Recite per bambini – Qua qua, attaccati là. Qualche anno fa, per la mia prima prima classe, avevo messo in rima questa fiaba, che fa parte delle Fiabe italiane raccolte da Italo Calvino. Mi sono presa qualche licenza, ad esempio per me il papà del Tignoso non fa il ciabattino, ma lavora nella vigna (che fa rima con tigna… )…
Qua qua, attaccati là (la fiaba originale)
Un Re aveva una figlia, bella come la luce del sole, che tutti i principi e i gran signori l’avrebbero voluta in sposa, se non fosse per via del patto che aveva stabilito con suo padre.
Bisogna sapere che una volta questo Re aveva offerto un gran pranzo, e mentre tutti gli invitati ridevano e stavano in allegria, solo sua figlia rimaneva seria e scura in volto. “Perchè sei così triste?” le domandarono i commensali. E lei: zitta. Tutti si provarono a farla ridere, ma nessuno ci riusciva.
“Figlia mia, sei arrabbiata?” le chiese il padre.
“No, no, padre mio.”
“E allora, perchè non ridi?”
“Non riderei nemmeno se ne andasse della mia vita.”
Al Re allora venne quest’idea: “Brava! Visto che ti sei così intestata a non ridere, facciamo una prova, anzi un patto. Chi ti vorrà sposare, dovrà riuscire a farti ridere.”
“Va bene, padre” disse la principessa, “Ma ci aggiungo questa condizione: che chi cercherà di farmi ridere e non ci riuscirà, gli sarà tagliata la testa”.
E così fu stabilito, tutti i commensali erano testimoni e ormai la parola data non si poteva più ritirarla.
La voce si sparse per il mondo, e tutti i principi e i gran signori volevano provare a conquistare la mano di quella Principessa così bella. Ma quanti ci provavano, tutti ci rimettevano la testa. Ogni mattina di buonora la Principessa si metteva sul poggiolo ad aspettare che arrivasse un pretendente. Così passavano gli anni, e il Re aveva paura di vedersi questa figlia andarsene in spiga come un vecchio cespo di insalata.
Ora accadde che la notizia capitò anche in un paesotto. Si sa che a veglia si vengono a sapere storie di tutti i generi, e così si parlò di quel patto della Principessa. Un ragazzo con la tigna in testa, figlio di un povero ciabattino, era stato a sentire a bocca aperta. E disse: “Ci voglio andare io!”
“Ma va’ là, tu! Non dire sciocchezze, figlio mio.” fece suo padre.
“Sì, padre, voglio andare a vedere. Domani mi metto in viaggio.”
“T’ammazzeranno, quelli non scherzano”
“Padre, io voglio diventare Re!”
“Sì, sì” risero tutti “un Re con la tigna in testa!”
L’indomani mattina, il padre non pensava nemmeno più a quell’idea del figlio, quando se lo vide comparire davanti e dire: “Allora, padre, io vado; qui tutti mi guardano brutto per via della tigna. Datemi tre pani, tre carantani (moneta di rame) e una boccia di vino.”
“Ma pensa…”
“Ho già pensato a tutto”, e partì.
Cammina cammina, incontra una povera donna che si trascinava appoggiandosi a un bastone. “Avete fame, padrona?”, le chiese il tignoso.
“Sì, figlio, e tanta. Avresti qualcosa da darmi da mangiare?”
Il tignoso le diede uno dei suoi tre pani, e la donna lo mangiò. Ma visto che aveva ancora fame, le diede anche il secondo, e poichè gli faceva proprio pietà, finì col darle anche il terzo.
E cammina cammina. Trova un’altra donna, tutta in stracci: “Figliolo, mi daresti qualche soldo per comprarmi un vestituccio?”
Il tignoso le diede un carantano; poi pensò che forse un carantano solo non bastava, gliene diede un altro; ma la donna gli faceva tanta pietà che le diede anche il terzo.
E cammina cammina. Incontra un’altra donna, vecchia, grinzosa, che se ne stava a lingua fuori dalla sete che aveva: “Figliolo, se mi dai un po’ d’acqua da bagnarmi la lingua, salvi un’anima del Purgatorio”.
Il tignoso le porse la sua boccia di vino; la vecchia ne bevve un po’ e lui la invitò a berne ancora, finchè non gliel’ebbe scolata tutta. Rialzò il viso, e non era più una vecchia, ma una bella fanciulla bionda, con una stella tra i capelli: “Io so dove vai, e ho conosciuto il tuo buon cuore perchè le tre donne che hai incontrato ero sempre io. Voglio aiutarti. Prendi questa bella oca, e portala sempre con te. E’ un’oca che quando qualcuno la tocca, stilla “Quaquà” e tu devi dire subito: ‘Attaccati là’.” E la bella fanciulla sparì.
Il tignoso continuò la strada portandosi dietro l’oca. A sera arrivò a un’osteria e, senza soldi com’era, si sedette fuori, su una panca. Uscì l’oste e voleva cacciarlo via, ma in quella capitarono le due figlie dell’oste e, vista l’oca, dissero al padre: “Ti prego, non mandar via questo forestiero. Fallo entrare e dagli da mangiare e da dormire”.
L’oste guardò l’oca, capì cosa avevano in testa le figlie e disse: “Bene, il giovane dormirà in una bella camera, e l’oca la porteremo nella stalla”.
“Questo poi no” disse il tignoso “l’oca la tengo con me; è un’oca troppo bella per stare in una stalla”.
Dopo mangiato, il tignoso andò a dormire e l’oca la mise sotto il letto. Mentre dormiva, gli parve di sentire un tramestio; e tutt’a un tratto l’oca fece “Quaquà”. “Attaccati là” gridò lui, e s’alzò per vedere.
Era la figlia dell’oste, che s’era avvicinata carponi, in camicia, aveva abbrancato l’oca per portarle via le piume e ora era rimasta appiccicata in quella posizione.
“Aiuto sorella! Vienimi a staccare!” gridò. Venne la sorella, in camicia anche lei, abbraccia la sorella alla vita per staccarla dall’oca, ma l’oca grida: “Quaquà”. E il tignoso: “Attaccati là!”, e anche la sorella resta lì attaccata.
Il giovane s’affacciò alla finestra: era quasi giorno. Si vestì e uscì dall’osteria, con l’oca dietro e le due figlie dell’oste attaccate. Per strada incontrò un prete. Vedendo le figlie dell’oste in camicia, il prete cominciò a dire: “Ah, svergognate! E’ così che si va in giro a quest’ora? Ora vi faccio vedere io!”. E giù una sculacciata.
“Quaquà!” fa l’oca.
“Attaccati là!” dice il tignoso, e il prete resta attaccato anche lui.
Continuano la strada, con tre persone attaccate all’oca. Incontrano un calderaio carico di casseruole, pentole e tegami. “Ah, cosa mi tocca di vedere! Un prete in quella posizione! Aspetta me!” E giù una bastonata.
“Quaquà!” fa l’oca.
“Attaccati là!” fa il tignoso, e ci resta attaccato anche il calderaio, con tutte le sue pentole.
La figlia del Re quella mattina era come al solito sul poggiolo, quando vide arrivare quella compagnia: il tignoso, l’oca, la prima figlia dell’oste attaccata all’oca, la seconda figlia dell’oste attaccata alla prima, il prete attaccato alla seconda, il calderaio con casseruole, pentole e tegami attaccato al prete. A quella vista la Principessa scoppiò a ridere come una matta, poi chiamò il padre, e anche lui si mise a ridere: tutta la Corte s’affacciò alle finestre e tutti ridevano a crepapancia.
Sul più bello della risata generale, l’oca e tutti quelli che c’erano attaccati sparirono.
Restò il tignoso. Salì le scale e si presentò al Re. Il Re gli diede un’occhiata, lo vide lì con la tigna in testa, vestito di mezzalana, tutto rattoppato, e non sapeva come fare. “Bravo, giovane” gli disse ” ti prendo per servitore. Ti va?”. Ma il tignoso non volle accettare: voleva sposare la Principessa.
Il Re, per prendere tempo, cominciò a farlo lavare bene, e vestire da signore. Quando si ripresentò, il giovane non si riconosceva più: era tanto bello che la Principessa se ne innamorò e non vide più che per gli occhi suoi.
Per prima cosa, il giovane volle andare a prendere suo padre. Arrivò in carrozza, e il povero ciabattino si stava lamentando sulla soglia della porta, perchè quell’unico figlio lo aveva abbondonato.
Lo portò alla Reggia, lo presentò al Re suo suocero e alla Principessa sua sposa e si fecero le nozze.
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Recite per bambini – Qua qua, attaccati là
In rima per una recita
Narratore: Un Re aveva una figlia più bella di una rosa, tutti i principi e i gran signori l’avrebbero voluta in sposa ma tanto tempo fa ad una festa di non ridere si era messa in testa
Re:
Tutti ci provano a farti divertire
ma nessuno ci sembra riuscire
ordino che il primo che ce la farà
come premio in sposa ti avrà!
Principessa:
Va bene padre, ma aggiungo una richiesta
a chi fallirà taglierai la testa.
Narratore: La notizia circolò rapidamente e ogni giorno arrivava un pretendente. Niente. Il tempo passava e il Re si disperava neanche un piccolo sorriso si affacciava su quel viso e temeva che la figlia tanto bella sarebbe rimasta per sempre zitella. Ora accadde che passando di bocca in bocca la notizia arrivò ad una bicocca di un contadino che lavorava la sua vigna col suo ragazzo che in testa avea la tigna.
Tignoso:
Dalla Principessa ci voglio andare io!
Contadino:
Va’ là, non dir sciocchezze, figlio mio! Tignoso:
Sì, padre, domani partirò!
Contadino:
T’ammazzeranno, mai più ti rivedrò. Tignoso:
Padre, io sarà Re, e tu verrai alla festa…
Contadino:
Sì, un Re con la tigna in testa!
Narratore: La mattina seguente il contadino non ricordava più l’idea del ragazzino quando gli comparì davanti e prese a dire:
Tignoso:
Padre, io ti saluto, ho da partire
Dammi tre pani, vino e tre denari.
Contadino:
Pensaci figlio, ti uccideran domani! Tignoso:
Ho già pensato, padre tanto amato,
ma mentre tu lavori nella vigna
tutti mi guardan storto per la tigna…
Narratore: Il ragazzo comincia il suo cammino e una povera donna gli si fa vicino il viaggio della vecchia è assai penoso e compassione muove nel tignoso
Tignoso:
Avete fame, povera comare?
Vecchia uno:
Sì caro, e tanta. Hai da mangiare?
Narratore: Il tignoso le porse uno dei pani la donna se lo prese tra le mani lo mangiò, ma ancor non era sazia seppur felice di cotanta grazia: voi penserete forse ad uno scherzo, finì col darle anche il secondo e il terzo. E cammina, cammina, cammina un’altra donna al tignoso s’avvicina mal vestita, di stracci ricoperta dice al tignoso con voce sofferta:
Vecchia due:
Figliolo, qualche soldo mi puoi dare
chè un vestituccio mi possa comprare?
Narratore: il tignoso le diede un carantano poi le allungò il secondo nella mano e vide così povera e indifesa che anche il terzo le donò con sua sorpresa. E cammina cammina cammina ora un vecchia al tignoso di avvicina dalla gran sete con la lingua fuori.
Tignoso:
Povera vecchia, se tu non bevi muori!
Narratore: il tignoso le porge la sua brocca il vino già le scorre nella bocca la la invita a berne un altro sorso lei gliela vuota senza alcun rimorso ma quando poi finito ebbe di bere il tignoso un gran prodigio ebbe a vedere: era una fanciulla bionda e bella e tra i capelli d’oro avea una stella!
Fata:
So dove vai e vincerai sicuro
so di certo che il tuo cuore è puro
io ero le tre donne che hai aiutato
e ho deciso che vai ricompensato.
Prendi quest’oca dal bianco piumaggio
e portala con te lungo il tuo viaggio
e se qualcuno te la toccherà
la sentirai stillare “Quaquaquà”
Tignoso:
E se strilla che cosa devo fare?
Fata
“Attaccati là” presto dovrei gridare.
Narratore: Il tignoso riprese il suo cammino tenendo sempre l’oca a lui vicino. A sera arrivò ad un’osteria ma senza soldi, ne ne restò per via. Uscì l’oste a cacciare il forestiero ma alle sue figlie balenò un pensiero
Figlie:
Diamogli da mangiare e da dormire
mentre lui dorme l’oca può sparire…
Narratore: Dopo aver mangiato e senza alcun sospetto il tignoso prese sonno con l’oca sotto il letto. Mentre dormiva ebbe un balzo al cuore: nella sua stanza c’era un gran rumore
Oca: Quaquaquà Tignoso: Attaccati là!
Narratore La figlia dell’oste in camicione voleva compier la cattiva azione carponi sotto il letto s’era intrufolata ed ora all’oca era rimasta appiccicata
Figlia uno: Aiuto sorella, vienimi a salvare! Figlia due: Arrivo, arrivo, smetti di strillare!
Oca: Quaquaquà Tignoso: Attaccati là!
Narratore: E per voler salvare la sorella rimase appiccicata pure quella. Il tignoso si vestì e uscì dall’osteria davanti a quella strana compagnia di due ragazze ancora in camicione appiccicate all’oca in quella posizione. E cammina cammina cammina a loro un sacerdote si avvicina…
Prete: Ah, svergognate, in camicia da notte!
Narratore: E si avvicina per dar loro le botte
Oca: Quaquaquà Tignoso: Attaccati là!
Narratore: la mano che stava per dar la sculacciata al sedere della ragazza rimase appiccicata. E cammina cammina cammina un pentolaio adesso si avvicina e vedendo un prete in quella situazione si arrabbia e vuole dargli una lezione
Pentolaio:
Ma guarda che mi tocca di vedere
un prete tocca una donna sul sedere!
Narratore: E giù un bel colpo di bastone
Oca: quaquaquà Tignoso: Attaccati là!
Narratore: Il pentolaio con tutta la mercanzia si aggiunge a quella strana compagnia. La Principessa affacciata tristemente al suo poggiolo, attendeva un pretendente quando vide arrivare in fila indiana quella strana sgangherata carovana: un povero tignoso davanti a un’oca bella una ragazza in camicione e dietro sua sorella un prete che la toccava sul sedere e il pentolaio con i suoi attrezzi del mestiere. A quella vista la Principessa scontrosa scoppiò in una risata fragorosa chiamò suo padre, e anche lui non si trattenne tutta la corte rideva a crepapelle. E sul più bello del riso generale sparì l’oca col suo corteo da carnevale. La Principessa vide il tignoso avanti a sè salir le scale e presentarsi al Re. Egli lo vide così brutto e rattoppato
Re:
Quel che è giusto ti verrà dato
a mia figlia hai ridato il buon umore
per premio diverrai mio servitore
Narratore: Ma il tignoso non volle accettare la Principessa voleva sposare E per prendersi il tempo di pensare il Re gli ordinò intanto di andarsi a imbellettare. Quando davanti a loro si ripresentò la Principessa se ne innamorò così bello era diventato quel tignoso che ora lo amava e lo voleva in sposo.
[wpmoneyclick id=87865 /]Favole e leggende sugli animali – una raccolta di favole e leggende, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
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Come nacquero il gatto e il topo
Un giorno il leone incontrò un cinghiale. Il leone aveva una bella pelliccia rossastra e un paio di baffi che erano il suo orgoglio. Il cinghiale, invece, era scuro, di pelo corto; aveva il muso appuntito e due zanne bianche di cui andava molto fiero.
“Io sono molto più bello e più forte di te!” si vantò subito il leone, scuotendo la sua criniera.
Il cinghiale rise mostrando le sue zanne affilate. “Non ti consiglio di mettermi alla prova” disse, “ho la pelle dura io e non temo i tuoi artigli.”
“Dunque non mi temi?” chiese sorpreso il leone abituato ad essere rispettato da tutti gli animali.
“Perchè dovrei temerti?” rispose il cinghiale, “Se starnutissi, dalle mie narici uscirebbe un animale che ti farebbe fuggire”.
“E allora starnutisci,” disse il leone, “e dopo starnutirò io”.
Il cinghiale puntò le zampette, inarcò la groppa, fece vibrare il suo codino, e finalmente starnutì. Dalle sue narici uscì un animaletto nericcio, col musino a punta e una codina fina fina. Era il topo, che gli somigliava.
Ed ecco il leone scuotere la criniera e starnutire impetuosamente. Dalle sue narici uscì fuori un animale peloso, ornato di artigli. Era il gatto, che gli somigliava.
Il topo a quella vista fuggì via, ma il gatto lo inseguì, fino a che il topo non sparì dentro un buco.
“Hai visto, presuntuoso?” disse il leone al cinghiale, “Il tuo starnuto si è dovuto nascondere per non essere divorato dal mio”. (Leggenda berbera)
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L’asino spaccone
Il leone volendo andare a caccia, chiamò l’asino, lo coprì di frasche e lo istruì perchè spaventasse, a forza di ragli, gli animali della foresta non abituati alla sua voce. Gli animali si sarebbero dati alla fuga, ed il leone li avrebbe aspettati al varco.
L’orecchiuto eseguì la consegna. Sotto la maschera verde, si mise a ragliare con quanto fiato aveva, spaventando con quell’insolito clamore gli animali rintanati nel folto. Trepidando, se la davano tutti a gambe verso il varco ove il leone in agguato balzava loro addosso e li atterrava a uno a uno.
Stanco alla fine, della carneficina, il leone chiamò l’asino e gli ordinò di tacere. Quegli, allora, con aria di gradasso: “Che potenza ha la mia voce!” disse “guarda quanti morti!”
“Straordinario!” rispose il leone “Anch’io sono stato lì lì per battermela, tanto la tua voce è terribile; ma per fortuna ti conoscevo bene e sapevo che tu, in fondo, non sei altro che un coniglio diventato grande:”
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La ranocchia e il bue
Una volta alcune rane stavano giocando sulla riva di un fosso; si gettavano nell’acqua, uscivano fuori, saltavano qua e là, piene d’allegria. Ma ecco un grosso bue che pascolava lì presso, si avvicina e scende alla riva per bere. Alcune delle rane impaurite si tuffano nell’acqua, le altre coraggiose stanno a guardare il pacifico animale. “Com’è bello! Com’è grosso!” dice una ranocchia giovinetta che non ha mai visto un bue. “Sarei proprio felice se potessi diventare come lui… sono così piccina…” E tutta presa da questa idea, la ranocchia comincia a gonfiarsi… Eh, ci vuole altro! Le altre rane la stanno a guardare con tanto d’occhi. “Cresco?” chiede sbuffando la ranocchia. “Un po’, un po’!”. E quella si gonfia ancora. “Cresco?”. Ma ad un tratto… altro che crescere! La povera ranocchia scoppia per lo sforzo e muore; e così non c’è più, nè piccola nè grossa. E’ ridicolo ed inutile l’affaticarsi a parere ciò che non si è. (M. Bersani)
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L’orsacchiotto troppo piccolo
L’orsacchiotto era il più piccolo di tutti.
Era più piccolo delle sue sorelle, molto più piccolo di suo fratello, molto molto più piccolo del suo babbo.
Molto spesso, perchè era troppo piccolo, era lasciato al di fuori di tutto quello che si faceva in casa.
Un giorno, il povero orsacchiotto si sentiva del tutto abbandonato.
Sua sorella era andata a raccogliere verdure nell’orto, e quando egli aveva chiesto di accompagnarla, aveva detto: “No, io sarò occupata e non potrò sorvegliarti; tu sei troppo piccolo e puoi perderti”.
Suo fratello stava andando a pescare. L’orsacchiotto gli domandò se poteva andare con lui, ma egli rispose: “No, io sarò occupato a pescare e non potrò sorvegliarti; tu sei troppo piccolo e potresti cadere nel lago”.
“Oh,” si lamentò l’orsacchiotto, triste e abbandonato sulla soglia di casa come un piccolo mucchietto di peli, “sono troppo piccolo per tutto…”
Proprio in quel momento, stava uscendo il suo grosso babbo, che udì il suo lamento. “Non direi, orsacchiotto” disse il babbo, “io sto andando a fare la spesa e tu sei della misura giusta per venire con me, seduto sulle mie spalle”.
L’orsacchiotto si asciugò le lacrime, e andò con il babbo.
Comprarono pane, burro, limoni, pesce, maionese, ed un grosso vaso di miele. Quando tornarono a casa il babbo disse: “Non avrei mai potuto portare a casa tutta questa roba senza l’aiuto del piccolo orsacchiotto”.
A queste parole, l’orsacchiotto si sentì forte, grande, allegro, orgoglioso di poter aiutare il babbo, come deve fare ogni bravo orsacchiotto.
(K. Jackson)
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La chiocciola, la formica e il gambero
Molto tempo fa, quando il mondo era giovane, una Chiocciola, una Formica e un Gambero decisero di coltivare insieme una risaia.
Bisogna però tenere presente che in quei giorni lontani questi tre animali erano molto diversi da come appaiono ora: la Chiocciola era completamente nascosta nel suo guscio, dal quale non usciva mai; il Gambero era incolore; e la Formica aveva il corpo grassoccio e a forma di salsiccia.
I tre amici discussero sulla distribuzione dei compiti.
“Dobbiamo dividere il lavoro in parti uguali” disse la Chiocciola.
“Nessuno deve faticare più degli altri” convenne la Formica.
“Penso che sarebbe meglio se voi due lavoraste nel campo ed io badassi alle faccende domestiche” disse il Gambero.
Così decisero. Il Gambero sarebbe rimasto in casa, mentre la Chiocciola e la Formica si sarebbero recate in risaia.
Il giorno dopo all’alba la Chiocciola e la Formica uscirono di casa portando con sé un po’ di cibo preparato dal Gambero. Era così presto che gli uccelli non erano ancora volati via dagli alberi. La Chiocciola e la formica lavorarono sodo per tutto il giorno, mondando il riso nel campo. Quando il sole cominciò a calare, si accorsero di avere una gran fame.
Nel frattempo, a casa, il Gambero era affaccendatissimo a preparare una bella cenetta. Dopo essere andato nella foresta a raccogliere la legna e un mazzo di barbabietole novelle, stava mescolando sul fuoco una bella zuppa. Ne assaggiò una cucchiaiata: deliziosa!
In quel momento sentì i suoi amici tornare dalla risaia. Si affrettò a togliere dal fuoco la pentola con la zuppa. Ma ahimè, nella fretta capitombolò nel liquido bollente.
“Aiuto, aiuto!” gridò il povero Gambero, “Ti prego, aiutami, Chiocciola!”
“Un attimo!” rispose la Chiocciola “lascia che mi soffi il naso!”.
Ma ahimè! La Chiocciola si soffiò il naso così forte che schizzò mezza fuori dal guscio.
“Un attimo” rispose la Formica “lasciami prima stringere la cintura attorno ai fianchi.”
Ma ahimè, la Formica tirò la cintura così forte che il suo corpo si divise quasi in due.
Così i tre amici incorsero tutti in un terribile destino: da quel giorno il Gambero, con la bollitura, diventò rosso vivo; la Chiocciola visse per metà fuori dal guscio e il corpo della Formica rimase pressoché diviso in due.
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Il topo, l’uccello e la salsiccia
Questa è la storia di un topo, un uccello e una salsiccia che decisero di vivere assieme. La loro casetta sorgeva, bianca, con un bel tetto di paglia, in una radura in mezzo alla foresta: tutt’intorno crescevano alti alberi e nel profondo della foresta tenebrosa si aggiravano orsi e lupi.
I tre amici si erano divisi i compiti: l’uccello doveva provvedere alla legna da ardere, il topo accendeva il fuoco, portava l’acqua dal pozzo e apparecchiava la tavola, e la salsiccia cucinava.
Tutto andò bene per un po’ e i tre vivevano felici e contenti. Ma un bel giorno, l’uccello, volando nella foresta in cerca di legna, incontrò un corvo e chiacchierando con lui cominciò a vantarsi della sua buona sorte e dell’eccellente accordo che aveva stretto col topo e con la salsiccia.
“Craa!” gracchiò il corvo. “E la chiami fortuna questa? Dammi retta, il grosso del lavoro lo hanno scaricato su di te: eccoti qua a faticare per raccogliere la legna, mentre il topo e la salsiccia se ne stanno tranquillamente a casa. Immagino che il topo possa concedersi un bel pisolino dopo aver acceso il fuoco, portato l’acqua e preparata la tavola. Quanto alla salsiccia, quella sì che può prendersela comoda! Non deve far altro che sorvegliare la pentola, e quando è ora di pranzo rotolarsi una o due volte nella verdura, ed ecco fatto: la verdura è condita, salata e pronta da mangiare! Ti sembra faticoso?”
L’uccello ascoltò attentamente il discorso del corvo, e cominciò a pensare che quel che aveva detto doveva essere vero. Così il giorno dopo, quando fu il momento di andare a raccogliere la legna, dichiarò al topo e alla salsiccia: “Ne ho abbastanza di fare i lavori più pesanti in questa casa! So benissimo come ve la prendete comoda mentre io volo nella foresta. Bisogna che stabiliamo un altro accordo: mi rifiuto di andare ancora a raccogliere la legna.”
Il topo e la salsiccia ci rimasero male. Era andato tutto così bene fino a quel momento: ognuno aveva fatto il suo dovere senza lamentarsi. Comunque, decisero di sorteggiare i compiti. L’uccello prese tre rametti: chi avesse estratto il più lungo avrebbe raccolto la legna, chi il più corto avrebbe cucinato, e chi quello di mezzo, avrebbe acceso il fuoco, preparato la tavola e preso l’acqua.
Fu così che alla salsiccia toccò raccogliere la legna, all’uccello accendere il fuoco, preparare la tavola e prendere l’acqua, e al topo cucinare.
La salsiccia andò dunque nella foresta: ahimè, non aveva fatto molta strada quando si imbattè in un lupo affamato, che la divorò in men che non si dica. Questa fu la fine della salsiccia.
L’uccello, nell frattempo, dopo aver acceso il fuoco, si era recato al pozzo per prendere l’acqua.
“Il topo non se la prendeva tanto comoda, dopotutto!” pensava affaticandosi a tirar su il pesante secchio. Ma ahimè, nel momento in cui il secchio stava per raggiungere l’orlo del pozzo, l’uccello perse la presa, e nel tentativo di riafferrarlo, cadde nell’acqua e affogò. Questa fu la fine dell’uccello.
E il topo? Ignaro della sorte toccata ai suoi amici, sorvegliava la pentola, mescolando la verdura. Quando fu ora di pranzo si ricordò che la salsiccia era solita rotolarsi nella verdura per condirla e salarla, e volle fare lo stesso. Ma ahimè! Buttarsi nella pentola e finire arrostito fu tutt’uno. Questa fu la fine del topo.
Così la casetta nella radura rimase vuota e abbandonata, ed è un peccato, perchè se l’uccello non avesse dato ascolto ai cattivi consigli del corvo, i tre amici sarebbero ancora là e vivrebbero felici e contenti.
Come l’anatra imparò a nuotare
Nel buon tempo antico, quando Adamo non aveva ancora la barba lunga, e anche il cuculo non deponeva ancora le sue uova nel nido altrui, l’anatra non sapeva ancora nuotare. Però amava l’acqua e stava volentieri sulle sponde dei laghi e degli stagni. Lì incontrava talvolta l’airone.
Un giorno, mentre chiacchieravano, ebbero l’idea che avrebbero pur dovuto imparare a nuotare.
“Chissà se il creatore lo permette?”
“Si può chiedere”.
Dunque ci pensarono su.
“Certo” disse benevolo creatore “quello di voi che domattina salterà per primo fuori dal nido potrà nuotare.”
Alla sera andarono entrambi a dormire presto. L’anatra infilò come al solito il becco sotto le penne e si addormentò. Ma l’airone no. Si propose di star sveglio tutta la notte. Per tutto il tempo stette lì a pensare che cosa avrebbe gridato all’anatra quando al mattino avesse nuotato superbo nell’acqua. Finalmente, e già il sole appariva sui monti, l’aveva trovato: “Tutto il dì sullo stagno scintillante, l’airone nuota calmo ed elegante”. Ma quando scorse il giorno i suoi occhi si chiusero per la stanchezza. L’anitra invece aveva riposato bene, uscì lesta dal nido e si tuffò nelle onde. Era capace di nuotare! L’acqua fresca lambiva il suo petto.
“Tutto il dì nuoto sul lago e dico
addio, airone, mio caro amico”.
Il povero airone si destò, ma troppo tardi. Era capace soltanto di sguazzare un pochino nell’acqua. Lì si fermò, sulle sue lunghe gambe a trampolo e allungò il collo verso l’anatra. Lo si può vedere fermo così anche al giorno d’oggi.
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Il povero caprone
Era un caldo giorno d’estate. Il sole splendeva alto nel cielo azzurro, spandendo i suoi raggi sulla terra. Una volpe, attraversando di corsa un campo di grano, giunse presso una cisterna all’ombra di una siepe verdeggiante. Aveva sete, e decise di bere alla cisterna: ma quando dall’orlo si chinò per bere, scivolò sulla terra viscida e, perduto l’equilibrio… pluff! Cadde nell’acqua. Cominciò a sguazzare, agitando le zampe in tutti i versi, ma senza risultato: non riusciva a venir fuori. Era intrappolata nella cisterna! E sapeva benissimo che il contadino cui apparteneva il campo, se l’avesse trovata, non avrebbe avuto pietà di lei: non più tardi del giorno innanzi era entrata in mezzo al gregge e aveva ucciso un agnellino; e la settimana prima aveva rubato un bel pollastro. Ahimè! Se non riusciva a venir fuori da lì, le sue ore erano contate!
Poco dopo, giunse al campo di grano un caprone bianco, con la fronte ornata di credi corna e una serica barbetta sotto il mento. Anche lui moriva di sete, e decise di abbeverarsi alla cisterna. Quale fu la sua sorpresa quando, affacciatosi, vide la volpe che nuotava nell’acqua!
“Buongiorno amica volpe” disse il caprone “dì un po’, è buona da bere quest’acqua?”
La volpe sogghignò vedendo l’espressione ingenua del caprone. “Ottima, fratel caprone: anzi, la migliore che abbia mai bevuto. Infatti, come vedi, sono entrata addirittura nella cisterna per poterne gustare a mio piacimento; ma se vuoi venire anche tu, ce n’è per tutti e due.”
Senza starci a pensare su troppo, il caprone saltò dentro la cisterna, e cominciò a lambire l’acqua con gusto, senza sollevare la testa finchè non si fu dissetato.
“Avevi proprio ragione, amica volpe” belò, con la testa gocciolante, “non ho mai assaggiato un’acqua migliore!”
La volpe sorrise. “Ora, fratel caprone, dobbiamo trovare il modo di uscire da questa cisterna”.
“E’ vero!” esclamò il caprone, guardando preoccupato le alte, lisce pareti della cisterna.
“Ho un piano” disse la volpe “ma dobbiamo unire i nostri sforzi per portarlo a compimento.”
“Farò tutto ciò che posso” belò il caprone prontamente.
“In tal caso” disse la volpe “fammi il piacere di appoggiare le zampe davanti alla parete della cisterna e di tenere ben in alto le corna: io mi arrampicherò sopra di te, e quando sarò fuori tirerò su anche te.”
Il caprone, volenteroso, seguì le istruzioni e la volpe, arrampicandosi su pre i fianchi, le spalle e le corna del caprone, raggiunse l’orlo della cisterna e si trovò finalmente sana e salva all’asciutto. Si scosse via l’acqua in attimo.
Il caprone la chiamò dalla cisterna: ” E io, amica? Non dimenticare il patto: ti ho aiutata a uscire, ora devi tirarmi su!”
La volpe si affacciò alla cisterna lanciando uno sguardo di scherno al caprone. “Tu, fratel caprone, hai più peli nella barba che cervello in testa. E’ colpa tua se ora resti prigioniero nella cisterna: avresti dovuto fermarti a pensare come saresti uscito, prima di saltar dentro. Non ho alcuna intenzione di aiutarti!”
E mentre il caprone cominciava a belare piagnucoloso, la volpe trotterellò via attraverso il campo e fu presto lontana.
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Il leone e il cinghiale
In un caldissimo giorno d’estate, un leone e un cinghiale giunsero nella stessa pozza di acqua. Sul terreno intorno erano impresse le tracce di molti animali, cervi e capre, volpi e sciacalli, elefanti e rinoceronti, nessuno dei quali avrebbe mai osato abbeverarsi insieme al leone perché ne avevano troppa paura. Ma il feroce cinghiale con le sue zanne affilate era forte quanto il leone con i suoi crudeli artigli.
Il cinghiale si avvicinò alla pozza, ma prima che potesse bere, il leone, nell’impazienza di raggiungere l’acqua, lo spinse da parte.
“Sono arrivato prima di te” grugnì furiosamente il cinghiale “quindi ho diritto di bere per primo”
“Fuori dai piedi” ruggì il leone “berrai quando mi sarò dissetato io”
“Se non aspetti il tuo turno ti farò a pezzi con le mie zanne affilate” lo minacciò il cinghiale.
“Ti ridurrò a brandelli con gli artigli, se non ti levi di torno” replicò il leone.
E di colpo si lanciarono uno contro l’altro, decisi a battersi all’ultimo sangue. Il cinghiale assalì il leone lacerandogli i fianchi fino a farne sgorgare abbondantemente il sangue. Il leone balzò sul cinghiale e lo colpì con gli artigli al punto che il poveraccio si reggeva a malapena in piedi.
D’un tratto udirono un fruscio tra gli alberi, e guardando scorsero in su un gruppo di neri avvoltoi appollaiati sui rami sopra di loro, in attesa di divorare quello dei due che sarebbe morto.
Non ci volle altro per porre fine alla lite!
Il leone disse: “Veniamo ad una tregua: è meglio per noi essere amici, piuttosto che finire in pasto a quegli uccelli del malaugurio”
Il cinghiale accettò di cuore: così, leccandosi le ferite, bevvero a turno e si lasciarono da buoni amici.
Gallo, maiale e pecorone in alto mare
Una volta gallo, maiale e pecorone veleggiavano in alto mare. Il tempo era brutto e la barca piccola.
Già temevano di non giungere più a riva.
Il maiale reggeva il timone, il pecorone buttava fuori l’acqua, mentre il gallo stava sull’albero di vedetta contro i cavalloni.
“Remi sottovento, remi sottovento!” cantava il gallo.
“Salveremo la beeh, beehlle? Salveremo la beeh, beehlle?” belava il pecorone.
“Luff, luff! Luff, luff!” grugniva il maiale, e il viaggio non gli sembrava più così eccitante.
Finalmente giunsero a terra sani e salvi. Il pecorone se ne andò subito nel prato, il gallo trovò le sue galline, ma al maiale tremava ancora il lardo per il freddo.
“Luff, luff! Meglio tra erbe amare, che stare in alto mare!”
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La volpe vedova
C’era una volta una volpe vedova. Viveva in un’ampia tana e si era presa come serva una gattina. Per un po’ di tempo la volpe pianse il marito morto, ma quando le settimane di lutto furono passate e venne il sabato sera, essa si ripulì il pelo, sedette per benino su di uno sgabello e aspettò che qualcuno apparisse alla porta. Poco dopo si udì bussare.
“Corri e guarda chi bussa” disse la volpe vedova alla serva. La gatta corse e sbirciò fuori. Vide un grosso orso. Tornò lesta indietro.
“Com’è il suo pelo?” chiese la volpe vedova.
“Bruno come la scorza del pinastro” disse la gatta.
“E le gambe?”
“Larghe come foglie di farfaro”
“E la coda?”
“Corta come le pigne”
“Questo non lo faccio entrare” disse la volpe vedova e saltò giù dal suo sgabello.
Dopo una settimana fu di nuovo sabato. La volpe vedova si pulì il pelo, sedette sullo sgabello e aspettò. Dopo un po’ si udì bussare alla porta.
“Corri lesta a guardare chi bussa” disse la volpe vedova alla serva. Questa volta alla porta c’era un lupo.
“Com’è il suo pelo?” volle sapere la volpe.
“Grigio come corteccia di abete”
“E le sue gambe?”
“Lunghe come sbarre di recinto”
“E la sua coda?”
“Pendente come rami di abete” disse la gatta.
“A questo non apriamo la porta” disse la volpe vedova. Di nuovo passò una settimana, finchè venne il sabato sera. La volpe vedova si pulì la pelliccia, sedette e attese. Presto si udì battere all’uscio, questa volta leggermente.
“Corri e guarda” disse le volpe vedova alla serva. La gatta corse. Davanti all’uscio c’era un ermellino. Lesta tornò indietro a dare informazioni.
“Com’è il suo pelo?”
“Bianco come corteccia di betulla” rispose la gatta.
“E le sue gambe?”
“Sottili come steli d’erba”
“E la coda?”
“Ha la punta nera”
“Questo non lo facciamo entrare” disse la volpe vedova. Dopo una settimana fu di nuovo sabato sera. La volpe vedova si pulì la pelliccia e sedette a modino sullo sgabello ad aspettare. Anche questa volta qualcuno bussò. La serva corse a sbirciare, mentre la volpe vedova stava accovacciata sullo sgabello. Quando la gatta tornò, la volpe vedova chiese:
“Com’è il suo pelo?”
“Rosso e fine come quello della mia riverita padrona” disse la gatta.
“E le sue gambe?”
“Non più lunghe e non più corte di quelle della mia riverita padrona” disse la gatta.
“E la coda?”
“Ha la punta bianca come quella della mia riverita padrona”.
“Questo lo facciamo entrare!” gridò contenta la volpe vedova e saltò giù dal suo sedile, perché adesso davanti alla porta c’era il vero innamorato. Allora l’uscio venne aperto. Quella stessa sera si celebrarono le nozze nella tana della volpe.
Il pollo che voleva andare sul monte Dovrefjell perchè non finisse il mondo intero
Una sera un pollo si era accomodato su di una grande quercia. Durante la notte sognò che il mondo intero doveva finire se lui non arrivava sul monte Dovrefjell. Allora saltò lesto giù dalla quercia e si mise in cammino.
Aveva camminato un po’ quando incontrò un gallo.
“Buongiorno Gallo Ballo” disse il pollo.
“Buongiorno Pollo Bollo, dove vuoi andare così di buon mattino?” chiese il gallo.
“Ah, devo andare sul monte Dovrefjell, perchè non finisca il mondo intero.”
“Chi te l’ha detto, Pollo Bollo?”
“Questa notte ero sulla quercia e l’ho sognato.”
“Ma io vengo con te” disse il gallo.
Proseguirono un po’ e incontrarono un’anatra.
“Buongiorno Anatra Banatra”, salutò il gallo
“Buongiorno Gallo Ballo. Dove ti porta la strada così di buon mattino?” chiese l’anatra.
“Sul monte Dovrefjell, perchè non finisca il mondo intero.”
“Chi te l’ha detto, Gallo ballo?”
“Il pollo bollo”
“come fai a saperlo, pollo bollo?”
“Questa notte ero sulla quercia e l’ho sognato.”
“Vengo con voi” disse l’anatra.
Avevano camminato ancora un po’ quando incontrarono un’oca.
“Buongiorno oca poca” salutò l’anatra.
“Buongiorno anatra banatra” disse l’oca “Dove andate così di buon mattino?”
“Sul monte Dovrefjell, perchè non finisca il mondo intero.”
“Chi te l’ha detto, anatra banatra?”
“Il gallo ballo”
“E tu da chi lo sai, gallo ballo?”
“dal pollo bollo”
“E tu, pollo bollo?”
“Questa notte ero sulla quercia e l’ho sognato.”
“Allora devo venire con voi” disse oca poca.
Quando ebbero camminato per un bel po’, incontrarono una volpe.
“Buongiorno volpe golpe” salutò l’oca poca.
“Buongiorno cari amici, dove volete andare?” chiese la volpe.
“Sul monte Dovrefjell, perchè non finisca il mondo intero.” dissero i suoi cari amici.
“Da dove lo sapete?”
“Il gallo ballo”
“Il pollo bollo questa notte era sulla quercia e l’ha sognato.”
“Che discorsi!” disse la volpe. “Il mondo non finisce così presto! Venite con me nella mia tana, dove si sta caldi e comodi. E’ molto che siete per la via, penso. E voi lo sapete: il riposo alleggerisce il peso.”
Sì, a tutti quanti la proposta sembrò buona.
Arrivati alla tana della volpe, il padrone di casa incominciò ad accendere un bel fuoco, im modo che i suoi compagni furono presi dal sonno.
Anatra banatra e oca poca sedettero in un angolo, gallo ballo e pollo bollo volarono su una trave.
Non avevano dormito molto, che la volpe mise l’anatra banatra sulle braci per arrostirla. Pollo bollo però, nel dormiveglia, sentì l’odore e gridò: “Beh, qui c’è puzza!”
“Che discorsi!” disse la volpe “è soltanto il fumo che torna indietro dalla cappa. Va’ avanti a dormire.”
Quando ebbe mangiato l’anatra banatra, la volpe fece la stessa cosa con l’oca poca, e la mise sulla brace ad arrostire.
Di nuovo pollo bollo sentì l’odore, volò su una trave più alta e gridò: “Beh, qui c’è puzza!”
Anche gallo ballo aprì gli occhi , e videro rquello che era successo all’anatra banatra e all’oca poca. Allora entrambi volarono in alto, dove potevano sbirciare dal fumaiolo, e pollo bollo gridò: “Guarda che splendide oche laggiù!”.
La volpe non se lo fece ripetere due volte. Corse lesta fuori per acchiapparne un’altra.
E con questo gallo ballo e pollo bollo se ne uscirono entrambi per il fumaiolo.
E se non fossero finalmente arrivati al monte Dovrefjell, il mondo non ci sarebbe più.
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Tiro alla fune
La tartaruga era un piccolo animale che aveva una grande opinione di sè. Si trascinava lentamente attraverso la giungla vantandosi: “Guardatemi! Sono potente come l’elefante! Sono forte come l’ippopotamo!”.
Nella giungla le notizie si diffondono rapidamente: non ci sono giornali, ma gli animali sono molto chiacchieroni e in poco tempo ognuno sa tutto quello che c’è da sapere. Ben presto quindi l’elefante e l’ippopotamo vennero a conoscenza delle vanterie della tartaruga. Il grande elefante grigio sollevò la proboscide e barrì: “Quella stupida insulsa tartaruga! Chi le dà retta?”. L’ippopotamo spalancò le grandi mascelle e sghignazzò: “Già, chi dà retta a quella stupida insignificante creatura?”.
Rapidamente questi commenti giunsero alla tartaruga che, indignata verso l’ippopotamo e l’elefante, disse: “Dunque sarei un’insulsa insignificante creatura! Glielo faccio vedere io che cosa sono!”.
E si mise in cammino finchè non giunse nel luogo dove l’elefante stava sdraiato all’ombra di un banano. Che potente animale, con la lunga proboscide, le forti zanne, i piedi enormi! La piccola tartaruga gli si piazzò davanti e gridò: “Ehi, elefante, eccomi qua! Alzati e salutami, amico!”.
L’elefante girò la testa per vedere chi lo aveva apostrofato così familiarmente, e con somma meraviglia scoprì la piccola tartaruga.
“Come osi chiamarmi amico, bruscolino?”, s’indignò.
“Ti chiamo amico perchè siamo pari di forza e potenza” rispose la tartaruga “tu credi che non sia possibile perchè tu sei grande e io sono piccola, ma hai torto, e te lo proverò! Ti sfido a una gara di tiro alla fune!”
“Che idea balorda, piccola tartaruga!” disse l’elefante.
“Io sono pronta a gareggiare, se lo sei anche tu.” disse la tartaruga “Chi dei due riuscirà a trascinare l’altro, si dimostrerà il più forte; ma se nessuno dei due vince, saremo pari e ci chiameremo amici.”
L’elefante sospirò con aria di condiscendenza. “E va bene, piccola tartaruga, gareggerò con te.”
Allora la tartaruga prese una lunga lunga liana e ne diede un’estremità all’elefante.
“Tieni questa” disse “io mi allontano finchè la liana non sia tesa; poi tireremo finchè uno dei due riuscirà a trascinare l’altro, o la liana si spezzerà.”
E lentamente si allontanò tenendo nel becco l’altro estremo della liana. Camminò fino al fiume melmoso dove trovò l’ippopotamo che sguazzava nel fango.
“Ehi, ippopotamo, eccomi qua!” gridò. “Alzati e salutami, amico!”
L’ippopotamo guardò in su per vedere chi lo aveva apostrofato così insolentemente, e con somma meraviglia vide la piccola tartaruga.
“Come osi chiamarmi amico, piccolo bruscolino?”, s’indignò.
“Ti chiamo amico perchè siamo pari di forza e di potenza” rispose la tartaruga “tu credi che non sia possibile, perchè tu sei grande e io sono piccola, ma hai torto e te lo dimostrerò! Ti sfido a una gara di tiro alla fune!”
“Che idea balorda, piccola tartaruga!” disse l’ippopotamo.
“Io sono pronta a gareggiare, se lo sei anche tu” disse la tartaruga.
E l’ippopotamo finì per accettare la sfida, proprio come l’elefante. Allora la tartaruga gli diede il capo della liana che teneva in bocca. “Prendi questo” gli disse “io vado a prendere l’altro estremo, poi tireremo finchè uno dei due trascinerà l’altro, o la liana si spezzerà.
Adesso è chiaro il piano della piccola tartaruga! A un estremo c’era l’elefante e all’altro l’ippopotamo! La tartaruga si portò a metà della liana e, senza lasciarsi scorgere, diede uno strattone.
Appena l’elefante e l’ippopotamo sentirono muoversi la liana, cominciarono a tirare con tutte le loro forze. Come tirava e grugniva l’elefante! Come sbuffava e tirava l’ippopotamo! La liana era tesa al massimo, ma nessuno riusciva ad avere la meglio.
“Oh, potentissima piccola tartaruga!” gemette l’elefante.
“Oh, fortissima piccola tartaruga!” esclamò l’ippopotamo.
La tartaruga diede uno sguardo alla liana che tremava, poi, lasciando i due tirare, andò tranquillamente a fare un ottimo spuntino di funghi; schiacciò un pisolino, e quando si destò era ormai il tramonto.
“Farei bene ad andare a vedere come si sono messe le cose”, pensò.
Tornò al mezzo della liana: era ancora tesa al massimo. L’elefante e l’ippopotamo avevano continuato a tirare tutto il giorno, ma nessuno dei due aveva sopraffatto l’altro.
“Credo proprio che basti” pensò la tartaruga, e con un colpo di becco spezzò in due la liana.
Che poteva mai accadere? Allentatasi la liana, l’elefante e l’ippopotamo caddero all’indietro, uno di qua e l’altro di là, percuotendo il suolo con due colpi tremendi, che rimbombarono per tutta la giungla.
Allora la tartaruga si recò dall’elefante.
“Oh, tartaruga!” disse l’elefante “Non credevo che tu fossi così forte! Ora la liana si è spezzata, perciò siamo uguali. Avevi ragione, la taglia non conta. Ora ci chiameremo amici.”
La tartaruga era giubilante: aveva trionfato sul grande elefante grigio! Poi si recò dall’ippopotamo.
“Oh, tartaruga!” disse l’ippopotamo “Non pensavo che tu fossi così forte! La liana si è spezzata, perciò siamo uguali. Avevi ragione, la taglia non conta: ora ci chiameremo amici.”
La tartaruga era veramente al colmo della felicità: aveva trionfato anche sull’ippopotamo!
E da quel giorno in poi ogni volta che il potente elefante o il forte ippopotamo incontravano la tartaruga nella giungla, la chiamavano amica.
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La storia della banderuola
Nella soleggiata terra di Spagna, dove le arance crescono in abbondanza sugli alberi, una chioccia nera covava l’uovo che aveva deposto, aspettando che il guscio si schiudesse. Ed ecco che udì un pic-piccare, e il pulcino uscì dal guscio.
Ma che pulcino buffo! La chioccia, nel vederlo, gorgogliò di stupore: era come un mezzo pulcino, un pulcino tagliato in due per il lungo. Mezzopulcino saltò fuori dal guscio rotto sulla sua unica zampa, agitò la sua unica aluccia gialla e guardò la madre con il suo unico vispo occhietto.
Tuttavia la chioccia nera amava il suo Mezzopulcino nè più nè meno che i suoi fratelli e le sue sorelle, che erano tutti pulcini regolari.
Ma quando Mezzopulcino crebbe e diventò Mezzogalletto, mostrò di essere un dispettoso guastafeste della forza di due galletti interi.
Si cacciava sempre nei guai per qualche marachella. Infastidiva il grande cane che faceva la guardia all’aia, era arrogante con quel bell’imbusto del gallo, e correva schiamazzando dietro alle altezzose oche grigie quando scendevano dondolandosi verso il ruscello.
Poi, un bel giorno, Mezzogalletto si presentò saltellando alla chioccia nera e disse: “Sono stufo di vivere qui, in questa stupida aia. Me ne vado a Madrid in cerca di fortuna.”
Come si agittò la chioccia nera nell’udire questa notizia! Madrid, la capitale di Spagna, distava molte e molte miglia!
“Perchè vuoi andare a Madrid?” chiese.
“Voglio vedere il re di Spagna” disse Mezzogalletto “e sono sicuro che il re di Spagna sarà lieto di vedere me”, soggiunse impudente.
“Madrid è molto lontana” lo ammonì la chioccia nera “è meglio che tu resti a casa tua, nella fattoria.”
“Vedrai che ci arriverò” la rassicurò Mezzogalletto.
E partì op-op-op, per la grande città.
Ben presto giunse ad un ruscelletto. Il ruscello era nei guai, perchè le erbacce avevano invaso le sue acque.
“Aiutami, Mezzogalletto!” gorgogliò il ruscello “Fai pulizia di queste erbacce, in modo che io possa tornare a scorrere libero!”
Ma Mezzogalletto non volle aiutare il ruscello.
“Non posso fermarmi ora!” gridò “Sto andando a Madrid per vedere il re di Spagna”.
E continuò per la sua strada.
Dopo un po’ giunse ad un bosco tenebroso e una radura vide un fuoco acceso dai taglialegna. Il fuoco era nei guai perchè, per mancanza di combustibile, si stava spegnendo.
“Aiutami, Mezzogalletto!”, crepitò il fuoco “Raccogli qualche ramoscello e gettalo su di me, in modo che io possa tornare a bruciare allegramente”.
Ma Mezzogalletto non volle aiutare il fuoco.
“Ho fretta” gridò “Sto andando a Madrid per vedere il re di Spagna”.
E continuò per la sua strada.
Dopo aver percorso molte miglia saltellando su di piede solo giunse finalmente alla grande città di Madrid. Alti edifici sorgevano ai lati delle strade affollate e caotiche. Mezzogalletto continuò a saltellare fino al palazzo reale. Vicino al cancello che dava accesso al palazzo cresceva un ippocastano in fiore. Mezzogalletto vide le sue foglie a cinque dita e le sue candele di fiori rosa oscillare su e giù e udì la voce del vento chiamarlo dall’intrico dei rami.
“Aiutami, Mezzogalletto!” gemeva il vento “Mi sono impigliato in quest’albero. Liberami, ti prego!”
Ma Mezzogalletto non volle aiutare il vento.
“Non ho tempo di ascoltarti!” gridò “Sono venuto per vedere il re!”.
Attraversò il cortile del palazzo, dove montavano la guardia dei soldati in lucenti armature d’argento; spiò per una porta aperta, e un attimo dopo era dentro. Si trovò in uno stanzone dove bruciava un gran fuoco, sul quale uno spiedo con della carne girava lentamente, manovrato da due sguatteri. Al centro della stanza c’era un tavolo carico di pentole, padelle e piatti. Era la cucina reale.
Mezzogalletto, naturalmente, non lo sapeva. “Che reggia!” pensò “Questa dev’essere la sala del trono!”.
Proprio in quel momento entrò un uomo che indossava un grembiule bianco e un alto cappello pieghettato. Era il cuoco reale. Mezzogalletto, naturalmente, non lo sapeva. “E questo deve essere il re di Spagna in persona” pensò “ecco com’è la corona reale!”.
Irrigiditosi sulla sua unica zampa, fece il saluto con la sua unica ala gialla.
Il cuoco diede uno sguardo a Mezzogalletto e disse allegramente: “Stasera brodo di pollo! Era proprio te che aspettavo!”.
E afferrato il misero tra pollice e indice, lo tuffò, piume e tutto, in un pentolone che gorgogliava sul fuoco.
“Oh, acqua! Come mi scotti!” strillò Mezzogalletto.
“Hai dunque dimenticato il ruscello invaso dalle erbacce e il tuo rifiuto di aiutarlo?”, chiese l’acqua, e continuò a bollire.
Allora Mezzogalletto invocò il fuoco: “Oh, fuoco! Come mi bruciano le tue fiamme!”
“Hai dunque dimenticato il nostro incontro nel bosco e il tuo rifiuto di gettarmi sopra una manciata di ramoscelli?” chiese il fuoco, e continuò ad ardere.
In quel momento Mezzogalletto udì un sibilo su per la cappa del camino e supplicò disperato: “Oh, vento! Spegni il fuoco e rovescia la pentola con l’acqua in modo che io possa sfuggire a questo terribile destino!”
“Tu non hai voluto aiutarmi quando io ero imbrigliato nell’ippocastano” sibilò il vento. “Ma non importa. Ho pietà di te.”
E il vento soffiò facendo schizzare Mezzogalletto fuori dal pentolone, e lo trascinò in alto sopra i tetti di Madrid.
“Fermati! Fermati!” gridava Mezzogalletto.
Ma il vento non si fermò finchè non ebbe trasportato mezzogalletto proprio in cima alla guglia della chiesa più alta di Madrid, così alta da toccare le nuvole del cielo.
“Eccoti arrivato”, disse il vento beffardo.
E da quel giorno Mezzogalletto è rimasto lassù. Ora è ricoperto di una vernice d’oro che il sole fa scintillare. Spesso i cittadini odono dal basso un cigolio. Allora guardano verso la guglia e dicono:
“Che rumore fa la banderuola oggi!”
Non sanno che il cigolio è il lamento di Mezzogalletto, che ripete instancabilmente: “Oh, se avessi dato retta a mia madre, e fossi rimasto nella fattoria con lei!”
Il gatto, il topo e il vaso di strutto
C’erano una volta un gatto e un topo che diventarono amici. Il topo viveva in una chiesa, e s’era fatto il nido nel cuscino di un inginocchiatoio. Senonchè il gatto lo convinse ad andare ad abitare con lui.
“Ti sono così affezionato, che non sopporto di starti lontano” disse al topo.
“D’accordo, amico”. Il topo accettò, e così i due misero su casa assieme. Sebbene fosse estate, il gatto, da previdente massaio che era, disse: “E’ bene che facciamo provviste per l’inverno,se non vogliamo soffrire la fame”.
Il topo fu d’accordo, perciò comprarono un vaso di strutto.
“Dove lo possiamo tenere?” chiese il topo “Non abbiamo dispensa”.
“Ho un’idea” rispose il gatto “teniamolo in un angolino fresco e buio della chiesa: sarà al sicuro, e quando verrà l’inverno andremo a riprenderlo.”
Così fecero. Passarono i giorni, ma, chissà come, il gatto non poteva fare a meno di pensare con desiderio al vaso di strutto. Oh, poterne leccare anche soltanto lo strato superiore!
Una mattina il gatto disse al suo caro amico topo: “Mio cugino mi ha chiesto di fare da padrino al battesimo del suo ultimo nato, perciò oggi devo andare in chiesa: starai tu a sorvegliare la casa.”
Il topo non ebbe alcun sospetto: “Ma certo, vai tranquillo, e auguri per il battesimo.”
Il gatto andò in chiesa. Naturalmente non c’erano nè cugini nè battesimi. Si avvicinò furtivamente all’angolo dove era nascosto il vaso dello strutto e cominciò a leccarne lo strato superiore. Delizioso! Il gatto faceva le fusa dal piacere.
Quando tornò a casa, il topo gli chiese: “Com’è andato il battesimo? Spero che tu abbia passato una buona giornata”.
“Tutto bene” rispose il gatto.
“Che nome hanno dato al piccolo?” s’informò il topo.
“Viasopra” rispose con freddezza il gatto. “E’ bianco come la neve, davvero carino.”
“Viasopra!” esclamò il topo “Che strano nome!”
“Non certo più strano di Magnabriciole, com’è stato chiamato, se ben ricordo, uno dei tuoi figliocci” replicò il gatto.
Poco tempo dopo il gatto fu di nuovo preso da una gran voglia di assaggiare lo strutto, così disse al topo: “Sono stato pregato di fare da padrino a un altro battesimo: devo di nuovo lasciarti a sorvegliare la casa”
“Non preoccuparti, farò da me” rispose il topo “spero che tutto vada bene come l’ultima volta.”
Il gatto tornò in chiesa e sgattaiolò nell’angolo buio. Si diede molto da fare attorno al vaso: lo strutto sembrava ancora più delizioso! Il gatto si leccò i baffi dalla soddisfazione.
Quando tornò a casa, il topo lo salutò: “Spero che tutto sia andato bene. E che nome hanno dato al piccolo?”
“Viamezzo”, rispose il gatto in tono indifferente “E’ color guscio di tartaruga, un bel piccino!”
“Viamezzo? E’ ancora più strano di Viasopra!”
“Non peggio di Magnacacio, come, se non sbaglio, hanno chiamato un altro tuo figlioccio” rispose il gatto.
Passato ancora un po’ di tempo il gatto si sentì l’acquolina in bocca al pensiero di quel delizioso strutto.
“Pensa un po’!” disse al topo “Mi hanno chiesto una terza volta di fare da padrino. Devo andare di nuovo in chiesa, tu resta qui a badare alla casa”.
Stavolta il topo sembrava pensieroso.
“Mi chiedo che razza di nome daranno a questo figlio!” disse “Viasopra, Viamezzo… qualche altra scemenza del genere, scommetto! Ma non ti trattengo, amico, e spero che tutto vada bene come le altre volte”.
Il gatto andò in chiesa… e questa volta leccò tutto lo strutto rimasto. Che buono! Passò bene la lingua attorno alle pareti, per essere sicuro che non ne restasse nemmeno un’ombra.
“Allora, come l’hanno chiamato?” chiese incuriosito il topo quando il gatto tornò a casa.
“Temo che ti sembrerà ancora più strano” rispose il gatto “Si chiama Viatutto. E’ proprio notevole, nero con le zampe bianche.”
“Viatutto…” ripetè il topo “Questo nome è molto sospetto”.
E aveva un’aria ancora più pensierosa di prima.
Comunque il resto dell’estate e l’autunno trascorsero serenamente. Strano a dirsi, il gatto non fu più invitato ad alcun battesimo.
Venne l’inverno. La neve copriva il terreno, il ghiaccio incrostava i vetri delle finestre ed era difficile trovare da mangiare. I due amici avevano fame. Allora il topo pensò alle provviste saggiamente messe da parte per i tempi duri, cioè al vaso di strutto nascosto in chiesa.
“Andiamo a prendere il vaso di strutto che avevamo messo da parte” disse al gatto.
Il gatto gli diede un’occhiata obliqua e rispose: “D’accordo, amico”.
Appena giunti in chiesa, il topo si affrettò verso l’angolo dov’era il vaso. Quale fu il suo disappunto quando trovò il vaso ripulito fino in fondo!
“Ahimè!” squittì “Ora so che i miei sospetti erano fondati: tu non sei mai stato ad alcun battesimo! Tu sei venuto tre volte in chiesa per mangiarti tutto lo strutto. La prima volta hai leccato via lo strato superiore, la seconda volta hai leccato via la metà, e la terza volta hai leccato…”
“Sta zitto!” gridò il gatto affamato “Se dici un’altra parola ti mangio!”
Ma ormai il topo l’aveva sulla punta della lingua, e così quel “Viatutto” venne fuori…
Con un balzo il gatto fu sul topo e lo divorò.
E così è finita anche la storia.
La divisione del formaggio
C’erano una volta due ladruncoli di gatti, che avevano rubato un grande formaggio giallo.
“Dividiamolo” disse il primo gatto, una bella bestia dal pelo tigrato e dai lunghi baffi, “Farò io le parti.”
“Andiamoci piano, amico.” disse il secondo gatto, che aveva il pelo nero lucido, tranne una zampa candida e un orecchio accartocciato come un cavolfiore.
“Mbeh?” chiese il primo gatto.
“Come posso esssere sicuro che tu lo divida equamente?” disse il secondo. “Potresti approfittarne per prenderti la fetta più grossa. Penso che dovremo trovare una terza persona che faccia le parti per noi.
“D’accordo”, acconsentì il primo gatto, “ma mi dispiace vedere che non ti fidi di me, amico.”
Così il gatto nero e il gatto tigrato si misero in cerca di una terza persona che dividesse il grande formaggio giallo, e subito trovarono una scimmia dagli occhi vivaci, che aveva ascoltato tutta la conversazione stando seduta su un banano proprio sopra di loro.
“Per piacere, scimmia, potresti essere così gentile da dividere questo formaggio in due parti uguali?” dissero i gatti.
La scimmia rise sotto i baffi, pensando che quella richiesta poteva volgersi a suo favore.
“Aspettate, vado a prendere un filo per tagliare il formaggio e una bilancia” disse “peserò i due pezzi per essere sicura che siano uguali.”
Poco dopo fu di ritorno col filo e con la bilancia e tagliò il formaggio in due pezzi, mentre il gatto nero e il gatto tigrato aspettavano ansiosi. Ma l’astuta scimmia tagliò un pezzo più grande dell’altro, sicchè quando li pose sui due piatti della bilancia, uno pendeva di più.
“Povera me!” disse la scimmia “Non sono stata molto abile, vero? Bisogna eguagliare.” E con ciò si mise a mangiare il pezzo più grosso.
“Ehi, scimmia! Che storie sono queste?” s’indignarono i gatti.
La scimmia li guardò con falsa meraviglia.
“Ma come?” disse “Sto alleggerendo questo pezzo di formaggio, così bilancerà quell’altro. Non volete che io sia rigorosamente giusta?”
“Ma sì, ma sì” risposero esitanti i gatti, e stettero a guardare ancor più ansiosi mentre la scimmia prsava di nuovo i due pezzi di formaggio.
Ma ahimè! La scimmia aveva dato un morso di troppo al pezzo più grosso, che ora pesava un po’ meno dell’altro.
La scimmia scosse la testa: “Povera me!” disse “Ne ho mangiato un po’ troppo, vero? Ma niente paura, correggo subito l’errore!” e cominciò a mangiare l’altro pezzo.
“Ma cosa ti salta in mente?” protestarono i gatti “Non penserai che ti abbiamo invitata a un banchetto!”
Il muso della scimmia si atteggiò alla più completa innocenza.
“Sto solo cercando di essere rigorosamente giusta.” rispose in tono risentito, “Mi avete chiesto di dividere equamente il formaggio, e io faccio del mio meglio!”
Pesò di nuovo i due pezzi, che a questo punto erano diventati molto piccoli, ma ancora non si equilibravano: stava quindi per mettersi di nuovo a mangiar via un pezzo da quello più pesante, quando i gatti, non resistendo più a vederla divorare il loro delizioso formaggio, gridarono: “Basta, basta! Lasciaci quel che è rimasto!”
L’astuta scimmia capì che la festa era finita.
“Come volete” disse “credo che dopotutto non ci teniate veramente ad avere parti uguali: siete solo una coppia di vecchi ladruncoli ingordi!”.
Risalì con un salto sul suo banano e cominciò a tempestare i due gatti con una pioggia di piccole banane verdi.
Ma il gatto nero e il gatto tigrato pensavano solo al loro formaggio. Non si curavano più di sapre se un pezzo era più grande dell’altro! Senonchè, dopo tutta quella commedia, i due pessi erano diventati così piccoli, che ai gatti, temo, non resto granchè da gustare: l’astuta scimmia aveva finito col mangiarne la maggior parte!
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Il cavallo e la volpe
Il cavallo era invecchiato al servizio del suo padrone, e ormai non era più in grado di compiere una giornata intera di lavoro. Non ce la faceva più a stare tutto il giorno nei campi, aggiogato all’aratro, nè a tirare ogni settimana il carico fino al mercato. Ma il suo padrone era un uomo senza cuore e, visto che il fedele cavallo non poteva più fare il suo lavoro, gli negò cibo e tetto. Lo scacciò dalla stalla dicendo: “Qui non c’è posto per chi non si guadagna da vivere. Perciò fuori dai piedi, e che non ti veda mai più!”
Poi aggiunse: “Potrai tornare a vivere nella mia stalla e a mangiare il mio fieno quando mi dimostrerai di essere forte come il leone!”, e proruppe in uno scoppio di risa beffarde.
Il povero vecchio cavallo si mise a vagare per la campagna. Teneva la testa bassa e si sentiva molto infelice. Infine giunse nella grande foresta dove vivavano le bestrie selvatiche. Qui si imbattè nella volpe dal pelo fulvo.
“Perchè te ne stai così triste a testa bass?” chiese la volpe al cavallo.
Il cavallo sospirò: “Non posso più lavorare per il mio padrone, così questi mi ha scacciato e non vuole più vedermi. Ha dimenticato quanti anni di fedele lavoro ho fatto per lui”.
“Ahimè!” disse la volpe “Gli uomini sono creature crudeli. Ma dimmi, non ti ha per caso offerto una possibilità di rimanere con lui?”
Il cavallo si ricordò allora della condizione postagli dal padrone nel mandarlo via: “Mi ha detto che potrò tornare alla stalla se dimostrerò di essere forte come il leone. Dunque mi ha chiesto l’impossibile, perchè sono debole e vecchio.”
La volpe, inclinando la testa da un lato, si mise a studiare il problema, poi disse: “Fai come ti dico, e finirà tutto bene. Devi solo stenderti per terra come se fossi morto e non muoverti. Io torno subito.”
Il cavallo obbedì e si stese a terra. Intanto la volpe trotterellò dino alla tana del leone nella foresta.
“Maestà” disse inchinandosi profondamente “C’è un cavallo morto poco lontano da qui. Seguimi, e avrai un lauto pranzetto.”
Il leone si alzò sollecito e speranzoso e seguì la volpe, la quale lo condusse nel luogo dove si trovava il cavallo. Come tremò il cavallo dentro di sè quando udì il leone che gli si aggirava intorno! Tuttavia non fece alcun movimento, anzi se ne stette immobile il più possibile, fidandosi della volpe.
Allora la volpe disse: “Non è degno di te banchettare in pubblico, maestà. Lascia che ti attacchi il cavallo alla coda, così potrai trascinarlo nella tua tana e lì divorarlo in pace.”
Il leone accettò di buon grado il suggerimento della volpe, e si distese a terra in modo che questa potesse attaccargli il cavallo alla coda. Fu allora che la volpe mise in opera la sua furberia: girò la coda del cavallo così saldamente intorno alle zampe del leone che nessuno avrebbe potuto staccarla.
“Adesso tira, vecchio cavallo, tira più che puoi!” grigò.
Il cavallo si rizzò sulle zampe e cominciò a tirare, e così si trascinò dietro il potente ma inerme leone. Il leone ruggiva e si divincolava, ma non riusciva a spezzare il nodo fatto dalla volpe. In tal modo il cavallo trascinò il leone fuori dalla foresta fino alla fattoria del suo padrone.
Potete immaginare quale fu lo stupore del padrone nel vedere il vecchio cavallo comparire alla porta della stalla trascinandosi dietro un leone!
“Dunque, vecchio mio, hai dimostrato di essere più forte di un leone!” gridò, “E’ più di quanto ti avevo messo come condizione. Benissimo! Torna pure alla tua stalla, ed io ti nutrirò e ti curerò, anche se ormai non puoi più lavorare.”
Mantenne la parola, e il cavallo trascorse il resto della sua vita in piacevole ozio.
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La volpe e l’uva
Un giorno una volpe affamata venne a passare accanto a una vigna e scorse alcuni bellissimi grappoli d’uva che pendevano da un pergolato. I dolci acini le fecero venire l’acquolina in bocca, ma non poteva arrivarci, perchè erano posti troppo in alto. La volpe allora se ne andò con aria dignitosa, dicendo: “Sono troppo verdi: la frutta acerba fa male…”
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Favole e altre storie di animali – una raccolta di favole adatte alla lettura e il riassunto per le classi prima e seconda della scuola primaria, disponibili anche in scheda e stampabili gratuitamente in formato pdf.
Il picnic degli animali
Le orchidee erano in fiore nella giungla.
Per festeggiare la primavera gli animali avevano fatto un picnic. Alla fine…
“Brrr!” barrì l’elefante sollevando la proboscide. “Non si può lasciare così la radura: con tutti questi piatti e questi bicchieri di plastica sparsi, con le bottiglie vuote e le cartacce e gli avanzi di cibo… Qualcuno deve far pulizia!”
“Io non posso” disse l’ippopotamo. “Devo tornare subito al fiume.”
“Neppure io” disse l’airone rosa “ho paura di sporcarmi le piume.”
“Rrrr!” ruggì il leone “Neppure le grandi piogge potranno distruggere questi orribili rifiuti: la foresta intristirà con tanti pezzi di vetro, di plastica e di latta. Non ci sarà dunque nessuno che farà pulizia?”
“Lo farò io!” disse allora lo scimpanzé “ho le mani!”
Bra, il diverso Bra il bradipo viveva nella giungla, sull’alto albero della gomma, penzoloni a trenta metri da terra.
Gli altri animali lo prendevano in giro: “Guarda quello: sta sempre aggrappato ad un ramo! Sta sempre capovolto! E’ diverso da noi!”
Ma un giorno le grandi ali spiegate dell’aquila rapace disegnarono nel cielo un’ombra scura.
Il tapiro dalla paura infilò il muso nell’ortica. Il formichiere dallo spavento si coprì la testa con la coda.
L’armadillo dal terrore cominciò a tremare.
Tutti gli animali tacquero agghiacciati. E Bra?
“Bra è stato l’unico a non aver avuto paura” dissero gli animali non appena l’aquila se ne fu andata.
“Nessun animale della foresta riesce a nascondersi meglio di lui. Chi volete che lo veda? Appeso a un ramo anche quando dorme, sembra una palla di muschio. E pensare che noi lo prendevamo in giro!”
L’uccellin del freddo Viene l’inverno: e con gelide tramontane spazza ogni cosa e copre di neve e di silenzio la terra. L’inverno è lì che mette bianco sui campi, quando vede un uccellino che va volan-do da una siepe all’altra.
“O tu che fai?” domanda. “Da dove scappi?”
“Stavo su, nella boscaglia; e sono venuto al basso a far due chiacchiere col mio amico pettirosso”.
“Ah sì? E il tuo amico dov’è? Partito? E tu che fai qui? Perché non sei andato con lui?”
“Io non ho paura del freddo. Dopo di te tornerà la prima-vera; e sto ad aspettarla. Trre trre terit!”
“Ora comando io; e non voglio che voli e canti, ma riposo e silenzio”: Ciò dicendo, l’inverno copre di neve anche le siepi degli orti e dei giardini. L’uccellino, che si era nascosto in una catasta di legna, si trova al mattino in mezzo alla neve, ma non si perde d’animo e ricomincia a cantare “Trre trre terit!” L’inverno apre il sacco dei venti e da uscire una tramontana così arrabbiata da far scappare anche i lupi.
L’uccellino, che si era nascosto in un tronco d’albero, trova al mattino tutto gelato, ma non si perde d’animo e ricomincia a cantare: “Trre trre terit!”
“Ma insomma, tu chi sei?”
“Io sono il Re di macchia, sono lo scricciolo, il reattino.”
“Ah! E ancora non senti freddo?”
“Lo sopporto. Sono abituato ai venti delle montagne.”
L’inverno rimane sopra pensiero; dice:
“Sei piccolo ma ardito. Mi piaci. Resta pure con me. Sarai il mio uccellino: l’uccellin del freddo.”
Il topino sapientone C’era un bambino che non studiava; il suo libro sempre lasciava di qua, di là.
Un topolino, per imparare, le lunghe pagine a rosicchiare incominciò. E rodi e rodi coi forti denti, lettere e sillabe, virgole e accenti, tutto mangiò. Credette allora d’esser sapiente; agli altri topi diceva: “Oh gente, v’insegnerò. “
Tutti li accolse nella sua scuola, ma aperto un libro… una parola non rivelò. Risero tanto tutti i topini e poi scapparono, quei birichini, gridando: “Oh! Oh! Rodere i libri non vuol dir niente, bisogna leggerli, signor sapiente!”
Chi troppo vuole… C’era una volta una gallinella nera che faceva un uovo tutti i giorni. Figuratevi la contentezza della sua padrona! Appena sentiva il coccodè, correva al pollaio e beveva l’uovo fresco.
Ma quella donna, avendo osservato che la gallina era molto magra, pensò: “Se diventasse grassa, mi farebbe almeno due uova al giorno!”
E per questa speranza, incominciò a nutrire la gallina con bocconi ghiotti e abbondantissimi. La gallina cresceva a vista d’occhio. Ma quando davvero fu bella grassa, smise di fare le uova.
La rosa e il bruco Un bruco verde disse a una rosa: “Tu sei bella e odorosa; ma che peccato! Il tuo gambo è pieno di spine!”
E la rosa rispose: “Caro mio, se non avessi le spine, a quest’ora tu saresti arrivato fin quassù e avresti mangiato il bocciolo mio fratello”.
Piccioncini Nel nido nacquero due piccioncini. Non avevano penne, tenevano sempre gli occhi chiusi. Il babbo e la mamma li vegliavano continuamente. Li imbeccavano; li coprivano col loro corpo per tenerli caldi. E i piccioncini facevano:”Pio pio!”. Come per dire che erano contenti di essere nati, come per ringraziare il babbo e la mamma delle premure che avevano per loro.
La tartaruga Una mattina la tartaruga si mise in cammino per sbrigare certi suoi affari piuttosto urgenti.
Doveva recarsi da un coniglio banchiere, che aveva il suo ufficio a due miglia di distanza. Cammina cammina, una fermatina qui, e una chiacchierata più là, in dieci ore e più fece appena cinquanta passi.
E allora dovette accorgersi che già faceva buio. Si guardò intorno, e disse con un sospiro: “Ah, come sono corte le giornate!”
La mosca e il moscerino Due bovi aravano faticosamente il campo, spinti dal contadino. Una mosca volava intorno ai bovi e poi andava a posarsi sull’aratro, con un’aria di grande importanza; poi tornava a volare, a ronzare, a fermarsi sull’aratro: insomma, quanto daffare!
Un moscerino, intanto, passava di lì e le chiese: “Perché ti affatichi così? E che cosa fai?”
La mosca arrogante rispose: “Non lo vedi? E’ proprio necessario spiegarlo? Solamente tu non capisci; noi ariamo la terra.”
A questa risposta perfino il moscerino si mise a ridere.
Il gallo e il sole Un gallo faceva chicchirichì tutte le mattine, prima che il sole si levasse. E ripeteva spesso con grande vanità: “Sono io che faccio levare il sole!”. Tutti i polli avevano un gran rispetto per il gallo perchè credevano che fosse davvero il padrone del sole.
Una mattina il gallo dormì più del solito, e quando si svegliò, si accorse che il sole era già alto.
Povero gallo, come rimase confuso e avvilito! Perfino le galline risero di lui.
Il corvo e la volpe “Quanto sei bello!” diceva la volpe a un corvo, che se ne stava appollaiato sul ramo di un albero, e teneva nel becco un pezzo di cacio.
“Che belle piume nere! Se tu avessi una voce melodiosa, ognuno ti chiamerebbe il re degli uccelli!”.
Queste lodi fecero girar la testa al povero corvo, che aprì il becco per cantare.
Ma il cacio cadde in terra e fu subito addentato dalla volpe.
Il ghiro e il mastino Dopo aver dormito cinque mesi interi, un ghiro usciva per la prima volta dalla sua tana, ancora tutto intorpidito. Ed ecco, appena arrivato all’orlo del bosco, vide passare un cerbiatto che correva come il vento. Il ghiro rimase sbalordito, impaurito, e subito tornò nella sua tana. Stando sull’uscio diceva: “Ma che stranezza! Che sciocchezza! La gente assennata non corre mai in quel modo!” Un vecchio mastino, che era lì fermo a godersi il sole, udì quelle parole e osservò: “Caro mio perché vuoi misurare gli altri, confrontandoli con te? Se la natura ha fatto tanto diversi il ghiro e il cervo, non devi meravigliarti se tu sei tanto lento e il cervo è tanto rapido.”
Tra i due litiganti il terzo gode Un orso e un leone si litigavano tra di loro per un pezzo di carne.
“L’ho visto prima io!” esclamava l’orso.
“Ma io l’ho preso!”, ribatteva il leone.
“Dunque dividiamolo a metà!”
“No, perché è tutto mio!”
Dalle parole passarono ai fatti, e cominciarono a picchiarsi come disperati. Picchia picchia, si stancarono, e alla fine dovettero distendersi per riposare un poco. Così distesi, si addormentarono.
Intanto il pezzo di carne era rimasto in terra e ci camminavano sopra le formiche.
Una volpe sbucò dalla macchia, prese il pezzo di carne, e se ne fece una bella scorpacciata con tutto il suo comodo.
La parola data Un lupo affamato uscì dal bosco e arrivò fino alle case degli uomini. Dalla finestrina di una casuccia uscivano le grida di un bimbo imbizzito, e il lupo disse fra sé: “Come mi piacerebbe non far gridare più quel bambino!” e si leccava le labbra. Giusto in quel momento una vecchia, dentro la casuccia, diceva: “Bada, bambino, se non smetti di piangere ti darò al lupo!”.
“Benissimo” pensò il lupo “è proprio quello che cerco io”. E si mise a sedere, perché era inutile andare a cercare più lontano quello che orai era tanto vicino. Bastava solo aspettare.
Aspetta, aspetta, si fece notte e nessuno gli portava il bambino. Forse si erano tutti addormentati. Ma verso la metà della notte, si udì il bimbo piagnucolare, e la vecchia gli diceva: “Non piangere, bambino mio, tesorino mio. Non ti darò al lupo; anzi, se viene lo ammazzeremo col fucile di tuo padre.” Il lupo brontolò:
“Che gente! Si vede che qui non usa mantenere la parola data.”
Il rondinino pigro Le rondini insegnavano a volare ai rondinini, che lesti lesti facevano un giro in aria, e poi tornavano a riposarsi nel nido. Però un rondinino pigro e pauroso non voleva muoversi mai dal nido. Il suo babbo e la sua mamma non riuscivano a persuaderlo con il loro cinguettio. Il rondinino nascondeva perfino la testa dentro al nido. Finalmente il babbo e la mamma si stizzirono. E afferrato per le ali il rondinino pigro, lo trasportarono insieme con loro. Poi lo lasciarono andare nell’aria.
Il rondinino traballò, come se dovesse cadere; ma dopo un istante volò allegramente insieme con tutti gli altri.
Il topo e il leone Un topo, senza volere, passò una volta sul corpo di un leone addormentato. Il leone si destò di soprassalto, e con una delle sue zampone afferrò il topo. “Per carità non mi ammazzi!” esclamò il povero animalino “Non volevo disturbarla e le prometto che ad ogni occasione l’aiuterò volentieri”…Il leone cominciò a ridere, nel sentir dire che un topo gli prometteva di aiutarlo. E tanto rise, che allargò la zampa, e il topolino potè fuggire tutto contento.
Passò del tempo, e una volta il leone restò impigliato in un laccio teso dai cacciatori. Si dibatteva furiosamente, ruggiva in modo da far tremare gli alberi, ma la fune non si spezzava perché era molto grossa e resistente. In quel momento arrivò di corsa il topolino. “Aspetti un poco” disse quando ebbe visto di che cosa si trattava, “Per me il rodere è un divertimento!”. In verità dovette rodere con molta fatica per più di un’ora. Ma alla fine la corda si spezzò e il leone fu libero. “Vede?” disse il topo “Ora lei non ride più; e ha capito che anche un poveraccio come me può essere utile davvero al re degli animali.”
Il gatto e i topi In una casa vivevano moltissimi topi. Un gatto riuscì ad entrare nella casa e cominciò a catturarli. Questi si accorsero che la faccenda si metteva male, e dissero: “Sapete che facciamo? Non scendiamo più dal soffitto, fin quassù il gatto non potrà certamente raggiungerci.
I topi smisero così di scendere in basso, ma il gatto cercò il modo di essere più furbo di loro. Si aggrappò con una zampa al soffitto e si lasciò penzolare, fingendo di essere morto. Uno dei topi lo vide in quella posizione, ma gli disse: “No, amico mio. Neppure se ti riducessi a sembrare un sacchetto, io ti avvicinerei!”
Gli uccelli nella rete Un cacciatore tese la rete sulla riva di un lago. Vi rimasero prigionieri molti uccelli. Ma erano grossi: sollevarono la rete da terra e volarono via con essa. Il cacciatore si mise a rincorrerli.
Un contadino lo vide e gli disse: “Dove corri? Credi di poter raggiungere un uccello che vola?
Il cacciatore rispose: “Se fosse un uccello solo, non lo raggiungerei. Ma questi non mi sfuggiranno.”
E così avvenne. Al calar della sera, gli uccelli volevano ritornare al loro nido ciascuno in luoghi diversi: uno verso il bosco, un altro verso la palude, un terzo verso i campi. E finirono per cadere a terra insieme alla rete.
Così il cacciatore li catturò.
La coda della volpe Un uomo aveva catturato una volpe e le domandò: “Chi ha in-segnato alle volpi ad ingannare i cani con le loro code?”
La volpe ribattè: “Ingannare i cani? Noi non li inganniamo; fuggiamo dinanzi a loro più in fretta che possiamo.”
L’uomo insistette: “No, voi li ingannate con la coda. Quando i cani stanno per raggiungervi e cercano di catturarvi, voi scuotete la coda da un lato; il cane si slancia sulla coda, e voi fuggite dal lato opposto.”
“Non lo facciamo per ingannarli,” spiegò la volpe sorridendo “ma per cambiare direzione. Quando il cane sta per raggiungerci e noi vediamo che non possiamo sfuggirgli, cerchiamo di cambiare direzione; ma per girarci in fretta, dobbiamo spingere la coda dal lato opposto, come fate voi uomini con le braccia, quando correte e fate una curva. Non è un inganno; ce lo ha insegnato la natura stessa quando ci ha create per impedire che i cani acchiappassero tutte le volpi, dalla prima all’ultima.”
Il cervo e la vigna Un cervo, inseguito dai cacciatori, si nascose in una vigna. Appena i cacciatori si allontanarono, il cervo cominciò a brucare le foglie larghe della vite.
I cacciatori notarono le foglie muoversi, e pensarono: “Forse, laggiù si nasconde qualche animale selvaggio.”
Spararono e ferirono il cervo. E questi, già vicino alla morte, disse: “Me lo sono proprio meritato: ho voluto mangiare proprio ciò che mi aveva nascosto e salvato la vita.”
L’asino e il cavallo Un uomo possedeva un asino e un cavallo. Mentre percorrevano la stessa strada con il loro carico, l’asino disse al cavallo: “Che fatica! Non ho più le forze per portare tutto questo peso. Prendi tu qualcosa.”
Il cavallo rifiutò e l’asino, privo di forze, cadde a terra e morì.
Il padrone, allora, caricò tutta la roba sul dorso del cavallo, e per giunta, anche la pelle dell’asino. E il cavallo si lamentò: “Ahimè, come sono sfortunato! Poco fa non ho voluto dare un piccolo aiuto al mio compagno, ed ora devo portare tutto il suo carico e per di più anche la sua pelle.
La testa e la coda del serpente Un giorno la coda del serpente attaccò lite con la testa: si doveva stabilire quale delle due dovesse andare avanti per prima.
La testa diceva: “Tu non puoi andare avanti per prima; non hai occhi e non hai orecchi!”.
La coda rispondeva: “In compenso però, io ho la forza. Sono io che ti faccio muovere. Se per capriccio mi arrotolo intorno ad un albero, tu non ti puoi spostare più.
Propose la testa: “Allora, separiamoci.”
La coda si staccò dalla testa e cominciò a strisciare da sola. Ma poco dopo non vide un crepaccio e vi precipitò dentro.
La gru e la cicogna Un contadino tese le reti e riuscì a catturare alcune gru che gli danneggiavano il raccolto. Fra di esse vi era anche una cicogna. Per salvarsi, disse al contadino: “Lasciami andare, io non sono una gru, ma una cicogna. Fra tutti gli uccelli, noi siamo la specie più rispettabile: io abito infatti sul tetto della casa di tuo padre. Se guardi le mie piume, ti accorgi che non sono una gru”.
Il contadino rispose: “In compagnia di gru ti ho acciuffato, in compagnia di gru ti mangerò”.
La formica e la colomba Una formica era assetata e si avvicinò alla riva di un ruscello. Un’onda la investì e la fece cadere nell’acqua. Una colom-ba, che passava portando un ramoscello nel becco, vide la formica in pericolo e le lanciò il ramoscello. La formica vi si aggrappò e fu salva. Qualche tempo dopo, un cacciatore stava per catturare la colomba nella sua rete. La formica gli si accostò e gli morse una gamba. Il cacciatore sussultò e si lasciò sfuggire la rete dalle mani. La colomba aprì le ali e volò via.
La mucca da latte Un uomo possedeva una mucca, che gli dava ogni giorno un secchio di latte. L’uomo invitò alcuni amici a casa sua e, per avere più latte da offrire loro, per dieci giorni non munse la mucca. Pensava che il decimo giorno avrebbe potuto avere dieci secchi di latte. Invece, il latte si era fatto denso e acido; così quando il padrone munse la mucca, questa gli diede meno latte che le altre volte.
Il lupo nella polvere Un lupo voleva catturare una pecora del gregge e si accostò sotto vento, in modo da restare nascosto nel polverone che il gregge si lasciava dietro.
Il cane del pastore lo vide e gli disse: “Sbagli, lupo mio, a camminare nella polvere: gli occhi ti si ammaleranno.”
I cani e il cuoco Un cuoco preparava il pranzo e i cani stavano sdraiati davanti alla porta della cucina. Il cuoco uccise un vitello e gettò gli intestini in cortile. I cani mangiarono tutto allegramente e dissero: “Che bravo cuoco! Cucina benissimo!”
Poco dopo il cuoco cominciò a ripulire piselli, rape, cipolle, e gettò fuori ciò che scartava. I cani annusarono e dissero: “Come ha peggiorato il nostro cuoco! Prima faceva da mangiare così bene, ma ora non vale più nulla.
Il cuoco, però, non si curò dei cani e continuò a preparare il pranzo, che fu consumato e lodato dai clienti del ristorante.
Il lupo e i cacciatori Un lupo aveva catturato una pecora e se l’era mangiata. Sopraggiunsero alcuni cacciatori, riuscirono a prenderlo e deci-sero di ucciderlo. Il lupo disse loro: “Voi volete uccidermi, ma non è giusto. Se io sono povero, non è colpa mia: la natura mi ha fatto così”.
I cacciatori risposero: “Noi ti uccidiamo, non perché sei povero, ma perché ti mangi tutte le pecore che ti capitano a tiro”.
Il cavallo e lo stalliere Uno stalliere rubava l’avena al suo cavallo e la rivendeva. In compenso, ogni giorno lo strigliava ben bene per farlo apparire bello. Il cavallo gli disse: “Se vuoi davvero che io sia bello, non rivendere la mia avena!”.
La chioccia e i suoi pulcini Una chioccia aveva appena finito di covare: i pulcini erano usciti dalle uova, ma lei non sapeva come proteggerli dai pe-ricoli. Perciò disse loro: “Rientrate nei vostri gusci. Io mi accovaccerò sopra di voi come quando vi covavo, e così sarete al sicuro.”
I pulcini obbedirono, tentarono di rimettersi nei loro gusci, ma inutilmente. Allora il più piccolo disse alla madre: “Se pretendevi di farci stare sempre dentro il nostro guscio, avresti fatto meglio a non farci uscire.
Il leone, l’orso e la volpe Un leone ed un orso trovarono un pezzo di carne e si misero a litigare. L’orso non voleva cedere e il leone altrettanto. Lottarono a lungo e alla fine caddero a terra privi di forze. Una volpe, nascosta lì vicino, vide il pezzo di carne, lo addentò e fuggì via.
Il bugiardo Un giovane pastore stava vigilando le sue pecore e, come se avesse visto il lupo, cominciò a gridare: “Al lupo! Al lupo!”.
I contadini accorsero per aiutarlo, ma il lupo non c’era e capirono che erano stati ingannati.
Il ragazzo ripetè lo scherzo una seconda e una terza volta, ma un giorno il lupo sbucò fuori per davvero. ll ragazzo si mise a gridare: “Presto, correte! C’è il lupo! C’è il lupo!”
I contadini pensarono che egli, ancora una volta, volesse far loro uno scherzo, e non gli diedero retta. Il lupo si accorse che non c’era nessun pericolo e, comodo comodo, si mangiò tutto il gregge.
L’anitra e la luna Un’anitra andava a nuoto per il fiume in cerca di pesci: in tutta la giornata non ne aveva cattu-rato uno. Appena fece notte, l’anitra vide la luna riflessa nell’acqua, credette fosse un pesce e si immerse per acchiapparla. Le altre anitre la videro e si burlarono di lei.
Da quel giorno divenne tanto vergognosa e impacciata che, anche quando vedeva un pesce sott’acqua, aveva timore ad immergersi e non l’acchiapava. E così morì di fame.
L’asino selvatico e l’asino domestico Un asino selvatico vide un asino domestico; gli si avvicinò e si complimentò della sua sorte felice: era ben nutrito e dall’aspetto pareva essere trattato assai bene dai padroni.
Ma poi, quando l’asino domestico fu caricato col basto e il conduttore lo faceva trottare a tutta forza, l’asino selvatico disse: “Ora, fratello, non ti invidio più: vedo che ti guadagni la vita col sudore e con le più dolorose umiliazioni.
Il topo sotto il granaio Un topo viveva sotto un granaio. Nel pavimento vi era un piccolo foro che lasciava cadere il grano, chicco per chicco. Col cibo sempre a disposizione, il topo viveva tranquillo, ma non era soddisfatto e volle vantarsi delle sue comodità. Rosicchiò il pavimento, allargò il foro, e invitò altri topi a fargli visita.
“Venite a far festa a casa mia” disse “Ci sarà da mangiare per tutti”.
Ma quando condusse gli amici sul posto, si avvide che il foro non c’era più. Evidentemente il padrone di casa lo aveva notato e aveva provveduto a chiuderlo.
La rana e il leone Un leone udì una rana gracidare a gran voce e si spaventò: pensò che fosse un animale molto grosso ad emettere quel grido così forte.
Si avvicinò pian piano per vedere di che si trattasse e vide una piccola rana uscire dal pantano.
Allora disse fra sé: “D’ora in poi, se prima non avrò visto coi miei occhi di che si tratta, non mi spaventerò più.”
La cornacchia e i piccioni Una cornacchia osservò che i piccioni vivono comodamente e sono ben nutriti, perché l’uomo pensa a loro. Si tinse le penne di bianco e volò nella piccionaia. Dapprima i piccioni pensarono che fosse dei loro, e la lasciarono entrare. Ma la cornacchia si dimenticò per un attimo del suo travestimento e si mise a gracchiare come tutte le cornacchie. Allora i piccioni presero a canzonarla e la cacciarono fuori a beccate. La cornacchia ritornò fra le compagne, ma queste, spaventate dalle sue penne bianche, la cacciarono via come avevano fatto i piccioni.
Il gallo e le lavoranti Una padrona svegliava di notte le donne al suo servizio e al primo canto del gallo le metteva al lavoro.
A queste la vita parve molto dura; tanto che decisero di uccidere il gallo perché non svegliasse più la padrona. Gli torsero il collo, ma la loro vita peggiorò.
La padrona, infatti, per timore di non svegliarsi a tempo, da quel giorno fece alzare le lavoranti ancora prima.
La cicala e le formiche In autunno, nel formicaio, il grano si era un po’ inumidito; le formiche lo portarono fuori ad asciugare. Una cicala affamata chiese loro qualche cosa da mangiare. Le formiche dissero: “Perché, quando era estate, non hai provveduto a farti le provviste?”
Quella rispose: “Mi mancava il tempo, avevo le mie canzoni da cantare!”.
Le formiche risero e dissero: “Se in estate hai fatto musica, in inverno ballerai”.
La volpe dallo stomaco gonfio Una volpe affamata riuscì a scovare nella cavità di una quercia pezzi di pane e di carne lasciati là dai pastori. Vinta dalla fame vi entrò e mangiò tutto. Ma il suo stomaco si gonfiò tanto che non poteva più uscire dall’albero. Prese allora a gemere. Di lì passò, per caso, un’altra volpe; udì i suoi lamenti, si avvicinò e gliene domandò la causa. Venuta a conoscenza dell’accaduto, “Ebbene” disse “resta lì fino a quando non ritorni ad essere magra, come quando sei entrata. Allora uscirai senza alcuna difficoltà.”
Il leone vecchio e la volpe Un leone, ormai vecchio, era incapace di procurarsi il cibo con le proprie forze. Per poter sopravvivere, pensò di ricorrere all’astuzia. Si ritirò in una caverna e, sdraiatosi, finse di essere infermo. Così poteva assalire e divorare tutti gli animali che andavano a fargli visita. Ne aveva già mangiato un buon numero, quando gli si presentò la volpe, che si fermò a distanza dalla caverna e prese a domandargli come stava di salute.
“Male!” rispose il leone e le chiese per quale motivo non entrava.
“Io entrerei” rispose la volpe “se non vedessi tante orme di animali che entrano e nessuna di animali che escono.”.
Il toro e la zanzara Una zanzara andò a posarsi sul corno di un toro.
Vi rimase per lungo tempo e, quando fu per andarsene, chiese al forte animale se era soddisfatto di liberarsi del peso.
Il toro le rispose: “Ma io non mi sono accorto quando ti sei posata su di me, né mi accorgerò quando te ne andrai.”
La vipera e la lima Una vipera si introdusse nell’officina di un fabbro e chiese ai diversi utensili di farle l’elemosina.
Dopo averla ricevuta dagli altri, si avvicinò alla lima e la pregò di darle anche lei qualche cosa.
La lima rispose: “Tu sei molto sciocca, se credi di ottenere anche una piccola cosa da me, che ho l’abitudine, non di dare, ma di prendere a chiunque mi capiti vicino.”.
Il lupo e la capra Un lupo vide una capra che stava pascolando sulle rupi scoscese di un’alta montagna. Non poteva raggiungerla per catturarla; perciò la esortò a scendere, altrimenti, per inavvertenza, poteva cadere.
“Il prato” le diceva “dove io mi trovo, è meno pericoloso e l’erba è molto più alta.”
Ma la capra rispose: “Non è per me e per la mia salvezza che tu mi chiami al pascolo, ma per te, per procurarti da mangiare.”
Il leone chiuso a chiave e l’agricoltore Un leone si introdusse nella fattoria di un agricoltore. Questi voleva catturarlo e chiuse a chiave il cancello del cortile. La belva, che non trovava via d’uscita, prese a sbranare le pecore e poi assalì persone e buoi. L’agricoltore, temendo anche per la sua vita, aprì il cancello. Dopo che il leone si era allontanato, il contadino prese a lamentarsi di quella disgrazia. E la moglie, vedendolo in lacrime: “Ben ti sta” gli disse “hai voluto rinchiudere in casa tua un animale, che persino da lontano devi fuggire!”.
La volpe e il cane Una volpe si introdusse in un gregge di pecore, prese un agnello e finse di baciarselo. Il cane, custode delle pecore, le chiese per quale motivo si comportasse in quel modo.
“Lo accarezzo” rispose la volpe “e gioco con lui”.
“Se non lo lascia” ribattè ringhioso il cane “vengo io a farti carezze di cane.”
Il leone, il cinghiale e gli avvoltoi Nella stagione estiva, quando l’afa ed il caldo opprimente generano la sete, un leone ed un cinghiale si trovarono con-temporaneamente vicino ad una piccola sorgente.
Presero subito a litigare, poiché entrambi volevano bere per primi. Dalle parole passarono ai fatti: iniziarono una lotta morta-le. I due contendenti erano già feriti e sanguinanti, quando, sollevando lo sguardo al cielo, scorsero uno stormo di avvoltoi, gli uccelli che si nutrono dei cadaveri. Questi volteggiavano sopra di loro, in attesa di divorare il primo che fosse caduto morto. Così interruppero la lotta e dissero: “Meglio essere amici fra di noi, che pasto per gli altri.”
L’orso e i pesci Se talvolta nei boschi l’orso non riesce a procurarsi il cibo, corre alle scogliose rive del mare, si afferra ad una roccia e, lasciandosi penzolare, immerge pian piano le zampe pelose nell’acqua. Così, tra i ciuffi del pelo, i granchi e i pesci restano presi. Il furbo poi si arrampica, si scrolla di dosso le sue prede e, passo passo, se le mangia comodamente.
La fame aguzza l’ingegno.
Le lepri e le rane Nel bosco un giorno le lepri presero a protestare con grande strepito: non volevano rassegnarsi a vivere nella continua paura. Così si diressero ad uno stagno, col proposito di buttarsi dentro e di morire. Al loro accorrere le rane, spaventate, balzarono in fuga e si acquattarono sotto le verdi alghe.
“Caspita!” disse una lepre “Ci sono altri presi dal panico e sempre timorosi del male. Fermiamoci e sopportiamo la vita come tanti.
La rana gonfiata e il bue Una volta una rana vide un bue in un prato. Presa dall’invidia per quell’imponenza, prese a gonfiare la sua pelle rugosa. Chiese poi ai suoi piccoli se era diventata più grande del bue. Essi risposero di no.
Subito riprese a gonfiarsi con maggiore sforzo e di nuovo chiese chi fosse più grande.
Quelli risposero: “Il bue”.
Sdegnata, volendo gonfiarsi sempre più, scoppiò e morì.
La volpe e l’uva Spinta dalla fame sotto un alto pergolato, una volpe cercava di afferrare l’uva, saltando con tutte le sue forze.
Visto che non riusciva neppure a toccarla, allontanandosi disse: “Non è ancora matura. Non voglio mangiarla acerba.”
Il lupo e la gru Un lupo aveva inghiottito un osso che gli era rimasto in gola. Disperato, prese a vagare in cerca di qualcuno che lo liberasse dal male.
Incontrò una gru e la pregò di estrarglielo, dietro compenso. L’ingenua gru introdusse il capo nella gola del lupo, la liberò dell’osso e chiese il premio, secondo il patto. Ma il lupo rispose: “Non ti basta di aver ritirato sana e salva la testa dalla mia bocca? Chiedi anche una ricompensa?”
La mucca, la capra, la pecora e… Una mucca, una capra e una debole pecora, rassegnata a tutte le ingiurie, fecero alleanza con un leone per andare a caccia. Riuscirono a catturare un magnifico cervo, ed il leone, fatte le parti, così ruggì: “Io mi prendo la prima poiché il mio nome è leone; la seconda dovete darla a me, perché sono socio; la terza mi spetta perché valgo di più; e se qualcuno osa toccare la quarta, finirà male”.
E così la prepotenza, da sola, si portò via tutta la preda.
La volpe e la maschera Un giorno una volpe trovò una maschera, di quelle che si usano in teatro.
“Quant’è bella!” disse “Ma non ha cervello”
Il cane e il pezzo di carne Un cane nuotava per il fiume, portando in bocca un pezzo di carne. Ad un tratto vide la sua immagine nello specchio delle acque e, credendo che un altro cane portasse una seconda preda, volle strappargliela.
Ma la sua avidità fu punita: lasciò cadere il cibo che teneva in bocca e non riuscì neppure a toccare quello che desiderava.
L’assemblea dei topi Un gatto, chiamato Rodilardus, faceva un tale sfacelo di topi che non se ne vedevano quasi più, in giro, tanti ne aveva messi dentro… la sepoltura.
Ora, un giorno che il birbaccione era lontano, i topi sopravvissuti tennero assemblea. Un topo molto prudente sostenne che sarebbe stato necessario attaccare un bubbolo al collo di Rodilardus; così appena il gatto si metteva in caccia, tutti, avvertiti dei suoi movimenti, si sarebbero rifugiati sottoterra.
Tutti furono d’accordo con lui. La difficoltà fu di attaccare il sonaglio. Uno disse: “Io non ci vado, non sono mica così scemo!”
Un altro disse: “Io non sarei capace”.
Così, senza far niente, si lasciarono.
Il lupo e l’agnello Un agnello si dissetava alla corrente di un ruscello purissimo. Sopraggiunse un lupo in caccia: era digiuno e la fame lo aveva attirato in quei luoghi. “Chi ti dà tanto coraggio da intorbidare l’acqua che bevo?” disse questi furioso.
“Sire…” rispose l’agnello “io sto dissetandomi nella corrente sotto di lei, perciò non posso intorbidare la sua acqua!”
“La sporchi” insistè la bestia crudele “E poi so che l’anno scorso hai detto male di me”.
“Io? Ma se non ero nato”, rispose l’agnello.“Se non sei stato tu, è stato tuo fratello”. “Non ho fratelli”. “Allora qualcuno dei tuoi; perché voi, i vostri pastori e i vostri cani ce l’avete con me. Me l’hanno detto: devo vendicarmi. Detto questo il lupo trascinò l’agnello nel fitto della foresta e se lo mangiò.
Pdf delle favole in formato scheda e in formato testo qui:
DIVISIONE IN SILLABE – schede: i bambini hanno a disposizione in classe una scatola-schedario di esercizi vari per ogni materia, da scegliere liberamente, che è uno per tutti: abbiamo per cominciare uno schedario per la Matematica, uno per l’Italiano, uno per la Musica e uno per l’Inglese.
Ogni bambino ha poi una scatola-schedario individuale, col suo nome, dove conserva i cartellini che ha usato per i suoi esercizi. E’ assurdo incollare fotocopie su fotocopie sui quaderni! Questa modalità favorisce il lavoro individuale e individualizzato, ma anche l’aiuto reciproco e la collaborazione: se un bambino ha già provato un dato esercizio, può dare una mano al compagno che lo sta facendo; poi ci sono anche schede per lavorare in coppia, ad esempio quelle dei dettati che prevedono che un bambino legga al bambino che scrive.
E’ naturalmente sempre il bambino a scegliere; se lo desidera può portare anche il lavoro a casa: vi sembrerà assurdo, ma a me che non uso dare compiti, i bambini li chiedono…
A differenza degli eserciziari “a libro”, lo schedario mi permette di aggiornare l’offerta di esercizi in base agli interessi dei bambini, o alle difficoltà che mostrano, e inoltre si integra benissimo coi materiali montessoriani già a disposizione.
Cominciamo con le schede per esercitare la divisione in sillabe.
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DIVISIONE IN SILLABE – REGOLE
Le regole della nostra lingua non sono affatto semplici, ricordiamole:
– una vocale a inizio parola, seguita da una sola consonante, fa sillaba a sè: a-nima, i-sola, o-livo
– le consonanti semplici fanno sillaba con la vocale che segue: li-mo-na-ta, se-re-ni-tà
– le consonanti doppie di dividono in due sillabe: pez-zet-ti-no, am-mat-ti-re; rientrano tra le doppie le parole con cqu: ac-qua, ac-quisto, nac-que
– due o tre consonanti diverse tra loro (non doppie) fanno sillaba con la vocale seguente, se esistono come gruppo anche all’inizio delle parole: a-bra-sivo ( perchè br esiste come inizio di parole, ad esempio in brina), ca-tra-me (treno), pu- le -dro (dritto),
– la esse impura (s seguita da consonanti) si attacca alla sillaba: e-scludo, ma-stino
– quando il gruppo di consonanti non esiste come inizio di parole, la prima consonante si stacca dalla sillaba: arit- metica (tme), pal-ma (lm), bam-bino (mbi),
– dittonghi e trittonghi non si possono dividere (au, ia, …), a meno che non si tratti di uno iato (ma meglio prendere la regola come generale, per non sbagliare, perchè ad esempio pi-o-lo è giusto, ma non si può fare pi-o-ve; allora meglio pio-lo pio-ve)
– digrammi e trigrammi non di dividono mai (sc, gl, gn,…)
– l’apostrofo in fin di riga è ammesso.
I bambini piccoli naturalmente imparano molto meglio a ricoscere la sillaba e quindi a dividere correttamente, seguendo la musicalità dei suoni e facendo esercizio. Ad esempio quando devono andare a capo insegniamo loro a dire la parola a voce alta battendo forte le mani ad ogni interruzione di sillaba: non sbagliano quasi mai!
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DIVISIONE IN SILLABE – Ecco le schede, se possono esservi utili:
coordinarecoperta copia coprifuoco copriletto coraggio corda cordialità coriandolo cornacchia cornetto cornuto corpo correggere corrente corridoio cortesia Co – or – di – na – reCo – per – taco – pia co – pri – fuo – co co – pri – let – to co – rag – gio cor- da cor – dia – li- tà co – rian – do – lo cor- nac – chia cor – net – to cor – nu – to cor – po cor – reg – ge – re cor – ren – te cor – ri – do – io cor –te – sia
Sul retro, dove ci sono le soluzioni per la correzione e l’autocorrezione, pinzo un foglietto, così prima di riporre la scheda il bambino può mettere la sua firma. E poi fa un po’ da “tenda del mistero”…
Il passaggio dal maiuscolo al minuscolo come trasformazione della forma. Una storia tutta da disegnare, in uso nelle scuole Waldorf, per presentare lo stampato minuscolo.
Il passaggio dal maiuscolo al minuscolo
Dopo essere state maltrattate per un anno intero, chiuse nei quaderni dei bambini della prima classe, le povere letterine tornarono a casa lamentandosi: la povera A aveva le gambe tutte larghe, la S non ne parliamo visto che ogni tanto i bambini la mettevano addirittura a testa in giù, poi c’era la D con la gobba, la T col tetto cadente, la R con una gamba rotta, la H zoppa, la P con la pancia che pendeva, la I col mal di schiena, la O piena di bitorzoli, la V che prendeva il volo… insomma non vedevano proprio l’ora di tornare a casa a riposare.
Ma non appena varcarono la soglia, quale sorpresa trovarono! Mentre loro erano state coi bambini di prima, le loro sorelline ne avevano approfittato per mettere tutta la casa sottosopra.
Le sorelle maiuscole, stanche e tutte ammaccate, non riuscivano proprio a riposare con tutta quella confusione, e per di più le minuscole facevano un sacco di capricci, e dicevano che anche loro volevano andare a scuola e conoscere i bambini della classe.
Dopo aver passato la notte in bianco, il mattino seguente le poverette stavano peggio di prima, e così decisero di andare tutte dal dottore. Visto che erano gravi, il dottore decise di ricoverarle tutte in ospedale. Ognuna venne curata, medicata, incerottata, ingessata e massaggiata, e dopo due settimane poterono tutte insieme lasciare l’ospedale. Erano tornate come nuove e si sentivano davvero bene, ma il dottore si raccomandò di non interrompere le cure, e consigliò loro di trascorrere un periodo di convalescenza in montagna. Nonostante le cure, infatti, erano ancora piuttosto deboli, e c’era il pericolo di ricadute. Così il dottore si fece promettere che sarebbero andate in montagna da sole, senza le sorelline minuscole.
E le maiuscole uscirono dall’ospedale in fila indiana, ed erano proprio belle: A B C D E F G H I L M N O P Q R S T U V Z.
Andarono a casa per preparare le valige e salutare le sorelline minuscole, ma quelle cominciarono a strillare e a far dispetti, e testarde e capricciose com’erano, non volevano sentir ragioni. Anche loro volevano andare in vacanza in montagna! Le povere sorelle maiuscole cercarono in ogni modo di convincerle, si spiegar loro che era stato il dottore a prescrivere il riposo assoluto, e che finchè non fossero completamente guarite, non avevano proprio le forze per occuparsi di loro in vacanza.
Ma non c’era niente da fare… Promisero allora che, non appena si fossero sentite un po’ meglio, le avrebbero chiamate, e così anche loro avrebbero fatto un po’ di vacanze in montagna, ma anche questa promessa non servì a nulla, se non a far aumentare le lagne e i capricci.
Allora si accordarono in segreto di far finta davanti alle piccole di aver cambiato idea e di aver rinunciato a partire, e si diedero appuntamento a mezzanotte nella stanza di A. Cenarono come se niente fosse, si lavarono, diedero il bacio della buonanotte alle sorelline e andarono a letto facendo finta di dormire. A mezzanotte, sicure che le piccole monelle fossero cadute nel tranello, si radunarono senza far nessun rumore e si prepararono alla fuga. Ma non si accorsero che due occhietti brillavano sotto il letto, e che una delle sorelline le aveva spiate ed era pronta a spifferare tutto alle altre.
Così, mentre le sorelle maiuscole preparavano i bagagli nella camera di A ed aspettavano l’alba per iniziare il loro viaggio, la sorellina piccola aveva già dato l’allarme alle altre, ed un’altra riunione segreta si stava tenendo al piano di sotto, in cucina…
Alle prime luci del mattino, le maiuscole uscirono in punta di piedi, coi loro zaini e le loro valige, e intrapresero il cammino verso la montagna… pensavano proprio di essere riuscite a farla franca. E non sospettarono mai di nulla, finchè non giunsero ad un’altura che dominava tutto il paesaggio sottostante: l’ampia vallata era disseminata di piccoli e graziosi paesini, ciascuno con la sua chiesetta e il suo alto campanile, c’era un magnifico laghetto che specchiava l’azzurro del cielo e il verde delle montagne, c’erano prati e covoni di fieno… e un po’ più in basso, dietro di loro, c’erano ahimè le sorelline minuscole…
-Aspettateci!-, gridavano quelle sciocchine, troppo piccole per avventurarsi da sole per quei ripidi sentieri -Vogliamo venire con voi!-
Le sorelle maiuscole erano più spaventate che meravigliate, e temendo ormai il peggio gridarono: -Tornate indietro! Potreste cadere da un momento all’altro! Non vedete? Per voi è troppo pericoloso salire fin quassù!-
E mentre le maggiori pensavano di averle finalmente convinte a si fermarono a fare un picnic prima di proseguire per la ripida salita, le piccole fecero finta di tornare indietro, ma approfittando della distrazione delle sorelle, si nascosero dietro ai sassi, agli alberi ed ai cespugli, e ripresero l’inseguimento.
Quando le grandi ripresero il cammino, le piccole fecero altrettanto… arrancavano a gran fatica, cercando di non farsi scoprire, in fila indiana, per mano una dietro l’altra, ma quella salita era davvero troppo per le loro piccole gambette. E successe l’irreparabile: la prima della fila perse l’equilibrio e gridando: -Aiutooooo!- cominciò a rotolare a valle lungo il pendio della montagna, trascinando con sè nella rovinosa caduta tutte le altre.
Di scatto le sorelle maggiori, giunte quasi in vetta, si voltarono e videro le piccole monelle rotolare come una valanga verso il basso, e sparire nell’ampia vallata sottostante. Non restava altro da fare che dire addio alla vacanza, e scendere a cercarle a valle, sperando per il meglio.
Con le orecchie ben aperte ridiscesero il sentiero, e stavano ormai disperando dopo ore ed ore di inutili ricerche.
Giunte a valle, sempre più preoccupate, decisero di dividersi per cercare meglio, ed ognuna prese una direzione diversa.
continua nelle pagine seguenti (segui i numeri delle pagine):
Una storia per presentare le vocali in prima classe – un racconto in uso nella scuola Waldorf per presentare ai bambini vocali dell’alfabeto maiuscolo.
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Una storia per presentare le vocali in prima classe
“La storia di Lauretta”
Molto, molto tempo fa, in un paese ai confini del mondo,viveva una bambina che si chiamava Lauretta. Quel paese era come un giardino, era un mare d’erba senza confini, i fiori erano i pesci, di mille colori e di mille specie. Se ne occupava un giardiniere, che conosceva tutti i segreti della vita, così quei fiori non appassivano mai, anzi diventavano sempre più belli, luminosi, profumati. Lauretta viveva proprio in quel giardino come un fiore tra i fiori. Ma proprio davanti alla sua casetta di fiori non ce n’erano. Anche lì l’erba era tenera e delicata, l’aria luminosa e tiepida come una carezza, ma non un fiore. E questa sua aiuola davanti casa le metteva malinconia.
Un giorno arrivarono nel paese un uomo e una donna: camminavano lentamente, con la schiena curva, sembravano molto stanchi. Andarono dal giardiniere e gli consegnarono due sacchettini. Poi si stesero sull’erba a riposare, e mentre dormivano il giardiniere aprì i due sacchetti e sparse i semi che contenevano nel prato. Magicamente apparvero nuovi meravigliosi fiori. Lauretta, che aveva osservato la scena da lontano, corse allora dal giardiniere per chiedergli una manciata di quei semi da spargere sulla sua aiuola senza fiori. Ma il giardiniere le disse che lui altri semi non li aveva, e che non ne esistevano nemmeno altri in tutto il loro paese: per procurarseli bisognava essere disposti a partire per un lungo viaggio.
Lauretta provava un desiderio fortissimo, che la spinse ai margini del giardino e senza che quasi se ne rendesse conto, si trovò a percorrere il sentiero del bosco, un sentiero che diventava sempre più ripido, stretto e buio. Lauretta aveva paura, ma proprio quando pensò di tornare indietro ricordò il giardiniere e il suo volto rassicurante e sereno, e si fece coraggio. Rialzando lo sguardo, vide sorgere davanti a sè, in fondo al sentiero, un grande arco luminoso. Lo oltrepassò, e si trovò in un’ampia sala circolare, al centro della quale splendeva una creatura incantevole. La sua veste era candida come neve, i suoi capelli una cascata d’argento fine, il suo volto pallido e luminoso come luna d’estate. La splendida creatura sedeva su un cuscino di seta finissima, e teneva fra le dita delicate un sottilissimo filo di luce, che avvolgeva lentamente, in silenzio, formando un gomitolo sempre più grande. Non guardò Lauretta, sembrò proprio non accorgersi nemmeno di lei, continuando ad avvolgere il gomitolo. Lauretta la guardava trasognata e col cuore in attesa.
La creatura finalmente si alzò, e fissandola negli occhi, le porse il gomitolo di luce. Lauretta se lo portò al cuore, chiuse gli occhi per un istante poi, raccogliendo tutto il suo coraggio, lo lanciò dietro di sè. Subito si sentì venir meno le forze, e cadde addormentata, mentre il filo magico, srotolandosi, disegnò un sentiero tortuoso, che si perdeva in lontananza, tra il verde. Lauretta si svegliò nell’ora magica dell’aurora, quando tutto è avvolto da pallida luce azzurra. Tutto era silenzio. La natura era immersa nel sonno. Dormivano gli uccelli nel nido con la testina sotto l’ala, dormivano gli scoiattoli raggomitolati nelle loro tane, dormivano le api nelle loro cellette, dormiva la coccinella dentro il calice del fiore bianco, dormiva la lucertola sotto il sasso, dormiva la lumaca sotto la foglia, perfino le mosche dormivano, e le zanzare, e le libellule e le farfalle. I fiori non mostravano i petali, perchè dormivano anche loro. Lauretta si sentiva smarrita, non ricordava nulla di ciò che le era accaduto fino a quel momento, ma lo spettacolo che le si presentò era così straordinario che la fece commuovere: il sole stava sorgendo lentamente all’orizzonte, e intorno a lui si spandeva una calda luce rosata. Le labbra di Lauretta si schiusero senza che se ne rendesse conto, e tutta la sua ammirazione e la sua devozione risuonarono come una lunga A. Dopo qualche istante il sole comparve rosso in tutta la sua maestosità, ed Lauretta fu quasi accecata da tanto splendore.
Così cominciò a percorrere il lungo sentiero che il gomitolo di luce aveva tracciato per lei. Il mondo era magnifico, Lauretta non sapeva da che parte voltarsi per ammirare tutto quello che aveva intorno. Era un mondo da scoprire e gustare: colori, suoni, e profumi ovunque. I fiori si erano svegliati e stiracchiavano al primo sole i loro petali, mentre l’erba sembrava un tappeto tessuto con tutte le sfumature di verde. L’aria vibrava del canto degli uccelli. Lauretta corse sui prati, si rotolò tra l’erba, ammirò i cespugli fioriti, vide alberi di ogni forma e grandezza e tra le frode vide fervere la vita: uccelli che costruivano il nido, scoiattoli che si rincorrevano saltando da un ramo all’altro, insetti che ronzavano leggeri nell’aria.”Chi sei?” chiese Lauretta a una creaturina col vestito giallo e nero, che volava di fiore in fiore. “Sono l’ape operosa, faccio visita agli amici fiori che mi danno il dolce nettare da portare nella mia casetta. Con quel succo farò il miele, che piace tanto agli uomini”. Ma ora cosa stava succendendo? Un fiorellino bianco si era messo a volare? Ma no, era una farfalla. “Non devi toccarmi, sulle mie ali c’è la polverina magica che mi fa volare, e se me la sciupi non potrò più visitare i fiori, che mi sono fratelli. Sai, loro hanno le radici e non possono volare, sono io che racconto loro i segreti del cielo, dell’aria e della luce.” La farfalla si posò tra i capelli di Lauretta, e subito altre se ne aggiunsero, a formare una corona. “Ma guardate, farfalline! Lì la terra si sta muovendo, chesuccede?” Un buffo musetto comparve davanti a lei, appuntito, con gli occhi chiusi. “E tu chi sei?”
“Sono la talpa, scavo gallerie sotterranee. Le mie zampette sono anche meglio delle pale che usano gli uomini nel loro lavoro. Piacere di averti conosciuta Lauretta, ma ora è meglio tornare a casa per me, questa luce mi dà fastidio e ho molto lavoro da sbrigare”.
Mentre la talpa ne ne andava, Lauretta sentì solletico a un piede e vide un cosino piccolo e nero camminare veloce veloce “Sono la formica, non farmi perdere tempo bimba. Devo raccogliere il chicco che ho perduto e correre dalle mie sorelle che mi stanno aspettando.””Posso vedere la tua casa?””Sì, ma promettimi di non toccarla, potresti rovinare il lavoro di ore solo muovendo un dito. Se hai pazienza e mi aspetti, ti indicherò la strada.”
continua nelle pagine seguenti (segui i numeri delle pagine):
Presentazione dello stampato maiuscolo e dei numeri in prima classe – un racconto in uso nella scuola Waldorf per presentare ai bambini le lettere dell’alfabeto ed i numeri.
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Presentazione dello stampato maiuscolo e dei numeri in prima classe
Tonino il pastorello
In un paese lontano lontano, ai piedi dei monti, c’era una volta un pastorello di nome Tonino. Viveva da solo in una casetta ai margini del bosco con il suo piccolo gregge di pecorelle. Era molto povero e possedeva soltanto un carrettino che gli serviva per raccogliere la legna per il fuoco e un flauto dal quale sapeva tirar fuori splendide melodie. Non sapeva leggere nè scrivere perchè non mai potuto frequentare la scuola, ma era molto saggio e aveva imparato a leggere nel grande libro della natura, che gli aveva rivelato molti segreti; conosceva i tesori racchiusi in ogni fronda, sapeva distinguere le varietà di minerali nascosti nella roccia, sapeva interpretare il linguaggio del vento, il formarsi delle nuvole, il suono della pioggia. Nel vicino villaggio tutti gli volevano bene perchè era buono e generoso e pur amando la vita solitaria era sempre pronto a rendersi utile, e quando c’era bisogno di lui non negava mai il suo aiuto a nessuno.
Durante l’estate lo si vedeva poco al villaggio, perchè portava le pecore al pascolo sugli alti monti e non tornava che di tanto in tanto. Trascorreva in quei luoghi dei lunghi periodi vivendo sempre all’aperto, parlando solo con le sue pecorelle a cui era molto affezionato, e che conosceva tutte per nome: Bianchina, Batuffolo, Berta, Gippetta… Loro amavano il loro padroncino e mentre brucavano ascoltavano liete il suono del flauto di Tonino che si diffondeva tra i monti, i boschi e le ampie vallate.Di notte il pastorello dormiva sotto le stelle accoccolato accanto al gregge, il buio non gli faceva paura: si sentiva protetto dalla volta stellata che lo avvolgeva come un magico manto.
Al sopraggiungere dell’inverno teneva le pecorelle al riparo nell’ovile, e trascorreva le sue giornate occupato in mille lavori che sapeva svolgere con bravura e precisione. Con le sue mani costruiva gli oggetti più svariati: dai cestini di vimini intrecciati che regalava al fornaio in cambio di qualche pagnotta, ai giocattoli per i bambini del villaggio che sapeva intagliare nel legno, dagli arnesi da lavoro per il contadino Virgilio, agli utensili più svariati che gli venivano richiesti. Era davvero bravo e pensava a tutti.
Un giorno, sul finire dell’estate, accadde un fatto molto strano. Il pastorello aveva portato le sue pecorelle a pascolare su un’altura dove l’erba era tenera e fresca. Stava ammirando lo splendido panorama quando, guardando verso il basso, vide un bambino e una bambina che giocavano. Come si divertivano! Il pastorello, dall’alto, poteva sentire le loro grida festose e dalle loro voci li riconobbe: erano Bianca e Berto, i figli del taglialegna; vide che Bianca teneva in braccio proprio quella bambolina che teneva tra le mani anche quando, tempo prima, era andata da lui per chiedergli se poteva farle una culletta di legno. Ma ecco, i bimbi prima gioiosi e tranquilli, cominciarono improvvisamente a litigare.
Tonino cercò di chiamarli, ma erano troppo lontani e non lo potevano sentire, impegnati com’erano a scambiarsi parole cattive. Il litigio si fece sempre più acceso, e i due bimbi finirono per picchiarsi. La bambolina era abbandonata lì, sull’erba. Mentre Tonino pensava al da farsi, vide spuntare dal folto del bosco un esserino con un buffo cappuccetto e un sacchettino sulle spalle. Si guardò intorno con aria furtiva, afferrò la bambolina dimenticata, e quella si rimpicciolì, tanto da poter entrare nel suo minuscolo sacchettino. Poi con la rapidità di un fulmine, sparì tra i cespugli. Per la prima volta il pastorello lasciò incustodite le sue pecorelle, e si precipitò lungo il pendio per inseguire il ladro. Ma le sue ricerche furono vane, sembrava proprio che fosse sparito nel nulla. Sconcertato di fronte a questo mistero, non riusciva a darsi pace, e il giorno dopo si recò a casa di Bianca per capirne qualcosa di più. La trovò molto triste. “Sai cos’è successo? Ho perduto la mia bambolina, proprio quella che mi aveva fatto la mamma. Adesso la cullina che mi avevi fatto per lei è vuota”. Tonino cercò di consolarla, poi la salutò senza dire nulla di ciò che aveva visto, convinto che nessuno gli avrebbe creduto.
Si incamminò verso casa, immerso nei suoi pensieri, quando passando accanto all’abitazione del contadino Virgilio, udì una gran confusione: tutta la famiglia era in agitazione e ognuno si affannava alla ricerca di qualcosa che era misteriosamente scomparso. Il pastorello si avvicinò a Virgilio, e gli chiese cosa stesse succedendo. “Stavo falciando l’erba del campo, quando ho sentito un caldo afoso e insopportabile, così sono entrato un momento in casa a bere e quando sono ritornato fuori la falce era sparita. Mentre andavano insieme a cercarla, in cuor suo Tonino temeva che la falce avesse fatto la stessa fine della bambola di Bianca. Iniziarono a cercare, e mentre Virgilio ispezionava una siepe, sentì dietro di sé una risatina. Si girò con aria minacciosa verso il povero Tonino “Cos’hai da ridere? Mi stai prendendo in giro? Tira subito fuori la mia falce. Adesso sono sicuro che me l’hai presa tu!”. Il pastorello cercò di spiegargli che non era colpevole e che anche lui aveva sentito quella risatina, ma siccome Virgilio invece di credergli si arrabbiava sempre più, non gli restò che andarsene via dispiaciuto, senza dir niente.
Arrivò a casa avvilito e sconsolato, e come se ancora non bastasse lo aspettava un’altra brutta sorpresa: era sparito il suo tavolino nuovo. L’aveva da poco finito di costruire e quella mattina, prima di andare da Bianca, gli aveva dato gli ultimi ritocchi, l’aveva levigato e, dopo averlo verniciato, l’aveva messo fuori perchè si asciugasse. E ora era sparito. Ma cosa stava succedendo? Per non farsi prendere dallo scoramento, decise di impegnare il tempo in qualcosa di utile. Aveva promesso a Bianca un lettino per la nuova bambola che la nonna le stava preparando. Così prese un pezzo di legno di abete e si mise all’opera. Ci mise tanta passione che dimenticò perfino di mangiare. Ma quale soddisfazione a lavoro finito… chissà come sarebbe stata contenta Bianca.
Proprio in quel momento bussarono alla porta, era Bianca che in lacrime diceva “Sei stato cattivo, perchè mi hai portato via la culla? Ho cercato dappertutto in casa, l’hai presa tu. E anche il nonno è arrabbiato e dice che gli ho nascosto la sua pipa, ma io non sono stata”.
Tonino cercò di calmare Bianca come poteva. “Non piangere, lo so che non hai nascosto tu la pipa. Succedono fatti inspiegabili in questi giorni, c’è sotto un mistero, credimi. Anche il mio tavolino è scomparso nel nulla. Ma guarda, ho un regalo per te…” e le mostrò il lettino per la bambola nuova. Bianca tornò a casa col lettino, e fece anche pace col nonno, ma non sapeva che presto anche il lettino sarebbe scomparso.
Nei giorni seguenti nel villaggio continuarono a verificarsi strane sparizioni, che provocarono litigi tra gli abitanti: mogli e mariti si incolpavano a vicenda di trascuratezza e distrazione, i genitori sgridavano i bambini pensando che si divertissero in brutti scherzi, i bimbi litigavano tra loro perchè perdevano i giocattoli… insomma in breve tempo quel paese era diventato il regno del discordia. Una sera gli abitanti decisero di riunirsi nella piazza per cercare insieme una spiegazione. Discussero animatamente per ore. Erano forse tutti vittime di qualche sconosciuta malattia che li aveva colpiti rendendoli disordinati e maldestri? C’era forse tra di loro un ladruncolo, che si divertiva alle loro spalle? Ma chi poteva essere, se tutti si conoscevano così bene e ciascuno godeva della piena fiducia di tutti?Il problema sembrava non aver soluzione, e alla fine ognuno tornò alla propria casa più triste e preoccupato di prima.
Anche Tonino non si dava pace, e una sera, all’imbrunire, mentre come al solito si trovava nel bosco col suo carrettino per raccogliere la legna per il fuoco, accadde un fatto nuovo e inaspettato. Il carrettino procedeva lungo il sentiero sassoso e accidentato, quando all’improvviso una ruota si staccò e cominciò a rotolare lungo il pendio, sempre più veloce. Tonino si mise a correre per cercare di recuperarla, mentre quella si allontanava sempre più lungo i sentieri scoscesi, passando tra cespugli e anfratti di rocce, inoltrandosi nel folto del bosco. Esausto per la lunga corsa, la vide infine fermarsi davanti a una grotta, e quando si avvicinò rimase sbalordito: chi l’aveva fermata? La ruota non poggiava su nessun ostacolo e appariva come trattenuta da una forza invisibile. Con molta cautela, e mantenendosi prudentemente a una certa distanza, scrutò all’interno della grotta e gli parve di distinguere, al debole chiarore di una lanterna, le sagome di alcuni degli oggetti che erano scomparsi nel villaggio. Si fece coraggio e si apprestò ad entrare nella grotta, ma una forza misteriosa lo respingeva, impedendogli di procedere.
Cercò allora di riprendersi almeno la ruota, ma fu inutile. Sembrava incollata al suolo. Tonino era molto spaventato, ma alla fine la curiosità vinse sulla paura e si avvicinò all’ingresso della grotta per cercare nuovamente di entrare. In quel momento sentì dal suo interno un rumore sordo e tonante che lo spaventò come non mai: qualcuno stava russando lì dentro. Terrorizzato Tonino fuggì via correndo come un matto. Percorse di volata la difficile salita e giunse in un’ampia radura erbosa. Si fermò a riprendere fiato, ma le ore erano passate, il sole stava tramontando e c’era solo la luce pallida della luna a illuminare il sentiero. Come trovare la via del ritorno?
continua nelle pagine seguenti (segui i numeri delle pagine):
La canzone dell’alfabeto per bambini della scuola primaria, con testo, sparito stampabile e traccia mp3.
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La canzone dell’alfabeto Testo
La canzone dell’alfabeto
A come armatura, B come bravura C come canaglia con me vieni in questura! D come diamante, E come elefante, F è il furfante che in galera finirà. Per G c’è tanta gente, per H non c’è niente per I immediatamente alla L passerò. L è l’animale, M meno male, N è Natale… tanti doni avrò! Per O c’è l’orco, per P c’è Pinocchio, per Q quel ranocchio che domani mangerò. R come rana, S come strade T tutte le strade che a Roma porteranno. U che bella storia, V vi ho raccontato, Z ho tanto sonno e a letto me ne andrò, sotto le coperte tutte le parole fanno capriole e una fiaba sognerò.
________________________ La canzone dell’alfabeto spartito
Presentazione delle lettere dell’alfabeto maiuscolo in prima classe – un racconto in uso nella scuola Waldorf per presentare ai bambini le lettere dell’alfabeto.
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Presentazione delle lettere dell’alfabeto maiuscolo in prima classe
“In una ridente vallata ai confini del mondo…”
In una ridente vallata ai confini del mondo, c’era una volta un piccolo villaggio. Le case erano poche, soltanto undici, e c’era una sola stalla, sufficiente ad ospitare tutti gli animali del piccolo paese.
Gli abitanti della ridente vallata erano persone tranquille e felici. Ognuno di essi lavorava e svolgeva il proprio compito in modo da mantenere l’ordine e la prosperità del villaggio.
Le piccole, accoglienti case, erano tutte costruite col legno ricavato dai numerosi pini del bosco. Su ciascuna porta era intagliato il simbolo del mestiere svolto dal capofamiglia. Ciò era necessario in quanto le persone del paese non sapevano ne leggere ne scrivere.
Come dicevamo, ognuno lavorava sodo dalla mattina alla sera. Il contadino Virgilio, ad esempio, dissodava la terra, seminava il grano e gli ortaggi, curava gli alberi da frutto, e faceva tutto questo con tanto amore che i risultati erano sempre più che soddisfacenti. Nella stagione calda il grano era alto e dorato, gli ortaggi di un bel verde splendente e gli alberi davano frutti grossi e succosi. Virgilio contadino aveva il viso rugoso, cotto dal sole, ma sempre ridente, con le sue forti braccia e con l’unica falce esistente in paese manteneva l’erba sempre ben rasata, tanto da farla sembrare un soffice tappeto. Con l’erba tagliata formava dei bei covoni, e i suoi figli si divertivano a saltarci sopra, inventando sempre nuovi giochi, finchè il papà li richiamava all’ordine. Poi, quando il sole aveva asciugato ben bene l’erba, facendola diventare fieno, i bambini avevano il compito di riporla nel fienile.
Vicino alla casa del contadino Virgilio abitava l’apicoltore, il signor Orazio. Orazio aveva costruito con le sue mani tante piccole casette affinchè le api potessero porvi il nettare che succhiavano dai fiori, dopo averlo trasformato in miele.
Orazio era amico delle api, enon aveva alcun timore di avvicinarsi alle casette per raccogliere il miele, che distribuiva poi a tutti gli abitanti del villaggio.
Viveva da solo, non aveva ne moglie ne figli, e le sue uniche compagne erano le api. Queste gli raccontavano tante storie sulla vita dei fiori e degli esseri dell’aria.
Un altro abitante del villaggio era Bastiano, il pastore, che oltre alla sua casa aveva una grande stalla dove ogni sera riportava il bestiame al ritorno dal pascolo.
Il suo compito era piuttosto faticoso: partiva all’alba con pecore e le mucche, e anche qualche capretta, saliva per il monti e camminava e camminava, finchè trovava un bel prato verde dove gli animali avrebbero brucato della buona erba.
Bastiano aveva un cane di nome Fido, che lo aiutava nel suo lavoro. Era un cane da pastore, forte, coraggioso e fedele. Bastiano trascorreva molte ore a contatto con la natura, e così era diventato amico degli gnomi e delle ondine che vivevano lassù e cantavano e scherzavano con lui.
Il suo nanetto preferito era Dondolo, il più piccole e il più vivace di tutti. Poi, quando il sole tramontava e scendeva la sera, il pastore riportava il bestiame nella stalla.
Subito iniziava a mungere le mucche e le capre. Il buon latte serviva per fare il burro e il formaggio, oltre che essere bevuto al mattino con la polenta calda. Poi nella stagione giusta, tosava le pecore e portava la lana alle tre filatrici che abitavano nella casa accanto alla sua.
Le tre filatrici erano piuttosto vecchie. Si chiamavano Berta, Nena e Pia e brontolavano in continuazione perchè la lana o era troppo sporca, o troppo corta o troppo riccia, insomma Bastiano non riusciva mai ad accontentarle. Berta aveva un grosso labbrone a forza di leccare il filo di lana, Nena aveva un pollicione a forza di torcere il filo, e Pia aveva un grosso piedone a forza di calcare il pedale della rocca.
Comunque le tre filatrici facevano bene il loro lavoro: tessevano la lana, la coloravano, poi confezionavano abiti, coperte ed altre cose utili per gli abitanti del villaggio.Nel paese naturalmente c’era anche bisogno di legna da ardere nei camini, o di qualche mobile ed utensile per la casa.
A tutto questo pensava Tobia, che era il boscaiolo. Si recava nel bosco tutti i giorni. Sempre allegro, cantando, con la sua grande scure e le sue forti braccia, abbatteva i pini, ne segava i tronchi, e li preparava per poterli trasportare a valle, nella sua casa. Qui poteva lavorare con gli arnesi adatti e costruiva ciò di cui c’era bisogno. Il suo vicino di casa era Martino, il fabbro.
Dalle sue finestre usciva sempre un gran rumore: infatti egli ferrava i cavalli, batteva sull’incudine e forgiava il ferro caldo per fare utensili per le massaie. I bambini del villaggio amavano molto la casa di Martino: restavano per ore affascinati ad osservarlo mentre svolgeva il suo lavoro.
Ciò che attirava soprattutto i bimbi era il gran fuoco che ardeva in continuazione e nel quale essi riuscivano a vedere gli spiritelli danzare.Il villaggio era attraversato da un torrente che scendeva gorgogliando dalla montagna; l’acqua era pura e cristallina.Sulle rive del torrente si affacciavano la casa del vasaio e il mulino del mugnaio.
Il vasaio si chiamava Domenico ed era abilissimo nel lavorare la creta. La impastava con l’acqua, e dalle sue mani uscivano le più belle ciotole ed i più bei vasi.
Il suo vicino, il mugnaio Giovanni, aveva invece un gran lavorare per preparare la farina. La ruota del mulino girava senza sosta, mossa dall’acqua del torrente, ed il grano posto all’interno del mulino, sulla pietra che la ruota faceva girare, si frantumava fino a diventare impalpabile farina.
Domenico viveva nel mulino che aveva costruito con l’aiuto del boscaiolo, e anche se non era una casa vera e propria, ci stava come un re.
Quando i bambini lo incontravano, si prendevano sempre gioco di lui perchè il suo aspetto era davvero buffo, tutto coperto di polvere bianca dalla testa ai piedi com’era. Giovanni non amava molto lavarsi e più di qualche volta i suoi amici erano costretti con la forza e con gran divertimento, ad immergerlo nel torrente per vederlo pulito.
Pietro era il calzolaio ed preparava e riparava le scarpe per tutti gli abitanti del villaggio. Lavorava molto: i piedi erano tanti! Inoltre doveva conciare le pelli degli animali, renderle morbide e colorarle.
Tutto il paese attendeva con gioia l’autunno: la stagione dell’uva matura e della vendemmia. Vi partecipava in allegria tutto il villaggio, cantando e ballando fino al calar della sera. C’era un gran viavai di gente dai vigneti alla casa di Giacomo il vinaio, che aveva il compito di preparare il vino e conservarlo nelle botti, al buio della sua cantina.
Quando il sole splendeva e dorava i prati, tutti potevano vedere Alchemio, il dottore del paese, che con la schiena ricurva dera e raccoglieva con pazienza erbe, piante e radici per preparare buoni sciroppi e medicamenti per gli ammalati.
Alchemio era molto vecchio e saggio; se qualcuno aveva un problema da risolvere, si consigliava con lui, che sapeva tante cose.
Nelle ora più calde del pomeriggio, i bambini si raccoglievano attorno al vecchio dottore e seduti all’ombra di una grande quercia, ascoltavano rapiti storie e leggende che il saggio conosceva, ma nessuno sapeva come.
Ed ecco, un giorno avvenne qualcosa di molto misterioso, che turbò la serenità del piccolo villaggio…
In una notte di luna piena, comparve nel paese uno strano vecchio tutto vestito di nero. Si guardò intorno con aria furtiva, poi si diresse senza esitare verso la prima casa: quella di Virgilio il contadino.
Bussò alla porta con insistenza. “Chi è a quest’ora di notte?” chiese Virgilio. “Sono un vecchio viandante, devo mangiare qualcosa, e riposare, fatemi entrare…”. Virgilio aprì la porta, un po’ titubante, e fece entrare lo strano vecchio. Lo fece sedere a tavola, e mentre gli preparava il piatto si accorse che la fiamma del camino si spegneva. Come poteva sapere che dove il vecchio passava, ogni fonte di calore si esauriva?
Il povero contadino ne fu molto imbarazzato; avrebbe voluto chiedere spiegazione per ciò che era successo, ma gliene mancò il coraggio. Il vecchio finì di mangiare in silenzio, come se non si fosse accorto di nulla, quindi si alzò, si riavvolse ben bene nel suo grande mantello nero, come per nascondere il suo vero essere, e chiese a Virgilio con tono di comando: “Dov’è lo stanzino degli attrezzi da lavoro?”.
Il contadino, sempre più impaurito, lo accompagnò, e non appena la porta si aprì, il vecchio prese a fissare la falce con i suoi occhi di ghiaccio, lanciando nell’aria il suono “Fffffffff!”. All’istante la bella lucente falce si trasformò in un rigido segno scolpito nell’aria.
Tutto avvenne così rapidamente che Virgilio, sbigottito più che mai, non si accorse neppure che il vecchio se ne era andato.
Poco dopo nell’umile cucina il fuoco riprese ad ardere e tutto tornò come prima. Il povero contadino però, quella notte non potè dormire ripensando all’accaduto, e rischiò più volte di svegliare la moglie che dormiva tranquilla e non si era accorta di nulla.
Ma nel piccolo villaggio c’era qualcun altro che non poteva dormire… era Pietro il calzolaio, che doveva finire di cucire gli stivaletti rossi per i nanetti del bosco, che dovevano essere pronti assolutamente per giorno dopo.
Dovete infatti sapere che Pietro aveva una figlia, unica consolazione della sua vita. Aveva cercato di farla crescere dandole tutto l’amore e le cure possibili perchè non sentisse troppo la mancanza della sua mamma. Ma la bimba si era ammalata gravemente e deperiva ogni giorno di più.
Invano il vecchio saggio dottor Alchemio aveva tentato di guarirla con le sue medicine, così il padre, disperato, un giorno l’aveva presa in braccio e, dopo averla avvolta in una bella coperta di lana, l’aveva portata nel bosco nella speranza che l’aria balsamica della pineta potesse giovarle.
La bimba si lamentava debolmente mentre Pietro piangendo, pregava il buon Dio di aiutarla. Fu così che gli gnomi del bosco, che udirono tutto, uscirono dalle loro case mossi a compassione, si riunirono, parlottarono tra loro, poi svelti svelti cominciarono a raccogliere radici, bacche e succhi della terra.
Si rivolsero quindi a Pietro dicendogli: “Non disperare buon uomo, la tua bimba guarirà se tu per sette giorni la nutrirai con questi prodotti speciali. In cambio però vogliamo qualcosa.”. “Dite pure, sono pronto a qualsiasi sacrificio”.
“Bene, entro sette giorni dovrai confezionare per noi sette paia di stivaletti rossi”. Pietro promise che avrebbe eseguito di certo il lavoro, e se ne tornò sereno a casa con la sua piccina. Fece tutto quello che le creature del bosco gli avevano ordinato e la piccola, un po’ alla volta, cominciò a stare meglio.
Riprese un bel colorito e presto smise di lamentarsi. Sicuramente sarebbe presto ritornata allegra e felice a correre e saltare per casa. Quella notte dunque, Pietro stava lavorando di buona lena per gli gnomi, quando senza farsi sentire anche in casa sua entrò il vecchio dal nero mantello. Il calzolaio sentì solo un brivido di freddo, e non si accorse d’altro.
Il vecchio intanto s’era avvicinato alla sedia dove stava posata la bambola della bimba, e dopo averla fissata coi suoi occhi di ghiaccio, aveva preso a lanciare nell’aria il suono “Bbbbbbb!”. All’istante al posto della bambola rimase nell’aria uno strano segno, ed il vecchio sparì, in silenzio così come era entrato.
Da qualche tempo nel villaggio fervevano i preparativi perchè si stava avvicinando il giorno delle nozze tra il pastore Bastiano e la figlia di Tobia il boscaiolo.
Il padre della sposa doveva procurarsi il legname per fare i mobili che servivano ad arredare la camera da letto degli sposi. Il pastore Bastiano infatti non aveva un letto a casa sua, perchè dormiva da sempre in un giaciglio, e spesso anche nella stalla, dove faceva più caldo, e dove gli animali gli tenevano compagnia.
Una mattina all’alba, il boscaiolo Tobia si avviò nel bosco per abbattere gli alberi che servivano a preparare il legno necessario per la costruzione del letto. Per fortuna era di buon umore, perchè proprio quel giorno i folletti, i nanetti e le altre creature del bosco erano in vena di scherzi, anche più del solito.
Tobia li conosceva bene, e quindi non si stupì quando vide il primo tronco abbattuto muoversi da solo. Quando poi era pronto ad abbattere un secondo albero, la sua scure era sparita, e solo dopo lunghe ricerche la trovò nascosta tra i rami di un pino.
continua nelle pagine seguenti (segui i numeri delle pagine):
Una canzoncina per sillabare e una filastrocca, per bambini della scuola primaria, con testo, spartito stampabile e traccia mp3.
Sillabare
Sillabare è un giocherello, che non stanca il tuo cervello
quando ad ERRE aggiungo un’A, fo una sillaba che è RA;
a GI ed ELLE aggiungo un’I, ho una sillaba che è GLI;
or se RA e GLI riuniamo, la parola RAGLI abbiamo
Dunque RAGLI è risultato da due sillabe formato
con due sillabe bel bello, RAGLIA RAGLIA l’asinello
son tre sillabe in BEL LEZ ZA
e son quatto in GEN TI LEZ ZA
or da solo puoi spezzare le parole e sillabare.
Pensa Mila fra di sè: “No, difficile non è
ora provo a frazionare le parole e sillabare
questo è proprio un giocherello
che non stanca il mio cervello”.
Una canzoncina per sillabare – testo
T A: ta
T E: te, ta te
T I: ti, ta te ti
T O: to, ta te ti to
T U: tu, ta te ti to tu
Una canzoncina per sillabare – spartito e file mp3 qui:
Alfabeto illustrato steineriano: ogni lettera illustrata con un oggetto che inizia con la lettera scelta, ma che anche richiama la forma della lettera nella sua forma stessa.
A angelo
B bambola
C culla
D drago
E elicottero
F falce
G grotta (gnomo)
H è muta
I io
L letto
M montagne
N nano
O orologio
P pipa
Q quadro(quattro)
R ruota
S serpente
T tavolo
U uva
V valle
Z zaino
Come vedete, lo sforzo è quello di cercare un elemento che richiami nella forma e nel suono iniziale del suo nome, la forma della lettera…
Per la lettera A usiamo l’angelo. Ricordo però che generalmente le vocali sono presentate a parte, evocando il sentimento e richiamando alla forma del suono nell’euritmia, e non solo la forma della lettera:
La geometria euclidea. Lui era un eccentrico matematico, ingegnere civile meccanico e militare che lavorò come geometra della Regina Vittoria alle Isole Falkland. Ma scrisse anche Freedom to Ireland (da protestante), pubblicato a Boston.
Fu anche inventore di apparecchiature meccaniche quali il byrnegrafo, uno strumento per moltiplicare, dividere e comparare linee, angoli, figure piane e solidi.
Si trova nel web (diritti d’autore scaduti) qui , oppure si può comprare la ristampa (cofanetto di velluto nero della Taschen), anche in formato ebook.
E’ un superbo esempio di book design vittoriano, notevole per il suo approccio sperimentale al colore e al disegno, usati al posto delle lettere nelle dimostrazioni: come recita il titolo stesso si tratta dei “Primi sei libri degli elementi di Euclide, nei quali diagrammi colorati e simboli sono usati al posto delle lettere per facilitare l’apprendimento”.
Colori e forme si sostituiscono al linguaggio tradizionale della geometria. Oliver Byrne concepì questa edizione di Euclide come un sistema completamente nuovo per imparare la geometria e determinò che usando i colori invece delle lettere uno studente può imparare le teorie di Euclide in meno di un terzo del tempo.
Byrne era anche un insegnante, e il libro, trattando dei primi sei volumi degli “Elementi di geometria” di Euclide, copriva tutti gli argomenti del curriculum di studi matematici di base degli studenti del tempo. In realtà c’è della poesia nel fatto che da un punto di vista di didattica della matematica è un libro assolutamente inutile, e da un punto di vista più generale pure anacronistico, venuto già dopo Lobacevskij e Janos Bolyai.
Lo scopo dichiarato del libro era quello di ridurre al minimo il testo scritto, e dare una forma visuale alle informazioni.
Il risultato? Composizioni geometriche sorprendentemente moderne: una combinazione di blu brillante, rosso, giallo completamente integrati col nero della stampa in tutto il libro.
Gli unici elementi che possono riportare alla sua vera età, in alcune pagine, sono le lettere iniziali dei paragrafi, tipicamente di epoca vittoriana.
Colpisce oggi perchè appare come un precursore del De Stijl, ad esempio.
E’ il primo caso, così possiamo dire oggi, di uso sofisticato della metafora visuale per trasmettere informazioni.
Riflette anche i grandi progressi della stampa nel diciannovesimo secolo, un periodo nel quale l’uso dei colori si è notevolmente incrementato grazie alle numerose innovazioni tecnologiche e produttive.
Realizzato alla Chiswick Press per William Pickering, il libro deve moltissimo anche all’abilità di un grandissimo stampatore, Charles Whittingham. Uno bravo.
Il registro di stampa dei colori primari è privo di difetti e la composizione su ogni singola pagina è da considerarsi unica nel panorama editoriale del tempo.
Il processo di stampa è stato molto complicato, se si considerano non solo le aree di colore, ma anche tutti i particolari interni ad esse, ed il fatto che era assolutamente necessario che il posizionamento dei blocchi per le stampe successive fossero registrati in modo perfetto, così che angoli e linee combaciassero senza difetti.
E Whittingham non solo realizzò tutto questo, ma anche compose pagine elegantissime ed equilibrate.
Il libro è stato riscoperto grazie all’interesse di studiosi come Mc Lean (Victorian book design’ del 1963) e Tufte (‘Envisioning Information’ del 1990).
Un libro davvero insolito. E davvero bello, Euclide a parte. Di fatto precorre i tempi dell’arte. E basta guardarlo. Anche se si è trattato di un incidente.
Augustus De Morgan, matematico, scrisse di Byrne una critica ferocissima (A Budget of Paradoxes) descrivendolo come una sorta di fachiro, inventore di macchine fraudolente, persona dedita alla quadratura del cerchio, scrittore di libri sulle macine e inutili testi di matematica. Al meglio, secondo De Morgan, l’Euclide di Byrne è un libro curioso.
Ma inutile e curioso, non significa certo che non possa essere attraente e bellissimo, e il libro di Byrne potrebbe essere candidato come peggior libro di geometria e libro più bello.
L’approccio che Byrne tentò fu in fondo quello di semplificare la geometria attraverso l’arte. Piet Mondrian, che fu uno dei primi a praticare un’arte non rappresentativa, usò disegni geometrici per riclassificare tutti i dati dell’esperienza all’interno delle sensazioni suscitate dai colori e dalle forme.
Mondrian utilizzò strumenti per re-identificare la natura che sono gli stessi che Euclide sviluppò per classificare la struttura del mondo.
Questo è il suo “Composizione con rosso, giallo e blu” del 1930, ma prima di lui altri artisti furono pionieri della non-rappresentazione e creatori di un’estetica matematica rivolta alla liberazione degli oggetti: citiamo primo fra tutti Kandinsky, ma anche Umberto Boccioni (1912), Frank Kupka (1913), Olga Rozanova (1913), Liubov Popova (1914), Felix del Marle (1914). Ma soprattutto Kasimir Malevich.
Malevich comincia questo lavoro intorno al 1910, e risalgono al 1913 opere quali “Samovar”, nel quale l’oggetto è sezionato e si muove in luoghi diversi.
Ma è nel 1915 che, con “Black and red Square” arriviamo alla totale rimozione della rappresentazione dell’oggetto.
Arriviamo all’invisibilità, all’arte di scegliere intenzionalmente di oscurare il soggetto noto.
“Il mio lavoro non ha uno scopo meramente illustrativo” scrive Byrne , ” e i colori non sono introdotti con propositi di intrattenimento, ma per assistere la mente nell’atto di cercare la verità, per incrementare l’immediatezza della comprensione e il consolidamento delle conoscenze.”
Poesie per salutarsi prima della campanella in uso nella scuola steineriana, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Di lavorare ho terminato
riposi adesso quel che ho imparato
e viva nel profondo del mio cuore
per darmi luce, saggezza e amore
perch’io sia buono nel profondo
per tutti gli uomini e per il mondo.
Chiocciola
Chiocciolina chiocciolina
vieni dentro alla casina
che se dentro tu verrai
bello il mondo sognerai. si parte in cerchio per mano, l’insegnante lascia la mano di un bambino e guida la fila a formare una spirale verso l’interno Chiocciolina chiocciolina
vieni fuor dalla casina
che se fuori tu verrai
bello il mondo tu vedrai. il bambino più esterno, il “capofila” guida tutti a sciogliere la spirale e si riforma il cerchio.
Chi entra in questa casa porti amore
chi vi sta dentro cerchi conoscenza
chi ne esce porti pace nel suo cuore
Perchè siamo scesi dal cielo?
Non era più bello restare
tra nuvole d’oro, fra stelle,
fra gli angeli in coro a cantare? spirale verso l’interno, per mano Sì, certo, ma è solo qui in terra
che io posso imparare
a voler diventare
un libero uomo
capace di fare. spirale verso l’esterno, per mano, poi cerchio
Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Poesie e filastrocche del mattino, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Alba nel mio giardino
O l’alba luminosa del mio giardino…
il sole brilla, gli uccelli cantano…
io scendo in giardino, e sono felice e contento
quanti fiori odorosi… quanta freschezza!
Che bellezza nel mio giardino…
i meli hanno già le foglie verdi
con dei piccoli fiori bianchi che si aprono.
Il fico alza le foglie larghe nell’aria.
Le acque zampillano da ogni parte.
Le farfalle si posano leggere sui fiori.
Ah! che gioia entrare in quel giardino! (Agur)
Io sono Io sono
cammino
più forte che posso
io salto, io salto, io salto
e m’arresto.
Io salto sul muro
raggiungo la torre
e suono le campane
che suonano a stormo.
Lontano ed ampio
ampio e alto
ancora più ampio
io sono.
Scuoletta
La scuoletta tutta bella
del paese piccolino
fa suonar la campanella
ch’è al muretto del giardino.
Chiama, squilla, canta, invita!
Non lo vedi che, a star cheta,
la catena è arruginita?
Hedda
Campanella
Cara voce, campanellina
che dormivi dimenticata
finalmente ti sei svegliata
e rallegri la mattina.
Pallido il sole; giù dai rami
qualche foglia lenta vola;
campanellina della scuola
ma tu canti, ma tu chiami.
Scolarine, scolaretti,
già si affrettano ai cancelli
così lieti, così belli:
uno stuolo d’uccelletti.
D. Rebucci
Io vengo dalle stelle
Io vengo dalle stelle
che proteggono i miei pensieri
io vengo dalla terra
che sostiene i miei passi
io offro il mio cuore
al mondo intero.
Cose belle
Nell’aria gli uccellini,
nell’acqua i pesciolini
in terra i frutti e i fiori,
di splendidi colori
in cielo tante stelle,
ah, quante cose belle.
C’è gioia
C’è gioia nell’acqua che scorre
nel vento che corre
nel fuoco che brilla
nel canto che trilla
c’è gioia nel fiore che sboccia
in tutto è la gioia, la vita
che freme infinita
che ride, che chiama
che palpita ed ama.
Nel cielo stellato
Nel cielo stellato,
che guardo ammirato
nel sasso nel fiore,
ti vedo o Signore
nell’essere mio,
ti sento buon Dio
mi accendi nel cuore,
per tutto l’amore.
Ammirare il bello
Ammirare il bello,
difendere la verità
venerare ciò che è nobile,
decidere il bene
ciò conduce l’uomo,
alle mete nella vita
al giusto nelle sue azioni,
alla pace nel suo sentire
alla luce nel suo pensare,
e gli insegna a confidare
nel governo divino
in tutto ciò che è
nell’universo
in fondo all’anima.
(Rudolf Steiner)
Le montagne
Le montagne sono silenziose e immobili.
Nel loro silenzio, nella loro quiete
parlano della tua grandezza
aiutami ad essere quieto e silenzioso
come una montagna
seduto in silenzio
per ascoltare la tua voce.
Il sole
“Dimmi bel sole”
chiede il bambino
“Che fai levandoti presto al mattino?”
Risponde il sole: “Spengo le stelle
che della notte sono fiammelle.
Fasci di rose spargo sul mare
tutta la terra vado a destare.
Bacio coi raggi fiori e uccellini
batto ai balconi
sveglio i bambini”
Del sol l’amata luce
Del sol l’amata luce,
il giorno a me rischiara
dell’anima la forza,
agli arti dà vigore
nello splendor solare,
onoro o Dio la forza
che tu benevolmente,
nell’anima ponesti
che io sia laborioso,
di apprendere desioso
nascon così da te,
la luce ed il vigore
fluisca ognor a te,
riconoscenza e amore.
(Rudolf Steiner)
Sole che porti la notte e il giorno Sole che porti la notte e il giorno
lieto saluto il tuo ritorno
sotto il tuo raggio crescon le piante
sotto il tuo raggio sbocciano i fiori
tutti vestiti di bei colori
nella tua luce vola l’uccello
pascon sui monti pecora e agnello
l’ape ronzando raccoglie i succhi
per dare il miele a tutti, a tutti
ed io bambino, t’apro il mio cuore
perchè v’accenda luce e calore
come te sole, forte e giocondo
vorrei irradiarli in questo mondo.
Pura
Pura come l’oro più fino
forte come la roccia
limpida come il cristallo
sia l’anima mia.
(Silesio)
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Noccioli di ciliegia, pula di farro e semi di lino. I noccioli di ciliegia sono da sempre utilizzati per le loro proprietà curative, grazie alla capacità di accumulare il caldo o il freddo e di rilasciarli molto lentamente, poiché ogni nocciolo ha al suo interno una naturale camera d’aria.
Il legno dei noccioli di ciliegia è così un ottimo conduttore termico e mantiene la temperatura a lungo senza però trattenere umidità.
Quindi sia il caldo sia il freddo rilasciati sono assolutamente secchi.
Un’antica tradizione che vive ancora oggi per curarsi in modo semplice ed in armonia con la natura.
Questi cuscini consentono una distribuzione uniforme del calore e del freddo.
Sono prodotti con materiali naturali al 100% e sono biodegradabili.
Sono molto adatti anche ai bambini.
Sono prodotti naturali, che si impongono per la loro geniale semplicità e durano molti anni.
I cuscini di noccioli di ciliegia sono inoltre un ottimo supporto che esercita funzione di massaggio.
La loro semplicità d’uso permette di utilizzarli in vari momenti della giornata: possiamo approfittare del loro calore mentre guardiamo la tv, stiamo al computer, leggiamo un libro o mentre siamo comodamente sdraiati.
Cuscino con noccioli di ciliegia: uso caldo
Introdurre il cuscino per 10 o 15 minuti nel forno preriscaldato a 100°,se si vuole salvaguardare la stoffa da eventuali bruciature, lo si può avvolgere in un foglio di carta alluminio.
Utilizzando il forno a microonde sono sufficienti 2 o 3 minuti a temperatura media, ponendo il cuscino nel forno così com’è…
Si può anche utilizzare un termosifone.
Se si utilizza una stufa, porre il cuscino in una pirofila coperta per il tempo desiderato.
In ogni caso controllare la temperatura prima di usare con i bambini.
Ha un effetto rilassante in caso di tensioni, dolori cervicali, mal di schiena, crampi addominali, nervosismo e stress, disturbi del sonno, dolori mestruali, cefalee da tensione, colpo della strega, sciatalgie, dolori dovuti a stress, traumi, stanchezza, cattiva postura, o più semplicemente in sostituzione della borsa di acqua calda.
Ottimo nel trattamento dei dolori cervicali causati da raffreddamenti da aria condizionata.
Si usa in sostituzione della borsa per l’acqua calda, per riscaldare mani e piedi.
Utile per il riscaldamento dei muscoli prima dei massaggi. Ottimo per riscaldare la carrozzina o il lettino dei bambini.
Aromaterapia: le qualità dei noccioli di ciliegia caldi si associano stupendamente alle virtù dell’aromaterapia.
Porre l’olio essenziale scelto sul cuscino già riscaldato.
Cuscino con noccioli di ciliegia: uso freddo. Introdurre il cuscino per almeno 2 ore nel congelatore, avendo cura di proteggerlo all’interno di un sacchetto di nylon per evitare che il tessuto si bagni.
È utile in caso di emicrania, vene varicose, punture di insetti, infiammazioni, stiramenti, distorsioni, slogature, contusioni, gonfiore, mal di denti.
Ottimo in caso di febbre in sostituzione della borsa del ghiaccio. Utile contro i colpi di calore e molto piacevole per regalarsi un po’ di refrigerio durante i caldi giorni d’estate.
Conservazione e lavaggio dei cuscini.
I cuscini ai noccioli di ciliegie sono prodotti puramente naturali.
Conservateli perciò in un luogo fresco e asciutto. Pulite i cuscini di tanto in tanto riscaldandoli per 3 minuti nel forno a microonde oppure per 15 minuti nel forno preriscaldato a 100° C.
Possono essere lavati anche immergendo il cuscino per un’ora in acqua fredda, quindi procedendo col lavaggio a mano o in lavatrice a 40° con sapone neutro.
Bisogna che poi vengano asciugati molto bene.
Esempi di applicazione della termoterapia con noccioli di ciliegia
Dolori della colonna vertebrale Luogo di applicazione: zona sacrale
Indicazioni terapeutiche: tensioni muscolari e dolori nella zona sacrale
Obiettivo della terapia: rilassamento della muscolatura e alleviamento dei dolori
Metodo di trattamento: applicare il cuscino ai noccioli di ciliegie caldo, da 1 a 3 volte al giorno, per 10 minuti in posizione comoda e rilassata supina o addominale.
Tensioni della zona cervicale Luogo di applicazione: zona cervicale e muscoli adiacenti
Indicazioni terapeutiche: tensioni muscolari in caso di sovraccarico e postura errata
Obiettivo della terapia: rilassare e allentare la muscolatura
Metodo di trattamento: applicare il cuscino ai noccioli di ciliegie caldo, da 1 a 3 volte al giorno per 10 minuti in posizione comoda e rilassata.
Distorsioni e contusioni Luogo di applicazione: parte del corpo lesa.
Indicazioni terapeutiche: lesioni tipo distorsioni, contusioni e strappi muscolari, nella fase acuta (da 0 a 3 giorni)
Obiettivo della terapia: diminuzione del dolore, evitare il gonfiore delle parti molli
Metodo di trattamento: applicare il cuscino ai noccioli di ciliegie freddo per 10 minuti. Ripetere l’applicazione in caso di forte gonfiore.
Si consiglia di tenere contemporaneamente la parte interessata in posizione elevata e immobilizzata.
Crampi addominali Luogo dell’applicazione: regione addominale
Indicazioni terapeutiche: crampi addominali in assenza di febbre e vomito
Metodo di trattamento: applicare il cuscino ai noccioli di ciliegie caldo, da 1 a 3 volte al giorno, per 10 minuti sulla pancia in posizione comoda, semiseduta e rilassata con le gambe piegate verso l’addome.
Per il trattamento di neonati o bambini piccoli è consigliato un periodo d’applicazione massimo di 5 minuti.
È possibile ripetere più volte l’applicazione.
Per procurarsi i noccioli di ciliegia, la via più semplice è l’acquisto online da cherrystones.it
Per la quantità di noccioli in relazione alle dimensioni, considerate che se imbottite troppo, il cuscino risulterà troppo rigido e perderà la sua caratteristica di adattabilità al corpo e la sua funzione di massaggio; indicativamente:
un sacchetto di noccioli di ciliegia 25x25cm pesa circa 700g;
un sacchetto di noccioli di ciliegia 33x28cm, 1kg;
una fascia imbottita con noccioli di ciliegia, 20x65cm, pesa 800g;
se preferite confezionarla in maglina, senza cuciture per distribuire in modo fisso i noccioli, un tubo lungo 150cm pesa 900g: l’elasticità del tessuto consente di legarsela a tutte le parti del corpo che necessitano di applicazioni calde o fredde.
Piccoli sacchettini imbottiti con noccioli di ciliegia (15x15cm), sono particolarmente comodi per essere usati in sostituzione del ghiaccio nei piccoli incidenti domestici e per abbassare la febbre: basta tenerne qualcuno sempre pronto nella ghiacciaia, all’interno di un sacchetto di plastica. Consigliatissimo se avete bambini in casa…
Pula di farro – pula di farro e fiori di lavanda
Il cuscino in pula di farro è consigliato a tutti, in particolare è indicato per emicranie e mal di testa, mal di schiena, disturbi del sonno, della gravidanza, dolori mestruali, reumatismi, terapia del dolore della cervicale, contrazioni muscolari in genere, problemi di irrorazione sanguigna, disturbi della colonna vertebrale ed infiammazioni.
Il cuscino non è soggetto alla formazione di acari per via della composizione stessa della pula, consentedone l’utilizzo anche a chi soffre di allergie.
La pula di farro per imbottire viene utilizzata intera: nel processo di estrazione del chicco non viene battuta e rotta.
Questo permette di avere un cuscino morbido e molto resistente nel tempo.
La pula intera produce un effetto cuscinetto ed è come avere tante molle massaggianti. Infatti, dopo la lavorazione, la pula rimane integra e vuota al suo interno formando una miriade di piccolissimi cuscini d’aria con elevate caratteristiche di elasticità, che assecondano ogni movimento, consentendo alla muscolatura di distendersi ed al sangue di irrorare meglio i tessuti.
Per l’elevata porosità dell’imbottitura il cuscino in pula di farro non causa sudorazione, lasciando inalterata la temperatura corporea. Quando l’imbottitura è arricchita coi fiori di lavanda, favorisce ancora di più il rilassamento.
Come i noccioli di ciliegia, anche i cuscini di pula di farro possono essere riscaldati o refrigerati.
Grazie alla natura di cui è composta, la pula di farro è in grado di assorbire e trattenere il calore e di rilasciarlo lentamente.
Possono essere posti nel forno a microonde a media temperatura (1-2 minuti), oppure sul calorifero o vicino ad una fonte di calore.
I cuscini devono essere periodicamente sprimacciati per riattivare le fibre della pula e gli aromi.
Non vanno lavati, ma devono essere esposti al sole o messi periodicamente qualche minuto nel forno a microonde.
Questi cuscini sono molto utili anche a casa, ad esempio per migliorare la seduta dei divani o appoggiati al guanciale per leggere comodamente a letto.
Sono particolarmente indicati come sostegno posturale, anche perchè con la pressione si adattano alla forma del corpo e consentono di trovare facilmente la posizione ideale.
Per questo sono particolarmente apprezzati da chi pratica lo yoga, sia in forma di neckroll per il rilassamento e il massaggio, sia in forma di cuscino mezzaluna per sostenere il coccice ed abbassare il livello delle caviglie, che possono essere portate vicino al corpo mantenendo la colonna vertebrale in posizione eretta.
Per acquistare:
– la pula di farro e i fiori di lavanda www.cherrystones.it
I semi di lino, confezionati in piccoli sacchetti rettangolari, possono essere usati come maschere per gli occhi: col loro peso calmante riposano gli occhi, soprattutto se usati freddi e abbinati ai fiori di lavanda.
Il lino è conosciuto da tempi antichissimi e da sempre viene impiegato anche per scopi curativi, per l’applicazione sia interna sia esterna: i semi di lino erano utilizzati già dagli antichi medici che seguivano la dottrina di Ippocrate.
L’applicazione dei cuscini con semi di lino caldi risulta particolarmente utile in caso di bronchiti, raucedini ed eccesso di catarro.
I semi di lino però non vanno mai riscaldati eccessivamente, perchè rischiano di perdere il loro preziosissimo olio.Nel caso di piccole coliche nei neonati, possono essere applicati tiepidi sul pancino per dare sollievo.
Le applicazioni calde con semi di lino sono da sempre usate anche per risolvere più velocemente ascessi, foruncoli ed infiammazioni cutanee.
Come i noccioli di ciliegia possono essere utilizzati in sostituzione della borsa dell’acqua calda o del ghiaccio.
Per acquistare i semi di lino biologici www.tibiona.it .
La lana cardata. La lana è una fibra tessile naturale. Gli animali da cui si ricava sono:
– la pecora merinos: razza definita in Spagna intorno al XII secolo a partire da un lavoro secolare di selezione. Attualmente allevata in modo estensivo in Australia, Sud America e Sudafrica, produce una lana molto fine e pregiata;
– la pecora di razze indigene: hanno pelo più grossolano, usato tradizionalmente per la confezione di materassi e tappeti; la capra d’Angora, allevata in Turchia, Sudafrica, Stati Uniti dalla quale si ottiene la lana mohair;
– la capra del Cashmere, originaria del Kashmir (Tibet) diffusa anche in India, Cina, Iran, Afghanistan dalla quale si ricava una lana molto pregiata; l’alpaca, un tipo di lama che vive sulle Ande;
– la vicuña o vigogna, altro tipo di lama delle Ande peruviane;
– il cammello, sia quello asiatico sia i dromedari africani;
– il coniglio d’angora, che produce l’angora.
Esiste inoltre anche la lana refino, di origine britannica, dotata di notevole elasticità, calore e traspirabilità.
La fibra di lana è costituita da una sostanza proteica, la cheratina, ed ha una lunghezza tra i 2 e i 40 cm.
Nell’analisi microscopica si può notare che longitudinalmente si presenta con delle caratteristiche scaglie che ne ricoprono la superficie esterna, mentre la sua sezione è di tipo circolare, e presenta numerose ondulazioni elastiche, origine della caratteristica arricciatura.
Scarsa invece la resistenza alle sollecitazioni meccaniche, caratteristica che viene sfruttata per produrre il feltro.
Infatti, manipolando la lana in presenza di acqua acida o basica, (la lana presenta un carattere anfotero, cioè si comporta come una base in presenza di acidi, e come un acido in presenza di basi), le scaglie prima si aprono e poi si saldano fra di loro richiudendosi e producendo un tessuto non tessuto meno morbido della lana, ma altamente resistente ed impermeabile, e che può essere facilmente modellato.
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La lana cardata La materia prima si ottiene attraverso le operazioni di tosatura, ovvero di taglio del pelo, che per le pecore avviene in primavera.
La lana che se ne ottiene viene definita lana vergine. La finezza (o diametro delle fibre) è l’elemento di maggiore rilievo per valutare la qualità di una lana e, come la lunghezza, dipende dalla zona di prelievo del vello (fianchi, ventre, spalle ecc..).
La lana di prima qualità è quella che ricopre il dorso dell’animale, perchè è più morbida e composta da fibre più sottili, resistenti ed elastiche.
L’industria inoltre riutilizza la lana ricavata dagli scarti di produzione; si parla in questo caso dilana rigenerata.
Prima di essere utilizzata la lana appena tosata deve essere lavata, anche per eliminare parzialmente la sostanza untuosa che la riveste, la lanolina.
Si procede quindi all’eventuale tintura, che è il momento più impegnativo e lungo di tutta la lavorazione, ma anche uno dei più creativi, soprattutto se si utilizzano tinture naturali.
Dopo il lavaggio e la tintura, la lana deve essere cardata, cioè pettinata: anticamente la cardatura avveniva utilizzando proprio i cardi. Lo scopo di questa operazione è quello di pulire la lana dalle impurità rimaste, sciogliere i nodi, districare ed allineare le fibre.
Perchè i laboratori di lana cardata coi bambini
La lana cardata colorata, in tedesco marchenwolle, (lana delle fiabe) ed in inglese magic woll, è un materiale di una straordinaria espressività, che porta davvero ad immergersi in un mondo magico e fiabesco.
La lana cardata colorata o naturale che utilizziamo è di due tipi principali: in vello o in matassa.
La lana cardata conta numerosissime varietà, ma essenzialmente le “grandi famiglie” sono due: la lana in vello e la lana in matassa.
Questa è la lana in matassa, che si presenta con fibre lisce e lunghe, ed è adatta in particolare al modellaggio di angeli, personaggi, per tutti i lavori da realizzare con la tecnica ad avvolgimento, ed è molto bella anche per realizzare quadri, ma si presta poco all’infeltrimento.
Questa è la lana cardata in vello, presenta fibre corte e ricce, ed è particolarmente adatta all’infeltrimento, pur essendo bellissima anche utilizzata per il modellaggio “a secco”.
La sua manipolazione è un’esperienza sensoriale che coinvolge il tatto e la vista, ma non solo.
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E’ leggera, soffice, colorata, senza confini, i suoi colori vanno sempre ma proprio sempre d’accordo tra loro e col mondo che sta attorno, permette di esplorare il colore libero dalla forma, dagli intellettualismi, è facile e coinvolge l’anima.
E’ impossibile che possano nascere cose brutte, e soprattutto per i bambini questo ha un altissimo valore pedagogico, ed arricchisce sia quei bambini abituati a guardare “quelli bravi” da lontano, sia “quelli bravi” che possono finalmente anche loro liberarsi della loro etichetta.
Le immagini di seguito si riferiscono ad attività svolte coi bambini, anche se l’obiettivo del lavoro insieme non è tanto il “prodotto finito”, quanto la qualità del processo e il coinvolgimento del bambino nell’esperienza….Ci si trova, poi si partecipa al racconto di una fiaba, e quindi si passa alla sperimentazione…
Durante questo genere di laboratorio con la lana cardata i bambini possono ad esempio realizzari dei quadri ispirati dal racconto di una fiaba. La settimana successiva riceveranno il loro libro con la copertina in lana cardata fatta da loro e la storia intervallata da pagine bianche per disegnare.
Durante il laboratorio, tutto il materiale è disposto al centro del tavolo, e i bambini collaborano tra loro alla ricerca del “colore giusto” che serve a un compagno…
Preparato l’ambiente, l’intervento degli adulti durante il processo creativo dei bambini è praticamente nullo.
Fare il feltro coi bambini è un’esperienza molto intensa. Qui potete ammirare alcuni dei capolavori dei nostri piccoli grandi artisti, realizzati durante i laboratori…Ecco alcuni esempi di “lavori finiti”:
Pezze di feltro realizzate durante un laboratorio che ha coinvolto bambini di età compresa tra i quattro e i sei anni con la tecnica dell’infeltrimento con acqua e sapone. Il processo è lungo e anche abbastanza faticoso (soprattutto nella fase della follatura), però la soddisfazione finale è più che proporzionata al lavoro fatto…
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Al termine di un laboratorio, dove i bambini avevano realizzato delle pezze di feltro, le ho cucite su delle borsette in stoffa, che ora loro usano per la merenda di scuola, per i giochi da portare in auto durante i viaggi lunghi, ecc…
Altri esempi:
E’ molto importante che quello che i bambini realizzano abbia un valore e una possibilità d’uso. Quello che fanno i bambini non è mai un passatempo, ma è sempre un’attività sensata, e noi li vogliamo rispettare.
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Oggetti in lana cardata per i bambini
Ghirlande in lana cardata molto poetiche, con soggetti ispirati alle immagini delle fiabe, al ciclo degli stagioni, agli esseri magici (gnomi, fatine, maghi e streghette, Madre Terra, …) alle feste dell’anno (Natale, San Martino, Mago Gelo, Pasqua,…), ai lieti eventi (nascite).
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Si possono anche realizzare inserendo un carillon e prendendo spunto per il soggetto delle fiabe e dei racconti della buonanotte. Il carillon è nascosto all’interno dell’oggetto e tirando la cordicella si può sentire un suono molto addolcito dalla presenza della lana, che accompagna il bambino tra il bacio della buonanotte e la nanna.
Animali vari:
Mobiles
realizzati in lana cardata colorata, spesso combinata con rami di nocciolo contorto o altri materiali naturali. I soggetti traggono spunto unicamente dalla fantasia o dalle indicazioni dei bambini. I mobiles sono composizioni con figure che si muovono spontaneamente, e in modo lento e imprevedibile, essendo appese su fili trasparenti; i vari elementi che lo compongono riescono così a mostrarsi sempre uguali eppure sempre sottilmente diversi. Si tratta di immagini molto adatte al modo che i bambini hanno di percepire il mondo: per questi li trovano molto interessanti e se ne lasciano naturalmente affascinare.
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Gnomi
Questi in particolare sono pensati come decorazioni per la casa, e non come giochi: cosa che li rende un po’ intoccabili e ancora più magici. Hanno varie dimensioni, da quelli più grandi (gli Gnomi della Casa) che di notte nascondono quello che nelle case non si trova più (chissà, forse le forbici della cucina…), a quelli più piccoli, che magari regalano pietre preziose nelle notti di luna piena, se il bambino si ricorda di lasciar loro qualche briciola di pane.
John Cage studia pianoforte da maestri privati da ragazzino. Studia la musica dell’800 e si interessa alla tecnica del virtuosismo pianistico.
Con il passare del tempo diventa sempre più sperimentale, usa la tecnica seriale, sia di tipo dodecafonico, sia con delle serie da lui stabilite, ad esempio con una serie basata su 25 note.
Nel 1940 gli viene commissionata una musica per il balletto Bacchanale. Qui per la prima volta sperimenta la tecnica del “piano preparato”, piazzando una piastra di metallo sulle corde, così da modificare il timbro dello strumento e produrre suoni percussivi.
Nei pezzi per piano preparato si inseriscono tra le corde del pianoforte svariati oggetti, di modo che l’esecutore produca suoni che non sono del tutto volontari.
È uno studio sulla casualità del timbro: il compositore indica la preparazione dello strumento ma non decide completamente il risultato sonoro della sua opera. Si generano suoni che suggeriscono il suono prodotto da un’orchestra di percussioni. È una provocazione nei riguardi dell’inviolabilità degli strumenti classici. Il pianoforte, strumento romantico per eccellenza, viene violentato con oggetti di uso quotidiano, la tradizione europea sbeffeggiata.
Please Play or The Mother, the Father or the Family, 1989 Installazione: pianoforte e tessuti. Fondazione Mudima, Milano.
Cage basa la costruzione musicale sulla struttura ritmica, sulla successione delle durate. Esplora anche il campo dei rumori. Prova nuovi tipi di strumenti, soprattutto percussioni. Conduce esperimenti con la musica elettronica. Utilizza formule matematiche per strutturare la composizione, ad esempio i rapporti basati sulla “sezione aurea” (1 : 1,618).
Tra il 1946 e il 1948 scrive il suo lavoro per piano preparato più acclamato: Sonatas and interludes. Sono venti pezzi, sedici sonate e quattro interludi, in cui Cage porta ad un livello di maggiore complessità la sua tecnica basata sulle proporzioni ritmiche: la struttura di ogni pezzo è definita da una serie di numeri, e allo stesso modo anche le parti di ogni pezzo sono definite matematicamente.
Il processo compositivo è basato largamente sull’improvvisazione e sull’esplorazione delle varie possibilità: Cage ha scritto di averlo composto suonando il piano, sentendo le differenze e facendo una scelta. È il pezzo per piano preparato in cui la preparazione dello strumento è più complessa: ci sono 45 note preparate attraverso l’inserimento di bulloni, pezzi di gomma, pezzi di plastica e noci.
Nella seconda metà degli anni ’40 si interessa alle culture orientali: alla musica e alla filosofia indiana e al Buddhismo Zen.
Lo Zen diventa un’ impostazione filosofica con cui ridiscutere il concetto di musica. La musica viene considerata affermazione della vita, un modo per vivere veramente la nostra vita. Il concetto fondamentale è la mancanza di fini, di scopi, di intenzioni: bisogna meditare sul vuoto.
In questo periodo visita la camera anecoica dell’università di Harvard, una stanza insonorizzata in cui poter “ascoltare il silenzio”. Cage invece riesce a sentire dei suoni, i suoni del suo corpo: il battito del cuore, il sangue in circolazione. Ciò che ne ricava è la consapevolezza dell’impossibilità del silenzio assoluto.
Il silenzio è una condizione del suono, è materia sonora: sottolinea e amplifica i suoni, li rende più vibranti, ne preannuncia l’entrata, crea suggestivi effetti di attesa e sospensione. Il silenzio è un mezzo espressivo, è pieno di potenziale significato.
Nel 1952, anche in seguito all’esperienza nella camera anecoica, compone 4’33”, per qualsiasi strumento.
L’opera consiste nel non suonare lo strumento. La sostanza esecutiva dell’opera è un’operazione teatrale più che musicale.Il titolo dell’opera (4 minuti e 33 secondi: vale a dire 273 secondi) è forse un richiamo alla temperatura dello zero assoluto (–273,15 °C).
Il significato del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione. La rinuncia alla centralità dell’uomo. Il silenzio non esiste, c’è sempre il suono. Il suono del proprio corpo, i suoni dell’ambiente circostante, i rumori interni ed esterni alla sala da concerto, il mormorio del pubblico se ci si trova in un teatro, il fruscio degli alberi se si è in aperta campagna, il rumore delle auto in mezzo al traffico.
Cage vuole condurre all’ascolto dell’ambiente in cui si vive, all’ascolto del mondo. È un’apertura totale nei confronti del sonoro. Una rivoluzione estetica: è la dimostrazione che ogni suono può essere musica. Io decido che ciò che ascolto è musica. È l’intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha cambiato l’atteggiamento nei confronti del sonoro, ha messo in discussione i fondamenti della percezione.
Cage ha detto: “Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore a 4’33” come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo”.
Uno dei modelli di 4’33” è Robert Rauschenberg, il pittore amico di Cage che nel 1951 produsse una serie di quadri bianchi, che cambiano a seconda delle condizioni di luce dell’ambiente di esposizione.
La musica aleatoria crea un problema a livello critico. Come si può criticare un’opera che non è il frutto del lavoro intenzionale di un autore? Si conclude che il lavoro di Cage è un lavoro filosofico, che la sua importanza sta nelle idee, non nel risultato musicale di queste idee. Si pensa che i risultati di queste idee siano uguali l’uno all’altro dal punto di vista stilistico, come delle serie di numeri presi a caso. Ma Cage è un compositore e ha una sensibilità, uno stile musicale, che cambia con gli anni.
Cage si pone delle domande quando decide di comporre con tecniche casuali e se il risultato, la risposta che riceve da queste domande non lo soddisfa, cambia le domande.
Il silenzio è una condizione del suono, anzi, è il più sublime dei suoni. E’ materia sonora a tutti gli effetti, sottolinea e amplifica i suoni, li rende più vibranti, ne preannuncia l’entrata, crea suggestivi effetti di attesa e sospensione, può addirittura invadere il linguaggio.
In una lettera datata 2 ottobre 1893, Claude Debussy scriveva un po’ timidamente: “Mi sono servito di un mezzo che mi sembra assai raro, del tutto spontaneamente; cioè del silenzio, come mezzo espressivo e forse come modo per fare risultare l’espressione di una frase”.
Il silenzio, il non detto, sono dunque pieni di potenziale significato, e non soltanto in musica. Purtroppo però, almeno nella maggior parte del mondo occidentale, il silenzio viene utilizzato assai raramente, perché ha un valore negativo e viene generalmente associato alla morte. I suoni, i rumori, ci ricordano invece di non essere soli, di essere vivi: rimuoviamo la morte facendoci sommergere dal rumore. Abbiamo paura della mancanza di suoni così come abbiamo paura della mancanza di vita.
Per fortuna però, periodicamente, nel corso del Novecento da Claude Debussy arrivando fino a Salvatore Sciarrino (Cantare in silenzio), e senza dimenticare naturalmente Gian Francesco Malipiero (Le pause del silenzio del 1917), Helmut Oehring (figlio di genitori sordomuti, che, con la sua Dokume ntation I, ha scelto di rappresentate musicalmente la dimensione comunicativa del mondo silenzioso dei sordomuti), Arvo Paert (la sua poetica del Tintinnabulum: attesa solitaria di fronte al silenzio), la musica si è spinta, con motivazioni estetiche spesso diverse, fino ai limiti del silenzio.
Mai prima di John Cage però la “musica silenziosa” aveva osato tanto. 4′.33″ racchiude in sé molti aspetti dell’estetica cageana, ed egli stesso lo definì il suo pezzo migliore. Chiunque di noi, compresi tutti coloro che non hanno mai preso uno strumento in mano, lo può eseguire magistralmente. Perché? La domanda è più che legittima.
Basta indossare un abito da concerto (giusto per entrare meglio nella parte dell’esecutore) e accomodarsi al pianoforte per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare alcunché. Durante il primo movimento della leggendaria prima esecuzione assoluta di 4.33 si sentiva il vento che spirava, nel secondo la pioggia, e nel terzo il pubblico che parlottava o si alzava indignato per andarsene. “Sentivo e speravo diceva Cage “di poter condurre altre persone alla consapevolezza che i suoni dell’ambiente in cui vivono rappresentano una musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero ascoltare a un concerto”. Nessuno, o quasi, colse il significato allora. Eppure, con 4.33 Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha rovesciato le cose, ha cambiato, è il caso di dirlo, radicalmente l’atteggiamento nei confronti del sonoro: è l’intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Ciò implica di conseguenza un’altra definizione di musica. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare qualcosa che non sia musica è musica”. Un virtuoso “rumoroso” come Yehudi Menuhin, quando era presidente dell’International Music Council dell’Unesco, propose addirittura che la giornata Mondiale della Musica fosse celebrata in futuro con un minuto di silenzio.
Una rivoluzione estetica, quella cageana, che è andata oltre, e che ha messo in discussione gli stessi fondamenti della percezione, nel porre la musica anche in intimo contatto con tutte le arti, senza che ciò venisse motivato da alcun genere di idealismo. La poetica di Cage si può inserire in quel filone dell’arte figurativa dell’astrattismo gestuale di Pollock, Kline, De Kooning.
Tutto ciò, da diversi punti di vista dunque, ci riporta alla concezione del silenzio di Cage:
“Per me il significato essenziale del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione”, una rinuncia alla centralità dell’Uomo, il che implica l’eliminazione totale del gusto, del ricordo, e del desiderio, una regressione e una rinascita all’innocenza.
Il silenzio (“i suoni se ne stanno nella musica per rendersi conto del silenzio che li separa”),
la filosofia zen,
l’identificazione dell’arte con la vita (“la mia opera è intesa come dimostrazione della vita”),
il ricorso alle tecniche aleatorie e casuali (con l’antico metodo cinese dell’I-Ching) volte a eliminare l’aspetto soggettivo del processo compositivo,
l’apertura totale nei confronti del sonoro (“ora non ho più bisogno di un pianoforte: ho la 6 Avenue con tutti i suoi suoni”),
la passione per Marcel Duchamp (“gli scacchi non erano altro che un pretesto per stare con lui”),
per i funghi (partecipò anche a un quiz di Mike Bongiorno),
per l’astronomia (per la stesura della partitura di Atlas Eclipticalis, ha usato un atlante astronomico, traducendo la posizione delle stelle in note),
per la Finnegan’s Wake di James Joyce,
ne fanno una delle figure creative più originali ed aperte, ancora da scoprire sotto certi aspetti, del secolo appena trascorso.
Nel 1958 John Cage compone “Aria”, per una voce di qualsiasi estensione. La dedica di copertina è per Cathy Berberian, forse la più dotata delle cantanti del ventesimo secolo. Di fatto questo brano è divenuto una tappa obbligata per qualsiasi cantante che si interessi di musica contemporanea. Ciò che subito coglie l’attenzione di un osservatore è la particolare e al contempo semplice notazione musicale rintracciabile in partitura: essa consiste essenzialmente in una sequenza di linee curve che descrivono, approssimativamente, l’andamento di pitch richiesto per l’emissione del performer.
Trattiamo, si badi, di un’altezza relativa: la posizione della curva sul foglio non sottolinea una relazione frequenziale con le curve precedenti o successive ma indica semplicemente un “cambio di stato” ed un tempo (il tempo scorre idealmente da sinistra verso destra).
A questo si aggiunga che attraverso l’utilizzo di differenti colori posti sulle curve si prescrive all’interprete un cambio di timbro. I diversi timbri non vengono predeterminati da Cage in partitura ma decisi dal performer durante la preparazione del pezzo.
Negli ultimi anni, tra il 1987 e il 1992, Cage compone le sue opere più astratte, intitolate semplicemente con dei numeri che rappresentano il numero degli esecutori. Seventy-Four per orchestra, del 1992, è composta per i 74 musicisti della American Composers Orchestra. La parte di ogni esecutore è composta di quattordici suoni isolati.
Cage indica un lasso di tempo in cui il musicista ha la libertà di decidere quando fare iniziare il suo suono e un lasso di tempo in cui concluderlo. Poiché le due misure temporali si intersecano, il musicista può decidere di fare durare il suono un certo tempo, oppure può decidere di dare una durata nulla a quel suono. Il volume e gli effetti sugli strumenti sono lasciati alla scelta degli esecutori. Anche qui il direttore è sostituito da un orologio.
In Italia Cage fu vicino al movimento artistico Gruppo 63, nato con l’idea di entrare nelle strutture della cultura italiana per metterle in mano di gente disposta a portare fino in fondo un movimento intimamente legato all’Europa. Voleva promuovere in modo policentrico l’emergenza del nuovo. Così Umberto Eco parla di John Cage (in Il gruppo 63 quarant’anni dopo”):
C’era alla Rai di Milano lo Studio di Fonologia musicale, diretto da Luciano Berio e Bruno Maderna, dove era arrivato anche John Cage. Le sue partiture (a metà tra arte visiva e insulto alla musica) erano state pubblicate sull'”Almanacco Bompiani 1962″ dedicato alle applicazioni dei calcolatori elettronici alle arti, e vi appariva la prima poesia composta da un computer, il Tape Mark I di Nanni Balestrini. (per leggere Tape Mark I puoi seguire il link, che ti porta a orbitfiles, sotto alla pubblicità clicca download e si apre l’ebook gratuito: http://www.orbitfiles.com/download/id833537457.html ).
Cage aveva composto a Milano il suo Fontana Mix, ma nessuno ricorda perchè si chiamasse così. Cage era stato messo a pensione presso una signora Fontana, era un bellissimo uomo, la signora Fontana era molto più matura di lui e cercava dei pretesti per possederlo in fondo al corridoio.
Cage, che notoriamente aveva tutt’altre tendenze, resisteva stoicamente. Alla fine aveva intitolato la sua composizione alla signora Fontana. Poi, rimasto senza un soldo, grazie a Berio era approdato a Lascia e raddoppia come esperto sui funghi, eseguendo sul palcoscenco improbabili concerti per frullino, radio e altri elettrodomestici, mentre Mike Bongiorno domandava se quello era futurismo. Si stavano creando misteriose connessioni tra avanguardia e comunicazioni di massa, e molto prima della Pop art.”
Purtroppo il video di Cage con Mike Bongiorno è introvabile, (in rete ci sono parecchi forum impegnati nella ricerca), però si trova un “surrogato”: il video di una sua partecipazione due anni dopo (1960) al quiz televisivo americano “I’ve got a secret”, dove Cage esegue il pezzo Water walk.
Cage, in qualità di esperto di funghi, vinse la puntata di Lascia o raddoppia portando a casa 5 milioni di lire. Durante lo spettacolo si esibì in un concerto per caffettiere, sotto gli occhi sbigottiti del presentatore e del pubblico italiano. Memorabile il dialogo che ci fu tra Mike Bongiorno e Cage quando questi si congedò, vittorioso. Le parole di Bongiorno ci restituiscono la difficoltà nell’approcciare la musica contemporanea.
M.B.: “Bravissimo, bravo bravo bravo bravo. Bravo bravissimo, bravo Cage. Beh, il signor Cage ci ha dimostrato indubbiamente che se ne intendeva di funghi… quindi non è stato solo un personaggio che è venuto su questo palcoscenico per fare delle esibizioni strambe di musica strambissima, quindi è veramente un personaggio preparato. Lo sapevo perché mi ricordo che ci aveva detto che abitava nei boschetti nelle vicinanze di New York e che tutti i giorni andava a fare passeggiate e raccogliere funghi”.
J.C.: “Un ringraziamento a… funghi, e alla RAI e a tutti genti d’Italia”.
M.B.: “A tutta la gente d’Italia. Bravo signor Cage arrivederci e buon viaggio, torna in America o resta qui?”.
J.C.: “Mia musica resta”.
M.B.: “Ah, lei va via e la sua musica resta qui, ma era meglio il contrario: che la sua musica andasse via e lei restasse qui”. (fonte wikipedia).
Bruno Munari è nato a Milano nel 1907.
I suoi genitori si trasferiscono prestissimo a Badia Polesine e Munari cresce nell’affascinante campagna veneta lungo l’Adige fino a diciotto anni, quando decide di trasferirsi da solo a Milano, spinto dal desiderio di fare l’artista.
SEMPLIFICARE E’ PIÙ DIFFICILE
Complicare è facile,
semplificare è difficile.
Per complicare basta aggiungere,
tutto quello che si vuole:
colori, forme, azioni, decorazioni,
personaggi, ambienti pieni di cose.
Tutti sono capaci di complicare.
Pochi sono capaci di semplificare.
Per semplificare bisogna togliere,
e per togliere bisogna sapere che cosa togliere,
come fa lo scultore quando a colpi di scalpello
toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’è in più.
Teoricamente ogni masso di pietra può avere al suo interno
una scultura bellissima, come si fa a sapere
dove ci si deve fermare nel togliere, senza rovinare la scultura?
Togliere invece che aggiungere
vuol dire riconoscere l’essenza delle cose
e comunicarle nella loro essenzialità.
Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode….
La semplificazione è il segno dell’intelligenza,
un antico detto cinese dice:
quello che non si può dire in poche parole
non si può dirlo neanche in molte.
Bruno Munari
Conservare l’infanzia dentro di sé per tutta la vita vuol dire conservare la curiosità di conoscere il piacere di capire la voglia di comunicare.
…Faremo come gli insetti
che si sono rafforzati grazie all’insetticida?
I bambini abituati al passeggino non sanno
più camminare, abituati alla televisione
non sanno più pensare
i giovani sono già stanchi
e si siedono sempre sui gradini o per terra
tra i panettoni di cemento e gli archetti
di ferro giallo.
Nel caos della circolazione cittadina
l’enorme quantità di divieti
panettoni di cemento e archetti ovunque
è direttamente proporzionale
all’inciviltà dei cittadini.
Ma come sarà la casa del futuro?
In Liguria ci sono case vere
con alcune finestre finte
dipinte ad arte sulla facciata.
Suonai il campanello
(volevo vedere se dall’interno
della finestra finta
c’era dipinto sul muro
un paesaggio
in esatta corrispondenza
con la finta finestra).
Mi venne ad aprire una gentile signora
in parte vera
in parte dipinta….
…Avevo un amico a New York
che abitava nel più alto grattacielo
al primo piano
era molto triste
quando gli chiedevano
a che piano abitava
una domenica prese l’ascensore
con tutta la famiglia
salirono sul terrazzo più alto
c’era la nebbia…
Bruno Munari
Bruno Munari è nato a Milano nel 1907.
I suoi genitori si trasferiscono prestissimo a Badia Polesine e Munari cresce nell’affascinante campagna veneta lungo l’Adige fino a diciotto anni, quando decide di trasferirsi da solo a Milano, spinto dal desiderio di fare l’artista.
Qui con l’aiuto di uno zio ingegnere, comincia ad interessarsi di progettazione ed a lavorare presso studi di grafica. Contemporaneamente collabora con numerosissime riviste e illustra libri futuristi tra cui “Il poema vestito di latte” di Marinetti.
Con il maturare del proprio lavoro artistico e grafico, si distacca dal gruppo futurista, per porsi in una posizione autonoma rispetto a tutti i movimenti artistici italiani. Pubblica il fortunato libro “Le macchine di Munari“, e le “Fotocronache“.
Stimolato dal rapporto con il figlio Alberto, (nato nel 1940), pubblica una serie di libri per bambini altamente innovativi che verranno ristampati in diverse lingue e avranno grande successo.
A Milano è tra i fondatori del Movimento Arte Concreta (MAC), che contribuisce al rinnovamento dell’arte italiana proponendo l’astrattismo geometrico e la “sintesi delle arti”, posizione interdisciplinare tra pittura, scultura, architettura.
Con il Movimento Munari progetta alcuni bollettini informativi secondo le sue idee trasgressive sull’oggetto-libro, ed espone in numerose occasioni, presentando tra le altre opere anche i suoi Libri illeggibili e i Negativi-positivi.
Iniziano le prime produzioni di oggetti su scala industriale: due giocattoli in gommapiuma e il Secchiello portaghiaccio.
Con l’inizio della collaborazione con la ditta Danese di Milano, la progettazione di oggetti di design diviene costante e ricca di successi: tra gli altri quello del diffusissimo Portacenere cubico.
La sua fama comincia a diffondersi anche all’estero: negli anni Cinquanta espone in Europa e negli USA, e inizia i viaggi in Giappone, che diverranno frequenti a riprova delle affinità che lo legano a quella cultura, imperniata su una filosofia che cerca il giusto equilibrio tra rispetto dei valori umani e produzione.
Pur continuando incessantemente l’attività artistica, quella di grafico editoriale e quella di designer; si dedica con sempre maggiore attenzione al mondo dell’infanzia, pensando ad oggetti che lascino un particolare spazio alla fantasia infantile: oggetti d’arredo, giochi, libri e collane di libri per insegnanti e per bambini anche in età prescolare (i celebri Prelibri della Danese).
La produzione di Bruno è sterminata, ferma sulle proprie posizioni, ma continuamente messa in gioco.
Munari è stato un artista designer che per tutta la sua vita ha compiuto ricerche in zone non convenzionali, esplorando le possibilità materiche strutturali e formali di nuovi mezzi, per produrre oggetti a comunicazione visiva e plurisensoriale.
Architetto-poeta attento ai codici e ai linguaggi dell’arte, lucido nell’analisi e curioso del mondo, generoso ed essenziale, lontano dalle più tradizionali e scontate regole del gioco.
Saper vedere per saper progettare, ricordava. E applicava questa regola, vero e proprio “metodo” , tanto alla struttura produttiva (dove l’oggetto è oggetto prima di essere merce) quanto alla didattica. La regola e il caso: l’unica costante della realtà è la mutazione, diceva parafrasando un detto cinese. Solo se sei in continua evoluzione, insomma, sei nella realtà.
Nella realtà, tutti quelli che hanno la stessa apertura visiva e vedono il mondo nello stesso modo, non hanno osservazioni diverse da comunicarsi.
Solo chi ha un’apertura visiva diversa vede il mondo in un altro modo e può dare al prossimo un’ informazione tale da allargargli il suo campo visivo. Bruno Munari è stato un grande maestro del vedere, per maestria del suo fare, ma anche per il suo insegnare a scoprire le infinite dimensioni della visualità. Se tutti iniziassero a guardarsi intorno potrebbe scattare una rivoluzione, perché saper vedere significa saper pensare con elasticità e libertà. La fantasia l’invenzione la creatività pensano, l’immaginazione vede.
Sullo sfondo di una profonda conoscenza della cultura e della disciplina Zen, Munari manifesta con chiarezza una vocazione a far entrare l’arte nella vita, partendo dalla ridefinizione di ogni gesto quotidiano in funzione di un percorso di conoscenza del sé che passa attraverso la conoscenza dell’altro.
L’artista può preparare gli individui (a cominciare dai bambini) a difendersi dallo sfruttamento, a smascherare i furbi, ad esprimersi con la massima libertà e creatività. Può continuare la tradizione invece che ripeterla stancamente.
La rivoluzione va fatta senza che nessuno se ne accorga.
La leggerezza è stata per Munari un modo di pensare, una forma mentis , in momenti storici in cui la pesantezza intellettuale sembrava quasi un obbligo di casta. Come non ripensare, a questo proposito, a Calvino, autore poliedrico, innamorato dell’infanzia, e per tanti altri versi così simile a lui (Lezioni Americane – Sei proposte per il prossimo millennio).
Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. La semplificazione è il segno dell’intelligenza.
Un antico detto cinese dice: quello che non si può dire in poche parole non si può dirlo neanche in molte. Due degli artisti italiani più celebri ed amati a livello internazionale hanno lasciato, l’uno indipendentemente dall’altro, un’eredità così precisa: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. La passione di Bruno Munari per il mondo dell’infanzia è l’emblema della sua fiducia nel futuro:
“I bambini di oggi sono gli adulti di domani
aiutiamoli a crescere liberi da stereotipi
aiutiamoli a sviluppare tutti i sensi
aiutiamoli a diventare più sensibili
un bambino creativo è un bambino più felice. “
Grazie alla divulgazione ed all’attenzione che ha ricevuto tra gli insegnanti, in particolar modo di scuole materne ed elementari, l’attività di Munari in quest’ambito è probabilmente quella più nota.
Con i giochi e libri per bambini – il Gatto Meo in gommapiuma, i Prelibri di Danese, i Libri illeggibili di fogli variopinti e senza testo, i libri con i buchi, le pagine trasparenti, tattili, componibili, le fiabe riscritte visivamente, i libri oggetto, l’Alfabetiere, il letto Abitacolo e le molte altre invenzioni che hanno letteralmente fatto scuola, Munari è entrato nelle camerette e nelle aule di molti paesi del mondo.
E di frequente, in particolar modo in relazione all’esperienza dei laboratori, vi è entrato proprio di persona, per sperimentare ogni volta in modo diverso il principio di Lao Tse (azione senza imposizione di sé), su cui si fonda la sua didattica.
Partendo dalla consapevolezza che la sperimentazione diretta facilita la comprensione e la trasmissione delle conoscenze, l’artista ha messo a disposizione la propria capacità di scegliere e fornire materiali e suggestioni visive, perché il bambino potesse egli stesso agire, liberando la propria curiosità in un gioco solo minimamente guidato, suggerito soprattutto attraverso le immagini e le dimostrazioni pratiche.
Più che un metodo quello proposto da Munari è un modo di proporsi nei confronti dei bambini: l’assenza di una strutturazione rigida.
Assolutamente sconosciuta fino al giorno in cui è andato in stampa questo libro, era la storia di Cappuccetto Bianco. Ora è qui in queste pagine ma non si vede.
Si sa che c’è questa bambina tutta vestita di bianco, sperduta nella neve. Si sa che c’è una nonna, una mamma, un lupo. Si sa che c’è una panchina di pietra nel piccolo giardino coperto dalla neve, ma non si vede niente, non si vede la cuccia del cane, non si vedono le aiuole, non si vede niente, proprio niente, tutto è coperto dalla neve. Mai vista tanta neve…” (Le pagine del libro sono tutte candide, tranne l’ultima facciata dove compaiono un paio di occhioni azzurri).
Bruno Munari può essere considerato una delle personalità, non appartenenti alla scuola, che ha saputo offrire stimoli eccezionali al mondo dell’educazione, che la scuola ha poi saputo fare propri.
E’ stato un artista che ha rivolto all’infanzia uno sguardo particolare, riuscendo a comprenderne ed interpretarne i bisogni profondi. La sua attenzione non era volta ad un bambino immaginario, ma al bambino reale, che ha necessità di conoscere e di comprendere il mondo intorno a sè.
Un mondo fatto di sensazioni tattili che vanno riscoperte e conservate, di capacità di osservare con curiosità e stupore la natura, di voglia di esplorare tutte le possibilità che ci offrono gli strumenti grafici prima ancora di disegnare, di allegria nello scoprire tutti i suoni che produce un pezzetto di carta, di voglia di collezionare quanti rossi ci sono…
A questo bambino Munari ha offerto libri pensati appositamente per lui (in un periodo in cui i libri erano oggetti quasi intoccabili relegati nella biblioteca del salotto buono) e che ancora oggi sanno incantare; giochi “aperti” che allenano la capacità di immaginare e progettare; mondi che stupiscono racchiusi nel telaietto di una diapositiva, giocattoli divertenti da poter muovere come si vuole (quando si era abituati alla grande bambola da mettere al centro del letto), “abitacoli” dove poter dormire e ricevere gli amici, e – soprattutto – i laboratori di educazione visiva e di stimolazione del pensiero progettuale creativo che hanno fatto, realmente, il giro del mondo.
Munari, dicono i critici, è più conosciuto ed apprezzato all’estero (prima di tutto in Giappone) che in Italia, forse perché una personalità così poliedrica, che ha sviluppato interessi in tante direzioni, non è facilmente “catalogabile”.
L’artista giapponese Katsumi Komagata è considerato il prosecutore dell’attività artistica di Bruno Munari, grazie al cui incontro ha maturato la sua passione per i libri per l’infanzia.
Nei suoi libri i colori e la qualità tattile della superficie (texture) hanno un valore narrativo oltre che strutturale e funzionale. Komagata comunica attraverso un alfabeto cromatico accostando giochi di ombre e di luce, accennando forme appena riconoscibili o celando velatamente le piccole meraviglie del mondo animale e vegetale che si rivelano allo sguardo meravigliato di ogni bambino.
Bruno Munari ha descritto il Giappone come un paradiso per i bambini: ha studiato e osservato gli spazi e i giochi offerti ai bambini giapponesi, cogliendone la creatività.
Paradossalmente, per quando riguarda il suo lavoro per l’infanzia, è più noto in Giappone che non in Italia: nel nostro paese ha grande notorietà come artista e designer, ma è quasi ignorato come autore di libri per bambini.
Ciò avviene, probabilmente, a causa del pregiudizio che avvolge le opere per l’infanzia, considerate appunto infantili e perciò inferiori.
A ciò si aggiunge un altro pregiudizio, ossia che i libri per bambini siano soltanto per bambini.
In Giappone, e in generale in Oriente, il bambino è concepito come divina scintilla, colui che è più vicino alla spontaneità e quindi al divino. L’influsso teorico proviene dalla filosofia orientale che ritiene ciò che è istintivo come buono, mentre la filosofia occidentale condanna l’irrazionalità.
La pedagogia giapponese ha radici nelle sue due principali tradizioni di pensiero: lo shintoismo e il buddhismo. Secondo lo shintoismo la via degli antichi (kodou) si ritrova nel magokoro, il vero cuore, che è lo spirito innato e spontaneo. Concezione espressa anche dal termine “umaretsukitaru mama no kokoro” (candido cuore innato). Questo significa essere come gli dei (kannagara no michi), nell’originale condizione di innocenza dell’uomo.
Secondo il buddhismo zen, l’insegnamento non è un insieme di nozioni che si passano dal maestro all’allievo. Il maestro ha solo lo scopo di risvegliare la capacità critica dell’allievo, abbattendo i pregiudizi che impediscono la retta visione del mondo.
Quindi il processo interiore di risveglio non può essere operato da un soggetto esterno, che ha solo lo scopo di stimolo.
I laboratori Giocare con l’Arte
L’AMBIENTE come laboratorio.
Il MATERIALE come offerta di conoscenza.
L’ADULTO come guida e indicatore di metodi di lavoro.
Questi sono tre punti cardine del pensiero pedagogico su cui si fonda il laboratorio Bruno Munari.
Il laboratorio, secondo il Metodo Munari, rappresenta un luogo di creatività, libertà, sperimentazione, scoperta ed apprendimento attraverso il gioco ed osservazione della realtà che ci circonda con tutti i sensi, come premessa al conseguimento di una personalità originale ed autonoma attraverso lo sviluppo della creatività.
I bambini sono liberi di scegliere la tecnica e di sperimentarne anche più di una, uscire dalle regole apprese ed essere capaci di mescolare il tutto, per poi scegliere il comportamento più rispondente alla propria personalità (diversa da quella degli altri).
Il laboratorio di Bruno Munari non ha banchi, ma tavoli da lavoro, perciò permette totale libertà di gesti, di movimenti e, diversamente dalla scuola, possibilità di cambiare posto in funzione delle esigenze di lavoro.
Nel laboratorio non si trovano verità precostituite o modelli da trasmettere, ma la possibilità di ricercare più verità e più modelli.
Nel laboratorio non riveste primaria importanza il prodotto finale, quanto piuttosto il modo con cui si perviene al risultato, risultato che potrà essere l’inizio di una nuova sperimentazione.
Con i suoi Laboratori Munari propone di insegnare ai bambini come si guarda un’opera: l’arte visiva non va raccontata a parole, va sperimentata: le parole si dimenticano, l’esperienza no. Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco, soleva ripetere l’artista, citando un antico proverbio cinese.
Nel Laboratorio “si gioca all’arte visiva” affinché si possa fruirne con maggiore consapevolezza e spirito critico.
Il metodo si basa sul fare affinché i bambini possano esprimersi liberamente senza l’interferenza degli adulti, diventando indipendenti e imparando a risolvere i problemi da soli.
“Aiutami a fare da me” è anche il motto di Maria Montessori.
I Laboratori Bruno Munari®
“Ciò che distingue questo laboratorio da tutti gli altri laboratori esistenti è il metodo” scrive Bruno Munari nella presentazione del primo laboratorio per bambini alla Pinacoteca di Brera, Milano, 1977. Non un semplice “parcheggio”, dove i bambini possono giocare con pennelli e tempere, “liberi di fare quello che vogliono avendo davanti agli occhi le riproduzioni esposte nel museo… (libertà che è un abbandonarli all’imitazione) e nemmeno soltanto un “raccontare” le opere d’arte …”
Munari propone di insegnare ai bambini come si guarda un’opera piuttosto che leggerne solo il contenuto o il messaggio. L’arte visiva non va raccontata a parole, va sperimentata: le parole si dimenticano, l’esperienza no. Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco, soleva ripetere l’artista, citando un antico proverbio cinese.
Nel Laboratorio “si gioca all’arte visiva”, si sperimentano tecniche e regole ricavate dalle opere d’arte di ogni epoca e di ogni luogo, trasformate in giochi: è facendo che si scoprono le qualità diverse dei materiali e le caratteristiche degli strumenti. I bambini imparano giocando.
Nei laboratori Munari pertanto si intende promuovere la conoscenza e la comprensione delle tecniche dell’espressione e della comunicazione artistica, affinché si possa fruirne con maggiore consapevolezza e spirito critico.
“Capire che cos’è l’arte è una preoccupazione (inutile) dell’adulto.
Capire come si fa a farla è invece un interesse autentico del bambino”.
In questa riflessione Alberto Munari, docente di psicologia dell’educazione all’Università di Ginevra, indica il principio essenziale del metodo.
Le idee non vengono proposte dagli adulti, nascono dalla sperimentazione, secondo il principio didattico: “Non dire cosa fare ma come”.
Il metodo si basa sul fare affinché i bambini possano esprimersi liberamente senza l’interferenza degli adulti, diventando indipendenti e imparando a risolvere i problemi da soli. “Aiutami a fare da me” è anche il motto di Maria Montessori.
Il laboratorio è dunque un luogo di creatività e conoscenza, di sperimentazione, scoperta e autoapprendimento attraverso il gioco: è il luogo privilegiato del fare per capire, dove si fa “ginnastica mentale” e si costruisce il sapere. E´ anche un luogo di incontro educativo, formazione e collaborazione. Uno spazio dove sviluppare la capacità di osservare con gli occhi e con le mani per imparare a guardare la realtà
con tutti i sensi e conoscere di più, dove stimolare la creatività e il “pensiero progettuale creativo” fin dall’infanzia.
Le attività proposte nel laboratorio di Brera erano dedicate ai bambini delle scuole elementari; in seguito vennero estese ai bambini delle materne, ai ragazzi delle medie e talvolta anche a quelli delle superiori.
Oggi i laboratori si rivolgono a piccoli e grandi, dai due ai novant’anni!
Le tecniche e le regole sperimentate nel laboratorio di Brera furono:
il Divisionismo, i Segni, le Texture, Lontano e Vicino, ovvero la prospettiva cromatica, Formati Diversi, il Collage, Forme Componibili, il Colore, le Gabbie e le Proiezioni Dirette.
Seguono i Laboratori Tattili realizzati in occasione della mostra Le mani guardano (Milano, Palazzo Reale,1979), Giocare con l’Arte a Palazzo Reale all’interno della mostra antologica dell’artista (Milano 1986/87) Giocare con la natura, al Museo di Storia Naturale (Milano, 1988) e al Museo Pecci di Prato nel 1992 il Lab-Lib ovvero il laboratorio liberatorio per le combinazioni di materiali, per citare solo quei laboratori realizzati nei musei e progettati dallo stesso Munari con i suoi collaboratori.
Elencarli tutti sarebbe lungo.
Nel corso degli anni vari temi sono stati sviluppati e approfonditi nel rispetto delle indicazioni metodologiche dell’artista, fino ai recenti progetti speciali.
Il secondo Laboratorio creato da Munari in una struttura museale nel 1979 è quello nel Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, per volere del direttore, Gian Carlo Bojani con l’intento di avvicinare i bambini all’arte in modo concreto per favorire la comprensione delle opere esposte nel museo, non certo per avviarli alla professione del ceramista né per farne futuri artisti.
Nel laboratorio i bambini sperimentano la manipolazione della materia e le tecniche della ceramica: possono giocare con argille e colori, liberi di fare quello che creativamente sentono e visualmente vedono.
Attraverso la sperimentazione di una serie di tecniche in successione, si intende promuovere le capacità di codificazione e di rielaborazione: pertanto la conoscenza dei codici elementari non è finalizzata a una ripetizione meccanica condizionante, ma alla possibilità e alla necessità, in termini formativi e creativi, di una “loro manipolazione”, sviluppando così le capacità soggettive.
Le tecniche e le regole che si continuano a sperimentare nel laboratorio di Faenza sono: Manipolazione guidata, Texture, Calco in gesso, Lucignolo, Palline, Sfoglia, Trafila, Terre colorate, Decalcomania, Ingobbio e Perle.
“Non può esservi manipolazione, rielaborazione e creatività se non vi è conoscenza” osserva Bruno Munari e aggiunge: “Non è importante l’oggetto finito, ma il percorso che il bambino fa per arrivare allo stesso“.
Il metodo “Giocare con l’arte”, come viene inizialmente chiamato, suscita un enorme interesse, sia in Italia sia all’estero. Bruno Munari, artista e designer, ma anche pedagogo intuitivo, lo definiva un metodo attivo-scientifico, affermando di sentirsi vicino a quello della Montessori.
Applica i principi fondamentali della “pedagogia attiva”, come sostiene il figlio Alberto Munari nell’illuminante saggio Munari, Piaget e Munari, dove descrive le numerose convergenze di pensiero tra suo padre e Piaget, di cui Alberto fu collaboratore diretto.
Entrambi sono contrari all’imposizione, entrambi propongono il fare: sperimentare, cercare e scoprire da soli, in modo autonomo. Un metodo fatto soprattutto di azioni didattiche ispirate a principi per lo più di origine orientale. Principi espressi con frasi semplici, essenziali, per essere capite bene da tutti.
Ma spesso fraintesi. “E’ tutto qui? Facile, troppo facile….”Semplificare è più difficile che complicare…” soleva ripetere l’artista. Un metodo “in progress”, perchè intende lasciare ampio spazio di azione creativa a chi ad esso si ispira.
“Il Laboratorio può essere costituito in qualunque museo e in qualunque scuola” disse Munari dopo l’esperienza di Brera, “e chi continuerà questo esperimento potrà fornire dei dati utili al suo perfezionamento“.
Da allora sono sorti numerosi altri Laboratori e molti, tra insegnanti, operatori culturali, animatori in Scuole, Biblioteche, Ludoteche, ecc., si sono ispirati a questo metodo.
Più recentemente, proprio per cogliere quel suggerimento di Bruno Munari, è stato istituito il Master in Metodologia Bruno Munari®, per l’educazione artistica e lo sviluppo del pensiero progettuale creativo, nella prospettiva di un’educazione utile alla formazione integrale dell’individuo.
In questo percorso formativo viene proposta una rifondazione del Metodo, integrando ai principi originali gli apporti teorici e metodologici dell’Epistemologia Operativa elaborata sin dall’inizio degli anni ’80 da Donata Fabbri e Alberto Munari.
Links per chi è interessato a conoscere più da vicino l’attività dei laboratori creativi per bambini ispirati a Bruno Munari:
– Biblioteca Civica di Merano, Laboratori Ópla Incontri è la formula scelta per avvicinare chi legge agli artisti e agli operatori del settore (designers, editori, bibliotecari, librai, insegnanti).
Questi laboratori con gli artisti, che vengono organizzati a Merano mediamente 3 o 4 volte all’ anno ed ai quali partecipano ragazzi di varie fasce di etá, hanno lo scopo di coinvolgere la realtà locale in un progetto che a prima vista potrebbe sembrare rivolto esclusivamente ad un pubblico di specialisti.
L’ obiettivo non è ambizioso in quanto il desiderio da parte della scuola e dei bambini di relazionarsi con il mondo dell’arte e dell’illustrazione è reale, e Ópla ha fornito gli strumenti affinché questo avvenisse.
Un Due Tre… Ópla! Annualmente viene organizzata a Merano una rassegna dal titolo Un, Due, Tre…Ópla!”, una tre giorni di workshop, spettacoli, mostre e incontri che coinvolge artisti di fama internazionale e classi di ogni ordine e grado, oltre al pubblico spontaneo che si raccoglie intorno a questa manifestazione.
I giochi di Bruno
“Quando ero bambino avevo tanti giocattoli, proprio tanti, così tanti che non sapevo neanche quanti. Avevo dei giocattoli piccolissimi da tenere in tasca, dei giocattoli grandi nei quali potevo anche entrare. Dei giocattoli per giocare da solo e degli altri per giocare con gli amici.
Avevo giocattoli per ogni stagione: per giocare con l’acqua d’estate; per giocare con la neve d’inverno. Ne avevo anche alcuni per giocare con la pioggia, altri per giocare con i raggi di sole.
Non ho mai avuto un giocattolo per la nebbia.Come dicevo all’inizio, da bambino avevo tanti giocattoli, ma proprio tantissimi. Il primo fu un gattino vero, vivo, miagolante, trovato nel giardino. Al primo incontro ci guardammo a lungo negli occhi stando fermi a poca distanza uno dall’altro.
Poi il gattino venne verso di me e si strofinò a un mio piede.Scesi subito in cucina a prendere qualcosa da mangiare per il micio e glielo portai di corsa. Lui si avvicinò lentamente al piattino, lo annusò tutto e poi, con calma, cominciò a mangiare. Ogni tanto interrompeva il pasto, alzava il musino e mi guardava; poi riprendeva.Da quel giorno diventammo molto amici, lui sentiva quando io salivo le scale e mi veniva incontro. Era caldo e morbido e aveva un buon odorino di nido. Tutti i miei amici lo conoscevano.
Questo forse fu il giocattolo più completo che abbia mai avuto, così pensavo allora, oggi invece mi viene il sospetto che anche io bambino ero il giocattolo del gatto.Eravamo contenti tutti e due.Vicino a casa mia c’era una casa signorile con finiture di lusso.
Vi abitava una famiglia che commerciava in articoli superflui e guadagnava molto denaro. C’era anche un bambino della mia età, il quale appena saputa la storia del mio gattino, ne volle uno anche lui, e allora il suo papà che poteva spendere molto, gliene comprò uno.
Ma non uno vero e vivo, perché, si sa, gli animali sporcano e poi bisogna curarli, mentre un bel giocattolo costoso era più adatto a mostrare che quella famiglia poteva spendere e che aveva molti soldi. A questo bambino, dunque, arrivò un giorno una scatola molto elegante con nastro dorato, portata da un fattorino in divisa del più grande magazzino di lusso della città vicina. Il bambino aprì la scatola e trovò, in mezzo all’imballaggio, un gattino di latta dipinta, un gattino meccanico, molto bene imitato a prima vista, con una molla da caricare. Si girava una chiavetta sotto la pancia e il gattino muoveva la coda e correva dritto, avendo delle rotelle sotto le zampe. Correva dritto miagolando mao mao mao mao mao mao mao…Bang! e andava a sbattere contro il muro rovesciandosi con le zampette all’aria.
Aveva sempre lo stesso sguardo come se fosse cieco, era freddo e senza pelo, non mangiava, non si nascondeva, per farlo muovere bisognava caricare la molla. Dopo qualche giorno questo freddo e stupido giocattolo venne abbandonato.Il mio gattino invece era diventato indipendente, qualche giorno spariva e poi ritornava facendo finta di niente. Io non gli ho mai chiesto dove fosse andato. Nessuno lo aveva comperato, era libero, ma aveva simpatia per me e io per lui.
Ognuno faceva quello che voleva senza imporre niente all’altro. Mangiava le zucchine bollite, gli piaceva molto il gelato, si arrampicava di corsa sugli alberi, si nascondeva e poi saltava fuori all’improvviso pungendomi un poco con le sue unghiette nascoste. Io avevo ormai imparato il suo linguaggio e avevo capito che quando diceva miaoooo voleva giocare, quando diceva brevemente mao voleva dire ciao, quando diceva mooooo con voce bassa voleva dire lasciami stare adesso. Anche lui capiva le mie parole, andavamo d’accordo insomma. Dalla mia finestra vedevo il gattino meccanico buttato in un angolo del cortile, non faceva nemmeno paura ai topi perché aveva odore di ferro e non di gatto. Forse non è mai piaciuto nemmeno al bambino ricco.Poi avevo un altro giocattolo: un bastoncino di bambù.
Bellissimo e flessibile, lungo circa un metro, sembrava verniciato di verde (era appena stato colto), e si teneva bene in mano; ogni dieci centimetri circa aveva un nodo e all’ultimo nodo in alto avevo legato una cordicella. Era una frusta e mi divertivo a farla schioccare come facevano i carrettieri, dopo un poco l’estremità della cordicella si era consumata ed era diventata come un fiocco.
Se legavo questa estremità della cordicella alla estremità in basso del bastoncino di bambù, questo diventava un buon arco sufficientemente flessibile per lanciare le frecce, che erano di un altro tipo di canna con un piccolo peso direzionale in cima.
Potevo slegare di nuovo la cordicella e attaccarle un amo per andare a pescare. Potevo togliere la funicella e avevo così un bastoncino da passeggio che mi serviva per toccare o muovere qualcosa per terra, come una prolunga di un mio dito.
Se agitavo velocemente il bastoncino in aria, ne usciva un suono. La sua flessibilità mi suggeriva di farne tanti usi diversi: una fionda, una catapulta, una molla. Dopo un po’ di giorni il verde del bambù era diventato giallo ma non aveva perso il lucido.
Un giorno frugando tra le foglie col mio bastoncino di bambù, trovai una piuma d’oca bianca. Una piccola piuma d’oca. Guardandola controluce vedevo i colori dell’iride.
E poi avevo un rametto di sambuco, il sambuco è una pianta che ha, dentro ai rami, un grande midollo elastico. Il ramo è come un tubetto pieno di questo midollo. Si prende un rametto di diametro più piccolo e, spingendolo dentro il ramo più grosso, ne fa uscire il midollo.
Il rametto grande diventa così una cerbottana e col midollo di sambuco si possono fare molti giochi.E poi avevo dei semi di acero, secchi. Questi semi sono fatti come un’ala di insetto, guardandoli contro luce si vedono tutte le nervature, e dalla parte più piccola dell’ala c’è una ingrossatura.”
“Quando cadono dall’alto non cadono dritti come un sasso ma fanno dei giri, cadono girando come un’elica. Si raccolgono tanti semi e si possono lanciare dalla finestra ed è molto bello vedere come cadono, uno alla volta.
In seguito a questa esperienza provai a ritagliare dei piccoli pezzettini di carta con forme diverse per vedere come cadevano e trovai che un rettangolino di carta di circa cinque millimetri per cinque centimetri, leggermente incurvato, se lasciato andare nell’aria comincia a girare e fa una forma illusoria come di caramella e gira e gira e non cade subito ma qualche volta sale più in alto di chi lo ha lanciato e così si possono vedere le correnti di aria calda o il vento che altrimenti non si vedrebbe. Tutti i miei amici avevano anche loro questi ritagli di carta leggera e andavano assieme in posti larghi dove si potevano lanciare da qualche altura, o dal ponte sul fiume.
E poi avevo, in cortile, un rubinetto che gocciolava. Si vede che la guarnizione era consumata e non chiudeva più bene. Ma il rumore delle gocce era molto interessante, perché non era monotono. Non so perché ma ad ascoltare bene si sentiva che gli intervalli tra una gioccia e l’altra non erano uguali, e anche i suoni della caduta delle gocce non erano sempre gli stessi. Un giorno ho provato a mettere sotto alla goccia un secchio vuoto: toc toc toc toc toc toc toc, poi un foglio di giornale spiegazzato cià cià cià cià cià , poi una padella rovesciata: ten ten ten ten ten ten ten ten, poi feci cadere le gocce in un barattolo di marmellata vuoto: tic tic tic tec tec tec toc toc tuc tuc boc buc tum.
Con alcuni amici cercavamo di cantare delle canzoni inventate sul ritmo delle gocce. Una canzone diceva: pic pac pac pic patapic patapac pitopec pataluc, e si ripeteva con varianti personali. Un’altra canzone inventata da un mio amico che si chiamava Bernardone sporcaccione diceva: pic pic pistolic pistolac pistolec cac pis merdolic. E tutti ridevano. Un giorno attaccai sotto il rubinetto, con una cordicella, una lunga canna, alla quale avevo bucato tutti i diaframmi con un ferro.
L’estremità dela canna che stava sotto il rubinetto era allargata in modo da raccogliere le gocce. La canna sarà stata lunga circa due metri, dopo un po’ di tempo le gocce cominciarono ad uscire dall’altra estremità, il legaccio di corda permetteva di orientare la canna come una lancetta di orologio e così potevo segnare con l’acqua, dei semicerchi sulla terra. In un secondo tempo aggiunsi una seconda canna come prolunga della prima, poi una terza, poi passò un cane di corsa e buttò all’aria tutti i miei progetti. E poi avevo una cordicella lunga lunga, fatta di tanti pezzi di corde annodati tra loro uno dopo l’altro.
La corda aveva una molletta da biancheria attaccata a una estremità, l’altra estremità era attaccata a un chiodo vicino alla finestra del solaio. La molletta pendeva a circa cinquanta centimetri dal piano del cortile. Alla estremità in alto, della corda, era annodato un campanellino. Se qualche amico passava dal mio cortile, che era sempre aperto, poteva tirare la cordina per chiamarmi; oppure se aveva qualcosa da darmi o da farmi vedere lo poteva attaccare alla moletta che pendeva in basso.
Il mio cortile era grande e aperto da un lato, molta gente lo attraversava come scorciatoia per andare da una stradina che stava da una parte del cortile e la strada principale che stava dall’altra parte dell’albergo. Dopo un po’ di tempo i miei amici sapevano della cordicella e della molletta e allora ogni tanto mi trovavo appeso delle cose strane, dei biglietti con scritto dei gentili insulti, una buccia d’arancia, alcune foglie secche (molto belle e diverse: alcune un poco accartocciate come una mano, altre strette e lunghe un poco pelose) una volta trovai appeso una piuma di gallina, un’altra volta una di faraona, grigia a pallini bianchi.
Un giorno trovai una ghianda, un giorno una vecchia scarpa tutta coperta di fango secco, raccolta probabilmente nel fiume. Tenni questa scarpa secca per molto tempo, come un relitto venuto da chissà dove. E poi avevo un piccolo specchietto rotondo che mi aveva regalato la nonna. Questo specchietto mi serviva molto bene per giocare da solo. Andavo fuori casa al sole, e mettevo lo specchietto in modo che mandasse un raggio nel buio di una stanza attraverso la finestra aperta.
Potevo vedere benissimo tutto quello che illuminava. Muovendo questo punto luminoso nella stanza lo feci cadere sopra uno specchio: immediatamente un altro raggio di sole rimbalzò nella stanza e andò a posarsi sul muro di fronte. Questo mi fece molto pensare. Un altro giorno, prendendo un raggio di sole che era entrato nella stanza, col mio specchietto, lo mandai nella credenza: il punto luminoso colpì un bicchiere di cristallo e vidi tutti i colori dell’arcobaleno.
E poi avevo dei gusci di noce. Chi non ha avuto dei gusci di noce interi, per giocare? Questo guscio è durissimo, tutto di legno di noce come se fosse intagliato. Quando si apre una noce con attenzione senza rompere i due gusci, si scopre che lungo la linea dove combaciano sono finiti proprio bene: tutto il bassorilievo della decorazione del guscio si raccorda con questa linea di contatto e qui il legno diventa liscio per potere combaciare bene.
Da una parte ha una punta dall’altra parte una piccola rientranza (dico questo per spiegare a quei bambini di città che non hanno mai visto una noce intera perché la mamma le comperà già sbucciate), (sono gli stessi bambini che, poveretti, non hanno mai visto una mucca e credono che il latte sia un prodotto industriale come la coca cola), (mah!).
Ecco perché si costruiva con i gusci di noce, due tipi principali di giocattoli: uno era la barca e l’altro la tartaruga. Ci sono infatti delle barche che si chiamano “guscio di noce”; non ci sono però delle tartarughe che appartengano alla categoria delle noci, c’è il pettine di tartaruga e c’è il vitello scamosciato, non c’è il camoscio vitellato e nemmeno le scarpe di vitel tonné.
Per fare le barchette si riempiva il guscio di noce con mollica di pane e si infilava uno stecchino verticale come albero sulla barca. Sullo stecchino si infilava un fogliettino di carta curvato come se già ci fosse il vento e poi si andava ai giardini pubblici a varare la barchetta.
Per fare la tartaruga invece si appoggiava il guscio dalla parte piatta su di un cartoncino leggero, poi si disegnava il contorno del guscio sul foglio, si aggiungeva la testa e le zampette e la coda e poi si ritagliava e si incollava la carta sul lato liscio del guscio. Da ragazzo, una influenza mi costrinse a letto per qualche giorno.
Era d’estate la mamma aveva socchiuso le persiane per non fare entrare troppa luce. Un sottile raggio di sole entrava da un forellino della persiana, e io, dal mio letto, potevo seguirlo per tutto il giorno nel suo percorso sui muri e sui mobili.
Il movimento del punto luminoso era impercettibile ma osservandolo continuamente potevo vedere i suoi spostamenti, come il disco di luce si trasformava, si allungava o si restringeva secondo l’angolo di incidenza. Venne a trovarmi un amico e lo pregai di portarmi degli oggettini riflettenti come specchietti, carte stagnole, palline dell’albero di natale. Intanto cercai di individuare bene il percorso del punto luminoso e quando l’amico tornò gli feci disporre questi oggettini riflettenti lungo il percorso del sole a distanze diverse e mi addormentai un poco stanco per lo sforzo.
La mattina dopo il sottile raggio di sole entrò nella stanza e cominciò il suo giro sulle pareti. Io lo aspettavo al varco: ecco che si avvicinava a un frammento di stagnola, la tocca, il disco luminoso si disfa in tanti raggi, alcuni colorati, lentamente si trasforma, si allarga poi lentamente si ricompone, torna ad essere il piccolo disco di prima, sta per uscire dalla stagnola, ancora qualche sprazzo di luce, è uscito.
Adesso si sposta impercettibilmente e va verso lo specchietto. Lo tocca, rimbalza sulla parete opposta, è più debole, sparisce, esce dallo specchietto e continua il suo giro dove incontrerà altri oggetti che mi fanno vedere altri effetti. Il giorno dopo ero guarito.”
“E poi avevo un piccolo elastico di para, molto elastico. A tirarlo e a farlo vibrare emetteva suoni diversi secondo la tensione. Con una piccola scatoletta di fiammiferi svedesi e un rametto secco, costruii uno strumento musicale molto semplice. La scatoletta di legno di pioppo sottile faceva da cassa armonica. Il rametto teneva l’elastico il quale, passando sopra la scatola, appoggiava sopra un ponticello.
Avevo osservato molto mio zio Vittorio quando costruiva i suoi violini, e questo era uno strumento a corda elastica che poteva produrre alcune note. Quando ero bambino non c’erano tutte le colle e i nastri adesivi che ci sono adesso, per cui dovevo arrangiarmi con quello che trovavo. Per fortuna che lo zio aveva una buona colla che faceva lui stesso con delle cartilagini animali e non so con cosa d’altro. Quando lo strumento fu pronto, l’elastico si ruppe.
E poi avevo un giocattolo enorme, grandissimo, così grande che cominciai a camminargli sopra per vedere dove finiva, ma dovetti tornare a casa perché veniva sera. In questo enorme giocattolo vidi tantissime cose: insetti e animaletti che andavano affaccendati per i loro affari e nemmeno mi vedevano. Alcuni sparivano in piccoli buchi, altri andavano a finire sotto delle pietre…
Trovai tanti fili verdi di erbe, rametti secchi spezzati, foglie dappertutto, fiorellini sparsi. Su questo enorme giocattolo potevo correre e saltare, sdraiarmi o camminare in punta di piedi.
Potevo scavare buche o piantare degli stecchi. Finiti i giochi non dovevo metterlo a posto, lui era sempre là che mi aspettava e poi, anche se qualche volta non andavo a trovarlo, lui non si offendeva.”
Bruno Munari
Di Bruno Munari:
CAPPUCCETTO VERDE Tutti conoscono Cappuccetto Rosso, ma forse non tutti sanno la storia di Cappuccetto Verde, Cappuccetto Giallo e Cappuccetto Bianco, mandati dalla mamma a portare alla nonna un cestino pieno di cose verdi, gialle, bianche. Il lupo nero li aspetta nel folto del bosco, nel traffico, nella neve… riuscirà a prenderli? Con queste favole, pubblicate per la prima volta nella storica collana Einaudi “Tantibambini”, un colore diventa protagonista nei disegni, nel testo e nei personaggi. Bruno Munari ha giocato con la fiaba tradizionale e ne ha allargato gli orizzonti, creando personaggi e storie nuove. I Cappuccetti di Munari ritornano ora come libri singoli, secondo il progetto originale. Età di lettura: da 5 anni.
I PRELIBRI sono stati pubblicati per la prima volta da Danese nel 1980. Sono una serie di 12 piccoli libri (10 x 10 cm) dedicati ai bambini che non hanno ancora imparato a leggere e scrivere, disegnati per adattarsi alle loro mani e assemblati usando diversi tipi di materiali, colori e rilegature. Offrono una varietà di stimoli, sensazioni e emozioni, che nascono dall’accostamento di percezioni e immagini: “dovrebbero dare la sensazione che i libri siano effettivamente fatti in questo modo, e che contengano sorprese. La cultura deriva in effetti dalle sorprese, ossia cose prima sconosciute” (Bruno Munari).
TOC TOC… CHI E’? APRI LA PORTA Qui, come negli altri titoli, Munari gioca su un racconto essenzialmente visivo pieno di attese e di sorprese ottenute attraverso soluzioni semplicissime. Toc toc … e una porta si apre.
NELLA NOTTE BUIA Questo libro è uscito per la prima volta, in poche copie, nel 1956 e da allora è diventato un libro culto dell’editoria per ragazzi. Tuttora conserva tutta la sua attualità e ognuno, bambino o adulto che sia, diventa protagonista di questa avvincente ricerca all’interno della notte, sotto l’erba del prato, nel fiume sotterraneo e nella grotta, passando con la propria fantasia e curiosità (quasi con il proprio corpo) attraverso i fori, i pertugi e i profondi buchi presenti nelle pagine di carta, nere o ruvide o trasparenti…. Ognuno segue fino in fondo, con il fiato sospeso, la piccola luce che si intravede lontano. Età di lettura: da 5 anni.
NELLA NEBBIA DI MILANO Pubblicato per la prima volta nel 1968, questo volume propone un ritratto spietato e gustoso della metropoli lombarda con forme nere, stilizzate, geometriche, creando un effetto nebbia con la carta lucida semitrasparente, in contrasto fortissimo con il fantastico mondo del circo rappresentato al centro del libro. Il lettore viene completamente coinvolto ed entra attivamente nel racconto, in un percorso fatto di immagini e suggestioni create dall’uso di carte diverse fustellate e disegnate. Un viaggio dentro la lattiginosa opacità della nebbia di Milano, un approdo nell’allegra vivacità del mondo del circo. Età di lettura: da 5 anni.
IL PRESTIGIATORE VERDE Il prestigiatore verde, il simpatico Alfonso, sparisce e ricompare tra le pagine in bauli e scatole per riuscire finalmente a suonare in pace il suo violino.
GIGI CERCA IL SUO BERRETTO Dove sarà il cappello di Gigi? Nell’armadio, nel frigorifero? Una storia semplice e coloratissima, divertente e attuale anche se disegnata negli anni ’40.
IL VENDITORE DI ANIMALIUn bizzarro venditore ci propone una teoria di fantasiose creature dalle strane abitudini…e tra un fenicottero che fuma la pipa e un armadillo “un poco brillo”, nel finale la sorpresa è assicurata!
LA RANA ROMILDA La storia di una rana che, saltando di palo in frasca, ha una serie di avventure curiose e divertenti.
L’UOMO DEL CAMION 10 Km. E per ognuno, un diverso mezzo di trasporto e un “imprevisto” che ritarda la consegna del regalo… ma cosa ci sarà dentro al pacco?
STORIE DI TRE UCCELLINI Ancora un libro della storica serie del 1945. Munari ideò questi libri/album animati per i bambini utilizzando grandi immagini, pagine ed inserti di diverse dimensioni, fori e fustelle, per creare curiosità ed attesa in chi guarda. L’album racconta tre delicate e eleganti storie di tre uccellini che finiscono in gabbia.
TANTA GENTE Un libro abbozzato, suggerito, un libro che Bruno Munari ha cominciato a preparare e che noi possiamo completare, rifare e reinventare… il tema? La gente! tanti tipi diversi, tanti atteggiamenti, tanti tic e tante storie: possiamo completare i disegni accennati, disegnarne di nuovi, descrivere, incollare e divertirci a cambiare l’ordine dei fogli. Anche le carte sono tante, colorate e trasparenti, per suggerirci tanti stimoli diversi.
ABC SEMPLICE LEZIONE DI INGLESE “ABC” è un alfabetiere scritto e disegnato da Bruno Munari nel 1960, con la consueta colorata ironia. Destinato originariamente agli Stati Uniti, diventa una semplice e divertente lezione d’inglese per i bambini (e non solo) italiani.
ALFABETIERE Chi l’ha detto che l’alfabeto si impara dalla A alla Z? Munari invita i bambini a giocare con suoni e forme delle parole: imparare a leggere e a scrivere diventa così un impagabile divertimento.
ZOO Un viaggio fra animali colorati e testi divertenti per descriverli. Le immagini vivide e il segno particolare fanno di questo libro uno zoo fra reale e immaginario per bambini e adulti.
MAI CONTENTI Qui, come spesso succede nella vita reale, animali sognano di essere altri animali, in un divertente ed ironico rimando circolare.
[wpmoneyclick id=88399 /]Francesco Codello, dirigente scolastico di Treviso, da anni impegnato nella ricerca storico-educativa, è autore di numerosi articoli e saggi apparsi su diverse riviste, animatore dell’I.D.E.N. (International Democratic Education Network) in Italia e redattore della rivista «Libertaria». http://www.educazionelibertaria.org/
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Arriva il bambino a una dimensione
di Francesco Codello
I sistemi educativi nelle società del primo mondo stanno formando nuovi soggetti. Adatti alle esigenze della New-economy e alla divisione internazionale del lavoro. L’apprendimento deve quindi essere necessariamente e utilmente parcellizzato. Un processo che determina la formazione di una mente duttile, elastica, flessibile, assoggettata a una funzione di dominio e potere che si regge sull’assenza di principi come la libertà e la diversità. Questa è la riflessione che propone Francesco Codello, dirigente scolastico a Treviso e studioso dei problemi dell’educazione.
Chiunque si accinga a riflettere sulla personalità infantile non può che constatare come progressivamente, ma decisamente, i ragazzi abbiano ormai uno sviluppo precoce di tutte le abilità cognitive.
Bambini e ragazzi di entrambi i sessi, infatti, presentano una spiccata maturazione della sfera razionale e logica della loro personalità, che interessa soprattutto l’ambito cognitivo e intellettuale.
Questo fatto incontrovertibile emerge chiaramente da tutte le analisi, le osservazioni e gli studi psicologici, pedagogici, sociali che sono stati pubblicati in questi ultimi anni, ma anche dall’osservazione sistematica che genitori e insegnanti fanno quotidianamente nei vari contesti educativi.
L’intellettualizzazione dello sviluppo della personalità è ormai un dato incontrovertibile che evidenzia un abbassamento precoce e un anticipo dell’età nella quale ogni bambino sviluppa performance intellettive.
Tutta l’organizzazione sociale dell’infanzia ruota attorno a questa impostazione:
– anticipo dell’età della scolarizzazione ai tre anni;
– organizzazione del tempo libero improntata a un «arricchimento delle opportunità formative»;
– invasione pressante della tecnologia audio-visiva tanto da provocare una diffusa intossicazione tecnologica;
– decisa impostazione pedagogica dei programmi e dei curricoli scolastici in senso cognitivo-efficentista;
– frammentazione sistematica delle modalità di insegnamento e ricerca di modelli organizzativi della didattica che rispondano a criteri di produttività;
– intera organizzazione del sapere scolastico improntata a una logica economicistico-industriale;
– filosofia del tempo come opportunità di accumulazione di nozioni ed esperienze intellettive;
– assenza di spazi e tempi nei quali non vi sia presenza organizzata di adulti;
– radicale espulsione di fatto da ogni esperienza formativa di attività pratiche, manuali e corporee;
– progressiva trasformazione della famiglia da luogo deputato all’educazione (autoritaria) a nucleo di assimilazione e consumo.
Questo quadro produce inevitabilmente la nascita del bambino a una dimensione, quella cognitivo-intellettiva appunto, contribuendo in maniera decisiva alla formazione di personalità assolutamente disarmoniche.
Bambini e ragazzi si distanziano sempre più da una propria autonoma personalità, da un individuale stare al mondo, da un distacco esistenziale e conscio dalla massificazione. Ciò si manifesta in vari modi: prolungamento della permanenza in casa fino a età più avanzate, perdita di abilità e competenze elementari, dipendenza da modelli determinati non più dalla famiglia ma dal «branco», …
Questa anticipazione dello sviluppo cognitivo, unitamente alla progressiva esclusione degli altri aspetti della personalità, forma individui monodimensionali che ben si inseriscono però nel contesto socio economico e culturale dei Paesi post-industriali del nord del mondo e nell’occidente capitalista.
Il processo di globalizzazione, che altro non è se non un nuovo feudalesimo culturale, si fonda proprio sui presupposti della divisione internazionale del lavoro conseguenza logica del primato della conoscenza intellettiva su quella operativa.
Lo stesso ruolo dell’insegnante viene modificato da questo processo producendo uno spostamento radicale delle sue funzioni sociali. La scuola, in virtù della precoce scolarizzazione, diventa sempre più l’istituzione totale per eccellenza, contenitore esclusivo del processo istruttivo.
L’esperienza dominante e tipica si risolve nella scuola in apprendimento intellettivo e astratto, in spazio di consumo e fruizione di conoscenze e nozioni, in unicità e settorialità di sviluppo della personalità. L’insegnante, l’educatore, diventa pertanto sempre più tecnico specifico di una disciplina. Ha perso completamente la sua funzione sociale di coscienza critica, di intellettuale disorganico della società.
La scuola deve formare la «risorsa umana», che in quanto riconosciuta e definita come tale, viene assimilata alle altre «risorse» e acquisisce lo stesso valore. L’economia è economia della conoscenza, risorsa principale della New-economy.
Il sapere esclusivo diventa il veicolo e lo strumento per la formazione del privilegio: padroneggiare e commercializzare il «saper sapere», una struttura metodologica che consenta di imparare ad imparare. Soltanto chi possiede una capacità meta-cognitiva è in grado di pensarsi o come dominatore o come contestatore.
Insomma un nuovo dominio viene formandosi basato sulla centralità e sull’importanza della formazione strutturale dell’uomo a una dimensione.
Vale la pena sottolineare come questo impianto sociale produca l’affermarsi del valore della tolleranza (vale a dire l’accettazione passiva dell’altro.) e non della solidarietà, che implica esattamente il contrario della passività.
Qual è l’origine di questa corrente delle scuole democratiche, dov’è nata e per iniziativa di chi? Nella sua origine storica, si può dire che la prima scuola democratica mai istituita sia quella di Summerhill, creata nel 1921 da Alexander Neill in Inghilterra.
All’origine c’è Summerhill? Sì, e dopo Summerhill, sempre in Inghilterra, c’è stata un’altra esperienza importante, una scuola che si chiamava Dartington Hall School.
Questa corrente delle scuole democratiche inglesi si è affermata abbastanza nel mondo, ci sono altri paesi che la seguono in quel metodo pedagogico? Sì, penso che sia così; certo ogni paese ha caratteristiche proprie, tradizioni specifiche. Si può dire che quelle scuole si sono sviluppate in base alle caratteristiche dei paesi d’origine.
E oggi quali sono i paesi più rappresentativi, i più impegnati in questo movimento delle scuole democratiche? Attualmente mi pare che sia Israele il paese dove il movimento è più importante. Lì ci sono ventisei scuole già attive, oggi, ma se ne trovano anche in Inghilterra e negli Stati Uniti e in Canada. Ce ne sono pure nella Corea del Sud e in Giappone, in Tailandia e in Indonesia, in Nuova Zelanda e in Australia, in India, in Nepal, in Costa Rica, in Equador, in Brasile e in Guatemala, in Cile e in Colombia, e, ovviamente, in Europa: in Spagna e in tutta l’Europa dell’Est, a Budapest, in Polonia, in Ucraina, a Mosca…
E in Francia e in Italia? Be’, in Italia no, non c’è nemmeno un’esperienza di scuola democratica. In Francia io credo che l’esperienza più significativa sia stata quella di Bonnaventure, ma Bonnaventure è una scuola libertaria. Per l’Italia e per una parte della Francia, ciò che spiega la scarsezza di esperimenti del genere è il posto che occupa la scuola laica di Stato, che in effetti ha svolto un ruolo importante nella lotta contro l’ingerenza della Chiesa e della religione cattolica, e per questo molti progressisti l’hanno appoggiata, senza preoccuparsi di sviluppare un modello alternativo, purtroppo confondendo il pubblico con lo statale.
Anche le pratiche delle scuole Freinet sono forse abbastanza vicine a quelle esperienze? Mi pare di sì, ma non del tutto, perché le scuole Freinet non hanno sviluppato la democratizzazione e la partecipazione diretta degli studenti alla vita scolastica, nel senso della formulazione delle decisioni. Nella maggior parte dei casi, la cooperazione si ferma davanti alla porta dell’aula e investe la sfera della didattica ma non va ad intaccare la gestione della vita scolastica.
Quanti studenti coinvolge il movimento in tutto il mondo? Nel mondo non saprei, ma posso dire che le dimensioni di ogni scuola non sono molto grandi e mi pare che questo sia un bene, perché permette una relazione diretta e di qualità tra le persone, cosa che non è possibile se hai troppi allievi.
Per questo c’è un rapporto tra la «democrazia diretta» nella scuola e le dimensioni della popolazione scolastica? Sì, sì. C’è senz’altro un rapporto importantissimo, perché la partecipazione diretta è possibile solo in una dimensione limitata.
Quali sono i principi pedagogici di queste scuole democratiche? Non mi pare che abbiano una teoria pedagogica di riferimento, ma s’ispirano a varie concezioni, come quella di Janusz Korczack e anche a quella dell’anarchico Francisco Ferrer, di Carl Rogers come di Alexander Neill. Negli USA esiste ancora un movimento della scuola ispirato a Ferrer. Si può dire che le modalità caratteristiche di queste scuole siano quelle che riassumerò brevemente così: tutte le decisioni sono prese con la partecipazione di tutti coloro che vivono nella scuola.
Tutti quelli che ci vivono, vale a dire i non docenti, gli insegnanti, gli studenti e i genitori? Sì, tutti quelli che ci lavorano e ci studiano, i genitori non sempre, ma solo in certi casi. Riguardo a questo primo principio ci sono differenze tra le scuole: in alcune si decide tutto a maggioranza qualificata e in altre si decide all’unanimità. Una scuola dove ogni decisione è presa all’unanimità, per esempio, è la Carl Rogers di Budapest; una dove si decide a maggioranza è quella di Summerhill. Ma io penso che il concetto che si svilupperà di più è quello dell’unanimità, che è applicabile dovunque: se si trova una minoranza che non sia d’accordo con una certa decisione, non fanno propria la decisione che si sta per prendere, se è fondamentale lasciano perdere. Questo modo di procedere è indubbiamente libertario, perché rimanda a un contesto più ampio e più ricco una questione che non può limitarsi a decisioni puramente formali. Si tratta in sostanza di fare delle scelte, ma anche di rispettare le ragioni di una minoranza.
Deve essere un’azione volontaria e libera, che non può mai essere imposta. L’insegnamento non è obbligatorio? No, non lo è. Ma anche di questo principio ci sono differenti applicazioni a seconda del luogo. Sono stato in visita al liceo autogestito di Oslo, che è stato fondato negli anni sessanta da un gruppo di studenti indipendenti. In quella scuola, per esempio, una parte dei corsi, del programma, è destinata a tutti ed è obbligatoria, ma la parte prevalente è facoltativa e libera. Ogni studente si fa un programma di studi personalizzato. C’è un modello di scuole democratiche molto radicale, che si ispira all’esperienza di Sudbury Valley (www.sudval.org) nel Massachusetts: lo si ritrova applicato in Germania e in molti altri paesi: non esiste la frequenza obbligatoria, non c’è un orario delle lezioni, tutto si svolge in base alle decisioni prese ogni mattina, secondo le esigenze che emergono dalla discussione collettiva. Questo è il modello radicale. Mi pare che il congresso di Berlino nel 2005 abbia votato questa mozione: «Gli studenti apprendono quando vogliono, dove vogliono, con chi vogliono.» È il principio che riassume un po’ lo spirito delle scuole democratiche. Gli studenti hanno il diritto di scegliere in totale libertà con chi, che cosa, quando e come studiare.
Nella costruzione del curriculum, del programma, c’è sempre un consiglio di insegnanti o di animatori che dica agli studenti perché sia meglio cominciare con questo o con quello? Anche in questo caso ci sono metodi diversi. Devi sapere che la maggioranza di queste scuole non è statale: sono istituti privati che funzionano secondo regole proprie. Chi, però, vuole avere alla fine un riconoscimento o un diploma, deve sostenere un esame, non nella scuola ma con l’amministrazione statale, per attestare il livello raggiunto. In genere i risultati degli allievi delle scuole democratiche sono altrettanto buoni, sono migliori? Io credo che siano come nelle altre scuole, da questo punto di vista. Ci sono risultati eccellenti, altri meno buoni, ma non sta qui la differenza. Alla fine, quello che distingue gli allievi delle scuole democratiche è il fatto che chi ha vissuto la loro esperienza è senza dubbio più sorridente, più aperto, più abituato a confrontarsi con gli altri, a partecipare alle decisioni.
Il che significa che le scuole democratiche non sono solo democrazia pedagogica, ma anche scuole di democrazia sociale. Si, è questo uno degli aspetti. Io la penso così: ritengo che quella pratica sociale sia importante per sviluppare una certa sensibilità; ma poi la si deve consolidare anche con altri principi, con altri valori che sono importantissimi, perché, come sappiamo bene, la democrazia non è tutto. L’obiettivo chiaramente espresso di queste scuole, mi pare, e tu l’hai detto in un’altra occasione, è che esse fanno la differenza tra «essere» e «dover essere». Io lo interpreto così: è la mia lettura di queste esperienze in Europa, ma non è sempre così esplicito.
Ovvero? Credo che sarebbe meglio costruirsi una teoria basata sull’esperienza diretta di queste scuole, e la teoria che io propongo dice che l’educazione libera, come la intendo io, ma io sono un anarchico, deve educare «a essere» e non a «dover essere». Nel senso in cui tutte le filosofie dell’educazione hanno lo stesso principio di fondo, l’idea preconfezionata, di conformare l’uomo e la donna. L’uomo e la donna devono essere come li vuole lo Stato, come li vuole la Chiesa, o il comunismo, il fondamentalismo, il capitalismo…
Vogliono un « uomo nuovo» pre-pensato e non un individuo libero e autonomo? In quei sistemi la scuola conforma l’individuo a un progetto costruito autoritariamente. Sì, a un progetto di società autoritaria. Io credo che l’importanza dell’esperienza di queste scuole democratiche stia nello sviluppare le potenzialità di ogni studente, di ogni persona. Ma anche degli insegnanti, dei genitori, che la vivono, che si confrontano, che imparano a comunicare. Ognuno può decidere che cosa vuol diventare e soprattutto può sviluppare quanto ha di sensibilità, come attitudine, come progetto di vita.. Perché io credo che tutti, anche i bambini più piccoli, abbiano un progetto di vita.
Qual è la differenza con le scuole libertarie?Anche queste esprimono l’idea di permettere a ciascuno di costruirsi, di fabbricarsi per diventare «un uomo fiero e libero». Sì, certo, ma la differenza sta nel fatto che le scuole libertarie hanno un progetto più ampio, che comprende anche l’uguaglianza economica, sociale, culturale, mentre le scuole democratiche tutto questo non lo esplicitano. Si può dire allora che in queste scuole la sensibilità sociale si coltiva o si acquisisce soltanto con l’esperienza diretta, ma non nel contesto di una riflessione più ampia sulla società. La differenza fondamentale è questa. Questo non significa anche che le scuole libertarie devono fare molta attenzione in modo da permettere ai bambini di «essere» e non riprodurre modelli di normalizzazione, in altre parole, «costringerli» a diventare libertari. Se vogliamo che i giovani si realizzino secondo le proprie potenzialità, non si può dare un giudizio a priori sul loro divenire ideologico.
È una scommessa molto difficile per noi, questa. Sì, è vero.
Si scommette sulla libertà prodotta dalla libertà? Sì. Si può dire così, è quello che penso. Lavorare con la corrente delle scuole democratiche è importantissimo per gli anarchici che hanno una sensibilità pedagogica, che s’interessano a questi problemi, perché si può avere un ruolo importante. Si può fare in modo che queste esperienze si trasformino e si evolvano, da un’assimilazione di tecniche pedagogiche democratiche verso tecniche e riflessioni che producano e moltiplichino valori sociali di libertà, di uguaglianza, di fraternità, di aiuto reciproco…
Quando si lavora con la rete delle scuole democratiche si ha probabilmente una funzione che è di contributo d’informazione ideologica e teorica, da trasmettere a questa corrente democratica che è di fatto assai poco ideologizzata. Sì, è vero. Ma anche di critica. Serve a mettere sempre un punto interrogativo, a sollevare dubbi, in modo che chi vi agisce non accetti mai di vivere in una ambiente definito, chiuso, in uno spazio che non sia aperto al mondo.
Il rischio, in queste scuole democratiche, è che il capitalismo si accorga della loro efficacia, che ne applichi i principi pedagogici per formare dirigenti, politici, generali… Certo, certo. Sono uno strumento, un mezzo che va mantenuto sempre con caratteristiche il più possibile libertarie, per non permettere allo Stato e ai padroni d’impadronirsene. È questa la posta in gioco.
Ci sono altre differenze importanti tra scuole libertarie e scuole democratiche? Io penso che la scuola democratica sia una approssimazione che progredisce per gradi, un’evoluzione verso un modello libertario. È come l’anarcosindacalismo, che si impiega con l’azione diretta a formare persone che pretendono di diventare e di essere libere. Per gli anarchici è un mezzo per essere nella storia, come dico, ma anche contro la storia che altro non è che una costruzione sociale del pensiero borghese.
È un momento di transizione? Sì, per non rinchiuderci nell’ideologia e per confrontarci sempre con gli altri, stando però sempre attenti a non finire ingabbiati nelle logiche del mondo autoritario. Un’altra cosa interessante nelle scuole democratiche, per quanto riesco a capire, è che ci sono sì principi generali, ma non si dice mai che la scuola deve funzionare in questo o in quel modo, ogni scuola democratica ha un suo modo di funzionare: in un certo senso il movimento delle scuole democratiche accetta il principio del federalismo.
Nello stesso tempo ha principi generali, valori che si applicano diversamente in ogni luogo, da qualsiasi parte. Sì, sì.
Come sono organizzati gli incontri tra queste scuole? Quando si riuniscono non c’è un programma precostituito, ma è deciso dai partecipanti, le decisioni sono prese all’unanimità. Nella pratica è un movimento molto libertario, che non ha la consapevolezza di esserlo, mi pare.
I partecipanti fanno pratica anarchica senza saperlo? Sì, in qualche modo penso che sia così.
Intervista realizzata da Hugues Lenoir il 23 settembre 2007
Dalla scuola obbligatoria all’apprendimento
Nel corso della storia gli esseri umani hanno generalmente appreso dall’esperienza pratica, vale a dire attraverso:
– l’osservazione e l’imitazione di comportamenti utili, convenienti o accettabili;
– la sperimentazione e l’invenzione, ad esempio procedendo per tentativi e arrivando alla scoperta di nuove forme di comportamento.
Una volta non esisteva la distinzione tra vivere e apprendere e non vi era nemmeno l’idea che questi due aspetti potessero essere tenuti separati.
Per la grande maggioranza delle persone questo è stato il caso per parecchi secoli, anche quando le prime scuole sono state fondate in Egitto e a Babilonia.
E anche quando l’immagine delle scuole come centri privilegiati di apprendimento si è installata nelle menti di quasi tutti, l’apprendere dalla pratica di vita e l’apprendimento come un processo che dura tutta una vita sono concetti che non sono mai venuti meno. L’apprendimento attraverso la scuola, pur sorgendo in epoca posteriore rispetto all’apprendimento dalla pratica di vita, è nondimeno un fenomeno abbastanza antico.
L’invenzione e la diffusione della scrittura unitamente alle altre capacità connesse quali il leggere e il calcolare, favorirono la fondazione di scuole, prima in Egitto e a Babilonia e poi in Grecia. In Grecia, Socrate divenne l’esponente famoso di un modo di educare, chiamato maieutica, in cui colui che è disposto ad apprendere viene aiutato, attraverso una serie di domande e risposte appropriate, a portare alla luce consapevolmente quello che si riteneva fosse già presente, in una forma latente e poco sviluppata, nella sua mente e nei suoi sensi.
E questo è ciò che la parola stessa “educazione” significa dal punto di vista etimologico e cioè e-ducere (portare fuori) vale a dire stimolare e agevolare la piena espressione delle energie e delle qualità dell’individuo. In contrasto con questa concezione e pratica educativa, una nuova schiera di istruttori emerse nell’antica Grecia che avrebbe rappresentato un modello per la maggior parte dei futuri insegnanti: i sofisti.
Il metodo adottato dai sofisti consisteva nell’insegnare elementi collaudati dell’arte della persuasione (dialettica) e dell’espressione (retorica) di modo che i figli dei ricchi Ateniesi potessero prevalere nelle contese oratorie contro i loro avversari politici.
Il metodo sofistico assegna una importanza enorme alla capacità di servirsi delle parole e alla loro disposizione formale, aspetti che influenzeranno la maggior parte dell’insegnamento scolastico nel corso dei secoli. La separazione tra scuola e vita che questo modo di insegnare e di apprendere non poteva non favorire, emerse anche a Roma.
Ed è proprio contro questo aspetto negativo dell’educazione Romana che si levò il famoso monito di Seneca: “non scholae sed vitae discimus” [impariamo non per la scuola ma per la vita].
Dopo la caduta dell’Impero Romano e la decadenza delle città, le scuole diminuirono di numero e quasi scomparvero e l’educazione ritornò a svolgersi soprattutto in famiglia e attraverso le attività quotidiane. Con la ripresa urbana (intorno all’anno 1000) e con lo sviluppo delle produzioni e dei commerci, riapparvero insegnanti ed istituzioni educative per soddisfare le esigenze dei figli delle nuove famiglie aristocratiche e dei ricchi artigiani e mercanti.
Nel corso del Medio Evo, la Chiesa si assunse il compito di preservare le opere di autori greci e romani, salvandole dalla scomparsa e dall’abbandono. Gli ecclesiastici divennero quindi gli elementi della società più dotati di istruzione, praticamente i soli in grado di leggere e scrivere e in possesso di conoscenze provenienti da età passate.
I limiti all’apprendimento consistevano negli stessi che avevano riguardato la pratica dei sofisti: la separazione tra le materie e i modi dell’insegnamento da una parte e le attività e i problemi della vita degli individui dall’altra.
Aspetti formali, apprendimento a memoria, studio pedantesco delle lingue greca e latina, divennero i pilastri fondanti di gran parte delle scuole medioevali. Lo studente era tenuto a familiarizzarsi in maniera pedissequa con i testi degli autori classici come se essi fossero le vette insuperate e insuperabili della cultura.
L’educazione classica basata sullo studio del latino era allora ritenuta essenziale per entrare a far parte delle più alte professioni quali l’avvocato, il medico, il teologo. Però, contemporaneamente, data la richiesta dei tempi, cominciarono ad apparire scuole di tipo professionale, indirizzate ai figli della classe commerciale in ascesa, nelle quali erano insegnate materie più attinenti alla vita pratica quali la matematica applicata al commercio e il leggere e scrivere in volgare.
Viene così a crearsi una varietà di esperienze educative da parte di una serie di promotori educativi. Questo sarà ancor più evidente con la Rivoluzione Industriale, quando i miglioramenti generali nelle condizioni di vita permisero di dedicare una sempre più ampia quota di tempo e di energie all’educazione formale dei bambini.
Durante la prima metà del secolo XIX, una incredibile serie di iniziative di istruzione scolastica si sviluppò in Inghilterra che stava diventando il paese più avanzato d’Europa. Il numero delle cosiddette scuole private vide una crescita del 545% in dieci anni.
Ma in altre parti d’Europa ci si stava già muovendo in una direzione diversa, con lo stato che assumeva sempre più il controllo dell’educazione.
In Prussia, che va considerata assieme alla Francia come la culla della scuola di stato, i “Regolamenti generali delle scuole” emessi nel 1763 sotto Federico II decretarono l’obbligo scolastico per tutti i ragazzi dai cinque ai tredici anni di età e in seguito tutti gli istituti educativi furono posti sotto la supervisione dello stato.
Nel frattempo in Francia, B. G. Rolland, presidente del Parlamento di Parigi, produceva un rapporto sull’educazione nazionale (1768) in cui invocava l’intervento dello stato attraverso un sistema nazionale gerarchico, centralizzato nella capitale, che controllasse tutte le scuole locali.
Le fondamenta teoriche e pratiche della scuola di stato furono dunque poste nella seconda metà del secolo XVIII.
In Francia la Rivoluzione, con la sua mitizzazione dello stato presentato come il protettore dei cittadini, preparò la strada al dispotismo imperiale di Napoleone.
Napoleone vedeva nell’educazione di stato un mezzo per produrre amministratori preparati e ufficiali dell’esercito a lui obbedienti.
A tal fine istituì i Licei statali, lo stato si arrogò il diritto di nominare gli insegnanti, e venne costituita l’ Università Imperiale, una sorta di Ministero dell’Educazione preposto al controllo di tutto il sistema scolastico e dell’apparato di insegnamento della Francia.
Dopo la caduta di Napoleone, la legge obbligò ogni comune in Francia a istituire una scuola elementare statale. Una serie di leggi ridussero notevolmente e in alcuni casi eliminarono la presenza delle scuole cattoliche, introducendo la proibizione di insegnamento da parte del clero. Il curriculum delle scuole di ogni ordine e grado fu elaborato centralmente e espurgato a fondo di ogni riferimento o tema religioso. Venne deciso di finanziare le scuole di stato attraverso il prelievo fiscale e quindi la loro frequenza divenne apparentemente gratuita.
Seguendo l’esempio della Francia e della Prussia, molti stati Europei assunsero il controllo dell’educazione.
Da quei primi inizi nella seconda metà del secolo XVIII, la scuola di stato si è diffusa dappertutto e ha assunto il controllo dell’educazione a tal punto che l’educazione stessa ha finito per essere identificata con la scuola e per scuola si intende quasi implicitamente la scuola di stato.
Occorre quindi focalizzare l’attenzione un po’ più a fondo sulla scuola di stato, presentando brevemente le giustificazioni offerte per la sua introduzione e le funzioni, le caratteristiche, i protagonisti e gli effetti che caratterizzano la sua esistenza.
La ragione principale a sostegno dell’introduzione della scuola di stato è consistita in considerazioni di tipo egalitario e umanitario: migliorare la condizione dei diseredati e abolire le disparità culturali e gli scompensi sociali, al fine di formare cittadini liberi dall’ignoranza e una società libera dalle disuguaglianze. In realtà, in molti paesi, l’alfabetizzazione delle masse veniva considerata come una possibile causa di ribellioni e di disordini.
Dobbiamo inoltre correggere l’opinione diffusa che lo stato sia stato il vero promotore dell’alfabetizzazione di massa.
In realtà, dalla fine del secolo XVIII, la diffusione dell’alfabetismo stava già avvenendo nonostante e contro l’opposizione dello stato, se si tiene conto che il governo liberale Inglese aveva introdotto tasse sulla carta per scoraggiare la diffusione della lettura e della scrittura tra i meno abbienti.
Nonostante ciò, l’ampia circolazione di documenti rivoluzionari rappresentavano un segno che la capacità di leggere si stava diffondendo anche senza l’intervento dello stato e nonostante gli ostacoli posti dallo stato. E non appena la tassa sulla stampa venne abolita nel 1855, diciassette nuovi giornali di provincia vennero fondati, una indicazione ulteriore della presenza consolidata di capacità di lettura tra la popolazione inglese in generale, molto prima di qualsiasi scolarizzazione di stato in Inghilterra.
Una ulteriore giustificazione per l’intervento dello stato sotto forma di frequenza scolastica obbligatoria per tutti i ragazzi fino ad una certa età, si basava sulla volontà di porre fine al loro sfruttamento nelle miniere e nelle fabbriche. Ma mentre è vero che un numero ristretto di genitori non si comportavano in maniera umana nei confronti della loro prole, la maggior parte di essi compiva ogni sforzo per assicurare ai loro figli un futuro migliore. E a scuola o a frequentare corsi vari di istruzione essi andarono in numero crescente, con un incremento annuo del numero degli alunni doppio rispetto all’incremento della popolazione. Al tempo stesso la grande maggioranza dei lavoratori si era già alfabetizzata o attraverso un impegno personale o tramite l’assistenza di altre persone.
Anche se accettiamo che queste siano ragioni valide per sostenere la promozione dell’educazione da parte dello stato (ad esempio finanziando e facilitando in molti modi ogni tipo di attività educativa), queste stesse ragioni non portano necessariamente a diventare fautori della scuola di stato e del controllo generale dell’educazione da parte dello stato. Altri motivi sostanziali hanno condotto alla scolarizzazione obbligatoria in scuole di stato.
Essere in favore dell’educazione delle classi meno abbienti, in vista della loro emancipazione, non si identifica con la frequenza obbligatoria della scuola di stato, se si considera quanti altri modi esistono per promuovere e accedere all’educazione.
Il sistema di educazione statale sia in Francia sia in Prussia fu perfezionato su basi nazionaliste e le scuole divennero uno degli strumenti più efficaci dell’arsenale politico dello stato.
L’esperienza Prussiano-Tedesca mostrò che “le scuole sono strumenti di politica statale, come l’esercito, la polizia e gli esattori delle imposte”. E praticamente tutti i governanti statali, a tempo debito, appresero la lezione. Lezione che assorbirono creando un sistema scolastico statale rigidamente controllato dal centro, ed emarginando o eliminando ogni influsso esterno allo stato (Chiesa, comunità, genitori, ecc…). Questo è il sistema che sarà adottato in molti paesi, ad esempio l’Italia e che sopravviverà durante quasi tutto il corso del secolo XX.
Una conferma riguardo alle funzioni effettive della scuola di stato, si ha osservando i tratti che ancor oggi, in molti casi, la caratterizzano fondamentalmente, e cioè:
– Finanziamento obbligatorio generalizzato (imposte). La scuola di stato è un servizio fornito in regime praticamente monopolistico considerato che è finanziato obbligatoriamente da tutti, non solo senza distinzione tra coloro che hanno o non hanno figli ma soprattutto, non tenendo conto se il contribuente tassato è a favore della scuola di stato o si rifiuta di utilizzarla, investendo tempo e risorse in esperienze educative alternative per i suoi figli (insegnamento a casa, scuole di comunità, utilizzo di esperti, corsi particolari, acquisto di materiali educativi, ecc.).
– Frequenza obbligatoria generalizzata (fino ad una certa età). La frequenza scolastica è imperativamente prescritta per legge (l’insegnamento in famiglia è permesso solo in alcuni paesi) e i ragazzi sono obbligati ad andare a scuola altrimenti lo stato interviene con la polizia e la magistratura.
– Irreggimentazione degli insegnanti (formazione degli insegnanti e pratiche di insegnamento). Gli insegnanti sono addestrati sotto la supervisione dello stato e devono trasmettere nozioni che sono previste in un curriculum approntato dallo stato, utilizzando manuali approvati dallo stato, seguendo per lo più tecniche convenzionali di insegnamento approvate dallo Irreggimentazione degli studenti. Gli studenti sono suddivisi in base alla loro età cronologica (le loro capacità mentali o gli interessi personali non vengono minimamente presi in considerazione), e sono collocati in gruppi di dimensioni variabili (secondo l’ammontare delle risorse disponibili) sotto il controllo e le direttive di uno o più insegnanti. Tutti gli studenti sono tenuti a seguire con attenzione, memorizzare e ripetere le nozioni trasmesse loro dagli insegnanti, senza mettere in discussione né la forma né il contenuto del processo di istruzione.
– Apprendimento a base nazionale. Le nozioni trasmesse fanno riferimento principalmente, in particolare nel caso delle scienze umane, alla cultura dell’élite nazionale dominante e a ciò che tale élite considera degno di essere assorbito e tramandato. La creatività e il cosmopolitismo non sono, in linea generale, nell’agenda educativa della scuola di stato.
– Certificazione legale dei titoli di studio. Se gli studenti si sono mostrati sufficientemente capaci nel loro sforzo di attenzione, memorizzazione e ripetizione di quanto è stato loro presentato, possono attendersi di ricevere un documento avente valore legale, un diploma. Quel pezzo di carta è una chiave magica che, purtroppo, non sempre riflette ciò che le persone sono davvero capaci di fare. Quando l’educazione era un portato delle esperienze di vita, tutti coloro che, all’interno o all’esterno della famiglia, erano dotati di particolari capacità diventavano insegnanti (diffusori di conoscenze) in maniera informale.
Successivamente, individui letterati, appartenenti soprattutto a congregazioni religiose, dedicarono i loro sforzi all’insegnamento in maniera strutturata, mettendosi al servizio dei poveri o diventano precettori di ricche famiglie. Con la nascita dell’idea della scuola moderna, signore appartenenti a famiglie aristocratiche si impegnarono in istituzioni educative caritatevoli. Contemporaneamente, individui, spesso di umili origini, che avevano appreso a leggere e scrivere, iniziarono ad offrire i loro servizi educativi, diventando il primo nucleo di quella che sarà la schiera degli insegnanti; essi erano pagati dai genitori ed erano sotto l’occhio vigile della comunità locale o del clero da cui venivano impiegati.
Le incertezze finanziarie della professione alla mercé di genitori e gruppi locali, e la dipendenza dalla Chiesa che controllava la maggior parte delle istituzioni educative, rappresentarono le ragioni principali per cui, nel corso del tempo un numero sempre più numeroso di insegnanti favorirono e accettarono di buon grado l’intervento dello stato nel campo educativo. Altre categorie di persone che hanno accettato volentieri il sorgere e il diffondersi della scuola di stato, sono stati tutti coloro che hanno trovato una occupazione in ruoli burocratici all’interno di un gigantesco apparato che, dal centro, guida e modella la macchina educativa.
La scuola di stato obbligatoria ha conseguito non meno di tre risultati negativi, che non erano stati previsti da molti di coloro che erano favorevoli all’intervento dello stato nel campo dell’educazione:
– Ha svalutato i genitori, in base alla premessa che la frequenza scolastica deve essere imposta ai genitori, altrimenti essi non mostrerebbero alcun interesse nell’educazione dei loro figli. Questa generalizzazione è stata applicata nei confronti di tutti i genitori, con il risultato di eliminare il loro essere attivamente responsabili dell’educazione ed attribuendo questo compito a un gruppo di figure professionali e di burocrati che prendono quasi tutte le decisioni al riguardo.
– Ha svalutato l’apprendimento. Un’altra premessa della scuola statale obbligatoria consiste nel ritenere che l’apprendimento debba essere imposto ai ragazzi, altrimenti essi non mostrerebbero alcun interesse e curiosità e rimarrebbero per sempre pigri e ignoranti. Questa è, ancora una volta, una generalizzazione priva di fondamenta, non presa nemmeno in considerazione dalla quasi totalità dei pedagogisti; in maniera paradossale, essa è valida solo laddove la motivazione personale ad apprendere è stata eliminata e rimpiazzata dalla costrizione.
– Ha svalutato l’attività. L’approccio di base della scuola di stato consiste nel radunare i ragazzi in un luogo specifico (l’aula scolastica all’interno dell’edificio scolastico) dove a qualcuno è stato affidato il compito di presentare talune nozioni. In questo modo, l’unione tra apprendere e fare è spezzata del tutto. L’apprendimento appare come un lungo intervallo trascorso al di fuori della vita reale. Questo modello deriva anche da una visione della società divisa tra attività manuali e attività intellettuali.
In generale, la scuola di stato fallisce nella sua funzione essenziale, e cioè nell’elaborare e promuovere un sapere che permetta di affrontare nuove realtà.
E questo non è possibile in quanto privilegia la ripetizione del passato rispetto alla costruzione del futuro, la trasmissione di nozioni a base nazionale rispetto all’esplorazione di una scienza universale, lo studio di teorie convenzionali rispetto alla sperimentazione di ipotesi originali.
Uno dei casi più famosi di rifiuto della scuola è quello che riguardò nel 1854 un bambino di sette anni di nome Thomas Alva Edison. Dopo una animata discussione con il direttore della scuola, disapprovando i rigidi metodi di insegnamento, la madre giudicò opportuno educare il figlio a casa.
Non così fortunato, per quanto riguarda la frequenza scolastica, fu un altro genio come Albert Einstein, il quale, riandando con la memoria ai suoi trascorsi scolastici, scrisse le seguenti parole: “Uno doveva immagazzinare tutte quelle nozioni nel proprio cervello, che lo volesse o no. Questa costrizione ebbe un tale effetto deterrente che, dopo aver superato l’esame finale, per un anno intero provai un rigetto nell’affrontare qualsiasi problema di natura scientifica.”
Purtroppo vi sono molti ragazzi incapaci di mettere in pratica la risoluzione di Mark Twain che dichiarò “Non ho mai permesso che la scuola interferisse con la mia educazione“.
Per molti critici del sistema scolastico i risultati educativi sono apparsi sempre più scoraggianti a tal punto che, a partire dagli anni 1960, una serie di libri sono stati pubblicati con titoli molto illuminanti quali:
– La diseducazione obbligatoria (Compulsory Miseducation) e “Individuo e comunità“-1962 – Paul Goodman
– Come fallire l’educazione dei bambini(How Children Fail) – 1964 – John Holt
– La scuola è morta(School is dead) – 1971 – Everett Reimer
– Descolarizzare la società(Deschooling society) – 1971 – Ivan Illich.
Le analisi e le diagnosi erano tutte molto simili: l’apprendimento non può essere basato sulla costrizione e sull’acquisizione e ripetizione mnemonica, ma si sviluppa attraverso la libertà dell’individuo e la curiosità naturalmente insita in lui che lo porta ad osservare e scoprire, e quindi a imparare. Sulla base di queste idee, e come reazione al fallimento del sistema scolare, nuove esperienze sono apparse soprattutto nel corso degli anni 1980 e 1990 e si stanno moltiplicando.
Mentre la scuola di stato era/è incentrata sull’insegnante, basata su sussidiari e lezioni cattedratiche, obbligatoria e irregimentata, l’educazione progressista era/è incentrata sul discente (Maria Montessori), focalizzata sull’apprendimento attraverso le attività (John Dewey), libera dall’obbligo e dall’irreggimentazione (A. S. Neill e l’esperienza di Summerhill).
Ma queste esperienze sono state o isole in un mare di conformismo o una spruzzata di novità nell’ambito di un approccio formulato in termini generalmente burocratici. Le inadeguatezze del sistema scolastico statale sono rimaste e sono state aggravate da una dinamica sociale e tecnologica che sta facendo apparire la scuola ancor più insignificante e lontana dai veri bisogni di chi vuole apprendere.
Vi sono tre idee che, al tempo stesso, iniziano ad essere accettate da un numero crescente di individui e spingono verso la messa in atto di alternative alla situazione presente:
– la fine della identificazione della scuola con la scuola di stato. Negli Stati Uniti la fine della criminalizzazione nei confronti dell’homeschooling ha consentito il fiorire di molte esperienze nelle quali i genitori hanno assunto la responsabilità diretta nell’educazione dei loro figli.
Il numero di studenti che imparano a casa è passato negli Stati uniti da 350.000 nel 1990 a 1 milione e 300 mila nel 1998. Un altro campo di scuole non statali in crescita è rappresentata da scuole promosse da istituzioni religiose, che mirano a trasmettere anche un forte insegnamento morale.
Questo tipo di scuole sono scelte da coloro che attribuiscono una importanza speciale all’educazione etica e alla trasmissione di alcuni valori basilari. Abbiamo quindi scuole Protestanti, Cattoliche, Ebree, Islamiche, Quacchere, Mennonite e Amish, per citare le più note.
Accanto alle scuole di impronta religiosa, in molti paesi sono sempre esistite scuole non statali (chiamate in Inghilterra “public schools” e altrove “scuole private”) promosse da individui e gruppi e finanziate attraverso le rette pagate dai genitori e contributi volontari. Per citare solo un caso, in Polonia dopo la caduta del comunismo di stato sono state aperte quasi 300 nuove università non statali, frequentate da metà della attuale popolazione di studenti universitari.
Tutti questi sono solo esempi che mostrano che l’associazione mentale che si opera convenzionalmente tra stato e scuola come binomio indispensabile e necessario sta diventando sempre meno valida.
– la fine dell’identificazione dell’apprendimento con la scolarità. Oltre a nuove scuole, vi sono anche esperienze educative progettate a misura dell’individuo e strumenti di apprendimento che l’individuo può utilizzare per un processo di auto-insegnamento.
In generale, l’elevata circolazione di informazioni e la quantità rilevante di risorse e di opportunità educative disponibili, al di là della scuola, rendono l’ambiente stesso nella sua totalità un luogo di apprendimento, e le scuole diventano solo uno tra i tanti centri.
– la fine della identificazione dell’apprendimento con uno specifico periodo della vita (gli anni di scuola) o con uno specifico luogo (l’edificio scolastico). L’apprendimento è, ed è sempre stato, un processo che dura tutta la vita. La più errata delle idee, è che l’apprendimento è una pena inevitabile che deve essere imposta come un obbligo, mentre è, in realtà, un’esperienza naturale e piacevole.
Quello che è davvero una pena è l’essere confinati in un’aula. durante quello che è il periodo più attivo della vita di un essere umano, per ascoltare ed assorbire esperienze di seconda mano e nozioni che devono essere memorizzate e ripetute e pappagallo in modo da superare un esame che permette di iniziare ad ascendere la scala sociale.
L’apprendimento è qualcosa di completamente diverso dalla scuola attuale, anzi i suoi tratti sono antitetici ad essa:
– il processo di apprendimento è caratterizzato dall’essere: libero non forzato, piacevole non penoso, creativo non ripetitivo, motivato dagli interessi dell’individuo non diretto dall’esterno, spontaneo non irregimentato, personalizzato non massificato, che dura tutta la vita non limitato nel tempo, diffuso nello spazio non ristretto in un unico luogo. Per questi motivi, invece di destinare ancora energie e risorse al vecchio sistema scolastico, dovremmo favorire progetti e attività che promuovono: l’apprendimento autogestito (apprendimento come esplorazione personale) e gli ambienti di apprendimento (apprendimento come esperienza sociale).
– L’aspetto centrale dell’apprendimento risiede nel fatto che esso è una esplorazione personale che porta ad uno sviluppo personale. L’apprendimento è iniziato dall’individuo che trova in esso il modo di soddisfare alcune inclinazioni naturali.
– La curiosità e un desiderio attivo di scoperta rappresentano tratti basilari di tutti gli esseri umani. La curiosità e il desiderio di scoperte portano necessariamente l’individuo a impegnarsi personalmente in attività ricche di soddisfazioni e di significati che diventano esperienze di apprendimento.
Vivere e apprendere rappresentano quindi una realtà unica. Ciò che emerge dalla motivazione e dall’impegno è, con tutta probabilità, lo sviluppo di nuove qualità personali. Questo motiva l’individuo a impegnarsi in ulteriori esperienze di apprendimento, in un processo infinito in cui la persona trova sempre più soddisfazioni e appagamento quanto più procede nella sua esplorazione del mondo.
Il processo educativo dovrebbe basarsi su:
– Individualizzazione: l’apprendimento è in stretta relazione con i bisogni, gli interessi e le motivazioni della persona;
– Personalizzazione: colui che apprende seleziona il percorso esplorativo, l’ambiente e il ritmo che più gli si adattano;
– Integrazione: i materiali oggetto di esplorazione non solo si legano l’uno all’altro ma anche si integrano con la precedente base conoscitiva dell’individuo e la allargano/approfondiscono.
Dovremmo sostituire le scuole con un insieme scintillante di esperimenti e di esperienze. Non vi sono limiti all’apprendimento e non vi dovrebbero essere limiti a ciò che può essere fatto nel campo dell’apprendimento.
… non mi aggiungerò al coro di tutte le persone che lamentano quanto in Italia siamo ignoranti musicalmente, noi proprio noi, la patria del bel canto ecc…, non mi aggiungerò nemmeno al coro di quanti sono scandalizzati da quello che i tagli alla scuola hanno prodotto nei Conservatori e i tagli alla Cultura alla possibilità di esprimersi dei musicisti.
Volevo solo dire qui, che da insegnanti e genitori, possiamo considerare la musica come qualcosa non di distante, per pochi, da ricchi ecc…, ma come qualcosa di assolutamente accessibile a tutti e importante quanto la matematica e lo studio delle lingue.
Diamo qualche numero (che con la musica la matematica va molto d’accordo)
– un violino di produzione cinese nuovo costa non più di 100 euro, ma è sciocco comprarlo nuovo: i maestri di musica hanno di solito un “giro” di violini usati e a metà prezzo. Diciamo che un violino costa come una barbie.
– il pianoforte se abiti in città lo puoi noleggiare, è vero, ma se abiti in un condominio ti trovi in casa un oggetto che spesso occupa una stanza (considerando le dimensioni delle stanze dei condomini di oggi parlo di un pianoforte verticale, non a mezza coda) e in più non lo puoi nemmeno suonare perchè appunto è pianoforte, e i vicini difficilmente apprezzano. Però è decisamente una suppellettile chic… La soluzione per studenti è una bella pianola elettrica, molto meno chic, ma coi tasti pesati (non giocattolo…), che permette di regolare il volume (o anche di usare le cuffie) e per il costo vale quanto detto per il violino: il mercato dell’usato è vivacissimo.
Infine le lezioni: poichè un diploma in violino o pianoforte comporta un curriculum di studi che impegna per 10-15 anni, è molto facile trovare studenti che danno lezioni a prezzi assolutamente competitivi rispetto alle federazioni giovanili di calcio e danza e pallavolo. Senza nulla togliere alla pratica degli sport, anzi, solo per dire che se consideriamo accessibile la pallavolo, possiamo considerare ancor più accessibile la musica.
Inoltre ovunque è facile assistere a concerti gratuiti di musica classica, soprattutto in primavera-estate, e molte sono le orchestre giovanili e le “scuole di musica”, che permettono ai bambini di suonare insieme. Si parla tanto di socializzazione… c’è qualcosa di più socializzante dell’intonarsi agli altri e produrre una cosa bella insieme?
Uso delle lettere smerigliate Montessori (o alfabeto tattile). La presentazione ai bambini dell’alfabeto tattile, nel metodo Montessori, rappresenta la prima tappa dell’apprendimento della scrittura e della lettura.
Capita a volte che bambini anche molto piccoli (due o tre anni) comincino a chiedere agli adulti cosa significa una certa scritta, oppure che desiderino scrivere una certa parola e chiedano aiuto, ma sarebbe bene non spingere i bambini alla scrittura così presto. Al di sotto dei tre anni essi stanno ancora lavorando allo sviluppo delle loro capacità di linguaggio, sensoriali e motorie, stanno cioè costruendo le solide basi per tutti gli apprendimenti successivi.
Dall’altro versante, se a qualunque età il bambino si mostra più interessato a mordicchiare le lettere o a vedere quanto sono belle mentre le lancia in aria, è chiaro che vi state muovendo in anticipo rispetto al suo stadio di sviluppo, ed è quindi consigliato, con tutta la dovuta delicatezza, riporre il materiale e attendere del tempo prima di riproporlo.
Se possibile il consiglio è di cominciare con lo stampato minuscolo, iniziando a lavorare al solo riconoscimento delle singole lettere, abbinando correttamente fonema e grafema. In un secondo momento, quando il bambino sarà davvero pronto, potrà dedicarsi a collegare le lettere fra loro per formare le parole, utilizzando l’alfabeto mobile.
Nell’approccio montessoriano i suoni delle lettere vengono insegnati prima dei nomi delle lettere. Le ricerche hanno dimostrato che è meglio imparare una cosa alla volta.
Se si insegna al bambino parola e suono delle lettere, il bambino è confuso e fatica a riconoscere il suono delle singole lettere, dovendole trovare all’interno di una parola, e per lui è difficile ricordare la lettera che rappresenta un dato suono nella parola stessa.
Perciò per prima cosa si insegna il suono di ogni lettera, mentre la formazione delle parole e i nomi delle lettere stesse vengono insegnati più tardi. E siccome alcune lettere possono rappresentare più di un suono, si comincia con l’attribuire alla lettera il suono che si incontra più di frequente, e solo più tardi si aggiungono gli altri. Il bambino all’inizio deve imparare così: un suono per ogni lettera.
E’ un errore pensare che per i bambini sia più facile identificare la lettera iniziale delle parole. Ma è un errore ancor più grave confondere i bambini pensando che essi debbano ascoltare solo il primo suono di una parola. I bambini hanno bisogno di sentire i suoni in tutte le parti della parola. Secondo l’approccio montessoriano, i bambini vengono perciò guidati a sentire come i suoni che loro stanno imparando si trovano in parti diverse delle parole. Con questo esercizio cominciano presto a rendersi conto della sequenza di suoni nelle parole.
L’apprendimento dei suoni e delle lettere avviene attraverso un lavoro multisensoriale.
Il bambino sente il suono, ne vede la sua rappresentazione nella forma della lettera, sente il modo in cui è scritta attraverso il tatto, con le sue dita.
Siccome ogni schema motorio deve essere imparato correttamente da subito, è molto importante che il bambino sia seguito con grande attenzione mentre traccia le lettere con le dita. Questo lo aiuterà a sviluppare una calligrafia chiara e pulita.
Il primo alfabeto proposto al bambino, dunque, dovrebbe essere lo stampato minuscolo, che è una forma base del corsivo.
Questo perchè, quando il bambino passerà dallo scrivere le lettere staccate ad uno stile corsivo e collegato, non dovrà cambiare il suo schema motorio, ma soltanto estendere il modello connettendo tra loro le lettere. Questo non avverrebbe cominciando l’apprendimento dell’alfabeto con lo stampato maiuscolo.
L’unica differenza per il bambino tra la lettera stampata e la sua scrittura corsiva, sarà dunque la connessione, il non staccare la penna dal foglio. La tracciatura delle lettere sulle schede tattili seguirà dunque questo modello di movimento:
La scelta di cominciare con lo stampato minuscolo, però, non è condivisa da tutti gli insegnanti che usano questo metodo, e in molte scuole Montessori si sceglie di cominciare da subito con il corsivo, proponendo l’alfabeto tattile in corsivo, gli alfabeti mobili, le schede delle nomenclature e tutto il materiale di lettura e scrittura, tutto in corsivo.
Questa scelta è sostenuta dal fatto che la scrittura del corsivo, col suo scorrere continuo, è più dolce per il bambino e rappresenta un esercizio motorio migliore rispetto allo stampato che prevede continue interruzioni del tratto. Inoltre si sostiene che il corsivo permette meglio di visualizzare le singole parole, che risultano staccate in modo più netto le une dalle altre.
Tuttavia va considerato che i bambini con problemi di dislessia e disgrafia incontrano maggiori problemi nella lettura e nella scrittura del corsivo: infatti nella scrittura del corsivo il bambino, mentre scrive una lettera è costretto a pensare a quale lettera sarà la successiva che deve essere connessa a quella che sta scrivendo.
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Uso delle lettere smerigliate Montessori (o alfabeto tattile) – Presentazione ai bambini: panoramica generale
Lo scopo della presentazione dell’alfabeto tattile è imparare il suono e la forma delle lettere dell’alfabeto ed acquisire una memoria corporea manuale della forma delle lettere come preparazione alla scrittura.
Prima di iniziare a lavorare con l’alfabeto si può raccontare una breve storia della scrittura su questa traccia: “Quando l’uomo scoprì la possibilità di rappresentare ognuno dei suoni di una lingua con un simbolo, fu una grande scoperta, perchè significò che tutte le parole potevano essere scritte usando pochi simboli. Prima di ciò ogni parola aveva un simbolo suo proprio, e imparare a scrivere richiedeva uno sforzo mnemonico monumentale. E poi era un problema trovare simboli per le parole nuove. Oggi invece chiunque può scrivere il suono di qualsiasi parola.”
Si consiglia di cominciare offrendo al bambino una selezione di tre lettere, pronunciando il suono di ogni lettera mentre se ne segue il percorso con indice e medio uniti.
E ‘importante pronunciare il suono e non il nome della lettera (“P” e non “PI”).
Lasciare poi che il bambino tracci la lettera più volte, sempre pronunciandone il suono. Solo dopo molte ripetizioni offrire la seconda lettera, e quindi la terza. Al termine presentare le tre lettere insieme davanti al bambino per verificare se è in grado di abbinare correttamente grafema e fonema.
Naturalmente è consigliabile che tra le prime lettere presentate ci siano delle vocali, perchè questo aiuta tantissimo il bambino a intuire la formazione delle sillabe e delle parole.
Durante il periodo in cui si presenta l’alfabeto tattile, è importante che il bambino abbia a disposizione vari materiali coi quali esercitarsi a riprodurre le lettere: la lavagna di sabbia, naturalmente,
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ma anche pasta da modellare, chicchi e semi, pennelli e colori, ecc…
Osservando con attenzione le attività che svolge il bambino, possiamo accorgerci che è molto sicuro nel riconoscimento di alcune lettere, mentre non lo è per altre: in questi casi è importante riproporre la presentazione.
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Uso delle lettere smerigliate Montessori (o alfabeto tattile) – Lezione in tre tempi per presentare l’alfabeto tattile: prima versione
Primo tempo
1. Il bambino si lava le mani con l’acqua calda, così che esse siano calde e sensibili. L’insegnante prende due lettere che si contrappongono per suono e forma, ad esempio t ed a, poi siede accanto al bambino.
2. Mette una lettera di fronte al bambino, gli chiede di guardare e traccia leggermente molte volte la lettera, nella direzione corretta, con indice e medio uniti della mano dominante, ripetendo il suono della lettera mentre la traccia
3. Affida la lettera al bambino e gli chiede di tracciarla con le sue dita, e mentre lo fa l’insegnante continua a ripeterne il suono; non chiede al bambino pronunciarlo già da solo, ma se il bambino la copia, è positivo.
4. Si ripete lo stesso processo anche per la seconda lettera.
Secondo tempo
L’insegnante controlla che il bambino abbia associato correttamente ogni suono alla lettera corrispondente ponendo entrambe le lettere di fronte al bambino e chiedendogli: “Indicami t e tracciala con le dita”. Se il bambino sceglie la lettera giusta, l’insegnate lo invita a tracciarla di nuovo più volte, mentre lei ripete il suono. Questo esercizio viene ripetuto per ogni lettera molte volte.
Terzo tempo
L’insegnante ora verifica che il bambino sia capace di pronunciare correttamente i suoni proponendogli una lettere alla volta e chiedendogli di tracciarla e di pronunciare lui stesso il suono. Anche questo esercizio va ripetuto più volte.
Ricapitolazione
L’insegnante propone al bambino di ascoltare delle parole che contengono i suoni imparati. Ad esempio gli mostra la lettera t e gli dice: “Ascolta. Senti se ci sono delle t mentre dico queste parole: tavolo, vite, gatto, caduto?”. E’ importante scegliere parole nelle quali il bambino possa sentire il suono della lettera in esame in posizioni diverse, e non solo all’inizio.
Poi si può chiedere al bambino di pensare a parole che contengano i suoni che ha imparato nella lezione, ad esempio dicendo: “Se ti vengono in mente parole con t o con a, vieni a dirmele”.
Uso delle lettere smerigliate Montessori (o alfabeto tattile) – Variante di presentazione
Parte uno: scegliete tre lettere, ad esempio a, t, s. Usando indice e medio insieme, seguite il contorno della prima lettera rispettando la direzione nella quale viene normalmente scritta, e pronunciandone il suono mentre lo fate. Mettete poi la lettera davanti al bambino e invitatelo a seguirne il contorno come avete fatto voi pronunciando anche lui il suono corrispondente. Presentate allo stesso modo anche le altre due lettere, ma senza formare sillabe o parole, per il momento.
Parte due: chiedete al bambino di mostrarvi la t (pronunciando il suono e non il nome della lettera, cioè dicendo t, e non “ti”). Ripetere per le altre due lettere scelte. Se il bambino indica le lettere corrispondenti ai suoni in modo corretto, rinforzarlo dicendo ad esempio “Sì, questa è la t”.
Parte tre: indicate una lettera e chiedete al bambino: “Questa che è lettera è?”. Se il bambino pronuncia il suono corretto, ripetere “Sì, questa è la t”, quindi passare allo stesso modo alle altre lettere presentate.
Potete interrompere la lezione in qualsiasi momento, se vedete che il bambino è stanco. La cosa più importante è che il bambino ascolti bene i suoni, guardi con attenzione, e tracci le lettere pronunciando correttamente i suoni corrispondenti. Tracciare le lettere è parte integrante dell’esercizio, per questo le lettere smerigliate non sono sostituibili con lettere stampate che non permettono la stessa esperienza tattile.
Può succedere che un bambino abbia già imparato i nomi delle lettere prima che voi gli proponiate questo metodo; in questo caso sarà importante spiegargli che ogni lettera ha un nome ma ha anche un suono, e che siccome lui conosce già i nomi, ora ne conoscerà i suoni. Si dovrà durante la lezione fare attenzione a che il bambino usi sempre il suono della lettera presentata e non il nome…
Uso delle lettere smerigliate Montessori (o alfabeto tattile) – Qualche video:
Metodo Montessori per l’apprendimento della scrittura e della lettura – Maria Montessori, fin dall’inizio del suo lavoro nel 1900, notò che imparare a scrivere è un problema dell’adulto, convinto che l’apprendimento dell’alfabeto debba costare grande fatica. Scoprì invece che per i bambini è un divertimento occuparsi delle lettere, se solo avviene al momento giusto.
Osservò che l’interesse per la lettura e la scrittura non comincia con l’inizio della scuola. Fin dall’età di due o tre anni il bambino si rende conto che per gli adulti scrivere è di grande importanza e così cerca di imitarli scarabocchiando sulla carta e leggendo poi a voce altra quello che crede di aver scritto.
Dopo un poco il bambino scopre che non basta semplicemente scarabocchiare, ma che bisogna tracciare determinati segni, allineati uno vicino all’altro, che poi possono essere letti.
Per giungere a questo si mettono a disposizione del bambino le lettere tattili. Soprattutto i piccoli si divertono molto nel sentire un suono e insieme vedere e toccare il misterioso segno che gli corrisponde.
Questo modo di prepararsi a scrivere, fatto di movimento e di esperienza sensoriale, è particolarmente interessante per il bambino piccolo mentre a sei anni la scrittura delle lettere non segue lo stesso processo spontaneo.
In prima elementare può essere utile una tabella delle lettere da mettere a disposizione di ogni bambino.
Il secondo alfabeto figurato è fatto a tasche in modo che, grazie a una vasta offerta di lettere e di materiale illustrativo, il bambino possa inserire figure la cui iniziale corrisponda a quella della tasca.
In questo modo impara molto presto a memorizzare le lettere.
Inoltre compone parole con l’alfabeto mobile, usa i timbri, scrive alla lavagna con il gesso, o con le matite su di un grande foglio di carta.
In principio scriverà la parola come la sente pronunciare, ad esempio mama, papa, nona, nono. Altri scrivono addirittura interi messaggi: cometiciami (come ti chiami) o simili.
A questo stadio il comportamento dell’adulto è di enorme importanza. Spesso non si riesce a resistere quando i bambini, nei loro tentativi grafici, seguono percorsi personali o addirittura fanno deviazioni e procedono in maniera del tutto diversa gli uni dagli altri.
Molti adulti tendono ad intervenire con impazienza per dire al bambino che ha fatto qualcosa di sbagliato; gli propongono percorsi “migliori”, più precisi e veloci.
Il bambino però aveva manifestato la sua conoscenza dei suoni e dei segni acquisita con fatica, e ne era fiero.
In questo modo comincia a dubitare dei propri processi di apprendimento e di percezione e forse smette anche di scrivere.
Nella fase della scrittura spontanea dovremmo partecipare con gioia alla gioia del bambino, e non bloccarla per paura che commetta errori.
Dal momento che i bambini spesso chiedono che si legga a voce alta quello che hanno scritto, è doveroso farlo con esattezza, poichè questo offre un aiuto alla comprensione sia per il bambino sia per noi adulti. Se con tono allegro leggiamo “mama”, è facile che il bambino dica: “Ma io volevo scrivere mamma!”. Allora si aggiunge un’altra lettera emme.
In questa fase è importante preservare la fiducia del bambino. Per costruirla è sufficiente ricordare quanto abbiamo gioito delle prime parole e delle prime frasette del bambino dette nel primo anno di vita: a nessuno verrebbe in mente di proibire o di correggere le parole sbagliate a un piccino che comincia a parlare.
Gli adulti dovrebbero piuttosto prender nota delle parole inventate dai bambini, poichè vi si scopre un’ingegnosità che spesso noi adulti abbiamo perduto.
Le divergenze fra la lingua infantile e quella degli adulti non sono da considerarsi scorrette, ma solo tappe verso la lingua “normale”.
Allo stesso modo, nella conquista della lingua scritta, gli adulti dovrebbero riconoscere nel cometiciami una vera prestazione del bambino in una determinata fase di sviluppo, e non considerarlo un errore rispetto alla “scrittura normale”.
D’altra parte c’è da stare tranquilli: i bambini infatti abbandonano ben presto lo stadio della trascrizione fonetica, poichè fanno nuove esperienze e imparano nuove regole dello scrivere. E’ necessario però fare loro offerte adeguate.
“Noi non dobbiamo occuparci se il bambino, nello svolgimento del processo, imparerà prima a leggere o a scrivere e se gli sarà più facile l’una o l’altra cosa; questo noi lo dobbiamo attendere dall’esperienza senza alcun preconcetto, anzi aspettandoci probabili differenze individuali nello svolgimento prevalente dell’uno o dell’altro atto. Ciò permette uno studio di psicologia individuale assai interessante e la continuazione dell’indirizzo pratico del nostro metodo, che si fonda sulla libera espansione dell’individualità“. Maria Montessori, La scoperta del bambino.
Il linguaggio
Il linguaggio è un elemento fondamentale per la società umana e gli individui. Le persone non possono vivere senza comunicare, e la civiltà umana non può sopravvivere se l’uomo non usa il linguaggio per tramandare il pensiero collettivo. Le persone usano la lingua per esprimere sentimenti, pensieri, idee e desideri, e per ricevere informazioni da altri. Attraverso la lingua possiamo creare amore, odio e tutte le sfumature che stanno in mezzo. Il linguaggio è molto più del leggere e dello scrivere.
Maria Montessori definì il linguaggio come “espressione di accordo fra un gruppo di uomini, che può essere capito solo da quelli che sono d’accordo col fatto che determinati suoni rappresentano determinate idee. E’ lo strumento del pensare insieme”.
Il linguaggio è l’essenza dello sviluppo del bambino, perchè lo rende capace di comunicare con gli altri, e perchè è un’espressione dello spirito umano.
Quando un bambino è in grado di parlare, ascoltare, scrivere e leggere, è pronto per accedere alla conoscenza ed esplorare la civiltà umana da solo!
Ma prima che lui possa farlo indipendentemente, ha bisogno di una guida che lo aiuti ad esplorare il linguaggio.
Maria Montessori osservò che il bambino è interessato prima di tutto alla voce umana, ed emette prima delle sillabe, poi parole di più sillabe, poi afferra la sintassi e la grammatica, applicando al linguaggio genere e numero, tempo verbale e tono sentimentale.
Maria Montessori osservò che il periodo sensibile del linguaggio dura dalla nascita ai 6 anni:
nascita – 1 anno: il bambino è sensibile ai suoni, guarda ed ascolta
1 – 2 anni: il bambino è sensibile alle parole, e comincia ad usare parole semplici
2 – 3 anni: il vocabolario del bambino aumenta in modo impressionante (circa da 300 a 1000 parole)
4 anni: è il periodo sensibile per l’apprendimento della scrittura
4 – 5 anni e mezzo: il bambino impara a classificare le parole e leggere
5 – 6 anni: il bambino è sensibile allo studio delle parti del discorso ed all’uso delle parole.
In ognuno di questi periodi il bambino ha dei compiti da realizzare dettati dal potere interno che lo guida all’apprendimento del linguaggio verso il raggiungimento della perfezione. L’insegnante deve saper osservare i bisogni del bambino e seguire le sue necessità offrendogli l’aiuto di cui ha bisogno, utilizzando un approccio indiretto.
Deve preparare il bambino a raggiungere le sue mete di apprendimento con un atteggiamento positivo, sicuro di sé e delle proprie capacità, tenendo vivo l’interesse ad imparare che poi lo accompagnerà per tutta la vita.
Il linguaggio nella scuola non viene curato come materia a sè, ma tutte le attività vanno ad alimentare naturalmente lo sviluppo delle abilità richieste per imparare la lingua, scrivere e leggere.
Con le attività di vita pratica il bambino sviluppa il controllo del movimento e la coordinazione occhio-mano (pulire la tavola, abbottonarsi, levigando oggetti, ecc…).
Con le attività sensoriali si sviluppano le capacità di percezione, discriminazione uditiva e visuale, abilità di comparare e classificare, il movimento fine, la leggerezza del tocco, ecc.. Tutte queste abilità sono fondamentali per la preparazione alla lettura ed alla scrittura.
Lo sviluppo del linguaggio continua con i libri, le attività di gruppo (canto, teatrini, giochi cantati), la conversazione di gruppo, l’arricchimento del vocabolario (materiali di nomenclatura, schede illustrate, ecc).
Quando l’insegnante è sicuro che il bambino è consapevole dei suoni presenti nelle parole, presenta l’alfabeto tattile. I sensi della vista e del tatto del bambino sono molto sensibili verso i 3 anni e mezzo di età, ed il bambino è in grado senza fatica di sviluppare una memoria muscolare in relazione ad ogni lettera. In questa fase non si incoraggia la scrittura, si tratta solo di un’esplorazione del suono e della forma.
Quando il bambino conosce circa 10 lettere, è pronto per l’alfabeto mobile.
Il bambino comincia a voler scrivere anche senza alfabeto mobile, e scriverà come parla, per cui non sillaberà correttamente, perchè sta utilizzando il suo proprio modo di analizzare le parole, sta esprimendo il suo modo personale di percepirle. Non va corretto, mai in questa fase. Il processo è più importante del prodotto finito.
Contemporaneamente si possono presentare al bambino i materiali per la lettura (scatola dei segreti, ecc…), in accordo con quelli che sono i suoi desideri.
Facendo fare al bambino molte esperienze di lettura e scrittura, egli capirà che scrivere significa codificare i pensieri. Il suo vocabolario orale è ora il suo vocabolario di lettura.
Poi si presenta al bambino la funzione delle parole e durante questa fase il bambino legge da solo.
Più tardi si dà avvio alla grammatica, alla lettura avanzata ed alla scrittura creativa.
L’apprendimento del linguaggio è un processo che dura per tutta la vita, ma i primi anni sono la formazione di base.
Presentazione della pedagogia Montessori. Il termine “Scuola” evoca molto spesso idee quali dovere, noia, di obbligo a fare cose stabilite da altri, la paura delle interrogazioni e dei giudizi, il gusto del sotterfugio e del come farla franca. La bellezza del sapere e del crescere è quasi un incidente, trasversale alla scuola.
Nella mia ricerca, accanto a tutte le altre esperienze didattico-educative che mi piacciono, e che sono peraltro anche più sconosciute, ci fa piacere incontrare la didattica Montessori: anche lei ha puntato a rovesciare questa situazione.
La scuola montessoriana basa il piacere dello studio sul fare e sul capire, sulla libera scelta delle attività e sulla gioia di lavorare coi compagni, sul collaborare guidati da un adulto che non esprime giudizi e confronti continui, ma sostiene il percorso individuale e il gruppo, in un clima di scambio e di libera esplorazione.
Quando ci si chiede come mai le scuole montessoriane in Italia siano sempre state così rare, e lo siano ancora oggi, forse possiamo rispondere che il motivo profondo è proprio questo: la differenza sostanziale rispetto al modello diffuso di educazione, che si basa su una profonda sfiducia nell’essere umano e nelle sue capacità auto formative.
Il pregiudizio di base era ed è che il bambino, per svilupparsi al meglio, non possa fare a meno di una guida autoritaria, severa, punitiva e noiosa.
Insomma parliamo di un tentativo di opporre a questo pregiudizio un agire rivolto ad assecondare il gusto dell’imparare secondo i propri interessi, l’esplorazione personale ma anche l’impegno comune, il piacere di immaginare, la felicità, la fiducia e il coraggio.
Parliamo di un tentativo che risale ormai agli inizi del 1900.
Oggi, mentre la scuola non è certo molto cambiata, dovremmo già essere impegnati nel superamento anche delle didattiche, e percorrere strade educative che non si basano sull’una o l’altra idea di uomo.
I dieci desideri dei bambini
Da “I dieci desideri dei bambini” – Claus-Dieter Kaul-Auer Verlag GmgH
Qualche estratto da questo piccolo grande libro, che consiglio di cuore…
In Italiano: I dieci desideri dei bambini, Auer Verlag 2002. Da richiedere a:
ASSOCIAZIONE “FACCIAMO UN NIDO”
Località Zuel di Sotto n. 101
32043 – CORTINA D’AMPEZZO (BL)
Telefono e Fax 0436/861776
e-mail: ass.facciamounnido@virgilio.it
1. Donateci amore
2. Prestateci attenzione
3. Lasciateci crescere, non obbligateci
4. Accompagnateci
5. Permetteteci di sbagliare
6. Dateci un orientamento
7. Indicateci limiti chiari
8. Siate affidabili
9. Mostrate i vostri sentimenti
10. Date spazio alla gioia
“Il bambino è la più grande e confortante meraviglia della natura, non un essere senza forza, quasi un recipiente vuoto da riempire della nostra saggezza, ma il costruttore della sua intelligenza, l’essere che, guidato da un maestro interiore, lavora infaticabilmente con gioia e felicità, secondo un preciso programma, alla costruzione di quella meraviglia della natura che è l’Uomo. Noi insegnanti possiamo soltanto aiutare l’opera già compiuta”.
Maria Montessori, La mente del bambino.
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Presentazione della pedagogia Montessori
Donateci amore
Molti adulti mettono condizioni. Espressioni tipiche, che tutti conoscono, sono per esempio “Quando avrai fatto i compiti, potrai andare a giocare”, oppure “Se finisci quello che hai nel piatto avrai il gelato”, ecc….
Il bambino recepisce questo comportamento e a sua volta pone le proprie condizioni: “Se sarò gentile con mia sorella, potrò andare al cinema”, “Se vado bene a scuola riceverò una macchinina telecomandata”…
Al bambino viene comunicato inconsciamente che l’amore può essere comprato, o quanto meno essere messo sullo stesso piano di qualsiasi oggetto. Così per i bambini qualsiasi lavoro e perfino il gioco diventa finalizzato soltanto a ricevere considerazione. Rimangono assolutamente strabiliati quando scoprono che, come adulto, dedico loro tempo e attenzione spontaneamente, senza aspettarmi nulla in cambio. In questo modo imparano a godere del loro lavoro o del loro gioco unicamente per sviluppare e perfezionare la propria personalità.
I bambini, per loro natura, possiedono la meravigliosa capacità di immergersi nell’immediato e di soffermarsi contemporaneamente nel presente. Perfino bambini che hanno perso tale equilibrio naturale e quindi la loro tranquillità interiore, possono trovare la via per mettere nuovamente in relazione il loro mondo interiore con il mondo esterno.
Per ritrovare questo equilibrio hanno bisogno di cerimonie e di rituali fissi, che diano loro la possibilità di ricevere vero amore.
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Presentazione della pedagogia Montessori
Prestateci attenzione
Noi adulti abbiamo molte idee astratte su ciò che il bambino può o non può imparare. E’ essenziale invece prenderci tempo sufficiente per osservarli giocare e per imparare da loro, e non pretendere sempre che raggiungano i nostri obiettivi e soddisfino le nostre aspettative.
Ciò significa che dovremmo vedere i bambini come sono e non come vorremmo che fossero. La capacità di osservare diventa un’arte vera e propria, vuol dire riuscire a reprimere l’impulso ad intrometterci nei processi infantili o addirittura cercare di accelerarli.
Maria Montessori chiama tutto ciò “attendere osservando“.
I bambini imparano attraverso attività spontanee, durante le quali sviluppano un’enorme energia.
E’ bello vedere con quale gioia, con quale profonda capacità immaginativa i bambini siano in grado di prendere personalmente in mano il proprio apprendimento quando sanno di essere rispettati.
Per noi adulti è importante distinguere fra osservare in modo attento e interessato, e osservare in maniera annoiata, per controllare.
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Lasciateci crescere, non obbligateci
Maria Montessori in un saggio dal titolo “Quando il vostro bambino ne sa più di voi” scrisse: “Facciamo l’ipotesi di una mamma rana, impazzita, che dica ai suoi girini “Uscite dall’acqua, inspirate bene l’aria fresca, giocate e divertitevi nell’erba verde e diventate delle piccole rane forti e sane. Venite con me perchè la mamma sa quello che è meglio per voi.”
Se però i girini tentassero di obbedirle, questo significherebbe di certo la loro fine.
Eppure questo è il modo in cui molti di noi cercano di educare i propri figli, pensando di farne cittadini utili e intelligenti. A questo scopo sprechiamo molto tempo e molta pazienza per correggerli. Se solo riuscissimo a rendercene conto, capiremmo che ci stiamo comportando esattamente come la rana impazzita.
Che cosa possiamo fare noi adulti, affinché il bambino utilizzi i suoi talenti e le sue potenzialità per svilupparsi al meglio?
E’ necessario creare per loro, a casa e a scuola, un ambiente olistico, ricco di stimoli. Nel far questo dobbiamo prestare molta attenzione per offrire ai bambini la possibilità, mentre studiano, di accumulare esperienze anche con la parte destra del cervello, perchè in generale oggi la maggior parte delle offerte di apprendimento sono indirizzate alla parte sinistra.
Accompagnateci
Molti degli adulti che adottano un’educazione libera si pongono in continuazione la domanda: ” Quando presento qualcosa a un bambino, questo non è già troppo direttivo o manipolativo? Non lo costringo ad una visione mia delle cose? Dove rimane allora la creatività?”
Col termine “presentazioni” nella scuola Montessori si intende il lavoro concentrato e rivolto totalmente al materiale: mostrare come lo si usa in maniera corretta senza la pretesa di doverlo usare sempre in quel modo.
Si tratta di risvegliare l’interesse per l’essenza del materiale, e si può parlare di un’esperienza olistica per il bambino come per l’adulto, solo nel momento in cui viene raggiunta una concatenazione di rapporti tra materiale e bambino, bambino e insegnante e insegnante e materiale.
Per entrambi nasce un’unione tra corpo, anima e spirito.
Tuttavia alcune presentazioni sono state interpretate ed usate dagli adulti in modi molto diversi.
Spesso il materiale viene “insegnato” con una presentazione e questa viene considerata una lezione da dover impartire. Per altri adulti invece la presentazione è paragonabile a un rituale pieno d’amore.
Si tratta in effetti di una questione di atteggiamento nei confronti del bambino.
I bambini chiedono una presentazione quando hanno un reale interesse per un dato materiale, o quando la vogliono sfruttare come possibilità di contatto con l’adulto.
Sanno che in questo modo avranno tutta la sua attenzione.
Naturalmente anche la qualità del materiale gioca un ruolo importante: il materiale montessoriano non ha bisogno di spiegazioni verbali e consente di agire affidandosi interamente alla mimica espressiva.
Durante la presentazione l’adulto deve tenere presente che per il bambino sta sempre in primo piano l’aspirazione cosciente a staccarsi dall’adulto per raggiungere la maggior indipendenza possibile e un libero sviluppo della sua personalità.
Per dirla con la Montessori egli chiede “Aiutami a farlo da solo!”.
Con questo concetto il bambino intende dire: mostrami come si fa. Non farlo tu al mio posto. Posso e voglio farlo da solo. Abbi però la pazienza di capire i miei percorsi. Forse sono più lunghi, forse ho bisogno di più tempo perchè voglio fare diversi tentativi. Per favore stammi solo a guardare e non intervenire. Farò esercizio, riconoscerò gli errori che faccio. Il materiale me li farà vedere.
Per questo motivo, anche dopo la presentazione, è importante che noi adulti ci teniamo semplicemente a disposizione senza intervenire, lasciando i bambini liberi di provare e di esprimersi a modo loro. Solo così potremo notare come agiscano in modi diversi con i vari materiali durante il lavoro libero.
Quando i bambini si sentono veramente accompagnati da noi adulti e non istruiti o controllati e quando noi diamo il tempo e la tranquillità necessari per le loro scoperte, si può notare quanto siano attenti nell’usare il materiale. Il rapporto amorevole e rispettoso verso di loro e con gli oggetti produce un effetto positivo anche nel contatto con gli altri bambini e con gli adulti.
Per genitori ed educatori accettare che l‘educazione non consista tanto in quello che si insegna, ma che sia piuttosto un processo che avviene da sé nel bambino, può essere difficile.
L’efficacia dell’educazione è tanto maggiore se non cerchiamo di educare direttamente, in maniera programmatica e intenzionale.
Il bambino intraprende attività che ci fanno stupire enormemente.
Come genitori e maestri dovremmo attribuire più importanza all’ambiente, alla preparazione e alla presentazione di materiali stimolanti, invece di darlo alle lezioni verbali: insomma, dovemmo parlare poco, spiegare meno, e fidarci di più dei bambini.
Permetteteci di sbagliare
“Che cosa cerchiamo realmente in un bambino? Quasi sempre siamo alla ricerca di errori e non solo di quelli che ha fatto, ma anche di quelli che potrebbe fare.
L’unica cosa che possiamo veramente fare è cambiare il nostro atteggiamento nei riguardi del bambino e amarlo di un amore che crede nella sua personalità e nel fatto che egli è buono, che non vede i suoi difetti, ma le sue virtù, che non lo reprime, ma lo incoraggia e gli dà libertà.“
Maria Montessori, Educazione e pace.
Molti adulti credono di essere di valido aiuto ai bambini facendogli notare continuamente i suoi errori o correggendoglieli. Spesso intervengono già prima, proprio per impedire ogni sbaglio.
I bambini educati da adulti così ambiziosi, sviluppano ben presto complessi di inferiorità e succede che poco dopo aver iniziato la scuola dicano “Non lo so fare” ancor prima di aver cominciato un lavoro.
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Dateci un orientamento
Noi adulti abbiamo per prima cosa bisogno di sapere come educare. Genitori e maestri sono spesso perplessi e privi di un orientamento quando devono trattare coi bambini.
Chiedono consigli, metodi e indicazioni per fare diversamente o meglio il loro lavoro educativo.
Ma trasmettere ad altri qualche esempio non serve, in fin dei conti si tratta solo di uno scambio di potere fra noi adulti: chi chiede esercita un potere con la sua impotenza, il “consigliere” tranquillizza con una risposta intelligente basata sulla sua apparente competenza.
In questo modo però non nasce un vero contatto che permetta di prendere seriamente e serenamente in considerazione il problema.
Dobbiamo sempre tenere in considerazione che i bambini non hanno bisogno di metodi migliori o nuovi, ma di persone pronte a cambiare.
Dovremmo essere sempre disponibili ad accettare il nuovo, l’imprevisto, e quindi ogni cambiamento in noi e nel nostro ambiente con pazienza, interesse, attenzione.
E’ importante che ci chiariamo le idee sulla direzione che vogliamo prendere, contemporaneamente però dobbiamo essere aperti a inevitabili cambiamenti di direzione.
E alla fine possiamo fidarci solo della nostra capacità di capire e, nell’educare, dobbiamo prenderci personalmente la responsabilità di ogni passo.
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Indicateci limiti chiari
La richiesta di limiti ben definiti provoca spesso grande insicurezza e senso di impotenza negli adulti che cercano strade nuove e vogliono resistere ai modelli educativi tradizionali.
Tra genitori ed insegnanti la paura di mettere limiti è dovuta a esperienze personali infantili, quando i limiti sono stati usati come sistema repressivo per fare o non fare quello che altri si aspettavano da noi. Si trattava per lo più di divieti indicazioni o ammonizioni che si appellavano al nostro Io “migliore”.
Ieri come oggi, nel porre questi limiti spesso non vengono viste né prese in considerazione le necessità personali. I bambini il più delle volte si devono adattare alle esigenze degli adulti per avere un riconoscimento e l’attenzione necessari al loro sviluppo.
A partire dagli anni ’70 è apparsa una marea di letteratura, la più diversa, che ha fornito in proposito consigli ed esempi. In primo piano troviamo le possibilità di risolvere i problemi con intelligenza, parlando in modo democratico.
In questo modo l’adulto ha la sensazione di venir incontro al bambino con molta comprensione, di non condizionarlo e tanto meno di trattarlo male, imponendo dei limiti.
Dimentichiamo tuttavia che i bambini piccoli non sono assolutamente in grado di seguire tali trattative sui limiti: essi percepiscono unicamente il modello linguistico, senza capire realmente il nocciolo del problema, che sarà loro chiaro solo in una successiva fase di sviluppo.
Per i bambini è importante constatare che noi adulti siamo consapevoli del fatto che i limiti posti spesso non piacciono e che riteniamo legittimo che esprimano i loro sentimenti piangendo o brontolando. Tuttavia i limiti restano fermi: non svaniscono con le proteste, né con i pianti.
E’ importante che lo percepiscano insieme al fatto che anche noi ci troviamo in una situazione difficile nei loro confronti: vogliamo loro bene, ma non permettiamo di fare qualsiasi cosa venga loro in mente.
I bambini hanno bisogno di confini per crescere in pace.
Se noi adulti abbiamo il coraggio di indicarli, in maniera chiara e rispettosa, il vantaggio è di tutti.
I bambini, sperimentando limiti e regole nel gioco, possono acquisirne una conoscenza profonda. Più tardi riuscirà loro più facile accettare limiti e regole e potranno usare libertà e limiti in maniera più autentica.
Con la competenza acquisita in questo modo, nella scuola elementare, possono raggiungere un elevato grado di consapevolezza nella fase successiva di sviluppo, tra i 14 ed i 21 anni. In questo periodo i giovani mostrano uno spiccato interesse per temi come giustizia e dignità umana, cause sociali, scoperte scientifiche di ogni tipo e responsabilità politica.
Riconosceranno che non porre limiti significa mancanza di responsabilità nei riguardi di se stessi e del prossimo.
“Nessuno deve oltrepassare i miei confini”, significa che in fondo il mancato rispetto e il disprezzo dei limiti porta a violazioni di individui e di popoli.
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Siate affidabili
I bambini hanno bisogno di relazioni stabili, sicure, basate sulla fiducia, nelle quali trovare un orientamento per le loro necessità.
Nella scuola elementare per i bambini più grande è di grande aiuto ad esempio lo scrivere ogni mattina alla lavagna il decorso che avrà la giornata.
E’ importante per loro che determinate attività, come il lavoro libero, il gruppo di discussione, la pausa, la lettura a voce alta, ecc…, abbiamo luogo sempre con lo stesso ritmo.
Così possono essere certi di avere a disposizione tempo sufficiente per i loro interessi e le loro inclinazioni personali, e tuttavia trovano anche uno spazio nel gruppo di discussione per esprimere i loro desideri e arrivare a una convivenza affettuosa e piena di rispetto.
Nascono così accordi e regole che adulti e bambini rispettano sicuramente.
Allo stesso tempo è chiaro per i bambini, che qualche volta le regole si devono cambiare per adattarle a necessità contingenti.
Accettare e rispettare questi cambiamenti è tanto più facile per i bambini, quanto più sono certi che determinati rituali, come la lettura a voce alta oppure festeggiare il compleanno tutti insieme, avranno sempre luogo con regolarità.
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Mostrate i vostri sentimenti
Per noi adulti è chiaro che i bambini oggi vivono più liberi e che si è più attenti ai loro sentimenti: anche per questo sono più facilmente vulnerabili.
Spesso, nell’accompagnare i bambini con l’intelligenza emotiva necessaria, dobbiamo fronteggiare richieste particolari.
Siamo attenti nel trattare i nostri bambini con giustizia, pazienza e rispetto e, nel far questo, comunichiamo loro informazioni perchè possano risolvere i problemi con sensibilità e avere buone relazioni. Ma esiste grande discrepanza fra la buona educazione e l’effettiva realizzazione.
Molti adulti pensano di poter risolvere i problemi in maniera razionale e per questo spesso parlano e discutono coi bambini, danno consigli, fanno esempi, in realtà si limitano a parlare ai bambini, anziché parlare con i bambini ed ascoltarli. Con tutti questi consigli si trascura spesso il fatto che una buona educazione ha molto a che vedere con i sentimenti.
Daniel Goleman, nel suo libro Intelligenza emotiva, descrive i risultati di ricerche che dimostrano quale ruolo giochino i sentimenti nella nostra vita.
Dagli studi fatti risulta evidente che successo e felicità, sia in campo familiare, sia in campo professionale, non dipendono tanto dal quoziente d’intelligenza, quanto da una vita emotiva consapevole. Egli chiama questa qualità “intelligenza emotiva“.
Per genitori ed insegnanti ciò significa pensare maggiormente ai sentimenti dei bambini, cercare di consolarli e di guidarli, immedesimandosi in loro.
Lo stesso principio vale per i nostri sentimenti personali.
Dovremmo imparare ad accettare sentimenti quali rabbia, tristezza, paura come parte della nostra vita, e considerare le tensioni emotive come un’opportunità.
Molti adulti invece non sono in grado di affrontare i sentimenti negativi propri e dei bambini: c’è chi sorvola e addirittura minimizza le emozioni negative, chi rimprovera o punisce i bambini per la loro esplosione emotiva. Altri sembrano particolarmente tolleranti perchè accettano i sentimenti dei bambini, però osservandoli più da vicino si constata che non offrono loro alcun aiuto concreto per risolvere i problemi o per porre limiti al loro comportamento.
John Gottman (Intelligenza emotiva per un figlio) dice che occorre:
. essere consapevoli dei sentimenti del bambino;
. vedere nella manifestazione dei sentimenti un’opportunità per potergli essere vicino e comunicargli qualcosa;
. ascoltare in maniera partecipe e confermare i sentimenti del bambino;
. aiutarlo a dare un nome alle emozioni;
. porre alcuni limiti e prospettare una possibile soluzione del problema.
Dalle ricerche è emerso che i bambini certi dell’amore e dell’appoggio degli adulti riguardo i loro sentimenti, sono più tutelati da un’eccessiva aggressività, da un comportamento asociale, da dipendenza da droghe, da un’attività sessuale prematura, dal suicidio.
Gottman e Goleman hanno inoltre appurato che i bambini che si sentono apprezzati e considerati dagli adulti, hanno prestazioni migliori a scuola, più amici, e una vita più sana e ricca di successi.
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Date spazio alla gioia
Stare con i bambini permette a noi adulti di affrontare le responsabilità della vita con una leggerezza tale che dovremmo sempre farci coinvolgere.
In tutte le situazioni difficili e nelle provocazioni, mi hanno sempre fatto ridere di cuore e reso felice le osservazioni dei bambini o le storie scritte da loro. Ricordiamo che gli sciamani indiani guariscono i malati nel momento in cui riescono a farli ridere.
Per me quindi è diventato un principio di vita e di lavoro provocare il riso nelle persone, raccontando favole scritte da bambini, e noto come la maggior parte delle persone si senta subito bene perchè è proprio il senso dell’umorismo che riesce a ristabilire un nuovo equilibrio fra sentire e pensare, tra ragione e fantasia.
Prospettive per una “nuova” educazione in questo secolo
Molti adulti pensano ancora che l’essere umano sia incline alla pigrizia e all’inerzia e per questo debba essere istruito, guidato da persone di maggiore autorità e soprattutto essere da loro controllato.
Ma gli esseri umani sono degni di fiducia, ricchi di inventiva, auto motivati, dinamici, creativi e costruttivi.
In un ambiente educativo olistico si crea un clima rassicurante nel quale vengono soddisfatti la curiosità e il desiderio naturale di imparare.
Al posto di una competitività distruttiva troviamo cooperazione, rispetto per gli altri, disponibilità reciproca. In questo ambiente i bambini, ma anche gli adulti, imparano ad apprezzarsi, sviluppano fiducia e considerazione in se stessi.
Scopriamo, in maniera sempre crescente, che l’origine della nostra idea di valore è dentro di noi e che un senso positivo della vita viene dal nostro interno.
In questo modo nasce in ogni singolo un dialogo costante fra scoperte intellettuali e scoperte emotive che portano a una gioia di imparare che dura per tutta la vita.
Anche Montessori disse: “La questione della vera riforma educativa è una questione di odio o amore. Il bambino che ama, che si sente amato, ha una natura dinamica. E’ un bambino che lavora molto, che non ha paura di far fatica e cerca disciplina, elemento naturale per le persone che vivono una vita normale. Un bambino che ama, nella sua maturità, diventerà l’uomo nuovo. E’ possibile prevedere una nuova società, nella quale l’uomo sarà più capace perchè quando era bambino gli è stata insegnata la fiducia.“
L’esperienza, ormai da anni, ha dimostrato che l’educazione futura sarà soprattutto una provocazione alla nostra immaginazione e la riscoperta del bambino che è in noi.
E’ quindi necessario abbandonare aspettative e pregiudizi e aprirci all’oggi. Noi adulti, quando impariamo, dobbiamo considerarci in modo olistico, cioè un insieme di corpo, anima e spirito per sentirci elementi integrati in un tutto attivo.
Ciò significa che non dobbiamo più insegnare i particolari ai bambini, ma far loro sentire il mondo visibile e invisibile come un insieme. L’educazione olistica include il cuore del bambino, il suo istinto, la sua fantasia, i suoi sentimenti.
Maria Montessori ha sviluppato questo modo particolare di imparare nella cosiddetta “Educazione Cosmica” elaborata tra il 1939 e il 1947, periodo in cui era in India.
“C’era una volta una regina che aveva tre figli. Il maggiore era un drago, il secondo era un cavallo e il più piccolo un uomo. I tre fratelli erano così diversi fra loro che nessuno capiva la lingua dell’altro. Benché la regina non avesse promesso il suo regno ad alcuno di loro, il più giovane si impadronì del potere e lo esercitò con grande crudeltà. Quando poi la regina ebbe anche una figlia, il figlio più giovane temette per il suo potere, fece un brutto incantesimo alla piccola principessa che si addormentò e non si svegliò mai più.”
La vecchia regina è la nostra anima. I tre figli sono il drago, ovvero la struttura cerebrale reticolare che corrisponde al tronco encefalico; il cavallo, che è la struttura limbica cerebrale, centro delle emozioni; la corteccia cerebrale, l’uomo, è la capacità razionale.
La principessa dormiente però è il quarto figlio, la farfalla cerebrale. Dobbiamo liberare la bella dormiente che è in noi. Come la farfalla ha le ali, e quando verrà svegliata il mondo delle larve e delle crisalidi scomparirà: la principessa distenderà le ali e volerà libera.
Spero che anche voi riusciate a liberare la farfalla assopita della vostra mente, che sappiate trovare diverse alternative per un’altra forma di educazione in questo secolo, anche se, talvolta, nella vita di tutti i giorni, ci possiamo sentire scoraggiati.
Nell’interesse di bambini mi esercito ogni giorno a credere nell’impossibile, e vi prego, fatelo anche voi.
Claus-Dieter Kaul
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Bibliografia consigliata
Intelligenza emotiva per un figlio. Una guida per i genitori– di John Gottman e Joan Declaire
Ogni genitore si interroga sui modi migliori per educare i propri figli a realizzare i loro talenti e godere della vita nella sua pienezza: in questo percorso di crescita, un ruolo fondamentale è rivestito dall’intelligenza emotiva, cioè dalla capacità di fondere le proprie attitudini con qualità come l’empatia e l’attenzione ai rapporti con gli altri. Psicologo noto in tutto il mondo proprio per i suoi studi sulle relazioni tra genitori e figli, Gottman mostra in questo libro in che modo i genitori possono diventare dei bravi “allenatori emotivi”: attraverso limpide spiegazioni e un ampio numero di esempi pratici, l’autore esamina le fasi cruciali dello sviluppo di bambini e ragazzi – dalla gestione dei sentimenti al controllo degli impulsi, dall’importanza dell’ascolto al superamento dei conflitti – e illustra passo dopo passo come trasmettere ai figli le qualità necessarie per crescere più forti e felici.
Educare ad essere. Una scuola dalla parte dei bambini (momentaneamente non disponibile)
Infanzia e società in Maria Montessori. Il bambino padre dell’uomo – di Raniero Regni
Il contributo che Maria Montessori ha dato alla pedagogia italiana ha attraversato il tempo e conserva intatto il suo valore anche oggi. Nel presente volume si mette a confronto la Montessori con alcune delle punte più avanzate della riflessione psicopedagogica, sociologica, etologica, filosofica e letteraria (Piaget, Bruner, Hayek, Lorenz Camus, Popper tra gli altri); accostamenti inaspettati che permettono di esplorare aspetti poco valorizzati o malintesi del messaggio educativo montessoriano.
I bambini, che belle persone! Centro nascita Montessori
Questo libro è un invito a guardare il mondo dell’infanzia con occhi molto attenti, ad osservare il bambino nella sua dignità di persona sensibile e sempre attiva. Si è scelto quindi di presentare una serie di fotografie che, nella loro immediatezza e semplicità di lettura, ci facciano riflettere su situazioni quotidiane che i nostri occhi distratti non vedono più: sulla straordinaria espressività dei bambini, sulle loro azioni mai banali, mai superflue… Accompagnano le illustrazioni alcune parole di Maria Montessori.
Montessori: perchè no? – a cura di G. Honegger Fresco
Si tratta di una vicenda del passato oppure il pensiero e le esperienze della pedagogista italiana hanno continuato a vivere, costituendo modello e spunto per imprese scolastiche e pedagogiche che vanno ben oltre le Case dei Bambini cui il suo nome è soprattutto legato? La risposta che viene offerta nel testo è affermativa e si fonda su scritti inediti della stessa Montessori, su testimonianze di discepoli, amici, studiosi di fenomeni formativi, personaggi di cultura, su resoconti di sue iniziative e realizzazioni nei vari luoghi in cui è trascorsa la sua esistenza, su documentazioni di “scuole” montessoriane sparse nel mondo e frequentate da bambini piccoli e adolescenti.
Paesaggio educatore. Per una geo-pedagogia mediterranea – di Raniero Regni
Il ruolo del paesaggio e la delineazione di una sua fisionomia: è questo il tema centrale del volume. Un argomento importante della psicologia sociale che si interroga su cosa sia oggi il paesaggio, che cosa insegna e come possa essere insegnato, indagando anche un particolare tipo di paesaggio che è il nostro, quello mediterraneo, capace di ispirare ancora una psicologia sociale, e addirittura un modello non solo educativo.
di Maria Montessori:
Il bambino in famiglia
Il bambino in famiglia raccoglie i testi di una serie di conferenze tenute nel 1923 a Bruxelles, nelle quali Maria Montessori traccia le proprie proposte per una Scuola dei genitori. Il volume è quindi una guida di igiene mentale a uso di genitori ed educatori, perché non si creino – anche inavvertitamente le premesse di quella che si manifesterà un giorno come una penosa (ma inevitabile) incomprensione nei rapporti tra genitori e figli.
Il segreto dell’infanzia
Madri ed educatori troveranno in questo libro il mondo in cui s’ambienta il metodo montessoriano: “l segreto dell’infanzia” crea infatti lo stato d’animo preliminare all’intelligenza di una pratica pedagogica logica e chiara, che conduce sottilmente alla progressiva scoperta delle verità intellettuali. Il muto e misterioso lavoro del bambino nei suoi primi tre anni, l’incarnazione dello spirito umano nella giovane creatura divengono una verità acquisita alla nostra coscienza, una rivelazione a cui ognuno può attingere suggerimenti per meglio orientare il processo formativo.
La scoperta del bambino
La scoperta del bambino è la sintesi e il coronamento degli scritti in cui Maria Montessori ha delineato il suo metodo pedagogico, basato sul lavoro creativo cui è chiamato l’insegnante. Il volume segue lo sviluppo psicologico del bambino da quando, dopo il segreto travaglio dell’apprendimento del linguaggio, si volge al mondo che lo circonda, fino agli anni dell’insegnamento elementare. Sottolineando l’incessante interazione tra le percezioni del bambino, i suoi atti e la mente che acquisisce, illustra il materiale montessoriano e il suo uso negli esercizi pratici e sensoriali. Centrali sono anche il tema della formazione dell’insegnante e la polemica contro i pregiudizi che pesano sullo sviluppo della mente infantile.
Educazione per un mondo nuovo
Il libro propone un’analisi scientifica della personalità del bambino. Con un’esposizione sempre piana, Maria Montessori tratta delle grandi capacità del bambino e delle sperimentate possibilità del suo sviluppo psichico e intellettuale. Scritto dopo la terribile esperienza della guerra, questo libro segna il tentativo di delineare attraverso l’educazione i tratti di una comunità mondiale pacifica e armonica.
Dall’infanzia all’adolescenza
In questo lavoro, pubblicato al culmine della maturità intellettuale e dell’impegno in campo pedagogico, Maria Montessori analizza le caratteristiche psicologiche che contraddistinguono il periodo evolutivo che va dalla seconda infanzia all’adolescenza sino alle soglie della maturità e alla frequenza universitaria, individuando risposte educative e didattiche pertinenti con le specifiche esigenze cognitive, emozionali e sociali emergenti in queste particolari fasi evolutive. Dalle sue riflessioni emergono un quadro psicologico di grande interesse e attualità, indicazioni didattiche chiare e coerenti, nonché una proposta curricolare e organizzativa di scuola secondaria centrata su una preparazione culturale “ampia, profonda, completa”, attenta alla esigenza prioritaria di fornire ai giovani condizioni concrete per la costruzione della propria identità sociale e personale. Ne emerge un modello di scuola che pone al centro dell’attenzione i bisogni dell’adolescente, un soggetto da cui dipende il futuro dell’umanità, come sottolinea l’autrice, ma che si trova ad attraversare una fase di “cambiamento radicale nella sua persona” che richiede un “cambiamento radicale nella sua educazione”.
Educare alla libertà
II metodo educativo Montessori, applicato in centinaia di scuole in tutto il mondo, ha rivoluzionato nel profondo la pedagogia degli ultimi cent’anni, proponendo un’idea del bambino completamente diversa da quella fino allora accettata. Il fanciullo viene visto come un essere completo, dotato naturalmente di un’energia creativa e affettiva, e il principio fondamentale che deve improntare la sua educazione è quello della libertà, da cui naturalmente emergerà la disciplina. Questo volume comprende alcuni dei brani chiave del pensiero montessoriano che offrono ai genitori e agli educatori di oggi utili spunti di riflessione per crescere dei bambini liberi, autentici, spontanei, responsabili.
La mente del bambino. Mente assorbente In questo libro Maria Montessori si inoltra nel mistero di quel periodo in cui si organizza la mente. Definisce i caratteri, i limiti e le insospettate possibilità della prima forma della mente del bambino, quella mente assorbente che tutto riceve e ritiene, ma che di alimento ha bisogno per il suo sviluppo così come di alimento materiale ha bisogno il corpo.
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L’importanza dell’ambiente nella pedagogia Montessori
L’ambiente riveste per la Montessori un ruolo fondamentale per lo sviluppo e la crescita dei bimbi; la scuola deve essere in grado di accogliere bambini di età diverse coinvolgendoli e stimolandoli nelle attività individuali e di gruppo, accrescendo in loro il senso di appartenenza a una collettività e nello stesso tempo dando loro piena libertà di movimento e di azione.
In altre parole, accogliendoli in un luogo caldo e rassicurante, aperto alle scelte e al lavoro di ciascun piccolo alunno.
Gli arredi devono essere pensati e studiati tenendo conto dell’età e della corporatura dei piccoli e costruiti all’insegna della leggerezza in modo che, proprio a causa della loro fragilità, rivelino un utilizzo sbagliato o mancanza di rispetto da parte di coloro che ne fanno regolarmente uso (per questo motivo, nelle scuole montessoriane gli scolari si servono di piatti di ceramica, bicchieri di vetro, soprammobili fragili: i bambini sono, in questo modo, invitati a coordinare i movimenti con esercizi quotidiani di autocontrollo, autocorrezione e prudenza).
Il mantenimento dell’ordine, della pulizia e della bellezza sono i compiti principali che i bimbi sono chiamati ad adempiere e ciò nella convinzione che solo un ambiente ordinato e organizzato è in grado di far emergere le virtù nascoste di chi lo frequenta e lo vive.
L’istinto e il bisogno fondamentali del bambino sono quelli di un adattamento attivo al mondo delle cose e delle persone, misurate e commisurate alle sue personalissime istanze.
Non v’è ambiente sociale, ha scritto Maria Montessori, nel quale non vi siano individui che abbiano esigenze e livelli diversi.
Per questo stesso fatto la scuola è un ambiente che deve accogliere bambini di età eterogenea e adatto al lavoro individuale o di piccolo gruppo.
Il suo parametro di misura è dunque la casa, con spazi articolati, irregolari, ricchi di ‘angoletti nascosti’, di ‘cantucci tranquilli’ dove lavorare, pensare, immaginare con i propri tempi e ritmi interiori.
Ma anche ambiente preparato nel senso della misura, con oggetti e arredi proporzionati all’età e al corpo dei bambini stessi, rivelatori dell’esattezza e dell’ordine, qualità che suggeriscono una disciplinata attività autonoma; ambiente accogliente e caldo, rassicurante e vissuto con un positivo senso di appartenenza.
L’ambiente scolastico diventa ambiente di vita nel quale i bambini sono impegnati gioiosamente al mantenimento dell’ordine, della pulizia, della bellezza. Queste attività, definite esercizi di vita pratica, hanno una funzione importante e significativa sia nella “Casa dei bambini” dove favoriscono il perfezionamento psico-fisico e la coordinazione dei movimenti, sia nella scuola elementare dove assume maggior rilievo la dimensione della autonomia responsabile e quindi della socialità.
La scelta metodologica montessoriana assegna all’insegnante e all’adulto anche da questo punto di vista una assunzione di responsabilità circa i rischi collegati all’uso di materiali ‘reali’.
Nella Scuola Elementare l’ambiente sarà razionalmente organizzato e articolato anche in vista della più attiva ricerca di relazione e di socialità che sono caratteristiche di questa età.
Esso dovrà favorire:
la sperimentazione e il lavoro individuale e di gruppo;
la lettura e la consultazione di testi con una essenziale biblioteca di classe;
la raccolta, lo studio e la valorizzazione di elementi forniti dalla natura come occasione per la ricerca e le uscite di osservazione;
l’apertura alla realtà extrascolastica e al territorio (la scuola entra nel mondo e il mondo entra nella scuola);
le attività manuali legate al “lavoro dell’umanità”, ma sempre collegate allo sviluppo della mente.
“Il lavoro della mani” ha scritto Maria Montessori “deve sempre accompagnare il lavoro della mente in virtù di una unità funzionale della personalità”.
Come è noto, l’ambiente tipico di una scuola montessoriana si distingue per la presenza dei necessari ‘strumenti’ di lavoro psico-motorio e intellettivo dei bambini, strumenti definiti “materiali di sviluppo e di formazione interiore”.
Il bambino, come peraltro ogni essere vivente, è guidato dai suoi misteriosi impulsi vitali ad adattarsi all’ambiente, assorbendone i caratteri.
Laddove esso sia confuso, instabile, incompiuto, né utile né necessario, privo di attrattiva e di interesse e non direttamente utilizzabile per una personale sperimentazione di conoscenza, ebbene il bambino assimilerà questi caratteri negativi senza poter esercitare in modo chiaro, preciso e finalizzato i propri poteri psichici e mentali. In sostanza gli è impedita o resa difficile la stessa formazione del suo proprio carattere.
Per questo motivo di fondo, strettamente legato alla costruzione di una personalità attiva e disciplinata, l’ambiente educativo montessoriano è stato definito come maestro di vita e di cultura, come ambiente educatore.
Il lavoro organizzato è la dimensione pratica nella quale vivono e si realizzano i due presupposti scientifici che sostengono le ragioni e la necessità del metodo Montessori:
Il primo di essi riguarda il bambino, ossia la sua natura che gli ‘comanda’, attraverso spinte interiori, impulsi delicati e profondi, di realizzare il proprio sviluppo psichico.
È soltanto la natura che gli suggerisce che cosa fare, quando farlo e come farlo, e lo guida nella creazione dei propri ‘organi psichici’ (si pensi al movimento e al linguaggio) mettendogli a disposizione particolari e temporanee sensitività.
Queste presiedono alla preparazione e formazione di forze e poteri che non potranno essere positivamente acquisiti quando i corrispondenti periodi sensitivi abbiano cessato di agire in modo intenso e dominante.
Pertanto lo sviluppo psichico non avviene a caso né ha origine da stimoli esterni: certamente il bambino deve essere esposto all’ambiente alle cui spese si sviluppa; ma se l’ambiente è necessario affinché il bambino agisca e incarni se stesso, la propria creazione psichica e mentale è il risultato di una ‘volontà interna’, di un misterioso segreto vitale: “In questi rapporti sensitivi tra il bambino e l’ambiente, sta la chiave che può aprirci al fondo misterioso in cui l’embrione spirituale compie i miracoli della crescenza”.
Il secondo presupposto afferma che i bambini hanno una forma mentale propria e diversa dall’adulto: è la mente inconscia e assorbente, creatrice della natura dell’uomo e della sua cultura: movimento, linguaggio, pensiero, amore.
Ma il bambino non crea e assorbe a caso, ma attraverso una guida severa e ordinata.
Egli segue leggi costanti che creano normalmente i fatti dello sviluppo rispettandone i tempi di manifestazione ed esplosione.
Per il solo fatto di vivere il bambino impara o meglio assorbe e fa suo tutto ciò che l’ambiente offre alla sua attenzione trasformandolo in cultura e civiltà e assicurando così la continuità storica dell’umanità.
La scuola, a partire da questi fatti e fenomeni naturali, è perciò ‘coltivazione’ dell’umanità, aiuto alla sua espansione e formazione: “le menti in via di sviluppo hanno l’avidità di un corpo affamato”.
La cultura del bambino è, dunque, il risultato del suo libero lavoro nel corso di esperienze personali donde egli trae e assorbe gli elementi costitutivi, i quali si fissano nel suo spirito preparandosi a dare nuovi frutti.
La scuola nel suo insieme e le aule non sono confini limitanti, ma luoghi di storie e di esperienze, perché il bambino circolandovi liberamente scopre nuove possibilità di lavoro e di conoscenza.
Il bambino istintivamente si porta dove c’è opportunità di lavoro, di esperienza, di osservazione, di studio.
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Il ruolo dell’insegnante nella scuola Montessori
I bambini desiderano conoscere e sapere, domandano e ricercano, pensano e immaginano perché istintivamente sanno che i fenomeni e i fatti debbono essere spiegati e giustificati e che essi ‘vivono’ e esistono secondo determinate leggi e proprietà.
Ogni cosa è pensata in una visione più vasta della realtà.
Ma, ha scritto Maria Montessori, essi “hanno bisogno di ricevere risposte complete, che provocano il loro entusiasmo e suscitano il bisogno di nuove ricerche e di attività intensa”.
Gli insegnanti dovranno essere all’altezza di tale prorompente bisogno, “ampliando la loro vita psichica”, penetrando con le loro ricerche in campi inesplorati, aprendosi a più larghi orizzonti, impadronendosi di nuove conoscenze di cui forse non sospettano l’esistenza.
L’insegnante montessoriano opera con la fondata speranza che ogni individuo è chiamato dalla natura a realizzare la propria evoluzione psichica, secondo un disegno da essa preordinato, purché egli viva in un ambiente adatto alle forme del suo lavoro.
L’insegnante non giudica i risultati conseguiti dal bambino, ma le cause che ne impediscono o ritardano l’ascesa, provvedendo ad osservarle e capirle, e a modificare le circostanze che ostacolano il normale sviluppo.
Per questo motivo egli non ha un centro e una periferia nella classe ed è contemporaneamente assente e presente: è vicino al bambino che richiede la sua presenza, gli siede accanto con una piccola sedia, gli parla dolcemente e brevemente, senza sovrastare il bambino con il corpo e la parola adulti.
Aiuta senza interrompere e correggere, e questo aiuto è dato senza disturbare il lavoro e la concentrazione degli altri bambini.
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Il materiale Montessori
Il materiale Montessori è il capitolo centrale del metodo.
Il materiale è, per così dire, un eserciziario dello spirito, in quanto il bambino vi esercita la propria sensorialità ed intelligenza, liberamente attirato dalle segrete informazioni e dalle inesplorate soluzioni che esso racchiude.
Penetrando il materiale strutturato, i bambini si rendono conto di come operano, pensano, adottano ipotesi, congetture e soluzioni, di come classificano, risolvono problemi e modificano le proprie rappresentazioni mentali.
Poiché il loro lavoro è intimamente personale, essi sperimentano e conquistano il sentimento della propria autonomia e identità.
Maria Montessori, pur scusandosi di non aver saputo individuare un termine equivalente e meno ambiguo, ha sempre precisato che la normalizzazione non è una azione correttiva e emendativa dell’adulto.
Essa è il ‘ritorno’ spontaneo del bambino alla espressione e sperimentazione delle sue forze positive e costruttive: è dunque, un processo di auto-normalizzazione, di liberazione dei poteri sani da stati di coscienza e di comportamento che ne impediscono l’adattamento attivo.
La normalizzazione è la rinascita della normalità bio-psichica attraverso la quale il bambino riprende interesse, desiderio di lavoro, sforzo e soddisfazione nell’attività prescelta.
La libera scelta e il lavoro appropriato sono le ‘medicine miracolose’ che canalizzano lo spirito del bambino nella scoperta della sua più profonda natura: il fare e il saper fare, non imposti e giudicati dall’adulto, ma sperimentati nell’attività con le ‘cose’ in un ambiente sociale a sua volta non violento, non competitivo, né selettivo, né emarginante.
Questo aspetto dell’educazione montessoriana è stato sempre notato e riconosciuto come il tipico effetto di un intervento indiretto dell’ambiente che offre l’opportunità di ‘auto-riformare’ le proprie tendenze di fuga, di opposizione, di abbandono, di capriccio.
La guarigione del bambino è nelle sue stesse mani, proprio nel senso della mano che riprende ad esplorare, a fare, a pensare, a conoscere.
Il termine curricolo viene usato in questo progetto nel suo significato largo, come espressione operativa di un programma o di un corso di studio organizzato e sequenziato secondo particolari assunti psicologici che ne motivano sia i processi che i metodi.
Gli obiettivi non sono, nella metodologia montessoriana, qualcosa da cui partire o a cui giungere; essi sono modificazioni di conoscenze e comportamenti iscritti nel processo stesso del lavoro del bambino.
Pertanto il curricolo che si propone è la scoperta e la descrizione della cultura infantile di cui la Montessori è stata la ricercatrice infaticabile, facendocene conoscere la nascita, lo sviluppo e i contenuti, e il modo in cui il bambino la incarna diventando individuo colto e competente.
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IL CURRICOLO DELLA SCUOLA D’INFANZIA
Vita pratica e socialità
La vita pratica e la cura dell’ambiente. La vita pratica e la cura della persona. La vita pratica nella relazione sociale. Motricità fine e controllo della mano. Esercizi di movimento determinanti il bisogno di coordinazione e controllo psicomotorio. I travasi. L’esercizio del silenzio. L’esercizio del filo.
Obiettivi: ordine mentale; verso l’autonomia e l’indipendenza; autodisciplina; rispetto di sé, degli altri, delle cose; unità di libertà e responsabilità; l’analisi dei movimenti.
Educazione sensoriale
Senso visivo: dimensioni, forme, colori. Senso uditivo: rumori e suoni. Senso tattile: barico, termico, stereognostico. Sensi gustativo e olfattivo. La lezione dei tre tempi. Il training sensoriale: ulteriori sviluppi e raffinamenti. La memoria muscolare. Suono e movimento.
Obiettivi: verso l’astrazione; analisi; attenzione; concentrazione (capacità di distinzione, discriminazione, confronto, misura, classificazione, seriazione, generalizzazione, ecc.).
Il linguaggio.
Arricchimento e proprietà del linguaggio. Nomenclature classificate. Giochi linguistici per la scoperta della funzione logica, comunicativa e grammaticale del linguaggio. Preparazione diretta e indiretta alla scrittura. L’analisi dei suoni. L’esplosione della scrittura. Il perfezionamento: calligrafia, ortografia, composizione. L’esplosione della lettura: dalla parola alla frase. I comandi. La grammatica come preparazione alla lettura totale. Giochi grammaticali intuitivi: funzione, posizione, simbolo. Le scatole grammaticali; prima tavola per l’analisi logica (materiale fisso e mobile); tavole dei suffissi e dei prefissi. Il libro: la lettura, la conversazione, l’ascolto. L’arte di interpretare. Le parole delle immagini.
Obiettivi: padronanza fonemica del continuum fonico; padronanza grafemica del continuum grafico. Il linguaggio come denominazione e classificazione; la costruzione delle parole e le loro variazioni semantiche; analisi del linguaggio e analisi del pensiero; la funzione comunicativa: narrazione e auto-narrazione; il linguaggio e la vita simbolica; il bambino grammatico verso la metalinguistica.
La mente logico-matematica
La base sensoriale delle strutture d’ordine e le astrazioni materializzate. Primo piano della numerazione (cellula germinativa del sistema decimale). La struttura del sistema decimale: 2° piano. La simbolizzazione. Le quattro operazioni: approccio sensoriale e intuitivo. La memorizzazione.
Obiettivi: la scoperta del numero come unità e insieme; la padronanza simbolica delle quantità; le funzioni del contare: separare, aggiungere, dividere, distribuire, togliere, sottrarre, ripetere, ecc… Il lavoro della mente: successioni, gerarchie, seriazioni, relazioni, uguaglianze, differenze, ordinamento, ecc… Il linguaggio matematico e l’ordine delle cose.
Educazione cosmica
Il tempo dell’io e il tempo sociale: passato, presente, futuro. La misura del tempo cronologico. Il tempo biologico. Tempi e cicli della natura. Il tempo della civiltà: storia materiale (utensili, casa, trasporti, mezzi di protezione, ecc.). Lo spazio dell’io. Gli spazi sociali. Lo spazio bi e tridimensionale. Lo spazio rappresentato. Lo spazio misurato. Lo spazio del mondo: costituzione e forme (acqua, terra, continenti, penisole, isole, fiumi, montagne, vulcani, pianure, ecc.). La materia: forme e stati. Le forze della materia. Gli organismi viventi: funzioni e bisogni. Il cosmo nel giardino: lo stagno, l’orto, la fattoria (etologia e biologia animale, biologia vegetale). Il linguaggio scientifico della natura: nomenclature e classificazioni.
Obiettivi: primo avvio alla comprensione delle costanti cosmiche; approccio alla visione di interdipendenza ed ecosistema nei processi evolutivi umani e naturali; osservazione e sperimentazione tra favola (cosmica) e realtà; introduzione al vissuto dei viventi.
L’educazione musicale
Rumori e suoni nella natura e nella super-natura; riconoscimento, analisi, rappresentazione (altezza, timbro, durata, intensità, ecc). Il bambino costruttore di suoni e di oggetti sonori. Suoni, ritmi e movimento. Il suono e il gesto; suono e colore. I suoni organizzati: analisi e riproduzione: ninne nanne, filastrocche, cantilene, fiabe musicali e loro traduzione drammaturgica in piccolo gruppo. Il coro; l’inventa-canto; l’inventa-orchestra. Striscia storica degli strumenti musicali. Il silenzio e l’ascolto. Approccio ai generi musicali. Verso la scrittura e la lettura musicali.
Obiettivi: comprensione della natura e del fenomeno del suono; esplorazione dell’io sonoro; educazione sensoriale all’ascolto; la socialità del suono; creatività interpretativa e produttiva.
Educazione all’arte rappresentativa
Il contesto: educazione alle forme, alle dimensioni, ai colori. Composizione di colori e scale cromatiche. Educazione della mano, organo motore del segno. Dall’arte degli incastri alle decorazioni spontanee.Le carte colorate. Forme e colori nella storia; forme e colori nella natura. Il disegno spontaneo: gli aiuti indiretti. Il disegno spontaneo si ‘racconta’. L’espressione plastica: materiali e tecniche. La cartella personale ed evolutiva del lavoro pittorico del bambino. Il museo dei manufatti artistici.
Obiettivi: dal controllo della mano al controllo del segno; dalla composizione dei colori alla espressività del colore; il disegno decorativo ed ornamentale e la geometria delle forme; disegnare per raccontare e immaginare; la mano e la materia: le forme dei volumi.
Metodo Montessori MATEMATICA – Presentazione. Quando pensiamo alla matematica insegnata col metodo Montessori, non possiamo considerare solamente l’uso dei materiali specifici di questa materia, perché anche lo sviluppo sensoriale è di estrema importanza nel gettare le basi per il pensiero matematico.
Anche nella Vita Pratica, lo sviluppo di “Ordine”, “Concentrazione, “Coordinazione” e “Indipendenza” sono importanti per la mente matematica.
La matematica è fatta di sequenze, si basa sull’ordine.
La capacità di concentrazione sul compito è importantissima nella Matematica per sviluppare il pensiero logico e la capacità di risolvere problemi. Sviluppare il pensiero indipendente e l’abilità di soluzione dei problemi è una delle mete principali.
Perché così tanti bambini provano antipatia per la matematica?
Perché la trovano noiosa come un raffreddore, con tutti i suoi simboli astratti.
Si presume che bambini imparino, nei modelli di istruzione tradizionale, se gli insegnanti semplicemente correggono i loro errori e presentano la risposta corretta. Ma i bambini hanno bisogno di vedere, senza fretta o pressione, come i numeri cambiano, crescono, e sono in relazione tra loro. Hanno bisogno di sviluppare un modello mentale del territorio, prima di fare il primo passo.
Come ha detto Piaget “La conoscenza non è una copia della realtà. Conoscere un oggetto un evento, non è semplicemente guardarlo e farsene una copia mentale, o un’immagine. Conoscere un oggetto è agire su lui. Sapere è cambiare, trasformare l’oggetto e capire il processo di questa trasformazione”.
Le matematica è molto importante nella vita quotidiana: il numero è dappertutto. Maria Montessori scrisse: ” I bambini sono esortati dalle leggi della loro natura a trovare esperienze attive nel mondo circostante. Per questo usano le loro mani: non solo per scopi pratici, ma anche per la conoscenza.”
Basandosi su questo principio, la matematica Montessori è presentata in modo divertente ed interessante, usando materiali concreti che aiutano i bambini a costruire solide fondamenta per i concetti astratti.
I bambini hanno la possibilità di scegliere liberamente i materiali che rispondono alle loro necessità interne. Il principio della scelta libera si aggiunge al principio della ripetizione dell’esercizio.
La scelta libera fatta dai bambini aiuta l’insegnante ad osservare le loro necessità psichiche e le loro tendenze.
La ripetizione è necessaria per il bambino per raffinare i suoi sensi, perfezionare le sue abilità e costruire il sapere sulle sue competenze. Attraverso scelta libera e ripetizione, i bambini possono compiere i loro progressi nella conoscenza, seguendo un ritmo che dipende dalle loro necessità interne, e non da quanto stabiliscono insegnanti o genitori.
I materiali per la matematica Montessori vengono proposti secondo questo ordine: si comincia con la numerazione da uno a dieci.
Metodo Montessori MATEMATICA – i materiali includono:
Grazie alla manipolazione di questi materiali, i bambini non solo costruiscono il concetto di base del numero da uno a dieci memorizzando il naturale ordine di numeri, ma anche riconoscono le relazioni tra quantità e qualità.
Dopo aver acquisito padronanza con questi concetti di base, i bambini hanno bisogno di capire il valore posizionale delle cifre. Si presenta ai bambini il Sistema Decimale, facendo esplorare il valore posizionale delle cifre entro le migliaia.
Lavorando con le perle dorate e le carte dei numeri grandi i bambini svilupperanno il concetto di quantità oltre il dieci.
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Quando riconoscono i simboli scritti e il loro significato, hanno bisogno di esercitarsi nel ricordare i numeri. Questa abilità si svilippa attraverso l’uso dei materiali seguenti:
L’insegnante ha un importante ruolo in tutto ciò: deve saper comprendere cosa i bambini rivelano attraverso il loro lavoro; non deve insistere ripetendo la lezione, o comunicare al bambino che ha commesso un errore o che non ha capito.
L’insegnante insegna poco ed osserva molto, perché solo così può aiutare bambini a rimuovere i loro ostacoli e può guidarli al passo successivo, secondo le necessità e i desideri dei bambini.
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