Leggenda di ALASSIO – Liguria

Leggenda di ALASSIO – una leggenda ligure per bambini della scuola primaria.

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Leggenda di ALASSIO – Liguria

Forse pochi sanno l’origine del nome della città di Alassio…

… mille anni fa, circa, viveva in Germania una bella e intelligente fanciulla, dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro: Alassia si chiamava, ed era figlia nientemeno che dell’imperatore di Germania, Ottone I.

Alassia amava e voleva sposare lo scudiero imperiale. Figuratevi un po’ se Ottone avrebbe permesso che sua figlia andasse sposa a uno scudiero! Egli aveva pensato per lei ben altre nozze!

Così, quando ella si presentò al padre per chiedere il consenso ne ebbe un deciso rifiuto.

I due giovani allora pensarono di fuggire. Difatti, pochi giorni dopo, quando l’alba non aveva ancora vinto le tenebre, essi lasciarono il palazzo reale e si diressero verso il sud, verso il sole.

Cammina e cammina, dopo lunghe peripezie e non poche sofferenze, essi arrivarono finalmente in una terra piena di luce e di fiori: la Liguria. Innamorati di tanta bellezza decisero di fermarsi in quel luogo incantevole. Si stabilirono, infatti, poco ad ovest di Albenga, e lì si sposarono.

Ma per vivere dovettero lavorare e lavorare: fecero i contadini, i pescatori, coltivarono i fiori. Infine lui si mise a fare il carbonaio e lei imparò a meraviglia a tessere i merletti.

Ma che importava? Vivevano contenti, mentre il loro figlio Aleramo cresceva bello, forte ed intelligente. Non poche prove di coraggio egli aveva saputo dare. Fra l’altro aveva tratto in salvo alcuni pescatori durante una furiosissima tempesta che aveva sorpreso piccole barche al largo della costa ligure.

Passarono così molti anni…

Un bel giorno, sul far della sera, arrivò nella vicina città di Albenga nientemeno che l’imperatore. Era invecchiato, molto invecchiato. Da quando la sua figliola era fuggita, preso dal rimorso, egli non aveva più conosciuto un momento di pace.

Aveva sì inviato messi a cercarla in tutte le parti dell’impero. Ogni città, ogni terra era stata frugata, ma sempre inutilmente, sicchè il povero sovrano aveva finito col perdere ogni speranza.

Ed ecco che ora viene a sapere che la sua figliola diletta vive lì vicino col marito e col figlio. L’imperatore non volle questa volta agire di propria testa. Si recò dal vescovo di Albenga e chiese a lui consiglio su quel che doveva fare: “Perdona!”, fu la risposta.

Non era il caso di dirlo, perchè questa volta l’imperatore andò anche più in là.

Non solo concesse all’amata figliola il suo paterno perdono, ma fece il nipote Aleramo marchese del Monferrato.

E quando la figlia dell’imperatore morì, la località dove ella era vissuta contenta e felice prese il suo bel nome: Alassio.

Leggenda del Lago Santo modenese

Leggenda del Lago Santo modenese – una leggenda dell’Emilia Romagna, per bambini della scuola primaria.

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Leggenda del Lago Santo modenese

“Va bene!” disse il gigante, con la sua voce di tuono, al ministro del re, “In cambio però voglio quindici paia di buoi, trenta mucche, centocinquanta pecore e cinquanta otri di vino!”

Il ministro del re, microscopico e tremante ai piedi della grotta, fece dietro front e corse a riferire. Il re accettò e subito, senza perdere un attimo, il gigante si tirò su le maniche e si mise al lavoro. E che lavoro! Si trattava, nientedimeno, di sollevare una montagna e precipitarla a valle, distruggendo così un‘intera città con tutti i suoi abitanti.

Non era, però, una gran fatica, per un gigante dalle braccia lunghe dodici miglia e le mani vaste come un paese…

“Che cos’è questa storia?” dirai tu.

E’ la storia di un lago, un lago chiamato Lago Santo, pittoresco specchio d’acqua dell’Appennino Modenese. Sta a sentire…

…Secoli e secoli or sono, un re malvagio valicò lunghe catene di monti per venire a conquistare una città. Già altre città, già altri paesi e villaggi aveva conquistato e distrutto, senza che la sua cattiveria fosse stata punita.

Questa volta, però, si trattava di una città che non meritava di essere asservita, perchè i suoi abitanti l’avevano edificata con amore, e l’avevano resa bella, ricca e fiorente.

Allorchè essi si accorsero del pericolo che stavano correndo, per notti e per giorni si misero a scavare un enorme vallone di dove, ben nascosti e protetti, al momento opportuno avrebbero potuto scacciare il nemico con una pioggia di frecce.

Venuto a conoscenza della cosa, il re chiamò il ministro e gli impose di trovare un rimedio alla situazione. Fu così che il ministro corse alla grotta del gigante e di laggiù, microscopico e tremante, gridò: “Ehi, tu! Che cosa chiedi in cambio, per darci una mano?”

“Quindici paia di buoi!” rispose il gigante, che dal suo antro seguiva e vedeva ogni cosa, “Trenta mucche…”

E intanto si stropicciava beato le mani, pensando che, con poca fatica, avrebbe avuto da mangiare e da bere per tutto l’inverno.

Ed eccolo al lavoro. Distese le braccia, lunghe dodici miglia ciascuna, roteò le mani grandi come paesi, e afferrata a caso una montagna per il cocuzzolo, se la pose sulla testa e si incamminò per raggiungere il punto giusto di dove, scagliandola, avrebbe in un batter d’occhio seppellito città e cittadini.

Ma che cosa avvenne, ad un tratto?

Avvenne questo: miliardi di formicuzze piccine e tenaci accorsero da ogni dove e cominciarono a scavare con tutte le loro energie la montagna che il gigante portava sulla testa. Scava e scava, ben presto esse l’attraversarono da un capo all’altro. Così il gigante, si ritrovò con la testa infilata nella galleria scavata dalle formiche e con la montagna tutta intorno al collo come… un collarino.

Ma che terribile collarino! Strozzato a quel modo, che poteva fare il povero gigante? Urlava, e le sue urla si perdevano in un gorgoglio. Cercava di scrollarsi di dosso la montagna, ma più scrollava e più essa gli si assestava intorno al collo…
Sbuffava e smaniava, ma tutti i suoi movimenti non producevano che un lieve rotolio di sassi e di terriccio… Era la fine. A poco a poco, infatti, le forze gli mancarono ed egli morì.

Intanto si era messo a piovere. Una pioggia abbondante, continua, che scrosciava dilagando per la campagna e per il vallone, dividendo inesorabilmente la città dai suoi nemici.

Piovve giorno e notte, per più giorni e più notti. Ormai la città era salva e i cittadini potevano guardare con gioioso sollievo quella pioggia benedetta che li aveva liberata dal pericolo.

Così, quando tornò il sole, raggiunto il luogo in cui il gigante era crollato, tutti videro che la pioggia aveva riempito fino all’orlo anche il buco scavato dalle brave formicuzze nella montagna, formando un grazioso laghetto.

A ricordo di quel gesto di bontà, lo chiamarono Lago Santo. 

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

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Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

C’era una volta un uomo che andava intorno con un carrettino sgangherato. Una notte d’estate giunse a Gemona. Non aveva il becco di un quattrino, e non sapendo dove andare a dormire, si distese sulle panchine che stanno sotto il Palazzo Comunale. Quando fu mezzanotte sentì una voce che lo chiamava. Egli si svegliò spaventato e chiese: “Chi è?”

“Costantino,” rispose una voce sommessa, “se tu hai coraggio, io posso darti la fortuna; domani sera, a quest’ora, fatti trovare qui. Io tornerò”.

Costantino, il giorno dopo, pensava impaurito che cosa avrebbe dovuto fare. Alla fine decise di tornare a dormire sotto il palazzo.

A mezzanotte precisa, l’anima ritornò.

“Costantino!” disse, “Armati di coraggio, e vieni con me sulla torre del castello. Tu non mi vedrai, ma io ti sarò sempre vicino. Appena entrato nella torre , lancia un sasso e subito dopo vedrai comparire una bestiaccia a cavallo di una gran cassa contenente un tesoro. Essa terrà una chiave in bocca. Tu non spaventarti, ma afferra la chiave e fa ogni  sforzo per levargliela di bocca. Se non ci riuscirai la prima volta, tenta la seconda ed anche una terza. Ricordati, però, che devi far questo prima che suoni il tocco.”

Costantino, tremando, salì la riva del castello ed appena entrato nella torre gettò un sasso. Immediatamente, tra tuoni e lampi, comparve la bestiaccia. Costantino le andò incontro per toglierle la chiave, ma prese a tremare per la grande paura, e la prima volta potè appena toccarla.

Provò la seconda e non riuscì a strappargliela. Provò anche la terza, ma, proprio quando stava compiendo il maggior sforzo, sentì battere l’una, e bestiaccia e cassa scomparirono tra le fiamme.

Costantino, sconvolto, uscì dalla torre, e a metà discesa ritrovò l’anima, che gli disse: “Costantino, io avevo sperato proprio che tu mi avresti liberata. Ora, purtroppo, deve ancora nascere l’albero, con cui sarà fatta la culla di colui che mi libererà”.

Sotto il Castello di Gemona dovrebbe essere sepolto un tesoro. Ci si può, dunque, spiegare perchè, come dicono, compare ogni tanto qua e là qualche buca scavata di fresco. Qualcuno, certamente, tenta nottetempo di scoprirlo.

(V. Ostermann)

CONTURINA Leggenda del Trentino Alto Adige

CONTURINA Leggenda del Trentino Alto Adige, per bambini della scuola primaria.

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CONTURINA

Leggenda del Trentino Alto Adige

Nella Valle di Contrin, adagiata ai piedi dell’immensa parete verticale della Marmolada, vive ancora il ricordo della leggenda di Conturina, la bellissima fanciulla vittima della propria bellezza e dell’odio della matrigna.

La matrigna di Conturina era una nobile e ricca signora, padrona di un castello e madre di due brutte ragazze.

Molti principi e giovani cavalieri venivano in visita al castello; tutti ammiravano Conturina e nessuno si occupava delle altre due.

La matrigna, alla quale ciò dispiaceva, un bel giorno ordinò a Conturina di non pronunciare una parola in presenza degli ospiti. E disse a tutti che la ragazza era stupida e muta.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

Allora la matrigna ordinò che, quando vi fossero ospiti in casa, Conturina restasse sempre perfettamente immobile. E disse a tutti che la figliastra era muta e paralitica.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

La matrigna, furente, mandò a chiamare una strega, la quale con un incantesimo trasformò Conturina in pietra.
Tutti si innamorarono della statua bellissima.
Allora la matrigna ordinò che la fanciulla impietrita venisse portata sopra un’altissima rupe, che domina il Passo di Ombretta, che venisse infitta nella roccia e abbandonata lassù.
E così fu fatto.
Mesi ed anni passarono senza che nessuno sapesse dove era andata a finire la povera Conturina.

Dopo alcuni anni, fra i pastori si cominciò a dire che nella solitudine della Val d’Ombretta, qualche volta si udiva cantare una voce di donna.

Una notte un giovane soldato, che era di sentinella sul passo, nel silenzio profondo riuscì a comprendere anche le parole del canto, nel quale Conturina raccontava la sua storia. Il soldato le gridò che allo spuntar del giorno si sarebbe arrampicato su quella rupe per liberarla. Ma Conturina gli rispose che era troppo tardi.

Nei primi sette anni sarebbe ancora stato possibile liberarla, ma alla fine del settimo anno l’incantesimo si era fatto insolubile e nessuna forza umana sarebbe valsa ormai a staccarla da quella rupe, dove ella era destinata a rimanere per sempre.

E così fu.

Qualche volta, chi passa per quel deserto di rocce che è la Valle Ombretta, specialmente di sera, ode ancora il mesto canto della povera Conturina.

(C. F. Wolf)

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta per bambini della scuola primaria.

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Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta

 C’erano una volta un papà e una bambina. La bimba si chiamava Misurina e Sorapis il papà. Papà era un gigante, e Misurina una bimba piccina piccina, che poteva benissimo stargli nel taschino del panciotto. Eppure, quella piccina piccina poteva a suo agio prendere in giro quel papà grande come una montagna.

E’ la sorte che tocca ai papà troppo buoni con le bambine che non meritano nessuna bontà. E Misurina intanto cresceva stizzosa ed insolente.

Al castello di babbo Sorapis tutti la fuggivano come la peste, uomini di corte e valletti di camera, dame di compagnia e donne di cucina.

“Signori miei”, gemeva Sorapis, “lo so, lo so. Misurina è un po’ monella, ma è tanto una cara bambina! Rimedieremo… rimedieremo…”.

Ma non rimediava, pover’uomo. Anzi, la piccola, crescendo, diventava sempre più insopportabile. Il suo difetto più grande, però, era la curiosità. Una bimba così curiosa non la si sarebbe incontrata in tutto il mondo. Voleva sapere tutto, voleva vedere tutto.

Un giorno la nutrice le disse: “Una signorina come te, dovrebbe possedere lo specchio Tuttosò”

“E che cos’è questo specchio?” esclamò la bimba, facendosi rossi per l’emozione.

“Uno specchio dove basta specchiarcisi per saper tutto quanto si vuol sapere”.

“Oh” mormorò Misurina, “E come posso averlo?”

“Domandalo al tuo papà, che sa tutto”.

Misurina andò dal babbo, saltellando come un passero.

“Papà,” cominciò a gridare prima di giungergli accanto, “devi farmi un regalo!”.

“Se posso, gioietta”

“Sì che puoi”

“E allora sentiamo”

“Prima giura che me lo farai”

“Non posso giurare se non so di che regalo si tratta”

“Voglio lo specchio Tuttosò”

Sorapis impallidì. “Tu non sai ciò che mi chiedi, figliola”

“Sì che lo so!”

“Ma non sai che lo specchio appartiene alla fata del Monte Cristallo?”

“E che mi importa? Lo comprerai!”

Il povero Sorapis sospirò…

“O glielo ruberai.”

“Senti… Misurina…”

“L’hai promesso, papà!”

E quel demonio di figliola si mise a piangere e a sospirare e a rotolarsi per terra. “E se non mi porterai quello specchio, io morirò”.

Il povero papà si mise in testa la corona, vestì il mantello di ermellino, prese lo scettro a mo’ di bastone, e si avviò dalla fata che abitava a pochi passi da lui. Non appena giunse al castello, bussò.

“Avanti” disse la fata, che sedeva nella sala del trono, insieme con due damigelle. “Chi sei e cosa vuoi?”

“Sono Sorapis, e voglio lo specchio Tuttosò”

“Corbezzoli!” rise la fata, “Solamente? Come se si trattasse di fragole!”

“Oh, fata, fatina, non ridere… se tu non me lo dai, la mia bambina morirà”

“La tua bambina? E che ne sa dello specchio Tuttosò? A che le serve? Come si chiama questa bambina?”

“Misurina”

“Ah, ah!” disse la fata, “La conosco di fama. Le sue grida giungono fino a me quando fa i capricci, e questo è un capriccio ben degno di lei. Va bene, io ti darò lo specchio, ma a un patto”

“Sentiamo” accondiscese il re.

“Vedi quanto sole batte da mattina a sera sopra il mio giardino?”

“Vedo” rispose Sorapis.

“Mi brucia tutti i fiori e mi dà noia. Mi ci vorrebbe una montagna a gettarmi un po’ d’ombra. Ecco, bisognerebbe che tu, grande e grosso come sei, ti contentassi di trasformarti in una bella montagna. A questo patto ti darei lo specchio Tuttosò”.

“Oh… oh…” disse Sorapis, grattandosi un orecchio e sudando freddo.

“Prendere o lasciare” disse la fata.

“Va bene! Dammi lo specchio”, sospirò il poverino.

La fata trasse da uno scrigno, che aveva a portata di mano, un grande specchio verde e glielo porse, ma poichè si accorse che il povero Sorapis era diventato smorto, ebbe pietà di lui, e gli disse:

“Facciamo una cosa; capisco che tu non hai troppo desiderio di trasformarti in una montagna, ed è naturale, ma, d’altra parte, hai paura che la tua bimba muoia se non mantieni la promessa che le hai fatto. Ritorna al tuo castello e di’ alla bimba la condizione per cui può venire in possesso dello specchio; se ella ti vuol bene rinuncerà a possederlo per non perdere il suo papà, e tu mi rimandi lo specchio, e se no, se no… io non ne ho colpa”.

“Sta bene” rispose il re, e ripartì.

Misurina lo aspettava seduta sullo spalto più alto del castello e non appena lo vide, gli gridò: “Ebbene, me l’hai portato?”

“Eh, sì, te l’ho portato”, ansimò il poverino. E presala in mano per parlarle meglio, le riferì l’ambasciata della fata del Monte Cristallo. Misurina battè le mani.

“Tutto qui?” disse, “Dammi pure lo specchio, papà, e non pensarci. Diventare una montagna deve essere una bellissima cosa. Anzitutto non morirai più, poi ti coprirai di prati e di boschi ed io mi ci divertirò.

Il poveretto impallidì, ma tanto valeva; la sua condanna era stata decretata. Non appena Misurina ebbe afferrato lo specchio, Sorapis si ampliò, si ampliò, si gonfiò, parve lievitasse nel sole, si impietrì, e in un attimo diventò la montagna che ancora oggi si erge di fronte al Monte Cristallo.

Misurina, trovatasi innalzata a quell’altezza prodigiosa sulla cresta di una montagna bianca e nuda, dove a poco a poco gli occhi di suo padre morivano, gettò un grido terribile e, presa da un capogiro, col suo specchio verde precipitò giù.

Allora dagli occhi semispenti di Sorapis, incominciarono a scendere lacrime e lacrime, fino a che gli occhi si spensero e le lacrime non piovvero più.

Con quelle lacrime si è formato il lago sotto cui giacciono Misurina e lo specchio, e in quel lago il Sorapis si riflette e cerca con gli occhi morti la sua bimba morta.

(P. Ballario)

Leggenda del MONTE DISGRAZIA – Lombardia

Leggenda del MONTE DISGRAZIA – una leggenda della Lombardia, per bambini della scuola primaria.

Leggenda del MONTE DISGRAZIA

Il Monte Disgrazia, in fondo alla val Malenco, nella provincia di Sondrio, è oggi aspro, roccioso e brullo. Ma non è sempre stato così.

Molti secoli fa, quella montagna era ammantata di incantevoli pascoli verdi. Era un luogo talmente meraviglioso che aveva meritato il nome di Monte Bello.

A primavera i pastori risalivano verso la cima e sui pascoli erbosi si fermavano fino all’autunno coi loro greggi.
Così per molti secoli.

Un giorno comparve, presso le baite situate più in alto, un vecchio uomo sfinito dal caldo e dal digiuno. I pastori, in quel momento, stavano consumando il loro frugale pasto: pane duro e formaggio.

Il povero viandante chiese, umilmente, un po’ di cibo e il permesso di riposarsi fra loro un giorno o due, dicendo che si sentiva sfinito e febbricitante. Ma i pastori lo derisero e risposero che non avevano nessuna voglia di ospitare vagabondi malati.

“Va’ a morire altrove. Qui non c’è posto per un vagabondo come te!”

Scacciato così crudelmente, il povero vecchio seguitò in silenzio il suo cammino più a valle e si fermò solo davanti all’ultima baita, la più bassa, la più piccola e, dall’aspetto, la più povera.

Qui, all’ombra di una grande quercia sedeva tutto solo un giovane e robusto pastore. Il pellegrino gli si accostò e gli si sedette a fianco senza dir nulla. Le gambe non lo reggevano più e la vista gli si annebbiava. Il giovane pastore capì quegli occhi che piangevano e che imploravano; si alzò, gli porse l’acqua fresca della sua borraccia, poi un po’ di pane e un po’ di formaggio. Quindi lo invitò a riposare nella sua baita dicendo: “Seguiterai il cammino fra qualche giorno. Io sono solo e la tua compagnia mi farà felice”.

Il vecchio lo guardò con profonda riconoscenza. “Grazie, buon pastore” gli rispose, “Ma devo arrivare al paese prima di sera. Per raggiungerlo ci vuole qualche ora di cammino ed io sono vecchio. Accompagnami, piuttosto, fino a quelle case laggiù!”

“Se proprio vuoi proseguire, ti accompagnerò volentieri. Aspetta un momento perchè io raduni il mio gregge.” disse il pastore.

“Non occorre, lascialo pure così”, rispose il pellegrino.

Ed il vecchio, appoggiandosi al giovane, fece con lui, in silenzio, un buon tratto di cammino. All’improvviso il cielo si oscurò in modo pauroso. Non erano nuvole, ma caligine, a tratti squarciata da immense vampate di fuoco.

“Non voltarti indietro” raccomandò il pellegrino. Ma il pastore si volse lo stesso. Il monte ardeva in un gigantesco rogo. Le fiamme mandavano così vivida luce che gli occhi del pastore non la potevano sostenere e rimasero ciechi. Il giovane allora, pieno di terrore, si gettò a terra piangendo e pregando: “Dio misericordioso, ti supplico, perdona la mia disobbedienza  e toglimi da questa notte!”

“Allunga la mano” disse allora il pellegrino ” e lavati con l’acqua del fiume; poi torna presso il tuo gregge,  che è  salvo nel tuo pascolo. Abbi fede!”

Appena il pastore ebbe raccolta, con le mani tremanti, un po’ d’acqua e se ne fu bagnati gli occhi, riacquistò la vista e si guardò intorno pieno di stupore. Il cielo era ritornato sereno e tutto era pace e silenzio.

Ma il monte… il bel monte prima ravvolto di boschi e di verdi pascoli era divenuto bruno, roccioso e aspro e si ergeva coi suoi aguzzi picchi e fianchi solcati da crepacci minacciosi.

Il Monte Bello si era tramutato nel Monte Disgrazia.

LEGGENDE ITALIANE I laghi di Avigliana

LEGGENDE ITALIANE I laghi di Avigliana – una leggenda del Piemonte per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

I laghi di Avigliana

C’era una volta in Piemonte, là dove ora sorgono i due laghi di Avigliana, un grosso borgo florido e ricco. Disgraziatamente la fortuna e gli agi avevano indurito e inasprito il cuore degli abitanti: essi erano così egoisti, avari e crudeli che non facevano neppure la più piccola elemosina, e vivevano pensando solo a se stessi e al proprio benessere.

Ora avvenne che una sera d’inverno, in cui infuriava una gelida tempesta di neve, un pellegrino vestito di bianco giunse alla borgata. Appariva sfinito dal lungo cammino e si trascinava a stento nella tormenta che gli sferzava il volto pallido ed emaciato, contratto dalla fatica e dalla pena.

Bussò alla porta di una casa, le cui finestre dai vetri appannati rivelavano come nell’interno vi fosse un buon tepore, e chiese per carità un po’ di pane, una ciotola di latte caldo, un ricovero per la notte: era un pellegrino, un fedele di Dio, e Dio avrebbe ricompensato chi lo avesse ospitato.

Ma vane furono le richieste e le preghiere del bianco viandante.

Tutti gli chiusero la porta in faccia con mala grazia, rifiutandogli ogni soccorso.

Ormai egli aveva percorso tutte le vie, picchiato a tutti gli usci. Restava ancora solo una misera casupola sperduta, che sporgeva su una piccola altura, un po’ fuori del paese. Dietro i vetri della minuscola finestrella si scorgeva oscillare una fioca fiammella di candela.

Il pellegrino bussò  anche a quest’ultima porta, con un ultimo barlume di speranza. Una vecchiarella tremula, poveramente vestita, gli aprì e lo invitò premurosamente ad entrare.

Lo fece accomodare accanto al camino ed accese un fuoco di sterpi e di rami secchi, raccolti pazientemente, un po’ alla volta, nei boschi, durante l’autunno. Poi gli scaldò una tazza di brodo e gli diede una fetta di pane nero, tutto ciò che le restava nella madia.

“Poverino, sei tutto fradicio!” gli disse, aiutandolo a togliersi il bianco mantello inzuppato di acqua e di neve.

Gli porse una coperta ed il pellegrino si ravvolse in essa e si stese vicino al focolare, accanto alle braci calde, per dormire. La vecchietta voleva cedergli il suo lettuccio, in una stanzetta al piano superiore, ma egli rifiutò, dicendo che questo non poteva assolutamente accettarlo. Allora la vecchina gli augurò la buona notte e andò di sopra a coricarsi.

La mattina seguente, quando ella scese in cucina, il bianco pellegrino era scomparso.

“Strano…” pensò, “… chissà perchè se ne sarà andato senza salutarmi. Forse aveva fretta di riprendere il cammino interrotto e di arrivare a destinazione…”.

Aprì la porta e si affacciò sulla soglia, per vedere se le riusciva di scorgerlo lungo la strada maestra. La tormenta era passata e splendeva il sole. Guardando il paesaggio all’intorno, la vecchiarella mandò un’esclamazione di stupore…

Il villaggio non c’era più… Nessuna traccia delle case, ai lati della strada… Al loro posto si stendevano due laghi, uno più grande e uno più piccolo, dalle cerule onde increspate dalla brezza e scintillanti nel sole, fra rive bianche di neve.

Solo la casetta della povera vecchia si era salvata dalla distruzione: così il divino viandante dal candido mantello aveva premiato il buon cuore di lei e punito la malvagità dei suoi compaesani.

LEGGENDE ITALIANE Il giovane conte cambiato in lupo

LEGGENDE ITALIANE Il giovane conte cambiato in lupo – una leggenda della Valle d’Aosta per bambini della scuola primaria.

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Valle d’Aosta

Il giovane conte cambiato in lupo

Era inverno. La neve copriva abbondantemente le falde dei monti. Anche il fondo valle era coperto di neve.

I contadini stavano rintanati nelle stalle, per ripararsi dalle intemperie. Il sepolcrale silenzio del luogo era rotto soltanto dallo scrosciare delle acque del Lys e dal fragore delle valanghe che precipitavano dai monti vicini, con grande fragore.

Paolo, un giovanotto di Lillianes, la sera della festa patronale, il 22 gennaio, si recò presso Geltrude, la sua fidanzata. Voleva avvisarla che per alcuni giorni non l’avrebbe vista, perchè doveva recarsi al villaggio di Moller per cuocervi il pane per l’estate successiva.

Il giorno seguente, prima che il sole sorgesse all’orizzonte, egli aveva già fatto ben due ore di cammino sulla neve immacolata ed era giunto lassù dove la bianca farina di segale lo attendeva per essere trasformata in pane saporito.

Gli annosi abeti della foresta vicina protendevano lunghi rami verso il suolo, stanchi della pesante stretta che dava loro la neve.

Paolo, però, non si fermò a contemplare il quadro che gli si spiegava dinnanzi; e tanto meno sentì il minimo sgomento di trovarsi in un luogo tanto selvaggio. Cominciò a togliere con il badile la neve che ingombrava l’entrata di casa, poi accese il fuoco nel forno e, sempre canterellando allegramente, pulì la madia, preparò la pasta, formò i pani e li mise a cuocere.

Poco dopo dal forno usciva un buon odore di pane e quell’odore appetitoso stuzzicò la fame del giovane montanaro.

Ma quale non fu il suo stupore, quando, voltandosi verso la porta,  vide un grosso lupo che lo stava guardando, con la lingua ciondoloni e il respiro grosso e affannato.

Non avendo alla mano altra arma di difesa, Paolo prese una palata di brace e la scaraventò sulla belva, la quale se ne andò mandando gemiti e ululati spaventosi.

Il giovanotto credette di essersi liberato della bestia importuna, ma così non fu. Il lupo, dopo una ventina di minuti, tornò a presentarsi alla capanna. Scacciato una seconda volta, tornò una terza e poi ancora, finchè a Paolo venne l’idea di gettargli un pane caldo. Allora la belva, quasi non avesse aspettato altro, addentò con avidità il pane e, questa volta, non fece più ritorno.

Quando Paolo discese a valle, raccontò ai familiari ed agli amici la storia del lupo, ma nessuno ci fece gran caso, forse perchè in quei tempi i lupi erano assai comuni nelle nostre vallate alpine.

Nell’estate seguente, Paolo volle realizzare il suo sogno di sposare la bella Geltrude.

Valicati i monti di Carisey e del Mucrone, e salutata di passaggio la Madonna nera del Santuario d’Oropa, si recò a Biella con l’intenzione di comprare l’abito nuziale per sè e per la sposa.

La cittadina era molto movimentata, a motivo della fiera.

Paolo, abituato alla semplicità del suo villaggio natio, si fermava estasiato a contemplare le vetrine dei vari negozi. Ed in mezzo a tanto trambusto era quasi sbalordito.

Ad un tratto sentì che qualcuno gli toccava la spalla. Si voltò e vide un signore alto, distinto ed elegante, che lo guardava con aria amichevole. Paolo rimase perplesso, con gli occhi fissi  in quelli dello sconosciuto.

Poi questi prese le mani del montanaro, gliele strinse con affetto e lo invitò a seguirlo nel suo castello, dove lo trattenne a pranzo.

Il povero montanaro, seduto al posto d’onore, aveva la mente tanto confusa che non osava proferir parola. A un certo punto, con evidente commozione, il padrone di casa gli richiamò alla mente quel tale lupo della montagna di Moller. Poi, dopo una lunga esitazione, aggiunse: “Quel lupo ero io!”

E continuò: “Ero un giovanotto spensierato e mi divertivo a fare escursioni sui nostri monti. Quattro anni fa ero di passaggio al Lago di Mucrone, quando una malvagia strega mi si avvicinò. Mi toccò con una bacchetta incantata e da quel momento fui mutato in lupo famelico e fui condannato a rimanere tale finchè non avessi trovato un’anima pietosa che mi regalasse un pane. Passarono i giorni, passarono i mesi, e quattro tormentose annate… Nella dolorosa attesa morì di dolore una bella castellana di Pont Saint Martin, mia fidanzata, e morì, pure di dolore, la mia povera madre. Quanto a me, per ben quattro anni dovetti percorrere monti e valli, ululando, con la morte nel cuore, aspettando che qualcuno mi ridonasse la felicità perduta”.

Allorchè Paolo ebbe udita la commovente narrazione, si gettò tra le braccia del conte e scoppiò in lacrime.

Grande fu la commozione di entrambi.

Si racconta che il conte biellese non dimenticò mai il suo benefattore.

Paolo e Geltrude, col denaro ricevuto dal conte, qualche anno dopo il loro matrimonio, fecero edificare una bella villa sul poggio che si eleva tra i villaggi Barbià e Salè, sulla strada che da Lillianes conduce a Santa Margherita, e di là  ad Oropa.

Ancora oggi se ne scorgono i ruderi e la località viene chiamata Courtil del Conte.

(C. Vercellin)

Acquarello steineriano: La leggenda del lago di Carezza

Acquarello steineriano: il racconto della leggenda del Lago di Carezza e i tutorial per fare delle esperienze di pittura ad acquarello su foglio bagnato coi bambini, elaborate prendendo libera ispirazione dalla tecnica usata nelle scuole steineriane (o Waldorf)…

La leggenda può essere raccontata in terza classe, quando si parla degli ambienti naturali (montagna, collina, pianura, laghi, fiumi, ecc…) o in quinta parlando del Trentino Alto Adige; per questo ho inserito progetti più complessi per i più grandi, e più semplici per i piccoli…

(Per avere maggiori informazioni sulla tecnica, la preparazione dell’ambiente e dei materiali, ecc…puoi leggere qui)

La leggenda del lago di Carezza

Il lago di Carezza è anche detto “Lago dell’Arcobaleno”. Infatti nelle sue acque si vedono riflessi iridescenti, con tutti i colori dell’arcobaleno.

La leggenda racconta che molti e moli anni or sono nel Lago di Carezza viveva una bellissina ondina. Sovente saliva a fior d’acqua, si sedeva sulla sponda e cantava dolcemente. Ma se udiva avvicinarsi qualcuno, si rituffava immediatamente  nelle onde.

Presso il lago c’è un grande bosco, che giunge fino in vetta al monte Latemar. Nella foresta abitava uno stregone. Egli un giorno vide la bellissima ondina e ne ne invaghì.

Andò sulla sponda del lago e la chiamò, chiedendole di mostrarsi e dicendole che ne avrebbe fatto la sua sposa.  Ma l’ondina non gli diede ascolto e rimase in fondo al lago.

Allora lo stregone ricorse all’astuzia: si trasformò in una lontra, si acquattò tra le pietre, vicino alla riva, e attese che l’ondina uscisse dall’acqua e si mettesse a cantare al sole.

Gli uccellini del bosco solevano radunarsi sugli alberi vicino alla riva per ascoltare il canto dell’ondina e imparare da lei le più dolci modulazioni. Quando videro la perfida lontra avvicinarsi a tradimento, si misero a svolazzare di qua e di là inquieti, con brevi gridi di angoscia. E l’ondina, che stava appunto affiorando, comprese che un pericolo la minacciava e tornò in fondo al lago.

Furibondo lo stregone andò sul monte Vajolon a consultare una vecchia strega che abitava lassù in una caverna. La vecchia si fece beffe di lui, ridendo del fatto che lui, mago potente, si era fatto canzonare dal una piccola ondina.

Poi gli  disse: “Ascolta, l’ondina non ha mai visto un arcobaleno… fabbricane uno bellissimo, che col suo arco vada dalla vetta del Latemar al lago. L’ondina certo verrà fuori ad ammirarlo. Tu intanto trasformati in un vecchio mercante e avvicinati alla riva come se nulla fosse. Poi tocca l’arcobaleno dicendo: <<Oh, questo è il tessuto con cui si fanno il vestito le figlie dell’aria!>>. Certo l’ondina incuriosita, verrà a parlare con te. Tu allora invitala a casa tua a vedere le vesti delle figlie dell’aria e gli altri tesori. Ti seguirà senza dubbio…”.

Lo stregone, entusiasta del consiglio della vecchia maga, fabbricò l’arcobaleno, e l’ondina salì a fior d’acqua per ammirarne l’iridescente splendore. Ma era furba, e anche sotto il travestimento da mercante riconobbe l’odiato stregone: con un fulmineo guizzo si rituffò nell’acqua.

Il mago fu invaso da un terribile furore: afferrò l’arcobaleno, lo schiantò con selvaggia violenza e lo buttò nel lago. Poi fuggì nella foresta imprecando.

Tutorial: Il mago cattivo e l’ondina – per i più grandi

Colori usati: giallo limone, blu oltremare, blu di Prussia, rosso carminio, rosso vermiglio

Iniziamo facendo una piccola macchia gialla sul foglio (la luce dell’ondina) ed intorno giochiamo col blu oltremare con movimenti acquosi che avvolgono l’ondina dolcemente, fino a formare il lago:

Tutto intorno al lago illuminiamo il foglio con il giallo limone, che brilla come la luce dei diamanti (il mondo minerale):

Portiamo nel mondo minerale acqua (blu di Prussia) e creiamo il mondo vegetale, assecondando il movimento del giallo(la foresta):

e per creare le montagne rinforziamo l’elemento minerale (ancora blu di prussia), in alto:

Le montagne sono forti e maestose, aggiungiamo questa forza (rosso carminio):

Individuiamo tra il verde della foresta le macchiette di verde più scuro e doniamo ad ogni albero il suo tronco:

quindi con altro blu di Prussia ed altro giallo limone giochiamo a definire gli alberi più grandi della foresta:

Nella foresta si nasconde il mago cattivo, inseriamo la luce rossa della sua presenza:

Con del giallo limone facciamo cantare l’ondina, in modo che la sua luce si propaghi un po’ intorno a lei a semicerchi di luce:

Se i bambini se la sentono, si possono definire le due figure all’interno della loro luce utilizzando un pennellino più sottile:

Il mago cattivo e l’ondina – per i più piccoli

Colori utilizzati: giallo limone, blu oltremare, blu di Prussia, rosso vermiglio.

Creiamo sul foglio una bella luce gialla accogliente, che lascia vicino al suo cuore lo spazio per l’amico che deve arrivare:

L’amico atteso è la luce dell’acqua del lago (blu oltremare), ma anche questa luce lascia vicino al suo cuore lo spazio per una terza amica:

Mentre aspettiamo questa amica del giallo e del blu, un’altra luce entra a disturbare l’armonia: la luce rossa del mago cattivo…

Ed ecco che la bella luce dell’ondina si tuffa nel blu:

Il lago è felice e si espande sempre più, facendo nascere attorno a sé tanto verde (blu di Prussia molto diluito sul giallo limone), formando foreste e montagne:

L’esperienza di può concludere così oppure, se i bambini se la sentono, possono definire meglio le figure dell’ondina e del mago all’interno delle loro luci, con un pennellino più piccolo:

Il mago stende l’arcobaleno tra il monte e il lago – Per i più piccoli

Colori utilizzati: giallo limone, giallo oro, blu oltremare, blu di Prussia, rosso vermiglio, rosso carminio.

Cominciamo col blu oltremare, creando in basso il lago, quindi facciamo scendere partendo dall’alto una bella luce gialla che va ad accarezzarlo:

Creiamo la montagna verde col blu di Prussia sul giallo limone, aspettando l’arcobaleno. Per l’arcobaleno usare intorno alla montagna:

– rosso vermiglio

– giallo oro  su parte del rosso(arancione)

– giallo limone

– blu di Prussia su parte del giallo (verde)

– blu oltremare

– rosso carminio sul blu oltremare (viola)

L’arcobaleno rimane per sempre nel lago con l’ondina – Per i più piccoli

Colori utilizzati: giallo limone, giallo oro, blu oltremare, blu di Prussia, rosso vermiglio, rosso carminio.

Una bella luce gialla accogliente sulla parte più esterna del foglio guarda l’ondina, che sta al centro:

Tutte le luci dell’arcobaleno, una alla volta, la abbracciano. Prima il rosso proprio attorno a lei, poi tutte le altre, fino a riempire tutto il lago:

Infine la luce dell’acqua del lago crea montagne e foreste intorno – pittura (quasi) asciutta:

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Dettati ortografici letture e poesie su Venezia

Dettati ortografici letture e poesie su Venezia – un raccolta di dettati ortografici, letture e poesie, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche varie.

Festa notturna a Venezia

Fantasmagoria di luci, di moltitudine, di architetture, d’acqua in subbuglio a specchio di luminarie  erranti e di stelle; di addobbi versicolori e di navigli fermi o in movimento; del lungo ponte di barche steso dalla riva alla Salute, gremito di fedeli nereggianti contro lo splendore della stupenda chiesa, grandeggiante a guisa di un picco diafano nel cielo cupo; delle barche coperte di verdi pergole con grappoli di lampioncini trasparenti di ogni tinta, cariche di comitive spillanti vino in botticelle inghirlandate, uomini e donne beventi, cantanti e tripudianti al suono di mandolini, chitarre, fisarmoniche, ed altri strumenti. (A. Soffici)

Viene l’autunno a Venezia

L’estate se ne va bruscamente, senza lasciare strascichi di sorta. Cola a picco nei canali come una vecchia gondola logora.
E ci si accorge del suo passaggio dal diradarsi dei forestieri che, in numero sempre più esiguo, occupano i tavoli dei caffè di Piazza San Marco.
In quelle file gloriose riempite fino a ieri da un pubblico dorato e fittizio, si sono fatti a un tratto dei vuoti melanconicissimi.
Ormai le poche persone che vi si attardano verso sera non sono più neppure forestieri smarriti,  ma clienti abituali, tipi del luogo, che si confusero nei mesi estivi, con la grossa ondata turistica, per poi rimanere scoperti sulla gran piazza come gusci di riccio e ossa di seppia sulla spiaggia…
Intanto l’autunno veneziano si accompagna a questo vasto senso di esodo e di solitudine inattesa.
I crepuscoli scendono rapidi, soverchiamente bruni… (V. Cardarelli)

Artigianato veneziano
Passare alla gentile fragilità delle creazioni di artigianato dopo la visione, magari notturna, illuminata dai fari e dai rigurgiti di fiamma di Porto Marghera, comporta un cambiamento acrobatico: ma se esiste un’attività completamente, compiutamente veneziana, questa è l’artigianato elevato, non raramente, alla dignità di arte.
Non solo, ma le formelle in ceramica di Altino, i gioielli di Altino, ci spiegano perchè il gusto dell’oggetto raffinato, della cosa bella, è innato in questa città in cui ogni particolare ha contribuito a realizzare compiutamente l’ideale della bellezza.
L’arte del vetro, del merletto, del mobile, l’arte del tessere e di tingere stoffe preziose (ricordiamo i velluti e i broccati ‘a pastiglia’ dei Vivarini o dei Crivelli), l’arte di creare e decorare ceramiche, sono squisitamente veneziane; e non meno abili, orafi e argentieri, battirame e fonditori creavano, con il metallo, ori per le dame, oggetti sacri e oggetti di lusso per il culto e per i fasti di famiglia, oggetti d’argento e d’oro, a quintali,  perchè ogni chiesa, ogni ‘scuola’, ogni ‘casata’ voleva essere la più ricca, e farlo vedere. E c’erano poi le armature, le vere da pozzo, le inferriate, le lanterne, i picchiotti dei portoni, e la serie interminabili dei peltri, in cui la pesante mano del maestro ferraio realizzava ombre, luci, arabeschi degni di un orafo.

Vetrai di Murano
Ferveva il lavoro intorno alla fornace. In cima ai ferri da soffio il vetro fuso si gonfiava, serpeggiava, diventava argentino come una nuvoletta, splendeva come la luna, scoppiava, si divideva in mille frammenti sottilissimi, crepitanti, rutilanti, più esigui dei fili che si vedono al mattino nei boschi tra ramo e ramo. I garzoni ponevano una piccola pera di pasta ardente nei punti indicati dai maestri, e la pera si allungava, si torceva, si mutava in un’ansa, in un labbro, in un becco, in uno stelo, in una base. Sotto gli strumenti il rossore a poco a poco si spegneva, e il calice nascente era esposto di nuovo alla fiamma, infisso nell’asta; poi ne veniva estratto, docile, duttile, sensibile ai più tenui tocchi che lo ornavano, che lo affilavano, che lo rendevano conforme al modello trasmesso dagli avi o all’invenzione libera del nuovo creatore. Straordinariamente agili e leggeri erano i gesti umani intorno a quelle eleganti creature del fuoco, dell’alito e del ferro, come i gesti di una danza silenziosa.
“Appena formato, si mette il vaso nella camera della fornace per dargli la temperatura” rispondeva uno dei maestri vetrai a Stelio che lo interrogava, “Si spezzerebbe in mille frantumi se fosse esposto all’aria esterna d’un tratto”.
Si scorgevano infatti per un’apertura, adunati in un ricettacolo, che era il prolungamento del forno fusorio, i vasi brillanti, ancora schiavi del fuoco, ancora nel suo dominio.
“Sono già là da dieci ore” diceva il vetraio indicando la leggiadra famiglia. Poi le belle creature esigue abbandonavano il padre, si distaccavano da lui per sempre, si raffreddavano, diventavano gelide gemme, vivevano della loro vita nuova nel mondo, si assoggettavano agli uomini, andavano incontro ai pericoli, seguivano le variazioni della luce, ricevevano il fiore reciso o la bevanda inebriante.
(G. D’Annunzio)

Le origini di Venezia
Gli Unni avevano distrutti nel loro passaggio Aquileia, ed entrati nel Veneto avevano sparso il terrore tra le popolazioni che si rifugiarono nelle isole e nelle isolette delle vicine lagune, dove si fermarono attendendo alle industrie del mare e del commercio. In seguito, le umili case di questi fuggiaschi, a poco a poco, si trasformarono nella sontuosa città di Venezia.
(G. Zanetti)

Venezia
Venezia sorge a quattro chilometri dalla terraferma nella laguna adriatica e la singolarità del suo aspetto, unita alla ricchezza dei suoi tesori d’arte, ne fanno una delle più caratteristiche città del mondo. Attraversata da più di centocinquanta canali, si serve per le comunicazioni interne di vaporetti che sono i tram delle città di terraferma e di gondole e di motoscafi, che ne rappresentano le automobili ed i taxi. Quattrocento ponti collegano le sponde dei canali e centinaia di piazzette dette campi e campielli, si aprono all’occhio del visitatore per mostrare qualche gioiello d’arte o qualche caratteristica.
La singolare città è divisa in due parti dal Canal Grande, che si snoda tranquillo e maestoso. Questa regale via acquea è fiancheggiata da ricchi palazzi marmorei, costruiti dal XII al XVIII secolo, per la fastosa dimora delle più nobili famiglie veneziane, ed è solcata da vaporetti, gondole, motoscafi e barche di ogni tipo.
Alle vie d’acqua detti rii si accompagnano e si alternano le vie di pietra, le calli, formando una doppia fittissima rete a linee brevi e spezzate. Sull’angusto suolo conteso dalle acque, le case sorgono strette una all’altra, e pure non mancano ariose piazzette e verdi giardini tra le mura.
Il campanile di San Marco rappresenta, in certo modo, un simbolo di Venezia. Quando crollò, nel 1908, venne ricostruito ‘com’era e dov’era’ per unanime decisione dei veneziani.
La città è sorta su di una miriade di isole, nella grande laguna, divise tra di loro da innumerevoli canali: il loro numero si è venuto riducendo con l’andar del tempo perchè molti canali furono interrati naturalmente e artificialmente: oggi ci sono circa 160 isole. Tra le più notevoli vi è l’isola di San Giorgio, già Isola dei Cipressi.
Tra i problemi da risolvere, data la struttura geologica del territorio, vi era la necessità di rassodare il terreno e di ampliare in parte i confini delle piccole isole per costruire anche sul mare: venne risolto mirabilmente con la messa in opera di palafitte (serie di grossi pali conficcati nel terreno sotto il mare ai margini delle isole, generalmente) che servirono come piattaforme, sulle quali vennero elevate le costruzioni in muratura.

Tradizioni
A Venezia, città il cui vescovo assume il nome di Patriarca, sopravvivono alcune delle molte feste religiose che ai tempi dei dogi venivano celebrate con grande sfarzo e con riti pittoreschi. La più nota è la festa del Redentore che cade la terza domenica di luglio. La notte che la precede è tutto un susseguirsi di fuochi d’artificio: si canta, si banchetta, si passeggia in gondola al lume dei lampioncini. La veglia si conclude al Lido dove molti si recano ad assistere alla levata del sole.
La festa del Redentore alla Giudecca, è una tipica festa votiva: ricorda la liberazione della città dalla peste nel 1630.
Un’altra festa veneziana votiva è quella del 21 novembre che si intitola alla Madonna della Salute e che ricorda la fine della pestilenza del 1576.
La festa della Sensa o festa dell’Ascensione è caratterizzata dalla comparsa, sulla torre dell’Orologio in piazza San Marco, dei tre Re Magi i quali avanzano da una porticina a sinistra, si inchinano davanti alla Madonna  e scompaiono da quella di destra. Un tempo la festa era ricca di spunti pittoreschi: vi si teneva una fiera e il doge compiva la cerimonia dello Sposalizio del Mare, gettando in acqua, dall’alto di una grande imbarcazione (bucintoro) un anello.

Nascita di Venezia
Rialto, piccolo ammasso di isolotti, era sto fino ad allora scarsamente abitato, ma l’inviolabile asilo che aveva offerto ai profughi di Eraclea lo designava per la scelta quale sede preferibile e permanente dello Stato.
Prese singolarmente, le isolette di Rialto erano certo meno estese di Torcello, di Burano o di Eraclea, ma il gruppo ne annoverava ben sessanta, separate da stretti canali sui quali sarebbe stato agevole gettare ponti, in modo da rendere disponibile per la capitale una superficie considerevole e di molto superiore ad ogni altra.
La via d’acqua larga e profonda che spartiva in due gruppi l’arcipelago era il corso del fiume Prealto, ramo staccato del Brenta; se ne fece il Canal Grande. Le sue dimensioni avrebbero consentito il passaggio delle maggiori imbarcazioni e sulle sue rive si sarebbero create banchine e depositi, nei luoghi più adatti.
Al limite degli isolotti periferici si sarebbero potuti costruire una cinta muraria e un riparo in pietra, a circondare e proteggere la nuova città.
Come se presentisse quale splendido destino lo attendeva, tutto il popolo di pose all’opera con incrollabile entusiasmo.
Da ogni parte si innalzarono costruzioni, dapprima di legno, poi di mattoni e di pietra.
Per il palazzo del doge si scelse la posizione che sarebbe rimasta immutata per sempre.
Quanto al nome della città gloriosa i Veneti le diedero il proprio, quella che in origine si era chiamata Rialto, civitas Rivoalti, divenne Venetia, ossia Venezia.
Questo avveniva nell’anno 810 dC.
(A. Bailly)

San Marco, patrono di Venezia
L’evangelista Marco ha come simbolo un leone , e coi caratteri del Leone appare Gesù nel vangelo di San Marco, cioè con le qualità del forte, che scaccia i demoni, che guarisce gli ammalati e che vince la morte.
Questo perchè san Marco rivolgeva il suo vangelo ai Romani, che non avrebbero dato nessun valore alle lunghe genealogie ebraiche o alle profezie. I Romani non conoscevano che il diritto e la forza. Perciò, nel vangelo di Marco, il Redentore rappresenta sempre il diritto e la forza a cui nulla può resistere.
Si sa che la sua tomba di marmo, ad Alessandria, era venerata anche durante la dominazione dei Maomettani. Nell’828, due mercanti veneziani vollero togliere le reliquie di san Marco dalla terra dominata dagli infedeli. Si disse che di nascosto i due veneziani togliessero dalla tomba le ossa del santo e le nascondessero in fondo a un paniere, riempito poi di vettovaglie. Altre leggende fiorirono intorno alla venuta di san Marco sul suolo veneziano. Fra queste la più poetica ebbe credito nella città lagunare.
San Marco sarebbe giunto a Venezia non dopo morto, ma ancora vivo, a causa di una grande tempesta che avrebbe spinto la sua nave, da Alessandria d’Egitto verso la laguna veneta. Sulla spiaggia, appena sbarcato, egli sarebbe stato accolto da un angelo, che gli avrebbe detto: “Pace a te, Marco evangelista mio”.
Sono le parole che si leggono ancora sulle pagine del libro, tenuto dagli artigli di un leone alato, che forma lo stemma di Venezia, chiamata perciò la ‘città di San Marco’.

Una nuova basilica custodirà il corpo di san Marco
Un incendio ha distrutto la Cattedrale. Ma subito si pensa a costruirne una più grande e più bella.
L’incarico di progettare e di innalzare la nuova chiesa è stato dato ad architetti bizantini, essendo Venezia assai legata all’Oriente, ed essendo i Veneziani molto sensibili al gusto che viene di là.
Anche la nuova chiesa sarà dedicata a san Marco e ne custodirà le reliquie, come la vecchia chiesa.
San Marco evangelista è infatti, da 150 anni circa, il protettore di Venezia. Precisamente da quando due mercanti veneziani, che a causa dei loro traffici si trovavano ad Alessandria d’Egitto, vennero a sapere dai cristiani di quella città,  dove si trovavano nascoste le reliquie di san Marco. Ottenute quelle reliquie, essi le portarono a Venezia, facendola in barba al controllo degli Arabi. E sapete come?
Al di sopra della cassa contenente il corpo del santo, misero uno strato di carni suine; gli Arabi, ai quali è vietato mangiare carne di maiale, fecero subito passare quella merce, che era bene lasciasse l’Egitto; e con la carne suina passò quel corpo, venerato ora in Venezia.

Cartolina illustrata da Venezia
Una laguna pallida. Un palazzo in riva al mare, con una facciata color di rosa. Una piazza piena di sole con due colonne come un proscenio, e, su una colonna un leone ruggente, con una zampa fiera appoggiata ad un Vangelo. E un gruppo di cupole dorate; un campanile altissimo. Una gondola nera, lunga, sottile, che accarezza mollemente le acque. Un grande silenzio…
(O. Vergani)

Venezia
La prima volta che si vede Venezia si ha l’impressione di trovarsi in una città di retroterra che abbia sofferto un’inondazione. I pali del telegrafo, che corrono bellamente sulla laguna, le isole che ne emergono qua e là, con gli alberi e i caseggiati, come da una pianura allagata, quella barca comune su cui arranca un vigile urbano in tenuta estiva, lungo il Canal Grande, la quale par proprio una barca di salvataggio, tutto concorre a favorire l’inganno. Illusi dalle apparenze ci perdiamo a seguire con gli occhi e con la fantasia, in tutta la sua estensione, il flagello, che ha colpito questa città, seppellendola per metà nelle acque, invadendo tutte le sue vie e viuzze, i suoi negozi e le sue cantine. Ma una gondola che spunta a un tratto, sull’angolo di un palazzo del Canal Grande, ci ricorda che siamo a Venezia. Quello che ammiriamo non è il prodotto di un cataclisma, bensì opera dell’uomo, capolavoro di una razza ingegnosa e paziente, che costruì una città in mezzo all’acqua, per ragioni difensive, beninteso, ma soprattutto, io credo, per essersi innamorata di quest’idea, per fare una cosa inaudita e mai vista: Venezia.
(V. Cardarelli)

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