Materiale didattico sulla seconda guerra di indipendenza

Materiale didattico sulla seconda guerra di indipendenza: dettati ortografici, letture, poesie per bambini della scuola primaria.

Astuzie di Cavour
Al principio della campagna del 1859, per arrestare l’avanzata austriaca, Cavour, allora Ministro della Guerra, diede l’incarico di allagare le campagne tra Vercelli e Novara all’ingegnere Carlo Noè, direttore dei canali statali, scrivendogli: “Caro ingegnere Noè, il suo omonimo salvò il genere umano dalle acque, lei, per mezzo delle acque salvi la Patria”

Gli Austriaci, all’inizio della seconda guerra d’indipendenza, erano convinti di conquistare Torino in pochi giorni. Alcuni loro ufficiali, con tale certezza, fecero inviare dai proprio familiari le lettere direttamente in quella città. Cavour ne venne in possesso e, consegnandole all’ambasciatore prussiano, che sostituiva in quel momento quello austriaco, disse: “Ecco qui alcune lettere destinate a persone che non siamo riusciti a trovare in città: vogliate farle pervenire ai destinatari”.

Le forze in campo
Esercito francese: 150 mila uomini. Comandante: Napoleone III, che era anche comandante supremo di tutte le forza alleate. Capo di stato maggiore, il generale Vaillant.
Esercito piemontese: 63 mila uomini. Comandante: Vittorio Emanuele II. Capo di stato maggiore, il generale Morozzo della Rocca.
Cacciatori delle Alpi: 3500 volontari male armati. Comandante: Giuseppe Garibaldi. La partecipazione di Garibaldi fu voluta dal re contro il parere del ministro della guerra La Marmora.
Esercito austriaco: 2oo mila uomini di cui  però solo 120 mila il linea. Comandante il generale Ferencz Giulay.

Solferino e San Martino
L’alba del 24 giugno, aprendo le sue pupille, vide una cosa meravigliosa: tutte le alture tra il Mincio e il Garda erano coronate dai soldati dell’Austria. Tutto l’esercito austriaco, rafforzato di nuove genti, aveva rivalicato il Mincio; lassù si era schierato, appoggiato dalle retrostanti fortezze.
All’alba Francesco Giuseppe contemplava il suo esercito e il generale Schlik disse: “La Maestà Vostra sta per assistere a una grande battaglia e a una grande vittoria”.
Vide la torre di Solferino e comprese che il nodo della battaglia era lì. Risalì a cavallo e, accompagnato dalle sue cento guardia dalle criniere bianche, mosse veloce verso Solferino. Nella corsa perse una spallina.
Risuonò il comando: “Avanti, cavalleggeri! Viva l’Imperatore!”. Baionette abbassate, senza sparare colpo, al rullo di cento tamburi, i Francesi vanno all’assalto. L’artiglieria nemica folgorava  da tutte le parti. Due volte la collina è presa dai Francesi, due volte è ripresa dagli Austriaci.
All’ultimo disperato assalto, la posizione è saldamente conquistata. La bandiera giallo-nera apparve, scomparve, riapparve sullo sprone di Solferino. Infine scomparve. Anche l’ufficiale che reggeva quella insegna scomparve. Sulla torre di Solferino sventola il tricolore di Francia.
I centro nemico è sfondato; tutte le alture sono prese. Da Cavriana partono gli ultimi colpi di cannone. Sono le quattro e tre quarti. Dodici ore è durato il duello.
Alle sette di sera Napoleone III entrava a Cavriana nella casa dove Francesco Giuseppe aveva il suo quartier generale: ma lo aveva dovuto lasciare, perché per poco non era stato fatto prigioniero anche lui.
La battaglia di Solferino era terminata; riprendeva come un uragano la battaglia a San Martino. Dalle nove del mattino i soldati italiani erano lanciati in disperati assalti sotto gli occhi del re. “Figlioli” diceva il re, “o si prende San Martino o i Tedeschi faranno fare a noi San Martino!” (Fioei, venta piè San Martin, se no gli aleman a lu fan fè a nui autri!).
All’ultimo assalto, con tutte le forze, San Martino è conquistata.
Dunque l’Imperatore entrò in quella casa di Cavriana che per breve era stata alloggio dell’altro Imperatore. Quelli che erano con lui dicono che un’espressione di tristezza e di stanchezza profonda era scolpita sul suo volto. Si sedette presso un tavolo coperto da una tovaglia verde, e rimase a lungo immobile e in silenzio.
“Sire, l’inseguimento, il coronamento della vittoria!”. Risponde l’Imperatore: “No, la giornata è finita”.
Alla luce del lungo tramonto si vedevano le colonne austriache ripassare in buon ordine il Mincio. Napoleone si ritira nelle sue stanze. Vede sulla parete, tracciate a matita, tre parole italiane: “Addio, cara Italia”. Un ignoto ufficiale di Francesco Giuseppe aveva segnato le tre parole profetiche. Quando il sole apparve, l’Imperatore era già con il pensiero a Villafranca.
(A. Panzini)

L’ordine del giorno di Vittorio Emanuele II dopo la vittoria di Solferino e di San Martino
Soldati!
In due mesi di guerra, dalle sponde della Sesia che sono state invase al Po, voi avete corso, di vittoria in vittoria, fino alle rive del Garda e del Mincio. Nella via gloriosa che avete percorso, in compagnia del nostro potente alleato, avete dato ovunque le più grandi prove di disciplina e di eroismo. La Nazione è fiera di voi; tutta l’Italia contra tra le vostre fila i suoi figli migliori, applaude il vostro coraggio e dalle vostre imprese trae fiducia per il suo destino futuro.
Ora avete riportato una nuova e grande vittoria, vincendo un nemico grande di numero e protetto da ottime posizioni.
Nella giornata ormai famosa di Solferino e di San Martino, avete respinto, combattendo dall’alba fino a notte, i ripetuti assalti del nemico e lo avete costretto a riattraversare il Mincio, lasciando nelle vostre mani il suo campo di battaglia, gli uomini, le armi e i cannoni.
Da parte sua l’esercito francese ha ottenuto uguali risultati e ugual gloria dando prova di quel valore che, da secoli, richiama l’ammirazione del mondo.
La vittoria è costata gravi sacrifici; ma da questo sangue versato per la più nobile delle cause, l’Europa imparerà come l’Italia sia degna di sedere tra le Nazioni.
Soldati!
Nelle battaglie precedenti ho spesso avuto occasione di segnalare all’ordine del giorno i nomi di molti di voi. Oggi io porto all’ordine del giorno l’intero esercito.
(Vittorio Emanuele, 25 giugno 1859)

Il dramma di Villafranca
L’8 luglio Cavour viene a sapere che il generale Fleury, primo scudiero dell’imperatore, è andato a Verona per proporre un armistizio a Francesco Giuseppe.
Cavour parte subito da Torino e si precipita dal re, che è alloggiato alla villa Melchiorri, in Monzambano sul Mincio. Appena il sovrano e il ministro si trovano soli, il tono della loro voce è così alto che rimbomba all’esterno della piccola sala della villa: l’argomento della discussione è davvero drammatico. Vittorio Emanuele è obbligato a confessare che, fin dalla vigilia di Solferino, Napoleone III gli ha confidato la decisione di trattare al più presto con l’Austria, dovuta all’attitudine alla minaccia degli Stati tedeschi. E il re si è dimostrato d’accordo dicendo che tutto sommato, questa guerra abbreviata gli farà conquistare almeno la Lombardia. Se la Francia abbandonasse la lotta, il Piemonte potrebbe continuarla da solo?
Ad ogni frase Cavour scattava sotto l’impulso della collera crescente, al pensiero di tutto quello che avrebbe potuto fare, di tutte le combinazioni che avrebbe potuto inventare, di tutte le leve che avrebbe potuto manovrare in quei diciotto giorni, se avesse conosciuto i piani di Napoleone III; tutto ciò lo rende furioso…
Vittorio Emanuele cerca di contraddirlo, di spiegargli le sue ragioni. Non è meglio concludere la guerra guadagnando la Lombardia, piuttosto che farsi nemica la Francia, col rischio di rientrare a Torino a mani vuote, sotto la minaccia delle baionette austriache e tutta l’Europa che ride di noi? Ma Cavour, che non riesce a trattenersi, grida:
“Allora, Sire, abdicate”
“Tacete! Ricordatevi che sono il Re!”
“Il vero re, in questo momento, sono io!”
“Voi il re? Voi non siete che un insolente!” gli urla Vittorio Emanuele, ed esce dalla sala sbattendo la porta.

Napoleone III e Vittorio Emanuele dopo Villafranca
Dopo il “tradimento” di Villafranca, Napoleone così spiegò le ragioni del suo comportamento:
“Se la rivoluzione varcasse gli Appennini, l’unità d’Italia sarebbe fatta, e io no voglio l’unità, ma soltanto l’indipendenza. L’unità rischia di portare a problemi interni per la questione di Roma, e a problemi esteri perché con l’unità  la Francia si ritroverebbe una grande nazione al suo fianco, che potrebbe far diminuire la sua influenza”.
Più tardi, Vittorio Emanuela II rispose a Napoleone rinfacciandogli il suo comportamento:
“Io sono vincolato dal patto con l’Europa, dal dovere di giustizia, dagli interessi della mia casa e sono vincolato al mio popolo, all’Italia. I Solferino, i San Martino riscattano talvolta i Novara, i Waterloo; ma le apostasie dei principi sono sempre irreparabili. Io sono commosso nel più profondo del mio animo per la fiducia e per l’amore che questo nobile e sventurato popolo ha riposto in me; e, prima di tradirlo, spezzo la spada e getto la corona come fece mio padre”.

Le annessioni
La fine della guerra porta alla cessione della Lombardia alla Francia, che la cede a sua volta al Piemonte, in cambio di Nizza e Savoia. Il Veneto rimane ancora sotto l’Austria.
Ma durante la guerra molte province sono insorte, hanno cacciato i sovrani,  hanno chiesto l’annessione al Piemonte. Dopo la Toscana e Massa Carrara, anche Modena insorge e, ai primi di giugno, costringe il Duca a lasciare la città. Il 13 giugno un movimento popolare sempre più forte travolge la reggenza lasciata dal Duca e proclama l’annessione al Piemonte.
A Parma il popolo è insorto fin da maggio: il 2 giugno costringe la Duchessa a fuggire e dichiara l’annessione al Piemonte.
Bologna e la Romagna, Stato del Papa, vengono tenute a freno da forti truppe austriache fino all’11 giugno, ma il 12 scoppia un’impetuosa dimostrazione popolare, e il potere passa nelle mani di un governo provvisorio: entro la mezzanotte del 13 tutta la Romagna è insorta e si è liberata del dominio austriaco e clericale. Nella discussione a Zurigo, per il trattato di pace, si propone di rimettere i sovrani sui loro troni. Ma le popolazioni si ribellano, si riuniscono in grandi assemblee e reclamano l’annessione al Piemonte.

Il trattato di pace: Zurigo, 10 novembre 1859
Si firma il trattato di page che pone ufficialmente fine alla guerra.
Nel trattato si confermano gli accordi di Villafranca, e si stabilisce che i principi italiani, che erano stati costretti a fuggire, debbono ritornare nei loro Stati. Ma come ciò sarà possibile? Non hanno eserciti propri, né possono contare sull’aiuto dell’Austria, perché questa, nel trattato, si è impegnata a rispettare il principio del “non intervento”.
D’altra parte le popolazioni sono decise a votare, per plebiscito, l’annessione al Piemonte.
Il trattato prevede che il futuro assetto dell’Italia sarà stabilito in un Congresso che sarà successivamente convocato.
Ma è impressione generale che saranno i fatti e l’autodecisione delle popolazioni, che daranno un nuovo volto all’Italia.

In margine al trattato di pace: la restituzione della Corona Ferrea
La corona ferrea, con la quale nel Medio Evo venivano incoronati i re d’Italia, e con la quale anche Napoleone fu incoronato “re d’Italia”, era stata tolta dal duomo di Monza, dove era conservata, e portata a Vienna dagli Austriaci, all’inizio della guerra.
Ora l’Austria, in virtù del trattato di pace, è obbligata a restituirla.
Sembra un presagio.

Vittorio Emanuele II
La sera del 23 marzo 1849, dopo che il suo esercito era stato sconfitto dagli Austriaci, il re di Sardegna Carlo Alberto abdicò alla corona in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Era un momento tragico per la storia italiana, ma il ventinovenne re superò questa prova con fermezza e coraggio, rifiutandosi di rinnegare ed abolire lo Statuto che suo padre aveva concesso e giurato.
Sinceramente convinto che il regno di Sardegna dovesse diventare il centro della lotta di tutti gli italiani, per l’unificazione e l’indipendenza nazionali, Vittorio Emanuele ebbe la fortuna di trovare in Cavour il geniale ministro che realizzò questo grande programma: e così i patrioti, sia monarchici sia repubblicani, si schierarono con il regno di Sardegna nella lotta all’Austria.
Vittorio Emanuele II fu sui campi di battaglia, distinguendosi nel 1859 a Palestro e a San Marino. Appoggiò la spedizione dei Mille e, ricevuto da Garibaldi a Teano il regno delle Due Sicilie appena conquistato, portò nel 1861 la corona dell’Italia unita. Fu ancora sul campo a Custoza (18669 e infine entrò, da re, in Roma libera (1870).
Carattere rude e fiero, regnò con lealtà e dignità, meritando il soprannome di “Re galantuomo”. Morì a Torino nel 1878.

Aneddoti
Un giorno il D’Azeglio disse al Re: “Ce ne sono stati così pochi nella storia di re galantuomini, che sarebbe veramente bello cominciare la serie”. “Devo fare il galantuomo?”, chiese senza ridere Vittorio Emanuele.
“Vostra maestà ha giurato fede allo Statuto, ha pensato all’Italia e non al Piemonte. Continuiamo allora a dare per certo che a questo mondo tanto un re quanto un individuo oscuro non hanno che una sola parola”
“Ebbene, il mestiere mi sembra facile” disse sua Maestà.
“E il re galantuomo l’abbiamo”, osservò il D’Azeglio.

A volte il re amava confondersi con la folla per sentirne i giudizi direttamente e per essere libero di esprimere i suoi. Nel primo anniversario dello Statuto si travestì da popolano indossando i suoi abiti da caccia, ed entrò di sera in una birreria in piazza San Carlo. Alcuni popolani che erano nel locale festeggiavano la ricorrenza e gridavano: “Viva il re! Viva lo Statuto!”.
Il re si sedette ad un tavolo, ordinò, bevve in fretta e poi, prima di uscire, si rivolse ai popolani gridando: “Viva la Repubblica!”.
Successe un parapiglia e il Re pensò di non riuscire ad uscirne, quando un operaio prese le sue difese e, siccome non riusciva a calmare i suoi compagni, gli venne l’idea di gridare: “Ma non vedete che è matto?”.
(L. Pollini)

Motti arguti 
Nel 1861 passavo in rassegna le truppe in Piazza d’Armi a Milano. Erano reggimenti di fanteria nei quali abbondavano i soldati lombardi e tra questi non pochi milanesi. Un reggimento stava davanti a me e al mio Stato Maggiore, ed i soldati, come la disciplina prescrive, tenevano gli occhi fissi nei miei. Due di quei soldati, mentre aveva gli occhi rivolti a me, tenevano senza scomporsi una conversazione, che anche se fatta a voce molto bassa, riuscii ad ascoltare parola per parola.
“Guarda” diceva uno, “El noster re come l’è bel grass”. E l’altro rispondeva: “El soo anca mi che l’è bel e grass; el se magna una provincia al dì, e te veut minga ch’el sia bel e grass?”

Il “miracolo” di Cavour
Cavour si preparava alla guerra, ma secondo i patti di Plombieres non poteva dichiararla lui: doveva aspettare di essere aggredito.
Lord Russel disse a Cavour: “Signor Conte, credo che lei stia sprecando le sue energie, perché l’Austria non le dichiarerà mai la guerra.”.
“Ma io saprò convincerla”, disse Cavour.
Il lord incredulo domandò allora ironicamente quando credeva possibile il miracolo diplomatico.
“Intorno alla prima settimana di maggio”, rispose serio serio Cavour.
E fu infatti così.
(F. Palazzi)

Il compito più difficile
Un giorno un gruppo di persone stavano tessendo le lodi di Cavour davanti a Napoleone III. Qualcuno disse:
“Sì, è un grande uomo politico; peccato che non sia lui a governare un grande Stato”.
Napoleone con molto buon senso rispose:
“Credo che il compito di fare grande  un piccolo Stato sia molto più difficile che non governare un grande Stato. Lasciatelo fare, Cavour è sulla buona strada”.

Un pensiero di Cavour
Cavour amava tanto il lavoro e le persone attive, che gli piaceva dire: “Quando voglio che una cosa sia fatta presto e bene, mi rivolgo alle persone che sono sempre occupate: i disoccupati non hanno mai tempo di far nulla”.
(F. Palazzi)

Sovrano popolare
Siamo a Torino, nel 1859, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza. La città è tutta in attesa, fremente di entusiasmo e di speranza.
Il popolo, che si era raccolto spontaneamente attorno allo stesso ideale, va una sera a fare una grande dimostrazione patriottica davanti alla dimora del conte Camillo Benso di Cavour, presidente del Consiglio dei Ministri.
La mattina dopo Cavour, molto soddisfatto, parla al Re del grande vociare di entusiasmo che gli è giunto dalla strada; ma il sovrano non ha l’aria di stupirsi.
“Vostra Maestà è stata già informata?”
“Cuntacc!” rispose il re,  “Ero anch’io fra il popolo a gridare -Viva Cavour!- “
(Vaccaro, da “Enciclopedia degli aneddoti”)

Il discorso della Corona del 10 gennaio 1859
L’apertura della sessione venne fissata al giorno 10 gennaio 1859.
La sera del 7 il conte Cavour ebbe una nuova conferenza col Re, il quale esaminò attentamente il discorso, scrisse di suo pugno alcune variazioni e concordò col suo ministro le parole diventate storiche, il grido di dolore, che erano state accennate e suggerite da Napoleone III…
La mattina del 10 gennaio l’aspetto dell’aula di Palazzo Madama era più che mai imponente. I ricordi del passato s’intrecciavano con le speranza e con la fiducia del futuro. Lì Vittorio Emanuele aveva pronunciato il giuramento solenne: lì sì era più volte appellato al buon senso e al patriottismo del parlamento e del suo popolo; lì quella mattina pronunciava le parole ardenti di chi sente nell’animo la gioia di un grande progetto.
Quando aprì il foglio di carta che doveva leggere, ci fu un silenzio profondissimo: tutti pendevano dalle sue labbra, il segreto era stato gelosamente custodito, e l’impazienza di sentire ciò che il Re avrebbe detto, era grandissima. Egli gettò uno sguardo intorno all’aula, e poi con voce che, fioca all’inizio, andò via via prendendo vigore e colorito, lesse…
Il discorso finiva così:
“L’orizzonte, in mezzo a cui sorge il nuovo anno, non è pienamente sereno. Ciò non di meno vi accingerete con la consueta alacrità ai vostri doveri parlamentari.
Confortati dall’esperienza del passato, andiamo risoluti incontro all’eventualità dell’avvenire. Questo avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull’amore della libertà e della patria. Il nostro paese, piccolo per territorio, ha guadagnato credito nei consigli europei perché grande per le idee che rappresenta e per le simpatie che ispira. Questa condizione non è priva di pericoli, perché mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi.
Forti e fiduciosi nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi.”
Ad ogni periodo il discorso venne interrotto da applausi fragorosi e dalle grida “Viva il Re!”, e alle parole “grido di dolore” eslose un entusiasmo indescrivibile. Senatori, deputati, spettatori si levarono in piedi e lo acclamarono.
I ministri di Francia, di Prussia e d’Inghilterra osservavano attoniti e commossi lo spettacolo. L’incaricato degli affari di Napoli aveva il volto bagnato di sudore.
(G. Massari)

L’eco a Milano del discorso di Vittorio Emanuele
La notizia del discorso giunse a Milano la stessa sera. Ero al teatro della Scala; a un tratto si vide un parlarsi l’un l’altro, con ansietà, con commozione, come di persone che si comunicano una grande notizia; e si osservò una sorpresa insolita anche nei palchi delle autorità e dei generali Austriaci. Quell’elettricità che era nell’aria, che era in tutti, doveva, poche sere dopo, scoppiare rumorosamente in quella stessa sala del teatro.
Si rappresentava la Norma di Bellini e, appena fu intonato il coro “Guerra, guerra!” tutto il pubblico scattò in piedi: dai palchi le signore sventolavano i fazzoletti e tutti in coro gridarono  “Guerra! Guerra!”e il coro fu fatto ripetere più volte.
Gli ufficiali della guarnigione che, come di solito, occupavano le due prime file della platea a loro riservate, non capirono sulle prime la ragione di quel chiasso. Esterrefatti, guardavano, quasi interrogando, nei due palchi riuniti di prima fila, dove stava il generale Giulay con parecchi ufficiali superiori.
Questi capirono ben presto di che cosa si trattasse e si misero ad applaudire essi pure “Guerra! Guerra!”. Anzi Giulay stesso ne diede il segnale, battendo ripetutamente la sciabola sul pavimento.
Chi avrebbe detto quella sera che la guerra sarebbe proprio scoppiata e che, cinque mesi dopo, egli avrebbe perduto a Magenta una grande battaglia?
Il segnale dato da Giulay fu subito seguito da tutti gli ufficiali, che si alzarono in piedi e, fissando il pubblico, applaudirono fragorosamente. Pensate che baccano! Da una parte si gridava entusiasticamente “Viva va guerra! Viva la guerra!, si sventolavano i fazzoletti, si chiedevano nuove repliche al coro; dall’altra si battevano in modo altrettanto provocante le sciabole a terra: il teatro fu attorniato dalla truppa, chiamata in fretta, e Giulay uscì, circondato dagli ufficiali accorsi in sua difesa. Il baccano quella sera durò a lungo: era l’esplosione del desiderio represso di vedere spuntare il primo giorno della guerra. Le parole di Vittorio Emanuele II aveva aveva acceso le polveri.
(G. Visconti Venosta)

 Napoleone III
Luigi Napoleone Bonaparte, nipote del grande imperatore, nacque nel 1808 a Parigi. Irrequieto ed avventuroso, si dedicò sin da giovanissimo alla politica, e nel 1848 fu eletto presidente della Repubblica francese. Nel 1851, con un colpo di stato, si impadronì del potere e l’anno dopo si proclamò imperatore, col nome di Napoleone III. Sotto il suo regno la Francia tornò  ad essere una delle massime potenze mondiali, pagando però grandezza e prestigio con la perdita della libertà.
Le ambizioni di Napoleone III tramontarono nel 1870 quando, dichiarata la guerra alla Prussia, venne sconfitto e catturato nella battaglia di Sedan. Mentre il suo impero crollava, egli andò esule in Inghilterra, dove morì nel 1873.
Napoleone III può essere considerato uno dei protagonisti del Risorgimento italiano. Nel 1849, egli mandò un esercito a soffocare la Repubblica romana; nel 1867, a Mentana, sbarrò a Garibaldi la via per Roma.
Questi sanguinosi episodi di ostilità, tuttavia, sono riscattati da quanto Napoleone III fece nel 1859, quando mise a repentaglio la fortuna sua e della Francia per aiutare gli Italiani a liberare la Lombardia. Malgrado tutto dunque, dobbiamo riconoscenza a Napoleone.

Nasce la Croce Rossa
Ferdinando Palasciano medico dell’esercito borbonico, aveva sostenuto dieci anni prima di Solferino, che “i feriti di guerra, nel momento in cui rimangono feriti, cessano di essere nemici e vanno raccolti e curati, indipendentemente dall’esercito a cui appartengono”.
Per questi suoi principi Ferdinando II l’aveva degradato e imprigionato. Ma la nobile proposta del Palasciano doveva essere raccolta, dieci anni dopo, da un medico svizzero che assistette alla sanguinosissima battaglia di Solferino.
In un libro intitolato “Un ricordo di Solferino” egli descrisse la tragica odissea di migliaia di feriti che, senza cure adeguate, senza assistenza, morivano dissanguati sul campo o in ricoveri improvvisati.
“Proclamiamo solennemente”, disse “che i feriti di guerra sono sacri e devono essere curati anche dai nemici”.
Le sue proposte, alla Conferenza Internazionale di Ginevra (1864) portarono alla nascita della Croce Rossa.
Il suo nome è Enrico Dunant.

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LE PIANTE CARNIVORE dettati ortografici e letture

LE PIANTE CARNIVORE dettati ortografici e letture per la scuola primaria.

Le piante carnivore

Le piante carnivore, o insettivore, costituiscono una delle parti più interessanti e più strane dell’immensa flora terrestre. Si tratta, come il nome stesso indica, di piante che si nutrono di piccoli animali, per lo più insetti o minuscoli crostacei, dai quali utilizzano le sostanze loro necessarie, ad esempio l’azoto, che non possono trovare nell’ambiente in cui vivono.
Infatti crescono generalmente in luoghi umidi, acquitrinosi o sono piante acquatiche: solo alcune abitano terreni sabbiosi o rocciosi.

Dato il singolare modo di nutrizione, esse sono fornite di speciali dispositivi per imprigionare la preda e producono sostanze dette enzimi che permettono la digestione e quindi l’assimilazione dell’animale catturato.
Gli apparati per la cattura non sono altro che foglie trasformate in organi cavi (ascidi) di vario aspetto, simili ad urne o a vescicole, così da essere perfettamente adatte alla nuova funzione. La parte più interessante dunque di questi vegetali sono le foglie, dall’apparenza innocua, che si tendono simili a tentacoli, per catturare l’incauto insetto.
Queste piante carnivore prosperano nei nostri paesi come in quelli tropicali, e ve ne sono di moltissime specie, circa cinquecento; ma qui parleremo delle più interessanti.

Bellissima è la Nepente, pianta rampicante delle foreste indonesiane; la parte terminale delle sue foglie costituisce un ascidio a forma di urna ricoperta di piccoli peli, munita di coperchietto e colorata vivacemente. La natura, così saggia e giusta nel disporre l’ordine delle cose, ha donato a queste foglie, nell’orlo dell’ulna, sostanze zuccherine che attirano gli insetti verso quell’irresistibile dolcissimo cibo. Essi si posano, ignari della fine crudele che li attende, e succhiano avidi lo zucchero, ma la foglia muove i peli come minuscoli tentacoli e l’insetto vi resta inesorabilmente impigliato, scivola nel fondo dell’ulna, dove il liquido secreto della pianta stessa prepara il processo di digestione.

photo credit: Di Jan Wieneke, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=673060

L’Erba vescica, invece, che è una pianta acquatica priva di radici,  ha foglie trasformate in piccole vesciche, vere e proprie trappole per gli incauti animaletti che vi penetrano.

photo credit: CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4547229

E stranamente belle, ma piene di insidie, sono le foglie della Drosera, le cui tre specie Drosera rotundifolia, intermedia e longifolia sono molto diffuse anche da noi, specialmente nelle torbiere di montagna. Le foglie,rotonde od allungate, di un bel verde, sono ricoperte da numerosi e lunghi tentacoli rossi, le cui estremità secernono una sostanza vischiosa, rifrangente la luce, che appare come una gocciolina di rugiada. L’insetto, richiamato da quella multicolore trasparenza, vi si posa e subito rimane invischiato, mentre i tentacoli, lasciato ormai il loro aspetto innocuo e bellissimo, si curvano su di lui e lo soffocano.

photo credit: CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=195090

Terminato il processo di digestione, i tentacoli ritornano nella posizione primitiva, pronti ad attirare altri animaletti, con spietata ed incosciente crudeltà.
Un’altra interessantissima pianta carnivora è la Dionaea muscipola, comunemente detta “piglia – mosche”. E’ un’erba alta circa 20 centimetri, che cresce nell’America settentrionale e le cui foglie sono dotate di una sensibilità notevolissima. La lamina fogliare, sostenuta da un picciolo spatolato, ha i margini provvisti di denti lunghi e acuminati: essa è divisa dalla nervatura principale che funziona da cerniera, in due tempi mobili. Su ciascuno di essi si trovano, oltre a numerose ghiandole, tre setole, che stimolate dal contatto di piccoli animali, fanno avvicinare i due lembi con movimento brusco e rapido, cosicchè i denti marginali si incastrano uno all’altro e la preda resta prigioniera.

photo credit: Di H. Zell – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=9796192

E cento e cento altre piante, di apparenza strana e diversa, che qui sarebbe impresa ardua elencare, vivono sui monti, negli acquitrini, tra le misteriose folte vegetazioni tropicali. Ma ognuna ha in comune l’istinto crudele di catturare le piccole prede, ragione del loro nutrimento e della loro perpetuazione.

Il carnivoro verde
Io non sapevo che al mondo vi fossero piante che mangiano animali. Un giorno, durante un viaggio nell’America Centrale, la guida mi fece vedere un albero e mi disse: “Ora vedremo come mangia”.
A un cenno, mi fermai sulla sponda dello stagno presso il quale eravamo, e rimasi in attesa.
Poco dopo, un leggero fruscio mi fece volgere il capo. Trotterellando sulle corte zampette, un topolino avanzava guardingo. Quando l’animaletto si avvicinò ai rami dell’albero “cacciatore” la guida, con un gesto, mi invitò a fare attenzione.
Ciò che vidi mi lasciò tristemente stupito.
Non appena il porcellino toccò uno di quei rami, questo, con una mossa fulminea. lo strinse a sé, mentre altri rami si volsero verso la presa, serrandola nelle loro spire.
Il topolino gridava e si dibatteva con tutte le sue forze.
Balzai avanti, sfoderando il coltello. Ma la guida mi fermò.
“Troppo tardi” disse e, comprendendo il mio disappunto, mormorò: “E’ la legge della foresta”.
Egli aveva ragione. La morte del topolino dava vita alla pianta. Non trovando in quel terreno le sostanza azotate di cui aveva bisogno per vivere, la pianta se la procurava succhiando la carne animale attraverso le ventose di cui sono muniti i suoi rami.
Ero scosso. La guida se ne accorse e mi portò via da quel luogo. Ma non ho più dimenticato il carnivoro verde, il terribile laudocapto.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

IL CANGURO dettati ortografici, letture e poesie

IL CANGURO dettati ortografici, letture e poesie per la scuola primaria.

Un marsupiale è un mammifero provvisto di una vasca ventrale nella quale possono essere sistemati uno o più piccoli. I marsupiali, che oggi vivono solamente in Australia e in America, sono tra i primi mammiferi che hanno fatto la loro apparizione sulla terra. Sono stati trovati fossili di marsupiali che provano come già cento milioni di anni or sono vivevano animali a sangue caldo, capaci di allattare i loro piccoli. Probabilmente questi animali di piccola taglia furono preda dei grandi rettili carnivori, ma sono sopravvissuti agli attacchi di questi mostri e ai cataclismi terrestri, così che ancor oggi, vivono allo stato selvaggio, senza che la loro costituzione si sia troppo trasformata; si trovano, come dicevamo, solo in America (opossum) e in Australia (canguro, koala, il lupo della Tasmania oggi estinto, ecc.)

Quando deve lottare il canguro si appoggia sulla sua robusta coda, e si mette in posizione di attacco. Poi improvvisamente molla una terribile pedata con le zampe posteriori, oltretutto armata di unghie che lasciano segni profondi sull’avversario.
Il canguro adirato riesce a tener testa brillantemente sia all’uomo sia ai cani: lo si è visto più volte abbattere robusti cani da caccia, senza subire alcun danno.

I grandi branchi di canguri vagano per le distese del continente australiano. Al centro del branco stanno i “grandi rossi”, circa due metri di altezza, a destra e a sinistra”i grigi” più piccoli. I canguri vanno così brucando nei pascoli dei bovini e delle greggi. E questo spiega anche perché vengano perseguitati da una caccia spietata. Per sfuggire all’uomo il canguro si lancia in una velocissima fuga. Le sue lunghe zampe posteriori, come quelle di una rana, gli permettono di fare dei salti in lungo anche di dieci metri. Se non deve sfuggire alcun pericolo, il canguro più che camminare si trascina sul suolo. S’appoggia sulla coda e sulle zampe anteriori, per poter sollevare e spingere avanti il suo corpo pesante: mentre quando scappa si appoggia solamente sulle zampe posteriori. Se si riposa, ma non è tranquillo, il canguro si corica sul ventre, con le zampe divaricate di qua e di là dal suo corpo, pronto a scappar via al primo segno d’allarme. Ma quando è sicuro che nessun pericolo è in vista, si corica su di un fianco, come noi.

La parola “canguro” ha un’origine curiosa: i marinai del capitano Cook, quando sbarcarono in Australia per le prima volta videro queste bestie saltellare e chiesero agli aborigeni: “Potete dirci che cosa siano?”, frase che in inglese suona “Can you…”. Gli aborigeni ripeterono: “Can you… can you”, e la parola canguro era bell’e inventata, o almeno così dice la leggenda.
(da “Il corriere dei piccoli”)

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(IN COSTRUZIONE)

ANIMALI DEL DESERTO dettati ortografici, letture e poesie

ANIMALI DEL DESERTO dettati ortografici, letture e poesie per bambini della scuola primaria.

Il cammello è il primo animale di cui ci parla la Bibbia; con il cavallo i il bue, fu uno dei primi animali che l’uomo abbia assoggettato al proprio diretto servizio.  Il cammello è detto “la nave del deserto”, perché è l’unico animale che possa attraversare gli immensi deserti sabbiosi dove manca l’acqua. Un cavallo con un carico sulle spalle affonderebbe nella mobile sabbia e presto, stanco e spossato, non potrebbe più proseguire. Quando il vento soffia ed infuriano i turbini di sabbia, qualunque animale morirebbe soffocato, ma il cammello no. Esso ha delle narici che può chiudere, in modo da impedire alla sabbia di penetrare nei polmoni. I piedi del cammello sono forniti di grandi, larghe callosità a guisa di cuscino; allorché esso cammina, il suo piede grosso e soffice, fornito di due sole dita, sparpaglia intorno la sabbia più mobile e si posa saldamente sul terreno.

Uno dei fenomeni più interessanti che riguarda il cammello è il modo con cui può resistere a lungo senza bere. Lo stomaco di questo animale infatti non solo è molto ampio, ma è composto di tre sacche, due delle quali hanno le pareti rivestite di piccole cellette le quali possono essere riempite d’acqua che rimane “di riserva”.

Quando ha la fortuna di bere, il cammello inghiotte tanta acqua quanta ne può contenere. Dopo di che si accingerà coraggiosamente ad attraversare il più infuocato deserto, senza bere un sol sorso per cinque o sei giorni, sopportando sul suo dorso un peso di 150 chilogrammi, e non mangiando altro che le dure e spinose erbe che crescono qua e là anche nel deserto. Molto affine al cammello è il dromedario che si usa come cavalcatura; il dromedario è proprio dell’Arabia e dell’Africa ed ha una sola gobba. Il cammello, che ha due gobbe, è proprio dell’Asia meridionale. Queste gobbe sono formate da ammassi di grasso e, quando i cammelli fanno un viaggio lungo e faticoso, le gobbe si rendono a mano a mano più piccole, tanto che qualche volta quasi scompaiono addirittura, perché il grasso si consuma, servendo esso a nutrire l’animale.

A memoria d’uomo, i cammelli sono vissuti sempre allo stato domestico; tuttavia esistono ancora cammelli selvatici in alcune parti dell’Asia centrale. Si crede che molti secoli fa uno spaventoso turbine di sabbia spazzasse via ogni cosa in un fertile paese. Il turbine distrusse i villaggi e uccise tutti gli abitanti. Solo i cammelli resistettero: ed ora si ritiene che i cammelli servaggi e liberi di quelle regioni discendano direttamente da quelli che scomparirono allora.

Il dromedario
E’ uno dei mammiferi di maggiore statura: la sua altezza supera qualche volte anche i tre metri. Per poter camminare sulla sabbia del deserto, questo animale ha la pianta del piede conformata in maniera particolare. Essa è infatti formata da quattro cuscinetti di tessuto elastico. Quando l’animale appoggia il piede, i cuscinetti si appiattiscono, la suola si allarga, ed il piede non affonda nella sabbia.

Tra gli animali da soma il dromedario è il più resistente. Esso può camminare anche per dodici ore al giorno e per molte settimane di seguito con carichi superiori al quintale senza risentirne minimamente. Inoltre può rimanere senza bere per sette, otto giorni.
Il latte della femmina è molto sostanzioso e viene usato anche per preparare burro e formaggi. La carne è commestibile. Il pelo viene tessuto in stoffe pregiate. La pelle, morbidissima, viene utilizzata anche per confezionare indumenti.

Il lama
Strettamente imparentato con il cammello, il lama è il tipico animale da soma della Cordigliera delle Ande. E’ assai sobrio e resistente, per cui viene destinato al trasporto di merci lungo i ripidi sentieri della montagna, dove non esistono strade. La sua andatura è lenta ma sicura anche tra i passaggi più dirupati e pericolosi. Può portare anche mezzo quintale di merci e camminare per cinque giorni di seguito senza riposare, percorrendo notevoli distanze. Solitamente sono solo i maschi che vengono destinati alle carovane di trasporto. Le femmine sono tenute al pascolo.

Danno una scarsa quantità di latte, che gli Indios utilizzano in vario modo, ma sono abbastanza prolifiche e questo è molto importante perché i lama sono allevati anche come animali da macello; la loro carne è saporita come quella dei nostri maiali. Il lama è un animale assai mite, e certamente meno scontroso del mulo, al quale può essere avvicinato per la resistenza fisica e per l’adattamento alla vita in montagna.

L’unica maniera per cui reagisce alle offese è quella di lanciare un getto di salive contro l’avversario.
Il colore del suo mantello è variabile. La lana che lo ricopre è lunga e robusta, ma piuttosto grossolana, adatta per far tappeti.

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Materiale didattico sul baco da seta

Materiale didattico sul baco da seta per bambini della scuola primaria: dettati, letture, racconti, poesie.

Il baco da seta è originario della Cina. Le prime uova di questa farfalla sarebbero state portate a Costantinopoli in bastoni cavi, da alcuni monaci persiani nel IV secolo dopo Cristo. Dalla Grecia l’allevamento del baco da seta si diffuse nella Spagna, in Italia e in Francia.
Noi osserviamo al lavoro il tessitore, l’unica farfalla che l’uomo abbia allevato. La femmina depone circa seicento uova minute, dalle quali nasceranno piccoli vermiciattoli sudici, e, in capo ad alcuni giorni, muore senza aver preso il cibo. (Reichelt)

Dalle uova minutissime deposte dalla farfalla del filugello escono, in primavera, alcuni bacolini nerastri che rapidamente crescono fino a diventare dei grossi bruchi di color giallognolo che hanno raggiunto questo sviluppo mangiando tanta foglia di gelso pari a sessantamila volte il loro peso primitivo. Dopo circa quattro cinque settimane, durante le quali ha cambiato cinque volte la sua pelle, il baco inizia la costruzione del bozzolo emettendo un filo da certe ghiandole che si trovano nella bocca. Da questi bozzoli si ricava la seta.

Il baco da seta è utile all’uomo per la seta che il suo bozzolo fornisce, e per le industrie importanti collegate, quali l’allevamento dei filugelli e la lavorazione della seta. L’uomo alleva questo industrioso insetto che, in cambio di un certo quantitativo di foglie di gelso, gli fa un regalo prezioso, il bozzolo.

Il ragno e il baco da seta
Un ragno disse a un baco da seta: “Io fabbrico la mia tela in un minuto: tu impieghi giorni e giorni per chiudere la tua casa”.
“La tua casa” rispose il baco da seta “è fragile e non giova che a te; il mio bozzolo invece, e solido e giova anche agli uomini”.
Per far cosa che duri, occorre tempo. Presto e bene, raro avviene.
(Mercati)

Il bombice del gelso è un insetto che è dannoso alla pianta del gelso, perchè si nutre delle sue foglie. Gli uomini, però, hanno da molto tempo imparato che il bombice può essere anche utile. La bava che il bruco emette per costruirsi il bozzolo si indurisce a contatto dell’aria e diventa un filo sottile e lucente: un filo di seta. Il bozzolo è una specie di gomitolo di sottilissimo filo di seta. Gli allevatori immergono i bozzoli appena chiusi nell’acqua calda, in modo da uccidere l’insetto e dipanare poi il filo di seta. Il filo di ciascun bozzolo viene unito ad altri fili e poi tessuto per farne stoffe bellissime. Se gli allevatori lasciassero trasformare il bruco in farfalla, l’insetto, uscendo dal bozzolo, romperebbe il filo, che non si potrebbe più adoperare.

Il baco da seta, appena nato, è fornito di un grande appetito e mangia continuamente foglie di gelso, dapprima triturate finemente, e poi anche intere. Ogni cinque giorni circa, smette di mangiare e si addormenta un po’. Quando si risveglia, perde la sua pelle, che è diventata troppo stretta; ma gliene cresce addosso un’altra. Dopo quattro volte che ha cambiato pelle, il bruco è già molto cresciuto. E’ ormai lungo alcuni centimetri ed è di colore biancastro. Sotto la sua pelle si è formata una buona provvista di grasso. Quando è cresciuto abbastanza, il filugello si arrampica su un rametto, abbandona i suoi abbondanti pasti, e si costruisce un involucro, deponendo un filo di seta che è tutto di un pezzo e lungo più di un chilometro! Il filo, che esce dalla filiera, una piccola apertura che si trova sotto la sua bocca, è formato da un liquido, il quale, a contatto con l’aria, si solidifica. Quando il filo, ora giallo, ora bianco, ora verdognolo, ha ravvolto tutto l’animale, il bozzolo è compiuto. Nel bozzolo, il baco si è trasformato in pupa. Non è più una larva, non è ancora farfalla. Non si muove, non prende cibo. Basta, a nutrirla, il grasso che aveva accumulato quando era bruco. Il filugello rimane nel bozzolo venti giorni circa; poi inumidisce con un suo liquido speciale un’estremità del bozzolo, ed urta fortemente il capo contro la parte così rammollita. E dal bozzolo esce la farfalla. La femmina, dal corpo grosso e tozzo, non può volare; il maschio tenta di fare qualche salto, ma neanch’esso vola. Ma all’uomo poco importa che la farfalla voli: gli basta ch’essa deponga le uova che l’anno prossimo gli permetteranno di riprendere l’allevamento dei bachi.

Il bombice del gelso o baco da seta

Il bombice del gelso è un insetto che è dannoso per la pianta del gelso, perchè si nutre delle sue foglie. Gli uomini, però, hanno da molto tempo imparato che il bombice può essere anche utile.
La bava che il bruco emette per costruire il bozzolo si indurisce a contatto dell’aria e diventa un filo sottile e lucente: un filo di seta. Il bozzolo è una specie di gomitolo di sottilissimo filo di  seta.
Gli allevatori immergono i bozzoli appena chiusi nell’acqua calda, in modo da uccidere l’insetto e dipanare poi il filo di seta. Il filo di ciascun bozzolo viene unito ad altri fili e poi tessuto per farne stoffe bellissime.
Se gli allevatori lasciassero trasformare il bruco in farfalla, l’insetto, uscendo dal bozzolo, romperebbe il filo, che non si potrebbe più adoperare.

La vita del baco da seta

Il baco da seta, appena nato, è fornito di un grande appetito e mangia continuamente foglie di gelso, dapprima triturate finemente e poi anche intere. Ogni cinque giorni circa, smette di mangiare e si addormenta un po’. Quando si risveglia, perde la sua pelle, che è diventata troppo stretta, ma gliene cresce addosso un’altra.
Dopo quattro volte che ha cambiato pelle, il bruco è già molto cresciuto. E’ ormai lungo alcuni centimetri ed è di colore biancastro.
Sotto la sua pelle si è formata una buona provvista di grasso. Quando è cresciuto abbastanza, il filugello si arrampica su un rametto, abbandona i suoi abbondanti pasti, e si costruisce un involucro, deponendo un filo di seta che è tutto d’un pezzo e lungo più di un chilometro! Il filo, che esce dalla filiera, una piccola apertura che si trova sotto la sua bocca, è formato da un liquido, il quale, a contatto con l’aria, si solidifica. Quando il filo, ora giallo ora bianco ora verdognolo, ha ravvolto tutto l’animale, il bozzolo è compiuto.
Nel bozzolo, il baco si è trasformato in pupa. Non è più larva, non è ancora farfalla. Non si muove, non prende cibo. Basta, a nutrirla, il grasso che aveva accumulato quando era bruco. Il filugello rimane nel bozzolo venti giorni circa; poi inumidisce con un suo liquido speciale un’estremità del bozzolo, ed urta fortemente il capo contro la parte così rammollita. E dal bozzolo esce la farfalla. La femmina, dal corpo grosso e tozzo, non può volare; il maschio tenta di fare qualche salto, ma neanch’esso vola.
Ma all’uomo poco importa che la farfalla voli: gli basta che essa deponga le uova che l’anno prossimo gli permetteranno di riprendere l’allevamento dei bachi.

Il baco da seta

L’imperatrici cinese Silinci ebbe un giorno dall’imperatore un piccolo baco e questo consiglio: “Impara ad allevare questo baco e il popolo non ti dimenticherà mai”.
Silinci prese ad osservare i bachi, e vide ch’essi, quando fanno le loro dormite, si rivestono di un tenue velo di fili. Ella scese quei fili e tessè un fazzolettino. Silinci vide poi che i bachi montavano sui gelsi. Allora ella prese a raccogliere le foglie dei gelsi e a nutrire con esse i bachi.
Così i bachi allevati furono moltissimi e Silinci volle che tutto il popolo imparasse la nuova arte. Da allora sono passati 5.000 anni e i Cinesi ricordano ancora l’imperatrice che insegnò loro ad allevare il prezioso baco da seta. (L. Tolstoj)

I gelsi

Gli alberi che per primi si sono coperti di larghe foglie, i gelsi che segnano in lunghi filari  i campi delle messi ancora immature, si trovano di giorno in giorno più spogli. Non hanno potuto attendere l’autunno con gli altri alberi. Le mani degli uomini li hanno spogliati per nutrire i bachi voraci e quelle foglie saranno trasformate in seta lucente.

La seta

Il filugello, o bombice del gelso, o baco da seta, in un certo periodo della sua brevissima vita emette dalla bocca una sostanza liquida (la fibroina) e gommosa (la sericina) sotto forma di due filamenti (bavette) che, indurendosi a contatto con l’aria, diventano un lungo sottilissimo filo. Di questo filo, il bombice si serve per costruirsi intorno una casetta ovoidale (il bozzolo), nella quale attenderà di mutarsi in una grossa bianca farfalla.
A questo punto, l’insetto fora il bozzolo e ne esce fuori per vivere un paio di settimane, giusto il tempo per deporre le uova. Ma pochissime farfalle vedono la luce del sole: la maggioranza dei bozzoli  va a finire, per mano dell’uomo, in speciali stufe, dove un adatto calore uccide la farfalla prigioniera. I bozzoli “stufati” vengono immersi in acqua bollente al fine di rammollire la sericina e poter così trovare il capo del filamento e dipanare facilmente il bozzolo.
Da questa operazione, chiamata trattura, si ha la seta grezza o tratta. Con la seta grezza, sottoposta a lavaggi o a processi chimici, si ottiene la seta cruda, la seta cotta, la seta mezza cotta e la seta caricata; questi tipi diversi di seta servono per la produzione di vari tessuti (lisci, operati, uniti, ecc…), la cui preparazione avviene mediante alcune operazioni particolari come la cilindratura, la lucidatura e la rasatura.
I principali tipi lisci, usati largamente nell’abbigliamento, sono i crespi, i rasi, i taffetà, le faglie, le garze, il popeline e i foulards. Tra i tessuti operati ricordiamo i damaschi, che presentano disegni a rilievo, e i broccati, misti a fili d’oro e d’argento. Poichè esistono sete rigenerate (prodotte con sete già usate), sete selvatiche (prodotte da insetti che vivono in Africa e nell’Estremo Oriente) e sete artificiali, la legge prescrive, per i tessuti prodotti con le preziose bavette del bombice del gelso, un marchio che rechi la dicitura “seta pura”.

Il filugello (racconto)

Alla frontiera cinese, il fraticello fu frugato, in ogni luogo.
“Avete oro?” gli chiesero le guardie.
“No”.
“Avete argento?”
“No”.
“Avete seta?”
Il fraticello rimase in istante perplesso. Non voleva dire il falso. Ma poi rispose con decisione: “No”.
I Cinesi erano molto gelosi della loro seta. Non volevano che altri popoli della terra conoscessero il segreto di quel preziosissimo filo, col quale fabbricavano un bellissimo tessuto, lucido e morbido.
“Passate pure” gli dissero allora le guardie. Il frate raccolse il suo bastone di bambù e passò la frontiera.
Cammina cammina, sempre appoggiandosi alla sua canna, giunse finalmente al suo paese.
“Ho portato un tesoro!”
“Dov’è?”
Credevano che fosse oro, argento, pietre preziose. Il pellegrino sorrise.
Gli abitanti del paese lo guardarono increduli. Era povero, non aveva bagagli e pensarono che durante il lungo viaggio avesse smarrito la ragione.
Il frate allora mostrò il suo bastone: “E’ qui dentro”.
Gli altri risero di lui. Ma il frate ruppe la canna di bambù e mostrò alcuni semini scuri: “Ecco il tesoro”, disse.
Tutti credettero che si volesse burlare di loro. Gli voltarono le spalle e lo lasciarono solo. Allora il frate mise i semini al caldo. Dopo pochi giorni dai semini, che erano uova, uscirono alcuni bachini neri. Il frate li pose con grande cura sopra una foglia tenera di gelso. I bacolini cominciarono a mangiare e ridussero la foglia alle sole nervature.
In poco tempo i bacolini ingrassarono e diventarono chiari, lucidi e mollicci.
“Venite a vedere il grande tesoro!” diceva la gente, “Quattro o cinque bruchi che fanno ribrezzo!”
Il frate sorrideva: “Aspettate”, diceva, “aspettate e vedrete”.
I bachi crescevano sempre più. Quando furono grossi come un fuscellino, smisero di mangiare e si misero a dormire.
“Sono morti”, disse la gente.
Invece, dopo poco tempo, ripresero a mangiare. Quando furono grossi come un dito indice, si addormentarono nuovamente. Intanto il fraticello aveva cercato un rametto di scopa secca; vi fece salire i suoi bachi e disse ai suoi increduli paesani: “Ripassate tra qualche giorno, e vedrete!”
Dalla bocca dei bachi usciva un filo d’oro, che le bestiole appiccicavano nei diversi punti della scopa. Poi cominciarono a girarsi su loro stessi tessendo un fittissimo bozzolo dentro il quale restarono prigionieri.
Quando la gente chiese di vedere il prodigio, il fraticello mostrò il rametto di scopa dal quale pendevano tanti bozzoli d’oro. Si alzò un grido di meraviglia: “Sono frutti d’oro?”
“No,” rispose il frate, “sono semplicemente bachi da seta”.
Così anche gli Europei allevarono il filugello e produssero come i Cinesi i preziosi tessuti lucidi e resistenti. (P. Bargellini)

Dal baco alla seta

La seta, questo  filo luminoso, elastico e resistentissimo è il filamento elaborato dal “bombix mori”, l’insetto comunemente chiamato baco d seta. A contatto con l’aria, questo filamento si solidifica e forma la bava.
Seguiamo un po’ da vicino la vita del bombix mori.
Allo stato di larva si nutre, come tutti sanno, di foglie di gelso. Fino a poco tempo fa innumerevoli erano nelle campagne i filari di gelsi dai caratteristici tronchi mozzi su cui  spuntavano a decine i rami sottili carichi delle preziose foglie. Ora la coltura del gelso è diminuita perché non si allevano più tanti bachi come una volta: le fibre artificiali hanno in gran parte sostituito la seta naturale. Ma dove i bachi vengono ancora allevati, la foglia del gelso è indispensabile.
In un mese la larva subisce quattro mute: dopo la quarta, sale al “bosco” e comincia ad emettere  quel filo di bava con cui forma il bozzolo.
Per rinchiudersi dentro il bozzolo completamente, il baco impiega circa tre giorni, dopo i quali inizia la sua metamorfosi: da larva a crisalide, da crisalide a farfalla.
I bozzoli che devono essere utilizzati vengono essiccati: o per effetto del vapore acqueo o in forni appositi che raggiungono la temperatura di 65-85 gradi. A questo calore  la crisalide, racchiusa nella sua prigione dorata, muore, e non si trasformerà in farfalla e non uscirà più a deporre le uova.
Ma il bozzolo potrà essere sottoposto intatto, a tutte le altre operazioni necessarie per averne la seta.
Dopo essere stati essiccati e cerniti, secondo la loro grandezza e i loro possibili difetti, i bozzoli passano alla filanda dove avviene la complessa operazione detta “trattura” mediante la quale i bozzoli , ammorbiditi nell’acqua calda, strofinati opportunamente con speciali spazzole, lasciano svolgere docilmente il loro filo.
In questa operazione le bave di 4-5-6-7-10 bozzoli, secondo la grossezza desiderata del filato, si svolgono e si riuniscono insieme in un unico filo che viene avvolto sull’aspo: il prodotto così ottenuto si chiama seta greggia.

La Cina e la seta
L’allevamento dei bachi e l’industria della seta furono, nei secoli antichi, monopolio della Cina, tanto che presso  i Greci erano conosciuti con il nome di Seres: i  serici, coloro che praticavano l’arte serica. Nei paesi dell’Occidente tale arte non era conosciuta, ma era ben conosciuto ed apprezzato il prodotto che ne derivava, e  frequenti erano tra Oriente e Occidente i commerci del prezioso tessuto.
Spesso però, lungo i secoli, avvenimenti politici intralciavano, se non interrompevano, i pacifici traffici dei mercanti di seta.

Storia di due monaci
L’imperatore Giustiniano, per ovviare a tutte le difficoltà che ostacolavano i normali scambi, nel 552 spedì nelle lontane terre dei Seres due monaci  con il preciso impegno di impadronirsi del segreto della fabbricazione della seta.
I Cinesi infatti erano gelosissimi di questa loro arte che si erano tramandati di generazione in generazione, ed il compito dei monaci non si presentava dei più facili.
I due monaci, giunti sul luogo, riuscirono non solo a rendersi conto del ciclo di produzione della seta, ma anche ad impadronirsi di alcune uova dei preziosissimi bachi, e a trafugarle in patria.
Le piccolissime uova giunsero in Occidente sane e salve, si schiusero e ne uscirono, sotto gli occhi attoniti dei Bizantini, i primi bachi che si costruirono i primi bozzoli.
E da Bisanzio il segreto cinese si divulgò in altri paesi del Medio Oriente e dell’Europa.
Grande fu lo stupore dei Latini i quali avevano sempre immaginato che la seta avesse un’origine vegetale più che animale. Ci testimoniano questa opinione i versi di Virgilio che, nelle Georgiche, descrive i Seres intenti a pettinare le foglie di certi alberi per toglierne la sottil seta.
“Velleraque ut foliis depectant tenui Seres?” (Georgiche II – 120)

Arte della seta in Europa
Il fiorire dell’industria serica nei paesi del Mediterraneo fu dovuto soprattutto agli Arabi che, nel secolo IX, introdussero in Sicilia e nella Spagna tale arte.
Quest’ultimo paese, già il secolo seguente, era in grado di vantare una produzione abbondante e di buona qualità, e famose divennero in tutto il mondo le sete di Granata.
In Sicilia l’industria della sete ebbe un grande sviluppo soltanto nel secolo XII; ma fu proprio da questa estrema regione che ebbe inizio l’arte serica italiana che, dal 1200 al 1600, mantenne il primato europeo.
Il 1600 segnò purtroppo in Italia, l’inizio di un lungo periodo di decadenza politica ed economica. Languirono le arti e le industrie, ma molti operai si trasferirono in Francia dove a Lione, ad Avignone e a Tours fondarono l’industria serica.
Ma ormai i confini di tutti i paesi di Europa si erano aperti a questa importante industria tessile che fiorì in Inghilterra, nella Svizzera, in Germania e si sviluppò in tutto l’impero austroungarico sotto l’alto patronato del’imperatrice Maria Teresa. Frattanto la produzione della seta aveva avuto un grande incremento anche nel suo paese d’origine: la cina era pur sempre produttrice di tessuti finissimi;  e il Giappone, puntando sui bassi costi, non tardò a farle concorrenza.
Il secolo XIX vide l’affermarsi e svilupparsi dell’industria della seta in tutti i maggiori paesi d’Asia e d’Europa; e si distinguono ormai gli Stati che forniscono seta grezza (quelli dove le condizioni climatiche consentono l’allevamento dei bachi) e quelli che, importando la materia grezza, producono tessuti.

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I SUINI: dettati ortografici e letture

I SUINI: dettati ortografici e letture per bambini della scuola primaria.

Il cinghiale

Occhio vivace,  garretti asciutti, dorso agile, trotto veloce e nervoso, cotenna spessa e dura, zanne robuste e acuminate, il cinghiale è un lottatore di grande coraggio. Ben diverso da lui è il placido grasso maiale discendente dal cinghiale che ancora vive in libertà nelle macchie e nelle foreste paludose.

Il maiale

Nulla resta in questo animale dell’aggressività, della forza, della furberia di uno dei suoi antenati, il cinghiale. Da una parte, sensi affinati, muscoli scattanti, riflessi rapidi, coraggio ed intelligenza; dall’altra la tranquillità, in nutrimento facile, e quindi la sonnacchiosità, la petulanza ottusa, i riflessi tardi e il grasso.

Il maiale

E’ grasso, tardo, non pensa che a mangiare e a grufolare. Ma è un animale prezioso. Nulla si butta via del maiale. Con la carne si confezionano saporite salsicce, salami e prosciutti; il grasso serve per cucinare e per rendere saporite le vivande; gli intestini, seccati, servono a fare corde di strumenti musicali; con le setole si fabbricano spazzole, pennelli e scope.

Il maiale

Il contadino lo chiama il suo salvadanaio, perché quello che mette vi ritrova. Ma vi mette patate, ghiande, farina, crusca, bucce e brodaglie; ricava i prosciutti, le squisite salsicce, i salami saporiti, il condimento per le sue minestre.

Il porcellino dell’Orthobene
Si trattava di assistere al sacrificio del maiale e manipolarne le carni e i grassi fumanti. Veniva giù in marzo, coi caldi venti orientali, l’arzillo adolescente maialino; scendeva dai cari boschi di lecci dell’Orthobene con una grossa ghianda ancora ficcata nella zanna rabbiosa, coi piedi legati, sul cavallo del servo che lo portava in arcioni e invano tentava di placarne le proteste.
La gabbia dove veniva ficcato, sebbene alta e spaziosa, non lo consolava di certo: erano, i primi giorni, grugniti che spaventavano persino il prode gallo del cortile; e tentativi di smuoverne le sbarre e persino il grande truogolo di granito che forse gli ricordava le pietre della patria perduta.
Allora, in un fresco turchino giorno del primo inverno, arrivavano due valentuomini: uno smilzo e nero, con un berretto frigio sulla testa rapata e le maniche della camicia rimboccate sulle braccia pelose; sembrava il boia; l’altro un pacioccone roseo e lucido: erano due celebri macellai.
(G. Deledda)

(IN COSTRUZIONE)

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CERVI e CERBIATTI dettati ortografici, poesie e letture

CERVI e CERBIATTI dettati ortografici, poesie e letture per la scuola primaria.

La cerbiatta
Il vecchio guardava sempre le macchie di aliterno in fondo alla radura. Era verso quell’ora che la cerbiatta si avvicinava alla capanna. Il primo giorno egli l”aveva veduta balzar fuori dalle macchie spaventata, come inseguita dal cacciatori: si era fermata un attimo a guardarsi intorno coi grandi occhi dolci e castani come quelli di una fanciulla, poi era sparita di nuovo, rapida e silenziosa, attraversando come in volo la radura. Era bionda, con le zampe che parevan di legno levigato, le corna grigie, delicate come ramicelli di asfodelo secco.
(G. Deledda)

(IN COSTRUZIONE)

CERVI e CERBIATTI dettati ortografici, poesie e letture . Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

LE VOLPI dettati ortografici, poesie e letture

LE VOLPI dettati ortografici, poesie e letture per la scuola primaria.

Le volpi
Parla un volpone: “Osservate tutto e notate ogni minima cosa. Non date mai a vedere d’essere delle volpi; se volete manifestarvi ad alta voce, fingetevi cuccioli di cane: abbaiate. A caccia, ricordatevi di essere una selvaggina anche voi, guardatevi d’attorno, accosciatevi spesso, ascoltate ciò che dice la terra. Se ferite, non urlate, mettetevi sottovento dei cani e medicatevi con le radici di rafano. Non temete mai gli scoppi, temete i fruscii, e rifugiatevi di preferenza nel grano. Guardatevi dai funghi velenosi e purgatevi spesso col ricino”-
(F. Tombari)

La volpe
Il suo mantello di peli folti è un’arma di difesa: esso  assume i colori della terra, degli alberi, delle rocce, delle nevi. La volpe è un animale quasi invisibile.
Va a caccia di notte. Assale e divora lepri, conigli, topi e lucertole.  Inoltre dà la caccia agli uccelli, anche a quelli acquatici (oche, anatre, cigni) e devasta i pollai. E’ golosa di pere, susine, uva.
Corre rapida; resiste alla fatica; passa tra le fessure più strette; sa camminare leggera, senza rumore, come se scivolasse; si nasconde nei cespugli.  Nuota bene e si arrampica sugli alberi.
I boscaioli e i contadini le fanno una guerra spietata.
(H. Hvass; da “Mammiferi nel mondo”; ed. Colderini)

(IN COSTRUZIONE)

LE VOLPI dettati ortografici, poesie e letture.  Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

CAMOSCI STAMBECCHI CAPRIOLI ALCI CERVI dettati ortografici, poesie e letture

CAMOSCI STAMBECCHI CAPRIOLI ALCI CERVI dettati ortografici, poesie e letture per la scuola primaria.

Stambecchi e camosci
Si videro scendere a valle quaranta o cinquanta stambecchi e un centinaio di camosci come una frana, ma più potenti gli stambecchi, capaci di daltare rocce che i camosci girano, e di valicare d’un salto fino a sei o sette metri di terreno impervio, fermandosi di netto su una piccola punta aguzza. Sanno anche risalire pareti a picco, incastrandosi tra due piani ad angolo, facendo gioco con gli zoccoli tra l’uno e l’altro.
(G. Piovene)

Il camoscio
Un vecchio cacciatore raccontava questo episodio, occorsogli al ritorno da una infruttuosa battuta di caccia. Ritornava dunque il nostro uomo, stanco e affaticato, attraverso un sentiero impervio e sconosciuto, quando si trovò a viso a viso con un camoscio, morto. La bestia evidentemente era precipitata dalla montagna, e niente aveva potuto trattenerla nella sua caduta: solo alla fine le corna, impigliandosi fra i rami di un cespuglio, avevano tenuto sospeso l’animale nella posizione in cui appunto il cacciatore l’aveva trovato. Forse alla fine della rovinosa caduta il camoscio non era ancora morto, ma poi la fame, le ferite avevano avuto la meglio e la povera bestiola era morta, così, sospesa fra i rami, sola… La montagna, con i suoi pericoli, come si vede, sottopone il camoscio a durissime prove, se l’animale vuole sopravvivere nell’ambiente naturale tutt’altro che facile.
D’estate,  i branchi di camosci, da dieci a cinquanta, dimostrano la loro eccezionale abilità di scalatori vivendo a grandi altitudini, anche oltre i 2300 metri.
D’autunno, da ottobre fino all’inizio dell’inverno, i camosci combattono i loro mortali duelli per il predominio sul branco; poi, con la caduta delle prime nevi, scendono in basso, verso i boschi di conifere. In questo periodo il camoscio diminuisce la sua dieta fino a nutrirsi solamente di scorze d’albero, di muschi, di rovi; un nutrimento molto diverso dai ricchi pascoli estivi. In primavera, invece, nel mese di maggio, nascono i piccoli: uno o due, nel folto del bosco, lontano da tutti,  in un luogo riparato e segreto. Ben presto i piccoli saranno in grado di seguire la madre verso le vette, insieme con il branco fatto più numeroso dai nuovi nati.

Il camoscio: carta d’identità
Lunghezza: circa un metro e venti.
Altezza: 75 centimetri.
Peso: il maschio 45 chili, la femmina 35.
Il colore varia: d’estate è grigio chiaro, scuro d’inverno. Una striscia di peli più lunghi e scuri segna la pelliccia del camoscio dalla punta della coda alla testa. Con questo pelo i tirolesi fanno le nappine, che ornano i loro famosi cappelli.
Il camoscio vive in gruppo; solo i vecchi maschi hanno abitudini solitarie così come le femmine quando stanno per mettere al mondo i piccoli.
L’aquila, i cacciatori, le valanghe, le impervie cime delle montagne su cui hanno la loro residenza, rendono assai pericolosa la vita del camoscio.
L’udito e l’odorato del camoscio sono eccellenti. Non così la vista. Femmine e maschi recano sulla fronte le corna con cui affrontano i loro nemici. Il camoscio si trova sulle Alpi, e sull’Appennino, nel Parco Nazionale d’Abruzzo.

Il capriolo
Vive un po’ dappertutto in Europa. Ha forme snelle, corna ramificate. Si nutre di foglioline e di giovani germogli. Di giorno si tiene nascosto, di notte vaga per campi e prati. Se non fosse protetto da leggi speciali sarebbe già scomparso, preda ambita dei cacciatori.
Può raggiungere settantacinque centimetri di altezza, un metro e trenta di lunghezza, venticinque o trenta chili, al massimo, di peso. Ha gambe sottili, alte, nervose, forti. Il suo mantello varia con le stagioni. In inverno la lanetta, fittissima e morbida, è color bruno-ruggine.
La sua testa è corta, animata da grandi occhi vivaci, le orecchie hanno media lunghezza, le corna, proprie dei maschi, non hanno lo sviluppo e la bellezza di quelle dei cervi.
(G. Menicucci)

L’alce
Nelle regioni paludose e nelle foreste della Siberia si incontrano ancora numerose mandrie di alci, grossi animali strettamente imparentati con i cervi. Un alce adulto è alto oltre due metri al garrese e può pesare 700 chilogrammi. Le enormi corna, che cadono ogni anno in autunno per rispuntare in primavera, sono palmate e largamente spiegate a ventaglio. La femmina ne è priva ed è anche di dimensione più piccola. Il pelame, abbastanza folto, è di colore bruno scuro e nel maschio presenta una criniera assai sviluppata. Gli zoccoli molto larghi e disgiunti permettono a questi animali di camminare nella neve senza sprofondare eccessivamente. Le abitudini dell’alce sono simili a quelle del cervo. Esso preferisce però i luoghi aperti e acquitrinosi del nord dove vaga pascolando. Si nutre di foglie, di cortecce e di piante acquatiche. Per strappare queste ultime, però, deve inginocchiarsi, perché il collo è molto corto rispetto alla lunghezza delle gambe. Un tempo gli alci erano molto diffusi anche in Europa. Secondo antiche credenze, nello zoccolo del piede sinistro dell’alce risiedevano poteri magici, per cui questa parte veniva venduta a caro prezzo, ed era consigliata in numerosissime ricette dell’antica farmacopea.

CAMOSCI STAMBECCHI CAPRIOLI ALCI CERVI dettati ortografici, poesie e letture. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

I BOVINI: dettati ortografici e letture

I BOVINI: dettati ortografici e letture per bambini della scuola primaria.

Il bue

Il bue ha un’importanza rilevante per la storia stessa della civiltà umana. Quando l’uomo delle caverne riuscì a rendere domestico e quindi ad allevare e a trasformare gradatamente l’uro, il colossale bue preistorico, ebbe inizio una serie di eventi importantissimi. L’allevamento di questo animale  significava possibilità di avere carni a sufficienza e il numero dei buoi che uno possedeva servì a calcolare la sua ricchezza. Inoltre la forza del bovino permise la trasformazione del suolo, ancora vergine, in campi coltivati.

Il bue

Gli antichi Germani cacciavano di preferenza l’uro. Ne adoperavano la pelle per fare i vestiti, ne mangiavano la carne, nelle loro corna bevevano l’idromele. Più tardi, i Germani fissarono le loro dimore e praticarono l’agricoltura, ma l’uro calpestava i loro campi e perciò il contadino cercò di fermare il gigante. L’uro era già scomparso fin dal Medio Evo. Il gigante continua però a vivere nel bue domestico ostinato e lento, ma utile, che ora si trova sparso per tutta la terra.
(Reichelt)

Bufale
A uno a uno tutti quei blocchi oscuri, che io avevo scambiati nel crepuscolo per rialzi verdastri del terreno, si sollevarono, scuotendo polvere, e, dondolandosi con mosse lente, si avanzarono sulla radura, incontro a me. Bufale enormi della giogaia ciondolante, dai corvi brevi, dai corni lunghi, diritti serpeggianti, lunati, dal muso nero, dalla stella in fronte, dal piè balzano, dalle radici rosse. La prima del branco ruggiva sempre, fermandosi ad aspettare; e altre vacche nere, che poltrivano  digrumando fra le stoppie gialle, bruciate dal libeccio, si alzavano, si scuotevano muggendo, e s’indirizzavano adagio, circospette e annoiate, sull’orme della guida.
(F. Paolieri)

Bestie all’abbeveratoio
Ultimo divertimento della giornata fu assistere all’abbeverata del bestiame. L’abbeveratoio era in fondo a un gran prato, accanto al pozzo perenne, oggetto di molta invidia dei vicini in quelle terre siccitose. La fila delle bestie sciolte s’avvicinava lentamente dove le chiamava il boaro con un certo verso e fischio lungo, pacato, suasivo, che le invitava a bere. Camminavano sagge, con quella loro andatura che sembra inceppata, a testa bassa; e il sole basso sfiorava con un raggio tenero le schiene, bianche per la più parte. Immergevano il muso fino alle froge nell’acqua, e bevevano adagio, alla loro discreta maniera. Poi lo levavano stillante, e si riavviavano alla stalla, sempre da sole, pacifiche e senza ruzzare, mansuete e sazie.
(R. Bacchelli)

Due vitellini si vogliono bene
Era successo che, proprio stando soli nella stalla, forse per ruzzare intorno alla mangiatoia o per scavalcarla, il vitellino più anziano, quello che aveva una specie di stellina in fronte, si fece male, ebbe una delle due protuberanze che, ai lati della fronte, cominciavano a indurirsi, scalfita da un chiodo, ammaccata da un urto troppo forte. Nulla di straordinario: ci fu qualche medicamento rustico, una foglia larga e fresca messa sull’ammaccatura, un po’ di dolore… Ma cosa straordinaria fu che il vitellino più giovane intervenisse lui, nelle ore in cui erano soli, a medicare, tirando fuori la lingua, che era poi anch’essa quasi come una foglia ma rosea e un poco ruvida, raspando, leccando sull’ammaccatura dell’amico come per una carezza e, insieme, una medicina.
(B. Tecchi)

Buoi al lavoro
I buoi, i grandi buoi, questi giganti
così affettuosi, così utili, così vigorosi!
Guardateli tirare, lungo le strade,
quei carichi così pesanti…
Il loro corpo, teso dallo sforzo, freme,
e il carro geme, geme a lungo.
Il carro geme, a lungo geme,
e i buoi tirano fino all’estrema fatica.
E sembra, nella sera bagnata d’ombra,
che il carro pianga per chi lo trascina…
E la sera, lungo la strada solitaria,
il carro geme, geme e se ne va.
(A. Lopez-Vieira)

Il bove
In questo sonetto, che è tra i più famosi della nostra letteratura, il poeta celebra la forza laboriosa e mite del bue e quel suo faticare docile in mezzo ai campi lavorati dall’uomo. E’ un quadro di pace solenne che ispira un senso religioso della fatica agreste.

T’amo, o pio →1 bove, e mite un sentimento
di vigore e di pace al cor m’infondi  →2,
0 che  →3 solenne come un monumento  →4
tu guardi i campi liberi e fecondi,
o che al gioco inchinandoti contento
l’agil opra de l’uom grave secondi  →5 :
ei t’esorta e ti punge, e tu co ‘l lento
giro dei pazienti occhi rispondi  →6.
Da la larga narice umida e nera
fuma il tuo spirto  →7, e come un inno lieto  →8
il mugghio nel sereno aer si perde;
e del greve occhio glauco entro l’austera
dolcezza  →9 si rispecchia ampio e quieto
il divino del pian silenzio verde  →10.
(G. Carducci)

Note:
→1 pio: mite e disposto al lavoro dei campi che è, per gli uomini, una santa fatica
→2 m’infondi: mi ispiri
→3 o che: sia che
→4 come un monumento: in atteggiamento placido e solitario
→5 secondi: col movimento grave del corpo, il bove asseconda i gesti dell’uomo, agile nella fatica dell’aratura
→6 rispondi: mostri d’intendere e consentire alla sua volontà
→7 fuma il tuo spirto: esala il tuo alito
→8 come un inno lieto: il mugghiare del bove è come un inno che accompagna in letizia il lavoro dei campi
→9 entro l’austera dolcezza: dentro lo sguardo dolce e insieme solenne dell’occhio azzurro (glauco) del bove. Grave perché si volge con lentezza e pazientemente
→10 si rispecchia… silenzio verde: si riflette la pace e l’alto silenzio della pianura. Verde è congiunto con silenzio ed è un’immagine lirica che si spiega pensando che il poeta, per spontaneo gioco di fantasia, ha trasferito al silenzio la proprietà verde del piano.

Il bue
Quando l’uomo cominciò a coltivare i cereali, iniziò ad addomesticare gli animali e, tra questi, il bue.
Come sollevò il lavoro dell’uomo!
Discende da un animale preistorico chiamato uro, la cui razza è ormai scomparsa da circa quattromila secoli.
Il manzo, il toro, la mucca, il vitello, la giovenca e il bue sono differenti stati dello stesso animale: il bue.
E’ un ruminante; ha i piedi forcuti e corna cave, corpo tozzo, membra corte e robuste, collo con sotto una pelle pendula chiamata giogaia. Vive d’erba e serve all’uomo da tiro e da trasporto. Fornisce energia organica per il lavoro della terra, ottimo concime, produzione abbondante e sostanziosa di latte; carne per l’alimentazione, sangue, ossa, corna, pelle, unghie per moltissimi usi.
Si adatta alle più svariate condizioni di clima, di altitudine, di alimentazione.
Gli antichi lo veneravano.

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LE PECORE E LE CAPRE dettati ortografici, poesie e letture

LE PECORE E LE CAPRE dettati ortografici, poesie e letture per bambini della scuola primaria.

La pecora e la capra

Buone e pacifiche, le pecore e le capre pascolano sui prati e brucano l’erba e i germogli lungo le siepi. Il vello delle pecore è folto e morbido, formato da bioccoli di lana.
Il maschio della pecora si chiama montone, ed ha due corna ricurve.
Le capre hanno una graziosa barbetta sotto il mento e piccole corna curve e affilate con le quali aggrediscono e si difendono.
Pecore e capre vengono riunite in greggi sorvegliate dai pastori e dormono negli ovili con gli agnelli e i capretti.
Sono ruminanti ed erbivori; danno latte e carne; la pecora, inoltre, ci dà la lana e con la pelle della capra, conciata, si fanno scarpe e guanti.
In Italia le pecore sono allevate specialmente nel Lazio, nell’Abruzzo, nel Molise e nell’Umbria. Durante l’estate, le greggi si spostano dalle pianure ai pascoli appenninici, che abbandonano al principio dell’inverno. Questa periodica migrazione è detta transumanza. La transumanza viene effettuata su antiche vie chiamate tratturi.
Le pecore si chiamano ovini e le capre caprini. Sono ruminanti simili alla capra anche il camoscio, lo stambecco e il caribù.

La pecora

Anticamente la pecora dovette essere un animale simile al camoscio: agilissima, dotata di corna e magari di umore alquanto aggressivo. Oggi è l’animale più mansueto che si conosca: effetto dell’addomesticamento. Vicino all’uomo, allevata da lui, la pecora, innanzitutto, è ingrassata, poi ha perduto i suoi istinti aggressivi.

Ritorna il gregge

Il gregge tornò dalla montagna. Primi venivano i montoni, con le corna basse e l’aspetto selvaggio; dietro il grosso delle pecore: le madri un po’ stanche, gli agnellini da lette coi musetti tra le zampe delle mamme. I muli, infioccati di rosso, portavano nelle gerle gli agnelli di un giorno, e camminando li cullavano. Ultimi i cani, ansimanti, con un palmo di lingua fuori dalla bocca; e due pastori giganteschi avvolti in ampi mantelli rossi che scendevano giù fino ai piedi.
La processione ci sfila davanti gioiosamente e per il cancello entra nel cortile: gli zoccoli picchierellano sull’ammattonato come uno scroscio di  grandine. E in mezzo al trambusto il gregge entra nell’ovile.
(A. Daudet)

Il gregge

Ecco le pecore in viaggio. Avanti e attorno a loro, camminano i cani da guardia. Sono bianchi come le pecore e procedono a testa alta, guardinghi. Vegliano sulle pecore e le difendono. Dietro ai cani vengono i montoni, scuotendo il campanaccio schiacciato. Sono seguiti dal gregge senza ordine. A capo basso, con gli occhi tristi che non guardano di lato, le pecore camminano in branco. Dove va l’una, vanno le altre.
Quelle vicino alle siepi, strappano qualche foglia. Dietro a questo fiume di lana calda,, che alza il polverone delle strade, vengono i pastori, o a piedi o a cavallo, con l’ombrello a tracolla e un lungo bastone in mano. Essi corrono dietro alle pecore che si sbrancano, spingono quelle che restano indietro zoppicando; raccolgono gli agnelli nati lungo il viaggio, bianchi e rosa, belanti.
Ogni tanto si volgono indietro. Nuvole dense hanno coperto i loro monti. Il vento stacca dagli alberi del piano le foglie ingiallite.
(P. Bargellini)

Agnello
Nessuno ti pettina i ricci,
nessuno ti bacia sul muso,
la mamma è partita dal chiuso,
sei piccolo e senza capricci.
L’erbetta più tenera e fine
la cerchi nel prato da te:
si sente tremare il tuo bee,
per vaste pianure e colline.
Per quel campanello che scuoti
le valli non sono più mute,
la terra imbandita di rute,
riporti ad incanti remoti.
Guidato a più libera altura
tra boschi, torrenti e perigli,
mio piccolo agnello somigli
un poco di neve che dura.
(R. Pezzani)

LE PECORE E LE CAPRE dettati ortografici, poesie e letture. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

I mammiferi: dettati ortografici e letture

I mammiferi: dettati ortografici e letture per bambini della scuola primaria.

Gli animali

Nessuno può conoscere il numero esatto degli animali che vivono sulla terra: molti trovano ricovero nelle sterminate foreste equatoriali, altri popolano le acque dei fiumi, dei laghi e dei mari, altri, infine, hanno scelto a loro dimora le inospitali distese delle zone glaciali o le sabbie infuocate dei deserti.
Il cavallo, il serpente, la zanzara sono tre animali, ma a nessuno sfugge che sono totalmente diversi: per la forma e la struttura del corpo, per le abitudini di vita, per il cibo di cui si nutrono, per gli aiuti o i danni che possono recare all’uomo.
Da alcune caratteristiche fondamentali, comuni a molti animali, l’uomo ha incominciato a dividerli in vertebrati e invertebrati.
Gli animali il cui corpo prende forma e sostegno dallo scheletro si dicono vertebrati.
La parte più importante dello scheletro è la colonna vertebrale o spina dorsale; delle altre ossa, alcune hanno il compito di proteggere gli organi più delicati, quali il cervello, il cuore e i polmoni; molte altre servono al movimento.
Tutti i vertebrati hanno il corpo ricoperto dalla pelle, che può essere nuda come quella delle rane, o ricoperta di piume o penne come negli uccelli, o da peli come nella pecora, nel leone, nella giraffa.
La respirazione nei vertebrati può avvenire mediante i polmoni, come in tutti gli animali terrestri, o mediante le branchie, come nei pesci.
Il tipo dei vertebrati comprende cinque classi: i mammiferi, gli uccelli, i rettili, gli anfibi e i pesci.

L’indole degli animali

Secondo l’indole o l’istinto che dimostrano verso l’uomo e verso i loro simili, gli animali possono essere: domestici, se vivono con l’uomo e sanno rendersi utili; selvatici, se vivono in libertà, ma dimostrano indole pacifica e inoffensiva; feroci, se vivono in libertà divorando gli altri animali e assalendo l’uomo.

Il cibo

Secondo il cibo di cui si nutrono, gli animali sono: erbivori, se si nutrono di erbe e di vegetali in genere; carnivori, quando la carne è il loro alimento preferito; onnivori, se, indifferentemente, si cibano di vegetali, di carne o di altri prodotti fabbricati dall’uomo.

I primi vertebrati che apparvero sulla terra furono i pesci

E’ fuor di dubbio che i primi vertebrati comparsi sulla terra furono i pesci. Voi certo pensate ad una bella trota, guizzante superba attraverso le rapide di un fiume; o a un lucido tonno, che fende le onde con i potenti colpi della grande coda falcata; o al pesce dorato, che si aggira tranquillo in un boccale.
Niente di tutto questo: i primi pesci erano tozze e goffe creature, col corpo racchiuso in una sorta di corazza, fatta di grosse placche articolate; e certo la loro locomozione doveva assomigliare ben poco al nuoto di una bella trota! Però questi animali possedevano un  organo che rappresentava un’importante innovazione, rispetto alle specie precedenti, un organo assile, costituito di molti pezzi cartilaginei e fatto per offrire una possibilità di attacco a quei muscoli robusti che permettono al pesce di guizzare nel liquido elemento. Con i pesci una nuova classe di animali, fondamentalmente diversi da quanti li hanno preceduti, fa la sua comparsa tra gli esseri viventi.
Per essere esatti, dobbiamo però dire che, se i pesci sono indiscutibilmente i primi veri vertebrati, furono preceduti da animali che, pur mancando di colonna vertebrali vere  e proprie, ne possedevano già un abbozzo.
Tornando dunque ai pesci primitivi, cerchiamo di riconoscere in essi lo schema fondamentale del vertebrato. Il vertebrato è un animale dotato di scheletro interno cartilagineo od osseo, coperto di masse muscolari, dalla pelle, e avente come parte fondamentale del suo corpo la colonna vertebrale.

Mammiferi

I mammiferi costituiscono la classe più elevata ed importante dei vertebrati. Essa comprende animali diversissimi, ad esempio un leone, una balena, un pipistrello, fra i quali però esiste sempre un filo conduttore di somiglianza. Vediamo un po’ in cosa consista. Se prendiamo in mano un pesce, ci ritraiamo subito con un senso di ribrezzo per l’impressione di freddo che ne riceviamo, mentre accarezzando un cane od un gatto pervade un piacevole senso di calore. I pesci, infatti, sono detti animali a sangue freddo, con la temperatura del corpo che risente delle influenze esterne, mentre i mammiferi sono detti “a sangue caldo”, con una propria regolazione della temperatura, indipendente da quella esterna.
Questo, è logico, mette gli ultimi in grado si spostarsi con relativa facilità da una località all’altra, ma li obbliga anche a difendersi dal freddo, provvedendosi… di una pelliccia. I mammiferi infatti hanno tutto il corpo ricoperti di peli, più o meno lunghi a seconda di dove vivono, se nelle steppe polari o nel deserto, ma sempre presenti, anche nelle foche e nelle balene.
Per animali come questi, capaci di sopportare notevoli variazioni di clima, ma bisognosi di protezione dal freddo, la prole è un bene prezioso che deve essere difeso con accanimento sia prima sia dopo la nascita.
I mammiferi non mettono al mondo le migliaia di uova dei pesci o degli insetti, ma solo un numero relativamente piccolo di figli che si sviluppano prima nel corpo della madre, che provvede poi a nutrirli col suo latte quand’essi vengono alla luce; spesso entrambi i genitori li curano e li vezzeggiano fino a che non sono in grado di affrontare il mondo con le proprie forze.
Già da questi brevi cenni è facile capire come i mammiferi siano degli animali ad organizzazione del corpo parecchio complessa, con il sistema nervoso altamente perfezionato. Possiamo paragonare il sistema nervoso ad una rete elettrica, in cui la centrale è costituita dal cervello e dal midollo spinale, una sostanza molliccia racchiusa in un sottile canaletto tra le vertebre. Da questi centri nervosi escono i nervi che portano gli ordini ai muscoli e raccolgono le sensazioni trasmesse dagli organi di senso. Un muscolo non si muove se il centro nervoso non gliene ha dato l’ordine attraverso il nervo adatto.
Particolarmente interessante presentano nei mammiferi la respirazione e la circolazione del sangue, due fenomeni strettamente legati tra loro. L’aria che questi animali respirano giunge ai polmoni, due grosse sacche di sostanza spugnosa ed elastica racchiuse nel torace. I polmoni sono tutti un intrico di canali sanguigni, attraverso le cui sottilissime pareti il sangue lascia sfuggire le sostanze gassose nocive che ha raccolto durante il viaggio per il corpo per recare ad ogni cellula la vitale scorta di ossigeno. Dove trovare però la spinta sufficiente per intraprendere un giro così lungo?
Nel cuore, il provvido muscolo che non si ferma mai durante tutta la vita dell’individuo. Il sangue quindi che proviene dai polmoni entra nel cuore, da qui viene spinto lontano nel corpo per portare l’ossigeno e raccogliere i prodotti di rifiuto. Giunge così, estenuato e sporco, di nuovo al cuore, ma alla metà destra, rigorosamente separata dalla sinistra.
Di qui, con un vigoroso moto di contrazione del muscolo, è inviato nei polmoni dove si purifica, pronto a ricominciare il circolo. Questo sistema di circolazione si chiama “circolazione doppia”, perchè il sangue passa due volte dal cuore, e “completa”, perchè le due metà del cuore, destra e sinistra, sono separate tra di loro.

Osserviamo un coniglietto

Il coniglio è un animale che certamente tutti conosciamo e che è facile osservare anche vivo in classe, perchè non cerca di far male a chi gli si avvicina per esaminarlo o per toccarlo: infatti non aggredisce, non graffia, non morde perchè è sfornito di mezzi adatti a questo scopo. Il coniglio non ha i terribili artigli del gatto, o i denti acuminati del cane e per salvarsi da chi voglia fargli del male usa un altro mezzo di difesa: la fuga, veloce e immediata.
Osserviamo il nostro coniglio, lasciato libero in un piccolo recinto. Mentre ci avviciniamo ad esso lo vedremo immediatamente in allarme, che ci osserva preoccupato, con le orecchie tese e vibranti pronte a cogliere il minimo rumore che possa meglio informarlo della natura del pericolo; con piccoli salti nervosi si sposta accostandosi alle pareti del recinto, per avere almeno un lato protetto; è come una molla pronta a scattare se gli sembra che il pericolo che egli sente stia diventando più grave. Per il coniglio, quindi, è utile essere pauroso, perchè nell’essere pauroso sta la sua salvezza.

I carnivori, gli erbivori e gli insettivori

Ragioniamo sulle osservazioni che abbiamo fatto e cerchiamo di vedere se conosciamo altri animali domestici o selvatici, che si comportino come il coniglio; ce ne sono molti senza dubbio e noi ve ne ricorderemo qualcuno: le capre, i cavalli, i topi, gli scoiattoli, le oche, le lucertole, le rane e tanti altri.
Poniamoci adesso un piccolo problema e tentiamo di risolverlo: perchè il cane e il gatto (e come loro il lupo, il leone, la tigre, ecc.) non cercano di salvarsi allo stesso modo e invece aggrediscono chi si accosta loro a distanza troppo breve? Per rispondere a questa domanda vediamo se questi animali abbiano qualche altra caratteristica in comune fra loro, che invece manchi negli animali più timorosi (conigli, topi, capre, cavalli). Infatti mentre i primi sono animali predatori, cioè assalgono una preda per cibarsene e quindi sono carnivori, gli ultimi non sono predatori e si nutrono o di erbe (erbivori) o di varie sostanze senza alcuna preferenza (onnivori).
Il predatore deve naturalmente essere un animale aggressivo se vuol procurarsi il cibo che gli è necessario ed usa appunto questo suo carattere anche per difendersi dai pericoli più immediati: ma ricordatevi che nessun carnivoro assale altri animali se non ha fame e se non si sente in pericolo. Gli erbivori e gli onnivori, invece, non avendo carattere aggressivo, sfuggono ai pericoli generalmente mediante la fuga, come abbiamo già visto.
E le rane, le lucertole? Esse si nutrono preferibilmente di insetti, che catturano abilmente con la lingua e quindi sono dei piccoli predatori che chiameremo insettivori per il loro tipo di alimentazione; essi, di fronte al pericolo, generalmente si comportano come gli erbivori, dato che sono troppo piccoli e sforniti di mezzi di difesa.

Le parti del corpo del coniglio: la testa

Fatta conoscenza con il coniglio e con il suo carattere, vediamo ora di imparare come esso e costituito, cioè di scoprire la sua anatomia, e di capire come funzioni ogni sua parte quando esso è vivo, cioè di ottenere qualche informazione sulla sua fisiologia.
Tutti riconosciamo facilmente nel coniglio  una testa o capo che, mediante il collo, è unita al tronco, il quale è provvisto di una coda.
Nella coda osserviamo la bocca fornita di denti, sopra alla quale si trova il naso che presenta le due narici; una fessura che parte dal centro del naso divide in due il labbro superiore (labbro leporino); ai lati del capo sono situati gli occhi e le orecchie, delle quali noi possiamo vedere soltanto i grandi padiglioni auricolari, molto mobili.

Il tronco

Il tronco presenta quattro arti, detti zampe, ciascuna delle quali termina con dita fornite di artigli (unghie coniche e arcuate: paragonatele con le vostre); il primo paio  di arti o zampe anteriori (situate davanti) è più breve del secondo, termina con cinque dita, ed è usato dal coniglio anche per trattenere vicino alla bocca le foglie di cui si nutre, ma soprattutto per scavare la sua tana nel terreno, mediante i robusti artigli; le zampe posteriori sono invece provviste soltanto di quattro dita, sono più lunghe e più robuste e grazie ad esse il coniglio si sposta velocemente a lunghi balzi; la loro robustezza gli consente di spingere di scatto, in avanti e in alto, tutto il peso del corpo. Il tronco termina posteriormente con una breve coda.

I peli proteggono il coniglio

Tutto il corpo del coniglio è ricoperto di morbidi e fitti peli, che servono a proteggerlo dal caldo e dal freddo. Il colore del pelame nei conigli è molto variabile e sappiamo che ve ne sono di bianchi, neri, grigi, a macchie. Ai lati della bocca ci sono alcuni peli più lunghi e rigidi, detti vibrisse (comunemente ed erroneamente indicati col nome di baffi), che servono all’animale per il tatto: essi sono quindi peli tattili.
Si conoscono diverse razze di conigli, una delle quali ha il pelo molto morbido e lungo: è il coniglio d’Angora.

La temperatura del coniglio è costante

Se teniamo il coniglio in un luogo caldo o un luogo fresco, il suo corpo non si riscalderà né si raffredderà e ciò possiamo constatarlo con le nostre mani o con un termometro. Il coniglio è quindi un animale a temperatura costante; nel linguaggio corrente si usa dire “animale a sangue caldo”, ma questa è un’espressione scorretta e deve essere evitata.

Conclusione

Ragioniamo su quanto abbiamo osservato nel coniglio e cerchiamo di vedere se conoscete altri animali che presentino le stesse caratteristiche riscontrate in questa specie e cioè:
– una testa fornita di padiglioni auricolari e di bocca con denti;
– un tronco con quattro arti;
– il corpo rivestito di peli;
– corpo a temperatura costante.
Certamente ne conoscerete tantissimi: il cane, il gatto, il cavallo, il leone, la pecora, il topo, l’elefante e tanti altri.

I mammiferi

Tutti questi animali e tutti gli altri che presentano i caratteri precedentemente indicati si chiamano mammiferi: il coniglio è quindi un mammifero, l’elefante è un mammifero, e così via. Invece il passerotto, la lucertola, lo scarabeo e infiniti altri animali non sono mammiferi, perchè non hanno il corpo rivestito di peli e non presentano padiglioni auricolari, anche se qualcuno di essi ha pure quattro zampe (lucertola). Ma i mammiferi presentano anche altre due importanti particolarità, che voi ben conoscete:
– le femmine dei mammiferi mettono alla luce i figli già ben conformati e non depongono uova (c’è una sola eccezione che impareremo in seguito); diremo perciò che i mammiferi sono animali vivipari, cioè che partoriscono un organismo già vivente;
– i piccoli appena nati sono allattati dalla madre e per un certo tempo il latte costituisce il loro unico alimento: tutti avremo avuto occasione di osservare una cagna o una gatta allattare i propri piccoli. Anche il coniglio allatta i suoi piccoli. Il latte è prodotto dalle ghiandole mammarie e per tale motivo questi animali si dicono mammiferi.

Nel mondo animale

Nel mondo animale, i deboli, gli ammalati, i fisicamente difettosi sono condannati a morire, sterminati dai più forti e arditi. I più sani e abili sopravvivono e si riproducono: i forti, gli agili sfuggono agli agguati, vincono nella caccia, trovano il cibo anche in condizioni avverse, possono trasferirsi in ambienti più favorevoli.
Perciò anche fra gli animali, i genitori proteggono la prole e la allevano con cure tenerissime, fino a quando essa non sia in grado di provvedere alla propria esistenza.

I bovini

Un gruppo di mammiferi che accompagnano l’uomo per tutto il cammino della civiltà, dai suoi inizi ad oggi è quello dei bovini. Di questi animali esistono ricordi nelle pitture primitive e su essi si esercitò l’abilità dell’uomo nel trasformarli da indomiti e selvaggi abitatori delle foreste in domestici aiuti del lavoro umano. Essi appartengono alla grande famiglia dei ruminanti, così detta per una particolare caratteristica nel modo di alimentarsi. I ruminanti infatti sono tutti vegetariani, hanno una dentatura particolare che permette loro di strappare l’erba coi denti, ed uno stomaco complesso grazie al quale possono ingurgitare rapidamente grandi quantità di foraggio e poi andarsene a mangiarlo tranquillamente al sicuro dai loro tradizionali nemici, i carnivori. Lo stomaco dei ruminanti infatti è diviso in quattro cavità e permette al cibo di rigurgitare in bocca per poi venire rimasticato di nuovo. Il contributo dato dai bovini all’economia una è immenso; basti pensare che da essi noi ricaviamo il latte e tutti i suoi derivati, la carne, la pelle ed un prezioso aiuto nel lavoro umano.

Il bisonte

Si calcola che all’inizio della colonizzazione nelle grandi pianure del Nord America vagassero allo stato libero più di sessanta milioni di bisonti. Questi animali rappresentavano per gli Indiani la più importante fonte di cibo e di pelli, ma essi si limitavamo ad uccidere solo pochi capi che servivano per le necessità immediate, per cui non c’era pericolo che la specie si estinguesse.
Poi vennero gli Europei e incominciò l’ecatombe. Negli anni in cui  si costruirono le grandi ferrovie transcontinentali, queste povere bestie vennero uccise a centinaia di migliaia, senza scopo. Di esse i coloni utilizzavano solo la lingua mentre le ossa erano vendute a tonnellate per pochi dollari alle industrie che producevano concime. Si finì col distruggere tutti i bisonti esistenti nel territorio americano, salvo pochi capi che furono salvati e protetti da leggi speciali, ed ora si sono riprodotti in misura considerevole.
I bisonti americani sono grossi bovini dalla testa massiccia sormontata da due brevi corna ricurve. Un maschio può pesare una tonnellata e raggiungere due metri di altezza all’apice della grossa gobba. Il colore del mantello è generalmente bruno , con lunghi peli in corrispondenza del capo, del collo e della gibbosità sul dorso.

La lepre

Conosci il coniglio? Ebbene la lepre è un animale poco più grosso; ha la stessa forma; il suo pelame è bruno terra e appartiene alla stessa famiglia del coniglio. L’uomo le dà la caccia per la sua carne saporita e per la pelle, con cui si fanno cappelli e pellicce.
E’ mite e paurosa. Vive nei boschi, si trova anche nei campi seminati. E’ di notte che di preferenza gira in cerca di cibo: erbe, semi, grani. Rosica pure la corteccia degli alberi. I denti, che in questa funzione si consumano, le crescono continuamente. Rodere, per tutti i roditori, è una necessità, altrimenti gli incisivi, crescendo sempre, darebbero loro fastidio.
Le zampe posteriori sono più lunghe di quelle anteriori, per questo è animale adatto al salto. Conigli e lepri fuggono infatti a saltelli buffi e rapidissimi. La lepre ha lunghe orecchie che l’avvertono anche da lontano del pericolo, al quale può sottrarsi solo con la fuga.
(M. Viareggi)

Il castoro

Roditore lungo circa un metro, con coda di 30 centimetri e peso superiore ai 30 chili. Il corpo è tozzo con testa tondeggiante, muso ottuso, collo corto; gli arti sono brevi; quelli posteriori hanno dita lunghe, riunite da una membrana interdigitale adatta al nuoto; quelli anteriori sono mobilissimi e servono come mani. La coda, cilindrica alla base, parzialmente pelosa, termina a spatola ed è coperta da squame; essa è usata come timone durante il nuoto.
La pelliccia, più chiara sulla testa e nella parte ventrale, comprende peli lunghi, tra i quali si trova una lanugine fine, serica, abbondante, di color bruno-rossiccio. La dentatura è costituita da 20 denti, di cui gli incisivi, a crescita continua, sono volti all’indietro; i denti molari hanno una superficie dotata di molte pieghe. I padiglioni  auricolari e le narici sono muniti di valvole che li otturano quando l’animale si immerge in acqua.
Il castoro è longevo: vive da 15 a 20 anni; i figli lasciano i genitori verso i due anni di vita.
Il castoro vive nei boschi, presso corsi d’acqua e stagni; esso si nutre di cortecce e di germogli di salici, pioppi, betulle e querce, mai di conifere. Per procurarsi il cibo, abbatte alberi di grandi dimensioni, scavando coi denti nel tronco, presso la base, un solco a forma di clessidra. La pianta, abbattuta e privata di corteccia, è impiegata per far dighe e tane.
I castori hanno sempre destato grande interesse nell’uomo non soltanto per la pregiata pelliccia che essi forniscono, ma anche per la straordinaria ingegnosità di cui hanno prova nella costruzione e nella protezione della loro tana.

Lo scoiattolo

In gran parte dell’Europa e in vaste regioni dell’Asia, fino alla Cina settentrionale, è diffuso lo scoiattolo comune, che annovera diverse sottospecie distinguibili per il mantello, il cui colore, nelle parti superiori, può variare dal rossastro al grigio più o meno scuro.
Questo grazioso mammifero vive nei boschi, si ciba soprattutto di frutti, semi, germogli che cerca quasi soltanto nelle ore diurne, arrampicandosi e saltando agilmente tra gli alberi; esso è lungo 40-45 centimetri,  di cui poco meno della metà riguarda la ricca coda.
Durante l’estate gli scoiattoli accumulano nelle cavità di grossi tronchi le provviste di cibo per i mesi invernali che essi trascorrono in semi-letargo.
La dentatura dello scoiattolo è quella di un roditore: i denti incisivi sono a crescita continua e incurvati ad arco; lo smalto li protegge solo esternamente per cui rosicchiando si forma un margine obliquo taglientissimo; i canini mancano e tra gli incisivi e i premolari c’è uno spazio libero.
Gli scoiattoli, oltre a nutrirsi di semi, bacche, frutti, non disdegnano neppure le uova che vanno a rubare nei nidi tra gli alberi.
Pigne rosicchiate, ghiande e nocciole sgusciate sul terreno avvertiranno facilmente della presenza, nel bosco, di questi simpatici animaletti.
(L. Ferretti)

Lo scoiattolo volante

In America vivono molte specie di scoiattoli, alcuni molti simili ai nostri, altri invece di aspetto e comportamento completamente diversi. Uno dei più curiosi e dei più belli è lo scoiattolo volante, lungo sui venticinque centimetri. La sua coda a fiocco non è morbida e folta come quella del nostro. Questo roditore però è provvisto di speciali duplicature della pelle ai lati del corpo, normalmente nascoste dal pelo. Queste, quando l’animale si lancia dall’alto di un albero, si tendono tra le zampe anteriori e quelle posteriori, formando un’ampia membrana a guisa di paracadute, per cui questo scoiattolo riesce a planare anche molto lontano dal luogo di partenza, con un lungo volo. La coda piuttosto piatta e provvista di lunghi peli sui due lati gli funge da timone.
Lo scoiattolo volante americano ha dimensioni più piccole di quelli asiatici e africani. Accanto ad esso ricordiamo gli scoiattoli a mantello dorato, che abitano  le foreste di pini degli Stati Uniti e del Canada, e i cipmunk dalle belle strisce colorate che s’allungano parallele sul dorso. Vi sono poi molti scoiattoli terragnoli, che sono abili scavatori e vivono nascosti in un complicato sistema di gallerie. Questi ultimi hanno code assai poco vistose.

Un regno sotto terra

Se abitate in campagna, può darsi che, a due passi da casa nostra, sotto terra, ci sia la dimora della talpa, un animale dalla pelliccia straordinariamente morbida, che vive sotto terra, nell’oscurità più completa. Forse vi sarà già capitato di vedere una talpa: avete notato che bella pelliccia possiede? Il belo è corto e fittissimo, simile al velluto, assolutamente inattaccabile dalla polvere e dal terriccio, perchè la talpa, malgrado viva sempre sottoterra, è una creatura incredibilmente pulita. Il suo pelo cortissimo, poi, non disturba affatto l’andirivieni della bestiola nelle gallerie.
Il corpo della talpa è allungato, per favorire appunto la bestiola quando scava le sue gallerie sotterranee; le zampine sono fatte in modo da poter funzionare come piccole spalatrici. Ecco come lavorano: l’animale punta le unghie nella terra, tenendo le palme delle zampe anteriori volte all’infuori. Poi, con un colpo delle zampine, getta all’indietro la terra che vi ha raccolto. Con le zampe posteriori, invece, si spinge in avanti, e poi subito le raccoglie per respingere con queste la terra che è stata staccata dalle zampe anteriori. Per immaginarvi bene il movimento, fate conto che la talpa nuoti sotto terra. La talpa porta la terra in sovrabbondanza alla superficie attraverso una galleria, appositamente costruita.

Non dite appetito da lupo ma appetito da talpa

Ma i compiti delle zampine della talpa non si esauriscono qui: con le zampe anteriori afferra le sue prede e le tiene strette per divorarle; la mandibola lunga, i denti aguzzi sono tipici di un animale insettivoro. Suo cibo naturale sono gli insetti, ma non disdegna le lumache, i lombrichi che le forniscono alimento anche d’inverno quando continua sotto terra la sua opera di scavo, e poi le larve, che mangia solo in mancanza d’altro. E se animaletti o topolini vengono a ficcare il naso nella sua dispensa, la talpa non esita a farli fuori.
Infatti la talpa è dotata di un appetito veramente terribile: a intervalli di se ore circa fa un pasto abbondante. E riesca a mandar giù tanto cibo quanto il doppio del suo peso. E se deve saltare  un pasto,  se sta più di sei ore senza cibo, rischia di morire di fame.
Sempre in relazione alla sua vita sotterranea, la talpa ha una vista debolissima, anzi si può dire che è del tutto cieca, perchè nel suo buio mondo a che le servirebbe vedere? Invece ha acutissimo l’udito, che le permette di percepire anche i più leggeri brusii.

La casa sotterranea della talpa

La casa della talpa è al centro di molte gallerie scavate con infinita pazienza. E’ una specie di cameretta, imbottita di foglie secche, di muschio, di erba. La presenza di queste dimore sotterranee è rivelata in superficie dallo sbocco delle gallerie di sicurezza. I piccoli della talpa nascono, tre o quattro, una volta all’anno, in una camera preparata dalla mamma in un incrocio di gallerie.
Quando per le talpe giunge il tempo di metter su casa, il maschio va alla ricerca della sua femmina, guidato nel buio delle gallerie dal suo finissimo udito, che gliene rivela la presenza. E se strada facendo incontra un rivale, allora il primo maschio chiude la femmina, che ormai considera di sua proprietà, in una galleria, al sicuro, poi non esita ad affrontare l’intruso. Nell’oscurità, ha allora luogo un duello all’ultimo sangue, una lotta di ciechi, alla fine della quale il vincitore arriverà perfino a divorare il vinto!
Con la sposa tanto ferocemente conquistata, il sopravvissuto si accingerà ad occuparsi della propria famiglia, con una tenerezza davvero contrastante con la crudeltà precedente. Padre e madre baderanno alla prole con ogni cura per provvederla di tutto quanto le necessiti.

Campione di corsa, salto e nuoto

Capita che la talpa esca alla luce del sole: trova sempre un gatto o un uccello da preda in attesa di farsi di lei un sol boccone. Ma non crediate che questa bestia abituata alla vita sotterranea, cieca e nata per vivere scavando gallerie, si trovi del tutto indifesa all’aria aperta. La talpa, velocissima nella sua tana, lo è altrettanto quando in superficie sfugge ai nemici. E’ persino difficile seguire ad occhio nudo la sua corsa. E non basta: la talpa è anche un’ottima nuotatrice, e se ha paura di essere catturata fa dei salti di venti centimetri. Sorridete? Ma venti centimetri sono una misura notevole in rapporto al suo piccolo corpo.
Ora che la conoscete meglio vorreste forse vedere una talpa. Se andata in campagna, non disperate: le talpe sono molto diffuse e potrà capitarvi di vederne una. Naturalmente non fatele alcun male: scavando e rivangando la terra per costruire le sue gallerie, e facendo scorpacciate di insetti, la talpa è utilissima ai campi.

Il tasso

Il tasso ha dimensioni modeste (una trentina di centimetri alto, un’ottantina lungo compresa la coda), tronco massiccio, zampe corte, forti, con dita fornite di unghie, atte ai lavori di scavo, testa allungata, muso appuntito. E’ coperto di pelo foltissimo. La colorazione del pelame lo fa riconoscere: è grigiastra sul dorso e ai lati del tronco, nera nelle zampe, sul ventre e sul petto, bianca e solcata da due strisce nere sulla testa.
Abita i boschi, isolato. Scava le gallerie in cui si tiene nascosto. Esce al crepuscolo in cerca di cibo, cauto. Rimuove il terreno, rompe radici, mangia insetti e larve, lombrichi e vermi, lumache e chiocciole, visita alla base dei vecchi alberi i nidi delle api per succhiarne i favi di miele.
I lunghi aculei lo difendono dai pungiglioni delle api operaie. Dà la caccia agli uccelli nel nido, beve le uova, acchiappa e divora rane, lucertole, tipi, bisce. Negli orti si pasce di frutti, uva, cereali. Al mattino presto, a pancia piena, fa ritorno alla sua tana e dorme. In autunno, tondo e grasso, si adagia sull’erba secca e sulle foglie che fanno da tappeto alla galleria-tana, con il musetto tra le zampe e si addormenta.
(G. Menicucci)

Perchè il cane ha il naso freddo

Quando Noè volle far entrare nell’arca degli animali, la maggior parte di essi si mostrò riluttante. Bisognava compatirli, poveretti! Essi non sapevano nulla dell’imminente diluvio e, abituati com’erano a una libertà sconfinata, non avevano nessuna voglia di andare a rinchiudersi in quella grande gabbia di legno. Noè dovette decidersi  a farli spingere dal cane.
Il cane, quindi, fu l’ultimo a entrare nell’arca che, piana zeppa com’era, non offriva più spazio per lui. E così la brava bestia dovette starsene presso l’ingresso.
Lì veniva un tale spiffero d’aria fredda, che il naso del cane cominciò a raffreddarsi. Ma questo poco importava al fedele animale: fiero dell’aiuto dato al gran patriarca, non si muoveva dal suo posto che nelle ore dei pasti. Fin da quei lontanissimi tempi, il cane sapeva di dover custodire la casa del padrone.
Dopo l’infreddatura presa nell’arca di Noè, dice la leggenda, il naso del cane non si scaldò più.
(R. Fumagalli)

Mammiferi che cambiano colore

Chi vive in campagna ed ha familiarità con gli animali domestici anche fra i più comuni, come cavalli, mucche, buoi, sanno che durante la stagione invernale il pelo di questi animali diventa più folto di quello estivo e leggermente diverso di colore. Si direbbe quasi che anch’essi, come gli uomini, amino cambiare guardaroba secondo le stagioni. Mucche e cavalli però devono accontentarsi di cambiamenti minimi nella loro livrea stagionale, mentre esistono animali il cui guardaroba subisce mutamenti notevoli.
Uno degli esempi più famosi in proposito è quello dell’ermellino dalla candida e preziosa pelliccia. La livrea di questo animale però non è sempre così splendida. Durante l’estate, infatti, faremmo fatica a distinguerlo dalla più modesta donnola. In questa stagione anche la pelliccia dell’ermellino, abitatore di regioni settentrionali fredde e nevose, perde il pelo scuro e gli rispunta una splendida pelliccia candida e rilucente che lo rende invisibile in mezzo alla neve.
Pure la donnola cambia colore durante l’inverno e, così protetta può continuare la sua vita indomita e battagliera di ferocissimo predone dei boschi.
La volpe polare, che vive in branchi nelle desolate regioni artiche, d’estate ha il pelo scuro con riflessi azzurri sul ventre, ma d’inverno si riveste tutta di un candido mantello. Anche la pianta dei piedi è rivestita di pelo, per proteggerla dal freddo intensissimo dell’Artico.

L’ornitorinco, un mammifero che depone le uova

L’ornitorinco è un animale ben strano. Esso depone le uova, una o due, non di più, allo stesso modo degli uccelli e dei rettili, ma poi allatta i suo i piccoli, allo stesso modo dei mammiferi.
Le uova dell’ornitorinco sono rotonde e racchiudono, sotto l’involucro esterno, un sottile strato bianco, che circonda un nucleo centrale di colore giallo.
Un altro aspetto assai strano per un mammifero è questo: l’ornitorinco possiede un largo becco simile a quello dell’anatra. Inoltre le sue  corte zampe sono palmate. Per la sua conformazione, l’ornitorinco è adatto anche alla vita acquatica, e infatti vive dentro tane profonde che scava lungo i corsi d’acqua. In una di queste tane,  imbottite di erbe secche, la femmina depone le uova. I piccoli, appena nati, allungano la testa dentro una piega della pelle della madre dove si riversa il latte, il quale sgorga in seguito alla contrazione di appositi muscoli.
Per quanto provvisto di becco, l’ornitorinco giovane possiede alcuni denti di latte che poi scompaiono con l’età.
Il maschio, un po’ più grosso della femmina, nelle zampe posteriori ha uno strano sperone mobile, bucato all’interno da un sottile canale che è in relazione con una ghiandola che secerne veleno.
Non si è ancora riusciti a comprendere bene a che cosa serva questo sperone e quale uso ne faccia esattamente l’animale.

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I PESCI dettati ortografici e materiale didattico vario

I PESCI dettati ortografici e materiale didattico vario: dettati, racconti, poesie e letture per bambini della scuola primaria.

I PESCI dettati ortografici

I pesci

I pesci vivono nell’acqua del mare (pesce di acqua salata), del lago, dei fiumi e degli stagni (pesce di acqua dolce).
Le forme e le dimensioni dei pesci sono svariatissime.
Poiché essi devono scivolare agevolmente nell’acqua, il loro corpo non presenta ostacoli: ha una forma affusolata. La testa è attaccata al tronco; gli occhi sono posti lateralmente e non hanno palpebre.
Ai lati della testa ci sono le branchie, due aperture ricche di sangue: il pesce fa entrare l’acqua dalla bocca e la fa uscire appunto dalle branchie, trattenendo parte dell’ossigeno contenuto nell’acqua. Le branchie, quindi, servono al pesce per respirare.
I pesci hanno il corpo coperto di scaglie, disposte come le tegole di un tetto. Per spostarsi nell’acqua si servono delle pinne e della coda; quest’ultima fa anche da timone.
Essi possono vivere solo nell’acqua perchè non sanno respirare l’ossigeno direttamente dall’aria; si riproducono per mezzo di uova, che le femmine depongono in giugno.

La pesca

All’imbrunire, il porticciolo brulica di pescatori: voci, richiami, preparativi per la partenza. Si radunano le reti, si avviano i motori delle paranze e dei bragozzi. Le donne e i bambini  salutano dalla spiaggia e dai moli. Gli uomini partono: staranno in mare tutta la notte, sperando di tornare, all’alba, con le ceste colme di pesce. Altri pescatori, invece, a bordo di motopescherecci, praticano la pesca d’alto mare, spingendosi a centinaia di chilometri dalla costa.

I pesci dell’acquario

Nell’angolo più caldo e luminoso della stanza, fa bella mostra di sé l’acquario. E’ un recipiente di cristallo, pieno d’acqua chiara e col fondo coperto da uno strato di sabbia, dove crescono pianticelle acquatiche.
In quel piccolo spazio dei vispi pesciolini, alcuni piccolissimi ed altri più grandicelli, ma tutti assai graziosi. Le loro squame hanno vivaci colori, di un rosso più o meno intenso, con gradazioni azzurre, gialle e d’argento.
Vi sono pesci dalla splendida e vaporosa coda a strascico; ve ne sono di quelli simili a farfalle, con lunghe striature nere, oppure dal corpo appiattito, che assomiglia ad una rondine, e due lunghe antenne sotto il capo.

Mangiare ed… essere mangiati

Sul fondale poco profondo vivono animali che sembrano piante, ma che sono pronti a ghermire qualsiasi preda passi loro a tiro; granchi mimetizzati in agguato fra le rocce e i coralli. Ecco la spugna, il riccio di mare, il corallo, la medusa, tutti pronti a mangiare e… ad essere mangiati. Sì, perchè questa è l’eterna vicenda della vita.
Il microscopico copepodo mangia gli esseri ancor più microscopici che formano il plancton (piante e uova di animali e batteri). Ma l’aringa è subito pronta a divorare il copepodo (circa 60.000 ogni pasto), eppure essa non sfugge all’attacco del calamaro che, ghermitala con i suoi tentacoli, la sbrana a colpi di becco. E il calamaro viene divorato dal branzino.
E così via. Fino a che l’ultimo pesce divoratore non muore per cause naturali e allora precipita sul fondo, in pasto agli abitanti degli abissi che si nutrono di carogne; e questo a loro volta cadono sul fondo dove i batteri li decompongono e formeranno quel detrito che fornisce alimento ad altri animali o diverrà concime per le diatomee, le microscopiche piante marine. Queste nasceranno, verranno divorate insieme con il plancton e il giro ricomincia. Nel mare non c’è mai pace: si insegue, si lotta, si divora e si viene divorati.

I pesci

I pesci hanno per sé tutta l’acqua del mare, dei laghi, dei fiumi: e nuotano. Ne conosciamo molti:  pescecane, pesce martello e pesce spada, luccio e storione, tonno e sardina, sogliola, carpa, nasello, triglia; infine la trota, che vive nei laghi e risale i fiumi. Quello che a noi sembra il pesce più grosso è l’enorme balena: ma essa in realtà non è un pesce, è un mammifero. I pesci possono vivere solo sott’acqua: portati fuori dall’acqua, muoiono. Perciò l’uomo per ucciderli non ha che da pescarli.

La sardina

E’ lunga  da dodici a venticinque centimetri, ha il corpo allungato. Vive nel Mediterraneo e nell’Atlantico nord – orientale. Sono famose per la pesca delle sardine le zone di mare attorno all’isola di Terranova (America settentrionale).

La pesca delle sardine

La bella stagione aveva recato correnti di acqua calda dal sud e le sardine non potevano tardare. Infatti i pescatori avvistarono i primi branchi, gruppi enormi composti di migliaia di pesci argentei lunghi da quindici a venti centimetri, che si spostavano in massa nel mare aperto. I pescatori prepararono subito le reti e le esche. Un grosso banco di avvicinava rapidamente. Era il momento di agire. L’esca, costituita di uova di pesce e di farina di arachidi, venne sparsa abbondante nell’acqua. Le sardine sembravano impazzite nel gustare quel cibo di cui erano tanto ghiotte. Compivano continue evoluzioni e intanto rimanevano impigliate nelle reti. Ben presto le barche furono ricolme di pesci argentei e guizzanti che brillavano al sole.

La sogliola

Questo pesce, quando è adulto, cessa di nuotare per adagiarsi sul fondo del mare; allora sul suo corpo avvengono fenomeni strani; la superficie del pesce rivolta verso l’alto diventa scura prendendo il colore del fondo marino e l’occhio che sarebbe dovuto rimanere sul lato rivolto verso il basso, si sposta verso il lato superiore accostandosi all’altro occhio.

Il pescecane

Lungo sei sette metri, è uno squalo gigantesco munito di una bocca le cui mascelle portano denti grandi e taglienti. Questo animale, assai vorace e pericoloso anche per l’uomo, abita i mari caldi e temperati e segue spesso le navi per cibarsi dei resti di cucina che vengono gettati in mare.

Il merluzzo

Abita in branchi numerosi dei mari del Nord, ed è oggetto di grande e accanita pesca. Le sue carni vengono vendute in tutto il mondo, seccate o salate, col nome di stoccafisso e baccalà.

Il tonno

E’ un pesce che può raggiungere la lunghezza di circa tre metri e il peso di alcuni quintali. Vive nel Mar Mediterraneo, in branchi numerosissimi, a grande profondità. E’ un grande nuotatore, dalla robusta coda forcuta e dal corpo a forma di fuso e quindi molto adatto a fendere l’acqua.
Il dorso del tonno è di un bel colore azzurro cupo, il ventre è di color argenteo: i colori propri dei grossi pesci che vivono nel mare aperto.

Il pesce spada

Abbastanza comune nei mari d’Italia, questo pesce è caratteristico per il lungo rostro a forma di spada sporgente dalla mascella. E’ un voracissimo predatore e forse il più veloce fra tutti i pesci, capace perfino di slanciarsi sopra la superficie del mare con spettacolari salti nell’acqua. Il suo carattere è fiero e violento: non di rado si scaglia contro le imbarcazioni conficcando la spada nel fasciame, restando però vittima della sua collera.
La pesca del pesce spada che si pratica con una fiocina speciale, la draffiniera, è molto emozionante. I pescatori sono disposti su un luntro, una larga barca a remi con albero molto alto, sul quale, in posizione di vedetta, sta appostato il fariere. Quando quest’ultimo avvista il pesce, dirige i rematori verso la preda. Giunti a qualche metro di distanza, il lanciatore tira con forza e precisione la sua fiocina assicurata a una corda robusta e sottile, lunga anche 800 metri, che viene allentata al pesce colpito in modo da seguirlo fino all’esaurimento delle energie.

Ippocampo o cavalluccio marino

Questo tipo di pesce deve il suo nome al fatto che la sua testa è molto simile a quella del cavallo. Il maschio è munito di una sacca ventrale in cui la femmina depone le uova, dalle quali nascono i piccoli già molto simili agli adulti.

La carpa

La carpa è un pesce di acqua dolce. Essa in genere abita gli stagni, i laghi, i fiumi ed è molto diffusa nel lago Trasimeno e nel lago di Como. Non è un pesce molto pregiato. Essa si nutre di piante acquatiche, di piccoli animali che vivono nei fondi melmosi, di sostanze in decomposizione. Poiché la carpa non è un pesce rapace, non ha bisogno neppure di essere molto veloce: ed ecco che il suo corpo è piuttosto tozzo. La bocca della carpa è circondata da labbra carnose ed ha alcuni filamenti che servono come organi di senso, per meglio esplorare l’ambiente in cui vive. La carpa ha molti nemici che la fanno stare giorno e notte col batticuore. Essi sono la lontra, il topo acquatico, il falco pescatore, l’airone e molti pesci rapaci.

Il luccio

Il luccio è un grosso pesce dal corpo lungo fino a due metri, ottimo nuotatore. Ha il muso aguzzo, una grossa bocca munita di denti anche sul palato. Vive nelle acque dolci d’Europa, d’America e dell’Asia. Il luccio è il più feroce dei pesci d’acqua dolce, il vero pescecane dei nostri fiumi e laghi. Se i giovani lucci sfuggono alla voracità dei loro simili, diventano pesci di notevoli dimensioni. In Italia sono frequenti nei laghi e talora anche nelle acque salmastre delle lagune. Possono vivere fino ad età molto avanzata; balzano fuor d’acqua per afferrare uccelletti; in qualche caso riescono perfino a morsicare i bagnanti. I lucci sono assai dannosi alle piscicoltura perchè distruggono gli altri pesci. In certi laghetti, l’apparizione di qualche luccio vuol dire la scomparsa rapida di ogni altro pesce.

Il pesce persico

Un pesce che non teme il luccio è il pesce persico, assai più piccolo, ma difeso da una forte spina che ferirebbe la bocca del feroce nemico. Il pesce persico è squisito e assai bello: le sue pinne sono di un delicatissimo color roseo. E’ uno dei pesci più ricercati delle nostre acque.

Il salmone

Il salmone comune misura sino a un metro e mezzo di lunghezza e può superare i venticinque chili di peso. Non vive nei nostri mari. Esso fa esattamente il contrario di quanto fanno le anguille. Nasce dalle uova deposte nelle acque dolci ma, fatto adulto, torna al mare. Verso il terzo, quarto anno di vita, durante l’inverno, risale fiumi e torrenti, superando anche ostacoli difficoltosi, come dighe e cascate, per deporre le uova.

La trota

E’ simile al salmone e può raggiungere il metro di lunghezza. E’ molto diffusa nei fiumi e nei torrenti specialmente d’Europa: vive volentieri soprattutto nelle acque fredde e chiare delle zone montane. La sua carne è molto pregiata.

I PESCI racconti

Il lungo viaggio di mamma anguilla

Da molte stagioni mamma anguilla viveva nel fossato. Le trote ed i ranocchi la conoscevano da gran tempo: la ricordavano giovane, sottile e lunga poco più di una spanna; ora invece era lunga quasi un metro e grossa quanto un braccio di bimbo. Quando giunse l’autunno, mamma anguilla apparve tutta affaccendata; si strofinava contro le erbe, per pulire la pelle incrostata di fango e faceva esercizi di nuoto; sembrava si stesse preparando per un grande viaggio. E difatti, un giorno, al tramonto, partì.
Percorse il fossato ed entrò nel canale; dal canale nel fiume. Nel fiume nuotò per intere giornate e giunse al mare. Nel mare nuotò per lunghe settimane e giunse all’oceano.
Qui giunta, volse il capo all’ingiù e cominciò a scendere, a scendere verso gli abissi marini. L’acqua si faceva sempre più fredda e più scura, ma mamma anguilla, senza timore, proseguì la sua lunga discesa.
Quando giunse a tremila metri di profondità, trovò l’ambiente adatto alla nascita dei suoi piccoli ed allora depose le uova. Nacquero le piccole anguille. Erano vermetti trasparenti, senza colore; pian piano salirono alla superficie. Mangiarono e crebbero e, quando furono lunghe sei centimetri, iniziarono anch’esse un lungo viaggio. Fecero a ritroso il percorso compiuto dalla loro mamma ed arrivarono al mare, al fiume, al fossato. E qualcuna, forse, giunse al fossato da dove la mamma era partita.

I pescatori

Gigino e il babbo sono andati a Chioggia, presso Venezia. Sono arrivati proprio nel momento in cui le barche tornavano dalla pesca, e Gigino s’è trovato sulla riva dove ne erano approdate molte. I marinai andavano e venivano dalle barche alla riva, su ponticelli fatti con tavole, portando sulle spalle ceste colme di pesci argentei, ancora guizzanti e sgocciolanti.
Gigino guardava: sardine, sogliole, triglie, granchi, sgombri, orate, cefali, seppie, calamaretti, pesciolini minuti… che pranzone di magro si sarebbe potuto imbandire!
Sulle barche intanto i marinai stendevano le reti ad asciugare, lavavano il ponte, abbrustolivano fette di polenta su fornelletti a carbone.
Sior Momi, il pescatore con cui il babbo era andato a parlare, è un uomo anziano, un po’ curvo dalla fatica del remo, con viso rugoso, abbronzato dal sole e dall’aria salsa. Ha sempre in bocca la pipa e parla il dialetto cadenzato dei Chioggiotti.
Quando ebbero finito di trattare i loro affari, sior Momi si avviò col babbo verso la sua barca, una bella barca: Speranza II, con le grandi vele arancione che si specchiavano nell’acqua cheta della laguna. Gigino guardava, incantato.
– Ti piacerebbe venire a pescare? – gli chiese sior Momi.
– Magari! –
– Si parte al tramonto, si sta fuori tutta la notte,  e all’alba si torna: salvo che non si faccia una crociera più lunga e non si vada a dare una capatina nei porti dell’Istria o della Romagna. Allora, si sta fuori una settimana o anche più, si fa da mangiare sopra coperta e si dorme in cuccetta. –
“Dev’essere bellissimo…”, pensò Gigino.
– E dica un po’, sior Momi – domandò il babbo, – perchè la sua barca si chiama Speranza II? –
Sior Momi si levò la pipa di bocca. – Perchè la Speranza I l’ha presa il mare, una notte di fortunale -. Un attimo di pausa… poi aggiunse, a voce bassa: – E si portò via anche il mio ragazzo più grande, che aveva vent’anni.-
(G. Lorenzoni)

 

Pesci! Pesci!

Pescatore che vai sul mare
quanti pesci puoi pescare?
Posso pescarne una barca piena
con un tonno e una balena,
ma quel ch’io cerco nella rete
forse voi non lo sapete:
cerco le scarpe del mio bambino
che va scalzo poverino.
Proprio oggi ne ho viste un paio
nella vetrina del calzolaio:
ma ce ne vogliono di sardine
per fare un paio di scarpine…
Poi con due calamaretti
gli faremo i legaccetti.
(G. Rodari)

Pescatori

Infaticati e rudi
s’alternano al cimento:
sferzano il sole e il vento
i corpi seminudi.
Dietro la tesa fune
ecco una rete oscilla:
guizza la preda e brilla
dentro le maglie brune…
Or chi vuol ricordare
pericoli e strapazzi?
Buona pesca, ragazzi!
(A. Graf)

I PESCI dettati ortografici e altro materiale

Il pesce sente gli odori

Il pesce vede bene fino a una decina di centimetri e la ragione di questo fatto è chiara: l’acqua permette solo raramente una visibilità illimitata.  Alcuni pesci hanno una linea che corre lungo i lati del corpo. In questa linea vi sono microscopici organi di senso. Quando il pesce si avvicina ad un ostacolo, l’acqua preme contro il suo corpo. Gli organi di senso, posti lungo il corpo, avvertono questa pressione e il pesce cambia direzione. La linea laterale, come vengono chiamati questi organi, aiuta il pesce ad individuare anche la posizione del nemico o della preda.
Il pesce riesce a distinguere bene i vari odori: il suo senso dell’olfatto può essere eccitato anche da piccolissime particelle di odori diluiti nell’acqua. E’ per mezzo dell’olfatto che i pesci, come gli altri animali, riconoscono il cibo, i loro piccoli, il nemico. La loro sensibilità è estrema. Un esempio ce lo mostrano i vaironi. Quando un individuo di una frotta è ferito, la sua pelle emette nell’acqua una sostanza il cui odore spaventa gli altri peci che si riuniscono in gruppo e scappano a nascondersi.
Non è con le pinne che il pesce nuota, ma con la coda e con tutto il corpo. Le pinne funzionano da stabilizzatori, da timoni, da freni.

Lo storione

Ecco un pesce che ha sempre goduto ottima fama! I Romani antichi lo tenevano in gran conto: esso compariva in banchetti di lusso, preparato con salse complicate, e circondato di fiori! Nella Cina, lo storione era riservato alla mensa imperiale. Nel Medioevo, solo ai nobili era dato mangiare carne di storione.
Lo storione, insieme ad altre specie affini, vive nelle acque profonde del Mediterraneo, del Mar Nero, del Mare del Nord, dell’Atlantico, ma giunto il momento della riproduzione, in primavera, risale i fiumi per deporvi le uova. I piccoli rimangono per un certo tempo nel fiume, ma appena hanno raggiunto un certo sviluppo, ritornano al mare, dove rimangono fino a quando, a loro volta, dovranno pensare a deporre le uova. Nelle regioni molto fredde, gli storioni ritornano nei fiumi per passarvi l’inverno in letargo, mezzo nascosti nel fango.
Anche nei nostri maggiori fiumi, nel Po, nell’Adige, nell’Arno, nel Tevere, non è difficile pescare qualche bell’esemplare di storione, che è ricercatissimo per la bontà delle sue carni.
Lo storione ha corpo allungato, fusiforme, è lungo due o tre metri, e qualche esemplare arriva anche ai cinque metri. Il suo peso passa facilmente il quintale. La pelle è percorsa da cinque serie di piastre ossee piramidali lungo il tronco, e, osservata alla superficie, pare smaltata.
Il capo, allungato e corazzato di piastre ossee, finisce in un lungo muso depresso, munito inferiormente di quattro filamenti carnosi, detti cirri, che servono per il tatto e per rimescolare le materie che lo storione, animale voracissimo, fruga e scopre col muso.
Con le uova di storione si prepara il caviale, cibo assai ricercato e pregiato come antipasto.
Un altro prodotto importante che ci fornisce lo storione è la colla di pesce o ittiocolla, che si ricava dalla vescica natatoria e che serve a molti usi, per esempio a chiarificare il vino e la birra.

Il pescecane

Ecco la voracissima fiera del mare! Validissimo nuotatore, è fornito di odorato sviluppatissimo, che gli permette di fiutare una preda anche a distanze considerevoli. E i denti? Avete mai visto la bocca di un pescecane? Essa è fornita di molte file di denti, presentanti una o più punte, lunghi, taglienti, seghettati! Un braccio umano, una gamba, sono come per noi gli ossicini del pollo, in quelle boccacce spaventose!
I pescecani, detti anche squali, comprendono moltissimi generi: solo nei nostri mari ne vivono ventitré generi, con un buon numero di specie!
Nel Mediterraneo si può incontrare un pescecane detto verdesca, il quale, se in altri mari arriva a più di sei metri di lunghezza, nel Mediterraneo non supera i tre metri. Ha il corpo slanciato e forte, la pelle minutamente zigrinosa, il muso allungato. La bocca ha numerosi, forti denti triangolari, a margini seghettati, di cui i superiori hanno la punta volta in fuori. La verdesca è vivipara e… con grande abbondanza. In una femmina si trovarono cinquantaquattro embrioni di pescecane! I giovani seguono per qualche tempo la madre, che li protegge; anzi, in caso di pericolo, è stato osservato che essi si riparano nella bocca materna! La  verdesca è assai diffusa nell’Atlantico e nel Pacifico. Abita per lo più a grandi profondità, ma sta anche a fior d’acqua, ad un miglio circa dalle coste. E’ agile e voracissima; si ritiene sia uno degli squali più impavidi e più pericolosi per l’uomo.
Ci sono certi pescecani, detti carcarodonti, che arrivano a dodici metri di lunghezza, e possono inghiottire un uomo intero! Altri, detti smerigli, lunghe anche sei metri, sono molto arditi e pericolosi, e si arrischiano persino ad assalire i pescatori sulle barche!
Nel Mediterraneo ci si può imbattere nel pescecane codalunga; detto così per la coda che spesso è più lunga di tutto il corpo, e arriva ai quattro metri, complessivamente. Pare che sia inoffensivo per l’uomo; si ciba principalmente di pesci. Nuota con impeto, e si dice che le femmine proteggano i piccoli, ricoverandoli, al caso, sotto le pinne pettorali.
Tante volte l’apparenza inganna. Questo è il caso del sélache gigante, un pescecane lungo quattordici metri e anche più, ma che tuttavia è poco temibile. Abita nei mari freddi, dove nelle belle giornate viene talora a frotte presso la superficie, dove se ne sta tranquillo, lasciandosi cullare dalle onde… Ma, di solito, predilige le profondità. Si ciba di piccoli pesci e crostacei. I giovani sèlaci sono assai diversi dagli adulti, tanto che per parecchio tempo si credette appartenessero ad un’altra specie di pesci. Nell’Atlantico settentrionale il sèlache gigante è cacciato con la fiocina e col rampone, per ricavarne l’olio eccellente, dal grosso fegato; ma pare che ora anche questa specie vada estinguendosi.
I pescecani più lunghi sono i rinodonti, dell’Oceano Indiano e del Pacifico. Arrivano ai venti metri di lunghezza; quasi come un piroscafo! Però sono anch’essi inoffensivi, perchè si cibano  di piccoli animali marini.

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Lazio: materiale didattico, dettati e letture

Lazio: materiale didattico, dettati e letture per bambini della scuola primaria.

Il lazio: cartina fisico-politica

I confini: Mar Tirreno, Campania, Abruzzo, Molise, Marche, Umbria, Toscana.
I golfi: golfo di Gaeta.
I promontori: Capo Circeo, Punta di Gaeta.
I monti: Appennino Centrale (Umbro-Marchigiano, Abruzzese), Sub-appennino (Monti Sabini, Simbruini, Ernici), Antiappennino (Volsini, Cimini, Sabatini, Colli Albani, Lepini, Ausoni, Aurunci)
Le cime più alte dell’Appennino Centrale: Terminillo (m 2.213), nei monti Reatini; Monte Viglio (m  2156); Monte Pizzodeta (m 2.037); La Mera (m 2.241).
Le cime più alte dell’Antiappennino: Monte Cimino (m 1.053), Monte Cavo (m 949), Monte Semprevisa (m 1.536), Monte Calvilli (m 1.102), Monte Petrella (m 1.533).
I valichi: Valico di Torrita (m 1.005).
Le pianure: Maremma, Campagna Romana, Agro Pontino.
I fiumi: Tevere, Liri-Garigliano con il suo affluente Sacco; affluenti di sinistra del Tevere: Nera con il suo affluente Velino; Aniene.
I laghi: Lago di Bolsena, Lago di Vico, Lago di Bracciano, Lago d’Albano, Lago di Nemi, Lago di Fondi.
Le isole: Ponziane (Ponza, Ventotene, Palmarola, Zannone, Scoglio Santo Stefano).

Osserviamo la cartina
Il Lazio, terra degli antichi Latini, è situato al centro dell’Italia e abbraccia un territorio assai vario per aspetto fisico. Esso comprende la zona montuosa dell’Appennino, con la vetta del Terminillo, i Monti Sabini e Sambruini, ai piedi dei quali si stendono le regioni della Sabina e della Ciociaria.
Nella parte settentrionale del Lazio, lungo il corso del Tevere, sorgono i monti Volsini, Cimini e Sabatini, mentre nella parte meridionale si elevano i Colli Laziali e, lungo la valle dei fiumi Sacco e Liri, i Monti Lepini, Ausoni e Aurunci.
La Campagna Romana è l’unica zona pianeggiante del Lazio e si stende lungo il Mar Tirreno.
Fanno parte del territorio del Lazio le Isole Ponziane.
Belli sono i caratteristici laghi vulcanici di Bolsena, di Vico e di Bracciano.

Province

Il Lazio è suddiviso in cinque province.
Roma,  capitale d’Italia dal 1871, è da secoli il centro del mondo cattolico e sede del Papato. La sua gloriosa storia è narrata in innumerevoli e superbe opere antiche, medioevali e moderne, che la rendono unica al mondo. Roma è anche città modernissima, con belle vie larghe e dense di traffico, grandi alberghi, magnifici palazzi. Importante nodo stradale e ferroviario, Roma è in comunicazione con tutto il mondo, grazie agli aeroporti di Ciampino e di Fiumicino, dove fanno scalo le principali linee aeree nazionali e internazionali.
Frosinone, il capoluogo della Ciociaria, è situata sull’alto di un colle, tra vigne e oliveti.
Latina, città modernissima, è provincia dal 1934. Sorge nella zona bonificata dell’Agro Pontino ed è centro agricolo e industriale.
Rieti, capoluogo della Sabina e cioè del bacino del fiume Velino, giace in una conca dominata dal Terminillo.
Viterbo, al centro della regione vulcanica, occupa la zona tra i laghi di Bolsena e di Vico.

Per il lavoro di ricerca

Quale origine ha il territorio del Lazio?
Non molto lontano da Rieti presso il confine con l’Umbria, sorge un monte noto agli sportivi per i suoi campi da sci: qual è?
La fascia costiera della regione comprende due ampie pianure: come si chiamano?
Come erano queste zone qualche decennio fa?
Come sono oggi?
Nel Lazio si aprono parecchi laghi: di che origine sono?
Quali sono i più importanti fiumi della regione?
Quali isole appartengono al Lazio?
Quali sono i più importanti prodotti agricoli della regione?
Che cos’è la Pietra di Roma?
Dove sorgono le più importanti industrie e quali sono?
Cos’è Cinecittà?
Frosinone, la Ciociaria, Rieti, Montefiascone legano i loro nomi a prodotti particolari. Quali?
Che cos’è la Ciociaria e perchè ha questo nome?
C’è un’altra voce molto importante nell’economia del Lazio: quale?
Alcune città laziali sono antichissime, altre invece molto recenti: dove e quando sono sorte queste ultime?
Quali sono le testimonianze, in Roma, della grandezza storica della città?
Quali sono le più famose fontane di Roma?
Che cos’è il Colosseo?
Dove sono state trovate tombe etrusche di grande importanza? Che cosa ricorda il nome Nemi?
Se tu volessi raggiungere il Lazio in aereo in quali aeroporti potresti atterrare?
E se vi arrivassi in macchina da Firenze o da Livorno, quali strade o autostrade dovresti percorrere?
Quale Stato indipendente è compreso nel territorio del Lazio?

Il Lazio

Ricco di foreste, di boscaglie, di pascoli, povero di prodotti del sottosuolo, il Lazio produce frumento, granoturco, barbabietola da zucchero, foraggi, olive e uve. Pregiatissimi i vini del Velletrano e dei Castelli romani. Florida la pastorizia; scendono alla campagna, dall’Umbria, gli armenti. Cavalli e bufali per la libera distesa, sorvegliati dai butteri.

Lazio: sguardo d’insieme

Quelli del Lazio sono soltanto confini politici; non delimitano, infatti, una regione fisica particolare. Il Lazio è costituito di elementi dissimili: monti di formazione ed aspetto del tutto diversi l’uno dall’altro, pianure di diversa origine, fiumi che percorrono la regione ed hanno altrove le sorgenti, fiumi che si alimentano ai piedi dei monti laziali e scorrono per lunghi tratti nelle regioni vicine.
I rilievi che occupano largamente il Lazio si presentano senza ordine, in gruppi, più o meno estesi e appartengono, nella maggior parte, al sistema dell’Antiappennino. L’Appennino si affaccia nel tratto nord-orientale della regione con le montagne reatine culminanti nella vetta del Terminillo (m 2213): si innalza con rilievi calcarei, massicci, con aspre vette, fianchi scoscesi, pareti precipiti; i Monti Simbruini ed i Monti della Meta sono le altre cerniere appenniniche che saldano il Lazio all’Abruzzo. Dal Nord al Sud, l’Antiappennino offre uno spettacolo grandioso di rilievi vulcanici; prima i tre gruppo dei Volsini, dei Cimini, dei Sabatini; poi, oltre la piana del Tevere, il gruppo dei colli Albani o Laziali. In tutto è visibile l’origine singolare, formati come sono dai crateri ormai sfaldati ed erosi, foggiati dall’esplosione vulcanica o dal getto dei materiali dell’esplosione stessa. Il verde che oggi riveste i morbidi dossi toglie ogni drammaticità al paesaggio e lo addolcisce; lo rende anche più suggestivo la presenza di numerosi laghi imbutiformi, venuti a colmare di acque azzurre le bocche degli antichi vulcani.
Nei Volsini è il grande lago di Bolsena (secondo solo al Trasimeno, nell’Italia peninsulare); nei Cimini è il lago di Vico, nei Sabatini il lago di Bracciano; ornano i colli Albani i laghi di Albano e di Nemi.
Più a sud si innalzano, distinti nettamente l’uno dall’altro, i gruppi montuosi dei Lepini, degli Ausoni e degli Aurunci, che non sono di origine vulcanica: essi hanno una struttura calcarea, appaiono poco elevati, ma di aspetto rude, ricchi di grotte e di doline, con pareti scoscese rivolte verso il Tirreno, sulla costa del quale si erge, a formare promontorio, il rilievo solitario del Monte Circeo.
Tutto intorno ai rilievi vulcanici si estendono bassi ripiani di materiale tenero, sui quali le acque hanno lavorato in profondità, scavando valli d’ogni misura e isolando sparsamente piccoli rilievi collinari simili a quelli che videro sorgere Roma.
Appennino, Antiappennino, valli e distese collinari occupano una parte notevole della regione; la pianura vera e propria si riduce, nel tratto settentrionale, ad una fascia costiera ricca di dune; si allarga nell’avvallamento creato dal Tevere, aperto ampiamente a destra ed a sinistra del suo delta (Agro Romano); torna a restringersi a ridosso dei colli Albani; si estende di nuovo in modo notevole nell’Agro Pontino, costituito in parte da un tavolato alluvionale, in parte da territori lievemente ondulati, emersi in antico dal mare. Agro Romano e Agro Pontino recano il ricordo di paludi e di malaria; dopo opere di bonifica, offrono ora una terra fertile alle coltivazioni. A questo punto, i monti Ausoni ed Aurunci spingono gli ultimi pendii fino al mare, spegnendo del tutto la pianura.
Nel mar Tirreno, al largo del promontorio del Circeo, è l’arcipelago delle Ponziane che, amministrativamente, appartengono al Lazio. Nella regione scorre, ma non vi nasce, il Tevere, il maggior fiume dell’Italia peninsulare (Km 405), il quale, dalle pendici del monte Fumaiolo (Appennino Tosco-Emiliano), attraversa l’Umbria e si avvia al Lazio in direzione longitudinale stretto com’è  fra i rilievi dell’Appennino e dell’Antiappennino che gli impediscono di rivolgersi al mare; soltanto dopo aver superato i monti Sabatini devia verso Roma e verso il Tirreno; scendono al Tevere, dai monti Reatini, il Velino, che confluisce nel Tevere in Umbria, e, dai monti Simbruini, l’Aniene; nel Lazio ancora scorre per un tratto il Liri, il quale riceve gli affluenti Sacco e Gari e, con nome di Garigliano, porta le sue acque nel Tirreno segnando, nel suo ultimo tratto, il confine fra il Lazio e la Campania.

Il Tevere nel Lazio

Dopo circa 240 km di percorso il Tevere entra nel Lazio, tocca Orte e riceve le copiose acque della Nera, il più generoso dei suoi affluenti, senza il cui apporto non sarebbe che un longo e disordinato torrente. Dice infatti un proverbio romano: “Il Tevere non sarebbe il Tevere, se la Nera non gli desse da bevere”.
Snodandosi poi in larghi meandri, scende solenne verso Roma, alle cui porte lo raggiunge l’Aniene o, meglio, il Teverone, come familiarmente lo chiamano i Romani.
Scivolando sotto i ponti più antichi del mondo, attraversa silenzioso l’Urbe descrivendo un’ampia curva e dividendosi in due rami per lambire l’Isola Tiberina dalla caratteristica forma allungata, congiunta alle sue sponde dai vetustissimi ponti Cestio e Fabricio. Raggiunte poi le moderne installazioni portuali di San Paolo, ove risalgono dal mare battelli e rimorchiatori di notevole mole, prosegue lento, tortuoso, giallastro, nell’austera solitudine dell’Agro Romano. In località Capo li Rami si biforca a formare l’Isola Sacra: il braccio destro, canalizzato, rettilineo, fiancheggiato da rigogliosi eucalipti, va al porto di Fiumicino; quello sinistro, detto Fiumara Grande, gira intorno all’isola, lambisce le rovine di Ostia Antica e infine si insala nel Tirreno, in un paesaggio di severe solennità. Si compie così, dopo 405 km, il viaggio del fiume nel cuore antico d’Italia.

Sorgono nuove città

Le Paludi Pontine, che si stendevano dal mare al margine delle montagne, erano un grandioso deserto paludoso e malarico, in cui pascolavano le greggi e le mandrie di bufali neri che non temono il fango.
Vi abitava un piccolo numero di pastori dispersi e vi passavano le compagnie dei cacciatori attratti dagli uccelli acquatici.
Nessuna parte dell’Italia era più primitiva di questa alle soglie di Roma stessa. Si dice che nemmeno ai tempi di Roma queste terre fossero fertili; e ad ogni modo nei secoli di decadenza la palude aveva inghiottito le opere dei primi monaci e i vari tentativi di sistemazione idraulica iniziati dai papi.
La bonifica è sempre stata dalla natura. Lasciati a se stessi, questi terreni piatti tornerebbero ad impaludarsi. Anche il relativo abbandono duranti gli anni della guerra fu sufficiente a far temere che la natura prendesse una triste rivincita. Il pericolo è adesso superato, la bonifica è salva.
I dati fondamentali della bonifica variano leggermente secondo le pubblicazioni. Si può dire in maniera approssimativa, che ottantamila ettari circa furono sistemati, cinquantamila dissodati e venticinquemila resi irrigabili; e circa un milione di metri quadrati coperto di fabbricati rurali. Sorsero, tra il 1932 e il 1939, Latina, Sabaudia, Pontinia, Aprilia e Pomezia.
Capoluogo e borgate, artificiali anche nei nomi dettati dal gusto del tempo, attecchirono però bene, ed infatti dal primo nucleo cominciarono a svilupparsi. Col loro aspetto di borgate rurali di diversa grandezza, che si propongono soltanto d’essere funzionali, sono oggi riuscite ad incorporarsi nell’ambiente.
Si ha perciò il caso, molto raro in Europa, ed imitato nell’Italia del Sud, di centri nati dal nulla e divenuti vitali in una ventina d’anni.
(G. Piovene)

Un paesaggio monotono

Un paesaggio che ha completamente cambiato la sua primitiva fisionomia è quello delle paludi pontine, o, come ora meglio si dice, dell’agro pontino. A percorrere la via Appia nel tratto che da Velletri porta a Terracina c’è da morir di noia. Non per nulla si chiama “la fettuccia di Latina”. E’ infatti un unico interminabile rettilineo. Ai due lati è il disegno geometrico di campi seminati per lo più a grano. Piantagioni a scacchiera di ulivi e di viti, interrotti qua e là da quei piccoli stagni tondeggianti che si chiamano “piscine”, nulla tolgono alla monotonia del paesaggio.
Siamo nel Lazio, ma potremmo essere nelle terre basse della pianura padano-veneta: gli stessi reticolati di canali e di fossi, gli stessi argini, le stesse lunghe vie, diritte, le stesse case rurali fatte in serie, di un bianco abbacinante nel sole estivo. Anche le città, in questo Lazio antico, greve di storia millenaria, sono qui nuove, come Latina, che è nata nel 1932, o Sabaudia (1934) o Pontinia (1935) o Aprilia (1937).
Nessuna attrattiva di paesaggio  dunque, per cui il viaggiatore è preso da noia e, se è un automobilista, deve lottare per vincere il sonno.

Un tratto di campagna romana

Oggi la vista è tutt’altra, e non ci non più gli splendori stupendi e maligni dei crepuscoli in palude. Il cacciatore non trova più le cospicue delizie di valle e di macchia, e nemmeno rischia più di affondare nei tradimenti del pantano. I primi canali, pigri e incerti, che nel tempo delle piogge confondevano le acque loro con quelle dilaganti, e in tempo di siccità stagnavano, non sono più spurgati e diserbati col primitivo sistema di spingerci dentro i branchi delle bufale.
Questo animale predilige acque morte e limo tiepido. Era uno spettacolo bello e selvaggio , quando i butteri, incassati nell’alta sella dalle staffe lunghe, spingevano col pungolo simile ad una lancia i bufali al canale, che vi scendevano dentro con gli zoccoli grevi e le corte gambe, che prima di vederle correre mai diresti così veloci, vi si affondavano fino al petto quadrato, fino al garrese possente.  Restavano a fior d’acqua le corna a forma di falce rovesciata, le fronti catafratte, gli occhi lenti e come smemorati; le froge, godevano e rifiatavano forte.
Sul fondo dei canali sono passate le benne delle macchine di scavo, le pale degli abili operai emiliani e lombardi, che hanno scavato e sistemato canali, fossi e scoli; poi, con le marre, sterrato, sarchiato, livellato con quella incredibile minuzia che esige l’acqua, la quale vuole essere invitata più che violentata, e indovinata non che studiata, e che occorre per la sistemazione a coltura dei terreni bonificati.
Idraulici ed agricoltori in una hanno perfezionato la rete di scolo e di irrigazione, ché la bonifica libera la terra dall’acqua per cadere nella siccità, e bisogna immettere acqua sana e tenere vivi i canali.
(R. Bacchelli)

Dalle barbabietole allo zucchero

Rieti vanta il più antico zuccherificio italiano, costruito nel 1872. Le bietole grigiastre appena raccolte vengono lavate e tagliate a listarelle, quindi introdotte in appositi recipienti cilindrici. Una corrente d’acqua calda immessa poi in questi cilindri asporta dalle bietole tutta la sostanza zuccherina. Si forma così un liquido giallognolo che viene depurato mediante complessi procedimenti e trasformato in un succo denso di colore scuro. Questo è poi filtrato attraverso sabbia e segatura di legno e infine fatto bollire ad una temperatura non superiore ai 60 gradi.
Durante questa operazione si formano i cristalli di zucchero, che si separano dallo sciroppo (la melassa) e che vengono quindi lavorati nelle raffinerie, dove assumono finalmente l’aspetto ben noto.

Le mozzarelle

Frosinone e la Ciociaria sono un po’ la patria della mozzarella, quei delicati formaggi freschi e bianchi, che si sciolgono in bocca come un burro. Per fabbricare le vere mozzarelle occorrono innanzitutto le bufale, cioè le femmine di una specie bovina asiatica, importata in Italia durante il medioevo ed allevata nel Meridione. Il latte delle bufale viene fatto cagliare lentamente in ambiente tiepido. La cagliata diviene così plastica, tanto da poter filare senza rompersi. Dopo alcune ore questa pasta bianca viene estratta dal siero (liquido lattiginoso che si separa dalla sostanza cagliata) e manipolata in acqua calda, finchè i pezzi si incollano, sovrapponendosi: provate ad affettare una mozzarella, vi accorgerete che è composta da diversi strati. Infine, le mozzarelle vengono modellate su forme apposite e poste a consolidare in acqua fredda; quindi, impacchettate nel loro siero, sono pronte per essere spedite e consumate ovunque.

La pietra di Roma: il travertino

Il travertino fece la sua comparsa a Roma solo nel II secolo avanti Cristo; fino ad allora il materiale che più si usava era il lapis albanus, cioè la pietra di Albano, pietra-tufo di origine vulcanica dai brillanti bianchi cristalli d’un minerale chiamato leucite (parola greca che vuol dire “bianco”) ben visibile lungo il lastricato del Foro Romano, ecc.
La sua fortuna il travertino la dovette soprattutto al fatto che Roma distava pochi chilometri dai giacimenti più importanti, quelli di Tivoli, da cui il nostro travertino. Le località più tipiche e storicamente più importanti per l’estrazione del travertino sono situate nella pianura percorsa dal fiume Aniene alle falde dei monti di Tivoli, per esempio alle Acque Albule, così chiamate perchè bianche di calce, presso un fiumicello dalle acque solforose e solforiche dall’odore penetrante. In questa piana i Romani scavarono una gran valle, larga ben 2500 metri, ottenendo così oltre mezzo milione di metri cubi di travertino. Del resto basta pensare alle proporzioni del Colosseo e dei vari teatri dell’antica Roma, tutti in travertino, per farsi un’idea dell’enorme quantità di materiale che i Romani asportarono da questa terra.
L’uso del travertino si andò diffondendo; e altre cave furono aperte in Toscana, in Umbria, nella Campania. Da Orvieto giù giù fino a Salerno il travertino ebbe presto il sopravvento su tutti gli altri materiali da costruzione e da rivestimento anche se di qualità meno bella della vera “Pietra di Tivoli”.
I più importanti giacimenti di travertino oggi “coltivati” (come si dice in gergo minerario) si trovano nel Lazio, e non solo a Tivoli ma anche a Viterbo, a Cerveteri, a Subiaco, per dire solo le località più tipiche. Ma se ne estrae anche dalla terra perugina e ascolitana; e in Toscana vi sono altre buone località: Montecatini, Bagni di Lucca, Rapolano, Magliano, Massa Marittima. Il travertino è un calcare (cioè carbonato di calcio) che venne abbandonato dalle acque calcarifere le quali erano divenute tali perchè avevano sciolto da altre parti più a monte il calcare delle rocce. Spesso il travertino contiene foglie e rami di piante che vennero lentamente ricoperte dalle acque calcarifere e che perciò vennero inglobate nel calcare abbandonato dalle acque.
Roma è la città più d’ogni altra ricca di monumenti che testimoniano delle qualità espressive del travertino: il colonnato di San Pietro, opera del Bernini; il pavimento della Piazza del Campidoglio; la Fontana di Trevi; e tanti altri palazzi e monumenti posteriori al periodo imperiale romano.
La richiesta del travertino continua tuttora. Le cave, le diverse cave disseminate in Italia, gettano senza sosta sul mercato questa così bella pietra, docile alla lavorazione e resistente quando il clima non sia troppo umido o gelido. Infatti l’umidità determina spesso un annerimento della superficie, e il gelo, penetrando l’umidità nei forellini della pietra, determina un rapido logorio. Nonostante questo, anche a Milano il travertino è molto in uso.
(G. Nangeroni)

Lo sai?

Secondo la tradizione Roma fu fondata da Romolo il 21 aprile del 753 aC. Ebbe sette re, ultimo dei quali Tarquinio il Superbo, venne cacciato. Durante il periodo repubblicano estese le sue conquiste e consolidò la sua potenza vincendo tra gli altri Volsci, Equi, Etruschi, Campani, Tarantini, e abbattendo con tre lunghe guerre la fortissima Cartagine.
Con Ottaviano Augusto divenne una splendida città e la capitale di un vastissimo impero che non ebbe eguali nell’antichità.
Nel I secolo vi si formò la prima comunità cristiana, che ebbe in breve numerosissimi seguaci e fu sottoposta a feroci persecuzioni.
Alla fine del IV secolo l’Impero Romano d’Occidente cessò di esistere e Roma perdette definitivamente la sua potenza militare, ma acquistò col succedersi dei Papi sempre maggior importanza come capitale del mondo cristiano e centro culturale.
Nella notte di Natale dell’anno 800, in San Pietro, papa Leone III incoronò Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero.
Nel 1527 la città venne ferocemente saccheggiata dai Lanzichenecchi, soldati mercenari tedeschi.
Il 9 febbraio 1849 fu proclamata la Repubblica Romana, di cui Giuseppe Mazzini fu l’animatore. Essa venne abbattuta, il 2 luglio dello stesso anno, dai Francesi, nonostante la resistenza opposta dai suoi eroici difensori.
Il 20 settembre 1870, truppe italiane al comando del generale Raffaele Cadorna entrarono nella città attraverso la breccia delle mura di Porta Pia e la occuparono. Pio IX si ritirò in Vaticano considerandosi prigioniero del Governo Italiano.
L’anno dopo, il primo luglio 1871, Roma fu proclamata capitale d’Italia.
L’11 febbraio 1929 si pose termine al dissidio tra il Governo Italiano e la Santa Sede con la firma dei Patti del Laterano.
Roma ha dato i natali a molti illustri personaggi, tra cui Caio Giulio Cesare, Cesare Ottaviano Augusto, Severino Boezio, Gregorio Magno, Pietro Metastasio, Gioachino Belli, Trilussa, Enrico Fermi.

Impressioni di Roma

Non sono pochi ad affermare che Roma è la più bella città del mondo. Qui la natura, la storia, la religione e l’arte si alternano e si completano nel dar vita a visioni stupende e nel ricreare suggestioni e commozioni intense. I secoli più remoti e più recenti rivivono nella pietra, nel marmo, nel cotto dei monumenti, in un accostamento che non appare mai come frutto del caso, ma che sembra il volto di un perenne presente su quello sfondo di pini bruni che fanno più risplendente e più profondo il cielo.
Ma che cosa rimane nella memoria di tutto quel continuo succedersi di contemplazioni, di stupori, di emozioni, mentre si procede di via in via, di piazza in piazza, di basilica in basilica, di colle in colle? Prima di tutto il ricordo del solenne, dell’austero, del maestoso, dello spazio che circolano per l’aria fra i ruderi, fra le colonne, nelle navate, sotto le cupole, fra i palazzi, nelle vaste strade, nelle piazze enormi. Poi San Pietro, il Colosseo, le fontane, le innumerevoli fontane che si succedono con fantasia inesauribile; e indimenticabili visioni di Roma eterna come si possono ammirare dai colli famosi.

Roma, città isolata

Per tanti secoli Roma fu come un’oasi in un deserto. Chi usciva di città passava attraverso una stretta cintura di orti e di vigne, poi si trovava all’improvviso in una landa sconfinata, lievemente ondulata. Bella e suggestiva, non c’è dubbio! Qualche capanna conica di pastore interrompeva la linea uniforme dell’orizzonte, che un gruppo di bufale nere, o la pennellata chiara di un gregge non bastavano ad animare. Era il regno della malaria e del latifondo.

I monumenti di Roma

Non è certo il caso di farne qui un elenco completo: i monumenti di Roma sono veramente innumerevoli, di tutte le epoche della sua storia meravigliosa.
I più importanti e caratteristici sono il Colosseo o Anfiteatro Flavio, il più grandioso di tutti, e le Terme di Caracalla, nella cui cornice si svolgono d’estate rappresentazioni liriche all’aperto. E accanto ad essi, per limitarci solo ai più insigni e ai meglio conservati, gli archi di Costantino, di Tito e di Settimo Severo; la basilica di Massenzio o di Costantino, (le basiliche dell’antica Roma, badate, non erano affatto chiese) ove tuttora si svolgono d’estate grandi concerti orchestrali, e tutto il superbo complesso del Foro Romano e del Palatino (il colle, questo, sul quale nacque la prima “Roma quadrata”), il Foro Traiano, il più insigne dei fori imperiali, con la Colonna Traiana e i vicini Mercati Traianei; il Pantheon (costruito da Agrippa genero di Augusto e rifatto da Adriano), tempio romano e poi chiesa cristiana; l’Ara Pacis Augustae (Altare della pace augusteo) eretta fra il 13 e il 9 aC a ricordo della pace ridata da Augusto all’impero, poi andata in frantumi e ricomposta nel 1938; il Mausoleo di Augusto e quello di Adriano (Castel Sant’Angelo), entrambi adibiti nel medioevo a fortezze; la statua in bronzo di Marco Aurelio sul Campidoglio, modello di tutte le statue equestri del Rinascimento, e la Colonna istoriata eretta in onore dello stesso imperatore, in Piazza Colonna, centro dell’Urbe; i resti colossali delle Terme di Diocleziano entro cui sorgono ora la Chiesa di Santa Maria degli Angeli costruita da Michelangelo e il Museo Nazionale Romano; i dodici obelischi egiziani elevati su altrettante piazze; la tomba di Cecila Metella e gli altri resti monumentali della via Appia Antica; e infine i grandiosi Scavi di Ostia Antica e le più modeste rovine dell’antica Veio.
La Roma cristiana ci si presenta innanzitutto con le Catacombe (principali quelle di San Callisto, del II secolo); poi con un gran numero di chiese insigni per età, pregi artistici e importanza religiosa, tra le quali emergono le quattro basiliche patriarcali di San Pietro in Vaticano, San Giovanni in Luterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo Fuori le Mura.
E che dire dei palazzi dai nomi notissimi (il Quirinale, sede del Presidente della Repubblica; i palazzi Madama e di Montecitorio sedi rispettivamente delle due Camere, il Palazzo Senatorio sede del Municipio e gli adiacenti palazzi del Museo Capitolino  e del Conservatorio, i palazzi Venezia, della Cancelleria, Farnese, il barocco Palazzo Barberini e cento altri), e delle fontane monumentali (chi non ha sentito nominare la settecentesca fontana di Trevi, la più monumentale di tutte?), e delle piazze imponenti (la michelangiolesca Piazza del Campidoglio, la bella Piazza del Quirinale dominale dalla fontana con i Dioscuri, la settecentesca piazza Navona sorta sull’area dello stadio di Domiziano, la suggestiva Piazza di Spagna con la celebre scalinata della Trinità dei Monti, l’immensa Piazza del Popolo, e via dicendo); delle vie (dall’ampia maestosa via dei Fori Imperiali all’elegantissima via Vittorio Veneto, che i romani continuano, come un tempo, a chiamare via Veneto, alla Passeggiata del Gianicolo); dei giardini e dei parchi (il Pincio, villa Borghese col giardino zoologico più importante d’Italia, il Parco di Porta Capena, ecc.)?
Che dire dei musei e delle gallerie d’arte antica e moderna? Né mancano opere grandiose e comunque degne di nota anche tra quelle più recenti.
(A. Basso)

Le quattrocento chiese di Roma

Una città sotterranea è stata la prima città della fede cristiana. Nella terra stessa dove erano le fondamenta di Roma, i primi cristiani hanno scavato le loro catacombe, i loro luoghi di ricovero e di raduno, le loro primissime chiese.
E un labirinto sottoterra, sempre più profondo, per il quale giri al lume delle candele per chilometri e chilometri. Di San Pietro sai già che è la prima chiesa del mondo. E’ sorta sul luogo dove morivano i martiri; e, accanto, sul Colle Vaticano, ha il suo piccolo libero Stato dai meravigliosi palazzi, il Papa.
Ma quante altre chiese ha Roma? Quattrocento. E fra queste la più antica, la madre delle basiliche, quella dedicata a San Giovanni, sorta sui terreni che l’imperatore Costantino donò ai Papi.

Le fontane di Roma

Roma è la regina delle acque. Per le vene di Roma scorre l’Acqua Vergine, l’Acqua Felice, l’Acqua Marcia, l’Acqua Paola: acque freschissime, pure e maestose. Nelle piazze e nei giardini si sono innalzate le più mirabili fontane, che parlano perpetuamente il loro linguaggio di gorgoglii, chioccolii, scrosci delle cascatelle, degli steli bianchi, degli sprilli altissimi, de getti violenti. Le fontane di Roma!
In Piazza Navona ce ne sono tre. E la barcaccia di Piazza di Spagna? Essa è posta davanti alla scalinata per cui si sale alla Trinità dei Monti, il punto più soavemente bello di Roma. E la fontana di Trevi? E’ un capolavoro; tra i più capricciosi e svariati giochi d’acqua, emergono cavalli marini e tritoni, irrigati da rivoletti freschi, che danno apparenza di essere vivi.
(G. Borsi)

Curiosità

Intorno alla Colonna Traiana si possono ammirare numerosissimi fregi che si snodano a spirale per tutta l’altezza della colonna: in essi sono rievocati gli episodi più significativi delle guerre compiute nella Dacia dall’Imperatore Traiano, nel periodo che va dal 101 al 106 dopo Cristo.
Sulla sommità della colonna troneggia una statua di San Pietro alla quale si può giungere per mezzo di una scala a chiocciola posta nell’interno della colonna stessa.

Il colosseo

Il Colosseo, il più importante degli edifici della Roma Imperiale, così denominato per le proporzioni gigantesche e per la vicinanza della statua colossale di Nerone, sorse nella bassa valle dell’Esquilino, del Palatino e del Celio, forse nel luogo stesso si apriva come un lago lo stagnum del sontuoso palazzo imperiale di Nerone. Esso ha resistito ad incendi, a terremoti, al logorio dei secoli ed è pertanto interessante ricordare la profezia del monaco inglese Beda: “Finchè starà il Colosseo starà Roma; ma quando Roma cadrà finirà anche il mondo”.
Iniziatane la costruzione da Vespasiano che la condusse fino al secondo ordine, venne compiuto da Tito nell’80 dC, e rifinito da Domiziano. Per gli speciali accorgimenti usati nella costruzione, tali da permettere in pochi anni l’elevazione di così immensa mole, il Colosseo costituisce uno dei grandi ardimenti dell’ingegneria romana.
La costruzione è alta come un palazzo odierno di dodici piani ed è formata da tre file sovrapposte di ottanta archi di travertino, sormontate da un quarto ordine a muro continuo, oggi quasi del tutto scomparso. Corrispondevano, all’interno un’immensa cavea, tre ordini di sedili, divisi da due recinti, e, in alto, un ultimo ordine, riservato forse alla classe più povera di spettatori.
Il Colosseo costituisce una delle più evidenti testimonianze della capacità costruttiva degli antichi Romani. Le perfette realizzazioni tecniche ancora oggi stupiscono. Esse consentivano, ad esempio, di allargare la platea per lo svolgimento delle battaglie navali (naumachie); di tendere un enorme velario per riparare dal sole gli spettatori, di disporre di ben trentadue ascensori per sollevare le belve dal sotterraneo fino al livello del suolo e di innalzare, tutto intorno all’arena, una robusta cancellata, assicurata a grosse travi, durante le cacce alle bestie feroci.
A cavea gremita si calcola che l’edificio potesse contenere cinquantamila spettatori.

Dettati e materiale didattico sulle piante

Dettati e materiale didattico sulle piante per bambini della scuola primaria.

Il soffione

Se noi soffiamo sul palloncino del soffione che cresce nei prati, ai margini delle strade o tra le pietre, lo vediamo scomporsi in tanti piccoli elementi, i quali se ne vanno lontani, veloci e leggeri. Prendiamo uno di quegli elementi. E’ formato da un corpicino sul quale è impiantato un filamento terminante in una raggiera di peluzzi.
Possiamo paragonarli all’ombrello del paracadute, e il fruttino ovale al passeggero. Il vento lo afferra, lo trascina in alto, lo sospinge in basso e va a capitare, proprio come era il desiderio della pianta madre, in un luogo umido dove può svilupparsi a meraviglia.
(G. Scortecci)

Per il lavoro di ricerca

Come è fatto un fiore?
A che cosa servono gli ovuli e i granelli di polline?
Che cos’è l’impollinazione?
Come avviene e per mezzo di chi?
Come si forma il frutto?
Quali frutti conosci?
Quali sono i frutti carnosi e quali i frutti secchi?

A che cosa servono gli ovuli e i granelli di polline?

Gli ovuli sono gli organi destinati a trasformarsi in semi. Perchè questa trasformazione avvenga occorre, però, che gli ovuli si incontrino con un granello di polline.
Il polline viene prodotto dalle antere. Esso dovrà perciò essere trasportato fin sulla punta del pistillo: da qui potrà scendere fin nell’ovario dove incontrerà gli ovuli. Allora si formeranno i semi, ed il fiore avrà adempiuto il suo compito; infatti a questo punto il fiore appassisce e cade.
Bisogna ricordare una importante legge che regola l’impollinazione dei fiori: in genere il fiore, perchè dai suoi semi possa nascere una pianta sana e vigorosa, deve essere fecondato con polline prodotto da un altro fiore.
Ma chi provvede a portare il polline dall’uno all’altro fiore?
Ogni famiglia di piante ha scelto un suo modo per provvedere a questo trasporto: c’è chi si serve del vento, chi dell’acqua e chi dell’opera di diversi animaletti, generalmente insetti, ma in qualche caso anche uccelli e molluschi.

L’impollinazione

Tutte le piante superiori si riproducono per mezzo di semi, i quali si sviluppano dal fiore solo quando questo viene fecondato. Voi sapete già come è fatto un fiore e quali sono i suoi organi principali. Conoscete quindi gli stami e le antere, che producono il polline, la minuta polverina gialla che rimane attaccata alle dita quando tocchiamo l’interno di un fiore maturo.

Quei minuscoli granuli gialli, prodotti in tanta abbondanza dai fiori, sono uno dei più preziosi elementi esistenti in natura, poichè racchiudono il segreto della vita delle piante. Sono proprio i granuli di polline che provocano la fecondazione degli ovuli, una volta giunti sul pistillo che sovrasta l’ovario.

Se esaminate il polline al microscopio noterete che i granuli hanno forme diverse, che variano da pianta a pianta. Ce ne sono di ovali, di cilindrici, di rotondi. Alcuni terminano con delle piccole punte, altri sono leggermente uncinati, altri ancora sono a forma di mezzaluna. Se provengono da piante che si fanno impollinare dal vento, sono più piccoli ed hanno forme più appiattite, per poter volare più facilmente. Se invece sono destinati ad essere trasportati lontano dagli insetti, sono di maggiori dimensioni e risultano appiccicosi.

Se un granulo di polline raggiunge il pistillo, l’ovulo viene fecondato. Ma raramente succede che il polline prodotto da un fiore vada a fecondare l’ovario dello stesso fiore.

Le piante fanno di tutto per ottenere che il polline arrivi al pistillo di un altro fiore o da un’altra pianta. Ciò permette la produzione di frutti e di semi migliori, più adatti alla germinazione; questo processo si chiama fecondazione incrociata e la sua estrema utilità fu dimostrata da Darwin già nel 1859.

Per questo motivo vi sono fiori nei quali il polline matura quando ancora il pistillo non è completamente sviluppato, e altri in cui si verifica il caso inverso. Vi sono poi fiori il cui pistillo si sviluppa molto in altezza, al di sopra delle antere, sempre per impedire che il polline sottostante possa raggiungere l’apertura (stigma). Altre piante infine producono fiori con solo stami che danno il polline (fiori maschili) e fiori col solo pistillo terminante nell’ovario (fiori femminili). Di questo gruppo sono le piante che si fanno impollinare dal vento, come le conifere. Esse non producono fiori con corolle vistose, perchè non devono attirare gli insetti. Producono invece quantità incredibile di polline, perchè dei milioni e milioni di granelli che volano nell’aria solo qualcuno giunge sul fiore adatto.

Alcune piante affidano il polline al vento, altre si servono dell’acqua, altre ancora si impollinano da sole, ma nella maggior parte questa importantissima operazione viene affidata agli animali, e in particolare agli insetti. Per essi le piante producono fiori profumati, fiori provvisti di dolce nettare, fiori dai petali vistosamente colorati.
La stessa forma delle corolle ha il preciso scopo di lasciar passare l’insetto adatto all’impollinazione e di impedire chi si entrino altri animaletti meno graditi. Basta osservare ciò che avviene in un fiore di salvia, per restare stupiti dal meraviglioso meccanismo posto in atto per favorire l’impollinazione incrociata.

Quando un’ape, attirata dal profumo o dal nettare, si appoggia sul petalo più basso per entrare nel fiore, preme su una speciale levetta che fa abbassare lo stame. Questo, che è già incurvato dal peso dell’antera matura, va a toccare il dorso peloso dell’insetto e lo cosparge di polline. L’ape poi vola su un altro fiore e l’operazione si ripete. Ma la salvia è una di quelle piante che fanno maturare prima le antere e poi il pistillo. Così quando l’insetto giunge su un fiore con le antere avvizzite vi trova un pistillo maturo, che incurvandosi con lo stesso meccanismo va a raccogliere il polline di altri fiori sul dorso dell’ape, fecondandosi.

I frutti

Quando il polline, al momento della fioritura, viene portato sulla stimma per opera, o degli insetti, o del vento, o di altri agenti, si ha la fecondazione degli ovuli. Avvenuta questa, gli ovuli  si trasformano in semi mentre le parti dell’ovario si gonfiano, si fanno carnose, tonde, colorite, oppure, a seconda dei casi, solide, fibrose: sta formandosi il frutto. Per noi i frutti sono il piacevole completamento dei pasti, ma per la pianta rappresentano un momento importantissimo e delicato della sua vita. Il frutto protegge il seme e serve a disseminarlo nel terreno.
Per il botanico i frutti si dividono in due categorie: carnosi e secchi. I primi sono pieni di polpa carnosa, turgida, ricca di succo e ci richiamano subito alla mente le ciliegie, le pesche, le mele, le pere.
I frutti secchi non hanno una parete così succosa come i loro parenti carnosi. Ne esistono molte varietà di cui le principali sono: la noce, il legume, la cariosside. Oltre a i veri frutti, esistono anche i falsi frutti alla cui formazione concorrono, oltre all’ovario, altre parti del fiore.
Per esempio il vero frutto della fragola è formato da quei granellini neri che ne costellano la polpa e che vengono generalmente ritenuti semi. Altri falsi frutti sono il fico e il pomo.

I fuoriclasse della botanica

Ecco alcuni semi, fiori, frutti, piante ed alberi che sono veri e propri campioni mondiali di  qualche specialità che ti indicherò.
Il seme più grosso: cocco.
Il fiore più grande: bolo.
Il frutto più voluminoso: turien.
L’albero più alto: sequoia.
L’albero più grosso: baobab.
Il legno più leggero: balsa.
Il legno più pregiato: ebano.
La pianta più delicata: sensitiva.
La pianta più ricca di olio: sesamo.
La pianta che piange di più: vite.
L’albero europeo più longevo: tiglio.

Le sequoie

Le sequoie sono famose per le dimensioni gigantesche e per la longevità. Gli esemplari più alti e più vecchi hanno addirittura un nome proprio e sono severamente protetti. Vi sono due specie di sequoie: la gigante e la sempreverde (ma anche la prima conserva le foglie verdi d’inverno). Attualmente la sequoia gigante di maggiori dimensioni è la General Sherman, che ha quasi 4.000 anni ed è altra 88 metri. Il suo diametro alla base è di circa nove metri. Le sequoie sempreverdi sono meno longeve, ma raggiungono le altezze maggiori. La Founder’s Tree, che si trova in California, è alta ben 110 metri. Il suo tronco però è meno massiccio ed ha alla base un diametro di quattro metri e mezzo.  Il principale carattere che distingue le due specie è dato dalla forma e dalla disposizione delle foglie Nella sequoia sempreverde sono lineari e coriacee, lunghe un centimetro, lisce e aghiformi, con l’estremità appuntita; nella sequoia gigante sono molto più piccole, a forma d brattee appuntite, e disposte sui rametti come tante embrici. Entrambe le specie producono pigne, più semplici e piccole nella sequoia sempreverde. I tronchi hanno corteccia rossastra molto screpolata e legno leggero e resistente, rossiccio, poco pregiato.

Le piante che danno le spezie

Queste piante devono la loro speciale natura ad oli essenziali che esse contengono, e mentre di alcune mangiamo il frutto, come il pepe comune, la noce moscata e la vaniglia, di altre, quali il cinnamomo e la cassia, usiamo la corteccia e, nel caso dello zenzero, la radice.
La spezia più usata è il pepe, del quale si riconoscono diverse varietà. Quella più comune, conosciuta in commercio come pepe nero, è la bacca macinata di una pianta che cresce in India e che viene coltivata anche in altri paesi, compresi Giava e Sumatra.
Si tratta di una pianta rampicante o strisciante, una liana, con lo stelo di colore scuro, i cui rami, che si curvano verso terra, portano spighe di fiori verdi, dai quali si formano poi bacche d’un rosso chiaro, della grossezza di un pisello. Queste bacche, una volta seccate, costituiscono il pepe in grani del commercio. Una buona pianta di pepe produce da due a tre chilogrammi di frutti.
Nelle piantagioni, il pepe è sempre sostenuto da pali o da alberi piantati appositamente. Anzi, questi ultimi sono preferiti perchè la pianta prospera meglio dove può godere un po’ d’ombra. Le bacche vengono raccolte quando il loro colore si tramuta dal verde al rosso, periodo nel quale sono più piccanti, e vengono poi stese su stuoie, a seccare al sole. Seccando, diventano nere e grinzose, ed in questo stato sono dette pepe nero.

Palma da cocco

La palma da cocco è definita “il re dei vegetali” per la quantità di prodotti che da essa si ricavano. E’ un bell’albero dal fusto  robusto, alto fino a trenta metri e terminante con un bel ciuffo di foglie pennate, ciascuna delle quali è lunga da quattro a cinque metri. All’ascella delle foglie si sviluppano i fiori maschili e femminili, raggruppati in piccole inflorescenze. I frutti che ne derivano sono le ben note drupe ovali, pesanti fino a due chili. Sull’albero però le noci di cocco non hanno l’aspetto bruno scuro che conoscete.  Esse sono rivestite da uno spesso strato fibroso, di colore verde, che viene asportato prima di mettere il frutto in commercio. Con quelle fibre si fabbricano stuoie e cordami. Una palma più produrre anche una decina di mazzi di noci, ciascuno composto di dieci o dodici frutti. Sotto il bruno strato legnoso, che viene a volte utilizzato per fare bottoni, la noce di cocco presenta il seme, cioè quella polpa bianca mangereccia, ricca di zuccheri grassi e proteine, che viene venduta a spicchi anche da noi. Questa polpa, disseccata, rappresenta la copra da cui si ricava l’olio di cocco, usato per la fabbricazione di cosmetici, profumi, margarina e saponi. Con i residui opportunamente triturati si ottiene un buon foraggio.

Il segreto degli alberi

Il mondo è davvero meraviglioso in tutti i suoi esseri e in tutti i suoi aspetti particolari. Prendiamo, ad esempio, gli alberi: che cosa c’è di apparentemente più semplice? Ma proviamo ad osservare e a studiare come si nutre la pianta, come respira e traspira, quali delicate e vitali funzioni assolvono le radici e le foglie. Ci troveremo davanti a segreti meravigliosi, che ci lasceranno stupiti e incantati. E’ appunto ciò che capita a Mario, il protagonista di questo racconto. Durante una passeggiata in montagna, conversando col suo papà, il bambino viene a conoscenza dei più delicati segreti degli alberi, fa perfino conoscenza con una fatina che ha nome Clorofilla. Volete conoscerla anche voi?

A mezza costa i prati cessavano, limitati da una siepe spinosa, e aveva inizio il bosco. Un bosco fitto, folto, ombroso, tutto tremolante d’occhi di sole, in una penombra azzurrina dove gli insetti ronzavano infaticabile nel misterioso silenzio del mattino.
“Com’è fresca l’aria sotto gli alberi!”, esclamò Mario respirando a pieni polmoni, appena il sentiero si fu inoltrato nel mezzo del bosco.
Il babbo si fermò, prese il fazzoletto e si asciugò il sudore sulla fronte.
“Si sta bene qui sotto”, disse. “L’aria è fresca, ma è anche pura, frizzante, sottile: sembra di sentire l’ossigeno sotto il naso…”, e respirò a sua volta a pieni polmoni.
“Sapresti dirmi”, riprese il babbo, “perchè l’ombra, sotto gli alberi, è così fresca?”
“Perchè le foglie riparano dal sole”, rispose Mario. Ma il babbo scosse la testa.
“Questo è vero solo in parte. Anche una tenda può riparare dai raggi del sole, e forse meglio delle foglie che, come vedi, lasciano giungere degli spiragli luminosi fin sul sentiero. Eppure sotto una tenda l’aria diventerà presto asciutta e calda. Mentre nel bosco questo non succede mai. Ci deve essere un’altra ragione…”
Mario rimase pensieroso. Non sapeva che dire. E certo, anche molti di voi non avrebbero saputo che cosa rispondere. Allora il babbo riprese a parlare.
“Non hai mai sentito dire che gli alberi respirano, proprio come gli uomini? Guarda questa foglia. A occhio nudo non si vede che ha una superficie ruvida, percorsa da sottili nervature. Ma osservata al microscopio essa è tutta punteggiata di minuscole boccucce, dette stomi. L’apertura di queste boccucce è sottilissima, di 0,00005 millimetri, in modo che non vi entrano né polvere né liquidi; solo i gas possono passare, ed entrano ed escono secondo un ordine meraviglioso”.
“Ma a che servono queste boccucce, se sono così piccole?”
“A che servono? Intanto, devi sapere che, se queste boccucce sono piccole, sono però numerosissime. Pensa che, per ogni millimetro quadrato ce ne sono in media 200, e che una quercia, tutto sommato, ne ha parecchi miliardi. E ora vediamo un po’ a che cosa servono. Ma permettimi prima una domanda: come si nutrono le piante?”
“Attraverso le radici!” rispose Mario, che l’aveva sentito tante volte.
Il babbo rimase un istante in silenzio, poi riprese: “In un certo modo sì, ma non è del tutto esatto. Vedi, le radici assorbono dal terreno sostanza minerali inorganiche e cioè alcuni sali che si trovano disciolti nell’acqua che imbeve la terra. Le radici li assorbono e li spingono su su lungo il tronco. Ma questi sali non sono ancora un cibo pronto per essere assimilato dalla pianta. Sono ancora, come dicono gli studiosi, linfa grezza. Questa linfa grezza deve subire una trasformazione che la muti da sostanza inorganica in sostanza organica. E’ a questo punto che entrano in funzione le foglie e quella specie di fatina verde che si chiama Clorofilla. Questa fatina, che non  è altro che una sostanza speciale, ha la proprietà di saper prendere l’anidride carbonica che è nell’atmosfera e che attraverso gli stomi, quelle famose boccucce, è entrata nella foglia. Sotto l’azione della luce, la clorofilla scinde l’anidride carbonica nei suoi elementi: carbonio e ossigeno. Trattiene il carbonio e manda fuori l’ossigeno, sempre attraverso quelle famose boccucce…”
“Ecco perchè l’aria è limpida e pura sotto gli alberi! I nostri polmoni hanno bisogno di ossigeno e queste boccucce delle foglie ce lo restituiscono puro e semplice”.
“E perchè?”
“Ricordi quella linfa grezza che, assorbita dal terreno, sta salendo lungo il fusto? E’ composta di sostanze inorganiche. Ora questa magica trasformazione avviene proprio con l’intervento del carbonio che, combinandosi con le materie prime portate su dalla linfa, le muta in amidi e in zuccheri che scorrono poi in tutta la pianta, dal più alto ramo giù giù fino alle radici, nutrendo tutte le cellule. Ora capisci perchè non è esatto dire che la pianta si nutre attraverso le radici. Le radici offrono il materiale alla nutrizione, la linfa grezza; ma è nelle foglie che la linfa grezza si trasforma in cibo, in amidi e in zuccheri… Le foglie sono dei veri e propri laboratori chimici. Con l’intervento della clorofilla, sotto l’azione della luce, scompongono l’anidride carbonica in ossigeno e carbonio. Rigettano l’ossigeno e trattengono il carbonio. E col carbonio, attraverso una serie di reazioni chimiche, trasformano i sali minerali assorbiti dalle radici in sostanze organiche, ne fanno un cibo perfetto, pronto a entrare in circolazione attraverso tutto l’albero. Questa trasformazione, che avviene nelle foglie, si chiama fotosintesi clorofilliana…”.
Mario era rimasto a bocca aperta e ora guardava le foglie con sguardo quasi religioso.
“E’ davvero una meraviglia…”, disse sottovoce.
“E ora”, riprese il babbo, “se ti domandassi perchè l’aria è così fresca e così pura sotto gli alberi, che cosa mi risponderesti?”
“Risponderei che tutti dipende dal fatto che la foglia assorbe l’anidride carbonica, la scompone, trattiene il carbonio e manda fuori l’ossigeno…”
“Giusto, ma questo spiega soltanto perchè l’aria sia pura… Non spiega ancora perchè è sempre così fresca e umida. Guarda questo muschio, è tutto bagnato, umido di rugiada… Perchè? Nella fotosintesi clorofilliana, non tutta l’acqua che trasporta su, verso le foglie, le sostanze minerali assorbite dal terreno, viene utilizzata. L’acqua superflua viene eliminata attraverso gli stomi, assieme all’ossigeno che la pianta non utilizza. E quelle famose boccucce la cacciano fuori sotto forma di vapore acqueo. Pensa che una quercia media, nei cinque mesi a cavallo tra la primavera e l’estate, traspira ben centoundici tonnellate d’acqua… Le pompa su dalle radici, se ne serve, e poi la getta fuori, come facciamo noi quando sudiamo, in un continuo ricambio”.
“Allora anche le piante, oltre a nutrirsi e a respirare, sudano…”
“Proprio così; e questo fenomeno, che si chiama traspirazione, rende l’aria attorno sempre fresca, sempre umida… Ma tu hai detto una cosa a cui io ho accennato solo di sfuggita. Hai detto che le piante respirano. Ma quando? Come?”
“Quando assimilano il carbonio e mandano fuori l’ossigeno”.
“E questo quando avviene?”.
“Di giorno”.
“E perchè proprio di giorno? Non potrebbe avvenire anche di notte?”.
“No”, rispose Mario dopo un attimo di perplessità. “Non può avvenire, perchè la clorofilla, per scindere l’anidride carbonica in carbonio e in ossigeno, ha bisogno della luce. L’hai detto tu. E di notte la luce non c’è”.
Il babbo lo guardò sorridendo. Era contento. Mario aveva proprio ragione. Ma c’erano molte cose da precisare e il babbo riprese con calma: “Vedi, quella che tu chiami respirazione, e cioè l’eliminazione dell’ossigeno, è più propriamente una operazione della fotosintesi clorofilliana. E hai ragione di dire che la luce vi è necessaria e che pertanto avviene solo di giorno. Ma la respirazione è una cosa del tutto diversa, è proprio il contrario della fotosintesi, e perciò avviene di notte, quando non c’è la luce. In questo caso, la pianta trattiene l’ossigeno e espelle l’anidride carbonica. Per questo è pericoloso dormire di notte sotto gli alberi. Quanto l’aria è ricca di ossigeno durante il giorno, altrettanto è ricca di anidride carbonica durante la notte. E quindi è dannosa per l’uomo”.
Intanto, camminando passo passo, erano giunti a una radura erbosa. Il bosco si apriva all’improvviso, lasciava irrompere la luce in tutto il suo fulgore e, oltre gli speroni del monte, apriva un vasto orizzonte con la linea azzurra del mare.
Il vento, tra le foglie, faceva un rumore alto e lontano.
Com’era bello guardare da lassù, come affacciati ad un balcone proteso sul mare, e ascoltare il bosco, coi suoi ronzii impercettibili, con la sua musica aerea di rami e di foglie.
Mario guardava meravigliato, ma pensava ancora alle piante, ai loro strani e meravigliosi segreti.
(L. Ardenzi)

Osserva un seme

Potrai facilmente procurarti fagioli, ceci, lenticchie, piselli e fave (secchi), o chicchi di grano, di orzo o di granoturco. Essi rappresentano i semi delle piante cui appartengono: da essi, in opportune condizioni ambientali, germoglieranno le nuove piante. Fagioli, ceci, fave, piselli sono semi di leguminose; i chicchi di grano, di orzo, di granoturco sono semi di graminacee.
Osserva la forma di un seme di leguminosa: esso è fornito di un tegumento esterno, facilmente asportabile; tale tegumento serve per la protezione del seme stesso. Asportando il tegumento, il seme si divide facilmente in due parti: i due cotiledoni del seme. Tra i due cotiledoni, verso uno dei due poli del seme, potrai notare l’embrione, che non sempre può essere osservato  con facilità ad occhio nudo: esso tuttavia può essere notato facilmente, perchè può essere staccato dal resto del seme.
L’embrione è la parte più importante di tutto il seme, perchè da esso inizierà lo sviluppo della nuova pianta. Nell’embrione, anche se non sempre l’osservazione è facile, esistono una radichetta, un fusticino ed una piumetta.  Dalla radichetta avrà origine la radice della nuova pianta, dal fusticino si svilupperà il nuovo fusto e dalla piumetta avranno origine le prime foglioline della nuova pianta. A queste parti bisogna aggiungere i cotiledoni, riserva di nutrimento. Altra riserva di nutrimento è l’albume che accompagna le parti del seme che abbiamo già citato.
Sia l’albume che i cotiledoni rappresentano riserve di nutrimento: in alcuni semi i cotiledoni sono molto sviluppati e l’albume è inesistente o quasi come nel caso dei semi di leguminose, mentre in altri semi i cotiledoni sono poco sviluppati e il seme è ricco di albume.
I semi di graminacee sono ricchi, ad esempio, di albume farinoso, che costituisce gran parte del seme. Osservando un seme di graminacea non riuscirai facilmente a staccare il tegumento esterno del seme stesso, che non risulta diviso in due parti: il seme di una graminacea ha un solo cotiledone, e sarà più difficile l’osservazione dell’embrione.
Se il seme di una pianta ha due cotiledoni, la pianta è detta dicotiledone; se il seme, invece, ha un solo cotiledone, la pianta è una monocotiledone.

La germinazione del seme

Il seme, se posto nelle opportune condizioni ambientali, germoglia. Il principale fattore della germinazione è l’umidità.
Poni alcuni semi di leguminose o di graminacee su uno strato di ovatta, che avrai cura di tenere sempre umido. Noterai che i semi si gonfieranno fino a rompere il loro tegumento, e che si vedrà spuntare l’estremità appuntita della radichetta. Se osservi in questo particolare momento il seme, aprendolo con attenzione, puoi facilmente notare le tre parti essenziali dell’embrione: radichetta, fusticino, piumetta.
Poni alcuni semi sul fondo di un vaso di vetro, alto e dall’imboccatura larga, e tienili umidi poggiandoli, come nella precedente esperienza, su uno strato di ovatta. Chiudi il vaso e lascia passare un po’ di tempo, tenendo il vaso al buio. Se scopri il vaso lentamente e vi introduci un fiammifero acceso, questo si spegne. I semi hanno consumato l’ossigeno presente, sviluppando anidride carbonica. Se lasci il vaso chiuso la germinazione si arresta. I semi, durante la germinazione, respirano.
Poni alcuni semi nelle stesse condizioni della precedente esperienza,  introducendo tra i semi un termometro e lasciando il vaso scoperto. Noterai che il termometro segnerà, dopo un certo tempo, una temperatura maggiore  di quella segnata all’inizio. I semi, durante la germinazione, generano calore.
Poni alcuni semi lungo le pareti di un vaso di vetro, piuttosto in alto, e poni dietro ad essi un foglio di carta assorbente o da filtro che ricopra le pareti del vaso. Nell’interno del vaso introdurrai del terriccio, che avrai cura di mantenere umido. Potrai anche riempire il bicchiere con muschio o cotone idrofilo, sempre umidi. Potrai così osservare la germinazione del seme ed il primo sviluppo della pianta. Noterai che il seme si gonfia fino a rompere il tegumento esterno; spunta poi la radice che, indipendentemente dalla posizione del seme, si rivolge verso il basso; successivamente spunterà la piumetta che si rivolgerà verso l’alto, fino a fuoriuscire dal vaso. I cotiledoni forniscono il nutrimento necessario alla pianta in questo primo stadio della loro vita. Essi possono restare sottoterra (e si diranno ipogei) o venir fuori con la pianta (e si diranno epigei). In quest’ultimo caso i cotiledoni assumono il colore verde tipico delle foglie.
Prepara più vasi con terriccio e affonda in essi alcuni semi. Poni questi vasi nelle più diverse condizioni di luce: in piena luce, in penombra, al buio completo. Ciò ci servirà per le future esperienze.
In uno dei vasi che hai posto in piena luce, potrai seguire, quando la pianta sarà germogliata, le varie fasi del suo accrescimento, accrescimento che potrai misurare ad intervalli regolari. Noterai che esso è più rapido agli inizi della vita della pianta, più lento successivamente; ma la pianta comincia a presentare gemme, da cui si svilupperanno altre foglie. Potrai anche notare che lo sviluppo della pianta in terriccio non solo è più rapido di quello della pianta su letto umido di ovatta, ma è completo. Ciò è dovuto al fatto che la pianta sul letto umido di ovatta può avere nutrimento soltanto dalle sostanze contenute nei cotiledoni, mentre la pianta in terriccio, una volta sviluppata, è in grado di assorbire sostanze nutritive dal terriccio stesso.
(U. Sardi – “Osservazioni ed elementi di Scienze”)

Dimostriamo che un seme germina solo in presenza di aria

Un seme è, come sapete, una cosa viva. Come tale dunque respira, si nutre e risente dei fattori ambientali (aria, umidità, temperatura e luce), che possono favorire o ostacolare la nascita di una pianta, cioè la germinazione del suo seme.

Materiale: 2 vasetti da fiori, terra soffice mista a sabbia, una manciata di semi (fagioli o fave o ceci o frumento), acqua naturale, acqua bollita a lungo.
Procedimento: seminare in ciascun vasetto (contrassegnandolo con un cartellino numerato) un ugual numero di semi della stessa qualità. Innaffiare il vasetto 1 con acqua naturale e quello 2 con acqua bollita a lungo e fatta raffreddare (quest’acqua, bollendo, avrà perso tutta l’aria che conteneva). Coprire i vasetti con lastre di vetro perchè l’umidità non si disperda. Disponete i due vasi in ambienti caldo (20-22 gradi). Lasciare tutto così per qualche giorno, poi, in base a quanto avete notato, scrivete le vostre osservazioni, che costituiranno il vostro “Giornale delle scienze”. I semi del vasetto 1, innaffiato con acqua naturale, sono germinati normalmente in giorni  …. ; quelli del vasetto 2, bagnati con acqua priva d’aria, non sono germinati. Dunque un seme per germinare ha bisogno di aria, cioè di ossigeno per respirare.

Materiale: 3 vasetti da fiori, semi, terra soffice.
Procedimento: mettere una stessa quantità di terra nei tre vasetti (contrassegnandoli coi numeri 1, 2 e 3). Assicuratevi che la terra del primo vasetto sia ben asciutta (potreste introdurla per qualche minuto nel forno, perchè perda tutta l’umidità). Seminate nei tre vasetti un ugual numero di semi, tutti dello stesso tipo, e innaffiate soltanto i vasi 2 e 3, lasciando asciutto il primo. Innaffiate una volta al giorno il vaso 2, due volte al giorno e abbondantemente il vaso 3; continuate a non innaffiare il vaso 1. Il foro di scollo del vasetto 3 dovrebbe essere chiuso con un tappo, perchè l’acqua non esca dal vaso. Redigete il vostro “Giornale delle scienze”. Ora sappiano che nel vasetto con terra completamente asciutta la germinazione ….; in quello bagnato normalmente ….; in quello bagnato troppo ….. Dunque un seme per poter germogliare, oltre all’…. e al …. ha bisogno anche di ….; ma questa, se in quantità eccessiva, …

Materiali: 2 vasetti da fiori, i soliti semi, terra soffice.
Procedimento: seminate in ogni vasetto uno stesso numero di semi e copriteli con due o tre centimetri di terra umida. Collocatene uno in piena luce, l’altro in un luogo buio (in cantina o coperto da un panno nero). Redigete il “Giornale delle scienze”. Ora sappiamo che la germinazione nel vasetto 1 è avvenuta … e dopo giorni … nel vasetto 2 collocato in … è avvenuta dopo … giorni. Dunque un seme per germogliare ha bisogno di …

Le foglie

Non occorre essere grandi osservatori per sapere che le foglie hanno forme svariate e diversissime. Tutti voi avete visto esemplari di foglie semplici, composte, palmate o pennate. Su un fatto però difficilmente avrete fermato l’attenzione, e cioè sulla loro continua freschezza. Pensate: se durante le ore del solleone, in piena estate, mettete dei fogli di carta o dei frammenti di qualsiasi materiale al sole, dopo qualche ora li troverete molto caldi. Se si tratterà di metallo, scotteranno addirittura. Le foglie degli alberi, invece, rimangono esposte al sole tutto il giorno, ma se le toccate sono sempre fresche come se non fossero state colpite dai suoi caldi raggi. Questa è una delle meraviglie di fronte alle quali ci troviamo, quando osserviamo quegli importantissimi organi della pianta che sono le foglie. La loro continua freschezza è dovuta al fatto che esse evaporano incessantemente una incredibile quantità di acqua, residuo delle complicate trasformazioni chimiche che avvengono nelle loro parti interne. Una pianta di granoturco durante l’estate può trasudare ben duecento litri d’acqua. Una betulla nello stesso periodo ne traspira ben settemila litri. Questo vi dice anche quanto servano le piante al ricambio dell’ossigeno nell’atmosfera.

Le foglie che si mangiano

Avete mai calcolato quanti sono i tipi di foglie che si consumano nell’alimentazione umana? Il prezzemolo, il basilico, la salvia, il rosmarino,… Se poi pensiamo a quelle che servono per l’alimentazione animale, il numero si allarga a dismisura. Si può anzi affermare che non c’è tipo di foglia che non abbia il suo amatore, sia esso bruco o roditore o erbivoro, il quale la preferisce ad altre specie.
E’ esatto quindi affermare che le foglie nutrono non solo la pianta che le ha generate, ma tutto il mondo vivente. Il loro scopo primo, però, è quello di nutrire la pianta; questo è evidente.
Utilizzando l’acqua, l’aria e qualche sostanza minerale succhiata dal suolo esse sono capaci di produrre lo zucchero e gli amidi, che sono alla base di ogni sostanza organica. A rendere possibile questa trasformazione è la clorofilla, l’elemento verde della foglia, che capta l’energia del sole e se ne serve per dissociare gli atomi di ossigeno, di idrogeno e di carbonio che compongono aria e acqua per unirli in modo diverso e produrre così la materia organica. Si tratta di un’operazione a tal punto delicata e complicata, che finora nessun laboratorio umano è riuscito a riprodurla artificialmente.

Foglie strane

Per adattarsi all’ambiente, al clima, alle particolari esigenze della pianta le foglie talora assumono forme assai strane, di cui vi diamo qualche esempio.
La foglia di Victoria regia, pur essendo molto pesante date le sue dimensioni (oltre un metro di diametro) può galleggiare sull’acqua grazie alla sua forma di vassoio a bordi rialzati e alla presenza nei suoi tessuti di numerose piccole camere d’aria.
Le foglie di Aloe spinosa, costrette a immagazzinare grandi quantità d’acqua per i periodi di siccità, diventano turgide  e carnose. In altre piante esse si trasformano in spine, in altre ancora diventano trappole per catturare gli insetti, di cui poi la pianta carnivora si nutre.
Nella vite alcune foglie si trasformano in quegli organi di attacco che si chiamano viticci. Occorre ricordare inoltre che i fiori sono particolari trasformazioni delle foglie. Come vedete, si tratta di organi complicati e mutevoli.

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IL POLO NORD: dettati ortografici, letture e altro materiale didattico

IL POLO NORD: dettati ortografici, letture e altro materiale didattico per bambini della scuola primaria.

IL POLO NORD: La costruzione di un igloo

Lavorando con abilità e precisione Ernenek, un eschimese, si mise a costruire un igloo. Inarcandosi contro la bufera, con la punta del coltello tracciò sulla banchisa un cerchio largo quanto egli era alto. Poi, rimanendo entro questo cerchio, con la mandibola di squalo che aveva a bordo, segò grossi cubi di ghiaccio che depose attorno a sé sulla linea tracciata. Erigendo e scavando contemporaneamente, tagliò di sotto ai propri piedi altri cubi e li sovrappose in spirali che andavano man mano restringendosi, finché un blocco solo bastò per suggellare la volta. Intanto Asiak, sua moglie, al di fuori, sferzata dal vento, riduceva il nevischio in polvere sottile con la pala di cuoio gelato e lo gettava contro la parete dell’igloo crescente, otturandone le fessure fra un blocco e l’altro.

L’igloo terminato sporgeva di un metro appena dalla superficie dell’oceano sferico e compatto per non offrire presa alla bufera; il resto era affondato nella banchisa.

Al centro del soffitto Ernenek praticò un piccolo foro per il fumo, costruì il sofà di neve, poi il tunnel sinuoso che permetteva l’accesso all’aria, ma non al vento, e capace di albergare la muta di cani. Mentre Asiak trascinava in casa provviste ed utensili domestici e ricopriva il sofà con pelli di caribù, egli uscì per seppellire la slitta. Poi rientrò, battendosi con cura la neve di dosso.
Nel buio accesero la lanterna, diedero fuoco all’esca  di funghi secchi per mezzo della selce ed accesero lo stoppino di muschio. Man mano che il grasso di balena di liquefaceva nel vaso, la fiamma cresceva, facendo luccicare la parete circolare e diffondendo calore.

Con due fiocine conficcate nella parete sopra la lucerna, improvvisarono un asciugatoio sul quale stesero i loro vestiti esterni, che erano bagnati. Si tolsero gli stivaloni maceri e spaccati, li asciugarono e li ripararono con l’ago di balena  che portavano tra i capelli e con nervo di caribù.

L’asciugatoio, la lampada, il mucchio di carne, la pietra focaia, il blocco di neve potabile e tutte le altre masserizie erano disposti secondo un ordine più antico della storia, tramandato dalla notte dei tempi di padre in figlio; ogni oggetto a portata di mano, perchè lo si potesse trovare facilmente anche al buio e perchè si potessero compiere tutte le faccende senza abbandonare il sofà. Questo igloo era identico all’igloo che avevano lasciato e al loro igloo a venire, e tutti gli arnesi erano fatti sulla sua misura. La scure di selce era corta e il coltello d’uso domestico, d’osso di caribù, era circolare, così da richiedere solo un movimento del polso anziché del gomito, che sarebbe stato imbarazzante in un ambiente tanto ristretto.

Ora c’erano cento cose da fare: la lanterna era da pulire regolarmente perchè non facesse fumo, gli indumenti sull’asciugatoio dovevano essere rivoltati di continuo, gli strappi andavano riparati e le pelli, una volta asciutte, andavano raschiate e masticate finché riacquistassero la loro morbidezza.
(Hans Ruesch)

IL POLO NORD: Viaggio sulla banchisa

Il freddo induriva lo strato di grasso sui visi e il fiato si condensava in piccoli ghiaccioli intorno alle narici e alle ciglia; quando sputavano, la saliva si congelava a mezz’aria e se ne udiva il ticchettio sulla banchisa. Appena notavano che la punta del naso o delle dita avevano perduto sensibilità, saltavano giù dalla slitta e trottavano finché si fossero riscaldati. Solo Papik, il bambino, intabarrato nella giubba della madre Asiak, solidamente legato contro il dorso di lei, godeva del tepore del corpo materno.

Sonnecchiavano a turno in piena corsa; solo quando la muta dava segni di stanchezza Ernenek ordinava al capofila di fermarsi e gettava l’ancora.

Approfittava della sosta per scaricare la slitta e per pescare. Era impossibile portare provviste sufficienti per tante bocche in un viaggio così lungo ed era necessario procacciarsi il cibo cammin facendo. Ciò non era facile d’inverno. Soltanto in vicinanza dei promontori e intorno agli iceberg la crosta gelata era meno spessa, abbastanza sottile per essere segata, poi occorreva molta pazienza e un gran chiaro di luna per riuscire a trafiggere qualche trota color sangue o qualche salmone color sole.

Intanto i cani si raggomitolavano dove si erano fermati e in breve tempo non erano che piccoli cumuli di brina. Ogni tanto al risveglio Ernenek sminuzzava loro un po’ di carne o di pesce gelato a gran colpi di scure ed essi afferravano al volo le schegge e le inghiottivano senza curarsi di masticare le ossa e le lische; ma per evitare che impigrissero non venivano mai nutriti a sazietà, e infatti tiravano sempre di gran lena, con le code in alto.

D’inverno, il cielo, spazzato dalla gelida tramontana, era quasi sempre terso, e sotto la volta scintillante di astri, fra cui la Stella Polare splendeva centrale e suprema, l’aria era fragrante di ossigeno. Il litorale, che non si doveva mai perdere di vista, era allora nettamente stagliato nel cielo sfolgorante e la terraferma e le isole gettavano ombre d’un blu intenso nel paesaggio spettrale di madreperla.

Talvolta si sentiva il ghiaccio fremere o fendersi per i moti del mare sottostante, e allora Ernenek si teneva pronto a frenare la muta. Se i crepacci, in cui si udiva gorgogliare l’acqua, erano stretti, la muta li superava d’un balzo e la slitta proseguiva senza difficoltà; ma se erano troppo larghi bisognava costeggiarli, a volte per tratti lunghissimi, prima di riprendere la rotta.
(Hans Ruesch)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

IL CANE e il LUPO dettati ortografici e letture

IL CANE e il LUPO dettati ortografici e letture per bambini della scuola primaria.

I canidi

L’aspetto diverso dei vari cani ci dice che essi derivano non da un solo ceppo, ma che hanno diverse origini. Fra i lontanissimi progenitori abbiamo lo sciacallo, il lupo e la volpe, che appartengono anch’essi ai canidi.
Il cane, risultato di vari incroci, è stato addomesticato dall’uomo di cui è diventato il più fedele compagno; i capostipiti invece, l’uomo non desidera averli nemmeno come vicini di casa. Infatti il lupo, se può, sbrana le pecore e la volpe va matta per i galletti teneri.
Cane, lupo, volpe hanno dentatura fortissima e sono carnivori. A forza di stare con l’uomo, il cane si è abituato a mangiare di tutto, dalla verdura alla polenta, ma se tornasse ad essere libero e potesse riprendere la sua selvatichezza, dimenticherebbe ben presto queste abitudini. Ce lo dice la sua dentatura fortissima, atta ad afferrare la preda e a mangiare carne.

Cani generosi

Uno dei cani più belli e più gagliardi è il cane di Terranova che, abilissimo nuotatore, ha tratto fuori dall’acqua parecchie persone salvando loro la vita. Ma il primato spetta al cane San Bernardo. Parecchi uomini che, sulle Alpi, erano stati sepolti sotto la neve, o che erano caduti in un crepaccio insidioso, o che si erano smarriti fra la nebbia  o che erano stramazzati, esausti di fame o di stanchezza, sono stati salvati da un cane San Bernardo.
(Reichelt)

Il cane

Dove non troviamo questo caro e fedele amico dell’uomo? Di istinto acuto, può fare di tutto. Difende la casa dai ladri e il padrone dagli assalti dei malintenzionati. E’ bravissimo a caccia: sa stanare le bestie e rincorrerle, senza tuttavia impadronirsi di quelle buone carni. Ci sono i benefattori dell’umanità: i cani San Bernardo che con il loro fiuto finissimo riuscivano a ritrovare i viandanti sepolti sotto la neve, cosa che accadeva spesso, quando non c’erano ancora strade per valicare le montagne.

Il cane, amico dell’uomo

Quale amico più fedele e servizievole del cane? Convenientemente addestrato, fa da guida al cieco che, per suo merito, può evitare i pericoli della strada; se è un cane da compagnia, diventa amico dell’uomo a cui vorrebbe star sempre vicino. Vi sono cani da caccia che collaborano col padrone nella cattura della selvaggina, cani da guardia che custodiscono fedelmente la roba del padrone e la difendono dai malintenzionati.

Il cane

Chiamato l’amico dell’uomo, il cane è un animale intelligente, fedele e coraggioso. Fa la guardia alla casa e al bestiame, ordina il gregge, guida i ciechi, insegue i ladri, difende le persone, scova la selvaggina.
Ha i denti robusti, l’odorato e l’udito molto sviluppati. Il corpo del cane è coperto di pelo o mantello che varia come colore e come lunghezza. Il cane ha quattro zampe con le dita munite di unghie fatte ad artiglio. Secondo le razze, i cani sono barboncini, cani lupo, pastori, levrieri, pechinesi, San Bernardo, bracchi, bassotti, …
Il cane abbaia, ringhia, guaisce e latra.
Alla famiglia del cane, cioè dei canidi, appartengono la volpe, astuta cacciatrice di polli, che vive allo stato selvatico, il lupo e lo sciacallo.

Gli antenati del cane

Non si sa esattamente da quale animale derivi il cane domestico. Forse dal lupo, dallo sciacallo, dalla volpe. Il lupo, famelico crudele e prepotente non conosce che la preda; lo sciacallo è un animale falso e vile che si nutre preferibilmente di animali già morti. La volpe è astuta, ladra, paziente e risoluta nella caccia. Ma il cane ha perduto questi difetti ed ha acquistato quelle virtù che lo fanno amico dell’uomo.

Il lupo
Il lupo comune ha una pelliccia dal colore di fondo grigiastro. D’estate il pelame ha delle pezzature fulve ed è più chiaro di quello invernale. Il lupo ricorda un po’ i cani da pastore, ma lo si riconosce per la sua coda pendente verso il basso e gli occhi obliqui. Si nutre di mammiferi e di uccelli, di carogne e di frutti succosi. D’inverno, quando è affamato assale cervi, cavalli e altri animali domestici, ma raramente attacca l’uomo.
I lupi si tengono soprattutto nei boschi;  d’inverno si riuniscono in branchi ed errano per le pianure.
E’ un animale tipico dell’emisfero boreale.
Ne esistono varie razze, tra le quali il lupo bianco o lupo polare della Groenlandia e della Siberia settentrionale, e il lupo nero della Florida.
Il coyote è meno grande del lupo e vive nel Nord America. Si nutre soprattutto di carogne, ma divora anche lepri, conigli, pecore, capre e uccelli.
(H. Hvass; da “Mammiferi nel mondo”; ed. Colderini)

Vero o falso?

Il cane è quadrupede.
Il cane è carnivoro.
Il cane non è fedele.
Il cane è domestico.
Il cane è bipede.
Le razze dei cani sono poche.
Il cane quando è arrabbiato scodinzola.
Il cane abbaia quando vede gente che non conosce.

Il cane fedele

Un ladro, penetrato di notte nell’atrio di una casa, procedeva quatto quatto, quando, d’improvviso, si trovò davanti a un cane che faceva da portinaio. Il malandrino tremò, ma non si perdette di coraggio.
Tratto di tasca un bel pezzo di pane bianco, lo perse senza fiatare al guardiano, nella speranza che quello stesse zitto anche lui.
“Eh no” disse il cane, “tu, col tuo dono, vuoi impedirmi di dare l’allarme. Ma la sbagli di grosso! Io non mi lascio corrompere, perchè non voglio permettere che tu approfitti del mio silenzio”.
” si mise ad abbaiare.

Il cane

La prima amicizia fra l’uomo e il cane, si rinsaldò certamente, per ragioni di utilità. L’uomo dell’antichità aveva bisogno di un amico che lo difendesse, che lo aiutasse nella caccia, che lo amasse. Il cane fece tutto questo. Difese la sua roba, gli fu perfino compagno nella cattura degli animali, ma soprattutto lo amò.

Pitò e Pitù

Quando il gattino entrò in casa, Pitò, il bassotto, già vi regnava da padrone. Il gattino naturalmente si chiamò Pitù.
Ma Pitò, sempre cucciolo, non vide di buon occhio il nuovo arrivato. Fino a quel momento, tutte le carezze e tutti i bocconcini buoni erano stati suoi; e ora doveva fare a metà.
Guardò male il nuovo venuto, gli mostrò i denti e ringhiò.
Pitù gli rispose con un soffio terribile e uno schiaffetto meno terribile.
Le cose in seguito non migliorarono. Poi accadde che in autunno il bassotto si ammalò di certi doloracci alle zampe: non poteva più muoversi, e si annoiava da morire.
Pitù cominciò a girargli intorno; Pitò lasciò fare.
Pitù scherzò con la coda; la coda parve soddisfatta.
Un bel giorno il gattino gli gettò le zampine intorno al collo; il bassotto gli lavò il muso con una linguata.
Poi si addormentarono vicini
(B. Gerin)

L’orso e il cane

C’era una volta un contadino che aveva un buon cane da guardia; ma, col passare degli anni, il cane si fece vecchio e, la notte, invece di fare la guardia dormiva sempre.
Il contadino, che era molto povero, stufo di mantenere la bestia inutile, scacciò il povero vecchio cane.
Questo se  ne andò nel bosco e si stese sotto un albero. Passò un orso: “Cosa fai qui?” gli chiese.
“Sono venuto qui a morire.” rispose il cane malinconicamente, “Il mio padrone mi ha scacciato”.
“Vuoi che ti aiuti?” propose l’orso.
“Facciamo così: io vado alla casa del tuo padrone, gli ruberò il bambino e lo porterò qui nel bosco. Tu allora glielo riporterai e il tuo padrone, riconoscente, ti riprenderà in casa.
E così avvenne.
Immaginatevi lo spavento  e il dolore dei genitori quando si accorsero che il loro bambino era stato rubato!
Ma ecco, ad un tratto, il cane sbucò dal folto degli alberi reggendo delicatamente il bambino fra i denti, per le fasce.
I padroni gli si fecero incontro, ripresero il bambino che strillava a perdifiato, e colmarono il vecchio cane di baci e carezze.
“Resterai sempre con noi” gli disse la padrona; e il cane ricominciò la vita di prima.
Ogni tanto però andava nel bosco a fare visita al suo amico orso, che gli aveva salvato la vita.

Cani 
Liebe sta nell’altana, accovacciato. Ode me e mi corre incontro. Mi salta gioiosamente al collo.  Con occhi supplici mi interroga: “Padrone, mi vuoi bene?”.  E. dopo che ha ricevuto la carezza eccolo a dimostrare la sua gioia correndo intorno all’ampia altana. Quindi si ricorda di avere appetito e pone il muso nella scodella: a mangiare, perché è contento della carezza che ha ricevuto.
(L. Bartolini)

Cani
E’ Lilla la cagna scozzese: muso aguzzo, grandi occhi buoni, pelame fulvo di leonessa. Non si difende, perché ama tutti: l’inquietano soltanto le grida dei monelli contro i quali latra instancabilmente.
(C. Tumati)

Cani
Aveva un bel mantello rasato e lucido, a fondo bianco spruzzato di nero, con una larga chiazza nera sul dorso e due simmetriche dalle tempie a mezza fronte.  Di più,  le due caratteristiche fiamme fulve ai sopraccigli, che gli conferivano quel cipiglio aggressivo, che distingue anche fra gli uomini gli intuitivi dai semplicemente intelligenti. Bastava infatti che tu lo guardassi, che lui puntando su te quegli occhi di fiamma, capiva il tuo pensiero.
(G. Zorzi)

Cani
Che squallido, sinistro personaggio, l’accalappiacani. Tragico e meschino. Un misero boia in pantofole, privo della terribilità che ingrandisce il vero carnefice. E che raccapricciante spettacolo, la crudeltà scema degli sfaccendati che per la strada fanno cerchio e ridono sulla sofferenza di una bestiola mezzo soffocata dal laccio!
(B. Corra)

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CAVALLO, ASINO, MULO: dettati ortografici, poesie e letture

CAVALLO, ASINO, MULO: dettati ortografici, poesie e letture per bambini della scuola primaria.

Il cavallo

Il cavallo è il più nobile animale della fattoria: è slanciato, ha la testa allungata, gli occhi grandi e le orecchie a punta di cartoccio. Scuote la folta criniera, dondola la coda lucida; ma zampe sottili e robuste, terminanti in un piede con un solo dito, protetto dallo zoccolo.
Talvolta, mentre gli si mettono i finimenti, il cavallo sbuffa, nitrisce, scalpita e allarga le froge.
Tra i denti canini e i molari c’è uno spazio vuoto che porta il nome di barra, utile per appoggiarvi il morso: è questo l’arnese di cui si è servito l’uomo per domarlo.
Il mantello o pellame che ricopre il cavallo è molto vario. Il cavallo si dice baio quando ha il mantello rosso – castano, la criniera e la coda nere; sauro quando è più scuro o più chiaro del baio, ma con la criniera e la coda dello stesso colore del mantello; morello, storno quando è grigio macchiettato di bianco; roano quando ha il mantello bianco e grigio.
La durata della vita di un cavallo non supera i trent’anni.
Il cavallo veniva impiegato nei lavori agricoli e come mezzo di trasporto.
Alla famiglia degli equini appartengono anche l’asino e il mulo.

Il cavallino
L’altro giorno, alle pendici di Monte Mario, trovai un cavallino. Un cavallino nato da un mese, un mese appena; accosto alla cavalla, che era con una lunga criniera chiara; una madre bellissima e, dietro, andava a passi lenti il cavallo padre. Anzi, prima era il pastore che, con una lunga canna di comando sulle spalle, apriva il dolce e innocente corteo, poi era il cavallo padre e la cavalla madre, i quali andavano quasi di pari passo affiancati, poi era il cavallino. Padre e madre andavano fiutando l’erba, pregustando il vicino pascolo. Ma, il cavallino, non faceva altro che saltare. I cavallini hanno la testa a triangolo, piccina; la mascella vi disegna un archetto ben profondo; hanno la coda corta, ciuffosa,  ad anelli neri come le treccine delle ragazze di pochi anni. Hanno la sella vergine, snella, benissimo marcata ai lombi e già esuberante per quanto sia poco tempo che sono nati. Hanno le zampe lunghe, nocchiute; ma lo zoccolo l’hanno piccino, e non stanno mai fermi..
(L. Bartolini)

L’asino

L’asino somiglia al cavallo, ma ha il corpo più piccolo (supera di poco l’altezza di un metro); la sua testa è grossa e pesante; le orecchie sono lunghe, la criniera è ruvida con peli dritti; la coda è liscia, rivestita di peli solo all’estremità. Il mantello dell’asino può essere di colore grigio, bianco pezzato o scuro. La sua voce è sgraziata e rumorosa: si dice raglio e si distingue nettamente dal nitrito.
L’asino si nutre di fieno e di erba fresca. E’ un animale paziente e laborioso. Veniva utilizzato per il traino, per la soma e per la sella.

Il mulo

E’ figlio dell’asino e della cavalla. Si distingue dal cavallo per la forma del capo, per le orecchie più lunghe, per la coda simile a quella dell’asino. Il colore del mantello è come quello del cavallo.
Il mulo raglia come l’asino.
Il mulo è robusto come il cavallo, paziente e laborioso come l’asino; tira spesso e facilmente calci terribili. Nei percorsi di montagna è superiore all’asino e anche al cavallo per la sicurezza con la quale cammina nei luoghi più pericolosi.

Il cavallo nella storia

Il cavallo fu più di una volta l’elemento determinante di eventi storici molto importanti. I cavalli fiancheggiarono le legioni romane in battaglia, i destrieri medioevali furono i fedeli compagni dei cavalieri nelle loro imprese straordinarie, i veloci corsieri trasportarono le popolazioni asiatiche ai confini dell’Europa. La conquista delle Americhe fu agevolata dalle poche centinaia di cavalli che gli esploratori e i conquistatori vi importarono dall’Europa.

Il cavallo

Il cavallo fu chiamato il figlio del vento perchè fino alla scoperta del motore, questo nobile animale fu il mezzo di trasporto più veloce che si conoscesse. Il cavallo fu domato dall’uomo fin dall’epoca più antica. In principio gli uomini gli davano la caccia per nutrirsi della sua carne, poi quando videro che poteva essere utilizzato per la velocità della sua andatura, lo addomesticarono e i cavalli divennero tra i servitori più preziosi dell’uomo.

Il figlio del vento

Io sono il cavallo. E sono bello. Sono agile. E veloce. E generoso. E forte. E coraggioso. E non sono, ovviamente, modesto. La modestia la lascio al mio parente, l’asino. Fu lui ad essere domato per primo e ciò dipese, quasi certamente, dalla sua mancanza di fiducia nei meriti della specie a cui apparteneva.
Ma l’asino non ama l’uomo, lo subisce. China la testa, presto volenteroso la sua schiena al carico e si sottomette docilmente alle stanghe. E l’uomo, che non ama gli umili, che non ha alcun rispetto per i sottomessi, non solo si serve di lui, ma lo beffeggia. Lo burla per le sue lunghe orecchie e chiama asini i suoi simili che non brillano per sapere.

Soltanto dopo aver domato l’asino, l’uomo volse la sua attenzione al cavallo. Il cavallo era un animale fiero, veloce, orgoglioso e l’uomo disse: “Lo domerò!”. Fu, per lui, un puntiglio d’onore. Domare un cavallo significava sentirsi più uomo, re del creato, quello per cui il creato era stato fatto.
Branchi di cavalli galoppavano per le steppe, nelle pianure, nei deserti, criniere al vento, occhi lucenti, garretti veloci, froge frementi. L’uomo  li vedeva passare nei lontani orizzonti quando procedeva, lento, sulle piste, guidando carovane di asini carichi di masserizie. Andava per le sue migrazioni, attirato dall’ignoto, verso le terre sconosciute, campi più pingui, fiumi più profondi  e foreste più folte. Ma il passo dell’asino era troppo lento per il suo desiderio e fu così che l’uomo, un giorno, cede un cappio con una lunga liana e catturò un cavallo.

Inutili i nitriti di dolore, di ribellione, di furore dell’animale prigioniero. Egli era l’uomo, il re, il dominatore, il despota. Il cavallo dovette cedere, anche se si ribellò, lo scavalcò, lo calpestò con i suoi duri zoccoli. Alla fine, schiumante di rabbia impotente, dovette quietarsi. L’uomo conobbe l’ebbrezza della velocità. Chiamò il suo destriero figlio del vento. Lo carezzò, lo strigliò, lo nutrì e gli mise il morso.
Il cavallo finì per non ribellarsi più a quel peso estraneo che sentiva sulla groppa. Imparò a conoscere lo strattone delle briglie e piegò la sua natura fiera alla volontà dell’uomo.
Divenne il suo fido compagno non soltanto nella corsa, ma anche nel combattimento. L’uomo ormai era progredito e faceva la guerra. Come fare la guerra, a quei tempi, senza il cavallo? Noi cavalli abbiamo sempre amato la battaglia. Il grido dei combattimenti ci esalta, lo strepitio delle armi ci inebria.
Incuranti del pericolo, portammo i cavalieri nella mischia e li facemmo diventare coraggiosi anche se non lo erano. Fummo bardati di ferro e di cuoio, portammo elmo e corazza come il cavaliere che ci montava. Giocammo con lui nei tornei e nelle giostre e lo seguimmo nella caccia. Un’epoca gentile e generosa prese il nome da noi: la cavalleria. Per l’uomo fummo un elemento indispensabile delle sue gesta gloriose. Dice un proverbio arabo: “Allah creò il cavallo e disse: ti ho fatto senza pari. Volerai senza lai e combatterai senza spada”.
(Mimì Menicucci)

Il cavallo

Il più importante fra gli equini è il cavallo. Ha la testa piccola, eretta, allungata; orecchie aguzze mobilissime, occhi vivaci. Il cavallo è uno degli animali che hanno prestato maggiori servizi all’uomo, ma ai nostri giorni sta perdendo di importanza, di fronte ai prodigi della meccanica che ne ha ristretto l’impiego.

L’asino

Perchè tanto disprezzo per questo animale così buono, così utile? L’asino è per natura molto paziente, tranquillo quanto il cavallo è fiero, ardente, impetuoso; sopporta con costanza e, forse, con coraggio, la fatica; è sobrio sia nella quantità che nella qualità del cibo, si accontenta delle erbe più dure e disgustose che il cavallo e gli altri erbivori lasciano e sdegnano; è invece delicatissimo per l’acqua: non vuole bere che quella più limpida.
(Buffon)

Il ciuchino del mugnaio
“Arri là!”. Passa il ciuchino
del  mugnaio con la sacca,
avviandosi al mulino
pel viottolo, alla stracca.
“Arri là!”. La testa bassa,
annusando per la strada,
par che cerchi mentre passa,
il mastello con la biada.
“Arri là!”.  Ma per carezza,
soffermandosi, ha buscata
una stretta di cavezza
e un’amabile legnata.
“Arri là!”.  Come protesta
all’offesa dignità,
il ciuchino alza la testa:
“Ah!… ih ah! ih oh! ih ah!
(Dante Dini)

Il muletto
Lontano lontano lontano
si sente suonare un campano.
E’ un muletto per un sentiero
che si arrampica su su su!
Che tra i faggi piccolo e nero,
si vede e non si vede più!
Ma il suo campanaccio si sente
suonare continuamente.
(G. Pascoli)

L’asino e la speranza
Cieco, zoppo, brutto, vecchio
tira avanti un asinello.
Ma un allegro campanello
che gli suona nell’orecchio
lo rincuora e lo consola
raccontandogli una storia:
– C’era un tempo un contadino
che trattava l’asinello
con i calci e col randello,
e dicendogli: “In cammino!”
gli metteva sempre troppa
legna od altra cosa in groppa.
Ma Giuseppe falegname
l’asinello si comprò
e gli diede fieno e strame,
tutto a nuovo lo ferrò,
riservandogli l’onore
di portar nostro Signore.
Lo curò da ogni male,
lo strigliò da capo a piè
e gli mise al pettorale
un campano come me,
che a sentirlo mentre andava
tutto il mondo si voltava.
Soffri, dunque, rassegnato.
Verrà il giorno anche per te
che Giuseppe dal mercato
ti vorrà portar con sé.
Non importa se sei brutto
avrai fieno e strame asciutto.-
L’asinello zoppicando
gode il suon che l’accarezza.
Per sentirlo a quando a quando
scuote allegro la cavezza,
e, nutrito di speranza,
meno vecchio e stanco avanza.
(Renzo Pezzani)

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I MICROBI materiale didattico, dettati ortografici e letture

I MICROBI materiale didattico, dettati ortografici e letture per la scuola primaria.

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I microbi

L’insetto divora il fiore, l’uccello divora l’insetto, il bue divora l’erba e il leone divora il bue. L’uomo uccide l’insetto, uccide l’uccello e il bue e il leone. Egli è dunque il solo, l’invincibile padrone del mondo. No, davvero: creaturine microscopiche celate nell’aria, nell’acqua, nella polvere, senza artigli e senza denti, penetrano nei suoi polmoni, nelle sue viscere, nel suo sangue e possono farlo ammalare o anche morire. Il vincitore del leone e di tutte le fiere è divorato da uno stuolo invisibile di animaletti che si chiamano microbi.
(P. Mantegazza)

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Norme di igiene

Se molti, con un ingrandimento microscopico, potessero vedere le miriadi di germi che brulicano nel sudiciume, si laverebbero le mani cento volte al giorno. L’ultima conseguenza della poca pulizia della pelle è l’accumularsi di piccolissime squamette cornee. La pelle perde giornalmente miliardi di queste squame che, se non vengono eliminate da una buona lavatura, si accumulano con un effetto assai poco piacevole a vedersi.
Per evitare conseguenze, che nei casi migliori si limitano a una brutta figura, ma che possono arrivare a malattie gravissime, come ad esempio  il tifo, ecco che cosa è necessario fare.
Lavarsi il viso e specialmente le mani più spesso che si può: sempre dopo aver toccato il terriccio, oggetti sporchi, e prima di mangiare.
Tenere sempre le unghie corte e scrupolosamente pulite, lavandole con gli appositi spazzolini a setole dure.
Anche i piedi devono essere lavati tutte le sere, sia perchè sono una parte del corpo delicata, sia perchè, nonostante siano protetti dalle calze e dalle scarpe, si impolverano e si sporcano facilmente.
I capelli devono essere lavati e spazzolati di frequente.

Dobbiamo mangiare cibi sani, non avariati; se consumiamo cibi crudi, ben puliti; se cotti che siano cotti al punto giusto. Evitare il più possibile i cibi conservati o quelli troppo elaborati; intingoli troppo grassi o troppo piccanti. Il mangiare sia insomma semplice e naturale.
In secondo luogo, l’alimentazione deve essere varia. Deve comprendere in giuste proporzioni questi alimenti: pane, latte e formaggio, carne e pesce, condimenti (grassi), verdure, frutta. Infatti i sali minerali e le vitamine sono contenuti nelle verdure e nella frutta.
In terzo luogo l’alimentazione non deve essere ne scarsa ne eccessiva.
Meglio di tutto è bere acqua di rubinetto. Da usare con moderazione sono il caffè ed altre bevande eccitanti come il tè, che se usati in quantità eccessiva possono arrecare danno al sistema nervoso ed al fegato.

Respiriamo con in naso e non con la bocca. Il passaggio dell’aria per il naso non è diritto e aperto, ma invece straordinariamente tortuoso. Potremmo credere che questo sia dannoso, invece è un vantaggio grandissimo. Costringe l’aria a passare entro un largo tubo riscaldato dal sangue, per cui l’aria stessa viene riscaldata; anche una buona quantità di vapore acqueo può aggiungersi all’aria, se non ne contiene a sufficienza, cosa assai utile perchè l’aria secca è irritante. Inoltre questo tortuoso passaggio agisce da filtro per l’aria. Una grande quantità di impurità è arrestata, così l’aria arriva ai polmoni riscaldata e umida, ed assai purificata. Esperimenti fatti mediante un tubo passante per la bocca dimostrano che l’aria filtrata nel passaggio per il naso non contiene microbi, mentre prima ne poteva contenere delle migliaia. Ne consegue che è nostro dovere respirare col naso. Il passaggio dell’aria è più facile per la bocca perchè la bocca non si prende la cura di filtrarla.
Poche cose sono importanti per la salute quanto quella di respirare per il naso e non per la bocca.

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Come si difende il corpo

Ogni giorno il nostro corpo è invaso da miliardi di germi, molti dei quali possono provocare malattie e perfino la morte. Ciò nonostante ci conserviamo sani. Innumerevoli batteri e virus riescono a penetrare nel nostro organismo con il cibo che mangiamo, o con l’aria che respiriamo, o attraverso qualche ferita della pelle. Eppure ci conserviamo sani. Alcuni germi si stabiliscono permanentemente nella bocca, nel naso, nella gola o negli intestini, dove possono moltiplicarsi in modo incredibile. Ciò nonostante ci conserviamo sani. Che cosa ci protegge da questi assalti?
A poco a poco, durante secoli di studi, gli scienziati sono riusciti a scoprire che cosa accade. La nostra salute è protetta, essi affermano, da una serie ingegnosa di difese, disposte in profondità, come le linee successive di un esercito trincerato per respingere l’invasore.
Supponiamo, ad esempio, che una particella di polvere carica di microbi penetri nell’occhio. Con tutta probabilità non c’è alcun motivo di preoccuparsi. La superficie del globo oculare è costantemente bagnata da un liquido lacrimale, il quale contiene un antisettico detto lisozima, che uccide i batteri.
I germi che penetrano dal naso devono passare attraverso una complicata rete filtrante. La superficie delle vie nasali è mantenuta umida da un liquido mucoso che trattiene i germi. Se questi causano un’irritazione, sono espulsi con lo sternuto.
Cosa avviene nel nostro corpo quando ci facciamo una ferita,  sia pure un graffio? Dalla ferita alcuni microbi patogeni (cioè generatori di malattie) penetrano nel corpo. Il pericolo è tremendo perchè i batteri si moltiplicano con spaventosa rapidità e in breve tempo potrebbero invadere tutto l’organismo e anche ucciderlo.
Ma il nostro corpo si mette subito in allarme e un meraviglioso sistema di difesa entra immediatamente in azione. Migliaia e migliaia di globuli bianche (leucociti) accorrono, attaccano i batteri, li circondano e li distruggono.
Questo, quando i globuli bianchi (leucociti) contrattaccano in tempo e i  batteri non sono troppo numerosi e virulenti. Se invece i batteri resistono e riescono a moltiplicarsi uccidono le cellule dei tessuti. Allora i globuli bianchi non solo devono combattere i batteri, ma devono distruggere anche le cellule morte che potrebbero divenire pericolose per il corpo umano. In questa lotta tremenda, che ha come posta finale la salvezza o un grave danno per il corpo umano, molti globuli bianchi muoiono e si trasformano in pus. Ma da ogni parte accorrono sempre più numerosi rinforzi: i globuli bianchi arrestano così l’invasione; la bloccano in un punto (il foruncolo) impedendo che l’infezione si diffonda in tutto il sangue. In breve le cellule riparano i danni provocati dalla ferita e nel corpo cessa lo stato di allarme.
Molte volte però i batteri, appena entrano nel nostro organismo, emettono delle sostanze velenose, le tossine. Il tetano e la difterite sono alcune fra le malattie provocate da tossine batteriche. Il sangue allora, o meglio il siero del sangue, fabbrica subito del soldati capaci di attaccare le tossine nemiche: le antitossine. Questi anticorpi, così vengono chiamate le antitossine, combattono le tossine e spesso le vincono.
Molte volte però il sangue non riesce a fabbricare subito le antitossine. Ci vuole tempo. E le tossine batteriche hanno tutto il tempo per attaccare e vincere. Il corpo è costretto allora ad una lotta che può durare anche delle settimane.
Per aiutare il corpo nella lotta contro i batteri, i medici vaccinano, ossia iniettano nel sangue degli anticorpi (antitossine) già preparati, così il sangue ha già le antitossine pronte e può vincere l’attacco nemico.

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Tre personaggi nel mondo dei microbi

I microbi vengono portati in casa dal pulviscolo dell’aria, dalle nostre scarpe, dai vestiti e dalle mani.
Essi si insediano sui cibi e vi crescono. Esponiamo, per esempio, all’aria, per mezz’ora, una fetta di banana, di mela o di patata lessa, una fetta di pane fresco e del succo di frutta; mettiamo poi tutti questi cibi al caldo e al buio e osserviamoli giorno per giorno.
Dopo due o tre giorni vedremo un’infinità di microbi. Alcuni si presenteranno in macchie di soffice peluria, altri in piccoli ammassi filiformi. Alcuni saranno prima bianchi e poi diventeranno blu, verdi, neri o bruni.
Nella miriade di microbi che crescono sui cibi troviamo rappresentate le tre specie più comuni: i batteri, le muffe e i lieviti.
La prima specie, quella dei batteri, comprende gli esseri viventi più piccoli e più numerosi che esistano sulla terra, sono così piccoli che molte migliaia di essi potrebbero stare sulla capocchia di uno spillo…
Le muffe, la seconda specie, sono relativamente più grandi dei batteri. Tutti ne conosciamo: certamente abbiamo visto le muffe verdi-azzurre che si formano sui limoni o sulle arance, quelle brune della frutta e quelle che crescono sul pane…
La terza specie di microbi è costituita dai lieviti. Noi conosciamo il lievito del pane, e sappiamo che esiste in pani, oppure secco, in polvere. Ebbene: ogni pane di lievito è costituito di parecchi milioni di organismi viventi. Essi sono più grandi dei batteri, ma ancora così piccoli che si possono vedere solo ingranditi al microscopio, e quando sono riuniti a milioni.
(M. E. Selsam)

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I batteri sono microscopici

Lasciamo un bicchiere di vino esposto all’aria per molti giorni. Assaggiandolo, alla fine dell’esperimento, ci accorgeremo che si è trasformato in aceto. Nel bicchiere si sarà inoltre formata una mucillagine di sapore acre.
Lasciamo un bicchiere di latte in ambiente caldo per qualche giorno. Spesso solo dopo un giorno noteremo che il latte si è coagulato, separandosi in due parti: una massa biancastra compatta e un liquido acido, di colore paglierino.
La trasformazione del vino in aceto (acido acetico) e la coagulazione del latte (con formazione di acido lattico) è opera dei batteri, organismi tanto piccoli da non poter nemmeno essere osservati al microscopio, se non con particolari tecniche e ad ingrandimenti fortissimi. Le loro grandezze si aggirano addirittura sui millesimi di millimetro!
Molti batteri vivono nell’intestino degli uomini e degli animali ed aiutano a digerire i cibi. Ma sono anche batteri quelli che invadono il nostro corpo, facendoci ammalare.

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Forme dei batteri

I batteri hanno forme svariatissime, che danno loro il nome: cocchi, a forma di sfera; bacilli, a forma di bastoncino; vibrioni, a forma di virgola; spirilli, foggiati a spirale, ecc… Le loro cellule possono essere nude oppure provviste di ciglia, di forma e disposizione diverse secondo i casi.
(M La Greca, R. Tomaselli)

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Difesa dai batteri infettivi

La prima difesa contro i batteri che sono causa di malattie infettive è l’isolamento dell’individuo ammalato: poi la disinfezione che viene praticata lavando accuratamente le mani con saponi antibatterici.
In caso di ferite è utile intervenire subito con disinfettanti, utilizzando poi, per le fasciature, bende e garze sterilizzate.
La sterilizzazione è un procedimento che permette di uccidere qualsiasi batterio; essa viene praticata tenendo gli oggetti d’uso chirurgico in uno speciale apparecchio, detto autoclave, a grande pressione di vapore caldissimo.
Sapete che i chirurghi si vestono, prima delle operazioni, in modo particolare, coprendo le mani con guanti e la bocca con mascherine di tela; questi indumenti, sterilizzati prima dell’uso, impediscono la trasmissione dei batteri che vivono ovunque, (anche sulle mani e nella bocca) alle ferite provocate sull’ammalato con l’intervento chirurgico, causandone l’infezione.
La migliore precauzione per evitare il più possibile il pericolo di infezioni o di malattie infettive è, comunque, la pulizia personale, che deve essere scrupolosa e almeno giornaliera, e quella degli ambienti in cui si vive.

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La pastorizzazione

Per essere ben certi che il latte sia sano, cioè che non contenga batteri nocivi, bisogna farlo bollire, perchè il caldo rende innocui i batteri. Ma c’è un inconveniente: se noi facciamo bollire il latte, insieme ai batteri vengono distrutte anche alcune sostanze preziosissime per l’uomo, le vitamine. Esse sono contenute in buon numero nel latte e l’ebollizione le annienta. Il latte perde così molto del suo valore nutritivo. L’ideale sarebbe distruggere i batteri conservando intatte le vitamine.
Questo è possibile grazie alla pastorizzazione.
Occorrono due recipienti, uno più grande, che riempiamo d’acqua che facciamo bollire, un altro più piccolo, dove mettere il latte, da immergere nel primo. Quando l’acqua bolle, il latte, pur scaldato a lungo, non bolle.
In questo modo otteniamo che il latte, scaldato, non vada a male, ma nel contempo conserva ancora le preziose vitamine, perchè non ha raggiunto l’ebollizione.

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Pasteur

Perché questo procedimento è chiamato pastorizzazione? Perchè il primo ad intuire l’esistenza dei batteri nell’aria fu uno scienziato francese di nome Pasteur, vissuto circa centocinquanta anni fa.
A quel tempo i fabbricanti di vino si lamentavano spesso che il prodotto si guastava e diveniva aceto. Pasteur dimostrò che l’inacidimento era dovuto alla moltiplicazione dei batteri caduti nel vino mentre veniva imbottigliato. Pertanto consigliò ai fabbricanti di scaldare il vino fino a raggiungere la temperatura sufficiente a distruggere qualunque batterio vi fosse caduto.
Perciò il procedimento viene chiamato pastorizzazione dal nome del suo ideatore.

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I virus

Mentre i batteri ci minacciano con i veleni che fabbricano, i virus attaccano direttamente le cellule dell’organismo. Forse secernono un enzima che apre una fessura nella parete della cellula. Una volta dentro, cominciano a consumare l’alimento che avrebbe dovuto nutrire la cellula. I virus si riproducono con rapidità prodigiosa divorando tutto, e poi abbandonano la cellula morta o moribonda per andare all’assalto di un’altra.
Dato il loro modo di attacco i virus hanno un enorme vantaggio sui batteri.
Vivendo all’interno della cellula, sono largamente immuni dalla controffensiva delle forze protettive naturali dell’organismo, così come da quella degli antibiotici. Ma quando migrano da una cellula distrutta a una nuova, possono essere attaccati dagli anticorpi circolanti nel sangue.

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L’inventore del vaccino

Una delle più spaventose epidemie che flagellavano l’umanità era, una volta, il cosiddetto ‘vaiolo nero’. In venticinque anni, nella sola Europa, su una popolazione di 150 milioni di abitanti, si ebbero 15 milioni di vittime. Pensate al beneficio immenso che arrecò all’umanità l’uomo che sconfisse questo flagello.
Oggi tutti noi sappiamo cos’è la vaccinazione, ma nel 1700 essa non si conosceva. Fu un medico di campagna che la praticò per primo: Edoardo Jenner.
E’ appunto nella sua pratica di medico di campagna che fa preziose osservazioni, che lo condurranno alla felice scoperta del vaccino contro il vaiolo.
Un giorno in una fattoria, una massaia gli dice: “Io non prenderò mai più il vaiolo, perchè l’ho già preso una volta da una mucca”.
Questa era un’osservazione che Jenner aveva fatto più di una volta nelle sue visite ai contadini: molti di essi, che si erano contagiati con una pustola presa da una mucca, diventavano immuni.
Quando una mungitrice della campagna, una certa Clara Nelmes, di infetta una mano, toccando una mucca malata di vaiolo, Jenne studia il caso, fa eseguire da suo nipote degli accurati disegni della parte malata della mucca e dell’arto infetto della contadina. Col pus vaccina (le mucche si chiamano anche vaccine) un contadino ed espone i risultati dei suoi riuscitissimi esperimenti all’Accademia delle Scienze di Londra.
Da principio incontra l’ostilità di tutti, non esclusi quelli della campagna. Nessuno vuole sottoporsi ai suoi esperimenti, anzi lo considerano un uomo pericoloso che vuole diffondere il morbo.
Ma davanti all’evidenza dei fatti, il pubblico si arrese: il nome di Jenner diventò celebre in tutto il mondo. Egli morì sereno nel 1823, felice di aver strappato alla morte e alla deturpazione milioni di persone.

Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE

Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria.

Paese di collina.

Le Marche sono un paese di collina e vogliono la vista scoperta da tutti i lati. In piccolo spazio troverete una moltitudine di città e cittadelle situate su per giù nella medesima posizione, su lunghe colline piuttosto alte a cui sorride il mare da una parte, con la vista assidua del promontorio di Ancona, e il lontano, aereo Appennino dall’altra.
Il mare arriva dappertutto come la sua luce. Se ci si affaccia dall’alto, lo si vede insinuarsi, occhieggiare fin sotto le pendici dei colli più apparentemente discosti; si scoprono le coste marchigiane formatesi, al dire dei geologi, per emersione e quindi sicure dalla malaria, ma non altrettanto in antico, dalle incursioni piratesche, le quali spiegano il perchè di tante torri in luogo di campanili. Torri che, isolate oppure vigilanti sull’abitato, si rispondono da tutti i monti, segnalano a valle i passi obbligati, e danno a questo idilliaco paese un aspetto difensivo e guerresco.
(V. Cardarelli)

Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria
Ecco le dolci Marche

I campi sono così gonfi di vegetazione che il trifoglio in fiore trabocca, in primavera, sulle scarpate della ferrovia. Quale ampiezza di linee in questo paesaggio trasfigurato da una luce che è tutta un sogno, un sospiro! L’Adriatico iridescente e trinato ricorda la pittura veneziana e anche il vetro di Murano. Vorrei essere pittore per dipingere quel caos, quello spruzzo di colori, che è Fano vista da Pesaro: i quercioli e il grano piegati dalla bora; la terra bruna e leggiadra su cui spiccano le pianticelle di pomodoro, di aglio e di cipolla che si coltivano nei frugalissimi orti del litorale. I pescatori lavorano il mare come i contadini la terra. Al carro tinto di rosso e di turchino, ai buoi infiocchettati, rispondono al largo le vele colorate. Il mare arriva da per tutto con la sua luce.
(V. Cardarelli)

Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria
Pesaro

Questa, signori, è la piccola città. Vedete? Da una parte è il mare: non somiglia a nessun altro, perchè due colli, l’Ardizio e il San Bartolo, ne delimitano la proprietà… Le ore più vere della nostra piccola città sono quelle dell’alba quando i pescatori di telline sono centro metri dentro il mare coi calzoni rimboccati fino al ginocchio ché l’acqua non arriva più in su… Fra poche ore la nostra spiaggia avrà tutti i colori balneari: i rossi, il turchino, il giallo; sono le tende, gli ombrelloni, i capanni. La vita della nostra piccola città scorre serena; gli abitanti, tranquilli, non si stupiscono di nulla; gli avvenimenti, spesso notevoli, toccano tutte le tonalità: quelle persone che vengono a gruppi verso di noi, sono uscite ora dal teatro; nel salone del Conservatorio provano ancora il concerto che si farà domani… Ora sono andati tutti a riposare: è questa l’ora in cui i viali odorano di mare e biancospino e i portali trecenteschi delle nostre chiese hanno l’armonia di lunghi accordi d’organo… Questa, signori, è la piccola città vecchia, stravecchia, gotica, medievale, malatestiana, tra il mare, il Catria, Urbino e il forte di Gradara. Nelle vie scure e deserte, sulle vecchie case cariate dal vento di mare, gioconda, grande, magnifica, rimane la magica melodia di Gioacchino Rossini.
(M. Cocco)

Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria
Ascoli, dolce terra

E’ una città di torri, di ponti romani, di frati vestiti di nero, di campane minute e verdognole che chiamano alle funzioni i fedeli con un timbro conventuale e trafelato. Penso che sarebbe sufficiente un colpo di vento, di libeccio, a far suonare senza l’aiuto dell’uomo tutte queste campane a vela attaccate a campanili che sembrano blocchi di fango essiccato. Ogni sera, dopo la calata del sole, decine di chiese che hanno il colore delle fortezze assorbono la poca luce restante. E se vi approssimate alle zone più popolari e più buie, a stento riuscite a notare alle finestre donne affacciate tra vasi di garofani, magari sopra cinquecentesche lunette e formelle di terracotta rappresentanti o un’ostia col calice o un’agnella… Qui la vita si protrae fino a tarda ora pure nelle anguste rue, traducendosi in vivace bisbiglio che proviene da terrazzi nascosti. A mano a mano che vi avvicinate ai viali alberati lungo le scoscese sponde del Tronto, v’avvolge il profumo dolce e oleoso dei tigli in fioritura.
(D. Zanasi)

Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria
Macerata

Scura al pari di una certosa sulla cime di un colle; gremita di chiese seicentesche a pietra viva, a mattoni aggettati: piena di misticismo, di motivi elegiaci, di religiosi stupori… Città così ruvida e amabile, strade anguste e disagevoli come sentieri di ronda. Macerata in certi temporaleschi tramonti d’estate ha incendi purpurei… Un panorama spazioso e abbastanza profondo, aperto sopra una tondeggiante cavalcata di colli che degradano all’orizzonte. La stazione è in fondo al viale e ora è dipinta di azzurro, di un azzurro vivace che con la sua tinta e con l’aiuto della fontana lì accanto cerca di rimediare alla scarsa frequenza dei treni che vanno a Portocivitanova. Le voci, sia pur sommesse, riecheggiano col medesimo stupore di un grido in una cattedrale vuota.
(D. Zanasi)

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Urbino… ventoso

Il padre si trascinò dietro il figliolo tra le belle case bramantesche, nelle vie che si disegnavano in vaghe ondulazioni, nelle piccole vie che si restringevano sempre e poi si infossavano, su scalette che si arrampicavano, fra casucce silenziose dalle quali spuntava qualche bel ciuffo verde; o gli indicava dall’alto una cascata di gradinate che si rotolava nell’altra via o la mole panoramica del Palazzo Ducale che si scorgeva sempre, come una veduta animata, coi suoi due torricini e le due piccole cuspidi da castello di carta. Aspre erano le salite, precipiti le discese. Ritornarono in piazza, rigirarono intorno alla fontana. Poi sdrucciolarono giù quasi correndo sul selciato sonoro fino a un ripiano inferiore dove la città finiva e aveva dinanzi il panorama delle sue colline e dei suoi monti: vaste ondulazioni azzurre, colline blande, monti aguzzi.
(M. Moretti)

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La piazza del Sabato del villaggio

Recanati. E’ già quasi il tramonto, il paese si scuote dal suo torpore del pomeriggio. Le case sono chiare  e pulite: poche le botteghe, rari i passanti: una grande quiete, come se il paese si raccogliesse in un tardo rispetto. Il palazzo Leopardi è poco lontano dalla piazzetta ombrosa. Mi pare di dover camminare in punta di piedi, per non far rumore, come quando si entra in chiesa e non c’è nessuno. Un breve tratto ed ecco la piccola piazza signoreggiata dalla casa del Poeta. Anche la piazza è chiusa fra il fianco grigio d’una chiesa e il muro del “paterno giardino” unito al palazzo: spuntano dietro ad esso fiori e fogliame. Dinanzi al palazzo, la piazza che scende in lieve declivio è chiusa da quattro o cinque casette basse, con le porte e le finestre chiuse. Su quella di mezzo è scritto in una targa i marmo: Piazza del Sabato del villaggio.
(G. Civinini)

Dettati ortografici, letture e poesie sulle MARCHE per la scuola primaria
Contadini marchigiani

Quei miti e laboriosi contadini marchigiani, che gente tenace! Dormono in campagna loro. E non si lasciano vedere in paese che nelle mattine di festa, quando salgono su per la messa o a far la spesa. Radi i loro casolari sorgono, qua e là, a grandi distanze. Ivi è il “contadino”. S’è fatto dei suoi campi di grano e di granoturco, dove l’estate fanno il nido le calandre, un paradiso, questo instancabile concimatore. Le stalle sono ampie e ricche di molto bestiame. La vita scorre non senza le liete usanze contadinesche: le gite di notte da un casolare all’altro, le veglie, i canti, le danze sull’aia fin oltre la mezzanotte, nel tempo che si mondano i raccolti… L’ordine e l’allegria regnano in casa, sotto l’autorità d’una massaia rispettata come una regina. Sui campi comanda lui, il contadino. Gentilezza di costumi,  religione, contentezza del proprio stato, sono le sue doviziose divinità familiari.
(V. Cardarelli)

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Pesca nelle coste marchigiane

Sotto un bel cielo marchigiano appena toccato dalle nuvole, si lasciò il canale murato per il mare mosso da un po’ di garbino. Una giornata di pesca nell’Adriatico, ma era il mio sogno!
Il lido si allontanava. A otto chilometri dalla costa il ridente litorale tra Fano ed Ancona spiegava il suo anfiteatro di basse colline ondulate, un poco velate, con San Ciriaco là in fondo e il Conero e Sinigallia nel messo, macchia rosea e felice posata nel verde. Di lì a poco venne gettata la rete in mare, la lunga rete a imbuto che chiamano tartana. Dopo qualche ora, verso le tre, gli uomini trassero la rete. Puntando i piedi contro la balaustra e tirando a ritmo con un oh! issa! trassero in coperta la gran borsa greve di fango. Sgocciolava da tutte le parti e dentro, nella mota giallastra, si muoveva, in un infinito brulichio, tutto il viscido cosmo delle profondità inviolate. Ora si ritorna a tutto motore verso terra..
Si vola, e mentre scuffiate d’acqua dai fianchi della barca si rovesciano sul ponte, all’ombra delle vele schioccanti i nostri compagni trascelgono il pesce dal mucchio fangoso. Le triglie in una corba, calamari, razze e sogliole nell’altra.
(C. Linati)

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Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA

Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA per la scuola primaria.

Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA
Toscana gentile

Il paesaggio dell’Italia centrale annuncia subito clima più mite e mare vicino. L’ulivo che nell’Italia settentrionale appare soltanto lungo la riviera ligure e lungo le sponde eccezionalmente privilegiate dei laghi lombardi, in Toscana riveste ampiamente le pendici inferiori dell’Appennino e poi il suo caratteristico di pallido verde e di grigio argenteo. Tra gli ulivi svettano i cipressi agili e scuri, che al paesaggio toscano danno il tocco più elegante. E poi i vigneti, i famosi vigneti di Toscana, il cui succo va per l’Italia e per il mondo negli stapaesani fiaschi impagliati e attinge la dignità dei prodotti di gran classe.
Poiché la gente è solita dare ad ogni paese un epiteto semplice e riassuntivo, la Toscana è gentile. L’epiteto si addice bene ai costumi del popolo toscano, di moderato benessere e di educata affabilità, all’eleganza del suo parlare spontaneo e arguto. Ma l’attributo di gentilezza va inteso soprattutto nel suo senso più antico e più schietto di nobiltà. Tutto qui mostra la più felice e armonica fusione fra genio istintivo e raffinatezza del gusto, fra fantasia e misura.
Questo segreto ci svelano la poesia di Dante e Petrarca, l’umorismo del Boccaccio, la prosa ragionatrice di Galileo, l’architettura del Brunelleschi, la struttura delle città, ciascuna delle quali, piccola o grande che sia, è regina.

 Dettati ortografici, letture e poesie sulla TOSCANA
Cielo toscano

Chi entra in Toscana si accorge subito di entrare in un paese dove ognuno è contadino. Ed esser contadini da noi non vuol dire soltanto saper vangare, zappare, arare, seminare, potare, mietere, vendemmiare: vuol dire soprattutto mescolare le zolle alle nuvole, fare tutt’una cosa del cielo e della terra. In nessun luogo, il cielo è così vicino alla terra come in Toscana; e lo ritrovi nelle foglie, nell’erba, negli occhi dei buoi e dei bambini, nella fronte liscia delle ragazze. Uno specchio il cielo toscano, così vicino che lo appanni col fiato: monti e poggi le nuvole, e tra quelli le ombrose valli, i prati verdi, i campi dai solchi dritti (e quando è terso vedi nel fondo, come in un’acqua limpida, le case, i pagliai, le strade, le chiese). Ad ogni colpo di zappa l’aria si mescola alla terra, e subito dalle zolle spunta una peluria d’erba verde e azzurra, nascono larve di cicale e allodole improvvise.
Basta toccarla, per sentir che la nostra terra è piena di bollicine d’aria, e in certi giorni si gonfia e lievita, par che da un momento all’altro debbano nascere forme di pane. E’ una materia leggera e pura, per poterne far statue e uomini…
(C. Malaparte)

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Tra colli digradanti

Rivedo il mio dolce paese di Toscana, là dove è più bello, più sereno, più consolante, in Valdarno.  Rivedo la verde pianura ad aiuole quasi di giardino, tutte alberate, che a mano a mano si libera come ridendo dalle strette dei colli digradanti e di quando in quando è rinserrata come in un nuovo abbraccio dai colli che risalgono e le si stringono sopra. Corre diritta nel mezzo la bianca strada maestra; scendono per una traccia di salici e canne i fiumiciattoli dai soavi nomi e con dolci mormorii corrono via sotto i ponticelli leggiadri giù all’Arno. Una processione lunga lunga di pioppi, le  cui cime ondeggianti perdono figura e mobilità nella caligine biancastra del vespero autunnale, segna e seguita la corrente del fiume.
E la pianura e i colli sono popolati di case rustiche, bianche o dipinte, con le due scale esterne che salgono a congiungersi nel verone impergolato sul quale è un’insegna gentilizia o una Madonna. Al pian terreno è la tinaia, il frantoio e le stalle; l’aia in faccia e a sinistra due o tre pagliai non anche manomessi, con un pentolino sullo stollo. Ai piedi dei pagliai si accucciano i cani.
Dietro ha il monte ripido; e sul monte una fila di cipressi gracili e austeri dentellano del loro verde cupo l’orizzonte settentrionale tinto in colore di perla. Anche più indietro è una torre o un castello. Il sole calante batte nelle vetrate del piano superiore della villa, e quelle paiono incendiarsi come al riflesso di  uno scudo incantato.
(G. Carducci)

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Passeggiate fuori porta

Tutto quel che c’è di poetico, di malinconico, di grigio e di solitario in me l’ho avuto dalle campagne di Toscana, dalla campagna ch’è intorno a Firenze. Mio padre mi portava ogni domenica, fin da bambino, fuori porta. Il babbo sapeva certe strade solitarie, deserte, fuori mano dove si camminava adagio adagio. Di sopra ai muri, in cui la strada era incassata, si spenzolavano i rami convulsionari dei bigi ulivi, o sfilavano i rosai nani, poveri e non curati, i rosai con le rose fradice e sbiancate che cascavano foglia a foglia giù nella zanella a marcire.  Quante miglia rasente a quei muri! Muri bassi, quasi muriccioli che invitavano la gente a sedere; muri umidi, toppati di licheni bigi e di fungaie verdi, colle scolature nere e luccicanti delle feritoie; muri altissimi con alberi grossi, neri e fronzuti in alto. Ogni tanto i muri si aprivano e succedevano le siepi vive, alte, prunose, bianche di brina e di neve in inverno, bianche di fiori in primavera, nere di more alla fine dell’estate. E più lontano ancora, sparivano muri e siepi, e la strada solinga e massicciata tra i cipressi o gli abeti e avevo là sotto le valli solcate e i prati  bagnati e i fondi di nebbia e l’illusione dell’infinito.
(G. Papini)

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Colline fiorentine

Per coloro che non conoscono Firenze o la conoscono poco, dirò come essa sia una città molto graziosa e bella, circondata strettamente da colline armoniosissime… E’ pregio inestimabile di queste colline l’essere disseminate di ville, di castelli costruiti nei punti più suggestivi, volti in tutti i sensi, di tutte le epoche, d’ogni stile, e che mai ne turbano l’armonia; circondati da parchi e giardini che invece di produrre un’atmosfera di irrealtà da sogno o da fiaba, per virtù di certa severità e raffinatezza, riescono a darci l’illusione della realtà più semplice, di intimità domestica, di nobiltà sicura, di sobrietà e saggezza. Alle ville e ai castelli si aggiungono le ville più piccole, le villette, le case, i casolari, i paesi e borgate che la varietà del suolo lascia apparire in un complesso che rende insaziabile l’occhio dell’osservatore per il numero inesauribile delle scoperte.
(A. Palazzeschi)

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Firenze

Era una di quelle belle giornate di freddo asciutto e di luce cruda che fan risaltare la bellezza realistica e insieme trascendentale di Firenze. Via Tornabuoni, illuminata dal sole, svelava le forme e lo spirito del Rinascimento, parlava il linguaggio dell’architettura di allora, si propagava nell’armonia miracolosa della pietra divenuta canto: Palazzo Strozzi, nel fondo Palazzo Antinori. Festosa l’aria, e così l’aspetto della gente. E il senso del Natale: al principio del muricciolo di Palazzo Strozzi, sull’angolo del chiassolo, la mostra di alberi di Natale, di agrifogli coi pallini rossi, ciocche di vischio dalle lacrime ceree.
(B. Cicognani)

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Arezzo

Dal muretto dell’orto della casa del Vasari, presso il tondo dell’acqua tra gli alberi da frutto, l’occhio riposato raccoglie in prospettiva i digradanti tetti di Arezzo, misura in basso gli spazi delle vie e delle piazze col nitido rilievo d’una incisione. Finché la campana grossa e vicina di Santa Maria in Gradi, e quella leggera di San Vito poi, e via via dell’Annunziata, di San Domenico, di San Lorentino e tutte le campane non riempiono il cielo e volgono la giornata.
(P. Pancrazi)

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Siena

Siena, da sotto il mio ciliegio, pareva un arco che non si poteva aprire più, e le sue case, giù per le strade a pendio, parevano frane che mi mettevano paura; con i tetti legati dalle edere cresciute su per le mura di cinta, le mura che non si apriranno mai. Ed io allora andavo a guardare la città da un’altra parte, quasi da quella opposta, dalla Porta Ovile. E vedevo i suoi orti squadrati entrare, con un angolo più alto degli altri, tra le case più rade; oppure, l’uno appresso all’altro, farsi largo e posto, ma fermati da una fila di cipressi la cui ombra oscurava il verde dell’erba; e qualche pesco fiorire e maturare accanto alle campane di una chiesetta, e qualche olivo chinarsi dietro tutta la campagna soave che impallidiva lontano, rasente i monti chiarissimi, talvolta più luminosa del sole.  E se guardavo la città dall’altra altura, da Vignanone, le voci degli uccelli si allargavano nell’azzurro come il vento. Le rose dei giardini, senza colore e senza profumo, la cingevano tutta: le finestre erano aperte. Da parecchie miglia lontano, io vedevo invece le sue torri come tizzi ritti che si spegnevano nella cenere del crepuscolo.
(F. Tozzi)

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Grosseto nell’Ottocento

Grosseto era una cittadina malinconica e serena, fatta di case che al primo entrarci odoravano di sigaro, di polvere, di spigo e di mele cotogne, come cassetti di vecchi mobili, chiusa in una cerchia rugginosa di vecchie mura bastionate e arborate come quelle di Lucca. Sotto le grandi acacie la domenica suonava la banda, e la gente ci portava a spasso il vestito delle feste, da mezzo pomeriggio fino al che il solito tramonto palustre affocato e torbido scendeva ad arrossare la piatta campagna sottostante dall’orizzonte brumoso agli spigoli del gran bastione stemmato con l’arma dei Medici. E quando veniva aprile, per certe strade deserte ed erbose, di là dalla vecchia chiesa di San Francesco, l’odore delle acacie fiorite scendeva ventate giù dalle mura, e dava al cuore. Le case avevano le grondaie piene d’ortiche e le persiane tutte verdi. E pareva che anche i muri avessero messo le foglie.
(G. Civinini)

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Fiera di quaresima a Firenze

Banchi e banchi, uno accanto all’altro, in due file dirimpettaie che si estendono nella lunghezza del quartiere e che straripano di frittelle, di torrone, di schiacciata tipica e di zucchero filato. E i brigidini.
Il brigidino è l’attrazione della fiera. Lo si impasta e cuoce sotto i vostri occhi. Lo si mangia tiepido e croccante.
E’ in virtù del suo richiamo che la gente affolla la fiera. Il brigidino è una cosa da nulla, appena un’ostia di più grandi dimensioni, pure ha una consistenza, una fragranza, un sapore che si scioglie in bocca. I carretti ne sono pieni, dapprima, ma via via che l’ora monta e la folla cresce, si formano le code in attesa davanti ai banchi dal fornelletto sul treppiede, ove l’esperto brigidinaio rigira le sue “schiaccie”.
I venditori sono tutti vestiti di bianco, con in testa copricapi da cuochi di grande albergo. Magnificano la merce a squarciagola, persuaso ognuno di essere eletto da Santa Brigida in persona a custode del segreto per la confezione del biscotto.
(V. Pratolini)

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Alpi Apuane

La mia ora per amarle, era la mattina; la mia stagione la primavera. Lassù, lassù, dal verde cupo delle pinete sul mare, al più chiaro verde dei castagneti a mezza costa, alle alture già nude e sovrane, le grandi moli si levano audacemente; e sagomavano altissime l’orizzonte, attendevano nel celeste pallido delle cime che trascoloravano.
E a un tratto la luce alitava dietro di loro: come una diffusa nebbia chiara, già orlava d’un tremito splendente le loro creste; poi, con una irruenza improvvisa, il sole balzava, raggiava maestoso e terribile, le velava d’una cortina di fulgore, ascendeva sicuro. La cortina si spegneva e le Apuane cominciavano le loro variazioni di colori e di rilievi; si disegnavano catena contro catena, in una diversità di azzurri che rivelavano le valli tra le fiancate di rupe; passavano dal più denso cobalto, ai glauchi più lattei, ai più ferrei grigi; fino a stare, nel meriggio, bianche e calcinate nella severità abbagliante; per ripigliare poi via via fino a sera i passaggi dal celeste all’azzurro, all’amaranto al viola; e bruciare, accendendosi d’un tratto in certi miracolosi tramonti, come spaventevoli torce senza fumo; e spegnersi del tutto, svanire; riapparire aeree, nell’ultimo crepuscolo; e, se c’era la luna, biancheggiare indefinibili come sogni, nella vastità sonnolenta.
(E. Cozzani)

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Il Valdarno

Di quelle passeggiate pomeridiane e vespertine mi restano molti ricordi; vaghi i più, e dove si mescolano il colore dei campi e dei cieli di quel mio caro Valdarno; l’incanto di certi solicelli distesi per piagge solitarie e tacite, di certi tramonti piedi di frulli di uccelli, con qualche voce di bifolco o qualche muggito o belato: lo splendore e il profumo delle siepi fiorite, la bianchezza della strada polverosa, dove d’improvviso piombano i primi radi goccioloni di una pioggia estiva che ci faceva correre verso casa a ripararci sotto un ponticello o in un capanno di contadini. Taluni ricordi invece  molto distinti e vivi, come quello di un bel ramo di mele lazzarole verdi e rosse rubato da noi in un campo per farne un presente al maestro.
(A. Soffici)

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Maremma

Sono nato e cresciuto in Maremma, a poca distanza dal mare, in un paese urbano e campagnolo, rustico e civile, che ha serbato intatto il secolare orgoglio della sua piccola cerchia antica, torreggiante e murata, e tiene la qualità di forestiero per indice di villania. Circondato da un territorio amplissimo e diverso d’aspetti e di natura, qui grasso e ferace, onusto di biade, di frumento, di vigne, di orti e di canneti, là isterilito e impraticabile per i sassi affliggenti della vecchia Etruria ventosa che biancheggiano un po’ da per tutto. E’ esposto a mare e monte, e ne sorveglia le strade, rifiata lo scirocco e la tramontana, ma i venti variano e passano su di esso come le eterne stagioni, né dal tempo dei tempi sono buoni di raccontargli più nulla. Il suo costume non cambia.
(V. Cardarelli)

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Il mutevole volto della Maremma

La varietà del paesaggio è una caratteristica comune a tante province d’Italia e a tanti altri luoghi del mondo, ma nel Grossetano essa è veramente spiccata e colpisce il visitatore: sulla costa, folte pinete si alternano a larghi arenili, strette insenature rocciose lasciano il posto a tratti rettilinei con laghi costieri; e una vasta laguna, limitata dai caratteristici tomboli, separa un’isola dal continente; nell’entroterra si allarga un’ampia pianura; poi, ecco gruppi collinosi complessi e frazionati, qualche volta rivestiti dalle colture e dalla vegetazione, altre volte con nude pareti impervie; nell’interno si elevano vere, imponenti montagne.
Incontriamo luoghi dove il tempo sembra essersi fermato ai secoli del Medioevo e alle più remote età degli Etruschi e, a poca distanza da essi, centri in continuo e rapido sviluppo.
Provincia di Grosseto e Maremma si possono considerare sinonimi, perchè il Grossetano ne comprende i nove decimi, lasciando a Livorno il tratto da Cecina a Follonica.

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Dettati ortografici e letture su SAN MARINO

Dettati ortografici e letture su SAN MARINO per la scuola primaria.

Dettati ortografici e letture su SAN MARINO
Una piccola repubblica

Se percorriamo la strada statale 72, da Rimini verso l’interno, andiamo incontro al dolce paesaggio di basse montagne e colline ben coltivate, nell’angolo estremo della Romagna: è un mareggiare calmo, a lunghe ondate che si esauriscono nella pianura. Dopo una decina di chilometri la strada inizia a salire, in modo sempre accentuato, ad ampie curve, fino a che ci troviamo di fronte ad un bastione di roccia calcarea, disposto parallelamente al mar Adriatico, fatto di rupi intagliate, rotto da strapiombi fin di 200 metri. E’ l’ultima compatta increspatura dell’Appennino Tosco-Emiliano, verso oriente. Il grosso banco roccioso spicca all’orizzonte in lungo giro.
Lassù, secondo la tradizione, circa l’anno 300 dC, si formò una comunità religiosa, guidata dal tagliapietre dalmata Marino, che esercitò subito diritto di asilo e lo difese con vigore.
La comunità fu riconosciuta autonoma e indipendente dalla Chiesa nell’anno 885.
San Marino è uno dei più antichi Stati indipendenti d’Europa. Nel X secolo divenne munita roccaforte e si diede un ordinamento comunale, conservato, nelle sue linee fondamentali, ancora oggi: il potere legislativo è esercitato dal Consiglio Grande e Generale, di sessanta membri, eletti ogni cinque anni; il potere esecutivo è esercitato da due Capitani Reggenti con funzione di capo di Stato e presidente del Consiglio Grande e Generale. I Capitani Reggenti sono scelti ogni sei mesi tra gli appartenenti al Consiglio Grande e Generale.
La Repubblica unì a sé alcune terre limitrofe e costituì un piccolo Stato libero che riuscì sempre a difendere la propria indipendenza.

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Il territorio

Il territorio della Repubblica di San Marino occupa la dorsale del monte Titano (m 749) con le sue tra note torri (penne) caratteristiche, tra le province italiane di Forlì e Pesaro-Urbino.
Non ci sono fiumi di rilievo ma corsi d’acqua torrentizi, come il San Marino, affluente del Marecchia, che bagna la parte sud-occidentale, e il Marano, che segna un tratto del confine orientale e sfocia nell’Adriatico a nord di Riccione.

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San Marino

Capitale della Repubblica è la città di San Marino, dal caratteristico aspetto medioevale. Notevoli sono la chiesa trecentesca di San Francesco, il Palazzo del Governo, la basilica del fondatore con le nicchie di San Marino e di San Leo scavate nella viva roccia, la chiesa di San Quirino, dove fu ospitato Garibaldi nel 1849, le rovine delle antiche mura con le tre torri.
Il secondo centro della Repubblica è Borgomaggiore, annidata su un declivio ai piedi della rupe, mercato rurale.
Ricordiamo ancora Serravalle, sulla statale 72, e Dogana.
La principale via di comunicazione è la carrozzabile Rimini-San Marino; altre strade collegano la capitale con località italiane. Una filovia da Borgomaggiore rende più agevole e rapida la salita al monte Titano.

Dettati ortografici e letture su SAN MARINO
Le risorse economiche

L’agricoltura è fiorente. Fanno spicco la coltivazione del grano, della vite, degli alberi da frutto e l’allevamento del bestiame.
L’industria si fonda sulla tessitura, sulla fabbricazione della carte, sulla lavorazione delle pelli, dei colori, dei saponi, del cemento, della calce, dei dolciumi. Un posto a sé, per la sua importanza, occupano l’artigianato della ceramica, la lavorazione artistica della pietra e degli oggetti ricordo.
La Repubblica di San Marino è meta di un vivace movimento turistico. I visitatori sono attirati dall’amplissimo panorama, dalla singolare vita della comunità indipendente, dalle manifestazioni.

Dettati ortografici e letture su SAN MARINO

Dettati ortografici letture e poesie sull’EMILIA ROMAGNA

Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA per la scuola primaria.

Cartina fisica
Confini: Mar Adriatico, Veneto, Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Repubblica di San Marino.
Lagune: Valli di Comacchio
Monti: Appennino Settentrionale (Ligure, Tosco-Emiliano).
Cime più alte: Maggiorasca, Cusna, Cimone, Fumaiolo.
Valichi: di Cento Croci, della Cisa, del Cerreto, dell’Abetone, dei Mandrioli, di Verghereto.
Pianure: Padana.
Fiumi: Po, Reno con il suo affluente Santerno, Lamone, Montone, Savio, Rubicone, Marecchio con il suo affluente Uso. Affluenti di destra del Po: Trebbia, Taro, Parma, Enza, Secchia, Panaro.
Canali: Corsini.

Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA
L’Emilia Romagna

L’Emilia trae il suo nome dalla lunga e diritta via Emilia, che Roma fece costruire, da Rimini a Piacenza, nel 187 aC.
Distesa obliquamente lungo il versante padano degli Appennini, dalle cui valli scendono numerosi affluenti del Po, l’Emilia è una regione fertile e in parte pianeggiante.
Al confine dell’Emilia con le Marche, svettano le tre torri del Castello di San Marino, che dall’alto del Monte Titano guarda la verde pianura della Romagna e, lontano, il Mar Adriatico.

Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA
Vita economica

L’Emilia è una regione essenzialmente agricola. Ha boschi di castagni dall’Appennino, vigneti sulle colline, e abbondantissime colture in pianura: di grano, di barbabietole da zucchero, di granoturco, di canapa e di alberi da frutto. L’abbondanza dei foraggi permette l’allevamento intensivo dei bovini, dei cavalli e dei suini.
Nelle Valli di Comacchio sono importanti la piscicoltura e la pesca delle anguille.
Tra le industrie hanno raggiunto il massimo sviluppo quelle alimentari. Famosa è l’industria dei salumi (zamponi di  Modena, mortadella di Bologna), i pastifici (tortellini e tagliatelle), i caseifici (formaggio reggiano e parmigiano) e le industrie delle conserve di pomodoro nel Parmense e nel Piacentino.
Importanti sono anche le industrie chimiche e meccaniche, i canapifici e le fabbriche di inchiostri e di profumi.
I prodotti del sottosuolo, localizzati quasi tutti nella fascia più bassa dell’Appennino, sono lo zolfo, il gesso, la torba.
A Cortemaggiore vi sono ricchi giacimenti di petrolio e di metano.
Un’industria di notevole importanza è quella alberghiera, molto fiorente lungo il litorale adriatico. Durante l’estate le stazioni balneari delle province di Ferrara, Ravenna e Forlì sono meta di numerosi turisti, italiani e stranieri, che ritemprano la loro salute riposando sulle ampie ed assolate spiagge.
Nella regione, attraversata da molte e belle strade e da una fitta rete ferroviaria, il commercio è attivissimo.

Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA
Province

L’Emilia Romagna è divisa in otto province.
Bologna, l’antica Felsina degli Etruschi, si adagia nella pianura, presso lo sbocco della Valle del Reno. Centro agricolo e industriale, è un nodo ferroviario importantissimo e sede di una celebre Università.
Ferrara, presso il Po, è al centro di una zona agricola bonificata, molto fertile. Fu sotto il dominio degli Estensi, come attestano i meravigliosi palazzi che ancor oggi abbelliscono la città.
Forlì, l’antico ‘Forum Livii’ (mercato di Livio), giace nella pianura romagnola, ai piedi dell’Appennino.
Modena sorge in mezzo a campagne rigogliosissime, allo sbocco delle valli percorse dalla Secchia e dal Panaro. Celebre è la torre del Duomo, detta la Ghirlandina.
Parma, la cui importanza è soprattutto agricola, vanta numerosi caseifici e conservifici. Nella provincia, a Busseto, nacque Giuseppe Verdi.
Piacenza, città sul Po, è l’anello di congiunzione tra l’Emilia Romagna e la Lombardia.
Ravenna, collegata al mare dal Canale Corsini, è famosa per i suoi monumenti bizantini e per la pineta, ricordata da Dante, che in questa città è sepolto.
Reggio Emilia è città agricola e industriale. Fu patria del poeta Ludovico Ariosto.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio dell’Emilia Romagna?
Quali sono le caratteristiche principali della zona di pianura e della zona appenninica?
Se nell’Emilia ti volessi recare in Toscana, quali paesi o valichi dovresti superare?
Dove sono le valli di Comacchio e perchè sono note?
Come sono le comunicazioni in Emilia?
Quali sono le principali risorse economiche della regione?
Dove si estrae il metano?
Perchè è famosa Cortemaggiore?
Che cosa sono le salse?
Lungo le coste emiliane è molto praticata la pesca?
Perchè il nome di Faenza è conosciuto in tutto il mondo?
Ricerca notizie su tutti i capoluoghi di provincia dell’Emilia Romagna.
Come si chiama il piccolo Stato indipendente che si incunea fra le Marche e la provincia di Forlì? Quando nacque?
Quali sono le sue fonti di ricchezza?
Ricerca notizie sulla cucina emiliana e sulle usanze e tradizioni degli Emiliani.

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Le valli di Comacchio

Sulle Valli, quando cala la sera, i pensieri si intridono di ansie leggere e sembrano partecipare della solitudine immensa che il paesaggio intorno esprime. Un volo di rondini frulla per un poco sopra il capo; poi tutto ricade nel silenzio immoto della laguna. Le erbe e i canneti sembrano vivere una lunga, interminabile attesa; anche Spina, la città misteriosa, sepolta sotto le acque, attende di essere rivelata agli occhi dell’uomo. E’ un paesaggio tutto da scoprire, tutto da amare per la sua intatta bellezza non guastata dall’opera dell’uomo; lo sanno i cacciatori che scivolano sull’acqua nei piatti barchetti da valle in cerca d’un posto propizio alla caccia.

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L’Emilia Romagna

Deve il suo nome alla via Emilia, antica strada che la attraversa in tutta la sua ampiezza da Rimini a Piacenza, e che era stata aperta nel 187 aC dal console Emilio Lepido.
Dopo le invasioni barbariche divenne una provincia dell’Impero di Bisanzio (antico nome di Costantinopoli) ed ebbe in Ravenna la sua capitale.
Durante la dominazione bizantina fu chiamata Romania, ossia ‘terra di Roma’, la parte di questa regione corrisponde all’attuale Romagna.
Dopo la dominazione longobarda, la sua storia fu la storia delle sue città e dei rappresentanti delle grandi famiglie che riuscirono a imporvi la propria signoria: gli Estensi a Ferrara, i Bentivoglio a Bologna, i Da Polenta a Ravenna, i Malatesta a Rimini. Tali signorie, a cominciare dal secolo XVI, passarono a far parte dello stato Pontificio; oppure, come Modena, Reggio, Parma e Piacenza, si eressero a ducati, finché, nel 1860, Emilia e Romagna furono definitivamente annesse al Regno d’Italia.
(E. Poggi)

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Sguardo d’insieme

Da Piacenza a Rimini, dall’Appennino all’Adriatico, campi molto fertili, terra grassa, condotta a svariate colture, da una gente vigorosa, piena di gioia di vivere, l’Emilia Romagna è la dispensa dell’Italia; cereali, lino, frutta, bovini di razza pregiata, formaggi celebri, salumi e mortadelle bolognesi, vini profumati, pietanze e cucina note dovunque; una grande distesa acquitrinosa.
Le Valli di Comacchio, molto pescose; gore d’acqua stagnante, i maceri per la canapa e le saline; spiagge assolate, ampie, che si susseguono da Ravenna a Cervia, a Milano Marittima, a Cesenatico, a Bellaria, a Igea Marina, a Torre Pedrera, a Viserba, a Rimini, a Marebello, a Miramare, a Riccione, a Misano, a Cattolica, biancheggianti di moderne, confortevoli costruzioni, iridate di capanni, di tende e di ombrelloni, tra l’azzurro del mare ed il verde cupo delle pinete costiere; al centro della Regione la via Emilia, che si snoda dritta, come se fosse stata tracciata da un’immensa riga da disegno, che riunisce i centri più importanti , rendendo rapidi gli scambi, i trasporti, le comunicazioni, facendo da via principale al grande, simpatico, ospitale paese.
(M. Menicucci)

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Zona appenninica

La rudezza del clima, le difficoltà delle comunicazioni, la povertà del manto boscoso (castagni) e lo scarso rendimento delle colture e della pastorizia ha causato l’esodo della popolazione dalla montagna verso la vicina pianura. Molte case e molti terreni, pertanto, sono rimasti abbandonati.
Migliori sono le condizioni economiche della fascia sub-appenninica dotata di colture cerealicole e di vigneti (Lambrusco, Sangiovese, Albana).

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Zona di pianura

E’ tutta una zona di bonifica, frutto di un lavoro assiduo, che va dell’età romana ai nostri giorni. Chi la contempli dal finestrino del treno in corsa è colpito dall’incessante succedersi di campi, tutti di forma regolare, separati da filari di alberi e viti. Il paesaggio affascina con la varietà e la ricchezza delle sue coltivazioni. I contadini della pianura emiliano-romagnola vivono in case isolate nella campagna… Le abitazioni rurali constano di solito di due edifici, separati o affiancati, uno per la dimora della famiglia e uno adibito a stalla.
Questa terra è la prima per la produzione del frumento, la prima nella produzione della barbabietola da zucchero, ed occupa una notevole posizione nella coltivazione della vite, della frutta e degli ortaggi; sviluppatissimo è l’allevamento suino; nell’allevamento bovino è superata solo dalla Lombardia.
Tale ricchezza di prodotti dà vita ad una forte esportazione ed incrementa lavorazioni locali: conserve, ortaggi e frutta, caseifici, salumifici, distillerie e stabilimenti vinicoli.

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La Romagna

Romagna significa ‘piccola Roma’, perchè i Romani diedero grande importanza a questo lembo di spiaggia adriatica. La flotta imperiale aveva il suo porto nei pressi di Ravenna, che una volta si trovava quasi sulla riva del mare, che ora invece è lontano, a causa dell’interramento della costa.
E Ravenna, dopo Roma, fu la città più importante d’Italia. I bellissimi monumenti rimasti sono il segno della sua potenza e della sua ricchezza.
A Ravenna di trova la tomba del re Teodorico e poi quella di Dante Alighieri.

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Il Ferrarese

Tutto immerso nella pianura, il Ferrarese ha i suoi confini naturali nelle acque: a oriente l’Adriatico, a nord il Po, a sud il Reno. Ad occidente, dove è il lato di confine meno esteso, non ci sono fiumi a delimitare il territorio, ma il Panaro l’attraversa per un tratto diagonalmente. La provincia ferrarese, la cui altitudine è, in media, di quattro metri e mezzo sul livello del mare, trae dall’acqua non solo i suoi confini, ma la sua vita e la sua storia: storia di fiumi e di paludi, di canali collettori, di argini…
La parte di protagonista, in queste vicende di secoli, spetta al Po che, in questo tratto di pianura è ormai a breve distanza dal mare.
In tempi relativamente vicini (pare ancora nell’età romana) questa verde ed opulenta campagna era, press’a poco, un’enorme distesa di acquitrini dove i rami del grande fiume vagavano verso il mare trascinando con sé detriti: questi, depositandosi a lungo, fecero emergere alcune strisce di terra sulle quali si avventurarono i primi coloni.
Sembrerà strano che uomini si siano avventurati tra le paludi infide stabilendovi le dimore, quando ancora tante altre terre asciutte e disabitate avrebbero potuto offrire loro un insediamento più sicuro; ma c’è una ragione: l’acqua degli acquitrini, se obbligava ad una vita di dura lotta contro le sue insidie, d’altra parte assicurava una validissima difesa dai pericoli esterni.

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Il più grande nodo ferroviario d’Italia

Questo di Bologna è sicuramente il centro nevralgico della rete ferroviaria italiana, il nodo più importante a cui fanno capo tutte le comunicazioni che collegano le estreme regioni della penisola.
Il cuore del sistema circolatorio delle ferrovie è Bologna, in quel complesso di scali e di stazioni che formano il nodo ferroviario della grande città emiliana.
Come in una grande città esiste una via di circonvallazione che serve a dirottare il traffico dei veicoli pesanti e di transito, così anche il nodo bolognese dispone di una linea di circonvallazione, chiamata linea di cintura, che unisce direttamente la linea di Milano alla direttissima di Firenze non solo, ma mediante opportuni raccordi e bivi, allaccia fra di loro le linee di Verona, Venezia e Ancona.
(M. Righetti)

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Agricoltura

La pianura emiliana, ampia e bene irrigata, si presenta divisa in poderi di estensione notevole e fruttuosa; dall’alto, in una visione panoramica, appare ancora il reticolato dell’antica colonizzazione romana. Molto elevata è la produzione di cereali: primo fra questi il frumento, quindi il riso e il granoturco. Ottimi risultati dà la coltivazione delle patate e delle barbabietole da zucchero. Importante è la produzione della canapa. Anche la vite offre un prodotto abbondante (Lambrusco, Albana, Sangiovese): l’Emilia Romagna si pone al quarto posto (con la Toscana) tra le regioni vinicole.
Nella pianura alta e sui declivi collinari si ha una notevole produzione di pomodori e di frutta (mele e pere). Ricco è il patrimonio zootecnico, in particolare quello di bovini e suini.

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L’attività industriale

Un’agricoltura così varia e ricca offre l’avvio ad un’industria di trasformazione fra le prime in Italia: numerosi sono gli stabilimenti conservieri, lattiero-caseari (celebri i formaggi reggiani e parmigiani), tessili.
L’allevamento dei suini alimenta industrie di insaccati di fama mondiale (mortadelle, prosciutti, zamponi).
Oltre alle industrie alimentari vi sono attive industrie meccaniche agricole, di automobili di lusso (Ferrari, Maserati).
In molti centri emiliani sono sorte negli ultimi anni aziende per la produzione di calze, maglierie, calzature, i cui prodotti hanno invaso i mercati internazionali.
L’Emilia Romagna, povera di risorse idroelettriche, ha trovato nel metano una fonte di energia che ha dato slancio alle iniziative industriali. I pozzi di Cortemaggiore, presso Piacenza, distribuiscono metano a tutte le industrie della valle Padana e costituiscono la base di un’importante industria chimica per la produzione di fertilizzanti e gomma sintetica.
I turisti sono attratti dalle bellezze delle città storiche quali Parma o Ravenna, o Ferrara, e dalla stupenda linea di spiagge vaste e sabbiose, estese lungo tutta la costiera adriatica, dalle valli di Comacchio alle Marche. Centri de turismo balneare sono le città di Cervia, Cesenatico, Rimini, Riccione, Cattolica.
(Assereto-Zaina)

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I prosciutti vanno a balia a Langhirano
A prima vista il titolo può sembrare uno scherzo, ma non è così. Langhirano è un centro posto vicino al torrente Parma, e dalle sue case escono i migliori prosciutti dell’Emilia. Siccome i prosciutti dell’Emilia sono i migliori d’Italia, da Langhirano giungono i più succulenti prosciutti italiani alle mense dei buongustai. Può sembrare strano, ma è la verità.
Il prosciutto ha bisogno di una certa lavorazione e soprattutto di una lunga stagionatura, e in nessun luogo della valle padana esso asciuga, matura, si addolcisce e acquista profumo come a Langhirano.
Sicché in questo paese, sito a monte di Parma, dove cominciano a sollevarsi le prime colline dell’Appennino, non solo si lavorano tutti i prosciutti degli allevamenti suini locali, ma ne vengono inviate grandi quantità da fuori a stagionare, a guadagnare squisitezza.
Giungono dalle circostanti province emiliane, dalla bassa Lombardia, dalla Brianza. Langhirano è il posto di villeggiatura del prosciutto.
Queste pingui cosce suine di provenienza forestiera vengono chiamate prosciutti dati a balia. E qui anche i prosciutti meno nobili diventano vere leccornie.
Come ciò avvenga, e perchè avvenga qui e non altrove, rimane un mistero. Un felice clima, una strana salubrità dell’aria devono indiscutibilmente operare sui rosati prosciutti.
Visitare i luoghi di stagionatura è una visione sbalorditiva: in lunghissimi cameroni sono collocate, secondo la lunghezza, rastrelliere di legno, dalle quali pendono, simili a pere mostruose, miriadi di cosciotti. La lavorazione avviene in modo molto semplice, i prosciutti freschi vengono lavati con acqua tiepida e cosparsi di sale, messi in frigorifero, a zero gradi, per 30-40 giorni.
Non si usano droghe a Langhirano, ma unicamente sale, e ciò rende il prodotto più delicato e digeribile. Quindi si portano nei locali di stagionatura, dove devono prendere quanta più aria possibile.
Di notte e nei giorni di gelo si chiudono le finestre. La stagionatura si compie in circa cinque mesi, dopo di che i prosciutti sono pronti per essere consumati. Per ogni stagione, a Langhirano, vengono messi a balia non meno di 100.000 prosciutti,
(M. Carafoli)

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Le salse

Sulle ultime colline dell’Appennino Emiliano, in vicinanza della pianura, si osservano parecchi luoghi, specialmente nel Reggiano, dei curiosi mucchi di melma, mutabili di forma, ma non di rado assomiglianti a vulcani in miniatura. Sono le salse, altrimenti chiamate vulcani di fango: e mentre il primo nome ci richiama il fatto che il fango delle salse è leggermente salato, il secondo vuole accennare a manifestazioni eruttive.
Difatti le salse hanno di quando in quando le loro eruzioni; ma sono, direi, quasi eruzioni per burla: non materie infuocate, ma semplicemente acqua fangosa salata e melma viscida, talvolta odorante di petrolio, escono dalle bocche delle salse.
Coi veri vulcani, però, le salse non hanno niente a che fare. Il gas che esce terreno argilloso è metano che si può accendere con un fiammifero, ma non si incendia da sé nelle eruzioni delle salse. Col gas viene su l’acqua dal sottosuolo, ed essa imbeve il terreno, lo spappola, forma il fango che, accumulatosi, dà origine al conetto.
Insieme all’acqua viene su talora un po’ di petrolio che forma chiazze iridescenti. Del resto, non si deve credere che sempre si formi un monticello vulcanico in miniatura, poichè la fanghiglia può anche espandersi senza assumere forme particolari e definitive.
(A. Sestini)

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Metano in Emilia

Cortemaggiore, a oriente di Piacenza, nelle pianure, poco lontano dalla riva meridionale del Po, è oggi l’emblema del metano; sebbene altri giacimenti importanti si trovino in Lombardia, a nord del Po, a Caviaga (qui si aprì il primo pozzo), a Cornegliano, a Bordolano, a Ripalta e, in Emilia, a Correggio, a Imola, a Cotignola, ad Alfonsine, fino a Ravenna, dove si ha un giacimento di prima grandezza; quindici giacimenti in tutto, a una profondità media tra i 1600 e 1800 metri; e oltre 60 pozzi.
Il metano italiano, scoperto e messo in valore nel dopoguerra, è il più abbondante d’Europa, ed i metanodotti vanno avvolgendo l’Italia del nord in una rete, già fitta in Lombardia specie intorno a Milano, ben delineata nel Veneto, con rami che si spingono o stanno per spingersi a Bologna, a Torino, a Genova, a Domodossola, e perfino a Sondrio e a Trento.
L’immensa importanza di questa nuova sorgente di energia serve anzitutto le industrie e secondariamente l’autotrazione e i bisogni domestici.

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Comacchio e la pesca

Comacchio è una città stipata sopra isolotti che si alzano pochi decimetri sul livello del mare, tanto che non si sa neppure se sia più terra o più acqua. Da almeno millecinquecento anni vi abita una popolazione di pescatori, isolata, in mezzo a paludi salmastre. Nella piscicoltura, una volta assai fiorente, sta la principale risorsa di questi luoghi. La laguna  è popolata di anguille e di cefali. Durante i mesi di febbraio, marzo e aprile, in cui si aprono le comunicazioni al mare, entra nei vari campi della laguna un numero straordinario di pesciolini; e questa loro venuta è detta montata. Chiuse dopo quel tempo le chiaviche, i pesci che si sono rifugiati nella laguna vi rimangono fino a che, aumentando la salsedine delle acque per l’evaporazione estiva, non si risveglia in essi, ormai giunti alla maturità, l’istinto di ritornare al mare per incontrare un’acqua meno salata. Da questa circostanza si trae il massimo profitto per fare la pesca. Venuto il settembre davanti alle chiaviche di ciascun campo, si depongono dai vallanti i  lavorieri, che sono labirinti di canne e di filo di alluminio, forniti di una larga apertura dalla parte che guarda il campo vallivo e ristretti e chiusi dal lato opposto. Allora le chiaviche vengono aperte. L’acqua del mare penetra lentamente nei campi attraverso i lavorieri, e i pesci si affettano a correrle incontro, imprigionandosi da sé nei labirinti.

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L’arte della maiolica, ovvero Faenza

Tradotto in venti lingue differenti, il nome di Faenza significa ‘l’arte della maiolica’; questa è dunque la prova più evidente che gli artigiani faentini hanno raggiunto nell’arte della maiolica il massimo della perfezione.
I primi accenni di quest’arte risalgono al lontano 1142 e mai quest’artistica operosità è stata interrotta nel giro di otto secoli. Una decina di botteghe maiolicare, dotate di maestri di fama che supera le frontiere della Penisola, continua la tradizione dei vasai faentini (vasi, piatti, boccali, tazze, anfore).
Un pregiato Istituto d’Arte accoglie gli allievi di ogni regione d’Italia e dell’estero iniziandoli alla ricerca di sempre nuove forme d’arte e di nuovi e migliori mezzi di lavorazione.
Anche Imola, Bobbio e Sassuolo si distinguono nella lavorazione della ceramica.
Molti falegnami sono specializzati e specialisti nella lavorazione di mobili moderni o imitando vecchi stili.
Un po’ dappertutto bravi e raffinati artigiani del legno, del ferro battuto, della bulinatura del cuoio. Carpi e Mirandola vantano la lavorazione del truciolo per la fabbricazione di cappelli e altri oggetti; Castel san Pietro quella degli ombrelli, Budrio quella delle ocarine, Ciano d’Enza lavorazioni di vimini.
(G. Menicucci)

Province
Capoluogo della regione è Bologna, chiamata ‘la dotta’ per la sua famosa Università, che è la più antica d’Italia, e ‘la grassa’ per le sue note specialità alimentari. E’ cospicuo centro commerciale e industriale e importante nodo ferroviario e stradale. Vanta pregevoli monumenti, tra cui le chiese di san Petronio, di san Francesco e di san Domenico, il Palazzo del Podestà, la Fontana del Nettuno, le Torri pendenti degli Asinelli e della Garisenda.
Piacenza è attivo centro agricolo-commerciale, sede di numerose industrie e nodo di comunicazioni. Fra i suoi monumenti il più insigne è il Palazzo Comunale, detto ‘il Gotico’.
Parma è grande mercato di prodotti agricoli e sede di industrie alimentari e meccaniche. Celebri monumenti sono il Duomo e il Battistero.
Reggio nell’Emilia è importante centro agricolo-commerciale con notevoli industrie alimentari, meccaniche (costruzioni ferroviarie, macchine agricole, ecc.), chimiche. Monumenti degni di rilievo sono il Duomo e la Chiesa della Madonna della Ghiara.
Modena è grande mercato agricolo e centro di industrie alimentari, meccaniche (automobilistiche) e chimiche. Dei suoi monumenti  i più notevoli sono il Duomo romanico, con la bellissima torre della Ghirlandina, e il Palazzo Ducale. E’ sede dell’Accademia Militare.
Ferrara è situata su un ramo del delta del Po, detto Po di Volano, nel cuore di una zona fertilissima ed è sede di importanti industrie alimentari, chimiche e meccaniche. Conserva magnifici monumenti: la Cattedrale, il Castello Estense, il Palazzo dei Diamanti.
Ravenna è una delle più belle città d’Italia per le sue stupende opere d’arte. Particolarmente degne di nota sono: la Basilica di San Vitale e il Mausoleo di Galla Placida (con meravigliosi mosaici bizantini), il mausoleo di Teodorico e (poco lontano dalla città) la basilica di Sant’Apollinare in Classe. Ha un importante porto-canale ed è sede di grandi complessi industriali.
Forlì è il centro principale della Romagna, mercato di prodotti agricoli e sede di alcune industrie. I suoi più pregevoli monumenti sono il Duomo e la Chiesa di san Mercuriale.

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Bologna: la dotta, la grassa, la turrita

Tutti questi appellativi le calzano a meraviglia. Le nobili tradizioni di cultura, tenute sempre vive da otto secoli a questa parte dall’Università, che è la più antica d’Europa, la fecero chiamare la dotta. Le sue famose specialità gastronomiche, che vanno dalle tagliatelle e dai tortellini fino alla rosea mortadella, le diedero il nomignolo di grassa. Le duecento torri che dentellavano il panorama di Bologna all’epoca dei Comuni le valsero il titolo di turrita. Di queste torri innalzate nel XII e nel XIII secolo dai nobili bolognesi accanto al loro palazzo, come simbolo di indipendenza e vanto del casato, ben poche ne rimangono. Oggi le superstiti si contano sulle dita delle mani, ma fra esse ve ne sono due, quella degli Asinelli e la Garisenda, le famose torri pendenti, che sono considerate simbolo della città.
(G. Assereto)

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Bononia docet

‘Bononia docet’ si leggeva sulle monete che Bologna batteva; ed anche quando la moneta corrente non fu più quella coniata dalla zecca cittadina, Bologna continuò ad essere universalmente conosciuta come ‘la dotta’.
Il merito di questo epiteto è dovuto alla sua Università, la più antica dell’Europa; essa fin dalle origini richiamò nelle sue aule da ogni regione d’Europa studenti che si organizzavano in vere e proprie congregazioni e che portavano alla città, insieme ad un innegabile benessere economico, una nota caratteristica di gaiezza, tanto da far dire al Petrarca che ebbe occasione di fermarvisi come studente: “Non credo che mai sia stata e non sia città più libera e gioconda di Bologna”.
Ma le gaie brigate della gioventù studiosa  erano soltanto un aspetto marginale della società che gravitava intorno al famoso ‘Studio’. In verità, Bologna fu, per moltissimo tempo, insieme con Parigi, il centro più vivo della cultura europea; fu soprattutto il tempio del diritto romano che, dopo il silenzio seguito alla caduta dell’impero, risorgeva, ad opera di espertissimi ed appassionati glossatori, in tutta la ricchezza dei suoi concetti ed al quale tutti gli studiosi volevano attingere.
I famosi libri di Giustiniano, che in un primo tempo avevano trovato rifugio alla corte bizantina di Ravenna, furono poi trasportati a Bologna. Si ha notizia di un certo Pepone, ‘legis doctor’, che intorno al 1065 già interpretava i testi di diritto; ma tra i maestri antichi chi acquistò più chiara fama fu certamente il bolognese Irnerio, che formò scuola e che intorno a sé ebbe una scelta schiera di glossatori, così chiamati per il loro sapiente e paziente lavoro di commento (glossa) ai testi latini.
Bologna andava fiera di questi suoi studiosi; ne sono testimonianza le bellissime tombe che ad alcuni di essi furono costruite nel centro della città; presso le chiese di San Domenico e di San Francesco.
Accanto alla fiorentissima scuola di diritto si andò via via delineando anche una scuola di arti liberali ed un’altra ad indirizzo scientifico; e il complesso di tutte le scuole venne chiamato ‘Studio Generale’ e più tardi Università.
Fra i tanti uomini illustri che frequentarono, in ogni tempo, la scuola di Bologna ricordiamo: Dante, Petrarca, Copernico, Torquato Tasso, Marcello Malpighi, Luigi Galvani e Giovanni Pascoli.

La città etrusca di Misa
Da Bologna, risalendo la via per Pistoia, dopo Pontecchio si giunge a Marzabotto. Nelle vicinanze si trovava la città etrusca di Misa; di essa rimangono ruderi sparsi tra il verde e un profondo suggestivo silenzio domina intorno quasi a vegliare sul sonno millenario delle mura in rovina, dei resti dei templi, delle tombe preistoriche giacenti presso le acque d’un lago. Misa fu fondata nel Vi secolo aC dagli Etruschi e fu prospera città per due secoli finché fu distrutta dai Galli.

La cucina emiliana
In Emilia la cucina è un fatto complesso, un’improvvisazione continua, uno spettacolo meraviglioso: altrove, il piatto gustoso e raffinato appartiene soltanto alla sfera della mensa, al buon pranzo e alla buona cena;  a Bologna, invece, a Modena, a Parma la cucina abbraccia interessi più vasti ed è la nota saliente di un costume, il costume emiliano appunto. Il sentimento, la poesia fatalmente fioriscono attorno a una tavola imbandita, lo stesso amore non è amore se non è alimentato da lasagne, zamponi, tortelli e mortadella. Ne sa qualcosa Fagiolino, l’eroe della regione, il quale stornellando alla sua bella chiede sì un bacio e un sorriso, ma anche e soprattutto un manicaretto che anticipa e racchiude il paradiso. Non per nulla il tortellino nacque nel centro fisico e ideale dell’Emilia, a Castelfranco, ricalcato dirette su Venere: un oste guercio e bolognese, canta un poeta, imitando l’ombelico di Venere, l’arte di fare il tortellino apprese.
Accanto ai tortellini, godono meritata fama le tagliatelle, ricavate anch’esse nella tipica forma a nastro della sfoglia, e condite appunto col ragù alla bolognese. Tra i piatti, ecco lo zampone, ossia quella mirabile calza che è la zampa anteriore del suino ripiena di un impasto di carne magra e grassa in giusta proporzione: cotto a fuoco lento per cinque ore, viene servito su un letto o di lenticchie o di fagioli giganti bolliti e impastati poi con sugo, burro, dadi di prosciutto e punte di sedano e carote.
Ma l’Emilia è giustamente nota per i suoi salumi e soprattutto per quell’ineguagliabile poker che è vanto della provincia di Parma: il culatello di Zibello, il salame di Felino, la spalla di San Secondo e il prosciutto di Langhirano. Ai salumi si deve aggiungere il formaggio stagionato, il grana, che va per il mondo sotto il nome di parmigiano e di reggiano. I menù regionali hanno come naturale alleato il Lambrusco, il vino che ha a Sorbara la sua patria, riconoscibile per il profumo di viola, la spuma rosea e il gusto frizzantino.
(A. Ferruzza)

Usanze e tradizioni
Usanze e feste tradizionali si accompagnano sia in Emilia, sia in Romagna allo svolgimento dei più importanti lavori agricoli: la semina, la mietitura e la trebbiatura, la vendemmia. Usanze e credenze sono legate agli avvenimenti familiari, lieti o tristi, e ad ogni momento della vita.
Una bella usanza primaverile è quella dei grandi fuochi, detti le ‘focarine’ che vengono accesi dalla sera del 4 febbraio, giorno dedicato alla Madonna del Fuoco, fino ai primi di marzo. Con essi si vuole propiziare il bizzarro mese a favore dei campi e dei prossimi raccolti.
Bisogna far lume a marzo, a marzo birichino perchè sia più buono e ci tratti bene, e ci porti una spiga che dia a tutti il pane e una spiga che sia granita di grano‘ (Aldo Spallicci).
In occasione della mezza quaresima si ricorda a Forlì l’uso di portare burlescamente in trionfo, sopra un caro tirato da due torelli, un grande fantoccio, adorno di collane di frutti e salsicce, con un seguito di carri allegorici. La folla, al suo passaggio, rivolgeva al fantoccio domande e motteggi; e il fantoccio, per bocca di un uomo che vi era nascosto, rispondeva per le rime.
Un’altra allegra usanza della mezza quaresima è quella di segare la vecchia, un fantoccio in costume femminile anch’esso imbottito di frutta, salsicce ed altro. La ‘vecchia’, prima di essere segata, fra le acclamazioni della folla, che poi si precipiterà accapigliandosi a raccattare tutte le buone cose che cadono dal grembo del fantoccio, è condotta in corteo per le vie del paese.
Se durante il percorso la ‘vecchia’ dovesse fermarsi, ma per caso, davanti a una coppia di fidanzati, costoro ne sarebbero felici, traendone un buon auspicio per le loro prossime nozze.
Ma le tradizioni popolari, pure remote, vanno purtroppo scomparendo, come le feste carnevalesche, legate a figure di maschere locali (il dottor Balanzone, celebre per i suoi sproloqui) o derivate da antichi riti pagani (i fuochi purificati che solo in qualche parte dell’Appennino si accendono ancora in determinate occasioni).
Uno spettacolo teatrale tipico della Bassa Padana è quello dei burattini: in questa zona fiorirono nell’Ottocento le maggiori famiglie di burattinai girovaghi con le due maschere caratteristiche di Sandrone (contadino fanfarone, millantatore e pauroso) e di Fagiolino, astuto e generoso, sempre pronto a far giustizia col suo nodoso bastone.

Paesaggio bolognese
Alla fantasia del poeta si presenta il paesaggio bolognese, già a lui familiare. La natura risente della malinconia dell’autunno, con gli alberi spogli che rabbrividiscono ai primi geli; ma l’aspetto del paesaggio è ravvivato dallo scorrere lento delle acque, dal mosto in fermento, dal sole breve che terre e uomini si godono, dagli stormi degli uccelli migratori.
Improvvisa, la fantasia m’ha condotto per le strade
rettilinee del Bolognese, bordate di rami
freddolosi, toccati dall’ottobre, con prospettive
di persiane verdi allineate sulle facciate.
Il Reno si stacca dai monti con incantevoli
indugi e  prende spazio in pianura, alberi
e frutteti si spogliano con incredibile bellezza,
riposano al sole le terre. E’ il tempo
adesso che le cantine odorano di fermentazione
e il contadino esce senz’arnesi a guardare
forse se qualche fosso non scola. Le terre,
gli uomini il paese fortunato nelle adiacenza
del fiume, godono questo sole breve.
Gli uccelli son di passo. (R. Bacchelli)

Romagna
Il ricordo della terra di Romagna non s’è mai cancellato da cuore del poeta: lì egli trascorse i bei giorni dell’infanzia, correndo spensieratamente fra le stoppie, presso gli stagni, in mezzo al verde della campagna; lì lesse, da fanciullo, i poemi e le opere che lo trasportarono con l’immaginazione in mondi fantastici e lontani; lì, a contatto della bella natura, sentì germogliare nell’animo i primi sogni e i primi canti. Ma, all’improvviso, il ricordo del triste giorno in cui dovette lasciare la sua terra riscuote il poeta dal dolce incanto: mentre la bella visione svanisce, egli manda un accorato addio alla sua Romagna che non spera di rivedere mai più.

Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino: (1)
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra vision di San Marino: (2)
sempre mi torna in cure il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta, (3)
cui tenne pure (4) il Passator cortese,
re della strada, re della foresta. (5)
Là nelle stoppie (6) dove singhiozzando (7)
va la tacchina con l’altrui covata, (8)
presso gli stagni lustreggianti, (9) quando
lenta vi guazza l’anatra iridata, (10)
oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di fra gli olmi, nido alle ghiandaie, (11)
gettarci l’urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell’aie; (12)
mentre il villano pone (13) dalle spalle
gobbe (14) la ronca e afferra la scodella,
e ‘l bue rumina nelle opache (15) stalle
la sua laboriosa lupinella. (16)
Da’ borghi sparsi le campagne (17) in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo (18), alla quiete, al santo
desco fiorito d’occhi di bambini. (19)
Già (20) m’accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d’estate
co’ suoi pennacchi di color di rosa;
e s’abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio e un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un birichino. (21)
Era il mio nido (22): dove, immobilmente,
io galoppava (23) con Guidon Selvaggio (24)
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio. (25)
E mentre aereo mi poneva in via
con l’ippogrifo (26) pel sognato alone, (27)
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;
udia fra i fieni allor allor falciati
de’ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema. (28)
E lunghi, e interminati, erano quelli (29)
ch’io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d’uccelli
risa di donne, strepito di mare.
Ma da quel nido, rondini tardive, (30)
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive;
gli altri sono poco lungi; in cimitero.
Così più non verrò per la calura (31)
tra que’ tuoi polverosi biancospini,
ch’io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozioso i piccolini, (32)
Romagna solatia (33), dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta. (G. Pascoli)

(1) Il villaggio a cui va il sorriso o il rimpianto del poeta è San Mauro di Romagna, il luogo dove egli nacque e abitò fin quando il padre fu amministratore della tenuta dei principi Torlonia. Oggi il paese si chiama San Mauro Pascoli. Severino è Severino Ferrari, poeta amico di Pascoli e del Carducci.
(2) Sul fondo azzurrino dell’orizzonte si profila la rocca di San Marino, un paesaggio che accompagna nell’andare il viandante.
(3) I Guidi e i Malatesta sono due famiglie che nel Medioevo signoreggiavano la Romagna.
(4) Che anche ebbe in suo dominio
(5) Passatore era chiamato il bandito romagnolo, Stefano Pelloni, le cui imprese incontrastate sulle strade e sui monti, avevano mosso la fantasia popolare, specialmente per taluni tratti di generosità. Probabilmente il soprannome di Passatore gli venne per il fatto che era barcaiolo e faceva il mestiere di traghettare le persone da una sponda all’altra dei corsi d’acqua.
(6) Paglia che resta sui campi dove si è mietuta la biada.
(7) Il verbo singhiozzando allude al suono gutturale e spezzato della tacchina.
(8) Coi pulcini nati da uova di gallina.
(9) Lucidi.
(10) Dai colori cangianti.
(11) La ghiandaia è un uccello di colore grigio rossiccio, che si nutre prevalentemente di ghiande.
(12) Il poeta vorrebbe trovarsi ancora nel verde della campagna; gli piacerebbe sentirla ancora trasalire al suo grido lanciato nel silenzio nelle ore meridiane.
(13) Depone.
(14) Fatte curve dalla quotidiana fatica.
(15) Che hanno scarsa luce, buie.
(16) La lupinella è una leguminosa da foraggio che le bestie assimilano dopo lunga masticazione.
(17) I rintocchi delle campane.
(18) Invitano all’ombra.
(19) Alla mensa del lavoratore animata dalla presenza dei bambini. L’immagine, densa e tenera, racchiude l’intraducibile meraviglia dell’infanzia.
(20) La rievocazione del paesaggio richiama alla fantasia del poeta le ore che egli trascorse in quei luoghi.
(21) Col vento, il pioppo stormiva e sembrava che godesse al fruscio delle fronde.
(22) In quella campagna, sotto l’ampia fioritura della mimosa, il poeta trascorreva ore di silenzio e di sogni. Si allude agli anni felici del Pascoli: quando  era ancora bambino e la casa non era stata toccata da lutti (la sorellina Ida di pochi mesi, morì nel 1862, quando il poeta aveva sette anni).
(23) Avverti la congiunzione del verbo ‘galoppava’  con l’avverbio che lo precede. Il fanciullo fantasticava e, mentre il corpo riposava immobilmente, la mente correva coi fantasmi delle prime letture.
(24) Guidon selvaggio è, come Astolfo, un personaggio dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.
(25) L’imperatore nell’eremitaggio è Napoleone nell’isola di Sant’Elena. Il Pascoli allude a un’altra delle sue prime letture: il Memoriale che Napoleone dettò negli anni della sua relegazione nell’isola.
(26) L’ippogrifo è un cavallo alato di cui parla l’Ariosto nel suo poema. Con l’ippogrifo Astolfo salì fino alla luna per recuperare il senno del paladino Orlando impazzito per la bella Angelica.
(27) La fascia luminosa di vapori che circonda la luna. Il poeta vuol dire che egli si levava con la fantasia, assieme all’ippogrifo, fino a quel puro mondo di sogni che è la luna.
(28) Canto, ma il Pascoli ha detto poema perchè quel gracido pareva avesse un significato più grande, quasi fosse il naturale accordo al suo lungo e giovanile fantasticare.
(29) Le voci della natura e le forme di persone e luoghi immaginari compongono alla fantasia favole meravigliose.
(30) Come rondini che si sono indugiate e sono state raggiunte dai primi freddi. Tutta la famiglia fu strappata da quel nido: il poeta costretto ad andare per il mondo, gli altri nella tomba.
(31) Nella stagione calda.
(32) Per non trovare la casa della fanciullezza e dei sogni occupata da gente estranea da persone che hanno fatto come il cuculo, il quale suole deporre le uova nel nido di altri uccelli.
(33) Piena di sole.

L’Università di Bologna
Molti erano gli stranieri che da ogni parte accorrevano agli studi di Bologna, e si dividevano fino in trentacinque nazioni diverse. Questi studenti stranieri godevano prerogative civili e, convocati dal rettore, costituivano un corpo che aveva voto nelle assemblee. Un sindaco annuo rappresentava in giudizio l’Università ed un notaio ne rogava gli atti. Ogni anno si eleggevano due tassatori, uno dal comune e uno dagli studenti, perchè fissassero il prezzo degli alloggi. Lo scolaro aveva la facoltà di rimanere tre anni nella casa prescelta al prezzo fissato, e il padrone che esigesse di più, o maltrattasse il pigionale, non poteva più dare albergo ad altri.
I professori, una volta all’ano, dovevano giurare obbedienza al rettore dell’Università: questo doveva essere letterato, celibe, di almeno venticinque anni e non appartenere a ordini religiosi. Nelle funzioni aveva precedenza di passo avanti ai vescovi e agli arcivescovi, eccetto quello di Bologna.
L’irrequietezza degli studenti agitò la repubblica bolognese. Talvolta gli scolari si ritirarono tutti in un’altra città, finché non si fosse acconsentito alle loro esorbitanti domande. Qualche altra volta emigravano tutti se Bologna era messa al bando dall’Imperatore, o scomunicata dal papa. Però la città che doveva agli studiosi incremento di vita e di ricchezza, cercava di allettarli con ogni sorta di favori. I professori furono esenti dal servizio militare, poi da ogni tassa. Quelli che venivano addottorati a Bologna, dovevano giurare  che non avrebbero insegnato altrove. Morte e confisca erano minacciate ai cittadini che sviassero uno scolaro da quell’Università, e così ai professori che fossero passati ad altra scuola prima che fosse scaduto l’obbligo assunto.
Alla prima neve che cadeva, gli studenti andavano alla cerca, e con quello che raccoglievano, facevano statue o ritratti ai professori più rinomati.
Il dottorato dava diritto d’insegnare; sei anni di studio si richiedevano per passare dottore in diritto canonico, otto in civile. Lo studente giurava di aver compito quel tempo, poi sosteneva un esame privato e uno pubblico. Nel privato doveva disputare sopra due tesi assegnate davanti all’arcidiacono e al collegio dei dottori. L’esame pubblico si teneva con gran pompa nella cattedrale, dove il licenziando recitava un discorso ed esponeva una tesi, contro cui gli studenti potevano argomentare. Poi l’arcivescovo, o in sua vece un dottore, pronunciava l’encomio, acclamando dottore l’esaminato al quale si davano il libro, l’anello, il berretto e le insegne dottorali.
Il corso degli studi durava dal 19 novembre al 7 settembre: e ogni giovedì era vacanza, purché nella settimana non cadesse altra festa.
(O. Pio)

Il parmigiano reggiano
Il formaggio granoso e profumato che si acquista in tutta Italia come grana o come parmigiano è prodotto in realtà in una zona assai vasta, che esula dai confini della provincia di Parma, e si estende fino a Reggio, a Modena, a Bologna. Le qualità più pregiate, tuttavia, sono quelle di Parma e di Reggio; fra queste due città si è svolta nel passato un’accesa polemica per decidere quale avesse più diritto a legare il suo nome al prezioso prodotto. La contesa è stata risolta con piena soddisfazione di ambo le parti; le forme recano infatti un doppio marchio: parmigiano-reggiano su una faccia, e reggiano-parmigiano sull’altra.
La gente però continua a chiedere imperterrita: “Mi dia un etto di parmigiano” ed altrettanto imperterrito il negoziante consegna, sotto questa etichetta universale, formaggi di Parma e di Reggio, ma più spesso di Mantova, di Lodi e di Cremona.
Secondo i competenti, il parmigiano sarebbe nato nella valle dell’Enza, che oggi funge da confine fra Parmense e Reggiano, ma il suo commercio gravitava anticamente su Parma. Parma infatti era famosa fin dall’epoca romana per la squisita qualità dei suoi formaggi; e il Boccaccio, descrivendo  il paese di Bengodi, vi colloca una montagna di formaggio parmigiano:
… c’era una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale stavano genti che nessuna altra cosa facevano che far maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gettavano giù: e chi più ne pigliava più ne aveva: e lì vicino scorreva un fiumiciattolo di vernaccia, della migliore, senza un solo goccio d’acqua.
La descrizione, del resto, potrebbe riferirsi per intero a Parma, dove la ghiotta cucina è sempre stata una tradizione ed un’arte.
Ancor oggi, le forme di parmigiano si fabbricano a mano: ciascuna di esse rappresenta il prodotto della coagulazione di 4-6 ettolitri di latte, e la sua stagionatura dovrebbe durare un periodo di 3 o 4 anni. In realtà, per non bloccare così a lungo ingenti capitali, la si accelera artificialmente con le stufe, riducendola ad un solo anno. Durante questo periodo, le forme sono sottoposte  ad un continuo controllo da parte di esperti che girano per i magazzini, le annusano, le battono con un piccolo martello porgendo attentamente l’orecchio, ne estraggono un assaggio con sottili trivelli. E il valore di questi depositi è talmente elevato che le banche, per garantirsi dei capitali prestati ai caseifici, effettuano anch’esse periodici controlli.
Quando la stagionatura è terminata, le forme partono per le destinazioni più varie, e compaiono sulla nostra tavola come formaggio da dessert o formaggio grattugiato.

I calanchi
Percorrendo la via Emilia che da Bologna ci porta a Rimini possiamo osservare uno strano paesaggio, che si ripete più e più volte lungo la fascia del sub-appennino. Ci troviamo davanti a franamenti del tutto particolari, a tante piccole vallette di terra nuda, che formano i noti calanchi. Qui il quadro è in prevalenza grigio, cinereo, brullo, manca perfino l’erba. La zona è pressoché impraticabile, ad ogni passo la terra si sgretola e cede, o, in caso di pioggia, si trasforma in fango tenacissimo e scivoloso. Quei pochi casolari che scorgiamo si tengono tutti sugli sproni o sui pendii più aperti, lontani il più possibile dalla minaccia delle frane e dello smottamento.
Due fattori si sono dati qui la mano per operare la trasformazione di quelli che un tempo erano dolci e verdi pendii: il terreno argilloso e le acque piovane. E’ noto che l’argilla è una roccia originata dall’ammasso di minutissimo detrito proveniente a sua volta dalla disgregazione di altre rocce; una specie di compatto fango secco, che a contatto dell’acqua si trasforma in una massa pastosa e modellabile. Essendo l’argilla un roccia impermeabile, la pioggia non va ad infilarsi in profondità ma scorre ed erode la superficie, formando nel terreno tante piccole incisioni che col tempo si approfondiscono sempre più e si allargano fino a formare gole e vallecole, una vicina all’altra, separate solo da sottili lingue di terra, che vanno sempre più assottigliandosi sino a scomparire del tutto.
Così tante colline se ne vanno, le frane si succedono alle frane, a poco a poco l’acqua di dilavamento porta alla pianura una massa di terreno fangoso, lasciando un quadro di desolazione sui pendii, erosi.
La zona dei calanchi, diventata impraticabile, improduttiva, pericolosa, crea attorno a sé il deserto, perchè tutti  la sfuggono.
Durante il nostro viaggio per l’Italia avremo modo di sostare ogni tanto davanti a rocce diverse (graniti, porfidi, calcari,…) alla fine poi si potrà riunirle in un quadro completo per avere una visione generale dei materiali che costituiscono la crosta terrestre. Ora consideriamo l’argilla, roccia diffusissima non solo in Italia, ma in tante parti del mondo.
Delle tre grandi classi in cui sono divise le rocce (sedimentarie, magmatiche, metamorfiche) l’argilla appartiene alla prima. E’ cioè una roccia che, come tante altre (marna, conglomerati, arenaria, marmo, …) ha avuto origine sul fondo del mare. Millenni e millenni or sono, i fiumi scaricarono  in mare ciottoli, sabbia e fanghiglia che si depositarono in tanti strati. Col passar del tempo questi strati si indurirono, si solidificarono fino a tramutarsi in dura roccia.
Come poi l’argilla e tutte le altre rocce sedimentarie  siano emerse dal mare sino a formare l’ossatura di colline e montagne, è una curiosità che potrete soddisfare poi. Per ora vi basti sapere che durante il tempo in cui si è formata la crosta terrestre (cioè durante le ere geologiche) sono accaduti immani sconvolgimenti: terre e mari si sono spostati, uno strato si è accavallato all’altro, terremoti e vulcani hanno agito con particolare violenza, insomma c’è stata un’incessante modifica. Del resto il mutamento continua anche oggi, benchè lentissimo e poco appariscente.
L’argilla dei nostri calanchi è dunque fango indurito, costituito da minutissimi detriti, assai più fini dei granellini di sabbia. Assume color grigio e talora giallastro o rossiccio.
Cave di argilla si trovano ovunque, perchè l’uomo ha bisogno di essa per tanti suoi lavori (laterizi, ceramiche,…). Anche voi la adoperate per tanti lavoretti che solitamente dite ‘fatti di creta’.

Curiosità su Ferrara
Perchè Porto Garibaldi ha questo nome? Quando cadde la Repubblica Romana nel 1849, Garibaldi tentò di raggiungere Venezia, braccato dagli Austriaci. In località Magnavacca, il colonnello Nino Bonnet salvò l’eroe, che stava per cadere nelle mani dei suoi acerrimi nemici. Poi, dopo la morte di Anita, avvenuta nella fattoria delle Mandiole, Garibaldi, con l’aiuto del sacerdote don Giovanni Verità, riuscì a raggiungere la Toscana e a mettersi in salvo. A ricordo del fatto, Magnavacca fu denominato Porto Garibaldi, e attualmente è una frequentata stazione balneare.
L’arte della stampa è antichissima a Ferrara e, nei secoli XV – XVI, numerosi furono i tipografi che operarono in città. Il primo fu un francese: Andrè Beaufort (nelle edizioni era impresso Andreas Belfortis Gallus) che lavorò fin dal 1471, stampando ‘De variis loquendi figuris’ di Agostino Dati.
L’Orlando Furioso fu stampato da Giovanni Mazzocchi nel 1516; la prima edizione nella stesura di 46 canti, su impressa invece nel 1532 da Francesco Rossi. Operava a Ferrara anche una stamperia ebraica, di Abraham Usque, che nel 1553 pubblicò una ‘Biblia en lengua espanola’.
La Bibbia di Borso d’Este è uno dei manoscritti più preziosi, costituito da due volumi di circa 1200 pagine complessive, finemente miniate da Taddeo Crivelli, Francesco Russi e da altri. Il lavoro di decorazione, iniziato nel 1455, durò più di sette anni. L’intera Bibbia scritta dal calligrafo milanese Pietro Paolo Marone, costò 1375 ducati. Attualmente si trova a Modena, nella biblioteca Estense, dove fu portata quando la famiglia d’Este dovette rinunciare a Ferrara.
Sotto un piccolo porticato in un cortiletto interno del Palazzo di Ludovico il Moro, si possono ammirare due imbarcazioni rinvenute nel 1948 negli scavi di Valle Isola, presso Comacchio. Sono grandi piroghe dalla linea irregolare, scavate in due massicci tronchi di rovere, che il tempo  ha scrostato e annerito, lunghe rispettivamente 14,5 metri e 12,7 metri. Il tipo di imbarcazione è assai arcaico, potendo risalire all’età del bronzo; tuttavia nel delta del Po e nella zona lagunare veneta si continuò fino all’età tardo-romana a costruire barche di questo tipo. A quest’epoca appartengono forse le nostre.
Trovandoti in gita a Cento dovresti visitare la Pinacoteca, nella quale è conservato il bell’affresco del Guercino ‘La pace’, staccato dal Palazzo Falzoni-Gallerani, dove l’artista lo dipinse. Altri affreschi, sempre del Guercino, si possono ammirare nella quattrocentesca Casa Pannini e nella Chiesa di Santa Maria del Rosario.
Non abbandonare però la città senza aver fatto una passeggiata fino a Villa Giovannina, la gemma di Cento, distante circa due chilometri. La villa, ‘palazzo cinto da muraglie, con ponte levatoio e fosse intorno’, trae il nome dal facoltoso signore Giovanni II Bentivoglio che la volle edificare, e conserva in numerose sale preziosi fregi e affreschi dell’immancabile Guercino, che raffigurano episodi dell’Orlando Furioso, della Gerusalemme e del Pastor fido.
Partendo da San Benedetto in Alpe, in circa due ore di cammino si può fare una magnifica passeggiata ai Romiti. E’ una località suggestiva, in cui si possono ammirare gli stupendi orridi detti dell’ ‘Acqua cheta’. Ai Romiti esisteva un antico monastero benedettino nel quale fu certamente ospitato Dante. Infatti, nelle immediate vicinanze vi è una cascata che ispirò al poeta i seguenti versi:
“… quel fiume ch’ha proprio cammino
prima da Monte Verso inver levante,
dalla sinistra costa d’Appennino
che si chiama Acquaqueta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba là sovra San Benedetto
dell’Alpe per cadere ad una scesa”. (Inferno XVI, 94-101)
Settecento anni or sono a Rimini gli abitanti erano divisi in Guelfi e Ghibellini, per cui la loro principale occupazione era quella di combattersi. Giunse allora tra i Riminesi un umile fraticello a parlare di pace e di perdono, di amore. Ma la gente covava nel cuore l’odio e non aveva voglia di ascoltarlo. Il fraticello, allora, si diresse sulle rive della Marecchia e si mise a predicare ai… pesci. Sì, proprio ai pesci, i quali accorsero numerosi e, col musetto fuori dell’acqua stettero ad ascoltarlo. La voce del prodigio si sparse nella città, e la stessa gente che prima non aveva voluto ascoltare il fraticello accorreva ora in folla a sentire la sua parola ispirata. Dimenticavo di dire che l’umile fraticello era sant’Antonio da Padova.
La cittadina di Bertinoro, fondata dai Romani, vana la fama di regina dell’ospitalità. Sulla sua piazza fa ancora bella mostra di sé la Colonna delle anelle, fatta erigere dal conte del luogo nel secolo XIII. Nel Medioevo quando il forestiero entrava in paese, legava le redini del suo cavallo ad uno degli anelli infissi nella colonna, scegliendo in tal modo il suo ospite. Ad ogni anello corrispondeva lo stemma di una famiglia nobile del luogo, che accoglieva il visitatore con generosità e onore.
Ancor oggi a Bertinoro si celebra la giornata dell’ospitalità; quindi, se giungi da lontano, puoi scegliere come un tempo il tuo ospite, prendendo a caso un invito legato con un cordone azzurro ai famosi anelli della colonna.

Curiosità su Reggio Emilia
A Reggio, fuori del Palazzo Comunale è permanentemente esposto per voto unanime del Consiglio Comunale del 29 dicembre 1922, il vessillo tricolore, sotto cui sta scritto : “Qui dove nacque, per sempre”.
Assai diffuso a Reggio Emilia e nel territorio è l’allevamento di piccioni viaggiatori (razze reggiana e triganina). L’uso di far volare i colombi da torricelle sui tetti delle case è antichissimo e se ne trova menzione sin dal XIV secolo. Varie sono qui le Società colombofile, federate in un’associazione provinciale.

Curiosità su Ravenna
Alcuni paesi nei dintorni di Ravenna hanno derivato il loro nome da alcune frasi pronunciate dall’imperatrice Galla Placidia. Si narra che durante una passeggiata a cavallo, elle giungesse accaldata in una località percorsa dal Ronco e che desiderasse bagnarsi in esso. Quando uscì ristorata dalle acque disse: “Questo luogo si chiamerà Bagnola”. E così avvenne. Arrivò poi in un altro paesetto i cui abitanti offrirono brocche di bionda albana alla sovrana. Galla Placidia  bevve avidamente e disse: “Converrebbe berti in oro!”. E il paese divenne Bertinoro. Così Bevano deve il suo nome al coro di grida al seguito di Galla: “Beviamo! Beviamo!”.
Secondo la tradizione la basilica di San Giovanni Evangelista è stata fatta innalzare da Galla Placidia per sciogliere un voto fatto durante la burrasca che la colpì in mare durante il suo viaggio da Bisanzio a Ravenna. Si dice anche che gli avvallamenti presentati dal pavimento della basilica furono voluti espressamente da Galla per ricordare la tempesta a cui era miracolosamente sfuggita.
E’ tradizione che la campana della Dolorosa, una delle campane di San Giovanni Evangelista abbia una voce dolce e triste. E’ questa la campana di Berta, figlia infelice del famoso fonditore Roberto Sassone, che si dice abbia gettato nel bronzo incandescente, pronto per la colata della campana, la grande collana d’oro lasciatale dal promesso sposo Federico Di Barbenga, assassinato alla vigilia delle nozze. Secondo altri non l’oro ma le lacrime di Berta diedero alla campana il timbro mesto e soave.
Una secolare gelosia esiste tra Brisighella e Fognano. Si narra che in una festa da ballo i cittadini di Brisighella non volevano ammettere nessuno degli odiati abitanti di Fognano e perciò ricorsero ad uno stratagemma: sulla soglia della sala da ballo c’era, per terra, quel buco che serve per fermarvi il paletto inferiore della porta; a chi si accingeva ad entrare, due Brisighellati chiedevano a bruciapelo, indicando il buco: “Che cos’è questo?”. Se l’ospite rispondeva: “L’è un bus” (dialetto del paese) lo facevano entrare; se invece, colto alla sprovvista, confessava: “L’è un boghèn” (dialetto di Fognano), “Passa fura t’se d’Fognèn!”, gli si gridava, rimandandolo scornato!

Bologna
Una torre snella, sottilissima, con un piccolo grappolo aereo di merlature. Più piccola, accanto a lei, un’altra torre, obliqua, che pare cerchi protezione nella sorella più alta, esile come uno stelo: la Garisenda, e la Torre che ha un nome che fa sorridere; la Torre degli Asinelli. Bologna rossa, dai grandi portici fulvi, color dell’estate.
(O. Vergani)

Ravenna
Forlì ti si annuncia con due altissime torri, una sormontata da una guglia, l’altra quadrata: Ferrara con un castello che pare incastrato nel terreno: Ravenna, invece, pare si voglia diluire nell’atmosfera dei tramonti sotto un cielo sterminato. Oltre viali di alberi, canali pacati e case silenziose, tu intravedi pinete senza fondo, dune già di sabbie ed ora fertili di messi, chiese d’oro e sepolcreti imperiali, quasi che tu possa scoprire sarcofaghi e diademi sotto il fango mortale delle alluvioni e dei secoli.
La città non ti viene incontro con le braccia aperte delle sue strade; ma se ne sta raccolta, come dentro la corazza della sua storia, muta, discreta, solenne quasi che la ricchezza del suo passato, l’immensità della sua gloria, l’orgoglio di tutto il suo destino l’avessero resa più superba di quanto non si convenga. Cinta di prati e di cipressi, di canali e di argini; inerte di una staticità di secoli, sbiancata dalle guerre e dalla storia; ferma in un assopimento cui una gloria senza misura dà come l’immobilità di scomparse liturgie, ma con una fisionomia così solenne e grande che non puoi fare a meno di restare attonito e colpito.
(C. Di Marzio)

Comacchio
Al di là del canale si apriva la via di Comacchio: un gran nastro che biancicava ancora, snodandosi nella tenebra purpurea; purpurea perchè la via corre fra le acque della valle o laguna, e queste erano così imbevute di sole che parevano come colorate di sangue; e in mezzo a quel rosso tragico delle acque immote, spiccava la linea nera, fastigiata nelle sue torri, della città di Comacchio. Un castello tragico! Una scena da innamorare uno scenografo! Il Dorè avrebbe invidiato quel paesaggio per i suoi fantastici disegni! L’Ariosto l’avrebbe popolato di maghi e di fate. Era semplicemente la patria delle anguille.
(A. Panzini)

Il lido dell’assolata Romagna
Da lontano, anche da molto lontano, vengono qui i bagnanti, preferendo sovente il lido dell’assolata Romagna ad altre spiagge più a portata di casa, ma non così accoglienti e ridenti. Qui si scende nell’acqua percorrendo un lievissimo piano inclinato, senza rocce pericolose e senza gorghi traditori; si arriva alla linea dove l’onda si infrange con cavalcate impetuose di spuma, e ancora si tocca, perchè la spiaggia è regolare e prudente. Nelle mattinate prive di vento il velo marino è teso e non lo sdrucisce una sbavatura. Gioia semplice ma profonda è quella di navigare coi silenziosi mosconi, correndo al largo, dove lo scenario delle colline si ingrandisce e dove è dolce fantasticare sulla celeste vaghezza di San Marino, faro senza luce per l’orientamento dei pescatori.
Sul lido sono le piccole barche ancorate, che l’acqua schiaffeggia. I paesani più vecchi, che non vanno in mare con le paranze, pescano dalla riva, attaccati alla corda della tratta: tira e tira, puntando sei o sette paia di piedi sull’umida rena, l’estremità della rete, calata in mare ad arco, si avvicina sempre più all’altro gruppo di pescatori, che s’affatica all’opposta cima. Il pesce è al centro della rete, in un’insaccatura che giungerà a terra preceduta dai guizzi furiosi della preda scintillante, accortasi che il pericolo aumenta col calare del livello dell’acqua. A cattura ultimata resta sul lido, disseminato di orme umane, qualche asteria o qualche cavalluccio marino, curiosità degli sfaccendati e delizia dei bimbi.
(G. Tibalducci)

Dettati ortografici, letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

LA FAMIGLIA dettati ortografici e letture

LA FAMIGLIA dettati ortografici e letture
Quadretti familiari: preparativi

A volte la sera, in montagna, mio padre si preparava per gite o ascensioni. Inginocchiato a terra, ungeva le scarpe sue e dei miei fratelli con del grasso di balena; pensava che lui solo sapeva ungerle le scarpe con quel grasso. Poi si sentiva per tutta la casa un gran rumore di ferraglia: era lui che cercava i ramponi, i chiodi, le piccozze.
“Dove avete cacciato la mia piccozza?” tuonava, “Lidia! Lidia! Dove avete cacciato la mia piccozza?”
(N. Ginzburg)

LA FAMIGLIA dettati ortografici e letture
Quadretti familiari: a passeggio con papà

Mio padre… mi portava ogni domenica, fin da bambino, fuori di porta.
Si andava via doli dopo mangiato, senza parlare, il babbo sapeva certe strade solitarie, deserte, fuori mano, dove si camminava adagio per ore intere e senza incontrare un’anima. Non sempre, veramente: qualche volta ci s’imbatteva in un prete, in un contadino, in una vecchia. Ci salutavano e si tirava di lungo.
Il babbo era quasi sempre sovrappensiero; io ruminavo fra me… ingenui abbozzi di idee. Ma guardavo.
(G. Papini)

LA FAMIGLIA dettati ortografici e letture
Quadretti familiari: la mamma piccina
Mi rammento che, quando ero stanco di correre, andavo a sedermi davanti alla tavola del tè sul mio alto seggiolino. Era già tardi… e gli occhi mi si chiudevano dal sonno; ma non mi muovevo: restavo lì fermo e ascoltavo. Come non ascoltare? La mamma parla con alcune persone…
La guardo fisso fisso con gli occhi offuscati dal sonno e ad un tratto ella diventa piccina piccina: la sua faccia non è più grande di uno dei miei bottoni, ma la distinguo nettamente e vedo che mi guarda e mi sorride… Chiudo ancor più le palpebre, ed ella diminuisce, diminuisce…
Ma, ecco, mi sono mosso e l’incanto è rotto. Chiudo ancora gli occhi, cambio posizione, faccio di tutto per richiamare quell’immagine, ma non ci riesco…
(L. Tolstoj)

LA FAMIGLIA dettati ortografici e letture
Quadretti familiari: lo zio

La piccina ordinò allo zio di sedere e gli si arrampicò sulle ginocchia. “Perchè sei venuto?” disse ella. “Non c’è mica, sai il pranzo per te”.
“Me lo farai tu il pranzo. Son venuto per stare con te”.
“Sempre?”
“Sempre.”
“Proprio sempre sempre sempre?”
“Proprio sempre sempre.”
Maria tacque pensierosa. Poi domandò: ” E che cosa mi hai portato?”
Lo zio si levò di tasca un fantoccio di gomma.
“E’ brutto questo regalo” dissuggella ricordando di altri dello zio. “E se resti qui non mi porti più niente?”
“Più niente”.
“Va’ via, zio” diss’ella.
Lo zio sorrise.
(A. Fogazzaro)

LA FAMIGLIA dettati ortografici e letture
Quadretti familiari: il fratellino minore
L’ho davanti a me, piccolo, nero, vivo come un razzo. Era come una trottola: no, come un ciottolo lasciato che appena si derma, cade lungo disteso per terra. Dove arrivava si arrampicava e arrivava da per tutto. Non capisco come mai un bimbo così piccolino riuscisse a mettere l’una sull’altra tante sedie e sgabelli; ma ci riusciva, si arrampicava e appena arrivava in cima alla catasta rovinava giù con un fracasso indiavolato, che faceva accorrere spaventate tutte le donne di casa.
Cascava dalla tavola, dal letto, dai bauli, ruzzolava giù per le scale dieci volte al giorno, sì che aveva la fronte e il capo gonfi di bernoccoli.
(V. Brocchi)

LA FAMIGLIA dettati ortografici e letture
Quadretti familiari: il lume dell’altra casa
Fu una sera, di domenica, al ritorno da una lunga passeggiata. Tullio Buti aveva preso in affitto quella camera da circa due mesi. La padrona di casa, signora Nini, buona vecchietta all’antica, e la figliola ormai zitellina appassita, non lo vedevano mai. Usciva ogni mattina per tempo e rincasava a sera inoltrata. Sapevano che era impiegato  al Ministero di Grazia e Giustizia; che era anche avvocato; nient’altro. La cameretta, piuttosto angusta ammobiliata modestamente, non serbava traccia dell’abitazione di lui. Pareva che di proposito, con studio, egli volesse restarvi estraneo, come in una stanza d’albergo. Aveva sì, disposto la biancheria nel cassettone, appeso qualche abito nell’armadio; ma poi, alle pareti, sugli altri mobili, nulla: né un astuccio, né un libro, né un ritratto; mai sul tavolino qualche busta lacerata; mai su qualche seggiola un capo di biancheria lasciato, un colletto, una cravatta, a dar segno che egli lì si considerava in casa sua.
(L. Pirandello)

LA FAMIGLIA dettati ortografici e letture
Quadretti familiari: Geppetto fa il burattino Pinocchio
Dopo la bocca gli fece il mento, poi il collo, le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani.
Appena finite le mani  Geppetto sentì portarsi via la parrucca dal capo. Si voltò in su, e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in mano al burattino.
“Pinocchio!… rendimi subito la mia parrucca!”
E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la mise in capo, rimanendovi sotto mezzo affogato.
A questo sgarbo insolente e derisorio, Geppetto si fece triste e melanconico, come non era stato mai in vita sua: e voltandosi verso Pinocchio gli disse: “Birba d’un figliolo! Non sei ancora finito di fare e già cominci di mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male!”
E si asciugò una lacrima.
(C. Collodi)

LA FAMIGLIA dettati ortografici e letture
Composizione del nucleo familiare

Come ti chiami?
Come si chiama il tuo papà?
E la tua mamma?
Hai fratelli e sorelle? Quanti? Qual è il loro nome?
Ci sono altri parenti che vivono con te? Chi sono? Come si chiamano?

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Aspetto dei familiari

Osserva bene ciascuna persona della tua famiglia; com’è?
Che statura ha? (Alta, bassa, normale)
Com’è la sua corporatura? (Robusta, normale, sottile)
Di che colore sono i suoi capelli? Come sono? (Ricci, ondulati, lisci)
E i suoi occhi quale colore hanno?
Com’è la sua voce?
Osserva ognuno dei tuoi familiari quando mangia, quando parla, quando ascolta, quando legge, quando scrive, quando riposa: ha qualche speciale abitudine? Compie qualche gesto caratteristico? Quale?
Quali sono i membri della tua famiglia che si assomigliano di più? In che cosa si assomigliano?

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Storia della famiglia

In che anno è nato ciascun membro della tua famiglia?
C’è qualcuno tra i tuoi zii o zie paterni e materni che sia sposato? Ha figli? Quanti? Conosci il nome di tutti i tuoi cugini?
Quali sono i parenti che vengono più spesso a farti visita? Sei contento quando vengono da te? Tu vai spesso a trovarli? Se stai molto tempo senza vederli, sei contento quando vai da loro o essi vengono da te? Che fai quando sei in loro compagnia? Quali sono i tuoi parenti per i quali provi più simpatia?

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Affetti familiari

Vi sono momenti della giornata in cui la tua famiglia si trova tutta riunita? Quando? Quale di questi momenti è quello che tu preferisci? Sei contento quando i tuoi familiari sono riuniti intorno a te? Se qualcuno di loro è assente, ti dispiace?
I tuoi familiari sono sempre contenti di ciò che tu fai?
Nella tua famiglia si usa ricordare gli onomastici e i  compleanni dei vari membri? In che modo? Hai mai avuto occasione di fare dei doni ai tuoi genitori o ai tuoi fratelli? Come li hanno accolti? E tu, ne ricevi spesso di doni? In quali occasioni? Sei più contento quando li ricevi, i doni, o quando li fai?

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Il lavoro dei familiari

Quanti sono i tuoi familiari che lavorano? Quali sono? Quale lavoro svolge ognuno di essi?
A che ora cominciano il lavoro? A che ora finiscono? Per recarsi al lavoro indossano un tenuta da lavoro? Com’è?
Dove lavorano? Il luogo dove lavorano è vicino a casa o è lontano? Di quale mezzo si servono per recarvisi?
Cosa fanno quando tornano dal lavoro? Sono stanchi? Tu fai qualcosa per aiutarli? Che cosa?
Hai mai osservato quanti lavori compiono in casa nel corso di una giornata? Prova ad elencarli.
Avanza loro molto tempo per riposare? Sono stanchi, quando è sera? Tu li aiuti nel corso della giornata? In che modo? Quando ti chiedono di aiutarli lo fai volentieri oppure ti fai pregare per accontentarli?
Qual è il lavoro dei tuoi zii? Hai anche dei cugini che lavorano? Qual è il loro lavoro?
Perchè lavorano il tuo papà, la tua mamma, i tuoi fratelli? A che serve il loro guadagno? Anche tu dovrai andare a lavorare da grande? Quale lavoro ti piacerebbe fare? Perchè?
Anche ora che sei un bambini, hai dei lavori da svolgere? Quali? Qual è il lavoro di un bambino che va a scuola? E’ importante farlo bene, questo lavoro? Perchè?

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La mia famiglia

La mia è una famiglia felice perchè rispetta il prossimo, non guarda mai nella cassetta delle lettere degli altri, e prima di stendere la biancheria, avverte sempre i vicini del piano di sotto. In casa si dice che bisogna avere rispetto degli altri, perchè le famiglie sono come delle tessere di un grande mosaico, che rappresenta l’umanità. Se una tessera è guasta oppure stonata, si vede subito, e allora bisognerebbe cambiarla. E per essere delle famiglie per bene, ci vuole il rispetto reciproco dei genitori, l’obbedienza dei figli e la carità verso i vecchi, che sono un poco come i bambini. Nella mia famiglia ci sono tutte queste cose, ed esistevano già quando io non c’ero ancora e i miei genitori erano giovani e non avevano figli. Il mio papà dice sempre: “Una famiglia onesta e dignitosa fa la stessa figura di uno stato potente e ben organizzato; perchè uno stato potente e organizzato non è altro che la somma di tante famiglie come la nostra”.
Siamo proprio una famiglia felice: cinque persone che si vogliono tutto il bene del mondo: papà, mamma, io, la nonna di ottant’anni che sferruzza ancora tutto il giorno senza portare gli occhiali, e quel frugoletto di Paolino che ha appena quattro anni e combina già tante marachelle. I capi della ‘tribù’ (una parola che piace tanto alla mamma) sono il papà e la mamma. Il papà va in Municipio per le pratiche, in Farmacia per le medicine, e quando fa il turno di notte (lavora in una fabbrica di automobili), impiega tutta la mattina a far la spesa al mercato. La mia cara mamma ha folti capelli annodati sulla nuca e due fossette sulle guance. E’ alta, ben piantata (non ha timore di ingrassare); è proprio una bella mamma. La nonna invece, con un dente solo e tutti i capelli bianchi, è minuta come una bambola, e certe volte sembra proprio che i vestiti camminino da soli.  Non sente più niente, neanche se le bombardassi le orecchie con un megafono. Sorride sempre, mostrando il dente, e sferruzza: calze, magliette, per me, per il babbo, per Paolino. Ride, non sente e sferruzza: la sua giornata è quella. “Sia benedetta quella donna” dice sempre il babbo, “portatele rispetto. Se non ci fosse stata lei, non ci sarei io, e non ci sareste neppure voi”.
L’ultimo in graduatoria è Paolino: quattro anni, l’argento vivo addosso, dei dentini che se ti mordono lasciano il segno blu per dieci minuti, e una cascata di perchè. Perchè questo, perchè quello.
La mia famiglia è arrivata due anni fa dal sud. Prima abitavamo fuori città in una casupola che era servita da stalla per le mucche. Ci ridevano sempre dietro, perchè il babbo non parlava l’italiano. Adesso siamo in città, e la nostra casa è un alloggetto all’ultimo piano di un grattacielo. Alcuni la chiamano soffitta, ma invece è un tale paradiso di sole, che sembra di essere ancora a Sorrento. Non paghiamo l’affitto  perchè la mamma se lo guadagna pulendo le scale di tutta la casa. Uno scalino, due scalini, trecento scalini; e tutte le porte con la targa di ottone e uno spioncino che serve agli inquilini per vedere chi preme il campanello. Affitto gratuito, dunque, e molti regali a Natale.
Il babbo lavora in fabbrica, una settimana di notte, l’altra settimana tra mattina e pomeriggio. Quando fa il turno di notte, la giornata è più serena perchè a pranzo di siamo tutti. Le altre volte io mi siedo al suo posto.
Adesso che ci siamo ambientati (quanta fatica in principio, specie d’inverno, senza cappotto e col mio dialetto che non lo capiva nessuno…) la vita è proprio bella. Ridiamo sempre, specie se ci siamo tutti, e talvolta vengono dei signori del palazzo a trovarci perchè dicono che “si respira aria pura, come ai tempi d’una volta”.
E’ proprio vero. Papà e mamma,  sono sempre stanchi, ma sorridono. Paolino è un incosciente che si mordicchia il pollice tutto il giorno, dandoci una montagna di soddisfazioni. A poco a poco la nostalgia del nostro cielo e del nostro mare ci sta lasciando. Anche qui è molto bello, nonostante le ciminiere che mandano fumo.
Dimenticavo una cosa molto importante; da quando è nato Paolino, c’è una signora che non vuole rivelare il suo nome, la quale tutti i mesi consegna una busta di soldi alla mamma. E’ una benefattrice, e quel denaro cade proprio al punto giusto. Paolino non lo capisce ancora, ma quando sarà più alto, avrà tutti i suoi buoni motivi per ringraziare la provvidenza. Per intanto, tutte le volte che arriva la busta, gli regaliamo un confetto speciale ed egli se lo conficca tutto in bocca per grande che sia. Il babbo se lo guarda per delle ore, ripetendo fino alla noia: “Tutto suo nonno, guarda, mamma, come gli somiglia; tutto suo nonno. Se fosse ancora vivo, sarebbe ancora più bello…”. Poi afferra Paolino tra le braccia, se lo stringe a lungo e mormora fra sè: “Contentiamoci, contentiamoci… siamo fortunati”.
(M. Fracchia)

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Dettati ortografici e letture sul VENETO

Dettati ortografici e letture sul VENETO
Veneto: cartina fisica
Confini: Mar Adriatico, Friuli Venezia Giulia, Austria, Trentino Alto Adige, Lombardia, Emilia Romagna
Lagune: Laguna Veneta, Laguna di Caorle
Monti: Alpi Orientali (Dolomitiche e Carniche); cime più alte: Civetta, Marmolada, Le Tofane, Cristallo, Cime di Lavaredo, Sorapis, Antelao. Prealpi Venete (Monti Lessini, Altopiano di Asiago, Prealpi Bellunesi); cime più alte: Monte Baldo, Cima Carega, Monte Grappa
Valli: Alta Valle del Piace, d’Auronzo, del Cordevole
Valichi: Pordoi, Falzarego, Monte Croce di Comelico, Mauria
Colline: Montello, Monti Berici, Colli Euganei
Pianure: Veneta, Polesine
Fiumi: Po col suo affluente Mincio, Tartaro, Adige, Brenta col suo affluente Bacchiglione, Sile, Piave con i suoi affluenti Boite e Cordevole, Livenza, Tagliamento
Canali: Adigetto, Bianco
Laghi: di Garda, di Santa Croce, di Misurina, di Alleghe
Isole: di Murano, di Burano

Dettati ortografici e letture sul VENETO
Osserviamo la cartina

Il Veneto è così chiamato dagli antichi popoli che lo abitarono: gli Euganei prima, i Veneti poi. E’ protetta al nord dalle Dolomiti e dalle Prealpi Venete che degradano dolcemente, con valli pittoresche, fino alla pianura; questa si affaccia sull’Adriatico con una zona litoranea a costa bassa, sparsa di lagune.
Solcata dai fiumi Adige, Brenta e Piave, la regione è ricca di acque; la terra è fertilissima. Appartiene al Veneto anche la riva sinistra del Lago di Garda.
Per la particolare feracità del suolo, il Veneto ha nell’agricoltura una grande fonte di ricchezza. Sui monti, i boschi danno ottimo e abbondante legname, e gli estesi pascoli permettono l’allevamento di bovini ed ovini.
Sulle colline si coltivano gli alberi da frutto e la vite, che produce i noti vini di Valpolicella, di Bardolino e di Soave.
Nella pianura si coltivano frumento, granoturco, barbabietole da zucchero e tabacco.
In provincia di Verona è curato l’allevamento dei cavalli.
Notevole è la pesca delle anguille nelle lagune; esercitata con profitto è anche la piscicoltura.

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Sguardo d’insieme

Il Veneto era anche chiamato Venezia Euganea, nome derivato dai Colli Euganei che sorgono nel mezzo della pianura, presso Padova, e che anticamente erano vulcani.
Vulcani in questa pianura solcata in ogni senso da fiumi, da canali e da navigli più che qualunque altra parte d’Italia? Se era fondo di mare e col mare lotta ancora!
Sì, vulcani! E dovevano offrire un interessante spettacolo quelle isolette, ora colline, quando fiammeggiavano e rumoreggiavano sull’acqua.
Ora sui Colli Euganei ridono le vigne. Tutto intorno mareggiano non più i flutti salati, ma le messi biondeggianti del grano, del granoturco, o col variare delle stagioni, verdeggiano le praterie i gelseti e le canapine; oppure spiccano bruni i campi arati per la semina dell’orzo, dell’avena, della segale, del tabacco.
E quegli specchi d’acqua che brillano?
Sono le risaie.
E quelle chiazze rosee, là in quei boschi di alberi bassi e regolari, specialmente intorno a Verona?
Sembrano boschi di lillipuziani, e sono pescheti…
Verona è anche un centro agricolo di notevole importanza e ogni anno vi si tiene una fiera di cavalli che attira visitatori da tutta Italia e da fuori.
Le montagne del Cadore sono rivestite di oscure selve di abeti.
Sulla Laguna e sul mare aperto si slanciano i bragozzi a vele spiegate. Pescano migliaia di quintali di pesce l’anno, e hanno marinai che per settimane intere sanno resistere ai venti ed ai marosi fra le scogliere dell’Istria e della Dalmazia.
Centro della vita veneziana è Piazza San Marco, vasta sala marmorea, che ha per tetto il cielo, palpitante delle ali dei suoi innumerevoli colombi.

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L’alta pianura veneta
L’alta pianura veneta comincia già verso i 50 metri sul mare e sale dolcemente incontro ai colli subalpini. In certi tratti si restringe molto o quasi scompare (come al piede dei Lessini). Vi scorrono alcuni fiumi e torrenti che vengono dalla montagna. Da questi corsi d’acqua è stato diramato qualche canale e così il paesaggio della campagna ci offre anche prati da foraggio irrigati.
Lo sguardo si posa dovunque su una campagna tutta coltivata e ripartita in modo assai regolare da allineamenti di gelsi e talora d’alberi da frutto, e più ancora da alberi cui maritano le viti, e da filari meno vistosi di viti appoggiate a sostegni morti. Alternano nei campi le diverse gradazioni di verde del grano e del granoturco, dei fagioli e delle leguminose foraggere, e anche spiccano qua e là, nei campi della parte veronese e vicentina, le ampie foglie del tabacco.

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La bassa pianura veneta

Dalle vicinanze dell’Adige fin oltre il Piave, la bassa pianura veneta offre dovunque la vista di campagne ridenti e fittamente abitate. Alternano nei campi il frumento, il granoturco, la barbabietola, i fieni. Le alberature a filari dividono a riquadri il terreno, e la vite diffusissima appoggia i suoi festoni a olmi, aceri, pioppi, salici.
La presenza e la proporzione delle diverse colture variano anche secondo la fertilità del suolo, mentre le richieste del mercato hanno incoraggiato qua e là le colture orticole e più ancora l’impianto di frutteti, i quali offrono uno spettacolo magnifico specie all’epoca della fioritura.
Le abitazioni rurali sparse sono molto numerose: case in genere modeste, spesso tinteggiate di colori rosati. Spiccano qua e là alcune boarie, complessi di edifici staccati e disposti a corte più o meno aperta, con vistosità della stalla e dei grandi fienili, in quanto corrispondono a vaste aziende cerealicolo-zootecniche. Oppure fan bella mostra di sé vile signorili, spesso di singolare grazia.

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I colli Euganei

Il nome ufficiale della regione è ‘Veneto’, ma un tempo non molto lontano essa era chiamata col nome di Venezia Euganea derivato dai colli Euganei che sorgono nel mezzo della pianura, presso Padova, e che anticamente erano vulcani.
“Vulcani i colli Euganei!” direte voi, “I vulcani in questa pianura solcata in ogni senso da fiumi, da navigli e da canali più che qualunque parte d’Italia? Ma se conserva ancora, si può dire, le tracce di quando era fondo di mare, e col mare lotta ancora e quasi si confonde nelle estreme lagune!”.
Sì, i vulcani! E dovevano offrire uno spettacolo interessante quelle isolette, ora colline, quando fiammeggiavano e rumoreggiavano sull’acqua.
Ora sui colli Euganei ci sono le vigne. Tutto intorno ondeggiano non più le acque salate, ma le messi del grano e del granoturco o, col variare delle stagioni, verdeggiano le praterie, oppure spiccano bruni i campi arati per la semina dell’orzo, dell’avena, della segale, del tabacco.

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Paesaggio lagunare

Attraverso i secoli la vita delle lagune ha trovato le sue basi nell’attività peschereccia, marinara e mercantile.
La pesca offre tuttora aspetti caratteristici mentre non manca l’attività agricola sugli antichi cordoni sabbiosi dei delta, sui lidi, in alcune isole: molto concentrata, ma anche molto caratteristica, perchè intensiva e fondata essenzialmente sula vite e sugli ortaggi.
Ne sorgono così piccoli lembi di uno speciale paesaggio orticolo rappresentato in modo tipico e più estesamente intorno a Chioggia e a sud fino all’Adige, su vecchie dune spianate dall’uomo e diventate fertili con l’assiduo lavoro e le abbondanti concimazioni. Aiuole strette e lunghe, dense di ortaggi e di patate primaticce, e anche di viti, si susseguono l’una all’altra.
Una nota speciale vi portano i cannicci che in certe stagioni si stendono su sostegni inclinati, a protezione dal vento marino e dal freddo.

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Adige, re dei fiumi

Adige, re dei fiumi“: così Adriano Valerini, autore veronese del ‘500, innamorato della sua città e della sua terra, chiama il grande fiume, precisando però, che qui ci sono altre… somme autorità: “Benaco, imperador de i laghi, il Carpione, monarca de i pesci“.
Certo, il grande fiume dalle sorgenti tanto lontane, dal percorso mutevole e dalle impennate tanto furiose, ha accentrato su di sé, di volta in volta, l’attenzione, le cure, le apprensioni, la paura della terra e degli uomini di cui, in fondo, è quasi sempre il benefattore, a volte il tiranno.
Lo si vede giungere già formidabile alle Chiuse, dopo essersi impossessato di tante acque altoatesine e trentine, e arricchirsi di tutti i corsi d’acqua che scendono dai Lessini e che non hanno né tempo né spazio sufficienti per divenire fiumi. Per contenere le improvvise piene primaverili sono stati costruiti, ampliati, rinnovati, argini degni del ricordo di Dante, ma nemmeno questi, a volte, nel corso delle cento e cento inondazioni, hanno resistito. Anche Verona sa cosa significhi una piena rapida e violenta, allorché le acque, che sanno ancora di neve e di ghiaccio, urgono contro i Lungadige e dilagano verso la campagna tumultuando entro gli argini pensili e i grandi canali di deflusso.
Il fiume attraversa la città di Verona con andamento sinuoso, carezzevole, ricorda un poco il Canalazzo veneziano, quindi dopo un angolo retto sembra voler accettare la sorte di tanti altri fiumi e piega verso il Po; ma dopo Legnago, l’Adige ci ripensa, si riprende, punta energicamente verso oriente e raggiunge con una foce sue il mare.

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L’Adige non fa più paura

Da Verona in poi l’Adige è pensile e scorre fra potenti argini. Prima che gli argini venissero costruiti rappresentava un grosso pericolo per le fertili campagne che lo fiancheggiavano perchè, nei periodi di piena, gli argini denunciano infiltrazioni d’acqua che ne minacciavano seriamente la consistenza. Oggi, invece, nessuno più lo teme, perchè finalmente è stato portato a termine il canale Adige-Garda che consente di convogliare al lago le acque di esubero prima che il fiume trabocchi in pianura. Lo chiamiamo canale, ma in realtà è una galleria lunga 10 chilometri, alta 9 metri e larga 8, tutta scavata nella roccia, che parte nei pressi di Mori, a nord di Verona, e raggiunge Torbole, sulla riva orientale del Garda, dopo aver attraversato il Monte Faè.
Il vecchio Adige è diventato il più tranquillo dei fiumi e delle sue piene si sta perdendo anche il ricordo.

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Il monte Grappa

Spostiamoci ora rapidamente nel settore nord-orientale della provincia e, oltrepassata Bassano col suo celebre Ponte degli Alpini, imbocchiamo la strada che si inerpica sui brulli costoni del monte Grappa, caro alla memoria e immortalato da una canzone popolare. Per i pendii del Col d’Averto e del Col Campeggia si giunge al Campo di Solagna, la cui terrazza è strapiombante sulla profonda valle del Brenta.
Più su, a Ponte san Lorenzo, oltrepassiamo il punto della massima avanzata austriaca del 15 giugno 1918 e pieghiamo sul fianco meridionale del monte Asolone (m 1520) per risalire, tra un paesaggio carsico di impressionante squallore, fin verso i 1700 metri, dove comincia la ‘zona sacra’.
La vetta del Grappa è a 1776 metri, ma non si offre più, alla sommità, la vista delle rocce martoriate e sbriciolate dai cannoni. Oggi il vertice del monte è segnato da un’immensa gradinata che rappresenta il cimitero-ossario, sovrastato dalla Madonnina benedicente. L’occhio qui spazia sui luoghi che videro la morte di tanti combattenti e non soltanto della guerra del 1915-18. Anche durante la guerra partigiana, dal 1943 al 1945, il Grappa fu teatro di intensi rastrellamenti e di feroci rappresaglie da parte dei Nazisti e, a Bassano, il viale dei Martiri ricorda il sacrificio dei Partigiani catturati sul Grappa mentre combattevano per la libertà.

Un’alluvione del Po
Il Polesine è una terra tristemente famosa per le alluvioni del Po. Quando il fiume entra in piena per il disgelo delle nevi o per le continue piogge, le popolazioni che vivono lungo il suo corso, specie quelle prossime al delta, sono di continuo in stato di allarme. Attaccate alla loro casa, alla stalla, alla terra, guardano tra la paura e la speranza il fiume che ingrossa livido. Squadre di vigilanza vanno e vengono lungo gli argini, se ne rinforzano i tratti che sembrano più minacciati e che presentano infiltrazioni d’acqua, si approntano i mezzi di soccorso. Ma non si può prevedere né dove né quando la furia delle acque si scatenerà. L’alluvione irrompe improvvisa, in direzioni imprevedibili, dilagando nella pianura, abbattendo e distruggendo ogni cosa, tagliando la via della fuga.
E’ quanto avvenne il mezzogiorno del 15 novembre 1951, quando il Polesine fu sconvolto da una delle più tragiche alluvioni che si ricordino. Il Po ruppe gli argini nell’ansa di Pontelagoscuro, nei pressi di Ferrara, e per tre falle invase l’Alto Polesine giungendo in due giorni alle soglie di Rovigo, dirigendosi improvvisamente verso Adria, investendo Cavarzere, compiendo in cinque giorni un’avanzata di circa 60 chilometri! Le statistiche del disastro riportarono cifre impressionanti. Ma anche al dinamica dell’alluvione fu studiata in tutti i particolari. Se ne ricavarono dati che consentirono di imbrigliare le acque del fiume con opere di protezione che garantiscono un maggior margine di sicurezza.

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L’agricoltura

In Veneto l’agricoltura riveste una grande importanza. La pianura non è così fertile come quella lombarda, emiliana, piemontese. Molto elevata è la produzione di grano e di granoturco.
Nelle zone collinari e in alcuni tratti della pianura è importante la coltura della vite, da cui si ricavano vini famosi (Bardolino, Soave, Valpolicella, Prosecco).
Appena inferiore a quello lombardo è l’allevamento dei bovini; superiore è l’allevamento del pollame e la produzione delle uova.

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Il vino di Verona

La vite si coltiva in Italia da tempi antichissimi. Il disordine che portò la fine dell’Impero romano, aveva tra l’altro danneggiato grandemente anche la coltivazione di questa pianta.
Venne ripresa per impulso del Cristianesimo.
Religiosi di ogni ordine si fecero viticoltori, per la necessità di produrre il vino occorrente per la Messa.
Molti vigneti anche famosi non solo in Italia, ma anche in Francia e in Germania, furono opera di monaci Benedettini e Cistercensi.
Anche ai Barbari, che un tempo invasero la nostra terra, piaceva molto il vino. Esiste un documento storico che lo prova. Si tratta di una lettera di Cassiodoro, ministro di Teodorico, scritta all’ambasciatore a Venezia. Scrive Cassiodoro che la cantina del suo re ha bisogno di essere rifornita di vino. Ordina all’ambasciatore di acquistarne di quello prodotto nel Veronese che è il solo degno della mensa reale.
Questo documento è anche una testimonianza dell’antica fama che gode anche adesso il vino prodotto in provincia di Verona e precisamente il Valpolicella.

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Tokai e Tocai

La vite è la pianta più lieta di quella lieta regione che è il Veneto. Ed è anche intraprendente e tenace; una vera pianta veneta, insomma che si arrampica sulle montagne e sulle colline, si stende tra le coltivazioni di tutta la pianura, e dilaga nella nostra provincia, fino al mare, fino alle dune e agli arbusti scapigliati di Jesolo, di Eraclea, fino agli orti sistemati tra i cordoni dunali di Chioggia e di Sottomarina. Dove un pezzo di terra, anche piccolo così, viene bonificato, lì un vitigno arriva e attecchisce, e poi ne escono certi vini… Ogni zona, si può dire, ha un suo vino i suoi maestri del vino, perchè ancor oggi, un bicchiere di Tocai bello, buono, schietto, ancor oggi è una laboriosa opera d’arte.
“Tokai o Tocai?”, domandiamo al signor Piero, un maestro della vite, che dai suoi vigneti di Lison, un paesino piccolo così, vicino a Portogruaro, produce un Tocai malandrino, dall’apparenza innocua, dall’invitante color paglierino (solo Lison lo produce di questo colore) che ti rivela di colpo, alle orecchie e alle ginocchia, quando ormai è troppo tardi, la gradazione… pericolosa a cui può giungere!
“Tocai! Tocai!” garantisce il sior Piero, “Vino tutto nostro, che nulla ha a che vedere col vino ungherese. Forse, chissà quando, lo abbiamo mandato noi Veneti lassù!. Mentre il Tokai ungherese è dato da una combinazione di uve diverse, il nostro deriva da un vitigno solo, ma selezionatissimo: ci vuole il nostro sole, la nostra terra argillosa, che sembra povera, ci vuole la nostra cura per tutto l’anno, dalla preparazione del terreno al dosaggio dei pampini perchè il sole non sia troppo violento, e anche le nostre paure quando c’è in giro minacciosa e maligna… la ‘mare de san Piero’ in estate, che a volte, con una grandinata radente, ti lascia lì, a scherno, solo i mozziconi dei vitigni, affioranti dal suolo tra mucchi di foglie e di grappoli maciullati. E allora è una desolazione. Ma speriamo bene, stavolta, per me e per tutti perchè è così bello il raccolto!”.
E sior Piero si allontana tra le pergole perfette dalle quali pende l’ambra preziosa dei grappoli che presto diverranno raccolto.

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Le province

Capoluogo del Veneto è Venezia, una delle più belle e singolari città del mondo. E’ costruita al centro della Laguna du 118 isolette congiunte da più di 400 ponti. Dei suoi 160 canali, il più famoso è il Canal Grande, arteria principale della città, in cui si specchiano stupendi palazzi marmorei. Meta di turisti di ogni Paese, ha monumenti di incomparabile splendore: la Basilica di San Marco con la sua fantastica piazza, il Palazzo Ducale, il Ponte dei Sospiri, la Ca’ d’Oro, la Torre dell’Orologio, il Ponte di Rialto. La città è sede di importanti manifestazioni artistiche. Nei suoi limiti amministrativi rientrano Porto Marghera, centro di numerose industrie, e Mestre, importantissimo nodo di comunicazioni, cui è collegata da un ponte stradale e uno ferroviario. Notissimi sono i suoi sobborghi lagunari di Murano, di Burano, di Torcello e del Lido.
Rovigo è il capoluogo del Polesine, una regione compresa tra il Po e l’Adige, fertile ma purtroppo soggetta a inondazioni.
Verona sorge sull’Adige. E’ un importante nodo stradale e ferroviario, un grande mercato agricolo e la sede di notevoli industrie. Monumenti pregevoli sono: l’Arena, il Duomo, la Basilica di San Zeno, il Castel Vecchio con il magnifico Ponte sull’Adige, le Tombe degli Scaligeri.
Vicenza è detta la ‘città del Palladio’ in onore del celebre architetto Andrea Palladio che vi lasciò splendidi capolavori, tra cui il Teatro Olimpico, la Basilica, il Santuario di Monte Berico, la Rotonda.
Padova sorge nel cuore della pianura. E’ una città attiva, sede di notevoli industrie. E’ famosa per la sua antica Università e per i suo i pregevolissimi monumenti, quali la Basilica si Sant’Antonio, la statua equestre di Gattamelata, la Cappella degli Scrovegni, il Palazzo della Ragione.
Treviso è importante centro agricolo e commerciale. Tra i suoi monumenti sono degni di nota: il Duomo, il Palazzo dei Trecento, le chiese di San Francesco e di San Nicolò.
Belluno è una graziosa città che conserva bei monumenti: il Duomo, il Palazzo dei Rettori, la Chiesa di Santo Stefano.

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A zonzo per canali e lagune

Ritrovandomi a passare per Chioggia, un po’ per amor del pittoresco e un po’ perchè quelli son posti dove nessuno va di solito, ho voluto recarmi a Pellestrina e a San Piero in Volta, due località di pochi abitanti situate lungo la diga meridionale del sistema lagunare veneziano, quasi sospese tra acqua e cielo, a circa venti chilometri da Venezia e a una decina da Chioggia. Pellestrina si presenta bene a chi vi arriva in vaporetto. Una fila di casucce strette e rossastre, scrostate dalla salsedine, separate tra loro da calli e da piazzette, si specchia malinconicamente nell’acqua del canale come un vecchio sogno perduto.
Davanti passano continuamente, durante la giornata, oltre che i vaporetti che fan la spola da Venezia a Chioggia, i numerosi bragozzi e velieri che vi trasportano merci d’ogni genere dal fertile Polesine; e sono spesso lungi convogli e motovelieri di forte stazzatura. Il borgo si direbbe che abbia concentrato ogni sua risorsa nella coltivazione di alcuni orti situati tra il paese e la poderosa diga che lo difende dal mare. Questa diga che, qua e là interrotta, corre da Sottomarina fino al golfo di Malamocco e difende la laguna dagli assalti del mare aperto, dandole sicurezza e facilità di trasporti, è detta popolarmente ‘I Murazzi’, ed è una celebre opera costruttiva che non sarà mai abbastanza lodata e ammirata. Fu l’ultima grande creazione della Repubblica Veneta. E’ una grossa muraglia di massi d’Istria cementati con pozzolana; costo venti milioni di lire venete ed è lunga quattromila e ventisette metri.
Stando a Chioggia, nulla è più divertente che osservare la vita tacita e irrequieta che si agita sulla laguna. La quale è di continuo solcata da trasporti; vapori e pescherecci d’ogni genere, che con lo splendore delle grandi vele rossastre e istoriate sembrano tuttavia volerle serbare l’antica patetica bellezza.
(C. Linati)

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Il Po e Padova

Quando il Po, l’antico Padus, attraversava la pianura con corso molto variabile, gran parte del territorio che oggi costituisce la provincia di Padova, era occupato da acquitrini e paludi. Passarono i secoli e le acque si scavarono un letto definitivo, lasciando allo scoperto, nel loro ritirarsi, vasti lembi di terra. Appunto su uno di questi sorse Padova, che dal fiume prese il nome di Padua, latinizzato poi in Patavium. Questa, secondo l’opinione di alcuni storici accreditati, l’origine del nome Padova, che altri vorrebbero far derivare da una corruzione di ‘palus’, cioè palude.
Certo la zona doveva essere il regno delle acque, ora limpide e tranquille, ora fangose e turbolente, ora perfidamente malariche. Oggi di esse non resta che il Bacchiglione, il fiume che attraversa la città.

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Le stagioni di Verona

Due volte l’anno Verona, scuotendosi di dosso la sua bonaria e secolare indolenza, sembra quasi miracolosamente trovare il ritmo febbrile di una grande città.
La prima stagione veronese si apre con la Fiera Internazionale.
Col maturare dell’estate e del caldo, ecco la seconda grande stagione di Verona: l’Arena e gli Spettacoli Lirici. E’ questo il tempo in cui diventano familiari i nomi dei grandi musicisti (Verdi, Rossini, Puccini, Wagner), i titoli degli immortali melodrammi (Aida, Turandot, Bohème, Lohengrin), le voci e i volti dei celebri cantanti. E’ anche il tempo in cui ogni buon veronese rispolvera il suo riposto bagaglio di motivi, di ariette e di romanze o sciorina insospettate doti di critico musicale. Tra luglio e agosto, quasi ogni sera, l’Arena di Verona raduna sulle secolari gradinate migliaia di spettatori italiani e stranieri, fraternamente congiungendoli nell’incanto delle melodie e nell’amore per la musica.
Da qualche anno poi, accanto agli spettacoli lirici, Verona offre anche un ciclo di rappresentazioni teatrali. Teatro shakespeariano, naturalmente, perchè Shakespeare, grazie all’immortale favola di Giulietta e Romeo, di Verona è un po’ figlio adottivo. Alla bellezza dei suoi drammi niente sembra tanto convenire quanto la suggestiva cornice del Teatro Romano o di Piazza dei  Signori o di Castel Vecchio.
Così nel nome del lavoro e dell’arte, Verona vive con impegno e con entusiasmo i suoi giorni più belli e più internazionali: è dunque giusto che essa torni finalmente a sdraiarsi, con la grazia di una vecchia signora, lungo le anse armoniose del suo verde Adige.
(R. Bresciani)

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I libri ammalati guariscono a Praglia

A Praglia, nella monumentale abbazia benedettina, in una gran sala del Cinquecento, dotata ora di moderne scaffalature, e nel vecchio archivio al piano superiore, sono custoditi cinquantamila volumi, in varie lingue.
La millenaria tradizione benedettina d’amore per il libro è stata riconfermata, qui, con un’importante iniziativa, rapidamente conosciuta ed apprezzata negli ambienti internazionali qualificati. In un’ala del monastero è stato costruito un moderno istituto con laboratorio scientifico per il restauro del libro.
Quando arriva un malato, spiega un esperto monaco, la degenza è piuttosto lunga, in quanto il ricoverato, dopo la compilazione della cartella clinica, deve passare quasi sempre nei diversi reparti. Accertate le condizioni del libro, la sezione chimica procede alla diagnosi delle cause, che deve essere esatta per stabilire la cura appropriata.
Spesso, nei libri, e in particolare nelle pergamene, si osservano manifestazioni patologiche di natura microbica, e cioè prodotte da microorganismi che danneggiano, oltre alla scrittura, la consistenza stessa della materia. Si ricorre allora a reagenti chimici, a disinfezione in vasche speciali, in bagni di soluzioni a base di cloro o di altre sostanze adatte.
Si procede poi al restauro definitivo (lavaggio, rinforzo delle fibre con bagni rigeneratori, stiratura) e alla rilegatura. Un lavoro meticoloso, di lunga durata, che tende soprattutto alla bonifica della materia con assoluto rispetto dell’integrità dei vari elementi che compongono i libri.
Oltre un migliaio di opere, codici, incunaboli, libri rari, stampe, antiche carte geografiche e mappamondi, sono state perfettamente restaurate finora nell’istituto, che lavora attivamente per molte biblioteche pubbliche e di stato.
(U. Maraldi)

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I Veneti: sorrisi e parole

Vivono in un paese di pianura verde e rosa, e sono il più sorridente fra tutti i popoli italiani. Parlano sorridendo e mescolando il riso alle parole. Traggono un immenso piacere dal pianto, ma anche le loro lacrime sono mescolate al sorriso.  Parlano molto e senza sforzo, senza fatica. E io non penso che parlino molto perchè sono ciarlieri, ma perchè han la bocca grande e piena di parole e non san che farsene di tante parole e le spendono.
Parlano, uomini e donne, guardandoti in viso e sorridendo: e ti guardano negli occhi, con una curiosità singolare, come se si guardassero nello specchio, e intanto si toccano il viso come per essere sicuri che il viso che vedono sei tuoi occhi è il loro, non quello di un altro. Son buoni i veneti e se hanno qualcosa in loro della naturale malvagità umana, lo sfogano non in cose e fatti e detti e parole malvagie, ma in ‘ciacole’, in chiacchiere, in pettegolezzi.  E’ il paese della gentilezza, il paese sorridente, il solo paese in Italia che sa sorridere fra le lacrime.
(Curzio Malaparte)

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Mercato a Chioggia

Le banchine son ben provviste e offrono uno spettacolo di animazione vivissima. I venditori schierati lungo il vasto terrazzo urlano allegri la loro merce, tra i viavai della gente.
Cumuli di sfoglie, che hanno il bel lucido della porcellana, si alternano alle sarde dal colore metallico o alle anguille ancora guizzanti che hanno il motoso e il verdastro dei bassifondi, ai mucchi stillanti dei garusi, delle cannocchie, delle capesante dal cuore arancione, alle seppie gelatinose, ai moli, ai peoci, alle verdognole carpe squartate a mezzo.
In certi punti, tutto quel ben di dio, sembra il quadro di un pittore fiammingo. E su tutto vola l’odore acre del mare, e la festa dei gridi di richiamo.
La gente si ferma, guarda, sceglie, compra, passa via.
(C. Linati)

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Pesca in laguna

Scrisse un viaggiatore tedesco: ai giorni di festa, Chioggia sembra recinta da una legione di baionette giganti. Sono alberi, antenne, pennoni di navi, pali da sostenere le reti, pertiche da reggere nasse, cestoni, cordami; e nelle acque che circondano la città, nei canali, c’è una fitta di barche d’ogni grandezza e d’ogni foggia, arnesi galleggianti e tutto ciò che serve ad andare sull’acqua con la forza del vento e del braccio: grandi vele latine dipinte di immagini simboliche, stampate di lettere maiuscole, listate ed inquadrate con stemmi; remi enormi che due uomini muovono a fatica, e remi leggeri che le due braccia del battelliere sollevano agevolmente; ancore buone da mordere nella sabbia e nello scoglio. E insieme tutte le varietà di ordigni per la pesca, dalla vasta rete che imprigiona il pesce inconsapevole, e che, stringendosi, lo serra, lo preme, gli toglie il moto e il respiro, sino all’umile lenza che il pescatore paziente affonda nelle ore calme e ritrae carica d’un pesciolino che guizza, che si divincola e non vuol morire, sino agli arpioni per trascinare i pescecani e  i tonni, ai sacchi per le ostriche, ai canestri per la minutaglia, per il ‘pesce popolo’, che, infarinato a dovere, crepita e s’indora nelle classiche padelle dei friggitori.
(P. Gribaudi)

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La veneta piazzetta

La veneta piazzetta
antica e mesta, accoglie
odor di mare. E voli
di colombi. Ma resta
nella memoria il volo
del giovane ciclista
volto all’amico: un soffio
melodico: “Vai solo?” (S. Penna)

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La laguna veneta
E’ molto interessante visitare qualche tratto della laguna veneta, specialmente se stiamo un po’ discosti da Venezia. Per il nostro lavoro di osservazione meglio si presterebbe la laguna di Caorle o quella di Marano, in parte ancora allo stato naturale.
Ci troviamo davanti a cordoni di sabbia, più o meno lunghi più o meno ampi; a tanti canali, per i quali l’acqua del mare va a confondersi con la terraferma. Questi specchi d’acqua salmastra, noti col nome di lagune, sono soggetti ad un continuo mutamento. La laguna infatti, vista in certe ore del giorno, lascia affiorare qua e là isolotti fangosi (le velve) che poi, con l’alta marea, scompaiono totalmente. Altrove si possono notare isolotti erbosi detti barene che rimangono sempre emersi. Ma il mutamento maggiore è apportato dai detriti depositati alla foce dei fiumi, i quali, giungendo al mare con decorso assai lento per l’insensibile dislivello, non possono riversare in mare tutta l’abbondante quantità dei materiali convogliati. Si creano così davanti ai bassi fondali costieri tante zone paludose ed estesi acquitrini, che nel Veneto vengono anche chiamate col nome di valli, adibite per lo più alla pesca. L’opera di bonifica, di prosciugamento e di incanalamento di tutte queste acque, che vanno ad impantanare la fascia costiera, ha oggi in parte redento la zona, e l’ha resa meno instabile nella sua configurazione.
Un tempo la laguna si stendeva ininterrottamente da Ravenna ad Aquileia, e se Venezia non si fosse difesa contro questo progressivo insabbiamento, ora sarebbe città di terraferma, come è avvenuto per Ravenna stessa, per Adria e per tanti altri centri veneti, un tempo bagnati dal mare.
Venezia infatti ha deviato il corso del Brenta e del Bacchiglione verso sud, il Sile e il Piave verso est, ha predisposto per lo stesso grande Po un nuovo ramo di sbocco, il Po di Goro, ha eretto argini lungo le sponde dei fiumi, ha innalzato i caratteristici murazzi a difesa delle isole della laguna, insomma ha fatto di tutto per preservare la sua tipica fisionomia.
Ancora oggi il Magistrato delle acque, ente appositamente costituito a Venezia, non dorme sonni tranquilli perchè l’azione fluviale, il moto ondoso e le maree instancabilmente, anche se lentamente, compiono il loro lavoro di modellamento costiero.
E’ bene sapere come avviene il meccanismo della marea, che è uno dei tre moti a cui va soggetto il mare.
La marea è un movimento periodico che porta la massa acquea ora ad un grande innalzamento, detto flusso, ora ad un generale abbassamento, detto riflusso. Queste due fasi si alternano circa ogni sei ore al giorno, in corrispondenza del passaggio della Luna sul meridiano. Perchè occorre sapere che è proprio la Luna, con la sua forza di attrazione sul nostro pianeta (e particolarmente sulla massa liquida) quella che causa lo strano fenomeno.
A Venezia tra l’alta e la bassa marea si registra un divario di poco più di un metro, divario però sufficiente a produrre il ricambio delle acque della laguna. Se si arrestasse questo ricambio, si avrebbe una zona di acque morte.
Il fenomeno si può osservare molto bene anche su altre spiagge dell’Adriatico, specialmente in una giornata di mare tranquillo. Alla mattina presto si vede un lembo di spiaggia ben più largo di quello che si stenderà a mezzogiorno, perchè con l’alta marea le acque hanno ripreso ad innalzarsi e quindi ad invadere una più ampia fascia di litorale.
Sul nostro globo la marea raggiunge il suo massimo nella baia di Fundy, in Canada, con oltre 20 metri di dislivello tra il flusso e il deflusso.
La marea è un moto periodico, mentre le onde sono un moto variabile e le correnti un moto costante. In totale tre moti del mare.

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La piazza delle Erbe a Verona
Piazza delle Erbe a Verona è certo una delle piazze più pittoresche d’Italia che rimane nella memoria come uno spettacolo: una commedia, essa sola, di cui sarebbe facile rianimare i personaggi e farli parlare. Su questa piazza, grande come un foro, si tiene il mercato, testimonianza della vocazione della città che ha fondato la propria prosperità sulla campagna e sugli alimenti terrestri. In piazza delle Erbe, sotto un centinaio di ombrelloni, si vende una tale varietà di frutta, di ortaggi e di legumi come raramente se ne vedono radunati in così gran numero. I pomodori spargono il loro rosso squillante accanto ai limoni d’oro, ai cedri, alle angurie, alle melanzane, al verde tappeto delle insalate: un odore di campagna aleggia sotto gli ombrelloni di tela, e compone un’atmosfera pacifica e ghiottona.
Non si pensa più allora ai Montecchi e ai Capuleti; non si pensa che Tebaldo avesse potuto uccidere Mercuzio a Verona; la vista di un mercato fa dimenticare tutte le tragedie: quelle della vita, quelle della storia, quelle dei poeti.
Tuttavia quando si alza lo sguardo al di sopra di queste mostre attraenti, si scorge a nord della piazza, sopra una colonna di marmo, il leone di San Marco, simbolo di un’antica dipendenza, quando Venezia regnava sulla terraferma.
Al centro della piazza un’altra colonna di marmo; e per inquadrare, per contenere questo vasto mercato, palazzi un tempo ornati di affreschi dei quali rimane qualche traccia.
(G. Bauer)

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Curiosità su Padova

Vuoi conoscere alcuni proverbi padovani? Eccoli:
– A fare un proverbio ghe voe cent’anni.
– Venezia bea, Padoa so sorela.
– Veneziani gran signori, Padovani gran dottori, Visentini magnagati, Veronesi tuti mati.
– Pan padoan, vin visentin, tripe trevisane, done veneziane.
– Bologna la grassa, Padoa la passa.
– Co canta la cigala, se taja la segala, co canta el cigalon, se taja el formenton.
– De Santa Madalena se taja l’avena.
– De San Valentin se pianta l’ajo e el seolin.
– Tera mora fa bon fruto, tera bianca gninte del tuto.

“A Padoa ghe xe un Santo sensa nome, un cafè sensa porte e un prà sensa erba”. Questo detto si riferisce a:
– sant’Antonio, che viene chiamato da tutti semplicemente ‘il santo’;
– il Caffè Pedrocchi, che per molto tempo non ebbe porte perchè rimaneva aperto sia di giorno che di notte;
– al Prato della Valle, che non è un prato, ma una piazza grandiosa, e quindi non ha assolutamente erba.

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Curiosità su Treviso
A Treviso l’arco che unisce il Palazzo del Podestà al Palazzo dei Trecento è detto ‘sottoportico dei soffioni’ perchè vi spira sempre un notevole vento.
A Treviso nella chiesa romanico-ogivale di San Francesco, si può ammirare un affresco del 1453, raffigurante un crocefisso dipinto per ordine dell’Inquisitore a spese di un oste ebreo che aveva servito carne di venerdì.
Sempre nella nuda ed austera chiesa di San Francesco a Treviso, possiamo sostare sia davanti alla pietra tombale di Francesca, figlia di Francesco Petrarca, morta nell’agosto del 1384, sia davanti all’arca di Pietro, figlio di Dante Alighieri, morto a Treviso nel 1364.
Nel giardino del Museo della Casa Trevigiana c’è una piccola Casa del XIV-XV secolo, nella quale è disposta la ‘Raccolta Sanguinazzi’, interessante esempio di Gabinetto di Storia Naturale del XVII secolo con collezione di strumenti scientifici, tra cui i celebri prismi di Newton.
C’è chi ha cantato in versi, anche se un po’ zoppicanti, il famoso radicchio trevisano: “Se lo guardi è un sorriso, se lo mangi è un paradiso, il radicchio di Treviso”.
Sull’iscrizione di una credenza da cucina che ora si trova nel Museo di Treviso possiamo leggere questi versi di ispirazioni popolare, pieni di confidente abbandono, di devota accettazione in un’umile realtà quotidiana, di decoro e di discrezione:
Gaetano santo vu che si sora la providenza
prega che ge sta sempre de buon in sta credenza
e se non vacorda divina onnipotenza
fa che la mangemo suta con pazienza
che per ultimo ne basta grazie del ciel
e de polenta no restar senza“.

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Curiosità su Belluno

“Christus nobiscum stat”. Le case feltrine sono caratteristiche per i tetti fortemente aggettanti e per le facciate ornate da affreschi o graffiti attribuiti a Del Morto da Feltre e alla sua scuola. Su molti portali è inciso il motto: “Christus nobiscum stat” (Cristo vive tra noi).
A sud di Cortina, lungo il torrente Costeana, sorge il Sacrario di Pocol, costituito da una torre con basamento quadrato; in esso sono custodite le salme di 10.000 caduti della guerra 1915-1918.
Il gonfalone di Pieve di Cadore è decorato con medaglia d’oro per la “memoranda e tenace resistenza fatta nel 1848 dalle popolazioni cadorine contro soverchiante e agguerrito invasore”, e con la Croce di Guerra per la resistenza nel 1918.
A sud di Mas, sulla strada tra questa località e Mis, si trovano le Rovine di Vedana, costituite da un grandioso e disordinato ammasso di terra e pietre (3 milioni di metri cubi) disteso attraverso la valle. Secondo alcuni geologi tale ammasso sarebbe franato, in epoche remote, dai monti Vedana e Peron, seppellendo i villaggi di Cordova e Cornia. Poco lontano sorge la Certosa la cui origine si fa risalire a un ospizio di San Marco di Vedana, esistente nel 1155. La Certosa subì alterne vicende finché, recuperata nel 1768 dai Certosini francesi, du fatta risorgere. Qui nacque Gerolamo Segato (1792-1836) famoso oltre che come instancabile viaggiatore, cartografo e naturalista, anche per aver inventato un processo di pietrificazione dei cadaveri.

Vedi anche MATERIALE DIDATTICO SU VENEZIA

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LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture

LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture per la scuola primaria: Amalfi, Pisa, Venezia e Genova.

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La leggenda dell’Anno Mille

Dice la leggenda che nell’imminenza dell’anno 1000, per una errata interpretazione di alcuni passi delle Sacre Scritture, le genti attendessero con terrore la fine del mondo, ma che poi, liberate dall’incubo, continuando il mondo la sua uguale vicenda, riprendessero a vivere con maggior lena. Si iniziava una nuova era, feconda di lavoro, di creatività in tutti i campi, materiale e morale.
La leggenda ha un suo valore perchè esprime, come un simbolo, quella ripresa di vita economica e politica, quel risveglio culturale ed artistico che nell’XI secolo rinnovò tutta l’Europa e i cui segni sono particolarmente visibili in Italia. Ebbe così fine l’età feudale che, con quella dei regni romano-barbarici, costituisce l’Alto Medioevo, e si iniziò il Basso Medioevo, durante il quale la Chiesa e l’Italia si sottrassero alla dipendenza degli imperatori germanici e fiorì la nuova civiltà dei Comuni e delle Signorie (1000 – 1492).
Di là dalle Alpi, in Francia, in Inghilterra e in Spagna, si costituivano invece le grandi monarchie nazionali.

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Le Repubbliche marinare

Alcune città marinare, favorite dalla loro naturale posizione e dalla ripresa dei traffici, raggiunsero, prima delle città di terraferma, un notevole grado di ricchezza e di indipendenza politica; esse furono Amalfi, Venezia, Pisa e Genova.

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Amalfi

Posta sul golfo di Salerno, fu la più fiorente città marinara del sud, superando di gran lunga Napoli, Gaeta e Bari. Trascurata dal governo di Bisanzio, minacciata dalle incursioni dei Saraceni, dovette assai per tempo provvedere alla sua difesa con una flotta, e al suo governo: tutti i cittadini, riuniti a Parlamento, eleggevano il capo della città, cioè il Duca. Tale governo repubblicano favorì in modo particolare i commerci e la navigazione. Nel X secolo Amalfi era già un centro attivissimo di commercio col Levante: a Costantinopoli, ad Antiochia, ad Alessandria e al Cairo, gli Amalfitani avevano fondachi ed alberghi, chiese ed ospizi.
In quelle città del Levante portavano i prodotti agricoli italiani e caricavano damaschi, armi, profumi, spezie, tappeti e indaco che rivendevano nell’Italia centro-meridionale.
La moneta amalfitana, il tari, aveva corso in tutti i porti del Mediterraneo. Gli Amalfitani compilarono il primo codice di leggi marittime, le famose Tavole Amalfitane, adottate da gran parte degli Stati mediterranei.
Altro loro merito è quello di aver introdotto in Occidente l’uso della bussola, già adoperata da Cinesi ed Indiani, perfezionandola; leggendaria è l’attribuzione di essa all’amalfitano Flavio Gioia.
Breve fu la vita florida e indipendente di Amalfi: verso la fine del secolo XI fu soggiogata dai Normanni, conquistatori ed unificatori di tutta l’Italia meridionale. In seguito, combattuta e vinta da Pisa, sua rivale nel Tirreno, perdette la flotta e con essa la potenza.

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Venezia

Abbiamo visto come le isole della laguna veneta, dall’invasione di Attila in poi, diventarono a più ripresa rifugio degli abitanti delle città venete, che andarono ad aggiungersi ai pochi e poveri pescatori che già vi dimoravano.
Sicure dalle invasioni, perchè difese da un labirinto di canali, ma povere, quelle terre non potevano dare mezzi di vita a una popolazione numerosa, che perciò si volse prestissimo al commercio marittimo lungo le coste dell’Adriatico e il corso dei fiumi veneti, prima vendendovi il sale e i prodotti della pesca, poi le merci importate dall’Oriente bizantino a Ravenna.
Nominalmente questi centri lagunari dipendevano dall’Esarca, ma a mano a mano che l’autorità di Bisanzio si affievoliva, essi andavano organizzando un’amministrazione autonoma. Già alla fine del VII secolo gli abitanti delle isole eleggevano a vita un magistrato supremo o Duca (in veneziano, Doge).
A Rialto e sulle isolette ad essa congiunte per mezzo di ponti, si incominciò a costruire la nuova Venezia (città dei Veneti), destinata a diventare una delle più belle e ricche città del mondo; essa fu posta sotto la protezione dell’evangelista San Marco, le cui reliquie, trasportate da Alessandria d’Egitto, furono deposte nell’omonima Basilica, sorta fra i primi monumenti.
Nel X secolo Venezia dovette combattere i pirati slavi (Schiavoni), che infestavano l’Adriatico. La vittoria definitiva su di essi fu riportata nell’anno 1000 dal Doge Pietro Orseolo II che occupò le coste dell’Istria e parecchie isole e città della Dalmazia. Il doge di Venezia prese allora il titolo di Dux Veneticorum et Dalmaticorum.

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Per il lavoro di ricerca

In che anno incominciò a sgretolarsi il sistema feudale?
Intanto cosa avveniva nelle città?
Come si chiamò la nuova classe sociale?
Quali furono le città marinare che divennero, prima delle città di terraferma, centri attivissimi di commercio e politicamente indipendenti?
Conosci gli stemmi delle gloriose Repubbliche marinare?
Quale fu la più fiorente città marinara del sud?
Quali meriti ebbero gli Amalfitani?
Sapresti dire a che cosa servivano le Tavole Amalfitane?
Qual era la moneta amalfitana?
Chi introdusse in Occidente l’uso della bussola?
Quando finì la potenza della gloriosa Amalfi?
Da chi fu costruita Venezia? Com’era chiamato il capo della Repubblica di Venezia?
Come si chiamava la sua nave?
Quale cerimonia era in uso il giorno dell’Ascensione?
Chi era il Santo protettore di Venezia?
Come si chiamava la moneta di Venezia?
Che cos’erano le galee? Da che cosa derivò il loro nome?
Su quali altri tipi di navi i marinai delle Repubbliche marinare percorrevano e dominavano i mari?
Ricerca notizie sulla potenza della Repubblica di Venezia.

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La bandiera navale italiana

Nella bandiera navale italiana lo stemma, al centro del tricolore, è costituito dai quattro stemmi di Amalfi (croce bianca in campo azzurro), di Pisa (croce bianca in campo rosso), di Genova (croce rossa in campo bianco) e di Venezia (il leone alato d’oro in campo rosso), a segnare la grande tradizione marinara della nostra storia.

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Storia di una parola

La cannella, il pepe, le droghe aromatiche venivano tutte dall’Oriente ed erano fra noi chiamate spezie. Esse non servivano solo per preparare le raffinatissime salse tanto in voga nel Medioevo; erano, secondo i ricettari farmaceutici del tempo, necessarie per la preparazione di medicine e di pomate. Ecco perchè il farmacista di allora veniva chiamato speziale, appellativo che familiarmente gli viene ancora dato in molti luoghi d’Italia.

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Le nuove monete

I mercanti delle Repubbliche marinare, che avevano navi, andavano in Oriente a comprare merci e le rivendevano in Europa a caro prezzo. Così le Repubbliche marinare si arricchivano rapidamente. Con l’oro portato dall’Africa, con l’argento ricavato nelle miniere di Spagna, di Francia, di Germania, vennero coniate nuove e belle monete, che incominciarono a circolare in Europa al posto dei denari e dei bisanti, cioè al posto delle monete araba e bizantina. La moneta di Venezia si chiamava ducato, quella di Genova genovese o genovino.

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Le navi delle città marinare

La galea deriva il suo nome dalla forma snella che la fa assomigliare al pesce spada che in greco è appunto chiamato galeos.
Fin verso il 1000 le galee venivano usate per il trasporto di merci quanto per le azioni di guerra, ma quando, attorno a quest’epoca, in tutte le città marinare d’Italia rifiorirono le costruzioni navali, si cominciarono a progettare galee destinate esclusivamente alla battaglia. Allora, poiché nella stiva non si dovevano più immagazzinare merci, si potevano imbarcare fino a 120 vogatori, in qualche caso anche 200.
In molte galee ogni remo era manovrato da due, tre o anche quattro vogatori. Inoltre le vele venivano considerate un motore ausiliario; queste navi usavano la vela triangolare, detta vela latina, e di frequente avevano due alberi.
L’armamento di una galea era costituito si armi da lancio e grosse baliste; erano inoltre armate di un enorme sperone per forare lo scafo delle navi avversarie. Ciascuna galea era, infine, munita di grossi ganci e di ponti che servivano per agganciare le navi nemiche e per attaccarle all’arrembaggio.
Fra vogatori, marinai, bombardieri, arcieri e soldati assalitori, l’equipaggio di tale nave poteva contare anche più di 500 uomini.
Le prime galee usavano la vela quadrata, come i navigatori greci e romani. Solo verso il secolo XII si apprese dagli Arabi a usare la vela triangolare, con la quale era possibile navigare anche contro vento. La vela triangolare è detta vela latina. Ma questo nome non indica l’origine della vela. Esso deriva dalla storpiatura di vela ‘alla trina’. Così si chiamava infatti la vela triangolare, o perchè fatta a triangolo o perchè legata con la trina, una treccia di canapa formata da tre fili e usata per le legature volanti.
L’equipaggio era suddiviso in compagni d’albero (marinai) e rematori. Questi ultimi erano dei detenuti, condannati al trattamento più inumano. Erano in parte condannati per delitti comuni e in parte prigionieri di guerra; alcuni erano volontari, gentaglia che non sapeva far alcun altro mestiere, e venivano chiamati, per ironia, buanavoglia. Per essere riconosciuti in caso di fuga, questi rematori delle galee, detti appunti galeotti, dovevano avere i capelli rasati o tagliati a ciuffo.
Se la nave affondava, i galeotti affondavano con essa. Dovettero purtroppo trascorrere alcuni secoli prima che venissero abolite queste barbare condanne.

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Le navi da carico

Le nostre città marinare usarono diversi tipi di navi da carico: le galee grosse o di mercanzia, le cocche, le caracche. Erano navi alte di bordo, più larghe e tondeggianti delle galee, adatte a portare grandi carichi (e da ciò il nome di caracche che deriva dall’espressione latina navis caricata); esse furono fra le prime del Mediterraneo ad applicare una grande innovazione, apparsa già da un secolo nei navigli del Mare del Nord: la sostituzione dei remi di governo con un vero e proprio timone a barra, detto timone ‘alla navaresca’. Ben presto Genovesi e Veneziani si accorsero che queste navi erano adattissime anche al combattimento, perchè con esse si potevano colpire i nemici dall’alto, standosene ben protetti negli alti castelli di poppa e di prua.

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La Repubblica di Amalfi

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Splendore e decadenza di Amalfi
Amalfi, nell’anno 839 si rese indipendente da Napoli (del cui ducato faceva parte) ed elesse come governatore un comite (magistrato annuale). Cominciò allora la fortuna marinara della città che divenne la prima delle potenti repubbliche marinare del Tirreno. Essa seppe difendere la propria indipendenza sia contro Bisanzio sia contro i Longobardi.
La sua importanza, analogamente a quella di Venezia, si fondava esclusivamente sui traffici e la navigazione.
Le sue navi visitavano Alessandria e Beirut, in parte per condurvi pellegrini, in parte per andare a prendere prodotti che si potevano vendere comodamente in Italia.
Ben presto  i mercanti di Amalfi costituirono colonie a Palermo, a Siracusa e Messina, tutte città che si trovavano nelle mani dei musulmani.
Gli Arabi gradivano questi scambi di merce, dai quali essi stessi traevano vantaggio.
Concedevano generosamente ai forestieri luoghi di residenza, i cosiddetti fonduk, dove i mercanti  potevano svolgere la loro attività, come anche a Venezia esistevano i fondachi per gli stranieri.
Amalfi sfruttò abbondantemente i suoi vantaggi.
In questa cittadina, nel periodo del suo massimo splendore (X secolo), vivevano 50.000 abitanti, cifra assai ragguardevole per quei tempi.
Probabilmente Amalfi era allora la città di gran lunga più popolata di tutto l’Occidente.
La sua moneta (il tari) circolava in tutta Italia e perfino in Oriente.
Le sue leggi venivano rispettate ovunque e spesso venivano adottate da altre città.
Il codice della navigazione di Amalfi, Tabula Amalphitana, divenne il modello di tutto il diritto marittimo dell’Occidente.
A uno dei suoi cittadini, Flavio Gioia, fu attribuita l’invenzione della bussola. E’ vero che ciò non è esatto perchè l’ago magnetico era già noto ai Cinesi, tuttavia Amalfi può rivendicare il merito di aver messo questa invenzione al servizio della navigazione, collegando l’ago magnetico con la Rosa dei Venti.
Amalfi decadde quando, nell’anno 1131, fu conquistata dai Normanni, che avevano già occupato la Sicilia.
La città si era appena riavuta da questo colpo, quando fu attaccata, sconfitta, saccheggiata e definitivamente distrutta dai Pisani.
Oggi esistono soltanto rovine che indicano il punto in cui sorgeva l’antica Amalfi.
(‘I mercanti trasformano il mondo’, E. Samhaber)

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Uno strumento nuovo: la bussola

I mercanti delle repubbliche marinare che commerciavano con l’Oriente portarono in Europa uno strumento utilissimo per la navigazione. Si trattava di uno strumento proveniente dalla lontana Cina, che sembrava opera di magia. Era un piccolo recipiente colmo d’acqua, cioè una bussola, sul quale galleggiava una lancetta di ferro calamitato, sorretta da una scheggia di legno. La lancetta si indirizzava sempre verso nord e rendeva facile l’orientamento anche alle navi che si trovavano in mezzo al mare, lontano dalla costa, o quando di giorno o di notte, il cielo era coperto di nuvole e non si vedevano le stelle.

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La Repubblica di Venezia

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Nascita di Venezia

Rialto, piccolo ammasso di isolotti, era sto fino ad allora scarsamente abitato, ma l’inviolabile asilo che aveva offerto ai profughi di Eraclea lo designava per la scelta quale sede preferibile e permanente dello Stato.
Prese singolarmente, le isolette di Rialto erano certo meno estese di Torcello, di Burano o di Eraclea, ma il gruppo ne annoverava ben sessanta, separate da stretti canali sui quali sarebbe stato agevole gettare ponti, in modo da rendere disponibile per la capitale una superficie considerevole e di molto superiore ad ogni altra.
La via d’acqua larga e profonda che spartiva in due gruppi l’arcipelago era il corso del fiume Prealto, ramo staccato del Brenta; se ne fece il Canal Grande. Le sue dimensioni avrebbero consentito il passaggio delle maggiori imbarcazioni e sulle sue rive si sarebbero create banchine e depositi, nei luoghi più adatti.
Al limite degli isolotti periferici si sarebbero potuti costruire una cinta muraria e un riparo in pietra, a circondare e proteggere la nuova città.
Come se presentisse quale splendido destino lo attendeva, tutto il popolo di pose all’opera con incrollabile entusiasmo.
Da ogni parte si innalzarono costruzioni, dapprima di legno, poi di mattoni e di pietra.
Per il palazzo del doge si scelse la posizione che sarebbe rimasta immutata per sempre.
Quanto al nome della città gloriosa i Veneti le diedero il proprio, quella che in origine si era chiamata Rialto, civitas Rivoalti, divenne Venetia, ossia Venezia.
Questo avveniva nell’anno 810 dC.
(A. Bailly)

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Grandezza di Venezia

Venezia divenne una grande città commerciale. Le sue navi la fecero dominatrice del Mediterraneo. Le sue flotte mercantili, protette dalle navi da guerra, commerciavano fino a Costantinopoli, entravano nel Mar Nero per ritirare i prodotti russi e gli altri prodotti che dall’Asia e dalla Cina vi arrivavano per mezzo delle carovane. Lungo le coste della Palestina e della Siria, le navi veneziane caricavano i prodotti della Mesopotamia, della Persia e dell’India, qui portati dalle carovane. Esse avevano commerci con l’Egitto, lungo le coste della Francia e della Spagna, e oltre l’Atlantico, con l’Olanda, il Belgio, l’Inghilterra e la Scandinavia. Quasi tutti i Paesi d’Europa compravano i prodotti asiatici da Venezia. Nei giorni in cui Venezia era il grande magazzino del commercio orientale, i suoi nobili mercanti, i suoi artigiani ed il suo governo costruirono bellissimi edifici. I suoi banchieri prestavano denaro ai principi di tutta Europa.
Intanto i Turchi andavano occupando l’Oriente e assalivano le navi veneziane; Cristoforo Colombo aveva aperto gli orizzonti verso terre vergini dell’Occidente molto più remunerative.
Di più, era giunta notizia che un portoghese di nome Vasco de Gama aveva trovato una via per le navi per arrivare direttamente in India girando attorno all’Africa.
Un triste giorno i prezzi delle merci caddero circa alla metà, e non si rialzarono più.
Quando i mercanti ed i banchieri veneziani seppero della scoperta di Colombo e, ancor peggio, di de Gama, capirono che Venezia non avrebbe più potuto essere il grande emporio.
Essa si erge ancora con i suoi magnifici, vecchi edifici, i suoi ponti ad arco sopra i canali, le gondole che scivolano ancora lungo le calme acque delle sue strade. Invece dell’assordante rumore delle automobili, si sente il canto del gondoliere o il fischio del vaporetto.
La Repubblica di Venezia fu la sola tra le Repubbliche marinare a diventare anche una grande potenza di terraferma, fino a contare, a un certo punto, tra i più forti stati europei. La sua ricchezza, comunque, le venne da Oriente. L’Adriatico diventò qualcosa come un lago veneziano, già prima delle Crociate, con la fondazione delle colonie in Istria e in Dalmazia. Le Crociate offrirono ai Veneziani l’occasione di allargare i loro traffici, prima provvedendo al trasporto dei guerrieri cristiani in Palestina, poi con la fondazione di colonie commerciali nei paesi d’Oriente, in Grecia, nel Mar Nero. Durante la quarta Crociata i Veneziani, in cambio del trasporto degli eserciti con le loro navi, ottennero addirittura di far combattere i Crociati per ristabilire la sovranità di Venezia sulla ribelle Zara e per allargarla nei territori dell’Impero d’Oriente. Il Doge di Venezia ottenne il titolo di ‘Signore di una quarta parte e mezzo dell’Impero Greco’.
La Repubblica di San Marco visse fino al 1797, quando passò sotto l’Austria.
(R. Smith)

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I Veneti e i loro commerci

Le iniziative mercanti dei Veneti li portavano già in tutti i porti del bacino mediterraneo.
Gli audaci navigatori, un tempo pescatori di laguna, andavano a commerciare a Costantinopoli, nello Ionio e nel Mar Nero, in Siria e in Africa.
Non rimanevano nell’attesa che le merci forestiere fossero portate loro, ma volevano scegliere e acquistare all’origine i prodotti dai quali potessero trarre maggior lucro.
Anche per via terra, a gruppi o isolati, percorrevano le strade d’Italia sostando specialmente a Pavia e a Roma.
Ma essi avevano una vera e propria industria nazionale: la costruzione di navi, arte nella quale fin dal VI secolo erano già considerati maestri e in seguito si erano perfezionati, avendo studiato anche in Slavonia e in Istria nuove forme di scafi e di chiglie, altre disposizioni di remi e di vele.
Naturalmente, le aveva studiate e modificate assimilandole alla propria tecnica costruttiva e avevano finanche chiamati calafati e carpentieri greci e siriani per apprendere i metodi di lavoro.
Ormai nessun popolo pensava più ad emularli, in questo campo.
Nell’VIII secolo le isole superavano in prosperità quasi tutti i paesi europei; praticamente i Veneti avevano il monopolio del grande commercio internazionale.
Partivano col consueto carico di sale, ma al ritorno recavano ricche merci straniere: oli, cereali, tessuti, spezie.
Nei lontani porti frequentati dai loro navigli i Veneti aprirono numerose agenzie, simili ai nostri attuali consolati, dirette da connazionali che studiavano le attività economiche dei paesi di residenza, le loro risorse e necessità, annodavano relazioni d’affari con le genti del luogo e agevolavano gli scambi tenendo in deposito nei loro magazzini tanto i carichi in arrivo che quelli in partenza.
In seguito, anche Venezia dovette a sua volta ospitare agenti dei mercanti forestieri e concedere loro siti di sbarco e di magazzinaggio: ne conservano ancor oggi memoria il Fondaco dei Turchi e il Fondaco dei Tedeschi.
Questa corrente di scambi, già molto intensa al sorgere della nuova capitale, doveva rendere splendida oltre ogni ottimistica previsione la città edificata su quegli isolotti di Rialto dei quali l’omonimo ponte, che domina con il suo maestoso arco il Canal Grande, custodisce il lontano ricordo.
(A. Bailly)

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Come era governata Venezia

A Venezia dominava l’aristocrazia: tutti i poteri erano nelle mani del temibile Consiglio dei Dieci. Il Doge aveva solo il compito rappresentativo e presiedeva il Consiglio dei ministri, o Serenissima Signoria, composto di nove membri: si trattava ancora di altri dieci personaggi. In totale, venti nobili veneziani amministravano gli affari della Repubblica sotto il controllo molto blando del Senato, formato anch’esso da soli patrizi.
Nel  1355, sembra che un Doge abbia cospirato con elementi popolari, benchè l’affare sia rimasto oscuro (I Dieci hanno fatto scomparire gli incartamenti). Il tentativo fallì. I complici del Doge furono impiccati alle finestre del Palazzo Ducale e il Doge stesso, Marin Faliero, fu decapitato il giorno seguente sulla scala della Corte d’Onore. La Regina dell’Adriatico, in questo periodo è al suo apogeo: essa conta trecento navi grandi e tremila piccole; quarantacinque galee proteggono validamente le sue rotte marittime. In uno scenario incomparabile, opulento e grandioso, essa mostra con esuberanza la sua fiducia e la sua gioia nelle feste di un carnevale che si prolunga a poco a poco per tutti i giorni dell’anno.

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L’arsenale di Venezia

Il suo arsenale, situato sulle due isole Gemelle nella parte orientale della città, era il più grande e il migliore che allora si conoscesse; ancor oggi se ne vedono le profonde darsene e i tre canali scavati in seguito per collegare gli impianti originari con quelli successivi.
In esso, da prototipi accuratamente studiati e uniformemente riprodotti, si costituivano ogni sorta di imbarcazioni: guerreschi vascelli rostrati dai fianchi scudati di cuoio e dai ponti muniti di catapulte e di torri per arcieri e balestrieri, navi mercantili più  pesanti e lente, nelle quali l’abbondante velatura rimpiazzava i duecento vogatori delle galee e dei ‘gatti’.
Questa è la tradizionale, autentica industria nazionale.
Non v’è popolano che non appartenga alla marineria: marinaio, pescatore o calafato che sia.
Anche coloro che esercitano un mestiere legato alla terra sono per origine dei marittimi. Del resto, vivono sul mare, il mare è il loro elemento naturale e la barca il basilare strumento di lavoro; il giorno in cui lo Stato ha bisogno di loro non fanno che cambiare i remi della barca in quelli della trireme, con una maestria marinara d’altronde indispensabile affinché la Repubblica possa essere presente là dove la chiamano i suoi interessi, ora con lo sguardo svolto a Bisanzio, della quale prevede la successione, ora ai Normanni, dei quali teme la forza e le mire ambiziose.
(A. Bailly)

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La forza navale di Venezia

Sotto il comando del General da Mar e del Capitano del Golfo le forze navali di Venezia, o Armata Veneta, erano formate da navi a vela, che costituivano l’Armata Grossa, e da navi a remi, o Armata Sottile, mosse quest’ultime da galeotti o condannati ai remi della galea, oppure da rematori volontari chiamati buonavoglia. Comandavano le prime i Governatori del Mare, mentre le navi a remi dipendevano da un Sopracomito.
Tutta l’Armata usciva dall’Arsenale, che poteva fornire navi con armamenti completi in tempo ridottissimo e che era un mosaico di squeri o cantieri. Anzi, era, a sua volta, un enorme cantiere funzionante. Dante stesso mostra di essere rimasto colpito agli ordini degli Inquisitori dell’Arsenale, dei Provveditori all’Armar e di quei Visdomini alla Tana che facevano arrivare da una località sul Mar Nero, Tanai, alle foci dell’odierno Don, la canapa destinata a divenire solida gomena in un reparto dell’Arsenale stesso, chiamato, ‘La Tana’.
Popolazione vivacissima dell’Arsenale, gli arsenalotti, erano artefici abilissimi, gelosi del loro mestiere, tramandato di generazione in generazione, e del privilegio di spingere, a suon di remi, nel giorno dello Sposalizio del Mare, il Bucintoro, l’imbarcazione dogale, che sdegnava l’aiuto degli alberi e delle vele.

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Le ‘uscieri’

Uscieri  si chiamavano le grosse navi a vela, per gli sportelli o usci praticati sui fianchi per agevolare l’imbarco di cavalli e di macchine da guerra. Insieme alle galee e alle navi minori partecipavano anch’essi alla battaglia, rovesciando vere fortezze galleggianti dai loro castelli e dai loro ponti volanti, con adatti ordigni, i proiettili sulle navi avversarie.
Fortezze che talora, in battaglia, venivano tra di loro legate per formare il cosiddetto porto d’alto mare, o porto galleggiante, perchè il vento non ne isolasse qualcuna, facendola preda delle più veloci galee, superiori certo, queste, per molti secoli, nei combattimenti rapidi in mare aperto.
(M. Bini)

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Severissima disciplina sulle galee veneziane

La disciplina, severa in tutte le marine italiane, era severissima sulle navi di Venezia. Nel 1293 il Gran Consiglio veneziano aveva decretato che, quando l’ammiraglio aveva dato l’ordine di attaccare il nemico, se una qualche galea si fosse allontanata dal luogo della battaglia, i capi divisione, i capitani, i nocchieri e i timonieri venissero decapitati. Se non si poteva raggiungerli, venivano condannati al perpetuo esilio e tutti i loro beni erano confiscati.

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Vita di galeotto

Durissima era la vita al remo nelle galee. I rematori di destra stavano con il piede sinistro incatenato alla banchina (e i vogatori di sinistra inversamente) e così sul banco vogavano per dieci o dodici ore; unico riparo era una tenda o una leggera sovrastruttura. Quando si intimava il silenzio dovevano mettersi in bocca il tappo di sughero che portavano appeso al collo. La ciurma era comandata da un sottufficiale, l’aguzzino, che aveva diritto di vita e di morte sui vogatori. Dalla corsia ammoniva a nerbate, puniva a sciabolate o (dopo l’invenzione della pistola) piantando una palla in testa ai recalcitranti.

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Dal ponte di comando alla catena del remo

La condizione delle ciurme nelle battaglie era spaventosa e orribile; esposte ai colpi dei loro correligionari e fratelli (poichè sulle galee cristiani gli schiavi erano turchi e su quelle turche erano cristiani), avevano come unica speranza di liberazione la cattura della galea. Avveniva così talvolta che capitani di navi, e anche ammiragli, passassero dal comando al remo o dal remo ancora al comando!

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Lo sposalizio del mare

Venezia stabilì di commemorare annualmente le sue vittorie con una festa nazionale che dapprima si espresse nella benedizione del mare: all’Ascensione, il vescovo di Olivolo si recava con il clero all’estremo limite dell’isola e lì, alla presenza della folla, tracciava sul mare, sede e strumento della grandezza veneziana, il sacro segno che lo univa a Dio e gli uomini.
In seguito la cerimonia doveva assumere un significato ancora più chiaro e di un simbolismo più adatto a colpire l’animo della massa.
Nacque così lo Sposalizio del Mare nel quale il Doge, vivente personificazione dello Stato, faceva suo il mare così come ogni uomo lega a sé la donna scelta in sposa.
Per la tradizione fu il papa Alessandro III che, avendo riconosciuta la sovranità veneziana sull’Adriatico, inviò al Doge l’anello benedetto accompagnandolo con queste parole: “Ricevetelo come il segno del vostro imperio sul mare; voi e i vostri successori rinnoverete gli sponsali ogni anno affinché i tempi a venire sappiano che il mare è vostro e vi appartiene come la sposa allo sposo”.
Ogni anno il doge saliva a bordo del Bucintoro, la galea nazionale fantasiosamente decorata di sculture e dorature, perfino nei remi.
Diritto sotto un baldacchino purpureo circondato dalla sua Corte, percorreva la laguna in direzione del Lido e per il vicino passaggio entrava nell’Adriatico.
Qui, dal Bucintoro galleggiante sul mare che Venezia considerava suo, il Doge lanciava in acqua il suo anello d’oro, pronunciando la formula rituale: “Desponsamus te, mare, in signum veri perpetuique dominii”.
(A. Bailly)

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Il Bucintoro

Il Bucintoro era il grande e maestoso naviglio sul quale, nel dì dell’Ascensione, il Doge di Venezia procedeva, ogni anno, a solennizzare la cerimonia dello sposalizio col mare. Il Bucintoro, adornato riccamente, lungo trentun metri e largo sette, aveva due piani: nell’inferiore stavano i remiganti, nel superiore il Doge, il Patriarca, gli ambasciatori, i governatori degli arsenali, i membri del Governo, gli altri personaggi della Repubblica.
(P. Persico)

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Ultime parole del Doge Mocenigo

Il grande doge di Venezia Mocenigo, sempre vigile nella cura della Repubblica, così disse ai maggiorenti della città, racconti attorno al suo letto di morte: “Ormai io più non posso giovare alla patria mia; perciò vi ho chiamato per raccomandarvi questa cristiana città e persuadervi ad amare i cittadini e a far giustizia e a pigliar pace… La guerra con il Turco vi ha fatto valorosi ed esperti per mare, avete sei capitani da guerra, avete molti uomini sperimentati nelle ambascerie e nel governo, avete molti dottori di diverse scienze e specialmente molti legali… La vostra zecca batte ogni anno un milione di ducati d’oro, duecentomila d’argento e ottocentomila in soldoni… Perciò sappiate governare un tale stato e abbiate cura che per negligenza mai diminuisca”.
M. Bini

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San Marco, patrono di Venezia

L’evangelista Marco ha come simbolo un leone , e coi caratteri del Leone appare Gesù nel vangelo di San Marco, cioè con le qualità del forte, che scaccia i demoni, che guarisce gli ammalati e che vince la morte.
Questo perchè san Marco rivolgeva il suo vangelo ai Romani, che non avrebbero dato nessun valore alle lunghe genealogie ebraiche o alle profezie. I Romani non conoscevano che il diritto e la forza. Perciò, nel vangelo di Marco, il Redentore rappresenta sempre il diritto e la forza a cui nulla può resistere.
Si sa che la sua tomba di marmo, ad Alessandria, era venerata anche durante la dominazione dei Maomettani. Nell’828, due mercanti veneziani vollero togliere le reliquie di san Marco dalla terra dominata dagli infedeli. Si disse che di nascosto i due veneziani togliessero dalla tomba le ossa del santo e le nascondessero in fondo a un paniere, riempito poi di vettovaglie. Altre leggende fiorirono intorno alla venuta di san Marco sul suolo veneziano. Fra queste la più poetica ebbe credito nella città lagunare.
San Marco sarebbe giunto a Venezia non dopo morto, ma ancora vivo, a causa di una grande tempesta che avrebbe spinto la sua nave, da Alessandria d’Egitto verso la laguna veneta. Sulla spiaggia, appena sbarcato, egli sarebbe stato accolto da un angelo, che gli avrebbe detto: “Pace a te, Marco evangelista mio”.
Sono le parole che si leggono ancora sulle pagine del libro, tenuto dagli artigli di un leone alato, che forma lo stemma di Venezia, chiamata perciò la ‘città di San Marco’.

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Indiscrezioni da Venezia

La dogaressa Selvo è al centro di animatissime discussioni nell’alta società veneziana.  Si sa che la dogaressa è bizantina di nascita, figlia di un imperatore e sorella di Michele VII Ducas; e fin da quando era giunta a Venezia si sapeva che era cresciuta in mezzo a lussi che noi non immaginiamo nemmeno. Si è subito fatta notare per la ricchezza e lo splendore dei suoi abiti. Ora poi sono trapelate alcune indiscrezioni che hanno scandalizzato i Veneziani. Si dice che la signora si lavi con acque odorose, si profumi, e si rinfreschi il volto con la rugiada, raccolta per lei ogni mattina dai servi.
Ma ciò che le sta attirando, a quanto pare, le ire del famoso predicatore Pier Damiani è una strana abitudine della dogaressa. Pare infatti che per portare il cibo alla bocca si serva di uno strumento d’oro a due denti, invece di usare le mani. Secondo Pier Damiani si tratta di uno strumento diabolico.
(L. Pisetzky)

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Una nuova basilica custodirà il corpo di san Marco

Un incendio ha distrutto la Cattedrale. Ma subito si pensa a costruirne una più grande e più bella.
L’incarico di progettare e di innalzare la nuova chiesa è stato dato ad architetti bizantini, essendo Venezia assai legata all’Oriente, ed essendo i Veneziani molto sensibili al gusto che viene di là.
Anche la nuova chiesa sarà dedicata a san Marco e ne custodirà le reliquie, come la vecchia chiesa.
San Marco evangelista è infatti, da 150 anni circa, il protettore di Venezia. Precisamente da quando due mercanti veneziani, che a causa dei loro traffici si trovavano ad Alessandria d’Egitto, vennero a sapere dai cristiani di quella città,  dove si trovavano nascoste le reliquie di san Marco. Ottenute quelle reliquie, essi le portarono a Venezia, facendola in barba al controllo degli Arabi. E sapete come?
Al di sopra della cassa contenente il corpo del santo, misero uno strato di carni suine; gli Arabi, ai quali è vietato mangiare carne di maiale, fecero subito passare quella merce, che era bene lasciasse l’Egitto; e con la carne suina passò quel corpo, venerato ora in Venezia.

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Il doge Orseolo e la Dalmazia

Gli Schiavoni si erano stabiliti in Croazia e in Dalmazia e le città costiere, che politicamente dipendevano dall’Impero greco ma che questo non era però in grado di proteggere, difficilmente potevano resistere da sole alle incursioni barbaresche.
Venezia invece, sia per la sua vicinanza che per la potenza della sua flotta, poteva difenderle o liberarle.
Perciò esse ne richiesero l’aiuto, che Orseolo concesse a patto che le città dichiarassero obbedienza alla Repubblica, giurandole fedeltà e fornendole dei rinforzi per l’opera di liberazione.
Due soltanto, Lesina e Curzola, ricusarono la sottomissione, ma tutte le altre accettarono, cosicchè nel maggio dell’anno 1000 il doge si recò a Pola con una poderosa flotta e vi si stabilì solennemente per ricevere l’omaggio dei magistrati di tutte le città costiere e incorporare nelle sue truppe i contingenti dei quali aveva imposto l’obbligo.
Quindi fece vela per Zara, dove i magistrati delle città marittime dalmate vennero a loro volta per fare atto di sottomissione e presentare i rinforzi.
In tal modo più di venti tra le città e isole si posero sotto il dominio di Venezia, che diventava di fatto la padrona delle coste istriana e dalmata.
Contro Lesina e Curzola, le due riottose, il doge passò alla maniera forte prendendole d’assalto, ed esse dovettero reputarsi fortunate di trovare un vincitore che, contrariamente alle usanze dei tempi, risparmiasse la vita agli abitanti.
Dopo di che, Orseolo sferrò l’attacco ai nidi dei pirati sul litorale, ne distrusse le imbarcazioni, li inseguì nella fuga entroterra e ne fece tale carneficina che per molto tempo furono ridotti all’assoluta impotenza.
Quando il doge ritornò a Venezia, alla testa della flotta vittoriosa, fu accolto dagli osanna del popolo entusiasta; per merito suo, infatti, la Repubblica si era assicurata il dominio delle coste illiriche e dalmate.
Quanto ai Greci, anziché adombrarsi dell’imponente successo veneziano, lo riconobbero e l’imperatore lo sancì conferendo al doge il titolo di Duca di Dalmazia.
(A. Bailly)

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Il trasporto del corpo di san Marco

Il nome di san Marco era da secoli venerato nell’estuario veneto. Era antica tradizione che l’evangelista fosse stato il primo propagatore della fede sulle coste dell’Adriatico settentrionale, e il fondatore della prima chiesa di Aquileia.
La leggenda narrava che la nave che lo aveva trasportato verso Aquileia da Alessandria d’Egitto, durante il suo tragitto era stata colta da una violenta burrasca, che aveva costretto l’equipaggio ad entrare nella laguna e ad approdare alle isole di Rialto. E lì, mentre il santo, sceso a terra, si riposava in attesa di riprendere il viaggio, gli era apparso un angelo che lo aveva salutato con le parole “Pax tibi, Marce, Evangelista meus”, e gli aveva annunciato che su quella terra le sue ossa avrebbero avuto un giorno riposo e venerazione.
Questa leggenda, che dava quasi al luogo, scelto dai Veneti come loro capitale, una designazione soprannaturale, aveva acceso nell’animo di molti di essi il desiderio di impadronirsi dei resti mortali del santo, secondo un costume molto diffuso in quei tempi in tutta la cristianità. Senonché le ossa di san Marco erano ad Alessandria d’Egitto, dove il santo aveva subito il martirio ai tempi di Nerone, e dove, per raccoglierle, era stata costruita una bellissima chiesa.
In quel tempo, in seguito alle ostilità esistenti tra l’Imperatore di Costantinopoli e i Saraceni, era severamente proibito ai mercanti veneti di approdare in Egitto, dominato dai Saraceni, e di esercitarvi quei commerci che nel passato erano stati fiorenti. Tuttavia, malgrado il divieto, i mercanti più arditi continuavano a frequentare quei posti.
Due di questi, secondo la tradizione Rustico da Torcello e Bon da Malamocco, approdano un giorno ad Alessandria con ben dieci navi cariche di merci; vi trovarono i cristiani del luogo addoloratissimi, perchè i musulmani dominatori  spogliavano ogni giorno le chiese dei vasi sacri e di ogni prezioso arredo, per arricchire le moschee e i loro palazzi, e già correva voce che il sultano avesse in animo di abbattere la chiesa nella quale erano custoditi i resti di san Marco per impiegare altrove i materiali.
Questa notizia colpì vivamente l’animo dei due mercanti veneziani, i quali decisero di impadronirsi della reliquia e di portarla alla loro patria.
Dopo molte difficoltà, riuscirono a persuadere i due religiosi greci che avevano la custodia del corpo del santo, a consegnarlo a loro, e lo trassero a bordo di una delle loro navi. Elusa con un’astuzia la sorveglianza dei doganieri, dopo un viaggio avventuroso giunsero in vista della laguna veneta, ma non osarono approdare perchè colpevoli di aver violato il divieto di commerciare coi Saraceni e inviarono un messo al doge perchè gli recasse la confessione del loro fallo e l’annuncio del prezioso carico.
La notizia fu accolta con immenso giubilo. Il doge perdonò l’infrazione alle leggi e si dispose, con tutto il popolo, a ricevere degnamente le spoglie dell’evangelista. Esse vennero collocate nella cappella di san Teodoro, adiacente al Palazzo Ducale, in attesa che le accogliesse un maestoso tempio, del quale si iniziò presto la costruzione.
San Marco fu eletto patrono della Confederazione veneziana, che adottò come stemma il leone alato, simbolo dell’evangelista; insieme con il libro dei vangeli e il motto “Pax tibi, Marce, Evangelista meus”.
(E. Zorzi)

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Una dimora veneziana

Il Procuratore Contarini ordinò a Giovanni Buono la facciata della casa, chiamata d’Oro per le dorature di cui era adorna. Compiuta la facciata che, nonostante le offese del tempo, ride ancora di una immortale bellezza, fu chiamato mastro Giovanni di Francia, per ornarla ‘de pentura’. Come doveva apparire quel gioiello dell’architettura veneta! Maestro Giovanni si impegnava a dorare le rose, gli stemmi, i leoni, gli archetti, il fogliame dei capitelli e i dentelli, dipingere le ‘tresse dazuro oltremarin fin ben dopiado per muodo che i la stia benissimo’. Le merlature dovevano essere dipinte con biacca e venate come il marmo; le fasce bizantine a tralci di vite, tinte di bianco su fondo nero, e tutte le pietre rosse e tutte le ‘dentade rosse sia onte de oio e de vernixe con color che le para rosse’.
(P. Molmenti)

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Diplomatici veneziani

E’ logico supporre che l’esaltazione di Venezia e delle sue bellezze ad opera di visitatori di ogni terra e di ogni condizione, concorresse a creare intorno alla città una leggenda avvalorata più che mai dalla chiara realtà di una flotta senza uguali, dalla ricchezza inesauribile dei commerci. Venezia è una potenza con la quale altre potenze si onorano di avere rapporti profondi e amichevoli; gli ambasciatori veneziani, educati alla più alta scuola di diplomazia e introdotti nelle corti più difficili, colgono ritratti ed atteggiamenti e li fissano per sempre nelle loro relazioni.
Ecco come la grande Elisabetta d’Inghilterra accoglie l’ambasciatore della Serenissima:
“Era la Regina in quel giorno vestita di taffetà d’argento e bianco fregiato d’oro, con abito aperto alquanto davanti sì che mostrava la gola, cinta di perle e di rubini fin a mezzo il petto. La testa aveva di capelli di un color chiaro che non lo può far la natura, con file di perle grosse intorno alla fronte e con archi in forma di cuffia e corona imperiale; faceva mostra di un gran numero di gemme e di perle, e nella persona era quasi coperta di cinto d’oro gioiellato e di gioielli in pezzi separati di carbonchi, balassi e diamanti, avendo anco le mani in luogo di mantili, filze doppie di perle più che mezzane, e tale in aspetto di regina non di anni 76…
Sedeva sua maestà su una sedia sopra un poggiolo quadrato di due scalini… e all’entrare che feci in quella stanza si levò in piedi, e procedendo io nelle debite riverenze, giunto a lei, in atto di porre in ginocchio sopra il primo gradino, la sua maestà non permettendolo, con ambe le mani quasi mi sollevò, e mi porse la destra, la quale baciai, e in quest’atto ad un tempo stesso mi disse: <<Sia ben venuto in Inghilterra il segretario. E’ ben ora che la Repubblica mandi a vedere una regina che l’ha tanto onorata in tutte le occasioni>>.

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Diplomazia veneziana

Un documento di singolare importanza per il contenuto e per la forma è l’accordo che il sultano Murad II (Amorato), colui che prepara la strada a Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli, stipula con Venezia nel 1430: trattato di breve durata. Mirabile la vivacità delle espressioni che nella parlata veneta acquistano una solennità inattesa:
In nome del gran Dio nostro, amen.
Mi Gran Signor e Grande Amirà, Soldan Amorato, zuro in loDio, creator del zielo e de la terra et alo gran nostro profeta Maomet et ali sete Mussafi che avemo e confessemo nuy Musulmani, et ali CXXIII mila profeti et in anema de mio avo e de mio padre, et in anema mia, et in la mia testa, e per la spada che me zengo, prometo mi Gran Signor Amorato, e zuro in li soraditi sagramenti:
che dal di d’anchuo, prometo e digo de aver con mio fredello, el Doxe, con lo honorado et lustrissimo Chomun de la dogal signoria de Vienexia e con i so zentilomeni grandi e pizoli, bona, dreta, fedel, ferma et veraxia paxe per mar e per terra, et in le terre, zitade, castelli, ixole e tuti luoghi che chomanda la serenissima signoria de Vienexia, in quanti castelli, terre e zitade, ixole e luoghi, i qual lieva la insegna del San Marco, e quanti la leverà da mo in avanti”.

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Venezia prima delle Crociate

Lo scarso sviluppo quantitativo del commercio veneziano dei due secoli che precedono le Crociate ci è attestato dalle condizioni in cui si svolgevano i trasporti sia per mare sia per terra.
I viaggi per mare erano fatti generalmente da navi di piccolissimo tonnellaggio, molte delle quali erano sprovviste di ancora, che doveva essere presa a nolo per la durata del viaggio.
La mancanza di ogni strumento di orientamento obbligava a limitare la durata giornaliera del viaggio alle ore della luce solare, riparando la notte in qualche insenatura della costa istriana o dalmata, oppure lungo le rive generalmente basse e piatte della costa italiana su cui si doveva tirare in secca le piccole imbarcazioni.
Ai pericoli del mare si aggiungevano e spesso sovrastavano quelli della pirateria slava, per cui, a differenza di quello che avverrà nei secoli successivi, le navi erano obbligate a viaggiare in convoglio fino al canale d’Otranto, mentre, uscite da questo, era loro permesso di viaggiare isolate; e questo non tanto perchè nel mar Ionio e nel Mar di Levante la loro sicurezza fosse garantita dalla vigilanza della flotta bizantina, ma perchè il loro piccolo numero e la varietà delle rotte che esse seguivano verso gli Stretti, verso la Siria, l’Egitto o la Sicilia, rendeva impossibile riunirle in convoglia protetti da una scorta armata.
Non molto migliori erano le condizioni dei trasporti per terra, per i quali il mezzo di gran lunga preferito era la via fluviale, che si presentava relativamente agevole lungo il corso inferiore del Po e dell’Adige, ma che per questi stessi fiumi a monte di foce Mincio e di Legnago e per tanti altri corsi d’acqua del Veneto e della Valle Padana si prestavano soltanto a barche di fondo piatto e di minima portata, che in certi tratti più ripidi dovevano essere tirate con funi; mentre in montagna e specialmente lungo i valichi alpini, che talvolta incominciavano ad essere pericolosi, non potevano esser fatte che da somieri, che difficilmente portavano più di un quintale ciascuno.
Tutto sommato dunque, se si può affermare che nel corso del X e del XI secolo si sono create tutte o quasi tutte le condizioni che permetteranno il grande sviluppo del commercio e di tutta l’economia veneziana nei due secoli successivi, è anche certo che questo sviluppo è stato poi decisamente favorito dalle Crociate, e che soltanto da queste ha origine la creazione di un impero coloniale veneziano nel Levante.
(C. Luzzatto)

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La Repubblica di Pisa

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La Repubblica di Pisa
Pisa cominciò a reggersi a Repubblica nella seconda metà del secolo XI. Dapprima fu assai ostacolata nei suoi traffici marittimi dai Saraceni, ma, in seguito, aiutata da Genova, riuscì, dopo lunga e accanita lotta, a snidare quei pericolosi pirati arabi dalle isole Baleari, dalla Corsica e dalla Sardegna, dove infestavano il Tirreno e saccheggiavano anche le altre città costiere italiane.
Pur combattendo contro i Saraceni, Pisa aveva empori in Oriente e trafficava con i Turchi, i Libici, i Parti e i Caldei. Molti vantaggi economici ottenne poi dalle Crociate. Splendidi monumenti, palazzi, magnifiche chiese testimoniano ancora quanto fosse ricca e prospera questa Repubblica.

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Decadenza della Repubblica di Pisa

Durante il secolo XIII Pisa decadde, combattuta per terra da Firenze e da Lucca, per mare da Genova.
Nella grande battaglia della Meloria, la flotta pisana fu completamente disfatta da quella genovese (1284), e migliaia di Pisani caddero prigionieri della potente rivale. Dopo questa tremenda sconfitta, Pisa non si risollevò più: perdette, l’uno dopo l’altro, i suoi possedimenti di Sardegna, di Corsica e la Colonia di San Giovanni d’Acri (Asia Minore); cedette a Genova l’Isola d’Elba, e non potè evitare la rovina commerciale del proprio porto. Ai disastri esterni si aggiunse la discordia interna tra Guelfi e Ghibellini.
Un episodio ben noto di questa lotta è quello del Conte Ugolino della Gherardesca, che tentò di farsi signore della città, appoggiandosi ora ai Guelfi ora ai Ghibellini.
Preso a tradimento dall’arcivescovo Ruggieri, suo rivale, venne chiuso con due figli  e due nipoti in una torre, e lì fu fatto morire di fame insieme con gli altri quattro sciagurati. Dante immortalò il tragico avvenimento nel XXXIII canto dell’Inferno.

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Pisa

L’esistenza di Pisa quale città marinara è nota fin dall’età romana: la città sorgeva alla foce dell’Arno, ed aveva un porto grande e sicuro. Dopo l’oscura parentesi delle invasioni barbariche, Pisa conquistò la propria indipendenza e già nel secolo VIII disponeva di una grossa flotta mercantile protetta da numerose navi da guerra. Alle incursioni ed alle minacce dei Saraceni, che correvano in lungo e in largo il Mediterraneo, i Pisani risposero con una guerra spietata, caratterizzata da imprese veramente leggendarie. Nel 1063, le navi pisane, rotta la grande catena del porto arabo di Palermo, irruppero in esso, attaccando le navi alla fonda.
Altre imprese vittoriose vennero compiute, nel giro di secoli di battaglie, a Reggio Calabria, sulle coste della Spagna, delle Baleari, della Sardegna, dell’Africa; famosa, e cantata dai poeti medioevali, la distruzione della roccaforte saracena di Mehedia (1087). La crescente potenza commerciale e militare pisana suscitò tuttavia la gelosia della sua grande vicina, Genova. La rivalità tra le due repubbliche le condusse ad una lunga serie di guerre nelle quali Pisa si venne sempre più indebolendo: la sconfitta della Meloria (1284) segnò l’inizio della sua inarrestabile, rapida decadenza.

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Lo scoglio della Meloria

Al largo del porto di Livorno, circa 7 chilometri a ponente, c’è lo scoglio della Meloria, su cui sorge un’antica torre. Sai perchè lo scoglio è famoso?
Perchè nei suoi pressi i Genovesi inflissero una dura sconfitta alle navi pisane nel lontano 1284, il 6 agosto, al tempo delle lotte combattute dalle repubbliche marinare di Genova e Pisa per il dominio del Mar Tirreno. Durante la sanguinosa battaglia navale due galee genovesi accoppiate, fra le quali era tesa una grossa catena, investirono la nave capitana pisana troncandone di netto lo stendardo bianco con l’immagine della Vergine. La vittoria genovese è ricordata da un iscrizione posta sulla facciata di San Matteo, chiesa dei Doria di Genova.

Morte del conte Ugolino
Alla battaglia della Meloria, nel 1284, i Pisani furono battuti definitivamente e lasciarono diecimila prigionieri nelle mani dei Genovesi. Fu allora che i guelfi toscani, alleati di Genova, minacciarono di marciare su Pisa per distruggerla. In tal frangente fu nominato prima podestà e poi capitano del popolo il conte Ugolino della Gherardesca; il quale, persuaso che si dovesse lottare contro Genova e non contro i guelfi della Toscana, si accordò con questi cedendo loro alcuni castelli e impegnandosi a render guelfa la sua città: gesto di amor patrio che andava oltre la passione politica di fazione; ma non la pensarono così i suoi concittadini che, accusatolo di tradimento, lo imprigionarono con i due figli e i due nipoti nella torre che, dopo di lui, fu detta della fame. Lì i cinque prigionieri furono lasciati miseramente morire di fame. Era l’anno 1288. Tutta la Toscana fu pervasa da un fremito di orrore per tale crudele condanna, che colpiva soprattutto gli innocenti figli e nipoti del conte.
Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, ricostruisce gli ultimi giorni e la fine, ad uno ad uno, dei prigionieri, con un verismo poetico di enorme potenza.

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Pisa ha corso un grave pericolo

Pisa, 1005
La città ha subito un improvviso e duro assalto da parte di armati saraceni, provenienti dalla Sardegna al comando del feroce Musetto. Ecco come essa si salvò dal terribile pericolo.
Pisa è immersa nel sonno. L’unico rumore sommesso è il mormorio dell’Arno, che attraversa la città. Ma forse, nelle loro case, non tutti i Pisani dormono tranquilli. Certo ignorano che alcune galee saracene, risalito il corso dell’Arno, stanno per raggiungere Porta Marina.
Musetto ha scelto il momento giusto: egli sa che questa oscura notte di settembre gli permetterà di dare a fuoco le porte, di irrompere nella città, di saccheggiare, di fare strage fra i Pisani, di portar via come schiavi donne e fanciulli. Lente, silenziose, le galee saracene ormeggiano ora ai serragli del primo ponte. Ed ecco che in un attimo i pirati sono sotto Porta Marina con le fiaccole accese, assalgono con scale e raffi le mura. Abbattuta la Porta i pirati irrompono urlando nelle prime case, con le torce e le spade sguainate. Cominciano a levarsi grida di orrore. Svegliate di colpo, nel sonno, famiglie sbigottite cercano scampo a quella furia nascondendosi, fuggendo, supplicando. In pochi istanti lo scompiglio diventa indescrivibile. In mezzo a tanto sgomento, una sola fanciulla (sembra incredibile) sa conservare la calma. Questa fanciulla è Cinzica de’ Sismondi.  Cinzica comprende subito che occorre fare una sola cosa, per la salvezza di Pisa: raggiungere il Palazzo del Comune e suonare a stormo le campane per dare l’allarme all’intera città. Incurante dei rischi cui va incontro, Cinzica scende dunque nella strada affollata di fuggiaschi e di Saraceni e comincia a correre, a correre… Finalmente, rischiando mille volte la morte, l’intrepida fanciulla è al Palazzo del Comune. Esausta, dà di piglio alla corda delle campane e suona, finché non le rimangono più forze. Poche ore più tardi la città è salva. I Pisani, infatti, svegliati dalle campane e corsi alle armi, erano riusciti a fermare i Saraceni, a travolgerli, a costringerli alla fuga.

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La Repubblica di Genova

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La Repubblica di Genova

Genova fu particolarmente favorita, nello sviluppo commerciale, dalla felice posizione geografica del suo porto, situato in un golfo ampio, profondo e sicuro, protetto alle spalle da un’alta cerchia di monti. Rovinata dai Longobardi, si riebbe solo sotto i Carolingi e divenne presto il centro più importante delle due Riviere di Levante e di Ponente.
Genova, liberata dal dominio dei marchesi e dei vescovi-conti verso la metà del secolo XI, si resse subito a Repubblica, e, lottando alleata con Pisa, contro i Saraceni, s’impadronì della Corsica; ottenuta poi dal Papa l’investitura sulla Sardegna, divenne la vera padrona del Tirreno, strappandone il predominio agli antichi alleati Pisani.
Debellata Pisa, accrebbe la sua potenza militare, politica e commerciale, assicurandosi depositi e magazzini di merci in tutti i porti principali del Mediterraneo orientale e perfino nel Mar Nero, per cui entrò in concorrenza, e rivaleggiò, con Venezia dalla fine del secolo XIII alla fine del secolo XIV.

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Il duello tra Genova e Venezia

Era così grande la potenza di Venezia e di Genova, che le sorti dell’Impero Bizantino, dipendevano dall’esito delle rivalità tra le due Repubbliche.
Il duello, tra Genova e Venezia, pieno di implacabile odio, ebbe varia fortuna e fu combattuto su tutti i mari, e senza quartiere, tra le potenti flotte delle due grandi nemiche, comandate da famosi ammiragli.
L’episodio più importante di questo lungo conflitto fu la guerra di Chioggia (1378), durante la quale Pietro Doria, ammiraglio dei Genovesi, superbamente impose a Venezia la resa. Quest’ultima proposta esasperò i Veneziani, che, da assediati, divennero assediatori, guidati da Vittor Pisani.
I Genovesi, così, furono costretti ad arrendersi per fame e a chiedere la pace, che fu stipulata a Torino (1381) per la mediazione di Amedeo VI di Savoia.
La guerra di Chioggia segnò il tramonto della potenza marittima e commerciale di Genova che non fu più in condizione di prendersi la rivincita su Venezia. Questa infatti ebbe la libertà dei suoi commerci e dei suoi possedimenti in Oriente e la possibilità di espansione anche per terra in Occidente.
Da allora la Repubblica di San Giorgio (Genova) fu tormentata da continue discordie interne e da guerre civili, e, per avere un po’ di pace e di tranquillità, dovette appoggiarsi ora a questa ora a quella potenza straniera a prezzo della propria libertà.

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Genova

Nell’anno 641 i Longobardi attaccarono e distrussero Genova: da questa catastrofe la città riuscì a risollevarsi nel giro di tre lunghi secoli. Il suo risveglio era ormai avvenuto quando, nel 935, i Saraceni piombarono su di essa, saccheggiandola ferocemente. Proprio le ripetute e gravissime incursioni arabe spinsero i genovesi ad apprestare una potente flotta con la quale difendere la città ed i suoi traffici; sorse così la Compagna, una potente associazione di mercanti-guerrieri. Verso il 1100, i consoli della Compagna divennero consoli della Repubblica genovese. Genova ebbe una grande espansione commerciale in tutto il Mediterraneo e stabilì basi e colonie un po’ ovunque; ma la sua storia è soprattutto caratterizzata dalle lunghe guerre condotte contro le repubbliche rivali, quella di Pisa e di Venezia. In più di un secolo di ostilità, alternata a lunghi periodi di pace ed anche di alleanza, Genova piegò Pisa e a sua volta venne piegata da Venezia e s’avviò alla decadenza.

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Genova e l’Oriente

La potenza della Repubblica marinara di Genova, in alcuni periodi, non fu inferiore a quella di Venezia. Anche i Genovesi, che, guidati dai loro mercanti e armatori, erano riusciti a rendersi indipendenti dall’Impero, raggiunsero il massimo della loro forza durante le Crociate, dapprima provvedendo ai rifornimenti degli eserciti cristiani ed ottenendone in cambio importanti posizioni nei porti della Siria e dell’Egitto.  Qui essi vendevano i prodotti europei, i metalli necessari per le armature, il ferro e il legname per le navi. Qui acquistavano, per rivenderli in tutta l’Europa, i prodotti orientali portati dalle carovane che provenivano dall’interno, specialmente droghe e sete indiane. Mentre nel Tirreno la potenza di Genova entrò in conflitto con quella di Pisa (e vinsero i Genovesi sconfiggendo la rivale), in Oriente l’antagonismo fu principalmente tra genovesi e veneziani, per il monopolio dei commerci nel Mar Egeo e nel Mar Nero. Lo scontro si risolse, dopo alterne vicende, a favore di Venezia. I Genovesi (come i Veneziani e i Pisani) possedevano, nei porti orientali, banchine speciali per l’attracco delle loro navi, magazzini, strade, talvolta interi quartieri, governati con le leggi della madrepatria.

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Genova Repubblica marinara
Siamo agli arbori di Genova Repubblica marinara: nel 1016, per iniziativa di papa Benedetto VIII, viene allestita una flotta, composta quasi esclusivamente di navi genovesi e pisane, la quale infligge una sconfitta, lungo le coste sarde al re saraceno Mujahid che si era impadronito dell’isola e molestava con sistematiche depredazioni le coste liguri. Questa vittoria e la successiva opera di penetrazione in Sardegna e in Corsica, segna l’inizio della rivalità tra Genova e Pisa; le due città non esiteranno però ad allearsi con Gaeta, Salerno e Amalfi per combattere più volte il comune nemico:
Nella seconda metà del secolo XI si inaspriscono i conflitti tra i vescovi e i visconti; ma la lotta si compone nel 1099 per merito del vescovo Arialdo, quando nasce la Compagna Communis composta dal vescovo, dai visconti e dalle compagne locali. Riunendo i nobili, i proprietari terrieri, i cittadini dediti al commercio e alla marineria, e il vescovo che conserva i suoi poteri tradizionali, la Compagna Communis si identifica col Comune e nasce così lo Stato Genovese. Nello stesso tempo la potenza marinara di Genova si consolida e si espande sulle due riviere, da Lavagna a Ventimiglia, con vasto retroterra capace di fornirle uomini e mezzi.

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Leone alato e croce rossa di San Giorgio

Quelli che hanno viaggiato per il mar Mediterraneo e sono passati vicini ai promontori, accanto alle mille isole dell’Egeo, e sono entrati nei porti avranno visto sempre, in cima al colle che sovrasta il mare o la città, un grande castello grigio, enorme, quasi sempre abbandonato, rovinato, cadente. Ognuno di questi castelli è un segno dell’antica potenza di Venezia, di Genova, di Pisa, di Amalfi.
Essa arrivava fino a Costantinopoli, fino all’Egitto. Quando i pirati o gli infedeli vedevano all’albero di una nave la bandiera di Venezia, che era il leone alato, o la croce rossa di san Giorgio, che era la bandiera di Genova, sapevano che c’erano a bordo dei marinai animosi che non avevano paura di attaccare battaglia e, se non si sentivano molto superiori di forze, fuggivano…
Era tale il terrore che quelle bandiere davano ai pirati che quando gli abitanti dell’Inghilterra incominciarono a fare lunghi viaggi per mere con le loro navi, domandarono il permesso ai Genovesi di poter innalzare anch’essi i colori di san Giorgio, per essere più rispettati.
I Genovesi acconsentirono, e perciò, anche oggi, voi vedete che la bandiera d’Inghilterra reca, nell’angolo superiore sinistro, la croce rossa, che è quella dell’antica Repubblica di Genova.
(P. Monelli)

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Un documento commerciale marittimo del 1158

Giovanni Filardo, mercante genovese, s’era recato in Egitto, ad Alessandria, per farvi acquisti, portando un capitale di 753 lire genovesi. Al ritorno, poichè doveva allontanarsi per andare a San Giacomo di Galizia a sciogliervi un voto, stese un preciso inventario delle merci, per conoscenza del suo socio e parente Guglielmo che ne fece ricevuta. E’ forse uno dei più antichi documenti commerciali che noi oggi possediamo:
Io Guglielmo Filardo dichiaro che sono presso di me, nel mio magazzino:
I. della commenda che feci a te Giovanni dei beni di Ansaldino mio nipote:
14 sporte di pepe del peso di 65 cantari e 45 rotuli (
il cantaro era circa 80 chilogrammi e il rotulo 800 grammi)
6 fasci di legno brasile del peso di 47 cantari
10 libbre di noce moscata
1 zurra di cannella uguale
87 e mezzo menne o fasci
1 fascio di chiodi di garofano.
II: della commenda fatta a te dei beni di mio nipote Guglielmo:
3 sacchi di pepe del peso di 17 cantari e 42 rotuli
1 fascio di legno brasile del peso di 7 cantari e 52 rutuli
1 zurra di cannella del peso 187 libbre
60 libbre di spica
(olio di nardo)
2 libbre e mezzo di noce moscata
III: della società che ho teco:
2 fasci di legno brasile selvatico del peso di 16 cantari e 88 rotuli
3 sporte di pepe e tre sacchi del peso di 29 cantari e 114 rotuli
4 fasci di galanga
(radici per concia)“.

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Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA

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Cartina fisica
Confini: Mar Ligure, Toscana, Emilia Romagna, Piemonte, Francia
Golfi: di Genova (Riviera di Levante, Riviera di Ponente), del Tigullio, di La Spezia
Promontori: Capo Mele, Capo di Noli, Punta di Portofino,  Punta di Sestri Levante
Monti: Alpi Occidentali (Liguri); cime più alte: Monte Saccarello (m 2.220). Appennino Settentrionale (Ligure); cime più alte: Maggiorasca (m 1.803)
Valichi: Colle di Nava, Passo di Cadibona, Passo del Turchino, Passo dei Giovi, Passo della Scoffera, Passo di Cento Croci, Passo del Bracco
Pianure: di Albenga, di Chiavari
Fiumi: Roia, Centa, Polcevera, Bisagno, Entella, Magra col suo affluente Vara.

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Osserviamo la cartina
La Liguria comprende una fascia montuosa a forma di arco che si specchia, con un ampio golfo, nel Mar Ligure. Dura fatica hanno sostenuto i Liguri per dissodare la loro terra impervia e arida: il terreno fertile dovette essere creato a colpi di piccone. I dirupi furono ridotti a terrazze, sostenute da rocce e da muriccioli a secco per ottenere orti, campicelli, vigneti, giardini.
Tutto l’arco della costa ligure è detto Riviera, e Genova lo divide in Riviera di Ponente e Riviera di Levante, verdeggianti di pinete e di chiari olivi.

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Agricoltura

Data la natura poco fertile e la scarsità del terreno, la produzione agricola non ha grande sviluppo. Si coltivano olivi, frutta, primizie ortofrutticole e soprattutto fiori.

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Province

La Liguria conta quattro province: Genova, Imperia, Savona e La Spezia.
Genova, il capoluogo, sorge ad anfiteatro sul mare. E’ il più attivo porto del Mediterraneo ed uno dei centri siderurgici più importanti d’Italia.
Imperia è famosa per i suoi oli ed i suoi pastifici.
Savona, il secondo porto della Liguria, è un notevole centro commerciale.
La Spezia, sul golfo omonimo, è un porto militare.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio della Liguria?
Come puoi rilevare dalla cartina i fiumi liguri sono tutti assai brevi: sai spiegarne la ragione?
Quali sono i maggiori valichi che permettono le comunicazioni della Liguria con l’Emilia Romagna?
Conosci il nome dell’autostrada che congiunge Genova con Milano?
Come sono le coste liguri?
Perchè il clima della regione è mite? Quali particolari coltivazioni favorisce?
Vi sono industrie importanti in Liguria? Dove?
Che cosa sono le terrazze?
E’ molto importante la pesca in Liguria? Perchè?
Che cosa sono i vigneti del mare?
Quali sono le principali città della regione?
Perchè è importante Genova?
Quando nacque la provincia di Imperia?
Quale cittadina ligure è chiamata ‘la capitale dell’acciaio’?
Quali sono le località balneari più famose?
Ricerca notizie sull’artigianato e il folklore della Liguria.

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La Liguria

La Liguria è come una falce di luna posata sul mare. Il luminoso Tirreno blandisce le sue sponde; le Alpi e gli Appennini, a ridosso, la proteggono dai venti.E’ una stretta e arcuata striscia di terra, verde di palme e di ulivi, dalle case variopinte, profumata di fiori, di aranci, di gelsomini, e di salmastro; dove maturano i frutti più saporiti, dove i vigneti si inerpicano sulle rocce tra i pini e i cipressi, dove molli colline si alternano a brusche e scoscese riviere.
(O. Grosso)

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La costa ligure

Tutta la costa ligure è un incanto e in particolar modo la Riviera di Ponente. A ogni svolta della strada, che ora sale ora scende, ti si para davanti un nuovo quadro pieno di colore, di vita, di attrattive: qua macchie gialle di esili mimose fiorite, là boschetti di contorti ulivi dal lucido fogliame, di oleandri in fiore che spandono lontano il loro profumo; più oltre agavi dall’altissimo stelo fiorito che sembra un pino; palme di ogni specie, aurei mandarini e aranci che punteggiano il verde scuro del fogliame; e viottoli ombrosi e chiesette dedicate alla Madonna della Guardia, protettrice dei marinai, e qualche torrione rotondo da cui, nell’alto Medioevo, si sorvegliava la costa da improvvisi assalti dei Saraceni.
(G. Assereto)

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Aspetto di una scogliera

Ecco scogliere nude, che danno un marmo nero e giallo, il portoro, tra cui si abbarbica la vigna; poi la vigna si stende, e copre interamente il fondo roccioso con fusti bassi per difendere i pampini dal vento robusto del mare. Pochi e monotoni colori, ma lucenti, quasi uno smalto; e pochi personaggi, la vite, il cactus, l’agave, l’albero del fico, le case solitarie a metà pendio che non servono da abitazione ma soltanto a pigiare l’uva che appassisce sui tetti. Gli oggetti distinti a uno a uno, come in un presepe un po’ sordo.
Gli abitanti delle Cinque Terre sono piccoli vignaioli o pescatori favoriti dal mare pescoso di scoglio.
(G. Piovene)

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Il ghiottone è servito

Profumo di mare e profumo di terra: l’uno e l’altra offrono i loro doni più preziosi alla gastronomia genovese, particolarmente saporita e fantasiosa. Re indiscusso ne è il pesto, la salsa a base di aglio, basilico, formaggio pecorino e olio, pestati nel mortaio di marmo col lucido pestello di legno d’olivo. Chi non ha sentito parlare delle trenette al pesto, uno dei più tipici piatti locali?
I piatti più ricercati sono riservati per le festività solenni. A Natale, maccheroni in brodo e, come dolce tradizionale il ‘pan duce’ una specie di panettone, ma più pesante e consistente del confratello milanese.
Per San Giuseppe si friggono i ‘friscen’, frittelle di zibibbo, mele, baccalà e aromi; a Sant’Antonio di preparano zucchini ripieni, mentre i piatti di rito per il giorno dei morti sono i ‘bacilli’, fave fresche con patate, e i ‘balletti’, le castagne bollite. E altri piatti tradizionali non sono meno noti dai buongustai: frittura di gianchetti, il cappon magro, la cima (cioè la pancetta di vitello ripiena), la torta pasqualina.

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Le coste liguri

Sono molto alte. Le principali sporgenze sono Capo Mele, Noli, Portofino e Portovenere.
Molte sono le rientranze e, benché non siano grandi, presentano porti sicuri, tra cui i principali sono quelli di Genova, di La Spezia e di Savona.
In fondo al golfo di Genova, sotto il quale nome si comprende la parte più settentrionale del mar Ligure, si trova il porto di Genova, il più attivo d’Italia.
Il golfo di La Spezia è formato a occidente da una penisoletta che termina con Portovenere.
Nelle due Riviere, di Levante e di Ponente, vi sono numerose e celebri stazioni climatiche (Bordighera, Sanremo, Alassio, Nervi, Santa Margherita, Rapallo).

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Il clima della Riviera Ligure

La regione che, come un ampio anfiteatro, si affaccia sul Mar Ligure, gode di condizioni climatiche privilegiate, che si prolungano dalla Versilia e sul litorale pisano fino a Livorno. Esse sono conseguenza del contatto ampio e profondo di questa striscia litoranea col mare, della sua esposizione verso mezzogiorno che la apre all’influenza dei tiepidi e umidi venti sud-occidentali, e soprattutto dalla sua orografia, perchè i rilievi della regione non solo costituiscono un efficace schermo contro le fredde correnti settentrionali, ma anche intiepidiscono poi queste ultime per riscaldamento dinamico durante la loro discesa al mare.
Queste condizioni particolari agiscono in modo decisivo su tutti gli elementi del clima e in primo luogo sulla temperatura, che è eccezionalmente mite, tanto che la Riviera si può considerare come un grande tepidario naturale, date le sue elevate temperature invernali che hanno riscontro solo nell’Italia meridionale a sud di Napoli. Tuttavia si notano importanti diseguaglianze, sia nella Riviera di Levante, dove arriva spesso il freddo Mistral del Golfo del Leone, sia nella Riviera di Ponente, allo sbocco di alcune valli principali, da cui scendono violenti e freddi i venti del Piemonte.

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Le Cinque Terre

Dopo Levanto, la costa già alta, rocciosa, si fa ancora più aspra e precipita quasi a picco sul mare. Dal Bracco, contrafforti scendono a formare un’insenatura meravigliosa nella sua selvaggia, naturale bellezza: il Golfo delle Cinque Terre.
Ancora negli anni ’70 unico mezzo per giungere a questo piccolo angolo di quiete e di bellezza era il treno, perchè l’asperità del rilievo e una certa trascuratezza nel considerare la necessità di questi piccoli centri: Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola, Riomaggiore, hanno sempre rimandato al domani la costruzione della litoranea da lungo tempo auspicata dalle piccole comunità, troppo isolate dal centro di maggior attrazione commerciale: La Spezia.
Potrà sembrare strano in una costa dal rilievo così accentuato, dalla costa che si tuffa precipitando nel mare, ma l’attività principale degli abitanti non è la pesca, ma l’agricoltura: le colture della vite e dell’ulivo. I pescatori ci sono, ma rappresentano un’esigua minoranza della popolazione residente; e il pesce sbarcato, specie nei periodi di massimo afflusso turistico, è insufficiente a soddisfare la richiesta.
La grande meraviglia è invece su, in quei piccoli terrazzi strapiombanti sul mare dai quali i grappoli turgidi occhieggiano provocanti in agosto e settembre.
Ogni metro di terra conquistato è costato innumerevoli sacrifici alla tenace gente di questi piccoli centri; la terra, se di terra si può parlare tanto è ancora rudimentale la disgregazione della roccia madre, è stata difesa con muretti a secco, portati, pietra su pietra, da chissà dove, nei grandi cesti che gli uomini portavano sulle spalle e le donne sul capo.
Nell’epoca della vendemmia, ogni minuscolo terrazzo si anima di un fermento insolito; i piccoli sentieri, a scalini impossibili, che separano terrazzo da terrazzo, sono teatro di un continuo andirivieni di uomini e donne con grandi ceste ricolme di uva. Nei paesi l’aria è presto satura dell’odore del mosto. Il vino, sia quello bianco secco, che va giù liscio tra un calamaretto e un polipo fritto, o fra un’orata o una mormora, come quello liquoroso e di maggior gradazione e pregio, che suggella una cena tra amici o un più pretenzioso pasto, chiamato Sciacchetracche è sovente troppo magra ricompensa a tanti sacrifici e tanti sforzi e, naturalmente, non basta ad assicurare il pane per tutto l’anno, anche perchè la proprietà è molto frazionata. Perciò gli uomini, a partire dagli anni ’60, hanno lasciato la terra ai vecchi e alle donne per un’occupazione meno saltuaria e più redditizia presso l’Arsenale di La Spezia o i cantieri di Muggiano o le raffinerie di petrolio.
Sui declivi più scoscesi, dove l’opera dell’uomo non è giunta a redimere la terra, la macchia mediterranea con le sue erbe aromatiche, i suoi pini ad ombrello, le sue ginestre e i suoi lecci contende lo spazio vitale all’ulivo, meno numeroso delle viti, ma che dà un olio finissimo e molto ricercato.
Altra specialità delle Cinque Terre sono le acciughe conservate con grande cura  e abilità.
(E. Dubois)

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Le comunicazioni
Le montagne, pur occupando tutta la regione, offrono valichi frequenti alle strade che collegano la Liguria con l’Italia settentrionale, la Francia e il resto della penisola. L’arco costiero è percorso dalla via Aurelia, in molti tratti tortuosa, stretta, congestionata. Le autostrade collegano Savona con Ventimiglia e il confine francese, avviano il traffico verso il Piemonte e la Lombardia. Una linea ferroviaria percorre tutto l’arco della costa proveniente dalla Francia e diretta alla Toscana. L’aeroporto internazionale di Genova sorge su una penisola artificiale slanciata nel mare per due chilometri.

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L’agricoltura

Il territorio della Liguria, invaso dalle catene alpine e appenniniche, offre pochissimo suolo adatto alle colture; i brevi avvallamenti, i tratti limitati di pianura che potrebbero essere meglio sfruttati sono sempre più occupati dallo sviluppo edilizio. Gli agricoltori liguri, che sono una piccola parte della popolazione attiva, si dedicano perciò a coltivazioni specializzate, favorite dal clima mite, utilizzando i declivi prossimi al mare, faticosamente sistemati a terrazzi. In essi producono ortaggi pregiati e primizie, frutta, uve (molto noti sono i vini delle Cinque Terre); coltivano l’olivo e i fiori: famosi sono i garofani di Sanremo e le rose, la cui produzione raggiunge il 75% del prodotto nazionale.

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L’attività industriale

L’attività industriale della Liguria è assai intensa e di importanza primaria sul piano nazionale: notevoli sono le industrie metallurgiche e siderurgiche. Tali industrie legano la loro attività a quella dei cantieri navali. Caratteristiche della liguria sono le industrie di trasformazione di prodotti locali e di importazione: oleifici, pastifici, saponifici, zuccherifici, raffinerie.
In questa regione, affacciata sul mare, dotata di grandi impianti portuali, fonte di ricchezza sono principalmente le attività commerciali che intorno ai  porti hanno  il loro sviluppo più intenso e si irradiano lungo le strade e le ferrovie dirette all’Europa centrale e lungo le rotte di navigazione del Mediterraneo e dell’oceano Atlantico.
La dolcezza del clima e la mutevole bellezza del paesaggio sono tal da suscitare una vivacissima attività turistica estiva e invernale, distribuita lungo i centri grandi e piccoli della Riviera di Ponente e di quella di Levante, da Rapallo a Portofino, da Alassio a Sanremo, a Bordighera.

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Il ricco manto di fiori e di piante

Gran parte del fascino della Riviera di Ponente deriva dallo splendido scenario di piante e di fiori che festosamente veste ogni più remoto anglo del territorio.
La vegetazione della costa ci appare rigogliosa e varia. La macchia mediterranea, formata di arbusti profumati e sempreverdi, è integrata dai bellissimi pini marittimi e italici e dalle argentee fronde dell’ulivo, che qui trova il suo ambiente d’elezione.
Gli oleandri, i gerani, i garofani compongono, nel paesaggio avvolto da una luce ora tenera ora violenta, meravigliosi arazzi dai colori più diversi.
Sugli speroni rocciosi che si protendono verso verso il mare, crescono piante grasse xerofite, che formano un pittoresco contrasto con la nuda roccia: sono le agavi, spesso gigantesche, e i fichi d’India.
Nei giardini, sui muretti, lungo le crose, s’arrampicano le rose e i gelsomini odorosi, le passiflore e le splendide buganvillee dai fiori rossi e violetti.
Le favorevoli condizioni ambientali hanno permesso il facile acclimatarsi di piante esotiche quali gli eucalipti, le magnolie e soprattutto le palme, dalle specie più svariate, tra cui primeggiano le palme da dattero. Spuntano un po’ dappertutto tra le costruzioni, emergono dai giardini, fiancheggiano le vie.
Ma la visione più suggestiva della flora della provincia ci è offerta dallo splendido giardino Hanbury che occupa tutto il costone della Mortola e scende fino al mare; è uno dei più celebri giardini di acclimatazione di specie esotiche.
Man  mano ci si allontana dal mare e ci si inoltra nell’interno delle vallate, le pendici dei colli abbandonano il tipo di vegetazione che abbiamo descritto e ci si presentano, specie nell’alta Valle Argentina, rivestite di castagneti, di pini, di carpini e di frassini.

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Fiori e profumi

Centinaia e centinaia di ettari di terreno, nei dintorni di Sanremo, di Porto Maurizio, di Albenga, vengono coltivati a rose, a garofani,  a violette, ad acacie, a resede, a bulbose. Qui sono roseti a perdita d’occhio, là garofaneti intramezzati da colture di narcisi, di anemoni, di tuberose, di giacinti… e quali cure assidue richiede un fiore!
Un ettaro di terreno coltivato a garofani comporta l’impiego di quindici persone per tutto l’anno. Migliaia di lavoratori sono dediti alla coltura dei fiori, senza tener conto delle persone addette agli impianti irrigatori, alla fabbricazione delle ceste, all’imballaggio, alla spedizione, ai trasporti… Vi sono mercati quotidiani di fiori. Treni speciali provvedono al rapido trasporto nelle principali città italiane e straniere dei fiori recisi nelle belle aiuole della Liguria.
Quintali di vellutate corolle di rose si spediscono ogni anno dalla Riviera ligure in Francia, per l’industria profumiera, e si esportano anche viole, fiori d’arancio, lavanda, timo, menta, giaggioli.
(L. Sasso)

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Il treno dei fiori

Ogni giorno, da Ventimiglia, viaggia in Riviera un treno speciale, carico di fiori, raccolti, sui trenta chilometri dell’incantevole cornice, a Ventimiglia, Bordighera, Ospedaletti, Taggia, Riva. Fila a Genova, ove si staccano vagoni diretti a piazze interne e riceve piante e fogliami ornamentali dalla Toscana; quindi si rimette in moto, diretto ai confini di dove dispensa a quindici nazioni, dal cuore d’Europa alla Scandinavia, il sorriso della più smagliante produzione delle nostre terre…
Sette tonnellate di fiori della Riviera che portano il calore e il sole d’Italia nei freddi paesi del Nord, nelle case della Germania, della Danimarca, della Norvegia e della Svezia.
La Liguria è il regno quasi assoluto del garofano e della rosa, assieme a violette, margherite, violaciocche, resede, narcisi, anemoni, mimose, foglie ornamentali.

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La pesca

Il Mar Ligure, come si è già avuto occasione di rilevare parlando dell’economia della provincia di Genova, è poco pescoso a causa del fondale marino roccioso, della brevità della piattaforma litorale, di una indiscriminata e colpevole cattura del pesce, anche in stagioni dell’anno nelle quali essa non sarebbe consigliabile.
La pesca è praticata con imbarcazioni di piccolo tonnellaggio, che sbarcano il prodotto sulle banchine del porto di Imperia da dove il pesce raggiunge i mercati di Bordighera e di Sanremo.

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I vigneti del mare

Chi le vede per la prima volta, magari solcando le acque del golfo su un vaporetto della linea di Lerici o di Portovenere, non sa spiegarsi il perchè di quelle lunghe file di trespoli di legno affioranti dal pelo dell’acqua, allineati con precisione geometrica. Sembrano vigneti. Sotto il mare, da quei trespoli si dipartono ghirlande strane, dalle quali pendono lunghe corde, tenute verticali da grosse pietre, e su queste corde, ormai coperte d’uno spesso strato di alghe, nascono i mitili, i saporosi frutti di mare, che col nome di muscoli o di cozze sono noti ai buongustai di tutta Italia.
Questi molluschi richiedono una cura meticolosa: operai e manovali si aggirano ogni giorno su pesante barconi da carico tra i vigneti, estraggono dall’acqua le pesanti ghirlande, e poi rimettono ogni cosa al suo posto. E i piccoli pontili di legno dei mitilicoltori, coperti da pittoresche baracche costruite con legname di fortune, ricordano lontanamente i paesaggi esotici delle remote città dei mari della Cina.
(A. Lugli)

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Le province

Capoluogo della Liguria è Genova che si stende ad anfiteatro in un’ampia insenatura dell’omonimo golfo. E’ detta ‘la Superba’ per la magnificenza e la grandiosità delle sue opere d’are, tra cui il Palazzo Ducale, antica residenza dei Dogi, il Palazzo Doria, il Palazzo San Giorgio, il Palazzo Reale, la Cattedrale di San Lorenzo, la Porta Soprana. E’ un grande centro industriale e commerciale. Il suo porto, dominato dalla caratteristica Lanterna, è il secondo del Mediterraneo, il primo d’Italia per traffico di merci: vi fanno capo numerosissime linee di navigazione italiane e straniere. Nei limiti amministrativi della Grande Genova sono compresi diversi centri, che sorgono a Ponente e a Levante della città su un tratto di costa lungo circa trenta chilometri. Notissimi sono: Sampierdarena, Cornigilano e Sestri Ponente, con grandi complessi industriali e cantieri navali; Pegli e Voltri, stazioni balneari; Nervi, rinomata stazione climatica. Nei suoi dintorni sorge il celebre Santuario della Madonna della Guardia.
Imperia, formata dall’unione di Oneglia e Porto Maurizio, è sede di attive industrie ed è un importante mercato dell’olio.
Savona è uno dei maggiori porti d’Italia, specializzato soprattutto nell’importazione del carbon fossile, e sede di grandi industrie siderurgiche, meccaniche e alimentari. Il vicino porto di Vado è particolarmente attrezzato per l’importazione di petrolio.
La Spezia sorge in bella posizione, sul magnifico golfo omonimo. Vi hanno sede industrie meccaniche e chimiche, cantieri navali, raffinerie di petrolio. Il suo porto, ben protetto dalla Penisola di Portovenere, è uno dei più importanti d’Italia e base navale militare.

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Curiosità su Genova

In provincia di Alessandria (Piemonte) i paesi Novi Ligure, Parodi Ligure e altri ancora dimostrano che in antico quei luoghi erano abitati dal popolo dei Liguri.
Il via Fieschi, a Genova, c’è la casa dove Colombo passò la sua giovinezza; è vicino alla monumentale Porta Soprana, alta 31 metri, eretta nel 1155, che si apre fra due torri.
Se oggi vogliamo indicare Voltri, Pegli ed altri comuni, dobbiamo dire Genova-Voltri, Genova-Pegli, ecc. Sai perchè? Perchè nel 1026, con un regio decreto, fu disposta la fusione del comune di Genova con altri 19 comuni limitrofi.
Il nome Liguria deriva dai Liguri, i quali furono i primi abitatori della regione. Si conosce ben poco di questo popolo, giunto qui, forse, dalla Spagna, all’alba della storia. E’ certo, però, che nel settimo secolo aC, i Liguri occupavano un territorio che si estendeva a nord fino al fiume Po e oltre, e che era, quindi, assai più vasto di quello della Liguria d’oggi.
Numerosi paesi della Liguria, soprattutto della Riviera di Ponente, appaiono divisi in due parti: una nuova, costruita in riva al mare, e l’altra, antica, costruita un po’ più addentro sui colli. Fu la paura dei pirati che spinse la popolazione a cercare riparo in alto nel retroterra.

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Curiosità su Savona

Curiosa sorte quella di Savona: non è né la più piccola né la più grande provincia italiana; non è né la più nota né la più importante; eppure è l’unica che può vantare un tratto di Alpi, un tratto di Appennini ed un tratto di mare tutti per sé.
Una nota leggendaria farebbe derivare Priamar dal nome di un condottiero cartaginese. La toponomastica, invece, certo con maggior fondamento, lo fa derivare da due termini dialettali: pria (pietra) e mar (mare). Quindi il significato è chiarissimo: la fortezza Priamar non è che uno scoglio sul mare.
A Garessio, secondo un’antica leggenda, nelle balze della Pietra Ardena, avrebbe trovato rifugio nel secolo X Alasia, figlia dell’Imperatore di Germania Ottone I, e Aleramo, capostipite dei marchesi di Monferrato.
Dal 1950 Albenga si è arricchita del Museo Navale Romano unico nel suo genere, in seguito al tentativo di recupero del carico e dei resti di una nave romana del I secolo aC affondata a due miglia dalla riva, intrapreso dalla celebre nave Artiglio. Il mare ha così restituito oltre mille anfore vinarie, resti lignei e metallici dello scafo, numerosi vasi di diverso tipo, provenienti forse dalla cucina della nave, varie rifiniture metalliche, oggetti nautici e tre elmi di bronzo.

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Curiosità su La Spezia

Lo sai che il ‘La’ che si premette al nome Spezia è un articolo? Fin dalle più antiche carte geografiche lo si trova infatti declinato come tale. Quindi dovrei dire ‘provincia della Spezia’, ‘golfo della Spezia’, e così via. Purtroppo non tutti sanno o ricordano questa regoletta grammaticale e capita abbastanza spesso di trovar scritto, anche in documenti ufficiali, ‘provincia di La Spezia’, o ‘una nave proveniente da La Spezia’.
Se ti trovi alla Spezia la seconda domenica d’agosto, potrai godere di una interessante manifestazione folkloristica: il Palio Marinaro del Golfo. E’ una gara remiera, che si disputa su un percorso di duemila metri nelle acque della rada e vi partecipano tutte le borgate del Golfo con le loro imbarcazioni tipiche a quattro vogatori. Prima della gara si snoda attraverso le vie della città un pittoresco corteo, al quale partecipano anche rappresentanze in costumi medioevali delle antiche Repubbliche marinare.
I buongustai sanno che a Portovenere o nell’isola Palmaria si può gustare un piatto prelibato: la zuppa di datteri marini. La tradizione vuole che lo stesso Federico Barbarossa ne fosse tanto ghiotto, da far obbligo ai Signori del luogo di consegnargli uno scudo pieno di datteri ogni volta che con i suoi soldati passasse da quelle parti.

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Il più potente faro d’Italia

Dice un vecchio proverbio genovese che ogni volta che un napoletano entra in porto, la Lanterna, cioè il faro di  Genova che si innalza sul Capo Benigno, si metta a tremare… Perchè la Lanterna si metta a tremare il proverbio non lo dice, ma è facile capire che non sia esattamente per la gioia di illuminare un forestiero.
Sul Capo Promontorio, detto successivamente di San Benigno, o di Faro, vi fu in origine un piccolo fortilizio romano che vigilava sulla vicina via Aurelia e sul mare: e furono i primi fuochi di bivacco di quella guarnigione a dar seguito alla consuetudine, creando un punto luminoso di riferimento sicuro per le navi in rotta davanti a Genova. Il piccolo fortilizio continuò a servire anche dopo la caduta di Roma. La prima torre che fu costruita nel perimetro del fortilizio risale ai primi anni del secolo dodicesimo: una torre di modeste dimensioni sulla quale si facevano segnali con piccoli fuochi, come accadeva in tutte le altre torri del tempo.
Nel 1543, poi, i Padri del Comune decisero di fabbricare di nuovo la torre. I lavori durarono un anno. Antiche carte parlano di 2000 quintali di calce, 120.000 mattoni, 2600 palmi di pietra lavorata a scalpello, ed altri 1000 di pietra pregiata di Finale di Lavagna.
(G. V. Grazzini)

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Nascita di una città

Imperia è nata soltanto il 21 ottobre 1923, quando un decreto del governo stabilì l’unione dei comuni di Oneglia e di Porto Maurizio: tra i due abitati scorrono le acque del torrente Impero, che un tempo divideva le due città sorelle.
Ora i due centri sono collegati da una strada fiancheggiata da pini e da piante esotiche, ampia e panoramica, nel cui punto medio è stato eretto il Municipio. Negli ultimi anni, però, moltissime costruzioni sono sorte lungo i tre chilometri del viale e gli abitati si sono fusi senza soluzione di continuità.
Nonostante questo, Oneglia e Porto Maurizio conservano caratteristiche proprie, sia per la posizione geografica che per l’aspetto e la vita economica.
Il volto di Imperia è dunque composito, ma non per questo meno interessante; il turista che voglia visitarla ha dunque la singolare possibilità di conoscere due città in una.
Oneglia, tutta al piano, con le belle vie rettilinee e spaziose, ha l’aspetto di città commerciale e industriale; Porto Maurizio assomma alle caratteristiche dei tipici centri liguri, con la città vecchia disposta sul promontorio roccioso, quelle di moderna città residenziale, animata da ville e alberghi e allietata da giardini ricchi di fiori e di palme.

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La Spezia

Alla fine del Settecento La Spezia aveva tremila abitanti. Nel 1849 Massimo d’Azeglio, ospite di amici spezzini, scriveva alla moglie una frase che brucia ancora adesso: “Qui il paese è codino (retrogado) e ci si fa la vita più tranquilla del mondo”.
Ma Napoleone aveva avuto l’intuizione di costruire nel paese ‘codino’ un porto militare; Cavour riesumò l’idea napoleonica e la fece sua; fra il 1862 e il 1869, secondo i progetti del generale Chiodo, fu edificato l’arsenale. Cominciò così l’aumento vorticoso della popolazione, accorsa da ogni parte d’Italia.
La Spezia può essere considerata città di pionieri, improvvisa e artificiale, tipo Texas. Nascono intorno all’arsenale le industrie navali e meccaniche. Le strade sono piene di ufficiali e di marinai. Viene un periodo di prosperità concentrato intorno alla marina. Poi, la guerra: La Spezia è distrutta. Nel 1945 è ridotta in rovine, ed è abbandonata a se stessa.
Oggi è di nuovo un’importante città industriale.

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Camogli

Camogli è una graziosa cittadina, cosparsa di ville degradanti verso il mare, un angolo pittoresco della pittoresca Liguria, dove il soggiorno per il turista è veramente incantevole.
Ma Camogli è anche rinomato centro peschereccio, città di pescatori e di uomini di mare, e fin dall’antichità ha dato alla marineria ottimi armatori e valenti capitani la cui fama è corsa attraverso i mari fin ai più lontani paesi.
I ‘bianchi velieri’ di Camogli, come venivano chiamati i bastimenti, i ‘barchi’, erano così numerosi e così conosciuti in tutto il mondo che lo stesso Luigi Filippo, re di Francia, quando nel 1830 intraprese la conquista dell’Algeria, pensò di servirsi di essi per il trasporto di artiglierie, di batterie, di carriaggi, di derrate, di foraggi. La marina mercantile camogliese fu ritenuta, dunque, più adatta di quella francese per le necessità di una campagna che doveva durare dieci anni.
E attraverso i secoli Camogli è sempre stata all’altezza della sua fama. Anche Camillo di Cavour soleva dire che se i servizi per le truppe piemontesi andarono bene durante la guerra di Crimea, il merito era tutto dei camogliesi che avevano saputo dare al Piemonte una vera flotta mercantile.
Ma in alcuni giorni dell’anno, la graziosa cittadina sembra dimenticare il consueto, duro e tenace lavoro: si anima e diviene allegra, riempendosi di gente giunta da ogni parte d’Italia. E’ il tempo delle manifestazioni folkloristiche, tra cui è rinomata la Sagra del Pesce.
Sul porticciolo di Camogli, in mezzo a una folla variopinta e chiassosa, i pescatori friggono quintali e quintali di pesce in enormi padelle. Poi lo offrono a tutti generosamente, secondo una gentile tradizione di ospitalità: “Mangiate pesce! Mangiate fosforo fritto!” essi gridano allegramente, muovendosi tra i tavoli pieni di commensali improvvisati ed offrendo piatti colmi di pesce dorato e croccante. E tutti mangiano abbondantemente fra risa, canti, motteggi, richiami.
Camogli, cittadina di sogno, in questi giorni sembra davvero un’altra, sembra perfino aver dimenticato quella riservatezza e quella scontrosità propria degli uomini di mare.

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I fuochi di San Giovanni

Genova la notte di San Giovanni è tanto piena di luci, di razzi, di falò, da far pensare, a chi la vede dall’alto del Castelletto o dal Righi, che il bel cielo di giugno tempestato di stelle si sia rovesciato e l’abbia imbrillantata dei sui fulgori.
Le piazze e le strade sono invase, e la folla, densa come una colata di lava, è attraversata da righe di palloncini multicolori, da solchi di bengala abbaglianti, da processioni di fantastici quadri di carta velina illuminata; è agitata da canzoni, da trilli felici, da grida di venditori ambulanti, da suoni di fisarmoniche e di chitarre.
Il mare umano si incanala su per i carruggi e passa tra le case che, scintillanti di fiamme su tutte le finestre, pare che anch’esse si prendano a braccetto, perchè gettano da una facciata all’altra, dall’uno all’altro balconcino o terrazzo ghirlande di lanterne di carta, e da ogni angolo spunta un altarino coronato di fiori freschi e ornato di lumini a olio o lampadine elettriche.
Canta uno dei tipici poeti genovesi, Carlo Malinverni:
“Dove gh’è lampa o candeja
gh’è o Battista in te unn-a niccia,
no se sbaglia, ch’è un Baciccia
dove l’è acceizo un falò”.
Sì, perchè San Giovanni Battista è il patrono di Genova, e col nome di Giovan Battista erano battezzati migliaia di bambini genovesi che diventavano prima Baciccin e poi Baciccia.
(E. Cozzani)

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Visita al porto

Vogliamo visitare un grande porto marittimo? Ecco all’esterno un lungo e spesso muro che affiora tra i flutti e sembra difendere le acque interne dalla violenza dei marosi: è la diga foranea, che se da un’estremità è congiunta alla terraferma prende il nome di molo frangiflutti.
All’estremità della diga si leva la torre cilindrica del faro che, durante la notte, indica alle navi in arrivo l’imboccatura del porto.
Il faro vero e proprio è una potente lampada elettrica circondata da un sistema di lenti, prismi e specchi, i quali proiettano il fascio luminoso a grande distanza (anche 30 chilometri). Il faro, o proiettore, è girevole e può illuminare così tutti i punti dell’orizzonte. Ogni faro ha un suo linguaggio: cioè la durata d’accensione e di spegnimento è diversa per ogni porto; in tal modo i marinai possono sapere a quale località si stanno accostando.
Proseguendo l’esplorazione, scorgiamo, ormeggiata, una piccola imbarcazione a motore. E’ la lancia o pilotina, per il fatto che reca a bordo un esperto pilota, il quale salito sulla nave in arrivo, conoscendo bene il porto, la potrà condurre con sicurezza al molo che è stato destinato dalla Capitaneria di Porto. Questa utile ed essenziale assistenza si chiama ‘servizio di pilotaggio’.
Ma guardate là: altre piccole e tozzi imbarcazioni si accostano alle grandi navi, le prendono a rimorchio con dei cavi, le fanno delicatamente manovrare sulla loro scia, e le conducono, quasi per mano, al loro posto tra le altre navi già in sosta: si tratta dei rimorchiatori, i corti ma potenti battelli che hanno il compito di far eseguire alle loro sorelle maggiori quei piccoli spostamenti che esse, ingombranti come sono, da sole non saprebbero compiere. Così al momento della partenza, le estraggono dallo schieramento delle altre navi e le trascinano fin là da dove prenderanno il largo.
Giunte dunque al loro posteggio, le navi vengono trattenute alla terraferma con le gomene, grosse funi che si avvolgono attorno a certe colonnette di ferro (le bitte) fissate sulle banchine, e gettano l’ancora.
La nave che seguiamo è da carico; viene quindi avviata verso la zona destinata a tali navi.
Da vari ponti sporgenti qua e là si levano attrezzature per il carico e lo scarico delle merci: le gru. Esse prelevano rapidamente il materiale dalla stiva delle navi e lo depongono sulle chiatte, o sui vagoni merci o sulle stesse banchine, o anche su appositi autocarri. Il raggio d’azione delle gru si dice sbraccio; esso può raggiungere una trentina di metri e reggere il peso di qualche tonnellata.
C’è inoltre, nel grande porto, una zona appartata che appare chiusa da sbarramenti. Perchè? Qui approdano le grandi petroliere, cariche del prezioso ma pericoloso liquido infiammabile.
Entrate nel loro grande recinto di acqua, gli sbarramenti impediranno che il petrolio eventualmente sparso sulle acque, galleggiando si diffonda nel porto, con grave pericolo di incendio per tutte le altre navi in sosta. Da questa zona partono i tubi che si innestano negli oleodotti: questi poi raggiungono città e terre anche molto lontane.
Il porto di Genova merita una visita perchè è il primo d’Italia e del Mediterraneo per il movimento di merci. La sua grande espansione avvenne dopo il 1860; sino a quell’epoca era limitato al bacino del Porto Vecchio. Ecco come si dividono e come si denominano le sue zone più importanti: l’Avamporto, zona di attesa delle navi; il Bacino delle Grazie, per le navi in riparazione; il Ponte Doria e il Ponte dei Mille, stazioni per il servizio passeggeri.
In prosecuzione al porto, nella zona di Cornigliano, c’è l’aeroporto, e presso Sestri Ponente sorge un altro porto per i cantieri navali e per i petroli.

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I Liguri

I Liguri stanno affacciati al mare dal davanzale dei loro monti, e han voci strascicate unte d’olio, parlano come se avessero la bocca piena di sardine all’olio. Storcono la bocca, parlando, e questo forse viene per la ragione che le loro parole non sono rotonde, ma bislunghe, fatte a losanga, a triangolo isoscele, e per farle uscire di bocca bisogna storcere la bocca. Oppure per la ragione che i liguri le tengono tra i denti, e non le vogliono lasciar andare, e se le ciucciano, e le mordono, e le stringono tra le gengive, e quelle si divincolano, si dimenano, per uscire, finché escono di bocca unte e storte. Oppure perchè le parole liguri sono fatte come i pesci, e vogliono sgusciare di bocca, e conviene tenerle, perchè il discorso venga fuori con le parole-lische e gli aggettivi, e i verbi a posto, l’un dietro l’altro, secondo l’ordine dell’italiano.
Vivono in un paese stretto tra il mare e i monti, e non han posto per camminare, e perciò vanno in barca e solo per questo sono marinai, quando sono marinai. Poiché non è detto che sian tutti marinai; in grandissima parte sono montanari o contadini, e coltivano l’olio, il grano, poco vino, e fiori.
La maggior parte vive sui monti, o in collina. E la minor parte sta di casa sul mare, cammina stando attenta a non bagnarsi i piedi, così stretta è la riva, tanto che la sera i genovesi non escono di casa, per paura di cascare nell’acqua.
(Curzio Malaparte)

Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA
Liguria

La Liguria più vera, quella che conserva un’anima antica e un volto più umano, non la trovi sulle spiagge affollate di turisti o nei grandi centri mercantili e industriali, ma è nell’interno dove la terra si fa arida, pietrosa, aspra, dove ogni palmo conquistato alle colture è un giardino, dove le linee del paesaggio, acceso dal sole e confortato dalla presenza del mare, ha una sobria grazia, che occorre saper assaporare conquistandola per le strette, lastricate stradine dei colli che scendono ripidi al mare.
E’ la Liguria una terra leggiadra.
Il sasso ardente, l’argilla pulita,
s’avvivano di pampini al sole.
E’ gigante l’ulivo. A primavera
appar dovunque la mimosa effimera.
Ombra e sole s’alternano
per quelle fonde valli
che si celano al mare,
per le vie lastricate
che vanno in su, fra campi di rose,
pozzi e terre spaccate,
costeggiando poderi e vigne chiuse.
In quell’arida terra il sole striscia
sulle pietre come un serpe.
Il mare in certi giorni
è un giardino fiorito.
Reca messaggi il vento.
Venere torna a nascere
ai soffi del maestrale.
O chiese di Liguria, come navi
disposte a esser varate!
O aperti ai vanti e all’onde
liguri cimiteri!
Una rosea tristezza vi colora
quando di sera, simile ad un fiore
che marcisce, la grande luce
si va sfacendo e muore. (V. Cardarelli)

Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA
Nel porto di Genova

Al porto il battello si posa:
nel crepuscolo che brilla,
negli alberi quieti di frutti di luce,
nel paesaggio mitico
di navi nel seno dell’infinito,
ne la sera
calida di felicità, lucente
in un grande in un grande velario
di diamanti disteso sul crepuscolo,
in mille e mille diamanti, in un grande velario vivente
il battello si scarica
ininterrottamente cigolante,
instancabilmente introna;
e la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul molo
corrono i fanciulli e gridano
con gridi di felicità.
Già a frotte s’avventurano
i viaggiatori alla città tonante
che stende le sue piazze e le sue vie;
la grande luce mediterranea
s’è fusa in pietra di cenere:
pei vichi antichi e profondi
fragore di vita, gioia intensa e fugace:
velario d’oro di felicità
è il cielo ove il sole ricchissimo
lasciò le sue spoglie preziose.
E la Città comprende
e s’accende
e la fiamma titilla ed assorbe
i resti magnificenti del sole,
e intesse un sudario d’oblio,
divino per gli uomini stanchi.
Perdute nel crepuscolo tonante
ombre di viaggiatori
vanno per la Superba
terribili e grotteschi come ciechi.
Vasto, dentro un odor tenue, vanito
di catrame, vegliato da le lune
elettriche, sul mare appena vivo,
il vasto porto si addorme. (Dino Campana)

Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA
Vecchia Zena
(Genova)
Scendi al sestriere de La Maddalena,
svolta nel vico dell’Amor Perfetto
che sottile s’avvia, fra tetto e tetto,
alla piazzetta nitida e serena.
Tace, sopita, l’affannosa pena
fra questi muri di vetusto aspetto
e si spegne il frastuono di Campetto,
pulsante arteria nella vecchia Zena.
Poco lontano, Sottoripa, al Molo,
tanti oscuri caruggi maleodoranti
si snodano, ovattati di mistero.
Nel vico dell’Amor Perfetto, solo,
s’acciambella indolente un gatto nero. (C. Mandel)

Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA
Le palme di Sanremo

Tu mi dicevi: Guarda com’è bella
e come ignuda dorme la Riviera
mentre sommerge l’estasi lunare
le palme di Sanremo abbandonate
alle fiumane tacite del vento
all’umore implacabile del mare. (G. Ligurio)

Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA
Sera di Liguria

Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria…
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare. (V. Cardarelli)

Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA
Paesetto di Riviera

La sera amorosa
ha raccolto le logge
per farle salpare;
le case tranquille,
sognanti la rosea
vaghezza dei poggi,
discendono al mare
in isole, in ville,
accanto alle chiese. (A. Gatto)

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IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
Come si diventa cavaliere

A sette anni, il figlio di un nobile o di un cavaliere, cominciava un’educazione robusta fra giochi militari  nel castello paterno: quindi, uscito dall’infanzia, andava come paggio presso qualche barone rinomato per fasto, per antichità di stirpe, o generosità d’imprese. Lì rendeva servigi al signore e alla dama, corteggiando, ossequiando, accompagnando in viaggi, in visite, in passeggi: servendo i confetti, i dolci, il vin chiaretto e il cotto, e altre bevande con cui si chiudeva la mensa o preveniva il sonno.

Intanto col cavallo o col falcone cacciava le fiere e gli uccelli; in finti attacchi avvezzava l’animo alla guerra; ed alla guerra ed all’onore lo incitava l’esempio di baroni e cavalieri. A quattordici anni, padre e madre, col cero alla mano, conducevano il ragazzo all’altare, dal quale il sacerdote celebrante prendeva una spada e una cintura, e benedetti, li cingeva al giovane che diventava così scudiero: padrini e madrine promettevano amore e lealtà suo nome e gli stringevano gli sperono d’argento. Allora egli si accompagnava a qualche cavaliere, vigilava sui cavalli, teneva in ordine le armi, portandole al suo signore quando doveva usarle, e tenendogli la staffa quando montava in sella; custodiva i prigionieri; viaggiando conduceva a mano il destriero sul quale cavalcava il suo padrone.

Dopo alcuni anni di tale vita, l’iniziato si preparava a ricevere l’ordine della cavalleria con digiuni, preghiere, penitenze; poi si comunicava e vestiva l’abito bianco in segno dell’acquistata purezza, spesso si lavava accuratamente in un bagno. Poi cambiava la candida veste dell’innocenza in quella scarlatta che esprimeva il desiderio di versare il sangue per la religione, e si faceva tagliare i capelli in segno di servitù. Durante tutta la notte precedente la cerimonia faceva orazioni solo o con sacerdoti o con padrini. Giunto l’istante solenne, era accompagnato all’altare da cavalieri e scudieri, si inginocchiava con la spada a tracolla, e si offriva al sacerdote che lo benediceva e gliela rimetteva. Il signore che lo doveva nominare cavaliere gli domandava: “Perchè vuoi essere cavaliere? Per farti ricco? Trarre onore senza farne alla cavalleria?”. L’aspirante rispondeva di volerlo per onorare Dio, la religione e la cavalleria, e ne dava giuramento sulla spada del signore. Allora il giovane veniva addobbato da più cavalieri, dame, damigelle, che gli mettevano la maglia d’acciaio, la corazza, i bracciali, i guanti, la spada, e gli speroni d’oro, distintivo della sua dignità. Il signore, alzandosi dal suo seggio, gli dava tre colpi di piatto con la spada nuda sopra la spalla e uno schiaffo, ultima ingiuria che egli dovesse soffrire invendicato; e gli diceva: “In nome di Dio, di San Giorgio, di San Michele, ti fo cavaliere, sii prode, coraggioso, leale”. Allora erano portati al nuovo cavaliere l’elmo, lo scudo, la lancia, il cavallo sul quale, balzando senza staffa, caracollava brandendo le armi, e uscito di chiesa faceva altrettanto innanzi al popolo applaudente. (C. Cantù)

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
I dieci comandamenti della Cavalleria
Ecco le dieci norme e comandamenti che si insegnavano ai giovani in attesa di essere investiti cavalieri.
1. Crederai agli insegnamenti della Chiesa e ne osserverai i comandamenti.
2. Proteggerai la Chiesa.
3. Difenderai ogni debole.
4. Amerai il paese in cui sei nato.
5. Non indietreggerai mai davanti al nemico.
6. Combatterai fino all’ultimo sangue contro gli infedeli.
7. Adempirai ai tuoi doveri feudali, purché non contrastino con la legge di Dio.
8. Non mentirai, e manterrai la parola data.
9. Sarai munifico e generoso con tutti.
10. Sarai sempre e dovunque il difensore del diritto e del bene contro l’ingiustizia e il male.

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
Il futuro cavaliere
(dialogo immaginario all’interno di un castello)
Ragazzo: Che scalpitio di cavalli, che abbaiare di cani, che affaccendarsi di scudieri e di servi questa mattina! Ora il castello è tornato più silenzioso di sempre. Che noia… Hai visto quanto erano belli i nuovi cavalli del conte? Hai osservato i nuovi falchi e sparvieri ammaestrati?
Bambina: Che uccellacci!
Ragazzo: Sì, ma volano in alto e portano la preda!
Bambina: A me ha fatto impressione solo il fatto che questa volta il conte e la contessa avevano con sé il figlio minore, che non ha ancora sette anni: già sulla sella di un cavallo, poverino!
Ragazzo: Fortunato lui, invece! Egli è destinato a diventare cavaliere. Per questo il conte ha voluto che sapesse cavalcare prestissimo. Fra non molto, so che lascerà questo castello e si recherà presso un altro feudatario, di cui diventerà paggio. Imparerà a servire gentilmente il signore e la sua dama. Poi, a quattordici anni, diverrà scudiero: imparerà l’uso delle armi, avrà cura del cavallo e del suo signore e dei cavalieri suoi ospiti, gli porterà lo scudo e provvederà a mille servizi sempre meno umili, finché a ventun anni potrà avere l’investitura a cavaliere. E allora a lui saranno riserbate magnifiche imprese e avventure, come quelle che narrano i giullari che arrivano al castello. Oh, se potessi diventare anch’io un cavaliere!
Bambina: Un cavaliere tu? Il figlio di un fabbro? Sarebbe lo stesso che io, figlia di un mugnaio, sognassi di diventare una dama. La cavalleria è dei nobili!
(R. Botticelli)

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Degradazione di un cavaliere

Se un cavaliere compiva un atto basso o vile subiva la degradazione. Le sue armi venivano spezzate, dal suo scudo si cancellava lo stemma, poi lo si appendeva alla coda di un cavallo che lo trascinava nel fango. Intanto il colpevole era coperto di contumelie e gli si diceva che il suo vero nome era quello di traditore. Poi gli veniva rovesciata una bacinella di acqua calda sul capo come a significare che gli veniva cancellata l’investitura. Finalmente, avvolto in un panno funereo, l’ex-cavaliere veniva condotto in chiesa e su di lui, chiuso sotto un graticcio, si celebrava l’ufficio dei morti. I suoi figli erano dichiarati ignobili e banditi dalla corte e dall’esercito. (A. Gigli)

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Le città nell’età feudale

Le città nell’età feudale, fin verso il X secolo, sono scarse di popolazione, prive di importanza economica e politica. Formano, di diritto, parte di un feudo, ma il signore non le cura: vigilano su di esse i vescovi. La popolazione è formata da militi e da una classe di operai e artigiani.

In qualche città si tenevano mercati, in cui gli abitanti della campagna periodicamente si recavano per scambiare l’eccesso dei loro prodotti con gli oggetti fabbricati dagli artigiani urbani.

La tecnica fece nel Medioevo molti importanti progressi, grazie soprattutto all’inventiva degli artigiani. Non progredì invece la scienza, cioè lo studio  e la conoscenza delle leggi e delle forze della natura: nelle università medievali, sorte poco dopo il Mille, lo studio della natura era trascurato a favore delle discipline tradizionali (teologia, filosofia, grammatica, retorica e poche altre). I progressi tecnici, d’altronde, poco giovarono al miglioramento delle condizioni di vita, che nelle campagne e specialmente nelle città medioevali erano senz’altro disastrose.

Caduti in rovina gli acquedotti romani, le città restarono prive di sicuri e abbondanti rifornimenti d’acqua potabile. Le strade erano ingombre di ogni sorta di sozzure, perchè le fognature mancavano del tutto, e così la pavimentazione stradale: i rifiuti venivano gettati dalle finestre. L’inosservanza di qualsiasi igiene era la causa, naturalmente, di terribili e frequenti epidemie. Di notte, le strade non erano illuminate, e quindi malsicure: in pratica, la vita cittadina si interrompeva totalmente al calar del sole, per riprendere solamente all’alba. Solo all’inizio dei tempi moderni, dal 500 in poi, si ebbe qualche progresso: le strade vennero pavimentate, si costruirono acquedotti e fu introdotto un primitivo sistema di illuminazione. (A. Gigli)

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
Come ci si comportava a tavola nell’epoca medioevale

Nel Medioevo si mangiava, come si fa ancora in certe campagne, in semplici scodelle, usando il cucchiaio e il coltello (spesso un coltello serviva per due o più persone), ma l’uso di un piatto per ciascun convitato era sconosciuto e così pure quello delle forchette e dei tovaglioli. Le tovaglie erano una rarità riservata ai giorni di festa nelle case dei ricchi. Solo nel secolo XIV si cominciò ad adottare la biancheria da tavola e da allora si diffuse sempre più. Le tovaglie, quando si mettevano, scendevano fino a terra; i convitati, che adoperavano abbondantemente le dita per portarsi in bocca i cibi, le usavano per pulirsele e anche per la bocca e la barba; così che nei grandi pranzi, si dovevano cambiare le tovaglie dopo le portate principali.

Al principio dei pasti ci si lavava le mai con poche gocce d’acqua versate da un’ampolla sopra un piccolo catino. Nei monasteri era lo stesso abate che in segno di cortesia versava l’acqua sulle dita dei suoi ospiti; nelle case signorili questo servizio era invece reso dagli scudieri. Il loro arrivo con le ampolle e i catini era il modo con cui si annunciava che il pranzo era pronto. Quando si voleva essere raffinati si serviva acqua profumata con infusioni di petali di rosa, di menta, di verbena.

Il primo piatto era una minestra assai liquida, versata in una scodella e nella quale si inzuppava una fetta di pane; per portarla alla bocca si adoperava il cucchiaio. Poi veniva il piatto di carne costituito da grandi arrosti, o umidi, che venivano tagliati a fette e serviti su larghi pezzi di pane posti, come oggi si fa con i piatti, davanti ad ogni convitato; i pezzi di pane di inzuppavano di sugo e si mangiava il pane e la carne simultaneamente a morsi come oggi si fa con i panini. Nei grandi pranzi non si mangiava il pane, che veniva raccolto in ceste e dato ai poveri.

Nelle tavole signorili, gli scudieri erano incaricati di rifornire di carne le fette di pane dei loro signori; oppure ognuno si serviva mettendo la mano nel piatto centrale, ed era raccomandato di farlo con delicatezza e di non affondare nel sugo che la punta delle dita. Alla fine del pasto era servito il vino nel quale era anche usanza inzuppare del pane o dei biscotti. (G. Haucourt)

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Cibi del Medioevo

Osservando delle miniature o delle pitture riproducenti scene di vita medioevale notiamo anche banchetti con tavole ricche e piatti appetitosi. Questi consistevano principalmente di carne di maiale, di cinghiale, di coniglio e, rare volte, di bue, animale il cui allevamento era costoso. Pure apprezzati erano il fagiano ed il pavone le cui carni erano cotte e poi portate a tavola in piatti ornati delle loro superbe e policrome piume. Anche i piccioni, il cui allevamento era riservato ai ricchi, erano di frequente fra i piatti prelibati.

Durante i digiuni, imposti dalla religione cristiana, i banchetti si arricchivano di pesci, per lo più di carpe, di tinche, che popolavano i fossati pieni d’acqua che circondavano le mura. Si consumava anche carne di aringhe secche e di molluschi di mare.

Il cibo veniva condito con varie spezie; perciò molti erano i mercanti che le commerciavano, detti speziali. Tra le più importanti spezie, per lo più di provenienza orientale, ricordiamo: il chiodo di garofano, che veniva masticato dai cortigiani per rendere profumato l’alito; lo zenzero, col quale veniva profumato il pan pepato; la noce moscata, il cui svariato uso è noto anche oggi; e infine lo zafferano e il pepe, che avevano prezzi proibitivi e venivano dai più sostituiti con aglio, cipolla, senape. I nostri avi non poterono gustare la carne di tacchino, né la fragranza del pomodoro, né la patata., non essendo stata ancora scoperta l’America, da cui furono in seguito importati.

E i dolci? Uno, squisito, era costituito da una specie di torrone, pieno di mandorle e di pistacchi e di miele, detto ‘halva’; un altro dolce era il ‘lokum’, un insieme di amido e pistacchi. Assai diffuso era il gelato, in particolare al melograno o al miele. Non esistendo i nostri moderni frigoriferi, il ghiaccio necessario veniva preparato durante le fredde notti invernali. Preparata l’acqua in bacini poco profondi, una volta ghiacciata col rigore del freddo, veniva immessa nel fondo a fresche cantine, particolarmente adatte alla sua conservazione. I gelati si ottenevano grattugiando il ghiaccio e aggiungendovi miele, amido cotto ed essenze varie.

Nel XIII secolo in Europa non si beveva ancora il caffè, né il tè, bevande invece già note agli Arabi

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L’igiene personale nel Medioevo

Generalmente nel Medioevo la toletta quotidiana di faceva dopo essersi vestiti e si limitava al lavaggio delle parti del corpo che restavano ancora visibili, ossia la faccia e le mani. Non c’erano allora gabinetti appartati, ma ci si lavava nella stessa camera dove si dormiva. L’uso medioevale era di dormire in molte persone in una stessa camera.

Ma non si può dire che in quest’epoca si fosse incapaci di una pulizia più a fondo; questa era fatta nelle occasioni importanti, una volta alla settimana o anche più di rado, a torso nudo davanti a un secchio d’acqua.

Gli abitanti delle città e dei castelli conoscevano anche i piaceri del bagno, che i monasteri riservavano sono ai malati ed ai convalescenti. Questo ristoro veniva preso nelle tinozze di legno che servivano a fare il bucato. Se ne copriva il fondo con un panno per impedire che le scaglie potessero ferire la pelle, e il bagnante vi si sedeva dentro con le ginocchia piegate. Questi bagni a domicilio si prendevano o di mattina o al ritorno da un esercizio faticoso come un viaggio, una caccia, un torneo.

Per le persone meno ricche, esistevano anche dei bagni pubblici, di cui a Parigi nel 1282 ne ne contavano non meno di 26. Essi restavano aperti tutti i giorni eccetto le domeniche e i giorni di festa. Quando l’acqua era calda, venivano mandati per la città degli annunciatori che gridavano che i bagni erano pronti.

Non mancavano, allora come sempre, le cure di eleganza: depilazioni, uso di unguenti e profumi, tintura dei capelli. Noi conosciamo molte ricette medievali di bellezza quasi tutte fatte a base di erbe, radici e fiori.
(G. Haucourt)

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Spettacoli teatrali nel Medioevo

Gli attori non indossavano costumi nell’antichità, ma vestiti del loro tempo che erano diversi secondo la professione (per esempio i medici vestivano in un certo modo, e così i maestri, gli avvocati, ecc.). Quando entravano in scena essi si annunciavano indicando il personaggio che rappresentavano: per esempio “Io sono Abramo”, oppure “Io sono Erode” e così via. Dio Onnipotente aveva una barba maestosa e una mitra in testa e portava guanti e mantello bianchi. I re cattivi avevano un turbante come gli arabi e giuravano in nome di Belzebù. I gran sacerdoti ebrei erano vestiti come vescovi cristiani ed erano sempre radunati in consiglio. I dottori della legge avevano cappucci rotondi e cappe di pelliccia. Contadini e soldati portavano vestiti dei contadini e dei soldati del tempo. Maria Maddalena, prima della conversione, era sempre addobbata con vestiti fastosi.
Gli angeli salivano e scendevano dal cielo per mezzo di scale a pioli di legno appoggiate ai muri. Impressionante era la bocca dell’inferno, fatta in modo che si poteva aprire e chiudere; diavoli neri, blu e rossi ne uscivano fuori per reclamare e trascinarsi dentro i dannati, mentre un gran fracasso di pentole e pignatte stava ad indicare la discordia e la confusione che regna all’inferno.
(C.M. Smith)

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I giochi del Medioevo

Molti giochi che pratichiamo oggi hanno origine da quelli che si tenevano nel Medioevo. Il gioco del calcio, per esempio, era già in uso nelle città italiane a quei tempi; e così la pallacorda, cioè quel gioco che ora si chiama tennis. I bambini piccoli si accontentavano della palla, una bella palla di legno, mentre le bambine avevano bambole di pezza col viso di terracotta dipinta. Gli adulti si cimentavano nelle gare di nuoto, di salto, di tiro alla fionda e di tiro al bersaglio. Ma c’erano giochi molto curiosi nel Medioevo.
A Bologna si usava il gioco delle uova che consisteva in una battaglia fra due squadre di giovani; gli uni armati di bastoni; gli altri, che portavano maschere a rete di ferro per proteggere le facce, armati… di ceste di uova.
A Venezia era in uso il gioco del ponte: qui pure si dividevano i partecipanti in due squadre che lottavano su un ponte privo di parapetto, finché una gran parte dei giocatori non aveva fatto un bel tuffo nell’acqua.
(A. Enriquez)

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Civiltà medioevale

Se ai nostri giorni fosse necessario, per essere ufficiali, comprare un carro armato e pagare i propri soldati, solamente i più ricchi potrebbero farlo Nel secolo XI, per andare in guerra a cavallo, armati da capo a piedi, occorreva un grosso patrimonio: la cavalleria, cioè il fulcro dell’esercito, era formata da proprietari terrieri, cioè da feudatari. Essi erano circondati di rispetto come, prima di loro, lo erano stati i nobili della tarda romanità e del periodo barbarico-romano, scomparsi nel crollo dell’Impero. Per di più, il loro era un compito pericoloso e necessario… Questi cavalieri sono all’origine, specie in Francia ma anche in Italia, della nobiltà militare.
A quindici anni circa si consegnavano al giovane cavaliere le armi e il cavallo di battaglia. Ma ne avrebbe fatto buon uso? La forza è cattiva consigliera, soprattutto in una società rozza  e senza leggi. Fin da allora si prese l’abitudine di raccomandare al giovane di essere leale e misericordioso, di essere prode.
Ben presto la Chiesa colse l’occasione per accaparrarsi la cerimonia della vestizione, che diventò una piccola festa religiosa e simbolica. Per esempio, perchè consegnare al futuro combattente degli speroni? Per ricordargli che deve obbedire a Dio come il cavallo al suo padrone… La cavalleria diventò così una specie di ordine laico in cui uomini violenti, e spesso perfino brutali, si sforzarono di comportarsi da folli pieni di onore.
Essi amavano tanto le mischie che, quando cessarono le invasioni e i conseguenti disordini, continuarono a far la guerra, ma la fecero fra di loro, e questa fu una sventura per le campagne. Allora la Chiese stabilì la ‘Pace di Dio’. Proibì la guerra, per mezzo della ‘tregua di Dio’ dal mercoledì sera  al lunedì mattina (1041). E quando i più accaniti si dimenticavano quelle restrizioni, la Chiesa li puniva, oppure altri si incaricavano di punirli in sua vece: in una regione della Francia, verso la fine del secolo XII, gli incappucciati (con il volto coperto da una cappa) prendevano nota dei combattenti incorreggibili e li pugnalavano.

Come nei formicai si distinguono i soldati e le operaie, così la società medioevale non ha conosciuto quell’uguaglianza cui noi tanto teniamo: in essa vi sono quelli che combattono, quelli che pregano e quelli che lavorano. Quando si dice ‘lavoratore’, in questo periodo, si intende dire ‘contadino’: nove persone su dieci, di quelle che vivevano in quel tempo, coltivavano la terra. I tre quarti degli italiani di oggi discendono da qualche contadino, servo o villano, del secolo XI. La loro storia sarebbe dunque la prima in ordine di importanza: sfortunatamente, i documenti preferiscono parlarci dei grandi di questa terra. Coltivare il terreno, vendemmiare, allevare il bestiame e le greggi serviva ad assicurare l’alimentazione di tutti, ma a volte era causa di maltrattamenti e sempre di disprezzo.
Basta pensare alla parola villano che, in origine, indicava il fattore della villa e che oggi è usata in senso spregiativo: gli uomini del Medioevo vedevano, dunque, nel lavoratore dei campi solamente maleducazione e grossolanità. Quanto a certe usanze brutali, qualche volta sono state esagerate. E’ stato detto per esempio che il servo era una ‘mano morta’ perchè, alla sua morte, gli si tagliava una mano per offrirla al signore, per indicare con ciò che il suo servo non l’avrebbe più servito. In realtà quella poco simpatica parola vuol dire semplicemente che i beni de servo senza eredi, ritornano, in caso di morte, al suo signore.
I contadini temevano, a giusta ragione, altre molestie di cui si parla di meno. Essi temevano soprattutto gli effetti di certe usanze. Poteva accadere che un signore feudale, in un momento critico, chiedesse agli abitanti del villaggio  di andare a falciare i suoi prati. Ecco che quella che era stata una prestazione eccezionale, di carattere straordinario, si trasformava facilmente in un obbligo permanente. Il signore esigeva, ora, che i contadini di quel dato villaggio gli falciassero sempre, e gratis, i suoi prati. In questo caso si vede come il nostro villano avesse buoni motivi per cercare di non prestare un simile servizio e di sottrarsi a obblighi del genere.
Tali resistenze, e molte altre, fecero comprendere a poco a poco ai signori, anche ai più duri, che conveniva loro trattare bene il contadino; già nel secolo XI incomincia il grande movimento di liberazione dei servi. Nell’epoca che stiamo studiando si poteva notare la comparsa, o per meglio dire la ricomparsa, lungo e strade e lungo i fiumi, di una specie di uomini abituati al rischio: i mercanti. Certo, era facile fare irruzione sui convogli di carri e di muli e impadronirsi della merce; la tentazione era forte e vi furono dei signori i quali si dedicarono a questo genere di saccheggio. Ma ve ne furono altri, dal cervello meno ristretto, i quali ebbero l’idea di accontentarsi di un pedaggio e concessero perfino vantaggi d’ogni specie per attirare nel loro feudo, con le fiere, folle di persone dalle quali si poteva ricavare qualche guadagno.

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture

LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture per la scuola primaria.

LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture
La circolazione

La circolazione del sangue provvede a distribuire a tutte le cellule del corpo la parte del cibo assorbita dai villi intestinali (chilo).
Il sangue circola continuamente in un sistema chiuso di vasi elastici che fanno capo ad un organo centrale: il cuore.
I vasi sanguigni sono le arterie, le vene ed i capillari.
Il sangue è un tessuto composto di una sostanza liquida, il plasma, nella quale stanno immersi piccolissimi corpuscoli: i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine.
I globuli rossi, a forma di dischetti, contengono l’emoglobina, una sostanza che ha la proprietà di combinarsi con l’ossigeno.
I globuli bianchi ci difendono dalle malattie perchè distruggono i germi nocivi.
Le piastrine contengono una sostanza che permette al sangue di coagularsi in caso di ferite.
Il cuore, che è costituito da una massa muscolare chiamata miocardi, è un organo cavo, grosso come il pugno di una mano, ed è posto nella gabbia toracica, tra i due polmoni.
Esso ha la forma di un cono con la punta rivolta verso il basso e a sinistra; è diviso in quattro cavità: due orecchiette in alto e due ventricoli in basso.
Le arterie sono i vasi che portano il sangue dal cuore alla periferia, ossia a tutte le parti del corpo. In esse scorre sangue rosso, puro, ricco cioè di ossigeno.
Le vene sono i vasi che riportano il sangue dalla periferia, cioè da tutte le parti del corpo, fino al cuore. In esse scorre sangue scuro, impuro, carico di anidride carbonica.
I capillari sono vasi piccolissimi e con pareti sottilissime i quali, proprio come dei ponti, mettono in comunicazione le arterie con le vene e favoriscono gli scambi dei gas e del materiale nutritivo fra le cellule e il sangue.
Quando il ventricolo sinistro del cuore si contrae, il sangue viene spinto in una grossa arteria chiamata aorta, la quale si ramifica in arterie sempre più piccole fino a divenire sottilissimi vasi capillari.
In questo giro il sangue, di un colore rosso vivo, distribuisce a tutti gli organi le sostanze nutritive e l’ossigeno, indispensabili alla vita delle cellule, e si carica di rifiuti e di anidride carbonica.
Perde così il suo colore rosso vivo e diviene scuro.
Ripartendo dai capillari, il torrente sanguigno si raccoglie in canali sempre più grossi, le vene, che lo riportano all’orecchietta destra del cuore e quindi al ventricolo destro.
Dal ventricolo destro il sangue passa nei polmoni, dove si libera dell’anidride carbonica e si carica nuovamente di ossigeno. Poi ritorna all’orecchietta e al ventricolo di sinistra per iniziare velocissimo il suo nuovo viaggio, che durerà soltanto pochi secondi.
La circolazione del sangue nel corpo dell’uomo (e di molti animali) si dice doppia e completa. Essa è doppia perchè il sangue passa due volte attraverso il cuore, e completa perchè il sangue arterioso non si mescola mai con quello venoso.

LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture
Costituzione del sangue e sua funzione

Il sangue appare come un liquido rosso; è costituito di una sostanza liquida detta plasma, in cui sono contenuti vari elementi in sospensione. Vediamo di analizzare queste parti. Disponendo di un microscopio, si può osservare direttamente.
Disinfettiamoci un dito (il mignolo, che si usa meno delle altre dita) e con un ago disinfettato pratichiamo una piccola puntura sul polpastrello, raccogliamo la gocciolina di sangue sul vetrino e facciamo aderire su quello un vetrino copri-oggetto, in modo che la goccia si schiacci e si presenti molto sottile all’osservazione. Vedremo allora tanti dischetti di un colore giallo arancione disposti in pile simili a rotoli di monete.
Sono i globuli rossi, cellule a forma di disco con il margine ingrossato, il cui diametro è di 7 micron. In un millimetro cubo ne sono contenuti da 4 a 5 milioni. I globuli rossi si formano nel midollo osseo ed hanno una vita breve, che dura da 40 a 120 giorni; i globuli vecchi vengono distrutti dal fegato e dalla milza.

I globuli rossi contengono una importante sostanza, l’emoglobina, che dà il colore rosso ai globuli.

Se il microscopio fosse potente, colorando con tecniche speciale il  sangue, si potrebbero notare altri corpiccioli incolore, i globuli banchi; ne sono contenuti da 6 a 8 mila per millimetro cubico.

Nel sangue sono inoltre presenti le piastrine, corpi piccolissimi che provocano la coagulazione del sangue.

Nel plasma è inoltre contenuta una sostanza detta fibrinogeno.

Procuratevi del sangue animale e riempitene un bicchiere; lasciatelo esposto all’aria per qualche ora. Dopo questo tempo il sangue si è coagulato formando una massa gelatinosa. Che cosa è avvenuto?
Il fibrinogeno si è rappreso formando una massa filamentosa di fibrina, in cui si sono impigliati i globuli rossi ed i globuli bianchi. Questa massa si dice coagulo. Se lo lasciate fermo per almeno 24 ore, esso si contrae in una massa rossa sul fondo e sopra compare un liquido giallognolo trasparente, il siero.
Quando ci si fa un piccolo taglio, esce una gocciolina di sangue che rapidamente si rapprende: si può infatti vedere il coagulo rosso con un poco di siero sopra. Se non lo tocchiamo si asciuga, lasciando una piccola crosta che impedisce l’uscita di altro sangue; dopo pochi giorni la piccola ferita si è rimarginata.
In una famiglia reale europea esisteva una malattia, ereditata per via femminile, che colpiva però soltanto i rappresentanti maschili: l’emofilia. Il sangue di questi individui aveva perduto la capacità di coagularsi e quindi una ferita anche piccola poteva essere mortale, poichè il sangue continuava ad uscire ininterrottamente con pericolo di dissanguamento.

Qual è la funzione del sangue? Perchè circola in tutto il corpo?
Il sangue che dai polmoni va al cuore mediante le vene polmonari è ricco di ossigeno (di solito nelle figure colorate che rappresentano la circolazione del sangue è disegnato con un colore rosso vivo); l’ossigeno, portato dall’aria all’interno dei polmoni nella respirazione, è stato catturato dall’emoglobina. Nel suo giro il sangue ossigenato passa quindi nell’atrio sinistro, nel ventricolo sinistro, e viene distribuito a tutto il corpo, per mezzo dell’arteria aorta e dei vasi capillari.

Nel suo lungo cammino attraverso i capillari l’emoglobina cede lentamente l’ossigeno a tutte le cellule e raccoglie da esse l’anidride carbonica. Diventa via via più scuro, ricco di anidride carbonica, si raccoglie nelle vene cave ascendente e discendente, va all’atrio destro, al ventricolo destro (di solito nelle figure questo sangue è colorato di blu) e quindi l’arteria polmonare lo conduce ai polmoni, dove l’emoglobina cede l’anidride carbonica e prende l’ossigeno, ricominciando il ciclo.

Quindi la parte sinistra del cuore ha sempre sangue ricco di ossigeno, mentre la parte destra ha sempre sangue ricco di anidride carbonica, che non possono mescolarsi, per la presenza della parete che separa la parte destra del cuore da quella di sinistra.

La circolazione del sangue nell’uomo e negli animali mammiferi appunto per questo è detta circolazione completa; sarà quindi per quanto abbiamo detto prima, una circolazione doppia e completa.
Nel sangue avviene un doppio scambio; nei polmoni esso prende ossigeno e cede all’aria anidride carbonica; nelle cellule esso cede ossigeno e raccoglie anidride carbonica. L’ossigeno viene consumato dalle cellule in una combustione lenta che produce calore. Il corpo dei mammiferi ha perciò la possibilità di mantenere costante la sua temperatura, proprio in virtù di questo calore che continuamente si produce.

Quale sostanza viene bruciata nelle cellule?
Vi ricordate che cosa avviene nel cibo ingerito? Mediante la digestione esso viene reso solubile; i villi intestinali lo assorbono e lo cedono al sangue: questa è la sostanza che viene bruciata nelle cellule. In tal modo si capisce qual è l’importante funzione del sangue: porta con sé il combustibile (il cibo ingerito) ed il comburente (l’ossigeno) per distribuirli ad ogni cellula del corpo, porta via i materiali di rifiuto: l’anidride carbonica, che viene eliminata nella respirazione, ed altre sostanze che impareremo a conoscere.
I globuli rossi sono importanti, perchè contengono l’emoglobina per il trasporto dell’ossigeno e dell’anidride carbonica.

I globuli bianchi hanno invece una funzione di difesa, poichè sono capaci di uccidere, divorandoli, i germi patogeni delle malattie, entrati per varie vie nell’organismo. Quando una ferita si infetta, ciò avviene per la presenza di germi: i globuli bianchi accorrono numerosi, alcuni vengono uccisi e formano il pus, la sostanza giallastra che dimostra con la sua presenza l’avvenuta lotta fra globuli bianchi e germi.
Anticamente, in caso di ferite, gli uomini usavano rimedi… peggiori del male: usavano mettervi sopra sostanze varie, quali ragnatele, che consideravano curative. In quel modo costringevano i globuli bianchi ad un lavoro supplementare per distruggere altri milioni di germi.
Ora molti farmaci antibiotici aiutano il corpo umano nella sua difesa.

L’apparato circolatorio è molto importante e quindi va difeso per evitare malattie o altri inconvenienti. Non è bene portare fasce o legacci troppo stretti, soprattutto negli arti, perchè impedirebbero la circolazione del sangue. Se legate strettamente un dito, dopo pochi minuti lo vedrete diventare rosso e poi bluastro; si dice che assume un colore cianotico, perchè il sangue non può circolare e portare l’ossigeno di cui ogni cellula ha continuamente bisogno. Le cellule vengono perciò colpite da asfissia, la quale, se prolungata nel tempo, porta alla cancrena, che è la morte dei tessuti.

Dopo una fatica o uno sforzo intenso il nostro cuore batte più rapidamente, perchè deve mandare più sangue e più ossigeno alle cellule che ne hanno consumato una grande quantità. Uno sforzo prolungato oltre i limiti sopportabili, potrebbe portare gravi inconvenienti: gli atleti devono avere necessariamente un cuore molto robusto.

L’abuso di eccitanti, come il caffè e l’alcool, può provocare danni al cuore; l’alcool ingerito passa immediatamente nel sangue ed entra in circolazione determinandone dei pericolosi squilibri.
Il cuore è quindi un organo importantissimo nel sistema circolatorio: il suo battito segna il ritmo della nostra vita; al suo fermarsi, la vita di ferma.

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Parla il cuore

Tic tac, tic tac: sono l’orologio della vita! Comincio a battere quando l’uomo comincia a vivere, finisco quando l’uomo muore.
Egli sosta dal suo lavoro e riposa, egli si corica e dorme: io non mi arresto mai. Tutti gli altri orologi si fermano qualche volta e vanno a farsi pulire o aggiustare dall’orologiaio: io non mi fermo che una volta sola, e per sempre… Quante volte batto? …Settanta, ottanta volte ogni minuto: quattro o cinquemila volte l’ora. Più di centomila volte in una giornata!
(L. Craici e G. Zibordi)

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L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico per la scuola primaria.

La misura del tempo è indispensabile all’uomo, che senza di essa non saprebbe disporre ordinatamente le sue azioni nella giornata. Ecco perchè egli ha sentito il bisogno, fin dall’antichità, di misurare il tempo, ed è riuscito a farlo… anche senza i nostri modernissimi e perfetti orologi (dal greco orologhion = che dice l’ora). Come? Lo spiegheremo nel modo più preciso e rapido possibile.

Il primo e più perfetto orologio per gli uomini è stato il sole. Esso apparentemente compie un cammino giornaliero, le cui tappe grossolanamente si indicano coi termini di alba, mezzogiorno, pomeriggio, tramonto.

Dapprima l’uomo pensò di stabilire tale cammino, misurando coi passi l’ombra di un obelisco (dal latino obeliscus, diminutivo di obelos = spiedo, poi colonna terminante a punta) in una giornata solare: al mattino l’ombra era più lunga, verso mezzogiorno si accorciava, alla sera si allungava ancora di più. Un po’ semplicistica, certo, questa misurazione e senza dubbio imperfetta, e poi non ovunque c’era un obelisco.

Egitto (Luxor)

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Allora l’uomo pensò di ridurre l’obelisco a più modeste proporzioni e costruì il primo vero strumento di misurazione del tempo che si conosca, lo gnomone (dal greco gnomon = indice), un’asta dritta e rigida, munita di appositi segni, eretta verticalmente su un piano orizzontale. La lunghezza della sua ombra permetteva di dividere approssimativamente il giorno in varie parti. Non si sa se l’origine di tale strumento risalga ai Caldei, agli Egizi o ai Cinesi. Comunque il più antico esemplare (1500 aC) che si conosca, è egizio e se ne conserva un frammento nel Museo di Berlino.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Strumento di misura più perfetto dello gnomone, da cui deriva e di cui elimina alcuni inconvenienti, è il quadrante solare, chiamato anche meridiana (dal latino meridies = mezzogiorno) o orologio solare. Esso consiste in un’asta rettilinea, detta stilo, parallela alla linea dei poli, che può essere anche una linea disegnata o fittizia o addirittura essere costituita da un foro. Tale asta ha una base, o piana o sferica o cilindrica o leggermente curva, destinata a ricevere l’ombra e con su tracciate delle linee, dette orarie, che indicano appunto le ore della giornata. La usarono gli Egizi, i Babilonesi, i Greci e i Romani e ne vedono ancora oggi esemplari medioevali sulle facciate di molte chiese e palazzi antichi, con graziosissimi detti latini come “Horas non numero nisi serenas” (segno solo le ore serene), “Sine sole sileo” (senza sole taccio), ecc.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

La meridiana aveva, tra gli altri, un grosso inconveniente, denunciato dalle scritte latine riferite sopra: non funzionava quando mancava il sole. Ecco allora l’uomo escogitare un nuovo orologio, capace di misurare il tempo anche senza il sole: la clessidra ad acqua(dal greco klepsydra, da klepto = portar via, e ydor = acqua) detta anche orologio ad acqua, che fu usata prima dai Babilonesi e dagli Egizi, poi dai Greci e dai Romani fino al sorgere dell’orologio meccanico. Essa era sostanzialmente costituita da un recipiente cavo, che si riempiva di acqua e questa attraverso un forellino gocciolava in un serbatoio. La durata del flusso era indicata da diversi segni orari, tracciati ad altezze varie tra la parte superiore ed il fondo del recipiente. Più tardi all’acqua fu sostituita la sabbia e si ebbe così la clessidra a sabbia.

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Ma l’uomo non si accontentò più né di quadranti solari né di clessidre, che avevano non lievi inconvenienti e pensò quindi di costruire orologi meccanici. Creò allora un quadrante con su segnate le ore indicate da una lancetta collegata a un rullo, il cui giro era regolato da un peso. Tale orologio fu per la prima volta portato in Europa dai Crociati, che probabilmente lo assunsero dagli Arabi. Gli Europei ne perfezionarono il meccanismo e a partire dal 1300 cominciarono a vedersi nelle chiese e nei palazzi pubblici enormi orologi a pesi con quadrante di squisita fattura. Si pensi al famoso orologio dei Mori in Piazza San Marco a Venezia, a quello astronomico di Strasburgo, che segna il tempo, il calendario e i movimenti degli astri, al Big Ben della torre del palazzo del Parlamento a Londra, che è forse il più grande orologio del mondo, con quattro quadranti, ciascuno del diametro di otto metri.

San Marco – Venezia

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Big Ben – Londra

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Ma il ritmo della vita rese necessari all’uomo orologi meno ingombranti di quelli a peso, cioè individuali, di dimensioni piccole, più perfezionati e più comodi. Ed ecco nascere (nel 1550) i primi orologi da tasca, il cui inventore fu Peter Henlein di Norimberga, che ne basò il funzionamento du una molla elastica in sostituzione e con le stesse funzioni del peso. Tali orologi furono detti “uova di Norimberga”, ma non avevano affatto la forma delle uova: erano rotondi e più tardi assunsero le più svariate e impensate forme, di croci, cuori, farfalle, gigli, ghiande, libri e perfino… teschi.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Ma al perfezionamento totale degli orologi contribuì il pendolo, la cui scoperta si deve a Galileo Galilei (1639), il quale constatò che la durata delle oscillazioni di un pendolo dipendeva dalla lunghezza del filo a cui era sospeso: più corto era il filo, più breve era la durata dell’oscillazione. Tale principio fu applicato agli orologi dallo scienziato inglese Christian Huygens (1657) e da allora l’orologio cominciò a diventare popolare e alla portata di tutti.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

In tempi più recenti all’orologio da tasca fu sostituito l’orologio da polso, anche detto cronometro (dal greco chronos = tempo e metron = misura), quando indica le frazioni di secondo. Il cronometro è utilissimo, ad esempio, nelle gare sportive.

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L’uomo e la misura del tempo

L’ELEFANTE dettati ortografici e letture

L’ELEFANTE dettati ortografici e letture.In molti Paesi asiatici migliaia di giganteschi pachidermi, ridotti in cattività, passano l’esistenza al servizio dell’uomo. Testo per la dettatura, la lettura e il riassunto.

Apparve all’improvviso, stagliandosi in tutta la sua mole contro il denso verde di una foresta dell’India meridionale: un colosso con la pelle color grigio scuro che scendeva per il sentiero soleggiato di montagna, trasportando un tronco di palissandro serrato fra le zanne e la proboscide arrotolata. Aveva una grazia ed un’agilità di movimenti inaspettata. Si sarebbe quasi detto che il vero re della giungla asiatica trovasse divertente lavorare per l’uomo come boscaiolo.

Era la prima volta che vedevo un elefante al lavoro. In molti Paesi asiatici migliaia di questi meravigliosi animali passano parecchi anni della loro vita al servizio degli uomini, trasportando, spingendo, sollevando e manovrando pesanti carichi. Aggiogato a un aratro, uno di questi elefanti può dissodare il terreno lungo il confine tra l’India e il Nepal. Carico di medicinali può avanzare nella giungla thailandese e raggiungere villaggi malarici tagliati fuori dal mondo. Servendosi dell’ampia e ben corazzata fronte, riesce a smistare i vagoni merci in una stazione ferroviaria e, con l’aiuto delle zanne e della poderosa testa, a raddrizzare un’auto capovolta.

Ma è come boscaiolo che questo elefante tuttofare primeggia. Lo si può vedere all’opera nelle foreste thailandesi mentre sposta un tronco di legno di tek pesante due tonnellate, lo spinge fino all’orlo di un precipizio e poi lo fa cadere in un corso d’acqua che scorre quasi 100 metri più in basso. E’ capace di sciogliere un groviglio di tronchi che galleggiano su un fiume della Birmania, individuando con esattezza quello che blocca gli altri e smuovendolo, pronto a tirarsi da parte per evitare di essere investito dalla valanga dei tronchi liberati. Con una fune legata ai grossi molari lunghi 30 centimetri può, insieme con un compagno, trascinare un tronco del diametro superiore all’altezza di un uomo. Nello Stato del Kerala, nell’India meridionale, c’è perfino un elefante privo di una zanna che è capace di sollevare l’estremità si un tronco fino alla ribalta posteriore di un autocarro e poi, afferrata saldamente con la proboscide e con l’unica zanna l’altra estremità, di spingerlo pian piano fino in fondo.

Ma non è solo in tempi recenti che l’elefante asiatico ha messo la sua eccezionale abilità al servizio dell’uomo. Già nel 326 aC il re indiano Poro andò incontro alle schiere di Alessandro Magno con 200 elefanti da guerra.  Inoltre per secoli l’elefante, ornato da splendide bardature, ha preso parte a cerimonie con re e sacerdoti. Diversi anni fa, all’incoronazione del re Mahendra del Nepal, ho assistito a una processione di questi nobili animali. Dipinti di nero, di rosso vermiglio e d’oro, sfilavano solenni lungo le strade tutte imbandierate di Kathmandu davanti alle autorità nepalesi ed estere.

Come può un animale selvatico, cresciuto nella giungla, ritrovarsi un bel giorno a far parte di un corteo, a trasportare medicinali o a trainare legname in una foresta di alberi di tek? Sono le sue stesse abitudini e la sua stessa indole mite a spiegare come mai sia così addomesticabile.

Allo stato libero l’elefante asiatico, che vive in branchi formati da 5 a 50 individui, si muove di continuo nelle foreste per procurarsi i quasi 300 chilogrammi di cibo che costituiscono la sua razione giornaliera. Strappa un ramo da una panta di bambù o da un fico e se lo mangia tutto, oppure, sradicato un arbusto dal sapore gradito, lo sbatte contro la zampa anteriore per liberarlo dalla terra e, contraendo i 40.000 muscoli della sua potente proboscide, lo porta alla bocca. Per annaffiare il pasto, poi, raggiunge un fiume o uno stagno e aspira enormi quantità d’acqua, da 130 a 190 litri il giorno.

Ma nella sua ricerca di cibo e di acqua l’elefante lascia dietro di sé tracce evidenti, facilitando il compito a chi vuole catturarlo. Uno dei modi più semplici consiste nello scavare una grande fossa e nell’aspettare che ci caschi dentro. Una volta caduto in trappola, l’animale viene legato e condotto fuori su per una rampa fra due elefanti già addomesticati. Esistono però altri metodi di cattura: lunghe funi terminanti in grossi nodi scorsoi sistemate lungo le piste della foresta in modo da accalappiare gli elefanti per le zampe; oppio mescolato a foraggio e portato nella foresta; proiettili anestetizzanti; elefantesse addomesticate, vere e proprie Dalila della foresta, che attirano i maschi selvatici così che i mah-out possano prenderli al laccio.  Interi branchi vengono catturati in India e in Pakistan orientale con lo spettacolare sistema del kheddah: gli elefanti selvaggi vengono sospinti fuori del cuore delle foreste e convogliati verso un recinto circondato da un largo e profondo fossato o da un’alta palizzata provvisoria.

Tra gli elefanti catturati ce ne sono alcuni troppo riottosi o troppo vecchi per essere addomesticati. Ma di solito dopo un periodo che va dai nove mesi a un anno questi colossi, ormai domati, cominciano la loro vita di lavoro. Seguiamo ora un elefante indiano nel suo corso di addestramento.

Chiameremo il nostro elefante Ravi, dal nome del fiume che nasce nell’Himalaya. E’ un animale nobile, alto quasi tre metri, con testa e torace massicci, dorso allungato, piatto e spiovente, zampe corte e grosse e una lunga coda che termina in un ciuffo. Quando lo incontriamo sta barrendo con furia. E’ appena uscito dalla fossa in cui era caduto e una o due coppie di elefanti addomesticati lo spingono ai fianchi guidandolo verso il kraal.

Il kraal è un recinto di grossi tronchi nel quale gli elefanti catturati vengono chiusi e impastoiati. “Dopo una settimana o due”, spiega l’incaricato, “il mah-out entrerà nel kraal, darà a Ravi delle foglie di palma, lo farà bere e gli offrirà melassa o banane per ingraziarselo, comincerà a carezzagli il fianco e il muso e a parlargli con dolcezza. Dopo u mese circa Ravi lascerà il kraal, sempre accompagnato da una coppia di elefanti addomesticati, andrà al fiume a fare un bagno e poi verrà legato a un albero. Nel recinto ormai non tornerà più”.

Poco per volta il mah-out insegna a Ravi ad eseguire gli ordini che lui gli dà, sempre con la stessa inflessione, in lingua hindi: “Siediti”, “Chinati”, “Vai avanti”, “Sdraiati”, “Bevi”, “Alza la zampa”. Quante parole imparerà a riconoscere Ravi? Forse, e senza fatica, più di una ventina. Ma nessuno sa quale sia il limite massimo. Sir Richard Aluwihare, ex alto commissario di Ceylon in India, ha affermato che un elefante può arrivare a conoscere fino ad 82 parole.

Una vita ordinata, dei pasti regolari e l’affetto di cui è circondato finiscono col far superare all’elefante lo shock iniziale della cattività. Adesso Ravi, non appena il mah-out lo tocca anche lievemente dietro l’orecchio o contrae i muscoli della coscia, obbedisce subito, senza esitare. Alla prossima asta di elefanti Ravi sarà con ogni probabilità venduto a un prezzo molto alto.

Se viene impiegato per il lavoro nelle foreste dello Stato di Mysore, in India, un elefante come Ravi comincerà la sua fatica alle otto del mattino e finirà all’una del pomeriggio: fa troppo caldo per lavorare otto ore al giorno. Quando la sua giornata lavorativa è finita, l’elefante fa ritorno al campo, riposa finché il sudore non gli si è asciugato, poi scende al fiume dove il mah-out lo striglia con una pietra o con il guscio di una noce di cocco. Tornato al campo, consuma il suo pasto, quasi 25 chili di paglia e una quindicina di chili di riso, e quindi è libero di andarsene in giro per la foresta a farsi un altro spuntino. A sera fa un altro pasto e, dopo aver dormito solo quattro ore, torna a girovagare nella foresta mangiucchiando fino all’alba.

Gli elefanti adibiti al lavoro sono trattati con molta cura. “Noi accertiamo la capacità di traino di ogni elefante” mi disse Raghavendra Rao, veterinario del Ministero delle Foreste del Mysore, “e lo stabiliamo in rapporto alla pendenza del terreno, al volume dei tronchi, alla distanza da percorrere e alle condizioni dell’elefante”. Mentre Rao mi parlava, arrivò un mah-out seguito dal suo elefante. L’elefante sembrava camminare a fatica e il mah-out era venuto a chiedere un consiglio. “Gli elefanti che lavorano”, mi spiegò Rao, “possono soffrire di disturbi di stomaco, di coliche, di diarrea o di malattie contagiose”. Quell’elefante aveva una piaga infetta sul ventre. Rao diede al mah-out una pomata allo iodio e questi la spalmò con delicatezza sulla piaga. Lo iodio certamente bruciava, ma l’elefante per trovare un po’ di sollievo al dolore si limitava a dondolare la zampa anteriore.

Le premure che i mah-out hanno per i loro elefanti sono comprensibili. Lavorando nella foresta con questi giganteschi boscaioli essi finiscono con l’affezionarcisi. A parte qualche eccezione, i colossi sono in genere docili, mansueti ed estremamente pazienti. Le femmine poi sembrano avere il carattere più tranquillo e più mite del mondo.

Riusciranno gli elefanti a continuare a sopravvivere come forze lavorative nell’Asia moderna? Riusciranno a competere con i trattori e con le nuove macchine che abbattono, smembrano, spuntano ed accatastano gli alberi?

In alcune foreste, certamente no. La Thailandia, per esempio, sta sostituendo gli elefanti con trattori adibiti al trasporto di tronchi, mentre nei cantieri di disboscamento in India il numero degli elefanti che lavorano è in diminuzione. Ma l’Asia p grande e ci sono ancora foreste per centinaia di milioni di ettari dove il lavoro degli elefanti è indispensabile. Non soltanto l’elefante è un mezzo più economico, ma è anche insieme un motore, un trattore, una gru, un autocarro e, per finire, anche una specie di calcolatore elettronico.

“I vari movimenti che un elefante compie nel manovrare i tronchi non sono il risultato di un addestramento”, dice il dottor John F. Eisenberg del Parco Zoologico Nazionale di Washington “E’ l’animale che, una volta sollevata un’estremità del tronco da terra e sistemata la catena in bocca, la sposta fino a trovare il punto di equilibrio. Quando l’elefante capisce che cosa si vuole da lui, lo fa improvvisando. Esiste forse una macchina capace di tanto?”.

Certo è probabile che, con l’intelligenza che ha, l’elefante selvatico possa aver già fatto dei nuovi programmi per il suo avvenire che escludono la possibilità di lavorare per l’uomo. Alcuni elefanti, mi ha detto in tono solenne una guardia forestale, hanno imparato a tenere con la proboscide una lunga canna di bambù in posizione verticale e quando se ne vanno in giro nella foresta saggiano con quella il terreno per assicurarsi che non nasconda insidie.

La guardia forestale non aveva mai visto personalmente gli elefanti farlo, ne aveva soltanto sentito parlare. Siccome mi trovavo in un kraal in India, pensai di porre a bruciapelo la domanda proprio a un elefante. Non mi rispose, si limitò a strizzarmi l’occhio.

S. E. Fraezer

L’ELEFANTE dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

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I RODITORI dettati ortografici poesie e letture

I RODITORI dettati ortografici poesie e letture. Una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

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La lepre e il coniglio

Sono stretti parenti  e tutti e due hanno, dietro gli incisivi superiori, altri due piccolissimi denti. La lepre è agile, con le orecchie lunghe; mangia di tutto, foglie, gemme, cortecce d’albero. Perciò, specie d’inverno, quando non trova altro, è assai dannosa ai giovani alberi di cui rode la corteccia.
Il coniglio, più piccolo della lepre, vive nelle tane che scava da sé. E’ un animale enormemente prolifico: da una sola coppia, in un anno, possono nascere, con le successive generazioni, oltre mille coniglietti.

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La vita dei castori

Il castoro è uno dei più grossi roditori; infatti, raggiunge il metro di lunghezza senza la coda e può pesare fino a trenta chilogrammi. Il suo corpo, sostenuto da arti corti e robusti, è tozzo e massiccio; la testa, di forma conica; il collo, molto corto. Ma la caratteristica essenziale del castoro consiste nel suo notevole adattamento alla vita acquatica. Le zampe posteriori di questo animale, palmate come quelle di un’anitra, gli permettono di nuotare rapidamente; la coda, larga, piatta e ricoperta di squame, gli serve per nuotare. Le narici e i condotti auricolari vengono chiusi mediante valvole, quando nuota in immersione; mentre la cavità boccale si chiude dietro gli incisivi quando, in fondo ai fiumi o ai laghi, rode il legno coi denti.
In Europa i castori sono quasi scomparsi; se ne trovano ancora in Francia nella valle del Rodano, in Norvegia, in Polonia, in Russia e lungo il corso medio dell’Elba; ma essi abbondano in modo particolare in Canada. I costumi del castoro, il suo meraviglioso istinto, la sua intelligenza, fanno di lui un animale assolutamente unico. Sotto certi aspetti, la sua vita è simile a quella dell’uomo: vive in società, costruisce la sua dimora e accumula provviste.

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Abili boscaioli

I castori del Canada si stabiliscono nelle regioni boscose attraversate da numerosi piccoli corsi d’acqua. Riuniti in gruppi, che variano dai 200 ai 300 individui, essi edificano, anzitutto, una diga sul corso d’acqua attiguo al loro accampamento. La forma della diga dipende dalle condizioni del terreno. Certe dighe sono convesse, altre concave, altre infine a zig-zag. La loro lunghezza può variare da un metro a più di 500 e l’altezza raggiunge uno o due metri.
Di volta in volta boscaioli, carpentieri, muratori, i castori abbattono gli alberi necessari per edificare la diga che si propongono di costruire; li rodono a una trentina di centimetri di altezza, in modo da formare un intaglio tutt’intorno, che viene approfondito in forma conica. Se l’albero è vicino alla riva del fiume, lo intaccano più profondamente dalla parte dell’acqua, il che dimostra che essi sanno molto bene dirigerne la caduta. Quando l’albero è sul punto di crollare, essi continuano più lentamente la loro operazione e, appena comincia a inclinarsi, ne aiutano e ne dirigono la caduta con le zampe anteriori. Appena l’albero è caduto in acqua, i castori si tuffano e restano nascosti per qualche attimo, senza dubbio per timore che il rumore del crollo attiri qualche loro nemico. I nemici, d’altra parte, sono segnalati da apposite sentinelle, le quali battono sull’acqua grandi colpi di coda.
Una volta abbattuto l’albero, il castoro lo trasporta ai piedi della diga, lasciandolo galleggiare e trascinandolo. Per trasportare gli alberi, abbattuti lontano dal luogo in cui deve sorgere la diga, essi scavano canali artificiali lunghi anche parecchie centinaia di metri, in modo da poter sfruttare la corrente dell’acqua.
Quando il tronco è stato in tal modo trasportato vicino al punto in cui deve essere costruita la diga, il castoro se ne impossessa definitivamente, ne aggiusta un’estremità sotto il collo e lo spinge avanti, fin là dove deve essere trascinato sott’acqua. Generalmente i castori fanno andare a fondo il legname per le costruzioni lasciando che si inzuppi e si impregni d’acqua, ma talvolta lo trascinano essi stessi, nuotando in immersione, e lo ormeggiano sott’acqua.

I RODITORI dettati ortografici poesie e letture
Abilissimi ingegneri

Quando il materiale è pronto, gli animali si mettono all’opera. Sul fondo del fiume essi piantano dei pioli alti un metro e mezzo o due e li allineano gli uni accanto agli altri; in compenso li rendono stabili con grosse pietre. Successivamente li collegano gli uni agli altri con rami flessibili e saldano il tutto con fango mescolato a foglie morte. Essi lavorano il fango soprattutto con l’aiuto delle zampe anteriori, che hanno l’agilità delle mani; contrariamente a quanto si crede, la coda non serve loro da cazzuola.
Una diga terminata ha uno spessore di 3-4 metri alla base e di metri 0,60 nella parte superiore. La parete a monte è inclinata di circa 45 gradi; quella a valle è verticale. E’ questa la disposizione migliore per resistere alla pressione dell’acqua, che si esercita così su una superficie in pendenza. In certi casi i castori spingono ancora più oltre la loro scienza innata sulla resistenza dei materiali. Infatti se il corso d’acqua è lento, essi costruiscono generalmente una diga rettilinea, perpendicolare alle due rive; se è rapido e torrentizio, costruiscono una diga ricurva, in modo che la sua convessità sia rivolta a monte. Così essa resiste meglio alla corrente, che potrebbe travolgerla se fosse dritta.
La costruzione delle dighe comincia durante l’estate, quando le acque hanno il livello più basso, e si protrae fino ai primi freddi. Inoltre i castori, in caso di necessità, sanno scavare canali di scarico per i bacini.
Nel lavoro, che essi svolgono di comune accordo, i castori hanno a volte delle iniziative stupefacenti, che dimostrano in questi roditori l’esistenza di un’intelligenza e di una notevole capacità di intesa e di collaborazione. Si è scoperto, per esempio, un canale costruito dai castori che scorreva su terreni a diverse altezze: il suo corso era stato sbarrato da tre dighe, una per ogni dislivello del terreno. La prima parte di tale canale era alimentata dall’acqua di uno stagno, le altre dalle acque scorrenti che le dighe, prolungandosi ben oltre le due sponde, riuscivano a raccogliere. Era in atto qui un sistema di chiuse simili a quelle realizzate dall’uomo come ingegnoso mezzo destinato a raccogliere le acque sparse.

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Una casa per ogni famiglia

Una volta costruita la diga, i castori si separano in coppie e ciascuna di esse si costruisce una capanna o sulle piccole isole degli stagni formati dalle dighe, o sugli argini.
Le capanne sono fatte di rami intrecciati, di pietre e di ghiaia e tutto viene cementato per mezzo di mota e di foglie morte. Esse misurano da tre a cinque metri di diametro e sono alte un metro me mezzo o due metri. L’ingresso è costituito da un tunnel sommerso, in modo che il castoro è protetto contro gli attacchi dei nemici esterni.
In inverno le pareti della capanna gelano,, divenendo solide e impenetrabili anche a un orso che per avventura potesse raggiungerle, quando lo stagno è coperto di ghiaccio. L’interno della capanna è una stanza vasta e confortevole.
I castori, nonostante la vita quasi acquatica, non si nutrono di pesci. Durante la bella stagione rodono le radici delle piante d’acqua e soprattutto le radici delle ninfee. La scorza dei grandi alberi o degli alberi di media grossezza, che è troppo dura, non serve loro come cibo, ma in compenso essi rosicchiano con gusto la scorza dei ramoscelli e degli arbusti, che è tenera e nutriente. Per procurarsela, essi abbattono gli alberi come abbiamo visto, e ne staccano i rami.
Quando viene l’inverno, il castoro si immerge sotto il ghiaccio che ricopre lo stagno sulle cui rive egli si è stabilito, sceglie tra il mucchio delle provviste accumulate quel ramo che gli sembra più conveniente e lo trasporta nella capanna. Se è un ramo di betulla, ne mangia la seconda scorza e lo strato situato tra la scorza e la parte più interna, mentre utilizza la scorza esterna, ridotta in trucioli, per rifare il giaciglio. Se invece si tratta di un ramo di pioppo, egli rosicchia tutta la scorza, abbandonando il pezzo di legno.
Ogni anno, a primavera, la femmina dà alla luce da due a sei piccoli, che nascono ciechi e che la madre allatta per circa un mese. Nel frattempo essa allontana dalla capanna il maschio, il quale deve andare ad abitare in un altro alloggio. I piccoli del castoro acquistano la vista solo verso la fine dell’ottavo giorno; si muovono con difficoltà e non sanno nuotare. A tre mesi essi sono ancora impacciati e restano sott’acqua solo per poco tempo. E’ necessario un certo esercizio, prima che riescano a trattenere la respirazione per qualche minuto. Quando ormai sono diventati adulti, il che avviene verso l’età di due anni, prendono possesso della capanna dei loro genitori i quali se ne costruiscono una nuova. La vita dei castori dura da quindici a venti anni. Il castoro è un animale simpatico, che si lascia facilmente addomesticare. Ma, generalmente, quando viene addomesticato, perde ogni iniziativa e ogni volontà. Per questo, di solito, si mettono a sua disposizione dei cunicoli artificiali, simili a quelli nei quali egli vive in libertà, e un vano largo e ben aerato che può aprirsi sull’esterno per permettere di pulire l’ambiente. Generalmente lo si nutre con scorze, grano e carote. All’inizio egli cerca di trasportare le sue provvigioni in un altro luogo, poi si abitua al nuovo genere di vita e si fissa definitivamente nella sua dimora.

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Girotondo dei topi

Trottano i sorci lungo le pareti del solaio,
sono d’umore gaio:
è morto il gatto del secondo piano,
quel tremendo soriano!
L’hanno visto stecchito
tenuto per la coda dai ragazzi
che l’hanno seppellito
in fondo all’orto.
Allegri! E’ proprio morto!
Erano tutti sotto l’abbaino
a guardar giù coi musetti appuntiti
e gli occhi che lucevan come spilli.
Ora per la soffitta
corrono in tondo in tondo
e fanno un gran fruscio
tra le cartacce vecchie.
Son quaderni ingialliti
di greco e di latino
buoni da rosicchiare:
un bel festino!
Poi ancora a trottare
con le code diritte come stecchi
fra i mobili azzoppati,
fra le sedie sfondate,
gli stracci e i ferrivecchi.
Ogni tanto qualcuno si riposa
e va a guardare
dentro il buco nel muro
la sua nidiata di topini rosa.
Girano in tondo in tondo
nella soffitta oscura.
Ah, com’è bello il mondo
se non c’è la paura!
(Enrico Guastaroba)

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La trappola

La trappola a è lì, alla posta,
all’angolo della soffitta:
all’uncino di ferro una crosta
di pecorino è confitta,
e spande oltre il telaio
di fili un odore che invita
i topi, che nel solaio
trascorrono la loro vita.
La trascorrono lieti e sereni
tra fugaci guizzi di code
tra rapidi andirivieni
tra i rumori del dente che rode,
che rode la buccia ed il chicco,
un brano di libro illustrato
e ciò che in dispensa o nel ricco
ripostiglio hanno rubato.
Ora hanno scoperto qualcosa
di strano, una scatola a fili
che sta ferma nell’ombra, una cosa
che manda profumi sottili.
V’entra un topo. Ha toccato col muso
appena la crosta, che scatta
la molla; il portello s’è chiuso
con rabbia quasi di gatta.
E’ passata tutta la notte
sul terrore del prigioniero;
ma l’alba s’affaccia alle porte
della terra, svelando il mistero.
L’uomo piano piano è salito
a vedere. Sì, c’era. E vicini
alla madre dall’occhio spaurito
ha veduto sei topolini:
sei topini di rosa ivi nati
la notte, in prigione. Anche un gatto
li avrebbe, forse, lasciati.
Il cacio, all’uncino, era intatto.
(Giuseppe Porto)

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Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA
Osserviamo la cartina

Confini: Mare Adriatico, Slovenia, Austria, Veneto
Lagune: di Marano, di Grado
Golfi: di Trieste, Vallone di Muggia
Promontori: Punta Sdobba
Monti: Alpi Orientali (Carniche), Prealpi Venete (Carniche, Giulie).
Cime più alte: Monte Coglians, Monte Montasio, Monte Mangart, Monte Canin (Alpi Carniche); Col Nudo, Cima dei Preti, Monte Pramaggiore (Prealpi Venete)
Valli: del Tagliamento
Valichi: della Mauria, di Monte Croce Carnico, di Tarvisio, del Predil
Fiumi: Livenza col suo affluente Meduna; Tagliamento col suo affluente Fella; Isonzo (italiano solo nell’ultimo tratto) con il suo affluente Torre e il subaffluente Natisone; Stella; Aussa; Timavo.
Isole: di Grado.

Anche questa regione è costituita da due territori: il Friuli, rappresentato dal bacino idrografico del Tagliamento, e la Venezia Giulia.
Gran parte dei territori che costituivano la regione prima del secondo conflitto mondiale sono stati ceduti alla Repubblica iugoslava in seguito alle sfortunate vicende della guerra.
La regione è limitata a nord dalle Alpi Carniche che degradano verso l’alta Valle del Tagliamento. A sud la fertile pianura è limitata dall’Adriatico che ne bagna la costa lagunosa.

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Vita economica

L’agricoltura è l’attività prevalente in tutta la regione; si producono uva e patate sulle colline, ortaggi, barbabietole, cereali, tabacco e frutta, in pianura. Numerose zone forestali, della Carnia, danno ottimo legname, e i pascoli consentono l’allevamento dei bovini. Nelle acque dell’alto Adriatico è esercitata la pesca. Le industrie prevalenti sono rappresentate dai cantieri navali, dalle raffinerie di petrolio, dagli stabilimenti siderurgici e meccanici, dalle industrie chimiche, alimentari e dai cotonifici. Monto attivo è il turismo e il commercio.

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Le province

Le province della regione, che gode di una particolare autonomia, sono quattro: Trieste, Udine, Pordenone e Gorizia.
Trieste, capoluogo della regione, ricca di ricordi cari al cuore degli italiani, è un notevole porto commerciale e industriale dell’Adriatico.
Udine è un buon centro industriale, agricolo e commerciale e un nodo stradale e ferroviario di grande transito.
Gorizia, adagiata nel luogo in cui la Valle dell’Isonzo sbocca nella pianura, è chiamata per il suo clima mite, la “Nizza veneta”.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio del Friuli Venezia Giulia? Quali gruppi montuosi vi si elevano?
Dove si verificano i fenomeni carsici e che cosa sono?
Quali fiumi scorrono nel Friuli Venezia Giulia?
Il Tagliamento segna per un tratto il confine con una regione: quale?
Quali sono le maggiori risorse del Friuli Venezia Giulia?
Quali industrie sono sviluppate a Trieste? E a Monfalcone?
Che cos’è la bora?
Che cosa sono i magredi?
Perchè soltanto la bassa pianura è fertile?
Perchè la Venezia Giulia è più ricca e industrializzata del Friuli?
Quali sono le province e le località importanti della provincia? Perchè sono note?
Ricerca notizie sulle tradizioni, gli usi e i costumi del Friuli Venezia Giulia.
Che cosa ti ricorda Redipuglia?
E Aquileia?

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Il Friuli

Ippolito Nievo definì il Friuli “un piccolo compendio dell’universo”, cioè un armonico riassunto, un felice mosaico, un gradevole cocktail di tutto ciò che di bello esiste su questa terra. Dalle altre montagne della catena Carnica, con la vetta massima del monte Coglians, a quasi 2800 metri, alle colline che degradano in dolci declivi, dalle campagne verdi e fertili alle vastissime spiagge adriatiche, dai laghetti del Predil e di Fusine al bacino morenico di San Daniele, dalle aree sassose e aspre, ai boschi fitti e intricati. Nel Friuli c’è di tutto, come se, e una leggenda antica lo dice, infatti, il creatore, al termine della propria fatica, si fosse accorto che era rimasto qualcosa ancora da utilizzare, dell’enorme materia prima predisposta per forgiare il mondo, e, a capriccio, avesse sparso tale residuo a piene mani in quest’angolo gettato tra le Alpi e l’Adriatico, per fare di esso un campionario di tutte le bellezze del mondo.
Le bellezze del Friuli meritano la massima attenzione. Dalle località balneari che hanno il loro centro massimo in Lignano Sabbiadoro fino alle nevi del Tarvisio e di Stella Nevea, di Forni di Sopra e del Matajur, si sta compiendo ogni sforzo per incrementare la recettività turistica, con impianti e attrezzature di primissimo ordine, comprese quelle degli sport invernali, al fine di offrire all’ospite italiano e straniero il meglio della tradizionale e calda accoglienza friulana, fatta di gentilezza, di rispetto, di onestà, di altissimo senso civico.
Accanto alle bellezze naturali, il Friuli tutto è una miniera di meraviglie artistiche. La plurisecolare storia del Friuli, dai più remoti tempi celtici preromani fino alla colonizzazione romana, alle invasioni longobarde, alla conquista della regione da parte di Venezia, ha dato al Friuli infiniti monumenti e vestigia che ben meriterebbero di essere maggiormente conosciuti. Dalle rovine di Aquileia, con il suo foro, il suo porto, la sua basilica; da Udine con la sua collezione di opere di Gian Battista Tiepolo, il suo duomo del Trecento, il suo castello; da Cividale, l’antica Forum Julii di Giulio Cesare con il suo tempio longobardo di Santa Maria in Valle e il Battistero di Callisto; da Pordenone, l’antica Portus Naonis, con il suo duomo e il suo municipio; da Porcia, con i suoi portali e il suo castello; da Palmanova, la città fortezza che ancora conserva intatte le sue caratteristiche: non basterebbe un volume per elencare tutte le bellezze artistiche di questa terra generosa, ospitale, di questo piccolo compendio dell’universo che non chiede che di essere meglio conosciuta: per essere apprezzata e amata come merita.

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Friuli Venezia Giulia, regione autonoma

Il 10 maggio 1964 è nata in Italia una nuova regione autonoma: il Friuli Venezia Giulia. In tal giorno si è votato nelle province di Udine e di Gorizia e nel territorio di Trieste. Sono stati eletti i 61 rappresentanti del parlamento regionale. Esso a sua volta, ha  scelto al suo interno il presidente e i dieci assessori destinati a governare la regione per quattro anni. Pur dipendendo sempre da Roma per quel che riguarda le leggi fondamentali della Repubblica Italiana, il Friuli Venezia Giulia si è dato proprie leggi per ciò che riguarda determinate attività locali. E non versa più a Roma tutto l’importo delle tasse governative, ma ne amministra direttamente una parte per risolvere i non lievi problemi regionali.
Prima dello sviluppo dei notevoli centri industriali di Pordenone ed Udine, il Friuli era una zona depressa. Il reddito per persona era tra i più bassi e moltissimi friulani emigrarono per cercare lavoro.
La Carnia è molto bella, con le sue Alpi che non superano i 2800 metri, ed era anch’essa una zona molto povera.
Il Friuli ha una sua unità, basata sul dialetto e sulla storia. Il dialetto non è veneto, ma un idioma neolatino, affine al ladino, al provenzale e al romeno. Il ducato longobardo del Friuli lottò contro le invasioni degli Slavi. Sotto la dominazione veneziana, gli orgogliosi comuni friulani ottennero larghe autonomie. Dal 1895 al 1814 il Friuli fece parte del Regno d’Italia napoleonico. Poi passò all’Austria. Nel 1866 con la terza guerra d’indipendenza si ricongiunse all’Italia.
La provincia di Gorizia è stata ridotta a pochi brandelli dalla seconda guerra mondiale e l’allora Jugoslavia si è presa il resto. Era la città prediletta dagli Asburgo, ma lo stesso imperatore Giuseppe II ne riconosceva il carattere schiettamente italiano. Fu liberata nel 1916, perduta nel 1917 con Caporetto, annessa definitivamente all’Italia nel 1918.
Anche il territorio triestino è ridotto ai minimi termini, in seguito alle vicende belliche e all’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Trieste, sotto l’Austria, era il secondo porto del Mediterraneo e il primo dell’Adriatico. L’ardente irredentismo si concluse con l’unione all’Italia, nel 1918.
Trieste è la capitale della regione. Alcuni assessorati possono risiedere però a Udine o in altre città.
(G. Zannoni)

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Trieste

Al primo affacciarsi sulla strada litoranea sul golfo, la città intera appare allo sguardo, in un incontro fulmineo. Se splende il sole, cielo e mare avvolgono la città in un unico bagliore. Dall’auto e dal treno, la stupenda visione si presenta come in una lunga carrellata cinematografica.
La strada segue l’arco del golfo fra suggestivi e arditi strapiombi sul mare, sì che, spesso, si ha la sensazione di stare sospesi sulla lucente pianura dell’Adriatico.
Dal medioevale Castello di Duino, già baluardo contro i Turchi ed i pirati dove forse sostò Dante, ambasciatore di Cangrande della Scala, alla sognante baia di Sistiana, a quella di Grignano, a Miramare, pare di compiere un’allucinante immersione in un’atmosfera solare  e marina. Il paesaggio varia ad ogni passo. Mare, roccia, verde: i sensi finiscono col percepire solo questi tre motivi fondamentali, mentre la città si palesa sempre più vicina e più viva.
L’aria è impregnata di salsedine e di resina. Infine: il Lungomare di Barcola. Da un lato la scogliera, con la cantilena delle onde, le vele, le barche, il porticciolo, dall’altro la movimentata teoria delle ville e dei luoghi di ritrovo, alla fine di un viale alberato, incontreremo la città viva e pulsante.
L’arrivo dalle vie di mare avviene in un diverso accordo di colori, più sfumati. Il passeggero avrà l’impressione di essere nelle vie della città già prima di sbarcare quando la nave all’entrata nel porto sfiora rive e moli. Un arrivo dal cielo consente un abbraccio ideale all’intera città: un mareggiare di colli, di pendici smaltate di verde, tutto un rampicare di case, dai massi dei palazzi sulle rive ai dadi delle ville che si affacciano all’altipiano.
Ma, si giunga da una parte o dall’altra, l’attenzione finisce con l’essere dominata da una culminante visione. San Giusto: il vecchio castello veneto, la poderosa quadrata torre della basilica, la platea romana sul Colle Capitolino. La storia, l’anima di Trieste sono lassù; tutte le età, tutte le vicende accostate, accomunate, sovrapposte parlano.
Il Castello fu costruito al principio del 1500 sul posto della rocca romana e di una successiva fortezza trecentesca.
Dal bastione rotondo che alza la sua massa sulla Piazza San Giusto, l’occhio spazia su un panorama grandioso.
Di lassù Trieste appare come una scacchiera ondulata fra il verde dei colli ed il turchino del mare. Il golfo lunato si distende nelle sue nobili linee dalla riviera che va verso Miramare, Duino, Monfalcone sino alla dolce curva della laguna gradese. Nelle ore più propizie si vedono profilarsi laggiù, in controluce, i contorni delle Alpi e delle Prealpi, i campanili di Aquileia e di Grado. Girando lo sguardo, sulla sinistra appare il vago disegno della costa istriana; e l’occhio può accompagnarla fino allo sperone di Pirano, alla Punta di Salvore.
Monumento caratteristico di Trieste è il Faro della Vittoria eretto in memoria dei Caduti del mare. Alto 116 metri sul livello del mare, per grandezza è il terzo del mondo dopo quelli di New York e Santo Domingo. Il suo raggio spazia per 36 miglia e le navi lo vedono già a metà rotta tra Venezia e Trieste.
Altra opera notevole, il Canal Grande, che penetra nel cuore della città.
Fu scavato nel 1750 per i velieri che così potevano scaricare le merci proprio davanti ai magazzini, allineati allora lungo il canale. E’ anche grazie ad esso che poche città come Trieste sentono la presenza del mare e di continuo lo vedono non solo dalle alture, ma in fondo alle vie.
(B. Parisi)

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Udine

In questa chiara Udine, una certa mollezza veneta, risalendo dalla pianura e da occidente, addolcisce il nobile parlare della gente friulana e adorna di piacevoli forme le architetture.
L’Udinese, lo distingui subito per una sua pacatezza corretta: lo interroghi su un indirizzo, lo chiami a te per un motivo qualsiasi, e subito si offre: “Mandi” (che è poi una derivazione del veneziano “comandi”). Ma ti accorgi benissimo che, Friulana dal ceppo morbido fuori e duro assai dentro, non si farebbe comandare da nessuno, a meno di non offrire spontaneamente la sua fedeltà.
Insomma, Venezia sì, ma nella parte migliore e più forte, escludendo il lato settecentesco e diremmo goldoniano del pur affascinante costume lagunare. E poi, Udine è capitale! Meno ricca e attiva di Pordenone, forse, ma il cuore del Friuli è lei, un prodigioso e fiero cuore che ha resistito a molti brutti scossoni della storia.
Non era difficile, fino a trent’anni fa,  trovare a Udine chi ricordasse distintamente l’entrata delle truppe austriache in città, dopo Caporetto. Neppure l’ultima guerra è stata pietosa con la città, e il ferro e il fuoco non furono risparmiati a tentare di domare questi Udinesi gentili ma incapaci di obbedire a un occupante dai metodi così poco corretti.
Ed ora, oso dire che il momento buono per conoscerla non è durante il giorno, quando le ampie strade del centro pullulano di ente vivace e ordinata; l’ora buona è al principio della notte. Dopo le nove Udine, da antica e dignitosa capitale qual è, se ne sta a casa, e le sue vie semi deserte offrono una straordinaria suggestione. Qualcuno si attarda in discorsi sotto l’enorme platano di via Zanon, e alle calme voci friulane risponde discreta la roggia, che ancora lì corre scoperta.
Seguite allora il labirinto di certe stradine, con le simpatiche, antiche case dai balconi delicati, traboccanti di fiori; trascorrete il mirabile impianto urbanistico: Udine può ripetervi il suo racconto di persona, meglio di qualsiasi storico.
(F. Piselli)

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La bora

Mentre tutto intorno alla casa domina il frastuono della bora, un fanciullo studia da un suo manuale geografico che “in Italia la velocità del vento supera di rado i 42 chilometri orari”. Bel privilegio questo di Trieste, fra le città italiane, di essere visitata spesse volte durante ‘anno e specie d’inverno, da un vento che, quando è mite, soffia con una velocità di 60 chilometri e, in certe giornate di furore, raggiunge i 140.
Visitatore sgarbato e violento, per cui la città sta sempre sul chi vive. E lo sanno gli ingegneri della luce e dei telefoni, e tutti i costruttori, i quali non sono mai abbastanza previdenti nel calcolare la violenza di questo nemico delle condutture e dei cavi aerei, dei comignoli e dei tetti. Lo sanno i marinai che non rafforzano mai abbastanza gli ormeggi.
Lo sanno infine i cittadini, che per quanto lo conoscano per tradizione e per esperienza, non riescono mai a premunirsi in modo da non doverlo temere.
(G. Stuparich)

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L’acqua e la pietra

Il Carso è un altopiano che dalle Alpi Giulie va degradando verso l’Adriatico ed è compreso tra il basso corso dell’Isonzo e il Golfo del Carnaro. Di questo altopiano, soltanto una piccola parte è inclusa nei confini politici dell’attuale Venezia Giulia e precisamente quella striscia che si affaccia sul Golfo di Trieste. Essa si distingue in Carso Monfalconese e Carso Triestino, divisi l’uno dall’altro dal Vallone di Gorizia. Il Carso è caratterizzato dall’assenza di corsi d’acqua; la sua superficie perciò si presenta arida, costituita in gran parte di rocce bianche e nude. L’acqua piovana tende a scorrere rapidamente attraverso le fessure delle rocce e scompare nel sottosuolo.
Nel sottosuolo non meno che alla superficie, l’acqua silenziosamente lavora. E’ l’acqua che conferisce al paesaggio carsico quell’aspetto di terra caotica e tormentata che lo distingue da ogni altro.
In superficie la roccia appare scavata da solchi, incisa da crepacci, stranamente forata, ridotta a lame taglienti e a punte aguzze. Nel sottosuolo, si formano cavità di ogni genere: caverne spesso grandissime, grotte ramificate come labirinti, canali, gallerie, pozzi, cunicoli. In questo mondo sotterraneo, l’acqua scorre, spumeggia, gorgoglia, continua a scavare, seguendo vie misteriose che la conducono al mare. Il crollo della volta di una grotta ha dato origine, in superficie, a una conca, una valletta che ha forma di scodella o di imbuto. Questa conca si chiama, con parola slava, dolina. Quando la dolina termina con un inghiottitoio a pozzo, che spesso è profondissimo, si chiama foiba (dal latino fovea, che significa fossa). Il Carso è tutto bucherellato di doline; viste dall’alto sembrano piccoli crateri vulcanici: un paesaggio quasi lunare.
Tra le numerose grotte del Carso Triestino va ricordata la Grotta Gigante, che si trova a qualche chilometro da Trieste. Attraverso una breve galleria si raggiunge una cavità immensa, alta 115 metri, che potrebbe contenere la cupola di San Pietro in Vaticano. La grotta è attrezzata per le visite turistiche; fasci di luce elettrica illuminano nel modo più fantastico i cristalli delle meravigliose stalagmiti. E’ il capolavoro dell’acqua.
Non si deve credere che il Carso sia tutto e soltanto un deserto di pietra. Il Carso Triestino, assai meno brullo di quello di Monfalcone, è rallegrato da pinete che formano chiazze verde scuro in mezzo al biancheggiare dei macigni, da boscaglie di querce che coprono le sue colline, da prati, da cespugli di ginepro, di rovo, di biancospino. La primavera fa fiorire tra i sassi il timo e la salvia; compaiono fiori di alta montagna che fanno dimenticare di trovarsi a pochi passi dal mare.
La terra coltivata è poca: qualche vigna, qualche breve campetto nel fondo delle doline.
La roccia del Carso è il calcare, sul quale l’acqua agisce facilmente. Dovunque vi sia il calcare, si manifestano gli stessi fenomeni che si osservano nel Carso: aridità in superficie e acque sotto terra, macigni corrosi, grotte e caverne. Poiché questi fenomeni sono  più evidenti nel Carso che altrove, hanno preso da esso il nome: si chiamano fenomeni carsici o carsismo.
In Italia, i terreni di natura calcarea sono molto estesi; quindi anche il carsismo è frequente in tutta la penisola. Zone carsiche si trovano nelle Prealpi Lombarde, nelle Alpi Apuane, nel Gargano, nelle Murge, nelle Madonie, nell’Iglesiente; le doline non mancano nel bresciano, nell’Appennino bolognese; un grandioso complesso di grotte è quello di Castellana in Puglia; i fiumi a corso sotterraneo sono frequenti nell’Appennino meridionale.
Il fatto è che nel Carso i fenomeni carsici sono tutti riuniti e presenti.
(S. Pezzetta)

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Le grotte di Postumia

Un vecchio proverbio latino dice che la goccia scava la pietra: una goccia che cade occasionalmente su un sasso, no di certo, ma dieci, cento, mille, un milione di gocce che cadono una dopo l’altra sempre sullo stesso punto, sì. Se poi le gocce, scorrendo su una roccia calcarea, si sono arricchite di sostanze minerali, avviene il fenomeno contrario: invece di scavare, esse… costruiscono: depositano a poco a poco il calcare; un po’ resta attaccato alla fessura da cui cola l’acqua, un po’ si consolida a terra.
Così nascono le stalattiti e le stalagmiti nelle caverne carsiche. Come tutti sanno anche l’Italia è ricchissima di caverne di questo genere, ma le più celebri del mondo  sono certamente quelle di Postumia, italiane fino all’ultima guerra, slovene dopo le spartizioni territoriali seguite alla pace. Le grotte di Postojna (questo è l’attuale nome) sono ancora meta di numerosissimi turisti. Sono tanto grandi che in esse si snoda una ferrovia a scartamento ridotto di ben tre chilometri. Ma a piedi se ne possono percorrere sei  e, tenendo conto dei numerosi canali secondari, si giunge ad un’estensione di oltre trenta chilometri.

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Bellezza delle Alpi Giulie

Le Alpi Giulie sono tra le più attraenti della nostra cerchia alpina. Due ardite ferrovie conducono al loro cuore, parallelamente a due grandi, magnifiche strade: la strada e la ferrovia del Canal di Ferro e quelle della Valle dell’Isonzo.
In questo estremo lembo orientale d’Italia sono profuse con magnifica prodigalità tutte le bellezze di cui si vanta l’Alpe, bellezze che dalla poesia mite e pastorale dei pascoli alti, vanno a quella solenne delle foreste, e da questa a quella tragica delle rupi nude e precipiti, erette sulle loro basi cinte di ghiaioni, superbamente sfidanti il vento e il sole. Le Giulie hanno in comune con le Dolomiti la costituzione; ma le loro valli sono profonde e selvagge, scarsamente collegate da passi, con altopiani di rocce nude, con nevai sperduti nel mare delle rocce calcaree. Forse manca loro la grandiosità delle masse montuose e la maestà delle nevi perenni, ma in compenso l’Alpe conserva intatta la sua fisionomia selvaggia, primordiale, fatta di pietra e di abeti, quieta e raccolta. Ogni valle ha i suoi monti posti a custodia, il suo torrente spumoso e sonante, le sue foreste. La Val Saisera ha il Montasio, la Val di Resia il Canin.
Ecco la Sella di Nevea, culla dell’alpinismo giuliano e tappa per le più belle vette delle Giulie, convegno di venti, splendore di pascoli verdi, dove germoglia rubescente il rododendro e spicca, flessibile al vento, l’azzurra genziana!
Ecco la vetta del Monte Nero, sacro alla gloria dei nostri Alpini; ecco la Valbruna, teatro di abeti e di pareti incombenti, chiusa nello sfondo da uno dei panorami più belli delle Alpi, nell’inverno, paradiso bianco dello sciatore. Ecco ancora la verde dovizia dei boschi di Pontebba, variati di pascoli alti e di baite, da dove si domina il Canal del Ferro smagliante di tinte e di contrasti, lungo il corso sonoro del torrente Fella.
(O. Samengo)

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Usanze, tradizioni, costumi

Feste e sagre si celebrano numerose nel Friuli. Ad Aquileia e Cividale si celebra, per l’Epifania, la Messa dello Spadone, durante la quale il diacono, riccamente vestito, e con l’elmo piumato sulla testa, saluta il popolo con un antico spadone, simbolo del tramontato potere temporale e militare dei Patriarchi (Vescovi, principi di quelle terre).
A Gemona viene celebrata ogni anno la sagra dei surisins (topolini). I quali topolini sono minuscoli razzi che, fischiando e scintillando, scivolano lungo un fil di ferro teso in una piazza di Borgo Villa, non senza staccarsi e finire in mezzo alla folla che si agita con ilare spavento.
A Comeglians, e anche in altri paesi, nella notte dell’Epifania, il cielo è solcato da cento meteore che ricadono sui clivi montani sprizzando scintille. Sono le cidulis ossia rotelle di faggio che un cidular arroventa al fuoco e scaglia lontano a mezzo di un bastone flessibile. Ad ogni cidula che vola nella notte, si grida il nome di una fanciulla del paese.

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La bora

La bora è un vento locale che raggiunge forza e velocità straordinarie. Quando essa soffia, si devono rafforzare gli ormeggi alle navi che sono nel porto. Nelle vie più battute cessa quasi del tutto il traffico degli autoveicoli. Quelli che devono forzatamente circolare sono guidati a fatica e fatti procedere a passo d’uomo. I pedoni si aggrappano a corde tese nei punti più flagellati da vento ed evitano, per quanto possono, di attraversare le strade e di avventurarsi nelle piazze aperte.
La rovinosità di questo vento dipende dal fatto che soffia rasente terra. Si tratta infatti di una corrente di aria fredda e secca che proviene da Nord Est. Essa, scontrandosi con l’aria mediterranea, più calda e leggera, la fa salire e poi scorrazza da padrona negli strati più bassi. La sua velocità raggiunge perfino i 200 orari.

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Trieste, città del mare

Non v’è forse altra città che viva in intima unione col mare come Trieste. Un lato della piazza maggiore è spalancata senza neppure il riparo di una balaustra, sull’infinita distesa abbagliante e per tutte le vie penetra da quella gran bocca, l’odore salso dell’onda. Nei giorni di tempesta i cavalloni, non impediti da alcun ostacolo, sormontano il breve dislivello e si riversano e si frangono contro le soglie marmoree dei fabbricati. Questa città, che allinea lungo intere contrade palazzi di favolosa ricchezza per ospitarvi banche, compagnie di navigazione, vive mescolata al suo mare come potrebbe un povero villaggio di pescatori. Il porto di Trieste offre uno spettacolo inebriante e sempre nuovo d’attività e di forza, coi suoi moli formicolanti di gente operosa, con la sua sfilata di magazzini, di cantieri navali, di opifici fumanti e sonanti, col suo andirivieni di navi giganteschi e minuscoli, col suo trascorrere di vele candide e gialle e rosse, coi suoi rapidi voli d’idroplani.
(G. De Agostini)

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La campana di Rovereto

E’ la sera del 2 novembre. Attraverso la radio si diffonde, in tutto il mondo, un suono lento, grave, solenne: Don!… Don!… Don!…
E’ la voce di Maria Dolens, la campana di Rovereto. Essa ci ricorda i caduti, tutti i caduti della guerra: italiani, francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi, slavi, giapponesi, americani… sono migliaia e migliaia di uomini che rivivono nel suono della campana. Quante cose dice al nostro cuore questo suono: “Pace!… Pace!… Pace!… Vogliatevi bene! Siate tutti fratelli!… Soltanto la pace può rendervi felici!”.
Questo ci dice la campana di Rovereto. I suoi mesti rintocchi si disperdono nell’aria ormai oscura della sera. Essi  si diffondono attraverso lo spazio, come un messaggio di pace e di amore fra tutti gli uomini di buona volontà.
(R. Dal Piaz)

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Il Carso

Ci sono cose nella Venezia Giulia che meritano di essere viste. Si tratta di grotte, di inghiottitoi, di doline: di curiosi fenomeni insomma che, appunto dal nome della regione, si chiamano fenomeni carsici.
La regione del Carso è formata da rocce calcaree assai tenere, porose e piene di fessure. Le acque piovane, filtrando attraverso le fessure, con l’andare dei secoli, le hanno allargate e si sono aperte nel sottosuolo gallerie, cunicoli e grandi cavità in cui esse scorrono come fiumi sotterranei. E’ avvenuto che molte di quelle acque circolanti nel sottosuolo, avendo trovato una nuova strada più breve e più profonda, hanno abbandonato le gallerie nelle quali prima scorrevano, lasciandole vuote. Queste gallerie abbandonate dalle acque sono appunto le grotte.
E’ assai interessante il penetrare e l’avventurarsi nell’interno di questi sotterranei. Dal soffitto penetrano e luccicano certe bizzarre concrezioni di roccia che si dicono stalattiti; dal pavimento sorgono altre concrezioni coniche dette stalagmiti e spesso le une e le altre congiunte insieme formano esili o poderose colonne. Le pareti qua e là sono rivestite,  si potrebbe anche dire adornate, di coltri, frange, panneggiamenti, anch’essi di roccia più o meno trasparente e variamente colorata.
(G. Assereto)

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Aquileia romana

Aquileia è una città ricca di storia e di preziose vestigia: ebbe due momenti di grande splendore sotto Augusto e nell’alto Medioevo. Maestose si levano nei suoi dintorni le rovine romane: uno splendido colonnato dell’antico foro si staglia contro il cielo e nel sepolcreto romano altri ruderi dell’antica Roma attirano l’attenzione dei visitatori.
Una raccolta di lapidi, anfore, urne, terrecotte, monete, si trova nel Museo Archeologico della città e gli scavi, nei dintorni, continuano.
Tra il verde ecco un’altra visione, questa volta medioevale: la grandiosa Basilica romanica costruita intorno all’anno 1.000: agile ed alto ben 73 metri, si leva, a fianco delle possenti mura, l’antico campanile.

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Una città come una stella

Una strana cittadina, Palmanova! Se tu la vedessi dall’aereo, ti apparirebbe come un’immensa stella a nove punte. Si tratta di un’antica città fortezza costruita da Venezia, contro le minacce sia dei Turchi, sia dell’Impero d’Asburgo.
Un particolare va ricordato: la cittadina fu fondata nel 1593, il 7 ottobre, anniversario (il ventiduesimo) d’una famosa battaglia navale contro i Turchi: la battaglia di Lepanto. La pianta di questa città è certamente una delle più belle esistenti in Italia: bastioni, casermette, torri, depositi costituiscono un poligono regolarissimo con diciotto lati: al centro c’è una piazza dove sorge il Duomo. Palmanova è nella pianura friulana, quasi a metà sulla via tra Udine ed Aquileia.

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IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture

IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia.

IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture
Le terre che Carlo Magno aveva distribuito a conti e marchesi di chiamavano feudi, e coloro che le avevano ricevute venivano chiamati col nome generico di feudatari.
Il possesso di un feudo durava quanto la vita del feudatario, e alla morte di quest’ultimo tornava sotto la diretta signoria dell’Imperatore.
Coloro che avevano ricevuto un feudo dall’imperatore divenivano suoi vassalli e, finché vivevano, potevano godere di tutti i prodotti della terra su cui governavano.
I vassalli, in cambio, giuravano fedeltà all’imperatore, avevano l’obbligo di versargli una parte delle ricchezze ricavate dal feudo e, in caso di necessità, di procurargli un dato numero di guerrieri.
Col tempo i vassalli ottennero di essere esonerati dal pagamento delle tasse e dall’arruolamento di guerrieri.
Infine, i feudatari più potenti, approfittando della debolezza di alcuni imperatori, ottennero che i loro feudi , da vitalizi, diventassero ereditari.
I vassalli, divenuti proprietari del loro feudo, ne assegnarono, a loro volta, una parte ad uomini loro fedeli che si chiamavano valvassori. Costoro avevano verso i feudatari gli stessi obblighi che i feudatari avevano verso l’imperatore. Col tempo, ottennero anch’essi che le loro terre, assegnate a vita, divenissero ereditarie. Talvolta anche i valvassori affidarono una parte delle loro terre ad altri: i valvassini.
La terra era lavorata di coloni e dai servi della gleba.
I coloni dovevano dare al signore una parte dei raccolti e lavorare gratuitamente per la manutenzione di strade, ponti, canali.
I servi della gleba (cioè i servi della terra) vivevano quasi come schiavi; non potevano sposarsi, né farsi religiosi, né cambiare mestiere, né trasferirsi altrove senza il consenso del padrone che, spesso, li tormentava con ogni sorta di prepotenze. In caso di vendita del fondo su cui lavoravano, i servi della gleba passavano in potere del nuovo padrone, come cose o animali.
La cerimonia con cui si consegnava un feudo a un vassallo si chiamava investitura. Essa avveniva alla presenza di tutti i maggiori dignitari dell’Impero.
Il vassallo, in ginocchio, poneva le mani nelle mani dell’imperatore giurandogli fedeltà. L’imperatore, allora, se il feudo era una marca, gli consegnava una spada per ricordargli che doveva essere pronto a difendere con le armi quanto gli era stato affidato; se invece si trattava di una contea, gli offriva una zolla di terra o un mannello di spighe.
I feudi, divenuti ereditari, spettavano sempre al figlio primogenito. Gli altri figli si avviavano alla vita ecclesiastica o, ricevuti dal padre un’armatura e un cavallo, cercano gloria e fortuna combattendo per i potenti. Dapprima i cavalieri, ammirando soltanto la forza, si mostrarono intrepidi e crudeli. Poi, per merito della Chiesa, che predicava l’amore per il prossimo, divennero generosi, onesti, e si dedicarono alla difesa dei deboli e degli oppressi.

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Per il lavoro di ricerca

Che cosa erano i feudi e come si chiamavano gli assegnatari?
Di che cosa poteva godere il vassallo?
Quali obblighi aveva verso l’imperatore?
Chi erano i valvassori e i valvassini?
Chi erano  i coloni e i servi della gleba?
Come erano considerati questi ultimi?
Che cos’era l’investitura a vassallo?
Come avveniva?
Chi erano i cavalieri e come dovevano comportarsi?
Come si svolgeva la giornata del castellano?
Quali erano i costumi feudali?
Quale era la cerimonia dell’armamento di un cavaliere?
Come ci si comportava a tavola nell’epoca medioevale? E quali erano i cibi?
Come si faceva la toletta quotidiana?
Esistono ancora molti castelli in Italia; cerca, se possibile, di visitarne uno e osserva la sua struttura caratteristica (il ponte levatoio, il fossato, le torri, il torrione, ecc..); cerca di spiegarti perchè mai sia stato costruito così in alto; procura infine di disegnare un castello, magari servendoti di un’illustrazione.
Visita qualche museo o ricerca delle illustrazioni che raffigurino le armi e le armature dei soldati di questo periodo.
Le case dei servi della gleba sorgevano ai piedi del castello. Perchè?
Come e cosa mangiavano i nobili signori del Castello?
Quali divertimenti avevano i feudatari?
Procura di conoscere i particolari della cerimonia detta dell’investitura e poi, con l’aiuto di qualche amico, prepara una scenetta da recitare in classe.
Chi erano i Cavalieri?
Quale scopo si prefiggeva la Cavalleria?
Quale carriera doveva seguire un giovane prima di essere nominato cavaliere?

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Il borgo

Il feudatario viveva nel castello. Intorno ad esso sorgeva il borgo, cioè l’insieme delle umili abitazioni degli artigiani e dei servi della gleba. Gli uni fornivano al feudatario i prodotti agricoli, gli altri (tessitori, sarti, calzolai, falegnami, fabbri) gli oggetti indispensabili alla sua vita  e a quella dei suoi soldati e servitori. In caso di guerra, gli abitanti del borgo si rifugiavano nel castello.

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Potenza dei feudatari

Il feudo aveva tre elementi costitutivi: il beneficio, cioè la concessione del territorio, fatta dal re; il Vassallaggio, ossia l’assunzione degli obblighi verso il sovrano da parte del feudatario; l’immunità, cioè praticamente una sempre maggiore indipendenza del feudatario nei confronti del re. A questi elementi venne ad aggiungersi anche l’ereditarietà. Dopo la morte di Carlo Magno, infatti, i grandi feudatari esercitarono  fortissime pressioni per ottenere che, alla loro morte, i territori da essi amministrati, anziché tornare al re, passassero in eredità ai loro figli.
Carlo il Calvo, uno degli imbelli sovrani succeduti a Carlo Magno, finì col cedere a questa richiesta e nel Capitolare di Kiersy dell’anno 877 dichiarò di riconoscere ed accettare il principio dell’ereditarietà. I feudi divennero gradatamente sempre più potenti e indipendenti, e formarono veri e propri stati negli stessi  confini del regno. I potenti feudatari vivevano nei loro Castelli turriti che, dapprima non furono che semplici fortezze, ma vennero col tempo a trasformarsi in comode e splendide dimore, centri di vita economica, sociale e culturale.

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Omaggio e investitura

L’investitura era la cerimonia simbolica con la quale veniva stabilito il contratto feudale: in origine, il vassallo si chinava ai piedi del signore e, mettendo e sue mani nelle mani di lui, gli si dichiarava vassallo. Questo atto era detto omaggio: a sua volta, il signore lo sollevava e lo baciava sulla bocca; seguiva un giuramento di fedeltà, poi il signore gli  consegnava un simbolo della terra datagli in feudo: la spada, per difenderla,  oppure un ramo, un mazzo di spighe, una zolla.

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La vita nell’epoca feudale

Nell’epoca feudale le città sono in piena decadenza: vi vivevano piccoli commercianti ed artigiani, povera gente gelosa della libertà, ma senza difesa e soggetta a tutte le angherie degli eserciti che passavano. Anche le città facevano parte del feudo, ma erano generalmente trascurate dai signori, perchè il centro della vita feudale era il castello; vi aveva invece una certa importanza il Vescovo.
Il castello, in cui risiedeva il feudatario, era costruito in posizione dominante e facilmente difendibile. La massiccia costruzione era cinta di mura poderose, orlate alla sommità di merli che servivano di riparo ai combattenti. Intorno vi correva un fossato, pieno di acqua, su cui si abbassavano uno o più ponti levatoi: in caso di difesa essi venivano alzati, in modo da impedire ogni passaggio verso l’interno del fortilizio.
All’interno vi erano ampi cortili su cui si aprivano le abitazioni, i magazzini, le scuderie, gli altri locali adibiti a vari usi. Le stanze erano vaste ma disadorne e piuttosto oscure. Solo in seguito le dimore signorili si abbellirono di ornamenti, oltre che di trofei di caccia e di guerra, e divennero più comode e perfino lussuose. Il castello è un poco il simbolo della vita aspra e violenta dell’età feudale.
La guerra, la preda, il saccheggio, le incursioni nei territori nemici erano quasi consuetudini. La forza fisica, il coraggio, l’abilità di maneggiare le pesanti armi erano le doti più considerate.
La caccia era insieme un divertimento e un mezzo per procacciarsi la selvaggina per i banchetti del castello.
Non vi erano altri divertimenti che i tornei, combattimenti simulati tra guerrieri o tra gruppi, i conviti e le gagliarde bevute; si assisteva talora ai lazzi ed agli esercizi di giullari o si ascoltavano i canti d’amore e di guerra dei trovatori.
Una cerimonia solenne della vita feudale era l’investitura. Il signore alla presenza della sua corte riunita riceveva l’atto di omaggio del vassallo e il giuramento di fedeltà; poi lo investiva del feudo, cioè gli conferiva i diritti sul territorio, consegnandogli un simbolo: una spada, un anelo, un gonfalone o, se il feudo era modesto, un fascio di spighe o anche una zolla.
La povera gente viveva in capanne o in squallide dimore poste nelle immediate vicinanze del castello, in cui si rifugiava quando si avvicinava la minaccia della guerra.
Attività fondamentale era l’agricoltura, praticata in grandi proprietà, che avevano per centro il castello o la curtis (cioè la fattoria con le abitazioni, le stalle, i fienili, i magazzini, i mulini e tutto quanto occorreva). In esse si produceva quello che era necessario alla vita degli abitanti: al di fuori si comperava ben poco, solo qualche prodotto essenziale come l’olio o il sale, e ben poco si andava a vendere alle fiere e ai mercati che periodicamente si tenevano in certe località.
Per questo, ed anche per la mancanza di vie di comunicazione e per i continui atti di brigantaggio, i traffici erano scarsissimi.
Il feudo era un mondo chiuso che bastava a se stesso.
(C. Bini)

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Il castello

Il feudalesimo è l’età dei castelli. Massicci e ben fortificati, essi sorgono per lo più in luoghi naturalmente difesi, sulle alture da cui dominano la piana sottostante, all’imbocco di gole montane  o presso un ponte o negli incroci delle vie più battute, per obbligare i passanti a pagare pedaggi e tributi per il trasporto delle merci.
Varie cerchia di mura merlate, con torri e porte, cingevano il castello. Esternamente e tra una cerchia di mura e l’altra, correvano larghi fossati sormontati da ponti levatoi. Alte torri fiancheggiavano l’edificio, da cui spiare le mosse del nemico e scagliare dardi e pietre sugli assalitori: poche e strette feritoie si aprivano nelle mura esterne.
Oltrepassato il ponte levatoio si giungeva nel cortile del castello al cui centro, generalmente, c’era un pozzo.
Tutto attorno al cortile si aprivano le porte della scuderia; dell’armeria, piena di corazze, di spade, di lance, di archi e di scudi; della cucina, ampissima e annerita dal fumo; degli alloggi per la servitù e, infine, quelle della cappella.
Una scala conduceva al piano superiore, dove’erano le stanze del feudatario e dei suoi familiari. Le pareti degli ampi locali erano generalmente coperte da arazzi e da affreschi. Il pavimento, invece, era di semplice pietra.
I mobili, scarsi e poco comodi, consistevano in grandi cassoni di legno scolpito, dove venivano riposti gli abiti; in sedie rigide e dure con alti schienali; in tavoli robusti.
Per la pulizia del mattino, nelle camera da letto si trovava soltanto una bacinella sorretta da un treppiede di ferro o di legno.
Le stanze non erano luminose poichè le finestre, per ragioni di difesa e per il costo dei vetri, erano assai piccole.
Al calar del sole di infilavano in appositi anelli, fissati alle pareti, grosse torce resinose che illuminavano le sale di una luce rossastra e incerta.
Nella stagione invernale l’unico mezzo di riscaldamento era costituito da immensi camini, il cui calore si disperdeva nei vasti saloni.
Nel castello si rendeva giustizia e si tenevano i prigionieri; spesso sotterranee, tetre e umide erano le carceri, presso le quali era la camera di tortura.
Dentro il castello si rifugiavano i contadini, quando le loro terre erano invase.
Nel castello feudale si distinguono tre parti: la cinta, il mastio (che avevano entrambi scopi di difesa) e il palazzo dove abitava il signore.
La cinta era in muratura, con torri agli angoli. Si ebbero anche due o tre mura di cinta; la più esterna racchiudeva il borgo.
Dopo il secolo III, specie nei castelli di pianura, comparve il fossato, col ponte levatoio.
Il mastio era la torre più alta che sorvegliava tutta la cinta, e in cui ci si asserragliava per l’ultima difesa. Il palazzo comprendeva la sala delle udienze, le stanze del feudatario, affacciate sul grande cortile interno, le camere dei cortigiani e della servitù, le cucine e le scuderie.
Nei sotterranei vi erano le prigioni ed i magazzini.

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Vita nel castello

Nelle lunghe serate invernali, non appena le prime ombre battono ai vetri a piombo filato delle finestre, nella sala oscura si accendono le lucerne ad olio; la cena è pronta ed il signore, la madonna, i figli e gli ospiti si seggono a tavola. Subito dopo, la famiglia si riunisce sotto la cappa del vasto camino e al riverbero della fiamma, recita la preghiera. Fatto il segno della croce, il signore si alza e si avvia verso le sue stanze; i familiari lo seguono; la fumosa fiamma della lucerna scompare davanti a loro e il buio si fa più denso, il silenzio più profondo; il castello si addormenta.
Nei profumati pomeriggi di primavera, invece, tutta la famiglia si raccoglie sul verziere e, fra risa e canti, si intrattiene in lieti passatempi, in dolci novellari. Spesso i giovani escono e sul sagrato della chiesa o sul largo spiazzo del castello, danzano il trescone.  E’ in questo tempo che il giocoliere bussa alla porta del castello: la famiglia accorre, gli fa festa ed egli, al suono di un vecchio strumento musicale, fa ballare l’orso e la bertuccia.
La sera il giocoliere, con raffinata arte immaginativa, racconta ai familiari le proprie avventure: parla di luoghi lontani e meravigliosi, di imprese leggendarie ed eroiche, di ricchezze favolose, di tragedie sinistre; sorride e freme la famiglia a quel parlare.

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La sentinella

Sulla torre più alta del castello stava di guardia una sentinella che doveva sempre vigilare, particolarmente di notte.
Per resistere al sonno, la sentinella scambiava ogni tanto un grido con i soldati di guardia in altre parti del castello.
Un gridava: “Sentinella all’erta!” e l’altro rispondeva: “All’erta sto!”.
Di giorno la sentinella segnalava l’arrivo di estranei, fossero essi amici o nemici.

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Il saluto

Quando nel castello entrava un cavaliere, si toglieva l’elmo per dimostrare le sue intenzioni pacifiche e soprattutto la sua certezza di non essere tradito.
Tale uso passò nell’esercito: ma poichè un soldato non poteva mai presentarsi disarmato, i guerrieri medioevali, trovandosi di fronte ad un loro superiore, non si toglievano l’elmo ma sollevavano la visiera scoprendo il volto. La consuetudine di portare la mano alla fronte, quasi per alzare un’immaginaria visiera, sussiste ancora oggi.

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La guerra

Quando il feudatario doveva partecipare alle guerre intraprese dall’imperatore, conduceva con sé un certo numero di guerrieri. A guardia del castello rimanevano allora pochi soldati, i servitori e gli umili abitanti del borgo. Altre volte la guerra scoppiava fra due o più feudatari: allora il più forte invadeva i territori dell’avversario, ne devastava i raccolti e, infine, assaliva il castello.

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La tecnica dell’assedio

L’assalto a un castello si svolgeva generalmente second una tecnica fissa. Una prima fase consisteva nel circondare completamente il castello, con la cavalleria, per impedire agli assediati ogni possibilità di fuga. Seguiva il bombardamento con le macchine da lancio: mangani e trabucchi; in questo modo di cercava di smantellare le difese dell’avversario e di danneggiare le sue macchine belliche, per preparare le condizioni adatte al vero e proprio assalto.
L’assalto veniva preceduto dal tentativo di colmare il fossato; a questo scopo molti uomini correvano fin sul ciglio, vi gettavano delle fascine e poi si ritiravano precipitosamente, per evitare le pietre, le sostanze infuocate e le frecce che i difensori lanciavano su di loro. Ripetendo molte volte questa manovra, si poteva creare un passaggio attraverso il fossato per le truppe di assalto che dovevano tentare la scalata delle mura servendosi di lunghe scale. La loro azione era coadiuvata dalle torri mobili, dall’alto delle quali si potevano colpire i difensori delle mura molto meglio che dal basso.

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La tecnica difensiva

E i difensori? Non restava loro che cercare di distruggere o di incendiare le macchine nemiche, lanciando pietre e sostanze incendiarie. A quelli che tentavano la scalata delle mura, riservavano una speciale accoglienza, a base di pentoloni di pece e di olio bollente.
Se con l’uso di questi mezzi o con qualche audace sortita notturna non riuscivano a piegare la volontà degli aggressori, i difensori di un castello assediato mantenevano ben poche speranze di salvezza. Se non volevano arrendersi, dovevano prepararsi all’ultima disperata difesa nel mastio,la costruzione centrale del castello, nella quale si sarebbero asserragliati quando le mura e i cortili fossero caduti in mano al nemico.

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Vita feudale

Appena dalle alte torri si avvistava l’approssimarsi di un attacco nemico, i popolani del borgo entravano nel cortile, si alzava il ponte levatoio e il castello restava isolato dal profondo fossato che gli attaccanti cercavano di superare con ponti mobili. Dalle mura fioccavano frecce, sassi, olio bollente e qualsiasi cosa potesse colpire gli attaccanti, che tentavano di salire con scale a pioli.
In tempo di pace, il castello era ugualmente luogo di raccolta dei borghigiani. Nell’interno, non mancava mai la cappella. Nei giorni in cui il cortile si trasformava in mercato, vi convenivano non solo i mercanti della regione, ma  anche i venditori ambulanti che arrivavano da lontano; questi accorrevano specialmente nei castelli dove il Barone aveva appeso il proprio sudo con lo stemma di famiglia nel cortile o sulle mura: questo significava che aveva sfidato altri Baroni a una giostra cortese e, in occasione di tali spettacoli, arrivavano sempre persone in vena di… spendere, e gli ambulanti facevano buoni affari. Oltre alle giostre d’armi, i Baroni organizzavano grandi battute di caccia, nelle quali mettevano in mostra non solo la loro abilità nel cavalcare, ma anche quella dei cani e degli uccelli rapaci, come falchi e astori, addestrati a catturare la selvaggina. Nella caccia, la preda preferita era il cervo. Quando la cattiva stagione non permetteva di divertirsi all’aperto, il Barone invitava i suoi amici nobili a banchetto nella grande sala del castello, l’unica ad essere riscaldata, perchè il fuoco era sempre acceso nel caminetto. Durante i banchetti, si divoravano enormi arrosti e si rideva ai lazzi dei giocolieri; lo spettacolo più gradito era quello offerto dai giullari che cantavano le avventure dei Paladini di Carlo Magno o le vicende dei Cavalieri della corte inglese di Re Artù. Oltre ai giullari, nei castelli vennero in seguito i trovatori e i menestrelli esperti nel comporre e nel cantare canzoni d’amore in onore delle belle dame. A tavola, I Baroni si divertivano anche con le pesanti coppe di metallo: per mettere in mostra la loro forza afferravano in due una coppa colma di vino alla quale l’uno e l’altro cercavano di bere tirandola a sé. Una specie di braccio di ferro, insomma.
Nel castello non esisteva un bagno. Solo in casi… eccezionali (perchè di diceva che la pulizia togliesse la forza), il Barone si lavava in un mastello di legno.
La castellana aveva anche il compito particolare di prendere e uccidere i pidocchi e le pulci che infestavano il Barone. Purtroppo, con Carlo Magno non era scomparsa solo la grandezza dell’Impero Carolingio, ma anche la bella abitudine di fare spesso il bagno!

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La giornata di un castellano

Appena vestito, il Castellano fa le prime devozioni prostrato all’inginocchiatoio, e la Castellana nel piccolo oratorio adiacente alla sua camera. Poi tutta la famiglia si raccoglie ad ascoltare la messa nella ricca e fastosa cappella, celebrata da un religioso che risiede nel castello. Dopo di che la Castellana dà una prima capatina alle cucine, e il Signore alle scuderie o alla sala d’armi, dove attende ad armeggiare col figliolo, o con gli ospiti, o con gli scudieri. Le figlie girellano intanto nel giardino, cogliendo fiori.
Alle dieci della mattina uno squillo di corno annuncia il pasto. Anche nei giorni ordinari vengono serviti molti e grassi piatti: carne di bue, di cinghiale, di montone, di capriolo, galline, fagiani e via dicendo, condite con salse piccanti, tutte aromi e pizzicorini mordenti come pepe, chiodi di garofano, cannella, ginepro, ambra, benzoino, noce moscata, anice, ed altre nostrane ed orientali delizie, sulle quali primeggiano l’aglio e la cipolla.
Dopo il pranzo, che è protratto il più lungamente possibile, il Signore fa la siesta; i fanciulli, dopo essersi dedicati ad alcuni esercizi sportivi, riparano col pedagogo nella stanza degli studi. La Castellana e le figlie si ritirano nelle loro camere, ove attendono, nella speranza di qualche visita, ad adornarsi.
Quando capitano visite, o vi sono ospiti in casa, verso le due tutti convengono in giardino o nel parlatorio, e là si trattengono mangiando dolci e bevendo. Vengo serviti rosolio, marmellata, e perfino uccelletti arrosto, oltre alla migliore frutta della stagione. La Castellana appresta canzonieri scelti ed ogni sorta di strumenti musicali, e si canta e si suona fino all’ora della cena, che avviene tra le quattro e le cinque pomeridiane ed è il pasto principale della giornata.
Venuta la sera, il Castellano si riduce accanto al fuoco in sonnecchioso silenzio, e le dame, fatte alcune lente danze al fioco chiarore delle fumose lucerne, prima novellano alquanto tra di loro, indi recitano in cerchio le preghiere, ed il cappellano dà loro lo spunto. Poi i valletti mescono al padrone il vino del sonno, quindi i Castellani, augurata la buona notte, seguiti dai rispettivi servi, si recano a dormire.
(G. Giacosa)

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Occupazione di una castellana

La ragazza che andava sposa ad un feudatario, passava improvvisamente dallo stato di soggezione che aveva subito come figlia ad una posizione di attività ed importanza. Essa non era affatto la schiava del marito, ma la sua consigliera e la sua fedele collaboratrice. Gli interessi del marito diventavano la sua preoccupazione principale e ad essi sacrificava anche l’accudimento e l’educazione dei figli, che erano affidati a delle nutrici. La castellana era più moglie e padrona che madre.
Organizzava tutto il necessario per nutrire e vestire gli abitanti del castello; era questo un lavoro che occupava un’intera vita e richiedeva abilità di attenta amministratrice. Quello che era necessario per una casa non poteva essere acquistato come oggi con una rapida spesa in negozio: ciò che non veniva fornito dai campi doveva essere ordinato molto tempo prima là dove lo si poteva trovare e nella quantità necessaria.
Inoltre la castellana doveva curare la conservazione delle carni, della cacciagione e dei pesci e assicurare la legna per i caminetti e per la cucina. Era anche la signora che dirigeva i lavori di filatura della lana, di tessitura delle stoffe e di manifattura dei vestiti, che veniva eseguita dalle domestiche e dalle contadine.
(G. M. Trevelyan)

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La caccia

Il feudatario, fosse o non fosse leale nei confronti del suo re, viveva essenzialmente per la guerra; e si teneva pronto, da un giorno all’altro a lasciare il suo castello ed a partire con i suoi più fedeli cavalieri a combattere. Quando, tuttavia, non v’era guerra, i suoi divertimenti prediletti erano altrettanto rudi: la caccia o il torneo.
Se la caccia allietava il signore, essa era, per i miseri servi della gleba, un vero flagello. Per inseguire un cervo in fuga, o per catturare cinghiali, i cacciatori non esitavano di solito a lanciarsi, a cavallo, attraverso i campi coltivati con lunga ed assidua fatica, distruggendo gran parte delle colture. La caccia era rigorosamente riservata al signore, e pene gravissime erano comminate per chi osasse abbattere un qualsiasi capo di selvaggina. Più tardi, anche ai contadini fu permesso cacciare, ed il codice di nobiltà feudale distingueva gli animali in nobili ed ignobili. I primi, riservati ai signori, erano il cervo, l’alce, il capriolo e la lepre; i secondi, che potevano essere cacciati anche dai contadini: il lupo, la volpe, il cinghiale e la lince.
La caccia dava occasione a festosi raduni, a grandi cavalcate, a lotte avventurose con le belve (orsi, lupi, cinghiali) che allora non mancavano nei boschi. Una forma di caccia più tranquilla ed elegante, praticata anche dalle dame e dalle damigelle, era la falconeria, cioè l’arte di dar la caccia agli uccelli servendosi di falconi addestrati in modo particolare. Questo addestramento era opera di specialisti, ma gli stessi signori vi spendevano molto tempo.
Il cacciatore o la cacciatrice portavano il falcone sul polso avvolto in un guanto di cuoio. Appena avvistava la preda, il falcone si lanciava a volo, uccideva e tornava a posarsi sulla mano aperta del padrone che lo attendeva. I signori più ricchi tenevano costose collezioni di uccelli da caccia, non soltanto falconi, e schiere di falconieri addetti al loro addestramento.
Il signore e la signora amavano tenere con sé il falcone preferito anche durante le conversazioni. Alcune dame se lo portavano perfino in chiesa, appollaiato sul polso. L’imperatore Federico II compose un famoso trattato sull’arte della falconeria.
Ancora oggi talune popolazioni nordiche vanno a caccia con l’aquila: in Estremo Oriente si va ancora a pesca col cormorano.

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La caccia: passatempo e necessità

La caccia tanto celebrata dai poeti non è tanto un passatempo della nobiltà, quale si rispecchia nella poesia cavalleresca del Medioevo, quanto una necessità di carattere economico.
L’allevamento del bestiame da macello non era sufficiente per coprire il fabbisogno: perciò si andava nei boschi a procacciarsi la carne.
Le risorse di grossa selvaggina erano così abbondanti, che in una buona partita di caccia ci si poteva rifornire per molte settimane.
Più di tutto abbondavano i cinghiali; anche gli orsi si trovavano, e ancora oggi si trovano, in tutte le parti d’Europa; non occorrevano lunghi appostamenti per cervi e caprioli, e quanto ai volatili ce n’era a volontà.
Ma i cacciatori procedettero con tanto impegno che dopo un paio di secoli una buona parte della selvaggina era sterminata.
Gli europei del Medioevo mangiavano molta carne. L’alimentazione dei poveri era invero pregiudicata spesso dalle necessità della guerra o dalla scarsità dei raccolti, ma in tempi di pace era relativamente buona. Poiché c’erano poche grandi città, ai contadini rimaneva più roba.
(Morus)

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Il torneo

Il torneo è il gioco che si avvicina di più alla guerra. Perciò, quando si offre l’occasione di prendere parte a una di queste feste, che vengono annunciate con molto anticipo a suon di tromba, il signore non le perde. Eppure, la partecipazione a un torneo è costosissima. Molti signori si rovinano, volendo gareggiare in lusso con quelli che sono più ricchi. Infatti, bisogna comprare una lancia con gli stemmi, uno scudo con il blasone del signore che permetta agli spettatori di riconoscerlo anche quando ha abbassato la visiera dell’elmo, un’armatura nuova e una bardatura di lusso per il cavallo…
Alla vigilia dell’incontro, la città nella quale sta per avere luogo il torneo è illuminata. Gli scudi dei combattenti sono appesi davanti alle case dove essi sono alloggiati. Al suono delle trombe ha inizio, attraverso la città, la sfilata dei cavalieri che prenderanno parte al torneo.
Il giorno dopo, un tratto di strada viene chiuso da barriere perchè serva da campo di battaglia. L’acciottolato viene coperto di paglia e di sabbia; tutte le finestre delle case che fiancheggiano questa lizza traboccano di spettatori. Coloro che non sono stati ammessi ai posti d’onore si ammassano dietro le barriere. L’araldo annuncia con voce squillante il nome dei combattenti che entrano in quel momento dai due lati opposti della lizza. Essi fermano per un istante la cavalcatura, salutano con la lancia le nobili dame e attendono il segnale della tromba. Risuona un breve squillo. Gli avversari speronano il corsiero e si dirigono l’uno verso l’altro con la lancia stretta sotto il gomito destro e lo scudo appeso al braccio sinistro che serve loro contemporaneamente per guidare la bestia. Quando si scontrano verso la metà del percorso, un colpo sordo risuona. Spesso uno dei due avversari viene buttato a gambe all’aria e va a rotolare nella polvere, oppure le due lance si rompono e i due cavalieri trasportati dal loro slancio continuano la corsa fino all’estremità della lizza; qui si voltano subito, per ricominciare una nuova carica con un’altra lancia che uno scudiero presenta loro.
I tornei offrono a quelli che sono abili giostratori anche una possibilità di… guadagno, oltre al piacere di battersi e di riportare una vittoria davanti a una brillante assemblea di dame e di signori. Il vincitore, infatti, si può impossessare dell’equipaggiamento e del cavallo del vinto: talvolta, anche della persona e gli restituisce la libertà solo a prezzo di un forte riscatto.

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La giustizia durante l’età feudale

Allorché un accusato non aveva altro modo per provare la propria innocenza, ricorreva al giudizio di dio, certi com’erano gli uomini di quei tempi che dio avrebbe aumentato le forze dell’innocente e diminuite quelle del colpevole. Il duello era il più diffuso tra i giudizi di dio: dei due duellanti il vincitore era l’innocente o colui che aveva ragione in una vertenza.
Altro giudizio era la prova dell’acqua: se l’acqua era bollente, l’accusato doveva immergervi un braccio senza scottarsi; se era fredda, l’imputato doveva tuffarcisi dentro (si trattava di un tino molto più alto di lui) senza toccare il fondo ma galleggiando.
Se le prove non riuscivano egli era colpevole.
La prova del fuoco in un certo senso era simile a quella dell’acqua bollente: l’accusato doveva portare per tre metri una massa di ferro rovente fra le mani; poi il sacerdote gli congiungeva le mani, le fasciava e vi poneva il proprio sigillo: dopo tre giorni, se vi erano scottature era colpevole.
Altre prove del fuoco consistevano nel camminare su lastre roventi o di passare fra cataste ardenti, per un pertugio ampio poco più di mezzo metro.
(C. Bini)

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Alcune pene per  i colpevoli

Nel Medioevo la pena di morte era comminata frequentemente e talvolta per delitti che oggi avrebbero un castigo assai lieve; ma il modo di vedere le cose, in quei tempi, era assai dissimile da quello moderno, e soprattutto vigeva il criterio, in epoche così torbide e malsicure, di reprimere certi delitti molto frequenti e facilitati dalla situazione. La pena di morte veniva applicata con la decapitazione, con l’impiccagione, lo squartamento, l’annegamento e con altri barbari sistemi, il più crudele dei quali era il seppellimento da vivi, inflitto agli omicidi.
Un castigo diffusissimo era la berlina, che consisteva nell’esporre al pubblico dileggio il condannato, in vari modi.
Il tratto di corda, cioè una barbara fustigazione, serviva soprattutto a strappare le confessioni del reo; ma molto spesso confessavano anche gli innocenti!
Gli ecclesiastici erano duramente colpiti; a loro era riservata la gabbia, in cui venivano chiusi come uccelli ed esposti alle intemperie anche per anni, mentre venivano nutriti a pane e acqua.
Si praticavano anche le mutilazioni e la marchiatura a fuoco.

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I servi della gleba

Mentre, al tempo di Augusto, tutti erano contenti di far parte dell’impero romano, perchè in esso vi era pace e sicurezza, a poco a poco, col passare del tempo e con l’aumentare delle tasse, le popolazioni si sentivano schiave ed oppresse.
Le città si spopolavano perchè, per la povertà della gente, non si potevano più fare buoni commerci. La gente si rifugiava nelle campagne e nei boschi, per nascondersi ai funzionari dello stato. Molti plebei chiedevano protezione a qualche ricco proprietario, che dava loro un po’ di terra da coltivare, li aiutava a pagare le tasse per loro.  In cambio questi plebei lavoravano anche le terre del padrone e si impegnavano a non abbandonarle mai. Essi diventavano, insomma, quasi schiavi: venivano chiamati servi della gleba, che vuol dire servi della zolla, cioè della terra.
E intanto i barbari si stringevano sempre più intorno ai confini, si infiltravano dentro, dovunque il confine non era ben custodito.
Circondato dai nemici, oppresso dalla povertà, l’impero sembrava una grande barca sul punto di affondare.

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Le tasse del contadino

Il contadino feudale era ricco solo… di tasse. In denaro aveva tre tasse annue: una modesta tassa annua, per persona, al governo, cioè al re; un modesto affitto per la casa e l’orto al signore; un’imposta richiesta una o più volte l’anno dal signore.
Inoltre il contadino aveva questi obblighi: offrire al signore, ogni anno, un decimo del raccolto agricolo o del bestiame; lavorare gratis per il signore un certo numero di giorni l’anno; doveva macinare il grano, cuocere il pane, pigiare l’uva, ecc. sempre nel castello e usando le attrezzature del signore (naturalmente pagava per ogni cosa); pagare per avere il diritto di pescare, di cacciare e di pascolare le bestie nelle terre del signore; pagare quando il signore gli rendeva giustizia in tribunale; servire nella milizia del signore in caso di guerra; contribuire a pagare la somma del riscatto se il signore cadeva prigioniero; offrire ricchi doni al figlio del signore quando veniva fatto cavaliere; pagare al signore una tassa per ogni merce che vendeva nei mercati viciniori; aspettare a vendere il suo vino (o la sua birra, o qualche altro prodotto) finché il signore non avesse venduto il proprio; pagare una multa se intendeva far studiare, o mandare in seminario un figlio, perchè il castello perdeva un uomo; pagare una multa se sposava una persona appartenente ad un altro castello e poi si trasferiva; pagare una decima annua alla Chiesa.
Tutto ciò può sembrare gravosissimo, ai nostri occhi. Ma va tenuto conto di alcune cose: mai il contadino era tenuto a tutte insieme queste prestazioni, ma solo ad alcune tra esse, a seconda dei casi. Inoltre, non aveva altre spese, e il signore doveva provvedere alla difesa, alle opere pubbliche, in certi casi alle spese connesse con l’agricoltura (sementi, qualche volta attrezzi, bestiame selezionato da riproduzione), e spesso anche l’obbligo di assistere il colono in caso di malattia o di vecchiaia: questo specialmente per i feudi tenuti da ecclesiastici.
In definitiva, è stato calcolato che riguardo al guadagno medio, le tasse che doveva pagare il colono feudale erano meno gravose di quelle che noi paghiamo oggi.

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Nel castello feudale

Un grande castello era come un piccolo mondo. Nel vasti cortili erano le dimore degli armigeri e dei servi, grandi cisterne, magazzini e botteghe per gli armaioli, i macellai e i fornai.
Nulla vi mancava: dalla cappella alle immense cucine con ampi e bassi camini; dalla sala del trono, nella quale il feudatario rendeva giustizia, al carcere tetro e sotterraneo.
Gli uomini che abitavano queste solitarie dimore, quando non erano in guerra, cercavano distrazioni nella caccia, negli esercizi cavallereschi e nei tornei.
I tornei si bandivano per lo più in occasione di feste religiose, di incoronazioni o matrimoni di principi e di trattati di pace.
Era molto gradito l’arrivo di qualche poeta (trovatore) il quale cantava le tragiche avventure di qualche dama o di qualche barone, o le meravigliose imprese dei paladini di Carlo Magno.
Lauti banchetti talora si protraevano per giorni e settimane con feste e baldorie.

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Il torneo

I tornei erano grandiose feste d’armi in cui coppie o squadre di cavalieri si assalivano dentro un recinto, contendendosi la vittoria. I cavalieri scendevano in campo rivestiti di armature. Tre squilli di tromba davano il segnale dell’assalto e subito i combattenti si slanciavano l’un contro l’altro, usando lance, spade, mazze.
Quando i giudici ritenevano sufficiente la prova lanciavano in mezzo ai cavalieri un bastone, per significare che la giostra era finita; poi proclamavano solennemente il nome del vincitore, che riceveva il premio dalle mani di qualche dama eletta regina del torneo.

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Banchetti medioevali

Guardando certe miniature o certi quadri che rappresentano scene di banchetti medioevali siamo generalmente colpiti dallo sfarzo del vasellame e delle vesti, dall’allegria e dalla vivacità dei commensali.
Non vi siete mai chiesti quali profumati e appetitosi piatti potessero comparire su quelle mense?
Gli uomini del Medioevo non avevano certo a disposizione la varietà e la quantità di cibi che abbiamo noi, oggi che le comunicazioni con tutto il resto del mondo ci permettono di avere sul nostro tavolo cibi provenienti dai più lontani paesi e basta entrare in un negozio per trovare quanto ci occorre. Abbiamo più volte osservato che, se in quell’epoca la caccia era tanto di moda, lo era non solo come… passatempo, ma perchè permetteva, anche ai signori, di unire l’utile (la selvaggina) al dilettevole (occupare gradevolmente le molte ore della giornata).
Vediamo dunque che cosa avevano gli uomini del Medioevo a disposizione del loro… appetito.
Quanto ai cereali, grano, segale, orzo e riso continuavano ad essere coltivati, come nell’antichità. Anzi, nei paesi occupati dagli Arabi queste colture rifioriscono, perchè gli Arabi sono maestri nell’arte dell’irrigazione. Ci sono zone della Spagna, dal suolo arido, che essi trasformarono in veri giardini: ancora oggi quelle zone conservano il nome di huertas, cioè “orti”.
Anche per la trebbiatura, fatta nei nostri paesi battendo le spighe con cinghie e corregge, gli Arabi si mostrano all’avanguardia. Essi trascinano, sulle spighe tagliate, speciali macchine fornite di rulli, allo scopo di separare i chicchi dalla paglia. E’ merito degli Arabi anche l’introduzione nell’Africa del Nord di una specie di grano a chicco duro che, una volta macinato, dà la semola, farina che più tardi sarà particolarmente indicata per la fabbricazione delle paste alimentari.
Il grano saraceno, o grano nero, viene anch’esso dalla Tartaria e dalla Russia, giungendo fino in Bretagna e in Normandia dove ancora viene coltivato, così come da noi in alcune vallate alpine, per farne frittelle o, come in quel di Sondrio, la polenta taragna.
La patata è ancora assente dalle tavole del vecchio mondo, dove avrebbe potuto bene impedire molte carestie… A quei tempi essa è conosciuta solo nel suo paese d’origine, la Cordigliera delle Ande.
I contadini, da noi, devono accontentarsi delle fave; i fagiolini e i fagioli sono noti invece sia agli Arabi sia agli indigeni d’America. E’ probabile che le invasioni barbariche, oltre alle molte disgrazie, ci abbiano portato anche la ricetta delle minestre e dei minestroni nei quali i legumi cuociono insieme alla carne.
E veniamo alla carne. Il contadino del Medioevo assapora raramente la carne bovina. L’allevamento di questi animali è infatti costoso; essi sono perciò impiegati essenzialmente come animali da lavoro e vengono macellati solo in occasione di banchetti speciali.
Più comune è invece l’uso della carne di maiale, animale più facile da allevare perchè è poco esigente circa la qualità del cibo che gli viene dato. In Europa, naturalmente; non tra gli Arabi, perchè la religione musulmana proibisce loro di mangiare carne di maiale (e giustamente,  perchè non è molto igienica nei paesi caldi).
Presso gli Arabi invece, le vetrine delle macellerie offrono carne di cane, di gatto, di lucertola e di serpente. Le teste e le pelli di questi animali sono esposte accanto alla carne perchè il cliente sappia bene che cosa compra.
Presso gli Aztechi, in America, si mangiano cani di un razza curiosa, sprovvisti di peli, che vengono ingrassati prima di essere sacrificati.
Un animale frequentemente cacciato in Italia, Inghilterra e Olanda, prima che dalle specie selvatiche si ottengano quelle domestiche, è il coniglio.
Gli uccelli più apprezzati in Europa sono il fagiano e il pavone, che sono serviti sulla tavola circondati dalle loro superbe piume. Anche i piccioni sono pregiati: infatti solamente i ricchi hanno diritto di allevarne. Attorno alle loro piccionaie, gli Arabi piantano la ruta, una pianta amara che ha il compito di tenere lontani i serpenti. I pesci sono ricercati per sostituire la carne durante i periodi di digiuno imposti dalla religione cristiana. I fossati pieni d’acqua che circondano le mura, si popolano di carpe. Durante la quaresima, si vendono anche, come cibo, le aringhe secche e carne secca di balena.
Anche i vari tipi di molluschi di mare aiutano a sopportare i rigori della quaresima. In Polinesia si pratica la pesca sottomarina con l’arpione da più di mille anni.
E’ venuto il momento di parlare delle famose spezie che venivano dall’Oriente.
Per condire i piatti, profumare dolci e anche, almeno così si credo, per curare molte malattie, le spezie mettono in movimento mezzo mondo. Carovane e navi ne assicurano il trasporto e giungono dall’Estremo Oriente, dalle coste dell’Africa o dell’India, coi loro carichi preziosi e odorosi. Quando i Turchi rendono pericoloso il trasporto delle spezie, si cerca un’altra strada da ovest, per mare; sarà il sogno di Cristoforo Colombo.
I mercanti di spezie, gli speziali, fanno fortuna; essi vendono: il chiodo di garofano, conosciuto in Cina fin dalla più remota antichità e masticato dai cortigiani per profumarsi l’alito; la noce moscata, portata in Europa dagli Arabi fin dal secolo XI; lo zenzero, ricercato per profumare il pan pepato. Non meno ricercata è la cannella, una scorza proveniente da Ceylon e dalla costa del Malabar che, a partire dal secolo XIII, giunge in Europa attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e il Mediterraneo. Lo zafferano è coltivato su larga scala in Medio Oriente, ma costa carissimo: in cambio di sei libbre di zafferano si può avere un buon cavallo da sella! Quanto al pepe, la questione del prezzo è risolta in modo molto semplice: esso vale tanto oro quanto pesa. La gente modesta deve accontentarsi di aglio, di cipolla e di senape consumati in quantità enormi. Alcuni mulini hanno un paio di macine per la senape e due paia di macine per il grano.
Per completare questo viaggio da buongustai facciamo una visitina nella pasticceria di un bazar orientale.  Potete offrirvi un po’ di halva, torrone di miele selvatico riempito di pistacchi e mandorle, e i lokum dolciastri di amido e pistacchi.
Ma cos’è questa meraviglia che un pasticcere presenta alla folla stupefatta? Si direbbe un boschetto di rose con le sue foglie; questo dolce raro è riservato per un’occasione eccezionale: si tratta della corona di matrimonio offerta a due giovani sposi. Essa è fatta di zucchero candito, alimento ancora costoso, poichè la coltivazione della canna da zucchero, pianta venuta dalle Indie, è possibile solo nelle regioni molto calde del bacino mediterraneo. Al tempo delle Crociate, la canna da zucchero giunge progressivamente in Spagna e in Sicilia, dove le canne sono macinate da macchine mosse da mulini a vento. E’ una specie di canna che bisogna tagliare a pezzi e torchiare poi in un frantoio per estrarne il succo zuccherino. Questo viene riscaldato e fatto evaporare finché perde i tre quarti del suo volume; quindi versato in appositi stampi, dove solidificando dà dei pani di zucchero.
Ma continuiamo la nostra visita attraverso le botteghe del bazar. La polvere ci riempie la gola; perchè dunque non dobbiamo rinfrescarci con un gelato alla melagrana o al miele? Bisogna allora farsi avanti con i gomiti perchè gli amatori sono numerosi. Da dove viene il ghiaccio? Nel Medioevo è già un vero prodotto industriale, in Oriente. Le notti fredde d’inverno permettono di far gelare l’acqua in grandi bacini, poco profondi; gli operai rompono il ghiaccio, che si è formato per lo spessore di alcuni centimetri, e lo fanno scivolare verso il fondo di fresche cantine, dove si conserva facilmente. Questa industria è così prospera che certi Stati ne fanno un monopoli, come avviene oggi in Italia per il tabacco. I gelati sono fatti di ghiaccio grattugiato, di miele e di amido cotto a cui sono aggiunti i frutti e le essenze.
Se ne avete voglia potete offrirvi anche una tazza di buon caffè. A partire dal secolo XIII, lo si può bere sia a Aden che in Egitto o in Persia; l’uso del tè, venuto dalla Cina, comincia a diffondersi anche nei paesi musulmani verso lo stesso periodo; ma l’Europa Occidentale ignora ancora il tè e il caffè, nonostante i numerosi viaggi in Oriente. A quei tempi, all’altro capo del mondo, i Messicani mangiano un cioccolato secco fatto di fave di cacao macinate con sale, ambra rossa, pepe e spezie. Essi apprezzano anche il cioccolato liquido aromatizzato con la vaniglia; l’albero che dà il cacao viene probabilmente dalle foreste dell’Amazzonia. L’America conosce anche l’albero del chinino e la coca che gli indigeni masticano per piacere.

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Breus

Un fanciullo, incantato alla vista di un cavaliere in armi bello, anzi più bello, per lui, di San Michele, abbandona la casa, e per dieci anni sotto il nome fittizio di Breus, si copre di gloria divenendo il migliore dei cavalieri. Ma la mamma, per il dolore di quella partenza, muore; e quando egli una sera chiede ospitalità a una vecchia e trascurata dimora è accolto da una fanciulla in lacrime. Ella piange ogni volta che vede un cavaliere perchè rammenta il fratello che a dieci anni ha lasciato la casa. Lì è rimasta lei, sola con la nutrice. Commosso, Breus, che altri non è che il fanciullo partito un giorno ormai lontano, si rivela alla sorella. Il delicato racconto pascoliano, sempre tenuto su un tono di favola e di ingenuo ardimento, rivela il suo significato profondo negli ultimi versi: non c’è gloria che possa compensare il dolore mortale di una mamma. Per poter abbracciare ancora la madre, Breus darebbe ora tutte le sue più belle vittorie e si accontenterebbe di strigliare umilmente il suo ronzino.

Viveva con sua madre in Cornovaglia:
un dì trasecolò nella boscaglia.
Nella boscaglia un dì, tra cerro e cerro,
vide passare un uomo tutto ferro.
Morvan pensò che fosse san Michele:
s’inginocchiò: “Signore san Michele,
non mi far male, per l’amor di dio!”.
“Né mal fo io, né san Michel son io.
No: san Michele non posso chiamarmi:
cavalier, sì: son cavaliere d’armi”.
“Un cavaliere? Ma che cosa è mai?”
“Guardami, o figlio, e che cos’è saprai”.
“Che è codesto lungo legno greve?”
“La lancia; ha sete e dove giunge, beve”.
“Che è codesta di cui tu sei cinto?”
“Spada, se hai vinto; croce, se sei vinto”.
“Di che vesti? La veste è pesa e dura”.
“E’ ferro. Figlio, questa è l’armatura”.
“E tu nascesti già così coperto?”
Rise e rispose il cavalier: “No, certo”.
“E chi la pose, dunque, indosso a te?”
“Chi può”. “Chi può?”. “Ma, caro figlio, il re!”.
Il fanciullo tornò dalla sua mamma,
e le saltò sulle ginocchia: “Mamma,
mammina (cinguettò), tu non lo sai!
Ho visto quello che non vidi mai!
Un uomo bello più di san Michele
ch’è in chiesa, tra il chiaror delle candele!”
“Non c’è uomo più bello, figlio mio,
più bello, no, d’un angelo di dio”.
“Ma sì, ce n’è, mammina, se permetti:
ce n’è, mammina, cavalier son detti.
E io, mammina, voglio andar con loro,
E aver veste di ferro e sproni d’oro”.
La madre a terra cadde come morta
che già Morvan usciva dalla porta:
Morvan usciva e le volgea le spalle,
ed entrò difilato nelle stalle;
nelle stalle trovò solo un ronzino:
lo sciolse, vi montò sopra: in cammino.
Egli partì, né salutò persona:
eccolo fuori, ecco che batte e sprona,
Eccolo già lontano dal castello,
dietro quell’uomo ch’era così bello.
Dopo dieci anni, dieci tutti intieri,
Breus il cavalier de’ cavalieri
sostò pensoso avanti quel castello.
Era fradicio e rotto il ponticello.
Entrò pensoso nella corte antica:
c’era tant’erba, c’era tanta ortica.
Il rovo vi crescea come siepe,
e la muraglia piena era di crepe.
L’edera aveva la muraglia invasa:
l’erba copria la soglia della casa.
E l’uscio era imporrito e tristo a mo’
Di tomba. Egli picchiò, picchiò, picchiò…
Ecco alfine una donna, ecco una donna
antica e cieca, che gli aprì. ” Voi, nonna,
mi potete albergar per questa notte?”
“Albergar vi si può per questa notte,
albergar vi si può di tutto cuore,
ma l’albergo non è forse il migliore.
Ché questa casa è tutta in abbandono
da che il figlio partì, dieci anni or sono”.
Era discesa una donzella in tanto,
che appena lo guardò, ruppe in un pianto.
“Perchè piangete, buona damigella?
perchè piangete, cara damigella?”.
“Io voglio dirvi, sire cavaliere,
io voglio dirvi, che mi fa dolere.
Un mio fratello che dieci anni fa
(ora sarebbe della vostra età),
ci abbandonò per farsi cavaliere.
Io piango appena vedo un cavaliere.
Se vedo un cavalier presso il castello,
piango pensando al mio dolce fratello”.
“Non avete la madre, o damigella?
Non un altro fratello? Una sorella?”.
“Nessuno… almeno ch’io li veda in viso:
son, fratelli e sorelle, in paradiso.
Anche la mamma l’ha chiamata Iddio:
non c’è più qui che la nutrice ed io.
La mia madre morì dal dispiacere
quand’e’ partì per farsi cavaliere.
Ecco il suo letto presso il limitare,
ecco il suo seggio presso il focolare.
La sua crocetta porto sopra me.
Pel mio povero cuore altro non c’è”.
Mise un singhiozzo il cavalier d’un tratto.
Ella il pallido alzò viso disfatto.
La damigella alzò con meraviglia
gli occhi ch’aveano il pianto sulle ciglia.
“Iddio la mamma ancora a voi l’ha presa,
ch’ora piangete, che m’avete intesa?”
“Ancora a me la mamma prese Iddio;
ma chi gli disse: ‘Prendila’ fui io”.
“Voi? Ma chi siete? Qual è il vostro nome?”.
“Morvan il nome, Breus il soprannome.
O sorellina, io sono pien di gloria:
ogni giorno ho contata una vittoria:
ma se potevo indovinar quel giorno,
che l’avrei veduta al mio ritorno,
o sorellina, non sarei partito!
O sorellina, non sarei fuggito!
Oh! Per vederla qui sul limitare,
per rivederla presso il focolare,
per abbracciare qui con te pur lei,
le mie vittorie tutte le darei:
sarei felice, pur ch’a lei vicino,
di strigliar tuttavia quel mio ronzino”.
(G. Pascoli)

IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

CARLO MAGNO dettati ortografici e letture

CARLO MAGNO dettati ortografici e letture, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

I Franchi

I Franchi, verso il secolo V, varcato il Reno, erano penetrati in Gallia e vi avevano fondato un regno romano-barbarico. Il loro re Clodoveo (481-511), capostipite della dinastia che fu detta dei Merovingi, era stato il primo fra i Germani che con il suo popolo si era convertito al cattolicesimo.
A Clodoveo erano succeduti re inetti al governo che avevano lasciato il potere in mano ai Maggiordomi. Fra questi, aveva avuto grande autorità Carlo Martello, che nel 732 aveva sconfitto gli Arabi a Poitiers, salvando l’Europa.
Il figlio di lui, Pipino il Breve, nel 752 fece chiudere in convento l’ultimo merovingio e si proclamò re dei Franchi. Il papa Stefano II si recò personalmente in Francia ad incoronarlo. Aveva così inizio la dinastia del Carolingi.
Pipino, sollecitato dal Papa, calò in Italia e sconfisse il re longobardo Astolfo due volte, nel 754 e nel 756, costringendolo a cedere alla Chiesa le terre occupate.
Il figlio di Pipino, Carlo, assunse quindi il titolo di re dei Franchi e dei Longobardi. Al papa confermò ed accrebbe le precedenti donazioni, dando vita ormai a un vero e proprio Stato Pontificio che da Roma, attraverso il Lazio, l’Umbria e le Marche, si estendeva fino alla Romagna e comprendeva le antiche terre del dominio bizantino.

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Re Carlo

Carlo, Re dei Franchi, detto dai posteri, per ammirazione, Magno, fu veramente uno dei più notevoli personaggi del Medioevo. Egli fu soprattutto un grande unificatore e si giovò anche della religione per dare unità spirituale ai diversi popoli del suo immenso dominio. Egli condusse vittoriosamente in tutta l’Europa occidentale circa sessanta imprese militari e riunì sotto il suo scettro un territorio vastissimo che comprendeva la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Germania, l’Austria, la Repubblica Ceca, la Serbia, la Croazia, l’Ungheria, la Svizzera e metà dell’Italia odierne.
Per garantire il confine dei Pirenei marciò contro gli Arabi della Spagna, tolse loro le due regioni dell’Aragona e della Catalogna, con le quali costituì la Marca Spagnola.
Durante il ritorno da questa spedizione nel 778, la retroguardia di Carlo, comandata dal famoso paladino Orlando, fu assalita dai Baschi nella gola di Roncisvalle e distrutta. L’eroica morte di Orlando, caduto combattendo per il suo re e per la sua fede, fu cantata nella Chanson de Roland, il primo di una lunga serie di poemi cavallereschi sui paladini di Francia.
La vastità, l’unità del dominio di Carlo e l’alto prestigio politico di cui godeva fecero rinascere l’idea dell’Impero Romano, che fu consacrata dal papa Leone III la notte di Natale dell’800 a Roma, nella basilica di San Pietro. Con una cerimonia solenne il Papa incoronò Carlo imperatore del Sacro Romano Impero, mentre tutto il popolo acclamava: “A Carlo, piissimo, augusto, coronato da dio grande e pacifico imperatore dei Romani,  vita e vittoria!”.
Carlo meritò effettivamente questi onori perchè fu un sovrano illuminato. Benché analfabeta, promosse gli studi, le arti e l’istruzione pubblica, facendo aprire numerosissime scuole per ricchi e poveri, e fondando in Aquisgrana, sua residenza preferita, l’Accademia Palatina, che accolse i dotti del tempo.
Carlo Magno morì ad Aquisgrana nell’814, dopo 46 anni di regno, e lì fu sepolto.

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Come governò Carlo Magno

Carlo Magno amministrò saggiamente il suo vasto impero. Per poterlo governare meglio, secondo un’usanza franca, lo suddivise in contee, che affidò a uomini a lui fedeli; presso i confini creò contee più estese e militarmente più forti che si chiamarono marche. Coloro che governavano marche e contee, cioè i marchesi ed i conti, dipendevano direttamente dall’Imperatore ed avevano poteri amplissimi.
Dapprima Carlo Magno non diede una capitale al suo Impero perchè, per meglio conoscere le condizioni di vita dei suoi sudditi, viaggiava moltissimo. Infine si stabilì ad Aquisgrana, in Germania, che divenne la capitale del Sacro Romano Impero. In quella città egli morì nell’anno 814.
Carlo Magno fu uno dei più grandi imperatori germanici, valoroso e saggio. Sotto il suo Impero anche la cultura rifiorì. Egli, che l’apprezzava molto, volle che alla sua corte si raccogliessero i più dotti uomini del tempo fra i quali ricordiamo Alcuino, Paolo Diacono e Paolino, patriarca di  Aquileia.  Volle inoltre l’istituzione di scuole per l’istruzione dei fanciulli.

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Per il lavoro di ricerca

Ricerca notizie sulla figura e la cultura di Carlo Magno.
Contro quali popoli combatté Carlo Magno?
Dove vinse gli Arabi?
Chi erano i paladini?
Ricerca notizie sulla morte del paladino Orlando.
Quali terre comprendeva l’impero di Carlo Magno?
Perchè fu chiamato Sacro Romano Impero?
Come fu governato amministrativamente l’impero?
Chi erano i “missi dominici” e che cosa dovevano controllare?
Come si viveva ai tempi di Carlo Magno?
Che cosa era la “legge salica?”
Quando e dove morì Carlo Magno?

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Carlo Magno non sapeva né leggere né scrivere

Questa era la sua spina nel fianco, il suo lato patetico. Carlo, che la sera andava presto a letto, dovunque si trovasse, ma soffriva di insonnia, trascorreva spesso la notte compitando l’abbecedario e cercando di capirne le lettere. Ma inutilmente. Questo genio della politica e della guerra, che era riuscito a conquistare mezzo mondo, non riuscì mai a conquistare l’alfabeto.
A furia di farseli ripetere dal confessore, imparò a memoria i salmi, e li cantava anzi abbastanza bene perchè, se la sua voce era stridula, l’orecchio era buono. Ma sebbene fino alla tarda vecchiaia seguitasse a trascorrere le sue notti a fare le aste, la soddisfazione di scrivere e di leggere da sé egli non l’ebbe mai. Eppure fu Carlo Magno.
(I. Montanelli e R. Gervaso)

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La figura di Carlo Magno

Era re Carlo di corporatura massiccia e robusta, di statura alta che pur tuttavia non eccedeva una giusta misura. Aveva testa tonda, occhi grandissimi e vivaci, il naso un po’ più lungo del normale, bei capelli bianchi, volto sereno e gioviale che gli conferiva una grandissima autorità e pari dignità di aspetto. Sicuro nell’incedere, emanava da tutto il corpo un fascino virile.
Si esercitava di frequente all’equitazione ed alla caccia, ed era questa una passione che aveva fin da bambino.
Amava anche molto i bagni minerali e spesso si esercitava al nuoto. Per tale ragione costruì una reggia in Aquisgrana ricca di acque minerali; ivi trascorse gli ultimi anni della sua vita.
Invitava al bagno con lui, non soltanto i figli, ma anche i grandi del regno e gli amici e talora perfino tutte le proprie guardie del corpo.
Vestiva sempre nel costume nazionale dei Franchi. Rifuggiva dai costumi di altri paesi, anche se bellissimi, e non amò mai indossarli, meno che a Roma, quando su richiesta di papa Adriano, acconsentì a portare una lunga tunica e la clamide ed i sandali alla moda dei Romani…
Era assai sobrio nel mangiare e nel bere. Mentre cenava gli piaceva udire qualche musica o qualche lettura. Gli leggevano le storie degli antichi, ma amava ascoltare anche le opere di Sant’Agostino. Aveva facile e copioso l’eloquio, e sapeva esprimere con molta chiarezza il proprio pensiero.

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La cultura di Carlo

La sua istruzione e la sua cultura non derivano da studi teorici; ma piuttosto dall’esperienza pratica e dalla viva voce di chi gli stava introno. Tuttavia erano grandissime.
Egli parlava la lingua franca, ma conosceva anche il latino, parlato dai suoi sudditi gallo-romani, e perfino il greco, benchè si curasse poco di parlarlo.
Non era un matematico, ma aveva la mente aperta a penetrare rapidamente la complessità delle cifre e dei calcoli.
Carlo possedeva cognizioni di anatomia umana e soprattutto di anatomia animale, perchè, come cacciatore, era abituato a scannare e a scuoiare la selvaggina che uccideva.  Sapeva bene come vivono e come si cacciano gli uccelli, e soprattutto era molto pratico di cavalli.
Conosceva un po’ tutti i mestieri perchè era abituato a sorvegliare di persona i suoi servi al lavoro: avrebbe potuto non solo riparare la bardatura del suo cavallo, ma anche estirparsi i denti e medicarsi le ferite, in caso di necessità.
Inoltre conosceva, attraverso i canti dei giullari di corte, le gesta degli antenati suoi e le storie dei re dei paesi vicini.
Egli tentò anche di imparare a scrivere, e, a questo scopo, aveva l’abitudine di tenere sotto i cuscini del letto alcune tavolette e alcuni fogli di pergamena per esercitarsi a tracciare di propria mano qualche lettera. Ma poco gli fruttò questo lavoro disordinato e iniziato troppo tardi.
(Baker)

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Carlo Magno e gli scolari

Un giorno l’imperatore Carlo Magno visitò una scuola a Parigi e volle vedere i compiti fatti dagli alunni. Osservò che quelli fatti dai ragazzi del popolo erano molto migliori di quelli fatti dai figli dei nobili.
Allora l’imperatore fece passare alla sua destra i più bravi e disse loro: “Grazie figlioli miei; studiate ancora per diventare sempre più bravi e io, quando sarete grandi, vi darò ogni sorta di onori, perchè solo voi siete degni ai miei occhi”.
Po si volse a quelli che erano alla sua sinistra, fece loro un viso molto accigliato e disse: “In nome di Dio io vi dico che non mi importa nulla della vostra nobiltà e della vostra bellezza fisica. Vi ammiri pure chi vuole, per queste stolte cose. Io vi avverto che, se non diventerete migliori, non otterrete nulla da Carlo”.

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Le conquiste di Carlo Magno

Carlo Magno intervenne in difesa del Papa in lotta contro i Longobardi e vinse l’ultimo re longobardo Desiderio; poi cinse a Pavia la corona dei re longobardi, stabilendo così in Italia il dominio dei Franchi.
Questa fu una delle numerose guerre che egli combatté nei 46 anni del suo regno, per costituire un vasto impero in occidente.
Per ben 32 anni Carlo Magno guerreggiò contro i Sassoni, un popolo ancora barbaro e idolatra che abitava la regione settentrionale della Germania.
Alla fine il loro re Vitichindo si sottomise a Carlo, che lo costrinse a convertirsi al cristianesimo con tutto il suo popolo.
Ardua fu anche la lotta combattuta contro gli Arabi di Spagna. Spintosi al di là dei Pirenei, Carlo Magno riportò qualche brillante successo, ma non potò conquistare Saragozza. Durante la ritirata, la sua retroguardia fu completamente distrutta al passo di Roncisvalle (778). Cadde eroicamente in quella battaglia il più famoso dei Conti Palatini, Orlando.
Questa battaglia esercitò un grande fascino sulla fantasia popolare, e il ricordo di essa si tramandò con vivi e poetici particolari. Intorno a Carlo e ai suoi paladini, combattenti per la fede e per la patria, fiorì una serie di leggende che furono materia di molti poemi cavallereschi scritti da poeti francesi ed italiani.
Più tardi Carlo si impadronì di tutta la regione fra i Pirenei e l’Ebro e vi costituì la Marca Spagnola, che servì da baluardo all’Europa contro gli Arabi.
Carlo Magno combatté con fortuna contro i Bavari, gli Avari (stanziati nell’odierna Austria) e contro gli Slavi. Alla fine di queste guerre poteva considerarsi padrone di quasi tutta l’Europa occidentale e centrale.

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Carlo Magno sotto le mura di Pavia

I soldati franchi giunsero ben presto sotto le mura di Pavia. All’avvicinarsi di essi, il re Desiderio e il duca Ottocaro salirono su di una torre altissima, da dove si poteva abbracciare con l’occhio tutta la campagna.
Apparvero dapprima delle macchine da guerra che avrebbero fatto invidia a Dario e a Cesare. Desiderio domandò ad Ottocaro: “Carlo si trova in quell’immensa folla?”
“Non ancora”, rispose questi.
Vedendo poi le milizie raccolte in ogni parte del nostro vasto impero, il longobardo disse: “Certo, Carlo avanza trionfalmente in mezzo a quelle masse profonde”.
“No, non ancora, non ancora”.
Il re, turbandosi, mormorava: “Ora che faremo noi, se vengono con forze così considerevoli?”
“Voi non capirete chi sia Carlo Magno ” diceva Ottocaro, “che quando comparirà. Quello che accadrà di noi allora, io non lo so”.
Mentre scambiavano queste parole, giungeva la guardia reale, che non conosce mai riposo. Desiderio era stupefatto.
“In fede mia, non è là Carlo!” diceva.
“Non ancora!”
Poi sfilano con gran seguito i vescovi, gli abati, i chierici della cappella palatina ed i Conti. A tal vista Desiderio, on potendo più oltre sopportare la luce del giorno e sentendo il freddo della morte, rompe in singulti e balbetta: “Discendiamo, nascondiamoci nelle viscere della terra, lontano dalla faccia e dal furore di un così terribile nemico!”.
Ottocaro, anch’egli tremando, egli che ben conosceva la potenza di Carlo e che in tempi migliori era vissuto vicino a lui, dice: “Quando vedrai nella montagna erigersi come una messe di lance, quando le onde oscurate del Po e del Ticino, non riflettendo che il ferro delle armi, avranno gettato sulle mura nuovi torrenti di uomini coperti di ferro, allora saprai che Carlo è vicino!”.
Non aveva terminato di dire, che all’improvviso l’occidente di velò di una nube tenebrosa; pareva che un uragano avesse oscurato la luce del cielo. A misura che il re avanzava, il luccicare delle spade proiettò sulla città un giorno più sinistro della stessa notte.
Ben presto Carlo fu in vista, gigante di ferro: sul capo un elmo di ferro, guanti di ferro alle mani, il petto e le spalle coperti di una corazza di ferro.
La mano sinistra brandiva una lancia di ferro, mentre la destra era distesa sul ferro della sua invincibile spada. Il ferro copriva le vie ed i piani; in ogni dove i raggi del sole riverberavano sul ferro.
Dalla città si elevava un clamore confuso: “Quanto ferro, ohimè!”
“Re!” gridò Ottocaro, “Ecco colui che i vostri occhi cercavano da gran tempo!”
E pronunciando queste parole cadde svenuto.
(Monaco di San Gallo)

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Il Sacro Romano Impero

Dopo tante guerre, Carlo Magno regnava su una buona parte d’Europa e dimostrava di saper governare saggiamente. Tutti vedevano in lui un grande imperatore amante della pace e dell’ordine, ed egli sognava di far rinascere l’antico ordinamento romano. Infatti il nuovo impero si chiamò Sacro Romano Impero.
Ben diverso dall’antico Impero Romano, che era uno stato vero e proprio, retto dalla forza delle leggi di Roma,  questo di Carlo Magno era un agglomerato di popoli diversi, ciascuno dei quali conservava le proprie leggi e le proprie tradizioni.
Uguale per tutti fu invece l’ordinamento amministrativo: il territorio fu diviso in contee con a capo un conte. Nelle zone di confine si crearono le marche, più vaste e più forti delle contee, governate da marchesi (per esempio la Marca Spagnola, posta come baluardo contro gli Arabi; la Marca Avarica, l’odierna Austria, contro gli Slavi). Accanto ai conti erano per importanza i Vescovi, cui furono affidati molti uffici.
Conti e marchesi reclutavano i soldati e li fornivano all’esercito imperiale, amministravano la giustizia e riscuotevano i tributi in nome dell’Imperatore.
L’imperatore controllava conti e marchesi, mandando periodicamente coppie di ispettori detti “missi dominici” dei quali uno era laico e l’altro ecclesiastico, a visitare le contee; essi ascoltavano le querele delle popolazioni, si informavano dei bisogni e sopprimevano gli abusi.
Carlo Magno dettò per tutto l’impero alcune leggi generali dette “Capitolari”. Ogni anno, in primavera, si radunava presso la residenza imperiale un’assemblea generale di tutti gli uomini liberi, detta Campo di maggio: vi si approvavano le leggi già preparate.
Carlo Magno non scelse una città come capitale stabile; a seconda delle necessità del governo, egli mutava residenza. Negli ultimi anni risiedette di solito ad Aquisgrana.

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Provvedimenti economici

Carlo Magno diede incremento anche alla vita economica, provvedendo con una serie di editti alla buona amministrazione del suolo coltivato, all’incremento dell’allevamento del bestiame, regolando le prestazioni personali dei contadini, tentando, ma invano, di salvare la classe dei piccoli proprietari.
Rese più sicuro e facile il cambio con l’introduzione di un sistema monetario e di uno di pesi e misure unico per tutto l’Impero.
L’avanzata degli Arabi aveva quasi del tutto distrutto le relazioni commerciali fra l’Oriente e l’Occidente; l’economia accentuò quindi il suo carattere particolaristico ed agricolo. Molte merci di lusso, provenienti dall’Oriente, erano sparite o diventate assai rare: Carlo Magno dovette perciò sostituire nella monetazione l’argento all’oro; il papiro, a partire dal secolo VIII, in Gallia cedette il posto alla pergamena.

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Ciò che i missi dominici dovevano controllare

In una legge stabilita nell’802 Carlo Magno indicò che i missi dominici dovevano controllare. Tra le altre cose, essi dovevano informare l’imperatore sull’osservanza di questi obblighi:
“E’ fatto obbligo ai giudici di giudicare con giustizia secondo quanto prescrive la legge scritta e non seguendo il loro arbitrio”.
“Le misure siano uguali ed esatte e giuste e uguali per tutti i pesi”.
“Non di compiano di domenica lavori servili”.
“Si tengano tutti pronti per quando possa venire, in qualsiasi momento, un ordine dell’Imperatore”.
“Tutti gli promettano fedeltà”.
“I nostri missi, ovunque se ne riconosca la necessità, ricerchino e si preoccupino del giusto quanto alle chiese di dio, alle vedove, agli orfani, ai pupilli e a tutti gli altri uomini. Quanto si trovi da correggere, essi correggano il meglio che possono; quanto non riescono a correggere traducano al nostro tribunale”.
(da Capitulare missorum)

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La notte di Natale dell’800

Nella cattedrale di San Pietro c’era messa solenne, la notte di Natale dell’800; tutti i sacerdoti della curia erano assisi negli scranni; in mezzo il trono del pontefice Leone III. Al momento del Vangelo questi si alzò dirigendosi verso l’altare maggiore dove stava inginocchiato Carlo Magno, il conquistatore d’Europa, che abbandonate le vesti guerriere, indossava uno sfarzoso abito da patrizio romano.
Papa Leone, nel silenzio attonito, pose sul capo di Carlo la corona degli imperatori di Roma dicendo: “A Carlo Augusto, coronato da dio, grande e pacifico imperatore, vita e vittoria”. E parve allora che Roma fosse nuovamente tornata al centro del mondo.

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Morte di Carlo Magno

Carlo Magno, in età di 72 anni, dopo aver regnato per 46 anni come re e 14 come imperatore, morì in Aquisgrana, nell’814, e fu sepolto nella basilica da lui stesso voluta. Il suo corpo fu imbalsamato e posto nel sepolcro seduto su uno scranno d’oro, cinto della spada d’oro e con in mano il Vangelo, con la corona sul capo e nella corona incastonato un frammento ligneo della croce.
Indossava abiti imperiali; il volto era coperto da un sudario. Davanti a lui furono appesi lo scettro e lo scudo. Poi il sepolcro fu chiuso e sigillato.

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I giudizi di dio

La legge salica, che formava quasi la “costituzione” dei popoli franchi, conteneva parecchie norme che regolavano lo svolgimento dei processi. Per dimostrare l’innocenza o la colpevolezza dell’accusato si ricorreva spesso al cosiddetto “giudizio di dio”. Si pensava cioè che dio intervenisse direttamente a favore dell’innocente. Per esempio, l’accusato veniva legato mani e piedi e gettato in un fiume, che era stato in precedenza benedetto.
Se l’annegato andava a fondo, era innocente: se galleggiava era colpevole: si pensava infatti che l’acqua benedetta respingesse chi fosse macchiato da un delitto. Si presume che poi l’innocente venisse ripescato!
Altre volte la prova consisteva nel camminare a piedi nudi su carboni ardenti, o nel reggere in mano un ferro incandescente.
Molto spesso, infine, si decideva una controversia ricorrendo a un duello: dio avrebbe guidato la mano di chi aveva ragione e avrebbe dato la morte a chi aveva torto.

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Morte di Orlando

Le gesta di Carlo Magno e dei suoi paladini per cacciare i Mori di Spagna ispirarono uno dei più bei capolavori della poesia epica di tutti i tempi; La canzone di Orlando (La chanson de Roland)  dovuta, pare, al francese Turoldo. La pietosa fine del paladino Orlando tradito e massacrato nella gola di Roncisvalle, nei Pirenei, mentre guidava sulla via del ritorno la retroguardia dell’esercito, occupa alcune delle più belle pagine del poema.
Orlando è ormai ferito a morte e tenta, ma invano, di infrangere la sua invitta e prodigiosa spada Durlindana. Sente che la morte lo possiede e lo invade dalla testa al cuore. Corre sotto un pino e si corica sull’erba verde, faccia a terra; mette sotto il corpo la spada e il corno; poi volge il capo verso i pagani, perchè vuole che Carlo e tutti dicano che il nobile paladino è morto combattendo. Poi con flebile voce grida i suoi peccati e tende a dio il guanto e le sue colpe.
Sa che la sua vita è finita. E’ sopra un poggio aguzzo, il viso verso la Spagna; con una mano si batte il petto: “Confesso, o Signore, davanti alla tua maestà la mia colpa per tutti i miei peccati, da quando sono nato ad oggi, che sono battuto”. Tende il guanto destro a dio, gli angeli scendono a lui.
Il paladino Orlando giace sotto il pino, ed ha la faccia rivolta verso la Spagna. E di molte cose si rammenta, di tante terre, della dolce Francia, degli uomini della sua stirpe, di Carlo suo signore che lo aveva nutrito.  E non può esimersi dal piangere e dal sospirare. Ma non vuole dimenticare se stesso, confessa i propri peccati e implora da dio pietà. Offre a dio il suo guanto destro. E san Gabriele lo prende di propria mano. Sul braccio tiene il capo chino, poi a mani giunte attende la morte. Dio gli manda un suo angelo cherubino e san Michele del Periglio. E con questi San Gabriele. E così portano in paradiso l’anima del paladino.

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Carlo Magno

Persona ampia e robusta, era piuttosto alto ma non troppo. Aveva testa rotonda, occhi grandi e vivaci, naso un po’ più largo del comune. Usava assiduamente cavalcare e cacciare. Si esercitava di frequentare al nuoto e invitava a bagnarsi con lui non soltanto con i figlioli, ma anche le persone più altolocate e gli amici, e talvolta perfino la moltitudine delle sue guardie del corpo, così che in certe occasioni ci furono in acqua insieme con lui cento persone e anche più. Nei giorni normali, il suo pasto principale constava di quattro portate, senza contare l’arrosto che i cacciatori solevano portare infilato negli spiedi, e che era il suo piatto preferito.
Mentre cenava, ascoltava un po’ di musica o di lettura. Era così sobrio in fatto di vini che non beveva mai più di tre volte per pasto. D’estate, dopo il pasto di mezzogiorno, prendeva qualche frutto, beveva una sola volta, poi spogliatosi delle vesti e delle scarpe, come fosse notte, riposava due o tre ore.

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I passatempi di Carlo Magno

Passatempi preferiti del sovrano furono l’equitazione e la caccia, dei quali ebbe il gusto fin dalla fanciullezza. Molto lo dilettavano anche le acque termali. Spesso si dava al piacere del nuoto, vincendo in gara chiunque competesse con lui. Infatti ai bagni della Mosa, per i quali ad Aquisgrana aveva costruito un palazzo, convenivano oltre ai figli anche i dignitari della corte. Si vedevano spesso nello specchio d’acqua, assieme con l’imperatore, anche cento e più persone.
Aveva buona salute; non fu malato che negli ultimi quattro anni della sua vita, quando fu soggetto a frequenti attacchi di febbre. Ma anche allora sdegnava il consiglio dei medici: egli li aveva in uggia e non voleva assoggettarsi alle loro prescrizioni, perchè gli vietavano l’uso delle carni arrostite. Questo era il piatto da lui preferito. L’Imperatore fu particolarmente sobrio nel bere perchè in tutte le persone condannava l’ubriachezza.
Fin dall’infanzia fu iniziato alla vita devota e si dedicava con scrupolo alle pratiche religiose. Ma egli seguì anche i precetti evangelici della carità: aiutò i poveri anche fuori del suo Impero, inviando elemosine in Siria, in Egitto e altrove. La povertà di quegli uomini muoveva la sua compassione; e appunto per procurare a costoro qualche conforto ricercò l’amicizia dei sovrani d’oltremare.
(Eginardo)

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Il giuramento dei Vassalli

Io giuro per questi santi vangeli, che d’ora in avanti sarò fedele a costui come deve un vassallo al signore, e ciò che egli affiderà alla mia fedeltà, non rivelerò consapevolmente ad altri in suo danno.
Io giuro su questi santi vangeli che d’ora innanzi sino all’ultimo giorno della vita sarò fedele a te, mio signore, contro ogni uomo eccetto l’imperatore. Cioè giuro che scientemente non parteciperò mai a deliberazione o ad atto per cui tu perda la vita o qualche membro, o riceva danno nella persona, o ingiustizia o insulto, che tu perda qualche diritto che tu hai o in futuro avrai. E se avrò saputo o udito di alcuno che voglia fare qualcuna di queste cose a tuo danno, cercherò di impedire, nella misura delle mie forze, che questo avvenga, e se non potrò oppormi ti avviserò al più presto possibile, e ti aiuterò contro di lui quando potrò. E se accadrò che tu perda qualche cosa che hai o avrai, per ingiustizia o per caso, ti aiuterò a recuperarla, e, recuperata, a conservarla. E se avrò saputo che tu vuoi giustamente assalire qualcuno, e sarò stato da te invitato, sia in forma generale sia personale, ti darò il mio aiuto come potrò. E se tu mi avrai rivelato qualche segreto, non lo svelerò al alcuno, senza tuo permesso, né farò in modo che sia svelato. E se mi chiederai consiglio su qualche cosa ti darò il consiglio che mi sembra più utile per te. E mai di persona farò coscientemente cosa che possa essere di danno ed insulto a te e ai tuoi.

CARLO MAGNO dettati ortografici e letture – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE

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Osserviamo la cartina

Confini: Austria, Veneto, Lombardia
Monti: Alpi Centrali (Retiche) , Alpi Orientali (Atesine e Dolomitiche), Prealpi Venete.
Cime più alte: Cima Tosa nel gruppo di Brenta; Presanella; Cevedale; Ortles; Palla Bianca; Vetta d’Italia; Picco dei Tre Signori; Cime di Lavaredo; Marmolada; Catinaccio; Latemar; Pale di San Martino; Monte Baldo; Pasubio
Valli: Giudicarie, Val di Non, Val di Sole, Val d’Ultimo, Val Venosta, Passiria, Val Sarentina, dell’Isarco, Val Pusteria, Val Gardena, Val di Fassa, Val di Fiemme, Valsugana, Valle Lagerina
Valichi: della Mendola, del Tonale, dello Stelvio, Di Resia, del Giovo, Del Brennero, di Dobbiaco, Monte Croce di Comelico, di Sella, del Pordoi, di Costalunga, di Rolle
Fiumi: Adige, Chiese, Sarca, Brenta. Affluenti di sinistra dell’Adige: Isarco (col suo affluente Rienza), Avisio. Affluenti di sinistra: Noce
Laghi: di Garda, di Ledro, di Molveno, di Tovel, di Resia, di Braies, di Carezza, di Levico, di Caldonazzo.

Questa regione, che si incunea tra la Lombardia e il Veneto, è formata da due territori: il Trentino e l’Alto Adige. Interamente montuosa, la regione comprende le Alpi Retiche e un gruppo delle Dolomiti, che si innalzano aspre e ardite.
Numerosi laghetti alpini rendono pittoresche le verdi conche; deliziose sono le stazioni climatiche e famosi i centri sportivi invernali.
Solcata dall’Adige, questa regione, ricchissima di ricordi e di testimonianze dell’eroismo profuso dai nostri soldati nella guerra combattuta, dal 1915 al 1918, per ridare alla nostra Patria i suoi confini naturali, è una delle più pittoresche d’Italia.

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Vita economica

L’agricoltura, alla base dell’economia della regione, è una delle principali fonti di ricchezza. Sui pendii dei monti, in pieno sole, vi sono vigneti, campi di grano, di patate, di frutta, di tabacco.
Nei prati estesi e ben tenuti pascolano bovini, ovini ed equini.
Le folte e scure foreste danno abbondante e pregiato legname.
Per l’abbondanza delle acque primeggiano le industrie idroelettriche, poi quelle alimentari, le industrie chimiche, i cotonifici, le fabbriche di cemento. Attrezzatissima è l’industria turistica ed alberghiera.
Dalle cave si estraggono marmi pregiati e porfido, usato per le massicciate stradali. Notevole è pure l’artigianato.

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Province

Il Trentino Alto Adige ha un’amministrazione autonoma e comprende due province. Trento, il capoluogo del Trentino, sorge sulle rive dell’Adige. Di origine antichissima, è città ricca di ricordi storici e patriottici.
Bolzano, capoluogo dell’Alto Adige, è per la sua posizione un centro commerciale e alberghiero di prim’ordine. Vanta industrie idroelettriche, chimiche e meccaniche.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio del Trentino Alto Adige?
Il tratto delle Alpi che si erge tra il Trentino Alto Adige e il Veneto è costituito da magnifiche montagne, meta di numerosi turisti. Sai come si chiamano e quali sono le loro più attraenti caratteristiche?
Nel Trentino Alto Adige c’è la vetta che segna il punto più settentrionale dell’Italia; come si chiama? Conosci il nome di qualcuno tra i più bei laghi delle Dolomiti?
Il lago di Garda fa parte della regione?
Qual è la risorsa principale della Regione?
Che cosa offre l’agricoltura?
Quali industrie primeggiano nel Trentino?
E’ molto importante l’allevamento del bestiame?
Ricerca notizie sulla flora e la fauna altoatesina.
Il Trentino Alto Adige ha amministrazione autonoma. Che cosa significa?
Qual sono le località più importanti della Regione e perchè sono note?
Perchè nel Trentino Alto Adige si parla anche la lingua tedesca?
Perchè è famosa la Val Gardena?

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Ai confini con l’Austria

Il Trentino Alto Adige è stato giustamente definito il regno delle montagne. Infatti tutto il territorio abbraccia catene di monti, alti bacini, una grande vallata (Adige) e una serie di solchi minori. Tra le nostre regioni è quella che si spinge più a settentrione, incuneandosi tra la Lombardia e il Veneto.
Qui si trova la Vetta d’Italia, punto estremo nord del territorio italiano. Osserviamo sulla cartina il complesso di catene e gruppi montuosi del Trentino. Si possono notare in ciascuna le cime più elevate. Queste si trovano per lo più nella catena delle Alpi Atesine, sul cui crinale corre il confine con l’Austria.
Ricordiamo soltanto la Palla Bianca, il Pan di Zucchero, il Pizzo dei tre Signori con candide colate di ghiaccio. Nessuno oltrepassa i 4000 metri, eppure nel loro complesso danno un quadro  di poco inferiore per asprezza a quello visto nella cerchia piemontese. Del resto è un fatto da segnalare che man mano le Alpi si avvicinano alla loro conclusione ad oriente, vanno notevolmente abbassando le loro vette.
In questo tratto si aprono tre valichi di grande importanza per il traffico transalpino: il Passo di Resia, il Brennero, e il Passo di Dobbiaco; il primo percorso da strada,  e gli altri due da strada e ferrovia. Pure importanti per le comunicazioni con la Lombardia sono i Passi dello Stelvio e del Tonale, posti tra i gruppi dell’Adamello e dell’Ortles-Cevedale, sul lato occidentale.
Il quadro alpino più splendido, il Trentino Alto Adige ce lo riserva sul lato orientale, dal quale si innalzano le Dolomiti. Nel loro insieme costituiscono quasi un mondo a sé, notevolmente diverso dagli altri gruppi montuosi.
Si tratta di rocce di particolare formazione, di origine sedimentaria come tante del sistema alpino, ma passate attraverso altre vicende. Le Dolomiti, viste da vicino nel loro gruppi principali (il Sella, il Catinaccio, il Sasso Lungo, la Marmolada, le Pale di San Martino) presentano ora guglie slanciate, ora esili muri smerigliati, ora tozzi castelli, tra loro intagliati da paurosi strapiombi e da ripidi canaloni, ai piedi dei quali viene ad accumularsi una massa di ghiaia e di detriti che si sono staccati dalla roccia.
Completa il rilievo del Trentino Alto Adige il settore meridionale, anch’esso montuoso, costituito dai più dolci e blandi contrafforti prealpini (Monti Lessini, il Pasubio, il Monte Baldo).
Il fiume Adige è il grande collettore delle acque della regione: nasce al Passo di Resia e subito dopo pochi chilometri passa per un ampio solco dal piatto fondo, che si fa via via più dilatato e costituisce l’unico lembo di piano in mezzo a tante conche e declivi.

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L’agricoltura

La regione ha la sua principale fonte di ricchezza (metà del territorio ne è coperta) nel patrimonio boschivo, costituito per la maggior parte da alberi pregiati dell’abete rosso, del larice, del pino. Nel Trentino i boschi sono quasi tutti di proprietà comunale, così fa garantire un’equa distribuzione del reddito tra la popolazione locale; prevale invece la proprietà privata nei boschi dell’Alto Adige. Pur presentando il paesaggio vaste e verdi estensioni prative, l’allevamento del bestiame non raggiunge un livello eccezionale; le mandrie bovine vivono durante l’estate negli alti pascoli e in quelli bassi in primavera e in autunno; molti di questi pascoli, come i boschi, sono di proprietà comune.
Le vallate della regione hanno un’eccellente produzione di frutta; in particolare, uva e mele; ovunque è possibile si sviluppa la coltivazione dei cereali e delle patate.

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L’allevamento del bestiame

Nel modo di vita dei montanari, l’allevamento del bestiame appare una caratteristica importante.
I villaggi non grossi sono siti in prevalenza nei fondi vallivi; attorno ad essi si stendono minute scacchiere di campicelli, scacchiere evidenti al momento della maturazione delle messi, quando i riquadri assumono colori diversi (orzo e segale, patate, ortaggi, ecc.). Ma le risorse propriamente agricole sono in genere tutt’altro che sufficienti.
Ed ecco, ben connaturato con l’ambiente alpino, l’allevamento del bestiame bovino (quello delle pecore e delle capre ha perduto via via d’importanza): nei fondovalle, sui coni e sulle prossime falde si coltivano piante foraggere col sussidio dell’irrigazione, pratica molto diffusa nelle Alpi; radure, appositamente aperte nella fascia boschiva, offrono pascolo e prati da sfalcio; le praterie superiori al limite del bosco costituiscono una vera riserva di erba estiva, in genere utilizzata direttamente col pascolo, portandovi il bestiame dei villaggi.

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Trento

Trento, capoluogo della regione, sorge sull’Adige, tra una magnifica schiera di monti. Ha notevoli monumenti, quali il Duomo (dedicato a San Virgilio), il Castello del Buon Consiglio, la Chiesa di Santa Maria Maggiore, il Monumento a Dante (eretto nel 1896, sotto la dominazione austriaca), il monumento a Cesare Battisti, cui la città diede i natali.

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Bolzano

Situata in un’ampia conca, sulla destra dell’Isarco, è città di aspetto moderno, attivo centro industriale, commerciale e turistico, importante nodo di comunicazioni. Vi si tene annualmente una Fiera Campionaria Internazionale. Ha bei monumenti, tra cui il Duomo, Castel Roncolo (uno dei più belli dell’Alto Adige), il monumento alla Vittoria.

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Cittadine del Trentino

Centri notevoli della regione sono: Rovereto, vecchio centro industriale del setificio e patria del filosofo Antonio Rosmini; Merano, in posizione incantevole e dal clima mitissimo; Bressanone, nota stazione climatica; Riva, adagiata sulla sponda del lago di Garda e centro alberghiero; Arco, dominata da un’asperrima rupe su cui troneggiano e rovine di una rocca, che ha dato i natali al grande pittore Giovanni Segantini; Levico, famosa per le sue acque minerali terapeutiche, alle sorgenti del fiume Brenta, dominata dalle montagne degli altipiani vicentini che le stanno di fronte; Molveno, sulla riva del lago omonimo, che ebbe origine dallo sbarramento di una enorme frana preistorica (oggi è stato sbarrato, per alimentare un’imponente centrale idroelettrica); Fiera di Primiero, notevole centro di villeggiatura nella Valle del fiume Cismon, ai piedi del villaggio turistico di San Martino di Castrozza e del gruppo dolomitico delle Pale di San Martino.

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Trento

Quella graziosa, gaia, linda città che è Trento congiunge nel suo aspetto lo spirito montanaro, un avanzo d’ordine austriaco ed il pittoresco del Veneto. Non è ricca, eppure le strade sono ben asfaltate, hanno la pulizia cristallina delle Alpi. Contemplo con piacere le antiche case, con facciate dipinte di figure. Nei giorni di sole il castello del Buon Consiglio riacquista letizia benchè chiuda fra le sue mura la tomba di Battisti e degli altri martiri. Ma bisogna vedere al buio il palazzo Tabarelli che fu, secondo la leggenda, eretto dal diavolo in una notte. Piace ai trentini andare in gita a Castel Toblino… oppure nella Val Rendena, verso Madonna di Campiglio, in cui si vedono chiesette con le pareti esterne ricoperte di affreschi popolari che fanno pensare al Messico.
(G. Piovene)

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Bolzano

Percorrendo in treno il canale alpino che va da Trento a Bolzano, ci vien fatto di immaginare come venti secoli fa le legioni imperiali con le lance e le insegne romane, e i  manipoli di cavalieri, risalissero questa valle, attraverso pantani, tempeste e orrori di un’epoca presso a pressapoco antidiluviana.
Ecco infatti venirci addosso le Dolomiti che fiancheggiano la strada ferrata: ci si parano dinanzi, a tratti, improvvise di luce, ciclopiche.
Rosse, rosee, cineree pareti da scalare con le corde e la piccozza. Lassù, inaccessibili, sull’orlo degli abissi, sporgono la testa ogni tanto i fortilizi italiani, eccelsi nell’azzurro come il Walhalla.
Sotto le Dolomiti, nelle verdi e piane pezze di terra c’è la vigna bassa e fitta, coi tralci distesi e tirati a tetto come si sua nelle colline dei Castelli romani (le graticciate di ferro della linea a fili elettrici, gli orti carichi e pieni di grosse mele rosse) e le acque correnti limpide come il cristallo.
Qui si comincia a respirare, a narici dilatate, la famosa aria di Bolzano.
Quest’aria fina e leggera dalla carezza fredda, quest’arietta frizzante e movimentata, che con la complicità del vinello che c’è da queste parti ti fa venire il naso rosso, che ti assidera un po’ le orecchie, pura al cento per cento.
Bolzano è chiusa, circondata da alte montagne. La vallata è profonda, circoscritta; più che una valle è un buco. Nelle ere geologiche qui c’era forse un lago, un serbatoio naturale di acque, di fango e di mostri anfibi di una specie umida e favolosa, perduta ormai per sempre; adesso c’è un clima asciutto, secco, l’aria pungente e pura e il fiume Isarco: velo trasparente d’acqua che le vivaci trote risalgono.
Qui tutto esprime la gioia di vivere: i grandi alberi con il fogliame così pulito e risplendente di freschezza che si direbbe l’abbian messo in bucato e poi ad asciugare sotto il tenero sole di Bolzano; le fontane di acque alpine che scrosciano davanti alla stazione; il largo e tranquillo traffico degli uomini e delle automobili.
(B. Barilli)

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La campana dei caduti

Nella Val Lagarina, in prossimità di Trento, giace Rovereto, industre cittadina lambita dall’Adige. Tra i monti dei dintorni, alcuni portano nomi che ricordano l’eroismo e la tenacia dei soldati italiani durante la prima guerra mondiale: il Pasubio, l’Altopiano di Asiago, la Cima Dodici, che furono teatro di battaglia tra le più aspre che insanguinarono i monti della patria. Oggi Rovereto lavora tranquilla e operosa nella sua conca, battuta dal sole implacabile dell’estate e dai rigidi venti dell’inverno; ma non dimentica i Caduti di quelle epiche lotte sostenute per l’indipendenza di quell’estrema regione d’Italia. Glieli ricordano i 36 cimiteri di guerra che la circondano; gliela ricorda Maria Dolente, la campana che ogni sera batte cento rintocchi in loro memoria e in memoria dei Caduti delle guerre di tutto il mondo. Fusa nel bronzo dei cannoni degli eserciti che parteciparono alla prima guerra mondiale e benedetta con l’acqua dei fiumi e dei mari che furono testimoni delle più aspre battaglie, i suo i rintocchi sono come voce di madre che implori la pace per i figli diletti.

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Un po’ di geologia

Le Dolomiti costituiscono un mondo alpino a sé stante sia per confermazione geologica che per aspetto.
Esse devono il loro nome al geologo Deodat Gratet de Dolomieu che, per primo, ne studiò la complessa costituzione. Alla cosiddetta “dolomia principale”, che è l’elemento più evidente, si intercalano rocce tenere e rocce calcaree: mentre le prime offrono una limitata resistenza all’incessante opera modellatrice degli agenti esogeni, cioè all’azione di ghiacci, delle piogge e del vento, le rocce calcaree rimangono nettamente staccate, compatte su estese fasce e falde di detriti e di ghiaia.
Nel paesaggio dolomitico, quindi, mancano i grandi altipiani, appaiono raramente le creste continue e i fianchi ampi e poderosi arrotondati dalla millenaria azione dei ghiacciai. Le Dolomiti sono il regno delle moli isolate, delle cime dagli aspetti più complessi, più strani, più irreali: guglie slanciate e tozzi castelli, miri sottili ricamati da aerei trafori e bastioni poderosi come giganteschi contrafforti. E strana, pittoresca è la nomenclatura che ben si s’addice alla singolarità del paesaggio: piz (pizzo), croda (roccia nuda, parete), pala (parete rocciosa), cadin (conca) giaroni (falde di ghiaia).

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Strade dolomitiche

Non ci sono ghiacciai sulle dolomiti: ci sono laghetti azzurri, scuri abeti secolari, pascoli verdi e nudi picchi di roccia. Sono rocce rosa, grige, color oro o color sabbia, a seconda del sole; sono rocce solide e potenti o guglie sottili in bilico sui declivi erbosi; sono talvolta strane moli che sembrano, con il variare delle luci, cattedrali o castelli. E fra queste rocce, fra questi abeti, fra questi pascoli si inerpicano le strade dolomitiche; salgono ai valichi famosi, al Pordoi, al Rolle, al Falzanego; vengono dalla Val Gardena, dalla Val Pusteria, dal Lago di Carezza, vanno verso Cortina d’Ampezzo, verso l’incanto di Misurina.
(A. Danti)

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La leggenda dell’edelweiss

Nelle Dolomiti viveva un re il cui figlio sognava da anni di andare sulla Luna. Un giorno il principe riuscì a realizzare il desiderio, aiutato da due strani omini che però lo avvisarono: “Non resterai a lungo lassù; lì è tutto bianco ed abbagliante e ci perderesti la vista”.
Infatti dopo non molto tornò sulla Terra, portandosi in sposa la figlia del re della Luna, che era bellissima e diffondeva, attorno a sé, una gran luce bianca. La principessa aveva recato certi fiori bianchi che sulla Luna coprivano campi e monti come uno strato di neve. E questi fiori si diffusero per tutte le Alpi; gli Italiani li chiamano “stelle alpine” e i Tedeschi “edelweiss”.

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Dimore di pastori nel Trentino

Nella zona dei prati e dei pascoli di alta montagna sono comuni le “malghe” e le “manzare”, dimore temporanee che servono per la monticazione estiva rispettivamente delle mucche da latte e delle bestie asciutte.
Le malghe constano di solito di due fabbricati costruiti di muro e coperti con tetti di scandole, ossia assicelle di legno; uno, il maggiore, è la stalla. In esso si tengono chiusi gli animali durante la notte. L’altro, più solidamente costruito e meglio riparato, è la malga propriamente detta, dove vivono e dormono il malgaro con la  famiglia e talvolta anche i pastori. I locali essenziali sono tre: la cucina, dove si lavora il latte; il locale dove si conserva il formaggio e quello dove si mette il latte ad affiorare.
Nella cucina trovi un primitivo focolare formato da tre o quattro sassi grossi, intorno al quale ci sono delle rozze panche. E’ il focolare d’uso privato, dove i pastori e il malgaro si preparano i pasti: immancabile la polenta di granoturco, meno frequente di grano saraceno, che si mangia col formaggio o col latte o con la ricotta. Su una tavola, spesso fissata al muro, e su rozze mensolette trovi disposte le scodelle e le ciotole di terracotta, il vasetto del caffè e quello del sale. In un canto la padella e il paiolo di rame.
Di fronte al focolare, in una rientranza del muro, c’è la caldaia di rame, di grandi dimensioni, ove si riscalda il latte spannato e si prepara il formaggio. Vicini alla caldaia si vedono dei bastoni a un’estremità dei quali sono infissi, a raggiera, dei pioli: sono gli strumenti che si adoperano per la cagliata, adattissimi a smuovere la massa che va cuocendo. Essenziale in una malga, oltre la caldaia, è la zangola, una specie di botticella girevole sopra un sistema di leve, nella quale si batte la panna per trarre il burro. Completano l’arredamento della cucina: la cassapanca dove si tengono le farine, i secchielli che si usano per mungere il latte, il ceppo con l’accetta per spaccare la legna, le schiumarole di legno per spannare il latte, il brentone (grande mastello dove si conserva il siero), qualche mestolo di legno col mestolone della polenta.
Annesso alla cucina è il locale dove si mette il latte appena munto, tenendovelo dalla sera alla mattina, affinché vi faccia la panna. Si procura che il locale sia fresco scegliendolo a tramontana e facendovi scorrere l’acqua per dei canaletti scavati nel suolo. Vicino al locale del latte c’è il locale dove si conserva il formaggio, collocato su mensole di legno alte da terra e sostenute da paletti conficcati trasversalmente nel muro.
(L. Bertagnolli)

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Un lago rosso

Le acque del laghetto di Tovel, nelle dolomiti, ogni estate si fanno di color rosso sanguigno. Nulla di strano! E’ il clenodio, animaletto microscopico che in questa stagione si moltiplica enormemente, a dare questa tinta a quell’acqua, giacché il clenodio è rosso e d’estate si ammassa sulla superficie dell’acqua.
Non abbiamo quindi solo il Mar Rosso che deve il suo nome a un fenomeno molto simile, ma anche il Lago Rosso.

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Fauna e flora trento-atesina

Limitandoci a percorrere le strade, non troveremo che animali e piante comuni. E’ nei boschi, cominciando dai 500 metri di altezza e, via via salendo fino ai 3000, che potremo imbatterci in lepri grige e bianche, in caprioli, in marmotte, in volpi, in tassi, in orsi, in rettili, in cervi e, là dove si elevano le rocce, anche in qualche esemplare di camoscio. Fra gli uccelli potremmo incontrare l’aquila, il gallo cedrone, il francolino, la starna, la coturnice, il lucherino.
Tra i numerosi pesci di fiume e di lago ricordiamo la trota, il salmerino, il carpione, la carpa, la tinca, il barbo,…
Per la flora ricorderemo, accanto all’olivo che prospera sulle rive del Garda, il cipresso, l’alloro, il rosmarino, il fico, il cappero, e, accanto alla stella alpina, il rododendro, la sassifraga, la primula, la campanula, il nasturzio, la genziana.
La fioritura dei pascoli alpini, meravigliosa, è una delle più gentili attrazioni della regione.

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Il Trentino Alto Adige

Meravigliosi panorami montani, aperti pascoli, folte foreste: ecco quello che ci ricorda il nome di questa regione. Ma, soprattutto, vediamo il magico gruppo delle Dolomiti con le loro pareti a picco, profondamente incise dalle piogge e dai venti, coi loro pinnacoli aguzzi che le fanno somigliare a cattedrali immense, con la loro colorazione di madreperla, sempre variante dal rosa al viola, talora squillante in toni di fiamma. Nessuna meraviglia se l’industria alberghiera prospera in questo paese e ne costituisce la principale risorsa.

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Frutteti Alto Atesini

Il treno fila veloce nell’ampia vallata dell’Adige tra il succedersi di grosse e piccole borgate, di vigneti, di frutteti e campicelli di granoturco. Tutta la vallata è il regno della frutta. I più intraprendenti frutticoltori per ottenere un prodotto perfetto, per avere cioè mele senza il più piccolo difetto, quando il frutto di primavera è ancora piccino, lo racchiudono in un sacchetto di carta cerata che lo protegge dalle eventuali nebbie e dalle punture degli insetti, e lo lasciano fino a quando il frutto può dirsi maturo.
Ma dentro al sacchetto di carta il frutto rimane verde, e perciò un po’ prima della raccolta, si tolgono uno ad uno i sacchetti che a centinaia pendono da ogni albero, perchè le mele acquistino il bel roseo e il giallo dono del sole. Bisognerebbe essere qui all’inizio della primavera, quando fioriscono mandorli, pruni, peschi, ciliegi, peri e meli. La valle è tutta un fiore, ed è uno spettacolo meraviglioso.
(G. Assereto)

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Dolomiti

Variano ad ogni variare delle ore, hanno la stessa mutabilità del mare. Il vento, le nubi, il giorno, la notte, il sole e la luna le riplasmano ad ogni istante. A volte tra cumuli di nubi grigie la luce scende perpendicolarmente e rasente illuminando le erte pareti di barlumi freddi come nell’interno di una cattedrale; contro la prima luce dell’alba appaiono nere, informi ed immiserite, ma poi il sole arriva a definirle precise in ogni contorno, accendendo nell’azzurro nettissimo il rosso aragosta delle spaccature profonde. Nel pomeriggio con calde nubi immobili le cime si inombrano tra squarci di sole, ma la loro massiccia potenza è nelle giornate di tempesta: allora tra l’irto delle punte è formidabile il tumulto di sublimi battaglie.
(G. Comisso)

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La valle dei giocattoli

Val Gardena! Una guida avverte il viaggiatore che fino a non molti anni fa si esportavano da qui settecento quintali di lavori in legno scolpito, ci cui la metà tra santi e altari e metà giocattoli-
Trecentocinquanta quintali di giocattoli per anno! Oh, valle di delizia! Valle di sogno! Per secoli questa gente è cresciuta in mezzo a questo silenzio di nevi tra invenzioni ilari e gioconde, ideando buffi congegni e personaggi gaudiosi, per l’estro sempre accesso e rivolto ad una gioia di bimbo, o al suo stupore ingenuo e ridente. Ed ha inondato il mondo di questo riso fecondo.
(G. Cenzato)

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Bolzano

Bolzano è opulenta, moderna. Ma la sua bellezza è gotica: le sue vie fiancheggiate di portici, abbellite non tanto da questa o da quella costruzione, quanto dal movimento degli angoli e dalle sporgenze che creano fondali e teatro, giochi di luce. Il suo sapore viene dall’incontro di questo sfondo con l’emigrazione italiana. Una folla irrequieta, petulante, variabile, che parla forte in diversi dialetti, si esibisce, gesticola, litiga, simile a un o sciame di maschere nello scenario opaco delle case e degli animi locali. Appare nel contrasto più meridionale. Bolzano è una città di montagna dell’Austria a cui si sovrappone un porto levantino.
(G. Piovene)

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Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta

Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta per la scuola primaria. Per la fabbricazione della carta coi bambini e altri cenni storici vai qui: Fare la carta coi bambini.

L’argomento si presta ad essere affrontato anche nell’ambito della Quarta grande lezione Montessori

Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta
Dall’albero al giornale

Ognuno di noi sa che la carta si fa ora, quasi tutta, con la corteccia degli alberi, ma non tutti sanno quanto poco tempo occorra perchè un albero si trasformi in carta.
Ecco che cosa accadde un giorno in una grande fabbrica di carta.
Alle sette e trentacinque del mattino, tre alberi furono tagliati nella foresta, portati subito alla fabbrica, scorticati e macinati. Il legno fu ridotto, passando per diversi bagni, ad un pasta la quale fu subito portata alle macchine della carta, che la distesero in fogli sottili, e alle nove e trenta usciva il primo foglio di carta.
La tipografia di un giornale quotidiano sorgeva a quattro chilometri di là, e il foglio portato da un’automobile fu immediatamente messo sotto la rotativa. Alle dieci del mattino usciva il giornale stampato.
Erano bastate due ore e venticinque minuti per leggere le notizie del giorno su di un foglio di carta, che quella mattina stessa era parte di un albero dritto e fiero nella foresta. (F. Lombroso)

Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta
Come si fabbrica la carta

I fusti vengono segati in pezzi regolari e passati in uno scortecciatore e quindi uno sminuzzatore che riduce i pezzi di legno in minuti frammenti. Questi frammenti con un nastro trasportatore vengono immersi in un mescolatore cui il legno viene mescolato a calcare e ad altre sostanze che concorrono a fare del legno una pasta omogenea. Questa pasta viene raccolta in un serbatoio e da qui passata su una tavola piana che porta la pasta a rulli pressori dai quali esce il foglio di carta che passa attraverso una serie di essiccatori. Per cento chili di tale pasta occorrono trecento chili di legno. Per via chimica, invece, si ottiene la cellulosa. La carta pronta viene calandrata, cioè avvolta in grossi rotoli per essere messa in commercio.
La carta venne fabbricata per la prima volta con fibre vegetali in Cina; gli Arabi la introdussero in Sicilia. Le grandi cartiere di Fabriano risalgono al 1276.

Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta
La carta

Carta da lettera, carta da sigarette, carta da giornali, carta moneta, carta da pacchi: quindici milioni di tonnellate  almeno di carta di diverso tipo vengono prodotti ogni anno nel mondo. Intere foreste vengono, ogni anno, trasformate in poltiglia di cellulosa, consegnata poi alle cartiere.
La materia prima della carta italiana è il pioppo o anche la canna gentile (lavorata a Torri di Zuino, presso Cervignano del Friuli), mentre a Foggia si lavora con successo la paglia, per la carta da imballaggio.

(in costruzione)

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Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA

Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Osserviamo la cartina

Confini: Svizzera, Trentino Alto Adige, Veneto, Emilia, Piemonte
Monti: Alpi Centrali (Lepontine, Retiche, Orobie); Prealpi Lombarde (Bergamasche e Bresciane)
Cime più alte: Bernina, Disgrazia, Ortles, Cevedale, Adamello (Alpi Centrali);  Grigna settentrionale, Resegone, Presolana (Prealpi Lombarde)
Valli: Valle del Ticino, di San Giacomo, Val Bregaglia, Valtellina, Val Camonica (Alpi); Val Brembana, Seriana, Trompia (Prealpi)
Valichi: Spluga, Maloggia, Aprica, Stelvio, Tonale.
Colline: del Varesotto, della Brianza, del Garda, Oltrepò Pavese
Pianure: Padana, con alcune zone ben delimitate (Lomellina)
Fiumi: Po. Affluenti di sinistra: Ticino, Olona, Lambro, Adda con l’affluente Serio, Oglio con gli affluenti Mella e Chiese, Mincio.
Canali: Naviglio Grande, Naviglio Pavese, Naviglio della Martesana, Canale Villoresi
Laghi: Lago Maggiore (lombarda solo la sponda orientale), Lago di Lugano (lombardi i rami estremi), Lago di Como, Lago di Garda (lombarda solo la sponda occidentale), Lago d’Idro, Lago di Monate, Lago di Comabbio, di Pusiano, d’Annone, d’Endine, di Varese.

La Lombardia deve il suo nome ai Longobardi, che la occuparono nell’anno 568 e posero in Pavia la loro capitale.
La Lombardia confina ad ovest col Piemonte, a nord con la Svizzera, ad est con l’Alto Adige, il Trentino ed il Veneto, a sud con l’Emilia. La parte settentrionale di questa regione è montuosa, comprende le Alpi Lepontine, le Retiche e le Orobie, che degradano nelle Prealpi Lombarde, percorse da amene valli ed adornate da pittoreschi laghi; la parte meridionale della Lombardia si estende nella Pianura Padana, irrigatissima. Solo nell’estremo lembo dell’Oltrepò Pavese si allunga l’Appennino Ligure. Dalle Alpi scendono vari corsi d’acqua, tutti affluenti di sinistra del Po ed in genere immissari ed emissari dei laghi. Si ha, al confine col Piemonte, un buon tratto di Lago Maggiore (la sponda orientale) da cui esce il Ticino; pure lombarda è una piccola porzione di costa del lago di Lugano. Dal lago di Como scende l’Adda, dall’Iseo l’Oglio, dal Garda il Mincio, che segna il confine col Veneto; da ricordare anche i fiumi Brembo, Serio, Chiese e Mella.
La regione, a breve distanza dagli scali marittimi di Genova e di Venezia, è pure centro di un grande traffico commerciale, ed occupa i primi posti nelle attività industriali e nell’economia del nostro Paese.

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Economia

Anche la Lombardia, come il Piemonte, comprende tre zone: la montuosa, la collinare e la pianeggiante.
La zona alpina, ricca di pascoli, favorisce l’allevamento del bestiame, il quale, praticato con criteri razionali anche in pianura, permette di ottenere una sempre maggiore produzione di latte.
Sulla collina e in pianura si producono in abbondanza uva, frutta, granoturco, frumento, foraggi, riso, barbabietole da zucchero e ortaggi.
L’industria è molto sviluppata, in ogni settore produttivo. Modesti sono invece i prodotti del sottosuolo.
Il commercio è molto attivo ed è favorito da una fitta rete di vie di comunicazione (stradali, ferroviarie ed aree).

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Province della Lombardia

La Lombardia è divisa in dodici province.
Milano è un grandissimo centro industriale e commerciale, tra i maggiori d’Europa. Oltre le sue industrie, la città vanta splendidi monumenti e insigni opere d’arte.
Bergamo, la “città dei mille”, posta trai fiumi Brembo e Serio, raccoglie e commercia i prodotti delle sue ricche e laboriose vallate prealpine.
Brescia, detta “leonessa d’Italia”, sorge allo sbocco della industriale Val Trompia, al limite delle Prealpi e la fertilissima pianura. Ha notevoli complessi industriali, tra i quali primeggiano le fabbriche di armi.
Como, sul lago omonimo, fu patria di Alessandro Volta. Nota per le seterie, è un notevole nodo stradale e ferroviario situato a poca distanza dal confine svizzero.
Cremona, importante per le sue industrie alimentari, fu patria dei più celebri liutai d’Europa. Anche oggi vi si fabbricano violini e pianoforti.
Lecco  è celebre per essere il luogo in cui Alessandro Manzoni ambientò il romanzo de I Promessi Sposi, che costituisce la più significativa eredità culturale lecchese, oltre ad affermarsi fra Ottocento e Novecento come uno dei primi centri industriali in Italia.
Lodi è un importante nodo stradale e centro industriale nei settori della cosmesi, dell’artigianato e della produzione lattiero-casearia. È inoltre il punto di riferimento di un territorio prevalentemente votato all’agricoltura e all’allevamento.
Mantova, nei cui pressi, a Pietole, nacque Virgilio, è posta sul Mincio. La sua provincia ha un’economia prevalentemente agricola.
La provincia di Monza e della Brianza è stata istituita nel 2004, ed è divenuta operativa nel 2009 con l’elezione del primo consiglio provinciale. E’ nata dallo scorporo di una porzione di territorio della allora provincia di Milano. Capoluogo della provincia è Monza, già residenza estiva del regno longobardo all’epoca di Teodolinda e Agilulfo.
Pavia, la romana Ticinum, è mercato agricolo e città industriale. E’ anche sede di una famosa Università.
Sondrio, sul fondo dell’ampia Valtellina, è città rinomata per l’industria enologica, le centrali elettriche ed i boschi che danno prezioso legname.
Varese, la gemma delle Prealpi, situata tra i laghi di Varese, Maggiore e di Lugano, è centro turistico, ma soprattutto industriale.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio della Lombardia? Quali gruppi montuosi vi si elevano? Quali ne sono le cime principali?
Nomina i principali valichi alpini che permettono le comunicazioni fra la Lombardia, lo Stato confinante e le altre regioni.
Quali sono oltre al Lago di Como gli altri laghi della Lombardia?
Come si chiama la grande pianura che si estende nella parte meridionale della Lombardia e che è anche la più vasta d’Italia? Da quali fiumi è solcata?
Segui il corso dell’Adda dalla sorgente: come si chiama la valle entro cui scorre nel primo tratto? E il lago di cui è immissario? Come si chiama il canale che collega le sue acque con quelle del Ticino? Di quale fiume è affluente l’Adda?
Quali sono le principali attività economiche della regione?
Quali sono i principali prodotti agricoli?
Perchè è famosa la fiera di Milano?
La regione vanta complessi industriali famosi non solo in Italia, ma in tutto il mondo: ricordi i principali?
Ricerca notizie sull’artigianato, le tradizioni, gli usi e i costumi della Lombardia.
Quante e quali sono le province in cui è suddivisa la Lombardia?
Per che cosa è nota la città di Como? E Cremona? E le altre province lombarde?
Da Milano si irradiano grandi autostrade: verso quali città? Osserva le linee ferroviarie che partono da Milano in direzione est, ovest, nord, sud: quali centri collegano? Dovendoti recare da Mantova a Varese quali città attraverseresti? E se da Voghera volessi giungere a Brescia quali fiumi dovresti attraversare?

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La Lombardia

La Lombardia, coronata dalle Alpi Lepontine e Retiche e limitata dall’ininterrotta via d’acqua Garda-Mincio-Ticino-Po, è terra aperta e luminosa, tutta pervasa da un ritmo febbrile di vita. Nessun’altra regione, forse, come questa, presenta condizioni tanto diverse: pianura, collina, montagne, nettamente delimitate; centri fragorosi di industrie e commerci come Milano e Brescia, e quiete cittadine prevalentemente rurali come Lodi e Mantova, ostinatamente impegnate nella grande battaglia da cui gli uomini traggono il pane. In Lombardia si trova il maggior numero di laghi alpini; sono lombardi infatti i laghi di Como e d’Iseo, tutta la parte italiana del lago di Lugano, la riviera orientale del lago Maggiore e quella occidentale del lago di Garda. (C. Paci)

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Le vie di comunicazione

Da Milano si irradia una fittissima rete di strade, autostrade e ferrovie dirette verso le altre regioni italiane e verso l’estero. A Milano fanno capo le autostrade per Torino, Varese, Como, Bergamo, Brescia, Verona, Padova, Mestre, Trieste, Napoli (autostrada del sole) e Genova.
Tutta la regione è solcata da strade statali e provinciali: importanti sono quelle dirette ai passi dello Spluga (Svizzera), dello Stelvio e del Tonale (Trentino Alto Adige). Milano è nodo ferroviario di importanza internazionale per tutte le linee che si diramano verso il Sempione, il San Gottardo e gli Stati dell’Europa occidentale e orientale, e, attraverso la Pianura Padana, lungo tutta la penisola. La Lombardia è servita dagli aeroporti della Malpensa e di Linate, nei pressi di Milano.

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Le vie d’acqua

Quando le strade erano scarse e mancavano motori e treni, esistevano già in Lombardia alcune assai utili vie d’acqua.
Il Naviglio Grande è forse il più antico dei canali: risale al 1777 ed ha una lunghezza di 150 chilometri. Esce dal Ticino e giunge a Milano, a Porta Ticinese; fu questo naviglio che permise di trasportare da Candoglia, presso Fondotoce sul Lago Maggiore, i marmi per il Duomo, su ampi barconi.
Il Naviglio di Pavia congiunge Milano col Ticino, che confluisce nel Po. Attraverso questa via d’acqua si poteva raggiungere il Mare Adriatico.
Il Naviglio della Martesana esce dal fiume Adda in vicinanza di Trezzo e giunge quindi a Milano. Fu ideato e voluto, nel 1460, da Francesco Sforza; venne prolungato da Ludovico il Moro. Questo naviglio prese il nome del contado della Martesana, che attraversa.
Il Canale Villoresi serve ad unire il Ticino con l’Adda. Le sue acque rendono più fertile la bassa Brianza. Fu iniziato nel 1881 e porta il nome del suo ideatore.

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Il lago di Como

Chi ha vissuto una sera d’estate in riva a un lago sa che cosa sia la beatitudine. Un calore fermo, avvolgente, sale in quell’ora dalle acque che sembrano  lasciate lì, immobili e qua e là increspate dall’ultimo fiato di vento che il giorno andandosene ha esalato, e il loro aspetto è morto e grigio. Si prova allora, più che in qualunque altro istante della giornata, quella dolce infinita sensazione di riposo auditivo che danno le lagune, dove i rumori non giungono che ovattati.. Come sanno d’acqua le parole che dicono i barcaioli che a quell’ora stanno a chiacchierare sulla scaletta! Come rimbalzano chiocce nell’aria! I rintocchi delle squille lontane attivano all’orecchio a grado a grado e rotondi, scivolando dall’alto del cielo pianamente a guisa di lentissimi bolidi. La sera scorre placida, è tutta un estatico bambolarsi, un fluire di cose silenziose a fior d’acqua. Naufraga d’un tratto in un chiacchiericcio alto, intenso, diffuso, simile al clamore di una festa lontana, appena si accendono i lampioni, tra le risate e le voci varie e gaie che escono dagli alberghi dopo cena e il fragore allegro di un pianoforte che giunge dall’altra riva.
Poi tutto sfuma e rientra ben presto nel gran silenzio lacustre, dove più non si ode che il battere degli orologi che suonano ogni quarto d’ora, a poca distanza l’uno dall’altro, da tutti i punti della sponda, e quel soave, assiduo scampanio delle reti che i pescatori lasciano andare di sera alla deriva, che fa pensare insistentemente a un invisibile gregge in cammino.
Nelle notti di luna piena i monti che non la ricevono sono cento volte più neri e le vie ed i viottoli della campagna paiono tante scie di lumaca.
(V. Cardarelli)

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Agricoltura

Nel settore agricolo la Lombardia è ai primi posti tra le regione italiane. Ciò è dovuto sia a motivi d’ordine naturale (la grassa terra padana, l’abbondanza di acqua e le tiepide risorgive) sia ad una razionale organizzazione del lavoro umano, che si avvale dei più moderni ritrovati meccanici e chimici (macchine, concimi ecc…). Nell’alta pianura, dove sono stati scavati numerosi canali, si produce mais; nella bassa grano e riso. La produzione di foraggi, ingentissima, è favorita dalle marcite, ove, sfruttando l’acqua delle risorgive (18° di temperatura) si attuano sette o otto raccolti l’anno. Notevole anche la produzione di barbabietola, canapa, ortaggi, patate e legumi. In regresso è la cultura del gelso per l’allevamento del baco da seta; molto sviluppato è l’allevamento dei bovini. Sviluppatissima è l’industria dei latticini, con lo scarto dei quali di confezionano mangimi per l’allevamento dei suini. Nelle colline vi sono frutteti e vigneti; attorno ai laghi il clima permette la coltivazione di olivi e agrumi.

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La marcita

E’ una speciale caratteristica coltura a prato della regione lombarda. La  denominazione deriva dal pratum marcidum, cioè terra bassa, con acque non del tutto stagnanti.
L’osservazione, assai antica, del persistere di una certa vegetazione a prato, anche durante il periodo invernale, fece sorgere l’idea dell’irrigazione in tempo d’inverno, usufruendo della abbondanti acque del terreno. Dapprima si trattò di distribuire meglio l’acqua sorgiva (della zona dei fontanili), favorendone anche il deflusso.
Si attribuisce a San Benedetto ( secoli V – VI) il merito di aver insegnato ai contadini lombardi i metodi di tale coltura, ma i maggiori perfezionamenti si ebbero più tardi, nel secolo XIX, con l’attuazione di impianti di irrigazione, studiati per tale scopo.
D’inverno le marcite si presentano verdeggianti, perchè sono irrigate dall’acqua delle sorgive che hanno una temperatura relativamente elevata, che impedisce il gelo.
Importanti marcite si trovano nei dintorni di Melegnano; questa zona viene irrigata dalle acque della Vettabbia, che attraversano Milano.
Con il sistema delle marcite si possono avere vari raccolti  di erba falciata; in genere da sei a otto tagli.

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Milano

Milano è il capoluogo della Lombardia. E’ una città movimentatissima e di aspetto moderno. Annualmente vi si teneva la Fiera Campionaria Internazionale, che era tra le più importanti nel mondo. Attualmente la Fiera di Milano è costituita dai due poli espositivi di Fieramilano (situato in un’area al confine tra i comuni di Rho e di Pero) e di Fieramilanocity (situato nel quartiere Portello del comune di Milano). E’ il polo fieristico più grande d’Europa.
Vanta quattro Università e il Teatro alla Scala, uno dei più celebri teatri lirici del mondo; ospita numerose gallerie d’arte, musei di eccezionale interesse, e parecchie manifestazioni culturali.
Ha grandiosi monumenti, tra cui lo splendido, marmoreo Duomo, con la famosa Madonnina dorata sulla più alta guglia; poi la Basilica di San Lorenzo, la Basilica di Sant’Ambrogio, la Chiesa di Santa Maria delle Grazie (con il Cenacolo di Leonardo), il Palazzo della Ragione, il Castello Sforzesco, il Palazzo di Brera, la Galleria Vittorio Emanuele II.

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Milano, città che risorge

Durante la seconda guerra mondiale, Milano, che ormai superava il milione di abitanti ed era il più importante centro industriale d’Italia, subì una lunga serie di bombardamenti aerei, molti dei quali a tappeto, che la distrussero in gran parte. Quando la guerra finì, la città appariva come svuotata: i muri superstiti, con le occhiaie vuote delle finestre che lasciavano vedere il cielo, si levavano dritti come quinte di un tragico scenario. Le vie erano sconvolte e intasate dalle macerie, i servizi quasi inservibili, la popolazione viveva ammucchiata nelle poche case ancora abitabili e rabberciate alla meglio, senza vetri alle finestre, con i tetti sconnessi e gocciolanti, e porte scardinate; oppure abitava nei paesi dei dintorni e si sottoponeva alla fatica di continui viaggi con mezzi di fortuna, pur di non abbandonare il lavoro, sperando in un domani migliore. Questo domani migliore è venuto per merito soprattutto della febbrile attività dei Milanesi. Milano si merita davvero il soprannome di “capitale morale d’Italia”.

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Il duomo di Milano

Chi non l’ha veduto se non in fotografia, quando gli si trova davanti prova un senso di stupore, quasi di sgomento. Possibile che dei piccoli uomini, unendo marmo a marmo, abbiano elevato una montagna simile, traforata come un gioiello, gremita di statue, fiorita di ricami aerei, candida di un candore roseo di carne e di un biancore azzurrino d’argento? E’ possibile sì, ragazzi miei, perché quei piccoli uomini avevano due cose che smuovono le montagne: fiducia e genio.
Entriamo ora nel tempio. Cinque navate immense; una selva di piloni colossali che si ramificano, lassù, a reggere le volte venate come foglie, e, tutt’attorno, finestroni eccelsi che riversano raggi colorati dalle vetrate incandescenti di rubino e d’azzurro, nella penombra piena di mistero.
Ma poiché siamo a Milano voglio dirvi alcuni numeri precisi che vi faranno sgranare gli occhi: sapete quanto è lungo il Duomo? Centocinquantotto metri. Sapete quanto è alto, dal suolo alla corona di stelle della Madonnina? Centootto metri, l’altezza di un colle. Sapete quanti sono i finestroni esterni? Centosessantanove, per servirti. E quante le guglie? Centoquarantacinque. E quante le statue? Circa tremilacinquecento, la popolazione di un paese. E indovina indovina… quanto pesa? Pesa centottantaquattro milioni di chilogrammi. Non uno di più né uno di meno.
(G. E. Mottini)

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Città dell’eterna giovinezza

Pavia è la città goliardica per eccellenza. Molte altre città italiane hanno, tra le loro mura, un Ateneo: qualcuna può anche vantare un Ateneo più insigne di questo pavese, per anzianità e per il nome di qualcuno dei suoi Maestri. Ma forse nessuna città italiana vive, come Pavia, dei suoi studenti. Si direbbe che essa respiri del respiro del suo Studium. D’estate, per esempio, svuotata com’è di tutta la sua ventenne popolazione goliardica, quando i porticati dell’Università si allungano deserti e silenziosi intorno ai cortili quadrati dove ancora l’erba tenera cresce tra i sassi bianchi; quando nelle aule addormentate non s’ode che il ronzio di qualche moscone che danza nel pulviscolo d’oro di un raggio di sole, e le cento lapidi che tappezzano i muri si rimandano l’una con l’altra gli elogi dei grandi Maestri che vi tennero cattedra; d’estate, Pavia si direbbe che sonnecchi sulle rive del suo bel Ticino gonfio di mulinelli e di minuscoli vortici, tra i due ponti: quello nuovo che la guerra ha rispettato e il Ponte Coperto.
Ma quando viene l’autunno, e lungo i boschi del Ticino cominciano a salire le prime nebbie azzurrine, tornano gli studenti, e la città si ravviva, il ritmo delle sue giornate di fa gioioso e vibrante, le strade si rifanno giovani, i cortili dell’Università si ripopolano, le aule si affollano, i due grandi Collegi, il Ghislieri e il Borromeo, ridiventano due giganteschi alveari di giovinezza. E’ una specie di rito, diventato, lungo il corso dei secoli, abitudine di vita. Ecco perchè a fogliare le vecchie cronache universitarie, e soprattutto le vecchie cronache di quel Ghislieri che gli studenti si tramandano con geloso amore di generazione in generazione, da quasi cinque secoli, come potrebbe una famiglia tramandare una vecchia casa che d’anno in anno si rinnova; ecco perchè si trae la sensazione che Pavia sia una città privilegiata. E’ il privilegio dell’eterna giovinezza, in fondo: una fiaccola che ogni “sfornata” di laureati consegna, occhi negli occhi, e attenti a non mancare alla consegna all’infornata di matricole.
“Ragazzi” dicono i ‘vecchi’ andandosene (e chissà cosa costi loro lasciare questa cara città), “Ragazzi, noi ce ne andiamo, la vita ci chiama e sarà quel che sarà. Ma voi, che venite a riempire il vuoto che noi lasciamo; voi che raccogliete dalle nostre mani questa secolare eredità di fresca gaiezza e di gioconda primavera spirituale (primavera, sissignori, anche quando scende fitta la neve  e mette gli orli di velluto bianco sulla severa facciata di San Pietro in Ciel d’Oro, e dell’incompiuto duomo del Bramante e sull’incanto romanico di San Teodoro che bisogna andare a scoprire per stradette medioevali e di quel San Francesco che è un esempio di snella gotica eleganza; e incappuccia di ermellino le statue che popolano i cortiletti dell’Università; primavera anche quando le gelide piogge sferzano le piccole piazze e le anguste strade e trasformano il corso in un torrentello che domandava dei ponticelli di legno per passare dall’uno all’altro marciapiedi): voi che raccogliete questa nostra eredità benedetta, siatene degni, continuatela con impegno, in questi indimenticabili anni che il destino vi ha concesso di trascorrere tra il Castello visconteo e il Ticino…”
(G. Cornali)

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Valenti armaioli a Brescia

Un tempo Brescia fu famosa in tutto il mondo per le sue fabbriche di armi. Tale industria si sviluppò perchè le valli a nord della città erano ricche di minerali, specialmente di ferro di ottima qualità. Ne approfittò particolarmente Venezia, che durante il periodo della sua massima potenza commissionò a Brescia, che le era soggetta, le sue armi migliori. Gli armaioli bresciani per due secoli fornirono gli eserciti di Venezia e di mezza Europa.
La decadenza di un’industria tanto fiorente cominciò quando Brescia fu dominata dagli Austriaci i quali non permisero a un’attività tanto pericolosa per loro di prosperare. I nomi dei più valenti armaioli sono affidati alle armi da loro costruite. Così un fabbricante, Lazzarino Cominazzo, diede il nome alle canne che da lui si dicono “lazzarine” (in Brasile fino al principio del XX secolo “lazzarina” era sinonimo di pistola). Ancor oggi la pistola calibro 9 in dotazione all’esercito di chiama “Beretta”, dal nome di un noto armaiolo bresciano.

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Bergamo, città sana. Uomini solidi, facce di alpini

Non si è ancora usciti da Milano, e già si arriva a Bergamo. Le lunghe ore del cammino di Renzo fino all’Adda ed oltre sono diventate, sulle fettucce di asfalto dell’autostrada, minuti, pochi minuti. Bergamo bassa, il Borgo come ancora dicono i vecchi, se ne sta appiattata nella pianura; la si sfiorerebbe, quasi senza accorgersene, se non fosse per il faro della città alta. Stretta nelle sue mura venete,  adagiata su un tappeto di foschia invernale, la vecchia Bergamo sembra sospesa a mezz’aria: come l’isola volante dei viaggi di Gulliver. Il distacco tra le due città, quella alta e quella bassa, non è solo il prodotto di un’illusione ottica. E’ una realtà psicologica, economica, urbanistica. Una città con due corpi: e in un certo senso una città con due anime.
Città bassa: il traffico è intenso, ma senza le punte di convulsione esasperante delle metropoli. Strade pulite, bei negozi. Chi si metta sul Sentierone respira ordine, sicurezza, dignità. Uomini solidi, facce di alpini. Gli agricoltori che vengono dalle campagne per le loro contrattazioni suggellano tuttora gli affari con pesanti strette di mano (e i mediatori, che vogliono arrivare a una conclusione, tentano disperatamente, durante i lunghi sì e no, di avvicinare l’una all’altra le grosse, callose, riluttanti mani). Gente che afferma orgogliosamente: “Non sono mai stato in tribunale né come imputato né come testimone”.
Questo è il Borgo: un’appendice della vera Bergamo.
Gli uffici pubblici scappano dalla città alta. Il comune è giù, la prefettura è giù, il tribunale anche. In città alta è rimasto, tra le massime autorità, soltanto il vescovo. Non è sceso e non scenderà. La domenica la vecchia Bergamo, la Bergamo alta, è gremita di gitanti. Ma nei giorni feriali la vita vi pulsa assai più lentamente che in pianura. Il tempo è misurato con un metro diverso. La sera il campanone della torre civica dà il coprifuoco con cento rintocchi.
Le dimore signorili guardano orgogliosamente, dall’alto, il Borgo. Non indovinereste mai, percorrendo le strette vie, il panorama aereo che si apre davanti a queste case. Ecco palazzo Scotti: lì Gaetano Donizetti terminò il suo tragitto terreno cominciato in due bui locali bassi di Borgo Canale: “Nacqui sotto terra in Borgo Canale: si scendeva per una scala in cantino dove mai penetrò ombra di luce. E siccome gufo presi il volo”.
(M. Cervi)

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Varese: il cielo sui laghi

Nessuna provincia è ricca, come quella varesina, di bacini lacustri, anche se a tale ricchezza fa riscontro una relativa scarsità di corsi d’acqua. Sette sono i laghi che ingemmano il territorio della provincia.
Il lago di Varese, di origine glaciale, è lungo otto chilometri e largo circa quattro e mezzo.
Il lago di Biandronno ha rive piuttosto melmose ricche di torba e di canne palustri.
Il lago di Monate ha limpide acque azzurre ricche di pesci.
Il lago di Comabbio vanta una piscicoltura condotta con criteri razionali.
Il lago di Ghirla occhieggia nella verde Valcuvia.
Il lago di Delio è un piccolo specchio che se sta raccolto tra i monti di una solitaria conda nell’alto luinese.
Il lago di Ganna è nascosto tra il verde della valle omonima, ed è originato da uno sbarramento morenico.
Vi sono poi i grandi laghi che appartengono alla provincia di Varese solo in parte: ad est il lago di Lugano, sulle cui acque scorre in parte il confine con la Svizzera, ad ovest il lago Maggiore la cui riva destra è novarese.
Il lago di Lugano, sulla sponda italiana, è ancora chiamato, come un tempo dai Romani, Ceresio. A nord è riparato dai venti freddi da alte catene montuose; a sud, una serie di colline moreniche fa da barriera alle nebbie; così sulle sue rive si gode sempre una temperatura piuttosto moderata. Dei suoi quattro rami, che si allungano fra incantevoli montagne, interessa la provincia di Varese quello che va da Porto Ceresio fino a Ponte Tresa.
Grande, il lago Maggiore, dovette apparire anche ai Celti se lo chiamarono Verbano, cioè “grande recipiente”; a meno che si voglia collegare l’appellativo alle copiose erbe verbene o verbane che crescono lungo le sue sponde.
Nel lago Maggiore, amministrativamente per metà novarese, come abbiamo detto, confluiscono (oltre al Ticino che vi entra presso Locarno e ne esce a Sesto Calende, e al fiume Tresa, emissario del lago di Lugano) i torrenti varesini Boesio e Bardello, il quale ultimo vi porta le acque dei laghi, pure varesini, di Biandronno e di Comabbio.
Con la varietà dei suoi aspetti, ora severi, ora dolci e ridenti, il lago Maggiore ha il potere di incantare i visitatori.
Antonio Stoppani, l’autore de “Il bel Paese” scriveva: “Ho veduto più volte il lago Maggiore e sempre mi è parso nuovo, sempre mi è parso bello. Ognuno vorrebbe passarvi la vita”.

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Mantova

Secondo la leggenda la città fu fondata da alcuni profughi greci, tra cui la sacerdotessa indovina Manto. Mantova raggiunse grande splendore sotto i Gonzaga. Quattro sono le sue piazze monumentali: Piazza Sordello, dove si ergono il Duomo, il Palazzo Bonacolsi (signori della città dal 1273 al 1328), il Palazzo dei Gonzaga; Piazza delle Erbe con il Palazzo della Ragione, la Torre dell’Orologio e la Rotonda di San Lorenzo; Piazza Broletto con la Torre civica; Piazza Mantegna con la Chiesa di Sant’Andrea.
Per chi voglia dire di conoscere l’Italia, Mantova è un punto importante. Mantova è un mondo.
Mantova fu prima una città comunale, con una delle più belle piazze che sia dato vedere in Italia, la Piazza delle Erbe, tra una torre e un palazzo, tra una facciata di terracotta e un muro scabro, di quei vecchi muri compatti e nudi su cui l’azione del tempo ha descritto un lavoro suo, bello quanto una striscia istoriata da qualche grande scultore, dove la fantasia legge una storia senza immagini e senza parole precise. Vecchi muri ciechi di tutta l’Italia, dominati la notte da un lampione scialbo, questo muro di Mantova è uno dei più belli, un capolavoro del tempo e della natura. Il mercato con le osterie intorno è vegliato dalla figura di Virgilio in un bassorilievo medioevale, seduto a un banco, che svolge il suo libro.
La città comunale è pressapoco tutta qui. Ma tra il Palazzo del Te, che è un padiglione e un chiosco gigantesco, e la Reggia, si ritrova il più straordinario sogno di grandezza che sia dato osservare. Sono quattordici grandi sale nel Palazzo del Te, che era una specie di casa di campagna dove si andava a passare un’ora tra le stanze decorate e i giardini; sono cinquecento stanze la Reggia, ma non c’è un solo appartamento, una sola camera che si possano chiudere a chiave, e tutto è fatto per la rappresentazione, come in certi piccoli appartamenti moderni, dove tutte le stanze sono salotti e la sera divengono tutte stanze da letto.
(C. Alvaro)

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Vini famosi in Valtellina

Degno complemento alla polenta taragna (cibo caratteristico della Valtellina preparato con il grano saraceno) sono i famosi vini. Infatti, nella parte della vallata esposta a sud, dalle zone pedemontane fin oltre i seicento metri, si ha la coltivazione a vigneto, con i caratteristici terrazzamenti, sostenuti sulle scoscese pendici a destra dell’Adda, da lunghi muretti di sassi che danno all’insieme l’aspetto di un’ordinata scacchiera.
Di fronte a queste ordinate coltivazioni non si può trattenere un moto di stupita ammirazione, soprattutto quando si pensa che sono state create dalla costante e secolare laboriosità della gente valtellinese che lottò contro una conformazione naturale del terreno difficile, quasi esclusivamente con le sole forze fisiche, riuscendo così a strappare, anche da terre apparentemente avare, un prodotto pregiato. L’ottimo vino che si ricava da questi vigneti ricompensa però i sacrifici dei valligiani; infatti proprio da queste uve si ottengono vini squisiti, delizia dei buongustai, così da essere annoverati tra i migliori d’Italia e di godere di una certa rinomanza anche al’estero: tali sono il Sassella, il Grumello, l’Inferno, il Valgella e il Fracia.

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Il torrone di Cremona

Come si può pensare a Cremona senza associarla al suo dolce tipico, il torrone, che, nelle sue confezioni così tradizionalmente conservatrici, entra, si può dire, in ogni casa d’Italia, specialmente nel periodo delle feste natalizie?
Come accade per tutti i personaggi illustri di cui l’origine non sia storicamente accertata, anche per il torrone molti paesi si contendono l’onore di avergli dato i natali, e infinite sono le leggende che il popolo ha creato intorno alla sua nascita. Chi lo vuole originario dell’Oriente, chi lo considera una ghiottoneria italiana di antichissima data.
Raccontano che una donna fu sorpresa dalla notte in una località selvaggia mentre si recava al mercato trascinando su un carro i prodotti della sua terra: mandorle, miele e uova. Per difendersi dagli animali feroci che infestavano la zona, la donna si costruì un riparo, usando come materiale tutti i generi alimentari che aveva con sé, dopo averli opportunamente impastati; si salvò perchè le belve, intente a divorare golosamente quella leccornia, furono sorprese dalla luce dell’alba che le mise in fuga.
Narrano anche che i Crociati sostenevano da tempo un lungo assedio in Terra santa. Quando ormai stavano per arrendersi, stremati dalla fame, i mattoni delle torri e delle mura che li difendevano si trasformarono miracolosamente in mandorle, e la calce che li cementava, bagnata dalle loro lacrime, in miele.
Senza cercare nelle leggende le origini del torrone, sappiamo che i Romani erano ghiottissimi di un impasto i cui ingredienti, miele, noci e uova, erano pressapoco quelli dell’odierno torrone; chiamavano “turandae” le focaccine ottenute, e da quel nome a quello di torrone il passo è breve.
Del resto quando Biancamaria Visconti sposò Francesco Sforza, il dolce che rallegrò il banchetto nuziale era un vero e proprio torrone, la cui forma rappresentava il Torrazzo di Cremona, la città che la sposa portava in dote al marito.
E la leggenda si avvicina alla storia…

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Lombardia

La bella regione che ha preso il nome dal dominio dei Longobardi, scende dalle catene dell’Alpe Retica fino al Po, oltrepassando in parte, ed estendendosi al centro della grande pianura padana, fra le terre venete e piemontesi. Tocca tutta la gamma del paesaggio continentale italiano, dalle distese ghiacciate, ai monti prealpini, e da questi, attraverso la splendente regione dei laghi e a dolce zona collinosa dei loro archi morenici, alla prima fascia asciutta del piano per morire nelle molli zolle erbose dove erra il nostro massimo fiume. E questa varietà stupenda di forme è come il simbolo della poliedrica attività del suo popolo intraprendente.
(I. Zaina)

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L’irrigazione in Lombardia

Le acque di monte o di pioggia, penetrate per le spaccature e raccolte sui profondi strati impermeabili della terra, scorrono lungo i pendii e risgorgano nei fontanili. Da fiumi e da fontanili, gli uomini, col lavoro e con sapienza secolari, hanno derivato navigli, canali, rivi, fossi… tutto un mirabile sistema di condotti, di cateratte, di conche, di pescaie, di argini che guida, raccoglie, convoglia, modera, smaltisce. Assicura l’irrigazione, combatte le piene; risana gli acquitrini, concede la navigazione, dà vita alle risaie e alle marcite, dà moto agli opifici e ai mulini, dà freschezza alle campagne e pane alla gente.

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Bergamo

La romantica città che adagiata sul colle e cinta dall’arborato cerchio delle mura venete, si innalza sul piano, profilando nel cielo, al di sopra dell’armonioso chiarore delle sue case raggruppate in chiaro scuro pittoresco, le sue torri, gli aerei campanili, le salde cupole, a lato della Rocca imponente e austera, non ebbe nel corso della sua vita secolare splendori di corti principesche né fasti di glorie ducali…
L’essere la città antica, unica dell’alta Italia, sopralzata sulla pianura di circa cento metri, ha isolato questa città dall’imperversare della modernità violenta ed eguagliatrice.  E poichè la stessa attività cittadina e il tradizionale bergamasco fervore di lavoro non potevano non affermarsi imponenti nell’ultimo cinquantennio, tale sviluppo di vita si è ampiamente svolto al piede del colle, nell’ingrandirsi e nell’espandersi progressivo e intenso della nuova città.
(L. Angelini)

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Pavia

Vivere a Pavia è una condizione felice, un regalo continuato: la sua quiete, la sua pace, e la modestia, che qui tutte le cose ispirano, sono sottolineate dal colore fondamentale della città che è tra il rosso vivo del mattone e il grigio un po’ pigro dell’arenaria.
Intanto il cittadino a passeggio per le vie non sente per nulla umiliata la sua statura di uomo camminando tra file di case basse. Pensate a Milano o a Torino dive la persona è schiacciata da quei palazzoni: uno perde subito la confidenza del passeggiare e dello stare.
Quelle sono metropoli, è vero, città cosmopolite. E lo siano. Ma per quei loro corsi sgargianti e tumultuanti, noi non daremo una spanna della nostra settecentesca via Foscolo o il silenzio di via Boezio. Vie tutte piene di cielo, illuminate e, direi, completate da certi bei nomi che ricordano glorie municipali o santi o costumi locali: contrada degli Apostoli, via dei Mulini, del Lino, e anche strada nuova, che poi si chiama così fin dal mille e trecento.
(C. Angelini)

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Mantova

Quando fummo alle mura di Mantova, una stazione accertava che c’era sempre una città ci questo nome. C’era: di strade acciottolate, fra case fosche, invano lavate da tanta acqua… Il canale che, nascostamente, taglia la città da lago a lago, era sordido di spazzatura galleggiante. Un sentore d’acqua stagnante saliva, per il lavandino, nella camera d’albergo. Come una città continuamente minacciata di marcire dalle fondamenta. Ma per le strade dure di ciottoli, sotto i portici, non erravano fantasmi acquatili: corpi vivi di uomini e donne con ombrelli andavano, ben sicuri di non sciogliersi in acqua, nella città da tanti secoli murata dentro l’ansa del Mincio dilagato in tre laghi. Nel tramonto livido, al ponte San Giorgio, il lago inferiore aveva la tristezza bigia, immota, della palude Stigia.
(G. Caprin)

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Milano

Togliete all’Italia Milano e sarà come togliere ad un’automobile il serbatoio della benzina o, se più vi piace, lo spinterogeno. Se essa è una città di nessun tempo, di nessuna epoca gli è perchè è di tutti i tempi e di tutte le epoche. Essa è nata da sé e vive di sé. Pensate al suo Duomo. Dite San Pietro e vi si affaccia Michelangelo, dite Santa Maria del Fiore e pensate al Brunelleschi della cupola o al Giotto del campanile. Ma per Duomo di Milano nessun nome grandeggia: esso è nato dal denaro di tutti i milanesi, che a turno vi portarono le pietre: avvocati, medici, operai, nobili e popolani. Negli archivi della Fabbrica, dove si conserva, scritta giorno per giorno, la storia immensa del sovrumano edificio, leggete migliaia e migliaia di donazioni che vanno da terre, da case, da sostanze ingenti, a lasciti di poche lire o di poche libbre di cera.
(G. Cenzato)

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Il famoso nebbione della bassa

Si cammina adagio: non si vede a un palmo dal proprio naso: un odore acre sale alle narici e penetra in gola. Sembra di essere immersi in una umida, vaporosa bambagia; i rumori giungono attutiti; come echi; gli oggetti appaiono all’improvviso, come ombre sorte dal nulla: la nebbia avvolge tutto, grava su ogni cosa.

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Luci di laghi

A paragonare il lago di Varese a una perla azzurrina legata in pallido argento dalla nebbietta smagliante, poco più che un sospetto di foschia luminosa, che lo ingrandiva singolarmente, e addolciva il crudo lume del sereno invernale, le terre bruciate dal gelo, le nitide rive e le spiagge; a paragonarlo ad una perla, si dice poco e non senza preziosità leziosa: per altro, il suo colore era quello; e mi pare di non aver mai vista, adunata in una conca di lago, una tanta effusione di luce perlacea, come quella che saliva e posava sulla viva quiete delle sue acque, mentre scendevo verso il lago per la proda lene del suo lato meridionale, che da codesta parte è aperto e disteso, adagiato, coniugato col fondo. E ci sono viottoli e stradette antiche, piene di un garbo agreste e gentilmente austero, di quella naturale ritrosia che conferisce un carattere sobrio  e segreto, di idilliaca rusticità , al paese subalpino lombardo e piemontese, non appena si esce dalle strade maestre.
Quella riva è più romita, a tratti deserta, ma poi ingentilita da una rustica osteria, da un casale quieto fra le cannucce, da una piccola darsena, da un capitello con l’immagine della Madonna, levato sull’acqua come ad indicare l’approdo alle barche, col lumicino dell’immagine sacra…
(R. Bacchelli)

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Il lago di Como

Il lago di Como è fatto come una Y capovolta. Si direbbe che madre natura si sia prodigata in modo particolare per rivestire le sponde montuose di varia ed esuberante vegetazione. Gli uomini hanno fatto il resto. Vi crearono ville e giardini e alberghi senza numero con parchi ombrosi, terrazze, chioschi, e scenari vegetali che le acque cristalline del lago concorrono a colorire e animare.
Fra i giardini primeggia quello annesso alla Villa Carlotta a Cadenabbia, famoso in tutto il mondo. Lo si direbbe creato dalla fantasia di parecchie generazioni di artisti. Nel mese di maggio specialmente, quando azalee, camelie, rose, rododendri e ogni sorta di fiori rari, trionfano tra le aiole disseminate tra i viali e i boschetti di cipresso, di pini e di piante esotiche, sembra proprio una casa di sogno e di favola.

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Il Garda in burrasca

… Uno di questi giorni, anzi una notte, stavo ascoltando il Garda in burrasca.
La burrasca, propriamente, allentava, abbonacciava; il vento, ormai caduto, non frastornava più, con le sue stormenti folate, il fragore delle onde rompenti e frangenti. Aveva smesso di percuoterle e premerle, di incalzarle e istigarle, col flagello delle raffiche che esprimono dalla terra e dalle acque e dall’aria quella sorta di strozzato e strepitante spasimo della natura nel tormento, nello strido, nell’ululo dei turbini in tempesta.
Piene, alte, libere, sciolte, si levavano in pacata vigoria le onde, e correvano a riva, a frangere in largo scroscio disteso sui greti delle spiagge e fra i sassi delle scogliere.
Saliva dal lago un rumore, un suono spianato  in ampiezza di tempo e di volume, anch’esso vigorosamente tranquillo; e continuo, cadenzato, rotondo. Era quel fragore e clamore di tono alto, spiegato, sonante e risonante, proprio come d’una forza, liberata e placata, che assumono le onde nel cedere e nell’allentare della tempesta.
(R. Bacchelli)

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La terra del latte

Milano è città di confine; attraversandola da nord a sud, sud-est si passa dalla Lombardia dei laghi alla Lombardia dei fiumi e dei canali, dei prati a marcita, delle cascine dove le stalle lunghissime reggono appena al penso  dei fieni. In nessun luogo più giustamente che a Lodi poteva sorgere una fiera del latte.
Di burro e formaggio nella regione semichiusa fra Adda, Lambro e Po, si produce quasi la sesta pare che nel resto d’Italia. Ma tutto questo esplodere di rustiche e non rustiche grandezze sembra spostare solo di un filo, nella piccola città di Lodi, le abitudini giornaliere, appena appena vi s’incrina l’armonia in grigio e in silenzio della vecchia Piazza Maggiore, degli archi, delle chiese, delle vie piane e dolcemente larghette dove si stende e sogna il centro cittadino. Nella Piazza, sotto i portici, si sorprendono ora conversazioni in lingue e dialetti disparatissimi o in quell’esperanto che appartiene a ogni riunione eteroclita… si penserebbe a una biennale veneziana del burro e del formaggio; le voci tuttavia sono calme e discrete.
Dal giro di facciate che si sporgono così gentilmente, coi balconi di ferro battuto e le insegne in rilievo nei negozi e dei caffè, agli angoli segreti del Broletto, la Piazza ha ancora l’aria di attendere con modesto decoro qualche gruppo di viaggiatori in arrivo con la diligenza. Le vie, che se ne distaccano ben regolate, incrociandosi al punto giusto, portano un senso di leggerezza nelle misure né troppo grandi né troppo piccole e nelle tinte non monotone, solo quiete: leggerezza cui si accompagna una particolare malinconia, come spesso nei paesaggi che seguono un fiume. Sta come un deposito umido nella luce delle giornate anche più limpide: un velo d’acqua rende più morbide le voci delle campane. L’acqua che scorre ampia nei fiumi, con lentezza; che scivola canalizzata, lambendo i salici e i pioppi, a imbevere i campi; e questa gente non languida è ben lontana dall’allungarne il sangue delle sue vene, il latte delle sue stalle, o il vino delle sue osterie, ma l’acqua rimane qui l’elemento primordiale.
(G. Ferrata)

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Milano città d’arte

A nessun visitatore, a nessun turista viene mai in mente che una città così simpaticamente brutta (gli angolini sconosciuti non fanno che confermare la regola), così moderna, così presa dal ritmo del lavoro, possa non già produrre, ma avere una qualche segreta bellezza che faccia perennemente parte della sua natura.
Per la stragrande maggioranza dei visitatori, la Milano artistica si riduce dunque al Duomo. Gli stranieri dopo aver appreso che le statue sono 3.159, che la Madonnina è altra dal suolo 108 metri e 50 centimetri, che i lavori cominciati nel 1386 si conclusero soltanto nel XIX secolo, penetrano anche nell’interno ad ammirare le grandi navate gotiche, i cinque colonnati, il sarcofago di Ariberto d’Intimiano, arcivescovo del Carroccio. Gli Italiani molto spesso non entrano neppure. Ripetuto in mille modi da cartoline, documentari, panettoni, il Duomo di Milano è tanto familiare, tanto noto che la sua conoscenza, al pari di quella di certi romanzi famosi, viene data per scontata, non val neppure la pena di entrarci, basta uno sguardo fuggevole alle guglie velate di nebbia dalle arcate dei portici settentrionali.
Solo un’esigua minoranza, gli animi più sensibili, le comitive organizzate, trovano il tempo per una seconda tappa: L’ultima cena di Leonardo da Vinci, a Santa Maria delle Grazie, che dopo la pazientissima, miracolosa opera di restauro effettuata nel 1953 da Mauro Pellicioli, ha riacquistato parte della sua luminosità e dei suoi colori.
Duomo e Cenacolo sono  gli unici due monumenti di Milano turisticamente vivi, frequentati in ogni ora e in ogni stagione da folte comitive come succede ai capolavori fiorentini o romani. Il resto, deserto. Alla Pinacoteca Ambrosiana in questa stagione capita più di una volta che nel corso dell’intera giornata neppure una persona si presenti all’ingresso; al Museo della Scala i visitatori si contano sulla punta delle dita; a Brera, il più famoso di tutti, solo la domenica c’è una certa animazione. Eppure si tratta di raccolte di valore europeo, talune delle quali addirittura uniche nel loro genere.
Prendiamo il caso di Brera. Sede, oltre che della Pinacoteca, di una grande biblioteca e dell’Accademia di Belle Arti, questo grande palazzo barocco-lombardo, costruito verso la fine del Seicento dall’architetto milanese Francesco Maria Richini, è un po’ il centro del quartiere artistico milanese, con i suoi cortili monumentali, i suoi loggiati, i suoi scaloni su cui spiccano ancora i colossali portacenere d’ottone dove i visitatori del secolo scorso erano pregati di abbandonare i loro sigari.
Ma il cuore, il gioiello di Brera è la Pinacoteca. Sorse nel 1809 per volere di Napoleone il quale, al fine di cementare l’unità del regno italico, dette precise disposizioni affinché vi fossero radunate opere di tutte le scuole pittoriche italiane. Unità politica attraverso l’unità artistica. Così Brera è forse l’unica pinacoteca italiana a carattere spiccatamente nazionale. Chi volesse avere un’idea panoramica della pittura del nostro Paese visitando un solo museo dovrebbe per forza di cose venire qui. Accanto ai capolavori di Raffaello, del Mantegna, di Giovanni Bellini, di Piero della Francesca, del Bramante, nelle trentotto grandi sale sono rappresentate organicamente tutte le scuole dell’Italia settentrionale: quella veneta (Tiziano, Tintoretto, Veronese, Guardi, Canaletto, Longhi), quella lombarda (Luini, Bramantino), quella ferrarese (Tura, Cossa, Costa, Ercole De Roberti) e non mancano fulgide testimonianze di altre regioni e di altri Paesi (El Greco, Rembrandt). I due quadri più famosi, quelli che tutti conoscono, sono Lo sposalizio della Vergine di Raffaello e il Cristo Morto del Mantegna, colto dai piedi in audacissima prospettiva.
In Piazza della Scala c’è un altro museo unico in Europa: quello che per l’appunto prende il nome dal massimo teatro lirico milanese. Ci si accede per una scaletta bassa, angusta, modesta come quasi sempre sono le scalette dei teatri; anche le sue sale sono piccole, ma della piccolezza ovattata, ricca, quasi sontuosa, che contraddistingue i palchi della Scala. Fra marmi e velluti sono ordinati spartiti, cimeli, lettere dei maggiori musicisti del mondo. C’è l’orologio di Puccini, la penna d’avorio di Boito, gli occhiali d’oro di Rossini, la spinetta di Paisiello. Gli oggetti di Verdi sono tanti che riempiono addirittura due sale. Alle pareti, accanto ai ritratti di Giuditta Pasta, della Malibran, di Caruso e di Toscanini, spiccano locandine scaligere di tutti i tempi. Ma oltre quella della Scala, attraverso pregevoli collezioni di maschere greche e romane, di riproduzioni scenografiche, di documenti, il museo rifà praticamente la storia di tutto il teatro.
(G. Tumiati)

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Curiosità sulla Lombardia

La Lombardia ebbe il suo nome di battesimo circa 600 anni dopo Cristo; lo prese dalla popolazione di origine germanica dei Longobardi, che si erano stanziati nel territorio di questa regione verso il 570 dC.
I confini perimetrali della Lombardia misurano quasi 1.400 chilometri.
C’è un pezzettino di Lombardia (e perciò d’Italia)… all’estero: è il Comune di Campione d’Italia, nel Cantone Ticino (Svizzera):
Benché sia difficile precisarlo, si può stimare che nella regione esistano circa 2.000 fontanili. Si può inoltre dire che il volume d’acqua donato da tutti i fontanili lombardi sia almeno pari alla portata media di un fiume come l’Adda.
Dei tre grandi laghi lombardi il lago di Como è l’unico che sia interamente lombardo. Il lago Maggiore, infatti, ha la costa occidentale in territorio piemontese e l’estremità settentrionale addirittura in Svizzera; il lago di Garda ha la costa orientale nel Veneto e l’estremità settentrionale nel Trentino.
Il campanile più alto d’Italia è il Torrazzo di Cremona, alto 111 metri. Le mura sono spesse cinque metri alla base, due metri e mezzo all’altezza della cella campanaria. Le sette campane che vi sono installate furono fuse nel 1774 da Bartolomeo Bozzi; la maggiore, detta di Sant’Omobono, pesa 35 quintali.
La fertile pianura in cui sorge Crema era una palude, denominata Lago Gerundio, da cui emergeva un isolotto. Su questa poca terra fu fondata Crema.
(R. Mezzanotte)

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Pavia

Amo la libertà de’ tuoi romiti
vicoli e delle tue piazze deserte,
rossa Pavia, città della mia pace.
Le fontanelle cantano ai crocicchi
con chioccolio sommesso: alte le torri
sbarran gli sfondi, e, se pesante ho il cuore,
me l’avventano su verso le nubi.
Guizzan, svelti, i tuoi vicoli, e s’intrecciano
a labirinto; ed ai muretto pendono
glicini e madreselve; e vi s’affacciano
alberi di gran fronda, dai giardini
nascosti. Viene da quel verde un fresco
pispigliare d’uccelli, una fragranza
di fiori e frutti, un senso di rifugio
inviolato, ove la vita ignara
sia di pianto e di morte. Assai più belli,
i bei giardini, se nascosti: tutto
mi par più bello, se lo vedo in sogno.
E a me basta passar lungo i muretti
caldi di sole; e perdermi ne’  tuoi
vicoli che serpeggian come bisce
fra verzure d’occulti orti da fiaba
rossa Pavia, città della mia pace.
(A. Negri)

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Grattacielo a Milano

Quando rincasavo la sera
c’erano due lumi rossi
agli angoli dello sterrato.
In quel fosso è nato
il grattacielo di Milano,
un piccolo segno di vittoria
per noi apostoli di cannoni nuovi
del nuovo vangelo.
Me lo trovo impagliato
di fronte all’Albergo Doria
come se io l’avessi innaffiato.
Mi fa ombra sul viso
all’angolo del marciapiede,
dove la fioraia contadina
portava un tempo edelweiss
e narcisi.
(L. Sinisgalli)

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Pace

Milano, alle tue soglie
l’erma badia di Chiaravalle tace.
Milano, alle tue soglie hai la tua pace.
Quando da te mi toglie
un desiderio d’esser consolato,
vado al tuo camposanto fatto prato.
L’erba è fitta d’occhietti
azzurri, e l’aria è un saettar di voli:
sotto gli archi i sarcofaghi stan soli.
Tra i gracili alberetti
dei mandorli, certo, anime celesti
muovono i lembi dell’eteree vesti.
Pena mi si disperde
fra gli alti muri e le patrizie tombe:
vita non pesa, morte non incombe.
Seggo in quel chiuso verde
presso il solingo tempio: e morte appare
sorella, e che sia dolce in lei posare.
(F. Pastonchi)

Tradizioni comasche
Oggi, a Como, i bambini sono danno più una malattia per la pampara. Ma un tempo era un’altra cosa. Nel giorno di Sant’Antonio c’era la benedizione di mucche e di cavalli.  Bancarelle a iosa con le pampare e i firun. Non sono mai riuscita a sapere l’origine del nome pampara. Si tratta di una sottile canna di bambù con inserite, in diversi taglietti della corteccia, larghe ostie colorate e tante di quelle coserelline che sono care ai bambini. Di modo che ogni bambino prendeva la sua, più bella e più guarnita delle altre, per tornarsene a casa trionfante.
I furin sono collane di castagne cotte,  infilate in uno spago, che i venditori recano in lunghe ceste.
Naturalmente la piazzuola, per il gran giorno, ha mille altre cianfrusaglie in vendita: dalle immagini alle statuette sacre ai prodotti mangerecci.
(M. Fagnani)

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REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture di autori vari, per bambini della scuola primaria: Vandali, Ostrogoti, Visigoti, Eruli, Bizantini e Longobardi; Odoacre, Teodorico, Genserico, Teodolinda, Rotari, ecc…

Nell’immenso territorio, dove l’autorità dell’antico Impero era venuta meno, i popoli germanici formarono i loro regni: i Visigoti si stabilirono in Spagna, i Franchi in Gallia, i Vandali in Africa.
Si costituirono in tal modo i regno romano-barbarici, così detti perché sotto lo stesso nuovo governo si riunivano le antiche popolazioni romane e le nuove genti barbariche di stirpe germanica.
Col passare degli anni questi due popoli, dapprima separati, lentamente si fusero con una reciproca influenza.
Molto più vasta ed efficace per la superiore civiltà, fu quella esercitata dai vinti sui conquistatori, che finirono per adottare la lingua, i costumi, le leggi e la religione del popolo che avevano sottomesso.

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Gli Eruli

Gli Eruli giunsero in Italia guidati da Odoacre, che tolse il trono a Romolo Augustolo. Questi, che i soldati romani avevano acclamato loro imperatore, era un fanciullo e non aveva quindi alcuna energia per opporsi all’invasione. Fatto prigioniero, fu rinchiuso in un castello della Campania e nessun imperatore fu eletto a succedergli in Occidente.
Odoacre, proclamatosi rappresentante dell’imperatore d’Oriente si insediò a Ravenna e governò l’Italia col titolo di Patrizio. Era l’anno 476 dC; esso segna la fine dell’Impero di Roma e l’inizio del Medioevo, cioè l’età di mezzo tra l’epoca antica e quella moderna.

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Gli Ostrogoti

Teodorico, un barbaro valoroso ed intelligente, nella sua giovinezza era stato per molti anni ostaggio alla corte di Costantinopoli: aveva così potuto conoscere ed apprezzare la cultura e la civiltà romane. Acclamato re degli Ostrogoti, che occupavano allora la Pannonia (l’odierna Ungheria), vagheggiava nuove conquiste per dare sedi migliori al suo popolo, poco amante dell’agricoltura ed inquieto.
Nel 489 Teodorico giunse alla Alpi Orientali. Non lo seguiva solo un esercito, ma un popolo intero con le donne, i figli, i servi, i carri colmi di masserizie e tende: trecentomila persone.
Odoacre, sconfitto in più battaglie, si chiuse in Ravenna. Dopo tre anni di assedio, si arrese con la promessa di aver salva la vita; invece fu fatto trucidare a tradimento (493).
Così finì il dominio erulo in Italia e subentrò quello degli Ostrogoti.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture
Il governo di Teodorico

Teodorico governò per trentatré anni col titolo di re degli Ostrogoti e Patrizio d’Italia. Egli mirò a far convivere pacificamente i due popoli pur così diversi: lasciò ai Goti l’uso delle armi e affidò agli Italici l’amministrazione civile.
Migliorò le condizioni economiche dell’Italia con lavori di bonifica e con la costruzione di strade e di acquedotti, restaurò molti monumenti romani, abbellì Ravenna di un grandioso palazzo reale, un mausoleo e altri edifici; protesse le lettere e le arti, chiamò ad alti uffici uomini di valore, come lo storico Simmaco, il filosofo Severino Boezio e il dotto Cassiodoro, che divenne suo primo ministro. Benché ariano, Teodorico fu tollerante con i cattolici.
Ma l’avversione degli Italici e gli intrighi della corte bizantina avvelenarono gli ultimi anni del suo regno, rendendolo sospettoso e crudele: si diede ad arrestare, perseguitare, uccidere.
Anche Boezio e Simmaco furono messi  a morte, e lo stesso papa Giovanni I visse i suoi ultimi giorni in carcere.
Teodorico morì nel 526 e fu sepolto nel superbo mausoleo di Ravenna.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – I Bizantini

Le relazioni tra i Romani e gli Ostrogoti peggiorarono assai con i successori di Teodorico. Ne approfittò l’imperatore d’Oriente Giustiniano per unire l’Italia all’Impero d’Oriente (553).
Il dominio bizantino (così detto da Bisanzio, antico nome di Costantinopoli) produsse opposti, molteplici effetti. Infatti, se da un lato attivò le relazioni tra Italia e Oriente e fede della capitale Ravenna una città ricca e adorna di splendidi monumenti (come la famosa chiesa di San Vitale costruita appunto nel VI secolo e tutta rivestita di mosaici e d’oro), di contro afflisse le misere popolazioni con nuovi insopportabili balzelli, imposti senza ritegno dai rapaci funzionari imperiali.
La vita dei commerci e delle industrie intristì e grave fu il disagio delle città e delle campagne.
A rimedio di tanti guai solo la Chiesa diffondeva un po’ di bene fra le afflitte popolazioni ed accresceva in mezzo ad esse il suo prestigio.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – Per il lavoro di ricerca

Quale barbaro fu chiamato “re della terra e del mare”?
Quando cadde l’Impero Romano d’Occidente?
Per opera di chi?
Come si chiamava l’ultimo imperatore romano?
Da chi fu sconfitto Odoacre?
Come governò Teodorico? Come morì?
Qual era la capitale del regno degli Ostrogoti?
Che cosa era l’ “editto di Teodorico?”
Da chi furono scacciati gli Ostrogoti?
Perchè divenne famoso Giustiniano?
Come governarono i Bizantini in Italia?
Come fu divisa l’Italia in quel periodo?

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – Il re della terra e del mare

Genserico, alla testa dei suoi Vandali, è alle porte di Cartagine. In città gli uomini fanno festa, ignari che il nemico è sotto le mura; così, mentre Genserico si accinge ad assalire i bastioni, i Cartaginesi sono nel circo. Ma d’un tratto alle porte del circo si sente qualcuno che batte per farsi aprire; i custodi chiedono chi sia mai costui che domanda di entrare in un’ora così fuori dal consueto.
“Sono il re della terra e del mare!” risponde il vincitore.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture –  Odoacre e la fine dell’Impero

Mentre l’Impero Romano d’Oriente fronteggiava con buon successo i barbari, e restava saldo ed unito, l’Impero Romano d’Occidente era percorso continuamente da orde selvagge, insanguinato da guerre e saccheggi, e finì per essere alla mercé dei capi barbarici e dei generali germanici. Uno di questi, Oreste, giunse nel 475 a porre sul trono imperiale suo figlio Romolo (che venne poi per spregio detto l’ “Augustolo” cioè il piccolo, misero Augusto). Ma questi regnò poco: l’anno dopo, un altro generale barbaro, Odoacre, piombò su Ravenna, la conquistò, uccise Oreste e depose l’Augustolo.
Una volta deposto quel debole imperatore, Odoacre assunse il titolo di “Patrizio” ed il potere in Italia, e mandò le insegne imperiali a Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente: un solo imperatore, disse, è più che sufficiente! Per una amara beffa del destino, l’ultimo re di Roma portava il nome del primo re, Romolo, colui che, secondo la leggenda, aveva fondato la città e gettato le fondamenta della sua potenza. Così nel 476 si concludeva miserevolmente la storia dell’Impero di Roma.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture
Curiosità

Gli ultimi imperatori dell’Impero d’Occidente salirono al trono ancora bambini: Giuliano aveva sei anni, Graziano diciassette, Valentino II cinque, e Romolo Augustolo quattordici.
Per molti secoli l’Impero romano aveva avuto una difesa pronta e vigile ai confini anche lontanissimi. I barbari così spiegano il fatto: sul Campidoglio esisteva un tempietto consacrato alla Difesa entro cui erano molte statue raffiguranti le varie province di confine.
Ognuna aveva al collo un campanellino e appena questa provincia fosse stata minacciata esso preannunciava il pericolo suonando. Ecco perchè, ogni qualvolta i barbari toccavano le terre di confine romano, trovavano le truppe pronte alla difesa.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture
Gli Ostrogoti, Teodorico e i Longobardi

Quando nel 488 Teodorico, il giovane re degli Ostrogoti, venne attraverso le Alpi Giulie in Italia, col suo esercito, fu la fine del governo di Odoacre. Questi, sconfitto prima sull’Isonzo, fu poi costretto a chiudersi in Ravenna, dove resistette valorosamente per due anni e mezzo; ma alla fine avendogli promesso Teodorico di salvargli la vita si  arrese.
Il patto non fu però mantenuto e Odoacre fu ucciso assieme ai suoi familiari, nel corso di una disputa insorta durante un banchetto.
Teodorico, riconosciuto re d’Italia dall’imperatore di Costantinopoli, per un certo periodo governò saggiamente. Stabilì la capitale del regno a Ravenna e chi anche oggi visita quella città può ammirare splendidi monumenti come la chiesa di sant’Apollinare, il battistero, il mausoleo di Galla Placida, ecc…
Negli ultimi anni del suo regno diventò crudele e sospettoso.  Fece uccidere il suo consigliere, Boezio, al quale aveva conferito gli onori di console, di patrizio e di maestro degli uffizi, e fece condannare a morte Simmaco, suocero di Boezio, solo perchè ne aveva pianto in pubblico la morte.
Prima di morire aveva ordinato la chiusura di tutte le chiese dei cattolici, ma l’ordine non ebbe seguito.
Morì nel 526 e così ebbe fine, con un breve periodo di tirannia, un lungo e glorioso regno.
Amalasunta, sua figlia, gli eresse un monumento presso Ravenna.

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Teodorico

Di Teodorico dobbiamo ammirare la saggezza con la quale governò l’Italia, gli sforzi fatti per fondere i Romani con i barbari sopraggiunti (fu questo il suo ideale e non è colpa sua se non poté raggiungerlo); a suo merito dobbiamo ricordare la protezione da lui data ai grandi uomini che fecero splendere di nuova luce le lettere romane: Cassiodoro, Emiodo, Boezio e le opere pubbliche che egli iniziò, i monumenti restaurati, gli edifici innalzati nelle sue città predilette: Verona, Pavia, Ravenna.
Quest’ultima città, un tempo sede della flotta romana, era divenuta già sotto Odoacre la capitale d’Italia e fioriva sulla sua laguna non ancora occupata dalle sabbie. Teodorico l’ornò di chiese e monumenti che in gran parte ancora sussistono e ci danno in modo strano l’illusione di rivivere ai tempi del grande Goto. Eppure questo re tanto amante delle arti non sapeva scrivere e per tracciare le lettere del suo nome doveva usare una laminetta traforata, attraverso la quale a fatica conduceva la penna! Assai meglio della penna egli maneggiava la spada, e lo sperimentarono numerosi popoli che egli assoggettò, entro e fuori d’Italia.

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Leggende sulla morte di Teodorico

Procopio racconta che, trovandosi Teodorico ad un banchetto, gli fu portato un grosso pesce, il quale, digrignando i denti e rivolgendo minacciosamente gli occhi, pareva che assumesse le sembianze di Simmaco. Spaventato di ciò, il re si sentì preso da brividi che lo costrinsero a mettersi a letto, dove non vi furono panni che bastassero a riscaldarlo; ed il 30 agosto 526, in età di settantadue anni, fu da una forte dissenteria condotto a morte.
Un’altra leggenda racconta che un collettore di tasse, passando per l’isola di Lipari, vi trovò un eremita che subito esclamò: “E’ morto Teodorico!”
“Come mai” rispose l’altro “se non è molto che io lo lasciai in buona salute?”
“Eppure” soggiunse l’eremita, “io l’ho visto or ora passare con le mani legate, fra papa Giovanni I e Simmaco, ed essere gettato nel cratere del vulcano di Lipari”.
Un’altra leggenda racconta che Teodorico fu portato da un cavallo nero, a corsa sfrenata, fin presso il vulcano ove fu scaraventato. (Villani)

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Dalla raccolta di leggi di Teodorico

1 Prima di tutto decretiamo che se un giudice avrà accettato denaro per giudicare a danno di un innocente contrariamente alle leggi e al diritto, sarà punito con la condanna a morte.
34 Nessuno, o Romano o barbaro, si prenda la roba altrui: e se con inganno se ne sarà impadronito non potrà tenerla, e dovrà immediatamente restituirla con gli interessi.
108 Se qualcuno sarà sorpreso a sacrificare col rito pagano sarà condannato a morte. Quelli che praticano arti malefiche, cioè gli stregoni, spogliati di tutte le loro sostanze, se di agiata condizione, saranno condannati all’esilio, se di umile condizione, a morte…

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Giustiniano e la liberazione dell’Italia dagli Ostrogoti

Mentre i Goti dominavano l’Italia, l’Impero d’Oriente, ancora solido e quasi intatto, cominciava ad interessarsi delle sorti dell’Italia, oramai da troppo tempo abbandonata nell’arbitrio dei barbari.
Nel 527, un anno dopo la morte di Teodorico, a Costantinopoli saliva al trono il più grande degli imperatori d’Oriente, Giustiniano.
Romano di animo e di propositi, egli inaugurò il suo regno con un’opera immortale, ordinando che si raccogliessero tutte le leggi dei Romani in un unico codice che rimane tuttora il solenne monumento del genio giuridico di Roma antica.
Giustiniano volle anche ricostruire l’unità dell’Impero romano  e in breve strappò ai Vandali l’Africa, sottrasse ai Visigoti la spagna meridionale, e finalmente, nel 535, sbarcò con un esercito in Italia per liberarla dai Goti e ricongiungerla all’Impero. La guerra durò ben diciotto anni e devastò tutta l’Italia, ma alla fine i Goti furono definitivamente sconfitti.

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Il governo bizantino in Italia (553-568)

L’Italia tornò così a far parte dell’Impero romano come una provincia. L’Imperatore la governò per mezzo di un suo rappresentante, detto Esarca, che risiedeva a Ravenna, con sommi poteri civili e militari.
Ravenna, che mostra ancora nelle belle chiese di San Vitale e di Sant’Apollinare, adorne di splendidi mosaici, i ricordi di questo periodo, divenne il centro delle comunicazioni con l’Oriente.
A tutta l’Italia divisa in ducati (così chiamati perchè governati da duchi bizantini) fu esteso il codice giustinianeo.
Fra i vari ducati ebbe una particolare importanza il ducato di Roma, per la presenza del papa, capo della Chiesa cattolica.
I Bizantini cercarono di migliorare le condizioni della penisola con l’aiuto dei Vescovi, a cui furono affidati uffici civili. Con ciò si accrebbe il potere temporale dei Vescovi, che avrà tanta importanza in seguito.
Ma per sopperire alle spese della difesa e dell’amministrazione, il governo bizantino aggravò le popolazioni italiane di tasse esose, rese ancora più aspre dai metodi di riscossione e dalla corruzione dei funzionari. Per questo e per la sua breve durata, esso non potè recare all’Italia i benefici che tutti speravano.
Infatti l’Italia rimase bizantina solamente quindici anni. Nel 568, appena tre anni dopo la morte di Giustiniano, una nuova ondata di barbari, i Longobardi, si rovesciò sul nostro paese

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La conquista dei Longobardi

Non erano passati quindici anni dalla definitiva conquista dell’Italia da parte dei Bizantini quando, nell’anno 568, attraverso le Alpi Giulie sopraggiunsero nuovi invasori: i Longobardi.
I soldati dell’Impero d’Oriente che presidiavano l’Italia non seppero validamente difenderla; essi si ritirarono nelle città costiere, dove avevano basi militari e flotte.
I Longobardi non avevano navi cosicchè non riuscirono mai a scacciare i Bizantini dalle coste italiane e ad unire tutta l’Italia sotto il loro dominio.
Fu questa una delle tristi conseguenze della conquista longobarda: l’Italia, unita dai Romani, si spezzetta in domini Bizantini e in domini Longobardi; ed anche quando finirono quei domini, l’Italia continuerà ad essere politicamente divisa.

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La conversione dei Longobardi

Il dominio dei Longobardi durò dal 568 al 774. Nei primi anni il loro governo fu aspro; poi venne mitigandosi soprattutto per la conversione al cattolicesimo della regina Teodolinda per opera di papa Gregorio Magno.
Fu questo un fatto di grande valore politico e civile, perchè influì sui costumi dei dominatori, rese più umana la condizione dei vinti latini e permise non solo la convivenza ma, più tardi, anche al fusione tra vincitori e vinti.
Nell’anno 603 la regina Teodolinda, adempiendo un suo voto, fece erigere in Monza la Basilica di san Giovanni Battista, decorata di preziosi ornamenti d’oro e d’argento.
Nella cappella, detta ancor oggi “cappella della regina Teodolinda”, si conserva la famosa corona ferrea, la quale, dopo essere stata di Teodolinda ed aver cinto il capo dei re longobardi, servì nei secoli successivi a cingere anche la fronte imperiale di Carlo Magno, poi quella dei re d’Italia nel Medioevo e più tardi ancora quella dei re di Germania imperatori del Sacro Romano Impero.

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Per il lavoro di ricerca

Di che stirpe erano i Longobardi?
Come vivevano?
Quali leggi li governavano?
Com’erano le loro case?
Come si vestivano?
Quando vennero in Italia?
Da chi erano guidati?
Come governò Alboino?
Perchè è famoso l’editto di Rotari?
Quando e per opera di chi si convertirono al cattolicesimo?
Chi fu Teodolinda? Che cos’è la corona ferrea e dove si trova? Conosci la sua leggenda?

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Il sogno di Teodolinda

Dice una leggenda che Teodolinda aveva promesso di erigere un tempio a San Giovanni e aspettava che un’ispirazione divina le indicasse il luogo più adatto. Mentre cavalcava col suo seguito attraverso una piana ricca di olmi e bagnata dal Lambro, la regina si fermò a riposare lungo le rive del fiume, all’ombra di un albero.
Addormentatasi, ella vide in sogno una colomba che si fermò poco lontano da lei e le disse: “Modo” (cioè qui).
Prontamente la regina rispose: “Etiam” (sì) e fece costruire la basilica nel luogo indicatole dalla colomba.
Quella zona fu poi chiamata Modoetia (Monza).

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Odoacre, amico di San Severino

Non pare che Odoacre avesse la ferocia dei barbari di Attila o di certi imperatori romani; la leggenda ci tramanda infatti la sua vivissima amicizia con San Severino, un asceta molto venerato. Al barbaro Odoacre si attribuiscono poi sentimenti e atti pietosi verso il piccolo Romolo Augustolo che “per compassione della sua infanzia gli salvò la vita e, perchè era un bel bimbo, gli diede una rendita di seimila soldi e lo mandò in Campania a viverci liberamente con i parenti”.

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Alboino in Pavia

I Longobardi (“uomini dalle lunghe barbe”) appartenevano a quelle tribù germaniche vissute lontano dai confini dell’Impero romano e rimaste sprofondate nella più oscura barbarie. Nomadi, essi avevano vagato senza meta nell’Europa Centrale; e si trovavano nei territori tra le Serbia, Croazia e Ungheria, quando sentirono parlare del clima mite, delle ricche città, dei pingui campi dell’Italia. Ciò decise il loro re, il fiero e crudele Alboino, ad ordinare un esodo di massa. Nella primavera del 568, una carovana di trecentomila longobardi, tra guerrieri, donne, vecchi e bimbi, si presentò al passo del Predil, nel Friuli, e dilagò poi nella pianura veneta. L’Italia, appena uscita, stremata, dalla lunghissima guerra greco-gotica, venne rapidamente conquistata.
In breve tempo i Longobardi si impadronirono di gran parte dell’Italia settentrionale, della Toscana spingendosi a sud, fino ad occupare Benevento. Una sola città oppose agli invasori strenua resistenza: Pavia che, stretta d’assedio, respinse per tre anni gli attacchi longobardi, arrendendosi solo per fame. Era il 572: re Alboino entrava finalmente in Pavia, che sarebbe diventata, con Verona, la capitale del nuovo Regno. Iniziava per l’Italia una nuova, decisiva fase della sua storia.
“E’ mia questa Italia!” gridò Alboino, affacciandosi dalle Alpi e scendendo nella pianura del Po che gli sembrò molto bella e fertile. Scelse per sua capitale Pavia. I Longobardi rimasero a lungo in quella regione. E anche quando cessò il suo dominio, il nome rimase. Infatti anche oggi il nome Lombardia ricorda la dominazione dei Longobardi.
I Longobardi erano tutti biondi rossicci. Alti di statura, portavano capelli a ciuffo sulla fronte, baffi spioventi e barbe lunghe. Sui copricapo, di pelo, portavano corna di animali. La loro arma preferita era una lunga alabarda. Nel vedere quei nuovi barbari i ragazzi italiani dicevano scherzando: “Sembrano carote!”
I Longobardi, dalle Alpi, giunsero fino al mar Ionio, percorrendo tutta la penisola italiana.
“Fin qui è il mio regno!” disse un successore di Alboino, Autari, spingendo il cavallo nel mare, a Reggio Calabria. Proprio così. Pareva che ormai fossero i padroni di tutta l’Italia e che nessuno li potesse sconfiggere.

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Alboino e Rosmunda

Per capire quanto fossero crudeli, basti dire che coi crani degli avversari uccisi si facevano coppe per il vino. Così ogni volta che bevevano, accostavano le labbra alle ossa del loro nemico.
Anche Alboino aveva preso stanza nella città di Verona e occupava il castello già abitato da Teodorico. Suo nemico era stato Cunimondo, re dei Gepiti, che Alboino aveva ucciso in battaglia, sposando poi la figlia del re morto, chiamata Rosmunda.
Un giorno dopo un pranzo durante il quale aveva più volte accostato le labbra al teschio di Cunimondo, mezzo brillo, Alboino chiamò uno del suo seguito e gli disse: “Perideo, prendi questa coppa di buon vino e portala alla mia dolce sposa Rosmunda”.
Perideo obbedì. Quando la regina riconobbe il teschio del proprio padre, inorridì. Ma non volle mostrare la sua commozione e il suo orrore. Prese la coppa e accostò le labbra sbiancate all’orto del cranio paterno.
Con gli occhi dilatati dall’orrore, mentre beveva, fissava Perideo, il quale lesse in quello sguardo una muta invocazione: “Vendicami…”
Presso i barbari la vendetta era sacra. E pochi giorni dopo Perideo uccideva Alboino, per vendicare Rosmunda. (P. Bargellini)

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Autari e Teodolinda

Una cupa leggenda circonda il nome di Alboino, il re longobardo che guidò il suo popolo, trecentomila persone comprese le donne e i bambini, una carovana zingaresca di carri e masserizie, guidata da fortissimi guerrieri, a sud delle Alpi: si dice che egli costringesse la moglie Rosmunda, a bere in un boccale ricavato dal teschio del padre, ucciso dallo stesso Alboino.
Più gentile e poetica è la leggenda del re Autari e della regina Teodolinda. Autari, prima di sposare quella principessa,, figlia del re degli Avari, si recò alla sua corte in incognito, per conoscerla, fingendosi un ambasciatore. La fanciulla venne chiamata alla sua presenza, perchè egli potesse vederla e, come diceva, “riferire al suo re”.
Teodolinda offerse da bere agli ospiti. Quando venne il turno di Autari, questi le sfiorò la mano con un dito e le passò la destra sulla fronte, sul naso e sulla guancia. Teodolinda, turbata, riferì la cosa alla sua nutrice. Ma la vecchia la rassicurò: “Non avere timore: nessun uomo avrebbe osato toccare la futura sposa del re. Quel cavaliere è senza dubbio Autari in persona”. Così conobbe il suo sposo la giovane che, diventata regina, favorì la conversione dei Longobardi (i quali professavano a religione ariana) al cattolicesimo.
Sotto i primi anni del dominio longobardo, l’Italia conobbe il più nero e doloroso periodo della sua storia. Ma col passare degli anni i Longobardi (che non riuscirono mai a costruire uno stato forte ed unito) addolcirono un poco i loro barbari costumi. Nel 643 il re Rotari emanò un complesso di leggi, attraverso il quale possiamo farci un’idea della società longobarda, in gran parte ancora barbara, ma già influenzata dallo spirito romano.
L’Editto di Rotari elenca i possibili reati, indicando, per ciascuno di essi, la pena da scontare o la multa da pagare.
Una curiosa disposizione dice: ” Se qualcuno avrà pelato la coda del cavallo di un altro, pagherà sei soldi”.

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Leggi longobarde

I Longobardi obbedivano alle tradizioni ed ai costumi di tutte le tribù germaniche. Vigeva, tra di essi, la vendetta privata, chiamata faida: l’omicida poteva essere a sua volta ucciso da un membro della famiglia del morto; le lotte tra famiglie, in tal modo, duravano molto a lungo, e spesso si tramandavano di generazione in generazione.
Un’altra barbara usanza era il “giudizio di dio”. Per stabilire se un uomo era innocente o colpevole del crimine che gli era ascritto, lo si sottoponeva a brutali prove, nella convinzione che dio avrebbe provato la sua innocenza salvandolo. Al giudizio di dio facevano ricorso spesso i Longobardi: l’imputato, legato, viene tuffato in acqua alla presenza di numerosi testimoni; se rimane a galla è ritenuto colpevole, e quindi condannato; se, invece, affonda, la sua innocenza sarà provata! Per tutto il corso del Medioevo, del resto, si ebbero varie forme del giudizio di dio: una delle più frequenti era il duello: l’accusato si doveva battere contro l’accusatore (talvolta costoro erano sostituiti da loro amici, o “campioni”): il vincitore avrebbe provato di essere nel giusto, poiché la sua vittoria, si credeva, veniva dal fatto di difendere una causa giusta.
Un certo miglioramento dei costumi longobardi fu ottenuto da re Rotari, il quale, con il suo editto, limitò a pochi casi sia la faida sia il giudizio di dio.
Regola della giustizia divenne il “guidrigildo”, cioè il compenso dell’offesa patita. Questi compensi erano fissati con una scrupolosa esattezza.
“Chi taglia il naso ad un altro gli dovrà pagare tredici soldi” diceva la legge: ed ecco che il ferito riceveva solennemente, dal feritore, la somma dovuta.
Un altro articolo diceva: “Chi fa cadere ad uno i denti mascellari, gli dovrà pagare diciannove soldi per ogni dente”.
Più curiosa era quest’altra disposizione: “Se qualcuno avrà colpito un altro in testa, e gli avrà rotto le ossa, gli dovrà pagare: per un osso, dodici soldi; per due ossa, trentasei soldi. Se le ossa rotte saranno più di due, non si contino. Bisogna però che una di queste ossa sia di tale misura che, lasciata cadere all’aperto, su di uno scudo, faccia un suono udibile a dodici piedi di distanza”.
Assai cara era pagata una mano: metà del prezzo necessario per compensare una vita.
In longobardo, l’offesa era detta walopaus.

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Come si vestivano e si acconciavano i Longobardi

Nelle decorazioni del palazzo di Monza, si può vedere molto bene in che modo a quel tempo i Longobardi vestivano e si acconciavano. Essi avevano i capelli rasi fino all’occipite e ricadenti sulla fronte fino all’altezza della bocca, divisi in due bande da una scriminatura. Le loro vesti erano ampie e generalmente di lino, ornate di strisce intessute abbastanza larghe e di vario colore. Portavano calzari aperti all’estremità e fermati da lacci intrecciati.

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In una casa longobarda

Sono entrato nella casa, chiamiamola così, di un guerriero longobardo molto stimato dai suoi connazionali per il suo valore. A me, che sono latino, è sembrato di ritornare indietro nel tempo di millecinquecento anni. L’abitazione consta di un unico vano, le cui pareti sono di legno e il tetto di paglia. Le suppellettili sono ridotte al minimo indispensabile: pentole di terra o di rame, corna di bue per contenere l’olio, o da usare come bicchiere, un mulino portatile per macinare il grano, pelli buttate per terra che servono da letto. Siccome il mio ospite era, come vi ho detto, un soldato valoroso, appesi alle pareti c’erano parecchi crani, quelli dei nemici che il gentiluomo aveva ucciso con le sue mani: così mi ha lui stesso spiegato.

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L’editto di Rotari

Rotari era un re longobardo. Nacque nel 606 e salì al trono nel 636 sposando Gondeberga, vedova di Ariovaldo. Sotto il suo regno lo stato si ingrandì grazie alla conquista della Liguria, tolta ai Greci. Ma la sua fama resta legata soprattutto all’opera di legislatore (aveva del resto dato prova della sua grandezza d’animo proteggendo i cattolici pur essendo ariano). L’editto di Rotari, detto anche editto longobardo, promulgato a Pavia nel 643, è uno specchio fedele delle condizioni di vita e di civiltà del popolo longobardo. L’editto è un vero e proprio codice, composto di 338 capitoli, di diritto penale e privato, riguardanti la repressione dei reati contro lo stato, contro l’incolumità delle persone e la salvaguardia del patrimonio, del diritto ereditario, del diritto di famiglia, dei diritti reali, dei diritti di obbligazione, della responsabilità per i servi, dei danneggiamenti e delle obbligazioni.
In questo editto, scritto in latino, per la prima volta dei barbari, come dovevano essere considerati i Longobardi, tenevano conto delle esperienze del diritto romano e delle innovazioni del cristianesimo. Grande importanza è attribuita dall’editto alla famiglia, centro dell’ordinamento sociale e politico, ed a tutte le questioni familiari.

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La conversione dei Longobardi

I Longobardi dominarono per ben due secoli nell’Italia settentrionale, e in così lungo periodo ebbero modo di subire la benefica influenza della civiltà romana, alla quale attinsero per l’organizzazione dello stato, per la compilazione delle leggi mescolando addirittura il proprio linguaggio alla lingua latina. La religione cattolica contribuì in gran parte a modificare le caratteristiche di questo popolo barbaro. La conversione al cattolicesimo avvenne per opera della regina Teodolinda. I Longobardi infatti erano ariani.
Era allora pontefice Gregorio Magno, monaco benedettino che, salito alla cattedra di Pietro, diceva tuttavia di sé “io sono il servo dei servi di dio”, e non sdegnava di servire i poveri, che voleva alla sua mensa.
Gregorio Magno paternalmente ammonì Teodolinda, e la convertì al cattolicesimo. Ancora molti anni dovettero passare prima che la religione ariana scomparisse tra il popolo longobardo. Tuttavia l’esempio della regina operò grandi conversioni e preparò il terreno per la conversione di tutto il suo popolo.

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Teodolinda, regina dei Longobardi e dei Latini

L’Italia è dominata dai barbari. Orde di ogni stirpe cavalcano sulle dolci terre e le distruggono. Da qualche anno vi comandano i Longobardi, ma già i Franchi hanno preso a combatterli e a fatica il longobardo Autari li ha ricacciati oltre il confine. Gli Italici attendevano i Franchi come liberatori: chi li proteggerà ora? Autari è crudele e minaccia di morte chiunque sei suoi voglia battezzare i figli. Inutilmente la moglie, Teodolinda, lo supplica di moderarsi… E’ la morte a portarsi via il re prepotente. Teodolinda rimane sola.
Esce spesso dalla reggia e si reca fra la povera gente. E’ una fiammata di intima, calda sensibilità a spingerla a far del bene, ed il suo cuore ignora la differenza tra Longobardi e Latini. Un mattino, mentre la regina cavalca verso Monza, un uomo lacero traversa la strada. E’ stremato, traballa… cade. Teodolinda, incurante del fango che le insudicerà il mantello, scende di sella e si china sul mendico.
“Chi sei?” il povero ha aperto gli occhi e fissa stupito la dama bionda.
“Teodolinda”
“La regina! Dio ti protegga sempre… tutti i Latini dicono che sei buona”
“La mia gente ti trasporterà nel più vicino castello…”
“Tu ami gli amici Italici…” mormora ancora l’uomo “dacci un re che ci comprenda! Lo puoi!”
“Sì”.
Teodolinda, cattolica, sposa in seconde nozze di Agilulfo, duca di Torino, che non perseguiterà più i cattolici. E papa Gregorio invia ai due sposi una preziosa corona. Preziosa per le gemme che la compongono, ma ancor più preziosa per il sottile cerchio di ferro che la delimita internamente, formato secondo la leggenda da un chiodo della croce: la corona ferrea. Quella che Teodolinda deporrà nella basilica di San Giovanni Battista, che ha fatto erigere in Monza. (R. Gelardini)

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La corona ferrea

Secondo un’antica tradizione, Sant’Elena, madre dell’Imperatore Costantino, trovò sul Calvario la Croce. Ella ne tolse un chiodo e lo fece applicare all’interno di una corona d’oro, che regalò a suo figlio. Questi la donò al papa. Circa tre secoli dopo, Gregorio Magno regalò la corona, chiamata ferrea per il chiodo che aveva internamente, alla regina Teodolinda. Ella, a sua volta, ne fece dono al Duomo di Monza, fatto edificare da lei stessa.
La corona si trova lì ancora oggi.

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ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture

ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture di autori vari, per bambini della scuola primaria.

I figli del deserto

Nella prima metà del VII secolo, e più precisamente nel 634 dC, gli Arabi assumono una posizione di primo piano alla ribalta della storia.
Fino ad allora questo popolo era vissuto sparso per il deserto in tribù nomadi formate di carovanieri, di pastori e di razziatori, detti beduini, cioè figli del deserto, e sono una parte di esso, insediata lungo le coste, praticava l’agricoltura.
Gli Arabi adoravano più dei; fra i tanti idoli propri di ciascuna tribù, ce ne era uno comune a tutte, la pietra nera, che si credeva portata dal cielo dall’arcangelo Gabriele e che si venerava in un santuario di forma cubica, la Càaba, alla Mecca, centro religioso e commerciale dell’Arabia.
Qui da ogni parte della penisola affluivano una volta all’anno gli Arabi, in pellegrinaggio, per celebrarvi i riti e per trafficare.

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Maometto

Alla Mecca, verso l’anno 570, nacque Maometto. Costui sentendosi ispirato da dio, incominciò a raccontare le rivelazioni che la divinità gli faceva e a diffondere in mezzo al popolo i principi di una religione.
Maometto insegnava che vi è un dio unico, Allàh, il quale dopo aver inviato come suoi profeti Abramo, Mosè e Gesù, suscitava ora il suo ultimo e più grande profeta, Maometto: “Allàh è il solo dio e Maometto è il suo profeta”.
“Gli uomini di fronte ad Allàh sono tutti uguali” diceva Maometto “come i denti di un pettine”. Chi crede in Allàh si abbandona interamente al suo volere, perchè sa che egli nella sua sapienza ha fissato per ciascun uomo un destino, che nulla può mutare.
Questa fede cieca, o abbandono in Allàh, si chiama Islàm, e Islamici o Musulmani si chiamano coloro che la professano. Ad essi è riservato il paradiso, un meraviglioso giardino pieno di delizie, per meritarsi il quale adempiere i doveri religiosi, che sono: la preghiera, cinque volte al giorno, quando il muezzin, affacciato al minareto ne grida il segnale; il digiuno, dall’alba al tramonto, nel mese di Ramadàn (febbraio); l’elemosina, che il ricco deve al povero; il pellegrinaggio alla Mecca, almeno una volta nella vita; la guerra santa contro gli infedeli.
Le dottrine di Maometto furono raccolte dai discepoli in un libro sacro: il Corano.

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La guerra santa

La guerra santa predicata da Maometto trasformò rapidamente quel piccolo popolo di nomadi in un grande popolo di guerrieri e di conquistatori. Sotto la guida dei califfi, gli Arabi dilagarono in Mesopotamia e in Persia, poi in Palestina, in Siria e in Egitto.
Nel 711 i Musulmani conquistarono la Spagna, passarono quindi i Pirenei, invadendo la Gallia; ma nel 732 furono respinti da Carlo Martello, generale dei Franchi.
Non perciò si arrestarono le conquiste arabe nel Mediterraneo: nei primi anni dell’800, la Sicilia e le altre isole italiane erano in potere degli Arabi: il Mediterraneo divenne un mare arabo.
Palermo fu allora una delle principali città d’Europa per ricchezza di monumenti e per numero di abitanti. La Sicilia, dopo i tempi floridi di Siracusa e delle colonie greche, aveva sofferto per la rapacità dei governatori romani; si era un poco sollevata nei primi due secoli dell’Impero, per ricadere poi nelle più tristi condizioni per le invasioni dei barbari e per il pessimo governo dei Bizantini. Caduta in dominio degli Arabi, rifiorì a nuova vita; le sue campagne furono allora assai ben coltivate: le industrie, i commerci, le arti prosperarono.
La Sicilia raccolse e sviluppò tanta parte di civiltà degli Arabi, la diffuse nei paesi bagnati dal Mediterraneo e, prima che altrove, in Italia.

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Per il lavoro di ricerca

Descrivi in paese dell’Arabia e le condizioni dei suoi abitanti prima di Maometto. Che cos’è la Kaaba?
Quando visse Maometto?
Che importanza ha per gli Arabi l’Egira?
In quale libro è contenuta la dottrina di Maometto?
Qual è il principio fondamentale della dottrina di Maometto?
Perchè gli Arabi giudicarono santa la guerra?
Chi erano i Califfi?
Quali terre conquistarono gli Arabi  in Occidente e in Oriente?
Quando giunsero vittoriosi nella Spagna e chi sconfissero?
Come governarono gli Arabi in Sicilia?
Quale contributo diete all’agricoltura la conquista araba?
Quali furono le città più ricche degli Arabi?
Quali furono le scienze da loro più coltivate?

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Ritratto di Maometto

Maometto era un uomo dignitoso e raramente rideva. Di costituzione delicata, era nervoso, impressionabile, propenso alla meditazione melanconica. Nei momenti di eccitazione o di rabbia le vene del viso gli si gonfiavano pericolosamente, ma egli sapeva reprimere le proprie passioni e poteva facilmente perdonare a un nemico vinto e pentito… Era un uomo semplice e senza pretese. Gli appartamenti in cui successivamente dimorò erano casette di mattoni non cotti, con tetti di rami di palma; la porta era riparata da una tenda di pelo di capra o di cammello; l’arredamento consisteva in un materasso e alcuni cuscini sul pavimento. Fu visto spesso rammendare i propri vestiti o aggiustarsi le scarpe, accendere il fuoco, scopare il pavimento, mungere la capra in cortile e fare acquisti al mercato. Si cibava di datteri e di pane di orzo, raramente si concedeva il lusso di gustare latte o miele, e dava per primo l’esempio di astenersi dal vino.
Cortese con i potenti, affabile con gli umili, indulgente verso i suoi aiutanti, gentili con tutti eccetto che con i nemici. Visitava i malati e si univa a ogni funerale che incontrasse per via. Non amava dimostrazioni di magnificenza e di grandezza. Non richiedeva il lavoro di schiavi quando aveva tempo e forza per fare da solo. Spendeva poco per la famiglia, ancor meno per sé, molto in opere di carità.
(W. Durant)

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Maometto e l’Islamismo

Maometto affermava l’esistenza di un dio solo, e voleva che tutti gli idoli fossero distrutti; i sacerdoti e i ricchi mercanti della Mecca suscitarono contro di lui una tale agitazione, che dovette fuggire e rifugiarsi a Yatrib, detta poi Medina (“Città del Profeta”).
Ciò avvenne l’anno 622.
Questa fuga (in arabo Egira) è considerata dagli Arabi l’inizio di una nuova era. Perciò essi cominciarono a contare gli anni dal 622, che è l’anno primo della loro era.
La dottrina maomettana è contenuta nel Corano, che potrebbe definirsi la Bibbia dei Musulmani, e deriva in parte dai Giudaismo e dal Cristianesimo adattati alla natura del popolo arabo.
Il principio fondamentale di questa dottrina è l’esistenza di un dio solo, Allah, il quale ha già rivelato la sua legge per mezzo di Mosè e di Gesù, ed ora la rivela in modo più perfetto per mezzo di Maometto, dopo il quale non apparirà più alcun profeta.
I fedeli devono obbedire ciecamente ad Allah, accettare con rassegnazione la sua volontà, annullando la propria: tutto è da Allah ineluttabilmente prestabilito. Questo abbandono alla volontà di dio si dice con parola araba Islam. Perciò Islamismo si disse la dottrina di Maometto; islamici o musulmani sono i suoi seguaci.
Il paradiso è immaginato come un luogo di godimenti e di piaceri materiali, in forma di giardino, posto sulla vetta di un monte, irrorato da fresche fontane. I dannati piombano invece nell’abisso pieno di fiamme.
E’ un dovere degli Arabi convertire alla vera fede di Allah gli infedeli, soprattutto gli idolatri; se gli infedeli resistono si devono sterminare con le armi. Chi cade nella guerra santa è sicuro del paradiso. Questo miraggio, unito al fanatismo religioso, trasformò gli Arabi, da povero popolo di pastori nomadi e contadini, in conquistatori.
Il Corano prescrive minutamente i doveri del credente; quali: l’abluzione, la preghiera da farsi cinque volte al giorno a un segnale dato dal muezzin; il digiuno nel mese del Ramadan; il pellegrinaggio, almeno una volta nella vita, ai luoghi santi, ecc…

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Norme del Corano

Oriente e Occidente sono di Allah. Il Signore è ovunque volgete l’occhio e riempie l’universo con la sua sapienza ed infinità.
L’esistenza dei cieli e della terra, della notte e del giorno che si succedono, della nave che corre sui nari a vantaggio degli uomini, della pioggia che scende dalle nubi e vivifica la terra, degli animali che popolano la superficie terrestre, dei venti che spirano or di qua or di là, delle nuvole erranti tra terra e cielo, tutto ciò è il segno della potenza dell’Altissimo anche davanti agli occhi degli ignoranti.
Nel giorno del giudizio finale tutti i visi degli uomini saranno o bui o risplendenti. I rinnegatori della fede avranno il viso coperto di tenebra e Allah dirà loro : “Andate in preda alle fiamme, giacché siete stati apostati”. Invece, quelli il cui viso risplenderà, proveranno la divina bontà e di essa avranno eterno gioire.
Il Signore vi ordina di giudicare con giustizia i vostri simili. Obbeditegli, perché egli tutto vede e tutto sa. Oh credenti, siate cauti nel giudicare; talvolta il giudizio è ingiusto. Frenate la vostra curiosità; non lacerate la reputazione degli assenti.
Allah è autore di ogni bene che ti giunga. Tu sei l’autore del male che ti giunge. Chi obbedisce al Profeta, obbedisce al Allah.
Anche il verme più vile è creatura di Dio, nutrita da lui;  Dio conosce il suo rifugio e dove dovrà morire.
La terra presenta ad ogni passo un quadro sempre più vario, qui giardini con vigneti e legumi, là palme, ora solitarie ora in boschetti. La stessa acqua irriga tutti i frutti, ma il suo sapore è diverso. Ecco come Dio dà la prova della sua potenza a quelli che comprendono.
La spada è la chiave del cielo e dell’inferno; una goccia di sangue versato per la causa di Dio, una notte sotto le armi, avranno maggior valore che due mesi di digiuno e di preghiera. Colui che morrà in battaglia, otterrà il perdono dei peccati, nell’ultimo giorno le sue ferite saranno rosse come il vermiglio, profumate come il muschio, ed ali d’argento e di cherubino terranno il posto delle membra che avrà perdute.

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I successori di Maometto e le loro grandi conquiste

Raccolto a Medina un nucleo di fedeli, Maometto potè rientrare trionfalmente alla Mecca nel 630, dopo aver sanguinosamente vinto i suoi avversari. Cominciava la guerra santa.
Quando il Profeta morì (632), quasi tutta l’Arabia era convertita all’Islamismo e le tribù, prima divise, formavano un saldo organismo politico, militare e religioso. I suoi successori si chiamarono Califfi; i primi furono elettivi, poi si fondò una dinastia.
La marcia degli Arabi si sviluppò in due direzioni: ad occidente, verso l’Africa mediterranea; a nord e a oriente, verso la Siria, l’Asia Minore e il Regno di Persia. Essa fu favorita dalla debolezza in cui si trovavano allora i due stati vicini: l’Impero d’Oriente e il Regno di Persia.  Il primo perdette parte dei territori, il secondo si sfasciò.
Conquistata tutta l’Africa mediterranea, l’anno 711 gli Arabi varcarono lo stretto che la separa dalla Spagna e che, dal nome del loro condottiero, fu chiamato Gibilterra (Gebel-el-Tarik, cioè monte di Tarik), cozzando contro il regno dei Visigoti. In due anni questo crollò: i Visigoti superstiti ripararono nelle Asturie, una regione montagnosa lungo la costa settentrionale della penisola iberica. Né l’impervia catena dei Pirenei arrestò la formidabile espansione degli Arabi, che irruppero in Francia. Ma un valoroso duca franco, maggiordomo del re, Carlo Martello, li sconfisse a Poitiers (732), ricacciandoli al di là dei Pirenei.
Nel giro di un secolo, dopo la morte del Profeta, gli Arabi avevano costituito un immenso impero che dall’India si estendeva fino alle coste dell’Atlantico, dai Pirenei al Mar Nero e dal lago d’Aral giungeva fino al deserto del Sahara e all’oceano indiano.
In Asia, il loro dominio confinava col grande impero cinese.

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La civiltà araba: agricoltura, commercio, industria

Nei primi tempi della loro espansione, gli Arabi recarono gravi danni alle civiltà conquistate, perchè saccheggiarono  e distrussero opere utili ed opere artistiche. Si deve a loro la distruzione completa della Biblioteca di Alessandria.
Ma ben presto essi sentirono interesse ed ammirazione per le civiltà dei popoli con cui erano venuti il contatto, e le assorbirono apportandovi anche originali contributi.
Agricoltura, industria e commercio fiorirono rapidamente in tutti i paesi conquistati, promuovendone la ricchezza.
Nuove piante furono introdotte e diffuse nel bacino del Mediterraneo, come l’arancio, la palma, l’albicocco, il cedro, il carciofo, l’asparago, lo zafferano, il riso, il cotone, ecc…
Sistemi ingegnosi di irrigazione furono attuati in Spagna meridionale e nella Sicilia, che diventò allora un giardino fiorente; ancora restano celebri avanzi di pozzi, acquedotti, bacini.
Nelle regioni d’Oriente gli Arabi appresero la fabbricazione di eleganti tessuti, la lavorazione del cuoio, dei metalli, del vetro, dell’avorio e del legno.
Le armi di Damasco e di Toledo, i leggeri tessuti di Mosul (mussoline), le sete, i broccati, i tappeti di Damasco, il cuoio del Marocco, i mobili intarsiati in avorio, le vetrerie, i vasi, le lampade di Baghdad e di Cordova costituirono i più raffinati prodotti al mondo tra l’VII e il XII secolo.
Tutta questa produzione industriale era alimentata dalla facilità degli scambi. Provvisto di porti numerosi, dotato di una flotta potente e di antiche e regolari vie carovaniere, l’Impero arabo era intermediario tra l’Occidente e l’Estremo Oriente. Molte parole della nostra lingua, che riguardano la navigazione ed il commercio, sono derivate dall’arabo (arsenale, ammiraglio, fondaco, dogana, magazzino, ecc…).
Mentre nell’Europa cristiana le maggiori città andavano decadendo e la vita economica si restringeva nelle curtis, gli Arabi crearono ovunque nuove città o impressero una floridezza nuova a quelle già esistenti.

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La ricchezza degli Arabi poveri

Gli Arabi poveri raramente erano tanto poveri da non possedere nemmeno questa semplice ricchezza: un cammello o, meglio un dromedario.
Esso dava loro nutrimento, con la sua carne, il latte e i prodotti che da questo ne ricavavano. Il suo pelo serviva per la tessitura delle tende e delle vesti. Persino il suo sterco veniva raccolto e usato come eccellente combustibile. Il cammello era prezioso come mezzo di trasporto. Alla resistenza dell’animale, alla sua sobrietà, che lo fa star contento delle erbe della steppa, e che gli permette di star giorni interi senza bere, si deve se le grandi distese desertiche non sono state per i beduini un ostacolo insormontabile e se essi hanno potuto regolarmente varcarle con le loro carovane, con gli eserciti, con conseguenze di grande portata per la storia politica, economica e culturale.
(M. Guidi)

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I musulmani e la schiavitù

Tra i musulmani la schiavitù era abbastanza diffusa, limitatamente però ai lavori domestici: gli Arabi non avevano grandi proprietà terriere in cui occorresse il lavoro degli schiavi. La religione considerava atto di pietà la liberazione di uno schiavo musulmano; considerava un dovere, invece, la riduzione in schiavitù dei nemici. La dura sorte di venir venduti come schiavi toccò, così, anche a molti europei, catturati in battaglia, o durante le scorrerie degli Arabi lungo le coste, o in seguito alle imprese dei pirati arabi che molestavano il traffico delle navi degli “infedeli” nel Mediterraneo.
Se i prigionieri erano di buona famiglia, ed esisteva la speranza di un buon riscatto, anziché venduti sui mercati erano restituiti alle famiglie dietro pagamento di una grossa taglia. C’è da dire che i padroni arabi non erano duri con gli schiavi. I più colti praticavano la virtù della misericordia, raccomandata dal Corano, anche nei loro confronti. Quando poi, in Spagna, gli Arabi vennero sconfitti dalle forze della nascente potenza spagnola, toccò a loro essere venduti come schiavi, dove venivano adibiti ai servizi domestici. Molti villaggi, in Liguria, sono sorti in cima alle colline proprio per essere al riparo dalle scorrerie arabe.

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La cultura araba

Magnifico sviluppo ebbe l’architettura, dalle linee armoniose e dalla ricchissima colorazione policroma. I più bei monumenti sono: il palazzo dell’Alhambra a Granata e l’Alcazar a Siviglia. Non ebbe invece grande sviluppo la pittura per il divieto, posto da Maometto, di rappresentare dio in figura umana, allo scopo di impedire il ritorno degli Arabi all’idolatria: in compenso fiorì l’arte decorativa col bizzarro, caratteristico stile degli arabeschi. Tra le opere letterarie, celebre è la raccolta di novelle “Le mille e una notte”.
Nel campo delle scienze, partendo dalle conquiste dei Greci e dei popoli orientali, gli Arabi fecero molti progressi: crearono l’algebra, diedero nuova forma al calcolo con l’uso delle cifre arabiche, introdussero lo zero, posero le basi della chimica moderna; la geografia, l’astronomia, la medicina e la chirurgia ebbero da loro contributi nuovi.
Ma la civiltà araba, dopo aver raggiunto il suo massimo sviluppo tra il X e il XII secolo, si arrestò e decadde.

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Le mille e una notte

Le mille e una notte sono una raccolta di fiabe e novelle arabe famose in tutto il mondo. La cornice favolosa è data dalla leggenda della principessa Sheherazade, che per mille e una notte intrattenne il Sultano con i suoi racconti, ottenendo dalla sua curiosità il continuo rinvio della morte cui era condannata.
Al termine dei racconti, il Sultano si riconcilia con lei, ritira la condanna e dà una grande festa. Il libro è pieno di magie, stregonerie, trasformazioni di uomini in animali e viceversa, strumenti fatati (la lampada di Aladino, il tappeto volante e così via). Ma è anche ricchissimo di descrizioni della vita araba nella splendida capitale e nella reggia di Baghdad o nei vicoli del Cairo, dove si aggira una folla pittoresca di facchini, comari, artigiani, mariuoli, avventurieri.
Negli straordinari viaggi del marinaio Sindbad rivive l’epopea di qualche Ulisse arabo nei mari d’Oriente. Principi, mercanti, navigatori, studiosi, poeti, uomini del popolo sono i personaggi di una commedia umana che ha per noi il valore di un grande documentario dei costumi e della mentalità degli Arabi nel periodo di maggior splendore della loro civiltà.

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Le armi degli Arabi

Le spade caratteristiche degli Arabi erano ricurve: spesso le lame erano finemente lavorate con intarsi d’oro e d’argento e i foderi erano ornati di pietre preziose. I soldati erano armati poi di giavellotto e di lunghe lance orante di criniere di cavallo, e portavano uno scudo piuttosto piccolo.
Usavano un elmo con nasale e gorgiera di maglia di ferro per riparare il collo e il naso. Gli uomini indossavano il Kaftan, cioè un ampio mantello di lana e portavano lunghe braghe, strette alle caviglie. Si coprivano il capo con il turbante.

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L’incendio della biblioteca di Alessandria d’Egitto

Amru, generale del califfo Omar, conquistò l’Egitto. Entrato in Alessandria, dove ancora esisteva al famosa biblioteca, in cui i Tolomei avevano raccolto tutte le opere dei Greci antichi, Amru, che stimava le scienze e il letterati, fece amicizia con un dotto greco, di nome Giovanni. Si narra che questi volesse approfittare dell’amicizia che aveva con lui per salvare la biblioteca di Alessandria, ricca di ben 600.000 volumi e lo supplicasse di conservarla.
“Io non posso rispondere di nulla ” disse Amru “senza aver ottenuta l’approvazione dell’imperatore dei fedeli”.
Ne scrive pertanto al califfo, il quale gli dà questa risposta: “Se i libri di cui parli non contengono ciò che è nel libro di dio, essi sono inutili, falli bruciare; se non si accordano, essi sono dannosi, falli bruciare”.
Amru a malincuore obbedì scrupolosamente all’ordine del califfo.
(Manaresi)

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I pirati arabi distruggono un’abbazia

I monaci benedettini di Montecassino e di San Vincenzo al Volturno si incontravano spesso per feste religiose. In una di queste, che aveva raccolto il popolo delle due badie, avvenne un tremendo massacro. Assaliti dalle orde dei Saraceni che erano risaliti dal litorale di Castel Volturno, furono asserragliati, massacrati e sgozzati; massacro di un esercito inerme preso al laccio dal nemico in una gola di monti senza scampo. La basilica, le chiese furono depredate e incendiate, con grande lutto per la fede e per l’arte. Una traccia resta ancora nell’oratorio di San Lorenzo, unica chiesa superstite ma non indenne.

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Gli Arabi in Sicilia

La Sicilia, passata dal governo tirannico di Bisanzio a quello più illuminato degli Arabi, fece enormi progressi intellettuali ed economici, i cui benefici effetti si risentirono con le altre dominazioni.
Gli Arabi, bravi agricoltori, curarono i boschi, i corsi d’acqua, la piantagione di alberi fruttiferi, la coltivazione delle ortaglie e del cotone, introdussero in Sicilia la coltivazione della canna da zucchero e degli agrumi, oggi grande ricchezza dell’isola. Divisero le grandi estensioni di terreno in tante piccole proprietà.
Palermo divenne, assieme ad altre, una bella, popolosa, ricca città.

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Parole arabe in italiano

Molto spesso, parlando di qualche cosa, noi usiamo, senza saperlo, parole che sono state introdotte nella nostra lingua da un grande popolo del passato: gli Arabi.
Zucchero, per esempio, è una parola di derivazione araba, come arabe sono le parole cotone, magazzino, almanacco, ammiraglio, albicocca, denaro, divano, materasso e molte altre. Queste stesse parole sono presenti anche in altre lingue europee.
Per esempio, dalla parola araba sukkar deriva l’italiano zucchero, lo spagnolo azucar, il francese sucre , l’inglese sugar, il tedesco zucker.

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I cavalli, orgoglio degli Arabi

Gli Arabi non avevano grandi mandrie di bovini, ma pecore e cammelli, asini e cavalli.
I cavalli erano il loro orgoglio, animali svelti, alti e ben proporzionati, di temperamento nervoso e velocissimi.
I migliori provenivano dall’altopiano di Nedshd; e in tutto l’Oriente erano considerati il più nobile prodotto della natura; in realtà erano il risultato di un accurato allevamento.
Il cavalo ebbe fin dall’inizio una notevole importanza nella storia e nelle leggende dell’Islam.
Lo stesso Maometto, che non era un beduino, ma un cittadino, fin dalla prima giovinezza aveva avuto gran confidenza con gli animali.
Da bambino aveva accompagnato suo zio in un viaggio in Siria, e più tardi guidò egli stesso carovane di mercanti attraverso il deserto, al servizio di una ricca vedova attempata che possedeva alla Mecca un’impresa di trasporti e che poi divenne sua moglie.
Probabilmente faceva i suoi viaggi di affari su di un cammello, o su un asino, ma quando diventò conquistatore, e si coprì di gloria, ebbe un focoso destriero, anche per le sue missioni spirituali.
I suoi fedeli raccontano che sul suo cavallo miracoloso, Barak, guidato dall’arcangelo Gabriele cavalcò nella santa notte dalla Mecca al Tempio di Gerusalemme e di là salì in cielo.
Presso la rupe dalla quale il cavallo aveva spiccato il volo verso il cielo, il secondo califfo Omar al-Khattab, al posto del Tempio di Salomone fece erigere la grandiosa moschea che porta il suo nome.
Ciò nonostante, Omar fece il suo ingresso a Gerusalemme come semplice beduino, su un cammello che portava un sacco di biada, un altro di datteri e una borsa di cuoio con acqua da bere.
I successi militari degli Arabi sconfinavano nel prodigioso.
Con piccole squadre di cavalieri sottomisero i più grandi regni. I Persiani cercarono di trattenerli con un considerevole corpo di elefanti, ma dopo una lotta durata tre giorni, la battaglia degli elefanti di Kadesia si risolse a favore dei lancieri arabi; trecento arabi e settemila berberi presero la Spagna; solo a Poitiers, nel centro della Francia, la cavalleria araba fu bloccata per la prima volta.
(Morus)

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Il grande viaggio

La morte non atterriva gli Arabi, perchè essi sapevano che nell’aldilà esiste un dio giusto che premia chi ha vissuto con fede e ha sempre compiuto il bene. Perciò, quando un Arabo doveva intraprendere un lungo viaggio, metteva nel suo bagaglio anche il lenzuolo candido che avrebbe fatto da sudario. Durante il cammino, se l’Arabo si sentiva male e comprendeva che non aveva ormai più molto da vivere, avvertiva i compagni e si faceva dare un’ultima fiasca d’acqua. Poi si allontanava in solitudine. Scavava la sua fossa, con l’acqua faceva le ultime abluzioni rituali, recitava le preghiere e infine si sdraiava serenamente nella buca, in attesa della morte. Non si preoccupava per la sepoltura: avrebbe pensato il vento del deserto ad accumulare in poche ore la sabbia sulla sua fossa.

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Inferno e paradiso
Certamente noi preparammo ai cattivi il fuoco che li circonderà di un turbine di fumo, e, se chiederanno aiuto, avranno acqua che brucerà loro la faccia come se fosse rame fuso. Ma a quelli che avranno invece creduto e operato con rettitudine, non lasceremo mancare il premio dei giusti. Avranno i giardini del Paradiso, saranno adorni di bracciali d’oro  e vestiti di abiti verdi di seta preziosa intessuta d’oro e di una sopravveste splendente.

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Dal Corano

Dio ha creato per voi il bestiame; esso vi dà calore  e profitto, vi dà nutrimento. La sera quando le bestie tornano alla stalla, la mattina quando vanno al pascolo, sono per voi uno spettacolo bello da vedere. Trasportano i vostri carichi a paesi che non raggiungereste senza affanno e fatica, poichè il Vostro Signore è buono e pietoso. Egli ha creato cavalli, muli ed asini per cavalcatura e per ornamento, e altre cose che non conoscete neppure.
A Dio appartiene quanto è nei cieli e sulla terra: Egli è colui che basta a se stesso… e se tutti gli alberi della terra fossero penne, ed al mare fossero aggiunti sette mari, tutti d’inchiostro, non si esaurirebbero scrivendo le parole di Dio. Certo Egli è potente e saggio…

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La Sicilia sotto gli Arabi

La Sicilia fu governata da un Emiro (Balì) che dipendeva giuridicamente dall’Emiro di Kairouan, ma che, eccezion fatta per l’interpretazione dei dogmi, esercitava un governo assoluto. Palermo fu la capitale del nuovo stato. Dall’Emiro dipendevano i Cadì, che amministravano le città importanti, e funzionari minori.
Dopo gli atti violenti della conquista, gli Arabi divennero miti, e il loro governo fu tutt’altro che gravoso. L’isola fu divisa in tre province o valli: Mazara (anche oggi, Mazara del Vallo), Demone e Noto. In generale, Val Demone (Sicilia nord orientale) formata dalle catene dei Peloritani e dei Nebrodi e dall’Etna, tutta aspre valli ed impervie montagne, rimase indipendente di fatto, con municipalità locali; Val di Noto (Sicilia sud orientale) fu resa tributaria; a Sicilia centrale e occidentale, Val di Mazara, era veramente suddita. I beni ecclesiastici e demaniali vennero confiscati dal governo musulmano, ma i cittadini, pur perdendo ogni autorità politica, continuavano a vivere secondo le proprie leggi e costumi, godevano pienamente il diritto di proprietà, potevano praticare la loro religione.
La legge musulmana proteggeva le persone e gli averi con le medesime sanzioni penali per i musulmani, e ammetteva ogni contrattazione civile tra loro e i dominatori, anche i lasciti per testamento.
Tutti gli uomini liberi, di qualsiasi grado, erano davanti ai vincitori ragguagliati in un’unica condizione, detta dsimma. I dsimmi (sudditi o umiliati) erano sottoposti a vari divieti: non potevano portare armi né andare a cavallo, né bere vino in pubblico, né celebrare pompe funebri; la loro condizione di inferiorità, indicata esteriormente con un segno sulla porta di casa e sul vestito, si rivelava dall’obbligo di cedere per strada il passo ai musulmani e di alzarsi nei ritrovi quando entrava un musulmano.
In complesso, al condizione fatta dagli Arabi ai vinti non fu eccessivamente gravosa. Per questo e per l’odio verso l’antico dominate bizantino, i Siciliani non si ribellarono e la signoria araba si consolidò; occorrerà una forza proveniente dall’esterno, i Normanni, per abbatterla.
La Sicilia sotto i Musulmani fiorì di commerci e di industrie. Come Cordova, in Spagna, Palermo fu uno dei centri principali della civiltà araba: nel secolo X contava circa 300.000 abitanti ed era ricca e festosa. Con essa gareggiavano Catania, Messina, Siracusa, Castrogiovanni.
L’agricoltura fu favorita dallo spezzettamento del latifondo: molte grandi proprietà del dominio bizantino o della Chiesa, confiscate dal governo musulmano, furono in parte divise tra i conquistatori, in parte date in affitto o in enfiteusi.
Maometto aveva stabilito che chiunque rendesse una vita alla terra incolta, ne divenisse proprietario. Questo favorì il dissodamento e la coltura intensiva di terre abbandonate. Gli Arabi introdussero nell’isola piante e metodi di coltura che avevano appreso in Oriente: agrumi, fichi d’India, palme da dattero, gelso, cotone, canna da zucchero, ecc., e seppero regolare il corso dei fiumi con sapienti lavori idraulici.
La lingua e la cultura indigena non vennero soffocate, anzi valorizzate e arricchite dalla cultura greco orientale, di cui gli Arabi furono mediatori.

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La tecnica araba

Gli Arabi furono i primi ad iniziare un’applicazione più sistematica della ruota ad acqua e del mulino a vento.
Mentre nel mondo classico la ruota ad acqua non ebbe mai un’importanza particolare, gli Arabi ne fecero una delle loro principali risorse.
In Mesopotamia essi adottarono una ruota a pale galleggianti su chiatte ancorate alle rive del Tigri, per dare energia ai mulini, alle fabbriche di carta e ad altri macchinari, dove fecero grande uso di ruote dentate di legno e di altri congegni di trasmissione dell’energia.
Riferisce un antico storico che “… nell’Afghanistan tutti i mulini a vento sono mossi dal vento del nord e quindi orientati in questa direzione. Applicate ai mulini a vento vi sono delle file di persiane che vengono chiuse o aperte per trattenere o immettere il vento. Infatti, se questo è troppo forte, la farina brucia e diventa nera e la stessa macina può surriscaldarsi e guastarsi.”
Questo nuovo modello di mulino a vento è dovuto agli Arabi.
Nell’epoca d’oro della civiltà islamica (900-1.000) una serie di scienziati fece progredire la tecnica chimica studiando attentamente sostanze organiche e inorganiche, grazie allo sviluppo di strumenti scientifici.
Lo scienziato arabo Al-Biruni usò il suo picnometro per determinare il peso specifico di molti minerali e pietre preziose.
Uno degli strumenti maggiormente diffusi nel  mondo arabo fu l’astrolabio.
Risale certamente a Tolomeo e ad altri astronomi ellenistici, ma gli Arabi lo perfezionarono fino a farne uno strumento utile e di impiego universale per la misurazione degli angoli e il calcolo delle posizioni dei corpi celesti.
Gli Arabi furono anche famosi per l’arte del vasellame e specialmente per gli smalti lucenti e colorati applicati alle terraglie.
Quei recipienti smaltati, molti dei quali a prova di fuoco, erano particolarmente adatti agli esperimenti tecnici.
Il miglioramento della qualità del vasellame aiutò grandemente i chimici arabi ad intraprendere una produzione su larga scala di certi prodotti chimici.
Essi inventarono i forni cilindrici o conici, in cui venivano poste file di alambicchi per la produzione di acqua di rose o di nafta (benzina) per la combustione dei gas.
Nel 1085 un incendio nella cittadella del Cairo distrusse non meno di 300 tonnellate di benzina. La produzione di quantitativi così ingenti era possibile soltanto con il suddetto metodo.
Città come Damasco erano, secondo testi antichi, centri di produzione e distillazione.
Gli  Arabi si interessarono anche alla produzione di tessili.
Come certi nomi di sostanze e apparecchi chimici (quali alcali, antimonio, alambicco), passarono dalla lingua araba alla nostra, anche molti nomi arabi di tessuti furono adottati da noi.
Così il damasco, ad esempio, deriva originariamente da Damasco, e la mussola da Mosul, mentre la parola taffetà deriva dal persiano taftah e il fustagno, una stoffa famosa nel Medioevo, da Fostat, un sobborgo del Cairo.
Il sorgere di un’industria araba della carta fu dovuto ai contatti con la Cina.
Nel 793 sorgeva a Baghdad la prima cartiera. Ben presto l’uso della carta divenne così diffuso, che intorno all’800 troviamo scrivani che si scusavano se per stendere le lettere dovevano ricorrere ancora al papiro.
Verso il 900 si introdussero a Baghdad formati standard di carta e se ne fabbricarono qualità assai leggere, che servivano per la posta aerea di allora, cioè il servizio dei piccioni viaggiatori.
L’industria della carta era strettamente connessa con quella della legatura dei libri, nella quale eccellevano gli Arabi.
Essi facevano bellissime copertine di cuoio lavorato a mano e decorato d’oro.
Gli Arabi per primi escogitarono un procedimento di raffinazione dello zucchero, e speciali procedimenti per l’estrazione dei profumi dai fiori.
E’ di quei tempi l’introduzione su larga scala delle armi chimiche.

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Il Corano

La dottrina di Maometto è contenuta nel Corano. Corano (“lettura, recitazione”) è l’insieme delle recitazioni pronunciate da Maometto come profeta che si riteneva ispirato dalla rivelazione divina, le quali, raccolte dai suoi ascoltatori, vennero riunite dopo la sua morte.
Il Corano è completato dalla Sunna, ossia dalla condotta pratica del Profeta, come risulta dai sui detti e atti tramandati dalla tradizione.
Il dogma musulmano è assai semplice. L’unità e l’onnipotenza di Dio (Allah), la vita futura con pene e ricompense, la missione divina di Maometto: questi sono gli articoli di fede.
Allah comunica con gli uomini mediante la rivelazione, trasmessa per mezzo dei profeti: ogni popolo ha il suo profeta, ogni epoca il suo libro sacro.
Tra i grandi profeti che hanno preceduto Maometto è Gesù: Maometto, l’ultimo venuto tra i profeti, è il profeta per eccellenza, ha apportato la rivelazione definitiva.
Dopo la morte l’uomo deve rendere conto delle sue azioni: i reprobi e gli infedeli verranno precipitati nella Gehenna, ove saranno tormentati; ai veri credenti, ai giusti è invece riservato il paradiso, le cui delizie saranno eterne.
Per meritare le gioie del paradiso l’uomo deve avere fede e sottomissione assoluta ad Allah, non deve mai rappresentarlo sotto forme visibili, deve obbedire alla sua legge, diffonderla per il mondo anche con le armi, compiere le pratiche essenziali del culto (preghiere, abluzioni, pellegrinaggi), fare elemosina.
La carità è stretto obbligo per i Musulmani. La morale è intimamente legata alla religione: il Corano condanna l’avarizia, la menzogna, l’orgoglio, la malvagità; proibisce vino e gioco, i due vizi favoriti dagli Arabi, raccomanda la modestia, la castità, la rettitudine, la pazienza, l’umiltà, e soprattutto la carità.
I credenti sono tutti fratelli: gli ebrei e i cristiani potranno, pagando tributo, professare la propria fede.
Il Corano permette più mogli, ma la monogamia è considerata preferibile; proibisce l’infanticidio; protegge i deboli, gli orfani, gli schiavi.
Si può quindi affermare che la legislazione del Corano abbia costituito per gli Arabi un effettivo progresso.
Per il Musulmano il Corano è ciò che la Bibbia è per il popolo ebraico: il libro per eccellenza, che sta al di sopra di ogni altro libro per il suo carattere sacro.
Quando vengono letti  ad alta voce i versetti del Corano, tutti i presenti devono osservare un assoluto silenzio e nessuno può permettersi di bere o di fumare. In parecchi luoghi era consuetudine insegnare ai bambini inferiori ai dieci anni i 6.200 versetti a memoria, ridotti poi, nelle scuole di tipo più moderno , ad una scelta antologica che non affatichi tanto la memoria.
L’unicità di dio è continuamente ribadita nel Corano: “Egli è Dio; non ci è altro Dio che Lui, conoscitore del visibile e dell’invisibile, il misericordioso, il compassionevole! Egli è Dio, non v’è altro Dio che Lui, il re, il santo, il pacificatore, il fedele, il custode, il potente, il dominatore, il grandissimo”.
Ci sono versetti che esortano a confidare nella sapienza di Dio, che ha fini ben precisi da realizzare: “Non disperare dello Spirito di Dio”; “Non pensare che Dio sia immemore di coloro che commettono ingiustizie”.
Anche nel Corano, come nella tradizione cristiana e presso altre religioni, si possono trovare espressioni quasi proverbiali che aiutano la gente modesta, a portare il peso del vivere con rassegnazione e con totale fiducia in Dio: “Dio non aggrava un’anima più di quanto essa non possa sopportare”; “Se la tentazione da parte di Satana ti inducesse al male, cerca rifugio in Dio che tutto ascolta e conosce”; “Nessuna anima porterà il peso di un’altra”.
(L. Salvatorelli)

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