Materiale didattico sulla seconda guerra di indipendenza: dettati ortografici, letture, poesie per bambini della scuola primaria.
Astuzie di Cavour Al principio della campagna del 1859, per arrestare l’avanzata austriaca, Cavour, allora Ministro della Guerra, diede l’incarico di allagare le campagne tra Vercelli e Novara all’ingegnere Carlo Noè, direttore dei canali statali, scrivendogli: “Caro ingegnere Noè, il suo omonimo salvò il genere umano dalle acque, lei, per mezzo delle acque salvi la Patria”
Gli Austriaci, all’inizio della seconda guerra d’indipendenza, erano convinti di conquistare Torino in pochi giorni. Alcuni loro ufficiali, con tale certezza, fecero inviare dai proprio familiari le lettere direttamente in quella città. Cavour ne venne in possesso e, consegnandole all’ambasciatore prussiano, che sostituiva in quel momento quello austriaco, disse: “Ecco qui alcune lettere destinate a persone che non siamo riusciti a trovare in città: vogliate farle pervenire ai destinatari”.
Le forze in campo Esercito francese: 150 mila uomini. Comandante: Napoleone III, che era anche comandante supremo di tutte le forza alleate. Capo di stato maggiore, il generale Vaillant. Esercito piemontese: 63 mila uomini. Comandante: Vittorio Emanuele II. Capo di stato maggiore, il generale Morozzo della Rocca. Cacciatori delle Alpi: 3500 volontari male armati. Comandante: Giuseppe Garibaldi. La partecipazione di Garibaldi fu voluta dal re contro il parere del ministro della guerra La Marmora. Esercito austriaco: 2oo mila uomini di cui però solo 120 mila il linea. Comandante il generale Ferencz Giulay.
Solferino e San Martino L’alba del 24 giugno, aprendo le sue pupille, vide una cosa meravigliosa: tutte le alture tra il Mincio e il Garda erano coronate dai soldati dell’Austria. Tutto l’esercito austriaco, rafforzato di nuove genti, aveva rivalicato il Mincio; lassù si era schierato, appoggiato dalle retrostanti fortezze. All’alba Francesco Giuseppe contemplava il suo esercito e il generale Schlik disse: “La Maestà Vostra sta per assistere a una grande battaglia e a una grande vittoria”. Vide la torre di Solferino e comprese che il nodo della battaglia era lì. Risalì a cavallo e, accompagnato dalle sue cento guardia dalle criniere bianche, mosse veloce verso Solferino. Nella corsa perse una spallina. Risuonò il comando: “Avanti, cavalleggeri! Viva l’Imperatore!”. Baionette abbassate, senza sparare colpo, al rullo di cento tamburi, i Francesi vanno all’assalto. L’artiglieria nemica folgorava da tutte le parti. Due volte la collina è presa dai Francesi, due volte è ripresa dagli Austriaci. All’ultimo disperato assalto, la posizione è saldamente conquistata. La bandiera giallo-nera apparve, scomparve, riapparve sullo sprone di Solferino. Infine scomparve. Anche l’ufficiale che reggeva quella insegna scomparve. Sulla torre di Solferino sventola il tricolore di Francia. I centro nemico è sfondato; tutte le alture sono prese. Da Cavriana partono gli ultimi colpi di cannone. Sono le quattro e tre quarti. Dodici ore è durato il duello. Alle sette di sera Napoleone III entrava a Cavriana nella casa dove Francesco Giuseppe aveva il suo quartier generale: ma lo aveva dovuto lasciare, perché per poco non era stato fatto prigioniero anche lui. La battaglia di Solferino era terminata; riprendeva come un uragano la battaglia a San Martino. Dalle nove del mattino i soldati italiani erano lanciati in disperati assalti sotto gli occhi del re. “Figlioli” diceva il re, “o si prende San Martino o i Tedeschi faranno fare a noi San Martino!” (Fioei, venta piè San Martin, se no gli aleman a lu fan fè a nui autri!). All’ultimo assalto, con tutte le forze, San Martino è conquistata. Dunque l’Imperatore entrò in quella casa di Cavriana che per breve era stata alloggio dell’altro Imperatore. Quelli che erano con lui dicono che un’espressione di tristezza e di stanchezza profonda era scolpita sul suo volto. Si sedette presso un tavolo coperto da una tovaglia verde, e rimase a lungo immobile e in silenzio. “Sire, l’inseguimento, il coronamento della vittoria!”. Risponde l’Imperatore: “No, la giornata è finita”. Alla luce del lungo tramonto si vedevano le colonne austriache ripassare in buon ordine il Mincio. Napoleone si ritira nelle sue stanze. Vede sulla parete, tracciate a matita, tre parole italiane: “Addio, cara Italia”. Un ignoto ufficiale di Francesco Giuseppe aveva segnato le tre parole profetiche. Quando il sole apparve, l’Imperatore era già con il pensiero a Villafranca. (A. Panzini)
L’ordine del giorno di Vittorio Emanuele II dopo la vittoria di Solferino e di San Martino Soldati! In due mesi di guerra, dalle sponde della Sesia che sono state invase al Po, voi avete corso, di vittoria in vittoria, fino alle rive del Garda e del Mincio. Nella via gloriosa che avete percorso, in compagnia del nostro potente alleato, avete dato ovunque le più grandi prove di disciplina e di eroismo. La Nazione è fiera di voi; tutta l’Italia contra tra le vostre fila i suoi figli migliori, applaude il vostro coraggio e dalle vostre imprese trae fiducia per il suo destino futuro. Ora avete riportato una nuova e grande vittoria, vincendo un nemico grande di numero e protetto da ottime posizioni. Nella giornata ormai famosa di Solferino e di San Martino, avete respinto, combattendo dall’alba fino a notte, i ripetuti assalti del nemico e lo avete costretto a riattraversare il Mincio, lasciando nelle vostre mani il suo campo di battaglia, gli uomini, le armi e i cannoni. Da parte sua l’esercito francese ha ottenuto uguali risultati e ugual gloria dando prova di quel valore che, da secoli, richiama l’ammirazione del mondo. La vittoria è costata gravi sacrifici; ma da questo sangue versato per la più nobile delle cause, l’Europa imparerà come l’Italia sia degna di sedere tra le Nazioni. Soldati! Nelle battaglie precedenti ho spesso avuto occasione di segnalare all’ordine del giorno i nomi di molti di voi. Oggi io porto all’ordine del giorno l’intero esercito. (Vittorio Emanuele, 25 giugno 1859)
Il dramma di Villafranca L’8 luglio Cavour viene a sapere che il generale Fleury, primo scudiero dell’imperatore, è andato a Verona per proporre un armistizio a Francesco Giuseppe. Cavour parte subito da Torino e si precipita dal re, che è alloggiato alla villa Melchiorri, in Monzambano sul Mincio. Appena il sovrano e il ministro si trovano soli, il tono della loro voce è così alto che rimbomba all’esterno della piccola sala della villa: l’argomento della discussione è davvero drammatico. Vittorio Emanuele è obbligato a confessare che, fin dalla vigilia di Solferino, Napoleone III gli ha confidato la decisione di trattare al più presto con l’Austria, dovuta all’attitudine alla minaccia degli Stati tedeschi. E il re si è dimostrato d’accordo dicendo che tutto sommato, questa guerra abbreviata gli farà conquistare almeno la Lombardia. Se la Francia abbandonasse la lotta, il Piemonte potrebbe continuarla da solo? Ad ogni frase Cavour scattava sotto l’impulso della collera crescente, al pensiero di tutto quello che avrebbe potuto fare, di tutte le combinazioni che avrebbe potuto inventare, di tutte le leve che avrebbe potuto manovrare in quei diciotto giorni, se avesse conosciuto i piani di Napoleone III; tutto ciò lo rende furioso… Vittorio Emanuele cerca di contraddirlo, di spiegargli le sue ragioni. Non è meglio concludere la guerra guadagnando la Lombardia, piuttosto che farsi nemica la Francia, col rischio di rientrare a Torino a mani vuote, sotto la minaccia delle baionette austriache e tutta l’Europa che ride di noi? Ma Cavour, che non riesce a trattenersi, grida: “Allora, Sire, abdicate” “Tacete! Ricordatevi che sono il Re!” “Il vero re, in questo momento, sono io!” “Voi il re? Voi non siete che un insolente!” gli urla Vittorio Emanuele, ed esce dalla sala sbattendo la porta.
Napoleone III e Vittorio Emanuele dopo Villafranca Dopo il “tradimento” di Villafranca, Napoleone così spiegò le ragioni del suo comportamento: “Se la rivoluzione varcasse gli Appennini, l’unità d’Italia sarebbe fatta, e io no voglio l’unità, ma soltanto l’indipendenza. L’unità rischia di portare a problemi interni per la questione di Roma, e a problemi esteri perché con l’unità la Francia si ritroverebbe una grande nazione al suo fianco, che potrebbe far diminuire la sua influenza”. Più tardi, Vittorio Emanuela II rispose a Napoleone rinfacciandogli il suo comportamento: “Io sono vincolato dal patto con l’Europa, dal dovere di giustizia, dagli interessi della mia casa e sono vincolato al mio popolo, all’Italia. I Solferino, i San Martino riscattano talvolta i Novara, i Waterloo; ma le apostasie dei principi sono sempre irreparabili. Io sono commosso nel più profondo del mio animo per la fiducia e per l’amore che questo nobile e sventurato popolo ha riposto in me; e, prima di tradirlo, spezzo la spada e getto la corona come fece mio padre”.
Le annessioni La fine della guerra porta alla cessione della Lombardia alla Francia, che la cede a sua volta al Piemonte, in cambio di Nizza e Savoia. Il Veneto rimane ancora sotto l’Austria. Ma durante la guerra molte province sono insorte, hanno cacciato i sovrani, hanno chiesto l’annessione al Piemonte. Dopo la Toscana e Massa Carrara, anche Modena insorge e, ai primi di giugno, costringe il Duca a lasciare la città. Il 13 giugno un movimento popolare sempre più forte travolge la reggenza lasciata dal Duca e proclama l’annessione al Piemonte. A Parma il popolo è insorto fin da maggio: il 2 giugno costringe la Duchessa a fuggire e dichiara l’annessione al Piemonte. Bologna e la Romagna, Stato del Papa, vengono tenute a freno da forti truppe austriache fino all’11 giugno, ma il 12 scoppia un’impetuosa dimostrazione popolare, e il potere passa nelle mani di un governo provvisorio: entro la mezzanotte del 13 tutta la Romagna è insorta e si è liberata del dominio austriaco e clericale. Nella discussione a Zurigo, per il trattato di pace, si propone di rimettere i sovrani sui loro troni. Ma le popolazioni si ribellano, si riuniscono in grandi assemblee e reclamano l’annessione al Piemonte.
Il trattato di pace: Zurigo, 10 novembre 1859 Si firma il trattato di page che pone ufficialmente fine alla guerra. Nel trattato si confermano gli accordi di Villafranca, e si stabilisce che i principi italiani, che erano stati costretti a fuggire, debbono ritornare nei loro Stati. Ma come ciò sarà possibile? Non hanno eserciti propri, né possono contare sull’aiuto dell’Austria, perché questa, nel trattato, si è impegnata a rispettare il principio del “non intervento”. D’altra parte le popolazioni sono decise a votare, per plebiscito, l’annessione al Piemonte. Il trattato prevede che il futuro assetto dell’Italia sarà stabilito in un Congresso che sarà successivamente convocato. Ma è impressione generale che saranno i fatti e l’autodecisione delle popolazioni, che daranno un nuovo volto all’Italia.
In margine al trattato di pace: la restituzione della Corona Ferrea La corona ferrea, con la quale nel Medio Evo venivano incoronati i re d’Italia, e con la quale anche Napoleone fu incoronato “re d’Italia”, era stata tolta dal duomo di Monza, dove era conservata, e portata a Vienna dagli Austriaci, all’inizio della guerra. Ora l’Austria, in virtù del trattato di pace, è obbligata a restituirla. Sembra un presagio.
Vittorio Emanuele II La sera del 23 marzo 1849, dopo che il suo esercito era stato sconfitto dagli Austriaci, il re di Sardegna Carlo Alberto abdicò alla corona in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Era un momento tragico per la storia italiana, ma il ventinovenne re superò questa prova con fermezza e coraggio, rifiutandosi di rinnegare ed abolire lo Statuto che suo padre aveva concesso e giurato. Sinceramente convinto che il regno di Sardegna dovesse diventare il centro della lotta di tutti gli italiani, per l’unificazione e l’indipendenza nazionali, Vittorio Emanuele ebbe la fortuna di trovare in Cavour il geniale ministro che realizzò questo grande programma: e così i patrioti, sia monarchici sia repubblicani, si schierarono con il regno di Sardegna nella lotta all’Austria. Vittorio Emanuele II fu sui campi di battaglia, distinguendosi nel 1859 a Palestro e a San Marino. Appoggiò la spedizione dei Mille e, ricevuto da Garibaldi a Teano il regno delle Due Sicilie appena conquistato, portò nel 1861 la corona dell’Italia unita. Fu ancora sul campo a Custoza (18669 e infine entrò, da re, in Roma libera (1870). Carattere rude e fiero, regnò con lealtà e dignità, meritando il soprannome di “Re galantuomo”. Morì a Torino nel 1878.
Aneddoti Un giorno il D’Azeglio disse al Re: “Ce ne sono stati così pochi nella storia di re galantuomini, che sarebbe veramente bello cominciare la serie”. “Devo fare il galantuomo?”, chiese senza ridere Vittorio Emanuele. “Vostra maestà ha giurato fede allo Statuto, ha pensato all’Italia e non al Piemonte. Continuiamo allora a dare per certo che a questo mondo tanto un re quanto un individuo oscuro non hanno che una sola parola” “Ebbene, il mestiere mi sembra facile” disse sua Maestà. “E il re galantuomo l’abbiamo”, osservò il D’Azeglio.
A volte il re amava confondersi con la folla per sentirne i giudizi direttamente e per essere libero di esprimere i suoi. Nel primo anniversario dello Statuto si travestì da popolano indossando i suoi abiti da caccia, ed entrò di sera in una birreria in piazza San Carlo. Alcuni popolani che erano nel locale festeggiavano la ricorrenza e gridavano: “Viva il re! Viva lo Statuto!”. Il re si sedette ad un tavolo, ordinò, bevve in fretta e poi, prima di uscire, si rivolse ai popolani gridando: “Viva la Repubblica!”. Successe un parapiglia e il Re pensò di non riuscire ad uscirne, quando un operaio prese le sue difese e, siccome non riusciva a calmare i suoi compagni, gli venne l’idea di gridare: “Ma non vedete che è matto?”. (L. Pollini)
Motti arguti Nel 1861 passavo in rassegna le truppe in Piazza d’Armi a Milano. Erano reggimenti di fanteria nei quali abbondavano i soldati lombardi e tra questi non pochi milanesi. Un reggimento stava davanti a me e al mio Stato Maggiore, ed i soldati, come la disciplina prescrive, tenevano gli occhi fissi nei miei. Due di quei soldati, mentre aveva gli occhi rivolti a me, tenevano senza scomporsi una conversazione, che anche se fatta a voce molto bassa, riuscii ad ascoltare parola per parola. “Guarda” diceva uno, “El noster re come l’è bel grass”. E l’altro rispondeva: “El soo anca mi che l’è bel e grass; el se magna una provincia al dì, e te veut minga ch’el sia bel e grass?”
Il “miracolo” di Cavour Cavour si preparava alla guerra, ma secondo i patti di Plombieres non poteva dichiararla lui: doveva aspettare di essere aggredito. Lord Russel disse a Cavour: “Signor Conte, credo che lei stia sprecando le sue energie, perché l’Austria non le dichiarerà mai la guerra.”. “Ma io saprò convincerla”, disse Cavour. Il lord incredulo domandò allora ironicamente quando credeva possibile il miracolo diplomatico. “Intorno alla prima settimana di maggio”, rispose serio serio Cavour. E fu infatti così. (F. Palazzi)
Il compito più difficile Un giorno un gruppo di persone stavano tessendo le lodi di Cavour davanti a Napoleone III. Qualcuno disse: “Sì, è un grande uomo politico; peccato che non sia lui a governare un grande Stato”. Napoleone con molto buon senso rispose: “Credo che il compito di fare grande un piccolo Stato sia molto più difficile che non governare un grande Stato. Lasciatelo fare, Cavour è sulla buona strada”.
Un pensiero di Cavour Cavour amava tanto il lavoro e le persone attive, che gli piaceva dire: “Quando voglio che una cosa sia fatta presto e bene, mi rivolgo alle persone che sono sempre occupate: i disoccupati non hanno mai tempo di far nulla”. (F. Palazzi)
Sovrano popolare Siamo a Torino, nel 1859, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza. La città è tutta in attesa, fremente di entusiasmo e di speranza. Il popolo, che si era raccolto spontaneamente attorno allo stesso ideale, va una sera a fare una grande dimostrazione patriottica davanti alla dimora del conte Camillo Benso di Cavour, presidente del Consiglio dei Ministri. La mattina dopo Cavour, molto soddisfatto, parla al Re del grande vociare di entusiasmo che gli è giunto dalla strada; ma il sovrano non ha l’aria di stupirsi. “Vostra Maestà è stata già informata?” “Cuntacc!” rispose il re, “Ero anch’io fra il popolo a gridare -Viva Cavour!- “ (Vaccaro, da “Enciclopedia degli aneddoti”)
Il discorso della Corona del 10 gennaio 1859 L’apertura della sessione venne fissata al giorno 10 gennaio 1859. La sera del 7 il conte Cavour ebbe una nuova conferenza col Re, il quale esaminò attentamente il discorso, scrisse di suo pugno alcune variazioni e concordò col suo ministro le parole diventate storiche, il grido di dolore, che erano state accennate e suggerite da Napoleone III… La mattina del 10 gennaio l’aspetto dell’aula di Palazzo Madama era più che mai imponente. I ricordi del passato s’intrecciavano con le speranza e con la fiducia del futuro. Lì Vittorio Emanuele aveva pronunciato il giuramento solenne: lì sì era più volte appellato al buon senso e al patriottismo del parlamento e del suo popolo; lì quella mattina pronunciava le parole ardenti di chi sente nell’animo la gioia di un grande progetto. Quando aprì il foglio di carta che doveva leggere, ci fu un silenzio profondissimo: tutti pendevano dalle sue labbra, il segreto era stato gelosamente custodito, e l’impazienza di sentire ciò che il Re avrebbe detto, era grandissima. Egli gettò uno sguardo intorno all’aula, e poi con voce che, fioca all’inizio, andò via via prendendo vigore e colorito, lesse… Il discorso finiva così: “L’orizzonte, in mezzo a cui sorge il nuovo anno, non è pienamente sereno. Ciò non di meno vi accingerete con la consueta alacrità ai vostri doveri parlamentari. Confortati dall’esperienza del passato, andiamo risoluti incontro all’eventualità dell’avvenire. Questo avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull’amore della libertà e della patria. Il nostro paese, piccolo per territorio, ha guadagnato credito nei consigli europei perché grande per le idee che rappresenta e per le simpatie che ispira. Questa condizione non è priva di pericoli, perché mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi. Forti e fiduciosi nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi.” Ad ogni periodo il discorso venne interrotto da applausi fragorosi e dalle grida “Viva il Re!”, e alle parole “grido di dolore” eslose un entusiasmo indescrivibile. Senatori, deputati, spettatori si levarono in piedi e lo acclamarono. I ministri di Francia, di Prussia e d’Inghilterra osservavano attoniti e commossi lo spettacolo. L’incaricato degli affari di Napoli aveva il volto bagnato di sudore. (G. Massari)
L’eco a Milano del discorso di Vittorio Emanuele La notizia del discorso giunse a Milano la stessa sera. Ero al teatro della Scala; a un tratto si vide un parlarsi l’un l’altro, con ansietà, con commozione, come di persone che si comunicano una grande notizia; e si osservò una sorpresa insolita anche nei palchi delle autorità e dei generali Austriaci. Quell’elettricità che era nell’aria, che era in tutti, doveva, poche sere dopo, scoppiare rumorosamente in quella stessa sala del teatro. Si rappresentava la Norma di Bellini e, appena fu intonato il coro “Guerra, guerra!” tutto il pubblico scattò in piedi: dai palchi le signore sventolavano i fazzoletti e tutti in coro gridarono “Guerra! Guerra!”e il coro fu fatto ripetere più volte. Gli ufficiali della guarnigione che, come di solito, occupavano le due prime file della platea a loro riservate, non capirono sulle prime la ragione di quel chiasso. Esterrefatti, guardavano, quasi interrogando, nei due palchi riuniti di prima fila, dove stava il generale Giulay con parecchi ufficiali superiori. Questi capirono ben presto di che cosa si trattasse e si misero ad applaudire essi pure “Guerra! Guerra!”. Anzi Giulay stesso ne diede il segnale, battendo ripetutamente la sciabola sul pavimento. Chi avrebbe detto quella sera che la guerra sarebbe proprio scoppiata e che, cinque mesi dopo, egli avrebbe perduto a Magenta una grande battaglia? Il segnale dato da Giulay fu subito seguito da tutti gli ufficiali, che si alzarono in piedi e, fissando il pubblico, applaudirono fragorosamente. Pensate che baccano! Da una parte si gridava entusiasticamente “Viva va guerra! Viva la guerra!, si sventolavano i fazzoletti, si chiedevano nuove repliche al coro; dall’altra si battevano in modo altrettanto provocante le sciabole a terra: il teatro fu attorniato dalla truppa, chiamata in fretta, e Giulay uscì, circondato dagli ufficiali accorsi in sua difesa. Il baccano quella sera durò a lungo: era l’esplosione del desiderio represso di vedere spuntare il primo giorno della guerra. Le parole di Vittorio Emanuele II aveva aveva acceso le polveri. (G. Visconti Venosta)
Napoleone III Luigi Napoleone Bonaparte, nipote del grande imperatore, nacque nel 1808 a Parigi. Irrequieto ed avventuroso, si dedicò sin da giovanissimo alla politica, e nel 1848 fu eletto presidente della Repubblica francese. Nel 1851, con un colpo di stato, si impadronì del potere e l’anno dopo si proclamò imperatore, col nome di Napoleone III. Sotto il suo regno la Francia tornò ad essere una delle massime potenze mondiali, pagando però grandezza e prestigio con la perdita della libertà. Le ambizioni di Napoleone III tramontarono nel 1870 quando, dichiarata la guerra alla Prussia, venne sconfitto e catturato nella battaglia di Sedan. Mentre il suo impero crollava, egli andò esule in Inghilterra, dove morì nel 1873. Napoleone III può essere considerato uno dei protagonisti del Risorgimento italiano. Nel 1849, egli mandò un esercito a soffocare la Repubblica romana; nel 1867, a Mentana, sbarrò a Garibaldi la via per Roma. Questi sanguinosi episodi di ostilità, tuttavia, sono riscattati da quanto Napoleone III fece nel 1859, quando mise a repentaglio la fortuna sua e della Francia per aiutare gli Italiani a liberare la Lombardia. Malgrado tutto dunque, dobbiamo riconoscenza a Napoleone.
Nasce la Croce Rossa Ferdinando Palasciano medico dell’esercito borbonico, aveva sostenuto dieci anni prima di Solferino, che “i feriti di guerra, nel momento in cui rimangono feriti, cessano di essere nemici e vanno raccolti e curati, indipendentemente dall’esercito a cui appartengono”. Per questi suoi principi Ferdinando II l’aveva degradato e imprigionato. Ma la nobile proposta del Palasciano doveva essere raccolta, dieci anni dopo, da un medico svizzero che assistette alla sanguinosissima battaglia di Solferino. In un libro intitolato “Un ricordo di Solferino” egli descrisse la tragica odissea di migliaia di feriti che, senza cure adeguate, senza assistenza, morivano dissanguati sul campo o in ricoveri improvvisati. “Proclamiamo solennemente”, disse “che i feriti di guerra sono sacri e devono essere curati anche dai nemici”. Le sue proposte, alla Conferenza Internazionale di Ginevra (1864) portarono alla nascita della Croce Rossa. Il suo nome è Enrico Dunant.
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La storia delle armi per bambini della primaria con testi e immagini che possono essere d’aiuto per preparare carte delle nomenclature, linee del tempo ed altro materiale didattico.
Etimologia La parola arma potrebbe derivare dal latino armus (armòs, in greco) che significa “omero” o “braccio. Per alcuni studiosi invece la parola potrebbe derivare dal celtico harn, “ferro”, o dall’antico germanico har “esercito” o dallo svedese harnad, “guerra”.
Storia delle armi
I primi uomini avevano bisogno di proteggersi dagli animali e di cacciarli. Dalle prime armi naturali e che hanno a disposizione anche gli animali, le unghie e i denti, passarono ad utilizzare oggetti che noi oggi chiamiamo armi, cioè attrezzi da usare per difendersi e per cacciare. Sicuramente le prime armi utilizzate dall’uomo furono le pietre o i rami spezzati che venivano trovati per terra e scagliati contro il nemico o gli animali.
La più antica arma fabbricata dall’uomo fu la clava, un pesante pezzo di legno con un’estremità più grossa e pesante e un’impugnatura più sottile. Nell’estremità grossa poteva essere infilato un anello di selce o pezzi di selce, corno o osso per rendere l’arma più micidiale.
Nel Paleolitico inferiore, 250.000 anni fa, comparvero le lance che potevano avere una punta d’osso o di legno indurito al fuoco. Grazie alla scoperta del fuoco, l’uomo capì che bruciacchiando una lancia di legno verde, la sua punta si induriva e diventava quasi di pietra. Scoprì che era meglio posizionare sulla sommità del bastone un sasso appuntito e scelse la selce, una pietra molto dura e facile da lavorare per ottenere delle punte affilate. Queste punte di pietra penetravano meglio e creavano ferite più grandi sugli animali, rispetto a quelle di legno indurito o di osso. L’uomo dell’età della pietra scoprì anche che poteva aggiungere al bastone della lancia il fuoco di sterpaglie accese.
Accanto alla lancia comparve anche la mazza, un’evoluzione della clava. Si tratta di un bastone con un’estremità appesantita da pietra. Per proteggersi da queste armi nel Paleolitico si sviluppò l’uso della corazza di pelle.
L’uomo dell’età della pietra trovò anche modi per aumentare la potenza di lancio del braccio umano, ad esempio estendendo la sua lunghezza: questo è il principio della frombola. La potenza della frombola nell’antichità è testimoniata dalla storia biblica di David e Golia. La frombola è composta da una sacca che contiene il proiettile (pietra) con due lacci. Facendo roteare velocemente la sacca, la forza centrifuga fornisce velocità al proiettile, che vola nell’aria quando si lascia il laccio.
Grazie a queste nuove armi l’uomo si trasformò da preda a cacciatore.
Nel Paleolitico superiore (circa 15.000 anni fa) vi fu la prima invenzione “meccanica”: l’arco con frecce, strumento che sfrutta l’elasticità del legno per lanciare la freccia. Il rilascio improvviso dell’energia immagazzinata dall’arco teso, quando torna alla sua forma naturale, è più rapida e più potente di qualsiasi impulso di cui i muscoli umani siano capaci. Probabilmente alla base dell’invenzione ci fu l’osservazione del trapano ad archetto, utilizzato dall’uomo preistorico per accendere il fuoco. Gli archi erano costruiti con legno di tasso o di olmo e le punte delle frecce erano di selce scheggiata, spesso con margini dentati per conficcarsi con fermezza nelle carni. L’arco segnò una vera e propria rivoluzione nella storia delle armi e da allora fu usato sia nella caccia sia nella guerra.
L’arco permise all’uomo di diventare un cacciatore più efficiente. L’uso dell’arco è testimoniato nelle pitture rupestri di Altamira. Dalla sua invenzione, le civiltà di tutto il mondo hanno prodotto archi utilizzando il tipo di vegetazione che avevano a disposizione; gli archi cinesi erano fatti ad esempio di bambù.
Nel Neolitico si sviluppano l’agricoltura e la domesticazione degli animali. Questo creò abbondanza di cibo, e così gli uomini poterono dedicarsi alla guerra direttamente o sostenendo una classe di guerrieri professionisti. Risalgono all’8.000 aC le prime mura perimetrali di difesa. Gerico èconosciuta come la “città più antica del mondo” (8.500-7.500 a.C.), fondata quando ancora non si praticava l’allevamento e non erano in uso recipienti di ceramica. Le esigenze difensive nei confronti di popolazioni rimaste ancora nomadi, costrinsero gli abitanti ad erigere una cinta di fortificazione in pietra, rinforzata all’esterno con un fossato.
Dopo la scoperta del rame puro in Anatolia, intorno al 6000 a C, la metallurgia del rame si diffuse in Egitto e in Mesopotamia. I Sumeri furono i primi ad usare armi di rame. A parte le mazze, che erano molto diffuse, per la maggior parte di trattava di oggetti troppo costosi e malleabili per essere armi efficaci. Anche i nativi americani usavano lame e coltelli di pietra focaia, ma usavano il rame per cerimonie e decorazioni. Il rame fu per molto tempo l’unico metallo noto agli umani.
Intorno al 4500 a C l’arte della metallurgia si diffuse in India, Cina ed Europa ed è con l’avvento del bronzo che le armi da taglio in bronzo divennero di uso comune. Il bronzo è una lega di rame e stagno ed è molto più duro del rame puro.
Fu ampiamente utilizzato in Asia: la civiltà della valle dell’Indo prosperò grazie al miglioramento della metallurgia. Il bronzo è stato prodotto su larga scala in Cina per le armi, tra cui lance, asce, archi compositi e elmi in bronzo o cuoio.
Il Khopesh era un’arma a forma di mezzaluna. Aveva un manico corto e una lama di bronzo. Venne inventato dai Sumeri nel 3000 a C per il bisogno di un’arma potente come un’ascia ma che non avesse il suo ingombro e il suo peso. Era l’arma principa bble delle tribù che vivevano vicino alla Mesopotamia e venne poi adottato dagli Egizi. Ramses II (1250 a C circa) fu il primo faraone ad usare il khopesh in guerra. Il Khopesh poteva essere usato come un’ascia, una spada o una falce, divenne l’arma più popolare in tutto l’Egitto e un simbolo del potere e della forza reale. Possiamo ritrovare il Khopesh anche nelle opere d’arte assire.
Circa nel 1500 a C compare l’arco composito, preciso fino a 300 metri. Furono gli Egizi a perfezionare quest’arma. Si chiama composito perché è costruito con strati di materiali diversi (tendini animali, strisce di corno, osso) che reagiscono in modo diverso sotto tensione o compressione. Questa tecnica di costruzione aumentò la distanza e la precisione del tiro e la capacità di penetrazione delle frecce, ora con la punta metallica. L’arco composito, così chiamato per il suo metodo di costruzione, è l’arco curvo corto, noto nell’arte come l’arco di Cupido. L’arco composito è più piccolo e potente dell’arco tradizionale, ed è quindi adatto ad essere usato da cavallo o da carro da guerra.
I Sumeri e gli Accadici vivevano nella Mesopotamia meridionale, l’attuale Iraq, una regione aperta agli attacchi nemici. Il guerriero sumero era equipaggiato con lance, mazze, spade e fionde. Sargon di Akkad, (2333-2279 a C) fu un grande capo militare e usò sia la fanteria che i carri da guerra a quattro ruote trainati da asini.
Per lungo tempo la posizione strategica dell’Egitto permise ai suoi abitanti di rimanere liberi da attacchi nemici, e in questo periodo non ebbero bisogno di addestrare un esercito per la difesa dei confini. Durante l’Antico ed il Medio Regno (2700 – 1650 aC) l’armamento egizio contava solo mazze di pietra, archi, frecce e giavellotti a punta di selce o bronzo, pugnale e scure in bronzo.
Tutto cambiò durante il Secondo Periodo Intermedio (1650 – 1550 a C) quando l’Egitto fu invaso dalla tribù degli Hyksos, proveniente dall’Asia Occidentale. Questi invasori possedevano armi più sofisticate degli Egizi e soprattutto usavano carri da guerra a due ruote tirati da cavalli. Con le loro invasioni queste tribù conquistavano territori, ma al tempo stesso diffondevano le loro conoscenze. Gli Hyksos usavano archi compositi e archi ricurvi; a differenza dei Sumeri, avevano carri trainati da cavalli e non asini; indossavano protezioni per il corpo e elmi metallici; possedevano pugnali spade e asce migliori di quelli egizi.
Una volta cacciati dall’Egitto, ormai gli Egizi avevano appreso da loro l’uso dei cavalli in guerra, l’uso dei carri trainati da cavalli, nuove tecniche di lavorazione del bronzo e della ceramica e nuove armi. Nel Nuovo Regno (1550 -1069 a C) il corredo militare egizio fu arricchito da daga, casco di cuoio, corazza di lino pressato, carro da guerra a due ruote raggiate. Il carro era montato da un combattente con arco, lancia e scudo.
Le armi del guerriero miceneo (2000 – 1200 a C) erano una spada in bronzo e una lancia in bronzo. Armi simili sono usate, molti secoli più tardi, dagli hopliti greci.
Dal 1100 aC i Fenici sviluppano la galera di guerra, con un ariete tagliente nella prua.
Un importante sviluppo tecnologico nella costruzione delle armi avviene quando il ferro prese il posto del bronzo (1200 a C). Lo stagno, uno dei componenti del bronzo, non è così diffuso sulla terra, mentre il ferro è il metallo più abbondante. L’uomo scoprì come indurire il ferro trasformandolo in acciaio nel 1100 a C circa e presto gli eserciti del mondo antico furono in grado di mettere in campo un numero molto maggiore di soldati, equipaggiato con armi devastanti e a costi relativamente bassi. Gli Ittiti furono probabilmente i primi a utilizzare le armi di ferro. Questo popolo si stabilì verso il 2300 a.C. in Anatolia (l’odierna Turchia). Gli Ittiti furono i primi a lavorare il ferro, di cui custodivano gelosamente il segreto. Il procedimento consisteva nel riscaldare, martellare e poi raffreddare con acqua il metallo. In questo modo ottenevano armimolto leggere e molto più resistenti di quelle in bronzo utilizzate dagli altri popoli, così sottomisero molte terre circostanti.
Gli Assiri adottarono le armi in ferro sistematicamente, così il primo esercito di ferro è quello assiro, noto dal 900 a C per i suoi brutali successi in una continua campagna di aggressione nei confronti dei suoi vicini.
Nell’800 a C i popoli della Cultura di Hallstatt dell’Europa centrale (predecessori dei Celti) forgiavano spade di ferro stupende, che portano con sé nelle loro tombe. Di lunghezza senza precedenti, queste armi venivano prodotte con una tecnologia d’avanguardia.
Il tridente era una lancia a tre punte che in origine erano di corno, e poi di metallo. Nell’antichità era usato per la pesca e la caccia soprattutto in Asia, e poi come arma. Il tridente era particolarmente popolare come arma nell’antica Grecia (800 – 338 a C). Nell’India antica è chiamato Trishula (tre lance). Successivamente il tridente è stato usato dai gladiatori romani. Anche le arti marziali orientali hanno numerose armi derivate dal tridente. Il tridente è un’arma associata a varie divinità: Poseidone, il dio indù Shiva.
I Persiani nel 600 a C, inventarono la trireme, una nave da combattimento che utilizzava come propulsione, oltre alla vela, tre file di rematori e che fu ampiamente usata dai Greci.
Gli Assiri sono noti per la loro bellicosità e la loro ferocia verso le popolazioni vinte. Il loro regno si estese in Mesopotamia dal 1770 al 612 a C. Per gli Assiri l’addestramento era importantee fondarono scuole militari. L’esercito assiro fu il primo a usare il ferro nelle sue armi e nell’ 800 a C cominciò ad utilizzare l’acciaio. Gli Assiri furono anche i primi ad utilizzare torri d’assedio, circa nell’850 a C.Prima degli Assiri l’ariete veniva portato dai soldati fino alle mura della città nemica e usato per aprire una breccia. I soldati però erano vulnerabili all’olio bollente e al lancio di pietre dei nemici. Gli Assiri perciò trasformano l’ariete e lo fissarono sul tetto di una struttura in legno con ruote. La struttura veniva spinta in posizione mentre i soldati rimanevano protetti al suo interno e potevano far oscillare l’ariete. Gli Assiri poi idearono la torre d’assedio, una struttura a ruote che aveva lo scopo di fornire ai soldati una piattaforma alta come le mura della città nemica, da cui essi potevano lanciare il loro attacco.
L’antica Grecia (800 – 338 a C) fu sempre circondata da nemici, così i Greci idearono un modello di guerra completamente diverso dagli altri popoli. La loro era una guerra di strategia: cercavano i punti di forza e di debolezza dei nemici e sceglievano le loro armi di conseguenza. I Greci usavano lunghe lance con punta di ferro, scudi, elmi e pettorali. Lo scudo dei greci era così forte da spezzare le lance. Se la loro lancia era rotta, usavano le spade per il combattimento ravvicinato.
Perfezionarono la triremi persiana e grazie a questo poterono contare su una formidabile flotta navale. A prua c’era un grande rostro di ferro (oggetto da sfondamento) mentre sul ponte operavano arcieri e frombolieri.
In guerra utilizzavano una formazione di combattimento chiamata falange greca: la fanteria pesante, armata di lance o picche (dory) e spada corta di ferro (xiphos) , rimaneva compatta e coesa e avanzava in formazione allineata, creando una foresta impenetrabile di lance e un muro di scudi (oplon). Dal nome dello scudo, questi soldati erano chiamati opliti.
I Greci perfezionarono la balista (o ballista), una potente catapulta che lanciava pietre sferiche o una grossa lancia, spesso infuocata, a lunga distanza. E’ a tutti gli effetti una versione statica della balestra.
I Macedoni governarono in Grecia dal 338 al 31 a C. Continuarono a seguire la strategia militare greca della falange, con la differenza che la fanteria macedone utilizzava la sarissa, una lancia lunga 15 piedi con una punta a forma di foglia.
L’esercito macedone aveva inoltre una cavalleria. I Macedoni utilizzavano, oltre alla balista, armi portatili come la cheiroballistra.
I Macedoni idearono anche la catapulta a torsione. Nella catapulta a torsionel’energia viene immagazzinata in un elemento (fibre vegetali, tendini e pelli di animali) che viene fortemente avvolto su se stesso, come negli aerei ad elastico. Quando il perno viene rimosso, il braccio scatta in posizione verticale e la pietra viene scagliata. I Romani la chiamarono onagro.
A partire dal 390 a C i soldati dell’antica Roma erano divisi in due gruppi: Legionari e Ausiliari; i Legionari erano cittadini romani e gli Ausiliari provenivano da tribù alleate. I Romani usavano in guerra le armi più semplici e insolite, mentre l’esercito godeva di una organizzazione impeccabile e grande disciplina. La spada romana tradizionale era il gladio. Si trattava di una spada non più lunga di 60 centimetri, con lama di ferro e impugnatura di legno ricoperto di bronzo o altri materiali. Aveva un effetto limitato quando veniva maneggiato da cavallo.
Altra arma in dotazione ai soldati romani era il pilum, un giavellotto lungo circa 150 centimetri con una parte in legno e una lunga parte in ferro, lunga tanto da poter attraversare uno scudo e raggiungere il corpo del nemico. Di solito ogni soldato ne portava due, uno leggero ed un secondo più pesante.
Altre armi usate dai Romani erano l’arco e la frombola. I Romani utilizzarono anche varie macchine da guerra. Tra queste c’erano: la balista, la catapulta, l’ariete, la torre mobile, la cheiroballista e la carrobalista, una balista posta su un apposito carro trainato da cavalli, che garantiva grande flessibilità perché spostabile durante la battaglia.
Altra macchina da guerra era lo scorpio (o scorpione), arma molto precisa e potente, da cui discenderà la balestra. Gli scorpioni venivano collocati in formazione su alture dominanti distruggendo parecchi nemici.
Il corvo era un congegno che i Romani usava per abbordare le navi nemiche. Era una passarella mobile con degli uncini alle estremità che agganciavano la nave nemica, consentendo alla fanteria di combattere col nemico quasi come sulla terraferma. Con la crescita dell’esperienza nella guerra navale, il corvo fu abbandonato.
Nel 299 a C La tecnica dell’assedio romano viene migliorata dalla “tartaruga” che permette di avanzare e proteggersi dal nemico creando impenetrabili muri di scudi verso tutte le direzioni.
Dopo la morte di Marco Aurelio nel 180 d C Roma divenne vulnerabile alle invasioni barbariche e Germani (Ostrogoti, Visigoti, Vandali, Franchi) e Unni penetrarono nel territorio romano. Nel 410 avvenne il Sacco di Roma, cioè la conquista e il saccheggio della città da parte dei Visigoti guidati dal loro re Alarico. Queste tribù combattevano prevalentemente a cavallo e utilizzavano l’arco composito con frecce a punta di ferro. Altre armi erano la spada lunga a doppio taglio e l’ascia da lancio.
Durante il regno di Giustiniano (527- 565), l’impero bizantino divenne una potenza militare e si impegnò nella cacciata dei barbari. I Bizantini avevano un esercito molto disciplinato e idearono nuove e potenti armi. Intorno al 672 inventarono una sostanza incendiaria conosciuta come fuoco greco. Attraverso dei lanciafiamme montati sulle navi, sparavano questo fuoco sui nemici. Era un’arma davvero impressionante per la sua forza distruttiva e questo fuoco riusciva a rimanere acceso anche sull’acqua. Utilizzavano dei dispositivi di loro invenzione, che funzionavano con motore a torsione, per lanciare frecce con maggiore intensità. Dal 900 in poi adottarono per la costruzione delle loro armi le tecniche usate dai musulmani.
Il mondo islamico era molto più evoluto, nella costruzione delle armi, rispetto a tutti i popoli del Mediterraneo, soprattutto grazie alle relazioni commerciali con la Cina, da cui copiarono il trabucco. Si trattava di una grande macchina da guerra in grado di lanciare grandi pietre a distanza. Alcuni trabucchi venivano usati per gettare cavalli morti per diffondere malattie nelle città assediate. Il trabucco era composto da un lungo braccio con un contrappeso ad una estremità e una sacca all’altra estremità che funzionava come una grande fionda.
Intorno al 950, durante la dinastia Song, i cinesi iniziarono a produrre polvere da sparo (o polvere nera) e la lancia da fuoco fu la prima arma a utilizzarla. Era una comune lancia alla quale veniva abbinato un tubo contenente polvere da sparo e proiettili. All’accensione i proiettili venivano espulsi insieme alla fiamma per qualche metro. A partire dal 1100 con la polvere da sparo i Cinesi realizzarono le prime bombe, i primi razzi e i primi cannoni.
Nel Medioevo, in Europa, una delle armi innovative e più usate era la balestra. La balestra fu inventata nel 300 a C in Cina, ma non arrivò in Europa che nel 1000. La caratteristica principale di quest’arma è che può essere caricata in anticipo, prima di essere usata. Può lanciare quadrelli, frecce, strali, bolzoni, palle o dardi. La corda viene bloccata da un meccanismo chiamato noce, e lo scatto avviene facendo pressione su una sorta di grilletto o abbassando un piolo.
All’epoca delle Crociate (1000 – 1300) gli eserciti europei usavano lance, spade e pugnali; i soldati a piedi erano equipaggiati con una straordinaria gamma di armi inastate, che spesso riflettevano il loro luogo di origine. Le armi degli eserciti islamici non erano di molto diverse da quelle dei Crociati. Nell’esercito l’obiettivo fondamentale della cavalleria era caricare le linee nemiche e creare il caos. Per la carica iniziale i cavalieri usavano le lance, che poi venivano scartate per passare a spada, ascia e martello da guerra, che venivano usati per il combattimento corpo a corpo. La francisca, arma innovativa del Medioevo, fu inventata dai Franchi; è una scure da lancio perfettamente bilanciata, a manico corto e con lama a un taglio.
Dalla francisca si sviluppano varie armi inastate (montate su un’asta), prima fra tutte l’alabarda. Era un’arma tradizionale svizzera, costituita da una lama d’ascia sormontata da una punta, con un gancio o un piccone sul retro, in cima a un lungo palo. Quest’arma veniva usata dai soldati di fanteria contro la cavalleria.
Altra arma inastata del Medioevo era il terribile martello di Lucerna che somiglia in realtà più a un spiedo che a un martello.
E tra le armi inastate non possiamo dimenticare il roncone. Era un’arma di grande potenza perché poteva colpire, tagliare, agganciare, strappare ed era in grado di danneggiare le armature e ferire gravemente i cavalli.
L’arco era un’altra tipica arma medievale molto diffusa in tutti i paesi europei. Il successo militare dell’Inghilterra, a partire dal 1200, deve molto all’invenzione dell’arco lungo (longbow). A quel tempo l’Inghilterra era un paese rurale, e mancavano artigiani abili e risorse per costruire le balestre. L’arco lungo era costituito da un unico listello di legno di tasso, della lunghezza di circa 185 cm, ed era quindi molto economico da costruire. Grazie a quest’arma gli Inglesi sconfissero in più occasioni i loro nemici Francesi.
L’arma più importante del cavaliere era senza dubbio la spada.
I cannoni fecero la loro comparsa nel mondo musulmano e da lì a poco in Europa, verso il 1300. Venivano chiamati bombarde. La metallurgia europea dell’epoca, per quanto sviluppata, non consentiva la costruzione di fusti di grande resistenza, cosa che limitava precisione, potenza e soprattutto sicurezza dell’arma.
Insieme alle bombarde compaiono le prime armi da fuoco portatili, come ad esempio lo schioppo. Le armi da fuoco, in questo periodo, sostituirono solo le catapulte. Il cambiamento fu molto lento, anche perché inizialmente le armi da fuoco portatili avevano un costo troppo elevato e ricaricarle dopo uno sparo richiedeva troppo tempo durante le battaglie. Lo schioppo (in Inglese hand cannon , cioè cannone a mano) consisteva in una piccola bombarda montata su un’asta di legno. Originario della Cina, ebbe larga diffusione in Europa nel a partire dal 1300 e restò in uso sino 1500, quando venne sostituito dall’archibugio. Era ad avancarica (si caricava dal davanti) ed era costituito da un tubo (canna) chiuso ad un’estremità. Si inseriva la polvere e si pressava sul fondo, poi si inseriva la palla. Per accendere la polvere si inseriva un bastoncino accesso in un foro che si trovava nella parte posteriore (il focone).
Le armi medievali continuarono ad essere usate anche durante il Rinascimento e la spada rimase l’arma più popolare. Intorno al 1500 subì dei cambiamenti: vennero aggiunte le protezioni per la mano.
Nel 1500 gli eserciti erano equipaggiati con spada a doppio taglio, alabarda, arco e balestra, ma con l’aggiunta dell’archibugio, un’arma da fuoco portatile derivata dallo schioppo. Come tutte le armi da fuoco, utilizzava l’energia prodotta dall’accensione della polvere pirica per lanciare a distanza corpi solidi chiamati proiettili. L’accensione avveniva grazie all’otturatore a miccia (matchlock). Il sistema a miccia richiedeva agli archibugieri di portare con sé delle micce sempre accese. Come lo schioppo, doveva essere caricato col sistema dell’avancarica. Era un’arma pesante, lenta e poco precisa, e venne usato in battaglia per due secoli insieme ad archi e balestre. L’archibugio trovò poi sviluppo nel moschetto, dando origine al fucile moderno.
Il moschetto è un’arma da fuoco portatile, ad avancarica, derivata dall’archibugio e che fu usata fino agli inizi del 1900. Venne poi sostituita dai fucili a percussione e dai fucili a retrocarica. Il nome origina da mosca, che indicava il proiettile. Mentre l’archibugio veniva mantenuto in posizione appoggiandolo al petto, il moschetto vide l’introduzione del calcio, che permetteva di appoggiare l’arma alla spalla e di ottenere più precisione.
All’inizio il moschetto utilizzò il meccanismo a miccia (matchlock), come l’archibugio. Il meccanismo era formato da uno scodellino (un piccolo imbuto collegato alla canna), e una serpentina (un’uncino che sosteneva la miccia). Il moschettiere metteva della polvere nello scodellino e lo richiudeva. Dopo infilava la polvere e la palla di piombo nella canna (anteriormente) pigiando tutto sul fondo con un calcatoio (un’asta di legno, versione rimpicciolita di quella da cannone). Al momento dello sparo, tirando il grilletto la serpentina si muoveva verso lo scodellino mettendo a contatto la miccia accesa con la polvere: questa si incendiava e trasmetteva il fuoco alla polvere nella canna; a sua volta questa polvere esplodendo proiettava la palla lungo la canna e fuori da fucile.
In seguito, a partire dal 1540, il moschetto utilizzò il meccanismo a ruota (wheellock), che era simile ad un moderno accendino: una grossa molla, caricata con un’apposita chiave, al momento dello sparo metteva in movimento una ruota dentellata che sfregando contro un pezzo di pirite generava scintille, accendendo la polvere nella canna dell’arma. Questo meccanismo era comunque delicato e molto costoso e fu utilizzato più sulle carabine che sui moschetti.
Pochi anni dopo (1550) si diffuse un nuovo tipo di acciarino, lo snaphance (gallo che becca) che produceva le scintille facendo battere violentemente la pietra focaia su una piastra zigrinata. Dal “gallo che becca” si arrivò nel 1635 all’acciarino a pietra focaia, che utilizzava lo stesso principio, con un meccanismo migliorato. I moschettieri più addestrati potevano sparare 3 o 4 colpi al minuto.
La carabina era un’arma da fuoco simile al moschetto, ma più corta e meno potente. Il termine carabina deriva dalla parola araba karab, che significa arma da fuoco. Questo tipo di arma venne ideato intorno al 1590 per essere usata dai soldati a cavallo.
Con tutte le armi ad avancarica il grosso problema da risolvere era la lentezza tra un colpo e l’altro. Le prime armi che cercarono risolverlo furono gli organi, detti anche ribadocchini o ribauldequin, che potevano sparare colpi in successione.
A partire dal moschetto con accensione a pietra focaia (1635), per rendere più veloce il caricamento, vennero inventate le prime cartucce. Inizialmente per ogni colpo il soldato doveva caricare manualmente la polvere da sparo ed il proiettile, e quindi predisporre l’innesco. Questo richiedeva molto tempo, e per questo vennero ideate le prime cartucce, che erano tubi di carta che contenevano già pronti polvere e proiettile da inserire nella canna.
Nel 1700 comparve la prima rudimentale bomba a mano: una palla vuota di ghisa riempita di polvere nera e innescata da uno stoppino acceso.
La baionetta fu ideata nel 1600: si trattava di un’arma da taglio montata sulla canna di un fucile e consentiva alla fanteria di combattere corpo a corpo col nemico dopo aver esaurito le munizioni. La baionetta venne montata sul moschetto e rimase in uso fino alla Prima Guerra Mondiale (1915-1918).
Il cannone erano ancora la componente più lenta dell’esercito e poteva richiedeva 23 cavalli per il trasporto, che comunque procedeva a passo d’uomo. A partire dal 1600 gli eserciti puntarono sui cannoni leggeri e che potevano essere presidiati da pochi uomini. Diversi progressi tecnologici resero il cannone più mobile, soprattutto il puntamento regolabile a piolo e l’affusto mobile. L’affusto era una struttura a forma di scivolo munita di ruote che permetteva il trasporto della bocca da fuoco tenendola appoggiata su un sostegno. Il dispositivo a piolo permetteva la regolazione in altezza mediante un piolo inseribile in una serie di fessure poste in serie .
Gli scienziati si impegnarono nella ricerca di sostanze esplosive per potenziare le armi da fuoco, e già nel 1750 scoprirono il fulminato di mercurio, sostanza che poteva prendere fuoco ricevendo un colpo secco.
Il primo uso del fulminato fu ancora con le armi ad avancarica, nel 1812, quando fu inventata la capsula detonante. Si trattava di un involucro metallico a forma di bicchiere contente il fulminato. Dopo aver inserito nella canna la polvere e il proiettile, si poneva la capsula nel dispositivo dove veniva battuta dal percussore facendo partire il colpo.
Dalla scoperta del fulminato nacquero poi le armi a percussione. La prima di queste armi fu, nel 1814, il fucile ad ago, che aveva un sistema a retrocarica per cartucce di carta. Queste cartucce erano formate da un involucro di carta che conteneva la carica della polvere, la capsula detonante (che nelle armi a retrocarica si chiama innesco) e il proiettile. Premendo il grilletto, l’ago perforava la cartuccia e colpiva il fulminato, generando l’esplosione che faceva partire il proiettile. A questo punto le armi ad avancarica caddero in disuso, e gli inventori continuarono a cercare sistemi sempre più efficaci per caricare la canna dalla parte posteriore (retrocarica). La cartuccia del fucile ad ago era costituita da un involucro di carta che conteneva la carica della polvere, l’innesco e il proiettile.
Tutti questi progressi portarono, nel 1866, ad un nuovo sistema d’accensione: il sistema a percussione. La cartuccia è costituita da un bossolo d’ottone, con una capsula a percussione alla base e una carica di polvere e il proiettile compressi all’interno. La capsula a percussione (innesco) si trova al centro della base del bossolo. Quando il percussore colpisce la capsula, questa viene deformata e spinta in davanti, provocando l’accensione del fulminato.
Il sistema a percussione consente la produzione di armi a più canne fisse o rotanti e porta all’invenzione del revolver (rivoltella o pistola a tamburo) ad opera di Samuel Colt, nel 1835. Si tratta della prima arma prodotta in serie.
Tra gli anni 1860 e 1865 vi fu in vero fiorire di invenzioni e miglioramenti nelle armi da fuoco. Nel 1862 fu brevettata la mitragliatrice Gatling, a manovella. Richard Gatling, il suo inventore, scrisse che aveva costruito l’arma per diminuire la dimensione degli eserciti e ridurre così il numero di morti, e per dimostrare la futilità della guerra. Questa mitragliatrice era costituita da un fascio di 10 canne che venivano fatte ruotare manualmente in posizione di sparo, alimentate con cartucce metalliche a percussione centrale.
Negli stessi anni i chimici raggiunsero numerosi progressi nel campo degli esplosivi. Nel 1846 viene scoperto il fulmicotone, e solo due anni dopo la nitroglicerina. Nel 1867 Alfred Nobel trovò il modo di stabilizzare la nitroglicerina scoprendo la dinamite.
Nel campo dei fucili militari vengono studiate e realizzate armi in cui le operazioni di caricamento delle cartucce e di espulsione dei bossoli avvengono automaticamente, sfruttando o la pressione dei gas di sparo o l’energia del rinculo e già nella Prima guerra mondiale vennero impiegati fucili e pistole a raffica, tra cui l’italiana Villar Perosa.
Il principio dello sfruttamento dell’energia di rinculo per ricaricare un’arma (la stessa forza che sposta in avanti il proiettile agisce nell’opposta direzione) viene utilizzato per realizzare la pistola semiautomatica. Essa viene costruita in modo da non funzionare in modo automatico (a raffica): l’espulsione del bossolo e la successiva introduzione nella camera di una cartuccia avviene in modo automatico, ma per esplodere i colpi occorre azionare ogni volta il grilletto.
Nel 1905 i Tedeschi costruiscono il primo sottomarino allo scopo di raggiungere l’Inghilterra e la Francia.
Nel 1913 viene presentato a Londra il primo biplano da guerra Vickers Fighting Biplane n. 1, da cui discenderà il caccia Vickers FB5, armato di mitragliatrice, utilizzato dall’esercito britannico dal 1915 al 1916
Nel 1914 viene inventato il gas lacrimogeno.
Nel 1915 appare il primo carro armato su cingoli.
Nel 1936 si registra il primo volo dello Spitfire, che diventerà l’aereo simbolo della Seconda guerra mondiale. Era armato con quattro mitragliatrici dotate di 300 colpi ciascuna.
Nel 1941 entrò in servizio il Lancaster, prodotto nel Regno Unito e uno degli strumenti decisivi della vittoria alleata. Si trattava di un aereo da bombardamento e venne utilizzato principalmente come bombardiere notturno.
Il 3 ottobre 1942 la Germania nazista testò con successo il missile V2, armato di tritolo e nitrato d’ammonio. Il missile seguì una traiettoria perfetta e si schiantò a 193 km di distanza dalla piattaforma di lancio superando gli 80 km di quota. Gli Inglesi, consapevoli della grave minaccia di questa nuova arma, lanciarono una grossa offensiva contro i complessi di costruzione. Nell’immediato dopoguerra il missile V2 ebbe una breve ma intensa storia di utilizzazione. Sia gli americani sia i russi poterono disporre di centinaia di questi missili per far partire i rispettivi programmi missilistici, programmi che porteranno i due Paesi alla corsa di conquista dello spazio.
Il 13 giugno 1944, nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale, i nazisti lanciano la prima bomba volante V1 su Londra. Questo ordigno univa le caratteristiche di un aereo a quelle di una bomba, e fu il primo esempio di missile da crociera. Il lancio terrestre della V1, di solito, avveniva grazie a una rampa di lancio inclinata. In tutto l’Inghilterra fu raggiunta da circa 10.000 ordigni di questo tipo.
Nel 1945 l’esercito americano utilizzò ampiamente il Napalm negli attacchi incendiari alle città giapponesi. Si tratta di un’emulsione chimica altamente infiammabile. Il Napalm era già stato usato dagli USA nel 1943 in Italia per i lanciafiamme.
Nel 1942 il fisico statunitense J. Robert Oppenheimer è nominato direttore del Progetto Manhattan per lo sviluppo di un’arma nucleare e il 2 dicembre Enrico Fermi e il suo team, a Chicaco, ottiene la prima reazione nucleare a catena. Gli Stati Uniti, con l’assistenza militare e scientifica del Regno Unito e del Canada, erano così riusciti a costruire e provare una bomba atomica prima che gli scienziati impegnati nel Programma nucleare tedesco riuscissero a completare i propri studi per dare a Hitler un’arma di distruzione di massa. Il mattino del 6 agosto 1945 alle ore 8:15 l’aeronautica militare statunitense sganciò la bomba atomica “Little Boy” sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno “Fat Man” su Nagasaki. Il numero di vittime dirette è stimato da 100 000 a 200 000, quasi esclusivamente civili. Per la gravità dei danni diretti e indiretti causati dagli ordigni e per le implicazioni etiche comportate dall’utilizzo di un’arma di distruzione di massa, si è trattato del primo e unico utilizzo in guerra di tali armi.
Conclusa la Seconda guerra mondiale si aprì il periodo della Guerra Fredda tra Usa e Unione Sovietica. In questa fase, dal 1947 al 1991, i due blocchi gareggiavano per costruire le bombe più grandi e devastanti. Questi ordigni venivano testati in regioni isolate, trasferendo nel caso la popolazione, ma portando gravissimi danni all’ambiente.
I Sovietici testarono con successo la loro prima bomba atomica nel Kazakistan. In risposta a questo, gli Americani annunciarono un programma di sviluppo della bomba a idrogeno. La prima bomba a idrogeno fu testata dagli USA nell’Atollo Enewetak (Isole Marshall), nel 1952. idrogeno La deflagrazione espresse una potenza 1000 volte superiore a quella delle bombe atomiche lanciate sul Giappone. Nel 1953 anche i Sovietici testarono la loro bomba a idrogeno.
A partire dal 1900 le conoscenze scientifiche nel campo della fisica, della chimica e della genetica hanno aperto la via allo sviluppo sistematico di armi micidiali. Per questo, dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati hanno aderito a varie convenzioni per proibire l’uso di determinate armi: le più importanti sono state la Convenzione per le armi biologiche (1972) e quella per le armi chimiche (1993). Tutte le armi che sono state vietate da queste convenzioni sono dette armi non convenzionali.
Einstein diceva “Io non so con quali armi sarà combattuta la Terza guerra mondiale, ma so che la Quarta sarà combattuta con pietre e bastoni”.
Recite per bambini: Lo sposalizio del mare. Il giorno dell’Ascensione, la Repubblica di Venezia celebrava “lo sposalizio del mare”, rito che risaliva al tempo in cui il doge Orseolo II aveva conquistato la Dalmazia.
Recite per bambini: Lo sposalizio del mare – Personaggi: – il papà – il figlio – la folla veneziana.
Recite per bambini: Lo sposalizio del mare – Testo
Figlio: Padre mio, in mezzo a tanta folla sono quasi soffocato; e poi, non vedo nulla.
Papà: Come vuoi che faccia? Tutto il popolo veneziano è qui, lungo il suo mare. Tutti vogliono vedere. Solo i malati sono rimasti nelle proprie case. La giornata di maggio è bellissima è Venezia esulta di colori e di gioia.
Figlio: Anch’io sono Veneziano. Ho il diritto anch’io di vedere qualcosa di così bella festa.
Papà: Giusta risposta, piccolo uomo. Fai un altro sforzo; e se riuscirai a forare questa ressa, saliremo su una scalinata di marmo, da cui anche tu vedrai lo spettacolo sul mare… Per piacere, fate largo al piccolo veneziano… Grazie, signori. Molto gentili… Eccoci sulla scalinata.
Figlio: Oh, padre mio! Che spettacolo stupendo! Quante gondole! E quante navi!
Papà: La vita di Venezia sono le sue navi. Per esse Venezia è la regina dell’Adriatico.
Figlio: Ma cosa vedo! Oh, meraviglia! Una nave d’oro che si avvicina alla riva. E i rematori, non li ha?
Folla: Viva la Serenissima! Viva San Marco!
Papà: La nave che vedi è il Bucintoro, un naviglio splendido, scintillante d’oro e di porpora, che rappresenta la potenza di Venezia sul mare e che esce solo in occasione di solenni cerimonie. I remi escono da sottocoperta, proprio perchè non si vedano i rematori. Sembra che si muova, agile e solenne, da sé.
Figlio: E quei vecchi dall’aspetto dignitoso e serio che siedono sui seggi lungo il lati della nave, chi sono?
Papà: Sono i Senatori della Repubblica. E ora osserva bene: il Bucintoro sta mettendosi di fianco a noi. Ecco il Patriarca, sotto lo stendardo col leone alato, che leva alto il braccio per benedire l’Adriatico. E’ il giorno dell’Ascensione, o figliolo: tutta Venezia prega, insieme col suo Patriarca, affinché sul mare le navi di San Marco rechino la prosperità alla nostra Repubblica… Ma ora, ecco, sì… è lui. Sì, si vede bene!
Figlio: Chi?
Papà: Il doge! E’ seduto a poppa del Bucintoro, sul trono.
Figlio: Il doge! Che fortuna! Non avrei mai creduto di vederlo!
Folla: Il doge! Il doge! Viva San Marco!
Papà: Ascolta. Squillano le trombe. Ora il doge si alza. Osserva quel che fa.
Figlio: Ha gettato qualcosa nel mare.
Papà: Sì: un anello. E’ il rito con cui Venezia sposa il mare; e significa questo: il destino della Repubblica è legato al mare, solo al mare. Il doge ha detto: “Noi ti sposiamo, o mare nostro, in segno di vero e perpetuo amore”.
Figlio: E’ bello tutto ciò. Anch’io voglio bene al mare. Anch’io un giorno voglio navigare.
Papà: Figliolo, a un genitore veneziano non potresti esprimere un desiderio più bello.
(da Recitiamo la scuola, R, Botticelli)
Recite per bambini: Lo sposalizio del mare – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Il cavaliere e la mosca – racconto sul Medioevo. Un uomo dei nostri giorni si trova trasportato al tempo dei cavalieri erranti, ed è costretto a fare un lungo viaggio con l’armatura addosso. Ed ecco quanto gli capita…
Cominciava a far caldo, senza alcun dubbio, e stavo facendo una lunghissima tirata, senza ombra affatto. Cose di sui sulle prime non mi importava niente, cominciarono ad importarmi sempre più, via via che il tempo passava. Le prime dieci o quindici volte che avrei voluto il fazzoletto, avevo tirato avanti e avevo detto: “Pazienza, non fa nulla”, e non ci avevo pensato più. Ma ora era diverso; era un assillo continuo e non me lo potevo levar dalla mente; e così alla fine, perdetti la pazienza e dissi: “Accidenti a chi ha fatto quest’armatura senza tasche!”. Capirete, aveva il fazzoletto in fondo all’elmo, insieme ad altre cosette; ma era uno di quegli elmi che uno non si può levare da solo. E così, ora, il pensiero che fosse lì, tanto vicino e ciononostante irraggiungibile, rendeva la cosa anche più difficile da sopportare. Quel pensiero distoglieva la mia mente da qualsiasi altra cosa e la concentrava sull’elmo a immaginare il fazzoletto, a dipingersi il fazzoletto; era quanto mai irritante sentirsi gocciolare il sudore dentro gli occhi e non essere in grado di raggiungere il fazzoletto.
Decisi che la prossima volta mi sarei portato dietro una borsetta, qualunque fosse l’effetto e checché dicesse la gente: il benessere prima e lo stile poi.
E così, seguitavo ad arrancare e di tanto in tanto arrivavo a una distesa polverosa e la polvere si alzava in nugoli e mi entrava nel naso e mi faceva starnutire e piangere; e, naturalmente, dicevo cose che non avrei dovuto dire; non lo nego. Non sono migliore degli altri. Pareva che non si dovesse incontrare nessuno, in quella solitaria landa, neppure un orco; e dato il mio umore in quel momento, ciò era un bene per l’orco; vale a dire, per l’orco che avesse avuto un fazzoletto. La maggior parte dei cavalieri non avrebbe pensato che a prendergli l’armatura; per conto mio, mi sarebbe bastato arrivare al suo moccichino e poi si sarebbe potuto tenere tutto il suo armamentario.
Intanto, lì dentro faceva sempre più caldo. Capirete, il sole dardeggiava e riscaldava il ferro; più andavo avanti e più il peso del ferro mi gravava addosso: ogni minuto che passava mi pareva di pesare una tonnellata di più. E bisognava cambiar mano ogni momento e passare la lancia da una parte all’altra; non potevo reggerla a lungo con una mano sola.
Insomma, sapete che quando si suda a quel modo, a torrenti, viene il momento in cui… beh, in cui tutto ti dà prurito. Tu sei dentro, le tue mani sono fuori, e in mezzo c’è il ferro.
Non è una cosa da nulla, checché paia. Prima in un punto, poi in un altro, il prurito continua a diffondersi e a dilagare e alla fine tutto il territorio è occupato e potete immaginare come ci si sente. E quando fui arrivato al punto di non poterne più, una mosca entrò di fra le sbarre e mi si posò sul naso: la visiera si era inceppata e io non potevo alzarla; potevo soltanto scuotere la testa che nel frattempo si era arroventata, e la mosca (beh, sapete come agisce la mosca quando è sicura del fatto suo) si curava dei miei scuotimenti giusto quel tanto che bastava per cambiare posto dal naso al labbro e da labbro all’orecchio, ronzando e ronzando tutto in giro e continuando a posarsi e a pungere in un modo che una persona già tribolata come lo ero io non poteva assolutamente sopportare. Non mi restava che buttarmi a capofitto nel primo stagno che avrei incontrato: e così feci. Che refrigerio, ragazzi!
(da “Un americano alla Corte di Re Artù”, di Mark Twain)
Il cavaliere e la mosca – racconto sul Medioevo – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
L’alimentazione nel tempo: dopo aver visto come mangiamo noi e quali siano i cibi in uso oggi, è naturale chiedersi “Ma prima di adesso, come e che cosa si mangiava?”. E noi, seguendo brevemente questa corsa nel tempo, avremo modo di tornare su argomenti già toccati, completeremo quanto è stato detto, riporteremo la conversazione sugli usi e abitudini dei tempi passati, amplieremo, in una parola, la conoscenza del mondo presente e passato.
L’alimentazione nel tempo – I primi uomini All’apparizione dell’uomo sulla faccia della terra, quasi sicuramente i primi uomini furono vegetariani e si nutrirono dei frutti e delle piante spontanee, poi anche di carne. Come avranno fatto a scegliere il cibo? Obbedendo agli impulsi naturali, come fanno tuttora gli animali. Prima ghiande crude e acqua, poi vino e grano. Quando fu scoperto il fuoco, le carni vennero cotte direttamente sul fuoco e come piatti vennero usate conchiglie e zucche vuote. Sapete come si faceva bollire l’acqua? Non ponendola sul fuoco, ma mettendo dentro l’acqua pietre arroventate sul fuoco! Al tempo delle palafitte, gli uomini mangiavano una specie di polente di farina di ghiande, piselli, lenticchie, nocciole, noci e altri frutti selvatici, come mele, pere, susine e ciliegie. Non ci meravigli l’uso delle ghiande! Anche oggi, presso alcuni popoli, vengono mangiate, sia crude che lessate o arrostite, come si usano da noi le castagne.
L’alimentazione nel tempo – Vino, birra, shaosing Se il vino fu un’invenzione molto antica, non meno antico è l’uso di preparare la birra, bionda o bruna. A Babilonia era già nota nell’anno 2800 aC e veniva preparata con la fermentazione dell’orzo, più o meno come si usa anche oggi. Il shaosing è invece una bevanda alcolica, ottenuta con la fermentazione del riso, in uso presso i Cinesi da millenni. Inoltre gli antichi bevevano l’idromele, una bevanda fatta di acqua e miele.
L’alimentazione nel tempo – Allevamento e arboricoltura In tempi successivi l’uomo imparò ad allevare animali per mangiarne la carne, o per ottenere il latte. Oltre ai bovini e agli ovini, veniva allevato il maiale (nell’Odissea, per esempio, ad Ulisse che tornava dopo vent’anni, il porcaro fedele preparò due giovinetti porcellini, li abbronzò li spartì, negli appuntati spiedi l’infisse: indi, arrostito il tutto, caldo e fumante… glieli offrì. Siamo a circa tremila anni fa). Inizia anche la coltivazione degli alberi da frutta e dell’olivo; si mangiavano le olive o se ne ricavava l’olio; usato come condimento ma anche per spalmarsene il corpo, per rinforzarlo e renderlo più robusto.
L’alimentazione nel tempo – Presso i Greci e i Romani Dobbiamo distinguere i pasti normali e i banchetti propriamente detti; i primi venivano consumati in piedi, specialmente quello del mattino e del mezzogiorno (erano semplici spuntini); il pasto principale era quello della sera. Cosa mangiavano? Ciò che mangiamo noi, tranne alcuni alimenti giunti in Europa molto più tardi, come vedremo: una specie di polenta di farro cotta in acqua salata; oppure un miscuglio di formaggio fresco, miele e uova; o cervello di animali condito con vino e aromi. Il pane era di tre qualità: bianco (con fior di farina), integrale (con farina e crusca) o di sola crusca e tritello. Ma veniva cotto sotto la cenere calda, fino all’epoca imperiale, quando venne introdotto a Roma l’uso del forno, come possiamo vedere negli scavi di Pompei. Mangiavano poi pani dolci (preparati con farina, miele e uva passa; oppure con farina, miele e mandorle, quindi una specie di marzapane) e legumi verdi o secchi, insalata (specialmente lattuga) e frutta. Le carni preferite erano quelle di bovini, specialmente arrosto; in primavera i pesci e in autunno gli uccelli; ma anche le carni di maiale, lepre e coniglio erano gradite; e ancora: uova di pavone, fagiano, gallina, oca e anatra. Di pesci se ne conoscevano circa 150 specie: le più pregiate erano anguille, murene, salmone, trote e tonno. Le carni potevano essere lessate, in umido o in arrosto; sulla tavola si potevano vedere polpette, salsicce, braciole, salse, fritti vari. Nei banchetti, poi l’apparato era ben più complicato: i commensali stavano quasi sdraiati sui divani, si usavano, come sempre, le dita per prendere i cibi e si pulivano con mollica di pane, che veniva poi gettata a terra per i cani e i galletti! Quasi sempre, durante i pasti, il vino veniva allungato con acqua; dopo il pasto si mangiavano cibi per stuzzicare la sete, come formaggio e gallette salate. Posate? Ignota la forchetta (che compare in alcune case signorili solo 500 anni fa), poco usato L’alimentazione nel tempo – il coltello, qualche volta usato il cucchiaio; vasellame di terracotta, nelle case dei poveri, piatti e coppe d’argento e d’oro in casa dei ricchi. Durante i banchetti, rallegrati da musica, danze e canti, l’ospite curava che vi fossero piatti a sorpresa: uccelli ripieni di carne di maiale, animali ripieni di carni di altri animali, e talvolta decine di portate, tanto da chiederci: “Ma dole mettevano tutta quella roba?”. Qualche banchetto passato alla storia? Uno di Vitellio: 2000 pesci e 7000 uccelli; quello di Eliogabalo: ventidue carrelli di vivande diverse; quello di Trimalcione: la più strana lista di vivande che sia mai stata concepita, e per numero di portate e per la loro presentazione e confezione! Non so chi di noi oggi sarebbe capace di mangiare tanto e cose così strane, senza morire!
L’alimentazione nel tempo – Nel Medioevo e nel Rinascimento I Barbari, discesi in Italia dal 400 in poi, mangiavano come uomini primitivi e, diremmo oggi, senza alcuna educazione. Usavano trasformare in coppe da bere anche il cranio dei nemici vinti in battaglia; i loro banchetti erano autentiche orge obbrobriose. Nei castelli feudali il banchetto durava fino a sei ore e le portate arrivavano fino a 18: carne e cacciagioni, uccelli, pesci, dolci, frutta varia e vino abbondante. Si stava seduti a tavola su sgabelli e il vasellame era sempre più prezioso. Durante il Rinascimento troviamo cose nuove: i maccheroni (1247), la mortadella di Bologna (1376), polenta di mais o granoturco, pomodoro, patate, tacchino, cioccolato, caffè, tè, dopo la scoperta dell’America, e, finalmente, i gelati, nella cui preparazione brillarono toscani e siciliani. Il vasellame è eseguito da cesellatori e orafi; Benvenuto Cellini modella una saliera in oro massiccio con figure mitologiche per il re di Francia! Un pittore di quest’epoca, Paolo Caliari, detto il Veronese, è il più celebre per le grandi tele di banchetti: La cena in casa del Fariseo, Le nozze di Cana, La cena di Levi; esse ci permettono di immaginare lo sfarzo delle mense del 1500 attraverso le rappresentazioni pittoriche.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture per la scuola primaria: Amalfi, Pisa, Venezia e Genova.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture La leggenda dell’Anno Mille
Dice la leggenda che nell’imminenza dell’anno 1000, per una errata interpretazione di alcuni passi delle Sacre Scritture, le genti attendessero con terrore la fine del mondo, ma che poi, liberate dall’incubo, continuando il mondo la sua uguale vicenda, riprendessero a vivere con maggior lena. Si iniziava una nuova era, feconda di lavoro, di creatività in tutti i campi, materiale e morale. La leggenda ha un suo valore perchè esprime, come un simbolo, quella ripresa di vita economica e politica, quel risveglio culturale ed artistico che nell’XI secolo rinnovò tutta l’Europa e i cui segni sono particolarmente visibili in Italia. Ebbe così fine l’età feudale che, con quella dei regni romano-barbarici, costituisce l’Alto Medioevo, e si iniziò il Basso Medioevo, durante il quale la Chiesa e l’Italia si sottrassero alla dipendenza degli imperatori germanici e fiorì la nuova civiltà dei Comuni e delle Signorie (1000 – 1492). Di là dalle Alpi, in Francia, in Inghilterra e in Spagna, si costituivano invece le grandi monarchie nazionali.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Le Repubbliche marinare Alcune città marinare, favorite dalla loro naturale posizione e dalla ripresa dei traffici, raggiunsero, prima delle città di terraferma, un notevole grado di ricchezza e di indipendenza politica; esse furono Amalfi, Venezia, Pisa e Genova.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Amalfi Posta sul golfo di Salerno, fu la più fiorente città marinara del sud, superando di gran lunga Napoli, Gaeta e Bari. Trascurata dal governo di Bisanzio, minacciata dalle incursioni dei Saraceni, dovette assai per tempo provvedere alla sua difesa con una flotta, e al suo governo: tutti i cittadini, riuniti a Parlamento, eleggevano il capo della città, cioè il Duca. Tale governo repubblicano favorì in modo particolare i commerci e la navigazione. Nel X secolo Amalfi era già un centro attivissimo di commercio col Levante: a Costantinopoli, ad Antiochia, ad Alessandria e al Cairo, gli Amalfitani avevano fondachi ed alberghi, chiese ed ospizi. In quelle città del Levante portavano i prodotti agricoli italiani e caricavano damaschi, armi, profumi, spezie, tappeti e indaco che rivendevano nell’Italia centro-meridionale. La moneta amalfitana, il tari, aveva corso in tutti i porti del Mediterraneo. Gli Amalfitani compilarono il primo codice di leggi marittime, le famose Tavole Amalfitane, adottate da gran parte degli Stati mediterranei. Altro loro merito è quello di aver introdotto in Occidente l’uso della bussola, già adoperata da Cinesi ed Indiani, perfezionandola; leggendaria è l’attribuzione di essa all’amalfitano Flavio Gioia. Breve fu la vita florida e indipendente di Amalfi: verso la fine del secolo XI fu soggiogata dai Normanni, conquistatori ed unificatori di tutta l’Italia meridionale. In seguito, combattuta e vinta da Pisa, sua rivale nel Tirreno, perdette la flotta e con essa la potenza.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Venezia Abbiamo visto come le isole della laguna veneta, dall’invasione di Attila in poi, diventarono a più ripresa rifugio degli abitanti delle città venete, che andarono ad aggiungersi ai pochi e poveri pescatori che già vi dimoravano. Sicure dalle invasioni, perchè difese da un labirinto di canali, ma povere, quelle terre non potevano dare mezzi di vita a una popolazione numerosa, che perciò si volse prestissimo al commercio marittimo lungo le coste dell’Adriatico e il corso dei fiumi veneti, prima vendendovi il sale e i prodotti della pesca, poi le merci importate dall’Oriente bizantino a Ravenna. Nominalmente questi centri lagunari dipendevano dall’Esarca, ma a mano a mano che l’autorità di Bisanzio si affievoliva, essi andavano organizzando un’amministrazione autonoma. Già alla fine del VII secolo gli abitanti delle isole eleggevano a vita un magistrato supremo o Duca (in veneziano, Doge). A Rialto e sulle isolette ad essa congiunte per mezzo di ponti, si incominciò a costruire la nuova Venezia (città dei Veneti), destinata a diventare una delle più belle e ricche città del mondo; essa fu posta sotto la protezione dell’evangelista San Marco, le cui reliquie, trasportate da Alessandria d’Egitto, furono deposte nell’omonima Basilica, sorta fra i primi monumenti. Nel X secolo Venezia dovette combattere i pirati slavi (Schiavoni), che infestavano l’Adriatico. La vittoria definitiva su di essi fu riportata nell’anno 1000 dal Doge Pietro Orseolo II che occupò le coste dell’Istria e parecchie isole e città della Dalmazia. Il doge di Venezia prese allora il titolo di Dux Veneticorum et Dalmaticorum.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Per il lavoro di ricerca In che anno incominciò a sgretolarsi il sistema feudale? Intanto cosa avveniva nelle città? Come si chiamò la nuova classe sociale? Quali furono le città marinare che divennero, prima delle città di terraferma, centri attivissimi di commercio e politicamente indipendenti? Conosci gli stemmi delle gloriose Repubbliche marinare? Quale fu la più fiorente città marinara del sud? Quali meriti ebbero gli Amalfitani? Sapresti dire a che cosa servivano le Tavole Amalfitane? Qual era la moneta amalfitana? Chi introdusse in Occidente l’uso della bussola? Quando finì la potenza della gloriosa Amalfi? Da chi fu costruita Venezia? Com’era chiamato il capo della Repubblica di Venezia? Come si chiamava la sua nave? Quale cerimonia era in uso il giorno dell’Ascensione? Chi era il Santo protettore di Venezia? Come si chiamava la moneta di Venezia? Che cos’erano le galee? Da che cosa derivò il loro nome? Su quali altri tipi di navi i marinai delle Repubbliche marinare percorrevano e dominavano i mari? Ricerca notizie sulla potenza della Repubblica di Venezia.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture La bandiera navale italiana Nella bandiera navale italiana lo stemma, al centro del tricolore, è costituito dai quattro stemmi di Amalfi (croce bianca in campo azzurro), di Pisa (croce bianca in campo rosso), di Genova (croce rossa in campo bianco) e di Venezia (il leone alato d’oro in campo rosso), a segnare la grande tradizione marinara della nostra storia.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Storia di una parola La cannella, il pepe, le droghe aromatiche venivano tutte dall’Oriente ed erano fra noi chiamate spezie. Esse non servivano solo per preparare le raffinatissime salse tanto in voga nel Medioevo; erano, secondo i ricettari farmaceutici del tempo, necessarie per la preparazione di medicine e di pomate. Ecco perchè il farmacista di allora veniva chiamato speziale, appellativo che familiarmente gli viene ancora dato in molti luoghi d’Italia.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Le nuove monete I mercanti delle Repubbliche marinare, che avevano navi, andavano in Oriente a comprare merci e le rivendevano in Europa a caro prezzo. Così le Repubbliche marinare si arricchivano rapidamente. Con l’oro portato dall’Africa, con l’argento ricavato nelle miniere di Spagna, di Francia, di Germania, vennero coniate nuove e belle monete, che incominciarono a circolare in Europa al posto dei denari e dei bisanti, cioè al posto delle monete araba e bizantina. La moneta di Venezia si chiamava ducato, quella di Genova genovese o genovino.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Le navi delle città marinare La galea deriva il suo nome dalla forma snella che la fa assomigliare al pesce spada che in greco è appunto chiamato galeos. Fin verso il 1000 le galee venivano usate per il trasporto di merci quanto per le azioni di guerra, ma quando, attorno a quest’epoca, in tutte le città marinare d’Italia rifiorirono le costruzioni navali, si cominciarono a progettare galee destinate esclusivamente alla battaglia. Allora, poiché nella stiva non si dovevano più immagazzinare merci, si potevano imbarcare fino a 120 vogatori, in qualche caso anche 200. In molte galee ogni remo era manovrato da due, tre o anche quattro vogatori. Inoltre le vele venivano considerate un motore ausiliario; queste navi usavano la vela triangolare, detta vela latina, e di frequente avevano due alberi. L’armamento di una galea era costituito si armi da lancio e grosse baliste; erano inoltre armate di un enorme sperone per forare lo scafo delle navi avversarie. Ciascuna galea era, infine, munita di grossi ganci e di ponti che servivano per agganciare le navi nemiche e per attaccarle all’arrembaggio. Fra vogatori, marinai, bombardieri, arcieri e soldati assalitori, l’equipaggio di tale nave poteva contare anche più di 500 uomini. Le prime galee usavano la vela quadrata, come i navigatori greci e romani. Solo verso il secolo XII si apprese dagli Arabi a usare la vela triangolare, con la quale era possibile navigare anche contro vento. La vela triangolare è detta vela latina. Ma questo nome non indica l’origine della vela. Esso deriva dalla storpiatura di vela ‘alla trina’. Così si chiamava infatti la vela triangolare, o perchè fatta a triangolo o perchè legata con la trina, una treccia di canapa formata da tre fili e usata per le legature volanti. L’equipaggio era suddiviso in compagni d’albero (marinai) e rematori. Questi ultimi erano dei detenuti, condannati al trattamento più inumano. Erano in parte condannati per delitti comuni e in parte prigionieri di guerra; alcuni erano volontari, gentaglia che non sapeva far alcun altro mestiere, e venivano chiamati, per ironia, buanavoglia. Per essere riconosciuti in caso di fuga, questi rematori delle galee, detti appunti galeotti, dovevano avere i capelli rasati o tagliati a ciuffo. Se la nave affondava, i galeotti affondavano con essa. Dovettero purtroppo trascorrere alcuni secoli prima che venissero abolite queste barbare condanne.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Le navi da carico Le nostre città marinare usarono diversi tipi di navi da carico: le galee grosse o di mercanzia, le cocche, le caracche. Erano navi alte di bordo, più larghe e tondeggianti delle galee, adatte a portare grandi carichi (e da ciò il nome di caracche che deriva dall’espressione latina navis caricata); esse furono fra le prime del Mediterraneo ad applicare una grande innovazione, apparsa già da un secolo nei navigli del Mare del Nord: la sostituzione dei remi di governo con un vero e proprio timone a barra, detto timone ‘alla navaresca’. Ben presto Genovesi e Veneziani si accorsero che queste navi erano adattissime anche al combattimento, perchè con esse si potevano colpire i nemici dall’alto, standosene ben protetti negli alti castelli di poppa e di prua.
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LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture La Repubblica di Amalfi
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Splendore e decadenza di Amalfi Amalfi, nell’anno 839 si rese indipendente da Napoli (del cui ducato faceva parte) ed elesse come governatore un comite (magistrato annuale). Cominciò allora la fortuna marinara della città che divenne la prima delle potenti repubbliche marinare del Tirreno. Essa seppe difendere la propria indipendenza sia contro Bisanzio sia contro i Longobardi. La sua importanza, analogamente a quella di Venezia, si fondava esclusivamente sui traffici e la navigazione. Le sue navi visitavano Alessandria e Beirut, in parte per condurvi pellegrini, in parte per andare a prendere prodotti che si potevano vendere comodamente in Italia. Ben presto i mercanti di Amalfi costituirono colonie a Palermo, a Siracusa e Messina, tutte città che si trovavano nelle mani dei musulmani. Gli Arabi gradivano questi scambi di merce, dai quali essi stessi traevano vantaggio. Concedevano generosamente ai forestieri luoghi di residenza, i cosiddetti fonduk, dove i mercanti potevano svolgere la loro attività, come anche a Venezia esistevano i fondachi per gli stranieri. Amalfi sfruttò abbondantemente i suoi vantaggi. In questa cittadina, nel periodo del suo massimo splendore (X secolo), vivevano 50.000 abitanti, cifra assai ragguardevole per quei tempi. Probabilmente Amalfi era allora la città di gran lunga più popolata di tutto l’Occidente. La sua moneta (il tari) circolava in tutta Italia e perfino in Oriente. Le sue leggi venivano rispettate ovunque e spesso venivano adottate da altre città. Il codice della navigazione di Amalfi, Tabula Amalphitana, divenne il modello di tutto il diritto marittimo dell’Occidente. A uno dei suoi cittadini, Flavio Gioia, fu attribuita l’invenzione della bussola. E’ vero che ciò non è esatto perchè l’ago magnetico era già noto ai Cinesi, tuttavia Amalfi può rivendicare il merito di aver messo questa invenzione al servizio della navigazione, collegando l’ago magnetico con la Rosa dei Venti. Amalfi decadde quando, nell’anno 1131, fu conquistata dai Normanni, che avevano già occupato la Sicilia. La città si era appena riavuta da questo colpo, quando fu attaccata, sconfitta, saccheggiata e definitivamente distrutta dai Pisani. Oggi esistono soltanto rovine che indicano il punto in cui sorgeva l’antica Amalfi. (‘I mercanti trasformano il mondo’, E. Samhaber)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Uno strumento nuovo: la bussola I mercanti delle repubbliche marinare che commerciavano con l’Oriente portarono in Europa uno strumento utilissimo per la navigazione. Si trattava di uno strumento proveniente dalla lontana Cina, che sembrava opera di magia. Era un piccolo recipiente colmo d’acqua, cioè una bussola, sul quale galleggiava una lancetta di ferro calamitato, sorretta da una scheggia di legno. La lancetta si indirizzava sempre verso nord e rendeva facile l’orientamento anche alle navi che si trovavano in mezzo al mare, lontano dalla costa, o quando di giorno o di notte, il cielo era coperto di nuvole e non si vedevano le stelle.
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LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture La Repubblica di Venezia
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Nascita di Venezia Rialto, piccolo ammasso di isolotti, era sto fino ad allora scarsamente abitato, ma l’inviolabile asilo che aveva offerto ai profughi di Eraclea lo designava per la scelta quale sede preferibile e permanente dello Stato. Prese singolarmente, le isolette di Rialto erano certo meno estese di Torcello, di Burano o di Eraclea, ma il gruppo ne annoverava ben sessanta, separate da stretti canali sui quali sarebbe stato agevole gettare ponti, in modo da rendere disponibile per la capitale una superficie considerevole e di molto superiore ad ogni altra. La via d’acqua larga e profonda che spartiva in due gruppi l’arcipelago era il corso del fiume Prealto, ramo staccato del Brenta; se ne fece il Canal Grande. Le sue dimensioni avrebbero consentito il passaggio delle maggiori imbarcazioni e sulle sue rive si sarebbero create banchine e depositi, nei luoghi più adatti. Al limite degli isolotti periferici si sarebbero potuti costruire una cinta muraria e un riparo in pietra, a circondare e proteggere la nuova città. Come se presentisse quale splendido destino lo attendeva, tutto il popolo di pose all’opera con incrollabile entusiasmo. Da ogni parte si innalzarono costruzioni, dapprima di legno, poi di mattoni e di pietra. Per il palazzo del doge si scelse la posizione che sarebbe rimasta immutata per sempre. Quanto al nome della città gloriosa i Veneti le diedero il proprio, quella che in origine si era chiamata Rialto, civitas Rivoalti, divenne Venetia, ossia Venezia. Questo avveniva nell’anno 810 dC. (A. Bailly)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Grandezza di Venezia Venezia divenne una grande città commerciale. Le sue navi la fecero dominatrice del Mediterraneo. Le sue flotte mercantili, protette dalle navi da guerra, commerciavano fino a Costantinopoli, entravano nel Mar Nero per ritirare i prodotti russi e gli altri prodotti che dall’Asia e dalla Cina vi arrivavano per mezzo delle carovane. Lungo le coste della Palestina e della Siria, le navi veneziane caricavano i prodotti della Mesopotamia, della Persia e dell’India, qui portati dalle carovane. Esse avevano commerci con l’Egitto, lungo le coste della Francia e della Spagna, e oltre l’Atlantico, con l’Olanda, il Belgio, l’Inghilterra e la Scandinavia. Quasi tutti i Paesi d’Europa compravano i prodotti asiatici da Venezia. Nei giorni in cui Venezia era il grande magazzino del commercio orientale, i suoi nobili mercanti, i suoi artigiani ed il suo governo costruirono bellissimi edifici. I suoi banchieri prestavano denaro ai principi di tutta Europa. Intanto i Turchi andavano occupando l’Oriente e assalivano le navi veneziane; Cristoforo Colombo aveva aperto gli orizzonti verso terre vergini dell’Occidente molto più remunerative. Di più, era giunta notizia che un portoghese di nome Vasco de Gama aveva trovato una via per le navi per arrivare direttamente in India girando attorno all’Africa. Un triste giorno i prezzi delle merci caddero circa alla metà, e non si rialzarono più. Quando i mercanti ed i banchieri veneziani seppero della scoperta di Colombo e, ancor peggio, di de Gama, capirono che Venezia non avrebbe più potuto essere il grande emporio. Essa si erge ancora con i suoi magnifici, vecchi edifici, i suoi ponti ad arco sopra i canali, le gondole che scivolano ancora lungo le calme acque delle sue strade. Invece dell’assordante rumore delle automobili, si sente il canto del gondoliere o il fischio del vaporetto. La Repubblica di Venezia fu la sola tra le Repubbliche marinare a diventare anche una grande potenza di terraferma, fino a contare, a un certo punto, tra i più forti stati europei. La sua ricchezza, comunque, le venne da Oriente. L’Adriatico diventò qualcosa come un lago veneziano, già prima delle Crociate, con la fondazione delle colonie in Istria e in Dalmazia. Le Crociate offrirono ai Veneziani l’occasione di allargare i loro traffici, prima provvedendo al trasporto dei guerrieri cristiani in Palestina, poi con la fondazione di colonie commerciali nei paesi d’Oriente, in Grecia, nel Mar Nero. Durante la quarta Crociata i Veneziani, in cambio del trasporto degli eserciti con le loro navi, ottennero addirittura di far combattere i Crociati per ristabilire la sovranità di Venezia sulla ribelle Zara e per allargarla nei territori dell’Impero d’Oriente. Il Doge di Venezia ottenne il titolo di ‘Signore di una quarta parte e mezzo dell’Impero Greco’. La Repubblica di San Marco visse fino al 1797, quando passò sotto l’Austria. (R. Smith)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture I Veneti e i loro commerci Le iniziative mercanti dei Veneti li portavano già in tutti i porti del bacino mediterraneo. Gli audaci navigatori, un tempo pescatori di laguna, andavano a commerciare a Costantinopoli, nello Ionio e nel Mar Nero, in Siria e in Africa. Non rimanevano nell’attesa che le merci forestiere fossero portate loro, ma volevano scegliere e acquistare all’origine i prodotti dai quali potessero trarre maggior lucro. Anche per via terra, a gruppi o isolati, percorrevano le strade d’Italia sostando specialmente a Pavia e a Roma. Ma essi avevano una vera e propria industria nazionale: la costruzione di navi, arte nella quale fin dal VI secolo erano già considerati maestri e in seguito si erano perfezionati, avendo studiato anche in Slavonia e in Istria nuove forme di scafi e di chiglie, altre disposizioni di remi e di vele. Naturalmente, le aveva studiate e modificate assimilandole alla propria tecnica costruttiva e avevano finanche chiamati calafati e carpentieri greci e siriani per apprendere i metodi di lavoro. Ormai nessun popolo pensava più ad emularli, in questo campo. Nell’VIII secolo le isole superavano in prosperità quasi tutti i paesi europei; praticamente i Veneti avevano il monopolio del grande commercio internazionale. Partivano col consueto carico di sale, ma al ritorno recavano ricche merci straniere: oli, cereali, tessuti, spezie. Nei lontani porti frequentati dai loro navigli i Veneti aprirono numerose agenzie, simili ai nostri attuali consolati, dirette da connazionali che studiavano le attività economiche dei paesi di residenza, le loro risorse e necessità, annodavano relazioni d’affari con le genti del luogo e agevolavano gli scambi tenendo in deposito nei loro magazzini tanto i carichi in arrivo che quelli in partenza. In seguito, anche Venezia dovette a sua volta ospitare agenti dei mercanti forestieri e concedere loro siti di sbarco e di magazzinaggio: ne conservano ancor oggi memoria il Fondaco dei Turchi e il Fondaco dei Tedeschi. Questa corrente di scambi, già molto intensa al sorgere della nuova capitale, doveva rendere splendida oltre ogni ottimistica previsione la città edificata su quegli isolotti di Rialto dei quali l’omonimo ponte, che domina con il suo maestoso arco il Canal Grande, custodisce il lontano ricordo. (A. Bailly)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Come era governata Venezia A Venezia dominava l’aristocrazia: tutti i poteri erano nelle mani del temibile Consiglio dei Dieci. Il Doge aveva solo il compito rappresentativo e presiedeva il Consiglio dei ministri, o Serenissima Signoria, composto di nove membri: si trattava ancora di altri dieci personaggi. In totale, venti nobili veneziani amministravano gli affari della Repubblica sotto il controllo molto blando del Senato, formato anch’esso da soli patrizi. Nel 1355, sembra che un Doge abbia cospirato con elementi popolari, benchè l’affare sia rimasto oscuro (I Dieci hanno fatto scomparire gli incartamenti). Il tentativo fallì. I complici del Doge furono impiccati alle finestre del Palazzo Ducale e il Doge stesso, Marin Faliero, fu decapitato il giorno seguente sulla scala della Corte d’Onore. La Regina dell’Adriatico, in questo periodo è al suo apogeo: essa conta trecento navi grandi e tremila piccole; quarantacinque galee proteggono validamente le sue rotte marittime. In uno scenario incomparabile, opulento e grandioso, essa mostra con esuberanza la sua fiducia e la sua gioia nelle feste di un carnevale che si prolunga a poco a poco per tutti i giorni dell’anno.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture L’arsenale di Venezia Il suo arsenale, situato sulle due isole Gemelle nella parte orientale della città, era il più grande e il migliore che allora si conoscesse; ancor oggi se ne vedono le profonde darsene e i tre canali scavati in seguito per collegare gli impianti originari con quelli successivi. In esso, da prototipi accuratamente studiati e uniformemente riprodotti, si costituivano ogni sorta di imbarcazioni: guerreschi vascelli rostrati dai fianchi scudati di cuoio e dai ponti muniti di catapulte e di torri per arcieri e balestrieri, navi mercantili più pesanti e lente, nelle quali l’abbondante velatura rimpiazzava i duecento vogatori delle galee e dei ‘gatti’. Questa è la tradizionale, autentica industria nazionale. Non v’è popolano che non appartenga alla marineria: marinaio, pescatore o calafato che sia. Anche coloro che esercitano un mestiere legato alla terra sono per origine dei marittimi. Del resto, vivono sul mare, il mare è il loro elemento naturale e la barca il basilare strumento di lavoro; il giorno in cui lo Stato ha bisogno di loro non fanno che cambiare i remi della barca in quelli della trireme, con una maestria marinara d’altronde indispensabile affinché la Repubblica possa essere presente là dove la chiamano i suoi interessi, ora con lo sguardo svolto a Bisanzio, della quale prevede la successione, ora ai Normanni, dei quali teme la forza e le mire ambiziose. (A. Bailly)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture La forza navale di Venezia Sotto il comando del General da Mar e del Capitano del Golfo le forze navali di Venezia, o Armata Veneta, erano formate da navi a vela, che costituivano l’Armata Grossa, e da navi a remi, o Armata Sottile, mosse quest’ultime da galeotti o condannati ai remi della galea, oppure da rematori volontari chiamati buonavoglia. Comandavano le prime i Governatori del Mare, mentre le navi a remi dipendevano da un Sopracomito. Tutta l’Armata usciva dall’Arsenale, che poteva fornire navi con armamenti completi in tempo ridottissimo e che era un mosaico di squeri o cantieri. Anzi, era, a sua volta, un enorme cantiere funzionante. Dante stesso mostra di essere rimasto colpito agli ordini degli Inquisitori dell’Arsenale, dei Provveditori all’Armar e di quei Visdomini alla Tana che facevano arrivare da una località sul Mar Nero, Tanai, alle foci dell’odierno Don, la canapa destinata a divenire solida gomena in un reparto dell’Arsenale stesso, chiamato, ‘La Tana’. Popolazione vivacissima dell’Arsenale, gli arsenalotti, erano artefici abilissimi, gelosi del loro mestiere, tramandato di generazione in generazione, e del privilegio di spingere, a suon di remi, nel giorno dello Sposalizio del Mare, il Bucintoro, l’imbarcazione dogale, che sdegnava l’aiuto degli alberi e delle vele.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Le ‘uscieri’ Uscieri si chiamavano le grosse navi a vela, per gli sportelli o usci praticati sui fianchi per agevolare l’imbarco di cavalli e di macchine da guerra. Insieme alle galee e alle navi minori partecipavano anch’essi alla battaglia, rovesciando vere fortezze galleggianti dai loro castelli e dai loro ponti volanti, con adatti ordigni, i proiettili sulle navi avversarie. Fortezze che talora, in battaglia, venivano tra di loro legate per formare il cosiddetto porto d’alto mare, o porto galleggiante, perchè il vento non ne isolasse qualcuna, facendola preda delle più veloci galee, superiori certo, queste, per molti secoli, nei combattimenti rapidi in mare aperto. (M. Bini)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Severissima disciplina sulle galee veneziane La disciplina, severa in tutte le marine italiane, era severissima sulle navi di Venezia. Nel 1293 il Gran Consiglio veneziano aveva decretato che, quando l’ammiraglio aveva dato l’ordine di attaccare il nemico, se una qualche galea si fosse allontanata dal luogo della battaglia, i capi divisione, i capitani, i nocchieri e i timonieri venissero decapitati. Se non si poteva raggiungerli, venivano condannati al perpetuo esilio e tutti i loro beni erano confiscati.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Vita di galeotto Durissima era la vita al remo nelle galee. I rematori di destra stavano con il piede sinistro incatenato alla banchina (e i vogatori di sinistra inversamente) e così sul banco vogavano per dieci o dodici ore; unico riparo era una tenda o una leggera sovrastruttura. Quando si intimava il silenzio dovevano mettersi in bocca il tappo di sughero che portavano appeso al collo. La ciurma era comandata da un sottufficiale, l’aguzzino, che aveva diritto di vita e di morte sui vogatori. Dalla corsia ammoniva a nerbate, puniva a sciabolate o (dopo l’invenzione della pistola) piantando una palla in testa ai recalcitranti.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Dal ponte di comando alla catena del remo La condizione delle ciurme nelle battaglie era spaventosa e orribile; esposte ai colpi dei loro correligionari e fratelli (poichè sulle galee cristiani gli schiavi erano turchi e su quelle turche erano cristiani), avevano come unica speranza di liberazione la cattura della galea. Avveniva così talvolta che capitani di navi, e anche ammiragli, passassero dal comando al remo o dal remo ancora al comando!
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Lo sposalizio del mare Venezia stabilì di commemorare annualmente le sue vittorie con una festa nazionale che dapprima si espresse nella benedizione del mare: all’Ascensione, il vescovo di Olivolo si recava con il clero all’estremo limite dell’isola e lì, alla presenza della folla, tracciava sul mare, sede e strumento della grandezza veneziana, il sacro segno che lo univa a Dio e gli uomini. In seguito la cerimonia doveva assumere un significato ancora più chiaro e di un simbolismo più adatto a colpire l’animo della massa. Nacque così lo Sposalizio del Mare nel quale il Doge, vivente personificazione dello Stato, faceva suo il mare così come ogni uomo lega a sé la donna scelta in sposa. Per la tradizione fu il papa Alessandro III che, avendo riconosciuta la sovranità veneziana sull’Adriatico, inviò al Doge l’anello benedetto accompagnandolo con queste parole: “Ricevetelo come il segno del vostro imperio sul mare; voi e i vostri successori rinnoverete gli sponsali ogni anno affinché i tempi a venire sappiano che il mare è vostro e vi appartiene come la sposa allo sposo”. Ogni anno il doge saliva a bordo del Bucintoro, la galea nazionale fantasiosamente decorata di sculture e dorature, perfino nei remi. Diritto sotto un baldacchino purpureo circondato dalla sua Corte, percorreva la laguna in direzione del Lido e per il vicino passaggio entrava nell’Adriatico. Qui, dal Bucintoro galleggiante sul mare che Venezia considerava suo, il Doge lanciava in acqua il suo anello d’oro, pronunciando la formula rituale: “Desponsamus te, mare, in signum veri perpetuique dominii”. (A. Bailly)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Il Bucintoro Il Bucintoro era il grande e maestoso naviglio sul quale, nel dì dell’Ascensione, il Doge di Venezia procedeva, ogni anno, a solennizzare la cerimonia dello sposalizio col mare. Il Bucintoro, adornato riccamente, lungo trentun metri e largo sette, aveva due piani: nell’inferiore stavano i remiganti, nel superiore il Doge, il Patriarca, gli ambasciatori, i governatori degli arsenali, i membri del Governo, gli altri personaggi della Repubblica. (P. Persico)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Ultime parole del Doge Mocenigo Il grande doge di Venezia Mocenigo, sempre vigile nella cura della Repubblica, così disse ai maggiorenti della città, racconti attorno al suo letto di morte: “Ormai io più non posso giovare alla patria mia; perciò vi ho chiamato per raccomandarvi questa cristiana città e persuadervi ad amare i cittadini e a far giustizia e a pigliar pace… La guerra con il Turco vi ha fatto valorosi ed esperti per mare, avete sei capitani da guerra, avete molti uomini sperimentati nelle ambascerie e nel governo, avete molti dottori di diverse scienze e specialmente molti legali… La vostra zecca batte ogni anno un milione di ducati d’oro, duecentomila d’argento e ottocentomila in soldoni… Perciò sappiate governare un tale stato e abbiate cura che per negligenza mai diminuisca”. M. Bini
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture San Marco, patrono di Venezia L’evangelista Marco ha come simbolo un leone , e coi caratteri del Leone appare Gesù nel vangelo di San Marco, cioè con le qualità del forte, che scaccia i demoni, che guarisce gli ammalati e che vince la morte. Questo perchè san Marco rivolgeva il suo vangelo ai Romani, che non avrebbero dato nessun valore alle lunghe genealogie ebraiche o alle profezie. I Romani non conoscevano che il diritto e la forza. Perciò, nel vangelo di Marco, il Redentore rappresenta sempre il diritto e la forza a cui nulla può resistere. Si sa che la sua tomba di marmo, ad Alessandria, era venerata anche durante la dominazione dei Maomettani. Nell’828, due mercanti veneziani vollero togliere le reliquie di san Marco dalla terra dominata dagli infedeli. Si disse che di nascosto i due veneziani togliessero dalla tomba le ossa del santo e le nascondessero in fondo a un paniere, riempito poi di vettovaglie. Altre leggende fiorirono intorno alla venuta di san Marco sul suolo veneziano. Fra queste la più poetica ebbe credito nella città lagunare. San Marco sarebbe giunto a Venezia non dopo morto, ma ancora vivo, a causa di una grande tempesta che avrebbe spinto la sua nave, da Alessandria d’Egitto verso la laguna veneta. Sulla spiaggia, appena sbarcato, egli sarebbe stato accolto da un angelo, che gli avrebbe detto: “Pace a te, Marco evangelista mio”. Sono le parole che si leggono ancora sulle pagine del libro, tenuto dagli artigli di un leone alato, che forma lo stemma di Venezia, chiamata perciò la ‘città di San Marco’.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Indiscrezioni da Venezia La dogaressa Selvo è al centro di animatissime discussioni nell’alta società veneziana. Si sa che la dogaressa è bizantina di nascita, figlia di un imperatore e sorella di Michele VII Ducas; e fin da quando era giunta a Venezia si sapeva che era cresciuta in mezzo a lussi che noi non immaginiamo nemmeno. Si è subito fatta notare per la ricchezza e lo splendore dei suoi abiti. Ora poi sono trapelate alcune indiscrezioni che hanno scandalizzato i Veneziani. Si dice che la signora si lavi con acque odorose, si profumi, e si rinfreschi il volto con la rugiada, raccolta per lei ogni mattina dai servi. Ma ciò che le sta attirando, a quanto pare, le ire del famoso predicatore Pier Damiani è una strana abitudine della dogaressa. Pare infatti che per portare il cibo alla bocca si serva di uno strumento d’oro a due denti, invece di usare le mani. Secondo Pier Damiani si tratta di uno strumento diabolico. (L. Pisetzky)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Una nuova basilica custodirà il corpo di san Marco Un incendio ha distrutto la Cattedrale. Ma subito si pensa a costruirne una più grande e più bella. L’incarico di progettare e di innalzare la nuova chiesa è stato dato ad architetti bizantini, essendo Venezia assai legata all’Oriente, ed essendo i Veneziani molto sensibili al gusto che viene di là. Anche la nuova chiesa sarà dedicata a san Marco e ne custodirà le reliquie, come la vecchia chiesa. San Marco evangelista è infatti, da 150 anni circa, il protettore di Venezia. Precisamente da quando due mercanti veneziani, che a causa dei loro traffici si trovavano ad Alessandria d’Egitto, vennero a sapere dai cristiani di quella città, dove si trovavano nascoste le reliquie di san Marco. Ottenute quelle reliquie, essi le portarono a Venezia, facendola in barba al controllo degli Arabi. E sapete come? Al di sopra della cassa contenente il corpo del santo, misero uno strato di carni suine; gli Arabi, ai quali è vietato mangiare carne di maiale, fecero subito passare quella merce, che era bene lasciasse l’Egitto; e con la carne suina passò quel corpo, venerato ora in Venezia.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Il doge Orseolo e la Dalmazia Gli Schiavoni si erano stabiliti in Croazia e in Dalmazia e le città costiere, che politicamente dipendevano dall’Impero greco ma che questo non era però in grado di proteggere, difficilmente potevano resistere da sole alle incursioni barbaresche. Venezia invece, sia per la sua vicinanza che per la potenza della sua flotta, poteva difenderle o liberarle. Perciò esse ne richiesero l’aiuto, che Orseolo concesse a patto che le città dichiarassero obbedienza alla Repubblica, giurandole fedeltà e fornendole dei rinforzi per l’opera di liberazione. Due soltanto, Lesina e Curzola, ricusarono la sottomissione, ma tutte le altre accettarono, cosicchè nel maggio dell’anno 1000 il doge si recò a Pola con una poderosa flotta e vi si stabilì solennemente per ricevere l’omaggio dei magistrati di tutte le città costiere e incorporare nelle sue truppe i contingenti dei quali aveva imposto l’obbligo. Quindi fece vela per Zara, dove i magistrati delle città marittime dalmate vennero a loro volta per fare atto di sottomissione e presentare i rinforzi. In tal modo più di venti tra le città e isole si posero sotto il dominio di Venezia, che diventava di fatto la padrona delle coste istriana e dalmata. Contro Lesina e Curzola, le due riottose, il doge passò alla maniera forte prendendole d’assalto, ed esse dovettero reputarsi fortunate di trovare un vincitore che, contrariamente alle usanze dei tempi, risparmiasse la vita agli abitanti. Dopo di che, Orseolo sferrò l’attacco ai nidi dei pirati sul litorale, ne distrusse le imbarcazioni, li inseguì nella fuga entroterra e ne fece tale carneficina che per molto tempo furono ridotti all’assoluta impotenza. Quando il doge ritornò a Venezia, alla testa della flotta vittoriosa, fu accolto dagli osanna del popolo entusiasta; per merito suo, infatti, la Repubblica si era assicurata il dominio delle coste illiriche e dalmate. Quanto ai Greci, anziché adombrarsi dell’imponente successo veneziano, lo riconobbero e l’imperatore lo sancì conferendo al doge il titolo di Duca di Dalmazia. (A. Bailly)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Il trasporto del corpo di san Marco Il nome di san Marco era da secoli venerato nell’estuario veneto. Era antica tradizione che l’evangelista fosse stato il primo propagatore della fede sulle coste dell’Adriatico settentrionale, e il fondatore della prima chiesa di Aquileia. La leggenda narrava che la nave che lo aveva trasportato verso Aquileia da Alessandria d’Egitto, durante il suo tragitto era stata colta da una violenta burrasca, che aveva costretto l’equipaggio ad entrare nella laguna e ad approdare alle isole di Rialto. E lì, mentre il santo, sceso a terra, si riposava in attesa di riprendere il viaggio, gli era apparso un angelo che lo aveva salutato con le parole “Pax tibi, Marce, Evangelista meus”, e gli aveva annunciato che su quella terra le sue ossa avrebbero avuto un giorno riposo e venerazione. Questa leggenda, che dava quasi al luogo, scelto dai Veneti come loro capitale, una designazione soprannaturale, aveva acceso nell’animo di molti di essi il desiderio di impadronirsi dei resti mortali del santo, secondo un costume molto diffuso in quei tempi in tutta la cristianità. Senonché le ossa di san Marco erano ad Alessandria d’Egitto, dove il santo aveva subito il martirio ai tempi di Nerone, e dove, per raccoglierle, era stata costruita una bellissima chiesa. In quel tempo, in seguito alle ostilità esistenti tra l’Imperatore di Costantinopoli e i Saraceni, era severamente proibito ai mercanti veneti di approdare in Egitto, dominato dai Saraceni, e di esercitarvi quei commerci che nel passato erano stati fiorenti. Tuttavia, malgrado il divieto, i mercanti più arditi continuavano a frequentare quei posti. Due di questi, secondo la tradizione Rustico da Torcello e Bon da Malamocco, approdano un giorno ad Alessandria con ben dieci navi cariche di merci; vi trovarono i cristiani del luogo addoloratissimi, perchè i musulmani dominatori spogliavano ogni giorno le chiese dei vasi sacri e di ogni prezioso arredo, per arricchire le moschee e i loro palazzi, e già correva voce che il sultano avesse in animo di abbattere la chiesa nella quale erano custoditi i resti di san Marco per impiegare altrove i materiali. Questa notizia colpì vivamente l’animo dei due mercanti veneziani, i quali decisero di impadronirsi della reliquia e di portarla alla loro patria. Dopo molte difficoltà, riuscirono a persuadere i due religiosi greci che avevano la custodia del corpo del santo, a consegnarlo a loro, e lo trassero a bordo di una delle loro navi. Elusa con un’astuzia la sorveglianza dei doganieri, dopo un viaggio avventuroso giunsero in vista della laguna veneta, ma non osarono approdare perchè colpevoli di aver violato il divieto di commerciare coi Saraceni e inviarono un messo al doge perchè gli recasse la confessione del loro fallo e l’annuncio del prezioso carico. La notizia fu accolta con immenso giubilo. Il doge perdonò l’infrazione alle leggi e si dispose, con tutto il popolo, a ricevere degnamente le spoglie dell’evangelista. Esse vennero collocate nella cappella di san Teodoro, adiacente al Palazzo Ducale, in attesa che le accogliesse un maestoso tempio, del quale si iniziò presto la costruzione. San Marco fu eletto patrono della Confederazione veneziana, che adottò come stemma il leone alato, simbolo dell’evangelista; insieme con il libro dei vangeli e il motto “Pax tibi, Marce, Evangelista meus”. (E. Zorzi)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Una dimora veneziana Il Procuratore Contarini ordinò a Giovanni Buono la facciata della casa, chiamata d’Oro per le dorature di cui era adorna. Compiuta la facciata che, nonostante le offese del tempo, ride ancora di una immortale bellezza, fu chiamato mastro Giovanni di Francia, per ornarla ‘de pentura’. Come doveva apparire quel gioiello dell’architettura veneta! Maestro Giovanni si impegnava a dorare le rose, gli stemmi, i leoni, gli archetti, il fogliame dei capitelli e i dentelli, dipingere le ‘tresse dazuro oltremarin fin ben dopiado per muodo che i la stia benissimo’. Le merlature dovevano essere dipinte con biacca e venate come il marmo; le fasce bizantine a tralci di vite, tinte di bianco su fondo nero, e tutte le pietre rosse e tutte le ‘dentade rosse sia onte de oio e de vernixe con color che le para rosse’. (P. Molmenti)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Diplomatici veneziani E’ logico supporre che l’esaltazione di Venezia e delle sue bellezze ad opera di visitatori di ogni terra e di ogni condizione, concorresse a creare intorno alla città una leggenda avvalorata più che mai dalla chiara realtà di una flotta senza uguali, dalla ricchezza inesauribile dei commerci. Venezia è una potenza con la quale altre potenze si onorano di avere rapporti profondi e amichevoli; gli ambasciatori veneziani, educati alla più alta scuola di diplomazia e introdotti nelle corti più difficili, colgono ritratti ed atteggiamenti e li fissano per sempre nelle loro relazioni. Ecco come la grande Elisabetta d’Inghilterra accoglie l’ambasciatore della Serenissima: “Era la Regina in quel giorno vestita di taffetà d’argento e bianco fregiato d’oro, con abito aperto alquanto davanti sì che mostrava la gola, cinta di perle e di rubini fin a mezzo il petto. La testa aveva di capelli di un color chiaro che non lo può far la natura, con file di perle grosse intorno alla fronte e con archi in forma di cuffia e corona imperiale; faceva mostra di un gran numero di gemme e di perle, e nella persona era quasi coperta di cinto d’oro gioiellato e di gioielli in pezzi separati di carbonchi, balassi e diamanti, avendo anco le mani in luogo di mantili, filze doppie di perle più che mezzane, e tale in aspetto di regina non di anni 76… Sedeva sua maestà su una sedia sopra un poggiolo quadrato di due scalini… e all’entrare che feci in quella stanza si levò in piedi, e procedendo io nelle debite riverenze, giunto a lei, in atto di porre in ginocchio sopra il primo gradino, la sua maestà non permettendolo, con ambe le mani quasi mi sollevò, e mi porse la destra, la quale baciai, e in quest’atto ad un tempo stesso mi disse: <<Sia ben venuto in Inghilterra il segretario. E’ ben ora che la Repubblica mandi a vedere una regina che l’ha tanto onorata in tutte le occasioni>>.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Diplomazia veneziana Un documento di singolare importanza per il contenuto e per la forma è l’accordo che il sultano Murad II (Amorato), colui che prepara la strada a Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli, stipula con Venezia nel 1430: trattato di breve durata. Mirabile la vivacità delle espressioni che nella parlata veneta acquistano una solennità inattesa: “In nome del gran Dio nostro, amen. Mi Gran Signor e Grande Amirà, Soldan Amorato, zuro in loDio, creator del zielo e de la terra et alo gran nostro profeta Maomet et ali sete Mussafi che avemo e confessemo nuy Musulmani, et ali CXXIII mila profeti et in anema de mio avo e de mio padre, et in anema mia, et in la mia testa, e per la spada che me zengo, prometo mi Gran Signor Amorato, e zuro in li soraditi sagramenti: che dal di d’anchuo, prometo e digo de aver con mio fredello, el Doxe, con lo honorado et lustrissimo Chomun de la dogal signoria de Vienexia e con i so zentilomeni grandi e pizoli, bona, dreta, fedel, ferma et veraxia paxe per mar e per terra, et in le terre, zitade, castelli, ixole e tuti luoghi che chomanda la serenissima signoria de Vienexia, in quanti castelli, terre e zitade, ixole e luoghi, i qual lieva la insegna del San Marco, e quanti la leverà da mo in avanti”.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Venezia prima delle Crociate Lo scarso sviluppo quantitativo del commercio veneziano dei due secoli che precedono le Crociate ci è attestato dalle condizioni in cui si svolgevano i trasporti sia per mare sia per terra. I viaggi per mare erano fatti generalmente da navi di piccolissimo tonnellaggio, molte delle quali erano sprovviste di ancora, che doveva essere presa a nolo per la durata del viaggio. La mancanza di ogni strumento di orientamento obbligava a limitare la durata giornaliera del viaggio alle ore della luce solare, riparando la notte in qualche insenatura della costa istriana o dalmata, oppure lungo le rive generalmente basse e piatte della costa italiana su cui si doveva tirare in secca le piccole imbarcazioni. Ai pericoli del mare si aggiungevano e spesso sovrastavano quelli della pirateria slava, per cui, a differenza di quello che avverrà nei secoli successivi, le navi erano obbligate a viaggiare in convoglio fino al canale d’Otranto, mentre, uscite da questo, era loro permesso di viaggiare isolate; e questo non tanto perchè nel mar Ionio e nel Mar di Levante la loro sicurezza fosse garantita dalla vigilanza della flotta bizantina, ma perchè il loro piccolo numero e la varietà delle rotte che esse seguivano verso gli Stretti, verso la Siria, l’Egitto o la Sicilia, rendeva impossibile riunirle in convoglia protetti da una scorta armata. Non molto migliori erano le condizioni dei trasporti per terra, per i quali il mezzo di gran lunga preferito era la via fluviale, che si presentava relativamente agevole lungo il corso inferiore del Po e dell’Adige, ma che per questi stessi fiumi a monte di foce Mincio e di Legnago e per tanti altri corsi d’acqua del Veneto e della Valle Padana si prestavano soltanto a barche di fondo piatto e di minima portata, che in certi tratti più ripidi dovevano essere tirate con funi; mentre in montagna e specialmente lungo i valichi alpini, che talvolta incominciavano ad essere pericolosi, non potevano esser fatte che da somieri, che difficilmente portavano più di un quintale ciascuno. Tutto sommato dunque, se si può affermare che nel corso del X e del XI secolo si sono create tutte o quasi tutte le condizioni che permetteranno il grande sviluppo del commercio e di tutta l’economia veneziana nei due secoli successivi, è anche certo che questo sviluppo è stato poi decisamente favorito dalle Crociate, e che soltanto da queste ha origine la creazione di un impero coloniale veneziano nel Levante. (C. Luzzatto)
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LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture La Repubblica di Pisa
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture La Repubblica di Pisa Pisa cominciò a reggersi a Repubblica nella seconda metà del secolo XI. Dapprima fu assai ostacolata nei suoi traffici marittimi dai Saraceni, ma, in seguito, aiutata da Genova, riuscì, dopo lunga e accanita lotta, a snidare quei pericolosi pirati arabi dalle isole Baleari, dalla Corsica e dalla Sardegna, dove infestavano il Tirreno e saccheggiavano anche le altre città costiere italiane. Pur combattendo contro i Saraceni, Pisa aveva empori in Oriente e trafficava con i Turchi, i Libici, i Parti e i Caldei. Molti vantaggi economici ottenne poi dalle Crociate. Splendidi monumenti, palazzi, magnifiche chiese testimoniano ancora quanto fosse ricca e prospera questa Repubblica.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Decadenza della Repubblica di Pisa Durante il secolo XIII Pisa decadde, combattuta per terra da Firenze e da Lucca, per mare da Genova. Nella grande battaglia della Meloria, la flotta pisana fu completamente disfatta da quella genovese (1284), e migliaia di Pisani caddero prigionieri della potente rivale. Dopo questa tremenda sconfitta, Pisa non si risollevò più: perdette, l’uno dopo l’altro, i suoi possedimenti di Sardegna, di Corsica e la Colonia di San Giovanni d’Acri (Asia Minore); cedette a Genova l’Isola d’Elba, e non potè evitare la rovina commerciale del proprio porto. Ai disastri esterni si aggiunse la discordia interna tra Guelfi e Ghibellini. Un episodio ben noto di questa lotta è quello del Conte Ugolino della Gherardesca, che tentò di farsi signore della città, appoggiandosi ora ai Guelfi ora ai Ghibellini. Preso a tradimento dall’arcivescovo Ruggieri, suo rivale, venne chiuso con due figli e due nipoti in una torre, e lì fu fatto morire di fame insieme con gli altri quattro sciagurati. Dante immortalò il tragico avvenimento nel XXXIII canto dell’Inferno.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Pisa L’esistenza di Pisa quale città marinara è nota fin dall’età romana: la città sorgeva alla foce dell’Arno, ed aveva un porto grande e sicuro. Dopo l’oscura parentesi delle invasioni barbariche, Pisa conquistò la propria indipendenza e già nel secolo VIII disponeva di una grossa flotta mercantile protetta da numerose navi da guerra. Alle incursioni ed alle minacce dei Saraceni, che correvano in lungo e in largo il Mediterraneo, i Pisani risposero con una guerra spietata, caratterizzata da imprese veramente leggendarie. Nel 1063, le navi pisane, rotta la grande catena del porto arabo di Palermo, irruppero in esso, attaccando le navi alla fonda. Altre imprese vittoriose vennero compiute, nel giro di secoli di battaglie, a Reggio Calabria, sulle coste della Spagna, delle Baleari, della Sardegna, dell’Africa; famosa, e cantata dai poeti medioevali, la distruzione della roccaforte saracena di Mehedia (1087). La crescente potenza commerciale e militare pisana suscitò tuttavia la gelosia della sua grande vicina, Genova. La rivalità tra le due repubbliche le condusse ad una lunga serie di guerre nelle quali Pisa si venne sempre più indebolendo: la sconfitta della Meloria (1284) segnò l’inizio della sua inarrestabile, rapida decadenza.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Lo scoglio della Meloria Al largo del porto di Livorno, circa 7 chilometri a ponente, c’è lo scoglio della Meloria, su cui sorge un’antica torre. Sai perchè lo scoglio è famoso? Perchè nei suoi pressi i Genovesi inflissero una dura sconfitta alle navi pisane nel lontano 1284, il 6 agosto, al tempo delle lotte combattute dalle repubbliche marinare di Genova e Pisa per il dominio del Mar Tirreno. Durante la sanguinosa battaglia navale due galee genovesi accoppiate, fra le quali era tesa una grossa catena, investirono la nave capitana pisana troncandone di netto lo stendardo bianco con l’immagine della Vergine. La vittoria genovese è ricordata da un iscrizione posta sulla facciata di San Matteo, chiesa dei Doria di Genova.
Morte del conte Ugolino Alla battaglia della Meloria, nel 1284, i Pisani furono battuti definitivamente e lasciarono diecimila prigionieri nelle mani dei Genovesi. Fu allora che i guelfi toscani, alleati di Genova, minacciarono di marciare su Pisa per distruggerla. In tal frangente fu nominato prima podestà e poi capitano del popolo il conte Ugolino della Gherardesca; il quale, persuaso che si dovesse lottare contro Genova e non contro i guelfi della Toscana, si accordò con questi cedendo loro alcuni castelli e impegnandosi a render guelfa la sua città: gesto di amor patrio che andava oltre la passione politica di fazione; ma non la pensarono così i suoi concittadini che, accusatolo di tradimento, lo imprigionarono con i due figli e i due nipoti nella torre che, dopo di lui, fu detta della fame. Lì i cinque prigionieri furono lasciati miseramente morire di fame. Era l’anno 1288. Tutta la Toscana fu pervasa da un fremito di orrore per tale crudele condanna, che colpiva soprattutto gli innocenti figli e nipoti del conte. Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, ricostruisce gli ultimi giorni e la fine, ad uno ad uno, dei prigionieri, con un verismo poetico di enorme potenza.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Pisa ha corso un grave pericolo Pisa, 1005 La città ha subito un improvviso e duro assalto da parte di armati saraceni, provenienti dalla Sardegna al comando del feroce Musetto. Ecco come essa si salvò dal terribile pericolo. Pisa è immersa nel sonno. L’unico rumore sommesso è il mormorio dell’Arno, che attraversa la città. Ma forse, nelle loro case, non tutti i Pisani dormono tranquilli. Certo ignorano che alcune galee saracene, risalito il corso dell’Arno, stanno per raggiungere Porta Marina. Musetto ha scelto il momento giusto: egli sa che questa oscura notte di settembre gli permetterà di dare a fuoco le porte, di irrompere nella città, di saccheggiare, di fare strage fra i Pisani, di portar via come schiavi donne e fanciulli. Lente, silenziose, le galee saracene ormeggiano ora ai serragli del primo ponte. Ed ecco che in un attimo i pirati sono sotto Porta Marina con le fiaccole accese, assalgono con scale e raffi le mura. Abbattuta la Porta i pirati irrompono urlando nelle prime case, con le torce e le spade sguainate. Cominciano a levarsi grida di orrore. Svegliate di colpo, nel sonno, famiglie sbigottite cercano scampo a quella furia nascondendosi, fuggendo, supplicando. In pochi istanti lo scompiglio diventa indescrivibile. In mezzo a tanto sgomento, una sola fanciulla (sembra incredibile) sa conservare la calma. Questa fanciulla è Cinzica de’ Sismondi. Cinzica comprende subito che occorre fare una sola cosa, per la salvezza di Pisa: raggiungere il Palazzo del Comune e suonare a stormo le campane per dare l’allarme all’intera città. Incurante dei rischi cui va incontro, Cinzica scende dunque nella strada affollata di fuggiaschi e di Saraceni e comincia a correre, a correre… Finalmente, rischiando mille volte la morte, l’intrepida fanciulla è al Palazzo del Comune. Esausta, dà di piglio alla corda delle campane e suona, finché non le rimangono più forze. Poche ore più tardi la città è salva. I Pisani, infatti, svegliati dalle campane e corsi alle armi, erano riusciti a fermare i Saraceni, a travolgerli, a costringerli alla fuga.
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LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture La Repubblica di Genova
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture La Repubblica di Genova Genova fu particolarmente favorita, nello sviluppo commerciale, dalla felice posizione geografica del suo porto, situato in un golfo ampio, profondo e sicuro, protetto alle spalle da un’alta cerchia di monti. Rovinata dai Longobardi, si riebbe solo sotto i Carolingi e divenne presto il centro più importante delle due Riviere di Levante e di Ponente. Genova, liberata dal dominio dei marchesi e dei vescovi-conti verso la metà del secolo XI, si resse subito a Repubblica, e, lottando alleata con Pisa, contro i Saraceni, s’impadronì della Corsica; ottenuta poi dal Papa l’investitura sulla Sardegna, divenne la vera padrona del Tirreno, strappandone il predominio agli antichi alleati Pisani. Debellata Pisa, accrebbe la sua potenza militare, politica e commerciale, assicurandosi depositi e magazzini di merci in tutti i porti principali del Mediterraneo orientale e perfino nel Mar Nero, per cui entrò in concorrenza, e rivaleggiò, con Venezia dalla fine del secolo XIII alla fine del secolo XIV.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Il duello tra Genova e Venezia Era così grande la potenza di Venezia e di Genova, che le sorti dell’Impero Bizantino, dipendevano dall’esito delle rivalità tra le due Repubbliche. Il duello, tra Genova e Venezia, pieno di implacabile odio, ebbe varia fortuna e fu combattuto su tutti i mari, e senza quartiere, tra le potenti flotte delle due grandi nemiche, comandate da famosi ammiragli. L’episodio più importante di questo lungo conflitto fu la guerra di Chioggia (1378), durante la quale Pietro Doria, ammiraglio dei Genovesi, superbamente impose a Venezia la resa. Quest’ultima proposta esasperò i Veneziani, che, da assediati, divennero assediatori, guidati da Vittor Pisani. I Genovesi, così, furono costretti ad arrendersi per fame e a chiedere la pace, che fu stipulata a Torino (1381) per la mediazione di Amedeo VI di Savoia. La guerra di Chioggia segnò il tramonto della potenza marittima e commerciale di Genova che non fu più in condizione di prendersi la rivincita su Venezia. Questa infatti ebbe la libertà dei suoi commerci e dei suoi possedimenti in Oriente e la possibilità di espansione anche per terra in Occidente. Da allora la Repubblica di San Giorgio (Genova) fu tormentata da continue discordie interne e da guerre civili, e, per avere un po’ di pace e di tranquillità, dovette appoggiarsi ora a questa ora a quella potenza straniera a prezzo della propria libertà.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Genova Nell’anno 641 i Longobardi attaccarono e distrussero Genova: da questa catastrofe la città riuscì a risollevarsi nel giro di tre lunghi secoli. Il suo risveglio era ormai avvenuto quando, nel 935, i Saraceni piombarono su di essa, saccheggiandola ferocemente. Proprio le ripetute e gravissime incursioni arabe spinsero i genovesi ad apprestare una potente flotta con la quale difendere la città ed i suoi traffici; sorse così la Compagna, una potente associazione di mercanti-guerrieri. Verso il 1100, i consoli della Compagna divennero consoli della Repubblica genovese. Genova ebbe una grande espansione commerciale in tutto il Mediterraneo e stabilì basi e colonie un po’ ovunque; ma la sua storia è soprattutto caratterizzata dalle lunghe guerre condotte contro le repubbliche rivali, quella di Pisa e di Venezia. In più di un secolo di ostilità, alternata a lunghi periodi di pace ed anche di alleanza, Genova piegò Pisa e a sua volta venne piegata da Venezia e s’avviò alla decadenza.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Genova e l’Oriente La potenza della Repubblica marinara di Genova, in alcuni periodi, non fu inferiore a quella di Venezia. Anche i Genovesi, che, guidati dai loro mercanti e armatori, erano riusciti a rendersi indipendenti dall’Impero, raggiunsero il massimo della loro forza durante le Crociate, dapprima provvedendo ai rifornimenti degli eserciti cristiani ed ottenendone in cambio importanti posizioni nei porti della Siria e dell’Egitto. Qui essi vendevano i prodotti europei, i metalli necessari per le armature, il ferro e il legname per le navi. Qui acquistavano, per rivenderli in tutta l’Europa, i prodotti orientali portati dalle carovane che provenivano dall’interno, specialmente droghe e sete indiane. Mentre nel Tirreno la potenza di Genova entrò in conflitto con quella di Pisa (e vinsero i Genovesi sconfiggendo la rivale), in Oriente l’antagonismo fu principalmente tra genovesi e veneziani, per il monopolio dei commerci nel Mar Egeo e nel Mar Nero. Lo scontro si risolse, dopo alterne vicende, a favore di Venezia. I Genovesi (come i Veneziani e i Pisani) possedevano, nei porti orientali, banchine speciali per l’attracco delle loro navi, magazzini, strade, talvolta interi quartieri, governati con le leggi della madrepatria.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Genova Repubblica marinara Siamo agli arbori di Genova Repubblica marinara: nel 1016, per iniziativa di papa Benedetto VIII, viene allestita una flotta, composta quasi esclusivamente di navi genovesi e pisane, la quale infligge una sconfitta, lungo le coste sarde al re saraceno Mujahid che si era impadronito dell’isola e molestava con sistematiche depredazioni le coste liguri. Questa vittoria e la successiva opera di penetrazione in Sardegna e in Corsica, segna l’inizio della rivalità tra Genova e Pisa; le due città non esiteranno però ad allearsi con Gaeta, Salerno e Amalfi per combattere più volte il comune nemico: Nella seconda metà del secolo XI si inaspriscono i conflitti tra i vescovi e i visconti; ma la lotta si compone nel 1099 per merito del vescovo Arialdo, quando nasce la Compagna Communis composta dal vescovo, dai visconti e dalle compagne locali. Riunendo i nobili, i proprietari terrieri, i cittadini dediti al commercio e alla marineria, e il vescovo che conserva i suoi poteri tradizionali, la Compagna Communis si identifica col Comune e nasce così lo Stato Genovese. Nello stesso tempo la potenza marinara di Genova si consolida e si espande sulle due riviere, da Lavagna a Ventimiglia, con vasto retroterra capace di fornirle uomini e mezzi.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Leone alato e croce rossa di San Giorgio Quelli che hanno viaggiato per il mar Mediterraneo e sono passati vicini ai promontori, accanto alle mille isole dell’Egeo, e sono entrati nei porti avranno visto sempre, in cima al colle che sovrasta il mare o la città, un grande castello grigio, enorme, quasi sempre abbandonato, rovinato, cadente. Ognuno di questi castelli è un segno dell’antica potenza di Venezia, di Genova, di Pisa, di Amalfi. Essa arrivava fino a Costantinopoli, fino all’Egitto. Quando i pirati o gli infedeli vedevano all’albero di una nave la bandiera di Venezia, che era il leone alato, o la croce rossa di san Giorgio, che era la bandiera di Genova, sapevano che c’erano a bordo dei marinai animosi che non avevano paura di attaccare battaglia e, se non si sentivano molto superiori di forze, fuggivano… Era tale il terrore che quelle bandiere davano ai pirati che quando gli abitanti dell’Inghilterra incominciarono a fare lunghi viaggi per mere con le loro navi, domandarono il permesso ai Genovesi di poter innalzare anch’essi i colori di san Giorgio, per essere più rispettati. I Genovesi acconsentirono, e perciò, anche oggi, voi vedete che la bandiera d’Inghilterra reca, nell’angolo superiore sinistro, la croce rossa, che è quella dell’antica Repubblica di Genova. (P. Monelli)
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture Un documento commerciale marittimo del 1158 Giovanni Filardo, mercante genovese, s’era recato in Egitto, ad Alessandria, per farvi acquisti, portando un capitale di 753 lire genovesi. Al ritorno, poichè doveva allontanarsi per andare a San Giacomo di Galizia a sciogliervi un voto, stese un preciso inventario delle merci, per conoscenza del suo socio e parente Guglielmo che ne fece ricevuta. E’ forse uno dei più antichi documenti commerciali che noi oggi possediamo: “Io Guglielmo Filardo dichiaro che sono presso di me, nel mio magazzino: I. della commenda che feci a te Giovanni dei beni di Ansaldino mio nipote: 14 sporte di pepe del peso di 65 cantari e 45 rotuli (il cantaro era circa 80 chilogrammi e il rotulo 800 grammi) 6 fasci di legno brasile del peso di 47 cantari 10 libbre di noce moscata 1 zurra di cannella uguale 87 e mezzo menne o fasci 1 fascio di chiodi di garofano. II: della commenda fatta a te dei beni di mio nipote Guglielmo: 3 sacchi di pepe del peso di 17 cantari e 42 rotuli 1 fascio di legno brasile del peso di 7 cantari e 52 rutuli 1 zurra di cannella del peso 187 libbre 60 libbre di spica (olio di nardo) 2 libbre e mezzo di noce moscata III: della società che ho teco: 2 fasci di legno brasile selvatico del peso di 16 cantari e 88 rotuli 3 sporte di pepe e tre sacchi del peso di 29 cantari e 114 rotuli 4 fasci di galanga (radici per concia)“.
LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Il tributo: recita sul Medioevo. La scena è immaginata nell’umile casa di un servo della gleba, il contadino di allora.
Personaggi: il servo della gleba, il figlio, due alabardieri (soldati)
Figlio: Babbo, perchè sei triste? Sono stato al castello, sai! Mi hanno fatto entrare per aiutare gli sguatteri, perchè ieri c’è stata festa al castello, fino a notte fonda! Sono passato per lunghi corridoi e grandi stanze; una di queste è lunga quasi tutto il borgo… Ma perchè sei triste?
Servo della gleba: Per niente! Ti ascolto!
Figlio: Alle pareti sono appese teste di lupi e di cinghiali, corna di cervi e di caprioli. Questi animali li ha uccisi il conte, sai! E poi dappertutto si trovano lance, alabarde, mazze ferrate, e sui tavoli si vedono vassoi d’argento e coppe d’oro. Vedessi come sono lunghe le tavole della sala per il banchetto! Cento brocche di vino c’erano sopra. Nello spiedo ho visto girare un cinghiale intero e sul camino friggere in padella cento e cento uova. Uno scudiero mi ha fatto assaggiare una pietanza strana, che era avanzata e che io non avevo mai visto… Com’era buona!… Ma perchè sei triste?
Servo della gleba: Per niente, ti ripeto. Continua.
Figlio: Poi un paggio mi ha fatto entrare nella sala del banchetto, dove, insieme col conte e la contessa, c’erano i cavalieri, le dame, il menestrello, il buffone. Il conte e la contessa mi hanno sorriso.
Si sente battere alla porta con forza.
Una voce (con alterigia): Aprite! Aprite!
Il ragazzo corre ad aprire ed entrano due alabardieri.
Servo della gleba: Ah, gli esattori!
Soldato: Per ordine di messere il conte cerchiamo te. Tu devi ancora pagare la tassa del pascolo.
Servo della gleba: Messeri, ieri vi ho corrisposto il pedaggio per passare il ponte sul torrente e la tassa si mulitura. I miei prodotti li ho portati tutti al castello.
Soldato: Bene. Pagaci il tributo del pascolo con quel sacco di farina.
Servo della gleba: Ma è l’unico rimasto per me e il mio figliolo!
Soldato: Allora vieni con noi.
Servo della gleba: Dove mi conducete?
Soldato: Per ora davanti a messere il Conte, e poi…
Servo della gleba: Ma io…
Soldato: Ordine di messere il Conte!
(Lo afferrano)
Figlio: No! No! Babbo, diamo il sacco di farina. In qualche modo ci sfameremo.
Servo della gleba: E va bene, figliolo. Prendete pure, alabardieri. Il tributo per il pascolo è pagato.
(da: Recitiamo la Storia, Rodolfo Botticelli, editrice La Scuola)
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L’investitura del feudatario Personaggi: l’Imperatore e il Feudatario.
L’investitura del feudatario – Dialogo tra Imperatore e Feudatario
Feudatario (inginocchiato): Sire, inginocchiato davanti alla vostra augusta persona, con le mani giunte per umiltà nelle vostre, prometto di essere vostro uomo e di servirvi lealmente e fedelmente.
Imperatore: Nobile dignitario, io sono pronto a te, che mi presti omaggio come vassallo, a trasmettere il possesso del grande feudo di Pieve Lontana e a concedere il titolo di Marchese, purché tu presti giuramento che tu e la Marca mi sarete di valido aiuto nei perigli: giuramento che farai in nome di Dio Nostro Signore, mancando al quale sarai dichiarato fellone e spogliato del feudo.
Feudatario: In nome d’Iddio Nostro Signore, giuro davanti alla Vostra Grazia, o Sire, che mi concedete il beneficio del feudo, di custodire i vostri segreti, di rispettare e fare rispettare il vostro onore, di seguirvi in battaglia accompagnato dai miei cavalieri e fanti; vi giuro formalmente fedeltà, mi dichiaro formalmente vostro uomo, vostro fedele, e vi riconosco mio signore.
Imperatore: Per il tuo sacro giuramento ti offro il simbolo del feudo di Pieve Lontana e il titolo di Marchese concedendoti le immunità secondo il Capitolare della mia legge.
Avvenuta l’investitura del marchese o del conte, questi possono trasmettere parte del feudo ad altri minori feudatari, valvassori, ripetendo la stessa cerimonia, e questi ultimi ad altri ancora, valvassini. Basterà cambiare alcune parole e il simbolo del feudo, ricordando che si usavano gonfaloni, spade e scettri, se si trattava di feudi cospicui, e zolle, rametti o mazzi di spighe, se si trattava di feudi minori. Un pezzo di stoffa può fare da gonfalone, una riga da spada, e così via…
(da: Recitiamo la Storia, Rodolfo Botticelli, editrice La Scuola)
L’investitura del feudatario – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Il menestrello – racconto ambientato nel Medioevo per bambini della scuola primaria, adatto alla lettura e al riassunto.
Era da poco cominciato l’inverno, ed i fossi erano tutti gelati, quando un giovane venne a suonare il corno davanti al castello di sir Galihud Sans Pitiè.
Dalla finestra del barbacane un soldato gli chiese: “Che volete?”.
“Sono un menestrello” rispose il giovane, “e voglio entrare, per rallegrare il signore di questo luogo con le mie poesie”.
“Se vuoi un consiglio, vattene via. Sir Galihud Sans Pitiè non ama se non la caccia e la guerra”.
“Ma ci saranno pure delle dame, al castello, e dei cavalieri cortesi!”
“Ci sono”.
“Bene” disse il menestrello “aprimi, allora. Io canterò per loro”.
Il ponte levatoio s’abbassò, la porta si aprì ed il menestrello entrò nel maniero. Era un giovane biondo, dai lunghi capelli, dal viso bianco come la cera, dalle spalle delicate e rotonde. Vestiva di scarlatto, ed aveva a tracolla un liuto ed una sacca piena di carte. Il soldato lo condusse subito nella sala ove sir Galihud teneva tavola imbandita.
Quando videro il menestrello, le dame ed i cavalieri che vivevano al castello, o che vi erano ospiti si rallegrarono e lo invitarono a cantare le sue canzoni.
“Col permesso del signore, delle dolci dame e dei giovani cavalieri” disse allora il menestrello, “canterò la storia d’amore della regina Didone per l’eroe Enea” e cominciò a suonare ed a cantare; ma non aveva tratto che poche e delicate note, quando sir Galihud esclamò: “No, no! Codesta canzone non mi piace!”.
Il menestrello si inchinò e cominciò un’altra canzone; ma l’aveva appena intonata, che sir Galihud esclamò: “Via, via, nemmeno questa mi piace!”.
Per la terza volta il menestrello ricominciò, e per la terza volta sir Galihud lo interruppe, esclamando: “Basta con questi lamenti!”.
Il menestrello allora gli si volse e disse: “Parlando in codesto modo, messere, voi fate una grande villania prima a voi stesso che a me. Perchè cosa penseranno, le dame ed i cavalieri che vi ascoltano, se non che siete un uomo sgarbato e rozzo e senza cortesia?”
A queste parole tene dietro un lungo silenzio; e sir Galihud, alzandosi dal suo scranno esclamò: “Tu hai parlato troppo!” e scavalcata la tavola si avventò sul menestrello, e strappandogli il liuto, prese con questo a batterlo: e lo fece con tanta rabbia che ben presto il giovane cominciò a sanguinare dal naso e dalle orecchie, e cadde a terra svenuto. sir Galihud stava per colpirlo ancora, quando il giovane sir Lionel, un cavaliere ospite del castello, lo agguantò per le braccia trattenendolo e gridò: “Vergogna, sir Galihud! Voi avete battuto un uomo disarmato!”.
“Lasciatemi subito andare e chiedetemi perdono!” rispose furibondo il cavaliere “O vi batterete con me!”.
Sir Lionel lasciò la presa e disse: “Così sia. Mi batterò con voi quando vorrete!”.
“Ciò sarà subito!” replicò sir Galihud, e lasciò la stanza, per andare a prepararsi. Le dame e gli altri cavalieri seduti alla tavola, allora, si rivolsero a sir Lionel, scongiurandolo di lasciare subito il castello e di non misurarsi con sir Galihud. “Egli è feroce come un leone” gli dissero “e vi ucciderà, come avrebbe ucciso questo menestrello, perchè non ha mai dato quartiere ai suoi nemici”.
Sir Lionel rispose: “La nostra vita è nelle mani di Dio; ed anche se io morrò, almeno avrò salvato la vita di questo giovane”, e qui si chinò sul menestrello insanguinato e gli disse: “Coraggio, poeta! Di queste ferite non si muore!”.
Il menestrello aprì gli occhi e mormorò: “Dio vi ricompensi, messere, per quello che avete fatto. Da parte mia, io non lo scorderò mai”.
In questo momento entrarono gli araldi e dissero come sir Galihud fosse già sceso nel cortile ed aspettasse sir Lionel per il duello. Sir Lionel allora, con sereno volto, prese il suo cimiero e si avviò, tra il pianto delle dame ed i sospiri dei cavalieri.
sir Galihud era già in sella, e quando vide sir Lionel gridò, levando il pugno: “Nemo me impune lacessit!” che era un motto che significava ‘nessuno mi ha mai sfidato impunemente’. Sir Lionel montando in sella rispose: “Dio mi è testimone che non vi feci offesa alcuna”.
In breve, i due furono pronti per il duello, ed al segnale corsero fieramente ad incontrarsi, e ruppero le lance con strepito e fragore; ma sir Lionel fu scavalcato e piombò a terra, ed allora sir Galihud, smontato sveltamente da cavallo, gli si fece addosso e, toltogli l’elmo, gli troncò di netto la testa. Le dame gridarono, coprendosi il volto con le mani ed anche i cavalieri volsero gli occhi per non vedere.
Sir Galihud gridò: “Dov’è il menestrello? Portatelo qui!”
Due soldati trascinarono nel cortile il menestrello; e sir Galihud gli disse, accennando al corpo di sir Lionel: “Prendi il tuo protettore, e vattene. Ricorda: se metterai ancora piede nel mio castello, ti ucciderò!”.
Nel gran silenzio del cortile, il menestrello avanzò e con molta pietà prese tra le braccia sir Lionel: barcollando sotto il peso, poi, uscì dal castello. Quando fu fuori, scavò con le sue mani una fossa, e vi depose il morto, e dopo avere lungamente pianto e pregato lo coprì di terra dicendo: “Sir Lionel, non mi scorderò di voi!”.
Passarono due anni. Venne due volte la neve e cancellò ogni cosa. Poi due primavere portarono cielo azzurro e fiori, e fecero spuntare tenera erba sulla tomba di sir Lionel; giunsero due rigogliose estati, e gli autunni ricchi di foglie e di colori. Quando il terzo inverno riapparve coi primi geli, le sere tornarono a farsi molto lunghe nelle sale del castello ove sui camini ardevano ceppi resinosi.
Una sera assai fredda, ecco suonare il corno sotto il castello di sir Galihud. Questi, che sonnecchiava accanto al fuoco, domandò: “Chi suona a quest’ora?”
“Messere” annunciò un servo, “è un menestrello che chiede di entrare”.
“Ah, fatelo entrare, sir Galihud!” gridarono le dame, che si annoiavano profondamente, “che ci narri qualche storia d’amore e d’avventura!”.
“Io non sono amico dei menestrelli, lo sapete e sterminerei la loro razza. Ma poichè la sera vi sembra tanto lunga, ebbene, che quel poeta salga a cantarvi le sue canzoni!”.
Così fu fatto, ed il menestrello entrò nel maniero e venne condotto nella sala; ma, anziché avanzarsi verso la tavola, si arrestò sulla soglia, dove la luce delle torce giungeva appena.
“Vieni avanti, menestrello!” ordinò sir Galihud.
“Ci sarà tempo, per questo” rispose il menestrello senza muoversi; e le dame mormorarono: “In verità questa sembra la voce di un guerriero, e non di un poeta!”.
“Va bene, sta pure dove sei” disse sir Galihud. “Quale canzone buoi cantare?”
Stando nell’ombra il menestrello disse: “Col permesso del signore, dello dolci dame e dei nobili cavalieri, io narrerò la storia di un prode e generoso cavaliere, che venne ucciso da un villano signore senza pietà, perchè aveva difeso un povero menestrello come me”.
Tutti rabbrividirono e si volsero verso sir Galihud; e questi, buttato a terra il boccale di sidro che teneva in mano esclamò levandosi in piedi: “Codesta storia non mi piace! E tu, menestrello, fatti avanti, in modo che io ti veda in volto!”.
Allora, mentre tutti tacevano, il menestrello camminò verso il centro della sala, e rivelò l’essere suo; e tutti mormorarono stupidi perchè, malgrado avesse capelli corti da soldato, viso abbronzato, spalle larghe e quadrate, riconobbero in lui il menestrello venuto due anni prima e percosso da sir Galihud. E questi disse: “Hai sbagliato a tornare nel mio castello! Avevo promesso che ti avrei ucciso! Tu vuoi morire!”.
“Non sono ancora giunto a questo.”
“Ebbene, vi giungerai!”.
Sir Galihud prese un grosso coltello, che serviva per tagliare la carne, e si avventò sul menestrello; ma questi corse al muro dove erano appesi i trofei di guerra, e staccò da esso una spada, e brandendola disse: “Io sono qui sir Galihud, per vendicare la morte di sir Lionel!”.
“Tu morrai come lui! Nemo me impune lacessit!”
Sir Galihud menò alcuni colpi col suo coltello, ma il menestrello li schivò facilmente tutti, ed anzi a sua volta colpì di spada e ruppe il pesante giaco di cuoio di cui il cavaliere era rivestito. Tutti si meravigliarono che un poeta sapesse duellare con tanta perizia; ed ancor più si stupirono, quando sir Galihud venne ferito a un fianco, e cominciò a perdere sangue.
“Tu combatti con una spada, menestrello! Lascia dunque” esclamò il malvagio cavaliere arrestandosi ” che io mi armi come te”.
“Messere, sia come volete. Ciò non vi salverà dalla morte”.
Sir Galihud andò allora accanto al muro dei trofei di guerra; ma, invece di prendere una spada come quella del menestrello, ecco che staccò un enorme spadone che si impugnava a due mani; e con esso, roteandolo furiosamente, si fece avanti.
I cavalieri presenti pensarono, allora, che nessun onore poteva venire a sir Galihud da una simile azione. Il menestrello però non dimostrò alcuna paura, e fermamente fronteggiò sir Galihud, arretrando ed abilmente schivando tutti i terribili fendenti dello spadone.
Quando ebbe compiuto per tre volte il giro della grande sala, senza mai riuscire a menare un colpo al segno, sir Galihud si fermò ansimante e disse: “Tu fuggi, codardo!”.
“L’ho fatto fino ad ora” replicò il menestrello “perchè voi vi battete con due mani, ed io non una. Ma a questo” aggiunse fieramente, “c’è rimedio!” e con un gran fendente, tagliò netta la mano sinistra di sir Galihud. “Ecco che ora combatterete con una mano sola!” disse ancora, e mentre il malvagio cavaliere cercava, con una sola mano, di manovrare quel suo pesantissimo spadone, il menestrello lo colpì sulla testa con tanta violenza che sir Galihud cadde morto e non si mosse più.
Allora il menestrello si volse alle dame ed ai cavalieri, che avevano dato un grido, ma che non erano mossi, e disse loro: “Per due anni, signori, scordando poesia e canzoni, combattendo nella Terra Santa per il riscatto del sepolcro di Gesù, mi sono esercitato nell’arte della guerra, fortificando il mio spirito e il mio corpo. E ciò ho fatto, perchè dovevo compiere giustizia e vendicare la morte di sir Lionel. Ho atteso lungamente: ma ora che quest’uomo senza pietà è perduto ecco io rinuncio alla lancia ed alla spada. E” concluse “torno per sempre al mio liuto ed alle mie poesie”.
Così dicendo lasciò cadere la spada; né volle fermarsi al castello, benché fuori smisuratamente fioccasse la neve; e si allontanò sul suo cavallo, e mentre si allontanava, lo udirono cantare una dolce e triste canzone d’amore e di guerra.
(P. Selva)
Il menestrello – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Amalfi e la bussola – recita per la scuola primaria
Amalfi e la bussola – Personaggi -Feliciano, figlio di un navigatore amalfitano – Marina, sua sorella – un compagno, che entra alla fine della scena.
Amalfi e la bussola – Testo Marina: Feliciano, hai visto che nebbia c’è sul mare? Feliciano: E’ davvero una cosa rara per Amalfi Marina: Da lontano non si deve distinguere né la costa né il faro. Sto in pensiero per il nostro babbo. La sua nave dovrebbe essere la prima ad arrivare in porto. Feliciano: Oh, non temere! Il babbo e i suoi marinai sono abili navigatori. Noi Amalfitani abbiamo il mare nel sangue, dice il babbo. Anche io sarò un navigatore! Marina: Tu dici così, ma io non sono affatto tranquilla. Primo, per il maltempo; secondo, perchè so che il babbo dovrebbe far scaricare le sue stoffe, provenienti da Costantinopoli, entro domani l’altro per un impegno preso con certi mercanti. Come potrà trovare la direzione giusta con questa nebbia? Feliciano: Senti, Marina. Tu forse non sai ancora che le galee amalfitane hanno a bordo qualcosa che fa trovar loro l’orientamento anche senza il sole né le stelle. Marina: Ma che dici? Feliciano: Sì. Si tratta di una cosa semplice, ma meravigliosa: un ago calamitato, che il babbo chiama magnetico, fissato sopra un pezzo di legno, il quale viene fatto galleggiare in un recipiente con acqua. Questo ago ha una proprietà particolare: volge la sua punta verso nord, e così i naviganti possono conoscere la posizione dei punti cardinali. Credo che i nostri marinai abbiano appreso l’udo di questo strumento dai naviganti arabi; ma c’è chi dice che sia invenzione di un Amalfitano. Marina: Ma a me il babbo non ha detto nulla di tutto ciò! Feliciano: (con orgoglio) Tu sei una bambina. Non sarai mai un navigatore. Invece io…! Un compagno: (entrando trafelato) Feliciano! Marina! Sta entrando in porto la nave di vostro padre! Marina: Papà! Papà!
(da: Recitiamo la Storia, Rodolfo Botticelli, editrice La Scuola)
Amalfi e la bussola
Amalfi e la bussola Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Martin Luther King – materiale didattico e schede illustrate pronte per la stampa per bambini della scuola primaria, sulla vita di Martin Luther King.
Martin Luther King si celebra col MLK day negli USA il terzo lunedì di gennaio, un giorno vicino alla sua data di nascita. E’ una festività nazionale istituita per legge dal 1983, ma fu osservata da tutti gli Stati americani solo dal 1993. Per raccontare ai bambini la sua storia ho preparato una biografia, una serie di carte illustrate che possono essere utili durante il racconto, e un riassunto del discorso pronunciato a Washington nel 1963.Le immagini sono di pubblico dominio; tutte le fonti sono citate in fondo all’articolo.
Martin Luther King è l’icona mondiale della lotta per i diritti civili.
Fino a cinquant’anni fa, in USA, c’erano fontanelle pubbliche separate per bianchi e neri, a teatro la balconata separata per neri, e i posti in fondo al bus solo per neri. E’ difficile da credere ma era veramente poco tempo fa. Nella lotta per guadagnare la parità per i cittadini di qualsiasi razza si è svolta la breve vita di Martin Luther King. In quel periodo negli USA era normale salire sugli autobus, entrare nei bar, in teatro, e nelle chiese e vedere posti separati a seconda del colore della pelle delle persone, e persone come Martin Luther King sono, anche oggi, fonte di ispirazione per chi crede nella giustizia sociale. Voleva il riscatto di tutti, non solo dei neri, che non erano i soli ad essere maltrattati nel suo paese: l’ingiustizia sociale era troppa e troppe le leggi scritte ma non rispettate. Occorreva restituire dignità a tante persone schiacciate da secoli di schiavitù sociale, politica e morale. L’Italia, da paese di emigrazioni è diventato un paese di immigrazioni, e quindi una società multietnica caratterizzata dalla coesistenza di persone di etnie diverse. Molti italiani che si considerano ‘istruiti’, si rivelano poi razzisti, per diversi motivi. Il sogno di Martin Luther King può insegnare molto agli italiani sui diritti civili, sull’integrazione, sull’uguaglianza delle minoranze e sulle barriere razziali. Anche se i tempi e le situazioni sono diverse, le cause del razzismo sono sempre le stesse. Perciò, i valori che il sogno di Martin Luther King ha insegnato agli americani, possono servire da lezione anche agli italiani.
Martin Luther King jr (15 gennaio, 1929 – 4 aprile, 1968) nacque nella città di Atlanta, in Georgia, il 15 gennaio 1029.
La Georgia è uno Stato del sud degli Stati Uniti, dove il problema razziale era molto forte.
I neri americani sono i discendenti di quegli uomini che furono rapiti dai negrieri e portati dall’Africa all’America, in catene, per essere venduti come merce. Milioni di donne e di uomini vennero strappati alla loro terra e fatti schiavi per lavorare nelle piantagioni di cotone, tabacco, zucchero e caffè degli stati del sud dal 1620 fino al 1865: 200 lunghi anni durante i quali gli antenati di Martin Luther King venivano comprati, venduti e trattati non come esseri umani, ma peggio degli animali. La legge che permetteva la schiavitù negli Stati Uniti fu cancellata solo grazie a una terribile guerra civile tra gli Stati del Nord, che volevano abolire lo schiavismo, e gli Stati del Sud. Ma, soprattutto al sud, l’abolizione legale della schiavitù non portò la libertà agli americani neri, perchè i proprietari terrieri escogitarono sistemi di ricatto economico nei confronti dei lavoratori ex schiavi, per cui più lavoravano più si indebitavano. Nella pratica i neri americani non potevano nemmeno partecipare alle elezioni. Sorse inoltre il Ku Klux Klan (KKK), un gruppo fondato da ex soldati sudisti dopo la guerra civile, che ha usato la violenza e l’intimidazione per escludere i neri dal voto, dalle cariche politiche e anche dalle scuole, compiendo crimini orribili.
“Lavorare dall’alba al tramonto, incatenato alla terra dai conti da pagare al proprietario della piantagione, piangere, compatirsi per la propria mancanza di coraggio, essere lo zimbello dei giudici e dei poliziotti, finire col credere alla propria indegnità… e infine cedere, inchinarsi e odiare se stessi per la propria debolezza“.
Così Martin Luther King racconta la vita di suo nonno James Albert, che era la vita di tutti i neri americani. Nelle città si vedevano dappertutto cartelli con la scritta “colored only” o “white only” (solo per neri, solo per bianchi). I neri vivevano riuniti in zone della città, i ghetti (slums), sovrappopolati e privi di strutture e di servizi decenti. I neri americani non potevano frequentare molte scuole, Università, né entrare a far parte di molte associazioni, non votavano, subivano maltrattamenti anche da parte delle autorità e dalla polizia, ed erano spesso condannati ingiustamente da giurie popolari bianche e razziste. I neri godevano di meno diritti dei bianchi ovunque: nel campo dell’istruzione, sul lavoro, e in tutti i settori della vita sociale ed anche nell’esercito, e perfino nell’uso dei mezzi pubblici. Quello che oggi, nella nostra cultura, sembra assurdo, nell’America degli anni ‘50 e ’60 era la normalità.
In questo clima Martin Luther King nacque, visse e cominciò a lottare fin da bambino.
Oggi gli USA hanno il loro primo Presidente nero. Sono passati solo cinquant’anni dai discorsi di Martin Luther King. Il Presidente Obama non ha nella sua storia familiare ex-schiavi afroamericani, mentre la first lady, Michelle, sì. Gli USA hanno fatto molti passi avanti per i diritti civili e l’uguaglianza, ma le discriminazioni esistono ancora. Ad esempio, in alcuni stati degli USA, gli studenti di colore vengono sospesi o espulsi tre volte di più dei loro coetanei bianchi.
Fin dall’infanzia Martin Luther King subì i traumi dei bambini che scoprono di essere diversi e discriminati, che scoprono di vivere in una società razzista.
Il padre, Martin Luther King senior, era pastore della Chiesa battista, la mamma una maestra. Nei primi anni dell’infanzia giocava con i bambini del quartiere, anche coi bambini bianchi. A sei anni cominciò a frequentare la scuola elementare, e cominciarono ad accadere fatti incomprensibili per un bambino: venne escluso dai giochi dei suoi vicini di casa che, addirittura, ebbero dai loro genitori il severo divieto di parlare con lui. Martin non riusciva a capire: non aveva fatto loro alcun dispetto, non li aveva offesi in alcun modo… Non lo fecero sentire meglio le spiegazioni dei suoi genitori, che gli parlarono di cosa significasse essere di colore e vivere in uno Stato del Sud, gli raccontarono delle origini africane dei neri americani, della lunga e terribile schiavitù e della Guerra di Secessione che aveva dato loro, almeno formalmente, la libertà. A otto anni il suo papà gli dà la notizia della morte della sua cantante preferita, Bessie Smith, che dopo un incidente stradale morì perché gli ospedali per bianchi di Atlanta si rifiutarono di ricoverarla.
Ancora impreparato a reagire, queste ed altre esperienze gli rimasero scolpite per sempre nell’anima.
Martin Luther King visse la sua infanzia e adolescenza in un periodo di grande fermento storico, con la II Guerra Mondiale e la conquista dell’indipendenza delle colonie europee, e fu molto affascinato dalla figura di Gandhi, dal quale imparò i principi della lotta non-violenta. Poté studiare frequentando le scuole per ‘coloreds’ (cioè per soli neri), e fu negli anni del liceo, mentre si inseriva nel mondo degli adulti, che cominciò ad avere sempre più coscienza della discriminazione razziale. Così decise di diventare avvocato e si iscrisse all’Università di Atlanta (per soli neri), ma dopo qualche anno passò agli studi di filosofia e di teologia e diventò, a 22 anni, pastore battista. Ispirato dal metodo di lotta per i diritti basato sulla ‘non violenza’ di Gandhi, Martin Luther King si convinse che questo sistema poteva servire anche per la conquista dei diritti civili dei neri americani. Dalla meditazione sulle opere di Gandhi, trasse la conclusione che i valori cristiani uniti ai principi della non-violenza, dovevano essere la base della lotta per la giustizia sociale. Completò gli studi e, durante la preparazione della tesi di laurea conobbe Coretta Scott, che studiava canto per diventare soprano. Anche Coretta aveva il sogno di poter fare qualcosa per i neri americani. I due giovani s’innamorarono e nel 1953 si sposarono e si trasferirono nella città di Montgomery, in Alabama, entrambi erano decisi a lottare per non essere più giudicati inferiori, ma cittadini come gli altri.
In questa città Martin Luther King era pastore della chiesa battista.
Le sue prediche lo resero molto famoso tra le persone, indipendentemente dal colore della loro pelle, e riuscì ad attirare a sé un numero sempre più grande di sostenitori.
Nel dicembre del 1955 un fatto in apparenza banale, che avvenne proprio nella città di Montgomery, dette ai fatti una svolta decisiva. Sugli autobus della città le prime tre file di posti erano riservate ai bianchi, le altre potevano essere occupate da neri solo se non c’erano bianchi in piedi. Quel giorno Rosa Parks rifiutò di alzarsi e cedere il suo posto, e venne arrestata e portata in carcere. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Nel giro di poche ore King mise a disposizione la sua chiesa per organizzare la protesta e fu deciso il boicottaggio dei trasporti pubblici, una forma di lotta pacifica, ispirata agli insegnamenti di Gandhi: nessun nero sarebbe salito su un autobus fino a che non fosse stata tolta la spartizione dei sedili. L’iniziativa ebbe un enorme successo: il giorno seguente, infatti, tutti i mezzi pubblici erano deserti, perchè non solo in neri ma anche molti bianchi avevano aderito alla lotta. La situazione continuò a ripetersi anche nei giorni seguenti e gli abitanti neri di Montgomery non salirono sugli autobus e si recarono al lavoro arrangiandosi come potevano fino al dicembre dell’anno successivo: 382 giorni. In questo periodo King fu bersaglio di minacce d’ogni genere e la sua casa fu fatta saltare in aria con una bomba (la moglie e la figlia, che erano dentro, restarono fortunatamente illese). La compagnia degli autobus perse 40 milioni di dollari e le autorità arrestarono Martin L. King con un pretesto. A sorpresa, quando il processo contro di lui stava ormai per iniziare, arrivò la notizia: la Corte Suprema dichiarava illegale la segregazione praticata negli autobus.
Nacque così il Movimento per i Diritti Civili e Martin Luther King divenne il simbolo della ‘rivoluzione nera’.
Ogni sua vittoria ebbe per lui un prezzo altissimo: fu preso a sassate, picchiato ed aggredito dai cani della guardia nazionale; fu arrestato una ventina di volte durante le manifestazioni per la pace; più di una volta John Kennedy, che sarebbe diventato il Presidente degli Stati Uniti, pagò personalmente la cauzione per farlo uscire di prigione.
Martin Luther King organizzò tantissime manifestazioni pacifiche, marce, conferenze pubbliche e raduni, e il Movimento si estese ben presto a tutti gli Stati Uniti.
Organizzò ovunque boicottaggi contro gli esercizi commerciali che praticavano la segregazioni (negozi, bar, ristoranti, ecc.). Martin Luther King diceva: “Non possiamo obbedire a leggi ingiuste, perché il non collaborare col male è un obbligo morale, non meno del collaborare col bene“. E di fronte alle minacce, riferendosi al Ku Klux Klan, diceva: “Mandate i vostri sicari incappucciati nelle nostre case. Ma siate certi che vinceremo: un giorno conquisteremo la libertà, e la nostra vittoria sarà anche la vostra“.
Nel 1963, centenario dell’abolizione della schiavitù firmata da Lincoln, le azioni non violente del Movimento per i Diritti Civili dilagarono in più di 800 città.
A Birmingham, città che subì in un anno diciassette attentati dinamitardi ad opera dei razzisti bianchi, ebbe inizio una delle più importanti campagne di sensibilizzazione del Movimento. Durante una marcia tenuta la sera del venerdì Santo, vennero imprigionate centinaia di persone e, fra di esse (per la tredicesima volta) Martin Luther King. Dal carcere scrisse una famosa lettera: “E facile dire: ‘aspettate’. Ma quando avete visto poliziotti pieni d’odio colpire e perfino uccidere impunemente i vostri fratelli e le vostre sorelle; quando sentite la vostra lingua torcersi se cercate di spiegare alla vostra bambina di sei anni che non può andare al luna-park perchè è nera, e vedete spuntarle le lacrime; quando vi perseguita notte e giorno il fatto di essere nero, non sapendo mai che cosa vi può accadere; allora voi comprendete perché per noi è tanto difficile aspettare“.
Sempre nel 1963, in agosto, Martin L. King guidò un’enorme manifestazioneinterrazziale a Washington, dove pronunciò il suo discorso più famoso, poetico e struggente: “Ho un sogno” (I have a dream).
La marcia dei 250.000 arrivò a Washington il 28 agosto, per chiedere l’approvazione della legge sulla parità dei diritti civili per bianchi e neri. Oltre 80.000 dei partecipanti all’evento erano bianchi e marciavano insieme agli altri cantando ‘Black and white together’ (neri e bianchi insieme). Fu una manifestazione molto pacata e vi partecipò tutta la comunità americana, singoli individui e gruppi politici e religiosi, associazioni, sindacati dei lavoratori, bianchi, neri, meticci ed indiani: fu un’azione collettiva, di tutta la nazione americana, a favore dei più deboli ed emarginati. Le telecamere di tutto il mondo erano puntate sulla marea umana che si era raccolta intorno al monumento a Lincoln per chiedere un mondo migliore, dove giustizia ed uguaglianza non fossero utopie, ma realtà. Milioni di telespettatori in tutto il mondo, seguirono affascinati questo evento ad ascoltarono la voce di Martin Luther King, a cui fu affidato il discorso conclusivo. Il suo discorso fu accolto da applausi scroscianti. A proposito della marcia di Washington, Martin Luther King scrisse: “…L’estate del 1963 è stata una rivoluzione perché ha cambiato il volto dell’America…”. Questa marcia pacifista e la figura di Martin Luther King ebbero risonanza mondiale, e le sue predicazioni e i suoi scritti furono tradotti e letti in molti Paesi, ed anche in Italia.
Il 1964 fu un anno importante.
La legge per i diritti civili venne approvata il 10 febbraio 1964. Durante una manifestazione pacifica la polizia si scagliò con ferocia su un corteo di dimostranti, sguinzagliando cani e azionando idranti contro ragazzi inermi. Sotto la pressione dell’opinione pubblica inorridita, il Governo dichiarò illegale la segregazione nei negozi e nei locali pubblici, e stabilì che l’assunzione al lavoro doveva essere egualitaria per bianchi e neri. Erano vietate le discriminazioni per l’iscrizione ai registri elettorali ed era sancito l’obbligo di ammettere tutti i cittadini, senza distinzioni di razza, a qualsiasi scuola o esercizio pubblico. La battaglia, però, durò ancora a lungo e negli Stati del Sud, soprattutto l’Alabama e il Mississippi, continuarono a registrarsi episodi di neri picchiati e uccisi dai razzisti bianchi del Ku Klux Klan.
Il 14 ottobre Martin Luther King ricevette un telegramma da Stoccolma: “Il premio Nobel per la pace è stato assegnato a Martin Luther King per aver fermamente e continuamente sostenuto il principio della non-violenza nella lotta razziale nel suo Paese“. I 34 milioni del premio vennero messi a disposizione del Movimento per i Diritti Civili.
Ma ancora l’effettiva uguaglianza tra bianchi e neri era un obiettivo lontano.
A metà degli anni Sessanta il movimento per i diritti civili si spaccò: un gruppo di attivisti neri si oppose alle scelte moderate e pacifiste di King e diede vita a forme di protesta più radicali caratterizzate dallo slogan Blackpower (potere nero).
Tra mille difficoltà e molti oppositori Martin Luther King continuò a correre da una parte all’altra degli Stati Uniti per diffondere le idee del Movimento per i Diritti Civili, che estese la sua richiesta di riforme sociali non solo alla comunità nera, ma a tutti gli americani poveri, e si impegnò contro il coinvolgimento degli USA nella guerra del Vietnam.
Nel marzo 1968 Martin Luther King stava preparando la marcia della “miseria nazionale” durante i poveri di tutte le razze sarebbero dovuti arrivare da tutti gli Stati USA a Washington.
Il 27 marzo nella città di Memphis, in Tennessee, seimila americani neri attraversarono in corteo la città per solidarietà con 1.700 spazzini in sciopero e Martin Luther King era in testa al corteo. Pochi giorni dopo, il 3 aprile, Martin Luther King parlò, sempre a Memphis, davanti a quindicimila. Il giorno seguente, si trovava con altri membri del Movimento per i Diritti Civili in una stanza dell’Hotel Lorraine. Si affacciò ad un balcone dell’Hotel e venne colpito da un colpo di fucile. Quando morì aveva solo 39 anni ed era nel pieno della sua battaglia. Il colpo era partito dalla casa di fronte, e approfittando dei momenti di panico che seguirono, l’assassino si allontanò indisturbato. Il presunto killer fu arrestato a Londra circa due mesi più tardi, si chiamava James Earl Ray. L’uomo si proclamò innocente e disse di sapere chi fosse il vero colpevole, ma non sapremo mai la verità perchè venne accoltellato la notte seguente nella cella in cui era rinchiuso.
Al suo funerale parteciparono migliaia le persone d’ogni ceto e razza.
Celebrò la cerimonia suo padre, il pastore Martin Luther King senior, che fece riascoltare una predica registrata del figlio, nella quale, tra l’altro, diceva: “Se qualcuno di voi sarà qui nel giorno della mia morte, sappia che non voglio un grande funerale. E se incaricherete qualcuno di pronunciare un’orazione funebre, raccomandategli che non sia troppo lunga. Ditegli di non parlare del mio premio Nobel, perché non ha importanza… Vorrei solo che dicesse che sono stato una voce che ha gridato nel deserto per la giustizia, e che ho tentato di spendere la mia vita per amare e servire l’umanità».
CorettaKing, anche dopo la morte del marito, continuò la sua lotta contro la segregazione razziale e a favore della pace del mondo.
I Have a Dream – Martin Luther King jr
Riassunto del Discorso Pronunciato da Martin Luther King a Washington il 28 Agosto 1963.
Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della schiavitù. Ma cento anni dopo, i neri non sono ancora liberi; cento anni dopo, la vita dei neri è ancora una vita in catene, e queste catene sono la segregazione e la discriminazione. Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti qui, nella capitale degli Stati Unti, per incassare una cambiale. Quando i Padri Fondatori scrissero la Costituzione Americana e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono una cambiale ad ogni americano. Questa cambiale prometteva a tutti gli uomini, ai negri tanto quanto ai bianchi, il diritto di godere in America dei principi inalienabili della vita, del diritto alla libertà e del diritto alla ricerca della felicità. E’ ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo impegno e non ha pagato la cambiale data ai suoi cittadini neri. Invece di pagare la sua cambiale, invece di onorare il suo debito, l’America ha consegnato ai neri banconote false, e quindi siamo venuti per incassare questo cambiale, per ricevere le banconote vere della libertà e della garanzia di giustizia. Siamo anche venuti per ricordare all’America l’urgenza dell’adesso. Questo è il momento di realizzare le promesse; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti. Sarebbe la fine per questa nazione, se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un autunno di libertà ed uguaglianza. Il 1963 non è una fine, ma un inizio. Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai neri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. Ma c’è qualcosa che devo dire alla mia gente. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste. Non soddisfiamo la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio; conduciamo la nostra lotta con dignità e disciplina; non permettiamo che la nostra protesta degeneri in violenza; rispondiamo alla forza fisica con la forza dell’anima. Molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, capiscono che il loro destino è legato col nostro destino, e che la loro libertà è legata alla nostra libertà. Questa offesa che è l’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Quando potremo sentirci soddisfatti? Non saremo mai soddisfatti finché il nero sarà vittima degli orrori a cui viene sottoposto dalla polizia; finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città; finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono ‘riservato ai bianchi’; finché i neri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente. Non ho dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e sofferenze. Ritornate nel Mississippi, in Alabama, South Carolina, in Georgia, in Louisiana; ritornate ai vostri ghetti delle grandi città del nord, sapendo che questa situazione può cambiare, e cambierà. Non sprofondiamo nella disperazione. E anche se dovrete affrontare le difficoltà di oggi e di domani, io ho un sogno. Io un sogno: nel mio sogno, un giorno, questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso dei sui ideali. Tutti gli uomini sono creati uguali, questo è uno dei sui ideali. Io ho un sogno: nel mio sogno, un giorno, i figli degli uomini che un tempo furono schiavi e i figli degli uomini che un tempo furono schiavisti, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Io ho un sogno: nel mio sogno, un giorno, perfino lo stato del Mississippi, dove oggi c’è arroganza ingiustizia e oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia. Io ho un sogno: nel mio sogno, un giorno, i miei quattro figli piccoli non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Io ho davanti a me un sogno, oggi! Difendiamo insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quel giorno tutti gli uomini sapranno cantare insieme l’America, dolce terra di libertà. Se l’America vuole essere una grande nazione, possa questo accadere. Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York. Risuoni la libertà negli alti monti della Pennsylvania. Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve. Risuoni la libertà dai dolci pendii della California. Ma non soltanto. Risuoni la libertà dalle montagne della Georgia. Risuoni la libertà dalle montagne del Tennessee. Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.
Abdullah e il pepe: un racconto ambientato nell’epoca delle crociate, per bambini della scuola primaria adatto alla lettura e il riassunto.
Il Pascià di Alessandria, dopo aver ascoltato distrattamente tre religiosi biancovestiti, con una croce rossa e blu sul petto, chini umilmente davanti a lui, contò e ricontò la somma piuttosto forte che gli era stata appena consegnata. Poi fece schioccare le dita: “Chiamate Abdullah!”.
Lo schiavo Abdullah spuntò fuori dalle cucine dove stava lavorando da quasi undici anni. Era uno schiavo dagli occhi azzurri e dal naso un poco all’insù, vissuto fino a dieci anni, con il nome di Giannetto, in un villaggio della valle della Loira. Per aver seguito un pastore di Vendome che predicava la Crociata dei Fanciulli, egli era andato a finire in qualità di marmittone in mano ai Barbareschi…
Il Pascià gli disse: “Ecco degli ulema (dotti) del tuo paese che mi hanno versato un buon prezzo per il tuo riscatto. Poiché ti sei comportato bene, ti restituisco la libertà. Ricorda che tu sei vissuto fra noi più a lungo che non presso i Franchi; se un giorno sentissi il desiderio di ritornare da noi potrai invocare la mia protezione”.
E Abdullah-Giannetto partì con i monaci trinitari verso il molo dove si riunivano gli schiavi riscattati.
Ma verso la fine di settembre, appena cinque mesi dopo la sua liberazione, egli si trovava di nuovo davanti al Pascià, in compagnia di un altro cristiano fornito di un’enorme bisaccia di cuoio. Affondato in un sofà di seta verde, il Pascià prendeva da una cesta delle arance candite e delle uova sode…
“E così” gridò “tu hai fatto naufragio… racconta!”.
“Dopo dieci settimane di navigazione” racconta Giannetto, “la nostra nave andò a sbattere contro uno scoglio a fior d’acqua, si squarciò e affondò. Io fui spinto sugli scogli, e riuscii a toccar terra, mezzo annegato. Dopo aver preso fiato e vestito com’ero con i soli pantaloni, mi inoltrai nell’interno del paese finché raggiunsi una città fortificata, costruita sulle pendici di una collina. La gente vi parla la lingua di Felì, il Provenzale, il nostro schiavo pasticcere. Verso sera, quasi morto di fame e di sete, mi fermai alla porta di una taverna. Nel vedermi, l’enorme padrone si pose sulla soglia della porta e bastò questo per sbarrarmi l’ingresso. In quel momento io sentii in tasca delle palline dure: automaticamente ne tirai fuori alcune per vedere ci che si trattava. Erano aromi che Felì mi aveva donato al momento della partenza. Non appena vide quei granellini, l’oste mi stese la sua manaccia in modo così imperioso che io aprii le dita e cinque grani verdastri vi rotolarono. Vedendo di che cosa si trattava, l’omaccio esclamò: ‘Guarda un po’! Del pepe!’. Mi fece entrare nella cucina e mi diede da lavare dei bicchieri e dei piatti maleodoranti. Allora pensai che non avevo niente da guadagnare a essere libero… La mia cena furono un pezzo di pane e pochi fichi, prima di andare a dormire nel granaio. Qui ebbi il tempo di contare i miei grani di pepe: me ne restavano 13 e li rimisi nel sacchetto. Senza riflettere bene a quello che facevo, nascosi quel sacchetto sotto una trave: era tutta la mia fortuna e ciò mi fece ridere!… Nel cuore della notte, fui risvegliato dall’oste: alla luce fioca della candela frugava nei miei pantaloni. Poiché sapeva bene che io non avevo denaro certamente stava cercando il pepe. A forza di frugare perfino nelle cuciture, scoprì un grano che mi era sfuggito, fece un grugnito di soddisfazione e se ne andò. Il mattino, me la squagliai, naturalmente con il mio pepe!”.
“Parlami dell’oste, non è stato bastonato?” domandò il Pascià tra un boccone e l’altro.
I racconti arabi si snodano senza fine, come una stella filante, inseguendo le vicende di tutti i personaggi. Il Pascià fu quindi deluso nel sentire che Giannetto non sapeva nulla del suo ladro.
Il ragazzo riprese: “Fuori scorsi un uomo di alta statura, che mi sembrava un religioso, vestito di bianco. Costui si dirigeva verso una casa che aveva l’aspetto di una fortezza. Con il cuore che mi batteva forte, mi misi a correre e oltrepassai la porta subito dopo di lui. Cercai di raccontargli la mia avventura perchè volevo che qualcuno mi aiutasse, ma egli non ne aveva alcuna intenzione. Allora, preso dalla disperazione, gli offrii tre grani di pepe. Subito, un altro religioso che era rimasto in parte silenzioso, venne verso di me; prese i grani, mi condusse in cucina, dove mi fu data una buona minestra e poi nel magazzino dove mi vestirono decentemente. Quando uscii di là, il mercato era zeppo di gente e nessuno faceva caso a me. A un certo momento, nel tumulto delle discussioni, sentii una voce che gridava: ‘E’ caro come il pepe!’. Allora non esitai a tentare il colpo grosso: mi avvicinai a un farmacista, che aveva il negozio traboccante di fiale, di vasi e di boccali sigillati. In seguito seppi che si chiamava Pastenague. Dapprima egli si mostrò arrogante, ma io me l’aspettavo… Alcuni grani nel palmo della mia mano gli fecero allungare il collo e arrotondare l’occhio come una gallina che ha scorto un verme. Io fissai un prezzo: quattro denari d’argento per ogni grano; ci volle molto tempo perchè si decidesse, ma, alla fine, aprì uno scrigno chiodato sul quale era seduto, prese quattro grani e mi diede in cambio sedici monete d’argento tirate fuori dallo scrigno”.
“Potevi chiederne anche di più” disse il Pascià da uomo che se ne intendeva, “i giauzzi (infedeli) sono più avidi di pepe che d’oro. Ma che cosa è successo poi ai monaci?”
“Non so.” rispose Giannetto, “Con il mio denaro andai ad alloggiare nell’albergo della Palma, il migliore della città, e feci alcune spese necessarie per il viaggio. Infatti, con i cinque grani che mi restavano, credevo ormai possibile il ritorno al mio villaggio. La sera, a cena, una compagnia di mercanti che stavano andando alla fiera di Beaucaire, venne a sedermisi vicino. Essi erano molto allegri, io bevvi del vino e parlai loro del mio sacchetto di pepe che portavo appeso al collo come uno scapolare. Essi mi assicurarono che alla fiera ne avrei ricavato comodamente una libbra parigina per ogni grano e mi proposero di fare la strada assieme a loro: mi avrebbero aiutato a ricavarne un buon guadagno. Io ne provai un piacere tale che feci versare da bere molte volte a tutta la tavolata. Ma il vino che non conoscevo oramai da molti anni mi fece girar la testa… Mi svegliai, tardi, il mattino seguente; l’albergo era silenzioso, senza i campanelli dei muli, senza nitriti e senza il va e vieni dei palafrenieri con gli zoccoli. Mi precipitai alla finestra…”
Qui il Pascià si lasciò andare sul dorso agitando le gambe, chiocciando di soddisfazione.
“Ho indovinato!” gridò, “La carovana ti aveva piantato dopo averti derubato!”.
“Sì, ero stato derubato” fece Giannetto. “Qualcuno aveva tagliato il cordoncino del mio sacchetto; andai a sedermi nella grande sala, accasciato… e passò un po’ di tempo. Verso mezzogiorno, vidi entrare Pastenague preoccupato in cerca di qualcuno. Mi si avvicinò lentamente, mi tirò per la manica e mi disse all’orecchio: ‘Mi impegno a comperare tutto il pepe che potrai vendermi, fino a un quarto di libbra e a buon prezzo’. Mi voltai verso di lui e gli dissi che potevo procurargliene non solamente a dozzine di grani, e neppure a quarti di libbra, ma a centinaia di sacchi di cento libbre… e così pure per la vaniglia, per la noce moscata, e per i chiodi di garofano… Pastenague spalancò gli occhi e mi guardò spaventato: mi credeva matto! Ma oramai mi ero lanciato; descrissi le banchine del porto di Alessandria, i suoi magazzini dove si ammucchiano a montagne le balle delle spezie profumate. L’impressione del mio discorso su così viva che, prima di sera, avevamo firmato un contratto a tre: Pastenague, Goffredo, un socio che ho trovato senza difficoltà, ed io. Tu lo conosci, o signore, poichè ne hai visto l’originale e la traduzione. Tu hai certamente notato che il mio aiuto consiste nella conoscenza della lingua, ma soprattutto nella promessa della tua magnanima protezione…”.
“Avrai tutte le merci che desideri” disse il Pascià “alle stesse condizioni che noi facciamo ai mercanti genovesi”. Poi aggiunse: “I credenti e i giaurri non andranno mai d’accordo, ma possono però commerciare: il commercio è gradito a Dio; il tuo viaggio ti renderà ricco. A proposito: ti ricordo che io da solo voglio guadagnare quanto voi riuniti insieme. Ma voi siete solamente due. Parlami del tuo farmacista”.
“A proposito di lui, posso risponderti. Eravamo sulla nave in partenza col cuore stretto dall’angoscia al pensiero dei pericoli che ci attendevano. Il capitano comandò di ritirare la passerella che ci collegava ancora alla terra. Si udì allora un grido acuto e noi vedemmo Pastenague che fuggiva dalla nave correndo sulla passerella con il suo scrigno sulle spalle; e, sempre gridando, scomparve fra i pini sulla spiaggia. In quel momento il capitano lanciò l’ultimo ordine: ‘Fate le vele, con l’aiuto di Dio’.”.
Abdullah e il pepe – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Le terre che Carlo Magno aveva distribuito a conti e marchesi di chiamavano feudi, e coloro che le avevano ricevute venivano chiamati col nome generico di feudatari. Il possesso di un feudo durava quanto la vita del feudatario, e alla morte di quest’ultimo tornava sotto la diretta signoria dell’Imperatore. Coloro che avevano ricevuto un feudo dall’imperatore divenivano suoi vassalli e, finché vivevano, potevano godere di tutti i prodotti della terra su cui governavano. I vassalli, in cambio, giuravano fedeltà all’imperatore, avevano l’obbligo di versargli una parte delle ricchezze ricavate dal feudo e, in caso di necessità, di procurargli un dato numero di guerrieri. Col tempo i vassalli ottennero di essere esonerati dal pagamento delle tasse e dall’arruolamento di guerrieri. Infine, i feudatari più potenti, approfittando della debolezza di alcuni imperatori, ottennero che i loro feudi , da vitalizi, diventassero ereditari. I vassalli, divenuti proprietari del loro feudo, ne assegnarono, a loro volta, una parte ad uomini loro fedeli che si chiamavano valvassori. Costoro avevano verso i feudatari gli stessi obblighi che i feudatari avevano verso l’imperatore. Col tempo, ottennero anch’essi che le loro terre, assegnate a vita, divenissero ereditarie. Talvolta anche i valvassori affidarono una parte delle loro terre ad altri: i valvassini. La terra era lavorata di coloni e dai servi della gleba. I coloni dovevano dare al signore una parte dei raccolti e lavorare gratuitamente per la manutenzione di strade, ponti, canali. I servi della gleba (cioè i servi della terra) vivevano quasi come schiavi; non potevano sposarsi, né farsi religiosi, né cambiare mestiere, né trasferirsi altrove senza il consenso del padrone che, spesso, li tormentava con ogni sorta di prepotenze. In caso di vendita del fondo su cui lavoravano, i servi della gleba passavano in potere del nuovo padrone, come cose o animali. La cerimonia con cui si consegnava un feudo a un vassallo si chiamava investitura. Essa avveniva alla presenza di tutti i maggiori dignitari dell’Impero. Il vassallo, in ginocchio, poneva le mani nelle mani dell’imperatore giurandogli fedeltà. L’imperatore, allora, se il feudo era una marca, gli consegnava una spada per ricordargli che doveva essere pronto a difendere con le armi quanto gli era stato affidato; se invece si trattava di una contea, gli offriva una zolla di terra o un mannello di spighe. I feudi, divenuti ereditari, spettavano sempre al figlio primogenito. Gli altri figli si avviavano alla vita ecclesiastica o, ricevuti dal padre un’armatura e un cavallo, cercano gloria e fortuna combattendo per i potenti. Dapprima i cavalieri, ammirando soltanto la forza, si mostrarono intrepidi e crudeli. Poi, per merito della Chiesa, che predicava l’amore per il prossimo, divennero generosi, onesti, e si dedicarono alla difesa dei deboli e degli oppressi.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Per il lavoro di ricerca
Che cosa erano i feudi e come si chiamavano gli assegnatari? Di che cosa poteva godere il vassallo? Quali obblighi aveva verso l’imperatore? Chi erano i valvassori e i valvassini? Chi erano i coloni e i servi della gleba? Come erano considerati questi ultimi? Che cos’era l’investitura a vassallo? Come avveniva? Chi erano i cavalieri e come dovevano comportarsi? Come si svolgeva la giornata del castellano? Quali erano i costumi feudali? Quale era la cerimonia dell’armamento di un cavaliere? Come ci si comportava a tavola nell’epoca medioevale? E quali erano i cibi? Come si faceva la toletta quotidiana? Esistono ancora molti castelli in Italia; cerca, se possibile, di visitarne uno e osserva la sua struttura caratteristica (il ponte levatoio, il fossato, le torri, il torrione, ecc..); cerca di spiegarti perchè mai sia stato costruito così in alto; procura infine di disegnare un castello, magari servendoti di un’illustrazione. Visita qualche museo o ricerca delle illustrazioni che raffigurino le armi e le armature dei soldati di questo periodo. Le case dei servi della gleba sorgevano ai piedi del castello. Perchè? Come e cosa mangiavano i nobili signori del Castello? Quali divertimenti avevano i feudatari? Procura di conoscere i particolari della cerimonia detta dell’investitura e poi, con l’aiuto di qualche amico, prepara una scenetta da recitare in classe. Chi erano i Cavalieri? Quale scopo si prefiggeva la Cavalleria? Quale carriera doveva seguire un giovane prima di essere nominato cavaliere?
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Il borgo
Il feudatario viveva nel castello. Intorno ad esso sorgeva il borgo, cioè l’insieme delle umili abitazioni degli artigiani e dei servi della gleba. Gli uni fornivano al feudatario i prodotti agricoli, gli altri (tessitori, sarti, calzolai, falegnami, fabbri) gli oggetti indispensabili alla sua vita e a quella dei suoi soldati e servitori. In caso di guerra, gli abitanti del borgo si rifugiavano nel castello.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Potenza dei feudatari
Il feudo aveva tre elementi costitutivi: il beneficio, cioè la concessione del territorio, fatta dal re; il Vassallaggio, ossia l’assunzione degli obblighi verso il sovrano da parte del feudatario; l’immunità, cioè praticamente una sempre maggiore indipendenza del feudatario nei confronti del re. A questi elementi venne ad aggiungersi anche l’ereditarietà. Dopo la morte di Carlo Magno, infatti, i grandi feudatari esercitarono fortissime pressioni per ottenere che, alla loro morte, i territori da essi amministrati, anziché tornare al re, passassero in eredità ai loro figli. Carlo il Calvo, uno degli imbelli sovrani succeduti a Carlo Magno, finì col cedere a questa richiesta e nel Capitolare di Kiersy dell’anno 877 dichiarò di riconoscere ed accettare il principio dell’ereditarietà. I feudi divennero gradatamente sempre più potenti e indipendenti, e formarono veri e propri stati negli stessi confini del regno. I potenti feudatari vivevano nei loro Castelli turriti che, dapprima non furono che semplici fortezze, ma vennero col tempo a trasformarsi in comode e splendide dimore, centri di vita economica, sociale e culturale.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Omaggio e investitura
L’investitura era la cerimonia simbolica con la quale veniva stabilito il contratto feudale: in origine, il vassallo si chinava ai piedi del signore e, mettendo e sue mani nelle mani di lui, gli si dichiarava vassallo. Questo atto era detto omaggio: a sua volta, il signore lo sollevava e lo baciava sulla bocca; seguiva un giuramento di fedeltà, poi il signore gli consegnava un simbolo della terra datagli in feudo: la spada, per difenderla, oppure un ramo, un mazzo di spighe, una zolla.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture La vita nell’epoca feudale
Nell’epoca feudale le città sono in piena decadenza: vi vivevano piccoli commercianti ed artigiani, povera gente gelosa della libertà, ma senza difesa e soggetta a tutte le angherie degli eserciti che passavano. Anche le città facevano parte del feudo, ma erano generalmente trascurate dai signori, perchè il centro della vita feudale era il castello; vi aveva invece una certa importanza il Vescovo. Il castello, in cui risiedeva il feudatario, era costruito in posizione dominante e facilmente difendibile. La massiccia costruzione era cinta di mura poderose, orlate alla sommità di merli che servivano di riparo ai combattenti. Intorno vi correva un fossato, pieno di acqua, su cui si abbassavano uno o più ponti levatoi: in caso di difesa essi venivano alzati, in modo da impedire ogni passaggio verso l’interno del fortilizio. All’interno vi erano ampi cortili su cui si aprivano le abitazioni, i magazzini, le scuderie, gli altri locali adibiti a vari usi. Le stanze erano vaste ma disadorne e piuttosto oscure. Solo in seguito le dimore signorili si abbellirono di ornamenti, oltre che di trofei di caccia e di guerra, e divennero più comode e perfino lussuose. Il castello è un poco il simbolo della vita aspra e violenta dell’età feudale. La guerra, la preda, il saccheggio, le incursioni nei territori nemici erano quasi consuetudini. La forza fisica, il coraggio, l’abilità di maneggiare le pesanti armi erano le doti più considerate. La caccia era insieme un divertimento e un mezzo per procacciarsi la selvaggina per i banchetti del castello. Non vi erano altri divertimenti che i tornei, combattimenti simulati tra guerrieri o tra gruppi, i conviti e le gagliarde bevute; si assisteva talora ai lazzi ed agli esercizi di giullari o si ascoltavano i canti d’amore e di guerra dei trovatori. Una cerimonia solenne della vita feudale era l’investitura. Il signore alla presenza della sua corte riunita riceveva l’atto di omaggio del vassallo e il giuramento di fedeltà; poi lo investiva del feudo, cioè gli conferiva i diritti sul territorio, consegnandogli un simbolo: una spada, un anelo, un gonfalone o, se il feudo era modesto, un fascio di spighe o anche una zolla. La povera gente viveva in capanne o in squallide dimore poste nelle immediate vicinanze del castello, in cui si rifugiava quando si avvicinava la minaccia della guerra. Attività fondamentale era l’agricoltura, praticata in grandi proprietà, che avevano per centro il castello o la curtis (cioè la fattoria con le abitazioni, le stalle, i fienili, i magazzini, i mulini e tutto quanto occorreva). In esse si produceva quello che era necessario alla vita degli abitanti: al di fuori si comperava ben poco, solo qualche prodotto essenziale come l’olio o il sale, e ben poco si andava a vendere alle fiere e ai mercati che periodicamente si tenevano in certe località. Per questo, ed anche per la mancanza di vie di comunicazione e per i continui atti di brigantaggio, i traffici erano scarsissimi. Il feudo era un mondo chiuso che bastava a se stesso. (C. Bini)
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Il castello
Il feudalesimo è l’età dei castelli. Massicci e ben fortificati, essi sorgono per lo più in luoghi naturalmente difesi, sulle alture da cui dominano la piana sottostante, all’imbocco di gole montane o presso un ponte o negli incroci delle vie più battute, per obbligare i passanti a pagare pedaggi e tributi per il trasporto delle merci. Varie cerchia di mura merlate, con torri e porte, cingevano il castello. Esternamente e tra una cerchia di mura e l’altra, correvano larghi fossati sormontati da ponti levatoi. Alte torri fiancheggiavano l’edificio, da cui spiare le mosse del nemico e scagliare dardi e pietre sugli assalitori: poche e strette feritoie si aprivano nelle mura esterne. Oltrepassato il ponte levatoio si giungeva nel cortile del castello al cui centro, generalmente, c’era un pozzo. Tutto attorno al cortile si aprivano le porte della scuderia; dell’armeria, piena di corazze, di spade, di lance, di archi e di scudi; della cucina, ampissima e annerita dal fumo; degli alloggi per la servitù e, infine, quelle della cappella. Una scala conduceva al piano superiore, dove’erano le stanze del feudatario e dei suoi familiari. Le pareti degli ampi locali erano generalmente coperte da arazzi e da affreschi. Il pavimento, invece, era di semplice pietra. I mobili, scarsi e poco comodi, consistevano in grandi cassoni di legno scolpito, dove venivano riposti gli abiti; in sedie rigide e dure con alti schienali; in tavoli robusti. Per la pulizia del mattino, nelle camera da letto si trovava soltanto una bacinella sorretta da un treppiede di ferro o di legno. Le stanze non erano luminose poichè le finestre, per ragioni di difesa e per il costo dei vetri, erano assai piccole. Al calar del sole di infilavano in appositi anelli, fissati alle pareti, grosse torce resinose che illuminavano le sale di una luce rossastra e incerta. Nella stagione invernale l’unico mezzo di riscaldamento era costituito da immensi camini, il cui calore si disperdeva nei vasti saloni. Nel castello si rendeva giustizia e si tenevano i prigionieri; spesso sotterranee, tetre e umide erano le carceri, presso le quali era la camera di tortura. Dentro il castello si rifugiavano i contadini, quando le loro terre erano invase. Nel castello feudale si distinguono tre parti: la cinta, il mastio (che avevano entrambi scopi di difesa) e il palazzo dove abitava il signore. La cinta era in muratura, con torri agli angoli. Si ebbero anche due o tre mura di cinta; la più esterna racchiudeva il borgo. Dopo il secolo III, specie nei castelli di pianura, comparve il fossato, col ponte levatoio. Il mastio era la torre più alta che sorvegliava tutta la cinta, e in cui ci si asserragliava per l’ultima difesa. Il palazzo comprendeva la sala delle udienze, le stanze del feudatario, affacciate sul grande cortile interno, le camere dei cortigiani e della servitù, le cucine e le scuderie. Nei sotterranei vi erano le prigioni ed i magazzini.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Vita nel castello
Nelle lunghe serate invernali, non appena le prime ombre battono ai vetri a piombo filato delle finestre, nella sala oscura si accendono le lucerne ad olio; la cena è pronta ed il signore, la madonna, i figli e gli ospiti si seggono a tavola. Subito dopo, la famiglia si riunisce sotto la cappa del vasto camino e al riverbero della fiamma, recita la preghiera. Fatto il segno della croce, il signore si alza e si avvia verso le sue stanze; i familiari lo seguono; la fumosa fiamma della lucerna scompare davanti a loro e il buio si fa più denso, il silenzio più profondo; il castello si addormenta. Nei profumati pomeriggi di primavera, invece, tutta la famiglia si raccoglie sul verziere e, fra risa e canti, si intrattiene in lieti passatempi, in dolci novellari. Spesso i giovani escono e sul sagrato della chiesa o sul largo spiazzo del castello, danzano il trescone. E’ in questo tempo che il giocoliere bussa alla porta del castello: la famiglia accorre, gli fa festa ed egli, al suono di un vecchio strumento musicale, fa ballare l’orso e la bertuccia. La sera il giocoliere, con raffinata arte immaginativa, racconta ai familiari le proprie avventure: parla di luoghi lontani e meravigliosi, di imprese leggendarie ed eroiche, di ricchezze favolose, di tragedie sinistre; sorride e freme la famiglia a quel parlare.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture La sentinella
Sulla torre più alta del castello stava di guardia una sentinella che doveva sempre vigilare, particolarmente di notte. Per resistere al sonno, la sentinella scambiava ogni tanto un grido con i soldati di guardia in altre parti del castello. Un gridava: “Sentinella all’erta!” e l’altro rispondeva: “All’erta sto!”. Di giorno la sentinella segnalava l’arrivo di estranei, fossero essi amici o nemici.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Il saluto
Quando nel castello entrava un cavaliere, si toglieva l’elmo per dimostrare le sue intenzioni pacifiche e soprattutto la sua certezza di non essere tradito. Tale uso passò nell’esercito: ma poichè un soldato non poteva mai presentarsi disarmato, i guerrieri medioevali, trovandosi di fronte ad un loro superiore, non si toglievano l’elmo ma sollevavano la visiera scoprendo il volto. La consuetudine di portare la mano alla fronte, quasi per alzare un’immaginaria visiera, sussiste ancora oggi.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture La guerra
Quando il feudatario doveva partecipare alle guerre intraprese dall’imperatore, conduceva con sé un certo numero di guerrieri. A guardia del castello rimanevano allora pochi soldati, i servitori e gli umili abitanti del borgo. Altre volte la guerra scoppiava fra due o più feudatari: allora il più forte invadeva i territori dell’avversario, ne devastava i raccolti e, infine, assaliva il castello.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture La tecnica dell’assedio
L’assalto a un castello si svolgeva generalmente second una tecnica fissa. Una prima fase consisteva nel circondare completamente il castello, con la cavalleria, per impedire agli assediati ogni possibilità di fuga. Seguiva il bombardamento con le macchine da lancio: mangani e trabucchi; in questo modo di cercava di smantellare le difese dell’avversario e di danneggiare le sue macchine belliche, per preparare le condizioni adatte al vero e proprio assalto. L’assalto veniva preceduto dal tentativo di colmare il fossato; a questo scopo molti uomini correvano fin sul ciglio, vi gettavano delle fascine e poi si ritiravano precipitosamente, per evitare le pietre, le sostanze infuocate e le frecce che i difensori lanciavano su di loro. Ripetendo molte volte questa manovra, si poteva creare un passaggio attraverso il fossato per le truppe di assalto che dovevano tentare la scalata delle mura servendosi di lunghe scale. La loro azione era coadiuvata dalle torri mobili, dall’alto delle quali si potevano colpire i difensori delle mura molto meglio che dal basso.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture La tecnica difensiva
E i difensori? Non restava loro che cercare di distruggere o di incendiare le macchine nemiche, lanciando pietre e sostanze incendiarie. A quelli che tentavano la scalata delle mura, riservavano una speciale accoglienza, a base di pentoloni di pece e di olio bollente. Se con l’uso di questi mezzi o con qualche audace sortita notturna non riuscivano a piegare la volontà degli aggressori, i difensori di un castello assediato mantenevano ben poche speranze di salvezza. Se non volevano arrendersi, dovevano prepararsi all’ultima disperata difesa nel mastio,la costruzione centrale del castello, nella quale si sarebbero asserragliati quando le mura e i cortili fossero caduti in mano al nemico.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Vita feudale
Appena dalle alte torri si avvistava l’approssimarsi di un attacco nemico, i popolani del borgo entravano nel cortile, si alzava il ponte levatoio e il castello restava isolato dal profondo fossato che gli attaccanti cercavano di superare con ponti mobili. Dalle mura fioccavano frecce, sassi, olio bollente e qualsiasi cosa potesse colpire gli attaccanti, che tentavano di salire con scale a pioli. In tempo di pace, il castello era ugualmente luogo di raccolta dei borghigiani. Nell’interno, non mancava mai la cappella. Nei giorni in cui il cortile si trasformava in mercato, vi convenivano non solo i mercanti della regione, ma anche i venditori ambulanti che arrivavano da lontano; questi accorrevano specialmente nei castelli dove il Barone aveva appeso il proprio sudo con lo stemma di famiglia nel cortile o sulle mura: questo significava che aveva sfidato altri Baroni a una giostra cortese e, in occasione di tali spettacoli, arrivavano sempre persone in vena di… spendere, e gli ambulanti facevano buoni affari. Oltre alle giostre d’armi, i Baroni organizzavano grandi battute di caccia, nelle quali mettevano in mostra non solo la loro abilità nel cavalcare, ma anche quella dei cani e degli uccelli rapaci, come falchi e astori, addestrati a catturare la selvaggina. Nella caccia, la preda preferita era il cervo. Quando la cattiva stagione non permetteva di divertirsi all’aperto, il Barone invitava i suoi amici nobili a banchetto nella grande sala del castello, l’unica ad essere riscaldata, perchè il fuoco era sempre acceso nel caminetto. Durante i banchetti, si divoravano enormi arrosti e si rideva ai lazzi dei giocolieri; lo spettacolo più gradito era quello offerto dai giullari che cantavano le avventure dei Paladini di Carlo Magno o le vicende dei Cavalieri della corte inglese di Re Artù. Oltre ai giullari, nei castelli vennero in seguito i trovatori e i menestrelli esperti nel comporre e nel cantare canzoni d’amore in onore delle belle dame. A tavola, I Baroni si divertivano anche con le pesanti coppe di metallo: per mettere in mostra la loro forza afferravano in due una coppa colma di vino alla quale l’uno e l’altro cercavano di bere tirandola a sé. Una specie di braccio di ferro, insomma. Nel castello non esisteva un bagno. Solo in casi… eccezionali (perchè di diceva che la pulizia togliesse la forza), il Barone si lavava in un mastello di legno. La castellana aveva anche il compito particolare di prendere e uccidere i pidocchi e le pulci che infestavano il Barone. Purtroppo, con Carlo Magno non era scomparsa solo la grandezza dell’Impero Carolingio, ma anche la bella abitudine di fare spesso il bagno!
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture La giornata di un castellano
Appena vestito, il Castellano fa le prime devozioni prostrato all’inginocchiatoio, e la Castellana nel piccolo oratorio adiacente alla sua camera. Poi tutta la famiglia si raccoglie ad ascoltare la messa nella ricca e fastosa cappella, celebrata da un religioso che risiede nel castello. Dopo di che la Castellana dà una prima capatina alle cucine, e il Signore alle scuderie o alla sala d’armi, dove attende ad armeggiare col figliolo, o con gli ospiti, o con gli scudieri. Le figlie girellano intanto nel giardino, cogliendo fiori. Alle dieci della mattina uno squillo di corno annuncia il pasto. Anche nei giorni ordinari vengono serviti molti e grassi piatti: carne di bue, di cinghiale, di montone, di capriolo, galline, fagiani e via dicendo, condite con salse piccanti, tutte aromi e pizzicorini mordenti come pepe, chiodi di garofano, cannella, ginepro, ambra, benzoino, noce moscata, anice, ed altre nostrane ed orientali delizie, sulle quali primeggiano l’aglio e la cipolla. Dopo il pranzo, che è protratto il più lungamente possibile, il Signore fa la siesta; i fanciulli, dopo essersi dedicati ad alcuni esercizi sportivi, riparano col pedagogo nella stanza degli studi. La Castellana e le figlie si ritirano nelle loro camere, ove attendono, nella speranza di qualche visita, ad adornarsi. Quando capitano visite, o vi sono ospiti in casa, verso le due tutti convengono in giardino o nel parlatorio, e là si trattengono mangiando dolci e bevendo. Vengo serviti rosolio, marmellata, e perfino uccelletti arrosto, oltre alla migliore frutta della stagione. La Castellana appresta canzonieri scelti ed ogni sorta di strumenti musicali, e si canta e si suona fino all’ora della cena, che avviene tra le quattro e le cinque pomeridiane ed è il pasto principale della giornata. Venuta la sera, il Castellano si riduce accanto al fuoco in sonnecchioso silenzio, e le dame, fatte alcune lente danze al fioco chiarore delle fumose lucerne, prima novellano alquanto tra di loro, indi recitano in cerchio le preghiere, ed il cappellano dà loro lo spunto. Poi i valletti mescono al padrone il vino del sonno, quindi i Castellani, augurata la buona notte, seguiti dai rispettivi servi, si recano a dormire. (G. Giacosa)
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Occupazione di una castellana
La ragazza che andava sposa ad un feudatario, passava improvvisamente dallo stato di soggezione che aveva subito come figlia ad una posizione di attività ed importanza. Essa non era affatto la schiava del marito, ma la sua consigliera e la sua fedele collaboratrice. Gli interessi del marito diventavano la sua preoccupazione principale e ad essi sacrificava anche l’accudimento e l’educazione dei figli, che erano affidati a delle nutrici. La castellana era più moglie e padrona che madre. Organizzava tutto il necessario per nutrire e vestire gli abitanti del castello; era questo un lavoro che occupava un’intera vita e richiedeva abilità di attenta amministratrice. Quello che era necessario per una casa non poteva essere acquistato come oggi con una rapida spesa in negozio: ciò che non veniva fornito dai campi doveva essere ordinato molto tempo prima là dove lo si poteva trovare e nella quantità necessaria. Inoltre la castellana doveva curare la conservazione delle carni, della cacciagione e dei pesci e assicurare la legna per i caminetti e per la cucina. Era anche la signora che dirigeva i lavori di filatura della lana, di tessitura delle stoffe e di manifattura dei vestiti, che veniva eseguita dalle domestiche e dalle contadine. (G. M. Trevelyan)
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture La caccia
Il feudatario, fosse o non fosse leale nei confronti del suo re, viveva essenzialmente per la guerra; e si teneva pronto, da un giorno all’altro a lasciare il suo castello ed a partire con i suoi più fedeli cavalieri a combattere. Quando, tuttavia, non v’era guerra, i suoi divertimenti prediletti erano altrettanto rudi: la caccia o il torneo. Se la caccia allietava il signore, essa era, per i miseri servi della gleba, un vero flagello. Per inseguire un cervo in fuga, o per catturare cinghiali, i cacciatori non esitavano di solito a lanciarsi, a cavallo, attraverso i campi coltivati con lunga ed assidua fatica, distruggendo gran parte delle colture. La caccia era rigorosamente riservata al signore, e pene gravissime erano comminate per chi osasse abbattere un qualsiasi capo di selvaggina. Più tardi, anche ai contadini fu permesso cacciare, ed il codice di nobiltà feudale distingueva gli animali in nobili ed ignobili. I primi, riservati ai signori, erano il cervo, l’alce, il capriolo e la lepre; i secondi, che potevano essere cacciati anche dai contadini: il lupo, la volpe, il cinghiale e la lince. La caccia dava occasione a festosi raduni, a grandi cavalcate, a lotte avventurose con le belve (orsi, lupi, cinghiali) che allora non mancavano nei boschi. Una forma di caccia più tranquilla ed elegante, praticata anche dalle dame e dalle damigelle, era la falconeria, cioè l’arte di dar la caccia agli uccelli servendosi di falconi addestrati in modo particolare. Questo addestramento era opera di specialisti, ma gli stessi signori vi spendevano molto tempo. Il cacciatore o la cacciatrice portavano il falcone sul polso avvolto in un guanto di cuoio. Appena avvistava la preda, il falcone si lanciava a volo, uccideva e tornava a posarsi sulla mano aperta del padrone che lo attendeva. I signori più ricchi tenevano costose collezioni di uccelli da caccia, non soltanto falconi, e schiere di falconieri addetti al loro addestramento. Il signore e la signora amavano tenere con sé il falcone preferito anche durante le conversazioni. Alcune dame se lo portavano perfino in chiesa, appollaiato sul polso. L’imperatore Federico II compose un famoso trattato sull’arte della falconeria. Ancora oggi talune popolazioni nordiche vanno a caccia con l’aquila: in Estremo Oriente si va ancora a pesca col cormorano.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture La caccia: passatempo e necessità
La caccia tanto celebrata dai poeti non è tanto un passatempo della nobiltà, quale si rispecchia nella poesia cavalleresca del Medioevo, quanto una necessità di carattere economico. L’allevamento del bestiame da macello non era sufficiente per coprire il fabbisogno: perciò si andava nei boschi a procacciarsi la carne. Le risorse di grossa selvaggina erano così abbondanti, che in una buona partita di caccia ci si poteva rifornire per molte settimane. Più di tutto abbondavano i cinghiali; anche gli orsi si trovavano, e ancora oggi si trovano, in tutte le parti d’Europa; non occorrevano lunghi appostamenti per cervi e caprioli, e quanto ai volatili ce n’era a volontà. Ma i cacciatori procedettero con tanto impegno che dopo un paio di secoli una buona parte della selvaggina era sterminata. Gli europei del Medioevo mangiavano molta carne. L’alimentazione dei poveri era invero pregiudicata spesso dalle necessità della guerra o dalla scarsità dei raccolti, ma in tempi di pace era relativamente buona. Poiché c’erano poche grandi città, ai contadini rimaneva più roba. (Morus)
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Il torneo
Il torneo è il gioco che si avvicina di più alla guerra. Perciò, quando si offre l’occasione di prendere parte a una di queste feste, che vengono annunciate con molto anticipo a suon di tromba, il signore non le perde. Eppure, la partecipazione a un torneo è costosissima. Molti signori si rovinano, volendo gareggiare in lusso con quelli che sono più ricchi. Infatti, bisogna comprare una lancia con gli stemmi, uno scudo con il blasone del signore che permetta agli spettatori di riconoscerlo anche quando ha abbassato la visiera dell’elmo, un’armatura nuova e una bardatura di lusso per il cavallo… Alla vigilia dell’incontro, la città nella quale sta per avere luogo il torneo è illuminata. Gli scudi dei combattenti sono appesi davanti alle case dove essi sono alloggiati. Al suono delle trombe ha inizio, attraverso la città, la sfilata dei cavalieri che prenderanno parte al torneo. Il giorno dopo, un tratto di strada viene chiuso da barriere perchè serva da campo di battaglia. L’acciottolato viene coperto di paglia e di sabbia; tutte le finestre delle case che fiancheggiano questa lizza traboccano di spettatori. Coloro che non sono stati ammessi ai posti d’onore si ammassano dietro le barriere. L’araldo annuncia con voce squillante il nome dei combattenti che entrano in quel momento dai due lati opposti della lizza. Essi fermano per un istante la cavalcatura, salutano con la lancia le nobili dame e attendono il segnale della tromba. Risuona un breve squillo. Gli avversari speronano il corsiero e si dirigono l’uno verso l’altro con la lancia stretta sotto il gomito destro e lo scudo appeso al braccio sinistro che serve loro contemporaneamente per guidare la bestia. Quando si scontrano verso la metà del percorso, un colpo sordo risuona. Spesso uno dei due avversari viene buttato a gambe all’aria e va a rotolare nella polvere, oppure le due lance si rompono e i due cavalieri trasportati dal loro slancio continuano la corsa fino all’estremità della lizza; qui si voltano subito, per ricominciare una nuova carica con un’altra lancia che uno scudiero presenta loro. I tornei offrono a quelli che sono abili giostratori anche una possibilità di… guadagno, oltre al piacere di battersi e di riportare una vittoria davanti a una brillante assemblea di dame e di signori. Il vincitore, infatti, si può impossessare dell’equipaggiamento e del cavallo del vinto: talvolta, anche della persona e gli restituisce la libertà solo a prezzo di un forte riscatto.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture La giustizia durante l’età feudale
Allorché un accusato non aveva altro modo per provare la propria innocenza, ricorreva al giudizio di dio, certi com’erano gli uomini di quei tempi che dio avrebbe aumentato le forze dell’innocente e diminuite quelle del colpevole. Il duello era il più diffuso tra i giudizi di dio: dei due duellanti il vincitore era l’innocente o colui che aveva ragione in una vertenza. Altro giudizio era la prova dell’acqua: se l’acqua era bollente, l’accusato doveva immergervi un braccio senza scottarsi; se era fredda, l’imputato doveva tuffarcisi dentro (si trattava di un tino molto più alto di lui) senza toccare il fondo ma galleggiando. Se le prove non riuscivano egli era colpevole. La prova del fuoco in un certo senso era simile a quella dell’acqua bollente: l’accusato doveva portare per tre metri una massa di ferro rovente fra le mani; poi il sacerdote gli congiungeva le mani, le fasciava e vi poneva il proprio sigillo: dopo tre giorni, se vi erano scottature era colpevole. Altre prove del fuoco consistevano nel camminare su lastre roventi o di passare fra cataste ardenti, per un pertugio ampio poco più di mezzo metro. (C. Bini)
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Alcune pene per i colpevoli
Nel Medioevo la pena di morte era comminata frequentemente e talvolta per delitti che oggi avrebbero un castigo assai lieve; ma il modo di vedere le cose, in quei tempi, era assai dissimile da quello moderno, e soprattutto vigeva il criterio, in epoche così torbide e malsicure, di reprimere certi delitti molto frequenti e facilitati dalla situazione. La pena di morte veniva applicata con la decapitazione, con l’impiccagione, lo squartamento, l’annegamento e con altri barbari sistemi, il più crudele dei quali era il seppellimento da vivi, inflitto agli omicidi. Un castigo diffusissimo era la berlina, che consisteva nell’esporre al pubblico dileggio il condannato, in vari modi. Il tratto di corda, cioè una barbara fustigazione, serviva soprattutto a strappare le confessioni del reo; ma molto spesso confessavano anche gli innocenti! Gli ecclesiastici erano duramente colpiti; a loro era riservata la gabbia, in cui venivano chiusi come uccelli ed esposti alle intemperie anche per anni, mentre venivano nutriti a pane e acqua. Si praticavano anche le mutilazioni e la marchiatura a fuoco.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture I servi della gleba
Mentre, al tempo di Augusto, tutti erano contenti di far parte dell’impero romano, perchè in esso vi era pace e sicurezza, a poco a poco, col passare del tempo e con l’aumentare delle tasse, le popolazioni si sentivano schiave ed oppresse. Le città si spopolavano perchè, per la povertà della gente, non si potevano più fare buoni commerci. La gente si rifugiava nelle campagne e nei boschi, per nascondersi ai funzionari dello stato. Molti plebei chiedevano protezione a qualche ricco proprietario, che dava loro un po’ di terra da coltivare, li aiutava a pagare le tasse per loro. In cambio questi plebei lavoravano anche le terre del padrone e si impegnavano a non abbandonarle mai. Essi diventavano, insomma, quasi schiavi: venivano chiamati servi della gleba, che vuol dire servi della zolla, cioè della terra. E intanto i barbari si stringevano sempre più intorno ai confini, si infiltravano dentro, dovunque il confine non era ben custodito. Circondato dai nemici, oppresso dalla povertà, l’impero sembrava una grande barca sul punto di affondare.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Le tasse del contadino
Il contadino feudale era ricco solo… di tasse. In denaro aveva tre tasse annue: una modesta tassa annua, per persona, al governo, cioè al re; un modesto affitto per la casa e l’orto al signore; un’imposta richiesta una o più volte l’anno dal signore. Inoltre il contadino aveva questi obblighi: offrire al signore, ogni anno, un decimo del raccolto agricolo o del bestiame; lavorare gratis per il signore un certo numero di giorni l’anno; doveva macinare il grano, cuocere il pane, pigiare l’uva, ecc. sempre nel castello e usando le attrezzature del signore (naturalmente pagava per ogni cosa); pagare per avere il diritto di pescare, di cacciare e di pascolare le bestie nelle terre del signore; pagare quando il signore gli rendeva giustizia in tribunale; servire nella milizia del signore in caso di guerra; contribuire a pagare la somma del riscatto se il signore cadeva prigioniero; offrire ricchi doni al figlio del signore quando veniva fatto cavaliere; pagare al signore una tassa per ogni merce che vendeva nei mercati viciniori; aspettare a vendere il suo vino (o la sua birra, o qualche altro prodotto) finché il signore non avesse venduto il proprio; pagare una multa se intendeva far studiare, o mandare in seminario un figlio, perchè il castello perdeva un uomo; pagare una multa se sposava una persona appartenente ad un altro castello e poi si trasferiva; pagare una decima annua alla Chiesa. Tutto ciò può sembrare gravosissimo, ai nostri occhi. Ma va tenuto conto di alcune cose: mai il contadino era tenuto a tutte insieme queste prestazioni, ma solo ad alcune tra esse, a seconda dei casi. Inoltre, non aveva altre spese, e il signore doveva provvedere alla difesa, alle opere pubbliche, in certi casi alle spese connesse con l’agricoltura (sementi, qualche volta attrezzi, bestiame selezionato da riproduzione), e spesso anche l’obbligo di assistere il colono in caso di malattia o di vecchiaia: questo specialmente per i feudi tenuti da ecclesiastici. In definitiva, è stato calcolato che riguardo al guadagno medio, le tasse che doveva pagare il colono feudale erano meno gravose di quelle che noi paghiamo oggi.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Nel castello feudale
Un grande castello era come un piccolo mondo. Nel vasti cortili erano le dimore degli armigeri e dei servi, grandi cisterne, magazzini e botteghe per gli armaioli, i macellai e i fornai. Nulla vi mancava: dalla cappella alle immense cucine con ampi e bassi camini; dalla sala del trono, nella quale il feudatario rendeva giustizia, al carcere tetro e sotterraneo. Gli uomini che abitavano queste solitarie dimore, quando non erano in guerra, cercavano distrazioni nella caccia, negli esercizi cavallereschi e nei tornei. I tornei si bandivano per lo più in occasione di feste religiose, di incoronazioni o matrimoni di principi e di trattati di pace. Era molto gradito l’arrivo di qualche poeta (trovatore) il quale cantava le tragiche avventure di qualche dama o di qualche barone, o le meravigliose imprese dei paladini di Carlo Magno. Lauti banchetti talora si protraevano per giorni e settimane con feste e baldorie.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Il torneo
I tornei erano grandiose feste d’armi in cui coppie o squadre di cavalieri si assalivano dentro un recinto, contendendosi la vittoria. I cavalieri scendevano in campo rivestiti di armature. Tre squilli di tromba davano il segnale dell’assalto e subito i combattenti si slanciavano l’un contro l’altro, usando lance, spade, mazze. Quando i giudici ritenevano sufficiente la prova lanciavano in mezzo ai cavalieri un bastone, per significare che la giostra era finita; poi proclamavano solennemente il nome del vincitore, che riceveva il premio dalle mani di qualche dama eletta regina del torneo.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Banchetti medioevali
Guardando certe miniature o certi quadri che rappresentano scene di banchetti medioevali siamo generalmente colpiti dallo sfarzo del vasellame e delle vesti, dall’allegria e dalla vivacità dei commensali. Non vi siete mai chiesti quali profumati e appetitosi piatti potessero comparire su quelle mense? Gli uomini del Medioevo non avevano certo a disposizione la varietà e la quantità di cibi che abbiamo noi, oggi che le comunicazioni con tutto il resto del mondo ci permettono di avere sul nostro tavolo cibi provenienti dai più lontani paesi e basta entrare in un negozio per trovare quanto ci occorre. Abbiamo più volte osservato che, se in quell’epoca la caccia era tanto di moda, lo era non solo come… passatempo, ma perchè permetteva, anche ai signori, di unire l’utile (la selvaggina) al dilettevole (occupare gradevolmente le molte ore della giornata). Vediamo dunque che cosa avevano gli uomini del Medioevo a disposizione del loro… appetito. Quanto ai cereali, grano, segale, orzo e riso continuavano ad essere coltivati, come nell’antichità. Anzi, nei paesi occupati dagli Arabi queste colture rifioriscono, perchè gli Arabi sono maestri nell’arte dell’irrigazione. Ci sono zone della Spagna, dal suolo arido, che essi trasformarono in veri giardini: ancora oggi quelle zone conservano il nome di huertas, cioè “orti”. Anche per la trebbiatura, fatta nei nostri paesi battendo le spighe con cinghie e corregge, gli Arabi si mostrano all’avanguardia. Essi trascinano, sulle spighe tagliate, speciali macchine fornite di rulli, allo scopo di separare i chicchi dalla paglia. E’ merito degli Arabi anche l’introduzione nell’Africa del Nord di una specie di grano a chicco duro che, una volta macinato, dà la semola, farina che più tardi sarà particolarmente indicata per la fabbricazione delle paste alimentari. Il grano saraceno, o grano nero, viene anch’esso dalla Tartaria e dalla Russia, giungendo fino in Bretagna e in Normandia dove ancora viene coltivato, così come da noi in alcune vallate alpine, per farne frittelle o, come in quel di Sondrio, la polenta taragna. La patata è ancora assente dalle tavole del vecchio mondo, dove avrebbe potuto bene impedire molte carestie… A quei tempi essa è conosciuta solo nel suo paese d’origine, la Cordigliera delle Ande. I contadini, da noi, devono accontentarsi delle fave; i fagiolini e i fagioli sono noti invece sia agli Arabi sia agli indigeni d’America. E’ probabile che le invasioni barbariche, oltre alle molte disgrazie, ci abbiano portato anche la ricetta delle minestre e dei minestroni nei quali i legumi cuociono insieme alla carne. E veniamo alla carne. Il contadino del Medioevo assapora raramente la carne bovina. L’allevamento di questi animali è infatti costoso; essi sono perciò impiegati essenzialmente come animali da lavoro e vengono macellati solo in occasione di banchetti speciali. Più comune è invece l’uso della carne di maiale, animale più facile da allevare perchè è poco esigente circa la qualità del cibo che gli viene dato. In Europa, naturalmente; non tra gli Arabi, perchè la religione musulmana proibisce loro di mangiare carne di maiale (e giustamente, perchè non è molto igienica nei paesi caldi). Presso gli Arabi invece, le vetrine delle macellerie offrono carne di cane, di gatto, di lucertola e di serpente. Le teste e le pelli di questi animali sono esposte accanto alla carne perchè il cliente sappia bene che cosa compra. Presso gli Aztechi, in America, si mangiano cani di un razza curiosa, sprovvisti di peli, che vengono ingrassati prima di essere sacrificati. Un animale frequentemente cacciato in Italia, Inghilterra e Olanda, prima che dalle specie selvatiche si ottengano quelle domestiche, è il coniglio. Gli uccelli più apprezzati in Europa sono il fagiano e il pavone, che sono serviti sulla tavola circondati dalle loro superbe piume. Anche i piccioni sono pregiati: infatti solamente i ricchi hanno diritto di allevarne. Attorno alle loro piccionaie, gli Arabi piantano la ruta, una pianta amara che ha il compito di tenere lontani i serpenti. I pesci sono ricercati per sostituire la carne durante i periodi di digiuno imposti dalla religione cristiana. I fossati pieni d’acqua che circondano le mura, si popolano di carpe. Durante la quaresima, si vendono anche, come cibo, le aringhe secche e carne secca di balena. Anche i vari tipi di molluschi di mare aiutano a sopportare i rigori della quaresima. In Polinesia si pratica la pesca sottomarina con l’arpione da più di mille anni. E’ venuto il momento di parlare delle famose spezie che venivano dall’Oriente. Per condire i piatti, profumare dolci e anche, almeno così si credo, per curare molte malattie, le spezie mettono in movimento mezzo mondo. Carovane e navi ne assicurano il trasporto e giungono dall’Estremo Oriente, dalle coste dell’Africa o dell’India, coi loro carichi preziosi e odorosi. Quando i Turchi rendono pericoloso il trasporto delle spezie, si cerca un’altra strada da ovest, per mare; sarà il sogno di Cristoforo Colombo. I mercanti di spezie, gli speziali, fanno fortuna; essi vendono: il chiodo di garofano, conosciuto in Cina fin dalla più remota antichità e masticato dai cortigiani per profumarsi l’alito; la noce moscata, portata in Europa dagli Arabi fin dal secolo XI; lo zenzero, ricercato per profumare il pan pepato. Non meno ricercata è la cannella, una scorza proveniente da Ceylon e dalla costa del Malabar che, a partire dal secolo XIII, giunge in Europa attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e il Mediterraneo. Lo zafferano è coltivato su larga scala in Medio Oriente, ma costa carissimo: in cambio di sei libbre di zafferano si può avere un buon cavallo da sella! Quanto al pepe, la questione del prezzo è risolta in modo molto semplice: esso vale tanto oro quanto pesa. La gente modesta deve accontentarsi di aglio, di cipolla e di senape consumati in quantità enormi. Alcuni mulini hanno un paio di macine per la senape e due paia di macine per il grano. Per completare questo viaggio da buongustai facciamo una visitina nella pasticceria di un bazar orientale. Potete offrirvi un po’ di halva, torrone di miele selvatico riempito di pistacchi e mandorle, e i lokum dolciastri di amido e pistacchi. Ma cos’è questa meraviglia che un pasticcere presenta alla folla stupefatta? Si direbbe un boschetto di rose con le sue foglie; questo dolce raro è riservato per un’occasione eccezionale: si tratta della corona di matrimonio offerta a due giovani sposi. Essa è fatta di zucchero candito, alimento ancora costoso, poichè la coltivazione della canna da zucchero, pianta venuta dalle Indie, è possibile solo nelle regioni molto calde del bacino mediterraneo. Al tempo delle Crociate, la canna da zucchero giunge progressivamente in Spagna e in Sicilia, dove le canne sono macinate da macchine mosse da mulini a vento. E’ una specie di canna che bisogna tagliare a pezzi e torchiare poi in un frantoio per estrarne il succo zuccherino. Questo viene riscaldato e fatto evaporare finché perde i tre quarti del suo volume; quindi versato in appositi stampi, dove solidificando dà dei pani di zucchero. Ma continuiamo la nostra visita attraverso le botteghe del bazar. La polvere ci riempie la gola; perchè dunque non dobbiamo rinfrescarci con un gelato alla melagrana o al miele? Bisogna allora farsi avanti con i gomiti perchè gli amatori sono numerosi. Da dove viene il ghiaccio? Nel Medioevo è già un vero prodotto industriale, in Oriente. Le notti fredde d’inverno permettono di far gelare l’acqua in grandi bacini, poco profondi; gli operai rompono il ghiaccio, che si è formato per lo spessore di alcuni centimetri, e lo fanno scivolare verso il fondo di fresche cantine, dove si conserva facilmente. Questa industria è così prospera che certi Stati ne fanno un monopoli, come avviene oggi in Italia per il tabacco. I gelati sono fatti di ghiaccio grattugiato, di miele e di amido cotto a cui sono aggiunti i frutti e le essenze. Se ne avete voglia potete offrirvi anche una tazza di buon caffè. A partire dal secolo XIII, lo si può bere sia a Aden che in Egitto o in Persia; l’uso del tè, venuto dalla Cina, comincia a diffondersi anche nei paesi musulmani verso lo stesso periodo; ma l’Europa Occidentale ignora ancora il tè e il caffè, nonostante i numerosi viaggi in Oriente. A quei tempi, all’altro capo del mondo, i Messicani mangiano un cioccolato secco fatto di fave di cacao macinate con sale, ambra rossa, pepe e spezie. Essi apprezzano anche il cioccolato liquido aromatizzato con la vaniglia; l’albero che dà il cacao viene probabilmente dalle foreste dell’Amazzonia. L’America conosce anche l’albero del chinino e la coca che gli indigeni masticano per piacere.
IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture Breus
Un fanciullo, incantato alla vista di un cavaliere in armi bello, anzi più bello, per lui, di San Michele, abbandona la casa, e per dieci anni sotto il nome fittizio di Breus, si copre di gloria divenendo il migliore dei cavalieri. Ma la mamma, per il dolore di quella partenza, muore; e quando egli una sera chiede ospitalità a una vecchia e trascurata dimora è accolto da una fanciulla in lacrime. Ella piange ogni volta che vede un cavaliere perchè rammenta il fratello che a dieci anni ha lasciato la casa. Lì è rimasta lei, sola con la nutrice. Commosso, Breus, che altri non è che il fanciullo partito un giorno ormai lontano, si rivela alla sorella. Il delicato racconto pascoliano, sempre tenuto su un tono di favola e di ingenuo ardimento, rivela il suo significato profondo negli ultimi versi: non c’è gloria che possa compensare il dolore mortale di una mamma. Per poter abbracciare ancora la madre, Breus darebbe ora tutte le sue più belle vittorie e si accontenterebbe di strigliare umilmente il suo ronzino.
Viveva con sua madre in Cornovaglia: un dì trasecolò nella boscaglia. Nella boscaglia un dì, tra cerro e cerro, vide passare un uomo tutto ferro. Morvan pensò che fosse san Michele: s’inginocchiò: “Signore san Michele, non mi far male, per l’amor di dio!”. “Né mal fo io, né san Michel son io. No: san Michele non posso chiamarmi: cavalier, sì: son cavaliere d’armi”. “Un cavaliere? Ma che cosa è mai?” “Guardami, o figlio, e che cos’è saprai”. “Che è codesto lungo legno greve?” “La lancia; ha sete e dove giunge, beve”. “Che è codesta di cui tu sei cinto?” “Spada, se hai vinto; croce, se sei vinto”. “Di che vesti? La veste è pesa e dura”. “E’ ferro. Figlio, questa è l’armatura”. “E tu nascesti già così coperto?” Rise e rispose il cavalier: “No, certo”. “E chi la pose, dunque, indosso a te?” “Chi può”. “Chi può?”. “Ma, caro figlio, il re!”. Il fanciullo tornò dalla sua mamma, e le saltò sulle ginocchia: “Mamma, mammina (cinguettò), tu non lo sai! Ho visto quello che non vidi mai! Un uomo bello più di san Michele ch’è in chiesa, tra il chiaror delle candele!” “Non c’è uomo più bello, figlio mio, più bello, no, d’un angelo di dio”. “Ma sì, ce n’è, mammina, se permetti: ce n’è, mammina, cavalier son detti. E io, mammina, voglio andar con loro, E aver veste di ferro e sproni d’oro”. La madre a terra cadde come morta che già Morvan usciva dalla porta: Morvan usciva e le volgea le spalle, ed entrò difilato nelle stalle; nelle stalle trovò solo un ronzino: lo sciolse, vi montò sopra: in cammino. Egli partì, né salutò persona: eccolo fuori, ecco che batte e sprona, Eccolo già lontano dal castello, dietro quell’uomo ch’era così bello. Dopo dieci anni, dieci tutti intieri, Breus il cavalier de’ cavalieri sostò pensoso avanti quel castello. Era fradicio e rotto il ponticello. Entrò pensoso nella corte antica: c’era tant’erba, c’era tanta ortica. Il rovo vi crescea come siepe, e la muraglia piena era di crepe. L’edera aveva la muraglia invasa: l’erba copria la soglia della casa. E l’uscio era imporrito e tristo a mo’ Di tomba. Egli picchiò, picchiò, picchiò… Ecco alfine una donna, ecco una donna antica e cieca, che gli aprì. ” Voi, nonna, mi potete albergar per questa notte?” “Albergar vi si può per questa notte, albergar vi si può di tutto cuore, ma l’albergo non è forse il migliore. Ché questa casa è tutta in abbandono da che il figlio partì, dieci anni or sono”. Era discesa una donzella in tanto, che appena lo guardò, ruppe in un pianto. “Perchè piangete, buona damigella? perchè piangete, cara damigella?”. “Io voglio dirvi, sire cavaliere, io voglio dirvi, che mi fa dolere. Un mio fratello che dieci anni fa (ora sarebbe della vostra età), ci abbandonò per farsi cavaliere. Io piango appena vedo un cavaliere. Se vedo un cavalier presso il castello, piango pensando al mio dolce fratello”. “Non avete la madre, o damigella? Non un altro fratello? Una sorella?”. “Nessuno… almeno ch’io li veda in viso: son, fratelli e sorelle, in paradiso. Anche la mamma l’ha chiamata Iddio: non c’è più qui che la nutrice ed io. La mia madre morì dal dispiacere quand’e’ partì per farsi cavaliere. Ecco il suo letto presso il limitare, ecco il suo seggio presso il focolare. La sua crocetta porto sopra me. Pel mio povero cuore altro non c’è”. Mise un singhiozzo il cavalier d’un tratto. Ella il pallido alzò viso disfatto. La damigella alzò con meraviglia gli occhi ch’aveano il pianto sulle ciglia. “Iddio la mamma ancora a voi l’ha presa, ch’ora piangete, che m’avete intesa?” “Ancora a me la mamma prese Iddio; ma chi gli disse: ‘Prendila’ fui io”. “Voi? Ma chi siete? Qual è il vostro nome?”. “Morvan il nome, Breus il soprannome. O sorellina, io sono pien di gloria: ogni giorno ho contata una vittoria: ma se potevo indovinar quel giorno, che l’avrei veduta al mio ritorno, o sorellina, non sarei partito! O sorellina, non sarei fuggito! Oh! Per vederla qui sul limitare, per rivederla presso il focolare, per abbracciare qui con te pur lei, le mie vittorie tutte le darei: sarei felice, pur ch’a lei vicino, di strigliar tuttavia quel mio ronzino”. (G. Pascoli)
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CARLO MAGNO dettati ortografici e letture, di autori vari, per bambini della scuola primaria.
I Franchi
I Franchi, verso il secolo V, varcato il Reno, erano penetrati in Gallia e vi avevano fondato un regno romano-barbarico. Il loro re Clodoveo (481-511), capostipite della dinastia che fu detta dei Merovingi, era stato il primo fra i Germani che con il suo popolo si era convertito al cattolicesimo. A Clodoveo erano succeduti re inetti al governo che avevano lasciato il potere in mano ai Maggiordomi. Fra questi, aveva avuto grande autorità Carlo Martello, che nel 732 aveva sconfitto gli Arabi a Poitiers, salvando l’Europa. Il figlio di lui, Pipino il Breve, nel 752 fece chiudere in convento l’ultimo merovingio e si proclamò re dei Franchi. Il papa Stefano II si recò personalmente in Francia ad incoronarlo. Aveva così inizio la dinastia del Carolingi. Pipino, sollecitato dal Papa, calò in Italia e sconfisse il re longobardo Astolfo due volte, nel 754 e nel 756, costringendolo a cedere alla Chiesa le terre occupate. Il figlio di Pipino, Carlo, assunse quindi il titolo di re dei Franchi e dei Longobardi. Al papa confermò ed accrebbe le precedenti donazioni, dando vita ormai a un vero e proprio Stato Pontificio che da Roma, attraverso il Lazio, l’Umbria e le Marche, si estendeva fino alla Romagna e comprendeva le antiche terre del dominio bizantino.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Re Carlo
Carlo, Re dei Franchi, detto dai posteri, per ammirazione, Magno, fu veramente uno dei più notevoli personaggi del Medioevo. Egli fu soprattutto un grande unificatore e si giovò anche della religione per dare unità spirituale ai diversi popoli del suo immenso dominio. Egli condusse vittoriosamente in tutta l’Europa occidentale circa sessanta imprese militari e riunì sotto il suo scettro un territorio vastissimo che comprendeva la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Germania, l’Austria, la Repubblica Ceca, la Serbia, la Croazia, l’Ungheria, la Svizzera e metà dell’Italia odierne. Per garantire il confine dei Pirenei marciò contro gli Arabi della Spagna, tolse loro le due regioni dell’Aragona e della Catalogna, con le quali costituì la Marca Spagnola. Durante il ritorno da questa spedizione nel 778, la retroguardia di Carlo, comandata dal famoso paladino Orlando, fu assalita dai Baschi nella gola di Roncisvalle e distrutta. L’eroica morte di Orlando, caduto combattendo per il suo re e per la sua fede, fu cantata nella Chanson de Roland, il primo di una lunga serie di poemi cavallereschi sui paladini di Francia. La vastità, l’unità del dominio di Carlo e l’alto prestigio politico di cui godeva fecero rinascere l’idea dell’Impero Romano, che fu consacrata dal papa Leone III la notte di Natale dell’800 a Roma, nella basilica di San Pietro. Con una cerimonia solenne il Papa incoronò Carlo imperatore del Sacro Romano Impero, mentre tutto il popolo acclamava: “A Carlo, piissimo, augusto, coronato da dio grande e pacifico imperatore dei Romani, vita e vittoria!”. Carlo meritò effettivamente questi onori perchè fu un sovrano illuminato. Benché analfabeta, promosse gli studi, le arti e l’istruzione pubblica, facendo aprire numerosissime scuole per ricchi e poveri, e fondando in Aquisgrana, sua residenza preferita, l’Accademia Palatina, che accolse i dotti del tempo. Carlo Magno morì ad Aquisgrana nell’814, dopo 46 anni di regno, e lì fu sepolto.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Come governò Carlo Magno
Carlo Magno amministrò saggiamente il suo vasto impero. Per poterlo governare meglio, secondo un’usanza franca, lo suddivise in contee, che affidò a uomini a lui fedeli; presso i confini creò contee più estese e militarmente più forti che si chiamarono marche. Coloro che governavano marche e contee, cioè i marchesi ed i conti, dipendevano direttamente dall’Imperatore ed avevano poteri amplissimi. Dapprima Carlo Magno non diede una capitale al suo Impero perchè, per meglio conoscere le condizioni di vita dei suoi sudditi, viaggiava moltissimo. Infine si stabilì ad Aquisgrana, in Germania, che divenne la capitale del Sacro Romano Impero. In quella città egli morì nell’anno 814. Carlo Magno fu uno dei più grandi imperatori germanici, valoroso e saggio. Sotto il suo Impero anche la cultura rifiorì. Egli, che l’apprezzava molto, volle che alla sua corte si raccogliessero i più dotti uomini del tempo fra i quali ricordiamo Alcuino, Paolo Diacono e Paolino, patriarca di Aquileia. Volle inoltre l’istituzione di scuole per l’istruzione dei fanciulli.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Per il lavoro di ricerca
Ricerca notizie sulla figura e la cultura di Carlo Magno. Contro quali popoli combatté Carlo Magno? Dove vinse gli Arabi? Chi erano i paladini? Ricerca notizie sulla morte del paladino Orlando. Quali terre comprendeva l’impero di Carlo Magno? Perchè fu chiamato Sacro Romano Impero? Come fu governato amministrativamente l’impero? Chi erano i “missi dominici” e che cosa dovevano controllare? Come si viveva ai tempi di Carlo Magno? Che cosa era la “legge salica?” Quando e dove morì Carlo Magno?
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Carlo Magno non sapeva né leggere né scrivere
Questa era la sua spina nel fianco, il suo lato patetico. Carlo, che la sera andava presto a letto, dovunque si trovasse, ma soffriva di insonnia, trascorreva spesso la notte compitando l’abbecedario e cercando di capirne le lettere. Ma inutilmente. Questo genio della politica e della guerra, che era riuscito a conquistare mezzo mondo, non riuscì mai a conquistare l’alfabeto. A furia di farseli ripetere dal confessore, imparò a memoria i salmi, e li cantava anzi abbastanza bene perchè, se la sua voce era stridula, l’orecchio era buono. Ma sebbene fino alla tarda vecchiaia seguitasse a trascorrere le sue notti a fare le aste, la soddisfazione di scrivere e di leggere da sé egli non l’ebbe mai. Eppure fu Carlo Magno. (I. Montanelli e R. Gervaso)
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture La figura di Carlo Magno
Era re Carlo di corporatura massiccia e robusta, di statura alta che pur tuttavia non eccedeva una giusta misura. Aveva testa tonda, occhi grandissimi e vivaci, il naso un po’ più lungo del normale, bei capelli bianchi, volto sereno e gioviale che gli conferiva una grandissima autorità e pari dignità di aspetto. Sicuro nell’incedere, emanava da tutto il corpo un fascino virile. Si esercitava di frequente all’equitazione ed alla caccia, ed era questa una passione che aveva fin da bambino. Amava anche molto i bagni minerali e spesso si esercitava al nuoto. Per tale ragione costruì una reggia in Aquisgrana ricca di acque minerali; ivi trascorse gli ultimi anni della sua vita. Invitava al bagno con lui, non soltanto i figli, ma anche i grandi del regno e gli amici e talora perfino tutte le proprie guardie del corpo. Vestiva sempre nel costume nazionale dei Franchi. Rifuggiva dai costumi di altri paesi, anche se bellissimi, e non amò mai indossarli, meno che a Roma, quando su richiesta di papa Adriano, acconsentì a portare una lunga tunica e la clamide ed i sandali alla moda dei Romani… Era assai sobrio nel mangiare e nel bere. Mentre cenava gli piaceva udire qualche musica o qualche lettura. Gli leggevano le storie degli antichi, ma amava ascoltare anche le opere di Sant’Agostino. Aveva facile e copioso l’eloquio, e sapeva esprimere con molta chiarezza il proprio pensiero.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture La cultura di Carlo
La sua istruzione e la sua cultura non derivano da studi teorici; ma piuttosto dall’esperienza pratica e dalla viva voce di chi gli stava introno. Tuttavia erano grandissime. Egli parlava la lingua franca, ma conosceva anche il latino, parlato dai suoi sudditi gallo-romani, e perfino il greco, benchè si curasse poco di parlarlo. Non era un matematico, ma aveva la mente aperta a penetrare rapidamente la complessità delle cifre e dei calcoli. Carlo possedeva cognizioni di anatomia umana e soprattutto di anatomia animale, perchè, come cacciatore, era abituato a scannare e a scuoiare la selvaggina che uccideva. Sapeva bene come vivono e come si cacciano gli uccelli, e soprattutto era molto pratico di cavalli. Conosceva un po’ tutti i mestieri perchè era abituato a sorvegliare di persona i suoi servi al lavoro: avrebbe potuto non solo riparare la bardatura del suo cavallo, ma anche estirparsi i denti e medicarsi le ferite, in caso di necessità. Inoltre conosceva, attraverso i canti dei giullari di corte, le gesta degli antenati suoi e le storie dei re dei paesi vicini. Egli tentò anche di imparare a scrivere, e, a questo scopo, aveva l’abitudine di tenere sotto i cuscini del letto alcune tavolette e alcuni fogli di pergamena per esercitarsi a tracciare di propria mano qualche lettera. Ma poco gli fruttò questo lavoro disordinato e iniziato troppo tardi. (Baker)
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Carlo Magno e gli scolari
Un giorno l’imperatore Carlo Magno visitò una scuola a Parigi e volle vedere i compiti fatti dagli alunni. Osservò che quelli fatti dai ragazzi del popolo erano molto migliori di quelli fatti dai figli dei nobili. Allora l’imperatore fece passare alla sua destra i più bravi e disse loro: “Grazie figlioli miei; studiate ancora per diventare sempre più bravi e io, quando sarete grandi, vi darò ogni sorta di onori, perchè solo voi siete degni ai miei occhi”. Po si volse a quelli che erano alla sua sinistra, fece loro un viso molto accigliato e disse: “In nome di Dio io vi dico che non mi importa nulla della vostra nobiltà e della vostra bellezza fisica. Vi ammiri pure chi vuole, per queste stolte cose. Io vi avverto che, se non diventerete migliori, non otterrete nulla da Carlo”.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Le conquiste di Carlo Magno
Carlo Magno intervenne in difesa del Papa in lotta contro i Longobardi e vinse l’ultimo re longobardo Desiderio; poi cinse a Pavia la corona dei re longobardi, stabilendo così in Italia il dominio dei Franchi. Questa fu una delle numerose guerre che egli combatté nei 46 anni del suo regno, per costituire un vasto impero in occidente. Per ben 32 anni Carlo Magno guerreggiò contro i Sassoni, un popolo ancora barbaro e idolatra che abitava la regione settentrionale della Germania. Alla fine il loro re Vitichindo si sottomise a Carlo, che lo costrinse a convertirsi al cristianesimo con tutto il suo popolo. Ardua fu anche la lotta combattuta contro gli Arabi di Spagna. Spintosi al di là dei Pirenei, Carlo Magno riportò qualche brillante successo, ma non potò conquistare Saragozza. Durante la ritirata, la sua retroguardia fu completamente distrutta al passo di Roncisvalle (778). Cadde eroicamente in quella battaglia il più famoso dei Conti Palatini, Orlando. Questa battaglia esercitò un grande fascino sulla fantasia popolare, e il ricordo di essa si tramandò con vivi e poetici particolari. Intorno a Carlo e ai suoi paladini, combattenti per la fede e per la patria, fiorì una serie di leggende che furono materia di molti poemi cavallereschi scritti da poeti francesi ed italiani. Più tardi Carlo si impadronì di tutta la regione fra i Pirenei e l’Ebro e vi costituì la Marca Spagnola, che servì da baluardo all’Europa contro gli Arabi. Carlo Magno combatté con fortuna contro i Bavari, gli Avari (stanziati nell’odierna Austria) e contro gli Slavi. Alla fine di queste guerre poteva considerarsi padrone di quasi tutta l’Europa occidentale e centrale.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Carlo Magno sotto le mura di Pavia
I soldati franchi giunsero ben presto sotto le mura di Pavia. All’avvicinarsi di essi, il re Desiderio e il duca Ottocaro salirono su di una torre altissima, da dove si poteva abbracciare con l’occhio tutta la campagna. Apparvero dapprima delle macchine da guerra che avrebbero fatto invidia a Dario e a Cesare. Desiderio domandò ad Ottocaro: “Carlo si trova in quell’immensa folla?” “Non ancora”, rispose questi. Vedendo poi le milizie raccolte in ogni parte del nostro vasto impero, il longobardo disse: “Certo, Carlo avanza trionfalmente in mezzo a quelle masse profonde”. “No, non ancora, non ancora”. Il re, turbandosi, mormorava: “Ora che faremo noi, se vengono con forze così considerevoli?” “Voi non capirete chi sia Carlo Magno ” diceva Ottocaro, “che quando comparirà. Quello che accadrà di noi allora, io non lo so”. Mentre scambiavano queste parole, giungeva la guardia reale, che non conosce mai riposo. Desiderio era stupefatto. “In fede mia, non è là Carlo!” diceva. “Non ancora!” Poi sfilano con gran seguito i vescovi, gli abati, i chierici della cappella palatina ed i Conti. A tal vista Desiderio, on potendo più oltre sopportare la luce del giorno e sentendo il freddo della morte, rompe in singulti e balbetta: “Discendiamo, nascondiamoci nelle viscere della terra, lontano dalla faccia e dal furore di un così terribile nemico!”. Ottocaro, anch’egli tremando, egli che ben conosceva la potenza di Carlo e che in tempi migliori era vissuto vicino a lui, dice: “Quando vedrai nella montagna erigersi come una messe di lance, quando le onde oscurate del Po e del Ticino, non riflettendo che il ferro delle armi, avranno gettato sulle mura nuovi torrenti di uomini coperti di ferro, allora saprai che Carlo è vicino!”. Non aveva terminato di dire, che all’improvviso l’occidente di velò di una nube tenebrosa; pareva che un uragano avesse oscurato la luce del cielo. A misura che il re avanzava, il luccicare delle spade proiettò sulla città un giorno più sinistro della stessa notte. Ben presto Carlo fu in vista, gigante di ferro: sul capo un elmo di ferro, guanti di ferro alle mani, il petto e le spalle coperti di una corazza di ferro. La mano sinistra brandiva una lancia di ferro, mentre la destra era distesa sul ferro della sua invincibile spada. Il ferro copriva le vie ed i piani; in ogni dove i raggi del sole riverberavano sul ferro. Dalla città si elevava un clamore confuso: “Quanto ferro, ohimè!” “Re!” gridò Ottocaro, “Ecco colui che i vostri occhi cercavano da gran tempo!” E pronunciando queste parole cadde svenuto. (Monaco di San Gallo)
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Il Sacro Romano Impero
Dopo tante guerre, Carlo Magno regnava su una buona parte d’Europa e dimostrava di saper governare saggiamente. Tutti vedevano in lui un grande imperatore amante della pace e dell’ordine, ed egli sognava di far rinascere l’antico ordinamento romano. Infatti il nuovo impero si chiamò Sacro Romano Impero. Ben diverso dall’antico Impero Romano, che era uno stato vero e proprio, retto dalla forza delle leggi di Roma, questo di Carlo Magno era un agglomerato di popoli diversi, ciascuno dei quali conservava le proprie leggi e le proprie tradizioni. Uguale per tutti fu invece l’ordinamento amministrativo: il territorio fu diviso in contee con a capo un conte. Nelle zone di confine si crearono le marche, più vaste e più forti delle contee, governate da marchesi (per esempio la Marca Spagnola, posta come baluardo contro gli Arabi; la Marca Avarica, l’odierna Austria, contro gli Slavi). Accanto ai conti erano per importanza i Vescovi, cui furono affidati molti uffici. Conti e marchesi reclutavano i soldati e li fornivano all’esercito imperiale, amministravano la giustizia e riscuotevano i tributi in nome dell’Imperatore. L’imperatore controllava conti e marchesi, mandando periodicamente coppie di ispettori detti “missi dominici” dei quali uno era laico e l’altro ecclesiastico, a visitare le contee; essi ascoltavano le querele delle popolazioni, si informavano dei bisogni e sopprimevano gli abusi. Carlo Magno dettò per tutto l’impero alcune leggi generali dette “Capitolari”. Ogni anno, in primavera, si radunava presso la residenza imperiale un’assemblea generale di tutti gli uomini liberi, detta Campo di maggio: vi si approvavano le leggi già preparate. Carlo Magno non scelse una città come capitale stabile; a seconda delle necessità del governo, egli mutava residenza. Negli ultimi anni risiedette di solito ad Aquisgrana.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Provvedimenti economici
Carlo Magno diede incremento anche alla vita economica, provvedendo con una serie di editti alla buona amministrazione del suolo coltivato, all’incremento dell’allevamento del bestiame, regolando le prestazioni personali dei contadini, tentando, ma invano, di salvare la classe dei piccoli proprietari. Rese più sicuro e facile il cambio con l’introduzione di un sistema monetario e di uno di pesi e misure unico per tutto l’Impero. L’avanzata degli Arabi aveva quasi del tutto distrutto le relazioni commerciali fra l’Oriente e l’Occidente; l’economia accentuò quindi il suo carattere particolaristico ed agricolo. Molte merci di lusso, provenienti dall’Oriente, erano sparite o diventate assai rare: Carlo Magno dovette perciò sostituire nella monetazione l’argento all’oro; il papiro, a partire dal secolo VIII, in Gallia cedette il posto alla pergamena.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Ciò che i missi dominici dovevano controllare
In una legge stabilita nell’802 Carlo Magno indicò che i missi dominici dovevano controllare. Tra le altre cose, essi dovevano informare l’imperatore sull’osservanza di questi obblighi: “E’ fatto obbligo ai giudici di giudicare con giustizia secondo quanto prescrive la legge scritta e non seguendo il loro arbitrio”. “Le misure siano uguali ed esatte e giuste e uguali per tutti i pesi”. “Non di compiano di domenica lavori servili”. “Si tengano tutti pronti per quando possa venire, in qualsiasi momento, un ordine dell’Imperatore”. “Tutti gli promettano fedeltà”. “I nostri missi, ovunque se ne riconosca la necessità, ricerchino e si preoccupino del giusto quanto alle chiese di dio, alle vedove, agli orfani, ai pupilli e a tutti gli altri uomini. Quanto si trovi da correggere, essi correggano il meglio che possono; quanto non riescono a correggere traducano al nostro tribunale”. (da Capitulare missorum)
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture La notte di Natale dell’800
Nella cattedrale di San Pietro c’era messa solenne, la notte di Natale dell’800; tutti i sacerdoti della curia erano assisi negli scranni; in mezzo il trono del pontefice Leone III. Al momento del Vangelo questi si alzò dirigendosi verso l’altare maggiore dove stava inginocchiato Carlo Magno, il conquistatore d’Europa, che abbandonate le vesti guerriere, indossava uno sfarzoso abito da patrizio romano. Papa Leone, nel silenzio attonito, pose sul capo di Carlo la corona degli imperatori di Roma dicendo: “A Carlo Augusto, coronato da dio, grande e pacifico imperatore, vita e vittoria”. E parve allora che Roma fosse nuovamente tornata al centro del mondo.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Morte di Carlo Magno
Carlo Magno, in età di 72 anni, dopo aver regnato per 46 anni come re e 14 come imperatore, morì in Aquisgrana, nell’814, e fu sepolto nella basilica da lui stesso voluta. Il suo corpo fu imbalsamato e posto nel sepolcro seduto su uno scranno d’oro, cinto della spada d’oro e con in mano il Vangelo, con la corona sul capo e nella corona incastonato un frammento ligneo della croce. Indossava abiti imperiali; il volto era coperto da un sudario. Davanti a lui furono appesi lo scettro e lo scudo. Poi il sepolcro fu chiuso e sigillato.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture I giudizi di dio
La legge salica, che formava quasi la “costituzione” dei popoli franchi, conteneva parecchie norme che regolavano lo svolgimento dei processi. Per dimostrare l’innocenza o la colpevolezza dell’accusato si ricorreva spesso al cosiddetto “giudizio di dio”. Si pensava cioè che dio intervenisse direttamente a favore dell’innocente. Per esempio, l’accusato veniva legato mani e piedi e gettato in un fiume, che era stato in precedenza benedetto. Se l’annegato andava a fondo, era innocente: se galleggiava era colpevole: si pensava infatti che l’acqua benedetta respingesse chi fosse macchiato da un delitto. Si presume che poi l’innocente venisse ripescato! Altre volte la prova consisteva nel camminare a piedi nudi su carboni ardenti, o nel reggere in mano un ferro incandescente. Molto spesso, infine, si decideva una controversia ricorrendo a un duello: dio avrebbe guidato la mano di chi aveva ragione e avrebbe dato la morte a chi aveva torto.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Morte di Orlando
Le gesta di Carlo Magno e dei suoi paladini per cacciare i Mori di Spagna ispirarono uno dei più bei capolavori della poesia epica di tutti i tempi; La canzone di Orlando (La chanson de Roland) dovuta, pare, al francese Turoldo. La pietosa fine del paladino Orlando tradito e massacrato nella gola di Roncisvalle, nei Pirenei, mentre guidava sulla via del ritorno la retroguardia dell’esercito, occupa alcune delle più belle pagine del poema. Orlando è ormai ferito a morte e tenta, ma invano, di infrangere la sua invitta e prodigiosa spada Durlindana. Sente che la morte lo possiede e lo invade dalla testa al cuore. Corre sotto un pino e si corica sull’erba verde, faccia a terra; mette sotto il corpo la spada e il corno; poi volge il capo verso i pagani, perchè vuole che Carlo e tutti dicano che il nobile paladino è morto combattendo. Poi con flebile voce grida i suoi peccati e tende a dio il guanto e le sue colpe. Sa che la sua vita è finita. E’ sopra un poggio aguzzo, il viso verso la Spagna; con una mano si batte il petto: “Confesso, o Signore, davanti alla tua maestà la mia colpa per tutti i miei peccati, da quando sono nato ad oggi, che sono battuto”. Tende il guanto destro a dio, gli angeli scendono a lui. Il paladino Orlando giace sotto il pino, ed ha la faccia rivolta verso la Spagna. E di molte cose si rammenta, di tante terre, della dolce Francia, degli uomini della sua stirpe, di Carlo suo signore che lo aveva nutrito. E non può esimersi dal piangere e dal sospirare. Ma non vuole dimenticare se stesso, confessa i propri peccati e implora da dio pietà. Offre a dio il suo guanto destro. E san Gabriele lo prende di propria mano. Sul braccio tiene il capo chino, poi a mani giunte attende la morte. Dio gli manda un suo angelo cherubino e san Michele del Periglio. E con questi San Gabriele. E così portano in paradiso l’anima del paladino.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Carlo Magno
Persona ampia e robusta, era piuttosto alto ma non troppo. Aveva testa rotonda, occhi grandi e vivaci, naso un po’ più largo del comune. Usava assiduamente cavalcare e cacciare. Si esercitava di frequentare al nuoto e invitava a bagnarsi con lui non soltanto con i figlioli, ma anche le persone più altolocate e gli amici, e talvolta perfino la moltitudine delle sue guardie del corpo, così che in certe occasioni ci furono in acqua insieme con lui cento persone e anche più. Nei giorni normali, il suo pasto principale constava di quattro portate, senza contare l’arrosto che i cacciatori solevano portare infilato negli spiedi, e che era il suo piatto preferito. Mentre cenava, ascoltava un po’ di musica o di lettura. Era così sobrio in fatto di vini che non beveva mai più di tre volte per pasto. D’estate, dopo il pasto di mezzogiorno, prendeva qualche frutto, beveva una sola volta, poi spogliatosi delle vesti e delle scarpe, come fosse notte, riposava due o tre ore.
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture I passatempi di Carlo Magno
Passatempi preferiti del sovrano furono l’equitazione e la caccia, dei quali ebbe il gusto fin dalla fanciullezza. Molto lo dilettavano anche le acque termali. Spesso si dava al piacere del nuoto, vincendo in gara chiunque competesse con lui. Infatti ai bagni della Mosa, per i quali ad Aquisgrana aveva costruito un palazzo, convenivano oltre ai figli anche i dignitari della corte. Si vedevano spesso nello specchio d’acqua, assieme con l’imperatore, anche cento e più persone. Aveva buona salute; non fu malato che negli ultimi quattro anni della sua vita, quando fu soggetto a frequenti attacchi di febbre. Ma anche allora sdegnava il consiglio dei medici: egli li aveva in uggia e non voleva assoggettarsi alle loro prescrizioni, perchè gli vietavano l’uso delle carni arrostite. Questo era il piatto da lui preferito. L’Imperatore fu particolarmente sobrio nel bere perchè in tutte le persone condannava l’ubriachezza. Fin dall’infanzia fu iniziato alla vita devota e si dedicava con scrupolo alle pratiche religiose. Ma egli seguì anche i precetti evangelici della carità: aiutò i poveri anche fuori del suo Impero, inviando elemosine in Siria, in Egitto e altrove. La povertà di quegli uomini muoveva la sua compassione; e appunto per procurare a costoro qualche conforto ricercò l’amicizia dei sovrani d’oltremare. (Eginardo)
CARLO MAGNO dettati ortografici e letture Il giuramento dei Vassalli
Io giuro per questi santi vangeli, che d’ora in avanti sarò fedele a costui come deve un vassallo al signore, e ciò che egli affiderà alla mia fedeltà, non rivelerò consapevolmente ad altri in suo danno. Io giuro su questi santi vangeli che d’ora innanzi sino all’ultimo giorno della vita sarò fedele a te, mio signore, contro ogni uomo eccetto l’imperatore. Cioè giuro che scientemente non parteciperò mai a deliberazione o ad atto per cui tu perda la vita o qualche membro, o riceva danno nella persona, o ingiustizia o insulto, che tu perda qualche diritto che tu hai o in futuro avrai. E se avrò saputo o udito di alcuno che voglia fare qualcuna di queste cose a tuo danno, cercherò di impedire, nella misura delle mie forze, che questo avvenga, e se non potrò oppormi ti avviserò al più presto possibile, e ti aiuterò contro di lui quando potrò. E se accadrò che tu perda qualche cosa che hai o avrai, per ingiustizia o per caso, ti aiuterò a recuperarla, e, recuperata, a conservarla. E se avrò saputo che tu vuoi giustamente assalire qualcuno, e sarò stato da te invitato, sia in forma generale sia personale, ti darò il mio aiuto come potrò. E se tu mi avrai rivelato qualche segreto, non lo svelerò al alcuno, senza tuo permesso, né farò in modo che sia svelato. E se mi chiederai consiglio su qualche cosa ti darò il consiglio che mi sembra più utile per te. E mai di persona farò coscientemente cosa che possa essere di danno ed insulto a te e ai tuoi.
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REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture di autori vari, per bambini della scuola primaria: Vandali, Ostrogoti, Visigoti, Eruli, Bizantini e Longobardi; Odoacre, Teodorico, Genserico, Teodolinda, Rotari, ecc…
Nell’immenso territorio, dove l’autorità dell’antico Impero era venuta meno, i popoli germanici formarono i loro regni: i Visigoti si stabilirono in Spagna, i Franchi in Gallia, i Vandali in Africa. Si costituirono in tal modo i regno romano-barbarici, così detti perché sotto lo stesso nuovo governo si riunivano le antiche popolazioni romane e le nuove genti barbariche di stirpe germanica. Col passare degli anni questi due popoli, dapprima separati, lentamente si fusero con una reciproca influenza. Molto più vasta ed efficace per la superiore civiltà, fu quella esercitata dai vinti sui conquistatori, che finirono per adottare la lingua, i costumi, le leggi e la religione del popolo che avevano sottomesso.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Gli Eruli
Gli Eruli giunsero in Italia guidati da Odoacre, che tolse il trono a Romolo Augustolo. Questi, che i soldati romani avevano acclamato loro imperatore, era un fanciullo e non aveva quindi alcuna energia per opporsi all’invasione. Fatto prigioniero, fu rinchiuso in un castello della Campania e nessun imperatore fu eletto a succedergli in Occidente. Odoacre, proclamatosi rappresentante dell’imperatore d’Oriente si insediò a Ravenna e governò l’Italia col titolo di Patrizio. Era l’anno 476 dC; esso segna la fine dell’Impero di Roma e l’inizio del Medioevo, cioè l’età di mezzo tra l’epoca antica e quella moderna.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Gli Ostrogoti
Teodorico, un barbaro valoroso ed intelligente, nella sua giovinezza era stato per molti anni ostaggio alla corte di Costantinopoli: aveva così potuto conoscere ed apprezzare la cultura e la civiltà romane. Acclamato re degli Ostrogoti, che occupavano allora la Pannonia (l’odierna Ungheria), vagheggiava nuove conquiste per dare sedi migliori al suo popolo, poco amante dell’agricoltura ed inquieto. Nel 489 Teodorico giunse alla Alpi Orientali. Non lo seguiva solo un esercito, ma un popolo intero con le donne, i figli, i servi, i carri colmi di masserizie e tende: trecentomila persone. Odoacre, sconfitto in più battaglie, si chiuse in Ravenna. Dopo tre anni di assedio, si arrese con la promessa di aver salva la vita; invece fu fatto trucidare a tradimento (493). Così finì il dominio erulo in Italia e subentrò quello degli Ostrogoti.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Il governo di Teodorico
Teodorico governò per trentatré anni col titolo di re degli Ostrogoti e Patrizio d’Italia. Egli mirò a far convivere pacificamente i due popoli pur così diversi: lasciò ai Goti l’uso delle armi e affidò agli Italici l’amministrazione civile. Migliorò le condizioni economiche dell’Italia con lavori di bonifica e con la costruzione di strade e di acquedotti, restaurò molti monumenti romani, abbellì Ravenna di un grandioso palazzo reale, un mausoleo e altri edifici; protesse le lettere e le arti, chiamò ad alti uffici uomini di valore, come lo storico Simmaco, il filosofo Severino Boezio e il dotto Cassiodoro, che divenne suo primo ministro. Benché ariano, Teodorico fu tollerante con i cattolici. Ma l’avversione degli Italici e gli intrighi della corte bizantina avvelenarono gli ultimi anni del suo regno, rendendolo sospettoso e crudele: si diede ad arrestare, perseguitare, uccidere. Anche Boezio e Simmaco furono messi a morte, e lo stesso papa Giovanni I visse i suoi ultimi giorni in carcere. Teodorico morì nel 526 e fu sepolto nel superbo mausoleo di Ravenna.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – I Bizantini
Le relazioni tra i Romani e gli Ostrogoti peggiorarono assai con i successori di Teodorico. Ne approfittò l’imperatore d’Oriente Giustiniano per unire l’Italia all’Impero d’Oriente (553). Il dominio bizantino (così detto da Bisanzio, antico nome di Costantinopoli) produsse opposti, molteplici effetti. Infatti, se da un lato attivò le relazioni tra Italia e Oriente e fede della capitale Ravenna una città ricca e adorna di splendidi monumenti (come la famosa chiesa di San Vitale costruita appunto nel VI secolo e tutta rivestita di mosaici e d’oro), di contro afflisse le misere popolazioni con nuovi insopportabili balzelli, imposti senza ritegno dai rapaci funzionari imperiali. La vita dei commerci e delle industrie intristì e grave fu il disagio delle città e delle campagne. A rimedio di tanti guai solo la Chiesa diffondeva un po’ di bene fra le afflitte popolazioni ed accresceva in mezzo ad esse il suo prestigio.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – Per il lavoro di ricerca
Quale barbaro fu chiamato “re della terra e del mare”? Quando cadde l’Impero Romano d’Occidente? Per opera di chi? Come si chiamava l’ultimo imperatore romano? Da chi fu sconfitto Odoacre? Come governò Teodorico? Come morì? Qual era la capitale del regno degli Ostrogoti? Che cosa era l’ “editto di Teodorico?” Da chi furono scacciati gli Ostrogoti? Perchè divenne famoso Giustiniano? Come governarono i Bizantini in Italia? Come fu divisa l’Italia in quel periodo?
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – Il re della terra e del mare
Genserico, alla testa dei suoi Vandali, è alle porte di Cartagine. In città gli uomini fanno festa, ignari che il nemico è sotto le mura; così, mentre Genserico si accinge ad assalire i bastioni, i Cartaginesi sono nel circo. Ma d’un tratto alle porte del circo si sente qualcuno che batte per farsi aprire; i custodi chiedono chi sia mai costui che domanda di entrare in un’ora così fuori dal consueto. “Sono il re della terra e del mare!” risponde il vincitore.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – Odoacre e la fine dell’Impero
Mentre l’Impero Romano d’Oriente fronteggiava con buon successo i barbari, e restava saldo ed unito, l’Impero Romano d’Occidente era percorso continuamente da orde selvagge, insanguinato da guerre e saccheggi, e finì per essere alla mercé dei capi barbarici e dei generali germanici. Uno di questi, Oreste, giunse nel 475 a porre sul trono imperiale suo figlio Romolo (che venne poi per spregio detto l’ “Augustolo” cioè il piccolo, misero Augusto). Ma questi regnò poco: l’anno dopo, un altro generale barbaro, Odoacre, piombò su Ravenna, la conquistò, uccise Oreste e depose l’Augustolo. Una volta deposto quel debole imperatore, Odoacre assunse il titolo di “Patrizio” ed il potere in Italia, e mandò le insegne imperiali a Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente: un solo imperatore, disse, è più che sufficiente! Per una amara beffa del destino, l’ultimo re di Roma portava il nome del primo re, Romolo, colui che, secondo la leggenda, aveva fondato la città e gettato le fondamenta della sua potenza. Così nel 476 si concludeva miserevolmente la storia dell’Impero di Roma.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Curiosità
Gli ultimi imperatori dell’Impero d’Occidente salirono al trono ancora bambini: Giuliano aveva sei anni, Graziano diciassette, Valentino II cinque, e Romolo Augustolo quattordici. Per molti secoli l’Impero romano aveva avuto una difesa pronta e vigile ai confini anche lontanissimi. I barbari così spiegano il fatto: sul Campidoglio esisteva un tempietto consacrato alla Difesa entro cui erano molte statue raffiguranti le varie province di confine. Ognuna aveva al collo un campanellino e appena questa provincia fosse stata minacciata esso preannunciava il pericolo suonando. Ecco perchè, ogni qualvolta i barbari toccavano le terre di confine romano, trovavano le truppe pronte alla difesa.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Gli Ostrogoti, Teodorico e i Longobardi
Quando nel 488 Teodorico, il giovane re degli Ostrogoti, venne attraverso le Alpi Giulie in Italia, col suo esercito, fu la fine del governo di Odoacre. Questi, sconfitto prima sull’Isonzo, fu poi costretto a chiudersi in Ravenna, dove resistette valorosamente per due anni e mezzo; ma alla fine avendogli promesso Teodorico di salvargli la vita si arrese. Il patto non fu però mantenuto e Odoacre fu ucciso assieme ai suoi familiari, nel corso di una disputa insorta durante un banchetto. Teodorico, riconosciuto re d’Italia dall’imperatore di Costantinopoli, per un certo periodo governò saggiamente. Stabilì la capitale del regno a Ravenna e chi anche oggi visita quella città può ammirare splendidi monumenti come la chiesa di sant’Apollinare, il battistero, il mausoleo di Galla Placida, ecc… Negli ultimi anni del suo regno diventò crudele e sospettoso. Fece uccidere il suo consigliere, Boezio, al quale aveva conferito gli onori di console, di patrizio e di maestro degli uffizi, e fece condannare a morte Simmaco, suocero di Boezio, solo perchè ne aveva pianto in pubblico la morte. Prima di morire aveva ordinato la chiusura di tutte le chiese dei cattolici, ma l’ordine non ebbe seguito. Morì nel 526 e così ebbe fine, con un breve periodo di tirannia, un lungo e glorioso regno. Amalasunta, sua figlia, gli eresse un monumento presso Ravenna.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Teodorico
Di Teodorico dobbiamo ammirare la saggezza con la quale governò l’Italia, gli sforzi fatti per fondere i Romani con i barbari sopraggiunti (fu questo il suo ideale e non è colpa sua se non poté raggiungerlo); a suo merito dobbiamo ricordare la protezione da lui data ai grandi uomini che fecero splendere di nuova luce le lettere romane: Cassiodoro, Emiodo, Boezio e le opere pubbliche che egli iniziò, i monumenti restaurati, gli edifici innalzati nelle sue città predilette: Verona, Pavia, Ravenna. Quest’ultima città, un tempo sede della flotta romana, era divenuta già sotto Odoacre la capitale d’Italia e fioriva sulla sua laguna non ancora occupata dalle sabbie. Teodorico l’ornò di chiese e monumenti che in gran parte ancora sussistono e ci danno in modo strano l’illusione di rivivere ai tempi del grande Goto. Eppure questo re tanto amante delle arti non sapeva scrivere e per tracciare le lettere del suo nome doveva usare una laminetta traforata, attraverso la quale a fatica conduceva la penna! Assai meglio della penna egli maneggiava la spada, e lo sperimentarono numerosi popoli che egli assoggettò, entro e fuori d’Italia.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Leggende sulla morte di Teodorico
Procopio racconta che, trovandosi Teodorico ad un banchetto, gli fu portato un grosso pesce, il quale, digrignando i denti e rivolgendo minacciosamente gli occhi, pareva che assumesse le sembianze di Simmaco. Spaventato di ciò, il re si sentì preso da brividi che lo costrinsero a mettersi a letto, dove non vi furono panni che bastassero a riscaldarlo; ed il 30 agosto 526, in età di settantadue anni, fu da una forte dissenteria condotto a morte. Un’altra leggenda racconta che un collettore di tasse, passando per l’isola di Lipari, vi trovò un eremita che subito esclamò: “E’ morto Teodorico!” “Come mai” rispose l’altro “se non è molto che io lo lasciai in buona salute?” “Eppure” soggiunse l’eremita, “io l’ho visto or ora passare con le mani legate, fra papa Giovanni I e Simmaco, ed essere gettato nel cratere del vulcano di Lipari”. Un’altra leggenda racconta che Teodorico fu portato da un cavallo nero, a corsa sfrenata, fin presso il vulcano ove fu scaraventato. (Villani)
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Dalla raccolta di leggi di Teodorico
1 Prima di tutto decretiamo che se un giudice avrà accettato denaro per giudicare a danno di un innocente contrariamente alle leggi e al diritto, sarà punito con la condanna a morte. 34 Nessuno, o Romano o barbaro, si prenda la roba altrui: e se con inganno se ne sarà impadronito non potrà tenerla, e dovrà immediatamente restituirla con gli interessi. 108 Se qualcuno sarà sorpreso a sacrificare col rito pagano sarà condannato a morte. Quelli che praticano arti malefiche, cioè gli stregoni, spogliati di tutte le loro sostanze, se di agiata condizione, saranno condannati all’esilio, se di umile condizione, a morte…
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Giustiniano e la liberazione dell’Italia dagli Ostrogoti
Mentre i Goti dominavano l’Italia, l’Impero d’Oriente, ancora solido e quasi intatto, cominciava ad interessarsi delle sorti dell’Italia, oramai da troppo tempo abbandonata nell’arbitrio dei barbari. Nel 527, un anno dopo la morte di Teodorico, a Costantinopoli saliva al trono il più grande degli imperatori d’Oriente, Giustiniano. Romano di animo e di propositi, egli inaugurò il suo regno con un’opera immortale, ordinando che si raccogliessero tutte le leggi dei Romani in un unico codice che rimane tuttora il solenne monumento del genio giuridico di Roma antica. Giustiniano volle anche ricostruire l’unità dell’Impero romano e in breve strappò ai Vandali l’Africa, sottrasse ai Visigoti la spagna meridionale, e finalmente, nel 535, sbarcò con un esercito in Italia per liberarla dai Goti e ricongiungerla all’Impero. La guerra durò ben diciotto anni e devastò tutta l’Italia, ma alla fine i Goti furono definitivamente sconfitti.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Il governo bizantino in Italia (553-568)
L’Italia tornò così a far parte dell’Impero romano come una provincia. L’Imperatore la governò per mezzo di un suo rappresentante, detto Esarca, che risiedeva a Ravenna, con sommi poteri civili e militari. Ravenna, che mostra ancora nelle belle chiese di San Vitale e di Sant’Apollinare, adorne di splendidi mosaici, i ricordi di questo periodo, divenne il centro delle comunicazioni con l’Oriente. A tutta l’Italia divisa in ducati (così chiamati perchè governati da duchi bizantini) fu esteso il codice giustinianeo. Fra i vari ducati ebbe una particolare importanza il ducato di Roma, per la presenza del papa, capo della Chiesa cattolica. I Bizantini cercarono di migliorare le condizioni della penisola con l’aiuto dei Vescovi, a cui furono affidati uffici civili. Con ciò si accrebbe il potere temporale dei Vescovi, che avrà tanta importanza in seguito. Ma per sopperire alle spese della difesa e dell’amministrazione, il governo bizantino aggravò le popolazioni italiane di tasse esose, rese ancora più aspre dai metodi di riscossione e dalla corruzione dei funzionari. Per questo e per la sua breve durata, esso non potè recare all’Italia i benefici che tutti speravano. Infatti l’Italia rimase bizantina solamente quindici anni. Nel 568, appena tre anni dopo la morte di Giustiniano, una nuova ondata di barbari, i Longobardi, si rovesciò sul nostro paese
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture La conquista dei Longobardi
Non erano passati quindici anni dalla definitiva conquista dell’Italia da parte dei Bizantini quando, nell’anno 568, attraverso le Alpi Giulie sopraggiunsero nuovi invasori: i Longobardi. I soldati dell’Impero d’Oriente che presidiavano l’Italia non seppero validamente difenderla; essi si ritirarono nelle città costiere, dove avevano basi militari e flotte. I Longobardi non avevano navi cosicchè non riuscirono mai a scacciare i Bizantini dalle coste italiane e ad unire tutta l’Italia sotto il loro dominio. Fu questa una delle tristi conseguenze della conquista longobarda: l’Italia, unita dai Romani, si spezzetta in domini Bizantini e in domini Longobardi; ed anche quando finirono quei domini, l’Italia continuerà ad essere politicamente divisa.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture La conversione dei Longobardi
Il dominio dei Longobardi durò dal 568 al 774. Nei primi anni il loro governo fu aspro; poi venne mitigandosi soprattutto per la conversione al cattolicesimo della regina Teodolinda per opera di papa Gregorio Magno. Fu questo un fatto di grande valore politico e civile, perchè influì sui costumi dei dominatori, rese più umana la condizione dei vinti latini e permise non solo la convivenza ma, più tardi, anche al fusione tra vincitori e vinti. Nell’anno 603 la regina Teodolinda, adempiendo un suo voto, fece erigere in Monza la Basilica di san Giovanni Battista, decorata di preziosi ornamenti d’oro e d’argento. Nella cappella, detta ancor oggi “cappella della regina Teodolinda”, si conserva la famosa corona ferrea, la quale, dopo essere stata di Teodolinda ed aver cinto il capo dei re longobardi, servì nei secoli successivi a cingere anche la fronte imperiale di Carlo Magno, poi quella dei re d’Italia nel Medioevo e più tardi ancora quella dei re di Germania imperatori del Sacro Romano Impero.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Per il lavoro di ricerca
Di che stirpe erano i Longobardi? Come vivevano? Quali leggi li governavano? Com’erano le loro case? Come si vestivano? Quando vennero in Italia? Da chi erano guidati? Come governò Alboino? Perchè è famoso l’editto di Rotari? Quando e per opera di chi si convertirono al cattolicesimo? Chi fu Teodolinda? Che cos’è la corona ferrea e dove si trova? Conosci la sua leggenda?
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Il sogno di Teodolinda
Dice una leggenda che Teodolinda aveva promesso di erigere un tempio a San Giovanni e aspettava che un’ispirazione divina le indicasse il luogo più adatto. Mentre cavalcava col suo seguito attraverso una piana ricca di olmi e bagnata dal Lambro, la regina si fermò a riposare lungo le rive del fiume, all’ombra di un albero. Addormentatasi, ella vide in sogno una colomba che si fermò poco lontano da lei e le disse: “Modo” (cioè qui). Prontamente la regina rispose: “Etiam” (sì) e fece costruire la basilica nel luogo indicatole dalla colomba. Quella zona fu poi chiamata Modoetia (Monza).
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Odoacre, amico di San Severino
Non pare che Odoacre avesse la ferocia dei barbari di Attila o di certi imperatori romani; la leggenda ci tramanda infatti la sua vivissima amicizia con San Severino, un asceta molto venerato. Al barbaro Odoacre si attribuiscono poi sentimenti e atti pietosi verso il piccolo Romolo Augustolo che “per compassione della sua infanzia gli salvò la vita e, perchè era un bel bimbo, gli diede una rendita di seimila soldi e lo mandò in Campania a viverci liberamente con i parenti”.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Alboino in Pavia
I Longobardi (“uomini dalle lunghe barbe”) appartenevano a quelle tribù germaniche vissute lontano dai confini dell’Impero romano e rimaste sprofondate nella più oscura barbarie. Nomadi, essi avevano vagato senza meta nell’Europa Centrale; e si trovavano nei territori tra le Serbia, Croazia e Ungheria, quando sentirono parlare del clima mite, delle ricche città, dei pingui campi dell’Italia. Ciò decise il loro re, il fiero e crudele Alboino, ad ordinare un esodo di massa. Nella primavera del 568, una carovana di trecentomila longobardi, tra guerrieri, donne, vecchi e bimbi, si presentò al passo del Predil, nel Friuli, e dilagò poi nella pianura veneta. L’Italia, appena uscita, stremata, dalla lunghissima guerra greco-gotica, venne rapidamente conquistata. In breve tempo i Longobardi si impadronirono di gran parte dell’Italia settentrionale, della Toscana spingendosi a sud, fino ad occupare Benevento. Una sola città oppose agli invasori strenua resistenza: Pavia che, stretta d’assedio, respinse per tre anni gli attacchi longobardi, arrendendosi solo per fame. Era il 572: re Alboino entrava finalmente in Pavia, che sarebbe diventata, con Verona, la capitale del nuovo Regno. Iniziava per l’Italia una nuova, decisiva fase della sua storia. “E’ mia questa Italia!” gridò Alboino, affacciandosi dalle Alpi e scendendo nella pianura del Po che gli sembrò molto bella e fertile. Scelse per sua capitale Pavia. I Longobardi rimasero a lungo in quella regione. E anche quando cessò il suo dominio, il nome rimase. Infatti anche oggi il nome Lombardia ricorda la dominazione dei Longobardi. I Longobardi erano tutti biondi rossicci. Alti di statura, portavano capelli a ciuffo sulla fronte, baffi spioventi e barbe lunghe. Sui copricapo, di pelo, portavano corna di animali. La loro arma preferita era una lunga alabarda. Nel vedere quei nuovi barbari i ragazzi italiani dicevano scherzando: “Sembrano carote!” I Longobardi, dalle Alpi, giunsero fino al mar Ionio, percorrendo tutta la penisola italiana. “Fin qui è il mio regno!” disse un successore di Alboino, Autari, spingendo il cavallo nel mare, a Reggio Calabria. Proprio così. Pareva che ormai fossero i padroni di tutta l’Italia e che nessuno li potesse sconfiggere.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Alboino e Rosmunda
Per capire quanto fossero crudeli, basti dire che coi crani degli avversari uccisi si facevano coppe per il vino. Così ogni volta che bevevano, accostavano le labbra alle ossa del loro nemico. Anche Alboino aveva preso stanza nella città di Verona e occupava il castello già abitato da Teodorico. Suo nemico era stato Cunimondo, re dei Gepiti, che Alboino aveva ucciso in battaglia, sposando poi la figlia del re morto, chiamata Rosmunda. Un giorno dopo un pranzo durante il quale aveva più volte accostato le labbra al teschio di Cunimondo, mezzo brillo, Alboino chiamò uno del suo seguito e gli disse: “Perideo, prendi questa coppa di buon vino e portala alla mia dolce sposa Rosmunda”. Perideo obbedì. Quando la regina riconobbe il teschio del proprio padre, inorridì. Ma non volle mostrare la sua commozione e il suo orrore. Prese la coppa e accostò le labbra sbiancate all’orto del cranio paterno. Con gli occhi dilatati dall’orrore, mentre beveva, fissava Perideo, il quale lesse in quello sguardo una muta invocazione: “Vendicami…” Presso i barbari la vendetta era sacra. E pochi giorni dopo Perideo uccideva Alboino, per vendicare Rosmunda. (P. Bargellini)
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Autari e Teodolinda
Una cupa leggenda circonda il nome di Alboino, il re longobardo che guidò il suo popolo, trecentomila persone comprese le donne e i bambini, una carovana zingaresca di carri e masserizie, guidata da fortissimi guerrieri, a sud delle Alpi: si dice che egli costringesse la moglie Rosmunda, a bere in un boccale ricavato dal teschio del padre, ucciso dallo stesso Alboino. Più gentile e poetica è la leggenda del re Autari e della regina Teodolinda. Autari, prima di sposare quella principessa,, figlia del re degli Avari, si recò alla sua corte in incognito, per conoscerla, fingendosi un ambasciatore. La fanciulla venne chiamata alla sua presenza, perchè egli potesse vederla e, come diceva, “riferire al suo re”. Teodolinda offerse da bere agli ospiti. Quando venne il turno di Autari, questi le sfiorò la mano con un dito e le passò la destra sulla fronte, sul naso e sulla guancia. Teodolinda, turbata, riferì la cosa alla sua nutrice. Ma la vecchia la rassicurò: “Non avere timore: nessun uomo avrebbe osato toccare la futura sposa del re. Quel cavaliere è senza dubbio Autari in persona”. Così conobbe il suo sposo la giovane che, diventata regina, favorì la conversione dei Longobardi (i quali professavano a religione ariana) al cattolicesimo. Sotto i primi anni del dominio longobardo, l’Italia conobbe il più nero e doloroso periodo della sua storia. Ma col passare degli anni i Longobardi (che non riuscirono mai a costruire uno stato forte ed unito) addolcirono un poco i loro barbari costumi. Nel 643 il re Rotari emanò un complesso di leggi, attraverso il quale possiamo farci un’idea della società longobarda, in gran parte ancora barbara, ma già influenzata dallo spirito romano. L’Editto di Rotari elenca i possibili reati, indicando, per ciascuno di essi, la pena da scontare o la multa da pagare. Una curiosa disposizione dice: ” Se qualcuno avrà pelato la coda del cavallo di un altro, pagherà sei soldi”.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Leggi longobarde
I Longobardi obbedivano alle tradizioni ed ai costumi di tutte le tribù germaniche. Vigeva, tra di essi, la vendetta privata, chiamata faida: l’omicida poteva essere a sua volta ucciso da un membro della famiglia del morto; le lotte tra famiglie, in tal modo, duravano molto a lungo, e spesso si tramandavano di generazione in generazione. Un’altra barbara usanza era il “giudizio di dio”. Per stabilire se un uomo era innocente o colpevole del crimine che gli era ascritto, lo si sottoponeva a brutali prove, nella convinzione che dio avrebbe provato la sua innocenza salvandolo. Al giudizio di dio facevano ricorso spesso i Longobardi: l’imputato, legato, viene tuffato in acqua alla presenza di numerosi testimoni; se rimane a galla è ritenuto colpevole, e quindi condannato; se, invece, affonda, la sua innocenza sarà provata! Per tutto il corso del Medioevo, del resto, si ebbero varie forme del giudizio di dio: una delle più frequenti era il duello: l’accusato si doveva battere contro l’accusatore (talvolta costoro erano sostituiti da loro amici, o “campioni”): il vincitore avrebbe provato di essere nel giusto, poiché la sua vittoria, si credeva, veniva dal fatto di difendere una causa giusta. Un certo miglioramento dei costumi longobardi fu ottenuto da re Rotari, il quale, con il suo editto, limitò a pochi casi sia la faida sia il giudizio di dio. Regola della giustizia divenne il “guidrigildo”, cioè il compenso dell’offesa patita. Questi compensi erano fissati con una scrupolosa esattezza. “Chi taglia il naso ad un altro gli dovrà pagare tredici soldi” diceva la legge: ed ecco che il ferito riceveva solennemente, dal feritore, la somma dovuta. Un altro articolo diceva: “Chi fa cadere ad uno i denti mascellari, gli dovrà pagare diciannove soldi per ogni dente”. Più curiosa era quest’altra disposizione: “Se qualcuno avrà colpito un altro in testa, e gli avrà rotto le ossa, gli dovrà pagare: per un osso, dodici soldi; per due ossa, trentasei soldi. Se le ossa rotte saranno più di due, non si contino. Bisogna però che una di queste ossa sia di tale misura che, lasciata cadere all’aperto, su di uno scudo, faccia un suono udibile a dodici piedi di distanza”. Assai cara era pagata una mano: metà del prezzo necessario per compensare una vita. In longobardo, l’offesa era detta walopaus.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Come si vestivano e si acconciavano i Longobardi
Nelle decorazioni del palazzo di Monza, si può vedere molto bene in che modo a quel tempo i Longobardi vestivano e si acconciavano. Essi avevano i capelli rasi fino all’occipite e ricadenti sulla fronte fino all’altezza della bocca, divisi in due bande da una scriminatura. Le loro vesti erano ampie e generalmente di lino, ornate di strisce intessute abbastanza larghe e di vario colore. Portavano calzari aperti all’estremità e fermati da lacci intrecciati.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture In una casa longobarda
Sono entrato nella casa, chiamiamola così, di un guerriero longobardo molto stimato dai suoi connazionali per il suo valore. A me, che sono latino, è sembrato di ritornare indietro nel tempo di millecinquecento anni. L’abitazione consta di un unico vano, le cui pareti sono di legno e il tetto di paglia. Le suppellettili sono ridotte al minimo indispensabile: pentole di terra o di rame, corna di bue per contenere l’olio, o da usare come bicchiere, un mulino portatile per macinare il grano, pelli buttate per terra che servono da letto. Siccome il mio ospite era, come vi ho detto, un soldato valoroso, appesi alle pareti c’erano parecchi crani, quelli dei nemici che il gentiluomo aveva ucciso con le sue mani: così mi ha lui stesso spiegato.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture L’editto di Rotari
Rotari era un re longobardo. Nacque nel 606 e salì al trono nel 636 sposando Gondeberga, vedova di Ariovaldo. Sotto il suo regno lo stato si ingrandì grazie alla conquista della Liguria, tolta ai Greci. Ma la sua fama resta legata soprattutto all’opera di legislatore (aveva del resto dato prova della sua grandezza d’animo proteggendo i cattolici pur essendo ariano). L’editto di Rotari, detto anche editto longobardo, promulgato a Pavia nel 643, è uno specchio fedele delle condizioni di vita e di civiltà del popolo longobardo. L’editto è un vero e proprio codice, composto di 338 capitoli, di diritto penale e privato, riguardanti la repressione dei reati contro lo stato, contro l’incolumità delle persone e la salvaguardia del patrimonio, del diritto ereditario, del diritto di famiglia, dei diritti reali, dei diritti di obbligazione, della responsabilità per i servi, dei danneggiamenti e delle obbligazioni. In questo editto, scritto in latino, per la prima volta dei barbari, come dovevano essere considerati i Longobardi, tenevano conto delle esperienze del diritto romano e delle innovazioni del cristianesimo. Grande importanza è attribuita dall’editto alla famiglia, centro dell’ordinamento sociale e politico, ed a tutte le questioni familiari.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture La conversione dei Longobardi
I Longobardi dominarono per ben due secoli nell’Italia settentrionale, e in così lungo periodo ebbero modo di subire la benefica influenza della civiltà romana, alla quale attinsero per l’organizzazione dello stato, per la compilazione delle leggi mescolando addirittura il proprio linguaggio alla lingua latina. La religione cattolica contribuì in gran parte a modificare le caratteristiche di questo popolo barbaro. La conversione al cattolicesimo avvenne per opera della regina Teodolinda. I Longobardi infatti erano ariani. Era allora pontefice Gregorio Magno, monaco benedettino che, salito alla cattedra di Pietro, diceva tuttavia di sé “io sono il servo dei servi di dio”, e non sdegnava di servire i poveri, che voleva alla sua mensa. Gregorio Magno paternalmente ammonì Teodolinda, e la convertì al cattolicesimo. Ancora molti anni dovettero passare prima che la religione ariana scomparisse tra il popolo longobardo. Tuttavia l’esempio della regina operò grandi conversioni e preparò il terreno per la conversione di tutto il suo popolo.
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture Teodolinda, regina dei Longobardi e dei Latini
L’Italia è dominata dai barbari. Orde di ogni stirpe cavalcano sulle dolci terre e le distruggono. Da qualche anno vi comandano i Longobardi, ma già i Franchi hanno preso a combatterli e a fatica il longobardo Autari li ha ricacciati oltre il confine. Gli Italici attendevano i Franchi come liberatori: chi li proteggerà ora? Autari è crudele e minaccia di morte chiunque sei suoi voglia battezzare i figli. Inutilmente la moglie, Teodolinda, lo supplica di moderarsi… E’ la morte a portarsi via il re prepotente. Teodolinda rimane sola. Esce spesso dalla reggia e si reca fra la povera gente. E’ una fiammata di intima, calda sensibilità a spingerla a far del bene, ed il suo cuore ignora la differenza tra Longobardi e Latini. Un mattino, mentre la regina cavalca verso Monza, un uomo lacero traversa la strada. E’ stremato, traballa… cade. Teodolinda, incurante del fango che le insudicerà il mantello, scende di sella e si china sul mendico. “Chi sei?” il povero ha aperto gli occhi e fissa stupito la dama bionda. “Teodolinda” “La regina! Dio ti protegga sempre… tutti i Latini dicono che sei buona” “La mia gente ti trasporterà nel più vicino castello…” “Tu ami gli amici Italici…” mormora ancora l’uomo “dacci un re che ci comprenda! Lo puoi!” “Sì”. Teodolinda, cattolica, sposa in seconde nozze di Agilulfo, duca di Torino, che non perseguiterà più i cattolici. E papa Gregorio invia ai due sposi una preziosa corona. Preziosa per le gemme che la compongono, ma ancor più preziosa per il sottile cerchio di ferro che la delimita internamente, formato secondo la leggenda da un chiodo della croce: la corona ferrea. Quella che Teodolinda deporrà nella basilica di San Giovanni Battista, che ha fatto erigere in Monza. (R. Gelardini)
REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture La corona ferrea
Secondo un’antica tradizione, Sant’Elena, madre dell’Imperatore Costantino, trovò sul Calvario la Croce. Ella ne tolse un chiodo e lo fece applicare all’interno di una corona d’oro, che regalò a suo figlio. Questi la donò al papa. Circa tre secoli dopo, Gregorio Magno regalò la corona, chiamata ferrea per il chiodo che aveva internamente, alla regina Teodolinda. Ella, a sua volta, ne fece dono al Duomo di Monza, fatto edificare da lei stessa. La corona si trova lì ancora oggi.
REGNI ROMANO – BARBARICI dettati ortografici e letture – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture di autori vari, per bambini della scuola primaria.
I figli del deserto
Nella prima metà del VII secolo, e più precisamente nel 634 dC, gli Arabi assumono una posizione di primo piano alla ribalta della storia. Fino ad allora questo popolo era vissuto sparso per il deserto in tribù nomadi formate di carovanieri, di pastori e di razziatori, detti beduini, cioè figli del deserto, e sono una parte di esso, insediata lungo le coste, praticava l’agricoltura. Gli Arabi adoravano più dei; fra i tanti idoli propri di ciascuna tribù, ce ne era uno comune a tutte, la pietra nera, che si credeva portata dal cielo dall’arcangelo Gabriele e che si venerava in un santuario di forma cubica, la Càaba, alla Mecca, centro religioso e commerciale dell’Arabia. Qui da ogni parte della penisola affluivano una volta all’anno gli Arabi, in pellegrinaggio, per celebrarvi i riti e per trafficare.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Maometto
Alla Mecca, verso l’anno 570, nacque Maometto. Costui sentendosi ispirato da dio, incominciò a raccontare le rivelazioni che la divinità gli faceva e a diffondere in mezzo al popolo i principi di una religione. Maometto insegnava che vi è un dio unico, Allàh, il quale dopo aver inviato come suoi profeti Abramo, Mosè e Gesù, suscitava ora il suo ultimo e più grande profeta, Maometto: “Allàh è il solo dio e Maometto è il suo profeta”. “Gli uomini di fronte ad Allàh sono tutti uguali” diceva Maometto “come i denti di un pettine”. Chi crede in Allàh si abbandona interamente al suo volere, perchè sa che egli nella sua sapienza ha fissato per ciascun uomo un destino, che nulla può mutare. Questa fede cieca, o abbandono in Allàh, si chiama Islàm, e Islamici o Musulmani si chiamano coloro che la professano. Ad essi è riservato il paradiso, un meraviglioso giardino pieno di delizie, per meritarsi il quale adempiere i doveri religiosi, che sono: la preghiera, cinque volte al giorno, quando il muezzin, affacciato al minareto ne grida il segnale; il digiuno, dall’alba al tramonto, nel mese di Ramadàn (febbraio); l’elemosina, che il ricco deve al povero; il pellegrinaggio alla Mecca, almeno una volta nella vita; la guerra santa contro gli infedeli. Le dottrine di Maometto furono raccolte dai discepoli in un libro sacro: il Corano.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture La guerra santa
La guerra santa predicata da Maometto trasformò rapidamente quel piccolo popolo di nomadi in un grande popolo di guerrieri e di conquistatori. Sotto la guida dei califfi, gli Arabi dilagarono in Mesopotamia e in Persia, poi in Palestina, in Siria e in Egitto. Nel 711 i Musulmani conquistarono la Spagna, passarono quindi i Pirenei, invadendo la Gallia; ma nel 732 furono respinti da Carlo Martello, generale dei Franchi. Non perciò si arrestarono le conquiste arabe nel Mediterraneo: nei primi anni dell’800, la Sicilia e le altre isole italiane erano in potere degli Arabi: il Mediterraneo divenne un mare arabo. Palermo fu allora una delle principali città d’Europa per ricchezza di monumenti e per numero di abitanti. La Sicilia, dopo i tempi floridi di Siracusa e delle colonie greche, aveva sofferto per la rapacità dei governatori romani; si era un poco sollevata nei primi due secoli dell’Impero, per ricadere poi nelle più tristi condizioni per le invasioni dei barbari e per il pessimo governo dei Bizantini. Caduta in dominio degli Arabi, rifiorì a nuova vita; le sue campagne furono allora assai ben coltivate: le industrie, i commerci, le arti prosperarono. La Sicilia raccolse e sviluppò tanta parte di civiltà degli Arabi, la diffuse nei paesi bagnati dal Mediterraneo e, prima che altrove, in Italia.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Per il lavoro di ricerca
Descrivi in paese dell’Arabia e le condizioni dei suoi abitanti prima di Maometto. Che cos’è la Kaaba? Quando visse Maometto? Che importanza ha per gli Arabi l’Egira? In quale libro è contenuta la dottrina di Maometto? Qual è il principio fondamentale della dottrina di Maometto? Perchè gli Arabi giudicarono santa la guerra? Chi erano i Califfi? Quali terre conquistarono gli Arabi in Occidente e in Oriente? Quando giunsero vittoriosi nella Spagna e chi sconfissero? Come governarono gli Arabi in Sicilia? Quale contributo diete all’agricoltura la conquista araba? Quali furono le città più ricche degli Arabi? Quali furono le scienze da loro più coltivate?
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Ritratto di Maometto
Maometto era un uomo dignitoso e raramente rideva. Di costituzione delicata, era nervoso, impressionabile, propenso alla meditazione melanconica. Nei momenti di eccitazione o di rabbia le vene del viso gli si gonfiavano pericolosamente, ma egli sapeva reprimere le proprie passioni e poteva facilmente perdonare a un nemico vinto e pentito… Era un uomo semplice e senza pretese. Gli appartamenti in cui successivamente dimorò erano casette di mattoni non cotti, con tetti di rami di palma; la porta era riparata da una tenda di pelo di capra o di cammello; l’arredamento consisteva in un materasso e alcuni cuscini sul pavimento. Fu visto spesso rammendare i propri vestiti o aggiustarsi le scarpe, accendere il fuoco, scopare il pavimento, mungere la capra in cortile e fare acquisti al mercato. Si cibava di datteri e di pane di orzo, raramente si concedeva il lusso di gustare latte o miele, e dava per primo l’esempio di astenersi dal vino. Cortese con i potenti, affabile con gli umili, indulgente verso i suoi aiutanti, gentili con tutti eccetto che con i nemici. Visitava i malati e si univa a ogni funerale che incontrasse per via. Non amava dimostrazioni di magnificenza e di grandezza. Non richiedeva il lavoro di schiavi quando aveva tempo e forza per fare da solo. Spendeva poco per la famiglia, ancor meno per sé, molto in opere di carità. (W. Durant)
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Maometto e l’Islamismo
Maometto affermava l’esistenza di un dio solo, e voleva che tutti gli idoli fossero distrutti; i sacerdoti e i ricchi mercanti della Mecca suscitarono contro di lui una tale agitazione, che dovette fuggire e rifugiarsi a Yatrib, detta poi Medina (“Città del Profeta”). Ciò avvenne l’anno 622. Questa fuga (in arabo Egira) è considerata dagli Arabi l’inizio di una nuova era. Perciò essi cominciarono a contare gli anni dal 622, che è l’anno primo della loro era. La dottrina maomettana è contenuta nel Corano, che potrebbe definirsi la Bibbia dei Musulmani, e deriva in parte dai Giudaismo e dal Cristianesimo adattati alla natura del popolo arabo. Il principio fondamentale di questa dottrina è l’esistenza di un dio solo, Allah, il quale ha già rivelato la sua legge per mezzo di Mosè e di Gesù, ed ora la rivela in modo più perfetto per mezzo di Maometto, dopo il quale non apparirà più alcun profeta. I fedeli devono obbedire ciecamente ad Allah, accettare con rassegnazione la sua volontà, annullando la propria: tutto è da Allah ineluttabilmente prestabilito. Questo abbandono alla volontà di dio si dice con parola araba Islam. Perciò Islamismo si disse la dottrina di Maometto; islamici o musulmani sono i suoi seguaci. Il paradiso è immaginato come un luogo di godimenti e di piaceri materiali, in forma di giardino, posto sulla vetta di un monte, irrorato da fresche fontane. I dannati piombano invece nell’abisso pieno di fiamme. E’ un dovere degli Arabi convertire alla vera fede di Allah gli infedeli, soprattutto gli idolatri; se gli infedeli resistono si devono sterminare con le armi. Chi cade nella guerra santa è sicuro del paradiso. Questo miraggio, unito al fanatismo religioso, trasformò gli Arabi, da povero popolo di pastori nomadi e contadini, in conquistatori. Il Corano prescrive minutamente i doveri del credente; quali: l’abluzione, la preghiera da farsi cinque volte al giorno a un segnale dato dal muezzin; il digiuno nel mese del Ramadan; il pellegrinaggio, almeno una volta nella vita, ai luoghi santi, ecc…
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Norme del Corano
Oriente e Occidente sono di Allah. Il Signore è ovunque volgete l’occhio e riempie l’universo con la sua sapienza ed infinità. L’esistenza dei cieli e della terra, della notte e del giorno che si succedono, della nave che corre sui nari a vantaggio degli uomini, della pioggia che scende dalle nubi e vivifica la terra, degli animali che popolano la superficie terrestre, dei venti che spirano or di qua or di là, delle nuvole erranti tra terra e cielo, tutto ciò è il segno della potenza dell’Altissimo anche davanti agli occhi degli ignoranti. Nel giorno del giudizio finale tutti i visi degli uomini saranno o bui o risplendenti. I rinnegatori della fede avranno il viso coperto di tenebra e Allah dirà loro : “Andate in preda alle fiamme, giacché siete stati apostati”. Invece, quelli il cui viso risplenderà, proveranno la divina bontà e di essa avranno eterno gioire. Il Signore vi ordina di giudicare con giustizia i vostri simili. Obbeditegli, perché egli tutto vede e tutto sa. Oh credenti, siate cauti nel giudicare; talvolta il giudizio è ingiusto. Frenate la vostra curiosità; non lacerate la reputazione degli assenti. Allah è autore di ogni bene che ti giunga. Tu sei l’autore del male che ti giunge. Chi obbedisce al Profeta, obbedisce al Allah. Anche il verme più vile è creatura di Dio, nutrita da lui; Dio conosce il suo rifugio e dove dovrà morire. La terra presenta ad ogni passo un quadro sempre più vario, qui giardini con vigneti e legumi, là palme, ora solitarie ora in boschetti. La stessa acqua irriga tutti i frutti, ma il suo sapore è diverso. Ecco come Dio dà la prova della sua potenza a quelli che comprendono. La spada è la chiave del cielo e dell’inferno; una goccia di sangue versato per la causa di Dio, una notte sotto le armi, avranno maggior valore che due mesi di digiuno e di preghiera. Colui che morrà in battaglia, otterrà il perdono dei peccati, nell’ultimo giorno le sue ferite saranno rosse come il vermiglio, profumate come il muschio, ed ali d’argento e di cherubino terranno il posto delle membra che avrà perdute.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture I successori di Maometto e le loro grandi conquiste
Raccolto a Medina un nucleo di fedeli, Maometto potè rientrare trionfalmente alla Mecca nel 630, dopo aver sanguinosamente vinto i suoi avversari. Cominciava la guerra santa. Quando il Profeta morì (632), quasi tutta l’Arabia era convertita all’Islamismo e le tribù, prima divise, formavano un saldo organismo politico, militare e religioso. I suoi successori si chiamarono Califfi; i primi furono elettivi, poi si fondò una dinastia. La marcia degli Arabi si sviluppò in due direzioni: ad occidente, verso l’Africa mediterranea; a nord e a oriente, verso la Siria, l’Asia Minore e il Regno di Persia. Essa fu favorita dalla debolezza in cui si trovavano allora i due stati vicini: l’Impero d’Oriente e il Regno di Persia. Il primo perdette parte dei territori, il secondo si sfasciò. Conquistata tutta l’Africa mediterranea, l’anno 711 gli Arabi varcarono lo stretto che la separa dalla Spagna e che, dal nome del loro condottiero, fu chiamato Gibilterra (Gebel-el-Tarik, cioè monte di Tarik), cozzando contro il regno dei Visigoti. In due anni questo crollò: i Visigoti superstiti ripararono nelle Asturie, una regione montagnosa lungo la costa settentrionale della penisola iberica. Né l’impervia catena dei Pirenei arrestò la formidabile espansione degli Arabi, che irruppero in Francia. Ma un valoroso duca franco, maggiordomo del re, Carlo Martello, li sconfisse a Poitiers (732), ricacciandoli al di là dei Pirenei. Nel giro di un secolo, dopo la morte del Profeta, gli Arabi avevano costituito un immenso impero che dall’India si estendeva fino alle coste dell’Atlantico, dai Pirenei al Mar Nero e dal lago d’Aral giungeva fino al deserto del Sahara e all’oceano indiano. In Asia, il loro dominio confinava col grande impero cinese.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture La civiltà araba: agricoltura, commercio, industria
Nei primi tempi della loro espansione, gli Arabi recarono gravi danni alle civiltà conquistate, perchè saccheggiarono e distrussero opere utili ed opere artistiche. Si deve a loro la distruzione completa della Biblioteca di Alessandria. Ma ben presto essi sentirono interesse ed ammirazione per le civiltà dei popoli con cui erano venuti il contatto, e le assorbirono apportandovi anche originali contributi. Agricoltura, industria e commercio fiorirono rapidamente in tutti i paesi conquistati, promuovendone la ricchezza. Nuove piante furono introdotte e diffuse nel bacino del Mediterraneo, come l’arancio, la palma, l’albicocco, il cedro, il carciofo, l’asparago, lo zafferano, il riso, il cotone, ecc… Sistemi ingegnosi di irrigazione furono attuati in Spagna meridionale e nella Sicilia, che diventò allora un giardino fiorente; ancora restano celebri avanzi di pozzi, acquedotti, bacini. Nelle regioni d’Oriente gli Arabi appresero la fabbricazione di eleganti tessuti, la lavorazione del cuoio, dei metalli, del vetro, dell’avorio e del legno. Le armi di Damasco e di Toledo, i leggeri tessuti di Mosul (mussoline), le sete, i broccati, i tappeti di Damasco, il cuoio del Marocco, i mobili intarsiati in avorio, le vetrerie, i vasi, le lampade di Baghdad e di Cordova costituirono i più raffinati prodotti al mondo tra l’VII e il XII secolo. Tutta questa produzione industriale era alimentata dalla facilità degli scambi. Provvisto di porti numerosi, dotato di una flotta potente e di antiche e regolari vie carovaniere, l’Impero arabo era intermediario tra l’Occidente e l’Estremo Oriente. Molte parole della nostra lingua, che riguardano la navigazione ed il commercio, sono derivate dall’arabo (arsenale, ammiraglio, fondaco, dogana, magazzino, ecc…). Mentre nell’Europa cristiana le maggiori città andavano decadendo e la vita economica si restringeva nelle curtis, gli Arabi crearono ovunque nuove città o impressero una floridezza nuova a quelle già esistenti.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture La ricchezza degli Arabi poveri
Gli Arabi poveri raramente erano tanto poveri da non possedere nemmeno questa semplice ricchezza: un cammello o, meglio un dromedario. Esso dava loro nutrimento, con la sua carne, il latte e i prodotti che da questo ne ricavavano. Il suo pelo serviva per la tessitura delle tende e delle vesti. Persino il suo sterco veniva raccolto e usato come eccellente combustibile. Il cammello era prezioso come mezzo di trasporto. Alla resistenza dell’animale, alla sua sobrietà, che lo fa star contento delle erbe della steppa, e che gli permette di star giorni interi senza bere, si deve se le grandi distese desertiche non sono state per i beduini un ostacolo insormontabile e se essi hanno potuto regolarmente varcarle con le loro carovane, con gli eserciti, con conseguenze di grande portata per la storia politica, economica e culturale. (M. Guidi)
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture I musulmani e la schiavitù
Tra i musulmani la schiavitù era abbastanza diffusa, limitatamente però ai lavori domestici: gli Arabi non avevano grandi proprietà terriere in cui occorresse il lavoro degli schiavi. La religione considerava atto di pietà la liberazione di uno schiavo musulmano; considerava un dovere, invece, la riduzione in schiavitù dei nemici. La dura sorte di venir venduti come schiavi toccò, così, anche a molti europei, catturati in battaglia, o durante le scorrerie degli Arabi lungo le coste, o in seguito alle imprese dei pirati arabi che molestavano il traffico delle navi degli “infedeli” nel Mediterraneo. Se i prigionieri erano di buona famiglia, ed esisteva la speranza di un buon riscatto, anziché venduti sui mercati erano restituiti alle famiglie dietro pagamento di una grossa taglia. C’è da dire che i padroni arabi non erano duri con gli schiavi. I più colti praticavano la virtù della misericordia, raccomandata dal Corano, anche nei loro confronti. Quando poi, in Spagna, gli Arabi vennero sconfitti dalle forze della nascente potenza spagnola, toccò a loro essere venduti come schiavi, dove venivano adibiti ai servizi domestici. Molti villaggi, in Liguria, sono sorti in cima alle colline proprio per essere al riparo dalle scorrerie arabe.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture La cultura araba
Magnifico sviluppo ebbe l’architettura, dalle linee armoniose e dalla ricchissima colorazione policroma. I più bei monumenti sono: il palazzo dell’Alhambra a Granata e l’Alcazar a Siviglia. Non ebbe invece grande sviluppo la pittura per il divieto, posto da Maometto, di rappresentare dio in figura umana, allo scopo di impedire il ritorno degli Arabi all’idolatria: in compenso fiorì l’arte decorativa col bizzarro, caratteristico stile degli arabeschi. Tra le opere letterarie, celebre è la raccolta di novelle “Le mille e una notte”. Nel campo delle scienze, partendo dalle conquiste dei Greci e dei popoli orientali, gli Arabi fecero molti progressi: crearono l’algebra, diedero nuova forma al calcolo con l’uso delle cifre arabiche, introdussero lo zero, posero le basi della chimica moderna; la geografia, l’astronomia, la medicina e la chirurgia ebbero da loro contributi nuovi. Ma la civiltà araba, dopo aver raggiunto il suo massimo sviluppo tra il X e il XII secolo, si arrestò e decadde.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Le mille e una notte
Le mille e una notte sono una raccolta di fiabe e novelle arabe famose in tutto il mondo. La cornice favolosa è data dalla leggenda della principessa Sheherazade, che per mille e una notte intrattenne il Sultano con i suoi racconti, ottenendo dalla sua curiosità il continuo rinvio della morte cui era condannata. Al termine dei racconti, il Sultano si riconcilia con lei, ritira la condanna e dà una grande festa. Il libro è pieno di magie, stregonerie, trasformazioni di uomini in animali e viceversa, strumenti fatati (la lampada di Aladino, il tappeto volante e così via). Ma è anche ricchissimo di descrizioni della vita araba nella splendida capitale e nella reggia di Baghdad o nei vicoli del Cairo, dove si aggira una folla pittoresca di facchini, comari, artigiani, mariuoli, avventurieri. Negli straordinari viaggi del marinaio Sindbad rivive l’epopea di qualche Ulisse arabo nei mari d’Oriente. Principi, mercanti, navigatori, studiosi, poeti, uomini del popolo sono i personaggi di una commedia umana che ha per noi il valore di un grande documentario dei costumi e della mentalità degli Arabi nel periodo di maggior splendore della loro civiltà.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Le armi degli Arabi
Le spade caratteristiche degli Arabi erano ricurve: spesso le lame erano finemente lavorate con intarsi d’oro e d’argento e i foderi erano ornati di pietre preziose. I soldati erano armati poi di giavellotto e di lunghe lance orante di criniere di cavallo, e portavano uno scudo piuttosto piccolo. Usavano un elmo con nasale e gorgiera di maglia di ferro per riparare il collo e il naso. Gli uomini indossavano il Kaftan, cioè un ampio mantello di lana e portavano lunghe braghe, strette alle caviglie. Si coprivano il capo con il turbante.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture L’incendio della biblioteca di Alessandria d’Egitto
Amru, generale del califfo Omar, conquistò l’Egitto. Entrato in Alessandria, dove ancora esisteva al famosa biblioteca, in cui i Tolomei avevano raccolto tutte le opere dei Greci antichi, Amru, che stimava le scienze e il letterati, fece amicizia con un dotto greco, di nome Giovanni. Si narra che questi volesse approfittare dell’amicizia che aveva con lui per salvare la biblioteca di Alessandria, ricca di ben 600.000 volumi e lo supplicasse di conservarla. “Io non posso rispondere di nulla ” disse Amru “senza aver ottenuta l’approvazione dell’imperatore dei fedeli”. Ne scrive pertanto al califfo, il quale gli dà questa risposta: “Se i libri di cui parli non contengono ciò che è nel libro di dio, essi sono inutili, falli bruciare; se non si accordano, essi sono dannosi, falli bruciare”. Amru a malincuore obbedì scrupolosamente all’ordine del califfo. (Manaresi)
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture I pirati arabi distruggono un’abbazia
I monaci benedettini di Montecassino e di San Vincenzo al Volturno si incontravano spesso per feste religiose. In una di queste, che aveva raccolto il popolo delle due badie, avvenne un tremendo massacro. Assaliti dalle orde dei Saraceni che erano risaliti dal litorale di Castel Volturno, furono asserragliati, massacrati e sgozzati; massacro di un esercito inerme preso al laccio dal nemico in una gola di monti senza scampo. La basilica, le chiese furono depredate e incendiate, con grande lutto per la fede e per l’arte. Una traccia resta ancora nell’oratorio di San Lorenzo, unica chiesa superstite ma non indenne.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Gli Arabi in Sicilia
La Sicilia, passata dal governo tirannico di Bisanzio a quello più illuminato degli Arabi, fece enormi progressi intellettuali ed economici, i cui benefici effetti si risentirono con le altre dominazioni. Gli Arabi, bravi agricoltori, curarono i boschi, i corsi d’acqua, la piantagione di alberi fruttiferi, la coltivazione delle ortaglie e del cotone, introdussero in Sicilia la coltivazione della canna da zucchero e degli agrumi, oggi grande ricchezza dell’isola. Divisero le grandi estensioni di terreno in tante piccole proprietà. Palermo divenne, assieme ad altre, una bella, popolosa, ricca città.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Parole arabe in italiano
Molto spesso, parlando di qualche cosa, noi usiamo, senza saperlo, parole che sono state introdotte nella nostra lingua da un grande popolo del passato: gli Arabi. Zucchero, per esempio, è una parola di derivazione araba, come arabe sono le parole cotone, magazzino, almanacco, ammiraglio, albicocca, denaro, divano, materasso e molte altre. Queste stesse parole sono presenti anche in altre lingue europee. Per esempio, dalla parola araba sukkar deriva l’italiano zucchero, lo spagnolo azucar, il francese sucre , l’inglese sugar, il tedesco zucker.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture I cavalli, orgoglio degli Arabi
Gli Arabi non avevano grandi mandrie di bovini, ma pecore e cammelli, asini e cavalli. I cavalli erano il loro orgoglio, animali svelti, alti e ben proporzionati, di temperamento nervoso e velocissimi. I migliori provenivano dall’altopiano di Nedshd; e in tutto l’Oriente erano considerati il più nobile prodotto della natura; in realtà erano il risultato di un accurato allevamento. Il cavalo ebbe fin dall’inizio una notevole importanza nella storia e nelle leggende dell’Islam. Lo stesso Maometto, che non era un beduino, ma un cittadino, fin dalla prima giovinezza aveva avuto gran confidenza con gli animali. Da bambino aveva accompagnato suo zio in un viaggio in Siria, e più tardi guidò egli stesso carovane di mercanti attraverso il deserto, al servizio di una ricca vedova attempata che possedeva alla Mecca un’impresa di trasporti e che poi divenne sua moglie. Probabilmente faceva i suoi viaggi di affari su di un cammello, o su un asino, ma quando diventò conquistatore, e si coprì di gloria, ebbe un focoso destriero, anche per le sue missioni spirituali. I suoi fedeli raccontano che sul suo cavallo miracoloso, Barak, guidato dall’arcangelo Gabriele cavalcò nella santa notte dalla Mecca al Tempio di Gerusalemme e di là salì in cielo. Presso la rupe dalla quale il cavallo aveva spiccato il volo verso il cielo, il secondo califfo Omar al-Khattab, al posto del Tempio di Salomone fece erigere la grandiosa moschea che porta il suo nome. Ciò nonostante, Omar fece il suo ingresso a Gerusalemme come semplice beduino, su un cammello che portava un sacco di biada, un altro di datteri e una borsa di cuoio con acqua da bere. I successi militari degli Arabi sconfinavano nel prodigioso. Con piccole squadre di cavalieri sottomisero i più grandi regni. I Persiani cercarono di trattenerli con un considerevole corpo di elefanti, ma dopo una lotta durata tre giorni, la battaglia degli elefanti di Kadesia si risolse a favore dei lancieri arabi; trecento arabi e settemila berberi presero la Spagna; solo a Poitiers, nel centro della Francia, la cavalleria araba fu bloccata per la prima volta. (Morus)
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Il grande viaggio
La morte non atterriva gli Arabi, perchè essi sapevano che nell’aldilà esiste un dio giusto che premia chi ha vissuto con fede e ha sempre compiuto il bene. Perciò, quando un Arabo doveva intraprendere un lungo viaggio, metteva nel suo bagaglio anche il lenzuolo candido che avrebbe fatto da sudario. Durante il cammino, se l’Arabo si sentiva male e comprendeva che non aveva ormai più molto da vivere, avvertiva i compagni e si faceva dare un’ultima fiasca d’acqua. Poi si allontanava in solitudine. Scavava la sua fossa, con l’acqua faceva le ultime abluzioni rituali, recitava le preghiere e infine si sdraiava serenamente nella buca, in attesa della morte. Non si preoccupava per la sepoltura: avrebbe pensato il vento del deserto ad accumulare in poche ore la sabbia sulla sua fossa.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Inferno e paradiso Certamente noi preparammo ai cattivi il fuoco che li circonderà di un turbine di fumo, e, se chiederanno aiuto, avranno acqua che brucerà loro la faccia come se fosse rame fuso. Ma a quelli che avranno invece creduto e operato con rettitudine, non lasceremo mancare il premio dei giusti. Avranno i giardini del Paradiso, saranno adorni di bracciali d’oro e vestiti di abiti verdi di seta preziosa intessuta d’oro e di una sopravveste splendente.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Dal Corano
Dio ha creato per voi il bestiame; esso vi dà calore e profitto, vi dà nutrimento. La sera quando le bestie tornano alla stalla, la mattina quando vanno al pascolo, sono per voi uno spettacolo bello da vedere. Trasportano i vostri carichi a paesi che non raggiungereste senza affanno e fatica, poichè il Vostro Signore è buono e pietoso. Egli ha creato cavalli, muli ed asini per cavalcatura e per ornamento, e altre cose che non conoscete neppure. A Dio appartiene quanto è nei cieli e sulla terra: Egli è colui che basta a se stesso… e se tutti gli alberi della terra fossero penne, ed al mare fossero aggiunti sette mari, tutti d’inchiostro, non si esaurirebbero scrivendo le parole di Dio. Certo Egli è potente e saggio…
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture La Sicilia sotto gli Arabi
La Sicilia fu governata da un Emiro (Balì) che dipendeva giuridicamente dall’Emiro di Kairouan, ma che, eccezion fatta per l’interpretazione dei dogmi, esercitava un governo assoluto. Palermo fu la capitale del nuovo stato. Dall’Emiro dipendevano i Cadì, che amministravano le città importanti, e funzionari minori. Dopo gli atti violenti della conquista, gli Arabi divennero miti, e il loro governo fu tutt’altro che gravoso. L’isola fu divisa in tre province o valli: Mazara (anche oggi, Mazara del Vallo), Demone e Noto. In generale, Val Demone (Sicilia nord orientale) formata dalle catene dei Peloritani e dei Nebrodi e dall’Etna, tutta aspre valli ed impervie montagne, rimase indipendente di fatto, con municipalità locali; Val di Noto (Sicilia sud orientale) fu resa tributaria; a Sicilia centrale e occidentale, Val di Mazara, era veramente suddita. I beni ecclesiastici e demaniali vennero confiscati dal governo musulmano, ma i cittadini, pur perdendo ogni autorità politica, continuavano a vivere secondo le proprie leggi e costumi, godevano pienamente il diritto di proprietà, potevano praticare la loro religione. La legge musulmana proteggeva le persone e gli averi con le medesime sanzioni penali per i musulmani, e ammetteva ogni contrattazione civile tra loro e i dominatori, anche i lasciti per testamento. Tutti gli uomini liberi, di qualsiasi grado, erano davanti ai vincitori ragguagliati in un’unica condizione, detta dsimma. I dsimmi (sudditi o umiliati) erano sottoposti a vari divieti: non potevano portare armi né andare a cavallo, né bere vino in pubblico, né celebrare pompe funebri; la loro condizione di inferiorità, indicata esteriormente con un segno sulla porta di casa e sul vestito, si rivelava dall’obbligo di cedere per strada il passo ai musulmani e di alzarsi nei ritrovi quando entrava un musulmano. In complesso, al condizione fatta dagli Arabi ai vinti non fu eccessivamente gravosa. Per questo e per l’odio verso l’antico dominate bizantino, i Siciliani non si ribellarono e la signoria araba si consolidò; occorrerà una forza proveniente dall’esterno, i Normanni, per abbatterla. La Sicilia sotto i Musulmani fiorì di commerci e di industrie. Come Cordova, in Spagna, Palermo fu uno dei centri principali della civiltà araba: nel secolo X contava circa 300.000 abitanti ed era ricca e festosa. Con essa gareggiavano Catania, Messina, Siracusa, Castrogiovanni. L’agricoltura fu favorita dallo spezzettamento del latifondo: molte grandi proprietà del dominio bizantino o della Chiesa, confiscate dal governo musulmano, furono in parte divise tra i conquistatori, in parte date in affitto o in enfiteusi. Maometto aveva stabilito che chiunque rendesse una vita alla terra incolta, ne divenisse proprietario. Questo favorì il dissodamento e la coltura intensiva di terre abbandonate. Gli Arabi introdussero nell’isola piante e metodi di coltura che avevano appreso in Oriente: agrumi, fichi d’India, palme da dattero, gelso, cotone, canna da zucchero, ecc., e seppero regolare il corso dei fiumi con sapienti lavori idraulici. La lingua e la cultura indigena non vennero soffocate, anzi valorizzate e arricchite dalla cultura greco orientale, di cui gli Arabi furono mediatori.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture La tecnica araba
Gli Arabi furono i primi ad iniziare un’applicazione più sistematica della ruota ad acqua e del mulino a vento. Mentre nel mondo classico la ruota ad acqua non ebbe mai un’importanza particolare, gli Arabi ne fecero una delle loro principali risorse. In Mesopotamia essi adottarono una ruota a pale galleggianti su chiatte ancorate alle rive del Tigri, per dare energia ai mulini, alle fabbriche di carta e ad altri macchinari, dove fecero grande uso di ruote dentate di legno e di altri congegni di trasmissione dell’energia. Riferisce un antico storico che “… nell’Afghanistan tutti i mulini a vento sono mossi dal vento del nord e quindi orientati in questa direzione. Applicate ai mulini a vento vi sono delle file di persiane che vengono chiuse o aperte per trattenere o immettere il vento. Infatti, se questo è troppo forte, la farina brucia e diventa nera e la stessa macina può surriscaldarsi e guastarsi.” Questo nuovo modello di mulino a vento è dovuto agli Arabi. Nell’epoca d’oro della civiltà islamica (900-1.000) una serie di scienziati fece progredire la tecnica chimica studiando attentamente sostanze organiche e inorganiche, grazie allo sviluppo di strumenti scientifici. Lo scienziato arabo Al-Biruni usò il suo picnometro per determinare il peso specifico di molti minerali e pietre preziose. Uno degli strumenti maggiormente diffusi nel mondo arabo fu l’astrolabio. Risale certamente a Tolomeo e ad altri astronomi ellenistici, ma gli Arabi lo perfezionarono fino a farne uno strumento utile e di impiego universale per la misurazione degli angoli e il calcolo delle posizioni dei corpi celesti. Gli Arabi furono anche famosi per l’arte del vasellame e specialmente per gli smalti lucenti e colorati applicati alle terraglie. Quei recipienti smaltati, molti dei quali a prova di fuoco, erano particolarmente adatti agli esperimenti tecnici. Il miglioramento della qualità del vasellame aiutò grandemente i chimici arabi ad intraprendere una produzione su larga scala di certi prodotti chimici. Essi inventarono i forni cilindrici o conici, in cui venivano poste file di alambicchi per la produzione di acqua di rose o di nafta (benzina) per la combustione dei gas. Nel 1085 un incendio nella cittadella del Cairo distrusse non meno di 300 tonnellate di benzina. La produzione di quantitativi così ingenti era possibile soltanto con il suddetto metodo. Città come Damasco erano, secondo testi antichi, centri di produzione e distillazione. Gli Arabi si interessarono anche alla produzione di tessili. Come certi nomi di sostanze e apparecchi chimici (quali alcali, antimonio, alambicco), passarono dalla lingua araba alla nostra, anche molti nomi arabi di tessuti furono adottati da noi. Così il damasco, ad esempio, deriva originariamente da Damasco, e la mussola da Mosul, mentre la parola taffetà deriva dal persiano taftah e il fustagno, una stoffa famosa nel Medioevo, da Fostat, un sobborgo del Cairo. Il sorgere di un’industria araba della carta fu dovuto ai contatti con la Cina. Nel 793 sorgeva a Baghdad la prima cartiera. Ben presto l’uso della carta divenne così diffuso, che intorno all’800 troviamo scrivani che si scusavano se per stendere le lettere dovevano ricorrere ancora al papiro. Verso il 900 si introdussero a Baghdad formati standard di carta e se ne fabbricarono qualità assai leggere, che servivano per la posta aerea di allora, cioè il servizio dei piccioni viaggiatori. L’industria della carta era strettamente connessa con quella della legatura dei libri, nella quale eccellevano gli Arabi. Essi facevano bellissime copertine di cuoio lavorato a mano e decorato d’oro. Gli Arabi per primi escogitarono un procedimento di raffinazione dello zucchero, e speciali procedimenti per l’estrazione dei profumi dai fiori. E’ di quei tempi l’introduzione su larga scala delle armi chimiche.
ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture Il Corano
La dottrina di Maometto è contenuta nel Corano. Corano (“lettura, recitazione”) è l’insieme delle recitazioni pronunciate da Maometto come profeta che si riteneva ispirato dalla rivelazione divina, le quali, raccolte dai suoi ascoltatori, vennero riunite dopo la sua morte. Il Corano è completato dalla Sunna, ossia dalla condotta pratica del Profeta, come risulta dai sui detti e atti tramandati dalla tradizione. Il dogma musulmano è assai semplice. L’unità e l’onnipotenza di Dio (Allah), la vita futura con pene e ricompense, la missione divina di Maometto: questi sono gli articoli di fede. Allah comunica con gli uomini mediante la rivelazione, trasmessa per mezzo dei profeti: ogni popolo ha il suo profeta, ogni epoca il suo libro sacro. Tra i grandi profeti che hanno preceduto Maometto è Gesù: Maometto, l’ultimo venuto tra i profeti, è il profeta per eccellenza, ha apportato la rivelazione definitiva. Dopo la morte l’uomo deve rendere conto delle sue azioni: i reprobi e gli infedeli verranno precipitati nella Gehenna, ove saranno tormentati; ai veri credenti, ai giusti è invece riservato il paradiso, le cui delizie saranno eterne. Per meritare le gioie del paradiso l’uomo deve avere fede e sottomissione assoluta ad Allah, non deve mai rappresentarlo sotto forme visibili, deve obbedire alla sua legge, diffonderla per il mondo anche con le armi, compiere le pratiche essenziali del culto (preghiere, abluzioni, pellegrinaggi), fare elemosina. La carità è stretto obbligo per i Musulmani. La morale è intimamente legata alla religione: il Corano condanna l’avarizia, la menzogna, l’orgoglio, la malvagità; proibisce vino e gioco, i due vizi favoriti dagli Arabi, raccomanda la modestia, la castità, la rettitudine, la pazienza, l’umiltà, e soprattutto la carità. I credenti sono tutti fratelli: gli ebrei e i cristiani potranno, pagando tributo, professare la propria fede. Il Corano permette più mogli, ma la monogamia è considerata preferibile; proibisce l’infanticidio; protegge i deboli, gli orfani, gli schiavi. Si può quindi affermare che la legislazione del Corano abbia costituito per gli Arabi un effettivo progresso. Per il Musulmano il Corano è ciò che la Bibbia è per il popolo ebraico: il libro per eccellenza, che sta al di sopra di ogni altro libro per il suo carattere sacro. Quando vengono letti ad alta voce i versetti del Corano, tutti i presenti devono osservare un assoluto silenzio e nessuno può permettersi di bere o di fumare. In parecchi luoghi era consuetudine insegnare ai bambini inferiori ai dieci anni i 6.200 versetti a memoria, ridotti poi, nelle scuole di tipo più moderno , ad una scelta antologica che non affatichi tanto la memoria. L’unicità di dio è continuamente ribadita nel Corano: “Egli è Dio; non ci è altro Dio che Lui, conoscitore del visibile e dell’invisibile, il misericordioso, il compassionevole! Egli è Dio, non v’è altro Dio che Lui, il re, il santo, il pacificatore, il fedele, il custode, il potente, il dominatore, il grandissimo”. Ci sono versetti che esortano a confidare nella sapienza di Dio, che ha fini ben precisi da realizzare: “Non disperare dello Spirito di Dio”; “Non pensare che Dio sia immemore di coloro che commettono ingiustizie”. Anche nel Corano, come nella tradizione cristiana e presso altre religioni, si possono trovare espressioni quasi proverbiali che aiutano la gente modesta, a portare il peso del vivere con rassegnazione e con totale fiducia in Dio: “Dio non aggrava un’anima più di quanto essa non possa sopportare”; “Se la tentazione da parte di Satana ti inducesse al male, cerca rifugio in Dio che tutto ascolta e conosce”; “Nessuna anima porterà il peso di un’altra”. (L. Salvatorelli)
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La leggenda di Attila e Leone I in recita – Questa leggenda misteriosa nella sua semplicità, ha ispirato molti artisti che la hanno immortalata su tela e nel marmo: tra queste opere è celebre l’affresco di Raffaello in Vaticano.
La leggenda di Attila e Leone I in recita Scena I (In una piazza della città di Aquileia, assediata dagli Unni)
Personaggi: Primo cittadino Secondo cittadino Terzo cittadino Quarto cittadino Altri cittadini intorno
Primo cittadino: Amici! Cittadini! Conviene ancora resistere alle forza di Attila? Da settimane lottiamo contro la forza che ci serra, ma è inutile: la fine della nostra città è vicina. C’è una sola speranza di salvezza…
Secondo cittadino: Quale?
Primo cittadino: Quella riposta nelle trattative con Attila. Offriamo al re degli Unni la nostra amicizia. I barbari sono clementi quando sperano di avere una nuova amicizia.
Secondo cittadino: Di quale speranza vaneggi? Quale follia ti spinge a proporre tali trattative? Il re degli Unni non vuole parole, non vuole amici, e nemmeno traditori: desidera solo per i suoi nemici morte, rovina, fuoco.
Terzo cittadino: Il nome di Attila vuol dire ferro. Egli è di ferro. Soprattutto il suo cuore è di ferro.
Quarto cittadino: Attila è il flagello di dio. Dovunque le sue orde sono passate, è rimasta la desolazione. Donne, vecchi, fanciulli non sono risparmiati dalla sua ferocia. Se una speranza c’è, questa è riposta nella resistenza delle nostre mura e dei nostri petti.
Primo cittadino: Guardate lassù! Una cicogna sfugge dalla nostra città spingendo davanti a sé i suoi piccoli. Oh, potessi fare altrettanto io! Potessi mettere in salvo i miei figlioli!
La leggenda di Attila e Leone I in recita Scena II (E’ la visione della futura Venezia. La scena si svolge in una qualsiasi città del Veneto, dopo che Aquileia è caduta).
Personaggi: Primo cittadino Secondo cittadino Vescovo Altri cittadini
Primo cittadino: Amici! Una terribile notizia. Aquileia è caduta in mano degli Unni. La porta l’Italia è aperta al più crudele dei barbari.
Cittadini: Che facciamo? Decidiamo di resistere?
Primo cittadino: E’ inutile. Non abbiamo armi sufficienti e poi… da quando l’Italia consce il piede dei Barbari, la virtù romana è spenta!
Secondo cittadino: Ecco ciò che faremo: aspetteremo Attila ed i suoi Unni con le porte della città aperte, lo accoglieremo con onori, lo blandiremo con gli elogi. I barbari, quando ricevono buona accoglienza, entrano da una parte ed escono dall’altra.
Primo cittadino: E’ un consiglio vile e pericoloso!
Secondo cittadino: E che altro si può fare? Vorresti forse che le nostre case fossero bruciate, le nostre donne uccise, i nostri fanciulli rapiti?
Cittadini: Ha ragione!
Vescovo: Calma, figlioli! La paura del pericolo non vi mostra la via più chiara. Io, insieme con la benedizione di dio, sono pronto a darvi un consiglio.
Cittadini: Quale?
Vescovo: Lasciamo le nostre terre e trasferiamoci al di là del mare, sulle isole della laguna. Che Attila trovi le nostre città deserte. Che Attila trovi il silenzio. Là, sulle isole, non verrà. Là, sulle isole, noi costruiremo le nostre case.
Primo cittadino: Le nostre case! Forse vi troveremo la salvezza, ma non un solido avvenire. La terra è sabbiosa, il mare è minaccioso. Come costruire una nuova città?
Vescovo: Oh cittadini! Oh figlioli! Sulla sabbia, dove lavorino uomini animati da speranza e fiducia, possono sorgere case solide e serene. Ecco, io la vedo, la nostra nuova città. E’ tutta di marmo, si innalza al cielo con cupole e campanili, e si specchia nel mare. Il sole vi batte sopra radioso.
La leggenda di Attila e Leone I in recita Scena III (Nella tenda di Attila)
Personaggi: Attila Generale Servo
Generale: Oh re, quale cruccio ti rende inquieto?
Attila: Ho trovato città abbandonate, campagne silenziose e morte. Non questa Italia sognavo. Mi aspettavo un’Italia verde e ricca da saccheggiare con profitto.
Generale: Oh re, ma noi andiamo avanti!
Attila: Sì, andremo avanti, finché non troveremo…
Servo (entrando): Oh mio re, ambasciatori romani sono arrivati per parlarti.
Attila: Ambasciatori? Immagino quello che mi vogliono dire. Mi vorranno fermare, offrendomi denaro. Io lo rifiuterò! O forse mi offriranno il possesso di una provincia. Che sciocca proposta sarebbe! Perché dovrei accontentarmi di una provincia, quando posso prendermele tutte? (esce).
Generale: Sperano di fermare il nostro re, ma è inutile…
Servo: Non so.
Generale: Noi Unni continueremo la nostra marcia.
Servo: Non so.
Generale: Niente può resistere alla nostra furia.
Servo: Non so.
Generale: Ma che vuol dire questo “non so”?
Servo: Ecco, rientra il nostro re!
Attila (entrando): Ufficiale, ordina a tutti di tornare indietro!
Generale (meravigliato): Ma come?
Attila (sconvolto) Non sono chiaro? Con me si paga ogni discussione. Suvvia, torneremo indietro, lasceremo l’Italia!
La leggenda di Attila e Leone I in recita Scena IV (Nella tenda di Attila, lontano dall’Italia)
Personaggi: Attila Generale
Generale: Oh re, ora che i nostri eserciti sono rientrati nella steppa tranquilla, dimmi, se è possibile: perchè lasciasti improvvisamente l’Italia?
Attila: Quel giorno mi incontrai col papa Leone Magno. Fu lui che mi convinse di tornare indietro.
Generale: Perchè? Quante legioni aveva il papa?
Attila: Nessuna. Neppure un uomo armato!
Generale: E allora? Che accadde?
Attila: Dietro alla sua figura ho avuto la visione di una spada di fuoco. Io, che fin da bambino avevo adorato la forza materiale, capii quel giorno che esiste una potenza d’altro genere. Una potenza contro la quale è inutile afferrare le spade e preparare guerre. E sarà sempre inutile.
(Rodolfo Botticelli, adattamento da “Recitiamo la Storia”, editrice La Scuola 1967)
LA STORIA DELLE ORIGINI DELLA LINGUA INGLESE fa parte del quadro della QUARTA GRANDE LEZIONE Montessori. Per approfondire e accedere a tutto il materiale relativo vai qui:
La tendenza umana verso la comunicazione ha spinto le persone a creare il linguaggio, poi, nel corso del tempo, questi linguaggi si sono evoluti, riflettendo le idee delle persone ed il loro ambiente. Maria Montessori sostiene che per educare il potenziale umano è necessario che gli individui, nei primi anni di vita, vengano messi in relazione con gli esseri umani, e che provino gratitudine per tutti gli uomini e le donne che giorno dopo giorno hanno lavorato affinché noi potessimo vivere una vita più ricca e piena.
Il bambino può usare la sua fantasia per immaginare le persone che parlavano le lingue che hanno dato origine alla sua. Capire come la lingua italiana si è evoluta nel passato, e come continua a cambiare ancora oggi, si tradurrà nei bambini nella percezione dell’importanza di questa nostra lingua, e farà comprendere quanto sia positivo per i popoli entrare in contatto tra loro. La storia delle origini della lingua italiana deve essere presentata in relazione al concetto di mescolanza di culture, fornendo esempi di come la lingua italiana sia stata interessata da questa mescolanza. E’ un fenomeno che continua a verificarsi anche oggi. Lo stesso vale per la storia delle origini della lingua inglese, che pur essendo facoltativa, può essere molto interessante per i bambini, visto che studiano questa lingua a scuola e spesso entrano in contatto con essa nella vita quotidiana.
Una delle difficoltà che abbiamo nel presentare la storia della lingua inglese ai bambini più piccoli, è che dobbiamo fare riferimento alla storia inglese ed americana. C’è quindi la tendenza a saltare questa lezione. L’Inglese è una lingua che si è sviluppata col contributo di molti popoli, quindi ha molte diverse radici etimologiche. Noi vogliamo innanzitutto che i bambini comprendano che l’Inglese non è figlio di un solo genitore. Non sappiamo se in origine gli esseri umani parlassero una sola lingua, o più lingue. Possiamo solo immaginare come sia nato il linguaggio, ma non potremo mai saperlo con certezza. Prima della comparsa di documenti scritti, la storia della lingua può essere solo ipotizzata.
Anche per la storia delle origini della lingua inglese può essere utile utilizzare l’albero linguistico:
LA STORIA DELLE ORIGINI DELLA LINGUA INGLESE
QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI La storia delle origini della lingua inglese
L’Inglese è un amalgama di molte lingue. La lingua originaria, da cui si è sviluppato, è il proto-indoeuropeo, portato in Europa e Asia, a ondate successive, da tribù provenienti dalla Russia. Le tribù che raggiunsero l’Inghilterra, portando con sé la propria lingua, furono gli Angli, i Sassoni e gli Juti, provenienti dalle coste della Germania. Con queste invasioni, il territorio dell’isola si frammentò in diverse regioni: in alcune si parlava la lingua dei popoli originari, in altre la lingua dei conquistatori. Queste due lingue finirono col mescolarsi, e diedero vita alla lingua inglese, che si sviluppò nelle regioni centrali e nord-orientali, diventando la lingua letteraria dell’isola.
Quando le persone si muovevano, portavano con sé la propria cultura, la propria lingua, le proprie tradizioni, i propri canti e le proprie poesie. Il primo grande racconto inglese si chiamava Beowulf, e veniva tramandato di bocca in bocca, senza avere forma scritta. Raccontava la storia e le avventure di un personaggio chiamato appunto Beowulf. E’ stato trascritto soltanto in epoche recenti, in un dialetto sassone occidentale dell’Anglosassone (o Inglese Antico). Dovevano esisterne molte copie, ma l’unica ancora esistente si trova oggi al British Museum di Londra. L’Anglosassone è considerato il diretto antenato dell’Inglese.
Tuttavia, molti popoli di lingue diverse hanno contribuito alla formazione dell’Inglese che conosciamo.
Nel 597 Sant’Agostino si recò in Inghilterra come vescovo missionario, e fu il diretto responsabile della mescolanza tra Inglese e Latino. Ecco perché, guardando l’etimologia delle parole inglesi, troviamo molte radici latine.
Durante i secoli VIII, IX e X dC i territori furono interessati da invasioni di popoli provenienti dalla Scandinavia, così troviamo nell’Inglese anche molte radici scandinave, in particolare nei suffissi, ad esempio –by, che viene dalla parola “byre” che significa fattoria.
Nell’XI secolo ci fu l’invasione dei Normanni, che provenivano dalla Francia. I Normanni imposero la loro lingua, che veniva parlato nei tribunali e divenne la lingua dei ceti più elevati, mentre l’Inglese era parlato solo da popolo. In questo periodo il Francese era la lingua colta dell’Inghilterra. Anche a Corte si parlava Francese. Solo nel 1462, data molto importante per una ragione che se volete potrete ricercare da soli, il Parlamento tornò a parlare in Inglese, e salì al trono un Re di lingua inglese, così tornò ad essere la lingua più importante.
Il Francese, naturalmente, ha lasciato il segno, e nella lingua inglese ci sono molte radici, suffissi e prefissi che derivano da questa lingua.
Nel XVI secolo assistiamo ad un grande sviluppo delle scienze, e gli scienziati europei scelsero come lingua tecnica il Greco antico: i termini scientifici e tecnici provenivano dal Greco. Per questo nell’inglese troviamo oggi anche molte radici greche.
Per comprendere la varietà di etimologie dell’Inglese, è necessario quindi capire la Storia. Però si tratta di un lavoro molto utile per spiegare i fatti di questa lingua. Ad esempio un bambino si può chiedere perché parole che si pronunciano nello stesso modo (ad esempi son e sun), si scrivono in modo diverso. O perché le parole si scrivono in un modo e si pronunciano in un altro (ad esempio la parola love, che si pronuncia luv). Queste difficoltà ortografiche dell’Inglese risalgono al tempo degli scrivani normanni, che erano di lingua francese. Essi usavano uno stile di scrittura che prevedeva che, quando alcune lettere si trovavano l’una accanto all’altra (ad esempio U-M, oppure U-N)non era così facile dire quante gambe avessero le lettere una volta scritte insieme. Così essi cambiarono alcune di queste lettere nelle parole, ad esempio U-N divenne O-N. E siccome la parola figlio si usa di più, quando si scrive, della parola sole, adesso sole si scrive SUN e figlio si scrive SON. Quando in Inglese usiamo il pronome io (I) lo scriviamo sempre con la lettera maiuscola, mentre tutti gli altri pronomi vengono scritti in minuscolo: anche questo deriva dal fatto che i Normanni lo scrivevano in questo modo. Molte delle difficoltà che incontriamo nello scrivere le parole Inglesi oggi, poi, derivano direttamente da errori di trascrizione fatti dagli scrivani di lingua francese.
L’Inglese che parlavano i primi coloni, inoltre, non è l’Inglese che si parla ora in USA, ed è abbastanza diverso dall’Inglese che si parla oggi in Gran Bretagna, o in Australia. Infatti le lingue, dopo essersi diffuse, hanno continuato ad evolversi in modo indipendente. Probabilmente l’accento dell’Inglese-americano è più vicino a quello di shakespeariano dell’Inglese-britannico, e l’Inglese-britannico è più lontano dall’Inglese di Shakespeare dell’Inglese-americano. Ad esempio, nel British English il participio passato GOTTEN è diventato GOT nel XVII secolo, dopo che l’American English era già sviluppato, così mentre in Gran Bretagna GOTTEN non si usa più, in America è ancora usato.
LA STORIA DELLE ORIGINI DELLA LINGUA INGLESE
THE HISTORY OF THE ORIGINS OF THE ENGLISH LANGUAGE is part of the framework of the FOUR MONTESSORI COSMIC LESSON. To deepen and access to all related material go here: https://www.lapappadolce.net/.
The human tendency toward communication has prompted people to create the language, then, over time, these languages have evolved, reflecting the ideas of the people and their environment. Maria Montessori says that to educate the human potential it is necessary that the individuals, in the first years of life, are correlated with human beings, and that they feel gratitude to all the men and women who have worked day after day so that we can live a fuller and richer life. The story of spoken language is an abstracte study: charts of language families, migration maps an pictures of ancient people may help. The child can use his imagination to picture the people who spoke the languages that gave rise to his language. Understanding how the English language has evolved in the past, and how it continues to change even today, will result in children, in the perception of the importance of this our language, and will understand what is good for the people to get in touch with each other.
Every language has a history, and all languages change over time, sometimes veri slowly and sometimes very rapidly. The history of the origins of the English language must be presented in relation to the concept of mixing of cultures, providing examples of how the English language has been affected by this mixture. It is a phenomenon that continues to occur even today.
One of the difficulties we have in presenting the history of the English language for young children, is that we have to refer to the history of English and American.
So there is a tendency to skip this lesson. English is a language that has developed with the contribution of many people, so it has many different etymological roots. We want first of all that children understand that English is not the son of a single parent. Though a subtle point, we should make clear the difference between the movement of peoples and the spread of language. Populations may remain relatively stationary, while absorbing the culture of their far away trading partners or distant rulers.
We do not know if originally humans spoke one language, or multiple languages. We can only imagine how it is born the language, but we can never know for sure. Before the appearance of written documents, the history of the language can only be hypothesized.
Even in the history of the origins of the English language it may be helpful to use the linguistic family tree:
FOUR GREAT LESSON MONTESSORI THE HISTORY OF THE ORIGINS OF THE ENGLISH LANGUAGE
What language do we speak? English. There are many hundreds of languages spoken in the world. Why we speak English? It is a very long story…
English is an amalgamation of many languages. The original language, from which it developed, is the proto-Indo-European. Scientists think that all European, Indian and Iranian languages come from this one ancient language. Indo-Europeans lived in southeastern Europe about 6,000 years ago and then spread out into central Europe, Asia Minor, Iran, India ad finally to the Mediterranean and northen Europe
The English language come to us from Britain, but Britain was not always an Englis-speaking land. By about 500 bc the people of Britain were speaking a Celtic language. In 43 AD the Romans invaded Britain. Romans spoke and write Latin, and Latin became the language for government, business and education, but the common people continued to speak their Celtic dialects.
When Romans abandoned Brirain, new groups of warriors invaded. These people were Germanic-speaking tribes.
When people were moving, they brought with them their culture, their language, their traditions, their songs and their poems. The first major English tale was named Beowulf, and was handed down by word of mouth, without be in writing. He told the story and adventures of a character named precisely Beowulf. It was transcribed only in recent times, in a West Saxon dialect called Anglo-Saxon, the Old English. There had many copies of this, but the only still existing is now in the British Museum in London. The Anglo-Saxon is considered the direct ancestor of English (fonte Wikipedia).
However, many peoples of different languages have contributed to the formation of English we know.
In 597 St. Augustine went to England as a missionary bishop, and was directly responsible for the mix of English and Latin. That is why, looking at the etymology of English words, we find many Latin roots.
During the centuries VIII, IX and X AD the territories were affected by invasions of peoples from Scandinavia, so we find into English also many Scandinavian roots, particularly in the suffixes, for example-by, which comes from the word “byre” meaning farm.
In the eleventh century there was the invasion of the Normans, who came from France. The Normans imposed their language, which was spoken in the courts and became the language of the upper classes, while English was spoken only by people. In this period the French was the cultured language of England. Court also spoke French. Only in 1462, very important date for a reason that if you want you can look for yourself, Parliament returned to speak in English, and ascended the throne a King of English language, so it returned to be the most important language.
The French, of course, has left its mark, and in the English language there are a lot of roots, prefixes and suffixes that are derived from this language.
In the sixteenth century we are witnessing a great development of science, and European scientists chose as technical language the ancient Greek: the scientific and technical terms came from the Greek. For this reason we find in English today also many Greek roots.
To understand the variety of etymologies of English, so you need to understand the history. But it is a very useful work to explain the facts of this language.
For example, a child may wonder why words that are pronounced the same way (eg son and sun), are written differently. These difficulties of English spelling back to the time of the Norman scribes, who were French-speaking.
They used a writing style which provided that, when some letters were next to each other (for example U-M, or U-N) was not so easy to say how many legs had once written letters together. So they changed some of these letters in the words, for example UN became ON. And because the word son is used more, when you write, of the word sun, sun now he writes SUN and son writes SON.
When in English we use the pronoun I always write it with a capital letter, while all other pronouns are written in lower case: this comes from the fact that the Normans were writing it in this way.
Many of the difficulties we encounter in writing the English words today, then, are derived directly from errors of transcription made by the French-speaking scribes.
The English language spoken by the first settlers, is also not the English that we speak now in the US, and is quite different from English that is spoken today in Britain, or Australia, or Canada.
In fact, languagesafter having spread, have continued to evolve independently. Probably the American-English accent is closer to the Shakespearean accent than to the British-English and British English is farther from English of Shakespeare than it is American-English.
For example, in the British English the past participle gotten became GOT in the seventeenth century, after the the American English was already developed, so while in Britain gotten no longer used, in America it is still used. Most words ending in an unstressed -our in British English (e.g., colour, flavour, behaviour,harbour, honour, humour,labour, neighbour, rumour, splendour) end in -or in American English (color, flavor, behavior, harbor, honor, humor, labor,neighbor, rumor, splendor). Wherever the vowel is unreduced in pronunciation, e.g., contour, velour, paramour and troubadour the spelling is the same everywhere. For words ending -bre or -tre British spellings calibre, centre, fibre, goitre, litre, lustre, manoeuvre, meagre, metre, mitre, nitre, ochre, reconnoitre, sabre, saltpetre, sepulchre, sombre, spectre, theatre and titre but all have -er in American spelling. (fonte Wikipedia)
Anche per questo racconto può essere utile l’albero linguistico:
QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI LA STORIA DELLE ORIGINI DELLA LINGUA ITALIANA
Tutte le lingue europee, persiane e indiane appartengono ad un unico gruppo linguistico, che è chiamato Indo – Europeo. Questo perché derivano da una lingua originaria.
Gli studiosi ritengono che l’antenato della lingua che parliamo oggi sia una lingua parlata da una popolazione nomade, dedita alla pastorizia, che si trasferì dalla Russia verso l’Europa Centrale circa 4.000 anni fa.
Chi erano questi pastori? Cosa facevano? Com’era l’Europa a quel tempo?
L’Europa a quel tempo era abitata da popolazioni dedite all’agricoltura; si trattava di gruppi che costruivano enormi tombe per la sepoltura comune. Uno di questi gruppi è denominato Cultura del vaso campaniforme, a causa della forma delle sue ceramiche. E’ stato un periodo molto tranquillo della storia. C’erano i costruttori di tombe, i ceramisti e gli agricoltori che vivevano uno a fianco all’altro. In questo scenario si sono introdotte popolazioni guerriere, armate di asce fatte di rame o pietra levigata. Un aspetto interessante di queste popolazioni è che seppellivano gli uomini coricati sul fianco destro con la testa rivolta a ovest, mentre le donne coricate sul fianco sinistro e con la testa rivolta verso est. Le loro asce erano deposte davanti ai loro occhi. Queste popolazioni si spostarono in successive migrazioni. (Mostrare ai bambini delle mappe, che i bambini possono approfondire).
Una parte di queste tribù raggiunse l’Europa occidentale, un’altra si insediò in Persia e un’altra ancora in India (Arii). La lingua detta Proto-Indo Europeo si ramificò perciò in due direzioni: occidentale e orientale.
Le tribù giunte in Europa occidentale si suddivisero così: gli Ittiti e i Greci in Asia Minore e Grecia; i Germani in nord Europa; i Celti sfiorano le Alpi, entrando anche in Italia; mentre il resto proseguì verso le coste dell’Atlantico. Anche i cosiddetti “Popoli del mare” che invasero il Vicino Oriente (inclusi i Dori che occuparono la Grecia nel 1200 aC) sono di origine indoeuropea (mostrare mappe e schemi).
Nella penisola italica (XVII-IX secolo aC) arrivarono le seguenti popolazioni indoeuropee: a nord Leponzi e Celti (chiamati anche Galli) e i Veneti; al centro i Picenti, i Latini, gli Umbri e i Volsci, al sud i Sanniti e gli Iapigi; in Sicilia i Siculi. Questi popoli, fondendosi con le popolazioni già stanziate, ebbero la meglio sul piano linguistico. Le popolazioni che gli indoeuropei trovarono in Italia conoscevano il rame e vivevano prevalentemente su palafitte, che durarono fino all’età del ferro, quando si sviluppò la civiltà Villanoviana (1000 aC) che determinò la formazione di grossi villaggi da cui poi emersero le città etrusche.
Le principali lingue indoeuropee dell’antichità sono state le seguenti: Indiano (Vedico e Sanscrito) Iranico (Persiano Antico, Avestico, Medo, Scitico) Armeno e Ittito (in Asia Minore) Tocarico (parlato nel Turkestan orientale) Tracio e Frigio Slavo Baltico (antico Prussiano, Lituano e Lettone) Germanico Celtico, Osco-Umbro, Latino e Greco, che sono all’origine delle parlate italiche.
Le lingue indoeuropee più importanti presenti nella penisola italica furono: – Celtico e Gallico: popolazioni celtiche entrarono in Italia verso l’800 aC stabilendosi principalmente nella pianura padana e nelle Marche. Le loro lingue scomparvero completamente dopo la conquista romana. – Paleoveneto: era la lingua degli Euganei – Greco: la colonizzazione greca dell’Italia meridionale e delle isole ebbe inizio nell’VIII secolo aC (Magna Grecia). La lingua dei Greci resistette a lungo alla romanizzazione, e il latino assimilò moltissimi vocaboli da questa lingua. – Latino: quando i Latini giunsero alle foci del Tevere incontrarono gli Etruschi. Il latino non fu in grado di soppiantare il greco nell’Italia meridionale, anzi lo adottò come seconda lingua. Man mano comunque che Roma si imponeva su tutta la penisola, il latino finì col prevalere su tutte le altre lingue preromane.
Dal Latino provengono le lingue NEO LATINE o ROMANZE (Italiano, Francese, Spagnolo, Portoghese e Rumeno). Bisogna considerare però che durante il periodo Romano la popolazione era divisa in due classi sociali: una abbastanza ricca da andare a scuola, e che parlava il latino standard, una povera che non andava a scuola e parlava il latino volgare (cioè del popolo).
Con la caduta dell’Impero Romano (476 dC) il latino non è più la lingua ufficiale e col passare del tempo nessuno lo parla più: diventa una “lingua morta”, mentre il latino volgare rimane vivo perché il popolo continua ad usarlo e modificarlo.
Essendo una lingua spontanea, non scritta, ogni popolazione lo parlava e modificava a modo suo. Inoltre arrivarono in Italia altre popolazioni, e ogni regione cominciò a vivere per conto proprio, perdendo i contatti con le regioni vicine per lunghi periodi. La popolazione si riuniva durante il periodo delle invasioni nei posti che riteneva più sicuri: monti e vallate isolate. Si formarono così tante piccole comunità isolate, e si svilupparono tanti volgari diversi, tutti che derivavano dal latino.
Nel Medioevo non esistono più il latino standard e il latino volgare, ma esistono i volgari italiani: lingue che assomigliano al latino e assomigliano all’italiano, ma che hanno caratteristiche proprie. Un esempio famoso si trova nelle poesie della Scuola Siciliana (volgare siciliano).
Dal XVI secolo al XIX il fiorentino si impose sempre più come lingua unitaria, ma non era parlata per la comunicazione quotidiana se non in Toscana. In tutte le altre regioni le persone di ogni condizione sociale parlavano il dialetto.
La situazione era caotica: i volgari italiani erano tanti e diversi e comunicare era difficile. Nel 1500 un gruppo di intellettuali lanciò un dibattito noto come Prima questione della lingua. Uno di questi, Pietro Bembo, propose come modello per una lingua unica il volgare fiorentino del 1300 di Dante, Petrarca e Boccaccio (detti ‘le tre corone’). La proposta venne accettata e il volgare fiorentino diventa il modello da seguire nell’italiano insegnato a scuola. Ma naturalmente per le strade di Firenze il volgare fiorentino era diverso da quello del 1300.
Ora, come per il latino, avvenne che solo le persone istruite parlavano il volgare fiorentino considerato corretto, mentre il popolo continuava a parlare e modificare i propri volgari. Ma poiché ora c’è una lingua ufficiale, questi volgari prendono il nome di dialetti.
L’esigenza di una lingua comune si manifestò nei primi dell’Ottocento quando cominciò a diffondersi l’idea di un’Italia unita del Risorgimento.
Nel 1840 Alessandro Manzoni pubblica I promessi sposi, romanzo scritto in una lingua nuova: si tratta del volgare fiorentino reso attuale e arricchito da espressioni contemporanee degli altri volgari.
Quando l’Italia venne unificata (1861) si pose la Seconda questione della lingua e viene scelta come lingua unitaria la lingua di Manzoni: questa lingua è la base dell’Italiano moderno.
Di nuovo abbiamo una lingua ufficiale, insegnata nelle scuole e modello da seguire, usata solo dai ricchi, mentre il popolo continua a parlare i dialetti.
Durante il XX secolo l’italiano ebbe crescente diffusione negli strati più povera grazie al fatto che la scuola elementare diventa obbligatoria. Inoltre le due guerre mondiali porta per la prima volta ad un mescolamento tra italiani. Ancor più fece poi, nel Novecento, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (cinema, radio, televisione).
Qui di seguito trovi due versioni del racconto e l’albero linguistico, scaricabile e stampabile in formato pdf.
La storia viene ulteriormente sviluppata in seguito, con la storia delle origini della lingua italiana e con la storia delle origini della lingua inglese.
QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI LA STORIA DELLE FAMIGLIE LINGUISTICHE Prima versione
Gli studiosi credono che le lingue attuali siano divise in famiglie. Alcune sono parenti vicine, diciamo sorelle, altre parenti di secondo o terzo grado. Un modo per riconoscere lingue che provengono dalla stessa famiglia linguistica è confrontare le parole che esse usano per chiamare i numeri. Tutti i popoli, infatti, hanno la necessità di contare.
Oggi, circa la metà della popolazione mondiale parla una lingua della famiglia indo-europea, mentre l’altra metà parla lingue di altra provenienza.
La maggior parte delle famiglie linguistiche europee sono legate le une alle altre, ed hanno un’origine comune, una lingua madre chiamata lingua proto-indoeuropea. Le prime persone che parlavano questa lingua, di cui non abbiamo testimonianza, provenivano dalle steppe della Russia, erano pastori nomadi che viaggiavano alla ricerca di pascolo. Si muovevano velocemente perché avevano addomesticato i cavalli, ed avevano carri a ruote trainati da buoi. Come arma avevano delle asce: lo sappiamo perché abbiamo trovato le loro tombe, ed abbiamo scoperto che seppellivano i loro uomini accanto alle loro armi. Le donne venivano sepolte coi loro gioielli d’ambra. Quando questo popolo giunse in Europa, venne in contatto con le popolazioni locali. Si trattava di agricoltori sedentari, che vivevano in villaggi sparsi, e seppellivano i loro morti in grandi tombe megalitiche. Gli uomini con le asce non furono gli unici a raggiungere l’Europa in quel periodo. Abbiamo testimonianze anche del popolo della ceramica campaniforme, proveniente dalla Spagna, che deve questo nome all’uso di fabbricare vasi a forma di campana, e forse conoscevano la tecnica della produzione della birra. Conoscevano anche il bronzo, perché abbiamo trovato coltelli, lance, punte di freccia e gioielli di questo materiale. Probabilmente svolgevano attività di scambio e commercio con gli agricoltori. Questi popoli si mescolarono tra loro, e probabilmente nacque così una lingua comune, che doveva essere il proto-indoeuropeo.
Circa 4.000 anni fa, pare che queste popolazioni cominciarono a muoversi in direzioni diverse, allontanandosi dalle pianure dell’Europa centrale in cui si erano stabiliti in origine. Alcuni si diressero verso Oriente ed altre verso Occidente, e viaggiando incontravano altre popolazioni, che parlavano altre lingue. Così ogni popolazione sviluppò da quella che era una lingua comune, una propria variante. Anche la nostra lingua è nata così.
QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI LA STORIA DELLE FAMIGLIE LINGUISTICHE Seconda versione
È esistita una lingua uguale per tutti gli uomini, che poi si è diversificata? Da dove viene la nostra lingua? Chi l’ha parlata per primo? Come si sentivano gli uomini quando pronunciarono le prime parole? Quanto tempo fa gli uomini hanno cominciato a parlare? Quando l’Italiano è nato, somigliava a quello che parliamo noi?
Secondo gli studiosi, tutte le lingue europee, persiane e indiane, con poche eccezioni, appartengono ad uno stesso gruppo linguistico. Secondo i Filologi questo gruppo di lingue, chiamato gruppo Indo-europeo, si è diffuso a partire da un punto di origine comune, in un dato momento storico. Si pensa che l’antenato delle lingue indo-europee fosse una lingua parlata da un popolo nomade dedito alla pastorizia, che dalla Russia si spostò verso l’Europa centrale, circa 4.000 anni fa.
Chi erano questi pastori nomadi? Cosa trovarono quando arrivarono in Europa?
Non si sa con certezza, ma si ipotizza che 4.000 anni fa l’Europa fosse un territorio poco popolato, dove gli uomini vivevano divisi in villaggi agricoli (non città). Questi agricoltori erano viaggiatori che via via, provenendo da altre zone, si insediavano dove le condizioni erano più favorevoli all’agricoltura, portando con sé la propria cultura, e i propri usi e costumi. Di questa epoca rimangono le costruzioni megalitiche: grandi tombe funerarie per le sepolture comuni, ad esempio. Probabilmente si dedicavano anche agli scambi e al commercio. Conosciamo una popolazione tra queste, chiamata Cultura del vaso campaniforme, per via dei resti di vasi di ceramica a forma di campana che abbiamo rinvenuto.
Ebbene, tutte queste persone vivevano insieme in modo relativamente pacifico, quando sulla scena irruppe la popolazione dei pastori nomadi di cui abbiamo parlato, e che chiamiamo Popolo dell’Ascia. Il Popolo dell’Ascia si muoveva da un luogo all’altro e non era così pacifica. L’ascia era la loro arma caratteristica: si trattava di asce di guerra fatte di rame o di pietra levigata. Poiché sono state trovate alcune delle loro tombe, sappiamo qualcosa del loro culto dei morti. Nelle loro tombe, gli uomini sono sempre distesi sul fianco destro e con la testa rivolta verso est e i piedi ad ovest. Il volto era girato verso sud, le gambe erano piegate e, nel caso degli uomini, davanti ai loro occhi venivano poste le loro asce. Cercando di interpretare questo modo di seppellire i morti, si è pensato che questi uomini adorassero il sole, ma non ne possiamo essere certi.
Gli studiosi pensano che questi uomini, comunque, parlassero una lingua che può essere l’antenato comune delle lingue indo-europee, chiamata Proto-indoeuropeo, la bisnonna della nostra lingua. Questa popolazione era in grado di muoversi molto velocemente perché aveva addomesticato il cavallo e aveva imparato ad utilizzare la ruota. Costruiva quindi carri trainati da cavalli o da buoi.
LA STORIA DELLE FAMIGLIE LINGUISTICHE
THE STORY OF LINGUISTIC FAMILIES It is part of the framework of the MONTESSORI FOUR GREAT LESSON. Below are two versions of the story and the linguistic family tree.
The story is further developed later, with the story of the origins of the Italian language and the history of the origins of the English language.
MONTESSORI FOUR GREAT LESSON THE STORY OF LINGUISTIC FAMILIES First version
Researchers think that the present languages are divided into families. Some are close relatives, say sisters, other relatives of second or third degree. One way to recognize that languages come from the same language family is to compare the words they use to call the numbers. All peoples, in fact, need to count.
Today, about half the world’s population speaks a language of the Indo-European family, while the other half speak languages from other sources.
Most language families in Europe are linked to each other, and have a common origin, a native language called Proto-indoeropean.
The first people who spoke this language, we have not evidence, came from the steppes of Russia, were nomads who traveled in search of grazing. They moved quickly because they had domesticated horses, and had wheeled carts pulled by oxen. As weapons they had axes: we know this because we found their graves, and we found that buried their men next to their weapons. Women were buried with their amber jewelry.
When these people came to Europe, he came into contact with local people. They were sedentary farmers, who lived in scattered villages, and buried their dead in large megalithic tombs.
Men with axes were not the only ones to reach Europe in that period. We have also testimonies of the people of ceramics Belldirectly coming from Spain, so named because manufactured vessels bell-shaped, and perhaps knew the technique beer brewing. Also knew the bronze, because we found knives, spears, arrowheads and jewelry of this material. Probably they held exchange activities and trade with the farmers. These peoples were mingled with each other, and was probably born in this way a common language, which was to be the proto-Indo-European.
About 4,000 years ago, it seems that these people began to move in different directions, moving away from the lowlands of central Europe where they were originally established. Some made their way to the East and the other towards the West, traveling and met other people who spoke other languages. So every population grew from what was a common language, its own variant. Even our language was born in this way.
MONTESSORI FOUR GREAT LESSON THE STORY OF LINGUISTIC FAMILIES Second version
It existed a language equal for all men, which later diversified? Where it comes from our language? Who has spoken it first? What men felt when they uttered the first words? How long ago people began to talk? When English is born, it resembled the English that we speak?
According to scientists, all European languages, Persian and Indian, with few exceptions, belong to the same language group. According Philologists this group of languages, called the Indo-European group, has spread from a common point of origin, at a given moment in history. It is thought that the ancestor of the Indo-European languages, was a language spoken by a nomadic people devoted to the sheep, who moved from Russia to Central Europe, about 4,000 years ago.
Who were these nomadic shepherds? What they found when they arrived in Europe?
It is not known with certainty, but it is assumed that 4,000 years ago Europe was a sparsely populated territory, where men lived, divided into agricultural villages (not city). These farmers were travelers who gradually, coming from other areas, came to settle where conditions were more favorable to agriculture, taking with them their culture, and their customs and traditions. Of this time remain the megalithic constructions: big funerary tombs for common burials , for example. Probably they dedicated themselves to trade and commerce. We know a population of these, called Bell Beaker Culture, because of the remains of ceramic pots shaped bell that we found.
Well, all these people lived together relatively peacefully, until the population of nomadic shepherds that we talked about, and we call the People of the Axe, burst onto the scene. The People of the Axe, moving from place to place and it was not so peaceful. The ax was their characteristic weapon: it was axes of war made of copper or polished stone. For we have found some of their graves, we know something of their cult of the dead. In their graves, the men are always lying on his right side with the head turned towards east and feet turned towards west. The face was turned towards the south, the legs were bent and, in the case of men, before their eyes were put their axes. Trying to interpret this way of burying the dead, the scientists thought that these men should worship the sun, but we can not be certain.
Researchers think that these men, however, spoke a language which can be the common ancestor of the Indo-European languages, called Proto-indoeropeo, the great-grandmother of our language. This population was able to move very quickly because he had tamed the horse and had learned to use the wheel. Then built carts pulled by horses or oxen.
LA STORIA DEL LINGUAGGIO VERBALE fa parte del quadro della QUARTA GRANDE LEZIONE Montessori. Per approfondire e accedere a tutto il materiale relativo vai qui:
Per la storia del linguaggio orale prepariamo racconto semplice ma appassionante, sul modello di quello presentato di seguito. Le diverse teorie sull’origine del linguaggio attireranno di certo l’attenzione dei bambini, se sono offerte in forma di racconto, con esempi accattivanti, cercando di mostrare ciò che deve essere successo quando i primi esseri umani hanno cercato di comunicare tra di loro per esprimere i propri bisogni, sentimenti, le proprie idee e preoccupazioni.
La tendenza umana verso la comunicazione ha spinto le persone a creare il linguaggio, poi, nel corso del tempo, questi linguaggi si sono evoluti, riflettendo le idee delle persone ed il loro ambiente. e questi cambiato nel corso del tempo per riflettere le persone e il loro ambiente. Mostrando il bambino il loro posto nella loro cultura è parte di metterli in contatto con la loro cultura e aiutarli ad adattarsi. Maria Montessori sostiene che per educare il potenziale umano è necessario che gli individui, nei primi anni di vita, vengano messi in relazione con gli esseri umani, e che provino gratitudine per tutti gli uomini e le donne che giorno dopo giorno hanno lavorato affinché noi potessimo vivere una vita più ricca e piena.
QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI La storia del linguaggio verbale
Racconto:
Chissà com’era la vita dei primi uomini apparsi sulla Terra. Perché cominciarono a parlare tra loro? Come parlavano? Cosa dicevano?
Nessuno lo sa con certezza, ma potrebbe essere successo così: i primi uomini erano sempre alla ricerca di cibo, di piante commestibili, o animali da cacciare. Quando faceva freddo, cercavano materiali utili per coprirsi, o luoghi adatti a diventare rifugi. E cosa fecero secondo te?
Chi vuole far finta di essere un uomo primitivo? Vediamo, fate finta di essere molto affamati. Avete trovato delle mele da mangiare e volete dirlo alla vostra famiglia, ma non sapete nessuna parola. Come potete fare? (Proporre varie scenette del genere, poi introdurre le teorie sulla nascita del linguaggio).
Gli studiosi hanno proposto varie teorie sulla nascita del linguaggio, e siccome non è possibile sapere come siano andate realmente le cose, tutte queste teorie sono realistiche.
Secondo la teoria del bow wow (o teoria onomatopeica) la lingua è nata come imitazione dei suoni della natura e dei versi degli animali.
Secondo la teoria del poo poo il linguaggio è nato con le interiezioni, grida istintive utilizzate per esprimere sensazioni ed emozioni.
Secondo la teoria yo he ho gli esseri umani, per lavorare insieme, avevano bisogno di sincronizzare i loro movimenti.
Secondo la teoria del gesto: gli uomini hanno cominciato a comunicare coi gesti e poi si è sviluppato il linguaggio.
Secondo la teoria del Ding-Dong la lingua parlata è nata a seguito di espressioni vocali emesse quando qualcuno veniva, ed esempio, colpito alla testa da un frutto, o si faceva male in altro modo.
Secondo la teoria Bocca-Gesto i gesti fatti con la bocca e con le mani hanno portato naturalmente al movimento delle labbra e della lingua, e così si iniziò a vocalizzare.
Secondo la teoria musicale (o del sing song) le prime parole erano lunghe e musicali, scaturite dal gioco, dal corteggiamento e da elementi emozionali.
Secondo la teoria del contatto, siccome gli animali chiamano gli altri emettendo suoni, gli umani li hanno imitati, ad esempio per salutarsi.
Secondo la teoria del comando le prime parole erano comandi del tipo corriamo, cacciamo, saltiamo, fermiamoci.
Così, come non sappiamo come sia nata la lingua scritta, allo stesso modo non sappiamo come e quando sia nata la lingua parlata. I primi uomini devono aver prodotto suoni, e questi devono aver avuto un significato per le altre persone.
Senza lo sviluppo del linguaggio parlato, gli esseri umani non avrebbero potuto fare tutte le cose di cui sono stati capaci.
Tutte le teorie e le congetture sulla nascita del linguaggio sono basate sull’idea che i primi esseri umani avevano assoluta necessità di comunicare tra loro.
LA STORIA DEGLI ALFABETI che presento qui è una versione molto dettagliata della storia della scrittura, dalle pitture rupestri all’ebook. Vengono inoltre presentate molte curiosità sulla scrittura e gli alfabeti di tutto il mondo. Nella seconda parte del racconto le lettere vengono presentate una ad una, raccontando di ognuna l’evoluzione storica dal sinaitico ad oggi. Il racconto è accompagnato da nomenclature e dalle schede riassuntive lettera per lettera. La STORIA DEGLI ALFABETI fa parte del quadro della QUARTA GRANDE LEZIONE Montessori; per saperne di più ed accedere a tutto il materiale relativo vai qui:
LA STORIA DEGLI ALFABETI – Materiale utile per la presentazione:
Carte illustrate per la storia degli alfabeti
Schede della storia delle lettere dell’alfabeto
LA STORIA DEGLI ALFABETI – Racconto:
Gli esseri umani vivono su questo pianeta da migliaia di anni, e fin dall’inizio hanno avuto bisogni di parlare tra loro. A volte possiamo comunicare con gli altri senza emettere suoni: possiamo usare le espressioni facciali, o i gesti, o entrambi. Ma il modo più importante che gli esseri umani hanno di comunicare tra loro è il linguaggio. Originariamente, il linguaggio era esclusivamente orale: le persone, semplicemente, parlavano tra di loro. Ma la lingua parlata non consente di tenere traccia di ciò che è stato detto, e non consente di comunicare con le persone lontane. Così, alla fine, le persone hanno ideato il linguaggio scritto, che consente di fare entrambe le cose.
Tutte le lingue utilizzano simboli: segni o immagini che rappresentano cose reali o idee. Gli antichi Egizi usavano disegni che rappresentavano parole. Potevano fare questi disegni sulla pietra, o su rotoli di papiro. A migliaia di chilometri di distanza, gli antichi Cinesi svilupparono un sistema di scrittura composto da caratteri che significavano parole o idee. Questo popolo utilizza lo stesso sistema ancora oggi.
Talvolta si usano anche disegni che rappresentano una sorta di rebus, un simbolo complesso che contiene sia immagini, sia parole, da decifrare.
I simboli servono spesso anche a dare indicazioni rapide di regole, direzioni, luoghi, come avviene per la segnaletica stradale, i cartelli nei bagni pubblici, ecc…
Oggi la maggior parte di ciò che scriviamo è composto da parole, piuttosto che da disegni. Per migliaia di anni, tuttavia, dalle pitture rupestri agli antichi Egizi, le immagini furono l’unico tipo di scrittura.
Ma è molto difficile disegnare un’immagine di tutto ciò che gli esseri umani possono pensare. Come possiamo fare un disegno di “ieri”, o di “freddo”, o di “possibile”?
Gli uomini, per questo motivo, resero i loro disegni sempre più astratti, e dopo molti secoli, scoprirono anche che potevano utilizzare i loro disegni per rappresentare non le cose che vedevano o toccavano o pensavano, ma i suoni della loro lingua.
Queste “immagini sonore” sono chiamate lettere, simboli che stanno al posto dei suoni che compongono tutte le nostre parole. Così ogni lingua ha bisogno di un numero relativamente ridotto di lettere per essere scritta. Un elenco, fatto secondo un ordine particolare, di tutte le lettere usate per scrivere una data lingua, viene chiamato alfabeto. Nessuno sa precisamente quando o dove gli uomini abbiano per la prima volta costruito un alfabeto, sappiamo che l’alfabeto che usiamo noi oggi ha origine dagli antichi alfabeti usati in Medio Oriente.
Gli scienziati che studiano la storia delle lingue, hanno stabilito che le origini del nostro alfabeto risalgono al 2.000 aC, cioè a più di 4.000 anni fa. Questi scienziati studiano le lingue antiche, ed esaminano le tavolette di argilla e le iscrizioni che vengono rinvenute durante gli scavi archeologici. Poi confrontano quello che trovano in un dato luogo con i reperti trovati in altri luoghi. Spesso è molto difficile capire esattamente cosa significhino i segni di queste iscrizioni antiche. Molti esemplari di antiche scritture sono andati perduti nel corso dei secoli, per cui sono molte le cose che non possiamo dare per certe. Anche oggi gli studiosi continuano ad indagare le antiche iscrizioni, per conoscere meglio la storia del nostro alfabeto.
Come ha fatto un alfabeto nato 4.000 anni fa a diventare l’alfabeto che usiamo oggi? Attraverso le migrazioni dei popoli, il commercio e le guerre di conquista.
Il nostro alfabeto si è evoluto, nel corso di molti secoli, nei paesi del Mediterraneo. L’alfabeto SINAITICO, creato nella penisola del Sinai, ha rappresentato un grande passo avanti nella storia della comunicazione umana. Era più facile da imparare, le immagini erano molto semplificate, e le lettere avevano la stessa funzione che hanno negli alfabeti fenicio, greco e latino. Più tardi si è rivelato utile anche per scrivere lingue diverse, come l’Inglese, lo Spagnolo, il Tedesco, il Polacco, il Turco e perfino l’Hawaiano. Le lettere che utilizziamo oggi derivano quindi dai geroglifici egizi, che sono stati presi in prestito dai popoli della penisola del Sinai, e trasformati in lettere. Queste lettere poi sono state prese in prestito dai Fenici, che le hanno trasmesse ai Greci. I Greci le hanno prestate ai Romani, e questi le hanno trasmesse a noi.
Solo pochi anni fa gli scienziati hanno trovato nella Valle del Nilo una parete rocciosa scolpita con simboli, che avevano circa 4.000 anni. Scoprirono che i simboli non rappresentavano cose o idee, ma suoni. Queste iscrizioni, dunque, rappresentano l’esemplare dell’alfabeto più antico. Le incisioni, probabilmente, non furono eseguite da Egizi, ma dai minatori e dagli altri lavoratori stranieri che provenivano dalla penisola del Sinai.
Il popolo che viveva nella penisola del Sinai aveva regolari scambi commerciali con l’Egitto, quindi aveva familiarità con la loro scrittura geroglifica. Molte delle lettere che essi crearono, pensano gli studiosi, sono basate sui simboli egizi. La loro scrittura si sviluppò intorno al 1.500 aC ed il loro alfabeto era composto da 18 lettere.
I Fenici, che vivevano sulla costa mediterranea nei pressi della penisola del Sinai, adattarono l’alfabeto sinaitico alla propria lingua. Il loro alfabeto si sviluppò tra il 1.000 e l’800 aC, ed aveva 20 lettere. I Fenici erano grandi costruttori di navi ed abili marinai, e vendevano e compravano merci in tutti i Paesi del Mediterraneo. Il loro alfabeto così si diffuse rapidamente nei Paesi con i quali avevano scambi commerciali, inclusa la Grecia.
Intorno all’800 aC i Greci cambiarono la forma della maggior parte delle lettere fenicie, e ne aggiunsero alcune altre. Questo si è dimostrato molto utile, perché la lingua greca era molto diversa da quella fenicia. I Greci portarono il loro alfabeto in tutte le colonie che fondarono nei Paesi del Mediterraneo.
Nel 200 aC i Romani, che vivevano nella penisola italica, presero il posto dei Greci come popolo più potente del Mediterraneo. Ben presto estesero il loro impero al Portogallo, la Spagna, la Francia ed altre regione europee, tra le quali la Gran Bretagna. Ovunque sono arrivati, hanno portato il loro alfabeto con loro.
Ma che suono avevano queste lettere antiche? Non possiamo essere sicuri del suono esatto che le lettere dei primi alfabeti rappresentavano. Gli scienziati ritengono che ALEPH fosse un suono gutturale simile alla pronuncia della nostra H. In generale le consonanti sono pronunciate arrestando o limitando il flusso d’aria mentre parliamo, mentre le vocali si pronunciano senza interferire col flusso dell’aria. Nelle lingue semitiche, come l’antico Sinaitico e il Fenicio o l’Ebraico e l’Arabo moderni, le parole vengono scritte senza vocali. Le vocali vengono pronunciate parlando, ma non vengono trascritte. I popoli semitici, dal senso dalla frase, sono in grado di capire quali siano le vocali da usare. Ad esempio, se noi scriviamo L BMBN ST CRRND, dovremmo essere in grado di leggere LA BAMBINA STA CORRENDO.
Chi chiamò “alfabeto” l’elenco delle lettere? La parola ALFABETO deriva dal nome delle prime due lettere greche, ALFA e BETA. Non furono i Greci ad aver avuto l’idea di alfabeto, ma ci hanno dato il nome. I Romani all’inizio chiamarono il loro elenco di lettere LITERAE (lettere) o ELEMENTA (elementi), una parola che può derivare dalla sequenza LMN che si trova nel mezzo della lista. Tuttavia, già nel III secolo aC era in uso la parola ALPHABETUM, derivata dalle prime due lettere dell’alfabeto greco, e che divenne poi la nostra parola ALFABETO.
I Greci furono i primi ad usare, per le lettere, dei nomi che non avevano altri significati. Per i Fenici, la parola ALEPH era sia il nome di una lettera, sia la parola per dire BUE; BETH era sia il nome della lettera sia la parola per dire CASA; GIMEL era sia il nome di una lettera, sia un bastone che si usava per cacciare. Invece, per i Greci, le parole ALPHA, BETA, GAMMA, erano solo nomi di lettere che rappresentavano, con la loro iniziale, un suono. Non avevano altri significati.
I Romani furono i primi a citare le loro lettere, non con il loro nome, ma con il loro suono, come facciamo noi oggi quando invece di dire A BI CI DI E EFFE, diciamo A B C D E F. I Greci invece usavano nominarle come ALFA BETA GAMMA DELTA, ecc…
Nessuno sa perché le lettere dell’alfabeto appaiono nell’ordine in cui le vediamo, ma sappiamo che hanno mantenuto lo stesso ordine dal tempo dei Fenici. L’ordine alfabetico ci aiuta ad organizzare le informazioni. Un dizionario che elenchi migliaia di parole in ordine sparso, sarebbe impossibile da consultare.
Durante le Olimpiadi moderne, la squadra della Grecia, che è stata la sede delle prime Olimpiadi della storia, entra in campo sempre per prima, la squadra del Paese ospitante sempre per ultima, mentre tutte le altre squadre entrano in ordine alfabetico, a seconda della lingua che si parla nel Paese ospitante. Se ad esempio le Olimpiadi si svolgono in un Paese dove si parla Inglese, gli USA entrano quasi per ultimi, come il Regno Unito (United Kingdom). Quando si svolgono in paesi di lingua Francese o Spagnolo, gli USA entrano molto prima, perché in Francese si chiamano ETATS UNIS e in Spagnolo ESTADOS UNIDOS.
Le lingue non condividono tra loro tutti gli stessi suoni. Ci sono suoni che esistono in una lingua, ma non esistono in un’altra. Ad esempio ad un Tedesco, i suoni di v e di w della lingua inglese sembrano identici, ma non lo sono per gli Inglesi. Nel passaggio dell’alfabeto da un popolo all’altro, quindi da una lingua all’altra, avveniva che l’alfabeto straniero non rispondesse a tutte le esigenze della lingua che voleva adottarlo. Ad esempio i Greci, per scrivere il Greco, non avevano bisogno di alcune delle consonanti usate dei Fenici per scrivere il Fenicio. Per questo, ad esempio, i Greci presero dall’alfabeto fenicio ALEPH HE e KHETH, che erano consonanti, e le usarono come vocali per ALFA, EPSILON ed ETA.
Le lingue che si parlano oggi nel mondo hanno più suoni di quelli espressi nei loro alfabeti. Ad esempio l’alfabeto inglese ha 26 lettere, ma si è calcolato che, a seconda dell’accento, la maggior parte degli anglofoni usano più di 40 suoni differenti. Quindi, molte delle nostre lettere rappresentano in realtà più di un suono. Ad esempio, in Italiano, la lettera O si scrive nello stesso modo in ORMA e in ORO, ma i suoni sono diversi: è chiusa in orma ed è aperta in oro.
Molte lingue usano le stesse lettere, ma spesso abbinandole a suoni diversi. Ad esempio lo Spagnolo, il Tedesco e l’Inglese hanno nel loro alfabeto la lettera J. In Inglese questa lettera si chiama JAY e sta per g dolce. In Spagnolo si chiama JOTA e ha un suono simile alla H aspirata. In Tedesco si chiama JOT e ha un suono simile ad Y. Stessa lettera, lingue diverse, suoni diversi. Le persone sono molto brave ad utilizzare lo stesso alfabeto, ma adattandolo ai suoni della propria lingua.
L’alfabeto più diffuso nel mondo oggi è l’alfabeto latino, quello utilizzato dagli antichi Romani molti secoli fa. Quando gli eserciti romani conquistarono l’Europa, i popoli che vivevano in Spagna, Francia, Germania, Italia, Scandinavia ed Inghilterra cominciarono a scrivere nelle loro lingue, ma utilizzando l’alfabeto latino. Questi paesi poi diffusero le loro culture nelle loro colonie che fondarono in Asia, Africa e nelle Americhe, così anche i popoli di questi continenti utilizzarono l’alfabeto latino. Poiché, come abbiano detto, ogni lingua può avere dei suoni che altre lingue non hanno, i vari popoli hanno dovuto inventare dei modi per utilizzare le lettere esistenti nell’alfabeto latino, per rappresentare più suoni differenti. L’Inglese, ad esempio, a volte combina più lettere insieme per rappresentare alcuni dei suoi suoni, ad esempio CH, SH, TH. Succede anche in italiano con SC SCH GL GN ecc… In Italiano, ed anche in Spagnolo R è diverso da RR o L è diverso da LL.
Oltre all’alfabeto latino, si sono diffusi nel mondo altri alfabeti, di origine comune a quello latino, come l’alfabeto ebraico e quello arabo, che derivano dall’alfabeto fenicio, e l’alfabeto cirillico, usato in Russia e in Europa Orientale, che deriva dall’alfabeto greco.
La maggior parte delle scritture moderne si leggono da sinistra a destra. Ma l’antico Greco si scriveva in entrambe le direzioni, in questo modo: la prima riga procedeva da sinistra a destra, poi giunti al margine, la seconda riga proseguiva a ritroso nel senso opposto, con un procedimento a nastro. Questo modo di scrivere si chiama scrittura BUSTROFEDICA perché aveva un andamento che ricordava il bue che ara i campi (dal greco “bue” e “invertire”).
Leggere il Latino non è per noi così semplice, perché essi usavano solo le lettere maiuscole e non avevano alcun segno di interpunzione, nemmeno gli spazi tra una parola e l’altra. Le frasi, allo stesso modo, non erano separate tra loro. Ad esempio, questa spiegazione sarebbe risultata così:
Siccome era molto difficile leggere una scrittura simile, i Romani stessi, col passare del tempo, si stancarono, e cominciarono a mettere uno spazio tra una parola e l’altra e un punto simile a questo ∙ alla fine di ogni frase.
Gli Egizi hanno inventato un supporto per la scrittura chiamato papiro e che fabbricavano con una pianta che cresceva lungo le sponde del fiume Nilo. La superficie del papiro era molto facile da disegnare. Il papiro però era molto costoso, e le persone, per risparmiare, scrivevano su entrambe le facciate di ogni foglio. Per questo hanno inventato colori che potevano essere lavati dai papiri, per poterli utilizzare più volte. L’inchiostro nero veniva prodotto con fuliggine mischiata a polpa di papiro.
Le popolazioni della penisola del Sinai ed i Fenici usavano invece delle tavolette di argilla. Disegnare immagini perfette sulla creta molle non è facile, e questo può essere uno dei motivi per cui gli alfabeti si sono sviluppati proprio in queste regioni.
I Romani usavano sia rotoli di papiro, sia tavolette d’argilla. Spesso scolpivano le loro iscrizioni nella pietra, soprattutto sulle pareti degli edifici pubblici e sui monumenti. Molti Romani usavano anche portare con sé delle piccole tavolette di legno spalmate di cera, per scrivere. Riscaldando la cera potevano fare TABULA RASA, cancellare quello che avevano scritto prima, e scrivere qualcosa di nuovo.
A partire dal Medioevo si iniziò a scrivere su pelli di animali appositamente preparate, e chiamate pergamene. La più preziosa era la velina. Sia la pergamena comune, sia la velina, erano materiali estremamente costosi, e questo limitava la quantità di scritti realizzabili.
La carta, inventata in Cina nel I secolo aC, non raggiunse l’Europa prima del XII secolo dC. Fino a quando non furono messi a punto sistemi di produzione in serie, cosa che avvenne molti secoli dopo, la carta era un lusso riservato a pochi.
Con l’invenzione della stampa, sempre più persone hanno imparato a leggere e scrivere. Siccome scrivere ogni lettera staccata richiede più tempo, per una scrittura a mano più veloce si è ideato il corsivo. Nel corsivo la forma delle lettere è cambiata per permettere di collegarle tra loro, senza dover staccare la penna dal foglio tra le lettere della stessa parola. Il corsivo è stato inventato in Italia nel Medioevo.
I Romani incidevano spesso messaggi nella pietra. Essi scoprirono che l’aggiunta di un breve trattino alle estremità delle lettere aiutava a scriverle più ordinato e proporzionato. Questo trattino è chiamato SERIF, che in Francese significa LINEA.
In tempi moderni, con l’evoluzione della stampa e soprattutto con la scrittura al computer, sono comparsi nuovi stili tipografici di scrittura (detti FONT) e nuovi caratteri. Le persone preferiscono usare quelli più semplici e stilizzati, per questo molti FONT hanno eliminato i trattini dell’alfabeto latino, e per questo si chiamano SANS SERIF, che in Francese significa SENZA LINEA.
Quando scriviamo al computer, per prima cosa possiamo scegliere il font che desideriamo. In secondo luogo possiamo scegliere di scrivere coi caratteri normali, oppure di usare (per tutto il testo o solo per isolare alcune parole o frasi), il CORSIVO, il GRASSETTO, o il SOTTOLINEATO.
Nel CORSIVO, in genere le lettere sono inclinate verso destra ed appaiono più leggere.
Per evidenziare le parole si usa il GRASSETTO. I caratteri in grassetto sono più pesanti e più scuri delle lettere stampate coi caratteri normali.
Anche il SOTTOLINEATO, che fa apparire una riga continua al di sotto dei caratteri, è un modo di evidenziare parole o frasi.
Prima di Johannes Gutenberg, che visse nella metà del 1.400, la scrittura era eseguita solo a mano. Gutenberg portò due importanti innovazioni. Una fu l’invenzione dei caratteri mobili, cioè di piccoli timbri di metallo per ogni lettera dell’alfabeto. L’altra fu la macchina da stampa, che permetteva di realizzare centinaia di copie di un libro da una stessa matrice.
La stampa e la tipografia cambiarono molto poco nel corso del tempo, fino al XIX secolo, quando vennero inventate macchine che potevano impostare automaticamente i caratteri di un’intera riga o anche di un’intera pagina. Nel XX secolo la stampa si è così evoluta che oggi interi libri, sia composti da caratteri tipografici, sia da immagini, come ad esempio i libri d’arte, vengono composti al computer e stampati grazie ad enormi macchinari automatizzati.
Gli alfabeti sono utilizzati in tutto il mondo. Secondo alcune stime, più di tre quarti delle lingue del mondo utilizzano alfabeti, e circa il 60% della popolazione mondiale parla lingue che hanno un alfabeto scritto. Milioni di persone nel mondo, per lo più in Asia, usano simboli basati su immagini, che sono chiamati LOGOGRAMMI (simboli di parole) o IDEOGRAMMI (scrittura di idee).
Molte lingue indiane usano un alfabeto chiamato DEVANAGARI. Questo alfabeto utilizza lettere che appaiono molto diverse da quelle dell’alfabeto latino, ma in alcune di esse gli scienziati vedono delle somiglianze con le lettere dell’alfabeto fenicio.
In tutte le altre parti del mondo, domina l’alfabeto latino. Sviluppato in origine dai popoli della penisola del Sinai, l’alfabeto è stato adottato ed elaborato dai Fenici e dai Greci, e si è trasmesso fino a noi grazie ai Romani, lungo una lunga storia di scambi commerciali, guerre di conquista e migrazioni. Con l’alfabeto latino si scrivono decine di lingue diverse. Anche molte delle lingue che non usano le lettere latine, hanno alfabeti che mostrano somiglianze con quello latino, a dimostrare che sono tutti un regalo che ci è stato fatto dai popoli del Medio Oriente.
Che vantaggi ha usare un alfabeto?
Per prima cosa, è un sistema semplice da imparare. Per imparare l’Italiano, ad esempio, abbiamo bisogno di imparare solo 21 lettere, per imparare l’Inglese ne occorrono 26. Per imparare la scrittura cinese è necessario, invece, conoscere alcune centinaia di segni diversi. Inoltre scrivere o stampare le lettere dell’alfabeto è più semplice che riprodurre centinaia di simboli singoli diversi.
Nell’era dell’elettronica, inoltre, le testiere dei nostri computer sono molto semplici e veloci da usare, grazie al fatto che i nostri alfabeti hanno bisogno di poche lettere. Così l’alfabeto, creato molto tempo fa in Medio Oriente, rende un buon servizio anche oggi, favorendo la comunicazione e rendendola facile ed efficace.
Se confrontiamo tra loro le prime due lettere degli alfabeti di diverse lingue tra loro, possiamo accorgerci che alcune lettere sono simili per forma, ed alcune, pur essendo diverse per forma, hanno nomi molto simili.
Lo studio delle lingue antiche è una scienza. Come in tutte le scienze, le nuove scoperte possono portare a nuove conclusioni. Gli scienziati possono essere in disaccordo sul significato di simboli che risalgono a più di 3.000 anni fa.
Questa tabella mostra, per ogni lettera, sia ciò che gli scienziati danno per certo, sia ciò che è ancora oggetto delle loro investigazioni.
LETTERA A Nell’antichità, il bue era nei paesi del Medio Oriente un animale prezioso. Veniva usato per tirare l’aratro e preparare i campi di grano e di cotone, e per trasportare l’acqua che serviva ad irrigare i campi. I buoi, inoltre, fornivano la carne per nutrirsi e le pelli per vestirsi e costruire le tende. Il nome semitico di questo utilissimo animale era ALEPH, e la sua immagine divenne la prima lettera dell’alfabeto sinaitico. Originariamente, infatti, questa lettera sembrava una testa di bue. Quando i Greci presero in prestito questa lettera, la chiamarono ALPHA.
LETTERA B A prima vista, la lettera B non sembra un bel posto in cui vivere, ma in origine rappresentava proprio questo: BETH, cioè casa. L’antica parola beth delle lingue del Medio Oriente si trova nel nome di alcune città, ad esempio BETHLEMME che significa “casa del pane”. La lettera nell’alfabeto sinaitico rappresenta probabilmente la piantina di una casa con una sola stanza. Nell’alfabeto fenicio aveva una punta verso alto, indicando forse una tenda. Nell’alfabeto greco, la lettera all’inizio aveva due punte, e si chiamava BETA. Poi cominciarono ad arrotondare le punte facendo somigliare la lettera a quella che noi usiamo oggi.
LETTERE C e G Nel mondo delle lettere, G è parente stretta di C. Infatti, nell’alfabeto sinaitico e in quello fenicio, la lettera C era un modo di scrivere il suono G. Il suo nome era GIMEL. Alcuni linguisti credono che derivasse da una parola che significa “bastone da lanciare”, uno strumento usato per cacciare gli animali. Altri, invece, fanno risalire la parola al nome del cammello. La forma della lettera fenicia ricorda una gobba di cammello. Altri ancora, facendo riferimento alla forma che ha nell’alfabeto sinaitico, suggeriscono che la parola significasse angolo. Quando i Greci hanno preso in prestito questa lettera, l’hanno chiamata GAMMA e l’hanno utilizzata per il suono G. I Romani hanno aggiunto una linea e ne hanno arrotondato la forma. In origine, la usavano sia per il suono G sia per il suono K. Non sappiamo perché l’abbiano fatto, perché l’alfabeto greco aveva già una lettera per il suono K. La nuova lettera aveva una forma molto simile alla C, ma con l’aggiunta di una linea posta di traverso, per non confondere le due lettere tra loro. Uno scrittore romano riferisce che fu un maestro, ex schiavo, di nome Spurio Carvilio, ad aver introdotto la lettera G nell’alfabeto latino, intorno al 240 aC, ma la notizia non può essere considerata certa.
LETTERA D Gli studiosi sono abbastanza certi del fatto che la nostra lettera D ha avuto origine dalla lettera DALETH dei Fenici, parola che nella loro lingua significava PORTA. Quello che non è chiaro è perché la lettera somigli così poco a una porta. Alcuni studiosi affermano che il carattere fenicio rappresenta un pannello decorato di una porta di legno. Altri pensano che rappresenti una pelle animale che serviva a coprire l’ingresso a una tenda. Un’altra idea è che la forma della lettera Daleth deriva dalla lettera D dell’alfabeto sinaitico, chiamata DAG, che era un pesce. Dopo 4.000 anni, è difficile affermare una qualsiasi cosa con certezza. Qualunque sia stata l’origine del segno, i Greci trasformarono la porta fenicia in triangolo equilatero e la chiamò DELTA. Noi oggi usiamo questa parola per indicare il pezzo di terra, o meglio di limo, che si forma alla foce dei fiumi. In un certo senso, il delta è la porta del fiume.
LETTERA E L’origine della lettera E è incerta. Il simbolo sinaitico somiglia ad una persona che tiene le braccia alte verso il cielo, e forse indica una persona che sta pregando. Può anche significare, semplicemente, ALTO. La maggior parte degli studiosi di oggi credono che il disegno rappresenti una persona che esprime sorpresa. Il simbolo fenicio per la lettera E sembra completamente diverso, e alcuni lo interpretano come FINESTRA. Qualunque sia il suo significato, si trattava di una consonante, sia nel Sinaitico sia nel Fenicio. Quando fu presa in prestito dai Greci, divenne la vocale EPSILON, che aveva il suono della e breve. I Greci usavano una lettera diversa per il suono della E lunga.
LETTERE F U V W Y Cinque delle nostre lettere, F, U, V, W e Y provengono tutte dalla lettera VAU dell’alfabeto sinaitico. Durante i suoi viaggi attraverso i secoli, alla lettera VAU successero cose molto interessanti. Nella penisola del Sinai la consonante VAU era scritta con una curva o un cerchio posti sopra un’asta, ed aveva probabilmente il suono V. I Fenici cambiarono la parte superiore della lettera, la chiamarono WAW e si pensa la pronunciassero W. I Greci la trasformarono in due lettere separate nel loro alfabeto: spostando la parte superiore su di un lato crearono la lettera DIGAMMA, che era una consonante dal suono W. Il suono era piuttosto raro nella lingua greca, per cui questa lettera non era molto usata, ed alla fine fu eliminata dal loro alfabeto; arrotondando la parte superiore della lettera fenicia, crearono una vocale, UPSILON, che rappresenta il suono U. I Romani presero in prestito sia DIGAMMA sia UPSILON. Con digamma crearono una consonante che rappresentava il suono F. Poi eliminarono il gambo dell’upsilon e la usarono come consonante per il suono V e come vocale per il suono U. Dopo molti secoli, i Romani cominciarono a scrivere questa lettera col fondo arrotondato: era più facile incidere V sulla pietra, ma era più facile scrivere U con l’inchiostro sulla pergamena. Così, per molti secoli, le persone usavano indifferentemente il simbolo U e il simbolo V. Successivamente si usò U solo come vocale e V solo come consonante. Il suono W della lingua inglese nel Medioevo si scriveva UU (doppia U); poi divenne W. I Romani inoltre mantennero l’upsilon originale del Greco. Probabilmente aveva un suono I consonantico, spesso confuso con I vocalico. Oggi l’Inglese usa la Y come consonante nelle parole come YOU e YET, e come vocale nelle parole come BABY o MY.
LETTERA H La lettera H è nata come consonante, si è trasformata in una vocale, e ora è di nuovo consonante. Nell’alfabeto sinaitico si chiamava KHETH, che significa treccia o corda attorcigliata. Era pronunciata come consonante, simile all’attuale H della lingua inglese. I Fenici modificarono il simbolo, e il nome della KHETH nella loro lingua significava recinto (anche se per noi somiglia più ad una scala), mantenendo il suono H. I Greci chiamarono la lettera ETA, che aveva il suono di E aperta. I Romani presero la lettera ETA greca, ma siccome avevano già un simbolo per il suono E sia chiuso sia aperto, la usarono per il suono H, che a loro mancava, e così la H tornò ad essere una consonante. Nell’evoluzione della forma, la lettera, sia nell’alfabeto greco sia in quello latino, ha aperto il recinto.
LETTERE I e J Come la C e la G, anche le lettere I e J sono strettamente legate tra loro. Entrambe provengono dalla lettera YOD dell’alfabeto sinaitico e fenicio, dove aveva il significato di MANO o BRACCIO. Nelle forme antiche di questa lettera si intuiscono facilmente le dita di una mano. La YOD era una consonante, con un suono probabilmente simile a quello inglese nella parola Yard o a quello italiano nella parola IATO. I Greci la chiamarono IOTA e le diedero una forma più semplice. Poiché era una consonante di cui i Greci non avevano bisogno, la usarono come vocale per il suono I. I Romani usarono questa lettera per due suoni distinti. Uno era un suono vocalico probabilmente simile alla I in CIBO, mentre l’altro era un suono consonantico, simile a YET in Inglese. Durante il Medioevo le persone dei paesi anglofoni cominciarono a pronunciare questa lettera con G dolce, come nell’Inglese JET e nell’Italiano GELO. Intorno al XVI secolo dC le persone di lingua Inglese iniziarono a scrivere un piccolo uncino al termine della lettera I quando aveva funzione di consonante, e così nacque la J separata dalla I. Molte lingue usano le stesse lettere, ma spesso abbinandole a suoni diversi. Ad esempio lo Spagnolo, il Tedesco e l’Inglese hanno nel loro alfabeto la lettera J. In Inglese questa lettera si chiama JAY e sta per g dolce. In Spagnolo si chiama JOTA e ha un suono simile alla H aspirata. In Tedesco si chiama JOT e ha un suono simile ad Y. Stessa lettera, lingue diverse, suoni diversi. Le persone sono molto brave ad utilizzare lo stesso alfabeto, ma adattandolo ai suoni della propria lingua.
LETTERE Q e K Sia l’alfabeto sinaitico sia quello fenicio aveva due tipi di suoni K. Anche se i suoni erano simili, le lettere che li rappresentavano erano molto diverse. Una delle due lettere per rappresentare il suono K era chiamata KAPH, che significava “palmo della mano” ed aveva il suono più simile alla K dell’Inglese e alla c dura dell’Italiano. L’altra lettera era chiamata QOPH, ed aveva suono simile alla Q attuale. Non siamo sicuri sul significato della parola QOPH; il suo simbolo somigliava al nodo fatto su una corda, o ad una scimmia, o alla cruna di un ago. I Greci presero in prestito la KAPH, la chiamarono KAPPA, e trasformarono la sua forma rendendola simile alla K attuale. Anche i Romani la adottarono, anche se la usavano raramente, perché la C latina era usata sia per il suono C dolce, sia per il suono C duro. In alcune regioni della Grecia era stata introdotta anche la lettera KAPH, che venne chiamata KOPPA. I Romani adottarono anche questa lettera e la trasformarono in Q. La usavano solo davanti alla U, come facciamo ancora noi in Italiano, e come avviene in Inglese per parole come QUIET, QUEEN ecc…
LETTERA L In un certo senso, la lettera L è connessa alle lettera A. ALEPH, oppure A, era il bue. Per guidare i buoi, i popoli della penisola del Sinai usavano uno speciale pungolo che chiamavano LAMED. Il simbolo di questo bastone è all’origine della nostra lettera L. I Fenici spostarono la curva verso il basso. I Greci trasformarono la curva in angolo. L’angolo ebbe varie direzioni con l’andare dei secoli, sia nell’alfabeto greco, sia in quello latino, fino ad assumere la forma attuale.
LETTERA M La parola acqua ci fa pensare immediatamente sete, lavarsi, lavare, nuotare, cucinare. Cosa c’entra l’acqua con la lettera M? Anche se non il collegamento non ci appare immediato, la lettera M e l’acqua sono, possiamo dire, la stessa cosa. Il popolo della penisola del Sinai ed i Fenici chiamavano questa lettera MEM, che significava appunto ACQUA. In entrambi gli alfabeti, la forma di questa lettera rappresenta delle onde. Poiché sappiamo che i Fenici furono grandi navigatori, non stupisce che essi abbiano usato le onde del mare per simboleggiare l’acqua.
LETTERA N Guardando il simbolo dell’alfabeto sinaitico per la parola NUN, cosa pensi significhi? Un serpente? Un pesce? Un fulmine? I popoli che vivevano lungo le rive del Mar Rosso e del Mar Mediterraneo certamente avevano alla base della loro alimentazione il pesce. Gli scienziati pensano che la lettera nell’alfabeto sinaitico, e ancor più quella dell’alfabeto fenicio, assomiglino ad un pesce, o alla testa di un pesce. Infatti in queste lingue NUN significa pesce. E’ anche possibile che presso le popolazioni della penisola del Sinai, il nome della lettera fosse NAMESH, che significa serpente, e che i Fenici l’abbiano trasformata in NUN, che significa pesce, per rendere il simbolo più simile alla loro lettera M, MEM, che significa acqua. Forse nel corso dei secoli, la lettera ha finito quindi per assumere la forma di pesce a causa della stretta relazione tra le lettere M ed N nell’alfabeto. Le due lettere stanno una accanto all’altro, ed entrambe rappresentano suoni nasali, cioè che vengono pronunciate facendo passare aria attraverso il naso.
LETTERE O P R S LE popolazioni della penisola del Sinai ed i Fenici ricavavano i simboli per l’alfabeto da disegni di oggetti della vita quotidiana. Quattro delle nostre lettere, O, P, R ed S, provengono dai nomi di parti del viso.
LETTERA O La lettera O proviene dal nome AYIN, che significa OCCHIO. Quando i Greci adottarono questa lettera, la arrotondarono e la trasformarono da consonante a vocale, dandole il nome di OMICRON.
LETTERA P La lettera P proviene dal nome PE, che significa BOCCA. All’inizio la lettera greca somigliava molto a quella fenicia. I romani presero questa forma e la trasformarono rendendola simile alla P odierna.
LETTERA R La lettera R proviene dal nome RESH che significa TESTA. I Greci chiamarono questa lettera THO, e la scrivevano come la P. I romani aggiunsero, in seguito, una coda, che la rese simile all’attuale R.
LETTERA S SHIN era probabilmente la parola usata nella penisola del Sinai per indicare i DENTI. In Fenicio, SHIN aveva un suono simile a SC italiano e SH inglese, ma i Greci la utilizzarono per il suono S. Per quanto riguarda la forma, la girarono sul lato opposto. I Romani ne arrotondarono le punte, per renderla simile alla S attuale.
LETTERA T La lettera T, in origine, somigliava molto alla nostra X. Il suo nome presso le popolazioni della Penisola del Sinai, TAU, forse significa RUOTA. La sua forma deriva, probabilmente, dai raggi di una ruota. Può anche essere che TAU significhi invece semplicemente SEGNO. Anche oggi, infatti, le persone che non hanno imparato a scrivere usano un segno simile per firmare. La lettera dell’alfabeto fenicio è quasi uguali a quella dell’alfabeto sinaitico. I Greci spostarono la linea trasversale all’inizio della lettera. Questa è l’unica lettera greca che ha mantenuto lo stesso nome che aveva già nell’alfabeto fenicio, TAU. I romani trasferirono la lettera nel loro alfabeto senza ulteriori modifiche, è così è rimasta anche ai giorni nostri.
LETTERA X La lettera X è arrivata fino ai nostri giorni, proveniente dagli alfabeti dei popoli della penisola del Sinai e fenicio, ma è stata oggetto di qualche confusione presso i Greci ed i Romani. L’alfabeto fenicio aveva la lettera SHIN, che rappresentava il suono SC italiano o SH inglese. Nell’alfabeto sinaitico la lettera originale si chiamava SAMEKH, nome che significa PESCE o LISCA DI PESCE. Presso i Fenici assunse il significato di PILASTRO o SUPPORTO INTERNO. I greci, come abbiamo già detto, avevano già la lettera SHIN per la lettera S, per il suono S. Nella loro lingua avevano però un altro suono, il suono KS (simile al KS nell’Inglese BOOKS), che nella lingua fenicia non era presente, e per rappresentarlo usarono la lettera SAMEKH, cambiando il suo suono da SH a KS. Chiamarono questa lettera XI, mantenendo la sua forma simile a quella della lettera fenicia. I Romani presero in prestito la lettera X dai Greci, e la lettera è così arrivata fino ai giorni nostri.
LETTERA Z La lettera Z è l’unica ad essere stata eliminata dall’alfabeto, per essere poi reintrodotta. Per i popoli della penisola del Sinai e per i Fenici, ZAYIN significava ARMA o PUGNALE. I Greci chiamarono questa lettera ZETA e ne cambiarono la forma, collegando la parte superiore ed inferiore con un tratto diagonale. I Romani non hanno mai usato davvero la ZETA dei Greci. Non avevano parole che contenessero il suono Z, ad eccezione di pochissimi vocaboli di origine greca, ma per queste poche parole pensarono che il suono S fosse abbastanza simile al suono Z da poterlo sostituire. Nel 312 aC un funzionario di nome Caecus ordinò di rimuovere la Z dall’alfabeto. Originariamente il suo posto nell’alfabeto era dopo la F, così la G venne inserita al suo posto. Intorno al 100 dC i Romani presero in prestito, per la propria lingua, molte parole greche che prima non usavano, ed hanno così scoperto che la Z poteva essere loro utile. Hanno così aggiunto la Z alla fine dell’alfabeto, dove è rimasta. Una curiosità: nell’alfabeto inglese, la Z è l’unica lettera ad avere un nome diverso in USA e in Gran Bretagna. In USA la Z si chiama ZEE, mentre in Gran Bretagna si chiama ZED.
LA STORIA DELLA SCRITTURA fa parte del grande quadro della QUARTA GRANDE LEZIONE Montessori che tratta della nascita della scrittura e del linguaggio. Per saperne di più ed accedere a tutto il materiale relativo vai qui:
Raccontiamo questa storia posando una carta illustrata dopo l’altra, lungo una linea del tempo fatta con una corda intervallata da mollette da bucato, oppure semplicemente posandole in sequenza sul tavolo o su di un tappeto, una dopo l’altra.
PITTURE RUPESTRI circa 15.000 aC. Gli esseri umani vivevano sulla Terra da circa 4 milioni di anni. Avevano imparato a controllare il fuoco, a costruire strumenti di lavoro, a proteggersi dal cattivo tempo. Questi uomini avevano il desiderio di condividere con gli altri le cose che vedevano, così cominciarono a dipingere grandi scene sulle pareti delle grotte e delle caverne. Possiamo imparare molto sugli animali importanti per questi uomini, studiando queste immagini.
PITTOGRAMMI circa 7.500 aC. Col passare del tempo, gli esseri umani cominciarono ad utilizzare una combinazione di immagini per raccontare le loro storie. Utilizzavano le immagini come se fossero simboli, simboli che rappresentavano una parola. Il disegno di una ciotola accanto al disegno di una bocca, ad esempio, significava “mangiare”. Per disegnare usavano colori naturali: sangue secco, bacche, carbone, sassi polverizzati.
SCRITTURA CUNEIFORME circa 3500 aC. Gli abitanti di Sumer crearono una grande civiltà. Non avevano molti alberi sul loro territorio, così impararono ad usare l’argilla per preparare delle tavolette sulle quali era possibile scrivere. Le tavolette, una volta scritte, venivano cotte al sole. Per scrivere usavano uno strumento appuntito, chiamato stilo. La loro scrittura è chiamata scrittura cuneiforme, che significa a forma di cuneo. I Sumeri vivevano in Mesopotamia, tra i due fiumi Tigri ed Eufrate.
SCRITTURA DELLA CIVILTA’ DELLA VALLE DELL’INDO 3.500 aC. Questa civiltà si sviluppò sulle rive del fiume Indo, tra la Penisola Arabica e l’India attuali. Utilizzarono un sistema di scrittura che comprendeva circa 250 simboli. Incidevano questi simboli su lastre di pietra morbida. Questa scrittura non è ancora stata decifrata; chissà, forse un giorno proprio uno di voi riuscirà a risolvere questo mistero storico… Mentre le civiltà sumere ed egizie continuarono a prosperare, la civiltà della valle dell’Indo si è estinta.
GEROGLIFICI EGIZI circa 3200 aC. Gli Egizi hanno utilizzato per scrivere i geroglifici. Inizialmente i geroglifici venivano incisi su pietra. L’uso dei geroglifici era molto difficile da imparare: essi venivano anche chiamati “scrittura degli dei”. Le poche persone che sapevano scrivere i geroglifici e decifrarli erano chiamati scribi. Potevano diventare scribi soltanto gli uomini, mentre le donne non potevano andare a scuola. Col tempo gli Egizi impararono a fabbricare dei fogli utilizzando la pianta del papiro, e invece di scrivere su questi fogli con i pennelli, cominciarono ad usare strumenti appuntiti intinti nei colori. Questi fogli di papiro, una volta scritti, venivano conservati in rotoli, che erano i libri degli Egizi. I geroglifici egizi potevano rappresentare una parola oppure un suono, come le lettere che usiamo oggi. Scrivevano da sinistra a destra, da destra a sinistra, dal basso verso l’alto o dall’alto verso il basso.
IDEOGRAMMI DELLA DINASTIA SHANG 2.000 aC. La Dinastia Shang è la seconda dinastia cinese, e si sviluppò nella valle del fiume Giallo, nella Cina nordorientale. Per la scrittura, questa civiltà utilizzava circa 3.000 simboli (ideogrammi), che potevano rappresentare nomi o verbi. La scrittura cinese odierna non è molto diversa da questa prima scrittura, e questo è dovuto al fatto che il popolo cinese rimase a lungo isolato dal resto del.
SCRITTURA FENICIA 1.600 aC. I Fenici vivevano sulle coste del Mar Mediterraneo. Erano mercanti che navigavano in tutti i territori circostanti per vendere avorio, spezie, incenso, ornamenti e vetro. Il loro nome deriva dal nome di un colorante rosso porpora che usavano per tingere i tessuti, che ricavavano da un mollusco, e della cui estrazione erano l’unico popolo a possedere il segreto. Per registrare tutte le loro attività commerciali, i Fenici sentirono il bisogno di inventare un sistema di scrittura semplice e veloce. Poiché nei loro viaggi erano entrati in contatto con Sumeri ed Egizi, e con i loro sistemi di scrittura, presero in prestito le idee di questi due popoli. Il loro primo alfabeto era composto da circa 80 simboli, ma via via lo semplificarono fino a ridurlo a 22. Ognuno di questi 22 simboli rappresentava un suono, o più precisamente il suono di una consonante, perché l’alfabeto fenicio non aveva.
ALFABETO GRECO 800 aC. I Greci appresero la scrittura dai Fenici, ma poiché i due popoli parlavano lingue diverse, i Greci dovettero aggiungere all’alfabeto fenicio delle nuove lettere, e il loro alfabeto era composto da 24 lettere. La parola “alfabeto” deriva dalle prime due lettere dell’alfabeto greco, che erano alpha e beta. A differenza dei Fenici, nell’alfabeto greco c’erano anche le vocali, inoltre i Greci usavano mettere gli spazi tra le parole, avevano introdotto nella scrittura alcuni segni di interpunzione, e furono in primi a scrivere esclusivamente da sinistra verso.
ALFABETO LATINO 100 aC. I Romani furono una grande civiltà e riuscirono a conquistare territori vastissimi. I Romani presero in prestito l’alfabeto greco, ma modificando la forma delle lettere per rendere la scrittura più semplice e veloce. Queste lettere, che hanno più di duemila anni, somigliamo molto alle nostre lettere maiuscole. I Romani, invece di conservare i loro scritti in rotoli, cominciarono ad utilizzare i libri.
MEDIOEVO nel Medioevo i monaci copiavano a mano i libri, utilizzando una bella calligrafia e riproducendo alcune lettere in caratteri molto decorati, chiamati lettere miniate. Scrivevano con le penne d’oca e utilizzavano fogli ricavati dalle pelli di animali chiamati pergamene.
CINA Nel 900 aC i Cinesi avevano fatto molte scoperte e inventato molte cose, molto prima degli Europei, ma le due culture ebbero poche occasioni di contatto. I Cinesi avevano inventato la prima macchina da stampa, che utilizzava inizialmente singoli ideogrammi intagliati nel legno. Le pagine venivano stampate componendo i segni intagliati insieme. Più tardi presero ad intagliare su un unico pezzo di legno l’intera pagina. In questo modo potevano realizzare molte copie della stessa pagina, anche se il legno, con l’uso, tendeva a deteriorarsi. Intorno al 105 dC i Cinesi misero anche a punto la tecnica della fabbricazione della carta, utilizzando polpa di legno.
CARLO MAGNO fu un grande conquistatore del Medioevo. Egli aveva collezionato ad Alessandria moltissimi libri, e diede al monaco Alcuino, nel 780 dC, l’incarico di occuparsene. Sfortunatamente la Biblioteca di Alessandria non è sopravvissuta fino ai nostri giorni, poiché è stata distrutta da un incendio. Alcuino fissò molte delle regole ortografiche sull’uso delle lettere maiuscole e sulla punteggiatura, che usiamo ancora oggi.
USO DELLA STAMPA IN EUROPA 1400 dC. Johann Gutenberg, un tedesco, fu il primo europeo a mettere a punto una tecnica per la fabbricazione della carta e una macchina da stampa che permetteva di realizzare copie dei libri in modo più veloce. Entrambe le scoperte erano già state fatte dai Cinesi, ma essi non le avevano condivise con gli altri popoli. Grazie a Gutenberg, ora i libri potevano essere prodotti in un giorno, mentre i monaci, scrivendoli a mano, impiegavano molti mesi. I caratteri tipografici, inizialmente realizzati in legno, vennero poi prodotti in bronzo.
STELE DI ROSETTA nel 1799 AD alcuni soldati napoleonici, durante la campagna d’Egitto trovarono una lastra di pietra che recava un’iscrizione in tre alfabeti: geroglifico, demotico e greco. Siccome siamo in grado di leggere il greco antico, fu possibile decifrare anche il testo nelle altre scritture. Gli studiosi impiegarono circa 40 anni, ma alla fine il segreto dei geroglifici era svelato. Leggere ciò che un popolo scriveva, ci dà molte informazioni su di esso, e ci mostra ciò che gli uomini del tempo pensavano e come vivevano.
EPOCA MODERNA Oggi la parola scritta può viaggiare da una parte all’altra del mondo in pochi secondi. I computer e i satelliti hanno reso possibile lo scambio di notizie in tempo reale. Le lingue possono essere tradotte da macchine. Una grande quantità di informazioni possono essere contenute in spazi piccolissimi, come le chiavette di memoria usb. Intere enciclopedie possono essere contenute in pochi centimetri di spazio, e forse un giorno la scrittura su carta sarà considerata nello stesso modo in cui noi oggi consideriamo le pitture rupestri.
QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI LA STORIA DELLA SCRITTURA
L’alfabeto che usiamo sembra essersi sviluppato dalla scrittura dei Fenici, come abbiamo raccontato ieri. La storia dell’uomo, della quale abbiamo fonti scritte, copre un tempo di circa 5.000 anni. Non è molto tempo, vero?
Possiamo dire che la scrittura è stata immaginata dagli uomini molto tempo prima dei Fenici, infatti abbiamo delle splendide pitture rupestri risalenti al Paleolitico, ad esempio quelle di Lasco e di Altamira. Ma non siamo del tutto certi che queste pitture rupestri servissero a comunicare informazioni, ad esempio sulla caccia o sulla coltivazione delle piante utili all’uomo. Alcuni studiosi pensano che ci sia una connessione tra questi dipinti ed il luogo in cui sono stati trovati: queste grotte hanno un’acustica particolare, e forse c’era un legame tra la pittura e la musica. Antropologi, archeologi, paleontologi e gli altri studiosi stanno ancora formulando ipotesi al riguardo.
In America, le prime tribù di nativi comunicavano tra di loro attraverso disegni, e così erano in grado di capirsi tra loro anche parlando lingue diverse. Così facciamo ancora oggi, quando abbiamo necessità di farci capire da qualcuno, ma parliamo lingue diverse. Anche i bambini, prima di imparare a scrivere, usano spesso il disegno a questo scopo. Anche oggi, nel mondo, possiamo trovare molti tipi di messaggi scritti con immagini e non con alfabeti: ad esempio i cartelli stradali, gli stemmi delle squadre sportive, le bandiere degli Stati, le emoticon che usiamo quando scriviamo messaggi dal computer o dal telefono.
Tornando però alla scrittura di messaggi attraverso le immagini, nel passato accaddero due cose molto importanti: in primo luogo le immagini furono sempre più semplificate e codificate, fino a trasformarsi in segni più che disegni; in secondo luogo i primi disegni rappresentavano una parola intera, ma poi apparvero segni che servivano a rappresentare non nomi, ma suoni (sillabe e suoni singoli).
Sembra che il primo sistema di scrittura vero e proprio si sia sviluppato all’interno della civiltà sumera. I Sumeri vivevano nelle regioni meridionali della Mesopotamia, tra il 4.000 e il 3.000 aC. Questo territorio era ricchissimo di argilla, ed essi la usarono per fabbricare delle tavolette che incidevano con i caratteri che componevano il loro alfabeto. Per tracciare questi segni usavano un bastoncino appuntito, chiamato stilo. Poiché questi segni sembrano dei cunei, la scrittura dei Sumeri è nota come scrittura cuneiforme. Venne utilizzata per un periodo molto lungo. Quando i Sumeri furono conquistati degli Assiri e dai Babilonesi, anche i conquistatori, pur parlando lingue diverse (di origine semitica), continuarono ad usarla. La scrittura cuneiforme si diffuse in tutto il Medio Oriente e fu utilizzata anche dagli Ittiti e dai Persiani, anche se parlavano anch’essi lingue diverse.
Tempo dopo gli Egizi iniziarono a registrare messaggi utilizzando un codice composto da immagini. All’inizio utilizzavano come supporto le pietre, poi impararono a fabbricare una sorta di carta utilizzando la pianta del papiro, che cresceva abbondante sulle rive del fiume Nilo. L’utilizzo di pennelli su papiro rendeva semplice l’operazione, e i disegni si semplificarono notevolmente nel tempo. Finendo col somigliare per il modo di fluire, alla scrittura corsiva.
Gli Egizi utilizzavano questa scrittura a scopi religiosi, e si parla perciò di scrittura sacra. Nella sua forma meno complicata e più fluente si chiama anche scrittura ieratica o sacerdotale.
Intorno al 700 aC si cominciò ad utilizzare un’altra variante di scrittura, nota come scrittura demotica, che significa “scrittura per il popolo”.
L’alfabeto che utilizziamo oggi nella maggior parte dell’Europa Occidentale è sicuramente derivato da quello sviluppato dai Fenici e diffuso grazie ai Greci prima, ed ai Romani poi.
Sappiamo che i Fenici furono grandi navigatori e che si muovevano con imbarcazioni a vela lungo tutto il Mediterraneo, acquistando e vendendo merci. Sappiamo che entrarono in contatto con i Greci, e pensiamo che i Greci abbiano iniziato ad utilizzare l’alfabeto dei Sumeri intorno al 900 aC.
I segni dell’alfabeto dei Fenici si sono probabilmente sviluppati a partire dai geroglifici egizi, ma si sono molto evoluti nel tempo, perché le lettere che usiamo oggi sono molto diverse dalle lettere fenicie.
I Greci aggiunsero all’alfabeto fenicio i simboli per le vocali, perché nell’alfabeto fenicio non erano presenti, mentre per i Greci le vocali erano indispensabili. I Greci scrivevano tutte le lettere in maiuscolo, e non c’erano spazi tra le parole.
Quando i Romani acquisirono l’uso dell’alfabeto greco, il loro contributo principale fu quello di rendere più belli i segni, aggiungendo linee curve e abbellimenti.
L’evoluzione dell’alfabeto portò poi ad aggiungere le lettere minuscole alle maiuscole.
Col tempo si praticò ovunque l’arte della bella scrittura (calligrafia). Famosi, ad esempio, gli scrivani irlandesi.
La loro scrittura è stata sviluppata ulteriormente dal vescovo Alcuino, che viveva a Tours, in Francia, alla corte di Carlo Magno. Alcuino lavorò allo sviluppo di un alfabeto che poteva essere scritto facilmente e velocemente. Si basò sulla calligrafia degli scrivani irlandesi, ma semplificò i suoi segni, rendendoli semplici da scrivere. Questo alfabeto prende il nome di “scrittura carolina”, dal nome di Carlo Magno. Era una scrittura molto chiara e leggibile, e per questo si diffuse in tutta Europa. Coincide con il minuscolo che usiamo ancora oggi.
Verso la fine del Medioevo si erano sviluppati, nei vari Paesi, vari stili di scrittura. Uno di questi era il gotico, nome che significa “lettera nera”.
Nel X secolo nacque in Italia il corsivo, che ebbe grande diffusione e entro il XVI secolo si era diffuso ormai anche in Francia e Inghilterra.
Gli stili di scrittura continuarono ad evolvere, finché si arriva all’invenzione dei caratteri di stampa, che apre una nuova epoca della storia umana, con grandi cambiamenti che riguardano anche i modi di pensare.
La stampa dei caratteri di scrittura è molto simile a quello che facciamo quando stampiamo con la patata. I libri antichi seguivano esattamente lo stesso concetto: l’immagine della lettera veniva riprodotta in rilievo, a specchio perché risultasse corretta una volta stampata sulla carta, su blocchi di legno. Le lettere in rilievo venivano composte e stampate sulla carta, con l’inchiostro, per formare la pagina. Questa invenzione rendeva più semplice riprodurre i libri, rispetto al precedente metodo di scrittura a mano, ma, certo, il procedimento era ancora molto lungo e laborioso.
Sullo stesso concetto delle prime stampe si basa anche un particolare modo di firmare che si usava in questo periodo. Poiché allora poche persone sapevano leggere e scrivere, e pochi sapevano scrivere anche solo il proprio nome, per firmare si usavano i sigilli. Si trattava di immagini o simboli in rilievo, fatti di metallo, che venivano montati su manici di legno o su anelli da portare al dito, e che si usavano per imprimere il segno sulla ceralacca.
Le tecniche di stampa intanto si sono sempre più evolute, ed i Cinesi diedero un grande contributo a renderla più veloce. Pensiamo che gli Europei abbiamo imparato a fare la carta da questo popolo, ma molti dettagli della vicenda restano oscuri.
La prima carta veniva prodotta a partire dalla pianta di riso, poi, per un lungo periodo, sono stati utilizzati gli stracci. L’uso delle fibre di legno risale a poco più di 100 anni fa.
L’uso dei caratteri mobili sostituì quello delle tavolette scolpite a rilievo in blocchi di legno, e questa fu un altro notevole progresso.
Infine le lettere mobili furono realizzate in metallo e in molte copie, in modo da poter comporre un’intera pagina in una sola volta, e farne più copie.
Oggi, accanto alla scrittura stampata su carta, abbiamo a disposizione anche testi non stampati, che leggiamo da computer, tablet, telefoni e altri supporti. Possiamo stampare testi da casa, grazie alle stampanti collegate ad essi. Abbiamo anche a disposizione vari stili tipografici diversi. In genere la nostra calligrafia è più semplificata e personale di quanto lo fosse nelle epoche precedenti.
QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI LA STORIA DELLA SCRITTURA
Ricordate l’alfabeto greco, la storia del bue e della Casa e di come l’alfabeto è arrivato fino a noi, che abbiamo imparato a scrivere con le lettere smerigliate?
Quando si iniziò ad utilizzare la scrittura, alcuni popoli scrivevano su cortecce d’albero, alti sulla creta, altri sulla pietra, altri sulle pelli degli animali, sulla cera, e perfino sulla sabbia.
I Sumeri utilizzavano una scrittura detta CUNEIFORME, perché i segni avevano forma di cunei. Sappiamo che essi imprimevano questi segni su tavolette di argilla morbida, che poi facevano cuocere al sole. Queste tavolette si sono conservate nel tempo, e possiamo ammirarle ancora oggi.
Gli Egizi usavano i GEROGLIFICI, nome che venne dato a questa scrittura dai Greci, e che significa “scrittura sacra”, poiché credevano che venisse usata soltanto a scopi religiosi. In realtà gli Egizi usavano due tipi di scrittura:
IERATICA, che utilizzavano i sacerdoti per scrivere su edifici e monumenti. Non tutti erano in grado di leggerla, poiché era molto complicata;
DEMOTICA, che si usava nella vita di tutti i giorni, ed era molto più semplice. Veniva scritta su fogli di papiro utilizzando delle cannucce come penne.
I Fenici possono essere considerati i veri inventori dell’alfabeto (scriviamo una frase qualunque omettendo le vocali, ad esempio FNC NN SVN L VCL – i Fenici non usavano le vocali). Riuscite a leggere quello che ho scritto? I Fenici avevano 22 lettere nel loro alfabeto, che rappresentavano i suoni della loro lingua, ma non avevano vocali, perché nella loro lingua potevano comunicare anche senza di esse. Grazie al loro alfabeto semplice e veloce, potevano tenere registri commerciali molti accurati.
I primi Greci scrivevano con un sistema chiamato scrittura BUSTROFEDICA perché aveva un andamento che ricordava il bue che ara i campi (dal greco “bue” e “invertire”). La scrittura non aveva una direzione fissa: la prima riga procedeva da sinistra a destra, poi giunti al margine, la seconda riga proseguiva a ritroso nel senso opposto, con un procedimento a nastro. I Greci aggiunsero al loro alfabeto le vocali.
I Romani presero l’alfabeto greco e lo modificarono per soddisfare meglio le proprie esigenze. Semplificarono i segni, anche perché usavano scolpire testi sulle pietre di monumenti ed edifici. Scrivevano tutto in caratteri maiuscoli.
Nel medioevo, i monaci irlandesi che avevano imparato ad usare l’alfabeto latino, trascorrevano molto del loro tempo copiando i testi antichi. La loro era una scrittura a carattere soprattutto sacro, e per questo curavano molto la bellezza dei loro segni. Grazie a loro le lettere si modificarono: i segni diventarono più piccoli ed arrotondati, così era possibile scrivere molte parole su ogni pagina ed abbellirle con decorazioni preziose. Questo stile di scrittura venne chiamato “minuscolo”.
Il monaco Alcuino, alla corte di Carlo Magno, insegnò questo stile di scrittura agli studiosi di corte, a Tours, in Francia. Questo stile subì varie trasformazioni, ed è stata poi chiamata scrittura CAROLINA, dal nome dell’imperatore. La scrittura carolina si diffuse a tutti i Paesi d’Europa, ed ogni nazione sviluppò da essa uno stile proprio, ad esempio i gotico, e il corsivo italico.
L’arte degli stili di scrittura a mano si chiama CALLIGRAFIA.
LA STORIA DEL BUE IN CASA rientra nel quadro della QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI e narra della nascita della scrittura presso le civiltà del Mediterraneo.
Per avere il quadro completo della quarta grande lezione e consultare tutto l’altro materiale vai qui:
Qui trovi il racconto e le carte illustrate relative, scaricabili e stampabili in formato pdf.
LA STORIA DEL BUE IN CASA – Materiale utile per la presentazione:
Immagini:
un’immagine che le persone avrebbero potuto usare per raccontare una storia, senza usare l’alfabeto
tavolette sumere
geroglifici
alfabeto fenicio
alfabeto greco
alfabeto latino
LA STORIA DEL BUE IN CASA – Racconto:
Per moltissimo tempo, quando le persone volevano lasciare un messaggio agli altri, disegnavano la scena che volevano raccontare sulla pietra (mostrare la carta 1).
Poi, a Sumer, gli uomini hanno cominciato, per registrare i loro messaggi, a incidere dei segni sulla creta molle, utilizzando uno strumento appuntito chiamato stilo. Le tavolette di creta, una volta incise, venivano cotte al sole, e diventavano dure. In questo modo venivano scritti veri e propri libri, ed esistevano intere biblioteche di testi scritti con questo stile di scrittura, chiamato scrittura cuneiforme. Cuneiforme significa “a forma di cuneo”. Potete immaginare la meraviglia che provarono i primi studiosi che scoprirono questo tesoro (mostrare la carta 2).
Un altro gruppo di persone che viveva in Egitto, usava invece scolpire o dipingere dei bellissimi segni sulla pietra. Essi poi scoprirono una pianta chiamata papiro, una canna che cresce sulle sponde del fiume Nilo, ed impararono ad usarla per fabbricare dei fogli, sui quali scrivevano con un inchiostro che ricavavano dalla fuliggine, utilizzando dei pennelli (mostrare la carta 3).
Per leggere questi messaggi è necessario conoscere il significato esatto di ognuno dei disegni. Questi disegni sono chiamati geroglifici (parola che significa “scrittura sacra scolpita”). Era sacra perché pochi erano in grado di leggerla.
Nello stesso periodo esisteva un altro gruppo di uomini, i Fenici. Questo popolo viaggiava in lungo e in largo per il Mar Mediterraneo, su barche a vela, per vendere argento, gioielli, spezie, seta e porpora di Tiro, un colorante rosso molto speciale, che ricavavano da una specie particolare di mollusco, e che veniva usato per tingere i tessuti. I Fenici erano molto abili nel commercio, vendevano le loro merci, prendevano il ricavato e velocemente salpavano verso altri territori, per mettere a frutto al meglio il loro commercio. Viaggiavano continuamente, entrando così in contatto con molti popoli e molte lingue diverse. Quando incontrarono gli Egizi furono molto impressionati dalla loro scrittura, e pensarono che poteva essere molto utile disporre di un metodo per registrare le cose comprate e vendute, e poter così calcolare quanto era stato il guadagno. La scrittura degli Egizi, però, era molto complicata, e scrivere in quel modo richiedeva troppo tempo, così decisero di utilizzare un sistema più semplice e veloce. Si accorsero che gli Egizi, oltre ad usare geroglifici che simboleggiavano oggetti o idee, avevano dei geroglifici che rappresentavano soltanto suoni, i suoni prodotti mentre si pronunciano le parole. Pensarono così che sarebbero bastati una ventina di questi segni per avere a disposizione tutti i suoni, e quindi poter scrivere tutte le parole. I segni che usarono i Fenici per scrivere somigliavano ad oggetti d’uso quotidiano (mostrare la carta 4).
Qui possiamo vedere i loro primi due segni. Il primo si presenta come la testa di un bue, e rappresenta il suono “Aleph”. Il secondo sembra una casa, e rappresenta il suono “Beth”.
Anche agli antichi Greci l’idea dei Fenici piacque molto, ed anch’essi vollero usarla per scrivere le cose che ritenevano importante registrare. Rinunciarono a far somigliare le loro lettere a buoi o a case, e le lettere cominciarono ad assumere un aspetto diverso (mostrare la carta 5).
Queste sono le prime due lettere hanno usato: sono ”Alpha’ e “Beta”, le prime due lettere dell’Alphabeta, parola greca che significa appunto alfabeto. I Greci usavano le lettere per scrivere testi poetici e teatrali, e per registrare le proprie idee sulla vita.
I Romani, che vennero dopo i Greci, pensarono anch’essi che un alfabeto fosse davvero molto utile: si poteva usare per scrivere i progetti per costruire le strade, per inviare messaggi nei territori lontani, per coordinare il lavoro di tutti i soldati e i governatori del vasto territorio che controllavano. Poiché i Romani amavano anche scrivere messaggi sui monumenti e sugli edifici che costruirono, semplificarono molto le lettere, in modo che fossero facili e veloci da scrivere (mostrare la carta 6).
Così, i segni inventati dai Fenici sono stati utilizzati da molti uomini e si diffusero in tutto il mondo, fino ad arrivare a noi. Sono gli stessi delle nostre lettere smerigliate.
Quando impariamo a conoscere le lettere che compongono l’alfabeto, possiamo scrivere le nostre idee e dire agli altri ciò che pensiamo. Possiamo leggere messaggi scritti da persone che non abbiamo mai incontrato, che vivono dall’altra parte del mondo, o che sono vissuti nel passato.
Possiamo inviare messaggi ai nostri amici mentre siamo in vacanza, o scrivere biglietti d’auguri per augurare loro un buon compleanno.
Anche se l’invenzione dell’alfabeto è avvenuta molto tempo fa, l’ho usata per raccontare questa storia a voi, oggi!
LA STORIA DEL BUE IN CASA
THE STORY OF THE OX IN THE HOUSE is part of the FOURTH GREAT MONTESSORI LESSON and tells of the birth of writing in the Mediterranean civilizations.
Here is the story and picture cards related, downloadable and printable for free in pdf format.
THE STORY OF THE OX IN THE HOUSE
Useful material for the presentation:
Pictures:
an image that people could use to tell a story without using the alphabet
Sumerian tablet
hieroglyphs
Phoenician alphabet
greek alphabet
Roman alphabet
THE STORY OF THE OX IN THE HOUSE
Story:
For a very long time, when people wanted to leave a message to others, they drew the scene who wanted to tell on the stone (show the card 1).
Then, in Sumer, the men began for recording their messages, to engrave marks on soft clay, using a sharp tool called stylus. The clay tablets, once recorded, were cooked in the sun, and became hard. In this way they were written real books, and there were entire libraries of texts written in this style of writing, called cuneiform writing. Cuneiform means “wedge-shaped”. You can imagine the wonder that the first scientists who discovered this treasure felt (show the card 2 and the card 3).
Another group of people who lived in Egypt, used instead to carve or paint some beautiful marks on the stone. They then discovered a plant called papyrus, a reed that grows on the banks of the Nile River, and learned to use it to manufacture sheets, on which they wrote with an ink that took from the soot, using brushes (show card 4, card 5 and card 6).
To read these messages you must know the exact meaning of each drawings. These drawings are called hieroglyphics (a word that means “sacred writing carved”). It was sacred because few people were able to read it.
In the same period there was another group of people, the Phoenicians. This people traveling the length and breadth of the Mediterranean Sea, on sailboats, to sell silver jewelry, spices, silk and Tyrian purple, a very special red dye, which they extracted from a particular species of mollusk, and thatwas used to dye fabrics. The Phoenicians were very skilled in the trade, they were selling their goods, they took the money and quickly sailed towards other territories, to build on the best of their trade.
They are traveling constantly, thus entering into contact with many people and many different languages. When they met the Egyptians were very impressed by their writing, and thought it could be very useful to have a method for recording the things bought and sold, and be able to calculate how much was the gain.
The writing of the Egyptians, however, was very complicated, and write in that way required too much time, so they decided to use a simpler and faster system. They realized that the Egyptians, as well as using hieroglyphs that symbolized objects or ideas, they had hieroglyphics representing only sounds, the sounds produced while the words are pronounced. So they thought that would have been enough twenty of these signs to have all the sounds, and then be able to write all the words. The signs that the Phoenicians used to write were like everyday objects (show the card 7).
Here we can see their first two signs. The first looks like the head of an ox, and it represents the sound “Aleph”. The second feels like a home, and it represents the sound “Beth”.
Even the ancient Greeks really liked the idea of the Phoenicians, and also wanted to use it to write down things they considered important to record. They gave up to look like their letters to oxen or homes, and letters began to take on a different look (show the card 8).
These are the first two letters that they used: they are ” Alpha ‘and’ Beta ‘, the first two letters dell’Alphabeta, a Greek word which means alphabet. The Greeks used the letters to write poems and plays, and to record their ideas on life.
The Romans, who came after the Greeks, they too thought that an alphabet was indeed very useful: it could be used to write projects to build roads, to send messages to distant lands, to coordinate the work of all the soldiers and governors of the vast territory they controlled. Because the Romans also loved to write messages on the monuments and buildings that they built, they simplified a lot the letters, so that they were quick and easy to write (show card 9).
Thus, the signs invented by the Phoenicians have been used by many people and spread around the world, up to us. They are the same as our movable alphabets.
When we learn the letters of the alphabet, we can write our ideas and tell others what we think. We can read messages written by people who have never met, who live halfway around the world, or who have lived in the past. We can send messages to our friends while we’re on vacation, or write greeting cards to wish them a happy birthday.
Even if the invention of the alphabet was made a long time ago, I used it to tell this story to you… today!
Fiaba cosmica della storia della scrittura Montessori, in tre versioni. Per avere il quadro completo della quarta grande lezione e consultare tutto l’altro materiale vai qui:
– carte illustrate per la fiaba cosmica della storia della scrittura (facoltative)
Fiaba cosmica della storia della scrittura. Pdf qui:
Fiaba cosmica della storia della scrittura – Racconto:
Qualche settimana fa, abbiamo raccontato la storia della nascita dell’Universo. Al termine del racconto, ricorderete che la Terra era formata. In un’altra storia avviamo visto che l’equilibrio non era completo, ed è comparsa la vita a risolvere questo problema. Apparve una grande varietà di animali e piante, che col tempo popolarono i mari, la terraferma ed il cielo. Abbiamo visto molti di questi esseri viventi sulla nostra linea del tempo. Al termine di questa linea, il nostro pianeta era pronto ad accogliere l’essere umano. Abbiamo raccontato una storia che parlava di quando è arrivato sulla Terra e di ciò che faceva, fin dalla sua prima comparsa. Abbiamo poi srotolato la lunga fascia nera, che aveva al termine una striscia speciale. Abbiamo poi visto un’altra fascia, quella della mano, e abbiamo parlato del lavoro che gli uomini da sempre svolgono sulla Terra.
Oggi racconteremo un’altra storia sugli esseri umani, una storia molto speciale.
Non sappiamo esattamente quando si è svolta, sappiamo che è avvenuta molto tempo fa, e sappiamo di certo che è una storia vera.
Quando i primi uomini e le prime donne vennero sulla Terra, avevano dei bisogni da soddisfare. Ad esempio avevano bisogno di cibo. Per questo cominciarono ad esplorare l’ambiente intorno a loro per trovare cose da mangiare. Era un tempo molto lontano, e non c’erano negozi di generi alimentari o fattorie. Quando qualcuno trovava qualcosa di buono, la notizia si diffondeva anche agli altri. E la notizia si diffondeva anche nel caso di cose disgustose o velenose.
Durante le loro esplorazioni, capitava che questi uomini a volte si allontanassero molto dal loro rifugio. Per diffondere le notizie riguardo a ciò che era buono da mangiare ed a ciò che non lo era, a qualcuno (non sappiamo chi) venne un’idea: disegnerò questa cosa per lasciare un messaggio di quello che ho scoperto. Per molto tempo le persone fecero questo: riproducevano con immagini le cose che volevano condividere con gli altri.
Questo sistema fu usato per lunghissimo tempo, finché un gruppo di esseri umani, chiamati Egizi, cominciò a disegnare immagini più dettagliate delle cose. Questi segni venivano da sempre disegnati sulle pietre, ma gli Egizi pensarono che ci fosse bisogno di un sistema più semplice e veloce per lasciare agli altri uomini dei messaggi. Scoprirono così un metodo per fabbricare dei fogli, utilizzando una pianta che cresceva abbondante sulle rive del loro grande fiume. Con questo tipo speciale di foglio, era possibile disegnare i segni con dei pennelli, e questo metodo fu adottato poi per lunghissimo tempo. In seguito qualcuno ebbe l’idea di rendere il lavoro ancora più veloce e semplice: invece di usare i pennelli, si poteva usare uno strumento più appuntito, una sorta di penna, per tracciare i segni.
Con le immagini che gli Egizi usavano per scrivere i loro messaggi, però, c’era un problema: non sempre si potevano decifrare con certezza i messaggi, perché una stessa immagine poteva voler dire cose diverse. Ad esempio un tavolo poteva voler dire tavolo, oppure gamba, oppure mangiare. Come facevano le persone che guardavano il disegno, a capire il messaggio?
Un altro gruppo di uomini, chiamati Fenici, viveva molto tempo fa sulle sponde del Mediterraneo. Mentre gli Egizi vivevano lungo le rive del fiume Nilo, e vivevano di agricoltura, i Fenici erano commercianti e marinai, e viaggiavano con le loro navi raggiungendo molti Paesi, trasportando argento, vetro e cristalli, profumi, gioielli e ornamenti preziosi. Raggiunti Paesi lontani con le loro navi, offrivano queste cose alle persone che volevano comprarle. Tra le loro merci più preziose c’era un tessuto che nessun altro popolo sapeva fabbricare: un tessuto tinto con la porpora di Tiro. Questo tessuto era così prezioso che veniva usato solo da re ed imperatori. Tutti desideravano acquistare le merci vendute dai Fenici, e il tessuto tinto con porpora di Tiro era la merce più desiderata di tutte. Ma non è questo il motivo per cui i Fenici sono un popolo molto importante nella storia dell’umanità. Essi fecero una cosa ancora più importante. I Fenici conoscevano la scrittura tramite disegni degli Egizi, e sapevano che il significato di questa scrittura non era sempre chiaro. Siccome erano un popolo dedito totalmente al commercio e alla navigazione, non avevano il tempo di mettersi a disegnare tutte quelle immagini per lasciare i loro messaggi. Avevano bisogno di un modo più semplice per registrare la merce che compravano e vendevano. Così ebbero un’idea davvero intelligente. Decisero di utilizzare solo le immagini che gli Egizi usavano per riprodurre i suoni, modificarono un po’ queste immagini, e decisero di tenere solo alcune di esse.
La cosa interessante è che con poche immagini che significavano un determinato suono, era molto più facile scrivere ciò che si voleva comunicare. I Fenici scoprirono quello che voi stessi avete scoperto quando avete cominciato ad usare le lettere smerigliate e gli alfabeti mobili. Hanno trovato un modo per rendere la scrittura semplice e veloce.
La nostra storia non finisce però con i Fenici. Un altro popolo, i Greci, presero i simboli fenici, ne modificarono la forma, e usarono i nuovi segni per scrivere. L’alfabeto ideato dai Greci passò poi ad un altro popolo, i Romani, che modificano ulteriormente i loro segni. Le lettere che noi usiamo oggi per scrivere assomigliano molto a quelle usate dai Romani.
Quindi le lettere che usiamo oggi per scrivere, sono nate grazie ai Fenici, il primo popolo che utilizzò dei segni per riprodurre i suoni. Questi segni ci aiutano a comunicare con le persone che sono lontane da noi e non possono sentire la nostra voce, e per comunicare con tutte le persone che verranno dopo di noi.
Fiaba cosmica della storia della scrittura
QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Fiaba della lingua scritta (o della comunicazione attraverso i segni) Seconda versione
Fiaba cosmica della storia della scrittura – Materiale utile per la presentazione:
– linea del tempo per la fiaba cosmica della storia della scrittura (facoltativa)
Fiaba cosmica della storia della scrittura – Racconto:
Ricordate quando abbiamo parlato di come si è formata la Terra? E quando abbiamo parlato della comparsa dei viventi? Le piante si sono trasferite sulla terraferma, gli anfibi hanno emesso il primo suono e la Terra ha udito per la prima volta una voce, poi sono arrivati gli animali e infine, quando la Terra fu pronta, arrivarono gli esseri umani. Poi abbiamo parlato anche di questi esseri umani: donne, uomini e bambini come noi. Abbiamo parlato dei loro doni speciali e di ciò che hanno fatto.
Oggi parleremo in particolare di una cosa che gli esseri umani sono riusciti a fare molto tempo fa, ma solo dopo essere vissuti sulla Terra molto, molto a lungo.
Gli scienziati pensano che l’essere umano, fin dalla sua prima comparsa, fosse in grado di parlare con suoni e risate. Già i primi uomini impararono a dare nomi agli oggetti per comunicare agli altri ciò che volevano, o per mettere in guardia gli altri dai pericoli, ad esempio dalla presenza di animali feroci, o per far sapere agli altri dove trovare cibo, o buoni posti in cui rifugiarsi. La sera poi raccontavano agli altri le cose interessanti che avevano visto durante il giorno, e confortavano i loro bambini, se qualcosa li aveva spaventati.
Ma questo lo potevano fare solo con le persone che erano presenti davanti a loro. Come sappiamo, però, l’uomo ha un cuore in grado di provare amore anche per persone che non sono presenti davanti a loro, addirittura possono provare amore per persone mai incontrate.
Per lasciare messaggi a persone che non erano presenti in quel momento, gli uomini all’inizio usarono i sassi, disponendoli secondo certi schemi, poi iniziarono a fare dei disegni. Questo è ciò che può essere successo.
C’era una volta un ragazzo che non aveva un nome. Era usanza del suo popolo scegliere un nome adatto ai ragazzi, solo quando essi avessero compiuto un atto coraggioso.
Nel paese dove il ragazzo viveva, venne una grande siccità. Il fiume cominciò a prosciugarsi, e presto non ci fu più nulla da mangiare. Le piante erano appassite e gli animali selvatici erano scappati. Le persone dovettero abbandonare la loro terra, alla ricerca di acqua.
Il ragazzo aveva un cane, e alcuni uomini della sua tribù volevano ucciderlo per cibarsene, ma il ragazzo lo difese dicendo che il cane era un buon cacciatore e che lui e il suo cane insieme sarebbero riusciti a trovare del cibo per tutti. Così il ragazzo e il suo cane andarono sulle montagne a cercare qualcosa da mangiare.
Dopo molti giorni di esplorazione, si fecero molto deboli per la fame e la sete. Poi il ragazzo vide tre cervi. Lui ed il cane inseguirono uno di essi ed arrivarono in un canyon. Nel canyon nascosto c’erano acqua, erba, e molti altri cervi.
Il ragazzo tagliò una striscia di corteccia di betulla e vi incise la descrizione della sua scoperta. Poi legò la striscia al cane e l’animale tornò al villaggio.
Alcuni giorni dopo, tutta la gente della tribù arrivò al canyon, guidata dal cane. Tutti onorarono il ragazzo e gli diedero nome: “Ragazzo che ha reso felice e sana la sua gente trovando un ricco branco di cervi e acqua”.
Quando il ragazzo crebbe, diventò il capo del suo popolo, e tutti lo chiamarono “Ricco branco”.
Fiaba cosmica della storia della scrittura
QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Fiaba della lingua scritta (o della comunicazione attraverso i segni) Terza versione
Fiaba cosmica della storia della scrittura – Materiale utile per la presentazione: – Linea del tempo della comunicazione attraverso i segni versione 1
Fiaba cosmica della storia della scrittura – Racconto:
Pochi giorni fa vi ho raccontato una storia che parlava della Terra e di come si è formata. Abbiamo poi parlato di come sono apparsi gli animali e le piante. Abbiamo poi raccontato la storia della comparsa degli esseri umani.
La storia che voglio raccontarvi oggi è iniziata quando gli esseri umani vivevano già da molto tempo sulla Terra. Non c’è modo di sapere esattamente quando si è svolta, sappiamo soltanto che successe molto tempo fa. E soprattutto sappiamo che si tratta di una storia vera.
I primi uomini e le prime donne che vissero sulla Terra avevano bisogno di molte cose, ad esempio di un riparo, di vestiti e di cibo. A quel tempo, naturalmente, non esistevano negozi di generi alimentari o di abbigliamento. E non c’erano case in cui andare ad abitare. Ma sappiamo che, anche così, la Terra era pronta per accogliere gli esseri umani, quando sono comparsi. Il dono che essi possedevano di una mente più grande di quella di tutti gli altri animali, capace di pensare ed immaginare, li aiutò a cercare e trovare tutto ciò di cui avevano bisogno.
Forse per comunicare tra loro le soluzioni che via via trovavano per soddisfare i loro bisogni, all’inizio usavano gesti, o una combinazione di gesti e suoni (mimare alcuni gesti accompagnati da suoni per indicare ai bambini qualcosa).
Questo sistema funzionava abbastanza bene, ed essi lo usarono per lungo tempo. Alla fine, però, si presentarono nuove sfide.
Se una persona trovava qualcosa di buono da mangiare, ad esempio uno stagno ricco di pesci, e nessun altro era lì, non potevano usare suoni o gesti, perché in quel momento non c’era nessun altro. Così si chiesero: “Come faccio a raccontare quello che ho trovato?”. Probabilmente la prima persona non è riuscita a risolvere il problema, ma ad un certo punto qualcuno ci riuscì. Non sappiamo chi fosse, né quando ebbe questa intuizione, ma sappiamo che ad un certo punto, qualcuno pensò che poteva “fotografare” lo stagno ricco di pesci, cioè realizzare un’immagine dipinta di esso, un’immagine che raccontasse la storia della scoperta dello stagno. Con i suoni e con i gesti non sarebbe stato possibile.
Ad esempio un cacciatore che aveva visto dieci bisonti nei pressi di una data roccia, disegnava un bisonte, e sotto ad esso disegnava dieci aste.
Il tempo passava, e gli uomini continuarono a disegnare. I loro dipinti erano meravigliosamente belli, e si possono ammirare anche oggi.
A un certo punto della storia, circa 5.000 anni fa, si sviluppò una civiltà chiamata Civiltà Egizia. Gli Egizi vivevano lungo le rive del fiume Nilo, in Africa del Nord. Questo popolo usava tantissimo i messaggi illustrati: alcuni li scolpivano sulla pietra, altri li dipingevano sulla pietra, altri li dipingevano su fogli di carta. Le pietre le prendevano dal suolo che abitavano, mentre la carta la fabbricavano con la pianta del papiro, una canna che cresce abbondante sulle rive del Nilo. All’inizio dipingevano su questa carta utilizzando i pennelli, ma poi preferirono uno strumento appuntito intinto nei colori, come una penna (mostrare dei geroglifici).
Come potrete immaginare, decifrare questi messaggi non era così facile, soprattutto perché la stessa immagine poteva significare cose diverse. Ad esempio l’immagine di una gamba poteva significare:
– gamba (cioè esattamente la cosa disegnata)
– correre, perché le gambe si usano per correre (cioè un’idea connessa alla cosa disegnata)
– rapidamente (cioè una qualità connessa alla cosa disegnata).
Nello stesso periodo di tempo in cui gli Egizi vivevano sulle rive del Nilo, un altro gruppo di uomini, chiamati Fenici, vivevano in un’altra regione del Nord Africa, sulle sponde del Mar Mediterraneo. I Fenici erano abili navigatori, e viaggiavano verso tutte le terre intorno al Mediterraneo vendendo le loro merci, soprattutto avorio, spezie, incenso, argento, ornamenti e vetro. Avevano anche una merce molto speciale, che solo loro possedevano: un tessuto pregiatissimo tinto di porpora. Essi scoprirono che un particolare mollusco conteneva nel suo guscio particelle di un colorante rosso brillante, e lo utilizzarono come colorante per tingere i tessuti. Per ottenere questo colorante occorrevano milioni di molluschi, che venivano poi lavorati per estrarne il prezioso colorante. Poiché era molto difficile da ottenere, e solo i Fenici erano in grado di estrarlo, questo colorante era molto costoso. Solo le famiglie reali o quelle molto ricche potevano permettersi di tingere i loro vestiti con questo bel colore. Ed i Fenici tennero il segreto della sua fabbricazione gelosamente al sicuro. Ma il segreto della porpora di Tiro non è il motivo per cui il popolo dei Fenici è così importante nella storia dell’uomo. I Fenici, infatti, seppero fare una cosa ancora più importante per tutti noi.
I Fenici vendevano e compravamo merci anche dagli Egizi, e così conobbero il loro modo di registrare messaggi attraverso i geroglifici. Però, essendo un popolo di commercianti, essi avevano bisogno di un modo più rapido e preciso di scrittura. Così presero in prestito dai geroglifici egizi solo le immagini che essi usavano per rappresentare i suoni della lingua, e non quelli che rappresentavano parole o idee, e ne semplificarono la forma, per renderli più veloci da scrivere. Queste immagini erano poche, ma bastavano per registrare tutte le cose che per loro erano importanti, come la merce comprata e venduta, le somme di denaro, e così via.
I Fenici scoprirono quello che avete scoperto voi quando avete imparato ad usare le lettere smerigliate e gli alfabeti mobili, cioè l’uso di segni che rappresentano suoni, con i quali si possono comporre le parole.
Anche se possiamo dire che i Fenici furono i primi ad usare quello che noi conosciamo come “alfabeto”, per noi è difficilissimo riconoscerne le lettere. Quindi la storia non finisce qui.
I primi ad usare la parola “alfabeto” furono i Romani, e le lettere romane sono quelle che noi possiamo riconoscere più facilmente. Le lettere dell’alfabeto smerigliato sono quasi le stesse dell’alfabeto romano.
I Fenici furono i primi ad aver avuto l’idea di scrivere i suoni. Non c’era più bisogno di disegnare le immagini degli oggetti, bastavano i segni dei suoni.
Noi oggi continuiamo ad usare la loro idea. Quando scriviamo un racconto, registriamo le lettere che formano il suono delle parole che vogliamo scrivere. Quando leggiamo, riconosciamo i suoni delle lettere che formano le parole. Questa storia potrebbe averla scritta un antico Fenicio, e noi ora potremmo leggerla.
LA QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI si inserisce nel quadro dell’Educazione Cosmica ed è anche chiamata storia della comunicazione attraverso i segni. La lezione tratta dello sviluppo delle scritture nel mondo: pittogrammi, simboli, geroglifici, alfabeti antichi, invenzione della stampa, ecc…
Questo è tutto il materiale che compone la lezione, in sequenza:
Lettura: letteratura, poesia, saggistica, mitologia e fiabe popolari, autori, comprensione dei testi, analisi logica e del periodo, analisi del testo letterario.
Linguaggio: origine delle lingue, lingue straniere, storia delle lingue, esposizione di ricerche, recite.
Strutture linguistiche: alfabeti, costruzione di libri, psicogrammatica, punteggiatura, analisi della frase semplice e complessa, studio della parola, figure retoriche.
LA QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI
I racconti e le lezioni relative alla QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI vengono presentati nei primi mesi dell’anno scolastico, aprendo all’esplorazione del linguaggio (psicogrammatica), alla Storia e alla Geografia. Dopo la lezione si continua ad esplorare ogni aspetto della narrazione, seguendo gli interessi dei bambini.
Iniziamo ogni argomento con la fiaba cosmica, per fare appello alla fantasia e alle capacità di immaginazione del bambino. Seguono poi varie altre storie che raccontano lo sviluppo dei segni scritti, il resoconto dettagliato dei vari alfabeti, la storia dello sviluppo della lingua italiana, la storia dell’evoluzione della lingua.
Con la prima fiaba cosmica il bambino prova interesse per l’Universo; con la seconda il suo sguardo si estende a tutti i viventi; con la terza la sua ammirazione si concentra sull’essere umano. Con la quarta lezione vogliamo che la sua gratitudine si riversi sulla comunicazione scritta e sul linguaggio.
La QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI è molto diversa dalle prime tre, perché non si esaurisce nel corso del primo anno scolastico come succede per le altre, e non apre semplicemente ad alcune aree tematiche.
Dobbiamo considerare che i bambini utilizzano il linguaggio da molti anni prima di entrare nella scuola primaria.
Durante la presentazione iniziale, le tabelle e le carte illustrate devono essere scelte ed usate con attenzione, perché possono trasformarsi da aiuti visivi, a distrazioni. I bambini potranno accedervi liberamente dopo la lezione.
La storia della scrittura può portare a svolgere ricerche sulle antiche civiltà che per prime hanno utilizzato la scrittura.
Nel presentare la fiaba della lingua scritta ( o della comunicazione attraverso i segni) vogliamo suscitare nel bambino amore per la bellezza e la semplicità del linguaggio. Mostriamo che l’alfabeto è un mezzo che serve a rendere visibili i suoni del linguaggio verbale.
Cominciamo con la storia della comunicazione attraverso i segni perché è tangibile e si riferisce a un’esperienza che i bambini hanno vissuto in prima persona, quando hanno imparato loro stessi a utilizzare l’alfabeto per scrivere e leggere. Le motivazioni di questa scelta si trovano nel testo di Maria Montessori La Mente assorbente, nel capitolo 11.
Presentiamo la storia della lingua scritta per stimolare nei bambini l’interesse verso il linguaggio e la lingua scritta. Facciamo inoltre sentire il bambino in contatto con tutta l’umanità. Attraverso il racconto mostriamo loro come la lingua parlata è diventata visibile. Partendo dalla Preistoria, stimoliamo nei bambini un sentimento di gratitudine e rispetto verso questo dono che è la lingua scritta.
Successivamente focalizziamo l’interesse sulla lingua italiana in particolare, mostrando al bambino come la lingua scritta, una volta sorta, ha continuato ad evolversi.
Come già detto, presentiamo la storia della comunicazione scritta dopo la fiaba cosmica, ma anche questa storia deve avere la forma di un racconto appassionante. Per la storia dello sviluppo dei simboli scritti usiamo carte delle nomenclature e tavole illustrate, che mostrano i vari alfabeti (geroglifici, scrittura fenicia, vari alfabeti moderni, ecc…), illustrazioni, fotografie, pitture rupestri.
Questa prima storia è solo l’inizio di un lavoro di studio e ricerca che proseguirà per più anni, collegandosi allo studio della Storia dei popoli. Saranno quindi date nel corso del tempo varie lezioni, incentrate su vari temi di interesse. In questa prima fase gettiamo i semi per lo studio e le ricerche successive. In ogni lezione di approfondimento possiamo inserire varie attività di ricerca, artistiche e manuali, scelte in base agli interessi dei bambini. I vari punti di interesse esposti nella prima lezione sulla storia della scrittura, germoglieranno col tempo. Per stimolare questo sviluppo:
prepariamo una raccolta di materiale sulle varie tappe della storia della lingua scritta;
costruiamo ogni lezione partendo sempre da ciò che i bambini conoscono o hanno incontrato come concetto generale;
facciamo il più possibile appello alle capacità di immaginazione e ragionamento;
lasciamo sempre delle questioni aperte, in modo che i bambini possano esplorarle in base ai propri interessi
offriamo materiali adeguati, una buona biblioteca, questionari, materiali per attività pratiche e manuali;
sosteniamo il lavoro individuale dei bambini, fornendo le informazioni necessarie e gli strumenti.
All’interno di questa prima lezione sulla storia della lingua scritta, si sono molti punti che stimolano l’approfondimento, ad esempio si può fare una ricerca sulla parola “alfabeto”, si può indagare la storia di ogni lettera del nostro alfabeto, si può studiare come le lettere sono cambiate nel tempo e come è cambiato il modo di scriverle e collegarle tra loro.
L’obiettivo della prima storia sulla scrittura è quello di aiutare i bambini a capire che è proprio attraverso i segni che abbiamo avuto in dono dai Fenici, che noi oggi possiamo entrare in contatto coi pensieri di altri uomini, uomini che si trovano magari dall’altra parte del mondo, o che sono morti da migliaia di anni. Questi segni ci permettono di sapere cosa stanno pensando o hanno pensato.
I punti di contatto tra la storia dei popoli e la storia della scrittura sono molti. Per ogni civiltà dobbiamo chiederci:
Dove si sono sviluppate?
Usavano la comunicazione scritta?
Se sì, come scrivevano?
Che genere di informazioni registravano?
Qual era lo scopo?
Dopo la lezione, una delle attività che suscita più interesse nei bambini, è data dagli esercizi di calligrafia o bella scrittura. Altre attività interessanti possono riguardare la fabbricazione della carta (per sperimentare quanto tempo ed energie richiede), la costruzione di libri, la visita a musei, tipografie e case editrici, la stampa. In lezioni successive possiamo proporre ai bambini i dettagli dello sviluppo della scrittura nelle varie culture, possiamo chiedere ai bambini di fare una ricerca sul tema che preferiscono, organizzare esposizioni di gruppo o individuali delle loro ricerche, insegnare a prendere appunti e rispondere a questionari, esplorare altri alfabeti e supporti diversi dalla carta, scrivere i loro nomi con alfabeti diversi.
L’unico concetto che può essere difficile da comprendere per i bambini più piccoli, è quello di traduzione. I bambini, infatti, pensano che scrivendo una parola italiana utilizzando un alfabeto diverso dal loro, ad esempio utilizzando i simboli fonetici geroglifici, o greci, o cinesi, hanno scritto una parola egizia, o greca, o cinese.
LA QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI
Prima di iniziare il racconto della fiaba e della storia della comunicazione scritta, è bene assicurarsi che i bambini abbiano cognizione di cosa significa commercio, scambio, baratto. La nascita della scrittura è infatti legata alla nascita del commercio, ma se i bambini non capiscono l’importanza di registrare ciò che viene comprato e venduto, non capiranno questo collegamento.
Per la storia del linguaggio orale prepariamo una storia semplice ma appassionante. Le diverse teorie sull’origine del linguaggio attireranno di certo l’attenzione dei bambini, se sono offerte in forma di racconto, con esempi accattivanti, cercando di mostrare ciò che deve essere successo quando i primi esseri umani hanno cercato di comunicare tra di loro per esprimere i propri bisogni, sentimenti, le proprie idee e preoccupazioni.
Mostriamo durante il racconto anche riproduzioni di pittogrammi primitivi, di geroglifici e di alfabeti, o tabelle che mostrino la stessa parola scritta in modi diversi: questo susciterà nei bambini ammirazione e gratitudine. Inoltre farà provare anche a loro il desiderio di esprimere per iscritto i propri sentimenti ed i propri pensieri. Anche tutte le tecnologie moderne applicate alla comunicazione tra le persone sarà compresa con grande calore, nel contesto del progresso umano, che si è svolto nel corso di secoli di lavoro e paziente ricerca.
La tendenza umana verso la comunicazione ha spinto le persone a creare il linguaggio, poi, nel corso del tempo, questi linguaggi si sono evoluti, riflettendo le idee delle persone ed il loro ambiente. e questi cambiato nel corso del tempo per riflettere le persone e il loro ambiente. Mostrando il bambino il loro posto nella loro cultura è parte di metterli in contatto con la loro cultura e aiutarli ad adattarsi. Maria Montessori sostiene che per educare il potenziale umano è necessario che gli individui, nei primi anni di vita, vengano messi in relazione con gli esseri umani, e che provino gratitudine per tutti gli uomini e le donne che giorno dopo giorno hanno lavorato affinché noi potessimo vivere una vita più ricca e piena.
Il bambino può usare la sua fantasia per immaginare le persone che parlavano le lingue che hanno dato origine alla sua. Capire come la lingua italiana si è evoluta nel passato, e come continua a cambiare ancora oggi, si tradurrà nei bambini nella percezione dell’importanza di questa nostra lingua, e farà comprendere quanto sia positivo per i popoli entrare in contatto tra loro. La storia delle origini della lingua italiana deve essere presentata in relazione al concetto di mescolanza di culture, fornendo esempi di come la lingua italiana sia stata interessata da questa mescolanza. E’ un fenomeno che continua a verificarsi anche oggi.
La grande lezione sul linguaggio, come quella sulla Matematica, deve svilupparsi nell’arco di più anni scolastici. E’ importante portare l’attenzione dei bambini verso tutti i principali eventi della storia della comunicazione, e metterli in contatto con i sorprendenti tesori della conoscenza e della creazione artistica che si sono conservati nel corso dei millenni e dei secoli, e che si sono trasmessi fino a noi grazie a mezzi altrettanto sorprendenti: i mezzi di comunicazione, appunto. Tutta questa attività umana ha sempre risposto a un bisogno fondamentale: il bisogno umano di comunicare e il desiderio di soddisfarlo.
Lo stesso vale per la storia della lingua inglese, che pur essendo facoltativa, può essere molto interessante per i bambini, visto che studiano questa lingua a scuola e spesso entrano in contatto con essa nella vita quotidiana.
LA QUARTA GRANDE LEZIONE MONTESSORI Storia della lingua scritta – Idee per i giorni successivi
Pitture rupestri: possono essere riprodotte su un grande foglio di carta marrone da pacco, utilizzando spazzole o le mani. Qui degli esempi:
Scrittura cuneiforme: pressare della creta sul vassoio per fare una tavoletta. Usare un bastoncino per scrivere un messaggio nella creta.
Scrittura fenicia: offrire ai bambini una tabella che mostra le lettere dell’alfabeto fenicio confrontate alle stesse lettere di altri alfabeti. I bambini possono scrivere con l’alfabeto fenicio il proprio nome o una frase, o un paragrafo. Possono utilizzare anche gli altri alfabeti.
Fabbricare un foglio di papiro
Scrivere un testo usando i geroglifici
Scrivere un testo senza usare le vocali e la punteggiatura, come facevano i Fenici
Primo libro: cera su corteccia. Trovare un pezzo largo di corteccia. Stendere della cera tinta di un colore scuro e scrivere un messaggio con uno stilo quando la cera è indurita.
Fabbricazione a mano della carta. Qui un tutorial:
Linee del tempo illustrate per la storia della scrittura Linea del tempo della storia della scrittura
versione 1
Questa linea del tempo mostra l’evoluzione della scrittura dalle pitture rupestri ad oggi, analizzando in particolare la forma e la funzione dei vari sistemi. Le didascalie sono molto concise e riguardano: pittogrammi, ideogrammi, alfabeti, carta e stampa.
Linee del tempo illustrate per la storia della scrittura Linea del tempo della storia della scrittura
versione 2
Questa linea del tempo è più dettagliata della precedente, e dà informazioni sui popoli e la storia dei vari popoli, con didascalie piuttosto estese.
pdf qui: Linee del tempo illustrate per la storia della scrittura versione 1 e versione 2
Linee del tempo illustrate per la storia della scrittura
Dopo aver stampato il materiale, è sufficiente unire i fogli tra loro per formare una striscia continua che può servire per la narrazione delle varie storie, o può essere appesa in aula.
Linee del tempo illustrate per la storia della scrittura
LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip) si presenta tradizionalmente dopo la seconda fiaba cosmica, e per preparare la terza. Se non avete a disposizione i mezzi per procurarvi o costruire questo materiale, potete utilizzare una delle linee del tempo della vita preparate dopo la seconda grande lezione, enfatizzando coi bambini quanto sia immenso il tempo della Terra prima della comparsa dell’essere umano, e quanto sia minuto rispetto ad esso il tempo che va dalle nostre origini a noi, che viviamo sulla Terra oggi.
Si tratta di una lezione molto emozionante per i bambini, e quando viene presentata bene, usando meno parole possibili e facendo pause significative, fa davvero una grande impressione. Viene spessa citata da adulti e bambini come una delle lezioni preferite. Maria Montessori, come vedremo meglio poi, la chiamò in origine “lezione di umiltà”.
E’ stata elaborata da Maria Montessori in India, e rappresenta la durata dell’evoluzione terrestre. L’idea base è quella di far appello all’immaginazione dei bambini per trasmettere loro una visione generale della storia della Terra. Infatti, secondo Maria Montessori, è importante che l’interesse dei bambini si attivi dal generale al particolare: bisogna comprendere prima le correlazioni tra le cose, e poi indagare le cose stesse separatamente.
LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)
LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip) La storia di questo materiale: una lezione di umiltà
Possiamo immaginare che la cosa sia andata così… Era il 1939. In un caldo pomeriggio, nella città di Madras in India, Maria Montessori parlava con un gruppo di bambini, all’ombra di un grande e vecchio albero di Banyan. Un bambino di circa dieci anni la interrompe, proclamando con orgoglio la superiorità della civiltà indiana, che è una delle più antiche del mondo. Dice che non sa cosa avrebbe mai da imparare da lei e dalla sua cultura, che è meno antica della sua, e che l’India non ha nulla da imparare dall’Occidente. Sì, in effetti la civiltà indiana risale a 10.000 anni fa, mentre quella egiziana soltanto a 3.500 anni, e l’assiro-babilonese a 5.000 anni. Ma non dice altro. Poi, forse sorseggiando il tè del pomeriggio, ripensa alle parole del bambino, e si chiede quale sia il modo migliore di rispondere. Gli operai della compagnia telefonica, stanno distendendo sulla strada lunghi cavi, che poi fissano ai pali. Li osserva e continua a bere il suo tè. Lei e suo figlio Mario, in India, lavoravano al piano di studi per i bambini delle elementari, ed avevano appena preparato le grandi lezioni cosmiche. Così le venne l’idea. Con l’aiuto di una sarta locale, prepara una lunghissima striscia di stoffa nera, lunga 300 metri e larga 50 centimetri. Solo l’ultimo centimetro della striscia aveva un colore diverso: rosso. La striscia è arrotolata come una bobina attorno ad un bastone. Aiutata da due insegnanti della scuola, mostra la striscia ai bambini. Senza dire una parola, le due insegnanti cominciano a srotolare la striscia nera di stoffa lungo la strada, allontanandosi lentamente e tenendo in bastone tra di loro, in bicicletta. Maria Montessori e i bambini, incuriositi, le seguono. Anche i bambini del vicinato si aggiungono alla processione. Tutti chiedono: “Cos’è? A cosa serve?”, ma Maria Montessori, con molta tranquillità, risponde soltanto: “Aspettate, e vedrete”. Forse non dice nient’altro, fino alla fine della lunga striscia, quando appare la sorpresa: la sottile strisciolina rossa. Poi dice: “Questa piccola strisciolina rossa rappresenta tutto il tempo che è trascorso dalla comparsa del primo essere umano sulla Terra. Tutta la parte nera è l’età della Terra”. I bambini guardano indietro, vedono la lunga fascia scomparire in lontananza, e poi guardano di nuovo la piccola striscia rossa. Maria Montessori tiene tra le mani la piccola parte rossa, e forse sorride al bambino che le ha ispirato questa lezione. In realtà non sappiamo cosa abbia detto, ma potrebbe proprio essere andata così.
LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip) Descrizione del materiale La fascia ideata da Maria Montessori, come già detto, era lunga 300 metri e larga 50 cm. Solo l’ultimo centimetro della striscia aveva un colore diverso: rosso. Oggi si utilizzato fasce lunghe 30, 50 o 100 metri, larghe dai 30 ai 40 cm. La strisciolina rossa occupa 1 o 2 cm. Nella fascia lunga 30 metri i primi 10 m mostrano la formazione della Terra, i successivi 15 m la comparsa degli organismi unicellulari, gli ultimi 5 m lo sviluppo di tutte le forme di vita e la striscia rossa finale la comparsa dell’uomo.
LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)
Presentazione ai bambini – prima versione
LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip) Preparazione Nel piano di studi della scuola primaria Montessori è inserita una serie di importanti lezioni che hanno lo scopo di suscitare meraviglia, stupore e gratitudine. Quando presentiamo questa lezione la cosa più importante è resistere alla tentazione di parlare troppo. Questa lezione non vuole essere una ripetizione dell’Orologio delle Ere o della prima grande lezione cosmica. Maria Montessori non disse ai bambini quasi nulla, mentre la lunga striscia nera venne srotolata lungo la strada. Anche se si dispone di spazio sufficiente per srotolare la lunga fascia all’interno, si consiglia comunque di farlo all’esterno, perché è molto più scenografico. Dopo la lezione potete, se lo ritenete opportuno, raccontare la storia del come e del perché Maria Montessori ha inventato questo materiale. Quando i bambini sentono che la fascia originale era lunga dieci volte di più quella che abbiamo usato noi, sono molto impressionati e di solito si chiedono quanto lontano dalla loro scuola sarebbe arrivata. Avvolgere la fascia nera intorno a un bastone, iniziando dalla striscia rossa (in modo che la sezione rossa sia l’ultima ad apparire ai bambini), assicurandosi che risulti ben nascosta.
LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip) Presentazione Invitare i bambini a seguirvi, perché ci sarà una lezione molto speciale all’aperto. Se ci sono bambini più grandi, che hanno già assistito alla lezione negli anni precedenti, spiegate loro l’importanza di non rivelare agli altri la sorpresa: potete ad esempio dare loro il compito di essere i vostri assistenti e di aiutarvi a srotolare la fascia. Posare a terra la bobina e cominciare a srotolarla, iniziando a raccontare.
LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip) Racconto (esempio) Questa fascia nera rappresenta l’età della Terra, dalla sua origine (fermarsi; circa 30 secondi di silenzio). All’inizio la Terra era una sfera incandescente (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio). E fu così per molto, molto tempo (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio). Poi la Terra si presentò coperta di vulcani, e così fu per molto, molto tempo (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio). Poi arrivarono le piogge, che sono durate molto, molto tempo (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio). Pioveva e pioveva. E questo è durato molto, molto tempo ancora. (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio).
Infine Terra ha cominciato a raffreddarsi, e ci volle molto, molto tempo(srotolare un’altra parte di fascia in silenzio). Sulla Terra ora c’erano solo rocce, oceani e vulcani, ma nessuna forma di vita. E questo per molto, molto tempo. (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio). Solo rocce, acqua e fuoco. Niente di verde. Per molto, molto tempo (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio). La Terra era già molto vecchia. Guardate quanto è lunga la fascia dietro di noi (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio).
Ci stiamo avvicinando alla fine della fascia, e qui la vita ha cominciato a svilupparsi sulla Terra, impiegando molto, molto tempo (srotolare un’altra parte di fascia in silenzio). Guarda, qualcosa di diverso sta per accadere! (Rallentare in prossimità della fine della fascia e fermarsi quando appare la striscia rossa). Gli esseri umani appaiono sulla Terra per la prima volta. Questo piccolo lembo rosso rappresenta tutto il tempo che è passato da quando i primi esseri umani sono giunti sulla Terra. (Pausa)
Ecco, sto tenendo in mano tutta l’umanità di tutto il mondo, da quando è apparsa: dai primi esseri umani che vivevano in Africa, agli abitanti delle caverne, e poi gli Aborigeni, gli Egizi, i Greci, i nativi americani, i Maya e tutti gli uomini che sono sulla Terra oggi. Qui si può tenere tutta l’umanità in una mano.
LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)
Presentazione ai bambini – seconda versione
(Posare a terra la bobina e cominciare a srotolarla, iniziando a raccontare). Ti ricordi? Molto, molto tempo fa non c’era assolutamente niente, semplicemente immenso caos e oscurità. E’ stato così per un tempo molto lungo, e poi è successo qualcosa. (Srotolare una parte di fascia in silenzio). In questo vuoto incommensurabile di freddo e l’oscurità, apparve una grande nuvola ardente che comprendeva in sè tutte le stelle.
(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio). L’intero universo era in quella nuvola, e tra le piccole gocce c’era il nostro Sistema Solare. (Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio). Poi le stelle si sono distribuite nello spazio, in modo che ora sono a milioni di chilometri di distanza, e la luce delle stelle che vediamo la notte ha impiegato anni luce per arrivare a noi. (Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio). Si formò la crosta terrestre, ma la Terra era ancora molto calda e circondata dal freddo e buio spazio. Ti ricordi che abbiamo detto che tutte le particelle dell’Universo hanno leggi speciali alle quali obbediscono? (Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).
Ci fu la Danza degli Elementi, il calore saliva verso il freddo, e il freddo scendeva verso il calore. (Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio). La Terra lentamente si è raffreddata, i vulcani si sono fermati ed il Sole ha cominciato a spendere felicemente. (Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio). Poi ci fu un problema: pioveva e pioveva e pioveva, l’acqua consumò le rocce, che si gettarono nel mare, avvelenandolo. Vi ricordate cosa ha risolto il problema? Sì, sono apparsi i batteri e poi altri organismi, come le amebe. E che cosa ha fatto? Hanno seguito le leggi date loro:mangiare, cresciuto e riprodursi. (Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).
Questi organismi avevano una sola cellula, e dovevano fare tutto il lavoro da sole. Così si sono stancati, e hanno deciso di unirsi, dividersi i compiti e rendere il lavoro più efficiente. (Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio). Così sono apparsi i trilobiti, i cefalopodi con i piedi in testa, e i crinoidi che assomigliano a delle piante, ma sono animali che vivono in torri di pietra. (Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio). E poi cosa è successo? Sì, la vita continuava a cambiare e provare cose nuove: apparvero alghe e coralli, che purificavano l’acqua e formavano bellissime isole e scogli.
(Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio). Poi alcune creature hanno deciso di provare a vivere sulla terraferma, hanno costruito una sacca all’interno del corpo per respirare, e arti al posto delle pinne, per muoversi fuori dall’acqua. Sono stati chiamati anfibi, e la loro fu la prima voce che si udì sulla Terra. Poi arrivarono i rettili, che cambiarono pelle e comiciarono a fare uova con i gusci duri. Ebbero molto successo, e crebbero fino a raggiungere dimensioni gigantesche. Immaginate un combattimento tra dinosauri: doveva essere terrificante. (Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio).
Intanto le creature più piccole si sono mosse verso le zone più fredde, si sono trasformate in animali a sangue caldo, hanno ricoperto il loro corpo di peli e hanno cominciato a prendersi cura dei propri piccoli dopo la nascita. Erano gli uccelli e i mammiferi. Mentre gli uccelli deponevano le uova fuori dal corpo, i mammiferi le tennero all’interno, e quando i piccoli nascevano li nutrivano con il proprio latte. I mammiferi ebbero molto successo, e si diffusero su tutta la Terra. (Guardare indietro la fascia già srotolata, poi srotolarne un’altra parte, in silenzio). Poi è stata la volta di una creatura molto speciale: l’essere umano. Questa parte rossa è tutto il tempo passato dalla comparsa del primo uomo, e ci siamo anche noi. Guardate il tempo che ha impiegato la Terra per essere pronta a far vivere gli esseri umani!
LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)
Note
Questa lezione chiave è particolarmente adatta ai bambini più piccoli, di prima classe. I più grandi possono partecipare come aiutanti, e sarà molto utile per loro, perché li stimolerà ad approfondire aspetti particolari presentati nella lezione.
Dopo la lezione si può lasciare la fascia nera a disposizione dei bambini, che potranno usarla per le loro ricerche, insieme alle linee del tempo. Alcuni bambini vorranno riguardarla anche dopo il racconto della terza fiaba cosmica, che tratta della comparsa dell’uomo sulla Terra.
I bambini più grandi possono usare la fascia nera anche come base per posizionare su di essa le carte delle nomenclature delle varie linee del tempo, fossili e altri materiali, fare misurazioni e aggiungere cartellini e materiali trovati nei testi di ricerca, come per le linee del tempo:
LA FASCIA NERA DEL TEMPO MONTESSORI (long black strip)
Recita su Cristoforo Colombo per bambini della scuola primaria. La drammatizzazione può essere recitata fra i banchi. L’azione è sottolineata dallo storico, mentre tutti i diversi quadri che compongono la drammatizzazione saranno recitati da due ragazzi.
Recita su Cristoforo Colombo – Personaggi Cristoforo Colombo la regina Isabella di Castiglia il fanalista un dotto di Salamanca il mercante il nostromo lo storico.
Recita su Cristoforo Colombo – I QUADRO (a Genova, la torre di vedetta del Porto)
Lo storico: Siamo a Genova e corre l’anno 1480. Siamo sul porto, un porto un poco diverso da quello attuale, ma pur sempre grande e attrezzato di argani, ponti e pontili e scali per la riparazione delle navi. Un brulichio di uomini e di cose intercalato da grida, da comandi, da colpi di fischietto. Dall’osservatorio si scruta l’orizzonte, pronti ad annunciare…
Fanalista: Una vela, ohhhh!
Lo storico: (guarda da una parte sentendo un rumore di passi concitati) Chi è mai questo giovane che sale trafelato la scaletta dell’osservatorio? Non può essere che lui! Quando sente il richiamo di una vela, si precipita su!
Colombo: (entra e va verso il fanalista)
Fanalista: Buon giorno, messer Colombo
Colombo: una vela in vista?
Fanalista: Ecco, messere, fissate lo sguardo sul pennone della Stella Genuana, issatelo sino ad incontrare il filo dell’orizzonte…
Colombo: Tu quante vele hai contato?
Fanalista: una, messere
Colombo: ed ora fissa bene, quante ne vedi?
Fanalista: è vero, un’altra ne sta spuntando quasi sorgesse dall’acqua.
Colombo: (pensoso, ripete) quasi sorgesse dall’acqua… Hai ragione Pietro: quasi sorgesse come il sole che si alza al mattino…
Fanalista: (continuando il discorso) tutta la notte nascosto tra i flutti per permettere il riposo degli uomini…
Colombo: (sorridendo) credi che il sole stia davvero tutta la notte a mollo tra i flutti?
Fanalista: (convinto) sì, messere
Colombo: e, la velatura della nave, dimmi, perchè appare così dalla cima e pian piano mentre la nave avanza, sempre più di dispiega, fino a mostrarsi con tutta la tolda? Dimmi: anch’essa è stata a mollo nell’acqua?
Fanalista: oh, no! Ciò è causa di riflessi e giochi di luce
Colombo: giochi di luce! Sempre giochi fra voi! E non avete mai pensato che la terra sia una sfera?
Fanalista: una palla? Ah, Colombo, mi pare esageriate! Come faremmo a starci sopra e ritti? E quelli di sotto? Altro non potrebbero essere che piovre per starci abbarbicate con le loro enormi ventose!
Colombo: non posso rispondere a tutti i tuoi interrogativi, Pietro. So soltanto, per quel che mi è dato conoscere, che la terra ha forma sferica e che pertanto se taluno parta per la via di occidente, tosto ritorni al luogo di partenza da oriente
Recita su Cristoforo Colombo – II QUADRO (a Genova, la torre di vedetta del Porto)
Mercante: (entra sulle ultime parole di Colombo e si ferma ad ascoltare) Chi parla qui di oriente ed occidente?
Colombo: Colombo, messere, per servirvi
Mercante: Messer Ammiraglio, quale fortuna trovarvi! Chi affida a Voi le sue merci e i suoi denari può chiudere gli occhi soavemente e felice addormentarsi, sicuro che tutte le navi arriveranno alla meta!
Colombo: merito di Nostra Signora, che mi protegge
Mercante: ho un carico. Destinato ai porti del Kataj. E di là un altro carico. Ho noleggiato un magnifico vascello: manca l’Ammiraglio. Ditemi che accettate.
Colombo: accetto, ma ad un patto. Arriverò al Kataj, navigando verso occidente.
Mercante: (lo scruta) Vi sentite bene, messere?
Colombo: perchè vi ostinate a guardarmi quasi io fossi uscito di senno? Se la terra è una sfera è facile arguire che navigando verso occidente dovrò spuntare ad oriente!
Mercante: ed io con tutta la sicurezza, il buon senso del mercante, la lunga esperienza, vi dico che oltre le colonne d’Ercole è avventuroso spingersi, nè io potrò mai approvare che uno solo dei miei battelli si spinga ove il mare è sconosciuto. Se volete andare nel Kataj prendete la via più breve per l’oriente!
Colombo: non fa per me! Il mio primo viaggio sarà per testimoniare agli altri ciò che è già certezza dentro di me!
Lo storico: Colombo, visto respinto il progetto di circumnavigare la terra da parte dei mercanti, decise di chiedere aiuto fuori patria. Andò alla corte della Regina Isabella di Castiglia.
Recita su Cristoforo Colombo – III QUADRO (Una sala regale)
Colombo: mia potente Signora e Regina, non sono qui per chiedervi ricompense ed onori. Vengo soltanto a chiedervi di poter essere testimone della verità
la regina Isabella di Castiglia: Conosciamo il progetto. I nostri ammiragli ce lo sconsigliano temendo la perdita dei vascelli, degli uomini; temono infine per voi. Saremmo disposti a concedervi il denaro per allestire un’intera flotta e di essa nominarvi capo. Ma non siamo disposti a perdere un solo legno in un’impresa ignota
Colombo: impresa ignota, mia Regina? Ma allora il mio tempo speso nello studio del moto degli astri, la matematica, le lettere degli scienziati miei amici, la meccanica, a nulla è servito?
Isabella: c’è un solo mezzo per piegare il volere dei nostri ammiragli: affrontare la discussione con i dotti della città di Salamanca.
Colombo: andrò a Salamanca, mia Regina.
Recita su Cristoforo Colombo – IV QUADRO (l’Università di Salamanca)
Lo storico: Colombo raggiunse Salamanca e ascoltò le lezioni dei dotti: chiese di parlare
Dotto: (continuando una lezione)… e dunque la Terra è un’immensa piattaforma al centro dell’Universo sidereo. Attorno a lei si muovono il sole, la luna e le stelle le fanno corona…
Discepolo: scusi maestro… sull’orlo della piattaforma chi vi abita? Vi è forse un recinto tutto attorno onde non precipitare nel vuoto?
Dotto: no, nessun recinto. Attorno v’è il mare che cinge la piattaforma; ma per chi è incauto e s’inoltra oltre le colonne d’Ercole, allorchè la terra tosto scompare al suo sguardo, è la fine.
Discepolo: Perchè? Non s’espande il gran mare sino all’estremo limite dell’universo?
Dotto: sì, ma infestato di mostri di tal ferocia da uccidere soltanto con lo sguardo l’avventuroso argonauta
Colombo: (si è alzato) Pure la Scienza di lor Signori potrebbe, a titolo di esperimento, concedere che persona di fiducia vada a testimoniare e tosto ritorni con l’esatta descrizione di ciò che ha veduto.
Dotto: e noi, messere, potremmo in nome della scienza, condannare a sicura morte un cristiano?
Colombo: e se questi si offrisse?
Dotto: pazzo e suicida! No, messere, la nostra dottrina impedisce ai pazzi di compiere azioni da pazzi! Ma Signori, potete voi pensare ad una sfera fatta di pietre e di acque galleggiante in un mare di venti, fra nubi e tempeste? E noi… (ridendo) sopra, aggrappati a questa sfera, in pena per tenerci ritti, con la bava alla bocca, morsi dalla paura di cadere e con le unghie conficcate in un ciuffo di erba o in una sporgenza di roccia! Messer Colombo, tornate a casa e distraetevi al sole delle vostre riviere!
Recita su Cristoforo Colombo – V QUADRO (Una sala regale)
Lo storico: Deriso dai Dotti di Salamanca, Colombo sembra voler rinunciare al progetto; ma la Regina Isabella lo richiama improvvisamente.
Isabella: Andrete alla scoperta di nuove terre. Su ogni lembo di nuova terra che scoprirete porterete la Croce e lo Stendardo della Spagna. Questa è la missione che vi diamo da compiere. Noi non appoggeremo le vostre dottrine in contrasto con i nostri Dotti, e quindi la scienza sarà bandita dalla vostra impresa. Vi concediamo tre caravelle: la Nina, la Pinta e la Santa Maria, con equipaggi e viveri per otto settimane. Voi traccerete la rotta che più vi aggrada e darete il segnale di partenza ai vostri nocchieri. Partite pure, Messere, per il porto di Palos: la vostra flotta è già in allestimento.
Colombo: (si inchina profondamente) spero di tornar presto, mia Signora e Regina. A voi e alla Spagna una terra; a me l’onore di piantare la croce e una bandiera.
Recita su Cristoforo Colombo – VI QUADRO (Il porto di Palos)
Nostromo: dunque Ammiraglio, secondo voi la terra… sarebbe una sfera… Ho navigato quanto voi e ho visto albe e tramonti sul mare e la gran curva dell’orizzonte e apparire, come dite voi, vele e terre quasi sorgessero dal profondo del mare. Poniamo che la terra sia quest’uovo. Voi volete andare da questo punto a quest’altro: ma non passare da qui, per la via conosciuta. Volete passare da qua, sicuro che incontrerete il vostro Kataj. Ma dite, perchè altri prima di voi non ci hanno pensato?
Colombo: prova a dar star diritto quest’uovo
Nostromo: (prova e riprova, poi si dà per vinto) Non ci sta!
Colombo: (prende l’uovo e gli dà un colpetto) si batte un poco… ed ecco fatto.
Nostromo: non ci avevo pensato… è vero, bastava pensarci solo un poco…
Recita su Cristoforo Colombo – VII QUADRO (la tolda della Santa Maria in navigazione. E’ notte)
Lo storico. Si è lasciato Palos il 3 agosto del 1492. Si naviga da sessanta giorni. La ciurma esausta minaccia di ammutinarsi.
Nostromo: ancora una notte Ammiraglio. Le scorte d’acqua stanno per esaurirsi. Domani si torna indietro: bisogna stare ai patti.
Colombo: Conosco le leggi della gente di mare ed il valore della parola data. Pure ho nel cuore un buon presentimento.
Nostromo: il presentimento è costume di donne, non di uomini, Ammiraglio!
Colombo: può darsi, Nostromo! Pure io sento nelle narici l’odore della terra
Nostromo: le mie sono chiuse dal sale
Colombo: ho visto un branco di uccelli. Volavano verso levante. Gli uccelli non si allontanano molto dalla costa
Nostromo: Possono essere avvisaglie di mostri marini
Colombo: ho visto affiorare tronchi d’albero
Nostromo: esistono correnti marine simili a fiumi sotterranei. Potevano seguire la loro rotta verso l’inferno.
Colombo: ho visto laggiù un fuoco. Brillava nella notte. Poi una bassa nuvolaglia lo ha coperto.
Nostromo: perchè non avete dato il segnale?
Colombo: non a me è dato dar segnali: visionario e pazzo che sono!
Nostromo: Ammiraglio, voi avete raddoppiato stanotte le vedette. Voi avete promesso una ricompensa a chi avvisti per prima una striscia di terra. Ho creduto che fosse un trucco per rabbonire la ciurma… invece voi avevate già la certezza!
Colombo: Nostromo, guardate là! Dal profondo del mare si leva un’isola, una terra, un continente. Solo a chi ha navigato per anni è dato di vedere questo incanto che sa di magia.
(Un colpo di cannone ed un grido): Terra! Terra!
Nostromo: la Pinta ha dato il segnale!
Colombo: Ecco il favoloso Kataj abitato da uomini come noi! Che cosa porteremo loro? La nostra civiltà piena di dubbi? Oppore la nostra unica certezza?
(G. Siaccaluga)
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Materiale didattico sul 25 aprile – letture, racconti, poesie e filastrocche sul tema, di autori vari, per bambini della scuola primaria.
L’Italia
L’Italia porta in fronte un diadema di montagne ove le nevi eterne risplendono come gemme. I suoi occhi sono azzurri come il suo cielo, come i suoi laghi. Il suo sorriso somiglia a quello della primavera. La sua veste è il verde lucente dei prati, quello più pallido degli uliveti, quello più cupo dei boschi: ha l’oro del frumento maturo. I rubini e i topazi dei grappoli rigonfi; il rame ardente degli aranceti carichi di frutti. (G. Fanciulli)
Io amo l’Italia
Io amo l’Italia, il mio Paese, per il suo cielo, per il suo mare, per la sua flora multicolore, per la sua spina e la sua corona di montagne gigantesche, per i suoi fiumi che hanno sulle rive un’ombra di querce e di salici piangenti, per i suoi laghi turchini come il cielo e immobili come specchi della bellezza eterna, per i suoi ghiacciai che il sole tinge di rosa, per le sue penisole che si lavano nel mare, per i suoi boschi che odorano di timo, per i suoi prati che odorano di giacinto e di viole. Io amo il mio Paese, le memorie del mio Paese, la terra del mio Paese. (M. Mariani)
Italia, terra benedetta
Essa fu per più di seicento anni signora di tutto il mondo civile, essa ha dato la civiltà e le leggi a tutti i popoli che vivono oggi sulla terra. Terra benedetta davvero: e per questo è così bella! Grandi montagne bianche e splendenti di ghiacciai eterni, boschi d’oro, colli verdi e ricchi, molli spiagge lungo il grande mare; e il più leggero dei cieli, ed un clima senza rigori, e campi che danno i più saporiti frutti del mondo. Sui colli e lungo i fiumi e sulla riva del mare sorgono le meravigliose città: più di cento sono le nobilissime città d’Italia e gli stranieri vengono da ogni parte del mondo a visitarle. (P. Monelli)
L’ultima lettera di Nazario Sauro
Cara Nina, non posso che chiederti perdono per averti lasciato con i nostri cinque figli ancora col latte sulle labbra. So quanto dovrai lottare e patire per portarli e conservarli sulla buona strada che li farà procedere su quella del loro padre; ma non mi resta a dir loro altro che io muoio contento di aver fatto soltanto il mio dovere di italiano. Siate felici, chè la mia felicità è soltanto questa: che gli italiano hanno saputo e voluto fare il loro dovere. Cara consorte, insegna ai nostri figli che il padre loro fu prima italiano, poi padre e poi cittadino, tuo Nazario.
Perchè amo l’Italia Io amo l’Italia perchè mia madre è italiana, perchè il sangue che mi scorre nelle vene è italiano, perchè è italiana la terra dove sono sepolti i morti che mia madre piange e che mio padre venera, perchè la città dove sono nato, la lingua che parlo, i libri che mi educano, perchè mio fratello, mia sorella, i miei compagni e il grande popolo in mezzo a cui vivo, e la bella natura che mi circonda, e tutto ciò che vedo, che amo, che studio, che ammiro, è italiano. (E. De Amicis)
Italia Amo i tuoi mari splendidi e le tue Alpi sublimi, amo i tuoi monumenti solenni e le tue memorie immortali, amo la tua gloria e la tua bellezza; t’amo e ti venero come quella parte diletta di te dove per la prima volta vidi il sole ed intesi il tuo nome. T’amo, patria sacra, e ti giuro che amerò tutti i figli tuoi come fratelli; che onorerò sempre in cuor mio i grandi vivi e i tuoi grandi morti. (E. De Amicis)
Il concetto di Patria Il concetto di Patria che vogliamo non si deve identificare con un racconto di guerra. La guerra è sempre nefasta, sia che si vinca, sia che si perda, perchè vuol dire sacrificio di preziose vite umane, distruzione di beni, profondi sconvolgimenti politici. Auguriamoci quindi che di guerra non si parli più anche se questo resterà, purtroppo, un pio desiderio. Oggi si tende a un’Europa unita dove il nazionalismo non abbia diritto di cittadinanza, e infatti non di nazionalismo parleremo, ma di amor di Patria. Non dovremo dimenticare l’orgoglio di sentirci Italiani, il desiderio di dare di noi un quadro dignitoso per conquistarci la stima e la considerazione degli altri popoli. Non dovremo, per un falso senso di internazionalità, rinunciare ai valori della nostra stirpe, che in campo artistico, letterario, politico, i nostri grandi ci hanno lasciato, non dovremo rinunciare al nostro prestigio nazionale. L’Italia dovrà essere sempre stimata per quel che ha rappresentato nel passato e per quello che vuole, e può, rappresentare nel presente e nel futuro. Ma che cos’è l’Italia se non tutti gli Italiani? Perchè gli stranieri possano stimare la nostra Patria noi dovremo dar sempre, di noi, un quadro degno di stima, di considerazione, di rispetto. Amare la Patria significa dimostrarci cittadini coscienti, disciplinati, rispettosi delle leggi; significa dare esempio di onestà, di laboriosità, di rispetto verso se stessi e gli altri. (M. Menicucci)
Italia T’amo, patria sacra e ti giuro che amerò tutti i tuoi figli come fratelli, che onorerò sempre in cuor mio i grandi vivi e i tuoi grandi morti; che sarò un cittadino operoso ed onesto, inteso costantemente a nobilitarmi per rendermi degno di te, per giovare con le minime forze a far sì che spariscano un giorno dalla tua faccia la miseria, l’ignoranza, l’ingiustizia, il delitto e che tu possa vivere ed espanderti tranquilla nella maestà del tuo diritto e della tua forza. (A. De Amicis)
Italia Italia, patria mia, nobile e cara terra dove mia madre e mio padre nacquero e saranno sepolti, dove io spero di vivere e di morire, dove i miei figli cresceranno e morranno: bella Italia, grande e gloriosa da molti secoli, che spargesti tanta luce d’intelletti divini sul mondo, e per cui tanti valorosi morirono sui campi e tanti eroi sui patiboli: madre augusta di trecento città e di milioni di figli; io, fanciullo che ancora non ti comprendo e non ti conosco intera, io ti venero e t’amo con tutta l’anima mia e sono altero di essere nato da te e di chiamarmi tuo figlio. (E. De Amicis)
La grande Madre Tu ami tua madre, non è vero? Essa è per te la creatura più bella, più buona; è l’angelo della tua casa, la consolazione dei tuoi dolori. Tu pensi a lei con infinita tenerezza e dici che non potresti vivere senza di lei. Ebbene, vi è anche un’altra madre che tutti dobbiamo amare fino alla morte. Ed è la grande madre comune a tutti noi, quella per cui tanti geni hanno faticato e tanti eroi sono caduti. Essa, o fanciullo, è la Patria. (G. Lipparini)
La Patria Lo sai, fanciullo, che cos’è la Patria? E’ la casa dove tua madre t’ha cullato sulle sue ginocchia e tuo padre ha lavorato per te. E’ la scuola dove s’è aperta la tua piccola mente alle prime nozioni e il tuo cuore ai primi affetti. E’ la terra su cui sventola la bandiera dei tre adorati colori. E’ il campanile da cui giunge la voce che invita a pregare. E’ il cimitero dove riposano i morti che i tuoi genitori piangono ancora. E’ il cielo a cui tu volgi gli occhi nella gioia e nel dolore. (E. Castellino)
La Patria Oh, la Patria! In essa sono la casa dove nascemmo, il paese dove fummo allevati, i luoghi dove giocammo da fanciulli, quel prato dove prima cogliemmo margherite e viole; in essa sono i primi ricordi tanto soavi. Amiamo la nostra patria, questo cielo così ridente, questo clima temperato, questo suolo così fecondo, questo linguaggio così armonioso.
Patria e umanità L’amore per la nostra Patria non deve farci dimenticare che, oltre i confini di essa, esistono altre Patrie di altri uomini che amano la loro come noi amiamo la nostra. Di là dalle Alpi, di là dai mari che circondano l’Italia, oltre i monti e gli oceani che separano l’Europa dagli altri continenti, vivono altri uomini, altri popoli che come noi studiano, lavorano, producono, soffrono ed amano. Tutti insieme formiamo un’unica e grande società: la Società Umana. Dobbiamo perciò, considerare tutti gli uomini come nostri fratelli. (O. Fava)
La nostra bandiera E’ bianca, rossa, verde. Il bianco è il simbolo della nostra fede, il rosso è il segno del nostro amore, il verde è la nostra speranza: la speranza di tutti noi che l’Italia nostra diventi sempre più saggia e forte, e possa collaborare, in pace, con tutte le altre nazioni per il benessere del mondo intero. (A. Novi)
L’Italia L’Italia è a regina di un immenso giardino: il più bel giardino del mondo. Sotto un cielo smagliante, la bella regina si cinge il capo con il meraviglioso diadema delle Alpi e si allunga ridente nel mare. Io amo i suoi monti altissimi e le sue valli ubertose; le sue colline intrecciate di pampini e di ulivi; le sue pianure biondeggianti di spighe, i suoi ruscelli chiacchierini, le cascate argentine; i torrenti agitati e i fiumi sonori. Amo lo specchio sereno dei suoi laghi incantevoli e le praterie smaltate di fiori. Io amo l’Italia che è la mia patria adorata. (Cardini Marini)
Il mondo è la mia Patria
Il mondo è la mia Patria! La mia bandiera, trapunta di stelle, ammanta tutti i cieli. Tutta la Terra è mia! Tutti gli uomini sono fratelli e tutti il mio cuore li vuole amare. Le terre, i mari e i monti, i boschi, i fiori e l’erbe sono miei. E mio è tutto ciò che ha fremito di vita. Esulta in petto il cuore, per lo splendor dei colli, dei fiumi e dei ruscelli: il mondo è tutto mio. Il mondo è tutto mio, il mondo è la mia Patria. (R. Whitake, poeta americano)
La cosa più importante
Non importa che tu sia uomo o donna vecchio o fanciullo operaio o contadino soldato o studente se ti chiedono qual è la cosa più importante per l’umanità rispondi prima dopo sempre: la pace! (Li Tien Min, poeta cinese)
Il mio Paese
O cari monti del mio Paese valli ridenti, pianure estese, lago di Garda, lago Maggiore, d’Iseo, di Como, vi sogna il core! Superbi fiumi che al mar correte e cento macchine liete movete; Po serpeggiante, vago Ticini, Adige, Arno, Tever divino, Metauro, Tronto, Volturno chiaro, i vostri nomi con gioia imparo. E tu mi brilli nella memoria, o Piave ceruto, con la tua gloria. (A. C. Pertile)
Italia, dolce terra
Italia, dolce terra, sei la mia Patria bella; amo il tuo sacro nome, parlo la tua favella. Dicono che d’Europa tu sei il bel giardino, con le candide Alpi e il ridente Appennino, con il cielo sereno, del mare la canzone, fiumi e laghi innumerevoli e fiori a profusione. Hai antiche memorie, città meravigliose; la tua storia è tessuta di gesta valorose. M’accendi, Italia mia, nel cuore pura fiamma; t’amo perchè tu sei la nostra grande mamma. (T. R. Correggi)
Italia bella
Se avessi l’ali al fianco volerei sulla cima dell’Alpi più elevate, e di lassù l’Italia guarderei tutta fiorente nelle sue vallate; e di lassù vedrei l’Italia intera, tutta fiorita al sol di primavera; e di lassù vedrei l’Italia mia ch’è la terra più bella che ci sia. (O. G. Mercanti).
La Patria
La Patria è il tetto, il focolare, la culla, il campanile d’una chiesa, un ruscello, un orto, dei fiori, un uccello, che s’ascolta all’aurora. Ma essa, rammentiamolo, è più ancora: è il ricordo della gloria che dagli avi ci vien trasmessa: tutti i grandi scomparsi che si ricordano e s’amano sono la Patria stessa! (Volleau)
La madre del partigiano
Sulla neve bianca bianca c’è una macchia color vermiglio; è il sangue, il sangue di mio figlio, morto per la libertà. Quando il sole la neve scioglie un fiore rosso vedi spuntare: o tu che passi, non lo strappare, è il fiore della libertà. Quando scesero i partigiani a liberare le nostre casa, sui monti azzurri mio figlio rimase a far la guardia alla libertà. (G. Rodari)
La sentinella
Fischiano i venti, la notte è nera, batte la pioggia sulla bandiera; finchè nel cielo rinasca il giorno, vegliam fratelli, vegliamo intorno. Zitti, silenzio! Chi passa là? Viva l’Italia, la libertà. Fischiano i venti, la notte è nera, batte la pioggia sulla bandiera; che sia bonaccia, che sia procella, rimango fermo di sentinella. Zitti, silenzio! Chi passa là? Viva l’Italia, la libertà. (T. Ciccioni)
Resistenza
Resistenza è la gente che si dà la mano e muore e vuole salvare le fabbriche per il lavoro, vuole la terra per il contadino, campi puliti dalle mine una volta per sempre, le porte delle carceri spalancate alla libertà. E che non sia proibito leggere e che non sia proibito scrivere nè cantare, nè lavorare in pace. (R. Nanni)
Il bersagliere ha cento penne
Il bersagliere ha cento penne e l’alpino ne ha una sola, il partigiano non ne ha nessuna e sta sui monti a guerreggiar. Là sui monti vien giù la neve la tormenta dell’inverno. Ma se venisse anche l’inferno il partigian riman lassù. Quando viene la notte scura tutti dormono alla pieve, ma camminando sopra la neve il partigiano scende in azion. Quando poi ferito cade non piangetelo nel cuore, perchè se libero uno muore non importa di morir.
Canto degli Alpini
Non ti ricordi quel mese di aprile, quel lungo treno che andava al confine, che trasportava migliaia di alpini? Su, su, correte: è l’ora di partir. Dopo tre giorni di strada ferrata Ed altri due di duro cammino, siamo arrivati sul monte Canino. A ciel sereno ci tocca riposar. Se avete fame, guardate lontano, se avete sete la tazza alla mano, che ci rinfresca, la neve ci sarà.
Soldato caduto
Nessuno, forse, sa più perchè sei sepolto lassù nel camposanto sperduto sull’alpe, soldato caduto. Nessuno sa più chi tu sia, soldato di fanteria, coperto di erba e di terra, vestito del saio di guerra, l’elmetto sulle ventitre. Nessuno ricorda perchè, posata la vanga, il badile, portando a tracolla il fucile, salivi sull’alpe; salivi, cantavi e di piombo morivi, ed altri moriron con te. Ed ora sei tutto di Dio. Il sole, la pioggia, l’oblio t’han tolto anche il nome d’infronte. Non sei che una croce sul monte che dura nei turbini e tace, custode di gloria e di pace. (R. Pezzani)
Il fante affardellato
Polveroso od infangato, stanco morto o riposato, sotto il sole o lo stellato, marcia il fante affardellato, perchè (piova o faccia bello), da filosofo qual è, egli porta nel fardello tutti i beni suoi con sè. Che bagaglio tintinnante, quando marcia ha indosso il fante! Quali musiche moderne fanno maschere e giberne! Che concerto dolce e gaio fan la tazza ed il cucchiaio, chiusi dentro alla diletta stonatissima gavetta!
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IL CRISTIANESIMO materiale didattico vario per la scuola primaria.
Storia di Roma IMPERIALE – Il Cristianesimo
Durante l’Impero si compì la più grande rivoluzione della storia dell’umanità nel campo religioso e morale: il cristianesimo. La nuova dottrina fu insegnata da Gesù. Nato a Betlemme, in Palestina, quando da 27 anni Ottaviano era imperatore, Gesù trascorse un’umile giovinezza nel villaggio di Nazaret, ignorato da tutti. A trenta iniziò la predicazione della sua dottrina. Questa è tramandata dai Vangeli che, insieme con altri libri, formano la seconda parte della Bibbia, detta Nuovo Testamento. Vangelo è parola greca che significa “buona novella”. Gesù percorse la Palestina predicando e operando miracoli. Fra i suoi primi seguaci ne elesse dodici col nome di Apostoli, cioè propagatori della sua dottrina. Egli affermava di essere figlio di Dio e Salvatore degli uomini, che doveva riscattare dal peccato di Adamo. Ma i Farisei lo accusarono di predicare dottrine contrarie alla religione ebraica e di cospirare contro l’autorità di Roma, in quanto si proclamava re dei Giudei. Gesù fu arrestato e condannato a morte. Ponzio Pilato, governatore romano, pur essendo convinto dell’innocenza di Gesù, cedette al furore popolare e permise che venisse crocefisso sulla collina del Calvario, nei pressi di Gerusalemme. Gesù moriva a 33 anni, mentre a Roma regnava Tiberio.
La dottrina di Gesù
Le condizioni degli Ebrei erano molto tristi per l’oppressione di Erode e la miseria delle classi più umili. La parola di Gesù apriva alla speranza l’animo di questi diseredati. Egli voleva che il regno di Dio cominciasse qui, in terra; esso consisteva nella fratellanza degli uomini, nell’amore reciproco, nel perdono nelle offese, nella pace, nel disprezzo dei beni terreni, nella superiorità dello spirito sulla carne. Chiamò beati i poveri, gli afflitti, i reietti, i misericordiosi, quelli che soffrono persecuzioni per amore della giustizia: beati perchè più vicini a Dio e perchè solo ad essi era aperto il regno dei cieli. Mosè aveva detto di amare il prossimo, ma Gesù aggiunse: “Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che odiano, pregate per i vostri persecutori”. Gesù compiva una grande rivoluzione nel campo morale: molti dei suoi principii contrastavano con la concezione pagana della vita. Se davanti a dio tutti sono uguali e fratelli, veniva meno il diritto del padrone sullo schiavo; la povertà, l’umiltà, la mansuetudine, il perdono predicati da Gesù erano in contrasto con le idee degli antichi, che consideravano la forza, la ricchezza, l’orgoglio, i più alti valori della vita. Gesù, lavorando nella bottega di falegname del padre e scegliendo i suoi apostoli tra gli operai, aveva esaltato il lavoro manuale anche nelle sue forme più umili, mentre fino allora era stato considerato indegno di uomini liberi e solo conveniente agli schiavi.
Storia di Roma IMPERIALE – La diffusione del Cristianesimo
Gesù, prima di essere condannato alla crocefissione, aveva affidato ai suoi apostoli un compito: “Andate, dunque, e predicate a tutte le genti”. Gli apostoli avevano ascoltato le parole del maestro ed erano andati in ogni parte dell’Impero ad insegnare le nuove verità: Dio è uno solo ed è il padre amoroso e giusto di tutti gli uomini; tutti gli uomini sono uguali davanti a lui e sono fratelli fra loro. A Roma, accanto all’antica religione, si erano diffusi culti, riti, superstizioni nati nelle più lontane regioni dell’Impero. I Romani avevano sempre rispettato queste nuove credenze, ma il cristianesimo era una forza nuova ed il governo di Roma ne provava timore; i cristiani rifiutavano di adorare come un dio l’imperatore. I patrizi erano serviti da migliaia di schiavi, considerati come esseri inferiori, al pari di bestie e di cose, e il cristianesimo parlava di fratellanza e di uguaglianza. La nuova religione si diffuse rapidamente e trovò i primi fedeli tra gli schiavi, tra le serve e le nutrici delle case patrizie, tra i poveri e i sofferenti. Quasi tutti gli imperatori se ne preoccuparono e perseguitarono i cristiani. Molti morirono. Si organizzavano veri spettacoli nei circhi e si assisteva soltanto a stragi di cristiani. Essi furono detti martiri, cioè testimoni della loro fede. Le idee giuste non possono essere spente nel sangue: per ogni cristiano che moriva, centro altri si convertivano alla nuova fede. E poichè non potevano pregare e celebrare apertamente i loro riti, si nascondevano in profonde cave abbandonate nei dintorni di Roma: lì assistevano alla messa, ascoltavano le prediche, seppellivano i morti. Quelle cave si dissero catacombe, e negli anni più difficili accolsero e protessero migliaia di fedeli.
Storia di Roma IMPERIALE – La prima persecuzione in Roma
Il popolo prestava mano spontaneamente alla ricerca dei cristiani. La caccia non era tanto difficile, perchè interi gruppi di essi erano accampati con l’altra popolazione nei giardini, e perchè tutti confessavano apertamente la loro religione. Quando venivano circondati dai pretoriani, si inginocchiavano e cantavano inni lasciandosi condur via senza resistenza. La loro pazienza non faceva che irritare ed aumentare l’ira del popolaccio, il quale, senza capire il perchè, considerava la loro rassegnazione come pertinacia nel delitto. I persecutori erano impazziti. Strappavano i cristiani alle guardie e li facevano in pezzi, le donne venivano trascinate al carcere per i capelli, si sbattevano le teste dei fanciulli contro le pietre. Giorno e notte migliaia di persone correvano per le vie urlando come bestie feroci. Si cercavano le vittime tra le rovine, nei camini, nelle cantine. Davanti alle prigioni di celebrava l’avvenimento con baccanali e si danzava sfrenatamente intorno ai fuochi e alle botti di vino. Di sera i ruggiti di gioia salivano e scoppiettavano per tutta la città con lo strepito del fulmine. Le prigioni rigurgitavano di prigionieri. Ogni giorno la plebaglia e i pretoriani stanavano altre vittime. La pietà era morta. Pareva che le moltitudini non sapessero più parlare e non si ricordassero nei loro trasporti selvaggi che un grido: “Ai leoni i cristiani!”. Il calore insopportabile della giornata diventava insopportabile di notte; e l’aria stessa pareva impregnata di sangue, di delitto, di furore. A quegli atti di una crudeltà senza esempio, si rispondeva con un desiderio, pure senza esempio, di martirio. I seguaci di Cristo andavano alla morte volenterosi, o la cercavano fino a quando non ne erano impediti dai superiori. (E. Sienkiewicz, da Quo vadis?)
Storia di Roma IMPERIALE – Le persecuzioni
I Romani si erano sempre mostrati tolleranti, anzi ospitali verso tutte le religioni. Non solo permisero ai popoli sottomessi di continuare ad adorare i loro dei, ma divinità greche, asiatiche, egiziane furono introdotte in Roma. Ma i cristiani non godettero di questa tolleranza: essi furono guardati subito con diffidenza e sospetto perchè la loro dottrina e i loro costumi contrastavano troppo con quelli dei pagani. Essi si rifiutavano di adorare come dio l’Imperatore e perciò furono accusati di essere nemici dello stato e perseguitati. La tradizione conta dieci persecuzioni. La prima fu quella di Nerone, l’imperatore che accusò i cristiani di aver voluto distruggere con un incendio Roma. Un’altra grande persecuzione fu quella ordinata, due secoli dopo, dall’imperatore Diocleziano. Essa infuriò crudelmente soprattutto in Oriente e si protrasse per otto anni (303 – 311): fu quello il periodo chiamato l’era dei martiri.
Storia di Roma IMPERIALE – Le catacombe
I cristiani, dopo la morte, non erano seppelliti col rito pagano della cremazione. Perciò fin dal I secolo costruirono dei cimiteri detti catacombe (nel profondo). Queste erano gallerie sotterranee, scavate in vecchie cave abbandonate di rena o di pomice, o sotto giardini e ville di cristiani, nei dintorni di Roma, con nicchie orizzontali alle pareti, in cui si ponevano i morti. Si estendevano per chilometri e chilometri, con una serie di gallerie che, nei punti di incrocio, furono ampliate fino a formare delle vaste stanze. Ai lati delle gallerie numerose lapidi recavano i vari simboli cristiani: l’olivo, l’agnello, la colomba, il pesce. Le catacombe, oltre che cimiteri, furono anche rifugio durante le persecuzioni: i fedeli vi si riunivano per ascoltare la messa e pregare. Le catacombe si possono perciò considerare le prime chiese dei cristiani.
Storia di Roma IMPERIALE – Nelle catacombe
Scende la notte e i cristiani, uomini e vecchi, e giovani, donne e fanciulli, escono silenziosamente dalla città. A un tratto sembrano ingoiati dalla terra. Spariscono dentro le cave di pozzolana, entrando in strette gallerie. All’ingresso hanno acceso una piccola lucerna, che rischiara a stento il corridoio sotterraneo. La piccola fiamma illumina via via tante tombe, scavate nella parete e sulle quali si possono leggere iscrizioni semplici e commoventi. Su qualche tomba è disegnato un pesce, che significa Gesù. Su qualche altra una colomba, che significa la pace. Oppure un’ancora, che significa la salvezza; oppure una spiga di grano o un grappolo d’uva, che significano la vita eterna; oppure un ramo di palma, che significa il martirio. I cristiani camminano e pregano. Giungono così ad un luogo più spazioso, chiuso da una specie di cupola. Qui è un rozzo altare, accanto al quale si leva un vecchio. Egli è un apostolo, o un successore degli apostoli, cioè un vescovo. Egli parla della vita eterna e spiega: “Cimitero vuol dire dormitorio. I nostri morti non sono morti. Essi vivono con Gesù. Bisogna vivere in questo mondo senza mischiarsi con il peccato, per essere degni di vivere eternamente in paradiso”. I cristiani ascoltano attentamente, poi dicono in coro: “Amen”, che vuol dire così sia. (P. Bargellini)
Nelle catacombe I cristiani, invece di bruciare i loro morti come i pagani, li seppellivano in gallerie sotterranee. Lì avrebbero riposato in pace in attesa di risvegliarsi alla vita eterna. Dapprima i pagani derisero i cristiani per la fede che professavano e gli strani riti che celebravano. Poi presero a perseguitarli, e i Cristiani furono costretti a nascondersi nei loro cimiteri sotterranei, detti catacombe. Alla fioca luce delle lucerne leggevano i Vangeli, ascoltavano la messa, cantavano preghiere. I ricchi spartivano le loro ricchezze con i poveri perchè li consideravano fratelli.
Storia di Roma IMPERIALE – Le tombe dei primi cristiani
Le catacombe si estendono in vasta rete nel sottosuolo della Città Eterna, specialmente alla periferia; e non sono altro che cimiteri sotterranei. Solo in casi eccezionali servirono come temporaneo luogo di preghiera per i primi cristiani che si rifugiavano in esse, accanto alle tombe dei martiri, durante le persecuzioni più feroci. Siccome le leggi romane proibivano di seppellire i morti in città, così anche i cristiani, per fare i loro cimiteri, scelsero, come i pagani, le località prossime alle strade suburbane; e, nel tufo che forma il sottosuolo di Roma, furono scavati chilometri e chilometri di gallerie, larghe mai meno di un metro, che portavano scavate nelle pareti delle nicchie, disposte le une sulle altre come cuccette di bastimento. Una lastra di marmo o di semplice terracotta chiudeva poi il loculo, ed era spesso ornata di iscrizioni e di figurazioni artistiche o simboliche. Altre volte, invece, le tombe erano formate da una mensola sormontata da un arco (arcosolio), o erano raccolte attorno ad una stanza (cubicolo). Al principio le catacombe servirono ad accogliere le spoglie dei cristiani più illustri, insieme con quelle dei loro familiari: ma poi, quando il numero dei Cristiani crebbe, si sentì il bisogno di sepolcri per la comunità. Furono proprio questi i tempi delle più feroci persecuzioni, e così i numerosi corpi dei martiri furono sepolti dai correligionari nei loro cimiteri. Tanto più, allora, i fedeli amarono farsi seppellire nelle catacombe, ove riposavano le spoglie di quei fulgidi esempi di cristiano eroismo, mentre cercavano, in vita, di ornare le tombe con pitture, iscrizioni e colonne, su cui ardevano lucerne. Dal quinto secolo in poi però, i cristiani cessarono di farsi seppellire nelle catacombe, che divennero luoghi di pellegrinaggio e devozione; nelle chiese sotterranee si continuarono a celebrare gli anniversari dei defunti, e sulle tombe più venerate si innalzarono basiliche (San Pietro, Santa Agnese, San Paolo). Ma vennero gli anni terribili delle invasioni barbariche; e i barbari non rispettarono questi sotterranei: li devastarono e ne trassero le ossa per venderle come reliquie. Allora i papi pensarono che meglio valesse trasportare i corpi dei martiri nell’interno della città. Così pian piano, alla metà del IX secolo, le catacombe restarono prive di quei sacri tesori, e perciò furono gradatamente abbandonate e si ricolmarono di rovine, ad eccezione del cimitero di San Sebastiano e di qualche altra piccola parte di sotterranei, posti sotto alcune delle più frequentate basiliche. (O. Gasperini)
Storia di Roma IMPERIALE – I martiri
Durante le persecuzioni, i cristiani venivano imprigionati e interrogati. Bastava che negassero di essere seguaci di Cristo e che bruciassero l’incenso sull’altare dell’imperatore per riavere la libertà. Alcuni lo facevano, altri invece, ed erano la maggioranza, affrontavano con animo lieto la tortura e la morte piuttosto che tradire la loro fede; essi furono chiamati martiri. Questa parola vuol dire testimoni. Nonostante le persecuzioni, il numero di coloro che abbandonavano il culto degli dei e chiedevano di essere battezzati aumentava continuamente.
Storia di Roma IMPERIALE – I cristiani alle belve
Quanta diversità fra i Romani della repubblica e quelli dell’impero! Allora il lavoro era ritenuto un onore. Ora, invece, era quasi diventato una vergogna. La gente voleva godere e divertirsi. Si gridava: “Pane e divertimenti!”. Il divertimento più desiderato era quello del Circo, dove si svolgevano combattimenti fra gladiatori e gladiatori, o fra gladiatori e belve. I gladiatori erano schiavi armati di corta spada, chiamata gladio. Nell’entrare nel Circo, i gladiatori salutavano l’imperatore dicendo: “Salve Cesare, i morituri ti salutano”. Poi lottavano tra loro e si ammazzavano davvero. Quando un gladiatore cadeva a terra ferito, ma non morto, l’altro si volgeva all’imperatore. Se l’imperatore faceva un gesto, col pollice in basso, il gladiatore caduto veniva ucciso. Il gesto contrario significava che gli era salva la vita. Molte volte i gladiatori lottavano contro belve ferocissime: leoni, tigri, leopardi. Ma al tempo delle persecuzioni contro i cristiani, fu trovato uno spettacolo anche più crudele. Si faceva entrare nel Circo un gruppo di cristiani e poi si scatenavano le fiere, mentre il pubblico gridava pazzamente: “I cristiani alle belve!”. Donne, vecchi, bambini, uomini erano così dilaniati dai denti e dagli artigli delle fiere. (P. Bargellini)
Storia di Roma IMPERIALE – Panem et circenses
Se la decadenza dei costumi si fosse limitata alle baldorie, susciterebbe solamente il nostro disgusto; ma essa giunse perfino agli spettacoli sanguinari, amati e approvati da tutti, che provocavano una tale frenesia nelle folle, che senatori, donne e perfino imperatori alcune volte discesero di persona nell’arena per battersi come vili gladiatori. I cittadini poveri limitavano le loro rivendicazioni essenziali a due cose: un pezzo di pane e un posto per assistere alle stragi, “panem et circenses”, e i ricchi, che desideravano rendersi popolari, offrivano rappresentazioni sempre più grandiose. Sotto l’Impero c’erano 165 giorni di rappresentazioni l’anno e, nel corso di certi giochi, migliaia di gladiatori e di condannati comuni furono uccisi. Durante il mattino e nel pomeriggio il numero dei morti è limitato: sono professionisti, formati in apposite scuole, ludi, da allenatori, lanistae, che si sfidavano in duelli serrati, spesso molto lunghi prima della disfatta di uno degli avversari. Di solito si fa combattere un reziario con un mirmillone o gallo. Il primo è il pescatore, quasi nudo, agile, che cerca di avvolgere l’avversario con la sua rete e di colpirlo con il suo tridente; l’altro è un pesce pesante, coperto con placche di metallo, armato di una piccola spada; e il suo capo è rinchiuso in un casco di bronzo con la cima ornata proprio da un pesce. Quando uno degli avversari, colpito da una grave ferita, comincia a vacillare, il popolo urla: “Hoc habet!” (se l’è presa). Quando crolla a terra e alza la mano per implorare la grazia, raramente il popolo la concede, e di solito abbassa il pollice gridando: “Iugula!” (sgozzalo). Il vincintore finisce il ferito che muore con eleganza, come gli è stato insegnato a scuola. A mezzogiorno le gradinate si vuotano. Molti vanno a pranzo e a fare la siesta, mentre il sole implacabile cade a piombo sulle teste nell’immenso anfiteatro di pietre; restano solo i fanatici: essi sanno che succederà qualche cosa anche durante quest’ora vuota. I servi dell’anfiteatro spingono nell’arena i gladiatores meridiani, cioè i condannati a morte. Viene data un’arma ad un uomo, perchè ne uccida un altro che è disarmato; quando egli ha colpito la sua vittima, gli tolgono la spada insanguinata di cui si è appena servito, per darla a un terzo che lo uccida a sua volta. Il terzo è ucciso da un quarto, e il massacro dura un’ora.
Nei circhi avvengono combattimenti fra uomini armati e animali feroci, mai primi cristiani, trattati come criminali comuni, vengono esposti senza difesa e le bestie affamate li sbranano sotto gli occhi degli spettatori. Tuttavia, questi vanno al circo soprattutto per vedere le corse dei carri a due cavalli, bighe, o a quattro cavalli, quadrighe. Per queste corse è stata preparata una lunga pista divisa in due in senso longitudinale da un muro chiamato spina, che lascia un passaggio solo alle due estremità. Fin dall’inizio della gara è una lotta serrata per portarsi sulla sinistra, onde prendere la curva più stretta che sia possibile contro la colonnetta, “meta”, che è all’estremità della spina. In questa lotta le ruote dei cocchi spesso si incontrano e volano in schegge. Prima di cadere, i conducenti tagliano le redini con un pugale, per non essere trascinati al suolo dai loro cavalli impazziti. Costantino nel 325 cercò invano di proibire i giochi gladiatorii; essi continuarono ad essere effettuati nonostante le proteste dei padri della chiesa, ancora per più di un secolo. Mentre un giorno nel Colosseo si svolgeva uno di questi spettacoli, un monaco si gettò in mezzo ai combattenti cercando di strappare loro le armi. Fu ucciso: poi si seppe che si chiamava Telemaco, che era venuto dall’Oriente per compiere questa missione. Il suo sacrificio indusse l’imperatore a prendere un provvedimento decisivo. Il fatto accadde a Roma sotto Onorio ed è narrato da uno storico contemporaneo. (A. M. Colin)
Lotte di gladiatori
Squillarono le trombe e vi fu un profondo silenzio; migliaia di sguardi si diressero sulla porta verso la quale un uomo, vestito da Caronte, avanzava battendo su questa tre colpi di martello, quasi invitasse alla morte coloro che si trovavano al di là. Aperti lentamente i battenti, lasciando scorgere una cupa voragine, entrarono nel Circo i gladiatori. Avanzarono a schiere di venticinque: Traci, Mirmilloni, Sanniti, Galli; tutti armati pesantemente. Seguivano i retiarii, con la rete in una mano e nell’altra il tridente. Furono accolti da applausi che divennero fragorosi. In tutto l’anfiteatro si vedevano facce accese, mani alzate, bocche aperte. E intanto i gladiatori, fatto il giro dell’arena con passo fermo, scintillanti nelle ricche armature, si fermarono davanti alla loggi cesarea, superbi e tranquilli. Uno squillo di tromba acuto interruppe i battimani, i gladiatori alzarono le braccia, e rivolgendosi a Cesare, intonarono lentamente: “Salve Cesare imperatore! Coloro che sono per morire ti salutano!” Dopo, presero posto nell’arena. Dovevano cozzare schiera contro schiera, ma ai più famosi fu comandato di battersi singolarmente, perchè potessero meglio dar prova di sveltezze e di coraggio. Dal gruppo dei lottatori ne uscì uno ben conosciuto, di nome Macellaio (Lanio), famoso vincitore. Con l’enorme elmo e la corazza che fasciava la schiena poderosa, spiccava sulla gialla arena come un immane scarabeo. Il non meno celebre retiario Calendio gli si fece incontro. Cominciarono le scommesse: “Cinquecento sesterzi per Gallo!” ” Cinquecento per Calendio!” “Per Ercole ne scommetto mille!” “Duemila!” Intanto il Gallo, giunto nel mezzo, cominciava a retrocedere; protendendo la spada, e piegando il capo da una parte, seguiva attentamente l’avversario, e il retiario, svelto, nudo, di forme scultoree, coperte di una sciarpa, rapidamente gli girava intorno, agitando con arte la rete, ora abbassando ora rialzando il tridente… Ma il Gallo non fuggiva; piantandosi saldo, faceva in modo da aver sempre di fronte l’avversario. C’era qualcosa di pauroso nella sua grossa testa mostruosa e in tutta la sua persona. Gli spettatori sapevano che egli si preparava ad un balzo improvviso che avrebbe potuto decidere della lotta. E il retiario ora gli correva incontro, ora dava un balzo indietro con tale rapidità, che non era possibile seguirlo con lo sguardo. Più volte il colpo del tridente risuonò sulla corazza: ma il Gallo rimase saldo, dando prova così della sua forza inverosimile. La sua attenzione si concentrava non sul tridente, ma sulla rete che gli girava attorno come un uccello di cattivo augurio. Gli spettatori, trattenendo il fiato, seguivano attentamente il gioco dei lottatori. Lanio, al momento opportuno, balzò alla fine sull’avversario; ma questi, rapidissimo, gli sfuggì di mano, si raddrizzò e scagliò la rete. Il Gallo, con un giro, la respinse con lo scudo; quindi, indietreggiarono ambedue. L’anfiteatro echeggiò delle grida di “Macte!” (Ammazzalo). Nelle prime file s’impegnarono nuove scommesse. E i gladiatori ricominciarono a lottare con arte, con precisione di movimenti, da far pensare che non si trattasse di una lotta di vita o di morte, ma di una gara di destrezza. Lanio cercava di evitare la rete, retrocedendo. Allora coloro che scommettevano, cominciarono a gridare: “Dagli addosso!”, eccitandolo a non riposarsi. Il Gallo obbedì, e si slanciò sull’avversario, il braccio del retiario si coprì di sangue e la rete gli pendette dalla mano. Lanio si raccolse e spiccò un salto per vibrare l’ultimo colpo. Ma in quel punto Calendio, che aveva finto di non poter reggere la rete, scansò il colpo e, conficcando il tridente nelle ginocchia dell’avversario, lo fece stramazzare a terra. Lanio, sempre più avviluppato nella rete fatale, cercava invano di rialzarsi, sempre più imbrogliandosi. Intanto altri colpi lo inchiodavano a terra; puntò la mano, raccolse le forze, ma invano: portò alla testa la mano che non reggeva più la spada, e cadde. Il Circo tremò dagli applausi, dalle grida. Il pubblico era diviso in due parti. Chi gridava morte, chi grazia. Ma il retiario non guardava che Cesare e le Vestali e aspettava la loro sentenza. Per sventura, l’imperatore non amava Lanio, perchè aveva scommesso per lui una volta ed aveva perduto, perciò, sporgendo la mano, abbassò il pollice. Il segno fu ripetuto dalle Vestali. (Enrico Slenkiewicz)
Il trionfo del cristianesimo
Col passare degli anni il cristianesimo si diffuse in regioni sempre più vaste. E la chiesa, cioè la congregazione dei fedeli, diventò veramente cattolica, cioè universale. Le persecuzioni, invece di soffocar il cristianesimo, concorsero alla sua vittoria. Questa avvenne, nel IV secolo, dapprima con Costantino (Editto di Milano), poi con Teodosio (autore di un editto per il quale il cristianesimo era proclamato religione di stato). Il cristianesimo aveva trovato un terreno più favorevole alla sua diffusione nelle città; nei villaggi, detti pagi, continuarono a vivere i seguaci delle vecchie religioni, detti perciò pagani.
La luce del Cristianesimo Il Cristianesimo si diffuse ben presto in tutto l’Impero Romano e vi fu portato non solo dagli apostoli, ma anche da gente qualunque, da persone della quali non conosciamo neppure il nome, ma che avevano il cuore pieno d’amore e di fiducia in Dio. Per esempio, ignoriamo ancora chi formò la prima comunità cristiana di Roma, già esistente prima dell’arrivo degli apostoli Pietro e Paolo. Non era necessario essere sacerdoti, per parlare di Gesù e per invitare gli uomini a riflettere sulla vita futura: potevano farlo un legionario reduce dalle Gallie, uno schiavo incatenato al remo di una nave ferma nel porto per le pulizie, o la moglie di un funzionario al ritorno dalla Giudea. Così, da una persona all’altra, la fede arrivò in tutti gli strati della società romana. Non pensate che i primi cristiani fossero tutti schiavi tormentati dai padroni o poveri maltrattati dai ricchi… No davvero! Furono anche patrizi, uomini colti, militari, matrone di famiglia nobilissima. Perchè non basta la ricchezza per avere la pace del cuore: tutti, ricchi e poveri, avevano bisogno di Gesù. Gli imperatori, però, non approvarono il Cristianesimo e considerarono i cristiani nemici dello Stato, perchè costoro si rifiutavano di rendere all’imperatore in carica gli onori che egli pretendeva considerandosi un dio.
Nelle catacombe La poca luce che pioveva da certe finestre chiamate lucernari o la fumosa fiamma di una torcia illuminavano i volti di coloro che pregavano. Lungo le pareti delle gallerie si aprivano i loculi, cioè delle nicchie dove erano deposte le casse di legno con i cadaveri. Una lastra di marmo o un muro, con il nome della persona sepolta, chiudeva il loculo. Molte volte, oltre al nome, era inciso sulla lapide anche un augurio: “O caro, che tu sia felice, là dove si sta bene”. Da questi antichi cimiteri che sorsero a Roma, in Sicilia e in Sardegna, ci giungono ancora le voci, le preghiere e la fede dei primi cristiani.
La prima arte cristiana La prima arte cristiana si manifestò nelle catacombe. Le pareti delle catacombe venivano, infatti, dipinte con affreschi che rappresentavano pavoni, navicelle, grappoli di uva, pesci, anfore, lucerne, rami di palma, agnelli, un pastore. Ognuna di queste figure aveva un significato: l’albero e il prato rappresentavano il paradiso; la spiga e il tralcio l’eucarestia; la colomba la purezza, la pace e il perdono; il pesce e l’agnello Gesù Cristo. La raffigurazione di Gesù nel pesce si spiega ricordando che, nella lingua greca, pesce si dice ixtus, e le lettere che compongono ixtus sono le iniziali di “Iesus Xristos Teu Uios Soter” cioè ” Gesù Cristo figlio di Dio salvatore”. Altri simboli cristiani erano il delfino, l’anima che naviga e giunge alla salvezza; la palma, che rappresentava la vittoria del martire; la lucerna, la luce che non si spegne nel cuore di chi crede; il grappolo d’uva che simboleggiava Gesù che disseta le anime. Il pastore che porta l’agnello era Gesù che ama il suo gregge.
Le persecuzioni I Romani si erano sempre mostrati tolleranti, anzi ospitali verso tutte le religioni, ma i Cristiani non godettero di questa tolleranza. Essi furono guardati subito con diffidenza e sospetto perchè la loro dottrina e i loro costumi contrastavano troppo con quelli dei pagani. Essi di rifiutavano di adorare come dio l’imperatore e perciò furono accusati di essere nemici dello Stato. I Cristiani furono perseguitati per più di trecento anni e migliaia di loro morirono martiri perchè non avevano voluto rinnegare la fede in Cristo e perchè si erano rifiutati di bruciare incenso davanti alle statue degli Imperatori. Nell’anno 64 Nerone li accusò di aver incendiato Roma e subirono la prima persecuzione. La tradizione conta dieci persecuzioni, fino a quella di Diocleziano che, fra tutte, fu la più lunga e sanguinosa (303 – 311). Non solo vescovi, sapienti ed uomini validi, ma anche giovani e giovinette affrontarono serenamente il martirio, per rivivere nel cielo accanto a Cristo. Ecco il racconto di Santa Perpetua, martirizzata in una cittadina africana: “Mentre eravamo tra i persecutori, mio padre insistette per dissuadermi. Allora gli dissi: -Papà, vedi questo vasetto qui in terra? Potresti chiamarlo con un nome diverso dal suo?-. -No-, rispose lui. -Benissimo!- dissi io. -Nello stesso modo, non posso dire altro di me che sono cristiana!-“
Il cristianesimo Gesù, prima di essere condannato alla crocefissione, aveva affidato ai suoi apostoli un compito bello ma difficile: “Andate, dunque, e predicate a tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Gli apostoli avevano ascoltato le parole del loro Maestro ed erano andati in ogni parte dell’Impero ad insegnare le nuove verità: Dio è uno solo ed è padre amoroso e giusto di tutti gli uomini, tutti gli uomini sono uguali dinanzi a lui e sono fratelli fra loro. A Roma, accanto all’antica religione, si erano diffusi culti, riti, superstizioni nati nelle più lontane regioni dell’Impero. I Romani avevano sempre rispettato queste nuove credenze, ma il Cristianesimo era una forza nuova e il governo di Roma ne provava timore; i Cristiani rifiutavano di adorare come un dio l’Imperatore. I patrizi erano serviti da migliaia di schiavi, considerati come esseri inferiori, al pari di bestie e di cose, e il cristianesimo parlava di fratellanza e di uguaglianza. La nuova religione si diffuse rapidamente e trovò i primi fedeli tra gli schiavi, tra le serve e le nutrici delle case patrizie, tra i poveri e i sofferenti. Quasi tutti gli imperatori se ne preoccuparono e perseguitarono i cristiani. Molti morirono crocefissi, divorati dalle belve, decapitati. Si organizzavano veri spettacoli nei circhi e si assisteva soltanto a stragi di cristiani. Essi furono detti martiri, cioè testimoni della loro fede. Le idee non possono essere spente nel sangue: per ogni cristiano che moriva, cento altri si convertivano alla nuova fede. E poichè non potevano pregare e celebrare apertamente i loro riti, si nascondevano in profonde cave abbandonate nei dintorni di Roma: lì assistevano alla messa, ascoltavano le prediche, seppellivano i morti. Quelle cave si dissero catacombe e, negli anni più difficili, accolsero e protessero migliaia di fedeli.
Un’adunata notturna di Cristiani nelle catacombe a Roma Allora tutta quella moltitudine di cristiani, nel sotterraneo rischiarato dal chiarore delle fiaccole, intonò un inno, dapprima a bassa voce, poi a voce sempre più alta… Quell’inno sembrava una preghiera, triste ed umile ad un tempo, di liberazione dal pericolo e dalle tenebre. Pareva che gli occhi, rivolti ad una meta lontana, e le braccia tese vedessero e supplicassero qualcuno. All’inno seguì un istante di silenzio… Tutti sollevarono istintivamente gli sguardi. Un vecchio, ravvolto in un mantello, ma col capo scoperto, montò su una pietra che stava accanto al fuoco. Tutti si inchinarono. Delle voci mormorarono: “Pietro… Pietro…”. Alcuni si posero in ginocchio, altri stesero le mani verso l’apostolo, e il silenzio divenne così profondo che si sarebbe potuto udire lo stridere dei tizzi arsi che cadevano dalle fiaccole, il rumore dei carri sulla via lontana e lo stormire dei pioppi nel cimitero lievemente agitati dalla brezza della sera. Pietro cominciò a parlare: narrava la morte e la resurrezione di Cristo. Gli ascoltatori trattenevano il fiato per non perdere sillaba, ed il silenzio si fece ancora più solenne. Quell’uomo aveva visto! Egli raccontava come persona, nella cui memoria era impressa ogni minima circostanza, e gli bastava chiudere gli occhi per rievocare quella visione.
Il piccolo schiavo La fila dei prigionieri procedeva silenziosa sotto la pioggia. Erano stati catturati nella lontana Dacia e, a marce forzate, dovevano raggiungere Roma: avrebbero seguito incatenati il cocchio dell’imperatore nella sfarzosa sfilata trionfale. I prigionieri erano tutti guerrieri. Alcuni di loro portavano ancora brandelli della tenuta di battaglia: chi un bracciale, chi gli schinieri, chi addirittura il pettorale della corazza. In mezzo a loro, vestito di una corta tunica, un ragazzo: Lucio. Quando la sua terra era stata invasa, s’era trovato in mezzo ad un gruppo di fuggiaschi in preda al panico. Aveva proceduto con loro per un giorno e una notte, finchè s’era imbattuto in questa schiera di prigionieri, tra i quali aveva scorto gente del suo paese. I soldati di guardia avevano tentato di allontanarlo, ma poi avevano lasciato che seguisse il gruppo. E Lucio faceva del suo meglio per arrancare col suo passo, ma era stanco, molto stanco. Al tramonto si fermarono in una stalla abbandonata. I soldati distribuirono un magro pasto e ordinarono loro di cercarsi un giaciglio sulla paglia per passare la notte. Ma era tanta la stanchezza, il dolore alle gambe e il bruciore ai piedi, che Lucio non riusciva a prendere sonno. Si guardò intorno: tutto buio. Solo là, in fondo, un rettangolo appena visibile, la porta: su di essa si disegnava l’ombra del soldato di sentinella. Lucio osservò a lungo il profilo; lo riconobbe: era Marco, uno dei pochi buoni soldati che li accompagnavano, il quale gli sorrideva spesso; qualche volta, di nascosto, gli aveva regalato del cibo. Lucio si alzò. Al lieve fruscio della paglia, Marco volse il capo verso l’interno della stalla. Nel buio vide biancheggiare la corta tunica di Lucio. “Lucio, che fai?” Il ragazzo non conosceva la lingua di Marco, e non rispose: andò a sederglisi accanto. Da vicino si potevano scorgere il volto: si sorrisero. Rimasero così seduti fianco a fianco, senza parlare. Lucio guardò il cielo: aveva smesso di piovigginare, e qua e là si scorgeva tremolare qualche stella. Si segnò una piccola croce sulla fronte e si mise a pregare in silenzio. Il soldato aveva scorto il segno. Gli toccò una spalla e, sottovoce, gli chiese: “Sei cristiano?” Lucio alzò gli occhi. Non conosceva il linguaggio di Marco, ma la parola “cristiano” l’aveva compresa: fece cenno di sì col capo, poi con un dito disegnò una croce sulla sabbia. A Marco si schiarì il volto e, col grosso indice, disegnò vicino alla croce un pesce. Anch’egli era cristiano. Sorrisero contenti; poi Marco si guardò intorno: tutti dormivano. Allora si alzò e si pose in ginocchio. Lucio lo imitò. Sentinella e prigioniero, gomito a gomito, pregarono a lungo, ciascuno nella sua lingua, ma insieme.
L’incendio di Roma Nell’anno 64 dopo la nascita di Gesù, mentre era imperatore Nerone, scoppiò a Roma un terribile incendio che durò nove giorni. Non si seppe mai la vera causa del disastro, ma corse voce che lo stesso Nerone, di cui si conoscevano le pazzie e i delitti, l’avesse voluto per ricostruire la città secondo i suoi gusti. Nerone incolpò i cristiani. Vennero imprigionati tutti quelli che si sapevano seguaci di Cristo e mandati al supplizio come incendiari. Tra gli altri, subirono il martirio anche gli apostoli Pietro e Paolo. Questa fu la prima persecuzione.
Un processo ai cristiani sotto l’imperatore Antonino Pio Introdotti che furono i cristiani e presentati al tribunale, il prefetto Rustico disse a Giustino: “Prima di tutto obbedisci agli dei e rendi omaggio all’imperatore”. Giustino: Cosa santa è l’obbedire ai comandamenti del nostro salvatore Gesù. Prefetto: Di quali dottrine vai tu discorrendo? Giustino: Io studiai tutte le dottrine e ho prestato fede solo ai veri insegnamenti dei cristiani, anche se non piacciono ai falsi filosofi. Prefetto: E a te, miserabile, piacciono questi discorsi? Giustino: Sì, perchè li seguo con animo disposto ad accogliere verace dottrina…. Prefetto: Veniamo ora alla questione che bisogna sbrigare. Fatevi avanti tutti insieme, e tutti insieme fate sacrificio agli dei. Giustino: Nessun uomo saggio passerebbe dalla religione all’empietà. Prefetto: Se non obbedirete, sarete puniti senza remissione. Giustino: Le nostre preghiere ci ottengono di giungere a salvezza per mezzo dei tuoi castighi; perchè questi saranno a noi scampo e conforto dinanzi al tribunale del nostro Signore e Salvatore, tribunale più terribile di questo e al quale compariranno tutti gli uomini del mondo. Tutti gli altri cristiani dissero: Fa’ ciò che vuoi. Noi siamo cristiani, non sacrifichiamo agli dei. Il prefetto Rustico pronunciò la sentenza: “Costoro che non vogliono sacrificare agli dei nè sottomettersi al decreto dell’imperatore, siano flagellati e condotti al supplizio, e scontino la pena di morte per decapitazione a norma del procedimento legale”. (dagli Atti dei Martiri, trad. S. Colombo)
Il martirio di San Pancrazio Ritto e immobile nel mezzo dell’arena, il giovinetto pregava con le braccia piegate sul petto a forma di croce. Ed ecco i leopardi correre verso di lui, ruggendo. Ma che cosa accadeva? Le belve gli si avvicinarono, gli fecero ressa intorno, mandarono paurosi ruggiti, ma non gli recarono la minima offesa. Il martire sembrava posto in mezzo ad un cerchio magico, a cui le belve non potevano avvicinarsi. Gli fu mandato contro un toro infuriato: esso corse verso di lui a testa bassa, con impeto, ma improvvisamente si arrestò, muggendo e percuotendo con lo zoccolo il terreno. “La pantera!” gridò allora una voce. “La pantera! La pantera!” ripeterono mille altre voci in coro. Apparve una gabbia: si spalancò e la fiera balzò nel mezzo dell’arena. Benchè lungamente irritata dall’oscurità della prigionia e dal digiuno, cominciò a saltare e a correre intorno, come volesse giocare. Alla fine scorse la preda e le si avvicinò piano piano, con tutta la grazia dei suoi movimenti felini. Pancrazio stava sempre fermo al suo posto, di fronte all’imperatore. La pantera misurò, per un attimo, la distanza, mentre tutti trattenevano il respiro; poi, dato un ruggito, spiccò un salto e fu con le fauci strette alla gola del martire. Pancrazio rimase per un istante in piedi, portò la mano destra alle labbra, poi cadde, e i suoi occhi si chiusero nel sonno del martirio. (E. Sienkiewicz)
La Chiesa Le violenze non riuscirono a cancellare il cristianesimo dall’Impero. La Chiesa Cristiana, anzi, si organizzò saldamente. La parola Chiesa deriva da una parola greca che significa assemblea; i cristiani di una città, infatti, si riunivano sotto la guida del Vescovo, che era aiutato dai Preti e dai Diaconi. I primi cristiani si riunivano la domenica per pregare e, in ricordo dell’ultima cena di Gesù, si comunicavano col pane e col vino consacrati. Le varie comunità cristiane si scambiavano notizie e consigli, e i Vescovi si riunivano a concilio per discutere i problemi della Chiesa. Fin dai primi tempi del Cristianesimo, il Vescovo di Roma fu riconosciuto capo di tutta la Chiesa, perchè successore di Pietro, il capo che Gesù aveva scelto.
Il Cristianesimo Il Cristianesimo, nei primi tre secoli dell’era, che ben a ragione è detta cristiana, si diffuse in tutto l’impero. I cristiani obbedivano alle leggi civili quando esse non contrastavano con le leggi di Dio, per questo furono sospettati, calunniati, perseguitati; ma seppero sempre resistere; morirono fra i tormenti, ma non rinnegarono mai la loro fede. Stupirono, impressionarono e conquistarono le folle, perchè serenamente e docilmente, anche cantando, affrontavano il martirio.
Per il lavoro di ricerca Da chi fu diffuso il Cristianesimo nelle terre dell’Impero? Perchè il Cristianesimo era combattuto dallo Stato romano? Chi furono i primi cristiani? Come si organizzò la Chiesa cristiana? Che cosa significa la parola “chiesa”? Dove si manifestò la prima arte cristiana? Che cos’erano le catacombe? Come venivano dipinte le pareti delle catacombe? Che cosa erano i loculi? Quali furono i simboli religiosi dei primi cristiani? Per quanti anni furono perseguitati i cristiani? Quale fu la prima persecuzione dei cristiani? Chi ebbe il nome di martire? Riuscirono le persecuzioni a sopprimere il Cristianesimo?
Il trionfo del cristianesimo Tre secoli dopo la morte di Gesù, al tempo dell’imperatore Costantino, i cristiani erano alcuni milioni, sparsi in tutto il territorio dell’impero. Tra essi vi erano non solo schiavi e poveri, ma anche patrizi, senatori, ufficiali , dignitari di corte. In quel tempo lo Stato Romano aveva due imperatori: Costantino che era stato scelto dai soldati che si trovavano in Gallia; e Massenzio che era stato eletto dal Senato e dal popolo di Roma. I due rivali decisero di combattere l’uno contro l’altro per stabilire a chi dovesse toccare l’Impero. Costantino con il suo esercito giunse alle porte di Roma. Dice la leggenda che mentre si preparava ad iniziare la battaglia decisiva ebbe una miracolosa visione. Una grande croce luminosa apparve nel cielo. Costantino vi lesse queste parole: “In hoc signo vinces” (con questo segno vincerai). Egli, sebbene non fosse ancora cristiano, fece subito mettere la croce sul labaro imperiale. Poi promise che, se avesse vinto, avrebbe concesso la libertà ai cristiani. La battaglia fu combattuta presso il Ponte Milvio, sul Tevere, e Costantino riuscì vincitore. L’anno dopo emanò un editto in cui si diceva che i cristiani erano liberi di praticare la loro religione. In onore di Costantino sorse a Roma un grande arco di trionfo e la città di Bisanzio, in oriente, chiamata oggi Istanbul, prese il nome di Costantinopoli, che significa città di Costantino. Il Cristianesimo trionfò nel 380 dC con l’editto di Teodosio, quando fu proclamato religione ufficiale di Stato.
Costantinopoli Nel 330 Costantino volle dare al nuovo Impero Romano Cristiano una capitale del tutto nuova e scelse Bisanzio, sul Bosforo, che egli cercò di rendere pari a una Nuova Roma (come in un primo tempo pensò di chiamarla), arricchendola di edifici e monumenti gareggianti in bellezza con quelli di Roma. Entro le mura sorsero con straordinaria rapidità fori, portici, archi trionfali, terme, circhi e, fra le altre imponenti costruzioni, un palazzo imperiale che comprendeva un numero grandissimo di saloni con biblioteche, teatri, caserme, ecc… L’11 maggio del 33o, con feste che durarono quaranta giorni, fu inaugurata la nuova capitale, che prese il nome di Costantinopoli. Nella piazza centrale, tra le Vittorie alate, sorgeva un’altissima colonna di porfido, di un color caldo, che ai raggi del sole vibrava. Sulla sommità di essa si ergeva la statua di Apollo, col capo radiante, simboleggiante l’imperatore, come diceva l’iscrizione: A Costantino, splendente come il Sole. Quel sole tramontò nel 337 mentre si accingeva a una spedizione contro il re di Persia. Prima di morire Costantino ricevette dai vescovi della sua corte il battesimo, che egli, pur essendo cristiano, non aveva ancora ricevuto.
Come mai Costantino aveva costruito una nuova capitale e aveva abbandonato Roma? L’impero romano era troppo grande per essere difeso tutto. La parte orientale, dove era stata costruita Costantinopoli era facile da difendersi, perchè protetta dal mare e dalle montagne, e più ricca. La parte occidentale, invece, cioè le terre che oggi sono occupate dall’Italia, dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna e dall’Inghilterra, comportava maggiori difficoltà per la difesa.
Il primo Concilio Ecumenico Costantino fu il primo imperatore cristiano e come tale dalla chiesa ha avuto il titolo di Grande. Oltre agli innumerevoli atti di governo coi quali egli favorì in tutti i modi la nuova religione, è da ricordare soprattutto la convocazione del Concilio di Nicea. Era sorta una controversia di fondamentale importanza tra il vescovo di Alessandria d’Egitto, Atanasio, il quale sosteneva che Gesù fosse insieme uomo e dio, e il prete della stessa città, Ario, il quale invece sosteneva che Gesù fosse soltanto uomo. In tutto l’Oriente cristiano le discussioni fra Atanasiani e Ariani avevano acceso e diviso gli animi, sicchè apparve necessaria la convocazione di quello che fu il primo Concilio Ecumenico (cioè riunione universale di tutti i vescovi), per fissare il dogma o verità di fede. Il Concilio ebbe luogo nel 325 a Nicea, città della Bitinia, con la partecipazione dello stesso Costantino e di un gran numero di vescovi: fu la prima solenne assemblea della chiesa vittoriosa ed ebbe una grandiosa imponenza; la dottrina di Ario fu condannata come eretica; il dogma della divinità di Cristo e della Trinità fu fissato nel cosiddetto Simbolo Niceno o Credo.
La leggenda della croce Narra un’antica leggenda che un giorno Adamo, sentendosi prossimo alla fine, mandò suo figlio Set a bussare alla porta del Paradiso Terrestre con l’incarico di chiedere l’olio della misericordia. Ma invece dell’olio, l’angelo gli diede un ramoscello staccato dall’albero del bene e del male. Tornato a casa, Set trovò che intanto Adamo era morto e, non sapendo che dare del ramoscello, lo piantò sulla sua tomba. Il ramoscello crebbe e divenne un albero. Al tempo di re Salomone, l’albero venne abbattuto e poi, siccome nessuno riusciva a farne qualcosa di buono, lo sotterrarono. Per anni e secoli, il tronco rimase nella terra; ma ne uscì, senza che nessuno lo toccasse, proprio mentre si svolgeva il processo contro Gesù. Con quel legno, i nemici di Gesù costruirono le tre croci del Calvario e, dopo la passione, le fecero sparire. Passarono tre secoli. Alla vigilia di una grande battaglia decisiva, all’imperatore Costantino apparve un angelo che lo invitò ad affrontare il nemico prendendo la croce come insegna. Costantino vinse. In segno di devozione, sua madre Elena andò in Palestina e riuscì a scoprire la vera Croce di Cristo. Un grande pittore del 1400, Piero della Francesca, raffigurò gli episodi della leggenda nella Cappella di San Francesco ad Arezzo.
Teodosio Il cristianesimo, che sotto Costanzo e Giuliano, successori di Costantino, era stato nuovamente perseguitato, riprese tutto il suo vigore con l’imperatore Teodosio, cattolico fervente e devoto al grande vescovo di Milano Sant’Ambrogio. Nel 380 venne emanato l’Editto con cui il cristianesimo fu elevato a religione di Stato. “Noi vogliamo che tutti i popoli retti dalla nostra clemenza partecipino a quella religione che dal divino apostolo Pietro fu trasmessa ai Romani, che si è perpetuata sino a noi, e che è professata dal Pontefice Damaso… Vogliamo cioè che si creda, secondo la disciplina degli Apostoli e la dottrina degli Evangeli, in un solo dio sotto la specie di pia trinità, con pari maestà del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Comandiamo che chi segue questa legge prende il nome di cristiano cattolico. Giudicando gli altri dementi e pazzi, vogliamo che sostengano l’infamia che segue a chi professa dogma eretico e che i loro conciliaboli non prendano nome di chiese. Prima essi si attendano la vendetta di Dio, poi anche le severe punizioni, che l’autorità nostra, illuminata dalla Sapienza divina, riterrà di dover infliggere loro”.
L’impero romano d’Occidente A poco a poco, queste due parti dell’impero si staccarono completamente l’una dall’altra. Ognuna aveva un suo imperatore. L’imperatore d’Oriente regnava a Costantinopoli. L’imperatore d’Occidente non abitava più a Roma, perchè Roma era una città troppo grande e difficile da difendersi, ma a Ravenna. Ravenna era stata fino allora una piccola città affacciata sul mare, con un porto militare. Era circondata da paludi che la proteggevano dalle invasioni meglio di mura robuste. Per questo fu scelta come capitale. Gli imperatori, che vi abitarono, la resero splendida di palazzi e di chiese, che ancora oggi possiamo visitare. Roma era stata abbandonata dagli imperatori e dalla maggior parte dei ricchi signori che vi abitavano. Interi quartieri della città erano vuoti e abbandonati, ma Roma era ancora la più bella città del mondo. I suoi palazzi, le sue basiliche, le sue chiese di marmo splendevano al sole. Nelle chiese e nei palazzi erano accumulate immense ricchezze; i suoi abitanti si sentivano ancora gli uomini più potenti della terra, perchè il nome solo di Roma faceva tremare il nemico.
Sant’Ambrogio e Teodosio Teodosio era talvolta dominato da collere violente, che sopraffacevano la sua abituale dolcezza di costumi. Nel 390 Tessalonica (Salonicco), in occasione dei giochi di Circo, per ottenere che fosse rimesso in libertà un abile cocchiere arrestato, si sollevò. Teodosio, che dimorava ancora in Milano, ordinò senz’altro che in Tessalonica per castigo settemila teste fossero recise. Gli abitanti furono invitati al circo sotto pretesto di altri giochi; ma, mentre aspettavano il segnale delle corse, ecco slanciarsi fra loro la soldatesca e ferire senza misericordia e senza distinzione. Come Sant’Ambrogio seppe a Milano di questo massacro, ne dimostò vivissimo dolore e scrisse a Teodosio, acerbamente rimproverandogli l’orribile misfatto. E un giorno che Teodosio voleva entrare nella basilica milanese, Sant’Ambrogio, a capo del suo clero, gli andò incontro e gli vietò l’ingresso. “Eppure” esclamò Teodosio “il re David fu assai più di me colpevole…” “Se voi avete imitato David nel peccato” rispose l’arcivescovo “imitatelo anche nella penitenza”. E Teodosio si sottomise al castigo della chiesa, depose gli ornamenti imperiali, confessò piangendo i suoi peccati nella basilica in presenza di tutto il popolo, e solo dopo otto mesi di penitenza fu riconciliato con la chiesa. Alla sua morte Teodosio lasciò l’impero ai figli Arcadio e Onorio che se lo divisero: il primo governò l’Oriente e il secondo l’Occidente.
Per il lavoro di ricerca Con quale imperatore cessarono le persecuzioni? Perchè Costantino trasferì la capitale a Bisanzio? Come si chiamò la nuova capitale e come si chiama oggi quella città? Conosci la “leggenda della croce”? Durante l’impero di Costantino a Nicea avvenne un fatto molto importante. Quale? Perchè fu convocato il concilio di Nicea? Che cosa stabilì? Chi era Ario? Che cosa sosteneva? Quando e da chi il cristianesimo fu proclamato religione ufficiale dello stato? Da chi fu incoraggiato Teodosio? Alla morte di Teodosio, come e fra chi fu diviso l’impero? Quale fu la capitale dell’Impero romano d’Occidente?
Cristianesimo e religioni orientali in Roma Con le vastissime conquiste territoriali i Romani erano venuti a contatto di diverse religioni, che a poco a poco si erano diffuse anche tra la popolazione della capitale e delle province: a Roma vi erano nuclei di devoti che veneravano le divinità orientali (Iside ed Osiride, ad esempio, il cui culto era sempre vivo in Egitto) e nuclei di seguaci di nuove dottrine. Tra queste ebbe particolare diffusione ed importanza il culto del Sole: Elagabalo era un sacerdote di questa religione siriaca, che fu accettata anche da altri imperatori (da Aureliano, ad esempio). La stessa antica religione non si era mantenuta pura: non era più intesa e praticata come al tempo della repubblica, ma aveva subito trasformazioni. Diocleziano, inaugurando la monarchia assoluta, volle unire al culto di Giove quello del Sole. Questa trasformazione testimonia un fatto importante: l’antica religione non è più valida per tutti e molti si rivolgono al altre credenze e cercano altre fedi. Anche per questo la diffusione del Cristianesimo fu così rapida. In principio la rivoluzione che esso implicava non fu neppure compresa. Gli imperatori del primo e del secondo secolo, tranne Nerone che perseguitò i Cristiani per motivi particolari, li tollerarono e si limitarono a intervenire contro di essi quasi solo per questioni di ordine pubblico. Nello Stato, che comprendeva popoli di diversissime tradizioni e costumi, essi erano disposti ad ammettere qualsiasi religione purchè fosse salvo il principio della necessità di prestare il culto all’imperatore, che rappresentava l’Impero. Su questo punto, invece, i Cristiani non potevano cedere e non cedettero, perchè il primo articolo della loro fede era l’impegno di adorare un unico dio. Nel terzo secolo apparve chiaramente che la nuova religione, a cui i cittadini dell’Impero aderivano in numero crescente, era pericolosa per la saldezza dello stato e ne contrastava addirittura i fondamenti. Gli imperatori presero decisioni radicali, iniziarono violente persecuzioni e punirono con la morte coloro che si confessavano Cristiani e rifiutavano di prestare il culto all’imperatore. Avvenne con Caracalla, con Decio, con Valeriano e soprattutto con Diocleziano, che ordinò l’ultima e più terribile strage. (M. Bini)
La persecuzione contro i cristiani Uomo fervidamente devoto alla causa della romanità, Diocleziano non poteva non difendere la religione di Stato, minacciata dal numero sempre più folto di cristiani. Nelle sue intenzioni egli voleva impedire solo con leggi severe, ma non crudeli, l’infiltrazione dei cristiani nelle carriere statali e nell’esercito. Così come aveva imposto dalla Britannia al lontano Oriente l’applicazione del diritto romano e delle leggi romane (senza tenere conto delle situazioni ambientali), della lingua e delle tradizioni latine, egli cercò di impedire il propagarsi di altre fedi, preoccupato che esse distogliessero dall’abitudine alla disciplina e all’ordine le popolazioni dell’Impero. Istigato da Galerio, avversario fanatico dei cristiani, Diocleziano emanò a Nicodemia, il 23 febbraio del 303 dC, il suo primo editto in materia religiosa. Esso imponeva lo scioglimento delle comunità cristiane, l’incameramento dei loro beni, la distruzione dei templi e dei libri sacri; impediva le riunioni di fedeli e li escludeva dalle cariche pubbliche. La presa di posizione dell’imperatore rompeva lunghi anni di tranquillità: i Cristiani non la accettarono con la consueta sottomissione e fecero resistenza. Per protesta appiccarono il fuoco al palazzo imperiale dove in quel momento vivevano Diocleziano e Galerio, ordendo anche una congiura contro i due principi. In Siria, dove i cristiani erano numerosissimi, scoppiò una vera e propria rivoluzione fra l’esercito e i funzionari civili. Questa reazione violenta dei perseguitati spaventò l’imperatore che si arrese alle insistenze di Galerio e usò la forza. Ancora una volta però Diocleziano volle circoscrivere l’episodio: fece punire solo i responsabili dell’incendio appiccato al palazzo e coloro che avevano fomentato rivolte. Arrestò anche i vescovi e i diaconi che si rifiutavano di consegnare i libri sacri con la speranza che, privi delle loro guide spirituali, i cristiani si sarebbero rassegnati ad accettare la religione di Stato. Questi provvedimenti vennero ordinati in un altro editto che seguì di poco il primo. Per facilitarne l’applicazione, l’imperatore, in occasione della solennità pubblica dei Vecennalia, che segnava il primo ventennio di governo dei due Augusti, emanò un’ordinanza dove annunciava che i cristiani arrestati sarebbero stati liberati se avessero rinnegato la loro religione. Per coloro che invece volevano persistere nella loro azione dilettuosa contro lo Stato il trattamento sarebbe diventato più duro. Verso la fine del 303 dC Diocleziano si ammalò gravemente e la reggenza dell’Oriente venne assunta da Galerio, il quale ebbe finalmente via libera: per frenare le diserzioni dell’esercito, le risse ideologiche che si verificavano in tutto l’impero, il pericolo di rivolte e sedizioni, Galerio stilò un ordine di persecuzione, sottoponendolo a Diocleziano che lo sottoscrisse. Esso stabiliva che chi non avesse accettato di far sacrifici agli dei dovesse essere condannato a morte. L’applicazione dell’editto fu molto rigorosa in Oriente, più blanda in Italia e in Occidente: l’altro imperatore, Massimiano, lasciò ai funzionari locali libertà di iniziativa; Costanzo, il Cesare di Massimiano, che non si era mai mostrato molto severo in materia religiosa, fece soltanto abbattere qualche tempio e imprigionare qualche diacono, senza però condannare a morte nessuno. La medesima politica usata contro i cristiani fu applicata da Galerio alle altre religioni. Con uguale durezza, mietendo un numero spaventoso di vittime, egli represse la setta sincretista del persiano Mani. Questa dottrina mescolava insegnamenti buddhisti e cristiani; venne avversata non solo perchè inconciliabile con l’autorità imperiale, ma soprattutto perchè proveniva dalla Persia, il paese degli implacabili nemici dei Romani.
La grande persecuzione Diocleziano decise di dare inizio alla grande persecuzione contro i cristiani il 23 febbraio, giorno consacrato al dio Termine, quasi volesse por fine alla religione cristiana. Fu una strage enorme di cui conosciamo i raccapriccianti particolari dalla descrizione dell’apologista cristiano Lattanzio. All’alba di quel giorno fatale il prefetto si recò nella chiesa di Nicomedia, città dell’Asia Minore che in quei tempi era una delle capitali dell’impero, accompagnato da soldati e da funzionari per cercarvi, invano, la statua del nume adorato dai cristiani. I libri sacri furono bruciato e su tutto si fece man bassa, tra la più gran confusione. I due operatori, Diocleziano e Massimiano, osservavano dall’alto del palazzo la chiesa che sorgeva verso l’acropoli di Nicomedia, e discutevano sull’opportunità di dare l’edificio alle fiamme; prevalse il parere di Diocleziano che temeva che l’incendio potesse appiccarsi anche ad altre costruzioni, danneggiando così una parte della città. Allora i pretoriani, brandendo accette e quant’altro servisse ad un’opera di distruzione, invasero l’edificio sacro e in poche ore lo abbatterono al suolo. Il giorno seguente fu emanato un editto con cui si decretava che i seguaci della religione cristiana fossero privati di ogni carica, venissero posti alla tortura e dichiarati fuorilegge a qualsiasi categoria sociale appartenessero, in modo che non potessero neppure denunciare i delitti commessi contro il proprio patrimonio, le proprie persone e il proprio onore, e che non avessero facoltà di difendersi in giudizio. Un cristiano, con estremo coraggio, osò stracciare l’editto, definendolo ironicamente più pretenzioso di un proclama di vittoria contro i barbari. Fu immediatamente tradotto in giudizio e condannato al rogo.
Le catacombe romane E’ stato spesso osservato che, visitando i monumenti storici della Città Eterna qual è oggi, sembra di vedere tra Roma antica e Roma cristiana un vuoto, una lacuna che le separa. Le chiese veramente primitive andarono completamente distrutte oppure furono rifatte; sicchè i più antichi monumenti cristiani che ci rimangono sono lontani di parecchi secoli dagli ultimi monumenti pagani. Questo lungo periodo, che non ha quasi nulla che lo rappresenti nella città come oggi la vediamo, è riempito dalle catacombe, i luoghi di sepoltura dei primi cristiani. Cinque di tali cimiteri risalgono al tempo degli apostoli; gli altri appartengono quasi tutti al secondo secolo dell’era cristiana. La zona delle catacombe, tutte sulla riva sinistra del Tevere e a circa cinque chilometri da Roma, consiste in una roccia vulcanica, il tufo; e in questo, che è facile a lavorare, sono avvenute le escavazioni. Le caracombe hanno sempre all’incirca lo stesso aspetto: un immenso labirinto di gallerie sotterranee a parecchi piani, che si tagliano ad angolo retto, qualche volta rettilinee, qualche volta tortuose. Il sostegno è formato dalle loro stesse pareti tufacee; il soffitto è quasi sempre piano; e solo in alcuni casi si ha una leggera curvatura a volta. Lo sviluppo totale delle gallerie non è inferiore ai mille chilometri, con almeno sei milioni di tombe. La catacomba era, innanzi tutto, il cimitero cristiano, ma era anche di più; perchè di fatto essa fu la vera culla del cristianesimo. Quando la plebaglia della grande capitale si dava bel tempo nelle terme, o si stancava degli orrori del circo, le prime piccole comunità cristiane, obbligate a riunirsi sotto terra, attendevano alle pratiche della loro fede accanto alle tombe dei fratelli morti. Là, nelle tenebre, rischiarate solo qua e là da luminaria o pozzi di luce, si celebravano i riti religiosi fin dai tempi degli apostoli; e mai si parlava del fratelli e delle sorelle defunti come di morti, ma piuttosto come di persone chiamate in cielo. Questo è il segreto delle catacombe e il loro fascino. In tutto il grande mondo romano soltanto il cristiano trovava nel proprio cuore la speranza in un mondo migliore. Qui, nelle catacombe, fu per la prima volta negato il potere della morte. E il cristianesimo volle avere la prima dimora nelle catacombe, nei cimiteri dei suoi morti. (E. Huteon)
IL CRISTIANESIMO MATERIALE DIDATTICO – dettati ortografici e letture. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Assiro Babilonesi – materiale didattico vario – dettati ortografici, racconti, testi brevi, di autori vari, per la scuola primaria.
Gli Assiro Babilonesi
Gli Assiri e i Babilonesi abitavano una vasta regione dell’Asia che, essendo posta tra i fiumi Tigri ed Eufrate, venne chiamata Mesopotamia, cioè “terra in mezzo ai fiumi”.
Come il Nilo aveva reso possibile la nascita di una grande civiltà, così il Tigri e l’Eufrate, ricchissimi di acque, permisero agli Assiro – Babilonesi, rendendo fertile il luogo da essi abitato, di diventare molto potenti.
Essi avrebbero preferito dedicarsi al lavoro dei campi ma, essendosi insediati in una regione che i popoli dell’Asia percorrevano per giungere al Mediterraneo, furono costretti a combattere e divennero guerrieri famosi.
Ebbero due grandiose città: Ninive e Babilonia.
A Babilonia il re Nabucodonosor e la regina Semiramide avevano fatto costruire palazzi favolosi con i tetti muniti di giardini pensili.
Gli Assiro – Babilonesi adoravano il Sole, la Luna, ed avevano molte altre divinità; amavano l’arte, le scienze, la poesia, e furono valenti astronomi. Essi studiarono il movimento degli astri e suddivisero l’anno in dodici mesi.
Per scrivere non usavano la pietra o il papiro, bensì mattoni di molle argilla che riempivano di fittissimi segni a forma di cuneo. La loro scrittura si disse perciò “cuneiforme”.
Tra il Tigri e l’Eufrate
Dalle montagne dell’Armenia, una ragione dell’Asia Minore, scendono due fiumi che sfociano nel Golfo Persico: il Tigri e l’Eufrate. La terra situata tra questi due fiumi è la Mesopotamia ed era abitata nei tempi antichi da due popoli che, pur essendo della stessa razza e della stessa religione, si odiavano ed erano sempre in lotta tra loro: gli Assiri e i Babilonesi. Dapprima furono i Babilonesi a dominare tutta la Mesopotamia. Essi fondarono un impero vastissimo che comprendeva altre regioni dell’Asia, elevarono numerose città e scavarono molti canali di irrigazione. Ma poi la situazione si capovolse: gli Assiri li vinsero e presero il loro posto. Dopo molti anni però, i Babilonesi vinsero di nuovo, e Babilonia, la loro capitale, divenne magnifica. Parlavano tutti di questa città, dei suoi splendidi, ricchi palazzi e dei suoi giardini pensili.
La terra tra i due fiumi
Anche la Mesopotamia, come l’Egitto, era una terra benedetta dalla presenza delle acque dei fiumi. Il Tigri e l’Eufrate, straripando periodicamente, depositavano il loro fertile limo sulle terre circostanti. Il territorio, senza la presenza benefica di questi fiumi, sarebbe stato un arido deserto.
Il popolo quindi traeva dall’agricoltura i mezzi necessari per la vita. Non crescevano alberi ad alto fusto e non c’erano nemmeno pietre da costruzione. C’era solo ricchezza di terra argillosa della quale gli abitanti si servivano per le loro costruzioni.
Il diritto di guerra
Guai a quei popoli che in guerra fossero stati vinti dagli Assiri! Questi assalivano le città nemiche, le assediavano con tanta violenza e tanto ardimento che queste erano costrette a cedere. I soldati procedevano all’assalto delle mura delle città, fra un nugolo di frecce lanciate dagli assediati. Ma gli Assiri, valendosi del loro numero e della loro forza, riuscivano a scalare le mura e a conquistare la città. E allora, guai ai vinti! I guerrieri presi con le armi alla mano e i principali cittadini erano messi a morte con supplizi di vario genere. Un incaricato registrava sopra una pergamena il numero delle teste recise durante la battaglia, e poi queste venivano ammonticchiate in un luogo determinato, le une sulle altre, a guisa di trofeo. Il guerriero più bravo era quello che aveva tagliato un maggior numero di teste. Dopo essersi sbarazzati dei nemici più pericolosi, gli Assiri depredavano e saccheggiavano la città, portando via tutto quello di prezioso che essa conteneva.
Guerrieri crudeli, ma gaudenti in pace
Gli Assiri erano assai bellicosi e crudeli in guerra: però, in tempo di pace, sapevano divertirsi e passar bene il loro tempo. Nella loro fastosa capitale Ninive, gli Assiri avevano palazzi anche più belli di quelli dei Babilonesi: con immense gradinate, e statue grandiose di re e di regine; bassorilievi, con scene di caccia e di guerra.
Vogliamo assistere ad un convito di Assiri? In una grande sala, in cui la luce di torce accese fa risaltare lo smalto azzurro delle pareti e i fregi dorati che le attraversano, vi sono parecchie piccole tavole. Ad ogni tavola sono seduti su scranni rotondi, senza spalliere nè braccioli, sei personaggi: tre per parte. Hanno lunghe barbe ben pettinate, capelli lunghi, ondulati, su cui posano corone di fiori e di nastri. Sulle tavole, coperte di tovaglia, sono disposte grandi porzioni di carne, focacce di farina bianca e frutta. I principi non sdegnano di prendere il cibo con le loro nobili mani… e si fermano solo per bere, nelle coppe dorate, il vino che le ancelle versano copiosamente, passando da una tavola all’altra. Bevono alzando il alto le coppe, e lanciando alte grida, mentre dai lati della sala giungono dolci suoni di musiche.
Il più antico tunnel del mondo
Avete sentito dire che le grandi città come Parigi, Londra, Roma e Milano hanno vie sotterranee, attraversate da ferrovie o da tram elettrici. Non c’è da meravigliarsi: i Babilonesi avevano anche loro una bellissima via sotterranea, scavata sotto il letto del fiume, la quale metteva in comunicazione i due palazzi reali, posti uno nalla parte orientale e uno nella parte occidentale della città. Così i Re e i principi di Babilonia potevano farsi visita senza bisogno di passare in mezzo alla folla variopinta, pettegola e, spesso maleolente, che stava in fazione sul ponte.
I giardini nell’aria
Ma c’era ancora un’altra via privilegiata, che metteva in comunicazione i palazzi reali, lungi dal contatto della folla: i giardini pensili. I giardini pensili di Babilonia, costruiti all’altezza dei tetti delle case, da una parte e dall’altra della strada, erano una delle meraviglie del mondo antico. Si dicevano costruiti dalla regina Semiramide, ma effettivamente furono anch’essi opera del gran re Nabucodonosor. Erano giardini meravigliosi per le piante rarissime che vi crescevano; dove i fiori splendidi mettevano le note più intense di colori e di profumi. Tra i rami, era tutto un gorgheggiare di uccelli rari; un susseguirsi rapido e buffo di scimmiette. Nei viali, passeggiavano donne ornate di gioielli, vestite con lunghe tuniche mirabilmente tessute e ricamate coi più vivaci colori. Nella notte, luci suggestive si accendevano tra i rami, accompagnate da suoni melodiosi di strumenti musicali. Da lontano, avresti detto che un paese fantastico, incantato, sorgesse a mezz’aria, tra il cielo e la terra. Invece i giardini pensili erano costruiti sopra solidi terrazzi sostenuti da grossi pilastri e da archi robusti, alti venticinque o ventisei metri. I terrazzi erano ricoperti da lastroni di pietra, lunghi circa cinque metri e larghi un metro; a questi era sovrapposto uno strato di canne con bitume; quindi un doppio suolo di mattoni cotti; e da ultimo larghe falde di piombo su cui posava la terra in quantità tale da permettere la coltivazione anche di piante di alto fusto. Al problema dell’irrigazione di questi giardini, provvedeva l’Eufrate. Apposite macchine sollevavano l’acqua dal fiume e permettevano così di annaffiare abbondantemente le magnifiche piantagioni. Nella parte sottostante, tra i piloni e le volte, vi erano appartamenti per le persone addette alla manutenzione dei giardini.
Gli scienziati dell’antichità
I Babilonesi furono gli scienziati dell’antichità; i sacerdoti della Caldea (una provincia mesopotamica) perfezionarono le invenzioni dei Sumeri, studiando il cielo ed i fenomeni celesti. I tre Re Magi che andarono a Betlemme per portare a Gesù bambino oro incenso e mirra erano appunto astronomi caldei e avevano avvistato la fulgente cometa dai loro osservatori. Questi osservatori si trovavano sulla sommità delle ziqqurat, le torri a piani che erano la più caratteristica costruzione mesopotamica; facevano parte del tempio, e i sacerdoti dicevano che gli dei vi abitavano quando scendevano in terra. Dall’ultima terrazza di queste alte torri multicolori, i Magi Caldei osservavano gli astri e studiavano i venti, l’addensarsi delle nubi, i lampi, le folgori. Furono così abili che, in quel tempo lontano, quando non c’erano nè cannocchiali nè telescopi nè altri strumenti, riuscirono a calcolare la distanza che corre tra alcune stelle!
Le credenze religiose
Le antiche divinità babilonesi hanno carattere naturalistico, cioè rispecchiano i grandi fenomeni della natura. Al sommo di esse era una triade, Anu, il dio del cielo, che divide il governo del mondo con Enlil, signore dell’aria e della terra, e con Ea, dio delle acque. Quando Babilonia divenne capitale di un vasto impero, il suo dio Marduk prevalse su tutte le altre divinità: era il Sole benefico, forza creatrice della natura. Gli Assiri, prevalendo politicamente, vi sostituirono il loro dio Assur, rappresentato con l’immagine di un Sole alato e concepito, a somiglianza di quelli che lo adoravano, guerriero, vendicativo e crudele.
Accanto al Sole i Babilonesi adoravano la Luna, i pianeti, le costellazioni dello Zodiaco perchè da essi sentivano dipendere la sorte degli uomini e delle cose. Il pianeta più nobile era quello di Venere, detta Istar, dea dell’amore e della fecondità.
Gli Assiro Babilonesi non ebbero sull’immortalità dell’anima e sul mondo dell’oltretomba le chiare e consolanti credenze degli Egizi. Immaginavano che i morti abitassero una sconsolata cavità sotterranea, perpetuamente immersa nelle tenebre. Oltre che agli dei, gli Assiro Babilonesi credevano anche nei demoni, spiriti malvagi, insidiatori dell’uomo: tutti i mali dai quali l’uomo è colpito, erano attribuiti a questi spiriti malvagi entrati nel corpo del paziente.
Usanze babilonesi
I Babilonesi vestono una tunica di lino lunga fino ai piedi, sopra di essa pongono una sopravveste di lana e una bianca clamide. Portano anche calzoni di forma strana e hanno cura dei capelli e si cospargono il corpo di profumati unguenti. Tutti gli uomini portano l’anello col sigillo e un bastone che mostra in cima una figura scolpita. Mangiano molti pesci seccati al sole; li stritolano col pestello nei mortai e ne fanno una specie di farinata, oppure li impastano e li cuociono come pane. (Erodoto)
Proverbi babilonesi
Se un uomo non esercita un lavoro non ottiene nulla nella vita.
Sorveglia la tua bocca: le parole dette in fretta si rinnegano altrettanto in fretta.
Dove si profuma molto si maligna moltissimo.
Canali di irrigazione
Posta tra due fiumi, la Mesopotamia poteva essere ricca di prodotti agricoli solo se si scavavano e si mantenevano in efficienza i canali che irrigavano i terreni e che, nello stesso tempo, imbrigliavano le inondazioni. I canali erano progettati così bene che i moderni governi dell’Iraq (corrispondente all’antica Mesopotamia) hanno stabilito di ricostruirli con la tecnica moderna, ma seguendo la stessa rete. Hammurabi si preoccupò di realizzare lavori idraulici di vasta portata e ne fu tanto soddisfatto da cedere alla tentazione di lodarsi: “Io ho trasformato il deserto in terra fiorita; io ho procurato al paese fertilità e abbondanza; io ne ho fatto la patria del benessere!”.
Babilonia
Babilonia, la capitale dei Babilonesi, era una splendida città. Il re Nabucodonosor e la regina Semiramide l’avevano abbellita con palazzi rivestiti di mattonelle multicolori. Sui tetti avevano fatto costruire i celebri giardini pensili, ornati dei fiori più rari.
Babilonia sorse nel centro di una grande pianura ed era attraversata dal fiume Eufrate. Era una città a forma quadrata, i cui lati misuravano ventidue chilometri ciascuno. La città era difesa con una muraglia larga venticinque metri e alta cento. Nell’interno le vie erano parallele e perpendicolari tra loro.
Nel centro della città sorgevano i due edifici più belli: il tempio e la reggia. Il tempio aveva una torre di otto piani. Tra un piano e un altro vi erano sedili e stanze per il riposo. All’ultimo piano vi era una mensa d’oro massiccio per il sacrificio agli dei.
Non c’era la statua del dio, ma un divano sul quale si credeva che egli andasse a distendersi. Il tempio era dedicato al sole, alla luna e alle stelle, le divinità più venerate.
La reggia si innalzava a forma di piramide con una serie di giardini pensili. Qui la corte conduceva la sua esistenza sfarzosa.
La scrittura cuneiforme
Anche gli Assiro Babilonesi conoscevano l’arte della scrittura. Essi non si servivano però del papiro, come gli Egiziani, ma di mattoni o tavolette di molle argilla, che venivano poi fatti cuocere al fuoco o seccare al sole.
In questo modo i segni, fatti con asticelle di metallo o di legno, non si cancellavano più. Moltissime tavolette di argilla sono pervenute fino a noi: tra le rovine di Ninive, antica città assira, è stata addirittura ritrovata la biblioteca si un re di questa città.
La scrittura degli Assiro Babilonesi si chiama cuneiforme perchè formata da segni triangolari simili a cunei.
Ferocia degli Assiri
“Io diedi l’assalto alla città e la espugnai; tremila dei suoi guerrieri passai per le armi e presi come bottino i loro beni; molti ne feci buttare tra le fiamme e moltissimi ne feci prigionieri; ad alcuni feci tagliare le mani e le dita, ad altri il naso e le orecchie; molti ordinai che fossero accecati. Feci con le teste e con gli arti tagliati due grandi mucchi… Poi feci distruggere la città, devastare tutto, incendiare tutto”.
Così racconta, attraverso un’antica iscrizione, il re degli Assiri Assurbanipal; e queste poche frasi ci danno in breve un ritratto del carattere di quel popolo: guerriero e crudele.
I primi studiosi di astronomia
Gli Assiri e i Babilonesi adoravano, come la maggior parte dei popoli antichi, molte divinità fra le quali il Sole, la Luna, le stelle.
Il culto del Sole e delle stelle fece sì che i sacerdoti intuissero molte delle leggi che regolano il moto celeste.
Seppero calcolare la distanza di alcuni pianeti dalla Terra. Inventarono la clessidra, introdussero la settimana, i cui giorni erano dedicati al Sole, alla Luna e a ciascuno dei pianeti allora conosciuti (cioè a Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno). Seppero prevedere le eclissi di sole e di luna, divisero il giorno e la notte in dodici parti uguali, ogni ora in sessanta minuti e il minuto in sessanta secondi.
Le scoperte dei mercanti assiro babilonesi
Comparvero, per la prima volta, in questo paese, le bilance, i pesi e il denaro. I mercanti babilonesi si recarono fin nelle terre più lontane a scambiare le loro merci con l’orzo che, in quei tempi, veniva accettato in pagamento da tutti. Ma era scomodo tornare in patria con del “denaro” tanto pesante sicchè essi, un bel giorno, stabilirono di sostituire l’orzo con l’argento. Dapprima pesavano l’argento all’atto del pagamento, poi pensarono di farlo fondere in piccole barrette sulle quali era inciso il peso. Questo fu il primo tipo di denaro usato dall’uomo.
Palazzi di mattoni
Nella Mesopotamia non vi erano cave di pietra dalle quali cavare il materiale per costruire i palazzi. Per questo motivo i palazzi dei re e i templi degli dei furono costruiti con mattoni di argilla cotti al sole e, solo più tardi, cotti nei forni. I mattoni sono meno resistenti della pietra e col passare del tempo la pioggia ed il sole li sbriciolano e li riducono in polvere. Infatti di quei palazzi poco si è salvato. Oggi, nella Mesopotamia, si incontrano qua e là delle collinette di terra a forma di panettone. Queste collinette sono quanto resta degli antichi palazzi e templi ridotti in polvere dal tempo.
La statua d’oro di Nabucodonosor
Venne da Babilonia un re superbo e ricco, chiamato Nabucodonosor, per combattere contro Gerusalemme. Aveva molti soldati. Questi si accamparono attorno alla città; poi vi entrarono, demolirono le mura, bruciarono molti palazzi e il bel tempio di Salomone: presero tutti gli arredi d’oro che vi erano e li portarono in Babilonia.
Nabucodonosor prese pure il re che era a Gerusalemme e lo tenne prigioniero finchè visse: uccise molti ebrei, e molti altri fece schiavi in Babilonia.
Sedevano gli Ebrei presso i fiumi di Babilonia e piangevano. Non vollero più cantare i loro salmi come erano soliti fare ed appesero le loro arpe ai salici, sulle rive dei fiumi.
Nabucodonosor fece una statua d’oro fuori della città e mandò a chiamare tutti i giudici, i capitani del regno e un gran numero di ricchi perchè venissero a vederla. Nabucodonosor, che aveva nominato giudici tre giovani ebrei, li volle alla festa dell’inaugurazione. Giunti che furono tutti, capitani, giudici e ricchi, stettero intorno alla statua, ed un uomo gridò ad alta voce: – O voi tutti quando udirete il suono della musica, gettatevi a terra e adorate la statua d’oro. Chiunque non si getterà in terra e non la adorerà, sarà immediatamente gettato in una fornace ardente! –
Poco dopo suonò la musica, ed il popolo si gettò in terra e adorò la statua. Ma i tre giovani non obbedirono all’ordine del re. Nabucodonosor, fattili condurre alla sua presenza, disse loro: – Per la vostra disobbedienza dovrete essere puniti; qual è quel Dio che potrà liberarvi dalle mie mani? –
Quei giovani risposero: – O Nabucodonosor, il nostro Dio saprà liberarci dalla fornace ardente, e ci libererà anche dalle tue mani, o re. Ma noi non adoreremo i tuoi dei, nè la statua d’oro che hai innalzato –
Allora Nabucodonosor ordinò ai suoi servitori di gettare quei tre giovani nella fornace. Furono legati perchè non potessero muoversi; e così vestiti ed avvinghiati furono precipitati tra le fiamme, le quali divamparono tutto intorno in modo che rimasero presi ed inceneriti anche i soldati.
Nabucodonosor, che stava presso la fornace e voleva veder bruciare quei giovani, li vide invece camminare in mezzo al fuoco accompagnati da un giovane bellissimo: un angelo di Dio.
Il re capì allora che vi era un Dio che poteva liberare i suoi servitori dalle fiamme e ordinò che non si impedisse ai tre giovani di onorare il loro Dio.
Assiro Babilonesi – materiale didattico vario. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Recita per bambini ARTIGIANI DEL COMUNE – Queste due scene vogliono spiegare l’importanza delle Corporazioni, specie di organizzazioni sindacali, linfa vitale dei liberi Comuni. Siamo a Firenze, dentro una delle tante botteghe dove si fabbricano tessuti di lana.
Scena I
Personaggi: Messer Currado, maestro d’Arte Una bambina
Messer Currado è vicino all’ingresso della bottega, quando arriva una bambina.
bambina: Messer Currado! Mi manda mia madre per dirvi…
Messer Currado: Ah, cara bambina, come è andata quella faccenda?
bambina: Male, messere. Se non ci aiutate voi, saranno guai. Il proprietario della casa vuole espellere dalle sue abitazioni tutte le filatrici, perchè dice che vuol trasformare le sue case a modo proprio…
Messer Currado: Dovrà mettersi contro la nostra Arte! Stai certa che non ce la farà: dì a tua madre di lavorare tranquilla, perchè nel Comune la nostra Arte ha grande importanza e stasera lo farà sapere ai Priori stessi Parola di Messer Currado!
Scena II
Personaggi: Guido, piccolo apprendista artigiano Antoniotto, piccolo operaio laniero
Guido: dimmi, Antoniotto, tu che da quattro mesi non sei più apprendista da me…
Antoniotto: Da cinque mesi, vorrai dire. Son cinque mesi che sono un operaio della lana! Ci tengo. Ora anch’io guadagno!
Guido: Vorrei sapere, Antoniotto, che cosa significano le parole che si sono dette il nostro Maestro e quella bambina
Antoniotto: Mi sembrano chiare
Guido: A me no
Antoniotto: La madre di quella bambina è una filatrice di lana e lavora in casa con altre filatrici. Il proprietario le vuole scacciare, benchè esse paghino la pigione puntualmente
Guido: E messer Currado che c’entra?
Antoniotto: Si sente che sei un apprendista ai primi passi! Già, si vede dall’aspetto che non sei maturo: hai undici anni e ne dimostri dieci
Guido (contrariato): Non ne ho colpa io!
Antoniotto: Via, non te ne avere a male! Ora ti spiego. Del resto messer Currado dice che noi dobbiamo insegnare a quelli più piccoli…
Guido: Allora?
Antoniotto: Tutti coloro che lavorano con uno stesso scopo formano un’associazione, cioè una corporazione, che difende i loro interessi. Per esempio, tutti coloro che lavorano la lana, tessitori, filatori, tintori, venditori di lana, e così sia, sono uniti in una corporazione che di chiama Arte della Lana. Qui a Firenze l’Arte della Lana è potentissima. Ma ci sono, come in altri Comuni, anche le corporazioni dei mercanti, dei medici, dei calzolai, dei fabbri, dei legnaioli, degli albergatori, e così via.
Guido: Va bene. Ma che c’entra questo con la casa della filatrice?
Antoniotto: Le corporazioni, che hanno propri rappresentanti nel Comune, godono di alcuni diritti a favore dei propri artigiani: per esempio, quello che proibisce ad un proprietario di case di sloggiare, per suo capriccio e improvvisamente, che lavora la lana a casa.
Guido: Ora capisco. Insomma: la corporazione difende chi lavora.
Antoniotto: Si capisce. Questo è un piccolo esempio. Ma ce ne sono tanti altri e più importanti. E’ la Corporazione che fissa quante ore dobbiamo lavorare in una giornata, che stabilisce i giorni festivi durante l’anno, che combatte la concorrenza sleale, che pretende che i propri iscritti lavorino sempre meglio e col massimo impegno. Ora ti faccio una domanda: “Sai perchè a Firenze si fabbricano i migliori tessuti di lana di tutto il mondo?
Guido: Non so
Antoniotto: Perchè la stessa Arte della Lana punisce coloro che fabbrichino stoffe scadenti. Così, difende il lavoro di tutti, perchè i tessuti sono sempre più richiesti. Poi devi sapere che ogni Arte ha un’insegna…
Guido: La nostra qual è?
Antoniotto: Un montone bianco disegnato in campo azzurro.
Guido: Sì, l’ho vista!
Antoniotto: L’Arte dei Mercanti ha per insegna un’aquila d’oro, l’Arte dei Fabbri un paio di tenaglie, l’Arte dei Legnaioli un albero; e così via. Ogni Corporazione è sotto la protezione di un Santo; perchè devi sapere che gli iscritti alla Corporazione si impegnano prima di tutto alla preghiera, a fare opere di misericordia, a costruire ospedali e chiese. Anzi, sembra… Ma tu oggi mi fai rimanere indietro col lavoro.
Guido: Ora ti lascio, ma finisci la fraze, te ne prego
Antoniotto: Sembra che l’Arte della Lana voglia sostenere le spese per la nuova cattedrale che i Fiorentini vorrebbero costruire in onore della Madonna: Santa Maria del Fiore!
Recita per bambini ARTIGIANI DEL COMUNE Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
I COMUNI materiale didattico vario per la scuola primaria.
I Comuni: una nuova civiltà Le prime città italiane che divennero libere e ricche furono le città marinare. In seguito però anche nei borghi lontani dal mare si fece strada una nuova civiltà. Nella campagne i contadini, con nuovi metodi di coltivazione, riuscivano a produrre raccolti più abbondanti, la cui vendita permetteva loro di comprare presso gli artigiani delle città le merci necessarie a rendere meno difficili le loro condizioni di vita. Così il benessere delle campagne influì direttamente sullo sviluppo delle città dove artigiani e mercanti, con la crescente richiesta delle loro merci, trovarono nuovo interesse al lavoro e alla produzione. Molti servi della gleba lasciarono i villaggi per trasferirsi nelle città, che diventarono a poco a poco più grandi, più belle, più ricche. Dai loro castelli i feudatari guardavano preoccupati questo improvviso risveglio di vita creato dal lavoro e vedevano diventare potenti non uomini d’armi, ma i pacifici mercanti, i banchieri, gli artigiani.
La nascita dei liberi Comuni A poco a poco le città si sottrassero al dominio dei feudatari ed acquistarono l’indipendenza. Dapprima affidarono la protezione dei loro diritti ai vescovi, poi si liberarono anche della loro influenza e si governarono da sole. Nacquero così i liberi Comuni italiani, piccoli Stati indipendenti. Il Comune era retto da due o tre consoli che venivano eletti per la durata di un anno. Più tardi furono sostituiti da un podestà, chiamato da fuori perchè governasse con maggior giustizia. I consoli e i podestà erano aiutati da pochi cittadini che formavano il Consiglio minore e maggiore. Quando si doveva prendere una decisione importante, tutti i cittadini si raccoglievano in parlamento davanti al Palazzo del Comune.
La vita nella città comunale La città comunale era circondata da torri, chiusa da porte, ma non risuonava solo dei passi dei soldati come il vecchio castello. Essa infatti era piena delle voci degli artigiani e dei mercanti intenti al lavoro. Questi ultimi, arrivati con i loro carri nella piazza del mercato, esponevano ogni sorta di merci. Dalla piazza del mercato, che era anche la piazza dove si teneva il parlamento, si irradiavano tutte le strade della città: la via degli orafi, dove avevano le loro botteghe i maestri nell’arte di cesellare i metalli preziosi; la via degli armaioli, dove erano i fabbricanti di lance, corazze e scudi; la via dei lanaioli, dove erano i mercanti che vendevano la stoffa; e ancora la via dei cuoiai, degli speziali, dei falegnami, dei pentolai, dei cambiatori, dove si cambiavano le monete. Tutti coloro che esercitavano la stessa professione erano riuniti in associazioni chiamate corporazioni, che fissavano i prezzi delle merci, il metodo di lavorazione, il numero degli operai che potevano lavorare in una bottega, la durata del lavoro giornaliero. In questo modo il lavoro era ben disciplinato e tutti potevano vivere meglio. A poco a poco la città diventò così ricca che poteva prestare denaro a principi e a re. I mercanti e gli artigiani offrivano il proprio denaro ai consoli perchè chiamassero architetti e pittori famosi ad abbellire i pubblici palazzi. Una voce era rimasta fuori della città: la voce del corno che dava l’allarme nel castello o che risuonava nel bosco durante le cacce, la voce della dominazione feudale. Al suo posto si udiva la campana che chiamava con con gioia se era tempo di festa, con ansia se la città era minacciata. Allora tutti accorrevano davanti al Palazzo del Comune, per armarsi e difendere la piccola e amata città.
Per il lavoro di ricerca Come e quando nacquero i liberi Comuni? Chi li guidò dapprima? E in seguito? Quali furono i maggiori Comuni italiani? Quale Comune si distinse per la sua potenza e magnificenza? Che cosa era il parlamento? Quali cittadini facevano parte del “popolo grasso” e del “popolo minuto”? Vissero sempre in concordia fra di loro i Comuni? Chi erano i Guelfi e i Ghibellini? Come era la vita pubblica ed economica? Come era l’aspetto di una città nell’età comunale? Come erano le case dell’epoca comunale? Quando nacque la nostra lingua? Quali grandi uomini vissero nel periodo comunale? Quali “arti” e “mestieri” si svilupparono particolarmente durante l’età comunale?
Sorge il Comune Nelle campagne deserte, fra le immense foreste, lungo i fiumi, nelle vaste piane malsane per gli acquitrini che qualche solerte ordine monastico tentava appena di risanare, la vita era triste e pericolosa. Nelle città si era più sicuri. Vi erano buone e salde mura e le porte, sprangate la notte e sorvegliate da scolte (sentinelle), permettevano un tranquillo riposo dopo la giornata laboriosa. Perchè nelle città si lavora. Le milizie hanno bisogno di armi e armature. Si sviluppano i commerci e le industrie. Palazzi, fortezze, monasteri e chiese richiedono maestranze provette, artigiani del legno, del ferro, della pietra, dei laterizi. Le corti hanno bisogno di ricche stoffe per gli abbigliamenti degli uomini e delle dame, le chiese si adornano di paramenti preziosi. A Colonia, Norimberga, Milano, Brescia risuonano le incudini delle mille fucine degli armaioli; i piccoli signori di campagna preferiscono alla sede deserta e mal difendibile del castelletto, il palazzo in città su cui s’erge la torre. Gli interessi si moltiplicano al di fuori della vita dei signori e degli ecclesiastici: amanuensi e notai, maestri di arti guadagnano denaro col loro lavoro; e guadagnano, arricchendosi, i mercanti audaci che per le lunghe vie di terra e di mare tessono la rete profittevole dei loro scambi. A Genova, a Venezia, a Pisa gli armatori, padroni di navi da traffico, sono una casta nuova ricca di denaro liquido, difficile a controllare e a taglieggiare; con essi i signori, i vescovi, l’imperatore stesso dovranno venire a patti se vogliono avere tributi od aiuti, e in cambio di questi offrono franchigie e libertà. Sorgono così le città che si governano da sè, con magistrati locali, scelti per la libera elezione dagli uomini che lavorano; sorge il Comune. Un ricordo remoto di romanità, mai spento per trascorrere di secoli, dà ai reggitori del Comune il nome famoso di consoli. Sulla fine dell’XI secolo, nell’Italia settentrionale, fra il disordine e l’assenza dei governi imperiale e regale, appare consolidata la vita dei Comuni. Uno scritto del 1093 accerta l’esistenza di un governo comunale a Biandrate, presso Novara; certamente nella stessa epoca Milano, Lodi, Crema, Cremona, avevano ormai la loro costituzione comunale. (E. Momigliano)
I maggiori Comuni italiani Alcuni Comuni si svilupparono maggiormente, sia per la loro posizione che per l’operosità dei loro abitanti. Milano fu famosa per l’abilità dei suoi artigiani nel fabbricare armi e corazze, richieste da principi e sovrani di tutta Europa; Venezia fu celebre per la lavorazione del vetro, arte appresa da operai di Bisanzio; Firenze fu nota per i suoi tessuti di lana e di seta; Pisa per la fusione delle campane; Pesaro, Urbino e Gubbio per le loro stupende ceramiche; Lucca per i ferri battuti.
Il governo del Comune E’ naturale che dapprima prevalessero nel Comune i nobili, proprietari di terre, e i valvassori: i mercanti e gli artigiani erano ancora poco numerosi e poco autorevoli. Infatti, i magistrati posti a capo della città e detti romanamente consoli, furono fin verso la fine del secolo XII sempre nobili. Duravano in carica generalmente un anno, avevano il potere esecutivo, militare e giudiziario, erano assistiti da un Consiglio minore o degli Anziani (Senato). Ma quando si doveva decidere su questioni molto importanti, si convocava tutto il popolo. Questa adunanza generale nella piazza principale o arengo si chiamava Parlametno o Concione. La borghesia, cresciuta di numero e di potenza, ambì, un certo momento, di impadronirsi del potere. Dopo un periodo di contrasti e di torbidi, i consoli furono sostituiti da un magistrato nuovo, il podestà. Il podestà era quasi sempre uno straniero, che veniva invitato a governare per uno o due anni il Comune. Non avendo ne amici ne parenti ne interessi particolari da difendere nel Comune, il podestà straniero dava garanzie di poter governare con rettitudine e senza fare favoritismi. Il sistema dei podestà rimase in uso per tutto il secolo XIII, ma neppure questo riuscì ad eliminare le discordie fra i cittadini. Per stroncare con la forza le ribellioni, allora si decise di affidare il Governo a un uomo solo, energico, capace di far rispettare su tutti la sua volontà. Per questo compito si scelse il Capitano del Popolo, cioè un condottiero esperto nelle faccende militari e dotato di grande popolarità fra i soldati. Nelle mani dei Capitani del Popolo, i Comuni ritrovarono la pace e l’ordine, ma perdettero la loro libertà. Infatti il condottiero finì con il governare da solo, sopprimendo ogni diritto dei cittadini. Finiva così l’età dei Comuni e cominciava quella delle Signorie.
Il Parlamento I capi delle Corporazioni, riuniti insieme eleggevano il capo del Comune. Tutti insieme fissavano le tasse da pagare e le opere pubbliche da realizzare. Per le decisioni importanti veniva convocato a parlamento tutto il popolo. Ogni cittadino era anche soldato. Sorsero le mura e i fossati intorno alle città. Ai feudatari non restava che una scelta: lotta senza quartiere contro il Comune, oppure inserirsi attivamente nella vita di esso.
Popolo grasso e popolo minuto Come sempre succede, anche nel Comune i cittadini non avevano tutti la medesima ricchezza. C’erano i nobili, i grandi commercianti, i notai, i banchieri e in genere coloro che possedevano grandi ricchezze: questi formavano il cosiddetto popolo grasso, che in pratica riusciva ad accaparrarsi le cariche più importanti del Comune. Il popolo minuto era invece formato dagli artigiani, da coloro che lavoravano alle dipendenze altrui, dai poveri in generale. Ma anche se non disponeva di ricchezza materiale e non poteva accedere facilmente alle cariche pubbliche più alte, il popolo minuto non era composto di servi. Anche il più povero dei cittadini era un uomo libero, che poteva partecipare al Governo in modo attivo prendendo parte alle riunioni dell’Assemblea o Parlamento o Arengo (a seconda delle città).
Le guerre del Comune Praticamente ogni primavera l’esercito comunale, composto dai cittadini e guidato da un Console, usciva dalle mura e compiva incursioni guerresche nei territori vicini. L’obiettivo principale di quelle azioni belliche era molto spesso rappresentato dai vari castelli feudali, che minacciavano costantemente la libertà e l’autonomia del Comune. I cittadini aggredivano il castello, sopraffacevano la guarnigione e costringevano il feudatario a trasferirsi in città oppure a concedere un solenne riconoscimento dell’indipendenza del Comune. Così a poco a poco il Comune ingrandiva i propri possedimenti territoriali, ed eliminava i suoi nemici più pericolosi. Molto spesso, poi, i Comuni facevano guerra fra loro. La posta in palio era rappresentata da una strada, un fiume, un territorio particolarmente ricco: la floridezza del Comune derivava in grandissima parte dalla sua attività commerciale, e tutto ciò che poteva favorire i traffici doveva entrare in possesso dei cittadini. Allo stesso modo, infine, era necessario eliminare i concorrenti, cioè i Comuni diventati troppo potenti. Ma intanto si profilava una nuova, gravissima minaccia per i liberi Comuni: l’imperatore. Questi cominciava a rivendicare il possesso di quelle città che gli erano appartenute e che ora erano diventate tanto floride. Poichè i cittadini non intendevano assolutamente cedere le armi di fronte alle pretese dell’imperatore, una durissima, decisiva lotta si annunciava imminente.
Vita comunale Le città feudali sorgevano di solito in luoghi elevati, presso incroci di strade importanti, lungo fiumi navigabili o non lontano dalle frontiere. Attorno alle mura del castello feudale o del monastero fortificato si erano lentamente sviluppati i commerci e le modeste industrie dei cittadini o borghigiani. Quando cessarono le scorrerie barbare, l’attività fuori dalle mura castellane crebbe, le botteghe si moltiplicarono e i mercanti e gli artigiani, che prima non abitavano stabilmente in città, vi si stabilirono definitivamente. La popolazione che viveva fuori del castello costruì a propria protezione una seconda cinta di mura. Il Comune batteva moneta, stabiliva e sorvegliava i lavori pubblici, costruiva strade, ponti e canali, pavimentava le principali vie della città, disponeva il rifornimento dei generi alimentari, proibiva l’accaparramento, la compera all’ingrosso o l’incetta, favoriva il diretto contatto tra venditori e compratori ai mercati e alle fiere, esaminava pesi e misure, ispezionava le merci, puniva l’adulterazione delle derrate, controllava esportazioni e importazioni, immagazzinava grano per gli anni magri, in caso d’emergenza forniva grano a buon mercato, fissava i prezzi dei generi alimentari di prima necessità. Quando il prezzo di una derrata desiderabile era fissato troppo basso e ci si accorgeva che la produzione ne soffriva, allora il Comune lasciava che i prezzi di quella determinata merce trovassero il loro equilibrio mediante la concorrenza; ma con corti o assise del pane e della birra manteneva la vendita al minuto in costante relazione con il costo del grano e dell’orzo. Pubblicava periodicamente una lista di prezzi e riteneva che ogni merce dovesse avere un giusto prezzo che tenesse conto del costo del materiale e delle ore di lavoro. (W. Durant)
Gli artigiani Gli artigiani erano uomini semplici e laboriosi. Andavano sbarbati, ma tenevano i capelli lunghi, a zazzera. In capo portavno un berrettino a cono o a papalina. Indosso un farsetto stretto alla vita da una cintola di cuoio. Portavano calze lunghe di panno, con la suola di cuoio, chiamate calze solate. Le scarpe erano usate soltanto per i lunghi viaggi. I vestiti non avevano tasche e tutto veniva portato in cintola, mediante fermagli: borse, pugnali, oggetti vari. Lavoravano dall’alba al tramonto e dopo il lavoro si raccontavano novelle e storielle.
Le donne filavano, tessevano, cucivano, facevano il pane, mettevano l’olio nelle lucerne. Anch’esse, dalla mattina alla sera, non facevano che lavorare. Vestivano molto semplicemente, con un vestito ripreso alla vita dalla cintura di cuoio, e sotto di questo una gonna più chiara, chiamata sottana. In testa un panno di lino e ai piedi le pianelle.
Le case nel centro della città, strette fra loro, erano altissime e si chiamavano case-torri. In ogni casa c’era l’occorrente per la vita: il pozzo per l’acqua, la cantina per il vino, il forno per il pane, l’orciaia per l’olio, la stalla per il cavallo, il telaio per il panno. Pochissime case avevano le finestre coi vetri. Di solito le finestre erano chiuse con panni bianchi, imbevuti d’olio perchè fossero più trasparenti. Anche oggi le parti delle finestre si chiamano telai e impannate. Il mobilio era scarso. Qualche panca, poche panchette, alcuni cassoni pieni di biancheria e vestiti. Per difendere la lana dalle tignole si metteva nei cassoni molto pepe. Le armi stavano in un mobile chiamato armario, da cui è venuto il nome armadio. Si viaggiava o a piedi o a cavallo. Soltanto allora si portava un cappello di feltro a larghe tese, con un cordone annodato sotto il mento. Quando non pioveva o il sole non bruciava, il cappello veniva gettato dietro le spalle. (P. Bargellini)
La vita economica Dopo la vittoriosa affermazione di Legnano, la vita dei liberi Comuni italiani cominciò ad espandersi in tutta la sua esuberanza. I mercanti e gli artigiani si associarono sempre più numerosi in corporazioni delle Arti: vi erano le Arti Maggiori e le Arti Minori (con a capo di ciascuna un priore), a seconda dell’attività esercitata. Ciò facevano, e gli uni e gli altri, per la tutela dei propri interessi, ma erano mossi anche dall’amore verso la patria, dal desiderio di renderla più forte, più ricca, più splendida. Le industrie fiorirono e diedero impulso ai commerci: a Firenze fiorì l’industria della lana; a Bologna quella della seta; a Genova e a Zoagli quella dei velluti; a Murano quella dei vetri; a Faenza quella delle stoviglie; a Milano quella delle armature; da per tutto quelle del cuoio e delle pellicce, oltre agli arsenali di Venezia e di Genova, pieni di navi in costruzione. I mercanti italiani percorsero l’Europa vendendo materie lavorate e comprendo materie grezze; aprirono le prime banche pubbliche, come il Banco di San Giorgio a Genova, e divennero i primi banchieri del mondo, come i Medici, i Peruzzi, i Bardi, grandi mercanti fiorentini che avevano banche in tutte le principali città d’Italia e d’Europa. I banchieri lombardi dominavano il mercato del denaro fino in Inghilterra, e lombardo divenne sinonimo di italiano. Perfino i più potenti re d’Europa si rivolgevano ai banchieri italiani per avere grossi prestiti di denaro. Furono inventati allora i principali strumenti bancari, come la cambiale, la scrittura doppia e la società dei assicurazioni. Riapparve in circolazione la moneta d’oro, scomparsa da parecchi secoli ormai dall’Europa impoverita con le invasioni barbariche: si coniarono il fiorino di Firenze, lo zecchino di Venezia, il genoino di Genova, ecc…; e poichè ogni città aveva il suo sistema monetario, ebbe inizio l’attività dei cambiavalute e dei banchieri. Famosi tra essi i banchieri fiorentini, lombardi e genovesi.
Arti e mestieri Le città sono piene di artigiani che lavorano con grande bravura il ferro, il cuoio, il legno, che tessono e colorano belle stoffe di lana e di seta. I fabbri lucchesi sono maestri a tutti: anche i più comuni oggetti, una chiave, una cancellata, un portastendardi, paiono opere d’arte. Famosi fonditori di campane sono i Pisani e da per tutto li chiamano perchè ormai non c’è chiesa o palazzo del Comune senza campane. Brescia e Milano, invece, hanno rinomanza in tutta Europa per le fabbriche d’armi. I setaioli lucchesi, fiorentini, milanesi, non hanno nessuno che possa star pari a loro. E’ un’arte venuta dalla Sicilia in Toscana e dalla Toscana passata ad altri luoghi. Anche nell’arte della lana sono maestri i Fiorentini. Importano dall’estero panni rozzi e li restituiscono che sono una meraviglia. E le maioliche di Gubbio, di Urbino, di Pesaro, di Faenza? Nessun Paese al mondo ne dava di così belle ed apprezzate: colo rosso, color oro, color azzurro, color perla. Altre arti fiorivano a Venezia. E innanzi a tutte l’arte del vetro, arte famosa, arte veneziana di Murano, portata là da operai di Bisanzio e di Ravenna. Nell’isoletta di Burano invece, le donne lavoravano merletti e trine leggere e vaporose. Dove non andavano allora gli italiani? I mercanti e i banchieri , anche di piccole città come Prato, si potevano incontrare in Francia, in Inghilterra, in Polonia, nella Spagna. Molti di essi si arricchivano; e la ricchezza acquistata veniva spesa per adornare le città con belle chiese e begli edifici.
La bottega Nel Medioevo non esistevano grandi fabbriche: il lavoro e la produzione erano concentrati nelle botteghe artigiane. Vi lavoravano il maestro, i suoi soci e i suoi discepoli, che potevano anche essere i figli o i parenti del maestro, e mentre apprendevano il lavoro non ricevevano alcun salario. Anche i pittori e gli scultori avevano la loro bottega e i loro discepoli. Arti e mestieri si tramandavano di padre in figlio. La bottega era una famiglia più grande. Padroni e dipendenti mangiavano alla stessa tavola, dormivano tutti nello stesso stanzone. Le botteghe di un certo tipo erano concentrate nello stesso quartiere, spesso nella stessa via, che prendeva nome dall’arte che vi si praticava. Nelle nostre città molti di quegli antichi nomi sono rimasti sulle targhe delle vie moderne: a Milano, per esempio, c’è ancora via degli Orefici, c’è via dei Mercanti; a Firenze via dei Calzaioli, ecc…; a Roma via dei Sediari, via dei Chiavari, via dei Giubbonari ecc… Qualche volta il nome della via preesisteva. Così per esempio a Firenze, in via di Calimala si concentravano i tintori di stoffe francesi o inglesi e la loro associazione, dal nome della via, venne detta arte di Calimala.
Nel Medioevo gli artigiani non dovevano avere segreti Molte città italiane hanno vie che traggono il nome di una qualche attività artigiana: via degli Orefici, via dei Carradori, via degli Spadari, e così via. Questo perchè nel Medioevo gli artigiani di una stessa corporazione abitavano il più delle volte nella stessa via. Qui le botteghe si stipavano. Erano viuzze in cui la luce penetrava difficilmente e il sole mai. E questa era una ragione per cui gli operai lavoravano vicino alla finestra. Ma un’altra ragione è che non si permetteva agli artigiani che avessero segreti: l’orafo o il fabbro dovevano avere fucina in bottega, lo scudaiolo doveva limare e tornire il rame solo sul banco presso la finestra. Nulla doveva essere nascosto agli occhi di chi passava o di chi voleva controllare.
Il popolo e i nobili Tutto questo meraviglioso rigoglio di vita fu opera soprattutto del popolo lavoratore. Accanto al popolo intraprendente e geniale viveva la classe dei cosiddetti nobili, trasferitisi dai loro castelli nelle città, con la stessa superbia e lo stesso spirito di violenza e di sopraffazione dei tempi feudali. Giravano costoro sempre armati e abitavano foschi palazzi merlati muniti di alte torri, da cui eran sempre pronti a gettar ferro e fuoco sugli assalitori. Il popolo celebrava i suoi giorni di festa con cerimonie religiose e processioni solenni in onore del Santo Patrono, a cui si aggiungevano talvolta rappresentazioni di misteri riproducenti scene della passione di Cristo o episodi della vita dei Santi, da cui trasse le prime origini il nuovo teatro. I nobili invece si trastullavano ancora in tornei, giostre, caroselli, quintane e in simili spettacoli di antico carattere feudale, a cui pure accorreva la folla curiosa. Spesso però le rivalità e gli odi tremendi tra le famiglie dei grandi, i contrasti violenti tra le fazioni politiche (famose quelle dei Bianchi e Neri a Firenze) o le insurrezioni della plebe esasperata funestavano la fervida vita comunale, esplodendo talvolta in vere e proprie battaglie cittadine. Queste continue risse sanguinose, che spargevano il lutto e perpetuavano gli odi tra le famiglie, corruppero con l’andar del tempo le istituzioni comunali preparando le condizioni per l’avvento di un signore assoluto, unico moderatore della cosa pubblica.
L’arte e la vita culturale Non solo la vita economica, ma anche la vita artistica e culturale ebbe nei Comuni italiani straordinario rigoglio. L’architettura, nel duplice stile romanico con l’arco tondo, e gotico con l’arco acuto, popola di palazzi comunali, di duomi e cattedrali, di torri e di campanili, di case aristocratiche e borghesi le piazze delle cento e cento città d’Italia. Nobili e borghesi, a gara, fecero sorgere con i loro contributi splendide costruzioni: ogni città ebbe il suo Palazzo del Comune, la Torre, l’Arengo, legge e chiese di bella architettura. Tutta la penisola italiana ne è disseminata: la Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, quella di San Marco a Venezia, le possenti cattedrali di Parma, Modena, Cremona, il Duomo di Milano, le chiese di Firenze, il Duomo di Pisa, quelli di Orvieto e di Siena, stupendi di marmi, di ori, di mosaici, di pitture. Tutta l’arte si rinnovò per opera di grandi maestri: Arnolfo di Cambio, architetto; Cimabue, Giotto, Duccio di Buoninsegna, pittori; Giovanni e Andrea Pisano, scultori. E rifiorì anche la cultura, fino allora chiusa nei conventi, e ora aperta a tutti nelle Università, dette Studi. Famose, in Italia, quelle di Bologna e di Pavia per lo studio del diritto romano, e l’Università di Salerno per la medicina. Furono tutte di carattere internazionale, e per i loro professori chiamati per fama da un estremo all’altro d’Europa, e per i loro studenti che si trasferivano (clerici vaganti) da un’università all’altra, ad ascoltare i professori dalla cui fama erano attirati. A Palermo, in Sicilia, sorse la prima scuola poetica italiana, continuata poi a Bologna e condotta a maggior gloria in Firenze soprattutto da Dante.
La cattedrale Molte città italiane possiedono cattedrali erette nel Medioevo: romaniche (con l’arco a tutto sesto, impiantato su robuste colonne) o gotiche, secondo lo stile venuto dal nord (l’arco a sesto acuto, lo slancio delle colone e delle guglie verso l’alto). A elencarle non basterebbe una scheda: da Sant’Ambrogio di Milano a San Michele Maggiore di Pavia, dal Duomo di Piacenza a quello di Modena, dal San Zeno di Verona al Duomo e al Battistero di Pisa. Questi bellissimi monumenti dell’arte e della fede sono fioriti nell’epoca dei Comuni: essi sono, anzi, monumenti alla civiltà comunale. Erano eretti a spese del popolo intero. Generazioni di muratori, di artigiani, di architetti, di scultori lavoravano per innalzarli ed abbellirli. La popolazione intera si appassionava all’opera, ne era orgogliosa perchè era cosa sua, il segno visibile della sua unità, della sua forza, anche della sua ricchezza. Prima di allora i grandi monumenti erano sorti per iniziativa di un imperatore, per servire alla sua gloria: il popolo del Comune glorificava se stesso, con un’impresa collettiva senza precedenti e della quale anche in seguito si trovano pochi esempi nella storia. Pittori e scultori arricchirono poi le cattedrali delle loro opere d’arte.
Le Università “Parigi è la fonte della scienza, da cui si irradiano gli acquedotti del sapere che si allungano fino all’estremità del mondo”. Così ha scritto uno studente universitario nel 1200. L’Università di Parigi fu uno dei più importanti centri di studio del Medioevo. In Italia, già dal decimo secolo, i Benedettini avevano a Salerno una scuola per l’insegnamento della medicina, e nell’undicesimo secolo nacque a Bologna lo Studio Giuridico (cioè una Università per lo studio delle leggi). In seguito, l’Italia ebbe moltissime Università assai frequentate. In tutte queste scuole superiori gli studiosi di tutte le nazionalità parlano la stessa lingua, il latino, e professano gli ideali di una medesima fede; le Università perciò sono i centri di fusione del pensiero europeo e celebrano quell’unità e fraternità dei popoli che Roma aveva preparato con la legge e il cristianesimo con il Vangelo.
Le campane comunali Ogni Comune aveva la sua campana che con la voce austera raffigurava il simbolo onnipresente del Comune.Tutti i cittadini accorrevano quando la campana chiamava a raccolta. Era la voce stessa del Comune. Ed ogni campana oltre a decorazioni più o meno ricche, alla data e alle raffigurazioni allegoriche, recava incise frasi di incitamento e di devozione alla patria.
L’aspetto di una città nell’età comunale La città medioevale è quasi sempre piccola. Tra noi solo Venezia, Milano, Firenze, hanno talvolta superato i centomila abitanti; ma le altre città restano assai al di sotto. Da principio l’aspetto delle città comunali non dovette essere molto attraente. Case basse di legno o di mattoni crudi, coperte di tegole o di paglia o di canne, addossate le une alle altre; tetti molto sporgenti e piccole finestre per lo più chiuse con impannate di tela o di carta; vie strette, irregolari, luride, dove tra i rifiuti delle case vivevano in libertà maiali e galline: ma vie già animate da mercanti e da artieri e sonanti di opere varie; botteghe aperte sulle strade, veri bazar nei quali erano esposte le cose più necessarie alla vita quotidiana. Qua frutta ed erbaggi, là carni e selvaggina, uova, vino, pesce e formaggi, più in là utensili domestici e attrezzi agricoli e armi. Qua e là, tuttavia, massicce e solide costruzioni di pietra e di mattoni, merlate e turrite, annerite dal tempo e talora dal fuoco, ricordo perenne d fiere lotte civili. E poi la chiesa col suo sagrato, dove si seppellivano i morti, specialmente i nobili e gli ecclesiastici. E infine il palazzo del Comune, pur esso merlato e turrito, e rumoroso di soldati e giudici, di notai e contabili, di consiglieri e cittadini. Ma nel secolo XII, col nascere della ricchezza privata e pubblica, l’aspetto esteriore delle città si fa migliore; alle case di legno succedono case nuove e comode, di pietra e mattoni; cominciano a selciarsi le vie più importanti e le piazze di maggior commercio; si spazzano le vie, si restaurano le facciate delle case, si regolano le fiere e i mercati; e sorgono più fieri i palazzi del Comune, più maestose le Cattedrali, più irti i palazzotti dei signori feudali o delle famiglie nobili. Le grandi ricchezze accumulate con le industrie e i commerci permettevano, specialmente nel secolo XII, di innalzare magnifiche sedi per le arti, e logge, e chiese, e ospedali, e monumenti funebri: tanto più che gli uomini del popolo, pur essendo dediti alla mercatura e alle industrie, avevano raffinato il gusto dell’arte. (Pochettino – Olmo)
Case dell’epoca comunale Normalmente la casa era a tre piani e aveva una sola stanza per piano. La stanza del pianterreno serviva da sala bassa: lì la famiglia pranzava. Il primo piano era elevatissimo, come mezzo di sicurezza; è questo il particolare più notevole della costruzione. In questo piano una camera, nella quale il padrone di casa abitava con la moglie. La casa era quasi sempre fiancheggiata da una torre d’angolo, il più delle volte quadrata. Al secondo piano una stanza che probabilmente serviva ai bambini e al resto della famiglia. Al di sopra, assai spesso, una piccola piattaforma, destinata evidentemente a servire da osservatorio. (A. Saitta)
La casa – torre Molte città italiane conservano qualche torre del Medioevo. A San Gimignano ne sono rimaste decine. Nell’età dei Comuni, Firenze giunse ad averne fino a centocinquanta. Bologna non ne ebbe forse meno. Queste torri non facevano parte del sistema difensivo del Comune, che aveva le sue mura e le sue porte, ben guardate. Erano abitazioni, case-torri, in cui le famiglie più ricche e potenti si rinserravano come in una fortezza privata. Per passare da un piano all’altro ci si serviva di scale che, all’occorrenza, potevano essere tolte. Nelle città le lotte di fazioni erano frequenti e sanguinose, e chi poteva si premuniva contro gli attacchi dei suoi nemici. Aver la torre più alta, poi, diventava una ragione di prestigio e, finchè i Comuni imposero di non superare una certa altezza, le famiglie gareggiavano a colpi di piani. A San Gimignano vi mostrano ancora qualche torre più bassa e vi narrano che appartenne a una famiglia sconfitta, che dovette abbattere un piano o due per imposizione del vincitore. Sarà una leggenda, ma rende l’atmosfera di certe antiche contese familiari ed aiuta a capire che cosa furono, all’interno dei Comuni, le lotte fra Guelfi e Ghibellini, ecc… Lenta e difficile fu la nascita di una nazione italiana.
Feste comunali Le feste religiose erano le maggiori occasioni di svago e di divertimento nelle città medioevali. A Firenze la più grande festa dell’anno era la festa di San Giovanni, patrono della città. Essa era caratterizzata da una solenne processione, aperta dai capi del Comune, il Podestà e il Capitano del Popolo, e dai Priori delle arti. Ogni arte sfilava col suo gonfalone: era la grande parata del Comune. Le arti erano le associazioni di mestiere, le Corporazioni, di cui facevano parte tutti gli artigiani e i loro dipendenti. Non si poteva esercitare la fabbricazione e il commercio della lana se non si apparteneva all’arte dei Lanaioli. Il medico e lo speziale appartenevano alla stessa arte. Vi erano a Firenze, sette arti maggiori e quattordici minori. Le arti dettavano legge in materia di orari di lavoro, di prezzi, di salari, di qualità della merce. Erano leggi minuziose e severissime. Alcune arti si intromettevano anche nella vita privata dei loro associati. Per esempio, proibivano al socio di prender moglie senza chiedere il permesso ai suoi compagni. Era tutt’altro che facile passare da un’arte all’altra. Tanto rigore non poteva impedire le disuguaglianze. I mercanti e i banchieri più ricchi divennero così forti da diventare “signori” della città.
I giochi Accanto alle feste religiose, e talvolta in coincidenza con esse, si svolgevano nelle città medioevali giochi popolari e spettacoli che in parte sono giunti fino ai nostri giorni. Questo non si può dire del “gioco del pallone” che si giocava a Firenze, e che è assai diverso dal nostro calcio, di cui sono stati gli Inglesi del secolo scorso a fornire le regole. Spesso però, a Firenze, l’antico gioco è rievocato con partite in costume che richiamano gran folla di turisti. A Siena, invece, si correva il Palio delle contrade: e si corre ancora oggi con lo stesso accanimento, con le stesse sfide tra fantini e rioni, con lo stesso accompagnamento di sfilate e di bandiere. Ad Arezzo si correva, e si corre tuttora una volta all’anno, la giostra del Saracino: cavalieri armati di lancia, a turno, si gettavano al galoppo contro un fantoccio addobbato con abiti orientali, per colpirlo in modo da farlo girare su se stesso. Altri giochi di questo genere si svolgevano in molte città italiane. Ricordiamo ancora la “partita a scacchi” che si giocava a Marostica, nel Veneto: uomini e donne in costume aveva il ruolo del re, della regina, degli alfieri e dei pedoni. Forse avreste visto una partita del genere rievocata alla televisione: ha l’aria di un elegantissimo balletto.
La prosperità di Firenze La popolazione di Firenze, saliva a novantamila. Erano più di millecinquecento i forestieri; si contavano ottantamila abitanti nelle terre sottoposte alla giurisdizione del Comune. Le chiese sommavano a centodieci; ventiquattro erano i monasteri di monache con cinquecento donne; cinque le badie con ottanta monaci; tre gli ospedali con più di mille letti per poveri e infermi. Le botteghe dell’arte della lana erano duecento e più, e facevano da settanta a ottantamila panni, dando vita a più di trentamila persone. I fondachi dell’arte di Calimala (lavorazione dei tessuti grezzi) dei panni francesi e oltremontani erano circa venti, che facevano venire ogni anno più di diecimila panni per il valore di trecento migliaia di fiorini d’oro (il fiorino era la moneta di Firenze); che venivano venduti tutti in Firenze, senza contare quelli che si mandavano fuori. I banchi dei cambiatori di moneta erano circa ottanta. La moneta d’oro che si batteva era per circa trecentocinquantamila fiorini, e talora quattrocentomila. Il collegio dei giudici era di circa ottanta; i notai seicento; i medici, i fisici, i chirurghi, sessanta; le botteghe degli speziali circa cento. Mercanti e merciai erano tanti, da non potere sistemare le botteghe dei calzolai, pianellai e zoccolai; erano trecento e più quelli che andavano fuori di Firenze a negoziare, e molti altri maestri di più mestieri e maestri di pietra e legname. Aveva allora Firenze centoquarantasei forni. (G. Villani)
Il più antico dei liberi Comuni d’Italia Un solo Comune italiano mi si trasformò in Signoria, anzi ancora sussiste nella sua interezza, tanto da essere degno del titolo di più antico Comune d’Italia. Rimasto sempre libero, non vi fu mai potente confinante che riuscisse ad assorbirlo, nè perdette la sua autonomia quando tutti gli stati accettarono l’annessione al Piemonte durante i Risorgimento: italiano per lingua e tradizione, volle comunque restare indipendente e sovrano. Retto da un’antica costituzione repubblicana, il piccolo Comune, si trova tra Marche e Romagna, vive ancora nella fiera autonomia: è la Repubblica di San Marino.
La lingua volgare Nei monasteri si pregava e si scriveva in lingua latina. Nei castelli si cantavano le gesta dei Paladini in lingua francese. Nei Comuni, invece, gli artigiani parlavano una lingua nuova, che proveniva dal latino, ma sembrava rozza e corrotta. Era la lingua del volgo, cioè del popolo che non aveva studiato. Si chiamava perciò lingua volgare. Da prima, questo rozzo dialetto era una lingua soltanto parlata. Poi venne scritta in qualche documento privato. Infine fu usata dai letterati e dai poeti. Specialmente a Firenze, questa lingua divenne dolce e aggraziata. La usarono perciò tre grandi scrittori: Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Per merito loro la lingua volgare si nobilitò, divenne la lingua italiana che ancora oggi usiamo.
Guelfi e Ghibellini Un nobil giovane di Firenze, Buondelmonte de’ Buondelmonti aveva promesso di sposare una fanciulla della famiglia Amedei. Ora avvenne che Buondelmonte, cavalcando un giorno per la città, passò davanti alla casa dei Donati, ove lo chiamò una gentildonna dal balcone, che mostrandogli la sua figliola bellissima, gli disse: “Chi vuoi prendere per moglie? Questa ti avevo serbata io”. La vide il cavaliere e ne fu subito sì preso, che la tolse per donna, scordando l’altro parentado. Di ciò sdegnati, gli Amedei e i parenti loro deliberarono di vendicarsi; e nel giorno di Pasqua venendo Bondelmonte d’oltre Arno su un bianco palafreno, lo assalirono ai piedi del Ponte Vecchio e lo uccisero (1215). Per questo omicidio tutta la città corse alle armi, e le famiglie si divisero in due, le une seguendo i Buondelmonti, e le altre gli Uberti ed Amedei, e sconvolsero per molti anni la patria, tenendo quelli il partito ed il nome di Guelfi, e questi di Ghibellini. (D. Compagni)
Curiosità Al tempo in cui i Comuni italiani vivevano isolati uno dall’altro come altrettanti stati indipendenti, si ebbero fra essi varie lotte e anche per i motivi più futili. Ad esempio una secchia che i Modenesi rubarono a quelli di Bologna fu causa di guerra tra le due città; un ambasciatore di Firenze promise a un cardinale il suo cagnolino, ma lo promise anche a un Pisano, da cui venne guerra accanita tra le due città. Perugia e Chiusi si azzuffarono per un anello, che si diceva essere quello donato da san Giuseppe alla Madonna il giorno del loro matrimonio. Per un chiavistello si accapigliarono Anghiari e Borgo san Lorenzo.
Grandi uomini del periodo comunale San Francesco nacque in Assisi nel 1182. Suo padre era un ricco mercante di stoffe. Trascorse la sua giovinezza in allegre brigate, partecipando alle guerre che si accendevano fra l’uno e l’altro Comune. Durante una delle sue avventure militaari, cadde gravemente malato e sentì, all’improvviso, la chiamata di Dio. Tornato in Assisi, lasciò ogni ricchezza, vestì un ruvido saio e andò predicando la povertà, la purezza di cuore, l’amore tra gli uomini e per tutte le creature. Attorno a lui vennero molti discepoli ed egli li accolse nell’ordine dei Frati Minori.
Marco Polo. I più grandi viaggiatori del Medioevo furono i veneziani Matteo, Niccolò e Marco Polo, figlio di Niccolò. Essi lasciarono Venezia nell’anno 1271 e giunsero, dopo anni di cammino, nella misteriosa città di Cambaluc (Pechino), dove viveva il Gran Kan, cioè l’imperatore dei Tartari. I tre veneziani furono ben accolti dall’Imperatore, che amò moltissimo Marco e lo nominò perfino governatore di una regione assai vasta. Marco potè così viaggiare e conoscere i costumi e le tradizioni di tanti popoli. Dopo anni e anni di lontananza dalla loro città, i tre viaggiatori desideravano rivedere la loro patria. Il Gran Kan li lasciò partire, dopo averli pregati di accompagnare nel viaggio la propria figlia che andava sposa al re di Persia. Fatta l’ambasciata, i Polo proseguirono e poi, con alcune navi, sbarcarono a Venezia. Erano così cambiati nell’aspetto e vestivano in maniera così strana che gli amici non li riconobbero. Nell’anno 1298, durante la guerra tra Venezia e Genova, Marco rimase prigioniero. Mentre era in carcere, egli dettò a Rustichello da Pisa la storia del meraviglioso viaggio nel Catai. Nacque così il Milione, un libro bello come una fiaba.
Dante Alighieri nacque a Firenze nel maggio del 1265. Frequenti erano a quel tempo le lotte fra i partiti di una stessa città e proprio per queste lotte, Dante fu esiliato e dovette andare, quasi mendico, di corte in corte, ospite di vari Signori. Durante l’esilio compose la sua più grande opera, la Commedia, che fu poi detta Divina, nella quale il poeta immagina di compiere un viaggio attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, cioè attraverso i regni della morte, della speranza e della gloria dell’anima. Dante morì a Ravenna nel 1321 e fu sepolto con grandi onori nella Chiesa di San Francesco. Così lo descrisse un giorno un suo concittadino: “Fu grande letterato e dottore in ogni scienza, sommo poeta e filosofo.” Scrisse la Commedia, il poema in versi dove immaginò di essere stato nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, e di aver parlato con le anime che vi si trovano. In questo modo potè mettere in versi le sue cognizioni scientifiche, astronomiche e politiche. Dante fu esiliato da Firenze perchè prevalse la fazione contraria a quella nella quale militava; ma con le sue nobili opere diede grandissima fama alla sua città. (G. Villani)
Dante e il fabbro Dante Alighieri una volta udì un fabbro, il quale, battendo il ferro, accompagnava il proprio lavoro cantando i versi della Divina Commedia. Per adattare quei versi al suo lavoro li allungava, li scorciava, lo storpiava. Era un vero strazio! Dante Alighieri, che si faceva prendere facilmente dall’ira, entrò nella bottega del fabbro, gettando in mezzo alla strada martelli e tenaglie. “Perchè rovini la mia arte?” gli gridò il fabbro indignato. “E tu, perchè sciupi la mia?”. Il fabbro rimase interdetto. “Io non danneggio nessuno” “Danneggi la mia arte. Io sono l’autore dei versi che cantando alteri e storpi!”. Se ci fosse stata l’Arte dei Poeti, Dante avrebbe potuto ricorrere ai suoi Priori. Ma quell’Arte non c’era e se il poeta volle entrare nel governo della città, dovette iscriversi all’Arte dei Medici e Spaziali. Come speziale, fu eletto Priore nel 1300 ed entrò nel governo del libero Comune di Firenze. (P. Bargellini)
Giotto di Bondone Giotto nacque a Vespignano nel 1266. Suo padre, di nome Bondone, era contadino e Giotto lo aiutò custodendo il gregge. Un giorno, mentre su una pietra disegnava una pecora, passò di là Cimabue, il più grande pittore di quel tempo. Egli si meravigliò dell’abilità del pastorello e lo portò con sè a Firenze. Ben presto Giotto superò il maestro e fu chiamato a dipingere in ogni parte d’Italia. Ad Assisi affrescò molti episodi della vita di San Francesco, a Firenze progettò il bel campanile di Santa Maria in Fiore. Morì a Firenze nel 1336.
Una buffa di Buffalmacco Nel Trecento vissero in Firenze uomini di grandissimo ingegno: poeti e scrittori come Dante, Petrarca, Boccaccio; pittori famosi come Cimabue, Giotto e tanti altri. Con le loro opere essi dettero gloria e bellezza all’Italia e al mondo. Molti di questi artisti erano tipi bizzarri e buontemponi che amavano inventare burle sulle quali si facevano matte risate. Anche Buffalmacco era un bravo pittore del Trecento, ma non aveva la voglia di lavorare che dimostrava invece Giotto. Gli piaceva mangiare e bere, forse perchè essendo povero mangiava e beveva sempre poco. Veniva chiamato a dipingere nei conventi, e si sa, nei conventi il cibo non è mai ne abbondante ne appetitoso. Una volta capitò in un convento dove, quasi tutti i giorni, si mangiava cipolla. Al pittore la cipolla piaceva poco, e quando si vedeva portare quel piatto storceva la bocca. Ma come dire al Padre Guardiano che quel cibo non gli andava a genio? Pensò allora di fare una burla e si mise a disegnare tutte le figure di schiena, con le facce che non si vedevano. Il Padre Guardiano, che tutti i giorni si recava a vedere come procedesse il lavoro di Buffalmacco, notò la cosa e chiese all’artista: “Come mai non fate le figure da quest’altra parte, con la faccia rivolta in fuori, in modo che si possano vedere i volti dei personaggi?” “Caro Padre” rispose serio il pittore “le disegno rivolte in qua, ma poi, mentre dipingo, essi si rigirano e nascondono la faccia. E sapete la ragione? Perchè il mio fiato puzza talmente di cipolle, che le figure non lo sopportano, e rivoltano la faccia dall’altra parte”. Il Padre Guardiano capì la burla e da quel giorno, invece di cipolle, fece servire al pittore altri cibi più saporiti e appetitosi. Le figure di Buffalmacco, allora, tornarono a mostrare i loro volti dalla parte giusta! (P. Bargellini)
Vita comunale I mezzi di trasporto sono scarsi, perciò il movimento cittadino è poca cosa. La gente va a piedi, il passaggio di un nobile a cavallo attira le comari alla finestra; scarsi i carri che si destreggiamo penosamente fra le strettoie e le tortuosità delle strade; più frequente il passare di giumente cariche di sacchi e di mercanzie. Solo il centro è animato. Nei giorni di mercato la piazza del Comune è tutta un formicolio di folla intorno ai banchi dei venditori, un vociare confuso di sensali e di compratori, mentre il cantastorie grida alto, strimpellando la sua chitarra per tirar gente, e il banditore, a suon di tromba, annuncia gli ordini del Podestà. Quando la sera cade, la campana del duomo suona il coprifuoco; si chiudono le botteghe e le case; un silenzio profondo invade le vie, immerse in un buio pauroso, rotto solamente qua e là dal barlume di una lampada accesa davanti a una Madonnella, o dal balenio improvviso delle lanterne degli ultimi passanti. (A. Manaresi)
L’arte della lana a Firenze Situata sull’Arno, lontana dal mare, Firenze non poteva sperare di avere una parte importante nel commercio. Perciò i suoi cittadini si dedicarono all’artigianato. Impararono l’arte della tessitura dagli orientali e la perfezionarono. La corporazione di Calimala, cui era affidata la rifinitura e il raffinamento dei tessuti, creò nel campo della tintura un procedimento nuovo che venne tenuto gelosamente segreto. I fiorentini riuscirono a migliorare l’apprettatura e la preparazione e in particolar modo a conferire alle stoffe una così splendida lucentezza che la loro produzione divenne presto celebre e richiesta su tutti i mercati europei. Poichè la lana della Toscana non bastava, la si faceva venire dalla Francia, dalle Fiandre e perfino dall’Inghilterra. Giganteschi carri coperti partivano da Gand, passavano per Bruxelles, Parigi, Avignone, Marsiglia, e dopo aver superato gli Appennini arrivavano a Firenze. Talvolta i mercanti fiorentini facevano tessere la loro lana nelle Fiandre e in Francia; essa però veniva sempre tinta a Fireze con coloranti, soprattutto l’indaco, importati di solito dall’Oriente. Nel 1338 esistevano a Firenze più di 200 opifici che producevano annualmente da 70 a 80.000 pezze. Ovunque i clienti chiedevano stoffe fiorentine, perchè in tutta Europa non c’erano tessuti così perfetti. (E. Samhaber)
Così giurava il podestà di un Comune Pur diverse nelle apparenze, sostanzialmente uguali erano le formule dei giuramenti dei podestà comunali; giuramenti che li impegnavano al rispetto delle leggi liberamente volute dai cittadini del comune. Così, per esempio, giurava sul finire del XIII secolo il podestà di Verona: “Nel nome di Dio onnipotente, e del figliol suo unigenito nostro signore Gesù Cristo, e dello Spirito Santo, e della santa gloriosa e sempre Vergine Maria, e per i quattro Vangeli che tengo nelle mie mani, e dei santi arcangeli Michele e Gabriele, giuro di prestare alla città e comunità e università di Verona una coscienza pura e un fraterno servigio, in ossequio all’amministrazione che mi è stata affidata. Giuro altresì che cercherò di pacificare tutte le discordie che sono o che saranno in futuro in questa città o nel distretto che la riguarda; di ricondurvi la pace al più presto possibile, specie se ne sarò sollecitato; giuro infine che non sarò spia o guida ai danni di Verona e a vantaggio dei suoi nemici. Non perpetrerò furto o frode delle cose del comune con nessun mezzo nè acconsentirò che altri lo facciano. E costringerò con tutti i mezzi a mia disposizione coloro che lo avessero commesso, a restituire. Dichiaro di essere soddisfatto delle 3000 lire di denaro e dell’alloggio e stallo del comune di Verona e della mobilia che ivi si trova, così come dichiaro di essere soddisfatto delle 1000 lire che mi vengono date come rifusione per le mie perdite e danni; e anche di quelli che mi vengono dati come subalterni, e della scorta armata che mi viene attribuita, e dei dodici soldati armati che terrò a mie spese e al servizio del comune per tutto il tempo della mia carica. Cessato dal mio incarico, mi fermerò per quindici giorni ancora con i giudici del comune e con i soldati che sono stati con me, e mi fermerò in città a spese del comune, per le ultime consegne: farò giustizia di tutti coloro che avranno da far lamentele contro il mio operato, dei giudici e dei soldati. Se qualcuno avrà scalfito un po’ d’oro dai denari veronesi, io se potrò, non appena conosciuta la verità su tale delitto e senza fare inganno per non conoscerla, farò troncare la mano al reo. Così proibirò che, durante tutto il mio governo, si tengano scrofe in città o negli immediati sobborghi. Proibirò il gioco d’azzardo o dei dadi o del bianco e nero, facendo eccezioni per i giochi della dama o degli scacchi; e chi contravviene sarà multato con venti lire”.
Ambiziose origini dei Comuni L’ammirazione degli Italiani per Roma era tale, ai tempi dei comuni, che ogni città pretendeva di avere origini che si innestassero in un modo o nell’altro nella più antica storia dell’Urbe. Firenze, ad esempio, diceva che perfino lo stemma cittadino, il giglio, era di origine romana, e il cronista fiorentino Giovanni Villani, che alla sua città dedicò la maggior opera sua, racconta che al tempo di Numa Pompilio, per divino miracolo, cadde in Roma dal cielo uno scudo vermiglio “per la qual cosa e augurio i Romani presero quello stemma e poi vi aggiunsero S.P.Q.R. in lettere d’oro, cioè senato e popolo romano. Così a Perugia, a Firenze e a Pisa; ma i Fiorentini, per il nome della città, vi aggiunsero per intrassegno il giglio bianco; e i Perugini talvolta il grifone bianco e Viterbo il campo rosso e Orvieto l’aquila bianca. La città di Firenze era in quel tempo come figliola e fattura di Roma in tutte le cose, da Romani abitata… E un tale Uberto Cesare, soprannominato Giulio Cesare, che fu figliolo di Catilina, rimasto in Fiesole giovinetto ancora dopo che quello morì, proprio per opera di Giulio Cesare fu fatto grande cittadino di Firenze; e avendo molti figlioli, egli e la sua discendenza furono per lungo tempo signori di quella terra; i loro discendenti furono grandi signori e capostipiti delle famiglie fiorentine.” (M. Bini)
Dalla società feudale alla società comunale Tra la fine del primo e l’inizio del secondo millennio dell’era cristiana, la crisi del feudalesimo si fece più profonda. Il sistema era già stato scosso dalle lotte fra i grandi feudatari e l’imperatore; lo fu ancora di più quando si acuirono i contrasti tra vassalli e valvassori (questi ultimi otterranno, nel 1037, l’ereditarietà dei loro possessi) e tra la feudalità laica e quella ecclesiastica. Nelle campagne si manifestarono fermenti di vita nuova, dopo che l’oscuro timore di grandi catastrofi naturali al sopraggiungere dell’anno mille (si parlava addirittura della fine del mondo) si rivelò del tutto infondato. L’agricoltura aveva rappresentato negli ultimi secoli l’unica attività economica praticata su larga scala, ma le condizioni di vita dei contadini, soprattutto dei servi della gleba e dei coloni vessati dai loro signori, erano assai modeste; per di più la popolazione rurale andava aumentando molto rapidamente. Da questa situazione ebbero origine le richieste di svincolo dalla servitù della gleba e di patti, di contratti scritti, di carte più favorevoli e non modificabili ad arbitrio del proprietario, richieste che portarono, se accolte, ad un’ulteriore allargamento delle aree messe a coltura, e se respinte, alla fuga dei contadini dalle campagne verso la città. (L. Mumford, da “La città nella storia”)
La città La decadenza, in epoca feudale, delle città non aveva riguardato proprio tutti i centri urbani; in alcuni si era mantenuta viva la tradizione artigianale o commerciale, anche se la circolazione dei prodotti era diminuita e l’uso della moneta si era fatto più raro. L’aumento generale della popolazione si ripercosse anche sulla vita delle città, amministrate di solito da un feudatario ecclesiastico, il vescovo-conte, il quale poteva godere di una certa autonomia, dato che il feudo era vitalizio e non trasmissibile. L’accresciuto numeri dei cittadini (molti dei quali provenivano dalla circostante campagna o dai borghi feudali, quando non erano addirittura nobili e feudatari minori) creò una serie di problemi nuovi, collegati anche al rifiorire della produzione di beni di consumo e del loro scambio con altre merci in mercati e fiere sempre più frequentati, mentre anche la moneta faceva la sua riapparizione in grande quantità. Alla soluzione dei problemi che le toccavano da vicino si impegnarono direttamente tanto la piccola nobiltà inurbatasi quanto la nascente classe sociale della borghesia (grossi artigiani e mercanti), dando vita ad associazioni, regolate da proprie norme, in grado di tutelare gli interessi comuni dei membri e di ottenere e di esercitare, sempre in comune, nuovi diritti e privilegi. In seguito tali associazioni ottengono o conquistano di partecipare ancora più attivamente alla cura degli interessi di tutta quanta la città sino a sostituirsi, grazie alle immunità ed ai privilegi via via acquisiti, ai signori feudali ed ai vescovi-conti nel pieno governo della città stessa. E’ nato così il Comune, piccolo Stato che inizialmente ha per confine la cerchia delle mura cittadine e che sceglie i propri governanti tra coloro che abitano appunto entro detta cerchia. Il Comune si comporta come uno Stato sovrano: esercita i poteri politici, civili, militari; ha un proprio esercito, si dà le leggi, amministra la giustizia; impone tributi e batte moneta; dichiara la guerra. Sarà proprio in questo suo comportamento da Stato autonomo la causa dei lunghi, ripetuti, sanguinosi conflitti che coinvolgeranno da una parte i sovrani dell’Impero, intenzionati a restaurare la loro autorità nelle città che ritenevano ribelli perchè si erano rese arbitrariamente indipendenti (erano prerogativa del re coniare monete, dare le leggi, concedere il gradimento alla nomina dei magistrati, riscuotere i tributi, ecc…), e dall’altra i Comuni dell’Italia settentrionale, desiderosi di conservare l’indipendenza acquisita e di estendere la sovranità anche sui possessi feudali del contado. La lotta sarà particolarmente aspra durante il regno di Federico I di Svevia (la Casa succeduta a quella di Franconia sul trono di Germania, d’Italia e dell’Impero), sceso ripetutamente con i suoi eserciti nella pianura padana, più volte vittorioso e distruttore di città (Milano, 1162), battuto infine a Legnano (1176) dalle truppe fornite alla Lega Lombarda dai Comuni della Regione (e la Lega godeva pure dell’alto appoggio dell’autorità del Pontefice Alessandro III) e costretto a sottoscrivere la pace di Costanza (1183), che riconoscerà ai Comuni il godimento dei diritti acquisiti e ridurrà la sovranità imperiale ad una formalità. (L. Mumford, da “La città nella storia”)
Classi sociali e ordinamenti Le situazioni in cui si dormano e si sviluppano i Comuni sono molto diverse tra loro. Le vicende di Milano, il più importante centro di vita comunale nella pianura padana, solo in parte sono simili a quelle di Firenze o di altri Comuni dell’Italia centrale. Una maggiore uniformità si può invece riscontrare nelle classi sociali e negli ordinamenti che li caratterizzano. Anche nel Comune, che pure contrapponeva il principio dell’uguaglianza politica e civile dei suoi abitanti al principio della stretta gerarchia e delle dipendenze del sistema feudale, esistono di fatto più classi sociali, dalla nobiltà alla plebe. Sarà proprio l’ascesa economica e politica delle classi inizialmente meno potenti a costituire uno dei motivi fondamentali dell’età comunale. Il governo del Comune è repubblicano; la sovranità risiede nelle mani del popolo, il quale, riunendosi nell’Assemblea Generale, detta anche Parlamento o Arengo o Concione, delibera sulle questioni più gravi d’interesse comune (guerra, pace, trattati) ed elegge i magistrati annuali cui spetta il potere esecutivo, i Consoli, che sono due o più a seconda dell’importanza del Comune. Alle volte il Consiglio maggiore sostituisce l’Assemblea generale dei liberi cittadini. Il Consiglio minore o Senato o Consiglio di Credenza aiuta e regola l’attività dei Consoli; è composto dai cittadini più influenti o da loro familiari ed esprime, in pratica, la volontà della classe dominante. Tale ordinamento rispecchia la vita politica nei secoli XI e XII, quando il Comune è ancora impegnato a lottare contro i feudatari per raggiungere la piena libertà; il potere è nelle mani dei nobili o magnati o grandi (feudatari minori trasferitisi in città, mercanti, grossi artigiani, proprietari di case e di terreni entro la cerchia delle mura). Il secolo XIII è caratterizzato da continue discordie interne che oppongono tra loro partiti e classi. I Consoli sono troppo legati a particolari interessi cittadini per garantire assoluta e costante imparzialità: al loro posto viene eletto un magistrato unico, il Podestà, chiamato in città dalla sua residenza abituale; un forestiero, dunque. Intanto il cosiddetto popolo grasso, composto da mercanti, da banchieri, e da grossi artigiani organizzati in Corporazioni o Arti maggiori, cerca di limitare il potere dei nobili e di sostituirli al governo della città. Accanto al podestà viene eletto un Capitano del Popolo, che rimarrà solo in carica dopo l’affermazione della borghesia. Altre istituzioni si affiancano a quelle preesistenti, se ancora valide. Sono il Consiglio delle Arti o dei Priori, che raggruppa i rappresentanti delle singole Arti (un priore è a capo di ogni Arte, maggiore media o minore che sia) e che aiuta il Capitano del Popolo nelle sue mansioni, ed il Consiglio del Popolo con compiti quasi analoghi. La borghesia raggiunge il potere nella seconda metà del XIII secolo, ma non per questo cessano le lotte interne nelle città. Anche il popolo minuto, infatti, quello delle Arti medie e minori, esige la sua parte di governo e tumultuano perfino i rappresentanti della plebe, composta di lavoratori per lo più salariati, ad esempio gli operai degli opifici e dei laboratori ove si tessono e tingono le stoffe. Non dovunque e non sempre il popolo minuto può accedere al potere, però il suo contributo allo sviluppo economico del Comune resta rilevante. (L. Mumford, da “La città nella storia”)
Le corporazioni L’istituzione più tipica della vita associata, a parte la Chiesa, era la corporazione, e queste due basi di un’esistenza fondata sulla solidarietà, sul lavoro collettivo e su una fede comune erano associate nella città medioevale. La corporazione non perdette mai il suo fondamento religioso. Rimase una confraternita conviviale, che si attribuiva particolari compiti economici e responsabilità commerciali, ma non si esauriva in essi. I confratelli mangiavano e bevevano insieme in occasioni regolarmente ripetute, fissavano ordinanze attinenti alla loro arte, progettavano e finanziavano sacre rappresentazioni a edificazione dei concittadini. Nei periodi prosperi costruivano cappelle, donavano messe di suffragio, fondavano scuole elementari (le prime scuole laiche dalla fine dell’evo antico) e al colmo del loro potere si costruivano una sede a volte sontuosa come il mercato dei panni di Ypres. Intorno alla loro arte edificavano un’intera vita rivaleggiando amichevolmente con le altre corporazioni e, da buoni fratelli, si alternavano nel presidiare le mura adiacenti al loro quartiere. Se le corporazioni dei mercanti precedettero in genere di mezzo secolo quelle degli artigiani, bisogna però ricordare che, tranne che per i traffici internazionali, la linea divisoria tra mercanti e artigiani non era molto precisa, in quanto l’artigiano lavorava per vendere l’eccedenza della sua produzione. Nel periodo iniziale gli artigiani entravano così a far parte delle corporazioni dei mercanti e ne costituivano probabilmente la maggioranza: e così più tardi anche gli esponenti dell’ordine feudale o gli intellettuali che desideravano partecipare al governo cittadino dovevano diventare membri di una corporazione, per esempio di quella degli speziali o dei pittori. La corporazione dei mercanti organizzava e controllava la vita economica dell’intera città, fissando le condizioni di vendita, proteggendo il consumatore dalle estorsioni e l’onesto bottegaio dalla concorrenza sleale, impedendo infine che il mercato locale venisse turbato da influenze estranee. La corporazione degli artigiani era invece un’associazione di maestri nei diversi mestieri allo scopo di regolare la produzione e di fissare i criteri di esecuzione. Entrambe queste istituzioni finirono per trovare espressione nella città: la prima nella loggia dei mercanti, la seconda nel palazzo delle corporazioni, risultato di uno sforzo collettivo o, come a Venezia, in una serie di sedi apposite, una per ogni arte. Probabilmente le prime sedi di questi organismi erano modeste casette o stanze prese in affitto, oggi da tempo scomparse, come quelle degli antichi colleghi di cui abbiamo qualche testimonianza. Ma gli edifici che ci sono rimasti rivaleggiano spesso in magnificenza con i Palazzi di Città e con le cattedrali. L’importante funzione svolta dalle corporazioni nella città medioevale sino al Quattrocento denota che il lavoro, e in particolare il lavoro manuale, era ormai tenuto in ala considerazione, e anche questo fu in buona parte merito della Chiesa, un po’ perchè aveva dato adeguata importanza alle attività dei poveri e degli umili, e soprattutto perchè, con la regola benedettina, aveva accettato la fatica manuale come componente essenziale del viver bene: “lavorare e pregare”. La vergogna del lavoro, questo penoso retaggio delle culture servili, a poco a poco scomparve, e le frequenti prodezze degli artigiani e dei mercanti in battaglia diedero un duro colpo alle pretese dei signori feudali i quali disprezzavano ogni forma di fatica fisica eccetto la caccia e la guerra. Una città dove la maggioranza degli abitanti erano liberi cittadini che lavoravano uno accanto all’altro in condizioni di parità, e senza schiavi ai loro ordini, era un fatto nuovo nella storia urbana. (L. Mumford, da “La città nella storia”)
Il Comune rustico
L’epoca dei Comuni fu gloriosa per l’Italia. Carducci, profondo conoscitore della storia d’Italia e poeta, ricostruisce la vita di uno dei tanti Comuni italiani, piccolo sì, sperduto tra i monti, presso Udine, ma tanto valoroso e saldo nei suoi ordinamenti. La fantasia, nella ricostruzione poetica, non prevale sulla verità storica. Orgoglio, valore, fede sono i sentimenti che pervadono la composizione; da ammirare il quadretto conclusivo.
O che tra faggi e abeti erma su i campi smeraldini la fredda ombra si stampi al sole del mattin puro e leggero, o che foscheggi immobile nel giorno morente su le sparse ville intorno a la chiesa che prega o al cimitero che tace, o noci de la Carnia, addio! Erra tra i vostri rami il pensier mio sognando l’ombre di un tempo che fu. Non paure di morti ed in congreghe diavoli goffi con bizzarre streghe, ma del comun la rustica virtù accampata a l’opaca ampia frescura veggo ne la stagion de la pastura dopo la messa il giorno de la festa. il consol dice, e poste ha pria le mani sopra i santi segnacoli cristiani: – Ecco, io parto tra voi quella foresta d’abeti e pini ove al confin nereggia. E voi trarrete la mugghiante greggia e la belante a quelle cime là. E voi, se l’unno o se lo slavo invade, eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade, morrete per la nostra libertà-. Un fremito d’orgoglio empiva i pettti, ergea le bionde teste; e de gli eletti in su le fronti il sol grande feriva. Ma le donne piangenti sotto i veli invocavan la madre alma de’ cieli. Con la man tesa il console seguiva: – Questo, al nome di Cristo e di Maria, ordino e voglio che nel popol sia-. A man levata il popol dicea, Sì. E le rosse giovenche di su ‘l prato vedean passare il piccolo senato, brillando su gli abeti il mezzodì. (G. Carducci)
O che tra faggi e abeti erma su i campi smeraldini la fredda ombra si stampi al sole del mattin puro e leggero, o che foscheggi immobile nel giorno morente su le sparse ville intorno a la chiesa che prega o al cimitero… Addio, o alberi di noci della Carnia, sia che (o che) al sole puro e leggero del mattino la vostra ombra si stampi solitaria (erma) sui prati di color verde vivo (campi smeraldini) tra i faggi e gli abeti, sia che si stenda cupa (foscheggi) e immobile sul far della sera (nel giorno morente) sulle case (ville) intorno alla chiesa, da dove si alzano le preghiere, o al silenzioso cimitero.
…che tace, o noci de la Carnia, addio!… Le Prealpi Carniche, poste a nord della pianura friulana, sono ricche di alberi di noci; ed è questo elemento caratteristico del paesaggio che il poeta, partendo, saluta con nostalgia e tenerezza.
…Erra tra i vostri rami il pensier mio sognando l’ombre di un tempo che fu… Il pensiero del poeta erra tra i rami dei noci e corre al tempo passato.
…Non paure di morti ed in congreghe diavoli goffi con bizzarre streghe,… Il Carducci ci precisa quale passato vada egli rievocando: non le manifestazioni dello spirito nordico con paurose leggende di morti e conciliaboli di streghe e diavoli, ma l’affermazione della civiltà latina su quella barbarica nell’organizzazione e nella vita di un libero Comune rustico, quale doveva essere in quelle zone montuose della Carnia, poste presso il confine e soggette ad invasioni.
…ma del comun la rustica virtù accampata a l’opaca ampia frescura veggo ne la stagion de la pastura dopo la messa il giorno de la festa… Ma vedo nel giorno della festa (probabilmente quella del santo protettore del Comune) dopo la messa, nella stagione del pascolo (pastura), gli abitanti del Comune, dalle schiette e salde virtù della vita pastorale (del comun la rustica virtù), riuniti al fresco di un ampio spazio ombroso (a l’opaca ampia frescura).
il consol dice, e poste ha pria le mani sopra i santi segnacoli cristiani: – Ecco, io parto tra voi quella foresta d’abeti e pini ove al confin nereggia. E voi trarrete la mugghiante greggia e la belante a quelle cime là. Consol: i Comuni rinnovarono il glorioso titolo dei capi di Stato romano per insignire la loro massima autorità; santi segnacoli cristiani: la croce e i vangeli; parto: divido; al confin: presso il confine. Si tratta dunque di un rustico Comune di confine; la mugghiante greggia e la belante: gli armenti di bovini e le greggi di pecore.
E voi, se l’unno o se lo slavo invade, eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade, morrete per la nostra libertà-. unno e slavo sta ad indicare lo straniero in genere, nel ricordo delle invasioni barbariche dei secoli precedenti; aste: le lance, le picche.
Un fremito d’orgoglio empiva i petti, ergea le bionde teste; e de gli eletti in su le fronti il sol grande feriva. eletti: prescelti alla sacra difesa della patria; il sol grande feriva: il sole batteva sulle loro fronti illuminandole e quasi benedicendole.
Ma le donne piangenti sotto i veli invocavan la madre alma de’ cieli. Gli uomini fremono d’orgoglio, ma le donne, madri o spose o sorelle, sentono l’orrore della parola morrete e pregano piangendo. La madre alma de’ cieli: la Vergine Maria.
Con la man tesa il console seguiva: – Questo, al nome di Cristo e di Maria, ordino e voglio che nel popol sia-. A man levata il popol dicea, Sì. E le rosse giovenche di su ‘l prato vedean passare il piccolo senato, brillando su gli abeti il mezzodì. Al nome: nel nome a man levata: nota qui il singolare usato invece del plurale, poichè il popolo non ha una mano sola; ma il poeta dice man levata come a rendere più intensa l’unione di tutte le mani in una sola; piccolo senato: la piccola accolta degli uomini che formavano il consiglio del Comune.
La ribellione dei Comuni Mentre i Comuni, ormai indipendenti, stavano acquistando grande potenza, diveniva imperatore di Germania Federico I della casa di Svevia, chiamato Federico Barbarossa per il colore della sua barba. Federico era un uomo energico e coraggioso che voleva ricostruire l’unità dell’Impero, come ai tempi di Carlo Magno. I Comuni non vollero però assoggettarsi all’Imperatore, non accolsero i suoi magistrati e i suoi podestà, e rifiutarono di pagargli i tributi, come invece continuavano a fare i feudatari del contado.
Federico Barbarossa in Italia Federico I decise di richiamare i Comuni all’obbedienza. Venne perciò in Italia nell’anno 1154 e iniziò una lunga lotta contro le città comunali e soprattutto contro Milano, che era la più importante. L’imperatore distrusse Tortona, in Piemonte, poi si diresse verso Roma per esservi incoronato dal Papa. Ritornato in Germania, quando seppe che i Comuni d’Italia si erano fatti ancora più potenti, Federico ripassò le Alpi con il suo esercito e circondò Milano. Dopo un assedio lungo e terribile, per salvare la città, dove era scoppiata anche la peste, i consoli andarono dall’Imperatore, gli posero ai piedi gli stendardi e gli consegnarono le chiavi delle porte. Piangendo implorarono pietà. L’imperatore non si lasciò commuovere e distrusse Milano facendo abbattere le sue 300 torri.
La Lega Lombarda Federico Barbarossa aveva dato ai Comuni italiani una terribile lezione, ma il desiderio di libertà e di indipendenza fu più forte della paura. Nel 1167, nel convento di Pontida, presso Bergamo, si riunirono i rappresentanti delle città del Veneto, dell’Emilia, della Lombardia e del Piemonte; essi giurarono sul Vangelo di aiutarsi concludendo un patto chiamato Lega Lombarda. Milano fu ricostruita e in Piemonte, in onore del papa Alessandro III che era un fedele alleato dei Comuni, fu fondata la città di Alessandria.
La battaglia di Legnano Il Barbarossa, per sbaragliare i Comuni in modo definitivo, ridiscese in Italia con un forte esercito. La battaglia decisiva avvenne il 29 maggio 1176 poco lontano da Legnano. I Fanti e i cavalieri dei Comuni alleati sconfissero l’Imperatore, che si salvò a stento con la fuga. Il Barbarossa chiede la pace e riconobbe ai Comuni la libertà di governo.
Per il lavoro di ricerca I cittadini del Comune erano sempre in lotta: come si svolgeva questa lotta all’interno del Comune? Che cos’erano le regalie? Chi accusò i Comuni italiani di aver usurpato i poteri spettanti all’imperatore? Quante volte Federico Barbarossa scese in Italia? Come avvenne la resa e la distruzione di Milano? Ricerca notizie sulla Lega Lombarda e il giuramento di Pontida. Trova notizie sulla battaglia di Legnano e sulla conclusione della lotta tra i Comuni e l’Impero. Come avveniva l’incoronazione di un imperatore nei secoli X, XI e XII? Cerca notizie sull’origine e sul significato del Carroccio e della Compagnia della Morte. Grande è la figura di Alberto da Giussano; trova notizie esaurienti su di lui. Chi era Bonifacio VII? Quando la sede papale fu trasferita ad Avignone? Quando e per merito di chi fu riportata a Roma la sede pontificia?
La battaglia di Legnano Dalla quiete dei campi attorno a Legnano, improvvisa come la tempesta, s’era alzata la voce della battaglia. I fanti e i cavalieri tedeschi, protetti dalle pesanti armature, avevano resistito al primo urto dei soldati lombardi i quali disperavano ormai di poter vincere la superiorità nemica. Le grida dei combattenti si confondevano con le dolorose invocazioni dei feriti. La terra fu ben presto coperta di morti. Nel cielo scintillava la croce del Carroccio, ondeggiava libero il gonfalone ricordando ai combattenti una promessa. Ad un tratto il sacerdote che celebrava la Messa fu colpito da una freccia e cadde. Allora un giovinetto balzò sul Carroccio, afferrò la corda della martinella e diede a tirare a gran forza. La campana diffuse i suoi rintocchi, chiamò i soldati della Compagnia della Morte perchè difendessero il Carroccio. Accorsero qui generosi, guidati da Alberto da Giussano, e volsero in fuga i Tedeschi. La martinella continuava a squillare agitata dal coraggioso fanciullo che, perdute le mani per un colpo di spada, aveva afferrata la corda con i denti. Nel cielo salivano i canti di vittoria dei soldati della Lega.
Non tutti i cittadini avevano gli stessi interessi I vari gruppi di cittadini nei quali era divisa la popolazione di un Comune avevano interessi diversi. Ogni gruppo desiderava leggi che soddisfacessero ai suoi interessi. I proprietari di case e di terreni volevano leggi che garantissero loro di guadagnare molto con gli affitti delle case e con la vendita dei prodotti della terra. I grandi mercanti e i banchieri volevano che gli affitti delle case e i prodotti della terra costassero poco, perchè in questo modo gli operai che da loro dipendevano avrebbero potuto vivere con un basso salario. Gli operai volevano un salario che permettesse loro di vivere senza soffrire la fame. I piccoli artigiani e i piccoli negozianti erano d’accordo con loro, perchè potevano lavorare solo se gli operai, che formavano la maggior parte della popolazione, potevano comprare le loro merci. Per ottenere quello che voleva, ogni gruppo cercava di eleggere a capo del Comune uomini di sua fiducia. Ma siccome i capi di vari gruppi non riuscivano quasi mai a mettersi d’accordo, allora si ricorreva alla violenza e ai combattimenti. Come si svolgevano queste lotte all’interno del Comune? Quando uno di questi gruppi vinceva, cacciava dalla città i suoi nemici, finchè, vinto a sua volta, doveva abbandonare lui il Comune. Così la vita del Comune era un continuo succedersi di lotte sanguinose. Spesso i grandi proprietari, i grandi mercanti e i banchieri, meno numerosi, ma più potenti, perchè avevano maggiori ricchezze, erano d’accordo in una sola cosa: non permettere ai più poveri di governare.
I Comuni si affermano sul feudalesimo declinante Fino alla metà del XII secolo i Comuni cittadini poterono moltiplicarsi nell’Italia settentrionale e centrale senza incontrare nel decadente mondo feudale ostacoli seri. I piccoli feudatari, infatti, avevano preferito far causa comune con gli abitanti delle città nella lotta contro i grandi feudatari delle campagne. In tal modo questi ultimi avevano perduto ogni giorno terreno e avevano finito per cedere ai Comuni gran parte delle prerogative e dei privilegi che i loro antenati avevano strappato ai sovrani dall’epoca carolingia in poi. Così i Comuni si trovarono a disporre di molti poteri che normalmente spettavano all’imperatore o al re (ed erano detti perciò regalie), senza averne ricevuta la concessione da alcun sovrano. Intanto, dopo un lungo periodo di lotte tra i feudatari tedeschi, seguito dalla morte di Enrico V (1125) ultimo sovrano della Casa di Franconia, nel 1152 saliva al trono imperiale Federico I di Svevia che, gelosissimo dei suoi diritti, subito accusò i Comuni italiani di aver usurpato i poteri spettanti all’imperatore.
L’imperatore Ecco come avveniva l’incoronazione di un imperatore nel secolo X. I magistrati, l’arcivescovo di Magonza, il clero e il popolo aspettavano il corteo del nuovo re nella basilica di Aquisgrana. Quando esso avanzò, l’arcivescovo gli mosse incontro e toccò con la sinistra la mano destra del re; poi si portò al centro della chiesa, e rivolto al popolo che stava sulle logge disse: “Ecco, io vi conduco Ottone, eletto da Dio, e poco fa proclamanto re di tutti i Principi”. Poi l’arcivescovo, insieme al re che era vestito di una tunica attillata, si recò all’altare, sul quale erano collocate le insegne regali: la spada con la banboliera, il mantello coi fermagli, il bastone con lo scettro e il diadema. L’arcivescovo prese la spada e, rivolto al re, disse: “Accetta questa spada per proteggere l’Impero dai barbari e dagli avversari di Cristo.” Preso il mantello, ne rivestì Ottone e disse: “Questi lembi che scendono al suolo ti ammoniscano a proteggere la pace fino alla fine dei tuoi giorni”. Poi preso lo scettro e il bastone disse: “Ammonito da questo insegne, punisci paternamente i sudditi colpevoli e porgi la mano misericordiosa alle vedove e agli orfani”. Dopo di che Ottone fu incoronato con un diadema d’oro.
Discesa in Italia di Federico Barbarossa Nel 1152 fu eletto imperatore Federico I di Svevia detto il Barbarossa, il quale, sedate le ribellioni in Germania, scese in Italia per ristabilirvi i diritti dell’impero non più riconosciuti dai Comuni maggiori. Nella prima discesa che fece al di qua delle Alpi (1154-1155) l’imperatore tedesco si limitò a trattare con ostilità i rappresentanti dei maggiori Comune e, spintosi fino a Roma, abbattè il regime comunale costituito per iniziativa di un monaco ribelle al papato, Arnaldo da Brescia; restituì quindi il dominio della città al papa Adriano IV, dal quale ottenne l’incorporazione imperiale. Arnaldo da Brescia, condannato come eretico, fu arso sul rogo. Nella seconda discesa, avvenuta nel 1158, Federico si propose di agire più a fondo. Posto l’assedio a Milano, costrinse alla resa la città e obbligò i consoli a prestargli omaggio; poi fece riunire a Roncaglia, presso Piacenza, una dieta di tutti i vassalli italiani, alla quale parteciparono anche alcuni giuristi dell’Università di Bologna. Proprio da costoro l’imperatore fece proclamare, sulla base del diritto romano, la legittimità delle sue disposizioni: divieto assoluto delle lotte private, sia tra città sia tra feudatari; obbligo per tutti di rivolgersi ai tribunali imperiali per risolvere le contese; scioglimento delle leghe tra città e delle Consorterie nobiliari; riconoscimento da parte dei vassalli e dei Comuni, del diritto imperiale di nominare magistrati, coniare moneta, imporre tasse e pedaggi, ecc… Le deliberazioni di Roncaglia miravano insomma, nei disegni di Federico, a rinsaldare il potere centrale, trasformando i regni d’Italia e di Germania in una monarchia assoluta.
I Comuni e il Papato si oppongono all’Imperatore
Questa ambiziosa politica trovò un ostacolo insormontabile nel desiderio di libertà che animava i giovani Comuni italiani. Quando infatti Federico volle imporre alle città alcuni podestà di sua nomina, molte di queste, con a capo Milano, si rifiutarono di riceverli. Intanto anche il nuovo papa Alessandro III, misurando il pericolo che l’aumentato potere imperiale rappresentava per l’indipendenza del papato, aveva assunto un atteggiamento contrario a Federico, rispondendo con la scomunica al tentativo da questi fatto di contrapporgli un antipapa. Contrariato da tali segni di ostilità, l’imperatore volle subito ristabilire il suo prestigio sulle città italiane e cinse d’assedio Milano.
La resa e la restituzione di Milano Due anni durò l’assedio, poi la peste ricominciò a infierire fra gli eroici difensori; un incendio distrusse la maggior parte dei magazzini di granaglie e la fame livida tornò a mietere vittime. Sembrava che un fato tremendo pesasse sulla roccaforte della libertà lombarda. Alla fine del febbraio 1162, sulle torri lesionate della città, la rossa croce del comune venne sostituita dalla bianca bandiera della resa! E dopo la sconfitta, l’umiliazione… … al primo di marzo i consoli cavalcarono alla volta di Lodi dove il Cesare li attendeva. Appiedati, le spade in pugno, gli giurarono servitù ed obbedienza. E tre giorni dopo, tutti i nobili e i grandi di Milano, in numero di trecento, vennero a spezzare le loro spade ai piedi del Cesare. Poi il podestà, mastro Guitelmo, in ginocchio gli offrì le chiavi di ferro della città. I trentasei stendardi delle contrade si inchinarono nella polvere. Superbo il sire, circondato dai suoi cavalieri, teneva lo sguardo fisso avanti a sè. E due giorni dopo, volle anche il popolo. Uscirono da tre porte i Milanesi, le corde al collo, i piedi nella polvere, le croci in mano. Li seguiva il Carroccio parato a guerra. Squillarono per l’ultima volta le trombe milanesi, la campana rintoccò per l’ultima volta ed il vessillo, il bel vessillo crociato di Milano, cadde nella polvere. L’imperatore ne calpestò i lembi. Ed il popolo in ginocchio, piangente, chiedeva pietà. Poi l’ordine imperiale: “Che i Milanesi atterrino le mura e le torri, affinchè l’esercito possa passare schierato a battaglia”. E così fu fatto. E dopo nove giorni di preghiere, un ordine nuovo: “Vadan disperse le genti di Milano: otto giorni concede l’imperatore per trarre a salvamento robe e masserizie; poi la città verrà distrutta, il sale seminato sulle rovine”. E così fu. Preghiere, pianti di donne e bambini, supplicare di vecchi e malati, nulla piegò il Barbarossa, nulla valse umiliarsi ancora alla bionda imperatrice. Convenne lasciare la città ai fanti di Como e Lodi che la diroccarono al suolo. Intanto i vincitori, nobili e fanti, saccheggiarono la città di quanto era prezioso, gli altari furono spogliati, le case private di ogni ricchezza. Ed il 31 marzo l’imperatore, cavalcando il bianco destriero di guerra, seminò lo sterile sale. Ed era il giorno di Pasqua! Tanta è l’importanza che Federico ammette a questa sua vittoria su Milano, che egli data ormai i suoi atti e le sue lettere “dalla distruzione di Milano”. (G. Gozzano)
La Lega Lombarda e la battaglia di Legnano Ma il Barbarossa non aveva potuto piegare l’animo di quei vinti. Il suo trionfo fu breve: le varie città dell’Italia settentrionale, anche quelle che avevano fino ad allora collaborato con l’imperatore, cominciarono a temere della loro futura sorte e in breve si stancarono dell’arroganza dei podestà imperiali. Dall’imperatore erano offese anche nei loro interessi economici: Venezia, ad esempio, che commerciava lungo le vie fluviali con l’Italia settentrionale, ed attraverso i valichi alpini con il centro dell’Europa, vedeva ora sbarrate queste vie dai nuovi prepotenti feudatari tedeschi creati dal Barbarossa. Perciò nel Veneto cominciò la resistenza: nel 1164 Venezia favorì la formazione di una Lega, detta Veronese, tra Verona, Padova e Vicenza. L’esempio fu di incitamento: tre anni dopo (1167) alcuni Comuni lombardi, insieme con esuli milanesi, nel monastero di Pontida, presso Bergamo, strinsero una lega anti-imperiale, detta Lega Lombarda, che si fuse con quella veronese. Gli odi e le gelosie municipali scomparvero di fronte al comune pericolo. Fu cominciata subito la ricostruzione di Milano. Il papa Alessandro III diede alla lega l’appoggio della sua alta autorità. Perciò la fortezza che i Comuni alleati fondarono in Piemonte, fra il Tanaro e la Bormida, per ragioni strategiche, fu chiamata Alessandria in onore del papa. Mentre fervevano questi preparativi, l’imperatore era sceso altre due volte in Italia, senza concludere nulla. Solo nel 1174 si decise a scendere con un grande esercito per schiantare le forze della Lega. Questa comprendeva allora 36 Comuni e molte Signorie feudali, e si estendeva per tutta la Pianura Padana. Posto invano l’assedio ad Alessandra, dopo sei mesi l’imperatore dovette ritirarsi per non essere a sua volta accerchiato dai nemici. Lo scontro decisivo avvenne a Legnano il 29 maggio 1176 e fu una splendida, decisiva vittoria per l’esercito della Lega.
Giuramento della Lega Lombarda Nel nome del Signore, amen. 1. Io giuro sui santi Vangeli di Dio che non farò pace ne tregua, ne guerra finta, ne altro accordo con l’imperatore Federico, ne con i figli e la moglie di lui, ne con altra persona in suo nome: e questo non farò io, ne per mezzo di altra persona, e se altri lo facessero non lo approverò. 2. Mi sforzerà in buona fede, secondo il mio potere, con tutte le mie forze, perchè nessun esercito piccolo o grande venga in Italia dalla Germania o da altra terra imperiale che sia oltremonti. E se detto esercito entrasse, io farò guerra attiva all’imperatore e a tutte le persone che sono o saranno del partito dell’imperatore, finchè il predetto esercito esca dall’Italia. 3. Ed io in buona fede e per mezzo di tutte le persone a me soggette salverò e custodirò le persone e le cose di tutti gli uomini della Lega della Lombardia, Marca e Romagna, e specie il marchese Obizzo Malaspina e tutte le persone che ora sono in detta Lega. 6. Tutti questi patti manterrò in buona fede, senza inganno per cinquanta anni continui, e tutto ciò che fosse aggiunto o tolto dal Consiglio dei Rettori della Lega: e lo farò giurare ai miei figli quando abbiano quattordici anni, entro due mesi dal compimento di questa età, e a quanti e quali dei miei piacerà ai Rettori. (C. Manaresi, dal testo latino in “Gli atti del Comune di Milano)
Il Carroccio, simbolo del Comune A Milano, che divenne Comune nel 1081 dopo un’aspra lotta contro i feudatari, venne creato quello che in seguito divenne il simbolo stesso della libertà comunale: il Carroccio. Questo era un carro tirato da bianchi buoi, sul quale era eretto un altare, un pennone con lo stendardo (il gonfalone) del Comune e una campana detta martinella. Il Carroccio seguiva i soldati fin sul campo di battaglia: nell’imminenza dello scontro un sacerdote celebrava la Messa, mentre quando la lotta era già iniziata un addetto suonava a distesa la martinella per incitare i combattenti. Il Carroccio aveva anche una funzione pratica. Attorno ad esso si raccoglievano le truppe di fanteria non appena la cavalleria nemica stava per sferrare una carica. Così raccolti attorno al carro, i fanti formavano una specie di invalicabile blocco di lance puntate, che era in grado di reggere l’urto dei cavalieri avversari, e di respingerlo. Il Carroccio, con il suo alto pennone sul quale sventolava il gonfalone, serviva anche come punto di riferimento ai soldati: anche nelle mischie più furibonde bastava levare gli occhi in alto per capire subito dove si trovavano i propri compagni. Perdere in battaglia il Carroccio era il più grave disonore per i cittadini del Comune: per questo ognuno era disposto a morire su di esso, piuttosto che lasciarlo conquistare dal nemico.
Lo stendardo de Carroccio Così Arnolfo, cronista milanese, descrive l’insegna del Carroccio: “Un’alta antenna, a guisa di albero di nave, era piantata sul Carroccio e si ergeva in alto portando in sulla cima un pomo aureo con due limbi di lino candido pendenti. In mezzo stava infissa la veneranda croce con dipinta l’immagine del Redentore, a braccia aperte rivolte verso le schiere, perchè qualunque fosse l’esito della battaglia, ognuno dei soldati, guardando quell’insegna, ne avessero conforto.”.
L’esercito imperiale e l’esercito dei Comuni Tra i due eserciti, quello dell’imperatore, composto di cavalieri, era il più numeroso e quello più pesantemente armato. Quello della Lega Lombarda, meno numeroso, era composto quasi esclusivamente di fanterie. Ma le fanterie dei Comuni non erano più le fanterie dell’epoca di Carlo Magno, composte di contadini armati di forconi. Erano fanterie di tipo nuovo. Quei fanti erano mercanti e artigiani ben forniti di denaro, che avevano avuto la possibilità di comprarsi un’armatura buone come quella dei cavalieri, e forse anche migliore, perchè nelle valli del bergamasco, proprio vicino a Milano, vi erano artigiani che costruivano le migliori armi d’Europa. I cavalieri del Barbarossa, coperti, loro e i loro cavalli, da molti chili di ferro, si muovevano non troppo facilmente ed erano abituati ad un tipo di combattimento tutto particolare: due schiere di cavalieri si scontravano frontalmente e raggiungeva la vittoria chi era più pesantemente armato e riusciva a disarcionare i suoi avversari. La fanteria lombarda aveva armature resistenti ma leggere, che permettevano una notevole facilità di movimenti. Era accompagnata da una certa quantità di cavalieri, che la sostenevano nei momenti più difficili della battaglia.
La battaglia di Legnano Da Como il Barbarossa con non più di duemila uomini si porta a Cairate; a Legnano le forze della Lega ascendono ad almeno cinquemila uomini. Tutti i quartieri di Milano risorta hanno i loro uomini e i loro stendardi. Al vento di maggio garriscono le bandiere: la rossa di Porta Romana, la bianca di Porta Ticinese, la balzana (bicolore) di Porta Vercellina, l’inquadrata di bianco e di rosso di Porta Comacina; Porta Nuova ha lo stendardo col leone bianco e minacciosa sventola fosca la bandiera nera di Porta Orientale. Il Carroccio coi bovi bianchi aggiogati porta in alto, sopra il castelletto, il legno ove era appesa la campana, il gonfalone del Comune con la grande croce rossa sul campo candidissimo del drappo. Intorno su trecento carri stanno le milizie popolane. Un esercito di uomini, di bandiere, di animi, che attende la sua ora. L’imperatore ordina l’assalto. La mischia si fa terribile e sanguinosa. Le ondate di cavalieri tedeschi si rinnovano. I Milanesi cedono e poi si riprendono, si sbandano e si radunano in alterna vicenda. Sul Carroccio la martinella suona a distesa, i trombettieri sotto il grandinar delle frecce lanciano il loro squillo. L’imperatore ha l’intuizione del pericolo mortale: è un soldato e non dimentica di esserlo: un nuovo assalto è comandato da lui, egli è in prima fila, alto, vicino al vessillifero che porta l’aquila dell’impero. La galoppata mortale si avventa ancora una volta contro i Milanesi che resistono; si vede nella mischia scomparire la bandiera dell’impero e poi anche l’imperatore non si vede più. I suoi si sgomentano. E’ la sconfitta; il panico prende le forze imperiali; fuggono i Pavesi e i Comaschi, fuggono i Tedeschi, lasciando dietro di loro il tesoro, i bagagli, i morti , i feriti. I Milanesi avanzano, raccolgono il bottino, inseguono per un poco i fuggitivi e poi li lasciano. Hanno vinto, hanno fretta di ritornare, di correre alla città che li attende a dir la grande, l’incredibile novella: l’imperatore è sconfitto, non lo si trova più, forse è morto in battaglia, il suo esercito è disperso, il ricco tesoro di guerra, lo scudo e la spada stessa del Barbarossa sono nelle mani dei Milanesi. (E. Momigliano)
Consuntivo della battaglia di Legnano Così riferirono i Milanesi a Bologna la battaglia di Legnano: “Non si poterono contare gli uccisi, gli annegati, i prigionieri. Lo scudo dell’imperatore, il suo vessillo, la croce e la lancia caddero nelle nostre mani. Fra i suoi bagagli abbiamo trovato molto oro e argento; nè crediamo che sia possibile fare una precisa stima del cospicuo bottino che abbiamo fatto. Durane la battaglia sono stati fatti prigionieri il duca Bertoldo, il fratello dell’arcivescovo di Colonia e lo stesso nipote dell’imperatore”.
Il Capitano della Compagnia della Morte Il comandante dei cavalieri della Compagnia della Morte fu Alberto, detto da Giussano perchè nativo di Giussano, paese che si trova vicino a Milano. Nelle cronache del tempo egli è anche indicato col nome di Alberigo,e soprannominato “il Gigante” per la sua alta statura. Capitanò una schiera di eroi che, prima di partire in battaglia contro il Barbarossa, giurarono sulla croce di morire piuttosto di cedere davanti al nemico. Infatti si dovette alla resistenza della Compagnia della Morte, al suo slancio audace e temerario, gran parte del merito di avere vinto a Legnano, il 29 maggio 1176, l’imperatore germanico, sgominando le sue truppe.
Papa Bonifacio VIII Bonifacio VIII (1294-1303) fu l’ultimo grande papa medioevale, ed in un mondo mutato tentò di riaffermare i diritti della chiesa, come ai tempi di Gregorio VII e di Innocenzo III. Ma, se per qualche tempo potè avere successo, non riuscì invece ad avere ragione della resistenza del Re di Francia, Filippo IV il Bello, che volle imporre nuove tasse sul clero francese. Il papa lo minacciò di scomunica ma il re di Francia inviò a Roma i suoi emissari, con a capo Guglielmo di Nogaret, che con l’appoggio della famiglia nobile dei Colonna, poterono impadronirsi dello stesso pontefice, ad Anagni, presso Roma, dove egli si trovava. Sembrava anzi che egli venisse allora oltraggiato dai suoi nemici, tanto che questo triste episodio passò alla storia col nome di “schiaffo di Anagni”. Ma il popolo insorse, liberò il papa, e lo ricondusse a Roma, dove morì un mese dopo.
Trasporto della sede papale ad Agignone Qualche tempo dopo il nuovo papa, francese, lasciò addirittura Roma e l’assenza del Papato dall’Italia durò circa settant’anni, dal 1305 al 1377. Essa si stabilì in Avignone, nel sud della Francia, in una zona che divenne possesso pontificio; ivi i papi furono protetti, o piuttosto, soggetti al re di Francia, anche se a più riprese tentarono di riconquistare la loro indipendenza. Ma il danno maggiore di quest’assenza del papa da Roma fu per l’Italia che si vedeva privata dell’onore di essere sede papale, e abbandonata allo scatenarsi di tutte le discordie intestine fra principi e città, fino allora tenute a freno, in assenza dell’imperatore, dal papa. Soprattutto in Roma e nello Stato della Chiesa si scatenò la più grande anarchia, e questi territori furono rattristati da una guerra continua. Finalmente, nel 1377, il papa Gregorio XI, cedendo alle preghiere e agli inviti che gli venivano da ogni parte d’Italia, e specialmente alle appassionate ed insistenti invocazioni di Santa Caterina da Siena, riportò a Roma la sede pontificia.
Leggenda Si narra che, per aver ragione della resistenza di Crema, il Barbarossa fece accostare alle mura della città una torre mobile sulla quale aveva legato alcuni giovinetti cremaschi, avuti in ostaggio. Ma i valorosi difensori non desistettero dal lanciare coi mangani le pietre contro la torre, gridando ai giovinetti: “Beati voi che morite per la patria!”.
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MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario di autori vari per bambini della scuola primaria.
I conventi Durante e dopo le incursioni dei Barbari, l’Italia offrì un ben triste spettacolo: rovine e stragi, i templi distrutti, i monumenti abbattuti, le opere l’arte e della letteratura abbandonate e neglette. Pareva che la vita non avesse più valore tanto erano ormai diventate realtà di tutti i giorni le morti, le stragi, le violenze. Questo stato di cose favorì lo sviluppo del cristianesimo. Più perdeva valore la vita terrena, più ne acquistava la vita eterna. Fu così che alcuni uomini si ritirarono in luoghi deserti, preferibilmente sulla sommità di alte montagne, per dedicarsi esclusivamente alla preghiera in solitudine. Questi uomini furono chiamati eremiti ed erano tenuti in grande considerazione. In seguito, questi religiosi si riunirono a far vita comune, dedicata esclusivamente a Dio e alle opere di bene. Sorsero così i conventi. Il convento più famoso, fondato in quell’epoca, fu quello di Cassino, sorto per opera di San Benedetto.
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – San Benedetto San Benedetto era nato a Norcia, paese dell’Umbria, da nobile famiglia. Fin da giovanetto aveva sentito l’attrazione per la vita eremitica e abbandonata la sua casa si era ritirato a vivere in una grotta, tra i monti di Subiaco e vi stette tre anni. La fama della sua santità si sparse dovunque e alcuni eremiti gli chiesero di far vita comune con lui. Sorse così un convento. Benedetto dettò la regola che fu però diversa dalle regole che governavano altri conventi. Infatti, mentre in questi si osservava soltanto l’obbligo della preghiera, a Montecassino i monaci dovevano anche lavorare. Anche il lavoro è preghiera, se dedicato a Dio. “Ora et labora” fu la regola dei monaci benedettini, i quali si dedicavano alle opere sia intellettuali che manuali. Chi si dedicava allo studio, alla salvaguardia dei vecchi codici e alla miniatura dei codici nuovi, chi zappava la terra, allevava le api, costruiva abitazioni. A causa dell’avvilimento a cui li avevano costretti le invasioni e le distruzioni dei barbari, gli uomini non pensavano più ai valori spirituali della vita, alle arti, alle belle scuole, alle opere letterarie scritte nelle età antiche, ai poemi, alle sculture. Fu per merito dei conventi e dei monaci in essi ospitati, se molte di queste opere furono salvate. I religiosi raccolsero gli antichi manoscritti, quando erano rovinati li ricopiarono pazientemente, li studiarono, li commentarono. Fu merito dei conventi se le opere di molti scrittori e poeti dell’antichità poterono giungere fino a noi. Ma l’opera dei monaci non si fermò qui. La miseria della popolazione era tanta e i conventi raccolsero i poveri, i derelitti, i perseguitati. Chiunque veniva accolto in un convento, centro di lavoro agricolo e artigiano oltre che di preghiera, era al sicuro dalla fame e dalle vendette dei nemici. Sorsero così nell’interno dei conventi ospedali, scuole, laboratori, opere di pietà e di assistenza. Tutti quelli che chiedevano asilo venivano accolti e confortati.
Notizie da ricordare Nel Medioevo si costituirono per la prima volta i conventi, luoghi dove si raccoglievano uomini votati esclusivamente a Dio. Il convento più famoso fu quello di Montecassino, fondato da San Benedetto. L’ordine benedettino aveva per regola il motto “ora et labora”, cioè prega e lavora. In questi conventi furono raccolti e restaurati preziosi libri manoscritti dell’antichità che furono così salvati dalla distruzione e dalla dispersione. Intorno ai conventi sorsero scuole, ospedali, laboratori, opere di pietà e di assistenza. Chiunque si rifugiava nel convento aveva diritto di asilo ed era al sicuro dalla vendetta dei nemici.
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – Questionario Come e perchè sorsero i conventi? Quali opere fecero i monaci? Perchè si dice che i conventi salvarono la cultura? Chi era San Benedetto? Quale regola dette ai monaci?
La vita nei conventi Ogni monastero, chiuso da un muro di cinta, era come una grande fattoria e provvedeva a tutti i suoi bisogni. Accanto alla chiesa e al convento vero e proprio, con le celle dei monaci e la cucina e il refettorio, c’era la biblioteca, in cui si conservavano i testi sacri e i manoscritti antiche che i monaci più colti, nelle ore dedicate allo studio, leggevano, commentavano oppure copiavano in bella scrittura sui grandi fogli lisci di pergamena. I fanciulli accanto a loro imparavano scrivendo con uno stilo aguzzo su tavolette cerate; la cartapecora era troppo rara e costosa, perchè mani inesperte la potessero scarabocchiare. Chi sapeva dipingere, ornava le pagine con miniature di bei colori vividi, che ritraevano il volto della Madonna, di Gesù, degli Angeli e degli Apostoli. Altri ragazzini imparavano a calcolare con i sassolini o si esercitavano a cantare le preghiere e gli inni in lode al Signore. Annesso al convento c’era il granaio, la cantina e il frantoio per estrarre l’olio dalle olive e i laboratori perchè i monaci provvedevano da sé a tutti i loro bisogni, dai sandali agli aratri, dalle vesti alle panche. L’acqua di un torrente, opportunamente incanalata, faceva girare la ruota del mulino; l’orto provvedeva gli ortaggi e i campi le messi. Chi entrava, raramente aveva bisogno di uscire se non per andare a far opera di bene, sia portando soccorsi, sia predicando. Gli ospiti che bussavano alla porta, erano ricevuti come Gesù in persona ed onorati in particolar modo se erano religiosi o pellegrini venuti da lontano. Quando ne era annunciato uno, il priore stesso gli andava incontro per il benvenuto e dopo una breve preghiera gli dava il bacio della pace e gli usava ogni cortesia. A mensa gli offriva l’acqua per le mani, come allora si usava sempre prima di mettersi a mangiare, dato che di posate si adoperava solo il cucchiaio e i cibi si prendevano con le dita. Dei poveri, in particolare, si doveva aver cura e anche ad essi si lavavano i piedi, come Gesù aveva fatto con i suoi apostoli. Vi erano nel convento celle pronte a dare asilo a chi domandava ospitalità, con letti sempre preparati. In quel tempo, ben pochi viaggiavano, perchè non si andava che a piedi e a cavallo, e le strade era scomode e malsicure, interrotte da frane o da alluvioni, e infestate da briganti. Non si trovavano alberghi per sostare la notte, poche erano anche le osterie in cui prender cibo e troppo spesso gli osti stessi erano ladroni che derubavano chi si fermava da loro. I conventi benedettini erano perciò asili sicuri a cui i pellegrini cercavano di giungere prima che cadessero le tenebre. La carità dei monaci li consolava dei disagi del viaggio ed essi si fermavano, talora, più di un giorno, prima di riprendere il cammino. Qualche volta non ripartivano più e chiedevano all’abate di accoglierli tra i suoi discepoli; nella luce del chiostro dimenticavano le bufere del mondo, dove sovrani si combattevano, popoli si strappavano l’un l’altro, con accanimento, i pochi beni della vita. (C. Lorenzoni)
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – Totila Tutti parlavano di San Benedetto, del grande monastero di Montecassino, della chiesa che vi era stata eretta e soprattutto parlavano del santo abate, che possedeva il dono della profezia e sapeva leggere nel cuore degli uomini solo guardandoli negli occhi.
Era in quel tempo re dei Goti, Totila, un barbaro valoroso ma rozzo, che combatteva strenuamente contro gli eserciti romani e seminava morte e distruzione ovunque passasse con le sue milizie; di religione era ariano e odiava i cattolici. Anche a re Totila però, era arrivata la voce che a Montecassino abitava un uomo prodigioso, a cui Dio rivelava il passato, il presente e il futuro e che compiva miracoli. E gli venne il desiderio di conoscere quest’uomo straordinario; perciò mandò al convento un suo messaggero a chiedere di essere ricevuto, e Benedetto rispose che sarebbe stato il benvenuto. Ma Totila, che credeva di essere astuto, volle allora tendere un tranello malizioso per vedere se fosse vero che il santo indovinava tutto. Fece chiamare un suo scudiero, di nome Rigo, gli fece indossare le sue vesti di re, gli diede la sua spada, il suo scettro, il suo cavallo e lo fece accompagnare dai tre baroni che lo seguivano sempre. Rigo doveva presentarsi al convento come fosse stato il re, e andare davanti a Benedetto che, non avendolo mai visto, non lo conosceva di persona. Così fu fatto. Il piccolo corteo fastoso salì alla cima del monte, bussò alla porta del monastero, entrò e fu introdotto nella sala del Capitolo dove l’abate aspettava. Ma Rigo non aveva ancora posato il piede sulla soglia che la voce di Benedetto lo arrestò: “Figliolo, metti giù codesti ornamenti che non sono i tuoi”. A queste parole, lo scudiero fu turbato tanto che cadde a terra, tremando in cuor suo per aver osato farsi beffe di quest’uomo di Dio; e si prostrarono a terra costernati anche i tre baroni e i paggi e i soldati del seguito. Quando poi Benedetto disse loro di alzarsi, non osarono avanzare fino a lui, ma ritornarono all’accampamento, pallidi e sgomenti, come mai era loro accaduto nella loro vita di guerrieri, avvezzi a sfidare la morte sul campo di battaglia. Rigo raccontò a Totila quanto era avvenuto e il re ebbe paura. Chi ha molti peccati sulla coscienza trema di tutto e il re goto sapeva di essersi macchiato di molte colpe in quegli anni di guerra spietata e crudele; se Benedetto sapeva tutto, doveva sapere anche questo, e al re pareva di non poter avere più requie se non andava da lui, non lo vedeva e non udiva la sua parola. E così un giorno si recò al monastero, non come un potente sovrano, ma come un penitente qualsiasi, e quando vide da lontano San Benedetto non osò più avanzare, ma si gettò a terra in atto di umile omaggio. E il Santo, che sapeva chi egli fosse, anche se non gli vedeva addosso le vesti regali, gli disse: “Alzati”. Egli, tutto tremante, non osava neppure levare il capo davanti a Benedetto, e allora il Santo si levò dalla sua sedia e lo fece alzare e lo fece sedere vicino a sè. Poi cominciò a parlargli con voce grave e volto accorato. “Perchè sei re e comandi un grande esercito, ti credi forse tutto permesso? Vi è qualcuno, su in cielo, che è ben più potente di te e che un giorno ti dovrà giudicare. Molti mali hai fatto e molti ne stai facendo ancora; se continui così perderai l’anima tua in eterno. Frena la tua iniquità, perchè non hai ancora una vita molto lunga davanti a te. Tu riuscirai a prendere Roma e dopo passerai il mare; ma Dio ti ha concesso solo nove anni di regno; il decimo morrai”. Così profetizzò Benedetto a re Totila, e re Totila, di cui tutti avevano paura, lo ascoltava sgomento e, dopo avergli chiesto di pregare con lui, se ne tornò molto turbato al suo accampamento. Si dice che da quel giorno egli fosse meno crudele. Certo, le profezie di Benedetto si avverarono tutte: Totila di lì a qualche tempo assediò Roma e la prese, poi passò in Sicilia; ma al decimo anno di regno combattendo in battaglia contro un nuovo generale che l’imperatore d’Oriente aveva mandato in Italia, perdeva la vita. (C. Lorenzoni)
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – San Benedetto San Benedetto fondò un ordine fra i più importanti della Chiesa. Il suo motto era: prega e lavora. Egli amò Dio non solo con la preghiera, ma anche con il lavoro. Infatti lavorare serenamente per amare Dio e per fare del bene al prossimo è come pregare. Il convento di San Benedetto si scorgeva lontano, col muro rosso e il melograno verde sulla soglia. Vi andavano le rondini a volo ed i poveri col passo stanco: per le une c’era una gronda, per gli altri, sempre, un tozzo di pane. Un anno, che ghignava la carestia e neppure la malerba attecchiva nei campi, i bisognosi aumentarono a dismisura; una fila lunga di cenci, di sospiri, su per il colle, all’uscio del convento. “Una crosta di pane, per carità!” “Una tazza di olio, in nome di Dio!” Regala oggi, largheggia domani gli orcioli dell’olio mostrarono presto il fondo: tutti, meno uno, piccolino, lasciato in disparte per condire le fave dei frati. E, quel giorno, il padre guardiano rimandò a mani vuote un vecchietto che era venuto con la sua ciotola. Quando il santo lo seppe, disse parole di rimprovero, scese in dispensa e ruppe l’orciolo prezioso: l’olio si sparse, lento, tra le anfore vuote. E quelle, appena toccate, si riempirono fino all’orlo del buon alimento. I frati gridarono al miracolo ed uscirono di cella a lodare il Signore: fuori, le rondini volavano ai nidi e il volto dei poveri aveva, nel sole, una ruga di meno.
Il monachesimo Le invasioni, la fame, le pestilenze, le continue guerre, avevano distrutto la vita civile in tutta l’Europa: nei villaggi spopolati non c’era più chi tramandasse ai superstiti l’arte di coltivare i campi o di costruire una casa; gli uomini vivevano a stento senza speranze per il futuro. Per trovare forza e conforto nella loro fede, alcuni uomini si ritiravano in solitudine nelle terre d’Oriente e vivevano in preghiera e meditazione: erano gli eremiti. In Occidente, e proprio in Italia, le cose andarono diversamente. Nell’anno 480 nacque a Norcia, in Umbria, un bambino di nobile famiglia. Si chiamava Benedetto e, ancora ragazzo, sentì dentro di sé una forte vocazione religiosa. Benedetto si ritirò in una grotta poco lontana da Subiaco, dove i boschi sono fitti e dove corrono le acque del fiume Aniene. In questa grotta trascorse alcuni anni; un po’ alla volta, la fama della sua santità corse per l’Italia. Vennero allora a Subiaco altri uomini stanchi e disperati, che volevano affidarsi a dio come Benedetto. Il santo, però, aveva capito che gli uomini del suo tempo non dovevano essere aiutati solo con le preghiere: era necessario guidarli con l’esempio e insegnare loro nuovamente a lavorare perchè i campi rifiorissero e le tecniche rendessero più facile la vita. San Benedetto uscì così dalla caverna di Subiaco e fondò dodici monasteri nella valle del fiume Aniene; poi fondò il monastero più famoso, quello di Montecassino. Qui preparò la Regola, cioè le leggi alle quali avrebbero dovuto obbedire i suoi monaci. La Regola si può riassumere in due parole: prega e lavora. Con la preghiera, infatti, il monaco invocava dio e ne riceveva la forza per non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà; con il lavoro, aiutava il prossimo a costruire una nuova società, rifacendosi alle esperienze e alle conquiste tecniche degli antichi. A voi forse sembra impossibile, ma la gente che viveva all’epoca di San Benedetto aveva proprio dimenticato quasi tutti i mestieri. Non sapevano più cosa fosse un aratro, né come si costruisse una strada o si alzasse un solido muro! Furono i monaci a raccogliere, a perfezionare e ad insegnare tutte le tecniche. San Benedetto aveva raccomandato ai suoi seguaci di portare una roncola appesa alla cintura, tutti così capivano che i benedettini erano sempre pronti a lottare contro la natura selvaggia per aprire un sentiero nelle boscaglie o per liberare un campo coltivabile. Il monaco Teodulfo insegnò tanto bene ai contadini del suo paese a lavorare la terra che, alla sua morte, il popolo pretese di appendere in chiesa il suo aratro. E fu proprio San Mauro a diffondere di nuovo l’uso dell’erpice e dell’aratro con il vomere di ferro. Per secoli, i monaci furono veri coloni agricoli; seguendo il loro esempio, i proprietari terrieri ricominciarono a liberare la buona terra dalle macchie e dai rovi, e cercarono di prosciugare le paludi. I monaci fondarono anche ospedali, aprirono ospizi e scuole, mentre nei loro magazzini si ammassavano le provviste per i tempi difficili. Inoltre, fecero rifiorire lo studio e, copiando e ricopiando gli antichi manoscritti, conservarono le opere degli antichi sapienti, latini e greci. Nei primi tempi i monasteri erano piccoli, con una chiesetta, pochi monaci e un pugno di terra da lavorare. Poi la comunità aumentò e intorno al monastero sorsero i villaggi, mentre le zone montane ridiventavano verdi per il rimboschimento. Fu merito dei monaci se molte popolazioni poterono superare carestie ed epidemie, perchè i magazzini delle abbazie venivano sempre aperte per distribuire sementi ed attrezzi agricoli. Fu merito dei monaci se tante famiglie sfuggirono alla morte durante le guerre e le invasioni, perchè gli indifesi potevano rifugiarsi nell’interno dell’abbazia al primo allarme. I monaci furono anche esploratori e viaggiarono molto nel nord Europa.
Visita a un monastero di san Benedetto Bussiamo, e il monaco portinaio ci apre dicendo: “Sia lodato Gesù Cristo”. Entriamo nel chiostro. In mezzo è il pozzo. Sotto le arcate si aprono le porte dei vari magazzini, perchè il monastero è una specie di fattoria. I monaci lavorano la terra, scavano canali d’acqua, fanno le bonifiche, e i loro raccolti sono abbondanti. Hanno stalle di buoi; il mulino, il frantoio delle olive, la cantina. Hanno officine. E infine una bella e luminosa biblioteca. Quanti libri! Sono stati salvati dai barbari che li volevano bruciare. E che cosa fanno tutti questi monaci curvi sui tavolini, con una penna d’oca in mano? Ricopiano pazientemente antichi volumi latini e greci, su pezzi di pelle di pecora, detta appunto cartapecora. Così, mentre i barbari devastavano le campagne, i monaci benedettini coltivano; mentre i barbari distruggono i libri, i monaci benedettini li salvano e li ricopiano. Se la civiltà non andrà perduta, si deve a questi uomini vestiti di bianco, chiusi in questi monasteri, che sono come nidi di pace in messo a un mondo pieno di strepiti d’armi (P. Bargellini)
San Benedetto Nacque a Norcia, nell’Umbria, nell’anno 480. Dopo qualche tempo, la sua infanzia fu rallegrata dalla nascita di una sorellina: Scolastica. Fratello e sorella crebbero buoni, amandosi teneramente fra loro. San Benedetto studiò a Roma, ma ben presto, stanco della città rumorosa e delle frivole compagnie, ottenne dal padre di ritirarsi a vivere in campagna. Nella quiete serena dei campi continuò a studiare; alternando lo studio ad una costante e fervida preghiera. Secondo la leggenda, un giorno avvenne che alla sua fedele nutrice si rompesse una pregevole anfora avuta in prestito. La disperazione della donna indusse il giovane padrone a prendere i pezzi del vaso e a rimetterli insieme; dopo una breve preghiera, ecco l’anfora ritornata come nuova. Fu il suo primo miracolo. La fama di santità che gli fu attribuita, dopo questo fatto, lo sgomentò: fuggì e trovò rifugio in una grotta presso Subiaco. Qui rimase tre anni, finché si decise ad accogliere, presso d sé, alcuni giovani che erano accorsi a lui, per condividerne la vita di sacrificio e di preghiera. Istituì così la prima regola di quello che sarà poi il grande ordine dei Benedettini. A Subiaco venne anche la sorella Scolastica, che vicina ai conventi del fratello fondò un eremo femminile. Dopo qualche anno entrambi lasciarono questo luogo e, giunti in Campania, al piè di un monte erto e boscoso di fermarono. Lì cominciò la costruzione della famosa abbazia di Montecassino; poco distante, nella vallata, santa Scolastica fondò un convento ove accolse le nuove sorelle. Una volta l’anno fratello e sorella si incontravano e trascorrevano la giornata conversando.
Torna il benessere attorno ai monasteri San Benedetto morì nel 543. Ma pochi anni dopo la sua morte i monasteri benedettini erano già diffusi in tutta l’Europa, fino in Gallia, in Germania, nella lontana Britannia. Esteriormente il monastero si presentava come una fortezza: alto su un colle, protetto di spesse muraglie e da robustissimi portoni. Tutt’intorno si era sviluppato un villaggio, costruito dai contadini e dagli artigiani, che avevano abbandonato le loro terre devastate dai barbari, per cercare rifugio all’ombra del monastero. In caso di attacco, infatti, gli abitanti del villaggio si ritiravano nel monastero finché la minaccia non si fosse allontanata. Oltre che a diffondere sempre più la religione cristiana, e ad insegnare a tutti ad apprezzare la cultura e il sapere, i monasteri divennero anche grandi propulsori di un rinnovamento civile ed economico. I monaci, infatti, bonificarono paludi, costruirono strade, restaurarono ed edificarono palazzi, fondarono scuole e ospedali. Le paludi bonificate si trasformarono in rigogliose campagne. Sulle nuove strade tornarono mercanti e viaggiatori, che trovavano rifugio per la notte nella foresteria, istituita presso ogni monastero. I monaci diedero poi vita a vere e proprie scuole artigianali, per far apprendere ai giovani le varie tecniche di lavoro, che erano state trascurate e quasi dimenticate nei terribili anni delle invasioni barbariche. Molto spesso, infine, il monastero e il villaggio che si era formato attorno ad esso acquistarono un notevole peso politico. All’Abate (padre, cioè il rettore della comunità) vennero riconosciuti privilegi, immunità e diritti, come quelli di amministrare la giustizia o di imporre e di riscuotere le tasse. Grandemente accresciuti durante il Feudalesimo, questi privilegi durarono fino alle soglie dell’età contemporanea.
La regola d’oro: prega e lavora Per disciplinare la vita della comunità, San Benedetto aveva dettato una regola. Essa si riassume tutta in due parole: prega e lavora (ora et labora). Il medesimo concetto era ripetuto anche nello stemma del monastero, che rappresentava la croce e un aratro. Benedetto credeva che la preghiera e il lavoro fossero i due doveri fondamentali del vero cristiano. I monaci dovevano quindi pregare e adorare Dio con tutte le loro forze. Ma nello stesso tempo avevano l’obbligo di lavorare per aiutare materialmente la comunità e tutti coloro che avevano bisogno: era questo un modo concreto di amare il prossimo. Il lavoro dei monaci era tanto intellettuale quanto manuale. Due ore al giorno venivano dedicate allo studio: ogni monaco doveva essere capace di leggere e scrivere. Altre sette ore erano poi dedicate al lavoro manuale. Ognuno aveva la propria attività: chi lavorava i campi, chi costruiva nuovi edifici o riparava quelli già esistenti, chi faceva da mangiare, chi fabbricava le scarpe, i vestiti, gli strumenti di lavoro per i confratelli e per i contadini che intanto cominciavano a raccogliersi attorno al monastero. C’erano poi i monaci scultori, i pittori, gli insegnanti, che facevano apprendere a chiunque lo desiderasse tutta la loro scienza. Infine c’erano i monaci amanuensi, che ricopiavano su grandi fogli di carta-pecora le grandi opere dell’antichità adornandone le pagine con deliziose miniature. Il lavoro di questi pazienti amanuensi ottenne un duplice effetto: salvò dalla scomparsa i capolavori antiche e lasciò a noi dei nuovi capolavori nell’arte della miniatura.
Il lavoro giornaliero L’ozio è nemico dell’anima. Per questo i confratelli devono occupare certe ore della giornata col lavoro manuale e in altre ore devono dedicarsi alla lettura sacra. Al mattino, lavorino dall’ora prima all’ora quarta (6-10) in ciò che è necessario. Dalla ora quarta alla sesta (10-12) si dedichino alla lettura. Dopo l’ora sesta, alzandosi da tavola, riposino nei loro letti. Se qualcuno invece vuol leggere, legga pure, purché non disturbi gli altri. Si faccia questo fino all’ora ottava (14) che è l’ora della preghiera. Poi si lavori di nuovo fino a sera. Il lavoro sia però proporzionato alle forze di ciascuno. I fratelli is servano l’un l’altro e nessuno sia dispensato dal servizio di cucina, se non per malattia o per occupazione da cui si ricavi maggior merito o carità. (Dall’articolo 48 della Regola)
La vita in un monastero benedettino Come si svolge la vita quotidiana in monastero benedettino? Alle tre di notte la campanella del monastero già suona la sveglia. I monaci lasciano il duro letto di tavole, su cui hanno dormito per poche ore, e in fila si recano in chiesa. Qui recitano per tre ore il “mattutino”, cioè le preghiere del mattino. Indossano un saio interamente bianco, chiamato l’abito di coro. Prima di iniziare il faticoso lavoro della giornata, ogni monaco si ritira nella sua celletta e si dedica soprattutto alla lettura dei libri sacri. Nella celletta vi sono umili arredi: un lettuccio, un attaccapanni, una acquasantiera e un armadietto, sufficiente per sistemare le pochissime cose di cui un monaco può disporre. Alle undici i monaci si riuniscono nel refettorio, dove consumano un frugalissimo pasto. Le pietanze sono sempre le stesse: un piatto di legumi, un pezzetto di formaggio, patate e frutta. Durante il periodo della Quaresima, che per i monaci dura alcuni mesi, essi si cibano soltanto di pane, acqua e frutta. Per sette ore al giorno i monaci sono impegnati in lavori manuali. Ciascuno di essi, secondo le proprie capacità, ha una mansione da compiere. Pur di fare bene al prossimo essi si sottopongono volentieri ai lavori più faticosi. Si presenta la necessità di costruire un ospedale o una scuola? Ecco che i monaci si trasformano in muratori e in falegnami. Le invasioni straniere riducono in miseria intere popolazioni? Ecco i monaci pronti a lavorare la terra e a distribuirne i prodotti ai più bisognosi. Oltre a ciò, i monaci raccolgono, istruiscono ed educano i bambini rimasti privi di assistenza. Al calare del sole infine, i monaci hanno già concluso la loro giornata di preghiera e di lavoro. Li attendono allora la squallida celletta ed il duro letto, sul quale si coricano vestiti dell’abito di coro. Ogni giorno si ripete la stessa vita di sacrificio, che i buoni monaci accettano per onorare dio ed aiutare il prossimo.
Come si entrava nell’Ordine di San Benedetto Prima di San Benedetto coloro che entravano in un monastero non facevano voto alcuno. Benedetto pensò che l’aspirante doveva invece seguire un noviziato e apprendere così, per esperienza diretta, le difficoltà della vita monacale. Solo dopo tale prova il novizio, se ancora lo desiderava, poteva prendere i voti. Con questi si impegnava allora, per iscritto, “a stare per sempre nel monastero, a obbedire e a riformare il suo carattere”, e il voto, firmato alla presenza di testimoni, doveva essere deposto sull’altare dallo stesso novizio, in rito solenne. Da questo momento il monaco non poteva abbandonare il monastero senza il consenso dell’abate. L’abate era scelto dalla comunità ed era tenuto a consultarla nelle cose di importanza; ma la decisione finale spettava a lui solo e gli altri dovevano obbedire in silenzio e in umiltà. I monaci dovevano parlare solo se necessario, non dovevano scherzare o ridere ad alta voce, dovevano camminare con gli occhi fissi a terra. Non si poteva tenere in proprietà privata “né un libro, né le tavolette (per scrivere), né una penna, niente del tutto”. Ogni cosa era di proprietà comune. Era ignorata e dimenticata la condizione precedente al suo ingresso al monastero; fosse stato libero o schiavo, ricco o povero, poco importava; ora era uguale a ogni altro. (W. Durant)
Recita: In un monastero benedettino Personaggi: l’abate, un ospite del monastero col proprio figlioletto Basilio, Paolo (fanciullo del monastero). Ospite: Vengo da lontano. I soldati longobardi hanno fatto un’irruzione nelle mie terre. Hanno calpestato le seminagioni, distrutto le piantagioni, annullato in poche ore i lavori che erano costati sudore e fatica immensi. Presi dalla paura, i coloni sono fuggiti, abbandonando le campagne. Con quello che m’era rimasto e con mio figlio, mi sono messo in viaggio per raggiungere la terra di alcuni miei parenti. Ma anche lungo il cammino ho incontrato soldati barbari che mi hanno tolto quel poco che avevo, gente che mi ha negato ospitalità… Solo qui mi è parso di trovare un piccolo paradiso. Voi monaci mi siete venuti incontro e mi avete abbracciato. Fra voi ho finalmente risentito una voce amica. Abate: Fratello, io sono l’abate del monastero. Per noi, l’ospite, il pellegrino, l’infermo, il perseguitato, devono essere ricevuti come fossero Gesù Cristo. Anche questo è nella Regola lasciataci dal fondatore del nostro Ordine, San Benedetto. (Passa vicino un fanciullo) Ospite: (meravigliato) Avete anche fanciulli? Abate: Sì, abbiamo anche fanciulli. Quello è Paolo, figlio di un patrizio che lo ha affidato a noi per la sua educazione. Paolo, vieni qui. Paolo: Eccomi, padre. Abate: (rivolto all’ospite) Fratello, vieni. Ti mostrerò le stanze destinate agli ospiti. Lasciamo che i fanciulli parlino fra loro. Paolo: Come ti chiami? Basilio: Mi chiamo Basilio. Paolo: Anche il tuo è il nome di un santo. Basilio: Come sei istruito! Qui forse i fanciulli imparano a leggere e a scrivere? Paolo: Sicuro, piccolo fratello. I monaci hanno un vero amore per la cultura. Se tu rimanessi qui, ti farei vedere quanti libri esistono nel monastero! I monaci non vogliono che essi vadano distrutti, perchè se no sparirebbe il meglio dell’umanità. Per questo vanno alla ricerca di libri dappertutto. Basilio: Anche in terre lontane? Paolo: Anche lontanissime. Anche a costo di enormi sacrifici. Ma tu vedessi che gioia, quando possono tornare al monastero, come le api all’alveare, portando con sé qualche prezioso codice! Basilio: E allora? Paolo: Allora, mio piccolo fratello, ci sono i frati amanuensi che ricopiano questi codici e ne fanno parecchie copie, in modo che i frati possano tutti leggere e studiare. Basilio: E’ meraviglioso. E voi, fanciulli, come fate a studiare? Leggete anche voi su quei libri? Paolo: Oh, no. Dapprincipio no. Ci sono libri apposta per noi. Basilio: E dove li trovano i frati? Paolo: Li scrivono loro stessi. Basilio: Quanto lavoro! Paolo: E’ vero. Ma tu saprai già che la Regola benedettina poggia proprio sul motto “prega e lavora”. La preghiera è il fondamento, ma subito dopo c’è il lavoro. La maggior parte dei monaci, si intende, si dedica al lavoro manuale. Lo stesso monastero è stato costruito e via via ampliato dai monaci. Essi, dando l’esempio, vangano, zappano, arano, piantano, tagliano legna, macinano grano, e così via. (R. Botticelli)
La Chiesa nell’epoca barbarica I barbari portano lo sfacelo: tutta la civiltà romana crolla sotto il loro dominio crudele e incapace di respirare l’aria densa di storia del grande impero abbattuto. Templi, opere d’arte, intere città sono dati alle fiamme; biblioteche intere vengono distrutte; sembra che debba calare il buio della preistoria sul mondo in rovina. Ma sulle macerie del mondo romano sorge il cristianesimo, che svolge così la funzione di baluardo della civiltà. Osserva lo storico francese Taine che per ben 500 anni la chiesa salvò quanto ancora c’era da salvare della cultura umana. Essa affrontai barbari e li doma. Davanti al vescovo in cappa dorata, davanti al monaco vestito di pelli, il Germanico convertito ha paura: quanto aveva intuito sulla giustizia divina, dettata dalla nuova fede e che si mescolava nel suo istinto religioso, risvegliava in lui terrori superstiziosi che nessuna altra forza avrebbe potuto suscitare. Così, prima di violare un santuario si domanda se non cadrà sulla soglia folgorato dall’ira divina. Si ferma, risparmia il villaggio, la città che vive sotto la tutela di un sacerdote. D’altronde, a lato dei capi barbari siedono vescovi e monaci nelle assemblee: sono i soli che sanno scrivere e parlare. Segretari, consiglieri, teologi partecipano agli editti, mettono le mani nelle cose di governo, si danno da fare per metter ordine nel grande disordine, per rendere più razionale e umana la legge, per ristabilire e conservare l’istruzione, la giustizia, il patrimonio privato. Nelle chiese e nei conventi si conservano le antiche conquiste dell’umanità: la lingua latina, la letteratura, la dottrina cristiana, le scienze, l’architettura, la scultura, la pittura, le arti e le industrie più utili, che danno all’uomo di che vivere, di che coprirsi e dove abitare; e soprattutto la migliore di tutte le conquiste umane e la più contraria al temperamento del barbaro nomade: l’abitudine e il gusto del lavoro.
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Decadenza dell’Impero romano L’impero romano sembrava ancora grande; in realtà non lo era più. Gli Imperatori che si succedevano, elevati al potere da truppe indisciplinate, non erano più gli strenui difensori e restauratori della potenza di Roma; erano deboli, crudeli, con un potere effimero. La nobiltà era corrotta, le frequenti guerre avevano impoverito le popolazioni; i piccoli agricoltori, esauriti e impoveriti per la lunga permanenza sotto le armi, lasciavano i loro campi, insufficienti a sfamarli, e si rifugiavano in città, oziosi e turbolenti, oppure diventavano servi dei ricchi. Gli schiavi, che col propagarsi della religione cattolica era diventati quasi tutti cristiani, pensavano al premio riservato in cielo agli umili e, pur restando ottimi servitori, non si curavano molto delle cose del mondo. Tutto l’insieme sociale e politico dell’impero si andava sfasciando sia dall’interno, che nelle lontane province e ai confini.
Gli stranieri Alle frontiere non c’erano più difese valide perchè i soldati delle legioni romane erano pagati per la loro opera e perciò facevano la guerra come un mestiere. Spesso, poi, si trattava addirittura di truppe straniere che non pensavano che alla paga e al bottino. Non solo, ma spesso queste truppe straniere erano consanguinee di quelle che premevano alla frontiera e quindi il loro spirito combattivo era assai scarso. Tutti i popoli forestieri, dai Romani erano chiamati Barbari perchè i Romani si ritenevano il popolo più civile di quel tempo. Effettivamente i popoli che furoreggiavano alle frontiere dell’Italia, erano veramente incivili e selvaggi. Vestivano di pelli, preferivano razziare ignorando il lavoro dei campi, non conoscevano le arti, la cultura, avevano barba e capelli incolti, erano rozzi, brutali, e dove passavano portavano rovina e morte. Alcune di queste tribù ebbero dai Romani il permesso di stabilirsi entro i confini dell’Impero, e poichè erano gravate di tasse, presero l’abitudine di andare a protestare a Roma. Ebbero, così, modo di vedere le fertili pianure, le ricche città dell’Impero e di constatare che non esisteva più l’antica forza che aveva permesso ai Romani di conquistare quasi tutto il mondo conosciuto. Per questi motivi, Roma era diventata una residenza poco comoda per gli Imperatori e fu per questo che Costantino, che regnò dal 307 al 337, decise di trasferirsi in un’altra capitale e scelse Bisanzio, passaggio obbligato per il commercio tra l’Asia e l’Europa. Prima di morire Costantino aveva diviso l’impero fra i suoi figli allo scopo di renderne più facile l’amministrazione. Al figlio Costantino assegnò la Gallia, a Costanzo l’Asia e l’Egitto, a Costante l’Italia, l’Africa e l’Illirico e le altre regioni ad altri suoi discendenti. Fu in questo periodo che si intensificarono le incursioni dei Barbari che, approfittando delle condizioni di debolezza dell’Impero, passarono le frontiere e invasero i territori.
Come vivevano i barbari Non avevano leggi fisse, e obbedivano ciecamente a un capo. Non avevano arte, non letteratura, non agricoltura. Vivevano di rapina e di guerra. Portavano lunghi capelli, barba e baffi. In capo trofei di fiere uccise, indosso vestiti di pelli e uno strano indumento sconosciuto ai Romani: i calzoni. Poichè venivano da paesi freddi, essi usavano ripararsi le gambe con tubi di stoffa spesso tenuti stretti con legacci. Dove passavano, distruggevano. Tagliavano alberi da frutta, viti e olivi per fare fuoco; abbattevano monumenti e cuocevano le statue di marmo per farne calcina; bruciavano le biblioteche con libri di carta arrotolata e detti appunto volumi. Mangiare, bere, rubare. Non conoscevano altro. E ammazzare, bevendo magari il sangue dell’avversario fatto di crani umani. Questi erano gli uomini che l’Impero romano si trovò contro e che la Chiesa dovette domare. (P. Bargellini)
I barbari
L’Impero Romano d’Oriente ebbe una vita lunga e senza gloria. L’Impero Romano d’Occidente, invece, crollò quasi all’improvviso. Le cause che favorirono la sua fine furono molte; innanzitutto l’estensione. Una linea di confine interminabile doveva essere difesa in tutta la sua lunghezza da legiooni di soldati, da torri di vedetta, fortezze, trincee. I Romani erano sempre stati considerati i migliori soldati del mondo; ora, il lusso e le ricchezze facevano loro disdegnare il servizio delle armi; preferivano occuparsi degli affari o divertirsi agli spettacoli del circo. Sorse così la necessità di arruolare soldati tra i popoli vinti, tra gli stranieri abitanti oltre i confini dell’Impero; ma occorreva pagare queste truppe a caro prezzo e non sempre esse erano fedeli e disposte a morire nel nome di Roma. I Romani erano stati anche ottimi contadini, affezionati alla loro terra ed al loro aratro. Poco alla volta avevano perso l’amore all’agricoltura e avevano abbandonato il lavoro dei campi affidandolo a schiavi e a liberti, gente senza scrupoli che portava le campagne in rovina. Lo Stato romano, sempre più avido di denaro, gravava di nuove tasse i cittadini e sovente erano i meno ricchi a sopportarne il peso maggiore. Furono queste le cause principali dell’indebolimento dell’Impero che, quando i popoli barbari si affacciarono minacciosi ai suoi confini, non seppe più opporre una valida resistenza. Chi erano i barbari? Erano popoli che abitavano nel Nord Europa, lungo i grandi fiumi come il Reno, il Danubio, la Vistola. Erano venuti da molto lontano ed erano giunti in Europa con marce faticose, portando sui carri le donne, i vecchi e i bambini, e trascinando con sè gli armenti. Benchè vinti più volte dai generali romani, erano diventati così forti che nessuno poteva fermarne l’impeto. Il loro nome incuteva terrore. I barbari vivevano di caccia e di pastorizia, usavano armi di ferro e di bronzo, si coprivano con pelli animali, non avevano leggi scritte e per fare la guerra eleggevano un capo che guidava gli eserciti in battaglia. Non portavano alcun rispetto per il nemico vinto e consideravano sacra la vendetta. Quando capirono che l’Impero romano si stava sfaldando, varcarono i confini ed occuparono le terre più fertili.
I Visigoti
I Visigoti, un popolo germanico, vennero in Italia guidati dal re Alarico. Dal lontano Oriente giunsero fino alle porte di Roma, dove i cittadini si fecero loro incontro offrendo oro perchè non distruggessero la città. Il feroce re accettò l’oro e si accampò nei dintorni, ma alla fine saccheggiò ugualmente Roma (410). Poi si diresse verso sud con l’intenzione di passare in Africa. Giunto in Calabria, Alarico morì improvvisamente; i suoi soldati ne seppellirono il corpo nel letto del fiume Busento, presso Cosenza, e lasciarono l’Italia.
Gli Unni
Gli Unni, provenienti dall’Asia, giunsero in Italia guidati da un terribile re, Attila, che fu chiamato “il flagello di dio”. Questi barbari vivevano in maniera del tutto primitiva: si cibavano di carni ammorbidite sotto la sella dei loro cavalli; avevano capelli lunghi che nascondevano il viso giallo dagli occhi piccoli e dagli zigomi sporgenti. Essi passarono le Alpi e, saccheggiando, si sparsero per la Pianura Padana. Incontro ad Attila mosse allora il papa Leone I che persuase il re barbaro a lasciare l’Italia.
Ritratti di Attila Figura deforme, carnagione olivastra, testa grossa, naso sottile, piccoli occhi affossati, pochi peli al mento, capelli brizzolati, corporatura tozza e nerboruta, fiero il portamento e lo sguardo, come un uomo che si senta superiore a quelli che lo circondano. Sua vita era la guerra. “La stella cade” diceva, “la terra trema, io sono il martello del mondo e più non cresce l’erba dove il mio cavallo ha posto il piede”. Avendolo un eremita chiamato “flagello di Dio”, adottò questo titolo come un augurio, e convinse i popoli che lo meritava. (C. Cantù)
I Visigoti, i Vandali, gli Unni Settantatre anni dopo la morte di Costantino i Visigoti comandati dal loro re Alarico, attraversarono l’Italia e arrivarono a saccheggiare Roma. Anche i Vandali, altro popolo barbaro che aveva invaso le regioni confinanti con l’Italia, passarono le frontiere distruggendo tutto ciò che incontravano sul loro cammino. Abbattevano templi, opere d’arte, tagliavano alberi, incendiavano case, biblioteche, fondevano l’oro e l’argento delle statue, e la loro opera di distruzione causò tanto spavento e tanta rovina che ancor oggi si dà il nome di vandalo a colui che distrugge per il piacere di distruggere. Dopo i Vandali, scesero in Italia gli Unni, comandati dal loro feroce re Attila. Ovunque Attila passava, portava la distruzione e la rovina. Fu chiamato per questo “flagello di dio”. Egli stesso diceva: “Dove posa lo zoccolo il mio cavallo non cresce più l’erba”. Attila si diresse verso Roma col proposito di distruggerla, ma mentre avanzava con le sue schiere, incontrò il papa Leone I (che doveva essere poi chiamato Leone Magno), andatogli incontro per tentare di fermarlo. Attila, che non aveva paura di nessuno, davanti a quel vecchio solenne che gli veniva incontro armato soltanto della croce, si intimorì e cadde in ginocchio davanti a lui. Dette poi ordine ai suoi soldati di abbandonare quel luogo e poco dopo lasciava l’Italia.
Fine dell’Impero romano d’Occidente Dopo gli Unni, calarono in Italia gli Eruli, comandati dal loro re Odoacre. Sul trono di Roma sedeva in quel tempo un fanciullo chiamato in senso dispregiativo Romolo Augustolo. Odoacre potè facilmente deporlo, mettendosi a governare in sua vece. Ciò accadeva nell’anno 476 dC e, dopo questa data, nessun altro imperatore romano venne eletto. Quest’epoca si ricorda quindi come la fine dell’Impero romano d’Occidente e Romolo Augustolo fu l’ultimo imperatore romano.
Comincia così la nuova epoca, detta Medioevo, che dal 476 dC arriva fino al 1492, anno della scoperta dell’America. Per dieci anni Odoacre governò indisturbato ma, nel frattempo, un altro popolo barbaro scendeva in Italia. Si trattava degli Ostrogoti con a capo Teodorico, che sconfisse Odoacre e governò l’Italia. Teodorico si era fermato a Verona che aveva eletto a sua capitale e nei primi anni del suo regno fu uomo giusto ed equilibrato, ma invecchiando divenne crudele e sospettoso tanto da mettere a morte anche i suoi più cari amici, tra cui il filosofo Boezio. Narra la leggenda che un giorno, mentre Teodorico prendeva un bagno nel fiume, apparve un cavallo nero e scalpitante. Teodorico gli salì in groppa e il cavallo lo portò a furibondo galoppo attraverso tutta l’Italia fino in Sicilia. Giunto sull’Etna (o secondo altra versione sul vulcano Lipari) il cavallo si impennò scaraventando il vecchio imperatore nel cratere fiammeggiante.
I Longobardi Sul trono di Oriente sedeva intanto Giustiniano, il quale riuscì a cacciare i Goti dall’Italia. Morto Giustiniano, i suoi successori non seppero mantenere il dominio sulla penisola che ricadde in preda ad altri barbari, i Longobardi, così chiamati per la loro lunga barba bionda e perchè armati di lunghe alabarde. Li conduceva il loro re Alboino, crudele e feroce che, come Teodorico, si stabilì a Verona. Alboino sposò Rosmunda, la figlia di un re nemico che egli stesso aveva ucciso. Durante un banchetto, questo re crudele e pazzo costrinse la sposa a bere nel cranio del padre ucciso. Per questo e per altri atti di crudeltà da lui compiuti, Alboino fu ucciso. I Longobardi furono i barbari che provocarono le maggiori rovine in Italia. Distrussero chiese, devastarono città, uccisero migliaia e migliaia di persone. I loro costumi feroci furono alquanto mitigati dalla regina Teodolinda, convertitasi al cattolicesimo, che aiutata dal papa di allora, Gregorio Magno, riuscì a convertire il suo popolo alla religione cattolica. La regina Teodolinda fondò belle chiese a Monza e a Pavia; nel duomo di Monza si conserva, ancor oggi, la Corona ferrea con la quale allora si incoronavano i re longobardi. Nella corona è racchiuso un chiodo che, secondo la tradizione, fu tolto dalla croce di Cristo. Dai Longobardi prese il nome la regione che oggi si chiama Lombardia.
Notizie da ricordare Le condizioni dell’impero romano, non più forte e agguerrito, permisero la calata in Italia di popoli che i Romani chiamarono Barbari. Scesero dapprima i Visigoti, comandati dal loro re Alarico. Seguirono i Vandali che seminarono il loro cammino di distruzioni e di stragi. Un altro popolo barbaro, gli Unni, con a capo il feroce re Attila, irruppe in Italia aumentando le rovine e le morti. Dopo gli Unni calarono gli Eruli, comandati da Odoacre che depose l’Imperatore romano che allora sedeva sul trono, un fanciullo chiamato per dispregio Romolo Augustolo, e si mise in sua vece a governare l’Italia. Finiva così l’Impero romano d’Occidente nel 476 dC. Da questa data ha inizio in Medioevo. Dopo dieci anni di regno, Odoacre fu scacciato da Teodorico, re degli Ostrogoti, barbari che nel frattempo erano calati in Italia. Se l’Impero romano d’Occidente non esisteva più, esisteva ancora, forte e potente, l’Impero romano d’Oriente e quando salì sul trono il grande imperatore Giustiniano fu ripresa la lotta contro i Barbari, che furono respinti. Morto Giustiniano, l’Italia tornò preda dei Barbari e precisamente dei Longobardi che si trattennero a lungo e soltanto dopo un periodo di distruzioni e di stragi, si convertirono al cattolicesimo per opera della loro regina Teodolinda.
Questionario Chi erano i Barbari? Come vestivano? Perchè fu loro possibile scendere in Italia? Chi furono i primi Barbari che conquistarono le terre dell’Impero? Chi era Attila? Da chi fu fermato? Chi era Odoacre? Chi stava sul trono di Roma in quell’epoca? Perchè si dice che nel 476 dC finì l’Impero romano d’Occidente? Chi era Teodorico? Quale leggenda si racconta sulla sua morte? Chi era Alboino? Che cosa comandò a Rosmunda? Per opera di chi, in seguito, i Longobardi mitigarono i loro costumi? Quali popoli erano chiamati barbari dai Romani? Quali furono le principali cause della rovina dell’Impero? Seppero i Romani opporre una valida resistenza quando i popoli barbari si affacciarono minacciosi ai confini dell’Impero? A quale stirpe appartenevano quasi tutti i barbari? Quali erano gli usi e i costumi dei Germani? Quale popolo barbaro assalì per primo l’Italia? Da chi era guidato? Dove fu sepolto Alarico? Chi erano gli Unni? Quando vennero in Italia? Comandati da chi? Da chi fu fermato Attila? Quando e da chi venne fondata Venezia?
La leggenda di Teodorico Sul castello di Verona batte il sole a mezzogiorno dalla Chiusa al pian ritorna solitario un suon di corno, mormorando per l’aprico verde il grande Adige va; ed il re Teodorico vecchio e triste al bagno sta. Il gridar d’un damigello risuonò fuor della chiostra: “Sire, un cervo mai sì bello non si vide all’età nostra. Egli ha i piè d’acciaio e smalto, ha le corna tutte d’or.” Fuor dall’acque diede un salto il vegliardo cacciator. “I miei cani, il mio morello, il mio spiedo” egli chiedeva; e il lenzuol, quasi un mantello, alle membra si avvolgeva. I donzelli ivano. Intanto il bel cervo disparì, e d’un tratto al re d’accanto un corsier nero nitrì. Nero come un corbo vecchio, e negli occhi avea carboni. Era pronto l’apparecchio, ed il re balzò in arcioni. Ma i suoi veltri ebber timore e si misero a guair, e guardarono il signore e no’l vollero seguir. In quel mezzo il caval nero spiccò via come uno strale, e lontan d’ogni sentiero ora scende e ora sale: via e via e via e via, valli e monti esso varcò. Il re scendere vorria ma staccar non se ne può. Il più vecchio ed il più fido lo seguia de’ suoi scudieri, e mettea d’angoscia un grido per gl’incogniti sentieri: “O gentil re degli Amali, ti seguii nei tuoi be’ dì, ti seguii tra lance e strali ma non corsi mai così. “Teodorico di Verona, dove vai tanto di fretta? Tornerem, sacra corona, alla casa che ci aspetta?” “Mala bestia è questa mia, mal cavallo mi toccò: sol la vergine Maria sa quand’io ritornerò”. Altre cure su nel cielo ha la vergine Maria: sotto il grande azzurro velo ella i martiri covria. Ella i martiri accoglieva della patria e della fè; e terribile scendeva Dio sul capo al goto re. Via e via su balzi e grotte va il cavallo al fren ribelle; ei s’immerge nella notte, ei s’aderge in ver’ le stelle. Ecco il dorso d’Appennino tra le tenebre scompar; e nel pallido mattino mugghia a basso il tosco mar. Ecco Lipari, la reggia di Vulcano ardua che fuma e tra bombiti lampeggia dell’ardor che la consuma: quivi giunto il caval nero contro il ciel forte springò annitrendo; e il cavaliero nel cratere inabissò. Ma dal calabro confine che mai sorge in vetta al monte? Non è il sole, è un bianco crine; non è il sole, è un’ampia fronte sanguinosa, in un sorriso di martirio e di splendor: di Boezio è il santo viso del romano senator. (G. Carducci)
Il paese, la casa, la vita dei Germani I Barbari erano quasi tutti di stirpe germanica. L’antica Germania era un paese in massima parte coperto da boschi e paludi, freddo e rattristato da nebbie, ma nondimeno abbastanza fertile, ricco di messi e di greggi e di magnifici pascoli, e popolato di selvaggina.
Invece di città esistevano soltanto alcuni villaggi, formati da gruppi di dodici o venti capanne al più, disposte senza alcun ordine, e circondate ciascuna dalla corte e da un tratto di terreno. Le capanne erano di legno, coperte di paglia e di giunco, addossate talvolta ad un albero gigantesco. Nell’atrio, in fondo, stava il focolare, sul quale raramente si estingueva il fuoco.
I Germani, dalla grande statura, dalla chioma bionda, dagli occhi fieri e azzurri, amavano in special modo la caccia e la guerra. Quando la guerra non c’era, passavano il più del tempo in ozio, dediti al sonno e al mangiare; i più forti, i più bellicosi, standosene inerti, lasciavano alle donne , ai vecchi, ai più deboli della famiglia il governo della casa e dei campi. Non trattavano nulla se non armati, e armati intervenivano ai banchetti. Usavano cibi frugali, ma non erano nel bere altrettanto temperanti; e avevano una tale passione per il gioco dei dai che, dopo aver perduto ogni bene, mettevano come posta la moglie, i figli e la propria libertà. Il vinto andava in schiavitù volontaria; e quand’anche più giovane e robusto del vincitore, si lasciava legare e vendere. Scarsi erano gli ornamenti del corpo e della casa. L’abito più importante, e comune a tutti, consisteva in una specie di mantello corto, fermato con una fibbia, o in mancanza di questa con una spina; nel resto erano ignudi. Indossavano anche pelli di animali, e i più ricchi si distinguevano per una sottoveste strettamente aderente alle membra. Le donne si vestivano come gli uomini; soltanto che spesso si coprivano di tessuti di lino di color rosso; e il loro vestito semplice e senza maniche, lasciava scoperte le braccia e la parte superiore del petto. Tutti i liberi, uomini e donne, portavano come segno onorifico del loro stato libero i capelli lunghi ondeggianti, i quali venivano tagliati a chi passava in servitù. Pochi attrezzi bastavano per gli usi domestici: il semplice mulino a mano per il grano, alcuni vasi d’argento, di bronzo martellato, d’argilla, qualche bicchiere di vetro; strumenti di lavoro erano l’ascia, la mazza, il cuneo, lo scalpello, la falce di bronzo. L’ospite non invitato, anche se sconosciuto, aveva ugualmente un’accoglienza gentile; i conviti erano rallegrati dall’unico genere di spettacoli che i German conoscessero, quello di giovani nudi che si slanciavano, con un salto, tra spade e lance minacciose.
La donna era molto rispettata perchè si credeva che in essa vi fosse qualcosa di santo; i servi erano trattati umanamente. Ogni casa aveva il suo cane fedele, che seguiva dovunque il padrone e, caduti gli uomini e perfino le donne, era l’ultimo a difendere la barricata dei carri che in guerra opponevano al nemico. (Trabalza e Zucchetti)
I Germani e i loro costumi
Lungo i confini premevano minacciosi, incalzati dagli Slavi e da altri popoli ferocissimi si razza asiatica (Mongoli), i Germani. Li imperatori, impotenti a contenere la marea barbarica, erano venuti più volte a patti con essa, concedendo ad alcuni popoli di stanziarsi nelle province di confine, purché prestassero servizio militare. L’esercito era costituito in massima parte da barbari: barbari erano perfino i generali. I Germani, distinti in Teutoni, Alani, Vandali, ecc… abitavano l’Europa centrale ed orientale fino al Mar Nero. Praticavano in modo primitivo l’agricoltura, abitavano miseri villaggi e la terra intorno a questi era proprietà comune. Solo in caso di guerra e di migrazioni di uomini liberi, i membri dell’esercito e dell’assemblea eleggevano un re (Konig). Questi conduceva l’esercito in battaglia, distribuiva le terre conquistate, divideva la preda. Passato il pericolo, cessava generalmente il suo potere.
Non avevano leggi: chi riceveva un’offesa, si faceva giustizia da sé, o i familiari della vittima si prendevano vendetta dell’offensore. Faida era detta la vendetta privata, ed era un debito d’onore: così gli odi e i delitti si perpetuavano di generazione in generazione tra famiglie rivali. Quando mancavano le prove della colpevolezza di un accusato, si ricorreva al giudizio di dio (ordalia), cioè a determinate prove, che potevano essere il duello, il fuoco o altro, ritenendo essi che dio aiutasse l’innocente a superarle. La loro religione ricorda un poco l’antica religione greca: adoravano cioè i fenomeni naturali personificati. Il dio supremo era Wotan o Odino, re dell’aria e delle tempeste, al quale sacrificavano anche vittime umane. Non avevano templi, ma consacravano agli dei selve e foreste. Da questi cenni vediamo che profonda diversità c’era tra i Romani e i barbari, quando questi irruppero nelle province dell’Occidente. Essi si trovavano ancora ad uno stadio primitivo di civiltà, da cui i Romani erano usciti da secoli. Si narra che i barbari erano comparsi in Italia fin da un secolo prima di Cristo, scivolando sui loro scudi per le chine ghiacciate delle Alpi, e che da allora molte altre volte avevano varcato i confini italici; e sempre erano stati dalle legioni romane ricacciati nelle loro foreste. Ma poi, spinti alle spalle da altri popoli barbari, irruppero da ogni parte e non fu più possibile fermarli.
Ancora sugli usi e costumi dei Germani
I barbari erano quasi tutti di stirpe germanica. Presso i popoli germanici era una vergogna, per il capo, essere superato in valore, durante la battaglia, e un disonore, per i guerrieri, non essere pari, in coraggio, al comandante. Ma la vergogna ancora maggiore, che durava tutta la vita, era tornare dalla battaglia lasciandovi morto il proprio capo. La maggior parte dei giovani germanici di nobile stirpe preferiva una vita travagliata dalla guerra ad una vita di ozio nella pace; perciò essi si trasferivano spontaneamente presso i popoli che, in quel momento, erano in guerra. I Germani amavano combattere piuttosto che arare i campi ed aspettare il succedersi delle stagioni per ottenere il raccolto. Per loro era segno di pigrizia e di viltà acquistare col sudore ciò che si poteva guadagnare col sangue, predando e saccheggiando. Ogni volta che i Germani non erano in guerra impiegavano il loro tempo nell’andare a caccia, ma più che altro nel non far nulla, limitandosi a mangiare e a dormire. Le donne, i vecchi e i più deboli della famiglia, intanto, avevano cura della casa e dei campi. Appena i giovani germanici si destavano dal sonno, che assai spesso si prolungava fino ad una tarda ora del mattino, si lavavano quasi sempre con acqua calda, come era in uso presso i popoli dove la stagione invernale era molto lunga. Dopo essersi lavati si mettevano a mangiare: ciascuno aveva il suo seggio e ciascuno la sua tavola. Poi si armavano e ne andavano a trattare i loro affari o, come avveniva assai spesso, a banchettare. Passare il giorno e la notte a bere non era una vergogna per nessuno… (riduzione ed adattamento da Tacito)
Quando una popolazione germanica abbandonava le proprie sedi per cercarne delle nuove, caricava sui carri le donne, i fanciulli, tutti i suoi averi e perfino alcune parti delle sue capanne. Esse, infatti, erano costruite su tronchi d’albero smontabili e con canne ricoperte di fango. I Germani non avevano moneta: scambiavano le varie merci con il bestiame tra cui, probabilmente, il vitello di un anno costituiva l’unità principale di valore. Le terre erano proprietà di tutti e venivano distribuite ai singoli componenti di una tribù, ogni anno. L’avversione al lavoro da parte dell’uomo cacciatore e guerriero faceva ricadere il peso della famiglia sulle spalle della donna, la quale però, godeva di grande autorità. Ella seguiva il marito ovunque, anche in battaglia. (riduzione e adattamento da Angeloni Zolla)
Gli Unni Sono più barbari della stessa barbarie. Non conoscono nessun condimento al cibo, nè usano fuoco a cuocerlo. Mangiano cruda la carne, dopo averla tenuta qualche tempo fra le loro gambe o il dorso dei cavalli che cavalcano. Piccoli di statura, agili di membra e robusti, sempre a cavallo, la loro faccia, più che a viso umano, somiglia a un pezzo informe di carne, con due punti neri e scintillanti invece di occhi. Hanno pochissima barba perchè usano tagliere col ferro il viso dei loro bimbi, affinché imparino prima a sopportare le ferite che a gustare il latte materno. Adorano per loro dio una spada conficcata al suolo e sotto forme umane vivono come animali. (Giordano)
La luce di Roma Il sole tramontava dietro la collina. Alla luce di quel tramonto infuocato, rosseggiavano i marmi come insanguinati e gli archi rotti, avvolti dall’edera, si levavano nel cielo sereno. Tutto era rovina e silenzio. I barbari erano passati sulle pietre di Roma coi loro piedi di sterminatori. Le case erano diroccate, i monumenti abbattuti e, sui ruderi, il rovo lanciava impetuoso i suoi rami spinosi in mezzo ai quali strisciavano le vipere. Ma non ancora sazi di preda, i barbari si aggiravano fra quelle rovine alla ricerca di tesori nascosti, di vasi, di statue da fondere in rivoli d’oro e d’argento. Grandi, nerboruti, villosi, sembravano più bestie che uomini. Frugavano fra i massi con le loro grosse mani, ma non trovavano nulla perchè a Roma più nulla di prezioso era rimasto. A un certo punto una grossa pietra sbarrò il cammino a quei barbari. Era collocata davanti a un antro di cui chiudeva il passaggio. Un barbaro la prese e la scosse violentemente. La pietra crollò lasciando un’oscura apertura. Nel fondo si vide brillare una tenue luce. I barbari trasalirono. Un segno di vita? Si volsero al sole che tramontava per vedere se fosse uno dei suoi raggi a riflettersi là in fondo. Ma i raggi avevano tutt’altra direzione. Allora quegli uomini, cautamente, entrarono nell’antro. E videro. Sopra una pietra nuda giaceva un giovane guerriero romano morto. Tutto cinto di armi, aveva il petto scoperto e sopra, una gran ferita dove il sangue si era ormai raggrumato. Una lapide portava scritto il suo nome, Pallante, e sulla sua tomba brillava una torcia accesa. Rise, un barbaro, del suo timore, e afferrata la torcia la portò fuori della grotta. La luce brillò alta, nell’oscurità della notte ormai sopraggiunta. Il vento violento che si era levato piegò la fiaccola, ma non la spense. Allora il barbaro, ostinato, vi soffiò sopra il suo alito greve. La fiamma ondeggiò, ma poi si levò più vivida e bella. “Muori dunque nel fango!” gridò il barbaro inferocito, e immerse la fiaccola in una pozza melmosa. La fiamma stridette come un ferro infuocato che si affonda nell’acqua, ma quando il barbaro sollevò la torcia, questa arse ancora vivida e bella. I barbari, al prodigio, impallidirono sotto le barbe irsute e la fiaccola tremò nelle mani di chi invano aveva tentato di spegnerla. Lento, questi tornò nell’antro e pose di nuovo la fiaccola sul capo del giovinetto eroe. Poi indietreggiò, sgomento, e con la pietra chiuse di nuovo il sepolcro. La luce di Roma brillò ancora nell’oscurità e si levò alta e splendente. Una luce che nonostante le tenebre della barbarie, non sarebbe mai tramontata. (M. Menicucci)
Abitudini barbare
I barbari amavano sopra ogni cosa il loro cavallo. Si può dire che essi vivessero sempre a cavallo. Non solo viaggiavano a cavallo. Non solo combattevano a cavallo. A cavallo dormivano; a cavallo mangiavano. La loro cucina si trovava addirittura sotto la sella del cavallo! Ecco in che cosa consisteva quella cucina. Quando un barbaro uccideva qualche animale, tagliava un pezzo della sua carne e la metteva sotto la sella. Galoppa, galoppa, galoppa, la carne, a forza di colpi, anche se era dura, diventava morbida. Con l’attrito della sella si riscaldava e, come si dice, si frollava. Arrivata la sera, il barbaro scendeva da cavallo, alzava la sella e trovava il pezzo di carne ridotto in una specie di polpetta. Non c’era bisogno neppure di metterlo sul fuoco e l’addentava di buon appetito. Per ornamento il barbaro sceglieva di preferenza corna di animali uccisi nella caccia e code o criniere di cavallo.
Forme di giustizia dei barbari
L’accusato di un delitto era calato nell’acqua legato a una fune. Se rimaneva a galla, era colpevole, se andava a fondo e, tirato su con la corda, ancora respirava, era innocente. Oppure si ricorreva alla prova dell’acqua calda: chi vi immergeva la mano senza scottarsi era innocente. Assai più pericolose erano altre prove: prendere in mano, ad esempio, un ferro rovente senza bruciarsi le dita o camminare sui ferri arroventati. Le cose andavano meglio se l’accusato era invece invitato a denudarsi, ad avvicinarsi alla barella sulla quale era stato esposto il cadavere dell’ucciso, dopo di che giurava che era innocente e toccava il morto. Se le ferite della vittima non riprendevano a sanguinare, era salvo: l’accusa era da ritenersi infondata. La distinzione delle pene viene fatta in conformità al delitto. I traditori e i disertori vengono impiccati. Gli ignavi e i codardi… vengono immersi nella melma di una palude, gettando sopra ai medesimi dei graticci… Ma anche per i delitti più lievi la pena è proporzionata alla colpa: difatti i rei convitti vengono multati di un certo numero di cavalli o di capi di bestiame. Una parte della multa tocca al re o alla città; una parte all’offeso o, se questo fosse morto, ai suoi parenti. D’altra parte non è concesso infliggere la pena di morte, né incarcerare, e neppure battere se non ai sacerdoti, ma non come pena o per comando di un capo, ma come per comando di un dio… Il silenzio nelle assemblee viene imposto dai sacerdoti, i quali hanno anche il potere di ricorrere a punizioni coercitive.
Giulio Cesare così descrisse i barbari
Cesare nel De bello Gallico prima, e Tacito in Germania un secolo e mezzo dopo, ne descrissero i costumi e il carattere. I Germani abitano fra il Reno e il Danubio, hanno gli occhi truci e cerulei, capelli rosseggianti, corpi grandi e validi solamente per l’assalto, sono abituati al freddo e alla fame, abituati a non portare che piccole pelli, e a non avere alcun vestito. Tutta la loro vita consiste nella caccia e negli esercizi bellici; fin da piccoli si induriscono nel lavoro e nelle fatiche… Non curano molto l’agricoltura e la maggior part del loro vitto consiste nel latte, nel cacio, nella carne, nei frutti selvatici…
L’erba folta
Alarico si avanza alla testa dei suoi Visigoti, e sembra spinto non dalla sua volontà, ma da una forza invisibile. Un monaco si getta sul suo cammino e tenta di fermarlo. Ma Alarico gli dice che il fermarsi non è in suo potere perchè una forza misteriosa lo spinge a distruggere Roma. Tre volte accerchia al Città Eterna e tre volte indietreggia. Vengono ambasciatori, per indurlo a levare l’assalto, gli dicono che dovrà combattere contro una moltitudine tre volte più numerosa dei suoi eserciti. “Sia pure!” risponde quel mietitore di uomini, “Quanto più folta è, tanto meglio l’erba si taglia!”.
La terribile notte del 24 agosto del 410
La notte del 24 agosto, forzata la Porta Salaria, le orde visigote irruppero in città dando fuoco alle prime case. L’incendio divampò dilagando e tutto distruggendo: ville, palazzi, monumenti di insigne bellezza. E non un Romano che ardisse difendere la sua città! Roma, la città che un giorno ebbe il popolo più valoroso del mondo, crolla così sommersa dalla viltà. E se spettacolo orrendo fu il vedere le fiamme divorare la meravigliosa città, se spettacolo terribile fu vedere i barbari girare urlando per le vie o irrompere nei palazzi, certo spettacolo ben più miserando fu vedere i Romani sperduti nel terrore della loro vergognosa ignavia.
I Visigoti incendiano Roma
Alarico e le sue orde entrarono nella città al suono delle trombe e al canto delle loro arie nazionali. Appena entrati dettero fuoco alle prime case. Svegliati di soprassalto dal tumulto, gli abitanti compresero subito di essere in mano al nemico, e il crescente chiarore fece intendere che gli incendi divampavano. Però si narra che al momento di passare la Porta Salaria Alarico fosse preso da un segreto terrore: quella che egli si accingeva a saccheggiare era anche una città considerata santa, così ordinò che fossero rispettate le basiliche di San Pietro e San Palo. Le fiamme, aiutate dal vento, divoravano tutto, e quel che sfuggiva al fuoco cadeva sotto lo scempio dei Visigoti che, avidi di denaro, tramutavano tutti i palazzi dei ricchi in teatri di tragedie. Una vedova di nobili natali che abitava nel suo palazzo, ma che nulla possedeva perchè tutto aveva dato ai poveri, non potendo accondiscendere alle richieste di denaro, fu talmente percossa che ne morì. Questo martirio di Roma durò tre giorni e tre notti; poi Alarico diede il segnale di partenza. Ma nulla o quasi rimase dietro di lui. Alarico passò oltre, diretto in Sicilia: ma morì lungo il cammino e venne sepolto, armato a cavallo, nel letto del fiume Busento. La mancata resistenza da parte degli italiani fu dovuta al fatto che essi, da qualche secolo, erano stati esentati dal servizio militare. L’Italia, quindi, mancava di una solida gioventù guerriera che difendesse le sue città proprio mentre i barbari irrompevano dalle frontiere.
Gli occhi per piangere
Dopo tre giorni di incursioni, Alarico promette ai Romani superstiti di abbandonare la loro città purché gli vengano portate tutte le ricchezze e tutti gli schiavi barbari della città. Gli chiedono allora i Romani: “Che di resterà dunque?”. E Alarico risponde: “Gli occhi per piangere”. Così dovettero portargli cinquemila libbre d’oro e trentamila d’argento oltre a panni di seta, pellicce e spezie. I Romani dovettero persino fondere la statua d’oro del Coraggio che essi chiamavano Virtù Guerriera.
Onorio aveva una gallina..
Quando per il mondo si sparse la terribile notizia che Roma era caduta nelle mani dei Visigoti i quali l’avevano messa a ferro e fuoco, lo sgomento dilagò ovunque. Solo l’imbelle imperatore Onorio non si turbò, anzi pareva non essersene neppure accorto, tutto intento com’era al suo allevamento di pollame nei pressi di Ravenna. E si dice che a un suo cortigiano che gli diceva che Roma era perita rispondesse: “Non è possibile! L’ho vista poco fa!”. E alludeva a una sua gallina a cui aveva dato il nome di Roma.
Più barbari dei barbari
E’ durante la seconda metà del IV secolo che gli Unni si affacciano alle grandi pianure orientali dell’Europa, e subito spargono il terrore attorno a sé, più barbari degli stessi barbari di cui invadono le terre. Robustissimi, dalla testa piccola, bruna e piantata sul collo corto e tozzo, di lineamenti orientali, già nell’aspetto incutevano spavento. Indossavano rozze brache di pelle di capra, su cui portavano una sorta di tunica; sul capo, quando non avevano gli elmi di battaglia di aspetto terrificante, tenevano una berretta aderente. Scrive Ammiano Marcellino che erano tutti di smisurata ferocia. E per dare un esempio dei loro truci costumi, riferisce che erano soliti ricoprire di profonde ferite le guance dei loro figli per impedire che, nell’età adulta, vi crescesse la barba. Mangiavano carne cruda e radici, perchè ignoravano ogni cottura e ogni condimento; tutt’al più, per frollarla, tenevano le carne tra le cosce e il pelo del cavallo mentre cavalcavano, sì che il sudore dell’uomo e dell’animale quasi la cuocesse. Ignoravano la casa, anzi quando la conobbero la odiarono con folle e superstizioso terrore: la loro dimora era costituita dai carri, anche quando si stanziavano per lunghissimi periodi o per generazioni intere in territori invasi. In guerra erano quasi sempre vincitori, malgrado avessero scarsa attrezzatura bellica; si può dire infatti che la loro unica arma fosse una specie di dardo dall’acuminata punta di osso, ma se ne sapevano servire con un’abilità insuperabile e sapevano spargere il terrore fra i nemici e sgominarne le file anche se meglio attrezzate perchè erano impetuosi e spericolati, e perchè emettevano grida gutturali dal suono spaventoso. Inoltre maneggiavano con abilità quasi da prestigiatori certe funi lunghissime e terminanti a cappio con le quali afferravano e scavalcavano i nemici con infallibile precisione. Questo era il popolo che per secoli e secoli si spostò fra le terre di Tartaria, da cui aveva origine, finché non trovò in Attila un grande capo, che aveva anche l’aperta visione del capitano. Meno selvaggio dei suoi sudditi, di intelligenza acutissima, aveva anche la qualità fino allora ignota fra i suoi delle fedeltà alla parola data. Era il condottiero che poteva dominarli, frenarli e portarli verso le pingui pianure d’Europa, dopo secoli di stenti fra i deserti mongolici. (C. Bini)
Attila
La carriera di questo re asiatico, che per vent’anni fu il terrore di tutta l’Europa, non cominciò bene: egli uccise il fratello con il quale avrebbe dovuto regnare sul popolo degli Unni e si dispose a governare da solo a suo piacimento. Era l’anno 444 dC e Attila, definitosi “flagello di dio”, stabilì il suo piano di conquista, forte di un grande esercito di feroci cavalieri avidi di sangue e di prede. I due imperatori di quel tempo, l’imperatore d’Oriente Teodosio e l’imperatore d’Occidente Valentiniano III, si disposero ad arginare l’invasione barbarica. Ma le orde dei cavalieri di Attila, dalle gialle facce barbute solcate di cicatrici, armati di lance e di mazze ferrate, si precipitarono sui campi fecondi e sulle città, spargendo il terrore e la morte. Dopo aver invaso la Gallia, Attila si gettò con particolare furore contro una terra ricca e allettante: l’Italia. Per prima investì Aquileia. Gli abitanti fuggirono terrorizzati su zattere e barche e si rifugiarono nei meandri della laguna veneta, e sugli isolotti e sulle isole costruirono capanne di frasche e di legno. Con il volger del tempo quelle capanne divennero palazzi e, a poco a poco, formarono la città di Venezia. Ma la meta di Attila era Roma; egli marciò fino al Mincio e… qui avvenne secondo la leggenda il miracolo: Attila incontrò il papa Leone I, il quale si era mosso da Roma, sereno e fiducioso, per esortare il “flagello di dio” a risparmiare la città di Pietro e a lasciare l’Italia. E così cadde la furia distruttrice di Attila. Il guerriero che non conosceva perdono fece levare il campo, e dopo pochi giorni, ripassò le Alpi con il suo esercito. Questa leggenda misteriosa nella sua semplicità, ha ispirato molti artisti che la hanno immortalata su tela e nel marmo: tra queste opere è celebre l’affresco di Raffaello in Vaticano.
La leggenda di Attila e Leone I
Un’immensa folla di cavalieri, accompagnata da carri, seguiva il re degli Unni. All’inizio dell’invasione di Attila, il papa Leone I aveva ordinato pubbliche preghiere in tutte le chiese, per implorare la protezione del Cielo contro l “flagello di dio”. Poi mosse incontro al re barbaro, seguito da molti fedeli. Al grido delle sue sentinelle che avevano avvistato la folla in cammino, Attila ebbe un fremito di gioia, pensando che l’esercito romano si avvicinasse al Mincio, presso cui egli era accampato, e diede ordine di prepararsi al combattimento. Ma poco dopo tornò da lui un ufficiale esploratore, sconvolto, descrivendo quello strano corteo di prelati, religiosi e di uomini disarmati che cantavano. Il loro capo, disse, era un vecchio dalla lunga barba bianca, tutto vestito di bianco, e montato sopra un cavallo bianco. Attila fece fermare l’esercito, galoppò verso il Mincio, spinse il cavallo in acqua e gridò, con violenza, rivolto al pontefice: “Qual è il tuo nome?” “Leone” rispose una voce e tutta la folla cessò di cantare. Attila attraversò il fiume e pose piede sull’altra riva: dal gruppo dei prelati si staccò il papa e venne davanti all’Unno. Nessuno saprà mai che cosa si dissero, ma improvvisamente si vide Attila scostarsi dal vecchio, attraversare il fiume e dare ordini agli ufficiali. L’esercito volse le spalle, risalì verso nord e scomparve. (M. Brion)
I Vandali
Quando gli Unni lasciarono l’Italia, apparvero i Vandali. Attraverso la Gallia, erano passati in Spagna e in Africa, dove avevano costruito un grande regno. Il loro re, Genserico, li condusse dall’Africa in Italia con una grande flotta. Essi occuparono Roma e, dopo un feroce saccheggio, la incendiarono (455). Poi tornarono in Africa con un immenso bottino. Le loro azioni furono tanto malvagie che ancora oggi si chiama “vandalo” colui che rovina e distrugge senza ragione.
La fuga da Aquileia “Su, Marco! Presto, Valeria! Dobbiamo andare, fuggire!” Valeria si mosse, stringendo al cuore la sua bambola, che non avrebbe abbandonato per nessuna ragione. Marco invece volle caricarsi, come tutti, di bagagli e la mamma gli affidò un sacchetto di provviste e un involto di indumenti. Al ragazzo quella fuga sembrava una bella avventura e non capiva perchè tutti avessero quell’aria preoccupata e ansiosa. Ben sapevano invece gli adulti perchè si dovesse fuggire: arrivavano i barbari! I vecchi ricordavano un’altra invasione, quella dei Gori, ma questi dovevano essere ben peggiori. Si sapeva che rubavano, distruggevano, uccidevano; erano Unni e il loro capo era un vero demonio. Si chiamava Attila, ma si faceva chiamare “Flagello di Dio” e la gente di Aquileia se lo immaginava come un demonio con gli occhi fiammeggianti. La città di Aquileia era troppo bella e importante perchè Attila la dimenticasse, perciò, tutti fuggivano con carri, cavalli, servi, cercando di porre in salvo i loro tesori. “Che il Signore ci aiuti!”disse la mamma di Marco e di Valeria, prima di uscire di casa. S’avviarono poi di buon passo per raggiungere il padre, che li aspettava più avanti. Le strade rigurgitavano di gente; molte donne piangevano. La mamma di Marco camminava col cuore stretto, guardando ancora una volta la città dov’era nata e vissuta: le case, le piazze, i colonnati, ma soprattutto la bella basilica cristiana. Anche Marco e Valeria vi entravano sempre volentieri; il pavimento a mosaico era la loro gioia e, tra una preghiera e l’altra, guardavano incantati le belle figure: c’era il buon Pastore con le sue pecorelle, v’erano uccelli, pesci, colombe, uva e spighe. Che peccato dover abbandonare tutto! Chissà quando sarebbero tornati ad Aquileia, la città ricca, piena di vita e movimento. “Ma dove andiamo?” chiese più volte Marco quando da un pezzo ormai stavano viaggiando. “Soltanto l’acqua ci può difendere,” spiegò il babbo: “Bisogna mettersi al sicuro sulle isole della laguna, perchè là gli Unni non potranno arrivare”. Marco e Valeria avevano sonno, erano stanchi, ma non ci si poteva fermare. Finalmente giunsero in vista delle isole della laguna, e riuscirono a raggiungerne una. Che povera isola! Non c’era che qualche capanna di pescatori e acqua, acqua dovunque volgessero lo sguardo. Eppure i fuggiaschi ringraziarono Dio e si inginocchiarono a baciare quella terra, che rappresentava la loro salvezza. Il padre di Marco levò le mani al cielo e pregò così: “O Signore, salva la città di Aquileia! Proteggila e difendila! Ma se non potessimo più farvi ritorno, concedici di trovare qui un asilo sicuro!” “Amen!” dissero gli altri in coro, compresi Marco e Valeria. Nessuno in quel momento sapeva che da quelle parole nasceva la città di Venezia. (G. Ajmone)
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PRIMA GUERRA MONDIALE e il 4 novembre materiale didattico di autori vari, per bambini della scuola primaria.
Il quattro novembre Con questa data l’Italia vuole ricordare la vittoriosa fine della guerra 1915-18 e, insieme, celebrare l’unità della Nazione e la giornata delle Forze Armate. L’Italia è una nazione libera, democratica, civile, che non ha alcuna intenzione di offendere, ma che non vuole essere offesa, che vuol salvaguardare la pace, senza abdicare alla sua dignità, che vuole l’unità europea, ma non per questo dimentica le sue tradizioni, le sue glorie, i suoi Morti, i suoi grandi uomini. Tutto questo costituisce un patrimonio spirituale che non va messo in disparte, ma ricordato e valorizzato senza falsa retorica, senza esagerazioni, ma con giusto orgoglio, per ciò che l’Italia ha fatto nel passato e per ciò che si propone di fare nell’avvenire.
4 novembre 1918 Questa data segnò la fine di una lunga guerra, che aveva insanguinato tutta l’Europa. L’Italia vi aveva partecipato per liberare le province di Trento e di Trieste, per ristabilire, quindi i suoi confini là dove la natura li aveva segnati con una corona di monti superbi. Seicentomila soldati italiani morirono e alla loro memoria ogni comune dedicò un monumento o una lapide che ne reca incisi i nomi. Oggi, ragazzi, onoriamo quei Caduti, visitiamo quei monumenti, leggiamo quei nomi. Sono stati scritti perchè voi serbiate la memoria di chi è morto per darvi una Patria più grande e più gloriosa; tutta unita entro le linee che le Alpi scintillanti di ghiacci e i mari azzurri d’acque profonde hanno tracciato per lei. Dopo quella guerra vittoriosa, altre guerre sono venute per la nostra Patria: innumerevoli sono stati i morti e i dispersi, le case distrutte, i campi devastati, le famiglie sterminate. Per tutte le vittime, per tutti gli eroi, oggi il nostro ricordo e il nostro amore sono vivi e profondi.
Quattro novembre Nel secondo decennio del novecento, l’Italia era una giovane nazione che non aveva ancora completato la sua unità. Trento e Trieste erano ancora fuori dai nostri confini. L’Europa era devastata da una grande guerra. Per frenare l’imperialismo dell’Impero austriaco e di quello tedesco, e per liberare le terre italiane d’oltre confine, l’Italia scese in guerra!
Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il ventiquattro maggio: l’esercito marciava per raggiunger la frontiera, per far contro il nemico una barriera… Muti passaron quella notte i fanti: tacere bisognava andare avanti! S’udiva, intanto, dalle amate sponde sommesso e lieve il mormorio dell’onde. Era un presagio dolce e lusinghiero. Il Piave mormorò: “Non passa lo straniero!”.
La guerra fu dura, lunga e atroce. I soldati di batterono sulle colline pietrose, sui monti impervi, contro fortificazioni nemiche, che erano giudicate imprendibili… Quando dalle trincee di prima linea si segnalava l’ora dell’assalto, erano momenti terribili…
“Pronti? Alzo sette… Fuoco! Fuoco di batteria!”
Ma quando tutte le bocche dei cannoni cantarono, all’ora fissata, per completare la strage, l’ansia strinse ogni gola, e ognuno sentò tonfare dentro il suo cranio come sopra a un timpano spaventoso il rombo.
Traballava la terra come una casa di legno; il cielo parve incrinarsi ogni tanto come cristallo; Pareva si dovesse spezzare e precipitare, a schegge celesti ogni tanto tra gli schianti e gli strepiti.
E sulla prima linea nessuno fiatava sentendo sul cuore ognuno battere, come gocce di sangue, i minuti terribili che misurano il tempo vicino all’assalto.
“All’assalto! All’assalto!”
Molti furono i morti e i feriti, molte le battaglie, molte le vittorie. I soldati italiani conobbero ogni sacrificio, ogni gloria. E quando la sciagura d’una sconfitta minacciò l’esistenza stessa della Patria, diventarono tutti eroi.
E ritornò il nemico per l’orgoglio e per la fame: volea sfogare tutte le sue brame. Vedeva il picco aprico di lassù: voleva ancora sfamarsi e tripudiare come allora… “No” disse il Piave. “No” dissero i fanti “Mai più il nemico faccia un passo avanti!”. Si vide il Piave rigonfiar le sponde! E come i fanti combattevan l’onde… Rosso del sangue del nemico altero, il Piave comandò: “Indietro va’, straniero!”
E venne infine, dopo quattro anni, il giorno della vittoria…
(Dal Bollettino della vittoria) La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto la guida di Sua Maestà il Re, duce supremo, l’esercito italiano, inferiore per numero e mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrottamente e asprissima, per quarantun mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre e alla quale prendevano parte 51 divisioni italiane, 3 britanniche, 2 francesi, 1 cecoslovacca e un reggimento americano contro 63 divisioni austro-ungariche, è finita. La fulminea arditissima avanzata su Trento del XXXIX Corpo della I Armata, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte a Occidente dalle truppe della VII, della X Armata e delle Divisioni di Cavalleria ricaccia sempre indietro il nemico fuggente. Nella pianura, Il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III Armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già gloriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L’esercito austro-ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni di lotta e nell’inseguimento; ha perduto quantità ingentissime di materiali di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e depositi: ha lasciato finora nelle nostre mani 300.000 prigionieri con interi Stati Maggiori e non meno di 5.000 cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. $ novembre 1918 . ore 12)
Per il lavoro di ricerca Perchè commemoriamo il 4 novembre? Quando iniziò e quando terminò la grande guerra? Che cos’è la Patria? Perchè molti eroi sono caduti per la Patria? Sai raccontare un atto eroico compiuto da qualche soldato valoroso? Conosci qualche leggenda patriottica? Chi è il Milite Ignoto? Conosci qualche canzone sull’eroismo e sulla resistenza dei fanti d’Italia?
I giovani soldati morti I giovani soldati morti non parlano. Ma nondimeno si odono nelle tranquille case: chi non li ha uditi? Essi posseggono un silenzio che parla per loro di notte e quando la sveglia batte le ore. Dicono: fummo giovani. Siamo morti. Ricordateci. Dicono: le nostre morti non sono nostre; sono vostre; avranno il valore che voi darete loro. Dicono: se le nostre vite e le nostre morti furono per la pace e una nuova speranza o per nulla non possiamo dire; sarete voi a doverlo dire. Dicono: noi vi lasciamo le nostre morti. Date loro il significato che si meritano. Fummo giovani, dicono. Siamo morti. Ricordateci. (Archibald Mac Leish)
La prima guerra mondiale La prima guerra mondiale iniziò il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, dopo l’attentato che aveva ucciso l’arciduca ereditario austriaco Francesco Ferdinando, a Sarajevo. Fra le maggiori potenze coinvolte nella lotta furono: da una parte la Francia, l’Inghilterra, la Russia, la Serbia, la Romania, il Belgio, poi, l’Italia e gli Stati Uniti; dall’altra la Germania, l’Impero Austro-Ungarico, la Bulgaria, la Turchia. L’Italia entrò in guerra il 24 maggio del 1915. Dopo alcune grandi battaglie campali in Belgio, in Francia e in Russia, il conflitto divenne guerra di trincea, sanguinosissima e lunga. Sul fronte italiano, dopo alcune importanti battaglie e vittorie (degli Altipiani, dell’Isonzo, di Gorizia, del Piave, ecc…) e una sconfitta (Caporetto), venne la prima vittoria decisiva di tutta la guerra con la battaglia campale di Vittorio Veneto, ove fu annientato l’esercito austriaco (dal 23 ottobre al 3 novembre 1918). Il 4 novembre fu dato l’annuncio della vittoria.
Il Milite Ignoto Siamo nel 1921: Roma è tutta un fremito. Un affusto di cannone trasporta una bara di quercia coperta dal Tricolore. E’ la salma del Milite Ignoto, che va a prendere dimora sull’Altare della Patria perchè in lui gli Italiani ricordino tutti i Caduti della prima guerra mondiale. Pochi giorni prima, nella città di Aquileia erano state presentate alla mamma di un caduto in guerra dodici salme di soldati sconosciuti, ed ella aveva alzato il braccio tra le gramaglie e ne aveva indicata una. Ecco la motivazione della Medaglia d’Oro che l’Italia assegnò al Milite Ignoto, cioè a tutti i soldati morti in guerra: “Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che l a vittoria e la grandezza della Patria”.
Guerra di trincea Sulle pianure grigie e malinconiche o a mezza costa dei monti dove la guerra s’era accanita, si alzavano lunghe strisce di intrichi che tendevano immobili le braccia al cielo, come boschetti di piantine scheletrite. Erano reticolati. Dietro i reticolati si aprivano le trincee. Sprofondavano nel terreno, celate, traditrici; seguivano le pieghe più adatte del terreno, salivano faticosamente, scendevano a precipizio, si nascondevano tra le piante, tagliavano le strade, rigavano i prati; non erano larghe più di un metro e mezzo alla bocca e, quando erano finite, erano profonde due; gli uomini avanzavano a fatica in esse, inciampando e scivolando. Coi numerosi camminamenti, tortuosi e sottili, si allacciavano ai ricoveri e ai paesi dove le truppe stavano in riserva; un movimento di flusso e riflusso continuo le percorreva. Davanti al reticolato e alla trincea, si stendeva, fino all’altro reticolato e all’altra trincea, la squallida “terra di nessuno”. Fra i reticolati, le trincee e la “terra di nessuno”, stette schiacciata al suolo, per tre anni e mezzo, la folla senza nome dei fanti d’Italia, dei contadini, degli operai, dei piccoli impiegati. Milioni di uomini ai quali era toccata l’opera più tremenda tra i fanti del mondo. Stavano essi a combattere sul più duro suolo che Dio avesse creato. Una parte era aggrappata disperatamente al Carso. L’Isonzo dinanzi formava il gran fosso. Gli Austriaci avevano fatto dell’altipiano di macigno, da Gorizia al mare, una fortezza che pareva inestricabile e inespugnabile. Già il terreno nemico si difendeva da sè. Sorgevano dappertutto piccoli monti duri e nudi, senza vegetazione, ognuno dei quali nascondeva un agguato. Il suolo impraticabile era seminato di tagliole. Avvicinarsi al nemico era impresa pazza. Contro il sole o il vento non alberi; contro la sete non acqua; contro l’insidia nemica nessun riparo. Quei fanti che non combattevano sul Carso stavano a guardia della montagna: impresa anch’essa durissima. Dall’ottobre cominciava a nevicare. Nella notte, spesso, un metro di neve cadeva a coprire i dormienti e i morti. Con le proprie mani, rompendo la roccia a palmo a palmo, accoppiando pietra con terra, il fante costruiva con pena la strada e il sentiero che salivano sui monti. Il cielo era gelido e muto. Attraverso le valli e sulle creste dei colli, gli zappatori scavavano con fatica e con pazienza la trincea; la neve continuava a cadere, il freddo era acuto, si sentiva al di là, sordo, il lavoro del nemico che pure vigilava. (A. Gatti)
4 novembre …uno degli austriaci portava, alta, una bandiera bianca Il cannone continuava a tuonare. Le nubi grigie ne rimandavano l’eco rimbombante; sembrava un tuono, ora più rabbioso, ora sordo; sembrava spegnersi, e poi tornava a farsi sentire più forte. La battaglia infuriava ovunque, ormai, dalle montagne giù giù sino al mare. La corrente impetuosa dei fiumi del Veneto recava con sè barche sfondate, pali anneriti dal fuoco, assi, rottami. Gli italiani gettavano ponti, e l’artiglieria austriaca li distruggeva. Ecco. Tra i relitti, qualche corpo umano. Un povero soldato, venuto da qualche lontana parte d’Italia per morire sul Piave… Il cannone tuonava da ogni parte. L’offensiva italiana era cominciata il 24 ottobre 1918; si combatteva dallo Stelvio al Lago di Garda, e via via sino al Grappa, poi lungo il Piave sino all’Adriatico. Si combatteva per riconquistare il Veneto occupato dagli austriaci, per liberare l’Italia, per vincere la guerra. Quella era la battaglia decisiva. Lo sapevano tutti, italiani ed austriaci. E tutti s battevano, disperatamente, per guadagnare un po’ di terreno, o per difenderlo: “Tutto il popolo italiano guarda in questo momento a noi, cui sono affidate in quest’ora le sorti della Patria”: così aveva proclamato agli italiani il nostro comando; ed il comando austriaco, arrogante: “Sarebbe una vergogna senza nome” aveva gridato alle sue truppe e al mondo “se gli italiani dovessero vincere!”. Si combattè furiosamente per cinque giorni; caddero migliaia di uomini. La mattina del 29 ottobre, alla trincea del Gufo, vicino a Serravalle all’Adige, in val Lagarina, si udiva il cannone tuonare da ogni parte. Ma là, c’era una relativa calma. Le sentinelle tenevano d’occhio la strada, devastata dai bombardamenti, e la linea ferroviaria, che si perdeva su, su per la stretta valle verso Rovereto e Trento. Dietro agli avamposti, si ammassavano le truppe per un attacco; c’era quella atmosfera piena di orgasmo e di tensione e di attesa che precede la battaglia… D’un tratto, lungo la scarpata della ferrovia, apparvero tre uomini. Tre austriaci. Venivano avanti tranquillamente, come se camminassero non tra due eserciti nemici, ma su una bella strada qualsiasi… Le sentinelle italiane alzarono i fucili, pronte al fuoco.
No. Non spararono. Rimasero là, ad occhi sbarrati, a guardare i tre austriaci. Ciò che vedevano non lo avrebbero mai più dimenticato. Non spararono. Perchè uno dei tre austriaci portava, alta, una bandiera bianca. L’Austria chiedeva un armistizio. Un ufficiale, un portabandiera ed un trombettiere, venivano ad accettare la “vergogna senza nome”, a riconoscere cioè, che gli italiani avevano vinto. La richiesta di armistizio fu accolta dagli italiani, e nel pomeriggio del 30 ottobre, su alcune automobili, sei ufficiali austriaci iniziarono le trattative, in una bella villa a qualche chilometro da Padova. E là, nella Villa Giusti, attorno ad un lucido tavolo rotondo, gli ufficiali italiani dettarono le condizioni di resa. Si dovette discutere a lungo, per tre giorni. Laggiù, in quella sala elegante, non giungeva il rombo del cannone, nè il grido delle truppe lanciate all’assalto, nè il crepitio secco delle mitragliatrici. Ma, mentre si discuteva, l’attacco italiano continuava, e le truppe austriache erano sconfitte, travolte, poste in fuga, e poi accerchiate e catturate; ed il Veneto veniva riconquistato, e la nostra bella bandiera piantata a Trento ed a Trieste.. L’armistizio fu firmato il 3 novembre. Il giorno dopo, 4 novembre, su tutto il fronte scese un grande silenzio, e non si sparò più. La bandiera gialla e nera degli austriaci fu ammainata. Il tricolore prese il suo posto. L’Austria, però, fece di tutto per non riconoscere la sua sconfitta. Nella speranza di salvare il suo esercito, propose di sospendere le operazioni militari; poi cercò di far credere che, in verità, gli italiani non avevano dovuto combattere veramente, per vincere. Pur di non consegnare la sua flotta all’Italia, la consegnò alla Jugoslavia… Tutto ciò, però, non potè cambiare la realtà. E la realtà è che gli austriaci, ormai in grande disordine, con i soldati che non volevano più obbedire ai comandanti, e che si abbandonavano agli incendi e ai saccheggi, furono spazzati via dal Veneto, o catturati; la realtà è che, in conseguenza alla sconfitta austriaca in Italia, la Germania (che era alleata all’Austria, e che combatteva in Francia contro i francesi, gli inglesi e gli americani) si decise ad arrendersi. La realtà è che, dopo la battaglia decisiva, “i resti di quello che era stato uno dei più potenti eserciti del mondo risalivano in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. Così, il 4 novembre 1918, gli italiani vinsero l’ultima guerra del Risorgimento; vinsero la loro “grande guerra”. E così, sacrificando più di mezzo milione di uomini, tra i quali i più giovani, i più forti, i più sani, e moltissimi dei migliori, che avrebbero dovuto prendere la direzione ed il governo della nostra Patria, gli italiani portarono a compimento l’opera iniziata dai loro nonni più di cento anni prima; e ci diedero l’Italia tutta intera, fino ai suoi confini naturali, che non potranno mai più essere toccati e discussi. Così vinsero, restando per mesi e mesi nelle trincee, piene di fango e di pioggia e di topi; o gettandosi all’attacco, sicuri di morire, su per le montagne bruciate dal fuoco e scavate dal ferro; vinsero soffrendo la fame ed il freddo sulle posizioni scavate nella roccia, o battendosi disperatamente tra le macerie dei paesi del Veneto martire. Così vinsero tenendo duro, in mezzo all’amarezza ed allo scoraggiamento, dopo sconfitte e ritirate, quando tutto sembrava crollare intorno. Vinsero umilmente, facendo il loro dovere senza chiasso e senza fanfare. E sono i nostri trisnonni, quelli della guerra mondiale, sono i nostri bisnonni: loro sono quelli del Piave e di Vittorio Veneto.
La guerra 1915 – 18 All’inizio del 1900 Inghilterra e Germania sono rivali. Questa rivalità provoca la Triplice Intesa (Inghilterra, Francia, Russia) in opposizione alla Triplice Alleanza (Germania, Austria, Italia). La Serbia, spalleggiata dai Russi, si assume il compito dell’irredentismo slavo e la penisola balcanica diventa il punto di partenza per un conflitto che in un primo tempo localizzato, dovrà far scaturire, poi, la scintilla che susciterà un incendio immane. Questa scintilla sarà l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando che avviene il 28 giugno 1914. Scoppia la guerra fra Austria e Serbia. In breve, quasi tutte le Nazioni europee, per le rispettive alleanze, vengono coinvolte nel conflitto. In Italia, fallite le speranze di ottenere dall’Austria, in cambio della neutralità, Trento e Trieste, città italiane ancora sotto il dominio austriaco, prevale la corrente interventista. La guerra è dichiarata il 24 maggio 1915. Subito scoppiano violente battaglie contro il nostro schieramento che va dal Trentino all’Isonzo. L’Austria vuol punire l’audacia degli Italiani e li ferisce nel profondo catturando e suppliziando i martiri dell’irredentismo: Chiesa, Sauro, Battisti e Filzi. L’Italia reagisce all’offensiva delle armi e dello spirito e le nostre truppe occupano Gorizia (9 agosto 1916). La guerra continua fra disagi e sofferenze di ogni genere. Dopo quattro anni di dura guerra di trincea, si diffonde fra i soldati un senso di generale stanchezza. Una propaganda pacifista scatenata nel momento più propizio, darà presto i suoi frutti. L’esercito italiano, indebolito e avvilito per la disfatta di Caporetto durante la quale gli Austriaci, fanno migliaia di prigionieri, è costretto a retrocedere al di qua del Tagliamento. E’ il momento più critico della guerra. Ma gli Italiani si riprendono dal momentaneo smarrimento e si stringono in una disperata volontà di resistere. Sul Piave da una parte e sul Monte Grappa dall’altra, gli Austriaci trovano una resistenza inaspettata. La Marina italiana compie imprese che hanno del leggendario. Nella famosa Beffa di Buccari, alla quale partecipò il poeta Gabriele D’Annunzio insieme a Luigi Rizzo e a Costanzo Ciano, tra nostri motoscafi attaccano di sorpresa due grosse navi mercantili austriache che si credevano al sicuro entro le ben riparate insenature della costa. Nel novembre dello stesso anno, i nostri marinai affondano la Viribus Unitis, la nave ammiraglia della flotta austriaca, nel munitissimo porto di Pola. Intanto, sul fronte nemico, era schierato un esercito di due milioni di uomini, ma gli Alpini, al canto di “Monte Grappa, tu sei la mia Patria”, si tenevano saldi, fieri nel loro motto: “Di qui non si passa!”. Nell’anniversario di Caporetto, le nostre truppe sferrano, sul Piave, un forte attacco con gli aiuti degli Alleati a cui si era aggiunta l’America, e questo attacco si conclude con la decisiva battaglia di Vittorio Veneto e l’occupazione di Trento e Trieste (24 ottobre e 4 novembre). Fra l’Italia e l’Austria viene firmato l’armistizio. La guerra è finita.
4 novembre 1918 Oh, la gioia di quei giorni, quando il Bollettino di Diaz annunciò il trionfo! La guerra era durata quattro anni. Milioni di soldati avevano combattuto nelle trincee, sul mare, nell’aria. Di loro, 600.000 non tornarono più. Ma il sacrificio dei fori dava la vittoria alla Patria. Trento e Trieste liberate si congiungevano alla gran Madre. Voi non eravate ancora nati. Eppure, per tutti voi, per l’Italia dell’avvenire, la guerra fu combattuta e vinta. (G. Fanciulli)
Il milite ignoto Per rendere onore a tutti i seicentomila morti nella guerra 1915 – 18, se ne scelse uno senza nome, che fu portato con grandi onori a Roma e collocato ai piedi dell’Altare della Patria. Il Milite Ignoto rappresenta tutti i prodi che fecero olocausto della loro vita perchè l’Italia sopravvivesse e fosse più rispettata nel mondo. Chi onora la tomba del Milite Ignoto intende onorare, attraverso quello, i combattenti italiani di tutte le guerre.
La campana di Rovereto E’ la sera del 2 novembre. Attraverso la radio si diffonde, in tutto il mondo, un suono lento, grave solenne: Don!… Don!… Don!… E’ la voce di “Maria dolens”, la campana di Rovereto. Essa ci ricorda i caduti, tutti i caduti della guerra: italiani, francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi, serbi, croati, giapponesi, americani… Sono migliaia e migliaia di uomini che rivivono nel suono della campana. Queste cose dice al nostro cuore il suono: Pace!… Pace!… Pace!… Vogliatevi bene! Siate tutti fratelli!… Soltanto la pace può rendervi felici! (R. Dal Piaz)
Il 4 novembre Questo giorno così vicino a quello della commemorazione dei defunti, ci ricorda l’eroismo di coloro che caddero per la Patria, che sacrificarono la loro giovane vita per darci un’Italia più grande, più forte, più rispettata. Fanciulli, non dimenticate coloro che sono morti in guerra. Anch’essi avevano dei figli, una mamma, una famiglia. Eppure, per compiere il loro dovere, non esitarono a fare l’ultimo sacrificio.
Trincee Dietro i reticolati si aprivano le trincee. Sprofondavano nel suolo, celate, traditrici; seguivano le pieghe del terreno, salivano faticosamente, scendevano a precipizio, si nascondevano fra le piante, tagliavano le strade, rigavano i prati; dove c’era un canaletto d’acqua, un arginello, una siepe folta, là si acquattavano, per ricomparire un momento su un dorso duro di colle e su un tratto di pianura pietrosa, e scomparire di nuovo, ingoiate dalla terra. (A. Gatti)
Zona di guerra Nell’acqua non lampeggiava riso di colore. Una larga fascia d’ovatta avvolgeva uomini e cose. Dove la terra si confondeva col cielo, al di là dei fiumi che si coprivano di nebbia, si addormentavano le città e i paesi devastati. La solitudine e la disperazione pesavano sulla terra. Tra i reticolati, le trincee e la terra di nessuno, stette schiacciata al suolo, per tre anni e mezzo, la folla senza nome dei fanti d’Italia, dei contadini, degli operai, dei piccoli impiegati. Milioni di uomini, ai quali era toccata l’opera più tremenda tra i fanti del mondo. (A. Gatti)
Epigrafi del cimitero di Redipuglia Che ti importa il mio nome? Grida al vento: “Fante d’Italia!” e dormirò contento. Più che il metallo alla trincea fu scudo dell’umil fante il forte petto ignudo. Mamma mi disse: “Va’!” ed io l’attendo qua. Seppero il nome mio gli umili fanti, quando balzammo insieme al grido: “Avanti!”. Ogni mattina, mamma, ed ogni sera, io sento l’eco della tua preghiera.
In trincea Che fatica infinita! Gli occhi di tutti erano velati di stanchezza e di dolore. Nessuno che non abbia vissuto nelle trincee del Carso e delle Alpi può sapere quanta disperazione sta in certi momenti nel cuore dell’uomo. I giorni di battaglia erano spaventosi, ma la grandezza del pericolo esaltava le forze. I giorni soliti, i giorni tutti uguali, in cui la morte coglieva uno a uno i suoi, qua e là, senza parere… quelli erano i più terribili…Eppure, i fanti d’Italia resistevano, e combattevano, e vincevano. (A. Gatti)
La trincea Nella notte, spesso un metro di neve cadeva a coprire i dormienti e i morti. Con le proprie mani, rompendo la roccia a palmo a palmo, accoppiando pietra con pietra, il fante costruiva con pena la strada e il sentiero che salivano i monti. Il cielo era gelido e muto. Attraverso le valli e sulle creste dei colli, gli zappatori scavavano con fatica e con pazienza la trincea; la neve continuava a cadere, il freddo era acuto, si sentiva al di là, sonoro, il lavoro del nemico che pure vigilava. (A. Gatti)
Cimiteri di guerra Uomini sepolti in tutti i cimiteri di guerra d’Europa, d’Asia, del mondo; mi inginocchi sulle vostre tombe come se tutti mi foste fratelli. Uomini che irroraste col vostro sangue la terra, là dove giace la spoglia mortale di uno solo tra voi, là siete tutti. Là rendiamo omaggio al fante italiano caduto nella steppa e sugli affocati deserti africani, all’americano e al giapponese caduti nella giungla selvaggia delle isole dei mari del Sud, al tedesco morto all’ombra di un antico campanile italiano. L’identico destino, l’identica morte vi affratellano. (A. M. Kanayama)
Il prete dei soldati Parlava così quel prete barbuto, con la sua grossa voce pacata, l’uomo dalla purpurea croce stampata larga sul petto, qui sul lato sinistro, dove sotto il grigio verde affaticato batteva forte il suo puro cuore di crociato; Parlava, il prete, diritto e grande sui gradini di neve, dall’altare di neve lassù ai confini della patria, agli alpini proprio accosto alla trincea: immensità! neve: vette: cielo: non c’era altro, parlava semplice tra la densa barba nera; diceva: “Qualcuno di voi, quelli che tornano di laggiù li han veduti; ma tutti certo li conoscono: li avete visti stampati i grattacieli americani, quei palazzi mostruosi, torri di venti di trenta piani che, con le case di qui, sono come i giganti coi nani. Quei palazzi sono armati, dentro, da una grande ossatura di ferro: un gabbione di ferro che tiene la muratura. E ci sono operai specialisti per quel primo lavoro del ferro: non facile: pericoloso. E molti, i più tra loro, sono nostri, italiani: gente che ha le mani d’oro. Un giorno, uno di questi, molto bravo nel mestiere, condusse il figlio, un bimbo di quattr’anni, al cantiere. Prese i ferri: e poi, che fa? piglia su il piccoletto, se lo lega coi ferri alla cintola ben stretto, e su, per le armature, a lavorare sull’orlo del tetto. Tutti fuori, appesi a una fune, dondolandosi sulla voragine, padre e figlio. E la gente, laggiù non si dava pace, ferma sui marciapiedi a guardare: “Che matto!” “Che cuore!” “E la polizia che fa?” “E’ suo figlio!” “Ah, sì? bell’amore di padre!” “Povera creatura! Sarà già morto dal terrore!” L’uomo badava al lavoro suo. E quando fu l’ora di scendere, scese: tranquillo; e tutta la gente allora, tutti addosso al bambino: “Uh, guarda che cera che ha!” “Di’: hai avuto paura? Molto, è vero?” “Di’: vieni qua…” Ma il bimbo, sorpreso, fece: “Paura? Io? No! C’era papà…”. Silenzio. Lo guardavano senza un respiro gli alpini. “Ebbene, vedete. Anche noi siamo come bambini, piccoli, piccoli, deboli, in faccia all’incerta sorte, sospesi anche noi, sempre, ad ogni attimo, sulla morte. Oh, ma anche per noi c’è il padre nostro che è forte! Lui ci vuole qui a combattere: lui, il padre onnipotente è giusto. Siamo con lui! Siamo degni! E non temiamo più niente! Come quel bimbo, fratelli! E allora, ditemi, quale minaccia, quale nemico, quale pericolo volete più che ci faccia paura, se noi stiamo, sempre, tra le sue braccia?” Si voltò all’altare, e “Credo in deum patrem…” pregò: e il giro delle piante ferrate sul gelo crocchiò. Un giorno, poi, quel prete fu portato a un ospedaletto da campo, grave molto: una pallottola nel petto. Ma tranquillo. Perchè egli era un confidente bambino tra le braccia del padre. S’è battuto bene: da alpino: con la sua bella croce sanguigna sul cuore: in Trentino. (G. Zucca)
Lettere dal fronte a Cecilia Dolceamore
Cecilia dolceamore, volevo scriverti ieri sera, ma c’erano troppe stelle, tante che pareva bastasse allungare una mano per coglierle. E tu sei venuta da me per guardare insieme le stelle, come facevamo a casa, nelle sere d’estate. Abbiamo ritrovato Cassiopea, il Gran Carro, Arturo, e la piccola Orsa, quella che ti piaceva tanto. Faceva fresco e tu tremavi un po’ e allora tu sei abbracciata a me per riscaldarti. Ho detto a Vincenzo di suonare l’armonica. Anche ora che siamo in guerra. Vincenzo è sempre lo stesso spensierato soldato che tu hai conosciuto. Ha tirato fuori l’armonica dalla tasca della giacca, se l’è passata sulle labbra e si è messo a suonare una canzonetta allegra. Tu hai sorriso e il tuo sorriso splendeva più delle stelle. Poi ti sei addormentata con la testina sul mio petto, dove il cuore batteva piano per non disturbarti. Abbiamo passato la notte così, ma, stamattina, quando mi sono destato, non c’eri più, Cecilia dolceamore, e allora ho voluto scriverti perchè così mi pare di stare ancora con te. Voglio raccontarti una storia che è un po’ triste, ma poichè tu vuoi sapere i fatti della guerra, è necessario che tu conosca anche le cose tristi. Se ci pensi bene, il dolore, in guerra, splende di un’altra luce. Cecilia dolceamore, anche la storia del soldatino mitragliere splende di una luce solare. Devi dunque sapere che c’era, qui, un piccolo mitragliere. Era un ragazzo sardo, bruno e piccolo di statura. Il Capitano gli aveva promesso di proporlo a sergente, a patto che egli fosse riuscito a buttar giù un apparecchio nemico. E il piccolo sardo voleva diventare a tutti i costi sergente. Da quel giorno s’era appostato con una mitragliatrice e non aveva più levato gli occhi dal cielo. E tutti gli portavano da mangiare e da bere in buca perchè quello non si sarebbe mosso di lì. Gli apparecchi arrivavano, ma passavano alti. Sdegnavano la nostra piccola postazione, per andare a sganciare le bombe dove c’era da fare più danni. “Almeno si fermassero qui a tirar bombe!” sospirava il soldato mitragliere. E Vincenzo rispondeva, le bombe un corno, perchè non gli piaceva quella storia. E così i giorni passavano, e il soldatino sparava, sparava sugli apparecchi lontani, ma gli aerei pareva nemmeno si accorgessero di quelle sventagliate troppo corte. Il mitragliere scriveva a casa che presto sarebbe stato sergente e la mamma rispondeva che nei giorni di licenza glieli avrebbe cuciti lei, i galloni, sulla manica della giubba. Ta ta ta, faceva la mitragliatrice, ma sparava sempre a vuoto, nel gran cielo turchino. Un giorno, finalmente, un apparecchio passò a tiro. E il soldatino sparò come un pazzo, ma era un pazzo che aveva imparato a inquadrare una rondine nel mirino. L’apparecchio rimase colpito. Cadde giù a piombo con una coda di fumo che si allungava nel cielo. E mentre cadeva, sparava anche lui, sventagliate di ferro e di fuoco, sui soldati nascosti dalle rocce. Lo videro, che andava a frantumarsi sul terreno e poco dopo c’era una gran colonna di fuoco. Tutti gridarono di gioia, solo il piccolo sardo no. Era rimasto nella sua buca, rattrappito sull’arma, ma il suo viso splendeva perchè prima di morire aveva visto l’apparecchio cadere. Cecilia dolceamore, adesso ti dirò che cosa ha fatto il Capitano, quello che aveva promesso al soldatino di proporlo per l’avanzamento a sergente, se avesse abbattuto un aereo. Quel Capitano, di nascosto, quando nessuno lo vedeva, andò ad attaccare i gradi d’argento sulla giubba del soldatino caduto. Di nascosto, perchè il regolamento non consente di promuovere i morti, ma proprio non gli reggeva il cuore di farlo seppellire senza quei galloni d’argento che egli aveva tanto desiderato. Cecilia dolceamore, il piccolo sardo adesso dorme nel cimitero di guerra e i suoi occhi, bruciati dal troppo guardare, sono ormai chiusi per sempre, ma la sua bocca sorride. E il suo cuore non è più in ansia perchè il suo sogno è ormai appagato. Figlietta, non essere triste. Forse, un giorno, di questa storia faranno una canzone e Vincenzo la suonerà sull’armonica. E allora, vedrai che non ti sembrerà più una storia triste. Adesso ti debbo lasciare. Mi metto le tue manine fresche sul viso che brucia. Che sollievo! Mi pare di avere sulle guance due petali di rosa. So che la mamma ti ha fatto un vestitino celeste. Ho bisogno urgente di vederti con quel vestitino. Cercherò di sognarti così. Tu ancora dormi e qui il cannone ha già cominciato a sparare. Dormi con la mano sotto il viso e fiori, sul balcone, il canarino canta per salutare il nuovo sole. Qui, col sole, è cominciata la musica, una musica di rombi e di scoppi che fa assordire. Ma negli intervalli, io riesco a sentire il canarino che canta. E vedo le tue ciglia tremare per trattenere il sonno che vuole lasciarti. E su quelle ciglia che lievemente tremano, Cecilia dolceamore, ti bacia il tuo papà.
Cecilia dolceamore, il tuo papà ti bacia le manine che hai bianche e gentili e vi appoggia la faccia ispida, ma leggermente, per non farti male. E col viso perduto nella freschezza delle tue mani, ti racconta una storia che non sa se allegra o triste: una storia vera di questa terribile guerra. C’era stata battaglia, Cecilia dolceamore, e molti morti giacevano sul terreno. Molti morti, amici e nemici, e all’alba, i soldati della Croce Rossa e il Cappellano andarono per comporli piamente nel piccolo cimitero. Cecilia, dolce bambina mia, non farmi vedere lacrime nei tuoi occhi, altrimenti io non potrò più raccontarti i fatti di questa guerra, la storia del soldato Girò, storia triste e allegra. L’avevano trovato morto, il soldato Girò, su uno sperone di roccia e l’avevano riconosciuto dalle scarpe nuove gialle, così gialle da non poterle confondere con nessun altro paio di scarpe. Gliele avevano date la mattina e lui aveva riso vedendole così gialle. “Sembro un canarino!” aveva detto. Lo avevano riconosciuto fra i morti solo per le scarpe, il soldato Girò. Cecilia dolceamore, non chiedere di più. Tu credi che i soldati che muoiono in guerra, restino tutti sorridenti, con un bel viso pulito e tranquillo? Non è così, figlietta, ma tu pensa sempre che sia così. E’ bello sapere che una bimba vede i morti in battaglia col viso irradiato di luce come gli angeli. Ma il soldato Girò non aveva più viso e l’avevano riconosciuto solo dalle scarpe gialle e nuove. Lieve era caduta su di lui la terra e ora dormiva sotto una croce di legno dove c’era scritto il suo nome. Ma l’indomani, il soldato Girò riapparve. Con le scarpe gialle e nuove. Lo guardai stupefatto. Salutò e mi disse che non era potuto venir prima perchè era rimasto nelle linee nemiche e solo durante la notte aveva potuto svignarsela. Uno sbaglio, soldato Girò, e gli mostrai la sua tomba. La guardò e tacque. Passò un’ora a grattare il suo nome dalla croce, poi rimase a fissare la piccola zona grattata dove non c’era più scritto “Soldato Girò” e dove ormai non si poteva scrivere nessun altro nome. Vincenzo, quando lo vide, rise. “Sei resuscitato?” Risero anche gli alti e gli fecero festa. Vincenzo suonò l’armonica in suo onore. I nemici, sentendo suonare e vociare, spararono. Qualche colpo come a domandare quello che succedeva. Poi venne l’ordine di spostarsi. Facemmo in fretta i preparativi. Smontammo le mitragliatrici, ci agganciammo i sacchi sulla schiena. Dov’era il soldato Girò? Nessuno lo trovava. Vincenzo, per chiamarlo, si passò l’armonica sulle labbra e ne cavò un trillo. Io lo sapevo dov’era e andai da lui. Era davanti alla tomba del soldato con le scarpe gialle. Aveva acceso un lumino. Si fece il segno della croce e venne via con me. E mentre si marciava, quel lumino ardeva nella notte e pareva una stellina caduta dal cielo. Ed eravamo in due a voltarci, io e il soldato Girò. Cecilia dolceamore, ho finito. Forse questa storia ti è sembrata troppo triste. Non è neppure un po’ allegra come mi sembrava in principio, ma io, vedi, dovevo raccontartela perchè quel lumino, in questa guerra così tremenda e spietata, è una cosa gentile. Soave e gentile come un fiore. E io so che ti piacciono le cose gentili. Tu a quest’ora dormi perchè è tardi e sei stanca. Un tuo ricciolo biondo si è sfatto sul guanciale e pare una seta l’oro. Cecilia dolceamore, ho bisogno, un bisogno assoluto di posare il mio viso su quella seta d’oro. Ti bacia il tuo papà.
Figlietta, oggi ho visto un fiore giallo. Lo coltivava un soldato dentro il bossolo di un proiettile e lo annaffiava amorosamente con l’acqua della borraccia. Cecilia dolceamore, ho accarezzato i petali di quel fiore giallo, chiudendo gli occhi, e sognavo di accarezzare la tua guancia gentile. Oggi il soldato ha bevuto una volta sola, perchè con l’acqua ha innaffiato il fiore. Vedi, è necessario qualche volta amare un fiore, perchè altrimenti, questa guerra ci farebbe troppo duri e indifferenti. Così duri che si può essere chiamati Cuore di Sasso. Era al Colonnello che avevano dato questo nome, un viso duro e asciutto dove non balenava mai la luce di un sorriso. Cuore di Sasso viveva nella sua baracca, non parlava mai con nessuno, solo per i terribili cicchetti che dava ai soldati. Erano loro che lo chiamavano Cuore di Sasso. Gli facevano un rigido saluto quando passava. Pareva, quando passava il Colonnello, che una nuvola nera offuscasse il sole e tutti i visi diventavano scuri. Ora senti, figlioletta, che cosa è avvenuto. Il motociclista era andato a prendere la posta. Non tornava. Tutti guardavano la strada e gli occhi dolevano per il troppo guardare. C’era un soldato, poi (si chiamava Esposito), più ansioso degli altri. Si sporgeva fuori dal riparo e il nemico, allora, sparava qualche colpo. Il Colonnello l’aveva guardato col cipiglio e quello, sotto il suo sguardo, si rincantucciava. “Mi deve nascere un bambino!” diceva sorridendo. Non aveva più soggezione nemmeno di Cuore di Sasso. Cannocchiali, occhi bruciati dal sole fissi sulla strada. “Bisogna andare a vedere” disse il Colonnello. “Può essere rimasto ferito. Ha gli ordini del Comando”. “Vado io, signor Colonnello?” e il soldato Esposito sorrideva timidamente e alzava la mano come a scuola, quando i ragazzi vogliono essere interrogati. “Per via del bambino…”. Cuore di Sasso accennò di sì con la testa e il soldato Esposito inforcò la motocicletta, felice. I nemici gli spararono dietro, ma poi la moto scomparve nel polverone. Gli occhi si riposarono dal gran guardare. Ricominciò l’attesa, scandita dai colpi rari di artiglieria. Ricognitori altissimi nel cielo. Poi, i soldati tornarono ad affacciarsi. Cuore di Sasso imprecava che stessero giù, , mica per loro, teste matte, ma perchè in guerra la vita d’ogni soldato è preziosa. Infine, un lontano rombo scoppiettante. Tornavano. Una motocicletta sopraggiungeva; sopra l’erano due soldati curvi, troppo curvi. Quando arrivarono, c’era tutta una striscia di sangue dietro a loro. Avevano tracciato una strada. Li tirarono già dalla macchina. Il portalettere era ferito, ma in modo non grave; il soldato Esposito aveva la schiena spezzata. Il motociclista raccontò. Un aereo l’aveva mitragliato. Era rimasto sulla strada, ferito, e la macchina resa inservibile. Poi era arrivato il soldato Esposito. L’aveva caricato sulla sua moto, ma era tornato l’aereo. Esposito si era accasciato sul manubrio, poi si era ripreso. Non l’aveva creduto ferito grave. E invece, era finito. Ora, il soldato Esposito giaceva sopra una brandina e guardava, senza parlare. Guardava il sacco della posta con gli occhi lucidi e ansiosi. Cuore di Sasso dette ordine di aprire. Ricevette la posta nelle sue mani ossute. C’era anche un telegramma. “Per te” disse al soldato Esposito che sorrise, felice. Il Colonnello aprì il telegramma. Lo lesse. “E’ nato un bel maschietto. Si chiamerà Italo. Mamma e bambino stanno bene. Baci”. Il viso del soldato Esposito si spianò dolcemente. Le palpebre calarono piano piano sugli occhi e la bocca rimase socchiusa nel sorriso. Cuore di Sasso gli prese il polso, poi dette ordini per il seppellimento. Aveva la gola secca, non poteva parlare. Gli era rimasto il telegramma in mano; lo consegnò a me. “Bisogna rispondere al Comando che il telegramma non è stato consegnato per morte del destinatario”. Lo lessi. Comunicava che la moglie del soldato Esposito era morta in seguito a bombardamento, nell’ultima incursione sulla città. Il telegramma mi cadde di mano; preso dal vento aleggiò come un fiore, un fiore giallo. Cuore di Sasso ispezionava le cucine. Sentii che dava un formidabile cicchetto al cuoco perchè nel rancio aveva messo troppa conserva. E quello, ristupidito, diceva di sì e stava sull’attenti con due enormi mazzi di gavette in mano. Cecilia dolceamore, quando tornerò tu mi prenderai la mano e mi condurrai nei giardini fioriti, vicino alle vasche dei pesci rossi. Tutto sarà molto nuovo per me. E non finirò di ammirare. Ma se qualche volta vedrai un’ombra scendere sul mio viso, passaci sopra la tua manina. Bisogna cancellare dai miei occhi la visione di quel telegramma svolazzante come un fiore giallo. Perchè, vedi, se non si potesse cancellare quel ricordo, non sarei più capace di godere della vista dei giardini fioriti e dei pesci rossi. E la vita sarebbe troppo difficile. Ti bacia il tuo papà.
(Mimì Menicucci)
Patria O Patria, parola sì breve sì grande, tra tante parole, che brilli di fuoco e di neve, e odori di scogli in un fervido accordo le genti vicine e lontane, e chiami a la prece e al ricordo con voce di mille campane; o Patria, sii tu benedetta per ogni remota contrada, sei sangue e rugiada, sei vita e bontà. O Patria, dai monti alle sponde sei tutta un sorriso di Dio! Te cingon di fremiti l’onde confuse in un sol balenio. E tutta un’immensa bellezza dal vivo tuo cuore s’espande letizia, virtù, giovinezza per culmini e lande, per campi e città. (L. Orsini)
Milite Ignoto Non sappiamo il tuo volto, o Sconosciuto, non il tuo nome rude di soldato, è ignoto il luogo che santificato fu dal tuo sangue quando sei caduto; ma il tuo viso fu bello e fu divino: forse un imberbe viso giovinetto… Lo vedo all’ombra fosca dell’elmetto sorridere con occhi di bambino. Fu nostro sangue il sangue tuo vermiglio… Sei senza nome, ed ogni madre, ignara, inginocchiata presso la tua bara singhiozza un nome, il nome di suo figlio; E che risuona in tutte le fanfare… Hai la tua casa in ogni casolare, ed appartieni a tutti i reggimenti. Sente ogni madre il suono della voce nota al suo cuore, eppure tu sei muto…; e là, sul campo dove sei caduto, tutte le croci sono la tua croce. Da quelle tombe un monito e un saluto con severo silenzio tu ci porti: son tutti i cuori dei fratelli morti chiusi nel cuore tuo, o Sconosciuto! (P. Rocco)
SCOPERTA DELL’AMERICA materiale didattico vario per la scuola primaria: dettati, letture, racconti, poesie e filastrocche sul tema.
Eric il rosso e i suoi figli
Un tempo, non c’erano libri che descrivessero terre lontane, non c’erano carte geografiche e nessuno tracciava itinerari che permettessero di andare in un luogo sconosciuto con una certa sicurezza. La gente non viaggiava molto e credeva il mondo più piccolo di quello che non fosse in realtà. I mezzi di trasporto erano primitivi, la gente andava a piedi, o tutt’al più, si serviva di carretti trascinati da cavalli, da asini o da buoi. Chi voleva andare per mare doveva accontentarsi di viaggiare su piccole navi che andavano un po’ a caso perchè la scienza della navigazione era ancora molto indietro. Oltre tutto, i mari erano infestati da pirati e le strade da briganti; quindi, chi si metteva in viaggio, doveva essere anche un uomo di fegato. Eppure, malgrado tutte queste difficoltà, c’erano uomini che arrivavano fino alle terre più lontane, sfidando disagi, pericoli e spesso rimettendoci anche la vita. Un po’ per smania di ricchezze, un po’ per amore dell’avventura, approdavano spesso a terre sconosciute e quando ne tornavano, raccontavano meraviglie. Nelle terre del Nord dell’Europa, ghiacciate e desolate terre, prive quasi di vegetazione a causa del clima polare, abitava un popolo che , avendo poco da fare su quella terra così inospitale, era sempre in mare. Si chiamavano Vichinghi, ed erano arditi navigatori che non avevano paura di uscire nel gran mare aperto. Uno dei più audaci, chiamato Eric il Rosso, sbarcò su quella terra che oggi noi chiamiamo Groenlandia. E i suoi figli, più audaci di lui, andarono ancora più in là, e approdarono in un territorio di cui ignoravano completamente l’esistenza e che chiamarono “terra delle viti”, perchè vi cresceva rigogliosa la pianta dell’uva. Era la parte più settentrionale di quella che oggi si chiama America. Ma pochi si interessarono ai racconti che i figli di Eric fecero quando tornarono in patria e dell’avventura dei biondi Vichinghi nessuno parlò più. Passarono cinquecento anni e i popoli europei avevano continuato a viaggiare. Attraversavano l’Asia per giungere alle Indie favolose, ricche di spezie, di sete, di gioielli e poichè le merci da trasportare erano tante e davano ricchi guadagni, la gente si cominciò a domandare se fosse stato meglio arrivarci per mare e caricare quelle preziose merci sulle navi invece che su carri e carretti. Un italiano, disegnatore di carte geografiche, certo Toscanelli, era convinto che la Terra fosse rotonda, anche se pochi, a quell’epoca, erano della sua opinione. Disegnò, perciò, una carta secondo questa sua teoria e la mandò a un suo amico genovese, Cristoforo Colombo, che era fra quelli che cercavano una nuova via per le Indie e voleva arrivarci veleggiando verso Occidente. Matto, lo diceva la gente. Com’era possibile raggiungere l’India e la Cina che si trovano a levante, mettendo, invece, la prua a ponente? Ma Colombo aveva studiato bene i venti e le correnti, e aveva visto che tanto gli uni quanto le altre si dirigevano verso ovest. Anche lui, come Toscanelli, era sicuro che la terra fosse rotonda, quindi, una nave che seguisse le correnti e fosse favorita dai venti, doveva arrivare alle Indie, pur facendo la strada opposta a quella fino allora fatta. Tanto insistette, il navigatore genovese, che finalmente ottenne tre caravelle dalla regina di Spagna che lo stimava molto. Raccolse un equipaggio di uomini spericolati e avidi soltanto di guadagno, e si mise in mare. “Fra sue mesi arriveremo alle Indie!” disse a quegli uomini rotti a tutti i rischi. Ma due mesi passarono e l’India non si vedeva. Spericolati sì, avidi sì, ma a un certo punto quegli uomini si intimorirono. Cielo e mare, mare e cielo. E come sarebbero potuti tornare indietro se i venti continuavano a spingerli sempre nella stessa direzione? Colombo, a un certo punto, rischiò la vita. L’equipaggio si ammutinò: o interrompere il viaggio e cercare di tornare in Patria, o quel genovese della malora avrebbe passato un brutto quarto d’ora. Finalmente, in una brumosa mattina di autunno, fu intravista, all’orizzonte, una striscia di terra. Era il 12 ottobre 1492: una data che i ragazzi avrebbero studiato sui libri di geografia e anche su quelli di storia. “E’ l’India!” disse Colombo. Ma non era l’India. Era un’isola sconosciuta e Colombo, grato a Dio che gli aveva salvato la vita, la chiamò San Salvador. Alcuni uomini di pelle rossastra andarono incontro ai navigatori. Colombo li chiamò Indiani, come chiamò Indie Occidentali le terre che si intravedevano all’orizzonte. Veramente non si trattava ne di Indie ne di Indiani, ma questo Colombo non lo seppe mai. Gli indigeni dalla pelle rossastra e dai capelli neri e setosi, che si chiamavano Occhio d’Aquila e Uragano di Primavera, fecero una festosa accoglienza a Colombo e ai suoi uomini. Erano ornati di collane e di monili d’oro che non esitarono a dare in cambio di specchietti e perline di vetro, cose che destavano la loro meraviglia perchè non le avevano mai viste. Ma dopo i primi festosi incontri, le cose cambiarono. Gli Spagnoli, alla vista di tutto quell’oro, non capirono e non vollero altro. Per cercare il prezioso metallo si spinsero su altre isole, ma non lo trovarono. Decisero allora di tornare in patria a prendere altre navi e altri uomini. Era una terra favolosa, quella, e chissà quante ricchezze celava. Bastava saperle cercare. Colombo fece in tutto quattro viaggi e scoprì altre isole. Ma ignorò sempre di aver scoperto un nuovo continente. Convinto di essere sbarcato nella favolosa terra delle sete e delle spezie, già descritta da Marco Polo nel suo libro “Il Milione”, fu deluso di non trovare ne le une ne le altre. E poichè non era riuscito a portare in Spagna i ricchi tesori che gli Spagnoli speravano, lo sfortunato e ardimentoso navigatore fu abbandonato da tutti e morì povero e solo dopo essere stato anche in prigione. Gli Spagnoli continuarono i loro viaggi e parecchi di essi si stabilirono nelle nuove terre, alcuni a cercarvi l’oro, altri a coltivare canna da zucchero. Trovarono finalmente la terraferma. Pianure e dopo quelle pianure, montagne. E su quelle montagne gran numero di Indiani che coltivavano granaglie, fagioli, tabacco, e andavano a caccia con archi e frecce. Ma ben presto l’avidità e la prepotenza degli Spagnoli guastarono l’amicizia con gli indigeni, e fra Pellirosse e Visi Pallidi vi furono guerre lunghe e sanguinose. Intanto si era scoperto che non si trattava delle Indie, ma di un continente di cui tutti, fino allora, avevano ignorato l’esistenza. E un fiorentino, Amerigo Vespucci, che l’esplorò e la descrisse, ebbe la fortuna di dargli il suo nome. (M. Menicucci)
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Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Guerre contro i Sanniti
I Sanniti abitavano le montagne boscose di quella regione che ora si chiama Abruzzo. La via dura tra rocce e foreste li aveva resi forti e coraggiosi. Roma, che continuava ad estendere il suo dominio, giunse ai loro confini e incontrò una resistenza tenacissima. Per venti anni vi furono battaglie. I Sanniti riportarono una vittoria a Caudio, tra Capua e Benevento, e costrinsero i prigionieri romani a passare chinati sotto un giogo (forche caudine). La guerra continuò incerta per altri trent’anni, finchè i Sanniti furono sottomessi ed altre terre si aggiunsero al dominio di Roma.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Taranto
Una città tutta distesa lungo il mare tentò di opporsi alla potenza di Roma: Taranto, un’antica colonia greca. Quando una piccola flotta mercantile romana apparve in vista della città, i Tarantini, per intimorire gli avversari, affondarono tre navi. Subito Roma si mosse per vendicare l’affronto. Taranto, temendo la minaccia delle legioni ormai vicine, invocò l’aiuto di Pirro, un sovrano greco avventuroso. Egli aveva un esercito disciplinato e ben armato e lo metteva al servizio di chi lo compensava riccamente. Possedeva inoltre un’arma nuova e potente: un buon numero di elefanti, addestrati a lanciarsi nella mischia con una torre sulla groppa, dalla quale gli arcieri fulminavano con le frecce i nemici. Due volte Pirro riuscì a sconfiggere i Romani, ma pagò il successo a caro prezzo. Superato lo sgomento, i Romani impararono a combattere contro gli elefanti: li atterrivano lanciando contro di essi dardi infuocati: così i pachidermi volgevano in fuga disordinata scompigliando le schiere di Pirro. I nemici furono travolti a Malavento (poi chiamata Benevento) nell’anno 275 prima della nascita di Cristo. L’ultimo ostacolo nella penisola era superato. Roma, padrona di mezza Italia, guardava oltre il mare: all’orizzonte appariva, come un invito, l’azzurro profilo della Sicilia.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le forche caudine
Per raggiungere l’Africa, la strada più breve passava fra i monti per una stretta gola, vicino a Caudio. I Romani si inoltrarono disavvedutamente per questo passaggio, senza l’aiuto di guide o di esploratori. Giunti alla gola Caudina trovarono il passaggio ostruito da massi e da alberi. Improvvisamente sbucarono da ogni roccia, da ogni nascondiglio, i Sanniti, fieri abitanti della regione. Invano i Romani, combattendo con valore disperato, tentarono di spezzare il cerchio d’uomini e di ferro che li stringeva. Dopo inutili tentativi, stremati di forze, scoraggiati, ogni giorno più mancanti di viveri, essi deliberarono e iniziarono trattative con il nemico, che li costrinse a sottomettersi all’umiliazione più atroce. Tutta l’armata preceduta dal console, al quale furono tolte le insegne ed il rosso mantello, passò sotto il giogo e subì la derisione dei Sanniti, i quali non esitarono a percuotere con le loro armi i legionari nell’atto in cui si chinavano, curvando la testa, per passare sotto le lance incrociate e conficcate a terra. Infine, il generalissimo sannita, Caio Ponzio Telesino, rimandò tutti, soldati e ufficiali, in patria, salvo poche centinaia di nobili cavalieri, che furono trattenuti in ostaggio.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le forche caudine
Tanto i Romani che i Sanniti non avevano abbandonato il proposito di conquistare la Campania. I primi ad agire sono i Romani: nel 327 aC, essi occupano la città di Partenope (l’odierna Napoli). La reazione dei Sanniti è però immediata: affidato il comando dell’esercito a un grande condottiero, Caio Ponzio, lo inviano in Campania contro le truppe romane. I primi cinque anni di guerra sono favorevoli per i Romani: essi riescono persino ad occupare buona parte del Sannio. Vista l’impossibilità di sconfiggere i Romani in battaglia, Caio Ponzio tenta allora di vincerli con l’astuzia. Fatte ritirare le sue truppe sui monti, presso Caudio, egli fa spargere la notizia che si è portato ad assediare Lucera (nell’Apulia), una città alleata di Roma. Non sospettando l’inganno, i Romani accorrono immediatamente in aiuto della città minacciata e, per giungere più presto, decidono di prendere la strada più breve che passa per Caudio. Errore gravissimo! Presso Caudio, questa strada entra in una valle stretta e profonda, i cui monti formano all’entrata e all’uscita di essa due gole strettissime, dette Forche Caudine. Tra quei monti e all’uscita della valle, Caio Ponzio aveva nascosto i suoi soldati. Ed ecco infatti il disastro. Attraversata la prima gola e percorsa la valle, i soldati romani trovano l’uscita bloccata da macigni. S’accorgono allora dell’agguato, retrocedono, tentano di ripassare da dove sono entrati; inutilmente; i Sanniti hanno occupato nel frattempo anche quella gola. Circondati da ogni parte, i soldati romani tentano con disperato valore di aprirsi un varco, ma invano. Dopo aver perduto parecchi soldati, essi sono costretti alla resa. Ben quarantamila Romani cadono prigionieri nelle mani dei Sanniti! (anno 321 aC) Dopo la grande vittoria sui Romani, Caio Ponzio scrisse al padre ( uomo allora molto celebre tra i Sanniti per la sua grande saggezza) per chiedergli come avrebbe dovuto trattare i nemici caduti in suo potere. Il vecchio saggio rispose: “O ucciderli tutti o rimandarli tutti salvi a Roma. Nel primo caso, prima che i nemicii abbiano ricostituito un esercito ci vorrà tempo, e ci lasceranno perciò in pace; nel secondo caso avremo per sempre la loro gratitudine”. Ponzio decise allora di rimandarli tutti salvi a Roma, ma volle prima che si sottoponessero a una grande umiliazione. Li costrinse a passare curvi e disarmati sotto il giogo, ossia sotto una lancia legata trasversalmente ad altre due piantate nel terreno. Il Senato Romano volle riparare immediatamente ad una sconfitta così indegna e inviò subito un nuovo esercito contro i Sanniti. La lotta fu ripresa con grande accanimento e solo nel 304 i Romani riuscirono ad ottenere presso la città di Boviano una grande vittoria sul nemico. Nella pace che ne seguì, i Sanniti dovettero riconoscere ai Romani il possesso della Campania. Ma anche i Sanniti non sono un popolo da arrendersi facilmente. Eccoli infatti prepararsi immediatamente alla riscossa. Quando nel 298 aC Etruschi, Umbri e Galli, desiderosi di abbattere la potenza romana, si riuniscono in una lega per combattere contro Roma, i Sanniti si affrettano ad allearsi con loro. Con l’aiuto di questi popoli, i Sanniti sperano di poter piegare per sempre i loro grandi rivali. I Romani non si perdono d’animo: a così grande pericolo, rispondono con fulminea rapidità. Formati tre eserciti, ne mandano uno in Etruria (l’attuale Toscana) contro gli Etruschi; il più numeroso in Umbria, dove si è concentrato il maggior numero di nemici; e lasciano il terzo a difesa di Roma. Tale strategia si mostra subito indovinatissima: gli Etruschi abbandonano gli alleati e accorrono a difendere la loro terra. Lo scontro decisivo, che vede impegnati trentacinquemila Romani contro cinquantamila alleati, ha luogo a Sentino (nell’Umbria). La battaglia infuria per tre giorni consecutivi: alla fine, i Sanniti vengono pienamente sconfitti. Impressionati dalla schiacciante vittoria romana, gli Etruschi, gli Umbri ed i Galli depongono le armi e trattano la pace con Roma; ma i Sanniti non si arrendono ancora: affidano un nuovo esercito a Caio Ponzio, tentano nel 292 una nuova riscossa. In meno di due anni devono però mettere da parte ogni speranza di rivincita: il loro esercito viene annientato e lo stesso Ponzio viene fatto prigioniero. Questa volta è veramente la fine: dopo mezzo secolo di durissime lotte, il valoroso popolo Sannita è costretto a sottomettersi alla potenza di Roma. Anche i popoli dell’Italia centrale, che si sono schierati dalla parte dei Sanniti, devono seguire la medesima sorte. Così, al termine delle lunghe guerre sannitiche (anno 290 aC), il dominio di Roma comprende parte dell’Etruria, l’Umbria, la Sabina, il Sannio e la Campania.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Roma e Taranto
I Romani dopo aver sconfitto i Sanniti, possedevano ormai, oltre il Lazio, gran parte della Toscana e dell’Umbria, le Marche e la Campania. Sulle coste dell’Italia meridionale sorgevano le città della Magna Grecia; esse controllavano la zona del Mediterraneo, dove le loro navi svolgevano il traffico commerciale. Queste città cominciarono a sentirsi minacciate dalla rapida avanzata di Roma. Tra loro, Taranto era la più ricca e potente. Quando il pericolo romano si fece più vicino, i Tarantini non si sentirono però abbastanza forti per sostenere l’attacco e chiesero aiuto a Pirro, re dell’Epiro, l’odierna Albania.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Fango e sangue sulle toghe degli ambasciatori romani
I Tarantini avevano affondato alcune navi dei Romani. Roma mandò a Taranto alcuni ambasciatori che, invece di ricevere scuse, furono gravemente offesi. Ecco come si svolse l’episodio. Gli animi dei Tarantini sono colmi d’ira: i Romani hanno osato attraversare con le loro triremi quel mare che avevano promesso di non solcare mai, ed ora mandano gli ambasciatori a protestare perchè quattro navi sono state affondate? Passano gli ambasciatori per le strade bagnate dalla pioggia, e guardano con occhi alteri i volti dei Tarantini, che si assiepano lungo il passaggio. Ora si fermano davanti ai capi della città e il più anziano di essi comincia a parlare. Parla della gloria di Roma, della forza di Roma, della potenza di Roma… Ed ecco uno della folla chinarsi, prendere una manciata di fango e gettarla sulla toga immacolata dell’ambasciatore che continua a parlare di Roma! L’ambasciatore ammutolisce. Tra i Tarantini serpeggia il riso. Qualcun altro, seguendo l’esempio del primo, prende di mira la toga con nuove manciate di fango. Allora l’ambasciatore dice con voce ben chiara: “Leverete col vostro sangue questa toga, che avete macchiato col vostro fango!” Troppo tardi nel cuore dei Tarantini trema lo sgomento: ci sarà la guerra!
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le vittorie di Pirro
Pirro, re dell’Epiro, faceva paura, anche perchè nel suo esercito marciavano animali stranissimi, fortissimi e non mai visti dai Romani. Questi spaventosi animali erano gli elefanti. I Romani se li videro davanti, per la prima volta, in Lucania. Perciò li chiamarono buoi lucani. Tutti fuggivano alla vista di quei colossi, con le gambe che sembravano colonne e con le proboscidi che lanciavano gli uomini lontano. Ma i Romani, dopo il primo momento di paura, si cacciarono sotto la pancia degli elefanti, squarciarono loro il ventre con la corta spada. Nel vedere molti dei suoi elefanti riversi a terra e immobili come montagne, Pirro ebbe a dire: “Un’altra vittoria come questa e sono rovinato!” (P. Bargellini)
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – La spedizione di Pirro
L’Italia Meridionale era abitata in parte da popolazioni italiche, in parte da Italioti, Greci stabiliti nelle città della costa del golfo di Napoli, fino allo Ionio e all’Adriatico: Le città greche più importanti erano Taranto e Turio. Turio, assalita dai Lucani, chiese aiuto a Roma, e per soccorrere questa città, i Romani si trovarono in guerra aperta con la potente Taranto. I Tarantini si accorsero ben presto di aver commesso un grave errore stuzzicando i Romani, e non volendo restarne schiacciati, ricorsero ad un sovrano balcanico, Pirro. Pirro, re dell’Epiro, apparteneva come razza al gruppo illirico della famiglia indoeuropea, lo stesso che attualmente è rappresentato dagli Albanesi; era giovane, ardito e ambizioso. In tutta la sua vita aveva cercato le avventure, e l’avventura a cui lo invitavano i Tarantini gli pareva la più bella e la più promettente. Non poteva egli, introdotto in Italia dai Tarantini, diventare, vincendo i Roman, il signore dell’Italia, un paese che la voce dei mercanti gli dipingeva più bello del suo selvaggio e sterile Epiro? Pirro accettò la proposta dei Tarantini, e sbarcò a Taranto con ventitremila uomini e venti animali da cui forse il suolo d’Italia non era stato mai calcato. I Romani certo non li conoscevano e, prima di apprendere dai Greci che quegli animali si chiamavano elefanti, li chiamarono ingenuamente, dalla terra d’Italia in cui la prima volta li avevano incontrati, “bovi di Lucania”. Il primo scontro tra Pirro e i Romani si ebbe presso una città sul golfo di Taranto chiamata Eraclea, nel 280 aC. I “bovi di Lucania”, lanciati abilmente in mezzo alle file dei combattenti, spaventarono talmente i fanti romani che, pur avendo causato tra le file degli Epiroti perdite gravissime, essi dovettero volgere in fuga alla fine della battaglia. “Un’altra di queste vittorie, e dovrò tornare in Epiro senza un soldato”, disse allora tristemente il valoroso re balcanico, e da quel momento si chiamò “vittoria di Pirro” ogni vittoria ottenuta a troppo caro prezzo. Il Re, invece di sfruttare il suo successo, cerca di trattare la pace con Roma, e solo quando il Senato gli impone per questa condizioni troppo gravose, si risolve a riprendere la guerra. Caio Fabrizio e Manlio Curio Dentato sono i comandanti degli eserciti che Roma manda contro il pericoloso intruso. Pur combattendo valorosamente e vittoriosamente ad Ascoli di Puglia e a Benevento, i due forse non insegnano nel campo militare nulla di nuovo al bellicoso sovrano, ma, a stare a quanto raccontano gli storici, essi fecero sì che il Re ripassasse l’Adriatico col ricordo incancellabile della grande onestà dei magistrati romani che non solo, poveri, non si lasciarono corrompere dalle offerte di denaro, ma sapevano essere leali col nemico contro i loro interessi.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Onestà di Fabrizio
Dopo la battaglia di Eraclea, in cui i Romani furono gravemente sconfitti, giunsero ambasciatori a Pirro per trattare la restituzione dei prigionieri di guerra. Fra gli ambasciatori romani era Caio Fabrizio, noto per il suo valore e per la sua onestà. Pirro, sapendo che Fabrizio era anche molto povero, cercò di corromperlo, offrendogli una considerevole somma, come segno di amicizia. Fabrizio rispose sorridendo a Pirro che la sua povertà gli era cara quanto la libertà personale e rifiutò il dono. Il giorno seguente Pirro cercò di spaventare l’onesto ambasciatore facendo entrare nella tenda in cui si trattava la resa dei prigionieri un elefante (animale che Fabrizio non aveva mai veduto). Ancora una volta Fabrizio sorridendo disse che l’elefante non lo aveva spaventato più di quanto lo avesse persuaso l’offerta dell’oro. Pirro cominciò a stimare fortemente Fabrizio e la stima accrebbe in altra occasione. Il medico personale del re aveva inviato una lettera a Fabrizio, promettendogli che se avesse avvelenato Pirro sarebbe stato ampiamente ricompensato. Per tutta risposta Fabrizio rivelò a Pirro ogni cosa, avvisandolo del tradimento e del pericolo che incombeva su di lui.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le ambizioni di Pirro e la saggezza del suo ministro
Pirro, il famoso re dell’Epiro, s’apparecchiava con grande entusiasmo alla sua spedizione in Italia, chiamato dai Tarantini contro i Romani. Non mai il suo amico e consigliere Cinea l’aveva visto così allegro. “Vedi?” gli diceva enfaticamente il re, mettendolo a parte dei suoi progetti, delle sue ambizioni e delle sue speranze, “Adesso noi conquisteremo l’Italia.” “E poi?”, gli rispondeva Cinea, conservando tutta la propria calma. “Dopo l’Italia”, proseguiva Pirro, “abbatteremo Cartagine e conquisteremo l’Africa” “E poi?” “Poi conquisteremo la Macedonia, la Grecia e gli altri Paesi del mondo”. “E quando avremo conquistato tutto il mondo?” “Oh! Allora” esclamò Pirro “noi ritorneremo nel nostro regno e godremo una continua pace….” “E perchè” l’interruppe Cinea “non cominciamo subito da questo? Perchè lasciare in ultimo quel che si può avere in principio?” Se Pirro avesse dato ascolto al suo ministro, non gli sarebbero toccate le batoste che ebbe dai Romani a Benevento.
Nonostante le sue smodata ambizioni, il re Pirro fu uomo generoso, oltre che gran capitano. Una volta, gli fu riferito che alcuni giovani, in un banchetto, si erano scagliati a dir corna di lui. Egli li fece subito imprigionare, e condotti alla sua presenza, domandò loro se fosse vero. “Altro che vero!” rispose uno, “E se non fosse stato che sul più bello ci mancò il vino, a parole, ti avremmo anche ammazzato!” Rise il re Pirro, e cavallerescamente li rimandò a casa, raccomandando loro di non bere più tanto vino un’altra volta.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Storia di Roma IMPERIALE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.
Storia di Roma IMPERIALE – Augusto
Alla morte di Cesare, tutta Roma insorse contro gli uccisori: Cesare era stato il grande conquistatore della Gallia. Egli era stato amico del popolo e il popolo voleva vendetta. I congiurati fuggirono e, a Roma, pretese il potere Marco Antonio, luogotenente di Cesare durante le guerre vittoriose. Molti temevano la prepotenza di Antonio, e i Senatori gli erano avversari accaniti. A Marco Antonio si affiancò, intanto, un giovane di vent’anni, Cesare Ottaviano, parente ed erede di Cesare. Dapprima i due furono d’accordo e si divisero il potere dello Stato: Antonio ebbe le terre d’Oriente, Ottaviano quelle d’Occidente. Ottaviano, però, era ambizioso e sicuro di sè ed aveva l’appoggio e l’amicizia del Senato. Appena Antonio, con i suoi errori, gliene diede l’occasione, mosse guerra contro di lui e lo sconfisse nella battaglia di Azio (Grecia). Antonio si uccise. Ottaviano rimase solo al potere. Egli ottenne, allora, ogni autorità; fu, nello stesso tempo, console, dittatore, pontefice; ebbe i titoli di Augusto, che vuol dire “grande”, “divino”, e di Imperatore, che vuol dire “comandante supremo” delle legioni. Con Cesare Ottaviano Augusto , nell’anno 27 aC finiva la Repubblica e cominciava l’Impero. Augusto governò saggiamente lo stato e, dopo tante lotte, garantì ai Romani un lungo periodo di tranquillità. In Roma sorse un tempio dedicato alla Pace dove l’Imperatore stesso compiva le cerimonie dei sacrifici. Trascorsero 27 anni e, in una lontana provincia dell’Impero, la Palestina, nacque Gesù.
Storia di Roma IMPERIALE – Ottaviano, Antonio e Cleopatra
Gli uccisori di Cesare fuggirono in tutta fretta per non essere massacrati dal popolo. La repubblica fu ancora sconvolta da sanguinose guerre civili che si conclusero con la vittoria di Caio Giulio Cesare Ottaviano, nipote del morto dittatore. L’ultimo suo rivale fu Marco Antonio, un eccellente uomo di guerra che aveva avuto dal Senato il governo delle province d’Oriente. Laggiù aveva sposato Cleopatra, regina d’Egitto, e s’era messo, lui, governatore romano, a regalare alla moglie regina, territori che appartenevano a Roma. Ottaviano non poteva permetterlo e perciò gli mosse guerra. La guerra fra i due rivali fu decisa da una battaglia navale, ad Azio, nel mar Ionio, 15 anni prima che nascesse Gesù. Antonio e Cleopatra avevano una flotta di grosse navi; le navi di Ottaviano erano invece piccole, ma agilissime, ed ebbero la meglio. Ottaviano inseguì i vinti fino in Egitto. Là, i due si uccisero: Antonio con la propria spada; Cleopatra facendosi mordere da un aspide… e anche l’Egitto cadde in potere di Roma.
Storia di Roma IMPERIALE – La battaglia di Azio
La battaglia di Azio fu combattuta il 2 settembre del 31 aC, tra le 250 navi leggere di Ottaviano e le 500 navi pesanti di Antonio: tra queste ultimi figurano 60 vascelli egizi, uno dei quali, riconoscibile dalla vela rossa, portava Cleopatra, regina d’Egitto. Lo scontro avvenne al largo del promontorio di Azio, sulla costa occidentale della Grecia. Su quella punta sorgeva un tempio dedicato ad Apollo, e i soliti bene informati, a Roma, andavano dicendo che Ottaviano era figlio del dio… quindi un presagio era chiaro! Non si capisce come mai Antonio, uno dei più bravi comandanti di cavalleria di Roma, abbia preferito dar battaglia per mare. Senza dubbio fu per accontentare Cleopatra, la quale invece aveva fiducia solo nella flotta. Imbarcò dunque 2.000 legionari e 3.000 arcieri. I marinai, in queste battaglie navali, avevano solo il compito di manovrare e di accostare le navi a fianco a fianco di quelle nemiche. La battaglia era allora affidata ai fanti, i quali combattevano sui ponti delle navi come a terra. I veterani di Antonio avevano protestato: ma Antonio aveva deciso che avrebbe giocato sul mare la sua sorte. Un debole vento spinse la sua squadra verso quella di Ottaviano, il quale attendeva al largo e per un po’, allo scopo di allontanarsi bene da terra e trovarsi in acque libere rifiutò battaglia. Poi Agrippa diede l’ordine d’attacco. Arrivate in vicinanza delle pesanti navi nemiche, i suoi soldati cercarono di raggiungerle con giavellotti incendiari. La linea di Antonio si ritirò al centro e Agrippa si infiltrò subito nella breccia aperta. Nulla certo era ancora perduto ma Cleopatra, trovandosi al centro della terribile mischia, perse la testa. In pieno combattimento ruppe il contatto col resto della sua flotta e la sua vela purpurea, immediatamente seguita da tutte le vele egizie, s’allontanò verso l’Egitto. A questo punto anche Antonio perse il controllo: abbandonando la sua squadra, che cadeva sotto i colpi nemici, raggiunse la nave regale e si accasciò affranto sul castello della nave con la testa tra le mani. Meno di un anno dopo la regina e il comandante fuggiasco si diedero la morte: Antonio, trafiggendosi con la propria spada, Cleopatra facendosi mordere da un serpente velenoso. Tutto, anche il suicidio, gli era sembrato preferibile alla vergogna di comparire come prigioniero nel trionfo di Ottaviano. A Roma la notizia della vittoria di Azio fece tirare al popolo un sospiro di sollievo. Tutti avevano tremato prima che la sorte delle armi avesse deciso la contesa. Roma, come ben si sapeva, aveva vinto l’Oriente solo grazie alla sua disciplina e ai suoi metodi di guerra. Se ora generali romani, come Antonio, avessero tentato di organizzare quelle masse, che cosa sarebbe accaduto? Cessò dunque la paura, si tirarono fuori dalle cantine le anfore di vino invecchiato nell’attesa del gran giorno: finalmente cominciava un’epoca di pace! E un piccolo uomo grassoccio, fino a poco prima ufficiale assai poco valoroso tra le file di Bruto, il buon poeta Orazio, versando nella sua coppa il vino migliore, esclamava: “Nunc est bibendum!” (si beva, orsù!). Il sole di Azio rischiarava un mondo nuovo. Difatti, seguirà un lungo periodo di pace interna, operosa, che farà dimenticare un triste passato di sangue.
Storia di Roma IMPERIALE – Ritratto di Augusto
Bello di aspetto, il volto sempre calmo e sereno, anche nei momenti più difficili, Augusto sapeva infondere rispetto e quasi venerazione in chiunque. Un capo dei Galli, che aveva deciso di ucciderlo durante un colloquio, confessò poi di essere stato trattenuto, proprio per la serena maestà del suo volto. Aveva abitudini e gusti semplici, non amava mostrarsi in pubblico per ricevere onori; spesso anzi entrava ed usciva dalla città solo di notte perchè nessuno lo vedesse e gli rendesse gli onori. Cortese con tutti, amato dal popolo, si meritò giustamente il titoli di Padre della Patria. Quando Ottaviano ritornò a Roma vincitore, il Senato gli conferì tutte le cariche e tutti gli onori: nessuno, prima di lui, era stato tanto esaltato! Ma egli non si insuperbì. Il senatore Valerio Messala a nome di tutti così lo salutò: “Salute a te e alla tua casa, Cesare Augusto; noi pregando gli dei per te, preghiamo felicità perpetua e lieti destini alla Repubblica; il Senato, d’accordo col popolo romano, ti acclama Padre della Patria.” Augusto, con le lacrime agli occhi, rispose: “Ed io pregherò gli dei perchè mi concedano di godere del favore del Senato e del popolo romano fino all’estremo giorno della mia vita”.
Storia di Roma IMPERIALE – Carattere di Augusto
Nei giorni di udienza ammetteva perfino i plebei, alla rinfusa, e con tanta benignità accoglieva i desideri di chi andava da lui, che un giorno, vedendo l’esitazione di uno che non sapeva come porgergli la sua supplica, gli disse scherzando se aveva paura di lui come di un elefante dalla minacciosa proboscide. Nei giorni in cui teneva seduta in Senato, entrava, e quando tutti erano seduti, salutava cordialmente per nome i singoli senatori, senza che alcuno gliene ricordasse il nome. Usava modi cortesi con tutti e non mancava mai alle solennità dei suoi amici. Egli rispettò la libertà di tutti. Era senza dubbio molto amato. I cavalieri tutti gli ani celebravano per due giorni di seguito il suo giorno natale; gli altri ordini gettavano ogni anno nel Foro una moneta rituale per la sua salute, e per capodanno gli offrivano la strenna in Campidoglio. Quando riedificò la sua casa sul Palatino dopo l’incendio che l’aveva distrutta, i veterani e tutte le classi cittadine gli offrirono grosse somme di denaro; ed egli non levò da quelle somme che un solo denaro per ciascuna.
Storia di Roma IMPERIALE – La pace romana
Dopo tanti anni di guerre, i popoli dell’Impero accettarono ben volentieri il governo di Augusto, che assicurava a tutti di poter vivere in pace sotto il segno di un’unica legge: quella romana. Durante il suo lungo e pacifico regno, Roma divenne bella e bene organizzata città. Furono restaurati templi ed edifici, vennero demolite numerose vecchie case, si provvide a rafforzare gli argini del Tevere, si costruirono nuovi ponti ed acquedotti. La città si arricchì di bellissimi palazzi e ville, di giardini , fontane di marmo, statue, portici per le passeggiate, di teatri, di fastosi templi, di meravigliosi monumenti, come l’Ara Pacis, e di una grandiosa piazza, chiamata Foro di Augusto. Molte opere furono eseguite o abbellite col denaro dello stesso Imperatore; per questo il Senato conferì ad Augusto il titolo di Restauratore degli edifici sacri e delle opere pubbliche. L’aspetto di Roma mutò tanto che Augusto ebbe a dire: “Ho trovato una città di mattoni e la lascio di marmo”. Anche gli scrittori ed i poeti del tempo, nominando Roma, la chiamarono grande, bellissima, aurea, eterna.
Storia di Roma IMPERIALE – Il governo di Augusto
Nella sua bella casa privata sul Palatino, Augusto diresse l’amministrazione del vasto stato. Con alcune guerre di carattere difensivo allargò i confini a nord e ad est delle Alpi, portandoli al Danubio. L’impero si estendeva ora dalle coste dell’Atlantico all’Eufrate e al Mar Rosso, dalla Manica, dal Reno, dal Danubio e dal Mar Nero alle sabbie del deserto africano, per una superficie doppia di quella dell’impero di Alessandro Magno. Ottaviano si propose di renderlo omogeneo con leggi ed ordinamenti uguali, di migliorarne l’amministrazione, di difenderne la sicurezza, di rinnovarlo moralmente. Per poter compiere questa grande opera, fu amante della pace; tornato a Roma dall’Egitto, chiuse le porte del tempio di Giano a significare che si inaugurava per tutto l’impero la Pax Romana. Augusto riformò anche l’amministrazione delle province antiche e nuove; anzitutto divise l’impero in 25 province distinte in senatorie ed imperiali. Erano senatorie, cioè governate da proconsoli eletti dal Senato, quelle (12 in tutto) di più antica conquista e quindi di pacifico dominio; imperiali quelle di recente conquista e poste nelle zone di confine, facili perciò a pericoli interni ed esterni: erano governate dall’imperatore per mezzo dei suoi luogotenenti o prefetti. A tutti i funzionari delle province assegnò un regolare stipendio. Così si cominciò a formare una classe di impiegati statali, quella che noi chiamiamo burocrazia. Riordinò anche l’esercito. Siccome il reclutamento obbligatorio non era più gradito ai Romani, organizzò un esercito permanente, formato di volontari stipendiati che prestavano servizio per vent’anni, e poi venivano congedati, ricevendo un premio in denaro o un pezzo di terra da coltivare. Augusto curò anche la flotta e pose basi navali, una a Ravenna e l’altra a Miseno, una terza nel Mediterraneo occidentale per sorvegliare le coste galliche e spagnole, una quarta nel Ponto Eusino per il confine orientale. Per la protezione della sua persona, istituì nuove coorti di soldati speciali detti pretoriani, dal nome del palazzo imperiale Praetorium. Compì grandi lavori pubblici di abbellimento e di utilità: templi, archi, acquedotti, vie. Augusto cercò anche di ravvivare il sentimento religioso, la moralità nei costumi, l’amore all’agricoltura, il patriottismo dei cittadini, che si erano rilassati per lo smodato desiderio delle ricchezze, del lusso, dei piaceri materiali; ma queste riforme ebbero scarso risultato. Insieme con i suoi consiglieri, Mecenate ed Agrippa, incoraggiò la letteratura e l’arte che raggiunsero allora il massimo splendore.
Storia di Roma IMPERIALE – Augusto e il centurione
Un giorno l’imperatore Cesare Ottaviano Augusto se ne stava tra i suoi amici, quando seppe che un centurione chiedeva con insistenza d essere ricevuto. Ordinò che fosse fatto passare. Appena vide il centurione, Augusto sorrise: riconosceva in lui uno dei suoi più fedeli soldati. Gli chiese che cosa volesse. “Il tuo aiuto, Cesare. Un nemico invidioso delle terre che mi hai regalato, come a tutti i tuoi soldati, ha presentato in tribunale una grave accusa contro di me. Io so di avere il giusto diritto dalla mia parte; egli ha una grande autorità presso i giudici che dovranno dare la sentenza; perciò sono venuto a chiederti di difendere la mia causa”. I presenti si guardarono tra loro sbalorditi. Come osava, un modesto centurione, parlare così al signore di Roma? Ma Augusto ben conosceva quel soldato; sapeva che veramente era stato fedele e valoroso. Gli additò allora una persona che gli sedeva accanto, e che era un famoso avvocato. “Ecco, questo mio amico ti difenderà davanti ai giudici perchè il tuo buon diritto trionfi. Va’ pure tranquillo”. Ma il centurione non si mosse. Poi alzò fieramente il capo e, aprendo la veste sul petto, mostrò le ferite che lo solcavano. “Cesare, quando nella battaglia di Azio la tua fortuna e la tua vita erano in pericolo, io non incaricai nessuno di difenderti, ma lo feci io stesso”. Augusto tacque, colpito; poi, guardando il soldato: “Hai ragione!” disse, “Va’ senza paura: verrò io stesso in tribunale a difendere la tua causa”. (C. Lorenzoni)
Storia di Roma IMPERIALE – Ave, o Cesare
L’imperatore Cesare Augusto tornava a Roma dopo aver vinto una grande battaglia. Un popolano gli andò arditamente incontro e gli presentò un corvo, al quale egli aveva insegnato a dire: “Ave, o Cesare, vittorioso imperatore!”. Augusto, sorpreso e lusingato, volle l’uccello e diede in cambio una forte somma di denaro. Un povero ciabattino, che aveva assistito alla scena, con i pochi suoi risparmi comperò subito un bel pappagallo e cominciò ad ammaestrarlo, perchè salutasse l’imperatore con le stesse parole del corvo. Ma il pappagallo stentava ad imparare e il povero ciabattino, sfiduciato, dopo ogni prova ripeteva: “Oh povero me, ho sciupato tempo e denaro!”. Finalmente il pappagallo riuscì a ripetere le parole del saluto ed il ciabattino, contento e pieno di speranza, si presentò ad Augusto. L’uccello, sollecitato, disse con bella voce e molta sicurezza: “Ave, o Cesare, vittorioso imperatore!”. Ma Augusto, udito il saluto, rispose disgustato: “Via! Via! Ho pieni gli orecchi di questi saluti!”. Il povero ciabattino stava per andarsene mortificato, quando all’improvviso il pappagallo, con sfacciata petulanza, si mise ad urlare: “Oh povero me, ho sciupato tempo e denaro!”. Augusto rise a quelle parole, richiamò il ciabattino e comprò il pappagallo a caro prezzo.
Storia di Roma IMPERIALE – L’Altare della Pace
In onore dell’Imperatore un mese dell’anno prese il nome di Agosto, che vuol dire mese di Augusto. Gli avrebbero voluto innalzare anche un tempio, ma egli non volle. Preferì che, nel cuore di Roma, sorgesse un nuovo monumento, chiamato l’ “Altare della Pace”. Aveva forma quasi quadrata ed era costruito tutto in marmo, con due fronti e una porta per ogni fronte; internamente vi era l’altare o ara. Il monumento, privo di colonne, era percorso da magnifici bassorilievi, dove erano sculture rappresentanti una solenne processione: la processione di uomini, donne e bambini, che portavano i loro voti all’altare della pace, promettendo di essere sempre pacifici e concordi. Nel periodo della pace di Augusto progredirono gli studi e la cultura. Visse allora il poeta Virgilio, il più grande poeta latino e uno dei più grandi dell’umanità. Inoltre vanno ricordati Orazio, Tibullo, Ovidio, anch’essi poeti, e il grande Tito Livio.
Augusto
Augusto fu l’ultimo console e il primo imperatore romano. Il destino gli aveva preparato un grande avvenire. Non per nulla, mentre, ancora fanciullo, aveva chiesto ad un indovino che cosa li prediceva per il futuro, l’indovino stesso gli si era inginocchiato davanti. Tuttavia egli era di animo mite e giusto e benevolo. Ad un soldato che gli diceva di difenderlo davanti ai giudici rispondeva dapprima: “Ti manderò in difes il mio migliore avvocato”. Ma siccome il soldato insisteva dicendo: “Quando mi chiamasti per la guerra io stesso venni e non mandai altri!”, Augusto aggiunse pronto: “Hai ragione! Verrò io stesso!”.
Storia di Roma IMPERIALE – Virgilio
A Roma si diceva “Virgilio consuma più olio che vino”. Ciò voleva dire che Virgilio studiava, anche di notte, al lume della lucerna e che era sobrio, cioè mangiava poco e beveva meno. Egli diceva di sè “Sono nato in un solco di campo, presso Mantova”. Infatti era nato da famiglia contadina, a Pietole. Si narrava che, appena nato, trovandosi in una culla, n mezzo al campo, uno sciame di api si erano posate sui rosi labbruzzi. Da grande divenne poeta dolcissimo. Le sue parole sembravano davvero di miele. A Roma fu molto stimato dall’Imperatore Augusto e protetto da un ricco patrizio di nome Mecenate. Egli scrisse, tra l’altro, un grande poema, nel quale narrò la storia di Enea e la fondazione di Roma. Perciò quel poema fu intitolato Eneide. I versi dei poeti, allora, venivano cantati, con l’accompagnamento della lira, strumento musicale con cinque corde di metallo. Nei suoi versi, Virgilio annunciava tempi nuovi, di pace e di bontà, nei quali non avrebbe più contato la forza, ma la dolcezza e la mansuetudine. Il grande poeta morì a Brindisi nel 19 aC e fu sepolto a Napoli, in faccia al mare da cui era venuto l’eroe del suo poema.
Virgilio
Virgilio fu un grande poeta vissuto durante l’impero di Augusto. Egli amava la natura, gli animali e le piante; preferiva la vita campestre e si affliggeva che l’agricoltura fosse, ai suoi tempi, in abbandono. La sua opera più importante fu l’Eneide, dove volle celebrare la sua patria dalle origini fino ai tempi di Augusto. Secondo le ultime volontà di Virgilio, questo poema doveva essere distrutto, ma dobbiamo ad Augusto se ancora possiamo leggere i versi armoniosi dell’Eneide.
Storia di Roma IMPERIALE – Quanti erano i cittadini romani
“Nel mio sesto consolato feci il censimento del popolo… Risultarono allora censiti 4.063.000 cittadini romani. E poi di nuovo ripetei la stessa cerimonia da solo col potere consolare, durante il consolato di Caio Censorino e Gaio Asinio. E furono in questo lustro censiti 4.233.000 cittadini romani. Per la terza volta, rivestito del potere consolare, feci il censimento avendo collega il mio figliolo Tiberio Cesare, quand’erano consoli Sesto Pompeo e Sesto Apulio; e risultarono allora cittadini romani 4.037.000” (da Res gestae divi Augusti)
Storia di Roma IMPERIALE – Roma grande emporio della terra
Il mar Mediterraneo come una cintura cinge il centro del mondo e il centro del vostro dominio; e intorno al mare si stendono i continenti colmi di ricchezze sempre a vostra disposizione. Qui affluisce, da ogni parte della terra e del mare, quello che producono le varie stagioni, le singole regioni, industrie di Greci e di barbari: per vedere tutte queste diverse cose, bisognerebbe viaggiare per tutta la terra, ma basta venire nell’Urbe. Tutto quello che si produce e si fabbrica nei singoli paesi, qui si trova. E così numerose approdano qui le navi mercantili in tutte le stagioni ad ogni mutare di costellazione, cariche di ogni sorta di mercanzie, che l’Urbe si può paragonare al grande emporio generale della terra. E così forti carichi di vedono arrivare dall’India e perfino dall’Arabia felice da far venire il dubbio che in quei paesi siano rimasti spogli gli alberi, e gli abitanti debbano venir qui a domandare i loro prodotti quando ne hanno bisogno; e le stoffe di Babilonia e gli altri generi di lusso di quelle lontane terre barbare si vedono arrivare con molta maggiore frequenza e facilità delle mercanzie inviate da Cidno ad Atene in altri tempi. Sono vostri granai l’Egitto, la Sicilia e la Libia nella parte abitata. (Elio Aristide)
Storia di Roma IMPERIALE – L’impero di Augusto
L’Impero Romano si stendeva ormai, con Augusto, dal Reno al Danubio, a nord, fino al deserto dell’Africa ed alle montagne dell’Atlante, a sud; dall’Atlantico, ad ovest, fino al Mar Nero, al Ponto, alla Siria, al Mar Rosso, ad est. “Allargai i confini di tutte le province del popolo romano, alle quali erano confinanti popolazioni che non obbedivano al nostro dominio. Sottomisi le province delle Gallie e delle Spagne, e similmente la Germania, seguendo il confine dell’Oceano, da Cadice alla foce dell’Elba. Assoggettai le Alpi, dalla regione prossima al mare Adriatico fino al Tirreno, a nessuna gente recando guerra ingiustamente” (da Res gestae divi Augusti)
Storia di Roma IMPERIALE – Giustizia e generosità di Augusto
Un giorno un suo parente gli propose di mandare gli eserciti di Roma contro un piccolo popolo africano che nulla aveva fatto per meritarsi un sì tremendo castigo. Il cattivo consigliere diceva all’Imperatore: “In pochi giorni i nostri soldati conquisteranno un regno; quel popolo non si aspetta la nostra aggressione e certamente cederà senza combattere”. Ebbene, sai come rispose Augusto? Augusto rispose così: “I Romani non si macchieranno mai di un tale delitto; la nostra forza sta nella giustizia e non nelle armi”. Un’altra volta l’imperatore Augusto si trovò a dover giudicare un povero colto nell’atto di rubare un pezzo di pane. Il reo si scusò in questo modo: “Rubai perchè avevo fame. Sono disoccupato”. Pronto l’imperatore rispose: “Il furto è furto e ti condanno. Tuttavia eccoti una moneta d’oro. Espiata la condanna potrai andare avanti finchè non avrai trovato lavoro”
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Storia di Roma IMPERIALE – Altri imperatori della famiglia Giulio – Claudia
Storia di Roma IMPERIALE – Tiberio (14 – 37 dC)
Negli ultimi anni della sua vita Augusto aveva adottato e designato come erede il figliastro Tiberio, nato da Livia, sua terza moglie, appartenente all’antica e orgogliosa gens Claudia. Tiberio fu accettato tanto dal Senato che dall’esercito e con lui l’impero si trasmise per 54 anni alla famiglia Giulio – Claudia. Nel primo anno governò saggiamente e riportò anche successi militari contro i Germani del Reno, che avevano distrutto un esercito romano. Ma negli ultimi anni Tiberio, divenuto sospettoso e crudele, si macchiò di numerosi delitti. Ritiratosi a cercare sicurezza e pace nell’incantevole isola di Capri, lasciò il governo di Roma in mano del suo ministro Elio Seiano, che commise ogni sorta di prepotenze, finchè fu fatto uccidere dallo stesso imperatore. Tiberio morì nel 37 dC, lasciando cattiva memoria di sè. Negli ultimi anni del suo regno, a Gerusalemme, era stato crocefisso Gesù e i suoi discepoli si erano sparsi nelle regioni mediterranee a diffondervi la sua dottrina: nascela così il cristianesimo.
Storia di Roma IMPERIALE – Tiberio
Ad Augusto, morto nel 14 dC, successe il figliastro Tiberio. Costui, in principio, governò saggiamente e vinse i Germani, che avevano distrutto un esercito romano. In seguito, però, divenne crudele e commise numerosi delitti. Resse l’impero non più da Roma, ma da Capri. Durane il suo regno fu crocefisso Gesù. A Tiberio successero parenti deboli, o pazzi e crudeli.
Storia di Roma IMPERIALE – Caligola (37 – 41 dC)
Verso la fine del suo principato, Tiberio aveva dimostrato benevolenza verso un nipote, Caio, soprannominato Caligola perchè fin da bambino soleva portare le calzature militari dette caliga. Il Senato lo accolse come successore. Aveva 24 anni. Al principio del suo regno si mostrò mite e deferente verso il Senato, ma presto, o per disposizione naturale o per una malattia che ne alterò profondamente la ragione, cominciò a commette atti folli e crudeli, sperperando ricchezze, condannando a morte i cittadini più ricchi, per confiscare i loro beni. Fu ucciso da una congiura di pretoriani in un corridoio del palazzo.
Storia di Roma IMPERIALE – Claudio (41 – 54 dC)
Dopo questa terribile esperienza, il Senato avrebbe voluto un ritorno della repubblica. Ma i pretoriani acclamarono imperatore uno zio di Caligola, Claudio. Aveva 50 anni: uomo più di studio che d’azione, era d’animo mite e debole, inesperto di politica. Restaurò con saggia amministrazione le finanze, rovinate dalle spese pazze di Caligola, tanto che potè costruire opere pubbliche di grande utilità: un nuovo acquedotto, che si considera uno delle più grandiose opere dell’ingegneria romana; un canale emissario del lago Fucino; l’allargamento del porto di Ostia, perchè potessero approdare le grandi navi da carico. Con una fortunata spedizione militare fu conquistata la parte meridionale della Britannia. Ma, vittima della sua debolezza, si lasciò raggirare dagli scaltri liberti, che divennero potenti alla sua corte, e dalla moglie ambiziosa e corrotta, Messalina. Non migliore fu la seconda moglie di Claudio, Agrippina, già vedova, con un figlio dodicenne, Lucio Domizio Nerone. Questa donna ambiziosa, volendo assicurare l’impero al proprio figlio, circuì così abilmente il debole marito, da fargli diseredare Britannico, figlio di Claudio e di Messalina. Poco dopo Claudio morì improvvisamente. Corse voce che Agrippina lo avesse avvelenato. I pretoriani, addomesticati e corrotti, acclamarono Nerone, e il Senato, sempre arrendevole, ne confermò l’elezione.
Storia di Roma IMPERIALE – Nerone
L’ultimo imperatore della famiglia di Tiberio fu Nerone. Egli ben presto iniziò una lunga serie di delitti. Il popolo lo accusò anche dell’incendio di Roma, che nell’anno 64 distrusse i quartieri più popolari della città. Temendo l’ira del popolo, Nerone gettò la colpa sui cristiani. Cominciò così la prima grande persecuzione, nella quale molti martiri morirono tra i più atroci tormenti. Il malcontento contro Nerone dilagò ugualmente: la Giudea, la Gallia e la Spagna si ribellarono. Nerone fuggì da Roma e, per non cadere vivo in mano nemica, si fece uccidere da uno schiavo. Alla sua morte scoppiarono feroci lotte per la conquista del potere.
Storia di Roma IMPERIALE – Nerone (54 – 68 dC)
Nerone saliva al trono a 17 anni. I primi cinque anni del suo governo, nei quali si lasciò guidare dai due precettori, il generale Burro e il filosofo Seneca, furono felici. Poi i cattivi istinti ereditati dalla famiglia Claudia degeneraa, esplosero in lui sotto forma di viltà e ferocia e, cominciò l’orrenda serie dei suoi delitti. Temendo che gli fosse contrapposto il fratellastro Britannico, lo fece avvelenare; al fratricidio seguì presto l’uccisione della madre. Essendosi scoperta una congiura contro di lui, fu preso dal terrore e mandò a morte un grandissimo numero di persone, anche innocenti. Tra le vittime più famose furono il poeta Lucano, il suo maestro Seneca e lo scrittore Petronio, che era stato fino al giorno prima suo amico. Ma il più grande delitto che la voce pubblica attribuì a Nerone fu l’incendio di Roma, che nel 64 distrusse vari quartieri della città. Forse l’incidente era casuale, ma il popolo esasperato minacciava vendetta: si diceva che l’imperatore volesse distruggere la città per ricostruirla più bella sulle sue rovine, oppure che volesse esaltarsi alla vista di un colossale incendio per trarre ispirazione a un poema sulla caduta di Troia. Per discolparsi, Nerone accusò a sua volta i cristiani. L’accusa di Nerone trovò facilmente credito negli animi esasperati che esigevano la punizione dei colpevoli. Parecchi cristiani, arrestati, sotto le torture cedettero e si confessarono rei. Cominciò allora la prima grande persecuzione: molti cristiani furono condannati al rogo o dati in pasto alle belve. In questa persecuzione fu crocefisso l’apostolo Pietro e poi decapitato Paolo. Ma il malcontento dilagava da per tutto, fra gli stessi pretoriani; la Giudea insorse e Nerone fu costretto a mandarvi contro il generale Vespasiano. Insorsero la Gallia e la Spagna, e le legioni colà stanziate proclamarono decaduto Nerone ed elessero il generale Galba, il quale marciò su Roma. Nerone, spaventato, fuggì nella sua villa, sulla via Nomentana, e per non cadere vivo nelle mani degli inseguitori, si fece uccidere da uno schiavo. Con lui si spense la funesta dinastia dei Claudi. Le legioni più forti decidono ora la scelta dell’imperatore. Dopo due anni di anarchia militare, durante i quali si succedettero tre imperatori (Galba, Ottone e Vitellio), che si combatterono tra di loro e morirono tutti violentemente, la pace e l’ordine furono restaurati per opera di Tito Flavio Vespasiano, fondatore della dinastia dei Flavi.
Storia di Roma IMPERIALE – Le torce viventi
La notte non era ancora discesa, e già la folla si riversava nei giardini cesarei, per assistere allo spettacolo. Roma conosceva già lo spettacolo dei roghi, non mai però s’era veduto un così gran numero di condannati. Nerone e Tigellino avevano deciso di farla finita con i cristiani, ed avevano perciò ordinato che si sbarazzassero tutti i sotterranei, non lasciandovi che un piccolo numero di vittime da servire agli spettacoli di chiusura. La folla, entrando nei giardini, si faceva muta di meraviglia. In tutti i viali si ergevano pali spalmati di ragia, ai quali erano legati i cristiani. Dai punti più alti, dove gli alberi non impedivano la vista, si scorgevano interminabili file di pali e di condannati, cinti di fiori, d’edera e di mirto. Il numero delle vittime era più grande di ogni immaginazione. Intorno a ciascun palo sostavano persone a gruppi, e un dubbio si manifestava in molti con la domanda: “Possibile che vi siano tanti colpevoli?”. Oppure: “Come possono aver incendiato Roma questi bambini, che ancora non si reggono da sè?”. Al dubbio e allo stupore succedeva il turbamento. Scese la notte, e nel cielo brillarono le prime stelle. Ad ogni condannato si avvicinò uno schiavo, provvisto di fiaccola: e, quando lo squillo delle trombe risuonò da più punti del giardino ad annunciare che lo spettacolo cominciava, ciascuno depose la torcia ai piedi di un rogo. La folla tacque; un alto gemito si levò nei giardini, e poi non si udirono che grida strazianti. Alcune vittime, però, fissando gli occhi al cielo scintillante di stelle, intonarono inni di gloria a dio. Lo spettacolo era appena cominciato, quando Nerone apparve in una magnifica quadriga circense, tirata da cavalli bianchi. Tratto tratto si arrestava per meglio godersi lo spettacolo di qualche vittima, poi proseguiva, seguito dal suo corteo. Giunto infine alla gran fontana, scese dalla quadriga e si confuse tra il popolo. Evviva e battimani lo accolsero; senatori, sacerdoti e soldati lo circondarono, ed egli, con ai lati Tigellino e Chilone, fece il giro della fontana, intorno alla quale ardevano più di dieci vittime. I pali erano già quasi tutti arsi ovunque, e cadevano attraverso i viali, diffondendo intorno scintille, fumo, odore di legno e carne bruciata. Poi i fuochi man mano si spensero e sul giardino dominarono le tenebre della notte. La folla faceva ressa alle uscite. Cominciavano a udirsi voci di compassione per i cristiani: “Se non è vero che hanno incendiato Roma, perchè tanto sangue? Perchè tante torture e tante ingiustizie? E i numi non vendicheranno quegli innocenti? Come placare il loro sdegno?”. Si udivano sempre più frequenti le parole “vittime innocenti”. Le donne piangevano la morte dei bambini gettati alle belve, crocefissi e bruciati vivi in quei maledetti giardini. Il sentimento di pietà traeva dai cuori maledizioni a Nerone e Tigellino. Molti chiedevano a se stessi e agli altri: “Ma che dio è il loro che dà tanta forza di sopportare il martirio?”. E rientravano pensosi nelle loro case. (E. Sienkiewicz, da Quo vadis?)
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Storia di Roma IMPERIALE – La dinastia dei Flavi (69 – 96)
Storia di Roma IMPERIALE – Vespasiano
Nell’Impero tornò la pace con Tito Flavio Vespasiano. Egli governò ottimamente. Aprì le scuole con maestri pagati dallo stato, fece costruire grandi edifici pubblici, fra i quali l’anfiteatro Flavio, detto Colosseo.
Storia di Roma IMPERIALE – Tito Flavio Vespasiano
Fu acclamato imperatore, alla fine del 69, dalle sue legioni stanziate in Oriente per la guerra giudaica. Lasciata al figlio Tito la direzione della guerra, egli venne a Roma, dove fu accolto come un pacificatore e fu riconosciuto dal Senato. In 10 anni di ottimo governo, riparò a tutte le sciagure che dai tempi di Nerone avevano afflitto l’impero. Creò delle scuole con maestri stipendiati dallo stato e compì grandi opere pubbiche, fra le quali l’anfiteatro Flavio, chiamato poi Colosseo, capace di contenere 50.000 spettatori.
Storia di Roma IMPERIALE – Tito
A Vespasiano successe il figlio Tito, detto delizia del genere umano per la sua bontà. Se non compiva qualche buona azione in una giornata diceva: “Ecco un giorno perduto!”. Governò solamente tre anni. Ebbe il dolore di vedere la città di Pompei, Stabia ed Ercolano distrutte e sepolte da una tremenda eruzione del Vesuvio (79 dC).
Storia di Roma IMPERIALE – Tito
A Vespasiano successe il figlio Tito, che aveva condotto a termine felicemente la guerra giudaica, espugnando Gerusalemme. In suo onore fu costruito l’Arco Trionfale. Per la mitezza e la generosità che lo distinguevano, meritò di essere chiamato “delizia del genere umano”. Durante il suo breve e pacifico regno una violenta eruzione del Vesuvio, nell’anno 79, seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia.
Storia di Roma IMPERIALE – La distruzione di Pompei
Da parecchi giorni la terra era scossa da un lieve terremoto; a un tratto le scosse divennero più violente. Una grossa nuvola nera di cenere, interrotta da lingue di fuoco, usciva dal cratere del Vesuvio e si ingrandiva sempre più: discese dal monte, coprì i campi e giunse fino al mare. La terra sprofondò. Donne, uomini, bambini, fuggirono terrorizzati dalle loro case, urlando, piangendo, invocando gli dei. Non si vedeva nulla: i fanciulli chiamavano la mamma, le mamme i figli, i mariti le spose. Sembrava giunta la fine del mondo. Anche a Pompei si udì un terribile boato e sulla città sembrò scendere la notte. Moltissimi si trovavano nell’anfiteatro ad assistere ad uno spettacolo di gladiatori. I cittadini, impazziti di terrore, si riversarono sulla strada che conduceva al mare. Alcuni riuscirono a salvarsi, altri si attardarono nelle loro case per prendere i gioielli e i denaro. Di questi ultimi nessuno si salvò: morirono asfissiati dalle ceneri e dai vapori ardenti. Pompei fu sepolta e così Ercolano e Stabia.
Storia di Roma IMPERIALE – La famosa eruzione del Vesuvio del 79
Lo scrittore romano Plinio il Giovane ci ha lasciato in una sua lettera questa viva e impressionante descrizione dell’eruzione del Vesuvio che nel 79 seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia. Lo zio dello scrittore, Plinio il Vecchio, considerato il più grande naturalista romano e autore di una Storia Naturale, spinto dall’amore della scienza, accorse, incurante del pericolo, per osservare da vicino il fenomeno, ma trovò la morte. “La nube, che da lontano era difficile capire da qual monte sorgesse (solo più tardi si seppe che proveniva dal Vesuvio), somigliava per la sua forma ad un albero, più precisamente ad un pino, poichè, dopo essersi levata assai in alto, come un tronco altissimo, si ramificava intorno e appariva ora bianca, ora nerastra, secondo che era più carica di terra o di cenere. Come era naturale, dato il suo amore alla scienza, mio zio credette che quel grandioso fenomeno fosse degno di essere esaminato più da vicino. Ordinò dunque che gli si apparecchiasse la sua lancia (egli si trovava a Miseno, al comando della flotta romana) e stava già per uscire di casa, quando ricevette un biglietto di Rectina, moglie di Casco, atterrita dall’imminente pericolo, poichè la sua villa stava ai piedi del Vesuvio, nè altro scampo vi era se non per mare, e pregava affinchè egli volesse salvarsi da sì grande catastrofe. Allora mio zio mutò consiglio e si accinse ad affrontare col più grande coraggio ciò che prima pensava di osservare con interesse di studioso. Fece venire delle quadriremi, vi montò sopra egli stesso e partì per portare soccorso, non solo a Rectina, ma a molti altri, poichè la spiaggia bellissima assai era popolata. A mano a mano che le navi si avvicinavano, una cenere più spessa e più calda pioveva su di esse; già cadevano tutt’intorno lapilli e scorie ardenti, già si era formata una improvvisa laguna, profotta dal sollevamento del fondo del mare, e il lido era reso inaccessibile peri cumuli di lapilli. Allora, dopo essersi fermato, alquanto incerto se tornare indietro o procedere oltre, mio zio disse al pilota, che gli consigliava appunto di guadagnare l’alto mare: “La fortuna aiuta i forti: drizza la prua verso la villa di Pomponiano”. Pomponiano si trovava a Stabia… Mio zio, portato là dal vento assai favorevole alla sua navigazione, abbraccia il suo amico tutto tremante, lo rincuora, lo esorta a farsi coraggio… Frattanto dal Vesuvio, in più punti, si vedevano rilucere vasti incendi, il cui fulgore era accresciuto e fatto più palese dalle tenebre della notte… Si consultarono fra loro se chiudersi dentro o se fuggire per l’aperta campagna; poichè, da un lato, le case ondeggiavano per i frequenti terremoti e sembrava che, schiantate dalle fondamenta, fossero gettate ora su un fianco ora su un altro e poi rimesse a posto; dall’altro lato, all’aperto, la pioggia delle pomici, sebbene leggere e porose, non incuteva minor paura. Tuttavia il confronto fra i due pericoli fece scegliere quest’ultimo partito: si scelse dunque l’aperta campagna… Essi escono e si proteggono il capo, coprendosi con dei guanciali, che legano mediante lenzuoli, precauzione necessaria contro la tremenda pioggia che veniva dall’alto. Altrove era giorno, ma là dove essi erano perdurava la notte, la più nera ed orribile fra tutte le notti, squarciata solo da un gran numero di fiaccole e da lumi d’altro genere. Si credette bene accostarsi alla riva e vedere da vicino quello che il mare permettesse di tentare. Ma le onde erano sempre grosse e agitate da un vento contrario. Qui, sdraiato sopra un lenzuolo che aveva fatto distendere per terra, mio zio chiede e bevve due volte dell’acqua fresca. Poi le fiamme e l’odor di zolfo, che le preannunciava, fecero fuggire tutti gli altri e costrinsero mio zio a levarsi in piedi. Si rizzò, appoggiandosi a due schiavi, ma cadde immediatamente, come fulminato.” (Plinio il Giovane)
Storia di Roma IMPERIALE – Gli scavi di Pompei
Dopo diciassette secoli, furono iniziati gli scavi per riportare alla luce Pompei. Chi si reca oggi a visitarla, vede com’era una città al tempo di Roma antica: lunghe vie lastricate, il Foro, le terme, i templi, le case adorne di statue e affreschi, i colonnati, i giardini. La vita a Pompei si è fermata, ma le rovine della città ci parlano ancora di quel tempo antico.
Storia di Roma IMPERIALE – La morte di Plinio
Plinio il Vecchio era un illustre scienziato. Durante l’eruzione del Vesuvio volle studiare da vicino il fenomeno e nello stesso tempo portare aiuto all’amico Pompeiano che si trovava a Stabia. Fece allestire alcune navi e partì. Nonostante la pioggia di pietre e di ceneri ardenti, egli riuscì a giungere a Stabia. L’indomani Plinio, Pompeiano e altri tentarono di avviarsi a piedi verso la spiaggia, ma lungo la strada l’aria, mista a vapori di zolfo, si faceva sempre più irrespirabile e Plinio morì soffocato, vittima della sua generosità.
Storia di Roma IMPERIALE – Domiziano (81 – 96)
Successe al fratello Tito. Domiziano era avido di ricchezze e feroce. Volendo trasformare l’impero in una monarchia assoluta, lottò contro il Senato, che fu decimato. Si circondò di delatori e, abusando della legge di lesa maestà, processò ed uccise i cittadini più ricchi, per impadronirsi dei loro beni. Finì pugnalato. Il Senato ne condannò la memoria e cancellò il suo nome dai monumenti pubblici.
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Storia di Roma IMPERIALE – Gli imperatori d’adozione
Storia di Roma IMPERIALE – Nerva (96 – 98)
Dopo l’assassinio di Domiziano, il Senato per impedire che l’esercito o i pretoriani acclamassero il nuovo imperatore, scelse prontamente uno dei suoi membri: il vecchio e stimato Cocceio Nerva. Con Nerva comincia un nuovo sistema di successione, cioè l’adozione. Il nuovo eletto si associò come collega un giovane e valoroso generale, Ulpio Traiano, e lo designò come successore alla propria morte. Gli imperatori d’adozione furono Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Furono tutti uomini saggi ed illuminati, oltre che uomini d’azione e di pensiero. La loro età fu la più felice dell’impero.
Storia di Roma IMPERIALE – Traiano
Dopo qualche anno di pessimo governo, l’Impero Romano fu retto da alcuni saggi imperatori. Fra essi grande e valoroso fu Traiano. Intrepido soldato ampliò l’impero, conquistando la provincia della Dacia (l’attuale Romania) e la provincia dell’Arabia. Diminuì le tasse, ebbe a cuore i poveri e gli orfani.
Storia di Roma IMPERIALE – Traiano (98 – 117)
Nativo della Spagna, fu il primo imperatore non italiano. Valoroso soldato, moralmente onesto e giusto, egli ampliò al massimo i confini dell’impero, diminuì le imposte, amministrò la giustizia con mitezza, creò istituti di beneficenza a favore dei poveri e degli orfani. Combattè i Daci, che si erano stabiliti a nord del Danubio inferiore, dov’è l’attuale Romania, e li sottomise, creando la nuova provincia della Dacia. Ivi pose un forte presidio e numerose colonie; edificò città, ponti e monumenti dov’era prima il deserto. La moderna Romania conserva nel nome, come pure nella lingua, il ricordo della dominazione romana. Per celebrare questa vittoria, fu elevata in mezzo al Foro Traiano la magnifica Colonna, alta 43 m, rivestita esternamente da una fascia di bassorilievi, che rappresentano episodi della guerra dacica. In alto vi era la statua di Traiano in bronzo. Traiano combattè anche contro i Parti, spingendosi fino al Golfo Persico, e creò la nuova provincia dell’Arabia (Arabia del nord – ovest e penisola del Sinai). Dal Reno al Danubio costruì una serie di fortificazioni a catena: il limes germanicus. Morì nel 117, mentre tornava dall’Oriente, e fu sepolto ai piedi della Colonna Traiana.
Storia di Roma IMPERIALE – L’imperatore Traiano e la vecchietta
Traiano fu un uomo alla buona con tutti. Un giorno, mentre partiva per una spedizione militare, gli si fece incontro una vecchietta. “Che vuoi?” le chiese Traiano. “Voglio giustizia, perchè hanno ammazzato il mio figliolo”. “Ma non lo vedi che parto per la guerra? Ne parleremo al mio ritorno”. “E se tu non tornassi?” “Ti renderà giustizia il mio successore” “Ma allora il merito non sarà tuo!” “Hai ragione” disse l’imperatore. E prima di partire per la guerra fece punire gli assassini, rendendo giustizia alla vecchia.
Storia di Roma IMPERIALE – Adriano
A Traiano successe il pacifico Adriano. Egli si dedicò ad opere di pace e visitò ogni regione facendovi costruire strade, ponti, acquedotti, templi. Fondò numerose città ed emanò sagge leggi per promuovere il benessere comune. Inoltre Adriano si preoccupò di consolidare i confini dell’Impero, che ormai aveva raggiunto la massima espansione; fece costruire sui confini solide opere di fortificazione per tenere lontani i barbari ed assicurare così a tutti i cittadini la pace e la tranquillità.
Storia di Roma IMPERIALE – Adriano (117 – 138)
Spagnolo anche lui, ma dedito più alle opere di pace che alle conquiste, passò gran parte della sua vita viaggiando attraverso ogni regione dell’Impero e da per tutto fondando città, facendo costruire acquedotti, templi, strade, ponti. Assicurò i confini contro le invasioni barbariche: in Bretannia, ad esempio, innalzò il famoso Vallo di Adriano, per difendere il paese dagli Scoti, una muraglia lunga 117 km, guarnita ad intervalli da 300 torri. Ritiratosi a vivere in una magnifica villa che si era fatto costruire a Tivoli, Adriano vi morì nel 138, dopo aver adottato Antonino Pio. Fu sepolto nel grandioso mausoleo che si era fatto innalzare a Roma, sulla riva destra del Tevere: la Mole Adriana, oggi chiamata Castel Sant’Angelo.
Storia di Roma IMPERIALE – L’imperatore Adriano e il signore scortese
Adriano, prima di diventare imperatore, durante un viaggio in Asia aveva chiesto ospitalità ad un signore di Smirne. “Non alloggio stranieri!” s’era sentito rispondere seccamente. Adriano avrebbe anche potuto entrare con la forza, ma preferì andarsene all’albergo. Qualche tempo dopo quel signore ebbe occasione di venire a Roma per chiedere non so quale grazia all’imperatore, che per l’appunto era Adriano. Immaginate come rimase, quando si vide davanti l’uomo che non aveva voluto in casa sua. Ma l’imperatore lo tolse subito dall’impaccio. “Venite,” disse sorridendo, “state tranquillo: io alloggio anche i forestieri”. E non solo lo esaudì in tutte le sue richieste, ma finchè quel signore si trattenne a Roma, l’imperatore lo volle avere ospite, come un vecchio amico, nel palazzo imperiale.
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Storia di Roma IMPERIALE – Gli Antonini
Storia di Roma IMPERIALE – Antonino Pio (138 – 161)
Fu uno degli imperatori più saggi. Mite e buono, proibì per primo le persecuzioni dei cristiani ed i maltrattamenti degli schiavi, soccorrendo con elargizioni quanti soffrivano. Per queste virtù ebbe il soprannome di Pio.
Storia di Roma IMPERIALE – Marco Aurelio (161 – 180)
Era un austero filosofo e ci lasciò raccolti i suoi alti pensieri in un libro: Ricordi. Apparteneva anch’egli alla casa degli Antonini. Il suo regno fu turbato da uno sconfinamento dei popoli germanici, abitanti a nord del Danubio, che giunsero fino alle Alpi. Egli li sconfisse, ma poi nel trattato di pace concedette loro di stabilirsi entro il territorio dell’impero, purchè prestassero servizio militare a Roma. Era un pericoloso espediente col quale l’imperatore sperava di evitare altre invasioni, ma avrebbe avuto gravi conseguenze: il progressivo imbarbarimento dell’esercito e le prime infiltrazioni fra i Romani dei barbari, che prepararono la rovina dell’impero. Anche le gesta di Marco Aurelio furono celebrate nei bassorilievi di una colonna, che sorge ancora a Roma, in piazza Colonna (Colonna Antonina). Inoltre, in piazza del Campidoglio, è tuttora eretta la sua statua equestre.
Storia di Roma IMPERIALE – Commodo (180 – 192)
Questa bella serie di imperatori si chiuse tristemente con Commodo, crudele e vizioso. Era figlio di Marco Aurelio, ma profondamente diverso dal padre; finì assassinato nel 192.
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Storia di Roma IMPERIALE – Decadenza dell’impero nel III secolo
Alla morte di Commodo cominciò un periodo di anarchia militare. Le legioni dislocate nelle province pretesero di eleggere imperatori i loro generali: i pretoriani misero l’impero all’incanto, si dichiararono pronti ad acclamare colui che pagasse di più. Dopo 4 anni di disordini e di violenze, fu innalzato un generale valoroso, Settimio Severo. Appoggiato dall’esercito, mirò a creare una monarchia assoluta e dinastica. Vinse i Parti, togliendo loro la Mesopotamia settentrionale, e combattè i Caledoni, a nord della Britannia, ove ricostruì il Vallo di Adriano. A ricordo di queste vittorie gli fu eretto nel Foro un grandioso Arco di Trionfo.
Triste inizio ebbe il regno del figlio e successore, Caracalla, così soprannominato per la foggia gallica del suo mantello, che per non dividere il trono con il fratello Geta, lo pugnalò fra le braccia della madre. Egli è famoso per l’editto del 212, col quale estese il diritto di cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero. In Roma eresse le grandiose terme, che portano il suo nome e di cui restano imponenti ruderi. Caracalla fu ucciso.
L’esercito, di nuovo in rivolta, creò ed uccise gli imperatori. Per 50 anni questi si succedettero l’uno all’altro e scomparvero rapidamente, fra congiure e guerre civili, saccheggiando e depredando le province: tra queste, molte tentarono di tenersi indipendenti. L’impero sembrava avviarsi fatalmente alla rovina, ma nella seconda metà del secolo fu salvato da una serie di imperatori di nazionalità illirica, che furono detti restauratori.
Il primo di essi fu Claudio Gotico, così soprannominato per la grande vittoria riportata sui Goti, i quali dal Mar Nero erano scesi verso il Mediterraneo, invadendo l’Asia minore e la Grecia.
Più grande ancora fu Aureliano, che in 5 anni di guerra domò le province insorte e consolidò le frontiere. Sconfisse i Vandali e gli Alemanni che erano penetrati in Italia, e cinse Roma di una nuova e possente cerchia di mura (mura Aureliane) che esistono ancora in gran parte. Ma dovette abbandonare la Dacia ai Goti, per accorciare i confini dell’impero e poterli meglio difenderli. Morì nel 275.
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Storia di Roma IMPERIALE – Diocleziano e la tetrarchia (285 – 305)
Dieci anni dopo si iniziava un nuovo periodo nella storia dell’Impero, per opera di Diocleziano, anch’egli di stirpe illirica e valoroso soldato. Egli fece dell’impero una vera e propria monarchia assoluta, circondandola di un fastoso cerimoniale, che ricordava quello delle corti orientali. Convinto che un solo imperatore non bastasse più ad amministrare il vasto impero, si associò al governo l’antico suo compagno d’armi Massimiano col titolo di Augusto: questi governava la parte occidentale dell’impero, stando a Milano. Diocleziano governava l’Oriente, da Nicomedia, una città dell’Asia Minore. Roma, troppo lontana dal Danubio e dall’Asia, non poteva più essere la capitale dell’impero. Successivamente i due Augusti si scelsero ognuno un collaboratore, o Cesare, designandolo come successore. Questa partizione del potere si chiamò Tetrarchia, dal greco “comando di quattro”. L’impero restò uno dal punto di vista giuridico, ma amministrativamente fu diviso in 4 parti dette Prefetture: ogni prefettura era divisa in diocesi, ogni diocesi in province. Il potere civile fu separato da quello militare: l’impero diventò un complesso ingranaggio burocratico. Fu necessaria una riforma tributaria, che accrescesse il gettito delle imposte, per stipendiare questo esercito di impiegati civili e le truppe necessarie alla difesa dei confini. Per frenare la speculazione, Diocleziano fissò con un calmiere il prezzo massimo delle merci di più largo consumo. Convinto che, per mantenere l’unità dello stato, fosse necessaria l’unità del culto, ordinò nel 303 una persecuzione contro i cristiani, che fu la più violenta e la più lunga di tutte (303 – 311), tanto che questo periodo si chiamò l’era dei martiri. Ma il cristianesimo non fu estirpato, anzi, la chiesa si ricostituì più forte di prima. Nel 305, dopo 20 anni di governo, volendo assistere al funzionamento del sistema che aveva creato, Diocleziano abdicò e si ritirò a Salona, presso l’odierna Spalato, nella nativa Dalmazia, dopo aver indotto il suo collega Massimiano a fare altrettanto. I due Cesari divennero Augusti e adottarono due nuovi Cesari. Ma il sistema non fece buona prova. Presto scoppiarono tumulti e lotte civili fra Augusti e Cesari, finchè sui vari competitori trionfò Costantino, figlio di Costanzo Cloro, il Cesare dell’Occidente.
Diocleziano
Tra i numerosi imperatori che succedettero a Adriano è da ricordare Diocleziano, feroce e sanguinario. Sotto il suo governo i Cristiani subirono la più tremenda persecuzione (303 – 311). Questo periodo fu chiamato era dei martiri.
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Storia di Roma IMPERIALE – Costantino e l’Editto di Milano
Storia di Roma IMPERIALE – Costantino
Nel 312 divenne imperatore Costantino. Si narra che, durante la guerra contro il suo rivale Massenzio, gli fosse apparsa in cielo una croce luminosa con il motto “In hoc signo vinces” e che subito avesse fatto applicare una croce sugli stendardi delle sue legioni, convinto di vincere la battaglia. Massenzio fu infatti sconfitto a Roma presso il Ponte Milvio. Nel 313, a Milano, Costantino emanò il famoso Editto con il quale veniva permesso ai Cristiani di professare liberamente il proprio credo religioso. Durante il suo regno la capitale dell’Impero venne spostata da Roma a Bisanzio, in Oriente, che da lui prese il nome di Costantinopoli.
Storia di Roma IMPERIALE – Costantino
Egli era stato acclamato Cesare nel 306, dalle regioni della Britannia, mentre infieriva ancora la persecuzione contro i cristiani ordinata da Diocleziano. Ma Costantino aveva compreso che il cristianesimo era ormai una grande forza e, invece di perseguitare la chiesa, si appoggiò ad essa. Venuto in Italia nel 312, si liberò dell’ultimo rivale, Massenzio, con la battaglia combattuta ai Saxa Rubra, sulla riva del Tevere, nei pressi dell’attuale ponte Milvio. L’anno seguente, da Milano, Costantino emanò il famoso Editto di Tolleranza, con il quale pose termine alle persecuzioni e concesse ai cristiani, in tutto il territorio dell’impero, piena libertà di culto. La religione ufficiale dello stato continuava però ad essere il paganesimo. Egli, mantenendo la divisione fatta da Diocleziano, regnava in quel tempo col collega Licinio, imperatore dell’Oriente. Nel 324, rotti i buoni rapporti con Licinio, lo sconfisse e riunì nelle sue mani l’Oriente e l’Occidente. L’anno seguente, nel 325, Costantino convocò a Nicea un concilio di vescovi per reprimere una dottrina sulla natura di Cristo, diffusa dal vescovo di Alessandria, Ario, e perciò detta Arianesimo. Ario sosteneva che Cristo non era dio fattosi uomo, ma creatura umana perfetta e perciò divinizzata. Molti vescovi condannarono come eretica, e cioè erronea, questa dottrina, ma essa si diffondeva pericolosamente. Nel concilio di Nicea l’arianesimo fu condannato. Nel 330 Costantino trasferì la capitale a Bisanzio, sul Bosforo, che da lui prese il nome di Costantinopoli. Roma però continuò ad essere la capitale morale dell’impero, anche se gli imperatori non vi risiedevano più: tanti secoli di storia gloriosa le avevano conferito un prestigio sacro. Costantino morì nel 337.
L’impero romano-cristiano Nel decennio successivo alla battaglia di Ponte Milvio, Costantino assunse un atteggiamento sempre più favorevole ai cristiani e giunse infine al riconoscimento del cristianesimo come religione ufficiale dell’impero. Da una minoranza eroica di perseguitati, esso si trasformava così in religione di massa, aumentando immensamente il numero dei propri aderenti ed inserendosi nella compagine statale dell’impero romano. Fra le altre conseguenze, ciò portò ad una crescente diversificazione fra la massa dei semplici fedeli o laici (dal greco laos = popolo), spesso convertiti di fresco ed ignoranti delle dottrine cristiane, e la parte eletta dei ministri del culto o clero (dal greco kleros = scelto). In seno a quest’ultimo, sull’esempio della burocrazia imperiale, si delineò una gerarchia sempre più precisa, facente capo ai vescovi. Costantino incoraggiò questa evoluzione della Chiesa cristiana, consentendo alle comunità non solo di recuperare ciò che avevano perduto nelle persecuzioni, ma altresì di aumentare il proprio patrimonio in misura cospicua, grazie ai lasciti ed alle donazioni. Concesse al clero privilegi importanti, tra cui l’esenzione o immunità dalle prestazioni d’opera (munera). Concesse inoltre che i vescovi assumessero attribuzioni giudiziarie verso coloro che volessero ricorrere alle loro sentenze. Il monogramma di Cristo fu posto sulle monete. Fu riconosciuta la domenica come festività ufficiale. L’imperatore inoltre pose tutta la propria energia nel rafforzare e difendere l’unità della Chiesa, in quanto organismo universale (Ecclesia Catholica) contro ogni scissione interna. Si operava infatti, in seno al cristianesimo, una sistemazione dottrinale, in cui si precisavano a mano a mano le dottrine che tutti i fedeli dovevano accettare, respingendo quelle deviazioni o eresie, che eventualmente sorgessero. Il IV secolo, anzi, fu un’età di controversie teologiche particolarmente importanti, specie intorno alla natura ed agli attributi di Cristo. Tra esse fondamentale fu quella fra i seguaci di Atanasio, assertori del dogma della trinità, e i seguaci di Ario, il quale assimilava la natura di Cristo a quella di un uomo, negando così in sostanza il dogma trinitario. Infine Costantino dovette affrontare l’ultimo dei suoi rivali nell’impero, cioè Licinio, dominatore dell’Oriente. Poichè quest’ultimo favoriva i pagani, la lotta assunse il carattere di un duello fra cristianesimo e paganesimo: la vittoria su Licinio (324) e quindi l’annessione anche dell’Oriente ai domini di Costantino apparvero così una vittoria cristiana. Alla ricostituita unità dell’impero, sotto la monarchia di Costantino, corrispose altresì il ristabilimento dell’unità della chiesa, travagliata dalla controversia ariana. Si riunì pertanto il Concilio Ecumenico, cioè l’assemblea di tutti i vescovi crisitani, a Nicea (325), dietro convocazione dell’imperatore, e lì la dottrina atanasiana fu riconosciuta come la sola valida. Il concilio di Nicea fissò inoltre in modo definitivo la dottrina cristiana con una dichiarazione di fede o simbolo niceno. Attribuì infine particolare autorità sugli ecclesiastici nelle rispettive zone ai metropoliti di Roma, Alessandria ed Antiochia; pari dignità venne attribuita più tardi anche al metropolita di Bisanzio. All’indomani della sua vittoria su Licinio, Costantino decise di creare una nuova capitale, interamente legata alla fede cristiana, trasportando la residenza imperiale a Bisanzio, che da allora assunse il nome di Costantinopoli. Alla vecchia Roma del paganesimo, si contrapponeva così la nuova Roma del cristianesimo. L’impero, sino a ieri persecutore del cristianesimo, diventava Impero Romano Cristiano. Da allora in poi, la dignità imperiale ed il concetto stesso di Impero non dovevano più dissociarsi dall’idea cristiana e dalla funzione di sommo protettore e regolatore della cristianità. (G. Spini)
Grandezze e meschinità di Costantino L’imperatore Costantino, passato alla storia con il nome di Grande, non fu tuttavia immune da debolezze umane; molte sue opere ce lo confermano, ed anche i suoi biografi. Secondo Eutropio, storico attendibile sia per essere vissuto in tempi abbastanza vicini, sia per essere un sommarista delle opinioni altrui, Costantino era degno di essere paragonato ai più grandi imperatori per i suoi primi anni di regno, ma per gli ultimi anni, ai più meschini. In lui rifulsero comunque moltissime virtù di animo e di corpo. Assai avido di gloria militare, ebbe favorevole la fortuna in guerra, ma non al punto da superare la sua stessa abilità. Infatti, anche dopo la guerra civile, sconfisse più volte i Goti e, in ultimo, stringendo la pace con loro, lasciò grata memoria di sè presso i barbari. Amava le belle arti e gli studi liberali; poichè desiderava la considerazione del popolo, ma voleva ben meritarsela, egli riuscì ad ottenerla con la munificenza e l’affabilità. Fu indifferente verso alcuni amici, ma caldo verso altri, e non si lasciava sfuggire occasione alcuna per beneficarli di ricchezze e di onori. Promulgò molte leggi, alcune buone e giuste, molte però superflue, e altre severe più del dovuto. Mentre preparava la guerra contro i Parti che già premevano ai confini della Mesopotamia, morì a Nicodemia, in un palazzo dello stato. Aveva 66 anni e il popolo disse che la sua morte fu preannunciata da una vistosa cometa che solcò il cielo per un certo tempo. (M. Bini)
Bisanzio Bisanzio sorse nel VII secolo aC come colonia greca; nel 201 aC divenne romana. Era una solida cittadella che, affacciata sullo stretto, poteva controllare il passaggio delle navi dal Mediterraneo al mar Nero e quindi la via verso l’Asia. La sua posizione era quindi ideale, oltre a ciò Bisanzio era straordinariamente bella: su una penisola collinosa, circondata dalle acque azzurre del Mar di Marmara, del Bosforo e del Corno d’Oro. Quando Costantino il Grande, imperatore romano dal 306 al 337 dC, realizzando un progetto già caro ad Augusto, diede all’impero una capitale orientale (le province orientali superavano ormai di gran lunga per forza economica e popolazione quelle d’Occidente), le località tra cui ritenne di dover scegliere erano Troia, Bisanzio ed Alessandria. Troia, secondo la leggenda, era la madre di Roma; Alessandria era la seconda metropoli dell’Impero. Ma la scelta cadde su Bisanzio, sia per necessità pratica sia per la bellezza della sua posizione. Nel 330, ribattezzata Costantinopoli, fu proclamata capitale dell’Impero. (W. Schneider)
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