Materiale didattico sulla seconda guerra di indipendenza

Materiale didattico sulla seconda guerra di indipendenza: dettati ortografici, letture, poesie per bambini della scuola primaria.

Astuzie di Cavour
Al principio della campagna del 1859, per arrestare l’avanzata austriaca, Cavour, allora Ministro della Guerra, diede l’incarico di allagare le campagne tra Vercelli e Novara all’ingegnere Carlo Noè, direttore dei canali statali, scrivendogli: “Caro ingegnere Noè, il suo omonimo salvò il genere umano dalle acque, lei, per mezzo delle acque salvi la Patria”

Gli Austriaci, all’inizio della seconda guerra d’indipendenza, erano convinti di conquistare Torino in pochi giorni. Alcuni loro ufficiali, con tale certezza, fecero inviare dai proprio familiari le lettere direttamente in quella città. Cavour ne venne in possesso e, consegnandole all’ambasciatore prussiano, che sostituiva in quel momento quello austriaco, disse: “Ecco qui alcune lettere destinate a persone che non siamo riusciti a trovare in città: vogliate farle pervenire ai destinatari”.

Le forze in campo
Esercito francese: 150 mila uomini. Comandante: Napoleone III, che era anche comandante supremo di tutte le forza alleate. Capo di stato maggiore, il generale Vaillant.
Esercito piemontese: 63 mila uomini. Comandante: Vittorio Emanuele II. Capo di stato maggiore, il generale Morozzo della Rocca.
Cacciatori delle Alpi: 3500 volontari male armati. Comandante: Giuseppe Garibaldi. La partecipazione di Garibaldi fu voluta dal re contro il parere del ministro della guerra La Marmora.
Esercito austriaco: 2oo mila uomini di cui  però solo 120 mila il linea. Comandante il generale Ferencz Giulay.

Solferino e San Martino
L’alba del 24 giugno, aprendo le sue pupille, vide una cosa meravigliosa: tutte le alture tra il Mincio e il Garda erano coronate dai soldati dell’Austria. Tutto l’esercito austriaco, rafforzato di nuove genti, aveva rivalicato il Mincio; lassù si era schierato, appoggiato dalle retrostanti fortezze.
All’alba Francesco Giuseppe contemplava il suo esercito e il generale Schlik disse: “La Maestà Vostra sta per assistere a una grande battaglia e a una grande vittoria”.
Vide la torre di Solferino e comprese che il nodo della battaglia era lì. Risalì a cavallo e, accompagnato dalle sue cento guardia dalle criniere bianche, mosse veloce verso Solferino. Nella corsa perse una spallina.
Risuonò il comando: “Avanti, cavalleggeri! Viva l’Imperatore!”. Baionette abbassate, senza sparare colpo, al rullo di cento tamburi, i Francesi vanno all’assalto. L’artiglieria nemica folgorava  da tutte le parti. Due volte la collina è presa dai Francesi, due volte è ripresa dagli Austriaci.
All’ultimo disperato assalto, la posizione è saldamente conquistata. La bandiera giallo-nera apparve, scomparve, riapparve sullo sprone di Solferino. Infine scomparve. Anche l’ufficiale che reggeva quella insegna scomparve. Sulla torre di Solferino sventola il tricolore di Francia.
I centro nemico è sfondato; tutte le alture sono prese. Da Cavriana partono gli ultimi colpi di cannone. Sono le quattro e tre quarti. Dodici ore è durato il duello.
Alle sette di sera Napoleone III entrava a Cavriana nella casa dove Francesco Giuseppe aveva il suo quartier generale: ma lo aveva dovuto lasciare, perché per poco non era stato fatto prigioniero anche lui.
La battaglia di Solferino era terminata; riprendeva come un uragano la battaglia a San Martino. Dalle nove del mattino i soldati italiani erano lanciati in disperati assalti sotto gli occhi del re. “Figlioli” diceva il re, “o si prende San Martino o i Tedeschi faranno fare a noi San Martino!” (Fioei, venta piè San Martin, se no gli aleman a lu fan fè a nui autri!).
All’ultimo assalto, con tutte le forze, San Martino è conquistata.
Dunque l’Imperatore entrò in quella casa di Cavriana che per breve era stata alloggio dell’altro Imperatore. Quelli che erano con lui dicono che un’espressione di tristezza e di stanchezza profonda era scolpita sul suo volto. Si sedette presso un tavolo coperto da una tovaglia verde, e rimase a lungo immobile e in silenzio.
“Sire, l’inseguimento, il coronamento della vittoria!”. Risponde l’Imperatore: “No, la giornata è finita”.
Alla luce del lungo tramonto si vedevano le colonne austriache ripassare in buon ordine il Mincio. Napoleone si ritira nelle sue stanze. Vede sulla parete, tracciate a matita, tre parole italiane: “Addio, cara Italia”. Un ignoto ufficiale di Francesco Giuseppe aveva segnato le tre parole profetiche. Quando il sole apparve, l’Imperatore era già con il pensiero a Villafranca.
(A. Panzini)

L’ordine del giorno di Vittorio Emanuele II dopo la vittoria di Solferino e di San Martino
Soldati!
In due mesi di guerra, dalle sponde della Sesia che sono state invase al Po, voi avete corso, di vittoria in vittoria, fino alle rive del Garda e del Mincio. Nella via gloriosa che avete percorso, in compagnia del nostro potente alleato, avete dato ovunque le più grandi prove di disciplina e di eroismo. La Nazione è fiera di voi; tutta l’Italia contra tra le vostre fila i suoi figli migliori, applaude il vostro coraggio e dalle vostre imprese trae fiducia per il suo destino futuro.
Ora avete riportato una nuova e grande vittoria, vincendo un nemico grande di numero e protetto da ottime posizioni.
Nella giornata ormai famosa di Solferino e di San Martino, avete respinto, combattendo dall’alba fino a notte, i ripetuti assalti del nemico e lo avete costretto a riattraversare il Mincio, lasciando nelle vostre mani il suo campo di battaglia, gli uomini, le armi e i cannoni.
Da parte sua l’esercito francese ha ottenuto uguali risultati e ugual gloria dando prova di quel valore che, da secoli, richiama l’ammirazione del mondo.
La vittoria è costata gravi sacrifici; ma da questo sangue versato per la più nobile delle cause, l’Europa imparerà come l’Italia sia degna di sedere tra le Nazioni.
Soldati!
Nelle battaglie precedenti ho spesso avuto occasione di segnalare all’ordine del giorno i nomi di molti di voi. Oggi io porto all’ordine del giorno l’intero esercito.
(Vittorio Emanuele, 25 giugno 1859)

Il dramma di Villafranca
L’8 luglio Cavour viene a sapere che il generale Fleury, primo scudiero dell’imperatore, è andato a Verona per proporre un armistizio a Francesco Giuseppe.
Cavour parte subito da Torino e si precipita dal re, che è alloggiato alla villa Melchiorri, in Monzambano sul Mincio. Appena il sovrano e il ministro si trovano soli, il tono della loro voce è così alto che rimbomba all’esterno della piccola sala della villa: l’argomento della discussione è davvero drammatico. Vittorio Emanuele è obbligato a confessare che, fin dalla vigilia di Solferino, Napoleone III gli ha confidato la decisione di trattare al più presto con l’Austria, dovuta all’attitudine alla minaccia degli Stati tedeschi. E il re si è dimostrato d’accordo dicendo che tutto sommato, questa guerra abbreviata gli farà conquistare almeno la Lombardia. Se la Francia abbandonasse la lotta, il Piemonte potrebbe continuarla da solo?
Ad ogni frase Cavour scattava sotto l’impulso della collera crescente, al pensiero di tutto quello che avrebbe potuto fare, di tutte le combinazioni che avrebbe potuto inventare, di tutte le leve che avrebbe potuto manovrare in quei diciotto giorni, se avesse conosciuto i piani di Napoleone III; tutto ciò lo rende furioso…
Vittorio Emanuele cerca di contraddirlo, di spiegargli le sue ragioni. Non è meglio concludere la guerra guadagnando la Lombardia, piuttosto che farsi nemica la Francia, col rischio di rientrare a Torino a mani vuote, sotto la minaccia delle baionette austriache e tutta l’Europa che ride di noi? Ma Cavour, che non riesce a trattenersi, grida:
“Allora, Sire, abdicate”
“Tacete! Ricordatevi che sono il Re!”
“Il vero re, in questo momento, sono io!”
“Voi il re? Voi non siete che un insolente!” gli urla Vittorio Emanuele, ed esce dalla sala sbattendo la porta.

Napoleone III e Vittorio Emanuele dopo Villafranca
Dopo il “tradimento” di Villafranca, Napoleone così spiegò le ragioni del suo comportamento:
“Se la rivoluzione varcasse gli Appennini, l’unità d’Italia sarebbe fatta, e io no voglio l’unità, ma soltanto l’indipendenza. L’unità rischia di portare a problemi interni per la questione di Roma, e a problemi esteri perché con l’unità  la Francia si ritroverebbe una grande nazione al suo fianco, che potrebbe far diminuire la sua influenza”.
Più tardi, Vittorio Emanuela II rispose a Napoleone rinfacciandogli il suo comportamento:
“Io sono vincolato dal patto con l’Europa, dal dovere di giustizia, dagli interessi della mia casa e sono vincolato al mio popolo, all’Italia. I Solferino, i San Martino riscattano talvolta i Novara, i Waterloo; ma le apostasie dei principi sono sempre irreparabili. Io sono commosso nel più profondo del mio animo per la fiducia e per l’amore che questo nobile e sventurato popolo ha riposto in me; e, prima di tradirlo, spezzo la spada e getto la corona come fece mio padre”.

Le annessioni
La fine della guerra porta alla cessione della Lombardia alla Francia, che la cede a sua volta al Piemonte, in cambio di Nizza e Savoia. Il Veneto rimane ancora sotto l’Austria.
Ma durante la guerra molte province sono insorte, hanno cacciato i sovrani,  hanno chiesto l’annessione al Piemonte. Dopo la Toscana e Massa Carrara, anche Modena insorge e, ai primi di giugno, costringe il Duca a lasciare la città. Il 13 giugno un movimento popolare sempre più forte travolge la reggenza lasciata dal Duca e proclama l’annessione al Piemonte.
A Parma il popolo è insorto fin da maggio: il 2 giugno costringe la Duchessa a fuggire e dichiara l’annessione al Piemonte.
Bologna e la Romagna, Stato del Papa, vengono tenute a freno da forti truppe austriache fino all’11 giugno, ma il 12 scoppia un’impetuosa dimostrazione popolare, e il potere passa nelle mani di un governo provvisorio: entro la mezzanotte del 13 tutta la Romagna è insorta e si è liberata del dominio austriaco e clericale. Nella discussione a Zurigo, per il trattato di pace, si propone di rimettere i sovrani sui loro troni. Ma le popolazioni si ribellano, si riuniscono in grandi assemblee e reclamano l’annessione al Piemonte.

Il trattato di pace: Zurigo, 10 novembre 1859
Si firma il trattato di page che pone ufficialmente fine alla guerra.
Nel trattato si confermano gli accordi di Villafranca, e si stabilisce che i principi italiani, che erano stati costretti a fuggire, debbono ritornare nei loro Stati. Ma come ciò sarà possibile? Non hanno eserciti propri, né possono contare sull’aiuto dell’Austria, perché questa, nel trattato, si è impegnata a rispettare il principio del “non intervento”.
D’altra parte le popolazioni sono decise a votare, per plebiscito, l’annessione al Piemonte.
Il trattato prevede che il futuro assetto dell’Italia sarà stabilito in un Congresso che sarà successivamente convocato.
Ma è impressione generale che saranno i fatti e l’autodecisione delle popolazioni, che daranno un nuovo volto all’Italia.

In margine al trattato di pace: la restituzione della Corona Ferrea
La corona ferrea, con la quale nel Medio Evo venivano incoronati i re d’Italia, e con la quale anche Napoleone fu incoronato “re d’Italia”, era stata tolta dal duomo di Monza, dove era conservata, e portata a Vienna dagli Austriaci, all’inizio della guerra.
Ora l’Austria, in virtù del trattato di pace, è obbligata a restituirla.
Sembra un presagio.

Vittorio Emanuele II
La sera del 23 marzo 1849, dopo che il suo esercito era stato sconfitto dagli Austriaci, il re di Sardegna Carlo Alberto abdicò alla corona in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Era un momento tragico per la storia italiana, ma il ventinovenne re superò questa prova con fermezza e coraggio, rifiutandosi di rinnegare ed abolire lo Statuto che suo padre aveva concesso e giurato.
Sinceramente convinto che il regno di Sardegna dovesse diventare il centro della lotta di tutti gli italiani, per l’unificazione e l’indipendenza nazionali, Vittorio Emanuele ebbe la fortuna di trovare in Cavour il geniale ministro che realizzò questo grande programma: e così i patrioti, sia monarchici sia repubblicani, si schierarono con il regno di Sardegna nella lotta all’Austria.
Vittorio Emanuele II fu sui campi di battaglia, distinguendosi nel 1859 a Palestro e a San Marino. Appoggiò la spedizione dei Mille e, ricevuto da Garibaldi a Teano il regno delle Due Sicilie appena conquistato, portò nel 1861 la corona dell’Italia unita. Fu ancora sul campo a Custoza (18669 e infine entrò, da re, in Roma libera (1870).
Carattere rude e fiero, regnò con lealtà e dignità, meritando il soprannome di “Re galantuomo”. Morì a Torino nel 1878.

Aneddoti
Un giorno il D’Azeglio disse al Re: “Ce ne sono stati così pochi nella storia di re galantuomini, che sarebbe veramente bello cominciare la serie”. “Devo fare il galantuomo?”, chiese senza ridere Vittorio Emanuele.
“Vostra maestà ha giurato fede allo Statuto, ha pensato all’Italia e non al Piemonte. Continuiamo allora a dare per certo che a questo mondo tanto un re quanto un individuo oscuro non hanno che una sola parola”
“Ebbene, il mestiere mi sembra facile” disse sua Maestà.
“E il re galantuomo l’abbiamo”, osservò il D’Azeglio.

A volte il re amava confondersi con la folla per sentirne i giudizi direttamente e per essere libero di esprimere i suoi. Nel primo anniversario dello Statuto si travestì da popolano indossando i suoi abiti da caccia, ed entrò di sera in una birreria in piazza San Carlo. Alcuni popolani che erano nel locale festeggiavano la ricorrenza e gridavano: “Viva il re! Viva lo Statuto!”.
Il re si sedette ad un tavolo, ordinò, bevve in fretta e poi, prima di uscire, si rivolse ai popolani gridando: “Viva la Repubblica!”.
Successe un parapiglia e il Re pensò di non riuscire ad uscirne, quando un operaio prese le sue difese e, siccome non riusciva a calmare i suoi compagni, gli venne l’idea di gridare: “Ma non vedete che è matto?”.
(L. Pollini)

Motti arguti 
Nel 1861 passavo in rassegna le truppe in Piazza d’Armi a Milano. Erano reggimenti di fanteria nei quali abbondavano i soldati lombardi e tra questi non pochi milanesi. Un reggimento stava davanti a me e al mio Stato Maggiore, ed i soldati, come la disciplina prescrive, tenevano gli occhi fissi nei miei. Due di quei soldati, mentre aveva gli occhi rivolti a me, tenevano senza scomporsi una conversazione, che anche se fatta a voce molto bassa, riuscii ad ascoltare parola per parola.
“Guarda” diceva uno, “El noster re come l’è bel grass”. E l’altro rispondeva: “El soo anca mi che l’è bel e grass; el se magna una provincia al dì, e te veut minga ch’el sia bel e grass?”

Il “miracolo” di Cavour
Cavour si preparava alla guerra, ma secondo i patti di Plombieres non poteva dichiararla lui: doveva aspettare di essere aggredito.
Lord Russel disse a Cavour: “Signor Conte, credo che lei stia sprecando le sue energie, perché l’Austria non le dichiarerà mai la guerra.”.
“Ma io saprò convincerla”, disse Cavour.
Il lord incredulo domandò allora ironicamente quando credeva possibile il miracolo diplomatico.
“Intorno alla prima settimana di maggio”, rispose serio serio Cavour.
E fu infatti così.
(F. Palazzi)

Il compito più difficile
Un giorno un gruppo di persone stavano tessendo le lodi di Cavour davanti a Napoleone III. Qualcuno disse:
“Sì, è un grande uomo politico; peccato che non sia lui a governare un grande Stato”.
Napoleone con molto buon senso rispose:
“Credo che il compito di fare grande  un piccolo Stato sia molto più difficile che non governare un grande Stato. Lasciatelo fare, Cavour è sulla buona strada”.

Un pensiero di Cavour
Cavour amava tanto il lavoro e le persone attive, che gli piaceva dire: “Quando voglio che una cosa sia fatta presto e bene, mi rivolgo alle persone che sono sempre occupate: i disoccupati non hanno mai tempo di far nulla”.
(F. Palazzi)

Sovrano popolare
Siamo a Torino, nel 1859, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza. La città è tutta in attesa, fremente di entusiasmo e di speranza.
Il popolo, che si era raccolto spontaneamente attorno allo stesso ideale, va una sera a fare una grande dimostrazione patriottica davanti alla dimora del conte Camillo Benso di Cavour, presidente del Consiglio dei Ministri.
La mattina dopo Cavour, molto soddisfatto, parla al Re del grande vociare di entusiasmo che gli è giunto dalla strada; ma il sovrano non ha l’aria di stupirsi.
“Vostra Maestà è stata già informata?”
“Cuntacc!” rispose il re,  “Ero anch’io fra il popolo a gridare -Viva Cavour!- “
(Vaccaro, da “Enciclopedia degli aneddoti”)

Il discorso della Corona del 10 gennaio 1859
L’apertura della sessione venne fissata al giorno 10 gennaio 1859.
La sera del 7 il conte Cavour ebbe una nuova conferenza col Re, il quale esaminò attentamente il discorso, scrisse di suo pugno alcune variazioni e concordò col suo ministro le parole diventate storiche, il grido di dolore, che erano state accennate e suggerite da Napoleone III…
La mattina del 10 gennaio l’aspetto dell’aula di Palazzo Madama era più che mai imponente. I ricordi del passato s’intrecciavano con le speranza e con la fiducia del futuro. Lì Vittorio Emanuele aveva pronunciato il giuramento solenne: lì sì era più volte appellato al buon senso e al patriottismo del parlamento e del suo popolo; lì quella mattina pronunciava le parole ardenti di chi sente nell’animo la gioia di un grande progetto.
Quando aprì il foglio di carta che doveva leggere, ci fu un silenzio profondissimo: tutti pendevano dalle sue labbra, il segreto era stato gelosamente custodito, e l’impazienza di sentire ciò che il Re avrebbe detto, era grandissima. Egli gettò uno sguardo intorno all’aula, e poi con voce che, fioca all’inizio, andò via via prendendo vigore e colorito, lesse…
Il discorso finiva così:
“L’orizzonte, in mezzo a cui sorge il nuovo anno, non è pienamente sereno. Ciò non di meno vi accingerete con la consueta alacrità ai vostri doveri parlamentari.
Confortati dall’esperienza del passato, andiamo risoluti incontro all’eventualità dell’avvenire. Questo avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull’amore della libertà e della patria. Il nostro paese, piccolo per territorio, ha guadagnato credito nei consigli europei perché grande per le idee che rappresenta e per le simpatie che ispira. Questa condizione non è priva di pericoli, perché mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi.
Forti e fiduciosi nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi.”
Ad ogni periodo il discorso venne interrotto da applausi fragorosi e dalle grida “Viva il Re!”, e alle parole “grido di dolore” eslose un entusiasmo indescrivibile. Senatori, deputati, spettatori si levarono in piedi e lo acclamarono.
I ministri di Francia, di Prussia e d’Inghilterra osservavano attoniti e commossi lo spettacolo. L’incaricato degli affari di Napoli aveva il volto bagnato di sudore.
(G. Massari)

L’eco a Milano del discorso di Vittorio Emanuele
La notizia del discorso giunse a Milano la stessa sera. Ero al teatro della Scala; a un tratto si vide un parlarsi l’un l’altro, con ansietà, con commozione, come di persone che si comunicano una grande notizia; e si osservò una sorpresa insolita anche nei palchi delle autorità e dei generali Austriaci. Quell’elettricità che era nell’aria, che era in tutti, doveva, poche sere dopo, scoppiare rumorosamente in quella stessa sala del teatro.
Si rappresentava la Norma di Bellini e, appena fu intonato il coro “Guerra, guerra!” tutto il pubblico scattò in piedi: dai palchi le signore sventolavano i fazzoletti e tutti in coro gridarono  “Guerra! Guerra!”e il coro fu fatto ripetere più volte.
Gli ufficiali della guarnigione che, come di solito, occupavano le due prime file della platea a loro riservate, non capirono sulle prime la ragione di quel chiasso. Esterrefatti, guardavano, quasi interrogando, nei due palchi riuniti di prima fila, dove stava il generale Giulay con parecchi ufficiali superiori.
Questi capirono ben presto di che cosa si trattasse e si misero ad applaudire essi pure “Guerra! Guerra!”. Anzi Giulay stesso ne diede il segnale, battendo ripetutamente la sciabola sul pavimento.
Chi avrebbe detto quella sera che la guerra sarebbe proprio scoppiata e che, cinque mesi dopo, egli avrebbe perduto a Magenta una grande battaglia?
Il segnale dato da Giulay fu subito seguito da tutti gli ufficiali, che si alzarono in piedi e, fissando il pubblico, applaudirono fragorosamente. Pensate che baccano! Da una parte si gridava entusiasticamente “Viva va guerra! Viva la guerra!, si sventolavano i fazzoletti, si chiedevano nuove repliche al coro; dall’altra si battevano in modo altrettanto provocante le sciabole a terra: il teatro fu attorniato dalla truppa, chiamata in fretta, e Giulay uscì, circondato dagli ufficiali accorsi in sua difesa. Il baccano quella sera durò a lungo: era l’esplosione del desiderio represso di vedere spuntare il primo giorno della guerra. Le parole di Vittorio Emanuele II aveva aveva acceso le polveri.
(G. Visconti Venosta)

 Napoleone III
Luigi Napoleone Bonaparte, nipote del grande imperatore, nacque nel 1808 a Parigi. Irrequieto ed avventuroso, si dedicò sin da giovanissimo alla politica, e nel 1848 fu eletto presidente della Repubblica francese. Nel 1851, con un colpo di stato, si impadronì del potere e l’anno dopo si proclamò imperatore, col nome di Napoleone III. Sotto il suo regno la Francia tornò  ad essere una delle massime potenze mondiali, pagando però grandezza e prestigio con la perdita della libertà.
Le ambizioni di Napoleone III tramontarono nel 1870 quando, dichiarata la guerra alla Prussia, venne sconfitto e catturato nella battaglia di Sedan. Mentre il suo impero crollava, egli andò esule in Inghilterra, dove morì nel 1873.
Napoleone III può essere considerato uno dei protagonisti del Risorgimento italiano. Nel 1849, egli mandò un esercito a soffocare la Repubblica romana; nel 1867, a Mentana, sbarrò a Garibaldi la via per Roma.
Questi sanguinosi episodi di ostilità, tuttavia, sono riscattati da quanto Napoleone III fece nel 1859, quando mise a repentaglio la fortuna sua e della Francia per aiutare gli Italiani a liberare la Lombardia. Malgrado tutto dunque, dobbiamo riconoscenza a Napoleone.

Nasce la Croce Rossa
Ferdinando Palasciano medico dell’esercito borbonico, aveva sostenuto dieci anni prima di Solferino, che “i feriti di guerra, nel momento in cui rimangono feriti, cessano di essere nemici e vanno raccolti e curati, indipendentemente dall’esercito a cui appartengono”.
Per questi suoi principi Ferdinando II l’aveva degradato e imprigionato. Ma la nobile proposta del Palasciano doveva essere raccolta, dieci anni dopo, da un medico svizzero che assistette alla sanguinosissima battaglia di Solferino.
In un libro intitolato “Un ricordo di Solferino” egli descrisse la tragica odissea di migliaia di feriti che, senza cure adeguate, senza assistenza, morivano dissanguati sul campo o in ricoveri improvvisati.
“Proclamiamo solennemente”, disse “che i feriti di guerra sono sacri e devono essere curati anche dai nemici”.
Le sue proposte, alla Conferenza Internazionale di Ginevra (1864) portarono alla nascita della Croce Rossa.
Il suo nome è Enrico Dunant.

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Leggende del Piemonte

Leggende del Piemonte per bambini della scuola primaria.

Leggende del Piemonte – La leggenda di Maino della Spinetta
Dopo la battaglia di Marengo (1800), vinta da Napoleone, la maggior parte del Piemonte veniva annessa politicamente alla Francia. La popolazione nutriva un sordo rancore verso i Francesi, che, dopo aver promesso la libertà, si comportavano come arroganti dominatori. Nella provincia di Alessandria l’opposizione aperta si manifestò attraverso le imprese di Maino, detto Spinetta dal luogo in cui nacque. Egli fu il Fra Diavolo e il Passator cortese del Monferrino. Le sue imprese sono circonfuse da un alone di leggenda eroica e patriottica. La fantasia popolare ha trasformato in atti eroici quelli che forse furono solo azioni da brigante.  Il Maino aveva raccolto attorno a sé dei giovani che, come lui, mal volentieri accettavano di servire nell’esercito francese. Era coraggioso, astuto, crudele, deciso, audace. I gendarmi gli davano una caccia spietata ed egli reagiva uccidendo, procurandosi vitto e denaro con rapine e ricatti a danno soprattutto degli occupanti e dei ricchi della zona, donando ai poveri quando non gli serviva. L’esito fortunato delle sue imprese lo aveva reso spavaldo, tanto che spesso e volentieri si prendeva gioco dei suoi segugi. Famosa è rimasta la burla, detta “dei cavalli”.
Una sera, alcuni gendarmi si trovavano in un’osteria a bere allegramente. I loro discorsi erano caduti sul brigante Maino, che essi denigravano in ogni modo sollecitando appoggio ai loro argomenti da quanti erano presenti; tra essi uno era particolarmente aspro nelle sue invettive contro Maino e si era unito al brigadiere in un brindisi alla sua cattura e alla sua impiccagione. Questo avventore altri non era che lo stesso Maino travestito da boscaiolo. Approfittando di un momento di particolare euforia, uscì  nel cortile, si avvicinò ai cavalli dei gendarmi e tagliò le cinghie delle selle, trascurando di proposito la cavalcatura del brigadiere. Quindi rientrò e, attirata su di sé l’attenzione di tutti, gridò: “Signori, il codardo che cercate, il brigante, l’assassino Maino Spinetta, sono io!”.
I gendarmi restarono allibiti ed egli, approfittando dell’attimo di confusione seguito alla sua dichiarazione, uscì, balzò sul cavallo del brigadiere e fuggì a briglia sciolta. I gendarmi, ripresisi, uscirono correndo, montarono sui cavalli e si lanciarono all’inseguimento. Dopo pochi istanti tutti caddero rovinosamente a terra tenendosi con le mani le parti dolenti del corpo.
Secondo la leggenda, lo stesso Napoleone avrebbe ricevuto Maino a Monza per trattare la sua resa, ma il fuorilegge avrebbe interrotto le trattative perchè l’Imperatore non si impegnava a garantire la vita dei suoi compagni oltre alla sua. La sua fine, come quella di ogni masnadiero che soccombe, fu dovuta al tradimento. Mentre il Maino si trovava ospite di un parente, una spia avvertì i gendarmi che circondarono la casa e gli intimarono la resa. Maino invitò i gendarmi a catturarlo se pur ne erano capaci. Si ingaggiò una impari lotta al termine della quale egli cadde, ferito in ogni parte del corpo.

Leggende del Piemonte – La leggenda di Gagliaudo
Federico Barbarossa assediava Alessandria da parecchi giorni. I cittadini erano ridotti alla fame più nera: già circolavano voci sulla resa della città. Un giorno, ai capi dell’esercito che sedevano a consulta per prendere decisioni sulle condizioni della resa, si presentò un rozzo mandriano di nome Gagliaudo, che promise di liberare la città dall’assedio, se gli fossero stati dati un paio di sacchi di grano. Con il grano avuto egli nutrì per alcuni giorni una sua mucca e, quando gli parve ben pasciuta, uscì con essa dalla cerchia delle mura, poi cominciò a batterla selvaggiamente, tanto che questa prese a fuggire in direzione del campo nemico. I soldati si impadronirono della bestia e portarono Gagliaudo con le mani ed i piedi legati davanti all’Imperatore, che prese ad interrogarlo per conoscere e condizioni dei cittadini entro la città. Gagliaudo finse di rivelare di malavoglia all’Imperatore una notizia strabiliante: gli alessandrini avevano tanta abbondanza di cibo che nutrivano con grano perfino le loro bestie. L’Imperatore, adirato, minacciò di morte Gagliaudo se le sue parole non fossero state veritiere, e immediatamente ordinò che la sua mucca fosse squartata. Tanto fu il grano, senza alcuna traccia di biada, che trovarono nello stomaco della bestia, che l’Imperatore disperò di poter prendere Alessandria per fame e decise di togliere l’assedio.
Probabilmente il fatto narrato è leggendario e l’Imperatore fu costretto a togliere l’assedio per l’avvicinarsi di un esercito della Lega, che già aveva raggiunto Tortona; tuttavia resta il fatto della magnifica prova delle fortificazioni nella nuova città e del valore dei suoi cittadini.

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Leggende del Piemonte

La vera storia di Valentino: racconto dell’Emilia Romagna

La vera storia di Valentino: racconto dell’Emilia Romagna per la scuola primaria.

Questa è la storia di Valentino.

Chi non lo conosce, Valentino? E’ l’ultimo dei figli di Giovanni Arrighi, detto il Mére.

Il Mére era il colono del Carrara, e la Chiara era sua moglie.

Vivevano da poveri, si sa, ma a Castelvecchio e a Barga li conoscevan tutti per quel che erano: gente alla buona, onesta, senza chiacchiere.

Un giorno, dunque, il Mére disse alla moglie: “Oh Chiara, non ti sembra che quel moccioso abbia bisogno di essere rivestito?”

“Eh, lo so anch’io, purtroppo!” rispose, un po’ seccata la buona donna. “Qualcosa gli ci vuole, ma…” e continuò a rimestare nel paiolo la semola da dare alla Bianchina.

“Ma qualcosa gli ci vuole!…” ripeté il Mére tentennando il capo. Ma, lì per lì, non seppe neppure lui come risolverla.

Palanche non ne aveva. Bisogni, in casa, ce n’erano tanti da cavare gli occhi. E tre figlioli da tirar su: Tonino, Carolina, Valentino.

Qualche tempo prima il padrone gli aveva detto: “Ho deciso di vendere tutto, Mére: campi e casa. C’è il professor Pascoli che sarebbe disposto a comperare. Tu, intanto, se ha bisogno di qualcosa, dagliela pure: latte, formaggio, uova. Dopo, semmai, ci rifaremo. Hai inteso?”

E il Mére: “Ho inteso”.

“Tanto ci rifaremo, Chiara: hai inteso?”

“Sì, ho inteso, ho inteso. Ma intanto non abbiamo una palanca per far cantare un cieco. Fra un mese e mezzo è Pasqua. Ed io come glieli compro una giacchetta ed un paietto di calzoni al Valentino?”.

Poi ci ripensò meglio; si sa, il bisogno spinge.

Ed ecco che una bella mattina, quando il Mére era già nei campi a legar viti, la Chiara spazientita spacca il salvadanaio, conta gli spiccioli, si aggiusta alla vita il pannello delle feste e, via, se ne va a Barga, dal Carrara che gestiva un negozio di pannine.

“Sor padrone, ho bisogno di qualcosa”.

“Sono contento di servirvi, Chiara. Di che cosa avete bisogno?”

“Due cencetti per Pasqua. Da spendere poco, vè! Che le panche, da casa nostra, se ne son ite!”

“Ma non vi preoccupate, scegliete pure!”

La Chiara scelse e pagò fino all’ultimo centesimo.  Poi andò dalla Filomena, che cuciva anche donne e per ragazzi.

“Zitta, non lo dire, veh! E’ una sorpresa” e tirò fuori la stoffa acquistata dal Carrara. “Vorrei che tu ci facessi un vestitino al mio Valentino. Due zoccoletti, prima di Pasqua, glieli comprerò. Ho due galline: se non mi coveranno tanto presto…” (Voleva dire: faranno delle uova, le venderò, ci comprerò gli zoccoli).

Invece tutti sappiamo come andò a finire. Le galline chiocciarono, la Chiara non potè più vendere un uovo…

e tu, magro contadinello,
restasti a mezzo, così, con le penne,
ma nudi i piedi come un uccello.

Venne il giorno di Pasqua. Sole meraviglioso, voli, trilli di rondini.

Valentino uscì di casa, scese le scale, arrivò sulla piazzetta un po’ impacciato nei movimenti a causa del vestito nuovo.

“Oh, Valentino, vestito di nuovo!” si udì esclamare.

Si arrestò di colpo. Voltò gli occhi a destra, a sinistra, in alto. Guardò verso la casa del professore: il poeta affacciato alla finestra sorrideva. Il ragazzo abbassò il capo, diventò rosso rosso. Poi, via, di corsa a rifugiarsi in casa.

Il Pascoli invece, rimase a lungo a guardare dalla finestra, muto.

Lungo i borri dell’Orso, tra le siepi dei biancospini fioriti penduli sull’acqua trasparente, le allodole, le cince, i pettirossi cinguettavano lieti alla primavera. Proprio come il bimbo del Mére e della Chiara, proprio come Valentino: lui pure saltava, correva, ignaro se al mondo potesse esistere una felicità più grande della sua.

Così nacque una delle più delicate poesie del Pascoli.

Oggi, dei protagonisti di questa storia è rimasto soltanto Valentino Arrighi, ma è emigrato in America: a Cincinnati (Ohio), dove ha famiglia e dove… viaggia in automobile.

(G. Mirola)

La vera storia di Valentino: racconto dell’Emilia Romagna – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Leggende della Liguria

Leggende della Liguria per la scuola primaria. 

Leggende della Liguria
Capitan Bresca

Da quanti secoli quell’obelisco giaceva, mezzo interrato, vicino alla Basilica di San Pietro?
Era venuto dall’Egitto, perchè in quel paese, antichissimamente, gli obelischi servivano a segnare le ore con la loro lunga ombra.
Infatti gli obelischi erano altissimi e strettissimi massi di granito, terminanti a punta. Sulle facce rivelavano incise quelle strane figurine che costituivano la scrittura degli antichi Egizi.
Riusciva dunque difficile far reggere in piedi un obelisco. E infatti l’obelisco, che si trovava vicino a San Pietro, giaceva da secoli  e secoli sdraiato per terra e nessuno si era sentito la capacità e il coraggio di rimetterlo dritto.
Il granito pesa moltissimo, tanto è vero che, a poco a poco, l’obelisco era affondato nella terra, dalla quale affiorava soltanto una faccia, tutta piena di scrittura figurata.
Ma nel 1584 papa Sisto V chiamò il suo architetto, che si chiamava Domenico Fontana, e gli disse: “Avete veduto quel bellissimo obelisco, che giace vicino alla sagrestia di San Pietro? E’ nostro desiderio raddrizzarlo proprio nel mezzo della piazza”.
“Sarà fatto, Santità” rispose l’architetto.
Misurò l’obelisco. Ne calcolò il volume e quindi il peso. Studiò macchine speciali, con ruote a ingranaggio e grosse funi di canapa, e quando gli parve d’essere sicuro del fatto suo, si presentò al papa e gli disse: “Santità, io sarei pronto per la manovra, ma ho paura”.
“Che cosa vi spaventa?” chiese Sisto V.
“Mi spaventa la folla,” disse l’architetto. “La notizia si è sparsa per tutta Roma, e il giorno della manovra sulla Piazza San Pietro accorrerà una gran folla”.
“Certamente” disse il papa “Anche noi ci saremo, con tutti i Cardinali. Che noia vi daremo?”.
“Mi darà noia il clamore, che coprirà la mia voce. I miei ordini non verranno uditi. Poi ci sarà chi griderà una cosa e chi un’altra. Invece io ho bisogno del più assoluto silenzio. Gli ordini devono venire soltanto da me, durante la difficilissima manovra”.
Sisto V era un papa molto energico e severo. Tutti lo temevano, perchè sapevano come fosse rigoroso contro coloro che disobbedivano.
Fece un editto, nel quale si ordinava il più assoluto silenzio. Chi avesse alzato la voce, durante la manovra di innalzamento, sarebbe stato punito con la morte.
Il papa Sisto non scherzava. Perciò i cittadini , nel giorno fissato, affluirono in Piazza San Pietro a bocca chiusa. S’intendevano a gesti e sembravano tanti sordomuti. Il papa aveva fatto mescolare alla folla molte guardie svizzere, con l’ordine di arrestare chi gridasse anche una sola parola.
Nel silenzio, l’architetto Fontana cominciò a dare gli ordini per la manovra. Le funi si tesero, le ruote cigolarono e l’obelisco, lentissimamente, cominciò ad alzarsi da un lato.
Tutti trattenevano il fiato, anche il papa e i Cardinali, attenti alla pericolosa operazione.
Sempre nel più assoluto silenzio, si udiva la voce dell’architetto, che seguitava a dare ordini. E l’obelisco continuava ad inclinarsi sempre di più, a drizzarsi sempre meglio.
Eccolo quasi verticale. Un ultimo strattone delle funi e l’obelisco sarebbe andato a posto, perfettamente dritto.
Ma le funi tese sono giunte alla  fine del loro tratto e non si muovono più. Le ruote degli argani sembrano inchiodate. Tutta la grande macchina è ferma. L’architetto Fontana ha sbagliato i calcoli e l’obelisco rimane leggermente inclinato. Com’è possibile lasciarlo così?
Il papa guarda severamente l’architetto. L’architetto, costernato, guarda il papa. Tutto il lavoro fatto è dunque inutile?
Allora si ode una voce alzarsi dalla piazza. E’ la voce distinta, chiara, d’un uomo solo, che sembra abituato al comando e che grida: “Acqua alle funi!”.
Il papa volge lo sguardo irato verso il punto della piazza dal quale si è levata quella voce gagliarda e imperiosa. Le guardie accorrono per arrestare il ribelle agli ordini papali.
Ma l’architetto si batte la fronte e ordina di stare tutti fermi.
Fa portare secchi d’acqua, con i quali bagna davvero le funi. E le funi, con l’umidità, si accorciano, e quell’accorciamento è sufficiente per mandare a posto l’obelisco.
Intanto le guardie svizzere avevano arrestato l’autore del grido. Era un capitano marittimo di Sanremo, e si chiamava Bresca.
Condotto dinanzi al papa, tutti attendevano la sua condanna. Invece Sisto V gli disse benignamente: “Chi sei?”
“Sono il capitan Bresca”
“Di dove sei?”
“Di Sanremo”
“Perchè hai gridato?”
“Perchè noi marinai conosciamo bene le corde di canapa e sappiamo che quando sono bagnate si ritirano”
“Conoscevi l’editto che prometteva la morte a chi avesse gridato?”
“Sì, ma noi marinai liguri siamo abituati a sfidare la morte pur di fare un’opera buona!”.
La risposta piacque al papa, il quale, non solo perdonò il bravo marinaio ligure, ma lo volle premiare.
“Che cosa desideri?”
“Santità, prima di tutto la vostra benedizione”.
Dopo averlo benedetto, Sisto V chiese al capitano Bresca: “Vuoi altro?”
“Santità, l’onore per me e per i miei discendenti di fornire le palme al Palazzo Apostolico. Sulla riviera ligure crescono le più belle palme d’Italia.”
Il papa si stupì. Quel bravo capitano di mare non chiedeva, ma voleva dare.
E allora Sisto V volle essere generoso con lui. Lo nominò Capitano dell’Armata pontificia. Gli diede il privilegio di issare sulla sua nave la bandiera papale.
Così il capitano Bresca ebbe più onori dell’architetto Fontana e riportò, per sè e per la sua famiglia, un titolo di benemerenza e d’onore.
(P. Bargellini)

Leggende della Liguria
Le galline dell’isola Gallinara

L’isola Gallinara, questo già lo sai, sorge nel mare di Albenga, poco ad ovest della città. Quello che forse non sai è il perchè, ancora oggi, la solitaria isoletta porta questo singolare nome.
“Perchè era abitata dalle galline!” mi pare di sentirti esclamare.
Bravo, proprio cosi! Essa era abitata da galline, da galline selvatiche. Ascolta ora quel che avvenne…
Si sa che le galline sono alquanto pettegole. A volte il loro chiacchiericcio era talmente alto e petulante da essere udito perfino dalla costa per giornate e giornate intere.
Ti figuri gli abitanti? Ad un certo punto ebbero i loro nervi così fuori posto da non poterne più e cominciarono a imprecare contro quelle bestiacce e chi le aveva create.
Proprio così. Tu dirai che non è giusto. Sono d’accordo con te, ma questa, purtroppo, è la verità.
Ma quelle bestemmie non rimasero sulla costa ligure e tanto meno sulla terra. Arrivarono nientemeno che all’orecchio del buon Dio, il quale maledì l’isola e fece sì che da allora, nessuna gallina mai più ci vivesse.
Passarono gli anni…
Un giorno giunse ad Albenga l’abate francese Martino; scorse l’isola e la volle visitare. Innamoratosi della grande solitudine e della profonda pace che vi regnavano, la scelse per sua dimora e vi si stabilì.
Martino era un santo e le preghiere che egli quotidianamente innalzava a Dio arrivavano diritte al Creatore, nel Regno dei Cieli. Spesso, dunque, Martino, nelle sue orazioni invocava il buon Dio, affinché permettesse nuovamente alle galline di ritornare a vivere nell’isola.
Inutilmente, però, in quanto Dio non si lasciò commuovere nemmeno dalle parole del santo. E da allora le galline non vi fecero più ritorno. Di esse rimase soltanto il ricordo… nel nome dell’isola.
Il buon abate, ad ogni modo, se non riuscì a far tornare le galline, potè invece operare un altro miracolo.
Devi sapere che, anche in Liguria, esiste una certa pianta chiamata elleboro. Essa possiede una certa sostanza velenosa. Ebbene, San Martino riuscì a togliere ogni traccia di veleno all’elleboro che cresceva sulla Gallinara.
Difatti sull’isola oggi cresce soltanto una varietà di quella pianta, non velenosa.

Leggende della Liguria
La trave del tesoro

Un giorno d’ottobre dell’anno 1202 giunse a Portovenere, portato dalle onde, un grosso tronco. Era un normale tronco d’albero, anche se di grandezza non comune. I Portovenerini, vedendolo così lungo e grosso, si dissero: “Di questo tronco ce ne faremo una bella riserva di legna da ardere per quest’inverno”.
Detto fatto, ritornarono con asce e picconi, e giù colpi da orbo che avrebbero spaccato una montagna.
Non fu così per il tronco; infatti per quanto gli dessero non riuscirono neppure a scalfirlo.
Un fatto simile non era mai successo nella storia di Portovenere e dintorni; per cui l’impressione fu assai grande. Qualcuno disse: “Dev’essere certamente una cosa sacra! Per conto mio questo è un miracolo”.
E la voce del miracolo corse veloce per tutto il paese. La curiosità, però non diminuì, nei Portovenerini, anzi aumentò. Decisero allora di spaccare quel singolare tronco con ogni delicatezza.
Così, infatti, cominciarono a fare.
Ed ecco che ai primi colpi (erano quasi carezze) la misteriosa trave si aprì dolcemente, come uno scrigno, mostrando agli stupefatti abitanti immagini, quadri, arredi sacri e quattro cofanetti d’avorio tutti istoriati a penna, in rosso e nero.
Da dove mai veniva quel tronco? E chi aveva mandato la trave misteriosa?
Nessuno ha mai saputo rispondere a queste domande: ma i quattro cofanetti (unici in Italia di così prezioso e delicato lavoro in avorio) sono ancora nella chiesa di San Lorenzo, a Portovenere.

Leggende della Liguria per la scuola primaria – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Il cavaliere e la mosca – racconto sul Medioevo

Il cavaliere e la mosca – racconto sul Medioevo. Un uomo dei nostri giorni si trova trasportato al tempo dei cavalieri erranti, ed è costretto a fare un lungo viaggio con l’armatura addosso. Ed ecco quanto gli capita…

Cominciava a far caldo, senza alcun dubbio, e stavo facendo una lunghissima tirata, senza ombra affatto. Cose di sui sulle prime non mi importava niente, cominciarono ad importarmi sempre più, via via che il tempo passava. Le prime dieci o quindici volte che avrei voluto il fazzoletto, avevo tirato avanti e avevo detto: “Pazienza, non fa nulla”, e non ci avevo pensato più. Ma ora era diverso; era un assillo continuo e non me lo potevo levar dalla mente; e così alla fine, perdetti la pazienza e dissi: “Accidenti a chi ha fatto quest’armatura senza tasche!”. Capirete, aveva il fazzoletto in fondo all’elmo, insieme ad altre cosette; ma era uno di quegli elmi che uno non si può levare da solo. E così, ora, il pensiero che fosse lì, tanto vicino e ciononostante irraggiungibile, rendeva la cosa anche più difficile da sopportare. Quel pensiero distoglieva la mia mente da qualsiasi altra cosa e la concentrava sull’elmo a immaginare il fazzoletto, a dipingersi il fazzoletto; era quanto mai irritante sentirsi gocciolare il sudore dentro gli occhi e non essere in grado di raggiungere il fazzoletto.

Decisi che la prossima volta mi sarei portato dietro una borsetta, qualunque fosse l’effetto e checché dicesse la gente: il benessere prima e lo stile poi.

E così, seguitavo ad arrancare e di tanto in tanto arrivavo a una distesa polverosa e la polvere si alzava in nugoli e mi entrava nel naso e mi faceva starnutire e piangere; e, naturalmente, dicevo cose che non avrei dovuto dire; non lo nego. Non sono migliore degli altri. Pareva che non si dovesse incontrare nessuno, in quella solitaria landa, neppure un orco; e dato il mio umore in quel momento, ciò era un bene per l’orco; vale a dire, per l’orco che avesse avuto un fazzoletto. La maggior parte dei cavalieri non avrebbe pensato che a prendergli l’armatura; per conto mio, mi sarebbe bastato arrivare al suo moccichino e poi si sarebbe potuto tenere tutto il suo armamentario.

Intanto, lì dentro faceva sempre più caldo. Capirete, il sole dardeggiava e riscaldava il ferro; più andavo avanti e più il peso del ferro mi gravava addosso: ogni minuto che passava mi pareva di pesare una tonnellata di più. E bisognava cambiar mano ogni momento e passare la lancia da una parte all’altra; non potevo reggerla a lungo con una mano sola.

Insomma, sapete che quando si suda a quel modo, a torrenti, viene il momento in cui… beh, in cui tutto ti dà prurito. Tu sei dentro, le tue mani sono fuori, e in mezzo c’è il ferro.

Non è una cosa da nulla, checché paia. Prima in un punto, poi in un altro, il prurito continua a diffondersi e a dilagare e alla fine tutto il territorio è occupato e potete immaginare come ci si sente. E quando fui arrivato al punto di non poterne più, una mosca entrò di fra le sbarre e mi si posò sul naso: la visiera si era inceppata e io non potevo alzarla; potevo soltanto scuotere la testa che nel frattempo si era arroventata, e la mosca (beh, sapete come agisce la mosca quando è sicura del fatto suo) si curava dei miei scuotimenti giusto quel tanto che bastava per cambiare posto dal naso al labbro e da labbro all’orecchio, ronzando e ronzando tutto in giro e continuando a posarsi e a pungere in un modo che una persona già tribolata come lo ero io non poteva assolutamente sopportare. Non mi restava che buttarmi a capofitto nel primo stagno che avrei incontrato: e così feci. Che refrigerio, ragazzi!

(da “Un americano alla Corte di Re Artù”, di Mark Twain)

Il cavaliere e la mosca – racconto sul Medioevo – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Il cavaliere e la mosca – racconto sul Medioevo

Dettati ortografici e letture sul VENETO

Dettati ortografici e letture sul VENETO
Veneto: cartina fisica
Confini: Mar Adriatico, Friuli Venezia Giulia, Austria, Trentino Alto Adige, Lombardia, Emilia Romagna
Lagune: Laguna Veneta, Laguna di Caorle
Monti: Alpi Orientali (Dolomitiche e Carniche); cime più alte: Civetta, Marmolada, Le Tofane, Cristallo, Cime di Lavaredo, Sorapis, Antelao. Prealpi Venete (Monti Lessini, Altopiano di Asiago, Prealpi Bellunesi); cime più alte: Monte Baldo, Cima Carega, Monte Grappa
Valli: Alta Valle del Piace, d’Auronzo, del Cordevole
Valichi: Pordoi, Falzarego, Monte Croce di Comelico, Mauria
Colline: Montello, Monti Berici, Colli Euganei
Pianure: Veneta, Polesine
Fiumi: Po col suo affluente Mincio, Tartaro, Adige, Brenta col suo affluente Bacchiglione, Sile, Piave con i suoi affluenti Boite e Cordevole, Livenza, Tagliamento
Canali: Adigetto, Bianco
Laghi: di Garda, di Santa Croce, di Misurina, di Alleghe
Isole: di Murano, di Burano

Dettati ortografici e letture sul VENETO
Osserviamo la cartina

Il Veneto è così chiamato dagli antichi popoli che lo abitarono: gli Euganei prima, i Veneti poi. E’ protetta al nord dalle Dolomiti e dalle Prealpi Venete che degradano dolcemente, con valli pittoresche, fino alla pianura; questa si affaccia sull’Adriatico con una zona litoranea a costa bassa, sparsa di lagune.
Solcata dai fiumi Adige, Brenta e Piave, la regione è ricca di acque; la terra è fertilissima. Appartiene al Veneto anche la riva sinistra del Lago di Garda.
Per la particolare feracità del suolo, il Veneto ha nell’agricoltura una grande fonte di ricchezza. Sui monti, i boschi danno ottimo e abbondante legname, e gli estesi pascoli permettono l’allevamento di bovini ed ovini.
Sulle colline si coltivano gli alberi da frutto e la vite, che produce i noti vini di Valpolicella, di Bardolino e di Soave.
Nella pianura si coltivano frumento, granoturco, barbabietole da zucchero e tabacco.
In provincia di Verona è curato l’allevamento dei cavalli.
Notevole è la pesca delle anguille nelle lagune; esercitata con profitto è anche la piscicoltura.

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Sguardo d’insieme

Il Veneto era anche chiamato Venezia Euganea, nome derivato dai Colli Euganei che sorgono nel mezzo della pianura, presso Padova, e che anticamente erano vulcani.
Vulcani in questa pianura solcata in ogni senso da fiumi, da canali e da navigli più che qualunque altra parte d’Italia? Se era fondo di mare e col mare lotta ancora!
Sì, vulcani! E dovevano offrire un interessante spettacolo quelle isolette, ora colline, quando fiammeggiavano e rumoreggiavano sull’acqua.
Ora sui Colli Euganei ridono le vigne. Tutto intorno mareggiano non più i flutti salati, ma le messi biondeggianti del grano, del granoturco, o col variare delle stagioni, verdeggiano le praterie i gelseti e le canapine; oppure spiccano bruni i campi arati per la semina dell’orzo, dell’avena, della segale, del tabacco.
E quegli specchi d’acqua che brillano?
Sono le risaie.
E quelle chiazze rosee, là in quei boschi di alberi bassi e regolari, specialmente intorno a Verona?
Sembrano boschi di lillipuziani, e sono pescheti…
Verona è anche un centro agricolo di notevole importanza e ogni anno vi si tiene una fiera di cavalli che attira visitatori da tutta Italia e da fuori.
Le montagne del Cadore sono rivestite di oscure selve di abeti.
Sulla Laguna e sul mare aperto si slanciano i bragozzi a vele spiegate. Pescano migliaia di quintali di pesce l’anno, e hanno marinai che per settimane intere sanno resistere ai venti ed ai marosi fra le scogliere dell’Istria e della Dalmazia.
Centro della vita veneziana è Piazza San Marco, vasta sala marmorea, che ha per tetto il cielo, palpitante delle ali dei suoi innumerevoli colombi.

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L’alta pianura veneta
L’alta pianura veneta comincia già verso i 50 metri sul mare e sale dolcemente incontro ai colli subalpini. In certi tratti si restringe molto o quasi scompare (come al piede dei Lessini). Vi scorrono alcuni fiumi e torrenti che vengono dalla montagna. Da questi corsi d’acqua è stato diramato qualche canale e così il paesaggio della campagna ci offre anche prati da foraggio irrigati.
Lo sguardo si posa dovunque su una campagna tutta coltivata e ripartita in modo assai regolare da allineamenti di gelsi e talora d’alberi da frutto, e più ancora da alberi cui maritano le viti, e da filari meno vistosi di viti appoggiate a sostegni morti. Alternano nei campi le diverse gradazioni di verde del grano e del granoturco, dei fagioli e delle leguminose foraggere, e anche spiccano qua e là, nei campi della parte veronese e vicentina, le ampie foglie del tabacco.

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La bassa pianura veneta

Dalle vicinanze dell’Adige fin oltre il Piave, la bassa pianura veneta offre dovunque la vista di campagne ridenti e fittamente abitate. Alternano nei campi il frumento, il granoturco, la barbabietola, i fieni. Le alberature a filari dividono a riquadri il terreno, e la vite diffusissima appoggia i suoi festoni a olmi, aceri, pioppi, salici.
La presenza e la proporzione delle diverse colture variano anche secondo la fertilità del suolo, mentre le richieste del mercato hanno incoraggiato qua e là le colture orticole e più ancora l’impianto di frutteti, i quali offrono uno spettacolo magnifico specie all’epoca della fioritura.
Le abitazioni rurali sparse sono molto numerose: case in genere modeste, spesso tinteggiate di colori rosati. Spiccano qua e là alcune boarie, complessi di edifici staccati e disposti a corte più o meno aperta, con vistosità della stalla e dei grandi fienili, in quanto corrispondono a vaste aziende cerealicolo-zootecniche. Oppure fan bella mostra di sé vile signorili, spesso di singolare grazia.

Dettati ortografici e letture sul VENETO
I colli Euganei

Il nome ufficiale della regione è ‘Veneto’, ma un tempo non molto lontano essa era chiamata col nome di Venezia Euganea derivato dai colli Euganei che sorgono nel mezzo della pianura, presso Padova, e che anticamente erano vulcani.
“Vulcani i colli Euganei!” direte voi, “I vulcani in questa pianura solcata in ogni senso da fiumi, da navigli e da canali più che qualunque parte d’Italia? Ma se conserva ancora, si può dire, le tracce di quando era fondo di mare, e col mare lotta ancora e quasi si confonde nelle estreme lagune!”.
Sì, i vulcani! E dovevano offrire uno spettacolo interessante quelle isolette, ora colline, quando fiammeggiavano e rumoreggiavano sull’acqua.
Ora sui colli Euganei ci sono le vigne. Tutto intorno ondeggiano non più le acque salate, ma le messi del grano e del granoturco o, col variare delle stagioni, verdeggiano le praterie, oppure spiccano bruni i campi arati per la semina dell’orzo, dell’avena, della segale, del tabacco.

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Paesaggio lagunare

Attraverso i secoli la vita delle lagune ha trovato le sue basi nell’attività peschereccia, marinara e mercantile.
La pesca offre tuttora aspetti caratteristici mentre non manca l’attività agricola sugli antichi cordoni sabbiosi dei delta, sui lidi, in alcune isole: molto concentrata, ma anche molto caratteristica, perchè intensiva e fondata essenzialmente sula vite e sugli ortaggi.
Ne sorgono così piccoli lembi di uno speciale paesaggio orticolo rappresentato in modo tipico e più estesamente intorno a Chioggia e a sud fino all’Adige, su vecchie dune spianate dall’uomo e diventate fertili con l’assiduo lavoro e le abbondanti concimazioni. Aiuole strette e lunghe, dense di ortaggi e di patate primaticce, e anche di viti, si susseguono l’una all’altra.
Una nota speciale vi portano i cannicci che in certe stagioni si stendono su sostegni inclinati, a protezione dal vento marino e dal freddo.

Dettati ortografici e letture sul VENETO
Adige, re dei fiumi

Adige, re dei fiumi“: così Adriano Valerini, autore veronese del ‘500, innamorato della sua città e della sua terra, chiama il grande fiume, precisando però, che qui ci sono altre… somme autorità: “Benaco, imperador de i laghi, il Carpione, monarca de i pesci“.
Certo, il grande fiume dalle sorgenti tanto lontane, dal percorso mutevole e dalle impennate tanto furiose, ha accentrato su di sé, di volta in volta, l’attenzione, le cure, le apprensioni, la paura della terra e degli uomini di cui, in fondo, è quasi sempre il benefattore, a volte il tiranno.
Lo si vede giungere già formidabile alle Chiuse, dopo essersi impossessato di tante acque altoatesine e trentine, e arricchirsi di tutti i corsi d’acqua che scendono dai Lessini e che non hanno né tempo né spazio sufficienti per divenire fiumi. Per contenere le improvvise piene primaverili sono stati costruiti, ampliati, rinnovati, argini degni del ricordo di Dante, ma nemmeno questi, a volte, nel corso delle cento e cento inondazioni, hanno resistito. Anche Verona sa cosa significhi una piena rapida e violenta, allorché le acque, che sanno ancora di neve e di ghiaccio, urgono contro i Lungadige e dilagano verso la campagna tumultuando entro gli argini pensili e i grandi canali di deflusso.
Il fiume attraversa la città di Verona con andamento sinuoso, carezzevole, ricorda un poco il Canalazzo veneziano, quindi dopo un angolo retto sembra voler accettare la sorte di tanti altri fiumi e piega verso il Po; ma dopo Legnago, l’Adige ci ripensa, si riprende, punta energicamente verso oriente e raggiunge con una foce sue il mare.

Dettati ortografici e letture sul VENETO
L’Adige non fa più paura

Da Verona in poi l’Adige è pensile e scorre fra potenti argini. Prima che gli argini venissero costruiti rappresentava un grosso pericolo per le fertili campagne che lo fiancheggiavano perchè, nei periodi di piena, gli argini denunciano infiltrazioni d’acqua che ne minacciavano seriamente la consistenza. Oggi, invece, nessuno più lo teme, perchè finalmente è stato portato a termine il canale Adige-Garda che consente di convogliare al lago le acque di esubero prima che il fiume trabocchi in pianura. Lo chiamiamo canale, ma in realtà è una galleria lunga 10 chilometri, alta 9 metri e larga 8, tutta scavata nella roccia, che parte nei pressi di Mori, a nord di Verona, e raggiunge Torbole, sulla riva orientale del Garda, dopo aver attraversato il Monte Faè.
Il vecchio Adige è diventato il più tranquillo dei fiumi e delle sue piene si sta perdendo anche il ricordo.

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Il monte Grappa

Spostiamoci ora rapidamente nel settore nord-orientale della provincia e, oltrepassata Bassano col suo celebre Ponte degli Alpini, imbocchiamo la strada che si inerpica sui brulli costoni del monte Grappa, caro alla memoria e immortalato da una canzone popolare. Per i pendii del Col d’Averto e del Col Campeggia si giunge al Campo di Solagna, la cui terrazza è strapiombante sulla profonda valle del Brenta.
Più su, a Ponte san Lorenzo, oltrepassiamo il punto della massima avanzata austriaca del 15 giugno 1918 e pieghiamo sul fianco meridionale del monte Asolone (m 1520) per risalire, tra un paesaggio carsico di impressionante squallore, fin verso i 1700 metri, dove comincia la ‘zona sacra’.
La vetta del Grappa è a 1776 metri, ma non si offre più, alla sommità, la vista delle rocce martoriate e sbriciolate dai cannoni. Oggi il vertice del monte è segnato da un’immensa gradinata che rappresenta il cimitero-ossario, sovrastato dalla Madonnina benedicente. L’occhio qui spazia sui luoghi che videro la morte di tanti combattenti e non soltanto della guerra del 1915-18. Anche durante la guerra partigiana, dal 1943 al 1945, il Grappa fu teatro di intensi rastrellamenti e di feroci rappresaglie da parte dei Nazisti e, a Bassano, il viale dei Martiri ricorda il sacrificio dei Partigiani catturati sul Grappa mentre combattevano per la libertà.

Un’alluvione del Po
Il Polesine è una terra tristemente famosa per le alluvioni del Po. Quando il fiume entra in piena per il disgelo delle nevi o per le continue piogge, le popolazioni che vivono lungo il suo corso, specie quelle prossime al delta, sono di continuo in stato di allarme. Attaccate alla loro casa, alla stalla, alla terra, guardano tra la paura e la speranza il fiume che ingrossa livido. Squadre di vigilanza vanno e vengono lungo gli argini, se ne rinforzano i tratti che sembrano più minacciati e che presentano infiltrazioni d’acqua, si approntano i mezzi di soccorso. Ma non si può prevedere né dove né quando la furia delle acque si scatenerà. L’alluvione irrompe improvvisa, in direzioni imprevedibili, dilagando nella pianura, abbattendo e distruggendo ogni cosa, tagliando la via della fuga.
E’ quanto avvenne il mezzogiorno del 15 novembre 1951, quando il Polesine fu sconvolto da una delle più tragiche alluvioni che si ricordino. Il Po ruppe gli argini nell’ansa di Pontelagoscuro, nei pressi di Ferrara, e per tre falle invase l’Alto Polesine giungendo in due giorni alle soglie di Rovigo, dirigendosi improvvisamente verso Adria, investendo Cavarzere, compiendo in cinque giorni un’avanzata di circa 60 chilometri! Le statistiche del disastro riportarono cifre impressionanti. Ma anche al dinamica dell’alluvione fu studiata in tutti i particolari. Se ne ricavarono dati che consentirono di imbrigliare le acque del fiume con opere di protezione che garantiscono un maggior margine di sicurezza.

Dettati ortografici e letture sul VENETO
L’agricoltura

In Veneto l’agricoltura riveste una grande importanza. La pianura non è così fertile come quella lombarda, emiliana, piemontese. Molto elevata è la produzione di grano e di granoturco.
Nelle zone collinari e in alcuni tratti della pianura è importante la coltura della vite, da cui si ricavano vini famosi (Bardolino, Soave, Valpolicella, Prosecco).
Appena inferiore a quello lombardo è l’allevamento dei bovini; superiore è l’allevamento del pollame e la produzione delle uova.

Dettati ortografici e letture sul VENETO
Il vino di Verona

La vite si coltiva in Italia da tempi antichissimi. Il disordine che portò la fine dell’Impero romano, aveva tra l’altro danneggiato grandemente anche la coltivazione di questa pianta.
Venne ripresa per impulso del Cristianesimo.
Religiosi di ogni ordine si fecero viticoltori, per la necessità di produrre il vino occorrente per la Messa.
Molti vigneti anche famosi non solo in Italia, ma anche in Francia e in Germania, furono opera di monaci Benedettini e Cistercensi.
Anche ai Barbari, che un tempo invasero la nostra terra, piaceva molto il vino. Esiste un documento storico che lo prova. Si tratta di una lettera di Cassiodoro, ministro di Teodorico, scritta all’ambasciatore a Venezia. Scrive Cassiodoro che la cantina del suo re ha bisogno di essere rifornita di vino. Ordina all’ambasciatore di acquistarne di quello prodotto nel Veronese che è il solo degno della mensa reale.
Questo documento è anche una testimonianza dell’antica fama che gode anche adesso il vino prodotto in provincia di Verona e precisamente il Valpolicella.

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Tokai e Tocai

La vite è la pianta più lieta di quella lieta regione che è il Veneto. Ed è anche intraprendente e tenace; una vera pianta veneta, insomma che si arrampica sulle montagne e sulle colline, si stende tra le coltivazioni di tutta la pianura, e dilaga nella nostra provincia, fino al mare, fino alle dune e agli arbusti scapigliati di Jesolo, di Eraclea, fino agli orti sistemati tra i cordoni dunali di Chioggia e di Sottomarina. Dove un pezzo di terra, anche piccolo così, viene bonificato, lì un vitigno arriva e attecchisce, e poi ne escono certi vini… Ogni zona, si può dire, ha un suo vino i suoi maestri del vino, perchè ancor oggi, un bicchiere di Tocai bello, buono, schietto, ancor oggi è una laboriosa opera d’arte.
“Tokai o Tocai?”, domandiamo al signor Piero, un maestro della vite, che dai suoi vigneti di Lison, un paesino piccolo così, vicino a Portogruaro, produce un Tocai malandrino, dall’apparenza innocua, dall’invitante color paglierino (solo Lison lo produce di questo colore) che ti rivela di colpo, alle orecchie e alle ginocchia, quando ormai è troppo tardi, la gradazione… pericolosa a cui può giungere!
“Tocai! Tocai!” garantisce il sior Piero, “Vino tutto nostro, che nulla ha a che vedere col vino ungherese. Forse, chissà quando, lo abbiamo mandato noi Veneti lassù!. Mentre il Tokai ungherese è dato da una combinazione di uve diverse, il nostro deriva da un vitigno solo, ma selezionatissimo: ci vuole il nostro sole, la nostra terra argillosa, che sembra povera, ci vuole la nostra cura per tutto l’anno, dalla preparazione del terreno al dosaggio dei pampini perchè il sole non sia troppo violento, e anche le nostre paure quando c’è in giro minacciosa e maligna… la ‘mare de san Piero’ in estate, che a volte, con una grandinata radente, ti lascia lì, a scherno, solo i mozziconi dei vitigni, affioranti dal suolo tra mucchi di foglie e di grappoli maciullati. E allora è una desolazione. Ma speriamo bene, stavolta, per me e per tutti perchè è così bello il raccolto!”.
E sior Piero si allontana tra le pergole perfette dalle quali pende l’ambra preziosa dei grappoli che presto diverranno raccolto.

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Le province

Capoluogo del Veneto è Venezia, una delle più belle e singolari città del mondo. E’ costruita al centro della Laguna du 118 isolette congiunte da più di 400 ponti. Dei suoi 160 canali, il più famoso è il Canal Grande, arteria principale della città, in cui si specchiano stupendi palazzi marmorei. Meta di turisti di ogni Paese, ha monumenti di incomparabile splendore: la Basilica di San Marco con la sua fantastica piazza, il Palazzo Ducale, il Ponte dei Sospiri, la Ca’ d’Oro, la Torre dell’Orologio, il Ponte di Rialto. La città è sede di importanti manifestazioni artistiche. Nei suoi limiti amministrativi rientrano Porto Marghera, centro di numerose industrie, e Mestre, importantissimo nodo di comunicazioni, cui è collegata da un ponte stradale e uno ferroviario. Notissimi sono i suoi sobborghi lagunari di Murano, di Burano, di Torcello e del Lido.
Rovigo è il capoluogo del Polesine, una regione compresa tra il Po e l’Adige, fertile ma purtroppo soggetta a inondazioni.
Verona sorge sull’Adige. E’ un importante nodo stradale e ferroviario, un grande mercato agricolo e la sede di notevoli industrie. Monumenti pregevoli sono: l’Arena, il Duomo, la Basilica di San Zeno, il Castel Vecchio con il magnifico Ponte sull’Adige, le Tombe degli Scaligeri.
Vicenza è detta la ‘città del Palladio’ in onore del celebre architetto Andrea Palladio che vi lasciò splendidi capolavori, tra cui il Teatro Olimpico, la Basilica, il Santuario di Monte Berico, la Rotonda.
Padova sorge nel cuore della pianura. E’ una città attiva, sede di notevoli industrie. E’ famosa per la sua antica Università e per i suo i pregevolissimi monumenti, quali la Basilica si Sant’Antonio, la statua equestre di Gattamelata, la Cappella degli Scrovegni, il Palazzo della Ragione.
Treviso è importante centro agricolo e commerciale. Tra i suoi monumenti sono degni di nota: il Duomo, il Palazzo dei Trecento, le chiese di San Francesco e di San Nicolò.
Belluno è una graziosa città che conserva bei monumenti: il Duomo, il Palazzo dei Rettori, la Chiesa di Santo Stefano.

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A zonzo per canali e lagune

Ritrovandomi a passare per Chioggia, un po’ per amor del pittoresco e un po’ perchè quelli son posti dove nessuno va di solito, ho voluto recarmi a Pellestrina e a San Piero in Volta, due località di pochi abitanti situate lungo la diga meridionale del sistema lagunare veneziano, quasi sospese tra acqua e cielo, a circa venti chilometri da Venezia e a una decina da Chioggia. Pellestrina si presenta bene a chi vi arriva in vaporetto. Una fila di casucce strette e rossastre, scrostate dalla salsedine, separate tra loro da calli e da piazzette, si specchia malinconicamente nell’acqua del canale come un vecchio sogno perduto.
Davanti passano continuamente, durante la giornata, oltre che i vaporetti che fan la spola da Venezia a Chioggia, i numerosi bragozzi e velieri che vi trasportano merci d’ogni genere dal fertile Polesine; e sono spesso lungi convogli e motovelieri di forte stazzatura. Il borgo si direbbe che abbia concentrato ogni sua risorsa nella coltivazione di alcuni orti situati tra il paese e la poderosa diga che lo difende dal mare. Questa diga che, qua e là interrotta, corre da Sottomarina fino al golfo di Malamocco e difende la laguna dagli assalti del mare aperto, dandole sicurezza e facilità di trasporti, è detta popolarmente ‘I Murazzi’, ed è una celebre opera costruttiva che non sarà mai abbastanza lodata e ammirata. Fu l’ultima grande creazione della Repubblica Veneta. E’ una grossa muraglia di massi d’Istria cementati con pozzolana; costo venti milioni di lire venete ed è lunga quattromila e ventisette metri.
Stando a Chioggia, nulla è più divertente che osservare la vita tacita e irrequieta che si agita sulla laguna. La quale è di continuo solcata da trasporti; vapori e pescherecci d’ogni genere, che con lo splendore delle grandi vele rossastre e istoriate sembrano tuttavia volerle serbare l’antica patetica bellezza.
(C. Linati)

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Il Po e Padova

Quando il Po, l’antico Padus, attraversava la pianura con corso molto variabile, gran parte del territorio che oggi costituisce la provincia di Padova, era occupato da acquitrini e paludi. Passarono i secoli e le acque si scavarono un letto definitivo, lasciando allo scoperto, nel loro ritirarsi, vasti lembi di terra. Appunto su uno di questi sorse Padova, che dal fiume prese il nome di Padua, latinizzato poi in Patavium. Questa, secondo l’opinione di alcuni storici accreditati, l’origine del nome Padova, che altri vorrebbero far derivare da una corruzione di ‘palus’, cioè palude.
Certo la zona doveva essere il regno delle acque, ora limpide e tranquille, ora fangose e turbolente, ora perfidamente malariche. Oggi di esse non resta che il Bacchiglione, il fiume che attraversa la città.

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Le stagioni di Verona

Due volte l’anno Verona, scuotendosi di dosso la sua bonaria e secolare indolenza, sembra quasi miracolosamente trovare il ritmo febbrile di una grande città.
La prima stagione veronese si apre con la Fiera Internazionale.
Col maturare dell’estate e del caldo, ecco la seconda grande stagione di Verona: l’Arena e gli Spettacoli Lirici. E’ questo il tempo in cui diventano familiari i nomi dei grandi musicisti (Verdi, Rossini, Puccini, Wagner), i titoli degli immortali melodrammi (Aida, Turandot, Bohème, Lohengrin), le voci e i volti dei celebri cantanti. E’ anche il tempo in cui ogni buon veronese rispolvera il suo riposto bagaglio di motivi, di ariette e di romanze o sciorina insospettate doti di critico musicale. Tra luglio e agosto, quasi ogni sera, l’Arena di Verona raduna sulle secolari gradinate migliaia di spettatori italiani e stranieri, fraternamente congiungendoli nell’incanto delle melodie e nell’amore per la musica.
Da qualche anno poi, accanto agli spettacoli lirici, Verona offre anche un ciclo di rappresentazioni teatrali. Teatro shakespeariano, naturalmente, perchè Shakespeare, grazie all’immortale favola di Giulietta e Romeo, di Verona è un po’ figlio adottivo. Alla bellezza dei suoi drammi niente sembra tanto convenire quanto la suggestiva cornice del Teatro Romano o di Piazza dei  Signori o di Castel Vecchio.
Così nel nome del lavoro e dell’arte, Verona vive con impegno e con entusiasmo i suoi giorni più belli e più internazionali: è dunque giusto che essa torni finalmente a sdraiarsi, con la grazia di una vecchia signora, lungo le anse armoniose del suo verde Adige.
(R. Bresciani)

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I libri ammalati guariscono a Praglia

A Praglia, nella monumentale abbazia benedettina, in una gran sala del Cinquecento, dotata ora di moderne scaffalature, e nel vecchio archivio al piano superiore, sono custoditi cinquantamila volumi, in varie lingue.
La millenaria tradizione benedettina d’amore per il libro è stata riconfermata, qui, con un’importante iniziativa, rapidamente conosciuta ed apprezzata negli ambienti internazionali qualificati. In un’ala del monastero è stato costruito un moderno istituto con laboratorio scientifico per il restauro del libro.
Quando arriva un malato, spiega un esperto monaco, la degenza è piuttosto lunga, in quanto il ricoverato, dopo la compilazione della cartella clinica, deve passare quasi sempre nei diversi reparti. Accertate le condizioni del libro, la sezione chimica procede alla diagnosi delle cause, che deve essere esatta per stabilire la cura appropriata.
Spesso, nei libri, e in particolare nelle pergamene, si osservano manifestazioni patologiche di natura microbica, e cioè prodotte da microorganismi che danneggiano, oltre alla scrittura, la consistenza stessa della materia. Si ricorre allora a reagenti chimici, a disinfezione in vasche speciali, in bagni di soluzioni a base di cloro o di altre sostanze adatte.
Si procede poi al restauro definitivo (lavaggio, rinforzo delle fibre con bagni rigeneratori, stiratura) e alla rilegatura. Un lavoro meticoloso, di lunga durata, che tende soprattutto alla bonifica della materia con assoluto rispetto dell’integrità dei vari elementi che compongono i libri.
Oltre un migliaio di opere, codici, incunaboli, libri rari, stampe, antiche carte geografiche e mappamondi, sono state perfettamente restaurate finora nell’istituto, che lavora attivamente per molte biblioteche pubbliche e di stato.
(U. Maraldi)

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I Veneti: sorrisi e parole

Vivono in un paese di pianura verde e rosa, e sono il più sorridente fra tutti i popoli italiani. Parlano sorridendo e mescolando il riso alle parole. Traggono un immenso piacere dal pianto, ma anche le loro lacrime sono mescolate al sorriso.  Parlano molto e senza sforzo, senza fatica. E io non penso che parlino molto perchè sono ciarlieri, ma perchè han la bocca grande e piena di parole e non san che farsene di tante parole e le spendono.
Parlano, uomini e donne, guardandoti in viso e sorridendo: e ti guardano negli occhi, con una curiosità singolare, come se si guardassero nello specchio, e intanto si toccano il viso come per essere sicuri che il viso che vedono sei tuoi occhi è il loro, non quello di un altro. Son buoni i veneti e se hanno qualcosa in loro della naturale malvagità umana, lo sfogano non in cose e fatti e detti e parole malvagie, ma in ‘ciacole’, in chiacchiere, in pettegolezzi.  E’ il paese della gentilezza, il paese sorridente, il solo paese in Italia che sa sorridere fra le lacrime.
(Curzio Malaparte)

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Mercato a Chioggia

Le banchine son ben provviste e offrono uno spettacolo di animazione vivissima. I venditori schierati lungo il vasto terrazzo urlano allegri la loro merce, tra i viavai della gente.
Cumuli di sfoglie, che hanno il bel lucido della porcellana, si alternano alle sarde dal colore metallico o alle anguille ancora guizzanti che hanno il motoso e il verdastro dei bassifondi, ai mucchi stillanti dei garusi, delle cannocchie, delle capesante dal cuore arancione, alle seppie gelatinose, ai moli, ai peoci, alle verdognole carpe squartate a mezzo.
In certi punti, tutto quel ben di dio, sembra il quadro di un pittore fiammingo. E su tutto vola l’odore acre del mare, e la festa dei gridi di richiamo.
La gente si ferma, guarda, sceglie, compra, passa via.
(C. Linati)

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Pesca in laguna

Scrisse un viaggiatore tedesco: ai giorni di festa, Chioggia sembra recinta da una legione di baionette giganti. Sono alberi, antenne, pennoni di navi, pali da sostenere le reti, pertiche da reggere nasse, cestoni, cordami; e nelle acque che circondano la città, nei canali, c’è una fitta di barche d’ogni grandezza e d’ogni foggia, arnesi galleggianti e tutto ciò che serve ad andare sull’acqua con la forza del vento e del braccio: grandi vele latine dipinte di immagini simboliche, stampate di lettere maiuscole, listate ed inquadrate con stemmi; remi enormi che due uomini muovono a fatica, e remi leggeri che le due braccia del battelliere sollevano agevolmente; ancore buone da mordere nella sabbia e nello scoglio. E insieme tutte le varietà di ordigni per la pesca, dalla vasta rete che imprigiona il pesce inconsapevole, e che, stringendosi, lo serra, lo preme, gli toglie il moto e il respiro, sino all’umile lenza che il pescatore paziente affonda nelle ore calme e ritrae carica d’un pesciolino che guizza, che si divincola e non vuol morire, sino agli arpioni per trascinare i pescecani e  i tonni, ai sacchi per le ostriche, ai canestri per la minutaglia, per il ‘pesce popolo’, che, infarinato a dovere, crepita e s’indora nelle classiche padelle dei friggitori.
(P. Gribaudi)

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La veneta piazzetta

La veneta piazzetta
antica e mesta, accoglie
odor di mare. E voli
di colombi. Ma resta
nella memoria il volo
del giovane ciclista
volto all’amico: un soffio
melodico: “Vai solo?” (S. Penna)

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La laguna veneta
E’ molto interessante visitare qualche tratto della laguna veneta, specialmente se stiamo un po’ discosti da Venezia. Per il nostro lavoro di osservazione meglio si presterebbe la laguna di Caorle o quella di Marano, in parte ancora allo stato naturale.
Ci troviamo davanti a cordoni di sabbia, più o meno lunghi più o meno ampi; a tanti canali, per i quali l’acqua del mare va a confondersi con la terraferma. Questi specchi d’acqua salmastra, noti col nome di lagune, sono soggetti ad un continuo mutamento. La laguna infatti, vista in certe ore del giorno, lascia affiorare qua e là isolotti fangosi (le velve) che poi, con l’alta marea, scompaiono totalmente. Altrove si possono notare isolotti erbosi detti barene che rimangono sempre emersi. Ma il mutamento maggiore è apportato dai detriti depositati alla foce dei fiumi, i quali, giungendo al mare con decorso assai lento per l’insensibile dislivello, non possono riversare in mare tutta l’abbondante quantità dei materiali convogliati. Si creano così davanti ai bassi fondali costieri tante zone paludose ed estesi acquitrini, che nel Veneto vengono anche chiamate col nome di valli, adibite per lo più alla pesca. L’opera di bonifica, di prosciugamento e di incanalamento di tutte queste acque, che vanno ad impantanare la fascia costiera, ha oggi in parte redento la zona, e l’ha resa meno instabile nella sua configurazione.
Un tempo la laguna si stendeva ininterrottamente da Ravenna ad Aquileia, e se Venezia non si fosse difesa contro questo progressivo insabbiamento, ora sarebbe città di terraferma, come è avvenuto per Ravenna stessa, per Adria e per tanti altri centri veneti, un tempo bagnati dal mare.
Venezia infatti ha deviato il corso del Brenta e del Bacchiglione verso sud, il Sile e il Piave verso est, ha predisposto per lo stesso grande Po un nuovo ramo di sbocco, il Po di Goro, ha eretto argini lungo le sponde dei fiumi, ha innalzato i caratteristici murazzi a difesa delle isole della laguna, insomma ha fatto di tutto per preservare la sua tipica fisionomia.
Ancora oggi il Magistrato delle acque, ente appositamente costituito a Venezia, non dorme sonni tranquilli perchè l’azione fluviale, il moto ondoso e le maree instancabilmente, anche se lentamente, compiono il loro lavoro di modellamento costiero.
E’ bene sapere come avviene il meccanismo della marea, che è uno dei tre moti a cui va soggetto il mare.
La marea è un movimento periodico che porta la massa acquea ora ad un grande innalzamento, detto flusso, ora ad un generale abbassamento, detto riflusso. Queste due fasi si alternano circa ogni sei ore al giorno, in corrispondenza del passaggio della Luna sul meridiano. Perchè occorre sapere che è proprio la Luna, con la sua forza di attrazione sul nostro pianeta (e particolarmente sulla massa liquida) quella che causa lo strano fenomeno.
A Venezia tra l’alta e la bassa marea si registra un divario di poco più di un metro, divario però sufficiente a produrre il ricambio delle acque della laguna. Se si arrestasse questo ricambio, si avrebbe una zona di acque morte.
Il fenomeno si può osservare molto bene anche su altre spiagge dell’Adriatico, specialmente in una giornata di mare tranquillo. Alla mattina presto si vede un lembo di spiaggia ben più largo di quello che si stenderà a mezzogiorno, perchè con l’alta marea le acque hanno ripreso ad innalzarsi e quindi ad invadere una più ampia fascia di litorale.
Sul nostro globo la marea raggiunge il suo massimo nella baia di Fundy, in Canada, con oltre 20 metri di dislivello tra il flusso e il deflusso.
La marea è un moto periodico, mentre le onde sono un moto variabile e le correnti un moto costante. In totale tre moti del mare.

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La piazza delle Erbe a Verona
Piazza delle Erbe a Verona è certo una delle piazze più pittoresche d’Italia che rimane nella memoria come uno spettacolo: una commedia, essa sola, di cui sarebbe facile rianimare i personaggi e farli parlare. Su questa piazza, grande come un foro, si tiene il mercato, testimonianza della vocazione della città che ha fondato la propria prosperità sulla campagna e sugli alimenti terrestri. In piazza delle Erbe, sotto un centinaio di ombrelloni, si vende una tale varietà di frutta, di ortaggi e di legumi come raramente se ne vedono radunati in così gran numero. I pomodori spargono il loro rosso squillante accanto ai limoni d’oro, ai cedri, alle angurie, alle melanzane, al verde tappeto delle insalate: un odore di campagna aleggia sotto gli ombrelloni di tela, e compone un’atmosfera pacifica e ghiottona.
Non si pensa più allora ai Montecchi e ai Capuleti; non si pensa che Tebaldo avesse potuto uccidere Mercuzio a Verona; la vista di un mercato fa dimenticare tutte le tragedie: quelle della vita, quelle della storia, quelle dei poeti.
Tuttavia quando si alza lo sguardo al di sopra di queste mostre attraenti, si scorge a nord della piazza, sopra una colonna di marmo, il leone di San Marco, simbolo di un’antica dipendenza, quando Venezia regnava sulla terraferma.
Al centro della piazza un’altra colonna di marmo; e per inquadrare, per contenere questo vasto mercato, palazzi un tempo ornati di affreschi dei quali rimane qualche traccia.
(G. Bauer)

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Curiosità su Padova

Vuoi conoscere alcuni proverbi padovani? Eccoli:
– A fare un proverbio ghe voe cent’anni.
– Venezia bea, Padoa so sorela.
– Veneziani gran signori, Padovani gran dottori, Visentini magnagati, Veronesi tuti mati.
– Pan padoan, vin visentin, tripe trevisane, done veneziane.
– Bologna la grassa, Padoa la passa.
– Co canta la cigala, se taja la segala, co canta el cigalon, se taja el formenton.
– De Santa Madalena se taja l’avena.
– De San Valentin se pianta l’ajo e el seolin.
– Tera mora fa bon fruto, tera bianca gninte del tuto.

“A Padoa ghe xe un Santo sensa nome, un cafè sensa porte e un prà sensa erba”. Questo detto si riferisce a:
– sant’Antonio, che viene chiamato da tutti semplicemente ‘il santo’;
– il Caffè Pedrocchi, che per molto tempo non ebbe porte perchè rimaneva aperto sia di giorno che di notte;
– al Prato della Valle, che non è un prato, ma una piazza grandiosa, e quindi non ha assolutamente erba.

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Curiosità su Treviso
A Treviso l’arco che unisce il Palazzo del Podestà al Palazzo dei Trecento è detto ‘sottoportico dei soffioni’ perchè vi spira sempre un notevole vento.
A Treviso nella chiesa romanico-ogivale di San Francesco, si può ammirare un affresco del 1453, raffigurante un crocefisso dipinto per ordine dell’Inquisitore a spese di un oste ebreo che aveva servito carne di venerdì.
Sempre nella nuda ed austera chiesa di San Francesco a Treviso, possiamo sostare sia davanti alla pietra tombale di Francesca, figlia di Francesco Petrarca, morta nell’agosto del 1384, sia davanti all’arca di Pietro, figlio di Dante Alighieri, morto a Treviso nel 1364.
Nel giardino del Museo della Casa Trevigiana c’è una piccola Casa del XIV-XV secolo, nella quale è disposta la ‘Raccolta Sanguinazzi’, interessante esempio di Gabinetto di Storia Naturale del XVII secolo con collezione di strumenti scientifici, tra cui i celebri prismi di Newton.
C’è chi ha cantato in versi, anche se un po’ zoppicanti, il famoso radicchio trevisano: “Se lo guardi è un sorriso, se lo mangi è un paradiso, il radicchio di Treviso”.
Sull’iscrizione di una credenza da cucina che ora si trova nel Museo di Treviso possiamo leggere questi versi di ispirazioni popolare, pieni di confidente abbandono, di devota accettazione in un’umile realtà quotidiana, di decoro e di discrezione:
Gaetano santo vu che si sora la providenza
prega che ge sta sempre de buon in sta credenza
e se non vacorda divina onnipotenza
fa che la mangemo suta con pazienza
che per ultimo ne basta grazie del ciel
e de polenta no restar senza“.

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Curiosità su Belluno

“Christus nobiscum stat”. Le case feltrine sono caratteristiche per i tetti fortemente aggettanti e per le facciate ornate da affreschi o graffiti attribuiti a Del Morto da Feltre e alla sua scuola. Su molti portali è inciso il motto: “Christus nobiscum stat” (Cristo vive tra noi).
A sud di Cortina, lungo il torrente Costeana, sorge il Sacrario di Pocol, costituito da una torre con basamento quadrato; in esso sono custodite le salme di 10.000 caduti della guerra 1915-1918.
Il gonfalone di Pieve di Cadore è decorato con medaglia d’oro per la “memoranda e tenace resistenza fatta nel 1848 dalle popolazioni cadorine contro soverchiante e agguerrito invasore”, e con la Croce di Guerra per la resistenza nel 1918.
A sud di Mas, sulla strada tra questa località e Mis, si trovano le Rovine di Vedana, costituite da un grandioso e disordinato ammasso di terra e pietre (3 milioni di metri cubi) disteso attraverso la valle. Secondo alcuni geologi tale ammasso sarebbe franato, in epoche remote, dai monti Vedana e Peron, seppellendo i villaggi di Cordova e Cornia. Poco lontano sorge la Certosa la cui origine si fa risalire a un ospizio di San Marco di Vedana, esistente nel 1155. La Certosa subì alterne vicende finché, recuperata nel 1768 dai Certosini francesi, du fatta risorgere. Qui nacque Gerolamo Segato (1792-1836) famoso oltre che come instancabile viaggiatore, cartografo e naturalista, anche per aver inventato un processo di pietrificazione dei cadaveri.

Vedi anche MATERIALE DIDATTICO SU VENEZIA

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LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture

LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture per la scuola primaria: Amalfi, Pisa, Venezia e Genova.

LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture
La leggenda dell’Anno Mille

Dice la leggenda che nell’imminenza dell’anno 1000, per una errata interpretazione di alcuni passi delle Sacre Scritture, le genti attendessero con terrore la fine del mondo, ma che poi, liberate dall’incubo, continuando il mondo la sua uguale vicenda, riprendessero a vivere con maggior lena. Si iniziava una nuova era, feconda di lavoro, di creatività in tutti i campi, materiale e morale.
La leggenda ha un suo valore perchè esprime, come un simbolo, quella ripresa di vita economica e politica, quel risveglio culturale ed artistico che nell’XI secolo rinnovò tutta l’Europa e i cui segni sono particolarmente visibili in Italia. Ebbe così fine l’età feudale che, con quella dei regni romano-barbarici, costituisce l’Alto Medioevo, e si iniziò il Basso Medioevo, durante il quale la Chiesa e l’Italia si sottrassero alla dipendenza degli imperatori germanici e fiorì la nuova civiltà dei Comuni e delle Signorie (1000 – 1492).
Di là dalle Alpi, in Francia, in Inghilterra e in Spagna, si costituivano invece le grandi monarchie nazionali.

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Le Repubbliche marinare

Alcune città marinare, favorite dalla loro naturale posizione e dalla ripresa dei traffici, raggiunsero, prima delle città di terraferma, un notevole grado di ricchezza e di indipendenza politica; esse furono Amalfi, Venezia, Pisa e Genova.

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Amalfi

Posta sul golfo di Salerno, fu la più fiorente città marinara del sud, superando di gran lunga Napoli, Gaeta e Bari. Trascurata dal governo di Bisanzio, minacciata dalle incursioni dei Saraceni, dovette assai per tempo provvedere alla sua difesa con una flotta, e al suo governo: tutti i cittadini, riuniti a Parlamento, eleggevano il capo della città, cioè il Duca. Tale governo repubblicano favorì in modo particolare i commerci e la navigazione. Nel X secolo Amalfi era già un centro attivissimo di commercio col Levante: a Costantinopoli, ad Antiochia, ad Alessandria e al Cairo, gli Amalfitani avevano fondachi ed alberghi, chiese ed ospizi.
In quelle città del Levante portavano i prodotti agricoli italiani e caricavano damaschi, armi, profumi, spezie, tappeti e indaco che rivendevano nell’Italia centro-meridionale.
La moneta amalfitana, il tari, aveva corso in tutti i porti del Mediterraneo. Gli Amalfitani compilarono il primo codice di leggi marittime, le famose Tavole Amalfitane, adottate da gran parte degli Stati mediterranei.
Altro loro merito è quello di aver introdotto in Occidente l’uso della bussola, già adoperata da Cinesi ed Indiani, perfezionandola; leggendaria è l’attribuzione di essa all’amalfitano Flavio Gioia.
Breve fu la vita florida e indipendente di Amalfi: verso la fine del secolo XI fu soggiogata dai Normanni, conquistatori ed unificatori di tutta l’Italia meridionale. In seguito, combattuta e vinta da Pisa, sua rivale nel Tirreno, perdette la flotta e con essa la potenza.

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Venezia

Abbiamo visto come le isole della laguna veneta, dall’invasione di Attila in poi, diventarono a più ripresa rifugio degli abitanti delle città venete, che andarono ad aggiungersi ai pochi e poveri pescatori che già vi dimoravano.
Sicure dalle invasioni, perchè difese da un labirinto di canali, ma povere, quelle terre non potevano dare mezzi di vita a una popolazione numerosa, che perciò si volse prestissimo al commercio marittimo lungo le coste dell’Adriatico e il corso dei fiumi veneti, prima vendendovi il sale e i prodotti della pesca, poi le merci importate dall’Oriente bizantino a Ravenna.
Nominalmente questi centri lagunari dipendevano dall’Esarca, ma a mano a mano che l’autorità di Bisanzio si affievoliva, essi andavano organizzando un’amministrazione autonoma. Già alla fine del VII secolo gli abitanti delle isole eleggevano a vita un magistrato supremo o Duca (in veneziano, Doge).
A Rialto e sulle isolette ad essa congiunte per mezzo di ponti, si incominciò a costruire la nuova Venezia (città dei Veneti), destinata a diventare una delle più belle e ricche città del mondo; essa fu posta sotto la protezione dell’evangelista San Marco, le cui reliquie, trasportate da Alessandria d’Egitto, furono deposte nell’omonima Basilica, sorta fra i primi monumenti.
Nel X secolo Venezia dovette combattere i pirati slavi (Schiavoni), che infestavano l’Adriatico. La vittoria definitiva su di essi fu riportata nell’anno 1000 dal Doge Pietro Orseolo II che occupò le coste dell’Istria e parecchie isole e città della Dalmazia. Il doge di Venezia prese allora il titolo di Dux Veneticorum et Dalmaticorum.

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Per il lavoro di ricerca

In che anno incominciò a sgretolarsi il sistema feudale?
Intanto cosa avveniva nelle città?
Come si chiamò la nuova classe sociale?
Quali furono le città marinare che divennero, prima delle città di terraferma, centri attivissimi di commercio e politicamente indipendenti?
Conosci gli stemmi delle gloriose Repubbliche marinare?
Quale fu la più fiorente città marinara del sud?
Quali meriti ebbero gli Amalfitani?
Sapresti dire a che cosa servivano le Tavole Amalfitane?
Qual era la moneta amalfitana?
Chi introdusse in Occidente l’uso della bussola?
Quando finì la potenza della gloriosa Amalfi?
Da chi fu costruita Venezia? Com’era chiamato il capo della Repubblica di Venezia?
Come si chiamava la sua nave?
Quale cerimonia era in uso il giorno dell’Ascensione?
Chi era il Santo protettore di Venezia?
Come si chiamava la moneta di Venezia?
Che cos’erano le galee? Da che cosa derivò il loro nome?
Su quali altri tipi di navi i marinai delle Repubbliche marinare percorrevano e dominavano i mari?
Ricerca notizie sulla potenza della Repubblica di Venezia.

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La bandiera navale italiana

Nella bandiera navale italiana lo stemma, al centro del tricolore, è costituito dai quattro stemmi di Amalfi (croce bianca in campo azzurro), di Pisa (croce bianca in campo rosso), di Genova (croce rossa in campo bianco) e di Venezia (il leone alato d’oro in campo rosso), a segnare la grande tradizione marinara della nostra storia.

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Storia di una parola

La cannella, il pepe, le droghe aromatiche venivano tutte dall’Oriente ed erano fra noi chiamate spezie. Esse non servivano solo per preparare le raffinatissime salse tanto in voga nel Medioevo; erano, secondo i ricettari farmaceutici del tempo, necessarie per la preparazione di medicine e di pomate. Ecco perchè il farmacista di allora veniva chiamato speziale, appellativo che familiarmente gli viene ancora dato in molti luoghi d’Italia.

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Le nuove monete

I mercanti delle Repubbliche marinare, che avevano navi, andavano in Oriente a comprare merci e le rivendevano in Europa a caro prezzo. Così le Repubbliche marinare si arricchivano rapidamente. Con l’oro portato dall’Africa, con l’argento ricavato nelle miniere di Spagna, di Francia, di Germania, vennero coniate nuove e belle monete, che incominciarono a circolare in Europa al posto dei denari e dei bisanti, cioè al posto delle monete araba e bizantina. La moneta di Venezia si chiamava ducato, quella di Genova genovese o genovino.

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Le navi delle città marinare

La galea deriva il suo nome dalla forma snella che la fa assomigliare al pesce spada che in greco è appunto chiamato galeos.
Fin verso il 1000 le galee venivano usate per il trasporto di merci quanto per le azioni di guerra, ma quando, attorno a quest’epoca, in tutte le città marinare d’Italia rifiorirono le costruzioni navali, si cominciarono a progettare galee destinate esclusivamente alla battaglia. Allora, poiché nella stiva non si dovevano più immagazzinare merci, si potevano imbarcare fino a 120 vogatori, in qualche caso anche 200.
In molte galee ogni remo era manovrato da due, tre o anche quattro vogatori. Inoltre le vele venivano considerate un motore ausiliario; queste navi usavano la vela triangolare, detta vela latina, e di frequente avevano due alberi.
L’armamento di una galea era costituito si armi da lancio e grosse baliste; erano inoltre armate di un enorme sperone per forare lo scafo delle navi avversarie. Ciascuna galea era, infine, munita di grossi ganci e di ponti che servivano per agganciare le navi nemiche e per attaccarle all’arrembaggio.
Fra vogatori, marinai, bombardieri, arcieri e soldati assalitori, l’equipaggio di tale nave poteva contare anche più di 500 uomini.
Le prime galee usavano la vela quadrata, come i navigatori greci e romani. Solo verso il secolo XII si apprese dagli Arabi a usare la vela triangolare, con la quale era possibile navigare anche contro vento. La vela triangolare è detta vela latina. Ma questo nome non indica l’origine della vela. Esso deriva dalla storpiatura di vela ‘alla trina’. Così si chiamava infatti la vela triangolare, o perchè fatta a triangolo o perchè legata con la trina, una treccia di canapa formata da tre fili e usata per le legature volanti.
L’equipaggio era suddiviso in compagni d’albero (marinai) e rematori. Questi ultimi erano dei detenuti, condannati al trattamento più inumano. Erano in parte condannati per delitti comuni e in parte prigionieri di guerra; alcuni erano volontari, gentaglia che non sapeva far alcun altro mestiere, e venivano chiamati, per ironia, buanavoglia. Per essere riconosciuti in caso di fuga, questi rematori delle galee, detti appunti galeotti, dovevano avere i capelli rasati o tagliati a ciuffo.
Se la nave affondava, i galeotti affondavano con essa. Dovettero purtroppo trascorrere alcuni secoli prima che venissero abolite queste barbare condanne.

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Le navi da carico

Le nostre città marinare usarono diversi tipi di navi da carico: le galee grosse o di mercanzia, le cocche, le caracche. Erano navi alte di bordo, più larghe e tondeggianti delle galee, adatte a portare grandi carichi (e da ciò il nome di caracche che deriva dall’espressione latina navis caricata); esse furono fra le prime del Mediterraneo ad applicare una grande innovazione, apparsa già da un secolo nei navigli del Mare del Nord: la sostituzione dei remi di governo con un vero e proprio timone a barra, detto timone ‘alla navaresca’. Ben presto Genovesi e Veneziani si accorsero che queste navi erano adattissime anche al combattimento, perchè con esse si potevano colpire i nemici dall’alto, standosene ben protetti negli alti castelli di poppa e di prua.

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La Repubblica di Amalfi

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Splendore e decadenza di Amalfi
Amalfi, nell’anno 839 si rese indipendente da Napoli (del cui ducato faceva parte) ed elesse come governatore un comite (magistrato annuale). Cominciò allora la fortuna marinara della città che divenne la prima delle potenti repubbliche marinare del Tirreno. Essa seppe difendere la propria indipendenza sia contro Bisanzio sia contro i Longobardi.
La sua importanza, analogamente a quella di Venezia, si fondava esclusivamente sui traffici e la navigazione.
Le sue navi visitavano Alessandria e Beirut, in parte per condurvi pellegrini, in parte per andare a prendere prodotti che si potevano vendere comodamente in Italia.
Ben presto  i mercanti di Amalfi costituirono colonie a Palermo, a Siracusa e Messina, tutte città che si trovavano nelle mani dei musulmani.
Gli Arabi gradivano questi scambi di merce, dai quali essi stessi traevano vantaggio.
Concedevano generosamente ai forestieri luoghi di residenza, i cosiddetti fonduk, dove i mercanti  potevano svolgere la loro attività, come anche a Venezia esistevano i fondachi per gli stranieri.
Amalfi sfruttò abbondantemente i suoi vantaggi.
In questa cittadina, nel periodo del suo massimo splendore (X secolo), vivevano 50.000 abitanti, cifra assai ragguardevole per quei tempi.
Probabilmente Amalfi era allora la città di gran lunga più popolata di tutto l’Occidente.
La sua moneta (il tari) circolava in tutta Italia e perfino in Oriente.
Le sue leggi venivano rispettate ovunque e spesso venivano adottate da altre città.
Il codice della navigazione di Amalfi, Tabula Amalphitana, divenne il modello di tutto il diritto marittimo dell’Occidente.
A uno dei suoi cittadini, Flavio Gioia, fu attribuita l’invenzione della bussola. E’ vero che ciò non è esatto perchè l’ago magnetico era già noto ai Cinesi, tuttavia Amalfi può rivendicare il merito di aver messo questa invenzione al servizio della navigazione, collegando l’ago magnetico con la Rosa dei Venti.
Amalfi decadde quando, nell’anno 1131, fu conquistata dai Normanni, che avevano già occupato la Sicilia.
La città si era appena riavuta da questo colpo, quando fu attaccata, sconfitta, saccheggiata e definitivamente distrutta dai Pisani.
Oggi esistono soltanto rovine che indicano il punto in cui sorgeva l’antica Amalfi.
(‘I mercanti trasformano il mondo’, E. Samhaber)

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Uno strumento nuovo: la bussola

I mercanti delle repubbliche marinare che commerciavano con l’Oriente portarono in Europa uno strumento utilissimo per la navigazione. Si trattava di uno strumento proveniente dalla lontana Cina, che sembrava opera di magia. Era un piccolo recipiente colmo d’acqua, cioè una bussola, sul quale galleggiava una lancetta di ferro calamitato, sorretta da una scheggia di legno. La lancetta si indirizzava sempre verso nord e rendeva facile l’orientamento anche alle navi che si trovavano in mezzo al mare, lontano dalla costa, o quando di giorno o di notte, il cielo era coperto di nuvole e non si vedevano le stelle.

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La Repubblica di Venezia

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Nascita di Venezia

Rialto, piccolo ammasso di isolotti, era sto fino ad allora scarsamente abitato, ma l’inviolabile asilo che aveva offerto ai profughi di Eraclea lo designava per la scelta quale sede preferibile e permanente dello Stato.
Prese singolarmente, le isolette di Rialto erano certo meno estese di Torcello, di Burano o di Eraclea, ma il gruppo ne annoverava ben sessanta, separate da stretti canali sui quali sarebbe stato agevole gettare ponti, in modo da rendere disponibile per la capitale una superficie considerevole e di molto superiore ad ogni altra.
La via d’acqua larga e profonda che spartiva in due gruppi l’arcipelago era il corso del fiume Prealto, ramo staccato del Brenta; se ne fece il Canal Grande. Le sue dimensioni avrebbero consentito il passaggio delle maggiori imbarcazioni e sulle sue rive si sarebbero create banchine e depositi, nei luoghi più adatti.
Al limite degli isolotti periferici si sarebbero potuti costruire una cinta muraria e un riparo in pietra, a circondare e proteggere la nuova città.
Come se presentisse quale splendido destino lo attendeva, tutto il popolo di pose all’opera con incrollabile entusiasmo.
Da ogni parte si innalzarono costruzioni, dapprima di legno, poi di mattoni e di pietra.
Per il palazzo del doge si scelse la posizione che sarebbe rimasta immutata per sempre.
Quanto al nome della città gloriosa i Veneti le diedero il proprio, quella che in origine si era chiamata Rialto, civitas Rivoalti, divenne Venetia, ossia Venezia.
Questo avveniva nell’anno 810 dC.
(A. Bailly)

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Grandezza di Venezia

Venezia divenne una grande città commerciale. Le sue navi la fecero dominatrice del Mediterraneo. Le sue flotte mercantili, protette dalle navi da guerra, commerciavano fino a Costantinopoli, entravano nel Mar Nero per ritirare i prodotti russi e gli altri prodotti che dall’Asia e dalla Cina vi arrivavano per mezzo delle carovane. Lungo le coste della Palestina e della Siria, le navi veneziane caricavano i prodotti della Mesopotamia, della Persia e dell’India, qui portati dalle carovane. Esse avevano commerci con l’Egitto, lungo le coste della Francia e della Spagna, e oltre l’Atlantico, con l’Olanda, il Belgio, l’Inghilterra e la Scandinavia. Quasi tutti i Paesi d’Europa compravano i prodotti asiatici da Venezia. Nei giorni in cui Venezia era il grande magazzino del commercio orientale, i suoi nobili mercanti, i suoi artigiani ed il suo governo costruirono bellissimi edifici. I suoi banchieri prestavano denaro ai principi di tutta Europa.
Intanto i Turchi andavano occupando l’Oriente e assalivano le navi veneziane; Cristoforo Colombo aveva aperto gli orizzonti verso terre vergini dell’Occidente molto più remunerative.
Di più, era giunta notizia che un portoghese di nome Vasco de Gama aveva trovato una via per le navi per arrivare direttamente in India girando attorno all’Africa.
Un triste giorno i prezzi delle merci caddero circa alla metà, e non si rialzarono più.
Quando i mercanti ed i banchieri veneziani seppero della scoperta di Colombo e, ancor peggio, di de Gama, capirono che Venezia non avrebbe più potuto essere il grande emporio.
Essa si erge ancora con i suoi magnifici, vecchi edifici, i suoi ponti ad arco sopra i canali, le gondole che scivolano ancora lungo le calme acque delle sue strade. Invece dell’assordante rumore delle automobili, si sente il canto del gondoliere o il fischio del vaporetto.
La Repubblica di Venezia fu la sola tra le Repubbliche marinare a diventare anche una grande potenza di terraferma, fino a contare, a un certo punto, tra i più forti stati europei. La sua ricchezza, comunque, le venne da Oriente. L’Adriatico diventò qualcosa come un lago veneziano, già prima delle Crociate, con la fondazione delle colonie in Istria e in Dalmazia. Le Crociate offrirono ai Veneziani l’occasione di allargare i loro traffici, prima provvedendo al trasporto dei guerrieri cristiani in Palestina, poi con la fondazione di colonie commerciali nei paesi d’Oriente, in Grecia, nel Mar Nero. Durante la quarta Crociata i Veneziani, in cambio del trasporto degli eserciti con le loro navi, ottennero addirittura di far combattere i Crociati per ristabilire la sovranità di Venezia sulla ribelle Zara e per allargarla nei territori dell’Impero d’Oriente. Il Doge di Venezia ottenne il titolo di ‘Signore di una quarta parte e mezzo dell’Impero Greco’.
La Repubblica di San Marco visse fino al 1797, quando passò sotto l’Austria.
(R. Smith)

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I Veneti e i loro commerci

Le iniziative mercanti dei Veneti li portavano già in tutti i porti del bacino mediterraneo.
Gli audaci navigatori, un tempo pescatori di laguna, andavano a commerciare a Costantinopoli, nello Ionio e nel Mar Nero, in Siria e in Africa.
Non rimanevano nell’attesa che le merci forestiere fossero portate loro, ma volevano scegliere e acquistare all’origine i prodotti dai quali potessero trarre maggior lucro.
Anche per via terra, a gruppi o isolati, percorrevano le strade d’Italia sostando specialmente a Pavia e a Roma.
Ma essi avevano una vera e propria industria nazionale: la costruzione di navi, arte nella quale fin dal VI secolo erano già considerati maestri e in seguito si erano perfezionati, avendo studiato anche in Slavonia e in Istria nuove forme di scafi e di chiglie, altre disposizioni di remi e di vele.
Naturalmente, le aveva studiate e modificate assimilandole alla propria tecnica costruttiva e avevano finanche chiamati calafati e carpentieri greci e siriani per apprendere i metodi di lavoro.
Ormai nessun popolo pensava più ad emularli, in questo campo.
Nell’VIII secolo le isole superavano in prosperità quasi tutti i paesi europei; praticamente i Veneti avevano il monopolio del grande commercio internazionale.
Partivano col consueto carico di sale, ma al ritorno recavano ricche merci straniere: oli, cereali, tessuti, spezie.
Nei lontani porti frequentati dai loro navigli i Veneti aprirono numerose agenzie, simili ai nostri attuali consolati, dirette da connazionali che studiavano le attività economiche dei paesi di residenza, le loro risorse e necessità, annodavano relazioni d’affari con le genti del luogo e agevolavano gli scambi tenendo in deposito nei loro magazzini tanto i carichi in arrivo che quelli in partenza.
In seguito, anche Venezia dovette a sua volta ospitare agenti dei mercanti forestieri e concedere loro siti di sbarco e di magazzinaggio: ne conservano ancor oggi memoria il Fondaco dei Turchi e il Fondaco dei Tedeschi.
Questa corrente di scambi, già molto intensa al sorgere della nuova capitale, doveva rendere splendida oltre ogni ottimistica previsione la città edificata su quegli isolotti di Rialto dei quali l’omonimo ponte, che domina con il suo maestoso arco il Canal Grande, custodisce il lontano ricordo.
(A. Bailly)

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Come era governata Venezia

A Venezia dominava l’aristocrazia: tutti i poteri erano nelle mani del temibile Consiglio dei Dieci. Il Doge aveva solo il compito rappresentativo e presiedeva il Consiglio dei ministri, o Serenissima Signoria, composto di nove membri: si trattava ancora di altri dieci personaggi. In totale, venti nobili veneziani amministravano gli affari della Repubblica sotto il controllo molto blando del Senato, formato anch’esso da soli patrizi.
Nel  1355, sembra che un Doge abbia cospirato con elementi popolari, benchè l’affare sia rimasto oscuro (I Dieci hanno fatto scomparire gli incartamenti). Il tentativo fallì. I complici del Doge furono impiccati alle finestre del Palazzo Ducale e il Doge stesso, Marin Faliero, fu decapitato il giorno seguente sulla scala della Corte d’Onore. La Regina dell’Adriatico, in questo periodo è al suo apogeo: essa conta trecento navi grandi e tremila piccole; quarantacinque galee proteggono validamente le sue rotte marittime. In uno scenario incomparabile, opulento e grandioso, essa mostra con esuberanza la sua fiducia e la sua gioia nelle feste di un carnevale che si prolunga a poco a poco per tutti i giorni dell’anno.

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L’arsenale di Venezia

Il suo arsenale, situato sulle due isole Gemelle nella parte orientale della città, era il più grande e il migliore che allora si conoscesse; ancor oggi se ne vedono le profonde darsene e i tre canali scavati in seguito per collegare gli impianti originari con quelli successivi.
In esso, da prototipi accuratamente studiati e uniformemente riprodotti, si costituivano ogni sorta di imbarcazioni: guerreschi vascelli rostrati dai fianchi scudati di cuoio e dai ponti muniti di catapulte e di torri per arcieri e balestrieri, navi mercantili più  pesanti e lente, nelle quali l’abbondante velatura rimpiazzava i duecento vogatori delle galee e dei ‘gatti’.
Questa è la tradizionale, autentica industria nazionale.
Non v’è popolano che non appartenga alla marineria: marinaio, pescatore o calafato che sia.
Anche coloro che esercitano un mestiere legato alla terra sono per origine dei marittimi. Del resto, vivono sul mare, il mare è il loro elemento naturale e la barca il basilare strumento di lavoro; il giorno in cui lo Stato ha bisogno di loro non fanno che cambiare i remi della barca in quelli della trireme, con una maestria marinara d’altronde indispensabile affinché la Repubblica possa essere presente là dove la chiamano i suoi interessi, ora con lo sguardo svolto a Bisanzio, della quale prevede la successione, ora ai Normanni, dei quali teme la forza e le mire ambiziose.
(A. Bailly)

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La forza navale di Venezia

Sotto il comando del General da Mar e del Capitano del Golfo le forze navali di Venezia, o Armata Veneta, erano formate da navi a vela, che costituivano l’Armata Grossa, e da navi a remi, o Armata Sottile, mosse quest’ultime da galeotti o condannati ai remi della galea, oppure da rematori volontari chiamati buonavoglia. Comandavano le prime i Governatori del Mare, mentre le navi a remi dipendevano da un Sopracomito.
Tutta l’Armata usciva dall’Arsenale, che poteva fornire navi con armamenti completi in tempo ridottissimo e che era un mosaico di squeri o cantieri. Anzi, era, a sua volta, un enorme cantiere funzionante. Dante stesso mostra di essere rimasto colpito agli ordini degli Inquisitori dell’Arsenale, dei Provveditori all’Armar e di quei Visdomini alla Tana che facevano arrivare da una località sul Mar Nero, Tanai, alle foci dell’odierno Don, la canapa destinata a divenire solida gomena in un reparto dell’Arsenale stesso, chiamato, ‘La Tana’.
Popolazione vivacissima dell’Arsenale, gli arsenalotti, erano artefici abilissimi, gelosi del loro mestiere, tramandato di generazione in generazione, e del privilegio di spingere, a suon di remi, nel giorno dello Sposalizio del Mare, il Bucintoro, l’imbarcazione dogale, che sdegnava l’aiuto degli alberi e delle vele.

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Le ‘uscieri’

Uscieri  si chiamavano le grosse navi a vela, per gli sportelli o usci praticati sui fianchi per agevolare l’imbarco di cavalli e di macchine da guerra. Insieme alle galee e alle navi minori partecipavano anch’essi alla battaglia, rovesciando vere fortezze galleggianti dai loro castelli e dai loro ponti volanti, con adatti ordigni, i proiettili sulle navi avversarie.
Fortezze che talora, in battaglia, venivano tra di loro legate per formare il cosiddetto porto d’alto mare, o porto galleggiante, perchè il vento non ne isolasse qualcuna, facendola preda delle più veloci galee, superiori certo, queste, per molti secoli, nei combattimenti rapidi in mare aperto.
(M. Bini)

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Severissima disciplina sulle galee veneziane

La disciplina, severa in tutte le marine italiane, era severissima sulle navi di Venezia. Nel 1293 il Gran Consiglio veneziano aveva decretato che, quando l’ammiraglio aveva dato l’ordine di attaccare il nemico, se una qualche galea si fosse allontanata dal luogo della battaglia, i capi divisione, i capitani, i nocchieri e i timonieri venissero decapitati. Se non si poteva raggiungerli, venivano condannati al perpetuo esilio e tutti i loro beni erano confiscati.

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Vita di galeotto

Durissima era la vita al remo nelle galee. I rematori di destra stavano con il piede sinistro incatenato alla banchina (e i vogatori di sinistra inversamente) e così sul banco vogavano per dieci o dodici ore; unico riparo era una tenda o una leggera sovrastruttura. Quando si intimava il silenzio dovevano mettersi in bocca il tappo di sughero che portavano appeso al collo. La ciurma era comandata da un sottufficiale, l’aguzzino, che aveva diritto di vita e di morte sui vogatori. Dalla corsia ammoniva a nerbate, puniva a sciabolate o (dopo l’invenzione della pistola) piantando una palla in testa ai recalcitranti.

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Dal ponte di comando alla catena del remo

La condizione delle ciurme nelle battaglie era spaventosa e orribile; esposte ai colpi dei loro correligionari e fratelli (poichè sulle galee cristiani gli schiavi erano turchi e su quelle turche erano cristiani), avevano come unica speranza di liberazione la cattura della galea. Avveniva così talvolta che capitani di navi, e anche ammiragli, passassero dal comando al remo o dal remo ancora al comando!

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Lo sposalizio del mare

Venezia stabilì di commemorare annualmente le sue vittorie con una festa nazionale che dapprima si espresse nella benedizione del mare: all’Ascensione, il vescovo di Olivolo si recava con il clero all’estremo limite dell’isola e lì, alla presenza della folla, tracciava sul mare, sede e strumento della grandezza veneziana, il sacro segno che lo univa a Dio e gli uomini.
In seguito la cerimonia doveva assumere un significato ancora più chiaro e di un simbolismo più adatto a colpire l’animo della massa.
Nacque così lo Sposalizio del Mare nel quale il Doge, vivente personificazione dello Stato, faceva suo il mare così come ogni uomo lega a sé la donna scelta in sposa.
Per la tradizione fu il papa Alessandro III che, avendo riconosciuta la sovranità veneziana sull’Adriatico, inviò al Doge l’anello benedetto accompagnandolo con queste parole: “Ricevetelo come il segno del vostro imperio sul mare; voi e i vostri successori rinnoverete gli sponsali ogni anno affinché i tempi a venire sappiano che il mare è vostro e vi appartiene come la sposa allo sposo”.
Ogni anno il doge saliva a bordo del Bucintoro, la galea nazionale fantasiosamente decorata di sculture e dorature, perfino nei remi.
Diritto sotto un baldacchino purpureo circondato dalla sua Corte, percorreva la laguna in direzione del Lido e per il vicino passaggio entrava nell’Adriatico.
Qui, dal Bucintoro galleggiante sul mare che Venezia considerava suo, il Doge lanciava in acqua il suo anello d’oro, pronunciando la formula rituale: “Desponsamus te, mare, in signum veri perpetuique dominii”.
(A. Bailly)

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Il Bucintoro

Il Bucintoro era il grande e maestoso naviglio sul quale, nel dì dell’Ascensione, il Doge di Venezia procedeva, ogni anno, a solennizzare la cerimonia dello sposalizio col mare. Il Bucintoro, adornato riccamente, lungo trentun metri e largo sette, aveva due piani: nell’inferiore stavano i remiganti, nel superiore il Doge, il Patriarca, gli ambasciatori, i governatori degli arsenali, i membri del Governo, gli altri personaggi della Repubblica.
(P. Persico)

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Ultime parole del Doge Mocenigo

Il grande doge di Venezia Mocenigo, sempre vigile nella cura della Repubblica, così disse ai maggiorenti della città, racconti attorno al suo letto di morte: “Ormai io più non posso giovare alla patria mia; perciò vi ho chiamato per raccomandarvi questa cristiana città e persuadervi ad amare i cittadini e a far giustizia e a pigliar pace… La guerra con il Turco vi ha fatto valorosi ed esperti per mare, avete sei capitani da guerra, avete molti uomini sperimentati nelle ambascerie e nel governo, avete molti dottori di diverse scienze e specialmente molti legali… La vostra zecca batte ogni anno un milione di ducati d’oro, duecentomila d’argento e ottocentomila in soldoni… Perciò sappiate governare un tale stato e abbiate cura che per negligenza mai diminuisca”.
M. Bini

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San Marco, patrono di Venezia

L’evangelista Marco ha come simbolo un leone , e coi caratteri del Leone appare Gesù nel vangelo di San Marco, cioè con le qualità del forte, che scaccia i demoni, che guarisce gli ammalati e che vince la morte.
Questo perchè san Marco rivolgeva il suo vangelo ai Romani, che non avrebbero dato nessun valore alle lunghe genealogie ebraiche o alle profezie. I Romani non conoscevano che il diritto e la forza. Perciò, nel vangelo di Marco, il Redentore rappresenta sempre il diritto e la forza a cui nulla può resistere.
Si sa che la sua tomba di marmo, ad Alessandria, era venerata anche durante la dominazione dei Maomettani. Nell’828, due mercanti veneziani vollero togliere le reliquie di san Marco dalla terra dominata dagli infedeli. Si disse che di nascosto i due veneziani togliessero dalla tomba le ossa del santo e le nascondessero in fondo a un paniere, riempito poi di vettovaglie. Altre leggende fiorirono intorno alla venuta di san Marco sul suolo veneziano. Fra queste la più poetica ebbe credito nella città lagunare.
San Marco sarebbe giunto a Venezia non dopo morto, ma ancora vivo, a causa di una grande tempesta che avrebbe spinto la sua nave, da Alessandria d’Egitto verso la laguna veneta. Sulla spiaggia, appena sbarcato, egli sarebbe stato accolto da un angelo, che gli avrebbe detto: “Pace a te, Marco evangelista mio”.
Sono le parole che si leggono ancora sulle pagine del libro, tenuto dagli artigli di un leone alato, che forma lo stemma di Venezia, chiamata perciò la ‘città di San Marco’.

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Indiscrezioni da Venezia

La dogaressa Selvo è al centro di animatissime discussioni nell’alta società veneziana.  Si sa che la dogaressa è bizantina di nascita, figlia di un imperatore e sorella di Michele VII Ducas; e fin da quando era giunta a Venezia si sapeva che era cresciuta in mezzo a lussi che noi non immaginiamo nemmeno. Si è subito fatta notare per la ricchezza e lo splendore dei suoi abiti. Ora poi sono trapelate alcune indiscrezioni che hanno scandalizzato i Veneziani. Si dice che la signora si lavi con acque odorose, si profumi, e si rinfreschi il volto con la rugiada, raccolta per lei ogni mattina dai servi.
Ma ciò che le sta attirando, a quanto pare, le ire del famoso predicatore Pier Damiani è una strana abitudine della dogaressa. Pare infatti che per portare il cibo alla bocca si serva di uno strumento d’oro a due denti, invece di usare le mani. Secondo Pier Damiani si tratta di uno strumento diabolico.
(L. Pisetzky)

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Una nuova basilica custodirà il corpo di san Marco

Un incendio ha distrutto la Cattedrale. Ma subito si pensa a costruirne una più grande e più bella.
L’incarico di progettare e di innalzare la nuova chiesa è stato dato ad architetti bizantini, essendo Venezia assai legata all’Oriente, ed essendo i Veneziani molto sensibili al gusto che viene di là.
Anche la nuova chiesa sarà dedicata a san Marco e ne custodirà le reliquie, come la vecchia chiesa.
San Marco evangelista è infatti, da 150 anni circa, il protettore di Venezia. Precisamente da quando due mercanti veneziani, che a causa dei loro traffici si trovavano ad Alessandria d’Egitto, vennero a sapere dai cristiani di quella città,  dove si trovavano nascoste le reliquie di san Marco. Ottenute quelle reliquie, essi le portarono a Venezia, facendola in barba al controllo degli Arabi. E sapete come?
Al di sopra della cassa contenente il corpo del santo, misero uno strato di carni suine; gli Arabi, ai quali è vietato mangiare carne di maiale, fecero subito passare quella merce, che era bene lasciasse l’Egitto; e con la carne suina passò quel corpo, venerato ora in Venezia.

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Il doge Orseolo e la Dalmazia

Gli Schiavoni si erano stabiliti in Croazia e in Dalmazia e le città costiere, che politicamente dipendevano dall’Impero greco ma che questo non era però in grado di proteggere, difficilmente potevano resistere da sole alle incursioni barbaresche.
Venezia invece, sia per la sua vicinanza che per la potenza della sua flotta, poteva difenderle o liberarle.
Perciò esse ne richiesero l’aiuto, che Orseolo concesse a patto che le città dichiarassero obbedienza alla Repubblica, giurandole fedeltà e fornendole dei rinforzi per l’opera di liberazione.
Due soltanto, Lesina e Curzola, ricusarono la sottomissione, ma tutte le altre accettarono, cosicchè nel maggio dell’anno 1000 il doge si recò a Pola con una poderosa flotta e vi si stabilì solennemente per ricevere l’omaggio dei magistrati di tutte le città costiere e incorporare nelle sue truppe i contingenti dei quali aveva imposto l’obbligo.
Quindi fece vela per Zara, dove i magistrati delle città marittime dalmate vennero a loro volta per fare atto di sottomissione e presentare i rinforzi.
In tal modo più di venti tra le città e isole si posero sotto il dominio di Venezia, che diventava di fatto la padrona delle coste istriana e dalmata.
Contro Lesina e Curzola, le due riottose, il doge passò alla maniera forte prendendole d’assalto, ed esse dovettero reputarsi fortunate di trovare un vincitore che, contrariamente alle usanze dei tempi, risparmiasse la vita agli abitanti.
Dopo di che, Orseolo sferrò l’attacco ai nidi dei pirati sul litorale, ne distrusse le imbarcazioni, li inseguì nella fuga entroterra e ne fece tale carneficina che per molto tempo furono ridotti all’assoluta impotenza.
Quando il doge ritornò a Venezia, alla testa della flotta vittoriosa, fu accolto dagli osanna del popolo entusiasta; per merito suo, infatti, la Repubblica si era assicurata il dominio delle coste illiriche e dalmate.
Quanto ai Greci, anziché adombrarsi dell’imponente successo veneziano, lo riconobbero e l’imperatore lo sancì conferendo al doge il titolo di Duca di Dalmazia.
(A. Bailly)

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Il trasporto del corpo di san Marco

Il nome di san Marco era da secoli venerato nell’estuario veneto. Era antica tradizione che l’evangelista fosse stato il primo propagatore della fede sulle coste dell’Adriatico settentrionale, e il fondatore della prima chiesa di Aquileia.
La leggenda narrava che la nave che lo aveva trasportato verso Aquileia da Alessandria d’Egitto, durante il suo tragitto era stata colta da una violenta burrasca, che aveva costretto l’equipaggio ad entrare nella laguna e ad approdare alle isole di Rialto. E lì, mentre il santo, sceso a terra, si riposava in attesa di riprendere il viaggio, gli era apparso un angelo che lo aveva salutato con le parole “Pax tibi, Marce, Evangelista meus”, e gli aveva annunciato che su quella terra le sue ossa avrebbero avuto un giorno riposo e venerazione.
Questa leggenda, che dava quasi al luogo, scelto dai Veneti come loro capitale, una designazione soprannaturale, aveva acceso nell’animo di molti di essi il desiderio di impadronirsi dei resti mortali del santo, secondo un costume molto diffuso in quei tempi in tutta la cristianità. Senonché le ossa di san Marco erano ad Alessandria d’Egitto, dove il santo aveva subito il martirio ai tempi di Nerone, e dove, per raccoglierle, era stata costruita una bellissima chiesa.
In quel tempo, in seguito alle ostilità esistenti tra l’Imperatore di Costantinopoli e i Saraceni, era severamente proibito ai mercanti veneti di approdare in Egitto, dominato dai Saraceni, e di esercitarvi quei commerci che nel passato erano stati fiorenti. Tuttavia, malgrado il divieto, i mercanti più arditi continuavano a frequentare quei posti.
Due di questi, secondo la tradizione Rustico da Torcello e Bon da Malamocco, approdano un giorno ad Alessandria con ben dieci navi cariche di merci; vi trovarono i cristiani del luogo addoloratissimi, perchè i musulmani dominatori  spogliavano ogni giorno le chiese dei vasi sacri e di ogni prezioso arredo, per arricchire le moschee e i loro palazzi, e già correva voce che il sultano avesse in animo di abbattere la chiesa nella quale erano custoditi i resti di san Marco per impiegare altrove i materiali.
Questa notizia colpì vivamente l’animo dei due mercanti veneziani, i quali decisero di impadronirsi della reliquia e di portarla alla loro patria.
Dopo molte difficoltà, riuscirono a persuadere i due religiosi greci che avevano la custodia del corpo del santo, a consegnarlo a loro, e lo trassero a bordo di una delle loro navi. Elusa con un’astuzia la sorveglianza dei doganieri, dopo un viaggio avventuroso giunsero in vista della laguna veneta, ma non osarono approdare perchè colpevoli di aver violato il divieto di commerciare coi Saraceni e inviarono un messo al doge perchè gli recasse la confessione del loro fallo e l’annuncio del prezioso carico.
La notizia fu accolta con immenso giubilo. Il doge perdonò l’infrazione alle leggi e si dispose, con tutto il popolo, a ricevere degnamente le spoglie dell’evangelista. Esse vennero collocate nella cappella di san Teodoro, adiacente al Palazzo Ducale, in attesa che le accogliesse un maestoso tempio, del quale si iniziò presto la costruzione.
San Marco fu eletto patrono della Confederazione veneziana, che adottò come stemma il leone alato, simbolo dell’evangelista; insieme con il libro dei vangeli e il motto “Pax tibi, Marce, Evangelista meus”.
(E. Zorzi)

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Una dimora veneziana

Il Procuratore Contarini ordinò a Giovanni Buono la facciata della casa, chiamata d’Oro per le dorature di cui era adorna. Compiuta la facciata che, nonostante le offese del tempo, ride ancora di una immortale bellezza, fu chiamato mastro Giovanni di Francia, per ornarla ‘de pentura’. Come doveva apparire quel gioiello dell’architettura veneta! Maestro Giovanni si impegnava a dorare le rose, gli stemmi, i leoni, gli archetti, il fogliame dei capitelli e i dentelli, dipingere le ‘tresse dazuro oltremarin fin ben dopiado per muodo che i la stia benissimo’. Le merlature dovevano essere dipinte con biacca e venate come il marmo; le fasce bizantine a tralci di vite, tinte di bianco su fondo nero, e tutte le pietre rosse e tutte le ‘dentade rosse sia onte de oio e de vernixe con color che le para rosse’.
(P. Molmenti)

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Diplomatici veneziani

E’ logico supporre che l’esaltazione di Venezia e delle sue bellezze ad opera di visitatori di ogni terra e di ogni condizione, concorresse a creare intorno alla città una leggenda avvalorata più che mai dalla chiara realtà di una flotta senza uguali, dalla ricchezza inesauribile dei commerci. Venezia è una potenza con la quale altre potenze si onorano di avere rapporti profondi e amichevoli; gli ambasciatori veneziani, educati alla più alta scuola di diplomazia e introdotti nelle corti più difficili, colgono ritratti ed atteggiamenti e li fissano per sempre nelle loro relazioni.
Ecco come la grande Elisabetta d’Inghilterra accoglie l’ambasciatore della Serenissima:
“Era la Regina in quel giorno vestita di taffetà d’argento e bianco fregiato d’oro, con abito aperto alquanto davanti sì che mostrava la gola, cinta di perle e di rubini fin a mezzo il petto. La testa aveva di capelli di un color chiaro che non lo può far la natura, con file di perle grosse intorno alla fronte e con archi in forma di cuffia e corona imperiale; faceva mostra di un gran numero di gemme e di perle, e nella persona era quasi coperta di cinto d’oro gioiellato e di gioielli in pezzi separati di carbonchi, balassi e diamanti, avendo anco le mani in luogo di mantili, filze doppie di perle più che mezzane, e tale in aspetto di regina non di anni 76…
Sedeva sua maestà su una sedia sopra un poggiolo quadrato di due scalini… e all’entrare che feci in quella stanza si levò in piedi, e procedendo io nelle debite riverenze, giunto a lei, in atto di porre in ginocchio sopra il primo gradino, la sua maestà non permettendolo, con ambe le mani quasi mi sollevò, e mi porse la destra, la quale baciai, e in quest’atto ad un tempo stesso mi disse: <<Sia ben venuto in Inghilterra il segretario. E’ ben ora che la Repubblica mandi a vedere una regina che l’ha tanto onorata in tutte le occasioni>>.

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Diplomazia veneziana

Un documento di singolare importanza per il contenuto e per la forma è l’accordo che il sultano Murad II (Amorato), colui che prepara la strada a Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli, stipula con Venezia nel 1430: trattato di breve durata. Mirabile la vivacità delle espressioni che nella parlata veneta acquistano una solennità inattesa:
In nome del gran Dio nostro, amen.
Mi Gran Signor e Grande Amirà, Soldan Amorato, zuro in loDio, creator del zielo e de la terra et alo gran nostro profeta Maomet et ali sete Mussafi che avemo e confessemo nuy Musulmani, et ali CXXIII mila profeti et in anema de mio avo e de mio padre, et in anema mia, et in la mia testa, e per la spada che me zengo, prometo mi Gran Signor Amorato, e zuro in li soraditi sagramenti:
che dal di d’anchuo, prometo e digo de aver con mio fredello, el Doxe, con lo honorado et lustrissimo Chomun de la dogal signoria de Vienexia e con i so zentilomeni grandi e pizoli, bona, dreta, fedel, ferma et veraxia paxe per mar e per terra, et in le terre, zitade, castelli, ixole e tuti luoghi che chomanda la serenissima signoria de Vienexia, in quanti castelli, terre e zitade, ixole e luoghi, i qual lieva la insegna del San Marco, e quanti la leverà da mo in avanti”.

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Venezia prima delle Crociate

Lo scarso sviluppo quantitativo del commercio veneziano dei due secoli che precedono le Crociate ci è attestato dalle condizioni in cui si svolgevano i trasporti sia per mare sia per terra.
I viaggi per mare erano fatti generalmente da navi di piccolissimo tonnellaggio, molte delle quali erano sprovviste di ancora, che doveva essere presa a nolo per la durata del viaggio.
La mancanza di ogni strumento di orientamento obbligava a limitare la durata giornaliera del viaggio alle ore della luce solare, riparando la notte in qualche insenatura della costa istriana o dalmata, oppure lungo le rive generalmente basse e piatte della costa italiana su cui si doveva tirare in secca le piccole imbarcazioni.
Ai pericoli del mare si aggiungevano e spesso sovrastavano quelli della pirateria slava, per cui, a differenza di quello che avverrà nei secoli successivi, le navi erano obbligate a viaggiare in convoglio fino al canale d’Otranto, mentre, uscite da questo, era loro permesso di viaggiare isolate; e questo non tanto perchè nel mar Ionio e nel Mar di Levante la loro sicurezza fosse garantita dalla vigilanza della flotta bizantina, ma perchè il loro piccolo numero e la varietà delle rotte che esse seguivano verso gli Stretti, verso la Siria, l’Egitto o la Sicilia, rendeva impossibile riunirle in convoglia protetti da una scorta armata.
Non molto migliori erano le condizioni dei trasporti per terra, per i quali il mezzo di gran lunga preferito era la via fluviale, che si presentava relativamente agevole lungo il corso inferiore del Po e dell’Adige, ma che per questi stessi fiumi a monte di foce Mincio e di Legnago e per tanti altri corsi d’acqua del Veneto e della Valle Padana si prestavano soltanto a barche di fondo piatto e di minima portata, che in certi tratti più ripidi dovevano essere tirate con funi; mentre in montagna e specialmente lungo i valichi alpini, che talvolta incominciavano ad essere pericolosi, non potevano esser fatte che da somieri, che difficilmente portavano più di un quintale ciascuno.
Tutto sommato dunque, se si può affermare che nel corso del X e del XI secolo si sono create tutte o quasi tutte le condizioni che permetteranno il grande sviluppo del commercio e di tutta l’economia veneziana nei due secoli successivi, è anche certo che questo sviluppo è stato poi decisamente favorito dalle Crociate, e che soltanto da queste ha origine la creazione di un impero coloniale veneziano nel Levante.
(C. Luzzatto)

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La Repubblica di Pisa

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La Repubblica di Pisa
Pisa cominciò a reggersi a Repubblica nella seconda metà del secolo XI. Dapprima fu assai ostacolata nei suoi traffici marittimi dai Saraceni, ma, in seguito, aiutata da Genova, riuscì, dopo lunga e accanita lotta, a snidare quei pericolosi pirati arabi dalle isole Baleari, dalla Corsica e dalla Sardegna, dove infestavano il Tirreno e saccheggiavano anche le altre città costiere italiane.
Pur combattendo contro i Saraceni, Pisa aveva empori in Oriente e trafficava con i Turchi, i Libici, i Parti e i Caldei. Molti vantaggi economici ottenne poi dalle Crociate. Splendidi monumenti, palazzi, magnifiche chiese testimoniano ancora quanto fosse ricca e prospera questa Repubblica.

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Decadenza della Repubblica di Pisa

Durante il secolo XIII Pisa decadde, combattuta per terra da Firenze e da Lucca, per mare da Genova.
Nella grande battaglia della Meloria, la flotta pisana fu completamente disfatta da quella genovese (1284), e migliaia di Pisani caddero prigionieri della potente rivale. Dopo questa tremenda sconfitta, Pisa non si risollevò più: perdette, l’uno dopo l’altro, i suoi possedimenti di Sardegna, di Corsica e la Colonia di San Giovanni d’Acri (Asia Minore); cedette a Genova l’Isola d’Elba, e non potè evitare la rovina commerciale del proprio porto. Ai disastri esterni si aggiunse la discordia interna tra Guelfi e Ghibellini.
Un episodio ben noto di questa lotta è quello del Conte Ugolino della Gherardesca, che tentò di farsi signore della città, appoggiandosi ora ai Guelfi ora ai Ghibellini.
Preso a tradimento dall’arcivescovo Ruggieri, suo rivale, venne chiuso con due figli  e due nipoti in una torre, e lì fu fatto morire di fame insieme con gli altri quattro sciagurati. Dante immortalò il tragico avvenimento nel XXXIII canto dell’Inferno.

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Pisa

L’esistenza di Pisa quale città marinara è nota fin dall’età romana: la città sorgeva alla foce dell’Arno, ed aveva un porto grande e sicuro. Dopo l’oscura parentesi delle invasioni barbariche, Pisa conquistò la propria indipendenza e già nel secolo VIII disponeva di una grossa flotta mercantile protetta da numerose navi da guerra. Alle incursioni ed alle minacce dei Saraceni, che correvano in lungo e in largo il Mediterraneo, i Pisani risposero con una guerra spietata, caratterizzata da imprese veramente leggendarie. Nel 1063, le navi pisane, rotta la grande catena del porto arabo di Palermo, irruppero in esso, attaccando le navi alla fonda.
Altre imprese vittoriose vennero compiute, nel giro di secoli di battaglie, a Reggio Calabria, sulle coste della Spagna, delle Baleari, della Sardegna, dell’Africa; famosa, e cantata dai poeti medioevali, la distruzione della roccaforte saracena di Mehedia (1087). La crescente potenza commerciale e militare pisana suscitò tuttavia la gelosia della sua grande vicina, Genova. La rivalità tra le due repubbliche le condusse ad una lunga serie di guerre nelle quali Pisa si venne sempre più indebolendo: la sconfitta della Meloria (1284) segnò l’inizio della sua inarrestabile, rapida decadenza.

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Lo scoglio della Meloria

Al largo del porto di Livorno, circa 7 chilometri a ponente, c’è lo scoglio della Meloria, su cui sorge un’antica torre. Sai perchè lo scoglio è famoso?
Perchè nei suoi pressi i Genovesi inflissero una dura sconfitta alle navi pisane nel lontano 1284, il 6 agosto, al tempo delle lotte combattute dalle repubbliche marinare di Genova e Pisa per il dominio del Mar Tirreno. Durante la sanguinosa battaglia navale due galee genovesi accoppiate, fra le quali era tesa una grossa catena, investirono la nave capitana pisana troncandone di netto lo stendardo bianco con l’immagine della Vergine. La vittoria genovese è ricordata da un iscrizione posta sulla facciata di San Matteo, chiesa dei Doria di Genova.

Morte del conte Ugolino
Alla battaglia della Meloria, nel 1284, i Pisani furono battuti definitivamente e lasciarono diecimila prigionieri nelle mani dei Genovesi. Fu allora che i guelfi toscani, alleati di Genova, minacciarono di marciare su Pisa per distruggerla. In tal frangente fu nominato prima podestà e poi capitano del popolo il conte Ugolino della Gherardesca; il quale, persuaso che si dovesse lottare contro Genova e non contro i guelfi della Toscana, si accordò con questi cedendo loro alcuni castelli e impegnandosi a render guelfa la sua città: gesto di amor patrio che andava oltre la passione politica di fazione; ma non la pensarono così i suoi concittadini che, accusatolo di tradimento, lo imprigionarono con i due figli e i due nipoti nella torre che, dopo di lui, fu detta della fame. Lì i cinque prigionieri furono lasciati miseramente morire di fame. Era l’anno 1288. Tutta la Toscana fu pervasa da un fremito di orrore per tale crudele condanna, che colpiva soprattutto gli innocenti figli e nipoti del conte.
Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, ricostruisce gli ultimi giorni e la fine, ad uno ad uno, dei prigionieri, con un verismo poetico di enorme potenza.

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Pisa ha corso un grave pericolo

Pisa, 1005
La città ha subito un improvviso e duro assalto da parte di armati saraceni, provenienti dalla Sardegna al comando del feroce Musetto. Ecco come essa si salvò dal terribile pericolo.
Pisa è immersa nel sonno. L’unico rumore sommesso è il mormorio dell’Arno, che attraversa la città. Ma forse, nelle loro case, non tutti i Pisani dormono tranquilli. Certo ignorano che alcune galee saracene, risalito il corso dell’Arno, stanno per raggiungere Porta Marina.
Musetto ha scelto il momento giusto: egli sa che questa oscura notte di settembre gli permetterà di dare a fuoco le porte, di irrompere nella città, di saccheggiare, di fare strage fra i Pisani, di portar via come schiavi donne e fanciulli. Lente, silenziose, le galee saracene ormeggiano ora ai serragli del primo ponte. Ed ecco che in un attimo i pirati sono sotto Porta Marina con le fiaccole accese, assalgono con scale e raffi le mura. Abbattuta la Porta i pirati irrompono urlando nelle prime case, con le torce e le spade sguainate. Cominciano a levarsi grida di orrore. Svegliate di colpo, nel sonno, famiglie sbigottite cercano scampo a quella furia nascondendosi, fuggendo, supplicando. In pochi istanti lo scompiglio diventa indescrivibile. In mezzo a tanto sgomento, una sola fanciulla (sembra incredibile) sa conservare la calma. Questa fanciulla è Cinzica de’ Sismondi.  Cinzica comprende subito che occorre fare una sola cosa, per la salvezza di Pisa: raggiungere il Palazzo del Comune e suonare a stormo le campane per dare l’allarme all’intera città. Incurante dei rischi cui va incontro, Cinzica scende dunque nella strada affollata di fuggiaschi e di Saraceni e comincia a correre, a correre… Finalmente, rischiando mille volte la morte, l’intrepida fanciulla è al Palazzo del Comune. Esausta, dà di piglio alla corda delle campane e suona, finché non le rimangono più forze. Poche ore più tardi la città è salva. I Pisani, infatti, svegliati dalle campane e corsi alle armi, erano riusciti a fermare i Saraceni, a travolgerli, a costringerli alla fuga.

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La Repubblica di Genova

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La Repubblica di Genova

Genova fu particolarmente favorita, nello sviluppo commerciale, dalla felice posizione geografica del suo porto, situato in un golfo ampio, profondo e sicuro, protetto alle spalle da un’alta cerchia di monti. Rovinata dai Longobardi, si riebbe solo sotto i Carolingi e divenne presto il centro più importante delle due Riviere di Levante e di Ponente.
Genova, liberata dal dominio dei marchesi e dei vescovi-conti verso la metà del secolo XI, si resse subito a Repubblica, e, lottando alleata con Pisa, contro i Saraceni, s’impadronì della Corsica; ottenuta poi dal Papa l’investitura sulla Sardegna, divenne la vera padrona del Tirreno, strappandone il predominio agli antichi alleati Pisani.
Debellata Pisa, accrebbe la sua potenza militare, politica e commerciale, assicurandosi depositi e magazzini di merci in tutti i porti principali del Mediterraneo orientale e perfino nel Mar Nero, per cui entrò in concorrenza, e rivaleggiò, con Venezia dalla fine del secolo XIII alla fine del secolo XIV.

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Il duello tra Genova e Venezia

Era così grande la potenza di Venezia e di Genova, che le sorti dell’Impero Bizantino, dipendevano dall’esito delle rivalità tra le due Repubbliche.
Il duello, tra Genova e Venezia, pieno di implacabile odio, ebbe varia fortuna e fu combattuto su tutti i mari, e senza quartiere, tra le potenti flotte delle due grandi nemiche, comandate da famosi ammiragli.
L’episodio più importante di questo lungo conflitto fu la guerra di Chioggia (1378), durante la quale Pietro Doria, ammiraglio dei Genovesi, superbamente impose a Venezia la resa. Quest’ultima proposta esasperò i Veneziani, che, da assediati, divennero assediatori, guidati da Vittor Pisani.
I Genovesi, così, furono costretti ad arrendersi per fame e a chiedere la pace, che fu stipulata a Torino (1381) per la mediazione di Amedeo VI di Savoia.
La guerra di Chioggia segnò il tramonto della potenza marittima e commerciale di Genova che non fu più in condizione di prendersi la rivincita su Venezia. Questa infatti ebbe la libertà dei suoi commerci e dei suoi possedimenti in Oriente e la possibilità di espansione anche per terra in Occidente.
Da allora la Repubblica di San Giorgio (Genova) fu tormentata da continue discordie interne e da guerre civili, e, per avere un po’ di pace e di tranquillità, dovette appoggiarsi ora a questa ora a quella potenza straniera a prezzo della propria libertà.

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Genova

Nell’anno 641 i Longobardi attaccarono e distrussero Genova: da questa catastrofe la città riuscì a risollevarsi nel giro di tre lunghi secoli. Il suo risveglio era ormai avvenuto quando, nel 935, i Saraceni piombarono su di essa, saccheggiandola ferocemente. Proprio le ripetute e gravissime incursioni arabe spinsero i genovesi ad apprestare una potente flotta con la quale difendere la città ed i suoi traffici; sorse così la Compagna, una potente associazione di mercanti-guerrieri. Verso il 1100, i consoli della Compagna divennero consoli della Repubblica genovese. Genova ebbe una grande espansione commerciale in tutto il Mediterraneo e stabilì basi e colonie un po’ ovunque; ma la sua storia è soprattutto caratterizzata dalle lunghe guerre condotte contro le repubbliche rivali, quella di Pisa e di Venezia. In più di un secolo di ostilità, alternata a lunghi periodi di pace ed anche di alleanza, Genova piegò Pisa e a sua volta venne piegata da Venezia e s’avviò alla decadenza.

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Genova e l’Oriente

La potenza della Repubblica marinara di Genova, in alcuni periodi, non fu inferiore a quella di Venezia. Anche i Genovesi, che, guidati dai loro mercanti e armatori, erano riusciti a rendersi indipendenti dall’Impero, raggiunsero il massimo della loro forza durante le Crociate, dapprima provvedendo ai rifornimenti degli eserciti cristiani ed ottenendone in cambio importanti posizioni nei porti della Siria e dell’Egitto.  Qui essi vendevano i prodotti europei, i metalli necessari per le armature, il ferro e il legname per le navi. Qui acquistavano, per rivenderli in tutta l’Europa, i prodotti orientali portati dalle carovane che provenivano dall’interno, specialmente droghe e sete indiane. Mentre nel Tirreno la potenza di Genova entrò in conflitto con quella di Pisa (e vinsero i Genovesi sconfiggendo la rivale), in Oriente l’antagonismo fu principalmente tra genovesi e veneziani, per il monopolio dei commerci nel Mar Egeo e nel Mar Nero. Lo scontro si risolse, dopo alterne vicende, a favore di Venezia. I Genovesi (come i Veneziani e i Pisani) possedevano, nei porti orientali, banchine speciali per l’attracco delle loro navi, magazzini, strade, talvolta interi quartieri, governati con le leggi della madrepatria.

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Genova Repubblica marinara
Siamo agli arbori di Genova Repubblica marinara: nel 1016, per iniziativa di papa Benedetto VIII, viene allestita una flotta, composta quasi esclusivamente di navi genovesi e pisane, la quale infligge una sconfitta, lungo le coste sarde al re saraceno Mujahid che si era impadronito dell’isola e molestava con sistematiche depredazioni le coste liguri. Questa vittoria e la successiva opera di penetrazione in Sardegna e in Corsica, segna l’inizio della rivalità tra Genova e Pisa; le due città non esiteranno però ad allearsi con Gaeta, Salerno e Amalfi per combattere più volte il comune nemico:
Nella seconda metà del secolo XI si inaspriscono i conflitti tra i vescovi e i visconti; ma la lotta si compone nel 1099 per merito del vescovo Arialdo, quando nasce la Compagna Communis composta dal vescovo, dai visconti e dalle compagne locali. Riunendo i nobili, i proprietari terrieri, i cittadini dediti al commercio e alla marineria, e il vescovo che conserva i suoi poteri tradizionali, la Compagna Communis si identifica col Comune e nasce così lo Stato Genovese. Nello stesso tempo la potenza marinara di Genova si consolida e si espande sulle due riviere, da Lavagna a Ventimiglia, con vasto retroterra capace di fornirle uomini e mezzi.

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Leone alato e croce rossa di San Giorgio

Quelli che hanno viaggiato per il mar Mediterraneo e sono passati vicini ai promontori, accanto alle mille isole dell’Egeo, e sono entrati nei porti avranno visto sempre, in cima al colle che sovrasta il mare o la città, un grande castello grigio, enorme, quasi sempre abbandonato, rovinato, cadente. Ognuno di questi castelli è un segno dell’antica potenza di Venezia, di Genova, di Pisa, di Amalfi.
Essa arrivava fino a Costantinopoli, fino all’Egitto. Quando i pirati o gli infedeli vedevano all’albero di una nave la bandiera di Venezia, che era il leone alato, o la croce rossa di san Giorgio, che era la bandiera di Genova, sapevano che c’erano a bordo dei marinai animosi che non avevano paura di attaccare battaglia e, se non si sentivano molto superiori di forze, fuggivano…
Era tale il terrore che quelle bandiere davano ai pirati che quando gli abitanti dell’Inghilterra incominciarono a fare lunghi viaggi per mere con le loro navi, domandarono il permesso ai Genovesi di poter innalzare anch’essi i colori di san Giorgio, per essere più rispettati.
I Genovesi acconsentirono, e perciò, anche oggi, voi vedete che la bandiera d’Inghilterra reca, nell’angolo superiore sinistro, la croce rossa, che è quella dell’antica Repubblica di Genova.
(P. Monelli)

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Un documento commerciale marittimo del 1158

Giovanni Filardo, mercante genovese, s’era recato in Egitto, ad Alessandria, per farvi acquisti, portando un capitale di 753 lire genovesi. Al ritorno, poichè doveva allontanarsi per andare a San Giacomo di Galizia a sciogliervi un voto, stese un preciso inventario delle merci, per conoscenza del suo socio e parente Guglielmo che ne fece ricevuta. E’ forse uno dei più antichi documenti commerciali che noi oggi possediamo:
Io Guglielmo Filardo dichiaro che sono presso di me, nel mio magazzino:
I. della commenda che feci a te Giovanni dei beni di Ansaldino mio nipote:
14 sporte di pepe del peso di 65 cantari e 45 rotuli (
il cantaro era circa 80 chilogrammi e il rotulo 800 grammi)
6 fasci di legno brasile del peso di 47 cantari
10 libbre di noce moscata
1 zurra di cannella uguale
87 e mezzo menne o fasci
1 fascio di chiodi di garofano.
II: della commenda fatta a te dei beni di mio nipote Guglielmo:
3 sacchi di pepe del peso di 17 cantari e 42 rotuli
1 fascio di legno brasile del peso di 7 cantari e 52 rutuli
1 zurra di cannella del peso 187 libbre
60 libbre di spica
(olio di nardo)
2 libbre e mezzo di noce moscata
III: della società che ho teco:
2 fasci di legno brasile selvatico del peso di 16 cantari e 88 rotuli
3 sporte di pepe e tre sacchi del peso di 29 cantari e 114 rotuli
4 fasci di galanga
(radici per concia)“.

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La croda rossa leggenda del Trentino Alto Adige

La croda rossa leggenda del Trentino Alto Adige per bambini della scuola primaria.

Ai piedi della Croda, in una capanna tra gli abeti, c’era, nella beata età delle favole, una fanciulla bella come un’alba montana. Era figlia di legnaioli e, rimasta orfana in tenerissima età, viveva sola con alcune pecorelle in un valloncello romito, ove ben di rado l’uomo stampava la sua orma. era quindi una creatura semi selvaggia, che agilmente si arrampicava sino alle ultime “gusele” della Croda, che cacciava il capriolo ed il camoscio tra le balze rocciose, che godeva della più sconfinata libertà nel suo selvaggio regno.

Ora avvenne che un giorno un giovane principe, figlio del Re delle Valli, capitò sulla Croda a caccia del camoscio. Il giovane, forte ed ardito, inseguendo un animale già ferito, abbandonò i suoi compagni e finì con lo smarrirsi tra i contrafforti della montagna.

Il sole stava tramontando, la notte si avvicinava ed il principe non sapeva come fare a trarsi d’impaccio. Suonò a lungo il corno di caccia, ma solo l’eco delle vallate rispose al suo richiamo. Quando già si preparava a trascorrere la notte all’addiaccio sotto un cornicione di roccia, gli parve di udire un belato, seguito da un richiamo umano. Tosto egli si diresse verso quel segno di vita e ad un tratto si fermò, rapito dinanzi ad uno spettacolo d’una incomparabile bellezza. Presso una fonte che sgusciava da un masso, c’era una fanciulla vestita di pelli d’animale, che era certamente la più bella di tutte quelle che egli avesse mai visto.

I due giovani rimasero estatici a guardarsi, e subito d’accesero d’una fiamma d’amore. Seduti accanto alla fonte, mentre l’aria scuriva e la sera fasciava di silenzio le cose, sotto il palpitare di una limpida serenata di stelle, i due si dissero pianamente, dolcemente tutto il loro amore e giurarono di non separarsi mai più.

L’indomani il principe ritornò alla reggia di suo padre, conducendo seco la silvestre fidanzata. Quando egli espresse l’incrollabile volontà di farla sua sposa, tutta la Corte inorridì come per un sanguinoso insulto. Ma il vecchio re, che amava molto il figlio, non seppe dirgli di no, perciò gli sponsali si fecero, splendidi e memorabili, tra i sogghignare maligno delle dame di Corte, che non potevano capacitarsi d’esser state posposte ad una creatura selvaggia della foresta.

Un giorno in cui il giovane principe era lontano per una spedizione di guerra, le dame di Corte cominciarono il solito gioco maligno delle insinuazioni contro la principessa. Per farle ancora una volta sentire che la consideravano un essere inferiore, un’intrusa, cominciarono a descrivere il lusso e gli agi dei palazzi ov’erano state allevate.

“Vuol raccontarci, di grazia, dove e come fu allevata?”

Un risolino di sprezzo apparve sulla bocca delle dame di Corte.

La principessa sentì un’onda di sangue salire al volto. Scattò in piedi e corse verso una balconata, la spalancò, gridando: “Ecco, ecco, lassù io sono stata allevata! Nacqui in terra libera e sempre fui libera. Castello mi fu la Croda, più grande e più bello di tutti i castelli. Ebbi compagne le creature della foresta, più caste, più pure, più sincere d’ogni cortigiano. Quello è il regno dove fui regina e dove tornerò”.

La Croda, nella chiarità del tramonto, ardeva come una torcia d’una stupenda luce porporina e pareva un autentico castello di sovrumane proporzioni, scolpito nel rubino.

La principessa si sentì mancare il cuore. Era per lei, per lei che la Croda s’era fatta tanto bella, s’era ammantata di broccati di luce, s’era cinta di aristocratiche sembianze, per confondere i suoi nemici, per esaltare la sua figliola! Era un miracolo d’amore, questo… Ed allora, non potendo più resistere al richiamo che sentiva dentro di sé, approfittando del fatto che tutti stavano rapiti a contemplare la montagna porporina, la giovane fuggì e, risalendo la valle, ritrovò la sua capanna e fu di nuovo libera e felice.

Quando il principe tornò e seppe che sua moglie era scomparsa, pensò subito dove avrebbe potuto rintracciarla e partì di gran carriera verso la Croda. Lassù ritrovò la fuggitiva, che lo accolse con tutta la sua gioia, ma non volle tornare alla reggia, dove regnava la malignità e l’ipocrisia. Posto nella alternativa di rinunciare alla moglie o alla successione al trono, il giovane non esitò: scelse la sconfinata pace della Croda e restò nella silvestre capanna accanto alla sua donna. I due vissero liberi e felici ed allevarono tanti e tanti figlioli, sani arditi e belli, come i loro genitori.

Da quella sera lontana la Croda ripete il suo miracolo d’amore, diventando, al tramonto, la più bella, la più fiammeggiante vetta dei Monti Pallidi. E perciò d allora in poi fu chiamata la “Croda Rossa”.

(R. Baccino)

Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Il chiodo di Sant’Ambrogio

Il chiodo di Sant’Ambrogio: leggenda della Lombardia per bambini della scuola primaria, per la lettura e il riassunto.

Un bel giorno sant’Ambrogio, vescovo di Milano, venne chiamato a Roma dal Papa. Arriva dunque la lettera:  sant’Ambrogio la apre e legge, e vede che non c’è tempo da perdere: il Papa ha da parlargli d’urgenza.

L’indomani mattina subito, di buonissima ora che in giro suonavano le prime avemarie,  sant’Ambrogio si alza, si veste da pellegrino, mette la testa in sacrestia e dice al sagrestano: “Suona pure il primo segno della messa, che io vado un momentino a Roma a parlare col Papa; gli altri segni dalli a suo tempo che, per la solita ora, io sono qui di ritorno”.

Ripone il breviario in scarsella, salta in groppa alla mula e via per Roma, pregando il cielo che gliela mandi buona. Fosse l’aria sottile di quel mattino che metteva le ali ad ogni cosa, o non so che diamine fosse, la mula andava come il vento quando ha fretta.

Sicché, in un batter d’occhio, arriva a Roma. Naturalmente a quell’ora i romani erano ancora tutti a letto che russavano. Ambrogio va sull’uscio della casa del Papa, e giù una bella scampanellata che tutte le sale ne squillarono a lungo.

Di lì a un po’ un vecchio servitore viene ad aprire borbottando: “Son queste l’ore di disturbare Sua Santità?”

Calmo, Ambrogio gli mostra il rotolo della pergamena papale con tanto di espresso, e aggiunge: “Fate il piacere di dire al Papa che faccia presto, perchè io ho premura di tornare a Milano per dir messa”. E intanto si accomoda nella sala d’aspetto.

Il Papa sente la notizia, si alza, si lava la faccia alla meglio, poi va in sala d’aspetto e saluta l’ospite: “Buon giorno, Ambrogio”.

“Buongiorno, Santità”.

“Ho una ramanzina da farti”

“Son qui a prenderla” fa Ambrogio, lisciandosi la bella barba d’oro, simile allo sciame d’api. E poichè lì dentro faceva caldo, si levò il mantello, ma invece di attaccarlo a uno dei cavicchi d’argento che erano lì apposta, lo mise a cavallo di un raggio di sole che entrava dalla finestra.

Il Papa guarda quella faccenda, un po’ stupito. Che diavolo d’uomo era costui? L’aveva chiamato per fargli una ramanzina e adesso gli vede far cose che, se non fanno la santità, però la dimostrano; e quasi quasi non trovava il coraggio di incominciare.

Ambrogio, vedendo che andava alla lunga: “Fate presto, Santità!” gli dice con quell’aria sbrigativa propria dei santi che sanno di essere sul sicuro, qualunque cosa dicano o facciano, “Fate presto, perchè io sento già suonare il secondo segno della messa al mio paese” (che era poi Milano).

A quel parlare il Papa lo guarda con un più attento stupore: “Cos’hai detto? Che senti le campane di Milano?”

“Sì, Santità, mettete il vostro piede qui sul mio e sentirete anche voi”.

Il Papa allunga la sua pantofola vicino alla povera scarpa di Ambrogio e, mirabile cosa! anche lui sente suonare le campane di Milano. Allora entrò in sospetto anche più forte di essere veramente davanti a un santo. Tuttavia si ricordò che il Papa è sempre il Papa, cioè il superiore anche dei santi e ha il dovere di rimbrottarli quando è il caso. Sicché cominciò a parlare e gli diede il fatto suo.

Sant’Ambrogio ascoltò quella parlata fino alla fine, in umiltà grande e in silenzio, lisciandosi di tratto in tratto la bella barba d’oro. Finito che ebbe il Papa di parlare, Ambrogio gli fa: “Va bene. Nient’altro?”

“Nient’altro.”

“Allora buongiorno, Santità”

“Buongiorno, Ambrogio”

E Ambrogio scende in fretta le scale, dà la buona mano al servitore che gli aveva custodita la mula, vi monta in sella e via come una spia.

E’ a un chilometro appena fuori di città, che la mula perde un ferro e non c’è più verso di farla correre. Bisogna metterglielo, dunque.

Ambrogio scende, entra nella bottega di un fabbro che era lì a un tiro di sasso e lo prega di ferrargli la mula, raccomandandosi di mettere il ferro a rovescio, sì che le impronte siano verso Roma. Ora, mentre il fabbro faceva il suo mestiere, Ambrogio guarda dentro una cassetta piena di ferri vecchi e ci vede un chiodo tutto bistorto, un chiodo da cantiere. Lo prende in mano e chiede al fabbro: “Me lo cedi?”

“Portalo pure via!” dice il fabbro.

“A che prezzo?”

“Portalo via e non seccarmi, che te lo do proprio per ferro rotto”.

Ma Ambrogio vuole pagarlo ad ogni costo. Lo butta sulla bilancia, lo pesa, e tanto pesava il chiodo, tanto gli corrisponde in oro. Ambrogio salta in sella, e via al galoppo. Aveva fatto sì e no cinquanta passi, che tutte le campane di Roma, din don dan, din don dan, si mettono a suonare a distesa disperatamente come quando c’è il giubileo, quasi a salutare la partenza del chiodo.

Fra i romani subito nacque gran rumore, e tutti si fecero agli usci e alle finestre a domandare che diamine ci fosse. I più vicini a San Pietro si spinsero fin sotto le finestre del Papa: il quale, anche lui, in questa faccenda, ne sapeva meno degli altri. Però, subito dopo, si ricordò di Ambrogio e disse ai più vicini: “Non è un quarto d’ora che è uscito da Roma Ambrogio da Milano; è certo lui che ha sollevato questo putiferio. Ne ha fatte di stranezze, anche in casa mia; corretegli dietro e raggiungetelo, che è sulla strada di Milano a dorso di una mula bianca.

Una dozzina di quei romani più scalmanati montano in groppa a certi sauri del Papa e via al galoppo per la strada di Milano. Passano innanzi alla bottega del fabbro e gli chiedono: “Avete visto passare un uomo così e così?”

“Altro che se l’ho visto!” risponde il fabbro. “Gli ho ferrata la mula, e poi ha voluto portar via un vecchio chiodo bistorto, pagandomelo, ad ogni  costo, a peso d’oro!.”

“Qui c’è qualche miracolo in giro” fa il più furbo di quelli; e via dietro all’uomo del miracolo, così rapidamente che i cavalli non facevano in tempo a toccar terra. Galoppa e galoppa, lo raggiungono a Milano, e precisamente vicino a Porta Romana. Lo fermano e gli chiedono: “Tu hai portato via un chiodo così e così?”

“Sì” fa Ambrogio un po’ seccato.

“Per questo a Roma  si son mosse a suonare tutte le campane. Segno è che esso è un chiodo prezioso”.

“Non ne so nulla io” rispose Ambrogio, “Piuttosto, lasciatemi andare che ho da dir messa e sento suonare già l’ultimo segno”.

“Ma è un chiodo prezioso” insistono i Romani, “Portalo subito indietro, che Roma lo vuole”.

“No, no” fa Sant’Ambrogio “Io l’ho ben pagato al suo padrone, e adesso è mio”.

Sì, no, è mio, è nostro, la cosa diventa spessa. Sicché Sant’Ambrogio, ch’era spiccio anche col Papa, dice ai romani: “Sentite, diamogli un taglio e facciamo così: adesso andiamo a casa mia, in Duomo io butto il chiodo in alto, verso la cupola; se il chiodo resta su, sospeso, è segno che deve restare qui; se invece cade a terra, lo riportate via voialtri”. D’accordo, vanno in Duomo tutti insieme.

Sul volto di Ambrogio c’era tanto splendore come se vi si fosse adunata la luce del sole. Ambrogio va sotto la cupola e, uno, due, tre, lo butta in alto con un soavissimo gesto. E il chiodo restò sospeso, lassù. Ed è là ancora oggi.

(C. Angelini)

Il chiodo di Sant’Ambrogio – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Il chiodo di Sant’Ambrogio

Il menestrello

Il menestrello – racconto ambientato nel Medioevo per bambini della scuola primaria, adatto alla lettura e al riassunto.

Era da poco cominciato l’inverno, ed i fossi erano tutti gelati, quando un giovane venne a suonare il corno davanti al castello di sir Galihud Sans Pitiè.

Dalla finestra del barbacane un soldato gli chiese: “Che volete?”.

“Sono un menestrello” rispose il giovane, “e voglio entrare, per rallegrare il signore di questo luogo con le mie poesie”.

“Se vuoi un consiglio, vattene via. Sir Galihud Sans Pitiè non ama se non la caccia e la guerra”.

“Ma ci saranno pure delle dame, al castello, e dei cavalieri cortesi!”

“Ci sono”.

“Bene” disse il menestrello “aprimi, allora. Io canterò per loro”.

Il ponte levatoio s’abbassò, la porta si aprì ed il menestrello entrò nel maniero. Era un giovane biondo, dai lunghi capelli, dal viso bianco come la cera, dalle spalle delicate e rotonde. Vestiva di scarlatto, ed aveva a tracolla un liuto ed una sacca piena di carte. Il soldato lo condusse subito nella sala ove sir Galihud teneva tavola imbandita.

Quando videro il menestrello, le dame ed i cavalieri che vivevano al castello, o che vi erano ospiti si rallegrarono e lo invitarono a cantare le sue canzoni.

“Col permesso del signore, delle dolci dame e dei giovani cavalieri” disse allora il menestrello, “canterò la storia d’amore della regina Didone per l’eroe Enea” e cominciò a suonare ed a cantare; ma non aveva tratto che poche e delicate note, quando sir Galihud esclamò: “No, no! Codesta canzone non mi piace!”.

Il menestrello si inchinò e cominciò un’altra canzone; ma l’aveva appena intonata, che sir Galihud esclamò: “Via, via, nemmeno questa mi piace!”.

Per la terza volta il menestrello ricominciò, e per la terza volta sir Galihud lo interruppe, esclamando: “Basta con questi lamenti!”.

Il menestrello allora gli si volse e disse: “Parlando in codesto modo, messere, voi fate una grande villania prima a voi stesso che a me. Perchè cosa penseranno, le dame ed i cavalieri che vi ascoltano, se non che siete un uomo sgarbato e rozzo e senza cortesia?”

A queste parole tene dietro un lungo silenzio; e sir Galihud, alzandosi dal suo scranno esclamò: “Tu hai parlato troppo!” e scavalcata la tavola si avventò sul menestrello, e strappandogli il liuto, prese con questo a batterlo: e lo fece con tanta rabbia che ben presto il giovane cominciò a sanguinare dal naso e dalle orecchie, e cadde a terra svenuto. sir Galihud stava per colpirlo ancora, quando il giovane sir Lionel, un cavaliere ospite del castello, lo agguantò per le braccia trattenendolo e gridò: “Vergogna, sir Galihud! Voi avete battuto un uomo disarmato!”.

“Lasciatemi subito andare e chiedetemi perdono!” rispose furibondo il cavaliere “O vi batterete con me!”.

Sir Lionel lasciò la presa e disse: “Così sia. Mi batterò con voi quando vorrete!”.

“Ciò sarà subito!” replicò sir Galihud, e lasciò la stanza, per andare a prepararsi. Le dame e gli altri cavalieri seduti alla tavola, allora, si rivolsero a sir Lionel, scongiurandolo di lasciare subito il castello e di non misurarsi con sir Galihud. “Egli è feroce come un leone” gli dissero “e vi ucciderà, come avrebbe ucciso questo menestrello, perchè non ha mai dato quartiere ai suoi nemici”.

Sir Lionel rispose: “La nostra vita è nelle mani di Dio; ed anche se io morrò, almeno avrò salvato la vita di questo giovane”, e qui si chinò sul menestrello insanguinato e gli disse: “Coraggio, poeta! Di queste ferite non si muore!”.

Il menestrello aprì gli occhi e mormorò: “Dio vi ricompensi, messere, per quello che avete fatto. Da parte mia, io non lo scorderò mai”.

In questo momento entrarono gli araldi e dissero come sir Galihud fosse già sceso nel cortile ed aspettasse sir Lionel per il duello. Sir Lionel allora, con sereno volto, prese il suo cimiero e si avviò, tra il pianto delle dame ed i sospiri dei cavalieri.

sir Galihud era già in sella, e quando vide sir Lionel gridò, levando il pugno: “Nemo me impune lacessit!” che era un motto che significava ‘nessuno mi ha mai sfidato impunemente’. Sir Lionel montando in sella rispose: “Dio mi è testimone che non vi feci offesa alcuna”.

In breve, i due furono pronti per il duello, ed al segnale corsero fieramente ad incontrarsi, e ruppero le lance con strepito e fragore; ma sir Lionel fu scavalcato e piombò a terra, ed allora sir Galihud, smontato sveltamente da cavallo, gli si fece addosso e, toltogli l’elmo, gli troncò di netto la testa. Le dame gridarono, coprendosi il volto con le mani ed anche i cavalieri volsero gli occhi per non vedere.

Sir Galihud gridò: “Dov’è il menestrello? Portatelo qui!”

Due soldati trascinarono nel cortile il menestrello; e sir Galihud gli disse, accennando al corpo di sir Lionel: “Prendi il tuo protettore, e vattene. Ricorda: se metterai ancora piede nel mio castello, ti ucciderò!”.

Nel gran silenzio del cortile, il menestrello avanzò e con molta pietà prese tra le braccia sir Lionel: barcollando sotto il peso, poi, uscì dal castello. Quando fu fuori, scavò con le sue mani una fossa, e vi depose il morto, e dopo avere lungamente pianto e pregato lo coprì di terra dicendo: “Sir Lionel, non mi scorderò di voi!”.

Passarono due anni. Venne due volte la neve e cancellò ogni cosa. Poi due primavere portarono cielo azzurro e fiori, e fecero spuntare tenera erba sulla tomba di sir Lionel; giunsero due rigogliose estati, e gli autunni ricchi di foglie e di colori. Quando il terzo inverno riapparve coi primi geli, le sere tornarono a farsi molto lunghe nelle sale del castello ove sui camini ardevano ceppi resinosi.

Una sera assai fredda, ecco suonare il corno sotto il castello di sir Galihud. Questi, che sonnecchiava accanto al fuoco, domandò: “Chi suona a quest’ora?”

“Messere” annunciò un servo, “è un menestrello che chiede di entrare”.

“Ah, fatelo entrare, sir Galihud!” gridarono le dame, che si annoiavano profondamente, “che ci narri qualche storia d’amore e d’avventura!”.

“Io non sono amico dei menestrelli, lo sapete e sterminerei la loro razza. Ma poichè la sera vi sembra tanto lunga, ebbene, che quel poeta salga a cantarvi le sue canzoni!”.

Così fu fatto, ed il menestrello entrò nel maniero e venne condotto nella sala; ma, anziché avanzarsi verso la tavola, si arrestò sulla soglia, dove la luce delle torce giungeva appena.

“Vieni avanti, menestrello!” ordinò sir Galihud.

“Ci sarà tempo, per questo” rispose il menestrello senza muoversi; e le dame mormorarono: “In verità questa sembra la voce di un guerriero, e non di un poeta!”.

“Va bene, sta pure dove sei” disse sir Galihud. “Quale canzone buoi cantare?”

Stando nell’ombra il menestrello disse: “Col permesso del signore, dello dolci dame e dei nobili cavalieri, io narrerò la storia di un prode e generoso cavaliere, che venne ucciso da un villano signore senza pietà, perchè aveva difeso un povero menestrello come me”.

Tutti rabbrividirono e si volsero verso sir Galihud; e questi, buttato a terra il boccale di sidro che teneva in mano esclamò levandosi in piedi: “Codesta storia non mi piace! E tu, menestrello, fatti avanti, in modo che io ti veda in volto!”.

Allora, mentre tutti tacevano, il menestrello camminò verso il centro della sala, e rivelò l’essere suo; e tutti mormorarono stupidi perchè, malgrado avesse capelli corti da soldato, viso abbronzato, spalle larghe e quadrate, riconobbero in lui il menestrello venuto due anni prima e percosso da sir Galihud. E questi disse: “Hai sbagliato a tornare nel mio castello! Avevo promesso che ti avrei ucciso! Tu vuoi morire!”.

“Non sono ancora giunto a questo.”

“Ebbene, vi giungerai!”.

Sir Galihud prese un grosso coltello, che serviva per tagliare la carne, e si avventò sul menestrello; ma questi corse al muro dove erano appesi i trofei di guerra, e staccò da esso una spada, e brandendola disse: “Io sono qui sir Galihud, per vendicare la morte di sir Lionel!”.

“Tu morrai come lui! Nemo me impune lacessit!”

Sir Galihud menò alcuni colpi col suo coltello, ma il menestrello li schivò facilmente tutti, ed anzi a sua volta colpì di spada e ruppe il pesante giaco di cuoio di cui il cavaliere era rivestito. Tutti si meravigliarono che un poeta sapesse duellare con tanta perizia; ed ancor più si stupirono, quando sir Galihud venne ferito a un fianco, e cominciò a perdere sangue.

“Tu combatti con una spada, menestrello! Lascia dunque” esclamò il malvagio cavaliere arrestandosi ” che io mi armi come te”.

“Messere, sia come volete. Ciò non vi salverà dalla morte”.

Sir Galihud andò allora accanto al muro dei trofei di guerra; ma, invece di prendere una spada come quella del menestrello, ecco che staccò un enorme spadone che si impugnava a due mani; e con esso, roteandolo furiosamente, si fece avanti.

I cavalieri presenti pensarono, allora, che nessun onore poteva venire a sir Galihud da una simile azione. Il menestrello però non dimostrò alcuna paura, e fermamente fronteggiò sir Galihud, arretrando ed abilmente schivando tutti i terribili fendenti dello spadone.

Quando ebbe compiuto per tre volte il giro della grande sala, senza mai riuscire a menare un colpo al segno, sir Galihud si fermò ansimante e disse: “Tu fuggi, codardo!”.

“L’ho fatto fino ad ora” replicò il menestrello “perchè voi vi battete con due mani, ed io non una. Ma a questo” aggiunse fieramente, “c’è rimedio!” e con un gran fendente, tagliò netta la mano sinistra di sir Galihud. “Ecco che ora combatterete con una mano sola!” disse ancora, e mentre il malvagio cavaliere cercava, con una sola mano, di manovrare quel suo pesantissimo spadone, il menestrello lo colpì sulla testa con tanta violenza che sir Galihud cadde morto e non si mosse più.

Allora il menestrello si volse alle dame ed ai cavalieri, che avevano dato un grido, ma che non erano mossi, e disse loro: “Per due anni, signori, scordando poesia e canzoni, combattendo nella Terra Santa per il riscatto del sepolcro di Gesù, mi sono esercitato nell’arte della guerra, fortificando il mio spirito e il mio corpo. E ciò ho fatto, perchè dovevo compiere giustizia e vendicare la morte di sir Lionel. Ho atteso lungamente: ma ora che quest’uomo senza pietà è perduto ecco io rinuncio alla lancia ed alla spada. E” concluse “torno per sempre al mio liuto ed alle mie poesie”.

Così dicendo lasciò cadere la spada; né volle fermarsi al castello, benché fuori smisuratamente fioccasse la neve; e si allontanò sul suo cavallo, e mentre si allontanava, lo udirono cantare una dolce e triste canzone d’amore e di guerra.

(P. Selva)

Il menestrello – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Il menestrello

Abdullah e il pepe

Abdullah e il pepe: un racconto ambientato nell’epoca delle crociate, per bambini della scuola primaria adatto alla lettura e il riassunto.

Il Pascià di Alessandria, dopo aver ascoltato distrattamente tre religiosi biancovestiti, con una croce rossa e blu sul petto, chini umilmente davanti a lui, contò e ricontò la somma piuttosto forte che gli era stata appena consegnata. Poi fece schioccare le dita: “Chiamate Abdullah!”.

Lo schiavo Abdullah spuntò fuori dalle cucine dove stava lavorando da quasi undici anni. Era uno schiavo dagli occhi azzurri e dal naso un poco all’insù, vissuto fino a dieci anni, con il nome di Giannetto, in un villaggio della valle della Loira.  Per aver seguito un pastore di Vendome che predicava la Crociata dei Fanciulli, egli era andato a finire in qualità di marmittone in mano ai Barbareschi…

Il Pascià gli disse: “Ecco degli ulema (dotti) del tuo paese che mi hanno versato un buon prezzo per il tuo riscatto. Poiché ti sei comportato bene, ti restituisco la libertà. Ricorda che tu sei vissuto fra noi più a lungo che non presso i Franchi; se un giorno sentissi il desiderio di ritornare da noi potrai invocare la mia protezione”.

E Abdullah-Giannetto partì con i monaci trinitari verso il molo dove si riunivano gli schiavi riscattati.

Ma verso la fine di settembre, appena cinque mesi dopo la sua liberazione, egli si trovava di nuovo davanti al Pascià, in compagnia di un altro cristiano fornito di un’enorme bisaccia di cuoio. Affondato in un sofà di seta verde, il Pascià prendeva da una cesta delle arance candite e delle uova sode…

“E così” gridò “tu hai fatto naufragio… racconta!”.

“Dopo dieci settimane di navigazione” racconta Giannetto, “la nostra nave andò a sbattere contro uno scoglio a fior d’acqua, si squarciò e affondò. Io fui spinto sugli scogli, e riuscii a toccar terra, mezzo annegato. Dopo aver preso fiato e vestito com’ero con i soli pantaloni, mi inoltrai nell’interno del paese finché raggiunsi una città fortificata, costruita sulle pendici di una collina. La gente vi parla la lingua di Felì, il Provenzale, il nostro schiavo pasticcere. Verso sera, quasi morto di fame e di sete, mi fermai alla porta di una taverna. Nel vedermi, l’enorme padrone si pose sulla soglia della porta e bastò questo  per sbarrarmi l’ingresso.
In quel momento io sentii in tasca delle palline dure: automaticamente ne tirai fuori alcune per vedere ci che si trattava. Erano aromi che Felì mi aveva donato al momento della partenza. Non appena vide quei granellini, l’oste mi stese la sua manaccia in modo così imperioso che io aprii le dita e cinque grani verdastri vi rotolarono. Vedendo di che cosa si trattava, l’omaccio esclamò: ‘Guarda un po’! Del pepe!’. Mi fece entrare nella cucina e mi diede da lavare dei bicchieri e dei piatti maleodoranti. Allora pensai che non avevo niente da guadagnare a essere libero… La mia cena furono un pezzo di pane e pochi fichi, prima di andare a dormire nel granaio.
Qui ebbi il tempo di contare i miei grani di pepe: me ne restavano 13 e li rimisi nel sacchetto. Senza riflettere bene a quello che facevo, nascosi quel sacchetto sotto una trave: era tutta la mia fortuna e ciò mi fece ridere!… Nel cuore della notte, fui risvegliato dall’oste: alla luce fioca della candela frugava nei miei pantaloni. Poiché sapeva bene che io non avevo denaro certamente stava cercando il pepe. A forza di frugare perfino nelle cuciture, scoprì un grano che mi era sfuggito, fece un grugnito di soddisfazione e se ne andò.
Il mattino, me la squagliai, naturalmente con il mio pepe!”.

“Parlami dell’oste, non è stato bastonato?” domandò il Pascià tra un boccone e l’altro.

I racconti arabi si snodano senza fine, come una stella filante, inseguendo le vicende di tutti i personaggi. Il Pascià fu quindi deluso nel sentire che Giannetto non sapeva nulla del suo ladro.

Il ragazzo riprese: “Fuori scorsi un uomo di alta statura, che mi sembrava un religioso, vestito di bianco. Costui si dirigeva verso una casa che aveva l’aspetto di una fortezza. Con il cuore che mi batteva forte, mi misi a correre e oltrepassai la porta subito dopo di lui.  Cercai di raccontargli la mia avventura perchè volevo che qualcuno mi aiutasse, ma egli non ne aveva alcuna intenzione. Allora, preso dalla disperazione, gli offrii tre grani di pepe. Subito, un altro religioso che era rimasto in parte silenzioso, venne verso di me; prese i grani, mi condusse in cucina, dove mi fu data una buona minestra e poi nel magazzino dove mi vestirono decentemente.
Quando uscii di là, il mercato era zeppo di gente e nessuno faceva caso a me. A un certo momento, nel tumulto delle discussioni, sentii una voce che gridava: ‘E’ caro come il pepe!’. Allora non esitai a tentare il colpo grosso: mi avvicinai a un farmacista, che aveva il negozio traboccante di fiale, di vasi e di boccali sigillati. In seguito seppi che si chiamava Pastenague. Dapprima egli si mostrò arrogante, ma io me l’aspettavo… Alcuni grani nel palmo della mia mano gli fecero allungare il collo e arrotondare l’occhio come una gallina che ha scorto un verme. Io fissai un prezzo: quattro denari d’argento per ogni grano; ci volle molto tempo perchè si decidesse, ma, alla fine, aprì uno scrigno chiodato sul quale era seduto, prese quattro grani e mi diede in cambio sedici monete d’argento tirate fuori dallo scrigno”.

“Potevi chiederne anche di più” disse il Pascià da uomo che se ne intendeva, “i giauzzi (infedeli) sono più avidi di pepe che d’oro. Ma che cosa è successo poi ai monaci?”

“Non so.” rispose Giannetto, “Con il mio denaro andai ad alloggiare nell’albergo della Palma, il migliore della città, e feci alcune spese necessarie per il viaggio. Infatti, con i cinque grani che mi restavano, credevo ormai possibile il ritorno al mio villaggio. La sera, a cena, una compagnia di mercanti che stavano andando alla fiera di Beaucaire, venne a sedermisi vicino. Essi erano molto allegri, io bevvi del vino e parlai loro del mio sacchetto di pepe che portavo appeso al collo come uno scapolare. Essi mi assicurarono che alla fiera ne avrei ricavato comodamente una libbra parigina per ogni grano e mi proposero di fare la strada assieme a loro: mi avrebbero aiutato a ricavarne un buon guadagno. Io ne provai un piacere tale che feci versare da bere molte volte a tutta la tavolata. Ma il vino che non conoscevo oramai da molti anni mi fece girar la testa…
Mi svegliai, tardi, il mattino seguente; l’albergo era silenzioso, senza i campanelli dei muli, senza nitriti e senza il va e vieni dei palafrenieri con gli zoccoli. Mi precipitai alla finestra…”

Qui il Pascià si lasciò andare sul dorso agitando le gambe, chiocciando di soddisfazione.

“Ho indovinato!” gridò, “La carovana ti aveva piantato dopo averti derubato!”.

“Sì, ero stato derubato” fece Giannetto. “Qualcuno aveva tagliato il cordoncino del mio sacchetto; andai a sedermi nella grande sala, accasciato… e passò un po’ di tempo.
Verso mezzogiorno, vidi entrare Pastenague preoccupato in cerca di qualcuno. Mi si avvicinò lentamente, mi tirò per la manica e mi disse all’orecchio: ‘Mi impegno a comperare tutto il pepe che potrai vendermi, fino a un quarto di libbra e a buon prezzo’. Mi voltai verso di lui e gli dissi che potevo procurargliene non solamente a dozzine di grani, e neppure a quarti di libbra, ma a centinaia di sacchi di cento libbre… e così pure per la vaniglia, per la noce moscata, e per i chiodi di garofano… Pastenague spalancò gli occhi e mi guardò spaventato: mi credeva matto! Ma oramai mi ero lanciato; descrissi le banchine del porto di Alessandria, i suoi magazzini dove si ammucchiano a montagne le balle delle spezie profumate. L’impressione del mio discorso su così viva che, prima di sera, avevamo firmato un contratto a tre: Pastenague, Goffredo, un socio che ho trovato senza difficoltà, ed io. Tu lo conosci, o signore, poichè ne hai visto l’originale e la traduzione. Tu hai certamente notato che il mio aiuto consiste nella conoscenza della lingua, ma soprattutto nella promessa della tua magnanima protezione…”.

“Avrai tutte le merci che desideri” disse il Pascià “alle stesse condizioni che noi facciamo ai mercanti genovesi”. Poi aggiunse: “I credenti e i giaurri non andranno mai d’accordo, ma possono però commerciare: il commercio è gradito a Dio; il tuo viaggio ti renderà ricco. A proposito: ti ricordo che io da solo voglio guadagnare quanto voi riuniti insieme. Ma voi siete solamente due. Parlami del tuo farmacista”.

“A proposito di lui, posso risponderti. Eravamo sulla nave in partenza col cuore stretto dall’angoscia al pensiero dei pericoli che ci attendevano. Il capitano comandò di ritirare la passerella che ci collegava ancora alla terra. Si udì allora un grido acuto e noi vedemmo Pastenague che fuggiva dalla nave correndo sulla passerella con il suo scrigno sulle spalle; e, sempre gridando, scomparve fra i pini sulla spiaggia. In quel momento il capitano lanciò l’ultimo ordine: ‘Fate le vele, con l’aiuto di Dio’.”.

Abdullah e il pepe – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Abdullah e il pepe

LA TERZA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

LA TERZA GRANDE LEZIONE MONTESSORI riguarda la comparsa e l’evoluzione dell’uomo sulla Terra e porta alla costruzione di una linea del tempo che evidenzia le tre grandi caratteristiche che rendono la nostra specie così importante: una mente immaginativa, una mano che sa compiere un lavoro, un cuore che sa amare. Qui trovi:

  • tre versioni della fiaba cosmica relativa
  • idee e materiali vari per i giorni successivi
  • letture per la preparazione dell’insegnante
  • links a materiali e risorse utili.

La terza lezione cosmica Montessori evolve nello studio di queste materie:

  • Storia: linee del tempo, preistoria, civiltà antiche, storia mondiale, storia di Continenti e Paesi specifici
  • Cultura: arte, artisti, musica, compositori, danza, teatro, architettura, design, filosofia, religioni, buone maniere e gentilezza.
  • Studi sociali: attualità, politica, economia, commercio, volontariato
  • Invenzioni e scoperte scientifiche: scienziati, inventori, metodo scientifico, invenzioni, macchine semplici.

LA TERZA GRANDE LEZIONE MONTESSORI
Presentazioni e materiali (quando presentare la terza grande lezione ai bambini)

Questo è lo schema delle presentazioni, considerando in particolare lo studio della Storia:

  • prima fiaba cosmica (formazione della Terra)
  • seconda fiaba cosmica (comparsa dei viventi sulla Terra)
  • fascia nera del tempo (immagine del tempo prima e dopo la comparsa dell’uomo sulla Terra)
  • terza fiaba cosmica (caratteristiche dell’essere umano)
  • riassunto delle prime tre fiabe cosmiche in recita
  • fascia nera della mano (evoluzione dell’uomo e creazione della sovranatura)
  • lezione sull’evoluzione umana
  • linea del tempo dell’evoluzione umana
  • carte dei bisogni fondamentali dell’uomo

LA TERZA GRANDE LEZIONE MONTESSORI
Terza grande lezione Montessori: la comparsa dell’uomo

PRIMA VERSIONE

Chi si ricorda qual era l’ultimo mammifero comparso sulla linea del tempo di vita? Come si è preparata la Terra per la vita di questo mammifero? Prima di tutto la Terra si è dovuta raffreddare, e per questo c’è voluto un tempo molto, molto lungo. Sono comparse le acque e le rocce. Poi una prima forma di vita si è sviluppata nell’acqua, e si è diversificata sempre più, riempendo gli oceani. In seguito le piante si sono spostate a vivere sulla terraferma e questo ha prodotto il terriccio, e insieme agli insetti ha fornito il cibo per tutti i viventi che vennero dopo. Alla fine di tutto questo lavoro, la Terra era pronta. Solo allora poteva giungere l’essere umano. Un essere umano simile a voi ed a me. L’essere umano apparve molto tempo dopo l’inizio del raffreddamento della Terra. Ti ricordi la piccolissima strisciolina rossa alla fine della lunga striscia nera che abbiamo srotolato sul pavimento? Quella piccola parte rossa ci ricorda che gli esseri umani si trovano sulla Terra da pochissimo tempo. Oggi parleremo un po’ dell’essere umano. L’uomo è un essere molto diverso da tutti gli esseri viventi comparsi prima di lui. Ma cosa lo rende così diverso e speciale?

La vostra mente in questo momento sta pensando. Forse vi state chiedendo cosa sto per dire. Oppure state pensando ad altro. Questo tipo di mente che pensare come state pensando voi ora, appartiene solo agli esseri umani. Gli esseri umani possono pensare e chiedersi perché soffia il vento, perché cade la pioggia, che cosa sono le stelle. Alcune persone hanno inventato e raccontato storie su ciò che stavano pensando. La gente continua a farlo anche oggi.

C’è un’altra cosa che rende gli esseri umani diversi da qualsiasi altro essere vivente della Terra: gli esseri umani possono amare. Voi potete amare. Io posso amare. Posso amare mia madre, le mie sorelle, i miei fratelli, mio padre, la mia famiglia, voi, tutte le persone di questa scuola. Ancora di più, voi ed io possiamo amare chi è vicino a noi, ma possiamo provare amore anche per chi è lontano da noi. Possiamo sperare che tutti gli uomini sulla Terra abbiano qualcosa da mangiare. In questo modo, siamo in grado di amare anche persone che non conosciamo e che non possiamo vedere.

Gli scienziati hanno ipotizzato che il nostro cervello ci ha permesso di amare e di pensare, ma c’è anche qualcos’altro. Quando l’essere umano si è alzato su due gambe, le sue braccia e le sue mani conquistarono la libertà, e poterono essere usate per tenere in braccio i bambini durante il lavoro e nei viaggi. Forse questo ha contribuito a sviluppare la capacità di amare. Una volta che l’uomo fu capace di stare in piedi, le mani furono anche libere di toccare, tenere, tastare ed esaminare gli oggetti da diverse prospettive. E forse questo ha contribuito a sviluppare la sua mente.

Così gli esseri umani hanno tre doni speciali: la mano, la mente e la capacità di amare.

Ma c’è dell’altro. Quando l’essere umano è apparso sulla Terra, era in grado di fare molte più cose di quelle che possono fare le piante e gli animali. Ad esempio ogni pianta può crescere solo in un dato ambiente, e ogni animale mangia solo un tipo particolare di cibo. Alcuni uccelli mangiano la frutta, ed altri mangiano gli insetti. Alcuni mammiferi mangiano l’erba e alcuni altri la carne. Tutti gli uccelli della stessa specie mangiano lo stesso cibo. Invece l’uomo mangia moltissime cose diverse. E non solo. Gli uomini vivono in case diverse: alcuni hanno case di mattoni, alcuni di legno, alcuni di fango. In queste case possono esserci porte di legno, o di legno, o possono anche non esserci porte.

Come è possibile che gli esseri umani possano vivere in modi così diversi? Proprio perché ha questi tre doni speciali: la mente, le mani ed il cuore. Con le mani può costruire cose che ha progettato con la sua mente, con la mente può risolvere i problemi che incontra, e grazie alla capacità di amare può desiderare di fare qualcosa per gli altri.

L’essere umano cammina su due gambe, perché le sue mani possano essere libere di fare le cose e di tenere quelli che amano. Immaginate se non fosse così. Pensate a quanto sarebbe difficile strisciare e tenere una matita, o leggere un libro, o spolverare i mobili, o fare tutte le cose che facciamo ogni giorno.

La piccola immagine al termine della linea del tempo dei viventi,  ci mostra da quanto poco tempo l’uomo è sulla Terra. Non è sorprendente che in questo breve periodo di tempo, questo tipo di essere vivente, con i suoi doni speciali della mente, delle mani e del cuore, ha fatto e ancora sta facendo tante cose?

La storia dell’umanità è molto eccitante. C’è molto da scoprire sull’uomo e su tutto ciò che è successo da quando l’uomo è apparso sulla Terra. Questa è la prima storia, ma ce ne saranno molte altre. Nei prossimi giorni parleremo dei primi uomini, di com’erano e di come vivevano. Questi primi uomini vissero in epoche molto lontane dalla nostra, ma erano proprio come voi e come me. Avevano una mente, potevano amare, e potevano usare le proprie mani.

LA TERZA GRANDE LEZIONE MONTESSORI
Terza grande lezione Montessori: la comparsa dell’uomo

SECONDA VERSIONE

Vi ricordate la linea del tempo della vita? In fondo alla linea del tempo c’era una striscia rossa molto stretta e l’immagine di un essere umano. Avete anche visto la sottile linea rossa al termine della lunga striscia nera del tempo. Questa piccola linea rossa mostrava da quanto tempo gli uomini vivono sulla Terra. Essi sono apparsi solo dopo che moltissimi altri esseri sono apparsi prima di loro. Alghe ed altri organismi si svilupparono nell’acqua. Poi giunsero molte altre piccole creature, che riempirono gli oceani e purificarono l’acqua. Più tardi, queste creature divennero più grandi e svilupparono conchiglie, poi ossa, poi una colonna vertebrale.  Alcune piante ed alcuni animali si spostarono sulla terraferma.  Gli animali impararono a prendersi cura dei loro piccoli in modo sempre migliore. Le piante impararono ad utilizzare il sole, l’acqua ed i minerali del terreno per far crescere semi e frutti.

E gli esseri umani poterono arrivare solo quando la Terra fu pronta ad accoglierli. Sono apparsi quando sulla Terra ci fu cibo per loro, quando ci furono tappeti erbosi su cui camminare, quando sotto la terra si furono formati depositi di minerali che un giorno avrebbero imparato ad usare.

Oggi voglio raccontarvi qualcosa di più sugli esseri umani, e su come i primi uomini comparsi sulla Terra fossero proprio come voi e me.

Quando questi uomini apparvero, il mondo era popolato da giganteschi felici e grandi orsi che vivevano nelle caverne. In quell’antico mondo, i primi uomini trovaro molti tipi diversi di piante. Questi uomini non avevano denti aguzzi per difendersi. Non avevano artigli affilati per arrampicarsi sugli alberi e fuggire dai pericoli, o per scavare alla ricerca di radici da mangiare, o per uccidere gli animali e nutrirsene. Non sapevano quali frutti fossero buoni da mangiare, e quali velenosi.

Gli animali, quando nascono, hanno questo tipo di conoscenze. Ogni animale quando nasce è in grado di trovare il cibo adatto a lui e trovarlo. Ogni animale sa provvedere alla sua sopravvivenza. I leoni mangiano la carne e non l’erba, ed usano i loro artigli e i loro denti per cacciare e per difendersi. I cervi mangiano l’erba, e sanno che non potrebbero mai mangiare la carne! E sono molto abili a scappare dai predatori. Ogni animale ha un suo modo di vivere, e sa automaticamente cosa fare. Ogni animale si è adattato a vivere in un particolare ambiente. Il leone ha bisogno delle pianure erbose, e non potrebbe mai vivere nei territori ghiacciati e nevosi del nord. I cervi sono a casa propria nelle foreste, e non potrebbero certo vivere in nessun altro luogo.

Invece gli esseri umani sono nati senza sapere cosa mangiare o come proteggersi. Non erano particolarmente adatti a nessuna determinata area della Terra. Per altri versi, avevano delle somiglianze con un particolare gruppo di animali, i mammiferi.

Infatti, gli uomini avevano i peli, partorivano i loro piccoli e li nutrivano col proprio latte. Ma per molti altri aspetti erano diversi dai mammiferi, e da tutti gli altri animali. E proprio grazie a queste differenze, gli esseri umani sono riusciti a sopravvivere in quel mondo.

Innanzitutto essi camminavano su due gambe, così avevano le mani libere di lavorare, fare cose, curare i propri figli e giocare. Immaginate se così non fosse. Come potremmo tenere una matita, o prendere una qualsiasi cosa di cui abbiamo bisogno, se dovessimo usare le mani ed i piedi per camminare?

Guarda la tua mano. Il pollice è una cosa meravigliosa! (Mostrare il pollice opponibile mentre continuiamo a raccontare). Può superare il palmo della mano e raggiungere le altre dita. Cosi possiamo prendere una piccola e delicata conchiglia solo usando pollice e indice, oppure stringere saldamente il ramo di un albero e dondolarci sospesi ad esso.

Nessun altro essere può fare le cose che gli esseri umani possono fare con le proprie mani. Quale animale è in gradi di infilare un ago, guidare un’auto con sicurezza nel traffico cittadino, o dipingere un bel quadro? Solo gli esseri umani, che hanno queste mani meravigliose, possono fare queste cose!

Un’altra cosa che rendeva gli esseri umani diversi da tutti gli altri esseri era il suo cervello, più grande e complesso. Con questo cervello, gli esseri umani potevano pensare alle cose. La loro intelligenza li ha portati a porsi domande su tutto ciò che vedevano attorno a sé. Si chiedevano perché la pioggia cadesse, e cosa fossero le stelle. Si chiedevano cosa fosse il grande rombo del tuono che sentivano venire dal cielo, e cosa causasse il sorgere del sole nel cielo, e il suo scendere e scomparire nella notte.

Gli esseri umani possono pensare a ciò che è successo nel passato, e possono anche pensare a quello che potrebbe avvenire nel futuro. Adesso, voi state forse pensando a quello che ho detto, o forse vi state chiedendo cosa sto per dire! La mente dei primi uomini, come la vostra e la mia, erano in grado di immaginare risposte alle domande che si ponevano, e furono in grado di trovare la ragione di molte cose.

Questa capacità di pensare, incuriosirsi e immaginare, è ciò che ha permesso agli esseri umani di inventare il linguaggio, in modo da poter raccontare quello che si sta pensando.

Grazie a questa capacità sono anche nati i numeri, la matematica e la geometria. Questi primi uomini si poterono dedicare anche all’arte ed alla musica. E’ grazie a loro che noi oggi godiamo di statue e dipinti, e abbiamo canzoni da cantare. I primi esseri umani hanno imparato l’uno dall’altro a fare queste cose, e le loro conoscenze sono arrivate fino a noi.

I primi esseri umani non erano adattati per vivere in un ambiente terrestre in particolare. Potremmo pensare che questo sia una cosa terribile, e forse è in parte vero, perché significa che gli uomini non hanno un luogo in cui vivere semplicemente, senza problemi. Ma in realtà questa caratteristica si è rivelata essere un grande dono. Poiché avevano una mente capace di pensare e immaginare, e mani capaci di lavorare, gli uomini, quando cadeva la neve e cominciava a fare freddo, presero a dirsi: “Ho freddo. Ho bisogno di qualcosa per coprire il mio corpo e tenermi al caldo, come il leone ha la pelliccia. Ho bisogno di un rifugio, come lo scoiattolo ha la tana”.

E così inventarono vestiti e case.

Non avevano bisogno di corpi particolarmente adattati ad un ambiente particolare. Hanno invece usato ciò che trovavano attorno a sé per adattare l’ambiente a loro stessi!

Grazie a questo, gli esseri umani si sono sparsi in tutto il mondo, e hanno trovato il modo migliore per vivere nelle pianure del leone, nelle foreste dei cervi, e nelle terre ghiacciate delle renne.

Gli esseri umani di quei tempi erano in grado di immaginare cose che non erano mai esistite: erano in grado, come gli esseri umani di oggi, di usare la propria immaginazione per pensare a cose nuove, e quindi di realizzarle con le proprie mani. Potevano, ad esempio, immaginare una ciotola di argilla, e poi modellarla.

La capacità di immaginare qualcosa di nuovo, e poi realizzarla, è una capacità che avevano già i primi uomini, ed è ciò che ha permesso loro di sopravvivere nel loro mondo.

Ma parliamo adesso di un’altra caratteristica dell’essere umano, che forse è la più importante di tutte, perché è quella che più di tutte le altre ci fa umani: gli uomini sono in grado di amare. Posso amare la i propri genitori, i fratelli e le sorelle, le zie e gli zii. Possono amare i propri amici. Amano le molte persone che vivono vicino a loro, ma possono anche amare persone che non hanno mai incontrato, e prendersene cura. Pensa a delle persone in difficoltà in un altro Paese: esse possono ricevere l’aiuto da qualcuno che non sapevano nemmeno che esistesse! Potrebbe trattarsi di me, o di qualcuno tra voi, qualcuno che ha sentito parlare dei loro problemi, ed ha fatto qualcosa per aiutarli.

La storia degli esseri umani è iniziata molto tempo fa, sulla Terra. E’ una storia molto emozionante, fatta di molti capitoli. Ci sono capitoli che contengono grandi felini e orsi. Altri capitoli raccontano come i primi uomini raggiunsero nuove zone della Terra, i loro pericolosi viaggi su grandi distese di ghiaccio, oceani tempestosi, deserti incandescenti.

Questi primi uomini che si avventuravano in territori che nessuno aveva mai visitato prima, erano mamme, papà e bambini, bambini come te o neonati tenuti in braccio. Questi viaggiatori incontrandosi raccontavano le loro avventure alla luce di grandi fuochi. Un narratore cominciava con la sua storia, poi si inseriva nel discorso un altro, e poi un altro, ed i bambini bevevano ogni loro parola. Un giorno avrebbero raccontato le stesse storie ai loro figli, e forse avrebbero aggiunto un altro capitolo, raccontando la propria vita.

Alcuni di questi primi esseri umani ci hanno lasciato bellissimi dipinti e sculture, ed anch’essi hanno raccontato la loro storia. Ed è una storia che ancora oggi possiamo capire, non appena guardiamo questi messaggi nelle grotte.

Altri uomini scrissero la storia della loro vita su tavolette di argilla, che noi abbiamo ritrovato sepolte tra le rovine di città deserte. Così abbiamo potuto ritrovare anche pergamene, rotoli fatti di canne di papiro, ecc… e abbiamo potuto leggere delle vite dei re antichi e della vita dei grandi eroi di quei tempi.

Grazie alla nostra mente, siamo in grande di ascoltare le parole di persone che abitarono la Terra migliaia di anni fa.

Nella storia degli esseri umani si incontrano cavalieri in armatura, regine nei castelli, musicisti che hanno scritto la meravigliosa musica che ascoltiamo oggi, e gli uomini e le donne che hanno viaggiato nello spazio.

C’è una quantità enorme di cose da scoprire su ciò che è successo da quando gli esseri umani sono apparsi sulla Terra.

Questa che abbiamo raccontato oggi è soltato la prima sugli esseri umani, ma ce ne saranno moltissime altre. Un altro giorno parleremo meglio dei primi esseri umani e di come vivevano. Ci accorgeremo così che erano proprio come noi. Essi avevano una mente con la quale pensare ed immaginare, delle ani con cui lavorare, e potevano amare, proprio come voi e come me.

LA TERZA GRANDE LEZIONE MONTESSORI
Terza grande lezione Montessori: la comparsa dell’uomo

TERZA VERSIONE

Vi ricordate le storie che abbiamo raccontato fino ad oggi? All’inizio c’era il nulla, solo un enorme e scuro spazio vuoto. Poi, in quello spazio, si creò una nube di fuoco, sche si sprigionò da una scintilla luminosa di energia. Tutto l’Universo era contenuto in quella nube. Poi l’Universo si stabilizzò, ma per questo servì un tempo immenso. Ti ricordi a quali leggi obbedivano le particelle? E ti ricordi coe si è formata la Terra? Come si è formata la crosta e come si è raffreddata? C’era un grosso problema a quel tempo… ti ricordi qual era? Sì, l’aria era velenosa. E qual è stata la soluzione? Sì, sono apparsi i batteri, e poi gli organismi pluricellulari. Arrivarono le amebe e poi via via gli esseri viventi continuarono a diversificarsi, e apparvero i trilobiti e tutti gli altri animali acquatici, poi le piante si trasferirono sulla terraferma, arrivarono gli insetti, poi gli anfibi, i rettili, gli uccelli e i mammiferi.

E poi? Sì, alla fine delle nostre storie apparvero gli esseri umani: uomini, donne e bambini, proprio come voi e me. Esseri con doni speciali, che avevano un cervello per pensare e immaginare, le mani per lavorare e un cuore che poteva amare anche le persone che non avevano mai incontrato.

Oggi voglio raccontarvi la storia degli esseri umani e dei loro doni speciali.

Gli esseri umani hanno una mente capace di immaginare e di pensare a molte cose diverse. Questi primi uomini sentivano la pioggia, il vento, il sole che li riscaldava di giorno e il freddo della notte, guardavano gli arcobaleni nel cielo e si spaventavano dei tuoni. Cominciarono presto a farsi domande su tutte queste cose, perché l’intelligenza umana vuole sempre sapere perché le cose accadono. E così hanno costruito delle storie che spiegassero le cose, e se le sono raccontate gli uni agli altri.

I primi esseri umani avevano un cuore capace di amare, e amavano i membri della loro famiglia e si prendevano cura di loro, provavano nostalgia quando erano lontani da loro, ed erano felici di ritornare e trascorrere il loro tempo insieme. Ma amavano anche persone che non avevano incontrato, amavano gli animali e le piante, e si prendevano cura di loro. Infatti, gli uomini possono desiderare che tutti siano felici, curati, sicuri, che abbiano abbastanza da mangiare, che abbiano accanto qualcuno che si prenda cura di loro.

Gli esseri umani avevano mani per tenere le mani degli altri, per costruire rifugi e raccogliere la frutta, per cullare i bambini e farli addormentare. Immaginate quanto sarebbe difficile fare tutte queste cose, se dovessimo usare le mani per camminare. Come potremmo fare tanti lavori?

Proprio come questi primi esseri umani abbiamo una mente in grado di pensare e immaginare, mani per fare il nostro lavoro, e un cuore per amare tutte le persone, gli animali, le piante e i luoghi.

Le piante e gli animali seguono regole determinate su come devono vivere, dove devono andare, cosa devono mangiare e quando devono dormire. Anche gli esseri umani fanno tutte queste cose, ma possono farle in modi diversi.

Possono mangiare tanti tipi di alimenti. Ad esempio oggi a colazione uno di voi può aver mangiato pane e marmellata, un altro latte e cereali… Cosa avete mangiato a colazione? (Chiedere ai bambini cosa hanno mangiato a colazione, in modo che possano vedere la varietà di cibo che abbiamo a disposizione per nutrirci).

Tutti gli animali della stessa specie vivono nello stesso luogo: gli uccelli nei nidi, le volpi nelle buche del terreno, ma gli uomini possono vivere in tanti diversi tipi di abitazione e decorarli in modi molto diversi. Io vivo in un appartamento al terzo piano. Tu dove vivi? Di che colore è la tua cameretta?

La nostra storia di esseri umani è iniziata molto tempo fa. Si tratta di una storia lunga, e l’uomo ha dovuto lavorare molto duramente ed usare la sua immaginazione, ed essere molto coraggioso, e pensare a tutte le cose che potevano aiutarlo a sopravvivere e a migliorare sempre più la propria condizione.

LA TERZA GRANDE LEZIONE MONTESSORI
Preparazione dell’insegnante

(Per la bibliografia e i links a risorse utili consulta l’elenco a fine articolo).

Tradizionalmente, nei giorni precedenti al racconto della terza fiaba cosmica, si presenta la LINEA NERA DEL TEMPO, ma se non avete a disposizione i mezzi per procurarvi o costruire questo materiale, potete utilizzare una delle linee del tempo della vita ( o l’orologio delle ere) enfatizzando coi bambini quanto sia immenso il tempo della Terra prima della comparsa dell’essere umano, e quanto sia minuto rispetto ad esso il tempo che va dalle nostre origini a noi, che viviamo sulla Terra oggi.

Tutte le cinque grandi lezioni hanno un legame diretto in particolare con la Storia, aprendosi contemporaneamente a specifici altri ambiti del sapere. A partire dalla terza lezione, esponiamo ai bambini tutti gli aspetti positivi della storia umana, concentrandoci sui doni che rendono l’uomo un essere unico e creativo. L’uomo infatti ha:

  • le mani libere, con il pollice opponibile, e la postura eretta, che gli consentono di agire;
  • un grande cervello che gli consente di pensare ed immaginare;
  • un cuore capace di amore.

La Storia è il racconto di come gli esseri umani hanno lavorato insieme per migliorare le proprie condizioni di vita, e porta i bambini ad avere fiducia nell’umanità e nella sua forza positiva, ed a desiderare di collaborare con gli altri e dare in ogni lavoro il proprio contributo. Già nella prima lezione cosmica è evidente che esiste una sorta di solidarietà naturale che sta alla base dello sviluppo di tutta la vita nel tempo e nello spazio. Tutti i viventi sono in relazione tra loro, e si evolvono insieme.

LA TERZA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

Questo è lo schema delle presentazioni, considerando in particolare lo studio della Storia:

  • con la prima fiaba cosmica introduciamo le idee di legge, ordine e armonia;
  • con la seconda mostriamo come la Terra si è preparata per accogliere l’essere umano;
  • con la fascia nera del tempo diamo una rappresentazione lineare del tempo che è dovuto passare prima della comparsa dell’essere umano. Srotolando questo nastro l’impressione che ne ricavano i bambini sul tempo della Terra prima e dopo la comparsa dell’uomo è fortissima;
  • con la terza fiaba ci concentriamo sui tre doni speciali che caratterizzano gli esseri umani. Presentando i primi esseri umani raccontiamo la loro vita quotidiana, il loro modo di vivere e sopravvivere ai pericoli. Mostriamoli come esseri umani completi, spirituali e pratici;
  • con la fascia nera della mano mostriamo come l’uomo si è adattato all’ambiente ed a ciò che lo circonda, ed a come è stato capace di creare una Sovranatura fisica. Raccontiamo come gli uomini hanno imparato nuove tecniche e comportamenti per migliorare le proprie condizioni di vita, e sottolineiamo anche che ogni miglioramento è stato un dono non solo per sé, ma anche per le generazioni future. Facciamo sentire i bambini in relazione profonda con questi antichi uomini, in modo che anche essi sentano che possono contribuire a costruire un futuro migliore per tutti;
  • con le carte dei bisogni fondamentali dell’uomo mostriamo come la Storia dell’uomo sia la storia dei suoi bisogni e dei modi che posto in essere per soddisfarli, in relazione all’ambiente;
  • con la quarta e la quinta fiaba cosmica mostriamo la nascita del linguaggio e della matematica, e quindi il contributo dell’uomo alla Sovranatura spirituale. Con queste due lezioni ci concentriamo su due grandi invenzioni umane, che sono alla base di una lunghissima serie di altri successi di cui godiamo pienamente oggi, grazie a questi antichi uomini, che vivevano in un modo tanto semplice rispetto al nostro, e ai quali dobbiamo così tanto.

Le tendenze dei bambini tra i 6 ai 12 anni da prendere in considerazione per l’insegnamento della storia e della geografia sono: il desiderio di sapere come e perché; il senso di giustizia; l’attrazione per personaggi eroici o che sono stati capaci di compiere grandi cose.  Il desiderio di conoscenza, in questo periodo della vita, è grande come lo è il bisogno di esplorazione sensoriale nel periodo precedente, dai 3 ai 6 anni.  Maria Montessori ha detto: dobbiamo dare i bambini piccoli al mondo, e i bambini più grandi all’Universo.

Tra gli autori che hanno ispirato Maria Montessori ci furono lo storico Leopold Von Ranke, il geologo Antonio Stoppani, l’astronomo James Jeans e lo scrittore H.G. Wells.
Stoppani è stato tra i primi a prendere in considerazione la Terra non solo come deposito di minerali e fossili, ma come un qualcosa cui molte forze sono al lavoro insieme per creare e mantenere un ordine cosmico. I fenomeni che si sono susseguiti e si susseguono sul pianeta appaiono guidati da un’Intelligenza, anzi una super-intelligenza, un’intelligenza superiore. Questo tipo di geografia era molto congeniale al pensiero di Maria Montessori. Considerando che lo studio di questa materia, all’epoca, consisteva principalmente nel memorizzare nomi di fiumi, montagne, capitali e così via, Stoppani illustrò il lavoro di modellaggio che fa l’acqua, o del lavoro che fa il vento per produrre le correnti oceaniche, o del lavoro di purificazione dell’aria e dell’acqua fatto dagli esseri viventi.
In “The science of life” HG Wells illustra vari aspetti del mondo vegetale ed animale, in particolare l’aspetto evolutivo (connesso con le ere geologiche) e l’aspetto della relazione tra viventi diversi (ad esempio la forma dei fiori e quella degli insetti che si nutrono del loro polline). Anche in questo caso, ogni cosa sembra programmata da un’intelligenza superiore.
Questa Super Intelligenza si ritrova anche nei fenomeni descritti da Jeans.

Maria Montessori chiamò questa intelligenza “Guida Inconscia”, perché il suo campo d’azione è immensamente più vasta rispetto alla parte cosciente, nel regno della vita. Negli esseri viventi, questa parte inconcia che lavora al funzionamento e al mantenimento dell’ordine cosmico, è la condizione indispensabile per l’ esistenza. Ad esempio, gli insetti che visitano i fiori sono consapevoli soltanto del fatto che stanno rispondendo ad un bisogno (quello di alimentarsi di nettare), ma non sanno di svolgere una funzione più grande, un compito cosmico, che è quello di fecondare i fiori e propagare le piante. Le piante, a loro volta, sembra che agiscono con intelligenza, che facciano piani dettagliati per fornire agli insetti i mezzi migliori per nutrirsi del loro polline, e garantire così la fecondazione. Allo stesso modo hanno imparato a fare uso del vento, dell’acqua e degli animali. Se avessero un’intelligenza, forse sarebbero consapevoli di farlo per rispondere ai propri bisogni di sopravvivenza e riproduzione. Ma, come gli insetti, non sarebbero consapevoli del loro compito cosmico, che è quello di eliminare l’anidride carbonica dall’aria, drenare il terreno, produrre ossigeno, non soltanto a vantaggio degli esseri viventi, ma anche degli elementi inanimati (considerando la luce) e perfino delle stelle. Infatti, i raggi del sole riscaldano la Terra, ma la temperatura non è uniforme, a causa del moto attorno al sole e dell’angolo del suo asse, e questo causa le stagioni. Poiché ci sono queste differenze di temperatura sul pianeta, si creano i venti, e l’acqua che evapora viaggia da un luogo all’altro, poi precipita per provvedere alle esigenze dei viventi, per i quali l’acqua è indispensabile quanto lo è l’ossigeno. E così il cosmo intero è coinvolto, e non solo la Terra. Per questo il nome di “cosmico”. Tutto ciò che contribuisce all’armonia ed allo sviluppo dell’ordine cosmico, è chiamato “compito cosmico”, e l’educazione che presenta questo concetto ai bambini, è chiamata “educazione cosmica”.

Anche la Storia dell’uomo deve essere vista in questo contesto, per essere compresa. Ispirata dalla curiosità dei bambini, Maria Montessori ha compreso che la storia non può essere insegnata come oggetto isolato, ma deve essere integrata con altri campi del sapere; la storia dell’uomo deve essere inserita inoltre nel contesto della storia della Terra, iniziando dalla sua formazione.

Come abbiamo già visto qui, per rendere tutto ciò più interessante per i bambini, Maria Montessori ha ideato dei racconti che si appellano alla loro capacità di immaginazione. Ad esempio, nello studio della storia della comparsa dei viventi sulla Terra (seconda lezione cosmica), ha rappresentato ogni progresso evolutivo attraverso sentimenti umani: le alghe ad un certo punto dicono “Uniamoci, e diventeremo più forti”; poi dicono “A cosa serve fare tutte lo stesso lavoro? Perché non ci specializziamo e ce lo dividiamo?”; e così via. Sullo sfondo di tutti questi racconti, sta il fatto che le alghe stanno assolvendo un compito cosmico, che è quello di preparare le condizioni di vita adatte alla comparsa di esseri via via più evoluti. Un altro esempio è quello dei diversi tipi di viventi che possono svilupparsi su di una roccia. Esiste un tipo di vegetale che riesce a vivere sulla roccia, il lichene, che riesce a nutrirsi di essa, cresce e muore. I licheni si succedono uno dopo l’altro, crescendo e morendo, e questo prepara le condizioni di vita adatte alla crescita dei muschi. Anche i muschi si susseguono, nascendo, crescendo e morendo, e la sostanza organica che ne deriva, il terriccio, permette la crescita delle erbe, poi dei cespugli, poi degli alberi.

Un altro progresso ha riguardato i sentimenti. All’inizio, la riproduzione è stata una questione di divisione cellulare. Poi con le piante e gli animali è arrivata la riproduzione vera e propria. I primi animali, che vivevano negli oceani, deponevano grandi quantità di uova non protette (come fanno ancora oggi pesci ed anfibi). Poi arrivarono i rettili, che dissero: “Dobbiamo proteggere la nostra prole”, e così vennero le uova protette da gusci, che venivano nascoste nel terreno in modo che i nemici non potessero vederle. Ma anche in questo caso la prole veniva abbandonata. Poi vennero gli uccelli, che non abbandonano le uova, ma restano con loro fino alla nascita dei piccoli, che poi nutrono ed educano fino a che non diventano capaci di provvedere a se stessi. Poi vennero i mammiferi, che dissero: “Le uova sono troppo esposte. Meglio tenerle all’interno del corpo, così prima di prendermele dovranno uccidermi”. Così i mammiferi estesero l’amore per la propria prole a tutto il periodo dell’infanzia, fino a che, raggiunta l’età adulta, veniva cacciata. Ma questo amore era limitato alla propria progenie, ed era limitato nel tempo. Infine, con la comparsa dell’uomo, l’amore per la prole durò per tutta la vita, e si estese anche a uomini del passato, che non esistevano più (ad esempio i genitori), o anche ad uomini sconosciuti, che non erano parte della famiglia.

Nelle ere geologiche che hanno preceduto la comparsa della vita umana, questo sarebbe stato impossibile. L’ambiente doveva essere preparato, e tutte le ere geologiche hanno dato il loro contributo a questo lavoro. Ecco perché abbiamo detto che per capire la storia dell’uomo, dobbiamo inserirla nel contesto della storia della Terra.

Quando nella terza lezione presentiamo l’uomo, parliamo della sua intelligenza, del suo bisogno di vivere con gli altri, della sua capacità di vivere in qualsiasi ambiente, della sua grande creatività che gli permette di soddisfare le proprie esigenze, e della sua capacità di non essere mai soddisfatto. L’uomo aspira sempre ad ottenere condizioni migliori.

Possiamo dire che la Storia dell’uomo era, ed è tuttora, la storia dei suoi bisogni e di come li ha soddisfatti. Vivendo in ambienti diversi, scoprì modi diversi per provvedere alle proprie esigenze: riparo, cibo, abbigliamento, trasporto, ecc… Così, a poco a poco, si formarono gruppi separati di uomini, caratterizzati da un comportamento comune, con soluzioni uguali per rispondere ai bisogni in relazione al proprio ambiente. Questi gruppi sono entrati in contatto tra loro sia in modo pacifico (commercio), sia in modo violento (guerre e invasioni), e così ebbero bisogno di aggregarsi in gruppi più grandi. In questo modo si realizzò un interscambio di idee, invenzioni e scoperte. Noi possiamo risalire soltanto ad alcune di queste scoperte (ad esempio l’invenzione dell’alfabeto), mentre ad altre non possiamo (ad esempio l’uso della ruota o del fuoco). Ma tutte queste scoperte hanno contribuito a costruire la civiltà di oggi. Se analizziamo le cose che utilizziao oggi (cibo, alloggi, mezzi di trasporto, musica, pittura, ecc…) ci rendiamo conto che esse sono il risultato del lavoro non di una sola nazione, ma di molte. Non ci sono razze superiori o inferiori: l’umanità è una. Ognuna produce qualcosa, che poi diventa patrimonio di tutta l’umanità.

Non ci sono razze superiori o inferiori, ma l’umanità è una. Se opportunità e condizioni si presentano, la gente di qualsiasi razza produrre qualcosa, che viene accettato praticamente come grande contributo all’intera umanità.

I bambini, data questa impostazione, sono in grado di studiare la Storia attraverso la ricerca attiva, in ogni campo. Non occorre un libro di testo, ma una biblioteca con enciclopedie, biografie, testi di botanica, zoologia, ecc… Occorre visitare luoghi di interesse storico, musei, ecc… Quando si studia una nazione, non si trattano solo gli eventi, ma anche le persone: la loro provenienza, le loro abitudini, qual era la condizione della donna, quale grado di sviluppo ha raggiunto materialmente la loro cultura per quanto riguarda strumenti, abiti, abitazione, e quanto ha raggiunto spiritualmente con l’arte, la religione, la filosofia.

Il modo pratico, poi, di collocare gli eventi nella giusta sequenza storica, è quello di costruire le linee del tempo. Alcune possono essere proposte dall’insegnante, mentre molte altre vengono realizzate dai bambini stessi.

Alcuni elementi tra i più importanti per la nostra civiltà attuale, come i mezzi di trasporto, l’illuminazione, ecc… vengono trattati attraverso lezioni apposite, che illustrano il loro sviluppo attraverso i secoli. Per altri argomenti, invece, è sufficiente fornire le chiavi ai bambini, in modo tale che essi possano portare avanti lo studio da soli, senza dover ascoltare lezioni non necessarie.

Il concetto di sostenibilità è molto presente nella coscienza moderna, con la crescente consapevolezza dell’impatto delle azioni umane sull’ambiente naturale e sulle società umane. Ma spesso al centro di questo concetto di sostenibilità c’è l’idea che gli esseri umani non facciano anch’essi parte dell’ambiente naturale.

Maria Montessori, in Educazione e Pace, definisce la pace come uno stato attivo in cui gli esseri umani sono parte integrante di un tutto cosmico armonioso, in cui ogni organismo assolve il suo ruolo secondo la sua vera natura, nel quadro delle leggi universali. I concetti di sostenibilità, equità, giustizia e gestione delle risorse sono parte integrante di questa visione.

Il suo concetto di sostenibilità si basa su due idee fondamentali:

  1. l’attività umana è vista in un contesto evolutivo, non separata dai processi naturali dell’evoluzione della Terra e delle specie, a come parte integrante di essa. Senza questa consapevolezza, l’uomo mette a rischio il futuro suo e di tutto il pianeta.
  2. gli squilibri che osserviamo nella natura e nella società dipendono da adulti che non hanno realizzato pienamente il proprio potenziale umano, perché hanno avuto ostacoli al loro naturale sviluppo durante gli anni formativi. Maria Montessori sottolinea gli immensi poteri dei bambini ed il grande compito che hanno: creare gli adulti. Ogni bambino realizza questo compito creativo – costruttivo interagendo con l’ambiente in cui è nato, e che è preparato dagli adulti per lui. Solo quando gli adulti creano con consapevolezza un ambiente  che garantisce la libertà del bambini di svilupparsi in base alle leggi naturali, possiamo realizzare la vera natura dell’uomo. Quindi alla radice della pace, c’è il normale sviluppo di ogni individuo.

Il compito del bambino è quello di costruire la normalità umana, il compito dell’adulto è quello di difendere questa costruzione. La collaborazione tra l’adulto e il bambino è il fondamento della sostenibilità, che è il fondamento della pace.

L’uomo ha creato una Sovranatura. Per esempio, con l’agricoltura e l’allevamento, l’uomo ha creato in un tempo breve ciò che il processo naturale di evoluzione avrebbe realizzato forse in migliaia o milioni di anni. L’uomo col suo lavoro ha trasformato la superficie della Terra. Si serve dei ciò che vi è sepolto, di ciò che si trova nell’atmosfera, crea nuovi metalli, nuove sostanze … “Questo mondo è qualcosa di più della natura, e per costruirlo l’uomo usa tutto ciò che esiste in natura. L’uomo crea una (sovra) natura. E la Sovranatura creata dall’uomo è diversa dalla natura ordinaria.

Tendiamo a pensare a questa sovranatura come separata dalla natura, ma secondo Maria Montessori vede gli ambienti creati dall’uomo come naturali, quanto lo sono gli ambienti creati dagli altri esseri viventi. Ciò che noi chiamiamo “natura” oggi, è stato tutto creato da esseri viventi. Quando la vita è apparsa sulla Terra, ha trasformato la sterile sfera di roccia, acqua e gas, nel bellissimo pianeta azzurro che conosciamo oggi. E’ stata la vita ad aver creato sulla terra e nell’acqua le condizioni necessare perché altre forme di vita potessero evolversi e prosperare. Nel corso di vari eoni, la vita ha costruito la Terra che oggi conosciamo, ed è la vita che mantiene questo bellissimo pianeta in equilibrio perfetto, per sostenere la vita. Ogni creatura ha un compito cosmico. Anche l’uomo. La civiltà è una parte della natura, e per questo parliamo di Sovranatura. Civiltà è un termine vago, mentre Sovranatura rende perfettamente il concetto. La Sovranatura si sviluppa nutrendosi della natura, facendo uso di tutto ciò che si trova sul pianeta e nell’atmosfera per migliorare la natura stessa: l’ambiente civile è un’altra forma di natura.

Attraverso il suo lavoro, l’uomo ha consapevolmente, deliberatamente, creato nuove forme di vita: fiori, frutti, cereali e altri vegetali, animali, alberi, ecc… Attraverso la sua attività, l’uomo non è stato solo un agente dell’evoluzione per nuove forme di vita, ma ha anche creato un nuovo ambiente complesso, all’interno del quale egli opera; un ambiente che non è naturale, ma è natura.

La storia umana è la cronaca del lavoro dell’uomo adulto, e quando parliamo di sostenibilità ci concentriamo sul come cambiare le tendenze sbagliate degli adulti. Nel cercare soluzioni, non prendiamo mai in considerazione il contributo dato dai bambini alla società. Il bambino è così, davvero, il “cittadino dimenticato”. Nel creare la Sovranatura in cui vive, l’uomo adulto non tiene conto delle esigenze dell’uomo bambino. In “Educazione e Pace” Maria Montessori fornisce un contesto cosmico all’attività umana e si concentra sul miglioramento del livello di sviluppo umano. I bambini hanno un immenso potenziale che può portare ad una trasformazione radicale della società umana.

L’idea che gli esseri umani svolgono una funzione all’interno di un ecosistema interdipendente, e che le azioni umane hanno un impatto sull’equilibrio di tale ecosistema, è sempre stata presente nella maggior parte delle culture cosiddette primitive. Ma questa idea deve trovare un posto sempre più rilevante anche nel pensiero occidentale, per la necessità di controllare i livelli di inquinamento e di conservare e tutelare l’ambiente. Maria Montessori ha una visione cosmo centrica della sostenibilità. Se estendiamo lo sguardo attraverso i secoli, vediamo  che ogni essere vivente ha alterato la Terra con la propria attività, e che l’equilibrio tra tutte queste attività ha costruito l’equilibrio terrestre. Ogni volta che l’equilibrio terrestre è stato disturbato dall’attività di un essere, è stato ripristinato dall’attività di un altro. L’equilibrio terrestre non è statico, ed attraverso questa attività la Terra stessa continua ad evolversi.

Attraverso l’Educazione Cosmica aiutiamo i bambini a sviluppare la consapevolezza che gli esseri umani sono parte di un tutto interdipendente.

Non soltanto il mondo sovranaturale è in costruzione, ma lo è anche l’evoluzione umana. Non si sta verificando soltanto un’ulteriore evoluzione della natura, ma anche un ulteriore sviluppo della personalità umana.

Come abbiamo già detto, è compito di ogni bambino, dal momento della nascita, realizzare il suo potenziale umano. Gli esseri umani nascono con una mente che pensa, una mano che funziona e un cuore che ama. Il compito di ogni bambino è appunto quello di realizzare questo potenziale formando un’unità funzionale. E diventa un’unità funzionale quando le sue tre dimensioni (fisica, intellettuale e spirituale) sono in armonia.

Nel creare la Sovranatura in cui viviamo, le potenzialità della mente e della mano si sono evolute notevolmente, ma abbiamo trascurato il cuore che anima questo lavoro. Sostenendo il bambino nella sua opera di creazione dell’adulto come unità funzionale, possiamo correggere questa anomalia. La ricostruzione della società umana deve iniziare con il supporto del lavoro dei bambini. Nel suo lavoro di costruzione dell’adulto, il bambino è guidato da leggi naturali: come la Sovranatura si fonda sulla natura, così anche lo sviluppo della personalità umana si fonda su di essa. Bisogna creare una sovranatura che tenga conto con consapevolezza e amore di questo. Solo così l’uomo adulto, collaborando al processo naturale di costruzione dell’uomo operato dal bambino, potrà costruire la normalità umana.

A differenza degli altri viventi, l’uomo non è nato con un compito cosico particolare: il suo compito non è limitato, non è specificatamente definito. Ogni essere umano deve determinare il proprio contributo individuale, il proprio compito cosmico.

Prima della comparsa dell’uomo, ogni cambiamenti evolutivo è avvenuto lentamente, inconsciamente. Con l’avvento dell’uomo però, un nuovo elemento è entrato nella storia: la coscienza. Quando gli esseri umani hanno cominciato a costruire la Sovranatura, questa Sovranatura ha a sua volta influenzato lo sviluppo dell’uomo, la sua evoluzione come individuo e come specie. Per il fatto di possedere una coscienza, l’uomo è in grado di determinare la direzione della propria evoluzione, in collaborazione con il bambino, che ha i poteri creativi e costruttivi di realizzare il potenziale umano. Fornendo al bambino le condizioni adatte , l’energia psichica del bambino si svilupperà in base alle proprie leggi, ed avrà un effetto sugli adulti stessi.

L’uomo, che vive nella Sovranatura e deve realizzare la sua vera natura interagendo proprio con la Sovranatura stessa, è nella posizione unica di poter determinare la propria evoluzione. Ma questa evoluzione può avvenire solo nell’ambito delle leggi universali. Comprendendo della sua vera natura e il contesto cosmico delle proprie azioni, l’uomo può creare una Sovranatura dove ogni bambino può sviluppare il potenziale umano sempre più pienamente. L’ambiente è lo strumento per l’evoluzione cosciente dell’uomo. Questa è la vera radice della sostenibilità.

La libertà individuale è la base di tutto il resto. Senza tale libertà è impossibile sviluppare pienamente la personalità. La libertà è la chiave di tutto il processo.

La libertà è essenziale per lo sviluppo umano fin dalla nascita: ogni bambino ha bisogno di libertà per completare il suo compito di formazione dell’uomo. I pregiudizi radicati negli adulti, che non riescono a riconoscere la vera natura e le potenzialità del bambino, sono ostacoli che impediscono la libertà del bambino. Dalla qualità del lavoro del bambino, dipende la nostra capacità di adempiere il nostro compito di adulti. Se non riconosciamo l’importanza del lavoro del bambino, non gli permettiamo di completare il suo compito in libertà. Spetta all’adulto “difendere la costruzione della normalità umana”. Il Metodo Montessori, per questo, può essere definito come l’offrire i mezzi, difendere il bambino, riconoscere su basi scientifiche la sua natura, proclamare i suoi diritti sociali. Comprendere su base scientifica la natura del bambino sostiene la realizzazione di ambienti che promuovono la realizzazione del potenziale umano.

LA TERZA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)

LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip) si presenta tradizionalmente dopo la seconda fiaba cosmica, e per preparare la terza. Se non avete a disposizione i mezzi per procurarvi o costruire questo materiale, potete utilizzare una delle linee del tempo della vita preparate dopo la seconda grande lezione, enfatizzando coi bambini quanto sia immenso il tempo della Terra prima della comparsa dell’essere umano, e quanto sia minuto rispetto ad esso il tempo che va dalle nostre origini a noi, che viviamo sulla Terra oggi.

Si tratta di una lezione molto emozionante per i bambini, e quando viene presentata bene, usando meno parole possibili e facendo pause significative, fa davvero una grande impressione. Viene spessa citata da adulti e bambini come una delle lezioni preferite. Maria Montessori, come vedremo meglio poi, la chiamò in origine “lezione di umiltà”.

E’ stata elaborata da Maria Montessori in India, e rappresenta la durata dell’evoluzione terrestre. L’idea base è quella di far appello all’immaginazione dei bambini per trasmettere loro una visione generale della storia della Terra. Infatti, secondo Maria Montessori, è importante che l’interesse dei bambini si attivi dal generale al particolare: bisogna comprendere prima le correlazioni tra le cose, e poi indagare le cose stesse separatamente.

LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)

LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)
La storia di questo materiale: una lezione di umiltà

Possiamo immaginare che la cosa sia andata così…
Era il 1939. In un caldo pomeriggio, nella città di Madras in India, Maria Montessori parlava con un gruppo di bambini, all’ombra di un grande e vecchio albero di Banyan. Un bambino di circa dieci anni la interrompe, proclamando con orgoglio la superiorità della civiltà indiana, che è una delle più antiche del mondo. Dice che non sa cosa avrebbe mai da imparare da lei e dalla sua cultura, che è meno antica della sua, e che l’India non ha nulla da imparare dall’Occidente.
Sì, in effetti la civiltà indiana risale a 10.000 anni fa, mentre quella egiziana soltanto a 3.500 anni, e l’assiro-babilonese a 5.000 anni. Ma non dice altro.
Poi, forse sorseggiando il tè del pomeriggio, ripensa alle parole del bambino, e si chiede quale sia il modo migliore di rispondere. Gli operai della compagnia telefonica, stanno distendendo sulla strada lunghi cavi, che poi fissano ai pali. Li osserva e continua a bere il suo tè. Lei e suo figlio Mario, in India, lavoravano al piano di studi per i bambini delle elementari, ed avevano appena preparato le grandi lezioni cosmiche. Così le venne l’idea.
Con l’aiuto di una sarta locale, prepara una lunghissima striscia di stoffa nera, lunga 300 metri e larga 50 centimetri. Solo l’ultimo centimetro della striscia aveva un colore diverso: rosso. La striscia è arrotolata come una bobina attorno ad un bastone.
Aiutata da due insegnanti della scuola, mostra la striscia ai bambini.
Senza dire una parola, le due insegnanti cominciano a srotolare la striscia nera di stoffa lungo la strada, allontanandosi lentamente e tenendo in bastone tra di loro, in bicicletta. Maria Montessori e i bambini, incuriositi, le seguono. Anche i bambini del vicinato si aggiungono alla processione. Tutti chiedono: “Cos’è? A cosa serve?”, ma Maria Montessori, con molta tranquillità, risponde soltanto: “Aspettate, e vedrete”.  Forse non dice nient’altro, fino alla fine della lunga striscia, quando appare la sorpresa: la sottile strisciolina rossa.
Poi dice: “Questa piccola strisciolina rossa rappresenta tutto il tempo che è trascorso dalla comparsa del primo essere umano sulla Terra. Tutta la parte nera è l’età della Terra”.
I bambini guardano indietro, vedono la lunga fascia scomparire in lontananza, e poi guardano di nuovo la piccola striscia rossa. Maria Montessori tiene tra le mani la piccola parte rossa, e forse sorride al bambino che le ha ispirato questa lezione.
In realtà non sappiamo cosa abbia detto, ma potrebbe proprio essere andata così.

LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)
Descrizione del materiale
La fascia ideata da Maria Montessori, come già detto, era lunga 300 metri e larga 50 cm. Solo l’ultimo centimetro della striscia aveva un colore diverso: rosso.
Oggi si utilizzato fasce lunghe 30, 50 o 100 metri, larghe dai 30 ai 40 cm. La strisciolina rossa occupa  1 o 2 cm. Nella fascia lunga 30 metri i primi 10 m mostrano la formazione della Terra, i successivi 15 m la comparsa degli organismi unicellulari, gli ultimi 5 m lo sviluppo di tutte le forme di vita e la striscia rossa finale la comparsa dell’uomo.

LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)

Presentazione ai bambini – prima versione

LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)
Preparazione
Nel piano di studi della scuola primaria Montessori è inserita una serie di importanti lezioni che hanno lo scopo di suscitare meraviglia, stupore e gratitudine. Quando presentiamo questa lezione la cosa più importante è resistere alla tentazione di parlare troppo.
Questa lezione non vuole essere una ripetizione dell’Orologio delle Ere o della prima grande lezione cosmica. Maria Montessori non disse ai bambini quasi nulla, mentre la lunga striscia nera venne srotolata lungo la strada.
Anche se si dispone di spazio sufficiente per srotolare la lunga fascia all’interno, si consiglia comunque di farlo all’esterno, perché è molto più scenografico. Dopo la lezione potete, se lo ritenete opportuno, raccontare la storia del come e del perché Maria Montessori ha inventato questo materiale. Quando i bambini sentono che la fascia originale era lunga dieci volte di più quella che abbiamo usato noi, sono molto impressionati e di solito si chiedono quanto lontano dalla loro scuola sarebbe arrivata.
Avvolgere la fascia nera intorno a un bastone, iniziando dalla striscia rossa (in modo che la sezione rossa sia l’ultima ad apparire ai bambini), assicurandosi che risulti ben nascosta.

LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)
Presentazione
Invitare i bambini a seguirvi, perché ci sarà una lezione molto speciale all’aperto. Se ci sono bambini più grandi, che hanno già assistito alla lezione negli anni precedenti, spiegate loro l’importanza di non rivelare agli altri la sorpresa: potete ad esempio dare loro il compito di essere i vostri assistenti e di aiutarvi a srotolare la fascia. Posare a terra la bobina e cominciare a srotolarla, iniziando a raccontare.

LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)
Racconto
(esempio)
Questa fascia nera rappresenta l’età della Terra, dalla sua origine (fermarsi; circa 30 secondi di silenzio).
All’inizio la Terra era una sfera incandescente (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio).
E fu così per molto, molto tempo (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio).
Poi la Terra si presentò coperta di vulcani, e così fu per molto, molto tempo  (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio).
Poi arrivarono le piogge, che sono durate molto, molto tempo (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio).
Pioveva e pioveva. E questo è durato molto, molto tempo ancora. (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio).

Infine Terra ha cominciato a raffreddarsi, e ci volle molto, molto tempo(srotolare un’altra parte di fascia in silenzio).
Sulla Terra ora c’erano solo rocce, oceani e vulcani, ma nessuna forma di vita. E questo per molto, molto tempo. (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio).
Solo rocce, acqua e fuoco. Niente di verde. Per molto, molto tempo (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio).
La Terra era già molto vecchia. Guardate quanto è lunga la fascia dietro di noi (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio).

Ci stiamo avvicinando alla fine della fascia, e qui la vita ha cominciato a svilupparsi sulla Terra, impiegando molto, molto tempo (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio).
Guarda,  qualcosa di diverso sta per accadere! (Rallentare in prossimità della fine  della fascia e fermarsi quando appare la striscia rossa).
Gli esseri umani appaiono sulla Terra per la prima volta. Questo piccolo lembo rosso rappresenta tutto il tempo che è passato da quando  i primi esseri umani sono giunti sulla Terra. (Pausa)

Ecco, sto tenendo in mano tutta l’umanità di tutto il mondo, da quando è apparsa: dai primi esseri umani che vivevano in Africa, agli abitanti delle caverne, e poi gli Aborigeni, gli Egizi, i Greci, i nativi americani, i Maya e tutti gli uomini che sono sulla Terra oggi. Qui si può tenere tutta l’umanità in una mano.

LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)

Presentazione ai bambini – seconda versione

(Posare a terra la bobina e cominciare a srotolarla, iniziando a raccontare).
Ti ricordi? Molto, molto tempo fa non c’era assolutamente niente, semplicemente immenso caos e oscurità. E’ stato così per un tempo molto lungo, e poi è successo qualcosa.
(Srotolare una parte di fascia in silenzio).
In questo vuoto incommensurabile di freddo e l’oscurità, apparve una grande nuvola ardente che comprendeva in sè tutte le stelle.

(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).
L’intero universo era in quella nuvola, e tra le piccole gocce c’era il nostro Sistema Solare.
(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).
Poi le stelle si sono distribuite nello spazio, in modo che ora sono a milioni di chilometri di distanza, e la luce delle stelle che vediamo la notte ha impiegato anni luce per arrivare a noi.
(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).
Si formò la crosta terrestre, ma la Terra era ancora molto calda e circondata dal freddo e buio spazio.  Ti ricordi che abbiamo detto che tutte le particelle dell’Universo hanno leggi speciali alle quali obbediscono? (Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).

Ci fu la Danza degli Elementi, il calore saliva verso il freddo, e il freddo scendeva verso il calore.
(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).
La Terra lentamente si è raffreddata, i vulcani si sono fermati ed il Sole ha cominciato a spendere  felicemente.
(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).
Poi ci fu un problema: pioveva e pioveva e pioveva, l’acqua consumò le rocce, che si gettarono nel mare, avvelenandolo. Vi ricordate cosa ha risolto il problema? Sì, sono apparsi i batteri e poi altri organismi, come le amebe. E che cosa ha fatto? Hanno seguito le leggi date loro:mangiare, cresciuto e riprodursi.
(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).

Questi organismi avevano una sola cellula, e dovevano fare tutto il lavoro da sole. Così si sono stancati, e hanno deciso di unirsi, dividersi i compiti e rendere il lavoro più efficiente.
(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).
Così sono apparsi i trilobiti, i cefalopodi con i piedi in testa,  e i crinoidi che assomigliano a delle piante, ma sono animali che vivono in torri di pietra.
(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).
E poi cosa è successo? Sì, la vita continuava a cambiare e provare cose nuove: apparvero alghe e coralli, che purificavano l’acqua e formavano bellissime isole e scogli.

(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).
Poi alcune creature hanno deciso di provare a vivere sulla terraferma, hanno costruito una sacca all’interno del corpo per respirare, e arti al posto delle pinne, per muoversi fuori dall’acqua. Sono stati chiamati anfibi, e la loro fu la prima voce che si udì sulla Terra. Poi arrivarono i rettili, che cambiarono pelle e comiciarono a fare uova con i gusci duri. Ebbero molto successo, e crebbero fino a raggiungere dimensioni gigantesche. Immaginate un combattimento tra dinosauri: doveva essere terrificante.
(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).

Intanto le creature più piccole si sono mosse verso le zone più fredde, si sono trasformate in animali a sangue caldo, hanno ricoperto il loro corpo di peli e hanno cominciato a prendersi cura dei propri piccoli dopo la nascita. Erano gli uccelli e i mammiferi. Mentre gli uccelli deponevano le uova fuori dal corpo, i mammiferi le tennero all’interno, e quando i piccoli nascevano li nutrivano con il proprio latte. I mammiferi ebbero molto successo, e si diffusero su tutta la Terra.
(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).
Poi è stata la volta di una creatura molto speciale: l’essere umano. Questa parte rossa è tutto il tempo passato dalla comparsa del primo uomo, e ci siamo anche noi. Guardate il tempo che ha impiegato la Terra per essere pronta a far vivere gli esseri umani!

 LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)

Note

Questa lezione chiave è particolarmente adatta ai bambini più piccoli, di prima classe. I più grandi possono partecipare come aiutanti, e sarà molto utile per loro, perché li stimolerà ad approfondire aspetti particolari presentati nella lezione.

Dopo la lezione si può lasciare la fascia nera a disposizione dei bambini, che potranno usarla per le loro ricerche, insieme alle linee del tempo. Alcuni bambini vorranno riguardarla anche dopo il racconto della terza fiaba cosmica, che tratta della comparsa dell’uomo sulla Terra.

I bambini più grandi possono usare la fascia nera anche come base per posizionare su di essa le carte delle nomenclature delle varie linee del tempo, fossili e altri materiali, fare misurazioni e aggiungere cartellini e materiali trovati nei testi di ricerca, come per le linee del tempo:

LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI riguarda la storia della comparsa dei viventi sulla Terra, esclusa la storia dell’evoluzione umana, che viene trattata nella terza lezione. Qui trovi tre diverse versioni della fiaba cosmica relativa, linee del tempo e carte scaricabili e stampabili in formato pdf, idee e materiali vari per i giorni successivi.

Il primo giorno di scuola, i bambini ascoltano la PRIMA GRANDE LEZIONE che è la base della grande lezione sulle origini dell’Universo. Come già anticipato qui, il complesso svolgersi della grande lezione prosegue con dimostrazioni, ricerche, esperimenti, attività artistiche e manuali, toccando nel corso degli anni varie materie ed argomenti di studio: Astronomia, Meteorologia, Chimica, Fisica, Geologia, Geografia. Tutto il piano è inquadrato nella grande cornice dell’Educazione Cosmica.

La seconda grande lezione tratta dell’origine della vita. La lezione porta alla costruzione della Linea del tempo della vita: un lungo cartellone con immagini e didascalie su microorganismi, piante ed animali che sono vissuti e vivono sulla terra. Si enfatizza la grande diversità delle forme viventi, e l’importanza del contributo di ognuna per il mantenimento della vita del pianeta. Questa lezione coinvolge nel tempo queste materie:

  • Biologia: cellule, organismi pluricellulari, regni della natura, campioni, dissezioni, osservazioni, uso del microscopio
  • Botanica: studio delle piante, classificazioni, funzione, parti delle piante (seme, fiore, frutto, foglie, tronco, radice), tipi di piante
  • Ambienti naturali: localizzazione, caratteristiche, catena alimentare, simbiosi, adattamento all’ambiente, ecosistemi, conservazione
  • Vita antica: ere geologiche, evoluzione della specie, estinzione, fossili, scavi archeologici
  • Animali: classificazioni, bisogni, similitudini e differenze, nutrizione, igiene,
  • Regni delle monere, dei protisti e dei funghi: cosa sono, classificazione, osservazione

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI – carte illustrate

Presentazione e materiali (per tutte le versioni della seconda fiaba cosmica Montessori):

– TABELLE DELLA COMPARSA DEI VIVENTI: servono innanzitutto per costruire le linee del tempo, e sono un materiale molto utile da consultare in tutto il periodo successivo, sia ai bambini, sia agli insegnanti. Trovi quelle che ho preparato qui, scaricabili e stampabili in formato pdf: 

– LINEE DEL TEMPO: potete chiamare i bambini in cerchio ad ascoltare la storia, mostrando via via illustrazioni (o oggetti). E’ la modalità più semplice, e facilmente praticabile anche se insegnate in una scuola non montessoriana. In alternativa potete utilizzare una del tempo. Qui trovi linee del tempo semplici, da realizzare in proprio o coi bambini:

– LINEE DEL TEMPO: pronte da scaricare e stampare in formato pdf (anche da utilizzare durante il racconto). Qui: 

– OROLOGIO DELLE ERE GEOLOGICHE: è un classico materiale per visualizzare la linea del tempo della comparsa dei viventi nelle scuole Montessoriane, dopo aver presentato la seconda lezione. Trovi la mia versione qui: 

 

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

FIABA COSMICA ‘LA COMPARSA DELLA VITA’

 prima versione

Materiale:

  • Una linea del tempo (facoltativa) e le carte illustrate per la prima versione del racconto.

carte seconda lezione versione 1
Elenco delle carte illustrate e delle dimostrazioni (se preferite prepararle voi):

  1. Immagini di batteri. Mostrando le foto, sottolinea che i batteri reali sono milioni di volte più piccoli rispetto alla foto.
  2. Mostra ai bambini come posizionare le mani sul torace per sentire come si espande nell’inspirazione e si ritira nell’espirazione.
  3. Immagini, modelli o campioni di spugne, alghe, anemoni, meduse…
  4. Immagini di trilobiti.
  5. Preparare su un vassoio una pallina di pasta di sale e un oggetto (ad esempio una foglia o un modellino di insetto di plastica). Premere l’oggetto saldamente nella pasta, spiegando che è la stessa cosa che avvenne quando si sono formati i trilobiti fossili: gli strati di terra premevano su di essi. Estrarre con cautela l’oggetto e invitare gli studenti a guardare l’impronta.
  6. Immagine, modello, o campione di un pesce. Chiedere ai bambini di identificare le parti del corpo del pesce (pinne, coda, scaglie, occhi, branchie).
  7. Chiedere ai bambini di mettersi a coppie e di sentire a turno le vertebre della spina dorsale con le mani.
  8. Immagine della prima vita sulla terra: piante.
  9. Immagini, modelli, o campioni di insetti. Invitare i bambini a identificare le parti del corpo dell’insetto (testa, occhi, esoscheletro, torace, addome, antenne, zampe).
  10. Immagine o modello di un anfibio (rana, rospo, o salamandra). Invitare i bambini a identificare le parti del corpo degli anfibi (testa, corpo, zampe, branchie, pelle, spina dorsale).
  11. Immagine di una felce, felce in vaso e fotografia di una felce fossile.
  12. Immagini o modelli di rettili. Chiedere ai bambini di identificare le parti del corpo del rettile (pelle, testa, narici, occhi, collo, corpo, zampe, coda).
  13. Immagine o modello di un dinosauro.
  14. Immagini di conifere, o una piccola conifera in vaso e un paio di rami e pigne di diverse conifere. Schiacciare una foglia di conifera e invitare i bambini a sentirne l’odore.
  15. Immagini di piante da fiore, o pianta fiorita in vaso.
  16. Immagine o modello di un uccello primitivo.
  17. Immagini o modelli di mammiferi primitivi e moderni.
  18. Tre mappe: Pangea; Laurasia e Gondwana; continenti attuali. Descrivere le masse mutevoli dei continenti, e spiegare come i continenti di oggi si sono stati formati dalla Pangea. Far notare come le forme dei continenti sembrano incastrarsi come un puzzle.

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

La comparsa della vita sulla Terra

Appena la Terra si fu formata, insieme agli altri pianeti e alle stelle del nostro sistema solare, non era che una palla incandescente di gas. Nel corso di milioni di anni la palla di gas si raffreddò, e si formarono diversi strati di materia. Raffreddandosi, molti dei gas passarono allo stato liquido, così la terra attraversò una fase in cui era rivestita di liquidi e roccia fusa. Meteoriti si schiantavano sella terra, vulcani vomitavano gas e lava incandescente. Il cielo terrestre conteneva molti gas e non era blu, come oggi, ma rossastro come oggi possiamo vederlo al tramonto.

A quel tempo la Terra era ancora troppo calda per consentire la vita di piante o animali, e dovettero passare altri milioni di anni perché la superficie terrestre si raffreddasse ulteriormente, portando alla formazione di una crosta rugosa e screpolata. L’acqua al di sotto di questa crosta usciva in superficie attraverso le fessure della crosta solida, così sopra la Terra si formò il vapore acqueo ed apparvero le prime nuvole. Quando dalle nubi iniziò a cadere la pioggia, la Terra era ancora così caldo che le gocce evaporavamo immediatamente, ma quando infine la Terra fu sufficientemente fredda, la pioggia caduta cominciò a rimanere superficie del pianeta, formando un gigantesco oceano.

Tutta questa massa d’acqua era mescolata a particelle di roccia. Gli scienziati ritengono che queste particelle davano all’oceano un colore verdastro, simile a quello delle olive. Questo gigantesco oceano copriva quasi completamente la Terra, mentre una minima porzione era costituita da roccia: gli scienziati ritengono che questa roccia fosse di color rosso ruggine.

Quanto ci apparirebbe strana questa Terra primordiale! Non c’erano alberi, erba o fiori. Nessun animale viveva su di essa: non c’erano rane, cani, ragni, serpenti, elefanti. Non c’erano esseri umani. E se non c’erano esseri umani, non c’erano case ed edifici, automobili, e tutte le altre invenzioni dell’uomo. Immaginate il mondo senza persone o animali di qualsiasi tipo! La Terra formata da roccia rossa e oceano verde, doveva essere un posto davvero molto strano…

…eppure, non visto, nel profondo del gigantesco oceano che la copriva, qualcosa di nuovo e meraviglioso stava accadendo.

In qualche modo, e anche gli scienziati più intelligenti di oggi non sanno esattamente come, una piccola parte di materia ha preso vita. Questa prima materia vivente era molto più piccola di un granello di sabbia, così piccola da essere invisibile ad occhio nudo. Per poterla vedere, ci sarebbe voluto un potente microscopio, ma naturalmente, a quel tempo, non c’erano microscopi e non c’erano persone che potessero usarli! Il piccolo pezzo di materia vivente nell’oceano si sviluppò molto tempo prima della prima vita forma di vita sulla terraferma. Era una forma di vita piccola e semplice, senza gambe, senza occhi e senza bocca; non aveva stelo o tronco; era simile ad una gelatina, ma era viva. Al giorno d’oggi, ci sono milioni e milioni di queste minuscole forme di vita sulla Terra: le chiamiamo ‘batteri’. I primi batteri apparsi sulla Terra erano tuttavia molto speciali, perché trovarono miracolosamente il modo per vivere e moltiplicarsi nell’oceano, anche se quel primo oceano era pieno di minerali e gas che oggi avvelenerebbero qualsiasi forma di vita. (Dimostrazione 1)

Per milioni di anni, non ci fu sulla Terra che questa prima semplicissima forma di vita.   Dopo molto tempo, un particolare gruppo di questi batteri, i batteri blu-verdi chiamati ‘alghe blu-verdi’ ha cominciato a svilupparsi nelle zone meno profonde dell’oceano, dove la luce del sole riusciva a riscaldare l’acqua. In queste acque calde e poco profonde, le alghe blu-verdi hanno trovato il modo di produrre del cibo per se stesse, utilizzando le tre cose di cui erano circondate: l’energia dalla luce del sole, l’acqua dall’oceano, e l’anidride carbonica dall’aria. Oggi questo processo è chiamato ‘fotosintesi’, ed è utilizzato dalle piante. Non appena le alghe blu-verdi hanno cominciato a produrre questo alimento per se stesse, hanno anche iniziato a produrre un nuovo gas. Questo nuovo gas in parte si riversava nell’oceano, ma per la maggior parte saliva verso il cielo, con l’evaporazione dell’acqua: fu l’inizio di quello che ora chiamiamo ‘atmosfera terrestre’, cioè di quella coltre d’aria che circonda la superficie della (Terra. Il nuovo gas prodotto dalle alghe fu importante e specialissimo, perché è il gas che tutti gli animali della Terra, in futuro, avrebbero usato per respirare. (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 2) .

Il suo nome è ossigeno. Nell’epoca di cui stiamo parlando, tutta la vita presente sul nostro pianeta si trovava nell’oceano. Dopo i batteri, si sono lentamente sviluppate molte altre forme di vita, molte specie di piante e creature marine:  alghe, spugne, anemoni di mare, meduse, vermi, ed altro. Questi essere furono per lunghissimo tempo gli unici abitanti del pianeta, e si trovavano tutti in acqua. (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 3)

Poi, un giorno, una nuova ed affascinante creatura apparve nell’oceano: era diversa da qualsiasi altra forma di vita venuta prima di lei, perché aveva una testa, un corpo, una coda, delle zampe. Non aveva le ossa, ma invece aveva un duro guscio esterno, simile ad una corazza. Questo guscio è chiamato ‘esoscheletro’, che significa che la parte più dura del corpo della creatura si trova all’esterno invece che all’interno. La nuova ed affascinante creatura cresceva velocemente, e presto ce ne furono migliaia di tipi diversi: alcuni avevano occhi e nuotato nell’acqua; alcuni non avevano occhi e strisciavano sui fondali dell’oceano; alcuni non erano più grandi di una capocchia di uno spillo; alcuni erano grandi come un lavello della cucina. Se la creatura era in pericolo, si arrotolava su se stessa formando una palla. Erano i ‘trilobiti’, creature diverse da qualsiasi altra cosa al mondo. Per questo i trilobiti sono diventati tanto famosi, così famosi che l’epoca di cui stiamo parlando è chiamata dagli studiosi ‘Età della Trilobiti’ (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 4).

I trilobiti vissero nell’oceano per un periodo molto lungo, poi, a poco a poco, morirono tutti, per ragioni che nessuno oggi capisce veramente. Quando tutti i membri di una data specie muoiono, gli scienziati dicono la specie è estinta: i trilobiti si estinsero. Ma, se si sono estinti, come è possibile che noi oggi possiamo parlare di loro? Perché i trilobiti hanno lasciato segni della loro esistenza. Quando morirono, i corpi dei trilobiti si coprirono di strati di sabbia e roccia. Nel corso del tempo, questi strati di sabbia e roccia sono diventati così pesanti che il corpo dei trilobiti si è impresso nella roccia. Le impronte di piante o animali impresse nella antichissime rocce sono chiamate fossili, e da sempre le persone hanno trovato molto affascinante la scoperta e lo studio di questi reperti, che mostrano com’erano le piante e gli animali del passato.  (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 5).

Pensate che, prima dell’estinzione, i trilobiti presenti nell’oceano erano la forma di vita più numerosa di qualsiasi altra. Poi arrivò un nuovo tipo di animale: aveva un corpo lungo, ma era privo di zampe. La sua pelle era dura e squamosa. Questi nuovi animali nuotavano facilmente nell’oceano, perché avevano dei lembi che fuoriuscivano dal loro corpo e li aiutavano a seguire la loro direzione o fermarsi: le pinne.  Essi riuscivano a respirare sott’acqua attraverso una serie di alette, le branchie. Questi animali furono i primi pesci della Terra. Nel corso del tempi i pesci divennero molto abbondanti, tanto che l’epoca di cui stiamo parlando si chiama Età dei pesci. Come sappiamo, i pesci esistono ancora oggi ne nostri oceani, mari, laghi e fiumi, e alcuni di essi sono ancora molto simili ai pesci dell’antichità (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 6).

I primi pesci comparsi sul nostro pianeta sono da considerarsi molto importanti, perché si trattò dei primi animali che avessero le ossa, la parte più dura del corpo, all’interno e non all’esterno, come era per i trilobiti. L’insieme delle ossa di un essere vivente è chiamato scheletro. Uno scheletro è una sorta  di telaio attorno al quale è costruito il corpo. Ma c’è un altro motivo che ci deve far considerare i primi pesci esseri molto speciali: essi sono stati i primi ad avere un osso lungo che percorreva la loro schiena. Noi oggi chiamiamo quest’osso ‘spina dorsale’, e tutti gli animali che lo possiedono sono chiamati vertebrati (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 7).

Mentre il primo oceano terrestre si popolava con un numero sempre maggiore di pesci, qualcosa di nuovo ed eccitante stava per accadere anche sulla terraferma: alcune delle alghe, che vivevano nelle zone poco profonde dell’oceano, cominciano a crescere sul terreno fuori dall’acqua. Forse avvenne che il livello dell’acqua si abbassò ulteriormente, lasciando alcune alghe nella sabbia umida, esse vi si attaccarono , e nel tempo si trasformarono in piante capaci di vivere fuori dall’acqua. Sulla terraferma, queste piante raccoglievano il nutrimento necessario dalla luce del sole e dall’umidità dalla sabbia: fu la prima forma di vita sulla superficie della Terra! (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 8).

Presto si svilupparono molti tipi di piante, di forme e dimensioni diverse. Anche oggi, ci sono piante così piccole da essere invisibili, e piante enormi, come gli alberi. Dopo la comparsa delle piante, iniziò sul nostro pianeta un periodo molto intenso ed emozionante: nuove forme di vita sorsero ovunque sulla Terra. Dopo la diffusione delle piante, comparve il primo animale. Esso era molto piccolo, e produceva uova. Aveva un esoscheletro come i trilobiti, una testa, una parte centrale chiamata torace, una parte posteriore chiamata addome, e tre coppie di zampe. Sulla esta aveva grandi occhi sporgenti, e due piccole parti filiformi che spuntavano all’esterno. L’animale utilizzava queste due piccole parti filiformi per percepire le cose: noi oggi le chiamiamo ‘antenne’. Poiché non aveva spina dorsale, era un invertebrato. Comparvero col tempo innumerevoli varietà di questo animale: alcuni strisciavano, altri avevano due paia di ali che consentivano loro di volare. Questi animali stupefacenti, che sono apparsi sulla Terra subito dopo la comparsa delle piante terrestri, sono chiamati insetti. Oggi gli insetti sono la forma di vita più numerosa del pianeta. (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 9)

Nel periodo in cui apparvero gli insetti, si sviluppò un altro tipo di animale, un essere davvero molto strano, che si spostò a vivere dall’acqua alla terraferma. Nell’oceano, infatti, viveva un pesce che aveva sviluppato enormi pinne. Col tempo queste pinne si trasformarono in corte zampette, che l’animale usò per muoversi,  trasferendosi dall’acqua alla terraferma. Arrivati qui, questi pesci con le zampe trovarono cibo delizioso in grande quantità: gli insetti! Da allora condussero una doppia vita: potevano vivere nell’oceano come i pesci, e talvolta uscire dall’acqua e vivere in superficie come gli animali.  Anche oggi esistono animali con queste caratteristiche, e li chiamiamo ‘anfibi’. Nel corso del tempo si svilupparono molte varietà di anfibi, di forma e dimensione varia; alcuni di essi erano grandi circa come un bambino di sei anni! Gli anfibi avevano la pelle liscia ed umida, e attraverso questa pelle erano in grado di respirare, mentre quando nuotavano sott’acqua respiravano con le branchie.  Gli anfibi sono molto importanti, perché furono i primi animali terrestri dotati di spina dorsale, cioè i primi vertebrati. Rospi, rane e salamandre sono anfibi. (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 10).

Nel periodo in cui comparvero gli insetti e gli anfibi, si verificarono altri eventi molto importanti. Il grande blocco di terra che emergeva dall’oceano si ruppe in due giganteschi pezzi, chiamati continenti. Questi continenti, galleggiando molto lentamente, andarono via via alla deriva nel gigantesco oceano, finchè un giorno non urtarono uno contro l’atro. La forza dello scontro fu tale che rimasero bloccati insieme, formando un supercontinente chiamato dagli studiosi Pangea. Dove i due continenti si sono uniti, la terra si è accartocciata ed ha creato una lunga fila di montagne: una catena montuosa. Questa prima catena montuosa esiste ancora nel mondo di oggi e si trova in Russia. Anche in questa lontana epoca, crescevano sulla superficie della Terra molti tipi di piante. In particolare, enormi felci sono cresciute nelle zone ombreggiate ed umide che noi oggi chiamiamo paludi. Le felci producono un particolare tipo di seme, la spora, ed ogni spora può far crescere una nuova pianta; così le felci divennero così numerose che enormi foreste di felci si distribuirono su tutta la superficie terrestre. Le felci esistono ancora oggi: crescono nei boschi e nelle foreste, e vengono anche coltivate in vaso come piante da appartamento. (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 11).

Queste foreste di felci hanno avuto grandissima importanza per la storia della Terra: quando una foresta di felci invecchiava e moriva, un’altra cresceva sui suoi resti.  Nel corso del tempo si accumularono strati su strati di materia organica che si trasformavano in un ricco suolo. Senza questo contributo delle piante, la superficie terrestre sarebbe rimasta di sola nuda roccia. Nel corso di un periodo di tempo lunghissimo, inoltre, gli strati più profondi di felci morte si trasformarono in un nuovo tipo di minerale, di colore nero, che oggi chiamiamo carbone.   Nello stesso periodo in cui si diffusero le felci, sulla Terra comparve un’altra splendida creatura: un animale anfibio che, progressivamente, aveva smesso del tutto di vivere nell’acqua. Forse gli piaceva stare asciutto, più di quanto non gli piacesse essere bagnato! Nel corso del tempo, la creatura perse le branchie, e quindi non poteva più respirare sott’acqua. Si trattava di un vertebrato che deponeva uova, e vivendo sulla superficie terrestre sviluppò una pelle spessa, secca e ruvida. Amava stare a scaldarsi al sole. Oggi chiamiamo queste creature ‘rettili’(LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 12).

I rettili prosperarono, e presto ce ne furono di diversi tipi: c’erano così tanti rettili che oggi chiamiamo questo periodo Età dei rettili. Avvenne poi una cosa molto strana: alcuni di questi rettili hanno cominciato a crescere, crescere e crescere, fino a diventare giganteschi. Alcuni crebbero alti quanto un palazzo di cinque piani e lunghi quanto tre autobus in fila! Questi giganteschi rettili erano così pesanti che la terra tremava quando camminavano o correvano. Avevano lunghe e potenti code, che li aiutava a bilanciare l’immenso peso. Se attaccati da altri animali, questi giganteschi rettili utilizzavano le code anche come arma di difesa. Avevano un collo molto lungo, che serviva loro per raggiungere le foglie sulle cime degli alberi, delle quali si nutrivano. Questi giganteschi rettili erano i dinosauri. Alcuni di essi camminavano su quattro zampe, alcuni su due gambe; alcuni avevano le ali e potevano volare. Alcuni dinosauri erano erbivori, cioè si nutrivano di piante, mentre altri erano carnivori, cioè mangiavano anfibi e rettili più piccoli. Nel corso del tempo si svilupparono centinaia di diversi tipi di dinosauri. Ossa di dinosauro, scheletri, denti e fossili sono stati trovati in tutto il mondo, e oggi possiamo ammirarli nei musei. (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 13).

I dinosauri dominarono la superficie della Terra per milioni di anni, ma poi scomparvero per sempre. Gli scienziati hanno formulato varie ipotesi sulla loro estinzione. Alcuni ritengono che un meteorite gigantesco, una roccia proveniente dallo spazio, cadde sulla Terra. L’enorme schianto del meteorite avrebbe creato un grande quantità di polvere nell’atmosfera terrestre, e questa polvere avrebbe modificato il clima del pianeta, impedendo alla luce solare di raggiungere la Terra. Questo avrebbe provocato la morte di molte piante, e di conseguenza di molti animali erbivori. Diminuendo gli erbivori, anche i carnivori si sarebbero trovati senza cibo. Questi scienziati ritengono che sopravvissero solo gli animali che si nutrivano di piante in decomposizione, così la vita continuò: alcuni animali ed alcune piante sopravvissero, e ne apparvero di nuovi.  Una nuova pianta che iniziò a crescere in questa epoca fu un albero con foglie ad ago e semi contenuti in un cono. Questi alberi sono oggi chiamati ‘conifere’, ed esistono ancora oggi in tutto il mondo (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 14) .

Un’altra nuova pianta che apparve nella stessa epoca, era particolarmente bella, perché aveva delle parti molto colorate: i fiori. I fiori attiravano gli insetti, soprattutto dei nuovi insetti alati, che noi oggi chiamiamo farfalle. Le farfalle e altri insetti trasportavano il polline, la polvere prodotta dai fiori, facendolo viaggiare da un fiore all’altro. A volte il vento li aiutava in questo lavoro. Le piante che ricevevano il polline di altre piante, potevano generare una pianta nuova, e così ci furono presto molte varietà di piante da fiore. Oggi le piante da fiore sono le più numerose sulla Terra, rendono il nostro mondo bello, e molte di esse producono alimenti, come frutta e noci.  (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 15).

Dopo che i dinosauri si furono estinti, apparve un nuovo tipo di animale, capace di volare. C’erano già molti insetti volanti a quel tempo, ma questo animale era molto più grande di un insetto: in verità alcuni esemplari erano grandi come un uomo. Aveva ali, piume, e una bocca molto buffa: lunga, dura e a punta. Era un vertebrato e deponeva le uova. Questo nuovo animale era il primo uccello apparso sulla Terra. Oggi molti scienziati ritengono che questo primo uccello si sia sviluppato dai grandi rettili volanti. (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 16).

Un altro nuovo tipo di animale che apparve dopo l’estinzione dei dinosauri era un vertebrato con un cervello più grande di tutti gli altri animali apparsi prima sulla Terra. Aveva un rivestimento peloso per mantenere caldo il corpo, e produceva latte per nutrire i suoi piccoli. Di questo nuovo animale si svilupparono presto molte varietà: alcuni piccoli come un dito, altri grandi come una casa. La maggior parte di essi stava a quattro zampe, mentre alcuni sono andati a vivere nell’oceano, e uno ha addirittura scelto di volare come un uccello. Alcuni si nutrivano di piante, ed altri si animali. Noi oggi chiamiamo questi animali ‘mammiferi’. Il topo, il rinoceronte, l’elefante, il cavallo, il canguro, il gatto, il pipistrello, il cane, la balena, il cammello e la scimmia sono tutti mammiferi. Questi animali prosperarono sulla Terra e divennero presto molto numerosi, così numerosi che quest’epoca della Terra è conosciuta come Età dei mammiferi.  (LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Dimostrazione 17)

Nel frattempo, il grande supercontinente che abbiamo chiamato Pangea, si diviso in due grandi masse separate, che galleggiavano sulla vastità dell’oceano.  Questi due supercontinenti sono oggi chiamati Laurasia e Gondwana. A poco a poco, anche questi due supercontinenti hanno cominciato a rompersi e ad andare alla deriva sull’oceano. Lentamente, nel corso di milioni di anni, si formarono sette nuovi continenti, che sono quelli che esistono oggi.  Le piante e gli animali vivevano sui due supercontinenti si separarono, e  alcuni scienziati ritengono che questa separazione potrebbe essere uno dei motivi per cui oggi, alcuni animali e alcune piante si trovano solo su alcuni continenti (Dimostrazione 18).

La Terra era ormai ricca di vita: piante di tutte le forme, colori e dimensioni vivevano sulla terraferma e nell’acqua; pesci, delfini e altre creature marine nuotavano negli oceani; anfibi come rane e salamandre vivevano in parte in acqua e in parte in superficie; alcuni insetti, come gli scarafaggi, si stabilivano sulla terra, mentre altri, come le farfalle, volavano in aria; rettili, come tartarughe e serpenti, strisciavano; uccelli, come gabbiani e uccelli canori, volavano nei cieli; mammiferi, come le scimmie e le enormi creature chiamate mammut lanosi, che somigliavano agli elefanti di oggi, vagavano per la terra. Prima che si sviluppasse la vita, la Terra era un pianeta roccioso, con un cielo rossastro e un oceano verde oliva. Dopo la comparsa della vita, ha cominciato a cambiare colore: le piogge cambiarono il colore dell’oceano da verde a blu, e non appena l’ossigeno aumentò nell’atmosfera, il cielo diventò azzurro.  Anche la superficie terrestre cominciò a cambiare: si raffreddò e si copri di ricco terriccio, piante verdi, fiori colorati, frutti, e molti tipi di animali. Piante ed animali vivevano sul nostro pianeta in armonia, ed in un modo o nell’altro si aiutavano a vicenda a prosperare. Gli insetti aiutavano le piante trasportando il polline; le piante rilasciavano ossigeno nell’atmosfera per permettere la vita degli animali; gli animali producevano anidride carbonica per permettere la vita delle piante; le piante morte e in decomposizione fornivano terreno fertile per favorire la crescita di nuove piante, che poi avrebbero nutrito gli animali; alcuni di questi animali erano il cibo di altri.

Ci sono stati molti cambiamenti nel clima terrestre, nel corso di milioni di anni. Ogni volta che il tempo è cambiato, molti animali e piante sono morti, perché il loro ambiente era diventato a troppo caldo, troppo freddo, troppo umido o troppo secco, ed essi non potevano cambiare abbastanza in fretta da adattarsi al cambiamento. Ma molte piante e animali sono sopravvissuti a questi cambiamenti della Terra. E un altro animale, un mammifero molto speciale, non era ancora apparso sulla Terra. Questo mammifero avrebbe camminato su due gambe, sarebbe stato molto, molto intelligente ed avrebbe inventato moltissime cose. Noi oggi chiamiamo questo mammifero ‘uomo’, ma il racconto di come gli esseri umani vennero sulla Terra è tutta un’altra storia.

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

FIABA COSMICA ‘LA COMPARSA DELLA VITA’

 seconda versione

Materiali:

  • Linea del tempo (facoltativa)
  • Immagini per la linea del tempo versione 2

carte seconda lezione versione 2

In alternativa ho preparato la linea del tempo pronta per la stampa in formato pdf (illustrata e muta con immagini da aggiungere durante il racconto:

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI 

Ricordate la storia di come si è formata la Terra? Oggi ascolteremo la storia della Terra che prende vita con le piante e gli animali. Ripensiamo a quando nacque la Terra: da una goccia di luce e calore senza regole. Poi, ogni particella ha cominciato ad obbedire alle sue leggi, la Terra si è raffreddata e stabilizzata in base a queste leggi, e si sono formate l’acqua, l’aria e la roccia. La Terra divenne una perla illuminata dal sole, e il sole non riusciva a smettere di ammirarla. Un giorno, mentre la guardava, si accorse che c’era qualcosa di diverso in quell’ordine meraviglioso che si era stabilito: stava per accadere qualcosa, forse stavano per arrivare dei problemi… infatti, stava piovendo da lunghissimo tempo sulla Terra, e l’acqua piovana, attraversando l’aria si mischiava con diversi gas (anidride carbonica, anidride solforosa, protossido d’azoto), e questo la trasformava in una pioggia acida, che travolgeva le rocce e la lava gettandone grandi parti nell’oceano. Si scatenavano così terribili tempeste e parti di roccia corrosa dalla pioggia si gettavano nell’oceano: il mare si stava riempendo di sali minerali, mentre la superficie solida della Terra sembrava destinato a scomparire. L’ordine che era stato creato sembrava davvero in pericolo! Quale poteva essere la causa? Chi era il colpevole? Il sole si rivolse all’acqua e disse: “E’ colpa tua, che sciogli la roccia e la getti nell’oceano!”

Ma l’acqua rispose: “Sono innocente! Io non sto facendo altro che obbedire alle leggi: quando mi scaldo divento vapore e salgo, ma quando ho freddo ritorno liquida e cado. Siccome sono un liquido, io posso spingere solo verso il basso e di lato, ma non verso l’alto, e ogni volta che incontro un vuoto lo occupo. Cosa posso fare? Non ho scelta! E’ colpa della mia sorella aria, casomai, che mi porta in giro di qua e di là e mi fa cadere sulla rocca. E’ colpa sua, parla con lei!”

Allora il sole si rivolse all’aria, ma l’aria disse: “A me è stato dato il compito di fare da coperta alla Terra, in modo che non abbia mai freddo, e devo coprirla sempre. Mi piace il mio compito, ma la Terra ha una grande pancia, e cosa succede alla testa e ai piedi? Che rimangono sempre fuori! Per questo sono sempre in movimento: quando vado sull’acqua, la coperta scopre la schiena; corro a coprire la schiena, e si scoprono i piedi. Quando incontro le zone piatte è anche facile, ma quando mi imbatto in una montagna è diverso: è difficile scalare le montagne, e sono così stanca che per farcela mi devo alleggerire, e così lascio un po’ dell’acqua che porto con me. Non ho mai tempo da perdere, ho un lavoro importante da compiere. E’ colpa di quelle rocce! Perché la pelle deve per forza avere una superficie così rugosa? Le rocce non hanno considerazione per nessuno. Non si spostano per lasciarmi passare, a volte sono così calde che quando mi avvicino sono costretta a salire al cielo per non bruciare. Quando sono troppo alte, poi, mi fanno congelare.”.

Il sole andò dalle rocce, e le rocce risposero: “Perché dai la colpa a noi? Noi non facciamo nulla, ce ne stiamo solo sedute al nostro posto. Quando il sole splende su di noi ci scaldiamo, ma non siamo noi a volere questo calore. Siamo fatte così. Tu, sole, vuoi dare la colpa a noi, ma la verità è che è tutta colpa tua!”.

Così il sole andò via. Non voleva essere incolpato, ma così il problema non fece che peggiorare. Perché, vedete, era colpa di tutti. Tutti si stavano comportando come dovevano, seguendo ognuno le proprie leggi, ma l’ordine generale era minacciato, e presto la Terra non sarebbe più stata una magnifica perla nello spazio. Bisognava fare qualcosa… ma cosa?

Fortunatamente successe una cosa davvero meravigliosa: apparve qualcosa di nuovo sulla Terra, qualcosa di così piccolo da essere invisibile. Erano piccole particelle che avevano ricevuto un dono speciale, un potere in grado di salvare la Terra. Questo dono era la vita. Anche loro dovevano obbedire alle loro leggi, ma erano leggi diverse da quelle delle particelle precedenti: esse dovevano mangiare e crescere, ma non tutte lo stesso cibo. Inoltre dovevano riprodursi, cioè creare esseri simili a se stesse.

Le prime microscopiche particelle viventi si svilupparono nell’oceano. Mangiavano continuamente, e così facendo riuscirono a ripulire l’acqua dai sali minerali che vi erano disciolti. Con questi sali alcuni esseri costruivano attorno al loro corpo una conchiglia, e quando morivano questi gusci cadevano sul fondo del mare, tenendo i sali intrappolati con loro. Il tempo passava, e si accumularono strati su strati di queste conchiglie. Questi strati erano come le pagine di un libro: alcune queste pagine si sono scritte prima che noi uomini apparissimo sulla Terra, e ci sono state lasciate perché noi possiamo leggerle e sapere cosa è successo nei tempi più remoti.

Le prime creature viventi erano formate da una sola cellula, che da sola faceva tutto ciò che c’era da fare: mangiare, respirare, crescere, liberarsi degli scarti. Questi esseri microscopici, vagando nell’oceano, pulirono le acque, impiegando moltissimo tempo. Poi sembra che alcune di queste creature abbiano pensato: “Potremmo fare molto meglio di così! Uniamoci tra di noi, e formiamo insieme un’unica creatura più grande!”. Così si organizzarono e apparvero nell’oceano esseri formati da molte cellule, che continuavano ad alimentarsi, crescere e moltiplicarsi, come facevano le loro antenate.

Passò dell’altro tempo, e queste creature pensarono: “Perché, invece di fare tutte la stessa cosa, non ci dividiamo i compiti? Alcune di noi potrebbero occuparsi solo del cibo, alcune solo della respirazione, altre solo del movimento, e così via”. Così fecero, e nelle acque del nostro pianeta apparvero creature nuove, dotate di zampe, bocca, cuore, polmoni: creature con organi specializzati. Quando apriamo il grande libro della Terra alla prima pagina, vi troviamo tutte queste creature: esseri unicellulari, esseri pluricellulari, ed esseri muniti di organi (Aprire la linea del tempo dei viventi al Periodo Cambriano).

Ecco l’ameba, una creatura unicellulare senza guscio (indichiamo l’ameba disegnata sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad essa la carta dell’immagine dell’ameba).

Ed eccone un altro, chiamato flagellato, con due piccole fruste che gli servivano per muoversi. (indichiamo il flagellato disegnato sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad esso la carta dell’immagine).

Questa creatura è costituita da un gruppo di cellule. (indichiamo la spugna disegnata sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad essa la carta dell’immagine).

Anemoni di mare simili a questa (indichiamo l’anemone disegnata sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad essa la carta dell’immagine)vivevano ferme in un luogo. Per procurarsi il cibo, muovevano nell’acqua queste parti lunghe e sottili del loro corpo, e le piccole creature che vagavano nell’acqua lì attorno venivano trascinate nelle loro bocche.

C’erano poi delle creature molto particolari, che in questo antico oceano si trovavano in grandissima quantità (indichiamo i trilobiti disegnati sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad essi la carta dell’immagine), e che oggi chiamiamo trilobiti. Erano creature molto avanzate per il loro temo, e ne crebbero di diverse forme e dimensioni. Oggi sono estinti, ma vissero per un lunghissimo periodo di tempo negli oceani che ricoprivano il nostro pianeta.

(Apriamo ora la linea del tempo sul Periodo Ordoviciano)

Col passare del tempo, apparvero sulla Terra creature sempre più varie e si verificò ogni sorta di trasformazione negli esseri viventi. Guardate qui! Questa creatura è detta cefalopode (indichiamo il cefalopode sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad esso la carta dell’immagine), ed aveva le zampe attaccate alla testa.

(Apriamo la linea del tempo della vita sul Periodo Siluriano)

Passò dell’altro tempo, ed ecco apparire altri strani esseri: questi, ad esempio, sembrano fiori su uno stelo (indichiamo i crinoidi disegnati sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad essi la carta dell’immagine), e sono chiamati crinoidi, o gigli di mare, anche se si tratta di animali e non di piante. Essi stavano fermi in un luogo, come gli anemoni di mare, ed erano composti da un corpo molle e gelatinoso racchiuso in una serie di anelli duri, formati da sali minerali. Mentre lo stelo stava ancorato al fondale dell’oceano, le sue braccia fluttuavano nell’acqua per raccogliere il cibo, cioè per intrappolare le minuscole creature che nuotavano lì attorno. Quando i crinoidi morivano, il loro gambo crollava e cadeva sul fondo. Le acque era colme di vita, in questo periodo…

(Aprire la linea del tempo della vita al periodo Siluriano e Devoniano)

Arrivarono poi esseri viventi che, invece di mangiare altre creature, erano in grado di produrre il proprio nutrimento attraverso la luce del sole ed i sali minerali contenuti nell’acqua. Forse, alcune delle creature che vivevano nell’oceano, ad un certo punto avranno pensato: “Chissà come sarà la vita fuori dall’acqua!”, e così si spostarono verso le rive dell’oceano, e le onde e le maree le trasportarono sulla terraferma. Rimasero lì un po’, finchè di nuovo l’oceano le attirò a sé con le sue onde, ma venne il giorno in cui una di loro disse: “Oh, come è bello stare qui, invece che nell’acqua!” e decise di rimanere per sempre in superficie. Lì trovò molto sole e molta aria, e l’aria conteneva tutta l’anidride carbonica di cui aveva bisogno per produrre il proprio cibo e nutrirsi, così si attaccò al suolo, da cui traeva anche sali minerali ed acqua. (indichiamo le piante palustri disegnate sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad esse la carta dell’immagine)

E così, per la prima volta, una pianta apparve sulla Terra! E quando le piante morivano, lasciavano i loro corpi lì, preparando il terreno per altre le forme di vita a venire.

(Aprire la linea del tempo della vita sul Periodo Devoniano)

La vita a questo punto della storia si stava spostando sulla terraferma. E mentre le piante si diffondevano, apparvero nostro pianeta due nuovi tipi di esseri viventi: uno era il polipo del corallo che, nell’oceano, ha contribuito alla costruzione della superficie terrestre mangiando e trasformando i sali minerali disciolti nell’acqua; l’altro era un animale che aveva nel suo corpo una sorta di canna rigida. Fino ad allora, la parte più dura del corpo degli animali si trovava al di fuori del corpo, questo animale è stato il primo dotato di spina dorsale, cioè il primo vertebrato. Si trattava di un pesce, ma molto diverso dai pesci che conosciamo noi: era enorme ed aveva placche durissimo che lo rivestivano come una corazza (indichiamo i pesci corazzati senza mascelle disegnati sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad essi la carta dell’immagine)

Alcuni di questi pesci corazzati vivevano nelle profondità dell’oceano senza muoversi, aspettando con le bocche aperte che arrivasse del cibo da inghiottire; altri invece presero a nuotare e presto svilupparono pinne mobili che li aiutava nel movimento.

(Aprire la linea del tempo della vita sul periodo Carbonifero)

Nell’era successiva la superficie terrestre prese a salire, e luoghi che prima erano occupati dall’oceano, ora cominciarono a prosciugarsi. Poi la terra ha cominciato a salire. I pesci che vivevano in queste aree si trovarono fuori dall’acqua. Immaginate di essere una di queste creature: avete bisogno di acqua, ma l’acqua sta sparendo! Questi pesci, che ne avevano bisogno, cominciarono a pensare a cosa fare, ora che si trovavano sulla terraferma: si trattava di cambiare o morire. Così decisero di costruire un sacco all’interno del loro corpo, che contenesse una scorta d’acqua, in modo che, quando l’acqua mancava, essi erano comunque in grado di respirare. Così si svelò agli esseri viventi il segreto della respirazione, e sulla terra comparvero gli anfibi (indichiamo gli anfibi disegnati sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad essi la carta dell’immagine), animali che vivono in parte in acqua e in parte in superficie. Le pinne, una volta avvenuto il passaggio sulla terraferma, non erano di alcuna utilità, così si trasformarono diventando zampe.

Qualcosa di meraviglioso accadde con la nascita degli anfibi: si udì il suono della prima voce sul nostro pianeta. Una voce sulla Terra! Prima che arrivassero gli anfibi, il silenzio sul nostro pianeta era interrotto solo dal rumore della pioggia sulle rocce, o dal rombo del tuono. Immaginate che emozione sarebbe stata, aver potuto sentire il primo suono sulla Terra!

E nel frattempo anche alcune piante avevano lasciato l’oceano, e si erano sviluppate sulla superficie terrestre in una grande varietà di forme e dimensioni, producendo il cibo loro necessario attraverso l’aria e la luce del sole (indichiamo muschi e felci arboree disegnati sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad essi la carta dell’immagine).

C’erano anche numerosi insetti, che rappresentavano una fonte abbondante di cibo per gli anfibi (indichiamo gli insetti disegnati sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad essi la carta dell’immagine), che grazie a questo avevano una vita felice sulla terraferma, se solo non ci fosse stato un piccolo problema: la loro pelle li costringeva a vivere in prossimità dell’acqua, mentre loro cominciavano a desiderare la libertà. Volevano viaggiare, essere indipendenti! Volevano mangiare anche le piante e gli insetti che crescevano lontani dell’acqua… ma come fare?

(Aprire la linea del tempo della vita sul Periodo Permiano)

Lentamente sono riusciti a sviluppare un tipo nuovo di pelle, che non si asciugava, e per le proprie uova hanno inventato il guscio. Ora non c’era più alcun problema! E sulla superficie terrestre comparvero i rettili, animali con una pelle in grado di sopportare il calore del sole, e un guscio duro per le proprie uova, per impedire loro di asciugarsi (indichiamo i rettili disegnati sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad essi la carta dell’immagine). Ora questi animali poteva muoversi liberamente, e spostasi sulla Terra ovunque volessero.

E poi cosa successe? Poiché sulla superficie terrestre c’erano grandi quantità di anfibi e di piante, i rettili poterono prosperare, aumentando di numero, ma anche di dimensioni. Nulla poteva fermare queste creature, ed essi diventarono signori e padroni della Terra, prendendo possesso dell’oceano, della terraferma e perfino dell’aria.

 (Aprire la linea del tempo della vita sul Periodo Mesozoico)

Ecco l’immagine di una di queste creature: (indichiamo l’Apatosauro disegnato sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad esso la carta dell’immagine).

Sapete quanto era grande questa creatura? Era lunga venti metri! La sua testa era grande come il corpo di un uomo. E c’era qualcosa di molto singolare in questo gigante: aveva un cervello nella testa, e un cervello alla base della coda, in modo che i messaggi provenienti dalla coda non avessero bisogno di viaggiare fino alla testa. Potete immaginare come la Terra venisse scossa da queste enormi creature che si muovevano sulla sua superficie. Per quanto riguardava il cibo, poi, questi animali avevano a disposizione tutto ciò di cui avevano bisogno.

Poiché gli animali più piccoli non avevano nessuna possibilità di competere con questi giganti, essi si rifugiarono nelle zone più fredde della superficie terrestre, cioè dove l’ambiente era sfavorevole per la vita dei rettili. Col passare del tempo, per proteggersi meglio dal freddo, essi svilupparono un rivestimento sulla loro pelle, fatta di piume o peli, che serviva a mantenere il sangue caldo: nacquero i primi uccelli ed i primi mammiferi (indichiamo l’Archaeopteryx e il canguro preistorico disegnati sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad essi la carta dell’immagine).

Che cosa dire delle loro uova? Essi non potevano lasciarle fuori al freddo, così impararono lentamente a trattenerle nel proprio corpo. Solo gli uccelli non poterono farlo, perché per loro era impossibile portare nel loro corpo il peso delle uova e volare, così essi hanno imparato a costruire i nidi ed a covarle, alimentando i cuccioli finchè essi non sono in grado di procurarsi il cibo da soli.

(Aprire la linea del tempo della vita sul Periodo Cenozoico)

I mammiferi (indichiamo i mammiferi del Cenozoico disegnati sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad essi la carta dell’immagine), come abbiamo detto, impararono a tenere le uova all’interno del proprio corpo ma, cosa ancor più straordinaria, presero a nutrire i cuccioli con il proprio latte! Questo fu un fatto assolutamente nuovo: nessuna specie animale l’aveva fatto prima! Tutti gli altri animali, dopo aver deposto le uova le abbandonano, e quando nascono i piccoli, provvedono da subito a se stessi. Invece i piccoli degli uccelli e dei mammiferi rimangono coi genitori per un periodo più o meno lungo, fino a che non diventano autonomi.

Passò del tempo, e il clima della Terra subì un cambiamento: cominciò a fare sempre più freddo. I dinosauri cominciarono a scomparire dalla faccia del pianeta, anche se nessuno sa davvero come questo sia avvenuto, ed i mammiferi presero il sopravvento. Sono cresciuti e si sono moltiplicati, occupando tutta la terraferma; erano animali giganti: ippopotami giganti, elefanti giganti, maiali giganti… (indichiamo il grande erbivoro dell’Oligocene disegnato sulla linea del tempo, o sovrapponiamo ad esso la carta dell’immagine).

Anche se faceva davvero molto freddo, ed enormi lastre di ghiaccio ricoprivano la superficie terrestre, i grandi mammiferi riuscirono a prosperare a lungo, spostandosi continuamente in cerca di cibo e di un clima più mite, ma alla fine anch’essi si estinsero.

Al termine di questo periodo di glaciazione, poi, accadde qualcosa di molto interessante: comparve un nuovo tipo di creatura. Non aveva denti affilati per sbranare le prede, né enormi artigli per combattere, né una folta pelliccia per proteggersi, ma aveva qualcosa che nessun altro animale possedeva: un cervello più grande e luminoso, che aveva in sé il potere di pensare ed immaginare. Ed insieme al cervello, questa creatura portava dentro di sé anche una quantità enorme d’amore.  Questa nuova creatura è l’essere umano. (indichiamo l’uomo alla fine della linea del tempo della vita).

L’essere umano è una creatura diversa dagli altri animali, perché può andare oltre l’amore per la propria prole ed amare tutto ciò che la circonda, ed estendere questo amore anche a tutto ciò che non vede.

Vedete, era come se tutto quello che è successo (muovete la mano facendola scorre lungo tutta la linea del tempo di vita) doveva accadere per permettere la comparsa dell’uomo sulla Terra.

Gli esseri umani non avrebbero avuto nessuna possibilità di sopravvivere se fossero arrivati qui (indica il Periodo Cambriano), o qui (indicate il periodo Siluriano). Alla fine, però, tutto era pronto.

Se la Terra avesse una voce, avrebbe detto ai primi uomini: “Ho disteso tappeti di erba per i vostri piedi, in modo che voi possiate camminare su un terreno morbido. Ho messo fiori tra i miei capelli e mi sono ricoperta di gioielli per il vostro piacere. Ho riempito la credenza di latte, carni, frutta e verdura, per farvi mangiare. Giù in cantina ho accumulato il carbone e il ferro. Ora è tutto pronto, ed è tempo per voi, esseri umani, di venire da me. “.

Ed eccoci qui: tutto questo (muovete la mano facendola scorre lungo tutta la linea del tempo di vita) è stato preparato per noi, ed ora siamo parte della storia.

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

FIABA COSMICA ‘LA COMPARSA DELLA VITA’

terza versione

Presentazione

Se decidiamo di usarne una, posiamo la linea del tempo, ancora chiusa, sul pavimento, e raccogliamo i bambini attorno ad essa. Apriamola solo quel tanto che basta a mostrare i batteri. Se qualche bambino si lamenta perché non vede bene, ricordiamo che il cartellone verrà appeso ad una parete, e ci resterà per tutto l’anno scolastico. Se i bambini nel corso della narrazione pongono molte domande, si può dividere il racconto in più giorni, e magari ricapitolarla per intero alla fine.

carte seconda lezione versione 3

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI  – Materiale:

  1. linea del tempo (facoltativa)
  2. una bottiglia di ammoniaca
  3. Immagine della Rodinia
  4. Immagine di batteri
  5. Immagine di cianobatteri
  6. Immagine di Ediacarani
  7. Aprire la linea del tempo sul Paleozoico
  8. Indicare il periodo Cambriano
  9. Immagine di alghe
  10. Immagine di amebe
  11. Immagine di organismi unicellulari
  12. Immagine di radiolari e foramiferi
  13. Immagine delle spugne
  14. Immagine di idre
  15. Immagine di platelminti
  16. Immagine di trilobiti
  17. Immagine di molluschi
  18. Immagine di echinodermi
  19. Immagine di anellidi
  20. Immagine del Pikaia
  21. Indicare il periodo Ordoviciano
  22. Immagine di cistoidi
  23. Immagine di coralli
  24. Immagine del NautIloide
  25. Immagine del Gondwana
  26. Indicare il periodo Siluriano
  27. Immagine di pesci corazzati
  28. Immagine di scorpioni di mare
  29. Immagine di trilobiti
  30. Immagine dei primi vegetali terrestri
  31. Indicare il periodo Denoviano
  32. Immagine di felci e funghi
  33. Immagine di insetti
  34. Immagine di anfibi
  35. Immagine della Laurasia
  36. Indicare il periodo Carbonifero
  37. Immagine di foreste di felci
  38. Immagine di libellule fossili
  39. Immagine di rettili
  40. Indicare il periodo Permiano
  41. Immagine di Terapsidi
  42. Immagine della Pangea
  43. Indicare il periodo Mesozoico
  44. Immagine di Pterosauri
  45. Indicare il periodo Giurassico
  46. Immagine di conifere
  47. Immagine di uccelli preistorici
  48. Immagine di Sauropodi
  49. Immagine della Laurasia e del Gondwana
  50. Indicare il periodo Cretaceo
  51. Immagine di piante da fiori
  52. Immagine di Adrosauridi
  53. Immagine di Stegosauri
  54. Immagine di Anchilosauri
  55. Immagine di Triceratopo
  56. Immagine di Tirannosauro
  57. Indicare il periodo Cenozoico
  58. Frammentazione della Pangea
  59. Immagini di mammiferi primitivi

In alternativa ho preparato una linea del tempo pronta per la stampa, in formato pdf, illustrata o muta con immagini  da inserire durante il racconto:

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI 

Vi ricordate com’era la Terra al termine della nostra prima storia? La terra è nata nell’eone dell’ADEANO, circa 4,5 miliardi di anni fa. All’inizio era solo una massa vorticosa di polvere e particelle, ma ben presto si sono creati gli elementi e la forza di gravità, e si è formata la crosta terrestre. La Terra si è poi raffreddata, l’acqua è evaporata ed è ricaduta in forma di pioggia, e questa pioggia ha riempito tutte le cavità che incontrava, mentre molti vulcani continuavano con le loro eruzioni spaventose. Il cielo era del tutto diverso da quello che ammiriamo oggi: era di colore arancione e non offriva nessuna protezione dai raggi del sole; inoltre l’aria era composta da metano, idrogeno, ammoniaca, anidride carbonica, azoto e zolfo, tutte sostanze estremamente puzzolenti. Questo (aprire una bottiglia di ammoniaca) vi darà una vaga idea di come poteva puzzare, ma immaginate di aggiungervi odore di uovo marcio e di zolfo… Tutte queste sostanze che si trovavano nell’aria, rendevano la pioggia molto acida, e in grado di sciogliere i minerali presenti nelle rocce. A noi la pioggia non sembra un fenomeno tanto potente, a meno che non viviamo nelle zone del mondo in cui ancora si verificano grandi inondazioni, ma in realtà è potentissima, ed i sali di cui era composta la roccia si riversarono nell’oceano. L’acqua sulla superficie terrestre si mescolò agli elementi presenti nell’aria ed ai sali, mentre tempeste gigantesche infuriavano su tutto il pianeta. Gli scienziati pensano che, quando una tempesta elettrica colpì quest’acqua densa e scura, si verificò l’evento più incredibile che sia mai avvenuto, e proprio nell’oceano si svilippò un semplice alimento, una specie di brodo, anche se non c’era proprio nessuno che potesse nutrirsene.  Poi apparve la vita.

Siamo nel Proterozoico. Durante il Proterozoico le superfici rocciose della Terra si erano mosse ed incontrate tra loro, formando un supercontinente chiamato Rodinia, che galleggiava in un unico immenso oceano chiamato Panthalassa.  La vita in questo eone era microscopica e molto semplice, ma da subito seguì le leggi dei viventi, che tutti avrebbero seguito dopo di lei, per sempre: mangiare, crescere, riprodursi. Questa microscopica forma di vita restò tutta sola sulla Terra per più di un miliardo di anni, ma in questo tempo riempì l’oceano e, nutrendosi delle sostanze disciolte nell’acqua, la ripulì progressivamente. Chiamiamo questi primi viventi Procarioti o Monere. Non importa che siano passati 4000 milioni di anni dalla loro prima comparsa: questi minuscoli organismi vivono ancora oggi. L’evento più importante del Proterozoico fu che l’atmosfera si caricò di ossigeno, grazie ai procarioti, soprattutto cianobatteri, e per le numerose glaciazioni. Cosa sono i Cianobatteri? I batteri sono organismi molto resistenti, i più antichi viventi della Terra. Alcuni di essi, col tempo, cambiarono abitudini, preferendo alimento diverso da quello offerto dal denso oceano: la luce solare. Questi organismi sono unicellulari e a volte vivono in colonie. I Cianobatteri sono organismi unicellulari che si riproducono dividendosi in due, e che producono ossigeno, e sono anche chiamati alghe azzurre. Lentamente crearono una nuova atmosfera così ricca di ossigeno, che non piaceva ai primi Procarioti, anzi per loro era proprio tossica, così essi si nascosero sotto i Cianobatteri, che crescevano in forma di enormi tappeti galleggianti sulla superficie dell’oceano. Possiamo dire che i Cianobatteri hanno protetto i loro fratelli. Infine questi tappeti galleggianti si sono induriti formando grandi Stromatoliti che si allinearono lungo i bordi dei nuovi continenti: si trattava delle prime barriere coralline. Gli Stromatoliti hanno riempito gli oceani della Terra fino a circa 600 milioni di anni fa, poi sono lentamente scomparsi. Quale può essere stata la causa? Nello stesso periodo in cui si sono evoluti i Cianobatteri, è apparsa nell’oceano una nuova forma di vita, più complicata: gli Eucarioti, organismi che oggi appartengono a più regni (Protisti, Piante, Funghi e Animali), ma che in un primo momento erano solo grandi organismi unicellulari del regno dei Protisti. Gli organismi Eucarioti erano in grado di mangiare organismi viventi più piccoli, ma in realtà questi organismi più piccoli continuavano a vivere all’interno degli organismi più grandi, quindi non si trattava proprio di mangiare. Gli organismi più piccoli, dall’interno, li aiutavano.

E questo miscuglio di due organismi insieme ha prodotto numerosi cambiamenti. Alcuni di questi organismi hanno cominciato a vivere insieme, prima formando colonie, poi unendo le loro cellule e dividensosi i compiti: alcune si occupavano del cibo, altre della respirazione, altre del movimento. Gli scienziati hanno chiamato queste forme di vita più complesse Ediacarani. Gli scienziati ritengono che potessero gonfiarsi fino a raggiungere dimensioni enormi: quindi potrebbero aver assorbito ossigeno e sostanze nutritive direttamente dall’acqua, oppure ancora, può darsi che si nutrissero di Stomatoliti. Può essere che siano stati loro i responsabili della scomparsa degli Stomatoliti.

Siamo ora nell’Era del Paleozoico. Paleozoico (aprire la linea del tempo sul Paleozoico) significa ‘vita antica’, infatti, la maggior parte delle forme di vita della Terra si sono sviluppate durante questa era geologica, che si suddivide in sei periodi: Cambriano, Ordoviciano, Siluriano, Denoviano, Carbonifero e Permiano. L’era del Paleozoico comincia 542 milioni di anni fa, poco dopo la prima divisione del supercontinente Rodinia in supercontinenti più piccoli, alla fine di un’era glaciale. Molte forme di vita, tra cui gli Edicariani, si estinsero. In questa era, apparvero i primi fossili.

Il periodo Cambriano (indicare il Cambriano) è noto come il tempo dell’esplosione della vita: gli scienziati hanno calcolato in questo periodo l’apparizione di oltre 900 specie di viventi. Il loro lavoro è ora molto facilitato, perché i nuovi animali apparsi sulla Terra avevano sviluppato delle corazze (o conchiglie) che ricadendo sul fondo dell’oceano si trasformavano in fossili, e questo ha permesso uno studio più accurato. Quasi tutte queste forme di  vita erano invertebrati, cioè non avevano una spina dorsale interna, e vivevano tutti nell’oceano, anche se alcuni batteri probabilmente si erano già avventurati sulla terraferma. Molti di questi animali, tutti eucarioti, ci sarebbero stati familiari, al giorno d’oggi. All’inizio di questo periodo, le forme di vita presenti nell’oceano erano batteri, alghe e spugne. Si svilupparono le Alghe unicellulari che si comportano come le piante, cioè si nutrono dei raggi solari e rilasciano come scarto l’ossigeno. C’erano le Amebe che per nutrirsi circondano e inglobano il cibo. C’erano i cianobatteri, che si moltiplicarono molto velocemente, e rilasciarono nell’oceano grandi quantità di ossigeno. C’era l’Euglena, anche lei un protista essendo un po’ animale e un po’ pianta, perché si nutre sia con la fotosintesi con le particelle organiche. C’erano poi il Paramecium, un organismo microscopico unicellulare con migliaia di piccoli peli sul corpo; i radiolari e i foramiferi, di cui possiamo studiare i fossili, perché rivestiti da una conchiglia. Le Alghe rosse sono tra gli organismi eucarioti più antichi della Terra. Le spugne (o poriferi) furono probabilmente tra i primi animali che visseso nel periodo Cambriano. Si tratta di molti minuscoli organismi che lavorano insieme come se fossero un organismo unico. Infatti, se prendiamo una spugna viva e la facciamo passare attraverso un colino, vedremo che essa si divide, ma una volta passata attraverso le maglie, tenderà a ricongiungersi finchè ad un certo punto tutti gli organismi che la compongono torneranno di nuovo uniti formando una spugna sola. Ovunque nell’oceano le cellule cooperavano tra loro.  I celenterati (o cnidari) furono probabilmente i primi animali in grado di muoversi. Appartengono ai celenterati le odierne meduse, i coralli, le idre e gli anemoni di mare. Hanno due strati di cellule diverse, nervi e muscoli, che lavorano insieme per permettere il movimento. Essi non si muovono con uno scopo, però, ma solo per fluttuare nell’acqua, in qualsiasi direzione capiti. Essi hanno anche cellule specializzate all’interno dei loro tentacoli, che possono pungere una preda, però non sono dei cacciatori veri e propri: stanno semplicemente ad aspettare sul fondo marino finchè non è la preda stessa ad arrivare. Le Idre erano l’organismo più evoluto di questo periodo: erano carnivori che usavano i tentacoli per catturare la preda e spingerla nella bocca. I vermi piatti (o platelminti) furono probabilmente i primi cacciatori attivi: avevano tre strati di cellule, un cervello molto semplice, e un cordone nervoso che attraversa il loro corpo nel senso della lunghezza. Hanno simmetria bilaterale come noi, una testa e una coda. Non hanno occhi, ma hanno le cellule sensibili alla luce, chiamati ocelli, e sono in grado di muoversi e cercare attivamente il cibo. I crostacei (o artropodi marini) furono, nel Cambriano, gli animali marini di maggior successo. Sono crostacei gli odierni granchi, i gamberi, le aragoste. Artropodi significa ‘dal piede snodato’, che indica il fatto che questi animali possono piegare le loro zampe. Tutti gli artropodi hanno corpi divisi in segmenti, e sono rivestiti da un’armatura protettiva chiamata esoscheletro. Quando crescono, devono uscire dal guscio, costruirne uno più grande ed entrarvi. Hanno sviluppato un’incredibile varietà di cellule specializzate: antenne, artigli, ali, corazze, bocca. I Trilobiti furono gli artropodi che riempirono i mari durante il Paleozoico. Il loro corpo era formato da tre segmenti, e ne esistevano di moltissime varietà diverse. Nel Cambriano la maggior parte di essi viveva sul fondo dell’oceano, e non nuotavano. Probabilmente si trattava di predatori che si nutrivano di animali più piccoli, forse erano spazzini, cioè mangiavano animali morti. Alcuni di essi avevano occhi simili agli insetti e ai crostacei odierni. I molluschi furono gli animali capaci si sviluppare la miglior difesa contro tutti questi nuovi predatori: hanno costruito una conchiglia intorno ai loro corpi molli. Sono molluschi di oggi le vongole, le lumache, lumache, i calamari e i polpi. Le loro conchiglie sono gusci dotati di camere riempite con acqua e aria, che possono essere regolate per farli scendere o salire in acqua. Gli echinodermi sono le odierne stelle marine, i gigli di mare, i ricci di mare, i cetrioli di mare. Questi animali si sono sviluppati assumendo una forma molto particolare, costituita da cinque parti radiali che si dipartono da un centro, e non hanno cervello. Le loro cinque zampe sono ricoperte da piedi tubolari, che usano per muoversi e per fare leva quando devono aprire i loro molluschi preferiti. I loro corpi dono rivestiti da placche fisse, spesso spinose e ricoperte da una pelle sottile. La maggior parte di questi animali hanno un potere molto speciale: la rigenerazione. Significa che sono in grado di riprodurre un arto, una volta che l’hanno perso. Gli anellidi sono, ad esempio, i lombrichi.  Possiamo pensare che si tratti di animali umili, ma in realtà sono incredibilmente potenti ed utili, in quanto smomovo il terreno ripulendolo delle scorie, e svolgendo questo lavoro rilasciano anidride carbonica, elemento prezioso per la crescita delle piante. Il corpo degli anellidi è composto da bande a forma di anello, chiamati segmenti. Hanno un sistema per la circolazione del sangue e dell’ossigeno, una bocca e un ano. Gli anellidi si muovono strisciando, ed i fondali del periodo Cambriano erano pieni di questi piccoli animali scavatori. I cordati furono altri animali marini molto importanti del periodo Cambriano. Erano simili all’odierna anguilla, e la loro importanza sta nel fatto che si trattava di animali che possedevano una canna rigida che percorreva nel senso della lunghezza il loro corpo, all’interno, per proteggere il nervo principale che discendeva dal cervello verso la periferia. Il cordato più importante del Cambriano fu il Pikaia, che gli scienziati considerano nostro antenato, e che è vissuto 500 milioni di anni fa. Dopo il periodo Cambriano, ogni epoca successiva ha portato qualche nuovo cambiamento, che ha permesso ad alcune specie di sopravvivere, mentre ha portato altre all’estinzione.

Nell’Ordoviciano (indicare il periodo Ordoviciano), iniziato 500 milioni di anni fa, i Cistoidi cominciarono a governare le acque terrestri. Vivevano verso le rive, in acque poco profonde, e si tenevano strettamente ancorati alle rocce. Avevano gusci duri intorno al corpo, ed hanno contribuito alla formazione delle spiagge sulle rive dei mari. Apparvero anche numerosi Coralli in quest’epoca, che costruirono enormi barriere coralline. Apparvero poi nuovi e feroci predatori, i Cefalopodi, che devono questo nome al fatto che avevano le braccia sulla testa. Alcune conchiglie cefalopodi erano molto simili alle conchiglie odierne, e dovevano essere splendidamente colorate. Uno di loro, il Nautiloide, crebbe fino a raggiungere i 9 metri di lunghezza: aveva tentacoli muniti di ventose appiccicose, e un becco durissimo che usava per rompere i gusci delle prede. Durante l’Ordoviciano i continenti a sud si erano uniti in un supercontinente chiamato Gondwana e ci fu un’altra grande glaciazione. Alla fine del periodo Ordoviciano ci furono estinzioni di massa che portarono alla scomparsa della metà degli organismi multicellulari che vivevano nel mare.

Durante il periodo Siluriano (indicare il periodo Siluriano) la Gondwana continuò a spostarsi a sud, mentre intorno all’Equatore si formò un supercontinente chiamato Euramerica, attraverso lo scontro dell’Europa con il Nord America. La forza dell’urto portò alla formazione delle lunghe catene montuose che vanno dalla costa orientale degli USA alla Norvegia. Dopo le estinzioni di massa dell’Ordoviciano la vita riprese. Il clima caldo e umido favorì la vita marina. Nell’oceano apparvero i primi pesci, che non avevano mascelle ed aspiravano il cibo dai fondali. Questi primi pesci erano coperti di placche ossee di protezione. Alla fine del periodo Siluriano sviluppano mascelle e pinne e si ricoprirono di piccole squame sovrapposte, come i pesci odierni. I predatori più feroci erano artropodi chiamati scorpioni di mare. Il più grande misurava fino a 6 metri di lunghezza ed aveva pinze molto taglienti, zampe sulla testa, davanti alla bocca, e per muoversi utilizzava la coda e delle braccia laterali. Aveva occhi molto grandi. In risposta, i trilobiti, che riempivano ancora l’oceano a quel tempo, svilupparono corazze ancora più dure e probabilmente impararono ad appallottolasi per proteggersi. Al termine del Periodo Siluriano la Terra era ancora un luogo molto ostile: i vulcani erano ancora in eruzione, e sulla superficie terrestre imperversavano forti venti, mentre i raggi solari erano fortissimi. La terraferma era costituita da sola roccia. Si verificò allora un altro grande evento che avrebbe cambiato per sempre la Terra: alghe marroni, rosse e verdi prosperavano nelle acque poco profonde lungo le coste, formando enormi letti che a volte le onde portavano a riva, dove morivano. Col tempo alcune delle alghe verdi hanno sviluppato un sistema per proteggersi dalla disidratazione, creandosi un rivestimento ceroso chiamata cuticola, che aveva delle piccole apertura che permettevano di assorbire comunque anidride carbonica ed espellere ossigeno. In seguito hanno sviluppato radici che servivano a tenerle ancorate al suolo ed a trarre da esso sali minerali ed acqua. Questi primi vegetali terrestri non erano molto alti, anzi erano simili agli odierni muschi, eppure hanno iniziato a trasformare molto lentamente la superficie terrestre.

Nel periodo Devoniano (indicare il periodo Denoviano) le piante si erano già molto evolute, sviluppando steli rigidi che permettevano loro di elevarsi dal suolo, radici e foglie. C’erano enormi foreste di felci, e comparvero anche i funghi. Le piante hanno cominciato a lavorare la roccia con le proprie radici, e quando morivano i loro resti si mescolavano a funghi e batteri formando strati su strati di materiale terroso, che lentamente ricoprì la superficie terrestre. I piccoli artropodi presto cominciarono ad uscire dall’oceano per approfittare di tutto questo nuovo cibo che si era creato sulla terraferma e si svilupparono i primi insetti.

I pesci intanto avevano continuato ad evolversi, ed avevano popolato tutto l’oceano. C’erano pesci dotati di armatura ossea, pesci con la pelle squamosa, pesci con o senza mascelle, pesci con cartilagine o con ossatura interna. Alcune specie svilupparono delle pinne dotate di muscoli, chiamate pinne lobate, a differnza delle pinne della maggior parte dei pesci che sono invece ossee. Questi pesci particolari avevano anche una vescica natatoria che li aiutava a salire e scendere nell’acqua. Questi pesci, trovandosi in superficie, trasformarono le loro pinne carnose in zampe, e le vesciche natatorie in polmoni, e così nacquero gli anfibi, animali in grado di vivere sia sulla terraferma sia nell’acqua. Anche gli anfibi si sono evoluti in forme diverse: alcuni erano enormi e vivevano la maggior parte della loro vita in acqua, mentre i più piccoli vivevano principalmente in superficie, ma sempre vicino all’acqua, nutrendosi di insetti. Nel Denoviano, mentre il Gondwana continua a dominare l’emisfero sud, dall’unione di Euramerica e Siberia si formò la Laurasia. Si formarono i monti Appalachi in America e le catene montuose in Gran Bretagna e Scandinavia.

Il periodo Carbonifero (indicare il periodo Carbonifero) è così chiamato proprio perché è stata l’epoca in cui nel sottosuolo si è creato il carbone. In superficie si erano sviluppate foreste di felci alte anche 150 metri, e gli insetti sciamavano ovunque: c’erano ragni, scarafaggi, cavallette, coleotteri e millepiedi. Alcuni insetti svilupparono le ali, e ronzavano tra le piante per sfuggire ai predatori. Le libellule potevano raggiungere i 70 centimetri. Presto arrivarono anche farfalle e falene. Però in quell’epoca non c’erano ancora animali sufficienti ad abbattere la grande quantità di materia vegetale morta che si accumulava ai piedi delle foreste, così tutta questa materia cominciò ad accumularsi in strati che lentamente si trasformarono in carbone. Avvenne poi che alcuni anfibi si stancarono di vivere vicino all’acqua: volevano andare più lontano per cacciare gli insetti e trovare piante da mangiare. Così questi animali svilupparono una pelle che non si asciugava sotto i raggi cocenti del sole, e iniziarono a rivestire le loro uova con un guscio duro: nacquero così i rettili. Al termine del Carbonifero apparvero le prime piante che si riproducevano attraverso semi, e non spore. I semi, trasportati dal vento, erano in grado di viaggiare molto lontano, e così anche le zone più aride dei continenti si rivestirono di una folta vegetazione.

Il periodo Permiano (indicare il periodo Permiano) inizia dunque con la diffusione dei rettili. I primi avevano zampe laterali ed erano piccoli mangiatori di insetti, però erano già in grado di vivere lontano dall’acqua. Al termine di questo periodo, enormi rettili vagavano sulla Terra: alcuni avevano sviluppato enormi vele sulla schiena, ed alcuni erano ferocissimi carnivori, mentre altri erano tornati al mare ed avevano sviluppato nuovamente le pinne. I Terapsidi furono i primi ad avere zampe che crescevano sotto al corpo, e non lateralmente. Questo permetteva loro di muoversi più velocemente. Tenendo il torace alto e libero di espandersi, non avevano bisogno di fermarsi per respirare. Alcuni divennero animali a sangue caldo, cioè erano in grado di regolare la loro temperatura corporea senza l’aiuto del sole: questo significava che potevano essere attivi per periodi di tempo più lunghi. Avevano una dentatura simile a quella dei mammiferi odierni, ed avevano inoltre sviluppato la capacità di respirare anche durante la masticazione, così non dovevano più ingoiare il cibo intero. Alcuni erano dotati di pelliccia. Ormai gli esseri viventi aveno popolato ogni angolo della Terra. Ogni animale svolgeva un suo particolare compito. I predatori perfezionavano le loro tecniche di caccia, le prede le loro strategia di difesa. Poi avvenne qualcosa sul nostro pianeta, che cambiò tutto. Gli scienziati non sanno ancora esattamente cosa sia successo, ma le ipotesi sono molte: forse enormi eruzioni vulcaniche hanno avvelenato l’atmosfera; forse si è schiantato sulla Terra un enorme meteorite che ha causato un brusco cambiamento climatico; forse gli animali non sono stati in grado di adattarsi alle grandi montagne che si sono create in questo periodo. Non si sa. Ad ogni modo, ci fu una grande estinzione, la più grande che sia mai avvenuta sulla Terra. Questa estinzione di massa ha coinvolto sia gli ambienti terrestri, sia gli ambienti marini, facendo scomparire i trilobiti, tutti i grandi anfibi e alcune specie dei piccoli. Sparirono anche molte piante acquatiche. Durante il Permiano tutte le terre emerse si erano riuniti una grande massa continentale chiamata Pangea.

L’era successiva è nota col nome di Mesozoico (indicare il periodo Mesozoico), che significa vita media. Il Mesozoico si suddivide in Triassico, Giurassico e Cretaceo.

La fine del Permiano aveva lasciato molte zone della Terra disabitate, e gli esseri sopravvissuti all’estinzione di massa si sono evoluti molto rapidamente: comparvero i dinosauri. Già nel Permiano alcuni rettili avevano sviluppato delle membrane di pelle che utilizzavano per planare tra gli alberi, ma ora comparvero i primi animali muniti di ali vere e proprie, e in grado di volare: gli Pterosauri.

Nel Giurassico (indicare il periodo Giurassico) il clima tornò ad essere più piovoso, e si formarono enormi foreste di conifere e felci, come nel Carbonifero.  Sulla superficie terrestre si erano formati laghi e fiumi, ed agli oceani che dividevano i continenti si erano aggiunti mari meno profondi. Sorsero grandi barriere coralline, popolate di polpi e calamari. Gli insetti si erano evoluti molto rapidamente, ed erano apparse api, mosche, formiche, vespe. Gli Pterosauri volavano ancora nei cieli, ma verso la fine di questo periodo apparvero gli uccelli veri e propri, col becco senza denti, e ricoperti di piume. I rettili dominavano ancora la Terra. Nei mari e negli oceani enormi rettili marini vivevano a fianco di squali e pesci. Sulla terraferma i dinosauri più comuni erano i Sauropodi: enormi animali dal collo lungo, che trascorrevano le loro giornate sgranocchiando le foglie che trovavano sugli alberi ad alto fusto.  Apparvero tartarughe e coccodrilli, ma anche nuovi giganti carnivori, dinosauri che camminavano sulle due zampe posteriori, mentre quelle anteriori erano munite di potenti artigli. Nel Giurassico il supercontinente della Pangea si divise in un supercontinente del nord, la Laurasia, e uno a sud, la Gondwana.

Nel Cretaceo (indicare il periodo Cretaceo) comparvero negli oceani aragoste, granchi e gamberi. Sulla terraferma comparvero i serpenti e nei cieli uccelli marini che si nutrivano di pesce. Nel regno vegetale fecero la loro apparizione i fiori, che gli insetti aiutarono a diffondere in ogni luogo della terra, trasportando il loro polline: oggi esistono circa 250.000 specie di piante da fiore, mentre le altre sono in tutto 50.000, e questo dimostra il successo di questo tipo di pianta rispetto alle altre. Gli Adrosauridi erano i dinosauri più diffusi. Vivevano in branchi. C’erano poi gli Stegosauri e gli Anchilosauri, tutti animali che avevano corpi dalle forme molto elaborate, con punte e strane corni sporgenti, e molto diversi dai dinosauri del Giurassico. Verso la fine del Cretaceo comparve anche il Triceratopo. Il predatore più temibile era il Tirannosauro. Poi successe nuovamente qualcosa che per noi rimane avvolto nel mistero, e tutti i dinosauri si estinsero, insieme a molte altre specie di piante ed animali, mentre quelle che sopravvissero cambiarono per adeguarsi al nuovo ambiente. Ricordate ad esempio i rettili che erano diventati a sangue caldo? Ebbene, questi animali divennero marsupiali in grado di produrre il latte per nutrire i piccoli.

Il Cenozoico (indicare il periodo Cenozoico), nome che significa ‘nuova vita’ è diviso in due periodi: Terziario e Quaternario. In questa era si completò la frammentazione della Pangea: Nord America e Groenlandia si separarono dall’Eurasia. L’Australia e l’India cominciarono a spostarsi verso Nord-Est. L’Antartide si separò dall’Australia. L’India entrò in collisione con l’Asia portando alla formazione della catena dell’Himalaya. In questo periodo pesci e squali furono i più grandi carnivori marini. Sulla terraferma i mammiferi cominciarono a colmare le lacune lasciate dall’estinzione dei dinosauri. La maggior parte dei primi mammiferi erano mangiatori di piccoli insetti, per lo più notturni, perché al tempo dei dinosauri era il modo più sicuro per vivere. Ora che i dinosauri erano scomparsi, poterono proliferare e ne comparvero di tipi molto diversi: alcuni vivevano sugli alberi, come gli scoiattoli odierni; alcuni avevano zanne e corna; alcuni tornaro a vivere nell’oceano prendendo il posto dei dinosauri marini. Divennero uccelli comuni sulla Terra pinguini, anatre, gabbiani, aironi, pellicani, e successivamente pappagalli, piccioni, picchi, corvi e falchi. Un altro gruppo di mammiferi assunse enorme importanza: i mammiferi placentati. Il loro successo è dovuto al fatto che la loro prole ha una maggiore percentuale di sopravvivenza degli altri, e per questo si diffusero in tutte le zone della Terra. Oggi esistono più di 4000 specie di mammiferi placentati, che si sono adattati a tutte le zone climatiche: dalle più secche alle più umide, dalle più fredde alle più calde, dall’aria all’acqua.  In questo periodo apparvero sulla Terra talpe, serpenti velenosi, conigli, cammelli, topi, ratti, cavie, istrici e avicole, e alla fine di questo periodo anche gatti, cani ed orsi. Tra i mammiferi terrestri più grandi c’era il lupo gigantesco (Megistoterio): la sua testa era due volte più grande come un orso grizzly. Il Diatryma era invece un uccello carnivoro, incapace di volare, alto fino a due metri. Quando il primo elefante apparve, somigliava più che altro ad un grande maiale dal naso lungo, ed il primo cavallo era circa delle dimensioni di una volpe.

Infine, comparve sulla terra un nuovo essere, che camminava su due gambe ed era diverso da tutte le forme di vita comparse prima di lui, dando inizio ad una nuova storia: la nostra. Ma quello lo racconteremo un altro giorno. E sai una cosa? Ci sono degli scienziati che affermano che viviamo ancora nell’era dei batteri, la prima forma di vita che abbiamo incontrato nella linea del tempo dei viventi, perché sulla Terra ci sono più batteri che qualsiasi altra forma di vita. È un peccato che non ne riconosciamo l’importanza: nessuna vita sarebbe comparsa sulla Terra, e nulla sarebbe esistito, senza di loro.

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI 

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI  – Lezioni chiave

  • I regni della natura.
  • Classificazioni per regno, tipo, classe e ordine dei viventi.
  • Rocce sedimentarie.
  • Biomes
  • I Continenti (cartografia)
  • Le cellule
  • Le grandi estinzioni
  • Il tempo geologico (eoni, ere, periodi, epoche)

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Idee per i giorni seguenti:

  • Far comporre ai bambini la linea del tempo dei viventi.
  • Presentare l’orologio delle ere geologiche.
  • Presentare il calendario della Terra.

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Carte per il linguaggio

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Carte operative (comandi)

  • Esperimenti scientifici
  • Attività artistiche e manuali
  • Questionari in scheda per le ricerche (un esempio, relativo ai dinosauri, qui:

LA SECONDA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

 

La prima grande lezione Montessori

La prima grande lezione Montessori

Il primo giorno di scuola, i bambini ascoltano la fiaba cosmica che è la base della grande lezione sulle origini dell’Universo. Come già anticipato qui, 

il complesso svolgersi della grande lezione prosegue con dimostrazioni, ricerche, esperimenti, attività artistiche e manuali, toccando nel corso degli anni varie materie ed argomenti di studio: Astronomia, Meteorologia, Chimica, Fisica, Geologia, Geografia. Tutto il piano è inquadrato nella grande cornice dell’Educazione Cosmica.

Questo articolo contiene:

narrazione breve della prima fiaba cosmica;
prima versione della grande lezione Montessori: questa versione si basa sul testo originale rielaborato in chiave laica, con l’aggiunta di indicazioni per la presentazione, le carte delle immagini (scaricabili in pdf) e le indicazioni per le dimostrazioni scientifiche che accompagnano la narrazione;
Il Dio senza mani: testo della fiaba cosmica originale di Maria Montessori;
terza versione della grande lezione Montessori: questa versione è più estesa e contiene dimostrazioni, esperimenti scientifici e riferimenti alla chimica ed alla fisica. Include la tavola periodica degli elementi (in versione illustrata e semplificata) e numerose immagini dell’Universo;
testo per recita sulla nascita dell’Universo, con indicazioni per vari lavori artistici e manuali di accompagnamento;

La prima grande lezione Montessori – Spunti di lavoro per i giorni seguenti:
ricerca: lezione esempio per avviare il lavoro di ricerca e set di carte questionario per le ricerche;
lezioni chiave: materiali pronti e links per ogni argomento (20 argomenti)
– carte tematiche:
11 set di carte tematiche in tre parti per il linguaggio;
– vari set di carte guida per esperimenti scientifici legati alla prima grande lezione;
– vari set di carte guida per lavori artistici e manuali legati alla prima grande lezione;

LA PRIMA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

La nascita dell’Universo

NARRAZIONE BREVE DELLA PRIMA FIABA COSMICA

All’inizio della storia dell’Universo, nella notte dei secoli, c’era solo il nulla, il buio cosmico totale. Un buio immenso e assoluto, senza possibilità di luce. In questo immenso buio apparve un puntino. Era un puntino di luce, pieno di energia e di calore. Il calore si manifestò così potente, che le sostanze che noi ora conosciamo come oro, ferro, roccia, acqua, ecc… erano inconsistenti come l’aria, erano gas.

In questo calore, in questa luce, c’era tutto e c’era niente: era una nube di luce e calore e intorno c’era lo spazio vuoto e freddo, il freddo cosmico inconcepibile. Questa nube di luce  e calore cominciò a muoversi nello spazio, espandendosi, e nell’espandersi lasciava cadere piccole gocce di luce. Quelle gocce formarono le stelle. Le gocce, vagando nello spazio in forma ordinata e compatta, crearono una spirale che era in movimento perpetuo e in espansione. C’era, e c’è ancora, la lotta tra la forza d’attrazione e la forza d’espansione, che ha creato l’equilibrio perfetto. Una delle tante gocce di luce sparse nell’Universo è il nostro sole. I corpi celesti che ruotano incessantemente intorno al sole, sono tenuti insieme dalla forza di attrazione gravitazionale. La Terra, il nostro pianeta, fa parte del sistema solare, ed era anch’essa una goccia di luce piccolissima, migliaia di volte più piccola del sole. La Terra ruota intorno al sole e muovendosi gira su se stessa ad una velocità sempre uguale.

LA PRIMA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

La nascita dell’Universo

Prima versione

Questa è una versione modificata della fiaba originale di Maria Montessori “Il Dio senza mani”, la prima grande storia raccontata ai bambini della sua scuola elementare. Conserva il linguaggio originale, ma adattando i termini ed i riferimenti alla religione cattolica con altre di respiro più ampio, dando al racconto un tono laico.

La prima grande lezione Montessori – Materiale:

– Disponete su un tappeto i seguenti oggetti, in questo ordine:

  1. un vassoio per la DIMOSTRAZIONE 1 (forza di attrazione) contenente: una ciotolina di pezzetti di carta o coriandoli, una brocca piena d’acqua e una ciotola che presenti una superficie ampia
  2. un vassoio per la DIMOSTRAZIONE 2 (modello di liquidi) contenente: un vaso trasparente e una ciotola di perle o biglie
  3. un vassoio per la DIMOSTRAZIONE 3 (stati della materia e calore) contenente: 3 piatti di metallo, una fonte di calore, ghiaccio, filo di stagno per saldature, un oggetto di ferro (ad esempio un chiodo)
  4. un vassoio per la DIMOSTRAZIONE 4 (il peso dei liquidi) contenente: un bicchiere trasparente riempito con acqua colorata di blu, una ciotola di miele e una d’olio e una brocca o un bicchiere più grande per mescolarli
  5. un vulcano, coperto molto bene con un panno nero, già riempito con bicarbonato di sodio e colorante in polvere rosso, e una brocca piena di aceto mescolato ad un po’ di sapone per piatti. (vedi tutorial qui: vulcano in eruzione)

– Carte illustrate da tenere a portata di mano su di un vassoio, o da inserire secondo lo schema della narrazione tra gli oggetti messi sul tappeto, voltate, da mostrare durante la narrazione.

  1. Immagine che mostra la differenza di dimensioni tra Sole e Terra
  2. Immagine della danza degli elementi
  3. Immagine della Terra formata da vulcani e nubi
  4. Immagine della Terra formata da vulcani ed acqua

 La prima grande lezione Montessori – il set completo qui:

La prima grande lezione Montessori – Istruzioni per le dimostrazioni

  • DIMOSTRAZIONE 1 (forza di attrazione): riempire la ciotola con l’acqua, attendere che si fermi, quindi sparpagliare i pezzetti di carta sulla superficie dell’acqua ed osservare
  • DIMOSTRAZIONE 2 (Modello di liquido): versare le biglie nel vaso e scuoterlo per far scivolare le sfere le une sulle altre e osservare
  • DIMOSTRAZIONE 3 (Stati della materia e calore): 3 piatti di metallo, una fonte di calore, ghiaccio, filo di stagno per saldature, un oggetto di ferro (ad esempio un chiodo)
  • DIMOSTRAZIONE 4 (il peso dei liquidi): ho qui 3 liquidi di peso diverso. Verso l’acqua colorata, poi il miele e vedo come scende sul fondo. Verso l’olio e lo vedo galleggiare. Questa è la forza fisica che esercita il peso. Posso agitare questa miscela, e prima della fine della giornata si sarà sistemata di nuovo con la più pesante in basso e il più leggero in alto. I liquidi si distribuiscono a strati in base al loro peso.

La prima grande lezione Montessori
La nascita dell’Universo

Molto prima che i nostri antenati abbiano potuto guardare il cielo per la prima volta, prima che l’uomo stesso sia esistito sulla terra, prima che sia esistita la terra, prima che sia esistito il sole, prima che sia esistita la luna, e molto prima che tutte le stelle luminose siano arrivate a brillare nel cielo, ci fu un grande nulla, il vuoto.  C’era solo il caos, e le tenebre coprivano questo abisso: un’immensità di spazio, senza inizio e senza fine, indescrivibilmente buio e freddo. Chi può immaginare tutta questa immensità, tutta questa oscurità, tutto questo freddo? Quando noi pensiamo al buio, pensiamo alla notte, ma la nostra notte è luminosa come il sole di mezzogiorno, confrontata a quella prima oscurità. Quando pensiamo al freddo, pensiamo al ghiaccio. Ma il ghiaccio è caldo, se lo confrontiamo col freddo dello spazio che ci separa dalle stelle…

All’improvviso, in questo vuoto incommensurabile di freddo e oscurità, apparve per la prima volta la luce: fu qualcosa di simile a una grandissima nube di fuoco, che comprendeva in sé tutte le stelle che sono in cielo. L’intero universo era in quella nuvola, e tra le stelle più piccole, c’era anche il nostro mondo.  A dire la verità non si trattava ancora di stelle: nel tempo di cui stiamo parlando esistevano soltanto la luce e il calore.  E questo calore era così intenso, che tutte le sostanze che conosciamo – il ferro, l’oro, la terra, le pietre, l’acqua – esistevano come gas ed erano inconsistenti come l’aria. Tutte queste sostanze, tutti i materiali di cui sono composti la terra, e le stelle, e perfino voi ed io, erano fusi insieme in un vasto e fiammeggiante ammasso che aveva una luce ed un calore così intensi, che al confronto il nostro sole sembra un pezzo di ghiaccio.

Questa nube gassosa ardeva nel gelido nulla, troppo grande da immaginare, ma infinitamente più vasto della nube. La massa di fuoco era poco più grande di una goccia d’acqua nell’oceano dello spazio, ma questa goccia conteneva in sé la terra e tutte le stelle. Poiché la nube ardente si muoveva nello spazio, piccole gocce cominciarono a staccarsi da essa, come quando teniamo in mano un bicchiere d’acqua e lo facciamo oscillare, e vediamo che dall’acqua si staccano delle gocce e volano via.

Le innumerevoli schiere di stelle che vediamo brillare nel cielo notturno, sono come queste piccole gocce, ma mentre le gocce d’acqua che si staccano dal bicchiere cadono, le stelle sono in continuo movimento nello spazio e non si incontrano mai. Esse sono a milioni di chilometri l’una dall’altra. Alcune stelle sono così lontane da noi, che la loro luce impiega milioni di anni per raggiungerci.

Sapete quanto velocemente viaggia la luce? (Dare ai bambini il tempo di fare le loro ipotesi.) 100 chilometri all’ora? 200? 1000? No, è molto più veloce. La luce viaggia alla velocità di 300.000 chilometri, ma non all’ora… al secondo! Immaginate quanto è veloce! Viaggiare a 300.000 chilometri al secondo, significa che in un secondo potremmo fare sette volte il giro intorno al mondo. E sapete quanto è grande il mondo? 40.000 chilometri. Se dovessimo guidare a 100 chilometri all’ora, tutto il giorno e tutta la notte, senza mai fermarci, impiegheremmo più di dieci giorni per coprire quella distanza. Eppure la luce la copre sette volte in un secondo. Schiocchi le dita, e la luce ha già fatto sette volte il giro del mondo.

Ora, riuscite ad immaginare quanto lontane possono essere le stelle, se la loro luce impiega un milione di anni per raggiungerci? E pensate che ci sono così tante stelle in cielo, che gli scienziati hanno calcolato che se ognuna fosse un granello di sabbia, e se le mettessimo tutte insieme, il loro numero sarebbe superiore al numero di granelli di sabbia di tutte le spiagge del nostro pianeta messe insieme.

Una di queste stelle, uno di questi granelli di sabbia tra quelle migliaia di miliardi di granelli di sabbia, è il nostro Sole, e una milionesima parte di questo granello è la nostra Terra. Un granello invisibile del nulla.

Ora voi potreste pensare che il sole non è poi così grande, ma considerate che è lontanissimo da noi. La luce del sole impiega circa 8 minuti per raggiungere la terra, e se dovessimo percorrere la distanza dalla terra al sole a 100 chilometri all’ora impiegheremmo circa 106 anni. Così il sole, essendo tanto lontano da noi può apparirci piccolo, mentre in realtà è un milione di volte più grande della terra: è così grande che una delle sue fiamme potrebbe contenere 22 volte la terra. (Mostrare ai bambini la carta 1:  differenza di dimensioni tra Sole e Terra).

Quando quella prima forza di calore e di luce si è manifestata, ogni particella contenuta nella nube era troppo piccola per poter diventare materia. Queste piccole particelle erano come il fumo, come il vapore, così l’universo cominciò a dettare le sue leggi. Per la prima legge quando le particelle si raffreddano si devono avvicinare le une alle altre, così da occupare meno spazio.

Le particelle, allora come oggi, obbediscono alle leggi dell’universo, così molto lentamente, un pezzetto alla volta, la nube ardente cominciò a raffreddarsi ed a muoversi più lentamente nello spazio. Le particelle continuarono ad avvicinarsi e ad aggregarsi tra di loro, occupando sempre meno spazio, e pian piano assunsero diversi stati, che l’uomo ha chiamato gassoso, liquido e solido. Tutti sappiamo cosa vuol dire solido, o liquido, o gas: questa differenza dipendeva da quanto le particelle erano riuscite a raffreddarsi e ad avvicinarsi tra loro.

Ma c’erano altre leggi alle quali le particelle obbedivano, e così anche oggi: ognuna di loro provava un amore particolare per alcune particelle, e una fortissima antipatia per alcune altre. Così capitò che alcune si attraevano ed altre si respingevano, proprio come avviene agli esseri umani. Fu così che le particelle formarono gruppi diversi. (DIMOSTRAZIONE 1 sulla forza di attrazione).

Osservate come alcuni pezzi di carta si attraggono, mentre altri si allontanano l’uno dall’altro. E’ proprio in questo modo che le particelle si combinarono tra loro in modo diverso, formando elementi diversi.

Allo stato solido, le particelle si aggrappano così strettamente le une alle altre, che separarle è quasi impossibile. Esse formano un corpo che non modifica la sua forma, a meno che non applichiamo una forza su di esso. Se rompiamo una sostanza solida, i vari pezzi che otteniamo contengono le particelle aggrappate tra loro allo stesso modo in cui lo erano prima. Se ad esempio stacchiamo un frammento da una roccia, sia la roccia sia il frammento saranno di roccia. E questa è la legge che vale per i solidi.

Per i liquidi, l’universo stabilì leggi diverse, che dicono alle loro particelle: “Nei liquidi dovete stare unite, ma non troppo vicine le une alle altre, così sarete libere di muovervi e scorrere, e insieme non avrete una forma fissa. Insieme fluirete e vi diffonderete, riempiendo ogni vuoto, ogni fessura che incontrate nel vostro percorso. E avrete la forza di spingere verso il basso e verso i lati, ma non verso l’alto”.   Ecco perché ancora oggi noi possiamo mettere le mani nell’acqua, ma non possiamo metterle nella roccia. (DIMOSTRAZIONE 2: modello di un liquido).

E per i gas, la legge fu questa: “Le vostre particelle non saranno del tutto aggrappate tra loro e potranno sempre muoversi liberamente in tutte le direzioni”.

Le particelle non diventarono sostanze solide liquide o gassose tutte nello stesso momento. A seconda della temperatura, alcuni gruppi di particelle si aggregavano, mentre altre stavano ad aspettare una temperatura più bassa per farlo. (DIMOSTRAZIONE 3: stati della materia e calore)

 “Vieni è meraviglioso!” dicevano le particelle le une alle altre. “Se diventiamo calde ci allarghiamo, e ci allarghiamo ancora, diventiamo leggere e voliamo verso l’alto. Se ci raffreddiamo, diventiamo compatte e ci tuffiamo di nuovo giù!” E così facevano: quando si scaldavano salivano verso l’alto come le bollicine nell’acqua minerale, e quando si raffreddavano cadevano come granelli di sabbia che affondano nello stagno, rispondendo alle leggi dell’universo. (Mostrare ai bambini la carta 2:  la danza degli elementi)

E grazie alla loro obbedienza, la Terra gradualmente si trasformò da una palla di fuoco, al pianeta che abitiamo. Queste particelle, che sono così piccole che è impossibile vederle o anche solo immaginarle, erano così numerose ed hanno lavorato così bene insieme, che hanno prodotto il mondo.  La loro danza è proseguita per centinaia, migliaia, milioni di anni. Infine, le particelle si stabilizzarono, e una dopo l’altra presero riposo. Alcuni gruppi di fermarono allo stato liquido, altri allo stato solido. Quelli che provavano attrazione reciproca si univano a formare nuove sostanze. Le sostanze più pesanti si andarono a depositare vicino al cuore della Terra, e quelle più leggere si misero a galleggiare sopra di esse, come l’olio che galleggia sull’acqua. (DIMOSTRAZIONE 4: il peso dei liquidi)

Sulla loro superficie si formò una sottile pellicola, simile a quella che si forma facendo bollire il latte e lasciandolo poi raffreddare. La Terra, con questa nuova pelle, aveva assunto una forma, però gli elementi che si trovavano al di sotto di essa erano ancora molto caldi, e si sentivano intrappolati. Volevano Uscire. E d’altra parte, cosa altro potevano desiderare? In fondo stavano solo obbedendo, come sempre, alla legge dell’Universo, che aveva stabilito per loro: “Quando vi scalderete, vi espanderete”. Ma sotto la pelle che avvolgeva la Terra, mancava lo spazio per espandersi, e cominciarono a premere e premere, finchè si fecero varco tra eslosioni di immensa potenza, bucando la pellicola esterna. (Vulcano)

L’acqua che si era formata sulla superficie della Terra si trasformò in vapore e cominciò a salire verso l’alto. La massa incandescente che premeva sotto la pellicola superficiale esplose dal centro della terra, trasportando con sé immense nuvole di cenere. Un velo di gas, cenere e minerali avvolse completamente la Terra. Sembrava quasi che il nostro pianeta volesse impedire al Sole di vedere quello che stava combinando. (Mostrare ai bambini la carta 3:  vulcani e nubi)

Quando le esplosioni cessarono, tutti gli elementi ripresero pian piano a raffreddarsi. Così i gas divennero liquidi, e i liquidi divennero solidi. La Terra, nel raffreddarsi, era diventata molto più piccola e si era fatta rugosa come una vecchia mela lasciata nella credenza: le pieghe erano le montagne, e i solchi gli oceani.  Infatti le rocce, raffreddandosi, precipitarono per prime dalla nube che avvolgeva la terra, mentre l’acqua arrivò dopo, cadendo e riempiendo ogni spazio vuoto che trovava sul suo cammino. Piovve e piovve per lunghissimo tempo, ed è così che si formarono gli Oceani. Sopra all’acqua ed alle rocce rimase sospesa l’aria. La nube scura era scomparsa. (Mostrare ai bambini la carta 4:  vulcani e acqua).

Quando la nube scura si dileguò, il sole fu di nuovo in gradi di sorridere alla sua bella figlia, la Terra, e vide rocce, acqua ed aria.

I solidi, i liquidi ed i gas, oggi, come ieri, come milioni di anni fa, obbediscono alle leggi dell’Universo, nello stesso modo. La Terra gira intorno su se stessa e danza intorno al Sole. E oggi, come milioni di anni fa, la Terra e tutti gli elementi ed i composti che la formano, assolvono i loro compiti. Anche se ogni elemento è unico e diverso dall’altro, sono tutti collegati l’uno all’altro, e noi siamo collegati a loro.

Gli elementi, le rocce, gli alberi, l’acqua, l’aria e noi, esseri umani, siamo tutti fatti di stelle, costruiti con quel materiale che si staccò dalla prima grande nube di luce e calore che cominciò a vagare nel gelido vuoto.

Il cosmo è dentro di noi, di noi che eravamo Uno all’alba dell’Universo. E anche noi, come tutto, obbediamo alle sue leggi e svolgiamo in nostro compito, che è quello di essere il mezzo che l’Universo ha di conoscere se stesso.

Guardiamo con umiltà al fiume ed alle nuvole, alle montagne e agli alberi. Guardiamo con gratitudine al cielo, e diciamo: “Grazie. Siamo tutti unici e tutti figli allo stesso modo della terra e del cielo. Siamo tutti simili, tutti rari e preziosi. Grazie”.

LA PRIMA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

La nascita dell’Universo

Il Dio senza mani – Versione originale

Così come è scritta, la versione originale presenta una netta prospettiva giudaico-cristiana. Se non è la vostra prospettiva, come già detto, o se nel vostro gruppo di bambini convivono studenti provenienti da famiglie atee o Hindu, Shinto, Testimoni di Geova, Musulmane, o di qualsiasi altra fede, a mio parere, si può utilizzare la versione data sopra, o sostituire la parola ‘Dio’ con la parola ‘vita’ o ‘ forza della Vita’, o ‘Legge dell’Universo’, senza nulla togliere alla lezione. Ribadito questo, per noi adulti, può valere la pena  conoscere anche questa versione per il suo valore di documento storico.  Mario Montessori ha condiviso questa storia, pubblicata nella rivista dell’AMI del dicembre 1958, presentandola come racconto da fare ai bambini, in una sola seduta, entro la prima settimana di arrivo degli studenti nelle classi elementari.

Fin dall’inizio, gli esseri umani erano a conoscenza del’esistenza di Dio. Potevano sentirlo, ma non potevano vederlo, e da sempre si sono chiesti, nelle loro diverse lingue, chi fosse e dove si trovava. Domandavano ai loro saggi: “Chi è Dio?”. E i saggi rispondevano: “E’ il più perfetto degli esseri”.
“Ma che aspetto ha? Ha un corpo come noi?”.
“No, non ha un corpo. Non ha occhi per vedere, non ha mani per lavorare, non ha piedi per camminare, ma vede e sa tutto, anche i nostri pensieri più segreti”.
“E dove sta?”
“Sta in cielo e sulla Terra. Egli è ovunque”.
“E cosa può fare?”
“Ciò che vuole”
“Ma cosa ha fatto, effettivamente?”

“Ciò che ha fatto, è tutto ciò che è accaduto. Egli è il Creatore e il Maestro che ha fatto tutto, e tutto ciò che ha fatto obbedisce alla sua volontà. Egli si prende cura di tutti e a tutti provvede, e mantiene la sua creazione in ordine ed armonia. In principio c’era solo Dio. E dal momento che completamente perfetto e completamente felice, non c’era nulla di cui avesse bisogno. Eppure, per sua bontà, decise di creare e di porre in essere tutto ciò che è visibile e tutto ciò che è invisibile. Uno dopo l’altro fece la luce, le stelle, il cielo e la terra, con le sue piante ed i suoi animali. Per ultimo fece l’uomo. L’uomo, come gli animali, è stato fatto con sostanze della terra, ma Dio lo ha reso diverso dagli animali e simile a se stesso, perché gli respirò dentro un’anima immortale”.

A questa risposta, molti pensarono che questo racconto fosse solo una fantasia dei saggi. “Come potrebbe, qualcuno che non ha occhi e non ha mani, fare le cose? Se è uno spiroto che non può essere visto, o toccato, o sentito, come può aver fatto le stelle che brillano in cielo, il mare che è sempre in moto, il sole, le montagne e il vento? Come può uno spirito creare gli uccelli e i pesci e gli alberi, i fiori e il profumo che diffondono intorno a loro? Forse sarebbe stato in grado di fare le cose invisibili, questo si, ma come può aver creato il mondo visibile? Certo, è una bella storia, ma come fanno i saggi a dire che è ovunque e vede dentro di noi? Dicono che è il Maestro a cui tutto e tutti obbediscono, ma perché dovremmo crederci? Se noi che abbiamo le mani non siamo in grado di fare queste cose, come potrebbe esserci riuscito qualcuno che non le ha? E come possiamo credere che gli animali, le piante o i sassi obbediscono a Dio? Gli animali selvatici non fanno quello che si chiede loro, come possono essere obbedienti a Dio? E come possono i venti, il mare, le montagne? Possiamo gridare e urlare e agitare le braccia verso di loro, ma loro non ci possono sentire, non sono vivi e non possono obbedirgli. Dio c’è e basta.”
Sembra davvero che Dio ci sia e basta. A noi che abbiamo le mani, ma non possiamo fare le cose che fa lui, può sembrare che ci sia e basta. Ma come vedrete, tutte le cose che esistono, che abbiano vita o meno, e anche se non fanno nulla a parte esserci, obbediscono alla volontà di Dio. Le Creature di Dio non sanno che stanno obbedendo. Alle cose inanimate basta esistere. Ai viventi basta sopravvivere. Eppure ogni volta che un venticello fresco vi accarezza la guancia, se potessimo sentire, sentiremmo la sua voce dire: “Obbedisco al Signore”. Quando il sole sorge al mattino e sparge i suoi colori sul mare cristallino, il sole ed i suoi raggi stanno sussurrando: “Mio Signore, obbedisco”. E quando vediamo un uccello in volo, o la frutta che cade da un albero, o una farfalla in equilibrio su un fiore, gli uccelli e il loro volo, l’albero e il frutto e il suo cadere a terra, la farfalla e il fiore e il suo profumo, tutti ripetono le stesse parole: “Ti sento, mio Signore, e ti obbedisco”.

All’inizio c’era il caos e l’oscurità regnava sull’abisso. Dio disse: “Sia la luce”, e la luce fu. Prima di allora c’era solo uno spazio immenso e profondo, senza inizio e senza fine, indescrivibilmente buio e freddo. Chi può immaginare tutta questa immensità, tutta questa oscurità, tutto questo freddo? Quando noi pensiamo al buio, pensiamo alla notte, ma la nostra notte è luminosa come il sole di mezzogiorno, confrontata a quella prima oscurità. Quando pensiamo al freddo, pensiamo al ghiaccio. Ma il ghiaccio è caldo, se lo confrontiamo col freddo dello spazio che ci separa dalle stelle…

In questo vuoto incommensurabile e oscuro è stata creata la luce. Era qualcosa di simile a una grandissima nube di fuoco, che comprendeva in sé tutte le stelle che sono in cielo.

L’intero universo era in quella nuvola, e tra le stelle più piccole, c’era anche il nostro mondo.  A dire la verità non si trattava ancora di stelle: nel tempo di cui stiamo parlando esistevano soltanto la luce e il calore.  E questo calore era così intenso, che tutte le sostanze che conosciamo – il ferro, l’oro, la terra, le pietre, l’acqua – esistevano come gas ed erano inconsistenti come l’aria. Tutte queste sostanze, tutti i materiali di cui sono composti la terra, e le stelle, e perfino voi ed io, erano fusi insieme in un vasto e fiammeggiante ammasso che aveva una luce ed un calore così intensi, che al confronto il nostro sole sembra un pezzo di ghiaccio.

Questa nube gassosa ardeva nel gelido nulla, troppo grande da immaginare, ma infinitamente più vasto della nube. La massa di fuoco era poco più grande di una goccia d’acqua nell’oceano dello spazio, ma questa goccia conteneva in sé la terra e tutte le stelle. Poiché la nube ardente si muoveva nello spazio, piccole gocce cominciarono a staccarsi da essa, come quando teniamo in mano un bicchiere d’acqua e lo facciamo oscillare, e vediamo che dall’acqua si staccano delle gocce e volano via.

Le innumerevoli schiere di stelle che vediamo brillare nel cielo notturno, sono come queste piccole gocce, ma mentre le gocce d’acqua che si staccano dal bicchiere cadono, le stelle sono in continuo movimento nello spazio e non si incontrano mai. Esse sono a milioni di chilometri l’una dall’altra.  Solo. Alcune stelle sono così lontane da noi, che la loro luce impiega milioni di anni per raggiungerci.

Sapete quanto velocemente viaggia la luce? (dare ai bambini il tempo di fare le loro ipotesi.) 100 chilometri all’ora? 200? 1000? No, molto più veloce. La luce viaggia alla velocità di 300.000 chilometri, ma non all’ora… al secondo! Immaginate quanto è veloce! Viaggiare a 300.000 chilometri al secondo, significa che in un secondo potremmo fare sette volte il giro intorno al mondo. E sapete quanto è grande il mondo? 40.000 chilometri. Se dovessimo guidare a 100 chilometri all’ora, tutto il giorno e tutta la notte, senza mai fermarci, impiegheremmo più di dieci giorni per coprire quella distanza. Eppure la luce la copre sette volte in un secondo. Schiocchi le dita, e la luce ha già fatto sette volte il giro del mondo.

Ora, riuscite ad immaginare quanto lontane possono essere le stelle, se la loro luce impiega un milione di anni per raggiungerci? E pensate che ci sono così tante stelle in cielo, che gli scienziati hanno calcolato che se ognuna fosse un granello di sabbia, e se le mettessimo tutte insieme, il loro numero sarebbe superiore al numero di granelli di sabbia di tutte le spiagge del nostro pianeta messe insieme.

Una di queste stelle, uno di questi granelli di sabbia tra quelle migliaia di miliardi di granelli di sabbia, è il nostro sole, e una milionesima parte di questo granello è la nostra terra. Un granello invisibile del nulla.

Ora voi potreste pensare che il sole non è poi così grande, ma considerate che è lontanissimo da noi. La luce del sole impiega circa 8 minuti per raggiungere la terra, e se dovessimo percorrere la distanza dalla terra al sole a 100 chilometri all’ora impiegheremmo circa 106 anni. Così il sole, essendo tanto lontano da noi può apparirci piccolo, mentre in realtà è un milione di volte più grande della terra: è così grande che una delle sue fiamme potrebbe contenere 22 volte la terra.

Quando la volontà di Dio mise in essere le stelle, non c’era nessun particolare che non avesse già previsto. Ad ogni pezzo di universo, ad ogni  granello che potremmo credere troppo piccolo per la materia, è stata data una serie di regole da seguire.  Alle piccole particelle che erano come il fumo, come il vapore, che possono essere distinte solo come luce e calore e si muovono a una velocità fantastica, ha detto: “Quando sarete fredde vi avvicinerete tra di voi diventando più piccole”. E così esse, mentre si raffreddavano, si spostavano sempre più lentamente, aggrappandosi le une alle altre in modo sempre più ravvicinato e occupando meno spazio. Le particelle hanno assunto diversi stati che l’uomo ha chiamato stato solido, stato liquido e stato gassoso. Se una cosa fosse un gas o un liquido o un solido, in quel momento dipendeva  da quanto caldo o freddo esso fosse.

Poi Dio diede altre istruzioni. Ogni particella provava un amore particolare per alcune particelle, e una fortissima antipatia per alcune altre. Così capitò che alcune si attraevano ed altre si respingevano, proprio come avviene agli esseri umani. Fu così che le particelle formarono gruppi diversi.

In questo modo, dunque, le particelle si combinarono tra loro e si formarono diverse sostanze.  Allo stato solido, Dio ha previsto che le particelle si aggrappino così strettamente le une alle altre, che separarle è quasi impossibile. Esse formano un corpo che non modifica la sua forma, a meno che non applichiamo una forza su di esso. Se rompiamo una sostanza solida, i vari pezzi che otteniamo contengono le particelle aggrappate tra loro allo stesso modo in cui lo erano prima. Se ad esempio stacchiamo un frammento da una roccia, sia la roccia sia il frammento saranno di roccia.  Invece, ai liquidi Dio disse: “ Voi dovrete stare uniti, ma non troppo vicini, in modo tale che non avrete una forma vostra, ma potrete rotolare una particella sull’altra”.

Per i liquidi, l’universo stabilì leggi diverse, che dicono alle loro particelle: “Nei liquidi dovete stare unite, ma non troppo vicine le une alle altre, così sarete libere di muovervi e scorrere, e insieme non avrete una forma fissa. Insieme fluirete e vi diffonderete, riempiendo ogni vuoto, ogni fessura che incontrate nel vostro percorso. E avrete la forza di spingere verso il basso e verso i lati, ma non verso l’alto”.   Ecco perché ancora oggi noi possiamo mettere le mani nell’acqua, ma non possiamo metterle nella roccia.  E ai gas Egli disse: “Le vostre particelle non saranno del tutto aggrappate tra loro e potranno sempre muoversi liberamente in tutte le direzioni”.

Ma poiché le particelle erano individui molto diversi tra loro, non diventarono sostanze solide liquide o gassose tutte nello stesso momento. A seconda della temperatura, alcuni gruppi di particelle si aggregavano, mentre altre stavano ad aspettare una temperatura più bassa per farlo.

Mentre le particelle si aggregavano obbedendo alle leggi di Dio, una di quelle gocce che si era staccata dalla nube ardente, e che sarebbe diventata il nostro mondo, cominciò a girare su se stessa e intorno al Sole, nel gelido spazio. Col passare del tempo, sulla superficie esterna di questa massa iniziò una danza, che chiameremo la danza degli elementi: le particelle dello strato più esterno si raffreddavano per prime e diventavano più piccole.  Stringendosi insieme si schiacciavano contro lo strato inferiore, che era rimasto molto più caldo, si scaldavano di nuovo, e tornavano ad espandersi verso l’esterno. Come angioletti, portavano fuori dalla terra un secchio di caldo, e tornavano alla terra con un secchio di freddo.

“Vieni è meraviglioso!” dicevano le particelle le une alle altre. “Se diventiamo calde ci allarghiamo, e ci allarghiamo ancora, diventiamo leggere e voliamo verso l’alto. Se ci raffreddiamo, diventiamo compatte e ci tuffiamo di nuovo giù!” E così facevano: quando si scaldavano salivano verso l’alto come le bollicine nell’acqua minerale, e quando si raffreddavano cadevano come granelli di sabbia che affondano nello stagno, rispondendo alle leggi di Dio. E grazie alla loro obbedienza, la Terra gradualmente si trasformò da una palla di fuoco, al pianeta che abitiamo. Queste particelle, che sono così piccole che è impossibile vederle o anche solo immaginarle, erano così numerose ed hanno lavorato così bene insieme, che hanno prodotto il mondo.  La loro danza è proseguita per centinaia, migliaia, milioni di anni. Infine, le particelle si stabilizzarono, e una dopo l’altra presero riposo. Alcuni gruppi si fermarono allo stato liquido, altri allo stato solido. Quelli che provavano attrazione reciproca si univano a formare nuove sostanze. Le sostanze più pesanti si andarono a depositare vicino al cuore della Terra, e quelle più leggere si misero a galleggiare sopra di esse, come l’olio che galleggia sull’acqua.

Sulla loro superficie si formò una sottile pellicola, simile a quella che si forma facendo bollire il latte e lasciandolo poi raffreddare. La Terra, con questa nuova pelle, aveva assunto una forma, però gli elementi che si trovavano al di sotto di essa erano ancora molto caldi, e si sentivano intrappolati. Volevano Uscire. E d’altra parte, cosa altro potevano desiderare? In fondo stavano solo obbedendo, come sempre, alla legge divina, che aveva stabilito per loro: “Quando vi scalderete, vi espanderete”. Ma sotto la pelle che avvolgeva la Terra, mancava lo spazio per espandersi, e cominciarono a premere e premere, finchè si fecero varco tra esplosioni di immensa potenza e grandi combattimenti e lotte, bucando la pellicola.

L’acqua che si era formata sulla superficie della Terra si trasformò in vapore e cominciò a salire verso l’alto. La massa incandescente che premeva sotto la pellicola superficiale esplose dal centro della terra, trasportando con sé immense nuvole di cenere.

Un velo di gas, ceneri e minerali avvolse completamente la Terra, in modo che nessuno potesse vedere quali tremende lotte stessero avvenendo al suo interno. Il sole si vergognava di loro!

Alla fine, i combattimenti cessarono. Appena si furono tutti raffreddati, sempre più gas diventarono liquidi e sempre più liquidi diventarono solidi. La Terra, nel raffreddarsi, era diventata molto più piccola e si era fatta rugosa come una vecchia mela lasciata nella credenza: le pieghe erano le montagne, e i solchi gli oceani.  Infatti le rocce, raffreddandosi, precipitarono per prime dalla nube che avvolgeva la terra, mentre l’acqua arrivò dopo, cadendo e riempiendo ogni spazio vuoto che trovava sul suo cammino. Piovve e piovve per lunghissimo tempo, ed è così che si formarono gli Oceani. Sopra all’acqua ed alle rocce rimase sospesa l’aria. La nube scura era scomparsa.

Quando la nube scura si dileguò, il sole fu di nuovo in grado di sorridere alla sua bella figlia, la Terra, e vide rocce, acqua ed aria.

I solidi, i liquidi ed i gas, oggi, come ieri, come milioni di anni fa, obbediscono alle leggi di Dio, nello stesso modo. La Terra gira intorno su se stessa e intorno al Sole. E oggi, come milioni di anni fa, la Terra e tutti gli elementi ed i composti che la formano, assolvono i loro compiti e sussurrano con una sola voce: ‘Signore, sia fatta la tua volontà; noi ti obbediamo”.

LA PRIMA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

La nascita dell’Universo

terza versione

La prima grande lezione Montessori
Materiale:

– Disponete su un lungo tappeto i seguenti oggetti, in questo ordine:

un palloncino nero gonfiato e riempito con brillantini o coriandoli, e uno spillo

del ghiaccio su un vassoio

una bella grande candela, e i fiammiferi

un vassoio per la DIMOSTRAZIONE 1 contenente: pezzi di carta in un contenitore (si possono anche raccogliere i coriandoli del palloncino, dopo che è stato scoppiato, come alternativa), una brocca piena d’acqua e una ciotola possibilmente lunga e rettangolare

una ciotola con della sabbia

un mappamondo

un metro

un vassoio per la DIMOSTRAZIONE 2 contenente: un bicchere trasparente riempito con acqua colorata di blu, una ciotola di miele e una d’olio e una brocca o un bicchiere più grande per mescolarli

un vassoio contenente i frammenti grandi e piccoli di un sasso rotto

un vassoio per la DIMOSTRAZIONE 3 contenente: una brocca d’acqua e una ciotola di perle o biglie

uno spray (profumo o deodorante)

un vulcano, coperto molto bene con un panno nero, già riempito con bicarbonato di sodio e colorante in polvere rosso, e una brocca piena di aceto mescolato ad un po’ di sapone per piatti:

La prima grande lezione Montessori – Carte illustrate
da tenere a portata di mano su di un vassoio, o da inserire secondo lo schema della narrazione tra gli oggetti messi sul tappeto, voltate, da mostrare durante la narrazione.

  1. Immagine di un Universo Primordiale 1
  2. Immagine di un Universo Primordiale 2
  3. Immagine di galassie con stelle scintillanti
  4. Tavola periodica degli elementi
  5. Immagine di una Supernova
  6. Immagine della materia che fuoriesce da una Supernova
  7. Immagine del Sole
  8. Immagine che mostra la differenza di dimensioni tra Sole e Terra
  9. Immagine di Protopianeti
  10. Immagine di Pianeti
  11. Immagine del Sole
  12. Immagine del Sistema Solare
  13. Immagine di un vulcano
  14. Immagine della Terra formata da vulcani ed acqua
  15. Una bella immagine della Terra.

La prima grande lezione Montessori
il set completo qui:

La prima grande lezione Montessori – Istruzioni per le dimostrazioni

La prima grande lezione Montessori – DIMOSTRAZIONE 1 (forza di attrazione): riempire la ciotola con l’acqua, attendere che si fermi, quindi sparpagliare i pezzetti di carta sulla superficie dell’acqua ed osservare.

La prima grande lezione Montessori – DIMOSTRAZIONE 2 (il peso dei liquidi): ho qui 3 liquidi di peso diverso. Verso l’acqua colorata, poi il miele e vedo come scende sul fondo. Verso l’olio e lo vedo galleggiare. Questa è la forza fisica che esercita il peso. Posso agitare questa miscela, e prima della fine della giornata si sarà sistemata di nuovo con la più pesante in basso e il più leggero in alto. I liquidi si distribuiscono a strati in base al loro peso.

altra versione dell’esperimento qui:

  • DIMOSTRAZIONE 3 (Modello di liquido): versare le biglie nel vaso e scuoterlo per far scivolare le sfere le une sulle altre e osservare

La prima grande lezione Montessori – Preparazione della stanza

Se ne avete la possibilità, chiedete un aiuto per portare i bambini a fare una passeggiata di una ventina di minuti all’aperto (non gioco libero in giardino), mentre voi vi dedicate alla preparazione del materiale sul tappeto. Potete, per aumentare il senso di stupore e mistero, tenere la stanza in leggera penombra e scegliere una musica di sottofondo (ad esempio concerti per arpa). Per facilitare l’esperienza del buio, quando serve, potete chiudere le tapparelle della stanza e tenere accesa una lampada, da spegnere e riaccendere con comodità.

La prima grande lezione Montessori – La nascita dell’Universo

C’era solo grande spazio che non ha avuto inizio e senza fine. Tutto era buio; così buio che la nostra notte più buia sembrerebbe come il sole brillante. Era così freddo che il ghiaccio sembra calda.

Che cosa avete visto durante la vostra passeggiata? (I bambini risponderanno: alberi, la luce del sole, l’erba, gli uccelli, ecc… lasciate che partecipino il più possibile). E di notte invece cosa si vede? (le stelle, la luna, il buio, ecc…)

Questa è la storia di come tutto è venuto ad essere. (Prendo tra le mani il palloncino nero e lo muovo lentamente avanti e indietro mentre parlo).  Ebbene, in principio non c’era nulla. Non c’erano persone, non c’erano città, né animali, né uccelli, né insetti; la Terra stessa non esisteva.  Non c’era niente. Non c’erano le acque a riempire i mari, gli alberi a riempire le foreste, l’aria a riempire il cielo. Non c’era la Terra, non c’era il Sole, non c’erano le stelle e non c’era la Via Lattea. (poso il palloncino). C’era solo un grande spazio che non aveva inizio né fine. Tutto era buio, così buio che la nostra notte più buia apparirebbe al confronto un sole brillante. Ed era freddo, così freddo che al confronto il ghiaccio sembrava il fuoco di un caminetto. (Per dar vita a questa immagine di buio e freddo assoluti  possiamo far buio nella stanza, e far toccare in silenzio un pezzo di ghiaccio). (Senza riaccendere la luce)Pensate che gran freddo doveva esserci, in questo buio nulla, se il ghiaccio misura – 40°m mentre quel freddo si aggirava sui -273°… Ma forse qualcosa c’era: un respiro sospeso di attesa, come quando aspettiamo che un racconto cominci, o come quando prepariamo una sorpresa per qualcuno, e non vediamo l’ora di farla. C’era la sensazione che qualcosa stesse per accadere… questa era la cosa singolare.  (Accendere la candela) Aprite gli occhi… così è nato il nostro Universo. Prima non c’era niente ed era molto freddo, poi c’era tutto ed era molto caldo. C’era la luce, per la prima volta.

Improvvisamente, in un attimo di grande energia, una forza ha portato in essere l’intero Universo. In questo momento sono apparse le particelle di luce e materia. (prendere tra le mani il palloncino e forarlo con un gesto improvviso con lo spillo).

Infatti questa candela rappresenta la prima luce che proveniva da particelle di materia (protoni, neutroni, elettroni e antiparticelle) che scontrandosi tra loro generavano particelle di luce (fotoni).(accendere la luce)

La nostra storia iniziò proprio allora. Con questo Universo molto piccolo e molto caldo. (mostrare ai bambini la carta 1- universo primordiale 1)

In questo universo primordiale le particelle si muovevano nel caos all’impazzata, urtandosi l’una con l’altra. Erano libere e selvagge e non obbedivano ad alcuna legge. Quando si scontravano, si annientavano a vicenda con uno scoppio di energia chiamato luce. Questa l’immagine di ciò che probabilmente doveva essere l’Universo primordiale: nuvole di materia, attraversata da lampi di luce. (mostrare ai bambini la carta 2- universo primordiale 2)

Il nostro Universo rischiava di sparire più rapidamente di come era apparso, se nel frattempo non si fosse raffreddato a contatto col gelido vuoto. Appena cominciò a raffreddarsi, le particelle iniziarono a rispondere alle leggi della materia. Una forza cominciò ad unire le particelle tra loro, e protoni, neutroni ed elettroni , unendosi , formarono atomi di idrogeno e di elio. Questi elementi avrebbero presto trasformato il primo caotico universo. Infatti, le particelle unite in atomi smisero di scontrarsi tra di loro e non generarono più i fotoni. L’Universo divenne buio e calmo. Erano passati cinque miliardi di anni. (spegnere la candela)

Nei 5 miliardi di anni successivi, alcune particelle hanno continuato a unirsi, mentre altre hanno sviluppato la capacità di resistere alla forza. (Esperimento della carta nell’acqua: versare l’acqua nella ciotola rettangolare, aggiungere i pezzi tagliati di carta lentamente e guardare come, senza muovere la ciotola o soffiare,  alcuni pezzetti si incontrano rispondendo alla forza di attrazione, mentre altri si respingono per forza contraria).

Tutto si rimise in movimento. Quando l’Universo si generò, non era un qualcosa di liscio come un pallone; era piuttosto simile ad come la coperta o ad un lenzuolo sul letto spiegazzato. Le particelle di materia cominciarono a farsi attirare da queste varie rughe, e in corrispondenza di esse di formarono delle nubi, da cui si sono generate le prime galassie. Nelle galassie, c’erano zone che catturavano tantissime particelle, e queste particelle, una volta catturate, cominciavano a girare una intorno all’altra. Così la temperatura tornò a salire, finchè non ci fu una nuova grandissima esplosione di luce, proprio come avvenne la prima volta, e così nacquero le prime stelle. (Riaccendere la candela). L’Universo ha cominciato a brillare in tutto se stesso, e cento miliardi di galassie hanno riempito il suo spazio. Erano trascorsi un miliardo di anni. (Mostrare ai bambini la carta 3: galassie con stelle scintillanti)

Le prime galassie, le galassie ellittiche, sono la più antiche dell’Universo. Vennero poi le galassie a spirale. Queste nubi di gas hanno stelle che continuano a nascere anche oggi, e sono molto speciali. Ci sono oltre un miliardo di galassie nell’universo, e solo un centinaio di milioni di queste sono a spirale.

Una galassia molto particolare è poi la Via Lattea. Quando guardiamo il cielo vediamo milioni di stelle, ma tutte appartengono soltanto alla nosta galassia, la Via Lattea appunto. Però anche le stelle della nostra Galassia non sono vicine, anzi, sono così distanti che la luce di alcune di esse impiega milioni di anni per raggiungerci. E ci sono così tante stelle nella nostra galassia che gli scienziati hanno calcolato che se ogni stella fosse un granello di sabbia, e se le mettessimo tutte insieme, il loro numero sarebbe superiore al numero di granelli di sabbia di tutte le spiagge del nostro pianeta messe insieme. (mettiamo un po ‘di sabbia su un dito e cerchiamo di contare quante stelle sarebbero).

Quando la nostra galassia si formò, conteneva una stella molto speciale. Era un’enorme stella che si preparava a trasformarsi.

Una stella è come una fabbrica che lavora per trasformare tutto l’idrogeno che contiene in elio:  la luce che vediamo è formata dai fotoni di luce che si sprigionano all’interno della stella a causa di questo lavoro. Quando tutto l’idrogeno è trasformato in elio, la stella si espande verso l’esterno. Questa espansione produce molto calore e dà alla stella l’energia che serve per trasformare l’elio in carbonio, e durante questo lavoro la stella brilla di una luce ancora più intensa. Quando poi tutto l’elio si è trasformato in carbonio, la stella si espande un’altra volta, e acquista l’energia che le serve per permettere al carbonio di formare l’ossigeno.  E così via, seguendo lo stesso processo si formeranno tutti gli altri elementi, fino al neon, al sodio, al magnesio, all’alluminio, al silicio e al ferro. (mostrare ai bambini la carta 4: Tavola periodica degli elementi).

Questo è un grafico che mostra tutti gli elementi presenti ora sulla Terra. Ogni elemento ha avuto origine nelle stelle, ed per questo che gli scienziati dicono che tutto è fatto di polvere di stelle.

Quando, al termine di questo lavoro di costruzione degli elementi, una stella ha consumato tutta la sua energia, si espande per un’ultima volta diventando una Gigante Rossa, e poi esplode: la stella diventa una Supernova.  (mostrare ai bambini la carta 5: una Supernova)

Questa è una foto di una supernova. Tutti gli elementi all’interno della stella vengono sparati nello spazio insieme a grandi quantità di polveri e gas. (mostrare ai bambini la carta 6:  La materia che fuoriesce da una supernova).

Tutti questi materiali che provengono da una supernova prendono il nome di materia interstellare. In seguito la galassia raccoglie di nuovo questa materia interstellare che si unisce fino a far nascere una nuova stella. Ed è proprio così che, quattro miliardi di anni fa, si è formato il nostro Sole. (mostrare ai bambini la carta 7:  il Sole).

Il Sole è solo una stella di media grandezza, eppure è un milione di volte più grande della Terra. (Mostrare ai bambini il mappamondo).

 Ma se è così grande, come mai a noi che lo guardiamo sembra piccolo? (Attendere le risposte dei bambini) Perché è lontanissimo da noi, così lontano che la sua luce impiega 8 minuti per raggiungerci sulla Terra. E pensate che la luce viaggia velocissima: 300.000 chilometri al secondo. Immaginate di che velocità parliamo! La luce viaggia così veloce che può fare 7 volte il giro del mondo in un secondo. Se noi potessimo fare tutto il giro del mondo in automobile, viaggiando a 100 chilometri all’ora, senza mai fermarci a riposare, impiegheremmo 11 giorni e 11 notti per compiere il giro sette volte. E la luce può fare tutto questo in un secondo! (Cerco di muovere la mano in tutto il mondo come gli studenti scattano un secondo.) Potete schioccare le dita e la luce ha già fatto il giro della terra sette volte. (mostro ai bambini il metro).

Ecco perché il sole non ci appare poi così grande: è così lontano che la sua luce impiega 8 minuti per raggiungere noi, e se noi volessimo raggiungere lui, viaggiando al 100 chilometri all’ora, impiegheremmo circa 106 anni. Così il sole, che essendo tanto lontano da noi può apparirci piccolo, in realtà è un milione di volte più grande della Terra: è così grande che una fiamma proveniente dal sole potrebbe contenere 22 Terre. (mostrare ai bambini la carta 8: immagine che mostra la differenza di dimensioni tra Sole e Terra).

Inoltre pensate: se la luce impiega 8 minuti per raggiungerci, questo significa che ogni volta che guardiamo il Sole, stiamo guardando 8 minuti indietro nel passato.

Questo è il motivo per cui il telescopio Hubble può vedere il passato: perché è così potente che le immagini che riceve provengono da un passato lontanissimo. E così possiamo vedere le immagini dei proto pianeti e dei pianeti si sono generati da essi. (mostrare ai bambini la carta 9:  protopianeti e la carta 10: pianeti).

Il nostro sole si è generato 5 miliardi di anni fa, e continuerà a brillare per almeno altri 5 miliardi di anni prima che la sua energia si esaurisca.

Cinquanta milioni di anni fa, come abbiamo visto, a seguito dell’esplosione di una Supernova, nella nostra galassia si è dispersa un’enorme quantità di materiale interstellare, che poi si è concentrato in grumi che si sono via via ingigantiti. Uno di questi grumi sarebbe diventato il nostro Sole. (mostrare ai bambini la carta 11: il Sole).

Quando nacque, questa nube di fuoco era un milione di volte più grande di quello che è oggi, ma non così grande da diventare una Gigante Blu ed esplodere. La sua dimensione era abbastanza grande da garantirgli energia a disposizione per lunghissimo tempo. Intorno al sole, altri grumi più piccoli si erano formati, ed il sole cominciò ad esercitare su di loro la sua forza di attrazione. Tutti questi grumi formati da particelle di materia hanno cominciato a seguire le leggi dello spazio, e hanno cominciato a girare ed a muoversi lungo un percorso fisso. Così sono nati i pianeti del nostro sistema solare, e così anche la perla blu, che doveva diventare la Terra, iniziò il suo viaggio. (mostrare ai bambini la carta 12: il Sistema Solare).

In principio, tutti i pianeti erano gassosi. Gli elementi prima si stringevano l’uno all’altro, raggiungevano temperature elevatissime, e poi si espandevano nello spazio per raffreddarsi. Una volta raffreddati tornavano a contrarsi strigendosi di nuovo verso il centro. E tutto ricominciava daccapo. Questo processio di espansione e contrazione continuò per milioni di anni, fino alla nascita dei pianeti. (mostrare nuovamente ai bambini la carta 9:  protopianeti e la carta 10: pianeti).

Mano a mano, gli elementi più freddi e pesanti affondavano verso il centro, mentre gli elementi più caldi e leggeri vi galleggiavano sopra.

Ma guardiamo un po’ più da vicino la nostra Terra. Quando ha iniziato a formarsi, non si trattava che di gas vorticosi. Appena cominciò il suo moto su se stessa e intorno al Sole, nel gelido spazio, cominciò a raffreddarsi e a diventare più piccola. Le particelle del bordo esterno si freddavano e occupavano meno spazio, e stringendosi si avvicinavano al centro incandescente della Tera.  In questo modo tornavano a scaldarsi, a diventare più leggere e ad occupare più spazio, dirigendosi di nuovo verso il bordo esterno, a contatto con lo spazio gelido. Questa danza è continuata per centinaia di milioni di anni. Infine, le particelle furono abbastanza fredde da stabilizzarsi. Quelle più pesanti affondarono e formarono il nucleo, quelle un po’ più leggere formarono il mantello, e quelle più leggere di tutte rimasero all’esterno, e lentamente formano una crosta.

La prima grande lezione Montessori – DIMOSTRAZIONE 2:

Le leggi fisiche sono molto potenti e tutte le particelle vi obbediscono. Le particelle che formavano la Terra nel corso del suo processo di formazione, avevano assunto tre diversi stati: solido, liquido e gassoso. Così è anche oggi: ogni particella che esiste sulla Terra o è un solido, o un liquido o un gas. Allo stato solido, le particelle si aggrappano così strettamente le une alle altre, che separarle è quasi impossibile. Esse formano un corpo che non modifica la sua forma, a meno che non applichiamo una forza su di esso. Se rompiamo una sostanza solida, i vari pezzi che otteniamo contengono le particelle aggrappate tra loro allo stesso modo in cui lo erano prima. Se ad esempio stacchiamo un frammento da una roccia, sia la roccia sia il frammento saranno di roccia. (Mostrare ai bambini il sasso  spaccato). E questa è la legge che vale per i solidi.

Nello stato liquido, le particelle si tengono insieme, ma non così strettamente. Non hanno forma propria, ma riempiono ogni vuoto che trovano. Esse spingono lateralmente, e verso il basso, ma non verso l’alto. Questo è il motivo per cui siamo in grado di mettere la nostra mano nell’acqua, ma non all’interno di una roccia. (DIMOSTRAZIONE: modello di un liquido con biglie o perle)

Le particelle dei gas non sono del tutto aggrappate le une alle altre e possono sempre muoversi liberamente in tutte le direzioni. (spruzzare il deodorante). Tutte le particelle nello spazio obbediscono a queste leggi. (Aspettiamo che tutti gli odori del gas svaniscano).

La Terra, ora composta da nucleo, mantello e crosta, aveva assunto una forma propria, però i metalli liquidi e incandescenti che si trovavano nel nucleo erano sottoposti a una pressione fortissima.  Questa roccia fusa voleva espandersi, ma la crosta bloccava la sua strada. Così scoppiò! (Versare l’aceto nel vulcano)

Vulcani esplosero su tutta la Terra, e una grande nuvola avvolse tutto il pianeta. (Mostrare ai bambini la carta 13:  vulcano).

Questa nube nascose il Sole, e così la Terra potè di nuovo raffreddarsi. Man mano che questo avveniva, dalla nube gli elementi presero a scendere in forma di pioggia. Quando l’acqua cadeva sulla terra assumeva la forma di vapore, formando sulla Terra le nuvole. Intanto nel pianeta sempre più gas diventavano liquidi, e sempre più liquidi diventavano solidi, così si riformò una crosta rocciosa, che la pioggia incessante potè raggiungere. La Terra, nel raffreddarsi, era diventata molto più piccola e si era fatta rugosa come una vecchia mela lasciata nella credenza: le pieghe erano le montagne, e i solchi gli oceani. Si formarono piscine di acqua, poi stagni, poi laghi, poi immensi oceani. Pioveva e pioveva e pioveva: tempeste immense infuriavano sulla terra, e l’acqua riempì tutte le cavità che incontrava. A volte, però, gli elementi fusi presenti nel nucleo, sotto la crosta terrestre, continuavano a esplodere in superficie. (mostrare ai bambini la carta 14: la Terra formata da vulcani ed acqua). 

Quando la nube scura si dileguò, il Sole fu di nuovo in grado di irraggiare la Terra, e vide rocce, acqua ed aria. Tutto era bello e il pianeta era pronto ad accogliere la vita, ma di questo parleremo un altro giorno. (mostrare ai bambini la carta 15: una bella immagine della Terra).

(Lasciare i vassoi per gli esperimenti a disposizione dei bambini, per tutto il tempo in cui vediamo che suscitano il loro interesse).

LA PRIMA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

La nascita dell’Universo: testo per recita

(adattamento dalla poesia “La storia della Terra” di Vera Edelstadl)

Costumi e oggetti di scena:

– sfere di gas: piatti di carta con le fiamme di carta crespa arricciata o nastri. Su questi piatti scriviamo in alto in alcuni “granito” e in alcuni “ferro”, in modo che quando i bambini si inginocchiano le parole siano visibili.
– Vulcani: si possono fare con coni dai quali spuntano le stelle filanti sollevando una bacchetta.
– Sole: una torcia inserita in un sole di cartoncino.
– Vapore: ghiaccio secco o una pentolino termico di acqua bollente. (Il bambino prima si siede e poi lo apre).
– Meteore: palline di carta stropicciata.
– Luna: un’immagine della luna.
– Pioggia: un foglio di carta trasparente o una tovaglia di carta tagliata a listarelle, tenuta da un bambino, o da due bambini che prima entrano e poi la dispiegano insieme dai due lati.
– Nube scura: i bambini si coprono con dei teli scuri, tenendoli davanti a sé con le mani in alto.
– Fulmini: fulmini di cartone.
– Tuono: si può fare coi piatti.
– Primo sfondo: la Terra allo stadio di pianeta gassoso.
– Secondo sfondo: la Terra prima della comparsa della vita.
– Per il finale serve inoltre la linea del tempo della vita o un poster.

Scena 1

Primo bambino: Circa cinque miliardi di anni fa, la Terra e tutti i gli altri pianeti si sono formati. Vorticose sfere di gas incandescente
(entrano i bambini muovendosi e girando sul palco)
iniziarono a girare follemente nello spazio
(entrano le sfere di gas muovendosi vorticosamente tutto intorno).

Secondo bambino: Vortici di metallo e roccia fusa formarono una palla incandescente
(le sfere di gas  girando si portano al centro della scena e formano una sfera)
Che prese a girare insieme ai gas
(le sfere di gas girano in cerchio)
poi si stabilono nella loro forma definitiva
(le sfere di gas si inginocchiano formando una linea e tenendo la testa bassa)

Terzo bambino: Il granito galleggiò in lato, il ferro sprofondò nel nucleo
(i bambini granito si alzano, i bambini ferro rimangono inginocchiati)
Infine, il granito si raffreddò fino a formare una solida crosta di pietra.

Scena 2

Primo bambino (entrano i vulcani): I vulcani eruttaroro, lanciando pugnali fiammeggianti;
(i vulcani zampillano)
Il Sole gettò i suoi raggi cocenti
(entra il sole)
La Terra bruciava con ardente calore; l’acqua evaporò tornando ad essere un gas
(entra il vapore)

Secondo bambino: Le meteore cominciarono a piovere dal cielo; privo di atmosfera
(le meteore vengono gettate contro lo sfondo)
Una delle più grandi può aver contribuito a formare la Luna che circonda la Terra oggi
(entra un bambino con l’immagine della Luna)

Scena 3

Primo bambino: La Terra si era raffreddata abbastanza da permettere alla pioggia di cadere.
(entra la pioggia)
Nubi nere avvolsero la Terra, che sprofondò nelle tenebre
(entrano i bambini coi panni scuri e coprono lo sfondo)
I fulmini aprivano fessure frastagliate squarciando la nube
(si lanciano i fulmini e si fa il rumore dei  tuoni)
(si fa calare il secondo sfondo)
Non c’era nessuna vita sulla Terra: solo  acqua e nuda crosta, e nient’altro.
(i bambini indicano lo sfondo)
Poi un giorno le piogge si fermarono
(i bambini nube escono)
La nube scura scomparve e la luce potè di nuovo splendere.
(entra il Sole, brilla, poi se ne va)

Scena 4

Primo bambino: Ancora non c’era vita sulla Terra; solo la crosta rocciosa e oceani inquieti
Ma negli oceani, le condizioni per accoglierla era pronte, e l’Adeano stava per finire.
Ma questa è un’altra storia…
(due bambini distendono il poster della comparsa della vita)

Secondo bambino: Grazie per essere venuti. Speriamo che il nostro spettacolo vi sia piaciuto.

La prima grande lezione Montessori

SPUNTI DI LAVORO PER I GIORNI SEGUENTI

Con brevi lezioni chiave, aperte, diamo una certa quantità di informazioni sugli argomenti toccati e su altri ad essi connessi. Per acquisire il vocabolario tecnico specifico e sperimentare i concetti presentiamo i materiali e i set di carte tematiche.

Quando i bambini hanno acquisito le conoscenze di base, possiamo chiamarli in cerchio, mettere sul tappeto davanti a loro una grande quantità di libri e materiali, e parlare loro della ricerca. Spieghiamo che una delle attività più emozionanti della scuola elementare è la ricerca. “Ricerca” significa che un bambino sceglie un argomento, legge un libro o due su di esso, e prende appunti su quello che secondo lui è importante. Dopo che il bambino ha scoperto tutto quello che può me lo dice.  Anche le ricerche al computer sono un ottimo lavoro.

Prendiamo poi un libro e ne leggiamo un paragrafo. Lo chiudiamo e chiediamo ai bambini cos’era importante in quello che abbiamo letto. Il libro non dovrebbe essere ne troppo semplice ne troppo difficile da riassumere. Scriviamo un semplice riassunto insieme, quindi chiediamo ai bambini più grandi di scegliere un argomento per il giorno, mentre per i più piccoli predisponiamo noi un argomento, che i bambini svolgeranno in gruppo col nostro aiuto.

Il primo argomento di ricerca per i più grandi può ad esempio essere il Sistema Solare, che è abbastanza ampio da risultare vario e stimolante per tutti.  Le ricerche possono comprendere anche materiale stampato dal web, che spesso i bambini portano da casa. In queste occasioni, soprattutto se le pagine sono molte, diciamo ai bambini di sottolineare le parti più interessanti con un evidenziatore, invece di prendere appunti. Possiamo anche fornire ai bambini una scheda o un piccolo libretto che contiene delle domande guida.

Al termine di ogni ricerca, quando tutti hanno più o meno finito di copiare o riassumere le informazioni trovate, ci sediamo in cerchio. Leggiamo le domande ad alta voce, e chiediamo se ci sono dei volontari, così i bambini leggono quello che hanno scritto. Poi parliamo di ciò che ognuno di loro ha trovato. Possiamo chiedere se qualcuno ha trovato qualcosa di particolarmente eccitante (di solito i bambini hanno con sé i libri scelti). Questa è un’occasione per parlare di quello che hanno scoperto, di ciò che attira il loro interesse, e ci aiuta ad espandere il loro studio in quella direzione.

LA PRIMA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

La nascita dell’Universo

Lezioni chiave, da presentare per avviare i lavori di ricerca

  1. Le rocce (possiamo anche scegliere di parlare solo delle rocce ignee, rimandando la trattazione delle rocce sedimentarie alla seconda grande lezione, aggiungendo le roccia metamorfiche e il ciclo delle rocce)
  2. La composizione della Terra
  3. Formazione degli Oceani
  4. Formazione delle montagne
  5. La luna
  6. La composizione degli altri pianeti
  7. Linea del tempo della nascita dell’Universo
  8. Mitologie della creazione, letture e riassunti in classe
  9. I viaggi spaziali
  10. Mappe dei vulcani esistenti (anello di fuoco)
  11. Come i continenti si sono spostati nel tempo
  12. Lettura di racconti su Pompei (o altre storie di eruzioni), che porti alla composizione di racconti da leggere alla classe
  13. Mitologia relativa ai vulcani da leggere in classe (Pele, i miti delle Hawaii, ecc…)
  14. Corda del sistema solare
  15. Le orbite
  16. Dimensioni dei Pianeti e distanza dal Sole
  17. Preparare un grafico per ogni pianeta e uno complessivo: rotazione del pianeta su se stesso, dimensioni, numero di lune, tempo di rotazione intorno al sole, distanza dal sole, peso
  18. La terra e il cielo
  19. Il ciclo vitale delle stelle
  20. Racconti sui nomi delle stelle

LA PRIMA GRANDE LEZIONE MONTESSORI

La nascita dell’Universo

CARTE TEMATICHE, di prossima pubblicazione

Set di carte tematiche per il linguaggio

  1. Set sui vulcani
  2. Set sulle rocce (il ciclo delle rocce e classificazione)
  3. Set sull’acqua
  4. Set sulla Luna
  5. Set sulla Terra
  6. Set sul Sole e le stelle
  7. Set sugli elementi chimici
    Set sulla tettonica a placche
    Set sulle esplorazioni spaziali
    Set sull’Universo
    Set sui pianeti

Set di carte per esperimenti scientifici

1. Esperimenti su attrazione e gravità

2. Esperimenti sui tre stati della materia

Set di carte per lavori artistici e manuali

Set di carte questionario per le ricerche

La prima grande lezione Montessori

IL PAESE DI GRAMMATICA racconto e schede didattiche

IL PAESE DI GRAMMATICA racconto e schede didattiche sulle nove parti  del discorso, per bambini della scuola primaria, con simboli grammaticali Montessori.

Ho elaborato questo materiale prendendo spunto da un classico della letteratura americana per l’infanzia usato per presentare le nove parti del discorso: “Grammar Land” di M. L. Nesbitt 1878, adattandolo alla grammatica italiana e modificando gli elementi un po’ troppo datati per i bambini di oggi.

La storia si svolge nell’aula di tribunale del Paese di Grammatica, davanti al Giudice di Grammatica e ai suoi due assistenti, l’avvocato Analisi e il dottor Sintassi. In caso di necessità interviene la Critica, che è la polizia del luogo.  Poiché gli abitanti del paese non riescono a vivere in armonia, vengono convocati uno ad uno, e alle riunioni partecipano anche i bambini della Contea degli Studenti, che offrono quando occorre il loro aiuto.

Ho scelto di completare il racconto inserendo i simboli grammaticali montessoriani, che avevo già presentato qui La psicogrammatica Montessori,

ma il racconto si presta anche ad essere usato in chiave steineriana, presentandone una puntata alla volta ed accompagnando il racconto a disegni alla lavagna, e disegni riassunti ed esercizi sui quaderni. Avevo già preparato racconti di questo genere, ad esempio la Storia di Misbrigo, Preciso e Giulivo.

In questo blog trovate un esempio di lavoro svolto in questo modo (in inglese) Homeschooling Waldorf.

Per quanto riguarda i simboli grammaticali montessoriani, la psicogrammatica Montessori, o filosofia della grammatica, rappresenta un notevole aiuto che possiamo offrire ai bambini per orientarsi nei vari ambiti del linguaggio.
Nella lingua italiana ci sono nove parti del discorso, e nella didattica montessoriana ognuna è rappresentata da un suo simbolo.

I simboli per le nove parti del discorso non sono certo stati scelti a caso. Maria Montessori associò al nome la forma della piramide. Il simbolo grammaticale per il nome è quindi il triangolo nero. La piramide è solida e stabile ed è una costruzione molto antica. Anche i nomi sono solidi e stabili e molto antichi: probabilmente furono le prime parole usate dagli esseri umani, per capirsi fra loro. Il nero rappresenta la materia e il carbone, altro elemento antichissimo.
Al verbo associò l’immagine di una sfera rossa. Il simbolo grammaticale per il verbo è dunque un cerchio rosso. Il rosso simboleggia l’energia, e la sfera e movimento e dinamicità.
Tra nome e verbo inserì le altre sette parti del discorso, i cui simboli dovevano rendere chiara una data relazione o con il verbo, o con il sostantivo.
L’intera parentela tra le parti del discorso nella psicogrammatica montessoriana è legata alla coppia nome/verbo. Il significato psicologico e filosofico di questo approccio alla grammatica è particolarmente chiaro nel racconto inventato da Maria Montessori e raccontato dal figlio Mario durante un convegno a Francoforte nel 1954, per spiegare ai bambini la funzione delle parole (puoi leggere il racconto qui: )


Tornando a considerare le nove parti del discorso nel loro insieme avremo:
famiglia del nome: articolo, aggettivo, nome e pronome. Per il nome si usa una grande piramide nera, per l’aggettivo una piramide media blu, per l’articolo una piccola piramide azzurra e per il pronome una piramide allungata viola. I simboli relativi sono un grande triangolo equilatero nero, un triangolo equilatero medio blu, un triangolo equilatero piccolo azzurro e un triangolo isoscele viola;
famiglia del verbo: avverbio, verbo. La sfera rossa rappresenta il sole, che dà vita, luce e calore. I verbi danno energia alla frase e animano la famiglia del nome. L’avverbio è una sfera arancione più piccola.
I simboli relativi sono un cerchio rosso grande e un cerchio arancione medio.
particelle: preposizioni, congiunzioni, interiezioni. La congiunzione è un piccolo parallelepipedo rosa, che unisce come un trattino due parole o due parti di una frase. Il simbolo relativo è un rettangolo rosa.
La preposizione è un arco verde, che collega come un ponte due oggetti tra di loro. Il simbolo relativo è una mezzaluna verde. L’interiezione è una piramide dorata con una sfera posta sull’apice; somiglia ad una serratura, e ricorda la forma del punto esclamativo.
Nella Casa dei bambini i simboli grammaticali vengono utilizzati per rendere concreto ciò che è astratto, al fine di aiutare il bambino a scoprire la funzione delle parole e classificarle. Questa preparazione indiretta fornisce una base forte, a cui si aggiungono ulteriori scoperte, finché poi, nella scuola primaria, queste conoscenze sfociano nell’analisi grammaticale vera a propria.
Sappiamo tutti quanto sia importante fare una prima buona impressione, e nella didattica Montessori ci sono presentazioni che hanno lo scopo di lasciare nei bambini un’impressione profonda e duratura, accendendo la loro immaginazione.

Le storie per presentare le funzioni delle parole possono essere varie; l’importante è che siano brevi, semplici e memorabili. La Fiaba per le parti del discorso di Maria Montessori, già citata, è particolarmente indicata per i bambini più piccoli, ma si può considerare tranquillamente di proporla anche nella scuola primaria. Si può anche scegliere un racconto più complesso, che si deve svolgere nell’arco di più giorni: Il Paese di Grammatica.
Sia nella scuola d’infanzia, sia nella scuola primaria, l’atmosfera che si crea durante il racconto è importantissima, indipendentemente dal racconto che scegliamo: bisognerebbe parlare ai bambini come se si stesse svelando loro un grande segreto.

Normalmente le parti del discorso vengono presentate, nella scuola primaria, in questo ordine: nome, articolo, aggettivo, congiunzione, preposizione, verbo, e l’avverbio. Nella Casa dei bambini il bambino svolge un lavoro di preparazione allo studio della grammatica vero e proprio, che avverrà nella scuola primaria. Generalmente in prima classe (6 – 7 anni) si studiano approfonditamente:
– nome
– articolo
– aggettivo
– pronome
– verbo
e si prosegue in seconda classe (7 – 8 anni) con:
– modi, tempi e forme verbali
– preposizioni
– avverbi
– congiunzioni
– interiezioni.
Facendo molti esercizi sulla funzione delle parole, già nella scuola d’infanzia il bambino vedrà crescere il proprio interesse per la lingua che parla, e si renderà conto che le parole hanno funzioni speciali e che possono essere classificate in base a queste loro funzioni. Il requisito per la presentazione di questi esercizi, è che il bambino sappia leggere la maggior parte delle parole con facilità. D’altra parte questi esercizi rappresenteranno per lui anche un buon esercizio di lettura.
Poiché il bambino si trova nel periodo sensibile del linguaggio, ogni nuova funzione delle parole che gli viene presentata rappresenta per lui un’interessante nuova scoperta. La maggior parte di questi esercizi non sono individuali, ma prevedono il lavoro in piccoli gruppi. Le attività, oltre ad essere interessanti, sono molto divertenti.

Il racconto presentato di seguito è diviso in un’Introduzione e 15 capitoli. Al termine di ogni capitolo troverete una scheda didattica che contiene i compiti che via via vengono assegnati ai bambini della Contea degli Studenti dal Giudice di Grammatica. Potete scaricare tutte le schede didattiche pronte qui:

Perchè ci si bacia sotto il vischio?

Perchè ci si bacia sotto il vischio? Baciarsi sotto il vischio è una tradizione legata a tutto il periodo natalizio; in Italia e Francia, in particolare, i baci sotto il vischio si scambiano a Capodanno.
La storia del vischio è antichissima e piena di contraddizioni; il vischio è una delle piante più magiche, misteriose e sacre del folklore europeo.

tutorial e pdf qui: 

Perchè ci si bacia sotto il vischio? Un po’ di botanica

photo credit: http://en.wikipedia.org/

La botanica può spiegare perchè il vischio abbia tanto colpito gli antichi e perchè sia tanto presente nei miti e nelle leggende: pur non essendo radicata nel terreno, la pianta del vischio rimane verde per tutto l’inverno, mentre gli alberi su cui cresce e di cui si è alimentata sono secchi. Il fascino che questo fatto ha esercitato sui popoli pre-scientifici è comprensibile.

Si tratta di una pianta semi parassitaria, parente del sandalo, che si attacca su altri alberi (soprattutto salici e meli) per sottrarre al suo ospite acqua e sostanze nutritive. Non è un parassita completo perchè è capace di fotosintesi. A differenza del sandalo, i semi del vischio vengono propagati attraverso gli uccelli e per questo la pianta cresce sui rami più alti degli alberi. Anche se il vischio è considerato la pianta dell’amore, il suo nome inglese “mistletoe” deriva dal fatto che si credeva che il vischio crescesse non da semi, ma direttamente dagli escrementi degli uccelli. “Mistel” è la parola anglosassone per sterco”, e “tan” è la parola per ramoscello, così mistletoe in realtà significa “sterco sul ramoscello”. Vari tipi di vischio crescono in tutto il mondo. Il nome scientifico del vischio americano è “Phoradendron” che significa “ladro dell’albero”. Il vischio europeo è invece classificato come “Viscum album”.

Perchè ci si bacia sotto il vischio? Un po’ di storia

Alcune varietà di vischio  sono velenose, altre varietà sono considerate medicinali; in ogni caso anche le varietà velenose per gli uomini non lo sono per gli uccelli.
Ippocrate considerò il vischio una piante medicinale. I greci lo usavano come una cura per tutti i mali, dai crampi mestruali ai disturbi della milza.
I Druidi celtici (1 ° secolo dC), probabilmente avendo osservato che il vischio prospera anche durante l’inverno più rigido, lo vedevano come un simbolo sacro di vitalità, e lo somministravano agli esseri umani ed agli animali nella speranza di ripristinare la fertilità. Lo consideravano una pianta sacra, e credevano avesse anche altri poteri miracolosi e che potesse guarire da varie malattie, servire come antidoto contro i veleni, garantire la protezione contro gli effetti negativi della stregoneria. Credevano che il vischio contenesse in sè lo spirito dell’albero su cui era cresciuto, perchè il vischio era l’unica parte che rimaneva verde per tutto l’inverno.
Il naturalista romano Plinio il Vecchio riportò che i sacerdoti dei Galli, i Druidi, quando trovavano del vischio su una quercia, lo raccoglievano con una particolare cerimonia: “… dopo aver preparato tutto per il sacrificio sotto la quercia, portano là due tori bianchi. Un druido vestito di bianco si arrampica sulla quercia e con un falcetto d’oro taglia il vischio, che viene raccolto in un mantello bianco. Poi sacrificano i tori, pregando il dio che ha dato loro il vischio come un dono“.
Nel corso dei secoli il vischio è stato usato per combattere la lebbra, la sterilità, l’epilessia, e persino il cancro.

Perchè ci si bacia sotto il vischio? Il vischio nella letteratura

Come ci si può aspettare da una pianta che ha affascinato gli uomini da tanto tempo, la pianta del vischio si è ritagliata anche una nicchia di fama negli annali della letteratura: parliamo del “ramo d’oro”.
Nell’Eneide di Virgilio, l’eroe romano Enea si avvale di questo “ramo d’oro” in un momento critico del libro. Il “ramo d’oro” si trovava su un albero speciale nel Bosco Sacro di Diana, a Nemi. La profetessa Sibilla aveva detto ad Enea di cogliere questo ramo magico prima di tentare la sua discesa agli inferi. Sibilla sapeva che, con l’aiuto di tale magia, Enea sarebbe stato in grado di intraprendere l’avventura pericolosa con fiducia.
Il titolo del classico dell’antropologia di Sir James G. Frazer, “Il ramo d’oro” (1922), deriva da questa scena di Virgilio. Ma come può qualcosa di verde, come il vischio, essere associato con il colore dell’oro? Secondo Frazer, il vischio è diventato “ramo d’oro”, perché mentre tutte le piante quando muoiono appassiscono, il vischio morto acquista una tonalità dorata. Nel folklore europeo, infatti, si pensava che il vischio secco fosse portato sugli alberi dai fulmini.

Perchè ci si bacia sotto il vischio? Leggende e tradizioni

Il vischio è anche un simbolo sessuale e di virilità, perchè i suoi semi sono rivestiti da una sostanza lattiginosa simile allo sperma che consente loro di aderire ai rami degli alberi, una volta dispersi dagli uccelli.  Poichè il vischio rimane verde tutto l’anno, molti popoli antichi hanno attribuito a queste piante poteri curativi magici per la fertilità, e alcune culture l’hanno visto come un afrodisiaco a causa della disposizione suggestiva dei suoi acini. Si è anche ritenuto che il vischio avesse qualità abortive, il che aiuterebbe a spiegare la sua associazione con la sessualità disinibita.

Da queste credenze deriva probabilmente l’usanza di appendere una palla di vischio al soffitto e di scambiarsi baci sotto di essa. In realtà la tradizione dei baci sotto il vischio può derivare da miti e leggende presenti in diverse culture.
Ad esempio, lo scambio di baci sotto il vischio era una tradizione presente nelle feste greche e nelle cerimonie matrimoniali. Se una coppia si scambiava un bacio sotto il vischio, questo veniva interpretato come una promessa di matrimonio e una previsione di felicità e lunga vita.

In Scandinavia, il vischio era considerato una pianta di pace, e veniva usata dai nemici per dichiarare una tregua: ogni volta che due gruppi avversari si incontravano sotto il vischio nella foresta, dovevano deporre le armi e rispettare una tregua fino al giorno successivo, e questa antica usanza scandinava potrebbe aver portato alla tradizione di baciarsi sotto il vischio. Ma questa tradizione, in realtà, va di pari passo con uno dei miti nordici più affascinanti che si trovano nell’Edda: il mito di Baldur.
“Baldur era il secondo figlio di Odino. Era il dio della verità e della luce, ed era così amato da tutti gli altri dei che essi facevano di tutto per proteggerlo dai pericoli del mondo.
Sua madre, la dea Frigg, che era la dea della bellezza e dell’amore,  riuscì addirittura a farsi giurare dal fuoco e dall’acqua, dal ferro e da tutti i metalli, dalle pietre e dalla terra, dagli alberi, dalle malattie e dai veleni, e da tutte le bestie (quadrupedi, uccelli e rettili) che mai avrebbero fatto del male a Baldur.
Tutti fecero la loro promessa, e per questo Baldur venne considerato invulnerabile, tanto che gli altri dei si divertivano a metterlo in mezzo a loro, e alcuni lo colpivano, altri lo ferivano, altri gli lanciavano pietre, ma nulla poteva fargli male, e tutti erano contenti. Tutti coloro che avevano fatto giuramento, inoltre, mostravano a Frigg e agli altri dei la loro fedeltà scagliando contro Baldur le loro armi, e in effetti egli rimaneva illeso.
Solo Loki, il creatore del male, era geloso dei poteri del dio, e decise di cercare una cosa sulla terra che non avesse aderito alla promessa e che quindi poteva essere in grado di far del male a Baldur. Loki non riuscì a trovare nulla, così decise di trasformarsi in una vecchia e di andare dalla dea Frigg. La dea, confidandosi con la vecchia, le raccontò che nulla poteva fare del male a suo figlio perchè tutti avevano promesso di essere innocui con lui. La vecchia chiese: “Ma hanno promesso proprio tutti?”. E Frigg rispose: “Tutti hanno giurato, tranne una pianta che cresce a est del Valhalla chiamata vischio; a lei non ho chiesto di promettere perchè è troppo delicata per poter far del male a Baldur”.
Così Loki andò a est e prese un ramoscello di vischio. Tornò quindi dagli dei, che si stavano tutti divertendo a provare l’invincibilità del dio. Si avvicinò al dio Hother, che era cieco, e stava un po’ in disparte ai margini del cerchio, e gli chiese: “Perchè tu non colpisci Baldur?”. Hother rispose: “Perchè non vedo dove sta, e inoltre non ho armi”. Allora Loki disse: “Mi dispiace molto che tu non possa partecipare al divertimento. Se vuoi ti indicherò io dove si trova, e potrai lanciarli contro questo ramoscello”.
Così Hothler prese il vischio e, seguendo le indicazioni di Loki, lo lanciò contro Baldur. Il vischio trafisse il dio e lo uccise, davanti a tutti gli altri dei che tanto lo amavano.
Gli dei rimasero a lungo senza parole, poi si levò in un’unica voce un pianto amaro. La dea Frigg era distrutta dal dolore, e le sue lacrime si trasformarono nelle bacche bianche del vischio. Frigg non riusciva a darsi pace, e riuscì a convincere gli altri dei a riportare Baldur in vita. Lei li avrebbe ricompensati per la loro magia donando per sempre i suoi servigi e i suoi baci. Gli dei riportarono in vita Baldur, e stabilirono che da allora in poi il vischio sarebbe diventata la pianta consacrata agli atti di felicità ed utilità, e diedero a Frigg l’autorità di rendere il vischio all’altezza di questo suo nuovo compito. La dea avrebbe dato un bacio a chiunque passasse sotto di essa.”

In tutta l’Europa, i rami di vischio venivano appesi al soffitto per allontanare gli spiriti maligni. In alcuni paesi rami di vischio venivano posti sulle porte di ingresso delle case per evitare l’ingresso delle streghe. Nei tempi più antichi, era uso baciare la mano dell’ospite sotto il vischio prima di entrare nella sua casa.

L’associazione tra vischio e fertilità, o tra vischio e vitalità, è continuata per tutto il Medioevo, e già nel 18° secolo il vischio era parte integrante delle celebrazioni natalizie in Inghilterra. Come sia avvenuto il passaggio da pianta sacra a decorazione natalizia, non è chiaro, ma pare che la tradizione del bacio prese piede prima tra i servi per poi diffondersi alle classi medie. Gli uomini erano  autorizzati a rubare un bacio a una donna sorpresa in piedi sotto il vischio, e un eventuale rifiuto le avrebbe portato sfortuna. In epoca vittoriana, se una ragazza rifiutava un bacio mentre stava in piedi sotto il vischio, si diceva che lei poi non avrebbe ricevuto alcuna proposta di matrimonio durante l’anno successivo.
Un’altra tradizione prevedeva che il vischio venisse appeso nei casali e nelle cucine a Natale, e che i giovani avessero il privilegio di baciare le ragazze sotto di esso, strappando ogni volta una bacca dal ramo. Quando le bacche erano tutte colte, il privilegio cessava.

In Francia e in Italia, l’usanza legata al vischio era riservata al Capodanno.

Nella tradizione moderna, nella case europee ed americane si appende un rametto di vischio, di solito sullo stipite di una porta, e se una donna si trova sotto di essa, un uomo può baciarla. L’usanza di strappare una bacca prima del bacio non si è conservata.

Perchè ci si bacia sotto il vischio? Altre fonti dal web:

http://mentalfloss.com/article/
http://www.coolquiz.com/
http://wonderopolis.org/
http://www.whychristmas.com/
http://www.theguardian.com/science/
http://www.history.com/
http://landscaping.about.com/
http://www.livescience.com/

Racconto per il solstizio di inverno – L’elfo dell’albero della cera

Racconto per il solstizio di inverno – L’elfo dell’albero della cera

Conoscete l’albero della cera?

Si tratta di un arbusto originario del Nord America usato, oltre che a scopo ornamentale, anche per la produzione di candele e come pianta medicinale. Le bacche dell’albero della cera (candleberry o bayberry) sono la materia prima delle candele natalizie tradizionali. La cera viene estratta dalle bacche mediante bollitura: la cera in esse contenuta galleggia e viene così estratta dal residuo liquido che di deposita più in basso. La cera ottenuta viene usata per produrre candele con la tecnica dell’immersione o con l’uso di stampi.

Le candele erano una fonte luminosa importantissima nella vita quotidiana del diciottesimo secolo. Le più pregiate nel periodo coloniale in America erano proprio le candele ricavate dalle bacche dell’albero della cera, perchè diffondevano una bella luce chiara e un gradevole profumo simile a quello dell’incenso. Tradizionalmente venivano regalate la vigilia di Natale e la notte di Capodanno, come portafortuna.

 Racconto per il solstizio di inverno – L’elfo dell’albero della cera

Nel cortile di una vecchia casa colonica, tra un bogolaro e un caprifoglio, c’era un piccolo alberello della cera.
Era stato stato piantato anni prima dalla vecchia donna che viveva lì con suo marito, come dono per gli uccelli: a questi animali, infatti, piacciono molto le bacche dell’albero della cera, e alla donna piacevano molto gli uccelli, e sperava così che essi avrebbero visitato numerosi il suo giardino. E così fu.
Tantissimi uccelli venivano a mangiare e bere dal bagolaro e dal caprifoglio, e da tutti gli altri fiori ed arbusti che aveva piantato. Stranamente, però, non mangiavano le bacche dell’albero della cera.

Anno dopo anno le bacche si accumulavano sulla pianta, intatte. E ogni anno, durante una notte di luna piena,  sparivano di colpo, tutte insieme.
La vecchia signora aveva notato questo strano fatto, e si chiedeva quale creatura facesse sparire così, puntualmente ogni anno, tutte le bacche.
Non lo scoprì mai, ma la sparizione delle bacche divenne per lei un segno dello scorrere del tempo: quando le bacche dell’albero della cera scomparivano, significava che l’autunno volgeva al termine e che la notte più lunga dell’anno sarebbe arrivata due settimane dopo.
La vecchia signora e suo marito presero così a festeggiare l’evento, accendendo candele e raccontandosi storie. Raccoglievano rami di abete e di pino, preparavano una grande corona, e la decoravano con molte candele, che dopo il tramonto accendevano per illuminare la notte più lunga e buia dell’anno. Mettevano la corona vicino alla finestra, e la sua luce brillava sul giardino che sembrava addormentato, ma forse non lo era del tutto.

Le piante di certo si erano ritirate nel grembo della terra, gli alberi avevano lasciato cadere le foglie, e i frutti erano stati colti. Ma un’attività incessante si svolgeva segretamente nel giardino e nel bosco vicino: fate, gnomi, folletti ed elfi si affaccendavano senza posa, e tutti questi esseri amano lavorare di notte. Per questo la notte più lunga e buia dell’anno era per loro estremamente importante.

Le fate dei fiori entravano danzando nei sogni dei bambini, gli elfi bisbigliavano storie ai rami spogli dei loro amati alberi, e sottoterra gli gnomi creavano col loro lavoro magico meravigliose pietre colorate. Ogni essere aveva il suo compito da svolgere, e solo uno di loro notò la luce delle candele che la vecchia signora e suo marito accendevano alla finestra di casa: l’elfo dell’albero della cera.
Se ne stava seduto nel suo laboratorio, nascosto tra due grosse radici del suo albero, e guardava la casa. Anno dopo anno prese ad aspettare il momento in cui la coppia avrebbe acceso le candele alla finestra, per poi accendere le sue. Infatti questo era il suo compito: fabbricare le candele con le bacche del suo albero e accenderle nella notte più lunga e buia dell’anno. Tutte le fate, gli gnomi, i folletti e gli altri elfi aspettavano che lui accendesse le candele e ogni anno, e quando questo accadeva, interrompevano i loro innumerevoli lavori (sorvegliare i loro protetti, lavorare le pietre, ballare nei sogni e cavalcare il vento), e si fermavano ad ammirare la luce. Durante questa lunga notte, la notte più buia dell’anno, condividevano qualcosa di speciale: la gratitudine per la luce.

Ma quell’anno avvenne qualcosa di straordinario.
Tutto cominciò come al solito. Gli uccelli e tutti gli altri animali del bosco avevano evitato di mangiare le bacche dell’albero della cera, e l’arbusto, come sempre, era rimasto carico di frutti, anche dopo che le sue foglie erano diventate color ruggine ed erano poi cadute. L’elfo, come sempre, aveva atteso l’ultima notte di luna piena dell’autunno e aveva cominciato il raccolto. L’elfo aveva trasportato tutte le bacche nel suo laboratorio sotterraneo, nascosto tra le radici dell’albero. Lì, le aveva messe nel grande pentolone di ferro, scaldato da magiche fiamme blu. Aveva fatto cuocere bene le bacche, e quando la cera aveva cominciato a galleggiare, aveva spento il fuoco e aveva atteso che la cera si indurisse in superficie, mentre la polpa delle bacche rimaneva in basso. Poi, come al solito, aveva estratto dalla pentola il disco di cera che si era indurito, e con la polpa rimasta aveva preparato una deliziosa marmellata, che aveva messo in tante scodelline e aveva portato fuori per la colazione degli uccelli.
Aveva quindi preparato gli stoppini con le fibre di pioppo, e aveva cominciato ad immergerli nella cera, per fare le candele. Era un lavoro lento, ma lui era un elfo molto paziente. Raramente si concedeva una pausa dal suo lavoro, e continuò ad immergere le candele nella cera, facendole ingrossare strato su strato, finchè non utilizzò ogni goccia di cera a disposizione.
Come al solito, riuscì a terminare il suo lavoro qualche ora prima dell’inizio della notte più lunga dell’anno, e come al solito si mise a guardare alla finestra, aspettando di vedere accendersi le candele della vecchia signora e di suo marito: in quel momento l’elfo avrebbe acceso le sue, e tutti gli esseri magici si sarebbero fermati ad ammirarle, e i loro occhi avrebbero riflesso la luce come tante piccole stelle, in tutto il giardino.
L’elfo se ne stava lì seduto, guardando verso la casa. Vedeva il fumo uscire dal camino. Il sole iniziava a tramontare, il cielo si faceva sempre più buio, e l’elfo pensava che presto le candele si sarebbero accese alla finestra della casa, per dare inizio alla festa delle luci. Attese. Si fece sempre più buio. Attese ancora. Nessuna candela…
In realtà le luci dei normali lampadari erano accese, per cui i due vecchi dovevano essere in casa, ma non si vedeva nessun movimento attraverso le finestre.

Ormai era buio. Gli elfi delle betulle vennero a chiedere se ci fosse qualcosa che non andava con le candele, quell’anno. Le fate del ghiaccio vennero a chiedergli se dovessero oppure no cominciare a gelare il ruscello. L’elfo dell’albero della cera rispondeva che tutto era pronto, che non c’era nulla di cui preoccuparsi, e così cercava di prendere tempo e sperava di vedere accendersi le candele alla finestra della casa degli esseri umani. Niente.
Sospirando, si rassegnò, ma proprio mentre stava per accendere le sue candele, guardò un’altra volta verso la casa, e gli venne un’idea.
Fece un fascio di tutte le candele che aveva fabbricato, senza accenderne nemmeno una, si mise il fascio sulle spalle e si diresse verso la casa. Si arrampicò sui rami del  glicine che cresceva sulla casa fino ad una finestra, e guardò dentro.

In un primo momento non vide nulla, poi notò il letto accanto al caminetto. Le fiamme si agitavano, e vide qualcuno sdraiato nel letto: era il vecchio. Seduta al suo fianco c’era la vecchia, che gli asciugava teneramente la fronte con un panno. Il suo viso sembrava triste e preoccupato.
L’elfo dell’albero della cera capì: l’uomo era malato, e la donna era stata così impegnata a prendersi cura di lui, che aveva dimenticato le candele.
Adesso sapeva cosa fare.
Si intrufolò nella casa attraverso la porticina per il gatto. La stanza era calda e brillava della luce dorata del fuoco nel caminetto. Si sentiva lo scoppiettare della legna e la voce sommessa della donna: non riusciva a capire le sue parole, ma sapeva che erano parole di rassicurazione.
L’elfo mise una candela vicino ad una finestra e la accese, e così continuò, mettendo una candela accesa ad ogni finestra, e tante candele accese intorno ala casa. Poi, facendo il massimo silenzio, fece un cerchi di candele accese anche attorno al letto del vecchio. La vecchia era così concentrata a curarlo che non si accorse di nulla.
Terminato il suo lavoro, l’elfo si arrampicò sul caminetto, scalandolo mattone dopo mattone: voleva mettere una candela accesa anche lì, in modo che anche l’uomo potesse vedere un po’ di luce dal suo letto. Giunto sulla mensola di legno, guardò verso di loro: il vecchio sembrava molto stanco, respirava lentamente. Rimase a guardarli a lungo. Poi sistemò la candela e la accese.
In quel momento sentì un rumore, una specie di strano soffio. Si guardò intorno, e si accorse che era stato il vecchio a fare quel rumore. Era sveglio ora, e stava guardando proprio verso di lui, e rideva. Il rumore era la sua risata, una risata dolce.

Allora anche la vecchia alzò lo sguardo e si accorse della candela accesa sulla mensola del caminetto, ma non vide l’elfo accanto ad essa: sembrava che solo il vecchio fosse in grado di vederlo. La donna prese la candela e la studiò a lungo. Era piccola e bellissima. E che buon odore… sapeva di bosco in inverno, di menta, e aveva anche qualcosa di piccante. La porse a suo marito. Lui fece un respiro profondo, poi tornò a guardare l’elfo. Si guardarono l’un l’altro per un po’, e il vecchio gli fece l’occhiolino. L’elfo sorrise e  scese dal caminetto.
Non appena l’elfo dell’albero della cera fu fuori dalla casa, si rese conto di aver usato tutte le candele: non ce ne era più nemmeno una per la festa delle luci. Cosa avrebbe potuto dire alle fate per scusarsi?
Man mano che si addentrava nel giardino, però, davanti ai suoi occhi si faceva vivido uno spettacolo straordinario. Scie di luce percorrevano il terreno, e una miriade di piccole luci scintillanti brillavano dai rami degli alberi e dagli steli secchi delle piante, come mille e mille piccole candeline accese.

Tutti i suoi amici erano lì: sapevano dove era stato e ciò che aveva fatto. E avevano deciso che per quell’anno sarebbero stati loro ad accendere le luci per lui.
E ancora una volta, esseri umani ed esseri magici insieme, in silenzio, guardarono lo scintillare delle candele provando immensa gratitudine per la luce, e per gli amici che la donano.

Racconto per il solstizio di inverno – L’elfo dell’albero della cera (Adattamento da: http://www.sparklestories.com/)

Racconto per Santa Lucia

Racconto per Santa Lucia – Una luce fuori dalla foresta

Io ho illustrato il racconto con la lana cardata.

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C’era una volta una famiglia che viveva in una piccola fattoria ai margini di una grande foresta. Avevano un piccolo frutteto con vecchi alberi di mele, e un orto da coltivare nella bella stagione. Davanti alla casa c’era una grande quercia, con un’altalena per i due bambini. Pietro aveva dieci anni, e la piccola Sofia cinque.


A Pietro e Sofia piaceva tanto il loro cortile, l’altalena, gli alberi di mele su cui arrampicarsi, e la foresta intorno. A volte vi andavano insieme, senza allontanarsi mai troppo, a raccogliere sassi e legnetti per giocare, e anche foglie e altri tesori della natura con i quali inventano ogni giorno nuovi giochi.
Poi c’era anche il loro cane, Rex, a tener loro compagnia e a farli divertire.

Col tempo Pietro prese ad andare nella foresta anche senza la sua sorellina, e spesso portava con sè anche Rex, e Sofia rimaneva spesso da sola.


La cosa non le piaceva per nulla, così cominciò a chiedere ai suoi genitori di regalarle un cane che fosse tutto suo. I genitori dissero che un altro cane non era possibile, ma forse potevano prendere in considerazione di regalarle un gatto. “Però” disse la mamma, “ad una condizione. Dovrai stare attenta a che il gattino rimanga sempre in casa, perchè i gatti domestici e i gatti selvatici che vivono nella foresta non vanno d’accordo tra loro, e sono molti i pericoli che un gattino potrebbe incontrare fuori di casa. Senza contare che poi il gatto potrebbe disturbare i nostri scoiattoli e i nostri uccellini, e questo mi dispiacerebbe molto”.
Sofia scoppiava di felicità all’idea che avrebbe presto avuto un gattino, e promise alla mamma che sarebbe stata molto attenta a non farlo uscire. Così, dopo un paio di settimane, in piena estate, il gattino arrivò. Era una gattina, che chiamarono Stella, per via di un ciuffetto di pelo bianchissimo a forma di stella che aveva proprio in mezzo alla fronte. Appena arrivata, tutta la famiglia la coprì di coccole e di attenzioni. Rex si mostrò in principio un po’ geloso e infastidito, ma presto anche lui fece amicizia con Stella, e dopo pochi giorni i due animali già dormivano insieme sul tappeto di Rex.


Stella era molto felice: amava le attenzioni, amava il cibo, amava la casa. Una cosa soltanto non le piaceva affatto: quando tutti uscivano e la lasciavano sola in casa. Allora saltava vicino alla finestra chiusa, e da lì guardava come giocavano tutti insieme, lavoravano, correvano, anche Rex…
Stella non riusciva a capire perchè lei non avesse il permesso di uscire, così cominciava a grattare il vetro con la zampina e a miagolare. Sofia, appena se ne accorgeva, correva da lei, e tutte le volte chiedeva alla mamma il permesso di portarla fuori, ma la mamma le rispondeva sempre ricordandole il loro accordo: “Il gatto deve rimanere dentro. E poi se si abitua a stare in casa, presto smetterà di chiedere di uscire”.
Ma Stella non smise… Ogni giorno, ogni volta che qualcuno usciva di casa, si metteva alla finestra e iniziava a miagolare pietosamente e incessantemente, e chi rimaneva in casa era costretto ad ascoltare il suo pianto. Era una situazione davvero difficile.

Così, sul finire dell’estate, visto che Stella era un po’ cresciuta, decisero di fare un esperimento e di provare a portarla fuori. Le insegnarono quali fossero i confini del loro cortile, e sperarono che li avrebbe rispettati, come faceva Rex. Era una gioia guardare come la dolce gattina bianca e nera si muoveva all’aperto, annusando il prato e l’aria.
“E’ così felice!” disse Sofia, seguendo la gattina da vicino.
Questa prima uscita di Stella fu breve, ma la gattina ora sembrava contenta. Ma il giorno dopo, appena il papà uscì di casa, subito si mise alla finestra a miagolare perchè voleva andare fuori anche lei. Appena la accontentarono, si mise a correre dietro a Rex, e Sofia rideva a crepapelle a questa scena.


Continuarono a portarla fuori con loro anche per tutto l’autunno. Le uscite divennero sempre più lunghe, e pian piano cominciarono a farla uscire anche da sola. Però stavano sempre attenti a riportarla a casa prima che facesse buio, perchè i pericoli della foresta erano maggiori di notte: linci, gufi ed altri predatori erano tutti cacciatori notturni.
Arrivò l’inverno, e la prima nevicata portò un soffice manto bianco su tutte le cose. Pietro e Sofia si coprirono bene, e portarono fuori con loro anche Rex e Stella.

Giocarono a palle di neve, andarono in slitta, fecero un pupazzo di neve. Quando arrivò il momento di rientrare, cominciarono a chiamare Stella, ma non venne. Cominciarono a cercarla facendo tutto il giro intorno alla casa, poi la cercarono nell’orto, nel frutteto, nel cortile: nessuna traccia del gattino. Cercarono per più di un’ora, ma si era fatto buio, e anche il papà venne ad aiutarli portando la torcia. Non riuscendo a trovarla, tornarono a casa, sperando tutti che presto Stella sarebbe tornata.
Dovete sapere che la nostra gattina non era stata presa da una lince o da un gufo. Non le era capitato nulla di male, ma si era persa. La neve copriva le cose e lei non riusciva a capire come fare per tornare a casa, e così senza rendersene conto si inoltrava sempre più nella foresta, allontanandosi sempre più.


Quello che ancora non vi ho raccontato, è che insieme a Sofia e alla sua famiglia, nella piccola fattoria ai margini della foresta, viveva anche la fata Scintillina.
Scintillina era una brownie, un particolare tipo di fata che ha il compito di vegliare sugli animali, soprattutto sugli animali domestici: le brownie amano i cani, i gatti, i cavalli, le mucche e le pecore, e pensano che essi occupino un posto molto speciale nel mondo. Infatti questi animali sono modelli e maestri per gli uomini, che senza di loro si allontanerebbero dal mondo della natura. Orsi, leoni e lupi possono certamente emozionare le persone, ma è con i cani e con i gatti che gli uomini imparano a godere della brezza estiva, a sentire la bellezza dell’erba rotolandosi, a sentire la danza silenziosa della neve che cade dal cielo. Per questo le brownie hanno tanto a cuore gli animali domestici, e li aiutano in tutti i modi, sussurrando loro alle orecchie qualcosa per impedire che si mettano in pericolo, o per guidarli a trovare le cose perdute (una pantofola o un orecchino) e così, aiutando gli animali, aiutano anche le persone che vivono con loro.
Scintillina viveva nella foresta da molto tempo, e lì aiutava gli scoiattoli, che anche se non sono animali domestici, stanno comunque vicino agli esseri umani, e appena la famiglia di Sofia accolse il cane Rex, cominciò ad occuparsi anche di lui.
Così, quando la piccola Stella giunse nella foresta, Scintillina provò una grande emozione. Vedeva in Stella un grande amore per la natura, per il vento, la pioggia, la neve, gli alberi… ma anche un grande amore per la sua famiglia, soprattutto per Sofia e Pietro. Scintillina capì subito che Stella sarebbe diventata un modello e una grande maestra per la sua famiglia, e che tutti i suoi membri avrebbero imparato molto da questa piccola gattina. Ma vide anche qualcosa di diverso in Stella, qualcosa  di molto comune tra i gatti domestici, ma che avrebbe potuto metterla nei guai: aveva in sè anche un lato selvatico che le faceva desiderare di vagare nella foresta e cacciare per procurarsi il cibo, proprio come facevano i gatti selvatici e le linci.
Scintillina sapeva che avrebbe potuto aiutarla in queste occasioni, sussurrandole all’orecchio buoni consigli, e sapeva che Stella la maggior parte delle volte l’avrebbe ascoltata. Ma sapeva anche se Stella avesse seguito troppo i suoi impulsi selvatici, avrebbe smesso di ascoltare questi consigli, e lei non sarebbe più stata in grado di ascoltarla.
Quella notte, sola nella foresta, Stella sentiva molto forte il richiamo alla natura selvaggia. Non era la prima volta. Era già successo che la gattina avesse sentito l’impulso di saltare addosso a uno scoiattolo nel cortile della fattoria, o afferrare un uccellino coi suoi artigli. Ma questa volta era tutto molto diverso: la neve aveva confuso tutto nel mondo naturale. Gli odori era cambiati, le tracce di scoiattoli e uccelli erano coperte dalla neve. E si era trovata sola in quel luogo proprio inseguendo uno scoiattolo…
Per tutto il tempo della caccia folle di Stella allo scoiattolo, Scintillina aveva cercato di sussurrare alla gattina: “Stai per perderti, torna indietro… torna indietro…”, ma lei non la sentiva. Si era persa nel suo lato selvatico, e tutto quello che poteva vedere e sentire era lo scoiattolo che stava inseguendo, la sola cosa che poteva pensare era di riuscire a raggiungerlo.
E così  Stella si trovò così lontana da casa, che non riusciva più a sentire le voci di Pietro e Sofia che la chiamavano. Era così concentrata nella caccia allo scoiattolo, che non si accorse che il sole stava tramontando e si stava facendo buio.
E improvvisamente lo vide, lo scoiattolo. Si trovava ai piedi di un albero maestoso, senza neve intorno. Ma un istante prima che Stella potesse avventarsi su di lui, apparve in cielo una stella luminosissima che la abbagliò, riverberando sulla neve che si era accumulata tutto intorno. In quel momento in cui Stella era in preda allo stupore e alla confusione, Scintillina riuscì a sussurrare alle sue orecchie: “Guardati intorno, qui c’è solo solitudine… questo è il luogo dove vivono le creature selvagge…”
Stella si guardò intorno: la luce della luna le mostrava un bosco che non aveva mai visto. Si  rese conto di essersi persa, e di non sapere in che direzione si trovasse la sua casa. Poi una nuvola coprì la luna, il buio divenne fittissimo, e la gattina non sapeva cosa fare. Sentì un rumore, e si chiese se non si trattasse dello scoiattolo che stava cacciando, ma ora non aveva più nessuna voglia di continuare l’inseguimento. La natura selvaggia era scomparsa, e era stata sostituita dalla nostalgia di casa.
Scintillina le sussurro: “Seguila…”.
Allora Stella si sentì impaurita, e pensò se non fosse meglio cercare un posto sicuro in cui potersi nascondere.
Ma Scintillina le disse di nuovo: “Seguila…”.
Stella sentì di nuovo un rumore, come se qualcuno stesse correndo davanti a lei. La neve era fredda e il vento faceva rabbrividire. Alzò la testolina, e vide alcune tracce nella neve. Prese a seguirle, trotterellando stretta nelle spalle. Le tracce di tanto in tanto scomparivano nella neve, ma poi riapparivano un po’ più avanti, in modo che Stella potesse continuare a seguirle. Stella saltellava tra alberi e rami caduti, seguendo le tracce, e strada facendo vide una luce in lontananza, davanti a lei. Sembrava qualcosa di magico, un faro, una luce messa lì apposta per aiutare i viaggiatori a trovare la strada. Sembrava una stella.


La gattina smise allora di cercare le tracce nella neve, e si mise a correre in direzione della luce. Presto riuscì a distinguere la forma di una casa, e il colore della porta di ingresso. La luce proveniva dalla veranda, e là in piedi, sotto la luce, c’era Sofia, tutta infagottata e che, tenendo tra le mani una piccola torcia, chiamava: “Stella! Stella! Torna a casa!”.
La sua voce era così triste, così disperata, che Stella si mise a correre e a miagolare più forte che poteva. Sofia la sentì e le corse incontro, la prese tra le braccia e, tenendola stretta a sè, la riportò a casa.
“Stella! Sei tornata! Ho avuto tanta paura. Ti sei fatta male?”


Stella improvvisamente ripensò allo scoiattolo, ed a come l’avesse quasi catturato. Ricordò a come era stata tratta in salvo, a come la voce e le tracce sulla neve l’avessero riportata a casa, e si girò per vedere se riusciva a vedere qualcosa nella foresta. Sperava di riuscire a vedere qualcosa, lo scoiattolo o qualsiasi altra cosa a cui poter gridare “Grazie!”, ma vide solo buio, e sulla neve c’erano solo le impronte delle sue zampine.
Sofia la portò in casa e lei si sentì invadere di tepore e dolci odori. Le diedero da mangiare, la coccolarono, e Sofia la portò a dormire in camera sua, sul suo letto. Sofia si rannicchiò stanca e felice sotto le coperte, e Stella fece le fusa. La gattina provava tantissime sensazioni, in quel momento: si sentiva felice, sentiva il caldo della casa, si sentiva al sicuro. Ma più di tutto, provava una grande gratitudine. Ed emise un miagolio tenero di ringraziamento. Ringraziò le piccole tracce dello scoiattolo che la portarono nella solitudine della foresta, ringraziò la vocina che la aveva incoraggiata a seguirle per uscire dalla foresta, e ringraziò la bambina che la aveva aspettata per tutto il tempo.

(Adattamento da http://www.sparklestories.com/)

Teatrino di Natale IL PASTORELLO

Teatrino di Natale IL PASTORELLO con testo ed un esempio di realizzazione con personaggi e scenografia in lana cardata. E’ un racconto molto semplice e particolarmente adatto ai più piccoli.
Questo modo di presentare i racconti è molto utilizzato nelle scuole steineriane: mentre si racconta si muovono i personaggi davanti ai bambini, facendoli via via apparire dalla scenografia stessa. Alcuni punti del racconto possono essere sottolineati dal suono di campanelli, metallofoni, legnetti, bastoni della pioggia, ecc…

Realizzare personaggi ed animaletti in lana cardata è molto più semplice di quello che può sembrare, e per incantare i bambini non è affatto necessaria la perfezione… Se volete, potere trovare vari tutorial che ho preparato negli anni scorsi, cercando qui

Personaggi:

– il pastorello
– la pecorella Biancaneve
– un uccellino
– uno scoiattolo
– una lepre
– un gufo
– un nano

C’era una volta un pastorello che possedeva un’unica pecora. E poichè era bianca come la neve, la chiamò Biancaneve.

Ogni giorno il pastorello andava con Biancaneve al pascolo, dove si potevano trovare erbe succose ed aromatiche.

Per poterla udire anche da lontano,  le appese al collo un campanello d’oro.

Un giorno se ne andarono al pascolo già al levare del sole, e siccome aveva cominciato a fare caldo, erano entrambi assetati. Udirono venire, dal bosco vicino, un lieve sussurrare. Era proprio acqua? Appena si avvicinarono, videro una sorgente zampillare dalla roccia. Il pastorello si chinò, attinse l’acqua chiara con tutte e due le mani, e bevve, bevve a volontà.

Poi anche la pecorella bevve l’acqua che scorreva sui sassi come un ruscello.

Il pastorello però, tutto ad un tratto si sentì così stanco che non volle più proseguire. Si tolse il berretto ed anche la bisaccia. Si sdraiò lì vicino e si  addormentò.

La pecorella, invece, corse via seguendo il ruscello, lontano,

sempre più lontano…

Quando il ragazzo si svegliò, si guardò intorno e cominciò a gridare, chiamando la sua pecora: “Biancaneve! Biancaneve!”, ma nessuno rispose.

Poi si mise a tracolla la sua bisaccia e si mise in cammino per cercare Biancaneve.

Per tutto il giorno continuò a cercare, fino a sera. Mancava poco al tramonto, e il pastorello  si sedette su una pietra e si mise a piangere.

E mentre così piangeva, udì all’improvviso il canto meraviglioso di un uccellino che cantava la sua canzone della sera, e sembrava volesse consolare il suo pianto.

Appena l’uccellino tacque, il pastorello disse: “Ah, mio piccolo uccellino, io cerco Biancaneve, la mia pecorella”. L’uccellino fece cenno col capo e indicò con il becco la direzione del bosco. Di sicuro voleva dire: “E’ andata di là!” e poi se ne volò via.

Il ragazzo si alzò e riprese il cammino a grandi passi attraverso il bosco, sul muschio tenero e sulle pietre dure, ma ad un tratto sentì scricchiolare qualcosa in un cespuglio.

Era forse una volpe? O addirittura un lupo? Ma no, era un piccolo scoiattolo, che stava cercando una nocciola per la cena.

“Buonasera caro scoiattolo, hai forse visto Biancaneve, la mia pecorella?”

Lo scoiattolo scosse il capo e disse: “No, non so dove sia la tua pecora, ma ti voglio accompagnare dalla lepre. Ha le gambe lunghe e sa arrivare lontano”.

Insieme andarono verso la casa della lepre

La lepre si era trovata, per dormire, un buon rifugio tra i rami di un cespuglio. Lo scoiattolo ritornò nel bosco a cercare nocciole.

Il pastorello salutò la lepre e le chiese: Caro leprotto, non sai dove è andata a finire Biancaneve, la mia cara pecora?”

Anche il leprotto non lo sapeva, però gli disse: “Ti accompagnerò dal gufo che ha grandi occhi e vede anche di notte. Forse saprà consigliarti.

Si inoltrarono nel bosco.  “Questo è il gufo” disse la lepre. Il gufo era appollaiato su un albero alto e con i suoi grandi occhi guardava il pastorello là sotto. La lepre ritornò nel suo nascondiglio.

Il pastorello si fece coraggio e gridò: “Buona sera gufo. Hai forse visto Biancaneve, la mia pecora?”

“No” disse il gufo “Non so dov’è la tua pecora, ma laggiù tra le radici abita un nano del bosco, forse lui ti può aiutare”.

Il pastorello si avvicinò e cercò la porticina tra le radici, bussò e gridò:

“Nano nanetto, stammi a sentire, la porticina vieni ad aprire”.  La porticina si aprì e comparve un omino con una lunga barba.

Teneva in mano una piccola lanterna. “Non so dove sia la tua pecora, però ti voglio accompagnare e farti luce”.

Cammina cammina giunsero ad una buca profonda. Si fermarono ed udirono un tintinnio. Era forse il campanellino d’oro di Biancaneve?

“Beeeh… beeeh… ” faceva la pecorella. “Din din din…” faceva il campanellino.

Il nano del bosco fece luce con la sua lanterna: Biancaneve era giù in fondo, nella buca. Era caduta laggiù, e non sapeva più risalire.

“Aspetta, vengo a prenderti!” disse il pastorello, e scese nella buca.

“Beeeh… beeeh… ” faceva la pecorella. “Din din din…” faceva il campanellino.  Che gioia quando il pastorello, arrampicandosi, vide Biancaneve! La prese e la tenne stretta tra le braccia. Tremava tutta.

Il nano del bosco, con la sua lanterna,  si mise davanti a loro e li accompagnò finchè giunsero a casa.

Finalmente erano arrivati al sicuro e al caldo.

Il pastorello ringraziò il nano per l’aiuto ricevuto, ed il nano potè far ritorno nella sua casa tra le radici del bosco.

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E terminato il racconto, può cominciare il gioco…

 

Racconto per il solstizio di inverno

Racconto per il solstizio di inverno  – La piccola casa senza porte e senza finestre
Un breve racconto adatto anche ai più piccoli, che può essere una bella introduzione per una pittura ad acquarello,

per la preparazione di una torta di mele o della marmellata, oppure, soprattutto coi più piccoli, per attività di stampa su carta o tessuto… La carta stampata può essere usata come carta regalo per i doni natalizi.

La piccola Gaia aveva giocato tutto il giorno con tutti i giochi che aveva nella sua cameretta, e aveva fatto tutti gli altri giochi che conosceva, e ora si stava proprio annoiando.
Così andò dalla mamma e le chiese: “E adesso cosa posso fare?”
La mamma le rispose:  “Ho sentito parlare di una piccola casa rossa senza porte e senza finestre, con una stella dentro. Potresti andare a cercarla…”.

Gaia uscì di casa e in cortile incontrò il suo amico Giovanni. Gli chiese: “Tu per caso sai dove si può trovare una piccola casa rossa senza porta e senza finestre, e con una stella dentro?”
Il bambino rispose: “No, non so proprio dove si trovi questa casa che dici, però potremmo andare a chiederlo al mio papà. Lui è un agricoltore, e conosce un sacco di cose. Adesso è nella stalla, andiamo!”.
Così, Gaia e il suo amico andarono nella stalla, e chiesero al contadino: “Sai dove possiamo trovare una piccola casa rossa senza porta e senza finestre e con una stella dentro?”
“No…” rispose il papà del bambino, “ma potreste provare a chiedere alla nonna. Adesso è nella sua casa sulla collina. E’ molto saggia, sapete, e sa molte cose. Forse vi potrà aiutare”.
Così Gaia e Giovanni si incamminarono su per la collina, e chiesero alla nonna: “Sai dove possiamo trovare una piccola casa rossa senza porta e senza finestre e con una stella dentro?”
“No,” rispose la nonna, “io non lo so, però potreste provare a chiederlo al vento… Lui va dappertutto e vede tante cose. Sono sicura che potrà aiutarvi”.
Allora Gaia e Giovanni uscirono dalla casa della nonna, e chiesero al vento: “Sai dove possiamo trovare una piccola casa rossa senza porta e senza finestre e con una stella dentro?”
Il vento rispose: “Certo, seguitemi!”.
E si mise a soffiare e fischiare. I due bambini cominciarono a corrergli dietro. Il vento guidò i due bambini attraverso la campagna, fino ad un bellissimo frutteto. Si fermò ai piedi di un albero, e disse ai bambini: “Eccola!”.
I bambini ringraziarono il vento, raccolsero la piccola casa rossa senza porta e senza finestre e con una stella dentro e corsero a mostrarla alla mamma di Gaia.
La mamma era in cucina in quel momento, e Gaia entrò dicendo: “Guarda mamma, abbiamo trovato la piccola casa rossa senza porta e senza finestre, però non riusciamo a trovare la stella…”
La mamma sorrise, prese un coltello e tagliò a metà la casa, scoperchiando il tetto.
“Sì!” gridarono felici i bambini, “La stella! Che bella!”

 

(Autore sconosciuto, ne esistono varie versioni anche in rete).

Racconti per Halloween

Racconti per Halloween alcuni dolci e scherzosi, altri più paurosi, da scegliere a seconda dell’età e del temperamento dei bambini: la storia di Stingy Jack, barzellette su cimiteri, scheletri e altro, storie di streghe e streghette, rane e ranocchi, gatti neri, alcune fiabe classiche tra quelle raccolte dai fratelli Grimm e da Italo Calvino, e molto altro ancora.

La storia di Stingy Jack

Le zucche intagliate con facce macabre o buffe e illuminate da candele sono il simbolo principale dei giorni di Halloween. Queste zucche intagliate vengono chiamate “Jack O’Lantern”, nome che deriva da un racconto popolare irlandese che ha per protagonista Stingy Jack. La pratica di intagliare le zucche deriva proprio da questo racconto, anche se in Irlanda le zucche non venivano coltivate. Le antiche culture celtiche in Irlanda intagliavano infatti non zucche, ma rape, la vigilia di All Hallow, e ponevano un tizzone al loro interno per allontanare gli spiriti maligni. Gli immigrati irlandesi portarono la tradizione in America, e presto divenne parte integrante dei festeggiamenti di Halloween.

Tanto tanto tempo fa viveva in Irlanda un uomo: il suo nome era Stingy Jack. Stingy Jack non era solo un imbroglione, ma anche un bugiardo e un ladro, e aveva la cattiva abitudine di bere troppo.
Una notte  Stingy Jack si trovava svenuto per il troppo bere in aperta campagna, e mentre la sua anima fluttuava libera, il Diavolo venne a reclamarla. Stingy Jack, che si considerava più furbo anche del Diavolo, non si spaventò per nulla, e divertito gli disse:  “Ti darò la mia anima, ma perchè prima non ci concediamo un ultimo bicchierino insieme?”
Ora, siccome anche al diavolo piace farsi un bicchierino ogni tanto, non se la sentì proprio di rifiutare l’ultimo desiderio della sua vittima.  Andarono al pub preferito di Jack e bevvero insieme, ma Jack alla fine non aveva i soldi per pagare, e disse al Diavolo: “Perché non ti trasformi in una moneta, visto che sei il Diavolo, così possiamo pagare e finalmente il barista ci permetterà di uscire dal pub… Pensa che divertimento sarà poi vedere questo buon barista litigare col buon popolo cristiano di questa città quando vedrà la moneta sparire… “
L’idea di provocare dei buoni cristiani e farli litigare tra loro per niente, naturalmente al diavolo piacque molto, così si trasformò davvero in moneta. Appena l’ebbe fatto, però, Jack afferrò la moneta e immediatamente se la mise in tasca insieme al piccolo crocefisso che teneva sempre con sè.
Il Diavolo si trovò così intrappolato e impotente nella tasca di Jack, ed era davvero infuriato. Però Jack sapeva che non c’è modo di sfuggire al diavolo, e che il suo vantaggio non sarebbe durato a lungo, così gli propose un affare: “Ti libererò se tu accetti di non tornare a prendere la mia anima prima di dieci anni”. Il Diavolo, non avendo altra scelta, naturalmente accettò.
Passarono i dieci anni, e il Diavolo si ripresentò a Jack per reclamare la sua anima, ma ancora lui si considerava il più furbo tra i due. “Va bene”, disse “ma prima di morire desidero tantissimo mangiare una di queste mele profumate. Saliresti sull’albero a cogliermene una?”
Ora, siccome anche al diavolo ogni tanto piace addentare una mela profumata appena colta dall’albero, non se la sentì proprio di rifiutare l’ultimo desiderio della sua vittima.
Ma una volta sopra, Jack incise sulla corteccia dell’albero delle croci tutto intorno: ancora una volta Jack era riuscito a farlo prigioniero!
Jack gli propose un nuovo affare: ” Ti libererò se prometti di lasciarmi in pace per sempre!”
E il Diavolo, che ne aveva ormai davvero abbastanza di questo vecchio imbroglione, accettò.
Passarono così molti anni, e quando Stingy Jack morì, salì alle porte del Paradiso, ma lì venne rifiutato per la sua vita di inganni e cattiverie. Non sapendo dove altro andare, andò dunque alle porte dell’Inferno. Ma anche il Diavolo, ricordandosi di avergli promesso che mai avrebbe preso la sua anima, gli negò di entrare.
Jack si spaventò: non aveva nessun posto dove andare, e si vedeva condannato a vagare per sempre nel buio e nel vuoto tra Paradiso e Inferno. Non potendo andare ne in un posto ne nell’altro, chiese al diavolo dove doveva andare. Il diavolo gli rispose soltanto: “Torna da dove sei venuto”.
Così Jack fu costretto a tornare sulla terra, ma la via del ritorno era molto buia… allora il diavolo ebbe pietà di lui e, anche se non lo accolse nel suo regno, gli regalò uno dei tizzoni ardenti dell’Inferno, perchè potesse servigli ad illuminargli la via.
Jack intagliò una rapa, che era il suo cibo preferito, vi mise il tizzone dentro, e portò la lanterna sempre con sè.
Se il diavolo non ti vuole e il Cielo ti allontana, sei condannato a vagare nelle tenebre, con una rapa soltanto ad illuminare la tua via…

Nel folklore irlandese Jack Stingy divenne presto “Jack della Lanterna” prima, e poi semplicemente “Jack O’Lantern”.
In Irlanda ed in Scozia, la gente credeva che gli spiriti e i fantasmi possono entrare nel mondo dei vivi una volta l’anno: il giorno di Halloween. Spiriti e fantasmi, infatti, sono molto attratti dalla bellezza della vita terrena. Secondo le loro credenze, chi non voleva essere visitato da queste entità, doveva mettere del cibo fuori dalla porta, per placarle. In seguito si cominciò ad intagliare questo cibo (rape, patate, barbabietole) facendo delle proprie versioni della lanterna di Jack e mettendole sui davanzali delle finestre o davanti alla porta, per allontanare Stingy Jack e gli altri spiriti.
In Inghilterra si usano ancora grandi barbabietole.
Gli immigrati provenienti da questi paesi, e che hanno portato la tradizione della Jack O’ Lantern negli Stati Uniti, scoprirono che le zucche, tipico frutto autunnale americano, erano perfette per le lanterne: più morbide e facili da intagliare delle rape della loro patria. 

Barzelletta: il cimitero
Una mattina una venditrice porta a porta di prodotti per la casa bussò alla casa di un un signore, e gli chiese di vedere sua moglie. L’uomo, che era una persona tranquilla e di poche parole, rispose che la moglie non era in casa.
“Beh” continuò la venditrice, “posso aspettarla qui?”.
Il signore la fece accomodare in salotto e lei attese lì per più di tre ore. Un po’ preoccupata richiamò l’uomo  e gli chiese: “Ma potrei sapere dov’è andata, sua moglie?”
“E’ andata al cimitero”
“E quando pensa che tornerà?”
“Non lo so” rispose l’uomo, “E’ lì da undici anni, ormai”.

La leggenda del ponte della testa della sposa
C’è un ponte ad Hannover, in Germania chiamato ‘Der Kopf der Braut’, che significa “ponte della testa della sposa”.
Una leggenda del XV secolo narra che, nel giorno delle loro nozze, il Conte von Kesselstatt e la sua sposa Gretchen dovevano imboccare il ponte con la loro carrozza a cavalli, seguiti dal corteo nuziale. Ma la strada era bloccata da una vecchia.
Il Conte ordinò alla vecchia di sgombrare il  ponte immediatamente, per farli passare.
E poiché la vecchia non si muoveva, il Conte von Kesselstatt fu preso dall’ira e la colpì con la frusta. La vecchia, che in realtà era una strega, si rannicchio di lato e lanciò una maledizione sulla carrozza.
Così, quando finalmente il corteo della festa nuziale riuscì a salire sul ponte, i cavalli che tiravano la carrozza degli sposa si impennarono, e la giovane Gretchen fu sbalzata fuori dalla carrozza e finì nel fiume sottostante.
Sembra certo che annegò nel fiume, ma i resti di Gretchen non furono mai ritrovati.
Tuttavia, si dice che capita ad Halloween di vedere una sposa senza testa, in piedi sulle rocce in mezzo al fiume. Alcuni dicono che sta cercando ancora la sua testa perduta.

Bertie la rana e la notte di Halloween
Era il giorno della vigilia di Halloween. Bertie la rana e i suoi amici sguazzavano nell’acqua, proprio come fanno in qualsiasi giorno dell’anno, ma quello non era affatto un giorno qualunque, e certamente la notte non sarebbe stata una notte come tutte le altre. Ma per il momento tutto normale: Sadie il cigno ammirava tranquillamente il suo riflesso nello stagno, Colin la carpa fischiettava, Bartie la rana e Tim il girino giocavano. Mentre stavano giocando, Tim vide la principessa Beatrice e i bambini del palazzo che stavano raccogliendo zucche giganti dall’orto.
“Che cosa sono quelle grandi cose, Bertie?” chiese.
“Quelle? Sono ortaggi.”
“Oh, non sapevo che gli ortaggi fossero così spaventosi!”
“Caro il mio piccolo amico” disse Bertie “E’ perchè sono le zucche, e sono state scelte per essere spaventose. I bambini le hanno raccolte per intagliarle e mettere candele al loro interno, in modo che diventino le lanterne di Halloween e che sembrino mostri spaventosi”.
“Oh” disse Tim “Che paura!”. Perchè Tim era un girino davvero molto piccolo, anche per la media dei girini, e si spaventava molto facilmente.

Proprio in quel momento Colin la carpa, che era un pesce molto scontroso, fece un guizzo molto rumoroso alle spalle di Tim, così forte che Tim lanciò un urlo e si nascose sott’acqua. E Colin disse: “Halloween è proprio il giorno giusto per spaventare le piccole e stupide creature!”
Quando Tim tornò timidamente alla superficie, Bartie continuò a spiegargli tutto su Halloween: “E’ il giorno più allegro dell’anno. Quando ero un principe andavo sempre per le case a fare Dolcetto o Scherzetto! Bussavo alle porte e dicevo: “Dolcetto o scherzetto?”, e se le persone  non mi davano caramelle o cioccolata, potevo far loro uno scherzo o un piccolo dispetto. Ma la maggior parte delle persone avevano un po’ paura degli scherzi, e mi davano una qualche delizia. Così ogni Halloween è stato un giorno goloso.”
“Fantastico!” disse il piccolo Tim, “Posso fare anch’io dolcetto o scherzetto, Bartie? Prometto che sarò davvero, davvero spaventoso, e la gente ci darà un sacco di melma verde e altre cose deliziose!”
E così Bertie decretò che quell’anno tutti gli abitanti dello stagno avrebbero festeggiato la notte di Halloween. Sadie, Bertie e Tim pensarono a lungo a che costume indossare. Poi Tim ebbe una brillante idea (cosa molto insolita per lui).

“Perché non andiamo come un cigno, una rana e un girino?” disse.
E così fecero. Sadie camminava davanti, e Bartie dietro, con Tim sulla schiena. Sadie bussava alle porte con il suo becco, e alla fine della serata avevano raccolto una valanga di dolci: orsetti di gomma, e caramelle e biscotti, e cioccolata… solo a pensarci mi viene l’acquolina in bocca. Quando ne ebbero così tanti che Sadie non riusciva più a portarne sulle sue ali e Berti nella sua grande bocca di rana, decisero di far ritorno allo stagno. Una fitta nebbia si era alzata sull’acqua e tutto intorno, e si intravvedevano tre sagome muoversi nel buio. Sembravano tre esseri umani, ma… lo erano davvero? Dopo tutto, era Halloween.
“Ohhh!” disse Tim, “Cosa sono quelle strane creature? Sono … sono mostri spaventosi? “
“Vediamo…” disse Bertie, “Direi che, in base alle mie grandi conoscenze in fatto di magia e mistero… direi che… ehm… quelli dovrebbero essere una strega adulta e due streghette bambine…”
“Ooooooooh!”

Improvvisamente una delle due streghette gridò, “Dolcetto o scherzetto?” In quello stesso istante, Colin la carpa balzò fuori dall’acqua con una mosca morta in bocca, proprio davanti alla figura più alta che, come si scoprì poi,  era la bella principessa Beatrice, che si era travestita da strega per la festa.
“Ecco il tuo regalo!” disse Colin, e depositò la mosca ai suoi piedi.
La principessa Beatrice, che oltre ad essere molto bella e dolce, era anche molto sensibile e paurosa, e per di più non aveva mai sentito una carpa parlare, fece un salto e gridò: “Aaahhh! Ahhhh! “
E prese a correre più veloce che poteva verso il palazzo, con le due streghette che la seguivano a ruota.
“Ah! Così impara a venire qui a chiedermi dolcetti!”, borbottò Colin.

Rifletté Bertie: “Ah, magari fosse stata una strega vera! Allora sì che gli avrebbe lanciato un bell’incantesimo…”
Ma Bertie non sapeva che, proprio in quel momento, una strega malvagia stava volando sulla sua scopa, davanti alla luna piena, e che quella strega cattiva altri non era che la matrigna della principessa Beatrice.
Dal momento che per lei era stato un Halloween piuttosto noioso, e che ancora non aveva trovato nessuno da trasformare in rana o in rospo, fu molto felice di sentire Bertie chiedere i servigi di una strega malvagia vera, di primo grado, ufficiale e certificata!
“Whooooosh!” Planò radente la superficie dello stagno, lasciando dietro di sè un’enorme scia di melma verde, e strillò: “Ah ah ah haaaa! Che quelli che si lamentano diventino di pietra!”, poi risalì con la sua scopa verso il cielo notturno.

Quando se ne fu andata, e tutto fu di nuovo tranquillo, il piccolo Tim disse: “Che cosa spaventosa!”
“Sciocchezze,” rispose Bertie, quindi tutti gli abitanti dello stagno andarono a dormire felici, e nessuno di loro fece incubi. Solo Bertie si sentiva un po’ male, perchè aveva mangiato troppe caramelle.
Quando la mattina seguente il sole cominciò a salire sul palazzo, e allungare i suoi raggi caldi autunnali sopra lo stagno, Sadie il cigno stava ammirando una nuova fontana, che non aveva notato prima.
“Oddio,” disse, “il pesce di pietra con l’acqua che gli esce dalla bocca somiglia tale e quale a Colin. Ma chi può aver costruito una fontana in suo onore?”
“Sì,” disse Bertie, “Riconoscerei quel brutto muso ovunque… ma aspetta…. sai cosa? Penso che sia davvero Colin!”
“Non essere sciocco,” disse Sadie in un primo momento, ma poi ci ripensò: “Oh, penso che tu abbia ragione. Non pensate che la strega malvagia di ieri notte forse ha trasformato davvero Colin in pietra? “
“Suppongo di sì”, disse Bertie. “Guardate quello che ha fatto a me. Mi ha fatto diventare un bel principe. “
Anche se i piccoli girini e tutti gli abitanti dello stagno avevano trascorso una bella giornata, libera dai dispetti di Colin e dalle sue continue lamentele, Bertie cominciò a sentirsi un po’ in colpa. Dopo tutto, era stato lui ad aver chiesto l’aiuto della strega malvagia. Ma non intendeva certo questo… Noi tutti diciamo cose che non intendiamo dire veramente, quando siamo un po’ irritati.
Così pensò ad un piano, e quella notte decise di andare a far visita alla strega. Era un po’ spaventato, perchè dopo tutto la strega era molto malvagia davvero. Attese a lungo davanti alla sua porta, sentendosi piuttosto nervoso. Alla fine chiamò: “Dolcetto o scherzetto?” La strega cattiva venne fuori, e prima che potesse rispondere, Bartie fece un gran salto e le riempì la bocca di melma verde, poi corse via più veloce che poteva.
“Grrrrr! Bertie!” gridò la strega.

Bertie si nascose e stette ad aspettere un po’ di tempo, poi si avvicinò di nuovo alla casa della strega, bussò forte, e di nuovo gridò; “Dolcetto o scherzetto?”. Poi spinse uno skateboard sullo zerbino, la strega uscì, scivolò rovinosamente, cadde per terra e battè la testa. Bartie corse via come un fulmine.
“Grrr! Adesso basta! Ti prendo, Bertie. Sei andato troppo oltre, piccola sporca rana! “
La strega, che era anche la matrigna di Beatrice, aspettava ogni sera il re che veniva da lei per darle la buonanotte. E anche quella sera, il re arrivò e bussò alla porta. Ma quella notte la regina aprì la porta e si sporse gridando: Ti trasformerò in un verme, stupido pezzo di melma verde!”
Subito si accorse di avere davanti suo marito, e cercò di scusarsi in ogni modo: “Oh, scusate Vostra Altezza Reale… Non volevo… “
Il re camminava nervosamente, avanti e indietro, lungo il corridoio, borbottando tra sè e chiedendosi come fosse possibile che sua moglie si fosse mostrata così diversa da come lui la conosceva, come avesse potuto essere così maleducata e volgare con lui. Si meritava che le venisse tagliata la testa per questo affronto.
La cattiva matrigna aveva davvero paura, ma proprio in quel momento, Bartie rispuntò fuori e disse dolcemente: “Ehm… dolcetto o scherzetto?”. E disse alla strega che avrebbe spiegato lui tutto al re, se lei accettava di tornare allo stagno e sistemare la faccenda di Colin.
La cattiva matrigna si rese conto di essere stata sconfitta, e accettò. Bartie la cavò dagli impicci con suo marito,  e lei tornò allo stagno e trasformò Colin di nuovo in un pesce.
Tutti gli abitanti dello stagno furono molto contenti di vedere Colin nuotare di nuovo intorno a loro, perchè anche se era un po’ burbero, era pur sempre loro amico, e gli amici sono importanti.

La luce azzurra
C’era una volta un re che aveva un soldato al suo servizio, e quando questi invecchiò e non potè più lavorare, lo mandò via senza dargli nulla. Il soldato non sapeva come campare; se ne andò tutto triste e camminò per tutto il giorno, finché‚ a sera giunse in un bosco.

Vi entrò e poco dopo vide una luce che lo guidò, e giunse a una casa dove abitava una strega. Egli la pregò di dargli un giaciglio per la notte, qualcosa da mangiare e da bere; ella rifiutò, ma poi disse: -Ti ospiterò per misericordia, però tu domani devi vangare il mio giardino-. Il soldato promise di farlo e così fu alloggiato.
Il giorno dopo vangò il giardino della strega e lavorò fino a sera. Ella voleva mandarlo via, ma egli disse: -Sono tanto stanco, lasciami rimanere ancora una notte!-. La strega non voleva, ma poi finì coll’accettare: il giorno dopo, però, il soldato doveva spaccarle un carro pieno di legna.

Così il secondo giorno il soldato spaccò la legna, e alla sera aveva lavorato tanto che non se la sentì nuovamente di andarsene e le chiese asilo per la terza volta. Il giorno dopo egli doveva, però, ripescare dal pozzo la luce azzurra. La strega lo portò così al pozzo, lo legò a una lunga corda, ed egli vi si calò.
Quando fu sul fondo, trovò la luce azzurra e fece segno alla vecchia per risalire. La strega lo tirò su, ma quando egli fu vicino all’orlo, così vicino che poteva toccarlo con la mano, ella volle prendergli la luce azzurra per poi lasciarlo ricadere sul fondo. Ma egli si accorse delle sue cattive intenzioni e disse: -No, non ti do la luce azzurra se prima non ho toccato terra con tutti e due i piedi-. Allora la strega s’infuriò, lo lasciò cadere nel pozzo con la luce e se ne andò.

Il soldato era tutto triste, là sotto in quel pantano umido al buio, e pensava già alla sua fine. Per caso gli venne fra le mani la sua pipa, ancora mezzo piena, e pensò: “Sarà il tuo ultimo piacere!.” L’accese alla luce azzurra e si mise a fumare. Quando il fumo si sparse un poco nel pozzo, apparve d’un tratto un omino nero che gli chiese: -Padrone, cosa comandi?-. Il soldato rispose: -Cosa devo comandarti?-. L’omino replicò: -Devo fare tutto quello che vuoi-. -Allora, prima di tutto, aiutami a uscire dal pozzo!- L’omino nero lo prese per mano e lo condusse fuori, portando con sè la luce azzurra. Poi il soldato disse: -Adesso ammazzami la strega-. Dopo aver fatto anche questo, l’omino gli mostrò l’oro e i tesori della vecchia, e il soldato li prese caricandoseli sulle spalle. Poi l’omino disse: -Se hai bisogno di me, non hai che da accendere la pipa alla luce azzurra-.
Il soldato si recò quindi in città, nella migliore locanda, si fece fare bei vestiti, e ordinò all’oste di arredargli una camera il più sfarzosamente possibile. Quando fu pronta, il soldato chiamò l’omino nero e disse: -Il re mi ha cacciato facendomi patire la fame, poiché‚ non potevo più servirlo; questa sera portami qui la principessa: mi farà da serva ed eseguirà i miei ordini-. L’omino disse: -E’ cosa rischiosa-. Tuttavia andò a prendere la principessa; la sollevò dal suo letto mentre dormiva, la portò al soldato, ed ella dovette obbedirgli e fare ciò che egli le ordinava.

Al mattino, prima che il gallo cantasse, l’omino la riportò indietro. Quando la principessa si alzò, disse al padre: -Questa notte ho fatto un sogno strano: mi è parso di esser stata portata via e di aver servito un soldato, cui dovevo fare da serva-. Allora il re disse: -Fa’ un buchino nella tasca e riempila di ceci: il sogno potrebbe essere vero, e in questo caso i ceci usciranno e lasceranno una traccia sulla strada-. La fanciulla seguì il consiglio, ma l’omino aveva udito le parole del re e, quando si fece sera e il soldato gli ordinò di andare a prendere di nuovo la principessa, egli sparse ceci per tutta la città, e quei pochi che caddero dalla tasca della principessa non lasciarono nessun segno. L’indomani, la gente mondò ceci per tutto il giorno.

La principessa tornò a raccontare al padre ciò che le era successo, e il re disse: -Tieni con te una scarpa, e nascondila là dove ti trovi-. L’omino nero udì ogni cosa e, quando il soldato gli ordinò di andare a prendere di nuovo la principessa, gli disse: -Questa volta non posso più esserti di aiuto: ti andrà male se ti scoprono-. Ma il soldato non sentì ragione. -Allora domani mattino presto dovrai fuggire, quando l’avrò riportata a casa- disse l’omino. La principessa tenne con sè una scarpa e la nascose nel letto del soldato.

La mattina seguente, quand’ella si trovò nuovamente presso il padre, questi fece cercare la scarpa di sua figlia per tutta la città, e la trovarono dal soldato. Egli, benché‚ avesse lasciato la stanza, fu presto raggiunto e gettato in prigione. Così ora giaceva in catene e, per giunta, nella fuga precipitosa aveva dimenticato il meglio, la luce azzurra e l’oro, e non aveva in tasca che un ducato. Mentre, tutto triste, se ne stava alla finestra della prigione, vide passare uno dei suoi camerati, lo chiamò e disse: -Se mi vai a prendere il fagottino che ho lasciato alla locanda, ti darò un ducato-. Quello andò e in cambio di un ducato gli portò la luce azzurra e l’oro. Il prigioniero accese la sua pipa e chiamò l’omino nero che disse: -Non temere! Va’ tranquillamente dal giudice, e accada quello che vuole; bada solo di prendere con te la luce azzurra-.

Il soldato fu sottoposto a giudizio e condannato a morte. Quando lo condussero fuori, chiese al re un’ultima grazia. -Quale?- domandò il re. -Di fare ancora una pipata per via.- -Puoi farne anche tre se vuoi- rispose il re. Allora il soldato tirò fuori la sua pipa e l’accese alla luce azzurra, ed ecco subito comparire l’omino nero. -Uccidi tutti quanti- disse il soldato -e il re fallo in tre pezzi.- Allora l’omino incominciò a far fuori la gente intorno, sicché‚ il re chiese grazia e per avere salva la vita diede al soldato il regno e sua figlia in sposa.

Un omicidio ad Halloween
C’era stato un omicidio in Texas, a Halloween, e vennero chiamati  gli agenti dell’FBI ad investigare sul caso.
Hitchcock, uno degli ufficiali, vide che c’era qualcosa scritto col sangue, sul muro. Sembrava il numero ‘7734’, ma non ne era sicuro, quindi scattò molte foto.
Quando Hitchcock tornò al laboratorio sviluppò la pellicola della scena del crimine, ma non riusciva a fare alcun progresso per decifrare il significato di quel numero. Nella speranza di trovare finalmente l’ispirazione, prese le fotografie e le portò a casa. Si sedette in soggiorno e le sparpagliò sul tavolo. Proprio in quel momento sua moglie entrò nella stanza e, dalla parte opposta del tavolo chiese: “Perchè hai fotografato tante volte la parola HELL (inferno)?)
Così Hitchcock vide che capovolgendo i numeri 7734 si legge la parola HELL.

Lo scheletro dal dottore – barzelletta
Un famoso medico manda un suo assistente a ritirare uno scheletro in un negozio specializzato, dove lo aveva ordinato perchè gli serviva per le sue lezioni ai praticanti.
Quando l’assistente fa ritorno con lo scheletro tenuto goffamente tra le mani, la sala d’aspetto del medico si è già riempita di pazienti. Appena varca la porta, si accorge che tutti lo guardano con aria interrogativa.
“Lo sto portando dal medico” dice con un sorriso.
E un’anziana signora gli risponde con simpatia: “Ma caro, non ti sembra troppo tardi per lui, per il medico?”.

La zucca
C’era una volta una zucca che viveva in una fattoria, con un agricoltore molto gentile e tantissime altre zucche come lei.
Il contadino era un buon uomo che amava molto le sue zucche: parlava sempre gentilmente, se ne prendeva cura, ed insegnava loro tutto quello che serve per essere buone. Ogni mattino cantava una dolce canzone alle sue zucche, e dopo pranzo le invitava a prendere il sole con lui. Quando il sole cominciava a calare, ogni sera il contadino distribuiva ad ognuna della buona acqua  e loro bevevano, molto lentamente (per le zucche bere l’acqua con le loro radici è come per noi bere con la cannuccia). Poi, quando arrivava il momento di andare a dormire, dava loro la buonanotte e augurava loro di dormire bene per crescere grandi e forti.

La nostra zucca aveva sempre fatto tutto quello che il contadino le aveva detto: quando era il momento di prendere il sole, l’aveva fatto; quando era il momento di bere l’acqua, l’aveva succhiata lentamente come lui aveva detto, e quando calava la notte la zucca sorrideva e lasciava che il suo corpo si rilassasse dolcemente, fino ad addormentarsi.
Era una bella vita, e la zucca era molto felice, perchè l’agricoltore la amava molto. E fu davvero felice quando lui le disse che era una zucca buona, speciale e bella.

Finchè le zucche erano piccine, erano molto buone e si volevano bene tra loro: era tutto perfetto. Ma quando le zucche cominciarono a crescere, le cose cambiarono: ognuna di loro cominciò a gareggiare con le altre per chi fosse la più grande, la più arancione, la più forte. Tutte, tranne la nostra zucca, che invece rimase piccola e verde; e quando le altre zucche cominciarono a rimanere sveglie fino a tardi, a non voler più passare il pomeriggio a prendere il sole e a rifiutarsi di bere lentamente l’acqua la sera,  la nostra piccola zucca verde continuava a essere buona. Lei obbediva sempre al contadino, anche quando tutte le altre non lo facevano, e presto esse cominciarono a prenderla in giro.

“‘Ooh, c’è la piccola bimba buona! Lei non fa mai nulla di male … lei è così buoooona!”, dicevano.
Quando era stato l’agricoltore a dirle che era buona, le era sembrato così bello. Ma ora glielo stavano dicendo in un modo molto diverso, e lei non si sentiva affatto orgogliosa… provava imbarazzo e tristezza. Ma perchè se la prendevano così con lei? Nei giorni che seguirono, la vita della nostra zucca fu molto dura. Tutte le altre zucche ridevano di lei mentre se ne stava immobile e silenziosa a prendere il sole e loro invece saltavano di qual e di là e non la smettevano di parlare tra loro. E quando era il momento di bere l’acqua, lei continuava a bere lentamente come le aveva consigliato il contadino, mentre le altre trangugiavano la loro il più velocemente possibile, per avere più tempo per giocare.

Giorno dopo giorno le zucche continuavano a crescere. Il contadino le guardava e diceva: “Avremo delle torte deliziose quest’anno…”, e le zucche erano molto orgogliose, ed erano molto contente di diventare torte squisite, anche se sapevano che per una di loro poteva esserci un destino ancora migliore.
Tutte loro avevano sentito la storia della zucca seme: ogni anno l’agricoltore sceglieva una zucca molto speciale, l’unica zucca che non cucinava. Questa zucca era sempre la più grande  e la più bella.  L’agricoltore la sceglieva, prendeva da lei tutti i semi e li piantava nel terreno per il raccolto dell’anno successivo.
Il più grande sogno della nostra zucca era di essere scelta, ma in fondo sapeva che non sarebbe mai successo. Dopo tutto quello che aveva fatto per essere buona, dopo aver lavorato così duramente facendo tutto per bene, era ancora la zucca più piccola di tutte. Ed era anche l’unica ad essere rimasta verde: tutte le altre zucche erano ormai arancioni, mentre lei sembrava ancora una zucca bambina e acerba.

Un giorno il contadino le si avvicinò e le disse: “Mi ricordi tanto tua madre… è sorprendente…”. La piccola zucca non capiva, ma sentiva che il contadino la amava, e questo la rendeva felice. La piccola zucca verde sorrise e decise che anche se lei non era per nulla speciale, era contenta così, perchè comunque era stata buona ed il contadino era contento di lei.
Proprio in questo periodo, finalmente anche lei cominciò a colorarsi di arancione. Fu un gran bel cambiamento: le piaceva molto il nuovo colore! E finalmente le altre  zucche smisero di prenderla in giro… a dire il vero adesso erano tutte di nuovo sue amiche ed erano gentili con lei. La zucca era davvero molto contenta, ma non smise mai di esser buona, e anche quando le altre zucche la invitavano a giocare con loro durante il tempo da dedicare a prendere il sole, lei rispondeva “No, grazie, io devo fare quelle che dice il contadino”, le zucche non ridevano più di lei.

Si chiese il perchè…
Passò del tempo, e finalmente giunse il giorno della festa del raccolto: quel giorno la zucca seme sarebbe stata scelta.
“Sappiamo tutte chi sarà la zucca seme di quest’anno” dicevano le zucche, ed erano tutte d’accordo.
“Chi? Chi?” chiese la nostra zucca. Ma nessuno le rispose. Erano tutte impegnate a bere a più non posso, in modo da diventare più dolci e succose possibile per le torte del contadino.
Finalmente il contadino uscì di casa, seguito dagli altri raccoglitori. Sorridendo si avvicinò alla nostra zucca, la liberò dalle radici e la prese in braccio dicendo: “E’ arrivato il tuo momento, piccola mia”. La zucca si sentiva molto felice. Pensò che il contadino desiderava fare la prima torta proprio con lei, e ne era orgogliosa.

Il contadino la portò a casa, e la zucca si guardò intorno e ripensò a sua madre, che l’anno prima era stata la zucca seme: “Lei è stata qui, proprio come me adesso. Vorrei tanto che fosse ancora qui con me…” E pensando alla sua mamma, le venne da piangere. “Oh mamma, mi dispiace non averti resa orgogliosa di me… mi dispiace di non essere stata scelta come zucca seme”. Il contadino camminava davanti ad un muro pieno di immagini di tutte le zucche seme scelte anno dopo anno. La zucca vide tutti i suoi antenati, fino a sua nonna, e poi sua madre, e poi… ancora sua madre? Ma no, quella non era una foto, era uno specchio! Lei era proprio tale e quale alla sua mamma, e improvvisamente le venne un nuovo pensiero…

Il contadino la portò in cucina e la mise sul tavolo. Sorridendo le disse: ” Sei stata scelta perchè sei stata buona e obbediente. Sapevo che saresti cresciuta più grande e splendente di tutte le altre, perchè eri buona dentro, e quando una zucca è buona dentro, un giorno porterà tutto il suo bene anche fuori da sè.”

Il diletto Orlando
C’era una volta una donna che era una strega e aveva due figlie: una, brutta e cattiva, era la sua figlia; l’altra, buona e bella, era la figliastra. Ed ella tanto amava la prima, quanto odiava la seconda.
Un giorno la figliastra aveva un bel grembiule che piaceva all’altra, tanto che quest’ultima, invidiosa, andò dalla madre e disse: -Quel grembiule deve essere mio-. -Sta’ tranquilla, bimba mia, lo avrai- disse la vecchia. -La tua sorellastra ha meritato la morte da un pezzo, e questa notte, mentre dorme, verrò a tagliarle la testa. Bada solo di coricarti dietro e spingila ben bene sul davanti.-

La povera fanciulla sarebbe stata perduta se, per caso, non si fosse trovata in un angolo da cui potè sentire tutto. Quando fu l’ora di andare a dormire, lasciò che si coricasse prima la sorella cattiva, e che si mettesse dietro, come desiderava; ma non appena questa fu addormentata, la sollevò e la mise sul davanti vicino al bordo del letto, prendendo il suo posto dall’altra parte. Durante la notte entrò quatta quatta la vecchia: nella mano destra aveva una scure, mentre con la sinistra tastava se c’era qualcuno sul davanti; poi afferrò la scure con ambo le mani e spiccò la testa alla propria figlia.

Quando se ne fu andata, la figliastra si alzò, corse dal suo innamorato, che si chiamava Orlando, e bussò alla sua porta. Quand’egli uscì, gli disse: -Ascolta, mio diletto, dobbiamo fuggire più in fretta possibile: la matrigna voleva uccidermi, ma ha colpito sua figlia. Quando si fa giorno e vede ciò che ha fatto, siamo perduti-. Orlando disse: -Però dobbiamo portarle via la bacchetta magica, altrimenti, se c’insegue, non possiamo salvarci-.
La fanciulla prese la bacchetta magica, poi afferrò la testa della morta e lasciò cadere a terra tre gocce di sangue, una davanti al letto, una in cucina, una sulla scala. E fuggì con l’innamorato.

Al mattino, quando la strega si alzò, chiamò sua figlia per darle il grembiule, ma quella non venne. Allora gridò: -Dove sei?-. -Qui sulla scala che spazzo!- rispose una goccia di sangue. La vecchia uscì ma non vide nessuno sulla scala e gridò di nuovo: -Dove sei?-. -Qui in cucina che mi scaldo!- rispose la seconda goccia di sangue. La vecchia andò in cucina, ma non trovò nessuno; allora gridò per la terza volta: -Dove sei?-. -Ah, sono qui nel letto che dormo!- disse la terza goccia di sangue.

Ella entrò nella camera e si accostò al letto. E cosa vide? Sua figlia era immersa in una pozza di sangue e lei stessa le aveva tagliato la testa. La strega andò su tutte le furie, si precipitò alla finestra e, poiché‚ vedeva assai lontano, scorse la fanciulla che fuggiva con il suo diletto. -Avete già fatto un bel pezzo di strada- gridò -ma non servirà a nulla: vi raggiungerò lo stesso!-
Infilò i suoi stivali delle sette leghe e, dopo aver fatto un paio di passi, li aveva già raggiunti. Ma la fanciulla, ben sapendo che li avrebbe inseguiti, con la bacchetta magica trasformò il suo diletto Orlando in un lago e se stessa in un’anitra che nuotava in mezzo al lago. La strega si fermò sulla riva e cercò di attirare l’anitra gettandole briciole di pane; ma essa non si lasciò sedurre e, alla sera, la vecchia dovette tornarsene a casa senza avere concluso nulla.

La fanciulla e il suo innamorato ripresero il loro aspetto umano e camminarono tutta la notte, fino allo spuntar del giorno. Allora ella si trasformò in un bel fiore in mezzo a una siepe di spine, e il diletto Orlando in un violinista. Dopo poco tempo giunse la strega a grandi passi e disse al violinista: -Caro violinista, posso cogliere quel bel fiore?-. -Certamente- egli rispose -intanto io suonerò.- E mentre la vecchia si introduceva di furia fra le spine cercando di raggiungere il fiore, che ben conosceva, il violinista si mise a suonare ed ella, volente o nolente, dovette ballare, poiché‚ era una danza incantata. Egli continuò a suonare, e la strega fu costretta a ballare senza posa; le spine le strapparono le vesti di dosso, la punsero e la scorticarono, finché‚ alla fine ella giacque a terra morta.

Liberatisi della strega, Orlando disse: -Ora andrò da mio padre a preparare le nozze-. -Intanto io resterò qui ad aspettarti- rispose la fanciulla -e perché‚ nessuno mi riconosca, mi voglio tramutare in una pietra rossa.- Così Orlando se ne andò, e la fanciulla rimase nel campo ad aspettarlo, trasformata in pietra rossa.
Ma quando Orlando arrivò a casa, fu ammaliato da un’altra e scordò la sua vera fidanzata. La poverina attese a lungo, ma vedendo che non tornava, divenne triste e si tramutò in un fiore pensando che qualcuno l’avrebbe calpestata. Ma avvenne che un pastore pascolasse con le sue pecore in quel campo; scorse il fiore e, poiché‚ era tanto bello, lo colse, lo portò con sè e lo mise nel suo armadio dicendo: -Non ho mai trovato un fiore così bello-.
Ma da quel giorno ne capitarono delle belle in casa del pastore! Quando si alzava al mattino, tutte le faccende di casa erano già sbrigate: la stanza era spazzata e spolverata, il fuoco acceso, il secchio riempito al suo posto; e a mezzogiorno, quando rincasava, in tavola era già servito un bel pranzetto. Egli non capiva come fosse possibile, poiché‚ non vedeva mai anima viva; e anche se gli piaceva essere servito così bene, finì coll’impaurirsi e andò a chiedere consiglio a un’indovina. Ella disse: -C’è sotto una magia: domani mattina, all’alba, guarda bene se non si muove nulla nella stanza; se vedi qualcosa, buttaci sopra in fretta un panno bianco: l’incanto si romperà-.

Il pastore fece come gli era stato detto, e il mattino seguente vide aprirsi l’armadio e uscirne il fiore. D’un balzo egli vi gettò sopra un panno bianco. Subito cessò la magia: davanti a lui c’era una bella fanciulla, colei che si era presa cura della sua casa. Ed era tanto bella che il pastore le domandò se voleva diventare la sua sposa, ma ella rifiutò perché‚ voleva rimanere fedele al diletto Orlando; tuttavia promise di non andar via e di continuare a occuparsi della casa.
Intanto si avvicinava il giorno in cui Orlando doveva maritarsi e, secondo un’antica usanza, furono avvertite tutte le ragazze del paese, perché si presentassero a cantare in onore degli sposi.
La fedele fanciulla, quando udì che il suo diletto Orlando stava per sposare un’altra, si rattristò tanto che credette le si spezzasse il cuore, e non voleva andarci; ma alla fine vi fu costretta. Quando toccò a lei cantare, si tirò indietro, finché‚ si trovò a essere l’ultima; allora non potè più sottrarsi e cantò.

Ma all’udirla Orlando saltò in piedi e gridò: -Questa è la vera sposa e non ne voglio altra!-.
Egli l’aveva riconosciuta dalla voce, e tutto ciò che aveva dimenticato gli era ritornato in cuore. Così la fanciulla fedele sposò il suo diletto Orlando, e il dolore si mutò in gioia.

Katie la strega
C’era una volta una bambina di nome Katie. Katie aveva sette anni, e viveva in una bella casa con la sua mamma e il suo papà, il suo fratellino piccolo Joey e un cane chiamato Muffin. Fin qui tutto normale, tranne una cosa: erano streghe… beh, ad eccezione del papà e del fratellino, che non erano streghe, ma maghi. E del cane Muffin, che non era una strega, ma una Cstrega, che sarebbe un cane che lancia incantesimi. Comunque essere una strega non era così male. Alla mamma bastava fare una smorfia col naso, e tutta la casa era in ordine. A papà bastava un gesto del bastone, e il prato si tagliava da sè. A Muffin bastava battere un zampa per riempire la ciotola e far piovere dal cielo un cane con cui giocare. Avevano insegnato qualche magia anche a Katie. Sapeva come fare per ottenere che i compiti si facessero da soli, e riordinava la sua stanza semplicemente toccandosi un orecchio.

C’era solo una cosa che a Katie proprio non piaceva: Halloween.
Una volta all’anno, quando le foglie cadevano dagli alberi, e le notti si facevano più lunghe, tutti i bambini della sua scuola cominciavano a sentirsi eccitati e non parlare d’altro che dei preparativi per la festa. E si preparavano costumi da strega davvero orribili, con nasi storti, verruche, capelli neri e manici di scopa.
Katie aveva provato a spiegare a scuola che si sbagliavano: “Le streghe non sono così! La mia mamma ad esempio è molto bella…”, ma tutti  i bambini si erano messi a ridere. E quando Katie tornò a casa quel giorno, era davvero molto triste. Piangeva e piangeva e piangeva. E quando la mamma le chiese cosa fosse successo, disse: “Tutti odiano le streghe. E soprattutto le odiano a Halloween. “

La mamma cercò di spiegarle che anche se ad alcune persone le streghe non piacciono, era molto bello esserlo, soprattutto quando il detersivo faceva tutto da solo le pulizie di casa.
“Io non voglio più avere niente a che fare con la stregoneria!”, gridò Katie arrabbiata.
La notte di Halloween, tutti i bambini della sua scuola si erano dati appuntamento per il Dolcetto o Scherzetto, ma Katie non voleva andare con loro. Lei aveva deciso che non voleva avere niente a che fare con la stregoneria. Mai, mai, e poi mai ….

Fu la sua mamma a convincerla ad andare, perchè è molto difficile per una strega restare fuori dalla notte di Halloween. Per convincerla le sussurrò qualcosa all’orecchio. Volete sapere cosa? Lo saprete molto presto…
Katie andò a raggiungere gli altri bambini, e alcuni di loro cominciarono a ridere di lei dicendo: “Katie non ha bisogno di travestirsi, perchè lei è già una strega!”. Katie ci restava molto male e si sentiva tanto imbarazzata, ma decise di non dire nulla.
Alla prima casa ricevettero tantissimi dolcetti al limone. Alla seconda, una confezione gigante di caramelle, alla terza pacchi e pacchi di patatine. E alla quarta un pacco gigante di biscotti al cioccolato.
Ma nella quinta casa viveva un uomo chiamato Mister Bones. E a Mister Bones non piacevano i bambini. Certamente non vedeva perchè dovesse essere gentile con loro e regalare dolcetti. “Andate via, stupidi bambini!” urlò quando loro bussarono alla sua porta. “Dolcetto o scherzetto?” gridarono i bambini. “Beh, se per voi è lo stesso, credo che prenderò lo scherzetto” disse Mister Bones, e un sorriso orribile gli si dipinse sul volto “Perchè voi siete soltanto degli stupidi bambini e non mi fate certo paura”.

“Ma uno di noi è una vera strega” disse Amelia, la più grande del gruppo.
“Sì! Sì! Katie è una vera strega” gridarono tutti insieme.
Ma Mister Bones cominciò a ridere senza riuscire a fermarsi. “Questa è la cosa più stupida che abbia mai sentito!”, disse.
Allora Katie fece un passo avanti.
“Non sei così spaventosa” disse il signore “Sei solo una stupida bambina”.
Katie ricordò quello che la mamma le aveva sussurrato all’orecchio: era un incantesimo speciale. Quindi in quel momento, Katie pronunciò le parole magiche toccandosi contemporaneamente un orecchio.
Tutti i bambini rimasero senza fiato per lo stupore: improvvisamente Mr Bones non era più Mr Bones, ma un soffice criceto marroncino, chiuso nella sua gabbietta, e che girava come un matto sulla ruota.

Tutti ridevano a crepapelle. Katie si avvicinò alla gabbia e disse: “E’ divertente essere un criceto, Mr Bones?” La piccola creatura scosse la testa, e Katie diede qualche colpetto alla ruota, per farla muovere ancora più velocemente. Poi recitò le parole magiche e Mr Bones si trasformò di nuovo in essere umano.
“Vado subito a prendervi dei dolcetti” disse, molto velocemente e nervoso. E tornò con tonnellate di barrette di cioccolata, bibite gassate, biscotti…
“E mi raccomando, tornate anche l’anno prossimo: avrò cose ancora più buone per voi.” Quindi tornò dentro casa, spaventatissimo.
Mentre percorrevano il resto della strada, tutti i bambini della città avevano saputo che quella notte c’era con loro una strega vera, e quella notte ricevettero ancora più dolci e biscotti del solito, e anche qualche giocattolo.
Katie divenne la ragazza più popolare della sua classe.
“Sai, forse non è poi così male essere una strega, dopotutto”, disse quando tornò a casa. “E penso che d’ora in poi festeggerò sempre Halloween”.

In viaggio verso il Monte Brocken, Germania
C’era una volta c’era un giovane che si era impegnato a sposare una bella ragazza. Ma presto egli si fece sospettoso sia verso la sua fidanzata, sia verso la madre di lei. E in effetti erano entrambe streghe. Arrivò il giorno in cui tutte le streghe si radunano sul monte Brocken, e le due donne salirono sul fienile, presero una piccola ampolla di vetro, ne bevvero un sorso ognuna, e scomparvero.

Lo sposo, che le aveva seguite nel fienile e si era nascosto a spiarle, fu tentato di bere anche lui dall’ampolla. La raccolse, ne bevve un sorso, e improvvisamente si trovò sul monte Brocken, dove vide la sua fidanzata e sua madre con tutte le altre streghe, che ballavano attorno al diavolo, che stava al centro. Quando la danza si concluse, il diavolo ordinò a tutti di prendere un bicchiere e di bere, e immediatamente tutti volarono via, nelle quatto direzioni del vento.

Lo sposo si ritrovò solo sull’alta vetta, e rischiava di morire congelato, perchè era una notte molto fredda. Non aveva portato l’ampolla con sè, quindi non restava altro da fare che scendere dal monte a piedi. La discesa fu lunga e faticosa, ma finalmente riuscì a tornare dalla fidanzata.
Appena tornato, la sua fidanzata era molto arrabbiata con lui, ed anche la madre lo rimproverò severamente per aver bevuto dall’ampolla. Così madre e figlia decisero insieme di trasformare il giovane in asino.
Il povero sposo ora era un asino, e si trascinava infelice da una casa all’altra del villaggio, piangendo il suo triste: “Ih ohhh, Ih ohhh”…

Un uomo ebbe molta pena di lui, lo portò nella sua stalla, e gli offrì un po’ di fieno, ma naturalmente l’asino non voleva mangiare fieno, e fu così cacciato a calci.
Girovagò ancora a lungo, e un giorno decise di tornare alla casa della sua fidanzata, la strega. Arrivò davanti alla porta, e si mise a ragliare lamentosamente. La fidanzata, comprendendo che si trattava del suo ex sposo, e vedendolo così mal ridotto, con la testa bassa e le orecchie in giù, si pentì di quello che aveva fatto e disse: “Io ti aiuterò, ma tu devi fare esattamente come ti dico. Appena ci sarà al villaggio il battesimo di un bambino, tu devi fare in modo che un po’ dell’acqua battesimale ti bagni la schiena e così sarai di nuovo trasformato da asino ad essere umano”.

L’asino seguì le indicazioni della fidanzata. La domenica successiva, c’era un battesimo. L’asino si mise davanti alla porta della chiesa e aspettò. Quando la cerimonia terminò, il sagrestano si fece sulla porta per gettare l’acqua avanzata, ma c’era l’asino a sbarrargli la strada. “Vattene, vecchio asino!” gridò il sagrestano, ma l’asino non si mosse. Allora il sagrestano si arrabbiò e versò l’acqua sulla schiena della bestia.
Immediatamente l’asino tornò un essere umano. Corse dalla sua fidanzata, la sposò, e visse con lei per sempre, felice e contento.

Una storia di fantasmi dell’Alabama
Il vecchio agricoltore Sam Gibb non credeva ai fantasmi. Neanche un po ‘. Tutti in città parlavano di una vecchia casetta nel bosco e ne erano ossessionati, dicevano fosse stregata, ma Sam Gibb si limitava a ridere ogni volta che la gente ne parlava.
Così un giorno il fabbro sfidò Sam Gibb a passare una notte da solo nella casetta stregata: se fosse rimasto lì fino all’alba, il fabbro gli avrebbe comprato un intero carro di angurie.

Sam era felice: l’anguria era il  suo frutto preferito, e ne era golosissimo. Così accettò, si armò di coraggio, di tabacco e di pipa, e si diresse verso la casetta nel bosco, per trascorrervi la notte.
Entrò in quella che era null’altro che una vecchia capanna di legno, accese il fuoco nel camino, sì accese la pipa, e si accomodò su di una vecchia sedia a dondolo, con il giornale del giorno prima.

Mentre leggeva, sentì uno scricchiolio… alzò lo sguardo dal giornale e vide che una piccola creatura scura e ruvida, con gli occhi rossi incandescenti, stava seduta su una sedia accanto a lui. Aveva una lunga coda biforcuta, due corna sulla sua testa, artigli al posto delle unghie, e denti aguzzi che spuntavano attraverso le sue grandi labbra.
“Non c’è nessuno qui stasera, tranne te e me,” disse la creatura al vecchio Sam Gibb. Aveva una voce simile al sibilo delle fiamme.

Il cuore di Sam quasi smise di battere dalla paura.
Balzò in piedi e rispose: “Tra un minuto qui non ci sarà più nessuno!” e si gettò sulla prima apertura della stanza che potesse portare all’esterno: la finestra. Così nella foga di scappare pestò la coda della creatura. Sam Gibb correva così veloce che superò due conigli inseguiti da un coyote. Ma nonostante questo, non passò molto tempo prima di sentire il battere di piccoli zoccoli sul terreno, e la creatura scura con gli occhi rossi lo aveva già catturato.
“Per essere un vecchio, hai una buona velocità nella corsa” disse la creatura.
“Oh, ma posso correre molto più veloce di così!” gli rispose Sam Gibb. E dicendolo si divincolò e riprese a correre come un fulmine, lasciando la creatura nella polvere.
Correndo passò davanti alla fucina. Il fabbro era venuto fuori per vedere da dove venisse quello strano rumore che si sentiva. “Non importa per i cocomeriiiiii” gridò Sam Gibb senza rallentare la sua corsa folle.
Il vecchio Sam Gibb corse fino a casa e si nascose sotto il letto per il resto della notte. Dopo di che, divenne un convinto sostenitore dell’esistenza dei fantasmi, e si rifiutò di andare da qualunque parte si trovasse vicina alla vecchia casa nel bosco.

Il mostro di Bear Lake
Se andate a Bear Lake, nello Utah, in una giornata tranquilla, vi potrà capitare di  intravedere il mostro. Questo essere si presenta come un enorme serpente marrone, ed è lungo quasi 90 metri. Ha le orecchie che sporgono ai due lati della testa magra, e una bocca abbastanza grande da mangiare un uomo.
Secondo alcuni, ha piccole gambe che si muovono velocissime quando si avventura sul terreno. Ma in acqua, attenzione! Può nuotare più veloce di un cavallo al galoppo:  fa un miglio al minuto, nelle giornate buone.
A volte il mostro si diverte nascondersi vicino ai nuotatori e a soffiare acqua contro di loro, e quelli che non corrono al più presto a riva, li mangia.

Ho sentito un taglialegna raccontare di aver avvistato il mostro una sera, mentre camminava lungo le rive del lago, e di aver provato a sparargli col suo fucile. L’uomo era un ottimo tiratore, ma non uno dei suoi proiettili ha toccato quel mostro.
Spaventato si è dato a correre come un fulmine ed è arrivato a casa più veloce che poteva. Nella cosa perse il fucile, e l’uomo sostiene di aver visto il mostro mangiarglielo.
A volte, dopo che il mostro è rimasto tranquillo per un periodo abbastanza lungo, la gente comincia a dire che se ne è andato via per sempre.

Alcune persone, anche, ripescano un vecchio racconto che narra di come Pecos Bill, dopo aver sentito parlare del mostro di Bear Lake, scommise con alcuni mandriani che lo avrebbe sconfitto. Secondo le dicerie popolari, la lotta durò per giorni,  e tutto intorno a Bear Lake si generò un uragano. Alla fine, Bill si gettò il mostro su una spalla e volò via alla ricerca del posto più lontano che poteva trovare al mondo, gettandolo infine a Loch Ness, dove il mostro vive ancora oggi.

Il messaggio del gatto nero
Sono tornato a casa tardi la sera dopo il lavoro e ho trovato mia moglie Ethel in cucina con una grossa gatta gialla alle calcagna.
“E chi è questa?” chiesi gioviale. “Questa è la nostra nuova gatta,” disse Ethel, dandomi un abbraccio e un bacio per darmi il benvenuto a casa.
“E’ apparsa davanti alla porta della cucina e voleva entrare. Nessuno dei vicini sapeva da dove veniva, quindi credo che sia nostra. Sarà bello avere un po ‘di compagnia in casa. “
Mi chinai e diedi una grattatina sotto il mento alla gattina gialla, che fece le fusa e si stirò. “Beh, credo che il nostro reddito può bastare anche per sfamare una bocca in più”,” dissi.

Mio figlio aveva ormai ereditato il mio lavoro, e mia moglie ed io ci stavamo godendo una piacevole vecchiaia. Però mi piaceva tenermi occupato, e così dedicavo un paio d’ore al giorno al taglio e al trasporto della legna che serviva al mulino.
Sono andato a mungere la mucca, e quando sono tornato, Ethel aveva dato alla gatta un po’ di panna in un piattino.
Ci siamo seduti sulla veranda dopo cena, e la gatta si è seduta con noi. “Sei una bella gattina,” dissi. E lei fece le fusa.
“Donald…”, disse Ethel: sembrava preoccupata. Mi voltai a guardarla. “I vicini hanno reagito in modo piuttosto strano quando ho detto loro della gatta. Loro pensano che si tratti di un fantasma o una strega, o un essere del genere trasformato in un gatto e mi hanno detto di sbarazzarsi di lei.”

“Una strega?” chiesi, e risi di cuore. “Sei una strega, gattina?” La gatta sbadigliò e si stirò. E non del tutto convinta, anche Ethel si mise a ridere con me. Siamo rimasti seduti a guardare il tramonto, poi abbiamo deciso di andare a dormire.
La gatta è diventata rapidamente una membro della nostra famiglia. Ogni mattina, appena svegli, ci faceva le fusa e ogni volta che tornavo dalla stalla supplicava un po’ di panna. Durante il giorno seguiva Ethel per tutta la casa, come a supervisionare il suo lavoro, e di notte sedeva accanto al fuoco, mentre noi leggevamo ad alta voce.
I giorni cominciarono ad accorciarsi, man mano che l’autunno si avvicinava, e spesso capitava che io restassi fuori fino al tramonto per il taglio e il trasporto della legna al mulino.
Una notte nel mese di ottobre, non avevo terminato di caricare la legna che già si stava scendendo buio. Quindi mi affrettai come potei e iniziai a prendere la via del ritorno, nella speranza di tornare a casa prima che calasse del tutto la notte, perchè non avevo portato con me la lanterna.

Dietro una curva vidi un gruppo di gatti neri in piedi in mezzo alla strada. Erano quasi invisibili nella crescente oscurità. Mentre mi avvicinavo, mi accorsi che portavano una barella. Mi fermai e mi strofinai gli occhi. Era impossibile. Quando guardai di nuovo, però,  la barella era ancora lì, e c’era un gatto morto sopra.
Rimasi sbalordito. “Deve essere uno scherzo della luce”, pensai tra me e me.
Poi uno dei gatti gridò: “Signore, informi zia Kan che Polly Grundy è morta.”
La bocca mi si spalancò, ero in stato di shock. Scossi la testa non potendo credere alle mie orecchie. “Che cosa ridicola!”, pensai, “I gatti non parlano”.

Mi affrettai e passai oltre l’incredibile corteo funebre, facendo attenzione a guardare da un’altra parte. “Devo essere lavorato troppo”, mi dissi. Ma non potevo fare a meno di chiedermi: “Ma chi è la zia Kan? E perché quel gatto vuole che io dica a questa zia Kan che Polly Grundy è morta? Polly Grundy è forse il gatto sulla barella?”
Improvvisamente, mi trovai di fronte un piccolo gatto nero. Era lì, dritto di fronte a me. Mi fermai lo guardai, e anche lui mi guardava con i suoi  grandi occhi verdi che sembravano brillare nella luce morente.
“Ho un messaggio per la zia Kan,” disse il gatto. “Dille che Polly Grundy è morta.”

Detto questo, il gatto tornò indietro, a raggiungere il corteo che avevo superato.
Ero completamente sconcertato. Era una cosa inquietante: gatti parlanti e una Polly Grundy morta. E chi era la zia Kan?
Mi affrettai, camminando più veloce che potevo. Intorno a me, il bosco era sempre più buio. Non volevo restare in quel posto buio, per di più con dei gatti parlanti! Non che io credessi davvero che i gatti avevano parlato. “E ‘stato tutto uno strano sogno a occhi aperti causato dal troppo lavoro”, mi dicevo ancora.
Dietro di me, però, sentii distintamente i gatti gridarmi in coro: “Vecchio! Ricordati di dire alla zia Kan che Polly Grundy è morta! “
Non ne potevo più. Accelerai ancor di più il passo, e non mi fermai fino a quando non raggiunsi la sicurezza della mia veranda. E solo lì mi fermai a riprendere fiato. Non volevo spiegare a Ethel che vedendo e sentivo cose impossibili: di sicuro avrebbe chiamato il medico.

Quando mi fui  sufficientemente ricomposto, entrai in casa e cercai di agire normalmente, anche se avrei dovuto sapere che non avrebbe funzionato. Ethel e io eravamo sposati da 30 anni, e mi conosceva dentro e fuori. Lei non disse nulla fino a che non terminai tutte le mie solite faccende serali. Poi portò in tavola la cena, e ci sedemmo a mangiare davanti al fuoco acceso.  Dopo qualche boccone mi disse: “Dimmi tutto, Donald.”
“Non voglio preoccuparti,” risposi io, riluttante a parlare di ciò che avevo visto e sentito sulla via del ritorno, poco prima.
La gatta gialla se ne stava sdraiata accanto al fuoco. Alzò lo sguardo quando sentì la mia voce, e venne a sedersi accanto alla mia sedia. Io le offrii un boccone di cibo, che lei accettò con grazia.
“Mi preoccupo di più se non mi dici nulla,” disse Ethel.
“Penso che forse c’è qualcosa di sbagliato nel mio cervello,” risposi io, lentamente. “Mentre stavo tornando a casa, mi è sembrato di vedere un gruppo di gatti neri che trasportavano una barella con un gatto morto sopra. Poi ho creduto di sentire i gatti parlare con me. Mi hanno chiesto di dire a zia Kan che Polly Grundy è morta. “
La gatta gialla balzò sul davanzale della finestra gridando: “Polly Grundy è morta? Allora io sono la Regina delle Streghe!”

Rizzò la coda, e la finestra si spalancò di botto, poi spiccò un salto e scomparve nella notte, per non tornare mai più.
Svenni dalla paura, ed Ethel ha dovuto rovesciarmi un intero secchio d’acqua sulla testa per farmi riprendere.
‘La buona notizia “, mi ha detto quando rinvenni, ” è che non c’è niente di sbagliato nel tuo cervello. La cattiva notizia è che il nostro gatto ci ha appena lasciati per diventare la Regina delle Streghe. Dovremo trovare un altro gatto. “
“Oh no,” dissi subito. “Ne ho abbastanza dei gatti.”
Abbiamo preso un cane. 

Ucceltrovato
C’era una volta un guardaboschi che andò a caccia nella foresta e, come vi giunse, gli sembrò di sentir gridare un bambino piccolo. Seguì la direzione delle grida e giunse infine a un grande albero sul quale vi era un piccino. La madre si era addormentata con il bambino in grembo ai piedi dell’albero e un uccello rapace l’aveva visto, gli era piombato addosso e, presolo nel becco, l’aveva portato sull’albero.
Il guardaboschi salì a prenderlo e pensò: “Porterai il bambino a casa e lo alleverai insieme alla tua Lena-. Lo portò a casa e i due bambini crebbero insieme. Ma quello che avevano trovato sull’albero e che era stato rapito da un uccello fu chiamato Ucceltrovato. Ucceltrovato e Lena si volevano bene, tanto ma tanto che, se non si vedevano, diventavano tristi.

Ma il guardaboschi aveva una vecchia cuoca che una sera prese due secchi e incominciò a recarsi alla fonte; ma non ci andò una volta sola, bensì più volte. Lena la vide e disse: -Senti un po’, vecchia, perché‚ porti tanta acqua?-. -Se non lo dici a nessuno, te lo dirò.- E quando Lena promise che non l’avrebbe detto a nessuno, la cuoca rispose: -Domattina presto, quando il guardaboschi sarà a caccia, scalderò l’acqua; e quando bollirà ci butterò dentro Ucceltrovato per farlo cuocere-.

La mattina dopo il guardaboschi si alzò di buon’ora per andare a caccia. Quando fu uscito i bambini erano ancora a letto, e Lena disse a Ucceltrovato: -Se non mi lasci, neppure io ti lascerò-. Ucceltrovato rispose: -Ne ora ne mai-. Allora Lena disse: -Ti dirò che ieri sera la vecchia portava in casa tanti secchi d’acqua; allora le chiesi perché‚ e lei mi rispose che me l’avrebbe detto se io non l’avessi rivelato a nessuno. Io promisi che non avrei fiatato con nessuno, allora ella disse che questa mattina, dopo che il babbo fosse partito per la caccia, intendeva far bollire il paiolo, buttarti dentro e cuocerti. Alziamoci, presto, vestiamoci e scappiamo insieme-. Così i due bambini si alzarono, si vestirono in fretta e scapparono.

Quando l’acqua bollì in pentola, la cuoca andò nella camera da letto per prendere Ucceltrovato e buttarvelo dentro. Ma quando entrò e si avvicinò ai letti, i bambini non c’erano più; allora le venne una gran paura e disse fra sè: -Cosa dirò mai, quando il guardaboschi torna a casa e vede che non ci sono più i bambini? Presto, bisogna rincorrerli e riacciuffarli!-.
La cuoca mandò tre servi a inseguire di corsa i bambini. Ma questi erano seduti al margine del bosco e, quando videro i tre servi venire di corsa da lontano, Lena disse a Ucceltrovato: -Se non mi lasci, neppure io ti lascerò-. E Ucceltrovato rispose: -Ne ora ne mai-. Allora Lena disse: -Diventa un rosaio e io una rosellina!-. E quando i tre servi arrivarono davanti al bosco, non c’era che un rosaio con una rosellina, ma di bambini neanche l’ombra. Allora dissero: -Qui non c’è niente da fare- e se ne ritornarono a casa dicendo alla cuoca che non avevano visto nient’altro che un rosaio e una rosellina.

Allora la vecchia li rimproverò aspramente e disse: -Babbei! Avreste dovuto spezzare il rosaio, cogliere la rosellina e portarla a casa: sbrigatevi a farlo!-.
Così, per la seconda volta, i servi dovettero andare a cercarli. Ma i bambini li videro venir da lontano e Lena disse: -Ucceltrovato, se non mi lasci, neppure io ti lascerò!-. E Ucceltrovato rispose: -Ne ora ne mai!-. Allora Lena disse: -Diventa una chiesa, e io la lumiera!-. Quando giunsero i tre servi, non c’era altro che una chiesa e, dentro, una lumiera. Dissero fra loro: -Cosa stiamo a fare qui? Torniamocene a casa!-.
Quando furono a casa la cuoca domandò se non avessero trovato nulla, ed essi risposero che no, null’altro che una chiesa con dentro una lumiera. -Stupidi!- urlò la cuoca -Perché non avete distrutto la chiesa e portato a casa la lumiera?-

Questa volta la vecchia cuoca si mise lei stessa in cammino e andò alla ricerca dei bambini con i tre servi. Ma i bambini videro venire di lontano i tre servi con la cuoca che barcollava dietro a loro. Allora Lena disse: -Ucceltrovato, se non mi lasci, neppure io ti lascerò!-. E Ucceltrovato rispose: -Ne ora ne mai!-. Disse Lena: -Diventa uno stagno e io l’anitra nello stagno-. Quando la cuoca arrivò e vide lo stagno, si distese sulla riva e voleva berlo tutto. Ma l’anitra accorse a nuoto, la prese con il becco per la testa e la tirò in acqua: e così la vecchia strega dovette annegare.
Poi i bimbi se ne tornarono a casa tutti contenti e, se non sono morti, sono ancora viventi.

Un Halloween australiano
Questa storia è accaduta qualche anno fa, il 31 ottobre, a Brisbane. E anche se sembra un racconto di Alfred Hitchcock, è una storia vera.
John Bradford, uno studente dell’Università di Sydney, stava facendo un’escursione a piedi, quando fu sorpreso da un temporale improvviso. Si stava facendo anche buio, quindi decise di spostarsi sulla strada principale sperando di trovare un passaggio. Camminava faticosamente, ma non passava nemmeno un’auto, e il temporale era così forte che non riusciva a vedere a pochi metri da sè. Finalmente vide una macchina venire lentamente verso di lui. L’auto fortunatamente si fermò subito, e John vi montò dentro, senza nemmeno pensarci. Salì, chiuse la portiera, e solo allora si rese conto che non c’era nessuno al volante e l’auto si muoveva, ma il motore era spento!

L’auto si muoveva lentamente. John guardò la strada, e vide che si stava avvicinando una curva. Spaventato,iniziò a pregare, implorando per la propria vita. Poi, poco prima della curva, una mano sbucò dal finestrino e girò il volante.
John, paralizzato dal terrore, osservava come la mano apparisse ogni volta c’era una curva, per poi sparire nel nulla.
Quando vide in lontananza le luci di un pub brillare nella notte, raccolse tutte le sue forze, aprì la portiera e si gettò fuori dall’auto. Bagnato fino alle ossa e senza fiato, arrivò al pub, vi si gettò dentro e chiese due bicchieri di tequila. Poi iniziò a raccontare la terribile avventura che gli era capitata.
Si fece il silenzio più totale, quando tutti nel pub si resero conto che il ragazzo stava piangendo… e non era ubriaco.
Circa 15 minuti più tardi, altri due ragazzi entrarono nel pub, anch’essi fradici di pioggia e senza fiato.
Si guardarono intorno, videro John Bradford che ancora stava singhiozzando, e uno disse all’altro: ‘Guarda, Bruce. C’è l’idiota che ci è salito in macchina mentre la stavamo spingendo!”.

I musicanti di Brema
Un uomo aveva un asino che lo aveva servito assiduamente per molti anni; ma ora le forze lo abbandonavano e di giorno in giorno diveniva sempre più incapace di lavorare. Allora il padrone pensò di toglierlo di mezzo, ma l’asino si accorse che non tirava buon vento, scappò e prese la via di Brema: là, pensava, avrebbe potuto fare parte della banda municipale.

Dopo aver camminato un po’, trovò un cane da caccia che giaceva sulla strada, ansando come uno sfinito dalla corsa. “Perché‚ soffi così?” domandò l’asino. “Ah,” rispose il cane, “siccome sono vecchio e divento ogni giorno più debole e non posso più andare a caccia, il mio padrone voleva accopparmi, e allora me la sono data a gambe; ma adesso come farò a guadagnarmi il pane?” – “Sai?” disse l’asino. “Io vado a Brema a fare il musicante, vieni anche tu e fatti assumere nella banda.” Il cane era d’accordo e andarono avanti.

Poco dopo trovarono per strada un gatto dall’aspetto molto afflitto. “Ti è andato storto qualcosa?” domandò l’asino. “Come si fa a essere allegri se ne va di mezzo la pelle? Dato che invecchio, i miei denti si smussano e preferisco starmene a fare le fusa accanto alla stufa invece di dare la caccia ai topi, la mia padrona ha tentato di annegarmi; l’ho scampata, è vero, ma adesso è un bel pasticcio: dove andrò?” – “Vieni con noi a Brema: ti intendi di serenate, puoi entrare nella banda municipale.” Il gatto acconsentì e andò con loro.

Poi i tre fuggiaschi passarono davanti a un cortile; sul portone c’era il gallo del pollaio che strillava a più non posso. “Strilli da rompere i timpani,” disse l’asino, “che ti piglia?” – “Ho annunciato il bel tempo,” rispose il gallo, “perché‚ è il giorno in cui la Madonna ha lavato le camicine a Gesù Bambino e vuol farle asciugare; ma domani, che è festa, verranno ospiti, e la padrona di casa, senza nessuna pietà, ha detto alla cuoca che vuole mangiarmi lesso, così questa sera devo lasciarmi tagliare il collo. E io grido a squarciagola finché‚ posso.” – “Macché‚ Cresta rossa,” disse l’asino, “vieni piuttosto con noi, andiamo a Brema; qualcosa meglio della morte lo trovi dappertutto; tu hai una bella voce e, se faremo della musica tutti insieme, sarà una bellezza!” Al gallo piacque la proposta e se ne andarono tutti e quattro.

Ma non potevano raggiungere Brema in un giorno e la sera giunsero in un bosco dove si apprestarono a passare la notte. L’asino e il cane si sdraiarono sotto un albero alto, mentre il gatto e il gallo salirono sui rami, ma il gallo volò fino in cima, dov’egli era più al sicuro. Prima di addormentarsi guardò ancora una volta in tutte le direzioni, e gli parve di vedere in lontananza una piccola luce, così gridò ai compagni che, non molto distante, doveva esserci una casa poiché‚ splendeva un lume. Allora l’asino disse: “Mettiamoci in cammino e andiamo, perché‚ qui l’alloggio è cattivo.” E il cane aggiunse: “Sì, un paio d’ossa e un po’ di carne mi andrebbero anche bene!” Perciò si avviarono verso la zona da cui proveniva la luce e, ben presto, la videro brillare più chiara e sempre più grande, finché‚ giunsero davanti a una casa bene illuminata dove abitavano i briganti.

L’asino, che era il più alto, si avvicinò alla finestra e guardò dentro. “Cosa vedi, testa grigia?” domandò il gallo. “Cosa vedo?” rispose l’asino. “Una tavola apparecchiata con ogni ben di Dio e attorno i briganti che se la spassano.” – “Farebbe proprio al caso nostro,” disse il gallo. “Sì, sì; ah, se fossimo là dentro!” esclamò l’asino. Allora gli animali tennero consiglio sul modo di cacciar fuori i briganti, e alla fine trovarono il sistema. L’asino dovette appoggiarsi alla finestra con le zampe davanti, il cane saltare sul dorso dell’asino, il gatto arrampicarsi sul cane, e infine il gallo si alzò in volo e si posò sulla testa del gatto. Fatto questo, a un dato segnale incominciarono tutti insieme il loro concerto: l’asino ragliava, il cane abbaiava, il gatto miagolava e il gallo cantava; poi dalla finestra piombarono nella stanza facendo andare in pezzi i vetri. I briganti, spaventati da quell’orrendo schiamazzo, credettero che fosse entrato uno spettro e fuggirono atterriti nel bosco. I quattro compagni sedettero a tavola, si accontentarono di quello che era rimasto e mangiarono come se dovessero patir la fame per un mese.

Quando ebbero finito, i quattro musicisti spensero la luce e si cercarono un posto per dormire comodamente, ciascuno secondo la propria natura. L’asino si sdraiò sul letamaio, il cane dietro la porta, il gatto sulla cenere calda del camino e il gallo si posò sulla trave maestra; e poiché‚ erano tanto stanchi per il lungo cammino, si addormentarono subito. Passata la mezzanotte, i briganti videro da lontano che in casa non ardeva più nessun lume e tutto sembrava tranquillo; allora il capo disse: “Non avremmo dovuto lasciarci impaurire” e mandò uno a ispezionare la casa. Costui trovò tutto tranquillo andò in cucina ad accendere un lume e, scambiando gli occhi sfavillanti del gatto per carboni ardenti, vi accostò uno zolfanello perché‚ prendesse fuoco. Ma il gatto se n’ebbe a male e gli saltò in faccia, sputando e graffiando. Il brigante si spaventò a morte e tentò di fuggire dalla porta sul retro, ma là era sdraiato il cane che saltò su e lo morse a una gamba; e quando attraversò dl corsa il cortile, passando davanti al letamaio, l’asino gli diede un bel calcio con la zampa di dietro; e il gallo, che si era svegliato per il baccano, strillò tutto arzillo dalla sua trave: “Chicchiricchì!” Allora il brigante tornò dal suo capo correndo a più non posso e disse: “Ah, in casa c’è un’orribile strega che mi ha soffiato addosso e mi ha graffiato la faccia con le sue unghiacce e sulla porta c’è un uomo con un coltello che mi ha ferito alla gamba; e nel cortile c’è un mostro nero che mi si è scagliato contro con una mazza di legno; e in cima al tetto il giudice gridava: ‘Portatemi quel furfante!’ Allora me la sono data a gambe!” Da quel giorno i briganti non si arrischiarono più a ritornare nella casa, ma i quattro musicanti di Brema ci stavano così bene che non vollero andarsene. E a chi per ultimo l’ha raccontata ancor la bocca non s’è freddata.

La figlia del sole
A un Re e a una Regina, finalmente, dopo averlo tanto aspettato, stava per nascere un bambino. Chiamarono gli astrologhi per sapere se sarebbe nato un maschio o una femmina, e qual era il so pianeta. Gli astrologhi guardarono le stelle e dissero che nascerebbe una bambina, e che era destinata a far innamorare di sè il Sole prima di compiere i vent’anni, e ad avere dal Sole una figlia. Il Re e la Regina, a sapere che la loro figlia avrebbe avuto una figlia dal Sole, che sta in cielo e non si può sposare, ci rimasero male. E per trovare un rimedio a quella sorte, fecero costruire una torre con finestre così alte che il Sole stesso non potesse arrivare fino in fondo. La bambina fu chiusa lì dentro con la balia, perchè stesse fino ai vent’anni senza vedere il Sole nè esser da lui vista.

La balia aveva una figlia della stessa età della figlia del Re, e le due bambine crebbero insieme nella torre. Avevano quasi vent’anni quando un giorno, parlando delle belle cose che dovevano esserci al mondo fuori da quella torre, la figlia della balia disse: “E se cercassimo di arrampicarci alle finestre mettendo una sedia sopra l’altra? Vedremmo un po’ cosa c’è fuori!”

Detto fatto, fecero una catasta di sedie così alta che riuscirono ad arrivare alla finestra. S’affacciarono e videro gli alberi e il fiume e gli aironi in volo, e lassù le nuvole, e il Sole. Il Sole vide la figlia del Re se ne innamorò e le mandò un suo raggio. Dal momento in cui quel raggio la toccò, la ragazza attese di dare alla luce la figlia del Sole.
La figlia del Sole nacque nella torre, e la balia, che temeva la collera del Re, la avvolse ben bene con fasce d’oro da regina, la portò in un campo di fave e ve l’abbandonò. Di lì a poco la figlia del Re compì i vent’anni, e il padre la fece uscire dalla torre, pensando che il pericolo fosse passato. E non sapeva che tutto era già successo, e la bambina del Sole e di sua figlia in quel momento stava piangendo, abbandonata in un campo di fave.

Da quel campo passò un altro Re che andava a caccia: sentì i vagiti, e si impietosì di quella bella creaturina lasciata tra le fave. La prese con sè e la portò da sua moglie. Le trovarono una balia e la bambina fu allevata a palazzo come fosse figlia di quel Re e di quella Regina, insieme al loro figlio, più grandetto di lei ma di poco.
Il ragazzo e la ragazza crebbero insieme e, divenuti grandi, finirono per innamorarsi. Il figlio del Re voleva a tutti i costi averla in sposa, ma il Re non voleva che suo figlio sposasse una ragazza abbandonata e la fece andar via da palazzo confinandola in una casa lontana e solitaria, con la speranza che suo figlio la scordasse. Non s’immaginava nemmeno che quella ragazza era la figlia del Sole, ed era fatata e sapeva tutte le arti che gli uomini non sanno.

Appena la ragazza fu lontana, il Re cercò una fidanzata di famiglia reale per il figlio e combinarono le nozze.
Il giorno delle nozze, furono mandati i confetti a tutti i parenti, amici e familiari, e siccome nell’elenco dei parenti, amici e familiari c’era anche quella ragazza trovata nel campo delle fave, andarono gli Ambasciatori a portare i confetti anche a lei.
Gli Ambasciatori bussarono. La figlia del Sole scese ad aprire, ma era senza testa. “Oh, scusate” disse, “mi pettinavo, e ho dimenticato la testa sulla toletta. Vado a prenderla”. Andò su con gli Ambasciatori, si rimise la testa sul collo e sorrise.

“Cosa vi do, per regalo di nozze?” disse; e portò gli Ambasciatori in cucina. “Forno, apriti!” disse, e il forno s’aprì. La figlia del Sole fece un sorriso agli Ambasciatori. “Legna, va’ nel forno!” e la legna prese e andò nel forno. La figlia del Sole sorrise ancora agli Ambasciatori, poi disse: “Forno accenditi a quando sei caldo chiamami!” Si voltò agli Ambasciatori e disse: “Allora, cosa mi raccontate di bello?”
Gli Ambasciatori, coi capelli ritti sul capo, pallidi come morti, stavano cercando di ritrovar parola, quando il forno gridò: “Sora padrona!”

La figlia del Sole disse: “Aspettate,” ed entrò nel forno rovente con tutto il corpo, ci si voltò dentro, tornò fuori e aveva in mano un bel pasticcio ben cotto e dorato. “Portatelo al Re per il pranzo di nozze”.
Quando gli Ambasciatori giunsero a palazzo, con gli occhi fuor dalle orbite, e raccontarono con un fil di voce le cose che avevano viste, nessuno ci voleva credere. Ma la sposa, ingelosita di quella ragazza (tutti sapevano che era stata l’innamorata del suo sposo) disse: “Oh, sono cose che facevo sempre anch’io, quand’ero a casa”.
“Bene,” disse lo sposo, “allora le farai anche qui per noi”.

“Eh, sì, certo, vedremo,” cercava di dire la sposa, ma lui la condusse subito in cucina.
“Legna, va’ nel forno,” diceva la sposa, ma la legna non si muoveva. “Fuoco, accenditi,” ma il forno restava spento. Lo accesero i servitori, e quando fu caldo, questa sposa era tanto orgogliosa che volle entrarci dentro. Non d’era ancora entrata che era già morta bruciata.

Dopo un po’ di tempo, il figlio del Re si lasciò convincere a prendere un’altra moglie. Il giorno delle nozze, gli Ambasciatori tornarono dalla figlia del Sole a portarle i confetti. Bussarono, e la figlia del Sole, invece d’aprire la porta, passò attraverso il muro e venne fuori. “Scusate,” disse, “c’è la porta che non s’apre dal di dentro. Mi tocca sempre passare attraverso il muro e aprirla da fuori. Ecco, ora potete entrare”.
Li portò in cucina e disse: “Allora, che cosa preparo di bello, al figlio del Re che si sposa? Su, su, legna, va’ nel fuoco! Fuoco, accenditi!” E tutto fu fatto in un attimo, davanti agli Ambasciatori che sudavano freddo.
“Padella, va’ sul fuoco! Olio, va’ nella padella! E quando friggi chiamami!”

Dopo poco l’olio chiamò: “Sora padrona, friggo!”
“Eccomi,” fece sorridendo la figlia del Sole, mise le dita nell’olio bollente e le dita si trasformarono in pesci: dieci dita, dieci pesci fritti bellissimi, che la figlia del Sole incartò lei stessa perchè intanto le dita le erano ricresciute, e diede agli Ambasciatori sorridendo.
La nuova sposa, quando intese il racconto degli Ambasciatori stupefatti, anche lei gelosa e ambiziosa, cominciò a dire: “Uh, bella roba, vedeste io, che pesci faccio!”
Lo sposo la prese in parola e fece preparare la padella con l’olio bollente. Quella superba ci cacciò le dita e si scotto così forte che le venne male e morì.
La Regina madre se la prese con gli Ambasciatori: “Ma che storie venite a raccontare! Fate morire tutte le spose!”
Comunque, trovarono una terza sposa al figlio e il giorno delle nozze tornarono gli Ambasciatori a portare i confetti.

“Uh, uh, sono qui!” disse la figlia del Sole quando bussarono. Si guardarono intorno e la videro per aria. “Facevo quatto passi su una tela di ragno. Ora scendo,” e scese giù per la tela d’un ragno a prendere i confetti.
“Stavolta, davvero, non so che regalo fare,” disse. Ci pensò su, poi chiamò: “Coltello, vieni qui!” Venne il coltella, lei lo prese e si tagliò un orecchio. Attaccata all’orecchio c’era una trina d’oro che le veniva fuori dalla testa, come fosse aggomitolata nel cervello e lei continuava a cavarla fuori che sembrava non finisse mai. Finì la trina, e lei si rimise a posto l’orecchio, gli diede un colpettino col dito e tornò come prima.
La trina era tanto bella che a Corte tutti volevano sapere da dove veniva, e gli Ambasciatori, nonostante il divieto della Regina madre, finirono per raccontare la storia dell’orecchio.
“Uh,” fece la nuova sposa, “io ho guarnito tutti i miei vestiti di trine che mi facevo a quella maniera”.
“Te’ il coltello, prova un po’!” le fece lo sposo.

E quella scriteriata si tagliò un orecchio: invece della trina le venne fuori un lago di sangue, tanto che morì.
Il figlio del Re continuava a perdere mogli, ma era sempre più innamorato di quella ragazza. Finì per ammalarsi, e non rideva più nè mangiava; non si sapeva come farlo vivere.
Mandarono a chiamare una vecchia maga che disse: “Bisogna fargli prendere una pappa d’orzo, ma d’un orzo che in un’ora sia seminato, nasca, sia colto e se ne faccia la pappa.
Il Re era disperato perchè orzo così non ne n’era mai visto. Allora pensarono a quella ragazza che sapeva fare tante cose meravigliose e la mandarono a chiamare.
“Sì, sì, orzo così e così, ho capito,” disse lei, e detto fatto, seminò l’orzo, l’orzo nacque, crebbe, lo colse, e ne fece una papa prima ancora che fosse passata un’ora.

Volle andare lei in persona a porgere la pappa al figlio del Re che se ne stava a letto a occhi chiusi. Ma era una pappa cattiva, e appena lui ne ebbe inghiottito un cucchiaio lo sputò e finì in un occhio della ragazza.
“Come? A me sputi in un occhio la pappa d’orzo, a me figlia del Sole, a me nipote di Re?”
“Ma tu sei la figlia del sole?” disse il Re che era lì vicino.
“Io sì”
“E sei nipote di Re?”
“Io sì”
“E noi che ti credevamo trovatella! Allora puoi sposare nostro figlio!”
“Certo che posso!”
Il figlio del Re guarì all’istante e sposò la figlia del Sole che da quel giorno diventò una donna come tutte le altre e non fece più cose strane.

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Fonti:

Fiabe italiane, raccolte da Italo Calvino, 3 volumi, edizioni Oscar Mondadori

http://www.grimmstories.com

http://www.bellaonline.com

http://www.history.com

http://www.pumpkinnook.com

http://www.hauntedbay.com

http://www.guy-sports.com

http://americanfolklore.net

http://www.storynory.com

Racconto illustrato LA STELLA MELA

Racconto illustrato LA STELLA MELA con quattro proposte di esercizi di acquarello steineriano guidato per accompagnare il racconto, con tutorial. E’ un racconto adatto sia all’autunno, sia alla seconda settimana di avvento.

LA MELA STELLA

C’era una volta un giovane, piccolo melo, che ogni notte alzava il suo sguardo verso il cielo , innamorato della bellezza delle stelle. E ogni notte cantava per loro il suo canto d’amore.

tutorial 1

Oh, come desiderava salire lassù, come desiderava toccare una stella, come sognava prenderne una e tenerla sempre con sè! Una sola piccola stella era tutto ciò che sognava, una piccola stella da proteggere, abbracciare, ammirare ed amare dentro di sè…

Una notte che sembrava uguale a tutte le altre notti, successe una cosa straordinaria. Una dolce fatina dei boschi, intenerita dal canto del giovane albero innamorato delle stelle, prese a volare tra le sue fronde piccine e gli sussurrò parole leggere come il vento: “Se saprai crescere forte e generoso, senza dimenticare il tuo sogno,  il tuo desiderio si avvererà…”

tutorial 2

Passarono gli anni, e l’albero crebbe e crebbe ancora. Ogni notte cantava il suo canto d’amore alle stelle, e si faceva sempre più forte e bello. Le stagioni passavano, e ogni anno, dopo una fioritura spettacolare, si caricava di mele lucide e rosse come il suo amore per le stelle, profumate, dolci e golose.

tutorial 3

L’albero ricordava la promessa della bella fata dei boschi, e nemmeno per un attimo dubitò di lei: anche se l’aveva vista una sola volta, la sentiva vicina. Non perse mai la speranza che un giorno l’avrebbe rivista, e che quel giorno avrebbe avuto la sua stella.
Quando la fata finalmente apparve, l’albero si scosse tutto di gioia e disse: “Cara fata, ho fatto tutto ciò che mi hai chiesto, crescere forte e generoso mi ha reso felice, guarda le mie mele! Ma non capisco davvero perchè il mio desiderio non sia ancora stato esaudito… perchè ancora non ho la mia piccola stella che è tutto ciò che sogno… una piccola stella da proteggere, abbracciare, ammirare ed amare dentro di me…”
E la fata rispose: “Oh, caro, ma è da tanto che ho esaudito il tuo desiderio. Guarda dentro di te, nelle tue mele… Senza saperlo sei sempre stato pieno di stelle, non una, ma tante luminosissime bellissime stelle, fatte come le stelle fatte dal cielo”.

Ognuno nasconde dentro di sè la sua piccola stella. Ognuno ha il suo luminosissimo segreto.

Se sei alle prime esperienze con questa tecnica di pittura, qui puoi trovare tutte le indicazioni di base:

tutorial 1

Il piccolo melo che canta alle stelle

Materiale occorrente: un foglio da acquarello, una bacinella d’acqua, una spugnetta, un pennello, acquarelli possibilmente non in pastiglia nei colori blu oltremare, giallo limone e blu di prussia.

Come si fa

Per prima cosa immergete il foglio nella bacinella d’acqua, e con l’aiuto della spugna stendetelo sul tavolo, evitando bolle ed ondulazioni:

Col blu oltremare fate una bella macchia di colore che rappresenta i desideri dell’albero,  in un punto del foglio:

Ora col giallo limone punteggiate tutto intorno con la luce delle stelle. Un po’ di luce va ad abbracciare i desideri dell’albero:

E i desideri dell’albero (blu oltremare) abbracciano una ad una le stelle:

La notte (il blu di prussia) avvolge tutti, e la luce delle stelle (giallo limone) penetra nell’albero, trasformandolo in verde:

Questa è la pittura asciutta:

Tutorial 2

L’incontro con la fata dei boschi

Materiale occorrente: un foglio da acquarello, una bacinella d’acqua, una spugnetta, un pennello, acquarelli possibilmente non in pastiglia nei colori blu oltremare, giallo limone e rosso vermiglio.

Come si fa

Dopo aver preparato il foglio come spiegato sopra, punteggiate di luce di stelle (giallo limone), lasciando uno spazio libero, dove più desiderate e ampio quanto lo desiderate:

Nello spazio libero inserite la macchia di blu oltremare che è l’anima del piccolo melo:

E al suo fianco aggiungete la magia della bella fatina dei boschi (rosso vermiglio):

l’anima del giovane albero (blu oltremare) abbraccia tutte le stelle, fino a riempire il cielo:

E la luce delle stelle (giallo limone) abbraccia l’albero e la fata:

Poi questa stessa luce (sempre giallo limone) entra nell’albero e nella fata, trasformandoli in verde e arancione:

Questa è la pittura asciutta:

Tutorial 3

L’albero cresce forte e generoso

Materiale occorrente: un foglio da acquarello, una bacinella d’acqua, una spugnetta, un pennello, acquarelli possibilmente non in pastiglia nei colori blu oltremare, giallo limone e rosso vermiglio.

Come si fa

dopo aver preparato il foglio come spiegato sopra, create una cornice tonda e accogliente intorno ai bordi del foglio, col giallo limone,  e portate un po’ della sua luce all’interno del foglio, creando tante piccole macchie:

il blu oltremare, l’anima e i desideri dell’albero, abbraccia una ad una le macchie luminose, fatte della stessa luce di cui sono fatte le stelle:

Il rosso della promessa della fata dei boschi (rosso vermiglio) entra in ogni spazio di luce, e la luce si diffonde in tutto il blu oltremare, trasformandolo il verde:

Infine i desideri dell’albero (blu oltremare) si vanno a fondere con le luce delle stelle della cornice, trasformandola in una luce verde:

Questa è la pittura asciutta:

Tutorial 4

La stella mela

Materiale occorrente: un foglio da acquarello, una bacinella d’acqua, una spugnetta, un pennello, acquarelli possibilmente non in pastiglia nei colori blu oltremare, blu di prussia, giallo limone e rosso vermiglio.

Come si fa

Dopo aver tagliato inseme ai bambini una bella mela rossa, per ammirare la stella che contiene, prepariamo il foglio sul tavolo, come già spiegato sopra.

Col giallo limone creiamo al centro del foglio i cinque punti di luce di stelle che abbiamo visto nella mela:

Al centro di ogni punto di luce gettiamo un semino (blu di Prussia):

Congiungiamo tra loro i punti di luce (stando attenti a non toccare i semini) per disegnare la stella, poi prendendo altro giallo limone abbracciamo la stella con un bel tondo:

Che richiudiamo poi in un bel tondo rosso vermiglio:

Intorno alla mela creiamo un bello sfondo col blu oltremare:

E infine illuminiamolo con del giallo limone, trasformando il blu oltremare in verde:

Questa è la pittura asciutta:

Leggenda polacca L’USIGNOLO E LA CORNACCHIA

Leggenda polacca L’USIGNOLO E LA CORNACCHIA

Wesna, dea della Primavera,  aveva un terribile nemico: il gigante Kuskaia. Forte, violentissimo e implacabile, da anni, da lustri, da secoli Kuskaia perseguitava la dea leggiadra e gentile, la signora dei campi verdi e delle foreste gioconde. Wesna cercava di sottrarsi al suo odio irragionevole, nascondendosi nelle caverne, distendendosi tra gli arbusti di ginepro, sul muschio folto e morbido delle selve. Ma doveva, povera dea perseguitata, vegliare di continuo, ascoltare attentissima i rumori più lievi, essere pronta, di continuo, alla fuga. Perciò, meschinella, aveva sempre sonno e le sue palpebre, qualche volta, pesavano più del piombo.

Ma una notte di giugno, assai dolce, una notte carica di profumo e di tiepido silenzio, la Dea capì di non poter vincere la stanchezza.

Pregò allora una cornacchia e un usignolo di vegliare per lei, e se si fosse presentato un pericolo, di avvertirla col loro cinguettio. In quell’epoca lontana lontana nel tempo, gli uccelli, tutti gli uccelli, avevano su per giù voce identica.

L’usignolo e la cornacchia accettarono l’incarico con entusiasmo. L’usignolo andò a mettersi in vedetta sulla cima di un larice, la cornacchia si cercò come osservatorio un abete alto e solenne.

Wesna si sdraiò sul muschio morbido e si addormentò subito:  si addormentò di un sonno sodo, di un sonno di pietra. Anche la cornacchia, che era grassottella e placida e aveva fatto una lauta cena, dimenticò la dea gentile, dimenticò il suo compito e scivolò spensieratamente, beatamente, nel mondo lieve dei sogni.

Quando Kuskaia, il perfido e terribile Kuskaia, giunse, ghignando, nella foresta silenziosa, fu solo l’usignoletto che, dall’alto del larice, vide la sua ombra gigantesca, fu solo l’usignoletto che, sgolandosi come gli fu possibile, avvertì la dea del grave pericolo e le diede modo di fuggire, di salvarsi.

Wesna volle poi premiare il fedelissimo amico e castigare la cornacchia pigra. Donò al primo una splendida voce, una voce che raccoglie in sè tutti i suoni e le musicali dolcezze della primavera trionfante, e all’altra una voce gutturale, aspra, antipatica.

Disse all’usignolo: – Il mondo ascolterà commosso le tue delicatissime canzoni, ti amerà, ti loderà –

Disse alla cornacchia: – Tu non avrai che disprezzo e beffe. Nessuno vorrà udirti, nessuno cercherà la tua compagnia.-

Leggenda polacca L’USIGNOLO E LA CORNACCHIA Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconto LE PIUME DEL CORVO

Racconto LE PIUME DEL CORVO per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Nel tempo dei tempi, il corvo aveva le penne bianche. Avvenne che un giorno esso propose alla cicogna una gara per vedere chi dei due avrebbe volato più alto. La cicogna accettò ed entrambi si slanciarono nell’aria. Il corvo con volo impetuoso salì altissimo e giunse così vicino al sole che le sue piume bruciarono e diventarono tutte nere. Spaventata, la cicogna presto presto ridiscese e preferì perdere la gara piuttosto che annerire.

Perciò da quel giorno il corvo ha le piume nere, mentre la cicogna è rimasta bianca.

Racconto LE PIUME DEL CORVO Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconto LA LUNA E LA GRU

Racconto LA LUNA E LA GRU

I Pellirosse raccontano che nel tempo dei tempi, prima ancora che ci fossero uomini sulla terra, gli animali erano più grandi, più forti e più saggi di quanto sono ora. Potevano servirsi delle loro zampe come gli uomini si servono delle loro mani e compiere molte cose che neppure gli uomini ora possono compiere. In quei giorni lontani, i rami, i bastoni e le pietre erano pure vive.

Quando un animale tentava di raccattare dal suolo un bastoncino, un ramoscello caduto, questo si ribellava e picchiava la povera bestia finchè essa non lo mollava. Così, se un animale tentava di raccogliere una pietra, la pietra si metteva a colpirlo finchè esso non la lasciava nuovamente cadere al suolo. Perciò gli animali non potevano fabbricarsi nè frecce nè archi; perchè le pietre e i bastoni non volevano essere foggiati in tal guisa.

La Luna era molto spiacente per gli animali e tentò di aiutarli. Una notte che ella filtrava i suoi raggi attraverso il fogliame di una foresta, vide una gru che picchiava col capo contro il ramo di un albero.

– Che stai facendo? – chiese la Luna.

– Sto cercando di spezzare questo ramo per farne una canna da pesca – rispose la gru, – vorrei pescare qualche pesce nel fiume, per cena… –

– Perchè non spezzi il ramo con una grossa pietra? –

– Ho provato, ma la pietra non voleva, si è messa a colpirmi sul dorso, mi ha fatto male e non mi ha lasciato proseguire… –

– Prova ancora, – consigliò la Luna.

La gru obbedì, ma di nuovo la pietra si ribellò e la picchiò finchè l’uccello non fu costretto a fuggire.

– Non scappare – le gridò la Luna – torna indietro e ti aiuterò io! –

La gru obbedì e la Luna raccolse la pietra nelle sue lunghe mani d’argento, la sollevò e poi la gettò nuovamente a terra.

– Pietra – le disse – ora starai lì e non farai più male a nessuno. Non ti muoverai più finchè qualcuno non ti muoverà. E così avverrà per tutte le altre pietre tue simili. Dovete imparare a rimanere tranquille. E ora – continuò rivolgendosi alla gru – raccatta la pietra e spacca il ramo con essa -.

La gru obbedì e spezzò il ramo. E la pietra non le fece alcun male e non potè più ribellarsi. Era una pietra e nulla più.

– Questo ramo è troppo corto – fece la gru – sarebbe molto meglio che io avessi una di quelle canne laggiù, per pescare, ma ho paura che mi picchi, se tento di prenderla… –

Allora la Luna prese una canna nelle sue lunghe mani d’argento, la sollevò e poi la gettò nuovamente in terra. – Canna – le disse, – ora starai lì ferma e non farai più male a nessuno. Non ti muoverai più finchè qualcuno non ti muoverà. E così avverrà per tutte  le canne, i rami e i bastoni. Dovete imparare a rimanere tranquilli. E ora – continuò volgendosi alla gru – vieni qui da me. Tu hai bisogno di procurarti del pesce per nutrimento, e io voglio che tu possa procurartelo più facilmente.-

Così dicendo, toccò con le sue mani d’argento il becco della gru e il becco si allungò per incanto.

– Ecco, ora hai un bel becco per pescare i pesci: sarà molto meglio che una canna!-

Poi toccò ancora le zampe della gru e anch’esse per incanto si allungarono.

– Ecco, ora puoi entrare nell’acqua comodamente per pescare!-

La gru ci si provò subito: entrò nell’acqua con le lunghe zampe e si mise a pescare col suo lungo becco. Era comodissimo!

E da quel giorno la gru è diventata una magnifica pescatrice.

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Racconto LA GRU E I PESCI

Racconto LA GRU E  I PESCI

Una volta, in India, vi fu un’estate caldissima. In una foresta vi erano due stagni, uno grande e l’altro piccolo; nel piccolo vivevano numerosissimi pesci e sul grande sbocciavano innumerevoli fiori di loto. Con la calura il piccolo stagno rimase quasi a secco; mentre le acque dello stagno grande, che i loti con le loro foglie proteggevano dal sole, restavano abbondanti e fresche.

Una gru venne a passare fra i due stagni, vide i pesci e si soffermò a meditare, ritta su una zampa sola. “Quei pesci” pensava, “sarebbero per me dei bocconcini prelibati. Se li assalissi bruscamente, sono agili e mi sfuggirebbero… sarà meglio che giochi d’astuzia…”

In quella un pesciolino mise il muso fuor d’acqua e chiese alla gru: – Che cosa stai meditando, venerabile uccello? –

– Medito sulla tristezza della tua sorte e di quella dei tuoi fratelli –

– Che vuoi mai dire? –

– Voi soffrite nelle acque troppo basse, infelici! E di giorno in giorno il caldo aumenta, e se lo stagno rimane a secco, che farete mai? Dovrete perire tutti miseramente, poveri pesciolini! Ah, davvero che il cuore mi si serra, se ci penso… –

Il pesciolino e i suoi fratelli si sentirono assai turbati dalle parole della gru e le chiesero con angoscia: – Venerabile uccello, non conosceresti un mezzo per salvarci? –

La gru finse di meditare ancora, poi disse: – Credo di aver trovato un rimedio alla vostra misera sorte -. I pesci la ascoltavano avidamente. – Qui vicino c’è uno stagno meraviglioso, assai più grande di quello in cui vivete, tutto coperto di loti, che difendono le sue acque dalla vampa del sole. Se volete, vi prenderò a uno a uno nel becco e vi porterò fino alle onde del grande stagno, così sarete salvi -.

In quel momento si udì un risolino scettico; era un gambero, che disse: – Mi meraviglio assai! Da che mondo è mondo non ho mai saputo che una gru si interessi ai pesci, se non per mangiarli…-

La gru prese un’aria contrita e protestò: – Come, cattivo gambero, tu sospetti che io voglia ingannare dei poveri pesciolini minacciati da una morte crudele? Solo il desiderio della vostra salvezza mi ispira, è solo per il vostro bene che parlo. Ma se non ci credete, mettete alla prova la mia buona fede; scegliete uno di voi perchè lo porti nel becco fino allo stagno dei loti. Esso lo vedrà, poi io lo riprenderò  e lo riporterò qui. Ed il vostro compagno vi dirà che cosa bisogna pensare di me”.

I pesci accettarono e fu designato un vecchio pesce molto saggio;  la gru lo portò nel becco allo stagno dei loti, ve lo lasciò nuotare nell’acqua fresca a suo piacimento e poi lo riportò al piccolo stagno. Il vecchio pesce, entusiasta, non ebbe difficoltà a persuadere i suoi fratelli a lasciarsi trasportare dalla gru.

Ahimè, quale follia! Uno dopo l’altro la gru fece finta di trasportarli e invece se li pappò tutti.  Rimase solo il gambero, che si sentiva tutt’altro che tranquillo sulla sorte dei pesci e pensava: “Temo che la gru se li sia mangiati tutti. Se quello che temo è vero, li vendicherò”.

– E’ la tua volta –  gli disse la gru con aria innocente. – Vuoi che ti trasporti nello stagno dei loti? –

– Volentieri –  rispose il gambero – Ma come mi trasporterai? –

– Nel becco, come ho fatto per gli altri –

– No no, il mio guscio liscio mi farebbe scivolar giù facilmente dal tuo becco. Lascia invece che mi aggrappi al tuo collo con le branche: starò attento a non farti male -.

La gru acconsentì. Giunta a mezza strada, però, si arrestò sotto un albero.

– Che cosa fai? – le domandò il gambero – Sei stanca che ti fermi a metà cammino? –

La gru, imbarazzata, non sapeva che dire.

– Che cosa vedo mai? – continuò il gambero – Che cos’è quel mucchio di lische ai piedi di questo albero? Ah, traditrice, ti sei preso gioco dei pesci, eh? Ma io non morirò senza prima averti uccisa…-

E il gambero stringeva il collo della gru fra le branche, senza pietà.

– Caro gambero, non farmi male… – supplicava la gru, con le lacrime agli occhi per la sofferenza – Ti porterò nello stagno, stai tranquillo… –

– Avanti, allora! – ordinò il gambero.

La gru andò fino allo stagno e tese il collo  sull’acqua in modo che il gambero non aveva che da lasciarsi scivolare giù. Ma esso era risoluto a vendicare i pesci e prima di abbandonare la presa tagliò netto il collo della perfida gru.

Racconto LA GRU E  I PESCI Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconto di Natale IL PANE

Racconto di Natale IL PANE

In un castello situato su un’altura abitava un re. Da lassù egli poteva rivolgere lo sguardo lontano e vedere tutta la terra. Il re aveva un figlio, che ogni giorno se ne stava per lunghissimo tempo alla finestre del castello. Che cosa poteva cercare il suo sguardo nelle lontananze del mondo? Cercava gli uomini, e osservava come vivevano, come operavano e come si trovavano nel bisogno.
Un giorno disse a suo padre: “Gli uomini soffrono la miseria e la fame, lasciami andare da loro a portare del pane”.

Il re, che amava molto il proprio figlio, gli diede la sua benedizione per il lungo viaggio. Il figlio si spogliò dei suoi abiti regali, indossò tunica e scarpe da viaggio, prese con sè la bisaccia con il pane e si pose il cappello sul capo. Poi si mise in viaggio.
Il cammino era arduo, ma il figlio del re non si concesse riposo: pensava solo alla miseria degli uomini e voleva giungere da loro il più presto possibile.

Finalmente arrivò alle case dove abitavano gli uomini. Bussò subito alla prima casa, ma la porta era chiusa a chiave. Guardò attraverso la finestra. Dentro sedeva un uomo, il capo tra le mani, e si poteva udire come si lamentava della sua triste povertà.
Il figlio del re diede qualche colpetto al vetro della finestra e gridò: “Aprimi, io voglio aiutarti!”.
Ma l’uomo non sollevò nemmeno lo sguardo e continuò a lamentarsi dicendo: “Nessuno mi potrà aiutare…”
La porta rimase chiusa e il figlio del re dovette proseguire.

Anche alla casa seguente la porta era chiusa a chiave. Attraverso la finestra potè vedere una donna che con zelo stirava la sua biancheria. “Aprimi!”, gridò il figlio del re “C’è un ospite qui fuori che vuole farti visita…”
Ma la donna aumentò ancora di più il suo zelo e gridò: “Non mi serve alcun ospite, io devo sempre e solo lavorare per poter nutrire i miei bambini!”. E la porta rimase chiusa.

Il figlio del re andò così bussando di casa in casa, ma ovunque trovò porte chiuse.
Alla fine giunse ad una casupola, che era la più povera di tutte.
Gli abitava Gianni, lo spaccalegna, con sua moglie. Aveva già visto il viandante che scendeva lungo la via e disse a sua moglie: “Si sta facendo notte, vogliamo dargli rifugio?”.
La donna era d’accordo, ed entrambi si affacciarono sulla porta. Salutarono il viandante e lo invitarono a passare la notte con loro.

Il viandante entrò volentieri nella casupola. La donna gli offrì il posto a tavola, lo spaccalegna gli si sedette accanto, mentre la moglie preparava la cena.
“Per fortuna abbiamo ancora una piccola crosta di pane”, mormorò tra sè la donna “e la nostra cara capra che ci dà il latte, così posso cuocere una zuppa…”
Spezzettò il pane nella pentola, vi mise un pizzico di sale, vi versò un po’ di acqua bollente e poi il  latte.
“Ecco” disse all’ospite, mentre posava la pentola da cui usciva un caldo vapore “questa zuppa calda vi farà bene, dopo il lungo viaggio”.

Si sedettero insieme e gustarono con gioia la calda zuppa.
Lo spaccalegna era così povero che nella sua casupola aveva solo un letto per sua moglie. Per se stesso aveva un pagliericcio. Durante la cena la donna pensò tra sè: “Il viandante sarà stanco, gli voglio offrire il mio letto, così che possa stare al caldo e riposarsi…”.
“Qui” disse all’ospite, dopo che ebbero terminato di mangiare, e mostrò l’angolo dove era situato il letto “è il vostro giaciglio per la notte”.

Allo spaccalegna piacque che la moglie offrisse il suo letto al viandante. Prese dallo stanzino ancora della paglia per un altro letto, augurarono insieme al viandante la buonanotte e anche loro si coricarono.
Al mattino la donna si alzò di buonora. Voleva mungere la sua capra prima che l’ospite si svegliasse, poichè quel latte era l’unica cosa che poteva offrirgli per colazione. L’ultimo tozzo di pane l’aveva già usato per la zuppa la sera prima.

Presto l’intera capanna fu desta. La moglie dello spaccalegna posò la brocca del latte sulla tavola e disse un po’ rattristata: “Purtroppo questo è tutto quanto vi posso offrire per colazione: non abbiamo nemmeno più un pezzettino di pane per voi”.
Allora il viandante aprì la sua bisaccia e posò sulla tavola un intero pane. Fu una gioia, e per lo spaccalegna e sua moglie fu come se non avessero mai mangiato un pane così buono.
Il viandante ringraziò per l’ospitalità e proseguì il suo cammino.

Il pane però lo lasciò sulla tavola, per lo spaccalegna e sua moglie. Così lo spaccalegna potè prenderne con sè un grosso pezzo quando andò nel bosco a lavorare.
Anche la donna se ne tagliò un altro pezzettino e fece ancora un piccolo spuntino prima di riporlo nella madia. Quel pane era proprio una bontà.
Ad un tratto sentì un bambino piangere là fuori. Il bambino aveva fame e non aveva niente da mangiare. Allora la moglie dello spaccalegna gli portò un pezzo del suo buon pane. Il bambino tornò presto felice e ne avanzò un pezzetto per il suo fratellino, che era con lui.
Sulla via c’erano altri bambini e tutti vollero un po’ di quel pane che la moglie dello spaccalegna aveva dato al primo bambino, poichè affamati lo erano tutti quanti.

La moglie dello spaccalegna vide dalla finestra ciò che stava accadendo là fuori. Chiamò i bambini e con il suo grosso coltello tagliò una fetta di pane dopo l’altra e le distribuì. E sempre più bambini entravano nella casetta, e ognuno ne voleva un pezzetto.
La moglie dello spaccalegna sorrise e disse: “Vedo già che mi toccherà affettare tutto il pane!”
Ma che meraviglia fu quando si accorse che, nonostante continuasse ad affettare il pane, questo tornava intero!
Presto tutti i bambini corsero fuori, gustandosi il loro pezzo di pane. La gente chiese loro da chi lo avessero avuto.

“Cosa? Dalla moglie dello spaccalegna? Ma non è possibile! Non hanno da mangiare neppure per loro stessi!”.
Erano tutti curiosi, molto curiosi, e corsero dalla donna per farsi raccontare da chi avesse avuto tutto quel pane. La donna raccontò del viandante che avevano ospitato e che prima di partire aveva donato loro il pane.
Nella casa dello spaccalegna, da allora in poi, non ci fu più miseria.
C’era sempre pane a sufficienza; così anche la gente del paese poteva averne, quando rimaneva senza.

Adattamento da un racconto natalizio in uso nella scuola Waldorf, autore ignoto.

Pronome personale esercizi per la classe terza

Pronome personale esercizi per la classe terza della scuola primaria, scaricabili e stampabili in formato pdf.

I pronomi personali sono parole che si usano per sostituire il nome con lo scopo di evitare inutili ripetizioni. Essi sono:

– io, me, mi
– tu, te, ti
– egli, lui, esso
– ella, lei, essa
– noi, ce, ci
– voi, ve, vi
– essi, li, le, loro, esse.

LA BAMBINA TROPPO PIGRA racconto

LA BAMBINA TROPPO PIGRA racconto sulla pigrizia e  il lavoro per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

La bambina troppo pigra

C’era una volta una bambina tanto pigra che la pigrizia si sarebbe vergognata di essere sua sorella. Quella bambina non si scomodava nemmeno per portarsi il cibo alla bocca.
Un giorno, mentre sedeva in rima al fiume, si udì chiamare da un palmizio. Il palmizio cresceva sull’altra sponda.
“Ehi! Ehi!” le diceva, agitando i rami alla sua volta.

La bambina era troppo pigra per rispondere, e tanto più per attraversare il fiume e chiedere alla palma che volesse.
Infine la palma, stizzita, gridò: “Possibile che tu non sia nemmeno curiosa di sapere che cosa io desidero offrirti? Guarda, al tuo fianco c’è una barca. Montaci su, rema fin qui, e cogli i miei germogli”.
La bambina pigra a malincuore si alzò, entrò nella barca, remò fino all’altra sponda, e: “Eccomi!” disse alla palma.

La palma la picchiò lievemente con i suoi rami.
“Questo” le disse, “per punirti della tua pigrizia. Ora cogli i miei germogli, portali con te, lasciali asciugare un poco al sole, e poi con essi fabbricati una cesta. Guai a te se non mi obbedirai. Allora sì che te ne pentiresti!”
La bambina quasi piangeva a dover lavorare, ma non potè fare a meno di obbedire.
Colse i germogli, se li portò a casa, li mise ad essiccare al sole e cominciò ad intrecciare una cesta di modeste dimensioni.

Quando fu pronta, la cesta disse: “Brava, ragazzina! Ora portami sulla strada che va al mercato; deponimi là dove passa la gente, poi torna a casa”.
La ragazzina obbedì. Tornò a casa. La cesta rimase dov’essa l’aveva deposta.
Passò molta gente e non fece attenzione alla cesta.

Giunse un ricco signore, la scorse e si domandò: “Chissà chi l’ha perduta? La prenderò e la porterò con me al mercato. Se troverò il suo proprietario, gliela restituirò; se non lo troverò, me la terrò per metterci gli acquisti”.
La raccolse e andò al mercato. Lì domandò se qualcuno avesse perduto la cesta. Nessuno disse di averla perduta. Allora egli fece le sue provviste e la riempì di ghiottonerie. La riempì di noci, banane, torte, datteri, pesci, riso cotto, poi la depose accanto a un pozzo, e si intrattenne a conversare con alcuni amici.
Ma quando si voltò per riprenderla, la cesta non c’era più.

Aveva messo le gambe e correva a rotta di collo verso la casa della ragazzina pigra.
Correva e gridava: “Presto, presto, vienimi incontro; da sola non riesco a trascinare questo peso”.
La bambina, sia pure di malavoglia, uscì per aiutarla. E l’aiutò.
Poi, viste le buone cose che la cesta conteneva, si disse che metteva di conto di andare tutte le mattine a porla sulla via del mercato.
Così fece. Ogni volta, la cesta ritornava a casa da sola, colma di ghiottonerie.
Poi, all’improvviso, cessò di funzionare.
La bambina, però, intanto, era guarita dalla sua pigrizia.

Ogni giorno saliva sulla barca, remava fino all’altra sponda, coglieva i germogli di palma, intrecciava ceste e andava a venderle al mercato.

Con i denari guadagnati comprava noci, banane, torte, pesci, riso cotto e datteri. E tutto le pareva più buono, perchè se lo procurava col suo lavoro.

(P. Ballario)

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I DUE CAMPETTI racconto

I DUE CAMPETTI racconto per bambini della scuola d’infanzia e primaria, sul tema della pigrizia e del lavoro.

Uno di qua, uno di là dal fiume si stendevano due piccoli campi. Due fratelli li coltivavano, uno sollecito e l’altro pigro.
Il fratello sollecito si alzava all’alba e si metteva subito a lavorare il suo campetto. Vangava, concimava, seminava. Poi, a suo tempo, ripuliva i solchi, annaffiava, rincalzava le piante, le curava.
L’altro fratello si levava sul mezzogiorno. Dava alla peggio poche zappate. Gli faceva fatica star curvo sui solchi, annaffiare, potare. Lasciava crescere le erbe selvatiche.

Di quando in quando, sbadigliando, dava un’occhiata al campetto del fratello e diceva: “Quella è terra migliore. Deve essere esposta meglio al sole, più umida e più grassa”.
Tanto fece e tanto disse che convinse il fratello a fare il cambio.

Il fratello sollecito ripulì il campo mezzo selvatico. Lo lavorò di lena. Piantò, sarchiò, potò.
Il pigro invece, sicuro di avere ora il campo migliore, dormì anche di più e lavorò di meno.

Non passò molto tempo e il campo peggiore diventò il migliore, mentre il migliore diventò uno sterpaio.
“Come sono sfortunato!” disse il fratello pigro, vedendo che le coltivazioni del suo campo andavano in rovina. “Proprio ora che il mio campo migliorava, l’ho ceduto…”.

Tanto fece e tanto disse che lo rivolle per sè.
Ma dopo poco tempo si fu alle solite.

Il campetto del fratello sollecito prosperava. Quello del fratello pigro invece inaridiva.

“Colpa del seme! Colpa del sole! Colpa della pioggia! Colpa dell’erbaccia! Colpa dei bruchi! Colpa di tutti e di tutto!” pensava il fratello pigro.

E non si avvedeva che la colpa era tutta e soltanto sua.

P. Bargellini

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Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA

Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA per bambini della scuola primaria

LEGGENDE ITALIANE

Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA

 In Sardegna, nel Logudoro, si racconta questa bella leggenda:

Una volta, al mondo, non c’era il fuoco. Gli uomini avevano freddo ed andarono da Sant’Antonio, che stava nel deserto, a pregarlo che facesse qualcosa per loro. Sant’Antonio ebbe compassione e siccome il fuoco era all’inferno, decise di andare a prenderlo.

Col suo porchetto e col suo bastone di ferula, Sant’Antonio si presentò, dunque, alla porta dell’inferno e bussò:
“Apritemi! Ho freddo e mi voglio riscaldare!”

I diavoli alla porta videro subito che quello non era un peccatore, ma un Santo, e dissero:
“No! No! Ti abbiamo riconosciuto! Non ti apriamo. Se vuoi lasciamo entrare il porchetto, ma te no!”

E così il porchetto entrò. Cari miei, appena dentro si mise a scorrazzare con una tale furia da mettere lo scompiglio ovunque, tanto che i diavoli, ad un certo punto, non ne poterono proprio più.
Finirono perciò per rivolgersi al Santo, che era rimasto fuori dalla porta.

“Quel tuo porco maledetto ci mette tutto in disordine! Vientelo a riprendere!”
Sant’Antonio entrò nell’inferno, toccò il porchetto col suo bastone e quello se ne stette subito quieto.
“Visto che ci sono” disse Sant’Antonio, “mi siedo un momento per scaldarmi”.

E si sedette su un sacco di sughero, proprio sul passaggio dei diavoli.
Infatti, ogni tanto, davanti a lui passava un diavolo di corsa. E Sant’Antonio, col suo bastone di ferula, giù una legnata sulla schiena.

Ad un certo punto i diavoli, arrabbiati, esclamarono:
“Questi scherzi non ci piacciono. Adesso ti bruciamo il bastone.”
Infatti lo presero e ne ficcarono la punta tra le fiamme.

Il porco, in quel momento, ricominciò a buttare all’aria tutto: cataste di legna, uncini, torce e tridenti. E i diavoli avevano un bel da fare a mettere a posto. Non ci riuscivano e non riuscivano neppure ad acchiappare quel… diavolo di porchetto.

“Se volete che lo faccia star buono” disse Sant’Antonio, “dovete ridarmi il mio bastone”.
Glielo diedero ed il porchetto stette subito buono.
Ma il bastone era di ferula ed il legno di ferula ha il midollo spugnoso. Se una scintilla entra nel midollo continua a bruciare di nascosto, senza che di fuori si veda.

Così i diavoli non si accorsero che Sant’Antonio aveva il fuoco nel bastone. Il Santo col suo bastone se ne uscì ed i diavoli tirarono un sospiro di sollievo.

Appena fu fuori, Sant’Antonio alzò il bastone con la punta infuocata e la girò intorno, facendo volare le scintille, come dando la benedizione, e cantò:
“Fuoco, fuoco,
per ogni loco;
per tutto il mondo
fuoco giocondo!”

Da quel momento, con grande contentezza degli uomini, ci fu il fuoco sulla terra. E Sant’Antonio tornò nel deserto a pregare.

Italo Calvino

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

 

LEGGENDE ITALIANE

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

Anfimonio ed Anapia erano due fratelli che vivevano moltissimi anni fa, nei dintorni di Catania. Vivevano tranquilli e sereni nella loro bella casa e lavoravano volentieri e con gioia. Nel loro semplice cuore regnava l’amore e la venerazione per i genitori ed era bello vederli pieni di riguardi, sempre obbedienti, sempre pronti a far cosa gradita.

Avvenne un giorno, che l’Etna ebbe una terribile eruzione. Aveva incominciato con boati spaventosi e dal suo cratere erano usciti lapilli e un nero fumo denso che aveva coperto il cielo, oscurando perfino il sole. Poi, lungo i fianchi della montagna, era cominciato a colare un pauroso fiume di lava incandescente che lentamente, ma inesorabilmente, progrediva lungo le pendici, verso i campi rigogliosi di messi, verso le case degli uomini.

Ma gli abitanti della città non si decidevano a lasciarla; speravano sempre che l’Etna si calmasse, che la lava si arrestasse. Solo quando essa giunse alle prime case, che caddero con immenso fragore, tutti si decisero a raccogliere quanto di meglio possedevano e a fuggire davanti al pericolo.

Anche Anfimonio ed Anapia avevano atteso nella speranza che il pericolo scomparisse.

I due fratelli, invece di cercar di mettere in salvo i loro averi, si caricarono sulle spalle i loro genitori: uno il padre, l’altro la madre, che erano oramai vecchi ed infermi e non avrebbero potuto fuggire. Poi uscirono dalla loro casetta.

Ma non potevano correre, e il fiume di lava veniva giù più svelto di loro.  Ben presto li avrebbe raggiunti.
Allora il padre e la madre dissero: “Figlioli, noi siamo vecchi e infermi; abbiamo vissuto abbastanza; lasciateci qui, salvatevi; a voi sorride ancora la vita!”

Ma i due buoni fratelli non vollero abbandonare il loro prezioso peso e raddoppiarono le energie. Per un poco parve riuscissero a vincere in velocità la lava, poi, sfiniti, si fermarono. Abbracciarono stretti i loro cari e …attesero coraggiosamente la morte.

Ma, oh… miracolo! La lava si divise in due torrenti: uno a destra, l’altro a sinistra, lasciando libero lo spazio sul quale si trovavano i quattro abbracciati e un sentiero che permise ai due fratelli di porre in salvo i genitori e se stessi.

Il fatto miracoloso stupì i Catanesi che soprannominarono Anfimonio ed Anapia “Fratelli pii”, ed il luogo dove essi passarono fu chiamato “Campi pii”.

Quando, divenuti vecchi, i due fratelli morirono, i cittadini eressero loro un grande monumento.

E la loro memoria fu sempre venerata, come esempio di amor filiale, non solo dai Catanesi, ma dai Siciliani tutti e anche da altri popoli.

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

LEGGENDE ITALIANE

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

Lo Stromboli è quel vulcano che sorge dalle acque del mare, proprio dirimpetto alla costa tirrenica della Calabria, e dietro il quale, la sera, il sole si tuffa per andare a nanna, lasciandosi dietro un incendio di porpora e d’oro.

Ma forse non conosci la sua origine, non sai come sia stato collocato proprio lì, in quello specchio di azzurro mare. Ascolta allora cosa racconta il pescatore calabrese, mentre rattoppa le reti sulla spiaggia di Palmi.

Sul monte che domina la graziosa cittadina di Palmi, e che ha preso il nome del santo, sant’Elia stava un giorno in solitaria meditazione, quando gli si accostò un uomo con un gran sacco sulle spalle.

“Che cosa porti in quel sacco, e dove vai?” gli chiese sant’Elia.
L’uomo, che aveva il viso tutto sporco, aprì il sacco e ne cavò fuori un gran mucchio di monete d’argento.

“E’ una gran fortuna” egli disse. “L’ho scoperta in un casolare abbandonato e sono disposto a dividere con te. Prendine quante ne vuoi; sono anche tue!”

Il santo prese le monete e cominciò a lanciarle lungo la china. A mano a mano che rotolavano, esse si tramutavano in pietre nere, di quelle che si vedono ancor oggi sul luogo.

Contrariato, l’uomo (che era il diavolo) balzò in piedi. D’improvviso, alle sue spalle si aprirono due grandi ali nere di pipistrello, con le quali egli si alzò in volo, planò sul mare e vi si tuffò, sprofondando.

Le acque gorgogliarono e schiumarono, si elevò una nuvolaglia, e quando questa si fu dileguata, ecco che sul mare si delineava un isolotto a forma di cono, dal cui vertice incavato uscivano lingue di fuoco e fumo.

Era lo Stromboli, e sotto di esso c’era il demonio imprigionato, che soffiava fiamme e tuoni.

Il vecchio pescatore di Palmi, dopo aver narrato la leggenda, si segna devotamente per non cadere in tentazione del demonio, mentre lo Stromboli, nel velo del tramonto, fuma da sornione la sua antica pipa.

Sulla cima del Monte Sant’Elia, si trova ancora un macigno con alcune impronte di unghie lasciate dal diavolo, prima di spiccare il volo per inabissarsi nel Tirreno.

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

LEGGENDE ITALIANE

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

 Viveva un tempo, a Trani, un povero pescatore che, nonostante passasse lunghe ore in mare a pescare, riusciva a stento a provvedere alle necessità della sua numerosa famiglia.

Una notte, gettate le reti, il pescatore si adagiò nel fondo della barca lasciata in balia delle onde e, rimuginando i suoi tristi pensieri, a poco a poco finì per addormentarsi. Fu risvegliato bruscamente da un forte strappo alle reti. Che cosa succedeva? Forse era quella la volta buona?

Certo, a giudicare dal peso, il pesce incappato nella rete doveva essere enorme. Tira e tira, il brav’uomo, eccitato e felice, riuscì finalmente a rovesciare nella barca un pesce gigantesco. Ma, ahimè, si trattava di un pescecane.
La delusione del pescatore si tramutò in una grande meraviglia, quando il pescecane cominciò a parlare.

“Hai pescato il tuo genio” disse lo squalo. “Sono io che dirigo la tua vita, non lo sapevi? Ebbene, ascolta ora. Fa’ a pezzi il mio corpo poi, raccolti tutti i miei denti, seminali nel tuo orto. Vedrai cosa succederà tra un paio di mesi”.
Il pescatore obbedì.

Trascorsi i due mesi s’avvide che nel suo orta stava crescendo un albero. In poche settimane la pianta divenne alta e frondosa.

“E ora?” pensava il pescatore aggirandosi intorno all’albero che, a parte la grandezza, non aveva nulla di particolare.

La risposta alla sua ansioso attese venne, d’improvviso, una mattina. L’uomo stava contemplando l’albero, quando, in men che non si dica, lo vide sparire sottoterra, lasciando al suo posto un magnifico cavallo bianco con la sella preparata.

Anche il cavallo parlò. Disse: “Saltami in groppa, che faremo un lungo viaggio”.

Il viaggio, infatti, fu lunghissimo e pieno di incredibili avventure. Il pescatore, ormai divenuto cavaliere, ebbe la fortuna di conoscere tutti i paesi della terra e di compiervi azioni così valorose da meritarsi la stima di grandi e potenti signori, che fecero a gara per averlo loro ospite e per colmarlo di ricchezze.

Passarono in tal modo alcuni anni e il pescatore, un bel giorno, stanco di viaggiare, decise di tornare al proprio paese per godersi in santa pace, con la sua famiglia, le ricchezze accumulate.
Però, giunto che fu a Trani, ebbe la triste sorpresa di apprendere che la moglie, credutolo morto, si era rimaritata, creandosi un’altra famiglia.
Desolato, l’uomo tornò alla sua vecchia casupola. Entrò nell’orto e andò a sedersi sul luogo ove un tempo era cresciuto l’albero.
Che gli restava da fare? Se ne stava lì, pieno di amarezza, a contemplare quel po’ di terra smossa, allorchè qualcosa attirò la sua attenzione. Fra le zolle c’era un pesciolino. Era un piccolo pesce argenteo che guizzava, boccheggiando. Il pescatore si curvò, fece per prenderlo, ma ecco che al contatto delle sue dita il pesce cominciò a gonfiarsi raggiungendo in breve dimensioni colossali.

Ma guarda guarda! Era di nuovo il pescecane pescato tanti anni fa.

“Sei tu, dunque!” disse il pescatore, “E allora? Io ho fatto tutto ciò che mi hai ordinato. Ho raccolto i tuoi denti, li ho seminati, ho visto crescere il grande albero che poi si è trasformato in un cavallo. Ho viaggiato per anni e anni, ho compiuto ogni sorta di imprese ed ho guadagnato onori e ricchezze. Ma a che vale tutto ciò se ora ho perduto la mia famiglia?”

Rispose il pescecane: “Le tue avventure non sono terminate. Riportami in mare, mettimi tra le onde e montami in groppa”.

Poco dopo, il pescecane e il pescatore prendevano il largo e scomparivano verso l’alto mare.

Che ne fu di loro? Nessuno le seppe mai.

“Forse” commentano i pescatori di Trani, a conclusione della leggenda,”stanno ancora vagando laggiù, tra le onde”.

Quello che è certo è che il nostro pescatore in paese non lo si rivide più.

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

LEGGENDE ITALIANE

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

 Questa che leggiamo adesso è una leggenda solo per metà. Infatti Ronca Battista esistette davvero. E veri sono anche i fatti da lui compiuti, che ora narreremo. Assieme ai fatti, però, è mescolata anche un po’ di leggenda, suggerita dalla fantasia popolare.

Anzitutto Ronca Battista non era il vero nome del nostro personaggio. Si chiamava Giovan Battista Cerone. Il nome di “Ronca” glielo diedero i suoi concittadini di Melfi, perchè essendo bottaio di mestiere, egli usava una roncola per tagliare i rami che gli servivano per i cerchi alle botti.

Ogni giorno, di buon mattino, Battista usciva da Melfi con un pezzo di pane in tasca e si recava nei boschi di Vulture a far la sua provvista di rami. Sceglieva quelli di castagno, che sono i più flessibili, proprio adatti per far cerchi. E sapeva tagliarli con arte insuperabile: un colpo netto di roncola, tac, e il ramo era già nelle sue mani senza che l’albero se ne fosse accorto.

Mangiato il suo pane e bevuto un sorso d’acqua da una sorgente, Battista se ne tornava poi a Melfi a lavorare.
Fin qui, tu dirai, non c’è nulla di speciale nella vita di questo Battista.

E’ vero! Ma aspetta un po’. A proposito, dimenticavo di dirti che siamo nel secolo XVI. Agli inizi di quel secolo la città di Melfi era ancora un feudo della nobile famiglia dei Caracciolo, fedele agli Spagnoli. Ma già scorrazzavano per la regione bande di Francesi che assalivano ora un paese ora l’altro, saccheggiando la popolazione. Quando i Francesi si avvicinarono a Melfi, Gianni Caracciolo, signore della città, decise di resistere ad ogni costo. E i Melfitani furono d’accordo con lui.

Capo dei Francesi era il generale Lautrec, tipo crudele e senza scrupoli. Egli era convinto di prendere Melfi in quattro e quattr’otto, e perciò ci rimase molto male quando si accorse che i Melfitani, chiuse le porte delle mura, si apprestavano alla difesa.

La lotta durò a lungo, feroce da parte degli assedianti ed eroica da parte degli assediati. Sulle mura e davanti alle porte avvenivano spesso scontri sanguinosi. Per di più, i Melfitani comiciavano a soffrire la fame, così che nottentempo qualche cittadino doveva uscire di nascosto dalla città per procurarsi un po’ di cibo nelle campagne.

Anche il nostro Battista, una notte, riuscì a sfuggire alle sentinelle francesi ed a raggiungere il bosco. Più che cibo, però, lui cercava legni per le sue botti, perchè non avendo famiglia, di mangiare non gliene mancava. Quella notte, anzi, egli aveva in tasca, come al solito, il suo pezzo di pane. Attesa l’alba, per vederci meglio, Battista diede mano alla roncola e staccò alcuni rami. Si avviò quindi in fretta, e alle soglie del bosco incontrò una vecchia tremante di freddo che lo fermò.

“Bravo giovane” disse la poveretta, “i Francesi hanno distrutto la mia capanna e rubate le mie provviste. Aiutami tu!”

Impietosito, Ronca diede il proprio pane alla vecchia. Prese quindi i rami e, acceso un fuocherello, preparò un lettino di frasche alla donna, poi lo ricoprì col suo mantello.

“Va bene così, nonnina?” chiese alla fine.

“Sii benedetto, figliolo!” disse con gratitudine la vecchina. Poi, per ricompensarlo, volle dargli un bacio in fronte e toccargli la roncola.

“D’ora in avanti” aggiunse, “questa roncola compirà prodigi!”

Battista stava per sorridere, incredulo, quando d’improvviso la vecchia si trasformò in una fata splendente e sparì.

“Diamine!” esclamò Battista “Allora è vero!”
Volle provare la roncola magica colpendo un albero, e l’albero volò subito via come una pagliuzza.
Sbalordito e contento, Battista si avviò verso Menfi.

“Se qualche sentinella oserà fermarmi, guai a lei!” pensava, maneggiando la roncola.
Sì! Altro che sentinelle! C’erano tutti i Francesi attorno alla città, scatenati nel pieno di una battaglia e, a quanto pareva, le cose andavano piuttosto male per i Melfitani.

Senza esitare, Battista si slanciò allora nella mischia, mulinando a dritta e a manca la sua roncola magica.

I Francesi intorno a lui cominciarono a piombare a terra come nespole. Invano lo assalivano da ogni parte. Più ne venivano, più ne cadevano. Sembrava che invece di una sola roncola, Battista ne maneggiasse mille. Ad un certo punto, esasperati, i Francesi gli diedero tutti addosso. Ne caddero a decine. Ma ce ne fu uno, d’un tratto, che con un salto riuscì a raggiungerlo alle spalle e a colpirlo fortemente al capo con una mazza di ferro. Battista stramazzò al suolo.

La fine di Ronco Battista segnò la fine della resistenza di Melfi. La città, caduta in mano ai Francesi, fu saccheggiata e incendiata.
Era la Pasqua del 1528.

Oggi c’è una via, a Melfi, che è dedicata alla memoria di Ronca Battista. Ma anche senza questa via, i Melfitani non avrebbero certo dimenticato l’eroico bottaio. Da quel giorno, infatti, la storia di Battista è sempre stata raccontata, di padre in figlio. A un certo punto, è vero, ci fu qualche padre che inventò l’episodio della fata; qualche padre, forse, incapace di credere che solo il coraggio e l’amor patrio avessero potuto rendere prodigiosa la roncola di Battista. E fu così che la storia divenne per metà leggenda.

Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

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Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

Paolaccio era un vagabondo senza parenti, senza amici e senza neppure un angolo di casa. Ma se lo meritava, perchè voglia di lavorare non ne aveva e, per di più, non faceva che imprecare e dimostrarsi tanto malvagio da attirarsi solo l’antipatia e il disprezzo di tutti. Pareva che nei suoi occhi ardesse sempre una luce cattiva, e chi lo vedeva girava al largo.

Una notte, mentre dormiva in un campo, vicino a Termoli, Paolaccio venne svegliato da una voce che ripeteva il suo nome. Al che lo fissava curiosamente.

“Chi diavolo sei?” chiese.

“Lo hai detto, sono proprio il diavolo. Sono venuto a proporti un patto”.

Paolaccio non si impressionò.

“Di che si tratta?” chiese di malanimo.

“Vuoi diventare ricco?” chiese a sua volta il diavolo.

“Se lo voglio? Non chiedo di meglio. E che dovrei fare in cambio?”

“Non devi fare nulla. Devi darmi solo la tua anima”

“Per questo ci sto” disse Paolaccio “Che me ne faccio dell’anima? Ma dimmi: come avrò le ricchezze?”

“Prima firma il patto e poi te lo dirò” rispose Belzebù.

Paolaccio, che non sapeva scrivere, fece una crocetta sul foglio.

“Bene” gongolò il demonio, “Ed ora stai a sentire. La vedi quella rete? Ti servirà per pescare”

“Bella roba!” esclamò Paolaccio “Come se i pesci dessero la ricchezza!”

“I pesci che ti farò pescare io, sì” proseguì il diavolo “Sono pesci bianchi e rosei che hanno una specialità: quella di inghiottire i tesori accumulati nelle navi sommerse: gemme stupende, monete d’oro e altre rarità. Sono pesci che stanno al mio servizio, pronti a farsi pescare dai miei protetti. Tu ora lo sei e quindi puoi pescarne quanti ne vuoi. Dovrai soltanto dire, immergendo la rete:

“Fortuna, vieni su:
te l’ordino nel nome
del grande Belzebù”

Paolaccio non lasciò passare la notte. Subito si avviò verso gli scogli e trasse a riva con la rete un’infinità di quei pesci biancorosei. Erano tutti pesantissimi e Paolaccio, apertili uno ad uno, accumulò in un batter d’occhio smeraldi, rubini, brillanti ed oggetti d’oro che sfavillavano con mille luci al chiarore delle stelle.

“Questa sì che è una ricchezza!” gongolava Paolaccio, non stancandosi di immergere le mani in quel tesoro.

Da quel giorno ebbe inizio per Paolaccio un’altra vita. Si comprò un palazzo principesco, si vestì da gran signore e cominciò a dare feste sfarzose, circondandosi di ogni lusso. Inutile dire che in un lampo ebbe amici a non finire, gente che lo cercava, lo ossequiava, lo lodava. Paolaccio era generoso con tutti, spandeva doni a destra e a sinistra, e ad ogni elogio che riceveva era convinto di essere diventato un grand’uomo.

Tutto dunque procedeva a meraviglia, senonchè un giorno, un brutto giorno, capitò al palazzo, che era in piena festa, uno strano individuo. Era un essere macilento, vestito di stracci, proprio fuor di posto in mezzo a tanto splendore. Ma Paolaccio lo riconobbe subito, e fattosi largo tra la folla gli si avvicinò.

“Che sei venuto a fare, qui?” gli chiese con sgomento.

“Lo sai” rispose Belzebù, “Sono venuto per il nostro contratto che, per l’appunto, scade oggi…”

“Vattene” supplicò Paolaccio colmo di terrore, “Vattene via, lasciami!”

“Eh, caro mio! Non posso. I patti sono patti. Io ti ho dato la ricchezza, tu te la sei goduta, ed ora è tempo che tu mi dia la tua anima”.

In quello stesso istante un boato terribile fece tremare il palazzo e Paolaccio cadde morto.

Qualcuno dirà: ma quei pesci biancorosei esistono veramente? Pare di sì. Molti pescatori li hanno visti. Dicono, però, che bisogna accontentarsi di guardarli da lontano perchè sono creature del demonio e non portano che male. 

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE per bambini della scuola primaria.

 

LEGGENDE ITALIANE

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE

Questo mostro del mare era Landoro, una specie di enorme drago con due occhi grandi come carri che spadroneggiava sulla superficie del mare sibilando, stridendo ed emettendo vampe di fuoco. I pescatori lo udivano da molto lontano. Ma erano ancora i tempi in cui non esistevano le barche e quindi a nessuno era mai venuto in mente di affrontare il mostro e di liberare il mare dalla sua presenza.

Da Landoro, orribile, passiamo a una fanciulla bionda, con gli occhi sognanti che passava gran parte del suo tempo sul litorale marino, guardando con nostalgia verso l’orizzonte. Era Lada. Lada guardava i gabbiani che volteggiavano liberi sulle onde e pensava: “Potessi essere come loro…”.

Un giorno questo vivo desiderio le fece spuntare sulle spalle due candide ali. La gioia di Lada fu grande. Si rizzò sulla pianta dei piedi, spiccò un salto e subito si sentì librata in alto nell’azzurro del cielo. Che meraviglia! Ora le onde correvano sotto di lei e davanti si spalancava il mare come un invito senza fine. Volava così da qualche tempo cantando, allorchè volgendo lo sguardo in basso, Lada vide il mostro dagli occhi giganteschi. La fanciulla alata ebbe un brivido d’orrore, si sentì perduta, come attratta da quegli occhi terribili in cui fiammeggiava la luce del male.

Per fortuna Landoro  quel giorno non cercava vittime. Guardò Lada poi, d’improvviso, si inabissò nelle onde. Con un sospiro di sollievo la fanciulla volò verso la costa, discese sul lido e, a poco a poco, si liberò dall’orrore del mostro. Ma, ahimè, quelle ali erano ormai inutili. Ora Lada non avrebbe più osato sorvolare il mare e spingersi fino al lontano orizzonte.

La fanciulla piangeva disperata, allorchè sentì una voce vicina: “Che cos’hai? Perchè piangi?”

Lada si volse e vide un bellissimo giovane che la guardava con dolcezza. La fanciulla narrò allo sconosciuto la sua tremenda avventura.

Il giovane, dopo un istante di meditazione, così disse: “Queste ali, Lada, sono un dono degli dei. Esse devono rallegrarti e non affliggerti. E perchè la tua gioia continui, io ucciderò Landoro e ti riaprirò la strada lucente del cielo sopra il mare”

“Chi sei?” chiese Lada colpita da tanto coraggio.

“Sono Geri” rispose il giovane, “il figlio della Quercia e del Vento”.

Lada vide il giovane impugnare una spada fulgente e avviarsi verso il mare. Scendeva la notte. Qualche stella cominciava a spuntare nel cielo. Lada si addormentò con la visione di Geri che procedeva sulle sponde. Quando si svegliò era l’alba e il mare era rosso. E rossa era anche la sabbia, rosse erano le sue mani e le sue ali.

Davanti a lei, come uscente dalle onde, avanzava Geri con la spada rosseggiante che stillava gocce di sangue.

“Lada! Lada!” gridò il giovane, “Ho ucciso il mostro!”

Quando le fu vicino e le si sedette accanto narrò come aveva affrontato Landoro, come l’aveva trafitto fra le onde. I due giovani erano felici. Persino le onde parevano felici, sciogliendosi ai loro piedi con un canto di liberazione.
Ma a poco a poco, dallo stesso mare, giunsero sulla costa segni di sgomento. Turbini di gabbiani atterriti e volteggianti sulle onde parevano fuggire da qualcosa di tremendo. L’aria cominciò a diventare irrespirabile, densa di vapori ripugnanti. I pesci si riversavano a migliaia verso la spiaggia e morivano boccheggiando sulla rena. Ora il litorale era gremito di gente piena di smarrimento e in preda all’angoscia.

Che cosa mai succedeva?

Era la vendetta del mostro. Era la morte, lugubre amica di Landoro, che ora si diffondeva ovunque, fra terra, mare e cielo, abbattendosi spietata su ogni essere vivente.

In breve, sotto la sua furia, ogni vita scomparve.

Lada e Geri seguirono la sorte di tutti, e da quel giorno, per secoli, la terra, il mare e il cielo rimasero disabitati, squallidi e silenziosi.

Poi la vita tornò a sbocciare da un piccolo fiore incantevole sulla sponda di un fiume. Era un fiore a forma di stella, dai mille petali. Un giorno dopo l’altro, questi petali si trasformarono in esseri viventi. Uno in uomo, un altro in donna, un altro in rondine, un altro ancora in farfalla e così via.

La terra si ripopolò di creature, tornò a palpitare di speranza, di gioia, di bontà, di amore…

Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA

Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA per bambini della scuola primaria.

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Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA

Patrono di Castellammare di Stabia è San Catello, vescovo e martire, al quale i fedeli attribuiscono numerosi miracoli. Tra questi si  ricorda con commozione il miracolo del grano.

Un anno, a causa di una lunga e terribile siccità, tutti i paesi intorno al Vesuvio furono colpiti da una grave carestia: le bestie morivano perchè non avevano erba e gli uomini morivano anch’essi di fame e non sapevano che rimedio trovare. Si inginocchiavano davanti a San Catello e, piangendo, lo pregavano perchè avesse pietà della loro miseria.

Un giorno del mese di giugno, al largo della costa una nave, carica di grano, fu accostata da una barchetta sulla quale c’era un vecchio con la lunga barba e la figura solenne. Il vecchio salì sulla nave e riuscì a convincere il capitano della nave a portare il suo carico di grano a Castellammare, dove glielo avrebbero ben pagato. E, per essere sicuro che il capitano non cambiasse idea, il vecchio gli diede un anello con diamante che portava al dito.

Il capitano della nave acconsentì di buon grado e, arrivato a Castellammare, vendette molto bene tutta la sua merce. Contento degli affari fatti, si sentì naturalmente il dovere di ringraziare quel buon vecchio che lo aveva indirizzato là. Per cui descrivendone la figura, ne chiedeva notizie a tutti. Ma nessuno glielo sapeva indicare.

Alla fine un popolano lo portò nella chiesa dedicata a San Catello. Era forse il Santo patrono della città l’uomo descritto dal capitano?

Proprio così! Infatti, davanti alla statua del santo, il capitano, pieno di meraviglia, esclamò inginocchiandosi: “E’ proprio lui! E’ il venerando vecchio dalla barba, che mi venne incontro sul mare e mi convinse a portare il grano qui!”

La commozione e lo stupore dei fedeli raggiunsero il colmo quando videro che al dito del Santo mancava l’anello col diamante, lo stesso che il capitano della nave aveva ricevuto da quel vecchio dalla figura solenne che lo aveva avvicinato al largo della costa. 

La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio

La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio per bambini della scuola primaria.

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La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio

Un giovane alto e biondo si fermò improvvisamente sul declivio a guardare tra il folto dei pini dove occhieggiava il mare. Aveva visto dondolarsi nell’azzurro dell’acqua una piccola nave.

Stupito da quell’insolito approdo, discese dal colle e lanciò un richiamo: “Chi siete? Che cosa cercate nella terra di Evandro, re degli Arcadi?”.

Un guerriero, che procedeva dinanzi agli altri, fissò il giovinetto e sorridendo rispose: “Sono Enea, capo dei Troiani. Nella terra di Evandro vengo a cercare alleati ed armi contro i Rutuli ed il loro feroce re Turno”.

A queste parole il giovane, senza indugiare, corse incontro all’ospite, esclamando: “Benvenuto, illustre eroe! Io sono Pallante, unico figlio di Evandro. Anche se il nostro regno è povero, leali sono gli Arcadi e sacra l’ospitalità”.

Enea e il principe salirono insieme per il declivio, seguiti dai Troiani; oltrepassarono il crinale, scesero a valle fino in vista del Palatino, su cui sorgeva Pallantea, la città dei pastori.

Evandro distese le pelli più ricche perchè i Troiani potessero riposare, offrì pane buono e miele, ascoltò Enea, che gli chiedeva alleanza.

“Gli dei mi hanno indicato l’Italia ed hanno predetto che dalla mia gente sarà fondata una città potente, grande, dominatrice del mondo: perchè i destini si compiano anche il tuo aiuto è necessario”.

Allora Evandro fece suonare il rustico corno per riunire i pastori a parlamento e ordinò a quelli più giovane e più robusti di armarsi d’arco, di frecce, di lance, di corazze per scendere in campo armati.

Anche il giovane Pallante volle combattere per Enea.

E le schiere, in ordinanza, tra uno scintillio di lance, raggiunsero il Tevere, ne seguirono le sponde ed arrivarono in campo aperto di fronte ai Rutuli.

La battaglia si ingaggiò furiosa da ambo le parti.

Il principe si gettava nelle mischie più pericolose e non esitava ad accettare i corpo a corpo con i guerrieri nemici più anziani e poderosi.

Ad un tratto si trovò di fronte al gigante Turno, il re dei Rutuli.

“Fanciullo, è temerario provarsi con me”

“Il prode non si ritira anche se il pericolo è grande”

E con queste parole scagliò la sua asta di solido frassino, ferrata e tagliente alla cima. L’aste battè sullo scudo di Turno, ma fu rigettata all’indietro.

“Ora sostieni tu la forza del mio colpo!” gridò il re dei Rutuli. E scagliò con forza. L’asta terribile trapassò lo scudo del giovanetto, lacerò la corazza, e gli si confisse nel petto.

Quando il mesto corteo che portava le spoglie di Pallante fu in vista dei luoghi paterni, il vecchio re scese incontro al diletto figlio; si chinò su di lui, quasi a ricercarne il respiro e, sentendolo gelido, si accasciò giù come quercia colpita dal fulmine.

Pallante fu sepolto in una grotta, che si apriva nel Colle Palatino, e su di lui venne posta una lampada accesa; poi la tomba fu chiusa con sassi e terriccio.

Passarono gli anni e passarono i secoli…

Il Palatino vide dal solco di Romolo sorgere la Roma quadrata; la vide allargarsi, la vide dominare i popoli italici, la vide signora di popoli e di civiltà.

Ed altri secoli passarono…

Un giorno, come turbine di guerra, i barbari si gettarono sull’Urbe, la misero a ferro e a fuoco, rovistarono ovunque, avidi di bottino.

Alcuni, battendo con le aste dove il Palatino infoltiva di corbezzoli, sentirono la terra rimbombare come se dentro fosse vuota. Stupiti, svelsero gli arbusti, scavarono, scavarono fino a ritrovare una grotta: e in fondo videro scintillare un lume.

Avanzarono timorosi e sotto il luccicore d’una lampada scorsero un corpo grande e giovanile, intatto e chiuso nelle sue lucide armi.

Vinto lo sgomento, i barbari staccarono la lampada e vi soffiarono sopra: la fiamma si piegò, guizzò, ma non si spense.

Il prodigio li impaurì: compresero che qualcosa di misterioso proteggeva la piccola lingua di fuoco. Tornarono nella grotta, appesero la lampada accesa vicino a Pallante, mirarono per un attimo i bellissimi lineamenti del giovinetto, poi arretrarono fino all’aperto, accumularono nuovamente sassi e pietre all’entrata della tomba, quindi vi ripiantarono i corbezzoli estirpati. Poi si allontanarono, volgendosi di tratto in tratto a riguardare il colle, che chiudeva un mistero per essi insolubile: quello della lampada accesa, simbolo della luce di Roma che non può morire.

(O. Visentini)

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