Storia di Roma I GRACCHI – dettati ortografici e letture

Storia di Roma  I GRACCHI – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Storia di Roma I GRACCHI

Dopo la vittoria su Cartagine, Roma divenne ricca e potente, ma i benefici di tale ricchezza e potenza non erano equamente distribuiti fra tutti i cittadini. Molti fra coloro che avevano lungamente combattuto, trascurando lavoro e interessi, erano caduti in miseria.
Le terre di conquista erano distribuite ai cittadini, ma gran parte di esse toccavano a pochi patrizi che aumentavano i loro possedimenti. Essi avevano campagne estese (latifondi) a perdita d’occhio e sovente ne trascuravano la buona coltivazione.
Il numero dei poveri aumentava ogni giorno. Essi abbandonavano le loro case e i loro campicelli, e si riversavano nelle città. Era una situazione molto grave, e due nobili fratelli romani, Tiberio e Caio Gracco, cercarono con tutte le loro forze di porvi rimedio. Nominati tribuni, proposero la “legge agraria”. Essa stabiliva che molte terre fossero distribuite ai contadini più bisognosi.
I patrizi, aiutati degli amici del Senato, combatterono con ogni mezzo la legge agraria che li danneggiava.
Tanto fecero che Tiberio fu assassinato in un tumulto, e il fratello Caio, abbandonato anche dagli amici e dai beneficati, si fece uccidere da uno schiavo.

Storia di Roma I GRACCHI – I Romani diventano ricchi, ma non tutti

Roma aveva conquistato immensi territori. Divenuti ricchi, i cittadini presero ad amare il lusso, gli oggetti preziosi, i banchetti, i divertimenti. Gli schiavi lavoravano per loro.
Naturalmente, non tutti i cittadini romani erano diventati ricchi. Anzi, la maggior parte di essi era rimasta povera, più povera di prima! Solo i proprietari di vaste terre (i latifondi) ammassavano facilmente le ricchezze, facendo lavorare gli schiavi e trasformando i campi in pascoli per le greggi e gli armenti.
Infatti, siccome il grano arrivava in abbondanza dall’Africa e dall’Asia Minore, non era più necessario coltivarlo in Italia. Questo sistema riduceva in miseria i piccoli proprietari che abbandonavano i loro campicelli e si trasferivano a Roma, a vivere come oziosi mendicanti.
Due uomini vollero porre riparo a tanta miseria,  realizzando le prime riforme a favore degli operai e dei contadini: Tiberio e Caio Gracco.

Storia di Roma I GRACCHI – Tiberio e Caio Gracco

Tiberio e Caio, per l’indole egregia e per il grande studio che Cornelia mise nell’educarli, divennero i più disciplinati di quanti Romani allora vivevano; e dall’esempio loro si dimostrò che l’educazione è ottima guida per condurre gli uomini a virtù. Tiberio e Caio furono somiglianti nella forza, nella temperanza, nella liberalità, nella grandezza d’animo e nell’eloquenza; ma grandemente differivano in altre cose. Tiberio nell’aria del volto, nello sguardo e nel portamento era mite e composto. Caio, invece, era impetuoso e pieno di forza; cosicchè quando arringava il popolo, egli non si teneva già modestamente fermo al suo posto, come il fratello; anzi fu il primo dei Romani a passeggiare qua e là per la ringhiera (il palco da dove parlavano gli oratori) ed a tirarsi la toga giù dalle spalle. Se poi era preso dall’ira, s’infiammava e strillava sino a prorompere in contumelie e a confondersi nel discorso. Venendo a parlare dei costumi e della maniera di vivere, si lodavano in Tiberio la frugalità e la semplicità; mentre Caio, sebbene temperato ed austero in confronto agli altri, si poteva dire largo e magnifico rispetto al fratello. (da Plutarco)

Storia di Roma I GRACCHI – I veri gioielli

Le ricche signore romane si chiamavano matrone. Andavano coperte di ampie vesti e portavano indosso ornamenti d’oro. Molte si facevano accompagnare da uno schiavo, con un cofanetto pieno di gioielli che mostravano alle amiche.
Ma una di loro non faceva così. Si chiamava Cornelia. Si era sposata con Sempronio Gracco ed era rimasta presto vedova, con due figli, Tiberio e Caio, che allevava teneramente. Quei due ragazzi, che a Roma chiamavano i fratelli Gracchi, le davano molte soddisfazioni, perchè erano seri, buoni, studiosi. Cornelia, per quanto vedova, si sentiva contenta di loro.
Un giorno si recò a farle visita un’altra matrona, diversa da lei. Era una donna ambiziosa e vanitosa, piena di ornamenti. La seguiva uno dei soliti schiavi, col cofano dei gioielli. La matrona lo aprì dinanzi a Cornelia. Trasse fuori collane d’oro, con la bulla che era una specie di medaglia. Sollevò fili di perle opaline. Si infilò alle dita anelli gemmati. Mostrò braccialetti larghissimi, d’oro sbalzato. Eppoi, filigrane e fibule, che erano fatte come i nostri spilli di sicurezza, ma più ricchi e lavorati.
E mentre si passava, da una mano all’altra, tutti quei gioielli preziosi, i suoi occhi brillavano più che i diamanti sfaccettati.
Cornelia sorrideva per cortesia, ma in cuor suo compativa quella donna che, per darsi importanza, aveva bisogno di tutte quelle cose inutili.
A un certo momento, la matrona vanitosa chiese a Cornelia che le mostrasse i suoi gioielli. Forse la voleva umiliare. Ma Cornelia, com’era una donna di giudizio, era anche una donna di spirito. Invece di aprire un cofano o di frugare in un cassetto, chiamò presso di sè i suoi due bravi figlioli.
Prese Tiberio da una parte, Caio dall’altra. Passò sulle loro spalle le sue materne braccia, poi disse, modesta e insieme orgogliosa: “Ecco i miei gioielli!”
La sciocca matrona, a quella bellissima risposta, rimase confusa.
Abbassò gli occhi sui suoi gioielli. Le sembrò che non sfavillassero più. Anche nei suoi occhi si era spenta la luce della gioia. Richiuse il cofano. Ma ora erano gli occhi di Cornelia e dei suoi cari figlioli che riempivano di luce la casa. (P. Bargellini)

Storia di Roma I GRACCHI – Discorso di Tiberio Gracco

Tiberio Gracco, divenuto tribuno della plebe, propose nel 133 aC, una legge, per la quale la grande proprietà terriera, o latifondo, doveva essere frazionata in modo tale che nessun cittadino potesse possedere più di 1.000 giornate di demanio pubblico. Il resto doveva essere confiscato e diviso in piccoli poderi da 30 iugeri, da distribuirsi fra i cittadini nullatenenti.
Ecco il discorso con cui Tiberio arringò la folla in tale occasione:
“Le belve che vivono allo stato selvaggio hanno le loro tane, ma quelli che muoiono per l’Italia non sono padroni che dell’aria che respirano. Essi devono andare raminghi, con la moglie e con i figli, senza casa, senza tetto.
Quando i loro comandanti, prima della battaglia, li incitano a combattere per le loro tombe e per i loro Lari, mentono e sanno di mentire, perchè nessuno dei soldati possiede tali cose. I loro combattimenti, i loro morti, non servono che ad accrescere il lusso dei ricchi.
Si ha il coraggio di chiamare padroni del mondo questi disgraziati che non posseggono neppure una zolla di terra!”
(da Plutarco)

Storia di Roma I GRACCHI – Tiberio Gracco

Tiberio fu eletto Tribuno della Plebe e fece approvare una legge che vietava ai cittadini di possedere latifondi troppo estesi e imponeva ai proprietari terrieri di assumere un certo numero di contadini liberi, da far lavorare nei campi oltre agli schiavi, mentre a tutti i cittadini poveri lo Stato avrebbe assegnato un piccolo terreno. Questa legge non poteva piacere ai grandi proprietari… Non potendo privare Tiberio del potere, i patrizi provocarono aspri disordini durante le elezioni dell’anno 133 aC; Tiberio fu assalito e ucciso.

Storia di Roma I GRACCHI – Caio Gracco

Nove anni dopo, Caio Gracco, fratello minore di Tiberio, fu eletto a sua volta Tribuno della Plebe. Per favorire i poveri, Caio fece approvare una legge perchè fossero ricostruite alcune famose città: Taranto, Capua, Cartagine. Per salvare i plebei dalla fame, Caio mise in opera la legge frumentaria, che impegnava lo Stato a vendere ad ogni cittadino cinquanta chili di grano al mese, a bassissimo prezzo. Neppure queste leggi poterono essere gradite ai profittatori.
Per attaccare Caio Gracco fu trovata una scusa: Caio aveva guidato tremila coloni in Africa, perchè ricostruissero Cartagine. Ma, al termine della terza guerra punica, il territorio di Cartagine era stato dedicato alle divinità infernali. Caio Gracco fu accusato di sacrilegio e perseguitato. Morì ucciso nel 121 aC.

Storia di Roma I GRACCHI – Vicino al popolo

Caio Gracco abbandonò la propria ricca casa patrizia per andare ad abitare in una catapecchia di un quartiere popolare, e ciò per essere maggiormente vicino al popolo e vederne così con i propri occhi i bisogni.

Storia di Roma I GRACCHI – Le guerre civili

La miseria, le ingiustizie, l’inimicizia tra i pochi ricchissimi ed i molti poveri continuarono dopo la morte dei Gracchi. All’improvviso scoppiò una vera guerra fra gruppi di cittadini romani. Si disse “guerra civile” perchè era combattuta da uomini appartenenti alla stessa patria. Gli interessi della plebe erano difesi da Caio Mario, un popolano che, per il suo coraggio, era giunto ai più alti gradi militari.
Il suo avversario era il nobile Lucio Silla, intelligente e ambizioso. La lotta durò molti anni: se trionfavano gli uomini di Mario, la vendetta colpiva i “sillani”; se invece era vittorioso Silla, tutti gli amici di Mario erano perseguitati ed uccisi.
Quando Mario morì, Silla si fece nominare dittatore e governò lo stato con grande durezza fino all’anno 79 aC.

Storia di Roma I GRACCHI – Mario

Era nato da contadini. Aveva combattuto con Scipione nella Spagna, e ben presto era divenuto generale. Coraggioso, forte, abile, resisteva a qualsiasi fatica. Viveva la vita dei suoi soldati: mangiava il loro pane e, come loro, riposava sulla nuda terra. Durante le soste, metteva anch’egli mano al lavoro per scavare una fossa o un vallo (trincea). I soldati lo ammiravano e lo amavano, pronti a compiere con lui le più audaci imprese.

Storia di Roma I GRACCHI – Caio Mario, il salvatore della Patria

Mentre a Roma la plebe era in fermento, scoppiò una guerra contro Giugurta, re della Numidia. Essa fu conclusa vittoriosamente dal console Caio Mario, di umili origini. La gloria di Mario si accrebbe pochi anni dopo, quando salvò Roma dalla terribile invasione dei Cimbri e dei Teutoni, bellicosi popoli germanici. Il console fu acclamato “salvatore della patria” e “terzo Romolo”.
Caio Mario riorganizzò l’esercito. I soldati furono equipaggiati a spese dello stato e ricevettero una paga.

Storia di Roma I GRACCHI – Eroico modo di attingere acqua

I soldati di Mario, assetati, protestavano con il condottiero perchè volevano acqua. “Il campo nemico ne abbonda” disse Mario “andate a prenderla!”. E li guidò alla battaglia.

Storia di Roma I GRACCHI – Silla

Era di ricca famiglia patrizia. Aveva occhi azzurri e aspetto fiero. La sua faccia era di colore scuro, qua e là pezzato di bianco. In lui c’era un impasto di virtù e di vizi. Forte e valoroso in guerra, era poi prodigo, spavaldo, ambizioso e vendicativo. I nemici lo temevano; lo sapevano uomo senza pietà. Gli amici lo adoravano, perchè lo sapevano pronto a qualsiasi aiuto.

Storia di Roma I GRACCHI – Lucio Cornelio Silla

Nonostante le vittorie conseguite, Roma covava dentro di sè continue discordie, alimentate ora dai patrizi, ora dai plebei.
Per alcuni anni prevalse il partito dei plebei, capeggiato da Mario, che fece strage dei suoi nemici. Quando morì, si disse: “Non fu amato da nessuno, fu odiato da molti”.
Poi prevalse il partito dei patrizi, capeggiato da Silla. Ma anche di lui si disse: “Nessuno fece tanto bene ai suoi amici e tanto male ai suoi nemici”. Raggiunto il pieno potere, infatti, Silla riempì Roma di stragi senza fine e senza limite.
Molte conquiste della plebe furono distrutte: i tributi non poterono esercitare il diritto di veto e proporre le leggi. Dopo quattro anni di dittatura Silla si ritirò a vita privata.
“C’é qualcuno” domandò al popolo convocato in piazza “che voglia chiedermi conto di quello che ho fatto?” Nessuno aprì bocca.

Storia di Roma I GRACCHI – La battaglia di Aquae Sextiae

Quando tutto fu pronto, Mario col grosso delle forze si accampò verso le foci del Rodano, in luogo forte, cinto di staccati e di fosso. Ecco arrivare finalmente i nemici, in numero quasi infinito
Mario ordinò che i legionari dall’alto dei terrapieni, a turno stessero ad osservare i nemici, in modo da assuefarsi al loro aspetto strano, alle loro voci spaventose: ottenne così che i Romani non soltanto temessero più d’attaccare battaglia, ma ogni giorno chiedessero ad alte grida che il console desse il segnale. Ed egli, impassibile, li frenava. Alfine i Teutoni s’impazientirono e da ogni parte, alla rinfusa, assalirono il campo romano, quasi per provare la forza d’animo dei difensori. Respinti dalla pioggia di saette, senza ritentar la prova e quasi disprezzando quel nemico trincerato, decisero di muovere senz’altro verso i passi delle Alpi, per ricongiungersi coi Cimbri e insieme passare in Italia. Levate le tende, i barbari si avviarono, sfilando, per derisione, lungo il campo di Mario.
Solo quando le retroguardie del nemico furono scomparse, verso oriente, Mario levò il campo e li seguì cautamente. Pensava non senza ragione, che durante la marcia il disordine sarebbe entrato più facilmente in quelle enormi masse indisciplinate. Quasi ogni giorno egli faceva prigionieri gruppi di ritardatari e di sbandati. Vicino ad Aquae Sextiae potè finalmente coglierne all’improvviso una grossa schiera di trentamila, separati da un canale e, con abile manovra, parte cacciarli giù nell’acqua, parte uccidere, parte inseguire fino al campo.
Il terzo giorno la tensione degli animi era diventata tale, che Mario ritenne miglior consiglio affrontare la prova. Trasse le legioni dagli steccati e le schierò su un pendio. L’ordine dato ai soldati era semplice: mantenere ad ogni costo l’ordinanza, aspettare i nemici a piè fermo e scagliare i giavellotti a giusta distanza; Mario, come sempre, combattè in prima fila, per dare esempio e coraggio.
Dopo una lunga lotta, i barbari si ritirarono per riprendere fiato; ma ecco, in quel mentre Claudio Marcello assalirli alle spalle. Alla inattesa vicenda, i Teutoni restarono un momento incerti; combattere su due fronti non era loro costume; credettero ad un tradimento, ad un  prodigio; la confusione entrò nelle loro file. Molti corsero verso il campo, ove avevano lasciato le mogli, i vecchi, i bambini.
Le legioni allora presero l’offensiva e si slanciarono con alte grida giù dal pendio. Nella battaglia all’arma bianca, come erano quelle dell’antichità, non vi era quasi scampo per gli sconfitti; quando incominciava la ritirata, era quasi la strage sicura. Più di centomila Teutoni furono distrutti in poche ore; in parte uccisi, in parte fatti prigionieri;  tutte le loro cose divennero bottino di guerra. (A. Valori)

Storia di Roma I GRACCHI – Le proscrizioni di Silla

Silla riempì Roma di stragi senza fine e senza limite. Molti che non avevano mai avuto nulla a che fare con lui, furono fatti mandare a morte per odi personali: egli lasciava fare per compiacere i suoi amici.

Silla proscrisse dapprima ottanta cittadini senza dare alcuna comunicazione ai magistrati: ciò provocò generale indignazione. Lasciò allora passare un giorno, ma poi ne proscrisse duecentoventi altri e il terzo giorno altrettanti. Parlando al pubblico, disse che aveva proscritto chi gli era venuto in mente e che in seguito avrebbe preso la medesima misura contro altri che gli fossero venuti a memoria.

Stabilì la pena di morte per chiunque avesse dato ospitalità o salvato un proscritto, anche se fosse stato fratello, figlio, genitore, e fissò un premio di due talenti per chi avesse ucciso uno posto al bando, fosse anche il servo a uccidere il padrone o il figlio a uccidere il padre.
Ciò che parve ingiusto al massimo fu l’avere Silla stabilito la perdita di ogni diritto e la confisca dei beni anche a danno dei figli o dei nipoti dei proscritti.
Le proscrizioni non furono limitate a Roma, ma furono estese a tutte le città d’Italia. Non vi fu tempio di divinità, focolare domestico o casa paterna rimasta monda dal sangue degli uccisi: erano trucidati i mariti accanto alle mogli, i figli presso le madri.

Il numero delle vittime per rancori e odi personali fu lungi dall’eguagliare quello degli uccisi a causa delle loro ricchezze. Gli assassinati avrebbero potuto ben dire che l’uno doveva la morte alla sontuosa abitazione, l’altro al suo giardino, l’altro ancora alle sue stanze. Quinto Aurelio, uomo inoffensivo e che non partecipava a tante calamità se non con il sentire compassione per le sventure altrui, recatosi al Foro vide il suo nome nella lista dei proscritti.

“Misero me” disse “è il mio podere l’Albano che mi perseguita”. Fece qualche passo, e fu assassinato da uno che si era messo a seguirlo. (Plutarco)

Storia di Roma I GRACCHI – Il dono di Caio Mario

Caio Mario si trovava presso Vercelli, quando gli si presentò un uomo ancora giovane, sano e robusto, ma lacero e sudicio. “Salve, illustre console!”, lo salutò il mendicante.
Mario rispose con rude cenno: “Che cosa vuoi?”.

L’uomo fu un po’ turbato da quel modo aspro di trattare; pure si fece coraggio e disse: “Vorrei chiederti aiuto. Tu vedi, o console, come sono povero”.
Mario corrugò la fronte, incrociò le braccia sul petto e, dopo averlo osservato attentamente, domandò: “Quanti anni hai?”
“Ne ho compiuti trenta un mese fa”
“Va bene. Torna domani  e ti darò un dono degno di me”.
Il mendicante si chinò davanti al capitano e gli volle baciare la mano, ma fu respinto: “Ricordati che le adulazioni non mi piacciono”.

Il misero se ne andò confuso. Il giorno dopo, di buon mattino, si presentò alla tenda del console. Mario, appena lo scorse, gli disse: “L’ora è assai propizia per il dono che ti faccio”, e gli mostrò un aratro dalla lama lucidissima e ricurva, che scintillava al sole. “Adoperalo dal biancheggiare dell’alba fino al rosso del crepuscolo, e ti assicuro che non sarai più povero”. (G. Visentini)

Storia di Roma I GRACCHI – Le province

I Paesi conquistati fuori dell’Italia peninsulare ebbero il nome di province. La prima fu la Sicilia.
A capo di ogni provincia vi era un governatore romano, proconsole e propretore, cioè console o pretore uscito di carica, che governava per un anno. Costoro, pur rispettando le usanze, i costumi, la religione degli indigeni, esigevano il pagamento dei tribuni imposti ad ogni provincia, comandavano le forze armate, facevano le leve e le requisizioni, giudicavano le cause civili e penali e sorvegliavano l’amministrazione regionale e locale. Naturalmente, per disimpegnare tutte queste funzioni, erano assistiti da un numeroso stuolo di funzionari.
Il governo romano fu in generale benefico: nei paesi quasi barbari dell’Europa occidentale (Gallia e Spagna) portò la sua civiltà; nelle province del Mediterraneo orientale pose fine alle lotte che rovinavano quei popoli.

Storia di Roma I GRACCHI – Le colonie

Nelle terre di recente conquista i Romani fondavano colonie. Era scelto un luogo che fosse ben difeso per natura: alla confluenza di fiumi o su alture che dominassero vaste regioni. I coloni erano quasi tutti soldati romani che si trasferivano con le loro famiglie nel luogo prescelto. Ognuno di essi aveva in proprietà un pezzo di terra. I coloni continuavano ad essere soldati, cittadini di Roma. Potevano andare a Roma ad esercitare i loro diritti; accorrevano alla chiamata nell’esercito di Roma.
Erano dunque ben diverse queste colonie da quelle fenicie e greche, che erano indipendenti dalla Madre Patria. I diritti di cittadinanza romana, di cui godevano i coloni, erano incitamento ai vicini per meditare anch’essi quei diritti con la fedeltà e la devozione a Roma.

Storia di Roma I GRACCHI – Come i Romani fondavano una colonia

La fondazione delle colonie romane si facevano tracciando due strade principali in croce, da nord a sud l’una e da est a ovest l’altra.
Parallelamente a queste si tracciavano le altre strade. Molte nostre città conservano in modo evidente ancor oggi questa impostazione, che risale alla fondazione di una colonia romana. Torino con la sua pianta quasi geometrica si può considerare come un modello di colonia romana, con le sue ampie strade, rettilinee, che si incrociano tutte ad angolo retto. Del resto nella fondazione di una colonia i Romani rispettavano le stesse norme che essi usavano nel porre un accampamento, e molto spesso l’accampamento, e molto spesso l’accampamento a carattere permanente si trasformava col tempo in un vero e proprio villaggio, poi in città.

Storia di Roma I GRACCHI – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

La prima guerra punica: l’occasione del conflitto

L’0ccasione del conflitto coi Cartaginesi di presentò dieci anni dopo la partenza di Pirro dall’Italia. Bande di mercenari campani, detti Mamertini (ossia “uomini Mamers”, da Marte, dio della guerra), assoldate da Agatocle, tiranno di Siracusa, dopo la morte di questo si erano impossessate a tradimento di Messina, trucidandone gli abitanti, e di lì minacciavano varie località dell’isola. Un ufficiale siracusano, Gerone, che li sconfisse, fu acclamato re di Siracusa.
Ripresa la guerra, egli ambiva a occupare Messina, e a tale scopo si era alleato coi Cartaginesi, che lo prevennero, introducendo un loro presidio nella rocca. I Mamertini, stretti tra due fuochi, chiesero allora la protezione di Roma, signora della vicina Reggio.
Il Senato esitò a lungo: sentiva di offuscare il buon nome e la fede tradizionali, aiutando dei mercenari crudeli e invadendo un territorio che Cartagine considerava propria zona di influenza. Ma il popolo romano sentiva che se lo stretto di Messina fosse casuto nelle mani dei Cartaginesi, la sicurezza della penisola era minacciata. La Sicilia sarebbe diventata, come scrisse lo storico Polibio, il ponte di passaggio per i Cartaginesi in Italia. Cartagine era ormai incontrastata padrona del Mediterraneo occidentale e, col possesso delle tre maggiori isole e l’alleanza coi Galli della Provenza e coi Liguri, avviluppava tutto il Tirreno.
Perciò il console Appio Claudio, autorizzato da un decreto del popolo, assai probabilmente contro il parere dei Senatori, nell’estate del 264 aC varcò lo stretto e Messina fu occupata. Dopo i primi successi romani, Gerone si staccò dall’alleanza cartaginese, schierandosi a fianco di Roma, sotto la cui protezione si posero molte città siciliane.
Così il conflitto, inizialmente limitato a Messina, si estese a tutta l’isola.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La prima flotta romana

Si presentava a Roma questo imperativo: diventare una grande potenza anche sul mare. Era uno sforzo non facile, per una città essenzialmente continentale, che non aveva mai tentato avventure marinare e aveva rifuggito fino allora dei commerci oltremarini.
Ma la fortuna di Roma e il segreto della sua grandezza erano nella sua indomita volontà, nella sua fermezza di propositi, nella sua eroica disciplina.
La leggenda ha inventato favole strane: essa dice che le navi furono fatte a Ostia e ad Anzio, e che i marinai si allenavano al remo sulla spiaggia; in due mesi si sarebbero avute così centoquarantaquattro triremi.
I Romani erano invece navigatori prima delle guerre puniche, come mostra il trattato del 509 o del 384 aC con Cartagine… i Romani poi non avevano bisogno di ciò avendo conquistato l’Italia meridionale con città come Taranto: essi avevano modo di prendere, con la forza o con il denaro, da questi paesi, navi con tutto l’equipaggio. Quindi la flotta del 260 aC fu forse costruita ad Ostia ed Anzio per ordine del Senato, ma fu anche costruita con l’ausilio delle città costiere dell’Italia meridionale e dell’Etruria.
La formazione della flotta del 260 aC segna l’inizio delle lotte terribili per il predominio del Mediterraneo. Essa era formata di centoventi quinqueremi e tatticamente seguiva l’antica formazione a triremi. (A. Silva)

La prima guerra punica

Dopo la guerra combattuta contro Pirro, terminata con la conquista di Taranto e della circostante regione salentina, Roma divenne la più potente città d’Italia; essa dominava ormai tutta la Penisola e i suoi eserciti erano invincibili.
Sulle coste settentrionali dell’Africa, ove oggi sorge Tunisi, proprio di fronte alla Sicilia, vi era Cartagine, ricca e potente città, padrona di tutti i traffici marittimi del Mediterraneo. I Cartaginesi possedevano una potente flotta e avevano fondato delle colonie in Sardegna e in Sicilia. Roma ormai grande e potente, spingeva le sue navi sullo stesso mare.
I Cartaginesi, che vedevano mal volentieri il continuo crescere della potenza romana, cercavano di ostacolarla in tutti i modi. La guerra tra le due potenti rivali scoppiò quando Roma tentò di conquistare la Sicilia.
I Romani, fino allora, avevano combattuto soltanto per terra. Ora incontravano un nemico che aveva la sua forza sul mare, e sul mare bisognava batterlo. In due mesi costruirono una flotta si centoventi navi e al affidarono al comando del console Caio Duilio. Il console conosceva la superiorità dei nemici e trovò il modo di trasformare il combattimento da navale a terrestre. Armò gli scafi con una specie di ponte lavatoio munito di ganci, detti corvi, e li mandò ad assalire la flotta nemica che avanzava, sicura di sè, quasi senza schierarsi. Le navi romane affiancarono le cartaginesi; i corvi agganciarono i bordi e i fanti balzarono sul ponte nemico sorprendendo  e sgominando gli avversari. Lo scontro avvenne nelle acque di Milazzo e fu la prima vittoria navale dei Romani.
Roma, imbaldanzita dal successo, decise di portare la guerra sul territorio nemico. Una poderosa flotta di navi sbarcò i soldati romani davanti a Cartagine. Presto, però, essi furono indeboliti dal caldo, dalla sete e dagli scarsi rifornimenti. I nemici li assalirono con vigore disperato, li sconfissero e presero prigioniero lo stesso comandante romano, il console Attilio Regolo.
Pur avendo riportato una vittoria importante, i Cartaginesi temevano la rivincita di Roma ed erano stanchi della guerra: preferivano i loro ricchi commerci al rischio delle armi. Decisero, perciò, di lasciar libero sulla parola Attilio Regolo. Egli doveva recarsi a Roma e ottenere buone condizioni di pace; in caso di fallimento della missione, sarebbe ritornato in Africa, prigioniero.
Il console venne a Roma e, in Senato sconsigliò i concittadini a trattare con il nemico: Cartagine non avrebbe potuto resistere a lungo a nuove battaglie. Poi ritornò volontariamente nelle mani dei Cartaginesi, i quali lo fecero morire rotolandolo in una botte irta di chiodi.
La guerra riprese per terra e per mare e terminò nel 241 aC, con la vittoria dei Romani. Essi tolsero a Cartagine i possedimenti in Sicilia, e in seguito quelli della Sardegna e della Corsica. La campagna vittoriosa si disse “prima guerra punica”; i Romani, infatti, chiamavano Puni (Fenici) gli abitanti di Cartagine.

Caio Duilio

A questo complesso di navi da battagli Roma diede un comandante degno della gravità del compito che lo attendeva: il console Caio Duilio.
Lo scontro avvenne nella primavera del 260, nelle acque di Milazzo: Duilio riportò la prima grande vittoria navale dei Romani, sgominando la ben più numerosa armata cartaginese, e catturando ben cinquanta vascelli nemici, tredici affondandoli, e facendo inoltre settemila prigionieri.
Si dice che una gran parte del merito della vittoria fosse dovuto a un geniale arnese applicato dai Romani al bordo delle loro navi: il corvo o raffio, una specie di enorme uncino che veniva gettato sulla nave avversaria, obbligandola ad accostarsi, e provocando così un combattimento quasi terrestre. Naturalmente però la vittoria fu specialmente merito della genialità di Duilio e del valore dei soldati romani.
L’eco della sconfitta subita a Milazzo da Cartagine fu tale, che la sua potenza cominciò da allora a declinare. Pareva impossibile al mondo che Roma avesse potuto sconfiggere la potentissima armata dei Punici. Eppure questo trionfo segnava l’inizio della politica di espansione dell’Urbe oltre i confini territoriali della Penisola; e a Caio Duilio, che ad esso aveva legato il suo nome, il Senato e la cittadinanza romana tributarono onori trionfali.
A ricordo di quella vittoria fu elevato nel Foro una colonna rostrato, che esiste in parte ancor oggi.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Vita di Cartagine

Cartagine era stata fondata sessantun’anni prima di Roma dai Fenici e fu per molti secoli il centro dei commerci che si svolgevano nel Mediterraneo. I ricchi abitavano case a sei piani (veri grattacieli, per quell’epoca!) e avevano fatto costruire templi con colonne rivestite d’oro e d’argento, ornati di statue d’oro massiccio.
I Cartaginesi, come altri popoli di origine orientale, adoravano le divinità offrendo loro quanto di più caro avevano, persino vittime umane.
Nel porto militare di Cartagine potevano mettere l’ancora anche duecento navi. Al centro, era stata allestita un’isola artificiale, dalla quale gli ammiragli passavano in rassegna la flotta.
A Cartagine non c’era democrazia: il potere era nelle mani dei mercanti più ricchi. La città traeva grandi guadagni anche dalle industrie e dall’agricoltura.

Potenza di Cartagine

Cartagine, una colonia fenicia, sorgeva sulla costa settentrionale dell’Africa, presso l’odierna Tunisi, in una felice posizione geografica, a poca distanza dalla Sicilia, con un ottimo porto naturale.
Essa era riuscita a strappare ai Greci della Sicilia e della Magna Grecia e agli Etruschi il primato commerciale sul Mediterraneo occidentale, fondando colonie sulle coste dell’Africa settentrionale, nella Spagna meridionale, in Corsica, in Sardegna e nella Sicilia occidentale.
I Cartaginesi verso il 280 aC erano padroni di quasi tutta la Sicilia, tranne del territorio intorno a Messina e della costa orientale soggetta a Siracusa.

Le navi da guerra prima delle guerre puniche

Le navi da guerra di quell’epoca erano mosse a vela e a remi; erano munite a prua di speroni ferrati, i rostri, mediante i quali potevano speronare e affondare le navi nemiche.
Una battaglia navale richiedeva coraggio e intelligenza, e marinai svelti ai remi, alle vele, al timone. Le navi si rincorrevano sul mare azzurro e cercavano di raggiungersi. Quando due navi erano vicine, la più agile di esse puntava la prua armata di rostro contro l’altra, la squarciava e la affondava.

Caio Duilio

Roma era ormai una grande potenza terrestre; i suoi soldati avevano dimostrato di saper combattere con ineguagliabile valore e di saper vincere. Ma cosa sarebbe successo in uno scontro navale?
I Cartaginesi erano provetti marinai e da secoli avevano una flotta militare ben fornita; i Romani erano ancora ai primi passi. Ma l’ingegno di Caio Duilio supplì a tale inferiorità di Roma. Egli era console quando scoppiò la guerra tra Roma e Cartagine. Ordinò allora che venissero costruiti i corvi, speciali ponti per ogni nave romana; sull’altro lato erano infissi degli enormi uncini. Questi ponti, detti corvi, avrebbero agganciato la nave nemica, costringendo l’equipaggio a una lotta corpo a corpo. Con tale accorgimento, Caio Duilio affrontò le navi di Cartagine nelle acque di Milazzo, in Sicilia, e ottenne la piena vittoria.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Attilio Regolo

Dopo la vittoria di Milazzo, i Romani sbarcarono sulla costa africana. L’esercito romano era comandato da Attilio Regolo, il quale, sconfitto, cadde prigioniero dei Cartaginesi.
Condotto nella città nemica, gli venne dato l’incarico di ritornare a Roma, come ambasciatore. Egli doveva persuadere i Romani a fare la pace. Se fosse riuscito a convincere i senatori alla pace, sarebbe stato salvo. Se no, doveva tornare a Cartagine, dove l’avrebbe atteso una straziante morte.
Attilio Regolo accettò l’incarico e diede la sua parola d’onore di tornare a Cartagine nel caso di insuccesso.
Giunto a Roma, invece di consigliare i Senatori a far pace con Cartagine, egli disse di continuare la guerra. “Il momento è propizio”, disse Attilio Regolo, “i Cartaginesi hanno perduto gran parte della loro flotta e si sentono deboli. Bisogna dunque insistere, per avere la vittoria”.
Quando fu sicuro di avere convinto tutti i Senatori, si dispose al ritorno a Cartagine, dove l’attendeva sicura morte.
Tutti lo sconsigliavano di partire. I familiari lo trattenevano, piangendo. Ma egli diceva: “Un Romano ha una parola sola. Io ho dato la mia. Ho promesso di ritornare e devo mantenere la promessa fatta al nemico anche se mi costerà la vita”.
E partì. Tra l’ammirazione e il dolore di tutta Roma.
I Cartaginesi non seppero apprezzare la grandezza d’animo di questo grande Romano. Erano un popolo ricco ma crudele, che non capiva i gesti generosi degli eroi.
Attilio Regolo fu chiuso in una botte, irta di chiodi sporgenti nell’interno. La botte venne fatta rotolare lungo i fianchi di un monte.
La morte di Attilio Regolo fu dolorosa, ma servì da esempio, per dimostrare che i Romani erano uomini d’onore.

Come si concluse la prima guerra punica

La prima guerra punica si concluse con la vittoria di Roma: i Cartaginesi perdettero la Sicilia, che divenne così la prima grande provincia romana. A Roma, nel Foro, venne eretta la colonna rostrata, decorata cioè con i rostri delle navi catturate al nemico.

Le navi romane

A contatto con i Cartaginesi, di cui furono acerrimi rivali, i Romani si fecero esperti marinai e potenziarono la loro flotta. Le navi romane erano costruite con lunghe tavole di pino e di abete, unite con chiodi di legno e coperte all’esterno di lana intrisa nel catrame, su cui era stesa una lastra di piombo.
Le navi da guerra erano lunghe e sottili, spinte da due, tre, e perfino cinque file di remi: si dicevano perciò biremi, triremi e quinqueremi. Invece le navi da trasporto, cariche di olio, vino, cereali, bestiame, erano larghe, possenti, più lente.
Possedevano un’ampia vela quadrata e tenevano legata a rimorchio quasi sempre una scialuppa di salvataggio, chiamata scafo. Un marinaio di vedetta stava attento a che non si riempisse di acqua e affondasse. Navigavano solo di giorno e poco d’inverno. Durissima era la disciplina imposta ai marinai.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La seconda guerra punica

I Cartaginesi erano ancora molto forti. Essi volevano tornare ad essere padroni del mare, e dopo qualche anno Roma e Cartagine erano di nuovo in guerra fra loro.
I Cartaginesi misero a capo del loro esercito un grande generale, che si chiamava Annibale. I Romani sorvegliavano il mare tra Cartagine e la Sicilia perchè pensavano che i Cartaginesi sarebbero passati di lì per muovere contro Roma. Invece Annibale ancò in Spagna e poi, attraverso la Francia, arrivò ai piedi delle Alpi per cogliere di sorpresa i Romani.
Attraverso le Alpi non c’erano strade. Le montagne erano coperte di boschi, di neve o di ghiaccio. Sulle montagne abitavano popolazioni selvagge, che tendevano imboscate a tutti coloro che capitavano nelle loro terre. Per valicare le Alpi, Annibale dovette aprirsi una nuova strada e, al tempo stesso, combattere  i montanari nemici. Ma riuscì ugualmente ad attraversare le montagne con tutto il suo esercito, con i carri, i cavalli e persino con alcuni elefanti, che erano un po’ i carri armati di quel tempo.

Perchè scoppiò la seconda guerra punica

Cartagine, benchè sconfitta, non si dette mai per vinta e cercava un pretesto per poter riprendere la guerra contro Roma. Troppo forte era il desiderio di rivincita, di tornare padrona assoluta del Mediterraneo e di rioccupare le tre grandi isole della Sicilia, della Sardegna e della Corsica.
L’occasione venne dopo alcuni anni di pace, quando i Romani accorsero in difesa di Sagunto, una città della Spagna assalita dai Cartaginesi. Questi, nonostante l’intervento, non tolsero l’assedio ed ebbe così inizio la seconda guerra punica.

Vittorie di Annibale

Mentre i Romani sorvegliavano il mare, l’esercito di Annibale apparve all’improvviso, come per miracolo, nella pianura padana. L’esercito romano si mosse rapidamente per affrontare il nemico, ma i soldati di Roma arrivarono stanchi e spaventati e combatterono debolmente contro l’esercito di Annibale.
I Cartaginesi vinsero una prima volta presso il fiume Ticino. Allora i Romani si ritirarono un poco più a sud. Sulle rive del fiume Trebbia ci fu un’altra battaglia; i Cartaginesi vinsero anche questa. Allora i Romani si ritirarono ancora fin quasi alle soglie di Roma.
Questa volta erano decisi a vincere e, quando seppero che Annibale si trovava presso il lago Trasimeno, si misero in marcia anch’essi verso il lago. Ma Annibale, sentendo avvicinarsi i Romani, finse di ritirarsi, nascondendosi invece con il suo esercito sulle colline che dominavano il lago, favorito anche da una fitta nebbia.
L’esercito romano che lo inseguiva fu assalito all’improvviso mentre avanzava lungo le rive del lago, così anche nella battaglia del lago Trasimeno i Romani furono battuti.
Annibale pensava che alla fine i Romani si sarebbero arresi, ma questi perdevano le battaglie e non si arrendevano. A Canne, in Puglia, i Romani furono sconfitti ancora una volta. Annibale finse di ritirarsi e fu inseguito dai Romani che rimasero così circondati. Morirono tanti Romani che Annibale, dopo la battaglia, fece raccogliere tre cesti di quegli anelli d’oro che i patrizi portavano al dito.

Consuetudini di Annibale

Pur essendo generale Annibale conduceva una vita durissima. Nel dormire e nel vegliare non faceva nessuna differenza tra la notte e il giorno; dava al riposo soltanto il tempo che gli rimaneva dopo aver compiuto il suo lavoro, e non cercava, per dormire, ne la morbidezza del letto ne il silenzio. Più volte fu visto giacere a terra fra le guardie e i cocchi dei soldati, coperto di un semplice mantello.

Ritratto di Annibale

Audacissimo nelle imprese rischiose, ma prudentissimo nei pericoli, Annibale non poteva essere stancato da nessuna impresa e da nessuna fatica. Poteva indifferentemente sopportare il caldo e il freddo. Moderato nel bere, non mangiava oltre la necessità; non aveva limiti nella veglia e al sonno concedeva solo il tempo minimo necessario. Non si distingueva dagli altri soldati per le vesti, ma per le armi e per i cavalli; primo fra tutti i fanti e i cavalieri nell’avviarsi alla battaglia, ultimo nell’allontanarsi. Ma a tale somma di virtù corrispondevano altrettanto difetti: crudele fino ad essere disumano, perfido, menzognero e spergiuro, non aveva timore degli dei ne rispetto per gli uomini. (da Livio)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Annibale

Questa volta Cartagine ebbe la fortuna di contare su un abilissimo e coraggioso generale: Annibale.
Pochi comandanti lasciarono nella storia antica una fama pari a quella lasciata dal grande Cartaginese. Egli era veramente un uomo straordinario, che dedicò la sua vita per la grandezza della patria.
Da giovane, in compagnia del padre, aveva combattuto in Spagna contro i Romani. Il padre, prima di morire, aveva fatto giurare eterno odio a Roma. Era molto coraggioso, forte, ardito e sprezzante di ogni pericolo; dormiva poco e lavorava moltissimo.
Passava giornate intere con i suoi soldati tra stenti e fatiche, sempre pronto ad impegnare battaglia con il nemico. Faceva lunghe ed estenuanti marce, spesso sopportando la fame e la sete. Vestiva assai modestamente. In guerra era sempre il primo ad avanzare contro il nemico e l’ultimo ad abbandonare il campo di battaglia.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il piano di Annibale

Annibale attuò un piano molto audace: dalla Spagna, attraverso le Alpi, giunse in Italia e piombò di sorpresa addosso ai Romani. Cinque mesi durò il viaggio di Annibale dalla Spagna in Italia, e quindici giorni furono necessari per passare le Alpi. Con un esercito numeroso il generale cartaginese superò difficoltà di ogni genere, camminando per dirupi scoscesi, in mezzo alla neve e al ghiaccio, combattendo una guerriglia insidiosa contro i montanari. Molti soldati morirono per la strada. Le bestie, elefanti e cavalli, erano sfinite per la fame, perchè lassù mancavano i pascoli. La discesa fu più difficile della salita, ma alla fine l’esercito cartaginese raggiunse la Pianura Padana.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Furbizia di Annibale

Annibale, il grande nemico dei Romani, non solo sapeva combattere bene, ma conosceva mille furbizie e spesso le usava durante la guerra.
Una volta doveva combattere per mare contro un re che era alleato dei Romani. Questo re era molto più forte di lui, bisognava vincerlo con l’inganno, con l’astuzia. Annibale, allora, chiamò a raccolta i marinai e disse loro: “Amici, raccogliete dei serpenti velenosi vivi, quanti più ne potete trovare, e chiudeteli in vasi di coccio. Poi, quando si attaccherà battaglia, venite dietro a me, e assaliremo tutti insieme la nave del re”.
“E che faremo dei vasi di coccio?”
“Li getteremo sulle navi nemiche quando ci verranno addosso!”
“Bene, comandante. Ma come sapremo qual è la nave del re?”
“Ci penso io!”
Infatti, poco prima della battaglia, quando le due flotte erano schierate l’una di fronte all’altra, Annibale mandò un araldo, in una barchetta, in mezzo alla flotta avversaria.
“Ehi, tu, che cerchi?”, gli domandarono.
“Cerco il re: devo consegnargli questa lettera da parte di Annibale”.
Lo guidarono alla nave ammiraglia e i marinai di Annibale, che stavano a vedere, capirono così quale era e dove si trovava. Il re aprì la lettera: credeva che vi fossero delle proposte di pace, invece non trovò che delle parole di beffa!
Allora ordinò che si cominciasse a combattere. Subito le navi di Annibale assalirono quella del re da ogni parte e la costrinsero a fuggire, poi i marinai presero a gettare i vasi di coccio sulle altre navi nemiche. E i serpenti velenosi si sparsero sulle tolde avversarie portando lo spavento e la morte.
Così Annibale, con pochi uomini e molta furberia, sconfisse una potente flotta.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Gli elefanti di Annibale

Gli elefanti di Annibale, quando egli mosse dalla Spagna per venire ad invadere l’Italia, arrivati sulle rive del fiume Rodano non volevano più marciare. “Arrilì! Arrilà!” urlavano i conducenti, incitandoli e punzecchiandoli, “Va lì! Va lì! Ih! Oh! Su!” … ma era lo stesso che parlare al muro. Quegli enormi bestioni si erano impuntati, e non c’era verso di smuoverli.
E tutto l’esercito stava fermo; e Annibale, per cui ogni giorno voleva dire qualcosa, andava su e giù con il frustino, ed era assai inquieto e contrariato.
“Arrilì! Arrilà! Arrisù! Arrigiù! Che i tristi Numi vi fulmino, maledette bestiacce! Ih! Ih! Ih! Là!”
Si provarono anche a spingerli… sì! Ma era meglio dover spingere una montagna! Gli elefanti non si spostavano di un passo; cominciarono anzi a recalcitrare, alzando minacciosamente le proboscidi e guardando male con quegli occhietti furbi e feroci, pestando nervosamente la terra coi piedi.
E’ inutile! Ormai, e chi sa perchè, si erano spaventati dell’acqua e si erano intestarditi di non passare, e non passavano. Forse il giorno dopo…
Ma Annibale non voleva aspettare fino al giorno dopo!
Egli chiama un fantaccino e gli chiede: “Sei tu che sai nuotare come un pesce?”
“Lo dicono i miei compagni, capitano”
“Allora vieni qui! Piglia un bastone!”
Il fantaccino raccatta un bastone.
“Vieni con me!” gli dice Annibale. Lo conduce presso un elefante, il primo della fila, sulle rive del fiume: “Stai attento!” gli dice Annibale “Quando io ti darò il segno, appena ogni conducente sarà a posto, vicino alla sua bestia, tu da’ una bastonata nel ceppo dell’orecchia a questo elefante”
“Ma io… capitano…”
“Non sai dare una bastonata?”
“Le bastonate le so dare, me è questione…”
“Di che hai paura?”
“Gli è che l’elefante, se io gli dò una bastonata, mi afferra con la proboscide e mi scaraventa contro un albero, oppure mi mette sotto i piedi!”
“E tu” lo guarda maliziosamente Annibale, “non sai nuotare?”
“Sì”
“Buttati allora subito a nuoto, e nuota!”
“E se l’elefante…”
“Via!” comandò Annibale. Quando Annibale comandava non c’era da far altro che obbedire.
“Voi!” comandò poi anche agli altri conducenti, “State pronti a mandar avanti gli elefanti!” e al fantaccino: “A te! Via!”
Il povero disgraziato si avvicina alla prima bestia della fila, col bastone dietro la schiena, fingendo di non capire. Sta lì un poco, tanto che l’elefante si svii da ogni sospetto. Intanto guarda l’acqua del fiume, per misurare ad occhio la distanza e per contare i balzi che gli ci vogliono per tuffarsi. Con un occhio guarda il Rodano, e con quell’altro l’elefante. A un tratto, quando questo meno se lo aspetta, alza il bastone e gli dà una gran bastonata nell’orecchia, così forte, che l’orecchia dell’animale rimbomba con  uno schiocco e uno scoppio.
Numi del firmamento! L’elefante dà un barrito tremendo; drizza la proboscide; il fantaccino si è gettato in acqua; l’elefante, che non perdona, si butta in acqua anche lui.
“Arrilì! Arrilà!” urlano i conducenti agli altri elefanti. Questi, vedendo il primo che si è buttato, gli vanno dietro come pecore…
Così, in men che non si dica, furono tutti sull’altra riva.
“Avanti!” potè allora trionfalmente ordinare Annibale, rimontando  a cavallo. E l’esercito proseguì, marciando verso le Alpi e contro l’Italia. (R. Maurizi)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE  L’ardimento di Scipione giovinetto

Annibale, attraversate le Alpi, marciava su Roma; il pericolo era grave ed imminente. L’esercito romano era comandato da un valoroso console che aveva con sè il figlio diciassettenne, il quale aveva voluto seguire per la prima volta il padre in guerra. La battaglia si accese lungo le sponde del fiume Ticino. Dopo accanito combattimento la cavalleria cartaginese riuscì a travolgere le schiere romane.
Il console stesso, ormai circondato, stava per cadere nelle mani del nemico, quando una voce echeggiò sul campo. Era il figlio del console che d’un balzo si era avvicinato al padre ormai in pericolo e, facendogli scudo col proprio corpo, riusciva  a portarlo in salvo.
Mirabile esempio di ardimento e di amor filiale. Quel giovinetto era Scipione, il futuro vincitore di Annibale.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia del Trasimeno

Annibale si accampò nella pianura, tra il lago Trasimeno e i monti di Cortona, e collocò il grosso del suo esercito sulle pendici dei monti, nascondendo la cavalleria ai piedi di certe alture vicine, per tenerla pronta a sbarrare il passo ai Romani. Infatti i Romani, appena furono entrati in campo, si sentirono improvvisamente attaccare da tutte le parti prima ancora che potessero trar fuori le spade.
Il console Flaminio tentò di riordinare i soldati sbigottiti, ma una fitta nebbia levatasi dal lago impediva la visuale, tanto che era impossibile riconoscere le bandiere, mentre il rumore ed il tumulto impedivano di udire gli ordini trasmessi. Ogni soldato si trovava così a combattere secondo il proprio ardore e talento.
La zuffa durò per ben tre ore, aspra ovunque ma soprattutto intorno al console, il quale fu passato da parte a parte dalla lancia di un cavaliere che Annibale aveva arruolato in Gallia.
Nella battaglia morirono 15.000 Romani; 10.000 furono i dispersi. Dei nemici 1.500 rimasero morti sul campo. (da Livio)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Annibale ha paura

Dopo le vittoriose battaglie al Ticino, alla Trebbia e al Trasimeno, parve che Annibale volesse marciare su Roma; invece deviò verso l’Adriatico e si spinse nell’Italia meridionale. Roma era una città fortificata, cinta da colonie romane e latine fedeli: bisognava prenderla d’assalto e non con l’assedio: ma Annibale non aveva le macchine necessarie e temeva sorprese alle spalle.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il “Temporeggiatore”

Quinto Fabio Massimo fu detto il “Temporeggiatore” perchè la sua tattica era quella di stancare ed indebolire il nemico rimandando il più possibile la battaglia finale.
I soldati romani correvano verso le campagne, sorprendevano alla spicciolata le pattuglie nemiche, molestando i carriaggi e i trasporti ma si ritiravano appena appariva il grosso dell’esercito; essi non dovevano in nessun caso accettare battaglia in campo aperto, perchè i nemici erano più forti e numerosi.
Il piano di Fabio Massimo era semplice: bisognava logorare le forze dei Cartaginesi, finchè essi, sfiniti, non avessero ceduto.
Questo modo di fare la guerra, però, non soddisfò i Romani; essi erano ansiosi di combattere in campo aperto col nemico e perciò il dittatore venne presto destituito.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Fabio Massimo e i buoi di Annibale

Il dittatore Quinto Fabio Massimo era riuscito a rinchiudere in una specie di vicolo cieco, tra il fiume Volturno, il monte Callicula e il passo di Casilino, i Cartaginesi. Egli si riprometteva di sterminarli l’indomani all’alba. Ma Annibale, nella notte, radunati tutti i buoi che seguivano il suo esercito come vettovagliamento, fece legare sulle corna di ognuno un fascio di sarmenti. Poi ordinò di dar fuoco a quei fasci e di spingere gli animali terrorizzati verso il valico. Quello strano fiume ardente ruppe lo sbarramento romano e dilagò nella pianura. Soltanto all’alba i Romani si accorsero che, dietro la mandria, se ne era andato anche l’esercito cartaginese.
Quinto Fabio Massimo perse così una facile occasione per distruggere l’esercito nemico.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE La battaglia di Canne

Due furono le astuzie che Annibale usò a Canne. La prima fu nella scelta della posizione, per cui schierò i soldati con le spalle al vento il quale gettava la polvere negli occhi dei Romani; la seconda fu nel modo di schierare i suoi uomini. Mise alle due ali i più forti e valorosi, i più deboli nel centro, disponendoli a cuneo in modo che essi precedessero i più validi. Al quali ordinò che non appena i Romani avessero messo in fuga il centro penetrando così nel vuoto lasciato i dai fuggiaschi, essi li assalissero di fianco, li aggirassero, chiudendoli in una sacca. E così vinse.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia di Canne

Mentre a Roma si facevano i preparativi per la prossima campagna, era già incominciata la guerra nell’Apulia. Appena la stagione permise di abbandonare i quartieri d’inverno, Annibale si mosse, e prendendo, com’era sua abitudine, egli stesso l’iniziativa della guerra e l’offensiva, partì da Geronio, dirigendosi verso sud; lasciando da un lato Lucera, passò l’Ofanto e pree il castello di Canne (tra Canosa e Barletta) che dominava il piano canosino, e che fino allora aveva servito da magazzino principale dei Romani. L’esercito romano, il quale, dopo che Fabio ebbe deposta a metà d’autunno, a norma della costituzione, la carica di dittatore, era stato posto sotto il comando di Gneo Servilio e di Marco Regolo, prima come consoli, poi come proconsoli, non aveva saputo impedire quella piccola perdita.
Sia per riguardi militari sia per riguardi politici diveniva sempre più urgente la necessità di mettere un freno ai progressi di Annibale, per mezzo di una battaglia campale. Con questo preciso incarico del Senato giunsero all’Apulia i due nuovi generali Paolo e Varrone sul principio dell’estate 538 di Roma (corrispondente al 216 aC). Con le quattro nuove legioni e col corrispondente contingente degli Italici che essi portatono con sè, l’esercito romano ammontava a 80.000 fanti, metà cittadini e metà federati, ed a 6.000 cavalieri, un terzo cittadini e due terzi federati. L’esercito di Annibale invece vantava 10.000 cavalieri, ma soltanto 40.000 fanti.
Annibale desiderava ardentemente una battaglia non solo per i motivi generali già accennati, ma anche perchè la grande pianura dell’Apulia gli permetteva di utilizzare tutta la superiorità della sua cavalleria e perchè il mantenimento del suo grande esercito, stabilito vicino ad un eservito di piazzeforti, ben presto, nonostante la superiorità della cavalleria, gli sarebbe riuscito difficile.
Anche i capi dell’esercito romano erano, come dicemmo, in generale decisi di azzuffarsi e perciò si avvicinavano al nemico; ma i più avveduti, conoscendo la posizione di Annibale, volevano che si aspettasse e si prendesso soltanto posizione vicino al nemico per obbligarlo a ritirarsi o ad accettare battaglia su un terreno meno favorevole.
Annibale accampava presso Canne, sulla riva destra dell’Aufidus. Paolo mise il suo campo sulle due rive del fiume, in modo che la forza principale fosse sulla riva sinisra, ma un forte corpo prendeva pure posizione immediata sulla riva destra immediatamente di fronte al nemico, per impedirgli il vettovagliamento, e forse anche per minacciare Canne. Annibale, al quale premeva di venire presto a battaglia, attraversò il fiume col grosso delle sue truppe, e offrì battaglia sulla riva sinistra, ma Paolo non accettò.
Ma al console democratico spiacque questa pedanteria militare; si era detto tanto di voler entrare in campagna non per starvi a far da sentinella, ma per adoperarvi le spade! Egli comandò di marciare sul nemico dovunque lo si trovasse. Per l’antico costume, stoltamente conservato, il voto preponderante nel consiglio di guerra si avvicendava ogni giorno tra i due supremi comandanti: fu quindi necessario adattarsi alla volontà dell’eroe della piazza.
Sulla riva sinistra, dove l’ampio campo offriva buon gioco alla preponderante cavalleria del nemico, neppure egli voleva battersi; ma decise di riunire tutte le complessive forze romane sulla riva destra, prendendo posizione fra il campo cartaginese e Canne, e offrir battaglia minacciando seriamente la città.
Una divisione di 10.000 uomini rimase nell’accampamento principale romano, con l’ordine di impadronirsi del campo cartaginese durante il combattimento, tagliando così all’esercito nemico la ritirata oltre il fiume. Il grosso dell’esercito romano, coll’albeggiare del 2 agosto secondo il calendario nonriformato, forse nel mese di giugno secondo il calendario riformato, passò il fiume, scarso d’acqua in quella stagione, e che non impediva molto i movimenti delle truppe e si ordinò in linea all’occidente di Canne, vicino al campo minore romano, cui si appoggiavano tanto l’ala destra dei Romani, quanto l’ala sinistra dei Cartaginesi. La cavalleria romana stava ai lati, quella della milizia cittadina, meno valida e comandata da Paolo, a destra del fiume; quella dei confederati, più valida, a sinistra verso la pianura era guidata da Verrone. La fanteria in linee molto profonde comandate dal proconsole Gneo Servilio componeva il centro.
Annibale dispose la sua fanteria in semicerchio di fronte a quella dei Romani e in modo che le truppe celtiche ed iberiche, con la loro armatura nazionale, formassero il centro avanzato; le libiche, armate alla romana, le due ali ripiegate. Verso il fiume si spiegò tutta la cavalleria pesante sotto gli ordini di Asdrubale; verso la pianura la cavalleria leggera numidica.
Dopo un lieve combattimento di avamposti fra le truppe leggere, tutta la linea si trovò impegnata nel combattimento. Dove combatteva la cavalleria leggera dei Cartaginesi contro la cavalleria pesante di Varrone, le cariche dei cavalieri numidici si succedevano le une alle altre senza riuscire a un risultato decisivo. Nel centro invece le legioni respinsero del tutto le truppe iberiche e le galliche che prima scontrarono, e approfittando del vantaggio ottenuto, le inseguirono animosamente.
Ma intanto la fortuna aveva volto le spalle ai Romani sull’ala destra. Annibale aveva solo voluto tenere occupata l’ala sinistra della cavalleria nemica, perchè Asdrubale potesse spiegarsi con tutta la cavalleria regolare contro la debole ala destra e respingerla per la prima. Dopo una breve resistenza i cavalieri romani piegarono e quelli che non furono tagliati a pezzi, furono cacciati all’insù del fiume e dispersi nella pianura; Paolo, ferito, cavalcò verso il centro dell’esercito volendo cambiare la sorte delle legioni e condividerla con esse. Per trarre maggior profitto dalla vittoria riportata contro l’avanzata fanteria nemica, le legioni avevano cambiata la loro fronte in una colonna d’attacco che penetrava in forma di cuneo nelle file del centro nemico. Da questa posizione esse furono assalite con impeto dai due lati della fanteria libica che, convergente, si avanzava a destra e a sinistra; una parte delle legioni fu costretta a fermarsi per difendersi contro gli attacchi di fianco per cui, non solo le fu impedito di avanzare, ma la massa della fanteria, ordinata in file troppo profonde, non ebbe assolutamente lo spazio per svolgersi.
Intanto Asdrubale, finito il suo compito sull’ala comandata da Paolo, raccolse e riordinò i cavalieri, e passando dietro il centro nemico, li condusse verso l’ala comandata da Verrone. La cavalleria italica messa già abbastanza alle strette dai Numidi, sorpresa da nuove forze si disperse definitivamente. Asdrubale lasciando ai Numidi la cura di inseguire i fuggitivi, riordinò per la terza volta i suoi squadroni coi quali prese alle spalle la fanteria romana.
Questo ultimo colpo fu decisivo. La fuga era impossibile e non si dava quartiere; non c’è dorse altro esempio di un esercito tanto numeroso distrutto interamente sul campo stesso di battaglia e con sì lieve perdita dell’avversario, come fu dell’esercito romano presso Canne.
Le perdite di Annibale non superavano i 6.000 uomini, due terzi dei quali erano Celti che sostennero il primo urto delle legioni. Dei 76.000 Romani, invece, che erano schierati in battaglia, 70.000 morti coprivano il campo, fra i quali il console Lucio Paolo, il proconsole Gneo Servilio, due terzi degli ufficiali superiori, 80 senatori. Il console Marco Verrone soltanto si salvò per la sua repentina risoluzione e per la velocità del suo destriero che lo portò a Venosa ed ebbe l’animo di sopravvivere. Anche i 10.000 uomini di presidio nel campo romano furono per la gran parte fatti prigionieri: solo alcune migliaia fra le truppe di presidio e dell’esercito scamparono in Canusio. E come se in quell’anno ogni cosa dovesse andar perduta per Roma, la legione spedita nella Gallia cadde in un agguato prima ancora del termine dell’anno, e fu interamente distrutta dai Galli insieme col suo comandante Lucio Postumio, che era stato eletto console per l’anno seguente. (T. Mommsen)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Dopo la battaglia di Canne

La sera stessa della battaglia di Canne, il comandante dei cavalieri numidi, si era presentato ad Annibale: “Lasciami andare con la sola cavalleria” gli disse, “e fra cinque giorni tu banchetterai in Campidoglio”.
Ma il Cartaginese pensava altrimenti. Il suo esercito era piccolo, nè egli poteva facilmente colmarne i vuoti; non aveva macchine d’assedio, e Roma era cinta da potenti mura. E poi era certo che il solo suo apparire alle porte della città, anzicchè scoraggiare i Romani, li avrebbe eccitati ad agire.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Roma dopo Canne

Giunta in Roma la notizia di così grave sciagura, la città fu presa da tanto dolore che vennero interrotti gli annuali sacrifici di Cerere. I sacrifici non potevano essere celebrati da matrone in lutto e non c’era in tutta Roma una matrona che ne fosse esente! Per evitare che venissero trascurati gli altri sacrifici pubblici e privati, il Senato decretò che il lutto avesse termine dopo trenta giorni.
In tale occasione i Romani dettero prova di straordinaria forza d’animo e  di grande amor patrio.
Furono arruolati i giovani dai 17 anni in su, furono chieste milizie agli alleati, secondo le convenzioni, furono prelevati dai tempi e dai portici gli antichi trofei tolti ai nemici per provvedere armi, dardi e scudi. Poichè mancavano gli uomini liberi, furono arruolati 8.000 schiavi, scelti tra i più valorosi.
La sconfitta era veramente più grave di tutte le precedenti e lo dimostra il fatto che gli alleati cominciarono a disperare della salvezza di Roma e passarono alle file nemiche.
Ne il lutto generale ne le defezioni degli alleati indussero mai i Romani a parlare di pace, ne prima del ritorno in patria del console superstite (Terenzio Varrone) ne dopo il suo ritorno. In tale occasione, anzi, i Romani andarono incontro al console, che pure era stato la causa principale della disfatta, e lo ringraziarono perchè non aveva disperato della Repubblica. (da Tito Livio)

Costanza dei Romani

Nell’ultima fase della lunga guerra contro Cartagine i Romani passarono di disfatta, ma non cedettero mai alla sorte avversa e al valore dei nemici. Le donne romane offrirono oro, argento, gioielli, per sostenere lo sforzo della patria in pericolo.
Ma perchè questa costanza, questa volontà di vincere ad ogni costo? I Romani erano devoti alla patria e non esitavano ad affrontare la morta per difenderla. I soldati cartaginesi erano invece in massima parte mercenari e combattevano per guadagno.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Scipione l’Africano

Annibale vinceva sempre, ma era come chiuso in gabbia in Italia. I Cartaginesi non potevano mandargli rinforzi perchè i Romani sorvegliavano il mare. Dopo ogni battaglia, Annibale aveva un numero minore di soldati, di armi, di cavalli. Intanto i Romani, guidati dal generale Scipione, erano sbarcati in Africa e minacciavano la stessa Cartagine. Annibale fu richiamato in patria, ma a Zana subì la prima sconfitta, che segnò la fine della seconda guerra fra Roma e Cartagine. Questa volta i Romani, dopo aver vinto la guerra, vollero tutte le navi di Cartagine.
I Cartaginesi non potevano più commerciare attraverso il mare. Cartagine era ormai diventata una città senza importanza.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Scipione e gli elefanti

Publio Cornelio Scipione, nella battaglia di Zama, in Africa, vedendo i nemici dotati di elefanti, incolonnò i suoi soldati ordinando loro, quando avessero visto gli elefanti precipitarsi su di essi, di spostarsi in modo che gli animali si trovassero a percorrere una specie di corridoio. Così fu fatto: gli elefanti, giunti alle spalle dell’esercito romano, furono circondati e sopraffatti.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia di Zama

Annibale e Publio Scipione uscirono in campo con i loro eserciti e si prepararono alla battaglia: i Cartaginesi per la propria salvezza, i Romani per il dominio del Mediterraneo.
Scipione dispose le schiere del suo esercito in questo ordine: per primi gli astati e le loro insegne, a intervalli regolari; in seconda fila i principi; per ultimi i triari. Nell’ala sinistra schierò la cavalleria romana, in quella destra la cavalleria dei Numidi; quindi riempì gli intervalli della prima fila con le coorti di veliti, ordinando loro di accendere la zuffa e, qualora avessero dovuto cedere, di ritirarsi lungo la linea retta di intervallo, portandosi alle spalle dell’esercito.
Annibale schierò più di ottanta elefanti in prima fila, quindi i mercenari, circa 15.000, e dietro questi Cartaginesi e altri alleati africani. Assicurò poi le ali con la cavalleria.
Annibale diede ordine ai condottieri degli elefanti di attaccare, ma appena suonarono le trombe e i corni, alcuni elefanti, spaventati, indietreggiarono improvvisamente, creando un’indescrivibile confusione fra le schiere dei Cartaginesi. In quel momento la cavalleria romana attaccò, e le due falangi avanzarono, dapprima a passo lento e grave, poi emettendo alte grida e percuotenso gli scudi con le spade… Poichè entrambe le schiere erano uguali di numero, di valore e di armatura, la battaglia rimase a lungo indecisa e gli uomini morivano, ostinati, nello stesso luogo in cui combattevano… Infine la cavalleria aggirò Annibale e lo attaccò alle spalle, costringendo i Cartaginesi ad una precipitosa e disordinata ritirata.
In questa battaglia morirono oltre millecinquecento Romani e oltre ventimila Cartaginesi. (da Polibio)

Preghiera di Scipione

Dall’alto della sua nave, al cospetto delle sue truppe e del mare, il comandante volge al cielo la sua preghiera: “O dei e dee del mare e della terra, io chiedo a voi che ogni cosa da me fatta o che farò, sia propizia a me e  al popolo di Roma, ai nostri amici, a tutti coloro che parlano latino, a tutti quelli che ci seguono attraverso il mare, con il cuore e col pensiero. Proteggeteci; concedeteci di ritornare vincitori nelle nostre case”.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il trionfo di Scipione l’Africano

Dopo la sua magnifica vittoria su Cartagine, il Senato accordò a Scipione l’onore del Trionfo.
Il generale salì su un carro dorato, vestito di una toga di porpora ricamata d’oro, con ricchi bracciali ai polsi, la testa cinta dall’alloro, e un ramo di  alloro nella mano destra. Precedevano il carro i senatori, i trofei di guerra, i prigionieri incatenati, le insigne delle legioni vittoriose; lo seguiva tutto l’esercito, e ogni soldato teneva in mano un ramo d’alloro. Sul carro, in piedi dietro a Scipione, c’era uno schiavo che gli reggeva sulla testa una corona d’oro tempestata di gemme e che ripeteva continuamente queste parole: “Ricordati che sei un uomo”, Si ammoniva così il trionfatore di non insuperbire per tanti onori!
L’interminabile corteo sfilò fra ali acclamanti di popolo, mentre si cantavano inni di vittoria e si gettavano fiori.

Ultime parole di Scipione l’Africano

Scipione l’Africano, il vincitore della seconda guerra punica, venuto in sospetto ad alcuni suoi concittadini, sdegnosamente si ritrasse in una sua villa a Literno in Campania; passò il resto della vita intento agli studi, e prima di morire ordinò che sulla sua tomba si scrivessero queste amare parole: “Ingrata patria, non avrai le mie ossa”.
Morì in quell’anno stesso in cui il suo avversario Annibale moriva, esule, in Bitinia.

Morte di Annibale

Annibale, sino all’ultimo, non cessò di eccitare nemici contro Roma, fra cui Antioco; ma, vinto costui, si rifugiò presso Prusia, re di Bitinia, in Asia Minore, sul Ponto Eusino. I Romani inviarono ambasciatori a Prusia perchè consegnasse Annibale nelle loro mani. Allora Annibale, vedendo chiusa ogni via di scampo, bevve il veleno dicendo: “Liberiamo il popolo romano da questo suo incessante timore”.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE La terza guerra punica

Cartagine, vinta a Zama, era finita come potenza militare, ma ben presto rifiorì economicamente.
Essa rimaneva sempre lo sbocco principale dei prodotti africani; il suo porto era affollato di navi, i suoi frutteti, i vigneti, i campi erano tra i più lussureggianti del mondo.
Pur adempiendo scrupolosamente agli obblighi impostile dal trattato di pace, Cartagine sollevava sospetti e timori a Roma, espressi ripetutamente in Senato dall’ottantenne Catone il Censore (“Delenda est Carthago”, cioè “Bisogna distruggere Cartagine”).
L’occasione del conflitto fu offerta da Cartagine stessa, che stanca di subire le soverchierie di Massinissa, re della confinante Numidia, a un nuovo strappo di territorio gli mosse guerra, violando così le condizioni di pace dell’anno 201. I Romani allora sbarcarono in Africa, per punirla.
Sbigottiti, i Cartaginesi tentarono di placare il potente nemico, accettando tutte le sue condizioni: consegna di ostaggi e di tutte le armi e le navi da guerra. Ma, ottenuto ciò, i consoli intimarono ai Cartaginesi di sgomberare la città, la quale doveva essere distrutta; essi potevano costruirne un’altra, purchè non fortificata e distante dal mare almeno quindici miglia.
Il crudele comando provocò la disperata resistenza dei Cartaginesi, che difesero eroicamente, per due anni, la loro patria. Alla fine furono costretti ad arrendersi e Cartagine venne rasa al suolo. Sulle rovine della città i Romani sparsero del sale: ciò significava che essa non doveva più risorgere… e mai più risorse.
La luce di una grande civiltà si spegneva così nel Mediterraneo e si affermava sempre più quella di Roma.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Catone il Censore

Fra i Romani che maggiormente temevano il rifiorire di Cartagine c’era Catone il Censore. Costui diceva a tutti coloro con i quali parlava: “Cartagine deve essere distrutta”, ma i senatori non davano peso alle sue parole: pensavano infatti che Cartagine era lontana e non poteva dar noia.
Un giorno Catone capitò in Senato con un cesto di bellissimi fichi freschi. Invece di cominciare, secondo il suo solito, a dire: “Cartagine deve essere distrutta!”, si volse ai senatori e offrì quei frutti.
I senatori accettarono e mangiarono. Quando il cestino restò vuoto Catone, col suo miglior sorriso, domandò: “Erano buoni?”
Tutti risposero di sì: erano così freschi! Nella polpa rossa brillava persino una goccia zuccherina…
“Ebbene” dice Catone, facendosi improvvisamente serio, “ieri mattina pendevano ancora dall’albero, in un frutteto di Cartagine…”
I senatori si fecero pensosi: davvero Cartagine non è molto lontana da Roma… Se rialzasse la testa, sarebbe un guaio…
E ricordarono con angoscia Annibale quando scorrazzava per l’Italia.
Ricordarono con sgomento che, dopo Canne, accorsero sotto le armi anche giovinetti di tredici, quattordici anni, perchè gli uomini erano in gran parte morti.
Catone vide quei capi chini, quelle fronti corrucciate, e sorrise: finalmente aveva raggiunto il suo scopo; li aveva convinti.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Marco Porcio Catone

Quando il venerando Catone entrò nella curia, i senatori si levarono in piedi. Egli salutò reverente il simulacro della Vittoria e si avviò al suo seggio. Procedeva a fatica per i suoi ottantaquattro anni e con la sinistra teneva sollevato un lembo della toga, come vi chiudesse dentro un rotolo, con qualche nuovo discorso.
Invece, grande fu lo stupore del Senato quando egli trasse fuori alcuni fichi. “Questi frutti” disse “sono ancora freschi, eppure vengono da Cartagine. Cartagine è a soli tre giorni di viaggio da Roma. Bisogna distruggere Cartagine”.
Il Senato, che era stato a lungo perplesso, deliberò allora di intraprendere la terza guerra punica.
L’oratoria tagliente di Catone risonava ogni giorno in Senato e nel Foro: il popolo ripeteva i suoi motti scultorei e le sue amare ironie. Eletto censore, aveva dedicato i poteri inerenti alla carica a reprimere il lusso e la corruzione. La già esistente legge Oppia, che limitava appunto lo sfarzo delle matrone, era stata abolita; Catone non solo la ripristinò, ma la inasprì con tasse esorbitanti sulle vesti e suoi cocchi. Espulse dal Senato sette senatori che giudicò indegni di appartenervi.
Nella grande rassegna dei cavalieri, tolse a Lucio Scipione il cavallo troppo riccamente bardato.
Faceva guerra spietata a tutti gli abusi, e si procurò molte inimicizie. Fu accusato innanzi al popolo quarantaquattro volte, e sempre uscì assolto, meno una volta sola in cui dovette pagare una multa.
Quando, nella magra altissima statura, tanto indurito nelle fatiche da parere quasi legnoso, vestito semplicemente, passava riguardando con gli occhi acuti e bigi sotto la chioma rossa, tremavano tutti. Anima ferrea e tenace, fattasi un’opinione, non la mutava più.
Ora si era convinto che Roma non poteva avere un avvenire finchè il Mediterraneo fosse dominato da una potenza straniera e rivale. Perciò, di qualunque argomento parlasse, concludeva sempre il suo discorso con l’immancabile ritornello: “E poi bisogna distruggere Cartagine”.
Cartagine aveva cacciato Annibale, che si era spento lontano dalla patria; ma a lui erano sopravvissuti i suoi saggi ordinamenti. La potenza punica, prostrata dalle armi romane a Zama, era pur rifiorita per virtù dei commerci; e i navigatori cartaginesi avevano di nuovo rannodato con i traffici tutti i ricchi mercati d’Oriente.
Sotto l’assillo di Catone, che usava l’eloquenza allo stesso modo del pungolo, il Senato romano finì col proeccuparsi di così rapida minacciosa resurrezione; la terza guerra punica sarebbe stata decretata. (G. Brigante Colonna)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Distruzione di Cartagine

La battaglia feroce, incessante tra il fumo, le fiamme e il chiarore sanguinoso delle fiaccole durò sei giorni. Squadre di zappatori con accette e ramponi precedevano i manipoli d’assalto, spianando le rovine e seppellendo sotto di queste i cadaveri, i feriti, i caduti. Scipione non prese mai sonno nè riposo; combattendo come semplice soldato, sempre presente là dove poteva esserci bisogno della sua azione e della sua parola.
All’alba del settimo giorno la resistenza cartaginese era schiacciata, la battaglia finita, e una lugubre ambasceria di cittadini si recò dal console ad offrire la resa della superstite popolazione, senz’altra condizione che quella di aver salva la vita. Scipione acconsentì, facendo un’unica eccezione per i disertori romani. E allora, mentre le ultime superstiti rovine di quella che era stata Cartagine bruciavano lentamente e si rovesciavano al suolo, crosciando e crepitando, i vincitori videro sfilare dinanzi a sè circa 25.000 donne ed altrettanti uomini, che si recavano prigionieri verso il campo romano, destinati a finire la vita come schiavi in tutte le contrade del mondo antico.
Vi mancarono Asdrubale e la sua famiglia e circa 900 disertori, i quali, si erano trincerati nell’atrio del tempio di Esculapio decisi a resistere fino all’estremo. Fu intorno a questo antico, superbo edificio, che si accanì nei giorni successivi la furia degli assalitori. Alla fine anche l’orgoglio e la ferocia del generale punico caddero; e mentre tutti i suoi compagni, fatti irriconoscibili dalla stanchezza e dalla sofferenza, si rifugiavano nel tempio, e alcuni salivano sul tetto, decisi a disputare fino in fondo la vita, egli, distaccatosi dagli altri, andò a gettarsi ai piedi di Scipione, invocando pietà. Coloro che ancora si battevano, appiccarono con le loro stessa mani il fuoco all’edificio e perirono tutti sotto le sue rovine.
Così finiva Cartagine. Dalla sua tenda Scipione contemplò fra nugoli di polvere quell’estremo angolo della città punica che si sfasciava; pensava a Roma, alla sua patria, forse destinata a una non meno gigantesca rovina. (C. Barbagallo)

Mediterraneo, mare nostro

Nello stesso anno della distruzione di Cartagine, Roma sottometteva anche la Grecia. Ebbe così il predominio sul Mar Mediterraneo. I Romani, guardando questo mare, potevano ormai dire orgogliosamente: “Mediterraneo, mare nostro”.

L’esercito romano

Chi combatteva. Tutti i cittadini romani, sia patrizi che plebei, dovevano prestare il servizio militare. La chiamata alle armi si faceva solo in caso di guerra, finita la quale i soldati tornavano a casa. Erano chiamati alle armi gli uomini dai diciassette ai sessant’anni. I soldati non solo non erano pagati, ma dovevano equipaggiarsi a loro spese. Perciò i più ricchi formavano la cavalleria, gli altri la fanteria.
Il generale Caio Mario, quando riorganizzò l’esercito, stabilì invece che i soldati fossero equipaggiati a spese dello stato e ricevessero una paga.

Come era organizzato l’esercito.  Normalmente si formavano due eserciti, uno per ogni console, ed ogni esercito era composto da un dato numero di legioni, che variava secondo il bisogno. Ogni legione aveva 4.200 fanti e 3.000 cavalieri: la legione era divisa in 10 coorti,  ogni coorte in 3 manipoli, ogni manipolo in due centurie.
A capo di tutto l’esercito era un console, assistito da due o più legati, specie di aiutanti di campo; la legione era comandata da un tribuno militare; il manipolo da un centurione maggiore; la centuria da un centurione minore.

Come si schierava l’esercito sul campo di battaglia. L’esercito romano si schierava a battaglia nel seguente modo: nella prima linea c’erano gli astati, cioè i fanti armati di lancia, che erano scelti fra i più giovani. Nella seconda linea stavano i principi, cioè i fanti dotati di armi pesanti. Nella terza linea i triari, cioè i fanti anziani.
Le tre linee erano disposte a scacchiera, in modo che i vuoti della prima linea corrispondessero agli spazi occupati dalla seconda e i vuoti della seconda occupati dalla terza. Ciò serviva per evitare la rottura dello schieramento, qualora i soldati delle prime linee fossero stati costretti ad indietreggiare.
La cavalleria era usata per l’esplorazione e per l’inseguimento dei nemici in fuga.

Le armi dei legionari. Le principali armi difensive erano la galea, elmo di pelle; lo scudo, di legno e di pelle che il soldato imbracciava al lato sinistro; la lorica o corazza, formata di lamine d’acciaio, disposte a scaglie, che difendevano le spalle e il petto; gli schinieri, gambali. Sotto la corazza, il legionario vestiva una corta tunica.
Le principali armi di offesa erano il pilo o giavellotto, con l’asta e la punta di ferro per combattere a distanza; il gladio e una specie di daga, spada corta e piatta che si adoperava nella lotta corpo a corpo.

Le macchine militari. Molte erano le macchine militari usate in guerra dai Romani. La torre permetteva ai soldati di salire, difesi e coperti, fino all’altezza delle mura nemiche  e di muovere decisamente all’attacco di esse. La testuggine era una specie di capanna coperta da pelli di animali: così difesi dalle frecce che venivano scagliate dalle mura nemiche, i soldati potevano portarsi fin sotto le mura stesse, per attaccarle poi con l’ariete. La catapulta serviva per lanciare pietre dal basso verso l’alto, a mezzo di una fune che veniva tesa e lasciata andare di scatto. Qualche volta contro il nemico venivano lanciate anche frecce incendiarie. L’ariete era costituito da una robusta trave che terminava con un massiccio pezzo di ferro, generalmente a forma di testa di ariete; la trave, sospesa ad una impalcatura, serviva ad aprire brecce nelle mura nemiche.

L’accampamento. L’accampamento romano aveva forma quadrata, ed era circondato da un terrapieno, da una palizzata e da un fossato di circa 3 m di profondità e largo 4 m. Aveva quattro porte: quella che si trovava di fronte all’accampamento nemico si chiamava pretoria; quella della parte opposta, decumana. La tenda del comandante sorgeva vicino alla porta decumana, affiancata dalla tenda dei questori, dei tribuni e dei luogotenenti. Le tende dei soldati erano allineate dentro l’accampamento ed erano di cuoio o di tela.

La disciplina dell’esercito. Punizioni e premi.

Severa era la disciplina. Il comandante aveva diritto di vita e di morte su ogni soldato. Con la morte venivano punite le colpe più gravi, come l’insubordinazione. Altre pene erano la flagellazione con le verghe, la degradazione e, per colpe collettive, la decimazione. Se una legione fuggiva davanti al nemico, era decimata, vale a dire, su ogni dieci soldati si estraeva a sorte un uomo, e quelli designati dalla sorte erano decapitati.
Molte le ricompense che si davano ai valorosi: corone, medaglie. La suprema ricompensa a un console, dopo una grande vittoria era il trionfo, decretato dal Senato. Quando la vittoria era meno grande, si accordava al generale vincitore un trionfo meno solenne, detto ovazione, perchè, in luogo del toro si sacrificava agli dei una pecora (ovis).
Più tardi i Romani eternarono le imprese dei loro generali con monumenti, colonnne ed archi trionfali.
Ogni soldato portava il proprio bagaglio personale: gli altri bagagli erano caricati sui carri. L’esercito, in marcia, durante le tappe costruiva l’accampamento (castra).

La paga dei soldati

Lo stipendium istituito nel 406 aC era pagato anno per anno, e al tempo di Pobilio arrivava a 2 oboli al giorno per un soldato di fanteria. I centurioni avevano il doppio, e i cavalieri il triplo di questa somma.
Non si conosce quale fosse lo stipendio assegnato agli ufficiali superiori; sappiamo di certo che i tribuni non erano pagati. Le spese del vitto e dell’armatura erano tolte dalla paga.
La maggior parte della preda di guerra era distribuita tra i soldati e gli ufficiali; ed ognuno ne riceve una parte proporzionata allo stipendio. (G. Decia)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA – dettati ortografici e letture

Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici su Roma Rebubblicana, di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

La presa di Veio

Per impadronirsi di Veio, M. Furio Camillo fece scavare una galleria sotterranea che dall’accampamento romano conducesse alla cittadella nemica; senza interruzione fu continuata l’incessante fatica sottoterra, giorno e notte.

Quando il lavoro fu compiuto e solo un sottile diaframma mancava da abbattere, Camillo ordinò di prendere le armi e pregò: “Oh Apollo Delfico, da te ispirato, mi accingo a distruggere la città di Veio; tua sia la decima parte delle prede. E te, Giunone Regina, patrona di Veio, prego di seguirci nella nostra città, che fra poco sarà anche tua; lì avrai per dimora un bellissimo tempio”.

Dopo avere così pregato, fece assaltare la città da tutte le parti per sviare l’attenzione di Veienti dalla cittadella, dove si erano frattanto ammassati i soldati romani.

Lontani erano i Veienti dal sospettare che la cittadella fosse già piena di nemici pronti ad assalirla dal di dentro, e grandemente si meravigliarono che i Romani, come presi da improvviso furore, corressero all’impazzata verso le mura, mentre i giorni prima nessuno di essi si era mosso dai corpi di guardia.

Si racconta che mentre il re di Veio faceva il sacrificio, i Romani appostati nella galleria udissero l’augure dire che vittorioso sarebbe stato chi, primo, avesse tagliato le interiora della vittima, e che allora essi infrangessero l’ultimo diaframma del cunicolo e s’impadronissero delle interiora dell’animale sacrificato, per portarle al loro comandante.

Dalla galleria i soldati romani irruppero nel tempio di Giunone, posto nella cittadella; quindi, divelte le porte, si rovesciarono nella città, corsero sulle mura e, sbarazzatele dei difensori, sfondarono le porte. Come fiumana entrarono gli assedianti e in breve Veio fu piena di nemici. Lotta accanita e immensa strage di armati e di inermi fu in ogni strada. Poi si sedò il furore del combattimento e Camillo, per mezzo degli araldi, dette ordine di risparmiare gli inermi.

Alla vittoria seguì il saccheggio della fiorentissima Veio. Anche le ricchezze degli dei fecero parte del bottino e le stesse divinità, sebbene di esse si impadronissero i Romani più come adoratori che come saccheggiatori. Giovani romani, dal corpo mondo, bianco vestiti, entrarono riverenti nel tempio di Giunone Regina: “Vuoi venire a Roma?” le chiese uno di essi. E la dea, così videro e gridarono gli altri, fece cenno di consentire e docile seguì i movimenti di coloro che la portavano. Ad essa fu data dimora nell’Aventino, dove i voti del duce romano l’avevano chiamata.

Ebbe così fine Veio, la più fiorente città degli Etruschi, grande anche nella rovina. Per dieci estati e dieci inverni aveva retto ad ininterrotto assedio e inflitte più perdite di quante ne avesse subite. Alla fine piegava al destino, più che alla possanza degli uomini; all’astuzia, più che alla forza. (Tito Livio)

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Culto e sacerdozio presso i Romani

A capo del culto era il Collegio dei Pontefici, eletti dal Re, in seguito dai Comizi: compilavano il calendario, stabilendo i giorni consacrati al culto (dies festi) e quelli concessi agli uomini per il disbrigo dei loro affari o ai giudici per l’amministrazione della giustizia (dies fasti). Erano i depositari dei libri sacri e registravano in una specie di cronaca gli avvenimenJti più importanti (Annales Pontificum). Questo collegio era presieduto dal Pontefice Massimo, il capo della religione romana.

Gli Auguri interpretavano la volontà degli dei dai segni celesti (lampo, tuono, fulmine), dal volo o dal canto degli ucceli e dal modo come i polli ingozzavano il becchime. Essi erano consultati negli atti più importanti della vita pubblica, specialmente in caso di guerra.

L’arte degli Auguri era detta divinazione. Quella parte della divinazione che riguardava l’esame delle viscere degli animali sacrificati e l’interpretazione dei sogni, spettava ad altri sacerdoti detti Aruspici, quasi tutti di nazionalità etrusca.

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Ingiustizie contro i plebei

Alle guerre combattute da Roma prendevano parte tutti i cittadini, fossero essi patrizi o plebei. In caso di vittoria, però, il bottino veniva diviso solo tra i ricchi. Così, mentre i patrizi vedevano aumentare le loro ricchezze, i plebei, già poveri, cadevano sempre più in miseria. Essi avevano dovuto lasciare il loro piccolo campo. Se la guerra scoppiava quando era tempo di seminare, l’aratro restava nei solchi, la semente nei sacchi e in breve ogni sorta di erbacce cresceva al posto del buon grano. Se la guerra scoppiava quando era tempo di raccogliere, le spighe aspettavano invano la falce del mietitore. Quando i plebei tornavano alle loro case, la madia era vuota e il fuoco spento. Molti di essi, che avevano speso tutto il loro denaro per acquistare le armi, non avevano di che comprare un asinello o un bue che li aiutasse nel lavoro, e talvolta, nell’impossibilità di pagare i debiti, diventavano schiavi dei patrizi.

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La secessione della plebe

Uno stato così ingiusto di cose non poteva durare a lungo. I plebei andavano chiedendo una riforma delle leggi sui debiti e sulle distribuzioni dell’Agro pubblico, ma le promesse ripetute alla vigilia di una guerra, quando occorreva il braccio dei plebei, non erano poi mantenute alla fine della guerra stessa. Indignata, la plebe nel 494 decise di abbandonare il lavoro e il servizio militare; si stabilì su una collina distante pochi chilometri dalla città, che prese poi il nome di Monte Sacro, per fondarvi una nuova città. Dal verbo secedere (appartarsi), questo atto fu detto secessione. I patrizi furono quasi contenti della partenza dei plebei, ma presto si accorsero che essi erano indispensabili, perchè sapevano cuocere il pane, coltivare i campi, fabbricare armi, costruire le case e le strade. Del resto la secessione era un’arma a doppio taglio che, provocando la rovina della città, avrebbe travolto anche la plebe. Perciò il Senato decise di mandare, per intavolare trattative, un patrizio onesto ed amato dai plebei, Menenio Agrippa, che con la sua autorità ed eloquenza riuscì a placare i ribelli. Si venne ad un accordo. I plebei ottennero migliori condizioni e, cosa molto importante, potrono nominare due loro rappresentanti: i tribuni della plebe, che avevano grande autorità e difendevano, in ogni occasione, gli interessi del popolo.

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I Tribuni della plebe

I Tribuni, due da principio, ma poi accresciuti fino a dieci, e sempre plebei, avevano il compito di difendere la plebe da ogni violenza dei patrizi. Essi avevano infatti due diritti: il diritto di aiuto (ius auxiliii), per cui soccorrevano ogni plebeo che ne facesse richiesta, e il diritto di veto (ius intercedendi), per cui potevano impedire l’esecuzione di qualunque legge che ritenessero nociva ai plebei, solo pronunciando la parola veto (impedisco).

I nuovi magistrati, dichiarati inviolabili, avevano un’autorità morale grandissima e la plebe era pronta a difenderli con ogni mezzo.

Nei due secoli successivi (493-300 aC) i Tribuni, persistendo nel loro programma di rivendicazioni, vincendo l’ostilità e le resistenze del patriziato, riuscirono ad ottenere i desiderati miglioramenti economici e la completa uguaglianza politica, senza atti rivoluzionari violenti, restando sempre nel campo della legalità.

Il Senato era indignatissimo contro questa istituzione: avverso era soprattutto l’arrogante patrizio Coriolano che, non volendo sottostare al giudizio dei Tribuni, dovette lasciare Roma. Assetato di vendetta, si rifugiò presso i Volsci, che erano allora in guerra con Roma, e si pose a capo del loro esercito, guidandolo contro la sua stessa patria. Solo le preghiere della madre lo fecero desistere dalla sua scellerata impresa. I Volsci, come traditori, lo uccisero.

I Tribuni della plebe erano eletti nei primi tempi nei Comizi Centuriati, nei quali la maggioranza dei voti era assicurata ai più ricchi. Dal 471 i Tribuni si cominciarono ad eleggere nei Comizi Tributi. Questi erano formati da rappresentanti delle varie tribù, che erano partizioni territoriali della città abitate insieme da patrizi e da plebei, ma dove i plebei prevalevano numericamente. I patrizi, in principio, benchè invitati, non vollero parteciparvi, ma finirono poi col riconoscere la legalità dei Comizi stessi.

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I ragazzi dell’antica Roma

I ragazzi aiutavano i padri perchè il lavoro dei campi era la loro unica e vera scuola, il loro unico e vero sport. I padri approfittavano dell’occasione per insegnare loro che il seme dava buon frutto solo quando il cielo mandava acqua e sole; e che il cielo mandava acqua e sole quando gli dei lo volevano e che gli dei lo volevano solo quando gli uomini avevano compiuto il loro dovere verso di essi. E che il primo dovere consisteva nell’obbedienza, dei giovani ai vecchi. (I. Montanelli)

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Roma: storia e leggenda

Dopo la cacciata dei re etruschi sembrò che Roma dovesse scomparire perchè fu assalita da tutti i popoli vicini. Ma proprio in questo momento la storia di Roma racconta le più belle imprese dei suoi soldati. Si tratta di uomini coraggiosi, che amano la loro città e sono molto tenaci, cioè non si scoraggiano se subiscono una sconfitta, ma tornano a combattere ancora fino alla vittoria. In questo periodo i Romani furono veramente sconfitti molte volte, ma alla fine furono loro i vincitori. Le imprese dei loro migliori soldati e cittadini, abbellite, per l’ammirazione che esse avevano destato, furono raccontate dai padri ai figli, ai nipoti, finchè divennero racconti in cui è difficile distinguere ciò che è vero da ciò che solo inventato.

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La Repubblica romana

L’ultimo dei sette re, Tarquinio, meritava davvero i soprannome di Superbo. Era anzi peggio che superbo: era crudele, ingrato e prepotente. I Romani lo sopportarono per un po’ di tempo, ma poi, stanchi dei continui soprusi, lo cacciarono dal trono instaurando la Repubblica. A capo di Roma repubblicana c’erano due magistrati, chiamati consoli, i quali venivano eletti dal popolo. I Consoli duravano in carica un anno: essi comandavano gli eserciti ed amministravano la giustizia. Ad assistere i Consoli c’era il Senato. Quando lo Stato era in pericolo per un’invasione esterna o per torbidi interni, il Senato nominava un dittatore, che però durava in carica soli sei mesi. Il dittatore era padrone assoluto durante quei sei mesi, ma alla fine di essi doveva rendere contro al Senato delle sue azioni.

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Guerre contro gli Etruschi, i Latini, i Volsci e gli Equi

I primi anni della Repubblica furono funestati da continue guerre. La prima fu quella di Tarquinio, che per riprendere il trono si alleò col re etrusco Porsenna. I Romani, dapprima sconfitti, riuscirono a riportare finalmente una vittoria decisiva, che costrinse gli Etruschi ad abbandonare l’impresa. I Romani dovettero combattere anche contro i Latini e contro i Volsci e gli Equi, popolazioni del Lazio. Solo dopo lunghe e sanguinose lotte riuscirono a vincerli e a sottometterli. Durante la guerra contro gli Equi si distinse il dittatore Lucio Quinzio Cincinnato il quale, sconfitto il nemico, rifiutò la gloria e gli onori e ritornò a lavorare il suo campicello.

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I consoli

Il governo della Repubblica romana fu affidato a due consoli. I consoli erano eletti dai Comizi Centuriati, e duravano in carica un anno; conducevano l’esercito in guerra, convocavano i comizi per l’approvazione delle leggi che essi stessi avevano proposto, ed esercitavano anche il potere giudiziario, punendo i trasgressori. Erano preceduti dai littori, sei per ciascuno, che portavano i fasci, l’insegna del loro comando, formati di verghe strette insieme a cui era unito il manico di una scure: in guerra e fuori della città i consoli potevano condannare a morte i soldati e per questo sui fasci era infissa la scure, ma in città essa era tolta perchè la condanna non spettava ai consoli.

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Altri magistrati di Roma repubblicana

Altri magistrati erano: i questori, o tesorieri dello Stato, che riscuotevano i tributi e pagavano, secondo gli ordini dei consoli; i pretori, che giudicavano le cause civili; i censori, incaricati di eseguire ogni 5 anni il censimento e di vigilare sui costumi; gli edili, che sovraintendevano ai mercati, ai giochi pubblici, alla pulizia, ecc… In caso di pericolo dello Stato, o per una guerra esterna o per una rivolta, si nominava, in luogo dei consoli, un dittatore, che aveva pieni poteri, ma durava in carica poco tempo, al massimo sei mesi.

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Cincinnato, il vincitore degli Equi

Un messaggero arriva coperto di polvere e si dirige a spron battuto verso la Curia, dove sono riuniti i Senatori di Roma. Egli reca gravi notizie: gli Equi hanno battuto l’esercito romano e lo hanno circondato sul monte Algido. Il console potrà resistere solo per alcune ore. I Padri si consultano brevemente; poi decidono: Cincinnato è eletto dittatore. Egli è al di là del Tevere, intento ad arare con due magri buoi il suo campicello. Cincinnato accetta la carica suprema; indossa la toga bianca, corre a Roma ed ordina: “Tutti gli uomini validi si presentino armati al Campo Marzio ed ognuno porti tre pali lunghi nove piedi”. A notte l’esercito si mette in marcia verso il monte. Il campo nemico viene circondato ed ogni soldato pianta in terra i suoi pali, formando rapidamente una immensa palizzata, dentro la quale sono chiusi gli Equi. Al mattino le trombe annunciano ai soldati del console che i soccorsi sono giunti ed una pioggia di frecce provenienti da due direzioni si abbatte sugli incauti nemici. La vittoria è completa. Gli Equi si arrendono. Cincinnato ha salvato Roma e torna a seminare il grano nei solchi aperti dai due magri buoi. (da Tito Livio)

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Orazio Coclite

Tarquinio il Superbo, fuggito da Roma, si rifugiò presso il suo amico etrusco Porsenna e lo convinse a far guerra alla città che lo aveva cacciato. Porsenna marciò con un grande esercito contro Roma. Egli arrivò d’improvviso con i suoi cavalieri alla riva del Tevere, oltre il quale si estendeva Roma con le sue piccole case, i suoi templi, le sue mura. Pareva una città facile ad essere conquistata. Sul Tevere c’era un ponte di legno che univa le due rive del fiume e portava in città. Porsenna stava per attraversarlo con i suoi soldati, quando un giovane di nome Orazio Coclite si lanciò sul ponte e cominciò a combattere con terribili colpi di spada. Gli Etruschi, che non s’aspettavano tanta resistenza da un uomo solo, ripiegarono un poco. Intanto, alle spalle di Orazio Coclite, alcuni suoi compagni tagliarono con le asce il ponte Sublicio fino a che esso crollò. Orazio Coclite si gettò allora nel fiume e raggiunse a nuoto la riva. Roma era salva per il valore del giovane eroe.

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Muzio Scevola

Il re Porsenna allora decise di assediare Roma. Mise perciò i suoi soldati attorno alla città per impedire che vi arrivassero degli aiuti. In Roma scarseggiava, ormai, il frumento per gli abitanti, gli animali morivano per mancanza di erba. L’acqua dei pozzi era poca e guasta. Un altro giovane, Gaio Muzio, offerse la propria vita per la città. Egli lasciò i suoi cari e gli amici e tutto solo si diresse verso gli accampamenti degli Etruschi per uccidere il loro re. Entrato nella tenda di Porsenna, vide molti guerrieri che stavano parlando con un uomo che indossava ricche vesti. Gaio Muzio credette fosse il re e lo uccise. Egli fu subito arrestato e condotto davanti a Porsenna. Quando Gaio Muzio s’accorse di aver sbagliato, stese il braccio destro su un braciere che ardeva nella tenda e disse: “O re, punisco il mio braccio perchè ha sbagliato, ma sappi che trecento giovani romani hanno giurato, come me, di ucciderti”. Il re, ammirato, lasciò libero Gaio Muzio il quale tornò a Roma ed ebbe grandi onori. Egli fu, da allora, chiamato Scevola, cioè mancino.

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Clelia

Tra gli ostaggi che i Romani avevano dovuto consegnare a Porsenna c’era Clelia, una fanciulla di nobile famiglia. Ella riuscì a fuggire a cavallo dal campo etrusco e, passato a nuoto il Tevere, giunse a Roma. I Romani, anche se a malincuore, la rimandarono da Porsenna perchè volevano rispettare i patti. Il re etrusco, meravigliato per la lealtà dei suoi nemici, tolse l’assedio e ritornò nel suo regno.

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La vittoria del lago Regillo

Dopo che Roma ebbe concluso la pace con Porsenna, le città latine, istigate da Tarquinio il Superbo, si unirono fra di loro e le dichiararono guerra. Tuttavia, presso il lago Regillo, vennero sconfitte e le loro terre divennero dominio di Roma.

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Coriolano

Un nobile generale romano, Caio Muzio detto Coriolano perchè aveva conquistato la città di Corioli, per un grave dissenso con la plebe e col Senato fu costretto a lasciare Roma. Rifugiatosi presso il popolo dei Volsci, che erano nemici dei Romani, Coriolano, vendicativo e fiero, li incitò contro la sua città e marciò egli stesso in testa al loro esercito verso Roma. Quando il Senato seppe che i Volsci erano accampati a poche miglia dalla città, mandò degli ambasciatori per placare Coriolano; ma non ottennero nulla. Andarono poi dei Sacerdoti: inutilmente. Allora s’avviò verso il campo dei Volsci Volumnia, la madre, con la sposa ed i figlioletti di Coriolano che, quando vide sua madre, le andò incontro per abbracciarla. La madre, invece, lo fermò con un gesto e con queste parole: “Dimmi prima se sei mio figlio o il nemico della mia patria”. Coriolano abbassò il capo, si commosse, poi, abbracciando la mamma esclamò: “Madre mia, tu salvi Roma, ma perdi tuo figlio”. Difatti Coriolano fece subito cessare l’avanzata dell’esercito verso Roma, ma fu per questo ucciso dai Volsci.

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La casa romana

Le modeste abitazioni romane dei primi tempi divennero ville e palazzi eleganti. Le case furono lussuosamente ammobiliate con mobili ornati di bronzo e provvisti di coperte. I treppiedi, i bracieri, gli scaffali, le anfore abbellivano ogni stanza, ogni angolo. Ecco la casa di una ricca famiglia romana. Entriamo nell’atrio: aria e luce arrivano da un’apertura sul tetto; se piove l’acqua si raccoglie nell’impluvio. Il padrone e gli ospiti escono dal triclinio, dove hanno banchettato, e si recano nel peristilio, un cortile luminoso e verde come un giardino.

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I patrizi e i plebei

Fin dai tempi di Romolo, la cittadinanza romana fu divisa in patrizi e plebei, cioè in ricchi e poveri. I patrizi, divisi in dieci curie, avevano tutti i privilegi: soltanto essi potevano diventare senatori e occupare le massime cariche dello stato. E sempre ai patrizi spettava amministrare la giustizia, dichiarare la guerra e comandare i soldati. I plebei dovevano solo ubbidire e lavorare il loro campicello, che spesso erano costretti a vendere per pagare i debiti. Se non bastavano i pochi averi per pagare i debiti, divenivano schiavi dei patrizi.

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Come vivevano i patrizi

Il patrizio romano si alzava al mattino presto. Dopo essersi abbigliato, usciva dalla sua stanza e si recava nel vestibolo, dove stavano ad attenderlo i clienti. Questi erano cittadini devoti alla sua famiglia, che gli prestavano dei piccoli servigi e gli tenevano compagnia, ricevendo in cambio un obolo quotidiano. Seguito dai clienti il patrizio usciva per recarsi a far visite o per passeggiare. Si recava al Foro, per discutere di politica e per ascoltare gli oratori o i pubblici lettori. A mezzogiorno il patrizio rientrava in casa per consumare una colazione leggera, alla quale seguiva un breve riposo. Si recava quindi al bagno nella pubblica piscina, e verso le tre del pomeriggio era di nuovo in casa per il pasto principale della giornata. Dopo il pranzo il patrizio si fermava a tavola per conversare con gli ospiti o per giocare a dadi. Usciva quindi per l’ultima passeggiata o per recarsi al “Campo di Marte” per gli esercizi ginnastici o agli spettacoli nei teatri o nei circhi. Alla sera c’era un altro pasto, che spesso si prolungava fino a notte inoltrata.

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Come vivevano i plebei

I plebei abitavano in case comuni, altre quattro o cinque piani ed anche più; spesso il loro alloggio consisteva in un solo locale arredato modestamente: pagliericci per dormire, mensole per le stoviglie, una tavola e alcuni sgabelli. Anche le loro vesti erano modeste: normalmente indossavano un semplice mantello senza maniche, di lana o di pelle, oppure la “lacerna”, una specie di tunica, con cappuccio. Ai piedi portavano i sandali con la suola di cuoio o gli zoccoli. I plebei si dedicavano a qualche lavoro di artigianato o servivano nelle botteghe. La maggioranza dei plebei però conduceva una vita oziosa e passava gran parte della giornata a vagabondare per le strade o a giocare ai dadi nelle osterie. I plebei possedevano pochissimo denaro, ma in compenso la vita a Roma costava poco, inoltre spesso i patrizi facevano distribuzioni gratuite di grano: questo avveniva soprattutto alla vigilia delle elezioni, allo scopo di attirarsi le simpatie dei plebei ed averne il voto.

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Gli schiavi

Dapprima Roma aveva soltanto pochi schiavi, quasi tutti prigionieri di guerra impiegati nei lavori agricoli. Ma con le conquiste e l’arricchimento dei cittadini, Roma vide affluire dentro le sue mura immense schiere di schiavi e i mercanti specializzati ne conducevano sempre di nuovi. Gli schiavi venivano venduti in un mercato vicino al Foro. Li presentavano in piedi su un palco, con un cartello appeso al collo, in cui era scritto il nome, l’origine e le capacità di ognuno. La gente girava intorno, saggiava i loro muscoli, li interrogava per capire se erano intelligenti o tonti, mentre il mercante si dava da fare per vantare immaginarie virtù e per nascondere difetti. Gli schiavi non avevano alcun diritto: erano considerati come cose e si potevano comprare, vendere, picchiare, mutilare, uccidere senza che nessuno lo potesse impedire. Non potevano sposarsi e le schiave che avevano dei figli non avevano il diritto di allevarli: il padrone glieli poteva togliere quando voleva, perchè anch’essi erano schiavi e dunque appartenevano al padrone. Gli schiavi erano utilizzati per ogni genere di lavoro: vi erano schiavi zappaterra, ma anche schiavi medici. I padroni potevano trattarli duramente. Potevano punirli con severi castighi, quali la fustigazione e la condanna a girare, incatenati, con la ruota del mulino. Agli schiavi fuggitivi venivano impresse in fronte le ttere FUG con un marchio infuocato. Le mancanze più gravi erano punite con la morte.

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L’apologo di Menenio Agrippa

Dopo una campagna di guerra particolarmente gravosa, i plebei, visto che i patrizi non avevano cuore per loro, stabilirono di allontanarsi in massa da Roma e si ritirarono sul monte oltre l’Aniene, che oggi si chiama Monte Sacro. I patrizi li lasciarono partire quasi contenti, ma subito si accorsero che senza i plebei, molti dei quali esercitavano le più utili tra le professioni manuali, la città non poteva vivere. Mandarono perciò sul Monte Sacro un’ambasceria capeggiata da Menenio Agrippa, il quale, visto che i plebei non volevano ascoltar ragione, narrò loro l’istruttivo apologo delle membra del corpo umano e dello stomaco. “Le varie membra del corpo umano” disse Menenio, “erano stanche di affaticarsi a beneficio esclusivo dello stomaco. Quell’antipatico sacco, esse pensavano, non fa altro che ricevere i cibi che noi gli forniamo in mille modi, e si ingrassa sulla nostra stanchezza. La nostra sorte è quella di lavorare, la sua quella di godersi in pace il frutto delle nostre fatiche. Dichiariamo guerra a quell’egoista! Voi gambe state ferme, braccia incrociatevi, labbra state chiuse, denti non masticate… Vedremo che farà lo stomaco senza di noi. Così dissero e così fecero; ma, di lì a poco, ogni membro del corpo si sentì stanco, sfinito più di quanto doveva lavorare per lo stomaco. Lo stomaco non riceveva più cibi ma, col suo sfinimento, provocava quello di tutte le altre membra.” I plebei capirono la lezione e tornarono in Roma, dopo essersi fatti concedere dai patrizi una speciale magistratura, quella dei tribuni della plebe, destinata a proteggere i plebei.

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Leggi scritte per una sicura giustizia

I plebei ottennero anche che le leggi fossero messe per iscritto e fossero uguali per tutti. Sino a quel tempo, a Roma le leggi si tramandavano oralmente; così i patrizi, che avevano in mano le cariche più importanti dello stato, potevano interpretare le leggi in loro favore, a danno dei plebei. Ora, il Senato diede l’incarico a dieci magistrati di mettere per iscritto delle leggi che riconoscessero un giusto e uguale trattamento a tutti i cittadini. Si volle inoltre che le leggi potessero essere conosciute da tutti, e che tutti potessero, in ogni occasione, consultarle liberamente: così si pensò di esporle in un luogo pubblico. A Roma c’era una grande piazza dove si tenevano i mercati e si riuniva il popolo in assemblea. Era una zona piana che si apriva tra il Palatino e il Campidoglio; il terreno, un tempo paludoso, era stato prosciugato con la costruzione della Cloaca Massima ed era diventato poi il Foro, cioè la piazza più importante della città. Le nuove leggi furono esposte nel Foro, incise su dodici tavole di bronzo: nessuno, neanche il tempo, avrebbe potuto cancellarle.

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Alcune leggi delle dodici tavole

Se uno rompe un braccio a un altro e non fa pace con lui riceverà lo stesso danno. Se uno con la mano o con un bastone rompe un osso ad un uomo libero, deve pagare 300 assi di multa, se sfregia uno schiavo paga 150 assi. Chi fa ingiuria a qualcuno paga 25 assi. Se qualcuno ruba o compie qualche delitto di notte può essere ucciso.

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La famiglia romana antica

La famiglia romana era ben diversa dalla famiglia moderna. Essa era un organismo politico e religioso. A capo vi era il pater familias, che aveva il potere assoluto, detto patria potestas, su tutti i membri: moglie, figli, nuore, fratelli minori, nipoti, ecc… Egli era il sacerdote del culto domestico, il giudice che poteva punire con la prigionia, le pene corporali e la morte i membri della famiglia, ed era il solo padrone dei beni domestici. Morto il padre, il figlio primogenito diveniva pater familias e la madre rimasta vedova veniva sottoposta alla sua autorità. Però, benchè sempre soggetta all’autorità prima del padre, poi del marito, poi del figlio, la donna era la vera regina della casa, ed era circondata di grande rispetto: sorvegliava il lavoro degli schiavi, educava i figli, tesseva e filava. Il focolare domestico, posto nel centro della casa, era l’altare del culto familiare, di cui il padre era appunto il sacerdote. Gli dei custodi della casa erano le anime degli avi: i Lari e i Penati. L’antica famiglia romana, laboriosa, frugale, disciplinata, ligia al dovere, fu una palestra di virtù: in essa si formarono quei cittadini e quei soldati che portarono poi nell’attività politica e militare le sane energie acquistate nella casa.

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La giornata di un Romano

Gli antichi Romani erano assai mattinieri. Al sorgere del sole s’apre la porta di casa e l’atrio si riempie di numerosi visitatori. Sono gli amici di casa, i clienti: persone con pochi quattrini, di regola ben vestite ma con la pancia vuota, che si fanno un obbligo di venire a rendere omaggio al padrone anche quando il tempo è brutto. Il padrone li riceve seduto, sopra una sedia a braccioli simile a quelle dei vescovi, scambia con essi strette di mano e ne invita un certo numero a mensa; gli altri possono andare a prendere il cibo in cucina. E l’orologio? Un avvisatore annuncia l’ora nella casa. Erano noti soltanto gli orologi a sole o ad acqua. Così d’estate come d’inverno il giorno era diviso in dodici ore e altrettante la notte. All’ora terza del giorno, verso le nove, il padrone di casa esce per andare ad attendere agli affari, ai quali è dedicato il tempo che precede il mezzogiorno: in tutto il pomeriggio è libero di darsi al riposo, allo svago. Nel frattempo la donna domina la casa. I ragazzi più grandi sono a scuola con il loro custode. I più piccoli giocano nel giardino, nel porticato, insieme con i bambini degli schiavi allevati con essi. I servi sono al mercato e fanno la spesa. Le ancelle filano e tessono per i bisogni della famiglia. S’ode risuonare il canto della nutrice che allatta il più piccolo. Quindi è annunciata l’ora settima, cioè quella del mezzogiorno. Giunge il padrone per la colazione. Poi viene il più bello, la dormita del mezzogiorno, che nessuno tralascia di fare, specialmente d’estate. Quindi gran movimento nella cucina e nella sala da pranzo. La servitù prepara il desinare, che ha luogo verso le sei pomeridiane. Durante questi preparativi i signori della casa pensano alla ginnastica e al bagno. In seguito quelli di casa si raccolgono nella sala da pranzo vestiti leggermente e con libertà, nella bella stagione. Ogni commensale ha un servo per sè. La padrona, che è presente, non giace, ma siede. Il pranzo, tra conversazioni, concerti, passatempi e sorprese, si protrae fino a tarda notte. (T. Birt)

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L’abbigliamento maschile

Per un Romano vestirsi è un’operazione abbastanza semplice e rapida. Su di una specie di camicia di lino piuttosto corta ed in diretto contatto con la pelle, egli infila la tunica, ossia una veste di lana formata da due pezzi di stoffa cuciti insieme e tenuta stretta intorno al corpo da una cintura piuttosto bassa sui fianchi: la tunica cade in modo ineguale: fin sul ginocchio davanti, un po’ più lunga di dietro. Le maniche, o mancano del tutto, o non arrivano all’altezza del gomito. La tunica è la veste che porta la gente che lavora perchè è semplice e pratica. Il cittadino romano non si presenta mai in pubblico vestito della sola tunica: prima di uscire di casa egli si avvolge nella toga: essa è un manto di lana bianca pesante tutto di un pezzo. Ai piedi il Romano in casa usa i sandali, ma uscendo infila degli stivaletti di pelle fino al polpaccio e l’unico ornamento è costituito dall’anello che porta sull’anulare della mano sinistra e di cui si serve come sigillo ed ha la stessa funzione della firma per noi moderni.

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L’abbigliamento femminile

Anche le donne indossavano la tunica, differenziata da quella maschile solo per la maggior lunghezza. Sopra la tunica le matrone dovevano indossare la stola: quest’uso era stato imposto dal Senato perchè le matrone si distinguessero dalle donne di bassa condizione e dalle schiave. La stola era una veste lunga e ricca, stretta alla vita e ornata, in basso, sa una balza color porpora. Per uscire in pubblico le donne coprivano la stola con la palla, una specie di toga rettangolare che si avvolgeva intorno al corpo e di cui un lembo poteva essere portato sul capo. Se celebravano sacrifici o se prendevano parte a cerimonie religiose, coprivano la testa con un fazzoletto quadrato di stoffa purpurea o azzurra, ornato di frangia (rica).

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I vestiti nella Roma antica

Tre schiave, Ata, Mira e Dora, nell’ampia camera, le cui pareti erano rivestite di marmi preziosi, aiutavano la loro padrona, una dama della Roma antica, a vestirsi per uscire. Com’erano svelte ed abili, le schiave! La dama, bella con i capelli bruni e gli occhi neri, si mostrava piuttosto esigente e la sua voce imperiosa risuonava nella stanza: “Presto, datemi la stola!” La stola era un abito simile ad una lunga camicia di candida lana con le maniche corte, guarnito sul fondo da una frangia. Inchinandosi, Ata e Mira presentarono l’indumento alla bruna signora, e con i movimenti precisi glielo fecero indossare. Dora cinse la vita della donna con una cintura finemente lavorata. “La palla!” ordinò la dama. La palla era una specie di scialle, lungo e morbido. Mira e Dora lo sollevarono ed Ata le aiutò a farlo scendere, dal capo della loro padrona, sulle sue spalle, avvolgendolo poi con grazia intorno al suo corpo. Vanitosa, la dama non si saziava di ritoccarsi la veste, di drappeggiarsela intorno alle braccia, di aggiustarsi le pieghe dello scialle. Dora portò un paio di calzature, e inginocchiandosi Mira le infilò ai minuscoli piedi della dama. “La lettiga aspetta” disse Ata. Le tre schiave s’inchinarono profondamente, sorridendo alla loro padrona che usciva, maestosa e fiera. Nella strada, vestiti di una tunica scarlatta, immobili nell’attesa, diversi schiavi fiancheggiavano la lettiga sulla quale la dama prese il posto. Che frastuono, che vocio nelle vie della Roma antica! Bottegai, fabbri, barbieri, usciti dai loro bugigattoli senza luce, lavoravano e vendevano la propria merce nella strada. Grida, richiami s’intrecciavano nell’aria, la gente andava a veniva indaffarata. Strillando a perdifiato, bimbi piccini si rincorrevano: i più grandicelli erano andati alla scuola sin dall’alba, quando ancora la città era immersa nel sonno. Ora, sotto il sole, come cresceva l’animazione della città! Seguiti dai propri schiavi passavano uomini severi, consoli, senatori avvolti nella toga, un mantello che scendeva fino ai piedi passando con una delle sue parti sopra la spalla sinistra per lasciare libero il braccio destro. Portavano scarpe alte, chiamate calcei, il cui colore variava, rosso, nero, azzurro, secondo la dignità della persona. Passavano gli schiavi diretti al mercato e gruppi di forestieri il cui abito, nel tessuto e nella foggia, rivelava il paese da cui provenivano. La dama sorrideva, dalla sua lettiga, bella ed elegante…

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Un sontuoso pranzo

Proprio oggi si saranno molti ospiti di importanza. Ce lo dice uno schiavo che corre affannato verso il triclinio, cioè verso la sala da pranzo. Egli ha preparato ogni cosa: il pavimento riluce come uno specchio, gli stucchi delle pareti e delle colonne mostrano tutta la loro bellezza. Ascoltiamo cosa ci dice il bravo schiavo: “All’ora nona (cioè alle tre del pomeriggio) verranno dei senatori, dei generali, un grande avvocato e un poeta. Essi indosseranno la toga conviviale, si cingeranno il capo con una corona di edera o di alloro o di rose. Io ho preparato per loro tre lettucci con dei materassi: non sono letti per dormirci, ma per sdraiarcisi durante il pranzo. La padrona di casa siederà al centro dei lettucci. Un tempo invece le donne mangiavano da sole.” Ad un cenno del padrone lo schiavo servirà l’antipasto durante il quale si berrà del vino misto a miele, poi servirà le varie specie di carne e infine la frutta e i dolci. Si useranno piatti e vassoi d’argento, cucchiai e coltelli, ma le carni si porteranno alla bocca con le mani. Finito il pranzo sarà eletto il re del convito e si aspetterà l’alba fra canti di musici e brindisi.

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La scuola

L’anno scolastico aveva inizio nel mese di marzo. Nei giorni festivi e ogni nove giorni era vacanza. Le scuole non avevano banchi. Gli scolari sedevano su sgabelli e scrivevano su tavolette spalmate di cera usando una cannuccia detta stilo, un bastoncello appuntito, si legno o di metallo. Quando la tavoletta era scritta, si voltava lo stilo, che all’altra estremità era piatto, e si cancellava tutto. La carta di papiro e la pergamena costavano molto. Erano riservate agli scolari più grandi che vi scrivevano con la penna d’oca.

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Un sontuoso pranzo

Proprio oggi ci saranno molti ospiti di importanza. Ce lo dice uno schiavo che corre affannato verso il triclinio, cioè verso la sala da pranzo. Egli ha preparato ogni cosa: il pavimento riluce come uno specchio, gli stucchi della pareti e delle colonne mostrano tutta la loro bellezza. Ascoltiamo che cosa ci dice il bravo schiavo: “All’ora nona, cioè alle tre del pomeriggio, verranno dei senatori, dei generali, un grande avvocato e un poeta. Essi indosseranno la toga conviviale, si cingeranno il capo con una corona di edera o di alloro o di rose. Io ho preparato per loro tre lettucci con dei materassi: non sono letti per dormirci, ma per sdraiarcisi durante il pranzo. La padrona di casa siederà al centro dei lettucci. Un tempo invece le donne mangiavano da sole”. Ad un cenno del padrone lo schiavo servirà l’antipasto durante il quale si berrà del vino misto a miele, poi servirà le varie specie di carne e infine la frutta e i dolci. Si useranno piatti e vassoi d’argento, cucchiai e coltelli, ma le carni si porteranno alla bocca con le mani. Finito il pranzo sarà eletto il re del convito e si aspetterà l’alba fra canti di musici e brindisi.

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I giochi dei bambini

I bambini si dedicavano a un piacevole divertimento: attaccavano i topi a un carrettino di legno e poi li incitavano alla corsa. Gli altri giochi erano simili a quelli di oggi. Si giocava a pari e dispari tenendo chiusi nel pugno noci o sassolini e invitando il compagno a indovinare se erano in numero pari o dispari. Ci si divertiva pure a gettare in aria una moneta, cercando di indovinare quale sarebbe stata la parte rimasta scoperta. Avevano anche dei cerchi ornati di sonagli, trottole, barchette, bambole di terracotta.

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Gli edifici di spettacolo

I Romani preferivano le gare sportive e i combattimenti di belve e di gladiatori. Essi accorrevano ad assistervi nell’anfiteatro, una costruzione di forma ovale. Nel mezzo stava uno spazio libero, l’arena, per i lottatori; attorno, erano le gradinate per gli spettatori; sopra l’ingresso, un’alta balconata era riservata agli imperatori. Il più grande degli anfiteatri fu il Colosseo. I gladiatori erano schiavi o prigionieri di guerra istruiti in scuole speciali, al combattimento nell’arena.

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Il circo

Ecco una biga, cioè un carro velocissimo trainato da due focosi cavalli e guidato da un bravissimo auriga. A che cosa serve? La biga serve per i giochi del circo. Quando sono annunciate le corse delle bighe o anche delle quadrighe, cioè dei carri a quattro cavalli, una folla sterminata corre al circo e si dispone sulle gradinate lasciando i posti migliori ai senatori, ai consoli, ai patrizi. Ad un segnale, le bighe si lanciano a corsa pazza. Alcuni aurighi indossano una veste verde, altri azzurra, altri bianca e altri ancora rossa. I colori indicano, possiamo dire così, le squadre. Le bighe devono fare sette volte il giro di un muro che attraversa per lungo il circo. Alle estremità del muro ci sono tre colonne attorno alle quali i carri devono svoltare velocemente senza rovesciarsi. La folla grida, si entusiasma per un auriga o per un altro. Il vincitore avrà dei premi e potrà passare sotto la porta trionfale in segno di onore.

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L’anfiteatro

Nell’anfiteatro si svolgono invece altri giochi. L’arena dell’anfiteatro è trasformata ora in uno specchio d’acqua. E’ stato costruito anche un piccolo porto, davanti al quale combattono navi armate di rostro e navi armate di falci per tagliare le vele delle navi nemiche. Da un palco assiste allo spettacolo l’imperatore con la sua famiglia. Migliaia di persone accompagnano con urla l’affondamento di una nave. Se fosse invece il giorno dei combattimenti degli schiavi gladiatori, vedremmo terribili scene di paurosi duelli tra uomini e belve e tra schiavi e schiavi armati di spade, di reti e di lacci.

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Il trionfo

Il trionfo è uno spettacolo indimenticabile. Il generale vittorioso ha lasciato i suoi soldati fuori delle mura di Roma. Quando il Senato avrà decretato il trionfo, allora egli entrerà in città attraverso la porta trionfale, e su un cocchio d’oro trainato da quattro cavalli bianchi, percorrerà la via Sacra che porta al Campidoglio, fra un’immensa folla acclamante. Ecco, il trionfatore ha indossato la toga di porpora, nella mano destra tiene un ramo di alloro, sul capo ha una corona pure d’alloro. Vicino alla quadriga ci sono i trombettieri, gli aquiliferi, i re e i capitani nemici, vinti e incatenati, poi avanza l’esercito romano. Il corteo è chiuso dai senatori e da altri cittadini importanti. Dalle porte spalancate dei templi esce odore d’incenso. Dalle case si gettano rose sul vincitore. Arrivato al Campidoglio il trionfatore offrirà sacrifici agli dei.

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Abili costruttori

I Romani furono provetti costruttori di case, di acquedotti, di edifici pubblici, di templi. La casa di una famiglia ricca occupava solo il pianterreno. All’esterno essa presentava muri intonacati, senza finestre, aperti solo per la porta di ingresso e per le vetrine dei negozi che si affacciavano sulla via. L’interno era molto elegante. Molte famiglie povere abitavano in modesti alloggi di affitto entro grosse case di quattro, cinque e anche sei piani.

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Gli edifici pubblici

Attorno alla piazza principale, il Foro, i Romani costruivano gli edifici pubblici più importanti: il tempio, la basilica, nella quale sedevano i tribunali e si trattavano gli affari; le terme, stabilimenti di bagni pubblici con sale di lettura, di conversazione, per la ginnastica; la curia, dove si tenevano le riunioni dei patrizi e del Senato.

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Il Foro

A Roma il Foro era la parte più importante della città. Lì si amministrava la giustizia, lì avvenivano le sfilate dei soldati, lì si vendevano e si compravano le merci, lì erano anche templi dedicati agli dei.
Fino alle undici del mattino, il Foro era pieno di gente che acquistava e vendeva, parlava, gridava, di ragazzi che correvano, di carri e di cocchi.

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La strada romana

I Romani furono abilissimi costruttori di strade e le tracciarono in ogni periodo della loro storia. Furono anche i primi che, con potenti opere di muratura, tagliarono le vie sui fianchi dei monti.
Nei primi secoli le strade di Roma furono costruite per la guerra; poi, a mano a mano che le popolazioni sottomesse vennero pacificate, diventarono strade del lavoro e dei commerci.
Stabilito accuratamente il percorso, si scavava fino a trovare il terreno solido e lo si rafforzava validamente; su questo si sovrapponevano allora quattro strati: il primo era composto di sassi misti ad argilla, il secondo di pietre e frammenti di mattone e sabbia misti con calce, il terzo di pietrisco con frammenti di mattoni fortemente battuti, l’ultimo di lastre di pietra dura (basalto) poligonali, bene levigate e ben combacianti. Al centro, per permettere lo scolo delle acque, la strada era leggermente convessa.
Questa strada, che è la via consolare o la via pubblica, solitamente partiva da Roma col nome del personaggio che ne aveva iniziato i lavori, e, di preferenza, si snodava lungo un percorso rettilineo: infatti per ottenere tale percorso si scavavano gallerie, si rinforzavano i fianchi delle montagne, si gettavano ponti grandiosi e si costruivano solide palizzate, quando ci si trovava in presenza di terreni paludosi. A partire dal Foro, di miglio in miglio, dei cippi, le pietre miliari, indicavano la distanza dall’Urbe. La prima grande strada fu la via Appia da Roma a Capua, in seguito per Benevento fino a Brindisi.

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Gli acquedotti

I Romani furono grandi costruttori di ponti, di strade, di terme e di acquedotti. Questi ultimi erano davvero stupefacenti. Alcuni studiosi pensano che i Romani preferissero l’acquedotto su archi a quello con tubature sotterranee perchè non conoscevano il sistema dei vasi comunicanti. Ma ormai è stabilito che essi erano invece a conoscenza delle leggi fisiche dell’idraulica. Preferirono quasi sempre il sistema ad archi per comodità ed economia: infatti disponevano in abbondanza di travertino, mattoni, cemento, tutto materiale di facile impiego.
Le tubature metalliche, invece, sarebbero riuscite costose e malsicure. I Romani non sapevano lavorare con facilità la ghisa; il bronzo costava troppo; il piombo non poteva servire per una tubatura lunga anche molti chilometri, continua e di grande calibro. La lunghezza degli acquedotti romani (che non correvano sospesi per tutta la loro lunghezza, e in taluni tratti erano interrati) variava da dieci a ottanta – ottantacinque chilometri. L’altezza massima superava persino i sessanta metri.
Gli undici acquedotti esistenti nella Roma imperiale conducevano nella città circa sette milioni di ettolitri d’acqua al giorno. La cifra è alta, ma occorre tenere presente lo sciupio dovuto al sistema di far correre continuamente l’acqua, non esistendo allora i rubinetti.
Il primo acquedotto romano fu l’Appio, costruito da Appio Claudio, censore nel 312 aC. Il primo acquedotto su archi fu quello dell’Acqua Marcia (146 aC) lungo circa ottantuno chilometri.

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I fabbricatori di ponti

Costruire un ponte su un fiume abbastanza largo è un’impresa molto difficile. Gli Egiziani e i Babilonesi, per esempio, che pure sapevano costruire grandi edifici, non erano riusciti a costruire ponti sul Nilo, sul Tigri, sull’Eufrate. Per traversare i fiumi essi si servivano di zattere o di altre imbarcazioni. Costruire un ponte su un fiume non troppo largo è più semplice.
I fiumi dell’Italia non sono tanto larghi. Gli Etruschi furono capaci di costruire ponti sui fiumi e insegnarono la loro arte ai Romani. I primi ponti erano di legno.
L’arte di costruire ponti era conosciuta solo da pochi uomini. Gli uomini che costruivano ponti si chiamavano pontefici, cioè fabbricanti di ponti. Il capo di questi uomini si chiamava Pontefice Massimo.
I primi ponti costruiti sembravano agli uomini comuni opera di magia. I Romani pensavano che un ponte non potesse stare in piedi senza l’aiuto degli dei. Per questo il Pontefice Massimo, cioè l’ingegnere capo, era anche il capo di tutti i sacerdoti che pregavano gli dei.
Quando poi l’arte di costruire i ponti fu conosciuta da un maggior numero di persone e non sembrò più magia, la parola pontefice restò ad indicare solo il capo della religione di Roma. Anche oggi il capo della Chiesa si chiama Pontefice.

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Il lavoro della giornata e la cena presso i Romani

Il lavoro della giornata si concentra tutto nella mattinata e nelle prime ore del pomeriggio. Il padre di famiglia esce al mattino per le sue occupazioni. La donna si cura invece della casa. Dopo la colazione, verso il mezzogiorno, ci sarà il pranzo, un pasto leggero consistente in un piatto di pesce, legumi e frutta. Non occorre, dice uno scrittore, nè apparecchiare la tavola nè lavarsi le mani. E’ solo un rapido spuntino. Nel pomeriggio invece il Romano si mette a tavola. Sono circa le tre. Alcune cene si prolungano fino a tarda sera, altre sono più brevi.

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La posta romana

La storia ci parla di un servizio postale abbastanza organizzato in Roma. Ma non bisogna credere che si trattasse di un’istituzione a favore della popolazione. Era servizio statale di regolari comunicazioni fra capitale e provincia, necessario per l’andamento del governo. Lungo le strade, ogni tanti chilometri, v’era la “posta”, cioè una specie di stazione dove il corriere poteva rifocillarsi, cambiare il cavallo o i cavalli, e proseguire il suo viaggio.

Le insegne romane

Ciò che è per noi la bandiera, era per i Romani l’insegna. Da principio era semplicemente una lancia che portava in alto un pezzo quadrato di stoffa per la cavalleria e portava, invece, la raffigurazione di un animale, come la lupa, il cavallo, per le coorti di fanti. Le aquile d’oro o d’argento erano le insegne riservate alle legioni.
Tra i soldati più valorosi si sceglievano quelli a cui si affidavano le insegne ed essi, allora, venivano chiamati antesignani.

Istruzione dei giovani Romani

Semplice era l’insegnamento che s’impartiva nei primi tempi; l’antico Romano ne aveva abbastanza degli studi quando sapeva leggere, scrivere e far di conto. Ma negli ultimi anni della Repubblica e durante l’Impero, l’istruzione del giovane, fattasi più complessa, passava per tre gradi; le lezioni elementari si facevano nella scuola, dove i ragazzi, dopo aver imparato a leggere e a scrivere alla meglio, imparavano a far di conto e a stenografare. Si faceva lezione in qualche stanzuccia d’affitto o anche all’aperto. L’anno scolastico cominciava di marzo dopo la festa in onore di Minerva, cara soprattutto agli scolari; vi erano delle vacanze nei giorni festivi e ogni nove giorni. Che fosse stabilito un periodo estivo di vacanze non risulta chiaro; ma vi era l’uso di far riposare i ragazzi durante la calda estate. L’orario scolastico era di sei ore: le lezioni cominciavano di buon mattino; venivano interrotte verso mezzogiorno, quando gli scolari tornavano a casa per la colazione, e riprese nel pomeriggio.
L’arredamento della scuola era semplice. Solo in qualche scuola e in certi casi, gli scolari si riunivano col maestro intorno a un tavolo; di regola non vi era il banco nè per il maestro nè per gli scolari; il maestro stava seduto su di una seggiola, gli scolari su sgabelli, tenendo sulle ginocchia la tavola su cui scrivevano e che portavano con sè, insieme con la penna, la carta, l’inchiostro.
Terminati gli studi elementari, cominciavano sotto la guida del maestro di grammatica l’insegnamento medio. Anche questo, secondo l’uso e le possibilità delle famiglie, veniva impartito in casa o in una scuola pubblica tenuta da un privato.
Dalla scuola del maestro di grammatica si usciva conoscendo alla perfezione il latino e il greco, cioè le due lingue che una persona colta doveva necessariamente parlare. Anche le donne conoscevano il greco. (U. E. Paoli)

Tavole cerate, penne e inchiostro

Per scrivere gli alunni avevano le tavolette, dette cerae o tabulae ceratae, che erano usate da tutti i Romani per appunti, lettere e annotazioni brevi: erano tavolette di legno rettangolari dagli orli rilevati, entro in quali si stendeva uno strato di cera molle. Si scriveva incidendo i caratteri sulla cera mediante un cannello di avorio o di metallo (stilus) appuntito ad una estremità e incurvato e appiattito dall’altra per poter cancellare i segni tracciati e rendere di nuovo uniforme lo strato di cera. Portare questi lunghi stili, spesso pericolosi, era alquanto scomodo: si ricorreva ad un astuccio (graphiarium o graphiaria theca), che scolari, scribi e copisti avevano sempre con sè.
Sul margine delle tabulae ceratae erano praticati dei fori, attraverso i quali passava una cordicella che legava tra loro due o più tavolette, in modo da formare una specie di piccolo libro dalle pagine di legno cosparse di cera su entrambe le facciate, eccezion fatta per le tavolette estreme, che fungevano da copertina e avevano la cera solo internamente.
Per scrivere sulla carta (papiro o pergamena) si ricorreva invece all’inchiostro nero (atramentum): un miscuglio ottenuto con fuliggine, pece, liquido di seppia e feccia di vino diluito in acqua. Il calamaio (atramentarium) era formato da uno o due recipienti cilindrici uniti insieme. Per i titoli dei libri esisteva uno speciale inchiostro rosso; c’erano anche vari tipi di inchiostri “simpatici” che comparivano e scomparivano se trattati con speciali accorgimenti.
Lo stilo in questi casi era sostituito da una penna di uccello o da una cannuccia (calamus), appuntite con un coltellino (scalprum) o anche, più raramente, da una penna di bronzo.

Il gran pranzo di un arricchito

C’era gente sobria che si contentava di pan d’orzo, di legumi, un pollo o un pesce, olive e noci, un frutto e uno spicchio di cacio. C’era chi ogni tanto offriva una cena modesta ai parenti e agli amici con qualche coppia di piccioni immersi in un intingolo elaborato, con pepe, olio, aceto, vino, miele, datteri e senape; con funghi cotti nel miele e spezzatino di maiale con cavoli e lenticchie.
Ma c’era anche chi, per mostrare la sua ricchezza e sbalordire gli amici, non si peritava a far mostra della più goffa pacchianeria. Uno stuolo di schiavi accoglie gli ospiti sull’uscio di casa, li accompagna al bagno o porge l’acqua per lavarsi le mani in preziosi bacili.
Poi i servi fanno strada nel triclinio e assegnano i posti alle tavole. Gli ospiti si distendono sui sofà e vedono in bella mostra un originale vassoio per le gustationes: cominciano le meraviglie con questo asinello di bronzo che porta due bisacce, una con olive nere e una con olive verdi. Sui piatti d’argento che l’asinello sostiene, oltre al nome del padrone è inciso il loro peso perchè tutti lo possano vedere e così valutare la ricchezza dell’ospite.
Sui piatti, ghiri conditi con miele e papavero, e salsicce fumanti distese su una gratella d’argento, sotto la quale, per imitare le braci, sono state poste prugne secche, nere, cosparse di rossi chicchi di melograno.
Si dà inizio al banchetto e mentre i sonatori strimpellano una musichetta allegra, entrano altri schiavi portando un gran vassoio sul quale giace una gallina di legno intenta a covare uova che sembrano di pavone. Il padrone fa finta di diffidare della loro freschezza e si viene così a scoprire che il guscio è di farina impastata e che dentro c’è un beccafico bello grasso che nuota in un rosso d’uovo pepato.
Se un vassoio d’argento pesante mezzo quintale cade dalle mani di uno schiavo, il padrone lo fa gettare via insieme ai rifiuti. Poi altri schiavi passano per la lavanda delle mani e adoperano vino puro e non del peggiore. Il vino che vien posto sulla tavola, in anfore sigillate di grosso vetro, è Falerno di cento ani fa. Ed ecco che arriva il primo piatto forte della serata, una specie di trofeo coi dodici segni dello zodiaco e ogni segno è rappresentato da una ghiottoneria particolare: i Pesci due triglie; il Granchio un grosso gambero di mare; il Toro una braciola di manzo; e così via.
Quando tutti hanno osservato ed hanno espresso la loro ammirazione, a un cenno del padrone quattro schiavi entrano a passo di danza e sollevano la parte superiore del trofeo: sotto c’è un immenso vassoio colmo di pollastre grasse e di ventresche lardose che incorniciano una lepre alata, con la quale il cuoco ha voluto raffigurare Pegaso. Quattro satiretti versano intanto da piccoli otri una salsa piccante su certi pesci delicati che sembrano nuotare nel guazzo.
La conversazione si fa sempre più spiritosa, anche se non è tra le più fini, considerando il genere dei convitati, quasi tutti liberti arricchiti. Ed ecco altre sorprese: dopo che i servi hanno disteso nuove coperte sui letti, dipinte con reti e cacciatori, e dopo che una muta di vivacissimi cani da caccia è entrata di corsa nella stanza, arrivano dei servi portando un gigantesco cinghiale disteso su un vassoio, e alle cui zanne sono appesi due cestelli intrecciati con foglie di palma e ricolmi l’uno di datteri carioti, l’altro di datteri tebaici.
Tra le esagerate esclamazioni di meraviglia degli ospiti, si fa avanti allora una specie di barbuto cacciatore con le gambe attorte di cinghie e con una mantellina di damasco; brandito un coltello mena un gran colpo nel fianco del cinghiale, e dallo squarcio si alza a volo uno stormo di tordi. Gli uccellatori stavano pronti all’intorno, con le canne cosparse di vischio e in un attimo riacchiappano tutti gli uccellini che svolazzano come impazziti per il triclinio. Allora il padrone di casa ordina che ne venga servito uno per ciascun commensale. Intanto che gli uccelli cuociono i servi si accostano ai canestri che sono appesi alle zanne del cinghiale, e distribuiscono in egual misura tra i convitati i dolcissimi datteri delle due diverse qualità.
E il banchetto a questo punto è appena a mezzo: il padrone vuol divertirsi ancora a sbalordire gli ospiti, che in cuor loro lo mandano a quel paese, ma che, per essere venuti, sono costretti ormai a stare al gioco.
Ecco, adesso i servi portano in tavola un maiale di rispettabili dimensioni che il cuoco finge di non aver per la troppa fretta sventrato. E proprio mentre sta per essere punito della dimenticanza imperdonabile, il padrone, fingendo di cedere alle preghiere degli invitati, glielo fa aprire lì per lì, e dal ventre del porco escono salsicce e sanguinacci caldi.
Poi mettono in tavola un trionfale trofeo di dolci e di frutta che schizzano giallo zafferano addosso agli ospiti come fontane burlesche; e poi ancora galline ingrassate da rivoltar lo stomaco, con contorno di uova d’oca incappucciate e tordi di fior di farina riempiti riempiti di uvetta e di noci, e mele cotogne irte di spini per figurare dei ricci, e un’oca ingrassata circondata da pesci e da uccelli d’ogni tipo, che il cuoco con abilità da scultore ha foggiato con carne di maiale. E ancora ostriche e lumache.
Ma qualcuno scivola sotto la tavola, altri, più saggi, fanno chiamare i loro schiavi ai quali sottovoce ordinano di preparare la lettiga e le torce, poi, senza parere, tagliano la corda: il padrone è diventato triste e malinconico a causa del troppo vino che ha bevuto e comincia a parlare della morte… (Petronio, Arbitro, Satiricon)

Le grandi strade romane

La prima delle grandi strade fu, tre secoli prima di Cristo, l’Appia. Costruita per iniziativa di Appio Claudio il Cieco, censore, questa via unì Roma a Capua secondo un itinerario razionale, e in seguito fu prolungata fino a Brindisi, estremo lembo d’Italia, passando da Benevento e da Taranto.
Le altre seguirono nei secoli successivi e collegarono dapprima i luoghi vicini a Roma, come la via Clodia che portava in Etruria, la Cassia che attraverso l’Etruria portava in Emilia, l’Aurelia che menava in Liguria, la Postumia che partendo da Genova, attraverso la valle padana e il Veneto, giungeva ad Aquileia e oltre fino a Concordia sull’Adriatico, la Flaminia che arrivava a Rimini, la Salaria che congiungeva Roma all’Adriatico, l’Emilia che attraverso la pianura padana da Rimini raggiungeva Piacenza, la Latina che scavalcava l’Appennino e giungeva in Campania, la Valeria che prolungava la Triburtina da Tivoli fino a Corfinio, la Popilia che distaccandosi dall’Appia giungeva fino a Reggio Calabria attraversando la Lucania. Poi le nuove strade si protesero nelle province conquistate, come l’Egnatia in Balcania, il prolungamento dell’Aurelia in Gallia che, dalla Provenza, di cui seguiva la costa, arrivava fino a Lione seguendo la valle del Rodano, e le altre tante che si diramavano verso il confine del Reno.
Le strade, la cui larghezza massima si aggirava sui cinque metri, erano pavimentate con ghiaia o erano, come la via Appia, selciate con grossi ciottoli o con blocchi di pietra basaltica squadrati a forma di poligoni regolari.

La donna romana fa toilette

Se nei primi tempi di Roma le donne non curavano molto il loro viso e il loro abbigliamento, nell’età repubblicana, per influenza dei costumi orientali, la donna acquisì il gusto delle vesti raffinate, degli ornamenti preziosi e delle cure di bellezza. Come prima cosa il mattino, appena alzata, si lava accuratamente il viso, poi lo ammorbidisce con un unguento oleoso. Passa quindi alla pulizia dei denti e in tutte queste occupazioni è attorniata da due o più schiave che le presentano lo specchio e che sono adibite soprattutto alla sua pettinatura. Essa non ignora poi l’uso del trucco per gli occhi e il rosso per le labbra.

I teatri

Erano formati da una gradinata a semicerchio detta cavea che andava restringendosi verso il centro. Nel mezzo era l’orchestra e lì eran poste sedie riservate ai senatori. Di fronte stava la scena dietro e ai lati da muri variamente ornati. Gli attori portavano sul volto una maschera e quando recitavano le tragedie indossavano abiti pomposi e calzavano alti coturni; per le commedie e per le farse portavano abiti comuni, di colori vivaci, e ai piedi scarpe basse, dette socchi.

Gli anfiteatri

Possono considerarsi formati dall’unione di sue teatri e quindi avevano la forma quasi circolare o meglio ellittica. La gradinata girava tutt’attorno e nel mezzo c’era una spianata pure di forma ellittica in cui si svolgevano gli spettacoli. Questi consistevano in lotte fatte combattere da gladiatori fra di loro o contro bestie feroci. I primi teatri e anfiteatri romani furono costruiti in legno; soltanto nel primo secolo avanti Cristo se ne costruirono in muratura, alcuni di grandissime dimensioni, capaci di parecchie decine di migliaia di persone. In qualche luogo dove il terreno era roccioso e in forte pendio o faceva una curva quasi semicircolare, la gradinata dei teatri si costruiva sulla roccia stessa.

Le terme

Le Terme erano edifici destinati ai bagni, i quali erano molto in uso presso i Romani a causa del clima caldo e per ragioni igieniche. Queste costruzioni, prima semplici, furono più tardi grandiose e piene di lusso. Vi si potevano fare bagni freddi o tiepidi o caldi dentro ad ampie vasche dette piscine o dentro a tinozze. Oltre alla conduttura dell’acqua v’erano anche tubi attraverso cui l’aria alquanto riscaldata era trasportata in apposita stanza detta tepidario dove si raccoglievano quelli che avevano bisogno di sudare. Più tardi si introdusse l’abitudine del bagno a vapore, fatto mediante aria molto calda. Oltre alle stanze per i vari bagni, le Terme contenevano spogliatoi per bagnanti, stanze dove essi si fregavano e si ungevano il corpo dopo il bagno, locali destinati agli esercizi ginnici, al passeggio, alla conversazione.
Le Terme fatte costruire dall’imperatore Caracalla, delle quali ci restano tuttora degli avanzi notevoli, erano veramente magnifiche per grandiosità ed eleganza di costruzione architettonica, per ornamenti di colonne, di statue e di quadri, per la bellezza dei marmi che rivestivano le pareti e dei mosaici che formavano l’impiantito.

Il Carnevale dei Romani

Il giorno decimoquarto avanti le calende di gennaio, ossia per noi il 19 dicembre, a Roma avevano inizio le feste di Saturno, o Saturnalia.
Le vie erano affollate di gente in preda alla più sfrenata allegria. Particolarmente lieti erano gli schiavi, i quali, per tre giorni, erano liberi di fare ciò che volevano, come fossero i padroni. Alla festa intervenivano cantanti e suonatori che inneggiavano a Saturno con il suono acuto dei flauti e con quello più dolce della lira; giocolieri improvvisati; comitive di buffoni con il volto coperto di maschere, i quali saltavano al suono delle tibie e delle chitarre. Ad accrescere il frastuono si univano le voci dei venditori di giocattoli, di cibi e di merce varia.
A un certo punto la folla, che gremiva di continuo il tempio di Saturno, poteva assistere a uno strano spettacolo: l’ingresso del Pretore urbano, portato in trionfo da un gruppo di individui sparuti che avevano in mano una catena di ferro: erano i prigionieri del carcere Mamertino, che venivano graziati in onore del dio e che a lui portavano le loro pesanti catene. (P. Piccoli Allodoli)

Un nuovo cittadino romano

Il 17 marzo in molte case dell’antica Roma c’era festa perchè i giovinetti, che avevano compiuto i diciassette anni, vestivano la toga virile facendosi veri cittadini romani.
Anche in casa dell’avvocato Lucio Emilio Sullo erano convenuti parenti, amici e clienti per festeggiare il figlio Marco, che da poco tempo aveva passato il diciassettesimo anno. All’apparire del giovinetto, tutti esclamarono: “Gli dei ti proteggano, Marco!”
Marco rispose con un sorriso e poi si avvicinò all’altarino degli dei Lari, protettori della casa.
Davanti all’altarino si trovavano già il babbo, la mamma e i fratelli minori. Il padre, sacerdote della famiglia, si accostò a Marco e gli sganciò dal collo la catenina della bulla, una specie di medaglione, che i Romani credevano portasse fortuna.
“Ora”, gli disse il padre, “hai forze sufficienti per sorreggerti da te e non ne hai più bisogno”.
A un cenno del padre, uno schiavo aiutò Marco a togliersi la toga con la balza porpora e quindi porse una candida toga nuova fiammante, senza alcun orlo, proprio come quella che tutti gli adulti Romani indossavano sulla tunica.
La mamma stessa, con le lacrime agli occhi per la commozione, lo aiutò ad indossare l’abito che lo faceva un nuovo cittadino romano.
Quando il giovinetto apparve vestito da uomo, suo padre gli sorrise contento, sua madre lo abbracciò e tutti i presenti si congratularono con lui, ripetendo questo augurio: “Che gli dei ti conservino sano per molti anni!”
Finita la piccola cerimonia, si formò il corteo per accompagnare solennemente il giovinetto fino al Foro.
Il corteo si apriva con alcuni schiavi che avevano trombe d’argento, seguiti da fanciulli e fanciulle. Poi veniva il festeggiato con i parenti, e quindi seguivano gli amici e i conoscenti.
Giunti nel Foro, Marco si presentò davanti al Pretore, il quale scrisse su una pergamena il suo nome e lo salutò con queste parole: “Stai sano, Marco Emilio Sullo! Da oggi sei un nuovo cittadino romano!”
Il corteo proseguì verso il tempio della dea Gioventù e quindi salì il Campidoglio, il colle sul quale si ergeva il tempio di Giove, il più importante di Roma.
Qui il nuovo cittadino offrì agli dei un bianco torello, che venne ucciso davanti all’altare. Salì al cielo il fumo, mentre la sua tenera carne fu poi usata per il banchetto.
Usciti dal tempio, il padre di Marco mostrò al figliolo la città che si stendeva ai piedi del Campidoglio, bellissima coi suoi infiniti marmi bianchi, che rilucevano al sole.
“Marco”, gli disse “da oggi anche tu puoi essere utile alla regina del mondo”.
“Cercherò di esserlo” rispose Marco.
Prima di tornare a casa, il giovanetto sostò nella bottega di un barbiere. Davanti alla bottega gli invitati formarono dei gruppi in attesa. Anche i curiosi si fermavano quando sentivano dire: “C’è un giovinetto che si taglia la prima barba!”
In un recipiente speciale, la barba fu poi offerta in un tempio agli dei, e all’uscita nuovi abbracci, nuovi auguri e anche molti regali al nuovo e fortunato cittadino romano. (R. Botticelli)

Nelle terme

Lucio Valerio attraversò il vasto atrio delle terme, seguito dal corteo dei suoi schiavi. Erano le due del pomeriggio, e i saloni delle terme erano affollati.
Lucio Valerio entrò anzitutto nella palestra, dove fece alcuni esercizi ginnici che gli sciolsero le membra e gli riscaldarono il corpo, poi lasciò le vesti nello spogliatoio (uno schiavo ne rimase a guardia) e si diresse verso la grande piscina fredda: il frigidario. Si tuffò e nuotò nell’acqua gelida per diversi minuti. Quindi si recò nel tepidario, dove sedette su una delle panchine di marmo per ristorarsi con un soffio di aria tiepida… Rimaneva da fare il bagno caldo. Valerio passò nel calidario e si immerse nella vasca.
Subito gli schiavi si misero all’opera: uno gli strofinò le membra con soda per pulirgli la pelle, un altro lo massaggiò con cura, un terzo lo unse con un olio profumato, un quarto gli porse i panni per asciugarsi. Il servo rimasto nello spogliatoio arrivò con le vesti. E, per ultimo, il coppiere gli porse una tazza di vino caldo e fragrante, addolcito con miele.

Uno spettacolo nel Colosseo

Ecco l’Imperatore: il popolo, sempre in solluchero alle feste, e in specie a feste di sangue, gli batte le mani. I sacerdoti e le vestali consacrano sacrifici agli dei protettori di Roma: il sangue corre, le viscere delle vittime ardono, si consumano nel fuoco sacro; risuonano i cori e la musica; e la moltitudine schiamazza di nuovo.
Al segno di comando compaiono i gladiatori che salutano tutti col sorriso sulle labbra, come se li aspettasse uno squisito festino e non l’inesorabile morte.
Sono nati sulle montagne, nei deserti, hanno respirato l’aria pura dei campi e goduto della sacra libertà. La guerra, soltanto la guerra, ha potuto strapparli alla loro patria. In Roma li hanno ben nutriti perchè facessero buon sangue, sangue dolce da offrire in olocausto al popolo romano. Forse molti di essi, or ora, si feriranno, si uccideranno fra di loro; molti si vogliono bene, si sentono fratelli, eppure dovranno ferirsi, immolarsi.
Eccoli, già si guardano, si minacciano, si avviluppano, si gettano contro a barbara lotta. Se qualcuno, preso da paura per sè, o da compassione per il suo avversario, si tira in disparte, il maestro del circo gli conficca nelle carni nude un bottone di ferro rovente. Il sangue rosseggia, inzuppa la terra.

Lotte di gladiatori
Squillarono le trombe e vi fu un profondo silenzio; migliaia di sguardi si diressero sulla porta verso la quale un uomo, vestito da Caronte, avanzava, battendo su questa tre colpi di martello, quasi invitasse alla morte coloro che si trovavano al di là. Aperti lentamente i battenti, lasciando scorgere una cupa voragine, entrarono nel Circo i gladiatori. Avanzarono a schiere di venticinque: Traci, Mirmilloni, Sanniti, Galli; tutti armati pesantemente. Seguivano i retiarii, con la rete in una mano e nell’altra il tridente.

Furono accolti da applausi che divennero fragorosi. In tutto l’anfiteatro si vedevano facce accese, mani alzate, bocche aperte. E intanto i gladiatori, fatto il giro dell’arena con passo fermo, scintillanti nelle ricche armature, si fermarono davanti alla loggia cesarea, superbi e tranquilli. Uno squillo di tromba acuto interruppe i battimani, i gladiatori alzarono le braccia, e rivolgendosi a Cesare, intonarono lentamente: “Salve, Cesare imperatore! Coloro che sono per morire ti salutano!”.

Dopo, presero posto nell’arena.

Dovevano cozzare schiera contro schiera, ma ai più famosi fu comandato di battersi singolarmente, perchè potessero meglio dar prova di sveltezza e di coraggio. Dal gruppo dei lottatori ne uscì uno ben conosciuto, di nome Macellaio (Lanio), famoso vincitore. Con l’enorme elmo e la corazza che fasciava la schiena poderosa, spiccava sulla gialla arena come un immane scarabeo. Il non meno celebre retiario Calendio gli andò incontro.
Cominciarono le scommesse.

“Cinquecento sesterzi per il Gallo!”

“Cinquecento per Calendio!”

“Per Ercole, ne scommetto mille!”

“Duemila!”

Intanto il Gallo, giunto nel mezzo, cominciava a retrocedere; protendendo la spada, e piegando il capo da una parte, seguiva attentamente l’avversario, e il retiario, svelto, nudo, di forme scultoree, coperte di una sciarpa, rapidamente gli girava intorno, agitando con arte la rete, ora abbassando ora rialzando il tridente…

Ma il Gallo non fuggiva; piantandosi saldo, faceva in modo da avere sempre di fronte l’avversario. C’era qualcosa di pauroso nella sua grossa testa mostruosa in in tutta la sua persona. Gli spettatori sapevano che egli si preparava ad un balzo improvviso che avrebbe potuto decidere della lotta. E il retiario ora gli correva incontro, ora dava un balzo indietro con tale rapidità, che non era possibile seguirlo con lo sguardo.

Più volte il colpo del tridente risuonò sulla corazza, ma il Gallo rimase saldo, dando prova così della sua forza inverosimile. La sua attenzione si concentrava non sul tridente ma sulla rete che gli girava attorno come un uccello di cattivo augurio.

Gli spettatori, trattenendo il fiato, seguivano attentamente il gioco dei lottatori. Lanio, al momento opportuno, balzò alla fine sull’avversario, ma questi, rapidissimo, gli sfuggì di mano, si raddrizzò e scagliò la rete. Il Gallo, con un giro, la respinse con lo scudo, quindi, indietreggiarono ambedue. L’anfiteatro echeggiò delle grida di “Macte!” (ammazzalo!). Nelle prime file si impegnarono nuove scommesse.

E i gladiatori ricominciarono a lottare con arte, con precisione di movimenti, da far pensare che non si trattasse di una lotta di vita o di morte, ma di una gara di destrezza. Lanio cercava di evitare la rete, retrocedendo. Allora coloro che scommettevano cominciarono a gridare: “Dagli addosso!”, eccitandolo a non riposarsi.
Il Gallo obbedì, e si slanciò sull’avversario. Il braccio del retiario si coprì di sangue e la rete gli pendette dalla mano. Lanio si raccolse e spiccò un salto per vibrare l’ultimo colpo. Ma in quel punto, Calendio, che aveva finto di non poter reggere la rete, scansò il colpo e, conficcando il tridente nelle ginocchia dell’avversario, lo fece stramazzare a terra.
Lanio, sempre più avviluppato nella rete fatale, cercava invano di rialzarsi, sempre più imbrogliandosi. Intanto altri colpi lo inchiodavano a terra; puntò la mano, raccolse le forze ma invano: portò alla testa la mano che non reggeva più la spada, e cadde. Il Circo tremò dagli applausi, dalle grida. Il pubblico era diviso in due parti. Chi gridava morte, chi grazia. Ma il retiario non guardava che Cesare e le Vestali e aspettava la loro sentenza.

Per sventura, l’imperatore non amava Lanio, perchè aveva scommesso per lui una volta ed aveva perduto, perciò, sporgendo la mano, abbassò il pollice.

Il segno fu ripetuto dalle Vestali. (E. Sienkiewicz)

Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture

Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Le oche del Campidoglio

I Galli erano un popolo ancora selvaggio che viveva di là delle Alpi; erano alti, biondi, forti e si muovevano di terra in terra in cerca di preda. Un giorno scesero in Italia, travolsero la debole difesa degli Etruschi, penetrarono nel Lazio ed entrarono in Roma, incendiando, rubando e distruggendo ogni cosa.
I Romani, per tentare l’estrema difesa, si asserragliarono sul Campidoglio, dove erano custodite le oche, sacre alla dea Giunone. Una notte, mentre le sentinelle, stanche di vegliare, si erano addormentate, i Galli si avvicinarono silenziosi alla fortezza e ne tentarono la scalata. I Romani stavano per essere sorpresi nel sonno e uccisi, quando le oche si misero a starnazzare svegliando i difensori, che corsero alle armi e ricacciarono i nemici.

La spada di Brenno

Nella rocca scarseggiavano i viveri e i Romani furono costretti a chiedere la pace a Brenno, il capo dei Galli, che volle in cambio mille libbre d’oro.
Portata la bilancia, si cominciò a pesare l’oro, ma questo non bastava mai, perchè la bilancia dei Galli era falsa. I Romani protestarono, ma Brenno buttò la sua pesante spada sulla bilancia e disse: “Guai ai vinti! Voglio ancora tanto oro quanto pesa alla mia spada!”
In quel momento terribile, Furio Camillo, radunò i Romani timorosi e dispersi e li guidò ad un assalto improvviso. I Galli non si aspettavano certo l’attacco e furono travolti. Rapidi come erano venuti, si ritirarono nelle loro terre, incalzati dall’esercito di Camillo. Il valoroso generale romano fu chiamato il secondo fondatore di Roma.

L’invasione dei Galli

I Galli erano popoli che abitavano nella regione che oggi si chiama Francia e che anticamente era denominata Gallia. Essi passarono le Alpi e scesero in Italia in cerca di nuove terre. Dopo aver occupato gran parte dell’Italia Settentrionale, attraversarono l’Etruria (così era chiamata in quel tempo la Toscana) e penetrarono nel Lazio. I Romani si prepararono a difendere il loro paese minacciato e dettero battaglia presso l’Allia, un piccolo affluente del Tevere, a soli 16 km dalla città, contro un nemico agguerrito e triplo di numero. Le legioni romane furono travolte, e la via della città aperta al nemico (390 aC).
La popolazione, atterrita, fuggì ma gli uomini atti alle armi si raccolsero a Veio, preparandosi a continuare la resistenza. Solo per patriottismo e per attaccamento al suolo nativo, rimase a Roma un piccolo numero di vecchi, in gran parte patrizi. Un manipolo di giovani animosi si asserragliarono nella fortezza del Campidoglio da dove respinsero l’uno dopo l’altro i ripetuti attacchi del nemico.

Papirio e i Galli

Quando i Galli entrarono in Roma solo i vecchi si rifiutarono di abbandonare le loro case e rimasero in città. Quelli che avevano occupato alte cariche, indossarono la loro toga di cerimonia ed attesero, seduti sul loro scanno d’avorio.
Quando i Galli, avidi di bottino, entrarono nella indifesa città trovarono le case dei plebei sbarrate e vuote, quelle dei patrizi spalancate.
Esitanti si affacciarono dentro l’atrio delle dimore patrizie e la vista di quei vecchi maestosi, immobili come statue, solenni come divinità, li intimorì.
Si racconta che un Gallo volle lisciare la barba a uno di essi: quel gesto ruppe ogni incantesimo. Marco Papilio, tale era il nome del vecchio, colpì con lo scettro che teneva in mano il rozzo soldato e questo segnò l’inizio della strage.
Tutti i vecchi furono trucidati, tutte le case furono saccheggiate e incendiate.

Le oche salvano il Campidoglio

I Galli decidono di approfittare del favore delle tenebre per tentare l’assalto al Campidoglio; con  passo felpato e circondati da un silenzio così profondo da ingannare non solo le sentinelle ma gli stessi cani da guardia, si fanno sotto la rocca.  Non un ramo spezzato, non un bisbiglio: pare che trattengano perfino il respiro. E così cominciano la scalata. Ma non possono sfuggire alle oche sacre a Giunone, quelle oche che i Romani, malgrado la carestia dell’assedio, avevano risparmiato per ossequio alla dea. E le oche salvarono il Campidoglio, salvarono Roma. Intuita la presenza degli estranei, cominciarono a gridare, sbattendo gran colpi d’ali. Il fracasso sveglia M. Manlio che, chiamando all’armi i compagni, corre sugli spalti della rocca: un Gallo è già giunto lì sopra, pronto a scavalcare, ed egli lo precipita giù, facendogli trascinare nella caduta quelli che lo seguivano più vicini. Intanto tutti i Romani subito riuniti assaltano il nemico con ogni sorta di proiettili, specie con macigni che li schiacciano e li fanno rotolare in basso.

Il secondo fondatore di Roma

Purtroppo, costretti dalla fame, dopo pochi giorni, i coraggiosi difensori della rocca capitolina dovettero venire a patti coi Galli. E venne stabilito che il nemico avrebbe abbandonato Roma solo dietro compenso di una grande quantità d’oro.
Mentre si pesava questo oro, Brenno, il capo dei Galli, gettò sulla bilancia, dalla parte dei pesi, la sua pesante spada, per aumentare la taglia; e alle proteste dei Romani arrogantemente rispose: “Guai ai vinti!”
Proprio in quel momento rientrava in Roma Furio Camillo, valoroso generale che aveva raccolto e radunato i guerrieri fuggiaschi. Come una furia giunse sulla piazza; si arrestò di fronte a Brenno dicendo: “Non con l’oro, ma col ferro si libera Roma!”
I Romani, rianimati da tanto coraggio, ripresero la lotta, e i Galli, con enormi perdite, furono cacciati dalla città e costretti alla fuga. Roma era salva.
La città, quasi totalmente distrutta, per volere di Camillo venne ricostruita più bella e più grande.

Camillo

Camillo era un grande generale romano. Egli viveva in esilio, essendo stato accusato di essersi appropriato dei bottini di guerra. Quando apprese che i Galli stavano contrattando la resa di Roma, formò un piccolo esercito di soldati fuggiaschi, arrivò in Campidoglio e provocò la fuga dei barbari e di Brenno, il loro capo.

Furio Camillo

Nel 389 aC Roma attraversò uno dei più critici momenti della sua storia. Un’irruzione di Galli cisalpini, popolo barbaro e indubbiamente assai inferiore ai Romani in virtù militare, invase l’Etruria, minacciando il territorio della stessa Repubblica. Roma mandò loro incontro le sue milizie, ma, orgogliosamente svalutando la potenza di quelle avversarie, le affidò a sei tribuni militari, per giunta fra loro discordi. Sul piccolo fiume Allia, a nord est di Roma, avvenne lo scontro: l’esercito romano fu letteralmente distrutto.

I Galli proseguirono quindi la marcia verso l’Urbe, nella quale entrarono tre giorni dopo la battaglia: furono stupiti di trovarla indifesa e con le porte aperte. Se ne impadronirono quindi senza colpo ferire, e la saccheggiarono e incendiarono facendovi grosso bottino, ma non poterono occupare la rocca del Campidoglio, dove le forze romane superstiti si erano fortificate, pronte a sostenervi un lungo assedio. Allora i Romani pensarono di richiamare al comando dell’esercito un grande capitano che, nonostante le sue mirabili gesta in una precedente guerra contro gli Etruschi, essi avevano mandato in esilio: Marco Furio Camillo.

Camillo giunse a Roma, alla testa di un esercito proprio mentre gli assediati nel Campidoglio stavano patteggiando la resa coi Galli: questi erano comandati da Brenno.

Si era convenuto che, dietro il pagamento di mille libbre d’oro, i Galli avrebbero sgomberato la città; e già si stava pesando il prezioso metallo. Senonché quei barbari usavano inganno nel peso, prima nascostamente, poi anche in palese, come scrive Plutarco, facendo piegare la bilancia dalla loro parte.

E alle lagnanze dei Romani, Brenno aveva risposto con le arroganti parole: “Guai ai vinti!”, e, ciòò dicendo, si era slacciato la spada e insieme col pendaglio, l’aveva aggiunta ai pesi.

A questo punto si ode clamore alle porte della città: sono le avanguardie di Camillo.

E il dittatore, a gran passi, si avvicina; eccolo, è giunto sul colle Capitolino, mentre i Galli, esterrefatti, lo guardavano senza osare fermarlo.

Camillo toglie dalla bilancia l’oro, lo dà ai littori, impone ai Galli di prendere la bilancia e i pesi e di andarsene, e aggiunse che i Romani avevano per loro antica usanza di salvare la patria non con l’oro, ma col ferro.

Nacque subito una zuffa, e sarebbe degenerata in battaglia, se Brenno, con assennata prudenza, non avesse, di nottetempo, abbandonato Roma, ritirandosi a molte miglia da essa.

Ma il giorno seguente, allo spuntare del sole, quei barberi si videro davanti, sorto come per miracolo durante la notte, un esercito ordinato e scintillante di armi e di corazze: lo comandava Camillo. Questa volta furono i Romani ad attaccar battaglia, e non desistessero dal combattere finchè l’ultimo Gallo non fu trucidato o messo in fuga. Ciò fu nel febbraio del 388, essendo l’occupazione di Roma per opera di Brenno durata sette mesi.

Si può immaginare come fosse stata ridotta la città di Romolo; tanto che una corrente di cittadini e di capi fra essi, propendeva per l’abbandono dell’Urbe, e il trasferimento della capitale nella città di Veio. Camillo era di contraria opinione, ma, rispettoso delle leggi, chiede che la cosa venisse deliberata in Senato. Ora, mentre i senatori stavano parlamentando, un centurione, che si trovava a passare presso la Curia, chiamò a gran voce l’alfiere, e gli ordinò di fermarsi e di piantare l’insegna nel luogo dove si trovavano.

“Qui” soggiunse, “resteremo ottimamente”. La voce entrò come un comando e un vaticinio nell’aula senatoria, e parve lo stesso comando di un Dio. E così Roma fu salva, e a Camillo fu attribuito il titolo, mai dato ad altri, di “secondo fondatore di Roma”.

Molte altre gloriose imprese compì ancora questo magnifico condottiero e uomo politico. Basterà dire che per sei volte fu tribuno militare, per cinque dittatore, ed ebbe quattro volte gli onori del trionfo.

Ma non potè concludere, come forse avrebbe desiderato, la sua vita magnanima nell’ardore della battaglia, perchè nel 366 aC morì di pesta. A perenne ricordo gli venne eretta una statua nel Foro, ultima e postuma onoranza fra le tante che questo grande Romano ebbe dalla sua città.

Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Il primo triumvirato

Dopo la morte di Mario e Silla si costituì in Roma il primo triumvirato, cioè il primo governo di tre persone; in tal modo il Senato perdette gran parte della sua autorità e del suo potere e la Repubblica si avviò verso il tramonto.
Questo primo triumvirato era formato da Gneo Pompeo, un abile generale che aveva occupato la Palestina e vinto i Pirati; da Licinio Crasso, noto per le sue sterminate ricchezze; e da Giulio Cesare, un abile generale parenti di Mario e caro ai plebei.
A Crasso fu affidato il comando della guerra contro un popolo asiatico e vi trovò la morte. Pompeo rimase in Roma e Cesare fu inviato a combattere nella Gallia.

Crasso

Ai nostri tempi Crasso sarebbe stato un grande capitalista, un grande uomo d’affari. Aveva una maestranza specializzata di cinquecento schiavi ed ogni volta che Roma era colpita da uno dei soliti incendi o disastri edilizi (le case erano quasi tutte di legno, anche se rivestite di laterizi) egli comprava macerie e terreni e ricostruiva o restaurava.
I suoi schiavi non erano solo specializzati in costruzioni, ma molti erano istruiti e sapevano fare gli scrivani, gli amministratori, i dispensieri, i saggiatori d’argento. Una vera e propria organizzazione industriale!
Ma questo finanziere faceva anche della politica attiva e sempre in prima linea, senza interposta persona. E’ lui l’organizzatore ed il selezionatore di schiavi che, riunito un esercito, vince la battaglia alle sorgenti del Silaro, in cui Spartaco (capo di un gruppo di gladiatore rivoltosi) fu sconfitto ed ucciso.
Crasso cadde in uno sfortunato tentativo di conquista del regno dei Parti.
(F. Arnaldi)

Pompeo

Ufficiale di Silla, diviene ben presto un prode generale. E’ un uomo audace, deciso a tutto. Una volta, mentre stava per salpare  da un porto si levò un vento fortissimo e i piloti decisero di rimandare la partenza. Ma Pompeo saltò sulla nave e ordinò a gran voce che si salpasse ugualmente dicendo: “Ora è necessario navigare, e non vivere”.

Cesare

Lavorava instancabilmente: dormiva  per lo più in lettiga, per continuare la marcia anche di notte. Del cavallo era padrone assoluto, poichè, fin da ragazzo, si era abituato a montarlo e a farlo galoppare tenendo le mani incrociate sul dorso. Divenuto generale, mentre cavalcava, si teneva vicino due o tre scrivani ai quali dettava nello stesso tempo lettere su argomenti diversi.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
Giulio Cesare

Dopo gli anni delle guerre civili, la pace ritornò tra i cittadini romani. Un patrizio abile e ambizioso, Cneo Pompeo, spense le ultime resistenze del partito di Mario e si conquistò molta stima lottando vittoriosamente contro i pirati che minacciavano la navigazione nel Mediterraneo.
Con Pompeo, un altro personaggio si metteva in luce a Roma: Caio Giulio Cesare, di nobile origine, ma amico del popolo. Cesare e Pompeo si accordarono per dividersi il potere e, per alcuni anni, non si ebbero contrasti.
Un grande progetto maturava intanto nella mente di Cesare: l’Italia era tutta romana, ma di là dalle Alpi, c’erano altre terre e altri popoli da conquistare. Cesare mosse con le sue legioni verso la Gallia, la regione che oggi chiamiamo Francia. Fu una guerra lunga e difficile. Le tribù dei Galli si difesero con molto coraggio. Infine Cesare fu padrone di tutta la Gallia: una nuova terra, una provincia, si aggiungeva al dominio di Roma.
Cesare continuò la sua impresa: in dieci giorni gettò un ponte sul fiume Reno, assalì i Germani che abitavano sull’altra sponda e conquistò un tratto delle loro terre. Poi, giunto alla riva dell’oceano Atlantico, preparò una flotta, sbarcò in Britannia, la grande isola che oggi si chiama Inghilterra, e ne sottomise una parte.
Le imprese compiute da Cesare erano straordinarie e tutto il popolo seguiva con entusiasmo gli avvenimenti. Pompeo ebbe timore che la fama di Cesare oscurasse la sua e convinse il Senato a richiamare il generale vittorioso; giunto ai confini dello stato romano egli doveva congedare i legionari e presentarsi a Roma, solo.
Cesare capì che lo si voleva privare del comando. Tornò in Italia con tutto il suo esercito ed entrò in armi nello stato romano, il confine del quale era segnato, allora, dal breve corso del fiume Rubicone (nella pianura romagnola). Cesare si fermò presso il fiume un istante: valicarlo con le legioni voleva dire ribellarsi all’ordine del Senato. Poi si decise e spinse il cavallo nell’acqua esclamando: “Il dado è tratto”.
Cesare entrò in Roma accolto come un trionfatore. Pompeo e gli altri Senatori erano fuggiti dalla città. Pompeo si era rifugiato in Grecia, dove stava raccogliendo le forze rimategli fedeli per preparare la rivincita. Cesare non gliene diede il tempo: lo raggiunse e lo sconfisse in una dura battaglia a Farsalo. Pompeo fuggì in Egitto, stato amico e protetto da Roma. Il re egiziano Tolomeo capì che le sorti dello scontro volgevano a favore di Cesare; catturò Pompeo, lo fece uccidere, ne mozzò il capo e lo presentò al generale vittorioso. Cesare, davanti al nemico ucciso a tradimento, pianse: Pompeo non meritava una morte senza gloria.
Ormai Cesare non aveva più avversari in grado di contrastarlo. Tornato a Roma, fu eletto Dittatore a vita.
Egli aveva un animo grande e generoso e non abusò mai del suo potere, eppure nel cuore di molti nacque il timore che Cesare volesse sopprimere la Repubblica e farsi nuovo re di Roma. Un gruppo di suoi avversari più accaniti lo attese in Senato e lo colpì a pugnalate. Tra gli assalitori, Cesare vide anche Bruto, un giovane che egli aveva protetto e beneficato. Allora non volle più difendersi; si coprì il volto con la toga e cadde trafitto dai pugnali. Era l’anno 44 aC.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
La conquista della Gallia

La più grande impresa di Cesare fu la conquista della Gallia, che egli stesso narrò nelle bellissime pagine dei suoi Commentari. Questi famosi libri di ricordi non ci descrivono soltanto le battaglie combattute da Cesare contro i popoli che abitavano oltre le Alpi, ma ci parlano anche dei loro costumi, del loro modo di vita, delle loro credenze religiose.
I Commentari sono anche un prezioso “atlante” di geografia. Cesare, infatti, fece conoscere agli uomini del suo tempo nuove terre e descrisse i fiumi, le montagne, le città e i villaggi, attraverso i quali passava con i suoi soldati.
La Gallia era abitata da popoli quasi barbari. All’inizio delle guerre galliche, nell’accampamento romano circolavano strane voci: si diceva che i Galli erano guerrieri altissimi di statura, assai feroci, e moti soldati avevano paura.
Non appena Cesare fu a conoscenza di questo, radunò i suoi soldati e disse loro: “Ho sentito che qualcuno di voi ha paura di questi Galli, come se in guerra contasse di più la statura e l’aspetto terribile del valore e della disciplina. Chi non vuole venire con me, domani, o quando darò il segnale della marcia, rimanga pure nelle tende”.
A quelle parole i soldati gridarono: “Verremo tutti con te!”
L’indomani nell’accampamento suonarono le trombe e iniziò la marcia vittoriosa.
In meno di otto anni Giulio Cesare espugnò ottocento città. Tutta la Gallia, corrispondente più o meno alla Francia, al Belgio, all’Olanda e alla Svizzera di oggi, diventò dominio romano.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
In Britannia

Conquistate le Gallie, Cesaer superò la Manica e sbarcò in Britannia. Questa impresa d’oltremare ebbe il valore di un’esplorazione. “Cesare” scrisse lo storico Plutarco, “fu il primo a guidare una flotta romana nell’Oceano Occidentale (Atlantico). Con il suo sbarco allargò le cognizioni dei Romani al di là dei limiti del mondo conosciuto”.
Cesare raggiunse l’isola con ottocento vascelli. Non potè però portare a termine la conquista di quel paese perchè ebbe notizia di una sollevazione della Gallia.
Infatti il capo dei Galli ribelli, il principe Vercingetorige, si era posto a capo di numerose tribù per scacciare le legioni romane. Cesare lo assediò nella roccaforte di Alesia e lo costrinse alla resa. Così la Gallia divenne definitivamente una provincia romana (52 aC).

Il dado è tratto

Secondo le tradizioni, un generale vittorioso aveva il diritto di rientrare a Roma da trionfatore. Al trionfo di Cesare si oppose l’ambizioso Pompeo che, in realtà, voleva diventare il solo padrone della Repubblica. Cesare, allora, rischiò tutto per tutto e rientrò in Italia alla testa delle legioni.
Giunto al Rubicone, Giulio Cesare si fermò perplesso. Egli aveva superato ben altri fiumi, larghissimi e impetuosi. Anzi, con grande stupore dei suoi militi, si era improvvisato ingegnere, costruendo rapidamente grandi ponti di legno. Ma davanti al Rubicone si arrestò, col cavallo fermo, le zampe puntate nella riva ghiaiosa.
Il Rubicone era il confine segnato dal Senato. Egli non lo poteva attraversare senza il permesso dei Senatori romani. Attraversarlo voleva dire farsi ribelle l’autorità di Roma.
Giulio Cesare rimase un istante incerto. Una ruga gli si disegnò sulla fronte, che portava sempre scoperta, senza l’elmo. Poi, risolutamente, spinse il cavallo facendo cenno ai portatori delle Aquile di seguirlo.
Il cavallo, con un balzo, lo portò sull’altra riva. Allora il volto di Giulio Cesare si rischiarò. “Il dado è tratto!” disse. La cosa è fatta.
Avrebbe marciato su Roma e sarebbe diventato il capo, non soltanto del suo esercito, ma di tutti i Romani.

Cesare dittatore

Tornato a Roma, Cesare venne onorato con 4 grandiosi trionfi e dal Senato ricevette il titolo di dittatore a vita. Cesare seppe governare nell’interesse del popolo: distribuì terre ai poveri e ai veterani dell’esercito, scacciò i funzionari disonesti e obbligò i grandi proprietari terrieri a far coltivare le loro terre non dagli schiavi, ma da liberi cittadini: in questo modo sarebbe scomparsa la disoccupazione.

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Le idi di marzo

Più volte il Senato offrì a Cesare la corona di imperatore; ma egli sempre rifiutò, perchè credeva che ancora vosse viva la libertà della Repubblica. Tuttavia alcuni patrizi videro in lui il tiranno e decisero di ucciderlo. Fra i congiurati era persino Giunio Bruto, che Cesare amava come un figlio. Fu deciso di ucciderlo in Senato, nel giorno delle idi di marzo (cioè il 15 marzo) del 44 aC.
Pareva che il cielo si opponesse a questa infamia. Un sogno avvertì la moglie di Cesare che il marito correva un grave pericolo; ed elle cercò di trattenerlo a casa, ma invano. Poi, lungo la strada, un indovino avvertì il dittatore e un altro cercò di trattenerlo sulla porta del Senato. Ma sempre invano.
Appena entrò nel Senato, i congiurati gli si gettarono addosso coi pugnali alzati. Cesare cercò di ripararsi con la toga, ma quando vide che tra gli assalitori c’era Bruto, esclamò: “Anche tu, Bruto, figlio mio?”. Rattristato si coprì il volto con la toga per non vedere e cadde morto ai piedi della statua del suo antico avversario Pompeo.

Il calendario giuliano

Il nostro calendario si basa sul Sole, cioè sul movimento di rivoluzione della Terra che gira intorno al Sole. Gli antichi popoli, invece, avevano un calendario basato sulle fasi della Luna.
Anche il calendario romano si basava sulla Luna, e aveva causato grande confusione, tanto è vero che le feste della mietitura non capitavano più in estate, nè quelle della vendemmia in autunno.
Fu Giulio Cesare a far adottare il calendario solare, che fissava la durata dell’anno in 365 giorni e un quarto: lo stesso calendario che usiamo noi, sia pure con qualche modifica. Forse ti chiedi perchè proprio Giulio Cesare volle riformare il calendrio: perchè era Pontefice Massimo, e il calendario era un aspetto della religione. Infatti nell’Antica Roma, il sacerdote e il magistrato erano la stessa persona.

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Ritratto di Cesare

Fu di alta statura, di carnagione bianchissima, occhi neri e fulminei, salute d’acciaio, eccetto negli ultimi tempi, molto accurato nella persona e nelle vesti.
Molto sobrio nel bere, poco curante dei cibi.
Nell’eloquenza e nell’arte della guerra uguagliò se forse non superò tutti i più famosi. Cicerone scriveva di lui: “Quale oratore, anche di coloro che non hanno mai atteso ad altro, si può anteporre a Cesare? Chi più acuto e più ricco di idee? Chi più ornato ed elegante nella forma?”
Nell’uso delle armi e nel cavalcare fu abilissimo, resistente oltre dire alla fatica. Durante la marcia era sempre in testa alle truppe, qualche volta a cavallo, più spesso a piede, e a capo scoperto sia che piovesse, sia fosse bel tempo.
Faceva viaggi lunghissimi con incredibile rapidità, giungendo a percorrere cento miglia al giorno; se un fiume gli impediva di proseguire, lo attraversava a nuoto o tenendosi a galla con otri gonfiati. Nelle spedizioni guidava il suo esercito con audacia pari alla prudenza. Se doveva attraversare zone pericolose non faceva avanzare i suoi uomini se prima non aveva esaminato attentamente la natura del luogo.
Molti sono gli episodi che testimoniano il coraggio di Cesare. Una volta, per rientrare nel proprio accampamento cinto d’assedio dai Germani, si travestì da guerriero gallo ed attraversò indisturbato le linee ed i posti di guardia nemici.
Una notte tentò la traversata dell’Adriatico affidandosi da solo ad una piccola imbarcazione, senza rivelare la propria identità al barcaiolo. Solo quando la tempesta minacciò di travolgere l’imbarcazione, Cesare permise al barcaiolo di tornare indietro.
Amava i suoi soldati e ne era riamato: li giudicava infatti in base al loro valore e li trattava con grande severità o indulgenza a seconda delle necessità. Quando il nemico era vicino, esigeva nell’accampamento una disciplina ferrea e non ammetteva che si chiedesse l’ora ed il luogo del combattimento. Tutti dovevano essere pronti per attaccare o per marciare al momento che lui riteneva opportuno. Con questi metodi Cesare si assicurò la devozione dei suoi uomini e ne fece dei soldati coraggiosissimi (rid. da Svetonio, “Le vite di dodici Cesari”)

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Cesare, uomo di attività

Il dinamismo di Cesare era leggendario e famosissimo quando ancora egli era in vita. Divenne poi quasi un esempio costante, dopo la morte del dittatore, nè alcuno storico benevolo o malevolo che fosse, si dimenticò di parlarne. Anche Plutarco fa un ritratto di Cesare in cui sottolinea il dinamismo di quel condottiero; dice, lo storico greco, che Cesare era gracile e pallido e soggetto a continue emicranie. Ma da questa debolezza del corpo egli, invece che farne una scusa per vivere in modo tranquillo con abitudini molli, trasse motivo di esercitare il corpo in continue marce, mangiando frugalmente e dimorando il più possibile all’aria aperta. Per lo più dormiva su di un carro o su di una lettiga, accoppiando così il riposo con l’azione. Durante il giorno si recava con il cocchio a visitare accampamenti, città e fortificazioni, tenendosi sempre al fianco un giovanetto esperto nello scrivere strada facendo quel che egli dettava. Lo seguiva un soldato con la spada. Viaggiava inoltre con tanta rapidità che la prima volta che partì da Roma giunse al Rodano in otto giorni. Il cavalcare gli riusciva facile perchè vi si era addestrato sin da fanciullo e sapeva stare, con le mani sul dorso, sul cavallo spinto al galoppo. E fu proprio durante quella sua prima campagna che si abituò a dettare lettere cavalcando a due scrivani contemporaneamente; anzi, secondo quel che riferisce Oppio, anche a più di due alla volta.
Era poi molto resistente alle fatiche del nuoto, cosa che lo salvò durante la battaglia di Alessandria contro Tolomeo.

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La ricognizione di Cesare in Britannia

Nel quarto anno della guerra gallica (55 aC) Cesare conduce due ardite spedizioni: una contro i Germani d’oltre Reno, che avevano oltrepassato il fiume e inflitto uno scacco alla cavalleria romano-gallica; l’altra in Britannia, sul finire dell’estate. In dieci giorni getta sul Reno un ponte magnifico e passa con tutto l’esercito. Devasta il territorio dei Sugambri e li costringe a rifugiarsi nelle selve, semina il panico fra gli stessi Suebi che pure  si occultano nelle foreste; e dopo aver fatto un soggiorno di 18 giorni sulla riva germanica, ripassa il Reno e distrugge il ponte. Evidentemente il momento non gli parve opportuno per una guerra germanica fra le selve e le paludi, con la Gallia irrequieta alle spalle: nei Commentari egli afferma che le sue intenzioni non andavano oltre una ricognizione.
E come ricognizione egli intraprese pure la sua prima spedizione in Britannia sulla fine dell’estate.
L’estate volgeva al termine, e per quanto nella Gallia settentrionale l’inverno sia precoce, Cesare iniziò i preparativi di una spedizione in Bretagna, dove sapeva che i Galli avevano ricevuto aiuti in tutte le loro guerre. Se la stagione non fosse stata sufficiente, considerata già un risultato apprezzabile riuscire a sbarcare nell’isola e osservare direttamente gli abitanti, i luoghi, i porti, le vie d’accesso, di cui i Galli non avevano quasi notizia. E’ raro infatti che qualcuno si diriga in quella regione, ad eccezione dei mercanti; del resto anche questi non conoscono altro che la zona costiera e il paese che sta di fronte alla Gallia.
Cesare chiamò a sè i mercanti da ogni dove, ma non gli fu possibile venire a conoscere ne l’estensione dell’isola, ne il numero e la natura degli abitanti, ne la loro pratica militare, ne le loro istituzioni. Oscuro parimenti gli restava quali fossero i porti adatti per un gran numero di navi grandi.
Per raccogliere le informazioni necessarie prima di affrontare la prova, mandò con una nave da guerra Voluseno, uomo di fiducia, con l’ordine di compiere un’attenta esplorazione e di tornare al più presto. A sua volta si reca fra i Morini, di dove il passaggio in Bretagna era brevissimo, e dispone che si radunino là molte navi e la flotta che l’estate precedente aveva sostenuto la campagna contro i Veneti.
Frattanto il disegno di Cesare si era divulgato e i Britanni ne erano venuti a conoscenza per mezzo dei mercanti. Alcune città dell’isola mandarono legati a lui, promettendo ostaggi e dichiarandosi pronti a obbedire agli ordini di Roma. Cesare li ascoltò con molta cordialità e li esortò a tener fede alle promesse, quindi li rimandò ai loro paesi, in compagnia di Commio, un capo che Cesare aveva fatto re degli Atrebati, dopo la vittoria riportata su di essi. Il generale romano ne conosceva molto bene il valore e l’intelligenza, lo riteneva uomo fidato, e sapeva che godeva grande prestigio in quelle regioni. Gli ordina dunque di recarsi in quante più città può, di persuaderle ad accogliere il dominio di Roma e di annunciare la sua prossima venuta. Voluseno intanto, dopo aver osservato tutte le regioni dalle navi (egli diffidava dei barbari e perciò aveva creduto bene non sbarcare), tornò cinque giorni dopo da Cesare e gli comunicò il risultato delle sue osservazioni.
Mentre Cesare indugia in questa regione per allestire la flotta, la maggior parte dei Morini mandarono legati per scusarsi della condotta tenuta in precedenza verso di lui, cioè che, barbari e ignari com’erano della consuetudine, avessero osato far guerra ai Romani, e per promettere obbedienza. Questa ambasceria parve oltremodo opportuna a Cesare, il quale non voleva lasciarsi un nemico alle spalle, nè poteva, data la stagione, fare una guerra; d’altra parte non gli era possibile anteporre alla spedizione in Bretagna questioni di sì piccola importanza. Pertanto impose loro gran numero di ostaggi. Questi furono consegnati e la loro sottomissione fu accolta.
Radunate e allestite circa ottanta navi da carico, quante gli parevano necessarie per il trasporto di due legioni, le distribuì, insieme con le navi da guerra che aveva, al questore, ai legati e ai prefetti. Cesare disponeva inoltre di diciotto navi da carico, che si trovavano a otto miglia di distanza, alle quali i venti impedivano di raggiungere il porto di concentramento; e queste le assegnò ai cavalieri. Il rimanente dell’esercito lo affidò  ai legati Quinto Titurio Sabino e Lucio Auruncueleio Cotta, perchè lo conducessero fra i Menapii e nei paesi dei Morini, che non avevano mandato legati a presentarsi. Infine ordinò al legato Sulpicio Rufo di presidiare il porto Izio con un conveniente nucleo di forze.
Appena ebbe compiuti questi preparativi e si presentò il tempo propizio alla navigazione, dopo la mezzanotte levò le ancore, ordinando in pari tempo alla cavalleria di raggiungere l’altro porto, imbarcarsi e mettersi sulla sua rotta. L’ordine fu eseguito con una certa lentezza, mentre Cesare all’ora quarta toccava la Bretagna con le prime navi. Su tutti i colli lo aspettavano schierate le forze nemiche. Il terreno presentava una serie di alture che dominavano il mare e dall’alto permettevano di lanciare dardi sulla spiaggia. Lo sbarco in quel luogo non era facile, pertanto Cesare calò le ancore e aspettò che arrivassero le rimanenti navi.
Intanto, convocati i legati e i tribuni, e messili al corrente delle informazioni avute da Voluseno, espose loro i suoi intendimenti, e raccomandò di eseguire ogni atto, al cenno del comandante e al momento opportuno, secondo le regole dell’arte militare e soprattutto della marina. Sciolta la riunione, per buona combinazione venti e marea erano propizi. Allora diede il segnale; si levarono le ancore ed egli condusse le navi ad ancorarsi a circa sette miglia da quel luogo, in una spiaggia aperta e piana. I barbari, quando videro le intenzioni dei Romani, mandarono avanti la cavalleria; fatti poi seguire i carri, con cui più di frequente combattono, e le altre forze, cercavano di impedire ai nostri di sbarcare.
Lo sbarco era oltremodo difficile per diverse ragioni. Le navi, data la loro grandezza, dovevano fermarsi al largo; i soldati, ingari dei luoghi, con le mani impegnate, gravati dal peso non indifferente delle armi, dovevano saltare dalle navi, resistere nell’acqua e dall’acqua combattere contro i nemici. Questi invece, dalla spiaggia o avanzandosi di poco in mare, liberi nella persona, lanciavano dardi e spingevano avanti i loro cavalli assuefatti a tali prove. I nostri, atterriti, non avvezzi a tale genere di combattimento, non dimostravano lo slancio e l’entusiasmo che erano loro familiari nelle battaglie di terra.
Si combattè accanitamente da ambe le parti. I nostri però non potendo ne mantenersi ordinati, ne tener fermo il piede, ne restare nei propri manipoli, si ammassarono confusamente, chi da una nave chi da un’altra, dietro le prime insegne che trovavano, provocando grande disordine. I nemici, al contrario, che conoscevano tutti gli approdi, quando dalla spiaggia vedevano qualcuno dei nostri sbarcare isolatamente, davano di sproni al cavallo e l’assalivano nel momento dello sbarco; circondavano i nostri con forze superiori, altri lanciavano dardi al fianco scoperto, prendendo di mira il grosso.  Come si rese conto della tattica del nemico, Cesare calò molti uomini in lance e altre imbarcazioni da esplorazione, e li mandò prontamente in aiuto a coloro che vedeva in situazione critica.
Quando i nostri riuscirono a raggiungere la riva e poterono riunirsi, si slanciarono contro il nemico volgendolo in fuga; ma non poterono spingersi decisamente all’inseguimento, perchè la cavalleria non era riuscita a tenere la rotta e ad approdare all’isola. Fu questa l’unica contrarietà che nella fortunata operazione Cesare dovette incontrare. I nemici furono tuttavia sconfitti, e quando si riebbero dalla fuga mandarono tosto legati a Cesare, dichiarandosi pronti a dare ostaggi e ad eseguire gli ordini che volesse dare. (Cesare, da “Commentari della Guerra Gallica”, libro IV)

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
Cesare al Rubicone

Al campo di Ravenna è di stanza la Decimaterza legione, una forza di cinquemila fanti e di trecento cavalieri. Le altre legioni sono tarde a giungere a causa delle strade impraticabili, i valichi nevosi e le strade ghiacciate. E’ il gennaio del 49 aC.
Cesare chiama alla spicciolata i centurioni e comunica in segreto, quasi uno per uno, l’obiettivo di marcia e la condotta dell’impresa: senza carico d’armi, veramente in leggerissima, puntare su Rimini, prima città della Repubblica. Occupandola di eviti il più possibile le rapine, le stragi, i tumulti del popolo.
Uscito dai quartieri militari, lasciando il comando delle truppe al suo luogotenente, Cesare passa tutto il giorno in pubblico, assistendo allo spettacolo dei gladiatori.
Sull’imbrunire presiede un banchetto perchè tutti lo vedano. Più tardi, con indifferenza studiata e con modi di affettuosità e di sorriso, chiede di allontanarsi; ritornerà a momenti; prega gli ospiti di aspettarlo.
Appena fuori della sala Cesare allungò il passo per le vie della campagna. In luogo solitario l’aspettava un gruppo di amici, al corrente del suo proposito. Ripresero il cammino. A mezza strada, nel cuore della notte, il vento alzò la nebbia e spense le fiaccole. L’oscurità smarrì i viandanti nella rete delle strade campagnole; essi battevano a tastoni i cespugli e le stoppie alla ricerca del sentiero. Sull’alba trovarono una guida del luogo che li portò a piedi per lo stretto viottolo che era la buona via.
Le coorti bivaccavano lungo gli argini del fiume Rubicone. Sulla testata del ponte spiccava la lapide terminale della Repubblica che imponeva il disarmo dei cittadini prima di passare nel territorio di Roma. Il fiume era in magra. I legionari guardavano sull’altra riva: attendevano il cenno d’avanzata.
E Cesare comanda: “Si vada dove ci invocano i prodigi degli dei e l’iniquità dei nemici. Il dado è tratto”.
Col suo cavallo guadò il Rubicone e avanzò nel territorio della Repubblica a redini abbandonate, col seguito dei cavalleggeri.
Prima di giorno, investì e prese Rimini senza colpo ferire.
(A. Foschini)

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
Presagi delle idi di marzo

Tutti i biografi di Cesare concordano nel riferire alcuni episodi, casuali certo ma pieni di fascino in anni così carichi di superstizione; pareva che tutto concordasse nel dissuadere Cesare dall’andare verso il suo fatale destino. Anche Svetonio, che fra gli storici è il meno sensibile al fascino del mito, raccolse questi episodi e li riferì; il che ci conferma la loro autenticità.
Apparvero infatti strani segni a preannunciare la morte di Cesare. Un aruspice già lo aveva messo in guardia di un grave pericolo che gli incombeva entro i primi quindici giorni di marzo. E Cesare stesso, la notte prima degli idi, sognò di librarsi tra le nuvole, mentre la moglie Calpurnia sognava che il tetto della casa era crollato e Cesare ne era rimasto ferito. Per tali motivi, e anche perchè non si sentiva troppo bene, la mattina delle idi Cesare era perplesso e pensava quasi di restarsene a casa rimandando al altra data le faccende che doveva sbrigare in Senato. Ma poi, in ultimo, decise di uscire. Erano le 11 del mattino.
Sulla porta di casa si imbattè in un uomo che gli porse un messaggio con cui lo informava della congiura tramata a suo danno; Cesare non lo lesse e lo ripose fra le altre carte che portava con sè, pensando di leggerlo più tardi.
Sulla soglia della Curia si imbattè nell’aruspice: “Non hai indovinato”, gli disse scherzando, “sono trascorsi i primi quindici giorni di marzo, e non mi è capitato niente!”. Rispose l’aruspice: “Le idi di marzo non sono ancora trascorse del tutto!”.
Entrato in Senato, i congiurati gli si assieparono intorno e uno di essi, Tullio Cimbro, fece l’atto di porgergli una supplica, che Cesare rifiutò con un cenno, facendo intendere di rimandare a momento migliore. Cimbro lo afferrò per i lembi della toga e Cesare protestò: in quell’istante Casca, un altro congiurato, gli vibrò il primo colpo di pugnale alla gola. Cesare cercò di difendersi con uno stilo per scrivere, chè altro non aveva tra le mani, ma fu colpito ancora. Come si accorse che i congiurati lo stringevano da ogni lato, armati con il pugnale, si avvolse nella veste sul capo, lasciò cadere la toga sino ai piedi, per non giacere con il corpo scoperto quando fosse caduto. Ventitrè colpi lo trafissero, nè lui emise grido o sospiro.
(A. Foschini)

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
Cesare e il giovane Gallo

Caio Giulio Cesare fu il conquistatore della Gallia. La guerra durò quasi dieci anni, e fu spesso dura e sanguinosa.
Cesare aveva un animo nobile e non mai crudele e vendicativo contro i nemici; anzi apprezzava il loro eroismo e la loro generosità. Puniva però severamente tutti coloro che si erano mostrati crudeli, traditori e vili.
Accadde che un gruppo di otto soldati romani fu fatto prigioniero dai Galli e trascinato in un loro villaggio fortificato. Il capo del villaggio mandò a dire a Cesare che avrebbe liberato i prigionieri se dai Romani avesse avuto un eguale peso di argento. Mentre si trattava la questione, i poveri prigionieri erano sottoposti ad inauditi tormenti, così che, appena liberati e portati davanti a Cesare, questi si indignò e diede ordine al suo luogotenente di assalire il villaggio dei Galli, di incendiarlo e di far prigionieri tutti gli abitanti, cercando di recuperare l’argento versato per il riscatto.
I Galli furono facilmente sbaragliati e il loro villaggio dato alle fiamme; tutti gli abitanti vennero fatti prigionieri e portati davanti a Cesare per il giudizio di condanna.
Il generale romano ordinò che venissero uccisi i capi e tutti coloro che avevano martoriato i prigionieri romani; gli altri si dovevano vendere come schiavi.
Un prigioniero romano, a cui i barbari avevano tagliato le mani e bruciato i piedi, disse: “Cesare, fra i Galli si trova un fanciullo che non merita condanna: egli mi portò da bere ogni giorno, medicò come potè le mie ferite, mi portò dei cibi e delle vesti: io ti chiedo di consegnarlo a me: lo tratterò come fosse mio figlio.”
Cesare fece venire il fanciullo e lo consegnò al soldato, dicendogli: “Un solo atto di pietà merita la più alta riconoscenza. E tu, fanciullo, cerca di riscattare, con l’affetto verso questo soldato, tutta l’inutile crudeltà che il tuo popolo usa coi prigionieri”.
Il fanciullo venne portato a Roma, dove imparò a vivere secondo le leggi della civiltà e della giustizia.
(C. Del Grosso)

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture

Recite per bambini ANTICA ROMA

Recite per bambini ANTICA ROMA – una raccolta di recite e brevi dialoghi sulla storia romana, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Attilio Regolo

Personaggi: Attilio Regolo, la moglie coi figli, primo cittadino, secondo cittadino, altri cittadini.

Popolo: Resta a Roma, oh Regolo!

Regolo: Oh amici romani, ho giurato di ritornare fra i Cartaginesi; e il giuramento è sacro. Nessuna forza potrà far sì che Regolo manchi di parola.

Moglie: Nessuna forza? Neppure la forza che viene dall’amore della tua famiglia? Guarda. Ho le lacrime agli occhi, e silenziosamente piangono anche i nostri fanciulli.

Regolo: Oh moglie mia! Non piangere. Oh figlioletti cari! Non piangete. Forte è vostro padre e anche voi siate forti, come i robusti rami di un albero saldo. Moglie mia, conduci a casa  i nostri figlioletti. Che gli dei, per mezzo tuo, li proteggano. Andate. Forse la mia decisione non è presa…

La moglie e i figli si allontanano.

Primo cittadino: Dunque, Regolo, resterai a Roma?

Regolo: Chi ha detto questo?

Primo cittadino: M’ è parso…

Regolo: Gli occhi lacrimosi dei piccoli mi hanno fatto pronunciare parole di dubbio. Ma la decisione è ben ferma nel mio cuore: tornerò fra i Cartaginesi.

Secondo cittadino: Ma i Cartaginesi non ti perdoneranno le parole che tu hai detto davanti al Senato romano!

Popolo: Resta a Roma, oh Regolo!

Regolo: Cittadini, ai miei figli, ai vostri figli insegnerete che Roma è grande perchè ricca di virtù. Col giuramento ho impegnato non solo me stesso, ma anche la dignità di Roma. E’ un Romano che ha giurato! E mi vergognerei di vivere in mezzo a voi, davanti alle statue dei nostri dei, su questo sacro Campidoglio, per non aver mantenuto la parola data!

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Annibale

Annibale: Voi sapete, oh miei soldati, che io vinco le mie battaglie per due ragioni: attacco il nemico da dove meno se lo aspetta, e lo costringo perciò alla battaglia nella località a me più favorevole. Ora si tratta, oh Cartaginesi di attaccare i Romani di sorpresa.

Soldati: Siamo in Spagna, generale. Da dove vuoi attaccare a sorpresa i Romani, in quale località della Spagna vuoi costringerli alla battaglia? Ma ti scrolli il capo, perchè?

Annibale: Perchè non sarà in Spagna che li potrò attaccare di sorpresa, ma in Italia.

Soldati: E come potremo attaccarli di sorpresa in Italia quando già le loro truppe sono in Spagna? Le dovremo fatalmente scontrare prima di raggiungere il mare e imbarcarci!

Annibale: Noi non raggiungeremo l’Italia per mare, come i Romani si aspettano, ma per la via delle Alpi a cui essi certo non pensano. Quando lo sapranno, noi saremo già nella valle del Po.

Soldati: Vuoi valicare le Alpi con sessantamila uomini?

Annibale: E gli elefanti. Così, secondo la mia tattica, farò ciò che il nemico non si aspetta.

Narratore: In tal modo Annibale giunse al fiume Trebbia, l’affluente del Po che scorre lungo i monti e le piane del piacentino. E si accampò. Con un esercito racimolato in fretta per la sorpresa dell’attacco, stanchi per il lungo cammino percorso, trafelati nell’ansia di fermare il nemico il più lontano possibile da Roma, i Romani si scontrarono con Annibale prima presso il fiume Ticino, poi presso il Trebbia. E vennero sconfitti.

(G. Aguissola)

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Cornelia

Personaggi: Cornelia, Flavia (amica di Cornelia), Tiberio e Caio.

Le due matrone romane sono sedute in conversazione. Passano ogni tanto schiave e schiavi affaccendati.

Flavia: Sai, Cornelia, che cosa penso?

Cornelia: Dimmi, Flavia.

Flavia: I Romani si fanno ogni giorno più ricchi! Non ti sembra? Osserva i miei nuovi braccialetti: sono d’oro massiccio. Guarda queste buccole preziose, che vengono dall’Oriente. Ma il mio tesoro maggiore è rappresentato da due gemme, di cui a Roma non esiste nulla di più prezioso. Forse sbaglio: so che anche tu, Cornelia, hai molti gioielli, anche se non ti piace mostrarli spesso. Ma via, sii sincera verso la tua amica Flavia; quali sono i tuoi tesori più grandi? Potranno competere con le gemme, di cui ti ho parlato?

Entrano i due ragazzi. Tiberio è il maggiore.

Tiberio e Caio: Ave, mamma!

Cornelia: Oh Tiberio, oh Caio, figlioli adorati! Ero in pensiero per voi. Roma oggi somiglia al mare in tempesta. Il pedagogo vi ha fatto passare per il Foro?

Tiberio: Sì, madre. Abbiamo visto un ufficiale minacciare alcuni poveri che tumultuavano. A noi si è stretto il cuore nel vedere una simile scena. Però il pedagogo ci ha rimproverati perchè ci siamo fatti tristi, dicendo che è indegna per i Romani una simile commozione. Ma non sono Romani anche quei poveri?

Cornelia: Sì, Tiberio. In verità, non hai torto. Anche quei poveri sono Romani.

Caio: E invece li chiamano vili canaglie. Forse, però, avranno fatto qualcosa di male!

Tiberio: Zitto, Caio! Non è vero! Ho sentito io di che si tratta. Sono cittadini che hanno dovuto vendere per forza i loro campi ai ricchi proprietari, che vogliono sempre nuove terre, ma non vi dedicano poi cure amorose. Essi chiedono giustizia. Se già fossi grande, lotterei per loro!

Caio: Ed io ti seguirei, fratello!

Cornelia: Ecco, Flavia. Tu volevi conoscere quali sono i miei più grandi tesori, vero?

Flavia: Sì, la curiosità è un difetto che non so vincere!

Cornelia: (accennando ai due ragazzi) Ebbene, questi sono i miei veri tesori, di cui spero anche in futuro di essere orgogliosa.

Cesare

Personaggi: Terenzio e Lucano, giovani romani

Terenzio: ho visto tuo padre molto felice oggi. Da molto tempo non lo vedevo così!

Lucano: Ha ben ragione d’esserlo. Tu sai che è stato favorevole a Pompeo; e perciò temeva, prima o dopo, di ricevere da Cesare l’ordine di abbandonare Roma. Invece ieri Cesare stesso l’ha fatto chiamare e gli ha detto : “Non temere Lucio Mannio. So che sei un valente e vorrei il tuo parere su una questione che mi sta a cuore”…

Terenzio: Cesare dimentica il nome dei nemici!

Lucano: E’ vero. Cesare è di animo nobile.

Terenzio: E’ generoso. Vedi quella fila di poveri?

Lucano: Sì

Terenzio: Vanno a una distribuzione di grano ordinata da Cesare in favore dei cittadini poveri. Egli, per combattere la miseria, ha distribuito le terre conquistate tra i veterani dell’esercito, ha emanato una legge contro il lusso eccessivo dei ricchi e farà costruire gigantesche opere pubbliche, tra cui un nuovo Foro, nuovi templi, basiliche e teatri.

Lucano: E’ vero che gli illustri personaggi giunti da ogni dove sono qui, a Roma, per invito di Cesare?

Terenzio: E’ vero. Molti sono studiosi. Cesare ne ha incaricati alcuni di studiare una riforma del calendario, affinchè questo sia più rispondente alla realtà dell’avvicendarsi delle stagioni. Sembra che il calendario, il quale ora conta 355 giorni, ne avrà 365,  e ogni quattro anni 366.

Lucano: Sarebbe giusto che fosse chiamato Calendario di Cesare

Terenzio: Non si chiamerà così; ma il Senato ha proposto che il settimo mese porti il nome di Julio, in onore di Cesare.

(R. Botticelli)

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Virgilio

Personaggi: Mecenate, Asinio Pollione, Virgilio

In un giardino imperiale. Si incontrano Asinio Pollione e Mecenate.

Asinio Pollione: Salve, o grande Mecenate!

Mecenate: Salve, amico Pollione! Torno ora da una passeggiata per Roma. Sono inebriato di sole, di bellezza, di felicità. Niente al mondo è più bello di Roma. Ne conosco ogni angolo; e ogni angolo mi par sempre nuovo. Le sue statue, i suoi templi, i suoi palazzi di marmo mi sembrano essi stessi coscienti della grandezza dell’Urbe. Roma è grande! Quando penso che essa è padrona di tutto il Mediterraneo e di tutto il mondo dalla Britannia alla Libia, e vedo le strade imperiali che dal Campidoglio si dipartono per ogni direzione, ripeto fra me con orgoglio “Sono cittadino romano” !”

Asinio Pollione: La fortuna di Roma, oggi, è di avere sul trono Cesare Ottaviano Augusto

Mecenate: Augusto! IL divino Augusto! Sagge leggi, e pace e benessere scendono da quel trono, come dalla sorgente un fiume che reca la vita. Oh Roma, tutti gli dei ti hanno protetta!

Asinio Pollione: Mecenate, tu che sei, per volere di Augusto, il grande protettore degli artisti e dei letterati, non ti sembra che alla nostra Roma manchi un nuovo Omero, che canti la potenza dell’Impero e la grandezza di Augusto?

Mecenate: E’ vero, o Asinio Pollione. Ci vorrebbe un poema sublime, degno dell’Odissea e dell’Iliade.

Asinio Pollione: Perchè non esorti a scriverlo il dolce Virgilio?

Mecenate: Ci avevo già pensato. L’autore delle Georgiche, che tu e io proteggiamo, è davvero un grande poeta. Ma egli è semplice e soave nell’animo. Ama la campagna, la pace, la serenità. Come potrebbe cantare anche le guerre che Roma ha dovuto combattere?

Asinio Pollione: Virgilio ama come noi la grandezza e la potenza di Roma. Vedi come gli piace abitare nell’Urbe? Vedi come abita volentieri la sontuosa villa, di cui tu gli hai fatto dono?

Mecenate: E’ vero; ma rimpiange il suo campicello di Andes, presso Mantova, da cui lui e i suoi genitori furono scacciati per una legge a loro ingiusta, e ancora ne prova dolore! Tuttavia lo esorterò, oh Asinio.

Virgilio (arrivando) E’ proprio codesto dolore, oh grande Mecenate, che oggi mi fa apprezzare in tutto il loro valore, la tua generosità, la tua amicizia e la pace romana instaurata da Augusto.

Asinio Pollione: Virgilio, dolce poeta, hai sentito le nostre parole?

Mecenate: Hai sentito che cosa speriamo da te?

Virgilio: (come se parlasse da solo) Ci fu al mondo un altro uomo, ben più famoso di me, che dovette fuggire dal luogo natio…

Asinio Pollione: Non capisco…

Mecenate: Taci, oh Asinio. Quando Virgilio parla così, la sua fantasia corre lontano. La Musa gli sta vicina. Noi non la vediamo nè la sentiamo, ma lui sì. Forse Roma avrà il suo poema immortale!

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Primi cristiani

Personaggi: Licia, ragazza romana; Priscilla, schiava; Svetonio, schiavo.

Una ragazza e una schiava giocano a palla. Ad un tratto la palla, sfuggendo alla ragazza, va lontano.

Licia: (con alterigia) Me l’hai tirata male, Priscilla! Vai a riprenderla!

La schiava obbedisce e prontamente corre a cercarla.

Licia: Dove vai?

Priscilla: A cercare la palla!

Licia: (riflettendo) Priscilla… perchè sei così docile?

Priscilla: Perchè sono una schiava e tu sei la ma piccola… Ma dov’è andata la palla? Ah… l’ho trovata!

Licia: Ridammela.

Priscilla: Eccola (gliela porge)

Licia: Dimmi, Priscilla. Che cosa volevi dire quando hai interrotto il tuo discorso?

Priscilla: Stavo per dire la parola “padrona”, ma sbagliavo.

Licia: Perchè?

Priscilla: Perchè nessuno è padrone in questo mondo.

Licia: Come? Neppure mio padre?

Priscilla: No… proprio padrone, no.

Licia: Neppure l’imperatore?

Priscilla: Neppure.

Licia: Ora chiamerò Svetonio e ti farò fustigare.  Vedrai se esistono i padroni! (A voce alta) Svetonio! Svetonio!

Svetonio: piccola padrona, hai chiamato?

Licia: (pentita) Non voglio nulla. Vattene. (Svetonio se ne va)

Priscilla: (avvicinandosi alla ragazza) Ti ringrazio, Licia.

Licia: Sì… Priscilla. Tu sei tanto buona! Ma dimmi: nessuno dunque è padrone nel mondo?

Priscilla: Veramente un padrone c’è!

Licia: E chi è?

Priscilla: Non posso dirlo.

Licia: Dimmelo.

Priscilla: E’ il Padre nostro, che è nei cieli, infinitamente buono.

Licia: Priscilla, io non dirò nulla a nessuno, ma tu parlami di questo dio…

Marco Petreio

Narratore: Nel 52 aC tutte le stirpi galliche, sotto il comando del loro capo Vercingetorige, si ribellarono ai Romani e, presso le mura di Gergovia, in Frangia, sconfissero i legionari di Cesare. In tale occasione rifulse l’eroismo del centurione Marco Petreio.

Lucio Fabio, centurione: Orsù, legionari, rinnoviamo a Gergovia i fasti di Avarico! Ricordate quanta preda facemmo in quella città? Qui una preda ancor maggiore ci attende: alle mura, alle mura! Alzatemi sulle vostre spalle, perchè voglio giunger primo alla cima! Così… forza… ecco! Ed ora a voi? Già i nemici fuggono atterriti!

Sesto Furio, centurione: Non odi le trombe che chiamano a raccolta? Discendi dalle mura, così vuole Cesare!

Lucio Fabio, centurione: Oh, Sesto. Chi ha paura non porti la spada, ma la rocca e il pennecchio! Avanti, miei legionari, avanti! Vedete là Marco Petreio che con i suoi sta ormai calandosi dalle mura nella città? Volete essere a loro secondi? Addosso ai barbari! Addosso!”

Un legionario: Quante teste di meno avranno i Galli tra poco…

Un altro legionario: E noi, quante collane d’oro avremo in più…

Marco Petreio, centurione: Presto, legionari, corriamo ad aprire le porte!

Teutomato, principe gallico (rivolto ai suoi): Ancora una volta fuggiranno, dunque, quelli a cui è affidata la libertà della Gallia? Scacciate il timore e disponetevi alla battaglia! Non vedete che soltanto pochi nemici han varcato le mura?

Narratore: Così si accese una mischia furibonda tra i pochi Romani e la moltitudine crescente dei barbari. Lucio Fabio cadde trafitto in mezzo a molti dei suoi. Marco Petreio, pur gravemente ferito, si slanciò tra i nemici

Marco Petreio, centurione: Lucio Fabio è caduto e tanti altri con lui: salvatevi, legionari! Come potremo noi sostenere lo sforzo di così gran numero di nemici? Io, per desiderio di gloria, vi ho gettati nel pericolo, ed io vi salverò. Giacchè non posso salvare me stesso, procurerò almeno di salvare voi.

Narratore: Da solo Marco Petreio sostenne l’ira nemica, finchè cadde a terra straziato da mille colpi.
Poco tempo dopo Cesare piegava per sempre i Galli e il loro capo Vercingetorige doveva seguire in catene il carro trionfale del grande generale romano.

(U. Gaiardi)

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Per strada

Personaggi: Aulo, Licio, il pedagogo di Licio

Aulo: Amico Licio, giochiamo con la moneta?

Licio: Ce l’hai?

Aulo: Guarda. Me l’ha data il liberto Lucano, ieri, quando è venuto a casa mia.
(tira fuori una moneta)
Ha l’effige del dio Giano. Da un verso c’è la testa del dio, dall’altro una nave. Testa o nave? A te la scelta!

Licio: Nave!

Aulo: Ed io testa. Aspetta: poso in terra le mie tavolette, e poi lancio la moneta.
(posa le tavolette e lancia in aria la moneta)

Licio: Ah! E’ venuta la testa per davvero! Ho perso. Tieni.
(offre al vincitore il polpaccio della gamba; e questi giù un bel colpo con la mano)
Ahi!

Aulo: Ora sta a me scegliere. Scelgo la nave.

Licio: Io, la testa.
(Aulo lancia di nuovo la moneta)

Aulo: Ho vinto un’altra volta. E’ venuta la nave. Su, dammi la gamba ancora.
(Licio offre di nuovo la gamba; e l’altro, giù un secondo colpo con la mano)

Licio: Hai! Sembri mio padre quando frusta uno schiavo. Però ora, la moneta, la voglio lanciare io!

Aulo: No, la lancio sempre io.

Licio: Perchè?

Aulo: Perchè è mia!

Licio: Questa non è ragione giusta. Il gioco così non va bene. Potresti farmi un inganno.

Aulo: Prova a ripeterlo!

Licio: Sì, lo ripeto: mi puoi ingannare. Cesariano!

Aulo: (con disprezzo) Pompeiano!

(I due ragazzi si avvicinano per misurarsi nella lotta).

Il pegagogo di Aulo: (arrivando)  Vergogna, sembrate figlioli di schiavi o di miserabili plebei. Guardate come si sciupano le vostre toghe Se non ti fermi subito, Aulo, sentirai questa sera tuo padre!

Aulo: Per Giove, staccati, Licio! Oggi l’ho già sentito abbastanza, mio padre!

Il lavoro trasforma la terra

Narratore: Nei primi anni della Repubblica, si racconta, viveva in Roma un agricoltore, padrone di un campicello, alle porte della città. I vicini lo invidiavano e, qualche volta, parlavano di lui con malignità.

Primo contadino: Un campicello miracolo, dicono… Ogni anno dà buoni raccolti.

Secondo contadino: Altro che miracoloso, amico mio, qui c’è sotto qualcosa. La pioggia scroscia, le nostre terre si allagano e il campo di Cresino resta all’asciutto…

Primo contadino: Viene la siccità, brucia tutto, e il campo di Cresino è verde e rigoglioso come a marzo

Secondo contadino: E i raccolti? Pianta uno e raccoglie venti. Sempre così, sia grano, orzo o avena.

Primo contadino: E il frutteto non lo conti? Alberi sempre carichi, mele grosse così, bianche e rosse.

Secondo contadino: Qui c’è sotto qualcosa. Arti magiche, te lo dico io!

Primo contadino: Bravo, è quel che ho sempre pensato: il vecchio la faccia di stregone ce l’ha.

Secondo contadino: E quella sua figlia spilungona che sta sempre per i campi… Canta certe nenie, tutto il giorno, china sulla zappa…

Primo contadino: Brutta faccenda. E il peggio è che non si accontentano di far prosperare le loro biade. Io temo…

Secondo contadino: Mi hai tolto la parola di bocca. Quelli hanno messo il malocchio nei nostri campi: ecco perchè, annata dopo annata, le cose vanno di male in peggio.

Primo contadino: E noi ce ne stiamo qui con le mani  in mano…

Secondo contadino: Ah, no! Questa storia deve finire, e presto. Se te la senti di venire con me dal giudice trascineremo in tribunale padre e figlia.

Primo contadino: Certo che me la sento. Andiamo.

Narratore: Di lì a qualche giorno Cresino e sua figlia furono chiamati in giudizio dal magistrato, incolpati di arti magiche in danno dei vicini.

Primo contadino: Guarda là, se ne vanno al Foro sul carro trainato dai buoi…

Secondo contadino: Come se andassero alla festa…

Primo contadino: E si portano appresso l’aratro e vanghe e zappe e tridenti.

Secondo contadino: Mah… forse il vecchio è sicuro della condanna e già pensa a sloggiare.

Primo contadino: Staremo a vedere.

Narratore: Quando il magistrato lesse l’accusa, Cresino e la figlia se ne stettero fermi e zitti, senza badare ai commenti della folla di curiosi che gremiva il Foro.

Magistrato: Cresino, ora conosci le accuse: puoi parlare in tua discolpa. Sii breve e preciso.

Cresino: Voi mi accusate di stregoneria, voi dite che il mio campo prospera per le mie arti magiche… Ebbene, non tenterò di difendermi, o Romani, anzi vi svelerò il segreto: ecco qui queste mie forti braccia che mai si stancano, ecco queste mie mani callose che quando afferrano la zappa par che non vogliano più abbandonarla… Ed ecco mia figlia che dall’alba al tramonto mi sta a fianco nei campi; ed ecco i miei buoi, i più forti, i più ben curati dell’Agro Romano… ed ecco i miei strumenti, zappe, vanghe, picche, sempre risplendenti, sempre in moto. Romani, io esercito la magia del lavoro… Orsù, magistrati, riconoscete la mia colpa e punitemi come prescrivono le leggi.

Narratore: Dalla folla si alzò un grido di ammirazione. Il magistrato alzò un braccio, impose il silenzio, poi disse…

Magistrato: Cresino, le tue arti magiche sono le stesse che hanno fatto grande la nostra città: la tenacia, la perseveranza, il lavoro. Noi magistrati di Roma ci uniamo alle lodi che ha tributato il popolo.

Recite per bambini ANTICA ROMA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Antico Egitto dettati ortografici e letture

Antico Egitto dettati ortografici e letture – una raccolta di brevi testi di autori vari per la classe quarta della scuola primaria.

Gli Egizi

L’Egitto è una terra sulla quale la pioggia cade assai raramente. Il deserto di pietra e di sabbia si stende a perdita d’occhio. L’Egitto è percorso da un grande fiume, il Nilo. Esso, una volta all’anno, nel periodo da maggio a ottobre, straripa, inonda il territorio circostante e vi depone una fanghiglia fertile. Quando le acque si sono di nuovo ritirate, il contadino ara i campi, semina e, in meno di quattro mesi, raccoglie grano in abbondanza.

Seimila anni fa, lungo le sponde del fiume benefico, sorse una grande civiltà: quella degli Egizi. Gli Egizi seppero sfruttare il Nilo; regolarono il corso delle sue acque, le incanalarono, edificarono in altro le loro case per proteggerle dagli allagamenti.

Essi formarono una società bene ordinata, guidata da leggi, governata da un re, detto faraone, venerato come un dio.

Gli Egizi erano molto religiosi: adoravano il Sole, la Luna, e molti animali. Essi credevano che ogni uomo avesse un’anima, la quale durava oltre la morte, fino a quando il corpo si fosse conservato; si preoccupavano, perciò, di imbalsamare le salme, di fasciarle e di porle in sarcofaghi riccamente decorati. I corpi così preparati si dicono mummie e sono ancora oggi intatti. Alcuni faraoni si fecero costruire tombe gigantesche, le piramidi, alte più di cento metri, occupate da corridoi, gallerie e sale.

I personaggi più importati dello Stato erano i sacerdoti e i guerrieri; poi c’era il popolo dei contadini, degli artigiani e dei mercanti; ultimi venivano gli schiavi, trattati al pari delle bestie. I sacerdoti amministravano la religione e la giustizia; istruivano il popolo, erano astronomi, scienziati, ingegneri. I guerrieri erano i nobili; seguivano il re e combattevano in gruppi di fanteria con lance, archi, scuri e pugnali.

Gli Egizi scrivevano su una specie di carta ricavata dalla pianta del papiro. Prima usarono una scrittura a disegni detti geroglifici, poi inventarono un vero e proprio alfabeto.

L’Egitto e il Nilo

L’Egitto deve la sua straordinaria fecondità alle periodiche inondazioni del fiume. D’estate, per effetto delle grandi piogge equatoriali cadute nelle zone del suo alto corso, il Nilo si gonfia tanto che l’acqua trabocca dalle rive ed inonda tutto il paese intorno, deponendo sul terreno un limo fecondatore.

In autunno, quando le acque si ritirano, il suolo riemerge meravigliosamente fertilizzato. A novembre si semina e quattro mesi dopo si miete un abbondantissimo raccolto.

Gli antichi abitanti dell’Egitto, colpiti dal meraviglioso fenomeno, non conoscendone le cause, adorarono il fiume come un dio benefico.

Ma quelle acque, abbandonate a se stesse, potevano essere anche rovinose: perciò fin dai tempi più antichi gli Egizi costruirono canali, argini e laghi artificiali, per disciplinarle a proprio vantaggio. Dono dunque del Nilo, ma anche dell’intelligenza e del lavoro umano, l’Egitto.

Le città

Lungo il Nilo gli Egizi costruirono meravigliose città. Le più belle furono Menfi e Tebe. Quest’ultima aveva cento porte di bronzo e magnifici templi dedicati al dio Sole, buono e generoso come il Nilo.

Le credenze religiose

Gli Egiziani più antichi adoravano gli animali, come il falco, l’avvoltoio, il cane, lo scorpione, convinti che in essi si incarnassero e si manifestassero gli dei.

Con particolare devozione essi adoravano Api, un bue tutto nero con una macchia bianca sulla fronte: volevano così esprimere la loro riconoscenza all’animale che aiuta l’uomo nelle fatiche dei campi.

Adoravano inoltre la Luna, che chiamavano Iside, e che pensavano fosse la moglie del Sole, cioè di Osiride.

Un’altra divinità egiziana era Ibis, l’uccello sacro che portava sulle grandi ali le anime dei morti nel regno delle ombre.

Gli Egiziani credevano che, alla morte di ogni uomo, l’anima, dopo un lungo viaggio sulle ali di Ibis, comparisse davanti ai giudici, in mezzo ai quali sedeva il dio Osiride, cioè il Sole che tutto vede. Osiride pesava le anime su una bilancia e ascoltava le loro confessioni. Le anime leggere, cioè senza colpe, volavano negli incantevoli giardini dove il grano era alto sette braccia. Le anime pesanti, cioè quelle cattive, erano subito punite.

Il culto dei morti

Quando qualcuno moriva, gli Egiziani ne imbalsamavano il corpo e lo fasciavano con lunghe e strette bende intrise di sostanze resinose.

Deponevano il morto così fasciato dentro una custodia di legno a forma umana, sulla quale facevano il disegno del volto e del vestito.

Le salme così preparate si chiamavano mummie.

Sono state ritrovate dopo migliaia e migliaia di anni e ora si trovano nei musei.

Nella tomba, accanto alla mummia, venivano posti gli oggetti appartenenti al morto.

Si credeva che esso dovesse fare un lungo viaggio. Perciò insieme con gli oggetti d’uso, si ponevano nelle tombe anche i cibi necessari per via.

Le grandi piramidi

Le più grandi piramidi furono costruite oltre quattro millenni e mezzo fa. Quella di Cheope supera i 145 metri di altezza, ciascuno dei quattro lati è 230 metri. Plinio dice che vi lavorarono 400.000 uomini per venti anni.

A destra di essa sono le minori piramidi di Chefren e di Micerino.

La sfinge

La sfinge è un monumento egiziano che sorge vicino alle piramidi di Giza. Raffigura un dio egizio con testa di donna e corpo di leone. E’ alta 17 metri ed è lunga 38. Questa statua vuole significare la forza e l’intelligenza dei Faraoni, che erano i padroni di tutte le ricchezze egiziane.

Tutankhamon

La tomba di questo famoso faraone, che regnò in Egitto dal 1358 al 1349 aC, fu scoperta nella Valle dei Re nel 1922. Il corpo mummificato del giovane re, giaceva in una bara d’oro. Attorno furono rinvenute suppellettili funerarie, e, come di consueto nelle tombe egizie, gli oggetti che avevano servito il vivo ed altri che l’affetto dei sudditi offriva perchè il faraone potesse abitare nella nuova casa dell’al di là.

La scrittura.

Gli Egiziani sapevano scrivere ma, poichè la carta non era ancora stata scoperta, essi scrivevano sulle pareti dei templi e nelle tombe, o sui fogli del papiro, un arbusto che nasce lungo il Nilo. Per scrivere sulla pietra usavano scalpelli. Per scrivere sul papiro usavano pennellini intinti nel color rosso.

Essi non usavano le lettere dell’alfabeto, come facciamo noi; disegnavano invece moltissime figurine (circa 3000), ciascuna delle quali aveva un significato. Questi disegni si dicono ideogrammi; le iscrizione composte di molti ideogrammi sono dette iscrizioni a caratteri geroglifici.

Ogni figurina aveva un suo significato. Per dire “Il sole è forte” disegnavano un tondo (che significava il sole) e accanto vi disegnavano un leone (che significava la forza).

Per dire “L’uomo è puro”, disegnavano un uomo e accanto un fiore di loto, che nasceva in riva al Nilo e dava l’idea di purezza.

La terra dei vivi

L’egiziano era un popolo semplice e la sua vita era fatta di piccole cose che per gran parte oggi ci sono rimaste conservate nelle tombe. La casa dell’uomo comune era una piccola capanna a un solo locale con una porta – finestra costruita in mattoni cotti al sole. Il tetto era per lo più di paglia.

Nell’interno c’era un focolare e molte stuoie arrotolate che venivano distese per la notte sulla terra battuta del pavimento. Pochi cibi bastavano per vivere: un po’ di pane, di quello duro che ognuno cuoceva nel proprio focolare; cipolle, minestra di ceci. Fichi freschi e fave completavano il pasto quotidiano.

Vita d’oltretomba

Gli Egiziani pensavano che ci fosse una vita anche dopo la morte. Dopo un periodo di permanenza nella cella funeraria, l’anima poteva emigrare in un’altra terra. L’anima, lasciata la tomba, deve volgere le spalle alla vallata, ed inoltrarsi arditamente nel deserto. Lì incontrerà un albero di sicomoro, detto anche “albero – fata”. Dall’albero uscirà una dea, che offrirà all’anima un piatto pieno di pan e un vaso colmo d’acqua. L’anima che accetta questi doni diviene ospite della dea, e non può più ritornare indietro, senza il permesso della dea stessa.

Paesaggi spaventosi si offrono allora all’anima: dove serpenti e ogni sorta di animali feroci si aggirano indisturbati; dove torrenti di acqua bollente scorrono impetuosi, interrotti da paludi dove scimmie gigantesche prendono i “doppi” con le reti. Di fronte a simili pericoli, molte anime non resistono  e  muoiono; ma quelle che sono fornite di amuleti e di incantesimi proseguono, e arrivano in vista di un gran lago, oltre il quale sono le isole dei beati.

L’uccello sacro, l’ibis, solleva le anime sulle sue ali e le trasporta davanti ad Osiride.

Un tribunale assai strano

In una grande sala sono adunati quarantadue assessori; in mezzo ad essi siede il dio Osiride. L’ibis pesa il cuore delle anime sulla sua bilancia. Da un altro lato, la dea Verità suggerisce alle anime una confessione negativa, che le dichiara innocenti di ogni peccato. Se il tribunale dà parere favorevole, le anime possono entrare nei campi delle fave.

I campi delle fave sono di una fertilità inesauribile: lì la battaglia del grano deve essere stata combattuta con tutte le regole… Pensate che il grano è alto sette braccia, di cui due rappresentano la spiga. I morti coltivano, mietono, ripongono le messi: però, se sono stanchi, c’è chi lavora per loro. Sono i “rispondenti”, cioè certe statuine di smalto che sono state chiuse con loro nella tomba. Si chiamano “rispondenti” proprio perchè rispondono quando il padrone li chiama al lavoro (chi sa a quanti ragazzi farebbe comodo un rispondente quando c’è un compito di grammatica, o un problema difficile…).

Ad eccezione dei lavori dei campi, le anime non fanno altro: o meglio, pensano a divertirsi, con canti, giochi e balli.

Le tre possibilità dell’anima

L’anima che esca dal corpo e dalla tomba alla ricerca di beni ultramondani ha tre possibilità:

1. il soggiorno nei campi di Jaru, dove i defunti ricevono in compenso del loro lavoro il doppio e il triplo di quanto è riservato al coltivatore del paese d’Egitto.

2. il soggiorno nei campi delle offerte, dove ogni sorta di cibi e di vivande è messa a disposizione dei fortunati che riescono a raggiungerlo.

3. il Duat, che il morto deve raggiungere prendendo posto sulla barca del Sole e dove vivono gli dei immortali. (T. Venturi)

L’enigma della scrittura egiziana

Fino a un secolo e mezzo fa la scrittura egiziana rimase indecifrabile; le lunghe iscrizione incise sulle pareti dei templi, delle piramidi, sugli obelischi, e i numerosi papiri erano un mistero.

Nel 1798, durane la spedizione napoleonica in Egitto, un ufficiale francese trovò a Rosetta, sul delta del Nilo, una stele di porfido con un’iscrizione redatta in tre forme di caratteri: egiziano antico, egiziano meno remoto, e greco. Fu quello il punto di partenza. Dal confronto fra i segni greci e i corrispondenti segni egiziani fu possibile desumere il significato di questi. Nel 1822 lo studioso francese Champollion riuscì a sciogliere l’enigma della scrittura egiziana.

Il papiro

L’albero che permise agli uomini di scrivere è il papiro. Il papiro è una grande erba perenne acquatica, con radice sotterranea – strisciante, dura e carnosa. Il fusto esterno, triangolare, si erge diritto da due fino a cinque metri, e termina con chioma a ombrello: una specie di piumino.

Il papiro prosperava già anticamente nell’Egitto, lungo il Nilo, e in Asia sulle rive dell’Eufrate. Secondo lo scrittore Cassiodoro che lasciò parecchi libri di storia, filosofia e scienza, le rive del Nilo si potevano allora scambiare per “un’immensa foresta senza rami, una boscaglia senza foglie”.

Oggi il papiro si trova con  maggiore facilità e diffusione, ma è meno cercato. Lo si trova in Palestina, in Africa, a Malta; ed anche in Sicilia, presso Siracusa, sulle rive dell’Anapo, dove lo trapiantarono gli Arabi.

Gli antichi trassero dalla corteggia del papiro un foglio largo, lungo e sottile, molto pieghevole, su cui poterono scrivere: il suo altro fusto, tagliato in sottili listarelle avvicinate le une alle altre nei due sensi verticale e orizzontale, come si farebbe per i fili di una stoffa, forniva una carta di un colore gialliccio che assomiglia alla buccia delle cipolle. (G. Bitelli).

La prima lettera

Quando gli altri popoli della terra andavano ancora a caccia con la mazza e abitavano nelle caverne, gli Egiziani costruivano le piramidi e irrigavano i terreni.

Fu così che un bel giorno un egiziano, ancora più intelligente degli altri, ebbe un’idea. Doveva mandare a dire una cosa ad un suo amico che abitava nel paese vicino. C’era appunto un tale che doveva recarvisi e l’egiziano pensò di approfittare dell’occasione. Ma se poi quello, strada facendo, si fosse dimenticato il messaggio?

L’egiziano intelligente ebbe allora un’idea: prese un bel foglio di papiro, che era una pianta che cresceva sulle sponde del Nilo, appuntì un ramoscello e si mise a fare dei disegnini sulla scorza molle.

Voleva dire “casa”? E disegnava una casa, o magari solo il tetto, o un rettangolo, qualche cosa insomma che somigliasse a una casa.

Voleva dire “bue”? Ed ecco un bel paio di corna, e l’amico doveva proprio essere tardo se non capiva che quello voleva dire bue.

La “luna” poi era presto fatta, e così il “sole”.

Quando l’egiziano ebbe finito, guardò compiaciuto i suoi disegnini, fece un rotolo del suo papiro e lo consegnò al messaggero con mille raccomandazioni e tanti saluti per l’amico.

Questi, magari, ricevendo il plico non ci avrà capito niente ed avrà pensato che l’altro aveva del tempo da perdere; invece, altro che tempo da perdere!

In quel preciso momento in cui l’egiziano intelligente tracciava i suoi disegnini sopra un pezzo di scorza di papiro, era nata nientemeno che la scrittura e nello  stesso tempo, la prima lettera. (M. Menicucci)

Il passaggio del Faraone

Neris, ragazzo egiziano di quattromila anni fa, viveva in un villaggio di povere case di fango presso il delta del Nilo. Era il maggiore di diversi fratellini e sorelline. Un proverbio dell’antico Egitto diceva: “Famiglia numerosa, grazia degli dei”.

Tutte le mattine la mamma, dopo essere stata al fiume per l’acqua, e aver preparato qualche focaccia di grano tritato, affidava le bestie ai figli: ai maschietti gli asini ed i buoi, alle bimbe le oche. Solo Neris andava col babbo, che si recava sulle sponde del Nilo a tagliare i fusti di papiro.

Ogni tanto un mercante, giunto da lontano, caricava sul suo barcone i fusti e li portava via. Neris sapeva che sarebbero serviti per fabbricare fogli su cui certi uomini sapienti avrebbero scritto. Il mercante gli aveva anche detto che la loro scrittura somigliava ai disegnini che i ragazzi facevano talvolta con uno stecco nel fango del Nilo. Quei sapienti si chiamavano scribi e il mercante soleva ripetere: – Beati loro! Gli scribi possono diventare generali, governatori, architetti, sacerdoti…-

– Ma tu, o mercante –  gli chiedeva Neris, – li hai visti questi personaggi importanti? –

– Sicuro! Li vedo sempre quando vado a Tebe, la città capitale. A Tebe ho veduto più volte anche il Faraone…-

– Davvero? E com’è? –

– Il suo passaggio è meraviglioso. Egli passa alto e rigido sul cocchio, preceduto dai Grandi Sacerdoti vestiti di porpora. Indossa abiti dorati, ha i capelli lunghi e arricciati, ma il viso tutto rasato. Le sue ciglia sono dipinte di verde, le unghie dei piedi e delle mani di rosso. In testa ha una corona sormontata da un serpente d’oro e di smalto con testa d’avorio. E’ un simbolo. Vuol dire che il Faraone ha il diritto di vita e di morte sui cittadini. Il Faraone è il figlio del Sole, un dio! –

Neris, con entusiasmo, esclamò: – Beato te, che hai veduto il Faraone! –

Allora il mercante, godendo di quella infantile sincerità, chiese al babbo di Neris di poter condurre il ragazzo a Tebe. Il babbo restò un poco incerto. Poi acconsentì.

Pochi giorni dopo, Neris saliva sul barcone del mercante. Il babbo, dopo avergli dato l’addio alzò le mani in alto e pregò il Nilo: – Salute a te che esci dalla terra e arrivi per dar vita all’Egitto! Tu che nascondi la tua origine nelle tenebre, tu, che quando straripi fai urlare la terra di gioia, tu che fai da specchio al dio Ra, il Sole, e alla dea Iside, la Luna, accompagna dolcemente il mio figliolo, che va a riverire il figlio del Sole! –

E il viaggio di Neris fu felice. Il ragazzo osservò lungo il Nilo i palazzi dell’antichissima Menfi, vide le belle navi a vela per le cerimonie religiose e quelle che trasportavano le mummie, ammirò la sfinge e le colossali piramidi. Giunto a Tebe, la città dalle cento porte di bronzo, restò meravigliato dei palazzi e dei templi maestosi. Mentre si trovava vicino al tempio di Ammone, una squadra di arcieri a cavallo annunciò il passaggio del Faraone. Il popolo si ritirò tutto da una parte della piazza in religiosa attesa.

Il cuore di Neris battè. Finalmente avrebbe goduto anche lui la vista del figlio del Sole! Ma ecco giungere altri soldati, che gridarono: – Il radioso Faraone oggi non permette lo sguardo del popolo! Giù tutti, col capo chino! Guai a chi solleverà lo sguardo! –

Il popolo si inchinò e piegò il capo. Anche Neris dovette fare altrettanto; anzi il mercante per essere sicuro del ragazzo, gli tenne una mano sul capo. Sapeva bene come fosse pericolosa una disobbedienza al figlio del Sole!

Così passò il corteo reale e il povero ragazzo non vide nulla.

– Non ti dispiacere – gli disse dopo il buon mercante, – se non hai visto il Faraone. Del resto, anch’io non l’ho mai osservato bene! Ed è giusto che sia così, perchè il Faraone è un dio. –

Ma durante il viaggio di ritorno Neris si disperò e pianse. E solo la promessa di un nuovo viaggio che il mercante gli fece, valse a consolarlo un po’. (R. Botticelli)

La famiglia egiziana – Una breve recitina

La comune famiglia dell’antico Egitto viveva poveramente in case di fango. La mattina, mentre l’uomo usciva al lavoro agricolo, la donna accudiva alle faccende e mandava le bestie al pascolo, affidandole ai bambini.

Personaggi: la madre e quattro bambini: Koti, Kamcis, Rames e Neris.

Madre: Figlioli, quando vi vedo attorno a me, sapete a cosa penso?

tutti e quattro i figli: A che cosa, mamma?

madre: al proverbio “famiglia numerosa, grazia degli dei” !

Koti: Bene! Possiamo andare?

madre: Ah no! Tu, Koti, che sei il più grande, porterai gli asini ed i buoi all’abbeveratoio; tu Kamcis accompagnerai le oche; ma non fare a cavalluccio con quelle povere bestie, capito?; tu, Rames, cercherai sterco di animali per fare il combustibile;  e infine tu, piccolo Neris, andrai in cerca di foglie secche e fuscelli

Rames: io lo sterco non lo voglio raccogliere oggi. Perchè sempre io?

madre: e va bene. Ci penserà Kamcis, e tu Rames condurrai le oche…

Koti: le oche a Rames? Non è buono, madre! Gli scapperanno come farfalle!

madre: insomma, mettetevi d’accordo. Tutti dovete lavorare. Non siete figli di uno scriba. Vostro padre lavora la terra che Api rende fertile e io ho tante cose da fare. Chi prepara, ad esempio, il pane che trovate a casa?

tutti: Tu, mamma!

madre: andate, dunque. Gli dei vi proteggano. Se vi metterete d’accordo, dirò a vostro padre che vi racconti come fu che a Tebe vide il Faraone.

(in costruzione…)

Antico Egitto dettati ortografici e letture – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma – FONDAZIONE E I SETTE RE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici sull’antica Roma, dalla fondazione a tutto il periodo regio, di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Nasce Roma

Secondo gli studiosi, verso la metà dell’ottavo secolo a.C. quando la potenza etrusca si estendeva dalle Alpi fin presso il Tevere, sorse nel cuore dell’Italia un umile villaggio di Latini, destinato a diventare il dominatore del mondo: Roma.

I Latini si erano stabiliti nella vasta pianura ondulata che è tra il basso Tevere, i colli Albani ed il mare. Il nome Lazio, dato alla regione, significa “luogo largo ed aperto”.

Il suolo era adatto alla pastorizia ed all’agricoltura ed infatti i Latini furono pastori ed agricoltori. Vivevano in capanne sparse per la campagna o si raggruppavano in villaggi detti vici ed oppida, che servivano da rifugio anche alla popolazione sparsa per la campagna, quando vi fosse qualche pericolo.

I villaggi erano fondati sulle alture sia per ragioni di sicurezza, sia per igiene: infatti i popoli delle vicine montagne (Sabini, Marsi), facevano frequenti scorrerie nella pianura per saccheggiare i raccolti, e le acque dei fiumi, impaludando, provocavano la malaria.

Il villaggio sul colle Palatino fu il primo nucleo di Roma, la Roma quadrata. Coi Latini del Palatino si fusero ben presto i Sabini del Quirinale.

Questo gli studiosi hanno potuto sicuramente stabilire attraverso i ritrovamenti archeologici e l’interpretazione di essi, liberando il vero dalle molte leggende che avvolgono le origini di Roma.

Secondo la leggenda

Quando i Romani furono i signori del mondo, vollero nobilitare le loro origini ed elaborarono una vasta leggenda che li diceva discendenti dall’eroe troiano Enea, figlio di Venere, scampato dalla distruzione della sua patria. Narra il mito che Enea, sbarcato dopo lunga navigazione nel Lazio, ebbe ospitalità ed amicizia dal re del luogo, Latino, che gli diede in sposa la figlia Lavinia, in onore della quale Enea fondò la città di Lavinio. Suo figlio Ascanio o Julo fondò Albalonga, e tra i suoi discendenti fu Romolo, il mitico fondatore di Roma.

Dopo una lunga serie di re albani discendenti da Enea, il trono passò a Proca, che ebbe due figli: Numitore e Amulio. Quest’ultimo spodestò il fratello e costrinse la figlia di lui, Rea Silvia, a farsi sacerdotessa di Vesta, per impedire ogni pericolo di restaurazione da parte dei suoi discendenti. Le vestali non potevano sposarsi, nè avere figli sotto pena di essere sepolte vive.

Ma Rea Silvia ebbe dal dio Marte due gemelli e Amulio li fece esporre in una cesta, sulla riva del Tevere, ai piedi del Palatino. Una lupa, prodigiosamente, li nutrì del suo latte; un pastore di  nome Faustolo li raccolse e li allevò, chiamandoli Romolo e Remo. Divenuti forti ed animosi giovani, i due fratelli vollero fondare una città presso il luogo dove erano stati raccolti.

Il rito della fondazione di una nuova città, che i Latini avevano appreso dagli Etruschi, consisteva nel tracciare anzitutto, col vomere, un solco di forma quadrata, che ne era il perimetro. Per stabilire chi dei due dovesse tracciarlo ed essere re, i due fratelli consultarono il volere degli dei, cioè presero gli auspici.

Remo dal colle Aventino vide sei avvoltoi, Romolo dall’alto del Palatino ne scorse dodici. Gli dei avevano favorito Romolo. Egli, aggiogati un bianco vitello e una vacca bianca, tracciò sul Palatino il solco quadrato, lungo il quale dovevano essere erette le mura, sollevando il vomere alla metà di ogni lato, per le porte. Il solco era sacro e nessuno poteva violarlo. Remo, deluso, per scherno lo saltò, e Romolo, accecato dall’ira, lo uccise.

Così rimase re della città e le impose il proprio nome: Roma. Secondo la tradizione la fondazione avvenne il 21 aprile del 753 aC. Da quel giorno i Romani computarono il tempo ab urbe condita e, a ricordo dell’avvenimento ogni anno, il 21 aprile celebrarono delle feste campestri.

La Roma quadrata fu un piccolo villaggio di pastori e di agricoltori, non diverso dagli altri che già sorgevano nel Lazio. I suoi abitanti si vestivano di pelli, perchè scarsa era ancora la lana, abitavano in capanne di forma circolare a tetto spiovente, coperte di canne, con le pareti fatte di legname dei vicini boschi e rinforzate da pezzi di tufo.

21 aprile: Natale di Roma

In un lontano giorno di primavera, nell’anno 753 aC, due giovani fratelli, Romolo e Remo, tracciarono un solco con l’aratro sulla sinistra del Tevere, e segnarono il posto dove volevano fondare una città.
Era il 21 aprile, e la città che sorse in quel solco fu Roma.
Roma diventò grande e potente, conquistò tutti i Paesi intorno al Mediterraneo e fu la capitale di un vasto impero, a cui diede le sue leggi e la sua civiltà.
Dopo la caduta dell’Impero romano, Roma, divenuta la sede del papato, fu il centro del mondo cristiano e cattolico. Roma è la capitale d’Italia.

Nascita di Roma

Qualche colle selvaggio. Una conca di valle, acquitrinosa. Un mattino d’aprile. Pochi, rudi uomini (pastori? guerrieri?) intorno a un rude capo, sulla sommità di un colle. Un volo augurale passa nel cielo. Il capo ha aggiogato all’aratro un bue e una giovenca: guida con mano ferma e il vomere traccia un solco quadrato. Guai a chi, nemico, varcherà quel solco! Roma.

Roma antica

Augusti quartieri di capanne di fango; ecco che cos’era la Roma di allora. Ogni abituro era coperto con tetto di paglia e destinato ad una sola famiglia. Il tetto faceva da granaio. Il fumo del focolare usciva dalla porta. La casa era circondata da stalle, il bestiame correva per le vie.
Nell’inverno il romano primitivo abitava sul Palatino e sul Quirinale, e nell’estate scendeva giù al piano per attendere ai lavori del campo. Anche il cittadino più ragguardevole si metteva dietro l’aratro. Vie non lastricate, ripide scale conducevano alla città da colle a colle. (T. Birth)

Roma

Sulla collina più vicina al guado del fiume, alcuni Latini costruirono le loro capanne. Il posto era comodo per commerciare. Infatti tutti i Latini che volevano commerciare con gli Etruschi dovevano passare da quel guado.

Quel colle si chiamava Palatino; il villaggio costruito sul colle fu chiamato Roma, che, a quel che sembra, vuol dire “città del fiume”.

Roma era una città per modo di dire Era un villaggio di capanne rotonde, col tetto aperto nel mezzo per fare uscire il fumo del focolare. Tutto intorno al villaggio c’era un muro di grosse pietre. Nel muro c’era una porta che si apriva sul viottolo che portava verso la pianura e il fiume. Di qui passavano i mercanti che andavano a commerciare, i contadini che andavano nel loro campo, i pastori che portavano le pecore e le mucche al pascolo. La mattina, appena era sorto il sole, tutta la città risuonava dei muggiti del bestiame che andava al pascolo. Per questo la porta era chiamata Mugonia.

I Latini

Tra le popolazioni italiche, una delle più importanti era quella dei Latini. Essi occupavano i colli e le pianure del Lazio ed erano circondati da altre popolazioni: i Sabini, assai vicini, i Campani, i Sanniti, i Marsi. A nord, appena varcato il Tevere, cominciava il territorio degli Etruschi.

Un giorno un gruppo di pastori latini si portò su un colle che sorgeva in vista delle rive del Tevere e vi fondò un villaggio.

La località era propizia al pascolo e alla difesa. Poichè la dea di questi pastori si chiamava Pale, intitolarono ad essa il colle, che si chiamò, perciò, Palatino.

Il Palatino era di difficile accesso e quindi si prestava ad essere ben difeso dai nemici; altra difesa naturale era il Tevere, il quale, inoltre, con le sue frequenti inondazioni, rendeva fertili i campi circostanti e serviva molto bene come mezzo di comunicazione per i trasporti.

Anche il mare non era troppo lontano e permetteva il commercio con l’Etruria, con la Grecia, con la Fenicia. V’era, infine, abbondanza di acqua potabile e i terreni, parte in pianura, parte in collina, si prestavano a ogni sorta di coltivazioni. (F. Palazzi)

Romolo e Remo

Non  lontano dalle rive del Tevere, in una povera capanna, abitavano Faustolo, un vecchio pastore, e sua moglie Laurenzia.

Una sera Faustolo sedeva stanco sulla porta della capanna. Il sole era tramontato lontano nel mare, verso la foce del fiume Tevere, ed il silenzio era grande.

Nell’interno dell’umile capanna, Laurenzia, la buona moglie di Faustolo, preparava lo scarso cibo serale.

All’improvviso, dal bosco, si intese un fruscio, e laggiù, verso il fiume un’ombra scura scivolò alla riva…

“Sarà bene andare a vedere” , mormorò Faustolo fra sè. Disse alla moglie di aspettarlo ed avanzò cauto verso la riva del Tevere. Era tutto un pantano. Per le piogge recenti, il fiume aveva allagato i campi ed il terreno era cosparso di larghe pozze di acqua. In una di quelle pozze, ai piedi di un albero, Faustolo vide una lupa enorme, col dorso appoggiato al tronco della pianta. Era sdraiata e due bambini si nutrivano del suo latte.

Credeva di sognare. Si ritirò piano piano, rifece la strada percorsa e tornò alla capanna. Giunto sulla soglia gridò: “Laurenzia, ho visto una lupa che allatta due gemelli…”

“Saranno lupacchiotti”, rispose tranquillamente la donna.

“Ma no, ma no: due bambini, ti dico. Vieni, vieni subito a vedere!”

E prima che ella potesse rifiutarsi, l’afferrò per un braccio e la trascinò verso il fiume. Poco dopo, i due trovatelli riposavano al caldo, nella capanna di Faustolo. Laurenzia aveva acceso un gran fuoco e si affannava intorno alla culla sorridendo fra le lacrime: “Gli dei”, mormorava “ne fanno delle belle: mi mandano due bambini adesso che sono vecchia e stanca! Ma non temete, poveri piccoli, Laurenzia è vecchia, ma la nonna ve la saprà fare”.

I trovatelli crebbero presto. In pochi anni, furono due ragazzi grandi e forti, un po’ selvaggi, ma buoni. Faustolo li aveva chiamati Romolo e Remo; ed essi lo rispettavano come un padre. Correvano a perdifiato il monte e il piano, come due puledri. Tornavano, a sera, stanchi e felici, per ricominciare il giorno dopo. E ogni giorno si spingevano più lontano, in cerca di nuove avventure… (G. Brigante Colonna)

La fondazione di Roma

Cominciò la cerimonia. Le vestali, tutte candide, portarono nei vasi sacri il fuoco, e lo deposero sugli altari. Aggiunsero piccoli pezzi di legna secca, arida, e svilupparono la fiamma: poi i sacerdoti giovani scannarono le vittime per i sacrifici; e i vecchi ne esaminarono le viscere per dare responsi.

“Gli dei accettano i sacrifici!”

“Proteggeranno la città nuova!”

“La renderanno grande e forte!”

“Vogliamo che si chiami Roma!”

“Roma durerà in eterno!”

“A Roma verranno le genti di ogni parte d’Italia e del mondo!”

Così dissero i sacerdoti esaminando le viscere delle vittime mentre i fuochi scoppiettavano sugli altari. Da quel popolo radunato si alzò allora un altissimo grido: “Roma, Roma, Roma! Viva Roma, ora e sempre!”

Due uomini portarono al principe Romolo un aratro grande, di bronzo, trascinato da un toro bianco e da una vacca bianca. E il principe lo guidò nel solco, cantando preghiere, seguito dai compagni silenziosi. (L. Orvieto)

I patrizi, i plebei, gli schiavi

Le famiglie dei primi abitatori dei colli, che avevano occupato il territorio, erano raggruppate in “genti”. La gente era l’insieme delle famiglie che discendevano dallo stesso antenato, legate fra loro oltre che da vincoli di sangue e d’affetto, anche dal culto dei propri dèi gentili. Tutti i componenti la gente portavano lo stesso nome gentilizio, avevano gli stessi altari familiari, la tomba e la proprietà fondiaria in comune. Essi si chiamavano patrizi, ossia discendenti da un medesimo pater. La plebe era una moltitudine varia e sempre più numerosa, formata dagli abitanti delle città vinte costretti a stabilirsi in Roma, da commercianti ed artigiani venuti ad esercitare la loro attività, da clienti di cui si erano estinti i patroni. Erano liberi della propria persona, ma esclusi dalla vita politica e dalle cerimonie religiose (perchè religione e stato formavano una cosa sola), nè potevano contrarre matrimonio con i patrizi.

Il governo di Romolo

Romolo fu dunque il primo re e i primi abitanti furono i compagni di lui, umili pastori, che lo avevano seguito da Alba. Per popolare la città, Romolo la offerse come asilo a schiavi fuggiaschi e a liberi perseguitati. Vi affluì una turba di uomini di infima condizione, banditi, avventurieri. Mancavano le donne e non era facile, per tale gente, ottenerle pacificamente dai popoli vicini. Allora Romolo ricorse allo stratagemma del ratto delle Sabine.

Invitò i popoli vicini ad una grande festa, e quelli accorsero numerosi, specialmente i Sabini. Ma a metà della festa, a un segnale convenuto, molti Romani armati si gettarono sulle donne e le rapirono.

Da ciò nacque una guerra fra i due popoli. I Sabini superarono le difese, erette da Romolo sul Campidoglio, per il tradimento di una giovane romana, Tarpea,  figlia del guardiano della rocca, che fu dallo stesso nemico gettata da una rupe (Rupe Tarpea). Di là furono, in seguito, gettati i traditori della patria.

Ma le donne sabine si interposero poi fra Romani e Sabini e la pace fu fatta. Romani e Sabini formarono un popolo solo e Romolo regnò su tutti. Egli organizzò il primo esercito e si circondò d’un consiglio, il Senato, composto di uomini anziani e saggi, detti senatori.

Dopo trentotto anni di regno (753-715 aC) Romolo scomparve misteriosamente durante un uragano, mentre passava in rivista l’esercito. Si disse che era stato assunto in cielo da suo padre, Marte, e più tardi venne onorato come dio col nome di Quirinio.

Numa Pompilio

Dopo la morte di Romolo fu eletto re il sabino Numa Pompilio, uomo pacifico e pio. Egli fece innalzare un tempio alla dea Vesta ed uno a Giano, dio della pace e della guerra, e pose a capo della religione un pontefice massimo.

Tullo Ostilio

Alla morte di Numa divenne re Tullo Ostilio. Era un re guerriero e tosto venne a battaglia con gli Albani, che abitavano sui colli vicini ed avevano come capitale Albalonga. Per evitare troppi lutti e rovine,  ci si accordò perchè tutto fosse deciso dallo scontro di tre soldati romani e di tre soldati albani. Scesero in campo tre fratelli romani, gli Orazi, e tre fratelli albani, i Curiazi. In breve due Orazi furono colpiti a morte; il terzo si diede alla fuga, incalzato dagli avversari. All’improvviso si fermò, si volse e uccise l’inseguitore più vicino, e così fece con il secondo, poi con l’ultimo. La vittoria toccò a Roma che si impadronì di Albalonga ed estese maggiormente il suo territorio.

Anco Marzio

Tullio Ostilio fu ucciso e fu creato re Anco Marzio, nipote di Numa e, come il nonno, uomo pacifico. Egli fece costruire un ponte, detto Sublicio (ponte di travi) sul Tevere e un porto sulla marina di Ostia.

Tarquinio Prisco

Alla reggia di Anco Marzio era giunto un nobile forestiero, Tarquinio Prisco. Egli apparteneva al vicino e civilissimo popolo degli Etruschi. Tarquinio s’era conquistata la stima del re romano e ne era diventato il consigliere e l’amico. Alla morte di Anco, Tarquinio ne divenne il successore. Il nuovo re portò tra i Romani le abitudini raffinate degli Etruschi. In Roma furono costruiti nuovi templi, fu tracciata una grande piazza, il Foro, per il mercato e le riunioni pubbliche. La città ebbe, con la cloaca massima, il primo impianto di fognature.

Servio Tullio

Il figlio di Tarquinio, Servio Tullio, ebbe in eredità dal padre una città ricca e potente. Seppe ordinarla ed organizzarla così bene, che i sudditi lo chiamarono “secondo fondatore di Roma”. La città si estendeva ormai su sette colli e Servio Tullio la circondò di mura robuste. Egli divise il popolo in classi e centurie e stabilì che i cittadini pagassero tasse secondo la loro ricchezza.

Lucio Tarquinio

Servio Tullio fu assassinato per iniziativa di Lucio Tarquinio, il quale diventò re. Subito, si dimostrò ingiusto e violento a tal segno che il popolo insorse e cacciò il tiranno. Lucio Tarquinio, detto il Superbo, si rifugiò presso gli amici Etruschi a preparare la rivincita.

Roma al tempo dei re

Al tempo dei re, la città di Roma non era certo bella come Atene. Essa era una città di capanne rotonde col tetto aperto nel centro perchè il fumo del focolare potesse uscire.

I suoi abitanti vivevano poveramente, ma amavano molto la terra che avevano scelto come loro dimora.

Assai più belle invece erano le case degli dei, cioè i templi.

Accanto al re, c’era il Senato, cioè un’assemblea di uomini saggi che lo aiutavano a dettare le leggi e lo consigliavano se doveva fare guerra o stringere amicizia con i popoli vicini.

La religione romana

I Romani adoravano press’a poco gli stessi déi dei Greci: Giove, Giunone, Minerva, Apollo, Diana, Nettuno, ma specialmente Marte, il dio della guerra e Vesta, la dea del fuoco sacro e protettrice della città.

Le sacerdotesse di Vesta, chiamate Vestali, avevano speciali onori, un posto riservato in tutti gli spettacoli pubblici, e il privilegio di graziare il condannato a morte che le incontrasse per strada, mentre lo conducevano al patibolo.

Un dio tutto romano e solamente romano era Giano, il dio delle porte. Il suo tempio restava sempre chiuso in tempo di pace; si apriva soltanto quando il paese era in guerra.

Accanto a queste divinità che erano adorate da tutto il popolo, ogni famiglia aveva i suoi dei particolari, protettori del focolare domestico, i Lari e i Penati. E questi erano adorati soltanto dai membri della famiglia.

A tutti questi dei venivano offerti sacrifici: si uccideva cioè sull’altare, in loro onore, qualche animale, scelto specialmente tra i tori, le pecore, i maiali. Agli dei si offrivano anche le primizie agricole e i profumi.

Tra i vari sacerdoti, avevano una speciale importanza gli Auguri, i quali, dal volo degli uccelli e da altri segni celesti, pretendevano interpretare la volontà degli dei e prevedere perfino il futuro.

I Romani erano molto religiosi. Non intraprendevano alcuna azione importante senza prima aver fatto un sacrificio agli dei e interrogato gli Auguri. La religione dei Romani era assai più austera di quella greca.

Un sacrificio agli dei

Una processione di uomini dall’aspetto grave e solenne avanza lentamente. Che è mai? Se guardiamo bene, vediamo le colonne di alcuni templi e un’ara, cioè un altare verso il quale quei personaggi si dirigono.

Essi stanno offrendo un sacrificio agli dei. In loro onore si offrono di solito frutti, si bruciano nei tripodi i profumi, si immolano animali. Questo è un sacrificio solenne e verranno uccisi un maiale, una pecora e un toro.

Tra poco il sacerdote sacrificatore salirà il gradino dell’ara e la toccherà con la mano per invocare l’aiuto della divinità a cui si sacrifica.

Poi metterà un poco di farina cotta e di sale sul capo dell’animale, vi verserà del vino e infine lo ucciderà. Il sangue della vittima verrà raccolto in grandi vasi chiamati patere.

Sull’ara arde il fuoco che brucerà le carni dei tre animali. I sacerdoti ne osserveranno bene le viscere, guarderanno come si agitano le fiamme e come si alza il fumo dell’incenso per capire ciò che gli dei vogliono.

Il territorio su cui sorse Roma

L’aspetto di Roma, al tempo in cui sorse sul Palatino, era ben diverso da quello di oggi. Regnava allora una squallida solitudine intorno a quei colli selvaggi rivestiti di querce, di faggi, di lauri e incisi da valli poderose, solcate da fiumi la cui piena riempiva di acquitrini e di paludi tutta la zona.

Qui vivevano genti primitive, fiere e rozze, che erano tutte dedite all’agricoltura ed alla pastorizia. Era logico che i Latini si stabilissero sui colli. Essi erano un ottimo presidio per resistere agli assalti dei nemici interni e di quelli che si fossero avventurati a risalire il Tevere. Attraverso il fiume poi si potevano allacciare relazioni con i navigatori greci ed etruschi. Il Tevere era anche una via naturale per il commercio del sale, che divenne in breve importantissimo.

Roma. infatti, dovette al sale la sua prima ricchezza ed al sale dedicò un’arteria importante: la via Salaria.

Perciò i Latini non trascurarono neppure la pianura sia per rendere più facile la navigazione del fiume, sia per poterla coltivare. Si misero a bonificare il terreno paludoso, a prosciugare le valli, a regolare il corso del Tevere.

Fondazione di una città

Il rito che i Latini compivano per la fondazione di una città non era molto semplice e sembra che essi lo abbiano appreso dagli Etruschi. Con molta probabilità Roma fu fondata secondo quel rito.

Ecco: un gruppo di pastori e di contadini è giunto sul colle dove dovrà sorgere la nuova città. Viene acceso un fuoco di sterpi e ciascuno di essi salta attraverso la fiamma per purificarsi da ogni peccato.

Quello che sarà il fondatore della città scava una fossa profonda e ciascuno dei presenti vi getta un po’ di terra dei villaggi da cui proviene. Ora il fondatore indossa le vesti sacerdotali; aggioga un toro e una mucca all’aratro ed egli stesso lo guida per tracciare il solco. Lungo quel solco saranno tracciate le mura della città; dove si apriranno le porte, il fondatore solleva l’aratro e interrompe per un breve tratto il solco. Il recinto tracciato è sacro: nè gli stranieri nè i cittadini hanno il permesso di oltrepassarlo senza il permesso del fondatore. Saltare al di là del piccolo solco è un atto empio che viene punito con la morte.

La tradizione sull’età regia (753-510 aC)

Roma ebbe per lungo tempo un governo monarchico: la tradizione ci ha conservato i nomi di sette re, ma probabilmente  furono di più: Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo.

I primi quattro furono alternativamente latini e sabini, gli ultimi tre etruschi: i latini furono guerrieri, i sabini pacifici, gli etruschi costruttori e organizzatori.

Evidentemente gli Etruschi, stabiliti anche nella Campania, si impadronirono un certo momento di Roma, testa di ponte sul Tevere, importante per le comunicazioni terrestri tra l’Etruria ed i nuovi acquisti campani. Ai primi due elementi etnici, Latini e Sabini, se ne aggiunse così un terzo: l’etrusco.

Le notizie tramandate di questo primo periodo sono in gran parte leggendarie. I Latini fra l’VIII e il VI secolo non conoscevano ancora la scrittura o la usavano pochissimo: i fatti affidati al puro racconto orale, passando di generazione in generazione, furono in parte dimenticati, travisati e abbelliti dall’orgoglio civile di quel popolo così fervidamente partecipe della storia della sua città, che volle illuminata di gloria anche nelle ore della sconfitta.

Tuttavia, attraverso i ritrovamenti archeologici e la critica della tradizione, i caratteri complessivi dell’età regia sono sufficientemente netti.

Il re mite

Numa fu, fra i Re di Roma, il più mite e saggio. Si racconta che una volta chiese a Giove che cosa dovesse fare per scongiurare il pericolo del fiume. Dal folto del bosco uscì una voce che disse: “Taglia un capo!”. Numa ne fu inorridito, ma bisognava che obbedisse. Pensò un poco, poi si fece portare il capo d’aglio. Prese la spada e lo tagliò. Così aveva obbedito a Giove e non aveva fatto male a nessuno!

Romolo Quirino

Stava Romolo parlando ai soldati che passava in rassegna, quando un temporale, sorto all’improvviso con gran rumore di tuoni, lo circondò di una nuvola così densa da toglierlo alla vista dei soldati. La gioventù romana, quando, cessata la paura e tornato il cielo sereno, vide vuoto il trono, prestò fede ai senatori, che erano stati più vicini al re, i quali affermavano che la violenza del temporale lo aveva portato in alto, e quasi sbigottita stesse per qualche tempo in doloroso silenzio. Quindi decretarono che Romolo, dio nato da un dio, dovesse venire onorato come Re e padre della città di Roma, e gli rivolsero preghiere affinchè concedesse pace alla sua stirpe.

Un tale di nome Giulio Proculo, vedendo il popolo agitato per la scomparsa del Re lo rianimò dicendo: “O Quiriti, stamane all’alba, sceso improvvisamente dall’alto, mi venne incontro, e mentre io lo guardavo pieno di terrore e di venerazione: -Va’-, mi disse – e annuncia ai Romani che gli dei vogliono che la mia Roma sia capo del mondo; perciò curino l’arte militare, e sappiano e tramandino ai posteri che nessuna forza umana potrà resistere alle armi di Roma-. Ciò detto, l’apparizione si innalzò in cielo”. (Tito Livio)

Monelli dell’antica Roma

– Ave, maestro -, con questo saluto i ragazzi entrarono nella scuola, una povera stanza presa in affitto dal maestro. Questo sedeva su una sedia con spalliera, che si chiamava cattedra.

– Salve, miei discepoli – rispose il maestro. – Minerva vi protegga. Sedete e aspettate in silenzio -.

Non c’erano i banchi. I ragazzi sedettero, alcuni su una piccola panca, altri su sgabelli, tenendo sulle ginocchia la loro tavoletta di legno spalmata di cera e l’occorrente per scrivere.

– Vediamo -, riprese il maestro – ci siete tutti? Aulo, Marzio, Gaio, Licio, Tullio, Terenzio… Bene, prendete ora il vostro sacchettino dei calcoli e venga qui, vicino a me, il piccolo Aulo –

Aulo, tenendo in mano il suo sacchettino, si avvicinò al  maestro, che gli disse: – Tira su dieci calcoli –

Aulo introdusse la mano nel sacchetto, ma la tirò subito indietro, tutta sporca.

– Che hai lì dentro? – strillò il maestro, – Fammi vedere! – .  Frugò nel sacchettino di Aulo. – Frutta fradicia! – esclamò sbalordito, tirando fuori un pugno di susine andate a male.

Una gran risata accolse quel gesto.

Aulo, balbettando, provò a scusarsi, dicendo che un compagno doveva certo avergli combinato un brutto scherzo, ma il maestro non intese regioni.

Era stato l’amico Terenzio a fare ad Aulo il brutto scherzo. E non era il primo che combinava!

Una volta gli aveva forato con un punteruolo la tavoletta cerata; una seconda volta gli aveva nascosto lo stilo, e una terza volta, oh che brutta idea! Gli aveva bagnato il libro di papiro, facendo sbiadire una buona parte delle lettere.  Aulo aveva provato a protestare, ma neppure gli altri compagni lo avevano spalleggiato, perchè dicevano: “Si tratta di scherzi. Non devi prendertela!”. Ma quel giorno Aulo era rimasto proprio mortificato.

– Cosa ti è successo?- gli chiese il pedagogo, che era lo schiavo accompagnatore, perchè bisogna sapere che tutte le famiglie patrizie tenevano in casa uno schiavo che aveva il compito di badare ai fanciulli. Aulo raccontò la sua disavventura e il pedagogo, mentre passavano per il Foro, gli dette un consiglio per fare cessare quei brutti scherzi.

– Buona idea! – esclamò Aulo. – Ti ringrazio, mio buon pedagogo -.

Il giorno dopo, Aulo mostrò ai compagni, sotto il portico della scuola, un bel carrettino: uno di quei carrettini che i ragazzi romani amavano attaccare a un cane o a una capretta, immaginando di far le corse nel Circo. Era così perfetto, che i compagni glielo invidiarono. Allora Aulo, volgendosi a Terenzio, gli disse: – Sarà tuo se, in presenza di tutti, ti farai dare da me dieci colpi di mano sul polpaccio della gamba -.

Terenzio, vinto dalla tentazione, gli disse: – Va bene, accetto. –

– Giuralo –

– Per Giove e per Giunone, giuro che prenderò il carretto solo dopo il decimo colpo –

Gli altri ragazzi si strinsero attorno in cerchio; Terenzio offrì ad Aulo il polpaccio della gamba destra, e questi, giù un bel colpo con tutta la forza del braccio!

– Ahi! – strillò Terenzio

– E uno! E due! E tre! – ma arrivato al nono, Aulo si arrestò.

– Perchè aspetti? – chiese impaziente Terenzio.

– Non ne ho più voglia – rispose Aulo con calma.

– Allora il carretto è mio –

– Niente affatto. Hai giurato che l’avresti preso dopo il decimo colpo. Non vorrai certo attirarti le vendette di Giove! –

– Allora dammi il decimo colpo – disse Terenzio, offrendo di nuovo il polpaccio.

– No, no – rispose fermo Aulo – Tu tieni i nove colpi ricevuti, e io mi terrò il carretto. –

Risero i compagni, risero i pedagoghi presenti. Terenzio andò a casa arrabbiatissimo, ma il giorno dopo sembrava un altro. Piano piano, i due piccoli Romani divennero amici per la pelle. (R. Botticelli)

Le oche dei tre Romani

Nell’antica Roma c’erano gli schiavi. Ma non tutti i padroni erano esosi tiranni. Ascoltate. Il patrizio Marco Licio Petronio andò al mercato degli  schiavi. C’erano, sui palchi girevoli, giovinetti da vendere in serie, buffoni che facevano boccacce, muscolosi giganti adatti per i lavori di fatica, agili portatori di lettighe… I poveretti, come ogni merce, portavano un cartello con l’indicazione del prezzo, del luogo d’origine, dei pregi.

Marco Licio Petronio cercava un precettore, cioè un insegnante privato che facesse scuola al figlio, il quale aveva finito i ludi letterari, ossia la scuola elementare. Non c’è da ridere! Anche gli insegnanti venivano venduti e comprati. Marco Licio Petronio trovò un Greco dottissimo, ma lo pagò a caro prezzo, tanto caro che, quando fu a casa, chiamò a sè tutti gli altri servi e disse: – Il grammatico mi costa fior di sesterzi. State attenti alla sua salute. Che non prenda neppure un raffreddore! -.

In quel tempo Marco Licio Petronio era tormentato da tre clienti, che non lo lasciavano mai in pace. I clienti, al tempo di Roma antica, erano degli sfaccendati che vivevano alle spalle di un patrizio: la mattina correvano a dargli il buon giorno, lo lodavano, gli battevano le mani quando parlava, cercando in ogni modo di fargli piacere.  Tutti i patrizi avevano i loro clienti: anche Marco Licio Petronio ne aveva molti, ma i tre erano troppo fastidiosi.

Un giorno, per levarseli di torno, Marco Licio Petronio regalò loro undici oche vive e disse: – Tu, o Sestilio, prendine la metà. Tu, o Vitulio, la quarta parte. Tu, o Renzio, la sesta parte -.

I tre clienti si trovarono nei guai: come fare la metà di undici oche? E come farne la quarta parte? E come la sesta?

I tre, dopo aver bisticciato, si recarono dal grammatico: – O precettore, illuminaci su questa difficoltà!-

Il precettore chiese un giorno per pensarci. Il giorno dopo mostrò ai tre litiganti una piccola oca di legno e disse: – Immaginiamola vera. Quante oche avete ora? –

– Dodici – risposero in coro i tre clienti.

– Bene – disse il grammatico – a te, Sestilio, spettano sei oche, cioè la metà; a te, Vitulio, tre oche, cioè la quarta parte. E a te, Renzio, due oche, cioè la sesta parte. In tutto sono undici. A me restituite quella di legno -.

I tre si presero, tutti contenti, le oche così distribuite.

Quando Marco Licio Petronio venne a conoscere l’ingegnosità del precettore lo chiamò a sè e gli disse: – Ti ho pagato carissimo, ma apprezzo il tuo ingegno e ti rendo libero. Come liberto, spero che resterai qui, ad istruire mio figlio, ma riceverai una ricompensa e potrai lasciarci quando vorrai -. (R. Botticelli)

I primi quattro re

Gli abitanti della città quadrata erano pochi e, per popolarla, Romolo la offerse come asilo a schiavi fuggitivi e a liberi perseguitati. Poichè questi banditi non avevano diritto di connubio, cioè di nozze, coi popoli vicini, Romolo si procurò le donne per creare le famiglie, facendo rapire, durante una festa religiosa, quelle dei Sabini intervenuti.

Ne derivò una guerra, presto finita per l’interposizione delle stesse donne rapite, divenute spose dei Romani, e i due popoli si fusero.

Da questa fusione la tradizione fa derivare il doppio nome del popolo: Romani, nome di guerra, Quiriti (da Curi, capitale dei Sabini) nome religioso e civile.

Romolo regnò per qualche tempo insieme al re sabino Tito Tazio, poi da solo, e a lui sono attribuiti i primi ordinamenti civili e militari: il Senato di 100 membri, la divisione del popolo in tre tribù, Tizii, Ramnensi, Luceri, ed in trenta curie, l’ordinamento dell’esercito nella legione (leva) di 3000 fanti e 300 cavalieri (costituzione romulea).

I Ramnensi erano i Latini, compagni di Romolo; i Tizii, i Sabini venuti con Tito Tazio; i Luceri, erano stranieri di cui è dubbia l’origine (chi dice etrusca, e chi latina), stabiliti sul colle Celio.

Dopo 37 anni di regno, Romolo scomparve misteriosamente durante un uragano, assunto si disse in cielo dal padre Marte; e fu venerato anche lui come dio col nome di Quirino.

La tradizione fa seguire a Romolo il lungo e pacifico regno di Numa Pompilio, sabino. E come a Romolo furono attribuite tutte le prime istituzioni politiche e militari, così ai sabini Numa Pompilio e Anco Marzio sono riferite quelle religiose e pacifiche.

Ispirato dalla ninfa Egeria, Numa intese a mitigare con le istituzioni religiose e col sentimento della giustizia gli spiriti fieri del popolo incline alla violenza. Edificò templi, fra cui quello di Giano, le cui porte erano chiuse in tempo di pace, aperte in tempo di  guerra, perchè Giano, dio della porta (ianua) seguiva l’esercito in campo. Istituì i grandi ordini sacerdotali: i Pontefici, le Vestali, gli Auguri, gli Aruspici, i Saliari, i Fratelli Arvali, i Flamini. Dette impulso all’agricoltura e, per regolarne i lavori, riformò il calendario, premettendo all’anno, che prima era di dieci mesi e cominciava il primo marzo, gennaio e febbraio.

Tullio Ostilio, romano, rispecchia l’ardore guerriero della sua stirpe. Delle imprese militari che condusse, la più importante fu quella contro Alba, decisa, per evitare spargimento di sangue, da un combattimento fra i trigemini Orazi romani e i trigemini Curiazi albani, finito vittoriosamente per i primi. Alba dovette sottomettersi a Roma. In seguito, avendo il dittatore albano Mezio Fuffezio tenuto un contegno ambiguo durante una guerra di Roma contro l’etrusca Veio, Tullio Ostilio lo mise a morte, facendolo dilacerare da due quadriglie lanciate in opposta direzione. Alba fu distrutta, la sua popolazione dedotta a forza a Roma, il territorio annesso. Roma divenne così la prima città del Lazio.

Anco Marzio, sabino, fu pari a Numa per spirito pacifico e religioso, ma costretto anche a combattere, per la sicurezza di Roma, contro i Latini.  Alcune città latine furono prese e così il territorio romano si estese fino al mare ed alla foce del Tevere, dove Anco Marzio fondò il porto di Ostia (nome che significa “le bocche del fiume”), e Roma divenne padrona del commercio del sale, che si svolgeva per la via detta poi Salaria, la quale dal mare raggiungeva il paese dei Sabini e degli Umbri. Tuttavia l’antico popolo romano non sentì nessuna attrazione per il mare, dove per lungo tempo non contese il commercio ai Tirreni, ai Cartaginesi, ai Greci.

Anco Marzio estese la città dalla parte dell’Aventino, ed edificò una fortezza sul Gianicolo, il colle che, essendo sulla destra del Tevere, costituiva un baluardo verso l’Etruria; a lui sono attribuiti anche il primo ponte di legno sul fiume, il ponte Sublicio, e il carcere Tulliano ai piedi del Campidoglio, detto più tardi Carcere Mamertino, di cui ancora si ammirano i resti.

Coi Latini, Anco Marzio concluse un trattato con il quale si affermava la supremazia di Roma sul Lazio. Tale trattato era custodito nel tempio federale dedicato a Diana sull’Aventino, dove i rappresentanti delle città alleate si riunivano per celebrare le feriae latinae, come un tempo di faceva in Alba.

L’età dei Tarquini e la fine della monarchia

Mentre i primi quattro re erano stati eletti dalle Curie, ora o per successione ereditaria o per violenza, i re si fanno da se stessi. Il fatto è significativo, perchè denota la tendenza della monarchia a passare dalle forme costituzionali al dispotismo.

Con Tarquinio Prisco comincia la serie dei re etruschi.

La leggenda dice che era figlio di un ricco mercante greco di Corinto, stabilitosi a Tarquinia. Avido di gloria, venne a Roma, dove seppe acquistarsi larga popolarità e la fiducia di Anco Marzio che, morendo, lo nominò tutore dei figli ancora giovani. Ma Tarquinio si impossessò del trono.

Egli ampliò il territorio con guerre fortunate contro i Sabini ed i Latini, ma soprattutto fu imponente l’impulso da lui dato alle costruzioni pubbliche.

Spianò il Foro, che divenne la piazza principale di Roma, edificò fuori della città il  Circo Massimo, per i giochi pubblici, prosciugò la parte bassa della città con un sistema di fognature o cloache confluenti in un canale più grande, la Cloaca Massima, che sbocca nel Tevere. A lui è attribuita l’introduzione di istituzioni e costumi etruschi; i ludi del circo, la pretesta (toga orlata tutto intorno di porpora, portata dai magistrati), i littori, la sedia curule, l’arte della divinazione.

Tarquinio Prisco morì ucciso dai figli di Anco Marzio, ma il trono non passò a loro, perchè la vedova di Tarquinio, la scaltra Tanaquilla, dalla leggenda presentata come una profetessa ispirata, favorì la successione di un suo fedele, allevato a corte, anch’egli etrusco e genero, pare, del morto re: Servio Tullio.

A questi la tradizione attribuisce la costruzione di una nuova cerchia di mura in sasso (mura serviane), delle quali rimangono ancor oggi alcuni tratti, includente tutti i sette colli; e un nuovo ordinamento civile e militare che va sotto il nome di riforma serviana, ma appartiene invece ad un’età più tarda. Così Roma divenne il septimontium, la città dei sette colli, avendo come centro il Palatino. I colli Capitolino, Aventino e Gianicolo non si abitavano, ma rimasero per uso militare.

Anche il regno di Servio Tullio finì tragicamente. La tradizione narra che egli fu ucciso da un figlio o nipote di Tarquinio, Lucio Tarquinio, al quale aveva data in sposa una sua figlia, Tullia, e narra anche la scelleratezza di questa che, per giungere più presto ad essere acclamata regina, passò con il cocchio sul cadavere del padre. La monarchia degenerava in tirannide.

Tarquinio il Superbo governò dispoticamente, perseguitando l’aristocrazia. Molti nobili  condannò a morte o all’esilio, per impadronirsi delle loro ricchezze; guerra, pace, alleanze trattò da solo senza consultare nè il popolo nè il Senato. Condusse molte guerre con esito fortunato, sottomettendo fra le altre la città di Ardea e, a tradimento, Gabii. L’oltraggio fatto da suo figlio Sesto alla matrona Lucrezia esasperò gli animi, incitandoli alla rivoluzione. A capo di questa furono Collatino, il marito di Lucrezia, e un suo parente, Giunio Bruto.

I Tarquini, cacciati da Roma, ripararono in Etruria: la monarchia fu abolita e vi subentrò una repubblica aristocratica (510 aC).

Storia di Roma – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Poesie e filastrocche CRISTOFORO COLOMBO

Poesie e filastrocche CRISTOFORO COLOMBO – Una collezione di poesie e filastrocche sul tema “Cristoforo Colombo e la scoperta dell’America” (12 ottobre 1492), per la scuola primaria.

Colombo
Va, sotto il cielo di piombo,
va la fragile caravella
che la Regina Isabella
t’ha regalato, Colombo…
Quand’ecco su dal suo cuore
che più l’angoscia non serra
prorompe un grido: “La terra!”La prima! San Salvatore!
Ora il gran cielo di piombo
tutto s’irradia di luce…
è sempre il sole: Colombo!          (Zietta Liù)

Tre caravelle
Sul mare azzurro
tre caravelle
filano lente
sotto le stelle.
Vengon da un porto
molto lontano:
le guida intrepido
un italiano.
Cercano terra
di là dal mare
da tanto tempo
e nulla appare.
Nulla si vede
la ciurma è stanca.
Nulla si vede
la lena manca.
Sopra la tolda
sol l’italiano,
solo Colombo
guarda lontano.
“Terra!” si grida.
Eccola, appare
sul far del giorno
bruna sul mare.
Quel dì la terra
nuova toccò
Colombo, e a Dio
la consacrò.        (G. Fanciulli)

Colombo
C’era una volta, sì, c’era…
Sembra la favola bella
della Regina Isabella…
Pure è una favola vera.
Oh, lunghe notti! Di piombo
il cielo, ostile ed infido.
Tu chiudi in cuore il tuo grido
e speri, e speri, Colombo.
Talvolta, l’angoscia che serra
e soffoca il cuore è sì forte,
che quasi tu pensi alla morte…
Ed ecco la terra, la terra!
Hai vinto. La terra lontana
s’ammanta di fulgido sole,
s’ammanta di gloria italiana.
C’era una volta, sì, c’era…
Sembra una favola bella,
pure è una favola vera. (Zietta Liù)

La scoperta dell’America
Colombo, il tuo ardire fu tanto,
ardire di fede e coraggio,
che te rassomiglia ad un santo
nell’aspro e lunghissimo viaggio.
Partisti con tre caravelle,
tre fragili navi spagnole,
passavano notti di stelle,
passavano giorni di sole,
di flutti pacati e procelle
e mai alla meta arrivavi;
la ciurma gridava ribelle:
tu solo credevi e speravi.
Ed ecco un mattino apparire
il lido da tanto sognato:
che cosa importava il patire,
se infine sei stato premiato?
Scendesti la terra a baciare
e colmo di gioia nel cuore
volesti quel suolo chiamare
col nome di San Salvatore. (T. Romei Correggi)

Terra!
Terra!… notturna, d’un tratto,
bandì dalle coffe una voce.
Vesti il mantello scarlatto,
solleva il vessillo e la croce,
tu che mettesti la prora
nel pallido occaso, e l’aurora seguì la tua scia!
Guarda: fu ieri: una canna
nuotava sul mare profondo;
oggi si cullano in panna
le navi sull’orlo del mondo.
Sorgi, Colombo: l’aurora
nel grande vestibolo indora la Santa Maria. (G. Pascoli)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Poesie e filastrocche – Storia

Poesie e filastrocche – Storia.  Una raccolta di poesie e filastrocche su argomenti storici, di autori vari, per la scuola primaria.

 

Storia universale
In principio la Terra era tutta sbagliata,
renderla più abitabile fu una bella faticata.
Per passare i fiumi non c’erano i ponti.
Non c’erano sentieri per salire sui monti.
Ti volevi sedere?
Neanche l’ombra di un panchetto.
Cascavi dal sonno? Non esisteva il letto.
Per non pungerti i piedi, nè scarpe, nè stivali.
Se ci vedevi poco non trovavi gli occhiali.
Per fare una partita non c’erano palloni:
mancava la pentola e il fuoco
per cuocere i maccheroni,
anzi a guardare bene mancava anche la pasta.
Non c’era nulla di niente.
Zero via zero, e basta.
C’erano solo gli uomini, con due braccia per lavorare,
e agli errori più grossi si potè rimediare.
Da correggere, però, ne restano ancora tanti:
rimboccatevi le maniche,
c’è lavoro per tutti quanti!
(G. Rodari)

 

 

La caverna
Era una volta all’uomo dolce nido
la tiepida caverna tra le rocce…
Uscio non c’era: entrava e usciva il vento,
servo dell’uomo, con le sue bracciate
di foglie secche; a sera il firmamento
chiudeva il varco con le sue vetrate
fitte di stelle; e innanzi alla caverna
appendeva la luna la lanterna. (N. Venieri)

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