Leggende del Piemonte per bambini della scuola primaria.
Leggende del Piemonte – La leggenda di Maino della Spinetta Dopo la battaglia di Marengo (1800), vinta da Napoleone, la maggior parte del Piemonte veniva annessa politicamente alla Francia. La popolazione nutriva un sordo rancore verso i Francesi, che, dopo aver promesso la libertà, si comportavano come arroganti dominatori. Nella provincia di Alessandria l’opposizione aperta si manifestò attraverso le imprese di Maino, detto Spinetta dal luogo in cui nacque. Egli fu il Fra Diavolo e il Passator cortese del Monferrino. Le sue imprese sono circonfuse da un alone di leggenda eroica e patriottica. La fantasia popolare ha trasformato in atti eroici quelli che forse furono solo azioni da brigante. Il Maino aveva raccolto attorno a sé dei giovani che, come lui, mal volentieri accettavano di servire nell’esercito francese. Era coraggioso, astuto, crudele, deciso, audace. I gendarmi gli davano una caccia spietata ed egli reagiva uccidendo, procurandosi vitto e denaro con rapine e ricatti a danno soprattutto degli occupanti e dei ricchi della zona, donando ai poveri quando non gli serviva. L’esito fortunato delle sue imprese lo aveva reso spavaldo, tanto che spesso e volentieri si prendeva gioco dei suoi segugi. Famosa è rimasta la burla, detta “dei cavalli”. Una sera, alcuni gendarmi si trovavano in un’osteria a bere allegramente. I loro discorsi erano caduti sul brigante Maino, che essi denigravano in ogni modo sollecitando appoggio ai loro argomenti da quanti erano presenti; tra essi uno era particolarmente aspro nelle sue invettive contro Maino e si era unito al brigadiere in un brindisi alla sua cattura e alla sua impiccagione. Questo avventore altri non era che lo stesso Maino travestito da boscaiolo. Approfittando di un momento di particolare euforia, uscì nel cortile, si avvicinò ai cavalli dei gendarmi e tagliò le cinghie delle selle, trascurando di proposito la cavalcatura del brigadiere. Quindi rientrò e, attirata su di sé l’attenzione di tutti, gridò: “Signori, il codardo che cercate, il brigante, l’assassino Maino Spinetta, sono io!”. I gendarmi restarono allibiti ed egli, approfittando dell’attimo di confusione seguito alla sua dichiarazione, uscì, balzò sul cavallo del brigadiere e fuggì a briglia sciolta. I gendarmi, ripresisi, uscirono correndo, montarono sui cavalli e si lanciarono all’inseguimento. Dopo pochi istanti tutti caddero rovinosamente a terra tenendosi con le mani le parti dolenti del corpo. Secondo la leggenda, lo stesso Napoleone avrebbe ricevuto Maino a Monza per trattare la sua resa, ma il fuorilegge avrebbe interrotto le trattative perchè l’Imperatore non si impegnava a garantire la vita dei suoi compagni oltre alla sua. La sua fine, come quella di ogni masnadiero che soccombe, fu dovuta al tradimento. Mentre il Maino si trovava ospite di un parente, una spia avvertì i gendarmi che circondarono la casa e gli intimarono la resa. Maino invitò i gendarmi a catturarlo se pur ne erano capaci. Si ingaggiò una impari lotta al termine della quale egli cadde, ferito in ogni parte del corpo.
Leggende del Piemonte – La leggenda di Gagliaudo Federico Barbarossa assediava Alessandria da parecchi giorni. I cittadini erano ridotti alla fame più nera: già circolavano voci sulla resa della città. Un giorno, ai capi dell’esercito che sedevano a consulta per prendere decisioni sulle condizioni della resa, si presentò un rozzo mandriano di nome Gagliaudo, che promise di liberare la città dall’assedio, se gli fossero stati dati un paio di sacchi di grano. Con il grano avuto egli nutrì per alcuni giorni una sua mucca e, quando gli parve ben pasciuta, uscì con essa dalla cerchia delle mura, poi cominciò a batterla selvaggiamente, tanto che questa prese a fuggire in direzione del campo nemico. I soldati si impadronirono della bestia e portarono Gagliaudo con le mani ed i piedi legati davanti all’Imperatore, che prese ad interrogarlo per conoscere e condizioni dei cittadini entro la città. Gagliaudo finse di rivelare di malavoglia all’Imperatore una notizia strabiliante: gli alessandrini avevano tanta abbondanza di cibo che nutrivano con grano perfino le loro bestie. L’Imperatore, adirato, minacciò di morte Gagliaudo se le sue parole non fossero state veritiere, e immediatamente ordinò che la sua mucca fosse squartata. Tanto fu il grano, senza alcuna traccia di biada, che trovarono nello stomaco della bestia, che l’Imperatore disperò di poter prendere Alessandria per fame e decise di togliere l’assedio. Probabilmente il fatto narrato è leggendario e l’Imperatore fu costretto a togliere l’assedio per l’avvicinarsi di un esercito della Lega, che già aveva raggiunto Tortona; tuttavia resta il fatto della magnifica prova delle fortificazioni nella nuova città e del valore dei suoi cittadini.
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Il plastico delle regioni. Con un semplicissimo plastico polimaterico (carta e colla vinilica dipinta, pasta di sale, ecc…) potremo vedere concretamente come è fatta la nostra regione, osservarne i confini, individuarne i rilievi, le pianure, le coste, i fiumi, ecc.
A seconda delle dimensioni del lavoro, potremo usare un supporto di cartone (per superfici piccole) o di compensato. Per un plastico di dimensione media può andare più che bene, ad esempio, un cartone da pizza. Questa soluzione, grazie al coperchio, ha il vantaggio di poter aggiungere al lavoro schede di ricerca e immagini, e diventa una sorta di libro diorama, facile da riporre, anche per creare una “biblioteca” delle regioni.
Photo credit
Disegniamo sul supporto solo un semplice contorno, il profilo della regione, ricavandolo da una carta geografica fisica.
Ora segniamo la posizione dei rilievi (catene montuose e collinari) con un simbolo facilmente riconoscibile per ognuna. Fatto questo cerchiamo di individuare le montagne di maggiore importanza. Se c’è, segniamo anche la costa. Il un secondo momento penseremo ai fiumi, alle pianure, ecc.
Abbiamo finora approntato il progetto del lavoro. Ora quindi possiamo iniziare la costruzione del plastico: – stendiamo con un pennello abbondante colla vinilica su di un foglio di carta da giornale. In alternativa possiamo utilizzare carta di giornale e colla di farina fatta in casa (qui la ricetta:
– prendiamo la carta per il margine (come se fosse un panno bagnato da mettere ad asciugare) e sistemiamola sul supporto. In quale posto? Nello spazio riservato al rilievo che abbiamo segnato – mentre la colla è ancora fresca, cerchiamo di modellare la carta di giornale in maniera da imitare un rilievo. – per costruire le cime più alte possiamo incollare sulla carta sottostante un altro pezzo di giornale.
se volete evitare invece carta e colla e utilizzare invece paste da modellare, in alternativa alla classica pasta di sale che spesso crea bruciore sulle mani dei bambini, potete trovare ricette utili qui:
– coi bambini più grandi i rilievi possono essere realizzati sovrapponendo strati di cartone alternati a qualcosa che faccia spessore (palline di carta, pasta piccola tipo pennette, ecc.)
– creati i rilievi (nel modo che preferiamo) osserviamo il lavoro: ora sarà immediato riconoscere le zone destinate alle pianure. Per realizzarle stendiamo un’abbondante mano di colla sul supporto: quindi lasciamo cadere sulla colla segatura piuttosto grossa. Quella per la lettiera dei criceti, ad esempio, si trova facilmente ed è molto economica. In alternativa possiamo usare farina da polenta, cous cous, pastina da minestrina, bulgur, crusca…
– prima che la colla asciughi completamente, togliamo la segatura (o altro materiale scelto) in eccedenza. Quindi scaviamo il letto dei fiumi, la superficie del lago o del mare, togliendo dal supporto ogni traccia di materiale e colla – attendiamo che la colla asciughi completamente, quindi completiamo il lavoro con della pittura a tempera o acrilica. Per le pianure schiacciamo un pennello a punta rotonda su del colore verde. Poi, usando il pennello come tampone, dipingiamo la pianura e i versanti della montagna. Ben presto la segatura (o altro materiale) assorbirà il verde e con la sua superficie ruvida, imiterà l’erba dei prati – ora schiacciamo il pennello, ancora sporco di verde, sul colore marrone e tamponiamo il lavoro partendo dalla pianura e su, su verso la sommità del rilievo. Laviamo il pennello e tamponiamolo sulla tempera bianca e quindi sulle vette: la spruzzata di bianco abbellirà il lavoro e darà la sensazione della neve. – attendiamo che il colore asciughi. Infine, con un pennello piuttosto piccolo, dipingiamo in azzurro il mare, il fiume e il lago stendendo il colore nelle zone concave del plastico. – per perfezionare il lavoro potremo incollarvi sassolini, ghiaia sottile, sabbia, barchette, ecc.
Una variante Disegnati i contorni della regione o dello stato su di un foglio, incolliamolo ad un cartone, coloriamo di verde (la pianura) e quindi applichiamo in base ad una legenda stabilita i vari elementi: – montagne: – colline – pianura: verde – deserto – oceano – fiumi – laghi associando ad ogni elemento un dato materiale.
Lazio: materiale didattico, dettati e letture per bambini della scuola primaria.
Il lazio: cartina fisico-politica
I confini: Mar Tirreno, Campania, Abruzzo, Molise, Marche, Umbria, Toscana. I golfi: golfo di Gaeta. I promontori: Capo Circeo, Punta di Gaeta. I monti: Appennino Centrale (Umbro-Marchigiano, Abruzzese), Sub-appennino (Monti Sabini, Simbruini, Ernici), Antiappennino (Volsini, Cimini, Sabatini, Colli Albani, Lepini, Ausoni, Aurunci) Le cime più alte dell’Appennino Centrale: Terminillo (m 2.213), nei monti Reatini; Monte Viglio (m 2156); Monte Pizzodeta (m 2.037); La Mera (m 2.241). Le cime più alte dell’Antiappennino: Monte Cimino (m 1.053), Monte Cavo (m 949), Monte Semprevisa (m 1.536), Monte Calvilli (m 1.102), Monte Petrella (m 1.533). I valichi: Valico di Torrita (m 1.005). Le pianure: Maremma, Campagna Romana, Agro Pontino. I fiumi: Tevere, Liri-Garigliano con il suo affluente Sacco; affluenti di sinistra del Tevere: Nera con il suo affluente Velino; Aniene. I laghi: Lago di Bolsena, Lago di Vico, Lago di Bracciano, Lago d’Albano, Lago di Nemi, Lago di Fondi. Le isole: Ponziane (Ponza, Ventotene, Palmarola, Zannone, Scoglio Santo Stefano).
Osserviamo la cartina Il Lazio, terra degli antichi Latini, è situato al centro dell’Italia e abbraccia un territorio assai vario per aspetto fisico. Esso comprende la zona montuosa dell’Appennino, con la vetta del Terminillo, i Monti Sabini e Sambruini, ai piedi dei quali si stendono le regioni della Sabina e della Ciociaria. Nella parte settentrionale del Lazio, lungo il corso del Tevere, sorgono i monti Volsini, Cimini e Sabatini, mentre nella parte meridionale si elevano i Colli Laziali e, lungo la valle dei fiumi Sacco e Liri, i Monti Lepini, Ausoni e Aurunci. La Campagna Romana è l’unica zona pianeggiante del Lazio e si stende lungo il Mar Tirreno. Fanno parte del territorio del Lazio le Isole Ponziane. Belli sono i caratteristici laghi vulcanici di Bolsena, di Vico e di Bracciano.
Province
Il Lazio è suddiviso in cinque province. Roma, capitale d’Italia dal 1871, è da secoli il centro del mondo cattolico e sede del Papato. La sua gloriosa storia è narrata in innumerevoli e superbe opere antiche, medioevali e moderne, che la rendono unica al mondo. Roma è anche città modernissima, con belle vie larghe e dense di traffico, grandi alberghi, magnifici palazzi. Importante nodo stradale e ferroviario, Roma è in comunicazione con tutto il mondo, grazie agli aeroporti di Ciampino e di Fiumicino, dove fanno scalo le principali linee aeree nazionali e internazionali. Frosinone, il capoluogo della Ciociaria, è situata sull’alto di un colle, tra vigne e oliveti. Latina, città modernissima, è provincia dal 1934. Sorge nella zona bonificata dell’Agro Pontino ed è centro agricolo e industriale. Rieti, capoluogo della Sabina e cioè del bacino del fiume Velino, giace in una conca dominata dal Terminillo. Viterbo, al centro della regione vulcanica, occupa la zona tra i laghi di Bolsena e di Vico.
Per il lavoro di ricerca
Quale origine ha il territorio del Lazio? Non molto lontano da Rieti presso il confine con l’Umbria, sorge un monte noto agli sportivi per i suoi campi da sci: qual è? La fascia costiera della regione comprende due ampie pianure: come si chiamano? Come erano queste zone qualche decennio fa? Come sono oggi? Nel Lazio si aprono parecchi laghi: di che origine sono? Quali sono i più importanti fiumi della regione? Quali isole appartengono al Lazio? Quali sono i più importanti prodotti agricoli della regione? Che cos’è la Pietra di Roma? Dove sorgono le più importanti industrie e quali sono? Cos’è Cinecittà? Frosinone, la Ciociaria, Rieti, Montefiascone legano i loro nomi a prodotti particolari. Quali? Che cos’è la Ciociaria e perchè ha questo nome? C’è un’altra voce molto importante nell’economia del Lazio: quale? Alcune città laziali sono antichissime, altre invece molto recenti: dove e quando sono sorte queste ultime? Quali sono le testimonianze, in Roma, della grandezza storica della città? Quali sono le più famose fontane di Roma? Che cos’è il Colosseo? Dove sono state trovate tombe etrusche di grande importanza? Che cosa ricorda il nome Nemi? Se tu volessi raggiungere il Lazio in aereo in quali aeroporti potresti atterrare? E se vi arrivassi in macchina da Firenze o da Livorno, quali strade o autostrade dovresti percorrere? Quale Stato indipendente è compreso nel territorio del Lazio?
Il Lazio
Ricco di foreste, di boscaglie, di pascoli, povero di prodotti del sottosuolo, il Lazio produce frumento, granoturco, barbabietola da zucchero, foraggi, olive e uve. Pregiatissimi i vini del Velletrano e dei Castelli romani. Florida la pastorizia; scendono alla campagna, dall’Umbria, gli armenti. Cavalli e bufali per la libera distesa, sorvegliati dai butteri.
Lazio: sguardo d’insieme
Quelli del Lazio sono soltanto confini politici; non delimitano, infatti, una regione fisica particolare. Il Lazio è costituito di elementi dissimili: monti di formazione ed aspetto del tutto diversi l’uno dall’altro, pianure di diversa origine, fiumi che percorrono la regione ed hanno altrove le sorgenti, fiumi che si alimentano ai piedi dei monti laziali e scorrono per lunghi tratti nelle regioni vicine. I rilievi che occupano largamente il Lazio si presentano senza ordine, in gruppi, più o meno estesi e appartengono, nella maggior parte, al sistema dell’Antiappennino. L’Appennino si affaccia nel tratto nord-orientale della regione con le montagne reatine culminanti nella vetta del Terminillo (m 2213): si innalza con rilievi calcarei, massicci, con aspre vette, fianchi scoscesi, pareti precipiti; i Monti Simbruini ed i Monti della Meta sono le altre cerniere appenniniche che saldano il Lazio all’Abruzzo. Dal Nord al Sud, l’Antiappennino offre uno spettacolo grandioso di rilievi vulcanici; prima i tre gruppo dei Volsini, dei Cimini, dei Sabatini; poi, oltre la piana del Tevere, il gruppo dei colli Albani o Laziali. In tutto è visibile l’origine singolare, formati come sono dai crateri ormai sfaldati ed erosi, foggiati dall’esplosione vulcanica o dal getto dei materiali dell’esplosione stessa. Il verde che oggi riveste i morbidi dossi toglie ogni drammaticità al paesaggio e lo addolcisce; lo rende anche più suggestivo la presenza di numerosi laghi imbutiformi, venuti a colmare di acque azzurre le bocche degli antichi vulcani. Nei Volsini è il grande lago di Bolsena (secondo solo al Trasimeno, nell’Italia peninsulare); nei Cimini è il lago di Vico, nei Sabatini il lago di Bracciano; ornano i colli Albani i laghi di Albano e di Nemi. Più a sud si innalzano, distinti nettamente l’uno dall’altro, i gruppi montuosi dei Lepini, degli Ausoni e degli Aurunci, che non sono di origine vulcanica: essi hanno una struttura calcarea, appaiono poco elevati, ma di aspetto rude, ricchi di grotte e di doline, con pareti scoscese rivolte verso il Tirreno, sulla costa del quale si erge, a formare promontorio, il rilievo solitario del Monte Circeo. Tutto intorno ai rilievi vulcanici si estendono bassi ripiani di materiale tenero, sui quali le acque hanno lavorato in profondità, scavando valli d’ogni misura e isolando sparsamente piccoli rilievi collinari simili a quelli che videro sorgere Roma. Appennino, Antiappennino, valli e distese collinari occupano una parte notevole della regione; la pianura vera e propria si riduce, nel tratto settentrionale, ad una fascia costiera ricca di dune; si allarga nell’avvallamento creato dal Tevere, aperto ampiamente a destra ed a sinistra del suo delta (Agro Romano); torna a restringersi a ridosso dei colli Albani; si estende di nuovo in modo notevole nell’Agro Pontino, costituito in parte da un tavolato alluvionale, in parte da territori lievemente ondulati, emersi in antico dal mare. Agro Romano e Agro Pontino recano il ricordo di paludi e di malaria; dopo opere di bonifica, offrono ora una terra fertile alle coltivazioni. A questo punto, i monti Ausoni ed Aurunci spingono gli ultimi pendii fino al mare, spegnendo del tutto la pianura. Nel mar Tirreno, al largo del promontorio del Circeo, è l’arcipelago delle Ponziane che, amministrativamente, appartengono al Lazio. Nella regione scorre, ma non vi nasce, il Tevere, il maggior fiume dell’Italia peninsulare (Km 405), il quale, dalle pendici del monte Fumaiolo (Appennino Tosco-Emiliano), attraversa l’Umbria e si avvia al Lazio in direzione longitudinale stretto com’è fra i rilievi dell’Appennino e dell’Antiappennino che gli impediscono di rivolgersi al mare; soltanto dopo aver superato i monti Sabatini devia verso Roma e verso il Tirreno; scendono al Tevere, dai monti Reatini, il Velino, che confluisce nel Tevere in Umbria, e, dai monti Simbruini, l’Aniene; nel Lazio ancora scorre per un tratto il Liri, il quale riceve gli affluenti Sacco e Gari e, con nome di Garigliano, porta le sue acque nel Tirreno segnando, nel suo ultimo tratto, il confine fra il Lazio e la Campania.
Il Tevere nel Lazio
Dopo circa 240 km di percorso il Tevere entra nel Lazio, tocca Orte e riceve le copiose acque della Nera, il più generoso dei suoi affluenti, senza il cui apporto non sarebbe che un longo e disordinato torrente. Dice infatti un proverbio romano: “Il Tevere non sarebbe il Tevere, se la Nera non gli desse da bevere”. Snodandosi poi in larghi meandri, scende solenne verso Roma, alle cui porte lo raggiunge l’Aniene o, meglio, il Teverone, come familiarmente lo chiamano i Romani. Scivolando sotto i ponti più antichi del mondo, attraversa silenzioso l’Urbe descrivendo un’ampia curva e dividendosi in due rami per lambire l’Isola Tiberina dalla caratteristica forma allungata, congiunta alle sue sponde dai vetustissimi ponti Cestio e Fabricio. Raggiunte poi le moderne installazioni portuali di San Paolo, ove risalgono dal mare battelli e rimorchiatori di notevole mole, prosegue lento, tortuoso, giallastro, nell’austera solitudine dell’Agro Romano. In località Capo li Rami si biforca a formare l’Isola Sacra: il braccio destro, canalizzato, rettilineo, fiancheggiato da rigogliosi eucalipti, va al porto di Fiumicino; quello sinistro, detto Fiumara Grande, gira intorno all’isola, lambisce le rovine di Ostia Antica e infine si insala nel Tirreno, in un paesaggio di severe solennità. Si compie così, dopo 405 km, il viaggio del fiume nel cuore antico d’Italia.
Sorgono nuove città
Le Paludi Pontine, che si stendevano dal mare al margine delle montagne, erano un grandioso deserto paludoso e malarico, in cui pascolavano le greggi e le mandrie di bufali neri che non temono il fango. Vi abitava un piccolo numero di pastori dispersi e vi passavano le compagnie dei cacciatori attratti dagli uccelli acquatici. Nessuna parte dell’Italia era più primitiva di questa alle soglie di Roma stessa. Si dice che nemmeno ai tempi di Roma queste terre fossero fertili; e ad ogni modo nei secoli di decadenza la palude aveva inghiottito le opere dei primi monaci e i vari tentativi di sistemazione idraulica iniziati dai papi. La bonifica è sempre stata dalla natura. Lasciati a se stessi, questi terreni piatti tornerebbero ad impaludarsi. Anche il relativo abbandono duranti gli anni della guerra fu sufficiente a far temere che la natura prendesse una triste rivincita. Il pericolo è adesso superato, la bonifica è salva. I dati fondamentali della bonifica variano leggermente secondo le pubblicazioni. Si può dire in maniera approssimativa, che ottantamila ettari circa furono sistemati, cinquantamila dissodati e venticinquemila resi irrigabili; e circa un milione di metri quadrati coperto di fabbricati rurali. Sorsero, tra il 1932 e il 1939, Latina, Sabaudia, Pontinia, Aprilia e Pomezia. Capoluogo e borgate, artificiali anche nei nomi dettati dal gusto del tempo, attecchirono però bene, ed infatti dal primo nucleo cominciarono a svilupparsi. Col loro aspetto di borgate rurali di diversa grandezza, che si propongono soltanto d’essere funzionali, sono oggi riuscite ad incorporarsi nell’ambiente. Si ha perciò il caso, molto raro in Europa, ed imitato nell’Italia del Sud, di centri nati dal nulla e divenuti vitali in una ventina d’anni. (G. Piovene)
Un paesaggio monotono
Un paesaggio che ha completamente cambiato la sua primitiva fisionomia è quello delle paludi pontine, o, come ora meglio si dice, dell’agro pontino. A percorrere la via Appia nel tratto che da Velletri porta a Terracina c’è da morir di noia. Non per nulla si chiama “la fettuccia di Latina”. E’ infatti un unico interminabile rettilineo. Ai due lati è il disegno geometrico di campi seminati per lo più a grano. Piantagioni a scacchiera di ulivi e di viti, interrotti qua e là da quei piccoli stagni tondeggianti che si chiamano “piscine”, nulla tolgono alla monotonia del paesaggio. Siamo nel Lazio, ma potremmo essere nelle terre basse della pianura padano-veneta: gli stessi reticolati di canali e di fossi, gli stessi argini, le stesse lunghe vie, diritte, le stesse case rurali fatte in serie, di un bianco abbacinante nel sole estivo. Anche le città, in questo Lazio antico, greve di storia millenaria, sono qui nuove, come Latina, che è nata nel 1932, o Sabaudia (1934) o Pontinia (1935) o Aprilia (1937). Nessuna attrattiva di paesaggio dunque, per cui il viaggiatore è preso da noia e, se è un automobilista, deve lottare per vincere il sonno.
Un tratto di campagna romana
Oggi la vista è tutt’altra, e non ci non più gli splendori stupendi e maligni dei crepuscoli in palude. Il cacciatore non trova più le cospicue delizie di valle e di macchia, e nemmeno rischia più di affondare nei tradimenti del pantano. I primi canali, pigri e incerti, che nel tempo delle piogge confondevano le acque loro con quelle dilaganti, e in tempo di siccità stagnavano, non sono più spurgati e diserbati col primitivo sistema di spingerci dentro i branchi delle bufale. Questo animale predilige acque morte e limo tiepido. Era uno spettacolo bello e selvaggio , quando i butteri, incassati nell’alta sella dalle staffe lunghe, spingevano col pungolo simile ad una lancia i bufali al canale, che vi scendevano dentro con gli zoccoli grevi e le corte gambe, che prima di vederle correre mai diresti così veloci, vi si affondavano fino al petto quadrato, fino al garrese possente. Restavano a fior d’acqua le corna a forma di falce rovesciata, le fronti catafratte, gli occhi lenti e come smemorati; le froge, godevano e rifiatavano forte. Sul fondo dei canali sono passate le benne delle macchine di scavo, le pale degli abili operai emiliani e lombardi, che hanno scavato e sistemato canali, fossi e scoli; poi, con le marre, sterrato, sarchiato, livellato con quella incredibile minuzia che esige l’acqua, la quale vuole essere invitata più che violentata, e indovinata non che studiata, e che occorre per la sistemazione a coltura dei terreni bonificati. Idraulici ed agricoltori in una hanno perfezionato la rete di scolo e di irrigazione, ché la bonifica libera la terra dall’acqua per cadere nella siccità, e bisogna immettere acqua sana e tenere vivi i canali. (R. Bacchelli)
Dalle barbabietole allo zucchero
Rieti vanta il più antico zuccherificio italiano, costruito nel 1872. Le bietole grigiastre appena raccolte vengono lavate e tagliate a listarelle, quindi introdotte in appositi recipienti cilindrici. Una corrente d’acqua calda immessa poi in questi cilindri asporta dalle bietole tutta la sostanza zuccherina. Si forma così un liquido giallognolo che viene depurato mediante complessi procedimenti e trasformato in un succo denso di colore scuro. Questo è poi filtrato attraverso sabbia e segatura di legno e infine fatto bollire ad una temperatura non superiore ai 60 gradi. Durante questa operazione si formano i cristalli di zucchero, che si separano dallo sciroppo (la melassa) e che vengono quindi lavorati nelle raffinerie, dove assumono finalmente l’aspetto ben noto.
Le mozzarelle
Frosinone e la Ciociaria sono un po’ la patria della mozzarella, quei delicati formaggi freschi e bianchi, che si sciolgono in bocca come un burro. Per fabbricare le vere mozzarelle occorrono innanzitutto le bufale, cioè le femmine di una specie bovina asiatica, importata in Italia durante il medioevo ed allevata nel Meridione. Il latte delle bufale viene fatto cagliare lentamente in ambiente tiepido. La cagliata diviene così plastica, tanto da poter filare senza rompersi. Dopo alcune ore questa pasta bianca viene estratta dal siero (liquido lattiginoso che si separa dalla sostanza cagliata) e manipolata in acqua calda, finchè i pezzi si incollano, sovrapponendosi: provate ad affettare una mozzarella, vi accorgerete che è composta da diversi strati. Infine, le mozzarelle vengono modellate su forme apposite e poste a consolidare in acqua fredda; quindi, impacchettate nel loro siero, sono pronte per essere spedite e consumate ovunque.
La pietra di Roma: il travertino
Il travertino fece la sua comparsa a Roma solo nel II secolo avanti Cristo; fino ad allora il materiale che più si usava era il lapis albanus, cioè la pietra di Albano, pietra-tufo di origine vulcanica dai brillanti bianchi cristalli d’un minerale chiamato leucite (parola greca che vuol dire “bianco”) ben visibile lungo il lastricato del Foro Romano, ecc. La sua fortuna il travertino la dovette soprattutto al fatto che Roma distava pochi chilometri dai giacimenti più importanti, quelli di Tivoli, da cui il nostro travertino. Le località più tipiche e storicamente più importanti per l’estrazione del travertino sono situate nella pianura percorsa dal fiume Aniene alle falde dei monti di Tivoli, per esempio alle Acque Albule, così chiamate perchè bianche di calce, presso un fiumicello dalle acque solforose e solforiche dall’odore penetrante. In questa piana i Romani scavarono una gran valle, larga ben 2500 metri, ottenendo così oltre mezzo milione di metri cubi di travertino. Del resto basta pensare alle proporzioni del Colosseo e dei vari teatri dell’antica Roma, tutti in travertino, per farsi un’idea dell’enorme quantità di materiale che i Romani asportarono da questa terra. L’uso del travertino si andò diffondendo; e altre cave furono aperte in Toscana, in Umbria, nella Campania. Da Orvieto giù giù fino a Salerno il travertino ebbe presto il sopravvento su tutti gli altri materiali da costruzione e da rivestimento anche se di qualità meno bella della vera “Pietra di Tivoli”. I più importanti giacimenti di travertino oggi “coltivati” (come si dice in gergo minerario) si trovano nel Lazio, e non solo a Tivoli ma anche a Viterbo, a Cerveteri, a Subiaco, per dire solo le località più tipiche. Ma se ne estrae anche dalla terra perugina e ascolitana; e in Toscana vi sono altre buone località: Montecatini, Bagni di Lucca, Rapolano, Magliano, Massa Marittima. Il travertino è un calcare (cioè carbonato di calcio) che venne abbandonato dalle acque calcarifere le quali erano divenute tali perchè avevano sciolto da altre parti più a monte il calcare delle rocce. Spesso il travertino contiene foglie e rami di piante che vennero lentamente ricoperte dalle acque calcarifere e che perciò vennero inglobate nel calcare abbandonato dalle acque. Roma è la città più d’ogni altra ricca di monumenti che testimoniano delle qualità espressive del travertino: il colonnato di San Pietro, opera del Bernini; il pavimento della Piazza del Campidoglio; la Fontana di Trevi; e tanti altri palazzi e monumenti posteriori al periodo imperiale romano. La richiesta del travertino continua tuttora. Le cave, le diverse cave disseminate in Italia, gettano senza sosta sul mercato questa così bella pietra, docile alla lavorazione e resistente quando il clima non sia troppo umido o gelido. Infatti l’umidità determina spesso un annerimento della superficie, e il gelo, penetrando l’umidità nei forellini della pietra, determina un rapido logorio. Nonostante questo, anche a Milano il travertino è molto in uso. (G. Nangeroni)
Lo sai?
Secondo la tradizione Roma fu fondata da Romolo il 21 aprile del 753 aC. Ebbe sette re, ultimo dei quali Tarquinio il Superbo, venne cacciato. Durante il periodo repubblicano estese le sue conquiste e consolidò la sua potenza vincendo tra gli altri Volsci, Equi, Etruschi, Campani, Tarantini, e abbattendo con tre lunghe guerre la fortissima Cartagine. Con Ottaviano Augusto divenne una splendida città e la capitale di un vastissimo impero che non ebbe eguali nell’antichità. Nel I secolo vi si formò la prima comunità cristiana, che ebbe in breve numerosissimi seguaci e fu sottoposta a feroci persecuzioni. Alla fine del IV secolo l’Impero Romano d’Occidente cessò di esistere e Roma perdette definitivamente la sua potenza militare, ma acquistò col succedersi dei Papi sempre maggior importanza come capitale del mondo cristiano e centro culturale. Nella notte di Natale dell’anno 800, in San Pietro, papa Leone III incoronò Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero. Nel 1527 la città venne ferocemente saccheggiata dai Lanzichenecchi, soldati mercenari tedeschi. Il 9 febbraio 1849 fu proclamata la Repubblica Romana, di cui Giuseppe Mazzini fu l’animatore. Essa venne abbattuta, il 2 luglio dello stesso anno, dai Francesi, nonostante la resistenza opposta dai suoi eroici difensori. Il 20 settembre 1870, truppe italiane al comando del generale Raffaele Cadorna entrarono nella città attraverso la breccia delle mura di Porta Pia e la occuparono. Pio IX si ritirò in Vaticano considerandosi prigioniero del Governo Italiano. L’anno dopo, il primo luglio 1871, Roma fu proclamata capitale d’Italia. L’11 febbraio 1929 si pose termine al dissidio tra il Governo Italiano e la Santa Sede con la firma dei Patti del Laterano. Roma ha dato i natali a molti illustri personaggi, tra cui Caio Giulio Cesare, Cesare Ottaviano Augusto, Severino Boezio, Gregorio Magno, Pietro Metastasio, Gioachino Belli, Trilussa, Enrico Fermi.
Impressioni di Roma
Non sono pochi ad affermare che Roma è la più bella città del mondo. Qui la natura, la storia, la religione e l’arte si alternano e si completano nel dar vita a visioni stupende e nel ricreare suggestioni e commozioni intense. I secoli più remoti e più recenti rivivono nella pietra, nel marmo, nel cotto dei monumenti, in un accostamento che non appare mai come frutto del caso, ma che sembra il volto di un perenne presente su quello sfondo di pini bruni che fanno più risplendente e più profondo il cielo. Ma che cosa rimane nella memoria di tutto quel continuo succedersi di contemplazioni, di stupori, di emozioni, mentre si procede di via in via, di piazza in piazza, di basilica in basilica, di colle in colle? Prima di tutto il ricordo del solenne, dell’austero, del maestoso, dello spazio che circolano per l’aria fra i ruderi, fra le colonne, nelle navate, sotto le cupole, fra i palazzi, nelle vaste strade, nelle piazze enormi. Poi San Pietro, il Colosseo, le fontane, le innumerevoli fontane che si succedono con fantasia inesauribile; e indimenticabili visioni di Roma eterna come si possono ammirare dai colli famosi.
Roma, città isolata
Per tanti secoli Roma fu come un’oasi in un deserto. Chi usciva di città passava attraverso una stretta cintura di orti e di vigne, poi si trovava all’improvviso in una landa sconfinata, lievemente ondulata. Bella e suggestiva, non c’è dubbio! Qualche capanna conica di pastore interrompeva la linea uniforme dell’orizzonte, che un gruppo di bufale nere, o la pennellata chiara di un gregge non bastavano ad animare. Era il regno della malaria e del latifondo.
I monumenti di Roma
Non è certo il caso di farne qui un elenco completo: i monumenti di Roma sono veramente innumerevoli, di tutte le epoche della sua storia meravigliosa. I più importanti e caratteristici sono il Colosseo o Anfiteatro Flavio, il più grandioso di tutti, e le Terme di Caracalla, nella cui cornice si svolgono d’estate rappresentazioni liriche all’aperto. E accanto ad essi, per limitarci solo ai più insigni e ai meglio conservati, gli archi di Costantino, di Tito e di Settimo Severo; la basilica di Massenzio o di Costantino, (le basiliche dell’antica Roma, badate, non erano affatto chiese) ove tuttora si svolgono d’estate grandi concerti orchestrali, e tutto il superbo complesso del Foro Romano e del Palatino (il colle, questo, sul quale nacque la prima “Roma quadrata”), il Foro Traiano, il più insigne dei fori imperiali, con la Colonna Traiana e i vicini Mercati Traianei; il Pantheon (costruito da Agrippa genero di Augusto e rifatto da Adriano), tempio romano e poi chiesa cristiana; l’Ara Pacis Augustae (Altare della pace augusteo) eretta fra il 13 e il 9 aC a ricordo della pace ridata da Augusto all’impero, poi andata in frantumi e ricomposta nel 1938; il Mausoleo di Augusto e quello di Adriano (Castel Sant’Angelo), entrambi adibiti nel medioevo a fortezze; la statua in bronzo di Marco Aurelio sul Campidoglio, modello di tutte le statue equestri del Rinascimento, e la Colonna istoriata eretta in onore dello stesso imperatore, in Piazza Colonna, centro dell’Urbe; i resti colossali delle Terme di Diocleziano entro cui sorgono ora la Chiesa di Santa Maria degli Angeli costruita da Michelangelo e il Museo Nazionale Romano; i dodici obelischi egiziani elevati su altrettante piazze; la tomba di Cecila Metella e gli altri resti monumentali della via Appia Antica; e infine i grandiosi Scavi di Ostia Antica e le più modeste rovine dell’antica Veio. La Roma cristiana ci si presenta innanzitutto con le Catacombe (principali quelle di San Callisto, del II secolo); poi con un gran numero di chiese insigni per età, pregi artistici e importanza religiosa, tra le quali emergono le quattro basiliche patriarcali di San Pietro in Vaticano, San Giovanni in Luterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo Fuori le Mura. E che dire dei palazzi dai nomi notissimi (il Quirinale, sede del Presidente della Repubblica; i palazzi Madama e di Montecitorio sedi rispettivamente delle due Camere, il Palazzo Senatorio sede del Municipio e gli adiacenti palazzi del Museo Capitolino e del Conservatorio, i palazzi Venezia, della Cancelleria, Farnese, il barocco Palazzo Barberini e cento altri), e delle fontane monumentali (chi non ha sentito nominare la settecentesca fontana di Trevi, la più monumentale di tutte?), e delle piazze imponenti (la michelangiolesca Piazza del Campidoglio, la bella Piazza del Quirinale dominale dalla fontana con i Dioscuri, la settecentesca piazza Navona sorta sull’area dello stadio di Domiziano, la suggestiva Piazza di Spagna con la celebre scalinata della Trinità dei Monti, l’immensa Piazza del Popolo, e via dicendo); delle vie (dall’ampia maestosa via dei Fori Imperiali all’elegantissima via Vittorio Veneto, che i romani continuano, come un tempo, a chiamare via Veneto, alla Passeggiata del Gianicolo); dei giardini e dei parchi (il Pincio, villa Borghese col giardino zoologico più importante d’Italia, il Parco di Porta Capena, ecc.)? Che dire dei musei e delle gallerie d’arte antica e moderna? Né mancano opere grandiose e comunque degne di nota anche tra quelle più recenti. (A. Basso)
Le quattrocento chiese di Roma
Una città sotterranea è stata la prima città della fede cristiana. Nella terra stessa dove erano le fondamenta di Roma, i primi cristiani hanno scavato le loro catacombe, i loro luoghi di ricovero e di raduno, le loro primissime chiese. E un labirinto sottoterra, sempre più profondo, per il quale giri al lume delle candele per chilometri e chilometri. Di San Pietro sai già che è la prima chiesa del mondo. E’ sorta sul luogo dove morivano i martiri; e, accanto, sul Colle Vaticano, ha il suo piccolo libero Stato dai meravigliosi palazzi, il Papa. Ma quante altre chiese ha Roma? Quattrocento. E fra queste la più antica, la madre delle basiliche, quella dedicata a San Giovanni, sorta sui terreni che l’imperatore Costantino donò ai Papi.
Le fontane di Roma
Roma è la regina delle acque. Per le vene di Roma scorre l’Acqua Vergine, l’Acqua Felice, l’Acqua Marcia, l’Acqua Paola: acque freschissime, pure e maestose. Nelle piazze e nei giardini si sono innalzate le più mirabili fontane, che parlano perpetuamente il loro linguaggio di gorgoglii, chioccolii, scrosci delle cascatelle, degli steli bianchi, degli sprilli altissimi, de getti violenti. Le fontane di Roma! In Piazza Navona ce ne sono tre. E la barcaccia di Piazza di Spagna? Essa è posta davanti alla scalinata per cui si sale alla Trinità dei Monti, il punto più soavemente bello di Roma. E la fontana di Trevi? E’ un capolavoro; tra i più capricciosi e svariati giochi d’acqua, emergono cavalli marini e tritoni, irrigati da rivoletti freschi, che danno apparenza di essere vivi. (G. Borsi)
Curiosità
Intorno alla Colonna Traiana si possono ammirare numerosissimi fregi che si snodano a spirale per tutta l’altezza della colonna: in essi sono rievocati gli episodi più significativi delle guerre compiute nella Dacia dall’Imperatore Traiano, nel periodo che va dal 101 al 106 dopo Cristo. Sulla sommità della colonna troneggia una statua di San Pietro alla quale si può giungere per mezzo di una scala a chiocciola posta nell’interno della colonna stessa.
Il colosseo
Il Colosseo, il più importante degli edifici della Roma Imperiale, così denominato per le proporzioni gigantesche e per la vicinanza della statua colossale di Nerone, sorse nella bassa valle dell’Esquilino, del Palatino e del Celio, forse nel luogo stesso si apriva come un lago lo stagnum del sontuoso palazzo imperiale di Nerone. Esso ha resistito ad incendi, a terremoti, al logorio dei secoli ed è pertanto interessante ricordare la profezia del monaco inglese Beda: “Finchè starà il Colosseo starà Roma; ma quando Roma cadrà finirà anche il mondo”. Iniziatane la costruzione da Vespasiano che la condusse fino al secondo ordine, venne compiuto da Tito nell’80 dC, e rifinito da Domiziano. Per gli speciali accorgimenti usati nella costruzione, tali da permettere in pochi anni l’elevazione di così immensa mole, il Colosseo costituisce uno dei grandi ardimenti dell’ingegneria romana. La costruzione è alta come un palazzo odierno di dodici piani ed è formata da tre file sovrapposte di ottanta archi di travertino, sormontate da un quarto ordine a muro continuo, oggi quasi del tutto scomparso. Corrispondevano, all’interno un’immensa cavea, tre ordini di sedili, divisi da due recinti, e, in alto, un ultimo ordine, riservato forse alla classe più povera di spettatori. Il Colosseo costituisce una delle più evidenti testimonianze della capacità costruttiva degli antichi Romani. Le perfette realizzazioni tecniche ancora oggi stupiscono. Esse consentivano, ad esempio, di allargare la platea per lo svolgimento delle battaglie navali (naumachie); di tendere un enorme velario per riparare dal sole gli spettatori, di disporre di ben trentadue ascensori per sollevare le belve dal sotterraneo fino al livello del suolo e di innalzare, tutto intorno all’arena, una robusta cancellata, assicurata a grosse travi, durante le cacce alle bestie feroci. A cavea gremita si calcola che l’edificio potesse contenere cinquantamila spettatori.
Recite per bambini: Lo sposalizio del mare. Il giorno dell’Ascensione, la Repubblica di Venezia celebrava “lo sposalizio del mare”, rito che risaliva al tempo in cui il doge Orseolo II aveva conquistato la Dalmazia.
Recite per bambini: Lo sposalizio del mare – Personaggi: – il papà – il figlio – la folla veneziana.
Recite per bambini: Lo sposalizio del mare – Testo
Figlio: Padre mio, in mezzo a tanta folla sono quasi soffocato; e poi, non vedo nulla.
Papà: Come vuoi che faccia? Tutto il popolo veneziano è qui, lungo il suo mare. Tutti vogliono vedere. Solo i malati sono rimasti nelle proprie case. La giornata di maggio è bellissima è Venezia esulta di colori e di gioia.
Figlio: Anch’io sono Veneziano. Ho il diritto anch’io di vedere qualcosa di così bella festa.
Papà: Giusta risposta, piccolo uomo. Fai un altro sforzo; e se riuscirai a forare questa ressa, saliremo su una scalinata di marmo, da cui anche tu vedrai lo spettacolo sul mare… Per piacere, fate largo al piccolo veneziano… Grazie, signori. Molto gentili… Eccoci sulla scalinata.
Figlio: Oh, padre mio! Che spettacolo stupendo! Quante gondole! E quante navi!
Papà: La vita di Venezia sono le sue navi. Per esse Venezia è la regina dell’Adriatico.
Figlio: Ma cosa vedo! Oh, meraviglia! Una nave d’oro che si avvicina alla riva. E i rematori, non li ha?
Folla: Viva la Serenissima! Viva San Marco!
Papà: La nave che vedi è il Bucintoro, un naviglio splendido, scintillante d’oro e di porpora, che rappresenta la potenza di Venezia sul mare e che esce solo in occasione di solenni cerimonie. I remi escono da sottocoperta, proprio perchè non si vedano i rematori. Sembra che si muova, agile e solenne, da sé.
Figlio: E quei vecchi dall’aspetto dignitoso e serio che siedono sui seggi lungo il lati della nave, chi sono?
Papà: Sono i Senatori della Repubblica. E ora osserva bene: il Bucintoro sta mettendosi di fianco a noi. Ecco il Patriarca, sotto lo stendardo col leone alato, che leva alto il braccio per benedire l’Adriatico. E’ il giorno dell’Ascensione, o figliolo: tutta Venezia prega, insieme col suo Patriarca, affinché sul mare le navi di San Marco rechino la prosperità alla nostra Repubblica… Ma ora, ecco, sì… è lui. Sì, si vede bene!
Figlio: Chi?
Papà: Il doge! E’ seduto a poppa del Bucintoro, sul trono.
Figlio: Il doge! Che fortuna! Non avrei mai creduto di vederlo!
Folla: Il doge! Il doge! Viva San Marco!
Papà: Ascolta. Squillano le trombe. Ora il doge si alza. Osserva quel che fa.
Figlio: Ha gettato qualcosa nel mare.
Papà: Sì: un anello. E’ il rito con cui Venezia sposa il mare; e significa questo: il destino della Repubblica è legato al mare, solo al mare. Il doge ha detto: “Noi ti sposiamo, o mare nostro, in segno di vero e perpetuo amore”.
Figlio: E’ bello tutto ciò. Anch’io voglio bene al mare. Anch’io un giorno voglio navigare.
Papà: Figliolo, a un genitore veneziano non potresti esprimere un desiderio più bello.
(da Recitiamo la scuola, R, Botticelli)
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La vera storia di Valentino: racconto dell’Emilia Romagna per la scuola primaria.
Questa è la storia di Valentino.
Chi non lo conosce, Valentino? E’ l’ultimo dei figli di Giovanni Arrighi, detto il Mére.
Il Mére era il colono del Carrara, e la Chiara era sua moglie.
Vivevano da poveri, si sa, ma a Castelvecchio e a Barga li conoscevan tutti per quel che erano: gente alla buona, onesta, senza chiacchiere.
Un giorno, dunque, il Mére disse alla moglie: “Oh Chiara, non ti sembra che quel moccioso abbia bisogno di essere rivestito?”
“Eh, lo so anch’io, purtroppo!” rispose, un po’ seccata la buona donna. “Qualcosa gli ci vuole, ma…” e continuò a rimestare nel paiolo la semola da dare alla Bianchina.
“Ma qualcosa gli ci vuole!…” ripeté il Mére tentennando il capo. Ma, lì per lì, non seppe neppure lui come risolverla.
Palanche non ne aveva. Bisogni, in casa, ce n’erano tanti da cavare gli occhi. E tre figlioli da tirar su: Tonino, Carolina, Valentino.
Qualche tempo prima il padrone gli aveva detto: “Ho deciso di vendere tutto, Mére: campi e casa. C’è il professor Pascoli che sarebbe disposto a comperare. Tu, intanto, se ha bisogno di qualcosa, dagliela pure: latte, formaggio, uova. Dopo, semmai, ci rifaremo. Hai inteso?”
E il Mére: “Ho inteso”.
“Tanto ci rifaremo, Chiara: hai inteso?”
“Sì, ho inteso, ho inteso. Ma intanto non abbiamo una palanca per far cantare un cieco. Fra un mese e mezzo è Pasqua. Ed io come glieli compro una giacchetta ed un paietto di calzoni al Valentino?”.
Poi ci ripensò meglio; si sa, il bisogno spinge.
Ed ecco che una bella mattina, quando il Mére era già nei campi a legar viti, la Chiara spazientita spacca il salvadanaio, conta gli spiccioli, si aggiusta alla vita il pannello delle feste e, via, se ne va a Barga, dal Carrara che gestiva un negozio di pannine.
“Sor padrone, ho bisogno di qualcosa”.
“Sono contento di servirvi, Chiara. Di che cosa avete bisogno?”
“Due cencetti per Pasqua. Da spendere poco, vè! Che le panche, da casa nostra, se ne son ite!”
“Ma non vi preoccupate, scegliete pure!”
La Chiara scelse e pagò fino all’ultimo centesimo. Poi andò dalla Filomena, che cuciva anche donne e per ragazzi.
“Zitta, non lo dire, veh! E’ una sorpresa” e tirò fuori la stoffa acquistata dal Carrara. “Vorrei che tu ci facessi un vestitino al mio Valentino. Due zoccoletti, prima di Pasqua, glieli comprerò. Ho due galline: se non mi coveranno tanto presto…” (Voleva dire: faranno delle uova, le venderò, ci comprerò gli zoccoli).
Invece tutti sappiamo come andò a finire. Le galline chiocciarono, la Chiara non potè più vendere un uovo…
e tu, magro contadinello, restasti a mezzo, così, con le penne, ma nudi i piedi come un uccello.
Venne il giorno di Pasqua. Sole meraviglioso, voli, trilli di rondini.
Valentino uscì di casa, scese le scale, arrivò sulla piazzetta un po’ impacciato nei movimenti a causa del vestito nuovo.
“Oh, Valentino, vestito di nuovo!” si udì esclamare.
Si arrestò di colpo. Voltò gli occhi a destra, a sinistra, in alto. Guardò verso la casa del professore: il poeta affacciato alla finestra sorrideva. Il ragazzo abbassò il capo, diventò rosso rosso. Poi, via, di corsa a rifugiarsi in casa.
Il Pascoli invece, rimase a lungo a guardare dalla finestra, muto.
Lungo i borri dell’Orso, tra le siepi dei biancospini fioriti penduli sull’acqua trasparente, le allodole, le cince, i pettirossi cinguettavano lieti alla primavera. Proprio come il bimbo del Mére e della Chiara, proprio come Valentino: lui pure saltava, correva, ignaro se al mondo potesse esistere una felicità più grande della sua.
Così nacque una delle più delicate poesie del Pascoli.
Oggi, dei protagonisti di questa storia è rimasto soltanto Valentino Arrighi, ma è emigrato in America: a Cincinnati (Ohio), dove ha famiglia e dove… viaggia in automobile.
(G. Mirola)
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Da quanti secoli quell’obelisco giaceva, mezzo interrato, vicino alla Basilica di San Pietro? Era venuto dall’Egitto, perchè in quel paese, antichissimamente, gli obelischi servivano a segnare le ore con la loro lunga ombra. Infatti gli obelischi erano altissimi e strettissimi massi di granito, terminanti a punta. Sulle facce rivelavano incise quelle strane figurine che costituivano la scrittura degli antichi Egizi. Riusciva dunque difficile far reggere in piedi un obelisco. E infatti l’obelisco, che si trovava vicino a San Pietro, giaceva da secoli e secoli sdraiato per terra e nessuno si era sentito la capacità e il coraggio di rimetterlo dritto. Il granito pesa moltissimo, tanto è vero che, a poco a poco, l’obelisco era affondato nella terra, dalla quale affiorava soltanto una faccia, tutta piena di scrittura figurata. Ma nel 1584 papa Sisto V chiamò il suo architetto, che si chiamava Domenico Fontana, e gli disse: “Avete veduto quel bellissimo obelisco, che giace vicino alla sagrestia di San Pietro? E’ nostro desiderio raddrizzarlo proprio nel mezzo della piazza”. “Sarà fatto, Santità” rispose l’architetto. Misurò l’obelisco. Ne calcolò il volume e quindi il peso. Studiò macchine speciali, con ruote a ingranaggio e grosse funi di canapa, e quando gli parve d’essere sicuro del fatto suo, si presentò al papa e gli disse: “Santità, io sarei pronto per la manovra, ma ho paura”. “Che cosa vi spaventa?” chiese Sisto V. “Mi spaventa la folla,” disse l’architetto. “La notizia si è sparsa per tutta Roma, e il giorno della manovra sulla Piazza San Pietro accorrerà una gran folla”. “Certamente” disse il papa “Anche noi ci saremo, con tutti i Cardinali. Che noia vi daremo?”. “Mi darà noia il clamore, che coprirà la mia voce. I miei ordini non verranno uditi. Poi ci sarà chi griderà una cosa e chi un’altra. Invece io ho bisogno del più assoluto silenzio. Gli ordini devono venire soltanto da me, durante la difficilissima manovra”. Sisto V era un papa molto energico e severo. Tutti lo temevano, perchè sapevano come fosse rigoroso contro coloro che disobbedivano. Fece un editto, nel quale si ordinava il più assoluto silenzio. Chi avesse alzato la voce, durante la manovra di innalzamento, sarebbe stato punito con la morte. Il papa Sisto non scherzava. Perciò i cittadini , nel giorno fissato, affluirono in Piazza San Pietro a bocca chiusa. S’intendevano a gesti e sembravano tanti sordomuti. Il papa aveva fatto mescolare alla folla molte guardie svizzere, con l’ordine di arrestare chi gridasse anche una sola parola. Nel silenzio, l’architetto Fontana cominciò a dare gli ordini per la manovra. Le funi si tesero, le ruote cigolarono e l’obelisco, lentissimamente, cominciò ad alzarsi da un lato. Tutti trattenevano il fiato, anche il papa e i Cardinali, attenti alla pericolosa operazione. Sempre nel più assoluto silenzio, si udiva la voce dell’architetto, che seguitava a dare ordini. E l’obelisco continuava ad inclinarsi sempre di più, a drizzarsi sempre meglio. Eccolo quasi verticale. Un ultimo strattone delle funi e l’obelisco sarebbe andato a posto, perfettamente dritto. Ma le funi tese sono giunte alla fine del loro tratto e non si muovono più. Le ruote degli argani sembrano inchiodate. Tutta la grande macchina è ferma. L’architetto Fontana ha sbagliato i calcoli e l’obelisco rimane leggermente inclinato. Com’è possibile lasciarlo così? Il papa guarda severamente l’architetto. L’architetto, costernato, guarda il papa. Tutto il lavoro fatto è dunque inutile? Allora si ode una voce alzarsi dalla piazza. E’ la voce distinta, chiara, d’un uomo solo, che sembra abituato al comando e che grida: “Acqua alle funi!”. Il papa volge lo sguardo irato verso il punto della piazza dal quale si è levata quella voce gagliarda e imperiosa. Le guardie accorrono per arrestare il ribelle agli ordini papali. Ma l’architetto si batte la fronte e ordina di stare tutti fermi. Fa portare secchi d’acqua, con i quali bagna davvero le funi. E le funi, con l’umidità, si accorciano, e quell’accorciamento è sufficiente per mandare a posto l’obelisco. Intanto le guardie svizzere avevano arrestato l’autore del grido. Era un capitano marittimo di Sanremo, e si chiamava Bresca. Condotto dinanzi al papa, tutti attendevano la sua condanna. Invece Sisto V gli disse benignamente: “Chi sei?” “Sono il capitan Bresca” “Di dove sei?” “Di Sanremo” “Perchè hai gridato?” “Perchè noi marinai conosciamo bene le corde di canapa e sappiamo che quando sono bagnate si ritirano” “Conoscevi l’editto che prometteva la morte a chi avesse gridato?” “Sì, ma noi marinai liguri siamo abituati a sfidare la morte pur di fare un’opera buona!”. La risposta piacque al papa, il quale, non solo perdonò il bravo marinaio ligure, ma lo volle premiare. “Che cosa desideri?” “Santità, prima di tutto la vostra benedizione”. Dopo averlo benedetto, Sisto V chiese al capitano Bresca: “Vuoi altro?” “Santità, l’onore per me e per i miei discendenti di fornire le palme al Palazzo Apostolico. Sulla riviera ligure crescono le più belle palme d’Italia.” Il papa si stupì. Quel bravo capitano di mare non chiedeva, ma voleva dare. E allora Sisto V volle essere generoso con lui. Lo nominò Capitano dell’Armata pontificia. Gli diede il privilegio di issare sulla sua nave la bandiera papale. Così il capitano Bresca ebbe più onori dell’architetto Fontana e riportò, per sè e per la sua famiglia, un titolo di benemerenza e d’onore. (P. Bargellini)
Leggende della Liguria Le galline dell’isola Gallinara
L’isola Gallinara, questo già lo sai, sorge nel mare di Albenga, poco ad ovest della città. Quello che forse non sai è il perchè, ancora oggi, la solitaria isoletta porta questo singolare nome. “Perchè era abitata dalle galline!” mi pare di sentirti esclamare. Bravo, proprio cosi! Essa era abitata da galline, da galline selvatiche. Ascolta ora quel che avvenne… Si sa che le galline sono alquanto pettegole. A volte il loro chiacchiericcio era talmente alto e petulante da essere udito perfino dalla costa per giornate e giornate intere. Ti figuri gli abitanti? Ad un certo punto ebbero i loro nervi così fuori posto da non poterne più e cominciarono a imprecare contro quelle bestiacce e chi le aveva create. Proprio così. Tu dirai che non è giusto. Sono d’accordo con te, ma questa, purtroppo, è la verità. Ma quelle bestemmie non rimasero sulla costa ligure e tanto meno sulla terra. Arrivarono nientemeno che all’orecchio del buon Dio, il quale maledì l’isola e fece sì che da allora, nessuna gallina mai più ci vivesse. Passarono gli anni… Un giorno giunse ad Albenga l’abate francese Martino; scorse l’isola e la volle visitare. Innamoratosi della grande solitudine e della profonda pace che vi regnavano, la scelse per sua dimora e vi si stabilì. Martino era un santo e le preghiere che egli quotidianamente innalzava a Dio arrivavano diritte al Creatore, nel Regno dei Cieli. Spesso, dunque, Martino, nelle sue orazioni invocava il buon Dio, affinché permettesse nuovamente alle galline di ritornare a vivere nell’isola. Inutilmente, però, in quanto Dio non si lasciò commuovere nemmeno dalle parole del santo. E da allora le galline non vi fecero più ritorno. Di esse rimase soltanto il ricordo… nel nome dell’isola. Il buon abate, ad ogni modo, se non riuscì a far tornare le galline, potè invece operare un altro miracolo. Devi sapere che, anche in Liguria, esiste una certa pianta chiamata elleboro. Essa possiede una certa sostanza velenosa. Ebbene, San Martino riuscì a togliere ogni traccia di veleno all’elleboro che cresceva sulla Gallinara. Difatti sull’isola oggi cresce soltanto una varietà di quella pianta, non velenosa.
Leggende della Liguria La trave del tesoro
Un giorno d’ottobre dell’anno 1202 giunse a Portovenere, portato dalle onde, un grosso tronco. Era un normale tronco d’albero, anche se di grandezza non comune. I Portovenerini, vedendolo così lungo e grosso, si dissero: “Di questo tronco ce ne faremo una bella riserva di legna da ardere per quest’inverno”. Detto fatto, ritornarono con asce e picconi, e giù colpi da orbo che avrebbero spaccato una montagna. Non fu così per il tronco; infatti per quanto gli dessero non riuscirono neppure a scalfirlo. Un fatto simile non era mai successo nella storia di Portovenere e dintorni; per cui l’impressione fu assai grande. Qualcuno disse: “Dev’essere certamente una cosa sacra! Per conto mio questo è un miracolo”. E la voce del miracolo corse veloce per tutto il paese. La curiosità, però non diminuì, nei Portovenerini, anzi aumentò. Decisero allora di spaccare quel singolare tronco con ogni delicatezza. Così, infatti, cominciarono a fare. Ed ecco che ai primi colpi (erano quasi carezze) la misteriosa trave si aprì dolcemente, come uno scrigno, mostrando agli stupefatti abitanti immagini, quadri, arredi sacri e quattro cofanetti d’avorio tutti istoriati a penna, in rosso e nero. Da dove mai veniva quel tronco? E chi aveva mandato la trave misteriosa? Nessuno ha mai saputo rispondere a queste domande: ma i quattro cofanetti (unici in Italia di così prezioso e delicato lavoro in avorio) sono ancora nella chiesa di San Lorenzo, a Portovenere.
Leggende della Liguria per la scuola primaria – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria.
Paese di collina.
Le Marche sono un paese di collina e vogliono la vista scoperta da tutti i lati. In piccolo spazio troverete una moltitudine di città e cittadelle situate su per giù nella medesima posizione, su lunghe colline piuttosto alte a cui sorride il mare da una parte, con la vista assidua del promontorio di Ancona, e il lontano, aereo Appennino dall’altra. Il mare arriva dappertutto come la sua luce. Se ci si affaccia dall’alto, lo si vede insinuarsi, occhieggiare fin sotto le pendici dei colli più apparentemente discosti; si scoprono le coste marchigiane formatesi, al dire dei geologi, per emersione e quindi sicure dalla malaria, ma non altrettanto in antico, dalle incursioni piratesche, le quali spiegano il perchè di tante torri in luogo di campanili. Torri che, isolate oppure vigilanti sull’abitato, si rispondono da tutti i monti, segnalano a valle i passi obbligati, e danno a questo idilliaco paese un aspetto difensivo e guerresco. (V. Cardarelli)
Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria Ecco le dolci Marche
I campi sono così gonfi di vegetazione che il trifoglio in fiore trabocca, in primavera, sulle scarpate della ferrovia. Quale ampiezza di linee in questo paesaggio trasfigurato da una luce che è tutta un sogno, un sospiro! L’Adriatico iridescente e trinato ricorda la pittura veneziana e anche il vetro di Murano. Vorrei essere pittore per dipingere quel caos, quello spruzzo di colori, che è Fano vista da Pesaro: i quercioli e il grano piegati dalla bora; la terra bruna e leggiadra su cui spiccano le pianticelle di pomodoro, di aglio e di cipolla che si coltivano nei frugalissimi orti del litorale. I pescatori lavorano il mare come i contadini la terra. Al carro tinto di rosso e di turchino, ai buoi infiocchettati, rispondono al largo le vele colorate. Il mare arriva da per tutto con la sua luce. (V. Cardarelli)
Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria Pesaro
Questa, signori, è la piccola città. Vedete? Da una parte è il mare: non somiglia a nessun altro, perchè due colli, l’Ardizio e il San Bartolo, ne delimitano la proprietà… Le ore più vere della nostra piccola città sono quelle dell’alba quando i pescatori di telline sono centro metri dentro il mare coi calzoni rimboccati fino al ginocchio ché l’acqua non arriva più in su… Fra poche ore la nostra spiaggia avrà tutti i colori balneari: i rossi, il turchino, il giallo; sono le tende, gli ombrelloni, i capanni. La vita della nostra piccola città scorre serena; gli abitanti, tranquilli, non si stupiscono di nulla; gli avvenimenti, spesso notevoli, toccano tutte le tonalità: quelle persone che vengono a gruppi verso di noi, sono uscite ora dal teatro; nel salone del Conservatorio provano ancora il concerto che si farà domani… Ora sono andati tutti a riposare: è questa l’ora in cui i viali odorano di mare e biancospino e i portali trecenteschi delle nostre chiese hanno l’armonia di lunghi accordi d’organo… Questa, signori, è la piccola città vecchia, stravecchia, gotica, medievale, malatestiana, tra il mare, il Catria, Urbino e il forte di Gradara. Nelle vie scure e deserte, sulle vecchie case cariate dal vento di mare, gioconda, grande, magnifica, rimane la magica melodia di Gioacchino Rossini. (M. Cocco)
Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria Ascoli, dolce terra
E’ una città di torri, di ponti romani, di frati vestiti di nero, di campane minute e verdognole che chiamano alle funzioni i fedeli con un timbro conventuale e trafelato. Penso che sarebbe sufficiente un colpo di vento, di libeccio, a far suonare senza l’aiuto dell’uomo tutte queste campane a vela attaccate a campanili che sembrano blocchi di fango essiccato. Ogni sera, dopo la calata del sole, decine di chiese che hanno il colore delle fortezze assorbono la poca luce restante. E se vi approssimate alle zone più popolari e più buie, a stento riuscite a notare alle finestre donne affacciate tra vasi di garofani, magari sopra cinquecentesche lunette e formelle di terracotta rappresentanti o un’ostia col calice o un’agnella… Qui la vita si protrae fino a tarda ora pure nelle anguste rue, traducendosi in vivace bisbiglio che proviene da terrazzi nascosti. A mano a mano che vi avvicinate ai viali alberati lungo le scoscese sponde del Tronto, v’avvolge il profumo dolce e oleoso dei tigli in fioritura. (D. Zanasi)
Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria Macerata
Scura al pari di una certosa sulla cime di un colle; gremita di chiese seicentesche a pietra viva, a mattoni aggettati: piena di misticismo, di motivi elegiaci, di religiosi stupori… Città così ruvida e amabile, strade anguste e disagevoli come sentieri di ronda. Macerata in certi temporaleschi tramonti d’estate ha incendi purpurei… Un panorama spazioso e abbastanza profondo, aperto sopra una tondeggiante cavalcata di colli che degradano all’orizzonte. La stazione è in fondo al viale e ora è dipinta di azzurro, di un azzurro vivace che con la sua tinta e con l’aiuto della fontana lì accanto cerca di rimediare alla scarsa frequenza dei treni che vanno a Portocivitanova. Le voci, sia pur sommesse, riecheggiano col medesimo stupore di un grido in una cattedrale vuota. (D. Zanasi)
Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria Urbino… ventoso
Il padre si trascinò dietro il figliolo tra le belle case bramantesche, nelle vie che si disegnavano in vaghe ondulazioni, nelle piccole vie che si restringevano sempre e poi si infossavano, su scalette che si arrampicavano, fra casucce silenziose dalle quali spuntava qualche bel ciuffo verde; o gli indicava dall’alto una cascata di gradinate che si rotolava nell’altra via o la mole panoramica del Palazzo Ducale che si scorgeva sempre, come una veduta animata, coi suoi due torricini e le due piccole cuspidi da castello di carta. Aspre erano le salite, precipiti le discese. Ritornarono in piazza, rigirarono intorno alla fontana. Poi sdrucciolarono giù quasi correndo sul selciato sonoro fino a un ripiano inferiore dove la città finiva e aveva dinanzi il panorama delle sue colline e dei suoi monti: vaste ondulazioni azzurre, colline blande, monti aguzzi. (M. Moretti)
Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria La piazza del Sabato del villaggio
Recanati. E’ già quasi il tramonto, il paese si scuote dal suo torpore del pomeriggio. Le case sono chiare e pulite: poche le botteghe, rari i passanti: una grande quiete, come se il paese si raccogliesse in un tardo rispetto. Il palazzo Leopardi è poco lontano dalla piazzetta ombrosa. Mi pare di dover camminare in punta di piedi, per non far rumore, come quando si entra in chiesa e non c’è nessuno. Un breve tratto ed ecco la piccola piazza signoreggiata dalla casa del Poeta. Anche la piazza è chiusa fra il fianco grigio d’una chiesa e il muro del “paterno giardino” unito al palazzo: spuntano dietro ad esso fiori e fogliame. Dinanzi al palazzo, la piazza che scende in lieve declivio è chiusa da quattro o cinque casette basse, con le porte e le finestre chiuse. Su quella di mezzo è scritto in una targa i marmo: Piazza del Sabato del villaggio. (G. Civinini)
Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria Contadini marchigiani
Quei miti e laboriosi contadini marchigiani, che gente tenace! Dormono in campagna loro. E non si lasciano vedere in paese che nelle mattine di festa, quando salgono su per la messa o a far la spesa. Radi i loro casolari sorgono, qua e là, a grandi distanze. Ivi è il “contadino”. S’è fatto dei suoi campi di grano e di granoturco, dove l’estate fanno il nido le calandre, un paradiso, questo instancabile concimatore. Le stalle sono ampie e ricche di molto bestiame. La vita scorre non senza le liete usanze contadinesche: le gite di notte da un casolare all’altro, le veglie, i canti, le danze sull’aia fin oltre la mezzanotte, nel tempo che si mondano i raccolti… L’ordine e l’allegria regnano in casa, sotto l’autorità d’una massaia rispettata come una regina. Sui campi comanda lui, il contadino. Gentilezza di costumi, religione, contentezza del proprio stato, sono le sue doviziose divinità familiari. (V. Cardarelli)
Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria Pesca nelle coste marchigiane
Sotto un bel cielo marchigiano appena toccato dalle nuvole, si lasciò il canale murato per il mare mosso da un po’ di garbino. Una giornata di pesca nell’Adriatico, ma era il mio sogno! Il lido si allontanava. A otto chilometri dalla costa il ridente litorale tra Fano ed Ancona spiegava il suo anfiteatro di basse colline ondulate, un poco velate, con San Ciriaco là in fondo e il Conero e Sinigallia nel messo, macchia rosea e felice posata nel verde. Di lì a poco venne gettata la rete in mare, la lunga rete a imbuto che chiamano tartana. Dopo qualche ora, verso le tre, gli uomini trassero la rete. Puntando i piedi contro la balaustra e tirando a ritmo con un oh! issa! trassero in coperta la gran borsa greve di fango. Sgocciolava da tutte le parti e dentro, nella mota giallastra, si muoveva, in un infinito brulichio, tutto il viscido cosmo delle profondità inviolate. Ora si ritorna a tutto motore verso terra.. Si vola, e mentre scuffiate d’acqua dai fianchi della barca si rovesciano sul ponte, all’ombra delle vele schioccanti i nostri compagni trascelgono il pesce dal mucchio fangoso. Le triglie in una corba, calamari, razze e sogliole nell’altra. (C. Linati)
Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA per la scuola primaria.
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Toscana gentile
Il paesaggio dell’Italia centrale annuncia subito clima più mite e mare vicino. L’ulivo che nell’Italia settentrionale appare soltanto lungo la riviera ligure e lungo le sponde eccezionalmente privilegiate dei laghi lombardi, in Toscana riveste ampiamente le pendici inferiori dell’Appennino e poi il suo caratteristico di pallido verde e di grigio argenteo. Tra gli ulivi svettano i cipressi agili e scuri, che al paesaggio toscano danno il tocco più elegante. E poi i vigneti, i famosi vigneti di Toscana, il cui succo va per l’Italia e per il mondo negli stapaesani fiaschi impagliati e attinge la dignità dei prodotti di gran classe. Poiché la gente è solita dare ad ogni paese un epiteto semplice e riassuntivo, la Toscana è gentile. L’epiteto si addice bene ai costumi del popolo toscano, di moderato benessere e di educata affabilità, all’eleganza del suo parlare spontaneo e arguto. Ma l’attributo di gentilezza va inteso soprattutto nel suo senso più antico e più schietto di nobiltà. Tutto qui mostra la più felice e armonica fusione fra genio istintivo e raffinatezza del gusto, fra fantasia e misura. Questo segreto ci svelano la poesia di Dante e Petrarca, l’umorismo del Boccaccio, la prosa ragionatrice di Galileo, l’architettura del Brunelleschi, la struttura delle città, ciascuna delle quali, piccola o grande che sia, è regina.
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Cielo toscano
Chi entra in Toscana si accorge subito di entrare in un paese dove ognuno è contadino. Ed esser contadini da noi non vuol dire soltanto saper vangare, zappare, arare, seminare, potare, mietere, vendemmiare: vuol dire soprattutto mescolare le zolle alle nuvole, fare tutt’una cosa del cielo e della terra. In nessun luogo, il cielo è così vicino alla terra come in Toscana; e lo ritrovi nelle foglie, nell’erba, negli occhi dei buoi e dei bambini, nella fronte liscia delle ragazze. Uno specchio il cielo toscano, così vicino che lo appanni col fiato: monti e poggi le nuvole, e tra quelli le ombrose valli, i prati verdi, i campi dai solchi dritti (e quando è terso vedi nel fondo, come in un’acqua limpida, le case, i pagliai, le strade, le chiese). Ad ogni colpo di zappa l’aria si mescola alla terra, e subito dalle zolle spunta una peluria d’erba verde e azzurra, nascono larve di cicale e allodole improvvise. Basta toccarla, per sentir che la nostra terra è piena di bollicine d’aria, e in certi giorni si gonfia e lievita, par che da un momento all’altro debbano nascere forme di pane. E’ una materia leggera e pura, per poterne far statue e uomini… (C. Malaparte)
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Tra colli digradanti
Rivedo il mio dolce paese di Toscana, là dove è più bello, più sereno, più consolante, in Valdarno. Rivedo la verde pianura ad aiuole quasi di giardino, tutte alberate, che a mano a mano si libera come ridendo dalle strette dei colli digradanti e di quando in quando è rinserrata come in un nuovo abbraccio dai colli che risalgono e le si stringono sopra. Corre diritta nel mezzo la bianca strada maestra; scendono per una traccia di salici e canne i fiumiciattoli dai soavi nomi e con dolci mormorii corrono via sotto i ponticelli leggiadri giù all’Arno. Una processione lunga lunga di pioppi, le cui cime ondeggianti perdono figura e mobilità nella caligine biancastra del vespero autunnale, segna e seguita la corrente del fiume. E la pianura e i colli sono popolati di case rustiche, bianche o dipinte, con le due scale esterne che salgono a congiungersi nel verone impergolato sul quale è un’insegna gentilizia o una Madonna. Al pian terreno è la tinaia, il frantoio e le stalle; l’aia in faccia e a sinistra due o tre pagliai non anche manomessi, con un pentolino sullo stollo. Ai piedi dei pagliai si accucciano i cani. Dietro ha il monte ripido; e sul monte una fila di cipressi gracili e austeri dentellano del loro verde cupo l’orizzonte settentrionale tinto in colore di perla. Anche più indietro è una torre o un castello. Il sole calante batte nelle vetrate del piano superiore della villa, e quelle paiono incendiarsi come al riflesso di uno scudo incantato. (G. Carducci)
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Passeggiate fuori porta
Tutto quel che c’è di poetico, di malinconico, di grigio e di solitario in me l’ho avuto dalle campagne di Toscana, dalla campagna ch’è intorno a Firenze. Mio padre mi portava ogni domenica, fin da bambino, fuori porta. Il babbo sapeva certe strade solitarie, deserte, fuori mano dove si camminava adagio adagio. Di sopra ai muri, in cui la strada era incassata, si spenzolavano i rami convulsionari dei bigi ulivi, o sfilavano i rosai nani, poveri e non curati, i rosai con le rose fradice e sbiancate che cascavano foglia a foglia giù nella zanella a marcire. Quante miglia rasente a quei muri! Muri bassi, quasi muriccioli che invitavano la gente a sedere; muri umidi, toppati di licheni bigi e di fungaie verdi, colle scolature nere e luccicanti delle feritoie; muri altissimi con alberi grossi, neri e fronzuti in alto. Ogni tanto i muri si aprivano e succedevano le siepi vive, alte, prunose, bianche di brina e di neve in inverno, bianche di fiori in primavera, nere di more alla fine dell’estate. E più lontano ancora, sparivano muri e siepi, e la strada solinga e massicciata tra i cipressi o gli abeti e avevo là sotto le valli solcate e i prati bagnati e i fondi di nebbia e l’illusione dell’infinito. (G. Papini)
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Colline fiorentine
Per coloro che non conoscono Firenze o la conoscono poco, dirò come essa sia una città molto graziosa e bella, circondata strettamente da colline armoniosissime… E’ pregio inestimabile di queste colline l’essere disseminate di ville, di castelli costruiti nei punti più suggestivi, volti in tutti i sensi, di tutte le epoche, d’ogni stile, e che mai ne turbano l’armonia; circondati da parchi e giardini che invece di produrre un’atmosfera di irrealtà da sogno o da fiaba, per virtù di certa severità e raffinatezza, riescono a darci l’illusione della realtà più semplice, di intimità domestica, di nobiltà sicura, di sobrietà e saggezza. Alle ville e ai castelli si aggiungono le ville più piccole, le villette, le case, i casolari, i paesi e borgate che la varietà del suolo lascia apparire in un complesso che rende insaziabile l’occhio dell’osservatore per il numero inesauribile delle scoperte. (A. Palazzeschi)
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Firenze
Era una di quelle belle giornate di freddo asciutto e di luce cruda che fan risaltare la bellezza realistica e insieme trascendentale di Firenze. Via Tornabuoni, illuminata dal sole, svelava le forme e lo spirito del Rinascimento, parlava il linguaggio dell’architettura di allora, si propagava nell’armonia miracolosa della pietra divenuta canto: Palazzo Strozzi, nel fondo Palazzo Antinori. Festosa l’aria, e così l’aspetto della gente. E il senso del Natale: al principio del muricciolo di Palazzo Strozzi, sull’angolo del chiassolo, la mostra di alberi di Natale, di agrifogli coi pallini rossi, ciocche di vischio dalle lacrime ceree. (B. Cicognani)
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Arezzo
Dal muretto dell’orto della casa del Vasari, presso il tondo dell’acqua tra gli alberi da frutto, l’occhio riposato raccoglie in prospettiva i digradanti tetti di Arezzo, misura in basso gli spazi delle vie e delle piazze col nitido rilievo d’una incisione. Finché la campana grossa e vicina di Santa Maria in Gradi, e quella leggera di San Vito poi, e via via dell’Annunziata, di San Domenico, di San Lorentino e tutte le campane non riempiono il cielo e volgono la giornata. (P. Pancrazi)
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Siena
Siena, da sotto il mio ciliegio, pareva un arco che non si poteva aprire più, e le sue case, giù per le strade a pendio, parevano frane che mi mettevano paura; con i tetti legati dalle edere cresciute su per le mura di cinta, le mura che non si apriranno mai. Ed io allora andavo a guardare la città da un’altra parte, quasi da quella opposta, dalla Porta Ovile. E vedevo i suoi orti squadrati entrare, con un angolo più alto degli altri, tra le case più rade; oppure, l’uno appresso all’altro, farsi largo e posto, ma fermati da una fila di cipressi la cui ombra oscurava il verde dell’erba; e qualche pesco fiorire e maturare accanto alle campane di una chiesetta, e qualche olivo chinarsi dietro tutta la campagna soave che impallidiva lontano, rasente i monti chiarissimi, talvolta più luminosa del sole. E se guardavo la città dall’altra altura, da Vignanone, le voci degli uccelli si allargavano nell’azzurro come il vento. Le rose dei giardini, senza colore e senza profumo, la cingevano tutta: le finestre erano aperte. Da parecchie miglia lontano, io vedevo invece le sue torri come tizzi ritti che si spegnevano nella cenere del crepuscolo. (F. Tozzi)
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Grosseto nell’Ottocento
Grosseto era una cittadina malinconica e serena, fatta di case che al primo entrarci odoravano di sigaro, di polvere, di spigo e di mele cotogne, come cassetti di vecchi mobili, chiusa in una cerchia rugginosa di vecchie mura bastionate e arborate come quelle di Lucca. Sotto le grandi acacie la domenica suonava la banda, e la gente ci portava a spasso il vestito delle feste, da mezzo pomeriggio fino al che il solito tramonto palustre affocato e torbido scendeva ad arrossare la piatta campagna sottostante dall’orizzonte brumoso agli spigoli del gran bastione stemmato con l’arma dei Medici. E quando veniva aprile, per certe strade deserte ed erbose, di là dalla vecchia chiesa di San Francesco, l’odore delle acacie fiorite scendeva ventate giù dalle mura, e dava al cuore. Le case avevano le grondaie piene d’ortiche e le persiane tutte verdi. E pareva che anche i muri avessero messo le foglie. (G. Civinini)
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Fiera di quaresima a Firenze
Banchi e banchi, uno accanto all’altro, in due file dirimpettaie che si estendono nella lunghezza del quartiere e che straripano di frittelle, di torrone, di schiacciata tipica e di zucchero filato. E i brigidini. Il brigidino è l’attrazione della fiera. Lo si impasta e cuoce sotto i vostri occhi. Lo si mangia tiepido e croccante. E’ in virtù del suo richiamo che la gente affolla la fiera. Il brigidino è una cosa da nulla, appena un’ostia di più grandi dimensioni, pure ha una consistenza, una fragranza, un sapore che si scioglie in bocca. I carretti ne sono pieni, dapprima, ma via via che l’ora monta e la folla cresce, si formano le code in attesa davanti ai banchi dal fornelletto sul treppiede, ove l’esperto brigidinaio rigira le sue “schiaccie”. I venditori sono tutti vestiti di bianco, con in testa copricapi da cuochi di grande albergo. Magnificano la merce a squarciagola, persuaso ognuno di essere eletto da Santa Brigida in persona a custode del segreto per la confezione del biscotto. (V. Pratolini)
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Alpi Apuane
La mia ora per amarle, era la mattina; la mia stagione la primavera. Lassù, lassù, dal verde cupo delle pinete sul mare, al più chiaro verde dei castagneti a mezza costa, alle alture già nude e sovrane, le grandi moli si levano audacemente; e sagomavano altissime l’orizzonte, attendevano nel celeste pallido delle cime che trascoloravano. E a un tratto la luce alitava dietro di loro: come una diffusa nebbia chiara, già orlava d’un tremito splendente le loro creste; poi, con una irruenza improvvisa, il sole balzava, raggiava maestoso e terribile, le velava d’una cortina di fulgore, ascendeva sicuro. La cortina si spegneva e le Apuane cominciavano le loro variazioni di colori e di rilievi; si disegnavano catena contro catena, in una diversità di azzurri che rivelavano le valli tra le fiancate di rupe; passavano dal più denso cobalto, ai glauchi più lattei, ai più ferrei grigi; fino a stare, nel meriggio, bianche e calcinate nella severità abbagliante; per ripigliare poi via via fino a sera i passaggi dal celeste all’azzurro, all’amaranto al viola; e bruciare, accendendosi d’un tratto in certi miracolosi tramonti, come spaventevoli torce senza fumo; e spegnersi del tutto, svanire; riapparire aeree, nell’ultimo crepuscolo; e, se c’era la luna, biancheggiare indefinibili come sogni, nella vastità sonnolenta. (E. Cozzani)
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Il Valdarno
Di quelle passeggiate pomeridiane e vespertine mi restano molti ricordi; vaghi i più, e dove si mescolano il colore dei campi e dei cieli di quel mio caro Valdarno; l’incanto di certi solicelli distesi per piagge solitarie e tacite, di certi tramonti piedi di frulli di uccelli, con qualche voce di bifolco o qualche muggito o belato: lo splendore e il profumo delle siepi fiorite, la bianchezza della strada polverosa, dove d’improvviso piombano i primi radi goccioloni di una pioggia estiva che ci faceva correre verso casa a ripararci sotto un ponticello o in un capanno di contadini. Taluni ricordi invece molto distinti e vivi, come quello di un bel ramo di mele lazzarole verdi e rosse rubato da noi in un campo per farne un presente al maestro. (A. Soffici)
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Maremma
Sono nato e cresciuto in Maremma, a poca distanza dal mare, in un paese urbano e campagnolo, rustico e civile, che ha serbato intatto il secolare orgoglio della sua piccola cerchia antica, torreggiante e murata, e tiene la qualità di forestiero per indice di villania. Circondato da un territorio amplissimo e diverso d’aspetti e di natura, qui grasso e ferace, onusto di biade, di frumento, di vigne, di orti e di canneti, là isterilito e impraticabile per i sassi affliggenti della vecchia Etruria ventosa che biancheggiano un po’ da per tutto. E’ esposto a mare e monte, e ne sorveglia le strade, rifiata lo scirocco e la tramontana, ma i venti variano e passano su di esso come le eterne stagioni, né dal tempo dei tempi sono buoni di raccontargli più nulla. Il suo costume non cambia. (V. Cardarelli)
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA Il mutevole volto della Maremma
La varietà del paesaggio è una caratteristica comune a tante province d’Italia e a tanti altri luoghi del mondo, ma nel Grossetano essa è veramente spiccata e colpisce il visitatore: sulla costa, folte pinete si alternano a larghi arenili, strette insenature rocciose lasciano il posto a tratti rettilinei con laghi costieri; e una vasta laguna, limitata dai caratteristici tomboli, separa un’isola dal continente; nell’entroterra si allarga un’ampia pianura; poi, ecco gruppi collinosi complessi e frazionati, qualche volta rivestiti dalle colture e dalla vegetazione, altre volte con nude pareti impervie; nell’interno si elevano vere, imponenti montagne. Incontriamo luoghi dove il tempo sembra essersi fermato ai secoli del Medioevo e alle più remote età degli Etruschi e, a poca distanza da essi, centri in continuo e rapido sviluppo. Provincia di Grosseto e Maremma si possono considerare sinonimi, perchè il Grossetano ne comprende i nove decimi, lasciando a Livorno il tratto da Cecina a Follonica.
Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Dettati ortografici e letture su SAN MARINO per la scuola primaria.
Dettati ortografici e letture su SAN MARINO Una piccola repubblica Se percorriamo la strada statale 72, da Rimini verso l’interno, andiamo incontro al dolce paesaggio di basse montagne e colline ben coltivate, nell’angolo estremo della Romagna: è un mareggiare calmo, a lunghe ondate che si esauriscono nella pianura. Dopo una decina di chilometri la strada inizia a salire, in modo sempre accentuato, ad ampie curve, fino a che ci troviamo di fronte ad un bastione di roccia calcarea, disposto parallelamente al mar Adriatico, fatto di rupi intagliate, rotto da strapiombi fin di 200 metri. E’ l’ultima compatta increspatura dell’Appennino Tosco-Emiliano, verso oriente. Il grosso banco roccioso spicca all’orizzonte in lungo giro. Lassù, secondo la tradizione, circa l’anno 300 dC, si formò una comunità religiosa, guidata dal tagliapietre dalmata Marino, che esercitò subito diritto di asilo e lo difese con vigore. La comunità fu riconosciuta autonoma e indipendente dalla Chiesa nell’anno 885. San Marino è uno dei più antichi Stati indipendenti d’Europa. Nel X secolo divenne munita roccaforte e si diede un ordinamento comunale, conservato, nelle sue linee fondamentali, ancora oggi: il potere legislativo è esercitato dal Consiglio Grande e Generale, di sessanta membri, eletti ogni cinque anni; il potere esecutivo è esercitato da due Capitani Reggenti con funzione di capo di Stato e presidente del Consiglio Grande e Generale. I Capitani Reggenti sono scelti ogni sei mesi tra gli appartenenti al Consiglio Grande e Generale. La Repubblica unì a sé alcune terre limitrofe e costituì un piccolo Stato libero che riuscì sempre a difendere la propria indipendenza.
Dettati ortografici e letture su SAN MARINO Il territorio Il territorio della Repubblica di San Marino occupa la dorsale del monte Titano (m 749) con le sue tra note torri (penne) caratteristiche, tra le province italiane di Forlì e Pesaro-Urbino. Non ci sono fiumi di rilievo ma corsi d’acqua torrentizi, come il San Marino, affluente del Marecchia, che bagna la parte sud-occidentale, e il Marano, che segna un tratto del confine orientale e sfocia nell’Adriatico a nord di Riccione.
Dettati ortografici e letture su SAN MARINO San Marino Capitale della Repubblica è la città di San Marino, dal caratteristico aspetto medioevale. Notevoli sono la chiesa trecentesca di San Francesco, il Palazzo del Governo, la basilica del fondatore con le nicchie di San Marino e di San Leo scavate nella viva roccia, la chiesa di San Quirino, dove fu ospitato Garibaldi nel 1849, le rovine delle antiche mura con le tre torri. Il secondo centro della Repubblica è Borgomaggiore, annidata su un declivio ai piedi della rupe, mercato rurale. Ricordiamo ancora Serravalle, sulla statale 72, e Dogana. La principale via di comunicazione è la carrozzabile Rimini-San Marino; altre strade collegano la capitale con località italiane. Una filovia da Borgomaggiore rende più agevole e rapida la salita al monte Titano.
Dettati ortografici e letture su SAN MARINO Le risorse economiche L’agricoltura è fiorente. Fanno spicco la coltivazione del grano, della vite, degli alberi da frutto e l’allevamento del bestiame. L’industria si fonda sulla tessitura, sulla fabbricazione della carte, sulla lavorazione delle pelli, dei colori, dei saponi, del cemento, della calce, dei dolciumi. Un posto a sé, per la sua importanza, occupano l’artigianato della ceramica, la lavorazione artistica della pietra e degli oggetti ricordo. La Repubblica di San Marino è meta di un vivace movimento turistico. I visitatori sono attirati dall’amplissimo panorama, dalla singolare vita della comunità indipendente, dalle manifestazioni.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA per la scuola primaria.
Cartina fisica Confini: Mar Adriatico, Veneto, Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Repubblica di San Marino. Lagune: Valli di Comacchio Monti: Appennino Settentrionale (Ligure, Tosco-Emiliano). Cime più alte: Maggiorasca, Cusna, Cimone, Fumaiolo. Valichi: di Cento Croci, della Cisa, del Cerreto, dell’Abetone, dei Mandrioli, di Verghereto. Pianure: Padana. Fiumi: Po, Reno con il suo affluente Santerno, Lamone, Montone, Savio, Rubicone, Marecchio con il suo affluente Uso. Affluenti di destra del Po: Trebbia, Taro, Parma, Enza, Secchia, Panaro. Canali: Corsini.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA L’Emilia Romagna L’Emilia trae il suo nome dalla lunga e diritta via Emilia, che Roma fece costruire, da Rimini a Piacenza, nel 187 aC. Distesa obliquamente lungo il versante padano degli Appennini, dalle cui valli scendono numerosi affluenti del Po, l’Emilia è una regione fertile e in parte pianeggiante. Al confine dell’Emilia con le Marche, svettano le tre torri del Castello di San Marino, che dall’alto del Monte Titano guarda la verde pianura della Romagna e, lontano, il Mar Adriatico.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Vita economica L’Emilia è una regione essenzialmente agricola. Ha boschi di castagni dall’Appennino, vigneti sulle colline, e abbondantissime colture in pianura: di grano, di barbabietole da zucchero, di granoturco, di canapa e di alberi da frutto. L’abbondanza dei foraggi permette l’allevamento intensivo dei bovini, dei cavalli e dei suini. Nelle Valli di Comacchio sono importanti la piscicoltura e la pesca delle anguille. Tra le industrie hanno raggiunto il massimo sviluppo quelle alimentari. Famosa è l’industria dei salumi (zamponi di Modena, mortadella di Bologna), i pastifici (tortellini e tagliatelle), i caseifici (formaggio reggiano e parmigiano) e le industrie delle conserve di pomodoro nel Parmense e nel Piacentino. Importanti sono anche le industrie chimiche e meccaniche, i canapifici e le fabbriche di inchiostri e di profumi. I prodotti del sottosuolo, localizzati quasi tutti nella fascia più bassa dell’Appennino, sono lo zolfo, il gesso, la torba. A Cortemaggiore vi sono ricchi giacimenti di petrolio e di metano. Un’industria di notevole importanza è quella alberghiera, molto fiorente lungo il litorale adriatico. Durante l’estate le stazioni balneari delle province di Ferrara, Ravenna e Forlì sono meta di numerosi turisti, italiani e stranieri, che ritemprano la loro salute riposando sulle ampie ed assolate spiagge. Nella regione, attraversata da molte e belle strade e da una fitta rete ferroviaria, il commercio è attivissimo.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Province L’Emilia Romagna è divisa in otto province. Bologna, l’antica Felsina degli Etruschi, si adagia nella pianura, presso lo sbocco della Valle del Reno. Centro agricolo e industriale, è un nodo ferroviario importantissimo e sede di una celebre Università. Ferrara, presso il Po, è al centro di una zona agricola bonificata, molto fertile. Fu sotto il dominio degli Estensi, come attestano i meravigliosi palazzi che ancor oggi abbelliscono la città. Forlì, l’antico ‘Forum Livii’ (mercato di Livio), giace nella pianura romagnola, ai piedi dell’Appennino. Modena sorge in mezzo a campagne rigogliosissime, allo sbocco delle valli percorse dalla Secchia e dal Panaro. Celebre è la torre del Duomo, detta la Ghirlandina. Parma, la cui importanza è soprattutto agricola, vanta numerosi caseifici e conservifici. Nella provincia, a Busseto, nacque Giuseppe Verdi. Piacenza, città sul Po, è l’anello di congiunzione tra l’Emilia Romagna e la Lombardia. Ravenna, collegata al mare dal Canale Corsini, è famosa per i suoi monumenti bizantini e per la pineta, ricordata da Dante, che in questa città è sepolto. Reggio Emilia è città agricola e industriale. Fu patria del poeta Ludovico Ariosto.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Per il lavoro di ricerca Come si presenta il territorio dell’Emilia Romagna? Quali sono le caratteristiche principali della zona di pianura e della zona appenninica? Se nell’Emilia ti volessi recare in Toscana, quali paesi o valichi dovresti superare? Dove sono le valli di Comacchio e perchè sono note? Come sono le comunicazioni in Emilia? Quali sono le principali risorse economiche della regione? Dove si estrae il metano? Perchè è famosa Cortemaggiore? Che cosa sono le salse? Lungo le coste emiliane è molto praticata la pesca? Perchè il nome di Faenza è conosciuto in tutto il mondo? Ricerca notizie su tutti i capoluoghi di provincia dell’Emilia Romagna. Come si chiama il piccolo Stato indipendente che si incunea fra le Marche e la provincia di Forlì? Quando nacque? Quali sono le sue fonti di ricchezza? Ricerca notizie sulla cucina emiliana e sulle usanze e tradizioni degli Emiliani.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Le valli di Comacchio Sulle Valli, quando cala la sera, i pensieri si intridono di ansie leggere e sembrano partecipare della solitudine immensa che il paesaggio intorno esprime. Un volo di rondini frulla per un poco sopra il capo; poi tutto ricade nel silenzio immoto della laguna. Le erbe e i canneti sembrano vivere una lunga, interminabile attesa; anche Spina, la città misteriosa, sepolta sotto le acque, attende di essere rivelata agli occhi dell’uomo. E’ un paesaggio tutto da scoprire, tutto da amare per la sua intatta bellezza non guastata dall’opera dell’uomo; lo sanno i cacciatori che scivolano sull’acqua nei piatti barchetti da valle in cerca d’un posto propizio alla caccia.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA L’Emilia Romagna Deve il suo nome alla via Emilia, antica strada che la attraversa in tutta la sua ampiezza da Rimini a Piacenza, e che era stata aperta nel 187 aC dal console Emilio Lepido. Dopo le invasioni barbariche divenne una provincia dell’Impero di Bisanzio (antico nome di Costantinopoli) ed ebbe in Ravenna la sua capitale. Durante la dominazione bizantina fu chiamata Romania, ossia ‘terra di Roma’, la parte di questa regione corrisponde all’attuale Romagna. Dopo la dominazione longobarda, la sua storia fu la storia delle sue città e dei rappresentanti delle grandi famiglie che riuscirono a imporvi la propria signoria: gli Estensi a Ferrara, i Bentivoglio a Bologna, i Da Polenta a Ravenna, i Malatesta a Rimini. Tali signorie, a cominciare dal secolo XVI, passarono a far parte dello stato Pontificio; oppure, come Modena, Reggio, Parma e Piacenza, si eressero a ducati, finché, nel 1860, Emilia e Romagna furono definitivamente annesse al Regno d’Italia. (E. Poggi)
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Sguardo d’insieme Da Piacenza a Rimini, dall’Appennino all’Adriatico, campi molto fertili, terra grassa, condotta a svariate colture, da una gente vigorosa, piena di gioia di vivere, l’Emilia Romagna è la dispensa dell’Italia; cereali, lino, frutta, bovini di razza pregiata, formaggi celebri, salumi e mortadelle bolognesi, vini profumati, pietanze e cucina note dovunque; una grande distesa acquitrinosa. Le Valli di Comacchio, molto pescose; gore d’acqua stagnante, i maceri per la canapa e le saline; spiagge assolate, ampie, che si susseguono da Ravenna a Cervia, a Milano Marittima, a Cesenatico, a Bellaria, a Igea Marina, a Torre Pedrera, a Viserba, a Rimini, a Marebello, a Miramare, a Riccione, a Misano, a Cattolica, biancheggianti di moderne, confortevoli costruzioni, iridate di capanni, di tende e di ombrelloni, tra l’azzurro del mare ed il verde cupo delle pinete costiere; al centro della Regione la via Emilia, che si snoda dritta, come se fosse stata tracciata da un’immensa riga da disegno, che riunisce i centri più importanti , rendendo rapidi gli scambi, i trasporti, le comunicazioni, facendo da via principale al grande, simpatico, ospitale paese. (M. Menicucci)
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Zona appenninica La rudezza del clima, le difficoltà delle comunicazioni, la povertà del manto boscoso (castagni) e lo scarso rendimento delle colture e della pastorizia ha causato l’esodo della popolazione dalla montagna verso la vicina pianura. Molte case e molti terreni, pertanto, sono rimasti abbandonati. Migliori sono le condizioni economiche della fascia sub-appenninica dotata di colture cerealicole e di vigneti (Lambrusco, Sangiovese, Albana).
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Zona di pianura E’ tutta una zona di bonifica, frutto di un lavoro assiduo, che va dell’età romana ai nostri giorni. Chi la contempli dal finestrino del treno in corsa è colpito dall’incessante succedersi di campi, tutti di forma regolare, separati da filari di alberi e viti. Il paesaggio affascina con la varietà e la ricchezza delle sue coltivazioni. I contadini della pianura emiliano-romagnola vivono in case isolate nella campagna… Le abitazioni rurali constano di solito di due edifici, separati o affiancati, uno per la dimora della famiglia e uno adibito a stalla. Questa terra è la prima per la produzione del frumento, la prima nella produzione della barbabietola da zucchero, ed occupa una notevole posizione nella coltivazione della vite, della frutta e degli ortaggi; sviluppatissimo è l’allevamento suino; nell’allevamento bovino è superata solo dalla Lombardia. Tale ricchezza di prodotti dà vita ad una forte esportazione ed incrementa lavorazioni locali: conserve, ortaggi e frutta, caseifici, salumifici, distillerie e stabilimenti vinicoli.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA La Romagna Romagna significa ‘piccola Roma’, perchè i Romani diedero grande importanza a questo lembo di spiaggia adriatica. La flotta imperiale aveva il suo porto nei pressi di Ravenna, che una volta si trovava quasi sulla riva del mare, che ora invece è lontano, a causa dell’interramento della costa. E Ravenna, dopo Roma, fu la città più importante d’Italia. I bellissimi monumenti rimasti sono il segno della sua potenza e della sua ricchezza. A Ravenna di trova la tomba del re Teodorico e poi quella di Dante Alighieri.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Il Ferrarese Tutto immerso nella pianura, il Ferrarese ha i suoi confini naturali nelle acque: a oriente l’Adriatico, a nord il Po, a sud il Reno. Ad occidente, dove è il lato di confine meno esteso, non ci sono fiumi a delimitare il territorio, ma il Panaro l’attraversa per un tratto diagonalmente. La provincia ferrarese, la cui altitudine è, in media, di quattro metri e mezzo sul livello del mare, trae dall’acqua non solo i suoi confini, ma la sua vita e la sua storia: storia di fiumi e di paludi, di canali collettori, di argini… La parte di protagonista, in queste vicende di secoli, spetta al Po che, in questo tratto di pianura è ormai a breve distanza dal mare. In tempi relativamente vicini (pare ancora nell’età romana) questa verde ed opulenta campagna era, press’a poco, un’enorme distesa di acquitrini dove i rami del grande fiume vagavano verso il mare trascinando con sé detriti: questi, depositandosi a lungo, fecero emergere alcune strisce di terra sulle quali si avventurarono i primi coloni. Sembrerà strano che uomini si siano avventurati tra le paludi infide stabilendovi le dimore, quando ancora tante altre terre asciutte e disabitate avrebbero potuto offrire loro un insediamento più sicuro; ma c’è una ragione: l’acqua degli acquitrini, se obbligava ad una vita di dura lotta contro le sue insidie, d’altra parte assicurava una validissima difesa dai pericoli esterni.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Il più grande nodo ferroviario d’Italia Questo di Bologna è sicuramente il centro nevralgico della rete ferroviaria italiana, il nodo più importante a cui fanno capo tutte le comunicazioni che collegano le estreme regioni della penisola. Il cuore del sistema circolatorio delle ferrovie è Bologna, in quel complesso di scali e di stazioni che formano il nodo ferroviario della grande città emiliana. Come in una grande città esiste una via di circonvallazione che serve a dirottare il traffico dei veicoli pesanti e di transito, così anche il nodo bolognese dispone di una linea di circonvallazione, chiamata linea di cintura, che unisce direttamente la linea di Milano alla direttissima di Firenze non solo, ma mediante opportuni raccordi e bivi, allaccia fra di loro le linee di Verona, Venezia e Ancona. (M. Righetti)
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Agricoltura La pianura emiliana, ampia e bene irrigata, si presenta divisa in poderi di estensione notevole e fruttuosa; dall’alto, in una visione panoramica, appare ancora il reticolato dell’antica colonizzazione romana. Molto elevata è la produzione di cereali: primo fra questi il frumento, quindi il riso e il granoturco. Ottimi risultati dà la coltivazione delle patate e delle barbabietole da zucchero. Importante è la produzione della canapa. Anche la vite offre un prodotto abbondante (Lambrusco, Albana, Sangiovese): l’Emilia Romagna si pone al quarto posto (con la Toscana) tra le regioni vinicole. Nella pianura alta e sui declivi collinari si ha una notevole produzione di pomodori e di frutta (mele e pere). Ricco è il patrimonio zootecnico, in particolare quello di bovini e suini.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA L’attività industriale Un’agricoltura così varia e ricca offre l’avvio ad un’industria di trasformazione fra le prime in Italia: numerosi sono gli stabilimenti conservieri, lattiero-caseari (celebri i formaggi reggiani e parmigiani), tessili. L’allevamento dei suini alimenta industrie di insaccati di fama mondiale (mortadelle, prosciutti, zamponi). Oltre alle industrie alimentari vi sono attive industrie meccaniche agricole, di automobili di lusso (Ferrari, Maserati). In molti centri emiliani sono sorte negli ultimi anni aziende per la produzione di calze, maglierie, calzature, i cui prodotti hanno invaso i mercati internazionali. L’Emilia Romagna, povera di risorse idroelettriche, ha trovato nel metano una fonte di energia che ha dato slancio alle iniziative industriali. I pozzi di Cortemaggiore, presso Piacenza, distribuiscono metano a tutte le industrie della valle Padana e costituiscono la base di un’importante industria chimica per la produzione di fertilizzanti e gomma sintetica. I turisti sono attratti dalle bellezze delle città storiche quali Parma o Ravenna, o Ferrara, e dalla stupenda linea di spiagge vaste e sabbiose, estese lungo tutta la costiera adriatica, dalle valli di Comacchio alle Marche. Centri de turismo balneare sono le città di Cervia, Cesenatico, Rimini, Riccione, Cattolica. (Assereto-Zaina)
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA I prosciutti vanno a balia a Langhirano A prima vista il titolo può sembrare uno scherzo, ma non è così. Langhirano è un centro posto vicino al torrente Parma, e dalle sue case escono i migliori prosciutti dell’Emilia. Siccome i prosciutti dell’Emilia sono i migliori d’Italia, da Langhirano giungono i più succulenti prosciutti italiani alle mense dei buongustai. Può sembrare strano, ma è la verità. Il prosciutto ha bisogno di una certa lavorazione e soprattutto di una lunga stagionatura, e in nessun luogo della valle padana esso asciuga, matura, si addolcisce e acquista profumo come a Langhirano. Sicché in questo paese, sito a monte di Parma, dove cominciano a sollevarsi le prime colline dell’Appennino, non solo si lavorano tutti i prosciutti degli allevamenti suini locali, ma ne vengono inviate grandi quantità da fuori a stagionare, a guadagnare squisitezza. Giungono dalle circostanti province emiliane, dalla bassa Lombardia, dalla Brianza. Langhirano è il posto di villeggiatura del prosciutto. Queste pingui cosce suine di provenienza forestiera vengono chiamate prosciutti dati a balia. E qui anche i prosciutti meno nobili diventano vere leccornie. Come ciò avvenga, e perchè avvenga qui e non altrove, rimane un mistero. Un felice clima, una strana salubrità dell’aria devono indiscutibilmente operare sui rosati prosciutti. Visitare i luoghi di stagionatura è una visione sbalorditiva: in lunghissimi cameroni sono collocate, secondo la lunghezza, rastrelliere di legno, dalle quali pendono, simili a pere mostruose, miriadi di cosciotti. La lavorazione avviene in modo molto semplice, i prosciutti freschi vengono lavati con acqua tiepida e cosparsi di sale, messi in frigorifero, a zero gradi, per 30-40 giorni. Non si usano droghe a Langhirano, ma unicamente sale, e ciò rende il prodotto più delicato e digeribile. Quindi si portano nei locali di stagionatura, dove devono prendere quanta più aria possibile. Di notte e nei giorni di gelo si chiudono le finestre. La stagionatura si compie in circa cinque mesi, dopo di che i prosciutti sono pronti per essere consumati. Per ogni stagione, a Langhirano, vengono messi a balia non meno di 100.000 prosciutti, (M. Carafoli)
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Le salse Sulle ultime colline dell’Appennino Emiliano, in vicinanza della pianura, si osservano parecchi luoghi, specialmente nel Reggiano, dei curiosi mucchi di melma, mutabili di forma, ma non di rado assomiglianti a vulcani in miniatura. Sono le salse, altrimenti chiamate vulcani di fango: e mentre il primo nome ci richiama il fatto che il fango delle salse è leggermente salato, il secondo vuole accennare a manifestazioni eruttive. Difatti le salse hanno di quando in quando le loro eruzioni; ma sono, direi, quasi eruzioni per burla: non materie infuocate, ma semplicemente acqua fangosa salata e melma viscida, talvolta odorante di petrolio, escono dalle bocche delle salse. Coi veri vulcani, però, le salse non hanno niente a che fare. Il gas che esce terreno argilloso è metano che si può accendere con un fiammifero, ma non si incendia da sé nelle eruzioni delle salse. Col gas viene su l’acqua dal sottosuolo, ed essa imbeve il terreno, lo spappola, forma il fango che, accumulatosi, dà origine al conetto. Insieme all’acqua viene su talora un po’ di petrolio che forma chiazze iridescenti. Del resto, non si deve credere che sempre si formi un monticello vulcanico in miniatura, poichè la fanghiglia può anche espandersi senza assumere forme particolari e definitive. (A. Sestini)
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Metano in Emilia Cortemaggiore, a oriente di Piacenza, nelle pianure, poco lontano dalla riva meridionale del Po, è oggi l’emblema del metano; sebbene altri giacimenti importanti si trovino in Lombardia, a nord del Po, a Caviaga (qui si aprì il primo pozzo), a Cornegliano, a Bordolano, a Ripalta e, in Emilia, a Correggio, a Imola, a Cotignola, ad Alfonsine, fino a Ravenna, dove si ha un giacimento di prima grandezza; quindici giacimenti in tutto, a una profondità media tra i 1600 e 1800 metri; e oltre 60 pozzi. Il metano italiano, scoperto e messo in valore nel dopoguerra, è il più abbondante d’Europa, ed i metanodotti vanno avvolgendo l’Italia del nord in una rete, già fitta in Lombardia specie intorno a Milano, ben delineata nel Veneto, con rami che si spingono o stanno per spingersi a Bologna, a Torino, a Genova, a Domodossola, e perfino a Sondrio e a Trento. L’immensa importanza di questa nuova sorgente di energia serve anzitutto le industrie e secondariamente l’autotrazione e i bisogni domestici.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Comacchio e la pesca Comacchio è una città stipata sopra isolotti che si alzano pochi decimetri sul livello del mare, tanto che non si sa neppure se sia più terra o più acqua. Da almeno millecinquecento anni vi abita una popolazione di pescatori, isolata, in mezzo a paludi salmastre. Nella piscicoltura, una volta assai fiorente, sta la principale risorsa di questi luoghi. La laguna è popolata di anguille e di cefali. Durante i mesi di febbraio, marzo e aprile, in cui si aprono le comunicazioni al mare, entra nei vari campi della laguna un numero straordinario di pesciolini; e questa loro venuta è detta montata. Chiuse dopo quel tempo le chiaviche, i pesci che si sono rifugiati nella laguna vi rimangono fino a che, aumentando la salsedine delle acque per l’evaporazione estiva, non si risveglia in essi, ormai giunti alla maturità, l’istinto di ritornare al mare per incontrare un’acqua meno salata. Da questa circostanza si trae il massimo profitto per fare la pesca. Venuto il settembre davanti alle chiaviche di ciascun campo, si depongono dai vallanti i lavorieri, che sono labirinti di canne e di filo di alluminio, forniti di una larga apertura dalla parte che guarda il campo vallivo e ristretti e chiusi dal lato opposto. Allora le chiaviche vengono aperte. L’acqua del mare penetra lentamente nei campi attraverso i lavorieri, e i pesci si affettano a correrle incontro, imprigionandosi da sé nei labirinti.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA L’arte della maiolica, ovvero Faenza Tradotto in venti lingue differenti, il nome di Faenza significa ‘l’arte della maiolica’; questa è dunque la prova più evidente che gli artigiani faentini hanno raggiunto nell’arte della maiolica il massimo della perfezione. I primi accenni di quest’arte risalgono al lontano 1142 e mai quest’artistica operosità è stata interrotta nel giro di otto secoli. Una decina di botteghe maiolicare, dotate di maestri di fama che supera le frontiere della Penisola, continua la tradizione dei vasai faentini (vasi, piatti, boccali, tazze, anfore). Un pregiato Istituto d’Arte accoglie gli allievi di ogni regione d’Italia e dell’estero iniziandoli alla ricerca di sempre nuove forme d’arte e di nuovi e migliori mezzi di lavorazione. Anche Imola, Bobbio e Sassuolo si distinguono nella lavorazione della ceramica. Molti falegnami sono specializzati e specialisti nella lavorazione di mobili moderni o imitando vecchi stili. Un po’ dappertutto bravi e raffinati artigiani del legno, del ferro battuto, della bulinatura del cuoio. Carpi e Mirandola vantano la lavorazione del truciolo per la fabbricazione di cappelli e altri oggetti; Castel san Pietro quella degli ombrelli, Budrio quella delle ocarine, Ciano d’Enza lavorazioni di vimini. (G. Menicucci)
Province Capoluogo della regione è Bologna, chiamata ‘la dotta’ per la sua famosa Università, che è la più antica d’Italia, e ‘la grassa’ per le sue note specialità alimentari. E’ cospicuo centro commerciale e industriale e importante nodo ferroviario e stradale. Vanta pregevoli monumenti, tra cui le chiese di san Petronio, di san Francesco e di san Domenico, il Palazzo del Podestà, la Fontana del Nettuno, le Torri pendenti degli Asinelli e della Garisenda. Piacenza è attivo centro agricolo-commerciale, sede di numerose industrie e nodo di comunicazioni. Fra i suoi monumenti il più insigne è il Palazzo Comunale, detto ‘il Gotico’. Parma è grande mercato di prodotti agricoli e sede di industrie alimentari e meccaniche. Celebri monumenti sono il Duomo e il Battistero. Reggio nell’Emilia è importante centro agricolo-commerciale con notevoli industrie alimentari, meccaniche (costruzioni ferroviarie, macchine agricole, ecc.), chimiche. Monumenti degni di rilievo sono il Duomo e la Chiesa della Madonna della Ghiara. Modena è grande mercato agricolo e centro di industrie alimentari, meccaniche (automobilistiche) e chimiche. Dei suoi monumenti i più notevoli sono il Duomo romanico, con la bellissima torre della Ghirlandina, e il Palazzo Ducale. E’ sede dell’Accademia Militare. Ferrara è situata su un ramo del delta del Po, detto Po di Volano, nel cuore di una zona fertilissima ed è sede di importanti industrie alimentari, chimiche e meccaniche. Conserva magnifici monumenti: la Cattedrale, il Castello Estense, il Palazzo dei Diamanti. Ravenna è una delle più belle città d’Italia per le sue stupende opere d’arte. Particolarmente degne di nota sono: la Basilica di San Vitale e il Mausoleo di Galla Placida (con meravigliosi mosaici bizantini), il mausoleo di Teodorico e (poco lontano dalla città) la basilica di Sant’Apollinare in Classe. Ha un importante porto-canale ed è sede di grandi complessi industriali. Forlì è il centro principale della Romagna, mercato di prodotti agricoli e sede di alcune industrie. I suoi più pregevoli monumenti sono il Duomo e la Chiesa di san Mercuriale.
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Bologna: la dotta, la grassa, la turrita Tutti questi appellativi le calzano a meraviglia. Le nobili tradizioni di cultura, tenute sempre vive da otto secoli a questa parte dall’Università, che è la più antica d’Europa, la fecero chiamare la dotta. Le sue famose specialità gastronomiche, che vanno dalle tagliatelle e dai tortellini fino alla rosea mortadella, le diedero il nomignolo di grassa. Le duecento torri che dentellavano il panorama di Bologna all’epoca dei Comuni le valsero il titolo di turrita. Di queste torri innalzate nel XII e nel XIII secolo dai nobili bolognesi accanto al loro palazzo, come simbolo di indipendenza e vanto del casato, ben poche ne rimangono. Oggi le superstiti si contano sulle dita delle mani, ma fra esse ve ne sono due, quella degli Asinelli e la Garisenda, le famose torri pendenti, che sono considerate simbolo della città. (G. Assereto)
Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA Bononia docet ‘Bononia docet’ si leggeva sulle monete che Bologna batteva; ed anche quando la moneta corrente non fu più quella coniata dalla zecca cittadina, Bologna continuò ad essere universalmente conosciuta come ‘la dotta’. Il merito di questo epiteto è dovuto alla sua Università, la più antica dell’Europa; essa fin dalle origini richiamò nelle sue aule da ogni regione d’Europa studenti che si organizzavano in vere e proprie congregazioni e che portavano alla città, insieme ad un innegabile benessere economico, una nota caratteristica di gaiezza, tanto da far dire al Petrarca che ebbe occasione di fermarvisi come studente: “Non credo che mai sia stata e non sia città più libera e gioconda di Bologna”. Ma le gaie brigate della gioventù studiosa erano soltanto un aspetto marginale della società che gravitava intorno al famoso ‘Studio’. In verità, Bologna fu, per moltissimo tempo, insieme con Parigi, il centro più vivo della cultura europea; fu soprattutto il tempio del diritto romano che, dopo il silenzio seguito alla caduta dell’impero, risorgeva, ad opera di espertissimi ed appassionati glossatori, in tutta la ricchezza dei suoi concetti ed al quale tutti gli studiosi volevano attingere. I famosi libri di Giustiniano, che in un primo tempo avevano trovato rifugio alla corte bizantina di Ravenna, furono poi trasportati a Bologna. Si ha notizia di un certo Pepone, ‘legis doctor’, che intorno al 1065 già interpretava i testi di diritto; ma tra i maestri antichi chi acquistò più chiara fama fu certamente il bolognese Irnerio, che formò scuola e che intorno a sé ebbe una scelta schiera di glossatori, così chiamati per il loro sapiente e paziente lavoro di commento (glossa) ai testi latini. Bologna andava fiera di questi suoi studiosi; ne sono testimonianza le bellissime tombe che ad alcuni di essi furono costruite nel centro della città; presso le chiese di San Domenico e di San Francesco. Accanto alla fiorentissima scuola di diritto si andò via via delineando anche una scuola di arti liberali ed un’altra ad indirizzo scientifico; e il complesso di tutte le scuole venne chiamato ‘Studio Generale’ e più tardi Università. Fra i tanti uomini illustri che frequentarono, in ogni tempo, la scuola di Bologna ricordiamo: Dante, Petrarca, Copernico, Torquato Tasso, Marcello Malpighi, Luigi Galvani e Giovanni Pascoli.
La città etrusca di Misa Da Bologna, risalendo la via per Pistoia, dopo Pontecchio si giunge a Marzabotto. Nelle vicinanze si trovava la città etrusca di Misa; di essa rimangono ruderi sparsi tra il verde e un profondo suggestivo silenzio domina intorno quasi a vegliare sul sonno millenario delle mura in rovina, dei resti dei templi, delle tombe preistoriche giacenti presso le acque d’un lago. Misa fu fondata nel Vi secolo aC dagli Etruschi e fu prospera città per due secoli finché fu distrutta dai Galli.
La cucina emiliana In Emilia la cucina è un fatto complesso, un’improvvisazione continua, uno spettacolo meraviglioso: altrove, il piatto gustoso e raffinato appartiene soltanto alla sfera della mensa, al buon pranzo e alla buona cena; a Bologna, invece, a Modena, a Parma la cucina abbraccia interessi più vasti ed è la nota saliente di un costume, il costume emiliano appunto. Il sentimento, la poesia fatalmente fioriscono attorno a una tavola imbandita, lo stesso amore non è amore se non è alimentato da lasagne, zamponi, tortelli e mortadella. Ne sa qualcosa Fagiolino, l’eroe della regione, il quale stornellando alla sua bella chiede sì un bacio e un sorriso, ma anche e soprattutto un manicaretto che anticipa e racchiude il paradiso. Non per nulla il tortellino nacque nel centro fisico e ideale dell’Emilia, a Castelfranco, ricalcato dirette su Venere: un oste guercio e bolognese, canta un poeta, imitando l’ombelico di Venere, l’arte di fare il tortellino apprese. Accanto ai tortellini, godono meritata fama le tagliatelle, ricavate anch’esse nella tipica forma a nastro della sfoglia, e condite appunto col ragù alla bolognese. Tra i piatti, ecco lo zampone, ossia quella mirabile calza che è la zampa anteriore del suino ripiena di un impasto di carne magra e grassa in giusta proporzione: cotto a fuoco lento per cinque ore, viene servito su un letto o di lenticchie o di fagioli giganti bolliti e impastati poi con sugo, burro, dadi di prosciutto e punte di sedano e carote. Ma l’Emilia è giustamente nota per i suoi salumi e soprattutto per quell’ineguagliabile poker che è vanto della provincia di Parma: il culatello di Zibello, il salame di Felino, la spalla di San Secondo e il prosciutto di Langhirano. Ai salumi si deve aggiungere il formaggio stagionato, il grana, che va per il mondo sotto il nome di parmigiano e di reggiano. I menù regionali hanno come naturale alleato il Lambrusco, il vino che ha a Sorbara la sua patria, riconoscibile per il profumo di viola, la spuma rosea e il gusto frizzantino. (A. Ferruzza)
Usanze e tradizioni Usanze e feste tradizionali si accompagnano sia in Emilia, sia in Romagna allo svolgimento dei più importanti lavori agricoli: la semina, la mietitura e la trebbiatura, la vendemmia. Usanze e credenze sono legate agli avvenimenti familiari, lieti o tristi, e ad ogni momento della vita. Una bella usanza primaverile è quella dei grandi fuochi, detti le ‘focarine’ che vengono accesi dalla sera del 4 febbraio, giorno dedicato alla Madonna del Fuoco, fino ai primi di marzo. Con essi si vuole propiziare il bizzarro mese a favore dei campi e dei prossimi raccolti. ‘Bisogna far lume a marzo, a marzo birichino perchè sia più buono e ci tratti bene, e ci porti una spiga che dia a tutti il pane e una spiga che sia granita di grano‘ (Aldo Spallicci). In occasione della mezza quaresima si ricorda a Forlì l’uso di portare burlescamente in trionfo, sopra un caro tirato da due torelli, un grande fantoccio, adorno di collane di frutti e salsicce, con un seguito di carri allegorici. La folla, al suo passaggio, rivolgeva al fantoccio domande e motteggi; e il fantoccio, per bocca di un uomo che vi era nascosto, rispondeva per le rime. Un’altra allegra usanza della mezza quaresima è quella di segare la vecchia, un fantoccio in costume femminile anch’esso imbottito di frutta, salsicce ed altro. La ‘vecchia’, prima di essere segata, fra le acclamazioni della folla, che poi si precipiterà accapigliandosi a raccattare tutte le buone cose che cadono dal grembo del fantoccio, è condotta in corteo per le vie del paese. Se durante il percorso la ‘vecchia’ dovesse fermarsi, ma per caso, davanti a una coppia di fidanzati, costoro ne sarebbero felici, traendone un buon auspicio per le loro prossime nozze. Ma le tradizioni popolari, pure remote, vanno purtroppo scomparendo, come le feste carnevalesche, legate a figure di maschere locali (il dottor Balanzone, celebre per i suoi sproloqui) o derivate da antichi riti pagani (i fuochi purificati che solo in qualche parte dell’Appennino si accendono ancora in determinate occasioni). Uno spettacolo teatrale tipico della Bassa Padana è quello dei burattini: in questa zona fiorirono nell’Ottocento le maggiori famiglie di burattinai girovaghi con le due maschere caratteristiche di Sandrone (contadino fanfarone, millantatore e pauroso) e di Fagiolino, astuto e generoso, sempre pronto a far giustizia col suo nodoso bastone.
Paesaggio bolognese Alla fantasia del poeta si presenta il paesaggio bolognese, già a lui familiare. La natura risente della malinconia dell’autunno, con gli alberi spogli che rabbrividiscono ai primi geli; ma l’aspetto del paesaggio è ravvivato dallo scorrere lento delle acque, dal mosto in fermento, dal sole breve che terre e uomini si godono, dagli stormi degli uccelli migratori. Improvvisa, la fantasia m’ha condotto per le strade rettilinee del Bolognese, bordate di rami freddolosi, toccati dall’ottobre, con prospettive di persiane verdi allineate sulle facciate. Il Reno si stacca dai monti con incantevoli indugi e prende spazio in pianura, alberi e frutteti si spogliano con incredibile bellezza, riposano al sole le terre. E’ il tempo adesso che le cantine odorano di fermentazione e il contadino esce senz’arnesi a guardare forse se qualche fosso non scola. Le terre, gli uomini il paese fortunato nelle adiacenza del fiume, godono questo sole breve. Gli uccelli son di passo. (R. Bacchelli)
Romagna Il ricordo della terra di Romagna non s’è mai cancellato da cuore del poeta: lì egli trascorse i bei giorni dell’infanzia, correndo spensieratamente fra le stoppie, presso gli stagni, in mezzo al verde della campagna; lì lesse, da fanciullo, i poemi e le opere che lo trasportarono con l’immaginazione in mondi fantastici e lontani; lì, a contatto della bella natura, sentì germogliare nell’animo i primi sogni e i primi canti. Ma, all’improvviso, il ricordo del triste giorno in cui dovette lasciare la sua terra riscuote il poeta dal dolce incanto: mentre la bella visione svanisce, egli manda un accorato addio alla sua Romagna che non spera di rivedere mai più.
Sempre un villaggio, sempre una campagna mi ride al cuore (o piange), Severino: (1) il paese ove, andando, ci accompagna l’azzurra vision di San Marino: (2) sempre mi torna in cure il mio paese cui regnarono Guidi e Malatesta, (3) cui tenne pure (4) il Passator cortese, re della strada, re della foresta. (5) Là nelle stoppie (6) dove singhiozzando (7) va la tacchina con l’altrui covata, (8) presso gli stagni lustreggianti, (9) quando lenta vi guazza l’anatra iridata, (10) oh! fossi io teco; e perderci nel verde, e di fra gli olmi, nido alle ghiandaie, (11) gettarci l’urlo che lungi si perde dentro il meridiano ozio dell’aie; (12) mentre il villano pone (13) dalle spalle gobbe (14) la ronca e afferra la scodella, e ‘l bue rumina nelle opache (15) stalle la sua laboriosa lupinella. (16) Da’ borghi sparsi le campagne (17) in tanto si rincorron coi lor gridi argentini: chiamano al rezzo (18), alla quiete, al santo desco fiorito d’occhi di bambini. (19) Già (20) m’accoglieva in quelle ore bruciate sotto ombrello di trine una mimosa, che fioria la mia casa ai dì d’estate co’ suoi pennacchi di color di rosa; e s’abbracciava per lo sgretolato muro un folto rosaio e un gelsomino; guardava il tutto un pioppo alto e slanciato, chiassoso a giorni come un birichino. (21) Era il mio nido (22): dove, immobilmente, io galoppava (23) con Guidon Selvaggio (24) e con Astolfo; o mi vedea presente l’imperatore nell’eremitaggio. (25) E mentre aereo mi poneva in via con l’ippogrifo (26) pel sognato alone, (27) o risonava nella stanza mia muta il dettare di Napoleone; udia fra i fieni allor allor falciati de’ grilli il verso che perpetuo trema, udiva dalle rane dei fossati un lungo interminabile poema. (28) E lunghi, e interminati, erano quelli (29) ch’io meditai, mirabili a sognare: stormir di frondi, cinguettio d’uccelli risa di donne, strepito di mare. Ma da quel nido, rondini tardive, (30) tutti tutti migrammo un giorno nero; io, la mia patria or è dove si vive; gli altri sono poco lungi; in cimitero. Così più non verrò per la calura (31) tra que’ tuoi polverosi biancospini, ch’io non ritrovi nella mia verzura del cuculo ozioso i piccolini, (32) Romagna solatia (33), dolce paese, cui regnarono Guidi e Malatesta; cui tenne pure il Passator cortese, re della strada, re della foresta. (G. Pascoli)
(1) Il villaggio a cui va il sorriso o il rimpianto del poeta è San Mauro di Romagna, il luogo dove egli nacque e abitò fin quando il padre fu amministratore della tenuta dei principi Torlonia. Oggi il paese si chiama San Mauro Pascoli. Severino è Severino Ferrari, poeta amico di Pascoli e del Carducci. (2) Sul fondo azzurrino dell’orizzonte si profila la rocca di San Marino, un paesaggio che accompagna nell’andare il viandante. (3) I Guidi e i Malatesta sono due famiglie che nel Medioevo signoreggiavano la Romagna. (4) Che anche ebbe in suo dominio (5) Passatore era chiamato il bandito romagnolo, Stefano Pelloni, le cui imprese incontrastate sulle strade e sui monti, avevano mosso la fantasia popolare, specialmente per taluni tratti di generosità. Probabilmente il soprannome di Passatore gli venne per il fatto che era barcaiolo e faceva il mestiere di traghettare le persone da una sponda all’altra dei corsi d’acqua. (6) Paglia che resta sui campi dove si è mietuta la biada. (7) Il verbo singhiozzando allude al suono gutturale e spezzato della tacchina. (8) Coi pulcini nati da uova di gallina. (9) Lucidi. (10) Dai colori cangianti. (11) La ghiandaia è un uccello di colore grigio rossiccio, che si nutre prevalentemente di ghiande. (12) Il poeta vorrebbe trovarsi ancora nel verde della campagna; gli piacerebbe sentirla ancora trasalire al suo grido lanciato nel silenzio nelle ore meridiane. (13) Depone. (14) Fatte curve dalla quotidiana fatica. (15) Che hanno scarsa luce, buie. (16) La lupinella è una leguminosa da foraggio che le bestie assimilano dopo lunga masticazione. (17) I rintocchi delle campane. (18) Invitano all’ombra. (19) Alla mensa del lavoratore animata dalla presenza dei bambini. L’immagine, densa e tenera, racchiude l’intraducibile meraviglia dell’infanzia. (20) La rievocazione del paesaggio richiama alla fantasia del poeta le ore che egli trascorse in quei luoghi. (21) Col vento, il pioppo stormiva e sembrava che godesse al fruscio delle fronde. (22) In quella campagna, sotto l’ampia fioritura della mimosa, il poeta trascorreva ore di silenzio e di sogni. Si allude agli anni felici del Pascoli: quando era ancora bambino e la casa non era stata toccata da lutti (la sorellina Ida di pochi mesi, morì nel 1862, quando il poeta aveva sette anni). (23) Avverti la congiunzione del verbo ‘galoppava’ con l’avverbio che lo precede. Il fanciullo fantasticava e, mentre il corpo riposava immobilmente, la mente correva coi fantasmi delle prime letture. (24) Guidon selvaggio è, come Astolfo, un personaggio dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. (25) L’imperatore nell’eremitaggio è Napoleone nell’isola di Sant’Elena. Il Pascoli allude a un’altra delle sue prime letture: il Memoriale che Napoleone dettò negli anni della sua relegazione nell’isola. (26) L’ippogrifo è un cavallo alato di cui parla l’Ariosto nel suo poema. Con l’ippogrifo Astolfo salì fino alla luna per recuperare il senno del paladino Orlando impazzito per la bella Angelica. (27) La fascia luminosa di vapori che circonda la luna. Il poeta vuol dire che egli si levava con la fantasia, assieme all’ippogrifo, fino a quel puro mondo di sogni che è la luna. (28) Canto, ma il Pascoli ha detto poema perchè quel gracido pareva avesse un significato più grande, quasi fosse il naturale accordo al suo lungo e giovanile fantasticare. (29) Le voci della natura e le forme di persone e luoghi immaginari compongono alla fantasia favole meravigliose. (30) Come rondini che si sono indugiate e sono state raggiunte dai primi freddi. Tutta la famiglia fu strappata da quel nido: il poeta costretto ad andare per il mondo, gli altri nella tomba. (31) Nella stagione calda. (32) Per non trovare la casa della fanciullezza e dei sogni occupata da gente estranea da persone che hanno fatto come il cuculo, il quale suole deporre le uova nel nido di altri uccelli. (33) Piena di sole.
L’Università di Bologna Molti erano gli stranieri che da ogni parte accorrevano agli studi di Bologna, e si dividevano fino in trentacinque nazioni diverse. Questi studenti stranieri godevano prerogative civili e, convocati dal rettore, costituivano un corpo che aveva voto nelle assemblee. Un sindaco annuo rappresentava in giudizio l’Università ed un notaio ne rogava gli atti. Ogni anno si eleggevano due tassatori, uno dal comune e uno dagli studenti, perchè fissassero il prezzo degli alloggi. Lo scolaro aveva la facoltà di rimanere tre anni nella casa prescelta al prezzo fissato, e il padrone che esigesse di più, o maltrattasse il pigionale, non poteva più dare albergo ad altri. I professori, una volta all’ano, dovevano giurare obbedienza al rettore dell’Università: questo doveva essere letterato, celibe, di almeno venticinque anni e non appartenere a ordini religiosi. Nelle funzioni aveva precedenza di passo avanti ai vescovi e agli arcivescovi, eccetto quello di Bologna. L’irrequietezza degli studenti agitò la repubblica bolognese. Talvolta gli scolari si ritirarono tutti in un’altra città, finché non si fosse acconsentito alle loro esorbitanti domande. Qualche altra volta emigravano tutti se Bologna era messa al bando dall’Imperatore, o scomunicata dal papa. Però la città che doveva agli studiosi incremento di vita e di ricchezza, cercava di allettarli con ogni sorta di favori. I professori furono esenti dal servizio militare, poi da ogni tassa. Quelli che venivano addottorati a Bologna, dovevano giurare che non avrebbero insegnato altrove. Morte e confisca erano minacciate ai cittadini che sviassero uno scolaro da quell’Università, e così ai professori che fossero passati ad altra scuola prima che fosse scaduto l’obbligo assunto. Alla prima neve che cadeva, gli studenti andavano alla cerca, e con quello che raccoglievano, facevano statue o ritratti ai professori più rinomati. Il dottorato dava diritto d’insegnare; sei anni di studio si richiedevano per passare dottore in diritto canonico, otto in civile. Lo studente giurava di aver compito quel tempo, poi sosteneva un esame privato e uno pubblico. Nel privato doveva disputare sopra due tesi assegnate davanti all’arcidiacono e al collegio dei dottori. L’esame pubblico si teneva con gran pompa nella cattedrale, dove il licenziando recitava un discorso ed esponeva una tesi, contro cui gli studenti potevano argomentare. Poi l’arcivescovo, o in sua vece un dottore, pronunciava l’encomio, acclamando dottore l’esaminato al quale si davano il libro, l’anello, il berretto e le insegne dottorali. Il corso degli studi durava dal 19 novembre al 7 settembre: e ogni giovedì era vacanza, purché nella settimana non cadesse altra festa. (O. Pio)
Il parmigiano reggiano Il formaggio granoso e profumato che si acquista in tutta Italia come grana o come parmigiano è prodotto in realtà in una zona assai vasta, che esula dai confini della provincia di Parma, e si estende fino a Reggio, a Modena, a Bologna. Le qualità più pregiate, tuttavia, sono quelle di Parma e di Reggio; fra queste due città si è svolta nel passato un’accesa polemica per decidere quale avesse più diritto a legare il suo nome al prezioso prodotto. La contesa è stata risolta con piena soddisfazione di ambo le parti; le forme recano infatti un doppio marchio: parmigiano-reggiano su una faccia, e reggiano-parmigiano sull’altra. La gente però continua a chiedere imperterrita: “Mi dia un etto di parmigiano” ed altrettanto imperterrito il negoziante consegna, sotto questa etichetta universale, formaggi di Parma e di Reggio, ma più spesso di Mantova, di Lodi e di Cremona. Secondo i competenti, il parmigiano sarebbe nato nella valle dell’Enza, che oggi funge da confine fra Parmense e Reggiano, ma il suo commercio gravitava anticamente su Parma. Parma infatti era famosa fin dall’epoca romana per la squisita qualità dei suoi formaggi; e il Boccaccio, descrivendo il paese di Bengodi, vi colloca una montagna di formaggio parmigiano: “… c’era una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale stavano genti che nessuna altra cosa facevano che far maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gettavano giù: e chi più ne pigliava più ne aveva: e lì vicino scorreva un fiumiciattolo di vernaccia, della migliore, senza un solo goccio d’acqua.“ La descrizione, del resto, potrebbe riferirsi per intero a Parma, dove la ghiotta cucina è sempre stata una tradizione ed un’arte. Ancor oggi, le forme di parmigiano si fabbricano a mano: ciascuna di esse rappresenta il prodotto della coagulazione di 4-6 ettolitri di latte, e la sua stagionatura dovrebbe durare un periodo di 3 o 4 anni. In realtà, per non bloccare così a lungo ingenti capitali, la si accelera artificialmente con le stufe, riducendola ad un solo anno. Durante questo periodo, le forme sono sottoposte ad un continuo controllo da parte di esperti che girano per i magazzini, le annusano, le battono con un piccolo martello porgendo attentamente l’orecchio, ne estraggono un assaggio con sottili trivelli. E il valore di questi depositi è talmente elevato che le banche, per garantirsi dei capitali prestati ai caseifici, effettuano anch’esse periodici controlli. Quando la stagionatura è terminata, le forme partono per le destinazioni più varie, e compaiono sulla nostra tavola come formaggio da dessert o formaggio grattugiato.
I calanchi Percorrendo la via Emilia che da Bologna ci porta a Rimini possiamo osservare uno strano paesaggio, che si ripete più e più volte lungo la fascia del sub-appennino. Ci troviamo davanti a franamenti del tutto particolari, a tante piccole vallette di terra nuda, che formano i noti calanchi. Qui il quadro è in prevalenza grigio, cinereo, brullo, manca perfino l’erba. La zona è pressoché impraticabile, ad ogni passo la terra si sgretola e cede, o, in caso di pioggia, si trasforma in fango tenacissimo e scivoloso. Quei pochi casolari che scorgiamo si tengono tutti sugli sproni o sui pendii più aperti, lontani il più possibile dalla minaccia delle frane e dello smottamento. Due fattori si sono dati qui la mano per operare la trasformazione di quelli che un tempo erano dolci e verdi pendii: il terreno argilloso e le acque piovane. E’ noto che l’argilla è una roccia originata dall’ammasso di minutissimo detrito proveniente a sua volta dalla disgregazione di altre rocce; una specie di compatto fango secco, che a contatto dell’acqua si trasforma in una massa pastosa e modellabile. Essendo l’argilla un roccia impermeabile, la pioggia non va ad infilarsi in profondità ma scorre ed erode la superficie, formando nel terreno tante piccole incisioni che col tempo si approfondiscono sempre più e si allargano fino a formare gole e vallecole, una vicina all’altra, separate solo da sottili lingue di terra, che vanno sempre più assottigliandosi sino a scomparire del tutto. Così tante colline se ne vanno, le frane si succedono alle frane, a poco a poco l’acqua di dilavamento porta alla pianura una massa di terreno fangoso, lasciando un quadro di desolazione sui pendii, erosi. La zona dei calanchi, diventata impraticabile, improduttiva, pericolosa, crea attorno a sé il deserto, perchè tutti la sfuggono. Durante il nostro viaggio per l’Italia avremo modo di sostare ogni tanto davanti a rocce diverse (graniti, porfidi, calcari,…) alla fine poi si potrà riunirle in un quadro completo per avere una visione generale dei materiali che costituiscono la crosta terrestre. Ora consideriamo l’argilla, roccia diffusissima non solo in Italia, ma in tante parti del mondo. Delle tre grandi classi in cui sono divise le rocce (sedimentarie, magmatiche, metamorfiche) l’argilla appartiene alla prima. E’ cioè una roccia che, come tante altre (marna, conglomerati, arenaria, marmo, …) ha avuto origine sul fondo del mare. Millenni e millenni or sono, i fiumi scaricarono in mare ciottoli, sabbia e fanghiglia che si depositarono in tanti strati. Col passar del tempo questi strati si indurirono, si solidificarono fino a tramutarsi in dura roccia. Come poi l’argilla e tutte le altre rocce sedimentarie siano emerse dal mare sino a formare l’ossatura di colline e montagne, è una curiosità che potrete soddisfare poi. Per ora vi basti sapere che durante il tempo in cui si è formata la crosta terrestre (cioè durante le ere geologiche) sono accaduti immani sconvolgimenti: terre e mari si sono spostati, uno strato si è accavallato all’altro, terremoti e vulcani hanno agito con particolare violenza, insomma c’è stata un’incessante modifica. Del resto il mutamento continua anche oggi, benchè lentissimo e poco appariscente. L’argilla dei nostri calanchi è dunque fango indurito, costituito da minutissimi detriti, assai più fini dei granellini di sabbia. Assume color grigio e talora giallastro o rossiccio. Cave di argilla si trovano ovunque, perchè l’uomo ha bisogno di essa per tanti suoi lavori (laterizi, ceramiche,…). Anche voi la adoperate per tanti lavoretti che solitamente dite ‘fatti di creta’.
Curiosità su Ferrara Perchè Porto Garibaldi ha questo nome? Quando cadde la Repubblica Romana nel 1849, Garibaldi tentò di raggiungere Venezia, braccato dagli Austriaci. In località Magnavacca, il colonnello Nino Bonnet salvò l’eroe, che stava per cadere nelle mani dei suoi acerrimi nemici. Poi, dopo la morte di Anita, avvenuta nella fattoria delle Mandiole, Garibaldi, con l’aiuto del sacerdote don Giovanni Verità, riuscì a raggiungere la Toscana e a mettersi in salvo. A ricordo del fatto, Magnavacca fu denominato Porto Garibaldi, e attualmente è una frequentata stazione balneare. L’arte della stampa è antichissima a Ferrara e, nei secoli XV – XVI, numerosi furono i tipografi che operarono in città. Il primo fu un francese: Andrè Beaufort (nelle edizioni era impresso Andreas Belfortis Gallus) che lavorò fin dal 1471, stampando ‘De variis loquendi figuris’ di Agostino Dati. L’Orlando Furioso fu stampato da Giovanni Mazzocchi nel 1516; la prima edizione nella stesura di 46 canti, su impressa invece nel 1532 da Francesco Rossi. Operava a Ferrara anche una stamperia ebraica, di Abraham Usque, che nel 1553 pubblicò una ‘Biblia en lengua espanola’. La Bibbia di Borso d’Este è uno dei manoscritti più preziosi, costituito da due volumi di circa 1200 pagine complessive, finemente miniate da Taddeo Crivelli, Francesco Russi e da altri. Il lavoro di decorazione, iniziato nel 1455, durò più di sette anni. L’intera Bibbia scritta dal calligrafo milanese Pietro Paolo Marone, costò 1375 ducati. Attualmente si trova a Modena, nella biblioteca Estense, dove fu portata quando la famiglia d’Este dovette rinunciare a Ferrara. Sotto un piccolo porticato in un cortiletto interno del Palazzo di Ludovico il Moro, si possono ammirare due imbarcazioni rinvenute nel 1948 negli scavi di Valle Isola, presso Comacchio. Sono grandi piroghe dalla linea irregolare, scavate in due massicci tronchi di rovere, che il tempo ha scrostato e annerito, lunghe rispettivamente 14,5 metri e 12,7 metri. Il tipo di imbarcazione è assai arcaico, potendo risalire all’età del bronzo; tuttavia nel delta del Po e nella zona lagunare veneta si continuò fino all’età tardo-romana a costruire barche di questo tipo. A quest’epoca appartengono forse le nostre. Trovandoti in gita a Cento dovresti visitare la Pinacoteca, nella quale è conservato il bell’affresco del Guercino ‘La pace’, staccato dal Palazzo Falzoni-Gallerani, dove l’artista lo dipinse. Altri affreschi, sempre del Guercino, si possono ammirare nella quattrocentesca Casa Pannini e nella Chiesa di Santa Maria del Rosario. Non abbandonare però la città senza aver fatto una passeggiata fino a Villa Giovannina, la gemma di Cento, distante circa due chilometri. La villa, ‘palazzo cinto da muraglie, con ponte levatoio e fosse intorno’, trae il nome dal facoltoso signore Giovanni II Bentivoglio che la volle edificare, e conserva in numerose sale preziosi fregi e affreschi dell’immancabile Guercino, che raffigurano episodi dell’Orlando Furioso, della Gerusalemme e del Pastor fido. Partendo da San Benedetto in Alpe, in circa due ore di cammino si può fare una magnifica passeggiata ai Romiti. E’ una località suggestiva, in cui si possono ammirare gli stupendi orridi detti dell’ ‘Acqua cheta’. Ai Romiti esisteva un antico monastero benedettino nel quale fu certamente ospitato Dante. Infatti, nelle immediate vicinanze vi è una cascata che ispirò al poeta i seguenti versi: “… quel fiume ch’ha proprio cammino prima da Monte Verso inver levante, dalla sinistra costa d’Appennino che si chiama Acquaqueta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, e a Forlì di quel nome è vacante, rimbomba là sovra San Benedetto dell’Alpe per cadere ad una scesa”. (Inferno XVI, 94-101) Settecento anni or sono a Rimini gli abitanti erano divisi in Guelfi e Ghibellini, per cui la loro principale occupazione era quella di combattersi. Giunse allora tra i Riminesi un umile fraticello a parlare di pace e di perdono, di amore. Ma la gente covava nel cuore l’odio e non aveva voglia di ascoltarlo. Il fraticello, allora, si diresse sulle rive della Marecchia e si mise a predicare ai… pesci. Sì, proprio ai pesci, i quali accorsero numerosi e, col musetto fuori dell’acqua stettero ad ascoltarlo. La voce del prodigio si sparse nella città, e la stessa gente che prima non aveva voluto ascoltare il fraticello accorreva ora in folla a sentire la sua parola ispirata. Dimenticavo di dire che l’umile fraticello era sant’Antonio da Padova. La cittadina di Bertinoro, fondata dai Romani, vana la fama di regina dell’ospitalità. Sulla sua piazza fa ancora bella mostra di sé la Colonna delle anelle, fatta erigere dal conte del luogo nel secolo XIII. Nel Medioevo quando il forestiero entrava in paese, legava le redini del suo cavallo ad uno degli anelli infissi nella colonna, scegliendo in tal modo il suo ospite. Ad ogni anello corrispondeva lo stemma di una famiglia nobile del luogo, che accoglieva il visitatore con generosità e onore. Ancor oggi a Bertinoro si celebra la giornata dell’ospitalità; quindi, se giungi da lontano, puoi scegliere come un tempo il tuo ospite, prendendo a caso un invito legato con un cordone azzurro ai famosi anelli della colonna.
Curiosità su Reggio Emilia A Reggio, fuori del Palazzo Comunale è permanentemente esposto per voto unanime del Consiglio Comunale del 29 dicembre 1922, il vessillo tricolore, sotto cui sta scritto : “Qui dove nacque, per sempre”. Assai diffuso a Reggio Emilia e nel territorio è l’allevamento di piccioni viaggiatori (razze reggiana e triganina). L’uso di far volare i colombi da torricelle sui tetti delle case è antichissimo e se ne trova menzione sin dal XIV secolo. Varie sono qui le Società colombofile, federate in un’associazione provinciale.
Curiosità su Ravenna Alcuni paesi nei dintorni di Ravenna hanno derivato il loro nome da alcune frasi pronunciate dall’imperatrice Galla Placidia. Si narra che durante una passeggiata a cavallo, elle giungesse accaldata in una località percorsa dal Ronco e che desiderasse bagnarsi in esso. Quando uscì ristorata dalle acque disse: “Questo luogo si chiamerà Bagnola”. E così avvenne. Arrivò poi in un altro paesetto i cui abitanti offrirono brocche di bionda albana alla sovrana. Galla Placidia bevve avidamente e disse: “Converrebbe berti in oro!”. E il paese divenne Bertinoro. Così Bevano deve il suo nome al coro di grida al seguito di Galla: “Beviamo! Beviamo!”. Secondo la tradizione la basilica di San Giovanni Evangelista è stata fatta innalzare da Galla Placidia per sciogliere un voto fatto durante la burrasca che la colpì in mare durante il suo viaggio da Bisanzio a Ravenna. Si dice anche che gli avvallamenti presentati dal pavimento della basilica furono voluti espressamente da Galla per ricordare la tempesta a cui era miracolosamente sfuggita. E’ tradizione che la campana della Dolorosa, una delle campane di San Giovanni Evangelista abbia una voce dolce e triste. E’ questa la campana di Berta, figlia infelice del famoso fonditore Roberto Sassone, che si dice abbia gettato nel bronzo incandescente, pronto per la colata della campana, la grande collana d’oro lasciatale dal promesso sposo Federico Di Barbenga, assassinato alla vigilia delle nozze. Secondo altri non l’oro ma le lacrime di Berta diedero alla campana il timbro mesto e soave. Una secolare gelosia esiste tra Brisighella e Fognano. Si narra che in una festa da ballo i cittadini di Brisighella non volevano ammettere nessuno degli odiati abitanti di Fognano e perciò ricorsero ad uno stratagemma: sulla soglia della sala da ballo c’era, per terra, quel buco che serve per fermarvi il paletto inferiore della porta; a chi si accingeva ad entrare, due Brisighellati chiedevano a bruciapelo, indicando il buco: “Che cos’è questo?”. Se l’ospite rispondeva: “L’è un bus” (dialetto del paese) lo facevano entrare; se invece, colto alla sprovvista, confessava: “L’è un boghèn” (dialetto di Fognano), “Passa fura t’se d’Fognèn!”, gli si gridava, rimandandolo scornato!
Bologna Una torre snella, sottilissima, con un piccolo grappolo aereo di merlature. Più piccola, accanto a lei, un’altra torre, obliqua, che pare cerchi protezione nella sorella più alta, esile come uno stelo: la Garisenda, e la Torre che ha un nome che fa sorridere; la Torre degli Asinelli. Bologna rossa, dai grandi portici fulvi, color dell’estate. (O. Vergani)
Ravenna Forlì ti si annuncia con due altissime torri, una sormontata da una guglia, l’altra quadrata: Ferrara con un castello che pare incastrato nel terreno: Ravenna, invece, pare si voglia diluire nell’atmosfera dei tramonti sotto un cielo sterminato. Oltre viali di alberi, canali pacati e case silenziose, tu intravedi pinete senza fondo, dune già di sabbie ed ora fertili di messi, chiese d’oro e sepolcreti imperiali, quasi che tu possa scoprire sarcofaghi e diademi sotto il fango mortale delle alluvioni e dei secoli. La città non ti viene incontro con le braccia aperte delle sue strade; ma se ne sta raccolta, come dentro la corazza della sua storia, muta, discreta, solenne quasi che la ricchezza del suo passato, l’immensità della sua gloria, l’orgoglio di tutto il suo destino l’avessero resa più superba di quanto non si convenga. Cinta di prati e di cipressi, di canali e di argini; inerte di una staticità di secoli, sbiancata dalle guerre e dalla storia; ferma in un assopimento cui una gloria senza misura dà come l’immobilità di scomparse liturgie, ma con una fisionomia così solenne e grande che non puoi fare a meno di restare attonito e colpito. (C. Di Marzio)
Comacchio Al di là del canale si apriva la via di Comacchio: un gran nastro che biancicava ancora, snodandosi nella tenebra purpurea; purpurea perchè la via corre fra le acque della valle o laguna, e queste erano così imbevute di sole che parevano come colorate di sangue; e in mezzo a quel rosso tragico delle acque immote, spiccava la linea nera, fastigiata nelle sue torri, della città di Comacchio. Un castello tragico! Una scena da innamorare uno scenografo! Il Dorè avrebbe invidiato quel paesaggio per i suoi fantastici disegni! L’Ariosto l’avrebbe popolato di maghi e di fate. Era semplicemente la patria delle anguille. (A. Panzini)
Il lido dell’assolata Romagna Da lontano, anche da molto lontano, vengono qui i bagnanti, preferendo sovente il lido dell’assolata Romagna ad altre spiagge più a portata di casa, ma non così accoglienti e ridenti. Qui si scende nell’acqua percorrendo un lievissimo piano inclinato, senza rocce pericolose e senza gorghi traditori; si arriva alla linea dove l’onda si infrange con cavalcate impetuose di spuma, e ancora si tocca, perchè la spiaggia è regolare e prudente. Nelle mattinate prive di vento il velo marino è teso e non lo sdrucisce una sbavatura. Gioia semplice ma profonda è quella di navigare coi silenziosi mosconi, correndo al largo, dove lo scenario delle colline si ingrandisce e dove è dolce fantasticare sulla celeste vaghezza di San Marino, faro senza luce per l’orientamento dei pescatori. Sul lido sono le piccole barche ancorate, che l’acqua schiaffeggia. I paesani più vecchi, che non vanno in mare con le paranze, pescano dalla riva, attaccati alla corda della tratta: tira e tira, puntando sei o sette paia di piedi sull’umida rena, l’estremità della rete, calata in mare ad arco, si avvicina sempre più all’altro gruppo di pescatori, che s’affatica all’opposta cima. Il pesce è al centro della rete, in un’insaccatura che giungerà a terra preceduta dai guizzi furiosi della preda scintillante, accortasi che il pericolo aumenta col calare del livello dell’acqua. A cattura ultimata resta sul lido, disseminato di orme umane, qualche asteria o qualche cavalluccio marino, curiosità degli sfaccendati e delizia dei bimbi. (G. Tibalducci)
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Dettati ortografici e letture sul VENETO Veneto: cartina fisica Confini: Mar Adriatico, Friuli Venezia Giulia, Austria, Trentino Alto Adige, Lombardia, Emilia Romagna Lagune: Laguna Veneta, Laguna di Caorle Monti: Alpi Orientali (Dolomitiche e Carniche); cime più alte: Civetta, Marmolada, Le Tofane, Cristallo, Cime di Lavaredo, Sorapis, Antelao. Prealpi Venete (Monti Lessini, Altopiano di Asiago, Prealpi Bellunesi); cime più alte: Monte Baldo, Cima Carega, Monte Grappa Valli: Alta Valle del Piace, d’Auronzo, del Cordevole Valichi: Pordoi, Falzarego, Monte Croce di Comelico, Mauria Colline: Montello, Monti Berici, Colli Euganei Pianure: Veneta, Polesine Fiumi: Po col suo affluente Mincio, Tartaro, Adige, Brenta col suo affluente Bacchiglione, Sile, Piave con i suoi affluenti Boite e Cordevole, Livenza, Tagliamento Canali: Adigetto, Bianco Laghi: di Garda, di Santa Croce, di Misurina, di Alleghe Isole: di Murano, di Burano
Dettati ortografici e letture sul VENETO Osserviamo la cartina Il Veneto è così chiamato dagli antichi popoli che lo abitarono: gli Euganei prima, i Veneti poi. E’ protetta al nord dalle Dolomiti e dalle Prealpi Venete che degradano dolcemente, con valli pittoresche, fino alla pianura; questa si affaccia sull’Adriatico con una zona litoranea a costa bassa, sparsa di lagune. Solcata dai fiumi Adige, Brenta e Piave, la regione è ricca di acque; la terra è fertilissima. Appartiene al Veneto anche la riva sinistra del Lago di Garda. Per la particolare feracità del suolo, il Veneto ha nell’agricoltura una grande fonte di ricchezza. Sui monti, i boschi danno ottimo e abbondante legname, e gli estesi pascoli permettono l’allevamento di bovini ed ovini. Sulle colline si coltivano gli alberi da frutto e la vite, che produce i noti vini di Valpolicella, di Bardolino e di Soave. Nella pianura si coltivano frumento, granoturco, barbabietole da zucchero e tabacco. In provincia di Verona è curato l’allevamento dei cavalli. Notevole è la pesca delle anguille nelle lagune; esercitata con profitto è anche la piscicoltura.
Dettati ortografici e letture sul VENETO Sguardo d’insieme
Il Veneto era anche chiamato Venezia Euganea, nome derivato dai Colli Euganei che sorgono nel mezzo della pianura, presso Padova, e che anticamente erano vulcani. Vulcani in questa pianura solcata in ogni senso da fiumi, da canali e da navigli più che qualunque altra parte d’Italia? Se era fondo di mare e col mare lotta ancora! Sì, vulcani! E dovevano offrire un interessante spettacolo quelle isolette, ora colline, quando fiammeggiavano e rumoreggiavano sull’acqua. Ora sui Colli Euganei ridono le vigne. Tutto intorno mareggiano non più i flutti salati, ma le messi biondeggianti del grano, del granoturco, o col variare delle stagioni, verdeggiano le praterie i gelseti e le canapine; oppure spiccano bruni i campi arati per la semina dell’orzo, dell’avena, della segale, del tabacco. E quegli specchi d’acqua che brillano? Sono le risaie. E quelle chiazze rosee, là in quei boschi di alberi bassi e regolari, specialmente intorno a Verona? Sembrano boschi di lillipuziani, e sono pescheti… Verona è anche un centro agricolo di notevole importanza e ogni anno vi si tiene una fiera di cavalli che attira visitatori da tutta Italia e da fuori. Le montagne del Cadore sono rivestite di oscure selve di abeti. Sulla Laguna e sul mare aperto si slanciano i bragozzi a vele spiegate. Pescano migliaia di quintali di pesce l’anno, e hanno marinai che per settimane intere sanno resistere ai venti ed ai marosi fra le scogliere dell’Istria e della Dalmazia. Centro della vita veneziana è Piazza San Marco, vasta sala marmorea, che ha per tetto il cielo, palpitante delle ali dei suoi innumerevoli colombi.
Dettati ortografici e letture sul VENETO L’alta pianura veneta L’alta pianura veneta comincia già verso i 50 metri sul mare e sale dolcemente incontro ai colli subalpini. In certi tratti si restringe molto o quasi scompare (come al piede dei Lessini). Vi scorrono alcuni fiumi e torrenti che vengono dalla montagna. Da questi corsi d’acqua è stato diramato qualche canale e così il paesaggio della campagna ci offre anche prati da foraggio irrigati. Lo sguardo si posa dovunque su una campagna tutta coltivata e ripartita in modo assai regolare da allineamenti di gelsi e talora d’alberi da frutto, e più ancora da alberi cui maritano le viti, e da filari meno vistosi di viti appoggiate a sostegni morti. Alternano nei campi le diverse gradazioni di verde del grano e del granoturco, dei fagioli e delle leguminose foraggere, e anche spiccano qua e là, nei campi della parte veronese e vicentina, le ampie foglie del tabacco.
Dettati ortografici e letture sul VENETO La bassa pianura veneta Dalle vicinanze dell’Adige fin oltre il Piave, la bassa pianura veneta offre dovunque la vista di campagne ridenti e fittamente abitate. Alternano nei campi il frumento, il granoturco, la barbabietola, i fieni. Le alberature a filari dividono a riquadri il terreno, e la vite diffusissima appoggia i suoi festoni a olmi, aceri, pioppi, salici. La presenza e la proporzione delle diverse colture variano anche secondo la fertilità del suolo, mentre le richieste del mercato hanno incoraggiato qua e là le colture orticole e più ancora l’impianto di frutteti, i quali offrono uno spettacolo magnifico specie all’epoca della fioritura. Le abitazioni rurali sparse sono molto numerose: case in genere modeste, spesso tinteggiate di colori rosati. Spiccano qua e là alcune boarie, complessi di edifici staccati e disposti a corte più o meno aperta, con vistosità della stalla e dei grandi fienili, in quanto corrispondono a vaste aziende cerealicolo-zootecniche. Oppure fan bella mostra di sé vile signorili, spesso di singolare grazia.
Dettati ortografici e letture sul VENETO I colli Euganei Il nome ufficiale della regione è ‘Veneto’, ma un tempo non molto lontano essa era chiamata col nome di Venezia Euganea derivato dai colli Euganei che sorgono nel mezzo della pianura, presso Padova, e che anticamente erano vulcani. “Vulcani i colli Euganei!” direte voi, “I vulcani in questa pianura solcata in ogni senso da fiumi, da navigli e da canali più che qualunque parte d’Italia? Ma se conserva ancora, si può dire, le tracce di quando era fondo di mare, e col mare lotta ancora e quasi si confonde nelle estreme lagune!”. Sì, i vulcani! E dovevano offrire uno spettacolo interessante quelle isolette, ora colline, quando fiammeggiavano e rumoreggiavano sull’acqua. Ora sui colli Euganei ci sono le vigne. Tutto intorno ondeggiano non più le acque salate, ma le messi del grano e del granoturco o, col variare delle stagioni, verdeggiano le praterie, oppure spiccano bruni i campi arati per la semina dell’orzo, dell’avena, della segale, del tabacco.
Dettati ortografici e letture sul VENETO Paesaggio lagunare Attraverso i secoli la vita delle lagune ha trovato le sue basi nell’attività peschereccia, marinara e mercantile. La pesca offre tuttora aspetti caratteristici mentre non manca l’attività agricola sugli antichi cordoni sabbiosi dei delta, sui lidi, in alcune isole: molto concentrata, ma anche molto caratteristica, perchè intensiva e fondata essenzialmente sula vite e sugli ortaggi. Ne sorgono così piccoli lembi di uno speciale paesaggio orticolo rappresentato in modo tipico e più estesamente intorno a Chioggia e a sud fino all’Adige, su vecchie dune spianate dall’uomo e diventate fertili con l’assiduo lavoro e le abbondanti concimazioni. Aiuole strette e lunghe, dense di ortaggi e di patate primaticce, e anche di viti, si susseguono l’una all’altra. Una nota speciale vi portano i cannicci che in certe stagioni si stendono su sostegni inclinati, a protezione dal vento marino e dal freddo.
Dettati ortografici e letture sul VENETO Adige, re dei fiumi “Adige, re dei fiumi“: così Adriano Valerini, autore veronese del ‘500, innamorato della sua città e della sua terra, chiama il grande fiume, precisando però, che qui ci sono altre… somme autorità: “Benaco, imperador de i laghi, il Carpione, monarca de i pesci“. Certo, il grande fiume dalle sorgenti tanto lontane, dal percorso mutevole e dalle impennate tanto furiose, ha accentrato su di sé, di volta in volta, l’attenzione, le cure, le apprensioni, la paura della terra e degli uomini di cui, in fondo, è quasi sempre il benefattore, a volte il tiranno. Lo si vede giungere già formidabile alle Chiuse, dopo essersi impossessato di tante acque altoatesine e trentine, e arricchirsi di tutti i corsi d’acqua che scendono dai Lessini e che non hanno né tempo né spazio sufficienti per divenire fiumi. Per contenere le improvvise piene primaverili sono stati costruiti, ampliati, rinnovati, argini degni del ricordo di Dante, ma nemmeno questi, a volte, nel corso delle cento e cento inondazioni, hanno resistito. Anche Verona sa cosa significhi una piena rapida e violenta, allorché le acque, che sanno ancora di neve e di ghiaccio, urgono contro i Lungadige e dilagano verso la campagna tumultuando entro gli argini pensili e i grandi canali di deflusso. Il fiume attraversa la città di Verona con andamento sinuoso, carezzevole, ricorda un poco il Canalazzo veneziano, quindi dopo un angolo retto sembra voler accettare la sorte di tanti altri fiumi e piega verso il Po; ma dopo Legnago, l’Adige ci ripensa, si riprende, punta energicamente verso oriente e raggiunge con una foce sue il mare.
Dettati ortografici e letture sul VENETO L’Adige non fa più paura Da Verona in poi l’Adige è pensile e scorre fra potenti argini. Prima che gli argini venissero costruiti rappresentava un grosso pericolo per le fertili campagne che lo fiancheggiavano perchè, nei periodi di piena, gli argini denunciano infiltrazioni d’acqua che ne minacciavano seriamente la consistenza. Oggi, invece, nessuno più lo teme, perchè finalmente è stato portato a termine il canale Adige-Garda che consente di convogliare al lago le acque di esubero prima che il fiume trabocchi in pianura. Lo chiamiamo canale, ma in realtà è una galleria lunga 10 chilometri, alta 9 metri e larga 8, tutta scavata nella roccia, che parte nei pressi di Mori, a nord di Verona, e raggiunge Torbole, sulla riva orientale del Garda, dopo aver attraversato il Monte Faè. Il vecchio Adige è diventato il più tranquillo dei fiumi e delle sue piene si sta perdendo anche il ricordo.
Dettati ortografici e letture sul VENETO Il monte Grappa Spostiamoci ora rapidamente nel settore nord-orientale della provincia e, oltrepassata Bassano col suo celebre Ponte degli Alpini, imbocchiamo la strada che si inerpica sui brulli costoni del monte Grappa, caro alla memoria e immortalato da una canzone popolare. Per i pendii del Col d’Averto e del Col Campeggia si giunge al Campo di Solagna, la cui terrazza è strapiombante sulla profonda valle del Brenta. Più su, a Ponte san Lorenzo, oltrepassiamo il punto della massima avanzata austriaca del 15 giugno 1918 e pieghiamo sul fianco meridionale del monte Asolone (m 1520) per risalire, tra un paesaggio carsico di impressionante squallore, fin verso i 1700 metri, dove comincia la ‘zona sacra’. La vetta del Grappa è a 1776 metri, ma non si offre più, alla sommità, la vista delle rocce martoriate e sbriciolate dai cannoni. Oggi il vertice del monte è segnato da un’immensa gradinata che rappresenta il cimitero-ossario, sovrastato dalla Madonnina benedicente. L’occhio qui spazia sui luoghi che videro la morte di tanti combattenti e non soltanto della guerra del 1915-18. Anche durante la guerra partigiana, dal 1943 al 1945, il Grappa fu teatro di intensi rastrellamenti e di feroci rappresaglie da parte dei Nazisti e, a Bassano, il viale dei Martiri ricorda il sacrificio dei Partigiani catturati sul Grappa mentre combattevano per la libertà.
Un’alluvione del Po Il Polesine è una terra tristemente famosa per le alluvioni del Po. Quando il fiume entra in piena per il disgelo delle nevi o per le continue piogge, le popolazioni che vivono lungo il suo corso, specie quelle prossime al delta, sono di continuo in stato di allarme. Attaccate alla loro casa, alla stalla, alla terra, guardano tra la paura e la speranza il fiume che ingrossa livido. Squadre di vigilanza vanno e vengono lungo gli argini, se ne rinforzano i tratti che sembrano più minacciati e che presentano infiltrazioni d’acqua, si approntano i mezzi di soccorso. Ma non si può prevedere né dove né quando la furia delle acque si scatenerà. L’alluvione irrompe improvvisa, in direzioni imprevedibili, dilagando nella pianura, abbattendo e distruggendo ogni cosa, tagliando la via della fuga. E’ quanto avvenne il mezzogiorno del 15 novembre 1951, quando il Polesine fu sconvolto da una delle più tragiche alluvioni che si ricordino. Il Po ruppe gli argini nell’ansa di Pontelagoscuro, nei pressi di Ferrara, e per tre falle invase l’Alto Polesine giungendo in due giorni alle soglie di Rovigo, dirigendosi improvvisamente verso Adria, investendo Cavarzere, compiendo in cinque giorni un’avanzata di circa 60 chilometri! Le statistiche del disastro riportarono cifre impressionanti. Ma anche al dinamica dell’alluvione fu studiata in tutti i particolari. Se ne ricavarono dati che consentirono di imbrigliare le acque del fiume con opere di protezione che garantiscono un maggior margine di sicurezza.
Dettati ortografici e letture sul VENETO L’agricoltura In Veneto l’agricoltura riveste una grande importanza. La pianura non è così fertile come quella lombarda, emiliana, piemontese. Molto elevata è la produzione di grano e di granoturco. Nelle zone collinari e in alcuni tratti della pianura è importante la coltura della vite, da cui si ricavano vini famosi (Bardolino, Soave, Valpolicella, Prosecco). Appena inferiore a quello lombardo è l’allevamento dei bovini; superiore è l’allevamento del pollame e la produzione delle uova.
Dettati ortografici e letture sul VENETO Il vino di Verona La vite si coltiva in Italia da tempi antichissimi. Il disordine che portò la fine dell’Impero romano, aveva tra l’altro danneggiato grandemente anche la coltivazione di questa pianta. Venne ripresa per impulso del Cristianesimo. Religiosi di ogni ordine si fecero viticoltori, per la necessità di produrre il vino occorrente per la Messa. Molti vigneti anche famosi non solo in Italia, ma anche in Francia e in Germania, furono opera di monaci Benedettini e Cistercensi. Anche ai Barbari, che un tempo invasero la nostra terra, piaceva molto il vino. Esiste un documento storico che lo prova. Si tratta di una lettera di Cassiodoro, ministro di Teodorico, scritta all’ambasciatore a Venezia. Scrive Cassiodoro che la cantina del suo re ha bisogno di essere rifornita di vino. Ordina all’ambasciatore di acquistarne di quello prodotto nel Veronese che è il solo degno della mensa reale. Questo documento è anche una testimonianza dell’antica fama che gode anche adesso il vino prodotto in provincia di Verona e precisamente il Valpolicella.
Dettati ortografici e letture sul VENETO Tokai e Tocai La vite è la pianta più lieta di quella lieta regione che è il Veneto. Ed è anche intraprendente e tenace; una vera pianta veneta, insomma che si arrampica sulle montagne e sulle colline, si stende tra le coltivazioni di tutta la pianura, e dilaga nella nostra provincia, fino al mare, fino alle dune e agli arbusti scapigliati di Jesolo, di Eraclea, fino agli orti sistemati tra i cordoni dunali di Chioggia e di Sottomarina. Dove un pezzo di terra, anche piccolo così, viene bonificato, lì un vitigno arriva e attecchisce, e poi ne escono certi vini… Ogni zona, si può dire, ha un suo vino i suoi maestri del vino, perchè ancor oggi, un bicchiere di Tocai bello, buono, schietto, ancor oggi è una laboriosa opera d’arte. “Tokai o Tocai?”, domandiamo al signor Piero, un maestro della vite, che dai suoi vigneti di Lison, un paesino piccolo così, vicino a Portogruaro, produce un Tocai malandrino, dall’apparenza innocua, dall’invitante color paglierino (solo Lison lo produce di questo colore) che ti rivela di colpo, alle orecchie e alle ginocchia, quando ormai è troppo tardi, la gradazione… pericolosa a cui può giungere! “Tocai! Tocai!” garantisce il sior Piero, “Vino tutto nostro, che nulla ha a che vedere col vino ungherese. Forse, chissà quando, lo abbiamo mandato noi Veneti lassù!. Mentre il Tokai ungherese è dato da una combinazione di uve diverse, il nostro deriva da un vitigno solo, ma selezionatissimo: ci vuole il nostro sole, la nostra terra argillosa, che sembra povera, ci vuole la nostra cura per tutto l’anno, dalla preparazione del terreno al dosaggio dei pampini perchè il sole non sia troppo violento, e anche le nostre paure quando c’è in giro minacciosa e maligna… la ‘mare de san Piero’ in estate, che a volte, con una grandinata radente, ti lascia lì, a scherno, solo i mozziconi dei vitigni, affioranti dal suolo tra mucchi di foglie e di grappoli maciullati. E allora è una desolazione. Ma speriamo bene, stavolta, per me e per tutti perchè è così bello il raccolto!”. E sior Piero si allontana tra le pergole perfette dalle quali pende l’ambra preziosa dei grappoli che presto diverranno raccolto.
Dettati ortografici e letture sul VENETO Le province Capoluogo del Veneto è Venezia, una delle più belle e singolari città del mondo. E’ costruita al centro della Laguna du 118 isolette congiunte da più di 400 ponti. Dei suoi 160 canali, il più famoso è il Canal Grande, arteria principale della città, in cui si specchiano stupendi palazzi marmorei. Meta di turisti di ogni Paese, ha monumenti di incomparabile splendore: la Basilica di San Marco con la sua fantastica piazza, il Palazzo Ducale, il Ponte dei Sospiri, la Ca’ d’Oro, la Torre dell’Orologio, il Ponte di Rialto. La città è sede di importanti manifestazioni artistiche. Nei suoi limiti amministrativi rientrano Porto Marghera, centro di numerose industrie, e Mestre, importantissimo nodo di comunicazioni, cui è collegata da un ponte stradale e uno ferroviario. Notissimi sono i suoi sobborghi lagunari di Murano, di Burano, di Torcello e del Lido. Rovigo è il capoluogo del Polesine, una regione compresa tra il Po e l’Adige, fertile ma purtroppo soggetta a inondazioni. Verona sorge sull’Adige. E’ un importante nodo stradale e ferroviario, un grande mercato agricolo e la sede di notevoli industrie. Monumenti pregevoli sono: l’Arena, il Duomo, la Basilica di San Zeno, il Castel Vecchio con il magnifico Ponte sull’Adige, le Tombe degli Scaligeri. Vicenza è detta la ‘città del Palladio’ in onore del celebre architetto Andrea Palladio che vi lasciò splendidi capolavori, tra cui il Teatro Olimpico, la Basilica, il Santuario di Monte Berico, la Rotonda. Padova sorge nel cuore della pianura. E’ una città attiva, sede di notevoli industrie. E’ famosa per la sua antica Università e per i suo i pregevolissimi monumenti, quali la Basilica si Sant’Antonio, la statua equestre di Gattamelata, la Cappella degli Scrovegni, il Palazzo della Ragione. Treviso è importante centro agricolo e commerciale. Tra i suoi monumenti sono degni di nota: il Duomo, il Palazzo dei Trecento, le chiese di San Francesco e di San Nicolò. Belluno è una graziosa città che conserva bei monumenti: il Duomo, il Palazzo dei Rettori, la Chiesa di Santo Stefano.
Dettati ortografici e letture sul VENETO A zonzo per canali e lagune Ritrovandomi a passare per Chioggia, un po’ per amor del pittoresco e un po’ perchè quelli son posti dove nessuno va di solito, ho voluto recarmi a Pellestrina e a San Piero in Volta, due località di pochi abitanti situate lungo la diga meridionale del sistema lagunare veneziano, quasi sospese tra acqua e cielo, a circa venti chilometri da Venezia e a una decina da Chioggia. Pellestrina si presenta bene a chi vi arriva in vaporetto. Una fila di casucce strette e rossastre, scrostate dalla salsedine, separate tra loro da calli e da piazzette, si specchia malinconicamente nell’acqua del canale come un vecchio sogno perduto. Davanti passano continuamente, durante la giornata, oltre che i vaporetti che fan la spola da Venezia a Chioggia, i numerosi bragozzi e velieri che vi trasportano merci d’ogni genere dal fertile Polesine; e sono spesso lungi convogli e motovelieri di forte stazzatura. Il borgo si direbbe che abbia concentrato ogni sua risorsa nella coltivazione di alcuni orti situati tra il paese e la poderosa diga che lo difende dal mare. Questa diga che, qua e là interrotta, corre da Sottomarina fino al golfo di Malamocco e difende la laguna dagli assalti del mare aperto, dandole sicurezza e facilità di trasporti, è detta popolarmente ‘I Murazzi’, ed è una celebre opera costruttiva che non sarà mai abbastanza lodata e ammirata. Fu l’ultima grande creazione della Repubblica Veneta. E’ una grossa muraglia di massi d’Istria cementati con pozzolana; costo venti milioni di lire venete ed è lunga quattromila e ventisette metri. Stando a Chioggia, nulla è più divertente che osservare la vita tacita e irrequieta che si agita sulla laguna. La quale è di continuo solcata da trasporti; vapori e pescherecci d’ogni genere, che con lo splendore delle grandi vele rossastre e istoriate sembrano tuttavia volerle serbare l’antica patetica bellezza. (C. Linati)
Dettati ortografici e letture sul VENETO Il Po e Padova Quando il Po, l’antico Padus, attraversava la pianura con corso molto variabile, gran parte del territorio che oggi costituisce la provincia di Padova, era occupato da acquitrini e paludi. Passarono i secoli e le acque si scavarono un letto definitivo, lasciando allo scoperto, nel loro ritirarsi, vasti lembi di terra. Appunto su uno di questi sorse Padova, che dal fiume prese il nome di Padua, latinizzato poi in Patavium. Questa, secondo l’opinione di alcuni storici accreditati, l’origine del nome Padova, che altri vorrebbero far derivare da una corruzione di ‘palus’, cioè palude. Certo la zona doveva essere il regno delle acque, ora limpide e tranquille, ora fangose e turbolente, ora perfidamente malariche. Oggi di esse non resta che il Bacchiglione, il fiume che attraversa la città.
Dettati ortografici e letture sul VENETO Le stagioni di Verona Due volte l’anno Verona, scuotendosi di dosso la sua bonaria e secolare indolenza, sembra quasi miracolosamente trovare il ritmo febbrile di una grande città. La prima stagione veronese si apre con la Fiera Internazionale. Col maturare dell’estate e del caldo, ecco la seconda grande stagione di Verona: l’Arena e gli Spettacoli Lirici. E’ questo il tempo in cui diventano familiari i nomi dei grandi musicisti (Verdi, Rossini, Puccini, Wagner), i titoli degli immortali melodrammi (Aida, Turandot, Bohème, Lohengrin), le voci e i volti dei celebri cantanti. E’ anche il tempo in cui ogni buon veronese rispolvera il suo riposto bagaglio di motivi, di ariette e di romanze o sciorina insospettate doti di critico musicale. Tra luglio e agosto, quasi ogni sera, l’Arena di Verona raduna sulle secolari gradinate migliaia di spettatori italiani e stranieri, fraternamente congiungendoli nell’incanto delle melodie e nell’amore per la musica. Da qualche anno poi, accanto agli spettacoli lirici, Verona offre anche un ciclo di rappresentazioni teatrali. Teatro shakespeariano, naturalmente, perchè Shakespeare, grazie all’immortale favola di Giulietta e Romeo, di Verona è un po’ figlio adottivo. Alla bellezza dei suoi drammi niente sembra tanto convenire quanto la suggestiva cornice del Teatro Romano o di Piazza dei Signori o di Castel Vecchio. Così nel nome del lavoro e dell’arte, Verona vive con impegno e con entusiasmo i suoi giorni più belli e più internazionali: è dunque giusto che essa torni finalmente a sdraiarsi, con la grazia di una vecchia signora, lungo le anse armoniose del suo verde Adige. (R. Bresciani)
Dettati ortografici e letture sul VENETO I libri ammalati guariscono a Praglia A Praglia, nella monumentale abbazia benedettina, in una gran sala del Cinquecento, dotata ora di moderne scaffalature, e nel vecchio archivio al piano superiore, sono custoditi cinquantamila volumi, in varie lingue. La millenaria tradizione benedettina d’amore per il libro è stata riconfermata, qui, con un’importante iniziativa, rapidamente conosciuta ed apprezzata negli ambienti internazionali qualificati. In un’ala del monastero è stato costruito un moderno istituto con laboratorio scientifico per il restauro del libro. Quando arriva un malato, spiega un esperto monaco, la degenza è piuttosto lunga, in quanto il ricoverato, dopo la compilazione della cartella clinica, deve passare quasi sempre nei diversi reparti. Accertate le condizioni del libro, la sezione chimica procede alla diagnosi delle cause, che deve essere esatta per stabilire la cura appropriata. Spesso, nei libri, e in particolare nelle pergamene, si osservano manifestazioni patologiche di natura microbica, e cioè prodotte da microorganismi che danneggiano, oltre alla scrittura, la consistenza stessa della materia. Si ricorre allora a reagenti chimici, a disinfezione in vasche speciali, in bagni di soluzioni a base di cloro o di altre sostanze adatte. Si procede poi al restauro definitivo (lavaggio, rinforzo delle fibre con bagni rigeneratori, stiratura) e alla rilegatura. Un lavoro meticoloso, di lunga durata, che tende soprattutto alla bonifica della materia con assoluto rispetto dell’integrità dei vari elementi che compongono i libri. Oltre un migliaio di opere, codici, incunaboli, libri rari, stampe, antiche carte geografiche e mappamondi, sono state perfettamente restaurate finora nell’istituto, che lavora attivamente per molte biblioteche pubbliche e di stato. (U. Maraldi)
Dettati ortografici e letture sul VENETO I Veneti: sorrisi e parole Vivono in un paese di pianura verde e rosa, e sono il più sorridente fra tutti i popoli italiani. Parlano sorridendo e mescolando il riso alle parole. Traggono un immenso piacere dal pianto, ma anche le loro lacrime sono mescolate al sorriso. Parlano molto e senza sforzo, senza fatica. E io non penso che parlino molto perchè sono ciarlieri, ma perchè han la bocca grande e piena di parole e non san che farsene di tante parole e le spendono. Parlano, uomini e donne, guardandoti in viso e sorridendo: e ti guardano negli occhi, con una curiosità singolare, come se si guardassero nello specchio, e intanto si toccano il viso come per essere sicuri che il viso che vedono sei tuoi occhi è il loro, non quello di un altro. Son buoni i veneti e se hanno qualcosa in loro della naturale malvagità umana, lo sfogano non in cose e fatti e detti e parole malvagie, ma in ‘ciacole’, in chiacchiere, in pettegolezzi. E’ il paese della gentilezza, il paese sorridente, il solo paese in Italia che sa sorridere fra le lacrime. (Curzio Malaparte)
Dettati ortografici e letture sul VENETO Mercato a Chioggia Le banchine son ben provviste e offrono uno spettacolo di animazione vivissima. I venditori schierati lungo il vasto terrazzo urlano allegri la loro merce, tra i viavai della gente. Cumuli di sfoglie, che hanno il bel lucido della porcellana, si alternano alle sarde dal colore metallico o alle anguille ancora guizzanti che hanno il motoso e il verdastro dei bassifondi, ai mucchi stillanti dei garusi, delle cannocchie, delle capesante dal cuore arancione, alle seppie gelatinose, ai moli, ai peoci, alle verdognole carpe squartate a mezzo. In certi punti, tutto quel ben di dio, sembra il quadro di un pittore fiammingo. E su tutto vola l’odore acre del mare, e la festa dei gridi di richiamo. La gente si ferma, guarda, sceglie, compra, passa via. (C. Linati)
Dettati ortografici e letture sul VENETO Pesca in laguna Scrisse un viaggiatore tedesco: ai giorni di festa, Chioggia sembra recinta da una legione di baionette giganti. Sono alberi, antenne, pennoni di navi, pali da sostenere le reti, pertiche da reggere nasse, cestoni, cordami; e nelle acque che circondano la città, nei canali, c’è una fitta di barche d’ogni grandezza e d’ogni foggia, arnesi galleggianti e tutto ciò che serve ad andare sull’acqua con la forza del vento e del braccio: grandi vele latine dipinte di immagini simboliche, stampate di lettere maiuscole, listate ed inquadrate con stemmi; remi enormi che due uomini muovono a fatica, e remi leggeri che le due braccia del battelliere sollevano agevolmente; ancore buone da mordere nella sabbia e nello scoglio. E insieme tutte le varietà di ordigni per la pesca, dalla vasta rete che imprigiona il pesce inconsapevole, e che, stringendosi, lo serra, lo preme, gli toglie il moto e il respiro, sino all’umile lenza che il pescatore paziente affonda nelle ore calme e ritrae carica d’un pesciolino che guizza, che si divincola e non vuol morire, sino agli arpioni per trascinare i pescecani e i tonni, ai sacchi per le ostriche, ai canestri per la minutaglia, per il ‘pesce popolo’, che, infarinato a dovere, crepita e s’indora nelle classiche padelle dei friggitori. (P. Gribaudi)
Dettati ortografici e letture sul VENETO La veneta piazzetta La veneta piazzetta antica e mesta, accoglie odor di mare. E voli di colombi. Ma resta nella memoria il volo del giovane ciclista volto all’amico: un soffio melodico: “Vai solo?” (S. Penna)
Dettati ortografici e letture sul VENETO La laguna veneta E’ molto interessante visitare qualche tratto della laguna veneta, specialmente se stiamo un po’ discosti da Venezia. Per il nostro lavoro di osservazione meglio si presterebbe la laguna di Caorle o quella di Marano, in parte ancora allo stato naturale. Ci troviamo davanti a cordoni di sabbia, più o meno lunghi più o meno ampi; a tanti canali, per i quali l’acqua del mare va a confondersi con la terraferma. Questi specchi d’acqua salmastra, noti col nome di lagune, sono soggetti ad un continuo mutamento. La laguna infatti, vista in certe ore del giorno, lascia affiorare qua e là isolotti fangosi (le velve) che poi, con l’alta marea, scompaiono totalmente. Altrove si possono notare isolotti erbosi detti barene che rimangono sempre emersi. Ma il mutamento maggiore è apportato dai detriti depositati alla foce dei fiumi, i quali, giungendo al mare con decorso assai lento per l’insensibile dislivello, non possono riversare in mare tutta l’abbondante quantità dei materiali convogliati. Si creano così davanti ai bassi fondali costieri tante zone paludose ed estesi acquitrini, che nel Veneto vengono anche chiamate col nome di valli, adibite per lo più alla pesca. L’opera di bonifica, di prosciugamento e di incanalamento di tutte queste acque, che vanno ad impantanare la fascia costiera, ha oggi in parte redento la zona, e l’ha resa meno instabile nella sua configurazione. Un tempo la laguna si stendeva ininterrottamente da Ravenna ad Aquileia, e se Venezia non si fosse difesa contro questo progressivo insabbiamento, ora sarebbe città di terraferma, come è avvenuto per Ravenna stessa, per Adria e per tanti altri centri veneti, un tempo bagnati dal mare. Venezia infatti ha deviato il corso del Brenta e del Bacchiglione verso sud, il Sile e il Piave verso est, ha predisposto per lo stesso grande Po un nuovo ramo di sbocco, il Po di Goro, ha eretto argini lungo le sponde dei fiumi, ha innalzato i caratteristici murazzi a difesa delle isole della laguna, insomma ha fatto di tutto per preservare la sua tipica fisionomia. Ancora oggi il Magistrato delle acque, ente appositamente costituito a Venezia, non dorme sonni tranquilli perchè l’azione fluviale, il moto ondoso e le maree instancabilmente, anche se lentamente, compiono il loro lavoro di modellamento costiero. E’ bene sapere come avviene il meccanismo della marea, che è uno dei tre moti a cui va soggetto il mare. La marea è un movimento periodico che porta la massa acquea ora ad un grande innalzamento, detto flusso, ora ad un generale abbassamento, detto riflusso. Queste due fasi si alternano circa ogni sei ore al giorno, in corrispondenza del passaggio della Luna sul meridiano. Perchè occorre sapere che è proprio la Luna, con la sua forza di attrazione sul nostro pianeta (e particolarmente sulla massa liquida) quella che causa lo strano fenomeno. A Venezia tra l’alta e la bassa marea si registra un divario di poco più di un metro, divario però sufficiente a produrre il ricambio delle acque della laguna. Se si arrestasse questo ricambio, si avrebbe una zona di acque morte. Il fenomeno si può osservare molto bene anche su altre spiagge dell’Adriatico, specialmente in una giornata di mare tranquillo. Alla mattina presto si vede un lembo di spiaggia ben più largo di quello che si stenderà a mezzogiorno, perchè con l’alta marea le acque hanno ripreso ad innalzarsi e quindi ad invadere una più ampia fascia di litorale. Sul nostro globo la marea raggiunge il suo massimo nella baia di Fundy, in Canada, con oltre 20 metri di dislivello tra il flusso e il deflusso. La marea è un moto periodico, mentre le onde sono un moto variabile e le correnti un moto costante. In totale tre moti del mare.
Dettati ortografici e letture sul VENETO La piazza delle Erbe a Verona Piazza delle Erbe a Verona è certo una delle piazze più pittoresche d’Italia che rimane nella memoria come uno spettacolo: una commedia, essa sola, di cui sarebbe facile rianimare i personaggi e farli parlare. Su questa piazza, grande come un foro, si tiene il mercato, testimonianza della vocazione della città che ha fondato la propria prosperità sulla campagna e sugli alimenti terrestri. In piazza delle Erbe, sotto un centinaio di ombrelloni, si vende una tale varietà di frutta, di ortaggi e di legumi come raramente se ne vedono radunati in così gran numero. I pomodori spargono il loro rosso squillante accanto ai limoni d’oro, ai cedri, alle angurie, alle melanzane, al verde tappeto delle insalate: un odore di campagna aleggia sotto gli ombrelloni di tela, e compone un’atmosfera pacifica e ghiottona. Non si pensa più allora ai Montecchi e ai Capuleti; non si pensa che Tebaldo avesse potuto uccidere Mercuzio a Verona; la vista di un mercato fa dimenticare tutte le tragedie: quelle della vita, quelle della storia, quelle dei poeti. Tuttavia quando si alza lo sguardo al di sopra di queste mostre attraenti, si scorge a nord della piazza, sopra una colonna di marmo, il leone di San Marco, simbolo di un’antica dipendenza, quando Venezia regnava sulla terraferma. Al centro della piazza un’altra colonna di marmo; e per inquadrare, per contenere questo vasto mercato, palazzi un tempo ornati di affreschi dei quali rimane qualche traccia. (G. Bauer)
Dettati ortografici e letture sul VENETO Curiosità su Padova Vuoi conoscere alcuni proverbi padovani? Eccoli: – A fare un proverbio ghe voe cent’anni. – Venezia bea, Padoa so sorela. – Veneziani gran signori, Padovani gran dottori, Visentini magnagati, Veronesi tuti mati. – Pan padoan, vin visentin, tripe trevisane, done veneziane. – Bologna la grassa, Padoa la passa. – Co canta la cigala, se taja la segala, co canta el cigalon, se taja el formenton. – De Santa Madalena se taja l’avena. – De San Valentin se pianta l’ajo e el seolin. – Tera mora fa bon fruto, tera bianca gninte del tuto.
“A Padoa ghe xe un Santo sensa nome, un cafè sensa porte e un prà sensa erba”. Questo detto si riferisce a: – sant’Antonio, che viene chiamato da tutti semplicemente ‘il santo’; – il Caffè Pedrocchi, che per molto tempo non ebbe porte perchè rimaneva aperto sia di giorno che di notte; – al Prato della Valle, che non è un prato, ma una piazza grandiosa, e quindi non ha assolutamente erba.
Dettati ortografici e letture sul VENETO Curiosità su Treviso A Treviso l’arco che unisce il Palazzo del Podestà al Palazzo dei Trecento è detto ‘sottoportico dei soffioni’ perchè vi spira sempre un notevole vento. A Treviso nella chiesa romanico-ogivale di San Francesco, si può ammirare un affresco del 1453, raffigurante un crocefisso dipinto per ordine dell’Inquisitore a spese di un oste ebreo che aveva servito carne di venerdì. Sempre nella nuda ed austera chiesa di San Francesco a Treviso, possiamo sostare sia davanti alla pietra tombale di Francesca, figlia di Francesco Petrarca, morta nell’agosto del 1384, sia davanti all’arca di Pietro, figlio di Dante Alighieri, morto a Treviso nel 1364. Nel giardino del Museo della Casa Trevigiana c’è una piccola Casa del XIV-XV secolo, nella quale è disposta la ‘Raccolta Sanguinazzi’, interessante esempio di Gabinetto di Storia Naturale del XVII secolo con collezione di strumenti scientifici, tra cui i celebri prismi di Newton. C’è chi ha cantato in versi, anche se un po’ zoppicanti, il famoso radicchio trevisano: “Se lo guardi è un sorriso, se lo mangi è un paradiso, il radicchio di Treviso”. Sull’iscrizione di una credenza da cucina che ora si trova nel Museo di Treviso possiamo leggere questi versi di ispirazioni popolare, pieni di confidente abbandono, di devota accettazione in un’umile realtà quotidiana, di decoro e di discrezione: “Gaetano santo vu che si sora la providenza prega che ge sta sempre de buon in sta credenza e se non vacorda divina onnipotenza fa che la mangemo suta con pazienza che per ultimo ne basta grazie del ciel e de polenta no restar senza“.
Dettati ortografici e letture sul VENETO Curiosità su Belluno “Christus nobiscum stat”. Le case feltrine sono caratteristiche per i tetti fortemente aggettanti e per le facciate ornate da affreschi o graffiti attribuiti a Del Morto da Feltre e alla sua scuola. Su molti portali è inciso il motto: “Christus nobiscum stat” (Cristo vive tra noi). A sud di Cortina, lungo il torrente Costeana, sorge il Sacrario di Pocol, costituito da una torre con basamento quadrato; in esso sono custodite le salme di 10.000 caduti della guerra 1915-1918. Il gonfalone di Pieve di Cadore è decorato con medaglia d’oro per la “memoranda e tenace resistenza fatta nel 1848 dalle popolazioni cadorine contro soverchiante e agguerrito invasore”, e con la Croce di Guerra per la resistenza nel 1918. A sud di Mas, sulla strada tra questa località e Mis, si trovano le Rovine di Vedana, costituite da un grandioso e disordinato ammasso di terra e pietre (3 milioni di metri cubi) disteso attraverso la valle. Secondo alcuni geologi tale ammasso sarebbe franato, in epoche remote, dai monti Vedana e Peron, seppellendo i villaggi di Cordova e Cornia. Poco lontano sorge la Certosa la cui origine si fa risalire a un ospizio di San Marco di Vedana, esistente nel 1155. La Certosa subì alterne vicende finché, recuperata nel 1768 dai Certosini francesi, du fatta risorgere. Qui nacque Gerolamo Segato (1792-1836) famoso oltre che come instancabile viaggiatore, cartografo e naturalista, anche per aver inventato un processo di pietrificazione dei cadaveri.
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Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA
Cartina fisica Confini: Mar Ligure, Toscana, Emilia Romagna, Piemonte, Francia Golfi: di Genova (Riviera di Levante, Riviera di Ponente), del Tigullio, di La Spezia Promontori: Capo Mele, Capo di Noli, Punta di Portofino, Punta di Sestri Levante Monti: Alpi Occidentali (Liguri); cime più alte: Monte Saccarello (m 2.220). Appennino Settentrionale (Ligure); cime più alte: Maggiorasca (m 1.803) Valichi: Colle di Nava, Passo di Cadibona, Passo del Turchino, Passo dei Giovi, Passo della Scoffera, Passo di Cento Croci, Passo del Bracco Pianure: di Albenga, di Chiavari Fiumi: Roia, Centa, Polcevera, Bisagno, Entella, Magra col suo affluente Vara.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Osserviamo la cartina La Liguria comprende una fascia montuosa a forma di arco che si specchia, con un ampio golfo, nel Mar Ligure. Dura fatica hanno sostenuto i Liguri per dissodare la loro terra impervia e arida: il terreno fertile dovette essere creato a colpi di piccone. I dirupi furono ridotti a terrazze, sostenute da rocce e da muriccioli a secco per ottenere orti, campicelli, vigneti, giardini. Tutto l’arco della costa ligure è detto Riviera, e Genova lo divide in Riviera di Ponente e Riviera di Levante, verdeggianti di pinete e di chiari olivi.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Agricoltura Data la natura poco fertile e la scarsità del terreno, la produzione agricola non ha grande sviluppo. Si coltivano olivi, frutta, primizie ortofrutticole e soprattutto fiori.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Province La Liguria conta quattro province: Genova, Imperia, Savona e La Spezia. Genova, il capoluogo, sorge ad anfiteatro sul mare. E’ il più attivo porto del Mediterraneo ed uno dei centri siderurgici più importanti d’Italia. Imperia è famosa per i suoi oli ed i suoi pastifici. Savona, il secondo porto della Liguria, è un notevole centro commerciale. La Spezia, sul golfo omonimo, è un porto militare.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Per il lavoro di ricerca Come si presenta il territorio della Liguria? Come puoi rilevare dalla cartina i fiumi liguri sono tutti assai brevi: sai spiegarne la ragione? Quali sono i maggiori valichi che permettono le comunicazioni della Liguria con l’Emilia Romagna? Conosci il nome dell’autostrada che congiunge Genova con Milano? Come sono le coste liguri? Perchè il clima della regione è mite? Quali particolari coltivazioni favorisce? Vi sono industrie importanti in Liguria? Dove? Che cosa sono le terrazze? E’ molto importante la pesca in Liguria? Perchè? Che cosa sono i vigneti del mare? Quali sono le principali città della regione? Perchè è importante Genova? Quando nacque la provincia di Imperia? Quale cittadina ligure è chiamata ‘la capitale dell’acciaio’? Quali sono le località balneari più famose? Ricerca notizie sull’artigianato e il folklore della Liguria.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA La Liguria La Liguria è come una falce di luna posata sul mare. Il luminoso Tirreno blandisce le sue sponde; le Alpi e gli Appennini, a ridosso, la proteggono dai venti.E’ una stretta e arcuata striscia di terra, verde di palme e di ulivi, dalle case variopinte, profumata di fiori, di aranci, di gelsomini, e di salmastro; dove maturano i frutti più saporiti, dove i vigneti si inerpicano sulle rocce tra i pini e i cipressi, dove molli colline si alternano a brusche e scoscese riviere. (O. Grosso)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA La costa ligure Tutta la costa ligure è un incanto e in particolar modo la Riviera di Ponente. A ogni svolta della strada, che ora sale ora scende, ti si para davanti un nuovo quadro pieno di colore, di vita, di attrattive: qua macchie gialle di esili mimose fiorite, là boschetti di contorti ulivi dal lucido fogliame, di oleandri in fiore che spandono lontano il loro profumo; più oltre agavi dall’altissimo stelo fiorito che sembra un pino; palme di ogni specie, aurei mandarini e aranci che punteggiano il verde scuro del fogliame; e viottoli ombrosi e chiesette dedicate alla Madonna della Guardia, protettrice dei marinai, e qualche torrione rotondo da cui, nell’alto Medioevo, si sorvegliava la costa da improvvisi assalti dei Saraceni. (G. Assereto)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Aspetto di una scogliera Ecco scogliere nude, che danno un marmo nero e giallo, il portoro, tra cui si abbarbica la vigna; poi la vigna si stende, e copre interamente il fondo roccioso con fusti bassi per difendere i pampini dal vento robusto del mare. Pochi e monotoni colori, ma lucenti, quasi uno smalto; e pochi personaggi, la vite, il cactus, l’agave, l’albero del fico, le case solitarie a metà pendio che non servono da abitazione ma soltanto a pigiare l’uva che appassisce sui tetti. Gli oggetti distinti a uno a uno, come in un presepe un po’ sordo. Gli abitanti delle Cinque Terre sono piccoli vignaioli o pescatori favoriti dal mare pescoso di scoglio. (G. Piovene)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Il ghiottone è servito Profumo di mare e profumo di terra: l’uno e l’altra offrono i loro doni più preziosi alla gastronomia genovese, particolarmente saporita e fantasiosa. Re indiscusso ne è il pesto, la salsa a base di aglio, basilico, formaggio pecorino e olio, pestati nel mortaio di marmo col lucido pestello di legno d’olivo. Chi non ha sentito parlare delle trenette al pesto, uno dei più tipici piatti locali? I piatti più ricercati sono riservati per le festività solenni. A Natale, maccheroni in brodo e, come dolce tradizionale il ‘pan duce’ una specie di panettone, ma più pesante e consistente del confratello milanese. Per San Giuseppe si friggono i ‘friscen’, frittelle di zibibbo, mele, baccalà e aromi; a Sant’Antonio di preparano zucchini ripieni, mentre i piatti di rito per il giorno dei morti sono i ‘bacilli’, fave fresche con patate, e i ‘balletti’, le castagne bollite. E altri piatti tradizionali non sono meno noti dai buongustai: frittura di gianchetti, il cappon magro, la cima (cioè la pancetta di vitello ripiena), la torta pasqualina.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Le coste liguri Sono molto alte. Le principali sporgenze sono Capo Mele, Noli, Portofino e Portovenere. Molte sono le rientranze e, benché non siano grandi, presentano porti sicuri, tra cui i principali sono quelli di Genova, di La Spezia e di Savona. In fondo al golfo di Genova, sotto il quale nome si comprende la parte più settentrionale del mar Ligure, si trova il porto di Genova, il più attivo d’Italia. Il golfo di La Spezia è formato a occidente da una penisoletta che termina con Portovenere. Nelle due Riviere, di Levante e di Ponente, vi sono numerose e celebri stazioni climatiche (Bordighera, Sanremo, Alassio, Nervi, Santa Margherita, Rapallo).
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Il clima della Riviera Ligure La regione che, come un ampio anfiteatro, si affaccia sul Mar Ligure, gode di condizioni climatiche privilegiate, che si prolungano dalla Versilia e sul litorale pisano fino a Livorno. Esse sono conseguenza del contatto ampio e profondo di questa striscia litoranea col mare, della sua esposizione verso mezzogiorno che la apre all’influenza dei tiepidi e umidi venti sud-occidentali, e soprattutto dalla sua orografia, perchè i rilievi della regione non solo costituiscono un efficace schermo contro le fredde correnti settentrionali, ma anche intiepidiscono poi queste ultime per riscaldamento dinamico durante la loro discesa al mare. Queste condizioni particolari agiscono in modo decisivo su tutti gli elementi del clima e in primo luogo sulla temperatura, che è eccezionalmente mite, tanto che la Riviera si può considerare come un grande tepidario naturale, date le sue elevate temperature invernali che hanno riscontro solo nell’Italia meridionale a sud di Napoli. Tuttavia si notano importanti diseguaglianze, sia nella Riviera di Levante, dove arriva spesso il freddo Mistral del Golfo del Leone, sia nella Riviera di Ponente, allo sbocco di alcune valli principali, da cui scendono violenti e freddi i venti del Piemonte.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Le Cinque Terre Dopo Levanto, la costa già alta, rocciosa, si fa ancora più aspra e precipita quasi a picco sul mare. Dal Bracco, contrafforti scendono a formare un’insenatura meravigliosa nella sua selvaggia, naturale bellezza: il Golfo delle Cinque Terre. Ancora negli anni ’70 unico mezzo per giungere a questo piccolo angolo di quiete e di bellezza era il treno, perchè l’asperità del rilievo e una certa trascuratezza nel considerare la necessità di questi piccoli centri: Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola, Riomaggiore, hanno sempre rimandato al domani la costruzione della litoranea da lungo tempo auspicata dalle piccole comunità, troppo isolate dal centro di maggior attrazione commerciale: La Spezia. Potrà sembrare strano in una costa dal rilievo così accentuato, dalla costa che si tuffa precipitando nel mare, ma l’attività principale degli abitanti non è la pesca, ma l’agricoltura: le colture della vite e dell’ulivo. I pescatori ci sono, ma rappresentano un’esigua minoranza della popolazione residente; e il pesce sbarcato, specie nei periodi di massimo afflusso turistico, è insufficiente a soddisfare la richiesta. La grande meraviglia è invece su, in quei piccoli terrazzi strapiombanti sul mare dai quali i grappoli turgidi occhieggiano provocanti in agosto e settembre. Ogni metro di terra conquistato è costato innumerevoli sacrifici alla tenace gente di questi piccoli centri; la terra, se di terra si può parlare tanto è ancora rudimentale la disgregazione della roccia madre, è stata difesa con muretti a secco, portati, pietra su pietra, da chissà dove, nei grandi cesti che gli uomini portavano sulle spalle e le donne sul capo. Nell’epoca della vendemmia, ogni minuscolo terrazzo si anima di un fermento insolito; i piccoli sentieri, a scalini impossibili, che separano terrazzo da terrazzo, sono teatro di un continuo andirivieni di uomini e donne con grandi ceste ricolme di uva. Nei paesi l’aria è presto satura dell’odore del mosto. Il vino, sia quello bianco secco, che va giù liscio tra un calamaretto e un polipo fritto, o fra un’orata o una mormora, come quello liquoroso e di maggior gradazione e pregio, che suggella una cena tra amici o un più pretenzioso pasto, chiamato Sciacchetracche è sovente troppo magra ricompensa a tanti sacrifici e tanti sforzi e, naturalmente, non basta ad assicurare il pane per tutto l’anno, anche perchè la proprietà è molto frazionata. Perciò gli uomini, a partire dagli anni ’60, hanno lasciato la terra ai vecchi e alle donne per un’occupazione meno saltuaria e più redditizia presso l’Arsenale di La Spezia o i cantieri di Muggiano o le raffinerie di petrolio. Sui declivi più scoscesi, dove l’opera dell’uomo non è giunta a redimere la terra, la macchia mediterranea con le sue erbe aromatiche, i suoi pini ad ombrello, le sue ginestre e i suoi lecci contende lo spazio vitale all’ulivo, meno numeroso delle viti, ma che dà un olio finissimo e molto ricercato. Altra specialità delle Cinque Terre sono le acciughe conservate con grande cura e abilità. (E. Dubois)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Le comunicazioni Le montagne, pur occupando tutta la regione, offrono valichi frequenti alle strade che collegano la Liguria con l’Italia settentrionale, la Francia e il resto della penisola. L’arco costiero è percorso dalla via Aurelia, in molti tratti tortuosa, stretta, congestionata. Le autostrade collegano Savona con Ventimiglia e il confine francese, avviano il traffico verso il Piemonte e la Lombardia. Una linea ferroviaria percorre tutto l’arco della costa proveniente dalla Francia e diretta alla Toscana. L’aeroporto internazionale di Genova sorge su una penisola artificiale slanciata nel mare per due chilometri.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA L’agricoltura Il territorio della Liguria, invaso dalle catene alpine e appenniniche, offre pochissimo suolo adatto alle colture; i brevi avvallamenti, i tratti limitati di pianura che potrebbero essere meglio sfruttati sono sempre più occupati dallo sviluppo edilizio. Gli agricoltori liguri, che sono una piccola parte della popolazione attiva, si dedicano perciò a coltivazioni specializzate, favorite dal clima mite, utilizzando i declivi prossimi al mare, faticosamente sistemati a terrazzi. In essi producono ortaggi pregiati e primizie, frutta, uve (molto noti sono i vini delle Cinque Terre); coltivano l’olivo e i fiori: famosi sono i garofani di Sanremo e le rose, la cui produzione raggiunge il 75% del prodotto nazionale.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA L’attività industriale L’attività industriale della Liguria è assai intensa e di importanza primaria sul piano nazionale: notevoli sono le industrie metallurgiche e siderurgiche. Tali industrie legano la loro attività a quella dei cantieri navali. Caratteristiche della liguria sono le industrie di trasformazione di prodotti locali e di importazione: oleifici, pastifici, saponifici, zuccherifici, raffinerie. In questa regione, affacciata sul mare, dotata di grandi impianti portuali, fonte di ricchezza sono principalmente le attività commerciali che intorno ai porti hanno il loro sviluppo più intenso e si irradiano lungo le strade e le ferrovie dirette all’Europa centrale e lungo le rotte di navigazione del Mediterraneo e dell’oceano Atlantico. La dolcezza del clima e la mutevole bellezza del paesaggio sono tal da suscitare una vivacissima attività turistica estiva e invernale, distribuita lungo i centri grandi e piccoli della Riviera di Ponente e di quella di Levante, da Rapallo a Portofino, da Alassio a Sanremo, a Bordighera.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Il ricco manto di fiori e di piante Gran parte del fascino della Riviera di Ponente deriva dallo splendido scenario di piante e di fiori che festosamente veste ogni più remoto anglo del territorio. La vegetazione della costa ci appare rigogliosa e varia. La macchia mediterranea, formata di arbusti profumati e sempreverdi, è integrata dai bellissimi pini marittimi e italici e dalle argentee fronde dell’ulivo, che qui trova il suo ambiente d’elezione. Gli oleandri, i gerani, i garofani compongono, nel paesaggio avvolto da una luce ora tenera ora violenta, meravigliosi arazzi dai colori più diversi. Sugli speroni rocciosi che si protendono verso verso il mare, crescono piante grasse xerofite, che formano un pittoresco contrasto con la nuda roccia: sono le agavi, spesso gigantesche, e i fichi d’India. Nei giardini, sui muretti, lungo le crose, s’arrampicano le rose e i gelsomini odorosi, le passiflore e le splendide buganvillee dai fiori rossi e violetti. Le favorevoli condizioni ambientali hanno permesso il facile acclimatarsi di piante esotiche quali gli eucalipti, le magnolie e soprattutto le palme, dalle specie più svariate, tra cui primeggiano le palme da dattero. Spuntano un po’ dappertutto tra le costruzioni, emergono dai giardini, fiancheggiano le vie. Ma la visione più suggestiva della flora della provincia ci è offerta dallo splendido giardino Hanbury che occupa tutto il costone della Mortola e scende fino al mare; è uno dei più celebri giardini di acclimatazione di specie esotiche. Man mano ci si allontana dal mare e ci si inoltra nell’interno delle vallate, le pendici dei colli abbandonano il tipo di vegetazione che abbiamo descritto e ci si presentano, specie nell’alta Valle Argentina, rivestite di castagneti, di pini, di carpini e di frassini.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Fiori e profumi Centinaia e centinaia di ettari di terreno, nei dintorni di Sanremo, di Porto Maurizio, di Albenga, vengono coltivati a rose, a garofani, a violette, ad acacie, a resede, a bulbose. Qui sono roseti a perdita d’occhio, là garofaneti intramezzati da colture di narcisi, di anemoni, di tuberose, di giacinti… e quali cure assidue richiede un fiore! Un ettaro di terreno coltivato a garofani comporta l’impiego di quindici persone per tutto l’anno. Migliaia di lavoratori sono dediti alla coltura dei fiori, senza tener conto delle persone addette agli impianti irrigatori, alla fabbricazione delle ceste, all’imballaggio, alla spedizione, ai trasporti… Vi sono mercati quotidiani di fiori. Treni speciali provvedono al rapido trasporto nelle principali città italiane e straniere dei fiori recisi nelle belle aiuole della Liguria. Quintali di vellutate corolle di rose si spediscono ogni anno dalla Riviera ligure in Francia, per l’industria profumiera, e si esportano anche viole, fiori d’arancio, lavanda, timo, menta, giaggioli. (L. Sasso)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Il treno dei fiori Ogni giorno, da Ventimiglia, viaggia in Riviera un treno speciale, carico di fiori, raccolti, sui trenta chilometri dell’incantevole cornice, a Ventimiglia, Bordighera, Ospedaletti, Taggia, Riva. Fila a Genova, ove si staccano vagoni diretti a piazze interne e riceve piante e fogliami ornamentali dalla Toscana; quindi si rimette in moto, diretto ai confini di dove dispensa a quindici nazioni, dal cuore d’Europa alla Scandinavia, il sorriso della più smagliante produzione delle nostre terre… Sette tonnellate di fiori della Riviera che portano il calore e il sole d’Italia nei freddi paesi del Nord, nelle case della Germania, della Danimarca, della Norvegia e della Svezia. La Liguria è il regno quasi assoluto del garofano e della rosa, assieme a violette, margherite, violaciocche, resede, narcisi, anemoni, mimose, foglie ornamentali.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA La pesca Il Mar Ligure, come si è già avuto occasione di rilevare parlando dell’economia della provincia di Genova, è poco pescoso a causa del fondale marino roccioso, della brevità della piattaforma litorale, di una indiscriminata e colpevole cattura del pesce, anche in stagioni dell’anno nelle quali essa non sarebbe consigliabile. La pesca è praticata con imbarcazioni di piccolo tonnellaggio, che sbarcano il prodotto sulle banchine del porto di Imperia da dove il pesce raggiunge i mercati di Bordighera e di Sanremo.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA I vigneti del mare Chi le vede per la prima volta, magari solcando le acque del golfo su un vaporetto della linea di Lerici o di Portovenere, non sa spiegarsi il perchè di quelle lunghe file di trespoli di legno affioranti dal pelo dell’acqua, allineati con precisione geometrica. Sembrano vigneti. Sotto il mare, da quei trespoli si dipartono ghirlande strane, dalle quali pendono lunghe corde, tenute verticali da grosse pietre, e su queste corde, ormai coperte d’uno spesso strato di alghe, nascono i mitili, i saporosi frutti di mare, che col nome di muscoli o di cozze sono noti ai buongustai di tutta Italia. Questi molluschi richiedono una cura meticolosa: operai e manovali si aggirano ogni giorno su pesante barconi da carico tra i vigneti, estraggono dall’acqua le pesanti ghirlande, e poi rimettono ogni cosa al suo posto. E i piccoli pontili di legno dei mitilicoltori, coperti da pittoresche baracche costruite con legname di fortune, ricordano lontanamente i paesaggi esotici delle remote città dei mari della Cina. (A. Lugli)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Le province Capoluogo della Liguria è Genova che si stende ad anfiteatro in un’ampia insenatura dell’omonimo golfo. E’ detta ‘la Superba’ per la magnificenza e la grandiosità delle sue opere d’are, tra cui il Palazzo Ducale, antica residenza dei Dogi, il Palazzo Doria, il Palazzo San Giorgio, il Palazzo Reale, la Cattedrale di San Lorenzo, la Porta Soprana. E’ un grande centro industriale e commerciale. Il suo porto, dominato dalla caratteristica Lanterna, è il secondo del Mediterraneo, il primo d’Italia per traffico di merci: vi fanno capo numerosissime linee di navigazione italiane e straniere. Nei limiti amministrativi della Grande Genova sono compresi diversi centri, che sorgono a Ponente e a Levante della città su un tratto di costa lungo circa trenta chilometri. Notissimi sono: Sampierdarena, Cornigilano e Sestri Ponente, con grandi complessi industriali e cantieri navali; Pegli e Voltri, stazioni balneari; Nervi, rinomata stazione climatica. Nei suoi dintorni sorge il celebre Santuario della Madonna della Guardia. Imperia, formata dall’unione di Oneglia e Porto Maurizio, è sede di attive industrie ed è un importante mercato dell’olio. Savona è uno dei maggiori porti d’Italia, specializzato soprattutto nell’importazione del carbon fossile, e sede di grandi industrie siderurgiche, meccaniche e alimentari. Il vicino porto di Vado è particolarmente attrezzato per l’importazione di petrolio. La Spezia sorge in bella posizione, sul magnifico golfo omonimo. Vi hanno sede industrie meccaniche e chimiche, cantieri navali, raffinerie di petrolio. Il suo porto, ben protetto dalla Penisola di Portovenere, è uno dei più importanti d’Italia e base navale militare.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Curiosità su Genova In provincia di Alessandria (Piemonte) i paesi Novi Ligure, Parodi Ligure e altri ancora dimostrano che in antico quei luoghi erano abitati dal popolo dei Liguri. Il via Fieschi, a Genova, c’è la casa dove Colombo passò la sua giovinezza; è vicino alla monumentale Porta Soprana, alta 31 metri, eretta nel 1155, che si apre fra due torri. Se oggi vogliamo indicare Voltri, Pegli ed altri comuni, dobbiamo dire Genova-Voltri, Genova-Pegli, ecc. Sai perchè? Perchè nel 1026, con un regio decreto, fu disposta la fusione del comune di Genova con altri 19 comuni limitrofi. Il nome Liguria deriva dai Liguri, i quali furono i primi abitatori della regione. Si conosce ben poco di questo popolo, giunto qui, forse, dalla Spagna, all’alba della storia. E’ certo, però, che nel settimo secolo aC, i Liguri occupavano un territorio che si estendeva a nord fino al fiume Po e oltre, e che era, quindi, assai più vasto di quello della Liguria d’oggi. Numerosi paesi della Liguria, soprattutto della Riviera di Ponente, appaiono divisi in due parti: una nuova, costruita in riva al mare, e l’altra, antica, costruita un po’ più addentro sui colli. Fu la paura dei pirati che spinse la popolazione a cercare riparo in alto nel retroterra.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Curiosità su Savona Curiosa sorte quella di Savona: non è né la più piccola né la più grande provincia italiana; non è né la più nota né la più importante; eppure è l’unica che può vantare un tratto di Alpi, un tratto di Appennini ed un tratto di mare tutti per sé. Una nota leggendaria farebbe derivare Priamar dal nome di un condottiero cartaginese. La toponomastica, invece, certo con maggior fondamento, lo fa derivare da due termini dialettali: pria (pietra) e mar (mare). Quindi il significato è chiarissimo: la fortezza Priamar non è che uno scoglio sul mare. A Garessio, secondo un’antica leggenda, nelle balze della Pietra Ardena, avrebbe trovato rifugio nel secolo X Alasia, figlia dell’Imperatore di Germania Ottone I, e Aleramo, capostipite dei marchesi di Monferrato. Dal 1950 Albenga si è arricchita del Museo Navale Romano unico nel suo genere, in seguito al tentativo di recupero del carico e dei resti di una nave romana del I secolo aC affondata a due miglia dalla riva, intrapreso dalla celebre nave Artiglio. Il mare ha così restituito oltre mille anfore vinarie, resti lignei e metallici dello scafo, numerosi vasi di diverso tipo, provenienti forse dalla cucina della nave, varie rifiniture metalliche, oggetti nautici e tre elmi di bronzo.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Curiosità su La Spezia Lo sai che il ‘La’ che si premette al nome Spezia è un articolo? Fin dalle più antiche carte geografiche lo si trova infatti declinato come tale. Quindi dovrei dire ‘provincia della Spezia’, ‘golfo della Spezia’, e così via. Purtroppo non tutti sanno o ricordano questa regoletta grammaticale e capita abbastanza spesso di trovar scritto, anche in documenti ufficiali, ‘provincia di La Spezia’, o ‘una nave proveniente da La Spezia’. Se ti trovi alla Spezia la seconda domenica d’agosto, potrai godere di una interessante manifestazione folkloristica: il Palio Marinaro del Golfo. E’ una gara remiera, che si disputa su un percorso di duemila metri nelle acque della rada e vi partecipano tutte le borgate del Golfo con le loro imbarcazioni tipiche a quattro vogatori. Prima della gara si snoda attraverso le vie della città un pittoresco corteo, al quale partecipano anche rappresentanze in costumi medioevali delle antiche Repubbliche marinare. I buongustai sanno che a Portovenere o nell’isola Palmaria si può gustare un piatto prelibato: la zuppa di datteri marini. La tradizione vuole che lo stesso Federico Barbarossa ne fosse tanto ghiotto, da far obbligo ai Signori del luogo di consegnargli uno scudo pieno di datteri ogni volta che con i suoi soldati passasse da quelle parti.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Il più potente faro d’Italia Dice un vecchio proverbio genovese che ogni volta che un napoletano entra in porto, la Lanterna, cioè il faro di Genova che si innalza sul Capo Benigno, si metta a tremare… Perchè la Lanterna si metta a tremare il proverbio non lo dice, ma è facile capire che non sia esattamente per la gioia di illuminare un forestiero. Sul Capo Promontorio, detto successivamente di San Benigno, o di Faro, vi fu in origine un piccolo fortilizio romano che vigilava sulla vicina via Aurelia e sul mare: e furono i primi fuochi di bivacco di quella guarnigione a dar seguito alla consuetudine, creando un punto luminoso di riferimento sicuro per le navi in rotta davanti a Genova. Il piccolo fortilizio continuò a servire anche dopo la caduta di Roma. La prima torre che fu costruita nel perimetro del fortilizio risale ai primi anni del secolo dodicesimo: una torre di modeste dimensioni sulla quale si facevano segnali con piccoli fuochi, come accadeva in tutte le altre torri del tempo. Nel 1543, poi, i Padri del Comune decisero di fabbricare di nuovo la torre. I lavori durarono un anno. Antiche carte parlano di 2000 quintali di calce, 120.000 mattoni, 2600 palmi di pietra lavorata a scalpello, ed altri 1000 di pietra pregiata di Finale di Lavagna. (G. V. Grazzini)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Nascita di una città Imperia è nata soltanto il 21 ottobre 1923, quando un decreto del governo stabilì l’unione dei comuni di Oneglia e di Porto Maurizio: tra i due abitati scorrono le acque del torrente Impero, che un tempo divideva le due città sorelle. Ora i due centri sono collegati da una strada fiancheggiata da pini e da piante esotiche, ampia e panoramica, nel cui punto medio è stato eretto il Municipio. Negli ultimi anni, però, moltissime costruzioni sono sorte lungo i tre chilometri del viale e gli abitati si sono fusi senza soluzione di continuità. Nonostante questo, Oneglia e Porto Maurizio conservano caratteristiche proprie, sia per la posizione geografica che per l’aspetto e la vita economica. Il volto di Imperia è dunque composito, ma non per questo meno interessante; il turista che voglia visitarla ha dunque la singolare possibilità di conoscere due città in una. Oneglia, tutta al piano, con le belle vie rettilinee e spaziose, ha l’aspetto di città commerciale e industriale; Porto Maurizio assomma alle caratteristiche dei tipici centri liguri, con la città vecchia disposta sul promontorio roccioso, quelle di moderna città residenziale, animata da ville e alberghi e allietata da giardini ricchi di fiori e di palme.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA La Spezia Alla fine del Settecento La Spezia aveva tremila abitanti. Nel 1849 Massimo d’Azeglio, ospite di amici spezzini, scriveva alla moglie una frase che brucia ancora adesso: “Qui il paese è codino (retrogado) e ci si fa la vita più tranquilla del mondo”. Ma Napoleone aveva avuto l’intuizione di costruire nel paese ‘codino’ un porto militare; Cavour riesumò l’idea napoleonica e la fece sua; fra il 1862 e il 1869, secondo i progetti del generale Chiodo, fu edificato l’arsenale. Cominciò così l’aumento vorticoso della popolazione, accorsa da ogni parte d’Italia. La Spezia può essere considerata città di pionieri, improvvisa e artificiale, tipo Texas. Nascono intorno all’arsenale le industrie navali e meccaniche. Le strade sono piene di ufficiali e di marinai. Viene un periodo di prosperità concentrato intorno alla marina. Poi, la guerra: La Spezia è distrutta. Nel 1945 è ridotta in rovine, ed è abbandonata a se stessa. Oggi è di nuovo un’importante città industriale.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Camogli Camogli è una graziosa cittadina, cosparsa di ville degradanti verso il mare, un angolo pittoresco della pittoresca Liguria, dove il soggiorno per il turista è veramente incantevole. Ma Camogli è anche rinomato centro peschereccio, città di pescatori e di uomini di mare, e fin dall’antichità ha dato alla marineria ottimi armatori e valenti capitani la cui fama è corsa attraverso i mari fin ai più lontani paesi. I ‘bianchi velieri’ di Camogli, come venivano chiamati i bastimenti, i ‘barchi’, erano così numerosi e così conosciuti in tutto il mondo che lo stesso Luigi Filippo, re di Francia, quando nel 1830 intraprese la conquista dell’Algeria, pensò di servirsi di essi per il trasporto di artiglierie, di batterie, di carriaggi, di derrate, di foraggi. La marina mercantile camogliese fu ritenuta, dunque, più adatta di quella francese per le necessità di una campagna che doveva durare dieci anni. E attraverso i secoli Camogli è sempre stata all’altezza della sua fama. Anche Camillo di Cavour soleva dire che se i servizi per le truppe piemontesi andarono bene durante la guerra di Crimea, il merito era tutto dei camogliesi che avevano saputo dare al Piemonte una vera flotta mercantile. Ma in alcuni giorni dell’anno, la graziosa cittadina sembra dimenticare il consueto, duro e tenace lavoro: si anima e diviene allegra, riempendosi di gente giunta da ogni parte d’Italia. E’ il tempo delle manifestazioni folkloristiche, tra cui è rinomata la Sagra del Pesce. Sul porticciolo di Camogli, in mezzo a una folla variopinta e chiassosa, i pescatori friggono quintali e quintali di pesce in enormi padelle. Poi lo offrono a tutti generosamente, secondo una gentile tradizione di ospitalità: “Mangiate pesce! Mangiate fosforo fritto!” essi gridano allegramente, muovendosi tra i tavoli pieni di commensali improvvisati ed offrendo piatti colmi di pesce dorato e croccante. E tutti mangiano abbondantemente fra risa, canti, motteggi, richiami. Camogli, cittadina di sogno, in questi giorni sembra davvero un’altra, sembra perfino aver dimenticato quella riservatezza e quella scontrosità propria degli uomini di mare.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA I fuochi di San Giovanni Genova la notte di San Giovanni è tanto piena di luci, di razzi, di falò, da far pensare, a chi la vede dall’alto del Castelletto o dal Righi, che il bel cielo di giugno tempestato di stelle si sia rovesciato e l’abbia imbrillantata dei sui fulgori. Le piazze e le strade sono invase, e la folla, densa come una colata di lava, è attraversata da righe di palloncini multicolori, da solchi di bengala abbaglianti, da processioni di fantastici quadri di carta velina illuminata; è agitata da canzoni, da trilli felici, da grida di venditori ambulanti, da suoni di fisarmoniche e di chitarre. Il mare umano si incanala su per i carruggi e passa tra le case che, scintillanti di fiamme su tutte le finestre, pare che anch’esse si prendano a braccetto, perchè gettano da una facciata all’altra, dall’uno all’altro balconcino o terrazzo ghirlande di lanterne di carta, e da ogni angolo spunta un altarino coronato di fiori freschi e ornato di lumini a olio o lampadine elettriche. Canta uno dei tipici poeti genovesi, Carlo Malinverni: “Dove gh’è lampa o candeja gh’è o Battista in te unn-a niccia, no se sbaglia, ch’è un Baciccia dove l’è acceizo un falò”. Sì, perchè San Giovanni Battista è il patrono di Genova, e col nome di Giovan Battista erano battezzati migliaia di bambini genovesi che diventavano prima Baciccin e poi Baciccia. (E. Cozzani)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Visita al porto Vogliamo visitare un grande porto marittimo? Ecco all’esterno un lungo e spesso muro che affiora tra i flutti e sembra difendere le acque interne dalla violenza dei marosi: è la diga foranea, che se da un’estremità è congiunta alla terraferma prende il nome di molo frangiflutti. All’estremità della diga si leva la torre cilindrica del faro che, durante la notte, indica alle navi in arrivo l’imboccatura del porto. Il faro vero e proprio è una potente lampada elettrica circondata da un sistema di lenti, prismi e specchi, i quali proiettano il fascio luminoso a grande distanza (anche 30 chilometri). Il faro, o proiettore, è girevole e può illuminare così tutti i punti dell’orizzonte. Ogni faro ha un suo linguaggio: cioè la durata d’accensione e di spegnimento è diversa per ogni porto; in tal modo i marinai possono sapere a quale località si stanno accostando. Proseguendo l’esplorazione, scorgiamo, ormeggiata, una piccola imbarcazione a motore. E’ la lancia o pilotina, per il fatto che reca a bordo un esperto pilota, il quale salito sulla nave in arrivo, conoscendo bene il porto, la potrà condurre con sicurezza al molo che è stato destinato dalla Capitaneria di Porto. Questa utile ed essenziale assistenza si chiama ‘servizio di pilotaggio’. Ma guardate là: altre piccole e tozzi imbarcazioni si accostano alle grandi navi, le prendono a rimorchio con dei cavi, le fanno delicatamente manovrare sulla loro scia, e le conducono, quasi per mano, al loro posto tra le altre navi già in sosta: si tratta dei rimorchiatori, i corti ma potenti battelli che hanno il compito di far eseguire alle loro sorelle maggiori quei piccoli spostamenti che esse, ingombranti come sono, da sole non saprebbero compiere. Così al momento della partenza, le estraggono dallo schieramento delle altre navi e le trascinano fin là da dove prenderanno il largo. Giunte dunque al loro posteggio, le navi vengono trattenute alla terraferma con le gomene, grosse funi che si avvolgono attorno a certe colonnette di ferro (le bitte) fissate sulle banchine, e gettano l’ancora. La nave che seguiamo è da carico; viene quindi avviata verso la zona destinata a tali navi. Da vari ponti sporgenti qua e là si levano attrezzature per il carico e lo scarico delle merci: le gru. Esse prelevano rapidamente il materiale dalla stiva delle navi e lo depongono sulle chiatte, o sui vagoni merci o sulle stesse banchine, o anche su appositi autocarri. Il raggio d’azione delle gru si dice sbraccio; esso può raggiungere una trentina di metri e reggere il peso di qualche tonnellata. C’è inoltre, nel grande porto, una zona appartata che appare chiusa da sbarramenti. Perchè? Qui approdano le grandi petroliere, cariche del prezioso ma pericoloso liquido infiammabile. Entrate nel loro grande recinto di acqua, gli sbarramenti impediranno che il petrolio eventualmente sparso sulle acque, galleggiando si diffonda nel porto, con grave pericolo di incendio per tutte le altre navi in sosta. Da questa zona partono i tubi che si innestano negli oleodotti: questi poi raggiungono città e terre anche molto lontane. Il porto di Genova merita una visita perchè è il primo d’Italia e del Mediterraneo per il movimento di merci. La sua grande espansione avvenne dopo il 1860; sino a quell’epoca era limitato al bacino del Porto Vecchio. Ecco come si dividono e come si denominano le sue zone più importanti: l’Avamporto, zona di attesa delle navi; il Bacino delle Grazie, per le navi in riparazione; il Ponte Doria e il Ponte dei Mille, stazioni per il servizio passeggeri. In prosecuzione al porto, nella zona di Cornigliano, c’è l’aeroporto, e presso Sestri Ponente sorge un altro porto per i cantieri navali e per i petroli.
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA I Liguri I Liguri stanno affacciati al mare dal davanzale dei loro monti, e han voci strascicate unte d’olio, parlano come se avessero la bocca piena di sardine all’olio. Storcono la bocca, parlando, e questo forse viene per la ragione che le loro parole non sono rotonde, ma bislunghe, fatte a losanga, a triangolo isoscele, e per farle uscire di bocca bisogna storcere la bocca. Oppure per la ragione che i liguri le tengono tra i denti, e non le vogliono lasciar andare, e se le ciucciano, e le mordono, e le stringono tra le gengive, e quelle si divincolano, si dimenano, per uscire, finché escono di bocca unte e storte. Oppure perchè le parole liguri sono fatte come i pesci, e vogliono sgusciare di bocca, e conviene tenerle, perchè il discorso venga fuori con le parole-lische e gli aggettivi, e i verbi a posto, l’un dietro l’altro, secondo l’ordine dell’italiano. Vivono in un paese stretto tra il mare e i monti, e non han posto per camminare, e perciò vanno in barca e solo per questo sono marinai, quando sono marinai. Poiché non è detto che sian tutti marinai; in grandissima parte sono montanari o contadini, e coltivano l’olio, il grano, poco vino, e fiori. La maggior parte vive sui monti, o in collina. E la minor parte sta di casa sul mare, cammina stando attenta a non bagnarsi i piedi, così stretta è la riva, tanto che la sera i genovesi non escono di casa, per paura di cascare nell’acqua. (Curzio Malaparte)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Liguria La Liguria più vera, quella che conserva un’anima antica e un volto più umano, non la trovi sulle spiagge affollate di turisti o nei grandi centri mercantili e industriali, ma è nell’interno dove la terra si fa arida, pietrosa, aspra, dove ogni palmo conquistato alle colture è un giardino, dove le linee del paesaggio, acceso dal sole e confortato dalla presenza del mare, ha una sobria grazia, che occorre saper assaporare conquistandola per le strette, lastricate stradine dei colli che scendono ripidi al mare. E’ la Liguria una terra leggiadra. Il sasso ardente, l’argilla pulita, s’avvivano di pampini al sole. E’ gigante l’ulivo. A primavera appar dovunque la mimosa effimera. Ombra e sole s’alternano per quelle fonde valli che si celano al mare, per le vie lastricate che vanno in su, fra campi di rose, pozzi e terre spaccate, costeggiando poderi e vigne chiuse. In quell’arida terra il sole striscia sulle pietre come un serpe. Il mare in certi giorni è un giardino fiorito. Reca messaggi il vento. Venere torna a nascere ai soffi del maestrale. O chiese di Liguria, come navi disposte a esser varate! O aperti ai vanti e all’onde liguri cimiteri! Una rosea tristezza vi colora quando di sera, simile ad un fiore che marcisce, la grande luce si va sfacendo e muore. (V. Cardarelli)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Nel porto di Genova Al porto il battello si posa: nel crepuscolo che brilla, negli alberi quieti di frutti di luce, nel paesaggio mitico di navi nel seno dell’infinito, ne la sera calida di felicità, lucente in un grande in un grande velario di diamanti disteso sul crepuscolo, in mille e mille diamanti, in un grande velario vivente il battello si scarica ininterrottamente cigolante, instancabilmente introna; e la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul molo corrono i fanciulli e gridano con gridi di felicità. Già a frotte s’avventurano i viaggiatori alla città tonante che stende le sue piazze e le sue vie; la grande luce mediterranea s’è fusa in pietra di cenere: pei vichi antichi e profondi fragore di vita, gioia intensa e fugace: velario d’oro di felicità è il cielo ove il sole ricchissimo lasciò le sue spoglie preziose. E la Città comprende e s’accende e la fiamma titilla ed assorbe i resti magnificenti del sole, e intesse un sudario d’oblio, divino per gli uomini stanchi. Perdute nel crepuscolo tonante ombre di viaggiatori vanno per la Superba terribili e grotteschi come ciechi. Vasto, dentro un odor tenue, vanito di catrame, vegliato da le lune elettriche, sul mare appena vivo, il vasto porto si addorme. (Dino Campana)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Vecchia Zena (Genova) Scendi al sestriere de La Maddalena, svolta nel vico dell’Amor Perfetto che sottile s’avvia, fra tetto e tetto, alla piazzetta nitida e serena. Tace, sopita, l’affannosa pena fra questi muri di vetusto aspetto e si spegne il frastuono di Campetto, pulsante arteria nella vecchia Zena. Poco lontano, Sottoripa, al Molo, tanti oscuri caruggi maleodoranti si snodano, ovattati di mistero. Nel vico dell’Amor Perfetto, solo, s’acciambella indolente un gatto nero. (C. Mandel)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Le palme di Sanremo Tu mi dicevi: Guarda com’è bella e come ignuda dorme la Riviera mentre sommerge l’estasi lunare le palme di Sanremo abbandonate alle fiumane tacite del vento all’umore implacabile del mare. (G. Ligurio)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Sera di Liguria Lenta e rosata sale su dal mare la sera di Liguria… Sepolto nella bruma il mare odora. Le chiese sulla riva paion navi che stanno per salpare. (V. Cardarelli)
Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA Paesetto di Riviera La sera amorosa ha raccolto le logge per farle salpare; le case tranquille, sognanti la rosea vaghezza dei poggi, discendono al mare in isole, in ville, accanto alle chiese. (A. Gatto)
Dettati ortografici e letture sulla LIGURIA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
La croda rossa leggenda del Trentino Alto Adige per bambini della scuola primaria.
Ai piedi della Croda, in una capanna tra gli abeti, c’era, nella beata età delle favole, una fanciulla bella come un’alba montana. Era figlia di legnaioli e, rimasta orfana in tenerissima età, viveva sola con alcune pecorelle in un valloncello romito, ove ben di rado l’uomo stampava la sua orma. era quindi una creatura semi selvaggia, che agilmente si arrampicava sino alle ultime “gusele” della Croda, che cacciava il capriolo ed il camoscio tra le balze rocciose, che godeva della più sconfinata libertà nel suo selvaggio regno.
Ora avvenne che un giorno un giovane principe, figlio del Re delle Valli, capitò sulla Croda a caccia del camoscio. Il giovane, forte ed ardito, inseguendo un animale già ferito, abbandonò i suoi compagni e finì con lo smarrirsi tra i contrafforti della montagna.
Il sole stava tramontando, la notte si avvicinava ed il principe non sapeva come fare a trarsi d’impaccio. Suonò a lungo il corno di caccia, ma solo l’eco delle vallate rispose al suo richiamo. Quando già si preparava a trascorrere la notte all’addiaccio sotto un cornicione di roccia, gli parve di udire un belato, seguito da un richiamo umano. Tosto egli si diresse verso quel segno di vita e ad un tratto si fermò, rapito dinanzi ad uno spettacolo d’una incomparabile bellezza. Presso una fonte che sgusciava da un masso, c’era una fanciulla vestita di pelli d’animale, che era certamente la più bella di tutte quelle che egli avesse mai visto.
I due giovani rimasero estatici a guardarsi, e subito d’accesero d’una fiamma d’amore. Seduti accanto alla fonte, mentre l’aria scuriva e la sera fasciava di silenzio le cose, sotto il palpitare di una limpida serenata di stelle, i due si dissero pianamente, dolcemente tutto il loro amore e giurarono di non separarsi mai più.
L’indomani il principe ritornò alla reggia di suo padre, conducendo seco la silvestre fidanzata. Quando egli espresse l’incrollabile volontà di farla sua sposa, tutta la Corte inorridì come per un sanguinoso insulto. Ma il vecchio re, che amava molto il figlio, non seppe dirgli di no, perciò gli sponsali si fecero, splendidi e memorabili, tra i sogghignare maligno delle dame di Corte, che non potevano capacitarsi d’esser state posposte ad una creatura selvaggia della foresta.
Un giorno in cui il giovane principe era lontano per una spedizione di guerra, le dame di Corte cominciarono il solito gioco maligno delle insinuazioni contro la principessa. Per farle ancora una volta sentire che la consideravano un essere inferiore, un’intrusa, cominciarono a descrivere il lusso e gli agi dei palazzi ov’erano state allevate.
“Vuol raccontarci, di grazia, dove e come fu allevata?”
Un risolino di sprezzo apparve sulla bocca delle dame di Corte.
La principessa sentì un’onda di sangue salire al volto. Scattò in piedi e corse verso una balconata, la spalancò, gridando: “Ecco, ecco, lassù io sono stata allevata! Nacqui in terra libera e sempre fui libera. Castello mi fu la Croda, più grande e più bello di tutti i castelli. Ebbi compagne le creature della foresta, più caste, più pure, più sincere d’ogni cortigiano. Quello è il regno dove fui regina e dove tornerò”.
La Croda, nella chiarità del tramonto, ardeva come una torcia d’una stupenda luce porporina e pareva un autentico castello di sovrumane proporzioni, scolpito nel rubino.
La principessa si sentì mancare il cuore. Era per lei, per lei che la Croda s’era fatta tanto bella, s’era ammantata di broccati di luce, s’era cinta di aristocratiche sembianze, per confondere i suoi nemici, per esaltare la sua figliola! Era un miracolo d’amore, questo… Ed allora, non potendo più resistere al richiamo che sentiva dentro di sé, approfittando del fatto che tutti stavano rapiti a contemplare la montagna porporina, la giovane fuggì e, risalendo la valle, ritrovò la sua capanna e fu di nuovo libera e felice.
Quando il principe tornò e seppe che sua moglie era scomparsa, pensò subito dove avrebbe potuto rintracciarla e partì di gran carriera verso la Croda. Lassù ritrovò la fuggitiva, che lo accolse con tutta la sua gioia, ma non volle tornare alla reggia, dove regnava la malignità e l’ipocrisia. Posto nella alternativa di rinunciare alla moglie o alla successione al trono, il giovane non esitò: scelse la sconfinata pace della Croda e restò nella silvestre capanna accanto alla sua donna. I due vissero liberi e felici ed allevarono tanti e tanti figlioli, sani arditi e belli, come i loro genitori.
Da quella sera lontana la Croda ripete il suo miracolo d’amore, diventando, al tramonto, la più bella, la più fiammeggiante vetta dei Monti Pallidi. E perciò d allora in poi fu chiamata la “Croda Rossa”.
(R. Baccino)
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Il chiodo di Sant’Ambrogio: leggenda della Lombardia per bambini della scuola primaria, per la lettura e il riassunto.
Un bel giorno sant’Ambrogio, vescovo di Milano, venne chiamato a Roma dal Papa. Arriva dunque la lettera: sant’Ambrogio la apre e legge, e vede che non c’è tempo da perdere: il Papa ha da parlargli d’urgenza.
L’indomani mattina subito, di buonissima ora che in giro suonavano le prime avemarie, sant’Ambrogio si alza, si veste da pellegrino, mette la testa in sacrestia e dice al sagrestano: “Suona pure il primo segno della messa, che io vado un momentino a Roma a parlare col Papa; gli altri segni dalli a suo tempo che, per la solita ora, io sono qui di ritorno”.
Ripone il breviario in scarsella, salta in groppa alla mula e via per Roma, pregando il cielo che gliela mandi buona. Fosse l’aria sottile di quel mattino che metteva le ali ad ogni cosa, o non so che diamine fosse, la mula andava come il vento quando ha fretta.
Sicché, in un batter d’occhio, arriva a Roma. Naturalmente a quell’ora i romani erano ancora tutti a letto che russavano. Ambrogio va sull’uscio della casa del Papa, e giù una bella scampanellata che tutte le sale ne squillarono a lungo.
Di lì a un po’ un vecchio servitore viene ad aprire borbottando: “Son queste l’ore di disturbare Sua Santità?”
Calmo, Ambrogio gli mostra il rotolo della pergamena papale con tanto di espresso, e aggiunge: “Fate il piacere di dire al Papa che faccia presto, perchè io ho premura di tornare a Milano per dir messa”. E intanto si accomoda nella sala d’aspetto.
Il Papa sente la notizia, si alza, si lava la faccia alla meglio, poi va in sala d’aspetto e saluta l’ospite: “Buon giorno, Ambrogio”.
“Buongiorno, Santità”.
“Ho una ramanzina da farti”
“Son qui a prenderla” fa Ambrogio, lisciandosi la bella barba d’oro, simile allo sciame d’api. E poichè lì dentro faceva caldo, si levò il mantello, ma invece di attaccarlo a uno dei cavicchi d’argento che erano lì apposta, lo mise a cavallo di un raggio di sole che entrava dalla finestra.
Il Papa guarda quella faccenda, un po’ stupito. Che diavolo d’uomo era costui? L’aveva chiamato per fargli una ramanzina e adesso gli vede far cose che, se non fanno la santità, però la dimostrano; e quasi quasi non trovava il coraggio di incominciare.
Ambrogio, vedendo che andava alla lunga: “Fate presto, Santità!” gli dice con quell’aria sbrigativa propria dei santi che sanno di essere sul sicuro, qualunque cosa dicano o facciano, “Fate presto, perchè io sento già suonare il secondo segno della messa al mio paese” (che era poi Milano).
A quel parlare il Papa lo guarda con un più attento stupore: “Cos’hai detto? Che senti le campane di Milano?”
“Sì, Santità, mettete il vostro piede qui sul mio e sentirete anche voi”.
Il Papa allunga la sua pantofola vicino alla povera scarpa di Ambrogio e, mirabile cosa! anche lui sente suonare le campane di Milano. Allora entrò in sospetto anche più forte di essere veramente davanti a un santo. Tuttavia si ricordò che il Papa è sempre il Papa, cioè il superiore anche dei santi e ha il dovere di rimbrottarli quando è il caso. Sicché cominciò a parlare e gli diede il fatto suo.
Sant’Ambrogio ascoltò quella parlata fino alla fine, in umiltà grande e in silenzio, lisciandosi di tratto in tratto la bella barba d’oro. Finito che ebbe il Papa di parlare, Ambrogio gli fa: “Va bene. Nient’altro?”
“Nient’altro.”
“Allora buongiorno, Santità”
“Buongiorno, Ambrogio”
E Ambrogio scende in fretta le scale, dà la buona mano al servitore che gli aveva custodita la mula, vi monta in sella e via come una spia.
E’ a un chilometro appena fuori di città, che la mula perde un ferro e non c’è più verso di farla correre. Bisogna metterglielo, dunque.
Ambrogio scende, entra nella bottega di un fabbro che era lì a un tiro di sasso e lo prega di ferrargli la mula, raccomandandosi di mettere il ferro a rovescio, sì che le impronte siano verso Roma. Ora, mentre il fabbro faceva il suo mestiere, Ambrogio guarda dentro una cassetta piena di ferri vecchi e ci vede un chiodo tutto bistorto, un chiodo da cantiere. Lo prende in mano e chiede al fabbro: “Me lo cedi?”
“Portalo pure via!” dice il fabbro.
“A che prezzo?”
“Portalo via e non seccarmi, che te lo do proprio per ferro rotto”.
Ma Ambrogio vuole pagarlo ad ogni costo. Lo butta sulla bilancia, lo pesa, e tanto pesava il chiodo, tanto gli corrisponde in oro. Ambrogio salta in sella, e via al galoppo. Aveva fatto sì e no cinquanta passi, che tutte le campane di Roma, din don dan, din don dan, si mettono a suonare a distesa disperatamente come quando c’è il giubileo, quasi a salutare la partenza del chiodo.
Fra i romani subito nacque gran rumore, e tutti si fecero agli usci e alle finestre a domandare che diamine ci fosse. I più vicini a San Pietro si spinsero fin sotto le finestre del Papa: il quale, anche lui, in questa faccenda, ne sapeva meno degli altri. Però, subito dopo, si ricordò di Ambrogio e disse ai più vicini: “Non è un quarto d’ora che è uscito da Roma Ambrogio da Milano; è certo lui che ha sollevato questo putiferio. Ne ha fatte di stranezze, anche in casa mia; corretegli dietro e raggiungetelo, che è sulla strada di Milano a dorso di una mula bianca.
Una dozzina di quei romani più scalmanati montano in groppa a certi sauri del Papa e via al galoppo per la strada di Milano. Passano innanzi alla bottega del fabbro e gli chiedono: “Avete visto passare un uomo così e così?”
“Altro che se l’ho visto!” risponde il fabbro. “Gli ho ferrata la mula, e poi ha voluto portar via un vecchio chiodo bistorto, pagandomelo, ad ogni costo, a peso d’oro!.”
“Qui c’è qualche miracolo in giro” fa il più furbo di quelli; e via dietro all’uomo del miracolo, così rapidamente che i cavalli non facevano in tempo a toccar terra. Galoppa e galoppa, lo raggiungono a Milano, e precisamente vicino a Porta Romana. Lo fermano e gli chiedono: “Tu hai portato via un chiodo così e così?”
“Sì” fa Ambrogio un po’ seccato.
“Per questo a Roma si son mosse a suonare tutte le campane. Segno è che esso è un chiodo prezioso”.
“Non ne so nulla io” rispose Ambrogio, “Piuttosto, lasciatemi andare che ho da dir messa e sento suonare già l’ultimo segno”.
“Ma è un chiodo prezioso” insistono i Romani, “Portalo subito indietro, che Roma lo vuole”.
“No, no” fa Sant’Ambrogio “Io l’ho ben pagato al suo padrone, e adesso è mio”.
Sì, no, è mio, è nostro, la cosa diventa spessa. Sicché Sant’Ambrogio, ch’era spiccio anche col Papa, dice ai romani: “Sentite, diamogli un taglio e facciamo così: adesso andiamo a casa mia, in Duomo io butto il chiodo in alto, verso la cupola; se il chiodo resta su, sospeso, è segno che deve restare qui; se invece cade a terra, lo riportate via voialtri”. D’accordo, vanno in Duomo tutti insieme.
Sul volto di Ambrogio c’era tanto splendore come se vi si fosse adunata la luce del sole. Ambrogio va sotto la cupola e, uno, due, tre, lo butta in alto con un soavissimo gesto. E il chiodo restò sospeso, lassù. Ed è là ancora oggi.
(C. Angelini)
Il chiodo di Sant’Ambrogio – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA, di autori vari, per bambini della scuola primaria.
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Osserviamo la cartina
Confini: Mare Adriatico, Slovenia, Austria, Veneto Lagune: di Marano, di Grado Golfi: di Trieste, Vallone di Muggia Promontori: Punta Sdobba Monti: Alpi Orientali (Carniche), Prealpi Venete (Carniche, Giulie). Cime più alte: Monte Coglians, Monte Montasio, Monte Mangart, Monte Canin (Alpi Carniche); Col Nudo, Cima dei Preti, Monte Pramaggiore (Prealpi Venete) Valli: del Tagliamento Valichi: della Mauria, di Monte Croce Carnico, di Tarvisio, del Predil Fiumi: Livenza col suo affluente Meduna; Tagliamento col suo affluente Fella; Isonzo (italiano solo nell’ultimo tratto) con il suo affluente Torre e il subaffluente Natisone; Stella; Aussa; Timavo. Isole: di Grado.
Anche questa regione è costituita da due territori: il Friuli, rappresentato dal bacino idrografico del Tagliamento, e la Venezia Giulia. Gran parte dei territori che costituivano la regione prima del secondo conflitto mondiale sono stati ceduti alla Repubblica iugoslava in seguito alle sfortunate vicende della guerra. La regione è limitata a nord dalle Alpi Carniche che degradano verso l’alta Valle del Tagliamento. A sud la fertile pianura è limitata dall’Adriatico che ne bagna la costa lagunosa.
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Vita economica
L’agricoltura è l’attività prevalente in tutta la regione; si producono uva e patate sulle colline, ortaggi, barbabietole, cereali, tabacco e frutta, in pianura. Numerose zone forestali, della Carnia, danno ottimo legname, e i pascoli consentono l’allevamento dei bovini. Nelle acque dell’alto Adriatico è esercitata la pesca. Le industrie prevalenti sono rappresentate dai cantieri navali, dalle raffinerie di petrolio, dagli stabilimenti siderurgici e meccanici, dalle industrie chimiche, alimentari e dai cotonifici. Monto attivo è il turismo e il commercio.
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Le province
Le province della regione, che gode di una particolare autonomia, sono quattro: Trieste, Udine, Pordenone e Gorizia. Trieste, capoluogo della regione, ricca di ricordi cari al cuore degli italiani, è un notevole porto commerciale e industriale dell’Adriatico. Udine è un buon centro industriale, agricolo e commerciale e un nodo stradale e ferroviario di grande transito. Gorizia, adagiata nel luogo in cui la Valle dell’Isonzo sbocca nella pianura, è chiamata per il suo clima mite, la “Nizza veneta”.
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Per il lavoro di ricerca
Come si presenta il territorio del Friuli Venezia Giulia? Quali gruppi montuosi vi si elevano? Dove si verificano i fenomeni carsici e che cosa sono? Quali fiumi scorrono nel Friuli Venezia Giulia? Il Tagliamento segna per un tratto il confine con una regione: quale? Quali sono le maggiori risorse del Friuli Venezia Giulia? Quali industrie sono sviluppate a Trieste? E a Monfalcone? Che cos’è la bora? Che cosa sono i magredi? Perchè soltanto la bassa pianura è fertile? Perchè la Venezia Giulia è più ricca e industrializzata del Friuli? Quali sono le province e le località importanti della provincia? Perchè sono note? Ricerca notizie sulle tradizioni, gli usi e i costumi del Friuli Venezia Giulia. Che cosa ti ricorda Redipuglia? E Aquileia?
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Il Friuli
Ippolito Nievo definì il Friuli “un piccolo compendio dell’universo”, cioè un armonico riassunto, un felice mosaico, un gradevole cocktail di tutto ciò che di bello esiste su questa terra. Dalle altre montagne della catena Carnica, con la vetta massima del monte Coglians, a quasi 2800 metri, alle colline che degradano in dolci declivi, dalle campagne verdi e fertili alle vastissime spiagge adriatiche, dai laghetti del Predil e di Fusine al bacino morenico di San Daniele, dalle aree sassose e aspre, ai boschi fitti e intricati. Nel Friuli c’è di tutto, come se, e una leggenda antica lo dice, infatti, il creatore, al termine della propria fatica, si fosse accorto che era rimasto qualcosa ancora da utilizzare, dell’enorme materia prima predisposta per forgiare il mondo, e, a capriccio, avesse sparso tale residuo a piene mani in quest’angolo gettato tra le Alpi e l’Adriatico, per fare di esso un campionario di tutte le bellezze del mondo. Le bellezze del Friuli meritano la massima attenzione. Dalle località balneari che hanno il loro centro massimo in Lignano Sabbiadoro fino alle nevi del Tarvisio e di Stella Nevea, di Forni di Sopra e del Matajur, si sta compiendo ogni sforzo per incrementare la recettività turistica, con impianti e attrezzature di primissimo ordine, comprese quelle degli sport invernali, al fine di offrire all’ospite italiano e straniero il meglio della tradizionale e calda accoglienza friulana, fatta di gentilezza, di rispetto, di onestà, di altissimo senso civico. Accanto alle bellezze naturali, il Friuli tutto è una miniera di meraviglie artistiche. La plurisecolare storia del Friuli, dai più remoti tempi celtici preromani fino alla colonizzazione romana, alle invasioni longobarde, alla conquista della regione da parte di Venezia, ha dato al Friuli infiniti monumenti e vestigia che ben meriterebbero di essere maggiormente conosciuti. Dalle rovine di Aquileia, con il suo foro, il suo porto, la sua basilica; da Udine con la sua collezione di opere di Gian Battista Tiepolo, il suo duomo del Trecento, il suo castello; da Cividale, l’antica Forum Julii di Giulio Cesare con il suo tempio longobardo di Santa Maria in Valle e il Battistero di Callisto; da Pordenone, l’antica Portus Naonis, con il suo duomo e il suo municipio; da Porcia, con i suoi portali e il suo castello; da Palmanova, la città fortezza che ancora conserva intatte le sue caratteristiche: non basterebbe un volume per elencare tutte le bellezze artistiche di questa terra generosa, ospitale, di questo piccolo compendio dell’universo che non chiede che di essere meglio conosciuta: per essere apprezzata e amata come merita.
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Friuli Venezia Giulia, regione autonoma
Il 10 maggio 1964 è nata in Italia una nuova regione autonoma: il Friuli Venezia Giulia. In tal giorno si è votato nelle province di Udine e di Gorizia e nel territorio di Trieste. Sono stati eletti i 61 rappresentanti del parlamento regionale. Esso a sua volta, ha scelto al suo interno il presidente e i dieci assessori destinati a governare la regione per quattro anni. Pur dipendendo sempre da Roma per quel che riguarda le leggi fondamentali della Repubblica Italiana, il Friuli Venezia Giulia si è dato proprie leggi per ciò che riguarda determinate attività locali. E non versa più a Roma tutto l’importo delle tasse governative, ma ne amministra direttamente una parte per risolvere i non lievi problemi regionali. Prima dello sviluppo dei notevoli centri industriali di Pordenone ed Udine, il Friuli era una zona depressa. Il reddito per persona era tra i più bassi e moltissimi friulani emigrarono per cercare lavoro. La Carnia è molto bella, con le sue Alpi che non superano i 2800 metri, ed era anch’essa una zona molto povera. Il Friuli ha una sua unità, basata sul dialetto e sulla storia. Il dialetto non è veneto, ma un idioma neolatino, affine al ladino, al provenzale e al romeno. Il ducato longobardo del Friuli lottò contro le invasioni degli Slavi. Sotto la dominazione veneziana, gli orgogliosi comuni friulani ottennero larghe autonomie. Dal 1895 al 1814 il Friuli fece parte del Regno d’Italia napoleonico. Poi passò all’Austria. Nel 1866 con la terza guerra d’indipendenza si ricongiunse all’Italia. La provincia di Gorizia è stata ridotta a pochi brandelli dalla seconda guerra mondiale e l’allora Jugoslavia si è presa il resto. Era la città prediletta dagli Asburgo, ma lo stesso imperatore Giuseppe II ne riconosceva il carattere schiettamente italiano. Fu liberata nel 1916, perduta nel 1917 con Caporetto, annessa definitivamente all’Italia nel 1918. Anche il territorio triestino è ridotto ai minimi termini, in seguito alle vicende belliche e all’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Trieste, sotto l’Austria, era il secondo porto del Mediterraneo e il primo dell’Adriatico. L’ardente irredentismo si concluse con l’unione all’Italia, nel 1918. Trieste è la capitale della regione. Alcuni assessorati possono risiedere però a Udine o in altre città. (G. Zannoni)
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Trieste
Al primo affacciarsi sulla strada litoranea sul golfo, la città intera appare allo sguardo, in un incontro fulmineo. Se splende il sole, cielo e mare avvolgono la città in un unico bagliore. Dall’auto e dal treno, la stupenda visione si presenta come in una lunga carrellata cinematografica. La strada segue l’arco del golfo fra suggestivi e arditi strapiombi sul mare, sì che, spesso, si ha la sensazione di stare sospesi sulla lucente pianura dell’Adriatico. Dal medioevale Castello di Duino, già baluardo contro i Turchi ed i pirati dove forse sostò Dante, ambasciatore di Cangrande della Scala, alla sognante baia di Sistiana, a quella di Grignano, a Miramare, pare di compiere un’allucinante immersione in un’atmosfera solare e marina. Il paesaggio varia ad ogni passo. Mare, roccia, verde: i sensi finiscono col percepire solo questi tre motivi fondamentali, mentre la città si palesa sempre più vicina e più viva. L’aria è impregnata di salsedine e di resina. Infine: il Lungomare di Barcola. Da un lato la scogliera, con la cantilena delle onde, le vele, le barche, il porticciolo, dall’altro la movimentata teoria delle ville e dei luoghi di ritrovo, alla fine di un viale alberato, incontreremo la città viva e pulsante. L’arrivo dalle vie di mare avviene in un diverso accordo di colori, più sfumati. Il passeggero avrà l’impressione di essere nelle vie della città già prima di sbarcare quando la nave all’entrata nel porto sfiora rive e moli. Un arrivo dal cielo consente un abbraccio ideale all’intera città: un mareggiare di colli, di pendici smaltate di verde, tutto un rampicare di case, dai massi dei palazzi sulle rive ai dadi delle ville che si affacciano all’altipiano. Ma, si giunga da una parte o dall’altra, l’attenzione finisce con l’essere dominata da una culminante visione. San Giusto: il vecchio castello veneto, la poderosa quadrata torre della basilica, la platea romana sul Colle Capitolino. La storia, l’anima di Trieste sono lassù; tutte le età, tutte le vicende accostate, accomunate, sovrapposte parlano. Il Castello fu costruito al principio del 1500 sul posto della rocca romana e di una successiva fortezza trecentesca. Dal bastione rotondo che alza la sua massa sulla Piazza San Giusto, l’occhio spazia su un panorama grandioso. Di lassù Trieste appare come una scacchiera ondulata fra il verde dei colli ed il turchino del mare. Il golfo lunato si distende nelle sue nobili linee dalla riviera che va verso Miramare, Duino, Monfalcone sino alla dolce curva della laguna gradese. Nelle ore più propizie si vedono profilarsi laggiù, in controluce, i contorni delle Alpi e delle Prealpi, i campanili di Aquileia e di Grado. Girando lo sguardo, sulla sinistra appare il vago disegno della costa istriana; e l’occhio può accompagnarla fino allo sperone di Pirano, alla Punta di Salvore. Monumento caratteristico di Trieste è il Faro della Vittoria eretto in memoria dei Caduti del mare. Alto 116 metri sul livello del mare, per grandezza è il terzo del mondo dopo quelli di New York e Santo Domingo. Il suo raggio spazia per 36 miglia e le navi lo vedono già a metà rotta tra Venezia e Trieste. Altra opera notevole, il Canal Grande, che penetra nel cuore della città. Fu scavato nel 1750 per i velieri che così potevano scaricare le merci proprio davanti ai magazzini, allineati allora lungo il canale. E’ anche grazie ad esso che poche città come Trieste sentono la presenza del mare e di continuo lo vedono non solo dalle alture, ma in fondo alle vie. (B. Parisi)
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Udine
In questa chiara Udine, una certa mollezza veneta, risalendo dalla pianura e da occidente, addolcisce il nobile parlare della gente friulana e adorna di piacevoli forme le architetture. L’Udinese, lo distingui subito per una sua pacatezza corretta: lo interroghi su un indirizzo, lo chiami a te per un motivo qualsiasi, e subito si offre: “Mandi” (che è poi una derivazione del veneziano “comandi”). Ma ti accorgi benissimo che, Friulana dal ceppo morbido fuori e duro assai dentro, non si farebbe comandare da nessuno, a meno di non offrire spontaneamente la sua fedeltà. Insomma, Venezia sì, ma nella parte migliore e più forte, escludendo il lato settecentesco e diremmo goldoniano del pur affascinante costume lagunare. E poi, Udine è capitale! Meno ricca e attiva di Pordenone, forse, ma il cuore del Friuli è lei, un prodigioso e fiero cuore che ha resistito a molti brutti scossoni della storia. Non era difficile, fino a trent’anni fa, trovare a Udine chi ricordasse distintamente l’entrata delle truppe austriache in città, dopo Caporetto. Neppure l’ultima guerra è stata pietosa con la città, e il ferro e il fuoco non furono risparmiati a tentare di domare questi Udinesi gentili ma incapaci di obbedire a un occupante dai metodi così poco corretti. Ed ora, oso dire che il momento buono per conoscerla non è durante il giorno, quando le ampie strade del centro pullulano di ente vivace e ordinata; l’ora buona è al principio della notte. Dopo le nove Udine, da antica e dignitosa capitale qual è, se ne sta a casa, e le sue vie semi deserte offrono una straordinaria suggestione. Qualcuno si attarda in discorsi sotto l’enorme platano di via Zanon, e alle calme voci friulane risponde discreta la roggia, che ancora lì corre scoperta. Seguite allora il labirinto di certe stradine, con le simpatiche, antiche case dai balconi delicati, traboccanti di fiori; trascorrete il mirabile impianto urbanistico: Udine può ripetervi il suo racconto di persona, meglio di qualsiasi storico. (F. Piselli)
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA La bora
Mentre tutto intorno alla casa domina il frastuono della bora, un fanciullo studia da un suo manuale geografico che “in Italia la velocità del vento supera di rado i 42 chilometri orari”. Bel privilegio questo di Trieste, fra le città italiane, di essere visitata spesse volte durante ‘anno e specie d’inverno, da un vento che, quando è mite, soffia con una velocità di 60 chilometri e, in certe giornate di furore, raggiunge i 140. Visitatore sgarbato e violento, per cui la città sta sempre sul chi vive. E lo sanno gli ingegneri della luce e dei telefoni, e tutti i costruttori, i quali non sono mai abbastanza previdenti nel calcolare la violenza di questo nemico delle condutture e dei cavi aerei, dei comignoli e dei tetti. Lo sanno i marinai che non rafforzano mai abbastanza gli ormeggi. Lo sanno infine i cittadini, che per quanto lo conoscano per tradizione e per esperienza, non riescono mai a premunirsi in modo da non doverlo temere. (G. Stuparich)
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA L’acqua e la pietra
Il Carso è un altopiano che dalle Alpi Giulie va degradando verso l’Adriatico ed è compreso tra il basso corso dell’Isonzo e il Golfo del Carnaro. Di questo altopiano, soltanto una piccola parte è inclusa nei confini politici dell’attuale Venezia Giulia e precisamente quella striscia che si affaccia sul Golfo di Trieste. Essa si distingue in Carso Monfalconese e Carso Triestino, divisi l’uno dall’altro dal Vallone di Gorizia. Il Carso è caratterizzato dall’assenza di corsi d’acqua; la sua superficie perciò si presenta arida, costituita in gran parte di rocce bianche e nude. L’acqua piovana tende a scorrere rapidamente attraverso le fessure delle rocce e scompare nel sottosuolo. Nel sottosuolo non meno che alla superficie, l’acqua silenziosamente lavora. E’ l’acqua che conferisce al paesaggio carsico quell’aspetto di terra caotica e tormentata che lo distingue da ogni altro. In superficie la roccia appare scavata da solchi, incisa da crepacci, stranamente forata, ridotta a lame taglienti e a punte aguzze. Nel sottosuolo, si formano cavità di ogni genere: caverne spesso grandissime, grotte ramificate come labirinti, canali, gallerie, pozzi, cunicoli. In questo mondo sotterraneo, l’acqua scorre, spumeggia, gorgoglia, continua a scavare, seguendo vie misteriose che la conducono al mare. Il crollo della volta di una grotta ha dato origine, in superficie, a una conca, una valletta che ha forma di scodella o di imbuto. Questa conca si chiama, con parola slava, dolina. Quando la dolina termina con un inghiottitoio a pozzo, che spesso è profondissimo, si chiama foiba (dal latino fovea, che significa fossa). Il Carso è tutto bucherellato di doline; viste dall’alto sembrano piccoli crateri vulcanici: un paesaggio quasi lunare. Tra le numerose grotte del Carso Triestino va ricordata la Grotta Gigante, che si trova a qualche chilometro da Trieste. Attraverso una breve galleria si raggiunge una cavità immensa, alta 115 metri, che potrebbe contenere la cupola di San Pietro in Vaticano. La grotta è attrezzata per le visite turistiche; fasci di luce elettrica illuminano nel modo più fantastico i cristalli delle meravigliose stalagmiti. E’ il capolavoro dell’acqua. Non si deve credere che il Carso sia tutto e soltanto un deserto di pietra. Il Carso Triestino, assai meno brullo di quello di Monfalcone, è rallegrato da pinete che formano chiazze verde scuro in mezzo al biancheggiare dei macigni, da boscaglie di querce che coprono le sue colline, da prati, da cespugli di ginepro, di rovo, di biancospino. La primavera fa fiorire tra i sassi il timo e la salvia; compaiono fiori di alta montagna che fanno dimenticare di trovarsi a pochi passi dal mare. La terra coltivata è poca: qualche vigna, qualche breve campetto nel fondo delle doline. La roccia del Carso è il calcare, sul quale l’acqua agisce facilmente. Dovunque vi sia il calcare, si manifestano gli stessi fenomeni che si osservano nel Carso: aridità in superficie e acque sotto terra, macigni corrosi, grotte e caverne. Poiché questi fenomeni sono più evidenti nel Carso che altrove, hanno preso da esso il nome: si chiamano fenomeni carsici o carsismo. In Italia, i terreni di natura calcarea sono molto estesi; quindi anche il carsismo è frequente in tutta la penisola. Zone carsiche si trovano nelle Prealpi Lombarde, nelle Alpi Apuane, nel Gargano, nelle Murge, nelle Madonie, nell’Iglesiente; le doline non mancano nel bresciano, nell’Appennino bolognese; un grandioso complesso di grotte è quello di Castellana in Puglia; i fiumi a corso sotterraneo sono frequenti nell’Appennino meridionale. Il fatto è che nel Carso i fenomeni carsici sono tutti riuniti e presenti. (S. Pezzetta)
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Le grotte di Postumia
Un vecchio proverbio latino dice che la goccia scava la pietra: una goccia che cade occasionalmente su un sasso, no di certo, ma dieci, cento, mille, un milione di gocce che cadono una dopo l’altra sempre sullo stesso punto, sì. Se poi le gocce, scorrendo su una roccia calcarea, si sono arricchite di sostanze minerali, avviene il fenomeno contrario: invece di scavare, esse… costruiscono: depositano a poco a poco il calcare; un po’ resta attaccato alla fessura da cui cola l’acqua, un po’ si consolida a terra. Così nascono le stalattiti e le stalagmiti nelle caverne carsiche. Come tutti sanno anche l’Italia è ricchissima di caverne di questo genere, ma le più celebri del mondo sono certamente quelle di Postumia, italiane fino all’ultima guerra, slovene dopo le spartizioni territoriali seguite alla pace. Le grotte di Postojna (questo è l’attuale nome) sono ancora meta di numerosissimi turisti. Sono tanto grandi che in esse si snoda una ferrovia a scartamento ridotto di ben tre chilometri. Ma a piedi se ne possono percorrere sei e, tenendo conto dei numerosi canali secondari, si giunge ad un’estensione di oltre trenta chilometri.
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Bellezza delle Alpi Giulie
Le Alpi Giulie sono tra le più attraenti della nostra cerchia alpina. Due ardite ferrovie conducono al loro cuore, parallelamente a due grandi, magnifiche strade: la strada e la ferrovia del Canal di Ferro e quelle della Valle dell’Isonzo. In questo estremo lembo orientale d’Italia sono profuse con magnifica prodigalità tutte le bellezze di cui si vanta l’Alpe, bellezze che dalla poesia mite e pastorale dei pascoli alti, vanno a quella solenne delle foreste, e da questa a quella tragica delle rupi nude e precipiti, erette sulle loro basi cinte di ghiaioni, superbamente sfidanti il vento e il sole. Le Giulie hanno in comune con le Dolomiti la costituzione; ma le loro valli sono profonde e selvagge, scarsamente collegate da passi, con altopiani di rocce nude, con nevai sperduti nel mare delle rocce calcaree. Forse manca loro la grandiosità delle masse montuose e la maestà delle nevi perenni, ma in compenso l’Alpe conserva intatta la sua fisionomia selvaggia, primordiale, fatta di pietra e di abeti, quieta e raccolta. Ogni valle ha i suoi monti posti a custodia, il suo torrente spumoso e sonante, le sue foreste. La Val Saisera ha il Montasio, la Val di Resia il Canin. Ecco la Sella di Nevea, culla dell’alpinismo giuliano e tappa per le più belle vette delle Giulie, convegno di venti, splendore di pascoli verdi, dove germoglia rubescente il rododendro e spicca, flessibile al vento, l’azzurra genziana! Ecco la vetta del Monte Nero, sacro alla gloria dei nostri Alpini; ecco la Valbruna, teatro di abeti e di pareti incombenti, chiusa nello sfondo da uno dei panorami più belli delle Alpi, nell’inverno, paradiso bianco dello sciatore. Ecco ancora la verde dovizia dei boschi di Pontebba, variati di pascoli alti e di baite, da dove si domina il Canal del Ferro smagliante di tinte e di contrasti, lungo il corso sonoro del torrente Fella. (O. Samengo)
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Usanze, tradizioni, costumi
Feste e sagre si celebrano numerose nel Friuli. Ad Aquileia e Cividale si celebra, per l’Epifania, la Messa dello Spadone, durante la quale il diacono, riccamente vestito, e con l’elmo piumato sulla testa, saluta il popolo con un antico spadone, simbolo del tramontato potere temporale e militare dei Patriarchi (Vescovi, principi di quelle terre). A Gemona viene celebrata ogni anno la sagra dei surisins (topolini). I quali topolini sono minuscoli razzi che, fischiando e scintillando, scivolano lungo un fil di ferro teso in una piazza di Borgo Villa, non senza staccarsi e finire in mezzo alla folla che si agita con ilare spavento. A Comeglians, e anche in altri paesi, nella notte dell’Epifania, il cielo è solcato da cento meteore che ricadono sui clivi montani sprizzando scintille. Sono le cidulis ossia rotelle di faggio che un cidular arroventa al fuoco e scaglia lontano a mezzo di un bastone flessibile. Ad ogni cidula che vola nella notte, si grida il nome di una fanciulla del paese.
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA La bora
La bora è un vento locale che raggiunge forza e velocità straordinarie. Quando essa soffia, si devono rafforzare gli ormeggi alle navi che sono nel porto. Nelle vie più battute cessa quasi del tutto il traffico degli autoveicoli. Quelli che devono forzatamente circolare sono guidati a fatica e fatti procedere a passo d’uomo. I pedoni si aggrappano a corde tese nei punti più flagellati da vento ed evitano, per quanto possono, di attraversare le strade e di avventurarsi nelle piazze aperte. La rovinosità di questo vento dipende dal fatto che soffia rasente terra. Si tratta infatti di una corrente di aria fredda e secca che proviene da Nord Est. Essa, scontrandosi con l’aria mediterranea, più calda e leggera, la fa salire e poi scorrazza da padrona negli strati più bassi. La sua velocità raggiunge perfino i 200 orari.
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Trieste, città del mare
Non v’è forse altra città che viva in intima unione col mare come Trieste. Un lato della piazza maggiore è spalancata senza neppure il riparo di una balaustra, sull’infinita distesa abbagliante e per tutte le vie penetra da quella gran bocca, l’odore salso dell’onda. Nei giorni di tempesta i cavalloni, non impediti da alcun ostacolo, sormontano il breve dislivello e si riversano e si frangono contro le soglie marmoree dei fabbricati. Questa città, che allinea lungo intere contrade palazzi di favolosa ricchezza per ospitarvi banche, compagnie di navigazione, vive mescolata al suo mare come potrebbe un povero villaggio di pescatori. Il porto di Trieste offre uno spettacolo inebriante e sempre nuovo d’attività e di forza, coi suoi moli formicolanti di gente operosa, con la sua sfilata di magazzini, di cantieri navali, di opifici fumanti e sonanti, col suo andirivieni di navi giganteschi e minuscoli, col suo trascorrere di vele candide e gialle e rosse, coi suoi rapidi voli d’idroplani. (G. De Agostini)
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA La campana di Rovereto
E’ la sera del 2 novembre. Attraverso la radio si diffonde, in tutto il mondo, un suono lento, grave, solenne: Don!… Don!… Don!… E’ la voce di Maria Dolens, la campana di Rovereto. Essa ci ricorda i caduti, tutti i caduti della guerra: italiani, francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi, slavi, giapponesi, americani… sono migliaia e migliaia di uomini che rivivono nel suono della campana. Quante cose dice al nostro cuore questo suono: “Pace!… Pace!… Pace!… Vogliatevi bene! Siate tutti fratelli!… Soltanto la pace può rendervi felici!”. Questo ci dice la campana di Rovereto. I suoi mesti rintocchi si disperdono nell’aria ormai oscura della sera. Essi si diffondono attraverso lo spazio, come un messaggio di pace e di amore fra tutti gli uomini di buona volontà. (R. Dal Piaz)
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Il Carso
Ci sono cose nella Venezia Giulia che meritano di essere viste. Si tratta di grotte, di inghiottitoi, di doline: di curiosi fenomeni insomma che, appunto dal nome della regione, si chiamano fenomeni carsici. La regione del Carso è formata da rocce calcaree assai tenere, porose e piene di fessure. Le acque piovane, filtrando attraverso le fessure, con l’andare dei secoli, le hanno allargate e si sono aperte nel sottosuolo gallerie, cunicoli e grandi cavità in cui esse scorrono come fiumi sotterranei. E’ avvenuto che molte di quelle acque circolanti nel sottosuolo, avendo trovato una nuova strada più breve e più profonda, hanno abbandonato le gallerie nelle quali prima scorrevano, lasciandole vuote. Queste gallerie abbandonate dalle acque sono appunto le grotte. E’ assai interessante il penetrare e l’avventurarsi nell’interno di questi sotterranei. Dal soffitto penetrano e luccicano certe bizzarre concrezioni di roccia che si dicono stalattiti; dal pavimento sorgono altre concrezioni coniche dette stalagmiti e spesso le une e le altre congiunte insieme formano esili o poderose colonne. Le pareti qua e là sono rivestite, si potrebbe anche dire adornate, di coltri, frange, panneggiamenti, anch’essi di roccia più o meno trasparente e variamente colorata. (G. Assereto)
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Aquileia romana
Aquileia è una città ricca di storia e di preziose vestigia: ebbe due momenti di grande splendore sotto Augusto e nell’alto Medioevo. Maestose si levano nei suoi dintorni le rovine romane: uno splendido colonnato dell’antico foro si staglia contro il cielo e nel sepolcreto romano altri ruderi dell’antica Roma attirano l’attenzione dei visitatori. Una raccolta di lapidi, anfore, urne, terrecotte, monete, si trova nel Museo Archeologico della città e gli scavi, nei dintorni, continuano. Tra il verde ecco un’altra visione, questa volta medioevale: la grandiosa Basilica romanica costruita intorno all’anno 1.000: agile ed alto ben 73 metri, si leva, a fianco delle possenti mura, l’antico campanile.
Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA Una città come una stella
Una strana cittadina, Palmanova! Se tu la vedessi dall’aereo, ti apparirebbe come un’immensa stella a nove punte. Si tratta di un’antica città fortezza costruita da Venezia, contro le minacce sia dei Turchi, sia dell’Impero d’Asburgo. Un particolare va ricordato: la cittadina fu fondata nel 1593, il 7 ottobre, anniversario (il ventiduesimo) d’una famosa battaglia navale contro i Turchi: la battaglia di Lepanto. La pianta di questa città è certamente una delle più belle esistenti in Italia: bastioni, casermette, torri, depositi costituiscono un poligono regolarissimo con diciotto lati: al centro c’è una piazza dove sorge il Duomo. Palmanova è nella pianura friulana, quasi a metà sulla via tra Udine ed Aquileia.
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Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE, di autori vari, per bambini della scuola primaria.
Osserviamo la cartina
Confini: Austria, Veneto, Lombardia Monti: Alpi Centrali (Retiche) , Alpi Orientali (Atesine e Dolomitiche), Prealpi Venete. Cime più alte: Cima Tosa nel gruppo di Brenta; Presanella; Cevedale; Ortles; Palla Bianca; Vetta d’Italia; Picco dei Tre Signori; Cime di Lavaredo; Marmolada; Catinaccio; Latemar; Pale di San Martino; Monte Baldo; Pasubio Valli: Giudicarie, Val di Non, Val di Sole, Val d’Ultimo, Val Venosta, Passiria, Val Sarentina, dell’Isarco, Val Pusteria, Val Gardena, Val di Fassa, Val di Fiemme, Valsugana, Valle Lagerina Valichi: della Mendola, del Tonale, dello Stelvio, Di Resia, del Giovo, Del Brennero, di Dobbiaco, Monte Croce di Comelico, di Sella, del Pordoi, di Costalunga, di Rolle Fiumi: Adige, Chiese, Sarca, Brenta. Affluenti di sinistra dell’Adige: Isarco (col suo affluente Rienza), Avisio. Affluenti di sinistra: Noce Laghi: di Garda, di Ledro, di Molveno, di Tovel, di Resia, di Braies, di Carezza, di Levico, di Caldonazzo.
Questa regione, che si incunea tra la Lombardia e il Veneto, è formata da due territori: il Trentino e l’Alto Adige. Interamente montuosa, la regione comprende le Alpi Retiche e un gruppo delle Dolomiti, che si innalzano aspre e ardite. Numerosi laghetti alpini rendono pittoresche le verdi conche; deliziose sono le stazioni climatiche e famosi i centri sportivi invernali. Solcata dall’Adige, questa regione, ricchissima di ricordi e di testimonianze dell’eroismo profuso dai nostri soldati nella guerra combattuta, dal 1915 al 1918, per ridare alla nostra Patria i suoi confini naturali, è una delle più pittoresche d’Italia.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Vita economica
L’agricoltura, alla base dell’economia della regione, è una delle principali fonti di ricchezza. Sui pendii dei monti, in pieno sole, vi sono vigneti, campi di grano, di patate, di frutta, di tabacco. Nei prati estesi e ben tenuti pascolano bovini, ovini ed equini. Le folte e scure foreste danno abbondante e pregiato legname. Per l’abbondanza delle acque primeggiano le industrie idroelettriche, poi quelle alimentari, le industrie chimiche, i cotonifici, le fabbriche di cemento. Attrezzatissima è l’industria turistica ed alberghiera. Dalle cave si estraggono marmi pregiati e porfido, usato per le massicciate stradali. Notevole è pure l’artigianato.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Province
Il Trentino Alto Adige ha un’amministrazione autonoma e comprende due province. Trento, il capoluogo del Trentino, sorge sulle rive dell’Adige. Di origine antichissima, è città ricca di ricordi storici e patriottici. Bolzano, capoluogo dell’Alto Adige, è per la sua posizione un centro commerciale e alberghiero di prim’ordine. Vanta industrie idroelettriche, chimiche e meccaniche.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Per il lavoro di ricerca
Come si presenta il territorio del Trentino Alto Adige? Il tratto delle Alpi che si erge tra il Trentino Alto Adige e il Veneto è costituito da magnifiche montagne, meta di numerosi turisti. Sai come si chiamano e quali sono le loro più attraenti caratteristiche? Nel Trentino Alto Adige c’è la vetta che segna il punto più settentrionale dell’Italia; come si chiama? Conosci il nome di qualcuno tra i più bei laghi delle Dolomiti? Il lago di Garda fa parte della regione? Qual è la risorsa principale della Regione? Che cosa offre l’agricoltura? Quali industrie primeggiano nel Trentino? E’ molto importante l’allevamento del bestiame? Ricerca notizie sulla flora e la fauna altoatesina. Il Trentino Alto Adige ha amministrazione autonoma. Che cosa significa? Qual sono le località più importanti della Regione e perchè sono note? Perchè nel Trentino Alto Adige si parla anche la lingua tedesca? Perchè è famosa la Val Gardena?
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Ai confini con l’Austria
Il Trentino Alto Adige è stato giustamente definito il regno delle montagne. Infatti tutto il territorio abbraccia catene di monti, alti bacini, una grande vallata (Adige) e una serie di solchi minori. Tra le nostre regioni è quella che si spinge più a settentrione, incuneandosi tra la Lombardia e il Veneto. Qui si trova la Vetta d’Italia, punto estremo nord del territorio italiano. Osserviamo sulla cartina il complesso di catene e gruppi montuosi del Trentino. Si possono notare in ciascuna le cime più elevate. Queste si trovano per lo più nella catena delle Alpi Atesine, sul cui crinale corre il confine con l’Austria. Ricordiamo soltanto la Palla Bianca, il Pan di Zucchero, il Pizzo dei tre Signori con candide colate di ghiaccio. Nessuno oltrepassa i 4000 metri, eppure nel loro complesso danno un quadro di poco inferiore per asprezza a quello visto nella cerchia piemontese. Del resto è un fatto da segnalare che man mano le Alpi si avvicinano alla loro conclusione ad oriente, vanno notevolmente abbassando le loro vette. In questo tratto si aprono tre valichi di grande importanza per il traffico transalpino: il Passo di Resia, il Brennero, e il Passo di Dobbiaco; il primo percorso da strada, e gli altri due da strada e ferrovia. Pure importanti per le comunicazioni con la Lombardia sono i Passi dello Stelvio e del Tonale, posti tra i gruppi dell’Adamello e dell’Ortles-Cevedale, sul lato occidentale. Il quadro alpino più splendido, il Trentino Alto Adige ce lo riserva sul lato orientale, dal quale si innalzano le Dolomiti. Nel loro insieme costituiscono quasi un mondo a sé, notevolmente diverso dagli altri gruppi montuosi. Si tratta di rocce di particolare formazione, di origine sedimentaria come tante del sistema alpino, ma passate attraverso altre vicende. Le Dolomiti, viste da vicino nel loro gruppi principali (il Sella, il Catinaccio, il Sasso Lungo, la Marmolada, le Pale di San Martino) presentano ora guglie slanciate, ora esili muri smerigliati, ora tozzi castelli, tra loro intagliati da paurosi strapiombi e da ripidi canaloni, ai piedi dei quali viene ad accumularsi una massa di ghiaia e di detriti che si sono staccati dalla roccia. Completa il rilievo del Trentino Alto Adige il settore meridionale, anch’esso montuoso, costituito dai più dolci e blandi contrafforti prealpini (Monti Lessini, il Pasubio, il Monte Baldo). Il fiume Adige è il grande collettore delle acque della regione: nasce al Passo di Resia e subito dopo pochi chilometri passa per un ampio solco dal piatto fondo, che si fa via via più dilatato e costituisce l’unico lembo di piano in mezzo a tante conche e declivi.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE L’agricoltura
La regione ha la sua principale fonte di ricchezza (metà del territorio ne è coperta) nel patrimonio boschivo, costituito per la maggior parte da alberi pregiati dell’abete rosso, del larice, del pino. Nel Trentino i boschi sono quasi tutti di proprietà comunale, così fa garantire un’equa distribuzione del reddito tra la popolazione locale; prevale invece la proprietà privata nei boschi dell’Alto Adige. Pur presentando il paesaggio vaste e verdi estensioni prative, l’allevamento del bestiame non raggiunge un livello eccezionale; le mandrie bovine vivono durante l’estate negli alti pascoli e in quelli bassi in primavera e in autunno; molti di questi pascoli, come i boschi, sono di proprietà comune. Le vallate della regione hanno un’eccellente produzione di frutta; in particolare, uva e mele; ovunque è possibile si sviluppa la coltivazione dei cereali e delle patate.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE L’allevamento del bestiame
Nel modo di vita dei montanari, l’allevamento del bestiame appare una caratteristica importante. I villaggi non grossi sono siti in prevalenza nei fondi vallivi; attorno ad essi si stendono minute scacchiere di campicelli, scacchiere evidenti al momento della maturazione delle messi, quando i riquadri assumono colori diversi (orzo e segale, patate, ortaggi, ecc.). Ma le risorse propriamente agricole sono in genere tutt’altro che sufficienti. Ed ecco, ben connaturato con l’ambiente alpino, l’allevamento del bestiame bovino (quello delle pecore e delle capre ha perduto via via d’importanza): nei fondovalle, sui coni e sulle prossime falde si coltivano piante foraggere col sussidio dell’irrigazione, pratica molto diffusa nelle Alpi; radure, appositamente aperte nella fascia boschiva, offrono pascolo e prati da sfalcio; le praterie superiori al limite del bosco costituiscono una vera riserva di erba estiva, in genere utilizzata direttamente col pascolo, portandovi il bestiame dei villaggi.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Trento
Trento, capoluogo della regione, sorge sull’Adige, tra una magnifica schiera di monti. Ha notevoli monumenti, quali il Duomo (dedicato a San Virgilio), il Castello del Buon Consiglio, la Chiesa di Santa Maria Maggiore, il Monumento a Dante (eretto nel 1896, sotto la dominazione austriaca), il monumento a Cesare Battisti, cui la città diede i natali.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Bolzano
Situata in un’ampia conca, sulla destra dell’Isarco, è città di aspetto moderno, attivo centro industriale, commerciale e turistico, importante nodo di comunicazioni. Vi si tene annualmente una Fiera Campionaria Internazionale. Ha bei monumenti, tra cui il Duomo, Castel Roncolo (uno dei più belli dell’Alto Adige), il monumento alla Vittoria.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Cittadine del Trentino
Centri notevoli della regione sono: Rovereto, vecchio centro industriale del setificio e patria del filosofo Antonio Rosmini; Merano, in posizione incantevole e dal clima mitissimo; Bressanone, nota stazione climatica; Riva, adagiata sulla sponda del lago di Garda e centro alberghiero; Arco, dominata da un’asperrima rupe su cui troneggiano e rovine di una rocca, che ha dato i natali al grande pittore Giovanni Segantini; Levico, famosa per le sue acque minerali terapeutiche, alle sorgenti del fiume Brenta, dominata dalle montagne degli altipiani vicentini che le stanno di fronte; Molveno, sulla riva del lago omonimo, che ebbe origine dallo sbarramento di una enorme frana preistorica (oggi è stato sbarrato, per alimentare un’imponente centrale idroelettrica); Fiera di Primiero, notevole centro di villeggiatura nella Valle del fiume Cismon, ai piedi del villaggio turistico di San Martino di Castrozza e del gruppo dolomitico delle Pale di San Martino.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Trento
Quella graziosa, gaia, linda città che è Trento congiunge nel suo aspetto lo spirito montanaro, un avanzo d’ordine austriaco ed il pittoresco del Veneto. Non è ricca, eppure le strade sono ben asfaltate, hanno la pulizia cristallina delle Alpi. Contemplo con piacere le antiche case, con facciate dipinte di figure. Nei giorni di sole il castello del Buon Consiglio riacquista letizia benchè chiuda fra le sue mura la tomba di Battisti e degli altri martiri. Ma bisogna vedere al buio il palazzo Tabarelli che fu, secondo la leggenda, eretto dal diavolo in una notte. Piace ai trentini andare in gita a Castel Toblino… oppure nella Val Rendena, verso Madonna di Campiglio, in cui si vedono chiesette con le pareti esterne ricoperte di affreschi popolari che fanno pensare al Messico. (G. Piovene)
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Bolzano
Percorrendo in treno il canale alpino che va da Trento a Bolzano, ci vien fatto di immaginare come venti secoli fa le legioni imperiali con le lance e le insegne romane, e i manipoli di cavalieri, risalissero questa valle, attraverso pantani, tempeste e orrori di un’epoca presso a pressapoco antidiluviana. Ecco infatti venirci addosso le Dolomiti che fiancheggiano la strada ferrata: ci si parano dinanzi, a tratti, improvvise di luce, ciclopiche. Rosse, rosee, cineree pareti da scalare con le corde e la piccozza. Lassù, inaccessibili, sull’orlo degli abissi, sporgono la testa ogni tanto i fortilizi italiani, eccelsi nell’azzurro come il Walhalla. Sotto le Dolomiti, nelle verdi e piane pezze di terra c’è la vigna bassa e fitta, coi tralci distesi e tirati a tetto come si sua nelle colline dei Castelli romani (le graticciate di ferro della linea a fili elettrici, gli orti carichi e pieni di grosse mele rosse) e le acque correnti limpide come il cristallo. Qui si comincia a respirare, a narici dilatate, la famosa aria di Bolzano. Quest’aria fina e leggera dalla carezza fredda, quest’arietta frizzante e movimentata, che con la complicità del vinello che c’è da queste parti ti fa venire il naso rosso, che ti assidera un po’ le orecchie, pura al cento per cento. Bolzano è chiusa, circondata da alte montagne. La vallata è profonda, circoscritta; più che una valle è un buco. Nelle ere geologiche qui c’era forse un lago, un serbatoio naturale di acque, di fango e di mostri anfibi di una specie umida e favolosa, perduta ormai per sempre; adesso c’è un clima asciutto, secco, l’aria pungente e pura e il fiume Isarco: velo trasparente d’acqua che le vivaci trote risalgono. Qui tutto esprime la gioia di vivere: i grandi alberi con il fogliame così pulito e risplendente di freschezza che si direbbe l’abbian messo in bucato e poi ad asciugare sotto il tenero sole di Bolzano; le fontane di acque alpine che scrosciano davanti alla stazione; il largo e tranquillo traffico degli uomini e delle automobili. (B. Barilli)
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE La campana dei caduti
Nella Val Lagarina, in prossimità di Trento, giace Rovereto, industre cittadina lambita dall’Adige. Tra i monti dei dintorni, alcuni portano nomi che ricordano l’eroismo e la tenacia dei soldati italiani durante la prima guerra mondiale: il Pasubio, l’Altopiano di Asiago, la Cima Dodici, che furono teatro di battaglia tra le più aspre che insanguinarono i monti della patria. Oggi Rovereto lavora tranquilla e operosa nella sua conca, battuta dal sole implacabile dell’estate e dai rigidi venti dell’inverno; ma non dimentica i Caduti di quelle epiche lotte sostenute per l’indipendenza di quell’estrema regione d’Italia. Glieli ricordano i 36 cimiteri di guerra che la circondano; gliela ricorda Maria Dolente, la campana che ogni sera batte cento rintocchi in loro memoria e in memoria dei Caduti delle guerre di tutto il mondo. Fusa nel bronzo dei cannoni degli eserciti che parteciparono alla prima guerra mondiale e benedetta con l’acqua dei fiumi e dei mari che furono testimoni delle più aspre battaglie, i suo i rintocchi sono come voce di madre che implori la pace per i figli diletti.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Un po’ di geologia
Le Dolomiti costituiscono un mondo alpino a sé stante sia per confermazione geologica che per aspetto. Esse devono il loro nome al geologo Deodat Gratet de Dolomieu che, per primo, ne studiò la complessa costituzione. Alla cosiddetta “dolomia principale”, che è l’elemento più evidente, si intercalano rocce tenere e rocce calcaree: mentre le prime offrono una limitata resistenza all’incessante opera modellatrice degli agenti esogeni, cioè all’azione di ghiacci, delle piogge e del vento, le rocce calcaree rimangono nettamente staccate, compatte su estese fasce e falde di detriti e di ghiaia. Nel paesaggio dolomitico, quindi, mancano i grandi altipiani, appaiono raramente le creste continue e i fianchi ampi e poderosi arrotondati dalla millenaria azione dei ghiacciai. Le Dolomiti sono il regno delle moli isolate, delle cime dagli aspetti più complessi, più strani, più irreali: guglie slanciate e tozzi castelli, miri sottili ricamati da aerei trafori e bastioni poderosi come giganteschi contrafforti. E strana, pittoresca è la nomenclatura che ben si s’addice alla singolarità del paesaggio: piz (pizzo), croda (roccia nuda, parete), pala (parete rocciosa), cadin (conca) giaroni (falde di ghiaia).
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Strade dolomitiche
Non ci sono ghiacciai sulle dolomiti: ci sono laghetti azzurri, scuri abeti secolari, pascoli verdi e nudi picchi di roccia. Sono rocce rosa, grige, color oro o color sabbia, a seconda del sole; sono rocce solide e potenti o guglie sottili in bilico sui declivi erbosi; sono talvolta strane moli che sembrano, con il variare delle luci, cattedrali o castelli. E fra queste rocce, fra questi abeti, fra questi pascoli si inerpicano le strade dolomitiche; salgono ai valichi famosi, al Pordoi, al Rolle, al Falzanego; vengono dalla Val Gardena, dalla Val Pusteria, dal Lago di Carezza, vanno verso Cortina d’Ampezzo, verso l’incanto di Misurina. (A. Danti)
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE La leggenda dell’edelweiss
Nelle Dolomiti viveva un re il cui figlio sognava da anni di andare sulla Luna. Un giorno il principe riuscì a realizzare il desiderio, aiutato da due strani omini che però lo avvisarono: “Non resterai a lungo lassù; lì è tutto bianco ed abbagliante e ci perderesti la vista”. Infatti dopo non molto tornò sulla Terra, portandosi in sposa la figlia del re della Luna, che era bellissima e diffondeva, attorno a sé, una gran luce bianca. La principessa aveva recato certi fiori bianchi che sulla Luna coprivano campi e monti come uno strato di neve. E questi fiori si diffusero per tutte le Alpi; gli Italiani li chiamano “stelle alpine” e i Tedeschi “edelweiss”.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Dimore di pastori nel Trentino
Nella zona dei prati e dei pascoli di alta montagna sono comuni le “malghe” e le “manzare”, dimore temporanee che servono per la monticazione estiva rispettivamente delle mucche da latte e delle bestie asciutte. Le malghe constano di solito di due fabbricati costruiti di muro e coperti con tetti di scandole, ossia assicelle di legno; uno, il maggiore, è la stalla. In esso si tengono chiusi gli animali durante la notte. L’altro, più solidamente costruito e meglio riparato, è la malga propriamente detta, dove vivono e dormono il malgaro con la famiglia e talvolta anche i pastori. I locali essenziali sono tre: la cucina, dove si lavora il latte; il locale dove si conserva il formaggio e quello dove si mette il latte ad affiorare. Nella cucina trovi un primitivo focolare formato da tre o quattro sassi grossi, intorno al quale ci sono delle rozze panche. E’ il focolare d’uso privato, dove i pastori e il malgaro si preparano i pasti: immancabile la polenta di granoturco, meno frequente di grano saraceno, che si mangia col formaggio o col latte o con la ricotta. Su una tavola, spesso fissata al muro, e su rozze mensolette trovi disposte le scodelle e le ciotole di terracotta, il vasetto del caffè e quello del sale. In un canto la padella e il paiolo di rame. Di fronte al focolare, in una rientranza del muro, c’è la caldaia di rame, di grandi dimensioni, ove si riscalda il latte spannato e si prepara il formaggio. Vicini alla caldaia si vedono dei bastoni a un’estremità dei quali sono infissi, a raggiera, dei pioli: sono gli strumenti che si adoperano per la cagliata, adattissimi a smuovere la massa che va cuocendo. Essenziale in una malga, oltre la caldaia, è la zangola, una specie di botticella girevole sopra un sistema di leve, nella quale si batte la panna per trarre il burro. Completano l’arredamento della cucina: la cassapanca dove si tengono le farine, i secchielli che si usano per mungere il latte, il ceppo con l’accetta per spaccare la legna, le schiumarole di legno per spannare il latte, il brentone (grande mastello dove si conserva il siero), qualche mestolo di legno col mestolone della polenta. Annesso alla cucina è il locale dove si mette il latte appena munto, tenendovelo dalla sera alla mattina, affinché vi faccia la panna. Si procura che il locale sia fresco scegliendolo a tramontana e facendovi scorrere l’acqua per dei canaletti scavati nel suolo. Vicino al locale del latte c’è il locale dove si conserva il formaggio, collocato su mensole di legno alte da terra e sostenute da paletti conficcati trasversalmente nel muro. (L. Bertagnolli)
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Un lago rosso
Le acque del laghetto di Tovel, nelle dolomiti, ogni estate si fanno di color rosso sanguigno. Nulla di strano! E’ il clenodio, animaletto microscopico che in questa stagione si moltiplica enormemente, a dare questa tinta a quell’acqua, giacché il clenodio è rosso e d’estate si ammassa sulla superficie dell’acqua. Non abbiamo quindi solo il Mar Rosso che deve il suo nome a un fenomeno molto simile, ma anche il Lago Rosso.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Fauna e flora trento-atesina
Limitandoci a percorrere le strade, non troveremo che animali e piante comuni. E’ nei boschi, cominciando dai 500 metri di altezza e, via via salendo fino ai 3000, che potremo imbatterci in lepri grige e bianche, in caprioli, in marmotte, in volpi, in tassi, in orsi, in rettili, in cervi e, là dove si elevano le rocce, anche in qualche esemplare di camoscio. Fra gli uccelli potremmo incontrare l’aquila, il gallo cedrone, il francolino, la starna, la coturnice, il lucherino. Tra i numerosi pesci di fiume e di lago ricordiamo la trota, il salmerino, il carpione, la carpa, la tinca, il barbo,… Per la flora ricorderemo, accanto all’olivo che prospera sulle rive del Garda, il cipresso, l’alloro, il rosmarino, il fico, il cappero, e, accanto alla stella alpina, il rododendro, la sassifraga, la primula, la campanula, il nasturzio, la genziana. La fioritura dei pascoli alpini, meravigliosa, è una delle più gentili attrazioni della regione.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Il Trentino Alto Adige
Meravigliosi panorami montani, aperti pascoli, folte foreste: ecco quello che ci ricorda il nome di questa regione. Ma, soprattutto, vediamo il magico gruppo delle Dolomiti con le loro pareti a picco, profondamente incise dalle piogge e dai venti, coi loro pinnacoli aguzzi che le fanno somigliare a cattedrali immense, con la loro colorazione di madreperla, sempre variante dal rosa al viola, talora squillante in toni di fiamma. Nessuna meraviglia se l’industria alberghiera prospera in questo paese e ne costituisce la principale risorsa.
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Frutteti Alto Atesini
Il treno fila veloce nell’ampia vallata dell’Adige tra il succedersi di grosse e piccole borgate, di vigneti, di frutteti e campicelli di granoturco. Tutta la vallata è il regno della frutta. I più intraprendenti frutticoltori per ottenere un prodotto perfetto, per avere cioè mele senza il più piccolo difetto, quando il frutto di primavera è ancora piccino, lo racchiudono in un sacchetto di carta cerata che lo protegge dalle eventuali nebbie e dalle punture degli insetti, e lo lasciano fino a quando il frutto può dirsi maturo. Ma dentro al sacchetto di carta il frutto rimane verde, e perciò un po’ prima della raccolta, si tolgono uno ad uno i sacchetti che a centinaia pendono da ogni albero, perchè le mele acquistino il bel roseo e il giallo dono del sole. Bisognerebbe essere qui all’inizio della primavera, quando fioriscono mandorli, pruni, peschi, ciliegi, peri e meli. La valle è tutta un fiore, ed è uno spettacolo meraviglioso. (G. Assereto)
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Dolomiti
Variano ad ogni variare delle ore, hanno la stessa mutabilità del mare. Il vento, le nubi, il giorno, la notte, il sole e la luna le riplasmano ad ogni istante. A volte tra cumuli di nubi grigie la luce scende perpendicolarmente e rasente illuminando le erte pareti di barlumi freddi come nell’interno di una cattedrale; contro la prima luce dell’alba appaiono nere, informi ed immiserite, ma poi il sole arriva a definirle precise in ogni contorno, accendendo nell’azzurro nettissimo il rosso aragosta delle spaccature profonde. Nel pomeriggio con calde nubi immobili le cime si inombrano tra squarci di sole, ma la loro massiccia potenza è nelle giornate di tempesta: allora tra l’irto delle punte è formidabile il tumulto di sublimi battaglie. (G. Comisso)
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE La valle dei giocattoli
Val Gardena! Una guida avverte il viaggiatore che fino a non molti anni fa si esportavano da qui settecento quintali di lavori in legno scolpito, ci cui la metà tra santi e altari e metà giocattoli- Trecentocinquanta quintali di giocattoli per anno! Oh, valle di delizia! Valle di sogno! Per secoli questa gente è cresciuta in mezzo a questo silenzio di nevi tra invenzioni ilari e gioconde, ideando buffi congegni e personaggi gaudiosi, per l’estro sempre accesso e rivolto ad una gioia di bimbo, o al suo stupore ingenuo e ridente. Ed ha inondato il mondo di questo riso fecondo. (G. Cenzato)
Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE Bolzano
Bolzano è opulenta, moderna. Ma la sua bellezza è gotica: le sue vie fiancheggiate di portici, abbellite non tanto da questa o da quella costruzione, quanto dal movimento degli angoli e dalle sporgenze che creano fondali e teatro, giochi di luce. Il suo sapore viene dall’incontro di questo sfondo con l’emigrazione italiana. Una folla irrequieta, petulante, variabile, che parla forte in diversi dialetti, si esibisce, gesticola, litiga, simile a un o sciame di maschere nello scenario opaco delle case e degli animi locali. Appare nel contrasto più meridionale. Bolzano è una città di montagna dell’Austria a cui si sovrappone un porto levantino. (G. Piovene)
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Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA, di autori vari, per bambini della scuola primaria.
Osserviamo la cartina
Confini: Svizzera, Trentino Alto Adige, Veneto, Emilia, Piemonte Monti: Alpi Centrali (Lepontine, Retiche, Orobie); Prealpi Lombarde (Bergamasche e Bresciane) Cime più alte: Bernina, Disgrazia, Ortles, Cevedale, Adamello (Alpi Centrali); Grigna settentrionale, Resegone, Presolana (Prealpi Lombarde) Valli: Valle del Ticino, di San Giacomo, Val Bregaglia, Valtellina, Val Camonica (Alpi); Val Brembana, Seriana, Trompia (Prealpi) Valichi: Spluga, Maloggia, Aprica, Stelvio, Tonale. Colline: del Varesotto, della Brianza, del Garda, Oltrepò Pavese Pianure: Padana, con alcune zone ben delimitate (Lomellina) Fiumi: Po. Affluenti di sinistra: Ticino, Olona, Lambro, Adda con l’affluente Serio, Oglio con gli affluenti Mella e Chiese, Mincio. Canali: Naviglio Grande, Naviglio Pavese, Naviglio della Martesana, Canale Villoresi Laghi: Lago Maggiore (lombarda solo la sponda orientale), Lago di Lugano (lombardi i rami estremi), Lago di Como, Lago di Garda (lombarda solo la sponda occidentale), Lago d’Idro, Lago di Monate, Lago di Comabbio, di Pusiano, d’Annone, d’Endine, di Varese.
La Lombardia deve il suo nome ai Longobardi, che la occuparono nell’anno 568 e posero in Pavia la loro capitale. La Lombardia confina ad ovest col Piemonte, a nord con la Svizzera, ad est con l’Alto Adige, il Trentino ed il Veneto, a sud con l’Emilia. La parte settentrionale di questa regione è montuosa, comprende le Alpi Lepontine, le Retiche e le Orobie, che degradano nelle Prealpi Lombarde, percorse da amene valli ed adornate da pittoreschi laghi; la parte meridionale della Lombardia si estende nella Pianura Padana, irrigatissima. Solo nell’estremo lembo dell’Oltrepò Pavese si allunga l’Appennino Ligure. Dalle Alpi scendono vari corsi d’acqua, tutti affluenti di sinistra del Po ed in genere immissari ed emissari dei laghi. Si ha, al confine col Piemonte, un buon tratto di Lago Maggiore (la sponda orientale) da cui esce il Ticino; pure lombarda è una piccola porzione di costa del lago di Lugano. Dal lago di Como scende l’Adda, dall’Iseo l’Oglio, dal Garda il Mincio, che segna il confine col Veneto; da ricordare anche i fiumi Brembo, Serio, Chiese e Mella. La regione, a breve distanza dagli scali marittimi di Genova e di Venezia, è pure centro di un grande traffico commerciale, ed occupa i primi posti nelle attività industriali e nell’economia del nostro Paese.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Economia
Anche la Lombardia, come il Piemonte, comprende tre zone: la montuosa, la collinare e la pianeggiante. La zona alpina, ricca di pascoli, favorisce l’allevamento del bestiame, il quale, praticato con criteri razionali anche in pianura, permette di ottenere una sempre maggiore produzione di latte. Sulla collina e in pianura si producono in abbondanza uva, frutta, granoturco, frumento, foraggi, riso, barbabietole da zucchero e ortaggi. L’industria è molto sviluppata, in ogni settore produttivo. Modesti sono invece i prodotti del sottosuolo. Il commercio è molto attivo ed è favorito da una fitta rete di vie di comunicazione (stradali, ferroviarie ed aree).
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Province della Lombardia
La Lombardia è divisa in dodici province. Milano è un grandissimo centro industriale e commerciale, tra i maggiori d’Europa. Oltre le sue industrie, la città vanta splendidi monumenti e insigni opere d’arte. Bergamo, la “città dei mille”, posta trai fiumi Brembo e Serio, raccoglie e commercia i prodotti delle sue ricche e laboriose vallate prealpine. Brescia, detta “leonessa d’Italia”, sorge allo sbocco della industriale Val Trompia, al limite delle Prealpi e la fertilissima pianura. Ha notevoli complessi industriali, tra i quali primeggiano le fabbriche di armi. Como, sul lago omonimo, fu patria di Alessandro Volta. Nota per le seterie, è un notevole nodo stradale e ferroviario situato a poca distanza dal confine svizzero. Cremona, importante per le sue industrie alimentari, fu patria dei più celebri liutai d’Europa. Anche oggi vi si fabbricano violini e pianoforti. Lecco è celebre per essere il luogo in cui Alessandro Manzoni ambientò il romanzo de I Promessi Sposi, che costituisce la più significativa eredità culturale lecchese, oltre ad affermarsi fra Ottocento e Novecento come uno dei primi centri industriali in Italia. Lodi è un importante nodo stradale e centro industriale nei settori della cosmesi, dell’artigianato e della produzione lattiero-casearia. È inoltre il punto di riferimento di un territorio prevalentemente votato all’agricoltura e all’allevamento. Mantova, nei cui pressi, a Pietole, nacque Virgilio, è posta sul Mincio. La sua provincia ha un’economia prevalentemente agricola. La provincia di Monza e della Brianza è stata istituita nel 2004, ed è divenuta operativa nel 2009 con l’elezione del primo consiglio provinciale. E’ nata dallo scorporo di una porzione di territorio della allora provincia di Milano. Capoluogo della provincia è Monza, già residenza estiva del regno longobardo all’epoca di Teodolinda e Agilulfo. Pavia, la romana Ticinum, è mercato agricolo e città industriale. E’ anche sede di una famosa Università. Sondrio, sul fondo dell’ampia Valtellina, è città rinomata per l’industria enologica, le centrali elettriche ed i boschi che danno prezioso legname. Varese, la gemma delle Prealpi, situata tra i laghi di Varese, Maggiore e di Lugano, è centro turistico, ma soprattutto industriale.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Per il lavoro di ricerca
Come si presenta il territorio della Lombardia? Quali gruppi montuosi vi si elevano? Quali ne sono le cime principali? Nomina i principali valichi alpini che permettono le comunicazioni fra la Lombardia, lo Stato confinante e le altre regioni. Quali sono oltre al Lago di Como gli altri laghi della Lombardia? Come si chiama la grande pianura che si estende nella parte meridionale della Lombardia e che è anche la più vasta d’Italia? Da quali fiumi è solcata? Segui il corso dell’Adda dalla sorgente: come si chiama la valle entro cui scorre nel primo tratto? E il lago di cui è immissario? Come si chiama il canale che collega le sue acque con quelle del Ticino? Di quale fiume è affluente l’Adda? Quali sono le principali attività economiche della regione? Quali sono i principali prodotti agricoli? Perchè è famosa la fiera di Milano? La regione vanta complessi industriali famosi non solo in Italia, ma in tutto il mondo: ricordi i principali? Ricerca notizie sull’artigianato, le tradizioni, gli usi e i costumi della Lombardia. Quante e quali sono le province in cui è suddivisa la Lombardia? Per che cosa è nota la città di Como? E Cremona? E le altre province lombarde? Da Milano si irradiano grandi autostrade: verso quali città? Osserva le linee ferroviarie che partono da Milano in direzione est, ovest, nord, sud: quali centri collegano? Dovendoti recare da Mantova a Varese quali città attraverseresti? E se da Voghera volessi giungere a Brescia quali fiumi dovresti attraversare?
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA La Lombardia
La Lombardia, coronata dalle Alpi Lepontine e Retiche e limitata dall’ininterrotta via d’acqua Garda-Mincio-Ticino-Po, è terra aperta e luminosa, tutta pervasa da un ritmo febbrile di vita. Nessun’altra regione, forse, come questa, presenta condizioni tanto diverse: pianura, collina, montagne, nettamente delimitate; centri fragorosi di industrie e commerci come Milano e Brescia, e quiete cittadine prevalentemente rurali come Lodi e Mantova, ostinatamente impegnate nella grande battaglia da cui gli uomini traggono il pane. In Lombardia si trova il maggior numero di laghi alpini; sono lombardi infatti i laghi di Como e d’Iseo, tutta la parte italiana del lago di Lugano, la riviera orientale del lago Maggiore e quella occidentale del lago di Garda. (C. Paci)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Le vie di comunicazione
Da Milano si irradia una fittissima rete di strade, autostrade e ferrovie dirette verso le altre regioni italiane e verso l’estero. A Milano fanno capo le autostrade per Torino, Varese, Como, Bergamo, Brescia, Verona, Padova, Mestre, Trieste, Napoli (autostrada del sole) e Genova. Tutta la regione è solcata da strade statali e provinciali: importanti sono quelle dirette ai passi dello Spluga (Svizzera), dello Stelvio e del Tonale (Trentino Alto Adige). Milano è nodo ferroviario di importanza internazionale per tutte le linee che si diramano verso il Sempione, il San Gottardo e gli Stati dell’Europa occidentale e orientale, e, attraverso la Pianura Padana, lungo tutta la penisola. La Lombardia è servita dagli aeroporti della Malpensa e di Linate, nei pressi di Milano.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Le vie d’acqua
Quando le strade erano scarse e mancavano motori e treni, esistevano già in Lombardia alcune assai utili vie d’acqua. Il Naviglio Grande è forse il più antico dei canali: risale al 1777 ed ha una lunghezza di 150 chilometri. Esce dal Ticino e giunge a Milano, a Porta Ticinese; fu questo naviglio che permise di trasportare da Candoglia, presso Fondotoce sul Lago Maggiore, i marmi per il Duomo, su ampi barconi. Il Naviglio di Pavia congiunge Milano col Ticino, che confluisce nel Po. Attraverso questa via d’acqua si poteva raggiungere il Mare Adriatico. Il Naviglio della Martesana esce dal fiume Adda in vicinanza di Trezzo e giunge quindi a Milano. Fu ideato e voluto, nel 1460, da Francesco Sforza; venne prolungato da Ludovico il Moro. Questo naviglio prese il nome del contado della Martesana, che attraversa. Il Canale Villoresi serve ad unire il Ticino con l’Adda. Le sue acque rendono più fertile la bassa Brianza. Fu iniziato nel 1881 e porta il nome del suo ideatore.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Il lago di Como
Chi ha vissuto una sera d’estate in riva a un lago sa che cosa sia la beatitudine. Un calore fermo, avvolgente, sale in quell’ora dalle acque che sembrano lasciate lì, immobili e qua e là increspate dall’ultimo fiato di vento che il giorno andandosene ha esalato, e il loro aspetto è morto e grigio. Si prova allora, più che in qualunque altro istante della giornata, quella dolce infinita sensazione di riposo auditivo che danno le lagune, dove i rumori non giungono che ovattati.. Come sanno d’acqua le parole che dicono i barcaioli che a quell’ora stanno a chiacchierare sulla scaletta! Come rimbalzano chiocce nell’aria! I rintocchi delle squille lontane attivano all’orecchio a grado a grado e rotondi, scivolando dall’alto del cielo pianamente a guisa di lentissimi bolidi. La sera scorre placida, è tutta un estatico bambolarsi, un fluire di cose silenziose a fior d’acqua. Naufraga d’un tratto in un chiacchiericcio alto, intenso, diffuso, simile al clamore di una festa lontana, appena si accendono i lampioni, tra le risate e le voci varie e gaie che escono dagli alberghi dopo cena e il fragore allegro di un pianoforte che giunge dall’altra riva. Poi tutto sfuma e rientra ben presto nel gran silenzio lacustre, dove più non si ode che il battere degli orologi che suonano ogni quarto d’ora, a poca distanza l’uno dall’altro, da tutti i punti della sponda, e quel soave, assiduo scampanio delle reti che i pescatori lasciano andare di sera alla deriva, che fa pensare insistentemente a un invisibile gregge in cammino. Nelle notti di luna piena i monti che non la ricevono sono cento volte più neri e le vie ed i viottoli della campagna paiono tante scie di lumaca. (V. Cardarelli)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Agricoltura
Nel settore agricolo la Lombardia è ai primi posti tra le regione italiane. Ciò è dovuto sia a motivi d’ordine naturale (la grassa terra padana, l’abbondanza di acqua e le tiepide risorgive) sia ad una razionale organizzazione del lavoro umano, che si avvale dei più moderni ritrovati meccanici e chimici (macchine, concimi ecc…). Nell’alta pianura, dove sono stati scavati numerosi canali, si produce mais; nella bassa grano e riso. La produzione di foraggi, ingentissima, è favorita dalle marcite, ove, sfruttando l’acqua delle risorgive (18° di temperatura) si attuano sette o otto raccolti l’anno. Notevole anche la produzione di barbabietola, canapa, ortaggi, patate e legumi. In regresso è la cultura del gelso per l’allevamento del baco da seta; molto sviluppato è l’allevamento dei bovini. Sviluppatissima è l’industria dei latticini, con lo scarto dei quali di confezionano mangimi per l’allevamento dei suini. Nelle colline vi sono frutteti e vigneti; attorno ai laghi il clima permette la coltivazione di olivi e agrumi.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA La marcita
E’ una speciale caratteristica coltura a prato della regione lombarda. La denominazione deriva dal pratum marcidum, cioè terra bassa, con acque non del tutto stagnanti. L’osservazione, assai antica, del persistere di una certa vegetazione a prato, anche durante il periodo invernale, fece sorgere l’idea dell’irrigazione in tempo d’inverno, usufruendo della abbondanti acque del terreno. Dapprima si trattò di distribuire meglio l’acqua sorgiva (della zona dei fontanili), favorendone anche il deflusso. Si attribuisce a San Benedetto ( secoli V – VI) il merito di aver insegnato ai contadini lombardi i metodi di tale coltura, ma i maggiori perfezionamenti si ebbero più tardi, nel secolo XIX, con l’attuazione di impianti di irrigazione, studiati per tale scopo. D’inverno le marcite si presentano verdeggianti, perchè sono irrigate dall’acqua delle sorgive che hanno una temperatura relativamente elevata, che impedisce il gelo. Importanti marcite si trovano nei dintorni di Melegnano; questa zona viene irrigata dalle acque della Vettabbia, che attraversano Milano. Con il sistema delle marcite si possono avere vari raccolti di erba falciata; in genere da sei a otto tagli.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Milano
Milano è il capoluogo della Lombardia. E’ una città movimentatissima e di aspetto moderno. Annualmente vi si teneva la Fiera Campionaria Internazionale, che era tra le più importanti nel mondo. Attualmente la Fiera di Milano è costituita dai due poli espositivi di Fieramilano (situato in un’area al confine tra i comuni di Rho e di Pero) e di Fieramilanocity (situato nel quartiere Portello del comune di Milano). E’ il polo fieristico più grande d’Europa. Vanta quattro Università e il Teatro alla Scala, uno dei più celebri teatri lirici del mondo; ospita numerose gallerie d’arte, musei di eccezionale interesse, e parecchie manifestazioni culturali. Ha grandiosi monumenti, tra cui lo splendido, marmoreo Duomo, con la famosa Madonnina dorata sulla più alta guglia; poi la Basilica di San Lorenzo, la Basilica di Sant’Ambrogio, la Chiesa di Santa Maria delle Grazie (con il Cenacolo di Leonardo), il Palazzo della Ragione, il Castello Sforzesco, il Palazzo di Brera, la Galleria Vittorio Emanuele II.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Milano, città che risorge
Durante la seconda guerra mondiale, Milano, che ormai superava il milione di abitanti ed era il più importante centro industriale d’Italia, subì una lunga serie di bombardamenti aerei, molti dei quali a tappeto, che la distrussero in gran parte. Quando la guerra finì, la città appariva come svuotata: i muri superstiti, con le occhiaie vuote delle finestre che lasciavano vedere il cielo, si levavano dritti come quinte di un tragico scenario. Le vie erano sconvolte e intasate dalle macerie, i servizi quasi inservibili, la popolazione viveva ammucchiata nelle poche case ancora abitabili e rabberciate alla meglio, senza vetri alle finestre, con i tetti sconnessi e gocciolanti, e porte scardinate; oppure abitava nei paesi dei dintorni e si sottoponeva alla fatica di continui viaggi con mezzi di fortuna, pur di non abbandonare il lavoro, sperando in un domani migliore. Questo domani migliore è venuto per merito soprattutto della febbrile attività dei Milanesi. Milano si merita davvero il soprannome di “capitale morale d’Italia”.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Il duomo di Milano
Chi non l’ha veduto se non in fotografia, quando gli si trova davanti prova un senso di stupore, quasi di sgomento. Possibile che dei piccoli uomini, unendo marmo a marmo, abbiano elevato una montagna simile, traforata come un gioiello, gremita di statue, fiorita di ricami aerei, candida di un candore roseo di carne e di un biancore azzurrino d’argento? E’ possibile sì, ragazzi miei, perché quei piccoli uomini avevano due cose che smuovono le montagne: fiducia e genio. Entriamo ora nel tempio. Cinque navate immense; una selva di piloni colossali che si ramificano, lassù, a reggere le volte venate come foglie, e, tutt’attorno, finestroni eccelsi che riversano raggi colorati dalle vetrate incandescenti di rubino e d’azzurro, nella penombra piena di mistero. Ma poiché siamo a Milano voglio dirvi alcuni numeri precisi che vi faranno sgranare gli occhi: sapete quanto è lungo il Duomo? Centocinquantotto metri. Sapete quanto è alto, dal suolo alla corona di stelle della Madonnina? Centootto metri, l’altezza di un colle. Sapete quanti sono i finestroni esterni? Centosessantanove, per servirti. E quante le guglie? Centoquarantacinque. E quante le statue? Circa tremilacinquecento, la popolazione di un paese. E indovina indovina… quanto pesa? Pesa centottantaquattro milioni di chilogrammi. Non uno di più né uno di meno. (G. E. Mottini)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Città dell’eterna giovinezza
Pavia è la città goliardica per eccellenza. Molte altre città italiane hanno, tra le loro mura, un Ateneo: qualcuna può anche vantare un Ateneo più insigne di questo pavese, per anzianità e per il nome di qualcuno dei suoi Maestri. Ma forse nessuna città italiana vive, come Pavia, dei suoi studenti. Si direbbe che essa respiri del respiro del suo Studium. D’estate, per esempio, svuotata com’è di tutta la sua ventenne popolazione goliardica, quando i porticati dell’Università si allungano deserti e silenziosi intorno ai cortili quadrati dove ancora l’erba tenera cresce tra i sassi bianchi; quando nelle aule addormentate non s’ode che il ronzio di qualche moscone che danza nel pulviscolo d’oro di un raggio di sole, e le cento lapidi che tappezzano i muri si rimandano l’una con l’altra gli elogi dei grandi Maestri che vi tennero cattedra; d’estate, Pavia si direbbe che sonnecchi sulle rive del suo bel Ticino gonfio di mulinelli e di minuscoli vortici, tra i due ponti: quello nuovo che la guerra ha rispettato e il Ponte Coperto. Ma quando viene l’autunno, e lungo i boschi del Ticino cominciano a salire le prime nebbie azzurrine, tornano gli studenti, e la città si ravviva, il ritmo delle sue giornate di fa gioioso e vibrante, le strade si rifanno giovani, i cortili dell’Università si ripopolano, le aule si affollano, i due grandi Collegi, il Ghislieri e il Borromeo, ridiventano due giganteschi alveari di giovinezza. E’ una specie di rito, diventato, lungo il corso dei secoli, abitudine di vita. Ecco perchè a fogliare le vecchie cronache universitarie, e soprattutto le vecchie cronache di quel Ghislieri che gli studenti si tramandano con geloso amore di generazione in generazione, da quasi cinque secoli, come potrebbe una famiglia tramandare una vecchia casa che d’anno in anno si rinnova; ecco perchè si trae la sensazione che Pavia sia una città privilegiata. E’ il privilegio dell’eterna giovinezza, in fondo: una fiaccola che ogni “sfornata” di laureati consegna, occhi negli occhi, e attenti a non mancare alla consegna all’infornata di matricole. “Ragazzi” dicono i ‘vecchi’ andandosene (e chissà cosa costi loro lasciare questa cara città), “Ragazzi, noi ce ne andiamo, la vita ci chiama e sarà quel che sarà. Ma voi, che venite a riempire il vuoto che noi lasciamo; voi che raccogliete dalle nostre mani questa secolare eredità di fresca gaiezza e di gioconda primavera spirituale (primavera, sissignori, anche quando scende fitta la neve e mette gli orli di velluto bianco sulla severa facciata di San Pietro in Ciel d’Oro, e dell’incompiuto duomo del Bramante e sull’incanto romanico di San Teodoro che bisogna andare a scoprire per stradette medioevali e di quel San Francesco che è un esempio di snella gotica eleganza; e incappuccia di ermellino le statue che popolano i cortiletti dell’Università; primavera anche quando le gelide piogge sferzano le piccole piazze e le anguste strade e trasformano il corso in un torrentello che domandava dei ponticelli di legno per passare dall’uno all’altro marciapiedi): voi che raccogliete questa nostra eredità benedetta, siatene degni, continuatela con impegno, in questi indimenticabili anni che il destino vi ha concesso di trascorrere tra il Castello visconteo e il Ticino…” (G. Cornali)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Valenti armaioli a Brescia
Un tempo Brescia fu famosa in tutto il mondo per le sue fabbriche di armi. Tale industria si sviluppò perchè le valli a nord della città erano ricche di minerali, specialmente di ferro di ottima qualità. Ne approfittò particolarmente Venezia, che durante il periodo della sua massima potenza commissionò a Brescia, che le era soggetta, le sue armi migliori. Gli armaioli bresciani per due secoli fornirono gli eserciti di Venezia e di mezza Europa. La decadenza di un’industria tanto fiorente cominciò quando Brescia fu dominata dagli Austriaci i quali non permisero a un’attività tanto pericolosa per loro di prosperare. I nomi dei più valenti armaioli sono affidati alle armi da loro costruite. Così un fabbricante, Lazzarino Cominazzo, diede il nome alle canne che da lui si dicono “lazzarine” (in Brasile fino al principio del XX secolo “lazzarina” era sinonimo di pistola). Ancor oggi la pistola calibro 9 in dotazione all’esercito di chiama “Beretta”, dal nome di un noto armaiolo bresciano.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Bergamo, città sana. Uomini solidi, facce di alpini
Non si è ancora usciti da Milano, e già si arriva a Bergamo. Le lunghe ore del cammino di Renzo fino all’Adda ed oltre sono diventate, sulle fettucce di asfalto dell’autostrada, minuti, pochi minuti. Bergamo bassa, il Borgo come ancora dicono i vecchi, se ne sta appiattata nella pianura; la si sfiorerebbe, quasi senza accorgersene, se non fosse per il faro della città alta. Stretta nelle sue mura venete, adagiata su un tappeto di foschia invernale, la vecchia Bergamo sembra sospesa a mezz’aria: come l’isola volante dei viaggi di Gulliver. Il distacco tra le due città, quella alta e quella bassa, non è solo il prodotto di un’illusione ottica. E’ una realtà psicologica, economica, urbanistica. Una città con due corpi: e in un certo senso una città con due anime. Città bassa: il traffico è intenso, ma senza le punte di convulsione esasperante delle metropoli. Strade pulite, bei negozi. Chi si metta sul Sentierone respira ordine, sicurezza, dignità. Uomini solidi, facce di alpini. Gli agricoltori che vengono dalle campagne per le loro contrattazioni suggellano tuttora gli affari con pesanti strette di mano (e i mediatori, che vogliono arrivare a una conclusione, tentano disperatamente, durante i lunghi sì e no, di avvicinare l’una all’altra le grosse, callose, riluttanti mani). Gente che afferma orgogliosamente: “Non sono mai stato in tribunale né come imputato né come testimone”. Questo è il Borgo: un’appendice della vera Bergamo. Gli uffici pubblici scappano dalla città alta. Il comune è giù, la prefettura è giù, il tribunale anche. In città alta è rimasto, tra le massime autorità, soltanto il vescovo. Non è sceso e non scenderà. La domenica la vecchia Bergamo, la Bergamo alta, è gremita di gitanti. Ma nei giorni feriali la vita vi pulsa assai più lentamente che in pianura. Il tempo è misurato con un metro diverso. La sera il campanone della torre civica dà il coprifuoco con cento rintocchi. Le dimore signorili guardano orgogliosamente, dall’alto, il Borgo. Non indovinereste mai, percorrendo le strette vie, il panorama aereo che si apre davanti a queste case. Ecco palazzo Scotti: lì Gaetano Donizetti terminò il suo tragitto terreno cominciato in due bui locali bassi di Borgo Canale: “Nacqui sotto terra in Borgo Canale: si scendeva per una scala in cantino dove mai penetrò ombra di luce. E siccome gufo presi il volo”. (M. Cervi)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Varese: il cielo sui laghi
Nessuna provincia è ricca, come quella varesina, di bacini lacustri, anche se a tale ricchezza fa riscontro una relativa scarsità di corsi d’acqua. Sette sono i laghi che ingemmano il territorio della provincia. Il lago di Varese, di origine glaciale, è lungo otto chilometri e largo circa quattro e mezzo. Il lago di Biandronno ha rive piuttosto melmose ricche di torba e di canne palustri. Il lago di Monate ha limpide acque azzurre ricche di pesci. Il lago di Comabbio vanta una piscicoltura condotta con criteri razionali. Il lago di Ghirla occhieggia nella verde Valcuvia. Il lago di Delio è un piccolo specchio che se sta raccolto tra i monti di una solitaria conda nell’alto luinese. Il lago di Ganna è nascosto tra il verde della valle omonima, ed è originato da uno sbarramento morenico. Vi sono poi i grandi laghi che appartengono alla provincia di Varese solo in parte: ad est il lago di Lugano, sulle cui acque scorre in parte il confine con la Svizzera, ad ovest il lago Maggiore la cui riva destra è novarese. Il lago di Lugano, sulla sponda italiana, è ancora chiamato, come un tempo dai Romani, Ceresio. A nord è riparato dai venti freddi da alte catene montuose; a sud, una serie di colline moreniche fa da barriera alle nebbie; così sulle sue rive si gode sempre una temperatura piuttosto moderata. Dei suoi quattro rami, che si allungano fra incantevoli montagne, interessa la provincia di Varese quello che va da Porto Ceresio fino a Ponte Tresa. Grande, il lago Maggiore, dovette apparire anche ai Celti se lo chiamarono Verbano, cioè “grande recipiente”; a meno che si voglia collegare l’appellativo alle copiose erbe verbene o verbane che crescono lungo le sue sponde. Nel lago Maggiore, amministrativamente per metà novarese, come abbiamo detto, confluiscono (oltre al Ticino che vi entra presso Locarno e ne esce a Sesto Calende, e al fiume Tresa, emissario del lago di Lugano) i torrenti varesini Boesio e Bardello, il quale ultimo vi porta le acque dei laghi, pure varesini, di Biandronno e di Comabbio. Con la varietà dei suoi aspetti, ora severi, ora dolci e ridenti, il lago Maggiore ha il potere di incantare i visitatori. Antonio Stoppani, l’autore de “Il bel Paese” scriveva: “Ho veduto più volte il lago Maggiore e sempre mi è parso nuovo, sempre mi è parso bello. Ognuno vorrebbe passarvi la vita”.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Mantova
Secondo la leggenda la città fu fondata da alcuni profughi greci, tra cui la sacerdotessa indovina Manto. Mantova raggiunse grande splendore sotto i Gonzaga. Quattro sono le sue piazze monumentali: Piazza Sordello, dove si ergono il Duomo, il Palazzo Bonacolsi (signori della città dal 1273 al 1328), il Palazzo dei Gonzaga; Piazza delle Erbe con il Palazzo della Ragione, la Torre dell’Orologio e la Rotonda di San Lorenzo; Piazza Broletto con la Torre civica; Piazza Mantegna con la Chiesa di Sant’Andrea. Per chi voglia dire di conoscere l’Italia, Mantova è un punto importante. Mantova è un mondo. Mantova fu prima una città comunale, con una delle più belle piazze che sia dato vedere in Italia, la Piazza delle Erbe, tra una torre e un palazzo, tra una facciata di terracotta e un muro scabro, di quei vecchi muri compatti e nudi su cui l’azione del tempo ha descritto un lavoro suo, bello quanto una striscia istoriata da qualche grande scultore, dove la fantasia legge una storia senza immagini e senza parole precise. Vecchi muri ciechi di tutta l’Italia, dominati la notte da un lampione scialbo, questo muro di Mantova è uno dei più belli, un capolavoro del tempo e della natura. Il mercato con le osterie intorno è vegliato dalla figura di Virgilio in un bassorilievo medioevale, seduto a un banco, che svolge il suo libro. La città comunale è pressapoco tutta qui. Ma tra il Palazzo del Te, che è un padiglione e un chiosco gigantesco, e la Reggia, si ritrova il più straordinario sogno di grandezza che sia dato osservare. Sono quattordici grandi sale nel Palazzo del Te, che era una specie di casa di campagna dove si andava a passare un’ora tra le stanze decorate e i giardini; sono cinquecento stanze la Reggia, ma non c’è un solo appartamento, una sola camera che si possano chiudere a chiave, e tutto è fatto per la rappresentazione, come in certi piccoli appartamenti moderni, dove tutte le stanze sono salotti e la sera divengono tutte stanze da letto. (C. Alvaro)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Vini famosi in Valtellina
Degno complemento alla polenta taragna (cibo caratteristico della Valtellina preparato con il grano saraceno) sono i famosi vini. Infatti, nella parte della vallata esposta a sud, dalle zone pedemontane fin oltre i seicento metri, si ha la coltivazione a vigneto, con i caratteristici terrazzamenti, sostenuti sulle scoscese pendici a destra dell’Adda, da lunghi muretti di sassi che danno all’insieme l’aspetto di un’ordinata scacchiera. Di fronte a queste ordinate coltivazioni non si può trattenere un moto di stupita ammirazione, soprattutto quando si pensa che sono state create dalla costante e secolare laboriosità della gente valtellinese che lottò contro una conformazione naturale del terreno difficile, quasi esclusivamente con le sole forze fisiche, riuscendo così a strappare, anche da terre apparentemente avare, un prodotto pregiato. L’ottimo vino che si ricava da questi vigneti ricompensa però i sacrifici dei valligiani; infatti proprio da queste uve si ottengono vini squisiti, delizia dei buongustai, così da essere annoverati tra i migliori d’Italia e di godere di una certa rinomanza anche al’estero: tali sono il Sassella, il Grumello, l’Inferno, il Valgella e il Fracia.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Il torrone di Cremona
Come si può pensare a Cremona senza associarla al suo dolce tipico, il torrone, che, nelle sue confezioni così tradizionalmente conservatrici, entra, si può dire, in ogni casa d’Italia, specialmente nel periodo delle feste natalizie? Come accade per tutti i personaggi illustri di cui l’origine non sia storicamente accertata, anche per il torrone molti paesi si contendono l’onore di avergli dato i natali, e infinite sono le leggende che il popolo ha creato intorno alla sua nascita. Chi lo vuole originario dell’Oriente, chi lo considera una ghiottoneria italiana di antichissima data. Raccontano che una donna fu sorpresa dalla notte in una località selvaggia mentre si recava al mercato trascinando su un carro i prodotti della sua terra: mandorle, miele e uova. Per difendersi dagli animali feroci che infestavano la zona, la donna si costruì un riparo, usando come materiale tutti i generi alimentari che aveva con sé, dopo averli opportunamente impastati; si salvò perchè le belve, intente a divorare golosamente quella leccornia, furono sorprese dalla luce dell’alba che le mise in fuga. Narrano anche che i Crociati sostenevano da tempo un lungo assedio in Terra santa. Quando ormai stavano per arrendersi, stremati dalla fame, i mattoni delle torri e delle mura che li difendevano si trasformarono miracolosamente in mandorle, e la calce che li cementava, bagnata dalle loro lacrime, in miele. Senza cercare nelle leggende le origini del torrone, sappiamo che i Romani erano ghiottissimi di un impasto i cui ingredienti, miele, noci e uova, erano pressapoco quelli dell’odierno torrone; chiamavano “turandae” le focaccine ottenute, e da quel nome a quello di torrone il passo è breve. Del resto quando Biancamaria Visconti sposò Francesco Sforza, il dolce che rallegrò il banchetto nuziale era un vero e proprio torrone, la cui forma rappresentava il Torrazzo di Cremona, la città che la sposa portava in dote al marito. E la leggenda si avvicina alla storia…
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Lombardia
La bella regione che ha preso il nome dal dominio dei Longobardi, scende dalle catene dell’Alpe Retica fino al Po, oltrepassando in parte, ed estendendosi al centro della grande pianura padana, fra le terre venete e piemontesi. Tocca tutta la gamma del paesaggio continentale italiano, dalle distese ghiacciate, ai monti prealpini, e da questi, attraverso la splendente regione dei laghi e a dolce zona collinosa dei loro archi morenici, alla prima fascia asciutta del piano per morire nelle molli zolle erbose dove erra il nostro massimo fiume. E questa varietà stupenda di forme è come il simbolo della poliedrica attività del suo popolo intraprendente. (I. Zaina)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA L’irrigazione in Lombardia
Le acque di monte o di pioggia, penetrate per le spaccature e raccolte sui profondi strati impermeabili della terra, scorrono lungo i pendii e risgorgano nei fontanili. Da fiumi e da fontanili, gli uomini, col lavoro e con sapienza secolari, hanno derivato navigli, canali, rivi, fossi… tutto un mirabile sistema di condotti, di cateratte, di conche, di pescaie, di argini che guida, raccoglie, convoglia, modera, smaltisce. Assicura l’irrigazione, combatte le piene; risana gli acquitrini, concede la navigazione, dà vita alle risaie e alle marcite, dà moto agli opifici e ai mulini, dà freschezza alle campagne e pane alla gente.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Bergamo
La romantica città che adagiata sul colle e cinta dall’arborato cerchio delle mura venete, si innalza sul piano, profilando nel cielo, al di sopra dell’armonioso chiarore delle sue case raggruppate in chiaro scuro pittoresco, le sue torri, gli aerei campanili, le salde cupole, a lato della Rocca imponente e austera, non ebbe nel corso della sua vita secolare splendori di corti principesche né fasti di glorie ducali… L’essere la città antica, unica dell’alta Italia, sopralzata sulla pianura di circa cento metri, ha isolato questa città dall’imperversare della modernità violenta ed eguagliatrice. E poichè la stessa attività cittadina e il tradizionale bergamasco fervore di lavoro non potevano non affermarsi imponenti nell’ultimo cinquantennio, tale sviluppo di vita si è ampiamente svolto al piede del colle, nell’ingrandirsi e nell’espandersi progressivo e intenso della nuova città. (L. Angelini)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Pavia
Vivere a Pavia è una condizione felice, un regalo continuato: la sua quiete, la sua pace, e la modestia, che qui tutte le cose ispirano, sono sottolineate dal colore fondamentale della città che è tra il rosso vivo del mattone e il grigio un po’ pigro dell’arenaria. Intanto il cittadino a passeggio per le vie non sente per nulla umiliata la sua statura di uomo camminando tra file di case basse. Pensate a Milano o a Torino dive la persona è schiacciata da quei palazzoni: uno perde subito la confidenza del passeggiare e dello stare. Quelle sono metropoli, è vero, città cosmopolite. E lo siano. Ma per quei loro corsi sgargianti e tumultuanti, noi non daremo una spanna della nostra settecentesca via Foscolo o il silenzio di via Boezio. Vie tutte piene di cielo, illuminate e, direi, completate da certi bei nomi che ricordano glorie municipali o santi o costumi locali: contrada degli Apostoli, via dei Mulini, del Lino, e anche strada nuova, che poi si chiama così fin dal mille e trecento. (C. Angelini)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Mantova
Quando fummo alle mura di Mantova, una stazione accertava che c’era sempre una città ci questo nome. C’era: di strade acciottolate, fra case fosche, invano lavate da tanta acqua… Il canale che, nascostamente, taglia la città da lago a lago, era sordido di spazzatura galleggiante. Un sentore d’acqua stagnante saliva, per il lavandino, nella camera d’albergo. Come una città continuamente minacciata di marcire dalle fondamenta. Ma per le strade dure di ciottoli, sotto i portici, non erravano fantasmi acquatili: corpi vivi di uomini e donne con ombrelli andavano, ben sicuri di non sciogliersi in acqua, nella città da tanti secoli murata dentro l’ansa del Mincio dilagato in tre laghi. Nel tramonto livido, al ponte San Giorgio, il lago inferiore aveva la tristezza bigia, immota, della palude Stigia. (G. Caprin)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Milano
Togliete all’Italia Milano e sarà come togliere ad un’automobile il serbatoio della benzina o, se più vi piace, lo spinterogeno. Se essa è una città di nessun tempo, di nessuna epoca gli è perchè è di tutti i tempi e di tutte le epoche. Essa è nata da sé e vive di sé. Pensate al suo Duomo. Dite San Pietro e vi si affaccia Michelangelo, dite Santa Maria del Fiore e pensate al Brunelleschi della cupola o al Giotto del campanile. Ma per Duomo di Milano nessun nome grandeggia: esso è nato dal denaro di tutti i milanesi, che a turno vi portarono le pietre: avvocati, medici, operai, nobili e popolani. Negli archivi della Fabbrica, dove si conserva, scritta giorno per giorno, la storia immensa del sovrumano edificio, leggete migliaia e migliaia di donazioni che vanno da terre, da case, da sostanze ingenti, a lasciti di poche lire o di poche libbre di cera. (G. Cenzato)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Il famoso nebbione della bassa
Si cammina adagio: non si vede a un palmo dal proprio naso: un odore acre sale alle narici e penetra in gola. Sembra di essere immersi in una umida, vaporosa bambagia; i rumori giungono attutiti; come echi; gli oggetti appaiono all’improvviso, come ombre sorte dal nulla: la nebbia avvolge tutto, grava su ogni cosa.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Luci di laghi
A paragonare il lago di Varese a una perla azzurrina legata in pallido argento dalla nebbietta smagliante, poco più che un sospetto di foschia luminosa, che lo ingrandiva singolarmente, e addolciva il crudo lume del sereno invernale, le terre bruciate dal gelo, le nitide rive e le spiagge; a paragonarlo ad una perla, si dice poco e non senza preziosità leziosa: per altro, il suo colore era quello; e mi pare di non aver mai vista, adunata in una conca di lago, una tanta effusione di luce perlacea, come quella che saliva e posava sulla viva quiete delle sue acque, mentre scendevo verso il lago per la proda lene del suo lato meridionale, che da codesta parte è aperto e disteso, adagiato, coniugato col fondo. E ci sono viottoli e stradette antiche, piene di un garbo agreste e gentilmente austero, di quella naturale ritrosia che conferisce un carattere sobrio e segreto, di idilliaca rusticità , al paese subalpino lombardo e piemontese, non appena si esce dalle strade maestre. Quella riva è più romita, a tratti deserta, ma poi ingentilita da una rustica osteria, da un casale quieto fra le cannucce, da una piccola darsena, da un capitello con l’immagine della Madonna, levato sull’acqua come ad indicare l’approdo alle barche, col lumicino dell’immagine sacra… (R. Bacchelli)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Il lago di Como
Il lago di Como è fatto come una Y capovolta. Si direbbe che madre natura si sia prodigata in modo particolare per rivestire le sponde montuose di varia ed esuberante vegetazione. Gli uomini hanno fatto il resto. Vi crearono ville e giardini e alberghi senza numero con parchi ombrosi, terrazze, chioschi, e scenari vegetali che le acque cristalline del lago concorrono a colorire e animare. Fra i giardini primeggia quello annesso alla Villa Carlotta a Cadenabbia, famoso in tutto il mondo. Lo si direbbe creato dalla fantasia di parecchie generazioni di artisti. Nel mese di maggio specialmente, quando azalee, camelie, rose, rododendri e ogni sorta di fiori rari, trionfano tra le aiole disseminate tra i viali e i boschetti di cipresso, di pini e di piante esotiche, sembra proprio una casa di sogno e di favola.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Il Garda in burrasca
… Uno di questi giorni, anzi una notte, stavo ascoltando il Garda in burrasca. La burrasca, propriamente, allentava, abbonacciava; il vento, ormai caduto, non frastornava più, con le sue stormenti folate, il fragore delle onde rompenti e frangenti. Aveva smesso di percuoterle e premerle, di incalzarle e istigarle, col flagello delle raffiche che esprimono dalla terra e dalle acque e dall’aria quella sorta di strozzato e strepitante spasimo della natura nel tormento, nello strido, nell’ululo dei turbini in tempesta. Piene, alte, libere, sciolte, si levavano in pacata vigoria le onde, e correvano a riva, a frangere in largo scroscio disteso sui greti delle spiagge e fra i sassi delle scogliere. Saliva dal lago un rumore, un suono spianato in ampiezza di tempo e di volume, anch’esso vigorosamente tranquillo; e continuo, cadenzato, rotondo. Era quel fragore e clamore di tono alto, spiegato, sonante e risonante, proprio come d’una forza, liberata e placata, che assumono le onde nel cedere e nell’allentare della tempesta. (R. Bacchelli)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA La terra del latte
Milano è città di confine; attraversandola da nord a sud, sud-est si passa dalla Lombardia dei laghi alla Lombardia dei fiumi e dei canali, dei prati a marcita, delle cascine dove le stalle lunghissime reggono appena al penso dei fieni. In nessun luogo più giustamente che a Lodi poteva sorgere una fiera del latte. Di burro e formaggio nella regione semichiusa fra Adda, Lambro e Po, si produce quasi la sesta pare che nel resto d’Italia. Ma tutto questo esplodere di rustiche e non rustiche grandezze sembra spostare solo di un filo, nella piccola città di Lodi, le abitudini giornaliere, appena appena vi s’incrina l’armonia in grigio e in silenzio della vecchia Piazza Maggiore, degli archi, delle chiese, delle vie piane e dolcemente larghette dove si stende e sogna il centro cittadino. Nella Piazza, sotto i portici, si sorprendono ora conversazioni in lingue e dialetti disparatissimi o in quell’esperanto che appartiene a ogni riunione eteroclita… si penserebbe a una biennale veneziana del burro e del formaggio; le voci tuttavia sono calme e discrete. Dal giro di facciate che si sporgono così gentilmente, coi balconi di ferro battuto e le insegne in rilievo nei negozi e dei caffè, agli angoli segreti del Broletto, la Piazza ha ancora l’aria di attendere con modesto decoro qualche gruppo di viaggiatori in arrivo con la diligenza. Le vie, che se ne distaccano ben regolate, incrociandosi al punto giusto, portano un senso di leggerezza nelle misure né troppo grandi né troppo piccole e nelle tinte non monotone, solo quiete: leggerezza cui si accompagna una particolare malinconia, come spesso nei paesaggi che seguono un fiume. Sta come un deposito umido nella luce delle giornate anche più limpide: un velo d’acqua rende più morbide le voci delle campane. L’acqua che scorre ampia nei fiumi, con lentezza; che scivola canalizzata, lambendo i salici e i pioppi, a imbevere i campi; e questa gente non languida è ben lontana dall’allungarne il sangue delle sue vene, il latte delle sue stalle, o il vino delle sue osterie, ma l’acqua rimane qui l’elemento primordiale. (G. Ferrata)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Milano città d’arte
A nessun visitatore, a nessun turista viene mai in mente che una città così simpaticamente brutta (gli angolini sconosciuti non fanno che confermare la regola), così moderna, così presa dal ritmo del lavoro, possa non già produrre, ma avere una qualche segreta bellezza che faccia perennemente parte della sua natura. Per la stragrande maggioranza dei visitatori, la Milano artistica si riduce dunque al Duomo. Gli stranieri dopo aver appreso che le statue sono 3.159, che la Madonnina è altra dal suolo 108 metri e 50 centimetri, che i lavori cominciati nel 1386 si conclusero soltanto nel XIX secolo, penetrano anche nell’interno ad ammirare le grandi navate gotiche, i cinque colonnati, il sarcofago di Ariberto d’Intimiano, arcivescovo del Carroccio. Gli Italiani molto spesso non entrano neppure. Ripetuto in mille modi da cartoline, documentari, panettoni, il Duomo di Milano è tanto familiare, tanto noto che la sua conoscenza, al pari di quella di certi romanzi famosi, viene data per scontata, non val neppure la pena di entrarci, basta uno sguardo fuggevole alle guglie velate di nebbia dalle arcate dei portici settentrionali. Solo un’esigua minoranza, gli animi più sensibili, le comitive organizzate, trovano il tempo per una seconda tappa: L’ultima cena di Leonardo da Vinci, a Santa Maria delle Grazie, che dopo la pazientissima, miracolosa opera di restauro effettuata nel 1953 da Mauro Pellicioli, ha riacquistato parte della sua luminosità e dei suoi colori. Duomo e Cenacolo sono gli unici due monumenti di Milano turisticamente vivi, frequentati in ogni ora e in ogni stagione da folte comitive come succede ai capolavori fiorentini o romani. Il resto, deserto. Alla Pinacoteca Ambrosiana in questa stagione capita più di una volta che nel corso dell’intera giornata neppure una persona si presenti all’ingresso; al Museo della Scala i visitatori si contano sulla punta delle dita; a Brera, il più famoso di tutti, solo la domenica c’è una certa animazione. Eppure si tratta di raccolte di valore europeo, talune delle quali addirittura uniche nel loro genere. Prendiamo il caso di Brera. Sede, oltre che della Pinacoteca, di una grande biblioteca e dell’Accademia di Belle Arti, questo grande palazzo barocco-lombardo, costruito verso la fine del Seicento dall’architetto milanese Francesco Maria Richini, è un po’ il centro del quartiere artistico milanese, con i suoi cortili monumentali, i suoi loggiati, i suoi scaloni su cui spiccano ancora i colossali portacenere d’ottone dove i visitatori del secolo scorso erano pregati di abbandonare i loro sigari. Ma il cuore, il gioiello di Brera è la Pinacoteca. Sorse nel 1809 per volere di Napoleone il quale, al fine di cementare l’unità del regno italico, dette precise disposizioni affinché vi fossero radunate opere di tutte le scuole pittoriche italiane. Unità politica attraverso l’unità artistica. Così Brera è forse l’unica pinacoteca italiana a carattere spiccatamente nazionale. Chi volesse avere un’idea panoramica della pittura del nostro Paese visitando un solo museo dovrebbe per forza di cose venire qui. Accanto ai capolavori di Raffaello, del Mantegna, di Giovanni Bellini, di Piero della Francesca, del Bramante, nelle trentotto grandi sale sono rappresentate organicamente tutte le scuole dell’Italia settentrionale: quella veneta (Tiziano, Tintoretto, Veronese, Guardi, Canaletto, Longhi), quella lombarda (Luini, Bramantino), quella ferrarese (Tura, Cossa, Costa, Ercole De Roberti) e non mancano fulgide testimonianze di altre regioni e di altri Paesi (El Greco, Rembrandt). I due quadri più famosi, quelli che tutti conoscono, sono Lo sposalizio della Vergine di Raffaello e il Cristo Morto del Mantegna, colto dai piedi in audacissima prospettiva. In Piazza della Scala c’è un altro museo unico in Europa: quello che per l’appunto prende il nome dal massimo teatro lirico milanese. Ci si accede per una scaletta bassa, angusta, modesta come quasi sempre sono le scalette dei teatri; anche le sue sale sono piccole, ma della piccolezza ovattata, ricca, quasi sontuosa, che contraddistingue i palchi della Scala. Fra marmi e velluti sono ordinati spartiti, cimeli, lettere dei maggiori musicisti del mondo. C’è l’orologio di Puccini, la penna d’avorio di Boito, gli occhiali d’oro di Rossini, la spinetta di Paisiello. Gli oggetti di Verdi sono tanti che riempiono addirittura due sale. Alle pareti, accanto ai ritratti di Giuditta Pasta, della Malibran, di Caruso e di Toscanini, spiccano locandine scaligere di tutti i tempi. Ma oltre quella della Scala, attraverso pregevoli collezioni di maschere greche e romane, di riproduzioni scenografiche, di documenti, il museo rifà praticamente la storia di tutto il teatro. (G. Tumiati)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Curiosità sulla Lombardia
La Lombardia ebbe il suo nome di battesimo circa 600 anni dopo Cristo; lo prese dalla popolazione di origine germanica dei Longobardi, che si erano stanziati nel territorio di questa regione verso il 570 dC. I confini perimetrali della Lombardia misurano quasi 1.400 chilometri. C’è un pezzettino di Lombardia (e perciò d’Italia)… all’estero: è il Comune di Campione d’Italia, nel Cantone Ticino (Svizzera): Benché sia difficile precisarlo, si può stimare che nella regione esistano circa 2.000 fontanili. Si può inoltre dire che il volume d’acqua donato da tutti i fontanili lombardi sia almeno pari alla portata media di un fiume come l’Adda. Dei tre grandi laghi lombardi il lago di Como è l’unico che sia interamente lombardo. Il lago Maggiore, infatti, ha la costa occidentale in territorio piemontese e l’estremità settentrionale addirittura in Svizzera; il lago di Garda ha la costa orientale nel Veneto e l’estremità settentrionale nel Trentino. Il campanile più alto d’Italia è il Torrazzo di Cremona, alto 111 metri. Le mura sono spesse cinque metri alla base, due metri e mezzo all’altezza della cella campanaria. Le sette campane che vi sono installate furono fuse nel 1774 da Bartolomeo Bozzi; la maggiore, detta di Sant’Omobono, pesa 35 quintali. La fertile pianura in cui sorge Crema era una palude, denominata Lago Gerundio, da cui emergeva un isolotto. Su questa poca terra fu fondata Crema. (R. Mezzanotte)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Pavia
Amo la libertà de’ tuoi romiti vicoli e delle tue piazze deserte, rossa Pavia, città della mia pace. Le fontanelle cantano ai crocicchi con chioccolio sommesso: alte le torri sbarran gli sfondi, e, se pesante ho il cuore, me l’avventano su verso le nubi. Guizzan, svelti, i tuoi vicoli, e s’intrecciano a labirinto; ed ai muretto pendono glicini e madreselve; e vi s’affacciano alberi di gran fronda, dai giardini nascosti. Viene da quel verde un fresco pispigliare d’uccelli, una fragranza di fiori e frutti, un senso di rifugio inviolato, ove la vita ignara sia di pianto e di morte. Assai più belli, i bei giardini, se nascosti: tutto mi par più bello, se lo vedo in sogno. E a me basta passar lungo i muretti caldi di sole; e perdermi ne’ tuoi vicoli che serpeggian come bisce fra verzure d’occulti orti da fiaba rossa Pavia, città della mia pace. (A. Negri)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Grattacielo a Milano
Quando rincasavo la sera c’erano due lumi rossi agli angoli dello sterrato. In quel fosso è nato il grattacielo di Milano, un piccolo segno di vittoria per noi apostoli di cannoni nuovi del nuovo vangelo. Me lo trovo impagliato di fronte all’Albergo Doria come se io l’avessi innaffiato. Mi fa ombra sul viso all’angolo del marciapiede, dove la fioraia contadina portava un tempo edelweiss e narcisi. (L. Sinisgalli)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA Pace
Milano, alle tue soglie l’erma badia di Chiaravalle tace. Milano, alle tue soglie hai la tua pace. Quando da te mi toglie un desiderio d’esser consolato, vado al tuo camposanto fatto prato. L’erba è fitta d’occhietti azzurri, e l’aria è un saettar di voli: sotto gli archi i sarcofaghi stan soli. Tra i gracili alberetti dei mandorli, certo, anime celesti muovono i lembi dell’eteree vesti. Pena mi si disperde fra gli alti muri e le patrizie tombe: vita non pesa, morte non incombe. Seggo in quel chiuso verde presso il solingo tempio: e morte appare sorella, e che sia dolce in lei posare. (F. Pastonchi)
Tradizioni comasche Oggi, a Como, i bambini sono danno più una malattia per la pampara. Ma un tempo era un’altra cosa. Nel giorno di Sant’Antonio c’era la benedizione di mucche e di cavalli. Bancarelle a iosa con le pampare e i firun. Non sono mai riuscita a sapere l’origine del nome pampara. Si tratta di una sottile canna di bambù con inserite, in diversi taglietti della corteccia, larghe ostie colorate e tante di quelle coserelline che sono care ai bambini. Di modo che ogni bambino prendeva la sua, più bella e più guarnita delle altre, per tornarsene a casa trionfante. I furin sono collane di castagne cotte, infilate in uno spago, che i venditori recano in lunghe ceste. Naturalmente la piazzuola, per il gran giorno, ha mille altre cianfrusaglie in vendita: dalle immagini alle statuette sacre ai prodotti mangerecci. (M. Fagnani)
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Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA, di autori vari, per bambini della scuola primaria.
Osserviamo la cartina
Confini: Francia, Svizzera, Piemonte Monti: Alpi Occidentali (Graie) e Centrali (Pennine) Cime più alte: Gran Paradiso, La Grivola, Monte Bianco, Cervino, Monte Rosa Valli: della Dora Baltea, con le valli laterali. A sud: Veny, La Thuile, Valgrisanche, di Rheme, di Cogne. A nord: Ferret, del Gran San Bernardo, Valpelline, Valtournanche, d’Ayas, di Gressoney Valichi: Piccolo San Bernardo, Col Ferret, Gran San Bernardo Fiumi: Dora Baltea (nel suo corso superiore).
La Valle d’Aosta, la più piccola e montuosa regione d’Italia, è il regno delle cime inaccessibili, delle nevi perenni. Il Gran Paradiso, il Monte Bianco, il Cervino, il Monte Rosa sono nomi noti agli alpinisti di tutto il mondo. DA queste vette lo sguardo scende verso la valle operosa, percorsa dalla Dora Baltea. Il fiume scorre tra dolci declivi, raccogliendo le acque dei torrenti che scendono dalle valli collaterali. La Valle d’Aosta è famosa, oltre che per le sue montagne, anche per i numerosi castelli medioevali, meta continua di visitatori.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Vita economica
L’economia della Valle d’Aosta si basa principalmente sull’industria dell’energia idroelettrica, prodotta dalle imponenti centrali scaglionate lungo le valli. Miniere di carbone sopra La Thuile, e di ferro sopra Cogne, alimentano ferriere ed acciaierie. Nella Valtournanche si estrae marmo serpentino. Estesi pascoli favoriscono l’allevamento di bovini ed ovini; abbondante quindi è la produzione di latticini (fontina della Val d’Aosta). Fiorente è l’industria turistica della valle; gli appassionati della montagna e degli sport invernali frequentano assiduamente le migliori località di soggiorno della Valle ed i rifugi alpini, situati ad altissime quote. Il capoluogo della regione è Aosta, città antichissima, fondata dall’Imperatore Augusto, da cui prese il nome. Con tutto il suo territorio la Valle d’Aosta forma una regione autonoma, governata da un parlamento detto Consiglio della Valle.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Per il lavoro di ricerca
Chi furono i primi abitanti di Aosta? A quale epoca risale la fondazione della città? Con quali province e con quali stati confina la Valle d’Aosta? Da quale fiume è attraversata l’intera regione? Quali fiumi e quali torrenti si gettano nella Dora Baltea? Com’è il clima? Quali importanti gruppi di montagne comprende? Quali sono le vette principali? Quali passi, valichi, trafori mettono in comunicazione la Valle d’Aosta con la Francia e con la Svizzera? Quali sono le maggiori risorse economiche della regione? Conosci qualcuno fra i costumi più famosi della Valle d’Aosta? Hai già sentito parlare della funivia dei ghiacciai? Che cos’è il Parco Nazionale del Gran Paradiso? Nell’interno del Parco Nazionale, sono permesse la caccia, il taglio delle piante e la pesca? Ricerca notizie sul Monte Rosa e sul Cervino.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Sulle ali della fantasia
Numerosissime sono le leggende create dalla fantasia ed ispirate dall’animo poetico dei valligiani. Molte di esse hanno per protagonista il diavolo. E non poteva davvero il diavolo mancare nella tradizione popolare valdostana. Il diavolo, infatti, rappresenta uno dei termini della lotta tra il bene e il male: l’altro è rappresentato dall’angelo e dal santo. Rivive in questi contrasti, che la fantasia popolare abbellisce con le pittoresche e ingenuo integrazioni, un atteggiamento caro alla poesia medioevale, anche alla poesia di Dante. E nella Valle d’Aosta, in cui la solitudine antica dei monti sembra creare l’ideale luogo per l’ascesi dello spirito, il dramma tra il bene e il male si risolve con la vittoria della santità.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – La Valle d’Aosta: sguardo d’insieme
Nel luogo dove i confini dell’Italia, della Francia e della Svizzera trovano il loro punto d’incontro si estende la Valle d’Aosta, la più piccola fra le regioni italiane. Il nome Valle ne indica solo parzialmente il carattere: in realtà essa presenta in breve spazio tutto ciò che la montagna può offrire di bello, di solenne, di orrido, di affascinante: qui sono le cime più alte, le pareti più vertiginose, i nevai più estesi, i torrenti più impetuosi. Si esce appena dalla ridente campagna canavesana, l’occhio riposa ancora sul dolce paesaggio morenico, quando entriamo nella vallata centrale che ci apre il paesaggio tra i massicci montuosi e percorre la regione in tutta la sua lunghezza. L’ingresso è ampio, accogliente, ma la valle non tarda a serrare i suoi bastioni di roccia nella stretta selvaggia di Bard; e subito, come per un pentimento, si slarga di nuovo, concedendo spazio ai coltivi, al corso della Dora vorticosa, torbida, grigia di sabbie. Poi si rinserra repentinamente alla Mongiovetta. La Dora scroscia in una gola profonda e la strada si arrampica su pei dirupi. Nuovamente la valle si allarga dove sorge l’elegante centro turistico di Saint Vincent, su su fino alla conca di Aosta, la piccola capitale. Di qui riprende deciso il dominio delle montagne che stringono sempre più da vicino la strada ed il fiume, ma, a tratti, lasciano spazio ai paesini, ai villaggi e cedono ancora al verde dei prati dell’ultima, stupenda conca di Courmayeur. La valle, che trae il nome dalla città di Aosta, è come un tronco torto e nodoso da cui si dipartono, a destra e a sinistra, i rami delle valli minori. Ciascuna di esse è solcata da un torrente che reca il suo apporto di acque alla grande Dora. In alto, fra i picche nevosi, occhieggiano laghetti azzurri, distendono acque increspate dal vento i bacini idrici serrati fra il monte e le altissime dighe.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Lo sai?
Aosta è la romana Augusta Praetoria, fondata nel 24 aC per volere dell’imperatore Cesare Augusto. Entrèves (frazioni di Courmayeur): in località La Palud, l’arditissima “funivia dei ghiacciai”, inaugurata nel 1057, porta sul Monte Bianco raggiungendo i 3842 metri di altezza (Aiguille du Midi) e scavalca l’imponente massiccio per scendere poi a Chamonix (Francia). La funivia supera un percorso di quindici chilometri. Gran San Bernardo: vi è un ospizio di monaci Agostiniani e un allevamento di cani di razza San Bernardo. Questi cani, un tempo, erano impiegati dai monaci per ricercare gli alpinisti sperduti. Piccolo San Bernardo: verso la fine di settembre del 218 aC vi passò molto probabilmente Annibale, con il suo esercito. Pochi giorni dopo, il generale cartaginese sconfisse una prima volta i Romani, comandati dal console Publio Cornelio Scipione, presso il Ticino. Gran Paradiso: la zona ospita un Parco Nazionale per la conservazione della flora e della fauna. In questo parco vivono numerosi camosci e stambecchi.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Minerali della Valle d’Aosta
Miniere di ferro a Cogne e miniere di carbon fossile a La Thuile; cave di pietra da taglio, di granito, di marmo verde; filoni di amianto e di ferro magnetico; giacimenti di rame, manganese, di galena argentifera, di pirite, di cristallo di rocca ed infine il carbone bianco, cioè la grande abbondanza di acqua per l’energia elettrica; sorgenti di acque minerali a Saint Vincent e Courmayeur.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Curiosità
I giacimenti di minerale di ferro più alti d’Europa di trovano a Cogne, in Val d’Aosta a millecinquecento metri sul livello del mare. Vi lavorano circa settecento minatori anche d’inverno, ospitati in un moderno e ben attrezzato villaggio. Annualmente ricavano circa duecentoquaranta mila tonnellate di ferro.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Artigianato
Non c’è angolo della Val d’Aosta che non rispecchi gentilezza, fantasia e non riveli qualche segno dell’umile, delicatissima arte. Qua è una porta estrosamente intagliata, là è una fontana o un balcone dalle forme ingegnosamente sagomate… Il legno dei boschi assume, nelle mani dei Valdostani, gli aspetti più svariati. Da secoli lo lavorano e ne ricavano oggetti graziosissimi, utili e d’ornamento… Armadi, cassettoni, conocchie, pipe, coppe, bastoni, manici per piccozze, oggetti d’arte sacra. Ognuno di questi oggetti è intagliato, decorato, cesellato, arabescato con disegni. Tutta questa produzione non è soltanto nelle case. Assieme a merletti, trine, tessuti a mano, oggetti di stagno sbalzato ed altre caratteristiche creazioni valdostane, fanno bella mostra di sé in negozi e mercati dove turisti ed amatori li acquistano…
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – In una bottega s’Aosta
Nelle botteghe di Aosta fanno bella mostra numerosissimi oggetti in legno (astucci, ciotole, pipe, piccoli scrigni, bastoni, culle) lavorati con grande, abilità dei valligiani. Alcuni di questi oggetti finemente intagliati e decorati, hanno un vero valore artistico. Altri lavori caratteristici sono i merletti, le trine, i tessuti fatti a mano e gli oggetti di peltro.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Il Monte Rosa
Splendida corona alla Valsesia è il Monte Rosa, un imponente massiccio delle Alpi Pennine, il secondo in Europa per altitudine subito dopo il Monte Bianco. Esso si estende tra il Colle di Teodulo e il Passo del Monte Moro e comprende numerose e gigantesche vette che superano tutte i quattromila metri, come la Punta Giordani, la Piramide Vincent, il Corno Nero, la Punta Parrot, la Punta Gnifetti, la Punta Zumstein, la Punta Dufour, che è la più elevata, e la Nordend. Bellissime vallate si aprono ai piedi del massiccio, uno dei più conosciuti ed amati delle nostre Alpi. Scintillanti ghiacciai, e assai vasti, ricoprono i fianchi del Monte Rosa (il Gornergletschern, nel versante svizzero, e, nel versante del Lys, il ghiacciaio dallo stesso nome): la solitudine immensa e il divino silenzio accolgono gli animosi alpinisti che vi si avventurano.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Il Monte Cervino
Nelle Alpi Pennine, ad ovest del Rosa, si erge solitario, al disopra di una meravigliosa cerchia di monti, il capriccioso Cervino. Ha una caratteristica forma piramidale, e l’elegante cuspide aguzza è quasi sempre avvolta da una corona di nubi. I tentativi di conquistare la vetta durarono quasi un secolo e la prima ascensione fortunata, dal versante italiano, segnò una delle pagine più radiose nella storia dell’alpinismo valdostano. La scalata del Cervino è tuttora difficile e pericolosa. Le famosissime guide di Valtournanche si addestrano sulle sue levigate pareti. Il Brocherel (la Valle d’Aosta) dice del Cervino: “La visione del Cervino è sempre affascinante e comprensiva, perchè contenuta nella sintesi di un colpo d’occhio. Ergendosi isolato senza corteo di satelliti, il Cervino avvince ed assorbe l’attenzione per la schematica semplicità delle forme; la mole giganteggia appunto per il taglio netto degli spigoli e la levigatura delle pareti. La bellezza scenografica del Cervino consiste nella composizione geometrica del suo profilo, che possiede uno stile proprio, da qualunque parte lo di guardi. Da Zermatt il Cervino assume la forma di un immenso cristallo di rocca e le scintillanti incrostazioni di ghiacci rendono ancor più evidente la somiglianza; dal Breuil sembra il torso di un gigante addormentato, la testa sciabolata di rughe, gli omeri fasciati dai drappeggi dei ghiacciai; dal Dent l’Hérens, la sagoma è ancor più affusolata, e sembra un massiccio obelisco, istoriato dai geroglifici delle chiazze di neve”.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Itinerario in funivia sul Monte Bianco
Da Entrèves nella Valle d’Aosta a Chamonix in territorio francese, si può attraversare la massiccia catena del Monte Bianco, salendo fino a quota 3.842 metri (Aiguille du Midi) stando comodamente seduti nei piccoli vagoncini sospesi della funivia. La chiamano “la Funivia dei Ghiacciai”). Ogni tanto, quando un gruppo di carrelli giunge a una delle stazioni terminali, tutto il complesso si ferma e si resta sospesi magari sul ghiacciaio del Gigante o sulla Vallée Blanche, a più di 3.500 metri di altezza, mentre sotto di noi si distendono sconfinate distese candide, picchi solenni, una foresta pietrificata di cime, una fuga vertiginosa di vallate scoscese. Questa è la Funivia dei Ghiacciai, un’ opera ardita e meravigliosa di ingegneria. Quando la progettarono, sul Colle del Gigante mancavano i sostegni naturali sui quali appoggiare i piloni che dovevano sostenere la grande campata di 5.093 metri fino a Gros Rognon, a 3541 metri di altezza. Allora i costruttori idearono un pilone sospeso, sorretto dalle due parti da un sistema di cavi di acciaio che furono fissati da un lato al Grand Flambeau e dall’altro alle pendici del Dente del Gigante. L’apparecchiatura, che sostiene al loro passaggio i carrelli, pesa da sola diverse tonnellate e sembra di volare, senza scosse, incantati da quello spettacolo straordinario. Per chi vorrà poi attraversare le Alpi nello stesso punto, ma facendo a meno di ammirare lo straordinario spettacolo della catena, si è perforato il Monte Bianco in persona! Lungo 11.700 metri, senza superare i 1.500 metri di altezza, il traforo guida gli automobilisti in linea retta e in meno di mezz’ora dall’Italia alla Francia e viceversa. (A. Lugli)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Il traforo del Monte Bianco
Il traforo del Monte Bianco è la più grande galleria stradale d’Europa e attraversa il monte più alto d’Europa, alto 4810 metri. Il tunnel passa esattamente sotto il ghiacciaio di Toulà, tocca la verticale dell’Aiguille de Toule (che segna il confine tra l’Italia e la Francia; in galleria il confine è indicato da due grandi cartelli), attraversa il Ghiacciaio del Gigante, la Vallée Blanche e tocca infine la verticale dell’Aiguille du Midi, per ridiscendere sotto il ghiacciaio des Pelerins. Per la realizzazione del traforo sono state impiegate sei milioni e trecentomila ore lavorative, pari a circa ottocentomila giornate lavorative. In cantiere si sono trovati fino a seicento tra operai e tecnici. (A. Selmi)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Guide valdostane
Essendo uomini della montagna, sono per natura schivi, rifuggono istintivamente dai clamori e dal chiasso che circondano tanto spesso i personaggi più in vista. Sono coraggiosi e forti, profondamente buoni e generosi, sempre pronti a correre là dove qualcuno si trova in pericolo, disposti ad ogni sacrificio, fosse pure quello della vita, che del resto tanto spesso mettono a repentaglio, quando la necessità lo richieda. Ma, appena la loro presenza non è più necessaria, quando tutto è tornato normale e ogni pericolo è svanito, si eclissano silenziosamente, quasi si adombrassero dei ringraziamenti e delle lodi che si vorrebbero loro tributare. Innamorati delle loro belle montagne, ne hanno assorbito lo spirito, rude e fiero in apparenza, nel fondo estremamente generoso, gentile e sensibile: ne è una dimostrazione evidente questa loro ritrosia, che non vuole mettere in imbarazzo nessuno, che inconsciamente vuol conservare agli atti eroici la purezza che li ha ispirati. Tali sono le famose guide valdostane. E anche noi, che comprendiamo ed apprezziamo la delicatezza del loro spirito, rispetteremo il loro desiderio di rimanere nel buio, accontentandoci di dire che li abbiamo ammirati tante volte, che li ammiriamo tuttora per il loro coraggio, per la loro silenziosa abnegazione, che spesso rasenta e raggiunge le vette del più sublime eroismo.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Il Parco Nazionale del Gran Paradiso
Una delle gite più interessanti che si possono fare sulle Alpi Piemontesi è quello che ha come meta il Parco Nazionale del Gran Paradiso. Entriamo in un regno meraviglioso, perchè qui tutto è rimasto intatto con piante, fiori, animali, uccelli ed insetti protetti contro ogni sovversione o modifica che la mano dell’uomo vi può apportare. Una legge apposita del governo italiano, che risale al 1922, ha stabilito pene severissime per chi intacca il patrimonio vegetale ed animale di questa zona, diventata zona di protezione o, come si suole chiamare, Parco Nazionale. Esso comprende il massiccio del Gran Paradiso ed alcuni territori dei comuni di Ceresole Reale, di Locana, di Cogne, di Valsavara, di Ronco Canavese e di altri, compresa l’ex riserva di caccia dei Savoia. Il perimetro del Parco è segnato da cartelli indicatori. Nell’interno è vietato qualsiasi genere di caccia e uccellagione, la pesca, il taglio di piante, le iscrizioni, i cartelloni pubblicitari e qualsiasi altra deturpazione delle bellezze naturali. E’ perfino vietato l’ingresso con cani e il campeggio. Tutto questo a quale scopo? Perchè sia salvo, almeno in qualche angolo del nostro stupendo arco alpino, il paesaggio naturale quale doveva apparire un tempo quassù, prima che l’uomo iniziasse con la caccia e il diboscamento la trasformazione dell’ambiente montano. Orma sia al piano che sulle valli del nostro Paese è rimasto ben poco del quadro primitivo e selvaggio di un tempo, ed ancor meno resterà con il progressivo deturpamento di ogni bellezza naturale. Si ampliano le città al piano, sorgono stabilimenti per ogni dove, si inquinano le acque, si aprono mille strade, si disbosca in modo eccessivo, e così a poco a poco le nostre regioni assumono un volto diverso e ben lontano dal primitivo aspetto. Proprio per arrestare questo lento ma profondo mutamento, sono state istituite varie zone di protezione (parchi del Gran Paradiso, dello Stelvio, degli Abruzzi, del Circeo, …) e non in Italia soltanto, ma in ogni nazione del mondo. Così nel Parco del Gran Paradiso si è potuto salvare lo stambecco, scomparso da tempo da ogni altro angolo delle Alpi. Lo Stambecco è una grande capra di forme tozze ma robusta, di pelame bruno, folto e ruvido, con corna nodose incurvate all’indietro, vive per lo più oltre il limite superiore della vegetazione arborea. Pascola di notte, e nell’inverno cerca grotte e terrazzi ben esposti al sole, al riparo dalle valanghe. E’ agilissimo e con destrezza di arrampica svelto svelto su cammini e canaloni. Ma nel Parco vivono molti atri animali selvatici, dentro fitte pinete, con un lussureggiante sottobosco: camosci, ermellini, volpi, donnole, marmotte, lepri bianche, faine, martore, tassi, lontre e numerosi uccelli (l’aquila reale, il gufo, il picchio, la coturnice, il fagiano di monte, il gallo cedrone, la nocciolaia, il merlo alpino e tanti e tanti altri). Una gita a questo Parco è veramente interessante; sembra per un momento di vivere in un altro mondo, lontani dal frastuono delle città e dal rumorio solito di macchine e automobili. La natura, se rispettata, conserva questo incanto, questo arcano potere di avvicinarci alle sue meravigliose bellezze. (C. Verga)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Testimonianze di antiche tradizioni e folklore valdostano
Una gioiosa fiaccolata di giovani annuncia l’arrivo del nuovo anno, cantando davanti ad ogni casa. Sempre a Capodanno (la tradizione è viva in quasi tutta la Valle) i bambini, a gruppi, si recano nelle case a porgere gli auguri e sono affettuosamente accolti e ricevono piccoli doni, di solito caramelle e dolci. Secondo una tradizione, detta del “baldzor d’an”, nella notte dell’Epifania si scrivono i nomi di tutte le fanciulle e di tutti i giovani del paese du piccole strisce di carta, che poi si mettono in due cassette: una coi nomi delle donne, una con quelli degli uomini. Un bambino estrae, alternativamente, un biglietto dall’una e dall’altra urna, formando così le coppie: e le due strisce, unite assieme, vengono poi sparse il giorno successivo sulla piazza principale del paese… Durante il Carnevale, ancora ricco di maschere che variano secondo le località, il martedì grasso, a Châtillon, si distribuisce ai poveri una minestra di fagioli e polenta con fontina, il tutto preparato sulla piazza del paese. La Domenica delle Palme, oltre i rami d’olivo, si fanno benedire anche mele che si ritiene preservino dal mal di gola e dal morso delle vipere. La vigilia di San Giovanni e di San Pietro in molti paesi della Valle si accendono grandi falò (i “sidora”, fuochi di gioia). La sera dei Morti si preparano legna ed acqua e si lascia la tavola imbandita per le anime dei defunti… Inoltre la stessa sera, ragazzi e ragazze si riuniscono in due stanze diverse e a turno bevono dalla stessa grolla (una coppa di legno): poi, quando scocca la mezzanotte, bussano ad ogni porta per ricordare che è tempo di preghiera… Se ci si dimenticasse dei morti, vuole la tradizione, si provocherebbe da parte delle anime defunte un rumoroso “tzarivari”, una specie di rumorosa sarabanda che si organizza anche in occasione delle nozze di un vedovo o vedova, servendosi di ogni oggetto che produca gran fracasso… Durante la notte di Natale i bambini sono soliti appendere, davanti alla porta di casa o alla finestra, piccoli canestri per i doni. Gentile è l’usanza di conservare con molta cura il cero che viene acceso durante il battesimo dei neonati: questo stesso cero viene riacceso durante le malattie del bambino per affrettarne la guarigione… Fra i giochi infantili tradizionali, molto praticato nella Valle è il “palet”, simile a quello delle bocce, con la differenza che le bocce sono sostituite da sassi piatti. Fra gli adulti si gioca allo “tzan” (o cian): si organizzano anche tornei tra paese e paese. Consiste nel lancio di una palla di legno, posta su una pertica, per mezzo di un’assicella (“piota”). Si gioca anche al “piollét” che consiste nel lanciare il più lontano possibile una palla ovale di bosso, appesantita da chiodi di rame e di ottone. Ma la competizione più famosa e più caratteristica è la “battaglia delle reines” per il conferimento del titolo di “reine de reines”, regina delle regine, che si svolge ad Aosta e a Châtillon alla fine dell’estate fra i campioni bovini (reines) delle varie mandrie, che si sono conquistati il titolo di “reines” durante l’alpeggio estivo.
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – La leggenda del monte Rutor
Vi fu un tempo, assai lontano, in cui le cime e le conche del Rutor erano ricoperte di una vegetazione lussureggiante. Un giorno un saggio, travestito da povero, andò ai pascoli del Rutor per provare il cuore del ricco proprietario, le cui uniche mucche pascolavano sparse a migliaia sull’immenso pianoro. Quando egli si presentò, umile e supplichevole sulla soglia di casa, il padrone stava osservando i suoi servi i quali riempivano di latte un tino di straordinaria grandezza. Nessuno badò all’infelice che attendeva sulla porta. Allorché il recipiente fu pieno, il padrone disse, brutalmente, rivolgendosi al poveretto: “Chi sei e ce cosa vuoi, tu che ci togli la luce, standotene così davanti alla mia porta?” “Un po’ di latte per ammorbidire il mio pane, e avrete luce per l’eternità” rispose il povero. Uno scoppio di risa interruppe le sue suppliche. Disse il ricco dal cuore di pietra: “Ah, sì? Ebbene, ascoltami: piuttosto che dare una scodella di latte a un vagabondo come te, spanderò tutto il contenuto del tino sull’erba del prato!” Detto ciò, ordinò ai suoi servi di spandere il latte proprio sopra il prato, che si estendeva davanti alla casa. I servi per un po’ esitarono, ma alla fine, timorosi dello sguardo infuriato del loro padrone, obbedirono. Il tino fu capovolto e il latte, sparso interamente, colò sui pendii del pianoro in ruscelletti bianchi che scesero lontano, gorgogliando. Il riccone, intanto, guardava con aria malvagia e trionfante il povero. E questi mormorò con tristezza, osservando la prateria inondata di latte: “Guarda come biancheggiano i più lontani prati…” Poi, alzando gli occhi in alto aggiunge: “E già arrivano le nubi…” Il ricco montanaro guardò in alto e vide delle enormi nuvole avanzare rapidamente, simili ad una minacciosa armata. Poi la dolce luce del sole si oscurò. Quando abbassò gli occhi, il ricco si accorse che il poveretto era scomparso. La notte seguente egli udì spesso risuonare nelle proprie orecchi le ultime parole del mago, cioè del mendicante respinto: “Guarda come biancheggiano i più lontani prati…” Queste parole non gli davano pace. Alla fine, per sfuggire all’incubo, egli si alzò e guardò dalla finestra. Era l’alba e, lontano, i prati erano tutti bianchi. E nevicava ancora. E nevicò tutto il giorno ed ancora il giorno seguente. E venne il terzo giorno e nevicava sempre e per molto tempo la neve cadde notte e giorno. L’uomo ricco fu sepolto sotto il bianco lenzuolo di neve, con tutti i suoi beni. E lassù la neve rimase e rimarrà per sempre, fino alla fine del mondo. Così i bei pascoli verdeggianti dell’uomo ricco sono diventati il ghiacciaio del Rutor, che splende ancora oggi ai raggi del sole. (J. Favre)
Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – La conquista del Cervino
Quattro italiani si trovano sulla Spalla del Cervino, ai piedi dell’ultimo picco. La vetta è ormai vicina. Mancheranno sì e no duecentocinquanta metri. Siamo nel 1865, il 14 luglio, una giornata stupenda senza una nube. Il Cervino è il picco più bello delle Alpi, uno dei più belli del mondo. Poco meno di 4.500 metri. Tutte le altre vette delle Alpi sono state conquistate dall’uomo. Il Cervino non ancora. Il Cervino fa paura. Molti lo ritengono invincibile. Dà la sensazione di un gigante cattivo che non lascerà passare nessuno. Eppure l’uomo ha una voglia immensa di salire lassù. Che cosa ci sarà in cima? Che cosa si vedrà? Che difficoltà ci sono da superare? Non esistono ancora le comodità che ci saranno nel secolo ventesimo. Altro che strade asfaltate e funivie. Con la carrozza si può arrivare soltanto a Valtournanche. Per arrivare al Breuil resta una lunga camminata. E il Breuil, dove esistono poche casupole e un modesto albergo, non è neppure alla base del gigante. Per raggiungere le rocce, parecchie ore di salita. Anche i mezzi per salire le montagne sono semplicissimi e rozzi. Scarponi ferrati, corde rudimentali e, per scavare i gradini nel ghiaccio, non la piccozza ma un’ascia, come quelle che servono a tagliare la legna. E soprattutto c’è il mistero. La montagna è ancora un enigma. Eppure gli uomini avevano giurato di arrivare lassù. Quali uomini? Pochi, pochissimi ancora. In Italia, nel 1863, era nato il Club Alpino. E i fondatori, tra cui erano Quintino Sella e Felice Giordano, pensarono subito a un’impresa che facesse onore all’Italia e alla nuova associazione. Fino ad allora, sulle Alpi, erano stati gli Inglesi i più forti. L’Inghilterra, patria degli sport, era scesa alle Alpi per dimostrare la superiorità fisica e morale dei suoi campioni. Questa nobile emulazione tra Inglesi e Italiani si concentrò sul Cervino. Il Cervino era la posta più difficile e gloriosa. L’ultimo duello fu combattuto tra due tipi formidabili, degni uno dell’altro, il cui nome è rimasto famoso. Ecco Jean-Antoine Carrel, cacciatore e guida alpina di Valtournanche, detto “il bersagliere” perché alla battaglia di San Martino si era guadagnato i galloni di sergente. Era un giovane forte e orgoglioso e con il Cervino aveva un fatto personale: il Cervino egli lo considerava casa sua. L’idea che a conquistarlo potesse essere uno straniero lo faceva impazzire. Ma il pericolo c’era. Ecco infatti Edward Whimper, inglese colto e di raro talento artistico. Giovane di bellissimo aspetto, carattere di ferro per la tenacia addirittura testarda. A quell’epoca gli alpinisti senza guida non esistevano ancora, ma Whimper era uno che sapeva anche pagare di persona. In un primo tempo Carrel e Whimper collaborarono. Legati alla stessa corda fecero, sul Cervino, tre tentativi. Ma quando poi si mossero i capi del Club Alpino Italiano, e Felice Giordano venne a Valtournanche per cercare di lui, Carrel lasciò il cliente inglese. Che bisognasse ricorrere a Carrel non c’erano dubbi. Nessuno, neppure tra le guide svizzere, poteva stargli al paragone. Quando Carrel si rifiutò di accompagnarlo ancora, Whimper se prese. “Privo di Carrel ” racconta Guido Rei nel vecchio ma bellissimo libro ‘Il Monte Cervino’, “Whimper è rimasto come un generale senza esercito. E Giordano, che sovrintende ai preparativi italiani, si illude di avere ormai partita vinta. Tanto più che la salita dal versante svizzero è giudicata da tutti impossibile. Ma ci vuol altro per abbattere Whimper. Whimper si affretta a Zermatt per cercare qualche compagno e qualche brava guida. E’ chiaro che non c’è da perdere neppure una giornata. Il duello volge alla fine. Carrel intanto parte. Lo accompagnano Cesar Carrel, Carlo Gorret e Jean-Joseph Maquignaz, tutti di Valtournanche. Ma l’11 e il 12 il tempo è proibitivo. Soltanto il 13 si rischiara e si può andare all’attacco. Alle due del pomeriggio del 14 luglio Carrel e suoi sono arrivati alla “spalla”. Più avanti comincia l’ignoto. Ma on è lungo il tratto che resta da superare. La vittoria è là, su può dire, a portata di mano. Prima di sera, gli amici dal fondo valle, vedranno sventolare in vetta il tricolore? No, purtroppo non è ancora venuto il momento. I quattro sostano a riprendere fiato e a rifocillarsi. Discutono sulla via da seguire. Che cosa si dissero precisamente? Perchè cominciarono a litigare? Ancor oggi è un enigma. E probabilmente nessuno lo saprà mai. Gli animi si scaldavano, gli spiriti si inasprivano: si rimisero i sacchi in spalla, voltarono le schiene alla vetta, si avviarono giù per le rocce. Avevano da poco fatto dietro front che si udì una voce lontana. Era una voce d’uomo. Veniva dall’alto. Si voltarono. Lassù, sulla vetta, contro il cielo azzurro due figurine agitavano la mano. Erano Whimper e la guida Croz di Zermatt, i primi due di una cordata di sette: quattro inglesi con tre guide svizzere. Che cosa passò in quel momento nell’animo del grande Carrel? Si pentì di aver ceduto a un momento di debolezza, oppure pensò che tutto fosse dovuto alla fatalità? Carrel fu tentato di fare per la seconda volta dietro front e di ritornare all’attacco, per arrivare anche lui in vetta, nello stesso giorno di Whimper. Ma i compagni non erano più in condizioni di seguirlo. Ora amarissima, colma di umiliazione e nello stesso tempo commovente. Tanti anni di speranze, di attesa, di fatiche, di sacrifici buttati via. L’orgoglio della valle umiliato. Giordano e i capi del Club Alpino amaramente delusi. Con che faccia Carrel avrebbe avuto il coraggio di ripresentarsi in paese? Ancor più cruda fu la delusione di Giordano. Ancora più rabbiosa fu la volontà di salvare almeno l’onore e di scalare al più presto il Cervino dal versante italiano. Ciò che riuscì infatti a fare, da par suo, Carrel, tre giorni dopo con l’abate Amè Gorret, Jean-Augustin Meinet e Jean-Baptiste Bich, servitori di un albergo. E la nostra bandiera sventolò tra le folate di nebbia, accanto a quella britannica. Ma né Giordano in fondo valle né Carrel sulla vetta sapevano che cosa era successo. A Zermatt, invece che le musiche del trionfo c’era il tetro silenzio della morte. Whimper e i sei compagni, che erano il reverendo Hudson, il diciannovenne Hadow, il giovane lord Douglas (tre inglesi a cui Whimper si era aggregato perchè disponevano di guide), la guida Michele Croz di Zermatt, le guide Petter Tanguralder e il figlio, erano sulla via della discesa da appena un’ora quando il signor Hadow scivolò. Erano tutti legati da un’unica corda, ciò che oggi, soprattutto in roccia, sarebbe giudicato pazzesco. Croz, che precedeva, cercò di sorreggere l’inglese ma ne restò travolto. I due precipitarono. La corda si tese violentemente. Lo strappo divelse Hudson dalle rocce. A sua volta il giovane lord Douglas fu trascinato giù dall’urto. Al di sopra, le guide Tanguralder padre e figlio, con Whimper, si puntarono alla rupe con tutte le forze. La violenza del colpo dovette essere tremenda. Come i tre scalatori potevano trattenere quattro corpi che piombavano giù nella voragine? La corda si spezzò. I quattro precipitarono, sfracellandosi di roccia in roccia. E nessuno ne udì le ultime voci. Così il gigante sconfitto si vendicava atrocemente. E un tragico sudario parve avvolgere il picco, rendendolo ancora più celebre e più temuto. (D. Buzzati)
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Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE, di autori vari, per bambini della scuola primaria.
Il Piemonte in breve
confini: Francia, Valle d’Aosta, Svizzera, Lombardia, Emilia, Liguria monti: Alpi Occidentali (Liguri, Marittime, Cozie, Graie), Alpi Centrali (Pennine, Lepontine) cime più alte: Argentera, Monviso, Granero, Rocciamelone, Gran Paradiso, Monte Rosa valli: della Stura di Demonte, Maira, del Chisone, di Susa, di Viù, Sesia, Anzasca, d’Ossola, Formazza, Vigezzo valichi: Colle di Tenda, Colle della Maddalena, Monginevro, Frejus, Moncenisio, Sempione, di San Giacomo colline: Langhe, Monferrato, Colline del Po, Canavese, Serra di Ivrea pianure: di Alessandria, del Vercellese, del Novarese fiumi: Po, Toce. Affluenti di destra del Po: Varaita, Maira, Tanaro con i suoi affluenti Stura di Damonte e Bormida, Scrivia. Affluenti di sinistra del Po: Pellice col suo affluente Chisone, Dora Riparia, Stura di Lanzo, Orco, Dora Baltea, Sesia, Agogna, Ticino canali: canale Cavour laghi: Maggiore (piemontese solo la sponda occidentale), d’Orta, di Viverone, di Candia. province: Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Torino, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Osserviamo la cartina
Il Piemonte deve il suo nome alla sua posizione ai piedi dei monti. Infatti le Alpi occidentali, con le più alte vette d’Europa, abbracciano la regione da tre lati. Numerosi sono i valichi e le gallerie che permettono rapide e frequenti comunicazioni con la Francia e la Svizzera. Le gallerie autostradali del Monte Bianco e del Gran San Bernardo rendono possibili, anche durante la brutta stagione, i viaggi attraverso la catena alpina. La parte piana della regione è costituita dal primo tratto della Pianura Padana, nella quale si elevano le colline delle Langhe, del Monferrato e di Torino. La parte montuosa è ricca di acque. Infatti, oltre che dal corso superiore del Po, il Piemonte è solcato da molti affluenti alpini; piemontesi sono anche la riva destra del Ticino e quella del Lago Maggiore. Numerosi laghetti e canali artificiali rendono pittoresca la montagna e fertile la pianura.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Vita economica
Gli estesi pascoli montani favoriscono l’allevamento del bestiame bovino ed ovino, che fornisce latticini, carne, lana. I boschi danno legname, castagne e tartufi (Alba). I vigneti del Monferrato producono vini pregiati, e le colline delle Langhe frutta di ottima qualità. La fertile e ben irrigata pianura è ricca di grano, granoturco e riso (circa la metà della produzione nazionale). Le industrie, favorite dalle importanti risorse idroelettriche, sono molto sviluppate; particolare importanza hanno quelle automobilistiche, tessili e dolciarie. Dal sottosuolo si estrae talco, grafite, pirite; dalle cave granito e calcare per cemento.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Per il lavoro di ricerca
Con quali Stati e quali regioni confina il Piemonte? Come si presenta il suo territorio? Da quali rilievi è costituita la zona montuosa? Quali cime vi si elevano? Osserva la cartina: in quanti modi potresti raggiungere la Francia e quali valichi o trafori dovresti attraversare? Partendo da Torino, quale itinerario seguiresti per andare in Svizzera? Indica sulla cartina i principali fiumi del Piemonte; quali città bagnano? Quali città piemontesi sorgono lungo le rive del Po? Quali sono le principali risorse economiche e dove sorgono i maggiori centri industriali? Dove è nata l’industria automobilistica italiana? Che cosa significa la parola FIAT? Qual è il tipico prodotto delle colline piemontesi? Perchè in Piemonte si coltiva il riso? Ricerca notizie sulle città del Piemonte. Dov’è il Valentino? Ricerca notizie sulla basilica di Superga. Di chi fu opera la Mole Antonelliana? Quando fu iniziata? Quando fu portata a compimento? Quanto è alta la sua guglia? Ricerca notizie sull’artigianato e il folklore del Piemonte. Che cos’è il Palio di Asti? Quando si svolge?
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Paesaggio torinese
La stupenda varietà di paesaggi della provincia di Torino si può comporre in un quadro nel quale le linee fondamentali sono riconducibili a quattro motivi essenziali. Un poderoso arco di vette nevose e di belle vallate, ciascuna delle quali ha una singolare ed estremamente pittoresca fisionomia; le dolci ondulazioni della collina torinese che il corso del grande Po abbraccia a settentrione in un armonioso arco; il verde Canavese che digrada dalla fascia alpina all’anfiteatro morenico di Ivrea, alla landa, che conserva una sua romantica bellezza, e alla ben coltivata campagna; l’incantevole pianura che si adagia a semicerchio tra la provincia di Cuneo e quella di Vercelli, costituiscono infatti il paesaggio geografico del Piemonte.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Piemonte: sguardo d’insieme
Per un lungo tratto le Alpi occidentali segnano, su tre lati, il confine della regione piemontese. Questo tratto, imponente ed erto, è la caratteristica che più colpisce la nostra attenzione. Svettano qui le alte cime del Monviso dominante la valle del Po, del Rocciamelone affacciato sulla Valle di Susa, e del Gran Paradiso a cavallo tra il Piemonte e la Valle d’Aosta. Ma non soltanto di montagne è fatto il territorio del Piemonte (le montagne invadono ben più ampiamente altre regioni italiane: ad esempio la Liguria, il Trentino Alto Adige, l’Abruzzo); gli alti rilievi, privi di Prealpi, cedono di netto il passo alla pianura; questa si estende più o meno vastamente e, quasi di sorpresa, risale in ondulazioni di colline tondeggianti o di tagliente profilo. Così che ad una osservazione panoramica il Piemonte presenta un semicerchio estremo di catene montuose, una fascia mediana di pianure ed un grosso cuore di suggestive colline. La muraglia alpina piemontese appare compatta soltanto a chi la veda di lontano; se ci avviciniamo, scorgiamo vaste brecce aperte ai suoi piedi e addentrate in essa: le vallate che conducono ai valichi alpini e lungo le quali scorrono torrenti e fiumi. I corsi d’acqua del Piemonte hanno un percorso alpino breve (relativamente brevi sono le vallate) e precipitoso; i torrenti scendono talvolta minacciosi e rotolano a valle ciottoli e grossi macigni. Le colline che sorgono al centro della regione rendono tortuoso e vario il corso dei torrenti e dei fiumi e li dividono in due gruppi: l’uno raccolto attorno al Tanaro, l’altro attorno al Po. Il Piemonte, privo come sappiamo della fascia prealpina, non possiede quei grandi laghi che caratterizzano un certo paesaggio lombardo; soltanto per un tratto del suo confine orientale si affaccia allo splendido scenario del lago Maggiore; alcuni laghi morenici e numerosi laghetti alpini variano qua e là il suo paesaggio. Le colline piemontesi occupano un’ampia zona della regione; offrono lo spettacolo di un mare immobile, pezzato di verde e di bruno, con onde altre oltre gli 800 metri, talvolta crestate, talvolta tondeggianti. Sulla sommità dei rilievi collinosi si profilano i paesi di origine medioevale, con le torri ed i campanili svettanti; i nuovi borghi si estendono invece a valle, presso le strade e le linee ferroviarie. Al limite settentrionale del Piemonte, dove si apre la Valle d’Aosta, è un vasto paesaggio morenico. In esso spicca la suggestiva morena di La Serra, la cui cresta si allunga, perfettamente rettilinea, per una quindicina di chilometri. La pianura disposta a ferro di cavallo attorno al massiccio delle colline, presenta una bella varietà di paesaggi e di coltivazioni; alle zone aride e brulle succedono quelle irrigue, fertili, popolose.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Alte montagne, fertili pianure
Il Piemonte, ossia la regione “ai piè del monte” come dice il suo nome, e la piccola Valle d’Aosta, sono regioni montane per eccellenza. Là si levano i fianchi rocciosi del Monte Bianco, il più alto d’Europa, un colosso sempre biancheggiante di nubi, che domina la vallata con la sua imponenza. Là si stagliano l’aguzza vetta del Cervino e le numerose cime del Monte Rosa, non rosate, come si potrebbe credere, ma ghiacciate, come indica il nome nell’antico dialetto del luogo, “Rosà”. E là, d’inverno, le nevi si popolano di sciatori che disegnano velocemente le loro eleganti volute lungo le pendici. Le Alpi si stendono a semicerchio intorno alla pianura percorsa da molti fiumi che corrono a gettarsi nel Po. Vi è laggiù un vasto scintillio di risaie che rispecchiano l’azzurro del cielo nelle loro acque immobili da cui spuntano sottili steli. Ma nella zona meridionale, fra le Alpi e la pianura, dove il terreno è ondulato in basse colline, si susseguono i ricchi vigneti produttori di alcuni fra i più celebri vini del mondo. I vigneti aggirano i colli in filari paralleli e continui; è una distesa di verdi pampini che suscita immagini di vendemmia e di festa.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE La città spumeggiante
Asti è celebre per i suoi vini: il Barbera, il Grignolino, il Fresia, il Nebiolo, il Moscato. Questa ricca produzione le viene dal fatto che la sua provincia è quasi tutta in zona collinare. Già i Romani, quando vi giunsero la prima volta, restarono stupiti per i grandi tini che videro per le vie dei borghi.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Il castello del Valentino
Il Castello del Valentino, con il bellissimo parco che si stende lungo la sponda sinistra del Po è, insieme alla Mole Antonelliana, uno dei motivi più tipici di Torino, l’antica capitale del Ducato di Savoia ed del Regno Sardo e, per brevi anni, anche del Regno d’Italia. Il grandioso edificio fu eretto tra il 1630 e il 1660 da Carlo e Amedeo da Castellamonte, i quali trasformarono precedenti costruzioni, per volere di madama reale Cristina. Esso presenta alcuni elementi architettonici che sono propri dei castelli francesi della stessa epoca, ma l’elegante decorazione e la barocca monumentalità offrono un chiaro esempio di arte italiana.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Superga
Superga è come una sintesi geografica e storica del Piemonte. Dal colle si può abbracciare, con un solo sguardo, tutto il maestoso e vario paesaggio della regione: le Alpi superbe, i colli ridenti, i nastri argentei dei fiumi, la vasta pianura che sfugge e sfuma nella foschia. Ma la presenza della Basilica, in cui riposano i principi sabaudi, è un invito a rivivere la storia del Regno di Sardegna, da cui ebbe inizio l’unità d’Italia. La Basilica è sorta in uno dei momenti più difficili della sua storia, a cui è legato il ricordo di Pietro Micca, l’eroe che si sacrificò per salvare Torino assediata dai Francesi. Il duca Vittorio Amedeo II, come ringraziamento della vittoria che liberò il Piemonte dagli invasori, la fece erigere dall’architetto Filippo Juvara che, iniziata la grandiosa costruzione nel 1717, la portò a termine nel 1731, qualche anno dopo che l’antico ducato sabaudo era diventato Regno di Sardegna.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Da Superga
L’ultima volta che vi andai, un tramonto arancione splendeva dietro la corona dei monti; le cupole della città ed i monti di fondo, ritagliandosi neri e piatti su quel colore favoloso, sembravano a eguale distanza; il Po dava bagliori, la neve spruzzava i pendii; si esprimevano nel paesaggio una modestia montanara, una rusticità fine, un misto di signorile e di agreste. (G. Piovene)
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Marroni in tutto il mondo Gli Svizzeri e in particolare i Ticinesi, che acquistano frutta italiana da conservare e da esportare in tutto il mondo, scoprirono che i marroni di Cuneo, una volta che avevano subito la sterilizzazione necessaria a tutta la frutta che deve varcare frontiere internazionali, si conservano per un tempo quasi illimitato. Naturalmente utilizzarono subito la scoperta, servendosene per una larga esportazione. Questo commercio trovò sviluppo soprattutto verso l’America, dove gli emigrati italiani ritrovavano nella castagna di casa loro un ricordo della patria lontana.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE I vini piemontesi
Il Piemonte è la terra classica del vino. In tutte le sue province, dalle lievi ondulazioni che si elevano sulla pianura padana fino alla prime zone alpestri, la vite è attivamente coltivata a filari, a spalliere, a pergolati, a festoni, a terrazzi. Barolo, Barbaresco, Nebbiolo, Gattianara, Ghemme, Lessona, Barbera, Freisa, Dolcetto, Grignolino, Brachetto tra i vini rossi; Cortese, Moscato, Caluso tra i vini bianchi, sono i più celebrati. Ma il vero principe dei vini piemontesi è il Barolo. La sua nobiltà è tradizionale. Si narra che Cesare, tornando dalla conquista delle Gallie, gustasse tanto i vini dell Morra, in quel di Alba, da portarsene a Roma. Anche Plinio parla dei vini di Alba, riferendo che essi derivano da un vitigno (la vite Eugenia) trasportata in Piemonte da Taormina; il qual vitigno “non è utile se non nel territorio di Alba perchè, com’è piantato altrove, traligna”. Nel Medioevo e nei secoli successivi il Barolo conquistò sempre più larga fama come vino di mense regali. Carlo Alberto lo preferì tanto che acquistò il castello di Verduno e le annesse fattorie, in prossimità delle tenute dei marchesi di Barolo. Anche Vittorio Emanuele II acquistò a Barolo una fattoria (la Cascina del Re); e Cavour produceva a Grinzano del Barolo eccellente, che divenne famoso nei pranzi diplomatici. E’ fama che Carlo Alberto, quando ancora non conosceva il Barolo che per averne sentito parlare, dicesse alla marchesa di Barolo: “Mandatemi un assaggio del vino delle vostre tenute che tutti mi lodano”. E qualche giorno dopo un reggimento di robusti carri campagnoli, più di trecento, scaricavano alla Reggia ciascuno una carrata di vino; e la carrata è di ottocento litri. (F. Palazzi)
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Le colline del Barbera e del Moscato
Le Langhe sono un tipico territorio collinare, che si trova in Piemonte, a sud di Asti, tra il Bormida e il Tanaro. I versanti più ripidi ed esposti a nord sono coperti di boschi di castagni, di querce e, più in alto, di faggi. Anche qui case sparse accompagnano al solito i poderi, mentre i piccoli centri sorgono sulle sommità dei colli e sono ben collegati da strade che, invece di scendere a valle, tendono a mantenersi in alto, sulla cresta delle alture, divenendo così delle stupende strade panoramiche. Non molto diverso da questo è il paesaggio che si estende più a nord e che da Asti giunge fino a Torino e al Po: è il Monferrato, patria di alcuni famosissimi vini: il Barbera, il Brachetto, il Freisa, il Moscato d’Asti. Le forme dei colli sono qui più regolari che nelle Langhe e la coltura della vite conserva l’importanza e la fama tradizionale. Il terreno è tutto distribuito tra piccoli proprietari che abitano piccoli centri posti sulle sommità dei colli. Solo sul fondo delle valli maggiori sorge qualche grosso abitato. Possiamo dire che il Monferrato è, fra i paesaggi collinari italiani, uno dei più vivaci, allegri e civettuoli.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Nel Monferrato
Chi percorre la statale che unisce Alessandria a Torino si trova, quasi improvvisamente, nel bel mezzo di un paesaggio che ricorda da vicino le serene colline toscane e che fa quasi dimenticare il Piemonte. E’ tutto un susseguirsi di groppe tondeggianti, una dolce ondulazione che si stende a perdita d’occhio… Siamo nel paese dei vini e qui l’autunno è sinonimo di vendemmia ed evoca immagini di grappoli, di tini, di campi, di lavoro. Siamo nel Monferrato. Ogni collina dà l’impressione di un campo su cui un gigantesco aratro abbia tracciato innumerevoli solchi paralleli, ricercando la migliore esposizione ai raggi del sole. Vigneti e vini appaiono nella nostra fantasia, accompagnati dalle note festose della tradizionale danza locale, la “monferrina”. Dove la collina ancora resiste all’opera di coltivazione, cioè nella parte più alta, occupata da pascoli e boschi, la terra mostra le sue viscere sanguigne o grigiastre; la diresti sterile e affocata, e il suo colore non è altro che il simbolo della sua ricchezza e della sua feracità. Tra le tante etimologie escogitate dai filologi per indicare questa zona, potrebbe trovar posto anche questa: “mons ferx”.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Nella risaia
La prima immagine che la risaia offre è quella si una pianura che si distende a perdita d’occhio e sulla quale ristagna, nel sereno tempo primaverile il velo azzurro delle acque, interrotto dalla geometria dei bassi argini e degli aerei ventagli dei pioppi. Allora i borghi e i cascinali sembrano a poco a poco dissolversi, come in un miraggio di mobili luci ed ombre, e nasce un paesaggio insolito nella nostra penisola e, possiamo dire, in tutta l’Europa, e che fa correre la fantasia a regioni lontanissime dell’Asia orientale. In questa grande palude artificiale si svolge un ciclo di coltivazione, quello del riso, che impegna severamente uomini e donne: e una lunga tradizione di lavoro, di fatica, di povertà, di lotta si viene disegnando nella nostra mente e nel cuore non appena, abbandonata la contemplazione di così singolare aspetto della pianura vercellese, riflettiamo intorno ad un’altra realtà la quale, in secoli e secoli, ha dato origine all’attuale condizione economico-sociale della vita dei contadini della risaia, di gran lunga migliore anche solo se confrontata agli ultimi decenni dell’Ottocento, e che ancora nel Novecento non aveva raggiunto un suo punto di equilibrio. Le acque stagnanti della risaia, sfiorate dalle ali delle rondini tornate ai vecchi nidi per San Benedetto, si trasformano, nell’estate, in un immenso tappeto verde, teneramente agitato dal soffio del vento; poi, nell’autunno, quando le spighe fanno piegare sotto il peso generoso gli steli, in una grande macchia di color giallo opaco; finché, a raccolto ultimato, sepolta la risaia nella nebbia invernale, ecco la terra e l’acqua mescolarsi di nuovo, divenire il fango che l’opera dell’uomo renderà fertilissimo. Il tratto della pianura vercellese, che comprende circa cinquanta comuni, ed è dominato dalla risaia, si continua, oltre il solco ben delineato dal fiume Sesia, nel Novarese e nella Lomellina, con una analoga struttura agricola e di paesaggio.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Paesaggio vercellese e biellese
La province di Vercelli e Biella formano come un rettangolo delimitato a nord da un succedersi imponente e meraviglioso di montagne, che diminuiscono sensibilmente di altitudine da occidente a oriente lungo i contrafforti del sistema alpino, e che si estendono per una quarantina di chilometri dalla Punta Gnifetti, nel massiccio del Rosa, fino alla punte del Pizzo Montevecchio, del Pizzo Tignaga e della Cima Capezzone, e chiuso, a sud, dal corso del Po che lambisce le verdi campagne di Crescentino, di Trino, di Motta dei Conti. Ad occidente i confini della provincia di Vercelli sono segnati dalla valle di Gressoney e da quella della Dora Baltea e ad oriente dal bacino del piccolo e delizioso lago d’Orta, dal quasi rettilineo corso del fiume Sesia e dalla stretta del monte Fenera alla confluenza nel Po. Ora, se guardiamo attentamente una cartina fisica della provincia, si farà facile distinguere le caratteristiche del territorio il quale risulta in parte pianeggiante e in parte collinoso e montuoso. La linea di divisione tra pianura, collina e montagna è abbastanza netta e corre, in senso lato, a nord del lago di Viverone, di Biella, Vigliano, Cossato, Masserano, Gattinara e Romagnano. Un paesaggio, dunque, chiaramente definito e individuato che dall’azzurro velo delle acque delle risaie sale a poco a poco, in un intreccio di pittoresche vallate in cui ferve l’opera dell’uomo, fino ai ghiacciai e alle nevi eterne del monte Rosa, lo splendido massiccio delle Alpi Pennine che domina tanta parte della regione piemontese e lombarda. La pianura, fertile e bene irrigata, la zona collinosa e prealpina del Biellese, ad economia prevalentemente industriale, la superficie, in gran parte montuosa e alpestre della Valsesia, cara all’arte ed alla fede cattolica, costituiscono i tre paesaggi tipici di Vercelli e Biella.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE I tartufi d’Alba
Alba è celeberrima per i suoi tartufi bianchi. Ogni anno sono circa 1500 chilogrammi del celebre fungo che vengono dissotterrati da questi colli fragranti e a venderli al prezzo del mercato è una bella ricchezza che va a seppellirsi nelle tasche di questi contadini. I cercatori di tartufi s’addentrano nei querceti delle Langhe, scavano, rompono, dissodano, aiutati dai cani… laureati, o dai bastone con cui percuotono il terreno che dà una speciale sonorità quando, di sotto, il tartufo abbia creato, crescendo, una nicchia. La ricerca si fa di notte, anche per evitare di essere seguiti da altri, giacchè, trattandosi di abilità e astuzia, tutti i cercatori sono naturalmente gelosi uno dell’altro. Avrei creduto che gli Albesi fossero ghiotti dei tartufi, ma non lo sono di più di quanto lo sia in Cremonese del suo torrone o il Milanese del suo panettone. Ne sono orgogliosi, sanno di avere un primato nel mondo, ma non sono dei lucumoni gaudenti. Hanno tante altre belle cose qui! Il vino, profumato e delizioso, i vitelli bianchissimi, certi formaggi piccanti che a spalmare due fette di pane fresco e a irrorarlo poi con un po’ di barbaresco c’è da risparmiare il termosifone. E’ una terra benedetta e fragrante questa, e pare che vino, tartufi, e uve da tavola, e pesche, di cui si fa un mercato colossale, siano tutti segni di benevolenza degli antichi dei, i quali, come è noto, stavano a tavola volentieri. (G. Cenzato)
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Una foresta di marmo
In Valle del Gesso, nei pressi di Cuneo, per la lunghezza di una ventina di chilometri e per la larghezza di tre si stende una strana foresta. E’ interamente pietrificata. Doveva essere, in epoche remote della Preistoria, una rigogliosa foresta. Oggi i suoi tronchi giacciono a terra e sembrano sassi. In quei lontani tempi il Piemonte aveva una vegetazione tropicale, e le foreste erano rigogliose. Oggi sono rimasti solo questi sassi di cui si sono accorti per primi i montanari che vedendoli esclamavano: “Ma questi sono tronchi, sono schegge di legno!”.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE I Biellesi gente dura (racconto breve)
Un contadino scendeva un giorno a Biella. Faceva un tempo così brutto che per le strade non si poteva quasi andare avanti. Ma il contadino aveva un affare importante e continuava ad andare a testa bassa, contro la pioggia e la tempesta. Incontrò un vecchio che gli fece: “Buon dì! Dove andate, buon uomo, così in fretta?” “A Biella”, disse il contadino, senza fermarsi. “Potreste dire almeno ‘se Dio vuole’ “. Il contadino si fermò, guardò il vecchio in faccia e ribatté: “Se Dio vuole, vado a Biella.; se Dio non vuole, devo andarci lo stesso”. Ora, quel vecchio era il Signore. “Allora a Biella ci andrete tra sette anni”, gli disse. “Intanto, fate un salto dentro quel pantano e stateci sette anni”. E il contadino si trasformò tutt’a un tratto in una rana, spiccò un salto e giù nel pantano. Passarono sette anni. Il contadino uscì dal pantano, tornò uomo, si calcò il cappello in testa e riprese la strada per il mercato. Dopo pochi passi, ecco di nuovo quel vecchio. “Dove andate di bello, buon uomo?” “A Biella” “Potreste dire ‘Se Dio vuole’ “. “Se Dio vuole, bene; se no il patto lo conosco e nel pantano ci so andare da solo”. E non di fu verso di cavarne altro. (Italo Calvino)
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Cuneo
Come una grande mano aperta, col palmo rovesciato, Cuneo se ne sta sulle carte geografiche mostrando le vene che sono i fiumi, gli avvallamenti che sono le verdi e secche e azzurre Langhe, la cornice estrema delle Alpi che chiudono il piano. Sembra un angolo di riposo (e i castelli e le ville reali sparsi dicono che lo fu davvero per i Savoia); ma non lo si creda fuori dalla storia. I cuneesi sono stati dappertutto. (G. Arpino)
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Tempo di carnevale a Vercelli
La sfilata dei carri allegorici e dei gruppi mascherati, e le manifestazioni folkloristiche che accompagnano il Carnevale, vedono convenire a Vercelli, dalla campagna e dalle vallate, una numerosa rappresentanza della popolazione che rinnova, intorno alle maschere di Biciulan e della Bela Majn, l’antico incontro della città con il contato, l’incontro cioè di modi di vita, di interessi economici, di civiltà diverse. Il nome della maschera Biciulan deriva dei profumati biscotti che sembrano rinnovare i fasti si un’età passata, quando le buone ricette della nonna venivano gelosamente tramandate e consultate ad ogni lieta ricorrenza nel preciso ritmo delle feste religiose o familiari e del succedersi delle stagioni, ciascuna delle quali portava con sé una particolare, agreste cucina. Personaggio di invenzione non troppo lontano nel tempo, Biciulan è nato con un pizzico di bizzarria; fratello minore di Gianduia torinese e di Meneghino milanese, avrebbe dovuto interpretare la realtà contadina della campagna vercellese, la sua radice profonda germinata tra acqua e terra feracissima, ed invece Biciulan si è messo addosso un elegante abito militare sul quale fanno spicco gli alamari: un travestimento meraviglioso, un’arguzia impensabile e, chi sa, forse anche una celebrazione dei sacrifici e delle virtù contadine. La Bela Majn, l’avrete già compreso, è la compagna di Biciulan e s’è presa anch’essa il gusto di vestire, almeno a carnevale, con gli abiti di una gran dama: i contadini che rifanno il canto ai nobili, nel gran giorno della libertà carnevalesca, esprimono certo un tema di grande interesse sociale.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Canti e sagre popolari a Novara
A Novara, come in tutte le altre città dell’Italia settentrionale, sono poche ormai le tradizioni che sopravvivono. Possiamo ricordare, tra le manifestazioni folkloristiche, la sfilata dei carri di carnevale sui quali troneggia la maschera di Re Biscottino. Profondamente suggestiva è la rievocazione della Passione di Gesù che ogni anno, nel giorno del Venerdì Santo, si tiene a Romagnano Sesia. Un invito alla letizia è invece l’autunnale sagra dell’uva di Borgomanero: con la sciora Togna tutto il paese è in festa. Il vino, se non l’uva, è di scena anche a Casale Corte Cerro, ma in tutt’altra stagione: infatti nel giorno di San Giorgio, che cade il 23 aprile, la Fontana del vino distribuisce gratuitamente il suo liquore tra la gioia che si può immaginare.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Il palio di Asti
La seconda domenica di maggio, cavalli e fantini vengono scelti da un comitato facente capo alle singole parrocchie cittadine e presieduto da un Rettore. Dall’edificio dell’Alla, dove generalmente ha luogo la fiera dei cavalli con grande concorso, un tempo, anche dei rinomati cavalli ungheresi, parte il corteo: comitato, vessilliferi, paggi e fantini in testa, codazzo di popolo tumultuoso e allegro al seguito. Nella Piazza del Santo, come viene chiamata per antonomasia la piazza in cui sorge la Collegiata, ha luogo la presentazione al comitato e la consegna ai fantini del casco tradizionale. C’è un’aria di festa sanamente provinciale e bonariamente solenne al passaggio dei vessilli vivaci, recanti, in genere, il nome di un santo: rosso e verdi quelli di san Pietro, rossi e azzurri quelli di santa Caterina, rossi e gialli quelli di san Paolo. Ecco il rosso e il bianco del vessillo più amato: è San Secondo stesso che attraversa le vie della sua città. Manca ancora quella tensione che si comunica alla folla quando squillano le trombe che annunciano l’inizio delle gare. I due giri di pista sono presto percorsi, ma i minuti sembrano secoli e ogni particolare della corsa è seguito con attenzione spasmodica. La ragazzaglia applaude incitando a gran voce i concorrenti con frizzi arguti e ingenuamente sboccati. Anche i mercanti di cavalli hanno interrotto i loro affari: il volto sanguigno, acceso dalle copiose bevute, la catena d’oro ballonzolante sul gran ventre, una mano che stringe la frusta sottile e infiocchettata e l’altra infilata nel panciotto per evitare che nella ressa il portafoglio a fisarmonica possa prendere il volo, valutano da intenditori lo slancio delle bestie, seguono ansimando l’ansimare dell’animale proteso verso il traguardo, e gocce di sudore cadono dalla loro fronte come i fiocchi di schiuma dai fianchi dei cavalli. La corsa è finita: è il momento della premiazione. Al vincitore il palio, al secondo arrivato la borsa, al terzo gli speroni, al quarto il gallo (il famoso galletto di sant’Alessio) e al quinto… un’acciuga con l’insalata. La provincia e lo spirito borghigiano sono sempre vivi.
Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE Il traforo del Frejus
Fra i vari progetti che, subito dopo la prima guerra d’indipendenza e cioè nel famoso “decennio di preparazione” bollivano in pentola, nella capace e previdente pentola di Camillo Cavour, c’era anche, sia pure appena accennato, un certo progetto che riguardava la “necessità di perforare la barriera delle Alpi e di far passare una ferrovia”. Era un progetto addirittura pazzesco per quell’epoca; passeranno diversi anni prima che prenda sostanza nella realtà. E si giunge fino al 1857 allorché il Parlamento piemontese approva l’esecuzione del traforo del Frejus, con uno stanziamento di 41 milioni di lire. Il 31 agosto di questo stesso anno, il mondo apprese con immenso stupore che lo scoppio di una mina a Modane aveva segnato l’inizio della formidabile impresa. La prima mina era stata fatta brillare dallo stesso re Vittorio Emanuele II, con il principe Gerolamo Bonaparte, attorniati di personalità, tecnici e migliaia di valligiani. L’audacissimo assalto alla montagna era iniziato; esso si concluderà il giorno di Natale del 1870. L’inaugurazione della linea del Frejus avverrà l’anno successivo, nel 1871, fra un tripudio di bandiere e un entusiasmo incandescente.
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UMBRIA dettati ortografici e letture – una raccolta di dettati ortografici e letture sull’Umbria, di autori vari, per la scuola primaria.
UMBRIA dettati ortografici e letture L’Umbria
Questa regione non si affaccia sul mare, ma è attraversata dal Tevere e dai suoi affluenti che la rendono fertile, ricca di pascoli e di boschi. Per questo meritò d’essere chiamata la “verde Umbria”. Essa offre paesaggi dolci e sereni, che ispirarono a San Francesco d’Assisi le belle lodi che egli cantò al creato. Il capoluogo della regione è Perugia, che domina dall’alto di un colle un vasto e pittoresco paesaggio. Vicino al capoluogo sorge Assisi, una cittadina antica e suggestiva, patria di San Francesco.
UMBRIA dettati ortografici e letture Umbria: cartina fisico – politica
I confini: Marche, Toscana, Lazio.
I monti: Appennino Centrale (Umbro – marchigiano). Le cime più alte: Monte Vettore (m 2478), nei Monti Sibillini; Monte Pennino (m 1570); Monte Subasio (m 1290) I valichi: Bocca Taabaria (m 1044); Bocca Serriola (m 730); Passo di Scheggia (m 575): Colle di Fossato (m 740)
Le pianure: Valle Tiberina; Conca di Gubbio; Conca di Norcia; Conca di Terni; Valle Umbra.
I fiumi: Tevere. Affluenti di destra: Nestore, Paglia. Affluenti di sinistra: Chiasco con l’affluente Topino e il subaffluente Clitunno; Nera con il suo affluente Velino, che forma la Cascata delle Marmore.
I laghi: Trasimeno (kmq 128, profondità m 6,6); lago di Piediluco.
UMBRIA dettati ortografici e letture Osserviamo la cartina
Lontana dal mare, nel cuore della Penisola, l’Umbria sembra tutta raccogliersi attorno ai suoi verdi colli. Gli Umbri, che la abitarono nell’antichità, le diedero il nome. Il suo paesaggio dolce e sereno è un alternarsi di campi e di prati che si distendono in brevi pianure; di colline verdi, di oliveti e vigneti, di giogaie appenniniche rivestite di boschi. Le sue valli sono bagnate dal Tevere e dal Nera; il Lago Trasimeno si stende azzurro nella pianura a ovest di Perugia. Pellegrini di tutto il mondo giungono ogni giorno ad Assisi, la bianca città di San Francesco, dalle cui torri e dalle cui chiese corre da secoli un messaggio d’amore, un invito alla pace.
UMBRIA dettati ortografici e letture Vita economica
L’agricoltura è l’attività principale della popolazione. Cereali e viti sono coltivati sulle colline e nelle conche pianeggianti; gli olivi allignano nella zona del Lago Trasimeno. L’allevamento, sui monti ricchi di pascoli, è rivolto in modo particolare agli ovini. Sulle colline sono allevati buoi e suini.
Sono sviluppate le industrie idroelettriche, che utilizzano le abbondanti acque del Tevere e dei suoi affluenti. Si hanno inoltre industrie metallurgiche e siderurgiche a Terni, dolciarie a Perugia. Sono famose le ceramiche di Gubbio.
Le città, ricche di fascino per le loro costruzioni antiche e medioevali, sono meta di numerosi turisti italiani e stranieri.
UMBRIA dettati ortografici e letture Province
Le province dell’Umbria sono due: Perugia e Terni. Perugia, il capoluogo, è città etrusca che domina da un poggio la Val Tiberina. E’ celebre per i suoi monumenti antichi e medioevali, per l’Università e per le fabbriche di dolciumi e paste alimentari. Terni, sorge sul fiume Nera, dove questo riceve le acque del Velino, formando la Cascata delle Marmore. Dalla caduta di questa acqua traggono l’energia le importanti industrie siderurgiche della città.
UMBRIA dettati ortografici e letture Per il lavoro di ricerca
L’Umbria è una delle poche regioni d’Italia che non si affacci sul mare; quali sono le altre che hai finora studiato? Osservando la cartina fisica, come ti appare il territorio dell’Umbria? Quali sono le più notevoli cime dell’Appennino Umbro? Le zone pianeggianti dell’Umbria, sono quelle che si estendono lungo il corso di un grande fiume e dei suoi affluenti. Come si chiama questo fiume? Dove nasce e dove sfocia? Da chi sono formate le cascate delle Marmore? Come sono le comunicazioni? La regione è percorsa dall’autostrada del Sole? Perche sono famose le Fonti del Clitunno? Che origini ha il lago Trasimeno? Quali colture sono particolarmente sviluppate in Umbria? Che cosa sono i tartufi? L’attività industriale è importante? Perchè Terni è detta la “città del ferro e del fuoco”? Quali sono i prodotti dell’artigianato umbro? Perchè è famosa Sangemini? Ricerca notizie sulle più importanti località dell’Umbria. Perchè l’Umbria è detta “Santa”? Qual è la “città della carta”? Conosci la leggenda della Verna e la leggenda di Todi? Dove si gioca la “Giostra della Quintana”? Ricerca notizie sulle altre manifestazioni folcloristiche e religiose della regione.
UMBRIA dettati ortografici e letture L’Umbria Quante sono le regioni d’Italia senza neppure un po’ di mare? Una è l’Umbria. In compenso il lago Trasimeno era un lago rispettabile; ma ora è in crisi. Che resta, allora, a questa regione così “sfortunata” per le acque? Una delle più belle cascate, quella delle Marmore. Essa ha pagato il suo tributo al progresso e si è sacrificata per dar luce a chi sa quante case. Ma nei giorni festivi si riposa e il formarsi dell’immensa massa precipite è uno spettacolo emozionante. L’ultima domenica di giugno essa costituisce l’attrazione principale della “Festa delle acque”, ormai caratteristica in Umbria, dove anche le sorgenti minerali sono abbastanza numerose e rinomate. E poi che cosa c’è in Umbria? Le tradizioni popolari e religiose: Gubbio con i ceri e gli arceri; Assisi con le memorie e le celebrazioni francescane; Foligno (il “centro d’Italia” come lo chiamano i suoi abitanti) con la giostra della Quintana. E poi le memorie storiche dei più antichi popoli (ad Amelia, mura ciclopiche); degli Umbri (che sul Monteluce di Spoleto avevano la sede di una lega sacra). degli Etruschi, dei Romani, dei Longobardi. L’Umbria ha, nel capoluogo Perugia, una delle città più armoniose.
UMBRIA dettati ortografici e letture Paesaggi Umbri L’Umbria è l’unica regione dell’Italia peninsulare che non si affacci, neppure per un breve tratto, sul mare. Si estende nel cuore dell’Appennino, dove la catena devia verso sud e comincia a smagliarsi, dividendosi in una serie di catene interrotte da avvallamenti longitudinali. Accade così che l’Umbria, invasa in pieno dal sistema appenninico, quasi non appaia regione montuosa: le catene sono sottili, intervallate da zone piane, ora ampie ora strette e profonde, mosse da rilievi collinari.
UMBRIA dettati ortografici e letture Umbria verde La regione è detta “Umbria verde” e il verde che spicca è quello appunto delle valli e delle colline, mentre le linee montuose, di mediocre altezza (generalmente non superano i mille metri), sono rocciose, aride, accidentate, hanno versanti ripidi, opposti per durezza, di muraglie al mareggiare delle colline. Per questi motivi la vita delle popolazioni umbre è concentrata negli avvallamenti e sui lenti dossi collinari. La montagna umbra torna ad assumere l’aspetto comune al sistema appenninico nella zona sud-orientale della regione, dove hanno radici i rilievi caratteristici del vicino Abruzzo. Qui, la montagna umbra è nuovamente accessibile, più boscosa ed abitabile. Una delle lunghe conche umbre, la Val Tiberina, è percorsa dall’unico grande fiume della regione (tutti gli altri sono affluenti): il Tevere. Esso ha le sue sorgenti nell’Appennino romagnolo e non è contenuto entro i confini dell’Umbria: ne esce infatti all’estremità meridionale entrando nel Lazio. Per un buon tratto (oltre 200 chilometri) il fiume scorre serpeggiando nella valle, con un regime di acque alquanto irregolare: vi affluiscono numerosi torrenti e fiumiciattoli, i cui apporti variano molto durante l’anno; il Tevere diventa un vero fiume dopo aver ricevuto le acque del Nera, quasi sul confine laziale. Il Nera, ricco di acque, le cede in parte ad un canale di deviazione che le scarica nel lago di Piediluco. Tali acque ritornano poi al Nera attraverso il Velino che, nel punto di confluenza, genera le cascate delle Marmore, non lontane dalla città di Terni. un altro avvallamento della regione è attualmente invaso dal lago Trasimeno, uno specchio d’acqua appena increspato dai venti, di minima profondità, circondato da sponde ondulate e verdissime, punteggiate di casolari e paesi.
UMBRIA dettati ortografici e letture Le comunicazioni L’Umbria, per la sua posizione e la struttura del suo suolo, ha notevoli difficoltà di comunicazione stradale e ferroviaria. Le barriere appenniniche, non elevate ma povere di valichi accessibili, la isolano dalle regioni circostanti; ugualmente in difficoltà è il tracciato delle strade interne tra l’uno e l’altro avvallamento. L’arteria più importante è la Flaminia, che unisce la valle del Tevere con la conca di Terni, proseguendo verso Spoleto. Nella parte occidentale la regione è percorsa dall’Autostrada del Sole. Tronchi ferroviari notevoli sono quelli della Roma-Ancona e della Roma-Firenze.
UMBRIA dettati ortografici e letture La cascata delle Marmore Quando la Nera, divisa in cento rapidi e spumeggianti canali, è vigilata all’intorno dal sorriso dei colli sui quali i Celti e gli antenati di Roma cercarono scampo dalle alluvioni preistoriche, entra nella sonante vallata di Terni, ha già ricevuto il tributo delle acque di un altro fiume: il Velino. E’ questo un tributo non volontario che dura da secoli. Trecento anni a. C. il Velino, prigioniero delle sue stesse incrostazioni calcaree, adagiava le acque in vastissimi e pestiferi stagni che, per successivi balzi, dal ciglione orientale delle Marmore scendevano ad infestare la valle sottostante… Il console Marco Curio Dentato, risalendo da Roma con le sue gloriose legioni le antiche valli del Tevere, fece scavare dai soldati un profondo canale il quale, raccogliendo le acque limacciose delle paludi, costrinse il Velino a cadere speditamente nella Nera attraverso il grande salto delle Marmore. Da quel giorno remotissimo, la massa imponente delle acque veline con moto incessante si precipita bianca e spumeggiante nel baratro e, a spire, a vortici, mugghiando e rimbalzando sulle rocce calcaree che formano la pittoresca stretta e il profilo del salto, raggiunge le onde calme della Nera, formando la cascata delle Marmore, una delle più belle non solo d’Italia, ma d’Europa. (G. Fravolini)
UMBRIA dettati ortografici e letture L’agricoltura Soltanto metà del territorio umbro può essere sfruttato dall’agricoltura, e non sempre con risultati brillanti. Molto importante è l’olivo, le cui piantagioni sono largamente sparse nelle campagne e danno una produzione di olio assai pregiato. Anche la vite è coltivata, in lunghi filari tra i campi: è noto il vino di Orvieto. E’ diffusa la coltivazione del grano, il quale non consente però una produzione abbondante. Nella regione sono frequenti i boschi di querce, da cui si ricavano le ghiande che permettono un ricco allevamento di maiali. Sulle aridi pendici appenniniche è diffuso l’allevamento degli ovini. Caratteristico dell’Umbria (Norcia) è il tartufo nero.
UMBRIA dettati ortografici e letture L’industria L’Umbria è regione di scarsa attività industriale. La buona produzione di energia elettrica ha concentrato nella zona di Terni alcuni impianti siderurgici, metallurgici e chimici. A Perugia sono attive le industrie alimentari e dolciarie (Buitoni, Perugina). Gli artigiani umbri sono celebrati per le ceramiche, i ferri battuti, i merletti. La regione serba numerosi ricordi del periodo medioevale. Molti centri, abbarbicati sui rilievi collinari, offrono monumenti stupendi di quel periodo: oltre a Perugia, Spoleto, Gubbio, Todi, Orvieto, Assisi unisce alle opere d’arte la fama di città francescana, con le memorie della vita del grande santo, che rivivono negli affreschi giotteschi noti in tutto il mondo.
UMBRIA dettati ortografici e letture L’artigianato L’artigianato sembra corrispondere al genio di un popolo che ama il lavoro preciso, minuto, gentile. Le ceramiche si producono un po’ dappertutto, specialmente a Deruta, ma anche a Gualdo Tadino, Orvieto, Gubbio, Piediluco, Perugia. Si aggiungano le tipografie di Foligno, Città di Castello, Perugia, Todi; i ferri battuti di Perugia, i ricami in bianco ad Assisi, ed ancora a Perugia i lavori in legno ed in cuoio. Proprio l’artigianato riempie Perugia di botteghe-quadro che incantano gli stranieri: alcune in sotterranei gotici ove si scende dalla strada per una scaletta sghemba, e i lavoranti si scorgono, passando, di scorcio; altre in un antro nero e fuligginoso, in fondo a cui rosseggia il fuoco. (G. Piovene)
UMBRIA dettati ortografici e letture Le sorgenti di acque terapeutiche e altre cose L’Umbria è particolarmente ricca di sorgenti minerali. Ma le più importanti si trovano proprio nella zona che va da Narni a Todi. Le acque di Sangemini sgorgano a due chilometri circa al di là dell’abitato. L’eccezionale purezza e leggerezza le fa consigliare a convalescenti e bambini, e son una deliziosa acqua da tavola. Andando per la strada verso Todi si vede, tra il verde del parco, il modernissimo stabilimento albergo dove si fanno le cure, da maggio a settembre, e l’imbottigliamento. I clienti delle acque, e non solo essi naturalmente, hanno una meta eccezionale alle loro gite. A qualche chilometro a nord, su un pianoro erboso che si addossa a calve alture, si trovano i resti della romana Carsulae. Oggi vi si va con una bella strada tutta asfaltata, che insieme agli scavi e alla sistemazione delle rovine, ha valorizzato notevolmente la zona archeologica, la quale senza dubbio è tra le più importanti, se non addirittura la più importante dell’Umbria. Fino a pochi anni fa gli unici segni della città, che sorta sulla via Flaminia acquistò nei secoli dell’Impero importanza e floridezza, erano alcuni tratti di strada selciata a grossi blocchi di travertino incisi dai solchi scavati dalle ruote, lo scheletro di un arco-porta monumentale e il materiale di spoglio che si vede immurato nella umile chiesetta di San Damiano. Gli scavi hanno riportato ora alla luce il teatro e l’anfiteatro, il tempio capitolino e altri edifici del Foro e tutto il percorso urbano della via Flaminia. Sparse sul solitario pianoro erboso, ove tra radi alberi pascolano cavalli e greggi, le bianche rovine suggestionano più che per se stesse, per l’incanto del luogo, la sua solitudine, lo struggente orizzonte e la morbida luce che scende dalle vicine alture. Si diceva delle acque minerali che abbondano nella zona: ed ecco che, procedendo verso Todi, un cartello indica sulla sinistra la sorgente Furapane, che insieme con quella dell’Amerino costituisce il patrimonio terapeutico di un’altra stazione idrotermale, Acquasparta, la quale appare poco dopo la cima a un colle ai margini della strada. Acquasparta non ha la stessa fama di Sangemini, pur possedendo acque di identico tipo. Ma forse la batte in quantità se non in qualità di clientela, di provenienza soprattutto regionale. La batte anche in amenità del sito, aperto e ventilato. Le attività operaie (buona parte della popolazione lavora nelle industrie ternane) più che contadine, dei suoi abitanti le danno un tono vivace e spigliato.
UMBRIA dettati ortografici e letture Le fonti del Clitunno Il Clitunno è un breve fiume che nasce nei pressi di Spoleto e scorre nella conca di Foligno, portando poi le sue acque al fiume Topino. Pur modesto come tanti altri che scorrono nelle valli e nelle conche della regione, è tuttavia famoso per le sue sorgenti, che sgorgano in un luogo fra i più singolari e i più incantevoli dell’Umbria. Le fonti erano molto note anche nell’antichità: gli antichi pagani portavano di preferenza a quelle fonti i buoi destinati ai sacrifici, perchè di purificassero nelle sue acque. Poeti, tra cui Virgilio, ne cantarono la suggestiva bellezza. Le limpide polle di acqua sorgiva, che esce abbondante dalle falde del monte, incominciano a scorrere in molti rivi e laghetti tra le fresche sponde erbose, all’ombra di pioppi e di salici piangenti. Non sfuggì alla suggestione del luogo nemmeno il poeta Giosuè Carducci, che alle fonti del Clitunno dedicò una delle sue odi più ispirate. (F. Botto)
UMBRIA dettati ortografici e letture Il romano Tevere è… umbro Il Tevere non nasce in Umbria, ma vi entra dopo soli 40 km dalla sua origine e vi compie poi circa metà del suo corso. Ma non solo per questo il Tevere può dirsi umbro. Esso è veramente il centro idrografico di tutta la regione,Il lago Trasimeno Il lago Trasimeno, attorno al quale fioriscono numerose leggende, è il più vasto lago dell’Italia peninsulare ed ha sorgenti interne, non riceve acqua da fiumi. Nel lago Trasimeno vi sono varie isole; la più grande non è, come il nome farebbe sembrare, quella chiamata Maggiore, ma l’isola Polvese. Sull’isola Maggiore San Francesco d’Assisi trascorse tutta una quaresima solo, digiunando e facendo penitenza.
UMBRIA dettati ortografici e letture Le province Capoluogo della regione è Perugia, splendida città in posizione elevata, da dove si domina la valle del Tevere. Di grandissimo interesse storico ed artistico sono i suoi monumenti; tra essi l’Arco Etrusco o di Augusto, la Porta Marzia, il Palazzo dei Priori, la Fontana Maggiore, la Chiesa di San Pietro, l’Oratorio di San Bernardino. Vi hanno sede un’antichissima Università e la moderna Università per stranieri. Nelle immediate vicinanze della città sorgono varie industrie alimentari, dolciarie, ecc… Terni è situata sulla Nera, in una verde pianura, circondata da amene colline. E’ una città moderna, con poderose industrie. Fra i suoi monumenti più pregevoli sono il Duomo e le chiese di San Salvatore e di San Francesco. Località notevoli della regione sono Città di Castello (nota per le sue industrie della ceramica e tipografiche), Foligno (centro commerciale e industriale), Spoleto (nota per i suoi insigni monumenti), Gualdo Tadino, Gubbio (dalla schietta impronta medioevale), Assisi, Norcia, Todi, Orvieto (celebre per il suo Duomo meraviglioso e nota per i suoi vini) e Narni.
UMBRIA dettati ortografici e letture Lo sai? Perugia è città di origine etrusca. Fu colonia romana (Augusta Perusia); libero comune nel secolo XI; signoria dei Baglioni; dominio papale dal 1534. Le truppe italiane vi entrarono nel 1860. Diede i natali ad Andrea Fortebraccio, detto Braccio da Montone (1368-1424) e a Nicolò Piccinino (1386-1444) entrambi capitani di ventura; e al Pinturicchio (1454-1513), pittore. Città di Pieve (provincia di Perugia): vi nacque Pietro Vannucci, detto il Perugino (1445-1523) sommo pittore, maestro di Raffaello. Lago Trasimeno (provincia di Perugia): sulla sua sponda settentrionale, nei pressi di Tuoro, l’esercito romano guidato dal console Caio Flaminio, nel 217 aC venne assalito da Annibale e subì una disastrosa sconfitta. Assisi (provincia di Perugia): situata sulle pendici del monte Subasio, è una delle località più suggestive, meta di continui pellegrinaggi, legata com’è al santo cui diede i natali: San Francesco (1182-1226), patrono d’Italia. Dei suoi monumenti, particolarmente degna di nota è la splendida basilica a due chiese sovrapposte, con la tomba del santo e magnifici affreschi di sommi pittori quali Cimabue, Giotto, Simone Martini. A poca distanza sorge la basilica di Santa Maria degli Angeli, con la cappella del Transito, dove san Francesco morì. Ad Assisi è nata anche Santa Chiara (1194-1253) fondatrice dell’ordine delle Clarisse. Gubbio (provincia di Perugia): Il suo nome è legato all’episodio del lupo ammansito da San Francesco. Vi si tengono ogni anno due feste caratteristiche: la corsa dei ceri e il palio dei balestrieri. Norcia (provincia di Perugia): è la città di San Benedetto (480-547), fondatore dell’ordine dei Benedettini, patrono d’Europa. Cascia (provincia di Perugia): nei suoi pressi, a Roccaporena, nacque santa Caterina da Cascia (1381-1457), monaca agostiniana. Todi (provincia di Perugia): Diede i natali a Jacopo Benedetti, detto Jacopone da Todi (1230-1306), poeta religioso autore delle famose Laudi. Foligno (provincia di Perugia): vi si svolge ogni anno, nella piazza principale, la Giostra della Quintana, la cui origine risale al 1600. Narni (provincia di Terni): è la città natale di Erasmo da Narni, detto il Gattamelata (1370-1443), uno dei più valorosi condottieri di ventura. Terni: vi nacque Publio Cornelio Tacito (54-120 aC), uno dei maggiori storici latini. Orvieto (provincia di Terni): Nel suo Duomo si conserva il Corporale del Miracolo, cioè il panno di lino che a Bolsena, nel 1263, si macchiò di alcune gocce di sangue sgorgate da un’ostia consacrata.
UMBRIA dettati ortografici e letture Assisi Assisi è un paese di pace e di soave contemplazione: silenzio nella bella campagna, solitudine nelle ripide stradette. Lo spirito di San Francesco, la mansueta bontà di Santa Chiara pare che nel passato abbiano sopito ogni ira, mitigata ogni truculenza. Non tetri ricordi dunque, e del Palazzo dei Priori, del bellissimo Tempio di Minerva in fuori, nulla che non parli del poverello di Cristo e della sua fedele compagna. Cara Assisi col suo magnifico San Francesco, le antiche chiese, il bel Duomo vetusto, il conventino di San Damiano, dove si dice che San Francesco abbia composto il Cantico del Sole, la Porziuncola laggiù ove egli morì, la Cripta ove riposa e, infine, più bella di ogni cosa, l’Eremo delle Carceri, dove usava ritirarsi a penitenza. Il monte Subasio prende tutto da un lato. Viene giù da mille e duecento metri con una costa facile e dolce e va a finire nella tranquilla pianura umbra. A circa 800 metri c’era, al tempo dei tempi, un oratorio, la chiesuola della Grazia, e intorno un fitto bosco di lecci, dove il sole non trapassa, e dentro il bosco buche e grotte. In una di esse si ritrasse San Francesco a quaresimare, nelle altre lo seguivano i compagni, Leone, Matteo, Elia. Andateci. La mattina è fresca, la montagna odora, il cielo ride sereno sul nostro capo come ai giorni del Santo. Si suona tirando una funicella ed appare un fratino che fa da guida col suo bel sorriso. Mi mostra i cimeli del Santo, veri, autentici. Poi mi conduce in un borro nel bosco. “Questo affossamento” mi dice “è asciutto dal giorno in cui San Francesco, che era nella selva a pregare, si volse all’acqua che scorreva per dirle che gli dava molestia; e la sorella acqua torcè il muso per altro cammino”. Da allora il borro è secco, salvo che in caso di calamità, guerre, pestilenze, terremoti, che sovrastino il paese. Ho veduto anche un crocifisso che il santo portava con sè quando viaggiava, e che morto lui, un Cardinale, contro il volere dei frati, volle a Roma: ma il crocifisso una notte da Roma tornò tutto solo ad Assisi, anzi nell’eremo delle Carceri, e lì si mise e lì rimase. In una cappelletta c’è un dipinto, bello del resto, di un Cristo con le braccia quasi allargate. Uno di questi bracci ha una storia. Si narra che un fraticello dell’eremo, alcuni secoli or sono, venisse a pregare su questi gradini: era sera, era stanco, la preghiera gli morì sulle labbra, lasciò cadere le mani, chiuse gli occhi e si addormentò. Il Cristo dipinto alzò allora un braccio e con la mano aperta percosse la gota del frate dicendo: “Nella casa del Signore si viene a pregare, non a dormire!”. Il fraticello rimase male. (R. Balsamo Crivelli)
UMBRIA dettati ortografici e letture La cascata delle Marmore L’enorme massa ha dapprima un unico salto di quasi cento metri; è una colonna liquida e spumeggiante che si inabissa in una fossa profonda, che con rabbia si è scavata essa stessa, e da cui con furore riesce tosto, e tra un fracasso irato si riversa tra le rocce lucide e splendenti, muggendo, sprizzando, saltando, effondendo un pulviscolo denso come una nube di polvere e che ricade in piccole gocce di rugiada. Le onde, i bollori, i gorghi si insinuano per il letto tempestoso in un biancore smagliante, dove il sole vi riflette tutti i colori dell’iride. A poco a poco le industrie hanno preso parte delle acque del Velino e la cascata si è molto assottigliata. (O. Guerrieri)
UMBRIA dettati ortografici e letture Chi dice Umbria
…dice monti e colline con centri abitati che si aggrappano ai loro fianchi o si posano sulle loro cime come cappelli. L’Umbria non è come la Lombardia, e le sue città non possono permettersi il lusso di offrire agli abitanti di andar comodi senza discese nè salite. I suoi abitati, sottratti alle nebbie della bassura, si incidono come scalinate su coste inverdite dei lecci e argentate dagli ulivi, o coronano le alture spingendo verso il cielo torri e campanili. Trevi parte a mezza costa di un’altura e ne guadagna la cima mettendo file di edifici uno sull’altro, così da dare l’idea di un grattacielo medioevale che, a differenza di quelli d’oggi, i quali aggiungono piano su piano, aggiunge case su case creando una serie di salite senza riposi. Spello è fatta a scivolo: così dolce che ti tira su senza fartene accorgere, e poi te la senti nelle gambe. Una volta entrati in paese, ecco chiese dopo chiese, torri dopo torri, pitture dopo pitture da far di Spello tutta una galleria , finchè arrivi al Belvedere e di lì ti godi una veduta stupenda sulla piana del Topino, con le grandi strade una volta bianche e adesso nere d’asfalto gettate attraverso il verde della pianura. Foligno invece non ha panorama e si fa guardare sulla testa dai paesi che lo circondano. E’ la sorte delle persone basse di statura… Foligno è la soglia di Assisi, centro di una conca con attorno paesi che la guardano dalle loro posizioni arroccate: si distende sulla soglia di quella conca come un grosso cane al sole, in un atteggiamento che non si adatta a una città la quale voglia essere veramente umbra. (A. Fratelli)
UMBRIA dettati ortografici e letture Il pozzo di san Patrizio, a Orvieto A Orvieto, in tempi lontani, c’era scarsità d’acqua, il che indusse il papa, Clemente VII, ad intervenire. Egli ordinò ad un famoso architetto, Antonio da San Gallo, di scavare un profondo pozzo: ciò avveniva intorno all’anno 1527. Egli lavorò per circa dieci anni e costruì il pozzo che esiste tuttora e che è largo 13 metri e profondo 63. Vi si può scendere con due scale (248 scalini ognuna) che si sviluppano a spirale e corrono in una intercapedine situata tra il muro interno del pozzo e il terreno circostante. Per fare un poco di luce a chi scende nel profondo baratro, furono aperte nel muro 72 finestre… A 60 metri di profondità si trova l’acqua. Un’opera ingegnosa ed ardua per quei tempi, dettata dal bisogno di un elemento prezioso quale è l’acqua; un’opera che merita di essere visitata e ammirata. Ora però Orvieto, più che per l’acqua è celebre per il suo vino.
UMBRIA dettati ortografici e letture Terni, la città del ferro e del fuoco Le acciaierie occupano l’area di un mezzo paese. Fantastico paese del fuoco e del ferro, che ha capannoni grandi come chiese, ciminiere alte come campanili; sempre in movimento, attraverso un velo di fumo e di polvere, tra stridere di macchine e rimbombare di magli. I forni offrono uno spettacolo dei più belli. Lungo l’intera parete di un capannone sono allineate le bocche di quei grandi forni mai spenti, ed il loro altissimo calore si irradia ben lontano. Di tanto in tanto bisogna dar da mangiare ai forni, cioè versare in quel gran fuoco del nuovo minerale, per aumentare la pasta incandescente… Ma vediamo qualcosa di straordinario, una colata. Si chiama colata l’operazione per la quale il metallo incandescente e liquido viene versato negli stampi. Un immenso secchio, sorretto da alte catene, ed un dato comando si muove e va a mettersi sotto la bocca del forno; il coperchio si alza, ed ecco uscir fuori dalla larga apertura un’ondata, un rivo di metallo liquefatto, che ha il color rosso e dorato del fuoco. La terribile ondata (è acciaio) si versa nel secchio, schizzando da ogni parte scintille vive, abbaglianti. Fra quei fulgori, gli operai sembrano uomini miracolosi. Poi il secchio, colmo fino all’orlo, si muove lentamente e va a collocarsi sopra la lunga fila degli stampi. Con una delicatezza di movimenti che non si immaginerebbe in quel colosso, il secchio si alza da un lato, si piega in avanti e versa dal beccuccio il suo tremendo liquido nella forma di terra refrattaria. Così di passo in passo, di secchio in secchio, con estrema esattezza, fino al termine della fila. Il minerale si raffredda, si solidifica, e dalla forma aperta esce un bel pane di metallo. Nelle acciaierie di Terni si fabbricano corazze per le navi da guerra, ruote per le locomotive, verghe per la ferrovia, fili di ferro e di acciaio di vari spessori, prodotti che fanno onore alla metallurgia nazionale.
UMBRIA dettati ortografici e letture Umbria
Fior d’amaranto, all’Umbria diede il cielo l’ornamento di ricche messi e d’un bel verde ammanto. Qui nacque il Santo Abate che il lavoro prescrisse unito con le preci in coro e nacque inoltre il Santo dell’amore, che dell’Italia nostra è protettore.
UMBRIA dettati ortografici e letture Viti e uva ad Orvieto La fama di Orvieto poggia du due solidi pilastri: il suo Duomo, che è un miracolo dell’arte; e il suo vino che è un miracolo di natura… Del paesaggio agricolo, la vite è elemento essenziale, ma non esclusivo. Qui, secondo un sistema che rispecchia ancora un’economia patriarcale, e sembra tuttora il più redditizio, vige la coltura promiscua. La vite si alterna all’olivo e fra alberata e alberata, opportunamente spaziate, rosseggia il maggese ed esplode, d’estate, il biondo del grano. Le uve che qui si producono sono di specie diversa e si alternano una all’altra nello stesso vigneto. Rare sono le nere, perchè di resa mediocre. La gamma delle bianche è la più differenziata; ognuna ha la sua grana, il suo colore e sapore. C’è il ‘verdello’ dolcissimo di chicco piccolo e duro, con la buccia verdognola, che si macula a maturazione, di tenera ruggine; c’è il ‘procanico’ liquoroso, dal grappolo lungo; il ‘rupeccio’ con grani grossi compatti, di sapore asprigno; la pendula ‘malvasia’, il ‘grechetto’, che dona il più ricercato vin santo; c’è, sebbene meno pregiata, al pari del ‘montonico’, la grassa ‘vernaccia’ acquosa e caramellosa, ma di straordinaria resa. La sapiente mescolanza di queste uve nella vinificazione, gioca sul grado di alcolicità del vino e sulla forza e delicatezza del suo profumo e sapore. Sta nella qualità delle uve, che il terreno e il sole insaporiscono di specifiche, irripetibili sapidezze, il segreto primo dello squisito ‘Orvieto’. (A. Sestini)
UMBRIA dettati ortografici e letture La leggenda della Verna La Verna è il monte sacro dei francescano. Qui san Francesco ricevette le stimmate, il 14 settembre 1224. Oggi vi si ammira un grande monastero. Questo è unito alla chiesa da un corridoio. Ogni notte i frati lo percorrono per riunirsi in chiesa a pregare, nella cappella delle Stimmate. Una notte, mentre fuori fischiava il vento e turbinava la neve, il corridoio pareva più freddo del solito e i frati non lasciarono la cella e non si recarono a pregare. Allora gli animali del bosco lasciarono la loro tana, percorsero il corridoio e rimasero in chiesa al posto dei religiosi. Essi, il giorno dopo, si accorsero del fatto, osservando le impronte lasciate dagli animali sulla neve. E neve nel corridoio e ancora neve in chiesa. Neve abbandonata dagli zoccoli e dalle zampe degli animali. Da allora i frati, per quanto il freddo incrudelisse, non hanno mai tralasciato di raggiungere la cappella nel cuore della notte. (A. Santi)
UMBRIA dettati ortografici e letture La leggenda di Todi L’origine della città di Todi risale ai tempi in cui una tribù di Umbri si accampò presso il Tevere. Narra la leggenda che la principessa di questa tribù stava un giorno bagnandosi nel fiume quando, improvvisamente, vide calare dal cielo un’aquila, ghermire una parte delle vesti della fanciulla, alzarsi in volo verso il vicino colle e scomparire fra gli alberi che ne coprivano la cima. La principessa non esitò. Uscì dal Tevere, si avviò su per il colle e, raggiuntane faticosamente la vetta, ebbe la lieta sorpresa di trovarvi le sue vesti. Guardandosi attorno non poca fu la sua meraviglia, stupita dalla bellezza del panorama che le si apriva davanti: laggiù la valle del Tevere appariva rigata dalle argentee acque del fiume e dei suoi affluenti; e la cingevano, tutt’intorno, boscose schiere di colli simili a onde di smeraldo coronate a loro volta da un’austera chiostra di montagne. Che spettacolo incantevole! La principessa ne era commossa e pensava: “Dirò al re, mio padre, che ci porti ad abitare qui, sulla cima di questo colle”. E difatti così avvenne. La tribù si trasferì sul colle, vi costruì le prime casupole e la vita di Todi ebbe inizio.
UMBRIA dettati ortografici e letture L’Umbria e il suo santo Siamo in Umbria, nella terra dei Santi e dei pittori, breve regione senza mare, raccolta fra le sue colline come un nido tra i rami di un albero, con le valli dove cresce il cipresso e dove si apre qualche sereno occhio di lago. Il paesaggio umbro, come quello toscano, è intimamente italiano: non ha forse lo splendore del paesaggio napoletano, né le vastissime luci distese che fanno così belli i nostri cieli settentrionali, ma è quieto, sognante, raccolto. Quando i nostri pittori del Quattrocento, dipingendo i quadri della vita di Gesù, dovettero raffigurare i colli, i fiumi di Palestina, non andarono laggiù, ma trovarono che la terra umbra, con le sue verdi colline, i suoi ruscelli e i suoi cieli al tramonto e all’alba, entro i quale era così bello immaginare voli di angeli e corone di cherubini, era ben degna di incorniciare la figura del figlio di Dio. Assisi è nel cuore di questa terra. Il più grande dei santi, san Francesco, è nato, ha predicato ed è morto qui. Una grande chiesa, una chiesa a tre piani, l’unica al mondo costruita così, è dedicata alla sua memoria, eretta nel campo dove un tempo si seppellivano i giustiziati e dove, nella sua umiltà, il santo volle essere oscuramente sepolto. (O. Vergani)
UMBRIA dettati ortografici e letture Antichi usi e costumi I sentimento religioso, profondamente radicato in un popolo come questo, attaccato alle tradizioni, si manifesta tra l’altro con ingenui racconti intorno alla vita di alcuni santi (Alessio, Antonio, Caterina, ecc.) oppure intorno alla Passione. Tali racconti, che vanno sotto il nome di ‘orazioni’, e sono considerati vere e proprie preghiere, sono cantati dai contadini nelle stalle durante le serate invernali. Ogni paesino ha la sua Confraternita intitolata al santo del luogo: le entrate (elemosine, offerte) sono amministrate dai ‘santesi’ che preparano e organizzano le feste patronali. Non mancano residui di superstizioni antiche come quelle ispirate dal terrore della morte; il sacerdote che porta il viatico a un morente non deve lasciar appoggiare la croce al muro della casa per evitare che vi resti appesa la morte e se una persona presenzia al decesso, deve fermarsi nella casa del morto per nove giorni affinché non porti in giro i germi della morte. Nelle campagne si usa raschiare un po’ di intonaco dalle pareti di una ‘maestà’ (così sono chiamate le piccole cappelle sparse un po’ ovunque), racchiuderlo in sacchetto di tela e porlo al capezzale dell’ammalato; se questo muore, il sacchetto viene collocato nella bara; se guarisce, viene appeso come ex-voto in quella maestà. I frati di alcuni conventi praticano ancora l’esorcismo, cioè la cacciata del diavolo da persone che ne sono credute invase: ma usano delle precauzioni per evitare che i diavoli, usciti dall’indemoniato, provochino temporali o grandinate. La mattina del matrimonio, lo sposo, a cavallo con un certo numero di amici, si presenta alla casa della sposa e provoca la finta scena del suo rapimento. Segue la cavalcata nuziale fino alla chiesa. La cucina umbra è tanto appetitosa quanto semplice e, come condimento, vi predomina lo squisito olio delle sue colline, accompagnato dai celebri tartufi neri e dal non meno famoso vino di Orvieto. La più antica e caratteristica minestra è quella di farro che si ottiene facendo lentamente cuocere questo cereale, in un brodo di cosciotto di maiale. (A. Basetti Sani – 1967)
UMBRIA dettati ortografici e letture Feste tradizionali ad Assisi Le principali feste tradizionali in Assisi sono: la festa del Perdono, la festa di San Francesco, la festa del Voto. La festa del Perdono dal punto di vista religioso è la più famosa e richiama alla città un numero talvolta eccezionale di pellegrini. Essa ebbe origine, nel 1223, dalla concessione che papa Onorio III fece personalmente a San Francesco di un’indulgenza plenaria: peccati e pene a quelli annesse ottengono il perdono totale dopo la confessione, la comunione e la visita alla Porziuncola in Santa Maria degli Angeli. Dal 31 luglio al 2 agosto immense folle di fedeli, tra cui moltissimi vestiti nei caratteristici costumi regionali, sciamano per le vie della città, salgono all’eremo delle Carceri e scendono in pianura a Santa Maria degli Angeli, per pregare alla Porziuncola, alla cappella del Transito e a quella del Roseto. Nella grande Basilica, dal vespro del 31 luglio ha inizio la commovente veglia notturna che si protrae con solenni funzioni fino al mattino del 1 agosto. La festa di San Francesco viene celebrata tra il 3 ed il 4 ottobre. La mattina del 3, nella Chiesa Inferiore dedicata al Santo, del quale in quel giorno si commemora la morte, dai vari comuni d’Italia viene effettuata la simbolica offerta dell’olio per la lampada votiva che sempre arde davanti alla tomba di San Francesco. Al tramonto dello stesso giorno è rievocato, in modo emozionante, il Transito, cioè la morte del Poverello di Assisi, e tale rievocazione, viene ripetuta poi, a tarda sera, anche nella basilica di Santa Maria degli Angeli. La festa del Voto si svolge tra il 21 e il 22 giugno a ricordo della vittoria del 1241 sui Saraceni per opera ed intercessione di Santa Chiara. La sera del 21 giugno e mura, le torri, i campanili, le case si illuminano con migliaia di fiaccole. Tutto il popolo di Assisi rievoca la veglia d’armi, durante la quale Santa Chiara con le compagne pregò in San Damiano per ottenere che la città restasse libera e fosse così salva dai Saraceni. E’ uno spettacolo veramente fantastico! (A. Basetti Sani – 1967)
UMBRIA dettati ortografici e letture Giostra della Quintana Questa rievocazione storico-cavalleresca, che si tiene a Foligno, risale al 1613. La Quintana è un fantoccio di legno, infisso in un perno girevole, che sorregge col braccio sinistro uno scudo e impugna con la mano destra un bastone munito di un anello. La Giostra, che si corre in settembre nel Campo dei Giochi, è una gara di destrezza fra dieci cavalieri che rappresentano altrettante contrade storiche della città: Ammanniti, Badia, Cassero, Contrastanga, Croce Bianca, Giotti, La Mora, Spada, Morlupo, Pugilli. Il cavaliere, compiendo il percorso al galoppo nel più breve tempo possibile, deve infilare con la lancia l’anello della Quintana ed evitare di perdere il cappello, in mantello, la staffa o altro. La manifestazione si apre con la lettura del bando fatta dal balcone del Municipio ed è preceduta, la vigilia, da uno sfarzoso corteo di circa 500 persone in costume del 600: dame e cavalieri, valletti e palafrenieri, alabardieri, trombettieri e tamburini, che sfilano di sera attraverso la città alla luce di fiaccole e bengala. L’attrattiva della Giostra è costituita oltre che dalle prove di destrezza dei cavalieri, dallo scenografico spettacolo di questa massa in costume nella quale ai colori delle sete e dei broccati e allo splendore delle bellezze muliebri fanno riscontro lo sfolgorio delle corazze e delle armi e l’austerità dei magistrati. (F. Monaco)
UMBRIA dettati ortografici e letture La festa dei ceri a Gubbio Come si fa a farla capire a chi non l’ha mai vista? Tutta la città brucia e risplende in una specie di gioioso delirio. Non c’è una posta, non c’è competizione sportiva, non c’è un palio da vincere e da conservare per un anno nella contrada, come in altre mirabili feste italiane. Nella forsennata corsa sul Monte con le tre pesanti macchine, fino al convento di sant’Ubaldo, con cui si conclude al crepuscolo la grande giornata, non c’è un primo e un ultimo arrivato. I Ceri non devono sorpassarsi, né d’altronde lo potrebbero per quell’aspro viottolo; essi giungono lassù nell’ordine stabilito da sempre: Sant’Ubaldo, San Giorgio, Sant’Antonio. Soltanto se un schiera rallenta per un attimo la massacrante andatura, viene sbeffeggiata da quella che incalza. Si deve arrivare tutti insieme, ma nel minor tempo possibile. I Ceri non dividono ma uniscono l’anima di Gubbio. E i ceraioli sono ricchi e operai, professionisti e commercianti, possidenti e contadini. Lo spettacolo vero, il fatto straordinario e forse unico, quello che ti attira e trascina, ti fa fermare, lacrimare, urlare, è nello spontaneo entusiasmo di tutto il popolo, nella passione che prorompe irrefrenabile diresti non solo fagli uomini, ma anche dal cielo e dalle pietre… Questo, nessuna parola lo potrà mai dire. (M. Carafoli)
UMBRIA dettati ortografici e letture Umbria
Situata proprio nel cuore della penisola, tutta a monti e a colline, essa si apre in conche e pianure lungo il Tevere che la attraversa, e lungo i suoi affluenti, che la rendono verde di muschi, di viti, di ulivi, di gelsi. Regione dunque essenzialmente agricola, in cui però non mancano le industrie (acciaierie, industrie delle ceramiche e delle maioliche artistiche, industrie dolciarie ed alimentari). Il capoluogo è Perugia, alta sopra il suo colle, con monumenti importanti, come il palazzo del Comune, la Cattedrale, l’arco Etrusco. Ricordiamo il pittoresco lago Trasimeno, le sorgenti del Clitunno che scorrono limpide tra i salici; Spoleto, cinta di mura e dominata dalla rocca, Orvieto con il meraviglioso Duomo, Assisi dove visse San Francesco.
UMBRIA dettati ortografici e letture Dolcezza umbra
Penso che l’Umbria è proprio questo: città e uomini con radici nel passato così profonde da essere ancora visibilmente vicini ad esse. Perciò i suoi artisti e i suoi santi poterono fondere nell’arte e nella religione l’amore della natura e delle cose della natura con l’amore degli uomini, in un dialogo che ha creato quella dolcezza che è il dono dell’Umbria e che è così raro, nei nostri tempi, trovare. Qui si riconquista quella dolcezza, anche se il destino moderno dell’Umbria sembra ripetere quello dell’Etruria sua madre. Tanta incantevole pace si paga dagli Umbri con un sentimento di abbandono, di segregazione. Nei loro discorsi, un po’ amari, ho scoperto un rammaricato rimprovero a tutti gli italiani. Molti mi hanno detto che l’Umbria è stata dimenticata o, come approfittando della sua dolcezza, la si lascia languire e intristire economicamente. (G. Russo)
Umbria verde
In realtà l’Umbria, se se ne toglie qualche angoletto come le fonti del Clitunno o il Monteluco, non è più verde del Canavese o della Brianza; anzi il verde vi è meno deciso per lo spesseggiare delle pallide macchie degli uliveti e l’affiorare della roccia non appena i bordi dei pianori cominciano a guadagnare l’altezza e le colline a diventare montagne. Allora la civilissima campagna, cosparsa di fattorie, di ville, di borghi, e paesi compatti nella loro cinta di mura medioevali, si inselvatichisce e si spacca in burroni dove il verde si aggrappa a rupi che scoprono l’ossatura calcarea dell’Appennino umbro. E la stessa vegetazione dei fertili pianori non è tutta dolce di pioppi dalle foglioline tremolanti, ma vigilata qua e là da severi cipressi e da querce vigorose che vi stanno come le torri e le rocche degli abitanti. (A. Fratelli)
Gubbio silenziosa
Sotto la montagna di Gubbio la campagna verde tagliata in rettangoli geometrici come pezze di diversi colori, fa posto a un paesaggio brullo, con boschi dal verde cupo dei lecci e sassi bianchi la dove la montagna fu spogliata. Nella città del lupo si entra per un vecchio arco e subito vi sorprende il silenzio straordinario che vi accoglie. a città pare deserta, abbandonata, e neanche la domenica vi sono automobili fastidiose. Dalla vasta piazza che è ai piedi delle mura si resta ad ammirare i palazzi e le case che si alzano sulle collina. Se si vuole ritrovare la nobile pace della provincia italiana, si deve venire a Gubbio, a riscoprire l’Umbria rimasta silenziosa e vergine, schiva e gentile. (G. Russo)
L’albero dell’Umbria
L’ulivo è l’albero dell’Umbria. Collane di ulivi cingono i poggi con il loro grigio- verde, discendono sul lago, si arrampicano sui monti, fin dove il freddo non li respinge, contenti di poca terra, avviticchiando le radici alla roccia. Sono, massime in alto, piccoli ulivi fenduti, squartati, smidollati per resistere alle malattie di un clima troppo rigido, non più tronchi, ma cortecce bucate, nodose, contorte, che di notte sembrano anime in pena protendenti le braccia alle stelle. Essi stendono sul paesaggio una velatura di malinconia, e danno la ricchezza di un olio saporito come il burro, e biondo come il sole. Se la nota dominante dell’Umbria è la pace, questa pace nasce dal martirio. Come l’ulivo. (M. Sticco)
Il Trasimeno
Il Trasimeno… un lago del silenzio e della solitudine. Tolti i battelli del servizio di circumnavigazione e qualche motoscafo, non vi sono che le barche dei pescatori che si costruiscono ancora come tanti secoli fa, con il ventre piatto per il basso fondo e con la prua sopravanzata per varcare i canneti. A ritrovarsi nel mezzo del lago si ha la sensazione di un vastissimo spazio, una sensazione che può dare solo il Trasimeno perchè non lo circondano montagne elevate né scogliere a picco, ma colline dolcemente sfumate e digradanti. Sulle colline biancheggiano vecchi castelli e le antiche abbazie. Le tre isole, la Polvese, la Maggiore e la Minore, sonnecchiano immerse in una luce celeste. (O. Guerrieri)
Assisi
Quando si sale verso di essa dalla pianura di Santa Maria degli Angeli, la città si presenta chiara e luminosa, tutta distesa a scaglioni sovrapposti lunghi e sottili, da San Francesco, con le enormi costruzioni del sacro Convento, al campanile alto e snello di Santa Chiara e , più in su, alla torre poderosa e scura del Duomo. Tutta in pietra di Subasio, rossa e grigio chiara, la città manda agli occhi un fulgore di luce quasi orientale. Più di accresce l’effetto in certi tramonti accesi, quando il largo dorso del Subasio, sovrastante alla città, assume un rosso di fiamma, quale massa di metallo incandescente. La vista di Assisi sfolgorante suscita allora l’impressione di un paradiso lontano, misterioso e inaccessibile. Colore e linee si fondono senza scomparire, in una lenta continua oscillazione di luce e d’ombra; e tutte le cose comunicano fra loro e con lo spirito di che guarda, in una mistica unità. Accade talvolta che su questa assorta contemplazione arrivi il rintocco lento, solenne, oscillante della campana di San Francesco; vicinissima, e che pur sembra risonare da una misteriosa lontananza, direttamente dal cielo. Suono e visione, l’uno nell’altra, rapiscono lo spirito: non si guarda più e non si ascolta: il tempo si annulla e un attimo vale un secolo. Per quell’attimo, Assisi è il vestibolo dell’eternità- (L. Salvatorelli)
Le pianure italiane materiale didattico vario per la scuola primaria.
Le pianure italiane La Penisola Italiana, circondata a Nord dalle Alpi e percorsa in tutta la sua lunghezza dagli Appennini, presenta poche e non vaste pianure. L’unica che meriti tale nome è la pianura padano-veneta. Le altre o sono ristrette e limitate fasce costiere oppure sono conche interne, chiuse tra le catene dell’Appennino.
La Pianura Padana Con i suoi 46.000 kmq di superficie, la Pianura Padana è la più vasta delle pianure italiane ed occupa da sola circa 1/7 della superficie totale del territorio italiano. E’ situata in quella zona che alla fine dell’era terziaria non era che un vasto golfo del Mare Adriatico. I detriti trasportati dal Po e dagli altri fiumi provenienti dalle Alpi e dall’Appennino Settentrionale respinsero gradatamente l’acqua marina, colmarono il golfo, trasformandolo prima in laguna, poi in palude ed infine in terreno compatto e fertile. Dall’estremità meridionale dei laghi è breve il passo alla pianura. Già i fiumi che ne escono nel loro andare calmo e largo lo preannunciano. A destra e a sinistra delle loro rive i colli man mano si abbassano e si discostano; le ultime ondulazioni si vanno spianando come gli orli di un manto regale che si adagino al suolo. Comincia la grande pianura padana che insensibilmente degrada dalle Prealpi verso la lunghissima ruga trasversale in cui scorre il Po e poi insensibilmente risale verso le prime pendici dell’Appennino. L’orizzonte si fa sterminato, il cielo si distende a perdita d’occhio, sparso di nuvole bianche, sopra la terra di un verde uguale e intenso, rigata da strade dritte, fitta di città popolose e operose. Eppure anche questa grande e bella e ricca Valle Padana è il risultato di una millenaria e dura e oscura fatica. Nell’età in cui la valle del Po giaceva ancora fuori d’Italia, di là dal civile dominio di Roma, i rudi coloni cominciarono con infaticabile pazienza a costruir difese contro le acque rapinose, a colmare gli stagni, a spianare i campi, a dissodare le macchie, a mondare la terra, a coltivarla, e così di generazione in generazione, di secolo in secolo, finchè questa terra è diventata una delle più produttive regioni agricole d’Europa. Oggi, soltanto qualche meandro dei maggiori fiumi, là dove essi si svolgono lontani dagli abitati entro più folte cortine di boschi, può ancora evocare la solitudine del paesaggio primordiale. Per tutta la restante ampiezza della sua superficie, la valle del Po è una maglia fittissima e interrotta di canali, di argini, di filari, d’alberi rettilinei, di strade, di rotaie, di fasci di fili elettrici, di città e di villaggi posti ai punti di incrocio dei traffici secondo un piano che, osservato dall’alto, dà l’impressione di un disegno eseguito dall’ingegnere di una gigantesca bonifica.
Le pianure minori italiane Le altre pianure italiane sono piuttosto piccole e quasi tutte situate in vicinanza del mare. Sono per lo più dovute al lento e progressivo depositarsi dei detriti che i fiumi erodono dai monti e spingono verso il mare. Le principali sono: – il Valdarno inferiore, la Versilia e la Maremma Toscana in Toscana; – la Campagna Romana e l’Agro Pontino nel Lazio; – la Pianura Campana, formata dai depositi alluvionali del Volturno e dall’abbondante materiale vulcanico eruttato dai vicini crateri di Roccamonfina, dei Campi Flegrei e del Vesuvio, e la Piana di Pesto, in Campania; – la Terra d’Otranto e il Tavoliere in Puglia; – la Piana di Catania, formata dai depositi alluvionali del Simeto, in Sicilia; – il Campidano, tra i golfi di Cagliari e di Oristano, in Sardegna. Fra le pianure interne ricordiamo: – la Pianura di Pistoia e di Firenze e la Val di Chiana in Toscana; – la Conca di Spoleto, la Conca di Foligno e la Conca di Terni in Umbria; – la Conca dell’Aquila, la Piana di Sulmona e la Conca del Fucino, in Abruzzo.
Come nacque la Pianura Padana La pianura del Po è filiazione diretta dei due sistemi montani delle Alpi e dell’Appennino, nel senso che è nata effettivamente per l’accumulo di materiali rocciosi derivati dalla loro graduale demolizione ad opera dell’aria e dell’acqua, erosi e trasportati in basso da ghiacciai, da torrenti e da fiumi, e da questi ridotti in ciottoli, in ghiaia, in sabbia, in melma. E’ certo che se la montagna ha fornito i materiali, il maggior lavoro nella gigantesca impresa l’hanno compiuto i fiumi. All’uscita delle valli, che avevano percorso ripidi e impetuosi, essi venivano perdendo velocità e capacità di trasporto. Avveniva quello che anche oggi possiamo vedere allo sbocco di valli secondarie nella principale e cioè la formazione di cumuli appiattiti costituiti di massi e ciottoloni, primi depositi perchè più voluminosi e più pesanti. Tanti erano i maggiori fiumi alpini e appenninici sboccanti al piano, altrettanti furono questi cumuli. E per il loro sviluppo in estensione, vennero stabilendosi dei contatti fra l’uno e l’altro, così da dare in complesso origine a un piano inclinato, a partire dalle falde alpine e appenniniche.
Pianura Padana Nel paese di mia madre v’è un campo quadrato, cinto di gelsi. Di là da quel campo altri campi quadrati, cinti di gelsi. Rogge scorrenti vi sono, tra alti argini, dritte, e non si sa dove vanno a finire. La terra s’allarga a misura del cielo, e non si sa dove vada a finire. Nel paese di mia madre v’han ponti di nebbia, che il vespro solleva da placidi fiumi; varca il sogno quei ponti di nebbia, mentre le rive si stellan di lumi. Pioppi e betulle di tremula fronda accompagnan dell’acque il fluire; quando nei rami s’impigliano gli astri, in quella pace vorrei morire. Nel paese di mia madre un basso tugurio sonnecchia sul limite della risaia e ronzano mosche lucenti, ghiotte intorno ad un ammasso di concio. Possanza di morte, possanza di vita, nell’odore del concio; ne gode la terra dall’humus profondo, sotto la vampa d’agosto che immobile sta. Nel paese di mia madre quando il tramonto s’insanguina obliquo sui prati, vien da presso, vien da lontano una canzone di lunga via; la disser gli alari alle cune, gli aratri alle marre, le biche all’aie fiorite di lucciole, vecchia canzone di gente lombarda: “La violetta la vaa la vaaa…”. (A. Negri)
Origine delle pianure Le varie pianure, pur conservando sotto certi aspetti qualche tratto comune, si differenziano molto l’una dall’altra. Anche tra le pianure fertili e coltivate, comprese nelle zone temperate (come ad esempio tutte le pianure italiane), si manifestano notevoli differenze, a seconda della relativa estensione, della rete idrografica sufficiente o no all’irrigazione, ma, soprattutto, in relazione alla loro origine. Infatti on tutte le pianure si sono formate nello stesso modo. Pianure alluvionali sono quelle che si sono venute formando, nel lungo corso di secoli e millenni, per l’erosione dei fiumi che scendendo a valle, portarono con sè ogni sorta di detriti e colmarono in tal modo laghi, golfi, insenature. Tipico esempio di pianura alluvionale è la Pianura Padana, costituitasi per l’apporto di limo e di detriti del Po, là dove un tempo esisteva soltanto un golfo marino. I depositi alluvionali hanno, come conseguenza, il continuo avanzamento della foce dei fiumi, e l’arretramento di città che da costiere diventano sempre più di terraferma (vedi ad esempio Adria, un tempo celebrato porto sull’Adriatico ed ora distante circa venti chilometri dalla costa). Le pianure alluvionali in genere sono costituite da ottimo terreno dalla composizione assai minuta, detto “terreno di medio impasto” perchè contenente in giuste proporzioni silice, argilla, calcare e humus, complesso di sostanze organiche putrescenti, cariche di batteri, indispensabile al processo vegetativo: così che il terreno alluvionale permette una ricca e varia vegetazione, anche di quelle colture che trovano l’optimum in altri tipi di terreno (come certo terreno vulcanico per gli ortaggi, il terreno di collina per vini scelti e frutta, certo terreno di costa per agrumi e fiori). Alcune pianure, dette strutturali, sono dovute a sollevamenti dei fondali marini a piattaforma; altre sono costituite da ceneri e da frammenti di lava eruttati dai vulcani: sono le pianure vulcaniche; vi sono poi le pianure di bacino lacustre, così chiamate perchè si sono formate da riempimento alluvionale entro conche lacustri (e perciò alla testata dei laghi subalpini). E’ facile trovare, in tali piane, delle miniere di lignite, dovute all’accumulo di alberi trascinati nella conca dai fiumi o cresciuti sul fondo della conca stessa prima del riempimento alluvionale. Abbiamo dunque, secondo l’origine, quattro tipi di pianure, che in Italia sono così distribuite: – alluvionali: Pianura Padano-Veneta 46.000 kmq di superficie, di fronte ai 15.000 di tutte le altre pianure assommate); il Campidano in Sardegna; le piane dell’Arno in Toscana e del Crati in Calabria; la piana di Catania in Sicilia; l’Agro Pontino, – strutturali: Tavoliere di Puglia e altre minori, – vulcaniche: la Campagna di Roma e quella Campana, – di bacino lacustre: Piane della Val Tiberina, d’Assisi, di Terni, di Spoleto, di Gubbio, del Mugello, del Casentino, ecc…
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I laghi italiani materiale didattico vario per la scuola primaria: dettati, letture, materiale per ricerche, mappe e cartine. In fondo alla pagina trovi altri articoli sull’argomento: i laghi in generale, leggende sui laghi italiani, ecc…
I laghi alpini Frequentissimi in tutta la cerchia alpina, sembrano gemme strappate al nostro bel cielo per ricreare lo spirito di chi sa raggiungerli. Se ne scoprono a tutte le altitudini, anche sopra i 3000 metri, come è il caso del bellissimo Lago Azzurro di Cima Tessa, nelle Alpi Venoste (m 3045). Ognuno ha un nome spesso suggerito dal colore delle acque (Lago Verde nel gruppo del Monte Rosa; Lago Blu in cui si specchia il Cervino, ecc…) o dalla località in cui si trova (Laghetti di Resia presso il passo omonimo; Lago di Carezza nelle Dolomiti, ecc…); ognuno ha una sua particolare bellezza che non si dimentica. Sono quasi sempre dovuti all’opera di escavazione dei ghiacciai ed hanno generalmente dimensioni modestissime. L’uomo però ha imparato ad ampliarli, ad arricchirli di acque con dighe e sbarramenti, allo scopo di trasformarli in preziosi serbatoi per le centrali idroelettriche. Altri laghi, prodotti dalla glaciazione quaternaria, sono quelli racchiusi entro anfiteatri morenici: nell’anfiteatro di Rivoli Torinese i due laghi di Avigliana (Grande e Piccolo); nell’anfiteatro di Ivrea il lago di Candia e il lago di Viverone; tra le morene frontali del Varesotto e della Brianza, i laghi di Monate e di Comabbio; il lago di Varese di Biandronno; il lago di Montorfano; i laghi di Alserio, di Pusiano, di Segrino, di Annone. Nel Friuli, intermorenico è il lago di San Daniele.
I laghi prealpini Passando in rassegna i nostri laghi prealpini cominciando da occidente, troviamo il lago d’Orta, tutto in territorio piemontese (lunghezza sulla mediana km 13,4; perimetro km 33,5; area kmq 18; altezza allo specchio m 290 s.m.; profondità massima m 143; media m 71); è un lago a deflusso invertito cioè con lo scarico delle acque non verso sud, ma verso nord. Con la sponda occidentale in Piemonte e quella orientale in Lombardia e l’estremità a nord nel Canton Ticino è il Lago Maggiore o Verbano, il secondo d’Italia per vastità (lunghezza sulla mediana km 13,4; perimetro km 33,5; area kmq 18; altezza allo specchio m 290 s.m.; profondità massima m 143; media m 71);(lunghezza km 65; larghezza da km 2 a km 4,5 secondi i luoghi; perimetro km 166; area kmq 216; profondità massima m 372). Suo immissario, con altri corsi minori, è il Ticino, che ne esce unico emissario a Sesto Calende. Ha un golfo importante, il Golfo Borromeo o di Pallanza. Di fronte alla riva tra Baveno e Stresa sorgono le Isole Borromee. Alle alluvioni del fiume Toce è dovuto il distacco, dal bacino maggiore, dell’attuale Lago di Mergozzo. Il Verbano ha un bacino l’impluvio vastissimo: il livello del lago è quindi assai variabile. Molto pescoso, ha importanti centri turistici: Stresa, Baveno, Verbania, Cannero, Luino, Laveno. Tributario del lago Maggiore per messo del fiume Tresa è il Lago di Lugano o Ceresio, in buona parte in territorio svizzero (lunghezza massima km 12; area 49 kmq; larghezza massima 3 km; profondità massima 388 m). Fra monti elevati si stende coi suoi rami il suggestivo Lago di Como o Lario. Da nord, dove l’Adda sbocca dalla Valtellina, si spinge fino al promontorio di Bellagio col nome di Lago o Ramo di Colico; poi si biforca nei due rami di Como e di Lecco (lunghezza fra Como e Gera 50 km; lunghezza del ramo di Lecco 19 km; area 146 kmq; larghezza minima 650 m; larghezza massima 4,4 km). Due i principiali tributari: l’Adda e la Mera; unico emissario l’Adda che, lasciato il ramo di Lecco, si allarga poi a formare i due laghi di Garlate e di Olginate. Sempre procedendo verso oriente, le Prealpi racchiudono i più modesti laghi di Endine o di Spinone nella bergamasca Val Cavallina; di Idro o Eridio nella bresciana valle delle Chiese (oggi trasformato in bacino idrico artificiale); di Ledro nella trentina valle omonima. Ben più importante il lago di Iseo o Sebino, per metà bergamasco e per metà bresciano, che occupa il fondo di sovrescavazione glaciale della Valcamonica (altezza m 185; lunghezza 25 km; larghezza massima 4,7 km; area 62 kmq; profondità massima 251 m). Immissario è il fiume Oglio. Dalle azzurre acque del Sebino emerge Montisola, la maggiore isola lacustre italiana (4,5 kmq; altezza m 600). Ed eccoci al Lago di Garda o Benaco, il maggiore dei laghi italiani, “vastissima conca dall’empito marino” come la definisce il Morandini, che da Desenzano si protende per quasi 52 chilometri sino a Riva, quasi congiungendo la pianura lombarda, attraverso dolci colline moreniche, alle giogaie alpine (profondità massima 346 m; area 370 kmq; perimetro 155 km; larghezza massima 17,5 km; larghezza minima 2,4 km). Fra i due grandi golfi di Desenzano e Peschiera si protende nel lago la catulliana “perla delle penisole” Sirmione, nota anche per la fonte termale subacquea della Boiola. Modesto è il bacino d’impluvio del Garda, per cui poco rilevanti sono le variazioni di livello. L’immissario più importante è il Sarca, ma piccoli torrenti scendono nel lago da tutti i versanti. Emissario è il Mincio, a Peschiera. Unica isola notevole è quella di Garda, a est di Salò. Data la vastità, nel Garda, più che in altri laghi, sono accentuate le sesse; vi è anche una forte corrente profonda, il corrivo.
Come sono nati i laghi prealpini
E’ ormai accertato che con l’erosione glaciale è connessa l’origine dei laghi prealpini. Dall’esame della posizione del materiale che costituisce l’alta pianura lombarda si può lecitamente dedurre che, quando sono scesi la prima volta i ghiacciai dalle Alpi (e sono scesi almeno quattro volte, con discese alternate a fortissimi ritiri) le valli erano già formate, erano già state in precedenza scavate dai fiumi. Il ghiacciaio non ha fatto altro (fenomeno grandioso, tuttavia!) che “ultrascavare” queste valli, trasformando un buon tratto del loro sbocco nelle Prealpi in lunghe conche in contropendenza, cioè in navicelli, perciò il laghi; le valli furono allargate con l’erosione dei versanti in modo che questi vennero resi più ripidi (le famose valli a U). E le isole? E le biforcazioni dei laghi? Le isole rappresenterebbero dei resti di diaframmi che un tempo separavano due valli; queste vengono occupate dalla colata glaciale che s’affonda nelle due vallate, allarga i versanti e riduce quindi il vecchio diaframma a semplici isolotti. Quanto alle biforcazioni, di cui l’esempio classico è quello dei due rami del Lago di Como, è accettabile l’ipotesi che si tratti di due antiche valli che scendevano da un gruppo di basse montagne del centro lago; l’avanzata glaciale ha torto di mezzo le due basse testate delle due valli, è penetrata in esse e, ulteriormente scavandole, le ha trasformate in conche, cioè in laghi. (G. Nangeroni)
Laghi costieri e lagune Effetto dell’alluvionamento marino sono anche i laghi costieri, assai frequenti in Italia; antiche insenature più o meno ampie, sbarrate da cordoni litoranei accumulati dalle onde. Tali i due maggiori laghi costieri italiani, quello di Varano (60 kmq) e di Lesina (51 kmq) e altri minori del Gargano, i laghi di Burano nella maremma toscana, e il Sorso in Sardegna, gli stagni della costa siciliana presso Capo Faro e del retroterra del golfo di Cagliari, i laghetti di Tindari in Sicilia, i laghi pontini e di Fondi, di Sabaudia, ecc… Di lagune vere e proprie, prosciugate alla fine del Medioevo e all’inizio dell’Età Moderna quelle che anticamente circondavano Ravenna, oggi in Italia rimangono soltanto quelle venete, tra la foce dell’Isonzo e il delta del Po. Lagune vive sono gli specchi d’acqua prossimi al mare, da cui sono separate da cordoni litoranei interrotti in più punti, e quindi direttamente soggette all’azione delle maree e delle relative correnti; lagune morte sono quelle più interne, ove l’azione delle maree arriva indirettamente e debolmente. La laguna Veneta comprende la Laguna di Chioggia, di Malamocco e di Venezia; quella Friulana comprende la Laguna di Marano e di Grado. Durante l’alta marea le acque marine penetrano nelle aperture dei cordoni litoranei, dette porti, e scavano i canali che percorrono in ogni senso la laguna viva e che, per la loro profondità, sono i soli navigabili. Nella laguna morta, le correnti di marea arrivano troppo attenuate per scavare e tenere sgombri i canali, quasi sempre tortuosi e poco profondi. Tuttavia anche nelle lagune vive è l’opera umana che deve intervenire per tener sgombri i canali dai depositi alluvionali. Nel Veneto gli spazi lagunari adattati dall’uomo per la pesca e la pescicoltura sono chiamati valli. Le valli più estese sono quelle di Comacchio, originariamente ad acque dolci, dall’uomo trasformate in specchi salati per ospitare e conservare il pesce di mare.
I laghi vulcanici i laghi vulcanici sono caratteristici dell’Antiappennino laziale. Di forma press’a poco circolare e generalmente profondi, occupano i crateri di vulcani spenti. Ricordiamo il Lago di Bolsena, il Lago di Vico, il Lago di Bracciano, il Lago di Albano e il Lago di Nemi. Il Lago di Bolsena o Vulsino ha una superficie di 115 kmq e una profondità di 146 m. Abbraccia numerosi antichi crateri dei Monti Vulsini ed accoglie alcune isolette. Il Lago di Vico o Cimino ha una superficie di 12 kmq e una profondità di 50 m. Riempie le cavità crateriche dei Monti Cimini. Il lago di Bracciano o Sabatino ha una superficie di 57 kmq e una profondità di 160 m. Ha forma quasi circolare e si trova sui Monti Sabatini. Il Lago di Albano ha una superficie di 6 kmq e una profondità di 179 m. Occupa uno dei crateri di quello che fu un tempo l’antico Vulcano Laziale. Il Lago di Nemi ha una superficie di 1,5 kmq ed una profondità di 34 m. Anch’esso occupa un cratere dell’antico Vulcano Laziale. Fra i laghi dell’Italia centrale solo il Trasimeno non ha origine vulcanica, ma è un lago relitto. E’ cioè un lago formatosi in epoche remote quando, in seguito ad alcuni sconvolgimenti della crosta terrestre, uno specchio di mare rimase isolato e circondato da terre. Ha una superficie di 138 kmq e una profondità media di circa sette metri. Un tempo il più grande lago dell’Italia centrale era il Fucino, chiuso fra il Monte Velino e i Monti Simbruni, nella Marsica, con un’estensione di 165 kmq. Tentativi per prosciugarlo vennero compiuti fin dall’epoca romana. Ripresi nel Medioevo, furono coronati da successo soltanto nel secolo scorso ed ora l’alveo del Fucino è diventato una delle zone agricole più produttive dell’Italia centrale.
I laghi artificiali Dagli ultimi anni del 1800 ad oggi si sono costruiti in Italia, per mezzo di dighe di sbarramento, numerosi bacini o laghi artificiali, che hanno cambiato sensibilmente il paesaggio alpino e appenninico. Queste riserve d’acqua sono state rese indispensabili dal bisogno di produrre energia idroelettrica e da quello di irrigare, anche nei periodi di siccità, vaste zone agricole per una maggiore produttività. Questi laghi artificiali sono ormai molto numerosi nel nostro paese.
Il lago malato L’Umbria ospita nel suo territorio il maggior lago dell’Italia peninsulare, il Trasimeno. Esteso su una superficie di 128 kmq, inferiore di poco a quella del Lago di Como, il lago ha una forma grossolanamente circolare; il suo perimetro misura circa 54 km e la massima profondità raggiunge circa sei metri. Questo grande specchio lacustre offre un paesaggio tra i più dolci e riposanti: le sue basse rive, coperte di vegetazione, si protendono nell’acqua e in alcuni tratti quasi vi si confondono; tutt’intorno è un susseguirsi di colli ondulati, coperti di olivi e disseminati di casolari e di piccoli centri abitati; la superficie del lago, che si estende uniforme a perdita d’occhio, è interrotta dolo da tre piccole isole, emergenti dalle acque con i loro dossi verdeggianti: a sud l’isola Polvese, che è la più vasta; presso la costa settentrionale la piccola isola Minore e, vicina ad essa, la Maggiore, la sola che abbia oggi un notevole nucleo di popolazione. Ma fino a quando questo paesaggio potrà conservare le sue suggestive caratteristiche? Da tempo ormai il Trasimeno è noto come il “lago malato”, che vede ridurre ogni anno la sua superficie e profondità, mentre la vegetazione palustre che ha invaso le rive si spinge sempre più avanti guadagnando terreno sullo specchio d’acqua e ne ha ormai raggiunto anche il centro, dove il livello delle acque non supera oggi i tre metri; il lago, che si va trasformando a poco a poco in una grande palude è destinato ad estinguersi e a scomparire entro breve periodo, se non interverrà un cambiamento delle condizioni attuali. Le condizioni in cui si trova il lago hanno fatto ritornare di attualità l’idea del completo prosciugamento, idea che già si era fatta strada nei secoli scorsi per porre un definitivo rimedio alle inondazioni delle campagne circostanti; ora si riaffaccia con un altro scopo, quello di evitare che una ulteriore riduzione del livello dell’acqua finisca col trasformare tutto il lago in una malsana palude, come sta ormai verificandosi nei larghi tratti di esso. Questa soluzione, che risolverebbe per sempre il problema idrologico del Trasimeno, non trova però tutti d’accordo: si pensa che l’estinzione di un così vasto specchio lacustre potrebbe forse portare sensibili modificazioni del clima di tutto il bacino che secondo alcuni sarebbe mitigato, nell’inverno, dalla massa d’acqua del lago (ma la scarsa profondità delle acque sembra escludere che esse possano esercitare un’azione mitigatrice sulla temperatura delle aree circostanti); e che si verrebbe ad eliminare l’attività di pesca, la quale, sia pure ridotta, costituisce ancora una risorsa per una parte della popolazione rivierasca. Perciò, contro all’idea di accelerare il processo naturale già in atto, si avanzano progetti per arrestarlo, anzi per ripristinare lo specchio lacustre nella sua integrità, convogliandovi acqua anche da zone esterne al suo troppo ristretto bacino imbrifero, in modo da compensare le perdite per evaporazione e riattivare e regolarizzare in pari tempo il corso dell’emissario. Di recente sono già stati restituiti al lago i due immissari Tresa e Rio Maggiore, le cui acque vengono immesse nel bacino attraverso il fosso dell’Anguillara. Di vorrebbero inoltre far giungere al Trasimeno, mediante un canale, le piene dell’alto Tevere che si verificano nella Val Tiberina; si eviterebbero così i danni causati dalle inondazioni in quella conca dell’Umbria settentrionale, si innalzerebbe il livello del lago arrestandone l’impaludamento, e infine le acque deviate ritornerebbero al Tevere più a valle, attraverso l’emissario ed il corso del Nestore, attenuandone l’irregolarità del regime. (M. R. Prete Pedrini)
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I fiumi italiani materiale didattico vario per la scuola primaria: dettati, letture, tabelle, mappe e cartine… Per il materiale sul fiume in generale vai qui
Le abbondanti piogge delle Alpi, le nevi e i ghiacciai, alimentano numerosi corsi d’acqua che per la maggior parte finiscono nel più grande fiume d’Italia: il Po. Il Po attraversa tutta la Pianura Padana e sbocca nell’Adriatico con un largo delta, cioè si divide come le dita della mano. Il Po nasce dal Monviso e prima di arrivare al mare compie un viaggio lungo ben 652 chilometri. Lungo il suo percorso riceve le acque di numerosi fiumi che prendono il nome di affluenti. I principali sono il Ticino, l’Adda, l’Oglio e il Mincio. Tutti questi fiumi scendono dalle Alpi, così come l’Adige e il Piave. Anche dall’Appennino scendono numerosi fiumi, ma non molto lunghi e di solito poveri d’acqua. Due soltanto sono importanti: l’Arno, che attraversa Firenze, e il Tevere, che attraversa Roma. Entrambi finiscono nel mar Tirreno. Nell’Italia meridionale sono da segnalare il Volturno e il Garigliano. Tra i fiumi che scendono dall’Appennino sono da segnalare anche il Liri e il Volturno.
Caratteristiche dei fiumi italiani Che differenza c’è tra i fiumi alpini, quelli appenninici e quelli calabresi e insulari? Quelli che scendono dalle Alpi provengono quasi tutti dai ghiacciai e dai nevai; sono perciò in piena nei sei mesi di primavera e estate; ma non sono piene rovinose, perchè alcuni, prima di giungere al piano, attraversano estesi laghi in cui smorzano il loro impeto e chiarificano le loro acque torbide. Invece quelli che scendono dall’Appennino, alimentati quasi esclusivamente dalle piogge, sono in generale poveri di acque ed irregolari, passando dalle piene improvvise, talora rovinose della primavera e dell’autunno, alle magre eccessive d’estate. Quelli, poi, calabresi e delle isole, hanno piene solo invernali, perchè è d’inverno che qui piove, salvo rimanere completamente asciutti d’estate, quando la vegetazione più ne avrebbe bisogno. Questi fiumi sono chiamati fiumare.
Fiumi tributari dell’Adriatico I fiumi alpini che sfociano nell’Adriatico in territorio italiano sono i fiumi veneti e il Po, che raccoglie le acque degli affluenti di sinistra, provenienti dalle Alpi, e di quelli di destra provenienti dagli Appennini. Tutti questi fiumi costituiscono, presi insieme, il sistema idrografico padano-veneto, che è il maggiore d’Italia. Dagli Appennini scendono all’Adriatico tutti i fiumi del versante esterno della catena, dalla Romagna alla Puglia. Dei fiumi veneti il più importante è l’Adige, il secondo fiume italiano per lunghezza (km 410) e il terzo per ampiezza di bacino. L’Adige, che ha le sue sorgenti sotto il Passo di Resia, forma la Val Venosta e la Val Lagarina, ricevendo l’Isarco e l’Avisio da sinistra, il Noce da destra, finchè, sbicato in pianura, bagna Verona e si dirige verso l’Adriatico. Il più lungo fiume italiano è il Po, lungo 652 km e con un bacino fluviale che ha un’estensione di 75.000 kmq. Nasce da un laghetto nel Pian del Re a 2000 metri di altitudine sul Monviso, nella Alpi Cozie, e dopo aver percorso i primi 30 km in una valle angusta a forte pendenza, giunge al piano presso Saluzzo, ove si allarga e diventa meno impetuoso. Bagna poi Torino, Casale Monferrato, Piacenza, Guastalla ove raggiunge la sua massima larghezza (m 1500) e diviene accessibile ai natanti piuttosto grossi. Da Cremona in poi procede lento con ampie curve (meandri) e sul suo letto si accumulano tanta sabbia e melma che, in regime di acque alte, il Po scorre prevalentemente sopra il livello della pianura. Per questo, onde evitare dannosi straripamenti, esso è stato fiancheggiato da potenti arginature fino all’Adriatico. Qui il Po si getta attraverso un delta costituito da sette rami principali e da altrettante bocche secondarie sparse su una costa paludosa di 50 km. I sette rami principali della foce del Po sono: il Po di Levante, il Po di Maestra, il Po di Tolle, il Po di Gnocca, il Po di Goro, il Po di Volano, il Po di Pila. Le sue acque trasportano ancora abbondanti detriti e il delta avanza nel mare con una media di sette metri all’anno. Nel suo lungo corso il Po riceve numerosi affluenti da sinistra (Alpi) e da destra (Appennini). Tutti questi fiumi che, insieme con il Po, solcano la pianura padana, sono i costruttori della pianura stessa. Infatti, nel corso di millenni e millenni, essi hanno trasportato una quantità immensa di detriti, che lentamente hanno colmato l’ampio golfo del Mare Adriatico che, in epoca lontanissima, occupava il posto della pianura padana. Gli affluenti di sinistra sono i più importanti perchè provengono dalle Alpi e sono quindi più ricchi di acque. I principali sono: – la Dora Riparia, che nasce dal Monginevro, percorre la Val di Susa e confluisce nel Po nelle vicinanze di Torino. Presso la sorgente riceve l’affluente Ripa, da cui prende il nome; – la Dora Baltea, che sgorga dal Monte Bianco, raccoglie le acque provenienti dal Gran Paradiso, dal Cervino e dal Monte Rosa, percorre la Val d’Aosta, e bagna Aosta e Ivrea. Ad Aosta riceve il fiume Balteo, da cui trae il nome; – la Sesia, che nasce dal Monte Rosa, attraversa la Valsesia, bagna Varallo e Vercelli; – il Ticino, che ha le sue sorgenti sulle pendici del San Gottardo, in Svizzera, percorre la Valle Levantina in territorio elvetico, attraversa il Lago Maggiore, poi bagna Pavia. Tra i fiumi italiani viene subito dopo il Po per la portata d’acqua; – l’Adda, che nasce presso il passo dello Stelvio, percorre la Valtellina, entra nel lago di Como, ne esce presso Lecco, e attraversa fertili campagne, bagnando Lodi. L’Adda è il quarto fiume italiano per la lunghezza di corso (313 km) e per portata d’acqua; – l’Oglio, che sgorga dalle propaggini dell’Ortles, percorre la Val Camonica, attraversa il lago d’Iseo e, prima di sfociare nel Po, riceve le acque del Mella e del Chiese; – il Mincio, che ha le sorgenti nel gruppo dell’Adamello, col nome di Sarca entra nel lago di Garda, ne esce con il nome di Mincio e poi bagna Mantova, intorno alla quale forma tre piccoli laghi. Gli affluenti di destra del Po, ad eccezione del Tanaro che nasce dalle Alpi Marittime, provengono tutti dall’Appennino Settentrionale. I principali sono: – il Tanaro, che sgorga dal Saccarello, riceve la Stura di Demonte e la Bormida con l’Orba, e scorre tra le Langhe e il Monferrato con un corso totale di 276 km; – la Scrivia, la Trebbia, il Taro, la Secchia, il Panaro, che hanno origine dall’Appennino Ligure e dall’Appennino Tosco-Emiliano, e percorrono valli trasversali e quasi parallele tra loro. Hanno regime torrentizio; quasi asciutti in estate, si gonfiano e spesso straripano durante le piogge primaverili ed autunnali. I fiumi appenninici che si versano direttamente nell’Adriatico si susseguono l’uno dopo l’altro dall’Emilia Romagna alla Puglia; essi sono numerosi, ma nel complesso poveri d’acqua, perchè hanno corsi brevi, carattere torrentizio e vanno soggetti a lunghi periodi di magra. Quelli di maggiore portata sono i fiumi abruzzesi e molisani, aumentati dalle acque, relativamente copiose, del Gran Sasso e della Maiella. Il principale è l’Aterno, che raggiunge l’Adriatico con il nome di Pescara. Poverissimi d’acqua sono, normalmente, i fiumi pugliesi.
I fiumi del versante ligure-tirrenico I fiumi più importanti della Penisola mandano le loro acque nel Mar Tirreno perchè, in corrispondenza di questo mare, gli Appennini si allontanano dalla costa e lasciano ai corsi d’acqua agio di distendersi. Dei fiumi che interessano la Liguria meritano di essere ricordati la Roia (km 59) che nasce presso il Passo di Tenda, e la Magra (km 62) che scende dal Passo della Cisa. La bella serie di fiumi del versante ligure-tirrenico ha inizio con il Serchio, al quale seguono l’Arno, la Cecina, l’Ombrone, il Tevere, il Liri-Garigliano, il Volturno e il Sele. Il Serchio (km 89) percorre la Garfagnana, tra l’Appennino e le Alpi Apuane, bagna Lucca, entra in pianura e sfocia in mare poco a Nord dell’Arno. L’Arno (km 241) è il maggiore dei fiumi toscani e uno dei più importanti d’Italia per ricchezza d’acqua. Nasce dal Monte Falterona, scende ripiido per la Valle del Casentino e riceve le acque della Chiana. Lambisce, quindi, il gruppo montuoso del Pratomagno, riceve le acque del Sieve, e puntando decisamente a Ovest, si dirige verso il mare che raggiunge dopo aver bagnato Firenze, Empoli e Pisa. A Sud dell’Arno, troviamo la Cecina (km 74) che scende dai Monti Metalliferi, e l’Ombrone Grossetano (km 161) che attraversa la Maremma Toscana. Il Tevere (km 405) è il più importante fiume dell’Italia Peninsulare. Nasce dal Monte Fumaiolo, a breve distanza dalle sorgenti dell’Arno, e nel primo tratto corre nella stretta Val Tiberina. Lambita l’altura di Perugia, riceve da destra il Nestore, che gli porta le acque del Lago Trasimeno. Prima di raggiungere Roma riceve la Nera e l’Aniene. Sbocca nel Tirreno con due rami che racchiudono l’Isola Sacra. A monte della sua confluenza con il Tevere, la Nera riceve le acque del Velino, che vi si precipitano con un triplice salto dando luogo alla suggestiva Cascata delle Marmore. Il Liri-Garigliano (lm 168) nasce in Abruzzo col nome di Liri e scorre nel Lazio dove riceve il Gari, da cui il nome Garigliano. Il Volturno (km 175) è il maggior fiume della Campania. Nasce nel Gruppo della Meta (Molise) e, in Campania, si arricchisce delle acque del Calore. Sfocia nel Golfo di Gaeta, a Sud del Garigliano. Il Sele (Km 64) ha corso breve ma è ricchissimo di acque, tanto che una delle sue copiose sorgenti alimenta l’Acquedotto Pugliese. Sbocca nel Golfo di Salerno dopo aver attraversato la Piana di Pesto.
I fiumi del versante ionico Al Golfo di Taranto scendono dall’Appennino Lucano il Bradano (km 167), il Basento (km 149), l’Agri (km 136) e il Sinni (km 100), tutti fiumi della Basilicata. Veramente più che fiumi dovrebbero chiamarsi torrenti, perchè in estate sono poverissimi d’acqua (il Basento, anzi, nei mesi di agosto e di settembre è quasi sempre asciutto). In inverno, invece, sono soggetti a piene impetuosissime e trasportano a valle grandi quantità di detriti che poi depositano lungo la pianura costiera. Le stesse caratteristiche dei fiumi lucani ha il Crati (km 81), il più lungo fiume della Calabria; scende dalla Sila e giunge al mare dopo aver attraversato la Piana di Sibari. Degno di note è il Neto che ha le sorgenti poco a nord di quelle del Crati. Le sue acque e quelle dei suoi affluenti hanno consentito la costruzione di grandi serbatoi artificiali sulla Sila.
I fiumi delle isole Anche i fiumi delle Isole della regione italiana sono brevi e poveri di acque come gran parte dei fiumi dell’Italia Peninsulare. In Sicilia il fiume di maggior bacino è il Simeto, che sgorga dai Monti Nebrodi, lambisce le falde dell’Etna, raccoglie le acque provenienti dai Monti Erei e raggiunge il Mar Ionio nel golfo di Catania, dopo un percorso di 113 km. Il più lungo fiume siciliano è invece il Salso o Imera Meridionale, detto così perchè, come altri fiumi dell’isola, ha acque salmastre. Esso nasce dalle Madonie e dopo un percorso di 144 km raggiunge il Mar di Sicilia nel golfo di Gela. Anche il Platani sfocia nel versante meridionale dell’isola, come il Belice, che scorre presso le rovine dell’antica colonia greca di Selinunte. In Sardegna il fiume più importante è il Tirso. Nasce sull’altopiano di Buddusò, accoglie le acque del Taloro e del Flumineddu e dopo un percorso di 150 km si getta nel Mar di Sardegna all’altezza del golfo di Oristano. Il Flumendosa nasce nel Gennargentu e dopo un percorso di 127 km sfocia nel Mar Tirreno. Il Coghinas, il terzo fiume sardo, è formato dal Rio Mannu di Ozieri, proveniente dall’altopiano di Campo Giavesu e dal Rio Mannu di Berchidda, proveniente dal Massiccio del Limbara. Dopo un percorso di 123 km il Coghinas sfocia nel golfo dell’Asinara. Tutti e tre questi fiumi sono stati sbarrati con potenti dighe, onde fosse possibile raccogliere in grandi bacini artificiali le acque necessarie all’irrigazione e alla produzione di energia idroelettrica.
I fiumi italiani Osservate l’imponente sistema del Po con i suoi piccoli affluenti di destra e i grandi affluenti di sinistra (con i laghi prealpini); i fiumi adriatici disposti come i denti di un pettine; i complicati fiumi del Tirreno (con tre laghi vulcanici e col Trasimeno, che non è vulcanico). Le lineette indicano le principali cascate.
Il delta del Po con i suoi sette bracci principali Ogni anno qualche braccio si prolunga sempre più per centinaia di metri nel mare in conseguenza delle fanghiglie e sabbie trasportate e abbandonate dal Po nel mare. Duemila anni fa questo delta non esisteva, era tutto mare.
I fiumi delle tenebre Grazie alla permeabilità dei terreni (terreni a struttura granulosa, sabbie, terreni coltivati) e grazie anche alle fessure e ai crepacci, l’acqua penetra fino a grande profondità, si raccoglie nelle cavità sotterranee, forma laghi e canali; e scorrendo sull’argilla e sulle rocce, passando da cavità a cavità del sottoterra, dà luogo ad un grande sistema di circolazione sotterranea, che può essere paragonata a quello della superficie terrestre. Anche in Italia possiamo trovare fiumi e laghi sotterranei. Un fiume, la Pinca, percorre le famose grotte di Postumia. Un altro fiume, il Recca Timavo, scorre per trentacinque chilometri nella grotta di San Canziano, dove spumeggia anche per una trentina di cascate prima di uscire “a riveder le stelle” a circa tre chilometri da Monfalcone. Nel Buco dell’Orso, presso Como, nasce e scompare sottoterra un piccolo torrente. Così il Sagittario (che nasce negli Abruzzi sotto il paese di Villago) riceve acqua, per via sotterranea, dal lago di Scanno.
Crepuscolo di sabbiatori del Po I barconi risalgono adagio, sospinti e pesanti; quasi immobili, fanno schiumare la viva corrente. E’ già quasi notte. Isolati, si fermano: si dibatte e sussulta la vanga sott’acqua. D’ora in ora, altre barche sono state fin qui. I barconi nel buio discendono grevi di sabbia, senza dare una scossa, radenti: ogni uomo è seduto a una punta e un granello di fuoco gli brucia alla bocca. Ogni paio di bracca strascina il suo remo, un tepore discende alle gambe fiaccate e lontano s’accendono i lumi. … In distanza, sul fiume, scintillano i lumi di Torino. Due o tre sabbiatori hanno acceso sulla prua il fanale, ma il fiume è deserto. (C. Pavese) (rid.)
I pioppi sulla riva del fiume Ora, nella brumale tristezza novembrina, nell’aria senza raggio nè respiro nè moto, voi vi drizzate fermi al cielo grave e vuoto, ombre vane, confuse nell’ombra vespertina. Non più ansia di volo, nè canto, nè tremore. Le rade ultime foglie si levano dal ramo, silenziose, quasi a un tacito richiamo. Ora, nell’infinito silenzio, più non sento che lo striscio tranquillo del gran fiume che va, che va per la sua lenta strada d’eternità, senza mai posa, sena mai posa o mutamento. (D. Valeri)
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GLI APPENNINI materiale didattico vario per la scuola primaria.
Gli Appennini Chi risale la strada che da Savona (Liguria) inerpicandosi conduce in Piemonte, giunto alla sommità dell’erta, nel momento in cui inizia la discesa, può scorgere alla sua destra la prima falda dell’Appennino. Questo sistema montuoso, colonna vertebrale della penisola italiana, appare saldamente radicato al continente: si aggancia infatti al primo pendio alpino che lo fronteggia al passo di Cadibona, e in Piemonte distende lunghe propaggini collinari verso la nascente pianura padana.
L’Appennino, esteso dalla Liguria alla Sicilia, supera di circa 200 chilometri la lunghezza del sistema alpino e, in alcuni tratti, ne uguaglia lo spessore. Sistema notevole, quindi, ma non paragonabile di certo a quello alpino per imponenza di forme (il profilo tondeggiante prevale su quello aguzzo), per compattezza di roccia (alle salde pareti alpine contrasta lo sfasciume delle dorsali appenniniche), per altezza di vette (poche superano i 2000 metri), per ricchezza di ghiacci e di nevi (nessun ghiacciaio scintilla nelle alte conche; pochi nevai ricoprono i dossi).
Nel suo insieme, il sistema appenninico non ripete la disposizione ad arco delle catene alpine; esso è costituito da tre segmenti rettilinei successivi, i quali, se non spezzano la continuità del sistema, ne mutano tuttavia la direzione; ad un primo segmento da nord-ovest a sud-est segue un secondo segmento appoggiato alla costa adriatica, quasi in direzione nord-sud, e a questo un terzo segmento riportato al centro della penisola. L’Appennino non procede, solo e massiccio, attraverso tutta la penisola; a tratti, lo fiancheggiano altri rilievi: nasce l’immagine di una schiera lunga e compatta che, ad un certo momento, cammini fra due ali di folla allineata ora a sinistra ora a destra. Sono rilievi ordinati in brevi catene, in massicci di estensione limitata, in ampi altipiani; si innalzano di fronte alle catene appenniniche, ora vicini ora discosti, sul lato del Tirreno e su quello dell’Adriatico, in Toscana, nel Lazio, nella Campania, nella Puglia, in quei luoghi, cioè, dove l’Appennino sembra ritrarsi in se stesso per lasciare spazio alle pianure, alle colline, ai rilievi di cui s’è fatto cenno, indicati da alcuni geografi con la denominazione comune di antiappennino.
L’Appennino è formato da rocce tenere, incapaci di resistere validamene all’azione delle acque; sono ora ammassi di rocce impermeabili sulle quali le piogge scorrono rapidamente, dilavando, limando, scavando solchi sempre più profondi (calanchi), determinando cedimenti e frane; ora sono formazioni di rocce permeabili che bevono come spugne le acque, le assorbono in profondità, lasciando arida la montagna e scaricandole in potenti risorgive ai piedi dell’Appennino.
In questo ambiente è facile immaginare come la vegetazione di media ed alta quota incontri gravi ostacoli allo sviluppo ed alla diffusione; l’uomo, da parte sua, ha contribuito in vaste plaghe a peggiorare la situazione con un diboscamento eccessivo, disordinato. I fianchi di intere montagne, ormai tutto uno sfasciume, rendono pressocchè impossibile l’opera di rimboschimento; del resto complessa è tale opera anche nelle zone appenniniche più aride. Dove la vegetazione riesce ad imporsi crescono il castagno, il faggio e l’abete (nell’Appennino Centrale e Meridionale verdeggiano fino oltre i 2000 metri); l’olivo mette radici nelle fasce appenniniche della Liguria e della Calabria. Gli stessi pascoli, per l’aridità del suolo, sono meno estesi e meno ricchi; più che alle mandrie dei bovini offrono cibo alle greggi che, numerose, migrano nella buona stagione verso di essi, ritornando a valle alle prime avvisaglie del freddo.
Suddivisione degli Appennini L’Appennino si divide in Settentrionale, Centrale e Meridionale. L’Appennino Settentrionale si estende dal Colle di Cadibona alla Bocca Serriola. Le vette più alte sono quelle del Maggiorasca, del Falterona, del Monte Cimone. L’Appennino prende il nome di Ligure e Tosco-Emiliano. In questo tratto esso è superato da molte strade di valico. I valichi più importanti sono il Passo dei Giovi e il Passo del Turchino, che uniscono la Liguria al Piemonte; il Passo della Cisa, il Passo dell’Abetone, il Passo della Porretta e il Passo della Futa, che uniscono l’Emilia alla Toscana. L’Appennino Centrale si estende dalla Bocca Serriola alla Sella di Rionero. Le vette più alte sono nel massiccio del Gran Sanno (Monte Corno), della Maiella (Monte Amaro) e del Monte Velino. L’Appennino prende il nome di di Umbro-Marchigiano e Abruzzese. Il valico più importante è quello di Sella di Corno, che unisce l’Umbria al Lazio. L’Appennino Meridionale si estende dalla Sella di Rionero allo Stretto di Messina. Le vette più elevate sono nel massiccio del Pollino e nell’Aspromonte. Notevole è l’altipiano della Sila. L’Appennino Meridionale prende il nome di Campano, Lucano e Calabrese.
Valichi e trafori appenninici Nella barriera appenninica si aprono valichi che permettono il passaggio di vie di comunicazione tra le regioni italiane. I principali sono: – Passo dei Giovi, tra Liguria e Piemonte – Passo della Scoffera, in Liguria per l’Emilia – Passo di Cento Croci, tra Liguria e Emilia – Passo della Cisa, Passo del Cerreto, Passo dell’Abetone e Passo dei Mandrioli, tra Emilia e Toscana – Passo della Porretta, della Futa, della Raticosa e del Muraglione, in Toscana per l’Emilia Romagna – Passo di Bocca Trabaria e di Bocca Serriola, tra Marche ed Umbria – Passo di sella di Corno, tra Abruzzo e Lazio. Numerosi trafori ferroviari ed autostradali si addentrano per brevi tratti nelle catene appenniniche, collegando fra loro le regioni italiane. Di notevole importanza è la galleria ferroviaria sulla direttissima Firenze-Bologna.
Vette più importanti della catena appenninica Gli Appennini si innalzano alle quote più alte nella sezione centrale; vanno decrescendo nella sezione meridionale, sono poco elevati in quella settentrionale. Etna (3263) m Appennino siciliano Gran Sasso d’Italia (2914 m) Appennino abruzzese Maiella (2795 m) Appennino abruzzese Monte Velino (2487 m) Appennino abruzzese Monte Vettore (2478 m) Appennino umbro-marchigiano Monte Sirente (2349 m) Appennino abruzzese Monte Pollino (2271 m) Appennino lucano Monte Terminillo (2213 m) Appennino umbro-marchigiano Monte Cimone (2165 m) Appennino tosco-emiliano Monte Cusna (2165 m) Appennino tosco-emiliano Monte Miletto (2050 m) Appennino campano Monte Sirino (2005 m) Appennino lucano Monte Giovo (1991 m) Appennino tosco-emiliano Pizzo Carbonara (1979 m) Appennino siciliano Aspromonte (1956 m) Appennino calabrese Corno delle Scale (1945 m) Appennino tosco-emiliano Monte Calvo (1901 m) Appennino abruzzese Gennargentu (1834 m) Appennino sardo Monte Mutria (1823 m) Appennino campano Monte Maggiorasca (1803 m) Appennino ligure
Animali e piante degli Appennini Poichè gli Appennini si estendono da Nord a Sud, dovrebbe esistere una grande varietà tra le piante che li ricoprono. Invece è curioso notare che sull’Appennino meridionale troviamo la stessa vegetazione di quello settentrionale.
Sia nell’Appennino settentrionale, sia in quello calabrese, predomina l’abete bianco, albero tipico delle Alpi. Nel resto degli Appennini prosperano alberi caratteristici della zona mediterranea, che forniscono legname da lavoro o da ardere; i più rappresentativi sono: – il faggio, che vegeta fin oltre i 1500 metri d’altezza e offre ottimo legname per fabbricare mobili – il castagno, che si trova in zone più basse ed offre, oltre ai buoni marroni, legname per infissi e per tutto ciò che è esposto alle intemperie, essendo resistentissimo all’acqua – il rovere e la quercia, il cui legno è usato per ricavarne carbone dolce e per lavori artigianali – il frassino, diventato un albero comune degli Appennini; il suo legno bianco è usato per costruire mobili.
Sugli alti pascoli degli Appennini, crescono gli stessi fiori che si trovano sulle Alpi. Assai comune è la genziana, dalle cui radici si estrae un succo amarognolo usato in medicina e per la fabbricazione di liquori e bibite. Più rara è la stella alpina, che si trova oltre i 2200 metri di altezza nell’Appennino centrale; è più piccola di quella che cresce sulle Alpi, ma ugualmente graziosa e delicata. Il crocus e la viola tappezzano i prati degli altopiani; comune in tutte le altezze è il dente di leone o soffione.
I foraggi che crescono spontanei sulle alture sono poveri di sale; i mandriani somministrano questa sostanza agli animali ponendola negli scifi.
Gli Appennini ospitano sui loro pascoli numerosi greggi di pecore che salgono lassù a primavera, dopo aver svernato nella pianura.
I cavalli dono diminuiti di numero, come gli asini ed i muli, in conseguenza del progredire della motorizzazione, ma rappresentano ancora un valido aiuto per gli abitanti dei monti. Tra gli animali selvatici che vivono sugli Appennini ricordiamo il cinghiale e il lupo, che nei tempi passati rendevano malsicuri i sentieri montani e delle selve. Oggi il loro numero è molto diminuito. In Sardegna esiste il muflone, una pecora selvatica. Sempre in Sardegna pascolano il cervo e il daino, ridotti a rari esemplari. Molto comuni in tutto l’Appennino sono lo scoiattolo, che saltella fra gli alberi in cerca di semi e di frutta; la lepre ed il coniglio selvatico, che recano danni alle colture agricole; il tasso, l’istrice e il riccio, spietato nemico dei serpenti e degli insetti. Tra gli altri animali che vivono nelle foreste dell’Appennino ci sono: l’orso bruno, quasi scomparso in Italia; la volpe, che ama vivere tra burroni e grotte dove tiene la propria tana e da dove parte per le sue scorrerie; il gatto selvatico, che ama vivere nel folto della macchia; la donnola, la faina, la puzzola, capaci di sterminare pollai interi. Fra gli uccelli, i più comuni sono il passero, il pettirosso, lo storno, il falco e il corvo, mentre l’aquila va facendosi sempre più rara.
Diverse sono le specie di serpenti che strisciano sui pascoli o si nascondono tra i cespugli e i sassi, ma il più temibile è la vipera, che col suo morso velenoso è capace di uccidere in breve tempo un uomo.
Gli abitanti dell’Appennino Sin dai tempi preistorici abitarono l’Appennino le fiere stirpi italiche degli Umbri, dei Sabini, dei Peligni, dei Marsi, dei Sanniti, dei Lucani, dei Bruzi, chiuse tra i loro monti, mentre le genti del piano, i Campani e i Latini, poterono più rapidamente evolversi per i più facili contatti con la civiltà mediterranea. La regione appenninica fu poi tutta unificata dai Latini sotto il dominio di Roma.
Oggi sono più densamente popolate le zone pianeggianti; sul versante tirrenico, la Lunigiana, la Garfagnana, il Casentino, ecc…; nell’Appennino centrale le già ricordate conche di Foligno, Terni, L’Aquila, Sulmona; nell’Appennino meridionale le valli dei maggiori fiumi (Volturno, Garigliano, ecc…). La presenza, ad alti livelli, di piani carsici consente, sull’Appennino, la possibilità di abitanti permanenti a grandi altezze (1200 – 1400 metri).
L’economia Nelle conche pianeggianti, nelle grandi valle e nelle zone di collina l’attività economica prevalente è l’agricoltura (ma nel dopoguerra molti aridi poderi collinosi hanno visto la fuga dei contadini verso le città, attratti dalla possibilità di un lavoro meno ingrato e più remunerativo); sulle montagne prevale la pastorizia, soprattutto ovina a causa della magrezza dei pascoli. Le greggi svernano nella Maremma, nella Campagna romana, nel Tavoliere delle Puglie; in estate, i pastori le guidano in alto sulla montagna. Questa migrazione dal piano al monte e dal monte al piano è detta transumanza.
La distribuzione delle valli, sia longitudinali che trasversali, determina la rete stradale che risulta, più che in ogni altra ragione della Penisola, legata alle forme del terreno. Si aggiunga da ultimo che la presenza di gole anguste e incassate ha favorito la creazione, mediante dighe di sbarramento, di grandi serbatoi, come quelli sul Tronto, sul Salto, sul Turano, sul Vomano e sull’alto Sangro. (R. Almagià)
Il subappennino Il sistema appenninico, nel versante rivolto alla pianura padana ed al mare Adriatico, presenta un orlo continuo di colline, indicate generalmente con il nome di subappennino. L’Appennino è affiancato a tratti, lungo il Tirreno e lungo l’Adriatico, da rilievi non molto elevati, disposti a gruppi e catene, i quali formano l’anti-appennino tirrenico e adriatico.
Le grotte Entro le viscere dei monti del Carso, di tutte le Prealpi e di parte dell’Appennino si allungano numerose grotte e si sprofondano numerosi pozzi naturali. E poichè la roccia è tutta fessurata e bucherellata in superficie, le acque piovane vengono assorbite e così il terreno rimane sterile.
Nelle grotte le acque abbandonano spesso la sostanza calcarea che avevano asportato dalla roccia e che tenevano disciolta; così si formano stalattiti che pendono dalla volta, e le stalagmiti che sorgono dal suolo delle grotte. In profondità si formano dei fiumi sotterranei che spesso sgorgano poi all’esterno sotto forma di poderose sorgenti. Questi fenomeni si chiamano fenomeni carsici perchè si presentano grandiosi nel Carso (alle spalle di Trieste, ecc…)
I turbolenti fiumi I fiumi che scendono dal sistema appenninico sfociano nel mar Ligure, nel mar Tirreno, nel mare Adriatico, nel mar Ionio. Quelli dell’Appennino Ligure sono di corso breve e precipitoso; impoveriscono fin quasi all’esaurimento nei mesi estivi. I fiumi che si avviano alla pianura emiliana, pur avendo un corso abbastanza lungo, rivelano la loro origine appenninica per la povertà di acque, in contrasto con la ricchezza dei fiumi alpini. Di corso breve e ripido sono tutti i fiumi che, procedendo su linee parallele, scendono dalle sorgenti appenniniche verso l’Adriatico e il mar Ionio. Del tutto caratteristici sono i corsi d’acqua della Calabria e della Sicilia (fiumare), anch’essi brevi e rapidi, in cui l’abbondanza o la povertà di acque dipende in modo decisivo dalla caduta delle piogge, cosicchè a periodi di magra e di siccità completa si alternano periodi di piena rovinosa. Le lunghe ed ampie valli longitudinali che l’Appennino apre sul versante tirrenico permettono lo scorrimento di fiumi di maggiore sviluppo, i quali attingono da sorgenti più ricche. Essi con un lavoro millenario hanno disteso largamente i loro depositi alluvionali, formando pianure di ampiezza mediocre (tutte assieme non raggiungono un terzo della pianura padana) che si affacciano appunto sul mar Tirreno. E ancora il paesaggio si ravviva per gli occhi azzurri dei laghi di cui è punteggiata qua e là la penisola. Non è soltanto immagine elegante quella degli occhi azzurri; in realtà, oltre il tondeggiante lago Trasimeno esteso in un ampio avvallamento dell’Umbria, vi sono, nell’Appennino Laziale, rotondissimi laghi nati nel cratere di antichi vulcani spenti; e ricordiamo quelli di Bolsena, di Vico, di Bracciano, di Nemi.
Anche le montagne muoiono Non tutte le montagne si sono formate nella stessa epoca. Alcune sono sorte nell’era primaria e secondaria, e cioè da migliaia e migliaia di secoli; molte nella terziaria. Vi sono dunque montagne vecchie e montagne giovani. Appena una montagna sta formandosi, gli agenti atmosferici ne cominciano la distruzione. Il calore, il freddo, la pioggia, le acque correnti, i ghiacciai ne corrodono la vetta e i fianchi, trascinano in basso una enorme quantità di detriti e tendono a livellare il terreno. Così le montagne più vecchie sono le più deteriorate. Invece, le montagne giovani, sulle quali gli agenti atmosferici da minor tempo esercitano la loro azione distruttiva, sono ancora molto elevate e le loro vette ardite portano i nomi significativi di dente, picco, corno, ago. (P. Gribaudi)
Valli appenniniche Molte e diverse sono le valli appenniniche, e fra l’una e le altre passano alte foci. Foce, per dir passo di monte come si dice bocca di fiume, è un termine che ho trovato sulle Alpi Apuane, e mi pare di una singolare felicità. E’ come dire che i venti, impetuosi e ardenti a ridosso del monte, sboccano in cielo sul passo del colle. E’ come dire che l’occhio, lungamente chino sui sassi della salita, e i passa e la fatica sfociano sulla discesa e nell’aperto, come l’acqua del fiume nella pace del mare. Sulle foci dei fiumi il traffico e l’assemblea dei popoli diversi sono numerosi e frequenti; viaggiatori solitari e scarsi valicano coi venti le deserte foci montanine; ma chi passa i monti reca notizie e pensieri minori di numeri, ma più certi e sicuri di quelli che porta il mare, pieno di novità, di stranezze e di bugie. (R. Bacchelli)
Gli Appennini Il corpo svelto ed elegante della nostra penisola ha la sua colonna vertebrale nell’Appennino. Seguendo i fiumi tortuosi e i torrenti, i primi abitatori dell’Italia, dalle dorsali appenniniche sono scesi per conquistare e fecondare le poche pianure costiere: il mare li chiamava, il loro bel mare. L’Appennino, pur dando unità alle aggraziate forme della penisola, non ha tolto loro quella varietà di aspetti che moltiplica le attrattive del paesaggio. Vario il paese, varie le genti, varie le loro vicende storiche. (Gribaudi)
Per il lavoro di ricerca Presso quale passo ha inizio la catena degli Appennini? E quanto è lunga? Che aspetto hanno gli Appennini? In quante parti si divide la catena degli Appennini? Vi sono ghiacciai sugli Appennini? E’ diversa la vegetazione dell’Appennino meridionale da quella dell’Appennino settentrionale? Perchè? Quali sono gli alberi comuni degli Appennini? E i fiori? Quali sono gli animali selvatici che vivono sugli Appennini? E gli uccelli più comuni? Lo Stretto di Messina interrompe la catena appenninica? Quali sono le vette più importanti della catena appenninica? Conosci il nome di alcuni passi e valichi appenninici? Quali regioni uniscono fra di loro? Perchè è frequente il pericolo di frane nell’Appennino? Hanno grande abbondanza d’acqua i fiumi appenninici? Qual è la loro caratteristica?
Il paesaggio appenninico La montagna appenninica, anche quando si solleva fin sopra i 2000 metri e di costituzione calcarea (come in Abruzzo) presenta nell’insieme più d’una diversità rispetto a quella alpina e prealpina, se non altro per un rivestimento boscoso di regola più magro e per i compatti borghi e villaggi che s’inerpicano sui fianchi, annidandosi su sproni e su cocuzzoli secondari. Gli orizzonti sono spesso molto vasti, in conseguenza del frazionamento del rilievo appenninico. Dove la montagna raggiunge direttamente il mare, ne derivano scenari anche più impressionanti ed ammirabili di quelli liguri, almeno per quanto riguarda gli aspetti naturali; e l’acme si raggiunge nella costa amalfitana e nella vicina Capri. Gran diffusione assumono i paesaggi collinosi, ai due lati dell’Appennino e talora anche nel suo interno. Tra le regioni maggiormente interessate a questi tipi di paesaggio sono la Toscana, le Marche, la Basilicata. Un minuto intarsio di valli e di vallecole, di dolci dorsali e di morbide cime. Gli abitanti, tranne lungo certe valli maggiori, coronano i luoghi culminanti e sembrano voler dare risalto alle sommità, altrimenti poco distinte, specie quando dalla strettoia delle case svettano le vecchie torri medioevali. E’ però agevole riconoscere due tipi di questi paesaggi, in relazione alla natura del suolo; le colline costituite in prevalenza da materiali sabbiosi (o conglomerati ghiaiosi) e quelle argillose. Le prime mostrano forme più energiche e più regolari, con un mantello vegetale ricco e vario: olivo e vite presenti dovunque, popolamento piuttosto denso, come svela la presenza dei villaggi e delle case sparse, anche quest’ultime site in posizioni apriche e dominanti per godere l’aria e il sole. Le colline d’argilla si stemperano in forme più blande e flessuose, a meno che, verso la testata delle vallette, non le squarci il calanco, mostrando nelle ferite la terra grigia o biancastra, sterile. Un’impronta caratteristica conferiscono al paesaggio appenninico i vulcani attivi, con l’aspra nudità delle lave e delle ceneri; non così i vulcani spenti, o almeno non sempre: se infatti sono caratteristici i coni delle isole Eolie o certi crateri dei Flegrei e del Lazio, molti apparati eruttivi, ora spenti, sono talmente erosi, ormai, o coperti di vegetazione, che risulta difficile distinguerli da altri paesaggi montani. Paesaggi tipici offre la Puglia, dove altipiani e terrazze calcaree rendono dominanti linee orizzontali lievemente ondulate, ora poveri di cespugli ed arbusti, ora esuberanti di colture arboree: l’olivo, il mandorlo, il fico, la vite, il tabacco, gli ortaggi. Nella Calabria meridionale, tipici paesaggi sono offerti dalle selvagge fiumare, torrenti sovraccarichi di sfaciume detritico, sassi e fanghiglie che scorrono in fondo a valli profondamente incise, dai pendii squarciati e rovinosi, e dalle ampie terrazze (pianalti) che, ad esempio nell’Aspromonte discendono di gradino in gradino sui fianchi dei monti. Il Sicilia, sotto un medesimo cielo d’intensa luminosità, vivo è il contrasto tra la fascia costiera tirrenica e ionica da un lato, la costa meridionale, l’interno e specialmente il cuore dell’isola, dall’altro. Il paesaggio interno presenta spesse volte una sua solenne e desolata grandiosità, che si accentua là dove, nel silenzio della campagna, si ergono le rovine delle città morte, come a Segesta o Selinunte, ammonitrici della transitorietà di tutte le cose umane. Il paesaggio della Sardegna, se per certi aspetti ricorda quello della Sicilia interna, d’altro lato se ne differenzia per il predominio delle linee orizzontali e del terreno incolto, coperto dalla tipica macchia sempreverde, da radi cespugli o da prati ad asfodeli e privo, per vasti tratti, di abitazioni umane. In parecchie zone il paesaggio sardo è caratterizzato dai celebri nuraghi, antiche costruzioni a tronco di cono poste a dominare un’altura, un cocuzzolo, comunque un luogo elevato. Nella Penisola e nelle grandi isole non mancano i paesaggi di pianura, a volte simili a quelli della Padania (conche toscane ed umbre) per l’intensità e il genere delle colture, a volte assai diversi, come nel caso degli oliveti, dei mandorleti, degli agrumeti, ecc… In tanta diversità, c’è però un carattere comune alle pianure peninsulari ed insulari, ed è la costante prossimità dei rilievi montuosi o collinosi che delimitano l’orizzonte e racchiudono il paesaggio in una cornice che la grande pianura padana ha soltanto nelle sue estreme zone periferiche. (A. Sestini)
La maggiore galleria ferroviaria dell’Appennino Si apre sulla linea che unisce Firenze a Bologna la linea “direttissima” per eccellenza, che costituisce in tutto il suo insieme una delle opere più sorprendenti della moderna tecnica ferroviaria. Ben trenta gallerie si susseguono sui 97 chilometri del suo percorso, per consentire ai treni di evitare i forti dislivelli della catena appenninica, la quale si eleva qui fin oltre i 1100 metri a dividere l’Emilia dalla Toscana. Un totale di 37 chilometri nelle viscere della terra, sottopassando le cime montuose. Quando, nell’aprile del 1934, il primo treno percorse i 18 chilometri e mezzo della più lunga fra quelle gallerie, non vi fu chi non guardasse stupito il lavoro compiuto, che, superando difficoltà immense, aveva potuto giungere a tanto: a perforare cioè l’intero crinale appenninico tra la valle del toscano Bisenzio (a 21 km da Prato) e quella del Setta sul versante emiliano, dove l’audace traforo sbocca ad appena 41 chilometri da Bologna. Prima di allora, il viaggio di chi avesse voluto da Firenze raggiungere per ferrovia la capitale emiliana, non poteva certo dirsi ne breve ne comodo. Non meno di tre ore, su vagoni anneriti dal fumo che una locomotiva sbuffante spingeva faticosamente su per la ripida montagna alle spalle di Pistoia: curve strette e frequenti, gallerie brevi e basse, e fumo, fumo denso e nero dappertutto che entrava nelle vetture e negli scompartimenti. Attraverso i finestrini, il paesaggio appariva e spariva rapidamente. Chi avrebbe pensato che un giorno sarebbero bastati 52 minuti per raggiungere dalle rive dell’Arno la città della Garisenda? La grande galleria dell’Appennino ha consentito infatti alla nuova linea non solo di abbreviare di 36 km il tragitto, ma pure di evitare altitudini superiori ai 320 metri.
GLI APPENNINI materiale didattico vario. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
LE ALPI materiale didattico vario per la scuola primaria.
Le Alpi Le Alpi rappresentano il più importante sistema montuoso d’Europa sia per l’altezza delle loro cime (molte superano i 4000 metri, e il Monte Bianco, la più alta, raggiunge i 4810) sia per la frequenza delle nevi permanenti e dei ghiacciai (da cui scaturiscono i maggiori fiumi alpini), sia per la loro posizione nel cuore dell’Europa, in mezzo alle regioni più popolate e civili. Per la loro altezza e per il loro sviluppo da ovest ad est, le Alpi costituiscono tra l’Europa centrale e l’Europa mediterranea una vera barriera che influisce grandemente sul clima e sulla vegetazione delle due regioni: temperatura mite, cielo sereno, sole caldo, fanno dell’Italia il “paese dove fiorisce il cedro” (Goethe) e dove prosperano, con gli agrumi, la vite e l’ulivo; al di là delle Alpi, il clima continentale e il freddo impediscono lo sviluppo di una vegetazione mediterranea. Barriera di separazione per il clima e la vegetazione, ma non per gli uomini; nonostante la loro altezza, infatti, le Alpi sono ricche di valichi che mettono in comunicazione le opposte valli; e strade rotabili e ferrate, attraverso lunghe gallerie, superano i valichi e le catene montuose più importanti. Le Alpi cominciano, a ovest, dal Col di Cadibona e attraverso una grande curva, lunga 1200 chilometri, terminano divergendo a Vienna sul Danubio e a Fiume sul Quarnaro. Esse non formano un sistema compatto e continuo di montagne, ma sono costituite da catene, massicci, altipiani, diversi e irregolari, separati da numerose valli. Nelle Alpi occidentali si hanno soprattutto catene arcuate intaccate da valli che si estendono nel senso della latitudine; nelle Alpi orientali invece si hanno soprattutto catene affiancate, separate da valli longitudinali. Anche i due versanti sono diversi: il versante esterno, nord-occidentale, degrada lentamente verso gli altipiani danubiani, e i fiumi divergono in varie direzioni; il versante interno o meridionale scende rapido verso il bassopiano padano, facendovi convergere i fiumi in un unico grande sistema fluviale. Nel senso della latitudine si distinguono nelle Alpi tre fasce, in cui le montagne sono diverse e per altezza e per l’aspetto, dovuti alla diversità delle rocce da cui sono formate. Mentre la fascia mediana è di rocce cristalline (graniti ecc…), e comprende le catene e le cime più elevate, i picchi più arditi, le valli più strette e incassate, le fasce esterna settentrionale e interna meridionale, formate da rocce calcaree, presentano montagne meno elevate, più tondeggianti, pendii più dolci, valli più ampie e meno incassate. La zona esterna meridionale non si stende lungo tutta la cerchia alpina: manca nelle Alpi occidentali, mentre è ben presente nelle Alpi centrali e orientali, con le catene delle Prealpi lombarde e venete, a loro volta precedute, verso la pianura, da modesti rilievi collinosi: le Colline subalpine. Nel senso trasversale, le Alpi si distinguono in Alpi Occidentali, Centrali, Orientali.
Così nacquero le Alpi Il possente baluardo non è, in realtà, che una sola rovina di un immane edificio di pietra, spinto in alto da grandiose forze interne, e poi attaccato dal lavoro di inesorabili forze esterne, aiutato dal lentissimo scorrere dei tempi geologici. Difficile è quindi farsi un’idea sicura della struttura primitiva dell’edificio delle nostre Alpi e delle sue successive trasformazioni. Ma più difficile ancora è rifarsi alle cause prime del suo sorgere. Che in età remota (circa 50 milioni di anni fa), dove ora si innalzano superbe le Alpi si stendesse il mare è un fatto incontestabile. Ma è in discussione il modo in cui i sedimenti di quel mare si siano inarcati e corrugati a formare le pieghe alpine, mentre enormi ammassi di rocce eruttive si aprivano essi pure la strada verso l’alto. All’inizio prevaleva decisamente l’opinione che l’ingobbarsi e il sollevarsi del fondo del mare fino ad emergere fosse dovuto al fatto che l’Africa derivando, cioè spostandosi, come una gigantesca zattera, verso l’Europa, stringeva come in una morsa gli strati del fondo marino, li strizzava fino a farli fuoriuscire dalle acque, e li rovesciava sul margine meridionale dell’Europa, consolidato da altre, più antiche catene di montagne. Coricandosi, rovesciandosi e addirittura ribaltandosi, le pieghe si rompevano in falde capaci di percorrere, scivolando sugli strati sottostanti, decine e anche centinaia di chilometri. Oggi si pensa come più probabile che non spinte tangenziali, ma verticali abbiano determinato il rigonfiamento della crosta sottomarina. E le pieghe e le grandi dislocazioni delle falde, enormi blocchi separati dall’area di origine, si spiegano con lo scorrimento e il distacco per gravità degli strati dai fianchi del rigonfiamento spiegato sopra. Ma quando sono avvenuti questi grandiosi fenomeni? Quando si dice che le Alpi sono montagne giovani, perchè si sono formate in tempi geologicamente recenti, non si ricorda abbastanza che, proprio in corrispondenza delle montagne piemontesi, la cerchia alpina ingloba lembi di un sistema montano che si è formato sul finire dell’era paleozoica e cioè 250 milioni di anni fa. Già durante l’era secondaria si sollevò dalla superficie del mare qualche rilievo, precursore e testimone del misterioso travaglio che si preparava nelle viscere della terra. Ma non si trattava che di un timido abbozzo di catena. Lo sforzo generatore delle Alpi toccò il suo massimo nell’era successiva, la terziaria, e a metà di quell’era le spinte alpine coinvolsero nel movimento di ascesa delle più recenti anche i massicci antichi. Verso la fine dell’era terziaria (è passato da allora più di un milione di anni) il mirabile edificio era completo, almeno nelle sue fattezze generali, ma era ancora soggetto a dei sussulti, uno dei quali, verificatosi agli inizi dell’era in cui viviamo, lo ha sollevato di centinaia di metri, contribuendo largamente alla plastica attuale della montagna. (D. Gribaudi)
Acque e ghiacci modellarono le Alpi Nell’epoca glaciale le Alpi erano ricoperte da un mantello di ghiaccio che in taluni punti raggiungeva lo spessore di due chilometri: poderose lingue ghiacciate occupavano le vallate e nelle epoche di maggiore espansione ne fuoriuscivano formando alla periferia occidentale e settentrionale una crosta unica. Sul versante italiano le maggiori lingue, per quanto poderose, rimasero isolate, ma si allungarono fin dove si trovano oggi i grandi laghi lombardi, che sono laghi di escavazione glaciale molto profondi. Sappiamo che durante la lunga epoca glaciale vi furono fasi di espansione e fasi di ritiro: le tracce ne restano evidenti sia nella forma delle valli, escavate a più riprese alternativamente da ghiacciai e da fiumi, sia nei grandiosi apparati morenici frontali, che ora rinserrano i maggiori laghi, sia in alto, nei bacini di raccoglimento. Si può dire che le forme attuali delle Alpi sono ancora in buona parte eredità del modellamento glaciale quaternario. E l’opera dei ghiacciai quaternari ha avuto anche grande influenza su fatti che interessano l’uomo e le attività umane: le grandi valli a fondo piatto, pianeggiante, preferite dall’uomo per l’insediamento, le coltivazioni e la viabilità, sono valli modellate dai ghiacciai; le intaccature più profonde delle aree culminali, che corrispondono ai passi più facili e più accessibili, fra gli opposti versanti, sono state incise dai ghiacciai; gli apparati morenici frontali sono sedi di elezione di talune colture, come il gelso, ecc… (R. Almagià)
Per il lavoro di ricerca
Come è stato suddiviso dai geografi l’arco alpino? Per quanti chilometri si distendono le Alpi? Quali sono le massime altitudini raggiunte dalle Alpi? Quali sono i principali valichi e trafori delle Alpi e dove conducono? Qual è la lunghezza dei principali trafori? Raccogli notizie sul traforo del Monte Bianco. Quali sono le colture e le attività principali degli abitanti della cerchia alpina? Quali piante e animali vivono sulle Alpi? Che cosa sono le Prealpi?
Suddivisione delle Alpi Le Alpi italiane iniziano dal colle di Cadibona (m 459, Liguria) e si distendono ad arco da occidente ad oriente per circa 1300 km, fino al golfo di Fiume. I geografi dividono l’Arco Alpino in 3 sezioni: – Alpi Occidentali – Alpi Centrali – Alpi Orientali. Le Alpi Occidentali si estendono dal Colle di Cadibona al Col Ferret. Esse prendono il nome di Liguiri, Marittime, Cozie, Graie. Segnano il confine tra l’Italia e la Francia. Le cime più elevate sono il Monte Bianco, il più alto d’Europa, il Gran Paradiso, il Monviso. Le Alpi Centrali si estendono dal Col Ferret al Passo del Brennero. Esse prendono il nome di Pennine, Lepontine, Retiche. Segnano il confine tra l’Italia, la Svizzera e l’Austria. Le cime più elevate sono il Cervino, il Monte Rosa, il Bernina, il Disgrazia, l’Ortles. Le Alpi Orientali si estendono dal Passo del Brennero al golfo del Quarnaro. Esse prendono il nome di Tridentine, Carniche e Giulie. Segnano il confine tra l’Italia, l’Austria e la Slovenia. Le cime più elevate sono la Marmolada, il Monte Tricorno e la Vetta d’Italia, che segna il punto più settentrionale del confine italiano. Presso le Alpi Tridentine si innalza l’incantevole gruppo delle Dolomiti.
Massime altitudini delle Alpi Le Alpi si innalzano alle quote più alte nella sezione occidentale e vanno decrescendo nella sezione orientale. Da occidente ad oriente, le cime più altre sono: monte Argentera …………… 3297 m ………….. Alpi Marittime Monviso……………………….. 3841 m ………….. Alpi Cozie Gran Paradiso……………….. 4061 m ………….. Alpi Graie Monte Bianco………………… 4810 m ………….. Alpi Graie monte Cervino……………….. 4478 m ………….. Alpi Pennine Monte Rosa …………………… 4633 m ………….. Alpi Pennine monte Leone ………………….. 3552 m ………….. Alpi Lepontine monte Bernina ……………….. 4050 m …………. Alpi Retiche.
Le valli Le Alpi e gli Appennini sono solcati da valli. Si chiama testata della valle la parte più alta, cioè dove ha origine la valle. Si chiamano versanti i due fianchi laterali che si innalzano verso le montagne; più precisamente, voltando le spalle alla testata, si dice versante destro quello che è alla nostra destra, e versante sinistro quello che è alla nostra sinistra. Altrettanto si dica per le sponde di un fiume: destra o sinistra sempre rispetto a chi volta le spalle alla sorgente da cui il fiume proviene. Giogo significa “Passo”, cioè una depressione fra due montagne. Pensate all’importanza dei gioghi per passare da una valle all’altra. Quando si è in una località valliva, si dice che un’altra località è a valle di quella se è più verso il basso, cioè verso lo sbocco; si dice invece che è a monte, se è più in alto, cioè verso la testata. I montanari delle Alpi usano invece dire “in fuori” (verso la valle, verso l’esterno) e “in dentro” (verso monte, verso l’interno). Gli ostacoli che le Alpi e l’Appennino frappongono all’uomo per comunicare tra i popoli delle parti opposte, vennero vinti dall’ingegno e dalla volontà dell’uomo, non solo con strade ma anche con ferrovie, molte delle quali devono passare in gallerie la cui costruzione è costata molti capitali e purtroppo anche molte vittime. In seguito vennero scavate e si stanno tuttora scavando numerose gallerie stradali, che servono per vetture e autocarri. La galleria o traforo del Gran San Bernardo, sopra Aosta, è funzionante dal 1964; nell’estate del 1965 si è aperto al traffico il traforo del Monte Bianco.
Valichi e trafori delle Alpi Nell’alta barriera alpina si aprono valichi che permettono il passaggio di vie di comunicazione. I principali sono quelli di Cadibona (tra Piemonte e Liguria); di Tenda, della Maddalena, del Monginevro, del Moncenisio, del Piccolo San Bernardo (tra Piemonte e Franca); del Gran San Bernardo , dello Spluga (tra Lombardia e Svizzera); dello Stelvio (tra Lombardia e Alto Adige); del Resia, del Brennero, di Dobbiaco (tra Trentino Alto Adige e Austria); di monte Croce Carnico, di Camporosso (tra Friuli e Austria); del Predil (tra Friuli e Slovenia). Alcuni trafori ferroviari e autostradali si addentrano nei massicci alpini, collegando l’Italia con gli Stati confinanti.
Il passo del Sempione Il Sempione (2005 m) fu considerato, fin dai primi secoli del Medioevo, un tipico itinerario di viaggiatori; tuttavia questo storico valico non ha mai goduto di particolare fama militare, e inoltre fino al XIX secolo non acquistò quell’importanza commerciale che era comune ad altri passi alpini occidentali. Fra il XII e il XV secolo, con la costruzione dell Rifugio a 1997 metri di altitudine e in seguito all’intensificarsi degli scambi tra Briga e Milano, il valico cominciò ad essere assai frequentato. Il passaggio del Sempione era piuttosto rischioso specie d’inverno, lungo gli stretti sentieri a strapiombo; non potendosi in molti tratti procedere a cavallo, occorrevano due giornate di viaggio per andare da Briga a Domodossola. Anche i servizi di assistenza non erano tali da rassicurare i viaggiatori; sappiamo che, specialmente nei mesi invernali, i viaggiatori usavano radunarsi in folte comitive prima di valicare il colle, promettendosi reciproco aiuto nei passaggi più difficili. La fortuna di questa via coincise con la costruzione della strada voluta da Napoleone. Durante i lavori, iniziati nel 1801, egli, a quanto si narra, frequentemente si informava: “Quando i cannoni passeranno per il Sempione?”. Nel 1806, dopo aver superato enormi difficoltà tecniche, gli imprenditori consegnavano ultimata la grande strada, e già due anni dopo un regolare servizio di diligenza a cinque cavalli collegava Milano con Briga. La nuova arteria montana conquistò rapidamente una straordinaria importanza commerciale e si può dire che per un cinquantennio svolse il ruolo di primaria via di comunicazione delle Alpi Centrali. Questo primato venne poi gradualmente scalzato dalla costruzione di altre strade alpine, e in particolare dall’apertura della linea ferroviaria del Gottardo, l’anno 1882. Ventiquattro anni dopo, nel 1906, il traforo del Sempione era ultimato e la ferrovia rapidamente prese a percorrerlo; la diligenza però continuò a scampanellare lungo i romantici tornanti del colle per molti anni ancora, fino al 1919. (L. Carandini)
Gli abitanti e l’economia In tutta la cerchia alpina non rare sono le tracce dell’uomo preistorico. In età storica, i primi abitanti furono, nella parte occidentale e centrale, i Celti; nella parte centrale i Reti, forse affini agli Etruschi; nella parte orientale gli Illiri, gli Euganei e i Veneti. Nel I secolo aC ebbe inizio la lenta ma durevole civilizzazione romana. Oggi i popoli neolatini predominano in tutte le Alpi Occidentali e nel versante interno delle Alpi Centrali e Orientali; in alcune isolate valli sono qui sopravvissute parlate che conservano tracce chiarissime del latino (dialetti ladini). Le Alpi, con la media di 40 – 50 abitanti per chilometro quadrato, sono le regioni montuose più densamente popolate del mondo. Naturalmente la popolazione si addensa soprattutto nelle grandi valli e ovunque sia possibile l’agricoltura. Il villaggio alpino più elevato, con popolazione permanente, è Trepalle (frazione di Livigno, Sondrio) a 2.070 metri. L’agricoltura produce grano e mais nelle zone meno elevate; più in alto orzo, segale, patate e anche vino e frutta; più in alto ancora, i pingui prati e i pascoli consentono l’allevamento dei bovini. All’inizio dell’estate si fa l’alpeggio ossia si trasportano le greggi dalle zone basse agli alti pascoli estivi, dove, nelle malghe, nelle casere, nelle alpi, si producono latticini.
Nell’economia alpina una funzione di rilievo, sebbene in misura inferiore che per il passato, hanno le industrie forestali (legna e carbone); grande importanza ha l’utilizzazione dell’energia elettrica offerta dai laghi alpini e dai fiumi, frequentemente interrotti da salti naturali o creati dall’uomo con condotte forzate e bacini artificiali sbarrati da dighe.
Piante e animali delle Alpi Sulle Alpi, dove le altezze variano da poche centinaia di metri fino ad oltre i quattromila, c’è una grande varietà di vegetazione spontanea. Accenniamo soltanto alle piante più comuni che puoi trovare sulle Alpi: querce e castagni fino a circa 1000 metri (ma qua e là l’uomo ha diboscato per coltivare i cereali, la patata e il fieno). Il faggio, associato al frassino, arriva a 1500 metri, altitudine in cui si incontrano villaggi e prati; qui staziona il bestiame a primavera, quando sale all’alpe, e in autunno, quando ne discende. Ai faggi succedono i pini, i cembri, i larici e gli abeti, che si spingono fino a quota 2200. Fra questi, purtroppo, l’uomo ha lavorato di scure distruggendo (diboscamento nocivo) per estendervi il pascolo (pascoli bassi). A 2700 metri gli alberi mancano del tutto. Poi vengono i pascoli naturali, i quali si trovano fino a 2800 metri (pascoli alti). Infine, abbarbicati alle rocce, che emergono tra le nevi persistenti e i ghiacciai, vivono soltanto muschi e licheni.
La vegetazione varia con l’altitudine e con la natura del terreno: la zona delle colture arriva fino a 800 metri; fino a 1200 metri abbiamo la zona dei boschi a foglie larghe (castagno, quercia, faggio); a 2000 – 2300 metri si spinge la zona delle conifere; infine abbiamo la zona dei pascoli alpini, che generalmente non supera i 2500 metri.
Gli animali delle Alpi vivono in un ambiente particolare: il clima è rigido; la neve rimane a lungo sul suolo, i venti spesso sono violenti, il terreno e le acque sono freddi e offrono scarso nutrimento. In conseguenza di questo, gli animali alpini hanno caratteristiche particolari: – molti animali, durante l’inverno, cadono in letargo, oppure in un sonno più o meno prolungato e profondo; – molti insetti alpini hanno perduto le ali, allo scopo di non consumare energia con il volo. Tra i mammiferi ricordiamo: lo stambecco (sul Gran Paradiso) il camoscio (sulle Alpi in genere) il capriolo (sulle Alpi Carniche) l’orso bruno (sull’Adamello e sulle Dolomiti). Questi animali sono protetti da leggi che ne vietano la caccia, perchè stanno scomparendo. Ancora numerosi sono l’ermellino, la lepre, la marmotta, il ghiro e lo scoiattolo. Tra gli uccelli troviamo la dominatrice del cielo, l’aquila, il gallo cedrone e il fagiano di monte. I fiumi, i torrenti e i freschi laghi alpini ospitano la trota e il salmerino, gioia dei pescatori. Nelle Alpi occorre guardarsi da animali pericolosi, quali lo scorpione germano che vive fin oltre i 2000 metri, e la vipera aspis.
Monte Bianco Il Monte Bianco è il colosso fra le montagne d’Europa. Il vanto dei suoi quattromilaottocento e più metri nno è raggiunto da nessuno dei suoi rivali. E, al contrario dei giganti dell’Himalaya e delle Ande, i cui sentieri sono noti soltanto a un pugno di intrepidi e che per la maggior parte di noi non sono che nomi, il mostro delle Alpi italiane è come un amico familiare. I fiumi di ghiaccio, che viaggiano lentamente e tortuosamente lungo i fianchi profondamente incisi della montagna, sono particolarmente interessanti. Di questi il Glacier des Bossons e il Glacier des Bois, più conosciuto col nome di Mer de Glace, sono i più grandi e i più accessibili. Il Col du Geant è un magnifico passo che attraversa il cuore di questa catena e sotto di essa serpeggia il gran fiume di ghiaccio, le cui fessure risplendono come zaffiri e la cui superficie liscia rifulge come uno scudo d’argento nel sole. Sotto le sue caverne di ghiaccio il fiume Arve si apre a forza un passaggio e scorre giù nella valle di Chamonix. E’ da questa piccola città sul pendio settentrionale della catena, che si compie l’ascensione delle alte vette. (D. Sladen)
Il traforo del Monte Bianco (Corrispondenza giornalistica) “Stasera verso le 21 un’esplosione ha fatto tremare i vetri di Courmayeur e poco dopo sulla cima del Bianco si sono accesi i fuochi d’artificio bianchi rossi e verdi che assicurano gli alpinisti Gigi Panei e Ruggero Pelli, partiti stamattina per la vetta con due zaini di razzi pirotecnici, devo essere stati ammirati anche da Ginevra. Nello stesso istante crollavano anche gli ultimi 19 metri e 10 centimetri dei 5800 di galleria che, nella grande operazione “traforo del Bianco” erano stati assegnati agli italiani. I minatori francesi, a una sessantina di metri di distanza, avranno indubbiamente avvertito il sordo fremito dell’ultima esplosione e, pur rallegrandosi del successo dei colleghi italiani, si saranno forse rammaricati di essere mancati all’appuntamento della quota 5800, al quale giungeranno (con l’ampia attenuante di aver cominciato i lavori dopo di noi) fra una settimana circa. Il completamento del tronco italiano del traforo del Bianco, il quale misurerà complessivamente 11.600 metri, si è svolto con un cerimoniale suggestivo. Alle 18 è stato dato l’ultimo “colpo di piccone”, un moderno e complicatissimo colpo di piccone che è durato due ore e mezzo. L’ultimo “ciclo” è infatti cominciato con l’entrata in funzione simultanea di diciotto perforatrici che hanno forato altrettanti fornelli depositandovi 600 kg di esplosivo; poco dopo venivano accese le micce e un sordo boato si ripercuoteva nel cuore del Bianco. Contemporaneamente, all’esterno della galleria un’esplosione simbolica ha dato l’annuncio alle valli del grande momento e un operaio si è avvicinato alla lavagna su cui, per tutta la durata dei lavori, erano state segnate e aggiornate, in un lento conto alla rovescia, due cifre: una grande, relativa ai metri percorsi, e una piccola con quelli da compiere. Fra la commozione dei presenti l’uomo ha cancellato la cifra piccola degli ultimi diciannove metri e dieci centimetri e ha vergato un grande 5800 equivalente all’intero tronco italiano. Poco dopo è uscito dalla galleria il camion con i minatori dell’ultima squadra, che sono stati festeggiati da tutti i circa cinquecento operai del cantiere e dai giornalisti. La piccola folla del Bianco si è quindi recata al Santuario di Notre-Dame de la Guerison portando un sacco della galleria, una pergamena con i nomi degli otto operai caduti sul lavoro e un elmetto da minatore. Dopo il raccoglimento e la commozione, i festeggiamenti di pretta marca montanara. Fino a tarda notte si è brindato, mangiato e cantato all’imboccatura del nero tunnel lungo il quale, a metà del 1964, sfrecceranno le automobili “bevendosi” in cinque minuti l’intero massiccio del Bianco”. (da La Stampa)
Le ridenti Prealpi Le Prealpi, più esposte a sud e più basse delle Alpi, raggiungono di rado i limiti delle nevi perpetue. Non sono di conseguenza caratterizzate nemmeno dalla vegetazione alpina che dà quell’aspetto loro particolare di durezza e di severità. Mancano perciò alle Prealpi i due tratti principali che improntano il paesaggio alpino così sublime e pittoresco. Per compenso sono ricche di altre bellezze tutte particolari. Si nota anzitutto in esse il contrasto di effetto meraviglioso davvero, fra quelle creste dentate, nude e bianche come scheletri che si tingono d’azzurro sovente nelle giornate serene e di giallo e di rosso al sorgere e al tramontare del sole; e il verde perenne, di cui la perenne ubertà copre i fianchi e i piedi delle montagne, tutte rivestendo fino alla cima le colline, sicchè le aride vette paiono spiccarsi come da una ghirlanda di erbe e di fiori. Chi vuole il ridente, il molle, il tranquillo, il temperato, insomma delizie e amenità, non va sicuramente a cercarle nelle Alpi, ma nelle Prealpi, specialmente nella zona inferiore, dove regnano primavere ed estati che non trovano molto da invidiare a quelle dei paesi più meridionali. E’ questa la regione dei laghi azzurri, dei limpidi torrenti, dei boschi ombrosi, dei prati fioriti, dei pingui orti, dei giardini incantati, delle viti, degli ulivi, e più in alto, dei castagni e dei faggi. (A. Stoppani)
Il Resegone La Grigna è una cima delle Prealpi Lombarde. E’ alta quasi 2500 metri; lì salgono i montanari d’estate con le loro mucche che si cibano delle sostanziose e profumate erbe degli alti pascoli.
Paesaggio alpino Lontane, alte distese bianchissime: più le guardava, più sentiva crescere in sè uno stupore, mai fino allora provato. Provò ad immaginarsi come fossero da vicino, e standovi sopra, terribili e meravigliose: le fissò in silenzio, un lungo momento, sognando. Anche lassù, pensò, era vita, forse la vita più bella di tutte: la più libera, la più assoluta. Col sole, il cielo, il ghiaccio, e nient’altro. Lo riscosse il suono, dolce sebbene improvviso, e quasi sparso nell’aria, di un campanaccio. Seguendo quel suono, volse lo guardo ai prati intorno: immensi declivi verdi e fioriti, che scendevano fino al colle, e dove, immobili o quasi, forse non lontane ma irreali come in un miraggio, alcune mucche bianche e nere, bianche e marroni, erano alla pastura. (M. Soldati)
Dimore pastorali nelle Alpi: le malghe Nella zona dei prati e dei pascoli di alta montagna sono comuni le malghe, dimore temporanee che servono quando il bestiame sale ai pascoli d’alta montagna dove resterà tutta l’estate. Le malghe sono formate, di solito, da due fabbricati costruiti in muratura e coperti con tetti di scandole, ossia di assicelle di legno. Il fabbricato maggiore è la stalla, ove si tengono chiusi gli animali durante la notte. L’altro, più solidamente costruito e meglio riparato è la malga propriamente detta dove vivono e dormono il malgaro con la sua famiglia, e spesso anche i pastori. Oltre a quelli per dormire, i locali essenziali sono tre: la cucina, il locale dove si conserva il formaggio e quello dove si mette il latte. Nella cucina c’è un primitivo focolare dove i pastori ed il malgaro si preparano i semplici pasti: immancabile la polenta di granoturco che si mangia col formaggio o con il latte o con la ricotta. Di fronte al focolare c’è la caldaia di rame dove si riscalda il latte spannato e si prepara il formaggio. Vicino c’è anche la zangola, nella quale si sbatte la panna per ottenere il burro. (L. Bartagnoli)
Le baite Nelle alte valli alpine, le abitazioni possono essere costruite interamente in legno, o con parti in muratura. Generalmente sono in muratura gli ambienti in cui viene acceso il fuoco. Il tetto è formato di lastre di pietra. Le pareti esterne ed interne ed i piancinati sono realizzati con assiti doppi, con interposto materiale isolante, quale segatura o pula di grano, per aumentare il riparo dal freddo. Nella parte alta, vengono sovente ricavate delle logge, che servono per l’essiccamento del fieno, del granoturco e del frumento, oltre che per stendervi i panni. Sepolte dalla neve del lungo inverno, tali abitazioni custodiscono, mercè l’isolamento dato dal legno, dal fieno e dalla stessa coltre di neve che copre il tetto, il calore che il piccolo focolare riesce a creare.
Gli attuali ghiacciai italiani Nelle Alpi Marittime e nelle Cozie incontriamo ghiacciai di modeste dimensioni. Cominciamo ad entrare veramente nel regno dei ghiacciai in Val d’Aosta. Al badino della Dora Baltea e appartengono circa duecento, per una superficie di quasi 200 kmq. Il gruppo del Gran Paradiso conta parecchi importanti ghiacciai, che però non scendono sino alle valli; il maggiore è il ghiacciaio della Tribolazione. Analogamente avviene per il gruppo della Grande Sassiere, che presenta due ghiacciai di prim’ordine (ghiacciaio di Soches-Tsantellina e ghiacciaio della Gliaretta-Vaudet). Nel gruppo del Rutor, il ghiacciaio omonimo giace su un ampio, dolce pendio. Nel gruppo del Monte Bianco numerosi ghiacciai ripidi e crepacciati scendono dai valloni del versante italiano spingendo la loro fronte più o meno in basso. Il maggiore è il ghiacciaio del Miage, la cui lingua scende fino a 1775 d’altitudine sbarrando, con le sue morene, la Val Veni. Altri ghiacciai di prim’ordine in questo gruppo sono il ghiacciaio della Brevna che arriva nel fondovalle fino a poca distanza da Entreves; quello di Prede-Bar, quello di Triolet e quello dell’Allee Blanche. Anche le Alpi Pennine contano una maestosa serie di ghiacciai; ricordiamo quelli di Tsa de Tsan e delle Grandes Murailles, che occupano la testata delle Valpelline. Nel versante italiano del gruppo del Monte Rosa si incontrano alcuni grandi ghiacciai: il ghiacciaio di Ventina, il ghiacciaio Grande di Verra, l’imponente ghiacciaio del Lys, i ghiacciai delle Piode e delle Vigne, quello di Macugnaga. In val Formazza troviamo il ghiacciaio del Sabbione; nell’alta val Maggia il ghiacciaio di Basodino. Le Alpi Lepontine sono povere di ghiacciai sul versante meridionale; solo il gruppo dell’Adula racchiude ghiacciai di qualche importanza. Anche le Retiche, nel primo tratto, hanno ghiacciai piuttosto esigui; poi i monti della val Masino racchiudono piccoli ma numerosi ghiacciai di corco e lunghe colate, tra cui i ghiacciai dell’Albigna e del Forno. Nel gruppo del Disgrazia importanti sono il ghiacciaio di Predarossa, quello vallivo della Ventina e quello del Disgrazia. Il gruppo del Bernina ospita ghiacciai di grande estensione: quello grandiosamente seraccato di Scerscen superiore, e quello dolcemente ondulato di Scerscen inferiore, i due ghiacciai di Fellaria. Le Alpi Orobie offrono una serie di vedrette: del Trobio, di Scais, di Porola, del Lupo. Oltre cento sono i ghiacciai del gruppo dell’Ortles: una serie di vedrette, quelle di Madaccio, di Trafoi, l’Alta e la Bassa Ortles, la Vedretta di Solda, la Vedretta di Lunga, la Vedretta del Cevedale, la Vedretta di Lamare; e una delle maggiori masse glaciali italiane, cioè il ghiacciaio dei Forni (17 kmq). Il gruppo Adamello – Presanella ospita, sui 3000 metri, un gruppo di ghiacciai di tipo piuttosto raro nel sistema delle Alpi, e cioè il tipo ad altipiano o pianalto, da cui scendono verso le valli colate o lingue vere e proprie. Dalla distesa centrale, il Pian di Neve, originano le vedrette del Mandrone, della Lobbia, di Fumo (da cui nasce il fiume Chiese). Il versante italiano delle Alpi Atesine, per la sua prevalente esposizione a sud, analogamente a quanto accade nell’alta Valtournanche in Val d’Aosta, ha ghiacciai piuttosto modesti; solo dalla Palla Bianca scende un ghiacciaio importante, la Vedretta di Vallelunga. Proseguendo verso nordest, incontriamo il vasto ghiacciaio di Malavalle che protende la sua lingua verso la Val Ridanna; a oriente del Brennero, il ghiacciaio del Gran Pilastro, di prim’ordine, e il ghiacciaio di Neves. Poi le formazioni glaciali, sul versante italiano, si fanno meno importanti, con l’eccezione dei ghiacciai di Predoi, e di Lana, alla testata della valle Aurina, e del gruppo delle vedrette di Ries. Nelle Dolomiti soltanto il ghiacciaio della Marmolada si fa notare per la sua ampiezza ( 3,4 km); gli altri sono tutti di modeste dimensioni; lo stesso dicasi per i piccoli ghiacciai del gruppo di Brenta. Sulle Alpi Giulie sono situati alcuni minuscoli ghiacciai (del Canin e del Montasio) notevoli per la bassa altitudine (2000 2500 m) giustificata dalla posizione riparata e dalla frequenza delle nevicate. L’Appennino possiede un unico piccolo ghiacciaio e precisamente il ghiacciaio del Calderone, sotto il Corno Grande del Gran Sasso d’Italia.
Immense Alpi
Sopra di me stanno le Alpi, i palazzi della natura, le cui immense pareti lanciano tra le nubi pinnacoli coperti di neve, e l’eternità troneggia nelle caverne gelate di fredda sublimità, dove si forma e cade la valanga, la saetta di neve! E tutto ciò che lo spirito emana si raccoglie intorno a quelle sommità, per mostrare come la terra possa toccare il cielo lasciando in basso l’uomo con la sua meschina superbia. (Byron)
Le Alpi I verdi balzi e i pascoli ridenti, reduce pellegrino, ho riveduto; ai ghiacci eterni, ai fiumi ed ai torrenti ho ridato dal cuore il mio saluto. Qui dov’io seggo schiudesi agli intenti sguardi il riso del ciel limpido e muto; qui dov’io seggo il mio pensiero in lenti desideri di pace erra perduto. La catena dell’Alpi in ampio giro variata di nevi e di pinete in vallate profonde, ecco, s’adima. E vagabonda d’una ad altra cima, solca una nube l’immortal quiete della nitida volta di zeffiro. (G. Bertacchi)
LE ALPI materiale didattico vario. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
ABRUZZO materiale didattico vario – una raccolta di dettati ortografici e letture sull’Abruzzo, di autori vari, per la scuola primaria.
L’Abruzzo
Quando, in inverno, nevica sugli alti monti dell’Abruzzo, il viaggiatore, l’alpinista che li osservi, ha la netta impressione di trovarsi fra le Alpi: le catene sono imponenti, le cime aspre, rocciose, aguzze come quelle alpine. Ma se si guada attorno si vede vicino gli alberi di olivo. Così è fatto l’Abruzzo: una delle regioni più elevate e montuose del nostro paese, con le cime che si avvicinano ai tremila metri, aspre, tormentate; ma ai piedi delle pareti rocciose cresce l’ulivo e si estendono pascoli verdissimi.
Abruzzo: sguardo d’insieme E’ la regione nella quale l’Appennino si impone con le cime più elevate e solenni; esso occupa la maggior parte del territorio fino alla riva adriatica, ma ha caratteristiche nettamente diverse nell’interno e nel settore costiero. E’ proprio nella parte più interna, sino ai confini con il Lazio, che l’Appennino ha il suo sviluppo più notevole: non presenta catene ordinate, ma piuttosto rilievi raggruppati attorno alle vette più alte, separati da larghi avvallamenti nei quali si raccoglie fitta la popolazione. Questi gruppi montuosi appaiono solitamente brulli, battuti nell’inverno da violente bufere di neve, poveri di acque, che filtrano in profondità negli strati calcarei e zampillano in ricche sorgenti al piede delle montagne; gole profonde e anguste, talora intransitabili, rompono l’uniformità dei dossi. I gruppi montuosi si dispongono, grosso modo, su tre linee successive: ai confini settentrionali con il Lazio si individuano i monti della Laga; ad ovest i monti Simbruini e i monti della Meta stanno a cavallo tra Lazio e Abruzzo. In tutta evidenza, nel cuore della regione, sono i massicci del Gran Sasso (con l’alta vetta del Monte Corno) e della Maiella, che raggiunge il culmine nel Monte Amaro, i monti del Morrone e le alte cime del Velino e del Sirente. Il Gran Sasso, guardato nel suo profilo solenne, appare come una cresta i cui denti hanno nome di Corno Grande, Corno Piccolo, Monte Camicia, Monte Prena, e superano tutti i 2500 metri. Ha pareti scoscese, di tono bianco – grigio, ai piedi delle quali si estendono cumuli di detriti franati dall’alto. La valle in cui si insinua il fiume Pescara separa il Gran Sasso dalla Maiella; questo massiccio cede di poco, con le sue vette più alte, al contrapposto Gran Sasso. E’ un rilievo tormentato: nei punti più alti, oltre i 2500 metri, si trovano improvvisi pianori dolcemente ondulati e, d’un tratto, profonde spaccature, valli di aspetto selvaggio. Tra il gruppo dei Simbruini e le vette dei ricordati Velino e Sirente si estende la Conca del Fucino, un antico lago più vasto di quello di Como, del tutto prosciugato, razionalmente irrigato e destinato a ricche coltivazioni. Ancora tra il Velino, il Sirente e i massicci del Gran Sasso e della Maiella è la lunga conca dell’Aquila che, per la strozzatura della valle di San Venazio, comunica con la conca di Sulmona; ambedue sono bene irrigate e molto produttive. L’Abruzzo esterno, quello affacciato al mare, è ancora montuoso, ma l’Appennino dà segni di stanchezza e ripete il disegno proprio dell’Appennino Emiliano e Marchigiano: basse catene, pressochè perpendicolari alla costa, orlate all’estremità di colline; negli avvallamenti corrono i fiumi (i principali sono il Tronto, il Pescara e il Sangro); la maggior parte di essi ha un corso longitudinale attraverso gli alti rilievi dell’interno, in valli anguste e scoscese, e prende poi la direzione trasversale tra le catene costiere; sono fiumi abbastanza ricchi, alimentati dalle sorgenti dell’Appennino; alcuni di essi hanno notevoli magre estive che riducono il loro corso ad esili fili d’acqua. La costa, incalzata da presso dai rilievi montuosi e collinari, presenta una breve striscia uniforme e sabbiosa, priva di insenature e di porti; così esile da permettere appena, in alcuni tratti, il passaggio della strada e della ferrovia.
I monti La regione è occupata in gran parte dalla montagna; appare evidente la distinzione in un Abruzzo interno, il più montuoso, e in un Abruzzo esterno in cui l’Appennino si abbassa, declina in colline, si dispone in brevi catene perpendicolari alla costa. Nell’Abruzzo interno, intervallati da ampie conche, si individuano grossi gruppi montuosi: i monti della Laga, i Simbruini, i monti della Meta; più ad est sono i massicci del Gran Sasso l’Italia (Monte Corno, m 2914) e della Maiella (monte Amaro, m 2795), i monti del Morrone, le cime del Velino (m 2487) e del Sirente (m 2349). Vasta conca verde fra gli alti monti è quella del Fucino. Estese sono le valli dell’Aquila e di Sulmona.
I fiumi I fiumi dell’Abruzzo attingono a generose sorgenti appenniniche, tuttavia hanno notevoli variazioni di portata nei diversi mesi dell’anno. Il Tronto nasce sui monti della Laga, attraversa un tratto del Lazio, un tratto delle Marche e segna il confine tra questa regione e l’Abruzzo: è lungo 93 chilometri. Dai monti della Laga nasce anche l’Aterno, il quale è arricchito nel suo alto corso da numerosi affluenti. Nel tratto inferiore assume il nome di Pescara, riceve altri affluenti e sbocca nell’Adriatico dopo 145 chilometri; la sua foce è stata trasformata in portocanale. Il Sangro nasce nei monti che si affacciano alla conca del Fucino, attraversa la regione e sfocia nell’Adriatico dopo 117 chilometri.
Lungo il litorale Il breve tratto della provincia di Pescara affacciato all’Adriatico non è più l’arenile selvatico dove si arenavano le paranze e dove l’Adriatico restituiva gli avanzi dei naufragi: oggi è almeno per metà trasformato in spiaggia per famiglie, lungo la quale gli stabilimenti si succedono agli stabilimenti, i ristoranti ai ristoranti: sa essi esce l’odore del fritto, misto al fracasso della televisione, all’urlio della radio… Ma appena fuori dalla zona balneare, al di là delle incastellature del porto, che non è più soltanto un porto peschereccio, ma un porto industriale, le greggi pascolano ancora presso la battigia dove alla sabbia si mischiano certe magre erbette di sapore salmastro; ed è un pezzo d’Abruzzo antico che si innesta su un Abruzzo rinnovato ed operoso che, senza nemmeno saperlo, ritrova nelle sue antiche virtù la forza e il vigore per la rinascita. (A. Zorzi)
Il gruppo del Gran Sasso Da Teramo, raccolta in una conca verde, il Gran Sasso si vede più vicino che da ogni altra città abruzzese. Nelle giornate limpide è lì, quasi a ridosso; brullo, ferrigno, corso da rughe di canaloni. Ma l’inverno è un’enorme, altissima, bianca muraglia; con le teste coronate di nuvole. Da ragazzo io lo vedevo andando all’Aquila. S’arrivava all’Aquila verso mezzogiorno, le campane delle molte chiese suonavano a gloria. E pareva che quel suono di gloria, navigante nel libero spazio, spingesse le nuvole che scendevano aeree mongolfiere bianche e oro, dal Gran Sasso verso i monti della Sabina. E il Gran Sasso, come si saliva verso la città, si mostrava lassù lontanissimo, con la sua ardita punta stagliata verso il cielo; il Corno Grande, ferrigno d’estate, candido d’inverno. E io guardavo se il Gran Sasso avesse le brache o il cappello, se cioè la neve fosse alle falde o sulla cima e indicasse perciò un lungo o corto inverno. Ma si era di primo autunno, e il Monte Corno aveva un colore bronzeo che la distanza velava d’una lieve tinta violetta. Dall’altra parte si scorgeva il Sirente proteso come un’enorme selce aguzza sul nero delle boscaglie, coi canaloni biancheggianti come quelli del Gran Sasso. E laggiù alle nostre spalle tra le lievitanti brume violacee, il massiccio lontano della Maiella, la montagna madre della gente d’Abruzzo . (G. Titta Rosa)
Il Parco Nazionale d’Abruzzo Amato poco dai pastori, che vedono ridursi i pascoli, contenente ancora fino a poco tempo fa alcuni carbonai sperduti in condizioni quasi primitive, il Parco Nazionale è una delle grandi speranze turistiche del centro Italia. Nato, come anche quello del Gran Paradiso, sul luogo di una riserva reale di caccia per iniziativa privata, questo meraviglioso parco si allunga ai confini del Lazio, e infatti travalica sia nel Lazio sia nel Molise, coprendo un territorio di 300 chilometri quadrati appartenente a diciassette comuni. Quasi interamente posto sopra i mille metri di altezza, è rinchiuso tra catene impervie che sorgono dai faggeti. Il viaggiatore pigro può farsene una mezza idea percorrendone il fondo valle, lungo il corso del Sangro. Ma i parchi nazionali, per il loro stesso proposito di conservare aspetti di natura selvaggia, sottraggono allo sguardo dei pigri i loro segreti. La mancanza di strade fino ad epoche recenti e la scarsa popolazione hanno salvato i boschi e gli animali altrove distrutti. Risalire le valli secondarie vuol dire dunque ritrovarsi in un’Italia più che antica, remota. Nel nostro Mezzogiorno la natura alpina prede un rigoglio che non può avere a nord; gli stessi alberi delle Alpi diventano qui più fitti ed intricati così da sbarrare il passo; tali questi immensi faggeti, dove il verde si alterna al rosso, e che conservano sotto le foglie vive una coltre perenne di foglie morte di colore purpureo. I faggeti si arrestano contro le pareti di roccia, e non appena ci si libera dalla foresta ci si trova a ridosso delle cime, tra cui spiccano le catene del Marsicano e del Meta… Nel Parco è Pescasseroli, oggi centro alberghiero come altri borghi della zona, e destinato a diventare un centro alberghiero più grande… Un piacere di Pescasseroli, che è sede della Direzione del Parco, è discorrere con le guardie… Questi uomini che fanno a piedi una ventina di chilometri al giorno sono i depositari dei segreti del Parco, il quale, oltre agli animali dei quali diremo tra poco, contiene martore, faine, volpi, gatti selvatici, tassi, aquile reali, gufi e forse galli di montagna. Qui si sono raccolti gli ultimi discendenti dell’orso marsicano, diverso da tutti gli orsi del mondo… Si è ritirato in questa cittadella, e la difesa della legge gli consente di conservare la propria rarità di esemplare unico… Secondo i calcoli prudenti vi erano negli anni ’70 del novecento una settantina di orsi rintanati nelle alte forre; animali pacifici, carnivori per eccezione, e così moderati che non spingano mai le loro orge sanguinarie più in là di una sola pecora. Pressapoco dello stesso numero erano anche i camosci, anch’essi diversi da tutti gli altri camosci della terra, esemplari appenninici dissimili da quelli alpini, dai quali si distinguono anche per le corna più lunghe. Pochi invece i caprioli… Nocivi, e perciò da uccidere, sono considerati da sempre i lupi, animali nomadi, insieme con le volpi, e tutti nemici dei giovani orsi e camosci, delle pecore e delle capre. E’ difficile che i viaggiatori, come me, di passaggio, che non si internano tra foreste e spelonche, vedano in libertà orsi, lupi e camosci; essi devono accontentarsi di accostarne qualcuno cresciuto in cattività presso la Direzione, o gli esemplari imbalsamati nel museo. La vita delle guardie non è drammatica come quella del Gran Paradiso, dove si svolge una battaglia perpetua tra la legge e i contrabbandieri; si passerebbero però giornate intere ad udirne i racconti. Quello ad esempio della lotta tra l’orso e il lupo, testimoniata dalle tracce rimaste sulla neve, ciuffi di peli di orso misti alla bava. Ma non peli di lupo: segno che, benchè più forte, l’orso non poteva azzannare il suo più agile avversario. Si impara qui che la faina, esile come un verme, ed appuntita come un trapano, uccide la volpe afferrandola al capo coi dentini aguzzi; e che la martora, presa nella tagliola sulla neve, se ne libera spesso recidendo la zampa con i suoi stessi denti, forse senza soffrire, perchè la zampa è anestetizzata dalla stretta e dal freddo. Perciò nel museo si vedono esemplari di martore con la zampina monca… (G. Piovene)
La conca del Fucino Proprio nel cuore della regione montuosa dell’Italia Centrale si stende una ampia, fertile pianura. All’intorno essa è chiusa da alti monti calcarei di color grigio chiaro, culminanti a quasi 2500 metri nel Velino. In contrasto con queste alture inospitali, che fino a primavera inoltrata portano un bianco mantello di neve, sta la ridente pianura, alla quale danno un’impronta di fertilità campi, prati, gruppi d’alberi e lunghe file di alti pioppi. Ma fino ad un secolo fa il bacino offriva tutt’altro aspetto, poichè esso era occupato da uno specchio d’acqua, il lago Fucino, che per grandezza appariva il terzo lago d’Italia. Esso non era alimentato da corsi d’acqua importanti, nè da sorgenti, ma invece soprattutto dalle acque di pioggia, per cui, essendo queste irregolarmente distribuite nel corso dell’anno, il livello risultava variabile. E’ facile comprendere come questi dislivelli fossero dannosi per gli abitanti e per le colture, tanto più che nelle zone abbandonate temporaneamente dalle acque si spigionavano delle pericolose febbri. In antico già l’imperatore Claudio si era interessato del prosciugamento del lago. Egli ordinò lo scavo di una galleria sotterranea, che avrebbe portato le acque nel Liri, non lontano dal luogo dove si trova ora il villaggio di Capistrello. E nell’anno 52 dC la galleria, che è uno dei maggiori lavori dell’antichità, risultando lunga quasi sei chilometri, venne ultimata. Sopravvenute le invasioni barbariche, il lago prese di nuovo possesso del suo antico fondo e i tentativi di rimettere in efficienza il canale sotterraneo rimasero senza esito. Nel 1800, poichè lo Stato, a quel tempo il Regno di Napoli, non era in grado di disporre delle somme necessarie a lavori di prosciugamento, un audace milionario romano, il banchiere Alessandro Torlonia, si fece iniziatore del progetto a spese proprie, a condizione che il fondo del lago, una volta liberato dalle acque, diventasse di sua proprietà. Sa allora il suo motto divenne: “O io asciugo il Fucino, o il Fucino asciuga me”. I lavori ebbero inizio nel 1854 sotto la direzione di un ingegnere svizzero. Le difficoltà da superare erano molteplici, anche perchè allora le condizioni della viabilità erano tutt’altro che buone. Nel 1862 la costruzione del nuovo canale veniva ultimata, ma solo nel 1875 si ebbe, dopo ottenuti due nuovi abbassamenti del livello, il prosciugamento totale, che causò la morte di migliaia di pesci. Oltre ad un canale centrale rettilineo, per evitare la sommersione della parte più depressa, vennero scavati circa 300 chilometri di canali secondari, uno dei quali cinge il bacino alla sua periferia, raccogliendo le acque dei torrenti che scendono dai monti vicini. L’audace banchiere riuscì così a trionfare d’ogni difficoltà e come riconoscimento venne nominato Principe del Fucino. Oggi, quello che era un tempo il fondo pianeggiante del lago costituisce col suo fertile terreno la più vasta zona coltivata dell’Abruzzo. Dove un tempo gettavano le reti duecento pescatori, arano alcune migliaia di agricoltori. In mezzo ai frutteti si estendono campi di cereali, di patate, di ortaggi. Vaste zone sono piantate a vite e un quinto della superficie è coltivata a barbabietole. (K. Hassert)
Flora e fauna I tiepidi venti dell’Ovest non riescono a passare l’Appennino e a portare il loro benefico influsso nell’altro versante; per questo, nelle montagne abruzzesi, fa freddo e le precipitazioni sono abbondanti; nella zona costiera, invece, il clima è migliore: il mare mitiga i calori estivi e il freddo invernale. La flora delle alte montagne ricorda quella delle Alpi. Sopra i duemila metri vi sono prati, spesso con erbe medicinali ed aromatiche. Subito sotto incominciano i boschi: pini, faggi e, più basso, le querce. Nella zona adriatica vengono coltivati l’olivo e la vite; fino ai mille metri vive il castagno. Peschi e mandorli abbondano nelle conche interne. La fauna era molto ricca e varia fino a qualche secolo fa. (M. Menicucci)
La produzione agricola La produzione agricola dell’Abruzzo deve fare i conti con le difficoltà di un suolo in parte montuoso, in parte accidentato per frane e calanchi, colpito da alluvioni. La montagna è generalmente brulla; soltanto nel Parco Nazionale, esteso nell’alta valle del Sangro presso i monti della Meta, sono ricche foreste. Il diboscamento è stato causato anche dalla pastorizia, che tendeva, in passato, ad eliminare i boschi per estendere le terre adatte al pascolo: la pastorizia abruzzese è attiva ancora oggi ed è caratteristica per le sue transumanze (spostamento invernale di migliaia di capi dall’Abruzzo alle piane laziali e pugliesi); tale transumanza, che un tempo avveniva lungo i tratturi (piste segnate dal passaggio delle greggi), si svolge oggi più rapidamente su autocarri e treni. L’agricoltura è attiva, pur senza offrire mai un reddito elevato, nelle zone costiere, collinari e nelle vaste conche tra i monti; fatta eccezione per la valle del Fucino, il resto della campagna è spezzettato in piccole e minime proprietà. Prodotti importanti sono la frutta, gli ortaggi (pomodori e primizie); caratteristica nella piana dell’Aquila è la coltivazione dello zafferano.
L’attività industriale L’industria abruzzese ha uno sviluppo modesto, anche se si è recentemente indirizzata verso attività nuove: quelle della produzione idroelettrica (centrali del Sangro e del Pescara), dell’estrazione di petrolio (pozzi di Alanno) e di metano (zona di Vasto); si estrae anche bauxite dai monti della Marsica e dal monte Velino, e si usa il minerale in stabilimenti per la produzione di alluminio. Sono presenti stabilimenti chimici per la produzione di esplosivi e concimi. La vecchia industria è rappresentata da zuccherifici.
Lo zafferano Nell’Aquilano è molto estesa la coltivazione di questa pianta, specialmente a Prata d’Ansidonia. E’ un’erba perenne dai grandi fiori violacei e dagli stimmi di odore forte e di sapore aromatico. Il fiore viene raccolto in ottobre, prima del levar del sole. Gli stimmi, separati dalle rimanenti parti del fiore, vengono riposti in panierini aperti per facilitarne l’essiccazione; quindi, macinati, danno lo zafferano, polvere usata in cucina come aroma, in medicina nella preparazione del laudano, nell’industria come colorante di sostanze alimentari. (M. Menicucci)
La fiera di San Quintino I mercanti di zafferano giungevano la mattina alla fiera. Ad essi era riservato lo spazio davanti alle vetrine della farmacia e alla porta del circolo, che era il posto dei signori. Le bilance luccicavano come quelle del farmacista. Seduti, o in piedi davanti alla bilancia, i mercanti di zafferano non battevano ciglio, non rivolgevano la parola a nessuno. I contadini passavano e ripassavano davanti a quei tavolini allineati, s’informavano sui prezzi e si decidevano a tirar di sotto il cappotto il loro sacchetto di zafferano solo quando si erano persuasi che sarebbe stato impossibile vendere a un prezzo maggiore. Allora, cautamente, mostravano il frutto prezioso delle loro cure e fatiche. Perchè lo zafferano è una pianta che richiede cure infinite, va allevata come un bambino; vuole terreno leggero come la seta, lavorato più di un orto, non si finisce mai di stargli intorno. I vecchi, rievocando le fiere di San Quintino dei loro tempi, ripetono ancora il proverbio: “A San Quintino anche il povero becca un quattrino”. Finchè sulla piazza non si sente più uggiolare qualche cane sparso, che abbaia al vento e alla luna. (G. Titta Rosa)
Pastori abruzzesi Nel novembre con i primi freddi e le prime grigie caligini crepuscolari, passano lungo il tratturo, una speciale strada erbosa che va, lungo il mare, alle Puglie, dai ricchi pascoli e dalla mite temperatura invernale, grandi greggi, agili capre davanti, pecore obbedienti dietro, formidabili cani ai lati, i pastori dall’alta mazza, memore del lituo etrusco, intagliata di pazienti disegni, di figure e di nomi, vegliano alla compattezza del branco. Alle soste, un gran cerchio di rete chiude il gregge, e lo spettacolo di quella pace di animali mansueti, che brucano l’erba rada e di uomini semplici, che attendono con gesti lenti, silenziosamente, alle monotone cure della pastorizia è d’una grandezza e d’una dolcezza infinita; intorno, io ne ho vedute di queste soste, sulle rive del Pescara, è la magnifica scena della vallata, il cui silenzio nel cadere dell’ombra, è accresciuto dal mormorio del fiume lungo i greti; da presso, le cime dei pioppi palpitano nella chiarita tenue del cielo e lontano, ad occidente, i monti neri hanno un profilo formidabile di titano gigante. Verso la fine di giugno le greggi passano, dirette ai pascoli montani, e a distanza di mezzo anno, quel fluttuare uniforme di dorsi lanosi, quel rado abbaiare di cani e incitare di voci dai monosillabi gutturali, e il tono digradante dei campani in lontananza, e le forme nere degli uomini, eretti sulla linea dell’orizzonte nella lucentezza palpitante delle pure sere estive piene di stelle, sembrano la grande giornata che segue alla grande giornata, senza interruzione, nella vita dei pastori, che vivono con i bruti, con la terra e con Dio, pensosi di chi sa quali oscuri abissali misteri dell’essere. (E. Janni)
I tratturi In settembre, i pastori d’Abruzzo lasciano i pascoli alpestri e si recano verso le pianure della Puglia o verso quelle dell’Agro Romano attraverso i tratturi, strade d’erba la cui origine si perde nella lontananza dei tempi. E’ certo che esistettero già prima che sorgesse Roma e che rimasero immutabili nel tempo. Oggi i tratturi sono diminuiti di numero anche perchè i pastori preferiscono trasportare il gregge con appositi, razionali e rapidi mezzi. E’ ancora lunghissima la processione che si snoda attraverso “l’erbal fiume silente” dove sono già passate migliaia e migliaia di pecore come quelle di oggi, migliaia di pastori, come quelli di oggi. Anche il paesaggio è ancora quello di una volta e il pastore moderno rinnova sempre la propria meraviglia quando, alla sera, sull’ora del tramonto, gli appare in lontananza il mare Adriatico che verde è come i pascoli dei monti. Forse, chi preferisce abbandonare l’usanza antica e trasportare il gregge con autocarri, non ha tempo di ammirare i colori del mare, la bellezza dei colli che si rincorrono come onde digradanti verso la marina, le belle vallate ornate di colori variopinti, i dolci fiumi che, silenziosi, si avvicinano all’Adriatico. Il pastore che segue gli antichi tratturi impiega ancora due o tre settimane per raggiungere i pascoli di pianura; egli, come il suo gregge, non ha fretta di arrivare; per lui , il tempo non ha importanza. Ciò che importa è sapere che la strada che percorre è la stessa seguita dai suoi padri, fin dalla più remota antichità. Attraverso i tratturi, il cammino delle greggi è facile e sicuro; non c’è il pericolo di sbagliare strada e le pecore trovano facilmente di che nutrirsi lungo il viaggio. Poi scende la sera: il pastore si sdraia all’aperto sotto le stelle e può così contemplare il cielo e ripensare, già con nostalgia, alla montagna che, lassù, aspetta il suo ritorno a primavera.
Artigianato In Pescara e provincia è localizzata l’industria abruzzese: fonderie, impastatrici, macine, torchi, frantoi, motori a scoppio, alluminio, concimi, asfalti e bitumi, acido solforico, solfato di rame… Nelle altre parti della regione prevale l’artigianato che ha sempre sopperito alla richiesta locale e, in più di un caso, ha aperto la via all’esportazione. A l’Aquila, Gessopalena, Isernia si fanno trine, merletti, ricami; a Giulianova ferve la lavorazione dei coralli; a Guardiagrele quella dei ferri battuti; a Sulmona l’industria dolciaria (confetti); a Chieti e Salle si fabbricano le corde armoniche; nel lancianese e ortonese ci sono lanifici e tintorie; sono rinomati i pastifici del chietino e del Molise; famosi i caciocavalli, i provoloni e le scarmorze della Marsica e del molisano; parecchie le distillerie e i liquori fatti con le erbe aromatiche della Maiella. Dalle argille e calcari locali traggono vita numerose fornaci di laterizi e di calce, terrecotte e ceramiche. Stimate le coltellerie di Campobasso e di Frosolone, la fonderia di campane di Agnone. Fiorente la lavorazione del rame a sbalzo.
I ceramisti di Castelli Alle falde del monte Camicia, sedici chilometri a sud di Teramo, Castelli sorge da un tumulto di torrenti e di rocce che si rincorrono, si sorpassano, si confondono. Il paese è sostenuto contro la rupe e difeso dalle frane, da grandissime arcate a tre ordini. Il terreno umido e argilloso, infatti, lo minava alla base e lo minacciava dall’alto; ma proprio in questo, Castelli trovò la sua fortuna, perchè l’acqua, l’argilla ed il bosco crearono le maioliche ormai famose nel mondo. La ceramica di Castelli ebbe origine al tempo degli Etruschi. Si conserva lo stesso sistema di lavoro da millenni; e quel lavoro paziente si svolge nello stesso ritmo di una vita semplice, con la medesima ruota, tra pani di creta e cataste di legna, in antri antichi ed umidi. Quelle stesse fornaci produssero i tondini smaltati di vivaci colori che dal decimo secolo ornano i campanili e le chiese dell’Abruzzo. La casa dei Pompei segna una data certa nella storia della ceramica castellana; infatti sulla facciata della sua abitazione Orazio Pompei murò una pietra con una scritta in latino che significava: “Questa è la casa del vasaio Orazio”, e sopra la porta mise una mattonella in cui aveva dipinto una Madonna, con la firma e la data: 1551.
Le province L’Aquila sorge a 720 metri d’altezza, sopra una collina che domina la ben irrigata conca dell’Aterno, allungata tra la catena del Gran Sasso e l’altopiano del Monte Velino. A Sulmona, notevole centro ferroviario alle falde della Maiella, nacque Ovidio, poeta latino; ed è famosa per le fabbriche di confetti. Sopra Sulmona, da una parte, Scanno sul lago omonimo, villaggio famoso per i costumi, i ricami e i merletti; e dall’altra, il grande Piano delle Cinquemiglia, oggi meta di turismo invernale. Avezzano sorge presso l’antica conca lacustre del Fucino, ora trasformata in fertilissima campagna tutta coltivata a bietole, grano e pioppi: bietole per un importante zuccherificio, pioppi per una cartiera di prim’ordine. Un canale in galleria scavato sotto le montagne conduce l’eccesso di acqua della conca nel fiume Liri e quindi nel Tirreno. Dalle montagne attorno, cioè dalla regione chiamata Marsica, si ricava buona bauxite (una terra rossa e bruna da cui si estrae alluminio). Qui si ha il villaggio più elevato dell’Appennino, cioè Rocca di Cambio, su un bell’altopiano della rispettabile altezza di 1434 metri. E nel Parco Nazionale d’Abruzzo, il villaggio di Roccaraso offre un bell’esempio di attrezzatura alberghiera per villeggiatura e turismo montano; come anche Pescasseroli, la patria del grande filosofo, storico e letterato Benedetto Croce. Chieti si stende su un colle a 15 chilometri dal mare, dominante la valle del Pescara. Numerose industrie sono sorte sulla sottostante piana: zuccherificio, cartiera, manifattura tabacchi, fonderie, officine di macchine agricole ecc… Cittadina di una certa importanza è Lanciano, nell’interno collinoso. Sulla costa: Francavilla, centro balneare; Ortona, centro di pesca; Vasto. Pescara è invece presso l’Adriatico alla foce del fiume omonimo; distrutta durante la guerra, è ora in forte sviluppo sia per il turismo sia soprattutto per le industrie (cantieri navali ecc…). Il fiume Pescara venne canalizzato fino al mare tanto che oggi è diventato un ottimo porto – canale. Pescara è la patria del poeta Gabriele D’Annunzio. Nell’interno della valle della Pescara, Bussi è notevole per una grossa industria chimica e per giacimenti di alluminio. Non lontano vi sono anche notevoli pozzi di petrolio. Dal piano di una grande conca sopra Bussi sgorgano grandiose sorgenti: è una parte delle acque assorbite dalle spaccature delle rocce calcari del Gran Sasso che, dopo un percorso sotterraneo tra le viscere dei monti, riemergono limpide alla superficie per alimentare le campagne e per essere utilizzate dalla Centrale idroelettrica di Bussi. Teramo è situata su un poggio sporgente a dominare la confluenza del Tordino col Vezzola, da cui il nome latino di Interamna (tra i fiumi) da cui poi Teramo. La zona collinosa circostante è alquanto franosa e solcata a calanchi. Giulianova e Roseto degli Abruzzi sono buone stazioni balneari e pescherecce. (G. Nangerone)
L’Aquila Le sue origini sono confuse: si parla di 99 castelli che contribuirono alla sua fondazione, per cui sono rimasti i 99 tocchi della campana della Torre del Palazzo di Giustizia e le 99 cannelle della Fontana della Riviera. Si ricorda come una volta la città avesse 99 chiese: ora non sono più tante, ma quelle che rimangono sono belle e ammirate. La città è dominata dall’imponente castello, isolato e protetto da un fosso profondo. La città, su una collina con scoscendimenti ai lati, è adagiata intorno a due grandi arterie tagliate a croce: il corso Federico II, dagli Alberelli alla piazza Margherita, e la via Roma, dalla porta omonima a San Bernardino. Ha per stemma l’aquila imperiale di Federico II Svevo. Nel Medioevo fu fiera delle sue libertà e le difese con le armi, sempre. I sentimenti di fierezza e di amore per la libertà si mantennero attraverso le secolari vicende e nel periodo del Risorgimento L’Aquila fu rappresentata, nelle lotte contro la tirannide, dai suoi migliori cittadini. (U. Postiglione)
A Pescara: il porto – canale Fino a qualche anno fa, all’ora del tramonto, quando il mare assume il colore dell’ametista e si stacca per una sola linea dal rosseggiare del cielo, scorgevi la distesa popolata di vele, l’una gialla, l’una rossa, l’altra arancione, tutte con un simbolo, quale di Sant’Andrea, quale il calice dell’ostia, quale la mezzaluna, quale il mondo sovrastato dalla croce luminosa; e tutte queste vele si incrociavano, perdendosi nella distanza la misura di quella che fosse più innanzi a quella che fosse più indietro, gareggiando nell’ingresso al porto canale. Ora non è più così. I nuovi pescherecci sono tutti motobarche. Cosicchè la sera, quando i pescatori rientrano, il porto canale è tutto un rumorio di motori, un tun tun tun continuo, incessante che si ripete da barca a barca, via via che entrano nel porto, e al sorgere del nuovo rumore le donne sollevano il capo, per vedere se con esso rientra il loro uomo. Infatti è inutile che esse si spingano sul molo, come una volta, a indovinare, tra le tante barche, per un segno inconfondibile, quella che sta loro a cuore, e se ne stanno sedute, lungo i moli, dove sanno che la loro barca attraccherà, cianciando tra loro, con tra i piedi il cesto del pesce che sta per giungere, ad attendere che un nuovo rullio gli faccia sollevare il capo. Ma frattanto tutto è animato, tutto è concitato, e mentre sempre nuovi uomini si avvicendano attorno alle barche già attraccate, un calafato continua imperterrito il suo lavoro. (G. Vittorini)
Un grosso centro Pescara nuova è uno dei prodigi del dopoguerra. Dopo la guerra, infatti, questo grosso centro si è raddoppiato. La città nuova sulla costa a settentrione della vecchia, oltre il ponte sul Pescara, sorse da una colonia di ferrovieri quando nacque la ferrovia. I vecchi pescaresi sono sommersi dalla folla degli immigrati: gente di tutto l’Abruzzo scende a Pescara. La città attrae perchè è nella zona di gran lunga più ricca di prodotti agricoli. Nella vallata del Pescara sono poi sorte le vere industrie dell’Abruzzo. Così com’è Pescara ha una sua bellezza, diversa dalla consueta delle città italiane. Una gran festa a cui ho assistito faceva veramente ricordare i Far West: bande e cori sembravano galleggiare sopra un mare di folla che riempiva le piazze e il lungomare, tutta macchiata di colori vivaci, tra cui predominava il rosso. Cori e bande nei chioschi si esibivano a gara. Le bande, con i loro maestri, per lo più musicisti o cantanti in ritiro che educavano i suonatori, appassionavano l’Abruzzo. Erano le bande migliori d’Italia che giravano trionfalmente di centro in centro. Ora le bande hanno perso un po’ di importanza, non perchè la passione sia estinta, ma perchè troppo alto è il prezzo degli strumenti, degli spartiti e dei variopinti costumi. (G. Piovene)
Chieti: una provincia pittoresca Si estende a oriente del fiume Pescara fino a toccare col Trigno il contiguo Molise, e va dalla montagna al mare, avendo per sfondo il massiccio della Maiella e per termine a nord l’Adriatico, attraverso un’ondulata distesa di colli folti di olivi e di vigneti e popolati di borghi e di ville. E se in alto, specie laddove balza il Sangro col suo corso aspro e tortuoso, il paesaggio è severo, presto, scendendo dai precipiti fianchi della Maiella, esso diventa blando e festoso. La natura vi manifesta una sua bellezza riposante, dalla quale è esclusa ogni nota violenta di linee e di colori, e tutto è condotto col disegno leggero e i toni attenuati propri di un pastello. L’agricoltura è redditizia per cereali, vigneti, uliveti e frutteti. L’economia agricola è integrata solo dall’artigianato e da qualche piccola industria locale (pasta alimentare a Fara di San Martino e a Villa Santa Maria; tessili a Lanciano; piccolo armamento per la pesca e per il traffico con l’altra sponda ad Ortona). (Panfilo Gentile)
Folclore Gli abitanti della montagna abruzzese hanno conservato riti, tradizioni ed usanze antichissime. Vivissimo è il culto dei morti: in ogni paese resistono al riguardo tracce di costumi curiosi, come quelli delle nenie, cantate da donne pagate allo scopo. Anche la nascita, il matrimonio e tutti i momenti più importanti della vita umana sono accompagnati da cerimonie che testimoniano un profondo senso religioso ed un sacro rispetto per la famiglia. Silenziosa e seria, la gente abruzzese sa diventare, in occasione di feste e ricorrenze, chiassosa e vivace. Ne fanno fede le sontuose feste patronali, le processioni e le sagre di paese, allietate da esibizioni bandistiche e canore, da affollatissime fiere, da fuochi di artificio e da scoppi di mortaretti. Tipiche di certi luoghi sono usanze legate al remoto mondo pagano, come la sagra dei serpari di Cocullo e il bove portato in processione a Loreto Aprutino il lunedì dopo la Pentecoste. Notissimi i ricchi costumi femminili e le zampogne che, con la fisarmonica, accompagnano gli stupendi canti locali. Non meno ricco di folclore è il Molise, che vanta Sacre Rappresentazioni a Termoli e processioni (i Misteri di Campobasso) la cui origine si può far risalire al Medioevo.
La festa dei serpenti in Abruzzo E’ una festa singolare che si svolge a Cucullo, in Abruzzo. Il primo maggio si porta in processione la statua del patrono San Domenico. Avanzano gli uomini e i ragazzi con serpi arrotolate al collo, alle braccia e al petto. Seguono le donne, in costume locale con grossi ceri in mano, i musicanti, i sacerdoti. Il parroco, in un cofanetto d’argento, porta un dente del Santo. Durante il lento cammino i serpari e altri popolani lanciano contro la statua del Santo lucertole e serpi, che l’avvolgono sulla testa, al collo, alle braccia, alla vita. Si vedono penzolare con le bocche aperte; se alcune cadono a terra, sono raccolte e rigettate sulla statua, dove si urtano, guizzano, strisciano, si avvolgono in atteggiamenti minacciosi, percuotono con le code il Santo, che avanza tra chiassose invocazioni, canti e suoni di bande, in un frastuono indescrivibile.
La festa del solco La festa del solco si tiene ogni anno, in ottobre, a Rocca si Mezzo quando le piogge dell’autunno hanno ammorbidito la terra e già son tutti terminati i lavori dei campi. Il clima e le intemperie non contano per i bravi rocchigiani la notte della gara dei solchi. Vento, pioggia o neve, le squadre dei concorrenti escono al tramonto dall’abitato e risalgono, ciascuna dietro il proprio aratro, la montagna che li vedrà impegnati nella gara fino alle luci dell’alba. Lentamente, tra gli auguri delle donne che li accompagnano per un tratto, i gruppi vocianti (ciascun gruppo conta una quindicina di uomini con due mucche e un aratro), traversano le stoppie, superano siepi e ruscelli, rimontano costoni e burrati finchè non li inghiotte il buio della notte. Alla vigilia è un affannoso andirivieni per le case in cerca di lumi, di torce, di lanterne, di paletti e di altri arnesi adatti; uomini e ragazzi vivono in un’atmosfera febbrile; si scommette, si fanno previsioni su chi alla mattina avrà tirato il solco più dritto. All’Ave Maria, sul piazzale della chiesa, in cima al paese, viene acceso il faro che guiderà gli aratori nelle tenebre. A quel faro si indirizzeranno tutte le file dei lumi, tante quante sono le squadre concorrenti, che faranno la strada all’aratro nel profondo della notte. E’ uno spettacolo che non si dimentica. Nel silenzio e nel buio si odono richiami lontani e incitamenti e comandi: e a quelle voci si muovono i lumicini come gigantesche lucciole che vadano al allinearsi per una parata di fiaba. Vediamo le tracce luminose formate dalle torce e dalle lanterne spostarsi lentamente dalla sommità della montagna verso la pendice ed immaginiamo lo sforzo degli uomini e delle bestie attorno all’aratro, la difficoltà di superare botri e torrenti e scoscendimenti e di riprendere il solco in perfetto allineamento con il tronco già tracciato; ammiriamo la bravura del capo squadra nel guidare i portatori di lumi in modo che sappiano disporli in corrispondenza col faro della chiesa e con le lanterne – guida piantate lungo il cammino. E ancor più restiamo stupiti al mattino quando, come per incanto, vediamo i fianchi del monte Rotondo squarciati da sette, dieci lunghi solchi, tutti sufficientemente diritti da richiedere un severo vaglio da parte della giuria. Poi vincitori e vinti, con gli aratri adorni di festoni e con le bandiere conquistate nella gara si incolonnano dietro la processione della Madonna in onore della quale per dieci lunghe ore hanno gareggiato nell’oscurità e nel freddo. (M. Arpea)
Il pastore abruzzese Prima “che in ciel la stella ultima cada” il pastore è in piedi, conduce il suo gregge impaziente al pascolo, e quando il sole dardeggia riposa, nella capanna, o in qualche ombrata radura si dedica a facili e utili lavori: rammenda le calze, intesse le fiscelle dove sarà colato e posto ad essiccare il formaggio, concia le pelli, in cui egli pure durante l’inverno troverà riparo dal freddo. La munta del latte e la fabbricazione del formaggio sono le faccende che più richiedono, giornalmente, tempo e cura. La prima stella che si accende nei cieli, trova i pastori già avvolti nelle coperte di lana, che si riposano dopo la fatica. In ottobre, quando alle prime scrollate della tramontana succedono le piogge, ed il Gran Sasso rimette il suo berrettone bianco, i pastori raccolgono le mandrie e le guidano sulla via del ritorno… (R. Biordi)
La più bella ora dell’Aquila Non ho mai visto l’Aquila dall’alto: ma se dovessi darne un’immagine dall’alto, l’assomiglierei a una grande croce bianca adagiata su un colle: le braccia rivolte a ponente e a levente, fra Porta Romana e San Bernardino, i piedi e la testa distesi fra sud e nord, da Porta Napoli al Castello. La lunga strada che sale dal declivio nel cui fondo scorre l’Aterno e con lieve ascesa giunge alla mole fosca e potente del Castello, per ridiscendere rapidamente dalla parte opposta del colle, taglia la città in due parti. Oppure l’assomiglierei, con immagine storica e simbolica a un tempo, a un’aquila dalle grandi ali distese, gli artigli e il becco tesi da sud a nord, le ali aperte e adagiate da levante a ponente. La più bella ora dell’Aquila è quando suona mezzogiorno. Ad un tratto dalle sue chiese il rombo delle campane esplode nell’aria luminosa, corre sui tetti come un fiume sonoro, dilaga per le vie, per le piazze, verso la campagna. La chiesa di San Bernardino, alta sulle altre, intensifica quel rombo che giunge dalle campane della Piazza Grande, dalle chiese di San Marciano, di San Domenico, di Santa Giusta, lo ridiffonde fino a confonderlo al suono disteso e trionfale delle campane di Collemaggio; gli echi dei monti circostanti lo riecheggiano moltiplicandolo e tutta l’aria è come un mare di suono. (G. Titta Rosa)
Il numero dell’Aquila Un’antica e popolare tradizione dice che l’Aquila è la città del numero 99. Novantanove chiese, novantanove piazze, novantanove fontane. Il numero si riferisce a 99 villaggi che si dice partecipassero all’edificazione della città, fondata com’è noto da Federico II. Chiese, piazze, fontane, se una volta furono davvero novantanove, con l’andar del tempo sono diminuite di molto; ma è restata la fontana di novantanove cannelle, in uno dei borghi bassi della città, e sono novantanove i colpi che batte alle dieci di sera la campana della torre Palazzo. La fontana versa l’acqua dalla bocca di novantanove mascheroni, l’uno diverso dall’altro, entro una lunga vasca, dove tuffano, sbattono e torcono i panni le lavandaie cittadine. (G. Titta Rosa)
Nel Parco Nazionale A Pescasseroli sembrerebbe già di essere al centro del Parco. Ma essa in realtà ne è ancora ai limiti: per ora il Parco è solo questo verde che mi si versa negli occhi e mi riempie di stupore. E’ cominciato dopo Gioia Vecchia, perchè prima la montagna era tutta aspra, a tinte grigie a strappi marroni, con qualche macchia di bosco più fitto. Poi a un tratto, il verde ha prevalso, il verde tenero dei prati e l’altro cupo tendente al nero delle montagne. I monti mi si stringono addosso e non hanno cime, ma solo fogliame: un fogliame così denso da far pensare al muschio, a toppe e strati di muschio umido e fitto, di quello che invoglia a ficcarci dentro la mano. E’ il loro colore a farmeli apparire favolosi, a darmi a tratti l’impressione di muovermi ai bordi di un presepe. La strada taglia dritto fra i boschi e i boschi si impennano in su, fanno parete da ambedue i lati. Non c’è sole: si ferma più in alto, a formare una striscia d’un verde nitido e asciutto. Qui, al contrario, il verde è bruno, l’ombra compatta, pare quella di un acquario. Sono giunto ormai nel cuore del Parco. La strada, tutta svolte, s’addentra per la gola e va a morire alla fine proprio ai piedi di questa mitica montagna, la Camosciara, la più nota del Parco. Solo allora mi viene addosso, svela un’ampiezza che mi lascia smarrito. (M. Pompilio)
Pescara, città americana Quello che mi stava davanti non quadrava con i ricordi: mi pareva non tanto di confrontare una città con i ricordi personali di una prima visita, ma con una serie di stampe vecchie almeno un secolo. La Pescara di prima così per me divenne quasi una fantasia. Era una cittadina d’aspetto più vecchio che antico, col suo piccolo centro provinciale, traversata anche allora dalla ferrovia costiera. La casa di D’Annunzio, che non è grande, poteva ancora prendere qualche spicco; e quei dintorni pastorali, coi loro alberi fioriti, tendevano nel ricordo a sopraffare l’abitato. La Pescara che ritrovavo era una città moderna, senza più vero centro, ne quello provinciale di una volta ne un altro. Si espandeva e allungava indefinitamente lungo la riva, simile, per certi aspetti, a qualche città americana; moderna, ribollente, formicolante d’una folla composta soprattutto dagli immigrati. I residui della città che conoscevo vi si erano smarriti dentro o erano come inserti che bisognava cercare nella confusione. (G. Piovene)
Dal Gran Sasso Sono intorno tutte le cime del gruppo: il Corno Piccolo, il Pizzo Cefalone, il Pizzo d’Intermesele, il monte dell Portella e altre e altre… E giù per le valli, ad oriente, l’Abruzzo verde e ridente, l’Adriatico, con lontano l’arancifero promontorio del Gargano e le isole Tremiti. Se la mattina è pura, sgombra di caligine, si profila all’orizzonte l’altra riva dell’Adriatico, la Dalmazia, morbido segno come d’una nuvola uguale a fiore di mare. E già dall’altra parte l’altipiano aquilano, e l’Aquila e la valle dell’Aterno, e più a mezzogiorno la florida conca di Sulmona e, lontano, sull’orizzonte, la riga azzurra del Tirreno. (E. Janni)
Abruzzo
Fior d’ananasso, nel popolo d’Abruzzo c’è il riflesso della potenza austera del Gran Sasso. Qui trovi ricche greggi e vino e grano e trovi liquirizia e zafferano. Ma ciò che a questa terra dà risalto è la sua ricca produzion d’asfalto, che viene atteso in tutte le contrade, dove c’è amor d’aver belle strade.
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MARI ITALIANI materiale didattico di autori vari per la scuola primaria.
Facciamo un viaggio per mare, imbarcandoci con la fantasia, su uno di quei pescherecci che vanno al lago a pescare sogliole e muggini, oppure su una nave da diporto che ci porterà in crociera toccando i porti più notevoli dei nostri mari, costeggiando le rive, godendo dei pittoreschi paesaggi delle nostre coste. Il mare dove l’Italia si stende è uno solo, il mar Mediterraneo, che i Romani chiamavano orgogliosamente Mare nostro. Ora non è più tutto nostro; nostri, cioè italiani, sono i mari che il Mediterraneo forma quando arriva a bagnare le coste della penisola. Si chiamano Mar Ligure, Mar Tirreno, Mar Ionio, Mare Adriatico. Il mar Ionio è il più profondo, il mar Adriatico il meno profondo ma in compenso il più pescoso. I pesci amano i fondali relativamente bassi dove trovano in abbondanza di che soddisfare il loro appetito. Se è vero che il pesce grosso mangia il piccolo, come dice il proverbio, è anche vero che tutti i pesci si nutrono del plancton che è composto da minutissime alghe e microscopici animaletti che vi dimorano. Quindi se vogliamo fare una partita di pesca sceglieremo l’Adriatico
Il Mar Ligure e il Mar Terreno Il Mar Ligure non è molto esteso. Prende questo nome dalla bellissima regione che esso bagna, una delle più pittoresche d’Italia. Palme, aranci, olivi, un cielo quasi sempre azzurro, un clima mite, un mare stupendo; ecco ciò che si presenta gli occhi di coloro che visitano questa meravigliosa regione. Nel cuore di tutta questa bellezza c’è Genova, la superba, coi suoi cantieri sonanti, i suoi traffici intensi, aerei oltre che marittimi, il suo popolo fiero, laborioso, generoso. Genova sorge in fondo a un grande golfo che ne prende il nome. Appena usciti dal golfo di Genova, ecco, in una profonda insenatura, una città che sembra fatta di ferro, un porto popolato anch’esso di navi di ferro, su cui il profilo dei cannoni mette un’ombra minacciosa. E’ La Spezia, uno dei maggiori porti militari d’Italia, una città forte, severa, risonante di lavoro e di fabbriche di armi. Dopo La Spezia, la costa si fa bassa, sabbiosa. E’ l’incantevole spiaggia toscana dove sorgono graziosissime cittadine balneari. Non vi si trovano grandi porti, eccettuato quello di Livorno, anch’esso risonante di lavoro perchè nel suo cantiere si costruiscono belle navi da carico e da trasporto. I costruttori livornesi sono conosciuti anche all’estero. Ed ecco in lontananza elevate ciminiere da cui escono nuvole di fumo denso e nero. Sono gli altiforni di Piombino, dove si lavora il ferro ricavato dalla vicina Isola d’Elba, il cui profilo si scorge all’orizzonte. Proseguendo nel nostro viaggio, dopo la costa toscana, superato appena il pittoresco promontorio dell’Argentario, ecco la costa laziale, un tempo brulla, malsana e infestata dalla malaria. E’ l’Agro romano, che oggi, per opera dell’uomo, è diventato una terra fertile, verdeggiante, salubre… Qui sfocia lento, torbido, solenne, il Tevere, il fiume di Roma, spettatore di tanta storia. Il fantasioso viaggio continua e ben presto lo sguardo si rallegra soffermandosi su una costa verde, coperta di una lussureggiante vegetazione fatta di olivi, viti, aranci. E’ la costa campana. Incontriamo prima Gaeta col suo piccolo ma delizioso golfo, e infine l’ampia insenatura in fondo alla quale sorge Napoli, dove cielo e mare sono inverosimilmente azzurri, dove la gente lavora lieta nel dolcissimo clima che dà ricchi prodotti e una terra fertile, ai piedi del Vesuvio.
Le isole del Mar Tirreno Le isole maggiori sono la Sicilia, isola ricca di agrumi, sulla quale si leva il vulcano più alto d’Europa, l’Etna; la Sardegna, bellissima nel suo paesaggio rude e roccioso dove esistono ancora i nuraghi, le antiche, misteriose costruzioni di un popolo la cui storia si perde nella notte dei tempi; la Corsica, che appartiene politicamente alla Francia. Non dimenticheremo le isole minori: l’Arcipelago Toscano con l’Isola d’Elba; l’Arcipelago Campano di cui fanno parte le gemme del Tirreno Ischia, Capri, Procida; l’Arcipelago Ponziano di cui l’isola di Ponza è la principale; il gruppo delle isole Eolie o Lipari, in una delle quali sorge lo Stromboli, il terzo vulcano attivo d’Italia. Più a ovest, ecco Ustica e infine il gruppo delle Egadi a ponente della Sicilia. Tra Sicilia ed Africa si trovano le vulcaniche isole Pelagie e l’isola di Pantelleria. Siamo così giunti allo stretto di Messina, un tempo terrore dei naviganti: chi passava lo stretto, correva il rischio, secondo la favola antica, di morire. Due terribili mostri, Scilla e Cariddi, vi facevano la guardia e chi sfuggiva alle insidie di Scilla, cadeva nell’inganno di Cariddi, e chi si salvava da Cariddi, non poteva evitare il tranello di Scilla. Favole. Che però avevano un fondo di verità. Le correnti dello stretto sono così impetuose che le antiche imbarcazioni, poco sicure, naufragavano facilmente; ciò giustificava la mitologica presenza dei due terribili mostri. Oggi lo stretto si attraversa agevolmente con le navi – traghetto, che trasportano treni ed automobili, e con i veloci aliscafi. Ottimi porti si aprono sulla costa tirrenica della Sicilia: Palermo e Trapani.
Il mar Ionio Siamo così giunti al mar Ionio, il più profondo d’Italia. Ampi porti si aprono in questo mare: Messina, Siracusa, Augusta, in Sicilia. Lasciandoci alle spalle l’isola maggiore d’Italia, bordeggeremo lungo il tacco dello stivale, dopo essere entrati nell’ampio golfo di Taranto, dove sorge il più grande porto militare in cui stanno alla fonda le navi da guerra. Al largo incontriamo le imbarcazioni che vanno alla pesca del pesce spada. Queste barche inalberano un lungo palo in cima al quale si aggrappa un uomo salito fin lassù per avvistare, nell’immensità del mare, il guizzare pesante dello squalo che poi sarà trafitto con la fiocina.
Il mar Adriatico Dopo aver superato il tacco dello stivale, e cioè la Penisola Salentina, eccoci nel Mar Adriatico, azzurro, pescoso e amarissimo. E’ infatti il più salato. Sono coste quasi rettilinee, uniformi, dove si trovano i porti di Brindisi, scalo per le navi che vanno in Oriente, Bari, Barletta, tutti ai limiti della fertilissima terra pugliese e il Tavoliere delle Puglie, dove si produce in quantità grano e vino. Lungo la costa ora non si trovano più insenature importanti e quindi non vi sono porti di rilievo, eccettuato quello di Ancona, situato in un gomito della costa stessa (il so nome in greco significa appunto gomito). Incontriamo però buoni porti pescherecci, situati negli estuari dei fiumi. Il principale di questi è San Benedetto del Tronto. Proseguendo oltre Ancona troviamo piccoli porti – canali sui ridenti lidi romagnoli dove si stendono ampie spiagge dalla sabbia dorata, popolate di bagnanti e di turisti; infine Ravenna e la Laguna di Comacchio che si chiama anche valle, ma soltanto in gergo peschereccio, perchè in queste valli non si raccoglie il grano bensì il pesce, di cui si fanno importanti allevamenti. E’ nelle valli di Comacchio che si pescano le saporitissime anguille. Eccoci poi nell’ampio golfo di Venezia. E’ questo un nome che fa sognare italiani e stranieri. E’ una città unica al mondo, costruita su numerose isolette dove, per recarsi da un luogo all’altro, ci si serve di strette vie (le famose calli) o dei numerosi canali solcati da gondole e vaporetti. Una città dove i palazzi di marmo sembrano sorgere dall’acqua, una città che nel passato estendeva i suoi domini fino ai paesi del Mediterraneo orientale. Non immaginavano certo questo splendido destino quei profughi che, per sfuggire all’invasione dei Barbari, andarono a rifugiarsi sulle deserte isole della laguna. Forse, queste popolazioni, in tempi diventati più sicuri, avrebbero abbandonato le loro provvisorie abitazioni, se non avessero trovato, in queste isolette, un tesoro: il sale. Il sale fu la prima moneta di Venezia, e se è vero come si dice che dove si semina sale non nasce più nulla, Venezia smentì clamorosamente questo detto perchè seminò sale e raccolse oro. Il sale, a quei tempi, era molto richiesto, e Venezia lo estrasse dal mare e lo esportò nei paesi dove le sue navi approdavano. Era una ricchezza che costava poco o nulla, e Venezia ne approfittò per aumentare la sua potenza. Siamo quasi alla fine del nostro viaggio. Non mancheremo di fare una visita a Trieste, la città italianissima, sul confine, col suo cantiere fervente di lavoro e col suo porto dove si svolgono traffici intensi.
Mari d’Italia La penisola italiana si spinge nel Mar Mediterraneo dividendolo in due grandi parti: l’orientale e l’occidentale, ed è bagnata da ben sei dei mari minori in cui il Mediterraneo si divide, e cioè: il Mare Ligure, il Mare Tirreno, il Mare di Sardegna, il Mare di Sicilia, il Mare Ionio ed il Mare Adriatico. Il Mediterraneo gode di una temperatura media superficiale di 23° – 24° nel periodo estivo, e di circa 12° nel periodo invernale. Una temperatura davvero mite. Le maree, ovvero il periodico innalzarsi e successivo abbassarsi delle acque, dovuto all’influsso della luna, provocano nel Mediterraneo differenze fra massimo e minimo soltanto di pochi decimetri: ad esempio 36 cm a Napoli e 27 cm a Genova; più accentuata la differenza a Venezia, circa un metro Il Mar Ligure si estende tra le zone settentrionali della Corsica e le coste liguri; è poco pescoso e piuttosto profondo (massima profondità 2800 m). Il Mar Tirreno è compreso fra le tre isole Sicilia, Sardegna e Corsica e la costa occidentale dell’Itala; è abbastanza pescoso e profondo (massima profondità 3700 m); numerose le isole. Il Mar di Sicilia è situato tra le coste africane e quelle meridionali siciliane; è ricco di pesci ma poco profondo (profondità massima 1600 m, in qualche punto). Il Mar di Sardegna è compreso fra la Corsica (Francia), le Baleari (Spagna) e le coste occidentali della Sardegna; è pescoso e profondo (profondità massima 3100 m). Il Mar Ionio si stende tra l’Italia, l’Africa e le coste occidentali della Grecia; è molto profondo ed anche caldo (profondità massima 4400 m). Il Mar Adriatico si allunga fra la Dalmazia e le nostre coste; non è molto profondo e appunto per questo è molto pescoso (massima profondità 1250 m, ma nel Golfo di Venezia non supera i 25 m). E’ il mare più salato.
L’Italia nel Mediterraneo Il Mediterraneo, chiuso fra le terre d’Africa, d’Asia e d’Europa, è ben riparato dai venti freddi del settentrione ed è favorito da un clima, assai dolce in inverno, che fa fiorire sulle sue sponde una ricca vegetazione, varia e sempreverde, d’agrumi e d’olivi, di palme e di cipressi, di lecci e di pini, e di altre piante che nel loro complesso costituiscono insieme la macchia mediterranea. Attratte dal clima e dalla ricchezza della vegetazione, fin dalle epoche più remote, molte genti si stabilirono sulle rive di questo mare il quale, col passare dei secoli, divenne il crocevia e il centro di fusione di molte antiche civiltà. In mezzo al Mar Mediterraneo, sì da dividerlo in due parti quasi uguali, si protende, snella e slanciata, la Penisola Italiana.
Le coste italiane Le coste italiane hanno uno sviluppo complessivo, comprese le isole (ma senza la Corsica) di circa 8000 km. Le coste del Mar Ligure disegnano un grande arco tra Capo Ferrat e Capo Corvo; alte e rocciose, con frequenti scoscesi promontori e minuscole insenature, offrono scorci panoramici vari e pittoreschi. Sulla Riviera di Ponente stanno Savona, Ventimiglia, Varazze, Bordighera, Sanremo, Imperia, Albenga; sulla Riviera di Levante stanno Genova, il nostro maggior porto mercantile; La Spezia, porto militare, il cui golfo è chiuso dalla penisoletta di Porto Venere; Rapallo, Chiavari e Sestri. Le coste del Mar Tirreno si sviluppano da Capo Corvo alla punta del Pezzo, sullo stretto di Messina. Lungo la Toscana, il Lazio e parte della Campania, le coste sono basse, scarse di porti e un tempo orlate di terreni palustri come nelle Maremme e nelle Paludi Pontine, ora quasi completamente bonificate. La maggiore insenatura è il golfo di Gaeta; i promontori più accentuati sono quelli di Piombino, dell’Argentario e del Circeo; Livorno e Civitavecchia i porti più attivi. Nella sua sezione meridionale, lungo la Campania e la Calabria, la costa tirrenica presenta sporgenze e coste alte e rocciose e insenature a fondo piatto. Le sporgenze più pronunciate sono la penisola Sorrentina, il Cilento, la penisoletta del Poro; le maggiori insenature sono i golfi di Napoli, di Salerno, di Policastro, di Santa Eufemia, di Gioia; il porto più attivo è Napoli, seguito a grande distanza dai porti di Torre Annunziata, Castellammare, Salerno. Le coste calabresi non hanno porti. Il Tirreno è il mare italiano più ricco di isole: arcipelago Toscano, isole Pontine, Partenopee, oltre a quelle contermini alla Sicilia e alla Sardegna. Le coste del Mar Ionio, generalmente basse e lisce, si sviluppano dalla punta del Pezzo al Capo di Santa Maria di Leuca; alle foci dei fiumi si hanno tratti di pianure alluvionali. Alcuni erti promontori, tuttavia, si spingono a punta nel mare: Capo delle Armi, Capo Spartivento, la penisoletta di Crotone. Tra le penisole calabrese e salentina si stende il golfo di Taranto; assai più piccolo, a sud, il golfo di Squillace. Rari i porti: Reggio Calabria, Taranto (militare), Crotone e Gallipoli. Le coste italiane del Mar Adriatico si sviluppano dal Capo di Leuca a Trieste. Mentre la costa dalmata è alta e rocciosa, spaccata da profonde insenature, frastagliata da lunghe isole parallele, la costa italiana è unita, bassa (tranne alla Testa del Gargano e al promontorio del Conero). A sud e a nord del Gargano ricorrono tratti paludosi e lagune (laghi di Lesina, di Varano, di Salpi); ma le lagune più importanti sono, come abbiamo detto, quelle della costa veneta. A nord l’Adriatico forma i golfi di Venezia e di Trieste. I porti più importanti, lungo la costa italiana, sono quelli di Brindisi e di Bari in Puglia, di Ancona nelle Marche, di Venezia e di Trieste in Veneto e Friuli.
Dettati ortografici
La vita dell’Italia è sul mare L’Italia deve ricorrere essenzialmente alle vie marittime per assicurare la vita materiale ed economica del suo popolo. L’Italia ha il suo territorio racchiuso nel Mediterraneo. Tutte le sue comunicazioni terrestri debbono attraversare la barriera delle Alpi, come tutte le sue comunicazioni marittime devono passare attraverso gli stretti situati a mille miglia dai nostri porti. Perciò possiamo dire che il mare è la linfa vitale, il sangue dell’Italia.
La pesca dell’Adriatico L’Adriatico, specialmente nella parte superiore, è più pescoso del resto del Mediterraneo. Lo percorrono in buona parte i bragozzi chioggiotti che si tengono, per la pesca, discosti dalle rive. Le barche di altre località, invece, si allontanano poco dalla costa, limitandosi alla pesca con reti fisse, collocate in luoghi adatti e con reti a strascico. D’estate e di primavera, però, si spingono al largo alla pesca delle sardine le quali attraversano date zone in sciami o branchi. (Mottini)
Mari d’Italia Il mar Ionio è il più profondo, il mar Adriatico il più pescoso. I pesci amano i fondali bassi dove trovano in abbondanza di che soddisfare il loro appetito perchè, se è vero che il pesce grosso mangia il piccolo, come dice il proverbio, è anche vero che tutti i pesci si nutrono del plancton, che è composto di minutissime alghe e di microscopici animaletti che fra esse dimorano. E il plancton si trova generalmente nei bassi fondali.
Le coste del Mar Ligure Sulla costa ligure vanno a veleggiare italiani e stranieri, famosa com’è in tutto il mondo, per la bellezza dei paesaggi e la dolcezza del clima. Palme, aranci, olivi, un cielo quasi sempre azzurro, un mare stupendo, delle coste pittoresche, ecco ciò che si presenta all’occhio di chi ha la fortuna di visitare questo bellissimo paese. Nel cuore di tutta questa bellezza sorge Genova, la Superba, coi suoi cantieri sonanti, i suoi traffici intensi, il suo popolo fiero e generoso.
La costa campana Costeggiando l’Italia verso sud, il nostro sguardo si potrà rallegrare soffermandosi su rive verdi, coperte di una lussureggiante vegetazione di olivi, di viti, di aranci. Incontriamo prima Gaeta, nel suo piccolo ma delizioso golfo e infine Napoli, il secondo porto d’Italia, dove il cielo e il mare sono inverosimilmente azzurri, il clima è dolcissimo e la terra fertilissima.
Lo stretto di Messina Una volta la traversata di questo stretto spaventava i navigatori, ma oggi non spaventa più nessuno. Basti dire che si può attraversare senza neppure scendere dal treno. Infatti questo viene istradato su una nave traghetto che compie la traversata, dopo di che il treno riprende la sua strada sull’altra riva. Messina fu distrutta da un tremendo terremoto, ma oggi è risorta più bella e attiva di prima.
I mostri dello stretto Un tempo chi attraversava lo stretto di Messina correva il rischio di sprofondare nel mare, almeno a quanto raccontava la leggenda. Due terribili mostri, Scilla e Cariddi, vi facevano la guardia e chi sfuggiva a Cariddi non poteva evitare Scilla. Leggende, naturalmente, ma che avevano un fondo di verità. Infatti, le correnti dello stretto sono così impetuose e le navi dell’epoca così fragili e malsicure, che i naufragi erano frequentissimi e tali da giustificare la fiabesca esistenza dei due terribili mostri.
Venezia E’ un nome che fa sognare italiani e stranieri. E’ una città unica al mondo, costruita su isolette dove, fatta eccezione per strettissime calli, non ci sono strade per recarsi da un luogo all’altro, bensì canali che bisogna percorrere in gondola o in vaporetto. Una città dove si costruivano stupendi palazzi di marmo quando ancora molte altre avevano capanne di fango; una città che divenne ricca e potente, riuscendo ad estendere il suo dominio fino al lontano oriente.
La cattura del pesce spada Sul mar Ionio si pratica la pesca del pesce spada. Sull’imbarcazione attrezzata per tale impresa, si leva un albero altissimo e un uomo sta lassù, aggrappato in cima all’asta dondolante, per tentare di scorgere, nell’immensità del mare, il guizzare del grosso pesce. Quando viene avvistato, l’imbarcazione tenta di avvicinarsi senza provocarne la fuga. Ed ecco un altro uomo all’opera. Armato di una lunga fiocina, cerca di colpire lo squalo, lanciando l’arma con mano abile e potente. La fiocina è assicurata da una corda e quando il pesce è colpito, non c’è che da tirarlo a bordo, sia pure con grande fatica e talvolta, date le dimensioni, anche con pericolo.
Parla il mare d’Italia Bella Italia, mia regina! Tirreno, Ionio, Adriatico, io non sono che un mare, il tuo mare! Vi fu un tempo che ti custodivo tutta in me: tu sei emersa, ma ancor oggi, nelle pieghe delle tue montagne, custodisci le sabbie e le argille che io vi ho deposto, serbi nelle tue pietre le conchiglie e le alghe di cui ti adornavo. Sei sinuosa di rive, facile agli approdi, dolce di lagune, traboccante di garofani e di rose, bianca di marmi, dorata di biade, fiammeggiante di vulcani, profumata di agrumi! Tutta io t’investo a temperare i freddi venti del settentrione e i brucianti fiati del sud.
Venezia Per sfuggire alle invasioni dei barbari, molti profughi andarono a stabilirsi su alcune isolette che sorgevano sulla laguna. Forse, in seguito, questi profughi avrebbero abbandonato le provvidenziali isolette se non si fossero accorte di avere, a portata di mano, un grande tesoro: il sale. Il sale fu la prima moneta di Venezia e se è vero quanto si dice, che dove si semina sale non nasce più nulla, per Venezia fu tutto il contrario: seminò sale e raccolse oro.
Il mare d’Italia Marinaro è il tuo popolo, Italia, e marinare sono le tue sorti! Sul mare vennero al lido tirreno le navi di Enea, nel mare crollò il potere di Cartagine e sorse l’impero mediterraneo di Roma; sul mare spiegarono le vele e gli stendardi, al traffico e alla guerra, i galeoni di Amalfi, di Gaeta, di Pisa, di Genova e di Venezia che fermarono le flotte turche e barbaresche, e Genova andò superba della propria ricchezza, e Venezia levò palazzi di trine marmoree e chiese dalle cupole d’oro. Sul mare, su tutti i mari, tentando nuovi passaggi, scoprendo isole e continenti, donando terre e imperi a sovrani, navigarono gli arditi marinai del Medioevo, navigarono Cristoforo Colombo, genovese, Giovanni Caboto, veneziano, Amerigo Vespucci, fiorentino, e Antonio Pigafetta che, al servizio del portoghese Magellano, fu il primo italiano a compiere il giro del mondo.
Le coste d’Italia Cinta per gran parte dal mare, l’Italia si allunga in una distesa di svariatissime coste, qua lentamente digradanti con dolce pendio, là scoscese e percosse dalle onde: ora selvose, ora nude, ora coronate di ridenti colline che si protendono in lunghi promontori e capi e file di scogli, o scavate in vasti golfi o porti amplissimi e sicuri contro ogni insidia del mare. Isole e isolette qua e là, in faccia alle spiagge, accrescono varietà e bellezza delle coste italiane.
Il mare Il mare è un immenso serbatoio di vita. Le sue acque contengono il sale, i pesci più svariati, le alghe da cui si ricavano sostanze medicinali e soprattutto assorbono lentamente il calore del sole e lo restituiscono lentamente alla terra. Quindi, mentre la terra rapidamente si riscalda e altrettanto rapidamente si raffredda, il mare ha una temperatura più costante e rende più mite, cioè più dolce, il clima, non solo delle spiagge, ma anche di un largo tratto dell’interno. (P. De Martino)
Mari, coste, pini e sole Tu credi che i mari si assomiglino tutti? Sono tutti fatti d’acqua, con tanta acqua salata… Ma è la luce che li fa diversi. Ci sono i mari del sole e quelli della nebbia, quelli azzurri e quelli grigi. Se tu hai visto qualche volta i mari dell’Europa settentrionale vedrai che il nostro è tanto più azzurro di quelli. Quasi verde l’Adriatico, cerulo lo Ionio, azzurro di cobalto il Mediterraneo, celeste chiarissimo il Tirreno. Attorno a Napoli, a Sorrento, a Procida, a Capri, l’azzurro è luminoso come uno smalto. E, come il colore del mare, varia all’infinito la bellezza delle coste. Siamo sulle rive di una stessa terra, ma la costa della Liguria come fai a confrontarla con quella veneta? E quella toscana con quella di Puglia? Due cose le ritrovi ovunque: i pini e il sole. (O. Vergani)
Mari colorati Talvolta, in prossimità delle coste, la superficie assume un colore giallo sporco per i materiali portati dai grandi fiumi; nelle calde notti estive, i mari tropicali hanno curiosi fenomeni di fosforescenza per l’azione di miliardi di microrganismi che emettono una luce simile a quella delle lucciole. Alcuni mari debbono il loro nome proprio al colore predominante delle acque: come il Mar Rosso, i cui riflessi rossastri sembra siano da attribuire a una grande quantità di alghe di quel colore; o come il Mar Giallo, così chiamato per il limo portato dal fiume Hoang-ho; il Mar Bianco, ovviamente, trae il suo nome dalla presenza dei ghiacci galleggianti sulle sue acque.
La sinfonia marina Arrivava l’onda con una veemenza d’amore o di collera sui massi incrollabili; vi si precipitava rimbombando, vi si dilatava gorgogliando, ne occupava, con la sua liquidità, tutti i meati più segreti. E quasi pareva che un’anima naturale oltresovrana empisse della sua agitazione frenetica uno strumento vasto e molteplice come un organo, passando per tutte le discordanze, toccando tutte le note della gioia e del dolore. Rideva, gemeva, pregava, cantava, accarezzava, singhiozzava, minacciava: ilare, flebile, umile, ironica, lusinghevole, disperata, crudele. Balzava a colmare sulla cima del più alto scoglio una piccola cavità rotonda come una coppa votiva; s’insinuava nella fenditura obliqua dove i molluschi prolificavano; piombava sui folti e molli tappeti di coralline lacerandoli o vi strisciava leggera come una serpe sul musco. (G. D’Annunzio)
A pesca nell’Adriatico Le principali barche da pesca dell’Adriatico sono le paranze e le lancette. Le prime sono di maggior grandezza, pescano sempre accoppiate e non rimangono in mare più di quindici giorni, provvedendo al trasporto del pesce a terra con battelli a vela o a remi. Le lancette sono barche di più piccola dimensione che navigano non discostandosi molto da terra. Lasciano la spiaggia la mattina prima dell’alba e, dopo una giornata di pesca, ritornano a terra, sì che la sera, verso il tramonto, empiono il mare di uno sbandieramento vivace, pittoresco, con la gaiezza delle loro vele scarlatte. (V. Guizzardi)
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ITALIA materiale didattico – una raccolta di materiale didattico vario per iniziare lo studio della geografia italiana nella scuola primaria.
Come l’Italia sorse dal mare Durante una gita in montagna, Roberto scoprì con sorpresa, nella parete rocciosa, l’impronta di una piccola conchiglia, e chiede al babbo come potesse quella conchiglia trovarsi lassù, a duemila metri sopra il livello del mare. Il babbo sorrise. “La cosa è semplice” spiegò. “Milioni di anni fa, tutte queste montagne erano sepolte sotto il mare. Poi emersero, portando in alto dei fossili, cioè i resti pietrificati di pesci e di molluschi. Dove ora sorge la nostra bella penisola,una volta si stendevano e acque del Mediterraneo”. “Ma come fece l’Italia a emergere dal mare?” “Guarda” fece il babbo. Prese il giornale, lo distese per terra, poi appoggiò le mani sui due lati e incominciò a premere verso il centro. Il foglio si accartocciò, si sollevò in tante pieghe. “Vedi?” riprese il babbo, “Ecco come si sollevarono i monti. Fa’ conto che la mano destra sia il continente africano e la mano sinistra sia il continente europeo. Ora devi sapere che i continenti si muovono, come se fossero degli immensi zatteroni. I due continenti, accostandosi lentamente, fecero sollevare in tante pieghe il fondo del Mediterraneo, appunto come mi hai visto fare con il giornale. Così nacque la catena delle Alpi e la lunga, frastagliata catena degli Appennini…”. Roberto ascoltava stupefatto.
“Hai presente la cartina geografica dell’Italia fisica? Sembra uno stivale proteso verso il mare. Ma guarda bene: c’è tutta una struttura montagnosa che ne costituisce l’ossatura. A nord, come un grande arco, si stende la catena delle Alpi. Dalle Alpi Occidentali si dipartono gli Appennini che percorrono in lungo tutta l’Italia. Le stesse montagne della Sicilia sono un prolungamento degli Appennini, e perciò si chiamano Appennini Siculi”. “E le pianure, come sono nate?” “Dai depositi dei fiumi. Guarda la Pianura Padana. Dalle Alpi scendono molti fiumi che trasportano detriti e terriccio. Col passare dei secoli questi detriti hanno colmato il mare e così si sono formate le pianure. Non è chiaro?” Roberto si fermò un attimo a guardare. All’orizzonte si estendeva la pianura sconfinata, velata da una leggera nebbiolina. Sembrava appena uscita dal mare, proprio come aveva detto il babbo.
Come si è formata l’Italia Siamo nell’era terziaria (l’uomo apparirà soltanto nell’era successiva, la quaternaria). Le precedenti ere: primigenia, primaria e secondaria, avevano già visto alcune terre sprofondare lentamente nel mare ed altre emergere; ora un’altra grande vicenda, detta “corrugamento alpino” sta per cambiare volto all’Europa. Una parte dell’Europa meridionale sprofonda nel mare, e nel Mediterraneo soltanto il massiccio Sardo-Corso continua a spuntare dalle acque, mentre comincia ad emergere, ciò che sarà il nostro suolo, una leggera falce di terra, costituita dalle maggiori creste alpine. Lentamente ecco affiorare poi, fra le spume del mare, il bruno dorso dell’Appennino nelle sue cime più alte, cosicchè l’Italia appare come una serie di isole. Continuando i movimenti corruganti per effetto delle immani forze endogene della terra, ecco man mano delinearsi l’alto e potente arco alpino e ad esso, e tra di loro, saldarsi le isole, che si spingono nel mare verso sud a formare un’unica lunga catena: l’Appennino.
Nel Pliocene, ultimo periodo dell’era terziaria, la cui durata si calcola dai sei ai dieci milioni di anni, l’Italia comincia a delinearsi nella sua struttura essenziale, caratteristica: c’è quantomeno lo scheletro, cui i successivi innalzamenti e i depositi alluvionali dei fiumi aggiungeranno, poco per volta, la polpa delle pianure. Nel passaggio dal Pliocene al Quaternario si ebbe un forte abbassamento della temperatura con relativo imponente sviluppo dei ghiacciai, e con un’intensa attività vulcanica. Dell’epoca glaciale si calcola la durata in 600.000 anni. Tutti i più alti rilievi alpini erano coperti di ghiaccio; solo le cime più ripide e scoscese emergevano nude. I sistemi glaciali più estesi delle Alpi erano quelli della Dora Riparia, della Dora Baltea, del Ticino, dell’Adda, dell’Oglio, dell’Adige, del Piave e del Tagliamento. I ghiacciai depositavano, ai margini e soprattutto alla fronte, i detriti di cui erano carichi: i depositi frontali si presentano tuttora come archi di colline disposte ad anfiteatro. Al ritirarsi dei ghiacciai, le conche situate a monte di tali sbarramenti morenici si colmarono d’acqua, a costituire gli odierni laghi d’Iseo, di Garda, Maggiore, di Como.
I ghiacciai hanno modellato anche le vallate sulle quali scorrevano, arrotondandone e lisciandone il fondo ed i fianchi (sezione a U), cosicchè la forma di queste valli si presenta oggi ben diversa da quella delle valli erose unicamente dai fiumi (che hanno una sezione a V). Dai ghiacciai scendevano enormi fiumane, che divagavano capricciosamente, su letti larghissimi, per l’intera Pianura Padana, in più punti acquitrinosa e intransitabile. Sull’Appennino, data la minore altezza dei rilievi e la diversa latitudine, non si ebbe un’espansione glaciale imponente come sulle Alpi; ma ghiacciai locali ebbero tutti i massicci più elevati, dal monte Antola nell’Appennino ligure, al monte Pollino in Calabria. I ghiacciai più estesi furono quelli del Cimone e della Cusna nell’Appennino toscano; nell’Appennino centrale quelli dei monti Sibillini, del Gran Sasso, del Velino-Sirente, della Maiella, del monte Marsicano, del monte Greco; nell’Appennino meridionale quelli dell’Alburno, del Matese, del Pollino e della Serra Dolcedorme; qualche ghiacciaio ebbe anche l’Etna. Estesi invece furono i bacini lacustri appenninici, prosciugati poi in varie epoche, e di cui restano, comunque, cospicui residui.
Alla fine del Terziario l’Etna aveva iniziato la sua attività; attività endogena si era avuta nei monti Berici, nei Lessini, nei colli Euganei, nei monti Iblei in Sicilia, nel monte Ferru in Sardegna, e nell’interno di Alghero e di Bosa (dove si trovano colate laviche caratteristiche: le giare). Il Pleistocene vide imponenti attività vulcaniche sul versante tirrenico: centri eruttivi si ebbero nella Toscana meridionale (Orciatico, Montecatini, Roccastrada, ecc…), nel monte Amiata, nel gruppo della Tolfa, dei monti Volsini, Cimini, Sabatini, dei Colli Laziali; più a sud furono attivi il vulcano di Roccamonfina, i Campi Flegrei, il Vesuvio, i vulcani delle isole Ponziane, di Ischia, il Vulture, e quelli delle Eolie e di Linosa. Estintasi l’attività eruttiva, i crateri, in molti casi si trasformarono in laghi. Le ceneri e i lapilli eruttati si consolidarono in estesi depositi di tufo; Roma stessa è in parte costruita su rilievi tufacei provenienti dal Vulcano Laziale.
Il periodo che segue il ritiro dei ghiacciai è detto Olocene e risale al 20-25.000 anni fa. E’ difficile farci un’idea dell’aspetto che presentava la nostra Italia. Sulle Alpi i ghiacciai si andavano ritirando verso le loro posizioni attuali: la montagna si copriva di boschi fittissimi, popolati da fiere, da mammiferi giganteschi, da uccelli. Al ritiro dei ghiacciai corrispondeva un maggior deflusso di acque che andavano ad innalzare il livello dei mari; l’Adriatico avanzava verso nord a sommergere lo spazio tra la Penisola Italiana e la Balcanica. I grandi laghi si venivano colmando e al posto di essi subentravano pianure interne, spesso cosparse di bacini residui o di acquitrini. Frequente anche la formazione di torbiere. L’attività vulcanica si veniva a poco a poco spegnendo o attenuando. La rete idrografica si veniva stabilizzando con fenomeni di cattura, erosione regressiva, ecc… L’Italia andava assumendo a poco a poco quella che è la sua attuale fisionomia; l’uomo vi si diffondeva, e con l’uomo iniziava anche l’intelligente opera trasformatrice del paesaggio naturale.
Come è nata l’Italia
L’Italia è una terra di incomparabile bellezza per i suoi stupendi paesaggi che vanno dalle alte vette nevose delle Alpi alle splendide coste, dai boschi alle fertili pianure. E’ una penisola e cioè una terra circondata dal mare da tutte le parti meno una. Si stende nel Mar Mediterraneo ed è simile, per la sua forma, a uno stivale. Ma un tempo non aveva questa forma, anzi, in tempi assai più remoti non esisteva affatto, come qualsiasi altra terra: è noto infatti che i continenti sono terre emerse. Da un potente sconvolgimento della crosta terrestre era sorto dal mare un immenso fascio di catene che attraversava quasi tutto il globo. In questo fascio, c’erano anche le Alpi. E alla base delle Alpi, di frangevano, spumeggiando, le onde.
In seguito, lentissimamente, il suolo cominciò a sollevarsi, a emergere dall’acqua ed ecco il dorso dell’Appennino nereggiare fra le spume del mare. A grado a grado, la catena appenninica si unisce a quella delle Alpi. Altre terre emergono qua e là come tante isole, e dopo milioni di anni, queste isole affioranti dal mare si saldano insieme. E’ lo scheletro montuoso dell’Italia. Intorno a questo scheletro, lentamente si vengono formando le pianure. Fra queste, la più vasta, la pianura del Po. Dove ora sono le fertili terre coltivate, una volta c’era il mare, e pertanto vi si rinvengono numerose conchiglie fossili, testimoni di un tempo in cui le acque si spingevano nelle gole alpine che allora erano insenature costiere, profonde e strette. Una parte delle Alpi, quella che si chiama Dolomiti, sorge addirittura su banchi di corallo.
A quest’epoca il globo era ricoperto, quasi interamente, dai ghiacci e, nella loro corsa al piano, le acque provenienti dai ghiacciai trasportavano ammassi di pietre, rocce e detriti di ogni genere, strappati ai versanti lungo i quali precipitavano. I ghiacciai delle Alpi, nonostante la loro apparente immobilità, avevano invece un moto lento ma continuo, e per l’azione di questo movimento, nel corso dei secoli il dorso dei monti si levigò, si abbassò, i crepacci si colmarono trasformandosi in ampie valli in fondo alle quali scorreva un fiume. I sassi e le rocce, trasportati dalle acque e trascinati dal movimento dei ghiacciai, formarono degli ammassi che oggi si chiamano morene. Le morene, sempre nel corso dei secoli, si alzarono come barriere e le acque, arrestate da questi ostacoli, formarono i bellissimi laghi subalpini, gemme dell’Italia settentrionale.
Nel frattempo, il fondo del mare si andava sollevando e al posto delle acque si formava un’ampia e bassa pianura, attraverso la quale si convogliavano le acque provenienti da una parte dalle Alpi e dall’altra dagli Appennini. Queste acque infine si raccolsero in un ampio e maestoso fiume che un giorno si sarebbe chiamato Po. Nel corso dei millenni l’Italia prese la forma attuale. Ma questa non sarà certo la sua forma definitiva. Se, fra migliaia e migliaia di anni gli uomini saranno ancora su questa terra, essi vedranno un’Italia ben diversa dall’Italia di oggi. Quelli che attualmente sono picchi altissimi, si saranno trasformati in vette arrotondate e in dolci pendii; le valli si saranno colmate e i fiumi avranno cambiato il loro corso. Dove oggi c’è una verde pianura, ci sarà forse una montagna di detriti rocciosi; nuove spaccature si saranno aperte e in fondo ad esse scorreranno le acque tumultuose di nuovi fiumi; dove oggi c’è un ghiacciaio forse ci sarà un lago azzurro, qualche isola sarà scomparsa nel mare e altre ne saranno emerse. Il delta del Po si sarà saldato all’opposta sponda adriatica, e Venezia, se ancora esisterà, sorgerà sulle rive di un lago…
Come potranno avvenire questi cambiamenti? Forse la nostra patria è davvero destinata ad essere vittima di paurosi sconvolgimenti e convulsioni della terra? Si tratterà sì anche di sconvolgimenti e convulsioni, ma soprattutto dell’azione secolare degli elementi. L’aria, l’acqua, il fioco sono le forze naturali che modificano incessantemente la forma della terra. Il vento che spazza, per migliaia e migliaia di anni, il crinale di una montagna, finisce con l’appiattirlo, col levigarlo; la pioggia che flagella il monte per secoli, scalza i massi di pietra e li fa rotolare lungo i pendii, approfondisce i crepacci, corrode le vette, trascina a valle i detriti. Il ghiaccio che si forma nelle fenditure, spacca le pietre più dure, le disgrega, le riduce in frammenti…
Nell’interno della terra il fuoco ancora rugge e divampa. Talvolta, questo fuoco trova una via d’uscita in una frattura della crosta terrestre e allora erompe all’esterno in un getto violento di fiamme, di cenere, di lave liquefatte.
E il fuoco? Con l’andar del tempo, dove prima c’era soltanto una spaccatura della roccia, eruttante fuoco, si forma un vulcano. In Italia abbiamo ancora alcuni vulcani attivi: l’Etna, il Vesuvio, lo Stromboli. Ma un tempo i vulcani di questa nostra terra erano molto più numerosi e con le loro eruzioni coprirono intere regioni di alti strati di tufo, di cenere, di lava che si andarono solidificando. I sette colli su cui venne fondata Roma sono fatti di tufo, cioè di cenere vulcanica solidificata.
Passano mille e mille anni e il vulcano si esaurisce, si quieta, si spegne. Nel suo cratere, ormai inattivo, si raccolgono le acque formando un lago pittoresco. Tale è l’origine di alcuni laghi dell’Italia centrale, il lago di Vico, di Nemi, di Albano, ecc…
Ma il fuoco non scaturisce soltanto dalla terra, bensì anche dal fondo del mare. E col tempo si formano delle isole tutte di origine vulcanica, come Ischia, Procida, Capraia, Ponza, le Eolie, ecc… E, nell’andare dei secoli, così si formeranno anche isole che forse gli uomini un giorno abiteranno. Nel 1931 sorse, dal fondo del Mar Ionio, un’isola vulcanica che fu chiamata Fernandea e che dopo qualche settimana fu di nuovo inghiottita dalle acque.
Ecco come il paesaggio cambia, ecco come nel corso dei millenni cambia l’aspetto dei monti, delle pianure, dei mari, della costa.
Ma il paesaggio non cambia soltanto per opera degli elementi o degli sconvolgimenti o dei cataclismi. Cambia anche per l’opera dell’uomo che assoggetta la terra alla sua volontà, ai suoi bisogni, alle esigenze della sua vita. Prendiamo, come esempio, ancora una volta, la Pianura Padana. Oggi, questa terra è una delle più fertili d’Italia, ma un tempo, mille e mille anni fa, era una distesa arida e sassosa dalla parte dei monti, paludosa, cespugliosa e fangosa lungo il fiume. I fiumi che l ‘attraversavano spostavano continuamente il loro corso, lasciando ammassi di ghiaia e invadendo terre fino allora asciutte.
Com’è avvenuta la trasformazione che ha fatto, di questa regione ingrata e malsana, una delle più ricche e fertili terre d’Italia? E’ avvenuta per opera dell’uomo. L’uomo ha sistemato le acque costringendole entro il loro letto mediante l’erezione di argini e di muraglioni; le ha convogliate in canali, formando così un sistema di irrigazione che ha reso fertili le zone prima di allora malsane e paludose; ha costruito potenti dighe per costringere le acque a mettere in moto macchinari, opifici e, soprattutto, ha impiantato centrali elettriche per dare la forza motrice e la luce a città e paesi anche molto lontani.
Non contento di questo, l’uomo ha scavato il sottosuolo e ne ha tratto il gas metano che va ad alimentare impianti casalinghi, portando fiamma e calore da per tutto. Con il sorgere delle industrie, con l’incremento dell’agricoltura, con l’avanzare della civiltà, la regione si è popolata di grandi e attive città che l’uomo ha collegato fra loro con chilometri e chilometri di strade, creando una fitta rete di comunicazioni che ha favorito rapidi spostamenti da un paese all’altro. Ecco che cosa può mutare profondamente l’aspetto di un luogo.
(Mimì Menicucci)
era secondaria
era terziaria
era quaternaria
oggi
Il nome “Italia”
Molti furono i nomi usati nell’antichità per designare la nostra penisola. I Greci la chiamarono Esperia o “Terra del tramonto” per indicarne la posizione rispetto alla loro patria (l’Italia è a occidente della Grecia); altri la dissero Enotria o “Terra del vino”; altri ancora Saturnia o “Terra di Saturno”, dio delle messi. Prevalse infine il nome Italia, usato in un primo tempo per designare l’estrema punta della Calabria e poi dai Romani esteso a tutta la penisola.
E’ un nome bellissimo, ma purtroppo non se ne conosce l’esatta etimologia. Un tempo lo si faceva derivare da quello di un leggendario re Italo, più tardi lo si ritenne una derivazione dal termine osco Viteliu (o dalla voce latina vitulus) a indicare che l’Italia era una terra ricca di bovini. Oggi si è propensi a credere che esso derivi da Italoi che significa abitanti dei monti, quali infatti sarebbero stati i primi abitanti della montuosa Calabria.
Nel IV secolo aC il nome Italia era già esteso a tutto il territorio a sud dell’Arno; durante l’impero di Augusto comprendeva anche la Pianura Padana. Le tre grandi isole Sicilia, Sardegna e Corsica furono denominate Italia soltanto durante il regno di Diocleziano (IV secolo dC).
Dove l’Italia cresce di sette millimetri all’ora
Alle foci del Po la terra d’Italia avanza in mare di sessanta metri all’anno, che, se non sbaglio i conti, sono circa diciassette centimetri al giorno: qualcosa come sette millimetri all’ora. Possono sembrare pochi, perchè il mondo, in fatto di rapidità, si è fatto esigente; ma se si pensa che la marcia continua da decine di migliaia di anni e che a forza di millimetri l’instancabile fiume ha riempito tutto quello che era, un tempo, il golfo padano e che oggi è la Pianura Padana, il pensiero di questo lavoro, che si svolge dalla preistoria e continuerà quando di noi non sarà più nemmeno un pizzico di polvere, fa venir voglia di levarsi il cappello. (O. Vergani)
L’azione modellatrice del mare L’azione morfologica del mare, rispetto alle coste, si esercita attraverso le due forme fondamentali dell’abrasione e dell’alluvionamento, ciascuna della quali assume però diversi aspetti. Ci limiteremo a quelli che interessano le coste italiane. Quando si affacciano sul mare rocce argillose o argillosabbiose di consistenza omogenea, l’abrasione genera delle ripe a picco (analoghe alle falaises francesi), di cui si hanno esempi sulle coste delle Marche; quando le rocce piombano a picco sul mare, l’abrasione crea, a livello del mare, una piattaforma costiera sulla quale poi si smorza il moto ondoso. Quando invece si affacciano al mare rocce con strati di diversa consistenza, si generano piccole insenature dove l’abrasione è più forte, alternate a piccoli promontori in corrispondenza degli strati più resistenti. Il mare scava poi solchi di battente e grotte, frequentissime sulle coste alte italiane. La più celebre delle grotte erose dal mare è certamente la Grotta Azzurra di Capri, ma numerose altre ve ne sono nelle isole dell’Arcipelago napoletano, nella Penisola Sorrentina (Grotta Verde), al Capo Palinuro, sulla costa della Calabria tirrenica, lungo il Promontorio Circeo, nell’Argentario, nel Promontorio di Portovenere, sulla costa ligure di ponente e in Sardegna. Parecchie grotte si trovano a diverse altezze rispetto all’attuale livello marino: esse testimoniano antiche linee di spiaggia e spesso, come la grotta delle Arene Candide nella Riviera di Ponente, danno reperti preistorici. Altra azione dell’abrasione marina è il distacco dalla terraferma di scogli, faraglioni, isolotti: ne sono esempi l’isola Palmaria (il cui distacco dalla costa di Portovenere fu però dovuto anche ad altre cause); l’isola di Dino presso la costa calabra; alcune isolette davanti alla costa occidentale e l’isolotto di Capo Passero all’estremità sud-est della Sicilia; l’isola Monica davanti alla costa di Santa Teresa di Gallura in Sardegna, ecc… In senso opposto all’abrasione, e con effetti molto più rilevanti, agisce l’alluvionamento. I materiali erosi e quelli riversati dai fiumi, talora, dopo un più o meno lungo trasporto ad opera delle correnti e una elaborazione meccanica e chimica, vengono dal mare depositati a formare coste alluvionali piatte, sabbiose, normalmente strette (ad esempio in molte piccole insenature liguri, sulle coste calabresi, marchigiane, abruzzesi ecc…) accompagnate spesso, in quelle di maggior ampiezza, da dune accumulate dal vento in cordoni litorali, quali si trovano sulle coste toscane (dove vengono chiamati tomboli), laziali (dove vengono chiamati tumuleti), della Sicilia e della Sardegna. I più vistosi effetti dell’alluvionamento si hanno alle foci dei fiumi, nei delta. Nei mari più riparati, come nell’Adriatico centrale e in fondo al golfo di Taranto, i materiali riversati dai fiumi formano cimose litoranee regolari; altrimenti si ha la formazione di veri e propri delta dalle complicate e irregolari ramificazioni, che in epoca storica, per effetto dell’azione abrasiva e delle correnti litoranee del mare, hanno subito alterne vicende di avanzamento, di stasi, di spostamenti che, complicati dall’intervento dell’uomo, ne hanno più volte mutato la configurazione: tali l’apparato deltizio Po – Adige, i delta della Magra, dell’Ombrone, del Garigliano, del Tagliamento, del Serchio – Arno, del Volturno, del Crati, del Simeto ecc… Complessivamente la costa avanza a spese del mare: Adria e Ravenna, che nell’antichità erano città marine, ora distano dal mare rispettivamente 14 e 8 chilometri; Luni, da cui prende nome la Lunigiana, ora nell’interno, era anticamente un porto etrusco.
Il nostro paese
Vi sono paesi nel mondo, i quali, per la loro posizione geografica e configurazione, sono destinati a rappresentare sempre una delle prime parti della storia mondiale: fra questi vi è l’Italia. Pochi paesi nel mondo hanno confini così ben delimitati, come il nostro; pochi paesi hanno una posizione geografica così privilegiata come quella dell’Italia. Situata nel centro del più bel mare del mondo, esso riassunse in sè quella civiltà mediterranea, romana e cristiana, che oggi è la civiltà del mondo intero. (Gribaudi)
La forma dell’Italia
L’Italia è una penisola circondata da tre parti dal mare e a nord incoronata dalla fulgida catena delle Alpi. Ma un tempo non aveva questa forma. Una serie di paurosi e violenti sconvolgimenti fecero affiorare alcune terre e sprofondarne altre; il mare invase immensi territori e da altri si ritirò ruggendo. Il risultato di queste convulsioni di acqua e di terra fu la forma caratteristica di acqua e di terra fu la forma caratteristica delle Alpi, alle splendide marine, dai boschi selvosi alle fertili pianure.
La pianura Padana
Dove ora sono le fertili terre coltivate della pianura padana, una volta c’era il mare che si spingeva nelle gole alpine che allora erano insenature costiere. I ghiacciai che ammantavano le alte cime delle Alpi e che, apparentemente erano immobili, si muovevano, invece, con un moto lentissimo, ma continuo, trascinando ammassi di pietre, rocce e detriti di ogni genere, strappati dai versanti lungo i quali scendevano. Nel frattempo, il fondo del mare si andava sollevando e si formò così una vasta pianura attraverso la quale si convogliavano le acque irruenti dei fiumi. Fra questi, il più grande, il più ricco d’acqua, il Po.
L’azione degli elementi
Il vento che spazza, per migliaia e migliaia di anni, il crinale di una montagna, finisce per appiattirlo, per levigarlo. La pioggia che flagella il monte per secoli, scalza i massi pietrosi e li fa rotolare lungo i pendii, approfondisce i crepacci, corrode le vette, trascina a valle i detriti. E il fuoco? Nell’interno della terra il fuoco ancora rugge e divampa. Talvolta, questo fuoco trova una via di uscita in una frattura della crosta terrestre e allora erompe all’esterno in un getto violento di fiamme, di cenere, di lave liquefatte. Con l’andar del tempo, dove prima c’era soltanto una spaccatura della roccia eruttante fuoco, si forma un vulcano. La terra, insensibilmente, cambia forma e dimensione.
L’opera dell’uomo
Il paesaggio non cambia soltanto per opera degli elementi e dei cataclismi. Cambia anche per l’opera dell’uomo che assoggetta la terra alla sua volontà, ai suoi bisogni, alle esigenze della sua vita. Egli sistema le acque costringendole entro il loro letto, costruisce dighe e centrali elettriche che daranno vita ai suoi opifici ed energia elettrica alle sue città. Traccia chilometri e chilometri di strade, rende fertili zone un tempo paludose e malsane, costruisce case che formano paesi e città. Ecco che cosa può mutare profondamente l’aspetto di un luogo.
Come si è formata l’Italia
La penisola italiana è emersa dal mare. Per secoli e secoli dalle azzurre onde di un mare sconvolto, affiorano punte, scogli, terre che a settentrione si disposero a semicerchio, le Alpi. E si formarono montagne, colline, pianure; i fiumi precipitarono nelle valli e dove le acque passavano crescevano le erbe e le piante, sbocciavano i fiori. Presto la terra fu tutta un verdeggiare di floridi campi. Nelle selve cinguettarono gli uccelli, per le pianure corsero, code e criniere al vento, torme di cavalli selvaggi; dalle macchie folte uscirono grandi buoi che giravano intorno i grandi occhi stupiti. Poi nei campi, presso i fiumi, apparvero uomini alti e forti, dallo sguardo fiero, che impugnavano rami nodosi e schegge di selce.
I primi abitatori dell’Italia
Chi furono i primi abitatori dell’Italia? Oggi ci soni i Veneti, i Liguri, i Romani, i Piemontesi, tutti Italiani dalle Alpi alla Sicilia, ma migliaia e migliaia di anni fa gli abitanti erano ben diversi e anche l’Italia presentava un aspetto del tutto differente da quello di oggi. Una regione coperta di fittissime foreste, senza abitazioni, senza coltivazioni, senza alcun segno di civiltà. E su questa terra, lussureggiante di boschi, ancora scossa dalle convulsioni di decine e decine di vulcani, gruppi di uomini irsuti, dalle grosse teste e dalle lunghe braccia, vagavano fra gli alberi in cerca di cibo.
I primi abitatori dell’Italia
Nelle grotte del monte Circeo si sono trovati resti di uomini vissuti in Italia migliaia e migliaia di anni fa, razze del tutto scomparse. Ma la civiltà non è avanzata con lo stesso passo in tutte le regioni del mondo. Le migrazioni portarono ondate di popoli più civili di quelli che abitavano la penisola.
Popoli d’Italia
Col passare del tempo, ondate di uomini migrarono nella penisola; erano popoli provenienti dalle città del Mediterraneo, che avevano imparato a costruire le navi, che conoscevano il commercio e sapevano fare i calcoli; erano Etruschi, che sapevano fabbricare bellissimi vasi di terracotta e avevano una forma di avanzata civiltà, erano i Galli che provenivano dal nord, erano i Cartaginesi che venivano dall’Africa. Tanti popoli, tante razze, che si mescolarono fra loro, costruirono le abitazioni, diffusero le loro scoperte. Uomini dai capelli biondi o bruni, ma tutti di carnagione chiara, forti, intelligenti, industriosi: gli antenati dei futuri Italiani.
Le morene
Nell’antichità tutta la pianura dell’Italia settentrionale formava un vasto golfo. Le pittoresche gole alpine erano, allora, altrettante anguste insenature costiere che servivano di afflusso alle acque scendenti dai ghiacciai che in quel tempo coprivano la maggior parte dell’Europa. Nella loro corsa al piano, i ghiacciai convogliavano macigni rocce detriti che strappavano ai versanti tra i quali precipitavano: a questo materiale si dava il nome di morena. Le morene ostruivano così le vallate e all’atto dello scioglimento dei ghiacciai trattenevano l’acqua formando così un lago.
Regioni d’Italia
Vorrei cantarvi tante canzoni, o dell’Italia dolci regioni: Piemonte, Veneto e Lombardia, Liguria, Emilia, Toscana mia! Le Marche e l’Umbria vorrei vedere, l’Abruzzo, il Lazio e le costiere della Campania, tutto un giardino, ricche di frutta, di grano e vino. Puglia, Calabria, Basilicata, Sicilia bella, terra incantata, Sardegna bruna di là dal mare, oh, vi potessi tutte ammirare! (A. Cuman Pertile)
Lo stivale
Io non son della solita vacchetta nè sono uno stival da contadino, e se paio tagliato con l’accetta chi lavorò non era un ciabattino; mi fece a doppia suola e alla scudiera e per servir da bosco e da riviera. Dalla coscia in giù fino al tallone sempre all’umido sto senza marcire, son buon da caccia e per menar di sprone. I molti ciuchi ve lo posson dire: tacconato di solida impuntura ho l’orlo in cima e in mezzo la costura. (G. Giusti)
Italia Quando nomino “Italia” voglio dire questa terra divina su cui si corica e cammina il mio povero corpo e mi fa piangere e soffrire: questo azzurro che riempie le pupille dei miei bambini, quest’aria che respiriamo; questi campi, questi giardini pieni di fiori così belli e perfetti che sembrano fatti con gli stampi. Quando nomino “Italia” voglio dire questa pianura, questi monti, che sono solo italiani perchè non sono così belli in nessun altro luogo; questo mare ch’è tutto mio perchè l’ho accarezzato con le mani, queste città serene e soleggiate. (C. Govoni)
Italia Italia: parola azzurra bisbigliata sull’infinito da questa razza adolescente ch’ha sempre una poesia nuova da costruire una gloria nuova da conquistare. Italia: primavera di sillabe fiorite come le rose dei giardini peninsulari, stellata come i firmamenti del Sud fatti con immense arcate blu. Italia: nome nostro e dei nostri figli, via maestra del nostro amore, rifugio odoroso dei nostri pensieri, ultimo bacio sulle nostre palpebre nel giorno che la morte serenamente verrà.
Osservando la carta geografica troveremo la spiegazione dei versi “Dalla coscia in giù fino al tallone sempre all’umido sto senza marcire”. L’Italia, infatti, è circondata per tre parti dal Mar Mediterraneo che, in vicinanza delle coste, prende diversi nomi: Mar Ligure, Mar Tirreno, Mar Ionio, Mare Adriatico, facilmente rilevabili sempre dall’osservazione della carta. E ci sarà facile anche spiegare il significato dell’ “orlo in cima e in mezzo la costura“, osservando la catena delle Alpi che a nord costituisce una potente frontiera naturale, e quella degli Appennini che si stende per tutta la lunghezza della penisola.
La felice posizione che l’Italia occupa nel Mediterraneo, ne fa il centro delle comunicazioni fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Anche per tale motivo, nel passato Roma potè divenire caput mundi, il centro del mondo conosciuto allora. La scoperta dell’America, spostando questo centro dal Mediterraneo all’Atlantico, dette un duro colpo alla supremazia commerciale dell’Italia; tuttavia, la sua posizione geografica continua ancor oggi ad essere molto importante, in quanto la nostra penisola fa da tramite tra l’Europa centrale, l’Africa ed i paesi del Medio Oriente.
L’Italia Quando gli antichi Greci sbarcarono in quella regione dell’Italia che oggi chiamiamo Calabria, vi trovarono un popolo che portava il nome di Vituli. Quel nome significava “popolo di vitello” perchè era, per quella gente, un animale sacro. La pronuncia greca cambiò in Itali la parola Vituli, perciò quella reglione fu chiamata Italia. Più tardi, con la venuta dei Romani e con l’espansione del loro dominio, il nome venne a designare tutta la Penisola, oltre il Po fino ai piedi delle Alpi. La nostra Penisola, che si protende per più di mille chilometri al centro del Mar Mediterraneo, ha la forma di un ampio stivale, con un tacco un po’ alto, sormontato da un robusto sperone. Essa è come un gigantesco ponte gettato a congiungere l’Europa con l’Africa. Per questa sua particolare posizione l’Italia subì dapprima l’influenza di alcune civiltà sorte lungo le coste del Mediterraneo, e divenne poi essa stessa sede si una grande civiltà, quella di Roma, che si diffuse in tutto il mondo antico.
La natura ha dato all’Italia confini ben definiti. A nord la grande cerchia delle Alpi la separa dall’Europa. Attraverso facili valichi e numerose gallerie, sono possibili le comunicazioni con la Francia, la Svizzera, l’Austria, la Slovenia. Scendendo verso sud, l’Italia è lambita dal Mar Mediterraneo, che ad est prende in nome di Mare Adriatico, a sud di Ionio, ad ovest di Tirreno e Ligure. Dai mari italiani emergono numerose isole, spesso raggruppate in arcipelaghi. Le più vaste sono la Sicilia e la Sardegna. Le isole minori, sparse un po’ in tutti i mari, sono raggruppate in arcipelaghi. L’arcipelago Toscano comprende la ferrigna isola d’Elba, attorno alla quale sono disseminate Gorgona, Capraia, Pianosa e l’isola del Giglio. Dell’Arcipelago delle Ponziane fanno parte le isole di Ponza, Palmarola, Ventotene e Santo Stefano. L’Arcipelago Campano è costituito dalle isole napoletane di Ischia, Procida, Capri e Nisida. L’Arcipelago delle Eolie o Lipari, di fronte alle coste settentrionali della Sicilia, comprende Salina, Filicudi, Alicudi e i grandi crateri attivi di Vulcano e Stromboli. Al largo di Palermo emerge, solitaria, Ustica. L’Arcipelago delle Egadi, ad ovest della Sicilia, comprende le isole di Favignana, di Marettino e di Levanzo. Pantelleria, famosa per i suoi vini, fa parte della provincia di Trapani. Le Pelagie sono situate presso le coste dell’Africa. Fra esse abbiamo Lampedusa, Linosa e Lampione. Le Tremiti emergono nell’Adriatico, a nord del Gargano, con le isolette di Caprara e San Domino. Altre isole, sparse attorno alle coste della Sardegna, sono San Pietro, Sant’Antioco, Asinara, Caprera, La Maddalena.
Per il lavoro di ricerca Come è nato il nome della nostra Patria? Che forma ha l’Italia? Ha sempre avuto la forma attuale, l’Italia, oppure, come tutte le terre emerse, ha subito numerose trasformazioni? I confini dello Stato Italiano, retto oggi a Repubblica, coincidono sempre con i confini naturali della regione? Quali territori restano esclusi? Quanti abitanti conta l’Italia? Che cos’è il censimento? Da quali mari è bagnata la penisola italiana? Dove sono situati tali mari? Qual è la massima profondità del mar Ligure? E del mar Tirreno? Del mar Ionio? Del mar Adriatico? Del mare di Sicilia? Del mare di Sardegna? Quali tipi di coste conosci? Com’è il clima d’Italia? Quali sono i principali golfi della costa ligure, tirrenica, ionica e adriatica? Quali sono le principali penisole italiane? Quali sono le due maggiori isole? Quali altre isole conosci? Sai dire il nome dello stretto che separa le coste calabresi dalla Sicilia? Come si chiamano i punti estremi dell’Italia?
Osserviamo la carta geografica (località marine) Qual è il mare che bagna la spiaggia di Ancona? E la spiaggia di Napoli? Pensate che i mari siano tutti uguali? Chissà quale sarà il più profondo… il più salato… il più pescoso… Sapete nominare ed indicare sulla carta il nome dei mari italiani e distinguere, dall’intensità del colore blu, il più profondo?
Lo Stato italiano Perchè una nazione diventi Stato occorre che vi sia un ben determinato confine (detto confine politico) il quale può identificarsi con quello naturale, che segna i limiti della regione; e poi occorre anche che entro questo territorio circoscritto vi sia un governo, con proprie leggi, con un proprio esercito, una propria bandiera, insomma che la nazione costituisca un’entità politica differenziata dalle altre. Nella nostra regione fisica si è formato lo Stato Italiano, retto oggi a Repubblica, i cui confini però, per quanto ottimi, non coincidono sempre con i confini naturali della regione. Restano infatti esclusi circa 21.000 km2 corrispondenti al 7% del territorio totale della regione fisica. E precisamente: – l’isola di Corsica (Francia) – il Nizzardo – il monte Chaberton, la valle stretta di Bardonecchia, il Passo del Moncenisio, tre piccoli lembi sulle Alpi Occidentali (alla Francia) – il Canton Ticino (alla Svizzera) – la Venezia Giulia e l’Istria (all’ex Jugoslavia) – l’isola di Malta e Gozo (Stato indipendente) – il Principato di Monaco (Stato indipendente) – la Repubblica di San Marino (Stato indipendente) – la Città del Vaticano (Stato indipendente). Solo modestissimi lembi di terre al di là dello spartiacque alpino sono stati incorporati nello Stato Italiano: – la valle del Reno di Lei – la valle di Livigno – il passo di Dobbiaco – il passo di Tarvisio Pure le Isole Pelagie, nel mar Ionio, fanno parte dello Stato Italiano (Lampedusa, Lampione, Linosa). Esse fisicamente sono isole africane. Questi lembi, sommati assieme, danno una superficie di appena 684 km2.
Il clima d’Italia Possiamo suddividere il territorio italiano, per caratteri climatici, in sei regioni: 1. regione alpina. Temperatura decrescente con l’altitudine; inverni lunghi e nevosi, estati brevi e fresche. Piogge abbondanti soprattutto verso est. Clima mite nella zona dei laghi e delle valli ben riparate. 2. regione padano-veneta. Clima continentale. Minime invernali che scendono a 15° – 17° sotto zero; massime estive fino a 36° – 38° sopra lo zero. 3. regione ligure-tirrenica. Clima mite, piogge autunnali, cielo prevalentemente sereno; neve rara. 4. regione adriatica. Maggiori contrasti fra estate e inverno quanto a temperatura, e minore piovosità rispetto alla regione ligure-tirrenica. 5. regione peninsulare interna. Formata dagli altipiani e dalle conche dell’Umbria e dell’Abruzzo, dalle alte terre del Sannio, dell’Irpinia, della Basilicata e della Calabria. Temperatura decrescente con l’altitudine; inverni rigidissimi, neve copiosa; estati molto calde. Piovosità variabile da zona a zona. 6. regione insulare. Clima mite ed uniforme; inverni temperati, estati lunghe e calde. Piogge scarse, soprattutto invernali; neve soltanto sulle cime più alte.
Le isole La Sicilia è la più grande isola italiana e di tutto il Mediterraneo; dagli antichi era detta Trinacria per la sua forma a tre punte. Misura 25.000 km2 di superficie; i vertici del triangolo sono costituiti da Capo Faro, da Capo Passero e da Capo Boeo. Il lato maggiore, verso il Tirreno, ha coste alte e rocciose; notevoli la penisoletta di Milazzo, i golfi di Termini, di Palermo e di Trapani. Fronteggiano questa cosa le isole di Lipari o Eolie (tra le quali la maggiore è appunto Lipari; tuttavia molto note sono anche Stromboli, per il suo vulcano, e Ustica) e il gruppo delle Egadi. Il lato medio, verso il canale di Sicilia, ha coste prevalentemente basse e unite; sporge appena Capo Granatola e molto falcata è l’insenatura di Terranova; porti artificiali sono Marsala e Porto Empedocle. Fronteggiano queste coste, a notevole distanza, l’isola di Pantelleria e il gruppo delle Pelagie (Linosa e Lampedusa). Il lato più breve, rivolto verso il mar Ionio, ha coste frastagliate e basse nel tratto meridionale, unite a quelle settentrionali. Molto ampia e aperta è l’insenatura del golfo di Catania; dei tre porti (Messina, Siracusa e Augusta) il più importante è certamente il primo, per le comunicazioni col continente. I monti della Sicilia sono una continuazione dell’Appennino. A nord, lungo la costa, si elevano i monti Peloritani, i Nebrodi, le Madonie, a sudest si stendono gli altipiani collinosi, come i monti Erei e i monti Iblei. Isolato sorge l’Etna o Mongibello (m 3279), il più imponente vulcano attivo d’Europa. Ai piedi dell’Etna si stende la piana di Catania. Ad ovest l’isola è occupata da una serie di altipiani, da groppe collinose e da piccoli massicci.
La Sardegna è la seconda isola dell’Italia e del Mediterraneo, coi suoi 24.000 km2 di superficie. Sulla costa settentrionale notevoli sono il golfo dell’Asinara, delimitato a ovest dall’isola omonima, e le Bocche di Bonifacio, che dividono la Sardegna dalla Corsica; Porto Torres è lo scalo di Sassari. La costa verso il Tirreno, nel tratto rivolto a nordest, è incisa da rias e forma i golfi degli Aranci, o di Terranova, e di Orosei; è fronteggiata da numerose isolette tra cui Caprera, Tavolara e La Maddalena. La costa meridionale, verso il canale di Sardegna, sporge coi capi di Carbonara e di Spartivento, che racchiudono il golfo di Cagliari. La costa che guarda il mar Esperico si sviluppa sinuosa, coi golfi di Alghero a nord e di Oristano al centro, e a sud con le isole di San Pietro e di Sant’Antioco, la quale ultima forma il golfo di Palmas. In Sardegna, più che vere e proprie catene montuose, vi sono altipiani e massicci separati da pianure o da larghi avvallamenti. Il massiccio più aspro è il Gennargentu, che tocca i 1834 metri; da ricordare per la loro ricchezza di minerali, nell’angolo sudovest dell’isola, i monti di Iglesias. L’unica pianura di una certa estensione è quella del Campidano, tra i golfi di Oristano e di Cagliari.
Delle isole minori italiane meritano di essere ricordate, nel Tirreno, l’arcipelago toscano formato dall’Isola d’Elba e dalle più piccole Gorgona, Capraia, Pianosa, Montecristo, Giglio, Giannutri; le Pontine, di fronte al golfo di Gaeta, formate dalle isole di Ponza, Zannone, Palmarola, Ventotene e Santo Stefano; le Napoletane, cioè Ischia, Procida, Vivara e Capri. Nell’Adriatico ricordiamo le Tremiti e Pelagosa.
Principali isole italiane (superficie in km2) Sicilia…………….. 25.426,2 Sardegna………… 23.812,6 Elba…………………….223,5 Sant’Antioco…………108,9 Pantelleria……………..82,9 San Pietro………………51,3 Asinara………………….50,9 Ischia…………………….46,4 Lipari…………………….37,3 Salina…………………….26,4 Giglio…………………….21,2 Vulcano…………………20.9 Lampedusa…………….20,2 La Maddalena…………20,1 Favignana………………19,8 Capraia………………….19,5 Caprera………………….15,8 Marettimo………………12,3 Stromboli……………….12,2 Capri……………………..10,4 Montecristo……………10,4 Pianosa………………….10,3 Filicudi…………………….9,5 Ustica………………………8,3 Ponza………………………7,5 Tavolara………………….5,9 Levanzo…………………..5,6 Linosa……………………..5,4 Stagnone………………….5,4 Alicudi……………………..5,1 Spargi………………………4,2 Procida…………………….3,9 Molara……………………..3,4 Panaria…………………….3,3 Santo Stefano…………….3,1 Giannutri…………………..2,3 Gorgona……………………2,0 San Domino……………….2,0
I fiumi
Per l’abbondanza delle piogge e per la presenza delle due catene montuose delle Alpi e degli Appennini, i fiumi che scorrono in Italia sono numerosi. Essi, però, a causa della forma stretta e allungata della Penisola, hanno in gran parte corso breve. Per le loro particolari caratteristiche possiamo distinguerli in fiumi alpini e fiumi appenninici. I fiumi alpini sono di origine glaciale, hanno cioè origine dai ghiacciai, nascono dalle Alpi e sono soggetti a piene primaverili ed estive, causate dallo scioglimento delle nevi. I principali hanno corso lungo e sono ricchi di acque. I fiumi appenninici, mancando sull’Appennino i nevai e i ghiacciai, sono alimentati quasi esclusivamente dall’acqua piovana. Essi hanno corso breve, e sono soggetti a improvvise e talvolta rovinose piene primaverili ed autunnali, e a secche estive quasi assolute. Sono quindi fiumi a carattere torrentizio.
Il Po è il più grande fiume d’Italia. Nasce dal Monviso, nelle Alpi occidentali, e percorre tutta la Pianura Padana fino all’Adriatico, nel quale si getta con foce a delta. Durante il suo corso di 652 chilometri, riceve e numerosi affluenti che discendono in parte dal versante meridionale della catena alpina (affluenti di sinistra) e in parte dal versante settentrionale della catena appenninica (affluenti di destra). Bagna le città di Saluzzo, Torino, Casale Monferrato, Piacenza, Cremona. Gli affluenti di sinistra del Po sono la Dora Riparia e la Dora Baltea, la Sesia, il Ticino, l’Adda, l’Oglio e il Mincio. Gli affluenti di destra sono il Tanaro (l’unico che nasce dalle Alpi Marittime, presso il Col di Tenda), la Scrivia, la Trebbia, la Secchia, il Panaro.
Gettano le loro acque nell’Adriatico, oltre il Po, i seguenti fiumi alpini: l’Adige, il Brenta, il Piave, la Livenza, il Tagliamento e l’Isonzo. Dagli Appennini scendono il Reno, la Marecchia, il Foglia, il Metauro, l’Esino, il Tronto, la Pescara, il Sangro, il Biferno, il Fortone e l’Ofanto. Nel mar Ionio sfociano, con abbondanza di acque in primavera ed in autunno, il Bradano, il Basento, l’Agri, il Sinni e il Crati. Nel Tirreno si gettano la Roia, la Polcevera, la Lavagna, l’Arno, l’Ombrone, il Tevere, il Garigliano, il Volturno e il Sele. I fiumi delle isole sono di scarsa importanza ed hanno un regime di acque incostante; assomigliano più a grossi torrenti che a veri e propri fiumi. In Sicilia scorrono l’Alcantara, il Simeto, il Salso, il Belice e il Platani. In Sardegna i fiumi più importanti sono il Coghinas, il Triso, il Flumini Mannu e il Flumendosa.
I laghi
L’Italia è, tra i paesi dell’Europa, uno dei più ricchi di laghi. Sparsi un po’ in tutte le regioni della Penisola, se ne contano 4100. Essi danno una nota di bellezza a molti paesaggi. Possiamo distinguerli in laghi alpini, laghi prealpini, laghi vulcanici, laghi appenninici e laghi costieri. I laghi alpini, piccoli e sparsi in tutta la catena alpina, abbelliscono il paesaggio d’alta montagna. Nelle loro acque fredde e limpide si specchiano spesso le alte cime rocciose, il verde cupo degli alberi e il cielo azzurro. I più pittoreschi sono i laghi di Ledro, di Carezza, di Caldonazzo, di Braies, di Misurina. Allo sbocco delle valli prealpine si stendono i laghi più importanti della Penisola. Solitamente sono di forma irregolare, e le loro acque riempiono il fondo di lunghe valli scavate dai ghiacciai, che un tempo scendevano fino ai margini della Pianura Padana. Sono tutti alimentati da un fiume e circondati da monti che si specchiano a picco nelle acque azzurre, o discendono con dolci declivi e a balze verdeggianti verso le rive popolate di ville e di giardini.
I laghi prealpini esercitano una benefica influenza sul clima e sulla vegetazione. Infatti sulle loro sponde prosperano piante proprie dei paesi caldi, quali il limone, il cedro, l’ulivo. La suggestiva bellezza del paesaggio, inoltre, è motivo di richiamo per numerosi turisti italiani e stranieri. I principali laghi prealpini sono: – il Lago Maggiore o Verbano, che ha per immissario e per emissario il fiume Ticino. La parte settentrionale del bacino appartiene alla Svizzera. Dallo specchio delle sue acque emergono le meravigliose Isole Borromee: Isola Madre, Isola Bella, Isola dei Pescatori. – il Lago di Como o Lario, che è formato dall’Adda e si biforca in due rami: di Como e di Lecco. E’ il più profondo fra i laghi prealpini (m 410). – il Lago d’Iseo o Sebino, che riceve le acque del fiume Oglio. In esso sorge l’isola più vasta dei laghi prealpini: Montisola.
– il lago di Garda o Benaco, che è il più esteso d’Italia. Per la sua posizione, che è la più meridionale tra quelle dei laghi prealpini, gode di un clima particolarmente mite, che favorisce una vegetazione di tipo mediterraneo: ulivi, viti, agrumi. E’ formato dal fiume Sarca il quale, uscendone, prende il nome di Mincio. I laghi vulcanici sono situati nella fascia antiappenninica del Lazio, della Campania e della Basilicata, e riempiono con le loro acque il cratere di antichi vulcani spenti. Perciò la loro forma è generalmente circolare. I principali sono i laghi di Bolsena, di Bracciano, di Albano e di Nemi, nel Lazio; il lago d’Averno, nei Campi Flegrei, in Campania; i laghi di Monticcchio, in Basilicata. Anticamente molti laghi, ora prosciugati e scomparsi, occupavano vaste conche dell’Appennino. Fra quelli rimasti i più notevoli sono il lago Trasimeno, in Umbria; il lago di Scanno, nell’Abruzzo; il lago del Matese, in Campania. Lungo le coste della penisola vi sono dei laghi che si sono formati a causa del moto ondoso del mare, il quale ha accumulato cordoni sabbiosi dinanzi alle insenature chiudendole. Tali laghi sono i laghi di Lesina, di Varano, di Salpi, in Puglia; il lago di Fusaro in Campania; i laghi di Fondi, di Fogliano, di Sabaudia, nel Lazio; i laghi di Massaciuccoli, di Burano, di Orbetello in Toscana; i laghi di Elmas, di Cabras, di Sassu in Sardegna.
Il suolo d’Italia Veramente meravigliosa è la varietà delle terre e delle coste d’Italia. Qui sono monti giganteschi, avvolte da nubi le cime nevose e scintillanti al sole, dirupi solcati da ghiacciai e flagellati dalla tempesta, balze scoscese, cupi burroni precipitosi, massi erranti per la pianura, e sassi e ciottoli e ghiaie alle falde. Foreste di castagni, di faggi, di larici e di pini fanno veste a quei monti, poi cespiti di rododendri ed erbe dal cortissimo stelo, e muschi e licheni, che di varie tinte, brue, argentine, dorate, coronano le rocce. Urla il lupo fra quelle foreste, e balza la lince, s’appiatta l’orso e corre presso la neve, nel suo manto invernale, il candidissimo ermellino, e ronzano insetti. E alle cime, ai pendii, alle nevi, alle foreste, ai vaganti nuvoloni, fanno specchio nella valli romite le onde limpidissime degli incantevoli laghi. Costà son valli di soavissime chine, sparse d’ulivi, echeggianti, d’autunno, delle grida festose delle vendemmiatrici, e fertili piani sparsi e biondeggianti messi, solcati da fiumi maestosi o da fecondi canali; e colà vaste, malinconiche pianure, e terre scaldate da un ardentissimo sole, dove allignano piante e volano e corrono e strisciano animali dell’Africa vicina.
Cinta dal mare per sì gran parte, s’allunga l’Italia in una distesa di svariatissime coste; qua con dolce pendio lentamente digradanti, là scosse e percosse dalle onde; ora selvose, ora nude, ora coronate da ridenti colline, che si protendono in lunghi promontori e capi, e file di scogli, o scavate in vasti golfi, o seni o porti amplissimi e contro ogni mare sicuri. Invero, se la varietà e la bellezza della terra opera in bene sull’uomo, gli Italiani dovrebbero essere i primi del mondo. (M. Lessona)
Grotte d’Italia Nel Carso Triestino abbiamo le grotte di Trebiciano, dei Serpenti, dei Morti e le cavità di San Canziano, percorse dal Timavo nella parte sotterranea del suo corso; in quello della Cicceria, l’Abisso Bertarelli, profondo 450 metri; in quello carniolino le Grotte di Postumia col Piuca sotterraneo; presso la Selva di Tarnova l’Abisso Montenero di 480 metri; sulla Bainsizza quello di Verco di 518 metri. Ma la massima profondità, d’Italia e del mondo, è data alla Pluga della Preta nei Lessini con 637 metri; sul monte Campo dei Fiori presso Varese abbiamo la Grotta abisso Guglielmo di 350 metri; nelle Alpi Apuane la Tana dell’uomo selvatico di 318 metri. Migliaia sono le grotte italiane che sono state regolarmente esplorate con successo, molte infatti hanno permesso di ritrovare e riportare alla luce manufatti appartenenti alle diverse epoche preistoriche. Numerose sono quelle situate in terreno calcareo, come quelle dei già nominati altipiani carsici: del Cansiglio, di Asiago, dei Tredici Comuni, di Serle nel bresciano, oppure quelle dei diversi tratti dei monti lombardi, laziali, campani, e delle Murge pugliesi. Fra le grotte più famose citiamo quelle di Castellana; le più vaste quelle di Postumia e San Canziano; quelle di Grimaldi (Liguria); delle Scalucce di Breonio nel veronese; del Diavolo e ROmanelli nella Terra d’Otranto; di Pertosa nel salernitano; di Pastena (Frosinone); di Capri; di Sant’Angelo nel ternano. Quelle dell’isola di Levanzo, nelle Egadi, hanno rivelato graffiti che si avvicinano alla famosa arte paleolitica delle caverne franco-cantabriche, e figure dipinte.
Il clima italiano
La temperatura La nostra penisola è tanto allungata che necessariamente i paesi del nord hanno temperature più basse dei paesi del sud. Infatti i paesi del sud sono più vicini all’Equatore, mentre quelli del nord sono più vicini al Polo Nord. Per l’influenza benefica, poi, dell’ampio Tirreno, le spiagge tirreniche sono più calde di quelle adriatiche, essendo queste bagnate da un mare più ristretto, quasi interno e poco profondo. Inoltre le zone montane hanno temperature più basse delle zone di pianura. E questo perchè l’umidità della pianura conserva meglio il calore, e perchè le parti più basse sono più estese e perciò rimandano all’aria molti più raggi caldi ricevuti dal sole. Questo valga per la temperatura media dell’anno.
Inoltre, mentre nelle zone marittime non vi è molta differenza tra estate e inverno, nelle zone di pianura non marine, come la Pianura Padana, la differenza è enorme. Infatti il calore viene conservato meglio dalle acque che non dalle terre, le quali rapidamente lo rimbalzano e lo disperdono. Invece nelle zone di montagna, come ad esempio sulle Alpi, vi è enorme differenza tra le calde giornate (calde anche d’inverno, quando c’è il sole e non c’è troppo vento) e le rigide nottate (rigide anche d’estate, specialmente nelle notti serene).
La piovosità Le regioni più piovose in Italia sono quelle montuose. Questo perchè i monti, essendo più freddi, condensano l’umidità più delle pianure; si producono così le nubi e dalle nubi le piogge. Sui monti del Lago Maggiore, sui monti della Carnia e dell’Istria, sull’Appennino Ligure alle spalle di Genova, si possono avere anche tre metri d’altezza di acqua all’anno; cioè se avessimo un recipiente aperto alto tre metri, all’aria libera, in un anno si riempirebbe totalmente (purchè naturalmente impedissimo l’evaporazione). Le zone meno piovose sono le pianure molto basse, come il Ferrarese e il Tavoliere della Puglia, in cui a mala pena si raggiunge il mezzo metro.
Ed è poco perchè la vegetazione possa crescere bene, a meno che come a Ferrara non vi passino molti fiumi o, come nelle Puglie, non siano stati costruiti molti canali di irrigazione. Ma che importa se in posto piove anche molto, ma solo nel periodo in cui le piante non ne hanno bisogno? Le zone più fertili sono quelle in cui piove tra la primavera e l’autunno, cioè quando la vegetazione vive attivamente o sta per mettersi a riposo. In Italia si hanno a questo riguardo tre caratteristici regimi.
Sulle coste della Sicilia, della Sardegna e di altre terre meridionali, piove specialmente d’inverno. Il perchè è semplice. D’inverno il mare è più caldo della terraferma, quindi si formano dei venti che dalle fredde terre circostanti vanno verso il più tiepido mare sulle cui isole convergeranno i venti umidi, saliranno e determineranno perciò le piogge. D’estate, siccità quasi assoluta. E’ il clima chiamato mediterraneo. Peccato che piova solo d’inverno, perchè è d’estate che le piante volentieri si inebrierebbero di acqua! Però debbo dirvi che in queste regioni, sempre tiepide e calde, anche d’inverno, vi sono piante caratteristiche che possono sopportare la siccità estiva: pini mediterranei dalla chioma a ombrello, olivi, querce da sughero, fichi d’india, agavi, ginepri, mirti, lauri, ginestre, eriche, pistacchi, capperi e altro ancora.
Sulle Alpi e sui monti in generale piove o nevica specialmente d’estate. Infatti è d’estate che i monti, ben riscaldati dal sole, richiamano i venti dai mari attorno; e i venti umidi incontrandosi o condensando l’umidità a contatto dei monti, producono nubi e poi piogge. E’ il clima chiamato continentale. I pini e gli abeti d’alta montagna molto opportunamente non perdono le foglie, perchè non potrebbero nei tiepidi ma brevi tre mesi estivi rifarsele e lavorare per fabbricarsi il cibo. Fanno eccezione i larici, che perdono le foglie anche se sono conifere come i pini e gli abeti e anche se, come questi, crescono sulle montagne. Duvunque altrove piove di primavera e d’autunno con grande vantaggio della vegetazione. In conclusione in Italia vi sono quattro tipi di clima: – il clima alpino, con molto basse temperature notturne e invernali, e con piovosità abbondante estiva: le Alpi e parte dell’Appennino settentrionale e centrale; – quello mediterraneo, con temperature miti per tutto l’anno e con piovosità invernale e non troppo abbondante, anzi talora scarsa: le isole e la penisola a sud di Salerno; -quello peninsulare con temperature miti lungo la costa, mediocri nell’interno e con piovosità primaverile e autunnale: tutta la parte rimanente della Penisola; – quello della Pianura Padana, con temperature elevate d’estate e basse d’inverno, piovosità primaverile e autunnale.
Elementi del clima Il clima è composto di più elementi e le sue caratteristiche sono influenzate in modo determinante da numerosi fattori. Per stabilire lo stato del tempo si prendono in considerazione la temperatura dell’aria (misurata con il termometro), la pressione atmosferica (misurata con il barometro) ed i venti (la cui velocità è misurata con l’anemometro), la nebulosità del cielo (stimata in decimi), l’umidità dell’aria (misurata con l’igrometro) e le precipitazioni (misurate col pluviometro).
L’osservazione metodica, giorno per giorno, delle condizioni meteorologiche nel loro diverso combinarsi e manifestarsi e la registrazione dei relativi dati, condotta per più anni di seguito, permettono non solo di seguire il loro andamento nel corso delle quattro stagioni, ma anche di identificarne le caratteristiche medie e di stabilire così il tipo di clima di una certa regione, vasta o ristretta che sia.
La previsione del tempo in montagna Sono i grandi moti atmosferici che determinano le condizioni meteorologiche generali; e sono le diverse condizioni meteorologiche generali; e sono le diverse condizioni della superficie terrestre che reagiscono diversamente, a seconda della reazione particolare che le terre, le acque, le foreste, le paludi, i deserti, e soprattutto le montagne, esercitando sui venti, la temperatura e l’umidità delle correnti aeree.
Specialmente e in maniera rilevantissima sono le catene montuose, e fra queste naturalmente le Alpi, che modificano potentemente l’andamento generale del tempo, determinando così fenomeni locali, i quali sono spesso in aperta contraddizione con le previsioni fatte dai centri meteorologici, che occorre ripeterlo, si limitano a riferire sulle condizioni generali generali del tempo, dipendenti nell’immediato futuro dalle leggi generali di successione dei grandi fenomeni atmosferici.
Per il tempo locale occorre possedere quella lunga precisa conoscenza della regione per cui si può tentare di prevedere il tempo che farà, cercando di concordare le segnalazioni dei bollettini meteorologici con i pronostici eminentemente locali, ma fidandosi soprattutto di questi ultimi. E’ indubbio che la meteorologia ha fatto grandissimi progressi, ma è altrettanto vero che nulla di assolutamente definitivo è stato raggiunto. Meno che meno, in materia di previsioni in montagna, problema questo quanto mai arduo e forse insolubile per la scienza stessa.
In montagna si possono ascoltare tutti i bollettini di questo mondo; si possono avere a disposizione barometri e termometri e fare le più accurate osservazioni, e confrontarle e studiarle: tutto ciò, diciamolo francamente, servirà certamente, ma non c’è da fidarsi troppo. Questo ben tenga presente chi frequenta la montagna e soprattutto chi fa dell’alpinismo: nulla trascurino di quanto può insegnar loro la scienza, anzi ne facciano pure tesoro; ma si valgano soprattutto dell’esperienza dei montanari e della loro personale esperienza. E più di tutto, gli alpinisti, quando si mettono sull’alta montagna, siano ben certi della loro robustezza, del loro allenamento e della loro capacità, e si affidano fiduciosi alla buona fortuna. (A. Sanmarchi)
Un lembo d’Italia in territorio straniero Sulla sponda orientale del Lago di Lugano sorge Campione d’Italia, piccolo Comune che occupa un’area di soli 2,6 kmq, ed è abitato da poco più di mille persone. E’ grazioso, ma non varrebbe la pena di segnalarlo se non rappresentasse una vera e propria curiosità storica. Esso, infatti, pur essendo in territorio svizzero, appartiene all’Italia e precisamente alla provincia di Como, città dalla quale dista solo 25 km. La sua posizione, unica al mondo, trova origine nel lontano secolo VIII, quando l’allora signore di Campione fece dono dei propri beni agli Abati di Sant’Ambrogio. Alla fine del secolo XVIII fu assegnato alla Lombardia e, con la Lombardia, passò poi all’Italia.
Il posto di frontiera più alto d’Italia Da Courmayeur, nelle notti serene, guardando verso il Monte Bianco, sulla sinistra del Dente del Gigante, si scorge un lumicino che sembra sospeso nel vuoto. E’ la casermetta di Punta Helbronnen, situata a quota 3462, sede del più alto presidio di frontiera d’Italia, anzi d’Europa. Cinque carabinieri italiani e altrettanti gendarmi francesi controllano qui i passaporti dei passeggeri della Funivia dei Ghiacciai, che dal dicembre del 1957 unisce l’Italia alla Francia sorvolando il massiccio del Bianco.
La traversata, lunga 15 km, ha inizio a La Palud, piccola frazione di Courmayeur, in territorio italiano, e termina a Chamonix, capitale dell’alpinismo francese, dopo aver raggiunto la massima altitudine di 3842 m a l’Auguille du Midi. E’ un volo entusiasmante durante il quale si può ammirare ciò che di più sublime hanno le Alpi. Da Punta Helbronner all’Aiguille du Midi, per un tratto di cinque chilometri, si sorvola uno dei massimi ghiacciai alpini e la formidabile cupola del Bianco sembra così vicina che si è tentati di allungare la mano per accarezzarla.
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Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA per bambini della scuola primaria
LEGGENDE ITALIANE
Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA
In Sardegna, nel Logudoro, si racconta questa bella leggenda:
Una volta, al mondo, non c’era il fuoco. Gli uomini avevano freddo ed andarono da Sant’Antonio, che stava nel deserto, a pregarlo che facesse qualcosa per loro. Sant’Antonio ebbe compassione e siccome il fuoco era all’inferno, decise di andare a prenderlo.
Col suo porchetto e col suo bastone di ferula, Sant’Antonio si presentò, dunque, alla porta dell’inferno e bussò: “Apritemi! Ho freddo e mi voglio riscaldare!”
I diavoli alla porta videro subito che quello non era un peccatore, ma un Santo, e dissero: “No! No! Ti abbiamo riconosciuto! Non ti apriamo. Se vuoi lasciamo entrare il porchetto, ma te no!”
E così il porchetto entrò. Cari miei, appena dentro si mise a scorrazzare con una tale furia da mettere lo scompiglio ovunque, tanto che i diavoli, ad un certo punto, non ne poterono proprio più. Finirono perciò per rivolgersi al Santo, che era rimasto fuori dalla porta.
“Quel tuo porco maledetto ci mette tutto in disordine! Vientelo a riprendere!” Sant’Antonio entrò nell’inferno, toccò il porchetto col suo bastone e quello se ne stette subito quieto. “Visto che ci sono” disse Sant’Antonio, “mi siedo un momento per scaldarmi”.
E si sedette su un sacco di sughero, proprio sul passaggio dei diavoli. Infatti, ogni tanto, davanti a lui passava un diavolo di corsa. E Sant’Antonio, col suo bastone di ferula, giù una legnata sulla schiena.
Ad un certo punto i diavoli, arrabbiati, esclamarono: “Questi scherzi non ci piacciono. Adesso ti bruciamo il bastone.” Infatti lo presero e ne ficcarono la punta tra le fiamme.
Il porco, in quel momento, ricominciò a buttare all’aria tutto: cataste di legna, uncini, torce e tridenti. E i diavoli avevano un bel da fare a mettere a posto. Non ci riuscivano e non riuscivano neppure ad acchiappare quel… diavolo di porchetto.
“Se volete che lo faccia star buono” disse Sant’Antonio, “dovete ridarmi il mio bastone”. Glielo diedero ed il porchetto stette subito buono. Ma il bastone era di ferula ed il legno di ferula ha il midollo spugnoso. Se una scintilla entra nel midollo continua a bruciare di nascosto, senza che di fuori si veda.
Così i diavoli non si accorsero che Sant’Antonio aveva il fuoco nel bastone. Il Santo col suo bastone se ne uscì ed i diavoli tirarono un sospiro di sollievo.
Appena fu fuori, Sant’Antonio alzò il bastone con la punta infuocata e la girò intorno, facendo volare le scintille, come dando la benedizione, e cantò: “Fuoco, fuoco, per ogni loco; per tutto il mondo fuoco giocondo!”
Da quel momento, con grande contentezza degli uomini, ci fu il fuoco sulla terra. E Sant’Antonio tornò nel deserto a pregare.
Anfimonio ed Anapia erano due fratelli che vivevano moltissimi anni fa, nei dintorni di Catania. Vivevano tranquilli e sereni nella loro bella casa e lavoravano volentieri e con gioia. Nel loro semplice cuore regnava l’amore e la venerazione per i genitori ed era bello vederli pieni di riguardi, sempre obbedienti, sempre pronti a far cosa gradita.
Avvenne un giorno, che l’Etna ebbe una terribile eruzione. Aveva incominciato con boati spaventosi e dal suo cratere erano usciti lapilli e un nero fumo denso che aveva coperto il cielo, oscurando perfino il sole. Poi, lungo i fianchi della montagna, era cominciato a colare un pauroso fiume di lava incandescente che lentamente, ma inesorabilmente, progrediva lungo le pendici, verso i campi rigogliosi di messi, verso le case degli uomini.
Ma gli abitanti della città non si decidevano a lasciarla; speravano sempre che l’Etna si calmasse, che la lava si arrestasse. Solo quando essa giunse alle prime case, che caddero con immenso fragore, tutti si decisero a raccogliere quanto di meglio possedevano e a fuggire davanti al pericolo.
Anche Anfimonio ed Anapia avevano atteso nella speranza che il pericolo scomparisse.
I due fratelli, invece di cercar di mettere in salvo i loro averi, si caricarono sulle spalle i loro genitori: uno il padre, l’altro la madre, che erano oramai vecchi ed infermi e non avrebbero potuto fuggire. Poi uscirono dalla loro casetta.
Ma non potevano correre, e il fiume di lava veniva giù più svelto di loro. Ben presto li avrebbe raggiunti. Allora il padre e la madre dissero: “Figlioli, noi siamo vecchi e infermi; abbiamo vissuto abbastanza; lasciateci qui, salvatevi; a voi sorride ancora la vita!”
Ma i due buoni fratelli non vollero abbandonare il loro prezioso peso e raddoppiarono le energie. Per un poco parve riuscissero a vincere in velocità la lava, poi, sfiniti, si fermarono. Abbracciarono stretti i loro cari e …attesero coraggiosamente la morte.
Ma, oh… miracolo! La lava si divise in due torrenti: uno a destra, l’altro a sinistra, lasciando libero lo spazio sul quale si trovavano i quattro abbracciati e un sentiero che permise ai due fratelli di porre in salvo i genitori e se stessi.
Il fatto miracoloso stupì i Catanesi che soprannominarono Anfimonio ed Anapia “Fratelli pii”, ed il luogo dove essi passarono fu chiamato “Campi pii”.
Quando, divenuti vecchi, i due fratelli morirono, i cittadini eressero loro un grande monumento.
E la loro memoria fu sempre venerata, come esempio di amor filiale, non solo dai Catanesi, ma dai Siciliani tutti e anche da altri popoli.
Lo Stromboli è quel vulcano che sorge dalle acque del mare, proprio dirimpetto alla costa tirrenica della Calabria, e dietro il quale, la sera, il sole si tuffa per andare a nanna, lasciandosi dietro un incendio di porpora e d’oro.
Ma forse non conosci la sua origine, non sai come sia stato collocato proprio lì, in quello specchio di azzurro mare. Ascolta allora cosa racconta il pescatore calabrese, mentre rattoppa le reti sulla spiaggia di Palmi.
Sul monte che domina la graziosa cittadina di Palmi, e che ha preso il nome del santo, sant’Elia stava un giorno in solitaria meditazione, quando gli si accostò un uomo con un gran sacco sulle spalle.
“Che cosa porti in quel sacco, e dove vai?” gli chiese sant’Elia. L’uomo, che aveva il viso tutto sporco, aprì il sacco e ne cavò fuori un gran mucchio di monete d’argento.
“E’ una gran fortuna” egli disse. “L’ho scoperta in un casolare abbandonato e sono disposto a dividere con te. Prendine quante ne vuoi; sono anche tue!”
Il santo prese le monete e cominciò a lanciarle lungo la china. A mano a mano che rotolavano, esse si tramutavano in pietre nere, di quelle che si vedono ancor oggi sul luogo.
Contrariato, l’uomo (che era il diavolo) balzò in piedi. D’improvviso, alle sue spalle si aprirono due grandi ali nere di pipistrello, con le quali egli si alzò in volo, planò sul mare e vi si tuffò, sprofondando.
Le acque gorgogliarono e schiumarono, si elevò una nuvolaglia, e quando questa si fu dileguata, ecco che sul mare si delineava un isolotto a forma di cono, dal cui vertice incavato uscivano lingue di fuoco e fumo.
Era lo Stromboli, e sotto di esso c’era il demonio imprigionato, che soffiava fiamme e tuoni.
Il vecchio pescatore di Palmi, dopo aver narrato la leggenda, si segna devotamente per non cadere in tentazione del demonio, mentre lo Stromboli, nel velo del tramonto, fuma da sornione la sua antica pipa.
Sulla cima del Monte Sant’Elia, si trova ancora un macigno con alcune impronte di unghie lasciate dal diavolo, prima di spiccare il volo per inabissarsi nel Tirreno.
Viveva un tempo, a Trani, un povero pescatore che, nonostante passasse lunghe ore in mare a pescare, riusciva a stento a provvedere alle necessità della sua numerosa famiglia.
Una notte, gettate le reti, il pescatore si adagiò nel fondo della barca lasciata in balia delle onde e, rimuginando i suoi tristi pensieri, a poco a poco finì per addormentarsi. Fu risvegliato bruscamente da un forte strappo alle reti. Che cosa succedeva? Forse era quella la volta buona?
Certo, a giudicare dal peso, il pesce incappato nella rete doveva essere enorme. Tira e tira, il brav’uomo, eccitato e felice, riuscì finalmente a rovesciare nella barca un pesce gigantesco. Ma, ahimè, si trattava di un pescecane. La delusione del pescatore si tramutò in una grande meraviglia, quando il pescecane cominciò a parlare.
“Hai pescato il tuo genio” disse lo squalo. “Sono io che dirigo la tua vita, non lo sapevi? Ebbene, ascolta ora. Fa’ a pezzi il mio corpo poi, raccolti tutti i miei denti, seminali nel tuo orto. Vedrai cosa succederà tra un paio di mesi”. Il pescatore obbedì.
Trascorsi i due mesi s’avvide che nel suo orta stava crescendo un albero. In poche settimane la pianta divenne alta e frondosa.
“E ora?” pensava il pescatore aggirandosi intorno all’albero che, a parte la grandezza, non aveva nulla di particolare.
La risposta alla sua ansioso attese venne, d’improvviso, una mattina. L’uomo stava contemplando l’albero, quando, in men che non si dica, lo vide sparire sottoterra, lasciando al suo posto un magnifico cavallo bianco con la sella preparata.
Anche il cavallo parlò. Disse: “Saltami in groppa, che faremo un lungo viaggio”.
Il viaggio, infatti, fu lunghissimo e pieno di incredibili avventure. Il pescatore, ormai divenuto cavaliere, ebbe la fortuna di conoscere tutti i paesi della terra e di compiervi azioni così valorose da meritarsi la stima di grandi e potenti signori, che fecero a gara per averlo loro ospite e per colmarlo di ricchezze.
Passarono in tal modo alcuni anni e il pescatore, un bel giorno, stanco di viaggiare, decise di tornare al proprio paese per godersi in santa pace, con la sua famiglia, le ricchezze accumulate. Però, giunto che fu a Trani, ebbe la triste sorpresa di apprendere che la moglie, credutolo morto, si era rimaritata, creandosi un’altra famiglia. Desolato, l’uomo tornò alla sua vecchia casupola. Entrò nell’orto e andò a sedersi sul luogo ove un tempo era cresciuto l’albero. Che gli restava da fare? Se ne stava lì, pieno di amarezza, a contemplare quel po’ di terra smossa, allorchè qualcosa attirò la sua attenzione. Fra le zolle c’era un pesciolino. Era un piccolo pesce argenteo che guizzava, boccheggiando. Il pescatore si curvò, fece per prenderlo, ma ecco che al contatto delle sue dita il pesce cominciò a gonfiarsi raggiungendo in breve dimensioni colossali.
Ma guarda guarda! Era di nuovo il pescecane pescato tanti anni fa.
“Sei tu, dunque!” disse il pescatore, “E allora? Io ho fatto tutto ciò che mi hai ordinato. Ho raccolto i tuoi denti, li ho seminati, ho visto crescere il grande albero che poi si è trasformato in un cavallo. Ho viaggiato per anni e anni, ho compiuto ogni sorta di imprese ed ho guadagnato onori e ricchezze. Ma a che vale tutto ciò se ora ho perduto la mia famiglia?”
Rispose il pescecane: “Le tue avventure non sono terminate. Riportami in mare, mettimi tra le onde e montami in groppa”.
Poco dopo, il pescecane e il pescatore prendevano il largo e scomparivano verso l’alto mare.
Che ne fu di loro? Nessuno le seppe mai.
“Forse” commentano i pescatori di Trani, a conclusione della leggenda,”stanno ancora vagando laggiù, tra le onde”.
Quello che è certo è che il nostro pescatore in paese non lo si rivide più.
Questa che leggiamo adesso è una leggenda solo per metà. Infatti Ronca Battista esistette davvero. E veri sono anche i fatti da lui compiuti, che ora narreremo. Assieme ai fatti, però, è mescolata anche un po’ di leggenda, suggerita dalla fantasia popolare.
Anzitutto Ronca Battista non era il vero nome del nostro personaggio. Si chiamava Giovan Battista Cerone. Il nome di “Ronca” glielo diedero i suoi concittadini di Melfi, perchè essendo bottaio di mestiere, egli usava una roncola per tagliare i rami che gli servivano per i cerchi alle botti.
Ogni giorno, di buon mattino, Battista usciva da Melfi con un pezzo di pane in tasca e si recava nei boschi di Vulture a far la sua provvista di rami. Sceglieva quelli di castagno, che sono i più flessibili, proprio adatti per far cerchi. E sapeva tagliarli con arte insuperabile: un colpo netto di roncola, tac, e il ramo era già nelle sue mani senza che l’albero se ne fosse accorto.
Mangiato il suo pane e bevuto un sorso d’acqua da una sorgente, Battista se ne tornava poi a Melfi a lavorare. Fin qui, tu dirai, non c’è nulla di speciale nella vita di questo Battista.
E’ vero! Ma aspetta un po’. A proposito, dimenticavo di dirti che siamo nel secolo XVI. Agli inizi di quel secolo la città di Melfi era ancora un feudo della nobile famiglia dei Caracciolo, fedele agli Spagnoli. Ma già scorrazzavano per la regione bande di Francesi che assalivano ora un paese ora l’altro, saccheggiando la popolazione. Quando i Francesi si avvicinarono a Melfi, Gianni Caracciolo, signore della città, decise di resistere ad ogni costo. E i Melfitani furono d’accordo con lui.
Capo dei Francesi era il generale Lautrec, tipo crudele e senza scrupoli. Egli era convinto di prendere Melfi in quattro e quattr’otto, e perciò ci rimase molto male quando si accorse che i Melfitani, chiuse le porte delle mura, si apprestavano alla difesa.
La lotta durò a lungo, feroce da parte degli assedianti ed eroica da parte degli assediati. Sulle mura e davanti alle porte avvenivano spesso scontri sanguinosi. Per di più, i Melfitani comiciavano a soffrire la fame, così che nottentempo qualche cittadino doveva uscire di nascosto dalla città per procurarsi un po’ di cibo nelle campagne.
Anche il nostro Battista, una notte, riuscì a sfuggire alle sentinelle francesi ed a raggiungere il bosco. Più che cibo, però, lui cercava legni per le sue botti, perchè non avendo famiglia, di mangiare non gliene mancava. Quella notte, anzi, egli aveva in tasca, come al solito, il suo pezzo di pane. Attesa l’alba, per vederci meglio, Battista diede mano alla roncola e staccò alcuni rami. Si avviò quindi in fretta, e alle soglie del bosco incontrò una vecchia tremante di freddo che lo fermò.
“Bravo giovane” disse la poveretta, “i Francesi hanno distrutto la mia capanna e rubate le mie provviste. Aiutami tu!”
Impietosito, Ronca diede il proprio pane alla vecchia. Prese quindi i rami e, acceso un fuocherello, preparò un lettino di frasche alla donna, poi lo ricoprì col suo mantello.
“Va bene così, nonnina?” chiese alla fine.
“Sii benedetto, figliolo!” disse con gratitudine la vecchina. Poi, per ricompensarlo, volle dargli un bacio in fronte e toccargli la roncola.
“D’ora in avanti” aggiunse, “questa roncola compirà prodigi!”
Battista stava per sorridere, incredulo, quando d’improvviso la vecchia si trasformò in una fata splendente e sparì.
“Diamine!” esclamò Battista “Allora è vero!” Volle provare la roncola magica colpendo un albero, e l’albero volò subito via come una pagliuzza. Sbalordito e contento, Battista si avviò verso Menfi.
“Se qualche sentinella oserà fermarmi, guai a lei!” pensava, maneggiando la roncola. Sì! Altro che sentinelle! C’erano tutti i Francesi attorno alla città, scatenati nel pieno di una battaglia e, a quanto pareva, le cose andavano piuttosto male per i Melfitani.
Senza esitare, Battista si slanciò allora nella mischia, mulinando a dritta e a manca la sua roncola magica.
I Francesi intorno a lui cominciarono a piombare a terra come nespole. Invano lo assalivano da ogni parte. Più ne venivano, più ne cadevano. Sembrava che invece di una sola roncola, Battista ne maneggiasse mille. Ad un certo punto, esasperati, i Francesi gli diedero tutti addosso. Ne caddero a decine. Ma ce ne fu uno, d’un tratto, che con un salto riuscì a raggiungerlo alle spalle e a colpirlo fortemente al capo con una mazza di ferro. Battista stramazzò al suolo.
La fine di Ronco Battista segnò la fine della resistenza di Melfi. La città, caduta in mano ai Francesi, fu saccheggiata e incendiata. Era la Pasqua del 1528.
Oggi c’è una via, a Melfi, che è dedicata alla memoria di Ronca Battista. Ma anche senza questa via, i Melfitani non avrebbero certo dimenticato l’eroico bottaio. Da quel giorno, infatti, la storia di Battista è sempre stata raccontata, di padre in figlio. A un certo punto, è vero, ci fu qualche padre che inventò l’episodio della fata; qualche padre, forse, incapace di credere che solo il coraggio e l’amor patrio avessero potuto rendere prodigiosa la roncola di Battista. E fu così che la storia divenne per metà leggenda.
Paolaccio era un vagabondo senza parenti, senza amici e senza neppure un angolo di casa. Ma se lo meritava, perchè voglia di lavorare non ne aveva e, per di più, non faceva che imprecare e dimostrarsi tanto malvagio da attirarsi solo l’antipatia e il disprezzo di tutti. Pareva che nei suoi occhi ardesse sempre una luce cattiva, e chi lo vedeva girava al largo.
Una notte, mentre dormiva in un campo, vicino a Termoli, Paolaccio venne svegliato da una voce che ripeteva il suo nome. Al che lo fissava curiosamente.
“Chi diavolo sei?” chiese.
“Lo hai detto, sono proprio il diavolo. Sono venuto a proporti un patto”.
Paolaccio non si impressionò.
“Di che si tratta?” chiese di malanimo.
“Vuoi diventare ricco?” chiese a sua volta il diavolo.
“Se lo voglio? Non chiedo di meglio. E che dovrei fare in cambio?”
“Non devi fare nulla. Devi darmi solo la tua anima”
“Per questo ci sto” disse Paolaccio “Che me ne faccio dell’anima? Ma dimmi: come avrò le ricchezze?”
“Prima firma il patto e poi te lo dirò” rispose Belzebù.
Paolaccio, che non sapeva scrivere, fece una crocetta sul foglio.
“Bene” gongolò il demonio, “Ed ora stai a sentire. La vedi quella rete? Ti servirà per pescare”
“Bella roba!” esclamò Paolaccio “Come se i pesci dessero la ricchezza!”
“I pesci che ti farò pescare io, sì” proseguì il diavolo “Sono pesci bianchi e rosei che hanno una specialità: quella di inghiottire i tesori accumulati nelle navi sommerse: gemme stupende, monete d’oro e altre rarità. Sono pesci che stanno al mio servizio, pronti a farsi pescare dai miei protetti. Tu ora lo sei e quindi puoi pescarne quanti ne vuoi. Dovrai soltanto dire, immergendo la rete:
“Fortuna, vieni su: te l’ordino nel nome del grande Belzebù”
Paolaccio non lasciò passare la notte. Subito si avviò verso gli scogli e trasse a riva con la rete un’infinità di quei pesci biancorosei. Erano tutti pesantissimi e Paolaccio, apertili uno ad uno, accumulò in un batter d’occhio smeraldi, rubini, brillanti ed oggetti d’oro che sfavillavano con mille luci al chiarore delle stelle.
“Questa sì che è una ricchezza!” gongolava Paolaccio, non stancandosi di immergere le mani in quel tesoro.
Da quel giorno ebbe inizio per Paolaccio un’altra vita. Si comprò un palazzo principesco, si vestì da gran signore e cominciò a dare feste sfarzose, circondandosi di ogni lusso. Inutile dire che in un lampo ebbe amici a non finire, gente che lo cercava, lo ossequiava, lo lodava. Paolaccio era generoso con tutti, spandeva doni a destra e a sinistra, e ad ogni elogio che riceveva era convinto di essere diventato un grand’uomo.
Tutto dunque procedeva a meraviglia, senonchè un giorno, un brutto giorno, capitò al palazzo, che era in piena festa, uno strano individuo. Era un essere macilento, vestito di stracci, proprio fuor di posto in mezzo a tanto splendore. Ma Paolaccio lo riconobbe subito, e fattosi largo tra la folla gli si avvicinò.
“Che sei venuto a fare, qui?” gli chiese con sgomento.
“Lo sai” rispose Belzebù, “Sono venuto per il nostro contratto che, per l’appunto, scade oggi…”
“Vattene” supplicò Paolaccio colmo di terrore, “Vattene via, lasciami!”
“Eh, caro mio! Non posso. I patti sono patti. Io ti ho dato la ricchezza, tu te la sei goduta, ed ora è tempo che tu mi dia la tua anima”.
In quello stesso istante un boato terribile fece tremare il palazzo e Paolaccio cadde morto.
Qualcuno dirà: ma quei pesci biancorosei esistono veramente? Pare di sì. Molti pescatori li hanno visti. Dicono, però, che bisogna accontentarsi di guardarli da lontano perchè sono creature del demonio e non portano che male.
Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE per bambini della scuola primaria.
LEGGENDE ITALIANE
Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE
Questo mostro del mare era Landoro, una specie di enorme drago con due occhi grandi come carri che spadroneggiava sulla superficie del mare sibilando, stridendo ed emettendo vampe di fuoco. I pescatori lo udivano da molto lontano. Ma erano ancora i tempi in cui non esistevano le barche e quindi a nessuno era mai venuto in mente di affrontare il mostro e di liberare il mare dalla sua presenza.
Da Landoro, orribile, passiamo a una fanciulla bionda, con gli occhi sognanti che passava gran parte del suo tempo sul litorale marino, guardando con nostalgia verso l’orizzonte. Era Lada. Lada guardava i gabbiani che volteggiavano liberi sulle onde e pensava: “Potessi essere come loro…”.
Un giorno questo vivo desiderio le fece spuntare sulle spalle due candide ali. La gioia di Lada fu grande. Si rizzò sulla pianta dei piedi, spiccò un salto e subito si sentì librata in alto nell’azzurro del cielo. Che meraviglia! Ora le onde correvano sotto di lei e davanti si spalancava il mare come un invito senza fine. Volava così da qualche tempo cantando, allorchè volgendo lo sguardo in basso, Lada vide il mostro dagli occhi giganteschi. La fanciulla alata ebbe un brivido d’orrore, si sentì perduta, come attratta da quegli occhi terribili in cui fiammeggiava la luce del male.
Per fortuna Landoro quel giorno non cercava vittime. Guardò Lada poi, d’improvviso, si inabissò nelle onde. Con un sospiro di sollievo la fanciulla volò verso la costa, discese sul lido e, a poco a poco, si liberò dall’orrore del mostro. Ma, ahimè, quelle ali erano ormai inutili. Ora Lada non avrebbe più osato sorvolare il mare e spingersi fino al lontano orizzonte.
La fanciulla piangeva disperata, allorchè sentì una voce vicina: “Che cos’hai? Perchè piangi?”
Lada si volse e vide un bellissimo giovane che la guardava con dolcezza. La fanciulla narrò allo sconosciuto la sua tremenda avventura.
Il giovane, dopo un istante di meditazione, così disse: “Queste ali, Lada, sono un dono degli dei. Esse devono rallegrarti e non affliggerti. E perchè la tua gioia continui, io ucciderò Landoro e ti riaprirò la strada lucente del cielo sopra il mare”
“Chi sei?” chiese Lada colpita da tanto coraggio.
“Sono Geri” rispose il giovane, “il figlio della Quercia e del Vento”.
Lada vide il giovane impugnare una spada fulgente e avviarsi verso il mare. Scendeva la notte. Qualche stella cominciava a spuntare nel cielo. Lada si addormentò con la visione di Geri che procedeva sulle sponde. Quando si svegliò era l’alba e il mare era rosso. E rossa era anche la sabbia, rosse erano le sue mani e le sue ali.
Davanti a lei, come uscente dalle onde, avanzava Geri con la spada rosseggiante che stillava gocce di sangue.
“Lada! Lada!” gridò il giovane, “Ho ucciso il mostro!”
Quando le fu vicino e le si sedette accanto narrò come aveva affrontato Landoro, come l’aveva trafitto fra le onde. I due giovani erano felici. Persino le onde parevano felici, sciogliendosi ai loro piedi con un canto di liberazione. Ma a poco a poco, dallo stesso mare, giunsero sulla costa segni di sgomento. Turbini di gabbiani atterriti e volteggianti sulle onde parevano fuggire da qualcosa di tremendo. L’aria cominciò a diventare irrespirabile, densa di vapori ripugnanti. I pesci si riversavano a migliaia verso la spiaggia e morivano boccheggiando sulla rena. Ora il litorale era gremito di gente piena di smarrimento e in preda all’angoscia.
Che cosa mai succedeva?
Era la vendetta del mostro. Era la morte, lugubre amica di Landoro, che ora si diffondeva ovunque, fra terra, mare e cielo, abbattendosi spietata su ogni essere vivente.
In breve, sotto la sua furia, ogni vita scomparve.
Lada e Geri seguirono la sorte di tutti, e da quel giorno, per secoli, la terra, il mare e il cielo rimasero disabitati, squallidi e silenziosi.
Poi la vita tornò a sbocciare da un piccolo fiore incantevole sulla sponda di un fiume. Era un fiore a forma di stella, dai mille petali. Un giorno dopo l’altro, questi petali si trasformarono in esseri viventi. Uno in uomo, un altro in donna, un altro in rondine, un altro ancora in farfalla e così via.
La terra si ripopolò di creature, tornò a palpitare di speranza, di gioia, di bontà, di amore…
Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA per bambini della scuola primaria.
LEGGENDE ITALIANE
Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA
Patrono di Castellammare di Stabia è San Catello, vescovo e martire, al quale i fedeli attribuiscono numerosi miracoli. Tra questi si ricorda con commozione il miracolo del grano.
Un anno, a causa di una lunga e terribile siccità, tutti i paesi intorno al Vesuvio furono colpiti da una grave carestia: le bestie morivano perchè non avevano erba e gli uomini morivano anch’essi di fame e non sapevano che rimedio trovare. Si inginocchiavano davanti a San Catello e, piangendo, lo pregavano perchè avesse pietà della loro miseria.
Un giorno del mese di giugno, al largo della costa una nave, carica di grano, fu accostata da una barchetta sulla quale c’era un vecchio con la lunga barba e la figura solenne. Il vecchio salì sulla nave e riuscì a convincere il capitano della nave a portare il suo carico di grano a Castellammare, dove glielo avrebbero ben pagato. E, per essere sicuro che il capitano non cambiasse idea, il vecchio gli diede un anello con diamante che portava al dito.
Il capitano della nave acconsentì di buon grado e, arrivato a Castellammare, vendette molto bene tutta la sua merce. Contento degli affari fatti, si sentì naturalmente il dovere di ringraziare quel buon vecchio che lo aveva indirizzato là. Per cui descrivendone la figura, ne chiedeva notizie a tutti. Ma nessuno glielo sapeva indicare.
Alla fine un popolano lo portò nella chiesa dedicata a San Catello. Era forse il Santo patrono della città l’uomo descritto dal capitano?
Proprio così! Infatti, davanti alla statua del santo, il capitano, pieno di meraviglia, esclamò inginocchiandosi: “E’ proprio lui! E’ il venerando vecchio dalla barba, che mi venne incontro sul mare e mi convinse a portare il grano qui!”
La commozione e lo stupore dei fedeli raggiunsero il colmo quando videro che al dito del Santo mancava l’anello col diamante, lo stesso che il capitano della nave aveva ricevuto da quel vecchio dalla figura solenne che lo aveva avvicinato al largo della costa.
La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio per bambini della scuola primaria.
LEGGENDE ITALIANE
La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio
Un giovane alto e biondo si fermò improvvisamente sul declivio a guardare tra il folto dei pini dove occhieggiava il mare. Aveva visto dondolarsi nell’azzurro dell’acqua una piccola nave.
Stupito da quell’insolito approdo, discese dal colle e lanciò un richiamo: “Chi siete? Che cosa cercate nella terra di Evandro, re degli Arcadi?”.
Un guerriero, che procedeva dinanzi agli altri, fissò il giovinetto e sorridendo rispose: “Sono Enea, capo dei Troiani. Nella terra di Evandro vengo a cercare alleati ed armi contro i Rutuli ed il loro feroce re Turno”.
A queste parole il giovane, senza indugiare, corse incontro all’ospite, esclamando: “Benvenuto, illustre eroe! Io sono Pallante, unico figlio di Evandro. Anche se il nostro regno è povero, leali sono gli Arcadi e sacra l’ospitalità”.
Enea e il principe salirono insieme per il declivio, seguiti dai Troiani; oltrepassarono il crinale, scesero a valle fino in vista del Palatino, su cui sorgeva Pallantea, la città dei pastori.
Evandro distese le pelli più ricche perchè i Troiani potessero riposare, offrì pane buono e miele, ascoltò Enea, che gli chiedeva alleanza.
“Gli dei mi hanno indicato l’Italia ed hanno predetto che dalla mia gente sarà fondata una città potente, grande, dominatrice del mondo: perchè i destini si compiano anche il tuo aiuto è necessario”.
Allora Evandro fece suonare il rustico corno per riunire i pastori a parlamento e ordinò a quelli più giovane e più robusti di armarsi d’arco, di frecce, di lance, di corazze per scendere in campo armati.
Anche il giovane Pallante volle combattere per Enea.
E le schiere, in ordinanza, tra uno scintillio di lance, raggiunsero il Tevere, ne seguirono le sponde ed arrivarono in campo aperto di fronte ai Rutuli.
La battaglia si ingaggiò furiosa da ambo le parti.
Il principe si gettava nelle mischie più pericolose e non esitava ad accettare i corpo a corpo con i guerrieri nemici più anziani e poderosi.
Ad un tratto si trovò di fronte al gigante Turno, il re dei Rutuli.
“Fanciullo, è temerario provarsi con me”
“Il prode non si ritira anche se il pericolo è grande”
E con queste parole scagliò la sua asta di solido frassino, ferrata e tagliente alla cima. L’aste battè sullo scudo di Turno, ma fu rigettata all’indietro.
“Ora sostieni tu la forza del mio colpo!” gridò il re dei Rutuli. E scagliò con forza. L’asta terribile trapassò lo scudo del giovanetto, lacerò la corazza, e gli si confisse nel petto.
Quando il mesto corteo che portava le spoglie di Pallante fu in vista dei luoghi paterni, il vecchio re scese incontro al diletto figlio; si chinò su di lui, quasi a ricercarne il respiro e, sentendolo gelido, si accasciò giù come quercia colpita dal fulmine.
Pallante fu sepolto in una grotta, che si apriva nel Colle Palatino, e su di lui venne posta una lampada accesa; poi la tomba fu chiusa con sassi e terriccio.
Passarono gli anni e passarono i secoli…
Il Palatino vide dal solco di Romolo sorgere la Roma quadrata; la vide allargarsi, la vide dominare i popoli italici, la vide signora di popoli e di civiltà.
Ed altri secoli passarono…
Un giorno, come turbine di guerra, i barbari si gettarono sull’Urbe, la misero a ferro e a fuoco, rovistarono ovunque, avidi di bottino.
Alcuni, battendo con le aste dove il Palatino infoltiva di corbezzoli, sentirono la terra rimbombare come se dentro fosse vuota. Stupiti, svelsero gli arbusti, scavarono, scavarono fino a ritrovare una grotta: e in fondo videro scintillare un lume.
Avanzarono timorosi e sotto il luccicore d’una lampada scorsero un corpo grande e giovanile, intatto e chiuso nelle sue lucide armi.
Vinto lo sgomento, i barbari staccarono la lampada e vi soffiarono sopra: la fiamma si piegò, guizzò, ma non si spense.
Il prodigio li impaurì: compresero che qualcosa di misterioso proteggeva la piccola lingua di fuoco. Tornarono nella grotta, appesero la lampada accesa vicino a Pallante, mirarono per un attimo i bellissimi lineamenti del giovinetto, poi arretrarono fino all’aperto, accumularono nuovamente sassi e pietre all’entrata della tomba, quindi vi ripiantarono i corbezzoli estirpati. Poi si allontanarono, volgendosi di tratto in tratto a riguardare il colle, che chiudeva un mistero per essi insolubile: quello della lampada accesa, simbolo della luce di Roma che non può morire.
IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra, per bambini della scuola primaria.
LEGGENDE ITALIANE
IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra
Come mai sullo stemma della città di Terni è raffigurato un drago? Narra la leggenda che tanti e tanti anni fa, viveva nel territorio ternano un orribile drago che teneva in continuo terrore tutta la popolazione.
Ogni zona dei dintorni era infatti malsicura per la presenza del mostro, e ben pochi erano quelli che potevano avventurarsi in un viaggio senza correre il rischio di essere assaliti. Talvolta, poi, accadeva che il drago, spinto dalla fame, arrivasse addirittura fino alle porte della città, cosicchè la gente doveva rinserrarsi nelle case. Era, insomma, un vero flagello cui occorreva porre d’urgenza rimedio.
Fu così che un giorno il Consiglio degli Anziani della città si riunì e decise di risolvere a qualsiasi costo la terribile situazione. Vennero convocati al Palazzo del Comune alcuni cittadini che avevano fama di ardimentosi. Uno dopo l’altro, però, essi rifiutarono di affrontare la rischiosa impresa.
“Signori miei” diceva uno, “Io ho moglie e figli. Non posso mettere in pericolo la mia vita”. E un altro: “Onorevoli Consiglieri, ho un lavoro importante da svolgere, come voi sapete. Come posso abbandonarlo così d’un tratto per cimentarmi con quella bestiaccia?”
E ci fu chi si lagnò di avere un braccio malato; e chi accampò la scusa di dover fare un viaggio d’affari; e chi, persino, si rammaricò di dover esimersi dall’impresa, avendo la nonna inferma.
Gli Anziani non sapevano più a che santo rivolgersi. E già stavano per rinunciare ad ogni cosa quando, un bel mattino, si presentò loro un giovane ternano della nobile famiglia dei Cittadini. Era rivestito di un’armatura lucidissima, baldanzoso e fiero, e pareva già pronto a misurarsi col drago. Infatti disse: “Signori, col vostro permesso, ci vado io a fare una visitina a quel mostro. Che ne dite?”
Figurarsi gli Anziani! Dissero subito di sì, che andasse pure, con tutti i loro auguri e le loro benedizioni.
Il drago era acquattato ai margini di un boschetto. Sembrava assopito e sarebbe stata una cosa facile balzargli addosso e trafiggerlo. Ma ecco che nel preciso momento in cui il giovane stava per scagliare la lancia, il drago si eresse in tutta la sua mole e avanzò fulmineo verso il temerario. Il giovane lo evitò per miracolo.
Gli attimi che seguirono furono spaventosi. Ben due volte il giovane trafisse la bestia, ma le ferite sembravano prodotte da uno spillo. Accadde invece che, a un certo momento, il sole si riflettè nell’armatura e i lampi di luce che ne scaturirono abbagliarono il mostro. Fu questione di un secondo. Il giovane saettò la lancia con tutta la sua forza e, finalmente, trafitto da parte a parte, il drago stramazzò e rimase immobile per sempre.
Qualche cittadino di Terni, che aveva osato assistere da lontano alla scena, corse subito in città a dare la strepitosa notizia. In breve tutta la popolazione, con alla testa gli Anziani, si radunò sul luogo della lotta per constatare coi propri occhi la fine del mostro. Inutile dire che il giovane venne festeggiato solennemente e che per parecchi giorni la città visse tutta in tripudio.
Probabilmente questa leggenda ebbe origine dal fatto che, un tempo, gran parte del territorio ternano era paludoso e che la malaria diffondeva tutt’intorno il suo pestifero alito di morte, specialmente nel rione “La Chiusa”.
Poi i terreni vennero prosciugati dalla bonifica (l’assalto del giovane cavaliere), e divennero fertili e belli. Così gli acquitrini e la malaria rimasero solo un lugubre ricordo e si identificarono, nella fantasia popolare, con la figura del drago.
LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche per bambini della scuola primaria.
LEGGENDE ITALIANE
LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche
C’era un povero contadino della Valle del Tronto il quale altro non possedeva che un piccolo pezzo di terreno. Ma i miseri frutti di quel campicello non bastavano a sfamare la famiglia.
Per fortuna, sorgevano su quel terreno tre bei peri che, neri e rinsecchiti d’inverno, quando giungeva la primavera si rivestivano di teneri germogli. Spuntavano poi i fiori bianchi e, infine, a suo tempo, ecco che facevano capolino tra il fogliame i grossi frutti succosi.
Erano proprio una meraviglia quelle pere! Il buon contadino, al momento giusto, le coglieva e le portava al mercato della città, guadagnando tanto denaro da poter acquistare il grano necessario per tutto l’inverno.
Un anno, al momento del raccolto, il contadino di accorse che qualcuno gli rubava i bei frutti. Ciò doveva accadere durante la notte, perchè solo al mattino constatava il furto, ora di dieci, ora di venti ed ora di cinquanta pere.
Il pover’uomo era disperato. Come avrebbe vissuto la famiglia il prossimo inverno?
A questo punto entrò in scena Pirillo, uno dei figli del contadino: un ragazzino agile e furbo di dieci anni. Pirillo, dunque, disse al padre: “Babbo, stanotte farò io la guardia. Vedrai che scoprirò il ladro”.
Scesa la sera, Pirillo prese pane e cacio, si armò di una roncola e, salito su uno degli alberi, si nascose fra i rami più alti. Passò un’ora e ne passarono due, e Pirillo, per vincere il sonno, diede fondo alle sue provviste.
Allorchè la campana del villaggio suonò la mezzanotte e la luna era alta nel cielo e ricamava la terra con arabeschi d’argento, d’improvviso, sgranando gli occhi, Pirillo vide avanzare una strega, un’orribile donna con la barba d’un caprone e le zanne di un cinghiale.
La vecchiaccia s’appressò all’albero e stava per cogliere una pera quando Pirillo con un gesto veloce le colpì la mano con la roncola. La strega lanciò un urlo di dolore, guardò in alto e scorse Pirillo fra i rami. Cominciò allora a lagnarsi: “Dammi una pera, ragazzino, una pera soltanto”.
E Pirillo, di rimando: “Ne hai già rubate tante, vattene!”
“Se non mi dai una pera” minacciò la strega, “scuoterò l’albero finchè non cadrai!”
Pirillo scoppiò in una risata: “Provaci, se sei capace!”
Allora la strega cominciò davvero a scuotere il pero e con tanta forza che Pirillo finì per piombare a terra ai piedi della vecchia. Questa, in un attimo, lo afferrò, lo legò stretto al suo grembiule e, montata a cavalcioni su una scopa, volò veloce fino a casa sua, in una capannuccia fra i boschi.
“Eccoci qua! Ora, invece delle pere, mangerò te!” esclamò la vecchia con voce stridula.
Così detto, accese il fuoco nel camino e vi mise sopra un enorme paiolo colmo d’acqua. Quando l’acqua bolliva, Pirillo disse alla strega: “Slegami, almeno, e fammi spogliare. Non vorrai mangiarmi con tutti i vestiti”.
La vecchia approvò, slegò il fanciullo, poi brontolò minacciosa: “Ora, spogliati, su, che l’acqua è già pronta”.
Mentre Pirillo fingeva di spogliarsi, si volse al paiolo e lo scoperchiò. Fu un attimo: Pirillo si lanciò sulla strega, la afferrò per i piedi e la capovolse nell’acqua bollente, nel paiolo dovere avrebbe dovuto finire lui.
Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO – per bambini della scuola primaria.
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Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO
Ai tempi del Medioevo molti poggi ai confini della Maremma erano incoronati da mulini a vento che provvedevano a macinare il grano delle campagne circostanti. Qualcuno, ridotto in rovina, si vede ancora oggi. Uno di questi, eroso com’è da secoli, ha un aspetto così desolante, che sembra proprio un enorme spaventapasseri.
I contadini, se sono costretti a passarci sotto, si voltano dall’altra parte per non vederlo, e ricordano con un brivido la triste leggenda che si racconta intorno ad esso.
Devi sapere, dunque, che ci fu un tempo in cui questo mulino svettava superbo sul colle con le sue belle ali roteanti al minimo soffio di vento. Ne era padrone un mugnaio che, però, era una vera peste: crudele, egoista, avaro, maligno.
Questi difetti li riversava sui poverini obbligati a macinare il loro grano da lui perchè, nella zona, quel mulino era l’unico che esistesse a vista d’occhio.
Che faceva il mugnaio? Ecco qua: rubava sul peso della farina; esigeva, per consegnarla, prezzi esorbitanti; prestava denaro ai contadini bisognosi, ma solo per chiedere indietro una cifra doppia. E se qualcuno si ammalava o gli andava male il raccolto, non aveva pietà e gli portava via tutto: la casa, gli arnesi e le bestie.
Succedeva così che, mentre quei poverini diventavano sempre più poveri e timorosi, quel mugnaio diventava sempre più ricco e prepotente.
E nessuno poteva farci nulla.
Dicono che c’è una giustizia per tutti. Ed ecco che un’annata la carestia e la siccità ridussero a zero i raccolti. Furono guai per i contadini senza un chicco di grano, ma furono guai anche per il mugnaio che non ebbe più grano da macinare.
Venne l’inverno, un invernaccio per tutti. Il mugnaio, a dir la verità, se la passava ancora benino. Chiuso nella sua casa, pane e fuoco non gli mancavano ma, inutile dirlo, se li teneva per sè, sprangato dentro.
Del resto, chi mai avrebbe bussato a quella porta? Nessuno, neanche a morir di fame. Una sera, però, qualcuno bussò.
“Chi diavolo sarà!” mugugnò il mugnaio. E andò ad aprire.
Era una donna con una creaturina in braccio. Tutti e due con gli abiti stracciati, tremanti di freddo.
“Pietà signore!” implorò la donna, “Pietà di un po’ di fuoco e di un po’ di pane”
Chiunque si sarebbe sentito spezzare il cuore. Il mugnaio, no. Duro e sgarbato, rispose: “Via, via, andate a cercare in paese!”
E siccome la donna insisteva e supplicava, il malvagio esplose con un urlo: “Vattene, se non vuoi che ti bastoni!” In quell’attimo, accadde qualcosa che fece indietreggiare il mugnaio, pieno di sgomento. La donna, d’improvviso, si era prodigiosamente trasformata; da una povera stracciona qual era, si era mutata in una signora avvolta di luce splendente. E diversa era anche la sua voce, mentre in tono ardente esclamava: “Guai a te, uomo senza cuore! D’ora in avanti il tuo mulino sarà per sempre maledetto. Le sue ali non si muoveranno più!”
E davvero, da quella notte, le ali del mulino più non si mossero. Nei giorni seguenti, invano il mugnaio si rivolse ai più abili meccanici perchè le facessero funzionare. Le ali, lassù, parevano inchiodate nel cielo. Neppure i venti più impetuosi, neppure le bufere più violente, riuscirono a smuoverle. Ben presto, esse diventarono nidi di neri corvi che gracchiavano, volteggiando sul mulino maledetto.
Quanto al mugnaio, nessuno ne seppe più nulla. Forse, una notte, protetto dalle tenebre, era fuggito lontano dalla squallida dimora, portandosi con sè i rimorsi di tutte le sue cattive azioni.
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