LE ALPI materiale didattico vario

LE ALPI materiale didattico vario per la scuola primaria.

Le Alpi
Le Alpi rappresentano il più importante sistema montuoso d’Europa sia per l’altezza delle loro cime (molte superano i 4000 metri, e il Monte Bianco, la più alta, raggiunge i 4810) sia per la frequenza delle nevi permanenti e dei ghiacciai (da cui scaturiscono i maggiori fiumi alpini), sia per la loro posizione nel cuore dell’Europa, in mezzo alle regioni più popolate e civili.
Per la loro altezza e per il loro sviluppo da ovest ad est, le Alpi costituiscono tra l’Europa centrale e l’Europa mediterranea una vera barriera che influisce grandemente sul clima e sulla vegetazione delle due regioni: temperatura mite, cielo sereno, sole caldo, fanno dell’Italia il “paese dove fiorisce il cedro” (Goethe) e dove prosperano, con gli agrumi, la vite e l’ulivo; al di là delle Alpi, il clima continentale e il freddo impediscono lo sviluppo di una vegetazione mediterranea.
Barriera di separazione per il clima e la vegetazione, ma non per gli uomini; nonostante la loro altezza, infatti, le Alpi sono ricche di valichi che mettono in comunicazione le opposte valli; e strade rotabili e ferrate, attraverso lunghe gallerie, superano i valichi e le catene montuose più importanti.
Le Alpi cominciano, a ovest, dal Col di Cadibona e attraverso una grande curva, lunga 1200 chilometri, terminano divergendo a Vienna sul Danubio e a Fiume sul Quarnaro.
Esse non formano un sistema compatto e continuo di montagne, ma sono costituite da catene, massicci, altipiani, diversi e irregolari, separati da numerose valli. Nelle Alpi occidentali si hanno soprattutto catene arcuate intaccate da valli che si estendono nel senso della latitudine; nelle Alpi orientali invece si hanno soprattutto catene affiancate, separate da valli longitudinali. Anche i due versanti sono diversi: il versante esterno, nord-occidentale, degrada lentamente verso gli altipiani danubiani, e i fiumi divergono in varie direzioni; il versante interno o meridionale scende rapido verso il bassopiano padano, facendovi convergere i fiumi in un unico grande sistema fluviale.
Nel senso della latitudine si distinguono nelle Alpi tre fasce, in cui le montagne sono diverse e per altezza e per l’aspetto, dovuti alla diversità delle rocce da cui sono formate.
Mentre la fascia mediana è di rocce cristalline (graniti ecc…), e comprende le catene e le cime più elevate, i picchi più arditi, le valli più strette e incassate, le fasce esterna settentrionale e interna meridionale, formate da rocce calcaree, presentano montagne meno elevate, più tondeggianti, pendii più dolci, valli più ampie e meno incassate. La zona esterna meridionale non si stende lungo tutta la cerchia alpina: manca nelle Alpi occidentali, mentre è ben presente nelle Alpi centrali e orientali, con le catene delle Prealpi lombarde e venete, a loro volta precedute, verso la pianura, da modesti rilievi collinosi: le Colline subalpine.
Nel senso trasversale, le Alpi si distinguono in Alpi Occidentali, Centrali, Orientali.

Così nacquero le Alpi
Il possente baluardo non è, in realtà, che una sola rovina di un immane edificio di pietra, spinto in alto da grandiose forze interne, e poi attaccato dal lavoro di inesorabili forze esterne, aiutato dal lentissimo scorrere dei tempi geologici. Difficile è quindi farsi un’idea sicura della struttura primitiva dell’edificio delle nostre Alpi e delle sue successive trasformazioni. Ma più difficile ancora è rifarsi alle cause prime del suo sorgere.
Che in età remota (circa 50 milioni di anni fa), dove ora si innalzano superbe le Alpi si stendesse il mare è un fatto incontestabile. Ma è in discussione il modo in cui i sedimenti di quel mare si siano inarcati e corrugati a formare le pieghe alpine, mentre enormi ammassi di rocce eruttive si aprivano essi pure la strada verso l’alto.
All’inizio prevaleva decisamente l’opinione che l’ingobbarsi e il sollevarsi del fondo del mare fino ad emergere fosse dovuto al fatto che l’Africa derivando, cioè spostandosi, come una gigantesca zattera, verso l’Europa, stringeva come in una morsa gli strati del fondo marino, li strizzava fino a farli fuoriuscire dalle acque, e li rovesciava sul margine meridionale dell’Europa, consolidato da altre, più antiche catene di montagne. Coricandosi, rovesciandosi e addirittura ribaltandosi, le pieghe si rompevano in falde capaci di percorrere, scivolando sugli strati sottostanti, decine e anche centinaia di chilometri.
Oggi si pensa come più probabile che non spinte tangenziali, ma verticali abbiano determinato il rigonfiamento della crosta sottomarina. E le pieghe e le grandi dislocazioni delle falde, enormi blocchi separati dall’area di origine, si spiegano con lo scorrimento e il distacco per gravità degli strati dai fianchi del rigonfiamento spiegato sopra.
Ma quando sono avvenuti questi grandiosi fenomeni? Quando si dice che le Alpi sono montagne giovani, perchè si sono formate in tempi geologicamente recenti, non si ricorda abbastanza che, proprio in corrispondenza delle montagne piemontesi, la cerchia alpina ingloba lembi di un sistema montano che si è formato sul finire dell’era paleozoica e cioè 250 milioni di anni fa.
Già durante l’era secondaria si sollevò dalla superficie del mare qualche rilievo, precursore e testimone del misterioso travaglio che si preparava nelle viscere della terra. Ma non si trattava che di un timido abbozzo di catena. Lo sforzo generatore delle Alpi toccò il suo massimo nell’era successiva, la terziaria, e a metà di quell’era le spinte alpine coinvolsero nel movimento di ascesa delle più recenti anche i massicci antichi.
Verso la fine dell’era terziaria (è passato da allora più di un milione di anni) il mirabile edificio era completo, almeno nelle sue fattezze generali, ma era ancora soggetto a dei sussulti, uno dei quali, verificatosi agli inizi dell’era in cui viviamo, lo ha sollevato di centinaia di metri, contribuendo largamente alla plastica attuale della montagna. (D. Gribaudi)

Acque e ghiacci modellarono le Alpi
Nell’epoca glaciale le Alpi erano ricoperte da un mantello di ghiaccio che in taluni punti raggiungeva lo spessore di due chilometri: poderose lingue ghiacciate occupavano le vallate e nelle epoche di maggiore espansione ne fuoriuscivano formando alla periferia occidentale e settentrionale una crosta unica. Sul versante italiano le maggiori lingue, per quanto poderose, rimasero isolate, ma si allungarono fin dove si trovano oggi i grandi laghi lombardi, che sono laghi di escavazione glaciale molto profondi.
Sappiamo che durante la lunga epoca glaciale vi furono fasi di espansione e fasi di ritiro: le tracce ne restano evidenti sia nella forma delle valli, escavate a più riprese alternativamente da ghiacciai e da fiumi, sia nei grandiosi apparati morenici frontali, che ora rinserrano i maggiori laghi, sia in alto, nei bacini di raccoglimento. Si può dire che le forme attuali delle Alpi sono ancora in buona parte eredità del modellamento glaciale quaternario. E l’opera dei ghiacciai quaternari ha avuto anche grande influenza su fatti che interessano l’uomo e le attività umane: le grandi valli a fondo piatto, pianeggiante, preferite dall’uomo per l’insediamento, le coltivazioni e la viabilità, sono valli modellate dai ghiacciai; le intaccature più profonde delle aree culminali, che corrispondono ai passi più facili e più accessibili, fra gli opposti versanti, sono state incise dai ghiacciai; gli apparati morenici frontali sono sedi di elezione di talune colture, come il gelso, ecc… (R. Almagià)

Per il lavoro di ricerca

Come è stato suddiviso dai geografi l’arco alpino?
Per quanti chilometri si distendono le Alpi?
Quali sono le massime altitudini raggiunte dalle Alpi?
Quali sono i principali valichi e trafori delle Alpi e dove conducono?
Qual è la lunghezza dei principali trafori?
Raccogli notizie sul traforo del Monte Bianco.
Quali sono le colture e le attività principali degli abitanti della cerchia alpina?
Quali piante e animali vivono sulle Alpi?
Che cosa sono le Prealpi?

Suddivisione delle Alpi
Le Alpi italiane iniziano dal colle di Cadibona (m 459, Liguria) e si distendono ad arco da occidente ad oriente per circa 1300 km, fino al golfo di Fiume.
I geografi dividono l’Arco Alpino in 3 sezioni:
– Alpi Occidentali
– Alpi Centrali
– Alpi Orientali.
Le Alpi Occidentali si estendono dal Colle di Cadibona al  Col Ferret. Esse prendono il nome di Liguiri, Marittime, Cozie, Graie. Segnano il confine tra l’Italia e la Francia. Le cime più elevate sono il Monte Bianco, il più alto d’Europa, il Gran Paradiso, il Monviso.
Le Alpi Centrali si estendono dal Col Ferret al Passo del Brennero. Esse prendono il nome di Pennine, Lepontine, Retiche. Segnano il confine tra l’Italia, la Svizzera e l’Austria. Le cime più elevate sono il Cervino, il Monte Rosa, il Bernina, il Disgrazia, l’Ortles.
Le Alpi Orientali si estendono dal Passo del Brennero al golfo del Quarnaro. Esse prendono il nome di Tridentine, Carniche  e Giulie. Segnano il confine tra l’Italia, l’Austria e la Slovenia. Le cime più elevate sono la Marmolada, il Monte Tricorno e la Vetta d’Italia, che segna il punto più settentrionale del confine italiano. Presso le Alpi Tridentine si innalza l’incantevole gruppo delle Dolomiti.

Massime altitudini delle Alpi
Le Alpi si innalzano alle quote più alte nella sezione occidentale e vanno decrescendo nella sezione orientale. Da occidente ad oriente, le cime più altre sono:
monte Argentera ……………  3297 m ………….. Alpi Marittime
Monviso……………………….. 3841 m ………….. Alpi Cozie
Gran Paradiso……………….. 4061 m ………….. Alpi Graie
Monte Bianco………………… 4810 m ………….. Alpi Graie
monte Cervino……………….. 4478 m ………….. Alpi Pennine
Monte Rosa …………………… 4633 m ………….. Alpi Pennine
monte Leone ………………….. 3552 m ………….. Alpi Lepontine
monte Bernina ………………..  4050 m …………. Alpi Retiche.

Le valli
Le Alpi e gli Appennini sono solcati da valli. Si chiama testata della valle la parte più alta, cioè dove ha origine la valle. Si chiamano versanti i due fianchi laterali che si innalzano verso le montagne; più precisamente, voltando le spalle alla testata, si dice versante destro quello che è alla nostra destra, e versante sinistro quello che è alla nostra sinistra. Altrettanto si dica per le sponde di un fiume: destra o sinistra sempre rispetto a chi volta le spalle alla sorgente da cui il fiume proviene.
Giogo significa “Passo”, cioè una depressione fra due montagne. Pensate all’importanza dei gioghi per passare da una valle all’altra.
Quando si è in una località valliva, si dice che un’altra località è a valle di quella se è più verso il basso, cioè verso lo sbocco; si dice invece che è a monte, se è più in alto, cioè verso la testata. I montanari delle Alpi usano invece dire “in fuori” (verso la valle, verso l’esterno) e “in dentro” (verso monte, verso l’interno).
Gli ostacoli che le Alpi e l’Appennino frappongono all’uomo per comunicare tra i popoli delle parti opposte, vennero vinti dall’ingegno e dalla volontà dell’uomo, non solo con strade ma anche con ferrovie, molte delle quali devono passare in gallerie la cui costruzione è costata molti capitali e purtroppo anche molte vittime. In seguito vennero scavate e si stanno tuttora scavando numerose gallerie stradali, che servono per vetture e autocarri.
La galleria o traforo del Gran San Bernardo, sopra Aosta, è funzionante dal 1964; nell’estate del 1965 si è aperto al traffico il traforo del Monte Bianco.

Valichi e trafori delle Alpi
Nell’alta barriera alpina si aprono valichi che permettono il passaggio di vie di comunicazione. I principali sono quelli di Cadibona (tra Piemonte e Liguria); di Tenda, della Maddalena, del Monginevro, del Moncenisio, del Piccolo San Bernardo (tra Piemonte e Franca); del Gran San Bernardo , dello Spluga (tra Lombardia  e Svizzera); dello Stelvio (tra Lombardia e Alto Adige); del Resia, del Brennero, di Dobbiaco (tra Trentino Alto Adige e Austria); di monte Croce  Carnico, di Camporosso (tra Friuli e Austria); del Predil (tra Friuli e Slovenia).
Alcuni trafori ferroviari e autostradali si addentrano nei massicci alpini, collegando l’Italia con gli Stati confinanti.

Il passo del Sempione
Il Sempione (2005 m) fu considerato, fin dai primi secoli del Medioevo, un tipico itinerario di viaggiatori; tuttavia questo storico valico non ha mai goduto di particolare fama militare, e inoltre fino al XIX secolo non acquistò quell’importanza commerciale che era comune ad altri passi alpini occidentali. Fra il XII e il XV secolo,  con la costruzione dell Rifugio a 1997 metri di altitudine e in seguito all’intensificarsi degli scambi tra Briga e Milano, il valico cominciò ad essere assai frequentato.
Il passaggio del Sempione era piuttosto rischioso specie d’inverno, lungo gli stretti sentieri a strapiombo; non potendosi in molti tratti procedere a cavallo, occorrevano due giornate di viaggio per andare da Briga a Domodossola.
Anche i servizi di assistenza non erano tali da rassicurare i viaggiatori; sappiamo che, specialmente nei mesi invernali, i viaggiatori usavano radunarsi in folte comitive prima di valicare il colle, promettendosi reciproco aiuto nei passaggi più difficili.
La fortuna di questa via coincise con la costruzione della strada voluta da Napoleone. Durante i lavori, iniziati nel 1801, egli, a quanto si narra, frequentemente si informava: “Quando i cannoni passeranno per il Sempione?”. Nel 1806, dopo aver superato enormi difficoltà tecniche, gli imprenditori consegnavano ultimata la grande strada, e già due anni dopo un regolare servizio di diligenza a cinque cavalli collegava Milano con Briga. La nuova arteria montana conquistò rapidamente una straordinaria importanza commerciale e si può dire che per un cinquantennio svolse il ruolo di primaria via di comunicazione delle Alpi Centrali.
Questo primato venne poi gradualmente scalzato dalla costruzione di altre strade alpine, e in particolare dall’apertura della linea ferroviaria del Gottardo, l’anno 1882. Ventiquattro anni dopo, nel 1906, il traforo del Sempione era ultimato e la ferrovia rapidamente prese a percorrerlo; la diligenza però continuò a scampanellare lungo i romantici tornanti del colle per molti anni ancora, fino al 1919. (L. Carandini)

Gli abitanti e l’economia
In tutta la cerchia alpina non rare sono le tracce dell’uomo preistorico. In età storica, i primi abitanti furono, nella parte occidentale e centrale, i Celti; nella parte centrale i Reti, forse affini agli Etruschi; nella parte orientale gli Illiri, gli Euganei e i Veneti.
Nel I secolo aC ebbe inizio la lenta ma durevole civilizzazione romana. Oggi i popoli neolatini predominano in tutte le Alpi Occidentali e nel versante interno delle Alpi Centrali e Orientali; in alcune isolate valli sono qui sopravvissute parlate che conservano tracce chiarissime del latino (dialetti ladini).
Le Alpi, con la media di 40 – 50 abitanti per chilometro quadrato, sono le regioni montuose più densamente popolate del mondo. Naturalmente la popolazione si addensa soprattutto nelle grandi valli e ovunque sia possibile l’agricoltura. Il villaggio alpino più elevato, con popolazione permanente, è Trepalle (frazione di Livigno, Sondrio) a 2.070 metri.
L’agricoltura produce grano e mais nelle zone meno elevate; più in alto orzo, segale, patate e anche vino e frutta; più in alto ancora, i pingui prati e i pascoli consentono l’allevamento dei bovini. All’inizio dell’estate si fa l’alpeggio ossia si trasportano le greggi dalle zone basse agli alti pascoli estivi, dove, nelle malghe, nelle casere, nelle alpi, si producono latticini.

Nell’economia alpina una funzione di rilievo, sebbene in misura inferiore che per il passato, hanno le industrie forestali (legna e carbone); grande importanza ha l’utilizzazione dell’energia elettrica offerta dai laghi alpini e dai fiumi, frequentemente interrotti da salti naturali o creati dall’uomo con condotte forzate e bacini artificiali sbarrati da dighe.

Piante e animali delle Alpi
Sulle Alpi, dove le altezze variano da poche centinaia di metri fino ad oltre i quattromila, c’è una grande varietà di vegetazione spontanea.
Accenniamo soltanto alle piante più comuni che puoi trovare sulle Alpi: querce e castagni fino a circa 1000 metri (ma qua e là l’uomo ha diboscato per coltivare i cereali, la patata e il fieno).
Il faggio, associato al frassino, arriva a 1500 metri, altitudine in cui si incontrano villaggi e prati; qui staziona il bestiame  a primavera, quando sale all’alpe, e in autunno, quando ne discende.
Ai faggi succedono i pini, i cembri, i larici e gli abeti, che si spingono fino a quota 2200. Fra questi, purtroppo, l’uomo ha lavorato di scure distruggendo (diboscamento nocivo) per estendervi il pascolo (pascoli bassi).
A 2700 metri gli alberi mancano del tutto.
Poi vengono i pascoli naturali, i quali si trovano fino a 2800 metri (pascoli alti).
Infine, abbarbicati alle rocce, che emergono tra le nevi persistenti e i ghiacciai, vivono soltanto muschi e licheni.

La vegetazione varia con l’altitudine e con la natura del terreno: la zona delle colture arriva fino a 800 metri; fino a 1200 metri abbiamo la zona dei boschi a foglie larghe (castagno, quercia, faggio); a 2000 – 2300 metri si spinge la zona delle conifere; infine abbiamo la zona dei pascoli alpini, che generalmente non supera i 2500 metri.

Gli animali delle Alpi vivono in un ambiente particolare: il clima è rigido; la neve rimane a lungo sul suolo, i venti spesso sono violenti, il terreno e le acque sono freddi e offrono scarso nutrimento. In conseguenza di questo, gli animali alpini hanno caratteristiche particolari:
– molti animali, durante l’inverno, cadono in letargo, oppure in un sonno più o meno prolungato e profondo;
– molti insetti alpini hanno perduto le ali, allo scopo di non consumare energia con il volo.
Tra i mammiferi ricordiamo:
lo stambecco (sul Gran Paradiso)
il camoscio (sulle Alpi in genere)
il capriolo (sulle Alpi Carniche)
l’orso bruno (sull’Adamello e sulle Dolomiti).
Questi animali sono protetti da leggi che ne vietano la caccia, perchè stanno scomparendo. Ancora numerosi sono l’ermellino, la lepre, la marmotta, il ghiro e lo scoiattolo.
Tra gli uccelli troviamo la dominatrice del cielo, l’aquila, il gallo cedrone e il fagiano di monte.
I fiumi, i torrenti e i freschi laghi alpini ospitano la trota e il salmerino, gioia dei pescatori.
Nelle Alpi occorre guardarsi da animali pericolosi, quali lo scorpione germano che vive fin oltre i 2000 metri, e la vipera aspis.

Monte Bianco
Il Monte Bianco è il colosso fra le montagne d’Europa. Il vanto dei suoi quattromilaottocento e più metri nno è raggiunto da nessuno dei suoi rivali.
E, al contrario dei giganti dell’Himalaya e delle Ande, i cui sentieri sono noti soltanto a un pugno di intrepidi e che per la maggior parte di noi non sono che nomi, il mostro delle Alpi italiane è come un amico familiare.
I fiumi di ghiaccio, che viaggiano lentamente e tortuosamente lungo i fianchi profondamente incisi della montagna, sono particolarmente interessanti. Di questi il Glacier des Bossons e il Glacier des Bois, più conosciuto col nome di Mer de Glace, sono  i più grandi e i più accessibili. Il Col du Geant è un magnifico passo che attraversa il cuore di questa catena e sotto di essa serpeggia il gran fiume di ghiaccio, le cui fessure risplendono come zaffiri e la cui superficie liscia rifulge come uno scudo d’argento nel sole. Sotto le sue caverne di ghiaccio il fiume Arve si apre a forza un passaggio e scorre giù nella valle di Chamonix. E’ da questa piccola città sul pendio settentrionale della catena, che si compie l’ascensione delle alte vette. (D. Sladen)

Il traforo del Monte Bianco
(Corrispondenza giornalistica)
“Stasera verso le 21 un’esplosione ha fatto tremare i vetri di Courmayeur e poco dopo sulla cima del Bianco si sono accesi i fuochi d’artificio bianchi rossi e verdi che assicurano gli alpinisti Gigi Panei e Ruggero Pelli, partiti stamattina per la vetta con due zaini di razzi pirotecnici, devo essere stati ammirati anche da Ginevra.
Nello stesso istante crollavano anche gli ultimi 19 metri e 10 centimetri dei 5800 di galleria che, nella grande operazione “traforo del Bianco” erano stati assegnati agli italiani.
I minatori francesi, a una sessantina di metri di distanza, avranno indubbiamente avvertito il sordo fremito dell’ultima esplosione e, pur rallegrandosi del successo dei colleghi italiani, si saranno forse rammaricati di essere mancati all’appuntamento della quota 5800, al quale giungeranno (con l’ampia attenuante di aver cominciato i lavori dopo di noi) fra una settimana circa.
Il completamento del tronco italiano del traforo del Bianco, il quale misurerà complessivamente 11.600 metri, si è svolto con un cerimoniale suggestivo.
Alle 18 è stato dato l’ultimo “colpo di piccone”, un moderno e complicatissimo colpo di piccone che è durato due ore e mezzo. L’ultimo “ciclo” è infatti cominciato con l’entrata in funzione simultanea di diciotto perforatrici che hanno forato altrettanti fornelli depositandovi 600 kg di esplosivo; poco dopo venivano accese le micce e un sordo boato si ripercuoteva nel cuore del Bianco. Contemporaneamente, all’esterno della galleria un’esplosione simbolica ha dato l’annuncio alle valli del grande momento e un operaio si è avvicinato alla lavagna su cui,  per tutta la durata dei lavori, erano state segnate e aggiornate, in un lento conto alla rovescia, due cifre: una grande, relativa ai metri percorsi, e una piccola con quelli da compiere. Fra la commozione dei presenti l’uomo ha cancellato la cifra piccola degli ultimi diciannove metri e dieci centimetri e ha vergato un grande 5800 equivalente all’intero tronco italiano.
Poco dopo è uscito dalla galleria il camion con i minatori dell’ultima squadra, che sono stati festeggiati da tutti i circa cinquecento operai del cantiere e dai giornalisti.
La piccola folla del Bianco si è quindi recata al Santuario di Notre-Dame de la Guerison portando un sacco della galleria, una pergamena con i nomi degli otto operai caduti sul lavoro e un elmetto da minatore.
Dopo il raccoglimento e la commozione, i festeggiamenti di pretta marca montanara. Fino a tarda notte si è brindato, mangiato e cantato all’imboccatura del nero tunnel lungo il quale, a metà del 1964, sfrecceranno le automobili “bevendosi” in cinque minuti l’intero massiccio del Bianco”.
(da La Stampa)

Le ridenti Prealpi
Le Prealpi, più esposte a sud e più basse delle Alpi, raggiungono di rado i limiti delle nevi perpetue.
Non sono di conseguenza caratterizzate nemmeno dalla vegetazione alpina che dà quell’aspetto loro particolare di durezza e di severità. Mancano perciò alle Prealpi i due tratti principali che improntano il paesaggio alpino così sublime e pittoresco.
Per compenso sono ricche di altre bellezze tutte particolari. Si nota anzitutto in esse il contrasto di effetto meraviglioso davvero, fra quelle creste dentate, nude e bianche come scheletri che si tingono d’azzurro sovente nelle giornate serene e di giallo e di rosso al sorgere e al tramontare del sole; e il verde perenne, di cui la perenne ubertà copre i fianchi e i piedi delle montagne, tutte rivestendo fino alla cima le colline, sicchè le aride vette paiono spiccarsi come da una ghirlanda di erbe e di fiori.
Chi vuole il ridente, il molle, il tranquillo, il temperato, insomma delizie e amenità, non va sicuramente a cercarle nelle Alpi, ma nelle Prealpi, specialmente nella zona inferiore, dove regnano primavere ed estati che non trovano molto da invidiare a quelle dei paesi più meridionali.
E’ questa la regione dei laghi azzurri, dei limpidi torrenti, dei boschi ombrosi, dei prati fioriti, dei  pingui orti, dei giardini incantati, delle viti, degli ulivi, e più in alto, dei castagni e dei faggi. (A. Stoppani)

Il Resegone
La Grigna è una cima delle Prealpi Lombarde. E’ alta quasi 2500 metri; lì salgono i montanari d’estate con le loro mucche che si cibano delle sostanziose e profumate erbe degli alti pascoli.

Paesaggio alpino
Lontane, alte distese bianchissime: più le guardava, più sentiva crescere in sè uno stupore, mai fino allora provato. Provò ad immaginarsi come fossero da vicino, e standovi sopra, terribili e meravigliose: le fissò in silenzio, un lungo momento, sognando. Anche lassù, pensò, era vita, forse la vita più bella di tutte: la più libera, la più assoluta. Col sole, il cielo, il ghiaccio, e nient’altro.
Lo riscosse il suono, dolce sebbene improvviso, e quasi sparso nell’aria, di un campanaccio. Seguendo quel suono, volse lo guardo ai prati intorno: immensi declivi verdi  e fioriti, che scendevano fino al colle, e dove, immobili o quasi, forse non lontane ma irreali come in un miraggio, alcune mucche bianche e nere, bianche e marroni, erano alla pastura. (M. Soldati)

Dimore pastorali nelle Alpi: le malghe
Nella zona dei prati e dei pascoli di alta montagna sono comuni le malghe, dimore temporanee che servono quando il bestiame sale ai pascoli   d’alta montagna dove resterà tutta l’estate. Le malghe sono formate, di solito, da due fabbricati costruiti in muratura e coperti con tetti di scandole, ossia di assicelle di legno. Il fabbricato maggiore è la stalla, ove si tengono chiusi gli animali durante la notte. L’altro, più solidamente costruito e meglio riparato è la malga propriamente detta dove vivono e dormono il malgaro con la sua famiglia, e spesso anche i pastori.
Oltre a quelli per dormire, i locali essenziali sono tre: la cucina, il locale dove si conserva il formaggio e quello dove si mette il latte.
Nella cucina c’è un primitivo focolare dove i pastori ed il malgaro si preparano i semplici pasti: immancabile la polenta di granoturco che si mangia col formaggio o con il latte o con la ricotta.
Di fronte al focolare c’è la caldaia di rame dove si riscalda il latte spannato e si prepara il formaggio. Vicino c’è anche la zangola, nella quale si sbatte la panna per ottenere il burro. (L. Bartagnoli)

Le baite
Nelle alte valli alpine, le abitazioni possono essere costruite interamente in legno, o con parti in muratura. Generalmente sono in muratura gli ambienti in cui viene acceso il fuoco. Il tetto è formato di lastre di pietra. Le pareti esterne ed interne ed i piancinati sono realizzati con assiti doppi, con interposto materiale isolante, quale segatura o pula di grano, per aumentare il riparo dal freddo. Nella parte alta, vengono sovente ricavate delle logge, che servono per l’essiccamento del fieno, del granoturco e del frumento, oltre che per stendervi i panni. Sepolte dalla neve del lungo inverno, tali abitazioni custodiscono, mercè l’isolamento dato dal legno, dal fieno e dalla stessa coltre di neve che copre il tetto, il calore che il piccolo focolare riesce a creare.

Gli attuali ghiacciai italiani
Nelle Alpi Marittime e nelle Cozie incontriamo ghiacciai di modeste dimensioni. Cominciamo ad entrare veramente nel regno dei ghiacciai in Val d’Aosta. Al badino della Dora Baltea e appartengono circa duecento, per una superficie di quasi 200 kmq.
Il gruppo del Gran Paradiso conta parecchi importanti ghiacciai, che però non scendono sino alle valli; il maggiore è il ghiacciaio della Tribolazione. Analogamente avviene per il gruppo della Grande Sassiere, che presenta due ghiacciai di prim’ordine (ghiacciaio di Soches-Tsantellina e ghiacciaio della Gliaretta-Vaudet). Nel gruppo del Rutor, il ghiacciaio omonimo giace su un ampio, dolce pendio.
Nel gruppo del Monte Bianco numerosi ghiacciai ripidi e crepacciati scendono dai valloni del versante italiano spingendo la loro fronte più o meno in basso. Il maggiore è il ghiacciaio del Miage, la cui lingua scende fino a 1775 d’altitudine sbarrando, con le sue morene, la Val Veni. Altri ghiacciai di prim’ordine in questo gruppo sono il ghiacciaio della Brevna che arriva nel fondovalle fino a poca distanza da Entreves; quello di Prede-Bar, quello di Triolet e quello dell’Allee Blanche.
Anche le Alpi Pennine contano una maestosa serie di ghiacciai; ricordiamo quelli di Tsa de Tsan e delle Grandes Murailles, che occupano la testata delle Valpelline. Nel versante italiano del gruppo del Monte Rosa si incontrano alcuni grandi ghiacciai: il ghiacciaio di Ventina, il ghiacciaio Grande di Verra, l’imponente ghiacciaio del Lys, i ghiacciai delle Piode e delle Vigne, quello di Macugnaga.
In val Formazza troviamo il ghiacciaio del Sabbione; nell’alta val Maggia il ghiacciaio di Basodino.
Le Alpi Lepontine sono povere di ghiacciai sul versante meridionale; solo il gruppo dell’Adula racchiude ghiacciai di qualche importanza.
Anche le Retiche, nel primo tratto, hanno ghiacciai piuttosto esigui; poi i monti della val Masino racchiudono piccoli ma numerosi ghiacciai di corco e lunghe colate, tra cui i ghiacciai dell’Albigna e del Forno. Nel gruppo del Disgrazia importanti sono il ghiacciaio di Predarossa, quello vallivo della Ventina e quello del Disgrazia.
Il gruppo del Bernina ospita ghiacciai di grande estensione: quello grandiosamente seraccato di Scerscen superiore, e quello dolcemente ondulato di Scerscen inferiore, i due ghiacciai di Fellaria.
Le Alpi Orobie offrono una serie di vedrette: del Trobio, di Scais, di Porola, del Lupo.
Oltre cento sono i ghiacciai del gruppo dell’Ortles: una serie di vedrette, quelle di Madaccio, di Trafoi, l’Alta e la Bassa Ortles, la Vedretta di Solda, la Vedretta di Lunga, la Vedretta del Cevedale, la Vedretta di Lamare; e una delle maggiori masse glaciali italiane, cioè il ghiacciaio dei Forni (17 kmq). Il gruppo Adamello – Presanella ospita, sui 3000 metri, un gruppo di ghiacciai di tipo piuttosto raro nel sistema delle Alpi, e cioè il tipo ad altipiano o pianalto, da cui scendono verso le valli colate o lingue vere e proprie. Dalla distesa centrale, il Pian di Neve, originano le vedrette del Mandrone, della Lobbia, di Fumo (da cui nasce il fiume Chiese).
Il versante italiano delle Alpi Atesine, per la sua prevalente esposizione a sud, analogamente a quanto accade nell’alta Valtournanche in Val d’Aosta, ha ghiacciai piuttosto modesti; solo dalla Palla Bianca scende un ghiacciaio importante, la Vedretta di Vallelunga.
Proseguendo verso nordest, incontriamo il vasto ghiacciaio di Malavalle che protende la sua lingua verso la Val Ridanna; a oriente del Brennero, il ghiacciaio del Gran Pilastro, di prim’ordine, e il ghiacciaio di Neves. Poi le formazioni glaciali, sul versante italiano, si fanno meno importanti, con l’eccezione dei ghiacciai di Predoi, e di Lana, alla testata della valle Aurina, e del gruppo delle vedrette di Ries.
Nelle Dolomiti soltanto il ghiacciaio della Marmolada si fa notare per la sua ampiezza ( 3,4 km); gli altri sono tutti di modeste dimensioni; lo stesso dicasi per i piccoli ghiacciai del gruppo di Brenta.
Sulle Alpi Giulie sono situati alcuni minuscoli ghiacciai (del Canin e del Montasio) notevoli per la bassa altitudine (2000 2500 m) giustificata dalla posizione riparata e dalla frequenza delle nevicate.
L’Appennino possiede un unico piccolo ghiacciaio e precisamente il ghiacciaio del Calderone, sotto il Corno Grande del Gran Sasso d’Italia.

Immense Alpi

Sopra di me stanno le Alpi,
i palazzi della natura, le cui immense pareti
lanciano tra le nubi pinnacoli coperti di neve,
e l’eternità troneggia nelle caverne gelate
di fredda sublimità, dove si forma e cade
la valanga, la saetta di neve!
E tutto ciò che lo spirito emana
si raccoglie intorno a quelle sommità,
per mostrare come la terra
possa toccare il cielo
lasciando in basso l’uomo
con la sua meschina superbia. (Byron)

Le Alpi
I verdi balzi e i pascoli ridenti,
reduce pellegrino, ho riveduto;
ai ghiacci eterni, ai fiumi ed ai torrenti
ho ridato dal cuore il mio saluto.
Qui dov’io seggo schiudesi agli intenti
sguardi il riso del ciel limpido e muto;
qui dov’io seggo il mio pensiero in lenti
desideri di pace erra perduto.
La catena dell’Alpi in ampio giro
variata di nevi e di pinete
in vallate profonde, ecco, s’adima.
E vagabonda d’una ad altra cima,
solca una nube l’immortal quiete
della nitida volta di zeffiro. (G. Bertacchi)

LE ALPI materiale didattico vario. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

LA MONTAGNA materiale didattico vario

LA MONTAGNA materiale didattico vario: dettati ortografici, racconti, testi brevi, di autori vari, per la scuola primaria.

La montagna è un rilievo roccioso elevato oltre i mille metri.  Le montagne sono come le grandi rughe della Terra e si sono formate in tempi antichissimi, quando la Terra era ancora fiammeggiante e sconvolta da terremoti e da eruzioni vulcaniche.

Il luogo dove la montagna sorge dal piano è detto piede; salendo lungo il pendio o fianco o versante della montagna si raggiunge la cima o vetta. Una montagna può elevarsi isolata, oppure può raggrupparsi con altre in un massiccio. Sovente le montagne sono affiancate ed allineate in una lunga catena.

Un insieme di numerose catene costituisce il sistema montuoso.

Con il passare dei millenni, i fianchi delle montagne si sono trasformati e coperti di terra; soltanto gli alti pendii e le vette mostrano la roccia nuda.

Il piede della montagna è verdeggiante di noccioli e di castagni; sui fianchi si estendono i boschi di abeti e di larici; poi questi si diradano e iniziano i pascoli, ombreggiati da qualche betulla, fioriti di arniche e di genziane; infine ecco la roccia, irta di punte, incisa di burroni, tormentata da frane, dritta di pareti che danno il capogiro.

L’alta montagna ha cime e conche coperte di spessi strati di neve e di ghiaccio che neppure il sole estivo scioglie completamente: lassù si estendono i nevai ed i ghiacciai.

La montagna è un ambiente difficile per la vita dell’uomo. Egli però, l’ha domata, ed ha saputo costruire strade audaci che la superano ai valichi; gallerie che la perforano e che facilitano le comunicazioni stradali e ferroviarie; funivie e seggiovie che permettono a tutti di raggiungere comodamente le cime più elevate.

Villaggio alpino

Poche rustiche casette: le basi di pietra, le pareti di legno, i tetti di ardesia; piccole le finestre, fiorite di rossi gerani. Una chiesetta, un campanile. Null’altro. Sulle vie deserte qualche vecchia dalla gonna rossa e nera che fila o ricava, due o tre caprette, e nidiate di bimbi rosei e biondi che guardano curiosi, ma coi piedini nudi fuggono pieni di vergogna. (R. Bacchelli)

In montagna

Le casette del paesello montano si raggruppano attorno alla chiesa, sul pendio, come un piccolo gregge raccolto attorno al pastore. Dal paese si giunge subito ai prati che spesso lasciano scorgere, tra l’erba, spuntoni di roccia; si giunge in breve ai boschi dove l’ombra è fitta e l’aria è carica del profumo delle resine e dei fiori. Attorno, i monti levano le cime, alcune ancora del tutto coperte di verde, altre, più alte ancora, bianche di neve. Sul fondo della valle scorre il torrente: balza tra i massi e li circonda di spruzzi e di spuma; va gorgogliando, mormorando, portando al piano la voce della montagna.

Le montagne

Le montagne sono tra le cose più belle che esistono. Che cosa sarebbe la terra senza le montagne? Senza le montagne, non si avrebbero nè fiumi, nè torrenti, nè le cascate che ci danno l’energia elettrica, quella formidabile energia apportatrice di luce, di calore, di vita.

La vita sul monte

Quanta vita sul monte! Dalla grossa felce che cresce ai suoi piedi, al ginepro, dal saporoso mirtillo all’ontano, dai fiori delicati e stupendamente colorati all’imponente abete. E poi, la lepre di monte, il capriolo che fugge di balza in balza, il cervo dominatore delle vette, e ancora, su su, fino alla roccia nuda, fino alla neve eterna. Ma anche lì, abbarbicato alla roccia, mezzo sepolto dal ghiaccio, vive l’ultimo amico della montagna: il lichene dai colori vivissimi; si trova lassù, sul punto più alto della terra. (A. Manzi)

Villaggio alpino

Poche, rustiche casette: le basi di pietra, le pareti di legno, i tetti di ardesia; brevi le finestre, fiorite di rossi gerani… Una chiesetta,  un campanile. Null’altro. Sulle vie deserte qualche vecchia che fila e ricama; due o tre caprette e nidiate di bambini rosei e biondi. Chioccolio di fontane; qualche ragazza che lava. E un silenzio, una pace tale sotto quel sole diffuso, in quella pura aria frizzante, che tutto lo spirito ne gioisce. (R. Bacchelli)

Alpinisti e sciatori

Tra gli ospiti dell’albergo ci sono degli alpinisti. Essi cercano una buona guida, pratica di questi monti, che li accompagni. Partendo da un rifugio, vogliono arrampicarsi  in cordata per la parete più difficile del monte, fino alle guglie che sovrastano il ghiacciaio. L’abisso non fa loro paura. Non temono i precipizi e i crepacci. Dall’albergo parte una seggiovia che durante la stagione invernale porta gli sciatori ai più vicini campi di sci.

La stella alpina

Molto e molto tempo fa, nel cielo brillava una stellina solitaria e di lassù pensava che doveva essere pur bella la vita sulla terra, fra le alte vette nevose. Per questo pregò di poter scendere in terra. Il Signore acconsentì e, in una notte serena, la stellina attraversò il cielo e andò a posarsi fra le ripide pareti di ghiaccio di un monte altissimo. Che freddo! La stellina sarebbe certamente morta assiderata se un Angelo non l’avesse avvolta di una morbida veste di velluto bianco. Da allora, tra i ghiacci, sulle alte cime dei monti, crescono le stelle alpine, i fiori che hanno la forma di stella e che sono morbidi come velluto.

Perchè si viaggia in quel modo, sospesi in aria?

Le teleferiche, le funivie e le seggiovie hanno bisogno di impianti costosi, ma sono mezzi di trasporto molto utili in montagna, perchè abbreviano i percorsi. Con esse è possibile superare, senza marce faticose, grandi dislivelli, viaggiando in linea retta e passando al di sopra dei burroni, dei torrenti, dei boschi, dei ghiacciai.

Le possiamo trovare in luoghi di villeggiatura dove d’estate o d’inverno, arrivano molte persone che vogliono raggiungere la cima delle montagne senza far fatica. Oppure le possiamo trovare dove i  boscaioli hanno bisogno di far scendere a valle i tronchi tagliati.

Come si formano le montagne

Le montagne vengono prodotte o da vulcani o da sedimenti marini.

Montagne vulcaniche. Alcune montagne sono senza dubbio dovute al sovrapporsi di lave che vennero espulse dalle viscere della Terra. Ma non sono molte le montagne che hanno questa origine. E solo una piccola parte delle montagne che hanno forma conica vennero costruite dai vulcani.

Montagne costruite dai fondi marini. La maggior parte invece delle montagne si è formata nelle profondità marine. Vediamo in che modo.

Prima vi è un fondo marino. Su questo fondo ogni anno si depositano millimetri su millimetri di fanghiglie: terriccio che il vento ha portato nel mare e che le acque di questo lasciano precipitare lentissimamente fin nelle profondità; terra e sabbia che i fiumi hanno trascinato giù dai monti e che le onde marine hanno portato al largo; gusci di animaletti e scheletri di grossi animali che, alla morte dei loro proprietari, scendono ad adagiarsi sulle fanghiglie; coralli della scheletro calcare che si vanno sviluppando sempre più. E così di anno in anno il fondo aumenta di spessore.

Intanto grandiosi fenomeni si vanno manifestando nelle profondità; fenomeni tali che obbligano il vecchio fondo marino a sollevarsi, a piegarsi in pieghe talora complicatissime, ad emergere dalle acque del mare e a formare così le montagne, cioè l’ossatura di isole e di futuri continenti.

Ma appena le montagne si sono un po’ alzate, vengono subito prese di mira dalle piogge, dai torrenti, dal  caldo – freddo, dal gelo, e così comincia il cesellamento, lo scolpimento del primitivo uniforme blocco; e l’uniforme catena viene smembrata da valli in cime sempre più numerose; ogni cima, sotto il cesello del tempo, acquista forme sue proprie. Poi vengono i ghiacciai ad alternare ancor più le forme. E con l’alterazione continua lo sgretolamento, l’abbassamento dei monti e, da ultimo, la loro vecchiaia e la loro morte, cioè il loro spianamento.

E nel frattempo tutto il materiale che prima costituiva quelle montagne, trasportato al mare dai fiumi, ha servito a riempire il mare e a costruire delle pianure. La nostra bella pianura Padana un tempo era un enorme golfo marino che lambiva tutte le Alpi ben addentro fino a Cuneo e a Mondovì. Il Po e i suoi affluenti hanno con le loro ghiaie colmato questi abissi fino a creare la piatta superficie su cui si stendono oggi grandiose e coltivate campagne, s’innalzano case e palazzi, e fioriscono industrie e commerci.

Voi mi domanderete: sono proprio sicuri gli scienziati che le cose siano accadute proprio in questo modo? E come hanno fatto essi a conoscere tutte queste cose? Osservando come sono fatte le Alpi e come è fatta la pianura. Infatti tante rocce che costituiscono molte montagne sono piene zeppe di conchiglie e di altri animali fossili: dunque sono antichi fondi marini, in seguito emersi e sollevatisi a tre – quattromila metri. Le stesse rocce non sono però sempre piatte e orizzontali come si vennero formando nei mari, ma piegate, intensamente piegate come rughe; dunque è avvenuto un piegamento e un sollevamento. Il resto, cioè come sia avvenuto in seguito il cesellamento, lo scolpimento e la demolizione parziale, è cosa ovvia e semplice.

Quanto tempo è occorso perchè tutto ciò avvenisse? Tempi enormemente lunghi, senza dubbio, ma finora nessuno ha saputo dare nè con precisione, nè lontanamente, dei valori anche solo approssimativi. Certo milioni e centinaia di milioni di anni, certissimamente le nostre Alpi e l’Appennino si sono formati moltissimo tempo prima che l’uomo apparisse sulla Terra.

(G. Nangeroni)

Il volto delle montagne cambia

 Le montagne sono trasformate dall’azione dell’acqua, del clima, del vento. Il primo demolitore delle montagne è il gelo. Quando negli alti picchi il calore del sole scioglie la neve, l’acqua che si forma penetra nelle fessure delle rocce. Al sopraggiungere del freddo della notte, quest’acqua gela, trasformandosi in ghiaccio. Poichè l’acqua solidificando aumenta il suo volume di circa il 10%, il ghiaccio che si è formato produce una tal pressione nella spaccatura, da dilatarla e staccare pezzi di roccia.

Nelle regioni aride, come avviene nei monti del deserto, lo sgretolamento delle rocce è causato dal brusco cambiamento di temperatura fra il giorno caldissimo e la notte fredda. Di giorno, la parte superficiale della roccia si dilata rompendosi in tante squame che, al sopraggiungere del freddo notturno, si contraggono e si staccano. Il vento rode le rocce contro cui batte. La sua azione diventa più demolitrice se trascina sabbie e detriti che, gettati contro la parete rocciosa, agiscono come una lima. Tutti questi detriti che si staccano dalle montagne vengono trascinati e portati verso verso la pianura o nel mare dalle acque correnti e dai ghiacciai.

Altri agenti demolitori delle montagne sono i gas che si trovano nell’aria, cioè l’ossigeno e l’anidride carbonica.

Perchè salendo verso l’alto la temperatura diminuisce

La superficie della Terra assorbe il calore del Sole e poi lo diffonde nell’aria. Quando questa è molto densa ed umida, come avviene nelle pianure, il calore si conserva a lungo. Man mano che si sale, l’aria diventa meno densa e meno umida: è meno capace di conservare il calore, perciò la temperatura si abbassa. Inoltre, in vetta alle alte montagne, non esiste una vasta superficie di terreno che possa assorbire e poi restituire il calore del Sole. Questo fenomeno ci spiega l’esistenza di ghiacciai anche nelle regioni tropicali che superino i 4000 metri di altitudine.

Come possiamo calcolare l’altitudine delle montagne

Per calcolare l’altitudine delle montagne, cioè la loro altezza sul livello del mare,  si usano il teodolite, l’altimetro e il barometro – altimetro. Il teodolite è un delicatissimo strumento ottico che permette di misurare, dal luogo ove viene collocato, distanze ed altezze di punti inaccessibili. L’altimetro è uno strumento di precisione che indica l’altitudine del luogo ove viene collocato. Il barometro – altimetro oltre ad indicare l’altitudine di un luogo, ne segna anche la pressione atmosferica corrispondente; infatti la pressione atmosferica varia col variare dell’altitudine.

Vette più importanti della catena alpina

Monte Bianco (m 4810), Monte Rosa (m 4633), Monte Cervino (m 4478), Gran Paradiso (m 4061), Pizzo Bernina (m 4049), Grivola (m 3969), Ortles (m 3899), Monviso (m 3481), Monte Cevedale (m 3778), Palla Bianca (m  3736), Monte Disgrazia (m 3678), Adamello (m 3554), Pizzo dei Tre Signori (m 3499), Marmolada (m 3342).

Vette più importanti della catena appenninica

Etna (m 3263, Appennino Siciliano), Gran Sasso d’Italia (m. 2914, Appennino Abruzzese), Maiella (m 2795, Appennino Abruzzese), Monte Velino (m 2487, Appennino Abruzzese), Monte Vettore (m 2478, Appennino Umbro – Marchigiano), Monte Sirente (m 2349, Appennino Abruzzese), Monte Pollino (m 2271, Appennino Lucano), Monte Terminillo (m 2213, Appennino Umbro Marchigiano), Monte Cimone (m 2165, Appennino Tosco Emiliano), Monte Cusna (m 2120, Appennino Tosco Emiliano), Monte Miletto (m 205o, Appennino Campano), Monte Sirino (m 2005, Appennino Lucano), Monte Giovo (m 1191, Appennino Tosco Emiliano), Pizzo Carbonara (m 1979, Appennino Siciliano), Aspromonte (m 1956, Appennino Calabrese), Corno alle Scale (m 1945, Appennino Tosco Emiliano), Monte Calvo (m 1901, Appennino Abruzzese), Gennargentu (m 1834, Appennino Sardo), Monte Mutria (m 1823, Appennino Campano), Monte Maggiorasca (m 1803, Appennino Ligure).

L’uomo e la montagna

Avete mai veduto costruire una casa? Io, tante… E ho pensato: “Ma guarda un po’ l’uomo, che è capace di fare! Mutila la montagna, ne cava pietre, le squadra, le dispone le une sulle altre e, che è che non è, quello che era un pezzo di montagna è diventato una casa”.

“Io” dice la montagna, ” sono montagna e non mi muovo”.

“Non ti muovi, cara? E guarda là quei carri tirati dai  buoi. Sono carichi di te, di pietre tue. TI portano in carretto, cara mia! Credi di startene così? E già mezza sei, due miglia lontano, nella pianura”.

“Dove?”

“Ma in quella casa là, non vedi? Una gialla, una rossa, una bianca: a due, a tre, a quattro piani. E i tuoi faggi, i tuoi noci, i tuoi abeti? Eccoli qua, a casa mia. Vedi come li abbiamo lavorati bene? Chi li riconoscerebbe più in queste sedie, in questi armadi, in questi scaffali? Tu, montagna, sei più grande dell’uomo: anche tu faggio, e tu noce, e tu abete; ma l’uomo ha in sè qualcosa che voi non avete.

(Luigi Pirandello)

La vegetazione spontanea della montagna

Al piede della montagna crescono i lecci, dalle dense fronde scure, e gli alberi da frutta. Le querce e i castagni possono giungere più in alto, fino ai mille metri. I faggi prosperano fino ai millecinquecento metri e più. I larici e gli abeti dalle foglie sottili e aguzze come aghi giungono fino a duemila metri. Ancora più su, a duemilacinquecento metri, si stendono i vasti pascoli punteggiati di arbusti, di rododendri e di pini mughi. Oltre questa zona, riescono a vivere soltanto pianticelle alte meno di un palmo, e poi muschi e licheni. Essi traggono il nutrimento dalla poca terra che il vento ha depositato  nelle fessure delle rocce. Infine, ecco la zona delle nevi perenni. Qui nessuna pianta può vivere: è il regno del ghiaccio.

Gli animali che vivono in libertà sui monti

Nella zona dei pini vivono il gallo cedrone, la pernice bianca e numerosi uccelli rapaci, come la poiana, il falco, il gufo e la civetta. E’ facile trovare l’ermellino, prezioso per la sua pelliccia, che è bruna d’estate e diventa candida durante l’inverno; dove i boschi sono più fitti, si trovano scoiattoli, caprioli e cervi. Ma l’animale più caratteristico di queste zone è l’orso; e il più pericoloso è il lupo, che durante l’inverno, spinto dalla fame, si avvicina ai centri abitati. Oltre i duemila metri troviamo gli animali tipici dell’alta montagna: l’aquila, lo stambecco, il camoscio e la marmotta. Sopra si stendono soltanto ghiacciai. Sembra che la vita sia impossibile qui, ma c’è un minuscolo animale che riesce a vivere anche in mezzo ai ghiacci: è la pulce dei ghiacciai. Essa si nutre dei grani di polline che il vento trasporta, dalla zona dei larici e degli abeti, fino a un’altitudine di quattromila metri!

Utilità dei monti

Le pendici dei monti sono coperte da fitti  boschi di castagni e, più in alto, da foreste di conifere: pini, larici e abeti che forniscono buon legname. I boscaioli, per il trasporto dei tronchi, si servono delle teleferiche che, lungo un cavo d’acciaio, trasportano a valle pesanti tronchi. D’estate, sui pascoli alpini, i pastori e i mandriani conducono a pascolare le loro greggi e le mandrie fino all’autunno. Dal latte delle mucche e delle pecore si ricavano burro e squisiti formaggi. Per l’aria pura e salubre che vi regna, i monti sono mete ideali per i soggiorni estivi e per gli sport invernali. Sui pendii soleggiati sorgono i grandi edifici dei sanatori, dove si curano le persone malate che hanno bisogno di sole e di aria purissima. Un altro dono prezioso ci viene dalle montagne: il carbone bianco. L’acqua dei fiumi che scende a valle, per mezzo di un potente sbarramento detto diga, viene raccolta in un bacino e convogliata attraverso grosse tubature, dette condotte forzate, alle centrali idroelettriche. Nelle centrali, con la sua caduta, l’acqua muove le pale delle turbine, che producono l’energia elettrica.

 I minerali

Il Duomo di Milano pesa 184.000 tonnellate; ebbene, sono 184.000 tonnellate di montagna trasferite nel centro d Milano. Infatti, il Duomo è costruito in marmo, una delle rocce che ci fornisce la montagna. Le rocce delle montagne, fin da quando, milioni di anni or sono, si formarono, contengono minerali di ogni genere: ferro, piombo, rame, zinco, zolfo, salgemma, manganese, e via dicendo; tutte sostanze assolutamente indispensabili per le industrie. Perciò l’uomo da secoli scava le montagne, con la tenacia di una formica; e dove le montagne sono formate completamente da minerali utili, allora addirittura la demolisce, le asporta pezzo per pezzo, le spiana a poco a poco. Ci basterebbe fare una visitina alle più grandi cave italiane di marmo, quelle di Carrara, per accorgerci di questo: vedremo allora che intere parti di montagna non esistono più. I loro milioni e milioni di tonnellate di marmo sono distribuiti ormai in tutto il mondo, sotto forma di scalinate, colonne, statue, lastre di copertura, pavimenti, eccetera.

Il lavoro in montagna

Anche la montagna è fonte di vita per la sua gente, ma lassù, dove soltanto il salire e lo scendere è fatica, il lavoro è assai duro. Tra le rocce cristalline, che scintillano al sole, gli scalpellini lavorano nella cava di marmo. Potenti teleferiche trasportano i blocchi già tagliati verso il fondo valle. Molti montanari sono pastori; essi conducono il gregge al pascolo, tosano le pecore e con il latte fanno i caratteristici formaggi pecorini; altri fanno gli agricoltori, coltivando lo scarso terreno che si apre tra i boschi, sulle pendici dei monti e nelle vallate; altri ancora fanno i boscaioli, abbattendo gli alberi che fornivano legname per la costruzione di navi, di ponti, di mobili. Durante l’interminabile inverno di montagna, quando non è possibile uscire di casa, uomini, donne e spesso anche i ragazzi divengono artigiani; intagliano nel legno graziosi oggetti che venderanno poi ai turisti. Un rumore assordante rompe il silenzio dei monti: è l’acqua dei torrenti che scendono impetuosi a valle.  La forza delle loro acque viene spesso sfruttata per azionare i motori delle segherie. Molte volte questi torrenti si vedono sbarrato il passo da potenti dighe: le loro acque si espandono allora in un calmo lago e alimentano, più a valle, la centrale idroelettrica che produce luce ed energia per le città lontane.

Le frane

Boschi e foreste, che un tempo coprivano quasi tutta la terra, a poco a poco vennero distrutti dall’uomo, per dar luogo a coltivazioni di piante utili e per costruirvi case, paesi, città. Talvolta però l’uomo, spinto dal bisogno o dalla volontà di guadagno, ha tagliato troppo i boschi, lasciando interi pendii, dalle falde alla vetta, senza alberi. Allora si sono verificati guai seri, perchè la terra non era più tenuta salda dalle radici delle piante, durante le stagioni piovose, ha cominciato a precipitare a valle formando enormi frane che hanno travolto paesi e interrotto strade, con grande danno per il traffico e per gli abitanti.

Villaggio di montagna

Aggrappato al monte, ecco un villaggio composto di poche casette rustiche. I muri, in basso, sono fatti di pietra; in alto sono di legno; i tetti sono coperti di lastre di ardesia. Alle strette finestre spiccano i gerani; i palchi sotto i tetti sono pieni di legna per l’inverno e di fieno per il bestiame. Una chiesetta e un campanile vigilano sulle poche case e sulle vie deserte. Gli uomini e le donne sono al lavoro nei prati, nei boschi e nelle malghe. A sera, pochi montanari tornano al villaggio: la maggior parte rimane nelle baite. Solo la domenica i montanari discendono per la messa, e la chiesetta si riempie di canti e di preghiere. Il giorno dopo tutti ritornano al lavoro e il silenzio scende sul villaggio.

La malga

Tra i verdi pascoli d’alta montagna sorge un casolare lungo e basso, costruito in modo rudimentale con tronchi e pietre. E’ la malga, in cui trovano rifugio i mandriani. Vicino, una larga conca scavata nel terreno raccoglie l’acqua piovana per l’abbeveraggio delle mucche. Si ode lontano il tintinnio dei campanacci. La mandria è al pascolo e ritornerà solo verso l’imbrunire, per la mungitura. La malga è lontano da ogni centro abitato. Il latte, perciò, non può essere venduto. Dev’essere utilizzato subito. E i mandriani hanno il loro bel da fare. La panna abbondante e densa, scremata giorno per giorno, viene sbattuta a lungo nella zangola di legno, per produrre il burro. Il latte rimanente, con uno speciale procedimento, è fatto cagliare o coagulare. Separato dal siero, darà la caseina, dalla quale si ricava il formaggio. Come ultimo prodotto resterà la ricotta, che sarà messa a stagionare sul camino.

Gli innamorati della montagna

Le montagne, con la varietà dei loro paesaggi, offrono uno degli spettacoli più mirabili del creato. Il sole, specie all’alba e al tramonto, dipinge rocce e boschi, prati e picchi nevosi di splendidi colori. Molti, per questo, amano la montagna. Ricorda, tra gli altri, gli escursionisti che, zaino in spalla, affrontano lunghe marce per sentieri e tratturi; gli scalatori, che cercano pericolose vie tra le rocce; gli sciatori che, in inverno, volano sulla neve con gli sci.

I rifugi alpini

In molte zone di alta montagna sorgono i rifugi alpini, costruzioni adibite per il ricovero degli alpinisti che vogliono avventurarsi sulle cime più elevate. Un tempo, questi rifugi si raggiungevano con marce faticose di molte ore; oggi invece, molti di essi sono collegati ai paesi della valle con ardite e veloci funivie. Gli appassionati di sport invernali possono inoltre servirsi di seggiovie, che in pochi minuti portano ai campi di neve più alti.

I mezzi di trasporto

Sulle belle strade alpine e appenniniche corrono veloci corriere, automobili e motociclette. Quando la salita è troppo ripida per le ferrovie normali, si usano i treni a cremagliera, la cui locomotiva è munita di una ruota dentata che si ingrana in una rotaia supplementare. Spesso, per necessità di lavoro o per esigenze turistiche, si collega il fondo valle con località elevate per mezzo di teleferiche o di funivie: su grosse funi metalliche, tese tra un pilone e l’altro, scorrono carrelli per il trasporto di materiali o cabine per passeggeri. Tutte le principali località di montagna e i centri di villeggiatura estiva e invernale hanno inoltre seggiovie, slittovie, sciovie. Le seggiovie sono costituite essenzialmente di due funi metalliche a cui sono appesi seggiolini scorrevoli; nelle slittovie, un cavo tirante trascina le slitte che trasportano gli sciatori. Nelle sciovie, invece, ogni sciatore è collegato, per mezzo di un braccio metallico, a un rullo che scorre su una fune d’acciaio e lo trascina in salita.

La seggiovia

Un particolare tipo di funivia leggera è la seggiovia, chiamata così perchè appesi alla fune viaggiano seggiolini metallici, su cui siedono i viaggiatori. Le seggiovie sono molto diffuse nelle zone turistiche montane perchè risparmiano a sciatori, gitanti e alpinisti la fatica delle salite a piedi.

Le Alpi e gli Appennini

Le Alpi, che cingono l’Italia, formano un arco meraviglioso per la varietà delle sue forme. Ora elevano al cielo guglie acute, ora torreggiano con immense piramidi di ghiaccio, ora si presentano come un susseguirsi di creste capricciose. Pare quasi che siano state create apposta per stabilire i confini italiani e ripararci dai venti freddi del nord. Le acque e le foreste costituiscono le loro ricchezze principali. La loro bellezza richiama ogni anno milioni di turisti che cercano nella salubrità del loro clima il ristoro alle loro fatiche. Un’altra catena attraversa l’Italia in tutta la sua lunghezza e ne costituisce, per così dire, la spina dorsale. Meno elevati delle Alpi, gli Appennini non hanno ghiacciai, ed i fiumi che da essi discendono sono più brevi e meno ricchi di acque. Coperti un tempo da fitte foreste, sono oggi in gran parte brulli perchè l’uomo li ha purtroppo privati del loro verde mantello. Oggi si cerca di rimediare favorendo il rimboschimento, ma dovranno passare molti e molti anni prima che l’Appennino ritorni ad essere com’era un tempo.

Il ghiacciaio

Lassù, presso le alte cime dei monti, pendii rocciosi ricoperti di neve circondano la valle. Sul fondo, un fiume solido e bianco luccica come un grande specchio. E’ il ghiacciaio formato dalle nevi permanenti, quelle che neppure il sole d’agosto riesce a sciogliere completamente. Sembra fermo, invece scorre lentamente. La sua candida superficie è tutta increspata da onde ghiacciate. Ma il sole scotta, e il ghiacciaio, lungo i bordi e sulla superficie si liquefa, lentamente. L’acqua cola, scorre, penetra nella massa screpolata, si raccoglie sul fondo, o meglio sul letto del ghiacciaio. Qui continua il cammino nella sua galleria di cristallo, finchè non sbuca all’aperto. Così nascono i corsi d’acqua. Anche i fiumi più grandi hanno un’origine umilissima, una piccola sorgente sulla fronte di un ghiacciaio.

Il ghiacciaio

La neve cade abbondantissima sulle alte montagne, si raccoglie e si ammucchia in vaste conche di roccia; qui uno strato di neve comprime l’altro e tutta la massa gela e si trasforma in ghiaccio. Vi sono ghiacciai che si estendono per chilometri e chilometri. I ghiacciai terminano in un luogo detto bocca, dove il ghiaccio si scioglie e dà origine a cento, mille vene d’acqua, che precipitano verso la valle.

Il ghiacciaio

Immaginate un’ampia valle, cui fanno parete, dall’uno all’altro lato, rupi ignude, scoscese, talora a picco. Un maestoso fiume ne occupa tutto il fondo. E’ infatti un fiume di ghiaccio che scaturisce dagli immensi campi di neve eterna, le quali rivestono le eccelse vette e colmano i vasti altipiani delle Alpi. E sembra anche al vederle, che quelle nevi eterne, con perpetua onda, si riversano in quel fiume di ghiaccio e quel fiume scorre e solleva le sue onde simile a un torrente, quasi ad un mare in burrasca. Ma quel fiume sembra immobile; quelle onde sembrano sospese, cristallizzate: quel fiume è tutto di ghiaccio. (A. Stoppani)

La leggenda della neve rossa (leggenda valdostana)

Se andate un giorno sul monte Rosa, il vostro sguardo rimarrà abbagliato dall’immensa distesa candida e scintillante del ghiacciaio.

La leggenda racconta che, nel tempo dei tempi, a quelle altitudini eccelse, il clima era molto più mite e là dove ora si distendono i gelidi ghiacciai erano verdi praterie e folte foreste di abeti. E in mezzo vi sorgeva una città prosperosa e popolosa.

Purtroppo, però, i denari accumulati a poco a poco avevano reso cattivi e avari gli abitanti di questa città, i quali vivevano nel loro egoismo senza alcun timore di Dio. Ma Dio, che tutto vede e tutto sa, non tardò a punirli.

Una sera d’ottobre giunse in questa città un vecchio viandante. Appariva esausto per la fatica e la fame. Ma invano egli bussò a una porta dopo l’altra, chiedendo cibo e ricovero: tutti lo respinsero con male parole.

Allora, a un tratto, il vecchio si drizzò minaccioso e apparve gigantesco e terribile, eretto, sull’alta persona. Protese il braccio e gridò: – Stanotte  nevicherà, domani nevicherà, per giorni e giorni nevicherà: la città maledetta perirà. –

Gli abitanti, chiusi nelle loro case, udirono quella voce rimbombare nella tenebra e furono scossi da un brivido, ma poi alzarono le spalle e cercarono di dimenticare il funesto presagio bevendo, tra risa di scherno.

Intanto il vecchio era scomparso. Ed era cominciato a nevicare. Ma non neve bianca, bensì neve rossa, d’un cupo vermiglio, come il sangue. Essa cadde tutta la notte e tutto il giorno seguente, e per molti molti giorni ancora, fitta, lenta, inesorabile. Nessuno osava uscire dalle case e la neve saliva, saliva, saliva, sommergendo le dimore e gli uomini, i campi e i boschi, implacabilmente, come implacabili erano stati quei malvagi verso il vecchio viandante.

Quando la rossa nevicata cessò, della città non v’era più traccia: al suo posto, da allora, si estende un immenso ghiacciaio.

E talvolta, al tramonto, sul ghiacciaio, si scorgono ancora sinistri bagliori, come di sangue… (M. Tebaldi Chiesa)

Una gita in montagna

Gabriella e il babbo salirono su una corriera. Dapprima percorsero un breve tratto a fondo valle, poi infilarono una strada che con forte pendenza saliva verso l’alto fra boschi di castagni. Qui la vegetazione cambiò: la strada si inerpicava fra selve di abeti e di larici e l’aria era profumata di resina.

– Siamo a mille metri! – esclamò il babbo, quando apparvero le casette del villaggio dove avrebbero trascorso le loro vacanze. L’indomani Gabriella fece col babbo la sua prima escursione. Una funivia li portò rapidamente in alto. Gli abeti a poco a poco andarono diradandosi e facendosi sempre più piccini, poi apparvero in tutta la loro bellezza i prati verdeggianti su cui pascolavano mandrie di mucche. Giungevano fino a loro i  muggiti delle pacifiche bestie intente a brucare l’erba profumata della montagna. Qua e là, disseminate sui pendii, si scorgevano le baite che ospitano pastori e bestiame durante la stagione dell’alpeggio. Infine anche i pascoli scomparvero. La funivia sorvolava ora una zona di alte rocce, le cui sommità, simili a guglie, si stagliavano solenni nell’azzurro del cielo. Un ultimo balzo, ed eccoli alla stazione d’arrivo. Di lassù appariva in tutta la sua bellezza la cerchia delle Alpi, le cui candide vette erano coperte di neve. Davanti a loro, tra rocce enormi, si stendeva un ghiacciaio.

– Sembra un fiume di ghiaccio – osservò Gabriella.

– Ed è proprio un fiume che scende lento lento verso il fondovalle – le rispose il babbo.

– Un fiume di ghiaccio? E’ mai possibile? – osservò Gabriella, la quale aveva ancora negli occhi la visione del fiume le cui acque correvano impetuose verso la pianura.

– Sì, proprio un fiume, – ripetè il babbo. – Quel ghiaccio, che ti appare fermo ed immobile, in realtà scende verso la valle assai lentamente, ma scende. E quando è giunto in basso il ghiaccio si scioglie e diventa acqua, che alimenta le sorgenti dei fiumi –

– Sicchè tutto questo ghiaccio…-

– E’ destinato a tramutarsi nell’acqua dei fiumi che porteranno alla lontana pianura i benefici dell’irrigazione. Ma prima che avvenga ciò, questi ghiacciai, che tu vedi scintillare al sole, alimenteranno con l’acqua da essi prodotta le numerose centrali elettriche che l’uomo ha costruito sulle montagne –

– E in che modo? –

– Più in basso gli uomini hanno creato dei laghi artificiali chiudendo con una diga una valle nel punto in cui questa si presentava più stretta. L’acqua così raccolta viene incanalata in giganteschi tubi che la portano alle turbine, destinate ad azionare le dinamo, che sono macchine capaci di produrre l’energia elettrica. Tutta l’elettricità, che mette in moto i treni e le macchine degli opifici, che illumina le vie e dà luce alle nostre case nasce qui, su questi monti, per merito dell’acqua che giustamente è stata chiamata “carbone bianco”. –

Come si forma un ghiacciaio

Il ghiacciaio si forma nel “bacino collettore”; si chiama in questo modo la zona alta di una montagna dove si raccoglie ogni anno una enorme massa di neve, più di quanta se ne scioglie durante l’estate. Perciò un bacino collettore si trova sempre sopra il limite delle nevi perenni. Generalmente esso ha proprio la forma di un bacino, cioè è circondato da alte e ripide pareti rocciose; la neve che si deposita su queste e che poi, sotto forma di valanghe e slavine, precipita nel bacino, contribuisce anch’essa ad aumentare la ricchezza del deposito che alimenta il ghiacciaio. Qualche volta il bacino ha invece la forma di una grande cupola; questo è il caso del Monte Bianco. E’ nel bacino che la neve, man mano che viene sottoposta alla pressione degli strati più recenti, si trasforma prima in ghiaccio granuloso, poi in ghiaccio compatto, di colore quasi azzurro.

Il bacino collettore, quindi, non è che il grande magazzino di raccolta che continuamente rifornisce il ghiacciaio di nuovo materiale. Un bacino, infatti, presenta sempre uno o più sbocchi aperti verso il basso; da questi defluirà la bianca massa ghiacciata come una pasta che si versi dal bordo di una marmitta inclinata. Colerà per primo, dallo sbocco, il ghiaccio degli strati più profondi, spinto dall’enorme perso degli strati superiori; e via via, uno sull’altro, lentamente ma ininterrottamente, tutti gli strati di neve depositatisi di anno in anno nel bacino e trasformatisi in ghiaccio scenderanno verso il basso: così si forma il ghiacciaio.

I ghiacciai si muovono

Il ghiacciaio è dunque un gran fiume solido, di ghiaccio, che scende verso il basso. Man mano che scende incontra una temperatura più mite e si scioglie formando torrentelli e cascatelle. Ad un certo punto, bruscamente, il ghiacciaio termina, dando origine ad un impetuoso torrente. Costantemente i ghiacciai depositano alla loro estremità, oltre ai corpi di vittime di sciagure alpinistiche, oggetti come piccozze, zaini, corde, smarriti da alpinisti, e un’enorme quantità di massi e detriti rocciosi.

Tutto questo materiale era rimasto sul ghiacciaio o caduto in un suo crepaccio, in un punto qualsiasi del suo corso, anche molto vicino all’origine; ma, lentamente, la massa gelata è scesa verso il basso trasportando a valle il materiale incluso. Giunto al punto del disgelo, il ghiaccio restituisce alla luce quanto teneva racchiuso.

Possiamo così constatare che il ghiacciaio cammina costantemente verso il basso e che la maggiore velocità di discesa si ha nella zona centrale. Ai margini il movimento è più lento a causa dell’attrito delle pareti rocciose.

La velocità di discesa non è la stessa per tutti i ghiacciai. Quelli alpini hanno, in media, la velocità di 35 metri l’anno, cioè circa 10 centimetri il giorno; ma il ghiacciaio svizzero dell’Alètsch, che coi suoi 26 chilometri è il più lungo ghiacciaio delle Alpi, scende alla velocità di circa mezzo metro il giorno. Il ghiacciaio Baltoro, nel Karakorum, in Asia, si muove alla velocità di 600 – 700 metri annui e alcuni ghiacciai della Groenlandia scendono di 4 – 5 chilometri l’anno, cioè più di dieci metri il giorno.

Vocabolario

Circo: è una cavità circolare, un enorme catino scavato nella roccia della montagna da un ghiacciaio, che poi è scomparso.

Conca: è una grande cavità nel terreno a forma circolare oppure di ellissi, con i pendii poco inclinati.

Dosso: è una montagna o una parte di una montagna fatta a cupolone. Non è mai molto alta e può essere anche erbosa.

Forra: è una gola profonda fra pareti rocciose. Di solito è stata scavata da un torrente.

Ghiacciaio: è un’enorme massa di ghiaccio che si forma al di sopra del limite delle nevi persistenti in una conca dove si raccolgono le nevi (bacino collettore di raccolta); scende con una lingua fino al punto in cui si arresta (fronte del ghiacciaio) perchè il ghiaccio fonde e forma un torrente.

Gola: è una valle stretta e profonda, con le pareti ripide.

Gradino: è il salto formato da una ripida parete che interrompe una estensione di terreno piano o in lieve declivio: è proprio, insomma, come un grande gradino.

Morena: è un ammasso di ciottoli, detriti, massi, terra che il ghiacciaio raccoglie lungo il suo corso, trasporta a valle e ammucchia. Vi sono morene enormi, come la Serra, vicino a Ivrea, lunga più di 25 chilometri!

Nevaio: è un ammasso di neve che si accumula, spesso spinta dal vento, in luoghi riparati. Non si scioglie completamente nemmeno in estate. Invecchiando, la neve diventa granulosa e tende a trasformarsi in ghiaccio.

Valico: E’ un passaggio abbastanza basso che permette di attraversare una barriera montuosa. Un valico o passo, di solito, si chiama colle quando è a grande altezza; sella quando ha la forma di una piccola valle.

Monti d’Italia
Monti giganteschi, nevosi e scintillanti al sole, con le cime avvolte da nubi, dirupi solcati da ghiacciai e flagellati dalla tempesta, balze scoscese, cupi burroni precipitosi, massi, sassi e ciottoli, e ghiaieti alle falde. Foreste di castagni e di faggi, di larici e di pini, vestono questi monti, poi cespi di rododendri ed erbe dal cortissimo stelo, e muschi e licheni che di varie tinte, brune, argentine, dorate, coronano le rocce. Urla il lupo fra quelle foreste, s’appiatta l’orso e corre, presso la neve, nel suo manto invernale, il candidissimo ermellino, e ronzano insetti. (M. Lessona)

LA MONTAGNA materiale didattico vario. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

IL MARE poesie e filastrocche

IL MARE poesie e filastrocche di autori vari per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

L’onda
Scherzosa, spumosa, gioconda,
tu mormori e corri, lieve onda,
con mille e poi mille sorelle,
che danzano e ridon fra loro
nel bacio del bel sole d’oro
e sotto la luna e le stelle.
Tu fai dondolare la candida
e fragile vela per gioco,
la culli col canto tuo fioco,
pian piano,
e intanto la porti lontano,
lontano.
Eppoi ti trastulli felice
coi bimbi: li spruzzi, li arruffi
se fra le tue braccia si tuffano;
con loro discorri. Che dice
la voce tua blanda e ridente
in note sì chiare?
I bimbi l’intendono:
la viva lor gioia lo sente
che sei come loro gioconda,
scherzosa, serena, live onda
del mare. (Gentucca)

I giardini del mare
Chi li ha visti i giardini del mare
dove ogni cosa un gioiello pare?
In una luce di seta verdina
un popolo cammina
assorto, silenzioso,
ospite d’un mondo prezioso.
C’è un prato d’alghe: lentamente oscilla;
rupe muscosa scintilla:
fra i rami di corolla
guizzano pesci vestiti di giallo,
sogliole d’argento…
E le seppie dal passo sonnolento
vanno con le lamprede
in cerca di facili prede;
dagli antri dove dormon le sirene
escon le murene
e la medusa che danzando sciacqua
la veste color d’acqua…
Nella luce di seta verdina
così un popolo vive e cammina:
assorto, silenzioso,
ospite d’un mondo prezioso.
Più in fondo è il regno del nero
e vi alberga il mistero. (Mario Pucci)

IL MARE poesie e filastrocche Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

LA COLLINA materiale didattico vario

LA COLLINA materiale didattico vario – dettati ortografici, racconti, testi brevi, di autori vari, per la scuola primaria.

La collina

Le montagne, di solito, non si elevano a picco dalla pianura, ma sono precedute da modeste alture, le colline, dalle cime tondeggianti e dai dolci declivi. Esse non superano i 600 metri sopra il livello del mare; quando si elevano oltre i 600 e gli 800 metri si chiamano colli.

La strada che porta in collina sale con larghi tornanti tra ulivi e vigneti; lungo le strisce di terra pianeggiante che i contadini hanno ricavato dopo lungo e faticoso lavoro, e sui fianchi soleggiati e asciutti, sono coltivati gli ortaggi, gli alberi da frutta, il granoturco.

Fitti boschi di castagni e di noci coprono generalmente il versante non soleggiato, umido e ombroso, rotto qua e là da profondi burroni scavati dall’acqua piovana.

Le piogge che scorrono sui fianchi delle colline smuovono il terreno causando frane e burroni. L’uomo per impedire ciò costruisce muretti ed opere di sostegno.

E’ difficile irrigare le coltivazioni in collina perchè l’acqua scorre nel piano o  in profondità. L’uomo perciò costruisce serbatoi e condotti.

Sulle colline, oggi, si fabbricano di preferenza case e villette nelle quali l’uomo ritrova la quiete e l’aria pura, ormai scomparse nelle grandi città.

Quadretto

Sulla cima del colle, tra boschetti di lauri, la casa sorge splendente nel rosso tramonto. Dietro ha il monte ripido; e sul monte una fila di cipressi gracili e austeri dentellano del loro verde cupo l’orizzonte. Più dietro è una torre o un castello. Il sole calante batte nelle vetrate del piano superiore della casa che paiono incendiarsi come il riflesso di uno scudo incantato. (G. Carducci)

Origine delle colline

Ci sono colline nate dall’accumularsi di materiale strappato alle montagne, ma ve ne sono anche di sorte come per incanto dalla terra, sotto forma di vulcani.

Naturalmente Questo è accaduto molti millenni or sono. I vulcani poi si sono spenti, e il loro cratere si è adagio adagio riempito di terra.

Oggi è difficile distinguere le une dalle altre.

 I doni delle colline

Le colline sono generose nel ripagare le fatiche degli agricoltori. I pendii esposti al sole producono, come in pianura, cereali di ottima qualità, e poi ortaggi, agrumi, fiori.

A primavera la collina sembra un paesaggio di sogno, avvolta com’è dalla fioritura rosea e bianca dei suoi frutteti, che daranno poi ciliegie dal delizioso sapore, pesche vellutate, pere, mele, albicocche, e tanti altri frutti. Molti sono anche i vigneti, dalle basse viti a spalliera, che donano uva dolce, e gli oliveti dagli alberi centenari.

Sui pendii poco soleggiati crescono boschi di querce, di castagni e di noccioli. In questi boschi si raccolgono fragole dolcissime e funghi mangerecci, mughetti e narcisi dall’acuto profumo.

L’oliveto

Anche l’oliveto ha bisogno di sole. La terra, intorno agli olivi, è piuttosto arida. Il raccolto delle olive si fa ogni anno, ma è abbondante solo ogni due anni. In autunno, in alcuni paesi, si  lascia che le olive, nere e mature, cadano a terra da sè e poi si raccolgono dal suolo. In altri paesi, invece, si fanno cadere dai rami scuotendoli con lunghe pertiche.

Il castagneto

Ogni anno, in autunno, il castagneto viene invaso dai bacchiatori che portano scale e lunghe pertiche. I castagni, che sono vecchi anche di centinaia di anni, sopportano tutto con la pazienza dei nonni. Forse sanno di far felici soprattutto i bambini allorchè le castagne, tolte dai ricci spinosi, saranno lessate o arrostite.

La cisterna

L’acqua piovana in collina è preziosa e viene conservata. Dalla grondaia è avviata, per mezzo di docce, nella cisterna. Naturalmente l’acqua della cisterna non è potabile. Serve per abbeverare gli animali, oppure, dopo un’accurata bollitura, per le necessità di cucina. L’acqua potabile invece si ricava dai pozzi.

Il terrazzamento

Una volta i colli che oggi vediamo ricchi di ville e di paesi, di campi e di vigne, erano incolti. Le acque piovane corrodevano il terreno, che in molte zone diveniva brullo e coperto di pietrame.

Per coltivare in collina, l’uomo dovette diboscare o levare a una a una le pietre che coprivano il terreno. Con queste costruì dei muri a secco, cioè senza cementare le pietre con la malta, per permettere alla pioggia di scorrere via tra una pietra e l’altra. Poi riempì lo spazio tra il muro e la china del colle con terra buona, che portò su dal piano con gerle, cesti e canestri. Alla fine il contadino seminò erbe e piantò viti ed olivi; così le piante, con le loro radici, trattennero la terra.

Ancora oggi i muretti devono essere sorvegliati, perchè possono cedere in qualche punto sotto l’azione di una pioggia a dirotto o per un’improvvisa frana del terreno sottostante. In questi casi il contadino, con paziente lavoro, deve rafforzare e riassettare i muretti nei punti pericolanti.

Sistemazione dei pendii collinari

Il terrazzamento consente di coltivare anche i  pendii molto ripidi. Consiste nel trasformare il pendio collinare in ripiani orizzontali, sostenuti da muretti.

Il girapoggio è una sistemazione del terreno adatta alle colline pendenti uniformemente. Consiste nello scavo di fosse orizzontali intorno alla collina per impedire alle acque di scorrere da cima a fondo.

La spina è una sistemazione del terreno che consente di ottenere apprezzamenti di una certa regolarità. Consiste nello scavare sul pendio collinare dei canaletti disposti a spina di pesce.

Colline italiane

In Italia, vi sono territori assai estesi occupati completamente da colline. E su queste colline prosperano vigneti e oliveti. Le colline italiane più note sono quelle del Monferrato e delle Langhe, in Piemonte, le colline della Toscana, del Veneto e del Lazio.

Su alcune colline si vedono i resti dei castelli medioevali e, qua e là, borgate e paesini, tutti stretti attorno alla lor chiesa. Ci sono anche delle città che si stendono sulla collina, occupando la sommità e buona parte dei declivi.

La casa in collina

Non sempre si vive bene in pianura. Anzi, specie nei tempi antichi, quando i fiumi, non ben arginati, allagavano spesso il piano trasformandolo in palude, gli uomini preferivano costruire le loro abitazioni sulle alture. Quando poi si voleva erigere un castello, si sceglieva la cima di un colle; in tal modo era possibile vigilare per un buon tratto i dintorni, evitando così le sgradevoli sorprese di un attacco nemico. Attorno al castello, in seguito, sorgevano le case dei contadini, la chiesa e il piccolo cimitero. Così son nati quasi tutti i paesi collinari d’Italia.

Altre ragioni hanno spinto l’uomo a costruire la propria casa in collina: ad esempio, la vicinanza dei terreni da coltivare permette all’agricoltore un notevole risparmio di tempo e di fatica. In mezzo agli uliveti ed ai vigneti, alla sommità di una serie di terrazze, c’è la fattoria, non molto dissimile da quella di pianura: spesso ha il frantoio per l’olio; sempre le capaci cantine odoranti di mosto. Presso ogni cascinale c’è un profondo pozzo dal quale si estrae l’acqua necessaria ad irrigare i campi e ad abbeverare il bestiame.

Il turismo

Molti sono i villeggianti che vanno a trascorrere l’estate sulle colline fresche di ombre, e molti soggiornano, in tutte le stagioni, nei pressi delle zone collinose presso il mare o i laghi, perchè il clima è costantemente mite. Assai sviluppata è quindi l’industria alberghiera, che dà lavoro a molti abitanti del luogo.

La collina

Sui campi bassi del frumento si allineano i gelsi e innalzano vaghe cupole verdi; pinete pervase dal sole qua e là segnano la linea dei colli; gli oliveti salgono le pendici col fluttuare del loro bigio argenteo. Ma su tutto dominano le vigne, tappeti alti, chiari a primavera e cupi nell’estate, tesi giù per il dorso delle colline, a coprire la dura, smorta argilla, e a preparare la festa del vino. Bianchi e lieti fra tanta ricchezza, si scoprono i paesi… (G. Fanciulli)

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ABRUZZO materiale didattico vario

ABRUZZO materiale didattico vario – una raccolta di dettati ortografici e letture sull’Abruzzo, di autori vari, per la scuola primaria.

L’Abruzzo

Quando, in inverno, nevica sugli alti monti dell’Abruzzo, il viaggiatore, l’alpinista che li osservi, ha la netta impressione di trovarsi fra le Alpi: le catene sono imponenti, le cime aspre, rocciose, aguzze come quelle alpine. Ma se si guada attorno si vede vicino gli alberi di olivo. Così è fatto l’Abruzzo: una delle regioni più elevate  e montuose del nostro paese, con le cime che si avvicinano ai tremila metri, aspre, tormentate; ma ai piedi delle pareti rocciose cresce l’ulivo e si estendono pascoli verdissimi.

Abruzzo: sguardo d’insieme
E’ la regione nella quale l’Appennino si impone con le cime più elevate e solenni; esso occupa la maggior parte del territorio fino alla riva adriatica, ma ha caratteristiche nettamente diverse nell’interno e nel settore costiero.
E’ proprio nella parte più interna, sino ai confini con il Lazio, che l’Appennino ha il suo sviluppo più notevole: non presenta catene ordinate, ma piuttosto rilievi raggruppati attorno alle vette più alte, separati da larghi avvallamenti nei quali si raccoglie fitta la popolazione.
Questi gruppi montuosi appaiono solitamente brulli, battuti nell’inverno da violente bufere di neve, poveri di acque, che filtrano in profondità negli  strati calcarei e zampillano in ricche sorgenti al piede delle montagne; gole profonde e anguste, talora intransitabili, rompono l’uniformità dei dossi.
I gruppi montuosi si dispongono, grosso modo, su tre linee successive: ai confini settentrionali con il Lazio si individuano i monti della Laga; ad ovest i monti Simbruini e i  monti della Meta stanno a cavallo tra Lazio e Abruzzo.
In tutta evidenza, nel cuore della regione, sono i massicci del Gran Sasso (con l’alta vetta del Monte Corno) e della Maiella, che raggiunge il culmine nel Monte Amaro, i monti del Morrone e le alte cime del Velino e del Sirente. Il Gran Sasso, guardato nel suo profilo solenne, appare come una cresta i cui denti hanno nome di Corno Grande, Corno Piccolo, Monte Camicia, Monte Prena, e superano tutti i 2500 metri. Ha pareti scoscese, di tono bianco – grigio, ai piedi delle quali si estendono cumuli di detriti franati dall’alto. La valle in cui si insinua il fiume Pescara separa il Gran Sasso dalla Maiella; questo massiccio cede di poco, con le sue vette più alte, al contrapposto Gran Sasso. E’ un rilievo tormentato: nei punti più alti, oltre i 2500 metri, si trovano improvvisi pianori dolcemente ondulati e, d’un tratto, profonde spaccature, valli di aspetto selvaggio.
Tra il gruppo dei Simbruini e le vette dei ricordati Velino e Sirente si estende la Conca del Fucino, un antico lago più vasto di quello di Como, del tutto prosciugato, razionalmente irrigato e destinato a ricche coltivazioni. Ancora tra il Velino, il Sirente e i massicci del Gran Sasso e della Maiella è la lunga conca dell’Aquila che, per la strozzatura della valle di San Venazio, comunica con la conca di Sulmona; ambedue sono bene irrigate e molto produttive.
L’Abruzzo esterno, quello affacciato al mare, è ancora montuoso, ma l’Appennino dà segni di stanchezza e ripete il disegno proprio dell’Appennino Emiliano e Marchigiano: basse catene, pressochè perpendicolari alla costa, orlate all’estremità di colline; negli avvallamenti corrono i fiumi (i principali sono il Tronto, il Pescara e il Sangro); la maggior parte di essi ha un corso longitudinale attraverso gli alti rilievi dell’interno, in valli anguste e scoscese, e prende poi la direzione trasversale tra le catene costiere; sono fiumi abbastanza ricchi, alimentati dalle sorgenti dell’Appennino; alcuni di essi hanno notevoli magre estive che riducono il loro corso ad esili fili d’acqua.
La costa, incalzata da presso dai rilievi montuosi e collinari, presenta una breve striscia uniforme e sabbiosa, priva di insenature e di porti; così esile da permettere appena, in alcuni tratti, il passaggio della strada e della ferrovia.

I monti
La regione è occupata in gran parte dalla montagna; appare evidente la distinzione in un Abruzzo interno, il più montuoso, e in un Abruzzo esterno in cui l’Appennino si abbassa, declina in colline, si dispone in brevi catene perpendicolari alla costa. Nell’Abruzzo interno, intervallati da ampie conche, si individuano grossi gruppi montuosi: i monti della Laga, i Simbruini, i monti della Meta; più ad est sono i massicci del Gran Sasso l’Italia (Monte Corno, m 2914) e della Maiella (monte Amaro, m 2795), i monti del Morrone, le cime del Velino (m 2487) e del Sirente (m 2349).
Vasta conca verde fra gli alti monti è quella del Fucino.
Estese sono le valli dell’Aquila e di Sulmona.

I fiumi
I fiumi dell’Abruzzo attingono a generose sorgenti appenniniche, tuttavia hanno notevoli variazioni di portata nei diversi mesi dell’anno.
Il Tronto nasce sui monti della Laga, attraversa un tratto del Lazio, un tratto delle Marche e segna il confine tra questa regione e l’Abruzzo: è lungo 93 chilometri.
Dai monti della Laga nasce anche l’Aterno, il quale è arricchito nel suo alto corso da numerosi affluenti. Nel tratto inferiore assume il nome di Pescara, riceve altri affluenti e sbocca nell’Adriatico dopo 145 chilometri; la sua foce è stata trasformata in portocanale.
Il Sangro nasce nei monti che si affacciano alla conca del Fucino, attraversa la regione e sfocia nell’Adriatico dopo 117 chilometri.

Lungo il litorale
Il breve tratto della provincia di Pescara affacciato all’Adriatico non è più l’arenile selvatico dove si arenavano le paranze e dove l’Adriatico restituiva gli avanzi dei naufragi: oggi è almeno per metà trasformato in spiaggia per famiglie, lungo la quale gli stabilimenti si succedono agli stabilimenti, i ristoranti ai ristoranti: sa essi esce l’odore del fritto, misto al fracasso della televisione, all’urlio della radio…
Ma appena fuori dalla zona balneare, al di là delle incastellature del porto, che non è più soltanto un porto peschereccio, ma un porto industriale, le greggi pascolano ancora presso la battigia dove alla sabbia si mischiano certe magre erbette di sapore salmastro; ed è un pezzo d’Abruzzo antico che si innesta su un Abruzzo rinnovato ed operoso che, senza nemmeno saperlo, ritrova nelle sue antiche virtù la forza e il vigore per la rinascita. (A. Zorzi)

Il gruppo del Gran Sasso
Da Teramo, raccolta in una conca verde, il Gran Sasso si vede più vicino che da ogni altra città abruzzese. Nelle giornate limpide è lì, quasi a ridosso; brullo, ferrigno, corso da rughe di canaloni. Ma l’inverno è un’enorme, altissima, bianca muraglia; con le teste coronate di nuvole. Da ragazzo io lo vedevo andando all’Aquila. S’arrivava all’Aquila verso mezzogiorno, le campane delle molte chiese suonavano a gloria. E pareva che quel suono di gloria, navigante nel libero spazio, spingesse le nuvole che scendevano aeree mongolfiere bianche e oro, dal Gran Sasso verso i monti della Sabina. E il Gran Sasso, come si saliva verso la città, si mostrava lassù lontanissimo, con la sua ardita punta stagliata verso il cielo; il Corno Grande, ferrigno d’estate, candido d’inverno. E io guardavo se il Gran Sasso avesse le brache o il cappello, se cioè la neve fosse alle falde o sulla cima e indicasse perciò un lungo o corto inverno. Ma si era di primo autunno, e il Monte Corno aveva un colore bronzeo che la distanza velava d’una lieve tinta violetta. Dall’altra parte si scorgeva il Sirente proteso come un’enorme selce aguzza sul nero delle boscaglie, coi canaloni biancheggianti come quelli del Gran Sasso. E laggiù alle nostre spalle tra le lievitanti brume violacee, il massiccio lontano della Maiella, la montagna madre della gente d’Abruzzo . (G. Titta Rosa)

Il Parco Nazionale d’Abruzzo
Amato poco dai pastori, che vedono ridursi i pascoli, contenente ancora fino a poco tempo fa alcuni carbonai sperduti in condizioni quasi primitive, il Parco Nazionale è una delle grandi speranze turistiche del centro Italia. Nato, come anche quello del Gran Paradiso, sul luogo di una riserva reale di caccia per iniziativa privata, questo meraviglioso parco si allunga ai confini del Lazio, e infatti travalica sia nel Lazio sia nel Molise, coprendo un territorio di 300 chilometri quadrati appartenente a diciassette comuni.
Quasi interamente posto sopra i mille metri di altezza, è rinchiuso tra catene impervie che sorgono dai faggeti. Il viaggiatore pigro può farsene una mezza idea percorrendone il fondo valle, lungo il corso del Sangro. Ma i parchi nazionali, per il loro stesso proposito di conservare aspetti di natura selvaggia, sottraggono allo sguardo dei pigri i loro segreti. La mancanza di strade fino ad epoche recenti e la scarsa popolazione hanno salvato i boschi e gli animali altrove distrutti. Risalire le valli secondarie vuol dire dunque ritrovarsi in un’Italia più che antica, remota. Nel nostro Mezzogiorno la natura alpina prede un rigoglio che non può avere a nord; gli stessi alberi delle Alpi diventano qui più  fitti ed intricati così da sbarrare il passo; tali questi immensi faggeti, dove il verde si alterna al rosso, e che conservano sotto le foglie vive una coltre perenne di foglie morte di colore purpureo. I faggeti si arrestano contro le pareti di roccia, e non appena ci si libera dalla foresta ci si trova a ridosso delle cime, tra cui spiccano le catene del Marsicano e del Meta… Nel Parco è Pescasseroli, oggi centro alberghiero come altri borghi della zona, e destinato a diventare un centro alberghiero più grande…
Un piacere di Pescasseroli, che è sede della Direzione del Parco, è discorrere con le guardie… Questi uomini che fanno a piedi una ventina di chilometri al giorno sono i depositari dei segreti del Parco, il quale, oltre agli animali dei quali diremo tra poco, contiene martore, faine, volpi, gatti selvatici, tassi, aquile reali, gufi e forse galli di montagna. Qui si sono raccolti gli ultimi discendenti dell’orso marsicano, diverso da tutti gli orsi del mondo… Si è ritirato in questa cittadella, e la difesa della legge gli consente di conservare la propria rarità di esemplare unico… Secondo i calcoli prudenti vi erano negli anni ’70 del novecento una settantina di orsi rintanati nelle alte forre; animali pacifici, carnivori per eccezione, e così moderati che non spingano mai le loro orge sanguinarie più in là di una sola pecora. Pressapoco dello stesso numero erano anche i camosci, anch’essi diversi da tutti gli altri camosci della terra, esemplari appenninici dissimili da quelli alpini, dai quali si distinguono anche per le corna più lunghe. Pochi invece i caprioli…
Nocivi, e perciò da uccidere, sono considerati da sempre i lupi, animali nomadi, insieme con le volpi, e tutti nemici dei giovani orsi e camosci, delle pecore e delle capre. E’ difficile che i viaggiatori, come me, di passaggio, che non si internano tra foreste e spelonche, vedano in libertà orsi, lupi e camosci; essi devono accontentarsi di accostarne qualcuno cresciuto in cattività presso la Direzione, o gli esemplari imbalsamati nel museo.
La vita delle guardie non è drammatica come quella del Gran Paradiso, dove si svolge una battaglia perpetua tra la legge e i contrabbandieri; si passerebbero però giornate intere ad udirne i racconti. Quello ad esempio della lotta tra l’orso e il lupo, testimoniata dalle tracce rimaste sulla neve, ciuffi di peli di orso misti alla bava. Ma non peli di lupo: segno che, benchè più forte, l’orso non poteva azzannare il suo più agile avversario. Si impara qui che la faina, esile come un verme, ed appuntita come un trapano, uccide la volpe afferrandola al capo coi dentini aguzzi; e che la martora, presa nella tagliola sulla neve, se ne libera spesso recidendo la zampa con i suoi stessi denti, forse senza soffrire, perchè la zampa è anestetizzata dalla stretta e dal freddo. Perciò nel museo si vedono esemplari di martore con la zampina monca… (G. Piovene)

La conca del Fucino
Proprio nel cuore della regione montuosa dell’Italia Centrale si stende una ampia, fertile pianura. All’intorno essa è chiusa da alti monti calcarei di color grigio chiaro, culminanti a quasi 2500 metri nel Velino. In contrasto con queste alture inospitali, che fino a primavera inoltrata portano un bianco mantello di neve, sta la ridente pianura, alla quale danno un’impronta di fertilità campi, prati, gruppi d’alberi e lunghe file di alti pioppi.
Ma fino ad un secolo fa il bacino offriva tutt’altro aspetto, poichè esso era occupato da uno specchio d’acqua, il lago Fucino, che per grandezza appariva il terzo lago d’Italia.
Esso non era alimentato da corsi d’acqua importanti, nè da sorgenti, ma invece soprattutto dalle acque di pioggia, per cui, essendo queste irregolarmente distribuite nel corso dell’anno, il livello risultava variabile. E’ facile comprendere come questi dislivelli fossero dannosi per gli abitanti e per le colture, tanto più che nelle zone abbandonate temporaneamente dalle acque si spigionavano delle pericolose febbri.
In antico già l’imperatore Claudio si era interessato del prosciugamento del lago. Egli ordinò lo scavo di una galleria sotterranea, che avrebbe portato le acque nel Liri, non lontano dal luogo dove si trova ora il villaggio di Capistrello. E nell’anno 52 dC la galleria, che è uno dei maggiori lavori dell’antichità, risultando lunga quasi sei chilometri, venne ultimata. Sopravvenute le invasioni barbariche, il lago prese di nuovo possesso del suo antico fondo e i tentativi di rimettere in efficienza il canale sotterraneo rimasero senza esito.
Nel 1800, poichè lo Stato, a quel tempo il Regno di Napoli, non era in grado di disporre delle somme necessarie a lavori di prosciugamento, un audace milionario romano, il banchiere Alessandro Torlonia, si fece iniziatore del progetto a spese proprie, a condizione che il fondo del lago, una volta liberato dalle acque, diventasse di sua proprietà. Sa allora il suo motto divenne: “O io asciugo il Fucino, o il Fucino asciuga me”.
I lavori ebbero inizio nel 1854 sotto la direzione di un ingegnere svizzero. Le difficoltà da superare erano molteplici, anche perchè allora le condizioni della viabilità erano tutt’altro che buone. Nel 1862 la costruzione del nuovo canale veniva ultimata, ma solo nel 1875 si ebbe, dopo ottenuti due nuovi abbassamenti del livello, il prosciugamento totale, che causò la morte di migliaia di pesci. Oltre ad un canale centrale rettilineo, per evitare la sommersione della parte più depressa, vennero scavati circa 300 chilometri di canali secondari, uno dei quali cinge il bacino alla sua periferia, raccogliendo le acque dei torrenti che scendono dai monti vicini. L’audace banchiere riuscì così a trionfare d’ogni difficoltà e come riconoscimento venne nominato Principe del Fucino.
Oggi, quello che era un tempo il fondo pianeggiante del lago costituisce col suo fertile terreno la più vasta zona coltivata dell’Abruzzo. Dove un tempo gettavano le reti duecento pescatori, arano alcune migliaia di agricoltori. In mezzo ai frutteti si estendono campi di cereali, di patate, di ortaggi. Vaste zone sono piantate a vite e un quinto della superficie è coltivata a barbabietole. (K. Hassert)

Flora e fauna
I tiepidi venti dell’Ovest non riescono a passare l’Appennino e a portare il loro benefico influsso nell’altro versante; per questo, nelle montagne abruzzesi, fa freddo e le precipitazioni sono abbondanti; nella zona costiera, invece, il clima è migliore: il mare mitiga i calori estivi e il freddo invernale.
La flora delle alte montagne ricorda quella delle Alpi. Sopra i duemila metri vi sono prati, spesso con erbe medicinali ed aromatiche. Subito sotto incominciano i boschi: pini, faggi e, più basso, le querce. Nella zona adriatica vengono coltivati l’olivo e la vite; fino ai mille metri vive il castagno. Peschi e mandorli abbondano nelle conche interne.
La fauna era molto ricca e varia fino a qualche secolo fa. (M. Menicucci)

La produzione agricola
La produzione agricola dell’Abruzzo deve fare i conti con le difficoltà di un suolo in parte montuoso, in parte accidentato per frane e calanchi, colpito da alluvioni. La montagna è generalmente brulla; soltanto nel Parco Nazionale, esteso nell’alta valle del Sangro presso i monti della Meta, sono ricche foreste. Il diboscamento è stato causato anche dalla pastorizia, che tendeva, in passato, ad eliminare i boschi per estendere le terre adatte al pascolo: la pastorizia abruzzese è attiva ancora oggi ed è caratteristica per le sue transumanze (spostamento invernale di migliaia di capi dall’Abruzzo alle piane laziali e pugliesi); tale transumanza, che un tempo avveniva lungo i tratturi (piste segnate dal passaggio delle greggi), si svolge oggi più rapidamente su autocarri e  treni.
L’agricoltura è attiva, pur senza offrire mai un reddito elevato, nelle zone costiere, collinari e nelle vaste conche tra i monti; fatta eccezione per la valle del Fucino, il resto della campagna è spezzettato in piccole e minime proprietà.
Prodotti importanti sono la frutta, gli ortaggi (pomodori e primizie); caratteristica nella piana dell’Aquila è la coltivazione dello zafferano.

L’attività industriale
L’industria abruzzese ha uno sviluppo modesto, anche se si è recentemente indirizzata verso attività nuove: quelle della produzione idroelettrica (centrali del Sangro e del Pescara), dell’estrazione di petrolio (pozzi di Alanno) e di metano (zona di Vasto); si estrae anche bauxite dai monti della Marsica e dal monte Velino, e si usa il minerale in stabilimenti per la produzione di alluminio.
Sono presenti stabilimenti chimici per la produzione di esplosivi e concimi. La vecchia industria è rappresentata da zuccherifici.

Lo zafferano
Nell’Aquilano è molto estesa la coltivazione di questa pianta, specialmente a Prata d’Ansidonia. E’ un’erba perenne dai grandi fiori violacei e dagli stimmi di odore forte e di sapore aromatico. Il fiore viene raccolto in ottobre, prima del levar del sole. Gli stimmi, separati dalle rimanenti parti del fiore, vengono riposti in panierini aperti per facilitarne l’essiccazione; quindi, macinati, danno lo zafferano, polvere usata in cucina come aroma, in medicina nella preparazione del laudano, nell’industria come colorante di sostanze alimentari. (M. Menicucci)

La fiera di San Quintino
I mercanti di zafferano giungevano la mattina alla fiera. Ad essi era riservato lo spazio davanti alle vetrine della farmacia e alla porta del circolo, che era il posto dei signori.
Le bilance luccicavano come quelle del farmacista.
Seduti, o in piedi davanti alla bilancia, i mercanti di zafferano non battevano ciglio, non rivolgevano la parola a nessuno.
I contadini passavano e ripassavano davanti a quei tavolini allineati, s’informavano sui prezzi e si decidevano a tirar di sotto il cappotto il loro sacchetto di zafferano solo quando si erano persuasi che sarebbe stato impossibile vendere a un prezzo maggiore.
Allora, cautamente, mostravano il frutto prezioso delle loro cure e fatiche.
Perchè lo zafferano è una pianta che richiede cure infinite, va allevata come un bambino; vuole terreno leggero come la seta, lavorato più di un orto, non si finisce mai di stargli intorno.
I vecchi, rievocando le fiere di San Quintino dei loro tempi, ripetono ancora il proverbio: “A San Quintino anche il povero becca un quattrino”.
Finchè sulla piazza non si sente più uggiolare qualche cane sparso, che abbaia al vento e alla luna. (G. Titta Rosa)

Pastori abruzzesi
Nel novembre con i primi freddi e le prime grigie caligini crepuscolari, passano lungo il tratturo, una speciale strada erbosa che va, lungo il mare, alle Puglie, dai ricchi pascoli e dalla mite temperatura invernale, grandi greggi, agili capre davanti, pecore obbedienti dietro, formidabili cani ai lati, i pastori dall’alta mazza, memore del lituo etrusco, intagliata di pazienti disegni, di figure e di nomi, vegliano alla compattezza del branco. Alle soste, un gran cerchio di rete chiude il gregge, e lo spettacolo di quella pace di animali mansueti, che brucano l’erba rada e di uomini semplici, che attendono con gesti lenti, silenziosamente, alle monotone cure della pastorizia è d’una grandezza e d’una dolcezza infinita; intorno, io ne ho vedute di queste soste, sulle rive del Pescara, è la magnifica scena della vallata, il cui silenzio nel cadere dell’ombra, è accresciuto dal mormorio del fiume lungo i greti; da presso, le cime dei pioppi palpitano nella chiarita tenue del cielo  e lontano, ad occidente, i monti neri hanno un profilo formidabile di titano gigante. Verso la fine di giugno le greggi passano, dirette ai pascoli montani, e a distanza di mezzo anno, quel fluttuare uniforme di dorsi lanosi, quel rado abbaiare di cani e incitare di voci dai monosillabi gutturali, e il tono digradante dei campani in lontananza, e le forme nere degli uomini, eretti sulla linea dell’orizzonte nella lucentezza palpitante delle pure sere estive piene di stelle, sembrano la grande giornata che segue alla grande giornata, senza interruzione, nella vita dei pastori, che vivono con i bruti, con la terra e con Dio, pensosi di chi sa quali oscuri abissali misteri dell’essere. (E. Janni)

I tratturi
In settembre, i pastori d’Abruzzo lasciano i pascoli alpestri e si recano verso le pianure della Puglia o verso quelle dell’Agro Romano attraverso i tratturi, strade d’erba la cui origine si perde nella lontananza dei tempi. E’ certo che esistettero già prima che sorgesse Roma e che rimasero immutabili nel tempo. Oggi i tratturi  sono diminuiti di numero anche perchè i pastori preferiscono trasportare il gregge con appositi, razionali e rapidi mezzi. E’ ancora lunghissima la processione che si snoda attraverso “l’erbal fiume silente” dove sono già passate migliaia e migliaia di pecore come quelle di oggi, migliaia di pastori, come quelli di oggi. Anche il paesaggio è ancora quello di una volta e il pastore moderno rinnova sempre la propria meraviglia quando, alla sera, sull’ora del tramonto, gli appare in lontananza il mare Adriatico che verde è come i pascoli dei monti.
Forse, chi preferisce abbandonare l’usanza antica e trasportare il gregge con autocarri, non ha tempo di ammirare i colori del mare, la bellezza dei colli che si rincorrono come onde digradanti verso la marina, le belle vallate ornate di colori variopinti, i dolci fiumi che, silenziosi, si avvicinano all’Adriatico.
Il pastore che segue gli antichi tratturi impiega ancora due o tre settimane per raggiungere i pascoli di pianura; egli, come il suo gregge, non ha fretta di arrivare; per lui , il tempo non ha importanza. Ciò che importa è sapere che la strada che percorre è la stessa seguita dai suoi padri, fin dalla più remota antichità. Attraverso i tratturi, il cammino delle greggi è facile e sicuro; non c’è il pericolo di sbagliare strada e le pecore trovano facilmente di che nutrirsi lungo il viaggio. Poi scende la sera: il pastore si sdraia all’aperto sotto le stelle e può così contemplare il cielo e ripensare, già con nostalgia, alla montagna che, lassù, aspetta il suo ritorno a primavera.

Artigianato
In Pescara e provincia è localizzata l’industria abruzzese: fonderie, impastatrici, macine, torchi, frantoi, motori a scoppio, alluminio, concimi, asfalti e bitumi, acido solforico, solfato di rame…
Nelle altre parti della regione prevale l’artigianato che ha sempre sopperito alla richiesta locale e, in più di un caso, ha aperto la via all’esportazione.
A l’Aquila, Gessopalena, Isernia si fanno trine, merletti, ricami; a Giulianova ferve la lavorazione dei coralli; a Guardiagrele quella dei ferri battuti; a Sulmona l’industria dolciaria (confetti); a Chieti e Salle si fabbricano le corde armoniche; nel lancianese e ortonese ci sono lanifici e tintorie; sono rinomati i pastifici del chietino e del Molise; famosi i caciocavalli, i provoloni e le scarmorze della Marsica e del molisano; parecchie le distillerie e i liquori fatti con le erbe aromatiche della Maiella. Dalle argille e calcari locali traggono vita numerose fornaci di laterizi e di calce, terrecotte e ceramiche. Stimate le coltellerie di Campobasso e di Frosolone, la fonderia di campane di Agnone. Fiorente la lavorazione del rame a sbalzo.

I ceramisti di Castelli
Alle falde del monte Camicia, sedici chilometri a sud di Teramo, Castelli sorge da un tumulto di torrenti e di rocce che si rincorrono, si sorpassano, si confondono.
Il paese è sostenuto contro la rupe e difeso dalle frane, da grandissime arcate a tre ordini. Il terreno umido e argilloso, infatti, lo minava alla base e lo minacciava dall’alto; ma proprio in questo, Castelli trovò la sua fortuna, perchè l’acqua, l’argilla ed il bosco crearono le maioliche ormai famose nel mondo.
La ceramica di Castelli ebbe origine al tempo degli Etruschi.
Si conserva lo stesso sistema di lavoro da millenni; e quel lavoro paziente si svolge nello stesso ritmo di una vita semplice, con la medesima ruota, tra pani di creta e cataste di legna, in antri antichi ed umidi.
Quelle stesse fornaci produssero i tondini smaltati di vivaci colori che dal decimo secolo ornano i campanili e le chiese dell’Abruzzo.
La casa dei Pompei segna una data certa nella storia della ceramica castellana; infatti sulla facciata della sua abitazione Orazio Pompei murò una pietra con una scritta in latino che significava: “Questa è la casa del vasaio Orazio”, e sopra la porta mise una mattonella in cui aveva dipinto una Madonna, con la firma e la data: 1551.

Le province
L’Aquila sorge a 720 metri d’altezza, sopra una collina che domina la ben irrigata conca dell’Aterno, allungata tra la catena del Gran Sasso e l’altopiano del Monte Velino.
A Sulmona, notevole centro ferroviario alle falde della Maiella, nacque Ovidio, poeta latino; ed è famosa per le fabbriche di confetti. Sopra Sulmona, da una parte, Scanno sul lago omonimo, villaggio famoso per i costumi, i ricami e i merletti; e dall’altra, il grande Piano delle Cinquemiglia, oggi meta di turismo invernale.
Avezzano sorge presso l’antica conca lacustre del Fucino, ora trasformata in fertilissima campagna tutta coltivata a bietole, grano e pioppi: bietole per un importante zuccherificio, pioppi per una cartiera di prim’ordine. Un canale in galleria scavato sotto le montagne conduce l’eccesso di acqua della conca nel fiume Liri e quindi nel Tirreno.
Dalle montagne attorno, cioè dalla regione chiamata Marsica, si ricava buona bauxite (una terra rossa e bruna da cui si estrae alluminio). Qui si ha il villaggio più elevato dell’Appennino, cioè Rocca di Cambio, su un bell’altopiano della rispettabile altezza di 1434 metri. E nel Parco Nazionale d’Abruzzo, il villaggio di Roccaraso offre un bell’esempio di attrezzatura alberghiera per villeggiatura e turismo montano; come anche Pescasseroli, la patria del grande filosofo, storico e letterato Benedetto Croce.
Chieti si stende su un colle a 15 chilometri dal mare, dominante la valle del Pescara. Numerose industrie sono sorte sulla sottostante piana: zuccherificio, cartiera, manifattura tabacchi, fonderie, officine di macchine agricole ecc…
Cittadina di una certa importanza è Lanciano, nell’interno collinoso. Sulla costa: Francavilla, centro balneare; Ortona, centro di pesca; Vasto.
Pescara è invece presso l’Adriatico alla foce del fiume omonimo; distrutta durante la guerra, è ora in forte sviluppo sia per il turismo sia soprattutto per le industrie (cantieri navali ecc…). Il fiume Pescara venne canalizzato fino al mare tanto che oggi è diventato un ottimo porto – canale. Pescara è la patria del poeta Gabriele D’Annunzio.
Nell’interno della valle della Pescara, Bussi è notevole per una grossa industria chimica e per giacimenti di alluminio. Non lontano vi sono anche notevoli pozzi di petrolio. Dal piano di una grande conca sopra Bussi sgorgano grandiose sorgenti: è una parte delle acque assorbite dalle spaccature delle rocce calcari del Gran Sasso che, dopo un percorso sotterraneo tra le viscere dei monti, riemergono limpide alla superficie per alimentare le campagne e per essere utilizzate dalla Centrale idroelettrica di Bussi.
Teramo è situata su un poggio sporgente a dominare la confluenza del Tordino col Vezzola, da cui il nome latino di  Interamna (tra i fiumi) da cui poi Teramo. La zona collinosa circostante è alquanto franosa e solcata a calanchi.
Giulianova e Roseto degli Abruzzi sono buone stazioni balneari e pescherecce. (G. Nangerone)

L’Aquila
Le sue origini sono confuse: si parla di 99 castelli che contribuirono alla sua fondazione, per cui sono rimasti i 99 tocchi della campana della Torre del Palazzo di Giustizia e le 99 cannelle della Fontana della Riviera. Si ricorda come una volta la città avesse 99 chiese: ora non sono più tante, ma quelle che rimangono sono belle e ammirate. La città è dominata dall’imponente castello, isolato e protetto da un fosso profondo. La città, su una collina con scoscendimenti ai lati, è adagiata intorno a due grandi arterie tagliate a croce: il corso Federico II, dagli Alberelli alla piazza Margherita, e la via Roma, dalla porta omonima a San Bernardino. Ha per stemma l’aquila imperiale di Federico II Svevo. Nel Medioevo fu fiera delle sue libertà e le difese con le armi, sempre. I sentimenti di fierezza e di amore per la libertà si mantennero attraverso le secolari vicende e nel periodo del Risorgimento L’Aquila fu rappresentata, nelle lotte contro la tirannide, dai suoi migliori cittadini. (U. Postiglione)

A Pescara: il porto – canale
Fino a qualche anno fa, all’ora del tramonto, quando il mare assume il colore dell’ametista e si stacca per una sola linea dal rosseggiare del cielo, scorgevi la distesa popolata di vele, l’una gialla, l’una rossa, l’altra arancione, tutte con un simbolo, quale di Sant’Andrea, quale il calice dell’ostia, quale la mezzaluna, quale il mondo sovrastato dalla croce luminosa; e tutte queste vele si incrociavano, perdendosi nella distanza la misura di quella che fosse più innanzi a quella che fosse più indietro, gareggiando nell’ingresso al porto canale.
Ora non è più così. I nuovi pescherecci sono tutti motobarche. Cosicchè la sera, quando i pescatori rientrano, il porto canale è tutto un rumorio di motori, un tun tun tun continuo, incessante che si ripete da barca a barca, via via che entrano nel porto, e al sorgere del nuovo rumore le donne sollevano il capo, per vedere se con esso rientra il loro uomo. Infatti è inutile che esse si spingano sul molo, come una volta, a indovinare, tra le tante barche, per un segno inconfondibile, quella che sta loro a cuore, e se ne stanno sedute, lungo i moli, dove sanno che la loro barca attraccherà, cianciando tra loro, con tra i piedi il cesto del pesce che sta per giungere, ad attendere che un nuovo rullio gli faccia sollevare il capo. Ma frattanto tutto è animato, tutto è  concitato, e mentre sempre nuovi uomini si avvicendano attorno alle barche già attraccate, un calafato continua imperterrito il suo lavoro. (G. Vittorini)

Un grosso centro
Pescara nuova è uno dei prodigi del dopoguerra. Dopo la guerra, infatti, questo grosso centro si è raddoppiato. La città nuova sulla costa a settentrione della vecchia, oltre il ponte sul Pescara, sorse da una colonia di ferrovieri quando nacque la ferrovia.
I vecchi pescaresi sono sommersi dalla folla degli immigrati: gente di tutto l’Abruzzo scende a Pescara. La città attrae perchè è nella zona di gran lunga più ricca di prodotti agricoli. Nella vallata del Pescara sono poi sorte le vere industrie dell’Abruzzo. Così com’è Pescara ha una sua bellezza, diversa dalla consueta delle città italiane.
Una gran festa a cui ho assistito faceva veramente ricordare i Far West: bande e cori sembravano galleggiare sopra un mare di folla che riempiva le piazze e il lungomare, tutta macchiata di colori vivaci, tra cui predominava il rosso. Cori e bande nei chioschi si esibivano a gara. Le bande, con i loro maestri, per lo più musicisti o cantanti in ritiro che educavano i suonatori, appassionavano l’Abruzzo.
Erano le bande migliori d’Italia che giravano trionfalmente di centro in centro.
Ora le bande hanno perso un po’ di importanza, non perchè la passione sia estinta, ma perchè troppo alto è il prezzo degli strumenti, degli spartiti e dei variopinti costumi. (G. Piovene)

Chieti: una provincia pittoresca
Si estende a oriente del fiume Pescara fino a toccare col Trigno il contiguo Molise, e va dalla montagna al mare, avendo per sfondo il massiccio della Maiella e per termine a nord l’Adriatico, attraverso un’ondulata distesa di colli folti di olivi e di vigneti e popolati di borghi e di ville.
E se in alto, specie laddove balza il Sangro col suo corso aspro e tortuoso, il paesaggio è severo, presto, scendendo dai precipiti fianchi della Maiella, esso diventa blando e festoso. La natura vi manifesta una sua bellezza riposante, dalla quale è esclusa ogni nota violenta di linee e di colori, e tutto è condotto col disegno leggero e i toni attenuati propri di un pastello.
L’agricoltura è redditizia per cereali, vigneti, uliveti e frutteti. L’economia agricola è integrata solo dall’artigianato e da qualche piccola industria locale (pasta alimentare a Fara di San Martino e a Villa Santa Maria; tessili a Lanciano; piccolo armamento per la pesca e per il traffico con l’altra sponda ad Ortona). (Panfilo Gentile)

Folclore
Gli abitanti della montagna abruzzese hanno conservato riti, tradizioni ed usanze antichissime. Vivissimo è il culto dei morti: in ogni paese resistono al riguardo tracce di costumi curiosi, come quelli delle nenie, cantate da donne pagate allo scopo. Anche la nascita, il matrimonio e tutti i momenti più importanti della vita umana sono accompagnati da cerimonie che testimoniano un profondo senso religioso ed un sacro rispetto per la famiglia. Silenziosa e seria, la gente abruzzese sa diventare, in occasione di feste e ricorrenze, chiassosa e vivace. Ne fanno fede le sontuose feste patronali, le processioni e le sagre di paese, allietate da esibizioni bandistiche e canore, da affollatissime fiere, da fuochi di artificio e da scoppi di mortaretti.
Tipiche di certi luoghi sono usanze legate al remoto mondo pagano, come la sagra dei serpari di Cocullo e il bove portato in processione a Loreto Aprutino il lunedì dopo la Pentecoste. Notissimi i ricchi costumi femminili e le zampogne che, con la fisarmonica, accompagnano gli stupendi canti locali. Non meno ricco di folclore è il Molise, che vanta Sacre Rappresentazioni a Termoli e processioni (i Misteri di Campobasso) la cui origine si può far risalire al Medioevo.

La festa dei serpenti in Abruzzo
E’ una festa singolare che si svolge a Cucullo, in Abruzzo.
Il primo maggio si porta in processione la statua del patrono San Domenico. Avanzano gli uomini e i ragazzi con serpi arrotolate al collo, alle braccia e al petto. Seguono le donne, in costume locale con grossi ceri in mano, i musicanti, i sacerdoti. Il parroco, in un cofanetto d’argento, porta un dente del Santo.
Durante il lento cammino i serpari e altri popolani lanciano contro la statua del Santo lucertole e serpi, che l’avvolgono sulla testa, al collo, alle braccia, alla vita. Si vedono penzolare con le bocche aperte; se alcune cadono a terra, sono raccolte e rigettate sulla statua, dove si urtano, guizzano, strisciano, si avvolgono in atteggiamenti minacciosi, percuotono con le code il Santo, che avanza tra chiassose invocazioni, canti e suoni di bande, in un frastuono indescrivibile.

La festa del solco
La festa del solco si tiene ogni anno, in ottobre, a Rocca si Mezzo quando le piogge dell’autunno hanno ammorbidito la terra e già son tutti terminati i lavori dei campi.
Il clima e le intemperie non contano per i bravi rocchigiani la notte della gara dei solchi. Vento, pioggia o neve, le squadre dei concorrenti escono al tramonto dall’abitato e risalgono, ciascuna dietro il proprio aratro, la montagna che li vedrà impegnati nella gara fino alle luci dell’alba.
Lentamente, tra gli auguri delle donne che li accompagnano per un tratto, i gruppi vocianti (ciascun gruppo conta una quindicina di uomini con due mucche e un aratro), traversano le stoppie, superano siepi e ruscelli, rimontano costoni e burrati finchè non li inghiotte il buio della notte.
Alla vigilia è un affannoso andirivieni per le case in cerca di lumi, di torce, di lanterne, di paletti e di altri arnesi adatti; uomini e ragazzi vivono in un’atmosfera febbrile; si scommette, si fanno previsioni su chi alla mattina avrà tirato il solco più dritto. All’Ave Maria, sul piazzale della chiesa, in cima al paese, viene acceso il faro che guiderà gli aratori nelle tenebre. A quel faro si indirizzeranno tutte le file dei lumi, tante quante sono le squadre concorrenti, che faranno la strada all’aratro nel profondo della notte.
E’ uno spettacolo che non si dimentica. Nel silenzio e nel buio si odono richiami lontani e incitamenti e comandi: e a quelle voci si muovono i lumicini come gigantesche lucciole che vadano al allinearsi per una parata di fiaba.
Vediamo le tracce luminose formate dalle torce e dalle lanterne spostarsi lentamente dalla sommità della montagna verso la pendice ed immaginiamo lo sforzo degli uomini e delle bestie attorno all’aratro, la difficoltà di superare botri e torrenti e scoscendimenti e di riprendere il solco in perfetto allineamento con il tronco già tracciato; ammiriamo la bravura del capo squadra nel guidare i portatori di lumi in modo che sappiano disporli in corrispondenza col faro della chiesa e con le lanterne – guida piantate lungo il cammino. E ancor più restiamo stupiti al mattino quando, come per incanto, vediamo i fianchi del monte Rotondo squarciati da sette, dieci lunghi solchi, tutti sufficientemente diritti da richiedere un severo vaglio da parte della giuria.
Poi vincitori e vinti, con gli aratri adorni di festoni e con le bandiere conquistate nella gara si incolonnano dietro la processione della Madonna in onore della quale per dieci lunghe ore hanno gareggiato nell’oscurità e nel freddo. (M. Arpea)

Il pastore abruzzese
Prima “che in ciel la stella ultima cada” il pastore è in piedi, conduce il suo gregge impaziente al pascolo, e quando il sole  dardeggia riposa, nella capanna, o in qualche ombrata radura si dedica a facili e utili lavori: rammenda le calze, intesse le fiscelle dove sarà colato e posto ad essiccare il formaggio, concia le pelli, in cui egli pure durante l’inverno troverà riparo dal freddo. La munta del latte e la fabbricazione del formaggio sono le faccende che più richiedono, giornalmente, tempo e cura.
La prima stella che si accende nei cieli, trova i pastori già avvolti nelle coperte di lana, che si  riposano dopo la fatica.
In ottobre, quando alle prime scrollate della tramontana succedono le piogge, ed il Gran Sasso rimette il suo berrettone bianco, i pastori raccolgono le mandrie e le guidano sulla via del ritorno… (R. Biordi)

La più bella ora dell’Aquila
Non ho mai visto l’Aquila dall’alto: ma se dovessi darne un’immagine dall’alto, l’assomiglierei a una grande croce bianca adagiata su un colle: le braccia rivolte a ponente e a levente, fra Porta Romana e San Bernardino, i piedi e la testa distesi fra sud e nord, da Porta Napoli al Castello. La lunga strada che sale dal declivio nel cui fondo scorre l’Aterno e con lieve ascesa giunge alla mole fosca e potente del Castello, per ridiscendere rapidamente dalla parte opposta del colle, taglia la città in due parti. Oppure l’assomiglierei, con immagine storica e simbolica a un tempo, a un’aquila dalle grandi ali distese, gli artigli e il becco tesi da sud a nord,  le ali aperte e adagiate da levante a ponente.
La più bella ora dell’Aquila è quando suona mezzogiorno.
Ad un tratto dalle sue chiese il rombo delle campane esplode nell’aria luminosa, corre sui tetti come un fiume sonoro, dilaga per le vie, per le piazze, verso la campagna. La chiesa di San Bernardino, alta sulle altre, intensifica quel rombo che giunge dalle campane della Piazza Grande, dalle chiese di San Marciano, di San Domenico, di Santa Giusta, lo ridiffonde fino a confonderlo al suono disteso e trionfale delle campane di Collemaggio; gli echi dei monti circostanti lo riecheggiano moltiplicandolo e tutta l’aria è come un mare di suono. (G. Titta Rosa)

Il numero dell’Aquila
Un’antica e popolare tradizione dice che l’Aquila è la città del numero 99. Novantanove chiese, novantanove piazze, novantanove fontane. Il numero si riferisce a 99 villaggi che si dice partecipassero all’edificazione della città, fondata com’è noto da Federico II. Chiese, piazze, fontane, se una volta furono davvero novantanove, con l’andar del tempo sono diminuite di molto; ma è restata la fontana di novantanove cannelle, in uno dei borghi bassi della città, e sono novantanove i colpi che batte alle dieci di sera la campana della torre Palazzo.
La fontana versa l’acqua dalla bocca di novantanove mascheroni, l’uno diverso dall’altro, entro una lunga vasca, dove tuffano, sbattono e torcono i panni le lavandaie cittadine. (G. Titta Rosa)

Nel Parco Nazionale
A Pescasseroli sembrerebbe già di essere al centro del Parco. Ma essa in realtà ne è ancora ai limiti: per ora il Parco è solo questo verde che mi si versa negli occhi e mi riempie di stupore. E’ cominciato dopo Gioia Vecchia, perchè prima la montagna era tutta aspra, a tinte grigie a strappi marroni, con qualche macchia di bosco più fitto. Poi a un tratto, il verde ha prevalso, il verde tenero dei prati e l’altro cupo tendente al nero delle montagne. I monti mi si stringono addosso e non hanno cime, ma solo fogliame: un fogliame così denso da far pensare al muschio, a toppe e strati di muschio umido e fitto, di quello che invoglia a ficcarci dentro la mano. E’ il loro colore a farmeli apparire favolosi, a darmi a tratti l’impressione di muovermi ai bordi di un presepe. La strada taglia dritto fra i boschi e i boschi si impennano in su, fanno parete da ambedue i lati. Non c’è sole: si ferma più in alto, a formare una striscia d’un verde nitido e asciutto. Qui, al contrario, il verde è bruno, l’ombra compatta, pare quella di un acquario.
Sono giunto ormai nel cuore del Parco. La strada, tutta svolte, s’addentra per la gola e va a morire alla fine proprio ai piedi di questa mitica montagna, la Camosciara, la più nota del Parco. Solo allora mi viene addosso, svela un’ampiezza che mi lascia smarrito. (M. Pompilio)

Pescara, città americana
Quello che mi stava davanti non quadrava con i ricordi: mi pareva non tanto di confrontare una città con i ricordi personali di una prima visita, ma con una serie di stampe vecchie almeno un secolo. La Pescara di prima così per me divenne quasi una fantasia. Era una cittadina d’aspetto più vecchio che antico, col suo piccolo centro provinciale, traversata anche allora dalla ferrovia costiera. La casa di D’Annunzio, che non è grande, poteva ancora prendere qualche spicco; e quei dintorni pastorali, coi loro alberi fioriti, tendevano nel ricordo a sopraffare l’abitato. La Pescara che ritrovavo era una città moderna, senza più vero centro, ne quello provinciale di una volta ne un altro. Si espandeva e allungava indefinitamente lungo la riva, simile, per certi aspetti, a qualche città americana; moderna, ribollente, formicolante d’una folla composta soprattutto dagli immigrati. I residui della città che conoscevo vi si erano smarriti dentro o erano come inserti che bisognava cercare nella confusione. (G. Piovene)

Dal Gran Sasso
Sono intorno tutte le cime del gruppo: il Corno Piccolo, il Pizzo Cefalone,  il Pizzo d’Intermesele, il monte dell Portella e altre e altre… E giù per le valli, ad oriente, l’Abruzzo verde e ridente, l’Adriatico, con lontano  l’arancifero promontorio del Gargano e le isole Tremiti.
Se la mattina è pura, sgombra di caligine, si profila all’orizzonte l’altra riva dell’Adriatico, la Dalmazia, morbido segno come d’una nuvola uguale a fiore di mare. E già dall’altra parte l’altipiano aquilano, e l’Aquila e la valle dell’Aterno, e più a mezzogiorno la florida conca di Sulmona e, lontano, sull’orizzonte, la riga azzurra del Tirreno. (E. Janni)

Abruzzo

Fior d’ananasso,
nel popolo d’Abruzzo c’è il riflesso
della potenza austera del Gran Sasso.
Qui trovi ricche greggi e vino e grano
e trovi liquirizia e zafferano.
Ma ciò che a questa terra dà risalto
è la sua ricca produzion d’asfalto,
che viene atteso in tutte le contrade,
dove c’è amor d’aver belle strade.

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MARI ITALIANI materiale didattico

MARI ITALIANI materiale didattico di autori vari per la scuola primaria.

Facciamo un viaggio per mare, imbarcandoci con la fantasia, su uno di quei pescherecci che vanno al lago a pescare sogliole e muggini, oppure su una nave da diporto che ci porterà in crociera toccando i porti più notevoli dei nostri mari, costeggiando le rive, godendo dei pittoreschi paesaggi delle nostre coste.
Il mare dove l’Italia si stende è uno solo, il mar Mediterraneo, che i Romani chiamavano orgogliosamente Mare nostro. Ora non è più tutto nostro; nostri, cioè italiani, sono  i mari che il Mediterraneo forma quando arriva a bagnare le coste della  penisola. Si chiamano Mar Ligure, Mar Tirreno, Mar Ionio, Mare Adriatico.
Il mar Ionio è il più profondo, il mar Adriatico il meno profondo ma in compenso il più pescoso. I pesci amano i fondali relativamente bassi dove trovano in abbondanza di che soddisfare il loro appetito. Se è vero che il pesce grosso mangia il piccolo, come dice il proverbio, è anche vero che tutti i pesci si nutrono del plancton che è composto da minutissime alghe e microscopici animaletti che vi dimorano. Quindi se vogliamo fare una partita di pesca sceglieremo l’Adriatico

Il Mar Ligure e il Mar Terreno
Il Mar Ligure non è molto esteso. Prende questo nome dalla bellissima regione che esso bagna, una delle più pittoresche d’Italia. Palme, aranci, olivi, un cielo quasi sempre azzurro, un clima mite, un mare stupendo; ecco ciò che si presenta gli occhi di coloro che visitano questa meravigliosa regione. Nel cuore di tutta questa bellezza c’è Genova, la superba, coi suoi cantieri sonanti, i suoi traffici intensi, aerei oltre che marittimi, il suo popolo fiero, laborioso, generoso.
Genova sorge in fondo a un grande golfo che ne prende il nome.
Appena usciti dal golfo di Genova, ecco, in una profonda insenatura, una città che sembra fatta di ferro, un porto popolato anch’esso di navi di ferro, su cui il profilo dei cannoni mette un’ombra minacciosa. E’ La Spezia, uno dei maggiori porti militari d’Italia, una città forte, severa, risonante di lavoro e di fabbriche di armi.
Dopo La Spezia, la costa si fa bassa, sabbiosa. E’ l’incantevole spiaggia toscana dove sorgono graziosissime cittadine balneari. Non vi si trovano grandi porti, eccettuato quello di Livorno, anch’esso risonante di lavoro perchè nel suo cantiere si costruiscono belle navi da carico e da trasporto. I costruttori livornesi sono conosciuti anche all’estero.
Ed ecco in lontananza elevate ciminiere da cui escono nuvole di fumo denso e nero. Sono gli altiforni di Piombino, dove si lavora il ferro ricavato dalla vicina Isola d’Elba, il cui profilo si scorge all’orizzonte.
Proseguendo nel nostro viaggio, dopo la costa toscana, superato appena il pittoresco promontorio dell’Argentario, ecco la costa laziale, un tempo brulla, malsana e infestata dalla malaria. E’ l’Agro romano, che oggi, per opera dell’uomo, è diventato una terra fertile, verdeggiante, salubre… Qui sfocia lento, torbido, solenne, il Tevere, il fiume di Roma, spettatore di tanta storia.
Il fantasioso viaggio continua e ben presto lo sguardo si rallegra soffermandosi su una costa verde, coperta di una lussureggiante vegetazione fatta di olivi, viti, aranci. E’ la costa campana. Incontriamo prima Gaeta col suo piccolo ma delizioso golfo, e infine l’ampia insenatura in fondo alla quale sorge Napoli, dove cielo e mare sono inverosimilmente azzurri, dove la gente lavora lieta nel dolcissimo clima che dà ricchi prodotti e una terra fertile, ai piedi del Vesuvio.

Le isole del Mar Tirreno
Le isole maggiori sono la Sicilia, isola ricca di agrumi, sulla quale si leva il vulcano più alto d’Europa, l’Etna; la Sardegna, bellissima nel suo paesaggio rude e roccioso dove esistono ancora i nuraghi, le antiche, misteriose costruzioni di un popolo la cui storia si perde nella notte dei tempi; la Corsica, che appartiene politicamente alla Francia.
Non dimenticheremo le isole minori: l’Arcipelago Toscano con l’Isola d’Elba; l’Arcipelago Campano di cui fanno parte le gemme del Tirreno Ischia, Capri, Procida; l’Arcipelago Ponziano di cui l’isola di Ponza è la principale; il gruppo delle isole Eolie o Lipari, in una delle quali sorge lo Stromboli, il terzo vulcano attivo d’Italia. Più a ovest, ecco Ustica e infine il gruppo delle Egadi a ponente della Sicilia. Tra Sicilia ed Africa si trovano le vulcaniche isole Pelagie e l’isola di Pantelleria.
Siamo così giunti allo stretto di Messina, un tempo terrore dei naviganti: chi passava lo stretto, correva il rischio, secondo la favola antica, di morire. Due terribili mostri, Scilla e Cariddi, vi facevano la guardia e chi sfuggiva alle insidie di Scilla, cadeva nell’inganno di Cariddi, e chi si salvava da Cariddi, non poteva evitare il tranello di Scilla. Favole. Che però avevano un fondo di verità. Le correnti dello stretto sono così impetuose che le antiche imbarcazioni, poco sicure, naufragavano facilmente; ciò giustificava la mitologica presenza dei due terribili mostri. Oggi lo stretto si attraversa agevolmente con le navi – traghetto, che trasportano treni ed automobili, e con i veloci aliscafi. Ottimi porti si aprono sulla costa tirrenica della Sicilia: Palermo e Trapani.

Il mar Ionio
Siamo così giunti al mar Ionio, il più profondo d’Italia. Ampi porti si aprono in questo mare: Messina, Siracusa, Augusta, in Sicilia. Lasciandoci alle spalle l’isola maggiore d’Italia, bordeggeremo lungo il tacco dello stivale, dopo essere entrati nell’ampio golfo di Taranto, dove sorge il più grande porto militare in cui stanno alla fonda le navi da guerra. Al largo incontriamo le imbarcazioni che vanno alla pesca del pesce spada. Queste barche inalberano un lungo palo in cima al quale si aggrappa un uomo salito fin lassù per avvistare, nell’immensità del mare, il guizzare pesante dello squalo che poi sarà trafitto con la fiocina.

Il mar Adriatico
Dopo aver superato il tacco dello stivale, e cioè la Penisola Salentina, eccoci nel Mar Adriatico, azzurro, pescoso e amarissimo. E’ infatti il più salato. Sono coste quasi rettilinee, uniformi, dove si trovano i porti di Brindisi, scalo per le navi che vanno in Oriente, Bari, Barletta, tutti ai limiti della fertilissima terra pugliese e il Tavoliere delle Puglie, dove si produce in quantità grano e vino.
Lungo la costa ora non si trovano più insenature importanti e quindi non vi sono porti di rilievo, eccettuato quello di Ancona, situato in un gomito della costa stessa (il so nome in greco significa appunto gomito). Incontriamo però buoni porti pescherecci, situati negli estuari dei fiumi. Il principale di questi è San Benedetto del Tronto.
Proseguendo oltre Ancona troviamo piccoli porti – canali sui ridenti lidi romagnoli dove si stendono ampie spiagge dalla sabbia dorata, popolate di bagnanti e di turisti; infine Ravenna e la Laguna di Comacchio che si chiama anche valle, ma soltanto in gergo peschereccio, perchè in queste valli non si raccoglie il grano bensì il pesce, di cui si fanno importanti allevamenti. E’ nelle valli di Comacchio che si pescano le saporitissime anguille.
Eccoci poi nell’ampio golfo di Venezia. E’ questo un nome che fa sognare italiani e stranieri. E’ una città unica al mondo, costruita su numerose isolette dove, per recarsi da un luogo all’altro, ci si serve di strette vie (le famose calli) o dei numerosi canali solcati da gondole e vaporetti. Una città dove i palazzi di marmo sembrano sorgere dall’acqua, una città che nel passato estendeva i suoi domini fino ai paesi del Mediterraneo orientale.
Non immaginavano certo questo splendido destino quei profughi che, per sfuggire all’invasione dei Barbari, andarono a rifugiarsi sulle deserte isole della laguna. Forse, queste popolazioni, in tempi diventati più sicuri, avrebbero abbandonato le loro provvisorie abitazioni, se non avessero trovato, in queste isolette, un tesoro: il sale. Il sale fu la prima moneta di Venezia, e se è vero come si dice che dove si semina sale non nasce più nulla, Venezia smentì clamorosamente questo detto perchè seminò sale e raccolse oro. Il sale, a quei tempi, era molto richiesto, e Venezia lo estrasse dal mare e lo esportò nei paesi dove le sue navi approdavano. Era una ricchezza che costava poco o nulla, e Venezia ne approfittò per aumentare la sua potenza.
Siamo quasi alla fine del nostro viaggio. Non mancheremo di fare una visita a Trieste, la città italianissima, sul confine, col suo cantiere fervente di lavoro e col suo porto dove si svolgono traffici intensi.

Mari d’Italia
La penisola italiana si spinge nel Mar Mediterraneo dividendolo in due grandi parti: l’orientale e l’occidentale, ed è bagnata da ben sei dei mari minori in cui il Mediterraneo si divide, e cioè: il Mare Ligure, il Mare Tirreno, il Mare di Sardegna, il Mare di Sicilia, il Mare Ionio ed il Mare Adriatico.
Il Mediterraneo gode di una temperatura media superficiale di 23° – 24° nel periodo estivo, e di circa 12° nel periodo invernale. Una temperatura davvero mite.
Le maree, ovvero il periodico innalzarsi e successivo abbassarsi delle acque, dovuto all’influsso della luna, provocano nel Mediterraneo differenze fra massimo e minimo soltanto di pochi decimetri: ad esempio 36 cm a Napoli e 27 cm a Genova; più accentuata la differenza a Venezia, circa un metro
Il Mar Ligure si estende tra le zone settentrionali della Corsica e le coste liguri; è poco pescoso e piuttosto profondo (massima profondità 2800 m).
Il Mar Tirreno è compreso fra le tre isole Sicilia, Sardegna e Corsica e la costa occidentale dell’Itala; è abbastanza pescoso e profondo (massima profondità 3700 m); numerose le isole.
Il Mar di Sicilia è situato tra le coste africane e quelle meridionali siciliane; è  ricco di pesci ma poco profondo (profondità massima 1600 m, in qualche punto).
Il Mar di Sardegna è compreso fra la Corsica (Francia), le Baleari (Spagna) e le coste occidentali della Sardegna; è pescoso e profondo (profondità massima 3100 m).
Il Mar Ionio si stende tra l’Italia, l’Africa e le coste occidentali della Grecia; è molto profondo ed anche caldo (profondità massima 4400 m).
Il Mar Adriatico si allunga fra la Dalmazia e le nostre coste; non è molto profondo e appunto per questo è molto pescoso (massima profondità 1250 m, ma nel Golfo di Venezia non supera i 25 m). E’ il mare più salato.

L’Italia nel Mediterraneo
Il Mediterraneo, chiuso fra le terre d’Africa, d’Asia e d’Europa, è ben riparato dai venti freddi del settentrione ed è favorito da un clima, assai dolce in inverno, che fa fiorire sulle sue sponde una ricca vegetazione, varia e sempreverde, d’agrumi e d’olivi, di palme e di cipressi, di lecci e di pini, e di altre piante che nel loro complesso costituiscono insieme la macchia mediterranea.
Attratte dal clima e dalla ricchezza della vegetazione, fin dalle epoche più remote, molte genti si stabilirono sulle rive di questo mare il quale, col passare dei secoli, divenne il crocevia e il centro di fusione di molte antiche civiltà.
In mezzo al Mar Mediterraneo, sì da dividerlo in due parti quasi uguali, si protende, snella e slanciata, la Penisola Italiana.

Le coste italiane
Le coste italiane hanno uno sviluppo complessivo, comprese le isole (ma senza la Corsica) di circa 8000 km.
Le coste del Mar Ligure disegnano un grande arco tra Capo Ferrat e Capo Corvo; alte e rocciose, con frequenti scoscesi promontori e minuscole insenature, offrono scorci panoramici vari e pittoreschi.
Sulla Riviera di Ponente stanno Savona, Ventimiglia, Varazze, Bordighera, Sanremo, Imperia, Albenga; sulla Riviera di Levante stanno Genova, il nostro maggior porto mercantile; La Spezia, porto militare, il cui golfo è chiuso dalla penisoletta di Porto Venere; Rapallo, Chiavari e Sestri.
Le coste del Mar Tirreno si sviluppano da Capo Corvo alla punta del Pezzo, sullo stretto di Messina. Lungo la Toscana, il Lazio e parte della Campania, le coste sono basse, scarse di porti e un tempo orlate di terreni palustri come nelle Maremme e nelle Paludi Pontine, ora quasi completamente bonificate. La maggiore insenatura è il golfo di Gaeta; i promontori più accentuati sono quelli di Piombino, dell’Argentario e del Circeo; Livorno e Civitavecchia i porti più attivi. Nella sua sezione meridionale, lungo la Campania e la Calabria, la costa tirrenica presenta sporgenze e coste alte e rocciose e insenature a fondo piatto. Le sporgenze più pronunciate sono la penisola Sorrentina, il Cilento, la penisoletta del Poro; le maggiori insenature sono i golfi di Napoli, di Salerno, di Policastro, di Santa Eufemia, di Gioia; il porto più attivo è Napoli, seguito a grande distanza dai porti di Torre Annunziata, Castellammare, Salerno. Le coste calabresi non hanno porti.
Il Tirreno è il mare italiano più ricco di isole: arcipelago Toscano, isole Pontine, Partenopee, oltre a quelle contermini alla Sicilia e alla Sardegna.
Le coste del Mar Ionio, generalmente basse e lisce, si sviluppano dalla punta del Pezzo al Capo di Santa Maria di Leuca; alle foci dei fiumi si hanno tratti di pianure alluvionali. Alcuni erti promontori, tuttavia, si spingono a punta nel mare: Capo delle  Armi, Capo Spartivento, la penisoletta di Crotone. Tra le penisole calabrese e salentina si stende il golfo di Taranto; assai più piccolo, a sud, il golfo di Squillace. Rari i porti: Reggio Calabria, Taranto (militare), Crotone e Gallipoli.
Le coste italiane del Mar Adriatico si sviluppano dal Capo di Leuca a Trieste. Mentre la costa dalmata è alta e rocciosa, spaccata da profonde insenature, frastagliata da lunghe isole parallele, la costa italiana è unita, bassa (tranne alla Testa del Gargano e al promontorio del Conero). A sud e a nord del Gargano ricorrono tratti paludosi e lagune (laghi di Lesina, di Varano, di Salpi); ma le lagune più importanti sono, come abbiamo detto, quelle della costa veneta.
A nord l’Adriatico forma i golfi di Venezia e di Trieste.
I porti più importanti, lungo la costa italiana, sono quelli di Brindisi e di Bari in Puglia, di Ancona nelle Marche, di Venezia e di Trieste in Veneto e Friuli.

Dettati ortografici

La vita dell’Italia è sul mare
L’Italia deve ricorrere essenzialmente alle vie marittime per assicurare la vita materiale ed economica del suo popolo. L’Italia ha il suo territorio racchiuso nel Mediterraneo. Tutte le sue comunicazioni terrestri debbono attraversare la barriera delle Alpi, come tutte le sue comunicazioni marittime devono passare attraverso gli stretti situati a mille miglia dai nostri porti. Perciò possiamo dire che il mare è la linfa vitale, il sangue dell’Italia.

La pesca dell’Adriatico
L’Adriatico, specialmente nella parte superiore, è più pescoso del resto del Mediterraneo. Lo percorrono in buona parte i bragozzi chioggiotti che si tengono, per la pesca, discosti dalle rive. Le barche di altre località, invece, si allontanano poco dalla costa, limitandosi alla pesca con reti fisse, collocate in luoghi adatti e con reti  a strascico. D’estate e di primavera, però, si spingono al largo alla pesca delle sardine le quali attraversano date zone in sciami o branchi. (Mottini)

Mari d’Italia
Il mar Ionio è il più profondo, il mar Adriatico il più pescoso. I pesci amano i fondali bassi dove trovano in abbondanza di che soddisfare il loro appetito perchè, se è vero che il pesce grosso mangia il piccolo, come dice il proverbio, è anche vero che tutti i pesci si nutrono del plancton, che è composto di minutissime alghe e di microscopici animaletti che fra esse dimorano. E il plancton si trova generalmente nei bassi fondali.

Le coste del Mar Ligure
Sulla costa ligure vanno  a veleggiare italiani e stranieri, famosa com’è in tutto il mondo, per la bellezza dei paesaggi e la dolcezza del clima. Palme, aranci, olivi, un cielo quasi sempre azzurro, un mare stupendo, delle coste pittoresche, ecco ciò che si presenta all’occhio di chi ha la fortuna di visitare questo bellissimo paese. Nel cuore di tutta questa bellezza sorge Genova, la Superba, coi suoi cantieri sonanti, i suoi traffici intensi, il suo popolo fiero e generoso.

La costa campana
Costeggiando l’Italia verso sud, il nostro sguardo si potrà rallegrare soffermandosi su rive verdi, coperte di una lussureggiante vegetazione di olivi, di viti, di aranci. Incontriamo prima Gaeta, nel suo piccolo ma delizioso golfo e infine Napoli, il secondo porto d’Italia, dove il cielo e il mare sono inverosimilmente azzurri, il clima è dolcissimo e la terra fertilissima.

Lo stretto di Messina
Una volta la traversata di questo stretto spaventava i navigatori, ma oggi non spaventa più nessuno. Basti dire che si può attraversare senza neppure scendere dal treno. Infatti questo viene istradato su una nave traghetto che compie la traversata, dopo di che il treno riprende la sua strada sull’altra riva. Messina fu distrutta da un tremendo terremoto, ma oggi è risorta più bella e attiva di prima.

I mostri dello stretto
Un tempo chi attraversava lo stretto di Messina correva il rischio di sprofondare nel mare, almeno a quanto raccontava la leggenda. Due terribili mostri, Scilla e Cariddi, vi facevano la guardia e chi sfuggiva a Cariddi non poteva evitare Scilla. Leggende, naturalmente, ma che avevano un fondo di verità. Infatti, le correnti dello stretto sono così impetuose e le navi dell’epoca così fragili e malsicure, che i naufragi erano frequentissimi e tali da giustificare la fiabesca esistenza dei due terribili mostri.

Venezia
E’ un nome che fa sognare italiani e stranieri. E’ una città unica al mondo, costruita su isolette dove, fatta eccezione per strettissime calli, non ci sono strade per recarsi da un luogo all’altro, bensì canali che bisogna percorrere in gondola o in vaporetto. Una città dove si costruivano stupendi palazzi di marmo quando ancora molte altre avevano capanne di fango; una città che divenne ricca e potente, riuscendo ad estendere il suo dominio fino al lontano oriente.

La cattura del pesce spada
Sul mar Ionio si pratica la pesca del pesce spada. Sull’imbarcazione attrezzata per tale impresa, si leva un albero altissimo e un uomo sta lassù, aggrappato in cima all’asta dondolante, per tentare di scorgere, nell’immensità del mare, il guizzare del grosso pesce. Quando viene avvistato, l’imbarcazione tenta di avvicinarsi senza provocarne la fuga. Ed ecco un altro uomo all’opera. Armato di una lunga fiocina, cerca di colpire lo squalo, lanciando l’arma con mano abile e potente. La fiocina è assicurata da una corda e quando il pesce è colpito, non c’è che da tirarlo a bordo, sia pure con grande fatica e talvolta, date le dimensioni, anche con pericolo.

Parla il mare d’Italia
Bella Italia, mia regina! Tirreno, Ionio, Adriatico, io non sono che un mare, il tuo mare! Vi fu un tempo che ti custodivo tutta in me: tu sei emersa, ma ancor oggi, nelle pieghe delle tue montagne, custodisci le sabbie e le argille che io vi ho deposto, serbi nelle tue pietre le conchiglie e le alghe di cui ti adornavo. Sei sinuosa di rive, facile agli approdi, dolce di lagune, traboccante di garofani e di rose, bianca di marmi, dorata di biade, fiammeggiante di vulcani, profumata di agrumi! Tutta io t’investo a temperare i freddi venti del settentrione e i brucianti fiati del sud.

Venezia
Per sfuggire alle invasioni dei barbari, molti profughi andarono a stabilirsi su alcune isolette che sorgevano sulla laguna. Forse, in seguito, questi profughi avrebbero abbandonato le provvidenziali isolette se non si fossero accorte di avere, a portata di mano, un grande tesoro: il sale. Il sale fu la prima moneta di Venezia e se è vero quanto si dice, che dove si semina sale non nasce più nulla, per Venezia fu tutto il contrario: seminò sale e raccolse oro.

Il mare d’Italia
Marinaro è il tuo popolo, Italia, e marinare sono le tue sorti! Sul mare vennero al lido tirreno le navi di Enea, nel mare crollò il potere di Cartagine e sorse l’impero mediterraneo di Roma; sul mare spiegarono le vele e gli stendardi, al traffico e alla guerra, i galeoni di Amalfi, di Gaeta, di Pisa, di Genova e di Venezia che fermarono le flotte turche e barbaresche, e Genova andò superba della propria ricchezza, e Venezia levò palazzi di trine marmoree e chiese dalle cupole d’oro. Sul mare, su tutti i mari, tentando nuovi passaggi, scoprendo isole e continenti, donando terre e imperi a sovrani, navigarono gli arditi marinai del Medioevo, navigarono Cristoforo Colombo, genovese, Giovanni Caboto, veneziano, Amerigo Vespucci, fiorentino, e Antonio Pigafetta che, al servizio del portoghese Magellano, fu il primo italiano a compiere il giro del mondo.

Le coste d’Italia
Cinta per gran parte dal mare, l’Italia si allunga in una distesa di svariatissime coste, qua lentamente digradanti con dolce pendio, là scoscese e percosse dalle onde: ora selvose, ora nude, ora coronate di ridenti colline che si protendono in lunghi promontori e capi e file di scogli, o scavate in vasti golfi o porti amplissimi e sicuri contro ogni insidia del mare. Isole e isolette qua e là, in faccia alle spiagge, accrescono varietà e bellezza delle coste italiane.

Il mare
Il mare è un immenso serbatoio di vita. Le sue acque contengono il sale, i pesci più svariati, le alghe da cui si ricavano sostanze medicinali e soprattutto assorbono lentamente il calore del sole e lo restituiscono lentamente alla terra. Quindi, mentre la terra rapidamente si riscalda e altrettanto rapidamente si raffredda, il mare ha una temperatura più costante e rende più mite, cioè più dolce, il clima, non solo delle spiagge, ma anche di un largo tratto dell’interno. (P. De Martino)

Mari, coste, pini e sole
Tu credi che i mari si assomiglino tutti? Sono tutti fatti d’acqua, con tanta acqua salata… Ma è la luce che li fa diversi. Ci sono i mari del sole e quelli della nebbia, quelli azzurri e quelli grigi. Se tu hai visto qualche volta i mari dell’Europa settentrionale vedrai che il nostro è tanto più azzurro di quelli. Quasi verde l’Adriatico, cerulo lo Ionio, azzurro di cobalto il Mediterraneo, celeste chiarissimo il Tirreno. Attorno a Napoli, a Sorrento, a Procida, a Capri, l’azzurro è luminoso come uno smalto.
E, come il colore del mare, varia all’infinito la bellezza delle coste. Siamo sulle rive di una stessa terra, ma la costa della Liguria come fai a confrontarla con quella veneta? E quella toscana con quella di Puglia?
Due cose le ritrovi ovunque: i pini e il sole. (O. Vergani)

Mari colorati
Talvolta, in prossimità delle coste, la superficie assume un colore giallo sporco per i materiali portati dai grandi fiumi; nelle calde notti estive, i mari tropicali hanno curiosi fenomeni di fosforescenza per l’azione di miliardi di microrganismi che emettono una luce simile a quella delle lucciole.
Alcuni mari debbono il loro nome proprio al colore predominante delle acque: come il Mar Rosso, i cui riflessi rossastri sembra siano da attribuire a una grande quantità di alghe di quel colore; o come il Mar Giallo, così chiamato per il limo portato dal fiume Hoang-ho; il Mar Bianco, ovviamente, trae il suo nome dalla presenza dei ghiacci galleggianti sulle sue acque.

La sinfonia marina
Arrivava l’onda con una veemenza d’amore o di collera sui massi incrollabili; vi si precipitava rimbombando, vi si dilatava gorgogliando, ne occupava, con la sua liquidità, tutti i meati più segreti. E quasi pareva che un’anima naturale oltresovrana empisse della sua agitazione frenetica uno strumento vasto e molteplice come un organo, passando per tutte le discordanze, toccando tutte le note della gioia e del dolore.
Rideva, gemeva,  pregava, cantava, accarezzava, singhiozzava, minacciava: ilare, flebile, umile, ironica, lusinghevole, disperata, crudele. Balzava a colmare sulla cima del più alto scoglio una piccola cavità rotonda come una coppa votiva; s’insinuava nella fenditura obliqua dove i molluschi prolificavano; piombava sui folti e molli tappeti di coralline lacerandoli o vi strisciava leggera come una serpe sul musco. (G. D’Annunzio)

A pesca nell’Adriatico
Le principali barche da pesca dell’Adriatico sono le paranze e le lancette. Le prime sono di maggior grandezza, pescano sempre accoppiate e non rimangono in mare più di quindici giorni, provvedendo al trasporto del pesce a terra con battelli a vela o a remi. Le lancette sono barche di più piccola dimensione che navigano non discostandosi molto da terra. Lasciano la spiaggia la mattina prima dell’alba e, dopo una giornata di pesca, ritornano a terra, sì che la sera, verso il tramonto, empiono il mare di uno sbandieramento vivace, pittoresco, con la gaiezza delle loro vele scarlatte. (V. Guizzardi)

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FENOMENI METEOROLOGICI materiale didattico

FENOMENI METEOROLOGICI materiale didattico di autori vari, per bambini della scuola primaria.

L’aria

L’aria è un miscuglio di gas costituenti l’atmosfera e in cui vivono, nella parte inferiore, gli animali e le piante. I gas si presetnano più rarefatti e mutano di proporzione man mano che si sale in altezza.
L’aria è trasparente, inodore e incolore se in masse limitate; azzurra se in grandi masse. I suoi costituenti principali sono l’azoto e l’ossigeno. Contenuti in piccole quantità, l’argo, l’elio, il cripto, lo xeno, l’idrogeno, con quantità variabili di vapore acqueo, anidride carbonica, ammoniaca, ozono, ecc… Particelle solide, spore, microorganismi formano il pulviscolo atmosferico.
A causa della funzione clorofilliana per cui le piante, di giorno, assorbono anidride carbonica ed emettono ossigeno, l’aria dei boschi è più salubre.
La troposfera è lo strato più basso dell’atmosfera la quale raggiunge l’altezza di circa 1000 chilometri e circonda il nostro globo seguendolo nei  suoi movimenti.

La pressione atmosferica

L’atmosfera preme enormemente sulla superficie del globo e noi non ne rimaniamo miseramente schiacciati soltanto perchè la pressione si esercita sul nostro corpo non solo esternamente da tutte le parti, ma anche internamente, ciò che produce equilibrio. Quando questo equilibrio dovesse mancare, si avrebbero gravi disturbi e la morte.
Possiamo considerare che noi portiamo sulle nostre spalle il peso di tre elefanti ci circa cinque tonnellate ciascuno e ciò senza sentire il minimo inconveniente.
Un litro d’aria pesa poco più di un grammo, ma se si pensa all’enorme spessore dell’atmosfera, il paragone degli elefanti non può sorprendere.
La pressione non è uguale dappertutto. Sulle montagne, per esempio, è molto minore che al livello del mare. Inoltre dato che l’aria fredda è più pesante di quella calda, nello stesso luogo la pressione sarà anche in base alla temperatura.
Lo strumento per misurare la pressione atmosferica è il barometro che fu inventato da Evangelista Torricelli. Questi riempì di mercurio un tubo di vetro e ne immerse l’estremità aperta in una vaschetta, anch’essa piena di mercurio. Poté constatare che la colonnina di mercurio non andava al disotto dei 76 centimetri. Era chiaro, quindi, che la pressione di una colonna di mercurio alta 76 cm e dalla sezione di un centimetro quadrato veniva equilibrata da una pressione analoga che non poteva essere che quella dell’atmosfera.
Vi sono anche altri piccoli esperimenti che  possiamo fare per constatare l’esistenza della pressione atmosferica. Eccone di seguito alcuni.

Succhiamo una bibita con una cannuccia, poi quando il liquido è giunto alla nostra bocca, appoggiamo rapidamente un dito all’estremità superiore della cannuccia e teniamolo fermo. Il liquido non uscirà, e ciò perchè il suo peso esercita una pressione minore di quella atmosferica. Non appena si toglierà il dito, il liquido uscirà dalla cannuccia.

Prendiamo un comune bicchiere e riempiamolo d’acqua fino all’orlo. Poi appoggiamo sul bicchiere un pezzo di cartone o di carta, in modo che ricopra completamente l’orlo. Capovolgiamo rapidamente il bicchiere e togliamo la mano dal cartone. Questo non cadrà e l’acqua rimarrà nel bicchiere. Perchè? Perchè nel bicchiere non c’è aria, ma soltanto acqua, e questa ha un peso inferiore a quello esercitato dalla pressione dell’aria che spinge dal basso il cartone.

Il vento

L’aria è sempre in movimento. Lo si può constatare considerandone gli effetti. Osserviamo le foglie muoversi nella brezza, il bucato sventolare,  le nuvole correre nel cielo. Questo movimento si chiama vento.
Da che cosa dipende il vento? Per poter spiegare questo fenomeno bisogna dire qualcosa sulla temperatura dell’aria. L’aria ha una sua temperatura, più calda o più fredda, secondo la stagione, l’altitudine, l’azione del sole, ecc… Ebbene: l’aria calda è più leggera dell’aria fredda e tende a salire. L’aria fredda è più pesante e tende a discendere e ad occupare quindi il posto dell’aria calda.
Possiamo procedere ad alcuni piccoli esperimenti.

Proviamo a fare sul termosifone qualche bolla di sapone. Queste saliranno verso l’alto, ciò non accadrà o accadrà con minor effetto, per le bolle di sapone che faremo in un punto lontano dalla sorgente di calore.

Se potessimo misurare, a vari livelli, la temperatura di una stanza riscaldata, potremmo constatare che, verso il soffitto, l’aria è molto più calda che nei pressi del pavimento. Ebbene, è questa differenza di temperatura che produce il vento. Quando, fuori, l’aria calda sale, l’aria fredda si precipita ad occuparne il posto e forma, così, una corrente – vento che poi noi chiamiamo con diversi nomi a seconda del punto cardinale da cui proviene.
Pensiamo adesso a tutta l’aria che avvolge il nostro globo. Sappiamo che essa è freddissima nelle regioni nordiche e caldissima nelle regioni equatoriali. Ecco perchè l’atmosfera è sempre in movimento: l’aria fredda tende ad occupare il posto di quella calda che sale e quindi si formano venti che possono essere deboli, oppure violenti e disastrosi. Abbiamo detto che essi prendono il nome del punto cardinale da cui provengono. Abbiamo così Ponente, Levante, Ostro, Tramontana, rispettivametne provenienti da ovest, est, sud e nord. E poi venti intermedi: sud-ovest Garbino o Libeccio; sud-est Scirocco; nord-est Greco; nord-ovest Maestrale. Per stabilire la direzione del vento,  si usa la rosa dei venti.

Le nuvole

Nell’atmosfera ci sono le nuvole. Ci sarà facile invitare i bambini ad osservare il cielo e quindi le nuvole. Come sono le nuvole che si presume portino la pioggia? Quali nuvole si vedono nel cielo di primavera? In quello dell’estate? Nuvole grigie, pesanti, oscure; nuvole leggere e delicate; nuvoloni bianchi e bambagiosi. Se uno di noi capitasse in una nuvola si troverebbe in breve bagnato. Infatti tutte le nuvole sono formate da vapor acqueo parzialmente condensato in minutissime gocce e, negli strati superiori dell’atmosfera, in cristallini di ghiaccio.
Ma da dove provengono queste goccioline e questi cristallini di ghiaccio? Ammassi di vapore acqueo si elevano nell’atmosfera., resi leggeri dal calore del sole. Quando il vapore acqueo si condensa diviene visibile ai nostri occhi appunto sotto forma di nubi.

Esperimento scientifico per creare nuvole in vaso qui: 

Osservazione e classificazione delle nuvole qui: 

Il ciclo dell’acqua, dettati e letture, qui: 

La pioggia

Vediamo come accade il fenomeno per cui l’acqua cade sulla superficie terrestre. Le nuvole sono sospese in una massa d’aria, che, essendosi riscaldata, sta innalzandosi. Le gocce di cui le nuvole sono formate, divenute più pesanti per la ulteriore condensazione dovuta al contatto con strati di aria fredda cominciano effettivamente a cadere, ma l’aria calda che tende ancora a salire, le risospinge verso l’alto. Facciamo l’esempio di una pallina da ping pong che venga sollevata al disopra di un ventilatore. La pallina resterà sollevata in aria, sospinta dall’aria che sale dall’apparecchio. Lo stesso avviene per le goccioline d’acqua che formano le nuvole. Ma ecco che esse ingrossano anche perchè urtandosi, si fondono tra loro e diventano quindi più pesanti. E così le gocce cominciano a cadere sulla terra. E’ la pioggia.

Esperimento scientifico per creare la pioggia in un vaso qui: 

La nebbia

L’aria è piena di vapore acqueo che proviene dalla superficie del mare o dei laghi o del suolo, potendo con sè un po’ del calore degli oggetti che ha abbandonato. Per constatare questo fenomeno basta bagnare un dito con l’alcool ed esporlo all’aria. Si avvertirà subito una sensazione di freddo e ciò perchè l’alcool, evaporando, porta con sè un po’ del calore del dito. Se il vapore acqueo che si trova nell’aria è abbondante, si dice che l’aria è umida. Quando l’aria è molto umida, l’evaporazione diminuisce ed è allora che, nelle giornate estive molto umide e afose, il sudore ci si appiccica addosso.
Abbiamo avuto occasione di vedere, specie in un raggio di sole, il pulviscolo atmosferico, cioè minutissime particelle che danzano nell’aria. Questo pulviscolo è formato dalla polvere che si leva dal suolo, da piccolissime spore, da impurità di ogni genere. Quando il vapore acqueo che proviene dal suolo ancora caldo si raffredda a contatto dell’aria fresca notturna, esso si condensa attorno ad un minuscolo granello di polvere. Queste goccioline formano una specie di nuvola bassa sul suolo, che si chiama nebbia.
Quindi, la nebbia è una specie di nuvola bassa sulla terra, formata da vapore acqueo condensato e pulviscolo atmosferico. Essa si forma anche sul mare e sui laghi e non appena il sole la riscalda a sufficienza, sparisce perchè le goccioline d’acqua evaporano e salgono nell’aria.

Esperimento scientifico per creare la nebbia in vaso qui: 

La neve

Quando l’aria è molto fredda, il vapore si condensa in tanti piccoli cristalli di ghiaccio che riunendosi formano quelli che chiamiamo i fiocchi di neve. Questi sono leggeri e morbidi perchè inglobano grandi quantità di aria. Se si osservano con una forte lente di ingrandimento, si potrà vedere che sono di  forma diversa, ma tutti fatti a stellina con sei punte.

Qui un tutorial per realizzare bellissimi fiocchi di neve di carta: 

La grandine

Il fenomeno della grandine avviene prevalentemente in estate e c’è la sua ragione. In questa stagione, l’aria è talvolta molto calda e, come abbiamo visto, tende a salire. Nelle altissime regioni atmosferiche, l’aria calda incontra generalmente  correnti assai fredde, anzi, gelate. Allora, le goccioline d’acqua che l’aria contiene, cominciano a turbinare non solo, ma gelano e si trasformano in cristalli di ghiaccio. Anche qui avviene lo stesso fenomeno della pioggia; cioè i cristalli di ghiaccio cadono e incontrano,  nella loro caduta, altre gocce d’acqua a cui si uniscono. Le correnti d’aria calda li sospingono incessantemente verso l’alto finchè i ghiaccioli, divenuti ormai grossi e pesanti, precipitano sulla terra con gli effetti disastrosi che tutti conosciamo. Nel fiocco di neve è contenuta molta aria, nel chicco di grandine no. Ecco perchè questo è più pesante e compatto.

La rugiada

Abbiamo occasione di vedere la rugiada sulle piante e sulla terra, di mattina presto, quando il calore del sole non l’ha ancora fatta evaporare.
Come si è formata? La spiegazione è semplice. Durante la giornata, i caldi raggi del sole hanno riscaldato la terra, le erbe, i fiori. Durante la notte, invece, questi si raffreddano e il vapore acqueo vi si condensa in brillanti goccioline. In autunno o in inverno, quando le notti sono molto fredde, si forma invece la brina. Mentre la rugiada è benefica, la brina, come è noto, danneggia le piante e talvolta quella che si chiama una brinata o una gelata può distruggere un intero raccolto.

Lampi e fulmini

E’ facile, durante un temporale scorgere nel cielo i lampi e vedere cadere un fulmine. La spiegazione di questo fenomeno risale a quanto abbiamo detto a proposito della pioggia. Le goccioline di acqua che, sospinte dalle correnti calde si aggirano vorticosamente nell’aria, si caricano ad opera di questo movimento di elettricità. Questa elettricità si manifesta, appunto, nel lampo che è un’enorme scintilla elettrica che scocca fra due nubi cariche di elettricità (positiva e negativa).
Se la scarica colpisce il suolo, abbiamo il fulmine di cui conosciamo gli effetti talvolta drammatici.
Il tuono è il rimbombo dell’aria quando viene squarciata dal lampo e dal fulmine, ma non deve incutere paura perchè, quando il tuono si sente, il pericolo è già passato.

L’arcobaleno

Portiamo a scuola un prisma e con esso facciamo osservare ai bambini che un raggio di sole, apparentemente fatto di luce bianca, passando attraverso il prisma si scompone di sette bellissimi colori. Ciò avviene perchè i diversi colori di cui è composta la luce bianca sono dal prisma deviati in modo diverso. La stessa cosa avviene con l’arcobaleno. Le gocce di pioggia ancora sospese nell’aria vengono attraversate dalla luce del sole i cui raggi si piegano come nel prisma di cristallo. I colori dell’arcobaleno sono sette: rosso, giallo, celeste, verde, arancione, indaco e violetto.

Un arcobaleno nella noce qui: 

L’arcobaleno nella leggenda del Lago di Carezza qui: 

Girandole e trottole per studiare lo spettro luminoso qui 

Dettati ortografici

L’aria atmosferica
La parte inferiore dell’atmosfera è costituita dallo strato gassoso che circonda il nostro globo e che lo segue nel suo movimento di rotazione. L’atmosfera è una massa gassosa alta mille chilometri.

La pressione atmosferica
L’atmosfera preme enormemente sulla superficie del nostro globo e noi non ne rimaniamo schiacciati perchè la pressione si esercita sul nostro corpo internamente ed esternamente, ciò che produce equilibrio. Quando questo equilibrio viene a mancare, come nel caso in cui l’uomo salga a grandi altezze senza essere munito di speciali apparecchi per respirare e per sostenere la mancanza di pressione, si rilevano gravi disturbi e quasi sempre la morte.

Tre elefanti sulle spalle
Chi porta elefanti sulle spalle? Chi è quest’uomo così robusto da non rimanere schiacciato non solo sotto il peso di tre elefanti, ma di uno soltanto? Siamo tutti noi, che sopportando il peso dell’aria, è come se portassimo un peso uguale a quello di tre grossi elefanti.

La pressione atmosferica
L’atmosfera pesa enormemente sopra di noi. E perchè non ne rimaniamo schiacciati? Perchè l’aria esercita questa pressione su tutte le parti del nostro corpo, non solo, ma anche nell’interno, e il risultato è che queste enormi pressioni, enormi ma uguali, si equilibrano e l’uomo può muoversi benissimo senza alcun disturbo.

La stratosfera
La stratosfera è chiamata la regione del buon tempo permanente. Il cielo è di una bellezza commovente: scuro, turchino, cupo o viola, quasi nero.
La terra, lontana, è invisibile: non si vede che nebbia. Soltanto le montagne emergono. Dapprima avvolte nelle nubi, si rivelano a poco a poco.  Una cima poi un’altra. Lo spettacolo è magnifico. (A. Piccard)

Le conquiste degli spazi
La conquista degli spazi è agli inizi. Chissà quanti palpiti, chissà quanta ammirazione, quanti evviva dovremo spendere per le sempre più meravigliose imprese future! Se siamo diversi dalle bestie, è proprio per questo insaziabile, anche se folle bisogno di andare sempre più in là, di svelare uno ad uno i misteri del creato. (D. Buzzati)

L’atmosfera
Noi siamo immersi completamente nell’aria, anzi, nella sfera d’aria che circonda la terra; meglio sarà se diremo atmosfera, che significa, appunto, sfera d’aria. La terra gira, gira vorticosamente, es e noi non ce ne accorgiamo dipende dal fatto che tutto gira con la terra, comprese le nuvole che fanno parte dell’atmosfera.

La conquista dello spazio
A ogni passo di là dalle conosciute frontiere, volere o no, il nostro cuore palpita. Al pensiero che un uomo come noi sta bivaccando lassù, nella vertiginosa e gelida parete trapunta di stelle, vien fatto di correre su per le scale, di affacciarsi sull’ultima terrazza e di agitare un lumino. Chi lo sa, se ci vede: si sentirà meno solo. (D. Buzzati)

Il lancio del missile
Il razzo, avvolto alla base da un bagliore di fiamma e da una nuvola di vapori, si stacca dalla piattaforma e sale sempre più velocemente verso l’alto. L’astronauta comincia con voce pacata a trasmettere a terra tutte le informazioni richieste dal suo eccezionale servizio e contemporaneamente esegue tutte le operazioni assegnategli come se fosse seduto davanti a una scrivania. Solo una volta, mentre la capsula ha raggiunto l’altezza di 185 chilometri, si lascia sfuggire un’esclamazione: “Che vista meravigliosa!”

Aria calda e aria fredda
Mutamenti improvvisi di temperatura molto spesso portano pioggia o tempo burrascoso. E’ per questo motivo che, alla fine di una calda giornata estiva, quando comincia a levarsi il vento e l’aria rinfresca e il cielo si copre di nuvole, si può essere quasi sicuri che ci sarà un temporale. L’aria, così calda per tutta la giornata, comincerà a salire, e quella fredda scende rapidamente a prendere il suo posto, portando con sè vento e pioggia. (J. S. Meyer)

Un oceano d’aria
Noi viviamo sul fondo di un oceano d’aria, che si innalza per chilometri e chilometri sopra le nostre teste ed è molto pesante. Se non ne sentiamo il peso è solo perchè la sua pressione si esercita sul nostro corpo dall’alto, dal basso e dai lati, in ogni direzione contemporaneamente. Inoltre c’è sempre aria nei nostri polmoni e in tutto il nostro corpo, e quest’aria che è dentro di noi e quella che è intorno a noi si bilanciano così che non di accorgiamo di quanto l’aria pesi. (J. S. Meyer)

L’atmosfera
La quasi totalità degli esseri viventi ha bisogno di aria per respirare. Anche gli alberi, le erbe, i fiori, hanno bisogno di aria; ma se potessero esistere senza di essa, sarebbero immobili come cose dipinte. Non una sola tra le innumerevoli foglie degli alberi si muoverebbe; non un solo filo d’erba si piegherebbe, e ramoscello o fronda stormirebbero ondeggiando alla brezza. E non potrebbero esserci ne api ne farfalle ne uccelli di alcuna specie, poichè come potrebbero volare se non di fosse aria a sostenerne il volo? Ogni cosa al mondo sarebbe silenziosa e muta, poichè il suono non può propagarsi se non attraverso l’aria. (J. S. Meyer)

L’aria
Senza aria o atmosfera non si avrebbe ne tempo bello ne tempo brutto, ne pioggia ne neve; e non si saprebbe che cosa sono il sereno, le nuvole, i temporali. Senz’aria non potrebbero vivere ne uomini ne animali, la quasi totalità degli esseri viventi ha bisogno di aria perchè questa necessita per respirare. ( J. S. Meyer)

Un oceano d’aria
Immaginate che cosa significherebbe vivere sul fondo dell’oceano. Supponete per un momento di poter camminare sul fondo oceanico, con tante migliaia di tonnellate d’acqua che premono su di voi e pesano come montagne. Naturalmente, non si potrebbe resistere poichè il nostro corpo non è fatto per sopportare un peso così enorme: si resterebbe schiacciati in meno di un minuto. Eppure tutti noi viviamo sul fondo di un oceano d’aria che si innalza per chilometri e chilometri sopra la nostra testa ed è molto pesante. (J. S. Meyer)

Salire nell’atmosfera
Quanto più saliamo nell’atmosfera, tanto minore è la quantità di aria sopra di  noi e minore sarà la pressione. Se potessimo salire per sessanta o settanta chilometri, difficilmente troveremmo ancora un po’ d’aria, e sarebbe la morte per noi. Il nostro corpo, infatti, è costituito per poter vivere sulla terra, nel fondo dell’oceano d’aria, e proprio dove l’aria è più pesante. (J. S. Meyer)

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Il vento

Venti e piogge
I venti non solo servono a ventilare decentemente questo nostro quartiere di residenza che è la terra, ma compiono inoltre l’alta funzione di distribuire la pioggia, senza la quale sarebbe impossibile lo sviluppo normale della vita animale e vegetale. La pioggia non è altro che acqua evaporata dagli oceani, dai mari chiusi, dalla terra arida e dalle foglie delle piante e dai nevai continentali e trasportata dall’aria sotto forma di vapore.  Quando i venti, che trasportano questo vapore, incontrano aria fredda si ha la pioggia. (Van Loon)

Il vento
Il vento è una corrente. Ma, cos’è che produce una corrente? Cos’è che la mette in moto? Le differenze di temperatura dell’aria. Di solito una parte dell’aria è più calda dell’aria circostante e quindi più leggera, e perciò tende a levarsi in alto. Levandosi, crea il vuoto. L’aria fredda delle regioni superiori, essendo più pesante, precipita turbinando nel vuoto. (Van Loon)

Vento e pioggia
Quando un vento, carico di vapore acqueo, incontra una catena di montagne, possono accadere due cose. O la sua violenza deve spezzarsi contro questo ostacolo, oppure, per poterlo oltrepassare, la corrente aerea deve innalzarsi a grande altezza. Trovando, così, una zona più fredda, il vapore acqueo si condensa, si trasforma in pioggia, e il vento, ormai diventato asciutto, passa oltre. Quindi la zona che è situata al di qua della catena di monti, avrà frequenti piogge e clima umido, la zona situata al di là avrà clima asciutto e cielo sereno. (Van Loon)

Altri dettati ortografici sul vento qui: 

Poesie e filastrocche sul vento qui: 

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Le nuvole

Le nubi che corrono all’impazzata per il cielo sono leggere, soffici e, spinte dal vento, sembrano bianchi agnelli in corsa. Si divertono qualche volta ad oscurare il sole, a cingere di un pallido alone la luna lucente, a coprire e a scoprire le cime lontane dei monti. Qualche volta si appesantiscono, si fanno nere e minacciose: sono allora foriere di temporale. Si scaricano in furiosi acquazzoni e non di rado in dannose grandinate. (R. Mari)

Le nuvole
Che cosa sono quelle nuvole soffici che vediamo pigramente e oziosamente fluttuare nel cielo azzurro? La maggior parte di esse hanno l’aspetto di fiocchi bambagiosi, delicati e soffici: sembrerebbe bello poter andar vagando qua e là per cielo, adagiati su di esse, spinti da un gentile venticello! Ma sappiamo che in realtà non si tratta di bambagia e tanto meno di fiocchi morbidi e leggeri.

Le nubi
Le nubi sono costituite da miliardi e miliardi di minutissime goccioline di acqua, ciascuna delle quali è così piccola che non si vede a occhio nudo. Di tali goccioline ce ne sono miliardi in una goccia di pioggia: di qui si potrà comprendere la piccolezza di ognuna e come possa essere invisibile a occhio nudo. (J. S. Meyer)

Forma delle nuvole
Quelle nuvole d’aspetto soffice e bambagioso sono chiamate cumuli. I cumuli spesso sono considerati come nuvole del bel tempo. Talvolta i cumuli si avvicinano e si uniscono sì che tutto il cielo ne è presto ricoperto. Non si tratta più di cumuli, ma di strati. Essi formano una specie di coltre e ci avverte che la pioggia può non essere lontana. Alte nel cielo, talvolta a quindici chilometri dalla terra, viaggiano quelle nuvole fini e delicate che sono dette cirri, che vuol dire riccioli. Sono freddissime  e invece che da goccioline d’acqua, sono costituite da minuti cristalli di ghiaccio. (J. S. Meyer)

Nuvole
La mattina, al primo chiarore, sorgono dai prati umidi. La sera sbucano in un batter d’occhio da qualche gola più oscura, si assottigliano, innalzandosi velocissime per le coste, si librano per le cime dei monti, poi, in un batter d’occhio, come scaturiscono, svaniscono. Il vento le incalza, le sbaraglia, le sgretola e le disperde dopo una lotta silenziosa di giganti. (G. Giacosa)

Le nuvole
Quando, levandosi dal suolo, l’aria calda le incontra, intorno ai mille o ai duemila metri, correnti o strati d’aria più fredda, il vapor acqueo in essa contenuto si raffredda e le minute goccioline di cui è composta si raggruppano insieme e formano gocce più grosse. Miliardi di gocce si ammassano e si condensano sempre più, formano cioè delle nuvole. A poco a poco si riuniscono tutte e in breve il cielo ne è completamente ricoperto. (J. S. Meyer)

Le nuvole
E’ appena giorno e io che mi sono svegliato presto ne approfitto per continuare a registrare le mie memorie nel mio caro giornalino, mentre i miei cinque compagni dormono della grossa.
Ieri l’altro dunque, cioè il 30 gennaio, dopo colazione, mentre stavo chiacchierando con Tino Barozzo, un altro collegiale grande, un certo Carlo Pezzi gli si accostò e gli disse sottovoce: “Nello stanzino ci sono le nuvole”.
“Ho capito!” rispose il Barozzo strizzando un occhio.
E poco dopo mi disse: “Addio Stoppani, vado a studiare” e se ne andò dalla parte dove era andato il Pezzi.
Io che avevo capito che quell’andare a studiare era una scusa bella e buona e che invece il Barozzo era andato nello stanzino accennato prima dal Pezzi, fui preso da una grande curiosità, e senza parere, lo seguii pensando “Voglio vedere le nuvole anch’io”.
E arrivato a una porticina dove avevo visto sparire il mio compagno di tavola, la spinsi e… capii ogni cosa.
In una piccola stanzetta che serviva per pulire e assettare i lumi a petrolio (ce n’erano due file da una parte, e in un angolo una gran cassetta di zinco piena di petrolio e cenci e spazzolini su una panca) stavano quattro collegiali grandi, che nel vedermi, si rimescolarono tutti, e vidi che uno, un certo Mario Michelozzi, cercava di nascondere qualcosa.
Ma c’era poco da nascondere, perchè le nuvole dicevano tutto: la stanza era piena di fumo e il fumo si sentiva subito che era di sigaro toscano.
“Perchè sei venuto?” disse il Pezzi con aria minacciosa.
“Oh bella, sono venuto a fumare anch’io”
“No, no!” saltò a dire il Barozzo “Lui non è abituato… gli farebbe male, e così tutto sarebbe scoperto”.
“Va bene, allora starò a veder fumare”
“Bada bene” disse un certo Maurizio Del Ponte, “Guai se…”
“Io, per regola” lo interruppi con grande dignità, avendo capito quel che voleva dire, “la spia non l’ho mai fatta, e spero bene!”
Allora il Michelozzi, che era rimasto sempre prudentemente con le mani di dietro, tirò fuori un sigaro toscano ancora acceso, se lo cacciò avidamente tra le labbra, tirò due o tre boccate e lo passò al Pezzi che fece lo stesso, passandolo poi al Barozzo che ripetè la medesima funzione passandolo a Del Ponte che, dopo le tre boccate di regola, lo rese al Michelozzi… e così si ripetè il passaggio parecchie volte, finchè il sigaro fu ridotto ad una misera cicca e la stanza era così piena di fumo che ci si asfissiava…
“Apri il finestrino!” disse il Pezzi al Michelozzi. E questi si era mosso per eseguire il saggio consiglio quando il Del Ponte esclamò:
“Calpurnio!”
E si precipitò fuori della stanza seguito dagli altri tre.
Io, sorpreso da quella parola ignorata, indugiai un po’ nell’istintiva ricerca del suo misterioso significato, pur comprendendo che era un segnale di pericolo; e quando a brevissima distanza dagli altri feci per uscire dalla porticina, mi trovai faccia a faccia con il signor Stanislao in persona che mi afferrò per il petto con la destra e mi ricacciò indietro esclamando: “Che cosa succede qua?”
Ma non ebbe bisogno di nessuna risposta; appena dentro la stanza comprese perfettamente  quel che era successo e con due occhi da spiritato, mentre gli tremavano i baffi scompigliati dall’ira, tuonò: “Ah, si fuma! Si fuma, e dove si fuma? Nella stanza del petrolio, a rischio di far saltare l’istituto! Sangue d’un drago! E chi ha fumato? Hai fumato tu? Fa’ sentire il fiato… march!”
E si chinò già mettendomi il viso contro il viso in modo che i suoi baffoni grigi mi facevano il pizzicorino sulle gote. Io eseguii l’ordine facendogli un gran sospiro sul naso ed egli si rialzò dicendo: “Tu no… difatti sei troppo piccolo. Hanno fumato i grandi… quelli che sono scappati di qui quando io imboccavo il corridoio. E chi erano? Svelto… march!”
“Io non lo so!”
“Non lo sai? Come! Ma se erano qui con te!”
A queste parole i baffi del signor Stanislao incominciarono a ballare con una ridda infernale.
“Ah, sangue d’un drago! Tu ardisci rispondere così al direttore? In prigione! In prigione! March!”
E afferratomi per un braccio mi portò via, chiamò il bidello e gli disse: “In prigione fino a nuovo ordine!”
(Vamba)

Poesie e filastrocche sulle nuvole qui: 

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La pioggia

Quando l’ammasso delle nuvole che si condensano con il freddo, si raffredda maggiormente, allora tutti i miliardi di goccioline che lo formano e che hanno già un discreto volume, diventano sempre più grosse e più pesanti e a un bel momento, cominceranno a staccarsi dalle nubi ed a precipitare sulla terra in forma di pioggia. La pioggia cade e le nuvole a poco a poco si dissolvono. (J. S. Meyer)

La pioggia
La pioggia non è altro che acqua evaporata dagli oceani, dai mari chiusi e dai nevai continentali e trasportata nell’aria sotto forma di vapore. Poichè l’aria calda può contenere molto maggior vapore che la fredda, il vapore acqueo viene trasportato senza molta difficoltà finchè i venti non incontrino aria fredda; quando ciò avviene, il vapore si condensa e precipita nuovamente alla superficie della terra in forma di pioggia o grandine o neve. (Van Loon)

Altri dettati ortografici sulla pioggia qui: 

Poesie e filastrocche sulla pioggia qui: 

Dettati ortografici sul temporale qui: 

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La nebbia

La nebbia è una nuvola bassa sulla terra formata da vapore acqueo e pulviscolo atmosferico. Essa si forma prevalentemente sul mare e sui laghi e non appena il sole la riscalda a sufficienza sparisce perchè le goccioline d’acqua evaporano e salgono nell’aria.

Altri dettati ortografici sulla nebbia qui: 

Poesie e filastrocche sulla nebbia qui: 

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La neve

La neve è una precipitazione atmosferica che avviene quando la temperatura dell’aria in cui il vapore acqueo si va condensando, diventa molto bassa. Per questo fatto, il vapore acqueo si condensa in minutissimi cristalli di ghiaccio disposti a forma di stella, i quali, cadendo, si raggruppano fra loro formando i fiocchi di neve.

Fiocchi di neve
Andate al’aperto con una tavola scura mentre nevica e studiate, mediante una lente di ingrandimento, le stelline graziose che vi cadono a miliardi dal cielo. Osserverete la mirabile costruzione di queste foglioline di cristallo, di questi grappoli di stelline, ognuno delle quali è un capolavoro che nessun gioielliere saprebbe mai imitare. (B. H. Burgel)

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Poesie e filastrocche sulla neve qui:

Un libretto fatto a mano sulla neve qui: 

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La brina

Dettati ortografici su brina,  gelo, ghiaccio, qui: 

Poesie e filastrocche su brina, gelo e ghiaccio qui: 

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La rugiada

La rugiada compare sempre la mattina presto, di primavera, d’estate, e anche al principio dell’autunno. Se di giorno ha fatto molto caldo e la notte è fresca, è certo che al mattino seguente ci sarà molta rugiada sui prati. Sull’erba, sulle foglie, sui fiori ci saranno tante goccioline d’acqua che brillano come diamanti alla luce dell’alba. (J. S. Meyer)

Altri dettati e poesie sulla rugiada qui: 

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L’arcobaleno

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Poesie e filastrocche sull’arcobaleno qui: 

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La grandine

La grandine è formata di granellini gelati che cadono da nuvole cineree. E’ preceduta spesso da un uragano nel quale si percepisce un rullio caratteristico causato, pare, dallo sfregamento dei granellini di ghiaccio che si muovono in moto vorticoso, rapidissimo. La grandine è sempre apportatrice di rovine; i granelli possono raggiungere anche la grandezza di un uovo e un peso notevole.

La grandine
D’estate, quando da noi fa un caldo insopportabile, a diverse migliaia di metri dal suolo la temperatura può essere bassissima; e allora succedono strane cose. L’aria calda che si solleva dalla terra comincia, a un certo punto, a turbinare e a trasportare con sè goccioline di acqua. Su, sempre più su le sospinge l’aria calda, finchè esse raggiungono gli strati d’aria dove la temperatura è molto bassa. Allora gelano, si trasformano in minuti ghiaccioli e cominciano a cadere. Così turbinando e cadendo, si uniscono fra loro e formano chicchi di ghiaccio che, per l’aumentato peso, precipitano sulla terra in forma di grandine. (J. S. Meyer)

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La bufera

La natura è bella anche nei suoi furori: una bufera è tanto più bella, quanto più è terribile e intensa. Ecco che il cielo si oscura e il sole si nasconde fra le nuvole scure, coi contorni neri, che si rincorrono, si inseguono come eserciti in battaglia. Guizzano i lampi e le nubi vibrano e si scuotono come invase da una corrente elettrica che le illumina, ora di una luce azzurra, ora dorata, ora argentea. Di quando in quando guizzi di lampi serpeggiano nell’oscuro esercito delle nuvole.
(P. Mantegazza)

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VULCANI materiale didattico vario

VULCANI materiale didattico vario

Sul Vesuvio

Salgo per un sentiero, il quale, serpeggiante ed angusto, in tutto rassomiglia ai sentieri di alta montagna: soltanto qui non vi sono cigli erbosi e neppure quei rari fiorellini dalle tinte intense che si trovano fino alle più grandi altezze, qui vi à la lava arida e granulosa nella quale il piede affonda come nella sabbia; qui non vi sono alberi od arbusti. Tutto è arido, tetro, arso… Arrivo sull’orlo del cratere. Larghissimo e concentrico è il cratere e le ripe, incurvandosi tutto intorno, danno l’idea di quello che doveva essere il monte prima dell’eruzione di Pompei, che ne sventrò la cima e ne fece un vulcano. (A. Moravia)

I vulcani attivi in Italia

Quattro sono i vulcani attivi in Italia: Vesuvio, Etna, Stromboli e Vulcano.

Il Vesuvio è un tipico vulcano a cono; il cratere attuale è il prodotto di un’antica eruzione che ha sventrato il cratere precedente. La più spaventosa eruzione storica del Vesuvio è stata quella dell’anno 79 dopo Cristo: le città di Ercolano, Pompei e Stabia furono annientate con tutti gli abitanti, e rimasero seppellite dalle ceneri eruttate dal vulcano.

I lavori di disseppellimento, che durano ormai da due secoli, hanno permesso di riconoscere in ogni particolare la vita degli antichi Romani, le loro abitazioni, i costumi, le suppellettili.

In attività eruttiva sono Vulcano e Stromboli, quest’ultimo in attività continua da più di 3000 anni. Passando con il piroscafo presso l’isola di Stromboli durante la notte, si vede il vulcano risplendere come un faro.

Il maggior vulcano italiano, l’Etna, è anche uno dei massimi coni eruttivi della Terra. Per altezza è il maggior monte dell’Italia peninsulare e insulare, poichè supera i 33oo metri, mentre il Gran Sasso non raggiunge i 3000 metri.

E’ un enorme cono costituito da colate laviche sovrapposte e da strati di tufo. Da millenni questo vulcano è in continua attività; attualmente si verifica un’eruzione ogni dieci anni circa.

Disastrosa fu l’eruzione del 1669: le lave sgorgate da una spaccatura lunga 18 chilometri formarono i Monti Rossi e coprirono una superficie di 50 chilometri quadrati. Vennero totalmente o parzialmente distrutti dodici centri abitati, tra cui buona parte della città di Catania, ove le colate di lava si spensero al mare. Si contarono 90.000 vittime.

La distruzione di Pompei

Dopo lunghi secoli di silenzio, nell’agosto del 79, il Vesuvio si risvegliò improvvisamente: tra boati e scuotimenti spaventosi, la sommità del monte si aprì, e dalla voragine si levò un fittissimo nembo di cenere e lapilli che oscurò il sole, e ricadendo sulla terra, coprì i campi e le case, seppellendo tutto sotto una coltre di morte. Le popolazioni, sbalordite per lo spettacolo mai visto, pazze di terrore, fuggirono incalzandosi per le vie, spargendosi per i campi, avventurandosi sul mare irato, inseguite sempre dalla pioggia implacabile di cenere e di sassi. I deboli cadevano e morivano, calpestati dai fuggitivi o soffocati dalle emanazioni micidiali del suolo; i più forti correvano senza meta, a tentoni nel buio fitto, urlando. Nè mancarono gli illusi che, sperando nella pronta fine del cataclisma, si serrarono nelle case, si stiparono nei sotterranei e morirono o schiacciati sotto le macerie o esausti dalla fame o asfissiati. (A. Manaresi)

I vulcani

Al centro della Terra si trova una enorme massa di materiale incandescente avvolto tra fiamme e gas, i quali di tanto in tanto provocano spaventose esplosioni. Quando avvengono queste esplosioni il materiale incandescente viene lanciato con tale forza che riesce a rompere anche la crosta terrestre e forma una larga spaccatura attraverso la quale giunge alla luce. Qui, a mano a mano che esce, si solidifica e dà origine ad un monte a forma di cono, che si chiama vulcano. Alla sommità del cono vi è il cratere, una grande apertura circolare, sempre pronta ad emettere da un momento all’altra lava, lapilli e cenere infuocata. In Italia vi sono tre vulcani ancora attivi, pronti cioè a mettersi in eruzione. Essi sono il Vesuvio, l’Etna e lo Stromboli.

Le formiche e il gigante

Un gruppo di uomini irsuti e vestiti di pelli si inoltra, a passo cauto, tra la vegetazione che ammanta la falda del monte. Sono armati di grossi randelli in cima ai quali hanno legato una pietra scheggiata a forma di lancia. Hanno avvistato un cerbiatto e poichè sono affamati, vogliono ucciderlo. Ma il cerbiatto è scomparso.
Ora gli uomini lo cercano fra gli alberi che coprono i fianchi della montagna. Sono alberi così fitti e così alti che il sole vi penetra a stento. Se gli uomini salissero su su, fino a raggiungere la vetta, vedrebbero gli alberi cambiare aspetto. Prima castagni fronzuti, poi querce possenti, infine abeti, pini e faggi, sempre più alti, sempre più oscuri.
Il paesaggio è selvaggio, come è selvaggio l’aspetto di quegli uomini che rassomigliano agli animali di cui vanno a caccia. Irsuti, muscolosi, fronte bassa e occhi infossati, braccia lunghe e aspetto selvatico, essi non conoscono che una legge: uccidere per mangiare.
Il monte è alto e scosceso, così alto che la sua cima, spesso, è avvolta dalle nubi. Gli uomini non sono mai saliti fin lassù: hanno paura di questo gigante. Quando le nubi si diradano e la vetta appare nitida nel cielo, essi la guardano con timore, così aguzza, spoglia e rocciosa, spesso coperta di bianco. Certo, quel monte è un nume potente che, dall’alto, guarda con disprezzo i piccoli uomini, simili a formiche, che si arrampicano per i suoi pendii. Se appena lasciasse cadere un masso su di loro, ne schiaccerebbe un bel mucchio. Se scatenasse le acque, che sgorgano fra le sue rocce, li spazzerebbe tutti, proprio come si spazza uno stuolo di formiche affaccendate. Se scuotesse appena le sue membra di pietra, li travolgerebbe in un diluvio di sassi, tra rombi spaventosi.
Gli uomini sanno tutto questo, perchè l’hanno provato. E perciò temono la montagna. La temono e l’amano. Quando le furie non la squassano, la montagna apre, benevola, le sue caverne a ripararli dalle intemperie; fornisce loro i nodosi randelli e le pietre con cui atterrare la preda; i suoi alberi maturano abbondanti frutti squisiti. Gli uomini amano la montagna nonostante le sue ire, purchè però non sputi fuoco. Anche questo, infatti, talvolta accade. Essi hanno visto con sbigottimento scaturire talvolta dalla cima di un monte un’immensa fiumana liquida che bruciava tutto ciò che incontrava lungo il suo cammino. Soltanto dopo che il gigante si era calmato, il fiume di fuoco diventava di nuovo pietra nera, consolidata lungo i fianchi. In seguito, l’avrebbero chiamata lava.
Ecco perchè le formiche hanno paura del gigante.
Eppure, il gigante sarebbe stato domato dalle formiche.
Siamo nello stesso luogo, ma mille e mille anni dopo. La montagna ha cambiato aspetto. I suoi versanti non sono più ricoperti da quella fitta vegetazione che impediva al sole di penetrare. Nelle zone più basse i campi coltivati si estendono a perdita d’occhio, solcati da strade su cui passano macchine velocissime. Graziose casette sorgono qua e là, fitte fitte, una vicina all’altra, e formano un paese da cui emerge la punta di uno svelto campanile.
Gli alberi non ammantano più i fianchi di questa montagna domata: sono stati abbattuti per fabbricare le case, le navi, per essere trasformati in tanti oggetti di cui l’uomo si serve perchè la sua vita sia sempre più comoda e facile. Forse ne ha abbattuti un po’ troppi. Soltanto in alto, la foresta è rimasta intatta, ma i fianchi della montagna sono ormai spogli. E la montagna si è vendicata lasciando precipitare le sue acque che, non più trattenute dai grossi tronchi, hanno portato devastazioni e rovine. L’uomo è corso ai ripari e ha imparato a rispettare gli alberi.
Ora la montagna è sua amica ed egli è salito sulla sua vetta e vi ha piantato la bandiera.
E’ vero che la vetta non è più così rocciosa e aguzza come al tempo degli uomini irsuti e coperti di pelli. Per troppi secoli si è eretta verso il cielo: le sue piogge l’hanno flagellata, le nevi che l’hanno ricoperta, ghiacciandosi, l’hanno spaccata in tutti i sensi; i torrenti, che per tanto tempo sono precipitati lungo i suoi fianchi, hanno trascinato pietre, terra, scavando profonde e ampie vallate dove si sono gettate le acque dei fiumi.
L’uomo è ormai amico della montagna. Le catene dei monti, che si stendono per migliaia e migliaia di chilometri, gli hanno permesso di difendersi dagli invasori meglio di una fortezza. Ed entro quelle catene egli ha stabilito i limiti della sua patria.
In tempo di pace, vi ha tracciato ampie strade su cui ha fatto passare le sue macchine rombanti e i suoi treni fragorosi. E per far questo, si è giovato dei valichi che si aprivano tra una vetta e l’altra. Talvolta, dove non era possibile servirsi dei valichi, ha scavato lunghe gallerie che hanno traforato addirittura la montagna da una parte all’altra.
Ecco perchè la montagna ha cambiato aspetto: quegli uomini che si arrampicavano lungo i suoi fianchi simili a formiche, così deboli in confronto della sua potenza, l’hanno dominata. Hanno imbrigliato le sue acque perchè non portassero devastazioni, ma fertilità; hanno sostituito la selvaggia vegetazione con campi e pascoli; hanno costruito comode abitazioni lungo i suoi fianchi, servendosi dei tronchi e delle pietre che la stessa montagna forniva; persino le lave, che essa aveva fatto scaturire fra un diluvio di fiamme, si sono trasformate, per opera degli uomini, in terreni fertili.
Le formiche hanno vinto il gigante.
(Mimì Menicucci)

La distruzione di Pompei

Da parecchi giorni la terra era scossa da un lieve terremoto; a un tratto le scosse divennero più violente. Una grossa nuvola nera di cenere, interrotta da lingue di fuoco, usciva dal cratere del Vesuvio e si ingrandiva sempre più: discese dal monte, coprì i campi e giunse fino al mare.
La terra sprofondò. Donne, uomini, bambini, fuggirono terrorizzati dalle loro case, urlando, piangendo, invocando gli dei. Non si vedeva nulla: i fanciulli chiamavano la mamma,  le mamme i figli, i mariti le spose. Sembrava giunta la fine del mondo.
Anche a Pompei si udì un terribile boato e sulla città sembrò scendere la notte. Moltissimi si trovavano nell’anfiteatro ad assistere ad uno spettacolo di gladiatori. I cittadini, impazziti di terrore, si riversarono sulla strada che conduceva al mare. Alcuni riuscirono a salvarsi, altri si attardarono nelle loro case per prendere i gioielli e i denaro. Di questi ultimi nessuno si salvò: morirono asfissiati dalle ceneri e dai vapori ardenti. Pompei fu sepolta e così Ercolano e Stabia.

La famosa eruzione del Vesuvio del 79

Lo scrittore romano Plinio il Giovane ci ha lasciato in una sua lettera questa viva e impressionante descrizione dell’eruzione del Vesuvio che nel 79 seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia. Lo zio dello scrittore, Plinio il Vecchio, considerato il più grande naturalista romano e autore di una Storia Naturale, spinto dall’amore della scienza, accorse, incurante del pericolo, per osservare da vicino il fenomeno, ma trovò la morte.
“La nube, che da lontano era difficile capire da qual monte sorgesse (solo più tardi si seppe che proveniva dal Vesuvio), somigliava per la sua forma ad un albero, più precisamente ad un pino, poichè, dopo essersi levata assai in alto, come un tronco altissimo, si ramificava intorno e appariva ora bianca, ora nerastra, secondo che era più carica di terra o di cenere.
Come era naturale, dato il suo amore alla scienza, mio zio credette che quel grandioso fenomeno fosse degno di essere esaminato più da vicino.
Ordinò dunque che gli si apparecchiasse la sua lancia (egli si trovava a Miseno, al comando della flotta romana) e stava già per uscire di casa, quando ricevette un biglietto di Rectina, moglie di Casco, atterrita dall’imminente pericolo, poichè la sua villa stava ai piedi del Vesuvio, nè altro scampo vi era se non per mare, e pregava affinchè egli volesse salvarsi da sì grande catastrofe.
Allora mio zio mutò consiglio e si accinse ad affrontare col più grande coraggio ciò che prima pensava di osservare con interesse di studioso.
Fece venire delle quadriremi, vi montò sopra egli stesso e partì per portare soccorso, non solo a Rectina, ma a molti altri, poichè la spiaggia bellissima assai era popolata.
A mano a mano che le navi si avvicinavano, una cenere più spessa e più calda pioveva su di esse; già cadevano tutt’intorno lapilli e scorie ardenti, già si era formata una improvvisa laguna, profotta dal sollevamento del fondo del mare, e il lido era reso inaccessibile peri cumuli di lapilli.
Allora, dopo essersi fermato, alquanto incerto se tornare indietro o procedere oltre, mio zio disse al pilota, che gli consigliava appunto di guadagnare l’alto mare: “La fortuna aiuta i forti: drizza la prua verso la villa di Pomponiano”.
Pomponiano si trovava a Stabia… Mio zio, portato là dal vento assai favorevole alla sua navigazione, abbraccia il suo amico tutto tremante, lo rincuora, lo esorta a farsi coraggio…
Frattanto dal Vesuvio, in più punti, si vedevano rilucere vasti incendi, il cui fulgore era accresciuto e fatto più palese dalle tenebre della notte…
Si consultarono fra loro se chiudersi dentro o se fuggire per l’aperta campagna; poichè, da un lato, le case ondeggiavano per i frequenti terremoti e sembrava che, schiantate dalle fondamenta, fossero gettate ora su un fianco ora su un altro e poi rimesse a posto; dall’altro lato, all’aperto, la pioggia delle pomici, sebbene leggere e porose, non incuteva minor paura. Tuttavia il confronto fra i due pericoli fece scegliere quest’ultimo partito: si scelse dunque l’aperta campagna…
Essi escono e si proteggono il capo, coprendosi con dei guanciali, che legano mediante lenzuoli, precauzione necessaria contro la tremenda pioggia che veniva dall’alto.
Altrove era giorno, ma là dove essi erano perdurava la notte, la più nera ed orribile fra tutte le notti, squarciata solo da un gran numero di fiaccole e da lumi d’altro genere.
Si credette bene accostarsi alla riva e vedere da vicino quello che il mare permettesse di tentare. Ma le onde erano sempre grosse e agitate da un vento contrario.
Qui, sdraiato sopra un lenzuolo che aveva fatto distendere per terra, mio zio chiede e bevve due volte dell’acqua fresca. Poi le fiamme e l’odor di zolfo, che le preannunciava, fecero fuggire tutti gli altri e costrinsero mio zio a levarsi in piedi. Si rizzò, appoggiandosi  a due schiavi, ma cadde immediatamente, come fulminato.” (Plinio il Giovane)

Storia di Roma IMPERIALE – Gli scavi di Pompei

Dopo diciassette secoli, furono iniziati gli scavi per riportare alla luce Pompei. Chi si reca oggi a visitarla, vede com’era una città al tempo di Roma antica: lunghe vie lastricate, il Foro, le terme, i templi, le case adorne di statue e affreschi, i colonnati, i giardini.
La vita a Pompei si è fermata, ma le rovine della città ci parlano ancora di quel tempo antico.

Storia di Roma IMPERIALE – La morte di Plinio

Plinio il Vecchio era un illustre scienziato. Durante l’eruzione del Vesuvio volle studiare da vicino il fenomeno e nello stesso tempo portare aiuto all’amico Pompeiano che si trovava a Stabia. Fece allestire alcune navi e partì.
Nonostante la pioggia di pietre e di ceneri ardenti, egli riuscì a giungere a Stabia.
L’indomani Plinio, Pompeiano e altri tentarono di avviarsi a piedi verso la spiaggia, ma lungo la strada l’aria, mista a vapori di zolfo, si faceva sempre più irrespirabile e Plinio morì soffocato, vittima della sua generosità.

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ITALIA materiale didattico

ITALIA materiale didattico – una raccolta di materiale didattico vario per iniziare lo studio della geografia italiana nella scuola primaria.

Come l’Italia sorse dal mare
Durante una gita in montagna, Roberto scoprì con sorpresa, nella parete rocciosa, l’impronta di una piccola conchiglia, e chiede al babbo come potesse quella conchiglia trovarsi lassù, a duemila metri sopra il livello del mare. Il babbo sorrise.
“La cosa è semplice” spiegò. “Milioni di anni fa, tutte queste montagne erano sepolte sotto il mare. Poi emersero, portando in alto dei fossili, cioè i resti pietrificati di pesci e di molluschi. Dove ora sorge la nostra bella penisola,una volta si stendevano e acque del Mediterraneo”.
“Ma come fece l’Italia a emergere dal mare?”
“Guarda” fece il babbo.
Prese il giornale, lo distese per terra, poi appoggiò le mani sui due lati e incominciò a premere verso il centro. Il foglio si accartocciò, si sollevò in tante pieghe.
“Vedi?” riprese il babbo, “Ecco come si sollevarono i monti. Fa’ conto  che la mano destra sia il continente africano e la mano sinistra sia il continente europeo. Ora devi sapere che  i continenti si muovono, come se fossero degli immensi zatteroni. I due continenti, accostandosi lentamente, fecero sollevare in tante pieghe il fondo del Mediterraneo, appunto come mi hai visto fare con il giornale. Così nacque la catena delle Alpi e la lunga, frastagliata catena degli Appennini…”.
Roberto ascoltava stupefatto.

“Hai presente la cartina geografica dell’Italia fisica? Sembra uno stivale proteso verso il mare. Ma guarda  bene: c’è tutta una struttura montagnosa che ne costituisce l’ossatura. A nord, come un grande arco, si stende la catena delle Alpi. Dalle Alpi Occidentali si dipartono gli Appennini che percorrono in lungo tutta l’Italia. Le stesse montagne della Sicilia sono un prolungamento degli Appennini, e perciò si chiamano Appennini Siculi”.
“E le pianure, come sono nate?”
“Dai depositi dei fiumi. Guarda la Pianura Padana. Dalle Alpi scendono molti fiumi che trasportano detriti e terriccio. Col passare dei secoli questi detriti hanno colmato il mare e così si sono formate le pianure. Non è chiaro?”
Roberto si fermò un attimo a guardare. All’orizzonte si estendeva la pianura sconfinata, velata da una leggera nebbiolina. Sembrava appena uscita dal mare, proprio come aveva detto il babbo.

Come si è formata l’Italia
Siamo nell’era terziaria (l’uomo apparirà soltanto nell’era successiva, la quaternaria). Le precedenti ere: primigenia, primaria e secondaria, avevano già visto alcune terre sprofondare lentamente nel mare ed altre emergere; ora un’altra grande vicenda, detta “corrugamento alpino” sta per cambiare volto all’Europa.
Una parte dell’Europa meridionale sprofonda nel mare, e nel Mediterraneo soltanto il massiccio Sardo-Corso continua a spuntare dalle acque, mentre comincia ad emergere, ciò che sarà il nostro suolo, una leggera falce di terra, costituita dalle maggiori creste alpine. Lentamente ecco affiorare poi, fra le spume del mare, il bruno dorso dell’Appennino nelle sue cime più alte, cosicchè l’Italia appare come una serie di isole. Continuando i movimenti corruganti per effetto delle immani forze endogene della terra, ecco man mano delinearsi l’alto e potente arco alpino e ad esso, e tra di loro, saldarsi le isole, che si spingono nel mare verso sud a formare un’unica lunga catena: l’Appennino.

Nel Pliocene, ultimo periodo dell’era terziaria, la cui durata si calcola dai sei ai dieci milioni di anni, l’Italia comincia a delinearsi nella sua struttura essenziale, caratteristica: c’è quantomeno lo scheletro, cui i successivi innalzamenti e  i depositi alluvionali dei fiumi aggiungeranno, poco per volta, la polpa delle pianure.
Nel passaggio dal Pliocene al Quaternario si ebbe un forte abbassamento della temperatura con relativo imponente sviluppo dei ghiacciai, e con un’intensa attività vulcanica.
Dell’epoca glaciale si calcola la durata in 600.000 anni. Tutti i più alti rilievi alpini erano coperti di ghiaccio; solo le cime più ripide e scoscese emergevano nude. I sistemi glaciali più estesi delle Alpi erano quelli della Dora Riparia, della Dora Baltea, del Ticino, dell’Adda, dell’Oglio, dell’Adige, del Piave e del Tagliamento.
I ghiacciai depositavano, ai margini e soprattutto alla fronte, i detriti di cui erano carichi: i depositi frontali si presentano tuttora come archi di colline disposte ad anfiteatro. Al ritirarsi dei ghiacciai, le conche situate a monte di tali sbarramenti morenici si colmarono d’acqua, a costituire gli odierni laghi d’Iseo, di Garda, Maggiore, di Como.

I ghiacciai hanno modellato anche le vallate sulle quali scorrevano, arrotondandone e lisciandone il fondo ed i fianchi (sezione a U), cosicchè la forma di queste valli si presenta oggi ben diversa da quella delle valli erose unicamente dai fiumi (che hanno una sezione a V).
Dai ghiacciai scendevano enormi fiumane, che divagavano capricciosamente, su letti larghissimi, per l’intera Pianura Padana, in più punti acquitrinosa e intransitabile.
Sull’Appennino, data la minore altezza dei rilievi e la diversa latitudine, non si ebbe un’espansione glaciale imponente come sulle Alpi; ma ghiacciai locali ebbero tutti i massicci più elevati, dal monte Antola nell’Appennino ligure, al monte Pollino in Calabria. I ghiacciai più estesi furono quelli del Cimone e della Cusna nell’Appennino toscano; nell’Appennino centrale quelli dei monti Sibillini, del Gran Sasso, del Velino-Sirente, della Maiella, del monte Marsicano, del monte Greco; nell’Appennino meridionale quelli dell’Alburno, del Matese, del Pollino e della Serra Dolcedorme; qualche ghiacciaio ebbe anche l’Etna.
Estesi invece furono i bacini lacustri appenninici, prosciugati poi in varie epoche, e di cui restano, comunque, cospicui residui.

Alla fine del Terziario l’Etna aveva iniziato la sua attività; attività endogena si era avuta nei monti Berici, nei Lessini, nei colli Euganei, nei monti Iblei in Sicilia, nel monte Ferru in Sardegna, e nell’interno di Alghero e di Bosa (dove si trovano colate laviche caratteristiche: le giare).
Il Pleistocene vide imponenti attività vulcaniche sul versante tirrenico: centri eruttivi si ebbero nella Toscana meridionale (Orciatico, Montecatini, Roccastrada, ecc…), nel monte Amiata, nel gruppo della Tolfa, dei monti Volsini, Cimini, Sabatini, dei Colli Laziali; più a sud furono attivi il vulcano di Roccamonfina, i Campi Flegrei, il Vesuvio, i vulcani delle isole Ponziane, di Ischia, il Vulture, e quelli delle Eolie e di Linosa.
Estintasi l’attività eruttiva, i crateri, in molti casi si trasformarono in laghi. Le ceneri e i lapilli eruttati si consolidarono in estesi depositi di tufo; Roma stessa è in parte costruita su rilievi tufacei provenienti dal Vulcano Laziale.

Il periodo che segue il ritiro dei ghiacciai è detto Olocene e risale al 20-25.000 anni fa.
E’ difficile farci un’idea dell’aspetto che presentava la nostra Italia. Sulle Alpi i ghiacciai si andavano ritirando verso le loro posizioni attuali: la montagna si copriva di boschi fittissimi, popolati da fiere, da mammiferi giganteschi, da uccelli.
Al ritiro  dei ghiacciai corrispondeva un maggior deflusso di acque che andavano ad innalzare il livello dei mari; l’Adriatico avanzava verso nord a sommergere lo spazio tra la Penisola Italiana e la Balcanica.
I grandi laghi si venivano colmando e al posto di essi subentravano pianure interne, spesso cosparse di bacini residui o di acquitrini. Frequente anche la formazione di torbiere. L’attività vulcanica si veniva a poco a poco spegnendo o attenuando. La rete idrografica si veniva stabilizzando con fenomeni di cattura, erosione regressiva, ecc…
L’Italia andava assumendo a poco a poco quella che è la sua attuale fisionomia; l’uomo vi si diffondeva, e con l’uomo iniziava anche l’intelligente opera trasformatrice del paesaggio naturale.

Come è nata l’Italia

L’Italia è una terra di incomparabile bellezza per i suoi stupendi paesaggi che vanno dalle alte vette nevose delle Alpi alle splendide coste, dai boschi alle fertili pianure.
E’ una penisola e cioè una terra circondata dal mare da tutte le parti meno una. Si stende nel Mar Mediterraneo ed è simile, per la sua forma, a uno stivale.
Ma un tempo non aveva questa forma, anzi, in tempi assai più remoti non esisteva affatto, come qualsiasi altra terra: è noto infatti che i continenti sono terre emerse.
Da un potente sconvolgimento della crosta terrestre era sorto dal mare un immenso fascio di catene che attraversava quasi tutto il globo. In questo fascio, c’erano anche le Alpi. E alla base delle Alpi, di frangevano, spumeggiando,  le onde.

In seguito, lentissimamente, il suolo cominciò a sollevarsi, a emergere dall’acqua ed ecco il dorso dell’Appennino nereggiare fra le spume del mare. A grado a grado, la catena appenninica si unisce a quella delle Alpi. Altre terre emergono qua e là come tante isole, e dopo milioni di anni, queste isole affioranti dal mare si saldano insieme. E’ lo scheletro montuoso dell’Italia. Intorno a questo scheletro, lentamente si vengono formando le pianure. Fra queste, la più vasta, la pianura del Po. Dove ora sono le fertili terre coltivate, una volta c’era il mare, e pertanto vi si rinvengono numerose conchiglie fossili, testimoni di un tempo in cui le acque si spingevano nelle gole alpine che allora erano insenature costiere, profonde e strette. Una parte delle Alpi, quella che si chiama Dolomiti, sorge addirittura su banchi di corallo.

A quest’epoca il globo era ricoperto, quasi interamente, dai ghiacci e, nella loro corsa al piano, le acque provenienti dai ghiacciai trasportavano ammassi di pietre, rocce e detriti di ogni genere, strappati ai versanti lungo i quali precipitavano.
I ghiacciai delle Alpi, nonostante la loro apparente immobilità, avevano invece un moto lento ma continuo, e per l’azione di questo movimento, nel corso dei secoli  il dorso dei monti si levigò, si abbassò, i crepacci si colmarono trasformandosi in ampie valli in fondo alle quali scorreva un fiume. I sassi e le rocce, trasportati dalle acque e trascinati dal movimento dei ghiacciai, formarono degli ammassi che oggi si chiamano morene.
Le morene, sempre nel corso dei secoli, si alzarono come barriere e le acque, arrestate da questi ostacoli, formarono i bellissimi laghi subalpini, gemme dell’Italia settentrionale.

Nel frattempo, il fondo del mare si andava sollevando e al posto delle acque si formava un’ampia e bassa pianura, attraverso la quale si convogliavano le acque provenienti da una parte dalle Alpi e dall’altra dagli Appennini. Queste acque infine si raccolsero in un ampio e maestoso fiume che un giorno si sarebbe chiamato Po.
Nel corso dei millenni l’Italia prese la forma attuale. Ma questa non sarà certo la sua forma definitiva. Se, fra migliaia e migliaia di anni gli uomini saranno ancora su questa terra, essi vedranno un’Italia ben diversa dall’Italia di oggi. Quelli che attualmente sono picchi altissimi, si saranno trasformati in vette arrotondate e in dolci pendii; le valli si saranno colmate e i fiumi avranno cambiato il loro corso. Dove oggi c’è una verde pianura, ci sarà forse una montagna di detriti rocciosi; nuove spaccature si saranno aperte e in fondo ad esse scorreranno le acque tumultuose di nuovi fiumi; dove oggi c’è un ghiacciaio forse ci sarà un lago azzurro, qualche isola sarà scomparsa nel mare e altre ne saranno emerse. Il delta del Po si sarà saldato all’opposta sponda adriatica, e Venezia, se ancora esisterà, sorgerà sulle rive di un lago…

Come potranno avvenire questi cambiamenti? Forse la nostra patria è davvero destinata ad essere vittima di paurosi sconvolgimenti e convulsioni della terra? Si tratterà sì anche di sconvolgimenti e convulsioni, ma soprattutto dell’azione secolare degli elementi. L’aria, l’acqua, il fioco sono le forze naturali che modificano incessantemente la forma della terra. Il vento che spazza, per migliaia e migliaia di anni, il crinale di una montagna, finisce con l’appiattirlo, col levigarlo; la pioggia che flagella il monte per secoli, scalza i massi di pietra e li fa rotolare lungo i pendii, approfondisce i crepacci, corrode le vette, trascina a valle i detriti. Il ghiaccio che si forma nelle fenditure, spacca le pietre più dure, le disgrega, le riduce in frammenti…

Nell’interno della terra il fuoco ancora rugge e divampa. Talvolta, questo fuoco trova una via d’uscita in una frattura della crosta terrestre e allora erompe all’esterno in un getto violento di fiamme, di cenere, di lave liquefatte.

E il fuoco? Con l’andar del tempo, dove prima c’era soltanto una spaccatura della roccia, eruttante fuoco, si forma un vulcano. In Italia abbiamo  ancora alcuni vulcani attivi: l’Etna, il Vesuvio, lo Stromboli. Ma un tempo i vulcani di questa nostra terra erano molto più numerosi e con le loro eruzioni coprirono intere regioni di alti strati di tufo, di cenere, di lava che si andarono solidificando. I sette colli su cui venne fondata Roma sono fatti di tufo, cioè di cenere vulcanica solidificata.

Passano mille e mille anni e il vulcano si esaurisce, si quieta, si spegne. Nel suo cratere, ormai inattivo, si raccolgono le acque formando un lago pittoresco. Tale è l’origine di alcuni laghi dell’Italia centrale, il lago di Vico, di Nemi, di Albano, ecc…

Ma il fuoco non scaturisce soltanto dalla terra, bensì anche dal fondo del mare. E col tempo si formano delle isole tutte di origine vulcanica, come Ischia, Procida, Capraia, Ponza, le Eolie, ecc… E, nell’andare dei secoli, così si formeranno anche isole che forse gli uomini un giorno abiteranno. Nel 1931 sorse, dal fondo del Mar Ionio, un’isola vulcanica che fu chiamata Fernandea e che dopo qualche settimana fu di nuovo inghiottita dalle acque.

Ecco come il paesaggio cambia, ecco come nel corso dei millenni cambia l’aspetto dei monti, delle pianure, dei mari, della costa.

Ma il paesaggio non cambia soltanto per opera degli elementi o degli sconvolgimenti o dei cataclismi. Cambia anche per l’opera dell’uomo che assoggetta la terra alla sua volontà, ai suoi bisogni, alle esigenze della sua vita. Prendiamo, come esempio, ancora una volta, la Pianura Padana. Oggi, questa terra è una delle più fertili d’Italia, ma un tempo, mille e mille anni fa, era una distesa arida e sassosa dalla parte dei monti, paludosa, cespugliosa e fangosa lungo il fiume. I fiumi che l ‘attraversavano spostavano continuamente il loro corso, lasciando ammassi di ghiaia e invadendo terre fino allora asciutte.

Com’è avvenuta la trasformazione che ha fatto, di questa regione ingrata e malsana, una delle più ricche e fertili terre d’Italia? E’ avvenuta per opera dell’uomo. L’uomo ha sistemato le acque costringendole entro il loro letto mediante l’erezione di argini e di muraglioni; le ha convogliate in canali, formando così un sistema di irrigazione che ha reso fertili le zone prima di allora malsane e paludose; ha costruito potenti dighe per costringere le acque a mettere in moto macchinari, opifici e, soprattutto, ha impiantato centrali elettriche per dare la forza motrice e la luce a città e paesi anche molto lontani.

Non contento di questo, l’uomo ha scavato il sottosuolo e ne ha tratto il gas metano che va ad alimentare impianti casalinghi, portando fiamma e calore da per tutto. Con il sorgere delle industrie, con l’incremento dell’agricoltura, con l’avanzare della civiltà, la regione si è popolata di grandi e attive città che l’uomo ha collegato fra loro con chilometri e chilometri di strade, creando una fitta rete di comunicazioni che ha favorito rapidi spostamenti da un paese all’altro. Ecco che cosa può mutare profondamente l’aspetto di un luogo.

(Mimì Menicucci)

era secondaria
era terziaria
era quaternaria
oggi

Il nome “Italia”

Molti furono i nomi usati nell’antichità per designare la nostra penisola. I Greci la chiamarono Esperia o “Terra del tramonto” per indicarne la posizione rispetto alla loro patria (l’Italia è a occidente della Grecia); altri la dissero Enotria o “Terra del  vino”; altri ancora Saturnia o “Terra di Saturno”, dio delle messi.
Prevalse infine il nome Italia, usato in un primo tempo per designare l’estrema punta della Calabria e poi dai Romani esteso a tutta la penisola.

E’ un nome bellissimo, ma purtroppo non se ne conosce l’esatta etimologia. Un tempo lo si faceva derivare da quello di un leggendario re Italo, più tardi lo si ritenne una derivazione dal termine osco Viteliu (o dalla voce latina vitulus) a indicare che l’Italia era una terra ricca di bovini. Oggi si è propensi a credere che esso derivi da Italoi che significa abitanti dei monti, quali infatti sarebbero stati i primi abitanti della montuosa Calabria.

Nel IV secolo aC il nome Italia era già esteso a tutto il territorio a sud dell’Arno; durante l’impero di Augusto comprendeva anche la Pianura Padana. Le tre grandi isole Sicilia, Sardegna e Corsica furono denominate Italia soltanto durante il regno di Diocleziano (IV secolo dC).

Dove l’Italia cresce di sette millimetri all’ora

Alle foci del Po la terra d’Italia avanza in mare di sessanta metri all’anno, che, se non sbaglio i conti, sono circa diciassette centimetri al giorno: qualcosa come sette millimetri all’ora. Possono sembrare pochi, perchè il mondo, in fatto di rapidità, si è fatto esigente; ma se si pensa che la marcia continua da decine di migliaia di anni e che a forza di millimetri l’instancabile fiume ha riempito tutto quello che era, un tempo, il golfo padano e che oggi è la Pianura Padana, il pensiero di questo lavoro, che si  svolge dalla preistoria e continuerà quando di noi non sarà più nemmeno un pizzico di polvere, fa venir voglia di levarsi il cappello. (O. Vergani)

L’azione modellatrice del mare
L’azione morfologica del mare, rispetto alle coste, si esercita attraverso le due forme fondamentali dell’abrasione e dell’alluvionamento, ciascuna della quali assume però diversi aspetti. Ci limiteremo a quelli che interessano le coste italiane.
Quando si affacciano sul mare rocce argillose o argillosabbiose di consistenza omogenea, l’abrasione genera delle ripe a picco (analoghe alle falaises francesi), di cui si hanno esempi sulle coste delle Marche; quando le rocce piombano a picco sul mare, l’abrasione crea, a livello del mare, una piattaforma costiera sulla quale poi si smorza il moto ondoso. Quando invece si affacciano al mare rocce con strati di diversa consistenza, si generano piccole insenature dove l’abrasione è più forte, alternate a piccoli promontori in corrispondenza degli strati più resistenti.
Il mare scava poi solchi di battente e grotte, frequentissime sulle coste alte italiane. La più celebre delle grotte erose dal mare è certamente la Grotta Azzurra di Capri, ma numerose altre ve ne sono nelle isole dell’Arcipelago napoletano, nella Penisola Sorrentina (Grotta Verde), al Capo Palinuro, sulla costa della Calabria tirrenica, lungo il Promontorio Circeo, nell’Argentario, nel Promontorio di Portovenere, sulla costa ligure di ponente e in Sardegna. Parecchie grotte si trovano a diverse altezze rispetto all’attuale livello marino: esse testimoniano antiche linee di spiaggia e spesso, come la grotta delle Arene Candide nella Riviera di Ponente, danno reperti preistorici.
Altra azione dell’abrasione marina è il distacco dalla terraferma di scogli, faraglioni, isolotti: ne sono esempi l’isola Palmaria (il cui distacco dalla costa di Portovenere fu però dovuto anche ad altre cause); l’isola di Dino presso la costa calabra; alcune isolette davanti alla costa occidentale e l’isolotto di Capo Passero all’estremità sud-est della Sicilia; l’isola Monica davanti alla costa di Santa Teresa di Gallura in Sardegna, ecc…
In senso opposto all’abrasione, e con effetti molto più rilevanti, agisce l’alluvionamento. I materiali erosi e quelli riversati dai fiumi, talora, dopo un più o meno lungo trasporto ad opera delle correnti e una elaborazione meccanica e chimica, vengono dal mare depositati a formare coste alluvionali piatte, sabbiose, normalmente strette (ad esempio in molte piccole insenature liguri, sulle coste calabresi, marchigiane, abruzzesi ecc…) accompagnate spesso, in quelle di maggior ampiezza, da dune accumulate dal vento in cordoni litorali, quali si trovano sulle coste toscane (dove vengono chiamati tomboli), laziali (dove vengono chiamati tumuleti), della Sicilia e della Sardegna.
I più vistosi effetti dell’alluvionamento si hanno alle foci dei fiumi, nei delta. Nei mari più riparati, come nell’Adriatico centrale e in fondo al golfo di Taranto, i materiali riversati dai fiumi formano cimose litoranee regolari; altrimenti si ha la formazione di veri e propri delta dalle complicate e irregolari ramificazioni, che in epoca storica, per effetto dell’azione abrasiva e delle correnti litoranee del mare, hanno subito alterne vicende di avanzamento, di stasi, di spostamenti che, complicati dall’intervento dell’uomo, ne hanno più volte mutato la configurazione: tali l’apparato deltizio Po – Adige, i delta della Magra, dell’Ombrone, del Garigliano, del Tagliamento, del Serchio – Arno, del Volturno, del Crati, del Simeto ecc…
Complessivamente la costa avanza a spese del mare: Adria e Ravenna, che nell’antichità erano città marine, ora distano dal mare rispettivamente 14 e 8 chilometri; Luni, da cui prende nome la Lunigiana, ora nell’interno, era anticamente un porto etrusco.

Il nostro paese

Vi sono paesi nel mondo, i quali, per la loro posizione geografica e configurazione, sono destinati a rappresentare sempre una delle prime parti della storia mondiale: fra questi vi è l’Italia. Pochi paesi nel mondo hanno confini così ben delimitati, come il nostro; pochi paesi hanno una posizione geografica così privilegiata come quella dell’Italia. Situata nel centro del più bel mare del mondo, esso riassunse in sè quella civiltà mediterranea, romana e cristiana, che oggi è la civiltà del mondo intero. (Gribaudi)

La forma dell’Italia

L’Italia è una penisola circondata da tre parti dal mare e a nord incoronata dalla fulgida catena delle Alpi. Ma un tempo non aveva questa forma. Una serie di paurosi e violenti sconvolgimenti fecero affiorare alcune terre e sprofondarne altre; il mare invase immensi territori e da altri si ritirò ruggendo. Il risultato di queste convulsioni di acqua e di terra fu la forma caratteristica di acqua e di terra fu la forma caratteristica delle Alpi, alle splendide marine, dai boschi selvosi alle fertili pianure.

La pianura Padana

Dove ora sono le fertili terre coltivate della pianura padana, una volta c’era il mare che si spingeva nelle gole alpine che allora erano insenature costiere. I ghiacciai che ammantavano le alte cime delle Alpi e che, apparentemente erano immobili, si muovevano, invece, con un moto lentissimo, ma continuo, trascinando ammassi di pietre, rocce e detriti di ogni genere, strappati dai versanti lungo i quali scendevano. Nel frattempo, il fondo del mare si andava sollevando e si formò così una vasta pianura attraverso la quale si convogliavano le acque irruenti dei fiumi. Fra questi, il più grande, il più ricco d’acqua, il Po.

L’azione degli elementi

Il vento che spazza, per migliaia e migliaia di anni, il crinale di una montagna, finisce per appiattirlo, per levigarlo. La pioggia che flagella il monte per secoli, scalza i massi pietrosi e li fa rotolare lungo i pendii, approfondisce i crepacci, corrode le vette, trascina a valle i detriti. E il fuoco? Nell’interno della terra il fuoco ancora rugge e divampa. Talvolta, questo fuoco trova una via di uscita in una frattura della crosta terrestre e allora erompe all’esterno in un getto violento di fiamme, di cenere, di lave liquefatte. Con l’andar del tempo, dove prima c’era soltanto una spaccatura della roccia eruttante fuoco, si forma un vulcano. La terra, insensibilmente, cambia forma e dimensione.

L’opera dell’uomo

Il paesaggio non cambia soltanto per opera degli elementi e dei cataclismi. Cambia anche per l’opera dell’uomo che assoggetta la terra alla sua volontà, ai suoi bisogni, alle esigenze della sua vita. Egli sistema le acque costringendole entro il loro letto, costruisce dighe e centrali elettriche che daranno vita ai suoi opifici ed energia elettrica alle sue città. Traccia chilometri e chilometri di strade, rende fertili zone un tempo paludose e malsane, costruisce case che formano paesi e città. Ecco che cosa può mutare profondamente l’aspetto di un luogo.

Come si è formata l’Italia

La penisola italiana è emersa dal mare. Per secoli e secoli dalle azzurre onde di un mare sconvolto, affiorano punte, scogli, terre che a settentrione si disposero a semicerchio, le Alpi. E si formarono montagne, colline, pianure; i fiumi precipitarono nelle valli e dove le acque passavano crescevano le erbe e le piante, sbocciavano i fiori. Presto la terra fu tutta un verdeggiare di floridi campi. Nelle selve cinguettarono gli uccelli, per le pianure corsero, code e criniere al vento, torme di cavalli selvaggi; dalle macchie folte uscirono grandi buoi che giravano intorno i grandi occhi stupiti. Poi nei campi, presso i fiumi, apparvero uomini alti e forti, dallo sguardo fiero, che impugnavano rami nodosi e schegge di selce.

I primi abitatori dell’Italia

Chi furono i primi abitatori dell’Italia? Oggi ci soni i Veneti, i Liguri, i Romani, i Piemontesi, tutti Italiani dalle Alpi alla Sicilia, ma migliaia e migliaia di anni fa gli abitanti erano ben diversi e anche l’Italia presentava un aspetto del tutto differente da quello di oggi. Una regione coperta di fittissime foreste, senza abitazioni, senza coltivazioni, senza alcun segno di civiltà. E su questa terra, lussureggiante di boschi, ancora scossa dalle convulsioni di decine e decine di vulcani, gruppi di uomini irsuti, dalle grosse teste e dalle lunghe braccia, vagavano fra gli alberi in cerca di cibo.

I primi abitatori dell’Italia

Nelle grotte del monte Circeo si sono trovati resti di uomini vissuti in Italia migliaia e migliaia di anni fa, razze del tutto scomparse. Ma la civiltà non è avanzata con lo stesso passo in tutte le regioni del mondo. Le migrazioni portarono ondate di popoli più civili di quelli che abitavano la penisola.

Popoli d’Italia

 Col passare del tempo, ondate di uomini migrarono nella penisola; erano popoli provenienti dalle città del Mediterraneo, che avevano imparato a costruire le navi, che conoscevano il commercio e sapevano fare i calcoli; erano Etruschi, che sapevano fabbricare bellissimi vasi di terracotta e avevano una forma di avanzata civiltà, erano i Galli che provenivano dal nord, erano i Cartaginesi che venivano dall’Africa. Tanti popoli, tante razze, che si mescolarono fra loro, costruirono le abitazioni, diffusero le loro scoperte. Uomini dai capelli biondi o bruni, ma tutti di carnagione chiara, forti, intelligenti, industriosi: gli antenati dei futuri Italiani.

Le morene

Nell’antichità tutta la pianura dell’Italia settentrionale formava un vasto golfo. Le pittoresche gole alpine erano, allora, altrettante anguste insenature costiere che servivano di afflusso alle acque scendenti dai ghiacciai che in quel tempo coprivano la maggior parte dell’Europa. Nella loro corsa al piano, i ghiacciai convogliavano macigni rocce detriti che strappavano ai versanti tra i quali precipitavano: a questo materiale si dava il nome di morena. Le morene ostruivano così le vallate e all’atto dello scioglimento dei ghiacciai trattenevano l’acqua formando così un lago.

Regioni d’Italia

Vorrei cantarvi tante canzoni,
o dell’Italia dolci regioni:
Piemonte, Veneto e Lombardia,
Liguria, Emilia, Toscana mia!
Le Marche e l’Umbria vorrei vedere,
l’Abruzzo, il Lazio e le costiere
della Campania, tutto un giardino,
ricche di frutta, di grano e vino.
Puglia, Calabria, Basilicata,
Sicilia bella, terra incantata,
Sardegna bruna di là dal mare,
oh, vi potessi tutte ammirare! (A. Cuman Pertile)

Lo stivale

Io non son della solita vacchetta
nè sono uno stival da contadino,
e se paio tagliato con l’accetta
chi lavorò non era un ciabattino;
mi fece a doppia suola e alla scudiera
e per servir da bosco e da riviera.
Dalla coscia in giù fino al tallone
sempre all’umido sto senza marcire,
son buon da caccia e per menar di sprone.
I molti ciuchi ve lo posson dire:
tacconato di solida impuntura
ho l’orlo in cima e in mezzo la costura. (G. Giusti)

Italia
Quando nomino “Italia” voglio dire
questa terra divina
su cui si corica e cammina
il mio povero corpo
e mi fa piangere e soffrire:
questo azzurro che riempie le pupille
dei miei bambini,
quest’aria che respiriamo;
questi campi, questi giardini
pieni di fiori
così belli e perfetti
che sembrano fatti con gli stampi.
Quando nomino “Italia” voglio dire
questa pianura, questi monti,
che sono solo italiani
perchè non sono così belli in nessun altro luogo;
questo mare ch’è tutto mio
perchè l’ho accarezzato con le mani,
queste città serene e soleggiate. (C. Govoni)

Italia
Italia:
parola azzurra
bisbigliata sull’infinito
da questa razza adolescente
ch’ha sempre
una poesia nuova da costruire
una gloria nuova da conquistare.
Italia:
primavera di sillabe
fiorite come le rose dei giardini
peninsulari,
stellata come i firmamenti del Sud
fatti con immense arcate blu.
Italia:
nome nostro e dei nostri figli,
via maestra del nostro amore,
rifugio odoroso dei nostri pensieri,
ultimo bacio sulle nostre palpebre
nel giorno che la morte
serenamente verrà.

Osservando la carta geografica troveremo la spiegazione dei versi “Dalla coscia in giù fino al tallone sempre all’umido sto senza marcire”. L’Italia, infatti, è circondata per tre parti dal Mar Mediterraneo che, in vicinanza delle coste, prende diversi nomi: Mar Ligure, Mar Tirreno, Mar Ionio, Mare Adriatico, facilmente rilevabili sempre dall’osservazione della carta.  E ci sarà facile anche spiegare il significato dell’ “orlo in cima e in mezzo la costura“, osservando la catena delle Alpi che a nord costituisce una potente frontiera naturale, e quella degli Appennini che si stende per tutta la lunghezza della penisola.

La felice posizione che l’Italia occupa nel Mediterraneo, ne fa il centro delle comunicazioni fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Anche per tale motivo, nel passato Roma potè divenire caput mundi, il centro del mondo conosciuto allora. La scoperta dell’America, spostando questo centro dal Mediterraneo all’Atlantico, dette un duro colpo alla supremazia commerciale dell’Italia; tuttavia, la sua posizione geografica continua ancor oggi ad essere molto importante, in quanto la nostra penisola fa da tramite tra l’Europa centrale, l’Africa ed i paesi del Medio Oriente.

L’Italia
Quando gli antichi Greci sbarcarono in quella regione dell’Italia che oggi chiamiamo Calabria, vi trovarono un popolo che portava il nome di Vituli. Quel nome significava “popolo di vitello” perchè era, per quella gente, un animale sacro.
La pronuncia greca cambiò in Itali la parola Vituli, perciò quella reglione fu chiamata Italia.
Più tardi, con la venuta dei Romani e con l’espansione del loro dominio, il nome venne a designare tutta la Penisola, oltre il Po fino ai piedi delle Alpi.
La nostra Penisola, che si protende per più di mille chilometri al centro del Mar Mediterraneo, ha la forma di un ampio stivale, con un tacco un po’ alto, sormontato da un robusto sperone.
Essa è come un gigantesco ponte gettato a congiungere l’Europa con l’Africa.
Per questa sua particolare posizione l’Italia subì dapprima l’influenza di alcune civiltà sorte lungo le coste del Mediterraneo, e divenne poi essa stessa sede si una grande civiltà, quella di Roma, che si diffuse in tutto il mondo antico.

La natura ha dato all’Italia confini ben definiti. A nord la grande cerchia delle Alpi la separa dall’Europa. Attraverso facili valichi e numerose gallerie, sono possibili le comunicazioni con la Francia, la Svizzera, l’Austria, la Slovenia.
Scendendo verso sud, l’Italia è lambita dal Mar Mediterraneo, che ad est prende in nome di Mare Adriatico, a sud di Ionio, ad ovest di Tirreno e Ligure.
Dai mari italiani emergono numerose isole, spesso raggruppate in arcipelaghi. Le più vaste sono la Sicilia e la Sardegna.
Le isole minori, sparse un po’ in tutti i mari, sono raggruppate in arcipelaghi. L’arcipelago Toscano comprende la ferrigna isola d’Elba, attorno alla quale sono disseminate Gorgona, Capraia, Pianosa e l’isola del Giglio. Dell’Arcipelago delle Ponziane fanno parte le isole di Ponza, Palmarola, Ventotene e Santo Stefano. L’Arcipelago Campano è costituito dalle isole napoletane di Ischia, Procida, Capri e Nisida. L’Arcipelago delle Eolie o Lipari, di fronte alle coste settentrionali della Sicilia, comprende Salina, Filicudi, Alicudi e i grandi crateri attivi di Vulcano e Stromboli. Al largo di Palermo emerge, solitaria, Ustica. L’Arcipelago delle Egadi, ad ovest della Sicilia, comprende le isole di Favignana, di Marettino e di Levanzo. Pantelleria, famosa per i suoi vini, fa parte della provincia di Trapani. Le Pelagie sono situate presso le coste dell’Africa. Fra esse abbiamo Lampedusa, Linosa e Lampione. Le Tremiti emergono nell’Adriatico, a nord del Gargano, con le isolette di Caprara e San Domino. Altre isole, sparse attorno alle coste della Sardegna, sono San Pietro, Sant’Antioco, Asinara, Caprera, La Maddalena.

Per il lavoro di ricerca
Come è nato il nome della nostra Patria?
Che forma ha l’Italia?
Ha sempre avuto la forma attuale, l’Italia, oppure, come tutte le terre emerse, ha subito numerose trasformazioni?
I confini dello Stato Italiano, retto oggi a Repubblica, coincidono sempre con i confini naturali della regione?
Quali territori restano esclusi?
Quanti abitanti conta l’Italia? Che cos’è il censimento?
Da quali mari è bagnata la penisola italiana?
Dove sono situati tali mari?
Qual è la massima profondità del mar Ligure? E del mar Tirreno? Del mar Ionio? Del mar Adriatico? Del mare di Sicilia? Del mare di Sardegna?
Quali tipi di coste conosci?
Com’è il clima d’Italia?
Quali sono i principali golfi della costa ligure, tirrenica, ionica e adriatica?
Quali sono le principali penisole italiane?
Quali sono le due maggiori isole?
Quali altre isole conosci?
Sai dire il nome dello stretto che separa le coste calabresi dalla Sicilia?
Come si chiamano i punti estremi dell’Italia?

Osserviamo la carta geografica (località marine)
Qual è il mare che bagna la spiaggia di Ancona?
E la spiaggia di Napoli?
Pensate che i mari siano tutti uguali? Chissà quale sarà il più profondo… il più salato… il più pescoso…
Sapete nominare ed indicare sulla carta il nome dei mari italiani e distinguere, dall’intensità del colore blu, il più profondo?

Lo Stato italiano
Perchè una nazione diventi Stato occorre che vi sia un ben determinato confine (detto confine politico) il quale può identificarsi con quello naturale, che segna i limiti della regione; e poi occorre anche che entro questo territorio circoscritto vi sia un governo, con proprie leggi, con un proprio esercito, una propria bandiera, insomma che la nazione costituisca un’entità politica differenziata dalle altre.
Nella nostra regione fisica si è formato lo Stato Italiano, retto oggi a Repubblica, i cui confini però, per quanto ottimi, non coincidono sempre con i confini naturali della regione. Restano infatti esclusi circa 21.000 km2 corrispondenti al 7% del territorio totale della regione fisica. E precisamente:
– l’isola di Corsica (Francia)
– il Nizzardo
– il monte Chaberton, la valle stretta di Bardonecchia, il Passo del Moncenisio, tre piccoli lembi sulle Alpi Occidentali (alla Francia)
– il Canton Ticino (alla Svizzera)
– la Venezia Giulia e l’Istria (all’ex Jugoslavia)
– l’isola di Malta e Gozo (Stato indipendente)
– il Principato di Monaco (Stato indipendente)
– la Repubblica di San Marino (Stato indipendente)
– la Città del Vaticano (Stato indipendente).
Solo modestissimi lembi di terre al di là dello spartiacque alpino sono stati incorporati nello Stato Italiano:
– la valle del Reno di Lei
– la valle di Livigno
– il passo di Dobbiaco
– il passo di Tarvisio
Pure le Isole Pelagie, nel mar Ionio, fanno parte dello Stato Italiano (Lampedusa, Lampione, Linosa). Esse fisicamente sono isole africane.
Questi lembi, sommati assieme, danno una superficie di appena 684 km2.

Il clima d’Italia
Possiamo suddividere il territorio italiano, per caratteri climatici, in sei regioni:
1. regione alpina. Temperatura decrescente con l’altitudine; inverni lunghi e nevosi, estati brevi e fresche. Piogge abbondanti soprattutto verso est. Clima mite nella zona dei laghi e delle valli ben riparate.
2. regione padano-veneta. Clima continentale. Minime invernali che scendono a  15° – 17° sotto zero; massime estive fino a 36° – 38° sopra lo zero.
3. regione ligure-tirrenica. Clima mite, piogge autunnali, cielo prevalentemente sereno; neve rara.
4. regione adriatica. Maggiori contrasti fra estate e inverno quanto a temperatura, e minore piovosità rispetto alla regione ligure-tirrenica.
5. regione peninsulare interna. Formata dagli altipiani e dalle conche dell’Umbria e dell’Abruzzo, dalle alte terre del Sannio, dell’Irpinia, della Basilicata e della Calabria. Temperatura decrescente con l’altitudine; inverni rigidissimi, neve copiosa; estati molto calde. Piovosità variabile da zona a zona.
6. regione insulare. Clima mite ed uniforme; inverni temperati, estati lunghe e calde. Piogge scarse, soprattutto invernali; neve soltanto sulle cime più alte.

Le isole
La Sicilia è la più grande isola italiana e di tutto il Mediterraneo; dagli antichi era detta Trinacria per la sua forma a tre punte. Misura 25.000 km2 di superficie; i vertici del triangolo sono costituiti da Capo Faro, da Capo Passero e da Capo Boeo. Il lato maggiore, verso il Tirreno, ha coste alte e rocciose; notevoli la  penisoletta di Milazzo, i golfi di Termini, di Palermo e di Trapani.
Fronteggiano questa cosa le isole di Lipari o Eolie (tra le quali la maggiore è appunto Lipari; tuttavia molto note sono anche Stromboli, per il suo vulcano, e Ustica) e il gruppo delle Egadi.
Il lato medio, verso il canale di Sicilia, ha coste prevalentemente basse e unite; sporge appena Capo Granatola e molto falcata è l’insenatura di Terranova; porti artificiali sono Marsala e Porto Empedocle. Fronteggiano queste coste, a notevole distanza, l’isola di Pantelleria e il gruppo delle Pelagie (Linosa e Lampedusa). Il lato più breve, rivolto verso il mar Ionio, ha coste frastagliate e basse nel tratto meridionale, unite a quelle settentrionali. Molto ampia e aperta è l’insenatura del golfo di Catania; dei tre porti (Messina, Siracusa e Augusta) il più importante è certamente il primo, per le comunicazioni col continente.
I monti della Sicilia sono una continuazione dell’Appennino. A nord, lungo la costa, si elevano i monti Peloritani, i Nebrodi, le Madonie, a sudest si stendono gli altipiani collinosi, come i monti Erei e i monti Iblei. Isolato sorge l’Etna o Mongibello (m 3279), il più imponente vulcano attivo d’Europa. Ai piedi dell’Etna si stende la piana di Catania. Ad ovest l’isola è occupata da una serie di altipiani, da groppe collinose e da piccoli massicci.

La Sardegna è la seconda isola dell’Italia e del Mediterraneo, coi suoi 24.000 km2 di superficie. Sulla costa settentrionale notevoli sono il golfo dell’Asinara, delimitato a ovest dall’isola omonima, e le Bocche di Bonifacio, che dividono la Sardegna dalla Corsica; Porto Torres è lo scalo di Sassari.
La costa verso il Tirreno, nel tratto rivolto a nordest, è incisa da rias e forma i golfi degli Aranci, o di Terranova, e di Orosei; è fronteggiata da numerose isolette tra cui Caprera, Tavolara e La Maddalena. La costa meridionale, verso il canale di Sardegna, sporge coi capi di Carbonara e di Spartivento, che racchiudono il golfo di Cagliari. La costa che guarda il mar Esperico si sviluppa sinuosa, coi golfi di Alghero a nord e di Oristano al centro, e a sud con le isole di San Pietro e di Sant’Antioco, la quale ultima forma il golfo di Palmas.
In Sardegna, più che vere e proprie catene montuose, vi sono altipiani e massicci separati da pianure o da larghi avvallamenti.
Il massiccio più aspro è il Gennargentu, che tocca i 1834 metri; da ricordare per la loro ricchezza di minerali, nell’angolo sudovest dell’isola, i monti di Iglesias.
L’unica pianura di una certa estensione è quella del Campidano, tra i golfi di Oristano e di Cagliari.

Delle isole minori italiane meritano di essere ricordate, nel Tirreno, l’arcipelago toscano formato dall’Isola d’Elba e dalle più piccole Gorgona, Capraia, Pianosa, Montecristo, Giglio, Giannutri; le Pontine, di fronte al golfo di Gaeta, formate dalle isole di Ponza, Zannone, Palmarola, Ventotene e Santo Stefano; le Napoletane, cioè Ischia, Procida, Vivara e Capri. Nell’Adriatico ricordiamo le Tremiti e Pelagosa.

Principali isole italiane (superficie in km2)
Sicilia…………….. 25.426,2
Sardegna………… 23.812,6
Elba…………………….223,5
Sant’Antioco…………108,9
Pantelleria……………..82,9
San Pietro………………51,3
Asinara………………….50,9
Ischia…………………….46,4
Lipari…………………….37,3
Salina…………………….26,4
Giglio…………………….21,2
Vulcano…………………20.9
Lampedusa…………….20,2
La Maddalena…………20,1
Favignana………………19,8
Capraia………………….19,5
Caprera………………….15,8
Marettimo………………12,3
Stromboli……………….12,2
Capri……………………..10,4
Montecristo……………10,4
Pianosa………………….10,3
Filicudi…………………….9,5
Ustica………………………8,3
Ponza………………………7,5
Tavolara………………….5,9
Levanzo…………………..5,6
Linosa……………………..5,4
Stagnone………………….5,4
Alicudi……………………..5,1
Spargi………………………4,2
Procida…………………….3,9
Molara……………………..3,4
Panaria…………………….3,3
Santo Stefano…………….3,1
Giannutri…………………..2,3
Gorgona……………………2,0
San Domino……………….2,0

I fiumi

Per l’abbondanza delle piogge e per la presenza delle due catene montuose delle Alpi e degli Appennini, i fiumi che scorrono in Italia sono numerosi. Essi, però, a causa della forma stretta e allungata della Penisola, hanno in gran parte corso breve.
Per le loro particolari caratteristiche possiamo distinguerli in fiumi alpini e fiumi appenninici.
I fiumi alpini sono di origine glaciale, hanno cioè origine dai ghiacciai, nascono dalle Alpi e sono soggetti a piene primaverili ed estive, causate dallo scioglimento delle nevi. I principali hanno corso lungo e sono ricchi di acque.
I fiumi appenninici, mancando sull’Appennino i nevai e i ghiacciai, sono alimentati quasi esclusivamente dall’acqua piovana. Essi hanno corso breve, e sono soggetti a improvvise e talvolta rovinose piene primaverili ed autunnali, e a secche estive quasi assolute. Sono quindi fiumi a carattere torrentizio.

Il Po è il più grande fiume d’Italia. Nasce dal Monviso, nelle Alpi occidentali, e percorre tutta la Pianura Padana fino all’Adriatico, nel quale si getta con foce a delta.
Durante il suo corso di 652 chilometri, riceve e numerosi affluenti che discendono in parte dal versante meridionale della catena alpina (affluenti di sinistra) e in parte dal versante settentrionale della catena appenninica (affluenti di destra). Bagna le città di Saluzzo, Torino, Casale Monferrato, Piacenza, Cremona.
Gli affluenti di sinistra del Po sono la Dora Riparia e la Dora Baltea, la Sesia, il Ticino, l’Adda, l’Oglio e il Mincio.
Gli affluenti di destra sono il Tanaro (l’unico che nasce dalle Alpi Marittime, presso il Col di Tenda), la Scrivia, la Trebbia, la Secchia, il Panaro.

Gettano le loro acque nell’Adriatico, oltre il Po, i seguenti fiumi alpini: l’Adige, il Brenta, il Piave, la Livenza, il Tagliamento e l’Isonzo.
Dagli Appennini scendono il Reno, la Marecchia, il Foglia, il Metauro, l’Esino, il Tronto, la Pescara, il Sangro, il Biferno, il Fortone e l’Ofanto.
Nel mar Ionio sfociano, con abbondanza di acque in primavera ed in autunno, il Bradano, il Basento, l’Agri, il Sinni e il Crati.
Nel Tirreno si gettano la Roia, la Polcevera, la Lavagna, l’Arno, l’Ombrone, il Tevere, il Garigliano, il Volturno e il Sele.
I fiumi delle isole sono di scarsa importanza ed hanno un regime di acque incostante; assomigliano più a grossi torrenti che a veri e propri fiumi. In Sicilia scorrono l’Alcantara, il Simeto, il Salso, il Belice e il Platani. In Sardegna i fiumi più importanti sono il Coghinas, il Triso, il Flumini Mannu e il Flumendosa.

I laghi

L’Italia è, tra i paesi dell’Europa, uno dei più ricchi di laghi. Sparsi un po’ in tutte le regioni della Penisola, se ne contano 4100. Essi danno una nota di bellezza a molti paesaggi.
Possiamo distinguerli in laghi alpini, laghi prealpini, laghi vulcanici, laghi appenninici e laghi costieri.
I laghi alpini, piccoli e sparsi in tutta la catena alpina, abbelliscono il paesaggio d’alta montagna. Nelle loro acque fredde e limpide si specchiano spesso le alte cime rocciose, il verde cupo degli alberi e il cielo azzurro. I più pittoreschi sono i laghi di Ledro, di Carezza, di Caldonazzo, di Braies, di Misurina.
Allo sbocco delle valli prealpine si stendono i laghi più importanti della Penisola. Solitamente sono di forma irregolare, e le loro acque riempiono il fondo di lunghe valli scavate dai ghiacciai, che un tempo scendevano fino ai margini della Pianura Padana. Sono tutti alimentati da un fiume e circondati da monti che si specchiano a picco nelle acque azzurre, o discendono con dolci declivi e a balze verdeggianti verso le rive popolate di ville e di giardini.

I laghi prealpini esercitano una benefica influenza sul clima e sulla vegetazione. Infatti sulle loro sponde prosperano piante proprie dei paesi caldi, quali il limone, il cedro, l’ulivo. La suggestiva bellezza del paesaggio, inoltre, è motivo di richiamo per numerosi turisti italiani e stranieri.
I principali laghi prealpini sono:
– il Lago Maggiore o Verbano, che ha per immissario e per emissario il fiume Ticino. La parte settentrionale del bacino appartiene alla Svizzera. Dallo specchio delle sue acque emergono le meravigliose Isole Borromee: Isola Madre, Isola Bella, Isola dei Pescatori.
– il Lago di Como o Lario, che è formato dall’Adda e si biforca in due rami: di Como e di Lecco. E’ il più profondo fra i laghi prealpini (m 410).
– il Lago d’Iseo o Sebino, che riceve le acque del fiume Oglio. In esso sorge l’isola più vasta dei laghi prealpini: Montisola.

– il lago di  Garda o Benaco, che è il più esteso d’Italia. Per la sua posizione, che è la più meridionale tra quelle dei laghi prealpini, gode di un clima particolarmente mite, che favorisce una vegetazione di tipo mediterraneo: ulivi, viti, agrumi. E’ formato dal fiume Sarca il quale, uscendone, prende il nome di Mincio.
I laghi vulcanici sono situati nella fascia antiappenninica del Lazio, della Campania e della Basilicata, e riempiono con le loro acque il cratere di antichi vulcani spenti. Perciò la loro forma è generalmente circolare.
I principali sono i laghi di Bolsena, di Bracciano, di Albano e di Nemi, nel Lazio; il lago d’Averno, nei Campi Flegrei, in Campania; i laghi di Monticcchio, in Basilicata.
Anticamente molti laghi, ora prosciugati e scomparsi, occupavano vaste conche dell’Appennino. Fra quelli rimasti i più notevoli sono il lago Trasimeno, in Umbria; il lago di Scanno, nell’Abruzzo; il lago del Matese, in Campania.
Lungo le coste della penisola vi sono dei laghi che si sono formati a causa del moto ondoso del mare, il quale ha accumulato cordoni sabbiosi dinanzi alle insenature chiudendole. Tali laghi sono i laghi di Lesina, di Varano, di Salpi, in Puglia; il lago di Fusaro in Campania; i laghi di Fondi, di Fogliano, di Sabaudia, nel Lazio; i laghi di Massaciuccoli, di Burano, di Orbetello in Toscana; i laghi di Elmas, di Cabras, di Sassu in Sardegna.

Il suolo d’Italia
Veramente meravigliosa è la varietà delle terre e delle coste d’Italia. Qui sono monti giganteschi, avvolte da nubi le cime nevose e scintillanti al sole, dirupi solcati da ghiacciai e flagellati dalla tempesta, balze scoscese, cupi burroni precipitosi, massi erranti per la pianura, e sassi e ciottoli e ghiaie alle falde. Foreste di castagni, di faggi, di larici e di pini fanno veste  a quei monti, poi cespiti di rododendri ed erbe dal cortissimo stelo, e muschi e licheni, che di varie tinte, brue, argentine, dorate, coronano le rocce. Urla il lupo fra quelle foreste, e balza la lince, s’appiatta l’orso e corre presso la neve, nel suo manto invernale, il candidissimo ermellino, e ronzano insetti. E alle cime, ai pendii, alle nevi, alle foreste, ai vaganti nuvoloni, fanno specchio nella valli romite le onde limpidissime degli incantevoli laghi. Costà son valli di soavissime chine, sparse d’ulivi, echeggianti, d’autunno, delle grida festose delle vendemmiatrici, e fertili piani sparsi e biondeggianti messi, solcati da fiumi maestosi o da fecondi canali; e colà vaste, malinconiche pianure, e terre scaldate da un ardentissimo sole, dove allignano piante e volano e corrono e strisciano animali dell’Africa vicina.

Cinta dal mare per sì gran parte, s’allunga l’Italia in una distesa di svariatissime coste; qua con dolce pendio lentamente digradanti, là scosse e  percosse dalle onde; ora  selvose, ora nude, ora coronate da ridenti colline, che si protendono in lunghi promontori e capi, e file di scogli, o scavate in vasti golfi, o seni o porti amplissimi e contro ogni mare sicuri.
Invero, se la varietà e la bellezza della terra opera in bene sull’uomo, gli Italiani dovrebbero essere i primi del mondo. (M. Lessona)

Grotte d’Italia
Nel Carso Triestino abbiamo le grotte di Trebiciano, dei Serpenti, dei Morti e le cavità di San Canziano, percorse dal Timavo nella parte sotterranea del suo corso; in quello della Cicceria, l’Abisso Bertarelli, profondo 450 metri; in quello carniolino le Grotte di Postumia col Piuca sotterraneo; presso la Selva di Tarnova l’Abisso Montenero di 480 metri; sulla Bainsizza quello di Verco di 518 metri.
Ma la massima profondità, d’Italia e del mondo, è data alla Pluga della Preta nei Lessini con 637 metri; sul monte Campo dei Fiori presso Varese abbiamo la Grotta abisso Guglielmo di 350 metri; nelle Alpi Apuane la Tana dell’uomo selvatico di 318 metri.
Migliaia sono le grotte italiane che sono state regolarmente esplorate con successo, molte infatti hanno permesso di ritrovare e riportare alla luce manufatti appartenenti alle diverse epoche preistoriche. Numerose sono quelle situate in terreno calcareo, come quelle dei già nominati altipiani carsici: del Cansiglio, di Asiago, dei Tredici Comuni, di Serle nel bresciano, oppure quelle dei diversi tratti dei monti lombardi, laziali, campani, e delle Murge pugliesi.
Fra le grotte più famose citiamo quelle di Castellana; le più vaste quelle di Postumia e San Canziano; quelle di Grimaldi (Liguria); delle Scalucce di Breonio nel veronese; del Diavolo e ROmanelli nella Terra d’Otranto; di Pertosa nel salernitano; di Pastena (Frosinone); di Capri; di Sant’Angelo nel ternano. Quelle dell’isola di Levanzo, nelle Egadi, hanno rivelato graffiti che si avvicinano alla famosa arte paleolitica delle caverne franco-cantabriche, e figure dipinte.

Il clima italiano

La temperatura
La nostra penisola è tanto allungata che necessariamente i paesi del nord hanno temperature più basse dei paesi del sud. Infatti i paesi del sud sono più vicini all’Equatore, mentre quelli del nord sono  più vicini al Polo Nord.
Per l’influenza benefica, poi, dell’ampio Tirreno, le spiagge tirreniche sono più calde di quelle adriatiche, essendo queste bagnate da un mare più ristretto, quasi interno e poco profondo.
Inoltre le zone montane hanno temperature più basse delle zone di pianura.
E questo perchè l’umidità della pianura conserva meglio il calore, e perchè le parti più basse sono più estese e perciò rimandano all’aria molti più raggi caldi ricevuti dal sole.
Questo valga per la temperatura media dell’anno.

Inoltre, mentre nelle zone marittime non vi è molta differenza tra estate e inverno, nelle zone di pianura non marine, come la Pianura Padana, la differenza è enorme.
Infatti il calore viene conservato meglio dalle acque che non dalle terre, le quali rapidamente lo rimbalzano e lo disperdono.
Invece nelle zone di montagna, come ad esempio sulle Alpi, vi è enorme differenza tra le calde giornate (calde anche d’inverno, quando c’è il sole e non c’è troppo vento) e le rigide nottate (rigide anche d’estate, specialmente nelle notti serene).

La piovosità
Le regioni più piovose in Italia sono quelle montuose. Questo perchè i monti, essendo più freddi, condensano l’umidità più delle pianure; si producono così le nubi e dalle nubi le piogge.
Sui monti del Lago Maggiore, sui monti della Carnia e dell’Istria, sull’Appennino Ligure alle spalle di Genova, si possono avere anche tre metri d’altezza  di acqua all’anno; cioè se avessimo un recipiente aperto alto tre metri, all’aria libera, in un anno si riempirebbe totalmente (purchè naturalmente impedissimo l’evaporazione).
Le zone meno piovose sono le pianure molto basse, come il Ferrarese e il Tavoliere della Puglia, in cui a mala pena si raggiunge il mezzo metro.

Ed è poco perchè la vegetazione possa crescere bene, a meno che come a Ferrara non vi passino molti fiumi o, come nelle Puglie, non siano stati costruiti molti canali di irrigazione.
Ma che importa se in posto piove anche molto, ma solo nel periodo in cui le piante non ne hanno bisogno? Le zone più fertili sono quelle in cui piove tra la primavera e l’autunno, cioè quando la vegetazione vive attivamente o sta per mettersi a riposo.
In Italia si hanno a questo riguardo tre caratteristici regimi.

Sulle coste della Sicilia, della Sardegna e di altre terre meridionali, piove specialmente d’inverno. Il perchè è semplice. D’inverno il mare è più caldo della terraferma, quindi si formano dei venti che dalle fredde terre circostanti vanno verso il più tiepido mare sulle cui isole convergeranno i venti umidi, saliranno e determineranno perciò le piogge. D’estate, siccità quasi assoluta. E’ il clima chiamato mediterraneo. Peccato che piova solo d’inverno, perchè è d’estate che le piante volentieri si inebrierebbero di acqua! Però debbo dirvi che in queste regioni, sempre tiepide e calde, anche d’inverno, vi sono piante caratteristiche che possono sopportare la siccità estiva: pini mediterranei dalla chioma a ombrello, olivi, querce da sughero, fichi d’india, agavi, ginepri, mirti, lauri, ginestre, eriche, pistacchi, capperi e altro ancora.

Sulle Alpi e sui monti in generale piove o nevica specialmente d’estate. Infatti è d’estate che i monti, ben riscaldati dal sole, richiamano i venti dai mari attorno; e i venti umidi incontrandosi o condensando l’umidità a contatto dei monti, producono nubi e poi piogge. E’ il clima chiamato continentale. I pini e gli abeti d’alta montagna molto opportunamente non perdono le foglie, perchè non potrebbero nei tiepidi ma brevi tre mesi estivi rifarsele e lavorare per fabbricarsi il cibo. Fanno eccezione i larici, che perdono le foglie anche se sono conifere come i pini e gli abeti e anche se, come questi, crescono sulle montagne.
Duvunque altrove piove di primavera e d’autunno con grande vantaggio della vegetazione.
In conclusione in Italia vi sono quattro tipi di clima:
– il clima alpino, con molto basse temperature notturne e invernali, e con piovosità abbondante estiva: le Alpi e parte dell’Appennino settentrionale e centrale;
– quello mediterraneo, con temperature miti  per tutto l’anno e con piovosità invernale e non troppo abbondante, anzi talora scarsa: le isole e la penisola a sud di Salerno;
-quello peninsulare con temperature miti lungo la costa, mediocri nell’interno e con piovosità primaverile e autunnale: tutta la parte rimanente della Penisola;
– quello della Pianura Padana, con temperature elevate d’estate e basse d’inverno, piovosità primaverile e autunnale.

Elementi del clima
Il clima è composto di più elementi e le sue caratteristiche sono influenzate in modo determinante da numerosi fattori.
Per stabilire lo stato del tempo si prendono in considerazione la temperatura dell’aria (misurata con il termometro), la pressione atmosferica (misurata con il barometro) ed i venti (la cui velocità è misurata con l’anemometro), la nebulosità del cielo (stimata in decimi), l’umidità dell’aria (misurata con l’igrometro) e le precipitazioni (misurate col pluviometro).

L’osservazione metodica, giorno per giorno, delle condizioni meteorologiche nel loro diverso combinarsi e manifestarsi e la registrazione dei relativi dati, condotta per più anni di seguito, permettono non solo di seguire il loro andamento nel corso delle quattro stagioni, ma anche di identificarne le caratteristiche medie e di stabilire così il tipo di clima di una certa regione, vasta o ristretta che sia.

La previsione del tempo in montagna
Sono i grandi moti atmosferici che determinano le condizioni meteorologiche generali; e sono le diverse condizioni meteorologiche generali; e sono le diverse condizioni della superficie terrestre che reagiscono diversamente, a seconda della reazione particolare che le terre, le acque, le foreste, le paludi, i deserti, e soprattutto le montagne, esercitando sui venti, la temperatura e l’umidità delle correnti aeree.

Specialmente e in maniera rilevantissima sono le catene montuose, e fra queste naturalmente le Alpi, che modificano potentemente l’andamento generale del tempo, determinando così fenomeni locali, i quali sono spesso in aperta contraddizione con le previsioni fatte dai centri meteorologici, che occorre ripeterlo, si limitano a riferire sulle condizioni generali generali del tempo, dipendenti nell’immediato futuro dalle leggi generali di successione dei grandi fenomeni atmosferici.

Per il tempo locale occorre possedere quella lunga precisa conoscenza della regione per cui si può tentare di prevedere il tempo che farà, cercando di concordare le segnalazioni dei bollettini meteorologici con i pronostici eminentemente locali, ma fidandosi soprattutto di questi ultimi.
E’ indubbio che la meteorologia ha fatto grandissimi progressi, ma è altrettanto vero che nulla di assolutamente definitivo è stato raggiunto. Meno che meno, in materia di previsioni in montagna, problema questo quanto mai arduo e forse insolubile per la scienza stessa.

In montagna si possono ascoltare tutti i bollettini di questo mondo; si possono avere a disposizione barometri e termometri e fare le più accurate osservazioni, e confrontarle e studiarle: tutto ciò, diciamolo francamente, servirà certamente, ma non c’è da fidarsi troppo.
Questo ben tenga presente chi frequenta la montagna e soprattutto chi fa dell’alpinismo: nulla trascurino di quanto può insegnar loro la scienza, anzi ne facciano pure tesoro; ma si valgano soprattutto dell’esperienza dei montanari e della loro personale esperienza. E più di tutto, gli alpinisti, quando si mettono sull’alta montagna, siano ben certi della loro robustezza, del loro allenamento e della loro capacità, e si affidano fiduciosi alla buona fortuna. (A. Sanmarchi)

Un lembo d’Italia in territorio straniero
Sulla sponda orientale del Lago di Lugano sorge Campione d’Italia, piccolo Comune che occupa un’area di soli 2,6 kmq, ed è abitato da poco più di mille persone. E’ grazioso, ma non varrebbe la pena di segnalarlo se non rappresentasse una vera e propria curiosità storica. Esso, infatti, pur essendo in territorio svizzero, appartiene all’Italia e precisamente alla provincia di Como, città dalla quale dista solo 25 km. La sua posizione, unica al mondo, trova origine nel lontano secolo VIII, quando l’allora signore di Campione fece dono dei propri beni agli Abati di Sant’Ambrogio. Alla fine del secolo XVIII fu assegnato alla Lombardia e, con la Lombardia, passò poi all’Italia.

Il posto di frontiera più alto d’Italia
Da Courmayeur, nelle notti serene, guardando verso il Monte Bianco, sulla sinistra del Dente del Gigante, si scorge un lumicino che sembra sospeso nel vuoto. E’ la casermetta di Punta Helbronnen, situata a quota  3462, sede del più alto presidio di frontiera d’Italia, anzi d’Europa. Cinque carabinieri italiani e altrettanti gendarmi francesi controllano qui i passaporti dei passeggeri della Funivia dei Ghiacciai, che dal dicembre del 1957 unisce l’Italia alla Francia sorvolando il massiccio del Bianco.

La traversata, lunga 15 km, ha inizio a La Palud, piccola frazione di Courmayeur, in territorio italiano, e termina a Chamonix, capitale dell’alpinismo francese, dopo aver raggiunto la massima altitudine di  3842 m a l’Auguille du Midi. E’ un volo entusiasmante durante il quale si può ammirare ciò che di più sublime hanno le Alpi. Da Punta Helbronner all’Aiguille du Midi, per un tratto di cinque chilometri, si sorvola uno dei massimi ghiacciai alpini e la formidabile cupola del Bianco sembra così vicina che si è tentati di allungare la mano per accarezzarla.

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Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA

Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA per bambini della scuola primaria

LEGGENDE ITALIANE

Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA

 In Sardegna, nel Logudoro, si racconta questa bella leggenda:

Una volta, al mondo, non c’era il fuoco. Gli uomini avevano freddo ed andarono da Sant’Antonio, che stava nel deserto, a pregarlo che facesse qualcosa per loro. Sant’Antonio ebbe compassione e siccome il fuoco era all’inferno, decise di andare a prenderlo.

Col suo porchetto e col suo bastone di ferula, Sant’Antonio si presentò, dunque, alla porta dell’inferno e bussò:
“Apritemi! Ho freddo e mi voglio riscaldare!”

I diavoli alla porta videro subito che quello non era un peccatore, ma un Santo, e dissero:
“No! No! Ti abbiamo riconosciuto! Non ti apriamo. Se vuoi lasciamo entrare il porchetto, ma te no!”

E così il porchetto entrò. Cari miei, appena dentro si mise a scorrazzare con una tale furia da mettere lo scompiglio ovunque, tanto che i diavoli, ad un certo punto, non ne poterono proprio più.
Finirono perciò per rivolgersi al Santo, che era rimasto fuori dalla porta.

“Quel tuo porco maledetto ci mette tutto in disordine! Vientelo a riprendere!”
Sant’Antonio entrò nell’inferno, toccò il porchetto col suo bastone e quello se ne stette subito quieto.
“Visto che ci sono” disse Sant’Antonio, “mi siedo un momento per scaldarmi”.

E si sedette su un sacco di sughero, proprio sul passaggio dei diavoli.
Infatti, ogni tanto, davanti a lui passava un diavolo di corsa. E Sant’Antonio, col suo bastone di ferula, giù una legnata sulla schiena.

Ad un certo punto i diavoli, arrabbiati, esclamarono:
“Questi scherzi non ci piacciono. Adesso ti bruciamo il bastone.”
Infatti lo presero e ne ficcarono la punta tra le fiamme.

Il porco, in quel momento, ricominciò a buttare all’aria tutto: cataste di legna, uncini, torce e tridenti. E i diavoli avevano un bel da fare a mettere a posto. Non ci riuscivano e non riuscivano neppure ad acchiappare quel… diavolo di porchetto.

“Se volete che lo faccia star buono” disse Sant’Antonio, “dovete ridarmi il mio bastone”.
Glielo diedero ed il porchetto stette subito buono.
Ma il bastone era di ferula ed il legno di ferula ha il midollo spugnoso. Se una scintilla entra nel midollo continua a bruciare di nascosto, senza che di fuori si veda.

Così i diavoli non si accorsero che Sant’Antonio aveva il fuoco nel bastone. Il Santo col suo bastone se ne uscì ed i diavoli tirarono un sospiro di sollievo.

Appena fu fuori, Sant’Antonio alzò il bastone con la punta infuocata e la girò intorno, facendo volare le scintille, come dando la benedizione, e cantò:
“Fuoco, fuoco,
per ogni loco;
per tutto il mondo
fuoco giocondo!”

Da quel momento, con grande contentezza degli uomini, ci fu il fuoco sulla terra. E Sant’Antonio tornò nel deserto a pregare.

Italo Calvino

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

 

LEGGENDE ITALIANE

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

Anfimonio ed Anapia erano due fratelli che vivevano moltissimi anni fa, nei dintorni di Catania. Vivevano tranquilli e sereni nella loro bella casa e lavoravano volentieri e con gioia. Nel loro semplice cuore regnava l’amore e la venerazione per i genitori ed era bello vederli pieni di riguardi, sempre obbedienti, sempre pronti a far cosa gradita.

Avvenne un giorno, che l’Etna ebbe una terribile eruzione. Aveva incominciato con boati spaventosi e dal suo cratere erano usciti lapilli e un nero fumo denso che aveva coperto il cielo, oscurando perfino il sole. Poi, lungo i fianchi della montagna, era cominciato a colare un pauroso fiume di lava incandescente che lentamente, ma inesorabilmente, progrediva lungo le pendici, verso i campi rigogliosi di messi, verso le case degli uomini.

Ma gli abitanti della città non si decidevano a lasciarla; speravano sempre che l’Etna si calmasse, che la lava si arrestasse. Solo quando essa giunse alle prime case, che caddero con immenso fragore, tutti si decisero a raccogliere quanto di meglio possedevano e a fuggire davanti al pericolo.

Anche Anfimonio ed Anapia avevano atteso nella speranza che il pericolo scomparisse.

I due fratelli, invece di cercar di mettere in salvo i loro averi, si caricarono sulle spalle i loro genitori: uno il padre, l’altro la madre, che erano oramai vecchi ed infermi e non avrebbero potuto fuggire. Poi uscirono dalla loro casetta.

Ma non potevano correre, e il fiume di lava veniva giù più svelto di loro.  Ben presto li avrebbe raggiunti.
Allora il padre e la madre dissero: “Figlioli, noi siamo vecchi e infermi; abbiamo vissuto abbastanza; lasciateci qui, salvatevi; a voi sorride ancora la vita!”

Ma i due buoni fratelli non vollero abbandonare il loro prezioso peso e raddoppiarono le energie. Per un poco parve riuscissero a vincere in velocità la lava, poi, sfiniti, si fermarono. Abbracciarono stretti i loro cari e …attesero coraggiosamente la morte.

Ma, oh… miracolo! La lava si divise in due torrenti: uno a destra, l’altro a sinistra, lasciando libero lo spazio sul quale si trovavano i quattro abbracciati e un sentiero che permise ai due fratelli di porre in salvo i genitori e se stessi.

Il fatto miracoloso stupì i Catanesi che soprannominarono Anfimonio ed Anapia “Fratelli pii”, ed il luogo dove essi passarono fu chiamato “Campi pii”.

Quando, divenuti vecchi, i due fratelli morirono, i cittadini eressero loro un grande monumento.

E la loro memoria fu sempre venerata, come esempio di amor filiale, non solo dai Catanesi, ma dai Siciliani tutti e anche da altri popoli.

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

LEGGENDE ITALIANE

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

Lo Stromboli è quel vulcano che sorge dalle acque del mare, proprio dirimpetto alla costa tirrenica della Calabria, e dietro il quale, la sera, il sole si tuffa per andare a nanna, lasciandosi dietro un incendio di porpora e d’oro.

Ma forse non conosci la sua origine, non sai come sia stato collocato proprio lì, in quello specchio di azzurro mare. Ascolta allora cosa racconta il pescatore calabrese, mentre rattoppa le reti sulla spiaggia di Palmi.

Sul monte che domina la graziosa cittadina di Palmi, e che ha preso il nome del santo, sant’Elia stava un giorno in solitaria meditazione, quando gli si accostò un uomo con un gran sacco sulle spalle.

“Che cosa porti in quel sacco, e dove vai?” gli chiese sant’Elia.
L’uomo, che aveva il viso tutto sporco, aprì il sacco e ne cavò fuori un gran mucchio di monete d’argento.

“E’ una gran fortuna” egli disse. “L’ho scoperta in un casolare abbandonato e sono disposto a dividere con te. Prendine quante ne vuoi; sono anche tue!”

Il santo prese le monete e cominciò a lanciarle lungo la china. A mano a mano che rotolavano, esse si tramutavano in pietre nere, di quelle che si vedono ancor oggi sul luogo.

Contrariato, l’uomo (che era il diavolo) balzò in piedi. D’improvviso, alle sue spalle si aprirono due grandi ali nere di pipistrello, con le quali egli si alzò in volo, planò sul mare e vi si tuffò, sprofondando.

Le acque gorgogliarono e schiumarono, si elevò una nuvolaglia, e quando questa si fu dileguata, ecco che sul mare si delineava un isolotto a forma di cono, dal cui vertice incavato uscivano lingue di fuoco e fumo.

Era lo Stromboli, e sotto di esso c’era il demonio imprigionato, che soffiava fiamme e tuoni.

Il vecchio pescatore di Palmi, dopo aver narrato la leggenda, si segna devotamente per non cadere in tentazione del demonio, mentre lo Stromboli, nel velo del tramonto, fuma da sornione la sua antica pipa.

Sulla cima del Monte Sant’Elia, si trova ancora un macigno con alcune impronte di unghie lasciate dal diavolo, prima di spiccare il volo per inabissarsi nel Tirreno.

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

LEGGENDE ITALIANE

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

 Viveva un tempo, a Trani, un povero pescatore che, nonostante passasse lunghe ore in mare a pescare, riusciva a stento a provvedere alle necessità della sua numerosa famiglia.

Una notte, gettate le reti, il pescatore si adagiò nel fondo della barca lasciata in balia delle onde e, rimuginando i suoi tristi pensieri, a poco a poco finì per addormentarsi. Fu risvegliato bruscamente da un forte strappo alle reti. Che cosa succedeva? Forse era quella la volta buona?

Certo, a giudicare dal peso, il pesce incappato nella rete doveva essere enorme. Tira e tira, il brav’uomo, eccitato e felice, riuscì finalmente a rovesciare nella barca un pesce gigantesco. Ma, ahimè, si trattava di un pescecane.
La delusione del pescatore si tramutò in una grande meraviglia, quando il pescecane cominciò a parlare.

“Hai pescato il tuo genio” disse lo squalo. “Sono io che dirigo la tua vita, non lo sapevi? Ebbene, ascolta ora. Fa’ a pezzi il mio corpo poi, raccolti tutti i miei denti, seminali nel tuo orto. Vedrai cosa succederà tra un paio di mesi”.
Il pescatore obbedì.

Trascorsi i due mesi s’avvide che nel suo orta stava crescendo un albero. In poche settimane la pianta divenne alta e frondosa.

“E ora?” pensava il pescatore aggirandosi intorno all’albero che, a parte la grandezza, non aveva nulla di particolare.

La risposta alla sua ansioso attese venne, d’improvviso, una mattina. L’uomo stava contemplando l’albero, quando, in men che non si dica, lo vide sparire sottoterra, lasciando al suo posto un magnifico cavallo bianco con la sella preparata.

Anche il cavallo parlò. Disse: “Saltami in groppa, che faremo un lungo viaggio”.

Il viaggio, infatti, fu lunghissimo e pieno di incredibili avventure. Il pescatore, ormai divenuto cavaliere, ebbe la fortuna di conoscere tutti i paesi della terra e di compiervi azioni così valorose da meritarsi la stima di grandi e potenti signori, che fecero a gara per averlo loro ospite e per colmarlo di ricchezze.

Passarono in tal modo alcuni anni e il pescatore, un bel giorno, stanco di viaggiare, decise di tornare al proprio paese per godersi in santa pace, con la sua famiglia, le ricchezze accumulate.
Però, giunto che fu a Trani, ebbe la triste sorpresa di apprendere che la moglie, credutolo morto, si era rimaritata, creandosi un’altra famiglia.
Desolato, l’uomo tornò alla sua vecchia casupola. Entrò nell’orto e andò a sedersi sul luogo ove un tempo era cresciuto l’albero.
Che gli restava da fare? Se ne stava lì, pieno di amarezza, a contemplare quel po’ di terra smossa, allorchè qualcosa attirò la sua attenzione. Fra le zolle c’era un pesciolino. Era un piccolo pesce argenteo che guizzava, boccheggiando. Il pescatore si curvò, fece per prenderlo, ma ecco che al contatto delle sue dita il pesce cominciò a gonfiarsi raggiungendo in breve dimensioni colossali.

Ma guarda guarda! Era di nuovo il pescecane pescato tanti anni fa.

“Sei tu, dunque!” disse il pescatore, “E allora? Io ho fatto tutto ciò che mi hai ordinato. Ho raccolto i tuoi denti, li ho seminati, ho visto crescere il grande albero che poi si è trasformato in un cavallo. Ho viaggiato per anni e anni, ho compiuto ogni sorta di imprese ed ho guadagnato onori e ricchezze. Ma a che vale tutto ciò se ora ho perduto la mia famiglia?”

Rispose il pescecane: “Le tue avventure non sono terminate. Riportami in mare, mettimi tra le onde e montami in groppa”.

Poco dopo, il pescecane e il pescatore prendevano il largo e scomparivano verso l’alto mare.

Che ne fu di loro? Nessuno le seppe mai.

“Forse” commentano i pescatori di Trani, a conclusione della leggenda,”stanno ancora vagando laggiù, tra le onde”.

Quello che è certo è che il nostro pescatore in paese non lo si rivide più.

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

LEGGENDE ITALIANE

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

 Questa che leggiamo adesso è una leggenda solo per metà. Infatti Ronca Battista esistette davvero. E veri sono anche i fatti da lui compiuti, che ora narreremo. Assieme ai fatti, però, è mescolata anche un po’ di leggenda, suggerita dalla fantasia popolare.

Anzitutto Ronca Battista non era il vero nome del nostro personaggio. Si chiamava Giovan Battista Cerone. Il nome di “Ronca” glielo diedero i suoi concittadini di Melfi, perchè essendo bottaio di mestiere, egli usava una roncola per tagliare i rami che gli servivano per i cerchi alle botti.

Ogni giorno, di buon mattino, Battista usciva da Melfi con un pezzo di pane in tasca e si recava nei boschi di Vulture a far la sua provvista di rami. Sceglieva quelli di castagno, che sono i più flessibili, proprio adatti per far cerchi. E sapeva tagliarli con arte insuperabile: un colpo netto di roncola, tac, e il ramo era già nelle sue mani senza che l’albero se ne fosse accorto.

Mangiato il suo pane e bevuto un sorso d’acqua da una sorgente, Battista se ne tornava poi a Melfi a lavorare.
Fin qui, tu dirai, non c’è nulla di speciale nella vita di questo Battista.

E’ vero! Ma aspetta un po’. A proposito, dimenticavo di dirti che siamo nel secolo XVI. Agli inizi di quel secolo la città di Melfi era ancora un feudo della nobile famiglia dei Caracciolo, fedele agli Spagnoli. Ma già scorrazzavano per la regione bande di Francesi che assalivano ora un paese ora l’altro, saccheggiando la popolazione. Quando i Francesi si avvicinarono a Melfi, Gianni Caracciolo, signore della città, decise di resistere ad ogni costo. E i Melfitani furono d’accordo con lui.

Capo dei Francesi era il generale Lautrec, tipo crudele e senza scrupoli. Egli era convinto di prendere Melfi in quattro e quattr’otto, e perciò ci rimase molto male quando si accorse che i Melfitani, chiuse le porte delle mura, si apprestavano alla difesa.

La lotta durò a lungo, feroce da parte degli assedianti ed eroica da parte degli assediati. Sulle mura e davanti alle porte avvenivano spesso scontri sanguinosi. Per di più, i Melfitani comiciavano a soffrire la fame, così che nottentempo qualche cittadino doveva uscire di nascosto dalla città per procurarsi un po’ di cibo nelle campagne.

Anche il nostro Battista, una notte, riuscì a sfuggire alle sentinelle francesi ed a raggiungere il bosco. Più che cibo, però, lui cercava legni per le sue botti, perchè non avendo famiglia, di mangiare non gliene mancava. Quella notte, anzi, egli aveva in tasca, come al solito, il suo pezzo di pane. Attesa l’alba, per vederci meglio, Battista diede mano alla roncola e staccò alcuni rami. Si avviò quindi in fretta, e alle soglie del bosco incontrò una vecchia tremante di freddo che lo fermò.

“Bravo giovane” disse la poveretta, “i Francesi hanno distrutto la mia capanna e rubate le mie provviste. Aiutami tu!”

Impietosito, Ronca diede il proprio pane alla vecchia. Prese quindi i rami e, acceso un fuocherello, preparò un lettino di frasche alla donna, poi lo ricoprì col suo mantello.

“Va bene così, nonnina?” chiese alla fine.

“Sii benedetto, figliolo!” disse con gratitudine la vecchina. Poi, per ricompensarlo, volle dargli un bacio in fronte e toccargli la roncola.

“D’ora in avanti” aggiunse, “questa roncola compirà prodigi!”

Battista stava per sorridere, incredulo, quando d’improvviso la vecchia si trasformò in una fata splendente e sparì.

“Diamine!” esclamò Battista “Allora è vero!”
Volle provare la roncola magica colpendo un albero, e l’albero volò subito via come una pagliuzza.
Sbalordito e contento, Battista si avviò verso Menfi.

“Se qualche sentinella oserà fermarmi, guai a lei!” pensava, maneggiando la roncola.
Sì! Altro che sentinelle! C’erano tutti i Francesi attorno alla città, scatenati nel pieno di una battaglia e, a quanto pareva, le cose andavano piuttosto male per i Melfitani.

Senza esitare, Battista si slanciò allora nella mischia, mulinando a dritta e a manca la sua roncola magica.

I Francesi intorno a lui cominciarono a piombare a terra come nespole. Invano lo assalivano da ogni parte. Più ne venivano, più ne cadevano. Sembrava che invece di una sola roncola, Battista ne maneggiasse mille. Ad un certo punto, esasperati, i Francesi gli diedero tutti addosso. Ne caddero a decine. Ma ce ne fu uno, d’un tratto, che con un salto riuscì a raggiungerlo alle spalle e a colpirlo fortemente al capo con una mazza di ferro. Battista stramazzò al suolo.

La fine di Ronco Battista segnò la fine della resistenza di Melfi. La città, caduta in mano ai Francesi, fu saccheggiata e incendiata.
Era la Pasqua del 1528.

Oggi c’è una via, a Melfi, che è dedicata alla memoria di Ronca Battista. Ma anche senza questa via, i Melfitani non avrebbero certo dimenticato l’eroico bottaio. Da quel giorno, infatti, la storia di Battista è sempre stata raccontata, di padre in figlio. A un certo punto, è vero, ci fu qualche padre che inventò l’episodio della fata; qualche padre, forse, incapace di credere che solo il coraggio e l’amor patrio avessero potuto rendere prodigiosa la roncola di Battista. E fu così che la storia divenne per metà leggenda.

Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

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Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

Paolaccio era un vagabondo senza parenti, senza amici e senza neppure un angolo di casa. Ma se lo meritava, perchè voglia di lavorare non ne aveva e, per di più, non faceva che imprecare e dimostrarsi tanto malvagio da attirarsi solo l’antipatia e il disprezzo di tutti. Pareva che nei suoi occhi ardesse sempre una luce cattiva, e chi lo vedeva girava al largo.

Una notte, mentre dormiva in un campo, vicino a Termoli, Paolaccio venne svegliato da una voce che ripeteva il suo nome. Al che lo fissava curiosamente.

“Chi diavolo sei?” chiese.

“Lo hai detto, sono proprio il diavolo. Sono venuto a proporti un patto”.

Paolaccio non si impressionò.

“Di che si tratta?” chiese di malanimo.

“Vuoi diventare ricco?” chiese a sua volta il diavolo.

“Se lo voglio? Non chiedo di meglio. E che dovrei fare in cambio?”

“Non devi fare nulla. Devi darmi solo la tua anima”

“Per questo ci sto” disse Paolaccio “Che me ne faccio dell’anima? Ma dimmi: come avrò le ricchezze?”

“Prima firma il patto e poi te lo dirò” rispose Belzebù.

Paolaccio, che non sapeva scrivere, fece una crocetta sul foglio.

“Bene” gongolò il demonio, “Ed ora stai a sentire. La vedi quella rete? Ti servirà per pescare”

“Bella roba!” esclamò Paolaccio “Come se i pesci dessero la ricchezza!”

“I pesci che ti farò pescare io, sì” proseguì il diavolo “Sono pesci bianchi e rosei che hanno una specialità: quella di inghiottire i tesori accumulati nelle navi sommerse: gemme stupende, monete d’oro e altre rarità. Sono pesci che stanno al mio servizio, pronti a farsi pescare dai miei protetti. Tu ora lo sei e quindi puoi pescarne quanti ne vuoi. Dovrai soltanto dire, immergendo la rete:

“Fortuna, vieni su:
te l’ordino nel nome
del grande Belzebù”

Paolaccio non lasciò passare la notte. Subito si avviò verso gli scogli e trasse a riva con la rete un’infinità di quei pesci biancorosei. Erano tutti pesantissimi e Paolaccio, apertili uno ad uno, accumulò in un batter d’occhio smeraldi, rubini, brillanti ed oggetti d’oro che sfavillavano con mille luci al chiarore delle stelle.

“Questa sì che è una ricchezza!” gongolava Paolaccio, non stancandosi di immergere le mani in quel tesoro.

Da quel giorno ebbe inizio per Paolaccio un’altra vita. Si comprò un palazzo principesco, si vestì da gran signore e cominciò a dare feste sfarzose, circondandosi di ogni lusso. Inutile dire che in un lampo ebbe amici a non finire, gente che lo cercava, lo ossequiava, lo lodava. Paolaccio era generoso con tutti, spandeva doni a destra e a sinistra, e ad ogni elogio che riceveva era convinto di essere diventato un grand’uomo.

Tutto dunque procedeva a meraviglia, senonchè un giorno, un brutto giorno, capitò al palazzo, che era in piena festa, uno strano individuo. Era un essere macilento, vestito di stracci, proprio fuor di posto in mezzo a tanto splendore. Ma Paolaccio lo riconobbe subito, e fattosi largo tra la folla gli si avvicinò.

“Che sei venuto a fare, qui?” gli chiese con sgomento.

“Lo sai” rispose Belzebù, “Sono venuto per il nostro contratto che, per l’appunto, scade oggi…”

“Vattene” supplicò Paolaccio colmo di terrore, “Vattene via, lasciami!”

“Eh, caro mio! Non posso. I patti sono patti. Io ti ho dato la ricchezza, tu te la sei goduta, ed ora è tempo che tu mi dia la tua anima”.

In quello stesso istante un boato terribile fece tremare il palazzo e Paolaccio cadde morto.

Qualcuno dirà: ma quei pesci biancorosei esistono veramente? Pare di sì. Molti pescatori li hanno visti. Dicono, però, che bisogna accontentarsi di guardarli da lontano perchè sono creature del demonio e non portano che male. 

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE per bambini della scuola primaria.

 

LEGGENDE ITALIANE

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE

Questo mostro del mare era Landoro, una specie di enorme drago con due occhi grandi come carri che spadroneggiava sulla superficie del mare sibilando, stridendo ed emettendo vampe di fuoco. I pescatori lo udivano da molto lontano. Ma erano ancora i tempi in cui non esistevano le barche e quindi a nessuno era mai venuto in mente di affrontare il mostro e di liberare il mare dalla sua presenza.

Da Landoro, orribile, passiamo a una fanciulla bionda, con gli occhi sognanti che passava gran parte del suo tempo sul litorale marino, guardando con nostalgia verso l’orizzonte. Era Lada. Lada guardava i gabbiani che volteggiavano liberi sulle onde e pensava: “Potessi essere come loro…”.

Un giorno questo vivo desiderio le fece spuntare sulle spalle due candide ali. La gioia di Lada fu grande. Si rizzò sulla pianta dei piedi, spiccò un salto e subito si sentì librata in alto nell’azzurro del cielo. Che meraviglia! Ora le onde correvano sotto di lei e davanti si spalancava il mare come un invito senza fine. Volava così da qualche tempo cantando, allorchè volgendo lo sguardo in basso, Lada vide il mostro dagli occhi giganteschi. La fanciulla alata ebbe un brivido d’orrore, si sentì perduta, come attratta da quegli occhi terribili in cui fiammeggiava la luce del male.

Per fortuna Landoro  quel giorno non cercava vittime. Guardò Lada poi, d’improvviso, si inabissò nelle onde. Con un sospiro di sollievo la fanciulla volò verso la costa, discese sul lido e, a poco a poco, si liberò dall’orrore del mostro. Ma, ahimè, quelle ali erano ormai inutili. Ora Lada non avrebbe più osato sorvolare il mare e spingersi fino al lontano orizzonte.

La fanciulla piangeva disperata, allorchè sentì una voce vicina: “Che cos’hai? Perchè piangi?”

Lada si volse e vide un bellissimo giovane che la guardava con dolcezza. La fanciulla narrò allo sconosciuto la sua tremenda avventura.

Il giovane, dopo un istante di meditazione, così disse: “Queste ali, Lada, sono un dono degli dei. Esse devono rallegrarti e non affliggerti. E perchè la tua gioia continui, io ucciderò Landoro e ti riaprirò la strada lucente del cielo sopra il mare”

“Chi sei?” chiese Lada colpita da tanto coraggio.

“Sono Geri” rispose il giovane, “il figlio della Quercia e del Vento”.

Lada vide il giovane impugnare una spada fulgente e avviarsi verso il mare. Scendeva la notte. Qualche stella cominciava a spuntare nel cielo. Lada si addormentò con la visione di Geri che procedeva sulle sponde. Quando si svegliò era l’alba e il mare era rosso. E rossa era anche la sabbia, rosse erano le sue mani e le sue ali.

Davanti a lei, come uscente dalle onde, avanzava Geri con la spada rosseggiante che stillava gocce di sangue.

“Lada! Lada!” gridò il giovane, “Ho ucciso il mostro!”

Quando le fu vicino e le si sedette accanto narrò come aveva affrontato Landoro, come l’aveva trafitto fra le onde. I due giovani erano felici. Persino le onde parevano felici, sciogliendosi ai loro piedi con un canto di liberazione.
Ma a poco a poco, dallo stesso mare, giunsero sulla costa segni di sgomento. Turbini di gabbiani atterriti e volteggianti sulle onde parevano fuggire da qualcosa di tremendo. L’aria cominciò a diventare irrespirabile, densa di vapori ripugnanti. I pesci si riversavano a migliaia verso la spiaggia e morivano boccheggiando sulla rena. Ora il litorale era gremito di gente piena di smarrimento e in preda all’angoscia.

Che cosa mai succedeva?

Era la vendetta del mostro. Era la morte, lugubre amica di Landoro, che ora si diffondeva ovunque, fra terra, mare e cielo, abbattendosi spietata su ogni essere vivente.

In breve, sotto la sua furia, ogni vita scomparve.

Lada e Geri seguirono la sorte di tutti, e da quel giorno, per secoli, la terra, il mare e il cielo rimasero disabitati, squallidi e silenziosi.

Poi la vita tornò a sbocciare da un piccolo fiore incantevole sulla sponda di un fiume. Era un fiore a forma di stella, dai mille petali. Un giorno dopo l’altro, questi petali si trasformarono in esseri viventi. Uno in uomo, un altro in donna, un altro in rondine, un altro ancora in farfalla e così via.

La terra si ripopolò di creature, tornò a palpitare di speranza, di gioia, di bontà, di amore…

Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA

Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA per bambini della scuola primaria.

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Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA

Patrono di Castellammare di Stabia è San Catello, vescovo e martire, al quale i fedeli attribuiscono numerosi miracoli. Tra questi si  ricorda con commozione il miracolo del grano.

Un anno, a causa di una lunga e terribile siccità, tutti i paesi intorno al Vesuvio furono colpiti da una grave carestia: le bestie morivano perchè non avevano erba e gli uomini morivano anch’essi di fame e non sapevano che rimedio trovare. Si inginocchiavano davanti a San Catello e, piangendo, lo pregavano perchè avesse pietà della loro miseria.

Un giorno del mese di giugno, al largo della costa una nave, carica di grano, fu accostata da una barchetta sulla quale c’era un vecchio con la lunga barba e la figura solenne. Il vecchio salì sulla nave e riuscì a convincere il capitano della nave a portare il suo carico di grano a Castellammare, dove glielo avrebbero ben pagato. E, per essere sicuro che il capitano non cambiasse idea, il vecchio gli diede un anello con diamante che portava al dito.

Il capitano della nave acconsentì di buon grado e, arrivato a Castellammare, vendette molto bene tutta la sua merce. Contento degli affari fatti, si sentì naturalmente il dovere di ringraziare quel buon vecchio che lo aveva indirizzato là. Per cui descrivendone la figura, ne chiedeva notizie a tutti. Ma nessuno glielo sapeva indicare.

Alla fine un popolano lo portò nella chiesa dedicata a San Catello. Era forse il Santo patrono della città l’uomo descritto dal capitano?

Proprio così! Infatti, davanti alla statua del santo, il capitano, pieno di meraviglia, esclamò inginocchiandosi: “E’ proprio lui! E’ il venerando vecchio dalla barba, che mi venne incontro sul mare e mi convinse a portare il grano qui!”

La commozione e lo stupore dei fedeli raggiunsero il colmo quando videro che al dito del Santo mancava l’anello col diamante, lo stesso che il capitano della nave aveva ricevuto da quel vecchio dalla figura solenne che lo aveva avvicinato al largo della costa. 

La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio

La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio per bambini della scuola primaria.

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La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio

Un giovane alto e biondo si fermò improvvisamente sul declivio a guardare tra il folto dei pini dove occhieggiava il mare. Aveva visto dondolarsi nell’azzurro dell’acqua una piccola nave.

Stupito da quell’insolito approdo, discese dal colle e lanciò un richiamo: “Chi siete? Che cosa cercate nella terra di Evandro, re degli Arcadi?”.

Un guerriero, che procedeva dinanzi agli altri, fissò il giovinetto e sorridendo rispose: “Sono Enea, capo dei Troiani. Nella terra di Evandro vengo a cercare alleati ed armi contro i Rutuli ed il loro feroce re Turno”.

A queste parole il giovane, senza indugiare, corse incontro all’ospite, esclamando: “Benvenuto, illustre eroe! Io sono Pallante, unico figlio di Evandro. Anche se il nostro regno è povero, leali sono gli Arcadi e sacra l’ospitalità”.

Enea e il principe salirono insieme per il declivio, seguiti dai Troiani; oltrepassarono il crinale, scesero a valle fino in vista del Palatino, su cui sorgeva Pallantea, la città dei pastori.

Evandro distese le pelli più ricche perchè i Troiani potessero riposare, offrì pane buono e miele, ascoltò Enea, che gli chiedeva alleanza.

“Gli dei mi hanno indicato l’Italia ed hanno predetto che dalla mia gente sarà fondata una città potente, grande, dominatrice del mondo: perchè i destini si compiano anche il tuo aiuto è necessario”.

Allora Evandro fece suonare il rustico corno per riunire i pastori a parlamento e ordinò a quelli più giovane e più robusti di armarsi d’arco, di frecce, di lance, di corazze per scendere in campo armati.

Anche il giovane Pallante volle combattere per Enea.

E le schiere, in ordinanza, tra uno scintillio di lance, raggiunsero il Tevere, ne seguirono le sponde ed arrivarono in campo aperto di fronte ai Rutuli.

La battaglia si ingaggiò furiosa da ambo le parti.

Il principe si gettava nelle mischie più pericolose e non esitava ad accettare i corpo a corpo con i guerrieri nemici più anziani e poderosi.

Ad un tratto si trovò di fronte al gigante Turno, il re dei Rutuli.

“Fanciullo, è temerario provarsi con me”

“Il prode non si ritira anche se il pericolo è grande”

E con queste parole scagliò la sua asta di solido frassino, ferrata e tagliente alla cima. L’aste battè sullo scudo di Turno, ma fu rigettata all’indietro.

“Ora sostieni tu la forza del mio colpo!” gridò il re dei Rutuli. E scagliò con forza. L’asta terribile trapassò lo scudo del giovanetto, lacerò la corazza, e gli si confisse nel petto.

Quando il mesto corteo che portava le spoglie di Pallante fu in vista dei luoghi paterni, il vecchio re scese incontro al diletto figlio; si chinò su di lui, quasi a ricercarne il respiro e, sentendolo gelido, si accasciò giù come quercia colpita dal fulmine.

Pallante fu sepolto in una grotta, che si apriva nel Colle Palatino, e su di lui venne posta una lampada accesa; poi la tomba fu chiusa con sassi e terriccio.

Passarono gli anni e passarono i secoli…

Il Palatino vide dal solco di Romolo sorgere la Roma quadrata; la vide allargarsi, la vide dominare i popoli italici, la vide signora di popoli e di civiltà.

Ed altri secoli passarono…

Un giorno, come turbine di guerra, i barbari si gettarono sull’Urbe, la misero a ferro e a fuoco, rovistarono ovunque, avidi di bottino.

Alcuni, battendo con le aste dove il Palatino infoltiva di corbezzoli, sentirono la terra rimbombare come se dentro fosse vuota. Stupiti, svelsero gli arbusti, scavarono, scavarono fino a ritrovare una grotta: e in fondo videro scintillare un lume.

Avanzarono timorosi e sotto il luccicore d’una lampada scorsero un corpo grande e giovanile, intatto e chiuso nelle sue lucide armi.

Vinto lo sgomento, i barbari staccarono la lampada e vi soffiarono sopra: la fiamma si piegò, guizzò, ma non si spense.

Il prodigio li impaurì: compresero che qualcosa di misterioso proteggeva la piccola lingua di fuoco. Tornarono nella grotta, appesero la lampada accesa vicino a Pallante, mirarono per un attimo i bellissimi lineamenti del giovinetto, poi arretrarono fino all’aperto, accumularono nuovamente sassi e pietre all’entrata della tomba, quindi vi ripiantarono i corbezzoli estirpati. Poi si allontanarono, volgendosi di tratto in tratto a riguardare il colle, che chiudeva un mistero per essi insolubile: quello della lampada accesa, simbolo della luce di Roma che non può morire.

(O. Visentini)

IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra

IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra, per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra

 Come mai sullo stemma della città di Terni è raffigurato un drago?
Narra la leggenda che tanti e tanti anni fa, viveva nel territorio ternano un orribile drago che teneva in continuo terrore tutta la popolazione.

Ogni zona dei dintorni era infatti malsicura per la presenza del mostro, e ben pochi erano quelli che potevano avventurarsi in un viaggio senza correre il rischio di essere assaliti. Talvolta, poi, accadeva che il drago, spinto dalla fame, arrivasse addirittura fino alle porte della città, cosicchè la gente doveva rinserrarsi nelle case. Era, insomma, un vero flagello cui occorreva porre d’urgenza rimedio.

Fu così che un giorno il Consiglio degli Anziani della città si riunì e decise di risolvere a qualsiasi costo la terribile situazione. Vennero convocati al Palazzo del Comune alcuni cittadini che avevano fama di ardimentosi. Uno dopo l’altro, però, essi rifiutarono di affrontare la rischiosa impresa.

“Signori miei” diceva uno, “Io ho moglie e figli. Non posso mettere in pericolo la mia vita”.
E un altro: “Onorevoli Consiglieri, ho un lavoro importante da svolgere, come voi sapete. Come posso abbandonarlo così d’un tratto per cimentarmi con quella bestiaccia?”

E ci fu chi si lagnò di avere un braccio malato; e chi accampò la scusa di dover fare un viaggio d’affari; e chi, persino, si rammaricò di dover esimersi dall’impresa, avendo la nonna inferma.

Gli Anziani non sapevano più a che santo rivolgersi. E già stavano per rinunciare ad ogni cosa quando, un bel mattino, si presentò loro un giovane ternano della nobile famiglia dei Cittadini. Era rivestito di un’armatura lucidissima, baldanzoso e fiero, e pareva già pronto a misurarsi col drago. Infatti disse: “Signori, col vostro permesso, ci vado io a fare una visitina  a quel mostro. Che ne dite?”

Figurarsi gli Anziani! Dissero subito di sì, che andasse pure, con tutti i loro auguri e le loro benedizioni. 

Il drago era acquattato ai margini di un boschetto. Sembrava assopito e sarebbe stata una cosa facile balzargli addosso e trafiggerlo. Ma ecco che nel preciso momento in cui il giovane stava per scagliare la lancia, il drago si eresse in tutta la sua mole e avanzò fulmineo verso il temerario. Il giovane lo evitò per miracolo.

Gli attimi che seguirono furono spaventosi. Ben due volte il giovane trafisse la bestia, ma le ferite sembravano prodotte da uno spillo. Accadde invece che, a un certo momento, il sole si riflettè nell’armatura e i lampi di luce che ne scaturirono abbagliarono il mostro. Fu questione di un secondo. Il giovane saettò la lancia con tutta la sua forza e, finalmente, trafitto da parte a parte, il drago stramazzò e rimase immobile per sempre.

Qualche cittadino di Terni, che aveva osato assistere da lontano alla scena, corse subito in città a dare la strepitosa notizia. In breve tutta la popolazione, con alla testa gli Anziani, si radunò sul luogo della lotta per constatare coi propri occhi la fine del mostro. Inutile dire che il giovane venne festeggiato solennemente e che per parecchi giorni la città visse tutta in tripudio.

Probabilmente questa leggenda ebbe origine dal fatto che, un tempo, gran parte del territorio ternano era paludoso e che la malaria diffondeva tutt’intorno il suo pestifero alito di morte, specialmente nel rione “La Chiusa”.

Poi i terreni vennero prosciugati dalla bonifica (l’assalto del giovane cavaliere), e divennero fertili e belli. Così gli acquitrini e la malaria rimasero solo un lugubre ricordo e si identificarono, nella fantasia popolare, con la figura del drago.

LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche

LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche

 C’era un povero contadino della Valle del Tronto il quale altro non possedeva che un piccolo pezzo di terreno. Ma i miseri frutti di quel campicello non bastavano a sfamare la famiglia.

Per fortuna, sorgevano su quel terreno tre bei peri che, neri e rinsecchiti d’inverno, quando giungeva la primavera si rivestivano di teneri germogli. Spuntavano poi i  fiori bianchi e, infine, a suo tempo, ecco che facevano capolino tra il fogliame i grossi frutti succosi.

Erano proprio una meraviglia quelle pere! Il buon contadino, al momento giusto, le coglieva e le portava al mercato della città, guadagnando tanto denaro da poter acquistare il grano necessario per tutto l’inverno.

Un anno, al momento del raccolto, il contadino di accorse che qualcuno gli rubava i bei frutti. Ciò doveva accadere durante la notte, perchè solo al mattino constatava il furto, ora di dieci, ora di venti ed ora di cinquanta pere.

Il pover’uomo era disperato. Come avrebbe vissuto la famiglia il prossimo inverno?

A questo punto entrò in scena Pirillo, uno dei figli del contadino: un ragazzino agile e furbo di dieci anni. Pirillo, dunque, disse al padre: “Babbo, stanotte farò io la guardia. Vedrai che scoprirò il ladro”.

Scesa la sera, Pirillo prese pane e cacio, si armò di una roncola e, salito su uno degli alberi, si nascose fra i rami più alti. Passò un’ora e ne passarono due, e Pirillo, per vincere il sonno, diede fondo alle sue provviste.

Allorchè la campana del villaggio suonò la mezzanotte e la luna era alta nel cielo e ricamava la terra con arabeschi d’argento, d’improvviso, sgranando gli occhi, Pirillo vide avanzare una strega, un’orribile donna con la barba d’un caprone e le zanne di un cinghiale.

La vecchiaccia s’appressò all’albero e stava per cogliere una pera quando Pirillo con un gesto veloce le colpì la mano con la roncola. La strega lanciò un urlo di dolore, guardò in alto e scorse Pirillo fra i rami. Cominciò allora a lagnarsi: “Dammi una pera, ragazzino, una pera soltanto”.

E Pirillo, di rimando: “Ne hai già rubate tante, vattene!”

“Se non mi dai una pera” minacciò la strega, “scuoterò l’albero finchè non cadrai!”

Pirillo scoppiò in una risata: “Provaci, se sei capace!”

Allora la strega cominciò davvero a scuotere il pero e con tanta forza che Pirillo finì per piombare a terra ai piedi della vecchia. Questa, in un attimo, lo afferrò, lo legò stretto al suo grembiule e, montata a cavalcioni su una scopa, volò veloce fino a casa sua, in una capannuccia fra i boschi.

“Eccoci qua! Ora, invece delle pere, mangerò te!” esclamò la vecchia con voce stridula.

Così detto, accese il fuoco nel camino e vi mise sopra un enorme paiolo colmo d’acqua. Quando l’acqua bolliva, Pirillo disse alla strega: “Slegami, almeno, e fammi spogliare. Non vorrai mangiarmi con tutti i vestiti”.

La vecchia approvò, slegò il fanciullo, poi brontolò minacciosa: “Ora, spogliati, su, che l’acqua è già pronta”.

Mentre Pirillo fingeva di spogliarsi, si volse al paiolo e lo scoperchiò. Fu un attimo: Pirillo si lanciò sulla strega, la afferrò per i piedi e la capovolse nell’acqua bollente, nel paiolo dovere avrebbe dovuto finire lui.

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO – per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO

Ai tempi del Medioevo molti poggi ai confini della Maremma erano incoronati da mulini a vento che provvedevano a macinare il grano delle campagne circostanti. Qualcuno, ridotto in rovina, si vede ancora oggi. Uno di questi, eroso com’è da secoli, ha un aspetto così desolante, che sembra proprio un enorme spaventapasseri.

I contadini, se sono costretti a passarci sotto, si voltano dall’altra parte per non vederlo, e ricordano con un brivido la triste leggenda che si racconta intorno ad esso.

Devi sapere, dunque, che ci fu un tempo in cui questo mulino svettava superbo sul colle con le sue belle ali roteanti al minimo soffio di vento. Ne era padrone un mugnaio che, però, era una vera peste: crudele, egoista, avaro, maligno.

Questi difetti li riversava sui poverini obbligati a macinare il loro grano da lui perchè, nella zona, quel mulino era l’unico che esistesse a vista d’occhio.

Che faceva il mugnaio? Ecco qua: rubava sul peso della farina; esigeva, per consegnarla, prezzi esorbitanti; prestava denaro ai contadini bisognosi, ma solo per chiedere indietro una cifra doppia. E se qualcuno si ammalava o gli andava male il raccolto, non aveva pietà e gli portava via tutto: la casa, gli arnesi e le bestie.

Succedeva così che, mentre quei poverini diventavano sempre più poveri e timorosi, quel mugnaio diventava sempre più ricco e prepotente.

E nessuno poteva farci nulla.

Dicono che c’è una giustizia per tutti. Ed ecco che un’annata la carestia e la siccità ridussero a zero i raccolti. Furono guai per i contadini senza un chicco di grano, ma furono guai anche per il mugnaio che non ebbe più grano da macinare.

Venne l’inverno, un invernaccio per tutti. Il mugnaio, a dir la verità, se la passava ancora benino. Chiuso nella sua casa, pane e fuoco non gli mancavano ma, inutile dirlo, se li teneva per sè, sprangato dentro.

Del resto, chi mai avrebbe bussato a quella porta? Nessuno, neanche a morir di fame. Una sera, però, qualcuno bussò.

“Chi diavolo sarà!” mugugnò il mugnaio. E andò ad aprire.

Era una donna con una creaturina in braccio. Tutti e due con gli abiti stracciati, tremanti di freddo.

“Pietà signore!” implorò la donna, “Pietà di un po’ di fuoco e di un po’ di pane”

Chiunque si sarebbe sentito spezzare il cuore. Il mugnaio, no. Duro e sgarbato, rispose: “Via, via, andate a cercare in paese!”

E siccome la donna insisteva e supplicava, il malvagio esplose con un urlo: “Vattene, se non vuoi che ti bastoni!”
In quell’attimo, accadde qualcosa che fece indietreggiare il mugnaio, pieno di sgomento. La donna, d’improvviso, si era prodigiosamente trasformata; da una povera stracciona qual era, si era mutata in una signora avvolta di luce splendente. E diversa era anche la sua voce, mentre in tono ardente esclamava: “Guai a te, uomo senza cuore! D’ora in avanti il tuo mulino sarà per sempre maledetto. Le sue ali non si muoveranno più!”

E davvero, da quella notte, le ali del mulino più non si mossero. Nei giorni seguenti, invano il mugnaio si rivolse ai più abili meccanici perchè le facessero funzionare. Le ali, lassù, parevano inchiodate nel cielo. Neppure  i venti più impetuosi, neppure le bufere più violente, riuscirono a smuoverle. Ben presto, esse diventarono nidi di neri corvi che gracchiavano, volteggiando sul mulino maledetto.

Quanto al mugnaio, nessuno ne seppe più nulla. Forse, una notte, protetto dalle tenebre, era fuggito lontano dalla squallida dimora, portandosi con sè i rimorsi di tutte le sue cattive azioni. 

Leggenda di ALASSIO – Liguria

Leggenda di ALASSIO – una leggenda ligure per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Leggenda di ALASSIO – Liguria

Forse pochi sanno l’origine del nome della città di Alassio…

… mille anni fa, circa, viveva in Germania una bella e intelligente fanciulla, dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro: Alassia si chiamava, ed era figlia nientemeno che dell’imperatore di Germania, Ottone I.

Alassia amava e voleva sposare lo scudiero imperiale. Figuratevi un po’ se Ottone avrebbe permesso che sua figlia andasse sposa a uno scudiero! Egli aveva pensato per lei ben altre nozze!

Così, quando ella si presentò al padre per chiedere il consenso ne ebbe un deciso rifiuto.

I due giovani allora pensarono di fuggire. Difatti, pochi giorni dopo, quando l’alba non aveva ancora vinto le tenebre, essi lasciarono il palazzo reale e si diressero verso il sud, verso il sole.

Cammina e cammina, dopo lunghe peripezie e non poche sofferenze, essi arrivarono finalmente in una terra piena di luce e di fiori: la Liguria. Innamorati di tanta bellezza decisero di fermarsi in quel luogo incantevole. Si stabilirono, infatti, poco ad ovest di Albenga, e lì si sposarono.

Ma per vivere dovettero lavorare e lavorare: fecero i contadini, i pescatori, coltivarono i fiori. Infine lui si mise a fare il carbonaio e lei imparò a meraviglia a tessere i merletti.

Ma che importava? Vivevano contenti, mentre il loro figlio Aleramo cresceva bello, forte ed intelligente. Non poche prove di coraggio egli aveva saputo dare. Fra l’altro aveva tratto in salvo alcuni pescatori durante una furiosissima tempesta che aveva sorpreso piccole barche al largo della costa ligure.

Passarono così molti anni…

Un bel giorno, sul far della sera, arrivò nella vicina città di Albenga nientemeno che l’imperatore. Era invecchiato, molto invecchiato. Da quando la sua figliola era fuggita, preso dal rimorso, egli non aveva più conosciuto un momento di pace.

Aveva sì inviato messi a cercarla in tutte le parti dell’impero. Ogni città, ogni terra era stata frugata, ma sempre inutilmente, sicchè il povero sovrano aveva finito col perdere ogni speranza.

Ed ecco che ora viene a sapere che la sua figliola diletta vive lì vicino col marito e col figlio. L’imperatore non volle questa volta agire di propria testa. Si recò dal vescovo di Albenga e chiese a lui consiglio su quel che doveva fare: “Perdona!”, fu la risposta.

Non era il caso di dirlo, perchè questa volta l’imperatore andò anche più in là.

Non solo concesse all’amata figliola il suo paterno perdono, ma fece il nipote Aleramo marchese del Monferrato.

E quando la figlia dell’imperatore morì, la località dove ella era vissuta contenta e felice prese il suo bel nome: Alassio.

Leggenda del Lago Santo modenese

Leggenda del Lago Santo modenese – una leggenda dell’Emilia Romagna, per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Leggenda del Lago Santo modenese

“Va bene!” disse il gigante, con la sua voce di tuono, al ministro del re, “In cambio però voglio quindici paia di buoi, trenta mucche, centocinquanta pecore e cinquanta otri di vino!”

Il ministro del re, microscopico e tremante ai piedi della grotta, fece dietro front e corse a riferire. Il re accettò e subito, senza perdere un attimo, il gigante si tirò su le maniche e si mise al lavoro. E che lavoro! Si trattava, nientedimeno, di sollevare una montagna e precipitarla a valle, distruggendo così un‘intera città con tutti i suoi abitanti.

Non era, però, una gran fatica, per un gigante dalle braccia lunghe dodici miglia e le mani vaste come un paese…

“Che cos’è questa storia?” dirai tu.

E’ la storia di un lago, un lago chiamato Lago Santo, pittoresco specchio d’acqua dell’Appennino Modenese. Sta a sentire…

…Secoli e secoli or sono, un re malvagio valicò lunghe catene di monti per venire a conquistare una città. Già altre città, già altri paesi e villaggi aveva conquistato e distrutto, senza che la sua cattiveria fosse stata punita.

Questa volta, però, si trattava di una città che non meritava di essere asservita, perchè i suoi abitanti l’avevano edificata con amore, e l’avevano resa bella, ricca e fiorente.

Allorchè essi si accorsero del pericolo che stavano correndo, per notti e per giorni si misero a scavare un enorme vallone di dove, ben nascosti e protetti, al momento opportuno avrebbero potuto scacciare il nemico con una pioggia di frecce.

Venuto a conoscenza della cosa, il re chiamò il ministro e gli impose di trovare un rimedio alla situazione. Fu così che il ministro corse alla grotta del gigante e di laggiù, microscopico e tremante, gridò: “Ehi, tu! Che cosa chiedi in cambio, per darci una mano?”

“Quindici paia di buoi!” rispose il gigante, che dal suo antro seguiva e vedeva ogni cosa, “Trenta mucche…”

E intanto si stropicciava beato le mani, pensando che, con poca fatica, avrebbe avuto da mangiare e da bere per tutto l’inverno.

Ed eccolo al lavoro. Distese le braccia, lunghe dodici miglia ciascuna, roteò le mani grandi come paesi, e afferrata a caso una montagna per il cocuzzolo, se la pose sulla testa e si incamminò per raggiungere il punto giusto di dove, scagliandola, avrebbe in un batter d’occhio seppellito città e cittadini.

Ma che cosa avvenne, ad un tratto?

Avvenne questo: miliardi di formicuzze piccine e tenaci accorsero da ogni dove e cominciarono a scavare con tutte le loro energie la montagna che il gigante portava sulla testa. Scava e scava, ben presto esse l’attraversarono da un capo all’altro. Così il gigante, si ritrovò con la testa infilata nella galleria scavata dalle formiche e con la montagna tutta intorno al collo come… un collarino.

Ma che terribile collarino! Strozzato a quel modo, che poteva fare il povero gigante? Urlava, e le sue urla si perdevano in un gorgoglio. Cercava di scrollarsi di dosso la montagna, ma più scrollava e più essa gli si assestava intorno al collo…
Sbuffava e smaniava, ma tutti i suoi movimenti non producevano che un lieve rotolio di sassi e di terriccio… Era la fine. A poco a poco, infatti, le forze gli mancarono ed egli morì.

Intanto si era messo a piovere. Una pioggia abbondante, continua, che scrosciava dilagando per la campagna e per il vallone, dividendo inesorabilmente la città dai suoi nemici.

Piovve giorno e notte, per più giorni e più notti. Ormai la città era salva e i cittadini potevano guardare con gioioso sollievo quella pioggia benedetta che li aveva liberata dal pericolo.

Così, quando tornò il sole, raggiunto il luogo in cui il gigante era crollato, tutti videro che la pioggia aveva riempito fino all’orlo anche il buco scavato dalle brave formicuzze nella montagna, formando un grazioso laghetto.

A ricordo di quel gesto di bontà, lo chiamarono Lago Santo. 

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

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Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

C’era una volta un uomo che andava intorno con un carrettino sgangherato. Una notte d’estate giunse a Gemona. Non aveva il becco di un quattrino, e non sapendo dove andare a dormire, si distese sulle panchine che stanno sotto il Palazzo Comunale. Quando fu mezzanotte sentì una voce che lo chiamava. Egli si svegliò spaventato e chiese: “Chi è?”

“Costantino,” rispose una voce sommessa, “se tu hai coraggio, io posso darti la fortuna; domani sera, a quest’ora, fatti trovare qui. Io tornerò”.

Costantino, il giorno dopo, pensava impaurito che cosa avrebbe dovuto fare. Alla fine decise di tornare a dormire sotto il palazzo.

A mezzanotte precisa, l’anima ritornò.

“Costantino!” disse, “Armati di coraggio, e vieni con me sulla torre del castello. Tu non mi vedrai, ma io ti sarò sempre vicino. Appena entrato nella torre , lancia un sasso e subito dopo vedrai comparire una bestiaccia a cavallo di una gran cassa contenente un tesoro. Essa terrà una chiave in bocca. Tu non spaventarti, ma afferra la chiave e fa ogni  sforzo per levargliela di bocca. Se non ci riuscirai la prima volta, tenta la seconda ed anche una terza. Ricordati, però, che devi far questo prima che suoni il tocco.”

Costantino, tremando, salì la riva del castello ed appena entrato nella torre gettò un sasso. Immediatamente, tra tuoni e lampi, comparve la bestiaccia. Costantino le andò incontro per toglierle la chiave, ma prese a tremare per la grande paura, e la prima volta potè appena toccarla.

Provò la seconda e non riuscì a strappargliela. Provò anche la terza, ma, proprio quando stava compiendo il maggior sforzo, sentì battere l’una, e bestiaccia e cassa scomparirono tra le fiamme.

Costantino, sconvolto, uscì dalla torre, e a metà discesa ritrovò l’anima, che gli disse: “Costantino, io avevo sperato proprio che tu mi avresti liberata. Ora, purtroppo, deve ancora nascere l’albero, con cui sarà fatta la culla di colui che mi libererà”.

Sotto il Castello di Gemona dovrebbe essere sepolto un tesoro. Ci si può, dunque, spiegare perchè, come dicono, compare ogni tanto qua e là qualche buca scavata di fresco. Qualcuno, certamente, tenta nottetempo di scoprirlo.

(V. Ostermann)

CONTURINA Leggenda del Trentino Alto Adige

CONTURINA Leggenda del Trentino Alto Adige, per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

CONTURINA

Leggenda del Trentino Alto Adige

Nella Valle di Contrin, adagiata ai piedi dell’immensa parete verticale della Marmolada, vive ancora il ricordo della leggenda di Conturina, la bellissima fanciulla vittima della propria bellezza e dell’odio della matrigna.

La matrigna di Conturina era una nobile e ricca signora, padrona di un castello e madre di due brutte ragazze.

Molti principi e giovani cavalieri venivano in visita al castello; tutti ammiravano Conturina e nessuno si occupava delle altre due.

La matrigna, alla quale ciò dispiaceva, un bel giorno ordinò a Conturina di non pronunciare una parola in presenza degli ospiti. E disse a tutti che la ragazza era stupida e muta.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

Allora la matrigna ordinò che, quando vi fossero ospiti in casa, Conturina restasse sempre perfettamente immobile. E disse a tutti che la figliastra era muta e paralitica.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

La matrigna, furente, mandò a chiamare una strega, la quale con un incantesimo trasformò Conturina in pietra.
Tutti si innamorarono della statua bellissima.
Allora la matrigna ordinò che la fanciulla impietrita venisse portata sopra un’altissima rupe, che domina il Passo di Ombretta, che venisse infitta nella roccia e abbandonata lassù.
E così fu fatto.
Mesi ed anni passarono senza che nessuno sapesse dove era andata a finire la povera Conturina.

Dopo alcuni anni, fra i pastori si cominciò a dire che nella solitudine della Val d’Ombretta, qualche volta si udiva cantare una voce di donna.

Una notte un giovane soldato, che era di sentinella sul passo, nel silenzio profondo riuscì a comprendere anche le parole del canto, nel quale Conturina raccontava la sua storia. Il soldato le gridò che allo spuntar del giorno si sarebbe arrampicato su quella rupe per liberarla. Ma Conturina gli rispose che era troppo tardi.

Nei primi sette anni sarebbe ancora stato possibile liberarla, ma alla fine del settimo anno l’incantesimo si era fatto insolubile e nessuna forza umana sarebbe valsa ormai a staccarla da quella rupe, dove ella era destinata a rimanere per sempre.

E così fu.

Qualche volta, chi passa per quel deserto di rocce che è la Valle Ombretta, specialmente di sera, ode ancora il mesto canto della povera Conturina.

(C. F. Wolf)

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta

 C’erano una volta un papà e una bambina. La bimba si chiamava Misurina e Sorapis il papà. Papà era un gigante, e Misurina una bimba piccina piccina, che poteva benissimo stargli nel taschino del panciotto. Eppure, quella piccina piccina poteva a suo agio prendere in giro quel papà grande come una montagna.

E’ la sorte che tocca ai papà troppo buoni con le bambine che non meritano nessuna bontà. E Misurina intanto cresceva stizzosa ed insolente.

Al castello di babbo Sorapis tutti la fuggivano come la peste, uomini di corte e valletti di camera, dame di compagnia e donne di cucina.

“Signori miei”, gemeva Sorapis, “lo so, lo so. Misurina è un po’ monella, ma è tanto una cara bambina! Rimedieremo… rimedieremo…”.

Ma non rimediava, pover’uomo. Anzi, la piccola, crescendo, diventava sempre più insopportabile. Il suo difetto più grande, però, era la curiosità. Una bimba così curiosa non la si sarebbe incontrata in tutto il mondo. Voleva sapere tutto, voleva vedere tutto.

Un giorno la nutrice le disse: “Una signorina come te, dovrebbe possedere lo specchio Tuttosò”

“E che cos’è questo specchio?” esclamò la bimba, facendosi rossi per l’emozione.

“Uno specchio dove basta specchiarcisi per saper tutto quanto si vuol sapere”.

“Oh” mormorò Misurina, “E come posso averlo?”

“Domandalo al tuo papà, che sa tutto”.

Misurina andò dal babbo, saltellando come un passero.

“Papà,” cominciò a gridare prima di giungergli accanto, “devi farmi un regalo!”.

“Se posso, gioietta”

“Sì che puoi”

“E allora sentiamo”

“Prima giura che me lo farai”

“Non posso giurare se non so di che regalo si tratta”

“Voglio lo specchio Tuttosò”

Sorapis impallidì. “Tu non sai ciò che mi chiedi, figliola”

“Sì che lo so!”

“Ma non sai che lo specchio appartiene alla fata del Monte Cristallo?”

“E che mi importa? Lo comprerai!”

Il povero Sorapis sospirò…

“O glielo ruberai.”

“Senti… Misurina…”

“L’hai promesso, papà!”

E quel demonio di figliola si mise a piangere e a sospirare e a rotolarsi per terra. “E se non mi porterai quello specchio, io morirò”.

Il povero papà si mise in testa la corona, vestì il mantello di ermellino, prese lo scettro a mo’ di bastone, e si avviò dalla fata che abitava a pochi passi da lui. Non appena giunse al castello, bussò.

“Avanti” disse la fata, che sedeva nella sala del trono, insieme con due damigelle. “Chi sei e cosa vuoi?”

“Sono Sorapis, e voglio lo specchio Tuttosò”

“Corbezzoli!” rise la fata, “Solamente? Come se si trattasse di fragole!”

“Oh, fata, fatina, non ridere… se tu non me lo dai, la mia bambina morirà”

“La tua bambina? E che ne sa dello specchio Tuttosò? A che le serve? Come si chiama questa bambina?”

“Misurina”

“Ah, ah!” disse la fata, “La conosco di fama. Le sue grida giungono fino a me quando fa i capricci, e questo è un capriccio ben degno di lei. Va bene, io ti darò lo specchio, ma a un patto”

“Sentiamo” accondiscese il re.

“Vedi quanto sole batte da mattina a sera sopra il mio giardino?”

“Vedo” rispose Sorapis.

“Mi brucia tutti i fiori e mi dà noia. Mi ci vorrebbe una montagna a gettarmi un po’ d’ombra. Ecco, bisognerebbe che tu, grande e grosso come sei, ti contentassi di trasformarti in una bella montagna. A questo patto ti darei lo specchio Tuttosò”.

“Oh… oh…” disse Sorapis, grattandosi un orecchio e sudando freddo.

“Prendere o lasciare” disse la fata.

“Va bene! Dammi lo specchio”, sospirò il poverino.

La fata trasse da uno scrigno, che aveva a portata di mano, un grande specchio verde e glielo porse, ma poichè si accorse che il povero Sorapis era diventato smorto, ebbe pietà di lui, e gli disse:

“Facciamo una cosa; capisco che tu non hai troppo desiderio di trasformarti in una montagna, ed è naturale, ma, d’altra parte, hai paura che la tua bimba muoia se non mantieni la promessa che le hai fatto. Ritorna al tuo castello e di’ alla bimba la condizione per cui può venire in possesso dello specchio; se ella ti vuol bene rinuncerà a possederlo per non perdere il suo papà, e tu mi rimandi lo specchio, e se no, se no… io non ne ho colpa”.

“Sta bene” rispose il re, e ripartì.

Misurina lo aspettava seduta sullo spalto più alto del castello e non appena lo vide, gli gridò: “Ebbene, me l’hai portato?”

“Eh, sì, te l’ho portato”, ansimò il poverino. E presala in mano per parlarle meglio, le riferì l’ambasciata della fata del Monte Cristallo. Misurina battè le mani.

“Tutto qui?” disse, “Dammi pure lo specchio, papà, e non pensarci. Diventare una montagna deve essere una bellissima cosa. Anzitutto non morirai più, poi ti coprirai di prati e di boschi ed io mi ci divertirò.

Il poveretto impallidì, ma tanto valeva; la sua condanna era stata decretata. Non appena Misurina ebbe afferrato lo specchio, Sorapis si ampliò, si ampliò, si gonfiò, parve lievitasse nel sole, si impietrì, e in un attimo diventò la montagna che ancora oggi si erge di fronte al Monte Cristallo.

Misurina, trovatasi innalzata a quell’altezza prodigiosa sulla cresta di una montagna bianca e nuda, dove a poco a poco gli occhi di suo padre morivano, gettò un grido terribile e, presa da un capogiro, col suo specchio verde precipitò giù.

Allora dagli occhi semispenti di Sorapis, incominciarono a scendere lacrime e lacrime, fino a che gli occhi si spensero e le lacrime non piovvero più.

Con quelle lacrime si è formato il lago sotto cui giacciono Misurina e lo specchio, e in quel lago il Sorapis si riflette e cerca con gli occhi morti la sua bimba morta.

(P. Ballario)

Leggenda del MONTE DISGRAZIA – Lombardia

Leggenda del MONTE DISGRAZIA – una leggenda della Lombardia, per bambini della scuola primaria.

Leggenda del MONTE DISGRAZIA

Il Monte Disgrazia, in fondo alla val Malenco, nella provincia di Sondrio, è oggi aspro, roccioso e brullo. Ma non è sempre stato così.

Molti secoli fa, quella montagna era ammantata di incantevoli pascoli verdi. Era un luogo talmente meraviglioso che aveva meritato il nome di Monte Bello.

A primavera i pastori risalivano verso la cima e sui pascoli erbosi si fermavano fino all’autunno coi loro greggi.
Così per molti secoli.

Un giorno comparve, presso le baite situate più in alto, un vecchio uomo sfinito dal caldo e dal digiuno. I pastori, in quel momento, stavano consumando il loro frugale pasto: pane duro e formaggio.

Il povero viandante chiese, umilmente, un po’ di cibo e il permesso di riposarsi fra loro un giorno o due, dicendo che si sentiva sfinito e febbricitante. Ma i pastori lo derisero e risposero che non avevano nessuna voglia di ospitare vagabondi malati.

“Va’ a morire altrove. Qui non c’è posto per un vagabondo come te!”

Scacciato così crudelmente, il povero vecchio seguitò in silenzio il suo cammino più a valle e si fermò solo davanti all’ultima baita, la più bassa, la più piccola e, dall’aspetto, la più povera.

Qui, all’ombra di una grande quercia sedeva tutto solo un giovane e robusto pastore. Il pellegrino gli si accostò e gli si sedette a fianco senza dir nulla. Le gambe non lo reggevano più e la vista gli si annebbiava. Il giovane pastore capì quegli occhi che piangevano e che imploravano; si alzò, gli porse l’acqua fresca della sua borraccia, poi un po’ di pane e un po’ di formaggio. Quindi lo invitò a riposare nella sua baita dicendo: “Seguiterai il cammino fra qualche giorno. Io sono solo e la tua compagnia mi farà felice”.

Il vecchio lo guardò con profonda riconoscenza. “Grazie, buon pastore” gli rispose, “Ma devo arrivare al paese prima di sera. Per raggiungerlo ci vuole qualche ora di cammino ed io sono vecchio. Accompagnami, piuttosto, fino a quelle case laggiù!”

“Se proprio vuoi proseguire, ti accompagnerò volentieri. Aspetta un momento perchè io raduni il mio gregge.” disse il pastore.

“Non occorre, lascialo pure così”, rispose il pellegrino.

Ed il vecchio, appoggiandosi al giovane, fece con lui, in silenzio, un buon tratto di cammino. All’improvviso il cielo si oscurò in modo pauroso. Non erano nuvole, ma caligine, a tratti squarciata da immense vampate di fuoco.

“Non voltarti indietro” raccomandò il pellegrino. Ma il pastore si volse lo stesso. Il monte ardeva in un gigantesco rogo. Le fiamme mandavano così vivida luce che gli occhi del pastore non la potevano sostenere e rimasero ciechi. Il giovane allora, pieno di terrore, si gettò a terra piangendo e pregando: “Dio misericordioso, ti supplico, perdona la mia disobbedienza  e toglimi da questa notte!”

“Allunga la mano” disse allora il pellegrino ” e lavati con l’acqua del fiume; poi torna presso il tuo gregge,  che è  salvo nel tuo pascolo. Abbi fede!”

Appena il pastore ebbe raccolta, con le mani tremanti, un po’ d’acqua e se ne fu bagnati gli occhi, riacquistò la vista e si guardò intorno pieno di stupore. Il cielo era ritornato sereno e tutto era pace e silenzio.

Ma il monte… il bel monte prima ravvolto di boschi e di verdi pascoli era divenuto bruno, roccioso e aspro e si ergeva coi suoi aguzzi picchi e fianchi solcati da crepacci minacciosi.

Il Monte Bello si era tramutato nel Monte Disgrazia.

LEGGENDE ITALIANE I laghi di Avigliana

LEGGENDE ITALIANE I laghi di Avigliana – una leggenda del Piemonte per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

I laghi di Avigliana

C’era una volta in Piemonte, là dove ora sorgono i due laghi di Avigliana, un grosso borgo florido e ricco. Disgraziatamente la fortuna e gli agi avevano indurito e inasprito il cuore degli abitanti: essi erano così egoisti, avari e crudeli che non facevano neppure la più piccola elemosina, e vivevano pensando solo a se stessi e al proprio benessere.

Ora avvenne che una sera d’inverno, in cui infuriava una gelida tempesta di neve, un pellegrino vestito di bianco giunse alla borgata. Appariva sfinito dal lungo cammino e si trascinava a stento nella tormenta che gli sferzava il volto pallido ed emaciato, contratto dalla fatica e dalla pena.

Bussò alla porta di una casa, le cui finestre dai vetri appannati rivelavano come nell’interno vi fosse un buon tepore, e chiese per carità un po’ di pane, una ciotola di latte caldo, un ricovero per la notte: era un pellegrino, un fedele di Dio, e Dio avrebbe ricompensato chi lo avesse ospitato.

Ma vane furono le richieste e le preghiere del bianco viandante.

Tutti gli chiusero la porta in faccia con mala grazia, rifiutandogli ogni soccorso.

Ormai egli aveva percorso tutte le vie, picchiato a tutti gli usci. Restava ancora solo una misera casupola sperduta, che sporgeva su una piccola altura, un po’ fuori del paese. Dietro i vetri della minuscola finestrella si scorgeva oscillare una fioca fiammella di candela.

Il pellegrino bussò  anche a quest’ultima porta, con un ultimo barlume di speranza. Una vecchiarella tremula, poveramente vestita, gli aprì e lo invitò premurosamente ad entrare.

Lo fece accomodare accanto al camino ed accese un fuoco di sterpi e di rami secchi, raccolti pazientemente, un po’ alla volta, nei boschi, durante l’autunno. Poi gli scaldò una tazza di brodo e gli diede una fetta di pane nero, tutto ciò che le restava nella madia.

“Poverino, sei tutto fradicio!” gli disse, aiutandolo a togliersi il bianco mantello inzuppato di acqua e di neve.

Gli porse una coperta ed il pellegrino si ravvolse in essa e si stese vicino al focolare, accanto alle braci calde, per dormire. La vecchietta voleva cedergli il suo lettuccio, in una stanzetta al piano superiore, ma egli rifiutò, dicendo che questo non poteva assolutamente accettarlo. Allora la vecchina gli augurò la buona notte e andò di sopra a coricarsi.

La mattina seguente, quando ella scese in cucina, il bianco pellegrino era scomparso.

“Strano…” pensò, “… chissà perchè se ne sarà andato senza salutarmi. Forse aveva fretta di riprendere il cammino interrotto e di arrivare a destinazione…”.

Aprì la porta e si affacciò sulla soglia, per vedere se le riusciva di scorgerlo lungo la strada maestra. La tormenta era passata e splendeva il sole. Guardando il paesaggio all’intorno, la vecchiarella mandò un’esclamazione di stupore…

Il villaggio non c’era più… Nessuna traccia delle case, ai lati della strada… Al loro posto si stendevano due laghi, uno più grande e uno più piccolo, dalle cerule onde increspate dalla brezza e scintillanti nel sole, fra rive bianche di neve.

Solo la casetta della povera vecchia si era salvata dalla distruzione: così il divino viandante dal candido mantello aveva premiato il buon cuore di lei e punito la malvagità dei suoi compaesani.

LEGGENDE ITALIANE Il giovane conte cambiato in lupo

LEGGENDE ITALIANE Il giovane conte cambiato in lupo – una leggenda della Valle d’Aosta per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Valle d’Aosta

Il giovane conte cambiato in lupo

Era inverno. La neve copriva abbondantemente le falde dei monti. Anche il fondo valle era coperto di neve.

I contadini stavano rintanati nelle stalle, per ripararsi dalle intemperie. Il sepolcrale silenzio del luogo era rotto soltanto dallo scrosciare delle acque del Lys e dal fragore delle valanghe che precipitavano dai monti vicini, con grande fragore.

Paolo, un giovanotto di Lillianes, la sera della festa patronale, il 22 gennaio, si recò presso Geltrude, la sua fidanzata. Voleva avvisarla che per alcuni giorni non l’avrebbe vista, perchè doveva recarsi al villaggio di Moller per cuocervi il pane per l’estate successiva.

Il giorno seguente, prima che il sole sorgesse all’orizzonte, egli aveva già fatto ben due ore di cammino sulla neve immacolata ed era giunto lassù dove la bianca farina di segale lo attendeva per essere trasformata in pane saporito.

Gli annosi abeti della foresta vicina protendevano lunghi rami verso il suolo, stanchi della pesante stretta che dava loro la neve.

Paolo, però, non si fermò a contemplare il quadro che gli si spiegava dinnanzi; e tanto meno sentì il minimo sgomento di trovarsi in un luogo tanto selvaggio. Cominciò a togliere con il badile la neve che ingombrava l’entrata di casa, poi accese il fuoco nel forno e, sempre canterellando allegramente, pulì la madia, preparò la pasta, formò i pani e li mise a cuocere.

Poco dopo dal forno usciva un buon odore di pane e quell’odore appetitoso stuzzicò la fame del giovane montanaro.

Ma quale non fu il suo stupore, quando, voltandosi verso la porta,  vide un grosso lupo che lo stava guardando, con la lingua ciondoloni e il respiro grosso e affannato.

Non avendo alla mano altra arma di difesa, Paolo prese una palata di brace e la scaraventò sulla belva, la quale se ne andò mandando gemiti e ululati spaventosi.

Il giovanotto credette di essersi liberato della bestia importuna, ma così non fu. Il lupo, dopo una ventina di minuti, tornò a presentarsi alla capanna. Scacciato una seconda volta, tornò una terza e poi ancora, finchè a Paolo venne l’idea di gettargli un pane caldo. Allora la belva, quasi non avesse aspettato altro, addentò con avidità il pane e, questa volta, non fece più ritorno.

Quando Paolo discese a valle, raccontò ai familiari ed agli amici la storia del lupo, ma nessuno ci fece gran caso, forse perchè in quei tempi i lupi erano assai comuni nelle nostre vallate alpine.

Nell’estate seguente, Paolo volle realizzare il suo sogno di sposare la bella Geltrude.

Valicati i monti di Carisey e del Mucrone, e salutata di passaggio la Madonna nera del Santuario d’Oropa, si recò a Biella con l’intenzione di comprare l’abito nuziale per sè e per la sposa.

La cittadina era molto movimentata, a motivo della fiera.

Paolo, abituato alla semplicità del suo villaggio natio, si fermava estasiato a contemplare le vetrine dei vari negozi. Ed in mezzo a tanto trambusto era quasi sbalordito.

Ad un tratto sentì che qualcuno gli toccava la spalla. Si voltò e vide un signore alto, distinto ed elegante, che lo guardava con aria amichevole. Paolo rimase perplesso, con gli occhi fissi  in quelli dello sconosciuto.

Poi questi prese le mani del montanaro, gliele strinse con affetto e lo invitò a seguirlo nel suo castello, dove lo trattenne a pranzo.

Il povero montanaro, seduto al posto d’onore, aveva la mente tanto confusa che non osava proferir parola. A un certo punto, con evidente commozione, il padrone di casa gli richiamò alla mente quel tale lupo della montagna di Moller. Poi, dopo una lunga esitazione, aggiunse: “Quel lupo ero io!”

E continuò: “Ero un giovanotto spensierato e mi divertivo a fare escursioni sui nostri monti. Quattro anni fa ero di passaggio al Lago di Mucrone, quando una malvagia strega mi si avvicinò. Mi toccò con una bacchetta incantata e da quel momento fui mutato in lupo famelico e fui condannato a rimanere tale finchè non avessi trovato un’anima pietosa che mi regalasse un pane. Passarono i giorni, passarono i mesi, e quattro tormentose annate… Nella dolorosa attesa morì di dolore una bella castellana di Pont Saint Martin, mia fidanzata, e morì, pure di dolore, la mia povera madre. Quanto a me, per ben quattro anni dovetti percorrere monti e valli, ululando, con la morte nel cuore, aspettando che qualcuno mi ridonasse la felicità perduta”.

Allorchè Paolo ebbe udita la commovente narrazione, si gettò tra le braccia del conte e scoppiò in lacrime.

Grande fu la commozione di entrambi.

Si racconta che il conte biellese non dimenticò mai il suo benefattore.

Paolo e Geltrude, col denaro ricevuto dal conte, qualche anno dopo il loro matrimonio, fecero edificare una bella villa sul poggio che si eleva tra i villaggi Barbià e Salè, sulla strada che da Lillianes conduce a Santa Margherita, e di là  ad Oropa.

Ancora oggi se ne scorgono i ruderi e la località viene chiamata Courtil del Conte.

(C. Vercellin)

Racconti e leggende sulla Luna

Racconti e leggende sulla Luna – una raccolta di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Racconti e leggende sulla Luna – Perchè la Luna ha le macchie

Quando il mondo fu creato, narra un’antica leggenda dell’Estonia, di giorno splendeva chiaro il Sole e di notte faceva buio buio. Il dio Ilmarinen pensò: “Bisogna trovare il mezzo di rischiarare un po’ le notti, altrimenti non è possibile vedere se succede qualcosa di brutto…”

Ilmarinen salì su una montagna, che sorgeva sotto la volta metallica del cielo, e fabbricò la Luna: una grande palla d’argento coperta d’oro, con una lampada nell’interno, e la appese sulla volta del cielo. Poi fabbricò anche le stelle d’argento lucente e le mise accanto alla Luna, come damigelle di corte.

Così, quando a sera il Sole si coricava, la Luna e le stelle illuminavano la notte fino all’alba. La Luna era chiara e  luminosa come il Sole, soltanto i suoi raggi non erano caldi, ma freddi.

Gli uomini erano molto contenti: ma il diavolo non era soddisfatto, perchè, ora che la Luna rischiarava la notte, egli non poteva compiere le sue malefatte, come prima, nel buio fitto. Se lo vedevano, doveva scappare a gambe levate!

Meditò profondamente: “E ora, come fare?”. Chiamò tutti i diavoli a consiglio, ma nessuno seppe suggerirgli una buona idea. Trascorsero sette giorni magri, e i diavoli non potevano più rubare nulla e non avevano più nulla da mangiare.

“Qui bisogna scacciare la Luna!” esclamò il capo diavolo, “Altrimenti guai a noi! Tutt’al più potremo sopportare le stelle, che non ci disturbano…”

Ma come fare a sbarazzarsi della Luna?

“Bisogna coprirla di catrame e annerirla tutta!” disse il capo diavolo “Così non ci darà più noia”:

Tutto il giorno i demoni si diedero un gran da fare a preparare un enorme barile di catrame e a fabbricare una scala lunga lunga, fatta di sette pezzi, che si potevano sovrapporre, in modo da arrivare alla volta del cielo.

Quando a notte la Luna comparve, il diavolo capo prese la scala sulle spalle e disse ai suoi servi di seguirlo, portando una secchia di catrame misto con fuliggine e un grosso pennello.

Giunti che furono sotto la Luna, il diavolo capo preparò la scala, sovrapponendo l’un l’altro i sette pezzi, e ordinò a un diavolino: “Prendi il pennello e il secchio di catrame, e sali in cima alla scala.”. Il diavolino obbedì, ma quando fu quasi in cima, il diavolo capo per il frescolino notturno starnutì, la scala traballò, il diavolino perse l’equilibrio e precipitò giù: Psssccct! Tutto il secchio di catrame e di fuliggine si rovesciò sulla testa del diavolo capo, e questi lasciò andare la scala, che cadde e si fracassò in mille pezzi.

“Corpo della Luna!” urlò il diavolo capo furibondo “Sono io adesso, che ho la faccia incatramata!”

Provò a togliersi il catrame e la fuliggine, ma ebbe un bel provare e riprovare: non riuscì a nulla! E da quel giorno il diavolo è rimasto nero nero come la fuliggine. Non abbandonò tuttavia l’idea di annerire anche la Luna. Fece fabbricare dai diavoli un’altra scala e la piantò al limitare del bosco, dove la Luna sorge più vicina alla Terra. Appena essa si levò, il diavolo capo ordinò a un diavolino: “Presto, arrampicati su su fino all’ultimo gradino e tingile il muso!”. Il diavolino obbedì: la scala arrivava, in alto in alto, proprio vicino alla Luna, ma era un affare serio mantenersi in equilibrio lassù e spennellare… E la Luna non stava ferma, continuava a salire in cielo…

Il diavolino gettò una corda come un laccio e attaccò la scala alla Luna, continuando ad annerirle la faccia col pennello incatramato.  Sudava per la fatica, e dopo molte ore, non era riuscito che ad annerire una parte della Luna.

Di sotto, il diavolo capo stava a guardare, col viso all’insù e la bocca spalancata, il lavoro del suo valletto. “Ah, ora sì che si comincia ad andar bene!” gridò, quando vide che l’operazione procedeva, e fece un balletto di gioia.

In quel momento il dio Ilmarinen si svegliò e guardando il cielo esclamò stupefatto: “Come? Non c’è una nube, eppure la Terra è per metà immersa nel buio? Che succede?”

Aguzzò lo sguardo e vide il diavolino all’opera in cima alla scala, intento ad intingere il suo pennello nel secchio di catrame, e giù, sul limitare del bosco, il diavolo capo, che saltava come un caprone.

“Ah, birbaccioni!” gridò Ilmarinen, “Credevate di farla franca mentre dormivo, eh? Ma ora vi accomodo io! Tu, diavolino, resterai per l’eternità col tuo secchio sulla Luna, e tu, diavolo capo, precipiterai per l’eternità sottoterra!”.

E fu così. Se guardate bene, dicono gli Estoni, vedrete infatti nella luna il diavolino con il suo secchio e col pennello. Quanto alla Luna, da allora ogni tanto si tuffa nel mare e tenta di lavar via le macchie nere sul suo viso… ma non ci riesce mai!

(Leggenda estone)

Racconti e leggende sulla Luna – Il quarto di Luna e le lucciole

Paigar, il signore del cielo, disse a sua moglie: “Su, donna, prepara una gran torta. Le stelle, nostre figlie, hanno appetito, vogliono mangiare”.

La massaia, manipolando uova, farina e miele, preparò la torta: una torta immensa, soffice, con una crosta lucida e dorata. Figurarsi le stelle, quando la videro! Non aspettarono che la mamma facesse loro le parti. Si gettarono avide sul pasticcio, e una tirava di qua, una pizzicava di là, un’altra affondava nella pasta dolcissima i denti e le unghie, altre ancora, non riuscendo a servirsi, si attaccavano alle trecce e alle orecchie delle sorelline. Una parte di torta, ridotta in briciole, cadde sulla terra.

La massaia scoppiò a piangere: “Povera mia fatica!”

Paigar prese il pasticcio, ridotto ormai a un solo quarto, e lo appuntò al bruno velluto del cielo; poi scese nel mondo e animò, trasformandole in insettini luminosi, le briciole cadute.

Disse alle figlie: “O golosacce, non mangerete dolci per otto secoli!”, e confortò la moglie: “Non disperarti. Vedi come risplende, in alto, lo spicchio di torta? Resterà sempre così, luminoso e bello, e nessuno riuscirà mai a mangiarselo. Guarda giù: un poco di firmamento sfavilla nell’ombra delle notti terrestri, palpita tra l’erba, i fiori e le siepi.  Sono le lucciole, sono le briciole che tu piangevi perdute”.

(Leggenda estone)

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Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO
Paese

Non c’è paese più piccolo del mio. Basta l’ala di una colomba per fargli ombra. Di notte basta una stella per fargli luce.
Quando Caterina munge la mucca, tutto il paese sa  di latte.
Quando Lena canta per far dormire il suo bambino, di quel canto si addormentano tutti i bambini del paese. Se una ha un dolore, tutti ne soffrono.
I vicini si prestano volentieri l’olio e il sale. Tutti prendono l’acqua allo stesso pozzo, cuociono il pane nello stesso forno. E tra loro, uomini, donne, bambini, si chiamano fratelli e sorelle e si vogliono bene. (R. Pezzani)

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO
Cittadina di provincia

Ci sono qui delle piazzette fuori mano dove i camion non passano: e ai lati sorgono certe anziane case piene di  dignità con festoni di rampicanti. Pende, a fianco della porta, il tirante del campanello, il quale si ode risuonare di là dalla porta destando lunghi echi negli androni. (D. Buzzati)

Villaggio alpino

Poche, rustiche casette: le basi di pietra, le pareti di legno, i tetti di ardesia; brevi le finestre, fiorite di rossi gerani… Una chiesetta, un campanile. Null’altro. Sulle vie deserte qualche vecchia dalla gonna rossa e nera che fila e ricama; due o tre caprette e nidiate di bimbi rosei e biondi, che guardano curiosi, ma poi con i piedini nudi fuggono, pieni di vergogna. Chioccolio di fontane, qualche ragazza che lava. E un silenzio, una pace tale sotto quel sole diffuso, in quella pura aria frizzante, che tutto lo spirito ne gioisce. (R. Bacchelli)

Città

Vi sono foreste d’alberi e foreste di case: le città. La loro storia è antica come l’uomo, perchè l’uomo le ha costruite, nei giorni e nei secoli, con le pietre e col cuore: le ha difese col sangue, le ha amate come si amano le cose vive.
E nessun paese al mondo ne ha di splendide come l’Italia.
Tutta la storia è passata dalle loro strade; tutti gli eroi hanno bevuto alle loro fontane; tutte le civiltà sono venute a prendervi luce di verità e di bellezza.
La più umile nostra contrada ha una chiesa, un monumento, che basterebbe da sè a inorgoglire una metropoli d’oltremare. (R. Pezzani)

La mia città

E’ una città grande, bella, con ampie strade, con piazze vaste, piene di gente e di veicoli, con palazzi superbi, belle chiese e fontane e monumenti. Io vivo volentieri nella mia città perchè vi sono nato, perchè vi abitano i miei genitori, i miei amici. Se un giorno andrò lontano, non dimenticherò la mia bella città. (M. Menicucci)

Il tram

E’ un mezzo di trasporto urbano abbastanza comodo, ma rumoroso ed obbligato a seguire i binari senza potersi spostare quando occorra. Per questo è stato gradualmente sostituito dal filobus e dall’autobus.

Il filobus

In città, essendo notevoli le distanze tra un posto e l’altro, c’è un servizio pubblico per il trasporto delle persone. Ogni filobus ha un percorso stabilito illustrato su tabelle apposite, ed un numero. Chi viaggia deve conoscere il numero del filobus che passa per la via che lo interessa. Salendo paga il biglietto, che poi conserva per un eventuale controllo. Può scender a qualsiasi fermata. Le fermate sono segnate con dei cartelli: solo lì le persone possono scendere o salire. Si sale dalla parte posteriore, durante il tragitto ci si sposta in avanti per lasciare il posto agli ultimi e si scende dalla parte anteriore. (E. Refatti)

La metropolitana

Il tram, l’autobus e il filobus, ingombranti come sono, creano un grosso intralcio per la circolazione, specialmente nelle vie centrali della città. Per questo, nelle più grandi città si usano, come mezzi di trasporto pubblici, treni elettrici che corrono in gallerie sotterranee: la metropolitana. Questi veicoli hanno tutti i vantaggi sugli altri: non intralciano il traffico, non sono costretti a procedere lentamente nelle affollatissime vie centrali, non producono rumore all’esterno e trasportano un numero di passeggeri molto maggiore degli altri veicoli pubblici. Oltre a ciò, sono molto veloci.

L’autobus

E’ il mezzo di trasporto ideale, perchè è veloce ed autonomo, cioè non deve seguire nè binari nè fili elettrici. Però è più rumoroso del filobus, emette gas di scarico e consuma carburante che è più costoso della corrente elettrica.

La corriera

Una corriera fa spesso servizio fra il comune ed il capoluogo di provincia. Molti sono gli operai che si recano al lavoro nei grandi stabilimenti della città. Un tempo si recavano in bicicletta, oggi si servono della corriera. Essa si trova puntuale, ogni mattina sulla piazza del paese e parte affollatissima. La sera riappare nella piazza, riportando coloro che in città hanno trascorso una intensa giornata di lavoro.

Il Comune

I cittadini, con le libere elezioni amministrative, eleggono il Consiglio Comunale, il quale è formato da un numero di membri proporzionato alla popolazione del Comune.
I Consiglieri Comunali, a loro volta, fra i propri membri eleggono il Sindaco ed alcuni Assessori. Assessori e Sindaco costutuiscono la Giunta Comunale. Sindaco, Assessori e Consiglieri Comunali durano in carica quattro anni.
Compito degli Amministratori del Comune è quello di provvedere a tutti i servizi pubblici: l’illuminazione delle strade, la manutenzione degli edifici pubblici, il funzionamento delle scuole, la tutela della salute pubblica, ecc…

Il paese

Nel paese ci si conosce tutti, si dividono le gioie e le afflizioni, ci si aiuta.
Le donne si incontrano sulle soglie di casa intente agli stessi lavori, o nei negozi, o alla fontana; gli uomini nella piazzetta, durante le soste del lavoro; i ragazzi, attratti dagli stessi giochi, nei cortili, per le strade, nella scuola, nell’oratorio.
Tutti gli abitanti del paese si trovano poi riuniti nella stessa Chiesa e allora sono proprio fratelli e pregano con le stesse parole, per gli stessi bisogni.
Fratelli ancora,  solleciti e generosi, nel dare aiuto in casi di necessità.

La nostra città

Quasi tutte le nostre città hanno una loro storia particolare, che risale al tempo degli antichi Romani.
La nostra città, come la vediamo noi, ci è venuta in eredità dai nostri antichi padri, ed è testimone di un lavoro secolare.
Noi giovani abitatori della città dovremmo essere grati a coloro che ce la tramandarono così nobile e grandiosa, e dovremmo fare del nostro meglio per ingrandirla ed abbellirla sempre più al fine di consegnarla, fra mezzo secolo, ai nostri figli, più bella e più gloriosa.
I fondatori delle nostre città si ispirarono tutti ad un criterio pratico:  o le fondarono in riva ai fiumi, come ad esempio Torino sul Po, Firenze sull’Arno, Roma sul Tevere; o le fondarono in riva ad un lago, come ad esempio Como e Lecco; o in riva al mare, come ad esempio Genova, Palermo, Napoli, Venezia. Questo criterio, comune a tutti i fondatori di città, sta ad indicare che i nostri antenati consideravano le vie d’acqua come la più facile via per le comunicazioni e per i trasporti.

Un paese

Un paese è caratterizzato da vari aspetti. Primo, l’aspetto naturale e geografico. Infatti, un paese di montagna avrà caratteristiche diverse da un paese di pianura. Un paese ammantato di boschi sarà ben diverso da quello che si adagia nel verde della campagna. Ma quello che lo caratterizza più profondamente è l’opera dell’uomo. Vogliamo dire la costruzione delle case, le strade, i ponti, le coltivazioni e infine le industrie e i commerci. Non c’è un paese uguale all’altro, perchè in ognuno di essi c’è, evidente e differente, l’opera della natura e l’opera dell’uomo. (Mimì Menicucci)

Amo il mio paese

Io amo il mio paese perchè vi sono nato, perchè vi abitano i miei genitori, i miei parenti. E’ un paese piccolo, senza grandi palazzi, senza grandi strade, senza superbi monumenti, ma lo amo ugualmente per il silenzio, per il verde che lo circonda, per il suo cielo azzurro, per l’aria buona che vi si respira. Anche se un giorno andrò lontano, non dimenticherò mai il paese dove ho trascorso la mia infanzia. (Mimì Menicucci)

I servizi pubblici

Una casa sempre sporca, buia, disordinata non merita questo nome, e in una casa simile ci si vivrebbe proprio male. Ma perchè la nostra casa sia accogliente, la mamma ed il papà ci lavorano lunghe ore e guadagnano il danaro necessario a comperare tutto quello che occorre per renderla sempre più comoda.
Anche la nostra città ha bisogno del lavoro di molti per dare a tutti tante cose utili, che si chiamano servizi pubblici.
Prima di tutto si devono costruire le strade che uniscono una casa all’altra e la nostra città ai centri vicini. E non basta costruirle; bisogna tenerle in buono stato e pulite, illuminarle, renderle belle con piante e aiuole e, se il traffico è intenso, provvedere a regolarlo con vigili e semafori. Poi bisogna provvedere alla distribuzione dell’acqua e controllare che sia potabile; costruire i canali sotterranei delle fognature e, nei centri più grandi, distribuire il gas o il metano. Ancora, bisogna provvedere alla costruzione e alla manutenzione degli edifici scolastici, perchè tutti i ragazzi fino a sedici anni hanno l’obbligo di frequentare la scuola. Bisogna anche pensare all’assistenza dei poveri, dei bambini e dei vecchi abbandonati, nonchè degli ammalati che vengono curati dal medico di famiglia. In ogni città e paese bisogna provvedere anche al servizio postale. I servizi pubblici sono di competenza del Comune.

Persone che lavorano per te

Hai mai pensato a tutte le persone che lavorano per te? Ecco, squilla il telefono. E’ un tuo compagno che ti chiama: vuole chiederti notizie sul compito per domani. Una telefonata: una cosa da nulla, come vedi: eppure hai potuto farla perchè al centralino telefonico c’è un operaio che vigila perchè tutto funzioni a dovere.
Accendi la luce, la mamma apre il rubinetto del gas per far da mangiare… e intanto sulla montagna alcuni elettricisti montano la guardia agli enormi macchinari della centrale; altri operai al gassometro, vigilano agli apparecchi.
Domani il portalettere ti recherà la posta, il netturbino pulirà la strada che percorri per andare a scuola, lo stradino colmerà le buche con ghiaia e catrame…
Potrei continuare, ricordandoti l’operato del vigile, del tranviere, e dei vari commercianti. Tutta gente che lavora per te, per tutti.

Viabilità

Le strade che attraversano la nostra città sono state tracciate, costruite, riparate ad opera del Comune. Il Comune ha provvisto a disporre le segnalazioni stradali e ha incaricato persone particolari, i vigili urbani, di sorvegliare e di dirigere il movimento delle automobili e dei pedoni. Altre persone, gli spazzini, provvedono alla pulizia di vie e piazze; altre ancora, i giardinieri, curano le aiuole dei giardini pubblici e gli alberi dei viali. Nelle ore buie, ogni strada è illuminata; un gruppo di elettricisti provvede ai nuovi impianti ed alle riparazioni.

Trasporti

Nelle grandi città, gli abitanti devono percorrere chilometri e chilometri per recarsi al lavoro o alla scuola. Il Comune organizza servizi di trasporto con tram, filobus ed autobus.

Impianti sportivi

Molti Comuni curano anche la costruzione e l’attrezzatura di impianti sportivi nei quali si possono esercitare gli atleti e dove si svolgono gare; sono gli stadi, le palestre, le piscine.

Servizio sanitario

Il Comune si preoccupa della salute dei cittadini ed interviene per evitare o combattere malattie infettive. Le vaccinazioni sono praticate a tutti  i ragazzi, gratuitamente a cura del Comune.

Il Comune e l’Amministrazione Comunale

Parlando dei servizi pubblici abbiamo imparato che ad essi provvede il Comune. Ma che cos’è il Comune? Esso è l’insieme di tante famiglie che vivono in uno stesso luogo, delle loro abitazioni e del territorio sul quale sono state costruite. Più semplicemente il Comune è come una grande famiglia, di cui fate parte anche voi, a capo della quale c’è il Sindaco.
Come il babbo provvede ai bisogni di tutti i membri della sua famiglia, così il Sindaco provvede, con i servizi pubblici, a rendere più agevole ed ordinata la vita collettiva di tutti i membri del suo Comune.
Ma il Sindaco, da solo, non può pensare a tutto ed è giusto che sia aiutato da alcuni amministratori.
L’Amministrazione comunale è elettiva. Tutti i cittadini del Comune, uomini e donne, al compimento del diciottesimo anno d’età, hanno diritto al voto per eleggere i Consiglieri comunali che durano in carica cinque anni.
I Consiglieri comunali eleggono, tra i propri membri, oltre al Sindaco, alcuni Assessori, i quali, con il Sindaco, formano la Giunta Comunale. Alla Giunta spetta di provvedere alla diretta amministrazione del Comune ed ai servizi pubblici. Per far fronte alle spese necessarie, il Comune impone ai cittadini delle imposte.
I Comuni in Italia sono circa ottomila. Ogni Comune ha i suoi uffici nella sede del municipio. Il capo ufficio è il Segretario comunale.

L’asino del Comune (racconto)

Il Comune di un paesetto di montagna per facilitare gli abitanti di tre frazioni, mise a loro disposizione un asino.
Un giorno, un contadino della prima frazione prese l’asino del Comune, lo caricò di grano e andò al mulino. Quando il grano fu macinato, ricaricò l’asino e tornò a casa.
S’era fatta sera, e l’asino avrebbe voluto mangiare. Ma il contadino disse: “Ci sono gli abitanti delle altre due frazioni: gli daranno loro da mangiare!”, e lasciò l’asino a digiuno.
Il giorno seguente, un contadino della seconda frazione prese l’asino del Comune, ci montò in groppa e si fece condurre in paese per sbrigare delle faccende.
Alla sera, riportò l’asino pensando: “Ci sono gli abitanti delle altre due frazioni, gli daranno loro da mangiare”.
Il terzo giorno, l’asino fu preso da un contadino della terza frazione, che lo adoperò tutta la giornata e a sera fece il discorso che avevano fatto gli altri. E  l’asino digiunò anche quel giorno.
La mattina seguente, tornò il contadino della prima frazione e caricò l’asino. Ma la bestia era molto debole e camminava a stento. L’uomo, afferrato un bastone, cominciò a batterlo gridando: “Che vergogna! E questo è l’asino che il Comune ci offre per i servizi! Bel Sindaco che abbiamo! Non pensa che a sè, e a noi poveretti dà questa bestiaccia, che non si tiene in piedi!”
Il quinto giorno l’asino morì; e gli abitanti delle tre frazioni si recarono nella sede del Comune a protestare. (A. Manzi)

L’anagrafe e lo Stato Civile

Il Comune iscrive tutti i suoi abitanti in registri che vengono ordinati negli uffici dell’Anagrafe e dello Stato Civile.
L’Anagrafe iscrive il cognome e il nome di ogni cittadino, la composizione della sua famiglia, il suo indirizzo, la sua professione.
Lo Stato Civile registra le nascite, le morti, i matrimoni che vengono celebrati nel Comune.
Ogni cittadino ha il dovere di dichiararsi a questi uffici ed ha il diritto di ricevere da essi i documenti che gli sono necessari: atti di nascita, stati di famiglia, certificati di residenza, ecc…

Le tasse

Il Comune offre gratuitamente molti servizi; essendo servizi costosi, il Comune deve trovare il denaro necessario per pagarli. Sono i cittadini stessi che, secondo le loro possibilità, contribuiscono al loro mantenimento versando, ogni anno, una certa somma all’Ufficio Comunale delle Tasse.
Il denaro pagato per le tasse, dunque, va a vantaggio di tutti i cittadini.

Stemmi e gonfaloni

Ogni Comune grande o piccolo possiede il suo stemma; un tempo il gonfalone rappresentò il simbolo dell’autonomia comunale. Gli stemmi comunali risalgono all’epoca medioevale, quando ogni Comune combatteva per conquistare e per difendere la propria libertà.

Un piccolo villaggio di tanto tempo fa

Una strada carrozzabile congiunge il villaggio alla vicina borgata, nella valle. Le strade sono acciottolate e non hanno marciapiede, perchè non c’è traffico di veicoli; quelle in pendio, durante le piogge, si trasformano in veri ruscelli.
Attorno al villaggio non esiste una periferia; le case sono tutte costruite con pietre del luogo: è il materiale più economico. Quando nei pressi si trova una cava di ardesia, i tetti vengono coperti con questo materiale.
In un unico edificio si trovano gli uffici comunali e la scuola elementare. I primi comprendono solo un paio di locali di cui uno serve per le adunanze dei consiglieri, l’altro per ricevere il pubblico. La scuola è formata da un’aula sola; gli alunni non sono che qualche decina; tutte le classi sono affidate a un solo insegnante.
Accanto alla scuola c’è l’asilo, tenuto da suore che sono anche delle buone infermiere.
Ecco la chiesetta parrocchiale e la casa del parroco, il paziente pastore di questo piccolo gregge di anime. Ecco la sede della cooperativa casearia dove gli agricoltori portano ogni giorno il latte prodotto dalle loro mucche; qui vi sono le attrezzature di comune proprietà per la produzione di burro e formaggi. A fine d’anno, gli utili ricavati dalla vendita di questi prodotti vengono ripartiti in proporzione al latte portato da ognuno.
In un luogo di facile accesso si trovano il lavatoio pubblico e l’abbeveratoio per il bestiame.
Alle fontane pubbliche gli abitanti si recano a prendere l’acqua con i secchi; le sorgenti sono numerose e l’acqua non manca.
L’unico negozio del villaggio detto “posteria” vende tutti i generi necessari agli abitanti. Per gli acquisti più importanti essi si recano alla borgata vicina, specialmente nei giorni di mercato.
Una piccola locanda offre alloggio ai rari viaggiatori: sono per lo più commercianti, che vengono per acquistare prodotti agricoli (latticini, castagne, legname) o bestiame. La sala della locanda è anche l’unico luogo di ritrova per gli uomini del villaggio; qui, in mancanza di cinema, si può assistere agli spettacoli televisivi.
Fra le case, nei piccoli cortili, c’è spazio per qualche minuscolo orto. Quasi tutte le case hanno accanto il pollaio e la stalla. Durante la buona stagione, però, mucche e pecore vengono condotte ai pascoli alti.

L’insediamento

Esaminiamo le cause che possono avere spinto i nostri progenitori a scegliere proprio quella determinata località (che oggi ha un nome) come sede delle proprie dimore e ad adottare determinati criteri nella costruzione del paese o della città.
Le cause che possono determinare l’insediamento umano, sparso o agglomerato, sono di varia natura. Possono cioè essere cause di ordine naturale, come la presenza dell’acqua, la morfologia del terreno, le risorse naturali del suolo o del sottosuolo; possono essere cause di ordine economico, come la necessità di controllare un passaggio obbligato o un importante nodo stradale, come determinati regimi di proprietà terriera; possono essere cause di ordine storico, come esigenze di difesa e di sicurezza, come rispetto di tradizioni precedenti, ecc…
Quali fra queste cause possono aver determinato l’insediamento nel vostro ambiente? Per facilitarvi il compito, proverò ad illustrarvi i vari tipi.

L’insediamento sparso prevale nelle regioni agricole dove sussiste  la piccola proprietà. In questi casi le abitazioni sono al centro del podere: sul versante esposto al sole nelle regioni collinari (colline piemontesi, toscane, laziali, ecc…), vicino al pozzo nelle regioni pianeggianti.
Possiamo riscontrare altri tipi di insediamento sparso là dove ci sono conventi, case cantoniere o doganali, rifugi alpini, torri di vedetta, fari, ecc… In questo caso, è evidente, prevale la finalità specifica sulle cause di ordine economico o naturale o storico.
Gli insediamenti sparsi si chiamano casali.

L’insediamento accentrato rurale è il villaggio, il paese e la borgata. Si tratta di raggruppamenti di case attorno alla chiesa, alla farmacia, alle botteghe. In genere tale tipo di insediamento può essere determinato dalla necessità di collaborazione contro le forze fisiche dell’ambiente (ad esempio in alta montagna il bisogno di aiuto reciproco nel tracciare strade, nello sgombero della neve, nel soccorso, e così via) oppure può essere determinato dalla natura e dall’estensione del territorio coltivato (tipico è l’esempio dell’allineamento di villaggi lungo l’orlo superiore della fascia che intercorre fra l’arida pianura friulana alta e la bassa paludosa).
In ogni caso, comunque, si ricercano le zone solatie e si rifuggono i fondi valle umidi ed ombrosi o i canaloni percorsi dalle valanche o le strette in cui si incanalano i venti.
Infine, l’insediamento accentrato rurale può essere determinato da ragioni storiche (ad esempio rivalità con i villaggi vicini, necessità di stringersi attorno al castello feudale, simbolo di sicurezza, e quindi allineamento sul crinale del colle) o ancora da ragioni di igiene (per sfuggire ad esempio a zone infestate dalla malaria).
La forma topografica di un paese risente naturalmente della morfologia del terreno e si adatta a questa. Si hanno così, in alta montagna i villaggi di pendio o di costa, con le case tutte rivolte verso il versante soleggiato, le strade parallele, disposte a gradinata, ed invece a fondo valle i paesini a cavallo del torrente che dà forza motrice a tutta la zona.
Nelle zone collinari (Toscana, Emilia, Piemonte) si hanno i paesi di cresta, che seguono l’andamento della linea di vetta, per evitare i dirupi dei versanti argillosi ed instabili che sono soggetti a frane.
Nelle pianure si trovano i borghi di tipica fattura medioevale, con case agglomerate nelle strette vie che vanno a sfociare sulla piazza centrale ed una cinta di mura, ora diroccata e fuori uso, che ricorda le origini del borgo fortificato; oppure si vedono i centri con piano a graticolato, che denunciano con altrettanta evidenza la loro origine. Si tratta, in questi casi, delle terre suddivise dai romani in appezzamenti regolari per essere donate ai veterani, dopo le guerre di conquista. Sono centri ordinati e regolari costruiti secondo la pianta dell’accampamento romano, con le due strade principali perpendicolari fra di loro e le strade secondarie parallele a queste.

I centri urbani, cioè le città, sono l’espressione più alta e più complessa dell’insediamento umano. La città è tale non solo perchè ha raggiunto un determinato numero di abitanti, ma perchè è il fulcro, il cuore pulsante di una località di cui assomma le caratteristiche più spiccate e si fa interprete.
La città è l’espressione più completa dei rapporti umani nei suoi vari aspetti: culturale, politico ed economico.
Storicamente le origini delle città possono essere individuate in quattro periodi principali: il periodo della colonizzazione greca, il periodo della colonizzazione romana, il periodo medioevale e il periodo moderno.
Fra i fattori determinanti della localizzazione di una città possiamo elencare: i punti di convergenza delle vie naturali di traffico, la forte posizione difensiva o di dominio, ed i normali fattori di ordine naturale che ne hanno promosse le origini. Abbiamo così:
– le città di rilievo, sorte su dossi sopraelevati (Arezzo)
– le città di valle, sorte al punto di convergenza di valli montane (Aosta)
– le città di fiume, sorte lungo il corso dei fiumi a scopo di controllo del traffico fluviale o in funzione militare di difesa (Torino)
– le città di ponte, sorte all’incrocio obbligato di vie di transito (Roma)
– le città di delta, sorte sulla foce di un fiume (Pisa)
– le città di laguna, sorte sulla laguna come centri pescherecci (Venezia)
– le città di stretto, sorte a guardia di uno stretto (Messina).
Una città consta generalmente di tre parti: la città antica (nucleo primitivo), la città vecchia (aggregazione di sobborghi) e la città nuova (espansione recente a pianta regolare).
In riferimento alle origini possiamo distinguere:
– la città greca, raggruppata attorno all’acropoli;
– la città romana, città a scacchiera, con pianta regolare come l’accampamento romano, con vie diritte e parallele;
– la città medioevale, città cinta da mura, con pianta concentrica o bicentrica attorno al castello o alla cattedrale, con groviglio di strade strette e lunghe;
– la città moderna, costruita con criteri diversi rispetto al passato: al centro il quartiere degli affari ed il quartiere amministrativo, in periferia gli ospedali e le ferrovie, separati e distinti i quartieri residenziali.

Rispetta il tuo paese

 Un uomo percorreva la strada di un paese a passo svelto.
“Perchè non si ferma un po’?” gli chiese un paesano. “Vede che bel panorama, che bel cielo? Sente che aria fine e profumata?”
“Sono gli abitanti di questo paese che non mi piacciono” disse l’uomo senza fermarsi.
“Ma se non ne conosce nemmeno uno…” si stupì l’altro.
“Invece li conosco tutti” rispose l’uomo.
“E dove li ha conosciuti?”
“Per la strada; e so che sono sciocchi, ignoranti e sudici”. Nel dire così, l’uomo mostrò col dito i fregacci e le scritte che insudiciavano i muri; indicò le carte e i rifiuti gettati sulla via.
“Questi fregacci e questi rifiuti parlano chiaramente. Gli abitanti del paese hanno scritto sulla strada il grado della loro cattiva educazione. Non vedo l’ora di allontanarmi da qui”.
E l’uomo allungò il passo, mentre l’altro rimaneva tutto mortificato. Chi insudicia i muri imbratta il volto del proprio paese.
(P. Bargellini)

Le tasse

Il signor Venanzio sale le scale del Municipio col viso rannuvolato.
“Ciao Venanzio! Dove vai?” gli chiede un amico.
“Vado… vado… Mi sentiranno!”
“Ma dove?”
“All’ufficio delle tasse per protestare!”
“Va là! Tutti avremmo da protestare…”
“Sì, ma nessuno come me. Troppo, te lo giuro, mi hanno assegnato come quota da pagare. Troppo, troppo!”
“Fai presto, allora, che io ti aspetto qui. Torneremo a casa insieme.”
“Sì, ma se accetti un consiglio, non mi aspettare sotto la torre”
“Perchè?”
“Perchè se si rifiutano di diminuirmi le tasse, griderò così forte che la torre, per lo spostamento d’aria, cadrà di schianto”
“Bum!” fa l’amico, e scuote il capo.
Dopo un quarto d’ora, ecco uscire dal Muncipio il signor Venanzio.
“Allora Venanzio, com’è andata?” gli chiede l’amico “Bene, eh? Vedo che la torre è rimasta in piedi e tu ti sei rasserenato”
“Sì… ma…”
“Su, su, dì la verità! Di quanto ti hanno diminuito la quota delle tasse da pagare?”
“Ecco… per dir la verità… ti dirò… Ebbene: di zero! Sì, proprio di nulla!”
“Come? Spiegati…”
“Vedi, in fondo, in Municipio non hanno tutti i torti. Sapessi! Gli impiegati dell’ufficio sanno tutto. Sanno, per esempio, che in casa mia lavoriamo e guadagniamo in tre, sanno che sono proprietario di una casa… E il Comune, mamma mia, quante spese ha! Spese per la luce delle strade, la nettezza urbana, le aiuole, i vigili, l’ospedale, le condutture dell’acqua, la fognatura… E sembra che il Comune sia povero, molto povero. Insomma, è andata a finire che mi sono quasi commosso. Io ho il cuore tenero. Non sei fatto per protestare, povero cuore mio!” (R. Botticelli)

La strada in città

La strada passa dritta dritta fra le case altissime. Nel mezzo corrono i tram scampanellando. Nel mezzo corrono i tram, vi passano le automobili, le moto, le biciclette.
Ai lati, sui marciapiedi, vanno e vengono le persone frettolose; entrano, escono dalle porte delle case e delle botteghe.
Vi è un rumore confuso di passi, di ruote, di voci, di clacson.
La notte, i grandi globi della luce elettrica brillano in alto. Molta gente cammina ancora. La città di notte non dorme mai.

Ora  di punta

Le strade della città sono affollatissime: sui marciapiedi una moltitudine di persone si urtano e si spingono: nel centro della via una colonna ininterrotta di macchine cercano di sorpassarsi a vicenda.
I tram rigurgitano di viaggiatori pigiati come le sardine in un barile.
Un ronzio continuo e fastidioso riempie le vie, assorda, stordisce, domina ogni altro rumore.
E’ l’ora di punta: dalle fabbriche e dagli uffici escono operai e impiegati a frotte; i fanciulli si precipitano fuori dalle scuole; le donne si affrettano verso casa con la borsa colma delle ultime spese; è l’ora più pericolosa della giornata: tutti hanno fretta; tutti hanno fame; tutti sono stanchi dopo il lavoro; è l’ora in cui per guadagnare un paio di secondi o un metro,  molti compiono gravi imprudenze o diventano maleducati ed  intolleranti.
In tanto trambusto, i pochi agenti di servizio sugli incroci fanno miracoli di prontezza nel regolare il traffico, ma è necessario che tutti gli utenti si comportino spontaneamente secondo le norme della circolazione e siano più educati.

La bicicletta

La chiamano il cavallo d’acciaio, e come il cavallo divora i chilometri.
E’ l’amica fedele delle nostre passeggiate; silenziosa e leggera ci porta lontano dal tumulto della città, nelle campagne assolate, fino all’ombra ristoratrice dei grandi alberi stormenti.
Ci dà la gioia della sana fatica, ci fa scoprire i più suggestivi paesaggi di questa nostra terra, ci è utile nel nostro lavoro: l’usa l’operaio per recarsi alla fabbrica, la massaia per le sue spese, il fanciullo per andare a scuola, la giovane mamma per portare a spasso il figlioletto.
Ma nel vorticoso traffico di oggi, anche per andare in bicicletta occorre prudenza e occorre conoscere le regole della circolazione.
Siamo prudenti, dunque, e disciplinati; facciamo che lo svago non si tramuti in dolore; che uno strumento dato all’uomo per alleviare le sue fatiche e ricrearlo non divenga occasione di pianto.

Strade
Vie ammattonate, rapidissime, su cui si cammina dolcemente come sull’erba. Tale saporosa comodità, ricercata in un suolo così arduo, ci rammenta che siamo dopo tutto in un paese di contadini. Queste vie sono ammattonate per rendere agevole il passaggio dei buoi, il cui piede fesso e molle, non sopporterebbe in siffatti dislivelli una pavimentazione più dura. Hanno inoltre il pregio, naturale o artificiale che sia, di vincere l’eccessiva pendenza inarcandosi smisuratamente come il dorso di una balena a fior d’acqua. (V. Cardarelli)

Strade
La parte superiore di Fontamara è dominata dalla chiesa col campanile e da una piazzetta a terrazzo, alla quale si arriva per una via ripida che attraversa l’intero abitato e che è l’unica via dove possano transitare i carri. Ai fianchi di quest sono stretti vicoli laterali, per lo più a scale, scoscesi, brevi, con i tetti delle case che quasi si toccano e lasciano appena scorgere il cielo. (I. Silone)

Strade
Uscii dalla folla e presi una stradetta in salita. La stradetta si stacca dal viale litoraneo e si alza subito assai ripida sull’antico bastione ove sorge il rudere del castello: sul muro a scarpa, sotto una delle torricelle di scolta, un cartiglio porta la scritta: Sacrario dei Caduti. La stradina gira sotto il torrione e si biforca: a destra si interna fra casupole di pescatori e rasenta il muro di cinta di una storica villa e del suo parco stupendo, a sinistra riesce subito allo scoperto, rivede il mare e il porto, raggiunge il sagrato di una chiesetta: la chiesetta dei cappuccini. (S. Gotta)

Strade
Ed eccoci ingaggiati su per una strada, che è quasi una mulattiera, tra due muretti stretti e tortuosi che la macchina sfiora rischiosamente ogni metro, ora con il fianco destro ora con il sinistro, rombante, lanciata in prima per superare la ripidissima salita e per vincere il fondo, grossi ciottoli viscidi, tutti sparsi d’erba, su cui l’acqua corre come un grosso ruscello. (M. Soldati)

Strade
Serrata tra le precipiti gradazioni dei cento contrafforti appenninici e lo scosceso lido del mare, la grande strada della Cornice procede tutta a zig zag in continui serpeggiamenti, in irte rampe e in chine precipitose. Talvolta si apre il passo a livello del mare fra spalliere di tamarischi, di oleandri e di agavi; tal altra si inerpica sul dirupato fianco del monte in mezzo a cupe foreste di felci e di pini; poi una fantastica discesa a spirale fra aridi massi calcarei mal coperti di pallide ginestre, vi porta in seno d’una florida pianura tutta vigneti, ortaglie e giardini di cedri, di aranci e di limoni. Qua nascosta dentro a vaste gallerie scavate nella pietra arsa; là coperta in una immensa estensione di orizzonte, col monte a picco a destra, col mare a picco a sinistra. (G. Cappi)

Strada di montagna
Sono le sei del mattino e l’autobus ha imboccato una grande strada di montagna.
Attraversiamo il primo grosso paese. All’uscita della piazza dobbiamo arrestarci, il semaforo è rosso.. Ecco, giallo… verde. Si riparte e comincia a piovere. La strada è liscia, compatta, ma l’autista preferisce andare piano.  A cinque metri prima della curva uno strano segnale ci ha ammonito: strada sdrucciolevole con pioggia e gelo.
La strada sale, le curve si fanno più frequenti e più strette, diventano tornanti. Gli autisti fanno più che mai attenzione a viaggiare rigorosamente alla destra.  Non c’è pericolo di scivolare: il fondo dei tornanti è ruvido e le gomme delle macchine fanno buona presa.

Una strada moderna
Il modo di vivere di una strada è quanto mai aspro e travagliato. A servirsi della strada c’è infatti, oltre al pedone, anche il ciclista e il motociclista, l’automobile, l’autocarro e l’autotreno; la strada deve soddisfare tutti. Ma poi, sulla strada ora piove e ora dardeggia il sole, ora infieriscono la nebbia, la neve, il gelo ed ora spirano i venti e insistono le siccità; ed anche a tutti questi fattori di volubile aspetto la moderna strada deve ugualmente resistere, onde mantenersi sempre la stessa, senza fango nè polvere e sempre percorribile con comodità e sicurezza, qualunque sia la velocità. La strada quindi vive una vita insonne, agitata, multiforme. Se non fosse più robusta, rapidamente si dissolverebbe, trasformandosi in nubi di polvere. (B. Bolis)

La poesia della strada
La strada ha la sua poesia. L’ha la strada grande e la piccola, la modernissima autostrada e il secolare viottolo alpestre dove passano a stento il mulo e il boscaiolo; l’ha la vasta via nazionale che si perde diritta e interminabile nella pianura polverosa, che valica fiumi e colline, e attraversa campagne e congiunge città e paesi e si dirama e si intreccia in ogni direzione a formare come le maglie di una fittissima rete; e l’ha, più intima e più dolce, la strada che risale le vallate, che si inerpica sulle montagne e scavalca i grandi passi e ridiscende tortuosa e capricciosa come un nastro enorme verso altre vallate, altri moti, altre contrade. La poesia della strada è anche nella sua stessa missione di avvicinare gli uomini agli uomini e di rendere meno estranee fra loro le regioni e le nazioni. (G. Silvestri)

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO

IL FIUME materiale didattico vario

IL FIUME materiale didattico vario – una raccolta di dettati ortografici, letture, poesie e filastrocche sul fiume, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Le acque prodotte dallo sciogliersi delle nevi e dei ghiacciai scorrono in disordine fra i massi dell’alta montagna, poi si raccolgono a formare il torrente: un corso d’acqua impetuoso, ora abbondante ora povero d’acqua, interrotto da macigni e da salti improvvisi.
Il torrente scende al piede del monte e imbocca, ancora turbinoso e violento, la valle. Altri torrenti scendono da altri nevai e ghiacciai e si uniscono al primo.
Nella pianura le acque rallentano la loro corsa, si allargano in un solco (letto) più ampio. I cento torrenti sono diventati un unico fiume.
Il fiume è un corso d’acqua perenne. Esso scorre in un letto limitato da due sponde o argini. Il fiume può portare le sue acque ad un altro fiume: si dice allora che ne è l’affluente; può alimentare un lago: si dice allora che ne è l’immissario; può scaricarne le acque: si dice che ne è l’emissario; può infine portare le sue acque al mare. Il luogo ove le acque del fiume si mescolano con quelle del mare è detto foce.
Gli uomini costruirono le loro città presso i fiumi, per difendersi dietro una barriera scura e per sfruttarne le acque.
Il fiume favorisce l’agricoltura, offrendo acque per l’irrigazione. Sui fiumi navigabili si sviluppa un movimento di chiatte e di battelli per il trasporto delle merci e delle persone. Dal letto del fiume gli uomini estraggono con speciali macchie, le draghe, ghiaia e sabbia per la costruzione di case. Le grandi città scaricano nel fiume tutte le acque portate dai canali delle fognature.
Molti fiumi sono pescosi, offrono cioè quantità di buon pesce.

Il fiume

Va il fiume per la grande pianura e le sue onde mormorano sommesse: “Sono il fiume maestoso che irriga campagne, che inverdisce terre riarse, che dà moto e lavoro agli opifici, ai paesi, a città intere. Sono il fiume maestoso e calmo, rifletto il sole e la nuvola, il roseo dell’alba e l’oro del tramonto, l’alto pioppo e il piccolo cespuglio. Sulla mia riva cantano gli uomini, gorgheggiano gli uccelli, trillano i bimbi tuffandosi lieti nelle mie onde, si dondolano liete le barche. Sono il fiume e vado al mare”. (Hedda)

La sorgente

Nella primissima luce dell’alba, solamente la sorgente volubile parlava… L’acqua veniva dalle interne, misteriose vie dalla montagna, si affacciava ad uno spacco della roccia, balzava in una coppa di pietra larga, un po’ verde e un po’ violacea, tremava in giri aperti intorno al ribollire del mezzo, straripava dall’orlo e si perdeva fra i muschi e le felci. (G. Fanciulli)

La foce

Il luogo ove le acque del fiume sboccano nel mare si chiama foce. A volte la foce si apre a ventaglio ed è detta estuario. Quando invece la foce si dirama in diversi corsi d’acqua simili alle dita di una mano, si chiama delta. Quando un fiume alimenta un lago si dice che ne è l’immissario. L’emissario, invece, è un fiume che scarica le acque di un lago.

Il lavoro dell’uomo

Sulla riva del torrente l’uomo costruisce mulini, segherie, piccole officine. In capo alle valli egli innalza dighe per produrre elettricità o per irrigare la terra. Più in basso, quando l’acqua sembra stendersi pacifica nel letto del grande fiume, ecco le prime imbarcazioni: sono battelli per il trasporto di materiali o di persone, sono chiatte, adibite al traghetto dei veicoli, sono leggere barche per la pesca. I pesci di fiume sono gustosissimi: trote, anguille, carpe ed altri esemplari vengono catturati per mezzo di reti o di lenze. Neppure la sua ghiaia e la sua sabbia sono da disprezzare. I muratori ne fanno largo uso.

Il fiume è utile

Dove scorre un fiume la terra si fa rigogliosa. Aria e sole non bastano a rendere fertili i campi, è necessaria anche l’acqua, per nutrire le piante e dissetarle nei mesi più caldi. Per questo l’acqua del fiume viene incanalata e usata per irrigare vaste campagne. Alcuni fiumi sono per un buon tratto navigabili e sono solcati da barconi da trasporto; dal letto dei fiumi si ricavano ghiaia e sabbia. Il più grande fiume d’Italia è il Po, navigabile per buona parte del suo corso. Ma l’opera dell’uomo non si è fermata qui, e il Po è stato unito, per mezzo di un canale, alla laguna di Venezia.

Animali e piante nelle acque dolci e lungo le rive

I ranuncoli d’acqua fioriscono nelle zone d’acqua ferma, vicino alle sponde. Le ninfee aprono le bianche corolle nelle zone dove l’acqua è più tranquilla. Molto spesso le rive sono verdeggianti di giunchi e di canne palustri.
Nelle acque dei fiumi vivono la trota, ricercata per la squisitezza della sua carne, e il luccio che è munito di denti robustissimi. La carpa preferisce le acque poco correnti, dove abbonda la vegetazione.
Numerosi sono gli insetti che vivono vicino alle acque dolci. La libellula è uno dei più conosciuti e più belli. Le zanzare popolano soprattutto le zone di acqua stagnante.
Ci sono anche uccelli che vivono presso le acque dei fiumi. Durante l’inverno, qualche volta, nelle paludi e nei campi che costeggiano i fiumi si incontrano le anatre selvatiche. Il falco pescatore e il martin pescatore sono veloci ed instancabili nel catturare i pesci.

La piena

Quando piove troppo a lungo, il livello delle acque del fiume cresce e si innalza talvolta fino a superare e a travolgere gli argini: il fiume è in piena. Acqua torbida e fangosa invade la pianura, distruggendo le coltivazioni e danneggiando case e strade. L’uomo cerca in vari modi di prevenire le alluvioni: rimbosca le montagne, per impedire che il terreno frani e i torrenti portino a valle fango e sassi; pianta filari di alberi lungo il fiume e scava canali di scarico. Egli innalza argini e li protegge con grandi gabbie di rete metallica, piene di sassi.

La cascata

Dalla destra e dalla sinistra del fiume giungono gli affluenti frettolosi e uniscono le loro acque a quelle del compagno maggiore. E tutti insieme vanno lietamente verso il piano. Non sempre la strada è agevole e priva di ostacoli. In certi punti le pareti dei monti, entro cui scorre il fiume, si avvicinano tanto che tra l’una e l’altra rimane appena un piccolo spazio. Questo stretto passaggio si chiama gola. Altrove il terreno cede tutto d’un tratto e il fiume deve spiccare un salto più o meno alto. Si ha, così, una cascata.
Per il turista la cascata è uno dei più attraenti spettacoli che presenti la montagna. L’acqua balza dall’alto impetuosa, rivestendo di minute e luccicanti goccioline le piante, gli arbusti e le erbe che il vento del salto ha piegato verso il basso. Da punto dove la colonna d’acqua batte, cadendo, si solleva una nebbiolina, formata da piccolissime gocce frantumate dal balzo e sulla nebbiolina risplende, in graziosi colori, la luce del sole.
Per l’ingegnere la cascata è una preziosa fonte di energia elettrica. Veramente prima dell’ingegnere, ha pensato l’umile mugnaio a sfruttare il lavoro che l’acqua fa cadendo. E’ bastato mettere una ruota a pale sotto la colonna d’acqua e trasmettere, con una cinghia, il movimento della ruota alle macine che trasformano il grano in farina.
Dal primitivo impianto del mugnaio è nata la turbina, che riceve la spinta della cascata e la comunica alle macchine incaricate di produrre energia elettrica.
Così il giovane fiume balzante dalla rupe mette la sua forza a servizio dell’uomo, per illuminare le case e le strade, per animare le macchine degli opifici, per la cura dei malati, per il trasporto da luogo a luogo delle merci e delle persone.

Il fiume

Scende il fiume dalle montagne. Viaggia notte e giorno. La sera l’acqua arriva tiepida, perchè ha viaggiato tutto il giorno. La mattina arriva ghiacciata, perchè ha camminato tutta la notte. Cammina, cammina senza sapere dove va. Traversa le valli, scende lenta verso il piano, passa fra distese brulle e attraversa paesi. Improvvisamente si sente stretto tra due muraglioni. E’ arrivato in città. (A. Campanile)

La cascata

Là dove c’è la cascata, l’acqua del fiume precipita, balza, spumeggia, si gira in gorghi e in vortici. Una bambina guarda, ammirata. Il babbo prende un ramo grosso, nodoso e lo getta dove l’acqua comincia a precipitare verso la cascata. Appena tocca l’acqua, il ramo balza verso il cielo, rotola, precipita. Si agita nei gorghi. Pare che l’acqua si diverta, ferocemente, con lui. “Ecco perchè” dice il babbo alla figlia, “la cascata è pericolosa”. (M. L. Magni)

Gli scavatori di sabbia

Da giovane il fiume è impetuoso torrente dopo essere stato ruscello canterino. Scende lungo i fianchi della montagna, schiuma contro le rocce, straripa facilmente. Giunto in pianura si stende placido e silenzioso. Il suo canto diventa sussurro. Lungo le sue rive diventate calme vi sono le cave di sabbia. E gli scavatori lavorano ogni giorno per noi, per portarci quella sabbia che servirà poi per la costruzione delle nostre case.

La foce

Eccolo il nostro fiume sempre più maestoso avviarsi rapido verso il mare. Si è fatto ora silenzioso. Ha accolto lungo la sua via, a destra e a sinistra, gli omaggi degli altri fiumi; ha bagnato città e villaggi; ha specchiato nelle sue acque rosse torri, castelli solitari, umili casolari, fronde tremule d’alberi, giardini in fiore, nere ciminiere. Ha accolto bonario i ponti creati dalla mano dell’uomo; ha trasportato barche e battelli; ha diffuso da per tutto la sua forza; ha donato la prosperità.

Il ruscello

Lungo le rive muscose e verdeggianti canta allegro il ruscello, mentre l’acqua limpida saltella di sasso in sasso. Occhieggiano al suo passaggio fiorellini dallo stelo corto, dalla corolla bianca a forma di stella: i ranuncoli dell’acqua. Più in basso, il ruscello rallenta la sua corsa. E’ arrivato in un’ampia zona pianeggiante ed ora si allarga fino a formare un piccolo lago dalle acque tranquille. Eccoci davanti a un placido stagno. E’ azzurro d’acque e verde d’erbe, che sfidano anche i rigori invernali, perchè le loro radici sono protette dall’acqua profonda, che non gela mai.

Vita nello stagno

L’anitra selvatica si alza improvvisamente in volo dalle acque dove ha cercato il suo nutrimento. Ha udito qualche rumore sospetto, e cerca scampo nella fuga, ignorando che, forse, il cacciatore è in agguato. Un grazioso martin pescatore è aggrappato a una canna palustre e la fa dondolare lentamente. Scruta attento le acque in cerca di pesciolini o insetti, che sa acchiappare con grande bravura.

Lungo la strada dell’acqua

Senza un tonfo, come adagiato sull’acqua, lo scuro e pesante barcone avanza. E’ colmo di ghiaia. Davanti gli si stende, fino a smarrirsi tra i pioppi e la foschia, la verde strada del canale. Come questo, due, tre, dieci, cento altri barconi seguono il lento cammino dell’acqua. Portano rena, sabbia, ghiaia, pietre alla città che ha fretta di crescere. Vanno, portati dall’acqua. E non cambiano mai. Scuri e tranquilli, lavorano in pace, lungo la verde strada d’acqua. (M. L. Magni)

L’uomo e il fiume

Tutte le grandi civiltà sono sorte vicino ai fiumi. Infatti tra il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro è nata la civiltà cinese; sul Gange la civiltà indiana; sul Tigri e sull’Eufrate quella babilonese; sul Nilo quella egiziana; sul Tevere quella latina. Perchè accade questo? I motivi dipendono dalla presenza del fiume: le pianure in cui si stabilirono le prime genti erano state create dal fiume stesso ed erano perciò fertilissime; inoltre il fiume era una comoda via di comunicazione, forniva l’acqua per irrigare i campi e per bere, ed era una difesa naturale contro gli assalti dei nemici.
Per questi motivi nell’antichità i fiumi importanti venivano considerati sacri. Alcuni conservano ancor oggi il loro significato religioso, come il fiume Gange dove gli indiani si bagnano per purificarsi e dove gettano, dopo la morte, le loro ceneri.
Un fiume sacro alla memoria dei cristiani è il Giordano, in Terra Santa; con l’acqua di questo fiume Gesù fu battezzato.
La tecnica moderna ha consentito di realizzare lungo il percorso di molti fiumi, opere veramente considerevoli: industrie, officine e centrali idroelettriche sfruttano l’energia delle acque, e porti di notevole importanza commerciale sorgono lungo le rive dei grandi corsi d’acqua.
Spesso questi fiumi, lungo le rive dei quali sorgono ricche città portuali, sono collegati con altri centri mediante una rete di canali navigabili, in modo da favorire e agevolare lo sviluppo del commercio e dell’industria.

Vocabolario

Fiumana, rivo, riviera, affluente, immissario , emissario, tributario, torrente;

guadabile, ghiaioso, impetuoso, navigabile, perenne, profondo, rapinoso, tortuoso, vivo, morto, sinuoso;

anse, alveo, argine, bocche, bacino, banchina, braccio, chiusa, cascata, cateratta, confluente, corrente, corso, direzione, diga, delta, estuario, foce, ghiareto, greto, guado, letto, livello, meandro, pescaia, pelo, proda, ripa, sorgente, sponda o margine, tonfano, vortice o gorgo, magra, piena, rapida, risucchio, alluvione, illuvione, inondazione;

immettere, sboccare, nascere, finire, sfociare, versarsi, fluire, diramarsi, bagnare, correre, gonfiarsi, esalveare, irrigare, scaturire, sgorgare, inalveare;

fluviale, ponte, traghetto, alzaia, ciottolo, navalestro, frontista o rivierasco, portata.

 Il ruscello
C’era una volta un giovane ruscello
color di perla, che alla vecchia valle
tra molti giunchi e pratelline gialle
correva snello;
e c’era un bimbo, e gli tendea le mani
dicendo: “A che tutto codesto fuoco?
Posa un po’ qui. Si gioca un caro gioco,
se tu rimani.
Se tu rimani, e muovi adagio i passi,
un lago nasce, e nell’argento fresco
della bell’acqua io con le mani pesco
gemme di sassi:
fermati dunque, non fuggir così!
L’uccello che cinguetta ora sul ramo
ancor cinguetterà, se noi giochiamo
taciti qui”.
Rise il ruscello, e tremolò commosso
al cenno delle amiche mani tese;
e con un tono di voce cortese
disse: “Non posso!
Vorrei: non posso! Il cuor mi vola: ho fretta!
In mezzo al piano, a leghe di cammino,
la sollecita ruota del mulino
c’è che mi aspetta;
e c’è la vispa e provvida massaia
che risciacquar la nuova tela deve,
e sciorinarla, sì che al sole neve
candida paia;
e il gregge c’è, che a sera porge il muso
avido a bere di quest’onda chiara,
e gode s’io la sazio, e poi ripara
contento al chiuso…
Lasciami dunque”, terminò il ruscello,
“correre dove il mio dover mi vuole.”.
E giù nel piano, luccicando al sole,
disparve snello.

Il ruscello
Oh, piccolo ruscello argenteo e chiaro,
che in avanti ti affretti senza posa,
alla tua riva me ne sto pensoso.
Da dove vieni tu? Dove te ne vai?
Vengo dal buio seno della roccia;
il mio corso se ne va tra muschio e fiori
e sul mio specchio dolcemente freme
l’azzurra amica immagine del cielo. (W. Goethe)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Vulcano in eruzione

Il vulcano è davvero un classico tra le attività scientifiche proposte ai bambini della scuola d’infanzia e primaria. Nelle vacanze estive è anche un ottimo gioco da fare all’aperto, o in cucina…

Vulcano in eruzione: Versione 1

Materiale occorrente:

  • carta di recupero
  • una bottiglia di plastica
  • un tubo di plastica
  • colla a caldo
  • una pasta di sale fatta al momento e lasciata molto morbida
  • sassi e muschio
  • aceto, bicarbonato e ketchup
  • un imbuto per il cratere e uno per il tubo

Preparazione:

1. forare un lato della bottiglia, in basso, inserire il tubo e sigillare con la colla a caldo

2. modellare il vulcano con palle di carta di recupero e pasta di sale

3. colorare il vulcano e decorare con sassi e muschio

4. in una brocca miscelare aceto e ketchup (nella proporzione che volete)

Attività:

1. i bambini, a turno, versano del bicarbonato nella bocca del vulcano

2. i bambini, a turno, versano nel tubo la miscela di ketchup ed aceto

Vulcano in eruzione: Versione 2

 … per realizzare il vulcano basta nascondere una bottiglia di plastica all’interno di una montagna che può essere fatta con sabbia, terra, pasta da modellare, carta pesta… noi l’abbiamo preparato così:

materiale occorrente:

– un contenitore poco profondo di legno, plastica, o cartone

– una o due bottiglie di plastica

– cartoni da pizza da asporto

– vecchi quotidiani

– carta da cucina

– colori a tempera

– carta verde (velina, oleata, cartoncino)

– una colla artigianale preparata con farina bianca, acqua e aceto balsamico

– stecchini da spiedino

– sabbia, terra, sassolini (o farina gialla)

– nastro adesivo

Procedimento

Preparata la colla artigianale, noi abbiamo incollato le due bottiglie tra loro con la colla a caldo, per poter eventualmente caricare il vulcano dal basso, e anche per lo svuotamento, ma non è indispensabile. Potete tranquillamente usare una bottiglia sola.

 

poi abbiamo iniziato a modellare la montagna attorno alla bottiglia coi cartoni da pizza, fissandoli col nastro adesivo:

 

e con la nostra colla artigianale data col pennello, versata con un bicchierino, o anche preparando delle pezze di carta da cucina imbevute della nostra colla e poi appoggiate al cartone (così si fa anche pulizia senza sprecare nulla):

 

continuiamo a modellare, aggiungendo anche fogli di giornale:

 

 

rivestiamo con abbondante colla artigianale, quindi mettiamo ad  asciugare.

 

Quando è asciutto, possiamo modellare il cratere tagliando un po’ la bottiglia, e quindi passiamo alla decorazione:

 

Per la scenografia noi abbiamo usato ghiaia e farina gialla, poi abbiamo strappato la carta verde (strappare la carta è un’attività molto interessante per i bambini più piccoli, ed un ottimo esercizio di motricità fine):

 

Il nostro vulcano ha anche una bella grotta, dove può abitare ad esempio, una famiglia di orsi… ma potrebbero essere uomini preistorici,  o altri personaggi.

 

 

 

 

 

 

 

Veniamo all’eruzione; noi giochiamo spesso con le pozioni magiche, questi sono alcuni nostri esperimenti con succo di cavolo rosso, bicarbonato ed aceto, e può essere una prima buona idea per il nostro vulcano. La reazione funziona sempre, non servono dosi e i bambini si divertono molto a sperimentare le variabili di consistenza e colore:

 

 

Al posto del succo di cavolo rosso,  possiamo invece usare del colorante alimentare rosso, e sempre bicarbonato ed aceto (caricando il vulcano dall’alto o dal basso, come volete):

 

 

 

Ecco l’eruzione:

 

 

 

 

 

Un’altra possibilità è utilizzare la ricetta del “dentifricio degli elefanti”, che crea una schiuma molto densa e di grande effetto; servono:

10 cucchiai di acqua ossigenata a 20 volumi (si compra dal parrucchiere)

una o due bustine di lievito per dolci

un cucchiaio di detersivo per piatti

colorante alimentare

tre cucchiai di acqua calda per sciogliere il lievito.

Mettete nel vulcano l’acqua ossigenata, il detersivo e il colorante. A parte sciogliete il lievito e versatelo velocemente nel vulcano.

 

 

 

 

per ravvivare la reazione potete aggiungere poi aceto bianco:

 

 

La terza possibilità è versare nel vulcano della diet coke, e aggiungere alcune caramelle mentos (si crea un getto alto di schiuma marrone che non ho fatto in tempo a fotografare, poi continua per qualche secondo la fuoriuscita di schiuma)…

IL CRISANTEMO leggenda giapponese

IL CRISANTEMO leggenda giapponese

C’è, in Giappone, un luogo dove il crisantemo non è coltivato perchè ricorda una storia troppo triste.

Una volta, in un castello dalle trenta torri, nella graziosa città di Himeji, abitava un ricchissimo signore. Egli prese al suo servizio una fanciulla di buona famiglia, chiamata O-Kitu, il che, in giapponese, significa appunto “fior di crisantemo”. O-Kitu doveva aver cura di molti oggetti preziosi e, fra l’altro, di dieci piatti d’oro.

Un giorno, uno dei piatti scomparve e la ragazza, per dimostrare la propria innocenza, si annegò in un pozzo. Il suo spirito tormentato, la notte, tornava al castello e singhiozzando cantava: “Ichi-mai, ni-mai, san-mai, yo-mai, go-mai, ro-ku-mai, shichi-mai, bachi-mai, ku-mai”. “Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove!”

Il decimo piatto non c’era e la povera servetta non trovava pace: finchè si trasformò in un insetto che somiglia a uno spirito coi capelli scompigliati e che fu chiamato la “mosca crisantemo”.

L’immagine di una chioma spettinata, che richiama alla mente i petali frastagliati del crisantemo, ha dato origine sempre in Giappone, a un’altra leggenda.

Una musmè aveva sposato  un giovane, che amava teneramente. Egli era mercante e spesso doveva allontanarsi per lunghi viaggi sul mare. Una fosca sera di novembre la moglie lo aspettava, ritta su uno scoglio. La nave apparve, ma una tempesta terribile si scatenò. La povera musmè, coi capelli ondeggianti al vento, assistette inorridita al dramma: il bastimento fu inghiottito dai flutti furibondi. Disperata, la sposa si gettò anch’essa nelle onde e morì. Il giorno dopo, sul luogo dove aveva atteso il suo sposo, sbocciarono i fiori del crisantemo, e i loro petali fluttuavano al vento come i capelli della musmè.

Un’altra commovente leggenda giapponese è questa. Due giovani sposi vivevano tranquilli e felici. Purtroppo scoppiò la guerra e il marito dovette partire. Dopo lunghi mesi di dolorosa separazione gli fu dato un congedo ed egli potè tornare alla sua casetta. La moglie gli chiese: – Quanti giorni resterai? –

– Quanti petali ha quel fiore – rispose il marito, indicando un fiore in un vaso.

I petali erano pochi: di notte la sposa si levò, prese un paio di forbici e li frastagliò in tanti minutissimi frammenti. E il marito rimase con lei molti giorni, assai più di quanto non gli fosse stato concesso…

Tornato al campo, fu giudicato e condannato a morte come disertore. E la sposa, per il rimorso e per il dolore, morì.

Ma il ricordo del suo grande, sebbene così tragico amore, le sopravvisse in un modo strano e poetico. Sulla sua tomba nacquero bellissimi fiori mai visti prima: erano i crisantemi dai petali innumerevoli, simili a quelli del fiore che la donna aveva frastagliato con le sue incaute forbicine.

La pianura – materiale didattico vario

La pianura – materiale didattico vario: dettati ortografici, racconti, testi brevi, di autori vari, per la scuola primaria.

La pianura

La pianura è un’estensione di terreno piatto o leggermente ondulato che, di solito, non supera i 200 metri di altitudine, misurando dal livello del mare.

Nei tempi antichissimi scorrevano sulla Terra fiumi giganteschi: le loro acque trascinavano con sè, strappandoli dalla montagna, frammenti di roccia e terriccio. Questo materiale, accumulandosi per millenni e millenni, formò le pianure.

Anche oggi, nelle pianure, scorrono i grandi fiumi. Gli uomini devono costruire argini potenti per trattenerne le acque e ponti di cemento e di ferro per scavalcarne le correnti.

Centinaia di anni fa,   gli uomini non si fermavano volentieri nella pianura a costruire case e città. Temevano gli assalti dei nemici e il pericolo delle paludi. Nei tempi moderni, invece, la pianura è il luogo preferito per la costruzione delle grandi città, centri di industrie e di commerci. Nella pianura è possibile tracciare strade, autostrade, ferrovie ed aeroporti senza troppi impedimenti di salite, discese e curve.

Le pianure, bene irrigate dai fiumi e dai canali scavati dall’uomo, sono coltivate intensamente. Negli ampi terreni pianeggianti è possibile l’uso dei trattori e delle altre macchine agricole. Nelle pianure si coltivano i foraggi (erbe di cui si ciba il bestiame), cereali (grano, granoturco, riso), tabacco, barbabietole da zucchero, alberi per legname (pioppi, faggi) e alberi da frutto.

Nasce una pianura

Molti e molti secoli fa, la grande valle del Po era occupata dal mare e le sue onde si frangevano ai piedi delle Prealpi. Ma poi, dalle gole nascoste delle Alpi, discesero i ghiacciai, i quali colmarono i fiumi e i torrenti che portavano tonnellate di detriti.

Questa terra, strappata alle acque, si coprì di immense foreste e qua e là, nelle grandi radure che si aprivano nell’intrico della vegetazione, sorsero miseri villaggi di capanne, circondati da brevi campi coltivati a cerali o a viti.

Furono i Romani che, dopo molti secoli, cominciarono per primi ad abbattere le dense boscaglie per farvi passare le larghe strade che dovevano congiungere i paesi conquistati. Più avanti nel tempo, specialmente per opera dei monaci, altre vastissime zone furono diboscate; si prosciugarono plaghe paludose, si costruirono canali di irrigazione.

La pianura era ormai nata e l’intensa opera dell’uomo la rendeva di anno in anno più fertile; eppure ancora oggi il vomere del contadino affonda nei resti delle antiche vette demolite dal gelo, e qualche volta appare, tra i sassi, il fossile di qualche antica spiaggia dalle onde che flagellavano le scogliere di ghiaccio. (A. Stoppani)

Flora e fauna 

Nei campi della pianura vivono i lombrichi e moltissimi insetti di ogni specie. Ci sono i ricci, voraci insettivori, e i timidi conigli selvatici.

Gli uccelli sono numerosi: il cardellino, la tortora, la quaglia e l’allodola amano le ampie distese della pianura. In alcune zone della Maremma e della Sardegna si trova ancora il cinghiale, che è un maiale selvatico. Ma anche gli animali selvatici, come le piante spontanee, vanno scomparendo dalla pianura.

Anche la pianura ha le sue piante. Nella zona di alta pianura crescono platani, robinie, betulle, pini silvestri, sambuchi, ginestre e brughi. Dai cespugli di brugo, certe zone di alta pianura hanno preso il nome di brughiere.

Nella bassa pianura troviamo pioppi, salici e numerosissimi tipi di erbe.

Ora le brughiere e le zone non coltivate della pianura vanno scomparendo perchè l’uomo, mediante imponenti lavori di bonifica e di irrigazione, cerca di sfruttare ogni zona di terreno.

Le comunicazioni

In pianura le comunicazioni sono facili e dirette: anche per questo la vita tende ad accentrarsi nelle pianure. Qui sorgono grandi città, centri industriali e commerciali dove le merci e i prodotti possono rapidamente giungere e partire per le varie destinazioni.

Il traffico maggiore è svolto per mezzo delle ferrovie e degli automezzi. Veloci automobili e autotreni col loro rimorchio corrono sulle autostrade. Queste sono grandi e moderne strade riservate agli automezzi: pedoni e ciclisti non possono percorrerle. Esse congiungono direttamente le grandi città, sono abbastanza larghe e ben pavimentate e non sono mai tagliate di strade trasversali.

Così i veicoli possono viaggiare a grande velocità senza pericolo. Agli incroci spesso una strada scavalca l’altra come un ponte: si ha così un cavalcavia. Anche i fiumi talvolta vengono usati in pianura come vere e proprie vie d’acqua. Per mezzo di barconi e chiatte, molte merci vengono trasportate lungo i fiumi e i grandi canali.

Il lavoro industriale

Le facili comunicazioni permettono il rapido trasporto delle materie prime che le industrie lavorano e trasformano in utili prodotti. Per questo i più grandi stabilimenti industriali sorgono più numerosi in pianura che altrove. Quante industrie sono necessarie per rifornirci di tutto quello che ci serve per vivere! Gli stabilimenti tessili ci forniscono i vestiti che indossiamo, i calzaturifici ci preparano le scarpe, le cartiere fabbricano i nostri quaderni, i mobilifici arredano di mobilio le nostre case, gli stabilimenti  meccanici ci donano utensili e macchine di ogni tipo, necessari per il nostro lavoro, per i nostri trasporti e per rendere la nostra casa più comoda. Ma ad essi occorrono ferro, acciaio ed altri metalli che sono lavorati negli stabilimenti siderurgici e metallurgici.

Paludi e stagni

Non tutte le zone di pianura sono abitate e coltivate. Vi sono dei luoghi dove l’acqua, non  assorbita dal terreno, si ferma e ristagna, formando le paludi. Molte di esse, separate da sottili lingue di terra, si trovano lungo le coste dei mari: sono le lagune.

Quando l’acqua si raccoglie in piccole conche del terreno, forma gli stagni, acquitrini melmosi, ricchi di erbe acquatiche, di arbusti intricati e di canneti. In questi luoghi, che rappresentano il paradiso dei cacciatori per i molti uccelli acquatici che vi si possono trovare, l’aria è malsana, densa di moscerini e di zanzare.

In alcune regioni d’Italia sono state compiute opere di bonifica, per prosciugare e rendere produttivi molti terreni paludosi.

Nelle marcite, tipi particolari di campi in cui l’acqua circola tra le piantine e le mantiene umide, si possono fare anche otto tagli di erba all’anno.

Il riso

Il riso è una pianta che cresce solo nell’acqua: viene perciò coltivata  nei terreni paludosi o appositamente allagati. In marzo i contadini preparano i piccoli appezzamenti destinati alla semina del riso, zappano la terra a mano, lavorando nel fango, e sminuzzano le zolle con l’erpice tirato da due robusti cavalli. Prima della semina, che di solito si effettua in aprile, immettono l’acqua nei campi.

Dopo due mesi le piantine verdi, cresciute fitte fitte nel campo, sono pronte per il trapianto. Le mondine scavano un piccolo buco nella melma e vi affondano ad una ad una le radici dei cespi di riso. In giugno o in luglio procedono a varie mondature, cioè strappano le erbacce dalla risaia.

In settembre le pianticelle si incurvano sotto il peso dei chicchi maturi: è l’ora della mietitura. Le risaie vengono prosciugate e le pianticelle falciate a mano. Quindi il riso viene trebbiato con la macchina trebbiatrice e portato sull’aia ad essiccare.

Infine passa nelle riserie, dove altre macchine trasformano i chicchi scuri, violacei, rossastri, in granelli bianchi e brillanti. La sua lunga storia è finita: il riso è pronto per apparire nelle nostre cucine.

In campagna

Dalla casa colonica lo sguardo spazia, al di sopra della pianura, per un vasto orizzonte; sono lontani i monti che appaiono di un azzurro più scuro nell’azzurro vivo del cielo.

Attorno alla casa, prati e campi di frumento, di granoturco, di avena. Da campo a campo, lunghe file di pioppi fanno alta siepe di verde; le foglie tremano al vento leggero.

Nelle belle, calde sere di giugno, dai prati rigogliosi, dai campi dove già le messi cominciano a biondeggiare, si levano a mille le lucciole. Sembrano stelline vaganti che si agitano per rispondere, con la loro minuscola lucetta, allo scintillio delle grandi stelle nei cielo.

Nel silenzio si leva il canto dei grilli.

Le grandi fattorie

In pianura sorgono numerose fattorie. Visitiamone una. Appena entrati ci troviamo in un ampio cortile cinto da un alto porticato. Nel mezzo si trova l’aia, sulla quale si stendono le biade ad essiccare. Intorno si affacciano le stanze di abitazione, le stalle e i ripostigli. Sotto il portico è ammucchiato il fieno, vicino a cataste di legna da ardere e a balle di paglia. Qua e là si scorgono diverse macchine agricole. Tutt’intorno è un brulicare di galline, di anatre, di oche, e non mancano mai cani fedeli che fanno la guardia e agili gatti a dar la caccia ai topi.

Perchè il fiume è chiuso fra due argini?

In pianura i fiumi non hanno forte corrente, dato che la pendenza del terreno è minima. I barconi e le chiatte cariche di merci possono così risalire facilmente i grandi fiumi placidi della pianura. Ci sono anche i canali scavati dagli uomini per irrigare i campi o per impedire che in certe zone l’acqua del fiume ristagni a formare le paludi. I canali, togliendo molta acqua ai fiumi, impediscono anche che essi inondino la campagna durante le piene. Servono perciò a regolare il corso dei fiumi. In certe zone però ciò non basta. Il fiume, che in pianura scorre lento, deposita sul fondo tutti  i detriti che le sue acque portano via dalla montagna. Il solco del suo letto si riempie e il fiume viene poco per volta ad essere più alto del terreno che sta intorno e minaccia di straripare. Per impedirlo, l’uomo ha dovuto costruire dei robusti argini di terra lungo le sponde. Per costruire questi argini, gli uomini adoperano la terra che tolgono dallo stesso letto del fiume con le draghe. Le draghe che scavano il fondo del fiume servono a rendere navigabili tutte le sue parti anche ad imbarcazioni piuttosto grosse. Inoltre contribuiscono ad impedire che il fondo del fiume si alzi troppo.

(in costruzione)

La pianura –  dettati ortografici e letture – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Materiale didattico scuola primaria geografia – IL MARE

Materiale didattico scuola primaria geografia – IL MARE – una raccolta di letture e dettati ortografici sul mare, per lo studio degli ambienti naturali in geografia e per perfezionare lettura e ortografia.

Il mare

Le acque dei fiumi raggiungono il mare. Il mare è una grande estensione di acqua salata, di colore verde – azzurro, che circonda le varie regioni della Terra.

La superficie del mare è mossa, di continuo, dal  vento che provoca le onde. Esse sono appena accennate quando il mare è tranquillo, in bonaccia; sono alte e pericolose, crestate di schiuma, quando c’è burrasca.

Il limite tra terra e mare è la costa. Essa si presenta ora alta e rocciosa sulle acque, ora bassa e coperta di sabbia o di ghiaia. Le onde urtano contro le coste, le scavano, le frastagliano in modo bizzarro.

Le coste basse e sabbiose (spiagge) e specialmente quelle alte e rocciose sono molto varie: formano le sporgenze di promontori e di capi e le rientranze di baie e di golfi.

Ci sono terre che si allungano per molti chilometri nel mare; si chiamano penisole. L’Italia è una grande penisola estesa nel mar Mediterraneo. Completamente circondate dal mare ci sono terre di estensione talvolta notevole: si chiamano isole. La Sicilia e la Sardegna sono grandi isole italiane.

I mari, che occupano gran parte della Terra, producono con la loro evaporazione l’umidità necessaria per le piogge; quindi i mari sono anche regolatori della temperatura. Nella buona stagione, le acque marine si riscaldano e conservano questo calore. Quando giunge l’inverno, esse lo cedono a poco a poco all’aria e la intiepidiscono. Durante l’estate, le acque marine sono fresche e donano all’aria un po’ della loro frescura. Le terre presso il mare hanno così inverni ed estati miti.

Chi si è divertito tra le onde si è sicuramente accorto che l’acqua del mare ha un sapore sgradevole. Ciò è causato dalle grandi quantità di sali trasportate dalle acque dei fiumi e depositate nel mare, le quali si concentrano per la forte evaporazione. Il sale è un elemento indispensabile per la vita dell’uomo: egli non potrebbe nutrirsi solo di cibi dolci, perciò l’uomo ricava il sale facendo evaporare l’acqua marina nelle vasche delle saline.

Il mare è popolato da una quantità enorme di pesci grossi e piccoli. Gli uomini si sono sempre nutriti di pesce, ed oggi hanno vere e proprie flotte di pescherecci capaci di affrontare l’alto mare e di preparare e conservare il pesce appena catturato.

Gli uomini, fin dall’antichità, hanno saputo dominare e solcare il mare con imbarcazioni sempre più veloci e sicure; oggi il mare è una via di comunicazione facile ed economica.

Le navi che solcano i mari hanno, lungo le coste, le loro stazioni: i porti. Nei porti esse sostano per caricare e scaricare merci, per imbarcare e sbarcare passeggeri.

L’uomo dell’antichità trovò, sulla sponda, luoghi adatti per riparare le navi dai venti e dalle onde: erano insenature profonde, protette da coste alte, i primi porti naturali. Ritroviamo, oggi, lungo le coste e alle foci dei fiumi, porti costruiti dall’uomo; essi sono bordati e difesi da lunghe muraglie di cemento o di pietra: i moli.

Oh, com’è grande e bello il mare! Quando è tranquillo sembra un’immensa distesa azzurra con tante bianche vele, immobili, come in attesa del messaggio di un angelo. Nelle giornate più chiare il mare si confonde col cielo e le onde mansuete, come piccoli agnelli, baciano la sponda. Ma guai se il vento si mette a soffiare! Allora il mare sembra un mosto scatenato. Che paura!

Doni del mare

Il sole è scivolato dalle nubi di fiamma fino al mare. A poco a poco scende la sera buia. Nel cielo brillano le stelle e la luna tonda tonda. I pescatori ritirano le reti che hanno lasciato cadere nell’acqua scintillante. Quanti pesci nella rete! Il pescatore è contento e, mentre ritorna, pensa al suo bimbo che può dormire tranquillo: il mare ha pensato anche a lui.

Al mare

Come è grande il mare! Così grande che, a vederlo laggiù, sulla riga dell’orizzonte, pare che non debba avere fine. Come è mutevole l’aspetto del mare! Ora, a cielo sereno e ad aria ferma, ci appare liscio come una tesa coltre di seta azzurra, se si leva una leggera brezza s’increspa appena; giocano a rincorrersi piccole onde irrequiete. Lasciate però che si levi forte il vento, che si faccia impetuoso e che il cielo prometta burrasca: ecco che le onde si fanno più alte, diventano cavalloni, si coronano di creste schiumose, vengono a frangersi con forza contro la riva, gettando nell’aria, tra gli alti spruzzi, il loro fragore. Allora il mare fa paura. Quando il mare si calma e ritorna sereno, non si sa più dove siano le furie della tempesta.

Civiltà del Mediterraneo

Mare Mediterraneo vuol dire “mare chiuso tra le terre”. Esso è circondato dalle coste dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa. E’ un mare che non conosce le grandi tempeste ed i venti furiosi; i navigatori vi si possono avventurare in lunghi viaggi senza perdere di vista la costa. Proprio sulle sue sponde nacquero alcune tra le più grandi civiltà. Questo mare costituì la via rapida per il commercio e per le conquiste.

Quando gran parte degli uomini viveva ancora in capanne ed affilava armi e strumenti di pietra, Gli Egiziani in Africa, i Fenici, gli Assiro-Babilonesi e gli Ebrei in Asia e i Greci in Europa erano forti, ricchi, organizzati. Foggiavano con arte i metalli; costruivano navi sicure e palazzi meravigliosi; scrivevano, dipingevano, scolpivano con gusto raffinato.

L’acqua sulla Terra

Se osservassimo il nostro pianeta stando su un altro corpo celeste, vedremmo un globo ricoperto per la maggior parte di acqua e senza dubbio verrebbe da dargli il nome di Mare e non di Terra. La Terra è infatti il pianeta delle acque: su 510 milioni di chilometri quadrati della sua superficie totale, quasi i tre quarti sono occupati dai mari e solo per 149 milioni si estendono terre. Nessun altro mondo, fra quelli osservati dagli scienziati finora, possiede una distesa d’acqua e in tutto l’Universo l’acqua, allo stato liquido, costituisce una vera rarità.

Le vie del mare

Il mare, così vario, non impedisce le comunicazioni tra i vari paesi. Immagina che sul mare siano tracciate centinaia di grandi strade che portano in ogni parte del mondo: sono le rotte, cioè i percorsi seguiti dalle navi. Sul mare si svolge un continuo traffico di merci e di passeggeri: i punti di partenza e di arrivo sono i porti.

All’ingresso dei porti c’è il faro; una torre sulla cui cima è posta una luce potentissima, che si scorge dal mare anche da lontano e serve di indicazione alle navi.

Il porto è generalmente protetto da un molo, che lo ripara dalla violenza delle onde. I grandi porti hanno più moli, i quali servono anche come banchine per l’attracco delle navi.

Sulla riva sorgono le attrezzature portuali: gru per il carico e lo scarico, magazzini di deposito per le merci. Vi sono anche gli uffici della Dogana, dove si controllano i passaporti dei viaggiatori che partono o arrivano da Paesi stranieri e si esaminano i bagagli e le merci.

Il porto

Il porto è la stazione delle navi che, cariche di uomini, di merci,  di petrolio, arrivano e salpano per tutte le parti del mondo. E’ una vasta estensione d’acqua separata dal mare aperto per mezzo di lunghissime dighe chiamate moli, costruite dagli uomini per impedire che le onde del mare in tempesta portino danno alle imbarcazioni ferme.

Nel porto le navi riposano tranquille una accanto all’altra, attraccate ai piloni piantati nei ponti di approdo.

Gli sportivi del mare

Con poderose bracciate, il nuotatore avanza sicuro, muovendo ritmicamente il capo fasciato dalla lucida cuffia di gomma. Il nuoto è uno degli sport più antichi e più completi, perchè permette di tenere in esercizio tutti i muscoli del corpo. Perfino nell’antica Roma, per indicare una persona da poco, si diceva “non imparò nè a leggere nè a nuotare”.

Munito di  maschera respiratoria, di pinne palmate ai piedi, il cacciatore subacqueo scende nelle profondità marine. E’ armato di uno speciale fucile che lancia una lunga e appuntita freccia, alla quale è agganciata la sottile gomena che serve per il recupero dei pesci colpiti. A questo sport si dedicano specialmente abili e coraggiosi nuotatori.

In fondo al mare

Forse voi credete che il fondo del mare sia formato soltanto da sassolini o da sabbia o da rocce. Invece gli abissi marini presentano gli aspetti più vari.

Scendendo in fondo al mare si scoprono alberi strani di rosso corallo e alghe multicolori che disegnano fantastici arabeschi. Si incontrano animaletti che sembrano fiori e pesci simili a farfalle.

La nostra vista è attirata da agili e trasparenti meduse o da spugne enormi fisse alle rocce del fondo.

Più scendiamo e più animali e piante diventano strani per forma e colore. A migliaia di metri di profondità troveremmo un mondo di tenebre e di freddo. Qui abitano esseri mostruosi e voraci che certamente ci incuterebbero grande spavento.

I prodotti del mare

Il pesce è certo, con il sale, il più importante dono del mare. Tutti conoscono il gusto prelibato delle sogliole e delle orate.

A volte i pescherecci si spingono fuori dal Mediterraneo per affrontare l’oceano ove la preda è abbondante e preziosa. Stoccafissi e baccalà sono appunto i merluzzi catturati in mari lontani. I primi vengono conservati facendoli essiccare, i secondi mediante un processo di salatura.

Celebri in Sicilia e in Sardegna sono la pesca del tonno e del pesce spada, e la raccolta delle spugne.

Tipica è la coltivazione di certi molluschi marini, come i mitili, e diffusa è la raccolta di altri frutti di mare, come i tartufi, le ostriche, le arselle e i datteri.

Sale e salgemma

La maggior parte del sale terrestre è contenuta nel mare e negli oceani. Milioni di anni fa le acque di molti golfi marini rimasti separati dal mare e quelle di laghi salati evaporarono e il sale si depositò sul fondo in colossali ammassi. Questi strati di sale furono, poi, ricoperti da sedimenti impermeabili trasportati dai fiumi e rimasero sepolti a varie profondità. Questo sale si chiama salgemma e viene scavato come un minerale nei giacimenti.

Le saline

Il mare è una miniera inesauribile di sale, un minerale prezioso che l’uomo estrae dalle saline. Esse sono grandi vasche, poco profonde, con il fondo di cemento, costruite sui tratti di costa pianeggiante. Per mezzo di un canale di immissione, che comunica con il mare, vengono riempite di acqua marina che, per il calore del sole, evapora, depositando uno strato di sale.

Pescatori al lavoro

Laggiù, in alto mare, nel buio della notte, appaiono all’orizzonte lunghe file di luci: sono le lampare. Le hanno accese i pescatori che al tramonto sono usciti dai porti con le loro barche da pesca e hanno gettato in mare le reti. La luce di quelle lampade è forte, accecante. Attrae i pesci curiosi e li abbaglia. Quando essi si accorgeranno dell’insidia tesa dagli uomini sarà ormai troppo tardi: saranno già prigionieri della rete.

Prima dell’alba i pescatori prendono la via del ritorno; se la pesca è stata buona scaricano sulla banchina del porto cassette piene di pesci d’ogni sorta: cefali, sardine, triglie, sogliole, aguglie, e un’infinità di granchietti incappati nella rete, che cercano ora di ributtarsi in acqua correndo.

La marea

Chi abita sulla costa conosce lo strano fenomeno della marea. Durante le ore di una giornata l’acqua non conserva sempre lo stesso livello: vi sono periodi di bassa e periodi di alta marea.

In Italia la differenza tra i due livelli è trascurabile. Ma vi sono coste dove si raggiungono vari metri di dislivello. Questo fenomeno è dovuto all’attrazione esercitata dalla Luna sulle acque del globo terrestre.

Il mare distrugge e costruisce

Quando un’onda infuriata si abbatte su uno scoglio, questo riceve un colpo da gigante. Lo scoglio resiste, anzi sembra che neppure lo avverta. Ma col passare dei secoli, le onde vincono: formano grotte e archi meravigliosi. Poi lo stesso scoglio viene staccato dalla costa e infine distrutto. Ma il mare restituisce tutto. Dopo aver sbriciolato e spezzato le rocce, le rende alla costa sotto forma di ghiaia e di sabbia. Così nasce una spiaggia.

Come nascono le isole

Ci sono isole sorte dal mare, proprio come funghi. Si tratta di vulcani che hanno trovato il loro sfogo nel fondo marino. La lava, accumulandosi rapidamente, giunge un bel giorno alla superficie formando, talora in pochi giorni, isolotti di forma conica.

Certe isole vicino alla costa, invece, erano un tempo saldate ad essa. Poi, a causa di un lento sprofondamento del suolo, se ne sono distaccate. Talora questo distacco avviene in seguito all’inesorabile lavoro di lima del mare.

I guardiani del faro

Il faro è una torre di pietra che, all’ultimo piano, ha una lampada molto luminosa che guida nella notte i naviganti. Di notte, le strade del mare sono buie; le navi, perciò, non possono vedere gli scogli o il porto. Il faro, con la sua luce amica, sembra dire: “Attenzione!”, oppure: “Vieni, qui c’è la casa che ti aspetta!”.

I fari sono sparsi un po’ da per tutto sulle coste, ma i più interessanti sono quelli sperduti su qualche scoglio, in mezzo al mare tempestoso. Ogni faro aveva due guardiani, che pensavano ad accendere la lampada e, di notte, a turno, facevano la veglia. Ogni settimana, e talvolta ogni mese, arrivava una nave che li riforniva di viveri.

Al mare

E’ tanto bello tuffarsi nell’acqua tiepida e salmastra, oppure restare sdraiati sulla sabbia calda ad ammirare l’immensa distesa azzurra, che si stende lontano, fino a confondersi col cielo.

Quando c’è bonaccia le onde increspano appena la superficie tranquilla. Ma basta che soffi il vento perchè i flutti si mutino in cavalloni bianchi di spuma che si avventano mugghiando contro la spiaggia, gli scogli, le insenature della costa. Allora è pericoloso avventurarsi in mare e anche i pescatori sono costretti a interrompere il lavoro.

Il mare

Guardiamo il mare: un’onda incalza l’altra e questa è incalzata da mille, e tutte, ad una ad una, con eguale misura, con monotona cadenza, giungono al lido, vi strisciano, coprendolo di spuma e si perdono sotto le onde che seguono. Davanti al mare l’uomo si sente prendere da un sentimento grande come il mare. E’ il sentimento di stupore e meraviglia che ci invade ogni volta che la natura ci presenta quanto ha di più grande nel cielo o sulla terra. (A. Stoppani)

Il bimbo e il mare

Giocavano così lui e il mare, soli soli. Il mare a lambirgli i piedi, e il bambino scalzo, a non farseli bagnare. E ridevano. Se il mare avanzava il bambino indietreggiava, se il mare indietreggiava il bambino avanzava. Finchè il mare, cingendogli di schiuma le gambette, era riuscito ad attirarlo a sè, e il bambino prese a saltare fra gli schizzi. E giù calci. (F. Tombari)

Le conchiglie

Le conchiglie che trovi sulla spiaggia sono le case di molluschi che vivevano nel mare, presso le coste, e che un giorno ebbero la disgrazia di essere colti di sorpresa e divorati dai loro nemici. Moltissimi animaletti marini, senza scheletro e dotati di un corpo molle, hanno imparato a fabbricarsi un guscio duro per proteggersi, utilizzando la sostanza calcarea che si trova disciolta nell’acqua. Alcuni se ne costruiscono come la chiocciola terrestre, altri preparano la loro casetta formando una cavità con due valve a forma di ventaglio, attaccate tra loro nel lato più breve, che si aprono quando il mollusco deve mangiare, mentre si chiudono di scatto non appena si presenta qualche pericolo.

Il sale

Questo prezioso minerale entra in tutti i cibi dell’uomo, persino nei dolci. Una minestra, una bistecca, una qualsiasi vivanda senza sale, non potresti gustarla. Peggio, anzi: ti ripugnerebbe.

Poi il sale è necessario al nostro organismo, come l’acqua, lo zucchero e altre sostanze.

Fortunatamente il mare è straricco di sale. Ne contiene tanto che, se l’acqua evaporasse, potremmo, col sale rimasto in secco, ricoprire completamente tutta la terra con uno strato alto dieci centimetri.

Il sale del mare ci fa conoscere l’età della Terra

In principio, i mari non erano salati. Come i nostri fiumi e i nostri torrenti d’adesso, anche gli oceani di quel tempo così lontano erano formati di acque dolci, cioè delle acque che il cielo aveva versato sotto forma di immense piogge. Chi ha recato al mare tutta la grande ricchezza di sale che ora contiene?

I torrenti e i fiumi, che dalle catene dei monti scendono al piano, scorrendo sulle rocce e portando con sè tutti i materiali che possono sciogliersi nelle acque o da queste essere strappati con la forza del corso.

Certo, si tratta di minime quantità, tanto che noi troviamo dolci, cioè prive di sale, le acque dei torrenti e dei fiumi. Ma in tanto lungo periodo d’anni, il poco accumulandosi è diventato il molto ed ha costituito la forte riserva salina dei mari.

Ora gli scienziati hanno fatto un calcolo. Hanno stabilito quanto sale si trova disciolto nelle acque di tutti gli oceani esistenti. Poi hanno calcolato quanto sale portano in un anno al mare tutti i corsi d’acqua, grandi e piccoli, che scorrono sulla Terra. Dividendo il primo numero per il secondo, si viene a conoscere da quanti anni dura questo continuo dono di sale che le acque viaggianti sopra il suolo portano alle infinite distese marine.

Quanti anni? Tanti, tanti: nientemeno che cento milioni. Un milione di secoli, dunque, è lontano da noi quel periodo in cui dalla nera fascia di nubi che circondava la Terra è sgorgato il grande flutto d’acqua che ha formato gli oceani.

Queste cifre sono molto approssimative. Nessuno viveva in quel tempo, nessuno ha potuto raccontare quello che allora è avvenuto.

I guardiani del faro

 Il faro è una torre di pietra, che, all’ultimo piano, ha una lanterna molto luminosa che guida nella notte i naviganti. Di notte, le strade del mare sono buie; le navi, perciò, non possono vedere gli scogli o il porto. Il faro, con la sua luce amica, sembra dire: “Attenzione!” oppure “Vieni, qui c’è la casa che ti aspetta!”.

I fari sono sparsi un  po’ da per tutto sulle coste, ma i più interessanti sono quelli sperduti su qualche scoglio, in mezzo al mare tempestoso. Ogni faro ha due guardiani. Essi pensano ad accendere la lanterna e, di notte, a turno, fanno la veglia. Ogni settimana, e talvolta ogni mese, arriva una nave che li rifornisce di viveri.

Il mare e Aki – leggenda finlandese

Il mare, quando nacque, era placido e gaio. Cantava, accarezzava le terre che gli stavano vicine, voleva che le onde fossero educate, le mandava a passeggio con un leggiadro cappuccio di pizzo bianco e, prima che uscissero dalla verde casa di vetro, diceva loro: – Mi raccomando, niente chiasso per la strada, nessun gesto scomposto. –

Milker, il padrone del mondo, condusse nella casa di vetro una donna bellissima, Aki, e disse al Mare: – Ecco tua moglie -.

Il Mare sulle prime fu contento. Gli piaceva avere una compagna che lo aiutasse a tenere la disciplina tra le onde e tra i pesci e che, nelle ore di riposo, gli raccontasse qualche storia bella e strana. Ma si accorse subito che Aki era bisbetica. Pretendeva che, nel liquido regno, tutti, dalle meduse pallide ai salmoni di roseo argentato, assecondassero tutti i capricci più pazzi che le passavano per la testa.

Investiva il marito con parolacce volgari,  dava calci alle piccole onde  e canzonava le balene, tirando fuori due metri di lingua.

Il mare, carattere dolce e animo generoso, sopportò, per un poco, l’arpia. Ma anche lui, poveraccio, aveva il suo orgoglio, o almeno il suo amor proprio.

Visto che Aki non si placava con la dolcezza, cambiò sistema e adotto misure severissime. Scoppiarono scenate d’inferno. Urlava la moglie, urlava il marito, e le onde, pazze di terrore, cercarono inutilmente di fuggirsene dalla liquida loro patria, di raggiungere l’alto paese degli astri, arrampicandosi l’una sull’altra, facendo balzi paurosi, chiedendo soccorso, ma invano, allo zio Vento e alla nonna Pioggia.

Si scatenarono così le prime terribili tempeste. La maschia volontà del Mare trionfava sulla sciocca petulanza della donna e per un poco nella casa di vetro, nella gran patria oceanica, ritornava la calma. Le onde, con le leggiadre cuffie di pizzo, andavano, gentiline e gaie, a passeggio. Il Mare accarezzava con dolcezza le rive amiche, cantando qualche canzone patetica, e i pesci ricominciavano i giochi, guizzando lieti, dai giardini delle alghe alle selve dei coralli. Ma la gran pace, la pace perfetta della sua giovinezza, babbo Mare, per colpa della moglie bisbetica, non potè più goderla.

Da quel tempo, nell’oceano, ai periodi di bonaccia si alternano i periodi di tempesta, e chi tenta sulle navi le avventure dei lunghi viaggi, conosce il carattere collerico della terribile Aki.

E le vittime innocenti delle bufere, scatenate dai capricci della volubile Aki, non si contano più.

Una famiglia di marinai

Un tale si imbatte, sulla banchina di un porto, in un marinaio e gli domanda, tra una boccata e l’altra  di funo, se ha dei marinai tra i suoi ascendenti (genitori, nonni, ecc…).

Il marinaio risponde che in casa sua sono stati marinai di padre in figlio. E allora l’altro gli domanda in che modo morì suo padre.

– In mare, naufrago –

– E vostro nonno? –

– Anch’egli in mare –

– E il bisnonno? –

– Signor sì, anche lui in mare –

– E allora, come mai voi che sapete questo vi ostinate ad andare in mare? –

– Ecco; ora ve lo spiego, ma prima voglio anch’io rivolgervi una domanda. Come morì vostro padre? –

– Oh, a letto, circondato dalla sua famiglia –

– E vostro nonno? –

– Egli pure nel suo letto –

– E il bisnonno? –

– Per quanto mi fu detto, perchè io non lo conobbi, anch’egli morì nel suo letto. –

– E allora, signore, come mai ve ne andate a letto? Mi pare che vuoi siate molto più imprudente di me -. (Jack La Bolina)

Materiale didattico scuola primaria geografia – IL MARE tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Le stelle marine carte delle nomenclature Montessori

Le stelle marine

Le stelle marine – materiale didattico e curiosità sulle stelle marine, un racconto adatto anche ai bambini più piccoli, e le carte delle nomenclature, utili dopo la presentazione della linea del tempo per la comparsa dei viventi 

( seconda lezione cosmica montessoriana)

e per la Biologia, pronte per il download e la stampa… 

pdf qui:

Le stelle marine sono tra gli organismi acquatici più conosciuti. Il loro aspetto così caratteristico, la loro simmetria, il numero e la disposizione dei loro organi sono legati in modo indissolubile al numero cinque, come del resto avviene in tutti gli echinodermi.

Il rispetto di questa regola ha avuto come conseguenza la trasformazione di certi esemplari in perfetti pentagoni, e spiega come mai le più comune stelle marine abbiano cinque braccia o almeno cinque punte. Ma ogni regola ha le sue eccezioni, e così, viaggiando di stella in stella, è possibile imbattersi in specie con quattro braccia (come la Culcita tetragona) o dodici , come la stella sole europea. Altre ne posseggono 15, 20, 25, fino ad arrivare alle 45 e più della stella antartica (Labidiaster annalatus); inoltre esistono stelle marine che si presentano con un numero di braccia diverso da esemplare ad esemplare, come avviene per la stella rossa del Mediterraneo (Echinaster sepositus) che può avere da cinque a sette braccia.

Nelle stelle marine non è possibile distinguere una destra e una sinistra, ma è possibile riconoscere un lato ventrale e un lato dorsale, che vengono chiamati lato orale e lato aborale. Lungo le braccia, in posizione ventrale, troviamo infiniti pedicelli simili a ventose che permettono alle stelle marine di camminare  e di aprire i molluschi bivalvi di cui si nutre. Un numero così elevato di pedicelli sembrerebbe poco adatto a movimenti rapidi, e infatti la maggior parte delle stelle marine ha abitudini sedentarie: alcune si muovono di non più di dieci metri in un anno, ma ci sono anche specie che raggiungono l’incredibile velocità di due metri al minuto.

Sempre dal lato ventrale, al centro del disco da cui si dipartono le braccia si trova la bocca: una stretta fessura da cui al momento del pasto viene estroflesso lo stomaco.

Il lato rivolto verso l’alto appare più uniforme, anche se sotto la sottile epidermide sono spesso visibili le placche calcaree che formano lo scheletro delle stelle marine (asteroidei). Questo scheletro è molto flessibile, perchè i tessuti che lo circondano possono essere contratti e rilasciati. Questo sistema è molto vantaggioso per le stelle marine perchè da un lato possono irrigidirsi in caso di necessità o di pericolo, e dall’altro possono deformare ed adattare il loro corpo alle irregolarità del terreno e rivoltarsi quando si rovesciano accidentalmente. Questo genere di incidente è molto comune tra le stelle marine, e sono frequenti anche le cadute: basta un’onda un po’ più impetuosa per perdere l’appiglio e ritrovarsi “a pancia in su”.

Le diverse specie hanno messo a punto tecniche diverse per rimettersi in posizione. Alcune piegano tutte le braccia verso l’altro, assumendo l’aspetto di un tulipano; in questo modo riescono a spostare il baricentro di quel tanto che serve a perdere l’equilibrio e portare una o più braccia vicino al fondale: i pedicelli allora fanno presa sul terreno e l’animale passo a passo riprende la sua posizione normale. Altre specie usano la tecnica del “tulipano rovesciato”, cioè si sollevano sulle punte delle braccia per poi ricadere su un fianco e quindi compiere le manovre spiegate prima.  Ci sono anche stelle in grado di ruotare le braccia di 180 gradi, in modo da riportare i pedicelli a contatto col terreno; una volta che si sono assicurate l’appoggio di almeno due braccia, queste stelle scivolano sotto se stesse fino a girarsi completamente. Alcune stelle impiegano per rigirarsi meno di un minuto, mentre altre possono aver bisogno di parecchie ore per riacquistare la loro posizione normale.

Ogni braccio della stella marina non è soltanto un organo locomotore, ma anche un efficiente organo di senso, capace di riconoscere il cibo al tatto e di captare la più sottile traccia odorosa lasciata da una preda. E più braccia ci sono, maggiore è la superficie che può essere esplorata.

Alimenti preferiti delle stelle marine sono i molluschi bivalvi, come mitili, telline, vongole, ecc…, con una predilezione per le ostriche. Gli allevatori di ostriche, per i quali gli asteroidei sono da sempre un vero flagello, erano convinti che le stelle marine avessero la diabolica capacità di sorprendere i loro pregiati molluschi e di essere addirittura capaci di ipnotizzarli, ma questo è impossibile perchè anche se è vero che le stelle marine hanno degli occhi molto rudimentali posti sulla punta delle braccia, che si presentano come macchioline di colore rosso vivo, le ostriche sono completamente cieche.

In realtà le stelle marine si procurano il pasto ricorrendo ad una tecnica molto faticosa e per nulla misteriosa. Una volta individuata la preda, la stella la avvolge con le sue braccia facendo aderire i pedicelli alle valve chiuse, che cominciano ad essere sottoposte ad una forza  di trazione che raggiunge anche i 4 chili. Con questa tecnica una comune stella rossa riesce ad aprire e mangiare una vongola in poco meno di 30 minuti; il termine “aprire” però non è del tutto esatto: alla stella infatti non serve divaricare di molto le valve del mollusco, ma bastano pochi millimetri perchè il suo stomaco estroflesso venga fatto scivolare all’interno della conchiglia e cominci a digerire la saporita polpa del mollusco.

Il processo di digestione richiede otto ore, ma alcune specie hanno una digestione che può durare anche quindici giorni.

Ci sono anche stelle marine che si accontentano di succhiare i polipi dei coralli o di filtrare il plancton, ed altre ancora che inghiottono il cibo con la bocca: alcune sono in grado di mangiare i ricci di mare interi senza preoccuparsi delle spine, e in alcuni casi la preda ingerita intera forma una protuberanza visibile attraverso l’epidermide, e può anche succedere che qualche pasto possa risultare fatale alla stella, che finisce con l’essere perforata da cibi troppo appuntiti.

Tra i nemici naturali delle stelle marine c’è il tritone di mare. E meno male, altrimenti le stelle marine rischierebbero di diventare infestanti, anche grazie alla loro straordinaria capacità rigenerativa. Se una stella perde un braccio o si rompe a metà, non c’è da preoccuparsi: dopo qualche tempo avrete di fronte a voi una stella identica all’originale,  e forse anche più di una, visto che questo sistema viene usato, da alcune specie, per riprodursi.

Anche se la riproduzione può avvenire in questo modo, normalmente avviene con l’incontro tra uova e spermatozoi che femmine e maschi emettono contemporaneamente, per far sì che la fecondazione abbia la massima possibilità di successo.  Ci sono però specie che depongono le uova in luoghi riparati sotto le pietre, e altre che addirittura covano le uova ospitandole in cavità particolari del loro corpo, o anche del proprio stomaco, rimanendo nascoste fino alla schiusa e portando poi i cuccioli appena nati con sè per un certo periodo di tempo.

L’autotomia, cioè l’amputazione volontaria di un arto (come accade ad esempio per la coda della lucertola), può essere provocata da una forte eccitazione, da una ferita, dall’esposizione all’aria (molte stelle portate in superficie perdono in breve le braccia), o dalla necessità di sfuggire a un assalitore. La rottura avviene in un punto preciso, detto di minima resistenza, e comporta la fuoriuscita di parte degli organi interni e dei liquidi organici che viene subito arrestata dalla rapida chiusura dei lembi della ferita.

La stella, inchiodato al substrato con i pedicelli l’arto di cui si vuole separare, si muove in direzione opposta fino a quando l’arto si stacca. Può sembrare orribile, ma non dimentichiamo che per l’animale spesso significa la salvezza. La ricostruzione del braccio mancante inizia dopo pochi giorni, in alcune specie dopo sei – sette settimane. La prima parte che viene ricostruita è la punta dell’arto, con le cellule visive, cui fanno seguito i primi pedicelli.

Internamente le parti mancanti si formano a partire dai residui degli organi strappati; così l’apparato digerente ricostruirà se stesso e l’apparato acquifero non sarà da meno. In questo modo, piano piano, (può occorrere più di un anno perchè un arto raggiunga le dimensioni originarie) il nuovo braccio germoglierà esattamente come accade tra le piante.

Si conoscono circa 1600 specie diverse di stella marina, suddivise in 300 generi, sparpagliate in tutti i mari e in tutti gli oceani, dalle acque fredde dell’Artide e dell’Antartide a quelle calde dei mari tropicali. Esistono anche stelle marine che vivono a grande profondità (anche 7000 metri), ed anche se le condizioni che si trovano in questo ambiente richiedono particolari adattamenti, queste stelle marine non cambiano di molto nel loro aspetto in cui compare sempre la simmetria e il numero cinque.


RACCONTO

Quando le stelle caddero dal cielo

All’inizio dei tempi, quando non tutto era come adesso, le stelle marine non esistevano. Esistevano soltanto delle piccole stelle in cielo, ma molto vicine alla terra.

Tutti sanno che con il sorgere dell’alba gli astri scompaiono e si ritirano nei loro appartamenti, ma una mattina le piccole stelline, abbagliate da un sole più radioso del solito, si sbagliarono e finirono in mare.

Il mare era quel giorno blu come il cielo dei giorni più belli: qui le stelline incontrarono un re buonissimo, Nettuno, re del mare appunto che, accettando la loro supplica le trasformò in esseri viventi.

Da allora si chiamano stelle marine, perchè rappresentano l’immenso cielo nel grande mare.


Fonte consultata: rivista AQVA numero 46 – maggio 1990

Dettati ortografici sul sistema solare

Dettati ortografici sul sistema solare : una collezione di dettati ortografici per la scuola primaria, di autori vari, sul sistema solare. Difficoltà ortografiche varie.

Il sistema solare

Il cielo, di notte, offre ai nostri occhi uno spettacolo meraviglioso. Chi non si è fermato ad ammirare le migliaia di luci che brillano nel buio? Sono mondi come il nostro, quasi tutti immensamente più grandi.

Essi sono ordinati in famiglie: la famiglia delle stelle, caldissime e luminose; la famiglia dei pianeti e dei satelliti.

I Pianeti sono corpi celesti freddi, perciò oscuri, che non hanno luce propria, ma la ricevono da una stella attorno alla quale girano.

Anche il Sole è una stella. Attorno ad essa girano nove pianeti: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno, Plutone; tutti ricevono luce e calore dal Sole.

Naturalmente, più ne sono lontani meno intensi giungono loro i raggi solari. Anche i satelliti ricevono luce e calore da una stella attorno alla quale girano.  Essi però devono girare anche attorno ad un pianeta. La Luna è il satellite della Terra.

Tutti i pianeti ed i satelliti formano la grande famiglia del Sistema Solare di cui fanno parte anche le comete ed i bolidi che qualche volta vediamo comparire fugacemente nel firmamento con una scia luminosa.

Ognuno di questi mondi compie sempre lo stesso percorso, alla stessa velocità e trova nell’immensità (Universo) la sua strada, senza urtare altri mondi.

Essi ci appaiono molto piccoli; ci sembra di poterne raccogliere a decine in una mano. Tutt’altro: sono enormi, talvolta assai più grandi del Sole, ma sono lontanissimi.

Immaginiamo che sia possibile viaggiare in treno dalla Terra agli altri mondi. In 260 giorni giungeremmo sulla Luna; in 300 anni toccheremmo il Sole; per arrivare al pianeta Nettuno impiegheremmo 8.300 anni. E questo è niente! Scenderemmo sulla Stella Polare dopo 700 milioni di anni!

Il sistema solare

Per l’uomo dei tempi antichi la Terra era il centro dell’universo: attorno ad essa, ferma, ruotavano tutti i mondi celesti; per l’uomo moderno il nostro pianeta non è che uno degli innumerevoli pianeti che si muovono nello spazio secondo leggi ferree ed immutabili. Noi oggi sappiamo che anche il Sole non è che una delle tante stelle, e non certo il maggiore, sebbene per noi la più importante. Esso è il centro del sistema solare formato dal Sole e dalla Terra, dagli altri pianeti e dai loro satelliti, dalle comete, tutti gravitanti attorno al grande astro fulgente. Ogni pianeta ruota attorno al Sole seguendo un cammino definito a forma più o meno allungata detto orbita. La forza che impedisce ai pianeti di cadere l’uno sull’altro, reggendosi in mirabile equilibrio, è la forza di gravità, che fu scoperta dal grande fisico inglese Newton, verso la fine del 1600.

La legge dell’universo

Un giorno, circa trecento anni fa, mentre lo scienziato inglese Newton se ne stava tranquillo seduto sotto un melo del suo giardino, gli cadde accanto un frutto maturo. Acuto osservatore qual era, pensò: “La mela è caduta; se l’albero fosse stato più alto, di mille metri, di mille chilometri, sarebbe caduta ugualmente. Come mai allora la Luna non cade e così le stelle?”

Rifletti e rifletti, Newton scoprì che gli astri non cadono perchè si attraggono l’un l’altro. La forza di attrazione, combinata con quella che li avrebbe fatti andare dritti, li obbliga a percorrere una linea curva e chiusa chiamata orbita, sempre uguale.

Il Sole

Il Sole è la stella più vicina alla Terra: per questo ci appare tanto più grande e luminoso di tutte le altre. Fra le stelle che vediamo nella notte scintillare nella volta celeste, ve ne sono molte anche più grandi del Sole, ma sono così lontane…

La Terra ha anch’essa la forma di un globo, ma è molto meno grande del Sole e mentre questo è formato di materia incandescente, la crosta della Terra è fredda e compatta e riceve luce e calore dal Sole. Al Sole devono la vita le piante e gli animali che popolano la Terra.

Il sole è grandissimo. Se un uomo potesse farne il giro, percorrendo 4 Km all’ora e camminando 10 ore al giorno, impiegherebbe più di trecento anni.

Se un bambino si mettesse in mente di fare il giro della Terra e camminasse otto o dieci ore al giorno, arriverebbe al punto di partenza otto anni dopo. Un uomo impiegherebbe circa 3 anni; un ciclista capace potrebbe cavarsela in sei mesi; per circondare il mondo con le braccia ci vorrebbe un girotondo di quaranta milioni di bambini!

La Luna

La Luna è l’unico satellite della Terra. Essa non risplende di luce propria, ma, come uno specchio, ci riflette la luce del Sole, così come la parete bianca della casa di fronte, illuminata dal Sole, rischiara la nostra stanzetta che è nell’ombra. Naturalmente se noi fossimo sulla Luna vedremmo, per la medesima ragione, la Terra illuminata. La luna ha la forma rotonda come la Terra. E’ l’astro più vicino a noi, che noi conosciamo meglio. E’ quarantanove volte più piccola della Terra. La Luna è un astro morto, cioè non possiede nè aria nè acqua; non vi possono quindi vivere nè le piante, nè gli animali, nè gli uomini.

Come sappiamo, i satelliti girano attorno ad un pianeta. La Luna gira infatti attorno al nostro pianeta, la Terra, impiegando circa 30 giorni, cioè un mese.

Il movimento di rotazione della Terra

Il Sole, al mattino, illumina le case, le strade, la campagna; è il momento del risveglio. Trascorrono le ore, fino a quando si stendono le ombre della sera e il Sole sembra scomparire. Poi si fa buio e, in cielo, rivediamo le stelle. Nello spazio di un giorno, passano ore di luce e ore di buio. Questo accade perchè la Terra, illuminata dal Sole, non gli presenta sempre la stessa faccia,  ma gira su se stessa (movimento di rotazione) e si fa, a poco a poco, rischiarare. Una faccia, quella rivolta al Sole, è chiara; l’altra faccia, quella che non riceve i suoi raggi, è oscura. Il movimento di rotazione si compie in 24 ore circa; dura cioè un giorno. Il giorno si divide in sue parti: le ore chiare formano il giorno; le ore buie formano la notte.

Per capire meglio infiliamo un ferro da calza in un’arancia. Poniamola davanti ad una candela accesa ed immaginiamo che l’arancia rappresenti la Terra, e la candela il Sole. Vedremo il frutto rischiarato a metà dalla piccola fiamma, mentre l’altra metà rimane in ombra. Facendo ruotare l’arancia come ruota la Terra, tutta la sua buccia passerà, a poco a poco, dalla luce all’ombra e dall’ombra alla luce.

Il movimento di rivoluzione della Terra

Ricordiamo con nostalgia i giorni dell’estate, quando si poteva giocare all’aperto nei lunghi pomeriggi e il sole rimaneva alto fino a tardi e l’aria era calda attorno a noi. Ci viene da pensare che le ore chiare e le ore buie non sono sempre uguali nei giorni dell’anno. In inverno il giorno è breve, la notte lunga, l’aria fredda. In estate il giorno è lungo, a notte breve, l’aria calda.

Questo avviene perchè la Terra compie un largo giro intorno al Sole (movimento di rivoluzione) mantenendosi inclinata rispetto al fascio di raggi che il Sole li invia. Quindi, i raggi del sole, arrivano, durante l’anno, più o meno inclinati, riscaldando di meno e il Sole appare basso sull’orizzonte (giorni brevi). Per questo giro della Terra intorno al sole e per questa sua inclinazione si ha l’alternarsi delle quattro stagioni: inverno, primavera, estate, autunno.

Per capire meglio facciamo l’esperimento della lampada. I raggi solari scaldano più o meno la Terra secondo che siano dritti o inclinati. Ciò si può dimostrare con l’esperimento della lampada. Appoggia sul tavolo una lampada con paralume mobile e dà al paralume inclinazioni diverse. Quando esso è diritto rispetto al piano del tavolo, illumina un cerchio stretto e i raggi della lampada scaldano di più la piccola zona. Quando esso è inclinato, illumina un cerchio più ampio e i raggi della lampada scaldano di meno la zona larga.

Dettati ortografici sul sistema solare – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Guest post: La festa di Tanabata e l’albero dei desideri

Ho letto della festa di Tanabata e mi ha molto colpita, così ho chiesto a Junko di raccontarcela…

 … anche se il 7 luglio è già passato, come leggerete poi in alcune regioni del Giappone Tanabata si festeggia anche durante il mese di agosto, e così spero che molti bambini possano realizzare coi loro genitori un “albero dei desideri”, magari ascoltando la leggenda e avendo un’occasione in più per ammirare il cielo stellato dell’estate…

La leggenda di Orihime e Hikoboshi

Ogni anno, la notte del 7 luglio, si scrivono i propri desideri su delle strisce di carta di vari colori (tanzaku), che si appendono a un ramoscello di bambù (L’albero dei desideri). Poi si pregano le stelle affinchè questi desideri possano realizzarsi.

Ci sono diverse teorie sull’origine di questa tradizione, ma una delle teorie popolari e’ quella che la lega alla leggenda cinese delle due stelle Orihime (Vega) e  Hikoboshi (Altair).

Grazie a questa leggenda ogni anno molti giapponesi alzano gli occhi al cielo nella speranza di poter vedere Altair e Vega abbracciarsi ancora una volta. La leggenda del loro amore eterno narra così:

Prima versione:

“Un tempo il dio dell’universo scelse Hikoboshi (la stella dell’agricoltura) come marito di sua figlia Orihime (la stella del cucito). Hikoboshi ed Orihime si sposarono e insieme furono molto felici. Giocavano sempre tra loro, ma purtroppo così facendo dimenticarono il loro lavoro…

Il dio dell’universo si arrabbiò e decise di separarli ponendoli uno ad est e l’altra ad ovest della galassia. Ora Orihime si trovava ad ovest e Hikoboshi si trovava a est. Non potevano incontrarsi e neanche vedersi perche’ la galassia vastissima esisteva tra loro.

Questo li rese tristissimi, e di nuovo non furono in grado di svolgere il loro lavoro, perchè non potevano far altro che piangere e piangere.

Vedendo questa situazione, il dio dell’universo permise loro di incontrarsi di nuovo, ma soltanto una volta all’anno e soltanto a condizione che ogni giorno lavorassero seriamente.

Orihime e Hikoboshi obbedirono. Da allora tutti i giorni svolgono i loro compiti nell’attesa del loro incontro, il 7 di luglio.

E la notte di Tanabata, notte del 7 luglio (Tanabata Matsuri o Festa delle stelle innamorate), queste due stelle brillano di piu’ perche’ sorridono di gioia e felicita”

In  forma estesa:

“Anticamente, sulle sponde del Fiume Celeste (la Via Lattea) viveva Tentei, l’imperatore del Cielo. Tentei aveva  una figlia, Orihime (Vega). 

Orihime era un’abile sarta e tessitrice, e lavorava senza sosta per confezionare stoffe e vestiti per le divinità, realizzando abiti sempre più splendidi. Lavorava talmente tanto che non aveva neppure il tempo di pensare a sè stessa e ai propri interessi.

Così, giunta all’età adulta, il padre le scelse un marito: un giovane mandriano di nome Hikoboshi (Altair). L’occupazione di Hikoboshi era quella di far pascolare i buoi e far attraversare loro le sponde del Fiume Celeste. Era un grande lavoratore e anche lui non pensava ad altro che a svolgere il suo lavoro.

Trattandosi di un matrimonio combinato, i due si conobbero solo il giorno delle nozze, ma questo non fu un male   perchè non appena si incontrarono si innamorarono follemente l’uno dell’altro.

Furono talmente presi dal profondo sentimento che provavano, che dimenticarono completamente i loro doveri, il loro lavoro e gli altri Dei. La loro unica ragione di vita era il loro amore e la loro passione. Così la mandria di buoi finì per essere abbandonata a se stessa e agli dei cominciarono a mancare gli abiti fino ad ora confezionati da Orihime.

A questo punto il sovrano degli dei non potè trattenere la rabbia e li punì severamente: i due innamorati, che fino a quel momento erano inseparabili, avrebbero dovuto vivere le loro vite separatamente. Per evitare che i due potessero incontrarsi, rischiando così di abbandonare nuovamente i loro doveri, l’Imperatore del Cielo creò due sponde separate dal fiume Ama no Gawa (la Via Lattea), e rendendolo impetuoso e privo di ponti, fece si che i due non potessero mai più incontrarsi.

Il risultato non fu però quello sperato: il pastore sognando e pensando sempre alla sua innamorata non accudiva ugualmente le bestie e neppure la dolce fanciulla, pensando continuamente al suo amore cuciva più i vestiti agli dei.

Il sovrano allora, disperato e mosso da pietà e commozione, con il consenso anche degli altri dei altrettanto commossi, emise questa sentenza: “Se deciderete di ritornare ad occuparvi delle vostre attività come un tempo rispettando i vostri doveri, rimarrete divisi dalle sponde del Fiume Celeste per un anno intero però, vi sarà consentito di potervi incontrare una volta soltanto nella notte del settimo giorno del settimo mese dell’anno.”

A queste parole, i due giovani innamorati, pensando all’idea di potersi incontrare di nuovo ripresero di buona lena a lavorare sodo con la speranza di potersi presto riabbracciare. Da quel momento in poi infatti, dopo un anno di lavoro e fatica i due ogni 7 luglio attraversano il Fiume Celeste e nel cielo stellato si incontrano.”

Seconda versione:

“Un tempo nel cielo vivevano a Ovest gli uomini, e a Est le divinità.

Il pastore Hikoboshi (la stella Altair) e la dea Orihime (la stella Vega) si innamorarono e si sposarono in gran segreto, contro la volontà del padre della dea. Andarono a vivere ad Ovest, ed ebbero anche due figli, un maschio e una femmina.

Quando il padre lo venne a sapere, però, saparò i due sposi, riconducendo la figlia nella terra degli dei, e per evitare il  suo ricongiungimento con Hikoboshi, mise tra loro un fiume, la Via Lattea.

I due ne soffrirono moltissimo e alla fine il padre di Orihime finì col commuoversi per le tante lacrime versate dai due sposi; così acconsentì a che potessero incontrarsi di  nuovo, ma solamente una volta l’anno: la settima notte del settimo mese.”

Terza versione:

“C’era una volta in Cina, una bella tessitrice di nome Shokujo. La ragazza era la figlia di un re, e suo padre era molto orgoglioso di lei.

Giunta ad una certa età, il padre cominciò a pensare che per lei fosse giunto il momento di sposarsi, e scelse per lei un giovane agricoltore di nome Kengyu. Dopo essersi sposata, però,  Shokujo cominciò a trascurare il suo lavoro di tessitura.

Suo padre reagì cacciando il marito e decise che d’ora in avanti le sarebbe stato consentito incontrarlo soltanto una volta l’anno,  il 7 luglio. 
Quando il tempo per incontrare Shokujo si avvicina, gli uccelli vanno da Kengyu e costruiscono un  ponte, in modo che lui possa andare da sua moglie.”

Quarta versione

“C’era una volta una stella eccezionalmente bella e saggia, la Principessa Shokujo (Vega) , che oltre ad essere  la figlia del re, era anche un’abilissima tessitrice, ed era responsabile di tutti i tessuti reali. Un giorno Kengyu (Altair), il pastore celeste, si trovò a passare col suo gregge sulla collina vicina al palazzo, proprio mentre Shokujo era affacciata alla finestra.  I loro sguardi si incrociarono e fu amore a prima vista. Si corsero incontro e, dopo un breve fidanzamento, Shokujo e Kengyu chiesero al re la sua benedizione, che lui concesse senza problemi.

Sfortunatamente, però,  i problemi arrivarono presto. I due erano così follemente innamorati che lei trascurò la tessitura, e lui il gregge. Il re intervenne e ordinò che i due sposi fossero separati per sempre da un fiume di stelle (la Via Lattea), fatta eccezione per un solo giorno all’anno,  in cui possono ancor oggi far visita l’uno all’altro.

Quel giorno è il giorno di Tanabata, il giorno in cui Shokujo la principessa e Kengyu il pastore si incontrano, attraversando la Via Lattea con l’aiuto di un ponte formato da uno stormo di passeri, loro fedeli amici.”

Non dimenticarti della leggenda che potra’ darti un grande sogno. (Questa foto e ‘ stata fatta la notte del 7 luglio all’asilo di Ginga).

Questa è la foto di una via del centro di Marugame. Come vi ho detto, per la festa di Tanabata si appendono tante strisce di carta che portano scritte i desideri di ognuno. In questa foto, le decorazioni di bambu che vedete sono state realizzate da una ventina di scuole materne di Marugame.

Quando ero piccola, il giorno seguente , cioe’ l’8 luglio, di mattina molto presto, noi bambini andavamo al fiume con i nostri genitori facendo strisciare per terra i grandi rami di bambu decorati. Al fiume li mettevamo sulla corrente e loro scorrevano fino al mare, con i nostri desideri.
Adesso non si puo’ più fare perche’ si teme che sporchino i fiumi e il mare. Quindi, i rami di bambù decorati ora rimangono appesi per tutto il mese di luglio.

In Giappone, in quasi tutti gli ospedali, si festeggiano tutte le feste annuali per consolare i pazienti. All’ingresso dell’ospedale dove vado, c’è in questi giorni un ramo di  bambu di Tanabata. Un giorno ho letto quello che c’e’ scritto sulle strisce di carta. Tante frasi mi hanno commossa. Ricordo la frase che ha scritto una donna:  ” Spero di poter scrivere per Tanabata anche l’anno prossimo”… 

Nell’epoca Heian (dal 794 AD~al 1192 AD) solo le persone nella corte imperiale festeggiavano Tanabata. Facevano offerte di frutta, verdure e pesci alle stelle e le guardavano, bruciando incenso, e suonando il Koto (la  lira orizzontale giapponese con 13 corde) o il Biwa (il liuto giapponese) e componendo delle poesie. Consideravano la rugiada della notte precedente una goccia di Amanogawa ( il fiume del cielo, la Via Lattea) e la mattina del 7 luglio raccoglievano la rugiada sulle foglie del taro d’Egitto, ci preparavano l’inchiostro e scrivevano i  loro desideri sulle foglie di un albero speciale che si chiama Kaji, un albero sacro usato nei templi.

Dopo l’epoca Heian, questa festa si diffuse tra il popolo e si iniziarono ad usare le strisce di carta al posto delle foglie di Kaji, e i rami di bambù per appenderle.

Fortunatamente ho avuto un’occasione di festeggiare Tanabata come se fossi una persona nell’epoca di Heian, quando ho ballato la danza classica giapponese in un parco a Takamatsu ( la capitale della provincia di Kagawa). Era uno spettacolo molto elegante, che si è tenuto la mattina del 7 luglio nel 2007. Questa foto e’ stata fatta in quel momento.

Junko  N.

 

Tanabata (Settima notte) è una tradizionale festa giapponese, che cade il 7 luglio di ogni anno, quando le stelle Vega e Altair si incrociano nel cielo. In qualche località si festeggia invece il 7 agosto.

La più famosa festa di Tanabata del Giappone si tiene a Sendai dal 6 all’8 agosto. Nel Kanto, la più grande festa di Tanabata si tiene a Hiratsuka, Kanagawa, il 7 luglio. Un’importante festa di Tanabata si svolge anche a São Paulo, in Brasile, alla fine della prima settimana di luglio.

La data originale di Tanabata si basa sul calendario lunisolare giapponese, che è circa un mese indietro rispetto al calendario gregoriano. Come risultato di ciò, la maggior parte delle feste di Tanabata si svolgono il 7 luglio, mentre in alcune località si tengono il 7 agosto, e in alcune altre vengono invece organizzate ancora  il settimo giorno del settimo mese lunare del calendario giapponese tradizionale lunisolare, che di solito cade nel mese di agosto del Calendario Gregoriano.
Le date del calendario gregoriano corrispondenti al settimo giorno del settimo mese lunare del calendario lunisolare giapponese per i prossimi anni sono:
6 agosto 2011
24 agosto 2012
13 agosto 2013
2 agosto 2014
20 agosto 2015
9 agosto 2016
28 agosto 2017
17 agosto 2018
7 agosto 2019
25 agosto 2020

La fanciulla tessitrice della leggenda viene identificata con Vega perchè secondo i popoli orientali Vega, appartenente per noi alla costellazione della Lira, è, secondo gli orientali appartenente alla costellazione della Tessitrice. Allo stesso modo il giovane mandriano viene identificato con Altair della costellazione dell’Aquila, perchè per gli orientali la costellazione di Altair equivale a quella del Mandriano.

La scelta del settimo giorno del settimo mese dell’anno, oltre ad avere una valenza sacra in quanto è un ripetersi del numero 7, dipende dal fatto che, secondo gli studiosi, è questo il periodo di massima luminosità delle stelle e soprattutto nei primi giorni del mese di luglio si nota anche una grande vicinanza tra Altair e Vega rispetto a tutti gli altri giorni.

Sebbene le feste di Tanabata varino da regione a regione, l’usanza è quella di rivolgere preghiere ai due astri, e soprattutto i giovani chiedono protezione per i loro sentimenti e aiuto per poter migliorare le loro abilità e lo studio. Tanabata oggi è una grande festa popolare caratterizzata da vistose e colorate decorazioni, foglietti di carta con preghiere e desideri appesi ai rami degli alberi, sfilate, parate e cibi tipici.

Tanabata è anche un’importante festa per i bambini, e gli alberi dei desideri vengono preparati in tutte le scuole giapponesi, decorati dai bambini con poesie, preghiere e desideri che si vogliono vedere avverati e che possono andare dal miglioramento negli studi a desideri più frivoli…  In ogni caso, desideri e poesie sono ancora oggi le offerte chiave per questa festa, e le famiglie  si riuniscono per scriverle su strisce di carta colorata e per legarle ai rami di bambù. Oltre che in famiglia, alberi dei desideri “pubblici” con pennarelli e strisce di carta pronte si trovano ovunque, anche nelle stazioni ferroviarie, ed ognuno è libero di esprimere i propri desideri e legarli all’albero.

Tradizionalmente sono previsti sette diversi tipi di decorazioni per l’albero dei desideri, ognuna delle quali ha significati diversi:

photo credit: http://en.wikipedia.org

Tanzaku: sono le strisce di carta colorata delle quali abbiamo già parlato,  dove scrivere poesie e desideri da appendere sugli alberi.

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Kamigoromo.jpg

Kamigoromo: in passato servivano per chiedere di migliorare nell’arte del cucito, ora hanno il significato di scongiurare incidenti e malattie.

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:TanabataOrizuru.jpg

 Senbazuru: file di origami (soprattutto gru), per chiedere salute alla famiglia e lunga vita. Per ogni persona anziana della famiglia si piega una gru da appendere all’albero dei desideri.  

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Kinchaku.jpg

Kinchaku: borsettine di carta, per chiedere lavoro, prosperità, e per mettere in guardia contro lo spreco di denaro .

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Toami.jpg

Toami: reti da pesca per varie decorazioni, per chiedere buona pesca e buoni raccolti.

 http://en.wikipedia.org/wiki/File:Kuzukago.jpg

Kuzukago: la carta avanzata dalla preparazione delle altre decorazioni viene raccolta e messa in un “sacco della spazzatura” di carta, a simboleggiare il risparmio e  l’importanza di risparmiare.

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:TanabataStreamer.jpg

Fukinagashi: strisce decorative di carta colorata, che simboleggiano le fibre che Orihime  utilizza per tessere.

Altre fonti:
http://it.wikipedia.org/wiki/Tanabata

http://en.wikipedia.org/wiki/Tanabata

http://sakuramagazine.com/tanabata-matsuri-festa-delle-stelle-innamorate/

http://www.psychicsophia.com/aion/chap7.html

http://gojapan.about.com/cs/japanesefestivals/a/tanabata.htm

http://web.mit.edu/jpnet/holidays/Jul/song-tanabata.shtml

http://web-jpn.org/kidsweb/explore/calendar/july/tanabata.html

http://www.astroarts.co.jp/special/2012tanabata/legend-j.shtml

http://www.sendaitanabata.com/en/rekisi.html

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