciascuna.

Nel 1941 entrò in servizio il Lancaster, prodotto nel Regno Unito e uno degli strumenti decisivi della vittoria alleata. Si trattava di un aereo da bombardamento e venne utilizzato principalmente come bombardiere notturno.

Il 3 ottobre 1942 la Germania nazista testò con successo il missile V2, armato di tritolo e nitrato d’ammonio.  Il missile seguì una traiettoria perfetta e si schiantò a 193 km di distanza dalla piattaforma di lancio superando gli 80 km di quota. Gli Inglesi, consapevoli della grave minaccia di questa nuova arma, lanciarono una grossa offensiva contro i complessi di costruzione. Nell’immediato dopoguerra il missile V2 ebbe una breve ma intensa storia di utilizzazione. Sia gli americani sia i russi poterono disporre di centinaia di questi missili per far partire i rispettivi programmi missilistici, programmi che porteranno i due Paesi alla corsa di conquista dello spazio.

Il 13 giugno 1944, nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale, i nazisti lanciano la prima bomba volante V1 su Londra.  Questo ordigno univa le caratteristiche di un aereo a quelle di una bomba, e fu il primo esempio di missile da crociera. Il lancio terrestre della V1, di solito, avveniva grazie a una rampa di lancio inclinata. In tutto l’Inghilterra fu raggiunta da circa 10.000 ordigni di questo tipo.

Nel 1945 l’esercito americano utilizzò ampiamente il Napalm negli attacchi incendiari alle città giapponesi.  Si tratta di un’emulsione chimica altamente infiammabile. Il Napalm era già stato usato dagli USA nel 1943 in Italia per i lanciafiamme.

Nel 1942 il fisico statunitense J. Robert Oppenheimer è nominato direttore del Progetto Manhattan per lo sviluppo di un’arma nucleare e il 2 dicembre Enrico Fermi e il suo team, a Chicaco, ottiene la prima reazione nucleare a catena.   Gli Stati Uniti, con l’assistenza militare e scientifica del Regno Unito e del Canada, erano così riusciti a costruire e provare una bomba atomica prima che gli scienziati impegnati nel Programma nucleare tedesco riuscissero a completare i propri studi per dare a Hitler un’arma di distruzione di massa. Il mattino del 6 agosto 1945 alle ore 8:15 l’aeronautica militare statunitense sganciò la bomba atomica “Little Boy” sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno “Fat Man” su Nagasaki. Il numero di vittime dirette è stimato da 100 000 a 200 000, quasi esclusivamente civili. Per la gravità dei danni diretti e indiretti causati dagli ordigni e per le implicazioni etiche comportate dall’utilizzo di un’arma di distruzione di massa, si è trattato del primo e unico utilizzo in guerra di tali armi.

Conclusa la Seconda guerra mondiale si aprì il periodo della Guerra Fredda tra Usa e Unione Sovietica. In questa fase, dal 1947 al 1991, i due blocchi gareggiavano per costruire le bombe più grandi e devastanti. Questi ordigni venivano testati in regioni isolate, trasferendo nel caso la popolazione, ma portando gravissimi danni all’ambiente.

I Sovietici testarono con successo la loro prima bomba atomica nel Kazakistan. In risposta a questo, gli Americani annunciarono un programma di sviluppo della bomba a idrogeno. La prima bomba a idrogeno fu testata dagli USA nell’Atollo Enewetak (Isole Marshall), nel 1952. idrogeno La deflagrazione espresse una potenza 1000 volte superiore a quella delle bombe atomiche lanciate sul Giappone. Nel 1953 anche i Sovietici testarono la loro bomba a idrogeno.

A partire dal 1900 le conoscenze scientifiche nel campo della fisica, della chimica e della genetica hanno aperto la via allo sviluppo sistematico di armi micidiali. Per questo, dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati hanno aderito a varie convenzioni per proibire l’uso di determinate armi: le più importanti sono state la Convenzione per le armi biologiche (1972) e quella per le armi chimiche (1993). Tutte le armi che sono state vietate da queste convenzioni sono dette armi non convenzionali.

Einstein diceva “Io non so con quali armi sarà combattuta la Terza guerra mondiale, ma so che la Quarta sarà combattuta con pietre e bastoni”.

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– sarissa https://www.emaze.com/@AOZTWTIL
– cheiroballistra http://www.hellenicaworld.com/Greece/Technology/en/CatapultTypes.html
– catapulta a torsione o onagro https://weaponsandwarfare.com/2016/06/10/torsion-catapults/
– pilum https://www.medievalcollectibles.com/p-15541-roman-square-pilum.aspx
– carrobalista https://forum.sohead.org/index.php?threads/macchine-da-guerra-romane.20620/
– guerrieri germanici https://it.pinterest.com/pin/90072061268778820/
– fuoco greco See page for author [Public domain], via Wikimedia Commons https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Greekfire-madridskylitzes1.jpg
– trabucco  By No machine-readable author provided. Quistnix assumed (based on copyright claims). [CC-BY-SA-3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/) or GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html)], via Wikimedia Commons https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Trebuchet.jpg
– lancia da fuoco http://www.lightquiz.com/index.php?content=imageinfo&image=lancia-da-fuoco-la-prima-arma-della-storia-che-utilizzava-polvere-da-sparo
– balestra medioevale https://www.cgtrader.com/3d-models/military/gun/aaa-animated-light-medieval-crossbow
– francisca https://www.google.it/search?
– alabarda https://a2supplies.co.uk/products/halbard-190cm
–  martello di Lucerna https://www.castel-bayart.com/it/martelli-da-guerra/648-martello-di-lucerna.html
– bombarda http://www.medioevoinumbria.it/home/bombarda/
–  longbow http://www.sagittabarbarica.org/L%27arcieria_antica.html
– roncone http://www.medioevoinumbria.it/home/roncone/
– spada rinascimentale https://it.aliexpress.com/item/
– archibugio https://lovefknowledge.wordpress.com/tag/samuel-colt/
– cannone napoleonico By PHGCOM (self-made, Les Invalides) [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0) or GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html)], via Wikimedia Commons https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Canon_Gribeauval_1780_front.jpg
– moschetto http://laltracampana.altervista.org/7avancaricanticheartisticherare.php#
– fiaschette per la polvere nera Di Ricce – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4587806
– palle da moschetto Di Fioravante Patrone – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=28191152
– meccanismo a miccia By Rainer Halama – Own work, CC BY 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4773227
– meccanismo a miccia e a ruota http://metaldetectorhobby.forumfree.it/?t=72587634
– carabina Di Rainer Halama – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=12635990
– ribaudequin o organo By Sémhur – Own work, CC BY-SA 4.0-3.0-2.5-2.0-1.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=8995398
– cartucce di carta http://www.steamfantasy.it/blog/2009/04/12/i-primi-fucili-a-retrocarica-ferguson-1776-hall-1819-e-kammerlader-1842/
– bomba a mano http://www.museoroccavilla.eu/index.php/sezione-storica/prima-guerra-mondiale/scienza-e-tecnologia/254-le-bombe-a-mano-nella-prima-guerra-mondiale
– affusto e piolo http://www.museoscienza.org/dipartimenti/catalogo_collezioni/scheda_oggetto.asp?idk_in=ST070-00074&arg=Leonardo
– capsula detonante http://www.collezionareexordinanza.it/scheda/15/DREYSE-M1841/
– revolver Colt By Hmaag (Own work) [GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html) or CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Colt_Dragoon_2nd_Mod_1848.JPG
– mitragliatrice Gatling By martin_vmorris – Gatling gun, British 1865, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=39476760
– dinamite https://www.bt.dk/krimi/rockere-faengslet-for-70-kilo-dynamit
– Villar Perosa Di Atirador – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4043452
– arma semiautomatica http://www.exordinanza.net/schede/Beretta-15.htm
– sottomarino tedesco http://www.modeltoy.it/product_info.php?products_id=7645
– biplano da guerra By RuthAS – Own work, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=32037074
– gas chimici della prima guerra mondiale https://twitter.com/SilverBluePanda/status/490895398089678848
– Spitfire By The original uploader was Bryan Fury75 at French Wikipedia – Transferred from fr.wikipedia to Commons by Padawane using CommonsHelper., CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5200653
– bomba volante V1 CC BY-SA 3.0, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=3253619
– napalm http://thekievtimes.ua/society/514658-v-sirii-primenili-napalm.html
– test nucleari in Nevada Di Federal Government of the United States – This image is available from the National Nuclear Security Administration Nevada Site Office Photo Library under number XX-27.This tag does not indicate the copyright status of the attached work. A normal copyright tag is still required., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=162759
– Hiroshima e Nagasaki By Nagasakibomb.jpg: The picture was taken by Charles Levy from one of the B-29 Superfortresses used in the attack.Atomic_cloud_over_Hiroshima.jpg: Personel aboard Necessary Evilderivative work: Binksternet (talk) – Nagasakibomb.jpgAtomic_cloud_over_Hiroshima.jpg, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=12204929
– Convenzioni internazionali http://thecommonwealth.org/media/event/fourteenth-commonwealth-foreign-affairs-ministers-meeting-cfamm
– Alber Einstein By Photograph by Orren Jack Turner, Princeton, N.J. Modified with Photoshop by PM_Poon and later by Dantadd. [Public domain], via Wikimedia Commons https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Einstein_Head.jpg

Esperimenti scientifici per bambini: portiamo un palloncino a elio in automobile

Esperimenti scientifici per bambini: portiamo un palloncino a elio in automobile.

La prima legge della dinamica di Newton, detta anche principio d’inerzia o legge di Galileo afferma che “un corpo mantiene il proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, finché una forza non agisce su di esso”.

Pensiamo a quando viaggiamo in automobile: quando l’auto accelera ci sentiamo spinti all’indietro, mentre una frenata improvvisa ci farebbe volare in avanti, se non avessimo le cinture di sicurezza allacciate.

Questo esperimento dimostra il diverso comportamento che può avere un pendolo o un pallone gonfiato con aria, e un pallone gonfiato ad elio all’interno di un’automobile che accelera e rallenta.
Vedremo che il pendolo o il pallone gonfiato ad aria si comportano in modo del tutto prevedibile, cioè oscillano all’indietro quando si accelera e in avanti quando si rallenta. Il palloncino ad elio, invece, non risponde alla legge di Newton sul moto, ma risponde invece al principio di Archimede, essendo l’elio più leggero dell’aria.

Materiale:
– un pendolo o un palloncino
– corda, forbici, nastro adesivo
– automobile
– palloncini
– bombola di elio

Esperimenti scientifici per bambini: portiamo un palloncino a elio in automobile

Esperimento:
– fissiamo un palloncino gonfiato con aria (o un pendolo) al tettuccio dell’automobile. Osserviamo che quando l’auto è ferma l’oggetto pende verso il basso
– quando l’auto accelera in avanti, l’oggetto oscilla all’indietro:

– quando l’auto rallenta, l’oggetto oscilla in avanti

– ora gonfiamo un palloncino con la bombola di elio:

– fissiamo sul fondo dell’auto il palloncino e osserviamo che va verso l’alto:

– quando l’auto accelera in avanti, il palloncino a elio oscilla in avanti:

– quando l’auto rallenta, il palloncino ad elio oscilla all’indietro:

Come afferma il principio di Newton, tutti i corpi tendono a rimanere fermi se sono fermi o in movimento se sono in movimento, se una forza non agisce su di loro in modo diverso. Quando l’automobile parte, l’aria contenuta nell’auto, che era ferma, tende a restare ferma, finché la forza data dal movimento dell’auto non agisce su di essa. Quando l’auto accelera in avanti, la densità dell’aria aumenta verso la parte posteriore dell’automobile, quindi la pressione nella parte posteriore dell’auto aumenta. Il pallone a elio, quindi, galleggia sull’aria più densa e si sposta in avanti.

Esperimenti scientifici per bambini: portiamo un palloncino a elio in automobile

Quello che succede al palloncino gonfiato con elio è simile a quello che avviene ad una bolla d’aria all’interno di un barattolo pieno d’acqua. Infatti l’elio è più leggero dell’aria, e l’aria è più leggera dell’acqua.
Se teniamo il barattolo in orizzon
tale, la bolla d’aria sale verso l’alto (come il palloncino d’elio), se noi incliniamo il barattolo l’acqua si sposta e spostandosi sposta la bolla d’aria. Questo avviene nel barattolo tenuto in orizzontale in automobile:

Quando si accelera il palloncino va in avanti perchè l’aria contenuta nell’auto si sposta all’indietro. Quando si rallenta il palloncino va indietro perchè l’aria contenuta nell’auto va in avanti.

Allo stesso modo il palloncino va a sinistra se l’auto curva a sinistra, e va a destra se l’auto curva a destra:

Qui il video completo (anche con sottotitoli in italiano): Youtube.

IL SISTEMA ENDOCRINO materiale didattico e letture

IL SISTEMA ENDOCRINO materiale didattico e letture per la scuola primaria.

IL SISTEMA ENDOCRINO materiale didattico e letture
I direttori d’orchestra del nostro corpo

Abbiamo visto come gli esseri viventi si nutrono, assimilando, digerendo, trasformando e ossidando gli alimenti. Essi inoltre si muovono e stabiliscono rapporti vari con il mondo esterno. Ma in quale modo questi processi vengono regolati e diretti?
Si sa che elementi di controllo importantissimi sono gli ormoni. Essi sono sostanze secrete da particolari ghiandole, dette endocrine, (dal greco endon = dentro, e crinein = secernere) perchè non possiedono un canale escretore, ma versano direttamente nel sangue le loro secrezioni. Ciò è possibile perchè le cellule che costituiscono il loro tessuto si incrociano e si aggrovigliano con i vasi sanguigni.

IL SISTEMA ENDOCRINO materiale didattico e letture
I messaggeri chimici

Le  ghiandole endocrine, che nel loro insieme costituiscono il sistema endocrino, sono situate nel corpo in punti differenti: l’ipofisi e l’epifisi sono nel cranio, intimamente collegate con il cervello; la tiroide e le paratiroidi sono nel collo; il timo nella parte superiore del torace. Nella cavità addominale si trovano invece le surrenali, il pancreas endocrino (nella massa del pancreas digestivo) e le ghiandole della riproduzione.
Le loro secrezioni, dette ormoni, agiscono come messaggeri chimici, regolando l’attività dei tessuti: mantengono a livello esatto la quantità dei sale, di glucosio e delle altre sostanze necessarie e impediscono al sangue di diventare troppo acido o troppo alcalino, così da essere sempre in grado di trasportare l’ossigeno e l’anidride carbonica.
Nel corpo umano c’è una specie di armonico equilibrio cui concorrono tutte le ghiandole, per cui ogni perturbazione di una di esse si ripercuote sul funzionamento delle altre.

IL SISTEMA ENDOCRINO materiale didattico e letture – Ipofisi ed epifisi
L’ipofisi o ghiandola pituitaria, è la più importante delle ghiandole a secrezione interna, perchè oltre ai vari compiti che diremo, essa esercita anche un controllo sull’attività di tutte le altre ghiandole: infatti, con ormoni particolari detti stimuline, può eccitarne la secrezione.
L’ipofisi è un piccolo organo situato sotto la base dell’encefalo. Si distinguono i esso tre parti, ciascuno dei quali esercita una particolare funzione. Il lobo anteriore agisce sulla crescita. Il lobo posteriore esercita la sua azione soprattutto sulla pressione arteriosa, aumentandola, e sulla contrattilità dei muscoli lisci. Del lobo intermedio sappiamo che esercita un’azione particolare sul colore della pelle dei pesci e degli anfibi.
L’epifisi o ghiandola pineale ha la grossezza di un pisello ed è in intimi rapporti con la massa cerebrale. Ha anch’essa una funzione regolatrice della crescita.

IL SISTEMA ENDOCRINO materiale didattico e letture – La tiroide e le paratiroidi
La tiroide, che è situata nel collo, regola il metabolismo basale delle cellule, che è una funzione molto importante. Si chiama infatti basale la velocità con cui il corpo consuma ossigeno ed espelle anidride carbonica. Questa velocità aumenta con l’aumentare della superficie corporea, per cui 10 bambini del peso di 7 chilogrammi l’uno usano molto più ossigeno per l’attività basale delle loro cellule che un uomo di 70 chili.
Di regola l’attività della tiroide coincide esattamente con i bisogni del corpo; quando essa invece fabbrica un’eccessiva quantità di ormoni, allora la combustione delle cellule avviene  a una velocità esagerata e ciò causa un metabolismo basale superiore alla media, eccessiva magrezza e nervosismo. Si ha il cosiddetto ipertiroidismo: chi ne è affetto si riconosce per lo sporgere eccessivo dei bulbi oculari. Nel caso contrario, il metabolismo basale scende al di sotto della media e i sintomi sono torpore e sonnolenza, e si parla di ipotiroidismo.
Le paratiroidi sono strettamente unite alla tiroide e per questo se ne ignorò a lungo non solo la funzione, ma anche l’esistenza. Esse sono invece molto importanti, perchè l’ormone che secernono regola l’utilizzazione del calcio nel corpo.

IL SISTEMA ENDOCRINO materiale didattico e letture – Il timo
Il timo è una ghiandola che si trova dietro lo sterno, lateralmente alla trachea, nella parte più alta del torace. La sua funzione è in rapporto con l’accrescimento corporeo. Nell’uomo raggiunge il suo massimo sviluppo verso i tre anni, per diminuire progressivamente, cosicchè intorno ai dodici anni non è più riconoscibile.

IL SISTEMA ENDOCRINO materiale didattico e letture – Le ghiandole surrenali
Le ghiandole surrenali sono anche dette capsule perchè sembrano avvolgere la parte superiore dei reni; esse sono due, simmetricamente disposte come gli organi da cui prendono nome.
In queste ghiandole si può distinguere una parte esterna o corticale, di colore giallo-bruno, e una parte interna o midollare, bianco-rosa, le cui funzioni sono nettamente distinte.
La parte midollare secerne un ormone detto adrenalina, la quale mantiene costante il ritmo cardiaco e la pressione arteriosa. Gli esperimenti hanno dimostrato che quando un animale è infuriato o spaventato, il tasso (cioè la quantità) di adrenalina nel sangue cresce immediatamente: questo eccesso di adrenalina lo prepara alla fuga o alla lotta e al tempo stesso fa salire la pressione sanguigna e accelera i battiti del cuore.
La parte corticale del surrene secerne vari ormoni, tra cui di particolare importanza i cosiddetti corticosteroidi, che hanno un’importanza capitale per l’organismo in quanto regolano il metabolismo (cioè il ricambio) dei glicidi, dei sali, dell’acqua.

IL SISTEMA ENDOCRINO materiale didattico e letture – Il pancreas endocrino
Il pancreas, che come abbiamo visto invia nell’intestino le sue secrezioni, funziona anche come ghiandola endocrina. Nella sua massa sono presenti dei gruppi di cellule grigiastre, dette isole pancreatiche o isole di Langerhars (da nome dello scopritore) che versano nel sangue un ormone particolare: l’insulina. Ciò avviene quando il tasso di glucosio nel sangue sale al di sopra del normale.
La malattia causata dall’insufficiente produzione di insulina è detta diabete. Nei malati di diabete il glucosio si accumula nel sangue. Un malato di diabete può perciò venire curato mediante somministrazione di insulina.

IL SISTEMA ENDOCRINO materiale didattico e letture – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici e letture sul VENETO

Dettati ortografici e letture sul VENETO
Veneto: cartina fisica
Confini: Mar Adriatico, Friuli Venezia Giulia, Austria, Trentino Alto Adige, Lombardia, Emilia Romagna
Lagune: Laguna Veneta, Laguna di Caorle
Monti: Alpi Orientali (Dolomitiche e Carniche); cime più alte: Civetta, Marmolada, Le Tofane, Cristallo, Cime di Lavaredo, Sorapis, Antelao. Prealpi Venete (Monti Lessini, Altopiano di Asiago, Prealpi Bellunesi); cime più alte: Monte Baldo, Cima Carega, Monte Grappa
Valli: Alta Valle del Piace, d’Auronzo, del Cordevole
Valichi: Pordoi, Falzarego, Monte Croce di Comelico, Mauria
Colline: Montello, Monti Berici, Colli Euganei
Pianure: Veneta, Polesine
Fiumi: Po col suo affluente Mincio, Tartaro, Adige, Brenta col suo affluente Bacchiglione, Sile, Piave con i suoi affluenti Boite e Cordevole, Livenza, Tagliamento
Canali: Adigetto, Bianco
Laghi: di Garda, di Santa Croce, di Misurina, di Alleghe
Isole: di Murano, di Burano

Dettati ortografici e letture sul VENETO
Osserviamo la cartina

Il Veneto è così chiamato dagli antichi popoli che lo abitarono: gli Euganei prima, i Veneti poi. E’ protetta al nord dalle Dolomiti e dalle Prealpi Venete che degradano dolcemente, con valli pittoresche, fino alla pianura; questa si affaccia sull’Adriatico con una zona litoranea a costa bassa, sparsa di lagune.
Solcata dai fiumi Adige, Brenta e Piave, la regione è ricca di acque; la terra è fertilissima. Appartiene al Veneto anche la riva sinistra del Lago di Garda.
Per la particolare feracità del suolo, il Veneto ha nell’agricoltura una grande fonte di ricchezza. Sui monti, i boschi danno ottimo e abbondante legname, e gli estesi pascoli permettono l’allevamento di bovini ed ovini.
Sulle colline si coltivano gli alberi da frutto e la vite, che produce i noti vini di Valpolicella, di Bardolino e di Soave.
Nella pianura si coltivano frumento, granoturco, barbabietole da zucchero e tabacco.
In provincia di Verona è curato l’allevamento dei cavalli.
Notevole è la pesca delle anguille nelle lagune; esercitata con profitto è anche la piscicoltura.

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Sguardo d’insieme

Il Veneto era anche chiamato Venezia Euganea, nome derivato dai Colli Euganei che sorgono nel mezzo della pianura, presso Padova, e che anticamente erano vulcani.
Vulcani in questa pianura solcata in ogni senso da fiumi, da canali e da navigli più che qualunque altra parte d’Italia? Se era fondo di mare e col mare lotta ancora!
Sì, vulcani! E dovevano offrire un interessante spettacolo quelle isolette, ora colline, quando fiammeggiavano e rumoreggiavano sull’acqua.
Ora sui Colli Euganei ridono le vigne. Tutto intorno mareggiano non più i flutti salati, ma le messi biondeggianti del grano, del granoturco, o col variare delle stagioni, verdeggiano le praterie i gelseti e le canapine; oppure spiccano bruni i campi arati per la semina dell’orzo, dell’avena, della segale, del tabacco.
E quegli specchi d’acqua che brillano?
Sono le risaie.
E quelle chiazze rosee, là in quei boschi di alberi bassi e regolari, specialmente intorno a Verona?
Sembrano boschi di lillipuziani, e sono pescheti…
Verona è anche un centro agricolo di notevole importanza e ogni anno vi si tiene una fiera di cavalli che attira visitatori da tutta Italia e da fuori.
Le montagne del Cadore sono rivestite di oscure selve di abeti.
Sulla Laguna e sul mare aperto si slanciano i bragozzi a vele spiegate. Pescano migliaia di quintali di pesce l’anno, e hanno marinai che per settimane intere sanno resistere ai venti ed ai marosi fra le scogliere dell’Istria e della Dalmazia.
Centro della vita veneziana è Piazza San Marco, vasta sala marmorea, che ha per tetto il cielo, palpitante delle ali dei suoi innumerevoli colombi.

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L’alta pianura veneta
L’alta pianura veneta comincia già verso i 50 metri sul mare e sale dolcemente incontro ai colli subalpini. In certi tratti si restringe molto o quasi scompare (come al piede dei Lessini). Vi scorrono alcuni fiumi e torrenti che vengono dalla montagna. Da questi corsi d’acqua è stato diramato qualche canale e così il paesaggio della campagna ci offre anche prati da foraggio irrigati.
Lo sguardo si posa dovunque su una campagna tutta coltivata e ripartita in modo assai regolare da allineamenti di gelsi e talora d’alberi da frutto, e più ancora da alberi cui maritano le viti, e da filari meno vistosi di viti appoggiate a sostegni morti. Alternano nei campi le diverse gradazioni di verde del grano e del granoturco, dei fagioli e delle leguminose foraggere, e anche spiccano qua e là, nei campi della parte veronese e vicentina, le ampie foglie del tabacco.

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La bassa pianura veneta

Dalle vicinanze dell’Adige fin oltre il Piave, la bassa pianura veneta offre dovunque la vista di campagne ridenti e fittamente abitate. Alternano nei campi il frumento, il granoturco, la barbabietola, i fieni. Le alberature a filari dividono a riquadri il terreno, e la vite diffusissima appoggia i suoi festoni a olmi, aceri, pioppi, salici.
La presenza e la proporzione delle diverse colture variano anche secondo la fertilità del suolo, mentre le richieste del mercato hanno incoraggiato qua e là le colture orticole e più ancora l’impianto di frutteti, i quali offrono uno spettacolo magnifico specie all’epoca della fioritura.
Le abitazioni rurali sparse sono molto numerose: case in genere modeste, spesso tinteggiate di colori rosati. Spiccano qua e là alcune boarie, complessi di edifici staccati e disposti a corte più o meno aperta, con vistosità della stalla e dei grandi fienili, in quanto corrispondono a vaste aziende cerealicolo-zootecniche. Oppure fan bella mostra di sé vile signorili, spesso di singolare grazia.

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I colli Euganei

Il nome ufficiale della regione è ‘Veneto’, ma un tempo non molto lontano essa era chiamata col nome di Venezia Euganea derivato dai colli Euganei che sorgono nel mezzo della pianura, presso Padova, e che anticamente erano vulcani.
“Vulcani i colli Euganei!” direte voi, “I vulcani in questa pianura solcata in ogni senso da fiumi, da navigli e da canali più che qualunque parte d’Italia? Ma se conserva ancora, si può dire, le tracce di quando era fondo di mare, e col mare lotta ancora e quasi si confonde nelle estreme lagune!”.
Sì, i vulcani! E dovevano offrire uno spettacolo interessante quelle isolette, ora colline, quando fiammeggiavano e rumoreggiavano sull’acqua.
Ora sui colli Euganei ci sono le vigne. Tutto intorno ondeggiano non più le acque salate, ma le messi del grano e del granoturco o, col variare delle stagioni, verdeggiano le praterie, oppure spiccano bruni i campi arati per la semina dell’orzo, dell’avena, della segale, del tabacco.

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Paesaggio lagunare

Attraverso i secoli la vita delle lagune ha trovato le sue basi nell’attività peschereccia, marinara e mercantile.
La pesca offre tuttora aspetti caratteristici mentre non manca l’attività agricola sugli antichi cordoni sabbiosi dei delta, sui lidi, in alcune isole: molto concentrata, ma anche molto caratteristica, perchè intensiva e fondata essenzialmente sula vite e sugli ortaggi.
Ne sorgono così piccoli lembi di uno speciale paesaggio orticolo rappresentato in modo tipico e più estesamente intorno a Chioggia e a sud fino all’Adige, su vecchie dune spianate dall’uomo e diventate fertili con l’assiduo lavoro e le abbondanti concimazioni. Aiuole strette e lunghe, dense di ortaggi e di patate primaticce, e anche di viti, si susseguono l’una all’altra.
Una nota speciale vi portano i cannicci che in certe stagioni si stendono su sostegni inclinati, a protezione dal vento marino e dal freddo.

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Adige, re dei fiumi

Adige, re dei fiumi“: così Adriano Valerini, autore veronese del ‘500, innamorato della sua città e della sua terra, chiama il grande fiume, precisando però, che qui ci sono altre… somme autorità: “Benaco, imperador de i laghi, il Carpione, monarca de i pesci“.
Certo, il grande fiume dalle sorgenti tanto lontane, dal percorso mutevole e dalle impennate tanto furiose, ha accentrato su di sé, di volta in volta, l’attenzione, le cure, le apprensioni, la paura della terra e degli uomini di cui, in fondo, è quasi sempre il benefattore, a volte il tiranno.
Lo si vede giungere già formidabile alle Chiuse, dopo essersi impossessato di tante acque altoatesine e trentine, e arricchirsi di tutti i corsi d’acqua che scendono dai Lessini e che non hanno né tempo né spazio sufficienti per divenire fiumi. Per contenere le improvvise piene primaverili sono stati costruiti, ampliati, rinnovati, argini degni del ricordo di Dante, ma nemmeno questi, a volte, nel corso delle cento e cento inondazioni, hanno resistito. Anche Verona sa cosa significhi una piena rapida e violenta, allorché le acque, che sanno ancora di neve e di ghiaccio, urgono contro i Lungadige e dilagano verso la campagna tumultuando entro gli argini pensili e i grandi canali di deflusso.
Il fiume attraversa la città di Verona con andamento sinuoso, carezzevole, ricorda un poco il Canalazzo veneziano, quindi dopo un angolo retto sembra voler accettare la sorte di tanti altri fiumi e piega verso il Po; ma dopo Legnago, l’Adige ci ripensa, si riprende, punta energicamente verso oriente e raggiunge con una foce sue il mare.

Dettati ortografici e letture sul VENETO
L’Adige non fa più paura

Da Verona in poi l’Adige è pensile e scorre fra potenti argini. Prima che gli argini venissero costruiti rappresentava un grosso pericolo per le fertili campagne che lo fiancheggiavano perchè, nei periodi di piena, gli argini denunciano infiltrazioni d’acqua che ne minacciavano seriamente la consistenza. Oggi, invece, nessuno più lo teme, perchè finalmente è stato portato a termine il canale Adige-Garda che consente di convogliare al lago le acque di esubero prima che il fiume trabocchi in pianura. Lo chiamiamo canale, ma in realtà è una galleria lunga 10 chilometri, alta 9 metri e larga 8, tutta scavata nella roccia, che parte nei pressi di Mori, a nord di Verona, e raggiunge Torbole, sulla riva orientale del Garda, dopo aver attraversato il Monte Faè.
Il vecchio Adige è diventato il più tranquillo dei fiumi e delle sue piene si sta perdendo anche il ricordo.

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Il monte Grappa

Spostiamoci ora rapidamente nel settore nord-orientale della provincia e, oltrepassata Bassano col suo celebre Ponte degli Alpini, imbocchiamo la strada che si inerpica sui brulli costoni del monte Grappa, caro alla memoria e immortalato da una canzone popolare. Per i pendii del Col d’Averto e del Col Campeggia si giunge al Campo di Solagna, la cui terrazza è strapiombante sulla profonda valle del Brenta.
Più su, a Ponte san Lorenzo, oltrepassiamo il punto della massima avanzata austriaca del 15 giugno 1918 e pieghiamo sul fianco meridionale del monte Asolone (m 1520) per risalire, tra un paesaggio carsico di impressionante squallore, fin verso i 1700 metri, dove comincia la ‘zona sacra’.
La vetta del Grappa è a 1776 metri, ma non si offre più, alla sommità, la vista delle rocce martoriate e sbriciolate dai cannoni. Oggi il vertice del monte è segnato da un’immensa gradinata che rappresenta il cimitero-ossario, sovrastato dalla Madonnina benedicente. L’occhio qui spazia sui luoghi che videro la morte di tanti combattenti e non soltanto della guerra del 1915-18. Anche durante la guerra partigiana, dal 1943 al 1945, il Grappa fu teatro di intensi rastrellamenti e di feroci rappresaglie da parte dei Nazisti e, a Bassano, il viale dei Martiri ricorda il sacrificio dei Partigiani catturati sul Grappa mentre combattevano per la libertà.

Un’alluvione del Po
Il Polesine è una terra tristemente famosa per le alluvioni del Po. Quando il fiume entra in piena per il disgelo delle nevi o per le continue piogge, le popolazioni che vivono lungo il suo corso, specie quelle prossime al delta, sono di continuo in stato di allarme. Attaccate alla loro casa, alla stalla, alla terra, guardano tra la paura e la speranza il fiume che ingrossa livido. Squadre di vigilanza vanno e vengono lungo gli argini, se ne rinforzano i tratti che sembrano più minacciati e che presentano infiltrazioni d’acqua, si approntano i mezzi di soccorso. Ma non si può prevedere né dove né quando la furia delle acque si scatenerà. L’alluvione irrompe improvvisa, in direzioni imprevedibili, dilagando nella pianura, abbattendo e distruggendo ogni cosa, tagliando la via della fuga.
E’ quanto avvenne il mezzogiorno del 15 novembre 1951, quando il Polesine fu sconvolto da una delle più tragiche alluvioni che si ricordino. Il Po ruppe gli argini nell’ansa di Pontelagoscuro, nei pressi di Ferrara, e per tre falle invase l’Alto Polesine giungendo in due giorni alle soglie di Rovigo, dirigendosi improvvisamente verso Adria, investendo Cavarzere, compiendo in cinque giorni un’avanzata di circa 60 chilometri! Le statistiche del disastro riportarono cifre impressionanti. Ma anche al dinamica dell’alluvione fu studiata in tutti i particolari. Se ne ricavarono dati che consentirono di imbrigliare le acque del fiume con opere di protezione che garantiscono un maggior margine di sicurezza.

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L’agricoltura

In Veneto l’agricoltura riveste una grande importanza. La pianura non è così fertile come quella lombarda, emiliana, piemontese. Molto elevata è la produzione di grano e di granoturco.
Nelle zone collinari e in alcuni tratti della pianura è importante la coltura della vite, da cui si ricavano vini famosi (Bardolino, Soave, Valpolicella, Prosecco).
Appena inferiore a quello lombardo è l’allevamento dei bovini; superiore è l’allevamento del pollame e la produzione delle uova.

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Il vino di Verona

La vite si coltiva in Italia da tempi antichissimi. Il disordine che portò la fine dell’Impero romano, aveva tra l’altro danneggiato grandemente anche la coltivazione di questa pianta.
Venne ripresa per impulso del Cristianesimo.
Religiosi di ogni ordine si fecero viticoltori, per la necessità di produrre il vino occorrente per la Messa.
Molti vigneti anche famosi non solo in Italia, ma anche in Francia e in Germania, furono opera di monaci Benedettini e Cistercensi.
Anche ai Barbari, che un tempo invasero la nostra terra, piaceva molto il vino. Esiste un documento storico che lo prova. Si tratta di una lettera di Cassiodoro, ministro di Teodorico, scritta all’ambasciatore a Venezia. Scrive Cassiodoro che la cantina del suo re ha bisogno di essere rifornita di vino. Ordina all’ambasciatore di acquistarne di quello prodotto nel Veronese che è il solo degno della mensa reale.
Questo documento è anche una testimonianza dell’antica fama che gode anche adesso il vino prodotto in provincia di Verona e precisamente il Valpolicella.

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Tokai e Tocai

La vite è la pianta più lieta di quella lieta regione che è il Veneto. Ed è anche intraprendente e tenace; una vera pianta veneta, insomma che si arrampica sulle montagne e sulle colline, si stende tra le coltivazioni di tutta la pianura, e dilaga nella nostra provincia, fino al mare, fino alle dune e agli arbusti scapigliati di Jesolo, di Eraclea, fino agli orti sistemati tra i cordoni dunali di Chioggia e di Sottomarina. Dove un pezzo di terra, anche piccolo così, viene bonificato, lì un vitigno arriva e attecchisce, e poi ne escono certi vini… Ogni zona, si può dire, ha un suo vino i suoi maestri del vino, perchè ancor oggi, un bicchiere di Tocai bello, buono, schietto, ancor oggi è una laboriosa opera d’arte.
“Tokai o Tocai?”, domandiamo al signor Piero, un maestro della vite, che dai suoi vigneti di Lison, un paesino piccolo così, vicino a Portogruaro, produce un Tocai malandrino, dall’apparenza innocua, dall’invitante color paglierino (solo Lison lo produce di questo colore) che ti rivela di colpo, alle orecchie e alle ginocchia, quando ormai è troppo tardi, la gradazione… pericolosa a cui può giungere!
“Tocai! Tocai!” garantisce il sior Piero, “Vino tutto nostro, che nulla ha a che vedere col vino ungherese. Forse, chissà quando, lo abbiamo mandato noi Veneti lassù!. Mentre il Tokai ungherese è dato da una combinazione di uve diverse, il nostro deriva da un vitigno solo, ma selezionatissimo: ci vuole il nostro sole, la nostra terra argillosa, che sembra povera, ci vuole la nostra cura per tutto l’anno, dalla preparazione del terreno al dosaggio dei pampini perchè il sole non sia troppo violento, e anche le nostre paure quando c’è in giro minacciosa e maligna… la ‘mare de san Piero’ in estate, che a volte, con una grandinata radente, ti lascia lì, a scherno, solo i mozziconi dei vitigni, affioranti dal suolo tra mucchi di foglie e di grappoli maciullati. E allora è una desolazione. Ma speriamo bene, stavolta, per me e per tutti perchè è così bello il raccolto!”.
E sior Piero si allontana tra le pergole perfette dalle quali pende l’ambra preziosa dei grappoli che presto diverranno raccolto.

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Le province

Capoluogo del Veneto è Venezia, una delle più belle e singolari città del mondo. E’ costruita al centro della Laguna du 118 isolette congiunte da più di 400 ponti. Dei suoi 160 canali, il più famoso è il Canal Grande, arteria principale della città, in cui si specchiano stupendi palazzi marmorei. Meta di turisti di ogni Paese, ha monumenti di incomparabile splendore: la Basilica di San Marco con la sua fantastica piazza, il Palazzo Ducale, il Ponte dei Sospiri, la Ca’ d’Oro, la Torre dell’Orologio, il Ponte di Rialto. La città è sede di importanti manifestazioni artistiche. Nei suoi limiti amministrativi rientrano Porto Marghera, centro di numerose industrie, e Mestre, importantissimo nodo di comunicazioni, cui è collegata da un ponte stradale e uno ferroviario. Notissimi sono i suoi sobborghi lagunari di Murano, di Burano, di Torcello e del Lido.
Rovigo è il capoluogo del Polesine, una regione compresa tra il Po e l’Adige, fertile ma purtroppo soggetta a inondazioni.
Verona sorge sull’Adige. E’ un importante nodo stradale e ferroviario, un grande mercato agricolo e la sede di notevoli industrie. Monumenti pregevoli sono: l’Arena, il Duomo, la Basilica di San Zeno, il Castel Vecchio con il magnifico Ponte sull’Adige, le Tombe degli Scaligeri.
Vicenza è detta la ‘città del Palladio’ in onore del celebre architetto Andrea Palladio che vi lasciò splendidi capolavori, tra cui il Teatro Olimpico, la Basilica, il Santuario di Monte Berico, la Rotonda.
Padova sorge nel cuore della pianura. E’ una città attiva, sede di notevoli industrie. E’ famosa per la sua antica Università e per i suo i pregevolissimi monumenti, quali la Basilica si Sant’Antonio, la statua equestre di Gattamelata, la Cappella degli Scrovegni, il Palazzo della Ragione.
Treviso è importante centro agricolo e commerciale. Tra i suoi monumenti sono degni di nota: il Duomo, il Palazzo dei Trecento, le chiese di San Francesco e di San Nicolò.
Belluno è una graziosa città che conserva bei monumenti: il Duomo, il Palazzo dei Rettori, la Chiesa di Santo Stefano.

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A zonzo per canali e lagune

Ritrovandomi a passare per Chioggia, un po’ per amor del pittoresco e un po’ perchè quelli son posti dove nessuno va di solito, ho voluto recarmi a Pellestrina e a San Piero in Volta, due località di pochi abitanti situate lungo la diga meridionale del sistema lagunare veneziano, quasi sospese tra acqua e cielo, a circa venti chilometri da Venezia e a una decina da Chioggia. Pellestrina si presenta bene a chi vi arriva in vaporetto. Una fila di casucce strette e rossastre, scrostate dalla salsedine, separate tra loro da calli e da piazzette, si specchia malinconicamente nell’acqua del canale come un vecchio sogno perduto.
Davanti passano continuamente, durante la giornata, oltre che i vaporetti che fan la spola da Venezia a Chioggia, i numerosi bragozzi e velieri che vi trasportano merci d’ogni genere dal fertile Polesine; e sono spesso lungi convogli e motovelieri di forte stazzatura. Il borgo si direbbe che abbia concentrato ogni sua risorsa nella coltivazione di alcuni orti situati tra il paese e la poderosa diga che lo difende dal mare. Questa diga che, qua e là interrotta, corre da Sottomarina fino al golfo di Malamocco e difende la laguna dagli assalti del mare aperto, dandole sicurezza e facilità di trasporti, è detta popolarmente ‘I Murazzi’, ed è una celebre opera costruttiva che non sarà mai abbastanza lodata e ammirata. Fu l’ultima grande creazione della Repubblica Veneta. E’ una grossa muraglia di massi d’Istria cementati con pozzolana; costo venti milioni di lire venete ed è lunga quattromila e ventisette metri.
Stando a Chioggia, nulla è più divertente che osservare la vita tacita e irrequieta che si agita sulla laguna. La quale è di continuo solcata da trasporti; vapori e pescherecci d’ogni genere, che con lo splendore delle grandi vele rossastre e istoriate sembrano tuttavia volerle serbare l’antica patetica bellezza.
(C. Linati)

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Il Po e Padova

Quando il Po, l’antico Padus, attraversava la pianura con corso molto variabile, gran parte del territorio che oggi costituisce la provincia di Padova, era occupato da acquitrini e paludi. Passarono i secoli e le acque si scavarono un letto definitivo, lasciando allo scoperto, nel loro ritirarsi, vasti lembi di terra. Appunto su uno di questi sorse Padova, che dal fiume prese il nome di Padua, latinizzato poi in Patavium. Questa, secondo l’opinione di alcuni storici accreditati, l’origine del nome Padova, che altri vorrebbero far derivare da una corruzione di ‘palus’, cioè palude.
Certo la zona doveva essere il regno delle acque, ora limpide e tranquille, ora fangose e turbolente, ora perfidamente malariche. Oggi di esse non resta che il Bacchiglione, il fiume che attraversa la città.

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Le stagioni di Verona

Due volte l’anno Verona, scuotendosi di dosso la sua bonaria e secolare indolenza, sembra quasi miracolosamente trovare il ritmo febbrile di una grande città.
La prima stagione veronese si apre con la Fiera Internazionale.
Col maturare dell’estate e del caldo, ecco la seconda grande stagione di Verona: l’Arena e gli Spettacoli Lirici. E’ questo il tempo in cui diventano familiari i nomi dei grandi musicisti (Verdi, Rossini, Puccini, Wagner), i titoli degli immortali melodrammi (Aida, Turandot, Bohème, Lohengrin), le voci e i volti dei celebri cantanti. E’ anche il tempo in cui ogni buon veronese rispolvera il suo riposto bagaglio di motivi, di ariette e di romanze o sciorina insospettate doti di critico musicale. Tra luglio e agosto, quasi ogni sera, l’Arena di Verona raduna sulle secolari gradinate migliaia di spettatori italiani e stranieri, fraternamente congiungendoli nell’incanto delle melodie e nell’amore per la musica.
Da qualche anno poi, accanto agli spettacoli lirici, Verona offre anche un ciclo di rappresentazioni teatrali. Teatro shakespeariano, naturalmente, perchè Shakespeare, grazie all’immortale favola di Giulietta e Romeo, di Verona è un po’ figlio adottivo. Alla bellezza dei suoi drammi niente sembra tanto convenire quanto la suggestiva cornice del Teatro Romano o di Piazza dei  Signori o di Castel Vecchio.
Così nel nome del lavoro e dell’arte, Verona vive con impegno e con entusiasmo i suoi giorni più belli e più internazionali: è dunque giusto che essa torni finalmente a sdraiarsi, con la grazia di una vecchia signora, lungo le anse armoniose del suo verde Adige.
(R. Bresciani)

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I libri ammalati guariscono a Praglia

A Praglia, nella monumentale abbazia benedettina, in una gran sala del Cinquecento, dotata ora di moderne scaffalature, e nel vecchio archivio al piano superiore, sono custoditi cinquantamila volumi, in varie lingue.
La millenaria tradizione benedettina d’amore per il libro è stata riconfermata, qui, con un’importante iniziativa, rapidamente conosciuta ed apprezzata negli ambienti internazionali qualificati. In un’ala del monastero è stato costruito un moderno istituto con laboratorio scientifico per il restauro del libro.
Quando arriva un malato, spiega un esperto monaco, la degenza è piuttosto lunga, in quanto il ricoverato, dopo la compilazione della cartella clinica, deve passare quasi sempre nei diversi reparti. Accertate le condizioni del libro, la sezione chimica procede alla diagnosi delle cause, che deve essere esatta per stabilire la cura appropriata.
Spesso, nei libri, e in particolare nelle pergamene, si osservano manifestazioni patologiche di natura microbica, e cioè prodotte da microorganismi che danneggiano, oltre alla scrittura, la consistenza stessa della materia. Si ricorre allora a reagenti chimici, a disinfezione in vasche speciali, in bagni di soluzioni a base di cloro o di altre sostanze adatte.
Si procede poi al restauro definitivo (lavaggio, rinforzo delle fibre con bagni rigeneratori, stiratura) e alla rilegatura. Un lavoro meticoloso, di lunga durata, che tende soprattutto alla bonifica della materia con assoluto rispetto dell’integrità dei vari elementi che compongono i libri.
Oltre un migliaio di opere, codici, incunaboli, libri rari, stampe, antiche carte geografiche e mappamondi, sono state perfettamente restaurate finora nell’istituto, che lavora attivamente per molte biblioteche pubbliche e di stato.
(U. Maraldi)

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I Veneti: sorrisi e parole

Vivono in un paese di pianura verde e rosa, e sono il più sorridente fra tutti i popoli italiani. Parlano sorridendo e mescolando il riso alle parole. Traggono un immenso piacere dal pianto, ma anche le loro lacrime sono mescolate al sorriso.  Parlano molto e senza sforzo, senza fatica. E io non penso che parlino molto perchè sono ciarlieri, ma perchè han la bocca grande e piena di parole e non san che farsene di tante parole e le spendono.
Parlano, uomini e donne, guardandoti in viso e sorridendo: e ti guardano negli occhi, con una curiosità singolare, come se si guardassero nello specchio, e intanto si toccano il viso come per essere sicuri che il viso che vedono sei tuoi occhi è il loro, non quello di un altro. Son buoni i veneti e se hanno qualcosa in loro della naturale malvagità umana, lo sfogano non in cose e fatti e detti e parole malvagie, ma in ‘ciacole’, in chiacchiere, in pettegolezzi.  E’ il paese della gentilezza, il paese sorridente, il solo paese in Italia che sa sorridere fra le lacrime.
(Curzio Malaparte)

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Mercato a Chioggia

Le banchine son ben provviste e offrono uno spettacolo di animazione vivissima. I venditori schierati lungo il vasto terrazzo urlano allegri la loro merce, tra i viavai della gente.
Cumuli di sfoglie, che hanno il bel lucido della porcellana, si alternano alle sarde dal colore metallico o alle anguille ancora guizzanti che hanno il motoso e il verdastro dei bassifondi, ai mucchi stillanti dei garusi, delle cannocchie, delle capesante dal cuore arancione, alle seppie gelatinose, ai moli, ai peoci, alle verdognole carpe squartate a mezzo.
In certi punti, tutto quel ben di dio, sembra il quadro di un pittore fiammingo. E su tutto vola l’odore acre del mare, e la festa dei gridi di richiamo.
La gente si ferma, guarda, sceglie, compra, passa via.
(C. Linati)

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Pesca in laguna

Scrisse un viaggiatore tedesco: ai giorni di festa, Chioggia sembra recinta da una legione di baionette giganti. Sono alberi, antenne, pennoni di navi, pali da sostenere le reti, pertiche da reggere nasse, cestoni, cordami; e nelle acque che circondano la città, nei canali, c’è una fitta di barche d’ogni grandezza e d’ogni foggia, arnesi galleggianti e tutto ciò che serve ad andare sull’acqua con la forza del vento e del braccio: grandi vele latine dipinte di immagini simboliche, stampate di lettere maiuscole, listate ed inquadrate con stemmi; remi enormi che due uomini muovono a fatica, e remi leggeri che le due braccia del battelliere sollevano agevolmente; ancore buone da mordere nella sabbia e nello scoglio. E insieme tutte le varietà di ordigni per la pesca, dalla vasta rete che imprigiona il pesce inconsapevole, e che, stringendosi, lo serra, lo preme, gli toglie il moto e il respiro, sino all’umile lenza che il pescatore paziente affonda nelle ore calme e ritrae carica d’un pesciolino che guizza, che si divincola e non vuol morire, sino agli arpioni per trascinare i pescecani e  i tonni, ai sacchi per le ostriche, ai canestri per la minutaglia, per il ‘pesce popolo’, che, infarinato a dovere, crepita e s’indora nelle classiche padelle dei friggitori.
(P. Gribaudi)

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La veneta piazzetta

La veneta piazzetta
antica e mesta, accoglie
odor di mare. E voli
di colombi. Ma resta
nella memoria il volo
del giovane ciclista
volto all’amico: un soffio
melodico: “Vai solo?” (S. Penna)

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La laguna veneta
E’ molto interessante visitare qualche tratto della laguna veneta, specialmente se stiamo un po’ discosti da Venezia. Per il nostro lavoro di osservazione meglio si presterebbe la laguna di Caorle o quella di Marano, in parte ancora allo stato naturale.
Ci troviamo davanti a cordoni di sabbia, più o meno lunghi più o meno ampi; a tanti canali, per i quali l’acqua del mare va a confondersi con la terraferma. Questi specchi d’acqua salmastra, noti col nome di lagune, sono soggetti ad un continuo mutamento. La laguna infatti, vista in certe ore del giorno, lascia affiorare qua e là isolotti fangosi (le velve) che poi, con l’alta marea, scompaiono totalmente. Altrove si possono notare isolotti erbosi detti barene che rimangono sempre emersi. Ma il mutamento maggiore è apportato dai detriti depositati alla foce dei fiumi, i quali, giungendo al mare con decorso assai lento per l’insensibile dislivello, non possono riversare in mare tutta l’abbondante quantità dei materiali convogliati. Si creano così davanti ai bassi fondali costieri tante zone paludose ed estesi acquitrini, che nel Veneto vengono anche chiamate col nome di valli, adibite per lo più alla pesca. L’opera di bonifica, di prosciugamento e di incanalamento di tutte queste acque, che vanno ad impantanare la fascia costiera, ha oggi in parte redento la zona, e l’ha resa meno instabile nella sua configurazione.
Un tempo la laguna si stendeva ininterrottamente da Ravenna ad Aquileia, e se Venezia non si fosse difesa contro questo progressivo insabbiamento, ora sarebbe città di terraferma, come è avvenuto per Ravenna stessa, per Adria e per tanti altri centri veneti, un tempo bagnati dal mare.
Venezia infatti ha deviato il corso del Brenta e del Bacchiglione verso sud, il Sile e il Piave verso est, ha predisposto per lo stesso grande Po un nuovo ramo di sbocco, il Po di Goro, ha eretto argini lungo le sponde dei fiumi, ha innalzato i caratteristici murazzi a difesa delle isole della laguna, insomma ha fatto di tutto per preservare la sua tipica fisionomia.
Ancora oggi il Magistrato delle acque, ente appositamente costituito a Venezia, non dorme sonni tranquilli perchè l’azione fluviale, il moto ondoso e le maree instancabilmente, anche se lentamente, compiono il loro lavoro di modellamento costiero.
E’ bene sapere come avviene il meccanismo della marea, che è uno dei tre moti a cui va soggetto il mare.
La marea è un movimento periodico che porta la massa acquea ora ad un grande innalzamento, detto flusso, ora ad un generale abbassamento, detto riflusso. Queste due fasi si alternano circa ogni sei ore al giorno, in corrispondenza del passaggio della Luna sul meridiano. Perchè occorre sapere che è proprio la Luna, con la sua forza di attrazione sul nostro pianeta (e particolarmente sulla massa liquida) quella che causa lo strano fenomeno.
A Venezia tra l’alta e la bassa marea si registra un divario di poco più di un metro, divario però sufficiente a produrre il ricambio delle acque della laguna. Se si arrestasse questo ricambio, si avrebbe una zona di acque morte.
Il fenomeno si può osservare molto bene anche su altre spiagge dell’Adriatico, specialmente in una giornata di mare tranquillo. Alla mattina presto si vede un lembo di spiaggia ben più largo di quello che si stenderà a mezzogiorno, perchè con l’alta marea le acque hanno ripreso ad innalzarsi e quindi ad invadere una più ampia fascia di litorale.
Sul nostro globo la marea raggiunge il suo massimo nella baia di Fundy, in Canada, con oltre 20 metri di dislivello tra il flusso e il deflusso.
La marea è un moto periodico, mentre le onde sono un moto variabile e le correnti un moto costante. In totale tre moti del mare.

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La piazza delle Erbe a Verona
Piazza delle Erbe a Verona è certo una delle piazze più pittoresche d’Italia che rimane nella memoria come uno spettacolo: una commedia, essa sola, di cui sarebbe facile rianimare i personaggi e farli parlare. Su questa piazza, grande come un foro, si tiene il mercato, testimonianza della vocazione della città che ha fondato la propria prosperità sulla campagna e sugli alimenti terrestri. In piazza delle Erbe, sotto un centinaio di ombrelloni, si vende una tale varietà di frutta, di ortaggi e di legumi come raramente se ne vedono radunati in così gran numero. I pomodori spargono il loro rosso squillante accanto ai limoni d’oro, ai cedri, alle angurie, alle melanzane, al verde tappeto delle insalate: un odore di campagna aleggia sotto gli ombrelloni di tela, e compone un’atmosfera pacifica e ghiottona.
Non si pensa più allora ai Montecchi e ai Capuleti; non si pensa che Tebaldo avesse potuto uccidere Mercuzio a Verona; la vista di un mercato fa dimenticare tutte le tragedie: quelle della vita, quelle della storia, quelle dei poeti.
Tuttavia quando si alza lo sguardo al di sopra di queste mostre attraenti, si scorge a nord della piazza, sopra una colonna di marmo, il leone di San Marco, simbolo di un’antica dipendenza, quando Venezia regnava sulla terraferma.
Al centro della piazza un’altra colonna di marmo; e per inquadrare, per contenere questo vasto mercato, palazzi un tempo ornati di affreschi dei quali rimane qualche traccia.
(G. Bauer)

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Curiosità su Padova

Vuoi conoscere alcuni proverbi padovani? Eccoli:
– A fare un proverbio ghe voe cent’anni.
– Venezia bea, Padoa so sorela.
– Veneziani gran signori, Padovani gran dottori, Visentini magnagati, Veronesi tuti mati.
– Pan padoan, vin visentin, tripe trevisane, done veneziane.
– Bologna la grassa, Padoa la passa.
– Co canta la cigala, se taja la segala, co canta el cigalon, se taja el formenton.
– De Santa Madalena se taja l’avena.
– De San Valentin se pianta l’ajo e el seolin.
– Tera mora fa bon fruto, tera bianca gninte del tuto.

“A Padoa ghe xe un Santo sensa nome, un cafè sensa porte e un prà sensa erba”. Questo detto si riferisce a:
– sant’Antonio, che viene chiamato da tutti semplicemente ‘il santo’;
– il Caffè Pedrocchi, che per molto tempo non ebbe porte perchè rimaneva aperto sia di giorno che di notte;
– al Prato della Valle, che non è un prato, ma una piazza grandiosa, e quindi non ha assolutamente erba.

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Curiosità su Treviso
A Treviso l’arco che unisce il Palazzo del Podestà al Palazzo dei Trecento è detto ‘sottoportico dei soffioni’ perchè vi spira sempre un notevole vento.
A Treviso nella chiesa romanico-ogivale di San Francesco, si può ammirare un affresco del 1453, raffigurante un crocefisso dipinto per ordine dell’Inquisitore a spese di un oste ebreo che aveva servito carne di venerdì.
Sempre nella nuda ed austera chiesa di San Francesco a Treviso, possiamo sostare sia davanti alla pietra tombale di Francesca, figlia di Francesco Petrarca, morta nell’agosto del 1384, sia davanti all’arca di Pietro, figlio di Dante Alighieri, morto a Treviso nel 1364.
Nel giardino del Museo della Casa Trevigiana c’è una piccola Casa del XIV-XV secolo, nella quale è disposta la ‘Raccolta Sanguinazzi’, interessante esempio di Gabinetto di Storia Naturale del XVII secolo con collezione di strumenti scientifici, tra cui i celebri prismi di Newton.
C’è chi ha cantato in versi, anche se un po’ zoppicanti, il famoso radicchio trevisano: “Se lo guardi è un sorriso, se lo mangi è un paradiso, il radicchio di Treviso”.
Sull’iscrizione di una credenza da cucina che ora si trova nel Museo di Treviso possiamo leggere questi versi di ispirazioni popolare, pieni di confidente abbandono, di devota accettazione in un’umile realtà quotidiana, di decoro e di discrezione:
Gaetano santo vu che si sora la providenza
prega che ge sta sempre de buon in sta credenza
e se non vacorda divina onnipotenza
fa che la mangemo suta con pazienza
che per ultimo ne basta grazie del ciel
e de polenta no restar senza“.

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Curiosità su Belluno

“Christus nobiscum stat”. Le case feltrine sono caratteristiche per i tetti fortemente aggettanti e per le facciate ornate da affreschi o graffiti attribuiti a Del Morto da Feltre e alla sua scuola. Su molti portali è inciso il motto: “Christus nobiscum stat” (Cristo vive tra noi).
A sud di Cortina, lungo il torrente Costeana, sorge il Sacrario di Pocol, costituito da una torre con basamento quadrato; in esso sono custodite le salme di 10.000 caduti della guerra 1915-1918.
Il gonfalone di Pieve di Cadore è decorato con medaglia d’oro per la “memoranda e tenace resistenza fatta nel 1848 dalle popolazioni cadorine contro soverchiante e agguerrito invasore”, e con la Croce di Guerra per la resistenza nel 1918.
A sud di Mas, sulla strada tra questa località e Mis, si trovano le Rovine di Vedana, costituite da un grandioso e disordinato ammasso di terra e pietre (3 milioni di metri cubi) disteso attraverso la valle. Secondo alcuni geologi tale ammasso sarebbe franato, in epoche remote, dai monti Vedana e Peron, seppellendo i villaggi di Cordova e Cornia. Poco lontano sorge la Certosa la cui origine si fa risalire a un ospizio di San Marco di Vedana, esistente nel 1155. La Certosa subì alterne vicende finché, recuperata nel 1768 dai Certosini francesi, du fatta risorgere. Qui nacque Gerolamo Segato (1792-1836) famoso oltre che come instancabile viaggiatore, cartografo e naturalista, anche per aver inventato un processo di pietrificazione dei cadaveri.

Vedi anche MATERIALE DIDATTICO SU VENEZIA

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LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture

LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture per la scuola primaria: Amalfi, Pisa, Venezia e Genova.

LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture
La leggenda dell’Anno Mille

Dice la leggenda che nell’imminenza dell’anno 1000, per una errata interpretazione di alcuni passi delle Sacre Scritture, le genti attendessero con terrore la fine del mondo, ma che poi, liberate dall’incubo, continuando il mondo la sua uguale vicenda, riprendessero a vivere con maggior lena. Si iniziava una nuova era, feconda di lavoro, di creatività in tutti i campi, materiale e morale.
La leggenda ha un suo valore perchè esprime, come un simbolo, quella ripresa di vita economica e politica, quel risveglio culturale ed artistico che nell’XI secolo rinnovò tutta l’Europa e i cui segni sono particolarmente visibili in Italia. Ebbe così fine l’età feudale che, con quella dei regni romano-barbarici, costituisce l’Alto Medioevo, e si iniziò il Basso Medioevo, durante il quale la Chiesa e l’Italia si sottrassero alla dipendenza degli imperatori germanici e fiorì la nuova civiltà dei Comuni e delle Signorie (1000 – 1492).
Di là dalle Alpi, in Francia, in Inghilterra e in Spagna, si costituivano invece le grandi monarchie nazionali.

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Le Repubbliche marinare

Alcune città marinare, favorite dalla loro naturale posizione e dalla ripresa dei traffici, raggiunsero, prima delle città di terraferma, un notevole grado di ricchezza e di indipendenza politica; esse furono Amalfi, Venezia, Pisa e Genova.

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Amalfi

Posta sul golfo di Salerno, fu la più fiorente città marinara del sud, superando di gran lunga Napoli, Gaeta e Bari. Trascurata dal governo di Bisanzio, minacciata dalle incursioni dei Saraceni, dovette assai per tempo provvedere alla sua difesa con una flotta, e al suo governo: tutti i cittadini, riuniti a Parlamento, eleggevano il capo della città, cioè il Duca. Tale governo repubblicano favorì in modo particolare i commerci e la navigazione. Nel X secolo Amalfi era già un centro attivissimo di commercio col Levante: a Costantinopoli, ad Antiochia, ad Alessandria e al Cairo, gli Amalfitani avevano fondachi ed alberghi, chiese ed ospizi.
In quelle città del Levante portavano i prodotti agricoli italiani e caricavano damaschi, armi, profumi, spezie, tappeti e indaco che rivendevano nell’Italia centro-meridionale.
La moneta amalfitana, il tari, aveva corso in tutti i porti del Mediterraneo. Gli Amalfitani compilarono il primo codice di leggi marittime, le famose Tavole Amalfitane, adottate da gran parte degli Stati mediterranei.
Altro loro merito è quello di aver introdotto in Occidente l’uso della bussola, già adoperata da Cinesi ed Indiani, perfezionandola; leggendaria è l’attribuzione di essa all’amalfitano Flavio Gioia.
Breve fu la vita florida e indipendente di Amalfi: verso la fine del secolo XI fu soggiogata dai Normanni, conquistatori ed unificatori di tutta l’Italia meridionale. In seguito, combattuta e vinta da Pisa, sua rivale nel Tirreno, perdette la flotta e con essa la potenza.

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Venezia

Abbiamo visto come le isole della laguna veneta, dall’invasione di Attila in poi, diventarono a più ripresa rifugio degli abitanti delle città venete, che andarono ad aggiungersi ai pochi e poveri pescatori che già vi dimoravano.
Sicure dalle invasioni, perchè difese da un labirinto di canali, ma povere, quelle terre non potevano dare mezzi di vita a una popolazione numerosa, che perciò si volse prestissimo al commercio marittimo lungo le coste dell’Adriatico e il corso dei fiumi veneti, prima vendendovi il sale e i prodotti della pesca, poi le merci importate dall’Oriente bizantino a Ravenna.
Nominalmente questi centri lagunari dipendevano dall’Esarca, ma a mano a mano che l’autorità di Bisanzio si affievoliva, essi andavano organizzando un’amministrazione autonoma. Già alla fine del VII secolo gli abitanti delle isole eleggevano a vita un magistrato supremo o Duca (in veneziano, Doge).
A Rialto e sulle isolette ad essa congiunte per mezzo di ponti, si incominciò a costruire la nuova Venezia (città dei Veneti), destinata a diventare una delle più belle e ricche città del mondo; essa fu posta sotto la protezione dell’evangelista San Marco, le cui reliquie, trasportate da Alessandria d’Egitto, furono deposte nell’omonima Basilica, sorta fra i primi monumenti.
Nel X secolo Venezia dovette combattere i pirati slavi (Schiavoni), che infestavano l’Adriatico. La vittoria definitiva su di essi fu riportata nell’anno 1000 dal Doge Pietro Orseolo II che occupò le coste dell’Istria e parecchie isole e città della Dalmazia. Il doge di Venezia prese allora il titolo di Dux Veneticorum et Dalmaticorum.

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Per il lavoro di ricerca

In che anno incominciò a sgretolarsi il sistema feudale?
Intanto cosa avveniva nelle città?
Come si chiamò la nuova classe sociale?
Quali furono le città marinare che divennero, prima delle città di terraferma, centri attivissimi di commercio e politicamente indipendenti?
Conosci gli stemmi delle gloriose Repubbliche marinare?
Quale fu la più fiorente città marinara del sud?
Quali meriti ebbero gli Amalfitani?
Sapresti dire a che cosa servivano le Tavole Amalfitane?
Qual era la moneta amalfitana?
Chi introdusse in Occidente l’uso della bussola?
Quando finì la potenza della gloriosa Amalfi?
Da chi fu costruita Venezia? Com’era chiamato il capo della Repubblica di Venezia?
Come si chiamava la sua nave?
Quale cerimonia era in uso il giorno dell’Ascensione?
Chi era il Santo protettore di Venezia?
Come si chiamava la moneta di Venezia?
Che cos’erano le galee? Da che cosa derivò il loro nome?
Su quali altri tipi di navi i marinai delle Repubbliche marinare percorrevano e dominavano i mari?
Ricerca notizie sulla potenza della Repubblica di Venezia.

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La bandiera navale italiana

Nella bandiera navale italiana lo stemma, al centro del tricolore, è costituito dai quattro stemmi di Amalfi (croce bianca in campo azzurro), di Pisa (croce bianca in campo rosso), di Genova (croce rossa in campo bianco) e di Venezia (il leone alato d’oro in campo rosso), a segnare la grande tradizione marinara della nostra storia.

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Storia di una parola

La cannella, il pepe, le droghe aromatiche venivano tutte dall’Oriente ed erano fra noi chiamate spezie. Esse non servivano solo per preparare le raffinatissime salse tanto in voga nel Medioevo; erano, secondo i ricettari farmaceutici del tempo, necessarie per la preparazione di medicine e di pomate. Ecco perchè il farmacista di allora veniva chiamato speziale, appellativo che familiarmente gli viene ancora dato in molti luoghi d’Italia.

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Le nuove monete

I mercanti delle Repubbliche marinare, che avevano navi, andavano in Oriente a comprare merci e le rivendevano in Europa a caro prezzo. Così le Repubbliche marinare si arricchivano rapidamente. Con l’oro portato dall’Africa, con l’argento ricavato nelle miniere di Spagna, di Francia, di Germania, vennero coniate nuove e belle monete, che incominciarono a circolare in Europa al posto dei denari e dei bisanti, cioè al posto delle monete araba e bizantina. La moneta di Venezia si chiamava ducato, quella di Genova genovese o genovino.

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Le navi delle città marinare

La galea deriva il suo nome dalla forma snella che la fa assomigliare al pesce spada che in greco è appunto chiamato galeos.
Fin verso il 1000 le galee venivano usate per il trasporto di merci quanto per le azioni di guerra, ma quando, attorno a quest’epoca, in tutte le città marinare d’Italia rifiorirono le costruzioni navali, si cominciarono a progettare galee destinate esclusivamente alla battaglia. Allora, poiché nella stiva non si dovevano più immagazzinare merci, si potevano imbarcare fino a 120 vogatori, in qualche caso anche 200.
In molte galee ogni remo era manovrato da due, tre o anche quattro vogatori. Inoltre le vele venivano considerate un motore ausiliario; queste navi usavano la vela triangolare, detta vela latina, e di frequente avevano due alberi.
L’armamento di una galea era costituito si armi da lancio e grosse baliste; erano inoltre armate di un enorme sperone per forare lo scafo delle navi avversarie. Ciascuna galea era, infine, munita di grossi ganci e di ponti che servivano per agganciare le navi nemiche e per attaccarle all’arrembaggio.
Fra vogatori, marinai, bombardieri, arcieri e soldati assalitori, l’equipaggio di tale nave poteva contare anche più di 500 uomini.
Le prime galee usavano la vela quadrata, come i navigatori greci e romani. Solo verso il secolo XII si apprese dagli Arabi a usare la vela triangolare, con la quale era possibile navigare anche contro vento. La vela triangolare è detta vela latina. Ma questo nome non indica l’origine della vela. Esso deriva dalla storpiatura di vela ‘alla trina’. Così si chiamava infatti la vela triangolare, o perchè fatta a triangolo o perchè legata con la trina, una treccia di canapa formata da tre fili e usata per le legature volanti.
L’equipaggio era suddiviso in compagni d’albero (marinai) e rematori. Questi ultimi erano dei detenuti, condannati al trattamento più inumano. Erano in parte condannati per delitti comuni e in parte prigionieri di guerra; alcuni erano volontari, gentaglia che non sapeva far alcun altro mestiere, e venivano chiamati, per ironia, buanavoglia. Per essere riconosciuti in caso di fuga, questi rematori delle galee, detti appunti galeotti, dovevano avere i capelli rasati o tagliati a ciuffo.
Se la nave affondava, i galeotti affondavano con essa. Dovettero purtroppo trascorrere alcuni secoli prima che venissero abolite queste barbare condanne.

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Le navi da carico

Le nostre città marinare usarono diversi tipi di navi da carico: le galee grosse o di mercanzia, le cocche, le caracche. Erano navi alte di bordo, più larghe e tondeggianti delle galee, adatte a portare grandi carichi (e da ciò il nome di caracche che deriva dall’espressione latina navis caricata); esse furono fra le prime del Mediterraneo ad applicare una grande innovazione, apparsa già da un secolo nei navigli del Mare del Nord: la sostituzione dei remi di governo con un vero e proprio timone a barra, detto timone ‘alla navaresca’. Ben presto Genovesi e Veneziani si accorsero che queste navi erano adattissime anche al combattimento, perchè con esse si potevano colpire i nemici dall’alto, standosene ben protetti negli alti castelli di poppa e di prua.

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La Repubblica di Amalfi

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Splendore e decadenza di Amalfi
Amalfi, nell’anno 839 si rese indipendente da Napoli (del cui ducato faceva parte) ed elesse come governatore un comite (magistrato annuale). Cominciò allora la fortuna marinara della città che divenne la prima delle potenti repubbliche marinare del Tirreno. Essa seppe difendere la propria indipendenza sia contro Bisanzio sia contro i Longobardi.
La sua importanza, analogamente a quella di Venezia, si fondava esclusivamente sui traffici e la navigazione.
Le sue navi visitavano Alessandria e Beirut, in parte per condurvi pellegrini, in parte per andare a prendere prodotti che si potevano vendere comodamente in Italia.
Ben presto  i mercanti di Amalfi costituirono colonie a Palermo, a Siracusa e Messina, tutte città che si trovavano nelle mani dei musulmani.
Gli Arabi gradivano questi scambi di merce, dai quali essi stessi traevano vantaggio.
Concedevano generosamente ai forestieri luoghi di residenza, i cosiddetti fonduk, dove i mercanti  potevano svolgere la loro attività, come anche a Venezia esistevano i fondachi per gli stranieri.
Amalfi sfruttò abbondantemente i suoi vantaggi.
In questa cittadina, nel periodo del suo massimo splendore (X secolo), vivevano 50.000 abitanti, cifra assai ragguardevole per quei tempi.
Probabilmente Amalfi era allora la città di gran lunga più popolata di tutto l’Occidente.
La sua moneta (il tari) circolava in tutta Italia e perfino in Oriente.
Le sue leggi venivano rispettate ovunque e spesso venivano adottate da altre città.
Il codice della navigazione di Amalfi, Tabula Amalphitana, divenne il modello di tutto il diritto marittimo dell’Occidente.
A uno dei suoi cittadini, Flavio Gioia, fu attribuita l’invenzione della bussola. E’ vero che ciò non è esatto perchè l’ago magnetico era già noto ai Cinesi, tuttavia Amalfi può rivendicare il merito di aver messo questa invenzione al servizio della navigazione, collegando l’ago magnetico con la Rosa dei Venti.
Amalfi decadde quando, nell’anno 1131, fu conquistata dai Normanni, che avevano già occupato la Sicilia.
La città si era appena riavuta da questo colpo, quando fu attaccata, sconfitta, saccheggiata e definitivamente distrutta dai Pisani.
Oggi esistono soltanto rovine che indicano il punto in cui sorgeva l’antica Amalfi.
(‘I mercanti trasformano il mondo’, E. Samhaber)

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Uno strumento nuovo: la bussola

I mercanti delle repubbliche marinare che commerciavano con l’Oriente portarono in Europa uno strumento utilissimo per la navigazione. Si trattava di uno strumento proveniente dalla lontana Cina, che sembrava opera di magia. Era un piccolo recipiente colmo d’acqua, cioè una bussola, sul quale galleggiava una lancetta di ferro calamitato, sorretta da una scheggia di legno. La lancetta si indirizzava sempre verso nord e rendeva facile l’orientamento anche alle navi che si trovavano in mezzo al mare, lontano dalla costa, o quando di giorno o di notte, il cielo era coperto di nuvole e non si vedevano le stelle.

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La Repubblica di Venezia

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Nascita di Venezia

Rialto, piccolo ammasso di isolotti, era sto fino ad allora scarsamente abitato, ma l’inviolabile asilo che aveva offerto ai profughi di Eraclea lo designava per la scelta quale sede preferibile e permanente dello Stato.
Prese singolarmente, le isolette di Rialto erano certo meno estese di Torcello, di Burano o di Eraclea, ma il gruppo ne annoverava ben sessanta, separate da stretti canali sui quali sarebbe stato agevole gettare ponti, in modo da rendere disponibile per la capitale una superficie considerevole e di molto superiore ad ogni altra.
La via d’acqua larga e profonda che spartiva in due gruppi l’arcipelago era il corso del fiume Prealto, ramo staccato del Brenta; se ne fece il Canal Grande. Le sue dimensioni avrebbero consentito il passaggio delle maggiori imbarcazioni e sulle sue rive si sarebbero create banchine e depositi, nei luoghi più adatti.
Al limite degli isolotti periferici si sarebbero potuti costruire una cinta muraria e un riparo in pietra, a circondare e proteggere la nuova città.
Come se presentisse quale splendido destino lo attendeva, tutto il popolo di pose all’opera con incrollabile entusiasmo.
Da ogni parte si innalzarono costruzioni, dapprima di legno, poi di mattoni e di pietra.
Per il palazzo del doge si scelse la posizione che sarebbe rimasta immutata per sempre.
Quanto al nome della città gloriosa i Veneti le diedero il proprio, quella che in origine si era chiamata Rialto, civitas Rivoalti, divenne Venetia, ossia Venezia.
Questo avveniva nell’anno 810 dC.
(A. Bailly)

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Grandezza di Venezia

Venezia divenne una grande città commerciale. Le sue navi la fecero dominatrice del Mediterraneo. Le sue flotte mercantili, protette dalle navi da guerra, commerciavano fino a Costantinopoli, entravano nel Mar Nero per ritirare i prodotti russi e gli altri prodotti che dall’Asia e dalla Cina vi arrivavano per mezzo delle carovane. Lungo le coste della Palestina e della Siria, le navi veneziane caricavano i prodotti della Mesopotamia, della Persia e dell’India, qui portati dalle carovane. Esse avevano commerci con l’Egitto, lungo le coste della Francia e della Spagna, e oltre l’Atlantico, con l’Olanda, il Belgio, l’Inghilterra e la Scandinavia. Quasi tutti i Paesi d’Europa compravano i prodotti asiatici da Venezia. Nei giorni in cui Venezia era il grande magazzino del commercio orientale, i suoi nobili mercanti, i suoi artigiani ed il suo governo costruirono bellissimi edifici. I suoi banchieri prestavano denaro ai principi di tutta Europa.
Intanto i Turchi andavano occupando l’Oriente e assalivano le navi veneziane; Cristoforo Colombo aveva aperto gli orizzonti verso terre vergini dell’Occidente molto più remunerative.
Di più, era giunta notizia che un portoghese di nome Vasco de Gama aveva trovato una via per le navi per arrivare direttamente in India girando attorno all’Africa.
Un triste giorno i prezzi delle merci caddero circa alla metà, e non si rialzarono più.
Quando i mercanti ed i banchieri veneziani seppero della scoperta di Colombo e, ancor peggio, di de Gama, capirono che Venezia non avrebbe più potuto essere il grande emporio.
Essa si erge ancora con i suoi magnifici, vecchi edifici, i suoi ponti ad arco sopra i canali, le gondole che scivolano ancora lungo le calme acque delle sue strade. Invece dell’assordante rumore delle automobili, si sente il canto del gondoliere o il fischio del vaporetto.
La Repubblica di Venezia fu la sola tra le Repubbliche marinare a diventare anche una grande potenza di terraferma, fino a contare, a un certo punto, tra i più forti stati europei. La sua ricchezza, comunque, le venne da Oriente. L’Adriatico diventò qualcosa come un lago veneziano, già prima delle Crociate, con la fondazione delle colonie in Istria e in Dalmazia. Le Crociate offrirono ai Veneziani l’occasione di allargare i loro traffici, prima provvedendo al trasporto dei guerrieri cristiani in Palestina, poi con la fondazione di colonie commerciali nei paesi d’Oriente, in Grecia, nel Mar Nero. Durante la quarta Crociata i Veneziani, in cambio del trasporto degli eserciti con le loro navi, ottennero addirittura di far combattere i Crociati per ristabilire la sovranità di Venezia sulla ribelle Zara e per allargarla nei territori dell’Impero d’Oriente. Il Doge di Venezia ottenne il titolo di ‘Signore di una quarta parte e mezzo dell’Impero Greco’.
La Repubblica di San Marco visse fino al 1797, quando passò sotto l’Austria.
(R. Smith)

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I Veneti e i loro commerci

Le iniziative mercanti dei Veneti li portavano già in tutti i porti del bacino mediterraneo.
Gli audaci navigatori, un tempo pescatori di laguna, andavano a commerciare a Costantinopoli, nello Ionio e nel Mar Nero, in Siria e in Africa.
Non rimanevano nell’attesa che le merci forestiere fossero portate loro, ma volevano scegliere e acquistare all’origine i prodotti dai quali potessero trarre maggior lucro.
Anche per via terra, a gruppi o isolati, percorrevano le strade d’Italia sostando specialmente a Pavia e a Roma.
Ma essi avevano una vera e propria industria nazionale: la costruzione di navi, arte nella quale fin dal VI secolo erano già considerati maestri e in seguito si erano perfezionati, avendo studiato anche in Slavonia e in Istria nuove forme di scafi e di chiglie, altre disposizioni di remi e di vele.
Naturalmente, le aveva studiate e modificate assimilandole alla propria tecnica costruttiva e avevano finanche chiamati calafati e carpentieri greci e siriani per apprendere i metodi di lavoro.
Ormai nessun popolo pensava più ad emularli, in questo campo.
Nell’VIII secolo le isole superavano in prosperità quasi tutti i paesi europei; praticamente i Veneti avevano il monopolio del grande commercio internazionale.
Partivano col consueto carico di sale, ma al ritorno recavano ricche merci straniere: oli, cereali, tessuti, spezie.
Nei lontani porti frequentati dai loro navigli i Veneti aprirono numerose agenzie, simili ai nostri attuali consolati, dirette da connazionali che studiavano le attività economiche dei paesi di residenza, le loro risorse e necessità, annodavano relazioni d’affari con le genti del luogo e agevolavano gli scambi tenendo in deposito nei loro magazzini tanto i carichi in arrivo che quelli in partenza.
In seguito, anche Venezia dovette a sua volta ospitare agenti dei mercanti forestieri e concedere loro siti di sbarco e di magazzinaggio: ne conservano ancor oggi memoria il Fondaco dei Turchi e il Fondaco dei Tedeschi.
Questa corrente di scambi, già molto intensa al sorgere della nuova capitale, doveva rendere splendida oltre ogni ottimistica previsione la città edificata su quegli isolotti di Rialto dei quali l’omonimo ponte, che domina con il suo maestoso arco il Canal Grande, custodisce il lontano ricordo.
(A. Bailly)

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Come era governata Venezia

A Venezia dominava l’aristocrazia: tutti i poteri erano nelle mani del temibile Consiglio dei Dieci. Il Doge aveva solo il compito rappresentativo e presiedeva il Consiglio dei ministri, o Serenissima Signoria, composto di nove membri: si trattava ancora di altri dieci personaggi. In totale, venti nobili veneziani amministravano gli affari della Repubblica sotto il controllo molto blando del Senato, formato anch’esso da soli patrizi.
Nel  1355, sembra che un Doge abbia cospirato con elementi popolari, benchè l’affare sia rimasto oscuro (I Dieci hanno fatto scomparire gli incartamenti). Il tentativo fallì. I complici del Doge furono impiccati alle finestre del Palazzo Ducale e il Doge stesso, Marin Faliero, fu decapitato il giorno seguente sulla scala della Corte d’Onore. La Regina dell’Adriatico, in questo periodo è al suo apogeo: essa conta trecento navi grandi e tremila piccole; quarantacinque galee proteggono validamente le sue rotte marittime. In uno scenario incomparabile, opulento e grandioso, essa mostra con esuberanza la sua fiducia e la sua gioia nelle feste di un carnevale che si prolunga a poco a poco per tutti i giorni dell’anno.

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L’arsenale di Venezia

Il suo arsenale, situato sulle due isole Gemelle nella parte orientale della città, era il più grande e il migliore che allora si conoscesse; ancor oggi se ne vedono le profonde darsene e i tre canali scavati in seguito per collegare gli impianti originari con quelli successivi.
In esso, da prototipi accuratamente studiati e uniformemente riprodotti, si costituivano ogni sorta di imbarcazioni: guerreschi vascelli rostrati dai fianchi scudati di cuoio e dai ponti muniti di catapulte e di torri per arcieri e balestrieri, navi mercantili più  pesanti e lente, nelle quali l’abbondante velatura rimpiazzava i duecento vogatori delle galee e dei ‘gatti’.
Questa è la tradizionale, autentica industria nazionale.
Non v’è popolano che non appartenga alla marineria: marinaio, pescatore o calafato che sia.
Anche coloro che esercitano un mestiere legato alla terra sono per origine dei marittimi. Del resto, vivono sul mare, il mare è il loro elemento naturale e la barca il basilare strumento di lavoro; il giorno in cui lo Stato ha bisogno di loro non fanno che cambiare i remi della barca in quelli della trireme, con una maestria marinara d’altronde indispensabile affinché la Repubblica possa essere presente là dove la chiamano i suoi interessi, ora con lo sguardo svolto a Bisanzio, della quale prevede la successione, ora ai Normanni, dei quali teme la forza e le mire ambiziose.
(A. Bailly)

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La forza navale di Venezia

Sotto il comando del General da Mar e del Capitano del Golfo le forze navali di Venezia, o Armata Veneta, erano formate da navi a vela, che costituivano l’Armata Grossa, e da navi a remi, o Armata Sottile, mosse quest’ultime da galeotti o condannati ai remi della galea, oppure da rematori volontari chiamati buonavoglia. Comandavano le prime i Governatori del Mare, mentre le navi a remi dipendevano da un Sopracomito.
Tutta l’Armata usciva dall’Arsenale, che poteva fornire navi con armamenti completi in tempo ridottissimo e che era un mosaico di squeri o cantieri. Anzi, era, a sua volta, un enorme cantiere funzionante. Dante stesso mostra di essere rimasto colpito agli ordini degli Inquisitori dell’Arsenale, dei Provveditori all’Armar e di quei Visdomini alla Tana che facevano arrivare da una località sul Mar Nero, Tanai, alle foci dell’odierno Don, la canapa destinata a divenire solida gomena in un reparto dell’Arsenale stesso, chiamato, ‘La Tana’.
Popolazione vivacissima dell’Arsenale, gli arsenalotti, erano artefici abilissimi, gelosi del loro mestiere, tramandato di generazione in generazione, e del privilegio di spingere, a suon di remi, nel giorno dello Sposalizio del Mare, il Bucintoro, l’imbarcazione dogale, che sdegnava l’aiuto degli alberi e delle vele.

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Le ‘uscieri’

Uscieri  si chiamavano le grosse navi a vela, per gli sportelli o usci praticati sui fianchi per agevolare l’imbarco di cavalli e di macchine da guerra. Insieme alle galee e alle navi minori partecipavano anch’essi alla battaglia, rovesciando vere fortezze galleggianti dai loro castelli e dai loro ponti volanti, con adatti ordigni, i proiettili sulle navi avversarie.
Fortezze che talora, in battaglia, venivano tra di loro legate per formare il cosiddetto porto d’alto mare, o porto galleggiante, perchè il vento non ne isolasse qualcuna, facendola preda delle più veloci galee, superiori certo, queste, per molti secoli, nei combattimenti rapidi in mare aperto.
(M. Bini)

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Severissima disciplina sulle galee veneziane

La disciplina, severa in tutte le marine italiane, era severissima sulle navi di Venezia. Nel 1293 il Gran Consiglio veneziano aveva decretato che, quando l’ammiraglio aveva dato l’ordine di attaccare il nemico, se una qualche galea si fosse allontanata dal luogo della battaglia, i capi divisione, i capitani, i nocchieri e i timonieri venissero decapitati. Se non si poteva raggiungerli, venivano condannati al perpetuo esilio e tutti i loro beni erano confiscati.

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Vita di galeotto

Durissima era la vita al remo nelle galee. I rematori di destra stavano con il piede sinistro incatenato alla banchina (e i vogatori di sinistra inversamente) e così sul banco vogavano per dieci o dodici ore; unico riparo era una tenda o una leggera sovrastruttura. Quando si intimava il silenzio dovevano mettersi in bocca il tappo di sughero che portavano appeso al collo. La ciurma era comandata da un sottufficiale, l’aguzzino, che aveva diritto di vita e di morte sui vogatori. Dalla corsia ammoniva a nerbate, puniva a sciabolate o (dopo l’invenzione della pistola) piantando una palla in testa ai recalcitranti.

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Dal ponte di comando alla catena del remo

La condizione delle ciurme nelle battaglie era spaventosa e orribile; esposte ai colpi dei loro correligionari e fratelli (poichè sulle galee cristiani gli schiavi erano turchi e su quelle turche erano cristiani), avevano come unica speranza di liberazione la cattura della galea. Avveniva così talvolta che capitani di navi, e anche ammiragli, passassero dal comando al remo o dal remo ancora al comando!

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Lo sposalizio del mare

Venezia stabilì di commemorare annualmente le sue vittorie con una festa nazionale che dapprima si espresse nella benedizione del mare: all’Ascensione, il vescovo di Olivolo si recava con il clero all’estremo limite dell’isola e lì, alla presenza della folla, tracciava sul mare, sede e strumento della grandezza veneziana, il sacro segno che lo univa a Dio e gli uomini.
In seguito la cerimonia doveva assumere un significato ancora più chiaro e di un simbolismo più adatto a colpire l’animo della massa.
Nacque così lo Sposalizio del Mare nel quale il Doge, vivente personificazione dello Stato, faceva suo il mare così come ogni uomo lega a sé la donna scelta in sposa.
Per la tradizione fu il papa Alessandro III che, avendo riconosciuta la sovranità veneziana sull’Adriatico, inviò al Doge l’anello benedetto accompagnandolo con queste parole: “Ricevetelo come il segno del vostro imperio sul mare; voi e i vostri successori rinnoverete gli sponsali ogni anno affinché i tempi a venire sappiano che il mare è vostro e vi appartiene come la sposa allo sposo”.
Ogni anno il doge saliva a bordo del Bucintoro, la galea nazionale fantasiosamente decorata di sculture e dorature, perfino nei remi.
Diritto sotto un baldacchino purpureo circondato dalla sua Corte, percorreva la laguna in direzione del Lido e per il vicino passaggio entrava nell’Adriatico.
Qui, dal Bucintoro galleggiante sul mare che Venezia considerava suo, il Doge lanciava in acqua il suo anello d’oro, pronunciando la formula rituale: “Desponsamus te, mare, in signum veri perpetuique dominii”.
(A. Bailly)

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Il Bucintoro

Il Bucintoro era il grande e maestoso naviglio sul quale, nel dì dell’Ascensione, il Doge di Venezia procedeva, ogni anno, a solennizzare la cerimonia dello sposalizio col mare. Il Bucintoro, adornato riccamente, lungo trentun metri e largo sette, aveva due piani: nell’inferiore stavano i remiganti, nel superiore il Doge, il Patriarca, gli ambasciatori, i governatori degli arsenali, i membri del Governo, gli altri personaggi della Repubblica.
(P. Persico)

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Ultime parole del Doge Mocenigo

Il grande doge di Venezia Mocenigo, sempre vigile nella cura della Repubblica, così disse ai maggiorenti della città, racconti attorno al suo letto di morte: “Ormai io più non posso giovare alla patria mia; perciò vi ho chiamato per raccomandarvi questa cristiana città e persuadervi ad amare i cittadini e a far giustizia e a pigliar pace… La guerra con il Turco vi ha fatto valorosi ed esperti per mare, avete sei capitani da guerra, avete molti uomini sperimentati nelle ambascerie e nel governo, avete molti dottori di diverse scienze e specialmente molti legali… La vostra zecca batte ogni anno un milione di ducati d’oro, duecentomila d’argento e ottocentomila in soldoni… Perciò sappiate governare un tale stato e abbiate cura che per negligenza mai diminuisca”.
M. Bini

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San Marco, patrono di Venezia

L’evangelista Marco ha come simbolo un leone , e coi caratteri del Leone appare Gesù nel vangelo di San Marco, cioè con le qualità del forte, che scaccia i demoni, che guarisce gli ammalati e che vince la morte.
Questo perchè san Marco rivolgeva il suo vangelo ai Romani, che non avrebbero dato nessun valore alle lunghe genealogie ebraiche o alle profezie. I Romani non conoscevano che il diritto e la forza. Perciò, nel vangelo di Marco, il Redentore rappresenta sempre il diritto e la forza a cui nulla può resistere.
Si sa che la sua tomba di marmo, ad Alessandria, era venerata anche durante la dominazione dei Maomettani. Nell’828, due mercanti veneziani vollero togliere le reliquie di san Marco dalla terra dominata dagli infedeli. Si disse che di nascosto i due veneziani togliessero dalla tomba le ossa del santo e le nascondessero in fondo a un paniere, riempito poi di vettovaglie. Altre leggende fiorirono intorno alla venuta di san Marco sul suolo veneziano. Fra queste la più poetica ebbe credito nella città lagunare.
San Marco sarebbe giunto a Venezia non dopo morto, ma ancora vivo, a causa di una grande tempesta che avrebbe spinto la sua nave, da Alessandria d’Egitto verso la laguna veneta. Sulla spiaggia, appena sbarcato, egli sarebbe stato accolto da un angelo, che gli avrebbe detto: “Pace a te, Marco evangelista mio”.
Sono le parole che si leggono ancora sulle pagine del libro, tenuto dagli artigli di un leone alato, che forma lo stemma di Venezia, chiamata perciò la ‘città di San Marco’.

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Indiscrezioni da Venezia

La dogaressa Selvo è al centro di animatissime discussioni nell’alta società veneziana.  Si sa che la dogaressa è bizantina di nascita, figlia di un imperatore e sorella di Michele VII Ducas; e fin da quando era giunta a Venezia si sapeva che era cresciuta in mezzo a lussi che noi non immaginiamo nemmeno. Si è subito fatta notare per la ricchezza e lo splendore dei suoi abiti. Ora poi sono trapelate alcune indiscrezioni che hanno scandalizzato i Veneziani. Si dice che la signora si lavi con acque odorose, si profumi, e si rinfreschi il volto con la rugiada, raccolta per lei ogni mattina dai servi.
Ma ciò che le sta attirando, a quanto pare, le ire del famoso predicatore Pier Damiani è una strana abitudine della dogaressa. Pare infatti che per portare il cibo alla bocca si serva di uno strumento d’oro a due denti, invece di usare le mani. Secondo Pier Damiani si tratta di uno strumento diabolico.
(L. Pisetzky)

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Una nuova basilica custodirà il corpo di san Marco

Un incendio ha distrutto la Cattedrale. Ma subito si pensa a costruirne una più grande e più bella.
L’incarico di progettare e di innalzare la nuova chiesa è stato dato ad architetti bizantini, essendo Venezia assai legata all’Oriente, ed essendo i Veneziani molto sensibili al gusto che viene di là.
Anche la nuova chiesa sarà dedicata a san Marco e ne custodirà le reliquie, come la vecchia chiesa.
San Marco evangelista è infatti, da 150 anni circa, il protettore di Venezia. Precisamente da quando due mercanti veneziani, che a causa dei loro traffici si trovavano ad Alessandria d’Egitto, vennero a sapere dai cristiani di quella città,  dove si trovavano nascoste le reliquie di san Marco. Ottenute quelle reliquie, essi le portarono a Venezia, facendola in barba al controllo degli Arabi. E sapete come?
Al di sopra della cassa contenente il corpo del santo, misero uno strato di carni suine; gli Arabi, ai quali è vietato mangiare carne di maiale, fecero subito passare quella merce, che era bene lasciasse l’Egitto; e con la carne suina passò quel corpo, venerato ora in Venezia.

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Il doge Orseolo e la Dalmazia

Gli Schiavoni si erano stabiliti in Croazia e in Dalmazia e le città costiere, che politicamente dipendevano dall’Impero greco ma che questo non era però in grado di proteggere, difficilmente potevano resistere da sole alle incursioni barbaresche.
Venezia invece, sia per la sua vicinanza che per la potenza della sua flotta, poteva difenderle o liberarle.
Perciò esse ne richiesero l’aiuto, che Orseolo concesse a patto che le città dichiarassero obbedienza alla Repubblica, giurandole fedeltà e fornendole dei rinforzi per l’opera di liberazione.
Due soltanto, Lesina e Curzola, ricusarono la sottomissione, ma tutte le altre accettarono, cosicchè nel maggio dell’anno 1000 il doge si recò a Pola con una poderosa flotta e vi si stabilì solennemente per ricevere l’omaggio dei magistrati di tutte le città costiere e incorporare nelle sue truppe i contingenti dei quali aveva imposto l’obbligo.
Quindi fece vela per Zara, dove i magistrati delle città marittime dalmate vennero a loro volta per fare atto di sottomissione e presentare i rinforzi.
In tal modo più di venti tra le città e isole si posero sotto il dominio di Venezia, che diventava di fatto la padrona delle coste istriana e dalmata.
Contro Lesina e Curzola, le due riottose, il doge passò alla maniera forte prendendole d’assalto, ed esse dovettero reputarsi fortunate di trovare un vincitore che, contrariamente alle usanze dei tempi, risparmiasse la vita agli abitanti.
Dopo di che, Orseolo sferrò l’attacco ai nidi dei pirati sul litorale, ne distrusse le imbarcazioni, li inseguì nella fuga entroterra e ne fece tale carneficina che per molto tempo furono ridotti all’assoluta impotenza.
Quando il doge ritornò a Venezia, alla testa della flotta vittoriosa, fu accolto dagli osanna del popolo entusiasta; per merito suo, infatti, la Repubblica si era assicurata il dominio delle coste illiriche e dalmate.
Quanto ai Greci, anziché adombrarsi dell’imponente successo veneziano, lo riconobbero e l’imperatore lo sancì conferendo al doge il titolo di Duca di Dalmazia.
(A. Bailly)

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Il trasporto del corpo di san Marco

Il nome di san Marco era da secoli venerato nell’estuario veneto. Era antica tradizione che l’evangelista fosse stato il primo propagatore della fede sulle coste dell’Adriatico settentrionale, e il fondatore della prima chiesa di Aquileia.
La leggenda narrava che la nave che lo aveva trasportato verso Aquileia da Alessandria d’Egitto, durante il suo tragitto era stata colta da una violenta burrasca, che aveva costretto l’equipaggio ad entrare nella laguna e ad approdare alle isole di Rialto. E lì, mentre il santo, sceso a terra, si riposava in attesa di riprendere il viaggio, gli era apparso un angelo che lo aveva salutato con le parole “Pax tibi, Marce, Evangelista meus”, e gli aveva annunciato che su quella terra le sue ossa avrebbero avuto un giorno riposo e venerazione.
Questa leggenda, che dava quasi al luogo, scelto dai Veneti come loro capitale, una designazione soprannaturale, aveva acceso nell’animo di molti di essi il desiderio di impadronirsi dei resti mortali del santo, secondo un costume molto diffuso in quei tempi in tutta la cristianità. Senonché le ossa di san Marco erano ad Alessandria d’Egitto, dove il santo aveva subito il martirio ai tempi di Nerone, e dove, per raccoglierle, era stata costruita una bellissima chiesa.
In quel tempo, in seguito alle ostilità esistenti tra l’Imperatore di Costantinopoli e i Saraceni, era severamente proibito ai mercanti veneti di approdare in Egitto, dominato dai Saraceni, e di esercitarvi quei commerci che nel passato erano stati fiorenti. Tuttavia, malgrado il divieto, i mercanti più arditi continuavano a frequentare quei posti.
Due di questi, secondo la tradizione Rustico da Torcello e Bon da Malamocco, approdano un giorno ad Alessandria con ben dieci navi cariche di merci; vi trovarono i cristiani del luogo addoloratissimi, perchè i musulmani dominatori  spogliavano ogni giorno le chiese dei vasi sacri e di ogni prezioso arredo, per arricchire le moschee e i loro palazzi, e già correva voce che il sultano avesse in animo di abbattere la chiesa nella quale erano custoditi i resti di san Marco per impiegare altrove i materiali.
Questa notizia colpì vivamente l’animo dei due mercanti veneziani, i quali decisero di impadronirsi della reliquia e di portarla alla loro patria.
Dopo molte difficoltà, riuscirono a persuadere i due religiosi greci che avevano la custodia del corpo del santo, a consegnarlo a loro, e lo trassero a bordo di una delle loro navi. Elusa con un’astuzia la sorveglianza dei doganieri, dopo un viaggio avventuroso giunsero in vista della laguna veneta, ma non osarono approdare perchè colpevoli di aver violato il divieto di commerciare coi Saraceni e inviarono un messo al doge perchè gli recasse la confessione del loro fallo e l’annuncio del prezioso carico.
La notizia fu accolta con immenso giubilo. Il doge perdonò l’infrazione alle leggi e si dispose, con tutto il popolo, a ricevere degnamente le spoglie dell’evangelista. Esse vennero collocate nella cappella di san Teodoro, adiacente al Palazzo Ducale, in attesa che le accogliesse un maestoso tempio, del quale si iniziò presto la costruzione.
San Marco fu eletto patrono della Confederazione veneziana, che adottò come stemma il leone alato, simbolo dell’evangelista; insieme con il libro dei vangeli e il motto “Pax tibi, Marce, Evangelista meus”.
(E. Zorzi)

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Una dimora veneziana

Il Procuratore Contarini ordinò a Giovanni Buono la facciata della casa, chiamata d’Oro per le dorature di cui era adorna. Compiuta la facciata che, nonostante le offese del tempo, ride ancora di una immortale bellezza, fu chiamato mastro Giovanni di Francia, per ornarla ‘de pentura’. Come doveva apparire quel gioiello dell’architettura veneta! Maestro Giovanni si impegnava a dorare le rose, gli stemmi, i leoni, gli archetti, il fogliame dei capitelli e i dentelli, dipingere le ‘tresse dazuro oltremarin fin ben dopiado per muodo che i la stia benissimo’. Le merlature dovevano essere dipinte con biacca e venate come il marmo; le fasce bizantine a tralci di vite, tinte di bianco su fondo nero, e tutte le pietre rosse e tutte le ‘dentade rosse sia onte de oio e de vernixe con color che le para rosse’.
(P. Molmenti)

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Diplomatici veneziani

E’ logico supporre che l’esaltazione di Venezia e delle sue bellezze ad opera di visitatori di ogni terra e di ogni condizione, concorresse a creare intorno alla città una leggenda avvalorata più che mai dalla chiara realtà di una flotta senza uguali, dalla ricchezza inesauribile dei commerci. Venezia è una potenza con la quale altre potenze si onorano di avere rapporti profondi e amichevoli; gli ambasciatori veneziani, educati alla più alta scuola di diplomazia e introdotti nelle corti più difficili, colgono ritratti ed atteggiamenti e li fissano per sempre nelle loro relazioni.
Ecco come la grande Elisabetta d’Inghilterra accoglie l’ambasciatore della Serenissima:
“Era la Regina in quel giorno vestita di taffetà d’argento e bianco fregiato d’oro, con abito aperto alquanto davanti sì che mostrava la gola, cinta di perle e di rubini fin a mezzo il petto. La testa aveva di capelli di un color chiaro che non lo può far la natura, con file di perle grosse intorno alla fronte e con archi in forma di cuffia e corona imperiale; faceva mostra di un gran numero di gemme e di perle, e nella persona era quasi coperta di cinto d’oro gioiellato e di gioielli in pezzi separati di carbonchi, balassi e diamanti, avendo anco le mani in luogo di mantili, filze doppie di perle più che mezzane, e tale in aspetto di regina non di anni 76…
Sedeva sua maestà su una sedia sopra un poggiolo quadrato di due scalini… e all’entrare che feci in quella stanza si levò in piedi, e procedendo io nelle debite riverenze, giunto a lei, in atto di porre in ginocchio sopra il primo gradino, la sua maestà non permettendolo, con ambe le mani quasi mi sollevò, e mi porse la destra, la quale baciai, e in quest’atto ad un tempo stesso mi disse: <<Sia ben venuto in Inghilterra il segretario. E’ ben ora che la Repubblica mandi a vedere una regina che l’ha tanto onorata in tutte le occasioni>>.

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Diplomazia veneziana

Un documento di singolare importanza per il contenuto e per la forma è l’accordo che il sultano Murad II (Amorato), colui che prepara la strada a Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli, stipula con Venezia nel 1430: trattato di breve durata. Mirabile la vivacità delle espressioni che nella parlata veneta acquistano una solennità inattesa:
In nome del gran Dio nostro, amen.
Mi Gran Signor e Grande Amirà, Soldan Amorato, zuro in loDio, creator del zielo e de la terra et alo gran nostro profeta Maomet et ali sete Mussafi che avemo e confessemo nuy Musulmani, et ali CXXIII mila profeti et in anema de mio avo e de mio padre, et in anema mia, et in la mia testa, e per la spada che me zengo, prometo mi Gran Signor Amorato, e zuro in li soraditi sagramenti:
che dal di d’anchuo, prometo e digo de aver con mio fredello, el Doxe, con lo honorado et lustrissimo Chomun de la dogal signoria de Vienexia e con i so zentilomeni grandi e pizoli, bona, dreta, fedel, ferma et veraxia paxe per mar e per terra, et in le terre, zitade, castelli, ixole e tuti luoghi che chomanda la serenissima signoria de Vienexia, in quanti castelli, terre e zitade, ixole e luoghi, i qual lieva la insegna del San Marco, e quanti la leverà da mo in avanti”.

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Venezia prima delle Crociate

Lo scarso sviluppo quantitativo del commercio veneziano dei due secoli che precedono le Crociate ci è attestato dalle condizioni in cui si svolgevano i trasporti sia per mare sia per terra.
I viaggi per mare erano fatti generalmente da navi di piccolissimo tonnellaggio, molte delle quali erano sprovviste di ancora, che doveva essere presa a nolo per la durata del viaggio.
La mancanza di ogni strumento di orientamento obbligava a limitare la durata giornaliera del viaggio alle ore della luce solare, riparando la notte in qualche insenatura della costa istriana o dalmata, oppure lungo le rive generalmente basse e piatte della costa italiana su cui si doveva tirare in secca le piccole imbarcazioni.
Ai pericoli del mare si aggiungevano e spesso sovrastavano quelli della pirateria slava, per cui, a differenza di quello che avverrà nei secoli successivi, le navi erano obbligate a viaggiare in convoglio fino al canale d’Otranto, mentre, uscite da questo, era loro permesso di viaggiare isolate; e questo non tanto perchè nel mar Ionio e nel Mar di Levante la loro sicurezza fosse garantita dalla vigilanza della flotta bizantina, ma perchè il loro piccolo numero e la varietà delle rotte che esse seguivano verso gli Stretti, verso la Siria, l’Egitto o la Sicilia, rendeva impossibile riunirle in convoglia protetti da una scorta armata.
Non molto migliori erano le condizioni dei trasporti per terra, per i quali il mezzo di gran lunga preferito era la via fluviale, che si presentava relativamente agevole lungo il corso inferiore del Po e dell’Adige, ma che per questi stessi fiumi a monte di foce Mincio e di Legnago e per tanti altri corsi d’acqua del Veneto e della Valle Padana si prestavano soltanto a barche di fondo piatto e di minima portata, che in certi tratti più ripidi dovevano essere tirate con funi; mentre in montagna e specialmente lungo i valichi alpini, che talvolta incominciavano ad essere pericolosi, non potevano esser fatte che da somieri, che difficilmente portavano più di un quintale ciascuno.
Tutto sommato dunque, se si può affermare che nel corso del X e del XI secolo si sono create tutte o quasi tutte le condizioni che permetteranno il grande sviluppo del commercio e di tutta l’economia veneziana nei due secoli successivi, è anche certo che questo sviluppo è stato poi decisamente favorito dalle Crociate, e che soltanto da queste ha origine la creazione di un impero coloniale veneziano nel Levante.
(C. Luzzatto)

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La Repubblica di Pisa

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La Repubblica di Pisa
Pisa cominciò a reggersi a Repubblica nella seconda metà del secolo XI. Dapprima fu assai ostacolata nei suoi traffici marittimi dai Saraceni, ma, in seguito, aiutata da Genova, riuscì, dopo lunga e accanita lotta, a snidare quei pericolosi pirati arabi dalle isole Baleari, dalla Corsica e dalla Sardegna, dove infestavano il Tirreno e saccheggiavano anche le altre città costiere italiane.
Pur combattendo contro i Saraceni, Pisa aveva empori in Oriente e trafficava con i Turchi, i Libici, i Parti e i Caldei. Molti vantaggi economici ottenne poi dalle Crociate. Splendidi monumenti, palazzi, magnifiche chiese testimoniano ancora quanto fosse ricca e prospera questa Repubblica.

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Decadenza della Repubblica di Pisa

Durante il secolo XIII Pisa decadde, combattuta per terra da Firenze e da Lucca, per mare da Genova.
Nella grande battaglia della Meloria, la flotta pisana fu completamente disfatta da quella genovese (1284), e migliaia di Pisani caddero prigionieri della potente rivale. Dopo questa tremenda sconfitta, Pisa non si risollevò più: perdette, l’uno dopo l’altro, i suoi possedimenti di Sardegna, di Corsica e la Colonia di San Giovanni d’Acri (Asia Minore); cedette a Genova l’Isola d’Elba, e non potè evitare la rovina commerciale del proprio porto. Ai disastri esterni si aggiunse la discordia interna tra Guelfi e Ghibellini.
Un episodio ben noto di questa lotta è quello del Conte Ugolino della Gherardesca, che tentò di farsi signore della città, appoggiandosi ora ai Guelfi ora ai Ghibellini.
Preso a tradimento dall’arcivescovo Ruggieri, suo rivale, venne chiuso con due figli  e due nipoti in una torre, e lì fu fatto morire di fame insieme con gli altri quattro sciagurati. Dante immortalò il tragico avvenimento nel XXXIII canto dell’Inferno.

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Pisa

L’esistenza di Pisa quale città marinara è nota fin dall’età romana: la città sorgeva alla foce dell’Arno, ed aveva un porto grande e sicuro. Dopo l’oscura parentesi delle invasioni barbariche, Pisa conquistò la propria indipendenza e già nel secolo VIII disponeva di una grossa flotta mercantile protetta da numerose navi da guerra. Alle incursioni ed alle minacce dei Saraceni, che correvano in lungo e in largo il Mediterraneo, i Pisani risposero con una guerra spietata, caratterizzata da imprese veramente leggendarie. Nel 1063, le navi pisane, rotta la grande catena del porto arabo di Palermo, irruppero in esso, attaccando le navi alla fonda.
Altre imprese vittoriose vennero compiute, nel giro di secoli di battaglie, a Reggio Calabria, sulle coste della Spagna, delle Baleari, della Sardegna, dell’Africa; famosa, e cantata dai poeti medioevali, la distruzione della roccaforte saracena di Mehedia (1087). La crescente potenza commerciale e militare pisana suscitò tuttavia la gelosia della sua grande vicina, Genova. La rivalità tra le due repubbliche le condusse ad una lunga serie di guerre nelle quali Pisa si venne sempre più indebolendo: la sconfitta della Meloria (1284) segnò l’inizio della sua inarrestabile, rapida decadenza.

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Lo scoglio della Meloria

Al largo del porto di Livorno, circa 7 chilometri a ponente, c’è lo scoglio della Meloria, su cui sorge un’antica torre. Sai perchè lo scoglio è famoso?
Perchè nei suoi pressi i Genovesi inflissero una dura sconfitta alle navi pisane nel lontano 1284, il 6 agosto, al tempo delle lotte combattute dalle repubbliche marinare di Genova e Pisa per il dominio del Mar Tirreno. Durante la sanguinosa battaglia navale due galee genovesi accoppiate, fra le quali era tesa una grossa catena, investirono la nave capitana pisana troncandone di netto lo stendardo bianco con l’immagine della Vergine. La vittoria genovese è ricordata da un iscrizione posta sulla facciata di San Matteo, chiesa dei Doria di Genova.

Morte del conte Ugolino
Alla battaglia della Meloria, nel 1284, i Pisani furono battuti definitivamente e lasciarono diecimila prigionieri nelle mani dei Genovesi. Fu allora che i guelfi toscani, alleati di Genova, minacciarono di marciare su Pisa per distruggerla. In tal frangente fu nominato prima podestà e poi capitano del popolo il conte Ugolino della Gherardesca; il quale, persuaso che si dovesse lottare contro Genova e non contro i guelfi della Toscana, si accordò con questi cedendo loro alcuni castelli e impegnandosi a render guelfa la sua città: gesto di amor patrio che andava oltre la passione politica di fazione; ma non la pensarono così i suoi concittadini che, accusatolo di tradimento, lo imprigionarono con i due figli e i due nipoti nella torre che, dopo di lui, fu detta della fame. Lì i cinque prigionieri furono lasciati miseramente morire di fame. Era l’anno 1288. Tutta la Toscana fu pervasa da un fremito di orrore per tale crudele condanna, che colpiva soprattutto gli innocenti figli e nipoti del conte.
Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, ricostruisce gli ultimi giorni e la fine, ad uno ad uno, dei prigionieri, con un verismo poetico di enorme potenza.

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Pisa ha corso un grave pericolo

Pisa, 1005
La città ha subito un improvviso e duro assalto da parte di armati saraceni, provenienti dalla Sardegna al comando del feroce Musetto. Ecco come essa si salvò dal terribile pericolo.
Pisa è immersa nel sonno. L’unico rumore sommesso è il mormorio dell’Arno, che attraversa la città. Ma forse, nelle loro case, non tutti i Pisani dormono tranquilli. Certo ignorano che alcune galee saracene, risalito il corso dell’Arno, stanno per raggiungere Porta Marina.
Musetto ha scelto il momento giusto: egli sa che questa oscura notte di settembre gli permetterà di dare a fuoco le porte, di irrompere nella città, di saccheggiare, di fare strage fra i Pisani, di portar via come schiavi donne e fanciulli. Lente, silenziose, le galee saracene ormeggiano ora ai serragli del primo ponte. Ed ecco che in un attimo i pirati sono sotto Porta Marina con le fiaccole accese, assalgono con scale e raffi le mura. Abbattuta la Porta i pirati irrompono urlando nelle prime case, con le torce e le spade sguainate. Cominciano a levarsi grida di orrore. Svegliate di colpo, nel sonno, famiglie sbigottite cercano scampo a quella furia nascondendosi, fuggendo, supplicando. In pochi istanti lo scompiglio diventa indescrivibile. In mezzo a tanto sgomento, una sola fanciulla (sembra incredibile) sa conservare la calma. Questa fanciulla è Cinzica de’ Sismondi.  Cinzica comprende subito che occorre fare una sola cosa, per la salvezza di Pisa: raggiungere il Palazzo del Comune e suonare a stormo le campane per dare l’allarme all’intera città. Incurante dei rischi cui va incontro, Cinzica scende dunque nella strada affollata di fuggiaschi e di Saraceni e comincia a correre, a correre… Finalmente, rischiando mille volte la morte, l’intrepida fanciulla è al Palazzo del Comune. Esausta, dà di piglio alla corda delle campane e suona, finché non le rimangono più forze. Poche ore più tardi la città è salva. I Pisani, infatti, svegliati dalle campane e corsi alle armi, erano riusciti a fermare i Saraceni, a travolgerli, a costringerli alla fuga.

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La Repubblica di Genova

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La Repubblica di Genova

Genova fu particolarmente favorita, nello sviluppo commerciale, dalla felice posizione geografica del suo porto, situato in un golfo ampio, profondo e sicuro, protetto alle spalle da un’alta cerchia di monti. Rovinata dai Longobardi, si riebbe solo sotto i Carolingi e divenne presto il centro più importante delle due Riviere di Levante e di Ponente.
Genova, liberata dal dominio dei marchesi e dei vescovi-conti verso la metà del secolo XI, si resse subito a Repubblica, e, lottando alleata con Pisa, contro i Saraceni, s’impadronì della Corsica; ottenuta poi dal Papa l’investitura sulla Sardegna, divenne la vera padrona del Tirreno, strappandone il predominio agli antichi alleati Pisani.
Debellata Pisa, accrebbe la sua potenza militare, politica e commerciale, assicurandosi depositi e magazzini di merci in tutti i porti principali del Mediterraneo orientale e perfino nel Mar Nero, per cui entrò in concorrenza, e rivaleggiò, con Venezia dalla fine del secolo XIII alla fine del secolo XIV.

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Il duello tra Genova e Venezia

Era così grande la potenza di Venezia e di Genova, che le sorti dell’Impero Bizantino, dipendevano dall’esito delle rivalità tra le due Repubbliche.
Il duello, tra Genova e Venezia, pieno di implacabile odio, ebbe varia fortuna e fu combattuto su tutti i mari, e senza quartiere, tra le potenti flotte delle due grandi nemiche, comandate da famosi ammiragli.
L’episodio più importante di questo lungo conflitto fu la guerra di Chioggia (1378), durante la quale Pietro Doria, ammiraglio dei Genovesi, superbamente impose a Venezia la resa. Quest’ultima proposta esasperò i Veneziani, che, da assediati, divennero assediatori, guidati da Vittor Pisani.
I Genovesi, così, furono costretti ad arrendersi per fame e a chiedere la pace, che fu stipulata a Torino (1381) per la mediazione di Amedeo VI di Savoia.
La guerra di Chioggia segnò il tramonto della potenza marittima e commerciale di Genova che non fu più in condizione di prendersi la rivincita su Venezia. Questa infatti ebbe la libertà dei suoi commerci e dei suoi possedimenti in Oriente e la possibilità di espansione anche per terra in Occidente.
Da allora la Repubblica di San Giorgio (Genova) fu tormentata da continue discordie interne e da guerre civili, e, per avere un po’ di pace e di tranquillità, dovette appoggiarsi ora a questa ora a quella potenza straniera a prezzo della propria libertà.

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Genova

Nell’anno 641 i Longobardi attaccarono e distrussero Genova: da questa catastrofe la città riuscì a risollevarsi nel giro di tre lunghi secoli. Il suo risveglio era ormai avvenuto quando, nel 935, i Saraceni piombarono su di essa, saccheggiandola ferocemente. Proprio le ripetute e gravissime incursioni arabe spinsero i genovesi ad apprestare una potente flotta con la quale difendere la città ed i suoi traffici; sorse così la Compagna, una potente associazione di mercanti-guerrieri. Verso il 1100, i consoli della Compagna divennero consoli della Repubblica genovese. Genova ebbe una grande espansione commerciale in tutto il Mediterraneo e stabilì basi e colonie un po’ ovunque; ma la sua storia è soprattutto caratterizzata dalle lunghe guerre condotte contro le repubbliche rivali, quella di Pisa e di Venezia. In più di un secolo di ostilità, alternata a lunghi periodi di pace ed anche di alleanza, Genova piegò Pisa e a sua volta venne piegata da Venezia e s’avviò alla decadenza.

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Genova e l’Oriente

La potenza della Repubblica marinara di Genova, in alcuni periodi, non fu inferiore a quella di Venezia. Anche i Genovesi, che, guidati dai loro mercanti e armatori, erano riusciti a rendersi indipendenti dall’Impero, raggiunsero il massimo della loro forza durante le Crociate, dapprima provvedendo ai rifornimenti degli eserciti cristiani ed ottenendone in cambio importanti posizioni nei porti della Siria e dell’Egitto.  Qui essi vendevano i prodotti europei, i metalli necessari per le armature, il ferro e il legname per le navi. Qui acquistavano, per rivenderli in tutta l’Europa, i prodotti orientali portati dalle carovane che provenivano dall’interno, specialmente droghe e sete indiane. Mentre nel Tirreno la potenza di Genova entrò in conflitto con quella di Pisa (e vinsero i Genovesi sconfiggendo la rivale), in Oriente l’antagonismo fu principalmente tra genovesi e veneziani, per il monopolio dei commerci nel Mar Egeo e nel Mar Nero. Lo scontro si risolse, dopo alterne vicende, a favore di Venezia. I Genovesi (come i Veneziani e i Pisani) possedevano, nei porti orientali, banchine speciali per l’attracco delle loro navi, magazzini, strade, talvolta interi quartieri, governati con le leggi della madrepatria.

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Genova Repubblica marinara
Siamo agli arbori di Genova Repubblica marinara: nel 1016, per iniziativa di papa Benedetto VIII, viene allestita una flotta, composta quasi esclusivamente di navi genovesi e pisane, la quale infligge una sconfitta, lungo le coste sarde al re saraceno Mujahid che si era impadronito dell’isola e molestava con sistematiche depredazioni le coste liguri. Questa vittoria e la successiva opera di penetrazione in Sardegna e in Corsica, segna l’inizio della rivalità tra Genova e Pisa; le due città non esiteranno però ad allearsi con Gaeta, Salerno e Amalfi per combattere più volte il comune nemico:
Nella seconda metà del secolo XI si inaspriscono i conflitti tra i vescovi e i visconti; ma la lotta si compone nel 1099 per merito del vescovo Arialdo, quando nasce la Compagna Communis composta dal vescovo, dai visconti e dalle compagne locali. Riunendo i nobili, i proprietari terrieri, i cittadini dediti al commercio e alla marineria, e il vescovo che conserva i suoi poteri tradizionali, la Compagna Communis si identifica col Comune e nasce così lo Stato Genovese. Nello stesso tempo la potenza marinara di Genova si consolida e si espande sulle due riviere, da Lavagna a Ventimiglia, con vasto retroterra capace di fornirle uomini e mezzi.

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Leone alato e croce rossa di San Giorgio

Quelli che hanno viaggiato per il mar Mediterraneo e sono passati vicini ai promontori, accanto alle mille isole dell’Egeo, e sono entrati nei porti avranno visto sempre, in cima al colle che sovrasta il mare o la città, un grande castello grigio, enorme, quasi sempre abbandonato, rovinato, cadente. Ognuno di questi castelli è un segno dell’antica potenza di Venezia, di Genova, di Pisa, di Amalfi.
Essa arrivava fino a Costantinopoli, fino all’Egitto. Quando i pirati o gli infedeli vedevano all’albero di una nave la bandiera di Venezia, che era il leone alato, o la croce rossa di san Giorgio, che era la bandiera di Genova, sapevano che c’erano a bordo dei marinai animosi che non avevano paura di attaccare battaglia e, se non si sentivano molto superiori di forze, fuggivano…
Era tale il terrore che quelle bandiere davano ai pirati che quando gli abitanti dell’Inghilterra incominciarono a fare lunghi viaggi per mere con le loro navi, domandarono il permesso ai Genovesi di poter innalzare anch’essi i colori di san Giorgio, per essere più rispettati.
I Genovesi acconsentirono, e perciò, anche oggi, voi vedete che la bandiera d’Inghilterra reca, nell’angolo superiore sinistro, la croce rossa, che è quella dell’antica Repubblica di Genova.
(P. Monelli)

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Un documento commerciale marittimo del 1158

Giovanni Filardo, mercante genovese, s’era recato in Egitto, ad Alessandria, per farvi acquisti, portando un capitale di 753 lire genovesi. Al ritorno, poichè doveva allontanarsi per andare a San Giacomo di Galizia a sciogliervi un voto, stese un preciso inventario delle merci, per conoscenza del suo socio e parente Guglielmo che ne fece ricevuta. E’ forse uno dei più antichi documenti commerciali che noi oggi possediamo:
Io Guglielmo Filardo dichiaro che sono presso di me, nel mio magazzino:
I. della commenda che feci a te Giovanni dei beni di Ansaldino mio nipote:
14 sporte di pepe del peso di 65 cantari e 45 rotuli (
il cantaro era circa 80 chilogrammi e il rotulo 800 grammi)
6 fasci di legno brasile del peso di 47 cantari
10 libbre di noce moscata
1 zurra di cannella uguale
87 e mezzo menne o fasci
1 fascio di chiodi di garofano.
II: della commenda fatta a te dei beni di mio nipote Guglielmo:
3 sacchi di pepe del peso di 17 cantari e 42 rotuli
1 fascio di legno brasile del peso di 7 cantari e 52 rutuli
1 zurra di cannella del peso 187 libbre
60 libbre di spica
(olio di nardo)
2 libbre e mezzo di noce moscata
III: della società che ho teco:
2 fasci di legno brasile selvatico del peso di 16 cantari e 88 rotuli
3 sporte di pepe e tre sacchi del peso di 29 cantari e 114 rotuli
4 fasci di galanga
(radici per concia)“.

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Il tributo: recita sul Medioevo

Il tributo: recita sul Medioevo. La scena è immaginata nell’umile casa di un servo della gleba, il contadino di allora.

Personaggi: il servo della gleba, il figlio, due alabardieri (soldati)

Figlio: Babbo, perchè sei triste? Sono stato al castello, sai! Mi hanno fatto entrare per aiutare gli sguatteri, perchè ieri c’è stata festa al castello, fino a notte fonda! Sono passato per lunghi corridoi e grandi stanze; una di queste è lunga quasi tutto il borgo… Ma perchè sei triste?

Servo della gleba: Per niente! Ti ascolto!

Figlio: Alle pareti sono appese teste di lupi e di cinghiali, corna di cervi e di caprioli. Questi animali li ha uccisi il conte, sai! E poi dappertutto si trovano lance, alabarde, mazze ferrate, e sui tavoli si vedono vassoi d’argento e coppe d’oro. Vedessi come sono lunghe le tavole della sala per il banchetto! Cento brocche di vino c’erano sopra. Nello spiedo ho visto girare un cinghiale intero e sul camino friggere in padella cento e cento uova. Uno scudiero mi ha fatto assaggiare una pietanza strana, che era avanzata e che io non avevo mai visto… Com’era buona!… Ma perchè sei triste?

Servo della gleba: Per niente, ti ripeto. Continua.

Figlio: Poi un paggio mi ha fatto entrare nella sala del banchetto, dove, insieme col conte e la contessa, c’erano i cavalieri, le dame, il menestrello, il buffone. Il conte e la contessa mi hanno sorriso.

Si sente battere alla porta con forza.

Una voce (con alterigia): Aprite! Aprite!

Il ragazzo corre ad aprire ed entrano due alabardieri.

Servo della gleba: Ah, gli esattori!

Soldato: Per ordine di messere il conte cerchiamo te. Tu devi ancora pagare la tassa del pascolo.

Servo della gleba: Messeri, ieri vi ho corrisposto il pedaggio per passare il ponte sul torrente e la tassa si mulitura. I miei prodotti li ho portati tutti al castello.

Soldato: Bene. Pagaci il tributo del pascolo con quel sacco di farina.

Servo della gleba: Ma è l’unico rimasto per me e il mio figliolo!

Soldato: Allora vieni con noi.

Servo della gleba: Dove mi conducete?

Soldato: Per ora davanti a messere il Conte, e poi…

Servo della gleba: Ma io…

Soldato: Ordine di messere il Conte!

(Lo afferrano)

Figlio: No! No! Babbo, diamo il sacco di farina. In qualche modo ci sfameremo.

Servo della gleba: E va bene, figliolo. Prendete pure, alabardieri. Il tributo per il pascolo è pagato.

(da: Recitiamo la Storia, Rodolfo Botticelli, editrice La Scuola)

Recita sul Medioevo – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Recita sul Medioevo

L’investitura del feudatario

L’investitura del feudatario
Personaggi: l’Imperatore e il Feudatario.

L’investitura del feudatario – Dialogo tra Imperatore e Feudatario

Feudatario (inginocchiato): Sire, inginocchiato davanti alla vostra augusta persona, con le mani giunte per umiltà nelle vostre, prometto di essere vostro uomo e di servirvi lealmente e fedelmente.

Imperatore: Nobile dignitario, io sono pronto a te, che mi presti omaggio come vassallo, a trasmettere il possesso del grande feudo di Pieve Lontana e a concedere il titolo di Marchese, purché tu presti giuramento che tu e la Marca mi sarete di valido aiuto nei perigli: giuramento che farai in nome di Dio Nostro Signore, mancando al quale sarai dichiarato fellone e spogliato del feudo.

Feudatario: In nome d’Iddio Nostro Signore, giuro davanti alla Vostra Grazia, o Sire, che mi concedete il beneficio del feudo, di custodire i vostri segreti, di rispettare e fare rispettare il vostro onore, di seguirvi in battaglia accompagnato dai miei cavalieri e fanti; vi giuro formalmente fedeltà, mi dichiaro formalmente vostro uomo, vostro fedele, e vi riconosco mio signore.

Imperatore: Per il tuo sacro giuramento ti offro il simbolo del feudo di Pieve Lontana e il titolo di Marchese concedendoti le immunità secondo il Capitolare della mia legge.

Avvenuta l’investitura del marchese o del conte, questi possono trasmettere parte del feudo ad altri minori feudatari, valvassori, ripetendo la stessa cerimonia, e questi ultimi ad altri ancora, valvassini. Basterà cambiare alcune parole e il simbolo del feudo, ricordando che si usavano gonfaloni, spade e scettri, se si trattava di feudi cospicui, e zolle, rametti o mazzi di spighe, se si trattava di feudi minori. Un pezzo di stoffa può fare da gonfalone, una riga da spada, e così via…

(da: Recitiamo la Storia, Rodolfo Botticelli, editrice La Scuola)

L’investitura del feudatario – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

L’investitura del feudatario

Martin Luther King

Martin Luther King – materiale didattico e schede illustrate pronte per la stampa per bambini della scuola primaria, sulla vita di Martin Luther King.

Martin Luther King si celebra col MLK day negli USA il terzo lunedì di gennaio, un giorno vicino alla sua data di nascita. E’ una festività nazionale istituita per legge dal 1983, ma fu osservata da tutti gli Stati americani solo dal 1993. Per raccontare ai bambini la sua storia ho preparato una biografia, una serie di carte illustrate che possono essere utili durante il racconto, e un riassunto del discorso pronunciato a Washington nel 1963. Le immagini sono di pubblico dominio; tutte le fonti sono citate in fondo all’articolo.

Martin Luther King è l’icona mondiale della lotta per i diritti civili.

Fino a cinquant’anni fa, in USA, c’erano fontanelle pubbliche separate per bianchi e neri, a teatro la balconata separata per neri, e i posti in fondo al bus solo per neri. E’ difficile da credere ma era veramente poco tempo fa. Nella lotta per guadagnare la parità per i cittadini di qualsiasi razza si è svolta la breve vita di Martin Luther King. In quel periodo negli USA era normale salire sugli autobus, entrare nei bar, in teatro, e nelle chiese e vedere posti separati a seconda del colore della pelle delle persone, e persone come Martin Luther King sono, anche oggi, fonte di ispirazione per chi crede nella giustizia sociale.  Voleva il riscatto di tutti, non solo dei neri, che non erano i soli ad essere maltrattati nel suo paese: l’ingiustizia sociale era troppa e troppe le leggi scritte ma non rispettate. Occorreva restituire dignità a tante persone schiacciate da secoli di schiavitù sociale, politica e morale.
L’Italia, da paese di emigrazioni è diventato un paese di immigrazioni, e quindi una società multietnica caratterizzata dalla coesistenza di persone di etnie diverse. Molti italiani che si considerano ‘istruiti’, si rivelano poi razzisti, per diversi motivi. Il sogno di Martin Luther King può insegnare molto agli italiani sui diritti civili, sull’integrazione, sull’uguaglianza delle minoranze e sulle barriere razziali. Anche se i tempi e le situazioni sono diverse, le cause del razzismo sono sempre le stesse. Perciò, i valori che il sogno di Martin Luther King ha insegnato agli americani, possono servire da lezione anche agli italiani.

Martin Luther King jr (15 gennaio, 1929 – 4 aprile, 1968) nacque nella città di Atlanta, in Georgia, il 15 gennaio 1029.

La Georgia è uno Stato del sud degli Stati Uniti, dove il problema razziale era molto forte.

I neri americani sono i discendenti di quegli uomini che furono rapiti dai negrieri e portati dall’Africa all’America, in catene, per essere venduti come merce. Milioni di donne e di uomini vennero strappati alla loro terra e fatti schiavi per lavorare nelle piantagioni di cotone, tabacco, zucchero e caffè degli stati del sud dal 1620 fino al 1865: 200 lunghi anni durante i quali gli antenati di Martin Luther King venivano comprati, venduti e trattati non come esseri umani, ma peggio degli animali. La legge che permetteva la schiavitù negli Stati Uniti fu cancellata solo grazie a una terribile guerra civile tra gli Stati del Nord, che volevano abolire lo schiavismo, e gli Stati del Sud. Ma, soprattutto al sud, l’abolizione legale della schiavitù non portò la libertà agli americani neri, perchè i proprietari terrieri escogitarono sistemi di ricatto economico nei confronti dei lavoratori ex schiavi, per cui più lavoravano più si indebitavano. Nella pratica i neri americani non potevano nemmeno partecipare alle elezioni. Sorse inoltre il Ku Klux Klan (KKK), un gruppo fondato da ex soldati sudisti dopo la guerra civile, che ha usato la violenza e l’intimidazione  per escludere i neri dal voto, dalle cariche politiche e anche dalle scuole, compiendo crimini orribili.

Lavorare dall’alba al tramonto, incatenato alla terra dai conti da pagare al proprietario della piantagione, piangere, compatirsi per la propria mancanza di coraggio, essere lo zimbello dei giudici e dei poliziotti, finire col credere alla propria indegnità… e infine cedere, inchinarsi e odiare se stessi per la propria debolezza“.

Così Martin Luther King racconta la vita di suo nonno James Albert, che era la vita di tutti i neri americani. Nelle città si vedevano dappertutto cartelli con la scritta “colored only” o “white only” (solo per neri, solo per bianchi). I neri vivevano riuniti in zone della città, i ghetti (slums), sovrappopolati e privi di strutture e di servizi decenti. I neri americani non potevano frequentare molte scuole, Università, né entrare a far parte di molte associazioni, non votavano, subivano maltrattamenti anche da parte delle autorità e dalla polizia, ed erano spesso condannati ingiustamente da giurie popolari bianche e razziste. I neri godevano di meno diritti dei bianchi ovunque: nel campo dell’istruzione, sul lavoro, e in tutti i settori della vita sociale ed anche nell’esercito, e perfino nell’uso dei mezzi pubblici. Quello che oggi, nella nostra cultura, sembra assurdo, nell’America degli anni ‘50 e ’60 era la normalità.

In questo clima Martin Luther King nacque, visse e cominciò a lottare fin da bambino.

Oggi gli USA hanno il loro primo Presidente nero. Sono passati solo cinquant’anni dai discorsi di Martin Luther King. Il Presidente Obama non ha nella sua storia familiare ex-schiavi afroamericani, mentre la first lady, Michelle, sì. Gli USA hanno fatto molti passi avanti per i diritti civili e l’uguaglianza, ma le discriminazioni esistono ancora. Ad esempio, in alcuni stati degli USA, gli studenti di colore vengono sospesi o espulsi tre volte di più dei loro coetanei bianchi.

Fin dall’infanzia Martin Luther King subì i traumi dei bambini che scoprono di essere diversi e discriminati, che scoprono di vivere in una società razzista.

Il padre, Martin Luther King senior, era pastore della Chiesa battista, la mamma una maestra. Nei primi anni dell’infanzia giocava con i bambini del quartiere, anche coi bambini bianchi. A sei anni cominciò a frequentare la scuola elementare, e cominciarono ad accadere fatti incomprensibili per un bambino: venne escluso dai giochi dei suoi vicini di casa che, addirittura, ebbero dai loro genitori il severo divieto di parlare con lui. Martin non riusciva a capire: non aveva fatto loro alcun dispetto, non li aveva offesi in alcun modo… Non lo fecero sentire meglio le spiegazioni dei suoi genitori, che gli parlarono di cosa significasse essere di colore e vivere in uno Stato del Sud, gli raccontarono delle origini africane dei neri americani, della lunga e terribile schiavitù e della Guerra di Secessione che aveva dato loro, almeno formalmente, la libertà. A otto anni il suo papà gli dà la notizia della morte della sua cantante preferita, Bessie Smith, che dopo un incidente stradale morì perché gli ospedali per bianchi di Atlanta si rifiutarono di ricoverarla.

Ancora impreparato a reagire, queste ed altre esperienze gli rimasero scolpite per sempre nell’anima.

Martin Luther King visse la sua infanzia e adolescenza in un periodo di grande fermento storico, con  la II Guerra Mondiale e la conquista dell’indipendenza delle colonie europee, e fu molto affascinato dalla figura di Gandhi, dal quale imparò i principi della lotta non-violenta. Poté studiare frequentando le scuole per ‘coloreds’ (cioè per soli neri), e fu negli anni del liceo, mentre si inseriva nel mondo degli adulti, che cominciò ad avere sempre più coscienza della discriminazione razziale.  Così decise di diventare avvocato e si iscrisse all’Università di Atlanta (per soli neri), ma dopo qualche anno passò agli studi di filosofia e di teologia e diventò, a 22 anni, pastore battista. Ispirato dal metodo di lotta per i diritti basato sulla ‘non violenza’ di Gandhi, Martin Luther King si convinse che questo sistema poteva servire anche per la conquista dei diritti civili dei neri americani. Dalla meditazione sulle opere di Gandhi, trasse la conclusione che i valori cristiani uniti ai principi della non-violenza, dovevano essere la base della lotta per la giustizia sociale. Completò gli studi e, durante la preparazione della tesi di laurea conobbe Coretta Scott, che studiava canto per diventare soprano. Anche Coretta aveva il sogno di poter fare qualcosa per i neri americani. I due giovani s’innamorarono e nel 1953 si sposarono e si trasferirono nella città di Montgomery, in Alabama, entrambi erano decisi a lottare per non essere più giudicati inferiori, ma cittadini come gli altri.

In questa città Martin Luther King era pastore della chiesa battista.

Le sue prediche lo resero molto famoso tra le persone, indipendentemente dal colore della loro pelle, e riuscì ad attirare a sé un numero sempre più grande di sostenitori.

Nel dicembre del 1955 un fatto in apparenza banale, che avvenne proprio nella città di Montgomery, dette ai fatti una svolta decisiva. Sugli autobus della città le prime tre file di posti erano riservate ai bianchi, le altre potevano essere occupate da neri solo se non c’erano bianchi in piedi. Quel giorno Rosa Parks rifiutò di alzarsi e cedere il suo posto, e venne arrestata e portata in carcere.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Nel giro di poche ore King mise a disposizione la sua chiesa per organizzare la protesta e fu deciso il boicottaggio dei trasporti pubblici, una forma di lotta pacifica, ispirata agli insegnamenti di Gandhi: nessun nero sarebbe salito su un autobus fino a che non fosse stata tolta la spartizione dei sedili.
L’iniziativa ebbe un enorme successo: il giorno seguente, infatti, tutti i mezzi pubblici erano deserti, perchè non solo in neri ma anche molti bianchi avevano aderito alla lotta.  La situazione continuò a ripetersi anche nei giorni seguenti e gli abitanti neri di Montgomery non salirono sugli autobus e si recarono al lavoro arrangiandosi come potevano fino al dicembre dell’anno successivo: 382 giorni. In questo periodo King fu bersaglio di minacce d’ogni genere e la sua casa fu fatta saltare in aria con una bomba (la moglie e la figlia, che erano dentro, restarono fortunatamente illese). La compagnia degli autobus perse 40 milioni di dollari e le autorità arrestarono Martin L. King con un pretesto. A sorpresa, quando il processo contro di lui stava ormai per iniziare, arrivò la notizia: la Corte Suprema dichiarava illegale la segregazione praticata negli autobus.

Nacque così il Movimento per i Diritti Civili e Martin Luther King divenne il simbolo della ‘rivoluzione nera’.

Ogni sua vittoria ebbe per lui un prezzo altissimo: fu preso a sassate, picchiato ed aggredito dai cani della guardia nazionale; fu arrestato una ventina di volte durante le manifestazioni per la pace; più di una volta John Kennedy, che sarebbe diventato il Presidente degli Stati Uniti, pagò personalmente la cauzione per farlo uscire di prigione.

Martin Luther King organizzò tantissime manifestazioni pacifiche, marce, conferenze pubbliche e raduni, e il Movimento si estese ben presto a tutti gli Stati Uniti.

Organizzò ovunque boicottaggi contro gli esercizi commerciali che praticavano la segregazioni (negozi, bar, ristoranti, ecc.). Martin Luther King diceva: “Non possiamo obbedire a leggi ingiuste, perché il non collaborare col male è un obbligo morale, non meno del collaborare col bene“.
E di fronte alle minacce, riferendosi al Ku Klux Klan, diceva: “Mandate i vostri sicari incappucciati nelle nostre case. Ma siate certi che vinceremo: un giorno conquisteremo la libertà, e la nostra vittoria sarà anche la vostra“.

Nel 1963, centenario dell’abolizione della schiavitù firmata da Lincoln, le azioni non violente del Movimento per i Diritti Civili dilagarono in più di 800 città.

A Birmingham, città che subì in un anno diciassette attentati dinamitardi ad opera dei razzisti bianchi, ebbe inizio una delle più importanti campagne di sensibilizzazione del Movimento. Durante una marcia tenuta la sera del venerdì Santo, vennero imprigionate centinaia di persone e, fra di esse (per la tredicesima volta) Martin Luther King. Dal carcere scrisse una famosa lettera: “E facile dire: ‘aspettate’. Ma quando avete visto poliziotti pieni d’odio colpire e perfino uccidere impunemente i vostri fratelli e le vostre sorelle; quando sentite la vostra lingua torcersi se cercate di spiegare alla vostra bambina di sei anni che non può andare al luna-park perchè è nera, e vedete spuntarle le lacrime; quando vi perseguita notte e giorno il fatto di essere nero, non sapendo mai che cosa vi può accadere; allora voi comprendete perché per noi è tanto difficile aspettare“.

Sempre nel 1963, in agosto,  Martin L. King guidò un’enorme manifestazione interrazziale a Washington, dove pronunciò il suo discorso più famoso, poetico e struggente: “Ho un sogno” (I have a dream).

La marcia dei 250.000 arrivò a Washington il 28 agosto, per chiedere l’approvazione della legge sulla parità dei diritti civili per bianchi e neri. Oltre 80.000 dei partecipanti all’evento erano bianchi e marciavano insieme agli altri cantando ‘Black and white together’ (neri e bianchi insieme).  Fu una manifestazione molto pacata e vi partecipò tutta la comunità americana, singoli individui e gruppi politici e religiosi, associazioni, sindacati dei lavoratori, bianchi, neri, meticci ed indiani: fu un’azione collettiva, di tutta la nazione americana, a favore dei più deboli ed emarginati. Le telecamere di tutto il mondo erano puntate sulla marea umana che si era raccolta intorno al monumento a Lincoln per chiedere un mondo migliore, dove giustizia ed uguaglianza non fossero utopie, ma realtà. Milioni di telespettatori in tutto il mondo, seguirono affascinati questo evento ad ascoltarono la voce di Martin Luther King, a cui fu affidato il discorso conclusivo. Il suo discorso fu accolto da applausi scroscianti. A proposito della marcia di Washington, Martin Luther King scrisse: “…L’estate del 1963 è stata una rivoluzione perché ha cambiato il volto dell’America…”.
Questa marcia pacifista e la figura di Martin Luther King ebbero risonanza mondiale, e le sue predicazioni e i suoi scritti furono tradotti e letti in molti Paesi, ed anche in Italia.

Il 1964 fu un anno importante.

La legge per i diritti civili venne approvata il 10 febbraio 1964. Durante una manifestazione pacifica la polizia si scagliò con ferocia su un corteo di dimostranti, sguinzagliando cani e azionando idranti contro ragazzi inermi. Sotto la pressione dell’opinione pubblica inorridita, il Governo dichiarò illegale la segregazione nei negozi e nei locali pubblici, e stabilì che l’assunzione al lavoro doveva essere egualitaria per bianchi e neri. Erano vietate le discriminazioni per l’iscrizione ai registri elettorali ed era sancito l’obbligo di ammettere tutti i cittadini, senza distinzioni di razza, a qualsiasi scuola o esercizio pubblico. La battaglia, però, durò ancora a lungo e negli Stati del Sud, soprattutto l’Alabama e il Mississippi, continuarono a registrarsi episodi di neri picchiati e uccisi dai razzisti bianchi del Ku Klux Klan.

Il 14 ottobre Martin Luther King ricevette un telegramma da Stoccolma: “Il premio Nobel per la pace è stato assegnato a Martin Luther King per aver fermamente e continuamente sostenuto il principio della non-violenza nella lotta razziale nel suo Paese“. I 34 milioni del premio vennero messi a disposizione del Movimento per i Diritti Civili.

Ma ancora l’effettiva uguaglianza tra bianchi e neri era un obiettivo lontano.

A metà degli anni Sessanta il movimento per i diritti civili si spaccò: un gruppo di attivisti neri si oppose alle scelte moderate e pacifiste di King e diede vita a forme di protesta più radicali caratterizzate dallo slogan Black power (potere nero).

Tra mille difficoltà e molti oppositori Martin Luther King continuò a correre da una parte all’altra degli Stati Uniti per diffondere le idee del Movimento per i Diritti Civili, che estese la sua richiesta di riforme sociali non solo alla comunità nera, ma a tutti gli americani poveri, e si impegnò contro il coinvolgimento degli USA nella guerra del Vietnam.

Nel marzo 1968 Martin Luther King stava preparando  la marcia della “miseria nazionale” durante i poveri di tutte le razze sarebbero dovuti arrivare da tutti gli Stati USA a Washington.

Il 27 marzo nella città di Memphis, in Tennessee, seimila americani neri attraversarono in corteo la città per solidarietà con 1.700 spazzini in sciopero e Martin Luther King era in testa al corteo.
Pochi giorni dopo, il 3 aprile, Martin Luther King parlò, sempre a Memphis, davanti a quindicimila. Il giorno seguente, si trovava con altri membri del Movimento per i Diritti Civili in una stanza dell’Hotel Lorraine. Si affacciò ad un balcone dell’Hotel e venne colpito da un colpo di fucile.  Quando morì aveva solo 39 anni ed era nel pieno della sua battaglia. Il colpo era partito dalla casa di fronte, e approfittando dei momenti di panico che seguirono, l’assassino si allontanò indisturbato.
Il presunto killer fu arrestato a Londra circa due mesi più tardi, si chiamava James Earl Ray. L’uomo si proclamò innocente e disse di sapere chi fosse il vero colpevole, ma non sapremo mai la verità perchè venne accoltellato la notte seguente nella cella in cui era rinchiuso.

Al suo funerale parteciparono migliaia le persone d’ogni ceto e razza.

Celebrò la cerimonia suo padre, il pastore Martin Luther King senior, che fece riascoltare una predica registrata del figlio, nella quale, tra l’altro, diceva: “Se qualcuno di voi sarà qui nel giorno della mia morte, sappia che non voglio un grande funerale. E se incaricherete qualcuno di pronunciare un’orazione funebre, raccomandategli che non sia troppo lunga. Ditegli di non parlare del mio premio Nobel, perché non ha importanza… Vorrei solo che dicesse che sono stato una voce che ha gridato nel deserto per la giustizia, e che ho tentato di spendere la mia vita per amare e servire l’umanità».

Coretta King, anche dopo la morte del marito, continuò la sua lotta contro la segregazione razziale e a favore della pace del mondo.

I Have a Dream – Martin Luther King jr

Riassunto del Discorso Pronunciato da Martin Luther King a Washington il 28 Agosto 1963.

Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della schiavitù.
Ma cento anni dopo, i neri non sono ancora liberi; cento anni dopo, la vita dei neri è ancora una vita in catene, e queste catene sono la segregazione e la discriminazione. Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa.
In un certo senso siamo venuti qui, nella capitale degli Stati Unti, per incassare una cambiale. Quando i Padri Fondatori scrissero la Costituzione Americana e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono una cambiale ad ogni americano. Questa cambiale prometteva a tutti gli uomini, ai negri tanto quanto ai bianchi, il diritto di godere in America dei principi inalienabili della vita, del diritto alla libertà e del diritto alla ricerca della felicità.
E’ ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo impegno e non ha pagato la cambiale data ai suoi cittadini neri.
Invece di pagare la sua cambiale, invece di onorare il suo debito, l’America ha consegnato ai neri banconote false,  e quindi siamo venuti per incassare questo cambiale, per ricevere le banconote vere della libertà e della garanzia di giustizia.
Siamo anche venuti per ricordare all’America l’urgenza dell’adesso. Questo è il momento di realizzare le promesse; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti.
Sarebbe la fine per questa nazione, se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un autunno di libertà ed uguaglianza.
Il 1963 non è una fine, ma un inizio.
Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai neri non saranno concessi i loro diritti di cittadini.
Ma c’è qualcosa che devo dire alla mia gente. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste. Non soddisfiamo la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio; conduciamo la nostra lotta con dignità e disciplina; non permettiamo che la nostra protesta degeneri in violenza; rispondiamo alla forza fisica con la forza dell’anima.
Molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, capiscono che il loro destino è legato col nostro destino, e che la loro libertà è legata alla nostra libertà. Questa offesa che è l’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze.
Quando potremo sentirci soddisfatti? Non saremo mai soddisfatti finché il nero sarà vittima degli orrori a cui viene sottoposto dalla polizia;  finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città; finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono ‘riservato ai bianchi’; finché i neri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare.
No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.
Non ho dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e sofferenze. Ritornate nel Mississippi, in Alabama, South Carolina, in Georgia, in Louisiana; ritornate ai vostri ghetti delle grandi città del nord, sapendo che questa situazione può cambiare, e cambierà.
Non sprofondiamo nella disperazione.
E anche se dovrete affrontare le difficoltà di oggi e di domani, io ho un sogno.
Io un sogno: nel mio sogno, un giorno, questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso dei sui ideali. Tutti gli uomini sono creati uguali, questo è uno dei sui ideali.
Io ho un sogno: nel mio sogno, un giorno, i figli degli uomini che un tempo furono schiavi e i figli degli uomini  che un tempo furono schiavisti, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho un sogno: nel mio sogno, un giorno, perfino lo stato del Mississippi, dove oggi c’è arroganza ingiustizia e oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho un sogno: nel mio sogno, un giorno, i miei quattro figli piccoli non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere.
Io ho davanti a me un sogno, oggi!
Difendiamo insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi.
Quel giorno tutti gli uomini sapranno cantare insieme l’America, dolce terra di libertà. Se l’America vuole essere una grande nazione, possa questo accadere.
Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York. Risuoni la libertà negli alti monti della Pennsylvania. Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve. Risuoni la libertà dai dolci pendii della California. Ma non soltanto. Risuoni la libertà dalle montagne della Georgia. Risuoni la libertà dalle montagne del Tennessee. Risuoni la  libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà. 

Fonti:

https://english-zone.com/holidays/mlk-dreami.html Il discorso di MLK tradotto in Italiano

https://www.ilsoffioultrafanico.net/pag09_lutherkingdream.htm Il discorso di MLK in Inglese e Italiano

https://www.lagirandola.it/lg_primopiano.asp?idSpec=83

https://www.treccani.it/enciclopedia/martin-luther-king_(Enciclopedia_dei_ragazzi)/

https://www.studenti.it/materie/storia/martin_lutherking.php

https://www.martinlutherking.ucebi.it/biografia/bio.php

https://digitalcollections.nypl.org/search/index?utf8=%E2%9C%93&keywords=martin+luther+king#

https://it.wikipedia.org/wiki/Rosa_Parks#/media/File:Rosaparks.jpg

https://it.wikipedia.org/wiki/Martin_Luther_King

https://www.slysajah.com/

https://www.lavocedinewyork.com/Il-sogno-di-Martin-Luther-King-nelle-scuole-americane/d/4277/

https://www.oronoticias.com.mx/galeriafotos/349/El-movimiento-de-Luther-King#.VpWYT7bhBkg

https://www.myusa.it/mappa-cartina-usa/243-cartina-politica-usa.html

https://en.wikipedia.org/wiki/Racial_segregation_in_the_United_States

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Barack_Obama_family_portrait_2011.jpg

https://kinginstitute.stanford.edu/liberation-curriculum

https://mlkflc.org/photo-gallery/

Album Montessori per l’area linguistica 6-9 anni

Nel corso degli anni ho pubblicato nel sito moltissime presentazioni relative all’area linguistica per la fascia d’età 6-9 anni. Le trovi qui:

AREA LINGUISTICA MONTESSORI

Il progetto è quello di realizzare e mettere a disposizione gli album Montessori per l’area linguistica… ci sto lavorando.

La mole di argomenti richiede una suddivisione per aree:

1: LETTURA, SCRITTURA E CALLIGRAFIA
2: STUDIO DELLE PAROLE
3: ANALISI GRAMMATICALE
4: ANALISI LOGICA E DEL PERIODO.

Al momento è pronto l’Album per lo studio delle parole in formato corso online qui:

. STUDIO DELLE PAROLE MONTESSORI

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