Il bordo nero dell’orologio rappresenta la linea del tempo, che l’orologio mostra semplicemente in un modo diverso.
OROLOGIO DELLE ERE GEOLOGICHE MONTESSORI Descrizione del materiale Si tratta di un quadrante d’orologio diviso in dodici. Ogni frazione è di un colore particolare. I colori classici sono: – Nero: assenza di vita (Adeano) – Giallo: comparsa della vita (Archeano) – Blu: la vita negli oceani (Proterozoico) – Marrone: la terra e i rettili (Paleozoico) – Verde: la vegetazione e la vita (Mesozoico) – Rosso: il giungere di qualcosa di nuovo (Cenozoico)
OROLOGIO DELLE ERE GEOLOGICHE MONTESSORI
Orologi delle ere pronti
Ho preparato due versioni leggermente diverse tra loro:
– Orologio delle ere classico, dove si considera l’età della Terra di 3.000 milioni di anni. Un’ora equivale a 250 milioni di anni, un minuto equivale a circa 4 milioni di anni e un secondo a circa 70.000 anni. Non è il più accurato, ma è quello che permette ai bambini di calcolare facilmente la durata delle ere sull’orologio:
anche considerando, più correttamente, che l’età della Terra è di circa 4.600 milioni di anni, otteniamo lo stesso identico orologio. In questo caso un’ora equivale a 375 milioni di anni. E’ l’orologio che ho preparato, pronto per il download e la stampa:
– Orologio delle ere doppio: è composto da due quadranti (0-12 e 12-24). Il primo è per il Precambriano (dalle 0 alle 12), il secondo per tutte le ere successive (dalle 12 alle 24). Troverete anche questo materiale, pronto per il download e la stampa, dopo le indicazioni per la presentazione:
Può essere molto utile aggiungere al materiale degli OROLOGI DELLE ERE GEOLOGICHE le TABELLE DELLE ERE GEOLOGICHE. Queste tabelle stimolano la ricerca e spesso i bambini desiderano usarle per creare dei propri orologi delle ere, facendo calcoli e utilizzando compasso e goniometro. Potete scaricarle qui:
Presentazione dell’OROLOGIO DELLE ERE GEOLOGICHE ai bambini:
Quando presentiamo l’orologio delle ere geologiche per la prima volta, possiamo metterlo su un cavalletto, in modo che sia all’altezza degli occhi dei bambini. Le proporzioni presenti sulla linea del tempo sono le stesse presenti sull’orologio.
Ti ricordi quanti anni ha la Terra? Circa 4 miliardi e 600 milioni di anni. Lo abbiamo visto sulla nostra linea del tempo. Ora vogliamo rappresentare di nuovo tutto questo tempo, ma utilizzando questo orologio speciale. Prima di tutto vediamo se questo è davvero come il quadrante di un orologio. (Mostrare un orologio)
Sul quadrante dell’orologio si vedono dodici ore. Però questo è un orologio molto speciale, perché rappresenta l’età della Terra, e la Terra non ha dodici ore di vita, ma 4.600.000.000 anni.
Con l’orologio normale contiamo le ore del giorno, con questo orologio contiamo tutta la vita della Terra divisa in dodici (come le ore) e in sessanta (come i minuti). Così nell’orologio speciale un’ora è lunga 375 milioni di anni, e un minuto è lungo 6.250.000 di anni. Per facilitare i conti, siccome 375 è quasi 400, possiamo contiamo le ore della Terra, ma invece di contare 1, 2, 3 ecc… contiamo 400 milioni, 800 milioni, 1 miliardo e 200 milioni…
Questo orologio rappresenta l’età della Terra. È la durata della Terra. Il nostro pianeta ha vissuto varie fasi. Torniamo a quando nacque (indichiamo l’Adeano sull’orologio). Qui è quando la Terra era un piccolo globo di luce e calore che girava nello spazio e lentamente si raffreddava (tracciare col dito l’arco nero).
Quando si è raffreddata abbastanza, si è formata la crosta terrestre: la Terra aveva allora già un miliardo di anni, e si preparava ad entrare in una nuova fase. Ti ricordi? Ci furono grandi piogge, e si formarono gli oceani, le rocce e i vulcani. Si formarono i fiumi e i mari. Via via si accumularono strati di materiali rocciosi, e questo è durato per lunghissimo tempo. Poi, a un certo punto, apparve la vita. Non sappiamo dove esattamente, ma sappiamo che in questo grande arco di tempo giallo (l’Adeano) apparve la vita. I fiumi e i vulcani continuarono a trasportare strati su strati di roccia, e si formarono anche le montagne. (tracciare col dito tutto l’arco giallo). Quando le prime forme di vita si manifestarono, la Terra aveva già più di 3 miliardi di anni: comparvero i cianobatteri, che riempirono di ossigeno l’aria e l’acqua (tracciare col dito l’arco giallo).
Nel periodo che segue, questo spicchio azzurro, appaiono tantissime forme di vita nuove: alghe e molti invertebrati marini, tra cui vermi e meduse. Siamo arrivati a 300 milioni di anni fa, e sull’orologio siamo già oltre le 10.00 (tracciare col dito l’arco azzurro).
Arrivati qui siamo nel Paleozoico, e appaiono nei mari brachiopodi, coralli, spugne, molti artropodi tra cui i trilobiti, e molti cefalopodi con conchiglia; in seguito arrivano i pesci. Sulla terraferma appaiono le prime piante simili a licheni, poi le prime piante vascolari e infine i grandi alberi. Arrivano gli insetti, poi gli anfibi e infine i primi rettili. L’orologio ha superato le 11.00
Arrivati qui siamo nel Mesozoico, quando i dinosauri dominavano la Terra, c’era una vegetazione ricchissima con pini e cipressi, ma compaiono anche le piante da fiore. A questo punto siamo arrivati a 65 milioni di anni fa, e quando il Mesozoico termina il nostro orologio segna già le 11.45.
Entriamo nel Cenozoico, dove a dominare non sono più i rettili, ma i mammiferi. Abbondano uccelli e piante da fiore, ed ora l’orologio indica le 11.59 e 45 secondi. Mancano solo 15 secondi per arrivare ad oggi! Si tratta di un periodo piccolissimo, che non possiamo indicare precisamente sull’orologio, (contiamo i 15 secondi a voce alta) ma è qui che troviamo una nuova creatura: l’essere umano. Si formano ripetutamente enormi lastre di ghiaccio che coprono la Terra, si sciolgono, coprono di nuovo la Terra, e di nuovo si sciolgono. Ma in quanto tempo? Tutto in questi 15 secondi!
E nell’ultimo decimo di secondo dell’orologio della Terra, c’è tutto il progresso fatto dagli esseri umani, che hanno iniziato a studiare la Terra, l’Universo, se stessi; che attraversano oceani e continenti; che volano nei cieli con gli aeroplani.
L’orologio segna le 12 e non conosciamo il resto, perché il resto è il futuro.
OROLOGIO DELLE ERE GEOLOGICHE MONTESSORI
Note sulla lezione
I bambini non devono obbligatoriamente conoscere tutti i nomi delle ere geologiche, possono anche soltanto farsi l’immagine di periodi in cui non c’era vita, e periodi in cui la vita è comparsa sulla Terra, però noi non ignoriamo che questi nomi esistano, e li usiamo nel modo più naturale possibile.
Infine mostriamo ai bambini il materiale che accompagna l’orologio delle ere geologiche:
le tabelle, che mostrano le ere geologiche in ore e le ere geologiche in minuti e secondi.
l’orologio mobile, composto da un quadrante vuoto, gli spicchi (da comporre al suo interno), e le relative etichette.
i bambini, poi, possono confrontare l’orologio delle ere con la linea del tempo della comparsa dei viventi.
OROLOGIO DELLE ERE GEOLOGICHE MONTESSORI
OROLOGIO DELLE ERE GEOLOGICHE – prima versione
Per la presentazione e la consultazione: – orologio delle ere geologiche – legenda – cartellini delle ere
–
– frecce descrittive con triangoli colorati
OROLOGIO DELLE ERE GEOLOGICHE MONTESSORI Materiale per l’esercizio individuale (orologio delle ere mobile): – orologio bianco su cui comporre gli elementi – spicchi colorati da ritagliare
– (i cartellini sono gli stessi) – frecce descrittive con triangoli bianchi – triangoli colorati da aggiungere alle frecce descrittive.
puoi scaricare tutto questo materiale qui:
OROLOGIO DELLE ERE GEOLOGICHE MONTESSORI
OROLOGIO DELLE ERE GEOLOGICHE – seconda versione
Primo quadrante: – orologio delle ere – legenda – cartellini – frecce descrittive con triangoli colorati
Secondo quadrante: – orologio delle ere – legenda – cartellini – frecce descrittive con triangoli colorati
Primo quadrante, materiale per l’esercizio individuale (orologio delle ere mobile): – orologio bianco su cui comporre gli elementi – spicchi colorati da ritagliare – (i cartellini sono gli stessi) – frecce descrittive con triangoli bianchi – triangoli colorati da aggiungere alle frecce descrittive.
Secondo quadrante, materiale per l’esercizio individuale (orologio delle ere mobile): – orologio bianco su cui comporre gli elementi – spicchi colorati da ritagliare – (i cartellini sono gli stessi) – frecce descrittive con triangoli bianchi – triangoli colorati da aggiungere alle frecce descrittive.
– la TABELLA 1 è abbastanza dettagliata, contiene l’indicazione di Eone, Era, Periodo, tempo espresso in milioni di anni fa, e gli eventi biologici più importanti. L’ordine seguito è dal più recente al più antico. E’ scaricabile in bianco e nero, e a colori;
– la TABELLA 2 mostra eoni, ere e periodi dai più recenti ai più antichi. Ogni rettangolo, numero o lettera rappresenta 1 milione di anni;
– la TABELLA 3 mostra le ere geologiche, il tempo espresso in milioni di anni fa, gli eventi più significativi, e il tempo espresso su scala del calendario e delle ore del giorno. E’ una tabella utile sia per preparare carte in tre parti, sia per preparare linee del tempo e orologi delle ere geologiche;
– la TABELLA 4 mostra alcuni degli eventi più significati della comparsa della vita sulla Terra, e il tempo espresso su scala delle ore del giorno (con quadranti);
– la TABELLA 5 mostra alcuni degli eventi più significativi della storia della comparsa dei viventi sulla Terra, e il tempo espresso su scala dei giorni dell’anno (con fogli di calendario);
– la TABELLA 6 è la tabella più dettagliata, ed è molto utile per preparare le carte in tre parti per la linea del tempo e altri cartelloni murali.
– la TABELLA 7 è un riassunto della tabella 6.
Tutte le tabelle sono preparate nei colori usati per l’OROLOGIO DELLE ERE GEOLOGICHE, e cioè: – Nero: assenza di vita (Archeano) – Giallo: comparsa della vita (Adeano) – Blu: l’acqua (Proterozoico) – Marrone: la terra (Proteozoico) – Verde: la vegetazione e la vita (Mesozoico) – Rosso: il giungere di qualcosa di nuovo (Cenozoico).
Recita su Cristoforo Colombo per bambini della scuola primaria. La drammatizzazione può essere recitata fra i banchi. L’azione è sottolineata dallo storico, mentre tutti i diversi quadri che compongono la drammatizzazione saranno recitati da due ragazzi.
Recita su Cristoforo Colombo – Personaggi Cristoforo Colombo la regina Isabella di Castiglia il fanalista un dotto di Salamanca il mercante il nostromo lo storico.
Recita su Cristoforo Colombo – I QUADRO (a Genova, la torre di vedetta del Porto)
Lo storico: Siamo a Genova e corre l’anno 1480. Siamo sul porto, un porto un poco diverso da quello attuale, ma pur sempre grande e attrezzato di argani, ponti e pontili e scali per la riparazione delle navi. Un brulichio di uomini e di cose intercalato da grida, da comandi, da colpi di fischietto. Dall’osservatorio si scruta l’orizzonte, pronti ad annunciare…
Fanalista: Una vela, ohhhh!
Lo storico: (guarda da una parte sentendo un rumore di passi concitati) Chi è mai questo giovane che sale trafelato la scaletta dell’osservatorio? Non può essere che lui! Quando sente il richiamo di una vela, si precipita su!
Colombo: (entra e va verso il fanalista)
Fanalista: Buon giorno, messer Colombo
Colombo: una vela in vista?
Fanalista: Ecco, messere, fissate lo sguardo sul pennone della Stella Genuana, issatelo sino ad incontrare il filo dell’orizzonte…
Colombo: Tu quante vele hai contato?
Fanalista: una, messere
Colombo: ed ora fissa bene, quante ne vedi?
Fanalista: è vero, un’altra ne sta spuntando quasi sorgesse dall’acqua.
Colombo: (pensoso, ripete) quasi sorgesse dall’acqua… Hai ragione Pietro: quasi sorgesse come il sole che si alza al mattino…
Fanalista: (continuando il discorso) tutta la notte nascosto tra i flutti per permettere il riposo degli uomini…
Colombo: (sorridendo) credi che il sole stia davvero tutta la notte a mollo tra i flutti?
Fanalista: (convinto) sì, messere
Colombo: e, la velatura della nave, dimmi, perchè appare così dalla cima e pian piano mentre la nave avanza, sempre più di dispiega, fino a mostrarsi con tutta la tolda? Dimmi: anch’essa è stata a mollo nell’acqua?
Fanalista: oh, no! Ciò è causa di riflessi e giochi di luce
Colombo: giochi di luce! Sempre giochi fra voi! E non avete mai pensato che la terra sia una sfera?
Fanalista: una palla? Ah, Colombo, mi pare esageriate! Come faremmo a starci sopra e ritti? E quelli di sotto? Altro non potrebbero essere che piovre per starci abbarbicate con le loro enormi ventose!
Colombo: non posso rispondere a tutti i tuoi interrogativi, Pietro. So soltanto, per quel che mi è dato conoscere, che la terra ha forma sferica e che pertanto se taluno parta per la via di occidente, tosto ritorni al luogo di partenza da oriente
Recita su Cristoforo Colombo – II QUADRO (a Genova, la torre di vedetta del Porto)
Mercante: (entra sulle ultime parole di Colombo e si ferma ad ascoltare) Chi parla qui di oriente ed occidente?
Colombo: Colombo, messere, per servirvi
Mercante: Messer Ammiraglio, quale fortuna trovarvi! Chi affida a Voi le sue merci e i suoi denari può chiudere gli occhi soavemente e felice addormentarsi, sicuro che tutte le navi arriveranno alla meta!
Colombo: merito di Nostra Signora, che mi protegge
Mercante: ho un carico. Destinato ai porti del Kataj. E di là un altro carico. Ho noleggiato un magnifico vascello: manca l’Ammiraglio. Ditemi che accettate.
Colombo: accetto, ma ad un patto. Arriverò al Kataj, navigando verso occidente.
Mercante: (lo scruta) Vi sentite bene, messere?
Colombo: perchè vi ostinate a guardarmi quasi io fossi uscito di senno? Se la terra è una sfera è facile arguire che navigando verso occidente dovrò spuntare ad oriente!
Mercante: ed io con tutta la sicurezza, il buon senso del mercante, la lunga esperienza, vi dico che oltre le colonne d’Ercole è avventuroso spingersi, nè io potrò mai approvare che uno solo dei miei battelli si spinga ove il mare è sconosciuto. Se volete andare nel Kataj prendete la via più breve per l’oriente!
Colombo: non fa per me! Il mio primo viaggio sarà per testimoniare agli altri ciò che è già certezza dentro di me!
Lo storico: Colombo, visto respinto il progetto di circumnavigare la terra da parte dei mercanti, decise di chiedere aiuto fuori patria. Andò alla corte della Regina Isabella di Castiglia.
Recita su Cristoforo Colombo – III QUADRO (Una sala regale)
Colombo: mia potente Signora e Regina, non sono qui per chiedervi ricompense ed onori. Vengo soltanto a chiedervi di poter essere testimone della verità
la regina Isabella di Castiglia: Conosciamo il progetto. I nostri ammiragli ce lo sconsigliano temendo la perdita dei vascelli, degli uomini; temono infine per voi. Saremmo disposti a concedervi il denaro per allestire un’intera flotta e di essa nominarvi capo. Ma non siamo disposti a perdere un solo legno in un’impresa ignota
Colombo: impresa ignota, mia Regina? Ma allora il mio tempo speso nello studio del moto degli astri, la matematica, le lettere degli scienziati miei amici, la meccanica, a nulla è servito?
Isabella: c’è un solo mezzo per piegare il volere dei nostri ammiragli: affrontare la discussione con i dotti della città di Salamanca.
Colombo: andrò a Salamanca, mia Regina.
Recita su Cristoforo Colombo – IV QUADRO (l’Università di Salamanca)
Lo storico: Colombo raggiunse Salamanca e ascoltò le lezioni dei dotti: chiese di parlare
Dotto: (continuando una lezione)… e dunque la Terra è un’immensa piattaforma al centro dell’Universo sidereo. Attorno a lei si muovono il sole, la luna e le stelle le fanno corona…
Discepolo: scusi maestro… sull’orlo della piattaforma chi vi abita? Vi è forse un recinto tutto attorno onde non precipitare nel vuoto?
Dotto: no, nessun recinto. Attorno v’è il mare che cinge la piattaforma; ma per chi è incauto e s’inoltra oltre le colonne d’Ercole, allorchè la terra tosto scompare al suo sguardo, è la fine.
Discepolo: Perchè? Non s’espande il gran mare sino all’estremo limite dell’universo?
Dotto: sì, ma infestato di mostri di tal ferocia da uccidere soltanto con lo sguardo l’avventuroso argonauta
Colombo: (si è alzato) Pure la Scienza di lor Signori potrebbe, a titolo di esperimento, concedere che persona di fiducia vada a testimoniare e tosto ritorni con l’esatta descrizione di ciò che ha veduto.
Dotto: e noi, messere, potremmo in nome della scienza, condannare a sicura morte un cristiano?
Colombo: e se questi si offrisse?
Dotto: pazzo e suicida! No, messere, la nostra dottrina impedisce ai pazzi di compiere azioni da pazzi! Ma Signori, potete voi pensare ad una sfera fatta di pietre e di acque galleggiante in un mare di venti, fra nubi e tempeste? E noi… (ridendo) sopra, aggrappati a questa sfera, in pena per tenerci ritti, con la bava alla bocca, morsi dalla paura di cadere e con le unghie conficcate in un ciuffo di erba o in una sporgenza di roccia! Messer Colombo, tornate a casa e distraetevi al sole delle vostre riviere!
Recita su Cristoforo Colombo – V QUADRO (Una sala regale)
Lo storico: Deriso dai Dotti di Salamanca, Colombo sembra voler rinunciare al progetto; ma la Regina Isabella lo richiama improvvisamente.
Isabella: Andrete alla scoperta di nuove terre. Su ogni lembo di nuova terra che scoprirete porterete la Croce e lo Stendardo della Spagna. Questa è la missione che vi diamo da compiere. Noi non appoggeremo le vostre dottrine in contrasto con i nostri Dotti, e quindi la scienza sarà bandita dalla vostra impresa. Vi concediamo tre caravelle: la Nina, la Pinta e la Santa Maria, con equipaggi e viveri per otto settimane. Voi traccerete la rotta che più vi aggrada e darete il segnale di partenza ai vostri nocchieri. Partite pure, Messere, per il porto di Palos: la vostra flotta è già in allestimento.
Colombo: (si inchina profondamente) spero di tornar presto, mia Signora e Regina. A voi e alla Spagna una terra; a me l’onore di piantare la croce e una bandiera.
Recita su Cristoforo Colombo – VI QUADRO (Il porto di Palos)
Nostromo: dunque Ammiraglio, secondo voi la terra… sarebbe una sfera… Ho navigato quanto voi e ho visto albe e tramonti sul mare e la gran curva dell’orizzonte e apparire, come dite voi, vele e terre quasi sorgessero dal profondo del mare. Poniamo che la terra sia quest’uovo. Voi volete andare da questo punto a quest’altro: ma non passare da qui, per la via conosciuta. Volete passare da qua, sicuro che incontrerete il vostro Kataj. Ma dite, perchè altri prima di voi non ci hanno pensato?
Colombo: prova a dar star diritto quest’uovo
Nostromo: (prova e riprova, poi si dà per vinto) Non ci sta!
Colombo: (prende l’uovo e gli dà un colpetto) si batte un poco… ed ecco fatto.
Nostromo: non ci avevo pensato… è vero, bastava pensarci solo un poco…
Recita su Cristoforo Colombo – VII QUADRO (la tolda della Santa Maria in navigazione. E’ notte)
Lo storico. Si è lasciato Palos il 3 agosto del 1492. Si naviga da sessanta giorni. La ciurma esausta minaccia di ammutinarsi.
Nostromo: ancora una notte Ammiraglio. Le scorte d’acqua stanno per esaurirsi. Domani si torna indietro: bisogna stare ai patti.
Colombo: Conosco le leggi della gente di mare ed il valore della parola data. Pure ho nel cuore un buon presentimento.
Nostromo: il presentimento è costume di donne, non di uomini, Ammiraglio!
Colombo: può darsi, Nostromo! Pure io sento nelle narici l’odore della terra
Nostromo: le mie sono chiuse dal sale
Colombo: ho visto un branco di uccelli. Volavano verso levante. Gli uccelli non si allontanano molto dalla costa
Nostromo: Possono essere avvisaglie di mostri marini
Colombo: ho visto affiorare tronchi d’albero
Nostromo: esistono correnti marine simili a fiumi sotterranei. Potevano seguire la loro rotta verso l’inferno.
Colombo: ho visto laggiù un fuoco. Brillava nella notte. Poi una bassa nuvolaglia lo ha coperto.
Nostromo: perchè non avete dato il segnale?
Colombo: non a me è dato dar segnali: visionario e pazzo che sono!
Nostromo: Ammiraglio, voi avete raddoppiato stanotte le vedette. Voi avete promesso una ricompensa a chi avvisti per prima una striscia di terra. Ho creduto che fosse un trucco per rabbonire la ciurma… invece voi avevate già la certezza!
Colombo: Nostromo, guardate là! Dal profondo del mare si leva un’isola, una terra, un continente. Solo a chi ha navigato per anni è dato di vedere questo incanto che sa di magia.
(Un colpo di cannone ed un grido): Terra! Terra!
Nostromo: la Pinta ha dato il segnale!
Colombo: Ecco il favoloso Kataj abitato da uomini come noi! Che cosa porteremo loro? La nostra civiltà piena di dubbi? Oppore la nostra unica certezza?
(G. Siaccaluga)
Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Materiale didattico sul 25 aprile – letture, racconti, poesie e filastrocche sul tema, di autori vari, per bambini della scuola primaria.
L’Italia
L’Italia porta in fronte un diadema di montagne ove le nevi eterne risplendono come gemme. I suoi occhi sono azzurri come il suo cielo, come i suoi laghi. Il suo sorriso somiglia a quello della primavera. La sua veste è il verde lucente dei prati, quello più pallido degli uliveti, quello più cupo dei boschi: ha l’oro del frumento maturo. I rubini e i topazi dei grappoli rigonfi; il rame ardente degli aranceti carichi di frutti. (G. Fanciulli)
Io amo l’Italia
Io amo l’Italia, il mio Paese, per il suo cielo, per il suo mare, per la sua flora multicolore, per la sua spina e la sua corona di montagne gigantesche, per i suoi fiumi che hanno sulle rive un’ombra di querce e di salici piangenti, per i suoi laghi turchini come il cielo e immobili come specchi della bellezza eterna, per i suoi ghiacciai che il sole tinge di rosa, per le sue penisole che si lavano nel mare, per i suoi boschi che odorano di timo, per i suoi prati che odorano di giacinto e di viole. Io amo il mio Paese, le memorie del mio Paese, la terra del mio Paese. (M. Mariani)
Italia, terra benedetta
Essa fu per più di seicento anni signora di tutto il mondo civile, essa ha dato la civiltà e le leggi a tutti i popoli che vivono oggi sulla terra. Terra benedetta davvero: e per questo è così bella! Grandi montagne bianche e splendenti di ghiacciai eterni, boschi d’oro, colli verdi e ricchi, molli spiagge lungo il grande mare; e il più leggero dei cieli, ed un clima senza rigori, e campi che danno i più saporiti frutti del mondo. Sui colli e lungo i fiumi e sulla riva del mare sorgono le meravigliose città: più di cento sono le nobilissime città d’Italia e gli stranieri vengono da ogni parte del mondo a visitarle. (P. Monelli)
L’ultima lettera di Nazario Sauro
Cara Nina, non posso che chiederti perdono per averti lasciato con i nostri cinque figli ancora col latte sulle labbra. So quanto dovrai lottare e patire per portarli e conservarli sulla buona strada che li farà procedere su quella del loro padre; ma non mi resta a dir loro altro che io muoio contento di aver fatto soltanto il mio dovere di italiano. Siate felici, chè la mia felicità è soltanto questa: che gli italiano hanno saputo e voluto fare il loro dovere. Cara consorte, insegna ai nostri figli che il padre loro fu prima italiano, poi padre e poi cittadino, tuo Nazario.
Perchè amo l’Italia Io amo l’Italia perchè mia madre è italiana, perchè il sangue che mi scorre nelle vene è italiano, perchè è italiana la terra dove sono sepolti i morti che mia madre piange e che mio padre venera, perchè la città dove sono nato, la lingua che parlo, i libri che mi educano, perchè mio fratello, mia sorella, i miei compagni e il grande popolo in mezzo a cui vivo, e la bella natura che mi circonda, e tutto ciò che vedo, che amo, che studio, che ammiro, è italiano. (E. De Amicis)
Italia Amo i tuoi mari splendidi e le tue Alpi sublimi, amo i tuoi monumenti solenni e le tue memorie immortali, amo la tua gloria e la tua bellezza; t’amo e ti venero come quella parte diletta di te dove per la prima volta vidi il sole ed intesi il tuo nome. T’amo, patria sacra, e ti giuro che amerò tutti i figli tuoi come fratelli; che onorerò sempre in cuor mio i grandi vivi e i tuoi grandi morti. (E. De Amicis)
Il concetto di Patria Il concetto di Patria che vogliamo non si deve identificare con un racconto di guerra. La guerra è sempre nefasta, sia che si vinca, sia che si perda, perchè vuol dire sacrificio di preziose vite umane, distruzione di beni, profondi sconvolgimenti politici. Auguriamoci quindi che di guerra non si parli più anche se questo resterà, purtroppo, un pio desiderio. Oggi si tende a un’Europa unita dove il nazionalismo non abbia diritto di cittadinanza, e infatti non di nazionalismo parleremo, ma di amor di Patria. Non dovremo dimenticare l’orgoglio di sentirci Italiani, il desiderio di dare di noi un quadro dignitoso per conquistarci la stima e la considerazione degli altri popoli. Non dovremo, per un falso senso di internazionalità, rinunciare ai valori della nostra stirpe, che in campo artistico, letterario, politico, i nostri grandi ci hanno lasciato, non dovremo rinunciare al nostro prestigio nazionale. L’Italia dovrà essere sempre stimata per quel che ha rappresentato nel passato e per quello che vuole, e può, rappresentare nel presente e nel futuro. Ma che cos’è l’Italia se non tutti gli Italiani? Perchè gli stranieri possano stimare la nostra Patria noi dovremo dar sempre, di noi, un quadro degno di stima, di considerazione, di rispetto. Amare la Patria significa dimostrarci cittadini coscienti, disciplinati, rispettosi delle leggi; significa dare esempio di onestà, di laboriosità, di rispetto verso se stessi e gli altri. (M. Menicucci)
Italia T’amo, patria sacra e ti giuro che amerò tutti i tuoi figli come fratelli, che onorerò sempre in cuor mio i grandi vivi e i tuoi grandi morti; che sarò un cittadino operoso ed onesto, inteso costantemente a nobilitarmi per rendermi degno di te, per giovare con le minime forze a far sì che spariscano un giorno dalla tua faccia la miseria, l’ignoranza, l’ingiustizia, il delitto e che tu possa vivere ed espanderti tranquilla nella maestà del tuo diritto e della tua forza. (A. De Amicis)
Italia Italia, patria mia, nobile e cara terra dove mia madre e mio padre nacquero e saranno sepolti, dove io spero di vivere e di morire, dove i miei figli cresceranno e morranno: bella Italia, grande e gloriosa da molti secoli, che spargesti tanta luce d’intelletti divini sul mondo, e per cui tanti valorosi morirono sui campi e tanti eroi sui patiboli: madre augusta di trecento città e di milioni di figli; io, fanciullo che ancora non ti comprendo e non ti conosco intera, io ti venero e t’amo con tutta l’anima mia e sono altero di essere nato da te e di chiamarmi tuo figlio. (E. De Amicis)
La grande Madre Tu ami tua madre, non è vero? Essa è per te la creatura più bella, più buona; è l’angelo della tua casa, la consolazione dei tuoi dolori. Tu pensi a lei con infinita tenerezza e dici che non potresti vivere senza di lei. Ebbene, vi è anche un’altra madre che tutti dobbiamo amare fino alla morte. Ed è la grande madre comune a tutti noi, quella per cui tanti geni hanno faticato e tanti eroi sono caduti. Essa, o fanciullo, è la Patria. (G. Lipparini)
La Patria Lo sai, fanciullo, che cos’è la Patria? E’ la casa dove tua madre t’ha cullato sulle sue ginocchia e tuo padre ha lavorato per te. E’ la scuola dove s’è aperta la tua piccola mente alle prime nozioni e il tuo cuore ai primi affetti. E’ la terra su cui sventola la bandiera dei tre adorati colori. E’ il campanile da cui giunge la voce che invita a pregare. E’ il cimitero dove riposano i morti che i tuoi genitori piangono ancora. E’ il cielo a cui tu volgi gli occhi nella gioia e nel dolore. (E. Castellino)
La Patria Oh, la Patria! In essa sono la casa dove nascemmo, il paese dove fummo allevati, i luoghi dove giocammo da fanciulli, quel prato dove prima cogliemmo margherite e viole; in essa sono i primi ricordi tanto soavi. Amiamo la nostra patria, questo cielo così ridente, questo clima temperato, questo suolo così fecondo, questo linguaggio così armonioso.
Patria e umanità L’amore per la nostra Patria non deve farci dimenticare che, oltre i confini di essa, esistono altre Patrie di altri uomini che amano la loro come noi amiamo la nostra. Di là dalle Alpi, di là dai mari che circondano l’Italia, oltre i monti e gli oceani che separano l’Europa dagli altri continenti, vivono altri uomini, altri popoli che come noi studiano, lavorano, producono, soffrono ed amano. Tutti insieme formiamo un’unica e grande società: la Società Umana. Dobbiamo perciò, considerare tutti gli uomini come nostri fratelli. (O. Fava)
La nostra bandiera E’ bianca, rossa, verde. Il bianco è il simbolo della nostra fede, il rosso è il segno del nostro amore, il verde è la nostra speranza: la speranza di tutti noi che l’Italia nostra diventi sempre più saggia e forte, e possa collaborare, in pace, con tutte le altre nazioni per il benessere del mondo intero. (A. Novi)
L’Italia L’Italia è a regina di un immenso giardino: il più bel giardino del mondo. Sotto un cielo smagliante, la bella regina si cinge il capo con il meraviglioso diadema delle Alpi e si allunga ridente nel mare. Io amo i suoi monti altissimi e le sue valli ubertose; le sue colline intrecciate di pampini e di ulivi; le sue pianure biondeggianti di spighe, i suoi ruscelli chiacchierini, le cascate argentine; i torrenti agitati e i fiumi sonori. Amo lo specchio sereno dei suoi laghi incantevoli e le praterie smaltate di fiori. Io amo l’Italia che è la mia patria adorata. (Cardini Marini)
Il mondo è la mia Patria
Il mondo è la mia Patria! La mia bandiera, trapunta di stelle, ammanta tutti i cieli. Tutta la Terra è mia! Tutti gli uomini sono fratelli e tutti il mio cuore li vuole amare. Le terre, i mari e i monti, i boschi, i fiori e l’erbe sono miei. E mio è tutto ciò che ha fremito di vita. Esulta in petto il cuore, per lo splendor dei colli, dei fiumi e dei ruscelli: il mondo è tutto mio. Il mondo è tutto mio, il mondo è la mia Patria. (R. Whitake, poeta americano)
La cosa più importante
Non importa che tu sia uomo o donna vecchio o fanciullo operaio o contadino soldato o studente se ti chiedono qual è la cosa più importante per l’umanità rispondi prima dopo sempre: la pace! (Li Tien Min, poeta cinese)
Il mio Paese
O cari monti del mio Paese valli ridenti, pianure estese, lago di Garda, lago Maggiore, d’Iseo, di Como, vi sogna il core! Superbi fiumi che al mar correte e cento macchine liete movete; Po serpeggiante, vago Ticini, Adige, Arno, Tever divino, Metauro, Tronto, Volturno chiaro, i vostri nomi con gioia imparo. E tu mi brilli nella memoria, o Piave ceruto, con la tua gloria. (A. C. Pertile)
Italia, dolce terra
Italia, dolce terra, sei la mia Patria bella; amo il tuo sacro nome, parlo la tua favella. Dicono che d’Europa tu sei il bel giardino, con le candide Alpi e il ridente Appennino, con il cielo sereno, del mare la canzone, fiumi e laghi innumerevoli e fiori a profusione. Hai antiche memorie, città meravigliose; la tua storia è tessuta di gesta valorose. M’accendi, Italia mia, nel cuore pura fiamma; t’amo perchè tu sei la nostra grande mamma. (T. R. Correggi)
Italia bella
Se avessi l’ali al fianco volerei sulla cima dell’Alpi più elevate, e di lassù l’Italia guarderei tutta fiorente nelle sue vallate; e di lassù vedrei l’Italia intera, tutta fiorita al sol di primavera; e di lassù vedrei l’Italia mia ch’è la terra più bella che ci sia. (O. G. Mercanti).
La Patria
La Patria è il tetto, il focolare, la culla, il campanile d’una chiesa, un ruscello, un orto, dei fiori, un uccello, che s’ascolta all’aurora. Ma essa, rammentiamolo, è più ancora: è il ricordo della gloria che dagli avi ci vien trasmessa: tutti i grandi scomparsi che si ricordano e s’amano sono la Patria stessa! (Volleau)
La madre del partigiano
Sulla neve bianca bianca c’è una macchia color vermiglio; è il sangue, il sangue di mio figlio, morto per la libertà. Quando il sole la neve scioglie un fiore rosso vedi spuntare: o tu che passi, non lo strappare, è il fiore della libertà. Quando scesero i partigiani a liberare le nostre casa, sui monti azzurri mio figlio rimase a far la guardia alla libertà. (G. Rodari)
La sentinella
Fischiano i venti, la notte è nera, batte la pioggia sulla bandiera; finchè nel cielo rinasca il giorno, vegliam fratelli, vegliamo intorno. Zitti, silenzio! Chi passa là? Viva l’Italia, la libertà. Fischiano i venti, la notte è nera, batte la pioggia sulla bandiera; che sia bonaccia, che sia procella, rimango fermo di sentinella. Zitti, silenzio! Chi passa là? Viva l’Italia, la libertà. (T. Ciccioni)
Resistenza
Resistenza è la gente che si dà la mano e muore e vuole salvare le fabbriche per il lavoro, vuole la terra per il contadino, campi puliti dalle mine una volta per sempre, le porte delle carceri spalancate alla libertà. E che non sia proibito leggere e che non sia proibito scrivere nè cantare, nè lavorare in pace. (R. Nanni)
Il bersagliere ha cento penne
Il bersagliere ha cento penne e l’alpino ne ha una sola, il partigiano non ne ha nessuna e sta sui monti a guerreggiar. Là sui monti vien giù la neve la tormenta dell’inverno. Ma se venisse anche l’inferno il partigian riman lassù. Quando viene la notte scura tutti dormono alla pieve, ma camminando sopra la neve il partigiano scende in azion. Quando poi ferito cade non piangetelo nel cuore, perchè se libero uno muore non importa di morir.
Canto degli Alpini
Non ti ricordi quel mese di aprile, quel lungo treno che andava al confine, che trasportava migliaia di alpini? Su, su, correte: è l’ora di partir. Dopo tre giorni di strada ferrata Ed altri due di duro cammino, siamo arrivati sul monte Canino. A ciel sereno ci tocca riposar. Se avete fame, guardate lontano, se avete sete la tazza alla mano, che ci rinfresca, la neve ci sarà.
Soldato caduto
Nessuno, forse, sa più perchè sei sepolto lassù nel camposanto sperduto sull’alpe, soldato caduto. Nessuno sa più chi tu sia, soldato di fanteria, coperto di erba e di terra, vestito del saio di guerra, l’elmetto sulle ventitre. Nessuno ricorda perchè, posata la vanga, il badile, portando a tracolla il fucile, salivi sull’alpe; salivi, cantavi e di piombo morivi, ed altri moriron con te. Ed ora sei tutto di Dio. Il sole, la pioggia, l’oblio t’han tolto anche il nome d’infronte. Non sei che una croce sul monte che dura nei turbini e tace, custode di gloria e di pace. (R. Pezzani)
Il fante affardellato
Polveroso od infangato, stanco morto o riposato, sotto il sole o lo stellato, marcia il fante affardellato, perchè (piova o faccia bello), da filosofo qual è, egli porta nel fardello tutti i beni suoi con sè. Che bagaglio tintinnante, quando marcia ha indosso il fante! Quali musiche moderne fanno maschere e giberne! Che concerto dolce e gaio fan la tazza ed il cucchiaio, chiusi dentro alla diletta stonatissima gavetta!
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IL CRISTIANESIMO materiale didattico vario per la scuola primaria.
Storia di Roma IMPERIALE – Il Cristianesimo
Durante l’Impero si compì la più grande rivoluzione della storia dell’umanità nel campo religioso e morale: il cristianesimo. La nuova dottrina fu insegnata da Gesù. Nato a Betlemme, in Palestina, quando da 27 anni Ottaviano era imperatore, Gesù trascorse un’umile giovinezza nel villaggio di Nazaret, ignorato da tutti. A trenta iniziò la predicazione della sua dottrina. Questa è tramandata dai Vangeli che, insieme con altri libri, formano la seconda parte della Bibbia, detta Nuovo Testamento. Vangelo è parola greca che significa “buona novella”. Gesù percorse la Palestina predicando e operando miracoli. Fra i suoi primi seguaci ne elesse dodici col nome di Apostoli, cioè propagatori della sua dottrina. Egli affermava di essere figlio di Dio e Salvatore degli uomini, che doveva riscattare dal peccato di Adamo. Ma i Farisei lo accusarono di predicare dottrine contrarie alla religione ebraica e di cospirare contro l’autorità di Roma, in quanto si proclamava re dei Giudei. Gesù fu arrestato e condannato a morte. Ponzio Pilato, governatore romano, pur essendo convinto dell’innocenza di Gesù, cedette al furore popolare e permise che venisse crocefisso sulla collina del Calvario, nei pressi di Gerusalemme. Gesù moriva a 33 anni, mentre a Roma regnava Tiberio.
La dottrina di Gesù
Le condizioni degli Ebrei erano molto tristi per l’oppressione di Erode e la miseria delle classi più umili. La parola di Gesù apriva alla speranza l’animo di questi diseredati. Egli voleva che il regno di Dio cominciasse qui, in terra; esso consisteva nella fratellanza degli uomini, nell’amore reciproco, nel perdono nelle offese, nella pace, nel disprezzo dei beni terreni, nella superiorità dello spirito sulla carne. Chiamò beati i poveri, gli afflitti, i reietti, i misericordiosi, quelli che soffrono persecuzioni per amore della giustizia: beati perchè più vicini a Dio e perchè solo ad essi era aperto il regno dei cieli. Mosè aveva detto di amare il prossimo, ma Gesù aggiunse: “Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che odiano, pregate per i vostri persecutori”. Gesù compiva una grande rivoluzione nel campo morale: molti dei suoi principii contrastavano con la concezione pagana della vita. Se davanti a dio tutti sono uguali e fratelli, veniva meno il diritto del padrone sullo schiavo; la povertà, l’umiltà, la mansuetudine, il perdono predicati da Gesù erano in contrasto con le idee degli antichi, che consideravano la forza, la ricchezza, l’orgoglio, i più alti valori della vita. Gesù, lavorando nella bottega di falegname del padre e scegliendo i suoi apostoli tra gli operai, aveva esaltato il lavoro manuale anche nelle sue forme più umili, mentre fino allora era stato considerato indegno di uomini liberi e solo conveniente agli schiavi.
Storia di Roma IMPERIALE – La diffusione del Cristianesimo
Gesù, prima di essere condannato alla crocefissione, aveva affidato ai suoi apostoli un compito: “Andate, dunque, e predicate a tutte le genti”. Gli apostoli avevano ascoltato le parole del maestro ed erano andati in ogni parte dell’Impero ad insegnare le nuove verità: Dio è uno solo ed è il padre amoroso e giusto di tutti gli uomini; tutti gli uomini sono uguali davanti a lui e sono fratelli fra loro. A Roma, accanto all’antica religione, si erano diffusi culti, riti, superstizioni nati nelle più lontane regioni dell’Impero. I Romani avevano sempre rispettato queste nuove credenze, ma il cristianesimo era una forza nuova ed il governo di Roma ne provava timore; i cristiani rifiutavano di adorare come un dio l’imperatore. I patrizi erano serviti da migliaia di schiavi, considerati come esseri inferiori, al pari di bestie e di cose, e il cristianesimo parlava di fratellanza e di uguaglianza. La nuova religione si diffuse rapidamente e trovò i primi fedeli tra gli schiavi, tra le serve e le nutrici delle case patrizie, tra i poveri e i sofferenti. Quasi tutti gli imperatori se ne preoccuparono e perseguitarono i cristiani. Molti morirono. Si organizzavano veri spettacoli nei circhi e si assisteva soltanto a stragi di cristiani. Essi furono detti martiri, cioè testimoni della loro fede. Le idee giuste non possono essere spente nel sangue: per ogni cristiano che moriva, centro altri si convertivano alla nuova fede. E poichè non potevano pregare e celebrare apertamente i loro riti, si nascondevano in profonde cave abbandonate nei dintorni di Roma: lì assistevano alla messa, ascoltavano le prediche, seppellivano i morti. Quelle cave si dissero catacombe, e negli anni più difficili accolsero e protessero migliaia di fedeli.
Storia di Roma IMPERIALE – La prima persecuzione in Roma
Il popolo prestava mano spontaneamente alla ricerca dei cristiani. La caccia non era tanto difficile, perchè interi gruppi di essi erano accampati con l’altra popolazione nei giardini, e perchè tutti confessavano apertamente la loro religione. Quando venivano circondati dai pretoriani, si inginocchiavano e cantavano inni lasciandosi condur via senza resistenza. La loro pazienza non faceva che irritare ed aumentare l’ira del popolaccio, il quale, senza capire il perchè, considerava la loro rassegnazione come pertinacia nel delitto. I persecutori erano impazziti. Strappavano i cristiani alle guardie e li facevano in pezzi, le donne venivano trascinate al carcere per i capelli, si sbattevano le teste dei fanciulli contro le pietre. Giorno e notte migliaia di persone correvano per le vie urlando come bestie feroci. Si cercavano le vittime tra le rovine, nei camini, nelle cantine. Davanti alle prigioni di celebrava l’avvenimento con baccanali e si danzava sfrenatamente intorno ai fuochi e alle botti di vino. Di sera i ruggiti di gioia salivano e scoppiettavano per tutta la città con lo strepito del fulmine. Le prigioni rigurgitavano di prigionieri. Ogni giorno la plebaglia e i pretoriani stanavano altre vittime. La pietà era morta. Pareva che le moltitudini non sapessero più parlare e non si ricordassero nei loro trasporti selvaggi che un grido: “Ai leoni i cristiani!”. Il calore insopportabile della giornata diventava insopportabile di notte; e l’aria stessa pareva impregnata di sangue, di delitto, di furore. A quegli atti di una crudeltà senza esempio, si rispondeva con un desiderio, pure senza esempio, di martirio. I seguaci di Cristo andavano alla morte volenterosi, o la cercavano fino a quando non ne erano impediti dai superiori. (E. Sienkiewicz, da Quo vadis?)
Storia di Roma IMPERIALE – Le persecuzioni
I Romani si erano sempre mostrati tolleranti, anzi ospitali verso tutte le religioni. Non solo permisero ai popoli sottomessi di continuare ad adorare i loro dei, ma divinità greche, asiatiche, egiziane furono introdotte in Roma. Ma i cristiani non godettero di questa tolleranza: essi furono guardati subito con diffidenza e sospetto perchè la loro dottrina e i loro costumi contrastavano troppo con quelli dei pagani. Essi si rifiutavano di adorare come dio l’Imperatore e perciò furono accusati di essere nemici dello stato e perseguitati. La tradizione conta dieci persecuzioni. La prima fu quella di Nerone, l’imperatore che accusò i cristiani di aver voluto distruggere con un incendio Roma. Un’altra grande persecuzione fu quella ordinata, due secoli dopo, dall’imperatore Diocleziano. Essa infuriò crudelmente soprattutto in Oriente e si protrasse per otto anni (303 – 311): fu quello il periodo chiamato l’era dei martiri.
Storia di Roma IMPERIALE – Le catacombe
I cristiani, dopo la morte, non erano seppelliti col rito pagano della cremazione. Perciò fin dal I secolo costruirono dei cimiteri detti catacombe (nel profondo). Queste erano gallerie sotterranee, scavate in vecchie cave abbandonate di rena o di pomice, o sotto giardini e ville di cristiani, nei dintorni di Roma, con nicchie orizzontali alle pareti, in cui si ponevano i morti. Si estendevano per chilometri e chilometri, con una serie di gallerie che, nei punti di incrocio, furono ampliate fino a formare delle vaste stanze. Ai lati delle gallerie numerose lapidi recavano i vari simboli cristiani: l’olivo, l’agnello, la colomba, il pesce. Le catacombe, oltre che cimiteri, furono anche rifugio durante le persecuzioni: i fedeli vi si riunivano per ascoltare la messa e pregare. Le catacombe si possono perciò considerare le prime chiese dei cristiani.
Storia di Roma IMPERIALE – Nelle catacombe
Scende la notte e i cristiani, uomini e vecchi, e giovani, donne e fanciulli, escono silenziosamente dalla città. A un tratto sembrano ingoiati dalla terra. Spariscono dentro le cave di pozzolana, entrando in strette gallerie. All’ingresso hanno acceso una piccola lucerna, che rischiara a stento il corridoio sotterraneo. La piccola fiamma illumina via via tante tombe, scavate nella parete e sulle quali si possono leggere iscrizioni semplici e commoventi. Su qualche tomba è disegnato un pesce, che significa Gesù. Su qualche altra una colomba, che significa la pace. Oppure un’ancora, che significa la salvezza; oppure una spiga di grano o un grappolo d’uva, che significano la vita eterna; oppure un ramo di palma, che significa il martirio. I cristiani camminano e pregano. Giungono così ad un luogo più spazioso, chiuso da una specie di cupola. Qui è un rozzo altare, accanto al quale si leva un vecchio. Egli è un apostolo, o un successore degli apostoli, cioè un vescovo. Egli parla della vita eterna e spiega: “Cimitero vuol dire dormitorio. I nostri morti non sono morti. Essi vivono con Gesù. Bisogna vivere in questo mondo senza mischiarsi con il peccato, per essere degni di vivere eternamente in paradiso”. I cristiani ascoltano attentamente, poi dicono in coro: “Amen”, che vuol dire così sia. (P. Bargellini)
Nelle catacombe I cristiani, invece di bruciare i loro morti come i pagani, li seppellivano in gallerie sotterranee. Lì avrebbero riposato in pace in attesa di risvegliarsi alla vita eterna. Dapprima i pagani derisero i cristiani per la fede che professavano e gli strani riti che celebravano. Poi presero a perseguitarli, e i Cristiani furono costretti a nascondersi nei loro cimiteri sotterranei, detti catacombe. Alla fioca luce delle lucerne leggevano i Vangeli, ascoltavano la messa, cantavano preghiere. I ricchi spartivano le loro ricchezze con i poveri perchè li consideravano fratelli.
Storia di Roma IMPERIALE – Le tombe dei primi cristiani
Le catacombe si estendono in vasta rete nel sottosuolo della Città Eterna, specialmente alla periferia; e non sono altro che cimiteri sotterranei. Solo in casi eccezionali servirono come temporaneo luogo di preghiera per i primi cristiani che si rifugiavano in esse, accanto alle tombe dei martiri, durante le persecuzioni più feroci. Siccome le leggi romane proibivano di seppellire i morti in città, così anche i cristiani, per fare i loro cimiteri, scelsero, come i pagani, le località prossime alle strade suburbane; e, nel tufo che forma il sottosuolo di Roma, furono scavati chilometri e chilometri di gallerie, larghe mai meno di un metro, che portavano scavate nelle pareti delle nicchie, disposte le une sulle altre come cuccette di bastimento. Una lastra di marmo o di semplice terracotta chiudeva poi il loculo, ed era spesso ornata di iscrizioni e di figurazioni artistiche o simboliche. Altre volte, invece, le tombe erano formate da una mensola sormontata da un arco (arcosolio), o erano raccolte attorno ad una stanza (cubicolo). Al principio le catacombe servirono ad accogliere le spoglie dei cristiani più illustri, insieme con quelle dei loro familiari: ma poi, quando il numero dei Cristiani crebbe, si sentì il bisogno di sepolcri per la comunità. Furono proprio questi i tempi delle più feroci persecuzioni, e così i numerosi corpi dei martiri furono sepolti dai correligionari nei loro cimiteri. Tanto più, allora, i fedeli amarono farsi seppellire nelle catacombe, ove riposavano le spoglie di quei fulgidi esempi di cristiano eroismo, mentre cercavano, in vita, di ornare le tombe con pitture, iscrizioni e colonne, su cui ardevano lucerne. Dal quinto secolo in poi però, i cristiani cessarono di farsi seppellire nelle catacombe, che divennero luoghi di pellegrinaggio e devozione; nelle chiese sotterranee si continuarono a celebrare gli anniversari dei defunti, e sulle tombe più venerate si innalzarono basiliche (San Pietro, Santa Agnese, San Paolo). Ma vennero gli anni terribili delle invasioni barbariche; e i barbari non rispettarono questi sotterranei: li devastarono e ne trassero le ossa per venderle come reliquie. Allora i papi pensarono che meglio valesse trasportare i corpi dei martiri nell’interno della città. Così pian piano, alla metà del IX secolo, le catacombe restarono prive di quei sacri tesori, e perciò furono gradatamente abbandonate e si ricolmarono di rovine, ad eccezione del cimitero di San Sebastiano e di qualche altra piccola parte di sotterranei, posti sotto alcune delle più frequentate basiliche. (O. Gasperini)
Storia di Roma IMPERIALE – I martiri
Durante le persecuzioni, i cristiani venivano imprigionati e interrogati. Bastava che negassero di essere seguaci di Cristo e che bruciassero l’incenso sull’altare dell’imperatore per riavere la libertà. Alcuni lo facevano, altri invece, ed erano la maggioranza, affrontavano con animo lieto la tortura e la morte piuttosto che tradire la loro fede; essi furono chiamati martiri. Questa parola vuol dire testimoni. Nonostante le persecuzioni, il numero di coloro che abbandonavano il culto degli dei e chiedevano di essere battezzati aumentava continuamente.
Storia di Roma IMPERIALE – I cristiani alle belve
Quanta diversità fra i Romani della repubblica e quelli dell’impero! Allora il lavoro era ritenuto un onore. Ora, invece, era quasi diventato una vergogna. La gente voleva godere e divertirsi. Si gridava: “Pane e divertimenti!”. Il divertimento più desiderato era quello del Circo, dove si svolgevano combattimenti fra gladiatori e gladiatori, o fra gladiatori e belve. I gladiatori erano schiavi armati di corta spada, chiamata gladio. Nell’entrare nel Circo, i gladiatori salutavano l’imperatore dicendo: “Salve Cesare, i morituri ti salutano”. Poi lottavano tra loro e si ammazzavano davvero. Quando un gladiatore cadeva a terra ferito, ma non morto, l’altro si volgeva all’imperatore. Se l’imperatore faceva un gesto, col pollice in basso, il gladiatore caduto veniva ucciso. Il gesto contrario significava che gli era salva la vita. Molte volte i gladiatori lottavano contro belve ferocissime: leoni, tigri, leopardi. Ma al tempo delle persecuzioni contro i cristiani, fu trovato uno spettacolo anche più crudele. Si faceva entrare nel Circo un gruppo di cristiani e poi si scatenavano le fiere, mentre il pubblico gridava pazzamente: “I cristiani alle belve!”. Donne, vecchi, bambini, uomini erano così dilaniati dai denti e dagli artigli delle fiere. (P. Bargellini)
Storia di Roma IMPERIALE – Panem et circenses
Se la decadenza dei costumi si fosse limitata alle baldorie, susciterebbe solamente il nostro disgusto; ma essa giunse perfino agli spettacoli sanguinari, amati e approvati da tutti, che provocavano una tale frenesia nelle folle, che senatori, donne e perfino imperatori alcune volte discesero di persona nell’arena per battersi come vili gladiatori. I cittadini poveri limitavano le loro rivendicazioni essenziali a due cose: un pezzo di pane e un posto per assistere alle stragi, “panem et circenses”, e i ricchi, che desideravano rendersi popolari, offrivano rappresentazioni sempre più grandiose. Sotto l’Impero c’erano 165 giorni di rappresentazioni l’anno e, nel corso di certi giochi, migliaia di gladiatori e di condannati comuni furono uccisi. Durante il mattino e nel pomeriggio il numero dei morti è limitato: sono professionisti, formati in apposite scuole, ludi, da allenatori, lanistae, che si sfidavano in duelli serrati, spesso molto lunghi prima della disfatta di uno degli avversari. Di solito si fa combattere un reziario con un mirmillone o gallo. Il primo è il pescatore, quasi nudo, agile, che cerca di avvolgere l’avversario con la sua rete e di colpirlo con il suo tridente; l’altro è un pesce pesante, coperto con placche di metallo, armato di una piccola spada; e il suo capo è rinchiuso in un casco di bronzo con la cima ornata proprio da un pesce. Quando uno degli avversari, colpito da una grave ferita, comincia a vacillare, il popolo urla: “Hoc habet!” (se l’è presa). Quando crolla a terra e alza la mano per implorare la grazia, raramente il popolo la concede, e di solito abbassa il pollice gridando: “Iugula!” (sgozzalo). Il vincintore finisce il ferito che muore con eleganza, come gli è stato insegnato a scuola. A mezzogiorno le gradinate si vuotano. Molti vanno a pranzo e a fare la siesta, mentre il sole implacabile cade a piombo sulle teste nell’immenso anfiteatro di pietre; restano solo i fanatici: essi sanno che succederà qualche cosa anche durante quest’ora vuota. I servi dell’anfiteatro spingono nell’arena i gladiatores meridiani, cioè i condannati a morte. Viene data un’arma ad un uomo, perchè ne uccida un altro che è disarmato; quando egli ha colpito la sua vittima, gli tolgono la spada insanguinata di cui si è appena servito, per darla a un terzo che lo uccida a sua volta. Il terzo è ucciso da un quarto, e il massacro dura un’ora.
Nei circhi avvengono combattimenti fra uomini armati e animali feroci, mai primi cristiani, trattati come criminali comuni, vengono esposti senza difesa e le bestie affamate li sbranano sotto gli occhi degli spettatori. Tuttavia, questi vanno al circo soprattutto per vedere le corse dei carri a due cavalli, bighe, o a quattro cavalli, quadrighe. Per queste corse è stata preparata una lunga pista divisa in due in senso longitudinale da un muro chiamato spina, che lascia un passaggio solo alle due estremità. Fin dall’inizio della gara è una lotta serrata per portarsi sulla sinistra, onde prendere la curva più stretta che sia possibile contro la colonnetta, “meta”, che è all’estremità della spina. In questa lotta le ruote dei cocchi spesso si incontrano e volano in schegge. Prima di cadere, i conducenti tagliano le redini con un pugale, per non essere trascinati al suolo dai loro cavalli impazziti. Costantino nel 325 cercò invano di proibire i giochi gladiatorii; essi continuarono ad essere effettuati nonostante le proteste dei padri della chiesa, ancora per più di un secolo. Mentre un giorno nel Colosseo si svolgeva uno di questi spettacoli, un monaco si gettò in mezzo ai combattenti cercando di strappare loro le armi. Fu ucciso: poi si seppe che si chiamava Telemaco, che era venuto dall’Oriente per compiere questa missione. Il suo sacrificio indusse l’imperatore a prendere un provvedimento decisivo. Il fatto accadde a Roma sotto Onorio ed è narrato da uno storico contemporaneo. (A. M. Colin)
Lotte di gladiatori
Squillarono le trombe e vi fu un profondo silenzio; migliaia di sguardi si diressero sulla porta verso la quale un uomo, vestito da Caronte, avanzava battendo su questa tre colpi di martello, quasi invitasse alla morte coloro che si trovavano al di là. Aperti lentamente i battenti, lasciando scorgere una cupa voragine, entrarono nel Circo i gladiatori. Avanzarono a schiere di venticinque: Traci, Mirmilloni, Sanniti, Galli; tutti armati pesantemente. Seguivano i retiarii, con la rete in una mano e nell’altra il tridente. Furono accolti da applausi che divennero fragorosi. In tutto l’anfiteatro si vedevano facce accese, mani alzate, bocche aperte. E intanto i gladiatori, fatto il giro dell’arena con passo fermo, scintillanti nelle ricche armature, si fermarono davanti alla loggi cesarea, superbi e tranquilli. Uno squillo di tromba acuto interruppe i battimani, i gladiatori alzarono le braccia, e rivolgendosi a Cesare, intonarono lentamente: “Salve Cesare imperatore! Coloro che sono per morire ti salutano!” Dopo, presero posto nell’arena. Dovevano cozzare schiera contro schiera, ma ai più famosi fu comandato di battersi singolarmente, perchè potessero meglio dar prova di sveltezze e di coraggio. Dal gruppo dei lottatori ne uscì uno ben conosciuto, di nome Macellaio (Lanio), famoso vincitore. Con l’enorme elmo e la corazza che fasciava la schiena poderosa, spiccava sulla gialla arena come un immane scarabeo. Il non meno celebre retiario Calendio gli si fece incontro. Cominciarono le scommesse: “Cinquecento sesterzi per Gallo!” ” Cinquecento per Calendio!” “Per Ercole ne scommetto mille!” “Duemila!” Intanto il Gallo, giunto nel mezzo, cominciava a retrocedere; protendendo la spada, e piegando il capo da una parte, seguiva attentamente l’avversario, e il retiario, svelto, nudo, di forme scultoree, coperte di una sciarpa, rapidamente gli girava intorno, agitando con arte la rete, ora abbassando ora rialzando il tridente… Ma il Gallo non fuggiva; piantandosi saldo, faceva in modo da aver sempre di fronte l’avversario. C’era qualcosa di pauroso nella sua grossa testa mostruosa e in tutta la sua persona. Gli spettatori sapevano che egli si preparava ad un balzo improvviso che avrebbe potuto decidere della lotta. E il retiario ora gli correva incontro, ora dava un balzo indietro con tale rapidità, che non era possibile seguirlo con lo sguardo. Più volte il colpo del tridente risuonò sulla corazza: ma il Gallo rimase saldo, dando prova così della sua forza inverosimile. La sua attenzione si concentrava non sul tridente, ma sulla rete che gli girava attorno come un uccello di cattivo augurio. Gli spettatori, trattenendo il fiato, seguivano attentamente il gioco dei lottatori. Lanio, al momento opportuno, balzò alla fine sull’avversario; ma questi, rapidissimo, gli sfuggì di mano, si raddrizzò e scagliò la rete. Il Gallo, con un giro, la respinse con lo scudo; quindi, indietreggiarono ambedue. L’anfiteatro echeggiò delle grida di “Macte!” (Ammazzalo). Nelle prime file s’impegnarono nuove scommesse. E i gladiatori ricominciarono a lottare con arte, con precisione di movimenti, da far pensare che non si trattasse di una lotta di vita o di morte, ma di una gara di destrezza. Lanio cercava di evitare la rete, retrocedendo. Allora coloro che scommettevano, cominciarono a gridare: “Dagli addosso!”, eccitandolo a non riposarsi. Il Gallo obbedì, e si slanciò sull’avversario, il braccio del retiario si coprì di sangue e la rete gli pendette dalla mano. Lanio si raccolse e spiccò un salto per vibrare l’ultimo colpo. Ma in quel punto Calendio, che aveva finto di non poter reggere la rete, scansò il colpo e, conficcando il tridente nelle ginocchia dell’avversario, lo fece stramazzare a terra. Lanio, sempre più avviluppato nella rete fatale, cercava invano di rialzarsi, sempre più imbrogliandosi. Intanto altri colpi lo inchiodavano a terra; puntò la mano, raccolse le forze, ma invano: portò alla testa la mano che non reggeva più la spada, e cadde. Il Circo tremò dagli applausi, dalle grida. Il pubblico era diviso in due parti. Chi gridava morte, chi grazia. Ma il retiario non guardava che Cesare e le Vestali e aspettava la loro sentenza. Per sventura, l’imperatore non amava Lanio, perchè aveva scommesso per lui una volta ed aveva perduto, perciò, sporgendo la mano, abbassò il pollice. Il segno fu ripetuto dalle Vestali. (Enrico Slenkiewicz)
Il trionfo del cristianesimo
Col passare degli anni il cristianesimo si diffuse in regioni sempre più vaste. E la chiesa, cioè la congregazione dei fedeli, diventò veramente cattolica, cioè universale. Le persecuzioni, invece di soffocar il cristianesimo, concorsero alla sua vittoria. Questa avvenne, nel IV secolo, dapprima con Costantino (Editto di Milano), poi con Teodosio (autore di un editto per il quale il cristianesimo era proclamato religione di stato). Il cristianesimo aveva trovato un terreno più favorevole alla sua diffusione nelle città; nei villaggi, detti pagi, continuarono a vivere i seguaci delle vecchie religioni, detti perciò pagani.
La luce del Cristianesimo Il Cristianesimo si diffuse ben presto in tutto l’Impero Romano e vi fu portato non solo dagli apostoli, ma anche da gente qualunque, da persone della quali non conosciamo neppure il nome, ma che avevano il cuore pieno d’amore e di fiducia in Dio. Per esempio, ignoriamo ancora chi formò la prima comunità cristiana di Roma, già esistente prima dell’arrivo degli apostoli Pietro e Paolo. Non era necessario essere sacerdoti, per parlare di Gesù e per invitare gli uomini a riflettere sulla vita futura: potevano farlo un legionario reduce dalle Gallie, uno schiavo incatenato al remo di una nave ferma nel porto per le pulizie, o la moglie di un funzionario al ritorno dalla Giudea. Così, da una persona all’altra, la fede arrivò in tutti gli strati della società romana. Non pensate che i primi cristiani fossero tutti schiavi tormentati dai padroni o poveri maltrattati dai ricchi… No davvero! Furono anche patrizi, uomini colti, militari, matrone di famiglia nobilissima. Perchè non basta la ricchezza per avere la pace del cuore: tutti, ricchi e poveri, avevano bisogno di Gesù. Gli imperatori, però, non approvarono il Cristianesimo e considerarono i cristiani nemici dello Stato, perchè costoro si rifiutavano di rendere all’imperatore in carica gli onori che egli pretendeva considerandosi un dio.
Nelle catacombe La poca luce che pioveva da certe finestre chiamate lucernari o la fumosa fiamma di una torcia illuminavano i volti di coloro che pregavano. Lungo le pareti delle gallerie si aprivano i loculi, cioè delle nicchie dove erano deposte le casse di legno con i cadaveri. Una lastra di marmo o un muro, con il nome della persona sepolta, chiudeva il loculo. Molte volte, oltre al nome, era inciso sulla lapide anche un augurio: “O caro, che tu sia felice, là dove si sta bene”. Da questi antichi cimiteri che sorsero a Roma, in Sicilia e in Sardegna, ci giungono ancora le voci, le preghiere e la fede dei primi cristiani.
La prima arte cristiana La prima arte cristiana si manifestò nelle catacombe. Le pareti delle catacombe venivano, infatti, dipinte con affreschi che rappresentavano pavoni, navicelle, grappoli di uva, pesci, anfore, lucerne, rami di palma, agnelli, un pastore. Ognuna di queste figure aveva un significato: l’albero e il prato rappresentavano il paradiso; la spiga e il tralcio l’eucarestia; la colomba la purezza, la pace e il perdono; il pesce e l’agnello Gesù Cristo. La raffigurazione di Gesù nel pesce si spiega ricordando che, nella lingua greca, pesce si dice ixtus, e le lettere che compongono ixtus sono le iniziali di “Iesus Xristos Teu Uios Soter” cioè ” Gesù Cristo figlio di Dio salvatore”. Altri simboli cristiani erano il delfino, l’anima che naviga e giunge alla salvezza; la palma, che rappresentava la vittoria del martire; la lucerna, la luce che non si spegne nel cuore di chi crede; il grappolo d’uva che simboleggiava Gesù che disseta le anime. Il pastore che porta l’agnello era Gesù che ama il suo gregge.
Le persecuzioni I Romani si erano sempre mostrati tolleranti, anzi ospitali verso tutte le religioni, ma i Cristiani non godettero di questa tolleranza. Essi furono guardati subito con diffidenza e sospetto perchè la loro dottrina e i loro costumi contrastavano troppo con quelli dei pagani. Essi di rifiutavano di adorare come dio l’imperatore e perciò furono accusati di essere nemici dello Stato. I Cristiani furono perseguitati per più di trecento anni e migliaia di loro morirono martiri perchè non avevano voluto rinnegare la fede in Cristo e perchè si erano rifiutati di bruciare incenso davanti alle statue degli Imperatori. Nell’anno 64 Nerone li accusò di aver incendiato Roma e subirono la prima persecuzione. La tradizione conta dieci persecuzioni, fino a quella di Diocleziano che, fra tutte, fu la più lunga e sanguinosa (303 – 311). Non solo vescovi, sapienti ed uomini validi, ma anche giovani e giovinette affrontarono serenamente il martirio, per rivivere nel cielo accanto a Cristo. Ecco il racconto di Santa Perpetua, martirizzata in una cittadina africana: “Mentre eravamo tra i persecutori, mio padre insistette per dissuadermi. Allora gli dissi: -Papà, vedi questo vasetto qui in terra? Potresti chiamarlo con un nome diverso dal suo?-. -No-, rispose lui. -Benissimo!- dissi io. -Nello stesso modo, non posso dire altro di me che sono cristiana!-“
Il cristianesimo Gesù, prima di essere condannato alla crocefissione, aveva affidato ai suoi apostoli un compito bello ma difficile: “Andate, dunque, e predicate a tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Gli apostoli avevano ascoltato le parole del loro Maestro ed erano andati in ogni parte dell’Impero ad insegnare le nuove verità: Dio è uno solo ed è padre amoroso e giusto di tutti gli uomini, tutti gli uomini sono uguali dinanzi a lui e sono fratelli fra loro. A Roma, accanto all’antica religione, si erano diffusi culti, riti, superstizioni nati nelle più lontane regioni dell’Impero. I Romani avevano sempre rispettato queste nuove credenze, ma il Cristianesimo era una forza nuova e il governo di Roma ne provava timore; i Cristiani rifiutavano di adorare come un dio l’Imperatore. I patrizi erano serviti da migliaia di schiavi, considerati come esseri inferiori, al pari di bestie e di cose, e il cristianesimo parlava di fratellanza e di uguaglianza. La nuova religione si diffuse rapidamente e trovò i primi fedeli tra gli schiavi, tra le serve e le nutrici delle case patrizie, tra i poveri e i sofferenti. Quasi tutti gli imperatori se ne preoccuparono e perseguitarono i cristiani. Molti morirono crocefissi, divorati dalle belve, decapitati. Si organizzavano veri spettacoli nei circhi e si assisteva soltanto a stragi di cristiani. Essi furono detti martiri, cioè testimoni della loro fede. Le idee non possono essere spente nel sangue: per ogni cristiano che moriva, cento altri si convertivano alla nuova fede. E poichè non potevano pregare e celebrare apertamente i loro riti, si nascondevano in profonde cave abbandonate nei dintorni di Roma: lì assistevano alla messa, ascoltavano le prediche, seppellivano i morti. Quelle cave si dissero catacombe e, negli anni più difficili, accolsero e protessero migliaia di fedeli.
Un’adunata notturna di Cristiani nelle catacombe a Roma Allora tutta quella moltitudine di cristiani, nel sotterraneo rischiarato dal chiarore delle fiaccole, intonò un inno, dapprima a bassa voce, poi a voce sempre più alta… Quell’inno sembrava una preghiera, triste ed umile ad un tempo, di liberazione dal pericolo e dalle tenebre. Pareva che gli occhi, rivolti ad una meta lontana, e le braccia tese vedessero e supplicassero qualcuno. All’inno seguì un istante di silenzio… Tutti sollevarono istintivamente gli sguardi. Un vecchio, ravvolto in un mantello, ma col capo scoperto, montò su una pietra che stava accanto al fuoco. Tutti si inchinarono. Delle voci mormorarono: “Pietro… Pietro…”. Alcuni si posero in ginocchio, altri stesero le mani verso l’apostolo, e il silenzio divenne così profondo che si sarebbe potuto udire lo stridere dei tizzi arsi che cadevano dalle fiaccole, il rumore dei carri sulla via lontana e lo stormire dei pioppi nel cimitero lievemente agitati dalla brezza della sera. Pietro cominciò a parlare: narrava la morte e la resurrezione di Cristo. Gli ascoltatori trattenevano il fiato per non perdere sillaba, ed il silenzio si fece ancora più solenne. Quell’uomo aveva visto! Egli raccontava come persona, nella cui memoria era impressa ogni minima circostanza, e gli bastava chiudere gli occhi per rievocare quella visione.
Il piccolo schiavo La fila dei prigionieri procedeva silenziosa sotto la pioggia. Erano stati catturati nella lontana Dacia e, a marce forzate, dovevano raggiungere Roma: avrebbero seguito incatenati il cocchio dell’imperatore nella sfarzosa sfilata trionfale. I prigionieri erano tutti guerrieri. Alcuni di loro portavano ancora brandelli della tenuta di battaglia: chi un bracciale, chi gli schinieri, chi addirittura il pettorale della corazza. In mezzo a loro, vestito di una corta tunica, un ragazzo: Lucio. Quando la sua terra era stata invasa, s’era trovato in mezzo ad un gruppo di fuggiaschi in preda al panico. Aveva proceduto con loro per un giorno e una notte, finchè s’era imbattuto in questa schiera di prigionieri, tra i quali aveva scorto gente del suo paese. I soldati di guardia avevano tentato di allontanarlo, ma poi avevano lasciato che seguisse il gruppo. E Lucio faceva del suo meglio per arrancare col suo passo, ma era stanco, molto stanco. Al tramonto si fermarono in una stalla abbandonata. I soldati distribuirono un magro pasto e ordinarono loro di cercarsi un giaciglio sulla paglia per passare la notte. Ma era tanta la stanchezza, il dolore alle gambe e il bruciore ai piedi, che Lucio non riusciva a prendere sonno. Si guardò intorno: tutto buio. Solo là, in fondo, un rettangolo appena visibile, la porta: su di essa si disegnava l’ombra del soldato di sentinella. Lucio osservò a lungo il profilo; lo riconobbe: era Marco, uno dei pochi buoni soldati che li accompagnavano, il quale gli sorrideva spesso; qualche volta, di nascosto, gli aveva regalato del cibo. Lucio si alzò. Al lieve fruscio della paglia, Marco volse il capo verso l’interno della stalla. Nel buio vide biancheggiare la corta tunica di Lucio. “Lucio, che fai?” Il ragazzo non conosceva la lingua di Marco, e non rispose: andò a sederglisi accanto. Da vicino si potevano scorgere il volto: si sorrisero. Rimasero così seduti fianco a fianco, senza parlare. Lucio guardò il cielo: aveva smesso di piovigginare, e qua e là si scorgeva tremolare qualche stella. Si segnò una piccola croce sulla fronte e si mise a pregare in silenzio. Il soldato aveva scorto il segno. Gli toccò una spalla e, sottovoce, gli chiese: “Sei cristiano?” Lucio alzò gli occhi. Non conosceva il linguaggio di Marco, ma la parola “cristiano” l’aveva compresa: fece cenno di sì col capo, poi con un dito disegnò una croce sulla sabbia. A Marco si schiarì il volto e, col grosso indice, disegnò vicino alla croce un pesce. Anch’egli era cristiano. Sorrisero contenti; poi Marco si guardò intorno: tutti dormivano. Allora si alzò e si pose in ginocchio. Lucio lo imitò. Sentinella e prigioniero, gomito a gomito, pregarono a lungo, ciascuno nella sua lingua, ma insieme.
L’incendio di Roma Nell’anno 64 dopo la nascita di Gesù, mentre era imperatore Nerone, scoppiò a Roma un terribile incendio che durò nove giorni. Non si seppe mai la vera causa del disastro, ma corse voce che lo stesso Nerone, di cui si conoscevano le pazzie e i delitti, l’avesse voluto per ricostruire la città secondo i suoi gusti. Nerone incolpò i cristiani. Vennero imprigionati tutti quelli che si sapevano seguaci di Cristo e mandati al supplizio come incendiari. Tra gli altri, subirono il martirio anche gli apostoli Pietro e Paolo. Questa fu la prima persecuzione.
Un processo ai cristiani sotto l’imperatore Antonino Pio Introdotti che furono i cristiani e presentati al tribunale, il prefetto Rustico disse a Giustino: “Prima di tutto obbedisci agli dei e rendi omaggio all’imperatore”. Giustino: Cosa santa è l’obbedire ai comandamenti del nostro salvatore Gesù. Prefetto: Di quali dottrine vai tu discorrendo? Giustino: Io studiai tutte le dottrine e ho prestato fede solo ai veri insegnamenti dei cristiani, anche se non piacciono ai falsi filosofi. Prefetto: E a te, miserabile, piacciono questi discorsi? Giustino: Sì, perchè li seguo con animo disposto ad accogliere verace dottrina…. Prefetto: Veniamo ora alla questione che bisogna sbrigare. Fatevi avanti tutti insieme, e tutti insieme fate sacrificio agli dei. Giustino: Nessun uomo saggio passerebbe dalla religione all’empietà. Prefetto: Se non obbedirete, sarete puniti senza remissione. Giustino: Le nostre preghiere ci ottengono di giungere a salvezza per mezzo dei tuoi castighi; perchè questi saranno a noi scampo e conforto dinanzi al tribunale del nostro Signore e Salvatore, tribunale più terribile di questo e al quale compariranno tutti gli uomini del mondo. Tutti gli altri cristiani dissero: Fa’ ciò che vuoi. Noi siamo cristiani, non sacrifichiamo agli dei. Il prefetto Rustico pronunciò la sentenza: “Costoro che non vogliono sacrificare agli dei nè sottomettersi al decreto dell’imperatore, siano flagellati e condotti al supplizio, e scontino la pena di morte per decapitazione a norma del procedimento legale”. (dagli Atti dei Martiri, trad. S. Colombo)
Il martirio di San Pancrazio Ritto e immobile nel mezzo dell’arena, il giovinetto pregava con le braccia piegate sul petto a forma di croce. Ed ecco i leopardi correre verso di lui, ruggendo. Ma che cosa accadeva? Le belve gli si avvicinarono, gli fecero ressa intorno, mandarono paurosi ruggiti, ma non gli recarono la minima offesa. Il martire sembrava posto in mezzo ad un cerchio magico, a cui le belve non potevano avvicinarsi. Gli fu mandato contro un toro infuriato: esso corse verso di lui a testa bassa, con impeto, ma improvvisamente si arrestò, muggendo e percuotendo con lo zoccolo il terreno. “La pantera!” gridò allora una voce. “La pantera! La pantera!” ripeterono mille altre voci in coro. Apparve una gabbia: si spalancò e la fiera balzò nel mezzo dell’arena. Benchè lungamente irritata dall’oscurità della prigionia e dal digiuno, cominciò a saltare e a correre intorno, come volesse giocare. Alla fine scorse la preda e le si avvicinò piano piano, con tutta la grazia dei suoi movimenti felini. Pancrazio stava sempre fermo al suo posto, di fronte all’imperatore. La pantera misurò, per un attimo, la distanza, mentre tutti trattenevano il respiro; poi, dato un ruggito, spiccò un salto e fu con le fauci strette alla gola del martire. Pancrazio rimase per un istante in piedi, portò la mano destra alle labbra, poi cadde, e i suoi occhi si chiusero nel sonno del martirio. (E. Sienkiewicz)
La Chiesa Le violenze non riuscirono a cancellare il cristianesimo dall’Impero. La Chiesa Cristiana, anzi, si organizzò saldamente. La parola Chiesa deriva da una parola greca che significa assemblea; i cristiani di una città, infatti, si riunivano sotto la guida del Vescovo, che era aiutato dai Preti e dai Diaconi. I primi cristiani si riunivano la domenica per pregare e, in ricordo dell’ultima cena di Gesù, si comunicavano col pane e col vino consacrati. Le varie comunità cristiane si scambiavano notizie e consigli, e i Vescovi si riunivano a concilio per discutere i problemi della Chiesa. Fin dai primi tempi del Cristianesimo, il Vescovo di Roma fu riconosciuto capo di tutta la Chiesa, perchè successore di Pietro, il capo che Gesù aveva scelto.
Il Cristianesimo Il Cristianesimo, nei primi tre secoli dell’era, che ben a ragione è detta cristiana, si diffuse in tutto l’impero. I cristiani obbedivano alle leggi civili quando esse non contrastavano con le leggi di Dio, per questo furono sospettati, calunniati, perseguitati; ma seppero sempre resistere; morirono fra i tormenti, ma non rinnegarono mai la loro fede. Stupirono, impressionarono e conquistarono le folle, perchè serenamente e docilmente, anche cantando, affrontavano il martirio.
Per il lavoro di ricerca Da chi fu diffuso il Cristianesimo nelle terre dell’Impero? Perchè il Cristianesimo era combattuto dallo Stato romano? Chi furono i primi cristiani? Come si organizzò la Chiesa cristiana? Che cosa significa la parola “chiesa”? Dove si manifestò la prima arte cristiana? Che cos’erano le catacombe? Come venivano dipinte le pareti delle catacombe? Che cosa erano i loculi? Quali furono i simboli religiosi dei primi cristiani? Per quanti anni furono perseguitati i cristiani? Quale fu la prima persecuzione dei cristiani? Chi ebbe il nome di martire? Riuscirono le persecuzioni a sopprimere il Cristianesimo?
Il trionfo del cristianesimo Tre secoli dopo la morte di Gesù, al tempo dell’imperatore Costantino, i cristiani erano alcuni milioni, sparsi in tutto il territorio dell’impero. Tra essi vi erano non solo schiavi e poveri, ma anche patrizi, senatori, ufficiali , dignitari di corte. In quel tempo lo Stato Romano aveva due imperatori: Costantino che era stato scelto dai soldati che si trovavano in Gallia; e Massenzio che era stato eletto dal Senato e dal popolo di Roma. I due rivali decisero di combattere l’uno contro l’altro per stabilire a chi dovesse toccare l’Impero. Costantino con il suo esercito giunse alle porte di Roma. Dice la leggenda che mentre si preparava ad iniziare la battaglia decisiva ebbe una miracolosa visione. Una grande croce luminosa apparve nel cielo. Costantino vi lesse queste parole: “In hoc signo vinces” (con questo segno vincerai). Egli, sebbene non fosse ancora cristiano, fece subito mettere la croce sul labaro imperiale. Poi promise che, se avesse vinto, avrebbe concesso la libertà ai cristiani. La battaglia fu combattuta presso il Ponte Milvio, sul Tevere, e Costantino riuscì vincitore. L’anno dopo emanò un editto in cui si diceva che i cristiani erano liberi di praticare la loro religione. In onore di Costantino sorse a Roma un grande arco di trionfo e la città di Bisanzio, in oriente, chiamata oggi Istanbul, prese il nome di Costantinopoli, che significa città di Costantino. Il Cristianesimo trionfò nel 380 dC con l’editto di Teodosio, quando fu proclamato religione ufficiale di Stato.
Costantinopoli Nel 330 Costantino volle dare al nuovo Impero Romano Cristiano una capitale del tutto nuova e scelse Bisanzio, sul Bosforo, che egli cercò di rendere pari a una Nuova Roma (come in un primo tempo pensò di chiamarla), arricchendola di edifici e monumenti gareggianti in bellezza con quelli di Roma. Entro le mura sorsero con straordinaria rapidità fori, portici, archi trionfali, terme, circhi e, fra le altre imponenti costruzioni, un palazzo imperiale che comprendeva un numero grandissimo di saloni con biblioteche, teatri, caserme, ecc… L’11 maggio del 33o, con feste che durarono quaranta giorni, fu inaugurata la nuova capitale, che prese il nome di Costantinopoli. Nella piazza centrale, tra le Vittorie alate, sorgeva un’altissima colonna di porfido, di un color caldo, che ai raggi del sole vibrava. Sulla sommità di essa si ergeva la statua di Apollo, col capo radiante, simboleggiante l’imperatore, come diceva l’iscrizione: A Costantino, splendente come il Sole. Quel sole tramontò nel 337 mentre si accingeva a una spedizione contro il re di Persia. Prima di morire Costantino ricevette dai vescovi della sua corte il battesimo, che egli, pur essendo cristiano, non aveva ancora ricevuto.
Come mai Costantino aveva costruito una nuova capitale e aveva abbandonato Roma? L’impero romano era troppo grande per essere difeso tutto. La parte orientale, dove era stata costruita Costantinopoli era facile da difendersi, perchè protetta dal mare e dalle montagne, e più ricca. La parte occidentale, invece, cioè le terre che oggi sono occupate dall’Italia, dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna e dall’Inghilterra, comportava maggiori difficoltà per la difesa.
Il primo Concilio Ecumenico Costantino fu il primo imperatore cristiano e come tale dalla chiesa ha avuto il titolo di Grande. Oltre agli innumerevoli atti di governo coi quali egli favorì in tutti i modi la nuova religione, è da ricordare soprattutto la convocazione del Concilio di Nicea. Era sorta una controversia di fondamentale importanza tra il vescovo di Alessandria d’Egitto, Atanasio, il quale sosteneva che Gesù fosse insieme uomo e dio, e il prete della stessa città, Ario, il quale invece sosteneva che Gesù fosse soltanto uomo. In tutto l’Oriente cristiano le discussioni fra Atanasiani e Ariani avevano acceso e diviso gli animi, sicchè apparve necessaria la convocazione di quello che fu il primo Concilio Ecumenico (cioè riunione universale di tutti i vescovi), per fissare il dogma o verità di fede. Il Concilio ebbe luogo nel 325 a Nicea, città della Bitinia, con la partecipazione dello stesso Costantino e di un gran numero di vescovi: fu la prima solenne assemblea della chiesa vittoriosa ed ebbe una grandiosa imponenza; la dottrina di Ario fu condannata come eretica; il dogma della divinità di Cristo e della Trinità fu fissato nel cosiddetto Simbolo Niceno o Credo.
La leggenda della croce Narra un’antica leggenda che un giorno Adamo, sentendosi prossimo alla fine, mandò suo figlio Set a bussare alla porta del Paradiso Terrestre con l’incarico di chiedere l’olio della misericordia. Ma invece dell’olio, l’angelo gli diede un ramoscello staccato dall’albero del bene e del male. Tornato a casa, Set trovò che intanto Adamo era morto e, non sapendo che dare del ramoscello, lo piantò sulla sua tomba. Il ramoscello crebbe e divenne un albero. Al tempo di re Salomone, l’albero venne abbattuto e poi, siccome nessuno riusciva a farne qualcosa di buono, lo sotterrarono. Per anni e secoli, il tronco rimase nella terra; ma ne uscì, senza che nessuno lo toccasse, proprio mentre si svolgeva il processo contro Gesù. Con quel legno, i nemici di Gesù costruirono le tre croci del Calvario e, dopo la passione, le fecero sparire. Passarono tre secoli. Alla vigilia di una grande battaglia decisiva, all’imperatore Costantino apparve un angelo che lo invitò ad affrontare il nemico prendendo la croce come insegna. Costantino vinse. In segno di devozione, sua madre Elena andò in Palestina e riuscì a scoprire la vera Croce di Cristo. Un grande pittore del 1400, Piero della Francesca, raffigurò gli episodi della leggenda nella Cappella di San Francesco ad Arezzo.
Teodosio Il cristianesimo, che sotto Costanzo e Giuliano, successori di Costantino, era stato nuovamente perseguitato, riprese tutto il suo vigore con l’imperatore Teodosio, cattolico fervente e devoto al grande vescovo di Milano Sant’Ambrogio. Nel 380 venne emanato l’Editto con cui il cristianesimo fu elevato a religione di Stato. “Noi vogliamo che tutti i popoli retti dalla nostra clemenza partecipino a quella religione che dal divino apostolo Pietro fu trasmessa ai Romani, che si è perpetuata sino a noi, e che è professata dal Pontefice Damaso… Vogliamo cioè che si creda, secondo la disciplina degli Apostoli e la dottrina degli Evangeli, in un solo dio sotto la specie di pia trinità, con pari maestà del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Comandiamo che chi segue questa legge prende il nome di cristiano cattolico. Giudicando gli altri dementi e pazzi, vogliamo che sostengano l’infamia che segue a chi professa dogma eretico e che i loro conciliaboli non prendano nome di chiese. Prima essi si attendano la vendetta di Dio, poi anche le severe punizioni, che l’autorità nostra, illuminata dalla Sapienza divina, riterrà di dover infliggere loro”.
L’impero romano d’Occidente A poco a poco, queste due parti dell’impero si staccarono completamente l’una dall’altra. Ognuna aveva un suo imperatore. L’imperatore d’Oriente regnava a Costantinopoli. L’imperatore d’Occidente non abitava più a Roma, perchè Roma era una città troppo grande e difficile da difendersi, ma a Ravenna. Ravenna era stata fino allora una piccola città affacciata sul mare, con un porto militare. Era circondata da paludi che la proteggevano dalle invasioni meglio di mura robuste. Per questo fu scelta come capitale. Gli imperatori, che vi abitarono, la resero splendida di palazzi e di chiese, che ancora oggi possiamo visitare. Roma era stata abbandonata dagli imperatori e dalla maggior parte dei ricchi signori che vi abitavano. Interi quartieri della città erano vuoti e abbandonati, ma Roma era ancora la più bella città del mondo. I suoi palazzi, le sue basiliche, le sue chiese di marmo splendevano al sole. Nelle chiese e nei palazzi erano accumulate immense ricchezze; i suoi abitanti si sentivano ancora gli uomini più potenti della terra, perchè il nome solo di Roma faceva tremare il nemico.
Sant’Ambrogio e Teodosio Teodosio era talvolta dominato da collere violente, che sopraffacevano la sua abituale dolcezza di costumi. Nel 390 Tessalonica (Salonicco), in occasione dei giochi di Circo, per ottenere che fosse rimesso in libertà un abile cocchiere arrestato, si sollevò. Teodosio, che dimorava ancora in Milano, ordinò senz’altro che in Tessalonica per castigo settemila teste fossero recise. Gli abitanti furono invitati al circo sotto pretesto di altri giochi; ma, mentre aspettavano il segnale delle corse, ecco slanciarsi fra loro la soldatesca e ferire senza misericordia e senza distinzione. Come Sant’Ambrogio seppe a Milano di questo massacro, ne dimostò vivissimo dolore e scrisse a Teodosio, acerbamente rimproverandogli l’orribile misfatto. E un giorno che Teodosio voleva entrare nella basilica milanese, Sant’Ambrogio, a capo del suo clero, gli andò incontro e gli vietò l’ingresso. “Eppure” esclamò Teodosio “il re David fu assai più di me colpevole…” “Se voi avete imitato David nel peccato” rispose l’arcivescovo “imitatelo anche nella penitenza”. E Teodosio si sottomise al castigo della chiesa, depose gli ornamenti imperiali, confessò piangendo i suoi peccati nella basilica in presenza di tutto il popolo, e solo dopo otto mesi di penitenza fu riconciliato con la chiesa. Alla sua morte Teodosio lasciò l’impero ai figli Arcadio e Onorio che se lo divisero: il primo governò l’Oriente e il secondo l’Occidente.
Per il lavoro di ricerca Con quale imperatore cessarono le persecuzioni? Perchè Costantino trasferì la capitale a Bisanzio? Come si chiamò la nuova capitale e come si chiama oggi quella città? Conosci la “leggenda della croce”? Durante l’impero di Costantino a Nicea avvenne un fatto molto importante. Quale? Perchè fu convocato il concilio di Nicea? Che cosa stabilì? Chi era Ario? Che cosa sosteneva? Quando e da chi il cristianesimo fu proclamato religione ufficiale dello stato? Da chi fu incoraggiato Teodosio? Alla morte di Teodosio, come e fra chi fu diviso l’impero? Quale fu la capitale dell’Impero romano d’Occidente?
Cristianesimo e religioni orientali in Roma Con le vastissime conquiste territoriali i Romani erano venuti a contatto di diverse religioni, che a poco a poco si erano diffuse anche tra la popolazione della capitale e delle province: a Roma vi erano nuclei di devoti che veneravano le divinità orientali (Iside ed Osiride, ad esempio, il cui culto era sempre vivo in Egitto) e nuclei di seguaci di nuove dottrine. Tra queste ebbe particolare diffusione ed importanza il culto del Sole: Elagabalo era un sacerdote di questa religione siriaca, che fu accettata anche da altri imperatori (da Aureliano, ad esempio). La stessa antica religione non si era mantenuta pura: non era più intesa e praticata come al tempo della repubblica, ma aveva subito trasformazioni. Diocleziano, inaugurando la monarchia assoluta, volle unire al culto di Giove quello del Sole. Questa trasformazione testimonia un fatto importante: l’antica religione non è più valida per tutti e molti si rivolgono al altre credenze e cercano altre fedi. Anche per questo la diffusione del Cristianesimo fu così rapida. In principio la rivoluzione che esso implicava non fu neppure compresa. Gli imperatori del primo e del secondo secolo, tranne Nerone che perseguitò i Cristiani per motivi particolari, li tollerarono e si limitarono a intervenire contro di essi quasi solo per questioni di ordine pubblico. Nello Stato, che comprendeva popoli di diversissime tradizioni e costumi, essi erano disposti ad ammettere qualsiasi religione purchè fosse salvo il principio della necessità di prestare il culto all’imperatore, che rappresentava l’Impero. Su questo punto, invece, i Cristiani non potevano cedere e non cedettero, perchè il primo articolo della loro fede era l’impegno di adorare un unico dio. Nel terzo secolo apparve chiaramente che la nuova religione, a cui i cittadini dell’Impero aderivano in numero crescente, era pericolosa per la saldezza dello stato e ne contrastava addirittura i fondamenti. Gli imperatori presero decisioni radicali, iniziarono violente persecuzioni e punirono con la morte coloro che si confessavano Cristiani e rifiutavano di prestare il culto all’imperatore. Avvenne con Caracalla, con Decio, con Valeriano e soprattutto con Diocleziano, che ordinò l’ultima e più terribile strage. (M. Bini)
La persecuzione contro i cristiani Uomo fervidamente devoto alla causa della romanità, Diocleziano non poteva non difendere la religione di Stato, minacciata dal numero sempre più folto di cristiani. Nelle sue intenzioni egli voleva impedire solo con leggi severe, ma non crudeli, l’infiltrazione dei cristiani nelle carriere statali e nell’esercito. Così come aveva imposto dalla Britannia al lontano Oriente l’applicazione del diritto romano e delle leggi romane (senza tenere conto delle situazioni ambientali), della lingua e delle tradizioni latine, egli cercò di impedire il propagarsi di altre fedi, preoccupato che esse distogliessero dall’abitudine alla disciplina e all’ordine le popolazioni dell’Impero. Istigato da Galerio, avversario fanatico dei cristiani, Diocleziano emanò a Nicodemia, il 23 febbraio del 303 dC, il suo primo editto in materia religiosa. Esso imponeva lo scioglimento delle comunità cristiane, l’incameramento dei loro beni, la distruzione dei templi e dei libri sacri; impediva le riunioni di fedeli e li escludeva dalle cariche pubbliche. La presa di posizione dell’imperatore rompeva lunghi anni di tranquillità: i Cristiani non la accettarono con la consueta sottomissione e fecero resistenza. Per protesta appiccarono il fuoco al palazzo imperiale dove in quel momento vivevano Diocleziano e Galerio, ordendo anche una congiura contro i due principi. In Siria, dove i cristiani erano numerosissimi, scoppiò una vera e propria rivoluzione fra l’esercito e i funzionari civili. Questa reazione violenta dei perseguitati spaventò l’imperatore che si arrese alle insistenze di Galerio e usò la forza. Ancora una volta però Diocleziano volle circoscrivere l’episodio: fece punire solo i responsabili dell’incendio appiccato al palazzo e coloro che avevano fomentato rivolte. Arrestò anche i vescovi e i diaconi che si rifiutavano di consegnare i libri sacri con la speranza che, privi delle loro guide spirituali, i cristiani si sarebbero rassegnati ad accettare la religione di Stato. Questi provvedimenti vennero ordinati in un altro editto che seguì di poco il primo. Per facilitarne l’applicazione, l’imperatore, in occasione della solennità pubblica dei Vecennalia, che segnava il primo ventennio di governo dei due Augusti, emanò un’ordinanza dove annunciava che i cristiani arrestati sarebbero stati liberati se avessero rinnegato la loro religione. Per coloro che invece volevano persistere nella loro azione dilettuosa contro lo Stato il trattamento sarebbe diventato più duro. Verso la fine del 303 dC Diocleziano si ammalò gravemente e la reggenza dell’Oriente venne assunta da Galerio, il quale ebbe finalmente via libera: per frenare le diserzioni dell’esercito, le risse ideologiche che si verificavano in tutto l’impero, il pericolo di rivolte e sedizioni, Galerio stilò un ordine di persecuzione, sottoponendolo a Diocleziano che lo sottoscrisse. Esso stabiliva che chi non avesse accettato di far sacrifici agli dei dovesse essere condannato a morte. L’applicazione dell’editto fu molto rigorosa in Oriente, più blanda in Italia e in Occidente: l’altro imperatore, Massimiano, lasciò ai funzionari locali libertà di iniziativa; Costanzo, il Cesare di Massimiano, che non si era mai mostrato molto severo in materia religiosa, fece soltanto abbattere qualche tempio e imprigionare qualche diacono, senza però condannare a morte nessuno. La medesima politica usata contro i cristiani fu applicata da Galerio alle altre religioni. Con uguale durezza, mietendo un numero spaventoso di vittime, egli represse la setta sincretista del persiano Mani. Questa dottrina mescolava insegnamenti buddhisti e cristiani; venne avversata non solo perchè inconciliabile con l’autorità imperiale, ma soprattutto perchè proveniva dalla Persia, il paese degli implacabili nemici dei Romani.
La grande persecuzione Diocleziano decise di dare inizio alla grande persecuzione contro i cristiani il 23 febbraio, giorno consacrato al dio Termine, quasi volesse por fine alla religione cristiana. Fu una strage enorme di cui conosciamo i raccapriccianti particolari dalla descrizione dell’apologista cristiano Lattanzio. All’alba di quel giorno fatale il prefetto si recò nella chiesa di Nicomedia, città dell’Asia Minore che in quei tempi era una delle capitali dell’impero, accompagnato da soldati e da funzionari per cercarvi, invano, la statua del nume adorato dai cristiani. I libri sacri furono bruciato e su tutto si fece man bassa, tra la più gran confusione. I due operatori, Diocleziano e Massimiano, osservavano dall’alto del palazzo la chiesa che sorgeva verso l’acropoli di Nicomedia, e discutevano sull’opportunità di dare l’edificio alle fiamme; prevalse il parere di Diocleziano che temeva che l’incendio potesse appiccarsi anche ad altre costruzioni, danneggiando così una parte della città. Allora i pretoriani, brandendo accette e quant’altro servisse ad un’opera di distruzione, invasero l’edificio sacro e in poche ore lo abbatterono al suolo. Il giorno seguente fu emanato un editto con cui si decretava che i seguaci della religione cristiana fossero privati di ogni carica, venissero posti alla tortura e dichiarati fuorilegge a qualsiasi categoria sociale appartenessero, in modo che non potessero neppure denunciare i delitti commessi contro il proprio patrimonio, le proprie persone e il proprio onore, e che non avessero facoltà di difendersi in giudizio. Un cristiano, con estremo coraggio, osò stracciare l’editto, definendolo ironicamente più pretenzioso di un proclama di vittoria contro i barbari. Fu immediatamente tradotto in giudizio e condannato al rogo.
Le catacombe romane E’ stato spesso osservato che, visitando i monumenti storici della Città Eterna qual è oggi, sembra di vedere tra Roma antica e Roma cristiana un vuoto, una lacuna che le separa. Le chiese veramente primitive andarono completamente distrutte oppure furono rifatte; sicchè i più antichi monumenti cristiani che ci rimangono sono lontani di parecchi secoli dagli ultimi monumenti pagani. Questo lungo periodo, che non ha quasi nulla che lo rappresenti nella città come oggi la vediamo, è riempito dalle catacombe, i luoghi di sepoltura dei primi cristiani. Cinque di tali cimiteri risalgono al tempo degli apostoli; gli altri appartengono quasi tutti al secondo secolo dell’era cristiana. La zona delle catacombe, tutte sulla riva sinistra del Tevere e a circa cinque chilometri da Roma, consiste in una roccia vulcanica, il tufo; e in questo, che è facile a lavorare, sono avvenute le escavazioni. Le caracombe hanno sempre all’incirca lo stesso aspetto: un immenso labirinto di gallerie sotterranee a parecchi piani, che si tagliano ad angolo retto, qualche volta rettilinee, qualche volta tortuose. Il sostegno è formato dalle loro stesse pareti tufacee; il soffitto è quasi sempre piano; e solo in alcuni casi si ha una leggera curvatura a volta. Lo sviluppo totale delle gallerie non è inferiore ai mille chilometri, con almeno sei milioni di tombe. La catacomba era, innanzi tutto, il cimitero cristiano, ma era anche di più; perchè di fatto essa fu la vera culla del cristianesimo. Quando la plebaglia della grande capitale si dava bel tempo nelle terme, o si stancava degli orrori del circo, le prime piccole comunità cristiane, obbligate a riunirsi sotto terra, attendevano alle pratiche della loro fede accanto alle tombe dei fratelli morti. Là, nelle tenebre, rischiarate solo qua e là da luminaria o pozzi di luce, si celebravano i riti religiosi fin dai tempi degli apostoli; e mai si parlava del fratelli e delle sorelle defunti come di morti, ma piuttosto come di persone chiamate in cielo. Questo è il segreto delle catacombe e il loro fascino. In tutto il grande mondo romano soltanto il cristiano trovava nel proprio cuore la speranza in un mondo migliore. Qui, nelle catacombe, fu per la prima volta negato il potere della morte. E il cristianesimo volle avere la prima dimora nelle catacombe, nei cimiteri dei suoi morti. (E. Huteon)
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Assiro Babilonesi – materiale didattico vario – dettati ortografici, racconti, testi brevi, di autori vari, per la scuola primaria.
Gli Assiro Babilonesi
Gli Assiri e i Babilonesi abitavano una vasta regione dell’Asia che, essendo posta tra i fiumi Tigri ed Eufrate, venne chiamata Mesopotamia, cioè “terra in mezzo ai fiumi”.
Come il Nilo aveva reso possibile la nascita di una grande civiltà, così il Tigri e l’Eufrate, ricchissimi di acque, permisero agli Assiro – Babilonesi, rendendo fertile il luogo da essi abitato, di diventare molto potenti.
Essi avrebbero preferito dedicarsi al lavoro dei campi ma, essendosi insediati in una regione che i popoli dell’Asia percorrevano per giungere al Mediterraneo, furono costretti a combattere e divennero guerrieri famosi.
Ebbero due grandiose città: Ninive e Babilonia.
A Babilonia il re Nabucodonosor e la regina Semiramide avevano fatto costruire palazzi favolosi con i tetti muniti di giardini pensili.
Gli Assiro – Babilonesi adoravano il Sole, la Luna, ed avevano molte altre divinità; amavano l’arte, le scienze, la poesia, e furono valenti astronomi. Essi studiarono il movimento degli astri e suddivisero l’anno in dodici mesi.
Per scrivere non usavano la pietra o il papiro, bensì mattoni di molle argilla che riempivano di fittissimi segni a forma di cuneo. La loro scrittura si disse perciò “cuneiforme”.
Tra il Tigri e l’Eufrate
Dalle montagne dell’Armenia, una ragione dell’Asia Minore, scendono due fiumi che sfociano nel Golfo Persico: il Tigri e l’Eufrate. La terra situata tra questi due fiumi è la Mesopotamia ed era abitata nei tempi antichi da due popoli che, pur essendo della stessa razza e della stessa religione, si odiavano ed erano sempre in lotta tra loro: gli Assiri e i Babilonesi. Dapprima furono i Babilonesi a dominare tutta la Mesopotamia. Essi fondarono un impero vastissimo che comprendeva altre regioni dell’Asia, elevarono numerose città e scavarono molti canali di irrigazione. Ma poi la situazione si capovolse: gli Assiri li vinsero e presero il loro posto. Dopo molti anni però, i Babilonesi vinsero di nuovo, e Babilonia, la loro capitale, divenne magnifica. Parlavano tutti di questa città, dei suoi splendidi, ricchi palazzi e dei suoi giardini pensili.
La terra tra i due fiumi
Anche la Mesopotamia, come l’Egitto, era una terra benedetta dalla presenza delle acque dei fiumi. Il Tigri e l’Eufrate, straripando periodicamente, depositavano il loro fertile limo sulle terre circostanti. Il territorio, senza la presenza benefica di questi fiumi, sarebbe stato un arido deserto.
Il popolo quindi traeva dall’agricoltura i mezzi necessari per la vita. Non crescevano alberi ad alto fusto e non c’erano nemmeno pietre da costruzione. C’era solo ricchezza di terra argillosa della quale gli abitanti si servivano per le loro costruzioni.
Il diritto di guerra
Guai a quei popoli che in guerra fossero stati vinti dagli Assiri! Questi assalivano le città nemiche, le assediavano con tanta violenza e tanto ardimento che queste erano costrette a cedere. I soldati procedevano all’assalto delle mura delle città, fra un nugolo di frecce lanciate dagli assediati. Ma gli Assiri, valendosi del loro numero e della loro forza, riuscivano a scalare le mura e a conquistare la città. E allora, guai ai vinti! I guerrieri presi con le armi alla mano e i principali cittadini erano messi a morte con supplizi di vario genere. Un incaricato registrava sopra una pergamena il numero delle teste recise durante la battaglia, e poi queste venivano ammonticchiate in un luogo determinato, le une sulle altre, a guisa di trofeo. Il guerriero più bravo era quello che aveva tagliato un maggior numero di teste. Dopo essersi sbarazzati dei nemici più pericolosi, gli Assiri depredavano e saccheggiavano la città, portando via tutto quello di prezioso che essa conteneva.
Guerrieri crudeli, ma gaudenti in pace
Gli Assiri erano assai bellicosi e crudeli in guerra: però, in tempo di pace, sapevano divertirsi e passar bene il loro tempo. Nella loro fastosa capitale Ninive, gli Assiri avevano palazzi anche più belli di quelli dei Babilonesi: con immense gradinate, e statue grandiose di re e di regine; bassorilievi, con scene di caccia e di guerra.
Vogliamo assistere ad un convito di Assiri? In una grande sala, in cui la luce di torce accese fa risaltare lo smalto azzurro delle pareti e i fregi dorati che le attraversano, vi sono parecchie piccole tavole. Ad ogni tavola sono seduti su scranni rotondi, senza spalliere nè braccioli, sei personaggi: tre per parte. Hanno lunghe barbe ben pettinate, capelli lunghi, ondulati, su cui posano corone di fiori e di nastri. Sulle tavole, coperte di tovaglia, sono disposte grandi porzioni di carne, focacce di farina bianca e frutta. I principi non sdegnano di prendere il cibo con le loro nobili mani… e si fermano solo per bere, nelle coppe dorate, il vino che le ancelle versano copiosamente, passando da una tavola all’altra. Bevono alzando il alto le coppe, e lanciando alte grida, mentre dai lati della sala giungono dolci suoni di musiche.
Il più antico tunnel del mondo
Avete sentito dire che le grandi città come Parigi, Londra, Roma e Milano hanno vie sotterranee, attraversate da ferrovie o da tram elettrici. Non c’è da meravigliarsi: i Babilonesi avevano anche loro una bellissima via sotterranea, scavata sotto il letto del fiume, la quale metteva in comunicazione i due palazzi reali, posti uno nalla parte orientale e uno nella parte occidentale della città. Così i Re e i principi di Babilonia potevano farsi visita senza bisogno di passare in mezzo alla folla variopinta, pettegola e, spesso maleolente, che stava in fazione sul ponte.
I giardini nell’aria
Ma c’era ancora un’altra via privilegiata, che metteva in comunicazione i palazzi reali, lungi dal contatto della folla: i giardini pensili. I giardini pensili di Babilonia, costruiti all’altezza dei tetti delle case, da una parte e dall’altra della strada, erano una delle meraviglie del mondo antico. Si dicevano costruiti dalla regina Semiramide, ma effettivamente furono anch’essi opera del gran re Nabucodonosor. Erano giardini meravigliosi per le piante rarissime che vi crescevano; dove i fiori splendidi mettevano le note più intense di colori e di profumi. Tra i rami, era tutto un gorgheggiare di uccelli rari; un susseguirsi rapido e buffo di scimmiette. Nei viali, passeggiavano donne ornate di gioielli, vestite con lunghe tuniche mirabilmente tessute e ricamate coi più vivaci colori. Nella notte, luci suggestive si accendevano tra i rami, accompagnate da suoni melodiosi di strumenti musicali. Da lontano, avresti detto che un paese fantastico, incantato, sorgesse a mezz’aria, tra il cielo e la terra. Invece i giardini pensili erano costruiti sopra solidi terrazzi sostenuti da grossi pilastri e da archi robusti, alti venticinque o ventisei metri. I terrazzi erano ricoperti da lastroni di pietra, lunghi circa cinque metri e larghi un metro; a questi era sovrapposto uno strato di canne con bitume; quindi un doppio suolo di mattoni cotti; e da ultimo larghe falde di piombo su cui posava la terra in quantità tale da permettere la coltivazione anche di piante di alto fusto. Al problema dell’irrigazione di questi giardini, provvedeva l’Eufrate. Apposite macchine sollevavano l’acqua dal fiume e permettevano così di annaffiare abbondantemente le magnifiche piantagioni. Nella parte sottostante, tra i piloni e le volte, vi erano appartamenti per le persone addette alla manutenzione dei giardini.
Gli scienziati dell’antichità
I Babilonesi furono gli scienziati dell’antichità; i sacerdoti della Caldea (una provincia mesopotamica) perfezionarono le invenzioni dei Sumeri, studiando il cielo ed i fenomeni celesti. I tre Re Magi che andarono a Betlemme per portare a Gesù bambino oro incenso e mirra erano appunto astronomi caldei e avevano avvistato la fulgente cometa dai loro osservatori. Questi osservatori si trovavano sulla sommità delle ziqqurat, le torri a piani che erano la più caratteristica costruzione mesopotamica; facevano parte del tempio, e i sacerdoti dicevano che gli dei vi abitavano quando scendevano in terra. Dall’ultima terrazza di queste alte torri multicolori, i Magi Caldei osservavano gli astri e studiavano i venti, l’addensarsi delle nubi, i lampi, le folgori. Furono così abili che, in quel tempo lontano, quando non c’erano nè cannocchiali nè telescopi nè altri strumenti, riuscirono a calcolare la distanza che corre tra alcune stelle!
Le credenze religiose
Le antiche divinità babilonesi hanno carattere naturalistico, cioè rispecchiano i grandi fenomeni della natura. Al sommo di esse era una triade, Anu, il dio del cielo, che divide il governo del mondo con Enlil, signore dell’aria e della terra, e con Ea, dio delle acque. Quando Babilonia divenne capitale di un vasto impero, il suo dio Marduk prevalse su tutte le altre divinità: era il Sole benefico, forza creatrice della natura. Gli Assiri, prevalendo politicamente, vi sostituirono il loro dio Assur, rappresentato con l’immagine di un Sole alato e concepito, a somiglianza di quelli che lo adoravano, guerriero, vendicativo e crudele.
Accanto al Sole i Babilonesi adoravano la Luna, i pianeti, le costellazioni dello Zodiaco perchè da essi sentivano dipendere la sorte degli uomini e delle cose. Il pianeta più nobile era quello di Venere, detta Istar, dea dell’amore e della fecondità.
Gli Assiro Babilonesi non ebbero sull’immortalità dell’anima e sul mondo dell’oltretomba le chiare e consolanti credenze degli Egizi. Immaginavano che i morti abitassero una sconsolata cavità sotterranea, perpetuamente immersa nelle tenebre. Oltre che agli dei, gli Assiro Babilonesi credevano anche nei demoni, spiriti malvagi, insidiatori dell’uomo: tutti i mali dai quali l’uomo è colpito, erano attribuiti a questi spiriti malvagi entrati nel corpo del paziente.
Usanze babilonesi
I Babilonesi vestono una tunica di lino lunga fino ai piedi, sopra di essa pongono una sopravveste di lana e una bianca clamide. Portano anche calzoni di forma strana e hanno cura dei capelli e si cospargono il corpo di profumati unguenti. Tutti gli uomini portano l’anello col sigillo e un bastone che mostra in cima una figura scolpita. Mangiano molti pesci seccati al sole; li stritolano col pestello nei mortai e ne fanno una specie di farinata, oppure li impastano e li cuociono come pane. (Erodoto)
Proverbi babilonesi
Se un uomo non esercita un lavoro non ottiene nulla nella vita.
Sorveglia la tua bocca: le parole dette in fretta si rinnegano altrettanto in fretta.
Dove si profuma molto si maligna moltissimo.
Canali di irrigazione
Posta tra due fiumi, la Mesopotamia poteva essere ricca di prodotti agricoli solo se si scavavano e si mantenevano in efficienza i canali che irrigavano i terreni e che, nello stesso tempo, imbrigliavano le inondazioni. I canali erano progettati così bene che i moderni governi dell’Iraq (corrispondente all’antica Mesopotamia) hanno stabilito di ricostruirli con la tecnica moderna, ma seguendo la stessa rete. Hammurabi si preoccupò di realizzare lavori idraulici di vasta portata e ne fu tanto soddisfatto da cedere alla tentazione di lodarsi: “Io ho trasformato il deserto in terra fiorita; io ho procurato al paese fertilità e abbondanza; io ne ho fatto la patria del benessere!”.
Babilonia
Babilonia, la capitale dei Babilonesi, era una splendida città. Il re Nabucodonosor e la regina Semiramide l’avevano abbellita con palazzi rivestiti di mattonelle multicolori. Sui tetti avevano fatto costruire i celebri giardini pensili, ornati dei fiori più rari.
Babilonia sorse nel centro di una grande pianura ed era attraversata dal fiume Eufrate. Era una città a forma quadrata, i cui lati misuravano ventidue chilometri ciascuno. La città era difesa con una muraglia larga venticinque metri e alta cento. Nell’interno le vie erano parallele e perpendicolari tra loro.
Nel centro della città sorgevano i due edifici più belli: il tempio e la reggia. Il tempio aveva una torre di otto piani. Tra un piano e un altro vi erano sedili e stanze per il riposo. All’ultimo piano vi era una mensa d’oro massiccio per il sacrificio agli dei.
Non c’era la statua del dio, ma un divano sul quale si credeva che egli andasse a distendersi. Il tempio era dedicato al sole, alla luna e alle stelle, le divinità più venerate.
La reggia si innalzava a forma di piramide con una serie di giardini pensili. Qui la corte conduceva la sua esistenza sfarzosa.
La scrittura cuneiforme
Anche gli Assiro Babilonesi conoscevano l’arte della scrittura. Essi non si servivano però del papiro, come gli Egiziani, ma di mattoni o tavolette di molle argilla, che venivano poi fatti cuocere al fuoco o seccare al sole.
In questo modo i segni, fatti con asticelle di metallo o di legno, non si cancellavano più. Moltissime tavolette di argilla sono pervenute fino a noi: tra le rovine di Ninive, antica città assira, è stata addirittura ritrovata la biblioteca si un re di questa città.
La scrittura degli Assiro Babilonesi si chiama cuneiforme perchè formata da segni triangolari simili a cunei.
Ferocia degli Assiri
“Io diedi l’assalto alla città e la espugnai; tremila dei suoi guerrieri passai per le armi e presi come bottino i loro beni; molti ne feci buttare tra le fiamme e moltissimi ne feci prigionieri; ad alcuni feci tagliare le mani e le dita, ad altri il naso e le orecchie; molti ordinai che fossero accecati. Feci con le teste e con gli arti tagliati due grandi mucchi… Poi feci distruggere la città, devastare tutto, incendiare tutto”.
Così racconta, attraverso un’antica iscrizione, il re degli Assiri Assurbanipal; e queste poche frasi ci danno in breve un ritratto del carattere di quel popolo: guerriero e crudele.
I primi studiosi di astronomia
Gli Assiri e i Babilonesi adoravano, come la maggior parte dei popoli antichi, molte divinità fra le quali il Sole, la Luna, le stelle.
Il culto del Sole e delle stelle fece sì che i sacerdoti intuissero molte delle leggi che regolano il moto celeste.
Seppero calcolare la distanza di alcuni pianeti dalla Terra. Inventarono la clessidra, introdussero la settimana, i cui giorni erano dedicati al Sole, alla Luna e a ciascuno dei pianeti allora conosciuti (cioè a Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno). Seppero prevedere le eclissi di sole e di luna, divisero il giorno e la notte in dodici parti uguali, ogni ora in sessanta minuti e il minuto in sessanta secondi.
Le scoperte dei mercanti assiro babilonesi
Comparvero, per la prima volta, in questo paese, le bilance, i pesi e il denaro. I mercanti babilonesi si recarono fin nelle terre più lontane a scambiare le loro merci con l’orzo che, in quei tempi, veniva accettato in pagamento da tutti. Ma era scomodo tornare in patria con del “denaro” tanto pesante sicchè essi, un bel giorno, stabilirono di sostituire l’orzo con l’argento. Dapprima pesavano l’argento all’atto del pagamento, poi pensarono di farlo fondere in piccole barrette sulle quali era inciso il peso. Questo fu il primo tipo di denaro usato dall’uomo.
Palazzi di mattoni
Nella Mesopotamia non vi erano cave di pietra dalle quali cavare il materiale per costruire i palazzi. Per questo motivo i palazzi dei re e i templi degli dei furono costruiti con mattoni di argilla cotti al sole e, solo più tardi, cotti nei forni. I mattoni sono meno resistenti della pietra e col passare del tempo la pioggia ed il sole li sbriciolano e li riducono in polvere. Infatti di quei palazzi poco si è salvato. Oggi, nella Mesopotamia, si incontrano qua e là delle collinette di terra a forma di panettone. Queste collinette sono quanto resta degli antichi palazzi e templi ridotti in polvere dal tempo.
La statua d’oro di Nabucodonosor
Venne da Babilonia un re superbo e ricco, chiamato Nabucodonosor, per combattere contro Gerusalemme. Aveva molti soldati. Questi si accamparono attorno alla città; poi vi entrarono, demolirono le mura, bruciarono molti palazzi e il bel tempio di Salomone: presero tutti gli arredi d’oro che vi erano e li portarono in Babilonia.
Nabucodonosor prese pure il re che era a Gerusalemme e lo tenne prigioniero finchè visse: uccise molti ebrei, e molti altri fece schiavi in Babilonia.
Sedevano gli Ebrei presso i fiumi di Babilonia e piangevano. Non vollero più cantare i loro salmi come erano soliti fare ed appesero le loro arpe ai salici, sulle rive dei fiumi.
Nabucodonosor fece una statua d’oro fuori della città e mandò a chiamare tutti i giudici, i capitani del regno e un gran numero di ricchi perchè venissero a vederla. Nabucodonosor, che aveva nominato giudici tre giovani ebrei, li volle alla festa dell’inaugurazione. Giunti che furono tutti, capitani, giudici e ricchi, stettero intorno alla statua, ed un uomo gridò ad alta voce: – O voi tutti quando udirete il suono della musica, gettatevi a terra e adorate la statua d’oro. Chiunque non si getterà in terra e non la adorerà, sarà immediatamente gettato in una fornace ardente! –
Poco dopo suonò la musica, ed il popolo si gettò in terra e adorò la statua. Ma i tre giovani non obbedirono all’ordine del re. Nabucodonosor, fattili condurre alla sua presenza, disse loro: – Per la vostra disobbedienza dovrete essere puniti; qual è quel Dio che potrà liberarvi dalle mie mani? –
Quei giovani risposero: – O Nabucodonosor, il nostro Dio saprà liberarci dalla fornace ardente, e ci libererà anche dalle tue mani, o re. Ma noi non adoreremo i tuoi dei, nè la statua d’oro che hai innalzato –
Allora Nabucodonosor ordinò ai suoi servitori di gettare quei tre giovani nella fornace. Furono legati perchè non potessero muoversi; e così vestiti ed avvinghiati furono precipitati tra le fiamme, le quali divamparono tutto intorno in modo che rimasero presi ed inceneriti anche i soldati.
Nabucodonosor, che stava presso la fornace e voleva veder bruciare quei giovani, li vide invece camminare in mezzo al fuoco accompagnati da un giovane bellissimo: un angelo di Dio.
Il re capì allora che vi era un Dio che poteva liberare i suoi servitori dalle fiamme e ordinò che non si impedisse ai tre giovani di onorare il loro Dio.
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Recita per bambini ARTIGIANI DEL COMUNE – Queste due scene vogliono spiegare l’importanza delle Corporazioni, specie di organizzazioni sindacali, linfa vitale dei liberi Comuni. Siamo a Firenze, dentro una delle tante botteghe dove si fabbricano tessuti di lana.
Scena I
Personaggi: Messer Currado, maestro d’Arte Una bambina
Messer Currado è vicino all’ingresso della bottega, quando arriva una bambina.
bambina: Messer Currado! Mi manda mia madre per dirvi…
Messer Currado: Ah, cara bambina, come è andata quella faccenda?
bambina: Male, messere. Se non ci aiutate voi, saranno guai. Il proprietario della casa vuole espellere dalle sue abitazioni tutte le filatrici, perchè dice che vuol trasformare le sue case a modo proprio…
Messer Currado: Dovrà mettersi contro la nostra Arte! Stai certa che non ce la farà: dì a tua madre di lavorare tranquilla, perchè nel Comune la nostra Arte ha grande importanza e stasera lo farà sapere ai Priori stessi Parola di Messer Currado!
Scena II
Personaggi: Guido, piccolo apprendista artigiano Antoniotto, piccolo operaio laniero
Guido: dimmi, Antoniotto, tu che da quattro mesi non sei più apprendista da me…
Antoniotto: Da cinque mesi, vorrai dire. Son cinque mesi che sono un operaio della lana! Ci tengo. Ora anch’io guadagno!
Guido: Vorrei sapere, Antoniotto, che cosa significano le parole che si sono dette il nostro Maestro e quella bambina
Antoniotto: Mi sembrano chiare
Guido: A me no
Antoniotto: La madre di quella bambina è una filatrice di lana e lavora in casa con altre filatrici. Il proprietario le vuole scacciare, benchè esse paghino la pigione puntualmente
Guido: E messer Currado che c’entra?
Antoniotto: Si sente che sei un apprendista ai primi passi! Già, si vede dall’aspetto che non sei maturo: hai undici anni e ne dimostri dieci
Guido (contrariato): Non ne ho colpa io!
Antoniotto: Via, non te ne avere a male! Ora ti spiego. Del resto messer Currado dice che noi dobbiamo insegnare a quelli più piccoli…
Guido: Allora?
Antoniotto: Tutti coloro che lavorano con uno stesso scopo formano un’associazione, cioè una corporazione, che difende i loro interessi. Per esempio, tutti coloro che lavorano la lana, tessitori, filatori, tintori, venditori di lana, e così sia, sono uniti in una corporazione che di chiama Arte della Lana. Qui a Firenze l’Arte della Lana è potentissima. Ma ci sono, come in altri Comuni, anche le corporazioni dei mercanti, dei medici, dei calzolai, dei fabbri, dei legnaioli, degli albergatori, e così via.
Guido: Va bene. Ma che c’entra questo con la casa della filatrice?
Antoniotto: Le corporazioni, che hanno propri rappresentanti nel Comune, godono di alcuni diritti a favore dei propri artigiani: per esempio, quello che proibisce ad un proprietario di case di sloggiare, per suo capriccio e improvvisamente, che lavora la lana a casa.
Guido: Ora capisco. Insomma: la corporazione difende chi lavora.
Antoniotto: Si capisce. Questo è un piccolo esempio. Ma ce ne sono tanti altri e più importanti. E’ la Corporazione che fissa quante ore dobbiamo lavorare in una giornata, che stabilisce i giorni festivi durante l’anno, che combatte la concorrenza sleale, che pretende che i propri iscritti lavorino sempre meglio e col massimo impegno. Ora ti faccio una domanda: “Sai perchè a Firenze si fabbricano i migliori tessuti di lana di tutto il mondo?
Guido: Non so
Antoniotto: Perchè la stessa Arte della Lana punisce coloro che fabbrichino stoffe scadenti. Così, difende il lavoro di tutti, perchè i tessuti sono sempre più richiesti. Poi devi sapere che ogni Arte ha un’insegna…
Guido: La nostra qual è?
Antoniotto: Un montone bianco disegnato in campo azzurro.
Guido: Sì, l’ho vista!
Antoniotto: L’Arte dei Mercanti ha per insegna un’aquila d’oro, l’Arte dei Fabbri un paio di tenaglie, l’Arte dei Legnaioli un albero; e così via. Ogni Corporazione è sotto la protezione di un Santo; perchè devi sapere che gli iscritti alla Corporazione si impegnano prima di tutto alla preghiera, a fare opere di misericordia, a costruire ospedali e chiese. Anzi, sembra… Ma tu oggi mi fai rimanere indietro col lavoro.
Guido: Ora ti lascio, ma finisci la fraze, te ne prego
Antoniotto: Sembra che l’Arte della Lana voglia sostenere le spese per la nuova cattedrale che i Fiorentini vorrebbero costruire in onore della Madonna: Santa Maria del Fiore!
Recita per bambini ARTIGIANI DEL COMUNE Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
I COMUNI materiale didattico vario per la scuola primaria.
I Comuni: una nuova civiltà Le prime città italiane che divennero libere e ricche furono le città marinare. In seguito però anche nei borghi lontani dal mare si fece strada una nuova civiltà. Nella campagne i contadini, con nuovi metodi di coltivazione, riuscivano a produrre raccolti più abbondanti, la cui vendita permetteva loro di comprare presso gli artigiani delle città le merci necessarie a rendere meno difficili le loro condizioni di vita. Così il benessere delle campagne influì direttamente sullo sviluppo delle città dove artigiani e mercanti, con la crescente richiesta delle loro merci, trovarono nuovo interesse al lavoro e alla produzione. Molti servi della gleba lasciarono i villaggi per trasferirsi nelle città, che diventarono a poco a poco più grandi, più belle, più ricche. Dai loro castelli i feudatari guardavano preoccupati questo improvviso risveglio di vita creato dal lavoro e vedevano diventare potenti non uomini d’armi, ma i pacifici mercanti, i banchieri, gli artigiani.
La nascita dei liberi Comuni A poco a poco le città si sottrassero al dominio dei feudatari ed acquistarono l’indipendenza. Dapprima affidarono la protezione dei loro diritti ai vescovi, poi si liberarono anche della loro influenza e si governarono da sole. Nacquero così i liberi Comuni italiani, piccoli Stati indipendenti. Il Comune era retto da due o tre consoli che venivano eletti per la durata di un anno. Più tardi furono sostituiti da un podestà, chiamato da fuori perchè governasse con maggior giustizia. I consoli e i podestà erano aiutati da pochi cittadini che formavano il Consiglio minore e maggiore. Quando si doveva prendere una decisione importante, tutti i cittadini si raccoglievano in parlamento davanti al Palazzo del Comune.
La vita nella città comunale La città comunale era circondata da torri, chiusa da porte, ma non risuonava solo dei passi dei soldati come il vecchio castello. Essa infatti era piena delle voci degli artigiani e dei mercanti intenti al lavoro. Questi ultimi, arrivati con i loro carri nella piazza del mercato, esponevano ogni sorta di merci. Dalla piazza del mercato, che era anche la piazza dove si teneva il parlamento, si irradiavano tutte le strade della città: la via degli orafi, dove avevano le loro botteghe i maestri nell’arte di cesellare i metalli preziosi; la via degli armaioli, dove erano i fabbricanti di lance, corazze e scudi; la via dei lanaioli, dove erano i mercanti che vendevano la stoffa; e ancora la via dei cuoiai, degli speziali, dei falegnami, dei pentolai, dei cambiatori, dove si cambiavano le monete. Tutti coloro che esercitavano la stessa professione erano riuniti in associazioni chiamate corporazioni, che fissavano i prezzi delle merci, il metodo di lavorazione, il numero degli operai che potevano lavorare in una bottega, la durata del lavoro giornaliero. In questo modo il lavoro era ben disciplinato e tutti potevano vivere meglio. A poco a poco la città diventò così ricca che poteva prestare denaro a principi e a re. I mercanti e gli artigiani offrivano il proprio denaro ai consoli perchè chiamassero architetti e pittori famosi ad abbellire i pubblici palazzi. Una voce era rimasta fuori della città: la voce del corno che dava l’allarme nel castello o che risuonava nel bosco durante le cacce, la voce della dominazione feudale. Al suo posto si udiva la campana che chiamava con con gioia se era tempo di festa, con ansia se la città era minacciata. Allora tutti accorrevano davanti al Palazzo del Comune, per armarsi e difendere la piccola e amata città.
Per il lavoro di ricerca Come e quando nacquero i liberi Comuni? Chi li guidò dapprima? E in seguito? Quali furono i maggiori Comuni italiani? Quale Comune si distinse per la sua potenza e magnificenza? Che cosa era il parlamento? Quali cittadini facevano parte del “popolo grasso” e del “popolo minuto”? Vissero sempre in concordia fra di loro i Comuni? Chi erano i Guelfi e i Ghibellini? Come era la vita pubblica ed economica? Come era l’aspetto di una città nell’età comunale? Come erano le case dell’epoca comunale? Quando nacque la nostra lingua? Quali grandi uomini vissero nel periodo comunale? Quali “arti” e “mestieri” si svilupparono particolarmente durante l’età comunale?
Sorge il Comune Nelle campagne deserte, fra le immense foreste, lungo i fiumi, nelle vaste piane malsane per gli acquitrini che qualche solerte ordine monastico tentava appena di risanare, la vita era triste e pericolosa. Nelle città si era più sicuri. Vi erano buone e salde mura e le porte, sprangate la notte e sorvegliate da scolte (sentinelle), permettevano un tranquillo riposo dopo la giornata laboriosa. Perchè nelle città si lavora. Le milizie hanno bisogno di armi e armature. Si sviluppano i commerci e le industrie. Palazzi, fortezze, monasteri e chiese richiedono maestranze provette, artigiani del legno, del ferro, della pietra, dei laterizi. Le corti hanno bisogno di ricche stoffe per gli abbigliamenti degli uomini e delle dame, le chiese si adornano di paramenti preziosi. A Colonia, Norimberga, Milano, Brescia risuonano le incudini delle mille fucine degli armaioli; i piccoli signori di campagna preferiscono alla sede deserta e mal difendibile del castelletto, il palazzo in città su cui s’erge la torre. Gli interessi si moltiplicano al di fuori della vita dei signori e degli ecclesiastici: amanuensi e notai, maestri di arti guadagnano denaro col loro lavoro; e guadagnano, arricchendosi, i mercanti audaci che per le lunghe vie di terra e di mare tessono la rete profittevole dei loro scambi. A Genova, a Venezia, a Pisa gli armatori, padroni di navi da traffico, sono una casta nuova ricca di denaro liquido, difficile a controllare e a taglieggiare; con essi i signori, i vescovi, l’imperatore stesso dovranno venire a patti se vogliono avere tributi od aiuti, e in cambio di questi offrono franchigie e libertà. Sorgono così le città che si governano da sè, con magistrati locali, scelti per la libera elezione dagli uomini che lavorano; sorge il Comune. Un ricordo remoto di romanità, mai spento per trascorrere di secoli, dà ai reggitori del Comune il nome famoso di consoli. Sulla fine dell’XI secolo, nell’Italia settentrionale, fra il disordine e l’assenza dei governi imperiale e regale, appare consolidata la vita dei Comuni. Uno scritto del 1093 accerta l’esistenza di un governo comunale a Biandrate, presso Novara; certamente nella stessa epoca Milano, Lodi, Crema, Cremona, avevano ormai la loro costituzione comunale. (E. Momigliano)
I maggiori Comuni italiani Alcuni Comuni si svilupparono maggiormente, sia per la loro posizione che per l’operosità dei loro abitanti. Milano fu famosa per l’abilità dei suoi artigiani nel fabbricare armi e corazze, richieste da principi e sovrani di tutta Europa; Venezia fu celebre per la lavorazione del vetro, arte appresa da operai di Bisanzio; Firenze fu nota per i suoi tessuti di lana e di seta; Pisa per la fusione delle campane; Pesaro, Urbino e Gubbio per le loro stupende ceramiche; Lucca per i ferri battuti.
Il governo del Comune E’ naturale che dapprima prevalessero nel Comune i nobili, proprietari di terre, e i valvassori: i mercanti e gli artigiani erano ancora poco numerosi e poco autorevoli. Infatti, i magistrati posti a capo della città e detti romanamente consoli, furono fin verso la fine del secolo XII sempre nobili. Duravano in carica generalmente un anno, avevano il potere esecutivo, militare e giudiziario, erano assistiti da un Consiglio minore o degli Anziani (Senato). Ma quando si doveva decidere su questioni molto importanti, si convocava tutto il popolo. Questa adunanza generale nella piazza principale o arengo si chiamava Parlametno o Concione. La borghesia, cresciuta di numero e di potenza, ambì, un certo momento, di impadronirsi del potere. Dopo un periodo di contrasti e di torbidi, i consoli furono sostituiti da un magistrato nuovo, il podestà. Il podestà era quasi sempre uno straniero, che veniva invitato a governare per uno o due anni il Comune. Non avendo ne amici ne parenti ne interessi particolari da difendere nel Comune, il podestà straniero dava garanzie di poter governare con rettitudine e senza fare favoritismi. Il sistema dei podestà rimase in uso per tutto il secolo XIII, ma neppure questo riuscì ad eliminare le discordie fra i cittadini. Per stroncare con la forza le ribellioni, allora si decise di affidare il Governo a un uomo solo, energico, capace di far rispettare su tutti la sua volontà. Per questo compito si scelse il Capitano del Popolo, cioè un condottiero esperto nelle faccende militari e dotato di grande popolarità fra i soldati. Nelle mani dei Capitani del Popolo, i Comuni ritrovarono la pace e l’ordine, ma perdettero la loro libertà. Infatti il condottiero finì con il governare da solo, sopprimendo ogni diritto dei cittadini. Finiva così l’età dei Comuni e cominciava quella delle Signorie.
Il Parlamento I capi delle Corporazioni, riuniti insieme eleggevano il capo del Comune. Tutti insieme fissavano le tasse da pagare e le opere pubbliche da realizzare. Per le decisioni importanti veniva convocato a parlamento tutto il popolo. Ogni cittadino era anche soldato. Sorsero le mura e i fossati intorno alle città. Ai feudatari non restava che una scelta: lotta senza quartiere contro il Comune, oppure inserirsi attivamente nella vita di esso.
Popolo grasso e popolo minuto Come sempre succede, anche nel Comune i cittadini non avevano tutti la medesima ricchezza. C’erano i nobili, i grandi commercianti, i notai, i banchieri e in genere coloro che possedevano grandi ricchezze: questi formavano il cosiddetto popolo grasso, che in pratica riusciva ad accaparrarsi le cariche più importanti del Comune. Il popolo minuto era invece formato dagli artigiani, da coloro che lavoravano alle dipendenze altrui, dai poveri in generale. Ma anche se non disponeva di ricchezza materiale e non poteva accedere facilmente alle cariche pubbliche più alte, il popolo minuto non era composto di servi. Anche il più povero dei cittadini era un uomo libero, che poteva partecipare al Governo in modo attivo prendendo parte alle riunioni dell’Assemblea o Parlamento o Arengo (a seconda delle città).
Le guerre del Comune Praticamente ogni primavera l’esercito comunale, composto dai cittadini e guidato da un Console, usciva dalle mura e compiva incursioni guerresche nei territori vicini. L’obiettivo principale di quelle azioni belliche era molto spesso rappresentato dai vari castelli feudali, che minacciavano costantemente la libertà e l’autonomia del Comune. I cittadini aggredivano il castello, sopraffacevano la guarnigione e costringevano il feudatario a trasferirsi in città oppure a concedere un solenne riconoscimento dell’indipendenza del Comune. Così a poco a poco il Comune ingrandiva i propri possedimenti territoriali, ed eliminava i suoi nemici più pericolosi. Molto spesso, poi, i Comuni facevano guerra fra loro. La posta in palio era rappresentata da una strada, un fiume, un territorio particolarmente ricco: la floridezza del Comune derivava in grandissima parte dalla sua attività commerciale, e tutto ciò che poteva favorire i traffici doveva entrare in possesso dei cittadini. Allo stesso modo, infine, era necessario eliminare i concorrenti, cioè i Comuni diventati troppo potenti. Ma intanto si profilava una nuova, gravissima minaccia per i liberi Comuni: l’imperatore. Questi cominciava a rivendicare il possesso di quelle città che gli erano appartenute e che ora erano diventate tanto floride. Poichè i cittadini non intendevano assolutamente cedere le armi di fronte alle pretese dell’imperatore, una durissima, decisiva lotta si annunciava imminente.
Vita comunale Le città feudali sorgevano di solito in luoghi elevati, presso incroci di strade importanti, lungo fiumi navigabili o non lontano dalle frontiere. Attorno alle mura del castello feudale o del monastero fortificato si erano lentamente sviluppati i commerci e le modeste industrie dei cittadini o borghigiani. Quando cessarono le scorrerie barbare, l’attività fuori dalle mura castellane crebbe, le botteghe si moltiplicarono e i mercanti e gli artigiani, che prima non abitavano stabilmente in città, vi si stabilirono definitivamente. La popolazione che viveva fuori del castello costruì a propria protezione una seconda cinta di mura. Il Comune batteva moneta, stabiliva e sorvegliava i lavori pubblici, costruiva strade, ponti e canali, pavimentava le principali vie della città, disponeva il rifornimento dei generi alimentari, proibiva l’accaparramento, la compera all’ingrosso o l’incetta, favoriva il diretto contatto tra venditori e compratori ai mercati e alle fiere, esaminava pesi e misure, ispezionava le merci, puniva l’adulterazione delle derrate, controllava esportazioni e importazioni, immagazzinava grano per gli anni magri, in caso d’emergenza forniva grano a buon mercato, fissava i prezzi dei generi alimentari di prima necessità. Quando il prezzo di una derrata desiderabile era fissato troppo basso e ci si accorgeva che la produzione ne soffriva, allora il Comune lasciava che i prezzi di quella determinata merce trovassero il loro equilibrio mediante la concorrenza; ma con corti o assise del pane e della birra manteneva la vendita al minuto in costante relazione con il costo del grano e dell’orzo. Pubblicava periodicamente una lista di prezzi e riteneva che ogni merce dovesse avere un giusto prezzo che tenesse conto del costo del materiale e delle ore di lavoro. (W. Durant)
Gli artigiani Gli artigiani erano uomini semplici e laboriosi. Andavano sbarbati, ma tenevano i capelli lunghi, a zazzera. In capo portavno un berrettino a cono o a papalina. Indosso un farsetto stretto alla vita da una cintola di cuoio. Portavano calze lunghe di panno, con la suola di cuoio, chiamate calze solate. Le scarpe erano usate soltanto per i lunghi viaggi. I vestiti non avevano tasche e tutto veniva portato in cintola, mediante fermagli: borse, pugnali, oggetti vari. Lavoravano dall’alba al tramonto e dopo il lavoro si raccontavano novelle e storielle.
Le donne filavano, tessevano, cucivano, facevano il pane, mettevano l’olio nelle lucerne. Anch’esse, dalla mattina alla sera, non facevano che lavorare. Vestivano molto semplicemente, con un vestito ripreso alla vita dalla cintura di cuoio, e sotto di questo una gonna più chiara, chiamata sottana. In testa un panno di lino e ai piedi le pianelle.
Le case nel centro della città, strette fra loro, erano altissime e si chiamavano case-torri. In ogni casa c’era l’occorrente per la vita: il pozzo per l’acqua, la cantina per il vino, il forno per il pane, l’orciaia per l’olio, la stalla per il cavallo, il telaio per il panno. Pochissime case avevano le finestre coi vetri. Di solito le finestre erano chiuse con panni bianchi, imbevuti d’olio perchè fossero più trasparenti. Anche oggi le parti delle finestre si chiamano telai e impannate. Il mobilio era scarso. Qualche panca, poche panchette, alcuni cassoni pieni di biancheria e vestiti. Per difendere la lana dalle tignole si metteva nei cassoni molto pepe. Le armi stavano in un mobile chiamato armario, da cui è venuto il nome armadio. Si viaggiava o a piedi o a cavallo. Soltanto allora si portava un cappello di feltro a larghe tese, con un cordone annodato sotto il mento. Quando non pioveva o il sole non bruciava, il cappello veniva gettato dietro le spalle. (P. Bargellini)
La vita economica Dopo la vittoriosa affermazione di Legnano, la vita dei liberi Comuni italiani cominciò ad espandersi in tutta la sua esuberanza. I mercanti e gli artigiani si associarono sempre più numerosi in corporazioni delle Arti: vi erano le Arti Maggiori e le Arti Minori (con a capo di ciascuna un priore), a seconda dell’attività esercitata. Ciò facevano, e gli uni e gli altri, per la tutela dei propri interessi, ma erano mossi anche dall’amore verso la patria, dal desiderio di renderla più forte, più ricca, più splendida. Le industrie fiorirono e diedero impulso ai commerci: a Firenze fiorì l’industria della lana; a Bologna quella della seta; a Genova e a Zoagli quella dei velluti; a Murano quella dei vetri; a Faenza quella delle stoviglie; a Milano quella delle armature; da per tutto quelle del cuoio e delle pellicce, oltre agli arsenali di Venezia e di Genova, pieni di navi in costruzione. I mercanti italiani percorsero l’Europa vendendo materie lavorate e comprendo materie grezze; aprirono le prime banche pubbliche, come il Banco di San Giorgio a Genova, e divennero i primi banchieri del mondo, come i Medici, i Peruzzi, i Bardi, grandi mercanti fiorentini che avevano banche in tutte le principali città d’Italia e d’Europa. I banchieri lombardi dominavano il mercato del denaro fino in Inghilterra, e lombardo divenne sinonimo di italiano. Perfino i più potenti re d’Europa si rivolgevano ai banchieri italiani per avere grossi prestiti di denaro. Furono inventati allora i principali strumenti bancari, come la cambiale, la scrittura doppia e la società dei assicurazioni. Riapparve in circolazione la moneta d’oro, scomparsa da parecchi secoli ormai dall’Europa impoverita con le invasioni barbariche: si coniarono il fiorino di Firenze, lo zecchino di Venezia, il genoino di Genova, ecc…; e poichè ogni città aveva il suo sistema monetario, ebbe inizio l’attività dei cambiavalute e dei banchieri. Famosi tra essi i banchieri fiorentini, lombardi e genovesi.
Arti e mestieri Le città sono piene di artigiani che lavorano con grande bravura il ferro, il cuoio, il legno, che tessono e colorano belle stoffe di lana e di seta. I fabbri lucchesi sono maestri a tutti: anche i più comuni oggetti, una chiave, una cancellata, un portastendardi, paiono opere d’arte. Famosi fonditori di campane sono i Pisani e da per tutto li chiamano perchè ormai non c’è chiesa o palazzo del Comune senza campane. Brescia e Milano, invece, hanno rinomanza in tutta Europa per le fabbriche d’armi. I setaioli lucchesi, fiorentini, milanesi, non hanno nessuno che possa star pari a loro. E’ un’arte venuta dalla Sicilia in Toscana e dalla Toscana passata ad altri luoghi. Anche nell’arte della lana sono maestri i Fiorentini. Importano dall’estero panni rozzi e li restituiscono che sono una meraviglia. E le maioliche di Gubbio, di Urbino, di Pesaro, di Faenza? Nessun Paese al mondo ne dava di così belle ed apprezzate: colo rosso, color oro, color azzurro, color perla. Altre arti fiorivano a Venezia. E innanzi a tutte l’arte del vetro, arte famosa, arte veneziana di Murano, portata là da operai di Bisanzio e di Ravenna. Nell’isoletta di Burano invece, le donne lavoravano merletti e trine leggere e vaporose. Dove non andavano allora gli italiani? I mercanti e i banchieri , anche di piccole città come Prato, si potevano incontrare in Francia, in Inghilterra, in Polonia, nella Spagna. Molti di essi si arricchivano; e la ricchezza acquistata veniva spesa per adornare le città con belle chiese e begli edifici.
La bottega Nel Medioevo non esistevano grandi fabbriche: il lavoro e la produzione erano concentrati nelle botteghe artigiane. Vi lavoravano il maestro, i suoi soci e i suoi discepoli, che potevano anche essere i figli o i parenti del maestro, e mentre apprendevano il lavoro non ricevevano alcun salario. Anche i pittori e gli scultori avevano la loro bottega e i loro discepoli. Arti e mestieri si tramandavano di padre in figlio. La bottega era una famiglia più grande. Padroni e dipendenti mangiavano alla stessa tavola, dormivano tutti nello stesso stanzone. Le botteghe di un certo tipo erano concentrate nello stesso quartiere, spesso nella stessa via, che prendeva nome dall’arte che vi si praticava. Nelle nostre città molti di quegli antichi nomi sono rimasti sulle targhe delle vie moderne: a Milano, per esempio, c’è ancora via degli Orefici, c’è via dei Mercanti; a Firenze via dei Calzaioli, ecc…; a Roma via dei Sediari, via dei Chiavari, via dei Giubbonari ecc… Qualche volta il nome della via preesisteva. Così per esempio a Firenze, in via di Calimala si concentravano i tintori di stoffe francesi o inglesi e la loro associazione, dal nome della via, venne detta arte di Calimala.
Nel Medioevo gli artigiani non dovevano avere segreti Molte città italiane hanno vie che traggono il nome di una qualche attività artigiana: via degli Orefici, via dei Carradori, via degli Spadari, e così via. Questo perchè nel Medioevo gli artigiani di una stessa corporazione abitavano il più delle volte nella stessa via. Qui le botteghe si stipavano. Erano viuzze in cui la luce penetrava difficilmente e il sole mai. E questa era una ragione per cui gli operai lavoravano vicino alla finestra. Ma un’altra ragione è che non si permetteva agli artigiani che avessero segreti: l’orafo o il fabbro dovevano avere fucina in bottega, lo scudaiolo doveva limare e tornire il rame solo sul banco presso la finestra. Nulla doveva essere nascosto agli occhi di chi passava o di chi voleva controllare.
Il popolo e i nobili Tutto questo meraviglioso rigoglio di vita fu opera soprattutto del popolo lavoratore. Accanto al popolo intraprendente e geniale viveva la classe dei cosiddetti nobili, trasferitisi dai loro castelli nelle città, con la stessa superbia e lo stesso spirito di violenza e di sopraffazione dei tempi feudali. Giravano costoro sempre armati e abitavano foschi palazzi merlati muniti di alte torri, da cui eran sempre pronti a gettar ferro e fuoco sugli assalitori. Il popolo celebrava i suoi giorni di festa con cerimonie religiose e processioni solenni in onore del Santo Patrono, a cui si aggiungevano talvolta rappresentazioni di misteri riproducenti scene della passione di Cristo o episodi della vita dei Santi, da cui trasse le prime origini il nuovo teatro. I nobili invece si trastullavano ancora in tornei, giostre, caroselli, quintane e in simili spettacoli di antico carattere feudale, a cui pure accorreva la folla curiosa. Spesso però le rivalità e gli odi tremendi tra le famiglie dei grandi, i contrasti violenti tra le fazioni politiche (famose quelle dei Bianchi e Neri a Firenze) o le insurrezioni della plebe esasperata funestavano la fervida vita comunale, esplodendo talvolta in vere e proprie battaglie cittadine. Queste continue risse sanguinose, che spargevano il lutto e perpetuavano gli odi tra le famiglie, corruppero con l’andar del tempo le istituzioni comunali preparando le condizioni per l’avvento di un signore assoluto, unico moderatore della cosa pubblica.
L’arte e la vita culturale Non solo la vita economica, ma anche la vita artistica e culturale ebbe nei Comuni italiani straordinario rigoglio. L’architettura, nel duplice stile romanico con l’arco tondo, e gotico con l’arco acuto, popola di palazzi comunali, di duomi e cattedrali, di torri e di campanili, di case aristocratiche e borghesi le piazze delle cento e cento città d’Italia. Nobili e borghesi, a gara, fecero sorgere con i loro contributi splendide costruzioni: ogni città ebbe il suo Palazzo del Comune, la Torre, l’Arengo, legge e chiese di bella architettura. Tutta la penisola italiana ne è disseminata: la Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, quella di San Marco a Venezia, le possenti cattedrali di Parma, Modena, Cremona, il Duomo di Milano, le chiese di Firenze, il Duomo di Pisa, quelli di Orvieto e di Siena, stupendi di marmi, di ori, di mosaici, di pitture. Tutta l’arte si rinnovò per opera di grandi maestri: Arnolfo di Cambio, architetto; Cimabue, Giotto, Duccio di Buoninsegna, pittori; Giovanni e Andrea Pisano, scultori. E rifiorì anche la cultura, fino allora chiusa nei conventi, e ora aperta a tutti nelle Università, dette Studi. Famose, in Italia, quelle di Bologna e di Pavia per lo studio del diritto romano, e l’Università di Salerno per la medicina. Furono tutte di carattere internazionale, e per i loro professori chiamati per fama da un estremo all’altro d’Europa, e per i loro studenti che si trasferivano (clerici vaganti) da un’università all’altra, ad ascoltare i professori dalla cui fama erano attirati. A Palermo, in Sicilia, sorse la prima scuola poetica italiana, continuata poi a Bologna e condotta a maggior gloria in Firenze soprattutto da Dante.
La cattedrale Molte città italiane possiedono cattedrali erette nel Medioevo: romaniche (con l’arco a tutto sesto, impiantato su robuste colonne) o gotiche, secondo lo stile venuto dal nord (l’arco a sesto acuto, lo slancio delle colone e delle guglie verso l’alto). A elencarle non basterebbe una scheda: da Sant’Ambrogio di Milano a San Michele Maggiore di Pavia, dal Duomo di Piacenza a quello di Modena, dal San Zeno di Verona al Duomo e al Battistero di Pisa. Questi bellissimi monumenti dell’arte e della fede sono fioriti nell’epoca dei Comuni: essi sono, anzi, monumenti alla civiltà comunale. Erano eretti a spese del popolo intero. Generazioni di muratori, di artigiani, di architetti, di scultori lavoravano per innalzarli ed abbellirli. La popolazione intera si appassionava all’opera, ne era orgogliosa perchè era cosa sua, il segno visibile della sua unità, della sua forza, anche della sua ricchezza. Prima di allora i grandi monumenti erano sorti per iniziativa di un imperatore, per servire alla sua gloria: il popolo del Comune glorificava se stesso, con un’impresa collettiva senza precedenti e della quale anche in seguito si trovano pochi esempi nella storia. Pittori e scultori arricchirono poi le cattedrali delle loro opere d’arte.
Le Università “Parigi è la fonte della scienza, da cui si irradiano gli acquedotti del sapere che si allungano fino all’estremità del mondo”. Così ha scritto uno studente universitario nel 1200. L’Università di Parigi fu uno dei più importanti centri di studio del Medioevo. In Italia, già dal decimo secolo, i Benedettini avevano a Salerno una scuola per l’insegnamento della medicina, e nell’undicesimo secolo nacque a Bologna lo Studio Giuridico (cioè una Università per lo studio delle leggi). In seguito, l’Italia ebbe moltissime Università assai frequentate. In tutte queste scuole superiori gli studiosi di tutte le nazionalità parlano la stessa lingua, il latino, e professano gli ideali di una medesima fede; le Università perciò sono i centri di fusione del pensiero europeo e celebrano quell’unità e fraternità dei popoli che Roma aveva preparato con la legge e il cristianesimo con il Vangelo.
Le campane comunali Ogni Comune aveva la sua campana che con la voce austera raffigurava il simbolo onnipresente del Comune.Tutti i cittadini accorrevano quando la campana chiamava a raccolta. Era la voce stessa del Comune. Ed ogni campana oltre a decorazioni più o meno ricche, alla data e alle raffigurazioni allegoriche, recava incise frasi di incitamento e di devozione alla patria.
L’aspetto di una città nell’età comunale La città medioevale è quasi sempre piccola. Tra noi solo Venezia, Milano, Firenze, hanno talvolta superato i centomila abitanti; ma le altre città restano assai al di sotto. Da principio l’aspetto delle città comunali non dovette essere molto attraente. Case basse di legno o di mattoni crudi, coperte di tegole o di paglia o di canne, addossate le une alle altre; tetti molto sporgenti e piccole finestre per lo più chiuse con impannate di tela o di carta; vie strette, irregolari, luride, dove tra i rifiuti delle case vivevano in libertà maiali e galline: ma vie già animate da mercanti e da artieri e sonanti di opere varie; botteghe aperte sulle strade, veri bazar nei quali erano esposte le cose più necessarie alla vita quotidiana. Qua frutta ed erbaggi, là carni e selvaggina, uova, vino, pesce e formaggi, più in là utensili domestici e attrezzi agricoli e armi. Qua e là, tuttavia, massicce e solide costruzioni di pietra e di mattoni, merlate e turrite, annerite dal tempo e talora dal fuoco, ricordo perenne d fiere lotte civili. E poi la chiesa col suo sagrato, dove si seppellivano i morti, specialmente i nobili e gli ecclesiastici. E infine il palazzo del Comune, pur esso merlato e turrito, e rumoroso di soldati e giudici, di notai e contabili, di consiglieri e cittadini. Ma nel secolo XII, col nascere della ricchezza privata e pubblica, l’aspetto esteriore delle città si fa migliore; alle case di legno succedono case nuove e comode, di pietra e mattoni; cominciano a selciarsi le vie più importanti e le piazze di maggior commercio; si spazzano le vie, si restaurano le facciate delle case, si regolano le fiere e i mercati; e sorgono più fieri i palazzi del Comune, più maestose le Cattedrali, più irti i palazzotti dei signori feudali o delle famiglie nobili. Le grandi ricchezze accumulate con le industrie e i commerci permettevano, specialmente nel secolo XII, di innalzare magnifiche sedi per le arti, e logge, e chiese, e ospedali, e monumenti funebri: tanto più che gli uomini del popolo, pur essendo dediti alla mercatura e alle industrie, avevano raffinato il gusto dell’arte. (Pochettino – Olmo)
Case dell’epoca comunale Normalmente la casa era a tre piani e aveva una sola stanza per piano. La stanza del pianterreno serviva da sala bassa: lì la famiglia pranzava. Il primo piano era elevatissimo, come mezzo di sicurezza; è questo il particolare più notevole della costruzione. In questo piano una camera, nella quale il padrone di casa abitava con la moglie. La casa era quasi sempre fiancheggiata da una torre d’angolo, il più delle volte quadrata. Al secondo piano una stanza che probabilmente serviva ai bambini e al resto della famiglia. Al di sopra, assai spesso, una piccola piattaforma, destinata evidentemente a servire da osservatorio. (A. Saitta)
La casa – torre Molte città italiane conservano qualche torre del Medioevo. A San Gimignano ne sono rimaste decine. Nell’età dei Comuni, Firenze giunse ad averne fino a centocinquanta. Bologna non ne ebbe forse meno. Queste torri non facevano parte del sistema difensivo del Comune, che aveva le sue mura e le sue porte, ben guardate. Erano abitazioni, case-torri, in cui le famiglie più ricche e potenti si rinserravano come in una fortezza privata. Per passare da un piano all’altro ci si serviva di scale che, all’occorrenza, potevano essere tolte. Nelle città le lotte di fazioni erano frequenti e sanguinose, e chi poteva si premuniva contro gli attacchi dei suoi nemici. Aver la torre più alta, poi, diventava una ragione di prestigio e, finchè i Comuni imposero di non superare una certa altezza, le famiglie gareggiavano a colpi di piani. A San Gimignano vi mostrano ancora qualche torre più bassa e vi narrano che appartenne a una famiglia sconfitta, che dovette abbattere un piano o due per imposizione del vincitore. Sarà una leggenda, ma rende l’atmosfera di certe antiche contese familiari ed aiuta a capire che cosa furono, all’interno dei Comuni, le lotte fra Guelfi e Ghibellini, ecc… Lenta e difficile fu la nascita di una nazione italiana.
Feste comunali Le feste religiose erano le maggiori occasioni di svago e di divertimento nelle città medioevali. A Firenze la più grande festa dell’anno era la festa di San Giovanni, patrono della città. Essa era caratterizzata da una solenne processione, aperta dai capi del Comune, il Podestà e il Capitano del Popolo, e dai Priori delle arti. Ogni arte sfilava col suo gonfalone: era la grande parata del Comune. Le arti erano le associazioni di mestiere, le Corporazioni, di cui facevano parte tutti gli artigiani e i loro dipendenti. Non si poteva esercitare la fabbricazione e il commercio della lana se non si apparteneva all’arte dei Lanaioli. Il medico e lo speziale appartenevano alla stessa arte. Vi erano a Firenze, sette arti maggiori e quattordici minori. Le arti dettavano legge in materia di orari di lavoro, di prezzi, di salari, di qualità della merce. Erano leggi minuziose e severissime. Alcune arti si intromettevano anche nella vita privata dei loro associati. Per esempio, proibivano al socio di prender moglie senza chiedere il permesso ai suoi compagni. Era tutt’altro che facile passare da un’arte all’altra. Tanto rigore non poteva impedire le disuguaglianze. I mercanti e i banchieri più ricchi divennero così forti da diventare “signori” della città.
I giochi Accanto alle feste religiose, e talvolta in coincidenza con esse, si svolgevano nelle città medioevali giochi popolari e spettacoli che in parte sono giunti fino ai nostri giorni. Questo non si può dire del “gioco del pallone” che si giocava a Firenze, e che è assai diverso dal nostro calcio, di cui sono stati gli Inglesi del secolo scorso a fornire le regole. Spesso però, a Firenze, l’antico gioco è rievocato con partite in costume che richiamano gran folla di turisti. A Siena, invece, si correva il Palio delle contrade: e si corre ancora oggi con lo stesso accanimento, con le stesse sfide tra fantini e rioni, con lo stesso accompagnamento di sfilate e di bandiere. Ad Arezzo si correva, e si corre tuttora una volta all’anno, la giostra del Saracino: cavalieri armati di lancia, a turno, si gettavano al galoppo contro un fantoccio addobbato con abiti orientali, per colpirlo in modo da farlo girare su se stesso. Altri giochi di questo genere si svolgevano in molte città italiane. Ricordiamo ancora la “partita a scacchi” che si giocava a Marostica, nel Veneto: uomini e donne in costume aveva il ruolo del re, della regina, degli alfieri e dei pedoni. Forse avreste visto una partita del genere rievocata alla televisione: ha l’aria di un elegantissimo balletto.
La prosperità di Firenze La popolazione di Firenze, saliva a novantamila. Erano più di millecinquecento i forestieri; si contavano ottantamila abitanti nelle terre sottoposte alla giurisdizione del Comune. Le chiese sommavano a centodieci; ventiquattro erano i monasteri di monache con cinquecento donne; cinque le badie con ottanta monaci; tre gli ospedali con più di mille letti per poveri e infermi. Le botteghe dell’arte della lana erano duecento e più, e facevano da settanta a ottantamila panni, dando vita a più di trentamila persone. I fondachi dell’arte di Calimala (lavorazione dei tessuti grezzi) dei panni francesi e oltremontani erano circa venti, che facevano venire ogni anno più di diecimila panni per il valore di trecento migliaia di fiorini d’oro (il fiorino era la moneta di Firenze); che venivano venduti tutti in Firenze, senza contare quelli che si mandavano fuori. I banchi dei cambiatori di moneta erano circa ottanta. La moneta d’oro che si batteva era per circa trecentocinquantamila fiorini, e talora quattrocentomila. Il collegio dei giudici era di circa ottanta; i notai seicento; i medici, i fisici, i chirurghi, sessanta; le botteghe degli speziali circa cento. Mercanti e merciai erano tanti, da non potere sistemare le botteghe dei calzolai, pianellai e zoccolai; erano trecento e più quelli che andavano fuori di Firenze a negoziare, e molti altri maestri di più mestieri e maestri di pietra e legname. Aveva allora Firenze centoquarantasei forni. (G. Villani)
Il più antico dei liberi Comuni d’Italia Un solo Comune italiano mi si trasformò in Signoria, anzi ancora sussiste nella sua interezza, tanto da essere degno del titolo di più antico Comune d’Italia. Rimasto sempre libero, non vi fu mai potente confinante che riuscisse ad assorbirlo, nè perdette la sua autonomia quando tutti gli stati accettarono l’annessione al Piemonte durante i Risorgimento: italiano per lingua e tradizione, volle comunque restare indipendente e sovrano. Retto da un’antica costituzione repubblicana, il piccolo Comune, si trova tra Marche e Romagna, vive ancora nella fiera autonomia: è la Repubblica di San Marino.
La lingua volgare Nei monasteri si pregava e si scriveva in lingua latina. Nei castelli si cantavano le gesta dei Paladini in lingua francese. Nei Comuni, invece, gli artigiani parlavano una lingua nuova, che proveniva dal latino, ma sembrava rozza e corrotta. Era la lingua del volgo, cioè del popolo che non aveva studiato. Si chiamava perciò lingua volgare. Da prima, questo rozzo dialetto era una lingua soltanto parlata. Poi venne scritta in qualche documento privato. Infine fu usata dai letterati e dai poeti. Specialmente a Firenze, questa lingua divenne dolce e aggraziata. La usarono perciò tre grandi scrittori: Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Per merito loro la lingua volgare si nobilitò, divenne la lingua italiana che ancora oggi usiamo.
Guelfi e Ghibellini Un nobil giovane di Firenze, Buondelmonte de’ Buondelmonti aveva promesso di sposare una fanciulla della famiglia Amedei. Ora avvenne che Buondelmonte, cavalcando un giorno per la città, passò davanti alla casa dei Donati, ove lo chiamò una gentildonna dal balcone, che mostrandogli la sua figliola bellissima, gli disse: “Chi vuoi prendere per moglie? Questa ti avevo serbata io”. La vide il cavaliere e ne fu subito sì preso, che la tolse per donna, scordando l’altro parentado. Di ciò sdegnati, gli Amedei e i parenti loro deliberarono di vendicarsi; e nel giorno di Pasqua venendo Bondelmonte d’oltre Arno su un bianco palafreno, lo assalirono ai piedi del Ponte Vecchio e lo uccisero (1215). Per questo omicidio tutta la città corse alle armi, e le famiglie si divisero in due, le une seguendo i Buondelmonti, e le altre gli Uberti ed Amedei, e sconvolsero per molti anni la patria, tenendo quelli il partito ed il nome di Guelfi, e questi di Ghibellini. (D. Compagni)
Curiosità Al tempo in cui i Comuni italiani vivevano isolati uno dall’altro come altrettanti stati indipendenti, si ebbero fra essi varie lotte e anche per i motivi più futili. Ad esempio una secchia che i Modenesi rubarono a quelli di Bologna fu causa di guerra tra le due città; un ambasciatore di Firenze promise a un cardinale il suo cagnolino, ma lo promise anche a un Pisano, da cui venne guerra accanita tra le due città. Perugia e Chiusi si azzuffarono per un anello, che si diceva essere quello donato da san Giuseppe alla Madonna il giorno del loro matrimonio. Per un chiavistello si accapigliarono Anghiari e Borgo san Lorenzo.
Grandi uomini del periodo comunale San Francesco nacque in Assisi nel 1182. Suo padre era un ricco mercante di stoffe. Trascorse la sua giovinezza in allegre brigate, partecipando alle guerre che si accendevano fra l’uno e l’altro Comune. Durante una delle sue avventure militaari, cadde gravemente malato e sentì, all’improvviso, la chiamata di Dio. Tornato in Assisi, lasciò ogni ricchezza, vestì un ruvido saio e andò predicando la povertà, la purezza di cuore, l’amore tra gli uomini e per tutte le creature. Attorno a lui vennero molti discepoli ed egli li accolse nell’ordine dei Frati Minori.
Marco Polo. I più grandi viaggiatori del Medioevo furono i veneziani Matteo, Niccolò e Marco Polo, figlio di Niccolò. Essi lasciarono Venezia nell’anno 1271 e giunsero, dopo anni di cammino, nella misteriosa città di Cambaluc (Pechino), dove viveva il Gran Kan, cioè l’imperatore dei Tartari. I tre veneziani furono ben accolti dall’Imperatore, che amò moltissimo Marco e lo nominò perfino governatore di una regione assai vasta. Marco potè così viaggiare e conoscere i costumi e le tradizioni di tanti popoli. Dopo anni e anni di lontananza dalla loro città, i tre viaggiatori desideravano rivedere la loro patria. Il Gran Kan li lasciò partire, dopo averli pregati di accompagnare nel viaggio la propria figlia che andava sposa al re di Persia. Fatta l’ambasciata, i Polo proseguirono e poi, con alcune navi, sbarcarono a Venezia. Erano così cambiati nell’aspetto e vestivano in maniera così strana che gli amici non li riconobbero. Nell’anno 1298, durante la guerra tra Venezia e Genova, Marco rimase prigioniero. Mentre era in carcere, egli dettò a Rustichello da Pisa la storia del meraviglioso viaggio nel Catai. Nacque così il Milione, un libro bello come una fiaba.
Dante Alighieri nacque a Firenze nel maggio del 1265. Frequenti erano a quel tempo le lotte fra i partiti di una stessa città e proprio per queste lotte, Dante fu esiliato e dovette andare, quasi mendico, di corte in corte, ospite di vari Signori. Durante l’esilio compose la sua più grande opera, la Commedia, che fu poi detta Divina, nella quale il poeta immagina di compiere un viaggio attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, cioè attraverso i regni della morte, della speranza e della gloria dell’anima. Dante morì a Ravenna nel 1321 e fu sepolto con grandi onori nella Chiesa di San Francesco. Così lo descrisse un giorno un suo concittadino: “Fu grande letterato e dottore in ogni scienza, sommo poeta e filosofo.” Scrisse la Commedia, il poema in versi dove immaginò di essere stato nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, e di aver parlato con le anime che vi si trovano. In questo modo potè mettere in versi le sue cognizioni scientifiche, astronomiche e politiche. Dante fu esiliato da Firenze perchè prevalse la fazione contraria a quella nella quale militava; ma con le sue nobili opere diede grandissima fama alla sua città. (G. Villani)
Dante e il fabbro Dante Alighieri una volta udì un fabbro, il quale, battendo il ferro, accompagnava il proprio lavoro cantando i versi della Divina Commedia. Per adattare quei versi al suo lavoro li allungava, li scorciava, lo storpiava. Era un vero strazio! Dante Alighieri, che si faceva prendere facilmente dall’ira, entrò nella bottega del fabbro, gettando in mezzo alla strada martelli e tenaglie. “Perchè rovini la mia arte?” gli gridò il fabbro indignato. “E tu, perchè sciupi la mia?”. Il fabbro rimase interdetto. “Io non danneggio nessuno” “Danneggi la mia arte. Io sono l’autore dei versi che cantando alteri e storpi!”. Se ci fosse stata l’Arte dei Poeti, Dante avrebbe potuto ricorrere ai suoi Priori. Ma quell’Arte non c’era e se il poeta volle entrare nel governo della città, dovette iscriversi all’Arte dei Medici e Spaziali. Come speziale, fu eletto Priore nel 1300 ed entrò nel governo del libero Comune di Firenze. (P. Bargellini)
Giotto di Bondone Giotto nacque a Vespignano nel 1266. Suo padre, di nome Bondone, era contadino e Giotto lo aiutò custodendo il gregge. Un giorno, mentre su una pietra disegnava una pecora, passò di là Cimabue, il più grande pittore di quel tempo. Egli si meravigliò dell’abilità del pastorello e lo portò con sè a Firenze. Ben presto Giotto superò il maestro e fu chiamato a dipingere in ogni parte d’Italia. Ad Assisi affrescò molti episodi della vita di San Francesco, a Firenze progettò il bel campanile di Santa Maria in Fiore. Morì a Firenze nel 1336.
Una buffa di Buffalmacco Nel Trecento vissero in Firenze uomini di grandissimo ingegno: poeti e scrittori come Dante, Petrarca, Boccaccio; pittori famosi come Cimabue, Giotto e tanti altri. Con le loro opere essi dettero gloria e bellezza all’Italia e al mondo. Molti di questi artisti erano tipi bizzarri e buontemponi che amavano inventare burle sulle quali si facevano matte risate. Anche Buffalmacco era un bravo pittore del Trecento, ma non aveva la voglia di lavorare che dimostrava invece Giotto. Gli piaceva mangiare e bere, forse perchè essendo povero mangiava e beveva sempre poco. Veniva chiamato a dipingere nei conventi, e si sa, nei conventi il cibo non è mai ne abbondante ne appetitoso. Una volta capitò in un convento dove, quasi tutti i giorni, si mangiava cipolla. Al pittore la cipolla piaceva poco, e quando si vedeva portare quel piatto storceva la bocca. Ma come dire al Padre Guardiano che quel cibo non gli andava a genio? Pensò allora di fare una burla e si mise a disegnare tutte le figure di schiena, con le facce che non si vedevano. Il Padre Guardiano, che tutti i giorni si recava a vedere come procedesse il lavoro di Buffalmacco, notò la cosa e chiese all’artista: “Come mai non fate le figure da quest’altra parte, con la faccia rivolta in fuori, in modo che si possano vedere i volti dei personaggi?” “Caro Padre” rispose serio il pittore “le disegno rivolte in qua, ma poi, mentre dipingo, essi si rigirano e nascondono la faccia. E sapete la ragione? Perchè il mio fiato puzza talmente di cipolle, che le figure non lo sopportano, e rivoltano la faccia dall’altra parte”. Il Padre Guardiano capì la burla e da quel giorno, invece di cipolle, fece servire al pittore altri cibi più saporiti e appetitosi. Le figure di Buffalmacco, allora, tornarono a mostrare i loro volti dalla parte giusta! (P. Bargellini)
Vita comunale I mezzi di trasporto sono scarsi, perciò il movimento cittadino è poca cosa. La gente va a piedi, il passaggio di un nobile a cavallo attira le comari alla finestra; scarsi i carri che si destreggiamo penosamente fra le strettoie e le tortuosità delle strade; più frequente il passare di giumente cariche di sacchi e di mercanzie. Solo il centro è animato. Nei giorni di mercato la piazza del Comune è tutta un formicolio di folla intorno ai banchi dei venditori, un vociare confuso di sensali e di compratori, mentre il cantastorie grida alto, strimpellando la sua chitarra per tirar gente, e il banditore, a suon di tromba, annuncia gli ordini del Podestà. Quando la sera cade, la campana del duomo suona il coprifuoco; si chiudono le botteghe e le case; un silenzio profondo invade le vie, immerse in un buio pauroso, rotto solamente qua e là dal barlume di una lampada accesa davanti a una Madonnella, o dal balenio improvviso delle lanterne degli ultimi passanti. (A. Manaresi)
L’arte della lana a Firenze Situata sull’Arno, lontana dal mare, Firenze non poteva sperare di avere una parte importante nel commercio. Perciò i suoi cittadini si dedicarono all’artigianato. Impararono l’arte della tessitura dagli orientali e la perfezionarono. La corporazione di Calimala, cui era affidata la rifinitura e il raffinamento dei tessuti, creò nel campo della tintura un procedimento nuovo che venne tenuto gelosamente segreto. I fiorentini riuscirono a migliorare l’apprettatura e la preparazione e in particolar modo a conferire alle stoffe una così splendida lucentezza che la loro produzione divenne presto celebre e richiesta su tutti i mercati europei. Poichè la lana della Toscana non bastava, la si faceva venire dalla Francia, dalle Fiandre e perfino dall’Inghilterra. Giganteschi carri coperti partivano da Gand, passavano per Bruxelles, Parigi, Avignone, Marsiglia, e dopo aver superato gli Appennini arrivavano a Firenze. Talvolta i mercanti fiorentini facevano tessere la loro lana nelle Fiandre e in Francia; essa però veniva sempre tinta a Fireze con coloranti, soprattutto l’indaco, importati di solito dall’Oriente. Nel 1338 esistevano a Firenze più di 200 opifici che producevano annualmente da 70 a 80.000 pezze. Ovunque i clienti chiedevano stoffe fiorentine, perchè in tutta Europa non c’erano tessuti così perfetti. (E. Samhaber)
Così giurava il podestà di un Comune Pur diverse nelle apparenze, sostanzialmente uguali erano le formule dei giuramenti dei podestà comunali; giuramenti che li impegnavano al rispetto delle leggi liberamente volute dai cittadini del comune. Così, per esempio, giurava sul finire del XIII secolo il podestà di Verona: “Nel nome di Dio onnipotente, e del figliol suo unigenito nostro signore Gesù Cristo, e dello Spirito Santo, e della santa gloriosa e sempre Vergine Maria, e per i quattro Vangeli che tengo nelle mie mani, e dei santi arcangeli Michele e Gabriele, giuro di prestare alla città e comunità e università di Verona una coscienza pura e un fraterno servigio, in ossequio all’amministrazione che mi è stata affidata. Giuro altresì che cercherò di pacificare tutte le discordie che sono o che saranno in futuro in questa città o nel distretto che la riguarda; di ricondurvi la pace al più presto possibile, specie se ne sarò sollecitato; giuro infine che non sarò spia o guida ai danni di Verona e a vantaggio dei suoi nemici. Non perpetrerò furto o frode delle cose del comune con nessun mezzo nè acconsentirò che altri lo facciano. E costringerò con tutti i mezzi a mia disposizione coloro che lo avessero commesso, a restituire. Dichiaro di essere soddisfatto delle 3000 lire di denaro e dell’alloggio e stallo del comune di Verona e della mobilia che ivi si trova, così come dichiaro di essere soddisfatto delle 1000 lire che mi vengono date come rifusione per le mie perdite e danni; e anche di quelli che mi vengono dati come subalterni, e della scorta armata che mi viene attribuita, e dei dodici soldati armati che terrò a mie spese e al servizio del comune per tutto il tempo della mia carica. Cessato dal mio incarico, mi fermerò per quindici giorni ancora con i giudici del comune e con i soldati che sono stati con me, e mi fermerò in città a spese del comune, per le ultime consegne: farò giustizia di tutti coloro che avranno da far lamentele contro il mio operato, dei giudici e dei soldati. Se qualcuno avrà scalfito un po’ d’oro dai denari veronesi, io se potrò, non appena conosciuta la verità su tale delitto e senza fare inganno per non conoscerla, farò troncare la mano al reo. Così proibirò che, durante tutto il mio governo, si tengano scrofe in città o negli immediati sobborghi. Proibirò il gioco d’azzardo o dei dadi o del bianco e nero, facendo eccezioni per i giochi della dama o degli scacchi; e chi contravviene sarà multato con venti lire”.
Ambiziose origini dei Comuni L’ammirazione degli Italiani per Roma era tale, ai tempi dei comuni, che ogni città pretendeva di avere origini che si innestassero in un modo o nell’altro nella più antica storia dell’Urbe. Firenze, ad esempio, diceva che perfino lo stemma cittadino, il giglio, era di origine romana, e il cronista fiorentino Giovanni Villani, che alla sua città dedicò la maggior opera sua, racconta che al tempo di Numa Pompilio, per divino miracolo, cadde in Roma dal cielo uno scudo vermiglio “per la qual cosa e augurio i Romani presero quello stemma e poi vi aggiunsero S.P.Q.R. in lettere d’oro, cioè senato e popolo romano. Così a Perugia, a Firenze e a Pisa; ma i Fiorentini, per il nome della città, vi aggiunsero per intrassegno il giglio bianco; e i Perugini talvolta il grifone bianco e Viterbo il campo rosso e Orvieto l’aquila bianca. La città di Firenze era in quel tempo come figliola e fattura di Roma in tutte le cose, da Romani abitata… E un tale Uberto Cesare, soprannominato Giulio Cesare, che fu figliolo di Catilina, rimasto in Fiesole giovinetto ancora dopo che quello morì, proprio per opera di Giulio Cesare fu fatto grande cittadino di Firenze; e avendo molti figlioli, egli e la sua discendenza furono per lungo tempo signori di quella terra; i loro discendenti furono grandi signori e capostipiti delle famiglie fiorentine.” (M. Bini)
Dalla società feudale alla società comunale Tra la fine del primo e l’inizio del secondo millennio dell’era cristiana, la crisi del feudalesimo si fece più profonda. Il sistema era già stato scosso dalle lotte fra i grandi feudatari e l’imperatore; lo fu ancora di più quando si acuirono i contrasti tra vassalli e valvassori (questi ultimi otterranno, nel 1037, l’ereditarietà dei loro possessi) e tra la feudalità laica e quella ecclesiastica. Nelle campagne si manifestarono fermenti di vita nuova, dopo che l’oscuro timore di grandi catastrofi naturali al sopraggiungere dell’anno mille (si parlava addirittura della fine del mondo) si rivelò del tutto infondato. L’agricoltura aveva rappresentato negli ultimi secoli l’unica attività economica praticata su larga scala, ma le condizioni di vita dei contadini, soprattutto dei servi della gleba e dei coloni vessati dai loro signori, erano assai modeste; per di più la popolazione rurale andava aumentando molto rapidamente. Da questa situazione ebbero origine le richieste di svincolo dalla servitù della gleba e di patti, di contratti scritti, di carte più favorevoli e non modificabili ad arbitrio del proprietario, richieste che portarono, se accolte, ad un’ulteriore allargamento delle aree messe a coltura, e se respinte, alla fuga dei contadini dalle campagne verso la città. (L. Mumford, da “La città nella storia”)
La città La decadenza, in epoca feudale, delle città non aveva riguardato proprio tutti i centri urbani; in alcuni si era mantenuta viva la tradizione artigianale o commerciale, anche se la circolazione dei prodotti era diminuita e l’uso della moneta si era fatto più raro. L’aumento generale della popolazione si ripercosse anche sulla vita delle città, amministrate di solito da un feudatario ecclesiastico, il vescovo-conte, il quale poteva godere di una certa autonomia, dato che il feudo era vitalizio e non trasmissibile. L’accresciuto numeri dei cittadini (molti dei quali provenivano dalla circostante campagna o dai borghi feudali, quando non erano addirittura nobili e feudatari minori) creò una serie di problemi nuovi, collegati anche al rifiorire della produzione di beni di consumo e del loro scambio con altre merci in mercati e fiere sempre più frequentati, mentre anche la moneta faceva la sua riapparizione in grande quantità. Alla soluzione dei problemi che le toccavano da vicino si impegnarono direttamente tanto la piccola nobiltà inurbatasi quanto la nascente classe sociale della borghesia (grossi artigiani e mercanti), dando vita ad associazioni, regolate da proprie norme, in grado di tutelare gli interessi comuni dei membri e di ottenere e di esercitare, sempre in comune, nuovi diritti e privilegi. In seguito tali associazioni ottengono o conquistano di partecipare ancora più attivamente alla cura degli interessi di tutta quanta la città sino a sostituirsi, grazie alle immunità ed ai privilegi via via acquisiti, ai signori feudali ed ai vescovi-conti nel pieno governo della città stessa. E’ nato così il Comune, piccolo Stato che inizialmente ha per confine la cerchia delle mura cittadine e che sceglie i propri governanti tra coloro che abitano appunto entro detta cerchia. Il Comune si comporta come uno Stato sovrano: esercita i poteri politici, civili, militari; ha un proprio esercito, si dà le leggi, amministra la giustizia; impone tributi e batte moneta; dichiara la guerra. Sarà proprio in questo suo comportamento da Stato autonomo la causa dei lunghi, ripetuti, sanguinosi conflitti che coinvolgeranno da una parte i sovrani dell’Impero, intenzionati a restaurare la loro autorità nelle città che ritenevano ribelli perchè si erano rese arbitrariamente indipendenti (erano prerogativa del re coniare monete, dare le leggi, concedere il gradimento alla nomina dei magistrati, riscuotere i tributi, ecc…), e dall’altra i Comuni dell’Italia settentrionale, desiderosi di conservare l’indipendenza acquisita e di estendere la sovranità anche sui possessi feudali del contado. La lotta sarà particolarmente aspra durante il regno di Federico I di Svevia (la Casa succeduta a quella di Franconia sul trono di Germania, d’Italia e dell’Impero), sceso ripetutamente con i suoi eserciti nella pianura padana, più volte vittorioso e distruttore di città (Milano, 1162), battuto infine a Legnano (1176) dalle truppe fornite alla Lega Lombarda dai Comuni della Regione (e la Lega godeva pure dell’alto appoggio dell’autorità del Pontefice Alessandro III) e costretto a sottoscrivere la pace di Costanza (1183), che riconoscerà ai Comuni il godimento dei diritti acquisiti e ridurrà la sovranità imperiale ad una formalità. (L. Mumford, da “La città nella storia”)
Classi sociali e ordinamenti Le situazioni in cui si dormano e si sviluppano i Comuni sono molto diverse tra loro. Le vicende di Milano, il più importante centro di vita comunale nella pianura padana, solo in parte sono simili a quelle di Firenze o di altri Comuni dell’Italia centrale. Una maggiore uniformità si può invece riscontrare nelle classi sociali e negli ordinamenti che li caratterizzano. Anche nel Comune, che pure contrapponeva il principio dell’uguaglianza politica e civile dei suoi abitanti al principio della stretta gerarchia e delle dipendenze del sistema feudale, esistono di fatto più classi sociali, dalla nobiltà alla plebe. Sarà proprio l’ascesa economica e politica delle classi inizialmente meno potenti a costituire uno dei motivi fondamentali dell’età comunale. Il governo del Comune è repubblicano; la sovranità risiede nelle mani del popolo, il quale, riunendosi nell’Assemblea Generale, detta anche Parlamento o Arengo o Concione, delibera sulle questioni più gravi d’interesse comune (guerra, pace, trattati) ed elegge i magistrati annuali cui spetta il potere esecutivo, i Consoli, che sono due o più a seconda dell’importanza del Comune. Alle volte il Consiglio maggiore sostituisce l’Assemblea generale dei liberi cittadini. Il Consiglio minore o Senato o Consiglio di Credenza aiuta e regola l’attività dei Consoli; è composto dai cittadini più influenti o da loro familiari ed esprime, in pratica, la volontà della classe dominante. Tale ordinamento rispecchia la vita politica nei secoli XI e XII, quando il Comune è ancora impegnato a lottare contro i feudatari per raggiungere la piena libertà; il potere è nelle mani dei nobili o magnati o grandi (feudatari minori trasferitisi in città, mercanti, grossi artigiani, proprietari di case e di terreni entro la cerchia delle mura). Il secolo XIII è caratterizzato da continue discordie interne che oppongono tra loro partiti e classi. I Consoli sono troppo legati a particolari interessi cittadini per garantire assoluta e costante imparzialità: al loro posto viene eletto un magistrato unico, il Podestà, chiamato in città dalla sua residenza abituale; un forestiero, dunque. Intanto il cosiddetto popolo grasso, composto da mercanti, da banchieri, e da grossi artigiani organizzati in Corporazioni o Arti maggiori, cerca di limitare il potere dei nobili e di sostituirli al governo della città. Accanto al podestà viene eletto un Capitano del Popolo, che rimarrà solo in carica dopo l’affermazione della borghesia. Altre istituzioni si affiancano a quelle preesistenti, se ancora valide. Sono il Consiglio delle Arti o dei Priori, che raggruppa i rappresentanti delle singole Arti (un priore è a capo di ogni Arte, maggiore media o minore che sia) e che aiuta il Capitano del Popolo nelle sue mansioni, ed il Consiglio del Popolo con compiti quasi analoghi. La borghesia raggiunge il potere nella seconda metà del XIII secolo, ma non per questo cessano le lotte interne nelle città. Anche il popolo minuto, infatti, quello delle Arti medie e minori, esige la sua parte di governo e tumultuano perfino i rappresentanti della plebe, composta di lavoratori per lo più salariati, ad esempio gli operai degli opifici e dei laboratori ove si tessono e tingono le stoffe. Non dovunque e non sempre il popolo minuto può accedere al potere, però il suo contributo allo sviluppo economico del Comune resta rilevante. (L. Mumford, da “La città nella storia”)
Le corporazioni L’istituzione più tipica della vita associata, a parte la Chiesa, era la corporazione, e queste due basi di un’esistenza fondata sulla solidarietà, sul lavoro collettivo e su una fede comune erano associate nella città medioevale. La corporazione non perdette mai il suo fondamento religioso. Rimase una confraternita conviviale, che si attribuiva particolari compiti economici e responsabilità commerciali, ma non si esauriva in essi. I confratelli mangiavano e bevevano insieme in occasioni regolarmente ripetute, fissavano ordinanze attinenti alla loro arte, progettavano e finanziavano sacre rappresentazioni a edificazione dei concittadini. Nei periodi prosperi costruivano cappelle, donavano messe di suffragio, fondavano scuole elementari (le prime scuole laiche dalla fine dell’evo antico) e al colmo del loro potere si costruivano una sede a volte sontuosa come il mercato dei panni di Ypres. Intorno alla loro arte edificavano un’intera vita rivaleggiando amichevolmente con le altre corporazioni e, da buoni fratelli, si alternavano nel presidiare le mura adiacenti al loro quartiere. Se le corporazioni dei mercanti precedettero in genere di mezzo secolo quelle degli artigiani, bisogna però ricordare che, tranne che per i traffici internazionali, la linea divisoria tra mercanti e artigiani non era molto precisa, in quanto l’artigiano lavorava per vendere l’eccedenza della sua produzione. Nel periodo iniziale gli artigiani entravano così a far parte delle corporazioni dei mercanti e ne costituivano probabilmente la maggioranza: e così più tardi anche gli esponenti dell’ordine feudale o gli intellettuali che desideravano partecipare al governo cittadino dovevano diventare membri di una corporazione, per esempio di quella degli speziali o dei pittori. La corporazione dei mercanti organizzava e controllava la vita economica dell’intera città, fissando le condizioni di vendita, proteggendo il consumatore dalle estorsioni e l’onesto bottegaio dalla concorrenza sleale, impedendo infine che il mercato locale venisse turbato da influenze estranee. La corporazione degli artigiani era invece un’associazione di maestri nei diversi mestieri allo scopo di regolare la produzione e di fissare i criteri di esecuzione. Entrambe queste istituzioni finirono per trovare espressione nella città: la prima nella loggia dei mercanti, la seconda nel palazzo delle corporazioni, risultato di uno sforzo collettivo o, come a Venezia, in una serie di sedi apposite, una per ogni arte. Probabilmente le prime sedi di questi organismi erano modeste casette o stanze prese in affitto, oggi da tempo scomparse, come quelle degli antichi colleghi di cui abbiamo qualche testimonianza. Ma gli edifici che ci sono rimasti rivaleggiano spesso in magnificenza con i Palazzi di Città e con le cattedrali. L’importante funzione svolta dalle corporazioni nella città medioevale sino al Quattrocento denota che il lavoro, e in particolare il lavoro manuale, era ormai tenuto in ala considerazione, e anche questo fu in buona parte merito della Chiesa, un po’ perchè aveva dato adeguata importanza alle attività dei poveri e degli umili, e soprattutto perchè, con la regola benedettina, aveva accettato la fatica manuale come componente essenziale del viver bene: “lavorare e pregare”. La vergogna del lavoro, questo penoso retaggio delle culture servili, a poco a poco scomparve, e le frequenti prodezze degli artigiani e dei mercanti in battaglia diedero un duro colpo alle pretese dei signori feudali i quali disprezzavano ogni forma di fatica fisica eccetto la caccia e la guerra. Una città dove la maggioranza degli abitanti erano liberi cittadini che lavoravano uno accanto all’altro in condizioni di parità, e senza schiavi ai loro ordini, era un fatto nuovo nella storia urbana. (L. Mumford, da “La città nella storia”)
Il Comune rustico
L’epoca dei Comuni fu gloriosa per l’Italia. Carducci, profondo conoscitore della storia d’Italia e poeta, ricostruisce la vita di uno dei tanti Comuni italiani, piccolo sì, sperduto tra i monti, presso Udine, ma tanto valoroso e saldo nei suoi ordinamenti. La fantasia, nella ricostruzione poetica, non prevale sulla verità storica. Orgoglio, valore, fede sono i sentimenti che pervadono la composizione; da ammirare il quadretto conclusivo.
O che tra faggi e abeti erma su i campi smeraldini la fredda ombra si stampi al sole del mattin puro e leggero, o che foscheggi immobile nel giorno morente su le sparse ville intorno a la chiesa che prega o al cimitero che tace, o noci de la Carnia, addio! Erra tra i vostri rami il pensier mio sognando l’ombre di un tempo che fu. Non paure di morti ed in congreghe diavoli goffi con bizzarre streghe, ma del comun la rustica virtù accampata a l’opaca ampia frescura veggo ne la stagion de la pastura dopo la messa il giorno de la festa. il consol dice, e poste ha pria le mani sopra i santi segnacoli cristiani: – Ecco, io parto tra voi quella foresta d’abeti e pini ove al confin nereggia. E voi trarrete la mugghiante greggia e la belante a quelle cime là. E voi, se l’unno o se lo slavo invade, eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade, morrete per la nostra libertà-. Un fremito d’orgoglio empiva i pettti, ergea le bionde teste; e de gli eletti in su le fronti il sol grande feriva. Ma le donne piangenti sotto i veli invocavan la madre alma de’ cieli. Con la man tesa il console seguiva: – Questo, al nome di Cristo e di Maria, ordino e voglio che nel popol sia-. A man levata il popol dicea, Sì. E le rosse giovenche di su ‘l prato vedean passare il piccolo senato, brillando su gli abeti il mezzodì. (G. Carducci)
O che tra faggi e abeti erma su i campi smeraldini la fredda ombra si stampi al sole del mattin puro e leggero, o che foscheggi immobile nel giorno morente su le sparse ville intorno a la chiesa che prega o al cimitero… Addio, o alberi di noci della Carnia, sia che (o che) al sole puro e leggero del mattino la vostra ombra si stampi solitaria (erma) sui prati di color verde vivo (campi smeraldini) tra i faggi e gli abeti, sia che si stenda cupa (foscheggi) e immobile sul far della sera (nel giorno morente) sulle case (ville) intorno alla chiesa, da dove si alzano le preghiere, o al silenzioso cimitero.
…che tace, o noci de la Carnia, addio!… Le Prealpi Carniche, poste a nord della pianura friulana, sono ricche di alberi di noci; ed è questo elemento caratteristico del paesaggio che il poeta, partendo, saluta con nostalgia e tenerezza.
…Erra tra i vostri rami il pensier mio sognando l’ombre di un tempo che fu… Il pensiero del poeta erra tra i rami dei noci e corre al tempo passato.
…Non paure di morti ed in congreghe diavoli goffi con bizzarre streghe,… Il Carducci ci precisa quale passato vada egli rievocando: non le manifestazioni dello spirito nordico con paurose leggende di morti e conciliaboli di streghe e diavoli, ma l’affermazione della civiltà latina su quella barbarica nell’organizzazione e nella vita di un libero Comune rustico, quale doveva essere in quelle zone montuose della Carnia, poste presso il confine e soggette ad invasioni.
…ma del comun la rustica virtù accampata a l’opaca ampia frescura veggo ne la stagion de la pastura dopo la messa il giorno de la festa… Ma vedo nel giorno della festa (probabilmente quella del santo protettore del Comune) dopo la messa, nella stagione del pascolo (pastura), gli abitanti del Comune, dalle schiette e salde virtù della vita pastorale (del comun la rustica virtù), riuniti al fresco di un ampio spazio ombroso (a l’opaca ampia frescura).
il consol dice, e poste ha pria le mani sopra i santi segnacoli cristiani: – Ecco, io parto tra voi quella foresta d’abeti e pini ove al confin nereggia. E voi trarrete la mugghiante greggia e la belante a quelle cime là. Consol: i Comuni rinnovarono il glorioso titolo dei capi di Stato romano per insignire la loro massima autorità; santi segnacoli cristiani: la croce e i vangeli; parto: divido; al confin: presso il confine. Si tratta dunque di un rustico Comune di confine; la mugghiante greggia e la belante: gli armenti di bovini e le greggi di pecore.
E voi, se l’unno o se lo slavo invade, eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade, morrete per la nostra libertà-. unno e slavo sta ad indicare lo straniero in genere, nel ricordo delle invasioni barbariche dei secoli precedenti; aste: le lance, le picche.
Un fremito d’orgoglio empiva i petti, ergea le bionde teste; e de gli eletti in su le fronti il sol grande feriva. eletti: prescelti alla sacra difesa della patria; il sol grande feriva: il sole batteva sulle loro fronti illuminandole e quasi benedicendole.
Ma le donne piangenti sotto i veli invocavan la madre alma de’ cieli. Gli uomini fremono d’orgoglio, ma le donne, madri o spose o sorelle, sentono l’orrore della parola morrete e pregano piangendo. La madre alma de’ cieli: la Vergine Maria.
Con la man tesa il console seguiva: – Questo, al nome di Cristo e di Maria, ordino e voglio che nel popol sia-. A man levata il popol dicea, Sì. E le rosse giovenche di su ‘l prato vedean passare il piccolo senato, brillando su gli abeti il mezzodì. Al nome: nel nome a man levata: nota qui il singolare usato invece del plurale, poichè il popolo non ha una mano sola; ma il poeta dice man levata come a rendere più intensa l’unione di tutte le mani in una sola; piccolo senato: la piccola accolta degli uomini che formavano il consiglio del Comune.
La ribellione dei Comuni Mentre i Comuni, ormai indipendenti, stavano acquistando grande potenza, diveniva imperatore di Germania Federico I della casa di Svevia, chiamato Federico Barbarossa per il colore della sua barba. Federico era un uomo energico e coraggioso che voleva ricostruire l’unità dell’Impero, come ai tempi di Carlo Magno. I Comuni non vollero però assoggettarsi all’Imperatore, non accolsero i suoi magistrati e i suoi podestà, e rifiutarono di pagargli i tributi, come invece continuavano a fare i feudatari del contado.
Federico Barbarossa in Italia Federico I decise di richiamare i Comuni all’obbedienza. Venne perciò in Italia nell’anno 1154 e iniziò una lunga lotta contro le città comunali e soprattutto contro Milano, che era la più importante. L’imperatore distrusse Tortona, in Piemonte, poi si diresse verso Roma per esservi incoronato dal Papa. Ritornato in Germania, quando seppe che i Comuni d’Italia si erano fatti ancora più potenti, Federico ripassò le Alpi con il suo esercito e circondò Milano. Dopo un assedio lungo e terribile, per salvare la città, dove era scoppiata anche la peste, i consoli andarono dall’Imperatore, gli posero ai piedi gli stendardi e gli consegnarono le chiavi delle porte. Piangendo implorarono pietà. L’imperatore non si lasciò commuovere e distrusse Milano facendo abbattere le sue 300 torri.
La Lega Lombarda Federico Barbarossa aveva dato ai Comuni italiani una terribile lezione, ma il desiderio di libertà e di indipendenza fu più forte della paura. Nel 1167, nel convento di Pontida, presso Bergamo, si riunirono i rappresentanti delle città del Veneto, dell’Emilia, della Lombardia e del Piemonte; essi giurarono sul Vangelo di aiutarsi concludendo un patto chiamato Lega Lombarda. Milano fu ricostruita e in Piemonte, in onore del papa Alessandro III che era un fedele alleato dei Comuni, fu fondata la città di Alessandria.
La battaglia di Legnano Il Barbarossa, per sbaragliare i Comuni in modo definitivo, ridiscese in Italia con un forte esercito. La battaglia decisiva avvenne il 29 maggio 1176 poco lontano da Legnano. I Fanti e i cavalieri dei Comuni alleati sconfissero l’Imperatore, che si salvò a stento con la fuga. Il Barbarossa chiede la pace e riconobbe ai Comuni la libertà di governo.
Per il lavoro di ricerca I cittadini del Comune erano sempre in lotta: come si svolgeva questa lotta all’interno del Comune? Che cos’erano le regalie? Chi accusò i Comuni italiani di aver usurpato i poteri spettanti all’imperatore? Quante volte Federico Barbarossa scese in Italia? Come avvenne la resa e la distruzione di Milano? Ricerca notizie sulla Lega Lombarda e il giuramento di Pontida. Trova notizie sulla battaglia di Legnano e sulla conclusione della lotta tra i Comuni e l’Impero. Come avveniva l’incoronazione di un imperatore nei secoli X, XI e XII? Cerca notizie sull’origine e sul significato del Carroccio e della Compagnia della Morte. Grande è la figura di Alberto da Giussano; trova notizie esaurienti su di lui. Chi era Bonifacio VII? Quando la sede papale fu trasferita ad Avignone? Quando e per merito di chi fu riportata a Roma la sede pontificia?
La battaglia di Legnano Dalla quiete dei campi attorno a Legnano, improvvisa come la tempesta, s’era alzata la voce della battaglia. I fanti e i cavalieri tedeschi, protetti dalle pesanti armature, avevano resistito al primo urto dei soldati lombardi i quali disperavano ormai di poter vincere la superiorità nemica. Le grida dei combattenti si confondevano con le dolorose invocazioni dei feriti. La terra fu ben presto coperta di morti. Nel cielo scintillava la croce del Carroccio, ondeggiava libero il gonfalone ricordando ai combattenti una promessa. Ad un tratto il sacerdote che celebrava la Messa fu colpito da una freccia e cadde. Allora un giovinetto balzò sul Carroccio, afferrò la corda della martinella e diede a tirare a gran forza. La campana diffuse i suoi rintocchi, chiamò i soldati della Compagnia della Morte perchè difendessero il Carroccio. Accorsero qui generosi, guidati da Alberto da Giussano, e volsero in fuga i Tedeschi. La martinella continuava a squillare agitata dal coraggioso fanciullo che, perdute le mani per un colpo di spada, aveva afferrata la corda con i denti. Nel cielo salivano i canti di vittoria dei soldati della Lega.
Non tutti i cittadini avevano gli stessi interessi I vari gruppi di cittadini nei quali era divisa la popolazione di un Comune avevano interessi diversi. Ogni gruppo desiderava leggi che soddisfacessero ai suoi interessi. I proprietari di case e di terreni volevano leggi che garantissero loro di guadagnare molto con gli affitti delle case e con la vendita dei prodotti della terra. I grandi mercanti e i banchieri volevano che gli affitti delle case e i prodotti della terra costassero poco, perchè in questo modo gli operai che da loro dipendevano avrebbero potuto vivere con un basso salario. Gli operai volevano un salario che permettesse loro di vivere senza soffrire la fame. I piccoli artigiani e i piccoli negozianti erano d’accordo con loro, perchè potevano lavorare solo se gli operai, che formavano la maggior parte della popolazione, potevano comprare le loro merci. Per ottenere quello che voleva, ogni gruppo cercava di eleggere a capo del Comune uomini di sua fiducia. Ma siccome i capi di vari gruppi non riuscivano quasi mai a mettersi d’accordo, allora si ricorreva alla violenza e ai combattimenti. Come si svolgevano queste lotte all’interno del Comune? Quando uno di questi gruppi vinceva, cacciava dalla città i suoi nemici, finchè, vinto a sua volta, doveva abbandonare lui il Comune. Così la vita del Comune era un continuo succedersi di lotte sanguinose. Spesso i grandi proprietari, i grandi mercanti e i banchieri, meno numerosi, ma più potenti, perchè avevano maggiori ricchezze, erano d’accordo in una sola cosa: non permettere ai più poveri di governare.
I Comuni si affermano sul feudalesimo declinante Fino alla metà del XII secolo i Comuni cittadini poterono moltiplicarsi nell’Italia settentrionale e centrale senza incontrare nel decadente mondo feudale ostacoli seri. I piccoli feudatari, infatti, avevano preferito far causa comune con gli abitanti delle città nella lotta contro i grandi feudatari delle campagne. In tal modo questi ultimi avevano perduto ogni giorno terreno e avevano finito per cedere ai Comuni gran parte delle prerogative e dei privilegi che i loro antenati avevano strappato ai sovrani dall’epoca carolingia in poi. Così i Comuni si trovarono a disporre di molti poteri che normalmente spettavano all’imperatore o al re (ed erano detti perciò regalie), senza averne ricevuta la concessione da alcun sovrano. Intanto, dopo un lungo periodo di lotte tra i feudatari tedeschi, seguito dalla morte di Enrico V (1125) ultimo sovrano della Casa di Franconia, nel 1152 saliva al trono imperiale Federico I di Svevia che, gelosissimo dei suoi diritti, subito accusò i Comuni italiani di aver usurpato i poteri spettanti all’imperatore.
L’imperatore Ecco come avveniva l’incoronazione di un imperatore nel secolo X. I magistrati, l’arcivescovo di Magonza, il clero e il popolo aspettavano il corteo del nuovo re nella basilica di Aquisgrana. Quando esso avanzò, l’arcivescovo gli mosse incontro e toccò con la sinistra la mano destra del re; poi si portò al centro della chiesa, e rivolto al popolo che stava sulle logge disse: “Ecco, io vi conduco Ottone, eletto da Dio, e poco fa proclamanto re di tutti i Principi”. Poi l’arcivescovo, insieme al re che era vestito di una tunica attillata, si recò all’altare, sul quale erano collocate le insegne regali: la spada con la banboliera, il mantello coi fermagli, il bastone con lo scettro e il diadema. L’arcivescovo prese la spada e, rivolto al re, disse: “Accetta questa spada per proteggere l’Impero dai barbari e dagli avversari di Cristo.” Preso il mantello, ne rivestì Ottone e disse: “Questi lembi che scendono al suolo ti ammoniscano a proteggere la pace fino alla fine dei tuoi giorni”. Poi preso lo scettro e il bastone disse: “Ammonito da questo insegne, punisci paternamente i sudditi colpevoli e porgi la mano misericordiosa alle vedove e agli orfani”. Dopo di che Ottone fu incoronato con un diadema d’oro.
Discesa in Italia di Federico Barbarossa Nel 1152 fu eletto imperatore Federico I di Svevia detto il Barbarossa, il quale, sedate le ribellioni in Germania, scese in Italia per ristabilirvi i diritti dell’impero non più riconosciuti dai Comuni maggiori. Nella prima discesa che fece al di qua delle Alpi (1154-1155) l’imperatore tedesco si limitò a trattare con ostilità i rappresentanti dei maggiori Comune e, spintosi fino a Roma, abbattè il regime comunale costituito per iniziativa di un monaco ribelle al papato, Arnaldo da Brescia; restituì quindi il dominio della città al papa Adriano IV, dal quale ottenne l’incorporazione imperiale. Arnaldo da Brescia, condannato come eretico, fu arso sul rogo. Nella seconda discesa, avvenuta nel 1158, Federico si propose di agire più a fondo. Posto l’assedio a Milano, costrinse alla resa la città e obbligò i consoli a prestargli omaggio; poi fece riunire a Roncaglia, presso Piacenza, una dieta di tutti i vassalli italiani, alla quale parteciparono anche alcuni giuristi dell’Università di Bologna. Proprio da costoro l’imperatore fece proclamare, sulla base del diritto romano, la legittimità delle sue disposizioni: divieto assoluto delle lotte private, sia tra città sia tra feudatari; obbligo per tutti di rivolgersi ai tribunali imperiali per risolvere le contese; scioglimento delle leghe tra città e delle Consorterie nobiliari; riconoscimento da parte dei vassalli e dei Comuni, del diritto imperiale di nominare magistrati, coniare moneta, imporre tasse e pedaggi, ecc… Le deliberazioni di Roncaglia miravano insomma, nei disegni di Federico, a rinsaldare il potere centrale, trasformando i regni d’Italia e di Germania in una monarchia assoluta.
I Comuni e il Papato si oppongono all’Imperatore
Questa ambiziosa politica trovò un ostacolo insormontabile nel desiderio di libertà che animava i giovani Comuni italiani. Quando infatti Federico volle imporre alle città alcuni podestà di sua nomina, molte di queste, con a capo Milano, si rifiutarono di riceverli. Intanto anche il nuovo papa Alessandro III, misurando il pericolo che l’aumentato potere imperiale rappresentava per l’indipendenza del papato, aveva assunto un atteggiamento contrario a Federico, rispondendo con la scomunica al tentativo da questi fatto di contrapporgli un antipapa. Contrariato da tali segni di ostilità, l’imperatore volle subito ristabilire il suo prestigio sulle città italiane e cinse d’assedio Milano.
La resa e la restituzione di Milano Due anni durò l’assedio, poi la peste ricominciò a infierire fra gli eroici difensori; un incendio distrusse la maggior parte dei magazzini di granaglie e la fame livida tornò a mietere vittime. Sembrava che un fato tremendo pesasse sulla roccaforte della libertà lombarda. Alla fine del febbraio 1162, sulle torri lesionate della città, la rossa croce del comune venne sostituita dalla bianca bandiera della resa! E dopo la sconfitta, l’umiliazione… … al primo di marzo i consoli cavalcarono alla volta di Lodi dove il Cesare li attendeva. Appiedati, le spade in pugno, gli giurarono servitù ed obbedienza. E tre giorni dopo, tutti i nobili e i grandi di Milano, in numero di trecento, vennero a spezzare le loro spade ai piedi del Cesare. Poi il podestà, mastro Guitelmo, in ginocchio gli offrì le chiavi di ferro della città. I trentasei stendardi delle contrade si inchinarono nella polvere. Superbo il sire, circondato dai suoi cavalieri, teneva lo sguardo fisso avanti a sè. E due giorni dopo, volle anche il popolo. Uscirono da tre porte i Milanesi, le corde al collo, i piedi nella polvere, le croci in mano. Li seguiva il Carroccio parato a guerra. Squillarono per l’ultima volta le trombe milanesi, la campana rintoccò per l’ultima volta ed il vessillo, il bel vessillo crociato di Milano, cadde nella polvere. L’imperatore ne calpestò i lembi. Ed il popolo in ginocchio, piangente, chiedeva pietà. Poi l’ordine imperiale: “Che i Milanesi atterrino le mura e le torri, affinchè l’esercito possa passare schierato a battaglia”. E così fu fatto. E dopo nove giorni di preghiere, un ordine nuovo: “Vadan disperse le genti di Milano: otto giorni concede l’imperatore per trarre a salvamento robe e masserizie; poi la città verrà distrutta, il sale seminato sulle rovine”. E così fu. Preghiere, pianti di donne e bambini, supplicare di vecchi e malati, nulla piegò il Barbarossa, nulla valse umiliarsi ancora alla bionda imperatrice. Convenne lasciare la città ai fanti di Como e Lodi che la diroccarono al suolo. Intanto i vincitori, nobili e fanti, saccheggiarono la città di quanto era prezioso, gli altari furono spogliati, le case private di ogni ricchezza. Ed il 31 marzo l’imperatore, cavalcando il bianco destriero di guerra, seminò lo sterile sale. Ed era il giorno di Pasqua! Tanta è l’importanza che Federico ammette a questa sua vittoria su Milano, che egli data ormai i suoi atti e le sue lettere “dalla distruzione di Milano”. (G. Gozzano)
La Lega Lombarda e la battaglia di Legnano Ma il Barbarossa non aveva potuto piegare l’animo di quei vinti. Il suo trionfo fu breve: le varie città dell’Italia settentrionale, anche quelle che avevano fino ad allora collaborato con l’imperatore, cominciarono a temere della loro futura sorte e in breve si stancarono dell’arroganza dei podestà imperiali. Dall’imperatore erano offese anche nei loro interessi economici: Venezia, ad esempio, che commerciava lungo le vie fluviali con l’Italia settentrionale, ed attraverso i valichi alpini con il centro dell’Europa, vedeva ora sbarrate queste vie dai nuovi prepotenti feudatari tedeschi creati dal Barbarossa. Perciò nel Veneto cominciò la resistenza: nel 1164 Venezia favorì la formazione di una Lega, detta Veronese, tra Verona, Padova e Vicenza. L’esempio fu di incitamento: tre anni dopo (1167) alcuni Comuni lombardi, insieme con esuli milanesi, nel monastero di Pontida, presso Bergamo, strinsero una lega anti-imperiale, detta Lega Lombarda, che si fuse con quella veronese. Gli odi e le gelosie municipali scomparvero di fronte al comune pericolo. Fu cominciata subito la ricostruzione di Milano. Il papa Alessandro III diede alla lega l’appoggio della sua alta autorità. Perciò la fortezza che i Comuni alleati fondarono in Piemonte, fra il Tanaro e la Bormida, per ragioni strategiche, fu chiamata Alessandria in onore del papa. Mentre fervevano questi preparativi, l’imperatore era sceso altre due volte in Italia, senza concludere nulla. Solo nel 1174 si decise a scendere con un grande esercito per schiantare le forze della Lega. Questa comprendeva allora 36 Comuni e molte Signorie feudali, e si estendeva per tutta la Pianura Padana. Posto invano l’assedio ad Alessandra, dopo sei mesi l’imperatore dovette ritirarsi per non essere a sua volta accerchiato dai nemici. Lo scontro decisivo avvenne a Legnano il 29 maggio 1176 e fu una splendida, decisiva vittoria per l’esercito della Lega.
Giuramento della Lega Lombarda Nel nome del Signore, amen. 1. Io giuro sui santi Vangeli di Dio che non farò pace ne tregua, ne guerra finta, ne altro accordo con l’imperatore Federico, ne con i figli e la moglie di lui, ne con altra persona in suo nome: e questo non farò io, ne per mezzo di altra persona, e se altri lo facessero non lo approverò. 2. Mi sforzerà in buona fede, secondo il mio potere, con tutte le mie forze, perchè nessun esercito piccolo o grande venga in Italia dalla Germania o da altra terra imperiale che sia oltremonti. E se detto esercito entrasse, io farò guerra attiva all’imperatore e a tutte le persone che sono o saranno del partito dell’imperatore, finchè il predetto esercito esca dall’Italia. 3. Ed io in buona fede e per mezzo di tutte le persone a me soggette salverò e custodirò le persone e le cose di tutti gli uomini della Lega della Lombardia, Marca e Romagna, e specie il marchese Obizzo Malaspina e tutte le persone che ora sono in detta Lega. 6. Tutti questi patti manterrò in buona fede, senza inganno per cinquanta anni continui, e tutto ciò che fosse aggiunto o tolto dal Consiglio dei Rettori della Lega: e lo farò giurare ai miei figli quando abbiano quattordici anni, entro due mesi dal compimento di questa età, e a quanti e quali dei miei piacerà ai Rettori. (C. Manaresi, dal testo latino in “Gli atti del Comune di Milano)
Il Carroccio, simbolo del Comune A Milano, che divenne Comune nel 1081 dopo un’aspra lotta contro i feudatari, venne creato quello che in seguito divenne il simbolo stesso della libertà comunale: il Carroccio. Questo era un carro tirato da bianchi buoi, sul quale era eretto un altare, un pennone con lo stendardo (il gonfalone) del Comune e una campana detta martinella. Il Carroccio seguiva i soldati fin sul campo di battaglia: nell’imminenza dello scontro un sacerdote celebrava la Messa, mentre quando la lotta era già iniziata un addetto suonava a distesa la martinella per incitare i combattenti. Il Carroccio aveva anche una funzione pratica. Attorno ad esso si raccoglievano le truppe di fanteria non appena la cavalleria nemica stava per sferrare una carica. Così raccolti attorno al carro, i fanti formavano una specie di invalicabile blocco di lance puntate, che era in grado di reggere l’urto dei cavalieri avversari, e di respingerlo. Il Carroccio, con il suo alto pennone sul quale sventolava il gonfalone, serviva anche come punto di riferimento ai soldati: anche nelle mischie più furibonde bastava levare gli occhi in alto per capire subito dove si trovavano i propri compagni. Perdere in battaglia il Carroccio era il più grave disonore per i cittadini del Comune: per questo ognuno era disposto a morire su di esso, piuttosto che lasciarlo conquistare dal nemico.
Lo stendardo de Carroccio Così Arnolfo, cronista milanese, descrive l’insegna del Carroccio: “Un’alta antenna, a guisa di albero di nave, era piantata sul Carroccio e si ergeva in alto portando in sulla cima un pomo aureo con due limbi di lino candido pendenti. In mezzo stava infissa la veneranda croce con dipinta l’immagine del Redentore, a braccia aperte rivolte verso le schiere, perchè qualunque fosse l’esito della battaglia, ognuno dei soldati, guardando quell’insegna, ne avessero conforto.”.
L’esercito imperiale e l’esercito dei Comuni Tra i due eserciti, quello dell’imperatore, composto di cavalieri, era il più numeroso e quello più pesantemente armato. Quello della Lega Lombarda, meno numeroso, era composto quasi esclusivamente di fanterie. Ma le fanterie dei Comuni non erano più le fanterie dell’epoca di Carlo Magno, composte di contadini armati di forconi. Erano fanterie di tipo nuovo. Quei fanti erano mercanti e artigiani ben forniti di denaro, che avevano avuto la possibilità di comprarsi un’armatura buone come quella dei cavalieri, e forse anche migliore, perchè nelle valli del bergamasco, proprio vicino a Milano, vi erano artigiani che costruivano le migliori armi d’Europa. I cavalieri del Barbarossa, coperti, loro e i loro cavalli, da molti chili di ferro, si muovevano non troppo facilmente ed erano abituati ad un tipo di combattimento tutto particolare: due schiere di cavalieri si scontravano frontalmente e raggiungeva la vittoria chi era più pesantemente armato e riusciva a disarcionare i suoi avversari. La fanteria lombarda aveva armature resistenti ma leggere, che permettevano una notevole facilità di movimenti. Era accompagnata da una certa quantità di cavalieri, che la sostenevano nei momenti più difficili della battaglia.
La battaglia di Legnano Da Como il Barbarossa con non più di duemila uomini si porta a Cairate; a Legnano le forze della Lega ascendono ad almeno cinquemila uomini. Tutti i quartieri di Milano risorta hanno i loro uomini e i loro stendardi. Al vento di maggio garriscono le bandiere: la rossa di Porta Romana, la bianca di Porta Ticinese, la balzana (bicolore) di Porta Vercellina, l’inquadrata di bianco e di rosso di Porta Comacina; Porta Nuova ha lo stendardo col leone bianco e minacciosa sventola fosca la bandiera nera di Porta Orientale. Il Carroccio coi bovi bianchi aggiogati porta in alto, sopra il castelletto, il legno ove era appesa la campana, il gonfalone del Comune con la grande croce rossa sul campo candidissimo del drappo. Intorno su trecento carri stanno le milizie popolane. Un esercito di uomini, di bandiere, di animi, che attende la sua ora. L’imperatore ordina l’assalto. La mischia si fa terribile e sanguinosa. Le ondate di cavalieri tedeschi si rinnovano. I Milanesi cedono e poi si riprendono, si sbandano e si radunano in alterna vicenda. Sul Carroccio la martinella suona a distesa, i trombettieri sotto il grandinar delle frecce lanciano il loro squillo. L’imperatore ha l’intuizione del pericolo mortale: è un soldato e non dimentica di esserlo: un nuovo assalto è comandato da lui, egli è in prima fila, alto, vicino al vessillifero che porta l’aquila dell’impero. La galoppata mortale si avventa ancora una volta contro i Milanesi che resistono; si vede nella mischia scomparire la bandiera dell’impero e poi anche l’imperatore non si vede più. I suoi si sgomentano. E’ la sconfitta; il panico prende le forze imperiali; fuggono i Pavesi e i Comaschi, fuggono i Tedeschi, lasciando dietro di loro il tesoro, i bagagli, i morti , i feriti. I Milanesi avanzano, raccolgono il bottino, inseguono per un poco i fuggitivi e poi li lasciano. Hanno vinto, hanno fretta di ritornare, di correre alla città che li attende a dir la grande, l’incredibile novella: l’imperatore è sconfitto, non lo si trova più, forse è morto in battaglia, il suo esercito è disperso, il ricco tesoro di guerra, lo scudo e la spada stessa del Barbarossa sono nelle mani dei Milanesi. (E. Momigliano)
Consuntivo della battaglia di Legnano Così riferirono i Milanesi a Bologna la battaglia di Legnano: “Non si poterono contare gli uccisi, gli annegati, i prigionieri. Lo scudo dell’imperatore, il suo vessillo, la croce e la lancia caddero nelle nostre mani. Fra i suoi bagagli abbiamo trovato molto oro e argento; nè crediamo che sia possibile fare una precisa stima del cospicuo bottino che abbiamo fatto. Durane la battaglia sono stati fatti prigionieri il duca Bertoldo, il fratello dell’arcivescovo di Colonia e lo stesso nipote dell’imperatore”.
Il Capitano della Compagnia della Morte Il comandante dei cavalieri della Compagnia della Morte fu Alberto, detto da Giussano perchè nativo di Giussano, paese che si trova vicino a Milano. Nelle cronache del tempo egli è anche indicato col nome di Alberigo,e soprannominato “il Gigante” per la sua alta statura. Capitanò una schiera di eroi che, prima di partire in battaglia contro il Barbarossa, giurarono sulla croce di morire piuttosto di cedere davanti al nemico. Infatti si dovette alla resistenza della Compagnia della Morte, al suo slancio audace e temerario, gran parte del merito di avere vinto a Legnano, il 29 maggio 1176, l’imperatore germanico, sgominando le sue truppe.
Papa Bonifacio VIII Bonifacio VIII (1294-1303) fu l’ultimo grande papa medioevale, ed in un mondo mutato tentò di riaffermare i diritti della chiesa, come ai tempi di Gregorio VII e di Innocenzo III. Ma, se per qualche tempo potè avere successo, non riuscì invece ad avere ragione della resistenza del Re di Francia, Filippo IV il Bello, che volle imporre nuove tasse sul clero francese. Il papa lo minacciò di scomunica ma il re di Francia inviò a Roma i suoi emissari, con a capo Guglielmo di Nogaret, che con l’appoggio della famiglia nobile dei Colonna, poterono impadronirsi dello stesso pontefice, ad Anagni, presso Roma, dove egli si trovava. Sembrava anzi che egli venisse allora oltraggiato dai suoi nemici, tanto che questo triste episodio passò alla storia col nome di “schiaffo di Anagni”. Ma il popolo insorse, liberò il papa, e lo ricondusse a Roma, dove morì un mese dopo.
Trasporto della sede papale ad Agignone Qualche tempo dopo il nuovo papa, francese, lasciò addirittura Roma e l’assenza del Papato dall’Italia durò circa settant’anni, dal 1305 al 1377. Essa si stabilì in Avignone, nel sud della Francia, in una zona che divenne possesso pontificio; ivi i papi furono protetti, o piuttosto, soggetti al re di Francia, anche se a più riprese tentarono di riconquistare la loro indipendenza. Ma il danno maggiore di quest’assenza del papa da Roma fu per l’Italia che si vedeva privata dell’onore di essere sede papale, e abbandonata allo scatenarsi di tutte le discordie intestine fra principi e città, fino allora tenute a freno, in assenza dell’imperatore, dal papa. Soprattutto in Roma e nello Stato della Chiesa si scatenò la più grande anarchia, e questi territori furono rattristati da una guerra continua. Finalmente, nel 1377, il papa Gregorio XI, cedendo alle preghiere e agli inviti che gli venivano da ogni parte d’Italia, e specialmente alle appassionate ed insistenti invocazioni di Santa Caterina da Siena, riportò a Roma la sede pontificia.
Leggenda Si narra che, per aver ragione della resistenza di Crema, il Barbarossa fece accostare alle mura della città una torre mobile sulla quale aveva legato alcuni giovinetti cremaschi, avuti in ostaggio. Ma i valorosi difensori non desistettero dal lanciare coi mangani le pietre contro la torre, gridando ai giovinetti: “Beati voi che morite per la patria!”.
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MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario di autori vari per bambini della scuola primaria.
I conventi Durante e dopo le incursioni dei Barbari, l’Italia offrì un ben triste spettacolo: rovine e stragi, i templi distrutti, i monumenti abbattuti, le opere l’arte e della letteratura abbandonate e neglette. Pareva che la vita non avesse più valore tanto erano ormai diventate realtà di tutti i giorni le morti, le stragi, le violenze. Questo stato di cose favorì lo sviluppo del cristianesimo. Più perdeva valore la vita terrena, più ne acquistava la vita eterna. Fu così che alcuni uomini si ritirarono in luoghi deserti, preferibilmente sulla sommità di alte montagne, per dedicarsi esclusivamente alla preghiera in solitudine. Questi uomini furono chiamati eremiti ed erano tenuti in grande considerazione. In seguito, questi religiosi si riunirono a far vita comune, dedicata esclusivamente a Dio e alle opere di bene. Sorsero così i conventi. Il convento più famoso, fondato in quell’epoca, fu quello di Cassino, sorto per opera di San Benedetto.
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – San Benedetto San Benedetto era nato a Norcia, paese dell’Umbria, da nobile famiglia. Fin da giovanetto aveva sentito l’attrazione per la vita eremitica e abbandonata la sua casa si era ritirato a vivere in una grotta, tra i monti di Subiaco e vi stette tre anni. La fama della sua santità si sparse dovunque e alcuni eremiti gli chiesero di far vita comune con lui. Sorse così un convento. Benedetto dettò la regola che fu però diversa dalle regole che governavano altri conventi. Infatti, mentre in questi si osservava soltanto l’obbligo della preghiera, a Montecassino i monaci dovevano anche lavorare. Anche il lavoro è preghiera, se dedicato a Dio. “Ora et labora” fu la regola dei monaci benedettini, i quali si dedicavano alle opere sia intellettuali che manuali. Chi si dedicava allo studio, alla salvaguardia dei vecchi codici e alla miniatura dei codici nuovi, chi zappava la terra, allevava le api, costruiva abitazioni. A causa dell’avvilimento a cui li avevano costretti le invasioni e le distruzioni dei barbari, gli uomini non pensavano più ai valori spirituali della vita, alle arti, alle belle scuole, alle opere letterarie scritte nelle età antiche, ai poemi, alle sculture. Fu per merito dei conventi e dei monaci in essi ospitati, se molte di queste opere furono salvate. I religiosi raccolsero gli antichi manoscritti, quando erano rovinati li ricopiarono pazientemente, li studiarono, li commentarono. Fu merito dei conventi se le opere di molti scrittori e poeti dell’antichità poterono giungere fino a noi. Ma l’opera dei monaci non si fermò qui. La miseria della popolazione era tanta e i conventi raccolsero i poveri, i derelitti, i perseguitati. Chiunque veniva accolto in un convento, centro di lavoro agricolo e artigiano oltre che di preghiera, era al sicuro dalla fame e dalle vendette dei nemici. Sorsero così nell’interno dei conventi ospedali, scuole, laboratori, opere di pietà e di assistenza. Tutti quelli che chiedevano asilo venivano accolti e confortati.
Notizie da ricordare Nel Medioevo si costituirono per la prima volta i conventi, luoghi dove si raccoglievano uomini votati esclusivamente a Dio. Il convento più famoso fu quello di Montecassino, fondato da San Benedetto. L’ordine benedettino aveva per regola il motto “ora et labora”, cioè prega e lavora. In questi conventi furono raccolti e restaurati preziosi libri manoscritti dell’antichità che furono così salvati dalla distruzione e dalla dispersione. Intorno ai conventi sorsero scuole, ospedali, laboratori, opere di pietà e di assistenza. Chiunque si rifugiava nel convento aveva diritto di asilo ed era al sicuro dalla vendetta dei nemici.
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – Questionario Come e perchè sorsero i conventi? Quali opere fecero i monaci? Perchè si dice che i conventi salvarono la cultura? Chi era San Benedetto? Quale regola dette ai monaci?
La vita nei conventi Ogni monastero, chiuso da un muro di cinta, era come una grande fattoria e provvedeva a tutti i suoi bisogni. Accanto alla chiesa e al convento vero e proprio, con le celle dei monaci e la cucina e il refettorio, c’era la biblioteca, in cui si conservavano i testi sacri e i manoscritti antiche che i monaci più colti, nelle ore dedicate allo studio, leggevano, commentavano oppure copiavano in bella scrittura sui grandi fogli lisci di pergamena. I fanciulli accanto a loro imparavano scrivendo con uno stilo aguzzo su tavolette cerate; la cartapecora era troppo rara e costosa, perchè mani inesperte la potessero scarabocchiare. Chi sapeva dipingere, ornava le pagine con miniature di bei colori vividi, che ritraevano il volto della Madonna, di Gesù, degli Angeli e degli Apostoli. Altri ragazzini imparavano a calcolare con i sassolini o si esercitavano a cantare le preghiere e gli inni in lode al Signore. Annesso al convento c’era il granaio, la cantina e il frantoio per estrarre l’olio dalle olive e i laboratori perchè i monaci provvedevano da sé a tutti i loro bisogni, dai sandali agli aratri, dalle vesti alle panche. L’acqua di un torrente, opportunamente incanalata, faceva girare la ruota del mulino; l’orto provvedeva gli ortaggi e i campi le messi. Chi entrava, raramente aveva bisogno di uscire se non per andare a far opera di bene, sia portando soccorsi, sia predicando. Gli ospiti che bussavano alla porta, erano ricevuti come Gesù in persona ed onorati in particolar modo se erano religiosi o pellegrini venuti da lontano. Quando ne era annunciato uno, il priore stesso gli andava incontro per il benvenuto e dopo una breve preghiera gli dava il bacio della pace e gli usava ogni cortesia. A mensa gli offriva l’acqua per le mani, come allora si usava sempre prima di mettersi a mangiare, dato che di posate si adoperava solo il cucchiaio e i cibi si prendevano con le dita. Dei poveri, in particolare, si doveva aver cura e anche ad essi si lavavano i piedi, come Gesù aveva fatto con i suoi apostoli. Vi erano nel convento celle pronte a dare asilo a chi domandava ospitalità, con letti sempre preparati. In quel tempo, ben pochi viaggiavano, perchè non si andava che a piedi e a cavallo, e le strade era scomode e malsicure, interrotte da frane o da alluvioni, e infestate da briganti. Non si trovavano alberghi per sostare la notte, poche erano anche le osterie in cui prender cibo e troppo spesso gli osti stessi erano ladroni che derubavano chi si fermava da loro. I conventi benedettini erano perciò asili sicuri a cui i pellegrini cercavano di giungere prima che cadessero le tenebre. La carità dei monaci li consolava dei disagi del viaggio ed essi si fermavano, talora, più di un giorno, prima di riprendere il cammino. Qualche volta non ripartivano più e chiedevano all’abate di accoglierli tra i suoi discepoli; nella luce del chiostro dimenticavano le bufere del mondo, dove sovrani si combattevano, popoli si strappavano l’un l’altro, con accanimento, i pochi beni della vita. (C. Lorenzoni)
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – Totila Tutti parlavano di San Benedetto, del grande monastero di Montecassino, della chiesa che vi era stata eretta e soprattutto parlavano del santo abate, che possedeva il dono della profezia e sapeva leggere nel cuore degli uomini solo guardandoli negli occhi.
Era in quel tempo re dei Goti, Totila, un barbaro valoroso ma rozzo, che combatteva strenuamente contro gli eserciti romani e seminava morte e distruzione ovunque passasse con le sue milizie; di religione era ariano e odiava i cattolici. Anche a re Totila però, era arrivata la voce che a Montecassino abitava un uomo prodigioso, a cui Dio rivelava il passato, il presente e il futuro e che compiva miracoli. E gli venne il desiderio di conoscere quest’uomo straordinario; perciò mandò al convento un suo messaggero a chiedere di essere ricevuto, e Benedetto rispose che sarebbe stato il benvenuto. Ma Totila, che credeva di essere astuto, volle allora tendere un tranello malizioso per vedere se fosse vero che il santo indovinava tutto. Fece chiamare un suo scudiero, di nome Rigo, gli fece indossare le sue vesti di re, gli diede la sua spada, il suo scettro, il suo cavallo e lo fece accompagnare dai tre baroni che lo seguivano sempre. Rigo doveva presentarsi al convento come fosse stato il re, e andare davanti a Benedetto che, non avendolo mai visto, non lo conosceva di persona. Così fu fatto. Il piccolo corteo fastoso salì alla cima del monte, bussò alla porta del monastero, entrò e fu introdotto nella sala del Capitolo dove l’abate aspettava. Ma Rigo non aveva ancora posato il piede sulla soglia che la voce di Benedetto lo arrestò: “Figliolo, metti giù codesti ornamenti che non sono i tuoi”. A queste parole, lo scudiero fu turbato tanto che cadde a terra, tremando in cuor suo per aver osato farsi beffe di quest’uomo di Dio; e si prostrarono a terra costernati anche i tre baroni e i paggi e i soldati del seguito. Quando poi Benedetto disse loro di alzarsi, non osarono avanzare fino a lui, ma ritornarono all’accampamento, pallidi e sgomenti, come mai era loro accaduto nella loro vita di guerrieri, avvezzi a sfidare la morte sul campo di battaglia. Rigo raccontò a Totila quanto era avvenuto e il re ebbe paura. Chi ha molti peccati sulla coscienza trema di tutto e il re goto sapeva di essersi macchiato di molte colpe in quegli anni di guerra spietata e crudele; se Benedetto sapeva tutto, doveva sapere anche questo, e al re pareva di non poter avere più requie se non andava da lui, non lo vedeva e non udiva la sua parola. E così un giorno si recò al monastero, non come un potente sovrano, ma come un penitente qualsiasi, e quando vide da lontano San Benedetto non osò più avanzare, ma si gettò a terra in atto di umile omaggio. E il Santo, che sapeva chi egli fosse, anche se non gli vedeva addosso le vesti regali, gli disse: “Alzati”. Egli, tutto tremante, non osava neppure levare il capo davanti a Benedetto, e allora il Santo si levò dalla sua sedia e lo fece alzare e lo fece sedere vicino a sè. Poi cominciò a parlargli con voce grave e volto accorato. “Perchè sei re e comandi un grande esercito, ti credi forse tutto permesso? Vi è qualcuno, su in cielo, che è ben più potente di te e che un giorno ti dovrà giudicare. Molti mali hai fatto e molti ne stai facendo ancora; se continui così perderai l’anima tua in eterno. Frena la tua iniquità, perchè non hai ancora una vita molto lunga davanti a te. Tu riuscirai a prendere Roma e dopo passerai il mare; ma Dio ti ha concesso solo nove anni di regno; il decimo morrai”. Così profetizzò Benedetto a re Totila, e re Totila, di cui tutti avevano paura, lo ascoltava sgomento e, dopo avergli chiesto di pregare con lui, se ne tornò molto turbato al suo accampamento. Si dice che da quel giorno egli fosse meno crudele. Certo, le profezie di Benedetto si avverarono tutte: Totila di lì a qualche tempo assediò Roma e la prese, poi passò in Sicilia; ma al decimo anno di regno combattendo in battaglia contro un nuovo generale che l’imperatore d’Oriente aveva mandato in Italia, perdeva la vita. (C. Lorenzoni)
MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – San Benedetto San Benedetto fondò un ordine fra i più importanti della Chiesa. Il suo motto era: prega e lavora. Egli amò Dio non solo con la preghiera, ma anche con il lavoro. Infatti lavorare serenamente per amare Dio e per fare del bene al prossimo è come pregare. Il convento di San Benedetto si scorgeva lontano, col muro rosso e il melograno verde sulla soglia. Vi andavano le rondini a volo ed i poveri col passo stanco: per le une c’era una gronda, per gli altri, sempre, un tozzo di pane. Un anno, che ghignava la carestia e neppure la malerba attecchiva nei campi, i bisognosi aumentarono a dismisura; una fila lunga di cenci, di sospiri, su per il colle, all’uscio del convento. “Una crosta di pane, per carità!” “Una tazza di olio, in nome di Dio!” Regala oggi, largheggia domani gli orcioli dell’olio mostrarono presto il fondo: tutti, meno uno, piccolino, lasciato in disparte per condire le fave dei frati. E, quel giorno, il padre guardiano rimandò a mani vuote un vecchietto che era venuto con la sua ciotola. Quando il santo lo seppe, disse parole di rimprovero, scese in dispensa e ruppe l’orciolo prezioso: l’olio si sparse, lento, tra le anfore vuote. E quelle, appena toccate, si riempirono fino all’orlo del buon alimento. I frati gridarono al miracolo ed uscirono di cella a lodare il Signore: fuori, le rondini volavano ai nidi e il volto dei poveri aveva, nel sole, una ruga di meno.
Il monachesimo Le invasioni, la fame, le pestilenze, le continue guerre, avevano distrutto la vita civile in tutta l’Europa: nei villaggi spopolati non c’era più chi tramandasse ai superstiti l’arte di coltivare i campi o di costruire una casa; gli uomini vivevano a stento senza speranze per il futuro. Per trovare forza e conforto nella loro fede, alcuni uomini si ritiravano in solitudine nelle terre d’Oriente e vivevano in preghiera e meditazione: erano gli eremiti. In Occidente, e proprio in Italia, le cose andarono diversamente. Nell’anno 480 nacque a Norcia, in Umbria, un bambino di nobile famiglia. Si chiamava Benedetto e, ancora ragazzo, sentì dentro di sé una forte vocazione religiosa. Benedetto si ritirò in una grotta poco lontana da Subiaco, dove i boschi sono fitti e dove corrono le acque del fiume Aniene. In questa grotta trascorse alcuni anni; un po’ alla volta, la fama della sua santità corse per l’Italia. Vennero allora a Subiaco altri uomini stanchi e disperati, che volevano affidarsi a dio come Benedetto. Il santo, però, aveva capito che gli uomini del suo tempo non dovevano essere aiutati solo con le preghiere: era necessario guidarli con l’esempio e insegnare loro nuovamente a lavorare perchè i campi rifiorissero e le tecniche rendessero più facile la vita. San Benedetto uscì così dalla caverna di Subiaco e fondò dodici monasteri nella valle del fiume Aniene; poi fondò il monastero più famoso, quello di Montecassino. Qui preparò la Regola, cioè le leggi alle quali avrebbero dovuto obbedire i suoi monaci. La Regola si può riassumere in due parole: prega e lavora. Con la preghiera, infatti, il monaco invocava dio e ne riceveva la forza per non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà; con il lavoro, aiutava il prossimo a costruire una nuova società, rifacendosi alle esperienze e alle conquiste tecniche degli antichi. A voi forse sembra impossibile, ma la gente che viveva all’epoca di San Benedetto aveva proprio dimenticato quasi tutti i mestieri. Non sapevano più cosa fosse un aratro, né come si costruisse una strada o si alzasse un solido muro! Furono i monaci a raccogliere, a perfezionare e ad insegnare tutte le tecniche. San Benedetto aveva raccomandato ai suoi seguaci di portare una roncola appesa alla cintura, tutti così capivano che i benedettini erano sempre pronti a lottare contro la natura selvaggia per aprire un sentiero nelle boscaglie o per liberare un campo coltivabile. Il monaco Teodulfo insegnò tanto bene ai contadini del suo paese a lavorare la terra che, alla sua morte, il popolo pretese di appendere in chiesa il suo aratro. E fu proprio San Mauro a diffondere di nuovo l’uso dell’erpice e dell’aratro con il vomere di ferro. Per secoli, i monaci furono veri coloni agricoli; seguendo il loro esempio, i proprietari terrieri ricominciarono a liberare la buona terra dalle macchie e dai rovi, e cercarono di prosciugare le paludi. I monaci fondarono anche ospedali, aprirono ospizi e scuole, mentre nei loro magazzini si ammassavano le provviste per i tempi difficili. Inoltre, fecero rifiorire lo studio e, copiando e ricopiando gli antichi manoscritti, conservarono le opere degli antichi sapienti, latini e greci. Nei primi tempi i monasteri erano piccoli, con una chiesetta, pochi monaci e un pugno di terra da lavorare. Poi la comunità aumentò e intorno al monastero sorsero i villaggi, mentre le zone montane ridiventavano verdi per il rimboschimento. Fu merito dei monaci se molte popolazioni poterono superare carestie ed epidemie, perchè i magazzini delle abbazie venivano sempre aperte per distribuire sementi ed attrezzi agricoli. Fu merito dei monaci se tante famiglie sfuggirono alla morte durante le guerre e le invasioni, perchè gli indifesi potevano rifugiarsi nell’interno dell’abbazia al primo allarme. I monaci furono anche esploratori e viaggiarono molto nel nord Europa.
Visita a un monastero di san Benedetto Bussiamo, e il monaco portinaio ci apre dicendo: “Sia lodato Gesù Cristo”. Entriamo nel chiostro. In mezzo è il pozzo. Sotto le arcate si aprono le porte dei vari magazzini, perchè il monastero è una specie di fattoria. I monaci lavorano la terra, scavano canali d’acqua, fanno le bonifiche, e i loro raccolti sono abbondanti. Hanno stalle di buoi; il mulino, il frantoio delle olive, la cantina. Hanno officine. E infine una bella e luminosa biblioteca. Quanti libri! Sono stati salvati dai barbari che li volevano bruciare. E che cosa fanno tutti questi monaci curvi sui tavolini, con una penna d’oca in mano? Ricopiano pazientemente antichi volumi latini e greci, su pezzi di pelle di pecora, detta appunto cartapecora. Così, mentre i barbari devastavano le campagne, i monaci benedettini coltivano; mentre i barbari distruggono i libri, i monaci benedettini li salvano e li ricopiano. Se la civiltà non andrà perduta, si deve a questi uomini vestiti di bianco, chiusi in questi monasteri, che sono come nidi di pace in messo a un mondo pieno di strepiti d’armi (P. Bargellini)
San Benedetto Nacque a Norcia, nell’Umbria, nell’anno 480. Dopo qualche tempo, la sua infanzia fu rallegrata dalla nascita di una sorellina: Scolastica. Fratello e sorella crebbero buoni, amandosi teneramente fra loro. San Benedetto studiò a Roma, ma ben presto, stanco della città rumorosa e delle frivole compagnie, ottenne dal padre di ritirarsi a vivere in campagna. Nella quiete serena dei campi continuò a studiare; alternando lo studio ad una costante e fervida preghiera. Secondo la leggenda, un giorno avvenne che alla sua fedele nutrice si rompesse una pregevole anfora avuta in prestito. La disperazione della donna indusse il giovane padrone a prendere i pezzi del vaso e a rimetterli insieme; dopo una breve preghiera, ecco l’anfora ritornata come nuova. Fu il suo primo miracolo. La fama di santità che gli fu attribuita, dopo questo fatto, lo sgomentò: fuggì e trovò rifugio in una grotta presso Subiaco. Qui rimase tre anni, finché si decise ad accogliere, presso d sé, alcuni giovani che erano accorsi a lui, per condividerne la vita di sacrificio e di preghiera. Istituì così la prima regola di quello che sarà poi il grande ordine dei Benedettini. A Subiaco venne anche la sorella Scolastica, che vicina ai conventi del fratello fondò un eremo femminile. Dopo qualche anno entrambi lasciarono questo luogo e, giunti in Campania, al piè di un monte erto e boscoso di fermarono. Lì cominciò la costruzione della famosa abbazia di Montecassino; poco distante, nella vallata, santa Scolastica fondò un convento ove accolse le nuove sorelle. Una volta l’anno fratello e sorella si incontravano e trascorrevano la giornata conversando.
Torna il benessere attorno ai monasteri San Benedetto morì nel 543. Ma pochi anni dopo la sua morte i monasteri benedettini erano già diffusi in tutta l’Europa, fino in Gallia, in Germania, nella lontana Britannia. Esteriormente il monastero si presentava come una fortezza: alto su un colle, protetto di spesse muraglie e da robustissimi portoni. Tutt’intorno si era sviluppato un villaggio, costruito dai contadini e dagli artigiani, che avevano abbandonato le loro terre devastate dai barbari, per cercare rifugio all’ombra del monastero. In caso di attacco, infatti, gli abitanti del villaggio si ritiravano nel monastero finché la minaccia non si fosse allontanata. Oltre che a diffondere sempre più la religione cristiana, e ad insegnare a tutti ad apprezzare la cultura e il sapere, i monasteri divennero anche grandi propulsori di un rinnovamento civile ed economico. I monaci, infatti, bonificarono paludi, costruirono strade, restaurarono ed edificarono palazzi, fondarono scuole e ospedali. Le paludi bonificate si trasformarono in rigogliose campagne. Sulle nuove strade tornarono mercanti e viaggiatori, che trovavano rifugio per la notte nella foresteria, istituita presso ogni monastero. I monaci diedero poi vita a vere e proprie scuole artigianali, per far apprendere ai giovani le varie tecniche di lavoro, che erano state trascurate e quasi dimenticate nei terribili anni delle invasioni barbariche. Molto spesso, infine, il monastero e il villaggio che si era formato attorno ad esso acquistarono un notevole peso politico. All’Abate (padre, cioè il rettore della comunità) vennero riconosciuti privilegi, immunità e diritti, come quelli di amministrare la giustizia o di imporre e di riscuotere le tasse. Grandemente accresciuti durante il Feudalesimo, questi privilegi durarono fino alle soglie dell’età contemporanea.
La regola d’oro: prega e lavora Per disciplinare la vita della comunità, San Benedetto aveva dettato una regola. Essa si riassume tutta in due parole: prega e lavora (ora et labora). Il medesimo concetto era ripetuto anche nello stemma del monastero, che rappresentava la croce e un aratro. Benedetto credeva che la preghiera e il lavoro fossero i due doveri fondamentali del vero cristiano. I monaci dovevano quindi pregare e adorare Dio con tutte le loro forze. Ma nello stesso tempo avevano l’obbligo di lavorare per aiutare materialmente la comunità e tutti coloro che avevano bisogno: era questo un modo concreto di amare il prossimo. Il lavoro dei monaci era tanto intellettuale quanto manuale. Due ore al giorno venivano dedicate allo studio: ogni monaco doveva essere capace di leggere e scrivere. Altre sette ore erano poi dedicate al lavoro manuale. Ognuno aveva la propria attività: chi lavorava i campi, chi costruiva nuovi edifici o riparava quelli già esistenti, chi faceva da mangiare, chi fabbricava le scarpe, i vestiti, gli strumenti di lavoro per i confratelli e per i contadini che intanto cominciavano a raccogliersi attorno al monastero. C’erano poi i monaci scultori, i pittori, gli insegnanti, che facevano apprendere a chiunque lo desiderasse tutta la loro scienza. Infine c’erano i monaci amanuensi, che ricopiavano su grandi fogli di carta-pecora le grandi opere dell’antichità adornandone le pagine con deliziose miniature. Il lavoro di questi pazienti amanuensi ottenne un duplice effetto: salvò dalla scomparsa i capolavori antiche e lasciò a noi dei nuovi capolavori nell’arte della miniatura.
Il lavoro giornaliero L’ozio è nemico dell’anima. Per questo i confratelli devono occupare certe ore della giornata col lavoro manuale e in altre ore devono dedicarsi alla lettura sacra. Al mattino, lavorino dall’ora prima all’ora quarta (6-10) in ciò che è necessario. Dalla ora quarta alla sesta (10-12) si dedichino alla lettura. Dopo l’ora sesta, alzandosi da tavola, riposino nei loro letti. Se qualcuno invece vuol leggere, legga pure, purché non disturbi gli altri. Si faccia questo fino all’ora ottava (14) che è l’ora della preghiera. Poi si lavori di nuovo fino a sera. Il lavoro sia però proporzionato alle forze di ciascuno. I fratelli is servano l’un l’altro e nessuno sia dispensato dal servizio di cucina, se non per malattia o per occupazione da cui si ricavi maggior merito o carità. (Dall’articolo 48 della Regola)
La vita in un monastero benedettino Come si svolge la vita quotidiana in monastero benedettino? Alle tre di notte la campanella del monastero già suona la sveglia. I monaci lasciano il duro letto di tavole, su cui hanno dormito per poche ore, e in fila si recano in chiesa. Qui recitano per tre ore il “mattutino”, cioè le preghiere del mattino. Indossano un saio interamente bianco, chiamato l’abito di coro. Prima di iniziare il faticoso lavoro della giornata, ogni monaco si ritira nella sua celletta e si dedica soprattutto alla lettura dei libri sacri. Nella celletta vi sono umili arredi: un lettuccio, un attaccapanni, una acquasantiera e un armadietto, sufficiente per sistemare le pochissime cose di cui un monaco può disporre. Alle undici i monaci si riuniscono nel refettorio, dove consumano un frugalissimo pasto. Le pietanze sono sempre le stesse: un piatto di legumi, un pezzetto di formaggio, patate e frutta. Durante il periodo della Quaresima, che per i monaci dura alcuni mesi, essi si cibano soltanto di pane, acqua e frutta. Per sette ore al giorno i monaci sono impegnati in lavori manuali. Ciascuno di essi, secondo le proprie capacità, ha una mansione da compiere. Pur di fare bene al prossimo essi si sottopongono volentieri ai lavori più faticosi. Si presenta la necessità di costruire un ospedale o una scuola? Ecco che i monaci si trasformano in muratori e in falegnami. Le invasioni straniere riducono in miseria intere popolazioni? Ecco i monaci pronti a lavorare la terra e a distribuirne i prodotti ai più bisognosi. Oltre a ciò, i monaci raccolgono, istruiscono ed educano i bambini rimasti privi di assistenza. Al calare del sole infine, i monaci hanno già concluso la loro giornata di preghiera e di lavoro. Li attendono allora la squallida celletta ed il duro letto, sul quale si coricano vestiti dell’abito di coro. Ogni giorno si ripete la stessa vita di sacrificio, che i buoni monaci accettano per onorare dio ed aiutare il prossimo.
Come si entrava nell’Ordine di San Benedetto Prima di San Benedetto coloro che entravano in un monastero non facevano voto alcuno. Benedetto pensò che l’aspirante doveva invece seguire un noviziato e apprendere così, per esperienza diretta, le difficoltà della vita monacale. Solo dopo tale prova il novizio, se ancora lo desiderava, poteva prendere i voti. Con questi si impegnava allora, per iscritto, “a stare per sempre nel monastero, a obbedire e a riformare il suo carattere”, e il voto, firmato alla presenza di testimoni, doveva essere deposto sull’altare dallo stesso novizio, in rito solenne. Da questo momento il monaco non poteva abbandonare il monastero senza il consenso dell’abate. L’abate era scelto dalla comunità ed era tenuto a consultarla nelle cose di importanza; ma la decisione finale spettava a lui solo e gli altri dovevano obbedire in silenzio e in umiltà. I monaci dovevano parlare solo se necessario, non dovevano scherzare o ridere ad alta voce, dovevano camminare con gli occhi fissi a terra. Non si poteva tenere in proprietà privata “né un libro, né le tavolette (per scrivere), né una penna, niente del tutto”. Ogni cosa era di proprietà comune. Era ignorata e dimenticata la condizione precedente al suo ingresso al monastero; fosse stato libero o schiavo, ricco o povero, poco importava; ora era uguale a ogni altro. (W. Durant)
Recita: In un monastero benedettino Personaggi: l’abate, un ospite del monastero col proprio figlioletto Basilio, Paolo (fanciullo del monastero). Ospite: Vengo da lontano. I soldati longobardi hanno fatto un’irruzione nelle mie terre. Hanno calpestato le seminagioni, distrutto le piantagioni, annullato in poche ore i lavori che erano costati sudore e fatica immensi. Presi dalla paura, i coloni sono fuggiti, abbandonando le campagne. Con quello che m’era rimasto e con mio figlio, mi sono messo in viaggio per raggiungere la terra di alcuni miei parenti. Ma anche lungo il cammino ho incontrato soldati barbari che mi hanno tolto quel poco che avevo, gente che mi ha negato ospitalità… Solo qui mi è parso di trovare un piccolo paradiso. Voi monaci mi siete venuti incontro e mi avete abbracciato. Fra voi ho finalmente risentito una voce amica. Abate: Fratello, io sono l’abate del monastero. Per noi, l’ospite, il pellegrino, l’infermo, il perseguitato, devono essere ricevuti come fossero Gesù Cristo. Anche questo è nella Regola lasciataci dal fondatore del nostro Ordine, San Benedetto. (Passa vicino un fanciullo) Ospite: (meravigliato) Avete anche fanciulli? Abate: Sì, abbiamo anche fanciulli. Quello è Paolo, figlio di un patrizio che lo ha affidato a noi per la sua educazione. Paolo, vieni qui. Paolo: Eccomi, padre. Abate: (rivolto all’ospite) Fratello, vieni. Ti mostrerò le stanze destinate agli ospiti. Lasciamo che i fanciulli parlino fra loro. Paolo: Come ti chiami? Basilio: Mi chiamo Basilio. Paolo: Anche il tuo è il nome di un santo. Basilio: Come sei istruito! Qui forse i fanciulli imparano a leggere e a scrivere? Paolo: Sicuro, piccolo fratello. I monaci hanno un vero amore per la cultura. Se tu rimanessi qui, ti farei vedere quanti libri esistono nel monastero! I monaci non vogliono che essi vadano distrutti, perchè se no sparirebbe il meglio dell’umanità. Per questo vanno alla ricerca di libri dappertutto. Basilio: Anche in terre lontane? Paolo: Anche lontanissime. Anche a costo di enormi sacrifici. Ma tu vedessi che gioia, quando possono tornare al monastero, come le api all’alveare, portando con sé qualche prezioso codice! Basilio: E allora? Paolo: Allora, mio piccolo fratello, ci sono i frati amanuensi che ricopiano questi codici e ne fanno parecchie copie, in modo che i frati possano tutti leggere e studiare. Basilio: E’ meraviglioso. E voi, fanciulli, come fate a studiare? Leggete anche voi su quei libri? Paolo: Oh, no. Dapprincipio no. Ci sono libri apposta per noi. Basilio: E dove li trovano i frati? Paolo: Li scrivono loro stessi. Basilio: Quanto lavoro! Paolo: E’ vero. Ma tu saprai già che la Regola benedettina poggia proprio sul motto “prega e lavora”. La preghiera è il fondamento, ma subito dopo c’è il lavoro. La maggior parte dei monaci, si intende, si dedica al lavoro manuale. Lo stesso monastero è stato costruito e via via ampliato dai monaci. Essi, dando l’esempio, vangano, zappano, arano, piantano, tagliano legna, macinano grano, e così via. (R. Botticelli)
La Chiesa nell’epoca barbarica I barbari portano lo sfacelo: tutta la civiltà romana crolla sotto il loro dominio crudele e incapace di respirare l’aria densa di storia del grande impero abbattuto. Templi, opere d’arte, intere città sono dati alle fiamme; biblioteche intere vengono distrutte; sembra che debba calare il buio della preistoria sul mondo in rovina. Ma sulle macerie del mondo romano sorge il cristianesimo, che svolge così la funzione di baluardo della civiltà. Osserva lo storico francese Taine che per ben 500 anni la chiesa salvò quanto ancora c’era da salvare della cultura umana. Essa affrontai barbari e li doma. Davanti al vescovo in cappa dorata, davanti al monaco vestito di pelli, il Germanico convertito ha paura: quanto aveva intuito sulla giustizia divina, dettata dalla nuova fede e che si mescolava nel suo istinto religioso, risvegliava in lui terrori superstiziosi che nessuna altra forza avrebbe potuto suscitare. Così, prima di violare un santuario si domanda se non cadrà sulla soglia folgorato dall’ira divina. Si ferma, risparmia il villaggio, la città che vive sotto la tutela di un sacerdote. D’altronde, a lato dei capi barbari siedono vescovi e monaci nelle assemblee: sono i soli che sanno scrivere e parlare. Segretari, consiglieri, teologi partecipano agli editti, mettono le mani nelle cose di governo, si danno da fare per metter ordine nel grande disordine, per rendere più razionale e umana la legge, per ristabilire e conservare l’istruzione, la giustizia, il patrimonio privato. Nelle chiese e nei conventi si conservano le antiche conquiste dell’umanità: la lingua latina, la letteratura, la dottrina cristiana, le scienze, l’architettura, la scultura, la pittura, le arti e le industrie più utili, che danno all’uomo di che vivere, di che coprirsi e dove abitare; e soprattutto la migliore di tutte le conquiste umane e la più contraria al temperamento del barbaro nomade: l’abitudine e il gusto del lavoro.
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I BARBARI materiale didattico vario e dettati ortografici di autori vari per la scuola primaria.
Decadenza dell’Impero romano L’impero romano sembrava ancora grande; in realtà non lo era più. Gli Imperatori che si succedevano, elevati al potere da truppe indisciplinate, non erano più gli strenui difensori e restauratori della potenza di Roma; erano deboli, crudeli, con un potere effimero. La nobiltà era corrotta, le frequenti guerre avevano impoverito le popolazioni; i piccoli agricoltori, esauriti e impoveriti per la lunga permanenza sotto le armi, lasciavano i loro campi, insufficienti a sfamarli, e si rifugiavano in città, oziosi e turbolenti, oppure diventavano servi dei ricchi. Gli schiavi, che col propagarsi della religione cattolica era diventati quasi tutti cristiani, pensavano al premio riservato in cielo agli umili e, pur restando ottimi servitori, non si curavano molto delle cose del mondo. Tutto l’insieme sociale e politico dell’impero si andava sfasciando sia dall’interno, che nelle lontane province e ai confini.
Gli stranieri Alle frontiere non c’erano più difese valide perchè i soldati delle legioni romane erano pagati per la loro opera e perciò facevano la guerra come un mestiere. Spesso, poi, si trattava addirittura di truppe straniere che non pensavano che alla paga e al bottino. Non solo, ma spesso queste truppe straniere erano consanguinee di quelle che premevano alla frontiera e quindi il loro spirito combattivo era assai scarso. Tutti i popoli forestieri, dai Romani erano chiamati Barbari perchè i Romani si ritenevano il popolo più civile di quel tempo. Effettivamente i popoli che furoreggiavano alle frontiere dell’Italia, erano veramente incivili e selvaggi. Vestivano di pelli, preferivano razziare ignorando il lavoro dei campi, non conoscevano le arti, la cultura, avevano barba e capelli incolti, erano rozzi, brutali, e dove passavano portavano rovina e morte. Alcune di queste tribù ebbero dai Romani il permesso di stabilirsi entro i confini dell’Impero, e poichè erano gravate di tasse, presero l’abitudine di andare a protestare a Roma. Ebbero, così, modo di vedere le fertili pianure, le ricche città dell’Impero e di constatare che non esisteva più l’antica forza che aveva permesso ai Romani di conquistare quasi tutto il mondo conosciuto. Per questi motivi, Roma era diventata una residenza poco comoda per gli Imperatori e fu per questo che Costantino, che regnò dal 307 al 337, decise di trasferirsi in un’altra capitale e scelse Bisanzio, passaggio obbligato per il commercio tra l’Asia e l’Europa. Prima di morire Costantino aveva diviso l’impero fra i suoi figli allo scopo di renderne più facile l’amministrazione. Al figlio Costantino assegnò la Gallia, a Costanzo l’Asia e l’Egitto, a Costante l’Italia, l’Africa e l’Illirico e le altre regioni ad altri suoi discendenti. Fu in questo periodo che si intensificarono le incursioni dei Barbari che, approfittando delle condizioni di debolezza dell’Impero, passarono le frontiere e invasero i territori.
Come vivevano i barbari Non avevano leggi fisse, e obbedivano ciecamente a un capo. Non avevano arte, non letteratura, non agricoltura. Vivevano di rapina e di guerra. Portavano lunghi capelli, barba e baffi. In capo trofei di fiere uccise, indosso vestiti di pelli e uno strano indumento sconosciuto ai Romani: i calzoni. Poichè venivano da paesi freddi, essi usavano ripararsi le gambe con tubi di stoffa spesso tenuti stretti con legacci. Dove passavano, distruggevano. Tagliavano alberi da frutta, viti e olivi per fare fuoco; abbattevano monumenti e cuocevano le statue di marmo per farne calcina; bruciavano le biblioteche con libri di carta arrotolata e detti appunto volumi. Mangiare, bere, rubare. Non conoscevano altro. E ammazzare, bevendo magari il sangue dell’avversario fatto di crani umani. Questi erano gli uomini che l’Impero romano si trovò contro e che la Chiesa dovette domare. (P. Bargellini)
I barbari
L’Impero Romano d’Oriente ebbe una vita lunga e senza gloria. L’Impero Romano d’Occidente, invece, crollò quasi all’improvviso. Le cause che favorirono la sua fine furono molte; innanzitutto l’estensione. Una linea di confine interminabile doveva essere difesa in tutta la sua lunghezza da legiooni di soldati, da torri di vedetta, fortezze, trincee. I Romani erano sempre stati considerati i migliori soldati del mondo; ora, il lusso e le ricchezze facevano loro disdegnare il servizio delle armi; preferivano occuparsi degli affari o divertirsi agli spettacoli del circo. Sorse così la necessità di arruolare soldati tra i popoli vinti, tra gli stranieri abitanti oltre i confini dell’Impero; ma occorreva pagare queste truppe a caro prezzo e non sempre esse erano fedeli e disposte a morire nel nome di Roma. I Romani erano stati anche ottimi contadini, affezionati alla loro terra ed al loro aratro. Poco alla volta avevano perso l’amore all’agricoltura e avevano abbandonato il lavoro dei campi affidandolo a schiavi e a liberti, gente senza scrupoli che portava le campagne in rovina. Lo Stato romano, sempre più avido di denaro, gravava di nuove tasse i cittadini e sovente erano i meno ricchi a sopportarne il peso maggiore. Furono queste le cause principali dell’indebolimento dell’Impero che, quando i popoli barbari si affacciarono minacciosi ai suoi confini, non seppe più opporre una valida resistenza. Chi erano i barbari? Erano popoli che abitavano nel Nord Europa, lungo i grandi fiumi come il Reno, il Danubio, la Vistola. Erano venuti da molto lontano ed erano giunti in Europa con marce faticose, portando sui carri le donne, i vecchi e i bambini, e trascinando con sè gli armenti. Benchè vinti più volte dai generali romani, erano diventati così forti che nessuno poteva fermarne l’impeto. Il loro nome incuteva terrore. I barbari vivevano di caccia e di pastorizia, usavano armi di ferro e di bronzo, si coprivano con pelli animali, non avevano leggi scritte e per fare la guerra eleggevano un capo che guidava gli eserciti in battaglia. Non portavano alcun rispetto per il nemico vinto e consideravano sacra la vendetta. Quando capirono che l’Impero romano si stava sfaldando, varcarono i confini ed occuparono le terre più fertili.
I Visigoti
I Visigoti, un popolo germanico, vennero in Italia guidati dal re Alarico. Dal lontano Oriente giunsero fino alle porte di Roma, dove i cittadini si fecero loro incontro offrendo oro perchè non distruggessero la città. Il feroce re accettò l’oro e si accampò nei dintorni, ma alla fine saccheggiò ugualmente Roma (410). Poi si diresse verso sud con l’intenzione di passare in Africa. Giunto in Calabria, Alarico morì improvvisamente; i suoi soldati ne seppellirono il corpo nel letto del fiume Busento, presso Cosenza, e lasciarono l’Italia.
Gli Unni
Gli Unni, provenienti dall’Asia, giunsero in Italia guidati da un terribile re, Attila, che fu chiamato “il flagello di dio”. Questi barbari vivevano in maniera del tutto primitiva: si cibavano di carni ammorbidite sotto la sella dei loro cavalli; avevano capelli lunghi che nascondevano il viso giallo dagli occhi piccoli e dagli zigomi sporgenti. Essi passarono le Alpi e, saccheggiando, si sparsero per la Pianura Padana. Incontro ad Attila mosse allora il papa Leone I che persuase il re barbaro a lasciare l’Italia.
Ritratti di Attila Figura deforme, carnagione olivastra, testa grossa, naso sottile, piccoli occhi affossati, pochi peli al mento, capelli brizzolati, corporatura tozza e nerboruta, fiero il portamento e lo sguardo, come un uomo che si senta superiore a quelli che lo circondano. Sua vita era la guerra. “La stella cade” diceva, “la terra trema, io sono il martello del mondo e più non cresce l’erba dove il mio cavallo ha posto il piede”. Avendolo un eremita chiamato “flagello di Dio”, adottò questo titolo come un augurio, e convinse i popoli che lo meritava. (C. Cantù)
I Visigoti, i Vandali, gli Unni Settantatre anni dopo la morte di Costantino i Visigoti comandati dal loro re Alarico, attraversarono l’Italia e arrivarono a saccheggiare Roma. Anche i Vandali, altro popolo barbaro che aveva invaso le regioni confinanti con l’Italia, passarono le frontiere distruggendo tutto ciò che incontravano sul loro cammino. Abbattevano templi, opere d’arte, tagliavano alberi, incendiavano case, biblioteche, fondevano l’oro e l’argento delle statue, e la loro opera di distruzione causò tanto spavento e tanta rovina che ancor oggi si dà il nome di vandalo a colui che distrugge per il piacere di distruggere. Dopo i Vandali, scesero in Italia gli Unni, comandati dal loro feroce re Attila. Ovunque Attila passava, portava la distruzione e la rovina. Fu chiamato per questo “flagello di dio”. Egli stesso diceva: “Dove posa lo zoccolo il mio cavallo non cresce più l’erba”. Attila si diresse verso Roma col proposito di distruggerla, ma mentre avanzava con le sue schiere, incontrò il papa Leone I (che doveva essere poi chiamato Leone Magno), andatogli incontro per tentare di fermarlo. Attila, che non aveva paura di nessuno, davanti a quel vecchio solenne che gli veniva incontro armato soltanto della croce, si intimorì e cadde in ginocchio davanti a lui. Dette poi ordine ai suoi soldati di abbandonare quel luogo e poco dopo lasciava l’Italia.
Fine dell’Impero romano d’Occidente Dopo gli Unni, calarono in Italia gli Eruli, comandati dal loro re Odoacre. Sul trono di Roma sedeva in quel tempo un fanciullo chiamato in senso dispregiativo Romolo Augustolo. Odoacre potè facilmente deporlo, mettendosi a governare in sua vece. Ciò accadeva nell’anno 476 dC e, dopo questa data, nessun altro imperatore romano venne eletto. Quest’epoca si ricorda quindi come la fine dell’Impero romano d’Occidente e Romolo Augustolo fu l’ultimo imperatore romano.
Comincia così la nuova epoca, detta Medioevo, che dal 476 dC arriva fino al 1492, anno della scoperta dell’America. Per dieci anni Odoacre governò indisturbato ma, nel frattempo, un altro popolo barbaro scendeva in Italia. Si trattava degli Ostrogoti con a capo Teodorico, che sconfisse Odoacre e governò l’Italia. Teodorico si era fermato a Verona che aveva eletto a sua capitale e nei primi anni del suo regno fu uomo giusto ed equilibrato, ma invecchiando divenne crudele e sospettoso tanto da mettere a morte anche i suoi più cari amici, tra cui il filosofo Boezio. Narra la leggenda che un giorno, mentre Teodorico prendeva un bagno nel fiume, apparve un cavallo nero e scalpitante. Teodorico gli salì in groppa e il cavallo lo portò a furibondo galoppo attraverso tutta l’Italia fino in Sicilia. Giunto sull’Etna (o secondo altra versione sul vulcano Lipari) il cavallo si impennò scaraventando il vecchio imperatore nel cratere fiammeggiante.
I Longobardi Sul trono di Oriente sedeva intanto Giustiniano, il quale riuscì a cacciare i Goti dall’Italia. Morto Giustiniano, i suoi successori non seppero mantenere il dominio sulla penisola che ricadde in preda ad altri barbari, i Longobardi, così chiamati per la loro lunga barba bionda e perchè armati di lunghe alabarde. Li conduceva il loro re Alboino, crudele e feroce che, come Teodorico, si stabilì a Verona. Alboino sposò Rosmunda, la figlia di un re nemico che egli stesso aveva ucciso. Durante un banchetto, questo re crudele e pazzo costrinse la sposa a bere nel cranio del padre ucciso. Per questo e per altri atti di crudeltà da lui compiuti, Alboino fu ucciso. I Longobardi furono i barbari che provocarono le maggiori rovine in Italia. Distrussero chiese, devastarono città, uccisero migliaia e migliaia di persone. I loro costumi feroci furono alquanto mitigati dalla regina Teodolinda, convertitasi al cattolicesimo, che aiutata dal papa di allora, Gregorio Magno, riuscì a convertire il suo popolo alla religione cattolica. La regina Teodolinda fondò belle chiese a Monza e a Pavia; nel duomo di Monza si conserva, ancor oggi, la Corona ferrea con la quale allora si incoronavano i re longobardi. Nella corona è racchiuso un chiodo che, secondo la tradizione, fu tolto dalla croce di Cristo. Dai Longobardi prese il nome la regione che oggi si chiama Lombardia.
Notizie da ricordare Le condizioni dell’impero romano, non più forte e agguerrito, permisero la calata in Italia di popoli che i Romani chiamarono Barbari. Scesero dapprima i Visigoti, comandati dal loro re Alarico. Seguirono i Vandali che seminarono il loro cammino di distruzioni e di stragi. Un altro popolo barbaro, gli Unni, con a capo il feroce re Attila, irruppe in Italia aumentando le rovine e le morti. Dopo gli Unni calarono gli Eruli, comandati da Odoacre che depose l’Imperatore romano che allora sedeva sul trono, un fanciullo chiamato per dispregio Romolo Augustolo, e si mise in sua vece a governare l’Italia. Finiva così l’Impero romano d’Occidente nel 476 dC. Da questa data ha inizio in Medioevo. Dopo dieci anni di regno, Odoacre fu scacciato da Teodorico, re degli Ostrogoti, barbari che nel frattempo erano calati in Italia. Se l’Impero romano d’Occidente non esisteva più, esisteva ancora, forte e potente, l’Impero romano d’Oriente e quando salì sul trono il grande imperatore Giustiniano fu ripresa la lotta contro i Barbari, che furono respinti. Morto Giustiniano, l’Italia tornò preda dei Barbari e precisamente dei Longobardi che si trattennero a lungo e soltanto dopo un periodo di distruzioni e di stragi, si convertirono al cattolicesimo per opera della loro regina Teodolinda.
Questionario Chi erano i Barbari? Come vestivano? Perchè fu loro possibile scendere in Italia? Chi furono i primi Barbari che conquistarono le terre dell’Impero? Chi era Attila? Da chi fu fermato? Chi era Odoacre? Chi stava sul trono di Roma in quell’epoca? Perchè si dice che nel 476 dC finì l’Impero romano d’Occidente? Chi era Teodorico? Quale leggenda si racconta sulla sua morte? Chi era Alboino? Che cosa comandò a Rosmunda? Per opera di chi, in seguito, i Longobardi mitigarono i loro costumi? Quali popoli erano chiamati barbari dai Romani? Quali furono le principali cause della rovina dell’Impero? Seppero i Romani opporre una valida resistenza quando i popoli barbari si affacciarono minacciosi ai confini dell’Impero? A quale stirpe appartenevano quasi tutti i barbari? Quali erano gli usi e i costumi dei Germani? Quale popolo barbaro assalì per primo l’Italia? Da chi era guidato? Dove fu sepolto Alarico? Chi erano gli Unni? Quando vennero in Italia? Comandati da chi? Da chi fu fermato Attila? Quando e da chi venne fondata Venezia?
La leggenda di Teodorico Sul castello di Verona batte il sole a mezzogiorno dalla Chiusa al pian ritorna solitario un suon di corno, mormorando per l’aprico verde il grande Adige va; ed il re Teodorico vecchio e triste al bagno sta. Il gridar d’un damigello risuonò fuor della chiostra: “Sire, un cervo mai sì bello non si vide all’età nostra. Egli ha i piè d’acciaio e smalto, ha le corna tutte d’or.” Fuor dall’acque diede un salto il vegliardo cacciator. “I miei cani, il mio morello, il mio spiedo” egli chiedeva; e il lenzuol, quasi un mantello, alle membra si avvolgeva. I donzelli ivano. Intanto il bel cervo disparì, e d’un tratto al re d’accanto un corsier nero nitrì. Nero come un corbo vecchio, e negli occhi avea carboni. Era pronto l’apparecchio, ed il re balzò in arcioni. Ma i suoi veltri ebber timore e si misero a guair, e guardarono il signore e no’l vollero seguir. In quel mezzo il caval nero spiccò via come uno strale, e lontan d’ogni sentiero ora scende e ora sale: via e via e via e via, valli e monti esso varcò. Il re scendere vorria ma staccar non se ne può. Il più vecchio ed il più fido lo seguia de’ suoi scudieri, e mettea d’angoscia un grido per gl’incogniti sentieri: “O gentil re degli Amali, ti seguii nei tuoi be’ dì, ti seguii tra lance e strali ma non corsi mai così. “Teodorico di Verona, dove vai tanto di fretta? Tornerem, sacra corona, alla casa che ci aspetta?” “Mala bestia è questa mia, mal cavallo mi toccò: sol la vergine Maria sa quand’io ritornerò”. Altre cure su nel cielo ha la vergine Maria: sotto il grande azzurro velo ella i martiri covria. Ella i martiri accoglieva della patria e della fè; e terribile scendeva Dio sul capo al goto re. Via e via su balzi e grotte va il cavallo al fren ribelle; ei s’immerge nella notte, ei s’aderge in ver’ le stelle. Ecco il dorso d’Appennino tra le tenebre scompar; e nel pallido mattino mugghia a basso il tosco mar. Ecco Lipari, la reggia di Vulcano ardua che fuma e tra bombiti lampeggia dell’ardor che la consuma: quivi giunto il caval nero contro il ciel forte springò annitrendo; e il cavaliero nel cratere inabissò. Ma dal calabro confine che mai sorge in vetta al monte? Non è il sole, è un bianco crine; non è il sole, è un’ampia fronte sanguinosa, in un sorriso di martirio e di splendor: di Boezio è il santo viso del romano senator. (G. Carducci)
Il paese, la casa, la vita dei Germani I Barbari erano quasi tutti di stirpe germanica. L’antica Germania era un paese in massima parte coperto da boschi e paludi, freddo e rattristato da nebbie, ma nondimeno abbastanza fertile, ricco di messi e di greggi e di magnifici pascoli, e popolato di selvaggina.
Invece di città esistevano soltanto alcuni villaggi, formati da gruppi di dodici o venti capanne al più, disposte senza alcun ordine, e circondate ciascuna dalla corte e da un tratto di terreno. Le capanne erano di legno, coperte di paglia e di giunco, addossate talvolta ad un albero gigantesco. Nell’atrio, in fondo, stava il focolare, sul quale raramente si estingueva il fuoco.
I Germani, dalla grande statura, dalla chioma bionda, dagli occhi fieri e azzurri, amavano in special modo la caccia e la guerra. Quando la guerra non c’era, passavano il più del tempo in ozio, dediti al sonno e al mangiare; i più forti, i più bellicosi, standosene inerti, lasciavano alle donne , ai vecchi, ai più deboli della famiglia il governo della casa e dei campi. Non trattavano nulla se non armati, e armati intervenivano ai banchetti. Usavano cibi frugali, ma non erano nel bere altrettanto temperanti; e avevano una tale passione per il gioco dei dai che, dopo aver perduto ogni bene, mettevano come posta la moglie, i figli e la propria libertà. Il vinto andava in schiavitù volontaria; e quand’anche più giovane e robusto del vincitore, si lasciava legare e vendere. Scarsi erano gli ornamenti del corpo e della casa. L’abito più importante, e comune a tutti, consisteva in una specie di mantello corto, fermato con una fibbia, o in mancanza di questa con una spina; nel resto erano ignudi. Indossavano anche pelli di animali, e i più ricchi si distinguevano per una sottoveste strettamente aderente alle membra. Le donne si vestivano come gli uomini; soltanto che spesso si coprivano di tessuti di lino di color rosso; e il loro vestito semplice e senza maniche, lasciava scoperte le braccia e la parte superiore del petto. Tutti i liberi, uomini e donne, portavano come segno onorifico del loro stato libero i capelli lunghi ondeggianti, i quali venivano tagliati a chi passava in servitù. Pochi attrezzi bastavano per gli usi domestici: il semplice mulino a mano per il grano, alcuni vasi d’argento, di bronzo martellato, d’argilla, qualche bicchiere di vetro; strumenti di lavoro erano l’ascia, la mazza, il cuneo, lo scalpello, la falce di bronzo. L’ospite non invitato, anche se sconosciuto, aveva ugualmente un’accoglienza gentile; i conviti erano rallegrati dall’unico genere di spettacoli che i German conoscessero, quello di giovani nudi che si slanciavano, con un salto, tra spade e lance minacciose.
La donna era molto rispettata perchè si credeva che in essa vi fosse qualcosa di santo; i servi erano trattati umanamente. Ogni casa aveva il suo cane fedele, che seguiva dovunque il padrone e, caduti gli uomini e perfino le donne, era l’ultimo a difendere la barricata dei carri che in guerra opponevano al nemico. (Trabalza e Zucchetti)
I Germani e i loro costumi
Lungo i confini premevano minacciosi, incalzati dagli Slavi e da altri popoli ferocissimi si razza asiatica (Mongoli), i Germani. Li imperatori, impotenti a contenere la marea barbarica, erano venuti più volte a patti con essa, concedendo ad alcuni popoli di stanziarsi nelle province di confine, purché prestassero servizio militare. L’esercito era costituito in massima parte da barbari: barbari erano perfino i generali. I Germani, distinti in Teutoni, Alani, Vandali, ecc… abitavano l’Europa centrale ed orientale fino al Mar Nero. Praticavano in modo primitivo l’agricoltura, abitavano miseri villaggi e la terra intorno a questi era proprietà comune. Solo in caso di guerra e di migrazioni di uomini liberi, i membri dell’esercito e dell’assemblea eleggevano un re (Konig). Questi conduceva l’esercito in battaglia, distribuiva le terre conquistate, divideva la preda. Passato il pericolo, cessava generalmente il suo potere.
Non avevano leggi: chi riceveva un’offesa, si faceva giustizia da sé, o i familiari della vittima si prendevano vendetta dell’offensore. Faida era detta la vendetta privata, ed era un debito d’onore: così gli odi e i delitti si perpetuavano di generazione in generazione tra famiglie rivali. Quando mancavano le prove della colpevolezza di un accusato, si ricorreva al giudizio di dio (ordalia), cioè a determinate prove, che potevano essere il duello, il fuoco o altro, ritenendo essi che dio aiutasse l’innocente a superarle. La loro religione ricorda un poco l’antica religione greca: adoravano cioè i fenomeni naturali personificati. Il dio supremo era Wotan o Odino, re dell’aria e delle tempeste, al quale sacrificavano anche vittime umane. Non avevano templi, ma consacravano agli dei selve e foreste. Da questi cenni vediamo che profonda diversità c’era tra i Romani e i barbari, quando questi irruppero nelle province dell’Occidente. Essi si trovavano ancora ad uno stadio primitivo di civiltà, da cui i Romani erano usciti da secoli. Si narra che i barbari erano comparsi in Italia fin da un secolo prima di Cristo, scivolando sui loro scudi per le chine ghiacciate delle Alpi, e che da allora molte altre volte avevano varcato i confini italici; e sempre erano stati dalle legioni romane ricacciati nelle loro foreste. Ma poi, spinti alle spalle da altri popoli barbari, irruppero da ogni parte e non fu più possibile fermarli.
Ancora sugli usi e costumi dei Germani
I barbari erano quasi tutti di stirpe germanica. Presso i popoli germanici era una vergogna, per il capo, essere superato in valore, durante la battaglia, e un disonore, per i guerrieri, non essere pari, in coraggio, al comandante. Ma la vergogna ancora maggiore, che durava tutta la vita, era tornare dalla battaglia lasciandovi morto il proprio capo. La maggior parte dei giovani germanici di nobile stirpe preferiva una vita travagliata dalla guerra ad una vita di ozio nella pace; perciò essi si trasferivano spontaneamente presso i popoli che, in quel momento, erano in guerra. I Germani amavano combattere piuttosto che arare i campi ed aspettare il succedersi delle stagioni per ottenere il raccolto. Per loro era segno di pigrizia e di viltà acquistare col sudore ciò che si poteva guadagnare col sangue, predando e saccheggiando. Ogni volta che i Germani non erano in guerra impiegavano il loro tempo nell’andare a caccia, ma più che altro nel non far nulla, limitandosi a mangiare e a dormire. Le donne, i vecchi e i più deboli della famiglia, intanto, avevano cura della casa e dei campi. Appena i giovani germanici si destavano dal sonno, che assai spesso si prolungava fino ad una tarda ora del mattino, si lavavano quasi sempre con acqua calda, come era in uso presso i popoli dove la stagione invernale era molto lunga. Dopo essersi lavati si mettevano a mangiare: ciascuno aveva il suo seggio e ciascuno la sua tavola. Poi si armavano e ne andavano a trattare i loro affari o, come avveniva assai spesso, a banchettare. Passare il giorno e la notte a bere non era una vergogna per nessuno… (riduzione ed adattamento da Tacito)
Quando una popolazione germanica abbandonava le proprie sedi per cercarne delle nuove, caricava sui carri le donne, i fanciulli, tutti i suoi averi e perfino alcune parti delle sue capanne. Esse, infatti, erano costruite su tronchi d’albero smontabili e con canne ricoperte di fango. I Germani non avevano moneta: scambiavano le varie merci con il bestiame tra cui, probabilmente, il vitello di un anno costituiva l’unità principale di valore. Le terre erano proprietà di tutti e venivano distribuite ai singoli componenti di una tribù, ogni anno. L’avversione al lavoro da parte dell’uomo cacciatore e guerriero faceva ricadere il peso della famiglia sulle spalle della donna, la quale però, godeva di grande autorità. Ella seguiva il marito ovunque, anche in battaglia. (riduzione e adattamento da Angeloni Zolla)
Gli Unni Sono più barbari della stessa barbarie. Non conoscono nessun condimento al cibo, nè usano fuoco a cuocerlo. Mangiano cruda la carne, dopo averla tenuta qualche tempo fra le loro gambe o il dorso dei cavalli che cavalcano. Piccoli di statura, agili di membra e robusti, sempre a cavallo, la loro faccia, più che a viso umano, somiglia a un pezzo informe di carne, con due punti neri e scintillanti invece di occhi. Hanno pochissima barba perchè usano tagliere col ferro il viso dei loro bimbi, affinché imparino prima a sopportare le ferite che a gustare il latte materno. Adorano per loro dio una spada conficcata al suolo e sotto forme umane vivono come animali. (Giordano)
La luce di Roma Il sole tramontava dietro la collina. Alla luce di quel tramonto infuocato, rosseggiavano i marmi come insanguinati e gli archi rotti, avvolti dall’edera, si levavano nel cielo sereno. Tutto era rovina e silenzio. I barbari erano passati sulle pietre di Roma coi loro piedi di sterminatori. Le case erano diroccate, i monumenti abbattuti e, sui ruderi, il rovo lanciava impetuoso i suoi rami spinosi in mezzo ai quali strisciavano le vipere. Ma non ancora sazi di preda, i barbari si aggiravano fra quelle rovine alla ricerca di tesori nascosti, di vasi, di statue da fondere in rivoli d’oro e d’argento. Grandi, nerboruti, villosi, sembravano più bestie che uomini. Frugavano fra i massi con le loro grosse mani, ma non trovavano nulla perchè a Roma più nulla di prezioso era rimasto. A un certo punto una grossa pietra sbarrò il cammino a quei barbari. Era collocata davanti a un antro di cui chiudeva il passaggio. Un barbaro la prese e la scosse violentemente. La pietra crollò lasciando un’oscura apertura. Nel fondo si vide brillare una tenue luce. I barbari trasalirono. Un segno di vita? Si volsero al sole che tramontava per vedere se fosse uno dei suoi raggi a riflettersi là in fondo. Ma i raggi avevano tutt’altra direzione. Allora quegli uomini, cautamente, entrarono nell’antro. E videro. Sopra una pietra nuda giaceva un giovane guerriero romano morto. Tutto cinto di armi, aveva il petto scoperto e sopra, una gran ferita dove il sangue si era ormai raggrumato. Una lapide portava scritto il suo nome, Pallante, e sulla sua tomba brillava una torcia accesa. Rise, un barbaro, del suo timore, e afferrata la torcia la portò fuori della grotta. La luce brillò alta, nell’oscurità della notte ormai sopraggiunta. Il vento violento che si era levato piegò la fiaccola, ma non la spense. Allora il barbaro, ostinato, vi soffiò sopra il suo alito greve. La fiamma ondeggiò, ma poi si levò più vivida e bella. “Muori dunque nel fango!” gridò il barbaro inferocito, e immerse la fiaccola in una pozza melmosa. La fiamma stridette come un ferro infuocato che si affonda nell’acqua, ma quando il barbaro sollevò la torcia, questa arse ancora vivida e bella. I barbari, al prodigio, impallidirono sotto le barbe irsute e la fiaccola tremò nelle mani di chi invano aveva tentato di spegnerla. Lento, questi tornò nell’antro e pose di nuovo la fiaccola sul capo del giovinetto eroe. Poi indietreggiò, sgomento, e con la pietra chiuse di nuovo il sepolcro. La luce di Roma brillò ancora nell’oscurità e si levò alta e splendente. Una luce che nonostante le tenebre della barbarie, non sarebbe mai tramontata. (M. Menicucci)
Abitudini barbare
I barbari amavano sopra ogni cosa il loro cavallo. Si può dire che essi vivessero sempre a cavallo. Non solo viaggiavano a cavallo. Non solo combattevano a cavallo. A cavallo dormivano; a cavallo mangiavano. La loro cucina si trovava addirittura sotto la sella del cavallo! Ecco in che cosa consisteva quella cucina. Quando un barbaro uccideva qualche animale, tagliava un pezzo della sua carne e la metteva sotto la sella. Galoppa, galoppa, galoppa, la carne, a forza di colpi, anche se era dura, diventava morbida. Con l’attrito della sella si riscaldava e, come si dice, si frollava. Arrivata la sera, il barbaro scendeva da cavallo, alzava la sella e trovava il pezzo di carne ridotto in una specie di polpetta. Non c’era bisogno neppure di metterlo sul fuoco e l’addentava di buon appetito. Per ornamento il barbaro sceglieva di preferenza corna di animali uccisi nella caccia e code o criniere di cavallo.
Forme di giustizia dei barbari
L’accusato di un delitto era calato nell’acqua legato a una fune. Se rimaneva a galla, era colpevole, se andava a fondo e, tirato su con la corda, ancora respirava, era innocente. Oppure si ricorreva alla prova dell’acqua calda: chi vi immergeva la mano senza scottarsi era innocente. Assai più pericolose erano altre prove: prendere in mano, ad esempio, un ferro rovente senza bruciarsi le dita o camminare sui ferri arroventati. Le cose andavano meglio se l’accusato era invece invitato a denudarsi, ad avvicinarsi alla barella sulla quale era stato esposto il cadavere dell’ucciso, dopo di che giurava che era innocente e toccava il morto. Se le ferite della vittima non riprendevano a sanguinare, era salvo: l’accusa era da ritenersi infondata. La distinzione delle pene viene fatta in conformità al delitto. I traditori e i disertori vengono impiccati. Gli ignavi e i codardi… vengono immersi nella melma di una palude, gettando sopra ai medesimi dei graticci… Ma anche per i delitti più lievi la pena è proporzionata alla colpa: difatti i rei convitti vengono multati di un certo numero di cavalli o di capi di bestiame. Una parte della multa tocca al re o alla città; una parte all’offeso o, se questo fosse morto, ai suoi parenti. D’altra parte non è concesso infliggere la pena di morte, né incarcerare, e neppure battere se non ai sacerdoti, ma non come pena o per comando di un capo, ma come per comando di un dio… Il silenzio nelle assemblee viene imposto dai sacerdoti, i quali hanno anche il potere di ricorrere a punizioni coercitive.
Giulio Cesare così descrisse i barbari
Cesare nel De bello Gallico prima, e Tacito in Germania un secolo e mezzo dopo, ne descrissero i costumi e il carattere. I Germani abitano fra il Reno e il Danubio, hanno gli occhi truci e cerulei, capelli rosseggianti, corpi grandi e validi solamente per l’assalto, sono abituati al freddo e alla fame, abituati a non portare che piccole pelli, e a non avere alcun vestito. Tutta la loro vita consiste nella caccia e negli esercizi bellici; fin da piccoli si induriscono nel lavoro e nelle fatiche… Non curano molto l’agricoltura e la maggior part del loro vitto consiste nel latte, nel cacio, nella carne, nei frutti selvatici…
L’erba folta
Alarico si avanza alla testa dei suoi Visigoti, e sembra spinto non dalla sua volontà, ma da una forza invisibile. Un monaco si getta sul suo cammino e tenta di fermarlo. Ma Alarico gli dice che il fermarsi non è in suo potere perchè una forza misteriosa lo spinge a distruggere Roma. Tre volte accerchia al Città Eterna e tre volte indietreggia. Vengono ambasciatori, per indurlo a levare l’assalto, gli dicono che dovrà combattere contro una moltitudine tre volte più numerosa dei suoi eserciti. “Sia pure!” risponde quel mietitore di uomini, “Quanto più folta è, tanto meglio l’erba si taglia!”.
La terribile notte del 24 agosto del 410
La notte del 24 agosto, forzata la Porta Salaria, le orde visigote irruppero in città dando fuoco alle prime case. L’incendio divampò dilagando e tutto distruggendo: ville, palazzi, monumenti di insigne bellezza. E non un Romano che ardisse difendere la sua città! Roma, la città che un giorno ebbe il popolo più valoroso del mondo, crolla così sommersa dalla viltà. E se spettacolo orrendo fu il vedere le fiamme divorare la meravigliosa città, se spettacolo terribile fu vedere i barbari girare urlando per le vie o irrompere nei palazzi, certo spettacolo ben più miserando fu vedere i Romani sperduti nel terrore della loro vergognosa ignavia.
I Visigoti incendiano Roma
Alarico e le sue orde entrarono nella città al suono delle trombe e al canto delle loro arie nazionali. Appena entrati dettero fuoco alle prime case. Svegliati di soprassalto dal tumulto, gli abitanti compresero subito di essere in mano al nemico, e il crescente chiarore fece intendere che gli incendi divampavano. Però si narra che al momento di passare la Porta Salaria Alarico fosse preso da un segreto terrore: quella che egli si accingeva a saccheggiare era anche una città considerata santa, così ordinò che fossero rispettate le basiliche di San Pietro e San Palo. Le fiamme, aiutate dal vento, divoravano tutto, e quel che sfuggiva al fuoco cadeva sotto lo scempio dei Visigoti che, avidi di denaro, tramutavano tutti i palazzi dei ricchi in teatri di tragedie. Una vedova di nobili natali che abitava nel suo palazzo, ma che nulla possedeva perchè tutto aveva dato ai poveri, non potendo accondiscendere alle richieste di denaro, fu talmente percossa che ne morì. Questo martirio di Roma durò tre giorni e tre notti; poi Alarico diede il segnale di partenza. Ma nulla o quasi rimase dietro di lui. Alarico passò oltre, diretto in Sicilia: ma morì lungo il cammino e venne sepolto, armato a cavallo, nel letto del fiume Busento. La mancata resistenza da parte degli italiani fu dovuta al fatto che essi, da qualche secolo, erano stati esentati dal servizio militare. L’Italia, quindi, mancava di una solida gioventù guerriera che difendesse le sue città proprio mentre i barbari irrompevano dalle frontiere.
Gli occhi per piangere
Dopo tre giorni di incursioni, Alarico promette ai Romani superstiti di abbandonare la loro città purché gli vengano portate tutte le ricchezze e tutti gli schiavi barbari della città. Gli chiedono allora i Romani: “Che di resterà dunque?”. E Alarico risponde: “Gli occhi per piangere”. Così dovettero portargli cinquemila libbre d’oro e trentamila d’argento oltre a panni di seta, pellicce e spezie. I Romani dovettero persino fondere la statua d’oro del Coraggio che essi chiamavano Virtù Guerriera.
Onorio aveva una gallina..
Quando per il mondo si sparse la terribile notizia che Roma era caduta nelle mani dei Visigoti i quali l’avevano messa a ferro e fuoco, lo sgomento dilagò ovunque. Solo l’imbelle imperatore Onorio non si turbò, anzi pareva non essersene neppure accorto, tutto intento com’era al suo allevamento di pollame nei pressi di Ravenna. E si dice che a un suo cortigiano che gli diceva che Roma era perita rispondesse: “Non è possibile! L’ho vista poco fa!”. E alludeva a una sua gallina a cui aveva dato il nome di Roma.
Più barbari dei barbari
E’ durante la seconda metà del IV secolo che gli Unni si affacciano alle grandi pianure orientali dell’Europa, e subito spargono il terrore attorno a sé, più barbari degli stessi barbari di cui invadono le terre. Robustissimi, dalla testa piccola, bruna e piantata sul collo corto e tozzo, di lineamenti orientali, già nell’aspetto incutevano spavento. Indossavano rozze brache di pelle di capra, su cui portavano una sorta di tunica; sul capo, quando non avevano gli elmi di battaglia di aspetto terrificante, tenevano una berretta aderente. Scrive Ammiano Marcellino che erano tutti di smisurata ferocia. E per dare un esempio dei loro truci costumi, riferisce che erano soliti ricoprire di profonde ferite le guance dei loro figli per impedire che, nell’età adulta, vi crescesse la barba. Mangiavano carne cruda e radici, perchè ignoravano ogni cottura e ogni condimento; tutt’al più, per frollarla, tenevano le carne tra le cosce e il pelo del cavallo mentre cavalcavano, sì che il sudore dell’uomo e dell’animale quasi la cuocesse. Ignoravano la casa, anzi quando la conobbero la odiarono con folle e superstizioso terrore: la loro dimora era costituita dai carri, anche quando si stanziavano per lunghissimi periodi o per generazioni intere in territori invasi. In guerra erano quasi sempre vincitori, malgrado avessero scarsa attrezzatura bellica; si può dire infatti che la loro unica arma fosse una specie di dardo dall’acuminata punta di osso, ma se ne sapevano servire con un’abilità insuperabile e sapevano spargere il terrore fra i nemici e sgominarne le file anche se meglio attrezzate perchè erano impetuosi e spericolati, e perchè emettevano grida gutturali dal suono spaventoso. Inoltre maneggiavano con abilità quasi da prestigiatori certe funi lunghissime e terminanti a cappio con le quali afferravano e scavalcavano i nemici con infallibile precisione. Questo era il popolo che per secoli e secoli si spostò fra le terre di Tartaria, da cui aveva origine, finché non trovò in Attila un grande capo, che aveva anche l’aperta visione del capitano. Meno selvaggio dei suoi sudditi, di intelligenza acutissima, aveva anche la qualità fino allora ignota fra i suoi delle fedeltà alla parola data. Era il condottiero che poteva dominarli, frenarli e portarli verso le pingui pianure d’Europa, dopo secoli di stenti fra i deserti mongolici. (C. Bini)
Attila
La carriera di questo re asiatico, che per vent’anni fu il terrore di tutta l’Europa, non cominciò bene: egli uccise il fratello con il quale avrebbe dovuto regnare sul popolo degli Unni e si dispose a governare da solo a suo piacimento. Era l’anno 444 dC e Attila, definitosi “flagello di dio”, stabilì il suo piano di conquista, forte di un grande esercito di feroci cavalieri avidi di sangue e di prede. I due imperatori di quel tempo, l’imperatore d’Oriente Teodosio e l’imperatore d’Occidente Valentiniano III, si disposero ad arginare l’invasione barbarica. Ma le orde dei cavalieri di Attila, dalle gialle facce barbute solcate di cicatrici, armati di lance e di mazze ferrate, si precipitarono sui campi fecondi e sulle città, spargendo il terrore e la morte. Dopo aver invaso la Gallia, Attila si gettò con particolare furore contro una terra ricca e allettante: l’Italia. Per prima investì Aquileia. Gli abitanti fuggirono terrorizzati su zattere e barche e si rifugiarono nei meandri della laguna veneta, e sugli isolotti e sulle isole costruirono capanne di frasche e di legno. Con il volger del tempo quelle capanne divennero palazzi e, a poco a poco, formarono la città di Venezia. Ma la meta di Attila era Roma; egli marciò fino al Mincio e… qui avvenne secondo la leggenda il miracolo: Attila incontrò il papa Leone I, il quale si era mosso da Roma, sereno e fiducioso, per esortare il “flagello di dio” a risparmiare la città di Pietro e a lasciare l’Italia. E così cadde la furia distruttrice di Attila. Il guerriero che non conosceva perdono fece levare il campo, e dopo pochi giorni, ripassò le Alpi con il suo esercito. Questa leggenda misteriosa nella sua semplicità, ha ispirato molti artisti che la hanno immortalata su tela e nel marmo: tra queste opere è celebre l’affresco di Raffaello in Vaticano.
La leggenda di Attila e Leone I
Un’immensa folla di cavalieri, accompagnata da carri, seguiva il re degli Unni. All’inizio dell’invasione di Attila, il papa Leone I aveva ordinato pubbliche preghiere in tutte le chiese, per implorare la protezione del Cielo contro l “flagello di dio”. Poi mosse incontro al re barbaro, seguito da molti fedeli. Al grido delle sue sentinelle che avevano avvistato la folla in cammino, Attila ebbe un fremito di gioia, pensando che l’esercito romano si avvicinasse al Mincio, presso cui egli era accampato, e diede ordine di prepararsi al combattimento. Ma poco dopo tornò da lui un ufficiale esploratore, sconvolto, descrivendo quello strano corteo di prelati, religiosi e di uomini disarmati che cantavano. Il loro capo, disse, era un vecchio dalla lunga barba bianca, tutto vestito di bianco, e montato sopra un cavallo bianco. Attila fece fermare l’esercito, galoppò verso il Mincio, spinse il cavallo in acqua e gridò, con violenza, rivolto al pontefice: “Qual è il tuo nome?” “Leone” rispose una voce e tutta la folla cessò di cantare. Attila attraversò il fiume e pose piede sull’altra riva: dal gruppo dei prelati si staccò il papa e venne davanti all’Unno. Nessuno saprà mai che cosa si dissero, ma improvvisamente si vide Attila scostarsi dal vecchio, attraversare il fiume e dare ordini agli ufficiali. L’esercito volse le spalle, risalì verso nord e scomparve. (M. Brion)
I Vandali
Quando gli Unni lasciarono l’Italia, apparvero i Vandali. Attraverso la Gallia, erano passati in Spagna e in Africa, dove avevano costruito un grande regno. Il loro re, Genserico, li condusse dall’Africa in Italia con una grande flotta. Essi occuparono Roma e, dopo un feroce saccheggio, la incendiarono (455). Poi tornarono in Africa con un immenso bottino. Le loro azioni furono tanto malvagie che ancora oggi si chiama “vandalo” colui che rovina e distrugge senza ragione.
La fuga da Aquileia “Su, Marco! Presto, Valeria! Dobbiamo andare, fuggire!” Valeria si mosse, stringendo al cuore la sua bambola, che non avrebbe abbandonato per nessuna ragione. Marco invece volle caricarsi, come tutti, di bagagli e la mamma gli affidò un sacchetto di provviste e un involto di indumenti. Al ragazzo quella fuga sembrava una bella avventura e non capiva perchè tutti avessero quell’aria preoccupata e ansiosa. Ben sapevano invece gli adulti perchè si dovesse fuggire: arrivavano i barbari! I vecchi ricordavano un’altra invasione, quella dei Gori, ma questi dovevano essere ben peggiori. Si sapeva che rubavano, distruggevano, uccidevano; erano Unni e il loro capo era un vero demonio. Si chiamava Attila, ma si faceva chiamare “Flagello di Dio” e la gente di Aquileia se lo immaginava come un demonio con gli occhi fiammeggianti. La città di Aquileia era troppo bella e importante perchè Attila la dimenticasse, perciò, tutti fuggivano con carri, cavalli, servi, cercando di porre in salvo i loro tesori. “Che il Signore ci aiuti!”disse la mamma di Marco e di Valeria, prima di uscire di casa. S’avviarono poi di buon passo per raggiungere il padre, che li aspettava più avanti. Le strade rigurgitavano di gente; molte donne piangevano. La mamma di Marco camminava col cuore stretto, guardando ancora una volta la città dov’era nata e vissuta: le case, le piazze, i colonnati, ma soprattutto la bella basilica cristiana. Anche Marco e Valeria vi entravano sempre volentieri; il pavimento a mosaico era la loro gioia e, tra una preghiera e l’altra, guardavano incantati le belle figure: c’era il buon Pastore con le sue pecorelle, v’erano uccelli, pesci, colombe, uva e spighe. Che peccato dover abbandonare tutto! Chissà quando sarebbero tornati ad Aquileia, la città ricca, piena di vita e movimento. “Ma dove andiamo?” chiese più volte Marco quando da un pezzo ormai stavano viaggiando. “Soltanto l’acqua ci può difendere,” spiegò il babbo: “Bisogna mettersi al sicuro sulle isole della laguna, perchè là gli Unni non potranno arrivare”. Marco e Valeria avevano sonno, erano stanchi, ma non ci si poteva fermare. Finalmente giunsero in vista delle isole della laguna, e riuscirono a raggiungerne una. Che povera isola! Non c’era che qualche capanna di pescatori e acqua, acqua dovunque volgessero lo sguardo. Eppure i fuggiaschi ringraziarono Dio e si inginocchiarono a baciare quella terra, che rappresentava la loro salvezza. Il padre di Marco levò le mani al cielo e pregò così: “O Signore, salva la città di Aquileia! Proteggila e difendila! Ma se non potessimo più farvi ritorno, concedici di trovare qui un asilo sicuro!” “Amen!” dissero gli altri in coro, compresi Marco e Valeria. Nessuno in quel momento sapeva che da quelle parole nasceva la città di Venezia. (G. Ajmone)
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PRIMA GUERRA MONDIALE e il 4 novembre materiale didattico di autori vari, per bambini della scuola primaria.
Il quattro novembre Con questa data l’Italia vuole ricordare la vittoriosa fine della guerra 1915-18 e, insieme, celebrare l’unità della Nazione e la giornata delle Forze Armate. L’Italia è una nazione libera, democratica, civile, che non ha alcuna intenzione di offendere, ma che non vuole essere offesa, che vuol salvaguardare la pace, senza abdicare alla sua dignità, che vuole l’unità europea, ma non per questo dimentica le sue tradizioni, le sue glorie, i suoi Morti, i suoi grandi uomini. Tutto questo costituisce un patrimonio spirituale che non va messo in disparte, ma ricordato e valorizzato senza falsa retorica, senza esagerazioni, ma con giusto orgoglio, per ciò che l’Italia ha fatto nel passato e per ciò che si propone di fare nell’avvenire.
4 novembre 1918 Questa data segnò la fine di una lunga guerra, che aveva insanguinato tutta l’Europa. L’Italia vi aveva partecipato per liberare le province di Trento e di Trieste, per ristabilire, quindi i suoi confini là dove la natura li aveva segnati con una corona di monti superbi. Seicentomila soldati italiani morirono e alla loro memoria ogni comune dedicò un monumento o una lapide che ne reca incisi i nomi. Oggi, ragazzi, onoriamo quei Caduti, visitiamo quei monumenti, leggiamo quei nomi. Sono stati scritti perchè voi serbiate la memoria di chi è morto per darvi una Patria più grande e più gloriosa; tutta unita entro le linee che le Alpi scintillanti di ghiacci e i mari azzurri d’acque profonde hanno tracciato per lei. Dopo quella guerra vittoriosa, altre guerre sono venute per la nostra Patria: innumerevoli sono stati i morti e i dispersi, le case distrutte, i campi devastati, le famiglie sterminate. Per tutte le vittime, per tutti gli eroi, oggi il nostro ricordo e il nostro amore sono vivi e profondi.
Quattro novembre Nel secondo decennio del novecento, l’Italia era una giovane nazione che non aveva ancora completato la sua unità. Trento e Trieste erano ancora fuori dai nostri confini. L’Europa era devastata da una grande guerra. Per frenare l’imperialismo dell’Impero austriaco e di quello tedesco, e per liberare le terre italiane d’oltre confine, l’Italia scese in guerra!
Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il ventiquattro maggio: l’esercito marciava per raggiunger la frontiera, per far contro il nemico una barriera… Muti passaron quella notte i fanti: tacere bisognava andare avanti! S’udiva, intanto, dalle amate sponde sommesso e lieve il mormorio dell’onde. Era un presagio dolce e lusinghiero. Il Piave mormorò: “Non passa lo straniero!”.
La guerra fu dura, lunga e atroce. I soldati di batterono sulle colline pietrose, sui monti impervi, contro fortificazioni nemiche, che erano giudicate imprendibili… Quando dalle trincee di prima linea si segnalava l’ora dell’assalto, erano momenti terribili…
“Pronti? Alzo sette… Fuoco! Fuoco di batteria!”
Ma quando tutte le bocche dei cannoni cantarono, all’ora fissata, per completare la strage, l’ansia strinse ogni gola, e ognuno sentò tonfare dentro il suo cranio come sopra a un timpano spaventoso il rombo.
Traballava la terra come una casa di legno; il cielo parve incrinarsi ogni tanto come cristallo; Pareva si dovesse spezzare e precipitare, a schegge celesti ogni tanto tra gli schianti e gli strepiti.
E sulla prima linea nessuno fiatava sentendo sul cuore ognuno battere, come gocce di sangue, i minuti terribili che misurano il tempo vicino all’assalto.
“All’assalto! All’assalto!”
Molti furono i morti e i feriti, molte le battaglie, molte le vittorie. I soldati italiani conobbero ogni sacrificio, ogni gloria. E quando la sciagura d’una sconfitta minacciò l’esistenza stessa della Patria, diventarono tutti eroi.
E ritornò il nemico per l’orgoglio e per la fame: volea sfogare tutte le sue brame. Vedeva il picco aprico di lassù: voleva ancora sfamarsi e tripudiare come allora… “No” disse il Piave. “No” dissero i fanti “Mai più il nemico faccia un passo avanti!”. Si vide il Piave rigonfiar le sponde! E come i fanti combattevan l’onde… Rosso del sangue del nemico altero, il Piave comandò: “Indietro va’, straniero!”
E venne infine, dopo quattro anni, il giorno della vittoria…
(Dal Bollettino della vittoria) La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto la guida di Sua Maestà il Re, duce supremo, l’esercito italiano, inferiore per numero e mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrottamente e asprissima, per quarantun mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre e alla quale prendevano parte 51 divisioni italiane, 3 britanniche, 2 francesi, 1 cecoslovacca e un reggimento americano contro 63 divisioni austro-ungariche, è finita. La fulminea arditissima avanzata su Trento del XXXIX Corpo della I Armata, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte a Occidente dalle truppe della VII, della X Armata e delle Divisioni di Cavalleria ricaccia sempre indietro il nemico fuggente. Nella pianura, Il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III Armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già gloriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L’esercito austro-ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni di lotta e nell’inseguimento; ha perduto quantità ingentissime di materiali di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e depositi: ha lasciato finora nelle nostre mani 300.000 prigionieri con interi Stati Maggiori e non meno di 5.000 cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. $ novembre 1918 . ore 12)
Per il lavoro di ricerca Perchè commemoriamo il 4 novembre? Quando iniziò e quando terminò la grande guerra? Che cos’è la Patria? Perchè molti eroi sono caduti per la Patria? Sai raccontare un atto eroico compiuto da qualche soldato valoroso? Conosci qualche leggenda patriottica? Chi è il Milite Ignoto? Conosci qualche canzone sull’eroismo e sulla resistenza dei fanti d’Italia?
I giovani soldati morti I giovani soldati morti non parlano. Ma nondimeno si odono nelle tranquille case: chi non li ha uditi? Essi posseggono un silenzio che parla per loro di notte e quando la sveglia batte le ore. Dicono: fummo giovani. Siamo morti. Ricordateci. Dicono: le nostre morti non sono nostre; sono vostre; avranno il valore che voi darete loro. Dicono: se le nostre vite e le nostre morti furono per la pace e una nuova speranza o per nulla non possiamo dire; sarete voi a doverlo dire. Dicono: noi vi lasciamo le nostre morti. Date loro il significato che si meritano. Fummo giovani, dicono. Siamo morti. Ricordateci. (Archibald Mac Leish)
La prima guerra mondiale La prima guerra mondiale iniziò il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, dopo l’attentato che aveva ucciso l’arciduca ereditario austriaco Francesco Ferdinando, a Sarajevo. Fra le maggiori potenze coinvolte nella lotta furono: da una parte la Francia, l’Inghilterra, la Russia, la Serbia, la Romania, il Belgio, poi, l’Italia e gli Stati Uniti; dall’altra la Germania, l’Impero Austro-Ungarico, la Bulgaria, la Turchia. L’Italia entrò in guerra il 24 maggio del 1915. Dopo alcune grandi battaglie campali in Belgio, in Francia e in Russia, il conflitto divenne guerra di trincea, sanguinosissima e lunga. Sul fronte italiano, dopo alcune importanti battaglie e vittorie (degli Altipiani, dell’Isonzo, di Gorizia, del Piave, ecc…) e una sconfitta (Caporetto), venne la prima vittoria decisiva di tutta la guerra con la battaglia campale di Vittorio Veneto, ove fu annientato l’esercito austriaco (dal 23 ottobre al 3 novembre 1918). Il 4 novembre fu dato l’annuncio della vittoria.
Il Milite Ignoto Siamo nel 1921: Roma è tutta un fremito. Un affusto di cannone trasporta una bara di quercia coperta dal Tricolore. E’ la salma del Milite Ignoto, che va a prendere dimora sull’Altare della Patria perchè in lui gli Italiani ricordino tutti i Caduti della prima guerra mondiale. Pochi giorni prima, nella città di Aquileia erano state presentate alla mamma di un caduto in guerra dodici salme di soldati sconosciuti, ed ella aveva alzato il braccio tra le gramaglie e ne aveva indicata una. Ecco la motivazione della Medaglia d’Oro che l’Italia assegnò al Milite Ignoto, cioè a tutti i soldati morti in guerra: “Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che l a vittoria e la grandezza della Patria”.
Guerra di trincea Sulle pianure grigie e malinconiche o a mezza costa dei monti dove la guerra s’era accanita, si alzavano lunghe strisce di intrichi che tendevano immobili le braccia al cielo, come boschetti di piantine scheletrite. Erano reticolati. Dietro i reticolati si aprivano le trincee. Sprofondavano nel terreno, celate, traditrici; seguivano le pieghe più adatte del terreno, salivano faticosamente, scendevano a precipizio, si nascondevano tra le piante, tagliavano le strade, rigavano i prati; non erano larghe più di un metro e mezzo alla bocca e, quando erano finite, erano profonde due; gli uomini avanzavano a fatica in esse, inciampando e scivolando. Coi numerosi camminamenti, tortuosi e sottili, si allacciavano ai ricoveri e ai paesi dove le truppe stavano in riserva; un movimento di flusso e riflusso continuo le percorreva. Davanti al reticolato e alla trincea, si stendeva, fino all’altro reticolato e all’altra trincea, la squallida “terra di nessuno”. Fra i reticolati, le trincee e la “terra di nessuno”, stette schiacciata al suolo, per tre anni e mezzo, la folla senza nome dei fanti d’Italia, dei contadini, degli operai, dei piccoli impiegati. Milioni di uomini ai quali era toccata l’opera più tremenda tra i fanti del mondo. Stavano essi a combattere sul più duro suolo che Dio avesse creato. Una parte era aggrappata disperatamente al Carso. L’Isonzo dinanzi formava il gran fosso. Gli Austriaci avevano fatto dell’altipiano di macigno, da Gorizia al mare, una fortezza che pareva inestricabile e inespugnabile. Già il terreno nemico si difendeva da sè. Sorgevano dappertutto piccoli monti duri e nudi, senza vegetazione, ognuno dei quali nascondeva un agguato. Il suolo impraticabile era seminato di tagliole. Avvicinarsi al nemico era impresa pazza. Contro il sole o il vento non alberi; contro la sete non acqua; contro l’insidia nemica nessun riparo. Quei fanti che non combattevano sul Carso stavano a guardia della montagna: impresa anch’essa durissima. Dall’ottobre cominciava a nevicare. Nella notte, spesso, un metro di neve cadeva a coprire i dormienti e i morti. Con le proprie mani, rompendo la roccia a palmo a palmo, accoppiando pietra con terra, il fante costruiva con pena la strada e il sentiero che salivano sui monti. Il cielo era gelido e muto. Attraverso le valli e sulle creste dei colli, gli zappatori scavavano con fatica e con pazienza la trincea; la neve continuava a cadere, il freddo era acuto, si sentiva al di là, sordo, il lavoro del nemico che pure vigilava. (A. Gatti)
4 novembre …uno degli austriaci portava, alta, una bandiera bianca Il cannone continuava a tuonare. Le nubi grigie ne rimandavano l’eco rimbombante; sembrava un tuono, ora più rabbioso, ora sordo; sembrava spegnersi, e poi tornava a farsi sentire più forte. La battaglia infuriava ovunque, ormai, dalle montagne giù giù sino al mare. La corrente impetuosa dei fiumi del Veneto recava con sè barche sfondate, pali anneriti dal fuoco, assi, rottami. Gli italiani gettavano ponti, e l’artiglieria austriaca li distruggeva. Ecco. Tra i relitti, qualche corpo umano. Un povero soldato, venuto da qualche lontana parte d’Italia per morire sul Piave… Il cannone tuonava da ogni parte. L’offensiva italiana era cominciata il 24 ottobre 1918; si combatteva dallo Stelvio al Lago di Garda, e via via sino al Grappa, poi lungo il Piave sino all’Adriatico. Si combatteva per riconquistare il Veneto occupato dagli austriaci, per liberare l’Italia, per vincere la guerra. Quella era la battaglia decisiva. Lo sapevano tutti, italiani ed austriaci. E tutti s battevano, disperatamente, per guadagnare un po’ di terreno, o per difenderlo: “Tutto il popolo italiano guarda in questo momento a noi, cui sono affidate in quest’ora le sorti della Patria”: così aveva proclamato agli italiani il nostro comando; ed il comando austriaco, arrogante: “Sarebbe una vergogna senza nome” aveva gridato alle sue truppe e al mondo “se gli italiani dovessero vincere!”. Si combattè furiosamente per cinque giorni; caddero migliaia di uomini. La mattina del 29 ottobre, alla trincea del Gufo, vicino a Serravalle all’Adige, in val Lagarina, si udiva il cannone tuonare da ogni parte. Ma là, c’era una relativa calma. Le sentinelle tenevano d’occhio la strada, devastata dai bombardamenti, e la linea ferroviaria, che si perdeva su, su per la stretta valle verso Rovereto e Trento. Dietro agli avamposti, si ammassavano le truppe per un attacco; c’era quella atmosfera piena di orgasmo e di tensione e di attesa che precede la battaglia… D’un tratto, lungo la scarpata della ferrovia, apparvero tre uomini. Tre austriaci. Venivano avanti tranquillamente, come se camminassero non tra due eserciti nemici, ma su una bella strada qualsiasi… Le sentinelle italiane alzarono i fucili, pronte al fuoco.
No. Non spararono. Rimasero là, ad occhi sbarrati, a guardare i tre austriaci. Ciò che vedevano non lo avrebbero mai più dimenticato. Non spararono. Perchè uno dei tre austriaci portava, alta, una bandiera bianca. L’Austria chiedeva un armistizio. Un ufficiale, un portabandiera ed un trombettiere, venivano ad accettare la “vergogna senza nome”, a riconoscere cioè, che gli italiani avevano vinto. La richiesta di armistizio fu accolta dagli italiani, e nel pomeriggio del 30 ottobre, su alcune automobili, sei ufficiali austriaci iniziarono le trattative, in una bella villa a qualche chilometro da Padova. E là, nella Villa Giusti, attorno ad un lucido tavolo rotondo, gli ufficiali italiani dettarono le condizioni di resa. Si dovette discutere a lungo, per tre giorni. Laggiù, in quella sala elegante, non giungeva il rombo del cannone, nè il grido delle truppe lanciate all’assalto, nè il crepitio secco delle mitragliatrici. Ma, mentre si discuteva, l’attacco italiano continuava, e le truppe austriache erano sconfitte, travolte, poste in fuga, e poi accerchiate e catturate; ed il Veneto veniva riconquistato, e la nostra bella bandiera piantata a Trento ed a Trieste.. L’armistizio fu firmato il 3 novembre. Il giorno dopo, 4 novembre, su tutto il fronte scese un grande silenzio, e non si sparò più. La bandiera gialla e nera degli austriaci fu ammainata. Il tricolore prese il suo posto. L’Austria, però, fece di tutto per non riconoscere la sua sconfitta. Nella speranza di salvare il suo esercito, propose di sospendere le operazioni militari; poi cercò di far credere che, in verità, gli italiani non avevano dovuto combattere veramente, per vincere. Pur di non consegnare la sua flotta all’Italia, la consegnò alla Jugoslavia… Tutto ciò, però, non potè cambiare la realtà. E la realtà è che gli austriaci, ormai in grande disordine, con i soldati che non volevano più obbedire ai comandanti, e che si abbandonavano agli incendi e ai saccheggi, furono spazzati via dal Veneto, o catturati; la realtà è che, in conseguenza alla sconfitta austriaca in Italia, la Germania (che era alleata all’Austria, e che combatteva in Francia contro i francesi, gli inglesi e gli americani) si decise ad arrendersi. La realtà è che, dopo la battaglia decisiva, “i resti di quello che era stato uno dei più potenti eserciti del mondo risalivano in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. Così, il 4 novembre 1918, gli italiani vinsero l’ultima guerra del Risorgimento; vinsero la loro “grande guerra”. E così, sacrificando più di mezzo milione di uomini, tra i quali i più giovani, i più forti, i più sani, e moltissimi dei migliori, che avrebbero dovuto prendere la direzione ed il governo della nostra Patria, gli italiani portarono a compimento l’opera iniziata dai loro nonni più di cento anni prima; e ci diedero l’Italia tutta intera, fino ai suoi confini naturali, che non potranno mai più essere toccati e discussi. Così vinsero, restando per mesi e mesi nelle trincee, piene di fango e di pioggia e di topi; o gettandosi all’attacco, sicuri di morire, su per le montagne bruciate dal fuoco e scavate dal ferro; vinsero soffrendo la fame ed il freddo sulle posizioni scavate nella roccia, o battendosi disperatamente tra le macerie dei paesi del Veneto martire. Così vinsero tenendo duro, in mezzo all’amarezza ed allo scoraggiamento, dopo sconfitte e ritirate, quando tutto sembrava crollare intorno. Vinsero umilmente, facendo il loro dovere senza chiasso e senza fanfare. E sono i nostri trisnonni, quelli della guerra mondiale, sono i nostri bisnonni: loro sono quelli del Piave e di Vittorio Veneto.
La guerra 1915 – 18 All’inizio del 1900 Inghilterra e Germania sono rivali. Questa rivalità provoca la Triplice Intesa (Inghilterra, Francia, Russia) in opposizione alla Triplice Alleanza (Germania, Austria, Italia). La Serbia, spalleggiata dai Russi, si assume il compito dell’irredentismo slavo e la penisola balcanica diventa il punto di partenza per un conflitto che in un primo tempo localizzato, dovrà far scaturire, poi, la scintilla che susciterà un incendio immane. Questa scintilla sarà l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando che avviene il 28 giugno 1914. Scoppia la guerra fra Austria e Serbia. In breve, quasi tutte le Nazioni europee, per le rispettive alleanze, vengono coinvolte nel conflitto. In Italia, fallite le speranze di ottenere dall’Austria, in cambio della neutralità, Trento e Trieste, città italiane ancora sotto il dominio austriaco, prevale la corrente interventista. La guerra è dichiarata il 24 maggio 1915. Subito scoppiano violente battaglie contro il nostro schieramento che va dal Trentino all’Isonzo. L’Austria vuol punire l’audacia degli Italiani e li ferisce nel profondo catturando e suppliziando i martiri dell’irredentismo: Chiesa, Sauro, Battisti e Filzi. L’Italia reagisce all’offensiva delle armi e dello spirito e le nostre truppe occupano Gorizia (9 agosto 1916). La guerra continua fra disagi e sofferenze di ogni genere. Dopo quattro anni di dura guerra di trincea, si diffonde fra i soldati un senso di generale stanchezza. Una propaganda pacifista scatenata nel momento più propizio, darà presto i suoi frutti. L’esercito italiano, indebolito e avvilito per la disfatta di Caporetto durante la quale gli Austriaci, fanno migliaia di prigionieri, è costretto a retrocedere al di qua del Tagliamento. E’ il momento più critico della guerra. Ma gli Italiani si riprendono dal momentaneo smarrimento e si stringono in una disperata volontà di resistere. Sul Piave da una parte e sul Monte Grappa dall’altra, gli Austriaci trovano una resistenza inaspettata. La Marina italiana compie imprese che hanno del leggendario. Nella famosa Beffa di Buccari, alla quale partecipò il poeta Gabriele D’Annunzio insieme a Luigi Rizzo e a Costanzo Ciano, tra nostri motoscafi attaccano di sorpresa due grosse navi mercantili austriache che si credevano al sicuro entro le ben riparate insenature della costa. Nel novembre dello stesso anno, i nostri marinai affondano la Viribus Unitis, la nave ammiraglia della flotta austriaca, nel munitissimo porto di Pola. Intanto, sul fronte nemico, era schierato un esercito di due milioni di uomini, ma gli Alpini, al canto di “Monte Grappa, tu sei la mia Patria”, si tenevano saldi, fieri nel loro motto: “Di qui non si passa!”. Nell’anniversario di Caporetto, le nostre truppe sferrano, sul Piave, un forte attacco con gli aiuti degli Alleati a cui si era aggiunta l’America, e questo attacco si conclude con la decisiva battaglia di Vittorio Veneto e l’occupazione di Trento e Trieste (24 ottobre e 4 novembre). Fra l’Italia e l’Austria viene firmato l’armistizio. La guerra è finita.
4 novembre 1918 Oh, la gioia di quei giorni, quando il Bollettino di Diaz annunciò il trionfo! La guerra era durata quattro anni. Milioni di soldati avevano combattuto nelle trincee, sul mare, nell’aria. Di loro, 600.000 non tornarono più. Ma il sacrificio dei fori dava la vittoria alla Patria. Trento e Trieste liberate si congiungevano alla gran Madre. Voi non eravate ancora nati. Eppure, per tutti voi, per l’Italia dell’avvenire, la guerra fu combattuta e vinta. (G. Fanciulli)
Il milite ignoto Per rendere onore a tutti i seicentomila morti nella guerra 1915 – 18, se ne scelse uno senza nome, che fu portato con grandi onori a Roma e collocato ai piedi dell’Altare della Patria. Il Milite Ignoto rappresenta tutti i prodi che fecero olocausto della loro vita perchè l’Italia sopravvivesse e fosse più rispettata nel mondo. Chi onora la tomba del Milite Ignoto intende onorare, attraverso quello, i combattenti italiani di tutte le guerre.
La campana di Rovereto E’ la sera del 2 novembre. Attraverso la radio si diffonde, in tutto il mondo, un suono lento, grave solenne: Don!… Don!… Don!… E’ la voce di “Maria dolens”, la campana di Rovereto. Essa ci ricorda i caduti, tutti i caduti della guerra: italiani, francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi, serbi, croati, giapponesi, americani… Sono migliaia e migliaia di uomini che rivivono nel suono della campana. Queste cose dice al nostro cuore il suono: Pace!… Pace!… Pace!… Vogliatevi bene! Siate tutti fratelli!… Soltanto la pace può rendervi felici! (R. Dal Piaz)
Il 4 novembre Questo giorno così vicino a quello della commemorazione dei defunti, ci ricorda l’eroismo di coloro che caddero per la Patria, che sacrificarono la loro giovane vita per darci un’Italia più grande, più forte, più rispettata. Fanciulli, non dimenticate coloro che sono morti in guerra. Anch’essi avevano dei figli, una mamma, una famiglia. Eppure, per compiere il loro dovere, non esitarono a fare l’ultimo sacrificio.
Trincee Dietro i reticolati si aprivano le trincee. Sprofondavano nel suolo, celate, traditrici; seguivano le pieghe del terreno, salivano faticosamente, scendevano a precipizio, si nascondevano fra le piante, tagliavano le strade, rigavano i prati; dove c’era un canaletto d’acqua, un arginello, una siepe folta, là si acquattavano, per ricomparire un momento su un dorso duro di colle e su un tratto di pianura pietrosa, e scomparire di nuovo, ingoiate dalla terra. (A. Gatti)
Zona di guerra Nell’acqua non lampeggiava riso di colore. Una larga fascia d’ovatta avvolgeva uomini e cose. Dove la terra si confondeva col cielo, al di là dei fiumi che si coprivano di nebbia, si addormentavano le città e i paesi devastati. La solitudine e la disperazione pesavano sulla terra. Tra i reticolati, le trincee e la terra di nessuno, stette schiacciata al suolo, per tre anni e mezzo, la folla senza nome dei fanti d’Italia, dei contadini, degli operai, dei piccoli impiegati. Milioni di uomini, ai quali era toccata l’opera più tremenda tra i fanti del mondo. (A. Gatti)
Epigrafi del cimitero di Redipuglia Che ti importa il mio nome? Grida al vento: “Fante d’Italia!” e dormirò contento. Più che il metallo alla trincea fu scudo dell’umil fante il forte petto ignudo. Mamma mi disse: “Va’!” ed io l’attendo qua. Seppero il nome mio gli umili fanti, quando balzammo insieme al grido: “Avanti!”. Ogni mattina, mamma, ed ogni sera, io sento l’eco della tua preghiera.
In trincea Che fatica infinita! Gli occhi di tutti erano velati di stanchezza e di dolore. Nessuno che non abbia vissuto nelle trincee del Carso e delle Alpi può sapere quanta disperazione sta in certi momenti nel cuore dell’uomo. I giorni di battaglia erano spaventosi, ma la grandezza del pericolo esaltava le forze. I giorni soliti, i giorni tutti uguali, in cui la morte coglieva uno a uno i suoi, qua e là, senza parere… quelli erano i più terribili…Eppure, i fanti d’Italia resistevano, e combattevano, e vincevano. (A. Gatti)
La trincea Nella notte, spesso un metro di neve cadeva a coprire i dormienti e i morti. Con le proprie mani, rompendo la roccia a palmo a palmo, accoppiando pietra con pietra, il fante costruiva con pena la strada e il sentiero che salivano i monti. Il cielo era gelido e muto. Attraverso le valli e sulle creste dei colli, gli zappatori scavavano con fatica e con pazienza la trincea; la neve continuava a cadere, il freddo era acuto, si sentiva al di là, sonoro, il lavoro del nemico che pure vigilava. (A. Gatti)
Cimiteri di guerra Uomini sepolti in tutti i cimiteri di guerra d’Europa, d’Asia, del mondo; mi inginocchi sulle vostre tombe come se tutti mi foste fratelli. Uomini che irroraste col vostro sangue la terra, là dove giace la spoglia mortale di uno solo tra voi, là siete tutti. Là rendiamo omaggio al fante italiano caduto nella steppa e sugli affocati deserti africani, all’americano e al giapponese caduti nella giungla selvaggia delle isole dei mari del Sud, al tedesco morto all’ombra di un antico campanile italiano. L’identico destino, l’identica morte vi affratellano. (A. M. Kanayama)
Il prete dei soldati Parlava così quel prete barbuto, con la sua grossa voce pacata, l’uomo dalla purpurea croce stampata larga sul petto, qui sul lato sinistro, dove sotto il grigio verde affaticato batteva forte il suo puro cuore di crociato; Parlava, il prete, diritto e grande sui gradini di neve, dall’altare di neve lassù ai confini della patria, agli alpini proprio accosto alla trincea: immensità! neve: vette: cielo: non c’era altro, parlava semplice tra la densa barba nera; diceva: “Qualcuno di voi, quelli che tornano di laggiù li han veduti; ma tutti certo li conoscono: li avete visti stampati i grattacieli americani, quei palazzi mostruosi, torri di venti di trenta piani che, con le case di qui, sono come i giganti coi nani. Quei palazzi sono armati, dentro, da una grande ossatura di ferro: un gabbione di ferro che tiene la muratura. E ci sono operai specialisti per quel primo lavoro del ferro: non facile: pericoloso. E molti, i più tra loro, sono nostri, italiani: gente che ha le mani d’oro. Un giorno, uno di questi, molto bravo nel mestiere, condusse il figlio, un bimbo di quattr’anni, al cantiere. Prese i ferri: e poi, che fa? piglia su il piccoletto, se lo lega coi ferri alla cintola ben stretto, e su, per le armature, a lavorare sull’orlo del tetto. Tutti fuori, appesi a una fune, dondolandosi sulla voragine, padre e figlio. E la gente, laggiù non si dava pace, ferma sui marciapiedi a guardare: “Che matto!” “Che cuore!” “E la polizia che fa?” “E’ suo figlio!” “Ah, sì? bell’amore di padre!” “Povera creatura! Sarà già morto dal terrore!” L’uomo badava al lavoro suo. E quando fu l’ora di scendere, scese: tranquillo; e tutta la gente allora, tutti addosso al bambino: “Uh, guarda che cera che ha!” “Di’: hai avuto paura? Molto, è vero?” “Di’: vieni qua…” Ma il bimbo, sorpreso, fece: “Paura? Io? No! C’era papà…”. Silenzio. Lo guardavano senza un respiro gli alpini. “Ebbene, vedete. Anche noi siamo come bambini, piccoli, piccoli, deboli, in faccia all’incerta sorte, sospesi anche noi, sempre, ad ogni attimo, sulla morte. Oh, ma anche per noi c’è il padre nostro che è forte! Lui ci vuole qui a combattere: lui, il padre onnipotente è giusto. Siamo con lui! Siamo degni! E non temiamo più niente! Come quel bimbo, fratelli! E allora, ditemi, quale minaccia, quale nemico, quale pericolo volete più che ci faccia paura, se noi stiamo, sempre, tra le sue braccia?” Si voltò all’altare, e “Credo in deum patrem…” pregò: e il giro delle piante ferrate sul gelo crocchiò. Un giorno, poi, quel prete fu portato a un ospedaletto da campo, grave molto: una pallottola nel petto. Ma tranquillo. Perchè egli era un confidente bambino tra le braccia del padre. S’è battuto bene: da alpino: con la sua bella croce sanguigna sul cuore: in Trentino. (G. Zucca)
Lettere dal fronte a Cecilia Dolceamore
Cecilia dolceamore, volevo scriverti ieri sera, ma c’erano troppe stelle, tante che pareva bastasse allungare una mano per coglierle. E tu sei venuta da me per guardare insieme le stelle, come facevamo a casa, nelle sere d’estate. Abbiamo ritrovato Cassiopea, il Gran Carro, Arturo, e la piccola Orsa, quella che ti piaceva tanto. Faceva fresco e tu tremavi un po’ e allora tu sei abbracciata a me per riscaldarti. Ho detto a Vincenzo di suonare l’armonica. Anche ora che siamo in guerra. Vincenzo è sempre lo stesso spensierato soldato che tu hai conosciuto. Ha tirato fuori l’armonica dalla tasca della giacca, se l’è passata sulle labbra e si è messo a suonare una canzonetta allegra. Tu hai sorriso e il tuo sorriso splendeva più delle stelle. Poi ti sei addormentata con la testina sul mio petto, dove il cuore batteva piano per non disturbarti. Abbiamo passato la notte così, ma, stamattina, quando mi sono destato, non c’eri più, Cecilia dolceamore, e allora ho voluto scriverti perchè così mi pare di stare ancora con te. Voglio raccontarti una storia che è un po’ triste, ma poichè tu vuoi sapere i fatti della guerra, è necessario che tu conosca anche le cose tristi. Se ci pensi bene, il dolore, in guerra, splende di un’altra luce. Cecilia dolceamore, anche la storia del soldatino mitragliere splende di una luce solare. Devi dunque sapere che c’era, qui, un piccolo mitragliere. Era un ragazzo sardo, bruno e piccolo di statura. Il Capitano gli aveva promesso di proporlo a sergente, a patto che egli fosse riuscito a buttar giù un apparecchio nemico. E il piccolo sardo voleva diventare a tutti i costi sergente. Da quel giorno s’era appostato con una mitragliatrice e non aveva più levato gli occhi dal cielo. E tutti gli portavano da mangiare e da bere in buca perchè quello non si sarebbe mosso di lì. Gli apparecchi arrivavano, ma passavano alti. Sdegnavano la nostra piccola postazione, per andare a sganciare le bombe dove c’era da fare più danni. “Almeno si fermassero qui a tirar bombe!” sospirava il soldato mitragliere. E Vincenzo rispondeva, le bombe un corno, perchè non gli piaceva quella storia. E così i giorni passavano, e il soldatino sparava, sparava sugli apparecchi lontani, ma gli aerei pareva nemmeno si accorgessero di quelle sventagliate troppo corte. Il mitragliere scriveva a casa che presto sarebbe stato sergente e la mamma rispondeva che nei giorni di licenza glieli avrebbe cuciti lei, i galloni, sulla manica della giubba. Ta ta ta, faceva la mitragliatrice, ma sparava sempre a vuoto, nel gran cielo turchino. Un giorno, finalmente, un apparecchio passò a tiro. E il soldatino sparò come un pazzo, ma era un pazzo che aveva imparato a inquadrare una rondine nel mirino. L’apparecchio rimase colpito. Cadde giù a piombo con una coda di fumo che si allungava nel cielo. E mentre cadeva, sparava anche lui, sventagliate di ferro e di fuoco, sui soldati nascosti dalle rocce. Lo videro, che andava a frantumarsi sul terreno e poco dopo c’era una gran colonna di fuoco. Tutti gridarono di gioia, solo il piccolo sardo no. Era rimasto nella sua buca, rattrappito sull’arma, ma il suo viso splendeva perchè prima di morire aveva visto l’apparecchio cadere. Cecilia dolceamore, adesso ti dirò che cosa ha fatto il Capitano, quello che aveva promesso al soldatino di proporlo per l’avanzamento a sergente, se avesse abbattuto un aereo. Quel Capitano, di nascosto, quando nessuno lo vedeva, andò ad attaccare i gradi d’argento sulla giubba del soldatino caduto. Di nascosto, perchè il regolamento non consente di promuovere i morti, ma proprio non gli reggeva il cuore di farlo seppellire senza quei galloni d’argento che egli aveva tanto desiderato. Cecilia dolceamore, il piccolo sardo adesso dorme nel cimitero di guerra e i suoi occhi, bruciati dal troppo guardare, sono ormai chiusi per sempre, ma la sua bocca sorride. E il suo cuore non è più in ansia perchè il suo sogno è ormai appagato. Figlietta, non essere triste. Forse, un giorno, di questa storia faranno una canzone e Vincenzo la suonerà sull’armonica. E allora, vedrai che non ti sembrerà più una storia triste. Adesso ti debbo lasciare. Mi metto le tue manine fresche sul viso che brucia. Che sollievo! Mi pare di avere sulle guance due petali di rosa. So che la mamma ti ha fatto un vestitino celeste. Ho bisogno urgente di vederti con quel vestitino. Cercherò di sognarti così. Tu ancora dormi e qui il cannone ha già cominciato a sparare. Dormi con la mano sotto il viso e fiori, sul balcone, il canarino canta per salutare il nuovo sole. Qui, col sole, è cominciata la musica, una musica di rombi e di scoppi che fa assordire. Ma negli intervalli, io riesco a sentire il canarino che canta. E vedo le tue ciglia tremare per trattenere il sonno che vuole lasciarti. E su quelle ciglia che lievemente tremano, Cecilia dolceamore, ti bacia il tuo papà.
Cecilia dolceamore, il tuo papà ti bacia le manine che hai bianche e gentili e vi appoggia la faccia ispida, ma leggermente, per non farti male. E col viso perduto nella freschezza delle tue mani, ti racconta una storia che non sa se allegra o triste: una storia vera di questa terribile guerra. C’era stata battaglia, Cecilia dolceamore, e molti morti giacevano sul terreno. Molti morti, amici e nemici, e all’alba, i soldati della Croce Rossa e il Cappellano andarono per comporli piamente nel piccolo cimitero. Cecilia, dolce bambina mia, non farmi vedere lacrime nei tuoi occhi, altrimenti io non potrò più raccontarti i fatti di questa guerra, la storia del soldato Girò, storia triste e allegra. L’avevano trovato morto, il soldato Girò, su uno sperone di roccia e l’avevano riconosciuto dalle scarpe nuove gialle, così gialle da non poterle confondere con nessun altro paio di scarpe. Gliele avevano date la mattina e lui aveva riso vedendole così gialle. “Sembro un canarino!” aveva detto. Lo avevano riconosciuto fra i morti solo per le scarpe, il soldato Girò. Cecilia dolceamore, non chiedere di più. Tu credi che i soldati che muoiono in guerra, restino tutti sorridenti, con un bel viso pulito e tranquillo? Non è così, figlietta, ma tu pensa sempre che sia così. E’ bello sapere che una bimba vede i morti in battaglia col viso irradiato di luce come gli angeli. Ma il soldato Girò non aveva più viso e l’avevano riconosciuto solo dalle scarpe gialle e nuove. Lieve era caduta su di lui la terra e ora dormiva sotto una croce di legno dove c’era scritto il suo nome. Ma l’indomani, il soldato Girò riapparve. Con le scarpe gialle e nuove. Lo guardai stupefatto. Salutò e mi disse che non era potuto venir prima perchè era rimasto nelle linee nemiche e solo durante la notte aveva potuto svignarsela. Uno sbaglio, soldato Girò, e gli mostrai la sua tomba. La guardò e tacque. Passò un’ora a grattare il suo nome dalla croce, poi rimase a fissare la piccola zona grattata dove non c’era più scritto “Soldato Girò” e dove ormai non si poteva scrivere nessun altro nome. Vincenzo, quando lo vide, rise. “Sei resuscitato?” Risero anche gli alti e gli fecero festa. Vincenzo suonò l’armonica in suo onore. I nemici, sentendo suonare e vociare, spararono. Qualche colpo come a domandare quello che succedeva. Poi venne l’ordine di spostarsi. Facemmo in fretta i preparativi. Smontammo le mitragliatrici, ci agganciammo i sacchi sulla schiena. Dov’era il soldato Girò? Nessuno lo trovava. Vincenzo, per chiamarlo, si passò l’armonica sulle labbra e ne cavò un trillo. Io lo sapevo dov’era e andai da lui. Era davanti alla tomba del soldato con le scarpe gialle. Aveva acceso un lumino. Si fece il segno della croce e venne via con me. E mentre si marciava, quel lumino ardeva nella notte e pareva una stellina caduta dal cielo. Ed eravamo in due a voltarci, io e il soldato Girò. Cecilia dolceamore, ho finito. Forse questa storia ti è sembrata troppo triste. Non è neppure un po’ allegra come mi sembrava in principio, ma io, vedi, dovevo raccontartela perchè quel lumino, in questa guerra così tremenda e spietata, è una cosa gentile. Soave e gentile come un fiore. E io so che ti piacciono le cose gentili. Tu a quest’ora dormi perchè è tardi e sei stanca. Un tuo ricciolo biondo si è sfatto sul guanciale e pare una seta l’oro. Cecilia dolceamore, ho bisogno, un bisogno assoluto di posare il mio viso su quella seta d’oro. Ti bacia il tuo papà.
Figlietta, oggi ho visto un fiore giallo. Lo coltivava un soldato dentro il bossolo di un proiettile e lo annaffiava amorosamente con l’acqua della borraccia. Cecilia dolceamore, ho accarezzato i petali di quel fiore giallo, chiudendo gli occhi, e sognavo di accarezzare la tua guancia gentile. Oggi il soldato ha bevuto una volta sola, perchè con l’acqua ha innaffiato il fiore. Vedi, è necessario qualche volta amare un fiore, perchè altrimenti, questa guerra ci farebbe troppo duri e indifferenti. Così duri che si può essere chiamati Cuore di Sasso. Era al Colonnello che avevano dato questo nome, un viso duro e asciutto dove non balenava mai la luce di un sorriso. Cuore di Sasso viveva nella sua baracca, non parlava mai con nessuno, solo per i terribili cicchetti che dava ai soldati. Erano loro che lo chiamavano Cuore di Sasso. Gli facevano un rigido saluto quando passava. Pareva, quando passava il Colonnello, che una nuvola nera offuscasse il sole e tutti i visi diventavano scuri. Ora senti, figlioletta, che cosa è avvenuto. Il motociclista era andato a prendere la posta. Non tornava. Tutti guardavano la strada e gli occhi dolevano per il troppo guardare. C’era un soldato, poi (si chiamava Esposito), più ansioso degli altri. Si sporgeva fuori dal riparo e il nemico, allora, sparava qualche colpo. Il Colonnello l’aveva guardato col cipiglio e quello, sotto il suo sguardo, si rincantucciava. “Mi deve nascere un bambino!” diceva sorridendo. Non aveva più soggezione nemmeno di Cuore di Sasso. Cannocchiali, occhi bruciati dal sole fissi sulla strada. “Bisogna andare a vedere” disse il Colonnello. “Può essere rimasto ferito. Ha gli ordini del Comando”. “Vado io, signor Colonnello?” e il soldato Esposito sorrideva timidamente e alzava la mano come a scuola, quando i ragazzi vogliono essere interrogati. “Per via del bambino…”. Cuore di Sasso accennò di sì con la testa e il soldato Esposito inforcò la motocicletta, felice. I nemici gli spararono dietro, ma poi la moto scomparve nel polverone. Gli occhi si riposarono dal gran guardare. Ricominciò l’attesa, scandita dai colpi rari di artiglieria. Ricognitori altissimi nel cielo. Poi, i soldati tornarono ad affacciarsi. Cuore di Sasso imprecava che stessero giù, , mica per loro, teste matte, ma perchè in guerra la vita d’ogni soldato è preziosa. Infine, un lontano rombo scoppiettante. Tornavano. Una motocicletta sopraggiungeva; sopra l’erano due soldati curvi, troppo curvi. Quando arrivarono, c’era tutta una striscia di sangue dietro a loro. Avevano tracciato una strada. Li tirarono già dalla macchina. Il portalettere era ferito, ma in modo non grave; il soldato Esposito aveva la schiena spezzata. Il motociclista raccontò. Un aereo l’aveva mitragliato. Era rimasto sulla strada, ferito, e la macchina resa inservibile. Poi era arrivato il soldato Esposito. L’aveva caricato sulla sua moto, ma era tornato l’aereo. Esposito si era accasciato sul manubrio, poi si era ripreso. Non l’aveva creduto ferito grave. E invece, era finito. Ora, il soldato Esposito giaceva sopra una brandina e guardava, senza parlare. Guardava il sacco della posta con gli occhi lucidi e ansiosi. Cuore di Sasso dette ordine di aprire. Ricevette la posta nelle sue mani ossute. C’era anche un telegramma. “Per te” disse al soldato Esposito che sorrise, felice. Il Colonnello aprì il telegramma. Lo lesse. “E’ nato un bel maschietto. Si chiamerà Italo. Mamma e bambino stanno bene. Baci”. Il viso del soldato Esposito si spianò dolcemente. Le palpebre calarono piano piano sugli occhi e la bocca rimase socchiusa nel sorriso. Cuore di Sasso gli prese il polso, poi dette ordini per il seppellimento. Aveva la gola secca, non poteva parlare. Gli era rimasto il telegramma in mano; lo consegnò a me. “Bisogna rispondere al Comando che il telegramma non è stato consegnato per morte del destinatario”. Lo lessi. Comunicava che la moglie del soldato Esposito era morta in seguito a bombardamento, nell’ultima incursione sulla città. Il telegramma mi cadde di mano; preso dal vento aleggiò come un fiore, un fiore giallo. Cuore di Sasso ispezionava le cucine. Sentii che dava un formidabile cicchetto al cuoco perchè nel rancio aveva messo troppa conserva. E quello, ristupidito, diceva di sì e stava sull’attenti con due enormi mazzi di gavette in mano. Cecilia dolceamore, quando tornerò tu mi prenderai la mano e mi condurrai nei giardini fioriti, vicino alle vasche dei pesci rossi. Tutto sarà molto nuovo per me. E non finirò di ammirare. Ma se qualche volta vedrai un’ombra scendere sul mio viso, passaci sopra la tua manina. Bisogna cancellare dai miei occhi la visione di quel telegramma svolazzante come un fiore giallo. Perchè, vedi, se non si potesse cancellare quel ricordo, non sarei più capace di godere della vista dei giardini fioriti e dei pesci rossi. E la vita sarebbe troppo difficile. Ti bacia il tuo papà.
(Mimì Menicucci)
Patria O Patria, parola sì breve sì grande, tra tante parole, che brilli di fuoco e di neve, e odori di scogli in un fervido accordo le genti vicine e lontane, e chiami a la prece e al ricordo con voce di mille campane; o Patria, sii tu benedetta per ogni remota contrada, sei sangue e rugiada, sei vita e bontà. O Patria, dai monti alle sponde sei tutta un sorriso di Dio! Te cingon di fremiti l’onde confuse in un sol balenio. E tutta un’immensa bellezza dal vivo tuo cuore s’espande letizia, virtù, giovinezza per culmini e lande, per campi e città. (L. Orsini)
Milite Ignoto Non sappiamo il tuo volto, o Sconosciuto, non il tuo nome rude di soldato, è ignoto il luogo che santificato fu dal tuo sangue quando sei caduto; ma il tuo viso fu bello e fu divino: forse un imberbe viso giovinetto… Lo vedo all’ombra fosca dell’elmetto sorridere con occhi di bambino. Fu nostro sangue il sangue tuo vermiglio… Sei senza nome, ed ogni madre, ignara, inginocchiata presso la tua bara singhiozza un nome, il nome di suo figlio; E che risuona in tutte le fanfare… Hai la tua casa in ogni casolare, ed appartieni a tutti i reggimenti. Sente ogni madre il suono della voce nota al suo cuore, eppure tu sei muto…; e là, sul campo dove sei caduto, tutte le croci sono la tua croce. Da quelle tombe un monito e un saluto con severo silenzio tu ci porti: son tutti i cuori dei fratelli morti chiusi nel cuore tuo, o Sconosciuto! (P. Rocco)
SCOPERTA DELL’AMERICA materiale didattico vario per la scuola primaria: dettati, letture, racconti, poesie e filastrocche sul tema.
Eric il rosso e i suoi figli
Un tempo, non c’erano libri che descrivessero terre lontane, non c’erano carte geografiche e nessuno tracciava itinerari che permettessero di andare in un luogo sconosciuto con una certa sicurezza. La gente non viaggiava molto e credeva il mondo più piccolo di quello che non fosse in realtà. I mezzi di trasporto erano primitivi, la gente andava a piedi, o tutt’al più, si serviva di carretti trascinati da cavalli, da asini o da buoi. Chi voleva andare per mare doveva accontentarsi di viaggiare su piccole navi che andavano un po’ a caso perchè la scienza della navigazione era ancora molto indietro. Oltre tutto, i mari erano infestati da pirati e le strade da briganti; quindi, chi si metteva in viaggio, doveva essere anche un uomo di fegato. Eppure, malgrado tutte queste difficoltà, c’erano uomini che arrivavano fino alle terre più lontane, sfidando disagi, pericoli e spesso rimettendoci anche la vita. Un po’ per smania di ricchezze, un po’ per amore dell’avventura, approdavano spesso a terre sconosciute e quando ne tornavano, raccontavano meraviglie. Nelle terre del Nord dell’Europa, ghiacciate e desolate terre, prive quasi di vegetazione a causa del clima polare, abitava un popolo che , avendo poco da fare su quella terra così inospitale, era sempre in mare. Si chiamavano Vichinghi, ed erano arditi navigatori che non avevano paura di uscire nel gran mare aperto. Uno dei più audaci, chiamato Eric il Rosso, sbarcò su quella terra che oggi noi chiamiamo Groenlandia. E i suoi figli, più audaci di lui, andarono ancora più in là, e approdarono in un territorio di cui ignoravano completamente l’esistenza e che chiamarono “terra delle viti”, perchè vi cresceva rigogliosa la pianta dell’uva. Era la parte più settentrionale di quella che oggi si chiama America. Ma pochi si interessarono ai racconti che i figli di Eric fecero quando tornarono in patria e dell’avventura dei biondi Vichinghi nessuno parlò più. Passarono cinquecento anni e i popoli europei avevano continuato a viaggiare. Attraversavano l’Asia per giungere alle Indie favolose, ricche di spezie, di sete, di gioielli e poichè le merci da trasportare erano tante e davano ricchi guadagni, la gente si cominciò a domandare se fosse stato meglio arrivarci per mare e caricare quelle preziose merci sulle navi invece che su carri e carretti. Un italiano, disegnatore di carte geografiche, certo Toscanelli, era convinto che la Terra fosse rotonda, anche se pochi, a quell’epoca, erano della sua opinione. Disegnò, perciò, una carta secondo questa sua teoria e la mandò a un suo amico genovese, Cristoforo Colombo, che era fra quelli che cercavano una nuova via per le Indie e voleva arrivarci veleggiando verso Occidente. Matto, lo diceva la gente. Com’era possibile raggiungere l’India e la Cina che si trovano a levante, mettendo, invece, la prua a ponente? Ma Colombo aveva studiato bene i venti e le correnti, e aveva visto che tanto gli uni quanto le altre si dirigevano verso ovest. Anche lui, come Toscanelli, era sicuro che la terra fosse rotonda, quindi, una nave che seguisse le correnti e fosse favorita dai venti, doveva arrivare alle Indie, pur facendo la strada opposta a quella fino allora fatta. Tanto insistette, il navigatore genovese, che finalmente ottenne tre caravelle dalla regina di Spagna che lo stimava molto. Raccolse un equipaggio di uomini spericolati e avidi soltanto di guadagno, e si mise in mare. “Fra sue mesi arriveremo alle Indie!” disse a quegli uomini rotti a tutti i rischi. Ma due mesi passarono e l’India non si vedeva. Spericolati sì, avidi sì, ma a un certo punto quegli uomini si intimorirono. Cielo e mare, mare e cielo. E come sarebbero potuti tornare indietro se i venti continuavano a spingerli sempre nella stessa direzione? Colombo, a un certo punto, rischiò la vita. L’equipaggio si ammutinò: o interrompere il viaggio e cercare di tornare in Patria, o quel genovese della malora avrebbe passato un brutto quarto d’ora. Finalmente, in una brumosa mattina di autunno, fu intravista, all’orizzonte, una striscia di terra. Era il 12 ottobre 1492: una data che i ragazzi avrebbero studiato sui libri di geografia e anche su quelli di storia. “E’ l’India!” disse Colombo. Ma non era l’India. Era un’isola sconosciuta e Colombo, grato a Dio che gli aveva salvato la vita, la chiamò San Salvador. Alcuni uomini di pelle rossastra andarono incontro ai navigatori. Colombo li chiamò Indiani, come chiamò Indie Occidentali le terre che si intravedevano all’orizzonte. Veramente non si trattava ne di Indie ne di Indiani, ma questo Colombo non lo seppe mai. Gli indigeni dalla pelle rossastra e dai capelli neri e setosi, che si chiamavano Occhio d’Aquila e Uragano di Primavera, fecero una festosa accoglienza a Colombo e ai suoi uomini. Erano ornati di collane e di monili d’oro che non esitarono a dare in cambio di specchietti e perline di vetro, cose che destavano la loro meraviglia perchè non le avevano mai viste. Ma dopo i primi festosi incontri, le cose cambiarono. Gli Spagnoli, alla vista di tutto quell’oro, non capirono e non vollero altro. Per cercare il prezioso metallo si spinsero su altre isole, ma non lo trovarono. Decisero allora di tornare in patria a prendere altre navi e altri uomini. Era una terra favolosa, quella, e chissà quante ricchezze celava. Bastava saperle cercare. Colombo fece in tutto quattro viaggi e scoprì altre isole. Ma ignorò sempre di aver scoperto un nuovo continente. Convinto di essere sbarcato nella favolosa terra delle sete e delle spezie, già descritta da Marco Polo nel suo libro “Il Milione”, fu deluso di non trovare ne le une ne le altre. E poichè non era riuscito a portare in Spagna i ricchi tesori che gli Spagnoli speravano, lo sfortunato e ardimentoso navigatore fu abbandonato da tutti e morì povero e solo dopo essere stato anche in prigione. Gli Spagnoli continuarono i loro viaggi e parecchi di essi si stabilirono nelle nuove terre, alcuni a cercarvi l’oro, altri a coltivare canna da zucchero. Trovarono finalmente la terraferma. Pianure e dopo quelle pianure, montagne. E su quelle montagne gran numero di Indiani che coltivavano granaglie, fagioli, tabacco, e andavano a caccia con archi e frecce. Ma ben presto l’avidità e la prepotenza degli Spagnoli guastarono l’amicizia con gli indigeni, e fra Pellirosse e Visi Pallidi vi furono guerre lunghe e sanguinose. Intanto si era scoperto che non si trattava delle Indie, ma di un continente di cui tutti, fino allora, avevano ignorato l’esistenza. E un fiorentino, Amerigo Vespucci, che l’esplorò e la descrisse, ebbe la fortuna di dargli il suo nome. (M. Menicucci)
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Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Guerre contro i Sanniti
I Sanniti abitavano le montagne boscose di quella regione che ora si chiama Abruzzo. La via dura tra rocce e foreste li aveva resi forti e coraggiosi. Roma, che continuava ad estendere il suo dominio, giunse ai loro confini e incontrò una resistenza tenacissima. Per venti anni vi furono battaglie. I Sanniti riportarono una vittoria a Caudio, tra Capua e Benevento, e costrinsero i prigionieri romani a passare chinati sotto un giogo (forche caudine). La guerra continuò incerta per altri trent’anni, finchè i Sanniti furono sottomessi ed altre terre si aggiunsero al dominio di Roma.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Taranto
Una città tutta distesa lungo il mare tentò di opporsi alla potenza di Roma: Taranto, un’antica colonia greca. Quando una piccola flotta mercantile romana apparve in vista della città, i Tarantini, per intimorire gli avversari, affondarono tre navi. Subito Roma si mosse per vendicare l’affronto. Taranto, temendo la minaccia delle legioni ormai vicine, invocò l’aiuto di Pirro, un sovrano greco avventuroso. Egli aveva un esercito disciplinato e ben armato e lo metteva al servizio di chi lo compensava riccamente. Possedeva inoltre un’arma nuova e potente: un buon numero di elefanti, addestrati a lanciarsi nella mischia con una torre sulla groppa, dalla quale gli arcieri fulminavano con le frecce i nemici. Due volte Pirro riuscì a sconfiggere i Romani, ma pagò il successo a caro prezzo. Superato lo sgomento, i Romani impararono a combattere contro gli elefanti: li atterrivano lanciando contro di essi dardi infuocati: così i pachidermi volgevano in fuga disordinata scompigliando le schiere di Pirro. I nemici furono travolti a Malavento (poi chiamata Benevento) nell’anno 275 prima della nascita di Cristo. L’ultimo ostacolo nella penisola era superato. Roma, padrona di mezza Italia, guardava oltre il mare: all’orizzonte appariva, come un invito, l’azzurro profilo della Sicilia.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le forche caudine
Per raggiungere l’Africa, la strada più breve passava fra i monti per una stretta gola, vicino a Caudio. I Romani si inoltrarono disavvedutamente per questo passaggio, senza l’aiuto di guide o di esploratori. Giunti alla gola Caudina trovarono il passaggio ostruito da massi e da alberi. Improvvisamente sbucarono da ogni roccia, da ogni nascondiglio, i Sanniti, fieri abitanti della regione. Invano i Romani, combattendo con valore disperato, tentarono di spezzare il cerchio d’uomini e di ferro che li stringeva. Dopo inutili tentativi, stremati di forze, scoraggiati, ogni giorno più mancanti di viveri, essi deliberarono e iniziarono trattative con il nemico, che li costrinse a sottomettersi all’umiliazione più atroce. Tutta l’armata preceduta dal console, al quale furono tolte le insegne ed il rosso mantello, passò sotto il giogo e subì la derisione dei Sanniti, i quali non esitarono a percuotere con le loro armi i legionari nell’atto in cui si chinavano, curvando la testa, per passare sotto le lance incrociate e conficcate a terra. Infine, il generalissimo sannita, Caio Ponzio Telesino, rimandò tutti, soldati e ufficiali, in patria, salvo poche centinaia di nobili cavalieri, che furono trattenuti in ostaggio.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le forche caudine
Tanto i Romani che i Sanniti non avevano abbandonato il proposito di conquistare la Campania. I primi ad agire sono i Romani: nel 327 aC, essi occupano la città di Partenope (l’odierna Napoli). La reazione dei Sanniti è però immediata: affidato il comando dell’esercito a un grande condottiero, Caio Ponzio, lo inviano in Campania contro le truppe romane. I primi cinque anni di guerra sono favorevoli per i Romani: essi riescono persino ad occupare buona parte del Sannio. Vista l’impossibilità di sconfiggere i Romani in battaglia, Caio Ponzio tenta allora di vincerli con l’astuzia. Fatte ritirare le sue truppe sui monti, presso Caudio, egli fa spargere la notizia che si è portato ad assediare Lucera (nell’Apulia), una città alleata di Roma. Non sospettando l’inganno, i Romani accorrono immediatamente in aiuto della città minacciata e, per giungere più presto, decidono di prendere la strada più breve che passa per Caudio. Errore gravissimo! Presso Caudio, questa strada entra in una valle stretta e profonda, i cui monti formano all’entrata e all’uscita di essa due gole strettissime, dette Forche Caudine. Tra quei monti e all’uscita della valle, Caio Ponzio aveva nascosto i suoi soldati. Ed ecco infatti il disastro. Attraversata la prima gola e percorsa la valle, i soldati romani trovano l’uscita bloccata da macigni. S’accorgono allora dell’agguato, retrocedono, tentano di ripassare da dove sono entrati; inutilmente; i Sanniti hanno occupato nel frattempo anche quella gola. Circondati da ogni parte, i soldati romani tentano con disperato valore di aprirsi un varco, ma invano. Dopo aver perduto parecchi soldati, essi sono costretti alla resa. Ben quarantamila Romani cadono prigionieri nelle mani dei Sanniti! (anno 321 aC) Dopo la grande vittoria sui Romani, Caio Ponzio scrisse al padre ( uomo allora molto celebre tra i Sanniti per la sua grande saggezza) per chiedergli come avrebbe dovuto trattare i nemici caduti in suo potere. Il vecchio saggio rispose: “O ucciderli tutti o rimandarli tutti salvi a Roma. Nel primo caso, prima che i nemicii abbiano ricostituito un esercito ci vorrà tempo, e ci lasceranno perciò in pace; nel secondo caso avremo per sempre la loro gratitudine”. Ponzio decise allora di rimandarli tutti salvi a Roma, ma volle prima che si sottoponessero a una grande umiliazione. Li costrinse a passare curvi e disarmati sotto il giogo, ossia sotto una lancia legata trasversalmente ad altre due piantate nel terreno. Il Senato Romano volle riparare immediatamente ad una sconfitta così indegna e inviò subito un nuovo esercito contro i Sanniti. La lotta fu ripresa con grande accanimento e solo nel 304 i Romani riuscirono ad ottenere presso la città di Boviano una grande vittoria sul nemico. Nella pace che ne seguì, i Sanniti dovettero riconoscere ai Romani il possesso della Campania. Ma anche i Sanniti non sono un popolo da arrendersi facilmente. Eccoli infatti prepararsi immediatamente alla riscossa. Quando nel 298 aC Etruschi, Umbri e Galli, desiderosi di abbattere la potenza romana, si riuniscono in una lega per combattere contro Roma, i Sanniti si affrettano ad allearsi con loro. Con l’aiuto di questi popoli, i Sanniti sperano di poter piegare per sempre i loro grandi rivali. I Romani non si perdono d’animo: a così grande pericolo, rispondono con fulminea rapidità. Formati tre eserciti, ne mandano uno in Etruria (l’attuale Toscana) contro gli Etruschi; il più numeroso in Umbria, dove si è concentrato il maggior numero di nemici; e lasciano il terzo a difesa di Roma. Tale strategia si mostra subito indovinatissima: gli Etruschi abbandonano gli alleati e accorrono a difendere la loro terra. Lo scontro decisivo, che vede impegnati trentacinquemila Romani contro cinquantamila alleati, ha luogo a Sentino (nell’Umbria). La battaglia infuria per tre giorni consecutivi: alla fine, i Sanniti vengono pienamente sconfitti. Impressionati dalla schiacciante vittoria romana, gli Etruschi, gli Umbri ed i Galli depongono le armi e trattano la pace con Roma; ma i Sanniti non si arrendono ancora: affidano un nuovo esercito a Caio Ponzio, tentano nel 292 una nuova riscossa. In meno di due anni devono però mettere da parte ogni speranza di rivincita: il loro esercito viene annientato e lo stesso Ponzio viene fatto prigioniero. Questa volta è veramente la fine: dopo mezzo secolo di durissime lotte, il valoroso popolo Sannita è costretto a sottomettersi alla potenza di Roma. Anche i popoli dell’Italia centrale, che si sono schierati dalla parte dei Sanniti, devono seguire la medesima sorte. Così, al termine delle lunghe guerre sannitiche (anno 290 aC), il dominio di Roma comprende parte dell’Etruria, l’Umbria, la Sabina, il Sannio e la Campania.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Roma e Taranto
I Romani dopo aver sconfitto i Sanniti, possedevano ormai, oltre il Lazio, gran parte della Toscana e dell’Umbria, le Marche e la Campania. Sulle coste dell’Italia meridionale sorgevano le città della Magna Grecia; esse controllavano la zona del Mediterraneo, dove le loro navi svolgevano il traffico commerciale. Queste città cominciarono a sentirsi minacciate dalla rapida avanzata di Roma. Tra loro, Taranto era la più ricca e potente. Quando il pericolo romano si fece più vicino, i Tarantini non si sentirono però abbastanza forti per sostenere l’attacco e chiesero aiuto a Pirro, re dell’Epiro, l’odierna Albania.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Fango e sangue sulle toghe degli ambasciatori romani
I Tarantini avevano affondato alcune navi dei Romani. Roma mandò a Taranto alcuni ambasciatori che, invece di ricevere scuse, furono gravemente offesi. Ecco come si svolse l’episodio. Gli animi dei Tarantini sono colmi d’ira: i Romani hanno osato attraversare con le loro triremi quel mare che avevano promesso di non solcare mai, ed ora mandano gli ambasciatori a protestare perchè quattro navi sono state affondate? Passano gli ambasciatori per le strade bagnate dalla pioggia, e guardano con occhi alteri i volti dei Tarantini, che si assiepano lungo il passaggio. Ora si fermano davanti ai capi della città e il più anziano di essi comincia a parlare. Parla della gloria di Roma, della forza di Roma, della potenza di Roma… Ed ecco uno della folla chinarsi, prendere una manciata di fango e gettarla sulla toga immacolata dell’ambasciatore che continua a parlare di Roma! L’ambasciatore ammutolisce. Tra i Tarantini serpeggia il riso. Qualcun altro, seguendo l’esempio del primo, prende di mira la toga con nuove manciate di fango. Allora l’ambasciatore dice con voce ben chiara: “Leverete col vostro sangue questa toga, che avete macchiato col vostro fango!” Troppo tardi nel cuore dei Tarantini trema lo sgomento: ci sarà la guerra!
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le vittorie di Pirro
Pirro, re dell’Epiro, faceva paura, anche perchè nel suo esercito marciavano animali stranissimi, fortissimi e non mai visti dai Romani. Questi spaventosi animali erano gli elefanti. I Romani se li videro davanti, per la prima volta, in Lucania. Perciò li chiamarono buoi lucani. Tutti fuggivano alla vista di quei colossi, con le gambe che sembravano colonne e con le proboscidi che lanciavano gli uomini lontano. Ma i Romani, dopo il primo momento di paura, si cacciarono sotto la pancia degli elefanti, squarciarono loro il ventre con la corta spada. Nel vedere molti dei suoi elefanti riversi a terra e immobili come montagne, Pirro ebbe a dire: “Un’altra vittoria come questa e sono rovinato!” (P. Bargellini)
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – La spedizione di Pirro
L’Italia Meridionale era abitata in parte da popolazioni italiche, in parte da Italioti, Greci stabiliti nelle città della costa del golfo di Napoli, fino allo Ionio e all’Adriatico: Le città greche più importanti erano Taranto e Turio. Turio, assalita dai Lucani, chiese aiuto a Roma, e per soccorrere questa città, i Romani si trovarono in guerra aperta con la potente Taranto. I Tarantini si accorsero ben presto di aver commesso un grave errore stuzzicando i Romani, e non volendo restarne schiacciati, ricorsero ad un sovrano balcanico, Pirro. Pirro, re dell’Epiro, apparteneva come razza al gruppo illirico della famiglia indoeuropea, lo stesso che attualmente è rappresentato dagli Albanesi; era giovane, ardito e ambizioso. In tutta la sua vita aveva cercato le avventure, e l’avventura a cui lo invitavano i Tarantini gli pareva la più bella e la più promettente. Non poteva egli, introdotto in Italia dai Tarantini, diventare, vincendo i Roman, il signore dell’Italia, un paese che la voce dei mercanti gli dipingeva più bello del suo selvaggio e sterile Epiro? Pirro accettò la proposta dei Tarantini, e sbarcò a Taranto con ventitremila uomini e venti animali da cui forse il suolo d’Italia non era stato mai calcato. I Romani certo non li conoscevano e, prima di apprendere dai Greci che quegli animali si chiamavano elefanti, li chiamarono ingenuamente, dalla terra d’Italia in cui la prima volta li avevano incontrati, “bovi di Lucania”. Il primo scontro tra Pirro e i Romani si ebbe presso una città sul golfo di Taranto chiamata Eraclea, nel 280 aC. I “bovi di Lucania”, lanciati abilmente in mezzo alle file dei combattenti, spaventarono talmente i fanti romani che, pur avendo causato tra le file degli Epiroti perdite gravissime, essi dovettero volgere in fuga alla fine della battaglia. “Un’altra di queste vittorie, e dovrò tornare in Epiro senza un soldato”, disse allora tristemente il valoroso re balcanico, e da quel momento si chiamò “vittoria di Pirro” ogni vittoria ottenuta a troppo caro prezzo. Il Re, invece di sfruttare il suo successo, cerca di trattare la pace con Roma, e solo quando il Senato gli impone per questa condizioni troppo gravose, si risolve a riprendere la guerra. Caio Fabrizio e Manlio Curio Dentato sono i comandanti degli eserciti che Roma manda contro il pericoloso intruso. Pur combattendo valorosamente e vittoriosamente ad Ascoli di Puglia e a Benevento, i due forse non insegnano nel campo militare nulla di nuovo al bellicoso sovrano, ma, a stare a quanto raccontano gli storici, essi fecero sì che il Re ripassasse l’Adriatico col ricordo incancellabile della grande onestà dei magistrati romani che non solo, poveri, non si lasciarono corrompere dalle offerte di denaro, ma sapevano essere leali col nemico contro i loro interessi.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Onestà di Fabrizio
Dopo la battaglia di Eraclea, in cui i Romani furono gravemente sconfitti, giunsero ambasciatori a Pirro per trattare la restituzione dei prigionieri di guerra. Fra gli ambasciatori romani era Caio Fabrizio, noto per il suo valore e per la sua onestà. Pirro, sapendo che Fabrizio era anche molto povero, cercò di corromperlo, offrendogli una considerevole somma, come segno di amicizia. Fabrizio rispose sorridendo a Pirro che la sua povertà gli era cara quanto la libertà personale e rifiutò il dono. Il giorno seguente Pirro cercò di spaventare l’onesto ambasciatore facendo entrare nella tenda in cui si trattava la resa dei prigionieri un elefante (animale che Fabrizio non aveva mai veduto). Ancora una volta Fabrizio sorridendo disse che l’elefante non lo aveva spaventato più di quanto lo avesse persuaso l’offerta dell’oro. Pirro cominciò a stimare fortemente Fabrizio e la stima accrebbe in altra occasione. Il medico personale del re aveva inviato una lettera a Fabrizio, promettendogli che se avesse avvelenato Pirro sarebbe stato ampiamente ricompensato. Per tutta risposta Fabrizio rivelò a Pirro ogni cosa, avvisandolo del tradimento e del pericolo che incombeva su di lui.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le ambizioni di Pirro e la saggezza del suo ministro
Pirro, il famoso re dell’Epiro, s’apparecchiava con grande entusiasmo alla sua spedizione in Italia, chiamato dai Tarantini contro i Romani. Non mai il suo amico e consigliere Cinea l’aveva visto così allegro. “Vedi?” gli diceva enfaticamente il re, mettendolo a parte dei suoi progetti, delle sue ambizioni e delle sue speranze, “Adesso noi conquisteremo l’Italia.” “E poi?”, gli rispondeva Cinea, conservando tutta la propria calma. “Dopo l’Italia”, proseguiva Pirro, “abbatteremo Cartagine e conquisteremo l’Africa” “E poi?” “Poi conquisteremo la Macedonia, la Grecia e gli altri Paesi del mondo”. “E quando avremo conquistato tutto il mondo?” “Oh! Allora” esclamò Pirro “noi ritorneremo nel nostro regno e godremo una continua pace….” “E perchè” l’interruppe Cinea “non cominciamo subito da questo? Perchè lasciare in ultimo quel che si può avere in principio?” Se Pirro avesse dato ascolto al suo ministro, non gli sarebbero toccate le batoste che ebbe dai Romani a Benevento.
Nonostante le sue smodata ambizioni, il re Pirro fu uomo generoso, oltre che gran capitano. Una volta, gli fu riferito che alcuni giovani, in un banchetto, si erano scagliati a dir corna di lui. Egli li fece subito imprigionare, e condotti alla sua presenza, domandò loro se fosse vero. “Altro che vero!” rispose uno, “E se non fosse stato che sul più bello ci mancò il vino, a parole, ti avremmo anche ammazzato!” Rise il re Pirro, e cavallerescamente li rimandò a casa, raccomandando loro di non bere più tanto vino un’altra volta.
Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Storia di Roma IMPERIALE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.
Storia di Roma IMPERIALE – Augusto
Alla morte di Cesare, tutta Roma insorse contro gli uccisori: Cesare era stato il grande conquistatore della Gallia. Egli era stato amico del popolo e il popolo voleva vendetta. I congiurati fuggirono e, a Roma, pretese il potere Marco Antonio, luogotenente di Cesare durante le guerre vittoriose. Molti temevano la prepotenza di Antonio, e i Senatori gli erano avversari accaniti. A Marco Antonio si affiancò, intanto, un giovane di vent’anni, Cesare Ottaviano, parente ed erede di Cesare. Dapprima i due furono d’accordo e si divisero il potere dello Stato: Antonio ebbe le terre d’Oriente, Ottaviano quelle d’Occidente. Ottaviano, però, era ambizioso e sicuro di sè ed aveva l’appoggio e l’amicizia del Senato. Appena Antonio, con i suoi errori, gliene diede l’occasione, mosse guerra contro di lui e lo sconfisse nella battaglia di Azio (Grecia). Antonio si uccise. Ottaviano rimase solo al potere. Egli ottenne, allora, ogni autorità; fu, nello stesso tempo, console, dittatore, pontefice; ebbe i titoli di Augusto, che vuol dire “grande”, “divino”, e di Imperatore, che vuol dire “comandante supremo” delle legioni. Con Cesare Ottaviano Augusto , nell’anno 27 aC finiva la Repubblica e cominciava l’Impero. Augusto governò saggiamente lo stato e, dopo tante lotte, garantì ai Romani un lungo periodo di tranquillità. In Roma sorse un tempio dedicato alla Pace dove l’Imperatore stesso compiva le cerimonie dei sacrifici. Trascorsero 27 anni e, in una lontana provincia dell’Impero, la Palestina, nacque Gesù.
Storia di Roma IMPERIALE – Ottaviano, Antonio e Cleopatra
Gli uccisori di Cesare fuggirono in tutta fretta per non essere massacrati dal popolo. La repubblica fu ancora sconvolta da sanguinose guerre civili che si conclusero con la vittoria di Caio Giulio Cesare Ottaviano, nipote del morto dittatore. L’ultimo suo rivale fu Marco Antonio, un eccellente uomo di guerra che aveva avuto dal Senato il governo delle province d’Oriente. Laggiù aveva sposato Cleopatra, regina d’Egitto, e s’era messo, lui, governatore romano, a regalare alla moglie regina, territori che appartenevano a Roma. Ottaviano non poteva permetterlo e perciò gli mosse guerra. La guerra fra i due rivali fu decisa da una battaglia navale, ad Azio, nel mar Ionio, 15 anni prima che nascesse Gesù. Antonio e Cleopatra avevano una flotta di grosse navi; le navi di Ottaviano erano invece piccole, ma agilissime, ed ebbero la meglio. Ottaviano inseguì i vinti fino in Egitto. Là, i due si uccisero: Antonio con la propria spada; Cleopatra facendosi mordere da un aspide… e anche l’Egitto cadde in potere di Roma.
Storia di Roma IMPERIALE – La battaglia di Azio
La battaglia di Azio fu combattuta il 2 settembre del 31 aC, tra le 250 navi leggere di Ottaviano e le 500 navi pesanti di Antonio: tra queste ultimi figurano 60 vascelli egizi, uno dei quali, riconoscibile dalla vela rossa, portava Cleopatra, regina d’Egitto. Lo scontro avvenne al largo del promontorio di Azio, sulla costa occidentale della Grecia. Su quella punta sorgeva un tempio dedicato ad Apollo, e i soliti bene informati, a Roma, andavano dicendo che Ottaviano era figlio del dio… quindi un presagio era chiaro! Non si capisce come mai Antonio, uno dei più bravi comandanti di cavalleria di Roma, abbia preferito dar battaglia per mare. Senza dubbio fu per accontentare Cleopatra, la quale invece aveva fiducia solo nella flotta. Imbarcò dunque 2.000 legionari e 3.000 arcieri. I marinai, in queste battaglie navali, avevano solo il compito di manovrare e di accostare le navi a fianco a fianco di quelle nemiche. La battaglia era allora affidata ai fanti, i quali combattevano sui ponti delle navi come a terra. I veterani di Antonio avevano protestato: ma Antonio aveva deciso che avrebbe giocato sul mare la sua sorte. Un debole vento spinse la sua squadra verso quella di Ottaviano, il quale attendeva al largo e per un po’, allo scopo di allontanarsi bene da terra e trovarsi in acque libere rifiutò battaglia. Poi Agrippa diede l’ordine d’attacco. Arrivate in vicinanza delle pesanti navi nemiche, i suoi soldati cercarono di raggiungerle con giavellotti incendiari. La linea di Antonio si ritirò al centro e Agrippa si infiltrò subito nella breccia aperta. Nulla certo era ancora perduto ma Cleopatra, trovandosi al centro della terribile mischia, perse la testa. In pieno combattimento ruppe il contatto col resto della sua flotta e la sua vela purpurea, immediatamente seguita da tutte le vele egizie, s’allontanò verso l’Egitto. A questo punto anche Antonio perse il controllo: abbandonando la sua squadra, che cadeva sotto i colpi nemici, raggiunse la nave regale e si accasciò affranto sul castello della nave con la testa tra le mani. Meno di un anno dopo la regina e il comandante fuggiasco si diedero la morte: Antonio, trafiggendosi con la propria spada, Cleopatra facendosi mordere da un serpente velenoso. Tutto, anche il suicidio, gli era sembrato preferibile alla vergogna di comparire come prigioniero nel trionfo di Ottaviano. A Roma la notizia della vittoria di Azio fece tirare al popolo un sospiro di sollievo. Tutti avevano tremato prima che la sorte delle armi avesse deciso la contesa. Roma, come ben si sapeva, aveva vinto l’Oriente solo grazie alla sua disciplina e ai suoi metodi di guerra. Se ora generali romani, come Antonio, avessero tentato di organizzare quelle masse, che cosa sarebbe accaduto? Cessò dunque la paura, si tirarono fuori dalle cantine le anfore di vino invecchiato nell’attesa del gran giorno: finalmente cominciava un’epoca di pace! E un piccolo uomo grassoccio, fino a poco prima ufficiale assai poco valoroso tra le file di Bruto, il buon poeta Orazio, versando nella sua coppa il vino migliore, esclamava: “Nunc est bibendum!” (si beva, orsù!). Il sole di Azio rischiarava un mondo nuovo. Difatti, seguirà un lungo periodo di pace interna, operosa, che farà dimenticare un triste passato di sangue.
Storia di Roma IMPERIALE – Ritratto di Augusto
Bello di aspetto, il volto sempre calmo e sereno, anche nei momenti più difficili, Augusto sapeva infondere rispetto e quasi venerazione in chiunque. Un capo dei Galli, che aveva deciso di ucciderlo durante un colloquio, confessò poi di essere stato trattenuto, proprio per la serena maestà del suo volto. Aveva abitudini e gusti semplici, non amava mostrarsi in pubblico per ricevere onori; spesso anzi entrava ed usciva dalla città solo di notte perchè nessuno lo vedesse e gli rendesse gli onori. Cortese con tutti, amato dal popolo, si meritò giustamente il titoli di Padre della Patria. Quando Ottaviano ritornò a Roma vincitore, il Senato gli conferì tutte le cariche e tutti gli onori: nessuno, prima di lui, era stato tanto esaltato! Ma egli non si insuperbì. Il senatore Valerio Messala a nome di tutti così lo salutò: “Salute a te e alla tua casa, Cesare Augusto; noi pregando gli dei per te, preghiamo felicità perpetua e lieti destini alla Repubblica; il Senato, d’accordo col popolo romano, ti acclama Padre della Patria.” Augusto, con le lacrime agli occhi, rispose: “Ed io pregherò gli dei perchè mi concedano di godere del favore del Senato e del popolo romano fino all’estremo giorno della mia vita”.
Storia di Roma IMPERIALE – Carattere di Augusto
Nei giorni di udienza ammetteva perfino i plebei, alla rinfusa, e con tanta benignità accoglieva i desideri di chi andava da lui, che un giorno, vedendo l’esitazione di uno che non sapeva come porgergli la sua supplica, gli disse scherzando se aveva paura di lui come di un elefante dalla minacciosa proboscide. Nei giorni in cui teneva seduta in Senato, entrava, e quando tutti erano seduti, salutava cordialmente per nome i singoli senatori, senza che alcuno gliene ricordasse il nome. Usava modi cortesi con tutti e non mancava mai alle solennità dei suoi amici. Egli rispettò la libertà di tutti. Era senza dubbio molto amato. I cavalieri tutti gli ani celebravano per due giorni di seguito il suo giorno natale; gli altri ordini gettavano ogni anno nel Foro una moneta rituale per la sua salute, e per capodanno gli offrivano la strenna in Campidoglio. Quando riedificò la sua casa sul Palatino dopo l’incendio che l’aveva distrutta, i veterani e tutte le classi cittadine gli offrirono grosse somme di denaro; ed egli non levò da quelle somme che un solo denaro per ciascuna.
Storia di Roma IMPERIALE – La pace romana
Dopo tanti anni di guerre, i popoli dell’Impero accettarono ben volentieri il governo di Augusto, che assicurava a tutti di poter vivere in pace sotto il segno di un’unica legge: quella romana. Durante il suo lungo e pacifico regno, Roma divenne bella e bene organizzata città. Furono restaurati templi ed edifici, vennero demolite numerose vecchie case, si provvide a rafforzare gli argini del Tevere, si costruirono nuovi ponti ed acquedotti. La città si arricchì di bellissimi palazzi e ville, di giardini , fontane di marmo, statue, portici per le passeggiate, di teatri, di fastosi templi, di meravigliosi monumenti, come l’Ara Pacis, e di una grandiosa piazza, chiamata Foro di Augusto. Molte opere furono eseguite o abbellite col denaro dello stesso Imperatore; per questo il Senato conferì ad Augusto il titolo di Restauratore degli edifici sacri e delle opere pubbliche. L’aspetto di Roma mutò tanto che Augusto ebbe a dire: “Ho trovato una città di mattoni e la lascio di marmo”. Anche gli scrittori ed i poeti del tempo, nominando Roma, la chiamarono grande, bellissima, aurea, eterna.
Storia di Roma IMPERIALE – Il governo di Augusto
Nella sua bella casa privata sul Palatino, Augusto diresse l’amministrazione del vasto stato. Con alcune guerre di carattere difensivo allargò i confini a nord e ad est delle Alpi, portandoli al Danubio. L’impero si estendeva ora dalle coste dell’Atlantico all’Eufrate e al Mar Rosso, dalla Manica, dal Reno, dal Danubio e dal Mar Nero alle sabbie del deserto africano, per una superficie doppia di quella dell’impero di Alessandro Magno. Ottaviano si propose di renderlo omogeneo con leggi ed ordinamenti uguali, di migliorarne l’amministrazione, di difenderne la sicurezza, di rinnovarlo moralmente. Per poter compiere questa grande opera, fu amante della pace; tornato a Roma dall’Egitto, chiuse le porte del tempio di Giano a significare che si inaugurava per tutto l’impero la Pax Romana. Augusto riformò anche l’amministrazione delle province antiche e nuove; anzitutto divise l’impero in 25 province distinte in senatorie ed imperiali. Erano senatorie, cioè governate da proconsoli eletti dal Senato, quelle (12 in tutto) di più antica conquista e quindi di pacifico dominio; imperiali quelle di recente conquista e poste nelle zone di confine, facili perciò a pericoli interni ed esterni: erano governate dall’imperatore per mezzo dei suoi luogotenenti o prefetti. A tutti i funzionari delle province assegnò un regolare stipendio. Così si cominciò a formare una classe di impiegati statali, quella che noi chiamiamo burocrazia. Riordinò anche l’esercito. Siccome il reclutamento obbligatorio non era più gradito ai Romani, organizzò un esercito permanente, formato di volontari stipendiati che prestavano servizio per vent’anni, e poi venivano congedati, ricevendo un premio in denaro o un pezzo di terra da coltivare. Augusto curò anche la flotta e pose basi navali, una a Ravenna e l’altra a Miseno, una terza nel Mediterraneo occidentale per sorvegliare le coste galliche e spagnole, una quarta nel Ponto Eusino per il confine orientale. Per la protezione della sua persona, istituì nuove coorti di soldati speciali detti pretoriani, dal nome del palazzo imperiale Praetorium. Compì grandi lavori pubblici di abbellimento e di utilità: templi, archi, acquedotti, vie. Augusto cercò anche di ravvivare il sentimento religioso, la moralità nei costumi, l’amore all’agricoltura, il patriottismo dei cittadini, che si erano rilassati per lo smodato desiderio delle ricchezze, del lusso, dei piaceri materiali; ma queste riforme ebbero scarso risultato. Insieme con i suoi consiglieri, Mecenate ed Agrippa, incoraggiò la letteratura e l’arte che raggiunsero allora il massimo splendore.
Storia di Roma IMPERIALE – Augusto e il centurione
Un giorno l’imperatore Cesare Ottaviano Augusto se ne stava tra i suoi amici, quando seppe che un centurione chiedeva con insistenza d essere ricevuto. Ordinò che fosse fatto passare. Appena vide il centurione, Augusto sorrise: riconosceva in lui uno dei suoi più fedeli soldati. Gli chiese che cosa volesse. “Il tuo aiuto, Cesare. Un nemico invidioso delle terre che mi hai regalato, come a tutti i tuoi soldati, ha presentato in tribunale una grave accusa contro di me. Io so di avere il giusto diritto dalla mia parte; egli ha una grande autorità presso i giudici che dovranno dare la sentenza; perciò sono venuto a chiederti di difendere la mia causa”. I presenti si guardarono tra loro sbalorditi. Come osava, un modesto centurione, parlare così al signore di Roma? Ma Augusto ben conosceva quel soldato; sapeva che veramente era stato fedele e valoroso. Gli additò allora una persona che gli sedeva accanto, e che era un famoso avvocato. “Ecco, questo mio amico ti difenderà davanti ai giudici perchè il tuo buon diritto trionfi. Va’ pure tranquillo”. Ma il centurione non si mosse. Poi alzò fieramente il capo e, aprendo la veste sul petto, mostrò le ferite che lo solcavano. “Cesare, quando nella battaglia di Azio la tua fortuna e la tua vita erano in pericolo, io non incaricai nessuno di difenderti, ma lo feci io stesso”. Augusto tacque, colpito; poi, guardando il soldato: “Hai ragione!” disse, “Va’ senza paura: verrò io stesso in tribunale a difendere la tua causa”. (C. Lorenzoni)
Storia di Roma IMPERIALE – Ave, o Cesare
L’imperatore Cesare Augusto tornava a Roma dopo aver vinto una grande battaglia. Un popolano gli andò arditamente incontro e gli presentò un corvo, al quale egli aveva insegnato a dire: “Ave, o Cesare, vittorioso imperatore!”. Augusto, sorpreso e lusingato, volle l’uccello e diede in cambio una forte somma di denaro. Un povero ciabattino, che aveva assistito alla scena, con i pochi suoi risparmi comperò subito un bel pappagallo e cominciò ad ammaestrarlo, perchè salutasse l’imperatore con le stesse parole del corvo. Ma il pappagallo stentava ad imparare e il povero ciabattino, sfiduciato, dopo ogni prova ripeteva: “Oh povero me, ho sciupato tempo e denaro!”. Finalmente il pappagallo riuscì a ripetere le parole del saluto ed il ciabattino, contento e pieno di speranza, si presentò ad Augusto. L’uccello, sollecitato, disse con bella voce e molta sicurezza: “Ave, o Cesare, vittorioso imperatore!”. Ma Augusto, udito il saluto, rispose disgustato: “Via! Via! Ho pieni gli orecchi di questi saluti!”. Il povero ciabattino stava per andarsene mortificato, quando all’improvviso il pappagallo, con sfacciata petulanza, si mise ad urlare: “Oh povero me, ho sciupato tempo e denaro!”. Augusto rise a quelle parole, richiamò il ciabattino e comprò il pappagallo a caro prezzo.
Storia di Roma IMPERIALE – L’Altare della Pace
In onore dell’Imperatore un mese dell’anno prese il nome di Agosto, che vuol dire mese di Augusto. Gli avrebbero voluto innalzare anche un tempio, ma egli non volle. Preferì che, nel cuore di Roma, sorgesse un nuovo monumento, chiamato l’ “Altare della Pace”. Aveva forma quasi quadrata ed era costruito tutto in marmo, con due fronti e una porta per ogni fronte; internamente vi era l’altare o ara. Il monumento, privo di colonne, era percorso da magnifici bassorilievi, dove erano sculture rappresentanti una solenne processione: la processione di uomini, donne e bambini, che portavano i loro voti all’altare della pace, promettendo di essere sempre pacifici e concordi. Nel periodo della pace di Augusto progredirono gli studi e la cultura. Visse allora il poeta Virgilio, il più grande poeta latino e uno dei più grandi dell’umanità. Inoltre vanno ricordati Orazio, Tibullo, Ovidio, anch’essi poeti, e il grande Tito Livio.
Augusto
Augusto fu l’ultimo console e il primo imperatore romano. Il destino gli aveva preparato un grande avvenire. Non per nulla, mentre, ancora fanciullo, aveva chiesto ad un indovino che cosa li prediceva per il futuro, l’indovino stesso gli si era inginocchiato davanti. Tuttavia egli era di animo mite e giusto e benevolo. Ad un soldato che gli diceva di difenderlo davanti ai giudici rispondeva dapprima: “Ti manderò in difes il mio migliore avvocato”. Ma siccome il soldato insisteva dicendo: “Quando mi chiamasti per la guerra io stesso venni e non mandai altri!”, Augusto aggiunse pronto: “Hai ragione! Verrò io stesso!”.
Storia di Roma IMPERIALE – Virgilio
A Roma si diceva “Virgilio consuma più olio che vino”. Ciò voleva dire che Virgilio studiava, anche di notte, al lume della lucerna e che era sobrio, cioè mangiava poco e beveva meno. Egli diceva di sè “Sono nato in un solco di campo, presso Mantova”. Infatti era nato da famiglia contadina, a Pietole. Si narrava che, appena nato, trovandosi in una culla, n mezzo al campo, uno sciame di api si erano posate sui rosi labbruzzi. Da grande divenne poeta dolcissimo. Le sue parole sembravano davvero di miele. A Roma fu molto stimato dall’Imperatore Augusto e protetto da un ricco patrizio di nome Mecenate. Egli scrisse, tra l’altro, un grande poema, nel quale narrò la storia di Enea e la fondazione di Roma. Perciò quel poema fu intitolato Eneide. I versi dei poeti, allora, venivano cantati, con l’accompagnamento della lira, strumento musicale con cinque corde di metallo. Nei suoi versi, Virgilio annunciava tempi nuovi, di pace e di bontà, nei quali non avrebbe più contato la forza, ma la dolcezza e la mansuetudine. Il grande poeta morì a Brindisi nel 19 aC e fu sepolto a Napoli, in faccia al mare da cui era venuto l’eroe del suo poema.
Virgilio
Virgilio fu un grande poeta vissuto durante l’impero di Augusto. Egli amava la natura, gli animali e le piante; preferiva la vita campestre e si affliggeva che l’agricoltura fosse, ai suoi tempi, in abbandono. La sua opera più importante fu l’Eneide, dove volle celebrare la sua patria dalle origini fino ai tempi di Augusto. Secondo le ultime volontà di Virgilio, questo poema doveva essere distrutto, ma dobbiamo ad Augusto se ancora possiamo leggere i versi armoniosi dell’Eneide.
Storia di Roma IMPERIALE – Quanti erano i cittadini romani
“Nel mio sesto consolato feci il censimento del popolo… Risultarono allora censiti 4.063.000 cittadini romani. E poi di nuovo ripetei la stessa cerimonia da solo col potere consolare, durante il consolato di Caio Censorino e Gaio Asinio. E furono in questo lustro censiti 4.233.000 cittadini romani. Per la terza volta, rivestito del potere consolare, feci il censimento avendo collega il mio figliolo Tiberio Cesare, quand’erano consoli Sesto Pompeo e Sesto Apulio; e risultarono allora cittadini romani 4.037.000” (da Res gestae divi Augusti)
Storia di Roma IMPERIALE – Roma grande emporio della terra
Il mar Mediterraneo come una cintura cinge il centro del mondo e il centro del vostro dominio; e intorno al mare si stendono i continenti colmi di ricchezze sempre a vostra disposizione. Qui affluisce, da ogni parte della terra e del mare, quello che producono le varie stagioni, le singole regioni, industrie di Greci e di barbari: per vedere tutte queste diverse cose, bisognerebbe viaggiare per tutta la terra, ma basta venire nell’Urbe. Tutto quello che si produce e si fabbrica nei singoli paesi, qui si trova. E così numerose approdano qui le navi mercantili in tutte le stagioni ad ogni mutare di costellazione, cariche di ogni sorta di mercanzie, che l’Urbe si può paragonare al grande emporio generale della terra. E così forti carichi di vedono arrivare dall’India e perfino dall’Arabia felice da far venire il dubbio che in quei paesi siano rimasti spogli gli alberi, e gli abitanti debbano venir qui a domandare i loro prodotti quando ne hanno bisogno; e le stoffe di Babilonia e gli altri generi di lusso di quelle lontane terre barbare si vedono arrivare con molta maggiore frequenza e facilità delle mercanzie inviate da Cidno ad Atene in altri tempi. Sono vostri granai l’Egitto, la Sicilia e la Libia nella parte abitata. (Elio Aristide)
Storia di Roma IMPERIALE – L’impero di Augusto
L’Impero Romano si stendeva ormai, con Augusto, dal Reno al Danubio, a nord, fino al deserto dell’Africa ed alle montagne dell’Atlante, a sud; dall’Atlantico, ad ovest, fino al Mar Nero, al Ponto, alla Siria, al Mar Rosso, ad est. “Allargai i confini di tutte le province del popolo romano, alle quali erano confinanti popolazioni che non obbedivano al nostro dominio. Sottomisi le province delle Gallie e delle Spagne, e similmente la Germania, seguendo il confine dell’Oceano, da Cadice alla foce dell’Elba. Assoggettai le Alpi, dalla regione prossima al mare Adriatico fino al Tirreno, a nessuna gente recando guerra ingiustamente” (da Res gestae divi Augusti)
Storia di Roma IMPERIALE – Giustizia e generosità di Augusto
Un giorno un suo parente gli propose di mandare gli eserciti di Roma contro un piccolo popolo africano che nulla aveva fatto per meritarsi un sì tremendo castigo. Il cattivo consigliere diceva all’Imperatore: “In pochi giorni i nostri soldati conquisteranno un regno; quel popolo non si aspetta la nostra aggressione e certamente cederà senza combattere”. Ebbene, sai come rispose Augusto? Augusto rispose così: “I Romani non si macchieranno mai di un tale delitto; la nostra forza sta nella giustizia e non nelle armi”. Un’altra volta l’imperatore Augusto si trovò a dover giudicare un povero colto nell’atto di rubare un pezzo di pane. Il reo si scusò in questo modo: “Rubai perchè avevo fame. Sono disoccupato”. Pronto l’imperatore rispose: “Il furto è furto e ti condanno. Tuttavia eccoti una moneta d’oro. Espiata la condanna potrai andare avanti finchè non avrai trovato lavoro”
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Storia di Roma IMPERIALE – Altri imperatori della famiglia Giulio – Claudia
Storia di Roma IMPERIALE – Tiberio (14 – 37 dC)
Negli ultimi anni della sua vita Augusto aveva adottato e designato come erede il figliastro Tiberio, nato da Livia, sua terza moglie, appartenente all’antica e orgogliosa gens Claudia. Tiberio fu accettato tanto dal Senato che dall’esercito e con lui l’impero si trasmise per 54 anni alla famiglia Giulio – Claudia. Nel primo anno governò saggiamente e riportò anche successi militari contro i Germani del Reno, che avevano distrutto un esercito romano. Ma negli ultimi anni Tiberio, divenuto sospettoso e crudele, si macchiò di numerosi delitti. Ritiratosi a cercare sicurezza e pace nell’incantevole isola di Capri, lasciò il governo di Roma in mano del suo ministro Elio Seiano, che commise ogni sorta di prepotenze, finchè fu fatto uccidere dallo stesso imperatore. Tiberio morì nel 37 dC, lasciando cattiva memoria di sè. Negli ultimi anni del suo regno, a Gerusalemme, era stato crocefisso Gesù e i suoi discepoli si erano sparsi nelle regioni mediterranee a diffondervi la sua dottrina: nascela così il cristianesimo.
Storia di Roma IMPERIALE – Tiberio
Ad Augusto, morto nel 14 dC, successe il figliastro Tiberio. Costui, in principio, governò saggiamente e vinse i Germani, che avevano distrutto un esercito romano. In seguito, però, divenne crudele e commise numerosi delitti. Resse l’impero non più da Roma, ma da Capri. Durane il suo regno fu crocefisso Gesù. A Tiberio successero parenti deboli, o pazzi e crudeli.
Storia di Roma IMPERIALE – Caligola (37 – 41 dC)
Verso la fine del suo principato, Tiberio aveva dimostrato benevolenza verso un nipote, Caio, soprannominato Caligola perchè fin da bambino soleva portare le calzature militari dette caliga. Il Senato lo accolse come successore. Aveva 24 anni. Al principio del suo regno si mostrò mite e deferente verso il Senato, ma presto, o per disposizione naturale o per una malattia che ne alterò profondamente la ragione, cominciò a commette atti folli e crudeli, sperperando ricchezze, condannando a morte i cittadini più ricchi, per confiscare i loro beni. Fu ucciso da una congiura di pretoriani in un corridoio del palazzo.
Storia di Roma IMPERIALE – Claudio (41 – 54 dC)
Dopo questa terribile esperienza, il Senato avrebbe voluto un ritorno della repubblica. Ma i pretoriani acclamarono imperatore uno zio di Caligola, Claudio. Aveva 50 anni: uomo più di studio che d’azione, era d’animo mite e debole, inesperto di politica. Restaurò con saggia amministrazione le finanze, rovinate dalle spese pazze di Caligola, tanto che potè costruire opere pubbliche di grande utilità: un nuovo acquedotto, che si considera uno delle più grandiose opere dell’ingegneria romana; un canale emissario del lago Fucino; l’allargamento del porto di Ostia, perchè potessero approdare le grandi navi da carico. Con una fortunata spedizione militare fu conquistata la parte meridionale della Britannia. Ma, vittima della sua debolezza, si lasciò raggirare dagli scaltri liberti, che divennero potenti alla sua corte, e dalla moglie ambiziosa e corrotta, Messalina. Non migliore fu la seconda moglie di Claudio, Agrippina, già vedova, con un figlio dodicenne, Lucio Domizio Nerone. Questa donna ambiziosa, volendo assicurare l’impero al proprio figlio, circuì così abilmente il debole marito, da fargli diseredare Britannico, figlio di Claudio e di Messalina. Poco dopo Claudio morì improvvisamente. Corse voce che Agrippina lo avesse avvelenato. I pretoriani, addomesticati e corrotti, acclamarono Nerone, e il Senato, sempre arrendevole, ne confermò l’elezione.
Storia di Roma IMPERIALE – Nerone
L’ultimo imperatore della famiglia di Tiberio fu Nerone. Egli ben presto iniziò una lunga serie di delitti. Il popolo lo accusò anche dell’incendio di Roma, che nell’anno 64 distrusse i quartieri più popolari della città. Temendo l’ira del popolo, Nerone gettò la colpa sui cristiani. Cominciò così la prima grande persecuzione, nella quale molti martiri morirono tra i più atroci tormenti. Il malcontento contro Nerone dilagò ugualmente: la Giudea, la Gallia e la Spagna si ribellarono. Nerone fuggì da Roma e, per non cadere vivo in mano nemica, si fece uccidere da uno schiavo. Alla sua morte scoppiarono feroci lotte per la conquista del potere.
Storia di Roma IMPERIALE – Nerone (54 – 68 dC)
Nerone saliva al trono a 17 anni. I primi cinque anni del suo governo, nei quali si lasciò guidare dai due precettori, il generale Burro e il filosofo Seneca, furono felici. Poi i cattivi istinti ereditati dalla famiglia Claudia degeneraa, esplosero in lui sotto forma di viltà e ferocia e, cominciò l’orrenda serie dei suoi delitti. Temendo che gli fosse contrapposto il fratellastro Britannico, lo fece avvelenare; al fratricidio seguì presto l’uccisione della madre. Essendosi scoperta una congiura contro di lui, fu preso dal terrore e mandò a morte un grandissimo numero di persone, anche innocenti. Tra le vittime più famose furono il poeta Lucano, il suo maestro Seneca e lo scrittore Petronio, che era stato fino al giorno prima suo amico. Ma il più grande delitto che la voce pubblica attribuì a Nerone fu l’incendio di Roma, che nel 64 distrusse vari quartieri della città. Forse l’incidente era casuale, ma il popolo esasperato minacciava vendetta: si diceva che l’imperatore volesse distruggere la città per ricostruirla più bella sulle sue rovine, oppure che volesse esaltarsi alla vista di un colossale incendio per trarre ispirazione a un poema sulla caduta di Troia. Per discolparsi, Nerone accusò a sua volta i cristiani. L’accusa di Nerone trovò facilmente credito negli animi esasperati che esigevano la punizione dei colpevoli. Parecchi cristiani, arrestati, sotto le torture cedettero e si confessarono rei. Cominciò allora la prima grande persecuzione: molti cristiani furono condannati al rogo o dati in pasto alle belve. In questa persecuzione fu crocefisso l’apostolo Pietro e poi decapitato Paolo. Ma il malcontento dilagava da per tutto, fra gli stessi pretoriani; la Giudea insorse e Nerone fu costretto a mandarvi contro il generale Vespasiano. Insorsero la Gallia e la Spagna, e le legioni colà stanziate proclamarono decaduto Nerone ed elessero il generale Galba, il quale marciò su Roma. Nerone, spaventato, fuggì nella sua villa, sulla via Nomentana, e per non cadere vivo nelle mani degli inseguitori, si fece uccidere da uno schiavo. Con lui si spense la funesta dinastia dei Claudi. Le legioni più forti decidono ora la scelta dell’imperatore. Dopo due anni di anarchia militare, durante i quali si succedettero tre imperatori (Galba, Ottone e Vitellio), che si combatterono tra di loro e morirono tutti violentemente, la pace e l’ordine furono restaurati per opera di Tito Flavio Vespasiano, fondatore della dinastia dei Flavi.
Storia di Roma IMPERIALE – Le torce viventi
La notte non era ancora discesa, e già la folla si riversava nei giardini cesarei, per assistere allo spettacolo. Roma conosceva già lo spettacolo dei roghi, non mai però s’era veduto un così gran numero di condannati. Nerone e Tigellino avevano deciso di farla finita con i cristiani, ed avevano perciò ordinato che si sbarazzassero tutti i sotterranei, non lasciandovi che un piccolo numero di vittime da servire agli spettacoli di chiusura. La folla, entrando nei giardini, si faceva muta di meraviglia. In tutti i viali si ergevano pali spalmati di ragia, ai quali erano legati i cristiani. Dai punti più alti, dove gli alberi non impedivano la vista, si scorgevano interminabili file di pali e di condannati, cinti di fiori, d’edera e di mirto. Il numero delle vittime era più grande di ogni immaginazione. Intorno a ciascun palo sostavano persone a gruppi, e un dubbio si manifestava in molti con la domanda: “Possibile che vi siano tanti colpevoli?”. Oppure: “Come possono aver incendiato Roma questi bambini, che ancora non si reggono da sè?”. Al dubbio e allo stupore succedeva il turbamento. Scese la notte, e nel cielo brillarono le prime stelle. Ad ogni condannato si avvicinò uno schiavo, provvisto di fiaccola: e, quando lo squillo delle trombe risuonò da più punti del giardino ad annunciare che lo spettacolo cominciava, ciascuno depose la torcia ai piedi di un rogo. La folla tacque; un alto gemito si levò nei giardini, e poi non si udirono che grida strazianti. Alcune vittime, però, fissando gli occhi al cielo scintillante di stelle, intonarono inni di gloria a dio. Lo spettacolo era appena cominciato, quando Nerone apparve in una magnifica quadriga circense, tirata da cavalli bianchi. Tratto tratto si arrestava per meglio godersi lo spettacolo di qualche vittima, poi proseguiva, seguito dal suo corteo. Giunto infine alla gran fontana, scese dalla quadriga e si confuse tra il popolo. Evviva e battimani lo accolsero; senatori, sacerdoti e soldati lo circondarono, ed egli, con ai lati Tigellino e Chilone, fece il giro della fontana, intorno alla quale ardevano più di dieci vittime. I pali erano già quasi tutti arsi ovunque, e cadevano attraverso i viali, diffondendo intorno scintille, fumo, odore di legno e carne bruciata. Poi i fuochi man mano si spensero e sul giardino dominarono le tenebre della notte. La folla faceva ressa alle uscite. Cominciavano a udirsi voci di compassione per i cristiani: “Se non è vero che hanno incendiato Roma, perchè tanto sangue? Perchè tante torture e tante ingiustizie? E i numi non vendicheranno quegli innocenti? Come placare il loro sdegno?”. Si udivano sempre più frequenti le parole “vittime innocenti”. Le donne piangevano la morte dei bambini gettati alle belve, crocefissi e bruciati vivi in quei maledetti giardini. Il sentimento di pietà traeva dai cuori maledizioni a Nerone e Tigellino. Molti chiedevano a se stessi e agli altri: “Ma che dio è il loro che dà tanta forza di sopportare il martirio?”. E rientravano pensosi nelle loro case. (E. Sienkiewicz, da Quo vadis?)
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Storia di Roma IMPERIALE – La dinastia dei Flavi (69 – 96)
Storia di Roma IMPERIALE – Vespasiano
Nell’Impero tornò la pace con Tito Flavio Vespasiano. Egli governò ottimamente. Aprì le scuole con maestri pagati dallo stato, fece costruire grandi edifici pubblici, fra i quali l’anfiteatro Flavio, detto Colosseo.
Storia di Roma IMPERIALE – Tito Flavio Vespasiano
Fu acclamato imperatore, alla fine del 69, dalle sue legioni stanziate in Oriente per la guerra giudaica. Lasciata al figlio Tito la direzione della guerra, egli venne a Roma, dove fu accolto come un pacificatore e fu riconosciuto dal Senato. In 10 anni di ottimo governo, riparò a tutte le sciagure che dai tempi di Nerone avevano afflitto l’impero. Creò delle scuole con maestri stipendiati dallo stato e compì grandi opere pubbiche, fra le quali l’anfiteatro Flavio, chiamato poi Colosseo, capace di contenere 50.000 spettatori.
Storia di Roma IMPERIALE – Tito
A Vespasiano successe il figlio Tito, detto delizia del genere umano per la sua bontà. Se non compiva qualche buona azione in una giornata diceva: “Ecco un giorno perduto!”. Governò solamente tre anni. Ebbe il dolore di vedere la città di Pompei, Stabia ed Ercolano distrutte e sepolte da una tremenda eruzione del Vesuvio (79 dC).
Storia di Roma IMPERIALE – Tito
A Vespasiano successe il figlio Tito, che aveva condotto a termine felicemente la guerra giudaica, espugnando Gerusalemme. In suo onore fu costruito l’Arco Trionfale. Per la mitezza e la generosità che lo distinguevano, meritò di essere chiamato “delizia del genere umano”. Durante il suo breve e pacifico regno una violenta eruzione del Vesuvio, nell’anno 79, seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia.
Storia di Roma IMPERIALE – La distruzione di Pompei
Da parecchi giorni la terra era scossa da un lieve terremoto; a un tratto le scosse divennero più violente. Una grossa nuvola nera di cenere, interrotta da lingue di fuoco, usciva dal cratere del Vesuvio e si ingrandiva sempre più: discese dal monte, coprì i campi e giunse fino al mare. La terra sprofondò. Donne, uomini, bambini, fuggirono terrorizzati dalle loro case, urlando, piangendo, invocando gli dei. Non si vedeva nulla: i fanciulli chiamavano la mamma, le mamme i figli, i mariti le spose. Sembrava giunta la fine del mondo. Anche a Pompei si udì un terribile boato e sulla città sembrò scendere la notte. Moltissimi si trovavano nell’anfiteatro ad assistere ad uno spettacolo di gladiatori. I cittadini, impazziti di terrore, si riversarono sulla strada che conduceva al mare. Alcuni riuscirono a salvarsi, altri si attardarono nelle loro case per prendere i gioielli e i denaro. Di questi ultimi nessuno si salvò: morirono asfissiati dalle ceneri e dai vapori ardenti. Pompei fu sepolta e così Ercolano e Stabia.
Storia di Roma IMPERIALE – La famosa eruzione del Vesuvio del 79
Lo scrittore romano Plinio il Giovane ci ha lasciato in una sua lettera questa viva e impressionante descrizione dell’eruzione del Vesuvio che nel 79 seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia. Lo zio dello scrittore, Plinio il Vecchio, considerato il più grande naturalista romano e autore di una Storia Naturale, spinto dall’amore della scienza, accorse, incurante del pericolo, per osservare da vicino il fenomeno, ma trovò la morte. “La nube, che da lontano era difficile capire da qual monte sorgesse (solo più tardi si seppe che proveniva dal Vesuvio), somigliava per la sua forma ad un albero, più precisamente ad un pino, poichè, dopo essersi levata assai in alto, come un tronco altissimo, si ramificava intorno e appariva ora bianca, ora nerastra, secondo che era più carica di terra o di cenere. Come era naturale, dato il suo amore alla scienza, mio zio credette che quel grandioso fenomeno fosse degno di essere esaminato più da vicino. Ordinò dunque che gli si apparecchiasse la sua lancia (egli si trovava a Miseno, al comando della flotta romana) e stava già per uscire di casa, quando ricevette un biglietto di Rectina, moglie di Casco, atterrita dall’imminente pericolo, poichè la sua villa stava ai piedi del Vesuvio, nè altro scampo vi era se non per mare, e pregava affinchè egli volesse salvarsi da sì grande catastrofe. Allora mio zio mutò consiglio e si accinse ad affrontare col più grande coraggio ciò che prima pensava di osservare con interesse di studioso. Fece venire delle quadriremi, vi montò sopra egli stesso e partì per portare soccorso, non solo a Rectina, ma a molti altri, poichè la spiaggia bellissima assai era popolata. A mano a mano che le navi si avvicinavano, una cenere più spessa e più calda pioveva su di esse; già cadevano tutt’intorno lapilli e scorie ardenti, già si era formata una improvvisa laguna, profotta dal sollevamento del fondo del mare, e il lido era reso inaccessibile peri cumuli di lapilli. Allora, dopo essersi fermato, alquanto incerto se tornare indietro o procedere oltre, mio zio disse al pilota, che gli consigliava appunto di guadagnare l’alto mare: “La fortuna aiuta i forti: drizza la prua verso la villa di Pomponiano”. Pomponiano si trovava a Stabia… Mio zio, portato là dal vento assai favorevole alla sua navigazione, abbraccia il suo amico tutto tremante, lo rincuora, lo esorta a farsi coraggio… Frattanto dal Vesuvio, in più punti, si vedevano rilucere vasti incendi, il cui fulgore era accresciuto e fatto più palese dalle tenebre della notte… Si consultarono fra loro se chiudersi dentro o se fuggire per l’aperta campagna; poichè, da un lato, le case ondeggiavano per i frequenti terremoti e sembrava che, schiantate dalle fondamenta, fossero gettate ora su un fianco ora su un altro e poi rimesse a posto; dall’altro lato, all’aperto, la pioggia delle pomici, sebbene leggere e porose, non incuteva minor paura. Tuttavia il confronto fra i due pericoli fece scegliere quest’ultimo partito: si scelse dunque l’aperta campagna… Essi escono e si proteggono il capo, coprendosi con dei guanciali, che legano mediante lenzuoli, precauzione necessaria contro la tremenda pioggia che veniva dall’alto. Altrove era giorno, ma là dove essi erano perdurava la notte, la più nera ed orribile fra tutte le notti, squarciata solo da un gran numero di fiaccole e da lumi d’altro genere. Si credette bene accostarsi alla riva e vedere da vicino quello che il mare permettesse di tentare. Ma le onde erano sempre grosse e agitate da un vento contrario. Qui, sdraiato sopra un lenzuolo che aveva fatto distendere per terra, mio zio chiede e bevve due volte dell’acqua fresca. Poi le fiamme e l’odor di zolfo, che le preannunciava, fecero fuggire tutti gli altri e costrinsero mio zio a levarsi in piedi. Si rizzò, appoggiandosi a due schiavi, ma cadde immediatamente, come fulminato.” (Plinio il Giovane)
Storia di Roma IMPERIALE – Gli scavi di Pompei
Dopo diciassette secoli, furono iniziati gli scavi per riportare alla luce Pompei. Chi si reca oggi a visitarla, vede com’era una città al tempo di Roma antica: lunghe vie lastricate, il Foro, le terme, i templi, le case adorne di statue e affreschi, i colonnati, i giardini. La vita a Pompei si è fermata, ma le rovine della città ci parlano ancora di quel tempo antico.
Storia di Roma IMPERIALE – La morte di Plinio
Plinio il Vecchio era un illustre scienziato. Durante l’eruzione del Vesuvio volle studiare da vicino il fenomeno e nello stesso tempo portare aiuto all’amico Pompeiano che si trovava a Stabia. Fece allestire alcune navi e partì. Nonostante la pioggia di pietre e di ceneri ardenti, egli riuscì a giungere a Stabia. L’indomani Plinio, Pompeiano e altri tentarono di avviarsi a piedi verso la spiaggia, ma lungo la strada l’aria, mista a vapori di zolfo, si faceva sempre più irrespirabile e Plinio morì soffocato, vittima della sua generosità.
Storia di Roma IMPERIALE – Domiziano (81 – 96)
Successe al fratello Tito. Domiziano era avido di ricchezze e feroce. Volendo trasformare l’impero in una monarchia assoluta, lottò contro il Senato, che fu decimato. Si circondò di delatori e, abusando della legge di lesa maestà, processò ed uccise i cittadini più ricchi, per impadronirsi dei loro beni. Finì pugnalato. Il Senato ne condannò la memoria e cancellò il suo nome dai monumenti pubblici.
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Storia di Roma IMPERIALE – Gli imperatori d’adozione
Storia di Roma IMPERIALE – Nerva (96 – 98)
Dopo l’assassinio di Domiziano, il Senato per impedire che l’esercito o i pretoriani acclamassero il nuovo imperatore, scelse prontamente uno dei suoi membri: il vecchio e stimato Cocceio Nerva. Con Nerva comincia un nuovo sistema di successione, cioè l’adozione. Il nuovo eletto si associò come collega un giovane e valoroso generale, Ulpio Traiano, e lo designò come successore alla propria morte. Gli imperatori d’adozione furono Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Furono tutti uomini saggi ed illuminati, oltre che uomini d’azione e di pensiero. La loro età fu la più felice dell’impero.
Storia di Roma IMPERIALE – Traiano
Dopo qualche anno di pessimo governo, l’Impero Romano fu retto da alcuni saggi imperatori. Fra essi grande e valoroso fu Traiano. Intrepido soldato ampliò l’impero, conquistando la provincia della Dacia (l’attuale Romania) e la provincia dell’Arabia. Diminuì le tasse, ebbe a cuore i poveri e gli orfani.
Storia di Roma IMPERIALE – Traiano (98 – 117)
Nativo della Spagna, fu il primo imperatore non italiano. Valoroso soldato, moralmente onesto e giusto, egli ampliò al massimo i confini dell’impero, diminuì le imposte, amministrò la giustizia con mitezza, creò istituti di beneficenza a favore dei poveri e degli orfani. Combattè i Daci, che si erano stabiliti a nord del Danubio inferiore, dov’è l’attuale Romania, e li sottomise, creando la nuova provincia della Dacia. Ivi pose un forte presidio e numerose colonie; edificò città, ponti e monumenti dov’era prima il deserto. La moderna Romania conserva nel nome, come pure nella lingua, il ricordo della dominazione romana. Per celebrare questa vittoria, fu elevata in mezzo al Foro Traiano la magnifica Colonna, alta 43 m, rivestita esternamente da una fascia di bassorilievi, che rappresentano episodi della guerra dacica. In alto vi era la statua di Traiano in bronzo. Traiano combattè anche contro i Parti, spingendosi fino al Golfo Persico, e creò la nuova provincia dell’Arabia (Arabia del nord – ovest e penisola del Sinai). Dal Reno al Danubio costruì una serie di fortificazioni a catena: il limes germanicus. Morì nel 117, mentre tornava dall’Oriente, e fu sepolto ai piedi della Colonna Traiana.
Storia di Roma IMPERIALE – L’imperatore Traiano e la vecchietta
Traiano fu un uomo alla buona con tutti. Un giorno, mentre partiva per una spedizione militare, gli si fece incontro una vecchietta. “Che vuoi?” le chiese Traiano. “Voglio giustizia, perchè hanno ammazzato il mio figliolo”. “Ma non lo vedi che parto per la guerra? Ne parleremo al mio ritorno”. “E se tu non tornassi?” “Ti renderà giustizia il mio successore” “Ma allora il merito non sarà tuo!” “Hai ragione” disse l’imperatore. E prima di partire per la guerra fece punire gli assassini, rendendo giustizia alla vecchia.
Storia di Roma IMPERIALE – Adriano
A Traiano successe il pacifico Adriano. Egli si dedicò ad opere di pace e visitò ogni regione facendovi costruire strade, ponti, acquedotti, templi. Fondò numerose città ed emanò sagge leggi per promuovere il benessere comune. Inoltre Adriano si preoccupò di consolidare i confini dell’Impero, che ormai aveva raggiunto la massima espansione; fece costruire sui confini solide opere di fortificazione per tenere lontani i barbari ed assicurare così a tutti i cittadini la pace e la tranquillità.
Storia di Roma IMPERIALE – Adriano (117 – 138)
Spagnolo anche lui, ma dedito più alle opere di pace che alle conquiste, passò gran parte della sua vita viaggiando attraverso ogni regione dell’Impero e da per tutto fondando città, facendo costruire acquedotti, templi, strade, ponti. Assicurò i confini contro le invasioni barbariche: in Bretannia, ad esempio, innalzò il famoso Vallo di Adriano, per difendere il paese dagli Scoti, una muraglia lunga 117 km, guarnita ad intervalli da 300 torri. Ritiratosi a vivere in una magnifica villa che si era fatto costruire a Tivoli, Adriano vi morì nel 138, dopo aver adottato Antonino Pio. Fu sepolto nel grandioso mausoleo che si era fatto innalzare a Roma, sulla riva destra del Tevere: la Mole Adriana, oggi chiamata Castel Sant’Angelo.
Storia di Roma IMPERIALE – L’imperatore Adriano e il signore scortese
Adriano, prima di diventare imperatore, durante un viaggio in Asia aveva chiesto ospitalità ad un signore di Smirne. “Non alloggio stranieri!” s’era sentito rispondere seccamente. Adriano avrebbe anche potuto entrare con la forza, ma preferì andarsene all’albergo. Qualche tempo dopo quel signore ebbe occasione di venire a Roma per chiedere non so quale grazia all’imperatore, che per l’appunto era Adriano. Immaginate come rimase, quando si vide davanti l’uomo che non aveva voluto in casa sua. Ma l’imperatore lo tolse subito dall’impaccio. “Venite,” disse sorridendo, “state tranquillo: io alloggio anche i forestieri”. E non solo lo esaudì in tutte le sue richieste, ma finchè quel signore si trattenne a Roma, l’imperatore lo volle avere ospite, come un vecchio amico, nel palazzo imperiale.
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Storia di Roma IMPERIALE – Gli Antonini
Storia di Roma IMPERIALE – Antonino Pio (138 – 161)
Fu uno degli imperatori più saggi. Mite e buono, proibì per primo le persecuzioni dei cristiani ed i maltrattamenti degli schiavi, soccorrendo con elargizioni quanti soffrivano. Per queste virtù ebbe il soprannome di Pio.
Storia di Roma IMPERIALE – Marco Aurelio (161 – 180)
Era un austero filosofo e ci lasciò raccolti i suoi alti pensieri in un libro: Ricordi. Apparteneva anch’egli alla casa degli Antonini. Il suo regno fu turbato da uno sconfinamento dei popoli germanici, abitanti a nord del Danubio, che giunsero fino alle Alpi. Egli li sconfisse, ma poi nel trattato di pace concedette loro di stabilirsi entro il territorio dell’impero, purchè prestassero servizio militare a Roma. Era un pericoloso espediente col quale l’imperatore sperava di evitare altre invasioni, ma avrebbe avuto gravi conseguenze: il progressivo imbarbarimento dell’esercito e le prime infiltrazioni fra i Romani dei barbari, che prepararono la rovina dell’impero. Anche le gesta di Marco Aurelio furono celebrate nei bassorilievi di una colonna, che sorge ancora a Roma, in piazza Colonna (Colonna Antonina). Inoltre, in piazza del Campidoglio, è tuttora eretta la sua statua equestre.
Storia di Roma IMPERIALE – Commodo (180 – 192)
Questa bella serie di imperatori si chiuse tristemente con Commodo, crudele e vizioso. Era figlio di Marco Aurelio, ma profondamente diverso dal padre; finì assassinato nel 192.
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Storia di Roma IMPERIALE – Decadenza dell’impero nel III secolo
Alla morte di Commodo cominciò un periodo di anarchia militare. Le legioni dislocate nelle province pretesero di eleggere imperatori i loro generali: i pretoriani misero l’impero all’incanto, si dichiararono pronti ad acclamare colui che pagasse di più. Dopo 4 anni di disordini e di violenze, fu innalzato un generale valoroso, Settimio Severo. Appoggiato dall’esercito, mirò a creare una monarchia assoluta e dinastica. Vinse i Parti, togliendo loro la Mesopotamia settentrionale, e combattè i Caledoni, a nord della Britannia, ove ricostruì il Vallo di Adriano. A ricordo di queste vittorie gli fu eretto nel Foro un grandioso Arco di Trionfo.
Triste inizio ebbe il regno del figlio e successore, Caracalla, così soprannominato per la foggia gallica del suo mantello, che per non dividere il trono con il fratello Geta, lo pugnalò fra le braccia della madre. Egli è famoso per l’editto del 212, col quale estese il diritto di cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero. In Roma eresse le grandiose terme, che portano il suo nome e di cui restano imponenti ruderi. Caracalla fu ucciso.
L’esercito, di nuovo in rivolta, creò ed uccise gli imperatori. Per 50 anni questi si succedettero l’uno all’altro e scomparvero rapidamente, fra congiure e guerre civili, saccheggiando e depredando le province: tra queste, molte tentarono di tenersi indipendenti. L’impero sembrava avviarsi fatalmente alla rovina, ma nella seconda metà del secolo fu salvato da una serie di imperatori di nazionalità illirica, che furono detti restauratori.
Il primo di essi fu Claudio Gotico, così soprannominato per la grande vittoria riportata sui Goti, i quali dal Mar Nero erano scesi verso il Mediterraneo, invadendo l’Asia minore e la Grecia.
Più grande ancora fu Aureliano, che in 5 anni di guerra domò le province insorte e consolidò le frontiere. Sconfisse i Vandali e gli Alemanni che erano penetrati in Italia, e cinse Roma di una nuova e possente cerchia di mura (mura Aureliane) che esistono ancora in gran parte. Ma dovette abbandonare la Dacia ai Goti, per accorciare i confini dell’impero e poterli meglio difenderli. Morì nel 275.
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Storia di Roma IMPERIALE – Diocleziano e la tetrarchia (285 – 305)
Dieci anni dopo si iniziava un nuovo periodo nella storia dell’Impero, per opera di Diocleziano, anch’egli di stirpe illirica e valoroso soldato. Egli fece dell’impero una vera e propria monarchia assoluta, circondandola di un fastoso cerimoniale, che ricordava quello delle corti orientali. Convinto che un solo imperatore non bastasse più ad amministrare il vasto impero, si associò al governo l’antico suo compagno d’armi Massimiano col titolo di Augusto: questi governava la parte occidentale dell’impero, stando a Milano. Diocleziano governava l’Oriente, da Nicomedia, una città dell’Asia Minore. Roma, troppo lontana dal Danubio e dall’Asia, non poteva più essere la capitale dell’impero. Successivamente i due Augusti si scelsero ognuno un collaboratore, o Cesare, designandolo come successore. Questa partizione del potere si chiamò Tetrarchia, dal greco “comando di quattro”. L’impero restò uno dal punto di vista giuridico, ma amministrativamente fu diviso in 4 parti dette Prefetture: ogni prefettura era divisa in diocesi, ogni diocesi in province. Il potere civile fu separato da quello militare: l’impero diventò un complesso ingranaggio burocratico. Fu necessaria una riforma tributaria, che accrescesse il gettito delle imposte, per stipendiare questo esercito di impiegati civili e le truppe necessarie alla difesa dei confini. Per frenare la speculazione, Diocleziano fissò con un calmiere il prezzo massimo delle merci di più largo consumo. Convinto che, per mantenere l’unità dello stato, fosse necessaria l’unità del culto, ordinò nel 303 una persecuzione contro i cristiani, che fu la più violenta e la più lunga di tutte (303 – 311), tanto che questo periodo si chiamò l’era dei martiri. Ma il cristianesimo non fu estirpato, anzi, la chiesa si ricostituì più forte di prima. Nel 305, dopo 20 anni di governo, volendo assistere al funzionamento del sistema che aveva creato, Diocleziano abdicò e si ritirò a Salona, presso l’odierna Spalato, nella nativa Dalmazia, dopo aver indotto il suo collega Massimiano a fare altrettanto. I due Cesari divennero Augusti e adottarono due nuovi Cesari. Ma il sistema non fece buona prova. Presto scoppiarono tumulti e lotte civili fra Augusti e Cesari, finchè sui vari competitori trionfò Costantino, figlio di Costanzo Cloro, il Cesare dell’Occidente.
Diocleziano
Tra i numerosi imperatori che succedettero a Adriano è da ricordare Diocleziano, feroce e sanguinario. Sotto il suo governo i Cristiani subirono la più tremenda persecuzione (303 – 311). Questo periodo fu chiamato era dei martiri.
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Storia di Roma IMPERIALE – Costantino e l’Editto di Milano
Storia di Roma IMPERIALE – Costantino
Nel 312 divenne imperatore Costantino. Si narra che, durante la guerra contro il suo rivale Massenzio, gli fosse apparsa in cielo una croce luminosa con il motto “In hoc signo vinces” e che subito avesse fatto applicare una croce sugli stendardi delle sue legioni, convinto di vincere la battaglia. Massenzio fu infatti sconfitto a Roma presso il Ponte Milvio. Nel 313, a Milano, Costantino emanò il famoso Editto con il quale veniva permesso ai Cristiani di professare liberamente il proprio credo religioso. Durante il suo regno la capitale dell’Impero venne spostata da Roma a Bisanzio, in Oriente, che da lui prese il nome di Costantinopoli.
Storia di Roma IMPERIALE – Costantino
Egli era stato acclamato Cesare nel 306, dalle regioni della Britannia, mentre infieriva ancora la persecuzione contro i cristiani ordinata da Diocleziano. Ma Costantino aveva compreso che il cristianesimo era ormai una grande forza e, invece di perseguitare la chiesa, si appoggiò ad essa. Venuto in Italia nel 312, si liberò dell’ultimo rivale, Massenzio, con la battaglia combattuta ai Saxa Rubra, sulla riva del Tevere, nei pressi dell’attuale ponte Milvio. L’anno seguente, da Milano, Costantino emanò il famoso Editto di Tolleranza, con il quale pose termine alle persecuzioni e concesse ai cristiani, in tutto il territorio dell’impero, piena libertà di culto. La religione ufficiale dello stato continuava però ad essere il paganesimo. Egli, mantenendo la divisione fatta da Diocleziano, regnava in quel tempo col collega Licinio, imperatore dell’Oriente. Nel 324, rotti i buoni rapporti con Licinio, lo sconfisse e riunì nelle sue mani l’Oriente e l’Occidente. L’anno seguente, nel 325, Costantino convocò a Nicea un concilio di vescovi per reprimere una dottrina sulla natura di Cristo, diffusa dal vescovo di Alessandria, Ario, e perciò detta Arianesimo. Ario sosteneva che Cristo non era dio fattosi uomo, ma creatura umana perfetta e perciò divinizzata. Molti vescovi condannarono come eretica, e cioè erronea, questa dottrina, ma essa si diffondeva pericolosamente. Nel concilio di Nicea l’arianesimo fu condannato. Nel 330 Costantino trasferì la capitale a Bisanzio, sul Bosforo, che da lui prese il nome di Costantinopoli. Roma però continuò ad essere la capitale morale dell’impero, anche se gli imperatori non vi risiedevano più: tanti secoli di storia gloriosa le avevano conferito un prestigio sacro. Costantino morì nel 337.
L’impero romano-cristiano Nel decennio successivo alla battaglia di Ponte Milvio, Costantino assunse un atteggiamento sempre più favorevole ai cristiani e giunse infine al riconoscimento del cristianesimo come religione ufficiale dell’impero. Da una minoranza eroica di perseguitati, esso si trasformava così in religione di massa, aumentando immensamente il numero dei propri aderenti ed inserendosi nella compagine statale dell’impero romano. Fra le altre conseguenze, ciò portò ad una crescente diversificazione fra la massa dei semplici fedeli o laici (dal greco laos = popolo), spesso convertiti di fresco ed ignoranti delle dottrine cristiane, e la parte eletta dei ministri del culto o clero (dal greco kleros = scelto). In seno a quest’ultimo, sull’esempio della burocrazia imperiale, si delineò una gerarchia sempre più precisa, facente capo ai vescovi. Costantino incoraggiò questa evoluzione della Chiesa cristiana, consentendo alle comunità non solo di recuperare ciò che avevano perduto nelle persecuzioni, ma altresì di aumentare il proprio patrimonio in misura cospicua, grazie ai lasciti ed alle donazioni. Concesse al clero privilegi importanti, tra cui l’esenzione o immunità dalle prestazioni d’opera (munera). Concesse inoltre che i vescovi assumessero attribuzioni giudiziarie verso coloro che volessero ricorrere alle loro sentenze. Il monogramma di Cristo fu posto sulle monete. Fu riconosciuta la domenica come festività ufficiale. L’imperatore inoltre pose tutta la propria energia nel rafforzare e difendere l’unità della Chiesa, in quanto organismo universale (Ecclesia Catholica) contro ogni scissione interna. Si operava infatti, in seno al cristianesimo, una sistemazione dottrinale, in cui si precisavano a mano a mano le dottrine che tutti i fedeli dovevano accettare, respingendo quelle deviazioni o eresie, che eventualmente sorgessero. Il IV secolo, anzi, fu un’età di controversie teologiche particolarmente importanti, specie intorno alla natura ed agli attributi di Cristo. Tra esse fondamentale fu quella fra i seguaci di Atanasio, assertori del dogma della trinità, e i seguaci di Ario, il quale assimilava la natura di Cristo a quella di un uomo, negando così in sostanza il dogma trinitario. Infine Costantino dovette affrontare l’ultimo dei suoi rivali nell’impero, cioè Licinio, dominatore dell’Oriente. Poichè quest’ultimo favoriva i pagani, la lotta assunse il carattere di un duello fra cristianesimo e paganesimo: la vittoria su Licinio (324) e quindi l’annessione anche dell’Oriente ai domini di Costantino apparvero così una vittoria cristiana. Alla ricostituita unità dell’impero, sotto la monarchia di Costantino, corrispose altresì il ristabilimento dell’unità della chiesa, travagliata dalla controversia ariana. Si riunì pertanto il Concilio Ecumenico, cioè l’assemblea di tutti i vescovi crisitani, a Nicea (325), dietro convocazione dell’imperatore, e lì la dottrina atanasiana fu riconosciuta come la sola valida. Il concilio di Nicea fissò inoltre in modo definitivo la dottrina cristiana con una dichiarazione di fede o simbolo niceno. Attribuì infine particolare autorità sugli ecclesiastici nelle rispettive zone ai metropoliti di Roma, Alessandria ed Antiochia; pari dignità venne attribuita più tardi anche al metropolita di Bisanzio. All’indomani della sua vittoria su Licinio, Costantino decise di creare una nuova capitale, interamente legata alla fede cristiana, trasportando la residenza imperiale a Bisanzio, che da allora assunse il nome di Costantinopoli. Alla vecchia Roma del paganesimo, si contrapponeva così la nuova Roma del cristianesimo. L’impero, sino a ieri persecutore del cristianesimo, diventava Impero Romano Cristiano. Da allora in poi, la dignità imperiale ed il concetto stesso di Impero non dovevano più dissociarsi dall’idea cristiana e dalla funzione di sommo protettore e regolatore della cristianità. (G. Spini)
Grandezze e meschinità di Costantino L’imperatore Costantino, passato alla storia con il nome di Grande, non fu tuttavia immune da debolezze umane; molte sue opere ce lo confermano, ed anche i suoi biografi. Secondo Eutropio, storico attendibile sia per essere vissuto in tempi abbastanza vicini, sia per essere un sommarista delle opinioni altrui, Costantino era degno di essere paragonato ai più grandi imperatori per i suoi primi anni di regno, ma per gli ultimi anni, ai più meschini. In lui rifulsero comunque moltissime virtù di animo e di corpo. Assai avido di gloria militare, ebbe favorevole la fortuna in guerra, ma non al punto da superare la sua stessa abilità. Infatti, anche dopo la guerra civile, sconfisse più volte i Goti e, in ultimo, stringendo la pace con loro, lasciò grata memoria di sè presso i barbari. Amava le belle arti e gli studi liberali; poichè desiderava la considerazione del popolo, ma voleva ben meritarsela, egli riuscì ad ottenerla con la munificenza e l’affabilità. Fu indifferente verso alcuni amici, ma caldo verso altri, e non si lasciava sfuggire occasione alcuna per beneficarli di ricchezze e di onori. Promulgò molte leggi, alcune buone e giuste, molte però superflue, e altre severe più del dovuto. Mentre preparava la guerra contro i Parti che già premevano ai confini della Mesopotamia, morì a Nicodemia, in un palazzo dello stato. Aveva 66 anni e il popolo disse che la sua morte fu preannunciata da una vistosa cometa che solcò il cielo per un certo tempo. (M. Bini)
Bisanzio Bisanzio sorse nel VII secolo aC come colonia greca; nel 201 aC divenne romana. Era una solida cittadella che, affacciata sullo stretto, poteva controllare il passaggio delle navi dal Mediterraneo al mar Nero e quindi la via verso l’Asia. La sua posizione era quindi ideale, oltre a ciò Bisanzio era straordinariamente bella: su una penisola collinosa, circondata dalle acque azzurre del Mar di Marmara, del Bosforo e del Corno d’Oro. Quando Costantino il Grande, imperatore romano dal 306 al 337 dC, realizzando un progetto già caro ad Augusto, diede all’impero una capitale orientale (le province orientali superavano ormai di gran lunga per forza economica e popolazione quelle d’Occidente), le località tra cui ritenne di dover scegliere erano Troia, Bisanzio ed Alessandria. Troia, secondo la leggenda, era la madre di Roma; Alessandria era la seconda metropoli dell’Impero. Ma la scelta cadde su Bisanzio, sia per necessità pratica sia per la bellezza della sua posizione. Nel 330, ribattezzata Costantinopoli, fu proclamata capitale dell’Impero. (W. Schneider)
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Storia di Roma I GRACCHI – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.
Storia di Roma I GRACCHI
Dopo la vittoria su Cartagine, Roma divenne ricca e potente, ma i benefici di tale ricchezza e potenza non erano equamente distribuiti fra tutti i cittadini. Molti fra coloro che avevano lungamente combattuto, trascurando lavoro e interessi, erano caduti in miseria. Le terre di conquista erano distribuite ai cittadini, ma gran parte di esse toccavano a pochi patrizi che aumentavano i loro possedimenti. Essi avevano campagne estese (latifondi) a perdita d’occhio e sovente ne trascuravano la buona coltivazione. Il numero dei poveri aumentava ogni giorno. Essi abbandonavano le loro case e i loro campicelli, e si riversavano nelle città. Era una situazione molto grave, e due nobili fratelli romani, Tiberio e Caio Gracco, cercarono con tutte le loro forze di porvi rimedio. Nominati tribuni, proposero la “legge agraria”. Essa stabiliva che molte terre fossero distribuite ai contadini più bisognosi. I patrizi, aiutati degli amici del Senato, combatterono con ogni mezzo la legge agraria che li danneggiava. Tanto fecero che Tiberio fu assassinato in un tumulto, e il fratello Caio, abbandonato anche dagli amici e dai beneficati, si fece uccidere da uno schiavo.
Storia di Roma I GRACCHI – I Romani diventano ricchi, ma non tutti
Roma aveva conquistato immensi territori. Divenuti ricchi, i cittadini presero ad amare il lusso, gli oggetti preziosi, i banchetti, i divertimenti. Gli schiavi lavoravano per loro. Naturalmente, non tutti i cittadini romani erano diventati ricchi. Anzi, la maggior parte di essi era rimasta povera, più povera di prima! Solo i proprietari di vaste terre (i latifondi) ammassavano facilmente le ricchezze, facendo lavorare gli schiavi e trasformando i campi in pascoli per le greggi e gli armenti. Infatti, siccome il grano arrivava in abbondanza dall’Africa e dall’Asia Minore, non era più necessario coltivarlo in Italia. Questo sistema riduceva in miseria i piccoli proprietari che abbandonavano i loro campicelli e si trasferivano a Roma, a vivere come oziosi mendicanti. Due uomini vollero porre riparo a tanta miseria, realizzando le prime riforme a favore degli operai e dei contadini: Tiberio e Caio Gracco.
Storia di Roma I GRACCHI – Tiberio e Caio Gracco
Tiberio e Caio, per l’indole egregia e per il grande studio che Cornelia mise nell’educarli, divennero i più disciplinati di quanti Romani allora vivevano; e dall’esempio loro si dimostrò che l’educazione è ottima guida per condurre gli uomini a virtù. Tiberio e Caio furono somiglianti nella forza, nella temperanza, nella liberalità, nella grandezza d’animo e nell’eloquenza; ma grandemente differivano in altre cose. Tiberio nell’aria del volto, nello sguardo e nel portamento era mite e composto. Caio, invece, era impetuoso e pieno di forza; cosicchè quando arringava il popolo, egli non si teneva già modestamente fermo al suo posto, come il fratello; anzi fu il primo dei Romani a passeggiare qua e là per la ringhiera (il palco da dove parlavano gli oratori) ed a tirarsi la toga giù dalle spalle. Se poi era preso dall’ira, s’infiammava e strillava sino a prorompere in contumelie e a confondersi nel discorso. Venendo a parlare dei costumi e della maniera di vivere, si lodavano in Tiberio la frugalità e la semplicità; mentre Caio, sebbene temperato ed austero in confronto agli altri, si poteva dire largo e magnifico rispetto al fratello. (da Plutarco)
Storia di Roma I GRACCHI – I veri gioielli
Le ricche signore romane si chiamavano matrone. Andavano coperte di ampie vesti e portavano indosso ornamenti d’oro. Molte si facevano accompagnare da uno schiavo, con un cofanetto pieno di gioielli che mostravano alle amiche. Ma una di loro non faceva così. Si chiamava Cornelia. Si era sposata con Sempronio Gracco ed era rimasta presto vedova, con due figli, Tiberio e Caio, che allevava teneramente. Quei due ragazzi, che a Roma chiamavano i fratelli Gracchi, le davano molte soddisfazioni, perchè erano seri, buoni, studiosi. Cornelia, per quanto vedova, si sentiva contenta di loro. Un giorno si recò a farle visita un’altra matrona, diversa da lei. Era una donna ambiziosa e vanitosa, piena di ornamenti. La seguiva uno dei soliti schiavi, col cofano dei gioielli. La matrona lo aprì dinanzi a Cornelia. Trasse fuori collane d’oro, con la bulla che era una specie di medaglia. Sollevò fili di perle opaline. Si infilò alle dita anelli gemmati. Mostrò braccialetti larghissimi, d’oro sbalzato. Eppoi, filigrane e fibule, che erano fatte come i nostri spilli di sicurezza, ma più ricchi e lavorati. E mentre si passava, da una mano all’altra, tutti quei gioielli preziosi, i suoi occhi brillavano più che i diamanti sfaccettati. Cornelia sorrideva per cortesia, ma in cuor suo compativa quella donna che, per darsi importanza, aveva bisogno di tutte quelle cose inutili. A un certo momento, la matrona vanitosa chiese a Cornelia che le mostrasse i suoi gioielli. Forse la voleva umiliare. Ma Cornelia, com’era una donna di giudizio, era anche una donna di spirito. Invece di aprire un cofano o di frugare in un cassetto, chiamò presso di sè i suoi due bravi figlioli. Prese Tiberio da una parte, Caio dall’altra. Passò sulle loro spalle le sue materne braccia, poi disse, modesta e insieme orgogliosa: “Ecco i miei gioielli!” La sciocca matrona, a quella bellissima risposta, rimase confusa. Abbassò gli occhi sui suoi gioielli. Le sembrò che non sfavillassero più. Anche nei suoi occhi si era spenta la luce della gioia. Richiuse il cofano. Ma ora erano gli occhi di Cornelia e dei suoi cari figlioli che riempivano di luce la casa. (P. Bargellini)
Storia di Roma I GRACCHI – Discorso di Tiberio Gracco
Tiberio Gracco, divenuto tribuno della plebe, propose nel 133 aC, una legge, per la quale la grande proprietà terriera, o latifondo, doveva essere frazionata in modo tale che nessun cittadino potesse possedere più di 1.000 giornate di demanio pubblico. Il resto doveva essere confiscato e diviso in piccoli poderi da 30 iugeri, da distribuirsi fra i cittadini nullatenenti. Ecco il discorso con cui Tiberio arringò la folla in tale occasione: “Le belve che vivono allo stato selvaggio hanno le loro tane, ma quelli che muoiono per l’Italia non sono padroni che dell’aria che respirano. Essi devono andare raminghi, con la moglie e con i figli, senza casa, senza tetto. Quando i loro comandanti, prima della battaglia, li incitano a combattere per le loro tombe e per i loro Lari, mentono e sanno di mentire, perchè nessuno dei soldati possiede tali cose. I loro combattimenti, i loro morti, non servono che ad accrescere il lusso dei ricchi. Si ha il coraggio di chiamare padroni del mondo questi disgraziati che non posseggono neppure una zolla di terra!” (da Plutarco)
Storia di Roma I GRACCHI – Tiberio Gracco
Tiberio fu eletto Tribuno della Plebe e fece approvare una legge che vietava ai cittadini di possedere latifondi troppo estesi e imponeva ai proprietari terrieri di assumere un certo numero di contadini liberi, da far lavorare nei campi oltre agli schiavi, mentre a tutti i cittadini poveri lo Stato avrebbe assegnato un piccolo terreno. Questa legge non poteva piacere ai grandi proprietari… Non potendo privare Tiberio del potere, i patrizi provocarono aspri disordini durante le elezioni dell’anno 133 aC; Tiberio fu assalito e ucciso.
Storia di Roma I GRACCHI – Caio Gracco
Nove anni dopo, Caio Gracco, fratello minore di Tiberio, fu eletto a sua volta Tribuno della Plebe. Per favorire i poveri, Caio fece approvare una legge perchè fossero ricostruite alcune famose città: Taranto, Capua, Cartagine. Per salvare i plebei dalla fame, Caio mise in opera la legge frumentaria, che impegnava lo Stato a vendere ad ogni cittadino cinquanta chili di grano al mese, a bassissimo prezzo. Neppure queste leggi poterono essere gradite ai profittatori. Per attaccare Caio Gracco fu trovata una scusa: Caio aveva guidato tremila coloni in Africa, perchè ricostruissero Cartagine. Ma, al termine della terza guerra punica, il territorio di Cartagine era stato dedicato alle divinità infernali. Caio Gracco fu accusato di sacrilegio e perseguitato. Morì ucciso nel 121 aC.
Storia di Roma I GRACCHI – Vicino al popolo
Caio Gracco abbandonò la propria ricca casa patrizia per andare ad abitare in una catapecchia di un quartiere popolare, e ciò per essere maggiormente vicino al popolo e vederne così con i propri occhi i bisogni.
Storia di Roma I GRACCHI – Le guerre civili
La miseria, le ingiustizie, l’inimicizia tra i pochi ricchissimi ed i molti poveri continuarono dopo la morte dei Gracchi. All’improvviso scoppiò una vera guerra fra gruppi di cittadini romani. Si disse “guerra civile” perchè era combattuta da uomini appartenenti alla stessa patria. Gli interessi della plebe erano difesi da Caio Mario, un popolano che, per il suo coraggio, era giunto ai più alti gradi militari. Il suo avversario era il nobile Lucio Silla, intelligente e ambizioso. La lotta durò molti anni: se trionfavano gli uomini di Mario, la vendetta colpiva i “sillani”; se invece era vittorioso Silla, tutti gli amici di Mario erano perseguitati ed uccisi. Quando Mario morì, Silla si fece nominare dittatore e governò lo stato con grande durezza fino all’anno 79 aC.
Storia di Roma I GRACCHI – Mario
Era nato da contadini. Aveva combattuto con Scipione nella Spagna, e ben presto era divenuto generale. Coraggioso, forte, abile, resisteva a qualsiasi fatica. Viveva la vita dei suoi soldati: mangiava il loro pane e, come loro, riposava sulla nuda terra. Durante le soste, metteva anch’egli mano al lavoro per scavare una fossa o un vallo (trincea). I soldati lo ammiravano e lo amavano, pronti a compiere con lui le più audaci imprese.
Storia di Roma I GRACCHI – Caio Mario, il salvatore della Patria
Mentre a Roma la plebe era in fermento, scoppiò una guerra contro Giugurta, re della Numidia. Essa fu conclusa vittoriosamente dal console Caio Mario, di umili origini. La gloria di Mario si accrebbe pochi anni dopo, quando salvò Roma dalla terribile invasione dei Cimbri e dei Teutoni, bellicosi popoli germanici. Il console fu acclamato “salvatore della patria” e “terzo Romolo”. Caio Mario riorganizzò l’esercito. I soldati furono equipaggiati a spese dello stato e ricevettero una paga.
Storia di Roma I GRACCHI – Eroico modo di attingere acqua
I soldati di Mario, assetati, protestavano con il condottiero perchè volevano acqua. “Il campo nemico ne abbonda” disse Mario “andate a prenderla!”. E li guidò alla battaglia.
Storia di Roma I GRACCHI – Silla
Era di ricca famiglia patrizia. Aveva occhi azzurri e aspetto fiero. La sua faccia era di colore scuro, qua e là pezzato di bianco. In lui c’era un impasto di virtù e di vizi. Forte e valoroso in guerra, era poi prodigo, spavaldo, ambizioso e vendicativo. I nemici lo temevano; lo sapevano uomo senza pietà. Gli amici lo adoravano, perchè lo sapevano pronto a qualsiasi aiuto.
Storia di Roma I GRACCHI – Lucio Cornelio Silla
Nonostante le vittorie conseguite, Roma covava dentro di sè continue discordie, alimentate ora dai patrizi, ora dai plebei. Per alcuni anni prevalse il partito dei plebei, capeggiato da Mario, che fece strage dei suoi nemici. Quando morì, si disse: “Non fu amato da nessuno, fu odiato da molti”. Poi prevalse il partito dei patrizi, capeggiato da Silla. Ma anche di lui si disse: “Nessuno fece tanto bene ai suoi amici e tanto male ai suoi nemici”. Raggiunto il pieno potere, infatti, Silla riempì Roma di stragi senza fine e senza limite. Molte conquiste della plebe furono distrutte: i tributi non poterono esercitare il diritto di veto e proporre le leggi. Dopo quattro anni di dittatura Silla si ritirò a vita privata. “C’é qualcuno” domandò al popolo convocato in piazza “che voglia chiedermi conto di quello che ho fatto?” Nessuno aprì bocca.
Storia di Roma I GRACCHI – La battaglia di Aquae Sextiae
Quando tutto fu pronto, Mario col grosso delle forze si accampò verso le foci del Rodano, in luogo forte, cinto di staccati e di fosso. Ecco arrivare finalmente i nemici, in numero quasi infinito Mario ordinò che i legionari dall’alto dei terrapieni, a turno stessero ad osservare i nemici, in modo da assuefarsi al loro aspetto strano, alle loro voci spaventose: ottenne così che i Romani non soltanto temessero più d’attaccare battaglia, ma ogni giorno chiedessero ad alte grida che il console desse il segnale. Ed egli, impassibile, li frenava. Alfine i Teutoni s’impazientirono e da ogni parte, alla rinfusa, assalirono il campo romano, quasi per provare la forza d’animo dei difensori. Respinti dalla pioggia di saette, senza ritentar la prova e quasi disprezzando quel nemico trincerato, decisero di muovere senz’altro verso i passi delle Alpi, per ricongiungersi coi Cimbri e insieme passare in Italia. Levate le tende, i barbari si avviarono, sfilando, per derisione, lungo il campo di Mario. Solo quando le retroguardie del nemico furono scomparse, verso oriente, Mario levò il campo e li seguì cautamente. Pensava non senza ragione, che durante la marcia il disordine sarebbe entrato più facilmente in quelle enormi masse indisciplinate. Quasi ogni giorno egli faceva prigionieri gruppi di ritardatari e di sbandati. Vicino ad Aquae Sextiae potè finalmente coglierne all’improvviso una grossa schiera di trentamila, separati da un canale e, con abile manovra, parte cacciarli giù nell’acqua, parte uccidere, parte inseguire fino al campo. Il terzo giorno la tensione degli animi era diventata tale, che Mario ritenne miglior consiglio affrontare la prova. Trasse le legioni dagli steccati e le schierò su un pendio. L’ordine dato ai soldati era semplice: mantenere ad ogni costo l’ordinanza, aspettare i nemici a piè fermo e scagliare i giavellotti a giusta distanza; Mario, come sempre, combattè in prima fila, per dare esempio e coraggio. Dopo una lunga lotta, i barbari si ritirarono per riprendere fiato; ma ecco, in quel mentre Claudio Marcello assalirli alle spalle. Alla inattesa vicenda, i Teutoni restarono un momento incerti; combattere su due fronti non era loro costume; credettero ad un tradimento, ad un prodigio; la confusione entrò nelle loro file. Molti corsero verso il campo, ove avevano lasciato le mogli, i vecchi, i bambini. Le legioni allora presero l’offensiva e si slanciarono con alte grida giù dal pendio. Nella battaglia all’arma bianca, come erano quelle dell’antichità, non vi era quasi scampo per gli sconfitti; quando incominciava la ritirata, era quasi la strage sicura. Più di centomila Teutoni furono distrutti in poche ore; in parte uccisi, in parte fatti prigionieri; tutte le loro cose divennero bottino di guerra. (A. Valori)
Storia di Roma I GRACCHI – Le proscrizioni di Silla
Silla riempì Roma di stragi senza fine e senza limite. Molti che non avevano mai avuto nulla a che fare con lui, furono fatti mandare a morte per odi personali: egli lasciava fare per compiacere i suoi amici.
Silla proscrisse dapprima ottanta cittadini senza dare alcuna comunicazione ai magistrati: ciò provocò generale indignazione. Lasciò allora passare un giorno, ma poi ne proscrisse duecentoventi altri e il terzo giorno altrettanti. Parlando al pubblico, disse che aveva proscritto chi gli era venuto in mente e che in seguito avrebbe preso la medesima misura contro altri che gli fossero venuti a memoria.
Stabilì la pena di morte per chiunque avesse dato ospitalità o salvato un proscritto, anche se fosse stato fratello, figlio, genitore, e fissò un premio di due talenti per chi avesse ucciso uno posto al bando, fosse anche il servo a uccidere il padrone o il figlio a uccidere il padre. Ciò che parve ingiusto al massimo fu l’avere Silla stabilito la perdita di ogni diritto e la confisca dei beni anche a danno dei figli o dei nipoti dei proscritti. Le proscrizioni non furono limitate a Roma, ma furono estese a tutte le città d’Italia. Non vi fu tempio di divinità, focolare domestico o casa paterna rimasta monda dal sangue degli uccisi: erano trucidati i mariti accanto alle mogli, i figli presso le madri.
Il numero delle vittime per rancori e odi personali fu lungi dall’eguagliare quello degli uccisi a causa delle loro ricchezze. Gli assassinati avrebbero potuto ben dire che l’uno doveva la morte alla sontuosa abitazione, l’altro al suo giardino, l’altro ancora alle sue stanze. Quinto Aurelio, uomo inoffensivo e che non partecipava a tante calamità se non con il sentire compassione per le sventure altrui, recatosi al Foro vide il suo nome nella lista dei proscritti.
“Misero me” disse “è il mio podere l’Albano che mi perseguita”. Fece qualche passo, e fu assassinato da uno che si era messo a seguirlo. (Plutarco)
Storia di Roma I GRACCHI – Il dono di Caio Mario
Caio Mario si trovava presso Vercelli, quando gli si presentò un uomo ancora giovane, sano e robusto, ma lacero e sudicio. “Salve, illustre console!”, lo salutò il mendicante. Mario rispose con rude cenno: “Che cosa vuoi?”.
L’uomo fu un po’ turbato da quel modo aspro di trattare; pure si fece coraggio e disse: “Vorrei chiederti aiuto. Tu vedi, o console, come sono povero”. Mario corrugò la fronte, incrociò le braccia sul petto e, dopo averlo osservato attentamente, domandò: “Quanti anni hai?” “Ne ho compiuti trenta un mese fa” “Va bene. Torna domani e ti darò un dono degno di me”. Il mendicante si chinò davanti al capitano e gli volle baciare la mano, ma fu respinto: “Ricordati che le adulazioni non mi piacciono”.
Il misero se ne andò confuso. Il giorno dopo, di buon mattino, si presentò alla tenda del console. Mario, appena lo scorse, gli disse: “L’ora è assai propizia per il dono che ti faccio”, e gli mostrò un aratro dalla lama lucidissima e ricurva, che scintillava al sole. “Adoperalo dal biancheggiare dell’alba fino al rosso del crepuscolo, e ti assicuro che non sarai più povero”. (G. Visentini)
Storia di Roma I GRACCHI – Le province
I Paesi conquistati fuori dell’Italia peninsulare ebbero il nome di province. La prima fu la Sicilia. A capo di ogni provincia vi era un governatore romano, proconsole e propretore, cioè console o pretore uscito di carica, che governava per un anno. Costoro, pur rispettando le usanze, i costumi, la religione degli indigeni, esigevano il pagamento dei tribuni imposti ad ogni provincia, comandavano le forze armate, facevano le leve e le requisizioni, giudicavano le cause civili e penali e sorvegliavano l’amministrazione regionale e locale. Naturalmente, per disimpegnare tutte queste funzioni, erano assistiti da un numeroso stuolo di funzionari. Il governo romano fu in generale benefico: nei paesi quasi barbari dell’Europa occidentale (Gallia e Spagna) portò la sua civiltà; nelle province del Mediterraneo orientale pose fine alle lotte che rovinavano quei popoli.
Storia di Roma I GRACCHI – Le colonie
Nelle terre di recente conquista i Romani fondavano colonie. Era scelto un luogo che fosse ben difeso per natura: alla confluenza di fiumi o su alture che dominassero vaste regioni. I coloni erano quasi tutti soldati romani che si trasferivano con le loro famiglie nel luogo prescelto. Ognuno di essi aveva in proprietà un pezzo di terra. I coloni continuavano ad essere soldati, cittadini di Roma. Potevano andare a Roma ad esercitare i loro diritti; accorrevano alla chiamata nell’esercito di Roma. Erano dunque ben diverse queste colonie da quelle fenicie e greche, che erano indipendenti dalla Madre Patria. I diritti di cittadinanza romana, di cui godevano i coloni, erano incitamento ai vicini per meditare anch’essi quei diritti con la fedeltà e la devozione a Roma.
Storia di Roma I GRACCHI – Come i Romani fondavano una colonia
La fondazione delle colonie romane si facevano tracciando due strade principali in croce, da nord a sud l’una e da est a ovest l’altra. Parallelamente a queste si tracciavano le altre strade. Molte nostre città conservano in modo evidente ancor oggi questa impostazione, che risale alla fondazione di una colonia romana. Torino con la sua pianta quasi geometrica si può considerare come un modello di colonia romana, con le sue ampie strade, rettilinee, che si incrociano tutte ad angolo retto. Del resto nella fondazione di una colonia i Romani rispettavano le stesse norme che essi usavano nel porre un accampamento, e molto spesso l’accampamento, e molto spesso l’accampamento a carattere permanente si trasformava col tempo in un vero e proprio villaggio, poi in città.
Storia di Roma I GRACCHI – dettati ortografici e letture. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.
La prima guerra punica: l’occasione del conflitto
L’0ccasione del conflitto coi Cartaginesi di presentò dieci anni dopo la partenza di Pirro dall’Italia. Bande di mercenari campani, detti Mamertini (ossia “uomini Mamers”, da Marte, dio della guerra), assoldate da Agatocle, tiranno di Siracusa, dopo la morte di questo si erano impossessate a tradimento di Messina, trucidandone gli abitanti, e di lì minacciavano varie località dell’isola. Un ufficiale siracusano, Gerone, che li sconfisse, fu acclamato re di Siracusa. Ripresa la guerra, egli ambiva a occupare Messina, e a tale scopo si era alleato coi Cartaginesi, che lo prevennero, introducendo un loro presidio nella rocca. I Mamertini, stretti tra due fuochi, chiesero allora la protezione di Roma, signora della vicina Reggio. Il Senato esitò a lungo: sentiva di offuscare il buon nome e la fede tradizionali, aiutando dei mercenari crudeli e invadendo un territorio che Cartagine considerava propria zona di influenza. Ma il popolo romano sentiva che se lo stretto di Messina fosse casuto nelle mani dei Cartaginesi, la sicurezza della penisola era minacciata. La Sicilia sarebbe diventata, come scrisse lo storico Polibio, il ponte di passaggio per i Cartaginesi in Italia. Cartagine era ormai incontrastata padrona del Mediterraneo occidentale e, col possesso delle tre maggiori isole e l’alleanza coi Galli della Provenza e coi Liguri, avviluppava tutto il Tirreno. Perciò il console Appio Claudio, autorizzato da un decreto del popolo, assai probabilmente contro il parere dei Senatori, nell’estate del 264 aC varcò lo stretto e Messina fu occupata. Dopo i primi successi romani, Gerone si staccò dall’alleanza cartaginese, schierandosi a fianco di Roma, sotto la cui protezione si posero molte città siciliane. Così il conflitto, inizialmente limitato a Messina, si estese a tutta l’isola.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La prima flotta romana
Si presentava a Roma questo imperativo: diventare una grande potenza anche sul mare. Era uno sforzo non facile, per una città essenzialmente continentale, che non aveva mai tentato avventure marinare e aveva rifuggito fino allora dei commerci oltremarini. Ma la fortuna di Roma e il segreto della sua grandezza erano nella sua indomita volontà, nella sua fermezza di propositi, nella sua eroica disciplina. La leggenda ha inventato favole strane: essa dice che le navi furono fatte a Ostia e ad Anzio, e che i marinai si allenavano al remo sulla spiaggia; in due mesi si sarebbero avute così centoquarantaquattro triremi. I Romani erano invece navigatori prima delle guerre puniche, come mostra il trattato del 509 o del 384 aC con Cartagine… i Romani poi non avevano bisogno di ciò avendo conquistato l’Italia meridionale con città come Taranto: essi avevano modo di prendere, con la forza o con il denaro, da questi paesi, navi con tutto l’equipaggio. Quindi la flotta del 260 aC fu forse costruita ad Ostia ed Anzio per ordine del Senato, ma fu anche costruita con l’ausilio delle città costiere dell’Italia meridionale e dell’Etruria. La formazione della flotta del 260 aC segna l’inizio delle lotte terribili per il predominio del Mediterraneo. Essa era formata di centoventi quinqueremi e tatticamente seguiva l’antica formazione a triremi. (A. Silva)
La prima guerra punica
Dopo la guerra combattuta contro Pirro, terminata con la conquista di Taranto e della circostante regione salentina, Roma divenne la più potente città d’Italia; essa dominava ormai tutta la Penisola e i suoi eserciti erano invincibili. Sulle coste settentrionali dell’Africa, ove oggi sorge Tunisi, proprio di fronte alla Sicilia, vi era Cartagine, ricca e potente città, padrona di tutti i traffici marittimi del Mediterraneo. I Cartaginesi possedevano una potente flotta e avevano fondato delle colonie in Sardegna e in Sicilia. Roma ormai grande e potente, spingeva le sue navi sullo stesso mare. I Cartaginesi, che vedevano mal volentieri il continuo crescere della potenza romana, cercavano di ostacolarla in tutti i modi. La guerra tra le due potenti rivali scoppiò quando Roma tentò di conquistare la Sicilia. I Romani, fino allora, avevano combattuto soltanto per terra. Ora incontravano un nemico che aveva la sua forza sul mare, e sul mare bisognava batterlo. In due mesi costruirono una flotta si centoventi navi e al affidarono al comando del console Caio Duilio. Il console conosceva la superiorità dei nemici e trovò il modo di trasformare il combattimento da navale a terrestre. Armò gli scafi con una specie di ponte lavatoio munito di ganci, detti corvi, e li mandò ad assalire la flotta nemica che avanzava, sicura di sè, quasi senza schierarsi. Le navi romane affiancarono le cartaginesi; i corvi agganciarono i bordi e i fanti balzarono sul ponte nemico sorprendendo e sgominando gli avversari. Lo scontro avvenne nelle acque di Milazzo e fu la prima vittoria navale dei Romani. Roma, imbaldanzita dal successo, decise di portare la guerra sul territorio nemico. Una poderosa flotta di navi sbarcò i soldati romani davanti a Cartagine. Presto, però, essi furono indeboliti dal caldo, dalla sete e dagli scarsi rifornimenti. I nemici li assalirono con vigore disperato, li sconfissero e presero prigioniero lo stesso comandante romano, il console Attilio Regolo. Pur avendo riportato una vittoria importante, i Cartaginesi temevano la rivincita di Roma ed erano stanchi della guerra: preferivano i loro ricchi commerci al rischio delle armi. Decisero, perciò, di lasciar libero sulla parola Attilio Regolo. Egli doveva recarsi a Roma e ottenere buone condizioni di pace; in caso di fallimento della missione, sarebbe ritornato in Africa, prigioniero. Il console venne a Roma e, in Senato sconsigliò i concittadini a trattare con il nemico: Cartagine non avrebbe potuto resistere a lungo a nuove battaglie. Poi ritornò volontariamente nelle mani dei Cartaginesi, i quali lo fecero morire rotolandolo in una botte irta di chiodi. La guerra riprese per terra e per mare e terminò nel 241 aC, con la vittoria dei Romani. Essi tolsero a Cartagine i possedimenti in Sicilia, e in seguito quelli della Sardegna e della Corsica. La campagna vittoriosa si disse “prima guerra punica”; i Romani, infatti, chiamavano Puni (Fenici) gli abitanti di Cartagine.
Caio Duilio
A questo complesso di navi da battagli Roma diede un comandante degno della gravità del compito che lo attendeva: il console Caio Duilio. Lo scontro avvenne nella primavera del 260, nelle acque di Milazzo: Duilio riportò la prima grande vittoria navale dei Romani, sgominando la ben più numerosa armata cartaginese, e catturando ben cinquanta vascelli nemici, tredici affondandoli, e facendo inoltre settemila prigionieri. Si dice che una gran parte del merito della vittoria fosse dovuto a un geniale arnese applicato dai Romani al bordo delle loro navi: il corvo o raffio, una specie di enorme uncino che veniva gettato sulla nave avversaria, obbligandola ad accostarsi, e provocando così un combattimento quasi terrestre. Naturalmente però la vittoria fu specialmente merito della genialità di Duilio e del valore dei soldati romani. L’eco della sconfitta subita a Milazzo da Cartagine fu tale, che la sua potenza cominciò da allora a declinare. Pareva impossibile al mondo che Roma avesse potuto sconfiggere la potentissima armata dei Punici. Eppure questo trionfo segnava l’inizio della politica di espansione dell’Urbe oltre i confini territoriali della Penisola; e a Caio Duilio, che ad esso aveva legato il suo nome, il Senato e la cittadinanza romana tributarono onori trionfali. A ricordo di quella vittoria fu elevato nel Foro una colonna rostrato, che esiste in parte ancor oggi.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Vita di Cartagine
Cartagine era stata fondata sessantun’anni prima di Roma dai Fenici e fu per molti secoli il centro dei commerci che si svolgevano nel Mediterraneo. I ricchi abitavano case a sei piani (veri grattacieli, per quell’epoca!) e avevano fatto costruire templi con colonne rivestite d’oro e d’argento, ornati di statue d’oro massiccio. I Cartaginesi, come altri popoli di origine orientale, adoravano le divinità offrendo loro quanto di più caro avevano, persino vittime umane. Nel porto militare di Cartagine potevano mettere l’ancora anche duecento navi. Al centro, era stata allestita un’isola artificiale, dalla quale gli ammiragli passavano in rassegna la flotta. A Cartagine non c’era democrazia: il potere era nelle mani dei mercanti più ricchi. La città traeva grandi guadagni anche dalle industrie e dall’agricoltura.
Potenza di Cartagine
Cartagine, una colonia fenicia, sorgeva sulla costa settentrionale dell’Africa, presso l’odierna Tunisi, in una felice posizione geografica, a poca distanza dalla Sicilia, con un ottimo porto naturale. Essa era riuscita a strappare ai Greci della Sicilia e della Magna Grecia e agli Etruschi il primato commerciale sul Mediterraneo occidentale, fondando colonie sulle coste dell’Africa settentrionale, nella Spagna meridionale, in Corsica, in Sardegna e nella Sicilia occidentale. I Cartaginesi verso il 280 aC erano padroni di quasi tutta la Sicilia, tranne del territorio intorno a Messina e della costa orientale soggetta a Siracusa.
Le navi da guerra prima delle guerre puniche
Le navi da guerra di quell’epoca erano mosse a vela e a remi; erano munite a prua di speroni ferrati, i rostri, mediante i quali potevano speronare e affondare le navi nemiche. Una battaglia navale richiedeva coraggio e intelligenza, e marinai svelti ai remi, alle vele, al timone. Le navi si rincorrevano sul mare azzurro e cercavano di raggiungersi. Quando due navi erano vicine, la più agile di esse puntava la prua armata di rostro contro l’altra, la squarciava e la affondava.
Caio Duilio
Roma era ormai una grande potenza terrestre; i suoi soldati avevano dimostrato di saper combattere con ineguagliabile valore e di saper vincere. Ma cosa sarebbe successo in uno scontro navale? I Cartaginesi erano provetti marinai e da secoli avevano una flotta militare ben fornita; i Romani erano ancora ai primi passi. Ma l’ingegno di Caio Duilio supplì a tale inferiorità di Roma. Egli era console quando scoppiò la guerra tra Roma e Cartagine. Ordinò allora che venissero costruiti i corvi, speciali ponti per ogni nave romana; sull’altro lato erano infissi degli enormi uncini. Questi ponti, detti corvi, avrebbero agganciato la nave nemica, costringendo l’equipaggio a una lotta corpo a corpo. Con tale accorgimento, Caio Duilio affrontò le navi di Cartagine nelle acque di Milazzo, in Sicilia, e ottenne la piena vittoria.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Attilio Regolo
Dopo la vittoria di Milazzo, i Romani sbarcarono sulla costa africana. L’esercito romano era comandato da Attilio Regolo, il quale, sconfitto, cadde prigioniero dei Cartaginesi. Condotto nella città nemica, gli venne dato l’incarico di ritornare a Roma, come ambasciatore. Egli doveva persuadere i Romani a fare la pace. Se fosse riuscito a convincere i senatori alla pace, sarebbe stato salvo. Se no, doveva tornare a Cartagine, dove l’avrebbe atteso una straziante morte. Attilio Regolo accettò l’incarico e diede la sua parola d’onore di tornare a Cartagine nel caso di insuccesso. Giunto a Roma, invece di consigliare i Senatori a far pace con Cartagine, egli disse di continuare la guerra. “Il momento è propizio”, disse Attilio Regolo, “i Cartaginesi hanno perduto gran parte della loro flotta e si sentono deboli. Bisogna dunque insistere, per avere la vittoria”. Quando fu sicuro di avere convinto tutti i Senatori, si dispose al ritorno a Cartagine, dove l’attendeva sicura morte. Tutti lo sconsigliavano di partire. I familiari lo trattenevano, piangendo. Ma egli diceva: “Un Romano ha una parola sola. Io ho dato la mia. Ho promesso di ritornare e devo mantenere la promessa fatta al nemico anche se mi costerà la vita”. E partì. Tra l’ammirazione e il dolore di tutta Roma. I Cartaginesi non seppero apprezzare la grandezza d’animo di questo grande Romano. Erano un popolo ricco ma crudele, che non capiva i gesti generosi degli eroi. Attilio Regolo fu chiuso in una botte, irta di chiodi sporgenti nell’interno. La botte venne fatta rotolare lungo i fianchi di un monte. La morte di Attilio Regolo fu dolorosa, ma servì da esempio, per dimostrare che i Romani erano uomini d’onore.
Come si concluse la prima guerra punica
La prima guerra punica si concluse con la vittoria di Roma: i Cartaginesi perdettero la Sicilia, che divenne così la prima grande provincia romana. A Roma, nel Foro, venne eretta la colonna rostrata, decorata cioè con i rostri delle navi catturate al nemico.
Le navi romane
A contatto con i Cartaginesi, di cui furono acerrimi rivali, i Romani si fecero esperti marinai e potenziarono la loro flotta. Le navi romane erano costruite con lunghe tavole di pino e di abete, unite con chiodi di legno e coperte all’esterno di lana intrisa nel catrame, su cui era stesa una lastra di piombo. Le navi da guerra erano lunghe e sottili, spinte da due, tre, e perfino cinque file di remi: si dicevano perciò biremi, triremi e quinqueremi. Invece le navi da trasporto, cariche di olio, vino, cereali, bestiame, erano larghe, possenti, più lente. Possedevano un’ampia vela quadrata e tenevano legata a rimorchio quasi sempre una scialuppa di salvataggio, chiamata scafo. Un marinaio di vedetta stava attento a che non si riempisse di acqua e affondasse. Navigavano solo di giorno e poco d’inverno. Durissima era la disciplina imposta ai marinai.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La seconda guerra punica
I Cartaginesi erano ancora molto forti. Essi volevano tornare ad essere padroni del mare, e dopo qualche anno Roma e Cartagine erano di nuovo in guerra fra loro. I Cartaginesi misero a capo del loro esercito un grande generale, che si chiamava Annibale. I Romani sorvegliavano il mare tra Cartagine e la Sicilia perchè pensavano che i Cartaginesi sarebbero passati di lì per muovere contro Roma. Invece Annibale ancò in Spagna e poi, attraverso la Francia, arrivò ai piedi delle Alpi per cogliere di sorpresa i Romani. Attraverso le Alpi non c’erano strade. Le montagne erano coperte di boschi, di neve o di ghiaccio. Sulle montagne abitavano popolazioni selvagge, che tendevano imboscate a tutti coloro che capitavano nelle loro terre. Per valicare le Alpi, Annibale dovette aprirsi una nuova strada e, al tempo stesso, combattere i montanari nemici. Ma riuscì ugualmente ad attraversare le montagne con tutto il suo esercito, con i carri, i cavalli e persino con alcuni elefanti, che erano un po’ i carri armati di quel tempo.
Perchè scoppiò la seconda guerra punica
Cartagine, benchè sconfitta, non si dette mai per vinta e cercava un pretesto per poter riprendere la guerra contro Roma. Troppo forte era il desiderio di rivincita, di tornare padrona assoluta del Mediterraneo e di rioccupare le tre grandi isole della Sicilia, della Sardegna e della Corsica. L’occasione venne dopo alcuni anni di pace, quando i Romani accorsero in difesa di Sagunto, una città della Spagna assalita dai Cartaginesi. Questi, nonostante l’intervento, non tolsero l’assedio ed ebbe così inizio la seconda guerra punica.
Vittorie di Annibale
Mentre i Romani sorvegliavano il mare, l’esercito di Annibale apparve all’improvviso, come per miracolo, nella pianura padana. L’esercito romano si mosse rapidamente per affrontare il nemico, ma i soldati di Roma arrivarono stanchi e spaventati e combatterono debolmente contro l’esercito di Annibale. I Cartaginesi vinsero una prima volta presso il fiume Ticino. Allora i Romani si ritirarono un poco più a sud. Sulle rive del fiume Trebbia ci fu un’altra battaglia; i Cartaginesi vinsero anche questa. Allora i Romani si ritirarono ancora fin quasi alle soglie di Roma. Questa volta erano decisi a vincere e, quando seppero che Annibale si trovava presso il lago Trasimeno, si misero in marcia anch’essi verso il lago. Ma Annibale, sentendo avvicinarsi i Romani, finse di ritirarsi, nascondendosi invece con il suo esercito sulle colline che dominavano il lago, favorito anche da una fitta nebbia. L’esercito romano che lo inseguiva fu assalito all’improvviso mentre avanzava lungo le rive del lago, così anche nella battaglia del lago Trasimeno i Romani furono battuti. Annibale pensava che alla fine i Romani si sarebbero arresi, ma questi perdevano le battaglie e non si arrendevano. A Canne, in Puglia, i Romani furono sconfitti ancora una volta. Annibale finse di ritirarsi e fu inseguito dai Romani che rimasero così circondati. Morirono tanti Romani che Annibale, dopo la battaglia, fece raccogliere tre cesti di quegli anelli d’oro che i patrizi portavano al dito.
Consuetudini di Annibale
Pur essendo generale Annibale conduceva una vita durissima. Nel dormire e nel vegliare non faceva nessuna differenza tra la notte e il giorno; dava al riposo soltanto il tempo che gli rimaneva dopo aver compiuto il suo lavoro, e non cercava, per dormire, ne la morbidezza del letto ne il silenzio. Più volte fu visto giacere a terra fra le guardie e i cocchi dei soldati, coperto di un semplice mantello.
Ritratto di Annibale
Audacissimo nelle imprese rischiose, ma prudentissimo nei pericoli, Annibale non poteva essere stancato da nessuna impresa e da nessuna fatica. Poteva indifferentemente sopportare il caldo e il freddo. Moderato nel bere, non mangiava oltre la necessità; non aveva limiti nella veglia e al sonno concedeva solo il tempo minimo necessario. Non si distingueva dagli altri soldati per le vesti, ma per le armi e per i cavalli; primo fra tutti i fanti e i cavalieri nell’avviarsi alla battaglia, ultimo nell’allontanarsi. Ma a tale somma di virtù corrispondevano altrettanto difetti: crudele fino ad essere disumano, perfido, menzognero e spergiuro, non aveva timore degli dei ne rispetto per gli uomini. (da Livio)
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Annibale
Questa volta Cartagine ebbe la fortuna di contare su un abilissimo e coraggioso generale: Annibale. Pochi comandanti lasciarono nella storia antica una fama pari a quella lasciata dal grande Cartaginese. Egli era veramente un uomo straordinario, che dedicò la sua vita per la grandezza della patria. Da giovane, in compagnia del padre, aveva combattuto in Spagna contro i Romani. Il padre, prima di morire, aveva fatto giurare eterno odio a Roma. Era molto coraggioso, forte, ardito e sprezzante di ogni pericolo; dormiva poco e lavorava moltissimo. Passava giornate intere con i suoi soldati tra stenti e fatiche, sempre pronto ad impegnare battaglia con il nemico. Faceva lunghe ed estenuanti marce, spesso sopportando la fame e la sete. Vestiva assai modestamente. In guerra era sempre il primo ad avanzare contro il nemico e l’ultimo ad abbandonare il campo di battaglia.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il piano di Annibale
Annibale attuò un piano molto audace: dalla Spagna, attraverso le Alpi, giunse in Italia e piombò di sorpresa addosso ai Romani. Cinque mesi durò il viaggio di Annibale dalla Spagna in Italia, e quindici giorni furono necessari per passare le Alpi. Con un esercito numeroso il generale cartaginese superò difficoltà di ogni genere, camminando per dirupi scoscesi, in mezzo alla neve e al ghiaccio, combattendo una guerriglia insidiosa contro i montanari. Molti soldati morirono per la strada. Le bestie, elefanti e cavalli, erano sfinite per la fame, perchè lassù mancavano i pascoli. La discesa fu più difficile della salita, ma alla fine l’esercito cartaginese raggiunse la Pianura Padana.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Furbizia di Annibale
Annibale, il grande nemico dei Romani, non solo sapeva combattere bene, ma conosceva mille furbizie e spesso le usava durante la guerra. Una volta doveva combattere per mare contro un re che era alleato dei Romani. Questo re era molto più forte di lui, bisognava vincerlo con l’inganno, con l’astuzia. Annibale, allora, chiamò a raccolta i marinai e disse loro: “Amici, raccogliete dei serpenti velenosi vivi, quanti più ne potete trovare, e chiudeteli in vasi di coccio. Poi, quando si attaccherà battaglia, venite dietro a me, e assaliremo tutti insieme la nave del re”. “E che faremo dei vasi di coccio?” “Li getteremo sulle navi nemiche quando ci verranno addosso!” “Bene, comandante. Ma come sapremo qual è la nave del re?” “Ci penso io!” Infatti, poco prima della battaglia, quando le due flotte erano schierate l’una di fronte all’altra, Annibale mandò un araldo, in una barchetta, in mezzo alla flotta avversaria. “Ehi, tu, che cerchi?”, gli domandarono. “Cerco il re: devo consegnargli questa lettera da parte di Annibale”. Lo guidarono alla nave ammiraglia e i marinai di Annibale, che stavano a vedere, capirono così quale era e dove si trovava. Il re aprì la lettera: credeva che vi fossero delle proposte di pace, invece non trovò che delle parole di beffa! Allora ordinò che si cominciasse a combattere. Subito le navi di Annibale assalirono quella del re da ogni parte e la costrinsero a fuggire, poi i marinai presero a gettare i vasi di coccio sulle altre navi nemiche. E i serpenti velenosi si sparsero sulle tolde avversarie portando lo spavento e la morte. Così Annibale, con pochi uomini e molta furberia, sconfisse una potente flotta.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Gli elefanti di Annibale
Gli elefanti di Annibale, quando egli mosse dalla Spagna per venire ad invadere l’Italia, arrivati sulle rive del fiume Rodano non volevano più marciare. “Arrilì! Arrilà!” urlavano i conducenti, incitandoli e punzecchiandoli, “Va lì! Va lì! Ih! Oh! Su!” … ma era lo stesso che parlare al muro. Quegli enormi bestioni si erano impuntati, e non c’era verso di smuoverli. E tutto l’esercito stava fermo; e Annibale, per cui ogni giorno voleva dire qualcosa, andava su e giù con il frustino, ed era assai inquieto e contrariato. “Arrilì! Arrilà! Arrisù! Arrigiù! Che i tristi Numi vi fulmino, maledette bestiacce! Ih! Ih! Ih! Là!” Si provarono anche a spingerli… sì! Ma era meglio dover spingere una montagna! Gli elefanti non si spostavano di un passo; cominciarono anzi a recalcitrare, alzando minacciosamente le proboscidi e guardando male con quegli occhietti furbi e feroci, pestando nervosamente la terra coi piedi. E’ inutile! Ormai, e chi sa perchè, si erano spaventati dell’acqua e si erano intestarditi di non passare, e non passavano. Forse il giorno dopo… Ma Annibale non voleva aspettare fino al giorno dopo! Egli chiama un fantaccino e gli chiede: “Sei tu che sai nuotare come un pesce?” “Lo dicono i miei compagni, capitano” “Allora vieni qui! Piglia un bastone!” Il fantaccino raccatta un bastone. “Vieni con me!” gli dice Annibale. Lo conduce presso un elefante, il primo della fila, sulle rive del fiume: “Stai attento!” gli dice Annibale “Quando io ti darò il segno, appena ogni conducente sarà a posto, vicino alla sua bestia, tu da’ una bastonata nel ceppo dell’orecchia a questo elefante” “Ma io… capitano…” “Non sai dare una bastonata?” “Le bastonate le so dare, me è questione…” “Di che hai paura?” “Gli è che l’elefante, se io gli dò una bastonata, mi afferra con la proboscide e mi scaraventa contro un albero, oppure mi mette sotto i piedi!” “E tu” lo guarda maliziosamente Annibale, “non sai nuotare?” “Sì” “Buttati allora subito a nuoto, e nuota!” “E se l’elefante…” “Via!” comandò Annibale. Quando Annibale comandava non c’era da far altro che obbedire. “Voi!” comandò poi anche agli altri conducenti, “State pronti a mandar avanti gli elefanti!” e al fantaccino: “A te! Via!” Il povero disgraziato si avvicina alla prima bestia della fila, col bastone dietro la schiena, fingendo di non capire. Sta lì un poco, tanto che l’elefante si svii da ogni sospetto. Intanto guarda l’acqua del fiume, per misurare ad occhio la distanza e per contare i balzi che gli ci vogliono per tuffarsi. Con un occhio guarda il Rodano, e con quell’altro l’elefante. A un tratto, quando questo meno se lo aspetta, alza il bastone e gli dà una gran bastonata nell’orecchia, così forte, che l’orecchia dell’animale rimbomba con uno schiocco e uno scoppio. Numi del firmamento! L’elefante dà un barrito tremendo; drizza la proboscide; il fantaccino si è gettato in acqua; l’elefante, che non perdona, si butta in acqua anche lui. “Arrilì! Arrilà!” urlano i conducenti agli altri elefanti. Questi, vedendo il primo che si è buttato, gli vanno dietro come pecore… Così, in men che non si dica, furono tutti sull’altra riva. “Avanti!” potè allora trionfalmente ordinare Annibale, rimontando a cavallo. E l’esercito proseguì, marciando verso le Alpi e contro l’Italia. (R. Maurizi)
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE L’ardimento di Scipione giovinetto
Annibale, attraversate le Alpi, marciava su Roma; il pericolo era grave ed imminente. L’esercito romano era comandato da un valoroso console che aveva con sè il figlio diciassettenne, il quale aveva voluto seguire per la prima volta il padre in guerra. La battaglia si accese lungo le sponde del fiume Ticino. Dopo accanito combattimento la cavalleria cartaginese riuscì a travolgere le schiere romane. Il console stesso, ormai circondato, stava per cadere nelle mani del nemico, quando una voce echeggiò sul campo. Era il figlio del console che d’un balzo si era avvicinato al padre ormai in pericolo e, facendogli scudo col proprio corpo, riusciva a portarlo in salvo. Mirabile esempio di ardimento e di amor filiale. Quel giovinetto era Scipione, il futuro vincitore di Annibale.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia del Trasimeno
Annibale si accampò nella pianura, tra il lago Trasimeno e i monti di Cortona, e collocò il grosso del suo esercito sulle pendici dei monti, nascondendo la cavalleria ai piedi di certe alture vicine, per tenerla pronta a sbarrare il passo ai Romani. Infatti i Romani, appena furono entrati in campo, si sentirono improvvisamente attaccare da tutte le parti prima ancora che potessero trar fuori le spade. Il console Flaminio tentò di riordinare i soldati sbigottiti, ma una fitta nebbia levatasi dal lago impediva la visuale, tanto che era impossibile riconoscere le bandiere, mentre il rumore ed il tumulto impedivano di udire gli ordini trasmessi. Ogni soldato si trovava così a combattere secondo il proprio ardore e talento. La zuffa durò per ben tre ore, aspra ovunque ma soprattutto intorno al console, il quale fu passato da parte a parte dalla lancia di un cavaliere che Annibale aveva arruolato in Gallia. Nella battaglia morirono 15.000 Romani; 10.000 furono i dispersi. Dei nemici 1.500 rimasero morti sul campo. (da Livio)
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Annibale ha paura
Dopo le vittoriose battaglie al Ticino, alla Trebbia e al Trasimeno, parve che Annibale volesse marciare su Roma; invece deviò verso l’Adriatico e si spinse nell’Italia meridionale. Roma era una città fortificata, cinta da colonie romane e latine fedeli: bisognava prenderla d’assalto e non con l’assedio: ma Annibale non aveva le macchine necessarie e temeva sorprese alle spalle.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il “Temporeggiatore”
Quinto Fabio Massimo fu detto il “Temporeggiatore” perchè la sua tattica era quella di stancare ed indebolire il nemico rimandando il più possibile la battaglia finale. I soldati romani correvano verso le campagne, sorprendevano alla spicciolata le pattuglie nemiche, molestando i carriaggi e i trasporti ma si ritiravano appena appariva il grosso dell’esercito; essi non dovevano in nessun caso accettare battaglia in campo aperto, perchè i nemici erano più forti e numerosi. Il piano di Fabio Massimo era semplice: bisognava logorare le forze dei Cartaginesi, finchè essi, sfiniti, non avessero ceduto. Questo modo di fare la guerra, però, non soddisfò i Romani; essi erano ansiosi di combattere in campo aperto col nemico e perciò il dittatore venne presto destituito.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Fabio Massimo e i buoi di Annibale
Il dittatore Quinto Fabio Massimo era riuscito a rinchiudere in una specie di vicolo cieco, tra il fiume Volturno, il monte Callicula e il passo di Casilino, i Cartaginesi. Egli si riprometteva di sterminarli l’indomani all’alba. Ma Annibale, nella notte, radunati tutti i buoi che seguivano il suo esercito come vettovagliamento, fece legare sulle corna di ognuno un fascio di sarmenti. Poi ordinò di dar fuoco a quei fasci e di spingere gli animali terrorizzati verso il valico. Quello strano fiume ardente ruppe lo sbarramento romano e dilagò nella pianura. Soltanto all’alba i Romani si accorsero che, dietro la mandria, se ne era andato anche l’esercito cartaginese. Quinto Fabio Massimo perse così una facile occasione per distruggere l’esercito nemico.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE La battaglia di Canne
Due furono le astuzie che Annibale usò a Canne. La prima fu nella scelta della posizione, per cui schierò i soldati con le spalle al vento il quale gettava la polvere negli occhi dei Romani; la seconda fu nel modo di schierare i suoi uomini. Mise alle due ali i più forti e valorosi, i più deboli nel centro, disponendoli a cuneo in modo che essi precedessero i più validi. Al quali ordinò che non appena i Romani avessero messo in fuga il centro penetrando così nel vuoto lasciato i dai fuggiaschi, essi li assalissero di fianco, li aggirassero, chiudendoli in una sacca. E così vinse.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia di Canne
Mentre a Roma si facevano i preparativi per la prossima campagna, era già incominciata la guerra nell’Apulia. Appena la stagione permise di abbandonare i quartieri d’inverno, Annibale si mosse, e prendendo, com’era sua abitudine, egli stesso l’iniziativa della guerra e l’offensiva, partì da Geronio, dirigendosi verso sud; lasciando da un lato Lucera, passò l’Ofanto e pree il castello di Canne (tra Canosa e Barletta) che dominava il piano canosino, e che fino allora aveva servito da magazzino principale dei Romani. L’esercito romano, il quale, dopo che Fabio ebbe deposta a metà d’autunno, a norma della costituzione, la carica di dittatore, era stato posto sotto il comando di Gneo Servilio e di Marco Regolo, prima come consoli, poi come proconsoli, non aveva saputo impedire quella piccola perdita. Sia per riguardi militari sia per riguardi politici diveniva sempre più urgente la necessità di mettere un freno ai progressi di Annibale, per mezzo di una battaglia campale. Con questo preciso incarico del Senato giunsero all’Apulia i due nuovi generali Paolo e Varrone sul principio dell’estate 538 di Roma (corrispondente al 216 aC). Con le quattro nuove legioni e col corrispondente contingente degli Italici che essi portatono con sè, l’esercito romano ammontava a 80.000 fanti, metà cittadini e metà federati, ed a 6.000 cavalieri, un terzo cittadini e due terzi federati. L’esercito di Annibale invece vantava 10.000 cavalieri, ma soltanto 40.000 fanti. Annibale desiderava ardentemente una battaglia non solo per i motivi generali già accennati, ma anche perchè la grande pianura dell’Apulia gli permetteva di utilizzare tutta la superiorità della sua cavalleria e perchè il mantenimento del suo grande esercito, stabilito vicino ad un eservito di piazzeforti, ben presto, nonostante la superiorità della cavalleria, gli sarebbe riuscito difficile. Anche i capi dell’esercito romano erano, come dicemmo, in generale decisi di azzuffarsi e perciò si avvicinavano al nemico; ma i più avveduti, conoscendo la posizione di Annibale, volevano che si aspettasse e si prendesso soltanto posizione vicino al nemico per obbligarlo a ritirarsi o ad accettare battaglia su un terreno meno favorevole. Annibale accampava presso Canne, sulla riva destra dell’Aufidus. Paolo mise il suo campo sulle due rive del fiume, in modo che la forza principale fosse sulla riva sinisra, ma un forte corpo prendeva pure posizione immediata sulla riva destra immediatamente di fronte al nemico, per impedirgli il vettovagliamento, e forse anche per minacciare Canne. Annibale, al quale premeva di venire presto a battaglia, attraversò il fiume col grosso delle sue truppe, e offrì battaglia sulla riva sinistra, ma Paolo non accettò. Ma al console democratico spiacque questa pedanteria militare; si era detto tanto di voler entrare in campagna non per starvi a far da sentinella, ma per adoperarvi le spade! Egli comandò di marciare sul nemico dovunque lo si trovasse. Per l’antico costume, stoltamente conservato, il voto preponderante nel consiglio di guerra si avvicendava ogni giorno tra i due supremi comandanti: fu quindi necessario adattarsi alla volontà dell’eroe della piazza. Sulla riva sinistra, dove l’ampio campo offriva buon gioco alla preponderante cavalleria del nemico, neppure egli voleva battersi; ma decise di riunire tutte le complessive forze romane sulla riva destra, prendendo posizione fra il campo cartaginese e Canne, e offrir battaglia minacciando seriamente la città. Una divisione di 10.000 uomini rimase nell’accampamento principale romano, con l’ordine di impadronirsi del campo cartaginese durante il combattimento, tagliando così all’esercito nemico la ritirata oltre il fiume. Il grosso dell’esercito romano, coll’albeggiare del 2 agosto secondo il calendario nonriformato, forse nel mese di giugno secondo il calendario riformato, passò il fiume, scarso d’acqua in quella stagione, e che non impediva molto i movimenti delle truppe e si ordinò in linea all’occidente di Canne, vicino al campo minore romano, cui si appoggiavano tanto l’ala destra dei Romani, quanto l’ala sinistra dei Cartaginesi. La cavalleria romana stava ai lati, quella della milizia cittadina, meno valida e comandata da Paolo, a destra del fiume; quella dei confederati, più valida, a sinistra verso la pianura era guidata da Verrone. La fanteria in linee molto profonde comandate dal proconsole Gneo Servilio componeva il centro. Annibale dispose la sua fanteria in semicerchio di fronte a quella dei Romani e in modo che le truppe celtiche ed iberiche, con la loro armatura nazionale, formassero il centro avanzato; le libiche, armate alla romana, le due ali ripiegate. Verso il fiume si spiegò tutta la cavalleria pesante sotto gli ordini di Asdrubale; verso la pianura la cavalleria leggera numidica. Dopo un lieve combattimento di avamposti fra le truppe leggere, tutta la linea si trovò impegnata nel combattimento. Dove combatteva la cavalleria leggera dei Cartaginesi contro la cavalleria pesante di Varrone, le cariche dei cavalieri numidici si succedevano le une alle altre senza riuscire a un risultato decisivo. Nel centro invece le legioni respinsero del tutto le truppe iberiche e le galliche che prima scontrarono, e approfittando del vantaggio ottenuto, le inseguirono animosamente. Ma intanto la fortuna aveva volto le spalle ai Romani sull’ala destra. Annibale aveva solo voluto tenere occupata l’ala sinistra della cavalleria nemica, perchè Asdrubale potesse spiegarsi con tutta la cavalleria regolare contro la debole ala destra e respingerla per la prima. Dopo una breve resistenza i cavalieri romani piegarono e quelli che non furono tagliati a pezzi, furono cacciati all’insù del fiume e dispersi nella pianura; Paolo, ferito, cavalcò verso il centro dell’esercito volendo cambiare la sorte delle legioni e condividerla con esse. Per trarre maggior profitto dalla vittoria riportata contro l’avanzata fanteria nemica, le legioni avevano cambiata la loro fronte in una colonna d’attacco che penetrava in forma di cuneo nelle file del centro nemico. Da questa posizione esse furono assalite con impeto dai due lati della fanteria libica che, convergente, si avanzava a destra e a sinistra; una parte delle legioni fu costretta a fermarsi per difendersi contro gli attacchi di fianco per cui, non solo le fu impedito di avanzare, ma la massa della fanteria, ordinata in file troppo profonde, non ebbe assolutamente lo spazio per svolgersi. Intanto Asdrubale, finito il suo compito sull’ala comandata da Paolo, raccolse e riordinò i cavalieri, e passando dietro il centro nemico, li condusse verso l’ala comandata da Verrone. La cavalleria italica messa già abbastanza alle strette dai Numidi, sorpresa da nuove forze si disperse definitivamente. Asdrubale lasciando ai Numidi la cura di inseguire i fuggitivi, riordinò per la terza volta i suoi squadroni coi quali prese alle spalle la fanteria romana. Questo ultimo colpo fu decisivo. La fuga era impossibile e non si dava quartiere; non c’è dorse altro esempio di un esercito tanto numeroso distrutto interamente sul campo stesso di battaglia e con sì lieve perdita dell’avversario, come fu dell’esercito romano presso Canne. Le perdite di Annibale non superavano i 6.000 uomini, due terzi dei quali erano Celti che sostennero il primo urto delle legioni. Dei 76.000 Romani, invece, che erano schierati in battaglia, 70.000 morti coprivano il campo, fra i quali il console Lucio Paolo, il proconsole Gneo Servilio, due terzi degli ufficiali superiori, 80 senatori. Il console Marco Verrone soltanto si salvò per la sua repentina risoluzione e per la velocità del suo destriero che lo portò a Venosa ed ebbe l’animo di sopravvivere. Anche i 10.000 uomini di presidio nel campo romano furono per la gran parte fatti prigionieri: solo alcune migliaia fra le truppe di presidio e dell’esercito scamparono in Canusio. E come se in quell’anno ogni cosa dovesse andar perduta per Roma, la legione spedita nella Gallia cadde in un agguato prima ancora del termine dell’anno, e fu interamente distrutta dai Galli insieme col suo comandante Lucio Postumio, che era stato eletto console per l’anno seguente. (T. Mommsen)
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Dopo la battaglia di Canne
La sera stessa della battaglia di Canne, il comandante dei cavalieri numidi, si era presentato ad Annibale: “Lasciami andare con la sola cavalleria” gli disse, “e fra cinque giorni tu banchetterai in Campidoglio”. Ma il Cartaginese pensava altrimenti. Il suo esercito era piccolo, nè egli poteva facilmente colmarne i vuoti; non aveva macchine d’assedio, e Roma era cinta da potenti mura. E poi era certo che il solo suo apparire alle porte della città, anzicchè scoraggiare i Romani, li avrebbe eccitati ad agire.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Roma dopo Canne
Giunta in Roma la notizia di così grave sciagura, la città fu presa da tanto dolore che vennero interrotti gli annuali sacrifici di Cerere. I sacrifici non potevano essere celebrati da matrone in lutto e non c’era in tutta Roma una matrona che ne fosse esente! Per evitare che venissero trascurati gli altri sacrifici pubblici e privati, il Senato decretò che il lutto avesse termine dopo trenta giorni. In tale occasione i Romani dettero prova di straordinaria forza d’animo e di grande amor patrio. Furono arruolati i giovani dai 17 anni in su, furono chieste milizie agli alleati, secondo le convenzioni, furono prelevati dai tempi e dai portici gli antichi trofei tolti ai nemici per provvedere armi, dardi e scudi. Poichè mancavano gli uomini liberi, furono arruolati 8.000 schiavi, scelti tra i più valorosi. La sconfitta era veramente più grave di tutte le precedenti e lo dimostra il fatto che gli alleati cominciarono a disperare della salvezza di Roma e passarono alle file nemiche. Ne il lutto generale ne le defezioni degli alleati indussero mai i Romani a parlare di pace, ne prima del ritorno in patria del console superstite (Terenzio Varrone) ne dopo il suo ritorno. In tale occasione, anzi, i Romani andarono incontro al console, che pure era stato la causa principale della disfatta, e lo ringraziarono perchè non aveva disperato della Repubblica. (da Tito Livio)
Costanza dei Romani
Nell’ultima fase della lunga guerra contro Cartagine i Romani passarono di disfatta, ma non cedettero mai alla sorte avversa e al valore dei nemici. Le donne romane offrirono oro, argento, gioielli, per sostenere lo sforzo della patria in pericolo. Ma perchè questa costanza, questa volontà di vincere ad ogni costo? I Romani erano devoti alla patria e non esitavano ad affrontare la morta per difenderla. I soldati cartaginesi erano invece in massima parte mercenari e combattevano per guadagno.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Scipione l’Africano
Annibale vinceva sempre, ma era come chiuso in gabbia in Italia. I Cartaginesi non potevano mandargli rinforzi perchè i Romani sorvegliavano il mare. Dopo ogni battaglia, Annibale aveva un numero minore di soldati, di armi, di cavalli. Intanto i Romani, guidati dal generale Scipione, erano sbarcati in Africa e minacciavano la stessa Cartagine. Annibale fu richiamato in patria, ma a Zana subì la prima sconfitta, che segnò la fine della seconda guerra fra Roma e Cartagine. Questa volta i Romani, dopo aver vinto la guerra, vollero tutte le navi di Cartagine. I Cartaginesi non potevano più commerciare attraverso il mare. Cartagine era ormai diventata una città senza importanza.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Scipione e gli elefanti
Publio Cornelio Scipione, nella battaglia di Zama, in Africa, vedendo i nemici dotati di elefanti, incolonnò i suoi soldati ordinando loro, quando avessero visto gli elefanti precipitarsi su di essi, di spostarsi in modo che gli animali si trovassero a percorrere una specie di corridoio. Così fu fatto: gli elefanti, giunti alle spalle dell’esercito romano, furono circondati e sopraffatti.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia di Zama
Annibale e Publio Scipione uscirono in campo con i loro eserciti e si prepararono alla battaglia: i Cartaginesi per la propria salvezza, i Romani per il dominio del Mediterraneo. Scipione dispose le schiere del suo esercito in questo ordine: per primi gli astati e le loro insegne, a intervalli regolari; in seconda fila i principi; per ultimi i triari. Nell’ala sinistra schierò la cavalleria romana, in quella destra la cavalleria dei Numidi; quindi riempì gli intervalli della prima fila con le coorti di veliti, ordinando loro di accendere la zuffa e, qualora avessero dovuto cedere, di ritirarsi lungo la linea retta di intervallo, portandosi alle spalle dell’esercito. Annibale schierò più di ottanta elefanti in prima fila, quindi i mercenari, circa 15.000, e dietro questi Cartaginesi e altri alleati africani. Assicurò poi le ali con la cavalleria. Annibale diede ordine ai condottieri degli elefanti di attaccare, ma appena suonarono le trombe e i corni, alcuni elefanti, spaventati, indietreggiarono improvvisamente, creando un’indescrivibile confusione fra le schiere dei Cartaginesi. In quel momento la cavalleria romana attaccò, e le due falangi avanzarono, dapprima a passo lento e grave, poi emettendo alte grida e percuotenso gli scudi con le spade… Poichè entrambe le schiere erano uguali di numero, di valore e di armatura, la battaglia rimase a lungo indecisa e gli uomini morivano, ostinati, nello stesso luogo in cui combattevano… Infine la cavalleria aggirò Annibale e lo attaccò alle spalle, costringendo i Cartaginesi ad una precipitosa e disordinata ritirata. In questa battaglia morirono oltre millecinquecento Romani e oltre ventimila Cartaginesi. (da Polibio)
Preghiera di Scipione
Dall’alto della sua nave, al cospetto delle sue truppe e del mare, il comandante volge al cielo la sua preghiera: “O dei e dee del mare e della terra, io chiedo a voi che ogni cosa da me fatta o che farò, sia propizia a me e al popolo di Roma, ai nostri amici, a tutti coloro che parlano latino, a tutti quelli che ci seguono attraverso il mare, con il cuore e col pensiero. Proteggeteci; concedeteci di ritornare vincitori nelle nostre case”.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il trionfo di Scipione l’Africano
Dopo la sua magnifica vittoria su Cartagine, il Senato accordò a Scipione l’onore del Trionfo. Il generale salì su un carro dorato, vestito di una toga di porpora ricamata d’oro, con ricchi bracciali ai polsi, la testa cinta dall’alloro, e un ramo di alloro nella mano destra. Precedevano il carro i senatori, i trofei di guerra, i prigionieri incatenati, le insigne delle legioni vittoriose; lo seguiva tutto l’esercito, e ogni soldato teneva in mano un ramo d’alloro. Sul carro, in piedi dietro a Scipione, c’era uno schiavo che gli reggeva sulla testa una corona d’oro tempestata di gemme e che ripeteva continuamente queste parole: “Ricordati che sei un uomo”, Si ammoniva così il trionfatore di non insuperbire per tanti onori! L’interminabile corteo sfilò fra ali acclamanti di popolo, mentre si cantavano inni di vittoria e si gettavano fiori.
Ultime parole di Scipione l’Africano
Scipione l’Africano, il vincitore della seconda guerra punica, venuto in sospetto ad alcuni suoi concittadini, sdegnosamente si ritrasse in una sua villa a Literno in Campania; passò il resto della vita intento agli studi, e prima di morire ordinò che sulla sua tomba si scrivessero queste amare parole: “Ingrata patria, non avrai le mie ossa”. Morì in quell’anno stesso in cui il suo avversario Annibale moriva, esule, in Bitinia.
Morte di Annibale
Annibale, sino all’ultimo, non cessò di eccitare nemici contro Roma, fra cui Antioco; ma, vinto costui, si rifugiò presso Prusia, re di Bitinia, in Asia Minore, sul Ponto Eusino. I Romani inviarono ambasciatori a Prusia perchè consegnasse Annibale nelle loro mani. Allora Annibale, vedendo chiusa ogni via di scampo, bevve il veleno dicendo: “Liberiamo il popolo romano da questo suo incessante timore”.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE La terza guerra punica
Cartagine, vinta a Zama, era finita come potenza militare, ma ben presto rifiorì economicamente. Essa rimaneva sempre lo sbocco principale dei prodotti africani; il suo porto era affollato di navi, i suoi frutteti, i vigneti, i campi erano tra i più lussureggianti del mondo. Pur adempiendo scrupolosamente agli obblighi impostile dal trattato di pace, Cartagine sollevava sospetti e timori a Roma, espressi ripetutamente in Senato dall’ottantenne Catone il Censore (“Delenda est Carthago”, cioè “Bisogna distruggere Cartagine”). L’occasione del conflitto fu offerta da Cartagine stessa, che stanca di subire le soverchierie di Massinissa, re della confinante Numidia, a un nuovo strappo di territorio gli mosse guerra, violando così le condizioni di pace dell’anno 201. I Romani allora sbarcarono in Africa, per punirla. Sbigottiti, i Cartaginesi tentarono di placare il potente nemico, accettando tutte le sue condizioni: consegna di ostaggi e di tutte le armi e le navi da guerra. Ma, ottenuto ciò, i consoli intimarono ai Cartaginesi di sgomberare la città, la quale doveva essere distrutta; essi potevano costruirne un’altra, purchè non fortificata e distante dal mare almeno quindici miglia. Il crudele comando provocò la disperata resistenza dei Cartaginesi, che difesero eroicamente, per due anni, la loro patria. Alla fine furono costretti ad arrendersi e Cartagine venne rasa al suolo. Sulle rovine della città i Romani sparsero del sale: ciò significava che essa non doveva più risorgere… e mai più risorse. La luce di una grande civiltà si spegneva così nel Mediterraneo e si affermava sempre più quella di Roma.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Catone il Censore
Fra i Romani che maggiormente temevano il rifiorire di Cartagine c’era Catone il Censore. Costui diceva a tutti coloro con i quali parlava: “Cartagine deve essere distrutta”, ma i senatori non davano peso alle sue parole: pensavano infatti che Cartagine era lontana e non poteva dar noia. Un giorno Catone capitò in Senato con un cesto di bellissimi fichi freschi. Invece di cominciare, secondo il suo solito, a dire: “Cartagine deve essere distrutta!”, si volse ai senatori e offrì quei frutti. I senatori accettarono e mangiarono. Quando il cestino restò vuoto Catone, col suo miglior sorriso, domandò: “Erano buoni?” Tutti risposero di sì: erano così freschi! Nella polpa rossa brillava persino una goccia zuccherina… “Ebbene” dice Catone, facendosi improvvisamente serio, “ieri mattina pendevano ancora dall’albero, in un frutteto di Cartagine…” I senatori si fecero pensosi: davvero Cartagine non è molto lontana da Roma… Se rialzasse la testa, sarebbe un guaio… E ricordarono con angoscia Annibale quando scorrazzava per l’Italia. Ricordarono con sgomento che, dopo Canne, accorsero sotto le armi anche giovinetti di tredici, quattordici anni, perchè gli uomini erano in gran parte morti. Catone vide quei capi chini, quelle fronti corrucciate, e sorrise: finalmente aveva raggiunto il suo scopo; li aveva convinti.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Marco Porcio Catone
Quando il venerando Catone entrò nella curia, i senatori si levarono in piedi. Egli salutò reverente il simulacro della Vittoria e si avviò al suo seggio. Procedeva a fatica per i suoi ottantaquattro anni e con la sinistra teneva sollevato un lembo della toga, come vi chiudesse dentro un rotolo, con qualche nuovo discorso. Invece, grande fu lo stupore del Senato quando egli trasse fuori alcuni fichi. “Questi frutti” disse “sono ancora freschi, eppure vengono da Cartagine. Cartagine è a soli tre giorni di viaggio da Roma. Bisogna distruggere Cartagine”. Il Senato, che era stato a lungo perplesso, deliberò allora di intraprendere la terza guerra punica. L’oratoria tagliente di Catone risonava ogni giorno in Senato e nel Foro: il popolo ripeteva i suoi motti scultorei e le sue amare ironie. Eletto censore, aveva dedicato i poteri inerenti alla carica a reprimere il lusso e la corruzione. La già esistente legge Oppia, che limitava appunto lo sfarzo delle matrone, era stata abolita; Catone non solo la ripristinò, ma la inasprì con tasse esorbitanti sulle vesti e suoi cocchi. Espulse dal Senato sette senatori che giudicò indegni di appartenervi. Nella grande rassegna dei cavalieri, tolse a Lucio Scipione il cavallo troppo riccamente bardato. Faceva guerra spietata a tutti gli abusi, e si procurò molte inimicizie. Fu accusato innanzi al popolo quarantaquattro volte, e sempre uscì assolto, meno una volta sola in cui dovette pagare una multa. Quando, nella magra altissima statura, tanto indurito nelle fatiche da parere quasi legnoso, vestito semplicemente, passava riguardando con gli occhi acuti e bigi sotto la chioma rossa, tremavano tutti. Anima ferrea e tenace, fattasi un’opinione, non la mutava più. Ora si era convinto che Roma non poteva avere un avvenire finchè il Mediterraneo fosse dominato da una potenza straniera e rivale. Perciò, di qualunque argomento parlasse, concludeva sempre il suo discorso con l’immancabile ritornello: “E poi bisogna distruggere Cartagine”. Cartagine aveva cacciato Annibale, che si era spento lontano dalla patria; ma a lui erano sopravvissuti i suoi saggi ordinamenti. La potenza punica, prostrata dalle armi romane a Zama, era pur rifiorita per virtù dei commerci; e i navigatori cartaginesi avevano di nuovo rannodato con i traffici tutti i ricchi mercati d’Oriente. Sotto l’assillo di Catone, che usava l’eloquenza allo stesso modo del pungolo, il Senato romano finì col proeccuparsi di così rapida minacciosa resurrezione; la terza guerra punica sarebbe stata decretata. (G. Brigante Colonna)
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Distruzione di Cartagine
La battaglia feroce, incessante tra il fumo, le fiamme e il chiarore sanguinoso delle fiaccole durò sei giorni. Squadre di zappatori con accette e ramponi precedevano i manipoli d’assalto, spianando le rovine e seppellendo sotto di queste i cadaveri, i feriti, i caduti. Scipione non prese mai sonno nè riposo; combattendo come semplice soldato, sempre presente là dove poteva esserci bisogno della sua azione e della sua parola. All’alba del settimo giorno la resistenza cartaginese era schiacciata, la battaglia finita, e una lugubre ambasceria di cittadini si recò dal console ad offrire la resa della superstite popolazione, senz’altra condizione che quella di aver salva la vita. Scipione acconsentì, facendo un’unica eccezione per i disertori romani. E allora, mentre le ultime superstiti rovine di quella che era stata Cartagine bruciavano lentamente e si rovesciavano al suolo, crosciando e crepitando, i vincitori videro sfilare dinanzi a sè circa 25.000 donne ed altrettanti uomini, che si recavano prigionieri verso il campo romano, destinati a finire la vita come schiavi in tutte le contrade del mondo antico. Vi mancarono Asdrubale e la sua famiglia e circa 900 disertori, i quali, si erano trincerati nell’atrio del tempio di Esculapio decisi a resistere fino all’estremo. Fu intorno a questo antico, superbo edificio, che si accanì nei giorni successivi la furia degli assalitori. Alla fine anche l’orgoglio e la ferocia del generale punico caddero; e mentre tutti i suoi compagni, fatti irriconoscibili dalla stanchezza e dalla sofferenza, si rifugiavano nel tempio, e alcuni salivano sul tetto, decisi a disputare fino in fondo la vita, egli, distaccatosi dagli altri, andò a gettarsi ai piedi di Scipione, invocando pietà. Coloro che ancora si battevano, appiccarono con le loro stessa mani il fuoco all’edificio e perirono tutti sotto le sue rovine. Così finiva Cartagine. Dalla sua tenda Scipione contemplò fra nugoli di polvere quell’estremo angolo della città punica che si sfasciava; pensava a Roma, alla sua patria, forse destinata a una non meno gigantesca rovina. (C. Barbagallo)
Mediterraneo, mare nostro
Nello stesso anno della distruzione di Cartagine, Roma sottometteva anche la Grecia. Ebbe così il predominio sul Mar Mediterraneo. I Romani, guardando questo mare, potevano ormai dire orgogliosamente: “Mediterraneo, mare nostro”.
L’esercito romano
Chi combatteva. Tutti i cittadini romani, sia patrizi che plebei, dovevano prestare il servizio militare. La chiamata alle armi si faceva solo in caso di guerra, finita la quale i soldati tornavano a casa. Erano chiamati alle armi gli uomini dai diciassette ai sessant’anni. I soldati non solo non erano pagati, ma dovevano equipaggiarsi a loro spese. Perciò i più ricchi formavano la cavalleria, gli altri la fanteria. Il generale Caio Mario, quando riorganizzò l’esercito, stabilì invece che i soldati fossero equipaggiati a spese dello stato e ricevessero una paga.
Come era organizzato l’esercito. Normalmente si formavano due eserciti, uno per ogni console, ed ogni esercito era composto da un dato numero di legioni, che variava secondo il bisogno. Ogni legione aveva 4.200 fanti e 3.000 cavalieri: la legione era divisa in 10 coorti, ogni coorte in 3 manipoli, ogni manipolo in due centurie. A capo di tutto l’esercito era un console, assistito da due o più legati, specie di aiutanti di campo; la legione era comandata da un tribuno militare; il manipolo da un centurione maggiore; la centuria da un centurione minore.
Come si schierava l’esercito sul campo di battaglia. L’esercito romano si schierava a battaglia nel seguente modo: nella prima linea c’erano gli astati, cioè i fanti armati di lancia, che erano scelti fra i più giovani. Nella seconda linea stavano i principi, cioè i fanti dotati di armi pesanti. Nella terza linea i triari, cioè i fanti anziani. Le tre linee erano disposte a scacchiera, in modo che i vuoti della prima linea corrispondessero agli spazi occupati dalla seconda e i vuoti della seconda occupati dalla terza. Ciò serviva per evitare la rottura dello schieramento, qualora i soldati delle prime linee fossero stati costretti ad indietreggiare. La cavalleria era usata per l’esplorazione e per l’inseguimento dei nemici in fuga.
Le armi dei legionari. Le principali armi difensive erano la galea, elmo di pelle; lo scudo, di legno e di pelle che il soldato imbracciava al lato sinistro; la lorica o corazza, formata di lamine d’acciaio, disposte a scaglie, che difendevano le spalle e il petto; gli schinieri, gambali. Sotto la corazza, il legionario vestiva una corta tunica. Le principali armi di offesa erano il pilo o giavellotto, con l’asta e la punta di ferro per combattere a distanza; il gladio e una specie di daga, spada corta e piatta che si adoperava nella lotta corpo a corpo.
Le macchine militari. Molte erano le macchine militari usate in guerra dai Romani. La torre permetteva ai soldati di salire, difesi e coperti, fino all’altezza delle mura nemiche e di muovere decisamente all’attacco di esse. La testuggine era una specie di capanna coperta da pelli di animali: così difesi dalle frecce che venivano scagliate dalle mura nemiche, i soldati potevano portarsi fin sotto le mura stesse, per attaccarle poi con l’ariete. La catapulta serviva per lanciare pietre dal basso verso l’alto, a mezzo di una fune che veniva tesa e lasciata andare di scatto. Qualche volta contro il nemico venivano lanciate anche frecce incendiarie. L’ariete era costituito da una robusta trave che terminava con un massiccio pezzo di ferro, generalmente a forma di testa di ariete; la trave, sospesa ad una impalcatura, serviva ad aprire brecce nelle mura nemiche.
L’accampamento. L’accampamento romano aveva forma quadrata, ed era circondato da un terrapieno, da una palizzata e da un fossato di circa 3 m di profondità e largo 4 m. Aveva quattro porte: quella che si trovava di fronte all’accampamento nemico si chiamava pretoria; quella della parte opposta, decumana. La tenda del comandante sorgeva vicino alla porta decumana, affiancata dalla tenda dei questori, dei tribuni e dei luogotenenti. Le tende dei soldati erano allineate dentro l’accampamento ed erano di cuoio o di tela.
La disciplina dell’esercito. Punizioni e premi.
Severa era la disciplina. Il comandante aveva diritto di vita e di morte su ogni soldato. Con la morte venivano punite le colpe più gravi, come l’insubordinazione. Altre pene erano la flagellazione con le verghe, la degradazione e, per colpe collettive, la decimazione. Se una legione fuggiva davanti al nemico, era decimata, vale a dire, su ogni dieci soldati si estraeva a sorte un uomo, e quelli designati dalla sorte erano decapitati. Molte le ricompense che si davano ai valorosi: corone, medaglie. La suprema ricompensa a un console, dopo una grande vittoria era il trionfo, decretato dal Senato. Quando la vittoria era meno grande, si accordava al generale vincitore un trionfo meno solenne, detto ovazione, perchè, in luogo del toro si sacrificava agli dei una pecora (ovis). Più tardi i Romani eternarono le imprese dei loro generali con monumenti, colonnne ed archi trionfali. Ogni soldato portava il proprio bagaglio personale: gli altri bagagli erano caricati sui carri. L’esercito, in marcia, durante le tappe costruiva l’accampamento (castra).
La paga dei soldati
Lo stipendium istituito nel 406 aC era pagato anno per anno, e al tempo di Pobilio arrivava a 2 oboli al giorno per un soldato di fanteria. I centurioni avevano il doppio, e i cavalieri il triplo di questa somma. Non si conosce quale fosse lo stipendio assegnato agli ufficiali superiori; sappiamo di certo che i tribuni non erano pagati. Le spese del vitto e dell’armatura erano tolte dalla paga. La maggior parte della preda di guerra era distribuita tra i soldati e gli ufficiali; ed ognuno ne riceve una parte proporzionata allo stipendio. (G. Decia)
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – dettati ortografici e letture. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici su Roma Rebubblicana, di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.
La presa di Veio
Per impadronirsi di Veio, M. Furio Camillo fece scavare una galleria sotterranea che dall’accampamento romano conducesse alla cittadella nemica; senza interruzione fu continuata l’incessante fatica sottoterra, giorno e notte.
Quando il lavoro fu compiuto e solo un sottile diaframma mancava da abbattere, Camillo ordinò di prendere le armi e pregò: “Oh Apollo Delfico, da te ispirato, mi accingo a distruggere la città di Veio; tua sia la decima parte delle prede. E te, Giunone Regina, patrona di Veio, prego di seguirci nella nostra città, che fra poco sarà anche tua; lì avrai per dimora un bellissimo tempio”.
Dopo avere così pregato, fece assaltare la città da tutte le parti per sviare l’attenzione di Veienti dalla cittadella, dove si erano frattanto ammassati i soldati romani.
Lontani erano i Veienti dal sospettare che la cittadella fosse già piena di nemici pronti ad assalirla dal di dentro, e grandemente si meravigliarono che i Romani, come presi da improvviso furore, corressero all’impazzata verso le mura, mentre i giorni prima nessuno di essi si era mosso dai corpi di guardia.
Si racconta che mentre il re di Veio faceva il sacrificio, i Romani appostati nella galleria udissero l’augure dire che vittorioso sarebbe stato chi, primo, avesse tagliato le interiora della vittima, e che allora essi infrangessero l’ultimo diaframma del cunicolo e s’impadronissero delle interiora dell’animale sacrificato, per portarle al loro comandante.
Dalla galleria i soldati romani irruppero nel tempio di Giunone, posto nella cittadella; quindi, divelte le porte, si rovesciarono nella città, corsero sulle mura e, sbarazzatele dei difensori, sfondarono le porte. Come fiumana entrarono gli assedianti e in breve Veio fu piena di nemici. Lotta accanita e immensa strage di armati e di inermi fu in ogni strada. Poi si sedò il furore del combattimento e Camillo, per mezzo degli araldi, dette ordine di risparmiare gli inermi.
Alla vittoria seguì il saccheggio della fiorentissima Veio. Anche le ricchezze degli dei fecero parte del bottino e le stesse divinità, sebbene di esse si impadronissero i Romani più come adoratori che come saccheggiatori. Giovani romani, dal corpo mondo, bianco vestiti, entrarono riverenti nel tempio di Giunone Regina: “Vuoi venire a Roma?” le chiese uno di essi. E la dea, così videro e gridarono gli altri, fece cenno di consentire e docile seguì i movimenti di coloro che la portavano. Ad essa fu data dimora nell’Aventino, dove i voti del duce romano l’avevano chiamata.
Ebbe così fine Veio, la più fiorente città degli Etruschi, grande anche nella rovina. Per dieci estati e dieci inverni aveva retto ad ininterrotto assedio e inflitte più perdite di quante ne avesse subite. Alla fine piegava al destino, più che alla possanza degli uomini; all’astuzia, più che alla forza. (Tito Livio)
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Culto e sacerdozio presso i Romani
A capo del culto era il Collegio dei Pontefici, eletti dal Re, in seguito dai Comizi: compilavano il calendario, stabilendo i giorni consacrati al culto (dies festi) e quelli concessi agli uomini per il disbrigo dei loro affari o ai giudici per l’amministrazione della giustizia (dies fasti). Erano i depositari dei libri sacri e registravano in una specie di cronaca gli avvenimenJti più importanti (Annales Pontificum). Questo collegio era presieduto dal Pontefice Massimo, il capo della religione romana.
Gli Auguri interpretavano la volontà degli dei dai segni celesti (lampo, tuono, fulmine), dal volo o dal canto degli ucceli e dal modo come i polli ingozzavano il becchime. Essi erano consultati negli atti più importanti della vita pubblica, specialmente in caso di guerra.
L’arte degli Auguri era detta divinazione. Quella parte della divinazione che riguardava l’esame delle viscere degli animali sacrificati e l’interpretazione dei sogni, spettava ad altri sacerdoti detti Aruspici, quasi tutti di nazionalità etrusca.
_______________________________ Ingiustizie contro i plebei
Alle guerre combattute da Roma prendevano parte tutti i cittadini, fossero essi patrizi o plebei. In caso di vittoria, però, il bottino veniva diviso solo tra i ricchi. Così, mentre i patrizi vedevano aumentare le loro ricchezze, i plebei, già poveri, cadevano sempre più in miseria. Essi avevano dovuto lasciare il loro piccolo campo. Se la guerra scoppiava quando era tempo di seminare, l’aratro restava nei solchi, la semente nei sacchi e in breve ogni sorta di erbacce cresceva al posto del buon grano. Se la guerra scoppiava quando era tempo di raccogliere, le spighe aspettavano invano la falce del mietitore. Quando i plebei tornavano alle loro case, la madia era vuota e il fuoco spento. Molti di essi, che avevano speso tutto il loro denaro per acquistare le armi, non avevano di che comprare un asinello o un bue che li aiutasse nel lavoro, e talvolta, nell’impossibilità di pagare i debiti, diventavano schiavi dei patrizi.
__________________________ La secessione della plebe
Uno stato così ingiusto di cose non poteva durare a lungo. I plebei andavano chiedendo una riforma delle leggi sui debiti e sulle distribuzioni dell’Agro pubblico, ma le promesse ripetute alla vigilia di una guerra, quando occorreva il braccio dei plebei, non erano poi mantenute alla fine della guerra stessa. Indignata, la plebe nel 494 decise di abbandonare il lavoro e il servizio militare; si stabilì su una collina distante pochi chilometri dalla città, che prese poi il nome di Monte Sacro, per fondarvi una nuova città. Dal verbo secedere (appartarsi), questo atto fu detto secessione. I patrizi furono quasi contenti della partenza dei plebei, ma presto si accorsero che essi erano indispensabili, perchè sapevano cuocere il pane, coltivare i campi, fabbricare armi, costruire le case e le strade. Del resto la secessione era un’arma a doppio taglio che, provocando la rovina della città, avrebbe travolto anche la plebe. Perciò il Senato decise di mandare, per intavolare trattative, un patrizio onesto ed amato dai plebei, Menenio Agrippa, che con la sua autorità ed eloquenza riuscì a placare i ribelli. Si venne ad un accordo. I plebei ottennero migliori condizioni e, cosa molto importante, potrono nominare due loro rappresentanti: i tribuni della plebe, che avevano grande autorità e difendevano, in ogni occasione, gli interessi del popolo.
_______________________ I Tribuni della plebe
I Tribuni, due da principio, ma poi accresciuti fino a dieci, e sempre plebei, avevano il compito di difendere la plebe da ogni violenza dei patrizi. Essi avevano infatti due diritti: il diritto di aiuto (ius auxiliii), per cui soccorrevano ogni plebeo che ne facesse richiesta, e il diritto di veto (ius intercedendi), per cui potevano impedire l’esecuzione di qualunque legge che ritenessero nociva ai plebei, solo pronunciando la parola veto (impedisco).
I nuovi magistrati, dichiarati inviolabili, avevano un’autorità morale grandissima e la plebe era pronta a difenderli con ogni mezzo.
Nei due secoli successivi (493-300 aC) i Tribuni, persistendo nel loro programma di rivendicazioni, vincendo l’ostilità e le resistenze del patriziato, riuscirono ad ottenere i desiderati miglioramenti economici e la completa uguaglianza politica, senza atti rivoluzionari violenti, restando sempre nel campo della legalità.
Il Senato era indignatissimo contro questa istituzione: avverso era soprattutto l’arrogante patrizio Coriolano che, non volendo sottostare al giudizio dei Tribuni, dovette lasciare Roma. Assetato di vendetta, si rifugiò presso i Volsci, che erano allora in guerra con Roma, e si pose a capo del loro esercito, guidandolo contro la sua stessa patria. Solo le preghiere della madre lo fecero desistere dalla sua scellerata impresa. I Volsci, come traditori, lo uccisero.
I Tribuni della plebe erano eletti nei primi tempi nei Comizi Centuriati, nei quali la maggioranza dei voti era assicurata ai più ricchi. Dal 471 i Tribuni si cominciarono ad eleggere nei Comizi Tributi. Questi erano formati da rappresentanti delle varie tribù, che erano partizioni territoriali della città abitate insieme da patrizi e da plebei, ma dove i plebei prevalevano numericamente. I patrizi, in principio, benchè invitati, non vollero parteciparvi, ma finirono poi col riconoscere la legalità dei Comizi stessi.
_____________________ I ragazzi dell’antica Roma
I ragazzi aiutavano i padri perchè il lavoro dei campi era la loro unica e vera scuola, il loro unico e vero sport. I padri approfittavano dell’occasione per insegnare loro che il seme dava buon frutto solo quando il cielo mandava acqua e sole; e che il cielo mandava acqua e sole quando gli dei lo volevano e che gli dei lo volevano solo quando gli uomini avevano compiuto il loro dovere verso di essi. E che il primo dovere consisteva nell’obbedienza, dei giovani ai vecchi. (I. Montanelli)
_________________ Roma: storia e leggenda
Dopo la cacciata dei re etruschi sembrò che Roma dovesse scomparire perchè fu assalita da tutti i popoli vicini. Ma proprio in questo momento la storia di Roma racconta le più belle imprese dei suoi soldati. Si tratta di uomini coraggiosi, che amano la loro città e sono molto tenaci, cioè non si scoraggiano se subiscono una sconfitta, ma tornano a combattere ancora fino alla vittoria. In questo periodo i Romani furono veramente sconfitti molte volte, ma alla fine furono loro i vincitori. Le imprese dei loro migliori soldati e cittadini, abbellite, per l’ammirazione che esse avevano destato, furono raccontate dai padri ai figli, ai nipoti, finchè divennero racconti in cui è difficile distinguere ciò che è vero da ciò che solo inventato.
_________________ La Repubblica romana
L’ultimo dei sette re, Tarquinio, meritava davvero i soprannome di Superbo. Era anzi peggio che superbo: era crudele, ingrato e prepotente. I Romani lo sopportarono per un po’ di tempo, ma poi, stanchi dei continui soprusi, lo cacciarono dal trono instaurando la Repubblica. A capo di Roma repubblicana c’erano due magistrati, chiamati consoli, i quali venivano eletti dal popolo. I Consoli duravano in carica un anno: essi comandavano gli eserciti ed amministravano la giustizia. Ad assistere i Consoli c’era il Senato. Quando lo Stato era in pericolo per un’invasione esterna o per torbidi interni, il Senato nominava un dittatore, che però durava in carica soli sei mesi. Il dittatore era padrone assoluto durante quei sei mesi, ma alla fine di essi doveva rendere contro al Senato delle sue azioni.
_________________________ Guerre contro gli Etruschi, i Latini, i Volsci e gli Equi
I primi anni della Repubblica furono funestati da continue guerre. La prima fu quella di Tarquinio, che per riprendere il trono si alleò col re etrusco Porsenna. I Romani, dapprima sconfitti, riuscirono a riportare finalmente una vittoria decisiva, che costrinse gli Etruschi ad abbandonare l’impresa. I Romani dovettero combattere anche contro i Latini e contro i Volsci e gli Equi, popolazioni del Lazio. Solo dopo lunghe e sanguinose lotte riuscirono a vincerli e a sottometterli. Durante la guerra contro gli Equi si distinse il dittatore Lucio Quinzio Cincinnato il quale, sconfitto il nemico, rifiutò la gloria e gli onori e ritornò a lavorare il suo campicello.
_________________ I consoli
Il governo della Repubblica romana fu affidato a due consoli. I consoli erano eletti dai Comizi Centuriati, e duravano in carica un anno; conducevano l’esercito in guerra, convocavano i comizi per l’approvazione delle leggi che essi stessi avevano proposto, ed esercitavano anche il potere giudiziario, punendo i trasgressori. Erano preceduti dai littori, sei per ciascuno, che portavano i fasci, l’insegna del loro comando, formati di verghe strette insieme a cui era unito il manico di una scure: in guerra e fuori della città i consoli potevano condannare a morte i soldati e per questo sui fasci era infissa la scure, ma in città essa era tolta perchè la condanna non spettava ai consoli.
__________________________ Altri magistrati di Roma repubblicana
Altri magistrati erano: i questori, o tesorieri dello Stato, che riscuotevano i tributi e pagavano, secondo gli ordini dei consoli; i pretori, che giudicavano le cause civili; i censori, incaricati di eseguire ogni 5 anni il censimento e di vigilare sui costumi; gli edili, che sovraintendevano ai mercati, ai giochi pubblici, alla pulizia, ecc… In caso di pericolo dello Stato, o per una guerra esterna o per una rivolta, si nominava, in luogo dei consoli, un dittatore, che aveva pieni poteri, ma durava in carica poco tempo, al massimo sei mesi.
___________________________ Cincinnato, il vincitore degli Equi
Un messaggero arriva coperto di polvere e si dirige a spron battuto verso la Curia, dove sono riuniti i Senatori di Roma. Egli reca gravi notizie: gli Equi hanno battuto l’esercito romano e lo hanno circondato sul monte Algido. Il console potrà resistere solo per alcune ore. I Padri si consultano brevemente; poi decidono: Cincinnato è eletto dittatore. Egli è al di là del Tevere, intento ad arare con due magri buoi il suo campicello. Cincinnato accetta la carica suprema; indossa la toga bianca, corre a Roma ed ordina: “Tutti gli uomini validi si presentino armati al Campo Marzio ed ognuno porti tre pali lunghi nove piedi”. A notte l’esercito si mette in marcia verso il monte. Il campo nemico viene circondato ed ogni soldato pianta in terra i suoi pali, formando rapidamente una immensa palizzata, dentro la quale sono chiusi gli Equi. Al mattino le trombe annunciano ai soldati del console che i soccorsi sono giunti ed una pioggia di frecce provenienti da due direzioni si abbatte sugli incauti nemici. La vittoria è completa. Gli Equi si arrendono. Cincinnato ha salvato Roma e torna a seminare il grano nei solchi aperti dai due magri buoi. (da Tito Livio)
_________________ Orazio Coclite
Tarquinio il Superbo, fuggito da Roma, si rifugiò presso il suo amico etrusco Porsenna e lo convinse a far guerra alla città che lo aveva cacciato. Porsenna marciò con un grande esercito contro Roma. Egli arrivò d’improvviso con i suoi cavalieri alla riva del Tevere, oltre il quale si estendeva Roma con le sue piccole case, i suoi templi, le sue mura. Pareva una città facile ad essere conquistata. Sul Tevere c’era un ponte di legno che univa le due rive del fiume e portava in città. Porsenna stava per attraversarlo con i suoi soldati, quando un giovane di nome Orazio Coclite si lanciò sul ponte e cominciò a combattere con terribili colpi di spada. Gli Etruschi, che non s’aspettavano tanta resistenza da un uomo solo, ripiegarono un poco. Intanto, alle spalle di Orazio Coclite, alcuni suoi compagni tagliarono con le asce il ponte Sublicio fino a che esso crollò. Orazio Coclite si gettò allora nel fiume e raggiunse a nuoto la riva. Roma era salva per il valore del giovane eroe.
_______________ Muzio Scevola
Il re Porsenna allora decise di assediare Roma. Mise perciò i suoi soldati attorno alla città per impedire che vi arrivassero degli aiuti. In Roma scarseggiava, ormai, il frumento per gli abitanti, gli animali morivano per mancanza di erba. L’acqua dei pozzi era poca e guasta. Un altro giovane, Gaio Muzio, offerse la propria vita per la città. Egli lasciò i suoi cari e gli amici e tutto solo si diresse verso gli accampamenti degli Etruschi per uccidere il loro re. Entrato nella tenda di Porsenna, vide molti guerrieri che stavano parlando con un uomo che indossava ricche vesti. Gaio Muzio credette fosse il re e lo uccise. Egli fu subito arrestato e condotto davanti a Porsenna. Quando Gaio Muzio s’accorse di aver sbagliato, stese il braccio destro su un braciere che ardeva nella tenda e disse: “O re, punisco il mio braccio perchè ha sbagliato, ma sappi che trecento giovani romani hanno giurato, come me, di ucciderti”. Il re, ammirato, lasciò libero Gaio Muzio il quale tornò a Roma ed ebbe grandi onori. Egli fu, da allora, chiamato Scevola, cioè mancino.
__________________ Clelia
Tra gli ostaggi che i Romani avevano dovuto consegnare a Porsenna c’era Clelia, una fanciulla di nobile famiglia. Ella riuscì a fuggire a cavallo dal campo etrusco e, passato a nuoto il Tevere, giunse a Roma. I Romani, anche se a malincuore, la rimandarono da Porsenna perchè volevano rispettare i patti. Il re etrusco, meravigliato per la lealtà dei suoi nemici, tolse l’assedio e ritornò nel suo regno.
________________ La vittoria del lago Regillo
Dopo che Roma ebbe concluso la pace con Porsenna, le città latine, istigate da Tarquinio il Superbo, si unirono fra di loro e le dichiararono guerra. Tuttavia, presso il lago Regillo, vennero sconfitte e le loro terre divennero dominio di Roma.
__________ Coriolano
Un nobile generale romano, Caio Muzio detto Coriolano perchè aveva conquistato la città di Corioli, per un grave dissenso con la plebe e col Senato fu costretto a lasciare Roma. Rifugiatosi presso il popolo dei Volsci, che erano nemici dei Romani, Coriolano, vendicativo e fiero, li incitò contro la sua città e marciò egli stesso in testa al loro esercito verso Roma. Quando il Senato seppe che i Volsci erano accampati a poche miglia dalla città, mandò degli ambasciatori per placare Coriolano; ma non ottennero nulla. Andarono poi dei Sacerdoti: inutilmente. Allora s’avviò verso il campo dei Volsci Volumnia, la madre, con la sposa ed i figlioletti di Coriolano che, quando vide sua madre, le andò incontro per abbracciarla. La madre, invece, lo fermò con un gesto e con queste parole: “Dimmi prima se sei mio figlio o il nemico della mia patria”. Coriolano abbassò il capo, si commosse, poi, abbracciando la mamma esclamò: “Madre mia, tu salvi Roma, ma perdi tuo figlio”. Difatti Coriolano fece subito cessare l’avanzata dell’esercito verso Roma, ma fu per questo ucciso dai Volsci.
_________________ La casa romana
Le modeste abitazioni romane dei primi tempi divennero ville e palazzi eleganti. Le case furono lussuosamente ammobiliate con mobili ornati di bronzo e provvisti di coperte. I treppiedi, i bracieri, gli scaffali, le anfore abbellivano ogni stanza, ogni angolo. Ecco la casa di una ricca famiglia romana. Entriamo nell’atrio: aria e luce arrivano da un’apertura sul tetto; se piove l’acqua si raccoglie nell’impluvio. Il padrone e gli ospiti escono dal triclinio, dove hanno banchettato, e si recano nel peristilio, un cortile luminoso e verde come un giardino.
________________ I patrizi e i plebei
Fin dai tempi di Romolo, la cittadinanza romana fu divisa in patrizi e plebei, cioè in ricchi e poveri. I patrizi, divisi in dieci curie, avevano tutti i privilegi: soltanto essi potevano diventare senatori e occupare le massime cariche dello stato. E sempre ai patrizi spettava amministrare la giustizia, dichiarare la guerra e comandare i soldati. I plebei dovevano solo ubbidire e lavorare il loro campicello, che spesso erano costretti a vendere per pagare i debiti. Se non bastavano i pochi averi per pagare i debiti, divenivano schiavi dei patrizi.
_____________________ Come vivevano i patrizi
Il patrizio romano si alzava al mattino presto. Dopo essersi abbigliato, usciva dalla sua stanza e si recava nel vestibolo, dove stavano ad attenderlo i clienti. Questi erano cittadini devoti alla sua famiglia, che gli prestavano dei piccoli servigi e gli tenevano compagnia, ricevendo in cambio un obolo quotidiano. Seguito dai clienti il patrizio usciva per recarsi a far visite o per passeggiare. Si recava al Foro, per discutere di politica e per ascoltare gli oratori o i pubblici lettori. A mezzogiorno il patrizio rientrava in casa per consumare una colazione leggera, alla quale seguiva un breve riposo. Si recava quindi al bagno nella pubblica piscina, e verso le tre del pomeriggio era di nuovo in casa per il pasto principale della giornata. Dopo il pranzo il patrizio si fermava a tavola per conversare con gli ospiti o per giocare a dadi. Usciva quindi per l’ultima passeggiata o per recarsi al “Campo di Marte” per gli esercizi ginnastici o agli spettacoli nei teatri o nei circhi. Alla sera c’era un altro pasto, che spesso si prolungava fino a notte inoltrata.
_____________________ Come vivevano i plebei
I plebei abitavano in case comuni, altre quattro o cinque piani ed anche più; spesso il loro alloggio consisteva in un solo locale arredato modestamente: pagliericci per dormire, mensole per le stoviglie, una tavola e alcuni sgabelli. Anche le loro vesti erano modeste: normalmente indossavano un semplice mantello senza maniche, di lana o di pelle, oppure la “lacerna”, una specie di tunica, con cappuccio. Ai piedi portavano i sandali con la suola di cuoio o gli zoccoli. I plebei si dedicavano a qualche lavoro di artigianato o servivano nelle botteghe. La maggioranza dei plebei però conduceva una vita oziosa e passava gran parte della giornata a vagabondare per le strade o a giocare ai dadi nelle osterie. I plebei possedevano pochissimo denaro, ma in compenso la vita a Roma costava poco, inoltre spesso i patrizi facevano distribuzioni gratuite di grano: questo avveniva soprattutto alla vigilia delle elezioni, allo scopo di attirarsi le simpatie dei plebei ed averne il voto.
___________________ Gli schiavi
Dapprima Roma aveva soltanto pochi schiavi, quasi tutti prigionieri di guerra impiegati nei lavori agricoli. Ma con le conquiste e l’arricchimento dei cittadini, Roma vide affluire dentro le sue mura immense schiere di schiavi e i mercanti specializzati ne conducevano sempre di nuovi. Gli schiavi venivano venduti in un mercato vicino al Foro. Li presentavano in piedi su un palco, con un cartello appeso al collo, in cui era scritto il nome, l’origine e le capacità di ognuno. La gente girava intorno, saggiava i loro muscoli, li interrogava per capire se erano intelligenti o tonti, mentre il mercante si dava da fare per vantare immaginarie virtù e per nascondere difetti. Gli schiavi non avevano alcun diritto: erano considerati come cose e si potevano comprare, vendere, picchiare, mutilare, uccidere senza che nessuno lo potesse impedire. Non potevano sposarsi e le schiave che avevano dei figli non avevano il diritto di allevarli: il padrone glieli poteva togliere quando voleva, perchè anch’essi erano schiavi e dunque appartenevano al padrone. Gli schiavi erano utilizzati per ogni genere di lavoro: vi erano schiavi zappaterra, ma anche schiavi medici. I padroni potevano trattarli duramente. Potevano punirli con severi castighi, quali la fustigazione e la condanna a girare, incatenati, con la ruota del mulino. Agli schiavi fuggitivi venivano impresse in fronte le ttere FUG con un marchio infuocato. Le mancanze più gravi erano punite con la morte.
____________________ L’apologo di Menenio Agrippa
Dopo una campagna di guerra particolarmente gravosa, i plebei, visto che i patrizi non avevano cuore per loro, stabilirono di allontanarsi in massa da Roma e si ritirarono sul monte oltre l’Aniene, che oggi si chiama Monte Sacro. I patrizi li lasciarono partire quasi contenti, ma subito si accorsero che senza i plebei, molti dei quali esercitavano le più utili tra le professioni manuali, la città non poteva vivere. Mandarono perciò sul Monte Sacro un’ambasceria capeggiata da Menenio Agrippa, il quale, visto che i plebei non volevano ascoltar ragione, narrò loro l’istruttivo apologo delle membra del corpo umano e dello stomaco. “Le varie membra del corpo umano” disse Menenio, “erano stanche di affaticarsi a beneficio esclusivo dello stomaco. Quell’antipatico sacco, esse pensavano, non fa altro che ricevere i cibi che noi gli forniamo in mille modi, e si ingrassa sulla nostra stanchezza. La nostra sorte è quella di lavorare, la sua quella di godersi in pace il frutto delle nostre fatiche. Dichiariamo guerra a quell’egoista! Voi gambe state ferme, braccia incrociatevi, labbra state chiuse, denti non masticate… Vedremo che farà lo stomaco senza di noi. Così dissero e così fecero; ma, di lì a poco, ogni membro del corpo si sentì stanco, sfinito più di quanto doveva lavorare per lo stomaco. Lo stomaco non riceveva più cibi ma, col suo sfinimento, provocava quello di tutte le altre membra.” I plebei capirono la lezione e tornarono in Roma, dopo essersi fatti concedere dai patrizi una speciale magistratura, quella dei tribuni della plebe, destinata a proteggere i plebei.
_____________________ Leggi scritte per una sicura giustizia
I plebei ottennero anche che le leggi fossero messe per iscritto e fossero uguali per tutti. Sino a quel tempo, a Roma le leggi si tramandavano oralmente; così i patrizi, che avevano in mano le cariche più importanti dello stato, potevano interpretare le leggi in loro favore, a danno dei plebei. Ora, il Senato diede l’incarico a dieci magistrati di mettere per iscritto delle leggi che riconoscessero un giusto e uguale trattamento a tutti i cittadini. Si volle inoltre che le leggi potessero essere conosciute da tutti, e che tutti potessero, in ogni occasione, consultarle liberamente: così si pensò di esporle in un luogo pubblico. A Roma c’era una grande piazza dove si tenevano i mercati e si riuniva il popolo in assemblea. Era una zona piana che si apriva tra il Palatino e il Campidoglio; il terreno, un tempo paludoso, era stato prosciugato con la costruzione della Cloaca Massima ed era diventato poi il Foro, cioè la piazza più importante della città. Le nuove leggi furono esposte nel Foro, incise su dodici tavole di bronzo: nessuno, neanche il tempo, avrebbe potuto cancellarle.
______________________ Alcune leggi delle dodici tavole
Se uno rompe un braccio a un altro e non fa pace con lui riceverà lo stesso danno. Se uno con la mano o con un bastone rompe un osso ad un uomo libero, deve pagare 300 assi di multa, se sfregia uno schiavo paga 150 assi. Chi fa ingiuria a qualcuno paga 25 assi. Se qualcuno ruba o compie qualche delitto di notte può essere ucciso.
______________________ La famiglia romana antica
La famiglia romana era ben diversa dalla famiglia moderna. Essa era un organismo politico e religioso. A capo vi era il pater familias, che aveva il potere assoluto, detto patria potestas, su tutti i membri: moglie, figli, nuore, fratelli minori, nipoti, ecc… Egli era il sacerdote del culto domestico, il giudice che poteva punire con la prigionia, le pene corporali e la morte i membri della famiglia, ed era il solo padrone dei beni domestici. Morto il padre, il figlio primogenito diveniva pater familias e la madre rimasta vedova veniva sottoposta alla sua autorità. Però, benchè sempre soggetta all’autorità prima del padre, poi del marito, poi del figlio, la donna era la vera regina della casa, ed era circondata di grande rispetto: sorvegliava il lavoro degli schiavi, educava i figli, tesseva e filava. Il focolare domestico, posto nel centro della casa, era l’altare del culto familiare, di cui il padre era appunto il sacerdote. Gli dei custodi della casa erano le anime degli avi: i Lari e i Penati. L’antica famiglia romana, laboriosa, frugale, disciplinata, ligia al dovere, fu una palestra di virtù: in essa si formarono quei cittadini e quei soldati che portarono poi nell’attività politica e militare le sane energie acquistate nella casa.
_________________ La giornata di un Romano
Gli antichi Romani erano assai mattinieri. Al sorgere del sole s’apre la porta di casa e l’atrio si riempie di numerosi visitatori. Sono gli amici di casa, i clienti: persone con pochi quattrini, di regola ben vestite ma con la pancia vuota, che si fanno un obbligo di venire a rendere omaggio al padrone anche quando il tempo è brutto. Il padrone li riceve seduto, sopra una sedia a braccioli simile a quelle dei vescovi, scambia con essi strette di mano e ne invita un certo numero a mensa; gli altri possono andare a prendere il cibo in cucina. E l’orologio? Un avvisatore annuncia l’ora nella casa. Erano noti soltanto gli orologi a sole o ad acqua. Così d’estate come d’inverno il giorno era diviso in dodici ore e altrettante la notte. All’ora terza del giorno, verso le nove, il padrone di casa esce per andare ad attendere agli affari, ai quali è dedicato il tempo che precede il mezzogiorno: in tutto il pomeriggio è libero di darsi al riposo, allo svago. Nel frattempo la donna domina la casa. I ragazzi più grandi sono a scuola con il loro custode. I più piccoli giocano nel giardino, nel porticato, insieme con i bambini degli schiavi allevati con essi. I servi sono al mercato e fanno la spesa. Le ancelle filano e tessono per i bisogni della famiglia. S’ode risuonare il canto della nutrice che allatta il più piccolo. Quindi è annunciata l’ora settima, cioè quella del mezzogiorno. Giunge il padrone per la colazione. Poi viene il più bello, la dormita del mezzogiorno, che nessuno tralascia di fare, specialmente d’estate. Quindi gran movimento nella cucina e nella sala da pranzo. La servitù prepara il desinare, che ha luogo verso le sei pomeridiane. Durante questi preparativi i signori della casa pensano alla ginnastica e al bagno. In seguito quelli di casa si raccolgono nella sala da pranzo vestiti leggermente e con libertà, nella bella stagione. Ogni commensale ha un servo per sè. La padrona, che è presente, non giace, ma siede. Il pranzo, tra conversazioni, concerti, passatempi e sorprese, si protrae fino a tarda notte. (T. Birt)
______________________ L’abbigliamento maschile
Per un Romano vestirsi è un’operazione abbastanza semplice e rapida. Su di una specie di camicia di lino piuttosto corta ed in diretto contatto con la pelle, egli infila la tunica, ossia una veste di lana formata da due pezzi di stoffa cuciti insieme e tenuta stretta intorno al corpo da una cintura piuttosto bassa sui fianchi: la tunica cade in modo ineguale: fin sul ginocchio davanti, un po’ più lunga di dietro. Le maniche, o mancano del tutto, o non arrivano all’altezza del gomito. La tunica è la veste che porta la gente che lavora perchè è semplice e pratica. Il cittadino romano non si presenta mai in pubblico vestito della sola tunica: prima di uscire di casa egli si avvolge nella toga: essa è un manto di lana bianca pesante tutto di un pezzo. Ai piedi il Romano in casa usa i sandali, ma uscendo infila degli stivaletti di pelle fino al polpaccio e l’unico ornamento è costituito dall’anello che porta sull’anulare della mano sinistra e di cui si serve come sigillo ed ha la stessa funzione della firma per noi moderni.
_____________________ L’abbigliamento femminile
Anche le donne indossavano la tunica, differenziata da quella maschile solo per la maggior lunghezza. Sopra la tunica le matrone dovevano indossare la stola: quest’uso era stato imposto dal Senato perchè le matrone si distinguessero dalle donne di bassa condizione e dalle schiave. La stola era una veste lunga e ricca, stretta alla vita e ornata, in basso, sa una balza color porpora. Per uscire in pubblico le donne coprivano la stola con la palla, una specie di toga rettangolare che si avvolgeva intorno al corpo e di cui un lembo poteva essere portato sul capo. Se celebravano sacrifici o se prendevano parte a cerimonie religiose, coprivano la testa con un fazzoletto quadrato di stoffa purpurea o azzurra, ornato di frangia (rica).
___________________ I vestiti nella Roma antica
Tre schiave, Ata, Mira e Dora, nell’ampia camera, le cui pareti erano rivestite di marmi preziosi, aiutavano la loro padrona, una dama della Roma antica, a vestirsi per uscire. Com’erano svelte ed abili, le schiave! La dama, bella con i capelli bruni e gli occhi neri, si mostrava piuttosto esigente e la sua voce imperiosa risuonava nella stanza: “Presto, datemi la stola!” La stola era un abito simile ad una lunga camicia di candida lana con le maniche corte, guarnito sul fondo da una frangia. Inchinandosi, Ata e Mira presentarono l’indumento alla bruna signora, e con i movimenti precisi glielo fecero indossare. Dora cinse la vita della donna con una cintura finemente lavorata. “La palla!” ordinò la dama. La palla era una specie di scialle, lungo e morbido. Mira e Dora lo sollevarono ed Ata le aiutò a farlo scendere, dal capo della loro padrona, sulle sue spalle, avvolgendolo poi con grazia intorno al suo corpo. Vanitosa, la dama non si saziava di ritoccarsi la veste, di drappeggiarsela intorno alle braccia, di aggiustarsi le pieghe dello scialle. Dora portò un paio di calzature, e inginocchiandosi Mira le infilò ai minuscoli piedi della dama. “La lettiga aspetta” disse Ata. Le tre schiave s’inchinarono profondamente, sorridendo alla loro padrona che usciva, maestosa e fiera. Nella strada, vestiti di una tunica scarlatta, immobili nell’attesa, diversi schiavi fiancheggiavano la lettiga sulla quale la dama prese il posto. Che frastuono, che vocio nelle vie della Roma antica! Bottegai, fabbri, barbieri, usciti dai loro bugigattoli senza luce, lavoravano e vendevano la propria merce nella strada. Grida, richiami s’intrecciavano nell’aria, la gente andava a veniva indaffarata. Strillando a perdifiato, bimbi piccini si rincorrevano: i più grandicelli erano andati alla scuola sin dall’alba, quando ancora la città era immersa nel sonno. Ora, sotto il sole, come cresceva l’animazione della città! Seguiti dai propri schiavi passavano uomini severi, consoli, senatori avvolti nella toga, un mantello che scendeva fino ai piedi passando con una delle sue parti sopra la spalla sinistra per lasciare libero il braccio destro. Portavano scarpe alte, chiamate calcei, il cui colore variava, rosso, nero, azzurro, secondo la dignità della persona. Passavano gli schiavi diretti al mercato e gruppi di forestieri il cui abito, nel tessuto e nella foggia, rivelava il paese da cui provenivano. La dama sorrideva, dalla sua lettiga, bella ed elegante…
_____________________ Un sontuoso pranzo
Proprio oggi si saranno molti ospiti di importanza. Ce lo dice uno schiavo che corre affannato verso il triclinio, cioè verso la sala da pranzo. Egli ha preparato ogni cosa: il pavimento riluce come uno specchio, gli stucchi delle pareti e delle colonne mostrano tutta la loro bellezza. Ascoltiamo cosa ci dice il bravo schiavo: “All’ora nona (cioè alle tre del pomeriggio) verranno dei senatori, dei generali, un grande avvocato e un poeta. Essi indosseranno la toga conviviale, si cingeranno il capo con una corona di edera o di alloro o di rose. Io ho preparato per loro tre lettucci con dei materassi: non sono letti per dormirci, ma per sdraiarcisi durante il pranzo. La padrona di casa siederà al centro dei lettucci. Un tempo invece le donne mangiavano da sole.” Ad un cenno del padrone lo schiavo servirà l’antipasto durante il quale si berrà del vino misto a miele, poi servirà le varie specie di carne e infine la frutta e i dolci. Si useranno piatti e vassoi d’argento, cucchiai e coltelli, ma le carni si porteranno alla bocca con le mani. Finito il pranzo sarà eletto il re del convito e si aspetterà l’alba fra canti di musici e brindisi.
_______________ La scuola
L’anno scolastico aveva inizio nel mese di marzo. Nei giorni festivi e ogni nove giorni era vacanza. Le scuole non avevano banchi. Gli scolari sedevano su sgabelli e scrivevano su tavolette spalmate di cera usando una cannuccia detta stilo, un bastoncello appuntito, si legno o di metallo. Quando la tavoletta era scritta, si voltava lo stilo, che all’altra estremità era piatto, e si cancellava tutto. La carta di papiro e la pergamena costavano molto. Erano riservate agli scolari più grandi che vi scrivevano con la penna d’oca.
_________________ Un sontuoso pranzo
Proprio oggi ci saranno molti ospiti di importanza. Ce lo dice uno schiavo che corre affannato verso il triclinio, cioè verso la sala da pranzo. Egli ha preparato ogni cosa: il pavimento riluce come uno specchio, gli stucchi della pareti e delle colonne mostrano tutta la loro bellezza. Ascoltiamo che cosa ci dice il bravo schiavo: “All’ora nona, cioè alle tre del pomeriggio, verranno dei senatori, dei generali, un grande avvocato e un poeta. Essi indosseranno la toga conviviale, si cingeranno il capo con una corona di edera o di alloro o di rose. Io ho preparato per loro tre lettucci con dei materassi: non sono letti per dormirci, ma per sdraiarcisi durante il pranzo. La padrona di casa siederà al centro dei lettucci. Un tempo invece le donne mangiavano da sole”. Ad un cenno del padrone lo schiavo servirà l’antipasto durante il quale si berrà del vino misto a miele, poi servirà le varie specie di carne e infine la frutta e i dolci. Si useranno piatti e vassoi d’argento, cucchiai e coltelli, ma le carni si porteranno alla bocca con le mani. Finito il pranzo sarà eletto il re del convito e si aspetterà l’alba fra canti di musici e brindisi.
___________________ I giochi dei bambini
I bambini si dedicavano a un piacevole divertimento: attaccavano i topi a un carrettino di legno e poi li incitavano alla corsa. Gli altri giochi erano simili a quelli di oggi. Si giocava a pari e dispari tenendo chiusi nel pugno noci o sassolini e invitando il compagno a indovinare se erano in numero pari o dispari. Ci si divertiva pure a gettare in aria una moneta, cercando di indovinare quale sarebbe stata la parte rimasta scoperta. Avevano anche dei cerchi ornati di sonagli, trottole, barchette, bambole di terracotta.
________________________ Gli edifici di spettacolo
I Romani preferivano le gare sportive e i combattimenti di belve e di gladiatori. Essi accorrevano ad assistervi nell’anfiteatro, una costruzione di forma ovale. Nel mezzo stava uno spazio libero, l’arena, per i lottatori; attorno, erano le gradinate per gli spettatori; sopra l’ingresso, un’alta balconata era riservata agli imperatori. Il più grande degli anfiteatri fu il Colosseo. I gladiatori erano schiavi o prigionieri di guerra istruiti in scuole speciali, al combattimento nell’arena.
_______________ Il circo
Ecco una biga, cioè un carro velocissimo trainato da due focosi cavalli e guidato da un bravissimo auriga. A che cosa serve? La biga serve per i giochi del circo. Quando sono annunciate le corse delle bighe o anche delle quadrighe, cioè dei carri a quattro cavalli, una folla sterminata corre al circo e si dispone sulle gradinate lasciando i posti migliori ai senatori, ai consoli, ai patrizi. Ad un segnale, le bighe si lanciano a corsa pazza. Alcuni aurighi indossano una veste verde, altri azzurra, altri bianca e altri ancora rossa. I colori indicano, possiamo dire così, le squadre. Le bighe devono fare sette volte il giro di un muro che attraversa per lungo il circo. Alle estremità del muro ci sono tre colonne attorno alle quali i carri devono svoltare velocemente senza rovesciarsi. La folla grida, si entusiasma per un auriga o per un altro. Il vincitore avrà dei premi e potrà passare sotto la porta trionfale in segno di onore.
_________________ L’anfiteatro
Nell’anfiteatro si svolgono invece altri giochi. L’arena dell’anfiteatro è trasformata ora in uno specchio d’acqua. E’ stato costruito anche un piccolo porto, davanti al quale combattono navi armate di rostro e navi armate di falci per tagliare le vele delle navi nemiche. Da un palco assiste allo spettacolo l’imperatore con la sua famiglia. Migliaia di persone accompagnano con urla l’affondamento di una nave. Se fosse invece il giorno dei combattimenti degli schiavi gladiatori, vedremmo terribili scene di paurosi duelli tra uomini e belve e tra schiavi e schiavi armati di spade, di reti e di lacci.
_______________ Il trionfo
Il trionfo è uno spettacolo indimenticabile. Il generale vittorioso ha lasciato i suoi soldati fuori delle mura di Roma. Quando il Senato avrà decretato il trionfo, allora egli entrerà in città attraverso la porta trionfale, e su un cocchio d’oro trainato da quattro cavalli bianchi, percorrerà la via Sacra che porta al Campidoglio, fra un’immensa folla acclamante. Ecco, il trionfatore ha indossato la toga di porpora, nella mano destra tiene un ramo di alloro, sul capo ha una corona pure d’alloro. Vicino alla quadriga ci sono i trombettieri, gli aquiliferi, i re e i capitani nemici, vinti e incatenati, poi avanza l’esercito romano. Il corteo è chiuso dai senatori e da altri cittadini importanti. Dalle porte spalancate dei templi esce odore d’incenso. Dalle case si gettano rose sul vincitore. Arrivato al Campidoglio il trionfatore offrirà sacrifici agli dei.
__________________ Abili costruttori
I Romani furono provetti costruttori di case, di acquedotti, di edifici pubblici, di templi. La casa di una famiglia ricca occupava solo il pianterreno. All’esterno essa presentava muri intonacati, senza finestre, aperti solo per la porta di ingresso e per le vetrine dei negozi che si affacciavano sulla via. L’interno era molto elegante. Molte famiglie povere abitavano in modesti alloggi di affitto entro grosse case di quattro, cinque e anche sei piani.
_______________ Gli edifici pubblici
Attorno alla piazza principale, il Foro, i Romani costruivano gli edifici pubblici più importanti: il tempio, la basilica, nella quale sedevano i tribunali e si trattavano gli affari; le terme, stabilimenti di bagni pubblici con sale di lettura, di conversazione, per la ginnastica; la curia, dove si tenevano le riunioni dei patrizi e del Senato.
_______________________________ Il Foro
A Roma il Foro era la parte più importante della città. Lì si amministrava la giustizia, lì avvenivano le sfilate dei soldati, lì si vendevano e si compravano le merci, lì erano anche templi dedicati agli dei. Fino alle undici del mattino, il Foro era pieno di gente che acquistava e vendeva, parlava, gridava, di ragazzi che correvano, di carri e di cocchi.
________________________ La strada romana
I Romani furono abilissimi costruttori di strade e le tracciarono in ogni periodo della loro storia. Furono anche i primi che, con potenti opere di muratura, tagliarono le vie sui fianchi dei monti. Nei primi secoli le strade di Roma furono costruite per la guerra; poi, a mano a mano che le popolazioni sottomesse vennero pacificate, diventarono strade del lavoro e dei commerci. Stabilito accuratamente il percorso, si scavava fino a trovare il terreno solido e lo si rafforzava validamente; su questo si sovrapponevano allora quattro strati: il primo era composto di sassi misti ad argilla, il secondo di pietre e frammenti di mattone e sabbia misti con calce, il terzo di pietrisco con frammenti di mattoni fortemente battuti, l’ultimo di lastre di pietra dura (basalto) poligonali, bene levigate e ben combacianti. Al centro, per permettere lo scolo delle acque, la strada era leggermente convessa. Questa strada, che è la via consolare o la via pubblica, solitamente partiva da Roma col nome del personaggio che ne aveva iniziato i lavori, e, di preferenza, si snodava lungo un percorso rettilineo: infatti per ottenere tale percorso si scavavano gallerie, si rinforzavano i fianchi delle montagne, si gettavano ponti grandiosi e si costruivano solide palizzate, quando ci si trovava in presenza di terreni paludosi. A partire dal Foro, di miglio in miglio, dei cippi, le pietre miliari, indicavano la distanza dall’Urbe. La prima grande strada fu la via Appia da Roma a Capua, in seguito per Benevento fino a Brindisi.
________________ Gli acquedotti
I Romani furono grandi costruttori di ponti, di strade, di terme e di acquedotti. Questi ultimi erano davvero stupefacenti. Alcuni studiosi pensano che i Romani preferissero l’acquedotto su archi a quello con tubature sotterranee perchè non conoscevano il sistema dei vasi comunicanti. Ma ormai è stabilito che essi erano invece a conoscenza delle leggi fisiche dell’idraulica. Preferirono quasi sempre il sistema ad archi per comodità ed economia: infatti disponevano in abbondanza di travertino, mattoni, cemento, tutto materiale di facile impiego. Le tubature metalliche, invece, sarebbero riuscite costose e malsicure. I Romani non sapevano lavorare con facilità la ghisa; il bronzo costava troppo; il piombo non poteva servire per una tubatura lunga anche molti chilometri, continua e di grande calibro. La lunghezza degli acquedotti romani (che non correvano sospesi per tutta la loro lunghezza, e in taluni tratti erano interrati) variava da dieci a ottanta – ottantacinque chilometri. L’altezza massima superava persino i sessanta metri. Gli undici acquedotti esistenti nella Roma imperiale conducevano nella città circa sette milioni di ettolitri d’acqua al giorno. La cifra è alta, ma occorre tenere presente lo sciupio dovuto al sistema di far correre continuamente l’acqua, non esistendo allora i rubinetti. Il primo acquedotto romano fu l’Appio, costruito da Appio Claudio, censore nel 312 aC. Il primo acquedotto su archi fu quello dell’Acqua Marcia (146 aC) lungo circa ottantuno chilometri.
_____________________ I fabbricatori di ponti
Costruire un ponte su un fiume abbastanza largo è un’impresa molto difficile. Gli Egiziani e i Babilonesi, per esempio, che pure sapevano costruire grandi edifici, non erano riusciti a costruire ponti sul Nilo, sul Tigri, sull’Eufrate. Per traversare i fiumi essi si servivano di zattere o di altre imbarcazioni. Costruire un ponte su un fiume non troppo largo è più semplice. I fiumi dell’Italia non sono tanto larghi. Gli Etruschi furono capaci di costruire ponti sui fiumi e insegnarono la loro arte ai Romani. I primi ponti erano di legno. L’arte di costruire ponti era conosciuta solo da pochi uomini. Gli uomini che costruivano ponti si chiamavano pontefici, cioè fabbricanti di ponti. Il capo di questi uomini si chiamava Pontefice Massimo. I primi ponti costruiti sembravano agli uomini comuni opera di magia. I Romani pensavano che un ponte non potesse stare in piedi senza l’aiuto degli dei. Per questo il Pontefice Massimo, cioè l’ingegnere capo, era anche il capo di tutti i sacerdoti che pregavano gli dei. Quando poi l’arte di costruire i ponti fu conosciuta da un maggior numero di persone e non sembrò più magia, la parola pontefice restò ad indicare solo il capo della religione di Roma. Anche oggi il capo della Chiesa si chiama Pontefice.
______________________ Il lavoro della giornata e la cena presso i Romani
Il lavoro della giornata si concentra tutto nella mattinata e nelle prime ore del pomeriggio. Il padre di famiglia esce al mattino per le sue occupazioni. La donna si cura invece della casa. Dopo la colazione, verso il mezzogiorno, ci sarà il pranzo, un pasto leggero consistente in un piatto di pesce, legumi e frutta. Non occorre, dice uno scrittore, nè apparecchiare la tavola nè lavarsi le mani. E’ solo un rapido spuntino. Nel pomeriggio invece il Romano si mette a tavola. Sono circa le tre. Alcune cene si prolungano fino a tarda sera, altre sono più brevi.
____________________________ La posta romana
La storia ci parla di un servizio postale abbastanza organizzato in Roma. Ma non bisogna credere che si trattasse di un’istituzione a favore della popolazione. Era servizio statale di regolari comunicazioni fra capitale e provincia, necessario per l’andamento del governo. Lungo le strade, ogni tanti chilometri, v’era la “posta”, cioè una specie di stazione dove il corriere poteva rifocillarsi, cambiare il cavallo o i cavalli, e proseguire il suo viaggio.
Le insegne romane
Ciò che è per noi la bandiera, era per i Romani l’insegna. Da principio era semplicemente una lancia che portava in alto un pezzo quadrato di stoffa per la cavalleria e portava, invece, la raffigurazione di un animale, come la lupa, il cavallo, per le coorti di fanti. Le aquile d’oro o d’argento erano le insegne riservate alle legioni. Tra i soldati più valorosi si sceglievano quelli a cui si affidavano le insegne ed essi, allora, venivano chiamati antesignani.
Istruzione dei giovani Romani
Semplice era l’insegnamento che s’impartiva nei primi tempi; l’antico Romano ne aveva abbastanza degli studi quando sapeva leggere, scrivere e far di conto. Ma negli ultimi anni della Repubblica e durante l’Impero, l’istruzione del giovane, fattasi più complessa, passava per tre gradi; le lezioni elementari si facevano nella scuola, dove i ragazzi, dopo aver imparato a leggere e a scrivere alla meglio, imparavano a far di conto e a stenografare. Si faceva lezione in qualche stanzuccia d’affitto o anche all’aperto. L’anno scolastico cominciava di marzo dopo la festa in onore di Minerva, cara soprattutto agli scolari; vi erano delle vacanze nei giorni festivi e ogni nove giorni. Che fosse stabilito un periodo estivo di vacanze non risulta chiaro; ma vi era l’uso di far riposare i ragazzi durante la calda estate. L’orario scolastico era di sei ore: le lezioni cominciavano di buon mattino; venivano interrotte verso mezzogiorno, quando gli scolari tornavano a casa per la colazione, e riprese nel pomeriggio. L’arredamento della scuola era semplice. Solo in qualche scuola e in certi casi, gli scolari si riunivano col maestro intorno a un tavolo; di regola non vi era il banco nè per il maestro nè per gli scolari; il maestro stava seduto su di una seggiola, gli scolari su sgabelli, tenendo sulle ginocchia la tavola su cui scrivevano e che portavano con sè, insieme con la penna, la carta, l’inchiostro. Terminati gli studi elementari, cominciavano sotto la guida del maestro di grammatica l’insegnamento medio. Anche questo, secondo l’uso e le possibilità delle famiglie, veniva impartito in casa o in una scuola pubblica tenuta da un privato. Dalla scuola del maestro di grammatica si usciva conoscendo alla perfezione il latino e il greco, cioè le due lingue che una persona colta doveva necessariamente parlare. Anche le donne conoscevano il greco. (U. E. Paoli)
Tavole cerate, penne e inchiostro
Per scrivere gli alunni avevano le tavolette, dette cerae o tabulae ceratae, che erano usate da tutti i Romani per appunti, lettere e annotazioni brevi: erano tavolette di legno rettangolari dagli orli rilevati, entro in quali si stendeva uno strato di cera molle. Si scriveva incidendo i caratteri sulla cera mediante un cannello di avorio o di metallo (stilus) appuntito ad una estremità e incurvato e appiattito dall’altra per poter cancellare i segni tracciati e rendere di nuovo uniforme lo strato di cera. Portare questi lunghi stili, spesso pericolosi, era alquanto scomodo: si ricorreva ad un astuccio (graphiarium o graphiaria theca), che scolari, scribi e copisti avevano sempre con sè. Sul margine delle tabulae ceratae erano praticati dei fori, attraverso i quali passava una cordicella che legava tra loro due o più tavolette, in modo da formare una specie di piccolo libro dalle pagine di legno cosparse di cera su entrambe le facciate, eccezion fatta per le tavolette estreme, che fungevano da copertina e avevano la cera solo internamente. Per scrivere sulla carta (papiro o pergamena) si ricorreva invece all’inchiostro nero (atramentum): un miscuglio ottenuto con fuliggine, pece, liquido di seppia e feccia di vino diluito in acqua. Il calamaio (atramentarium) era formato da uno o due recipienti cilindrici uniti insieme. Per i titoli dei libri esisteva uno speciale inchiostro rosso; c’erano anche vari tipi di inchiostri “simpatici” che comparivano e scomparivano se trattati con speciali accorgimenti. Lo stilo in questi casi era sostituito da una penna di uccello o da una cannuccia (calamus), appuntite con un coltellino (scalprum) o anche, più raramente, da una penna di bronzo.
Il gran pranzo di un arricchito
C’era gente sobria che si contentava di pan d’orzo, di legumi, un pollo o un pesce, olive e noci, un frutto e uno spicchio di cacio. C’era chi ogni tanto offriva una cena modesta ai parenti e agli amici con qualche coppia di piccioni immersi in un intingolo elaborato, con pepe, olio, aceto, vino, miele, datteri e senape; con funghi cotti nel miele e spezzatino di maiale con cavoli e lenticchie. Ma c’era anche chi, per mostrare la sua ricchezza e sbalordire gli amici, non si peritava a far mostra della più goffa pacchianeria. Uno stuolo di schiavi accoglie gli ospiti sull’uscio di casa, li accompagna al bagno o porge l’acqua per lavarsi le mani in preziosi bacili. Poi i servi fanno strada nel triclinio e assegnano i posti alle tavole. Gli ospiti si distendono sui sofà e vedono in bella mostra un originale vassoio per le gustationes: cominciano le meraviglie con questo asinello di bronzo che porta due bisacce, una con olive nere e una con olive verdi. Sui piatti d’argento che l’asinello sostiene, oltre al nome del padrone è inciso il loro peso perchè tutti lo possano vedere e così valutare la ricchezza dell’ospite. Sui piatti, ghiri conditi con miele e papavero, e salsicce fumanti distese su una gratella d’argento, sotto la quale, per imitare le braci, sono state poste prugne secche, nere, cosparse di rossi chicchi di melograno. Si dà inizio al banchetto e mentre i sonatori strimpellano una musichetta allegra, entrano altri schiavi portando un gran vassoio sul quale giace una gallina di legno intenta a covare uova che sembrano di pavone. Il padrone fa finta di diffidare della loro freschezza e si viene così a scoprire che il guscio è di farina impastata e che dentro c’è un beccafico bello grasso che nuota in un rosso d’uovo pepato. Se un vassoio d’argento pesante mezzo quintale cade dalle mani di uno schiavo, il padrone lo fa gettare via insieme ai rifiuti. Poi altri schiavi passano per la lavanda delle mani e adoperano vino puro e non del peggiore. Il vino che vien posto sulla tavola, in anfore sigillate di grosso vetro, è Falerno di cento ani fa. Ed ecco che arriva il primo piatto forte della serata, una specie di trofeo coi dodici segni dello zodiaco e ogni segno è rappresentato da una ghiottoneria particolare: i Pesci due triglie; il Granchio un grosso gambero di mare; il Toro una braciola di manzo; e così via. Quando tutti hanno osservato ed hanno espresso la loro ammirazione, a un cenno del padrone quattro schiavi entrano a passo di danza e sollevano la parte superiore del trofeo: sotto c’è un immenso vassoio colmo di pollastre grasse e di ventresche lardose che incorniciano una lepre alata, con la quale il cuoco ha voluto raffigurare Pegaso. Quattro satiretti versano intanto da piccoli otri una salsa piccante su certi pesci delicati che sembrano nuotare nel guazzo. La conversazione si fa sempre più spiritosa, anche se non è tra le più fini, considerando il genere dei convitati, quasi tutti liberti arricchiti. Ed ecco altre sorprese: dopo che i servi hanno disteso nuove coperte sui letti, dipinte con reti e cacciatori, e dopo che una muta di vivacissimi cani da caccia è entrata di corsa nella stanza, arrivano dei servi portando un gigantesco cinghiale disteso su un vassoio, e alle cui zanne sono appesi due cestelli intrecciati con foglie di palma e ricolmi l’uno di datteri carioti, l’altro di datteri tebaici. Tra le esagerate esclamazioni di meraviglia degli ospiti, si fa avanti allora una specie di barbuto cacciatore con le gambe attorte di cinghie e con una mantellina di damasco; brandito un coltello mena un gran colpo nel fianco del cinghiale, e dallo squarcio si alza a volo uno stormo di tordi. Gli uccellatori stavano pronti all’intorno, con le canne cosparse di vischio e in un attimo riacchiappano tutti gli uccellini che svolazzano come impazziti per il triclinio. Allora il padrone di casa ordina che ne venga servito uno per ciascun commensale. Intanto che gli uccelli cuociono i servi si accostano ai canestri che sono appesi alle zanne del cinghiale, e distribuiscono in egual misura tra i convitati i dolcissimi datteri delle due diverse qualità. E il banchetto a questo punto è appena a mezzo: il padrone vuol divertirsi ancora a sbalordire gli ospiti, che in cuor loro lo mandano a quel paese, ma che, per essere venuti, sono costretti ormai a stare al gioco. Ecco, adesso i servi portano in tavola un maiale di rispettabili dimensioni che il cuoco finge di non aver per la troppa fretta sventrato. E proprio mentre sta per essere punito della dimenticanza imperdonabile, il padrone, fingendo di cedere alle preghiere degli invitati, glielo fa aprire lì per lì, e dal ventre del porco escono salsicce e sanguinacci caldi. Poi mettono in tavola un trionfale trofeo di dolci e di frutta che schizzano giallo zafferano addosso agli ospiti come fontane burlesche; e poi ancora galline ingrassate da rivoltar lo stomaco, con contorno di uova d’oca incappucciate e tordi di fior di farina riempiti riempiti di uvetta e di noci, e mele cotogne irte di spini per figurare dei ricci, e un’oca ingrassata circondata da pesci e da uccelli d’ogni tipo, che il cuoco con abilità da scultore ha foggiato con carne di maiale. E ancora ostriche e lumache. Ma qualcuno scivola sotto la tavola, altri, più saggi, fanno chiamare i loro schiavi ai quali sottovoce ordinano di preparare la lettiga e le torce, poi, senza parere, tagliano la corda: il padrone è diventato triste e malinconico a causa del troppo vino che ha bevuto e comincia a parlare della morte… (Petronio, Arbitro, Satiricon)
Le grandi strade romane
La prima delle grandi strade fu, tre secoli prima di Cristo, l’Appia. Costruita per iniziativa di Appio Claudio il Cieco, censore, questa via unì Roma a Capua secondo un itinerario razionale, e in seguito fu prolungata fino a Brindisi, estremo lembo d’Italia, passando da Benevento e da Taranto. Le altre seguirono nei secoli successivi e collegarono dapprima i luoghi vicini a Roma, come la via Clodia che portava in Etruria, la Cassia che attraverso l’Etruria portava in Emilia, l’Aurelia che menava in Liguria, la Postumia che partendo da Genova, attraverso la valle padana e il Veneto, giungeva ad Aquileia e oltre fino a Concordia sull’Adriatico, la Flaminia che arrivava a Rimini, la Salaria che congiungeva Roma all’Adriatico, l’Emilia che attraverso la pianura padana da Rimini raggiungeva Piacenza, la Latina che scavalcava l’Appennino e giungeva in Campania, la Valeria che prolungava la Triburtina da Tivoli fino a Corfinio, la Popilia che distaccandosi dall’Appia giungeva fino a Reggio Calabria attraversando la Lucania. Poi le nuove strade si protesero nelle province conquistate, come l’Egnatia in Balcania, il prolungamento dell’Aurelia in Gallia che, dalla Provenza, di cui seguiva la costa, arrivava fino a Lione seguendo la valle del Rodano, e le altre tante che si diramavano verso il confine del Reno. Le strade, la cui larghezza massima si aggirava sui cinque metri, erano pavimentate con ghiaia o erano, come la via Appia, selciate con grossi ciottoli o con blocchi di pietra basaltica squadrati a forma di poligoni regolari.
La donna romana fa toilette
Se nei primi tempi di Roma le donne non curavano molto il loro viso e il loro abbigliamento, nell’età repubblicana, per influenza dei costumi orientali, la donna acquisì il gusto delle vesti raffinate, degli ornamenti preziosi e delle cure di bellezza. Come prima cosa il mattino, appena alzata, si lava accuratamente il viso, poi lo ammorbidisce con un unguento oleoso. Passa quindi alla pulizia dei denti e in tutte queste occupazioni è attorniata da due o più schiave che le presentano lo specchio e che sono adibite soprattutto alla sua pettinatura. Essa non ignora poi l’uso del trucco per gli occhi e il rosso per le labbra.
I teatri
Erano formati da una gradinata a semicerchio detta cavea che andava restringendosi verso il centro. Nel mezzo era l’orchestra e lì eran poste sedie riservate ai senatori. Di fronte stava la scena dietro e ai lati da muri variamente ornati. Gli attori portavano sul volto una maschera e quando recitavano le tragedie indossavano abiti pomposi e calzavano alti coturni; per le commedie e per le farse portavano abiti comuni, di colori vivaci, e ai piedi scarpe basse, dette socchi.
Gli anfiteatri
Possono considerarsi formati dall’unione di sue teatri e quindi avevano la forma quasi circolare o meglio ellittica. La gradinata girava tutt’attorno e nel mezzo c’era una spianata pure di forma ellittica in cui si svolgevano gli spettacoli. Questi consistevano in lotte fatte combattere da gladiatori fra di loro o contro bestie feroci. I primi teatri e anfiteatri romani furono costruiti in legno; soltanto nel primo secolo avanti Cristo se ne costruirono in muratura, alcuni di grandissime dimensioni, capaci di parecchie decine di migliaia di persone. In qualche luogo dove il terreno era roccioso e in forte pendio o faceva una curva quasi semicircolare, la gradinata dei teatri si costruiva sulla roccia stessa.
Le terme
Le Terme erano edifici destinati ai bagni, i quali erano molto in uso presso i Romani a causa del clima caldo e per ragioni igieniche. Queste costruzioni, prima semplici, furono più tardi grandiose e piene di lusso. Vi si potevano fare bagni freddi o tiepidi o caldi dentro ad ampie vasche dette piscine o dentro a tinozze. Oltre alla conduttura dell’acqua v’erano anche tubi attraverso cui l’aria alquanto riscaldata era trasportata in apposita stanza detta tepidario dove si raccoglievano quelli che avevano bisogno di sudare. Più tardi si introdusse l’abitudine del bagno a vapore, fatto mediante aria molto calda. Oltre alle stanze per i vari bagni, le Terme contenevano spogliatoi per bagnanti, stanze dove essi si fregavano e si ungevano il corpo dopo il bagno, locali destinati agli esercizi ginnici, al passeggio, alla conversazione. Le Terme fatte costruire dall’imperatore Caracalla, delle quali ci restano tuttora degli avanzi notevoli, erano veramente magnifiche per grandiosità ed eleganza di costruzione architettonica, per ornamenti di colonne, di statue e di quadri, per la bellezza dei marmi che rivestivano le pareti e dei mosaici che formavano l’impiantito.
Il Carnevale dei Romani
Il giorno decimoquarto avanti le calende di gennaio, ossia per noi il 19 dicembre, a Roma avevano inizio le feste di Saturno, o Saturnalia. Le vie erano affollate di gente in preda alla più sfrenata allegria. Particolarmente lieti erano gli schiavi, i quali, per tre giorni, erano liberi di fare ciò che volevano, come fossero i padroni. Alla festa intervenivano cantanti e suonatori che inneggiavano a Saturno con il suono acuto dei flauti e con quello più dolce della lira; giocolieri improvvisati; comitive di buffoni con il volto coperto di maschere, i quali saltavano al suono delle tibie e delle chitarre. Ad accrescere il frastuono si univano le voci dei venditori di giocattoli, di cibi e di merce varia. A un certo punto la folla, che gremiva di continuo il tempio di Saturno, poteva assistere a uno strano spettacolo: l’ingresso del Pretore urbano, portato in trionfo da un gruppo di individui sparuti che avevano in mano una catena di ferro: erano i prigionieri del carcere Mamertino, che venivano graziati in onore del dio e che a lui portavano le loro pesanti catene. (P. Piccoli Allodoli)
Un nuovo cittadino romano
Il 17 marzo in molte case dell’antica Roma c’era festa perchè i giovinetti, che avevano compiuto i diciassette anni, vestivano la toga virile facendosi veri cittadini romani. Anche in casa dell’avvocato Lucio Emilio Sullo erano convenuti parenti, amici e clienti per festeggiare il figlio Marco, che da poco tempo aveva passato il diciassettesimo anno. All’apparire del giovinetto, tutti esclamarono: “Gli dei ti proteggano, Marco!” Marco rispose con un sorriso e poi si avvicinò all’altarino degli dei Lari, protettori della casa. Davanti all’altarino si trovavano già il babbo, la mamma e i fratelli minori. Il padre, sacerdote della famiglia, si accostò a Marco e gli sganciò dal collo la catenina della bulla, una specie di medaglione, che i Romani credevano portasse fortuna. “Ora”, gli disse il padre, “hai forze sufficienti per sorreggerti da te e non ne hai più bisogno”. A un cenno del padre, uno schiavo aiutò Marco a togliersi la toga con la balza porpora e quindi porse una candida toga nuova fiammante, senza alcun orlo, proprio come quella che tutti gli adulti Romani indossavano sulla tunica. La mamma stessa, con le lacrime agli occhi per la commozione, lo aiutò ad indossare l’abito che lo faceva un nuovo cittadino romano. Quando il giovinetto apparve vestito da uomo, suo padre gli sorrise contento, sua madre lo abbracciò e tutti i presenti si congratularono con lui, ripetendo questo augurio: “Che gli dei ti conservino sano per molti anni!” Finita la piccola cerimonia, si formò il corteo per accompagnare solennemente il giovinetto fino al Foro. Il corteo si apriva con alcuni schiavi che avevano trombe d’argento, seguiti da fanciulli e fanciulle. Poi veniva il festeggiato con i parenti, e quindi seguivano gli amici e i conoscenti. Giunti nel Foro, Marco si presentò davanti al Pretore, il quale scrisse su una pergamena il suo nome e lo salutò con queste parole: “Stai sano, Marco Emilio Sullo! Da oggi sei un nuovo cittadino romano!” Il corteo proseguì verso il tempio della dea Gioventù e quindi salì il Campidoglio, il colle sul quale si ergeva il tempio di Giove, il più importante di Roma. Qui il nuovo cittadino offrì agli dei un bianco torello, che venne ucciso davanti all’altare. Salì al cielo il fumo, mentre la sua tenera carne fu poi usata per il banchetto. Usciti dal tempio, il padre di Marco mostrò al figliolo la città che si stendeva ai piedi del Campidoglio, bellissima coi suoi infiniti marmi bianchi, che rilucevano al sole. “Marco”, gli disse “da oggi anche tu puoi essere utile alla regina del mondo”. “Cercherò di esserlo” rispose Marco. Prima di tornare a casa, il giovanetto sostò nella bottega di un barbiere. Davanti alla bottega gli invitati formarono dei gruppi in attesa. Anche i curiosi si fermavano quando sentivano dire: “C’è un giovinetto che si taglia la prima barba!” In un recipiente speciale, la barba fu poi offerta in un tempio agli dei, e all’uscita nuovi abbracci, nuovi auguri e anche molti regali al nuovo e fortunato cittadino romano. (R. Botticelli)
Nelle terme
Lucio Valerio attraversò il vasto atrio delle terme, seguito dal corteo dei suoi schiavi. Erano le due del pomeriggio, e i saloni delle terme erano affollati. Lucio Valerio entrò anzitutto nella palestra, dove fece alcuni esercizi ginnici che gli sciolsero le membra e gli riscaldarono il corpo, poi lasciò le vesti nello spogliatoio (uno schiavo ne rimase a guardia) e si diresse verso la grande piscina fredda: il frigidario. Si tuffò e nuotò nell’acqua gelida per diversi minuti. Quindi si recò nel tepidario, dove sedette su una delle panchine di marmo per ristorarsi con un soffio di aria tiepida… Rimaneva da fare il bagno caldo. Valerio passò nel calidario e si immerse nella vasca. Subito gli schiavi si misero all’opera: uno gli strofinò le membra con soda per pulirgli la pelle, un altro lo massaggiò con cura, un terzo lo unse con un olio profumato, un quarto gli porse i panni per asciugarsi. Il servo rimasto nello spogliatoio arrivò con le vesti. E, per ultimo, il coppiere gli porse una tazza di vino caldo e fragrante, addolcito con miele.
Uno spettacolo nel Colosseo
Ecco l’Imperatore: il popolo, sempre in solluchero alle feste, e in specie a feste di sangue, gli batte le mani. I sacerdoti e le vestali consacrano sacrifici agli dei protettori di Roma: il sangue corre, le viscere delle vittime ardono, si consumano nel fuoco sacro; risuonano i cori e la musica; e la moltitudine schiamazza di nuovo. Al segno di comando compaiono i gladiatori che salutano tutti col sorriso sulle labbra, come se li aspettasse uno squisito festino e non l’inesorabile morte. Sono nati sulle montagne, nei deserti, hanno respirato l’aria pura dei campi e goduto della sacra libertà. La guerra, soltanto la guerra, ha potuto strapparli alla loro patria. In Roma li hanno ben nutriti perchè facessero buon sangue, sangue dolce da offrire in olocausto al popolo romano. Forse molti di essi, or ora, si feriranno, si uccideranno fra di loro; molti si vogliono bene, si sentono fratelli, eppure dovranno ferirsi, immolarsi. Eccoli, già si guardano, si minacciano, si avviluppano, si gettano contro a barbara lotta. Se qualcuno, preso da paura per sè, o da compassione per il suo avversario, si tira in disparte, il maestro del circo gli conficca nelle carni nude un bottone di ferro rovente. Il sangue rosseggia, inzuppa la terra.
Lotte di gladiatori Squillarono le trombe e vi fu un profondo silenzio; migliaia di sguardi si diressero sulla porta verso la quale un uomo, vestito da Caronte, avanzava, battendo su questa tre colpi di martello, quasi invitasse alla morte coloro che si trovavano al di là. Aperti lentamente i battenti, lasciando scorgere una cupa voragine, entrarono nel Circo i gladiatori. Avanzarono a schiere di venticinque: Traci, Mirmilloni, Sanniti, Galli; tutti armati pesantemente. Seguivano i retiarii, con la rete in una mano e nell’altra il tridente.
Furono accolti da applausi che divennero fragorosi. In tutto l’anfiteatro si vedevano facce accese, mani alzate, bocche aperte. E intanto i gladiatori, fatto il giro dell’arena con passo fermo, scintillanti nelle ricche armature, si fermarono davanti alla loggia cesarea, superbi e tranquilli. Uno squillo di tromba acuto interruppe i battimani, i gladiatori alzarono le braccia, e rivolgendosi a Cesare, intonarono lentamente: “Salve, Cesare imperatore! Coloro che sono per morire ti salutano!”.
Dopo, presero posto nell’arena.
Dovevano cozzare schiera contro schiera, ma ai più famosi fu comandato di battersi singolarmente, perchè potessero meglio dar prova di sveltezza e di coraggio. Dal gruppo dei lottatori ne uscì uno ben conosciuto, di nome Macellaio (Lanio), famoso vincitore. Con l’enorme elmo e la corazza che fasciava la schiena poderosa, spiccava sulla gialla arena come un immane scarabeo. Il non meno celebre retiario Calendio gli andò incontro. Cominciarono le scommesse.
“Cinquecento sesterzi per il Gallo!”
“Cinquecento per Calendio!”
“Per Ercole, ne scommetto mille!”
“Duemila!”
Intanto il Gallo, giunto nel mezzo, cominciava a retrocedere; protendendo la spada, e piegando il capo da una parte, seguiva attentamente l’avversario, e il retiario, svelto, nudo, di forme scultoree, coperte di una sciarpa, rapidamente gli girava intorno, agitando con arte la rete, ora abbassando ora rialzando il tridente…
Ma il Gallo non fuggiva; piantandosi saldo, faceva in modo da avere sempre di fronte l’avversario. C’era qualcosa di pauroso nella sua grossa testa mostruosa in in tutta la sua persona. Gli spettatori sapevano che egli si preparava ad un balzo improvviso che avrebbe potuto decidere della lotta. E il retiario ora gli correva incontro, ora dava un balzo indietro con tale rapidità, che non era possibile seguirlo con lo sguardo.
Più volte il colpo del tridente risuonò sulla corazza, ma il Gallo rimase saldo, dando prova così della sua forza inverosimile. La sua attenzione si concentrava non sul tridente ma sulla rete che gli girava attorno come un uccello di cattivo augurio.
Gli spettatori, trattenendo il fiato, seguivano attentamente il gioco dei lottatori. Lanio, al momento opportuno, balzò alla fine sull’avversario, ma questi, rapidissimo, gli sfuggì di mano, si raddrizzò e scagliò la rete. Il Gallo, con un giro, la respinse con lo scudo, quindi, indietreggiarono ambedue. L’anfiteatro echeggiò delle grida di “Macte!” (ammazzalo!). Nelle prime file si impegnarono nuove scommesse.
E i gladiatori ricominciarono a lottare con arte, con precisione di movimenti, da far pensare che non si trattasse di una lotta di vita o di morte, ma di una gara di destrezza. Lanio cercava di evitare la rete, retrocedendo. Allora coloro che scommettevano cominciarono a gridare: “Dagli addosso!”, eccitandolo a non riposarsi. Il Gallo obbedì, e si slanciò sull’avversario. Il braccio del retiario si coprì di sangue e la rete gli pendette dalla mano. Lanio si raccolse e spiccò un salto per vibrare l’ultimo colpo. Ma in quel punto, Calendio, che aveva finto di non poter reggere la rete, scansò il colpo e, conficcando il tridente nelle ginocchia dell’avversario, lo fece stramazzare a terra. Lanio, sempre più avviluppato nella rete fatale, cercava invano di rialzarsi, sempre più imbrogliandosi. Intanto altri colpi lo inchiodavano a terra; puntò la mano, raccolse le forze ma invano: portò alla testa la mano che non reggeva più la spada, e cadde. Il Circo tremò dagli applausi, dalle grida. Il pubblico era diviso in due parti. Chi gridava morte, chi grazia. Ma il retiario non guardava che Cesare e le Vestali e aspettava la loro sentenza.
Per sventura, l’imperatore non amava Lanio, perchè aveva scommesso per lui una volta ed aveva perduto, perciò, sporgendo la mano, abbassò il pollice.
Il segno fu ripetuto dalle Vestali. (E. Sienkiewicz)
Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.
Le oche del Campidoglio
I Galli erano un popolo ancora selvaggio che viveva di là delle Alpi; erano alti, biondi, forti e si muovevano di terra in terra in cerca di preda. Un giorno scesero in Italia, travolsero la debole difesa degli Etruschi, penetrarono nel Lazio ed entrarono in Roma, incendiando, rubando e distruggendo ogni cosa. I Romani, per tentare l’estrema difesa, si asserragliarono sul Campidoglio, dove erano custodite le oche, sacre alla dea Giunone. Una notte, mentre le sentinelle, stanche di vegliare, si erano addormentate, i Galli si avvicinarono silenziosi alla fortezza e ne tentarono la scalata. I Romani stavano per essere sorpresi nel sonno e uccisi, quando le oche si misero a starnazzare svegliando i difensori, che corsero alle armi e ricacciarono i nemici.
La spada di Brenno
Nella rocca scarseggiavano i viveri e i Romani furono costretti a chiedere la pace a Brenno, il capo dei Galli, che volle in cambio mille libbre d’oro. Portata la bilancia, si cominciò a pesare l’oro, ma questo non bastava mai, perchè la bilancia dei Galli era falsa. I Romani protestarono, ma Brenno buttò la sua pesante spada sulla bilancia e disse: “Guai ai vinti! Voglio ancora tanto oro quanto pesa alla mia spada!” In quel momento terribile, Furio Camillo, radunò i Romani timorosi e dispersi e li guidò ad un assalto improvviso. I Galli non si aspettavano certo l’attacco e furono travolti. Rapidi come erano venuti, si ritirarono nelle loro terre, incalzati dall’esercito di Camillo. Il valoroso generale romano fu chiamato il secondo fondatore di Roma.
L’invasione dei Galli
I Galli erano popoli che abitavano nella regione che oggi si chiama Francia e che anticamente era denominata Gallia. Essi passarono le Alpi e scesero in Italia in cerca di nuove terre. Dopo aver occupato gran parte dell’Italia Settentrionale, attraversarono l’Etruria (così era chiamata in quel tempo la Toscana) e penetrarono nel Lazio. I Romani si prepararono a difendere il loro paese minacciato e dettero battaglia presso l’Allia, un piccolo affluente del Tevere, a soli 16 km dalla città, contro un nemico agguerrito e triplo di numero. Le legioni romane furono travolte, e la via della città aperta al nemico (390 aC). La popolazione, atterrita, fuggì ma gli uomini atti alle armi si raccolsero a Veio, preparandosi a continuare la resistenza. Solo per patriottismo e per attaccamento al suolo nativo, rimase a Roma un piccolo numero di vecchi, in gran parte patrizi. Un manipolo di giovani animosi si asserragliarono nella fortezza del Campidoglio da dove respinsero l’uno dopo l’altro i ripetuti attacchi del nemico.
Papirio e i Galli
Quando i Galli entrarono in Roma solo i vecchi si rifiutarono di abbandonare le loro case e rimasero in città. Quelli che avevano occupato alte cariche, indossarono la loro toga di cerimonia ed attesero, seduti sul loro scanno d’avorio. Quando i Galli, avidi di bottino, entrarono nella indifesa città trovarono le case dei plebei sbarrate e vuote, quelle dei patrizi spalancate. Esitanti si affacciarono dentro l’atrio delle dimore patrizie e la vista di quei vecchi maestosi, immobili come statue, solenni come divinità, li intimorì. Si racconta che un Gallo volle lisciare la barba a uno di essi: quel gesto ruppe ogni incantesimo. Marco Papilio, tale era il nome del vecchio, colpì con lo scettro che teneva in mano il rozzo soldato e questo segnò l’inizio della strage. Tutti i vecchi furono trucidati, tutte le case furono saccheggiate e incendiate.
Le oche salvano il Campidoglio
I Galli decidono di approfittare del favore delle tenebre per tentare l’assalto al Campidoglio; con passo felpato e circondati da un silenzio così profondo da ingannare non solo le sentinelle ma gli stessi cani da guardia, si fanno sotto la rocca. Non un ramo spezzato, non un bisbiglio: pare che trattengano perfino il respiro. E così cominciano la scalata. Ma non possono sfuggire alle oche sacre a Giunone, quelle oche che i Romani, malgrado la carestia dell’assedio, avevano risparmiato per ossequio alla dea. E le oche salvarono il Campidoglio, salvarono Roma. Intuita la presenza degli estranei, cominciarono a gridare, sbattendo gran colpi d’ali. Il fracasso sveglia M. Manlio che, chiamando all’armi i compagni, corre sugli spalti della rocca: un Gallo è già giunto lì sopra, pronto a scavalcare, ed egli lo precipita giù, facendogli trascinare nella caduta quelli che lo seguivano più vicini. Intanto tutti i Romani subito riuniti assaltano il nemico con ogni sorta di proiettili, specie con macigni che li schiacciano e li fanno rotolare in basso.
Il secondo fondatore di Roma
Purtroppo, costretti dalla fame, dopo pochi giorni, i coraggiosi difensori della rocca capitolina dovettero venire a patti coi Galli. E venne stabilito che il nemico avrebbe abbandonato Roma solo dietro compenso di una grande quantità d’oro. Mentre si pesava questo oro, Brenno, il capo dei Galli, gettò sulla bilancia, dalla parte dei pesi, la sua pesante spada, per aumentare la taglia; e alle proteste dei Romani arrogantemente rispose: “Guai ai vinti!” Proprio in quel momento rientrava in Roma Furio Camillo, valoroso generale che aveva raccolto e radunato i guerrieri fuggiaschi. Come una furia giunse sulla piazza; si arrestò di fronte a Brenno dicendo: “Non con l’oro, ma col ferro si libera Roma!” I Romani, rianimati da tanto coraggio, ripresero la lotta, e i Galli, con enormi perdite, furono cacciati dalla città e costretti alla fuga. Roma era salva. La città, quasi totalmente distrutta, per volere di Camillo venne ricostruita più bella e più grande.
Camillo
Camillo era un grande generale romano. Egli viveva in esilio, essendo stato accusato di essersi appropriato dei bottini di guerra. Quando apprese che i Galli stavano contrattando la resa di Roma, formò un piccolo esercito di soldati fuggiaschi, arrivò in Campidoglio e provocò la fuga dei barbari e di Brenno, il loro capo.
Furio Camillo
Nel 389 aC Roma attraversò uno dei più critici momenti della sua storia. Un’irruzione di Galli cisalpini, popolo barbaro e indubbiamente assai inferiore ai Romani in virtù militare, invase l’Etruria, minacciando il territorio della stessa Repubblica. Roma mandò loro incontro le sue milizie, ma, orgogliosamente svalutando la potenza di quelle avversarie, le affidò a sei tribuni militari, per giunta fra loro discordi. Sul piccolo fiume Allia, a nord est di Roma, avvenne lo scontro: l’esercito romano fu letteralmente distrutto.
I Galli proseguirono quindi la marcia verso l’Urbe, nella quale entrarono tre giorni dopo la battaglia: furono stupiti di trovarla indifesa e con le porte aperte. Se ne impadronirono quindi senza colpo ferire, e la saccheggiarono e incendiarono facendovi grosso bottino, ma non poterono occupare la rocca del Campidoglio, dove le forze romane superstiti si erano fortificate, pronte a sostenervi un lungo assedio. Allora i Romani pensarono di richiamare al comando dell’esercito un grande capitano che, nonostante le sue mirabili gesta in una precedente guerra contro gli Etruschi, essi avevano mandato in esilio: Marco Furio Camillo.
Camillo giunse a Roma, alla testa di un esercito proprio mentre gli assediati nel Campidoglio stavano patteggiando la resa coi Galli: questi erano comandati da Brenno.
Si era convenuto che, dietro il pagamento di mille libbre d’oro, i Galli avrebbero sgomberato la città; e già si stava pesando il prezioso metallo. Senonché quei barbari usavano inganno nel peso, prima nascostamente, poi anche in palese, come scrive Plutarco, facendo piegare la bilancia dalla loro parte.
E alle lagnanze dei Romani, Brenno aveva risposto con le arroganti parole: “Guai ai vinti!”, e, ciòò dicendo, si era slacciato la spada e insieme col pendaglio, l’aveva aggiunta ai pesi.
A questo punto si ode clamore alle porte della città: sono le avanguardie di Camillo.
E il dittatore, a gran passi, si avvicina; eccolo, è giunto sul colle Capitolino, mentre i Galli, esterrefatti, lo guardavano senza osare fermarlo.
Camillo toglie dalla bilancia l’oro, lo dà ai littori, impone ai Galli di prendere la bilancia e i pesi e di andarsene, e aggiunse che i Romani avevano per loro antica usanza di salvare la patria non con l’oro, ma col ferro.
Nacque subito una zuffa, e sarebbe degenerata in battaglia, se Brenno, con assennata prudenza, non avesse, di nottetempo, abbandonato Roma, ritirandosi a molte miglia da essa.
Ma il giorno seguente, allo spuntare del sole, quei barberi si videro davanti, sorto come per miracolo durante la notte, un esercito ordinato e scintillante di armi e di corazze: lo comandava Camillo. Questa volta furono i Romani ad attaccar battaglia, e non desistessero dal combattere finchè l’ultimo Gallo non fu trucidato o messo in fuga. Ciò fu nel febbraio del 388, essendo l’occupazione di Roma per opera di Brenno durata sette mesi.
Si può immaginare come fosse stata ridotta la città di Romolo; tanto che una corrente di cittadini e di capi fra essi, propendeva per l’abbandono dell’Urbe, e il trasferimento della capitale nella città di Veio. Camillo era di contraria opinione, ma, rispettoso delle leggi, chiede che la cosa venisse deliberata in Senato. Ora, mentre i senatori stavano parlamentando, un centurione, che si trovava a passare presso la Curia, chiamò a gran voce l’alfiere, e gli ordinò di fermarsi e di piantare l’insegna nel luogo dove si trovavano.
“Qui” soggiunse, “resteremo ottimamente”. La voce entrò come un comando e un vaticinio nell’aula senatoria, e parve lo stesso comando di un Dio. E così Roma fu salva, e a Camillo fu attribuito il titolo, mai dato ad altri, di “secondo fondatore di Roma”.
Molte altre gloriose imprese compì ancora questo magnifico condottiero e uomo politico. Basterà dire che per sei volte fu tribuno militare, per cinque dittatore, ed ebbe quattro volte gli onori del trionfo.
Ma non potè concludere, come forse avrebbe desiderato, la sua vita magnanima nell’ardore della battaglia, perchè nel 366 aC morì di pesta. A perenne ricordo gli venne eretta una statua nel Foro, ultima e postuma onoranza fra le tante che questo grande Romano ebbe dalla sua città.
Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.
Il primo triumvirato
Dopo la morte di Mario e Silla si costituì in Roma il primo triumvirato, cioè il primo governo di tre persone; in tal modo il Senato perdette gran parte della sua autorità e del suo potere e la Repubblica si avviò verso il tramonto. Questo primo triumvirato era formato da Gneo Pompeo, un abile generale che aveva occupato la Palestina e vinto i Pirati; da Licinio Crasso, noto per le sue sterminate ricchezze; e da Giulio Cesare, un abile generale parenti di Mario e caro ai plebei. A Crasso fu affidato il comando della guerra contro un popolo asiatico e vi trovò la morte. Pompeo rimase in Roma e Cesare fu inviato a combattere nella Gallia.
Crasso
Ai nostri tempi Crasso sarebbe stato un grande capitalista, un grande uomo d’affari. Aveva una maestranza specializzata di cinquecento schiavi ed ogni volta che Roma era colpita da uno dei soliti incendi o disastri edilizi (le case erano quasi tutte di legno, anche se rivestite di laterizi) egli comprava macerie e terreni e ricostruiva o restaurava. I suoi schiavi non erano solo specializzati in costruzioni, ma molti erano istruiti e sapevano fare gli scrivani, gli amministratori, i dispensieri, i saggiatori d’argento. Una vera e propria organizzazione industriale! Ma questo finanziere faceva anche della politica attiva e sempre in prima linea, senza interposta persona. E’ lui l’organizzatore ed il selezionatore di schiavi che, riunito un esercito, vince la battaglia alle sorgenti del Silaro, in cui Spartaco (capo di un gruppo di gladiatore rivoltosi) fu sconfitto ed ucciso. Crasso cadde in uno sfortunato tentativo di conquista del regno dei Parti. (F. Arnaldi)
Pompeo
Ufficiale di Silla, diviene ben presto un prode generale. E’ un uomo audace, deciso a tutto. Una volta, mentre stava per salpare da un porto si levò un vento fortissimo e i piloti decisero di rimandare la partenza. Ma Pompeo saltò sulla nave e ordinò a gran voce che si salpasse ugualmente dicendo: “Ora è necessario navigare, e non vivere”.
Cesare
Lavorava instancabilmente: dormiva per lo più in lettiga, per continuare la marcia anche di notte. Del cavallo era padrone assoluto, poichè, fin da ragazzo, si era abituato a montarlo e a farlo galoppare tenendo le mani incrociate sul dorso. Divenuto generale, mentre cavalcava, si teneva vicino due o tre scrivani ai quali dettava nello stesso tempo lettere su argomenti diversi.
Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture Giulio Cesare
Dopo gli anni delle guerre civili, la pace ritornò tra i cittadini romani. Un patrizio abile e ambizioso, Cneo Pompeo, spense le ultime resistenze del partito di Mario e si conquistò molta stima lottando vittoriosamente contro i pirati che minacciavano la navigazione nel Mediterraneo. Con Pompeo, un altro personaggio si metteva in luce a Roma: Caio Giulio Cesare, di nobile origine, ma amico del popolo. Cesare e Pompeo si accordarono per dividersi il potere e, per alcuni anni, non si ebbero contrasti. Un grande progetto maturava intanto nella mente di Cesare: l’Italia era tutta romana, ma di là dalle Alpi, c’erano altre terre e altri popoli da conquistare. Cesare mosse con le sue legioni verso la Gallia, la regione che oggi chiamiamo Francia. Fu una guerra lunga e difficile. Le tribù dei Galli si difesero con molto coraggio. Infine Cesare fu padrone di tutta la Gallia: una nuova terra, una provincia, si aggiungeva al dominio di Roma. Cesare continuò la sua impresa: in dieci giorni gettò un ponte sul fiume Reno, assalì i Germani che abitavano sull’altra sponda e conquistò un tratto delle loro terre. Poi, giunto alla riva dell’oceano Atlantico, preparò una flotta, sbarcò in Britannia, la grande isola che oggi si chiama Inghilterra, e ne sottomise una parte. Le imprese compiute da Cesare erano straordinarie e tutto il popolo seguiva con entusiasmo gli avvenimenti. Pompeo ebbe timore che la fama di Cesare oscurasse la sua e convinse il Senato a richiamare il generale vittorioso; giunto ai confini dello stato romano egli doveva congedare i legionari e presentarsi a Roma, solo. Cesare capì che lo si voleva privare del comando. Tornò in Italia con tutto il suo esercito ed entrò in armi nello stato romano, il confine del quale era segnato, allora, dal breve corso del fiume Rubicone (nella pianura romagnola). Cesare si fermò presso il fiume un istante: valicarlo con le legioni voleva dire ribellarsi all’ordine del Senato. Poi si decise e spinse il cavallo nell’acqua esclamando: “Il dado è tratto”. Cesare entrò in Roma accolto come un trionfatore. Pompeo e gli altri Senatori erano fuggiti dalla città. Pompeo si era rifugiato in Grecia, dove stava raccogliendo le forze rimategli fedeli per preparare la rivincita. Cesare non gliene diede il tempo: lo raggiunse e lo sconfisse in una dura battaglia a Farsalo. Pompeo fuggì in Egitto, stato amico e protetto da Roma. Il re egiziano Tolomeo capì che le sorti dello scontro volgevano a favore di Cesare; catturò Pompeo, lo fece uccidere, ne mozzò il capo e lo presentò al generale vittorioso. Cesare, davanti al nemico ucciso a tradimento, pianse: Pompeo non meritava una morte senza gloria. Ormai Cesare non aveva più avversari in grado di contrastarlo. Tornato a Roma, fu eletto Dittatore a vita. Egli aveva un animo grande e generoso e non abusò mai del suo potere, eppure nel cuore di molti nacque il timore che Cesare volesse sopprimere la Repubblica e farsi nuovo re di Roma. Un gruppo di suoi avversari più accaniti lo attese in Senato e lo colpì a pugnalate. Tra gli assalitori, Cesare vide anche Bruto, un giovane che egli aveva protetto e beneficato. Allora non volle più difendersi; si coprì il volto con la toga e cadde trafitto dai pugnali. Era l’anno 44 aC.
Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture La conquista della Gallia
La più grande impresa di Cesare fu la conquista della Gallia, che egli stesso narrò nelle bellissime pagine dei suoi Commentari. Questi famosi libri di ricordi non ci descrivono soltanto le battaglie combattute da Cesare contro i popoli che abitavano oltre le Alpi, ma ci parlano anche dei loro costumi, del loro modo di vita, delle loro credenze religiose. I Commentari sono anche un prezioso “atlante” di geografia. Cesare, infatti, fece conoscere agli uomini del suo tempo nuove terre e descrisse i fiumi, le montagne, le città e i villaggi, attraverso i quali passava con i suoi soldati. La Gallia era abitata da popoli quasi barbari. All’inizio delle guerre galliche, nell’accampamento romano circolavano strane voci: si diceva che i Galli erano guerrieri altissimi di statura, assai feroci, e moti soldati avevano paura. Non appena Cesare fu a conoscenza di questo, radunò i suoi soldati e disse loro: “Ho sentito che qualcuno di voi ha paura di questi Galli, come se in guerra contasse di più la statura e l’aspetto terribile del valore e della disciplina. Chi non vuole venire con me, domani, o quando darò il segnale della marcia, rimanga pure nelle tende”. A quelle parole i soldati gridarono: “Verremo tutti con te!” L’indomani nell’accampamento suonarono le trombe e iniziò la marcia vittoriosa. In meno di otto anni Giulio Cesare espugnò ottocento città. Tutta la Gallia, corrispondente più o meno alla Francia, al Belgio, all’Olanda e alla Svizzera di oggi, diventò dominio romano.
Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture In Britannia
Conquistate le Gallie, Cesaer superò la Manica e sbarcò in Britannia. Questa impresa d’oltremare ebbe il valore di un’esplorazione. “Cesare” scrisse lo storico Plutarco, “fu il primo a guidare una flotta romana nell’Oceano Occidentale (Atlantico). Con il suo sbarco allargò le cognizioni dei Romani al di là dei limiti del mondo conosciuto”. Cesare raggiunse l’isola con ottocento vascelli. Non potè però portare a termine la conquista di quel paese perchè ebbe notizia di una sollevazione della Gallia. Infatti il capo dei Galli ribelli, il principe Vercingetorige, si era posto a capo di numerose tribù per scacciare le legioni romane. Cesare lo assediò nella roccaforte di Alesia e lo costrinse alla resa. Così la Gallia divenne definitivamente una provincia romana (52 aC).
Il dado è tratto
Secondo le tradizioni, un generale vittorioso aveva il diritto di rientrare a Roma da trionfatore. Al trionfo di Cesare si oppose l’ambizioso Pompeo che, in realtà, voleva diventare il solo padrone della Repubblica. Cesare, allora, rischiò tutto per tutto e rientrò in Italia alla testa delle legioni. Giunto al Rubicone, Giulio Cesare si fermò perplesso. Egli aveva superato ben altri fiumi, larghissimi e impetuosi. Anzi, con grande stupore dei suoi militi, si era improvvisato ingegnere, costruendo rapidamente grandi ponti di legno. Ma davanti al Rubicone si arrestò, col cavallo fermo, le zampe puntate nella riva ghiaiosa. Il Rubicone era il confine segnato dal Senato. Egli non lo poteva attraversare senza il permesso dei Senatori romani. Attraversarlo voleva dire farsi ribelle l’autorità di Roma. Giulio Cesare rimase un istante incerto. Una ruga gli si disegnò sulla fronte, che portava sempre scoperta, senza l’elmo. Poi, risolutamente, spinse il cavallo facendo cenno ai portatori delle Aquile di seguirlo. Il cavallo, con un balzo, lo portò sull’altra riva. Allora il volto di Giulio Cesare si rischiarò. “Il dado è tratto!” disse. La cosa è fatta. Avrebbe marciato su Roma e sarebbe diventato il capo, non soltanto del suo esercito, ma di tutti i Romani.
Cesare dittatore
Tornato a Roma, Cesare venne onorato con 4 grandiosi trionfi e dal Senato ricevette il titolo di dittatore a vita. Cesare seppe governare nell’interesse del popolo: distribuì terre ai poveri e ai veterani dell’esercito, scacciò i funzionari disonesti e obbligò i grandi proprietari terrieri a far coltivare le loro terre non dagli schiavi, ma da liberi cittadini: in questo modo sarebbe scomparsa la disoccupazione.
Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture Le idi di marzo
Più volte il Senato offrì a Cesare la corona di imperatore; ma egli sempre rifiutò, perchè credeva che ancora vosse viva la libertà della Repubblica. Tuttavia alcuni patrizi videro in lui il tiranno e decisero di ucciderlo. Fra i congiurati era persino Giunio Bruto, che Cesare amava come un figlio. Fu deciso di ucciderlo in Senato, nel giorno delle idi di marzo (cioè il 15 marzo) del 44 aC. Pareva che il cielo si opponesse a questa infamia. Un sogno avvertì la moglie di Cesare che il marito correva un grave pericolo; ed elle cercò di trattenerlo a casa, ma invano. Poi, lungo la strada, un indovino avvertì il dittatore e un altro cercò di trattenerlo sulla porta del Senato. Ma sempre invano. Appena entrò nel Senato, i congiurati gli si gettarono addosso coi pugnali alzati. Cesare cercò di ripararsi con la toga, ma quando vide che tra gli assalitori c’era Bruto, esclamò: “Anche tu, Bruto, figlio mio?”. Rattristato si coprì il volto con la toga per non vedere e cadde morto ai piedi della statua del suo antico avversario Pompeo.
Il calendario giuliano
Il nostro calendario si basa sul Sole, cioè sul movimento di rivoluzione della Terra che gira intorno al Sole. Gli antichi popoli, invece, avevano un calendario basato sulle fasi della Luna. Anche il calendario romano si basava sulla Luna, e aveva causato grande confusione, tanto è vero che le feste della mietitura non capitavano più in estate, nè quelle della vendemmia in autunno. Fu Giulio Cesare a far adottare il calendario solare, che fissava la durata dell’anno in 365 giorni e un quarto: lo stesso calendario che usiamo noi, sia pure con qualche modifica. Forse ti chiedi perchè proprio Giulio Cesare volle riformare il calendrio: perchè era Pontefice Massimo, e il calendario era un aspetto della religione. Infatti nell’Antica Roma, il sacerdote e il magistrato erano la stessa persona.
Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture Ritratto di Cesare
Fu di alta statura, di carnagione bianchissima, occhi neri e fulminei, salute d’acciaio, eccetto negli ultimi tempi, molto accurato nella persona e nelle vesti. Molto sobrio nel bere, poco curante dei cibi. Nell’eloquenza e nell’arte della guerra uguagliò se forse non superò tutti i più famosi. Cicerone scriveva di lui: “Quale oratore, anche di coloro che non hanno mai atteso ad altro, si può anteporre a Cesare? Chi più acuto e più ricco di idee? Chi più ornato ed elegante nella forma?” Nell’uso delle armi e nel cavalcare fu abilissimo, resistente oltre dire alla fatica. Durante la marcia era sempre in testa alle truppe, qualche volta a cavallo, più spesso a piede, e a capo scoperto sia che piovesse, sia fosse bel tempo. Faceva viaggi lunghissimi con incredibile rapidità, giungendo a percorrere cento miglia al giorno; se un fiume gli impediva di proseguire, lo attraversava a nuoto o tenendosi a galla con otri gonfiati. Nelle spedizioni guidava il suo esercito con audacia pari alla prudenza. Se doveva attraversare zone pericolose non faceva avanzare i suoi uomini se prima non aveva esaminato attentamente la natura del luogo. Molti sono gli episodi che testimoniano il coraggio di Cesare. Una volta, per rientrare nel proprio accampamento cinto d’assedio dai Germani, si travestì da guerriero gallo ed attraversò indisturbato le linee ed i posti di guardia nemici. Una notte tentò la traversata dell’Adriatico affidandosi da solo ad una piccola imbarcazione, senza rivelare la propria identità al barcaiolo. Solo quando la tempesta minacciò di travolgere l’imbarcazione, Cesare permise al barcaiolo di tornare indietro. Amava i suoi soldati e ne era riamato: li giudicava infatti in base al loro valore e li trattava con grande severità o indulgenza a seconda delle necessità. Quando il nemico era vicino, esigeva nell’accampamento una disciplina ferrea e non ammetteva che si chiedesse l’ora ed il luogo del combattimento. Tutti dovevano essere pronti per attaccare o per marciare al momento che lui riteneva opportuno. Con questi metodi Cesare si assicurò la devozione dei suoi uomini e ne fece dei soldati coraggiosissimi (rid. da Svetonio, “Le vite di dodici Cesari”)
Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture Cesare, uomo di attività
Il dinamismo di Cesare era leggendario e famosissimo quando ancora egli era in vita. Divenne poi quasi un esempio costante, dopo la morte del dittatore, nè alcuno storico benevolo o malevolo che fosse, si dimenticò di parlarne. Anche Plutarco fa un ritratto di Cesare in cui sottolinea il dinamismo di quel condottiero; dice, lo storico greco, che Cesare era gracile e pallido e soggetto a continue emicranie. Ma da questa debolezza del corpo egli, invece che farne una scusa per vivere in modo tranquillo con abitudini molli, trasse motivo di esercitare il corpo in continue marce, mangiando frugalmente e dimorando il più possibile all’aria aperta. Per lo più dormiva su di un carro o su di una lettiga, accoppiando così il riposo con l’azione. Durante il giorno si recava con il cocchio a visitare accampamenti, città e fortificazioni, tenendosi sempre al fianco un giovanetto esperto nello scrivere strada facendo quel che egli dettava. Lo seguiva un soldato con la spada. Viaggiava inoltre con tanta rapidità che la prima volta che partì da Roma giunse al Rodano in otto giorni. Il cavalcare gli riusciva facile perchè vi si era addestrato sin da fanciullo e sapeva stare, con le mani sul dorso, sul cavallo spinto al galoppo. E fu proprio durante quella sua prima campagna che si abituò a dettare lettere cavalcando a due scrivani contemporaneamente; anzi, secondo quel che riferisce Oppio, anche a più di due alla volta. Era poi molto resistente alle fatiche del nuoto, cosa che lo salvò durante la battaglia di Alessandria contro Tolomeo.
Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture La ricognizione di Cesare in Britannia
Nel quarto anno della guerra gallica (55 aC) Cesare conduce due ardite spedizioni: una contro i Germani d’oltre Reno, che avevano oltrepassato il fiume e inflitto uno scacco alla cavalleria romano-gallica; l’altra in Britannia, sul finire dell’estate. In dieci giorni getta sul Reno un ponte magnifico e passa con tutto l’esercito. Devasta il territorio dei Sugambri e li costringe a rifugiarsi nelle selve, semina il panico fra gli stessi Suebi che pure si occultano nelle foreste; e dopo aver fatto un soggiorno di 18 giorni sulla riva germanica, ripassa il Reno e distrugge il ponte. Evidentemente il momento non gli parve opportuno per una guerra germanica fra le selve e le paludi, con la Gallia irrequieta alle spalle: nei Commentari egli afferma che le sue intenzioni non andavano oltre una ricognizione. E come ricognizione egli intraprese pure la sua prima spedizione in Britannia sulla fine dell’estate. L’estate volgeva al termine, e per quanto nella Gallia settentrionale l’inverno sia precoce, Cesare iniziò i preparativi di una spedizione in Bretagna, dove sapeva che i Galli avevano ricevuto aiuti in tutte le loro guerre. Se la stagione non fosse stata sufficiente, considerata già un risultato apprezzabile riuscire a sbarcare nell’isola e osservare direttamente gli abitanti, i luoghi, i porti, le vie d’accesso, di cui i Galli non avevano quasi notizia. E’ raro infatti che qualcuno si diriga in quella regione, ad eccezione dei mercanti; del resto anche questi non conoscono altro che la zona costiera e il paese che sta di fronte alla Gallia. Cesare chiamò a sè i mercanti da ogni dove, ma non gli fu possibile venire a conoscere ne l’estensione dell’isola, ne il numero e la natura degli abitanti, ne la loro pratica militare, ne le loro istituzioni. Oscuro parimenti gli restava quali fossero i porti adatti per un gran numero di navi grandi. Per raccogliere le informazioni necessarie prima di affrontare la prova, mandò con una nave da guerra Voluseno, uomo di fiducia, con l’ordine di compiere un’attenta esplorazione e di tornare al più presto. A sua volta si reca fra i Morini, di dove il passaggio in Bretagna era brevissimo, e dispone che si radunino là molte navi e la flotta che l’estate precedente aveva sostenuto la campagna contro i Veneti. Frattanto il disegno di Cesare si era divulgato e i Britanni ne erano venuti a conoscenza per mezzo dei mercanti. Alcune città dell’isola mandarono legati a lui, promettendo ostaggi e dichiarandosi pronti a obbedire agli ordini di Roma. Cesare li ascoltò con molta cordialità e li esortò a tener fede alle promesse, quindi li rimandò ai loro paesi, in compagnia di Commio, un capo che Cesare aveva fatto re degli Atrebati, dopo la vittoria riportata su di essi. Il generale romano ne conosceva molto bene il valore e l’intelligenza, lo riteneva uomo fidato, e sapeva che godeva grande prestigio in quelle regioni. Gli ordina dunque di recarsi in quante più città può, di persuaderle ad accogliere il dominio di Roma e di annunciare la sua prossima venuta. Voluseno intanto, dopo aver osservato tutte le regioni dalle navi (egli diffidava dei barbari e perciò aveva creduto bene non sbarcare), tornò cinque giorni dopo da Cesare e gli comunicò il risultato delle sue osservazioni. Mentre Cesare indugia in questa regione per allestire la flotta, la maggior parte dei Morini mandarono legati per scusarsi della condotta tenuta in precedenza verso di lui, cioè che, barbari e ignari com’erano della consuetudine, avessero osato far guerra ai Romani, e per promettere obbedienza. Questa ambasceria parve oltremodo opportuna a Cesare, il quale non voleva lasciarsi un nemico alle spalle, nè poteva, data la stagione, fare una guerra; d’altra parte non gli era possibile anteporre alla spedizione in Bretagna questioni di sì piccola importanza. Pertanto impose loro gran numero di ostaggi. Questi furono consegnati e la loro sottomissione fu accolta. Radunate e allestite circa ottanta navi da carico, quante gli parevano necessarie per il trasporto di due legioni, le distribuì, insieme con le navi da guerra che aveva, al questore, ai legati e ai prefetti. Cesare disponeva inoltre di diciotto navi da carico, che si trovavano a otto miglia di distanza, alle quali i venti impedivano di raggiungere il porto di concentramento; e queste le assegnò ai cavalieri. Il rimanente dell’esercito lo affidò ai legati Quinto Titurio Sabino e Lucio Auruncueleio Cotta, perchè lo conducessero fra i Menapii e nei paesi dei Morini, che non avevano mandato legati a presentarsi. Infine ordinò al legato Sulpicio Rufo di presidiare il porto Izio con un conveniente nucleo di forze. Appena ebbe compiuti questi preparativi e si presentò il tempo propizio alla navigazione, dopo la mezzanotte levò le ancore, ordinando in pari tempo alla cavalleria di raggiungere l’altro porto, imbarcarsi e mettersi sulla sua rotta. L’ordine fu eseguito con una certa lentezza, mentre Cesare all’ora quarta toccava la Bretagna con le prime navi. Su tutti i colli lo aspettavano schierate le forze nemiche. Il terreno presentava una serie di alture che dominavano il mare e dall’alto permettevano di lanciare dardi sulla spiaggia. Lo sbarco in quel luogo non era facile, pertanto Cesare calò le ancore e aspettò che arrivassero le rimanenti navi. Intanto, convocati i legati e i tribuni, e messili al corrente delle informazioni avute da Voluseno, espose loro i suoi intendimenti, e raccomandò di eseguire ogni atto, al cenno del comandante e al momento opportuno, secondo le regole dell’arte militare e soprattutto della marina. Sciolta la riunione, per buona combinazione venti e marea erano propizi. Allora diede il segnale; si levarono le ancore ed egli condusse le navi ad ancorarsi a circa sette miglia da quel luogo, in una spiaggia aperta e piana. I barbari, quando videro le intenzioni dei Romani, mandarono avanti la cavalleria; fatti poi seguire i carri, con cui più di frequente combattono, e le altre forze, cercavano di impedire ai nostri di sbarcare. Lo sbarco era oltremodo difficile per diverse ragioni. Le navi, data la loro grandezza, dovevano fermarsi al largo; i soldati, ingari dei luoghi, con le mani impegnate, gravati dal peso non indifferente delle armi, dovevano saltare dalle navi, resistere nell’acqua e dall’acqua combattere contro i nemici. Questi invece, dalla spiaggia o avanzandosi di poco in mare, liberi nella persona, lanciavano dardi e spingevano avanti i loro cavalli assuefatti a tali prove. I nostri, atterriti, non avvezzi a tale genere di combattimento, non dimostravano lo slancio e l’entusiasmo che erano loro familiari nelle battaglie di terra. Si combattè accanitamente da ambe le parti. I nostri però non potendo ne mantenersi ordinati, ne tener fermo il piede, ne restare nei propri manipoli, si ammassarono confusamente, chi da una nave chi da un’altra, dietro le prime insegne che trovavano, provocando grande disordine. I nemici, al contrario, che conoscevano tutti gli approdi, quando dalla spiaggia vedevano qualcuno dei nostri sbarcare isolatamente, davano di sproni al cavallo e l’assalivano nel momento dello sbarco; circondavano i nostri con forze superiori, altri lanciavano dardi al fianco scoperto, prendendo di mira il grosso. Come si rese conto della tattica del nemico, Cesare calò molti uomini in lance e altre imbarcazioni da esplorazione, e li mandò prontamente in aiuto a coloro che vedeva in situazione critica. Quando i nostri riuscirono a raggiungere la riva e poterono riunirsi, si slanciarono contro il nemico volgendolo in fuga; ma non poterono spingersi decisamente all’inseguimento, perchè la cavalleria non era riuscita a tenere la rotta e ad approdare all’isola. Fu questa l’unica contrarietà che nella fortunata operazione Cesare dovette incontrare. I nemici furono tuttavia sconfitti, e quando si riebbero dalla fuga mandarono tosto legati a Cesare, dichiarandosi pronti a dare ostaggi e ad eseguire gli ordini che volesse dare. (Cesare, da “Commentari della Guerra Gallica”, libro IV)
Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture Cesare al Rubicone
Al campo di Ravenna è di stanza la Decimaterza legione, una forza di cinquemila fanti e di trecento cavalieri. Le altre legioni sono tarde a giungere a causa delle strade impraticabili, i valichi nevosi e le strade ghiacciate. E’ il gennaio del 49 aC. Cesare chiama alla spicciolata i centurioni e comunica in segreto, quasi uno per uno, l’obiettivo di marcia e la condotta dell’impresa: senza carico d’armi, veramente in leggerissima, puntare su Rimini, prima città della Repubblica. Occupandola di eviti il più possibile le rapine, le stragi, i tumulti del popolo. Uscito dai quartieri militari, lasciando il comando delle truppe al suo luogotenente, Cesare passa tutto il giorno in pubblico, assistendo allo spettacolo dei gladiatori. Sull’imbrunire presiede un banchetto perchè tutti lo vedano. Più tardi, con indifferenza studiata e con modi di affettuosità e di sorriso, chiede di allontanarsi; ritornerà a momenti; prega gli ospiti di aspettarlo. Appena fuori della sala Cesare allungò il passo per le vie della campagna. In luogo solitario l’aspettava un gruppo di amici, al corrente del suo proposito. Ripresero il cammino. A mezza strada, nel cuore della notte, il vento alzò la nebbia e spense le fiaccole. L’oscurità smarrì i viandanti nella rete delle strade campagnole; essi battevano a tastoni i cespugli e le stoppie alla ricerca del sentiero. Sull’alba trovarono una guida del luogo che li portò a piedi per lo stretto viottolo che era la buona via. Le coorti bivaccavano lungo gli argini del fiume Rubicone. Sulla testata del ponte spiccava la lapide terminale della Repubblica che imponeva il disarmo dei cittadini prima di passare nel territorio di Roma. Il fiume era in magra. I legionari guardavano sull’altra riva: attendevano il cenno d’avanzata. E Cesare comanda: “Si vada dove ci invocano i prodigi degli dei e l’iniquità dei nemici. Il dado è tratto”. Col suo cavallo guadò il Rubicone e avanzò nel territorio della Repubblica a redini abbandonate, col seguito dei cavalleggeri. Prima di giorno, investì e prese Rimini senza colpo ferire. (A. Foschini)
Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture Presagi delle idi di marzo
Tutti i biografi di Cesare concordano nel riferire alcuni episodi, casuali certo ma pieni di fascino in anni così carichi di superstizione; pareva che tutto concordasse nel dissuadere Cesare dall’andare verso il suo fatale destino. Anche Svetonio, che fra gli storici è il meno sensibile al fascino del mito, raccolse questi episodi e li riferì; il che ci conferma la loro autenticità. Apparvero infatti strani segni a preannunciare la morte di Cesare. Un aruspice già lo aveva messo in guardia di un grave pericolo che gli incombeva entro i primi quindici giorni di marzo. E Cesare stesso, la notte prima degli idi, sognò di librarsi tra le nuvole, mentre la moglie Calpurnia sognava che il tetto della casa era crollato e Cesare ne era rimasto ferito. Per tali motivi, e anche perchè non si sentiva troppo bene, la mattina delle idi Cesare era perplesso e pensava quasi di restarsene a casa rimandando al altra data le faccende che doveva sbrigare in Senato. Ma poi, in ultimo, decise di uscire. Erano le 11 del mattino. Sulla porta di casa si imbattè in un uomo che gli porse un messaggio con cui lo informava della congiura tramata a suo danno; Cesare non lo lesse e lo ripose fra le altre carte che portava con sè, pensando di leggerlo più tardi. Sulla soglia della Curia si imbattè nell’aruspice: “Non hai indovinato”, gli disse scherzando, “sono trascorsi i primi quindici giorni di marzo, e non mi è capitato niente!”. Rispose l’aruspice: “Le idi di marzo non sono ancora trascorse del tutto!”. Entrato in Senato, i congiurati gli si assieparono intorno e uno di essi, Tullio Cimbro, fece l’atto di porgergli una supplica, che Cesare rifiutò con un cenno, facendo intendere di rimandare a momento migliore. Cimbro lo afferrò per i lembi della toga e Cesare protestò: in quell’istante Casca, un altro congiurato, gli vibrò il primo colpo di pugnale alla gola. Cesare cercò di difendersi con uno stilo per scrivere, chè altro non aveva tra le mani, ma fu colpito ancora. Come si accorse che i congiurati lo stringevano da ogni lato, armati con il pugnale, si avvolse nella veste sul capo, lasciò cadere la toga sino ai piedi, per non giacere con il corpo scoperto quando fosse caduto. Ventitrè colpi lo trafissero, nè lui emise grido o sospiro. (A. Foschini)
Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture Cesare e il giovane Gallo
Caio Giulio Cesare fu il conquistatore della Gallia. La guerra durò quasi dieci anni, e fu spesso dura e sanguinosa. Cesare aveva un animo nobile e non mai crudele e vendicativo contro i nemici; anzi apprezzava il loro eroismo e la loro generosità. Puniva però severamente tutti coloro che si erano mostrati crudeli, traditori e vili. Accadde che un gruppo di otto soldati romani fu fatto prigioniero dai Galli e trascinato in un loro villaggio fortificato. Il capo del villaggio mandò a dire a Cesare che avrebbe liberato i prigionieri se dai Romani avesse avuto un eguale peso di argento. Mentre si trattava la questione, i poveri prigionieri erano sottoposti ad inauditi tormenti, così che, appena liberati e portati davanti a Cesare, questi si indignò e diede ordine al suo luogotenente di assalire il villaggio dei Galli, di incendiarlo e di far prigionieri tutti gli abitanti, cercando di recuperare l’argento versato per il riscatto. I Galli furono facilmente sbaragliati e il loro villaggio dato alle fiamme; tutti gli abitanti vennero fatti prigionieri e portati davanti a Cesare per il giudizio di condanna. Il generale romano ordinò che venissero uccisi i capi e tutti coloro che avevano martoriato i prigionieri romani; gli altri si dovevano vendere come schiavi. Un prigioniero romano, a cui i barbari avevano tagliato le mani e bruciato i piedi, disse: “Cesare, fra i Galli si trova un fanciullo che non merita condanna: egli mi portò da bere ogni giorno, medicò come potè le mie ferite, mi portò dei cibi e delle vesti: io ti chiedo di consegnarlo a me: lo tratterò come fosse mio figlio.” Cesare fece venire il fanciullo e lo consegnò al soldato, dicendogli: “Un solo atto di pietà merita la più alta riconoscenza. E tu, fanciullo, cerca di riscattare, con l’affetto verso questo soldato, tutta l’inutile crudeltà che il tuo popolo usa coi prigionieri”. Il fanciullo venne portato a Roma, dove imparò a vivere secondo le leggi della civiltà e della giustizia. (C. Del Grosso)
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Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
Recite per bambini ANTICA ROMA – una raccolta di recite e brevi dialoghi sulla storia romana, di autori vari, per bambini della scuola primaria.
Attilio Regolo
Personaggi: Attilio Regolo, la moglie coi figli, primo cittadino, secondo cittadino, altri cittadini.
Popolo: Resta a Roma, oh Regolo!
Regolo: Oh amici romani, ho giurato di ritornare fra i Cartaginesi; e il giuramento è sacro. Nessuna forza potrà far sì che Regolo manchi di parola.
Moglie: Nessuna forza? Neppure la forza che viene dall’amore della tua famiglia? Guarda. Ho le lacrime agli occhi, e silenziosamente piangono anche i nostri fanciulli.
Regolo: Oh moglie mia! Non piangere. Oh figlioletti cari! Non piangete. Forte è vostro padre e anche voi siate forti, come i robusti rami di un albero saldo. Moglie mia, conduci a casa i nostri figlioletti. Che gli dei, per mezzo tuo, li proteggano. Andate. Forse la mia decisione non è presa…
La moglie e i figli si allontanano.
Primo cittadino: Dunque, Regolo, resterai a Roma?
Regolo: Chi ha detto questo?
Primo cittadino: M’ è parso…
Regolo: Gli occhi lacrimosi dei piccoli mi hanno fatto pronunciare parole di dubbio. Ma la decisione è ben ferma nel mio cuore: tornerò fra i Cartaginesi.
Secondo cittadino: Ma i Cartaginesi non ti perdoneranno le parole che tu hai detto davanti al Senato romano!
Popolo: Resta a Roma, oh Regolo!
Regolo: Cittadini, ai miei figli, ai vostri figli insegnerete che Roma è grande perchè ricca di virtù. Col giuramento ho impegnato non solo me stesso, ma anche la dignità di Roma. E’ un Romano che ha giurato! E mi vergognerei di vivere in mezzo a voi, davanti alle statue dei nostri dei, su questo sacro Campidoglio, per non aver mantenuto la parola data!
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Annibale
Annibale: Voi sapete, oh miei soldati, che io vinco le mie battaglie per due ragioni: attacco il nemico da dove meno se lo aspetta, e lo costringo perciò alla battaglia nella località a me più favorevole. Ora si tratta, oh Cartaginesi di attaccare i Romani di sorpresa.
Soldati: Siamo in Spagna, generale. Da dove vuoi attaccare a sorpresa i Romani, in quale località della Spagna vuoi costringerli alla battaglia? Ma ti scrolli il capo, perchè?
Annibale: Perchè non sarà in Spagna che li potrò attaccare di sorpresa, ma in Italia.
Soldati: E come potremo attaccarli di sorpresa in Italia quando già le loro truppe sono in Spagna? Le dovremo fatalmente scontrare prima di raggiungere il mare e imbarcarci!
Annibale: Noi non raggiungeremo l’Italia per mare, come i Romani si aspettano, ma per la via delle Alpi a cui essi certo non pensano. Quando lo sapranno, noi saremo già nella valle del Po.
Soldati: Vuoi valicare le Alpi con sessantamila uomini?
Annibale: E gli elefanti. Così, secondo la mia tattica, farò ciò che il nemico non si aspetta.
Narratore: In tal modo Annibale giunse al fiume Trebbia, l’affluente del Po che scorre lungo i monti e le piane del piacentino. E si accampò. Con un esercito racimolato in fretta per la sorpresa dell’attacco, stanchi per il lungo cammino percorso, trafelati nell’ansia di fermare il nemico il più lontano possibile da Roma, i Romani si scontrarono con Annibale prima presso il fiume Ticino, poi presso il Trebbia. E vennero sconfitti.
(G. Aguissola)
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Cornelia
Personaggi: Cornelia, Flavia (amica di Cornelia), Tiberio e Caio.
Le due matrone romane sono sedute in conversazione. Passano ogni tanto schiave e schiavi affaccendati.
Flavia: Sai, Cornelia, che cosa penso?
Cornelia: Dimmi, Flavia.
Flavia: I Romani si fanno ogni giorno più ricchi! Non ti sembra? Osserva i miei nuovi braccialetti: sono d’oro massiccio. Guarda queste buccole preziose, che vengono dall’Oriente. Ma il mio tesoro maggiore è rappresentato da due gemme, di cui a Roma non esiste nulla di più prezioso. Forse sbaglio: so che anche tu, Cornelia, hai molti gioielli, anche se non ti piace mostrarli spesso. Ma via, sii sincera verso la tua amica Flavia; quali sono i tuoi tesori più grandi? Potranno competere con le gemme, di cui ti ho parlato?
Entrano i due ragazzi. Tiberio è il maggiore.
Tiberio e Caio: Ave, mamma!
Cornelia: Oh Tiberio, oh Caio, figlioli adorati! Ero in pensiero per voi. Roma oggi somiglia al mare in tempesta. Il pedagogo vi ha fatto passare per il Foro?
Tiberio: Sì, madre. Abbiamo visto un ufficiale minacciare alcuni poveri che tumultuavano. A noi si è stretto il cuore nel vedere una simile scena. Però il pedagogo ci ha rimproverati perchè ci siamo fatti tristi, dicendo che è indegna per i Romani una simile commozione. Ma non sono Romani anche quei poveri?
Cornelia: Sì, Tiberio. In verità, non hai torto. Anche quei poveri sono Romani.
Caio: E invece li chiamano vili canaglie. Forse, però, avranno fatto qualcosa di male!
Tiberio: Zitto, Caio! Non è vero! Ho sentito io di che si tratta. Sono cittadini che hanno dovuto vendere per forza i loro campi ai ricchi proprietari, che vogliono sempre nuove terre, ma non vi dedicano poi cure amorose. Essi chiedono giustizia. Se già fossi grande, lotterei per loro!
Caio: Ed io ti seguirei, fratello!
Cornelia: Ecco, Flavia. Tu volevi conoscere quali sono i miei più grandi tesori, vero?
Flavia: Sì, la curiosità è un difetto che non so vincere!
Cornelia: (accennando ai due ragazzi) Ebbene, questi sono i miei veri tesori, di cui spero anche in futuro di essere orgogliosa.
Cesare
Personaggi: Terenzio e Lucano, giovani romani
Terenzio: ho visto tuo padre molto felice oggi. Da molto tempo non lo vedevo così!
Lucano: Ha ben ragione d’esserlo. Tu sai che è stato favorevole a Pompeo; e perciò temeva, prima o dopo, di ricevere da Cesare l’ordine di abbandonare Roma. Invece ieri Cesare stesso l’ha fatto chiamare e gli ha detto : “Non temere Lucio Mannio. So che sei un valente e vorrei il tuo parere su una questione che mi sta a cuore”…
Terenzio: Cesare dimentica il nome dei nemici!
Lucano: E’ vero. Cesare è di animo nobile.
Terenzio: E’ generoso. Vedi quella fila di poveri?
Lucano: Sì
Terenzio: Vanno a una distribuzione di grano ordinata da Cesare in favore dei cittadini poveri. Egli, per combattere la miseria, ha distribuito le terre conquistate tra i veterani dell’esercito, ha emanato una legge contro il lusso eccessivo dei ricchi e farà costruire gigantesche opere pubbliche, tra cui un nuovo Foro, nuovi templi, basiliche e teatri.
Lucano: E’ vero che gli illustri personaggi giunti da ogni dove sono qui, a Roma, per invito di Cesare?
Terenzio: E’ vero. Molti sono studiosi. Cesare ne ha incaricati alcuni di studiare una riforma del calendario, affinchè questo sia più rispondente alla realtà dell’avvicendarsi delle stagioni. Sembra che il calendario, il quale ora conta 355 giorni, ne avrà 365, e ogni quattro anni 366.
Lucano: Sarebbe giusto che fosse chiamato Calendario di Cesare
Terenzio: Non si chiamerà così; ma il Senato ha proposto che il settimo mese porti il nome di Julio, in onore di Cesare.
(R. Botticelli)
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Virgilio
Personaggi: Mecenate, Asinio Pollione, Virgilio
In un giardino imperiale. Si incontrano Asinio Pollione e Mecenate.
Asinio Pollione: Salve, o grande Mecenate!
Mecenate: Salve, amico Pollione! Torno ora da una passeggiata per Roma. Sono inebriato di sole, di bellezza, di felicità. Niente al mondo è più bello di Roma. Ne conosco ogni angolo; e ogni angolo mi par sempre nuovo. Le sue statue, i suoi templi, i suoi palazzi di marmo mi sembrano essi stessi coscienti della grandezza dell’Urbe. Roma è grande! Quando penso che essa è padrona di tutto il Mediterraneo e di tutto il mondo dalla Britannia alla Libia, e vedo le strade imperiali che dal Campidoglio si dipartono per ogni direzione, ripeto fra me con orgoglio “Sono cittadino romano” !”
Asinio Pollione: La fortuna di Roma, oggi, è di avere sul trono Cesare Ottaviano Augusto
Mecenate: Augusto! IL divino Augusto! Sagge leggi, e pace e benessere scendono da quel trono, come dalla sorgente un fiume che reca la vita. Oh Roma, tutti gli dei ti hanno protetta!
Asinio Pollione: Mecenate, tu che sei, per volere di Augusto, il grande protettore degli artisti e dei letterati, non ti sembra che alla nostra Roma manchi un nuovo Omero, che canti la potenza dell’Impero e la grandezza di Augusto?
Mecenate: E’ vero, o Asinio Pollione. Ci vorrebbe un poema sublime, degno dell’Odissea e dell’Iliade.
Asinio Pollione: Perchè non esorti a scriverlo il dolce Virgilio?
Mecenate: Ci avevo già pensato. L’autore delle Georgiche, che tu e io proteggiamo, è davvero un grande poeta. Ma egli è semplice e soave nell’animo. Ama la campagna, la pace, la serenità. Come potrebbe cantare anche le guerre che Roma ha dovuto combattere?
Asinio Pollione: Virgilio ama come noi la grandezza e la potenza di Roma. Vedi come gli piace abitare nell’Urbe? Vedi come abita volentieri la sontuosa villa, di cui tu gli hai fatto dono?
Mecenate: E’ vero; ma rimpiange il suo campicello di Andes, presso Mantova, da cui lui e i suoi genitori furono scacciati per una legge a loro ingiusta, e ancora ne prova dolore! Tuttavia lo esorterò, oh Asinio.
Virgilio (arrivando) E’ proprio codesto dolore, oh grande Mecenate, che oggi mi fa apprezzare in tutto il loro valore, la tua generosità, la tua amicizia e la pace romana instaurata da Augusto.
Asinio Pollione: Virgilio, dolce poeta, hai sentito le nostre parole?
Mecenate: Hai sentito che cosa speriamo da te?
Virgilio: (come se parlasse da solo) Ci fu al mondo un altro uomo, ben più famoso di me, che dovette fuggire dal luogo natio…
Asinio Pollione: Non capisco…
Mecenate: Taci, oh Asinio. Quando Virgilio parla così, la sua fantasia corre lontano. La Musa gli sta vicina. Noi non la vediamo nè la sentiamo, ma lui sì. Forse Roma avrà il suo poema immortale!
Una ragazza e una schiava giocano a palla. Ad un tratto la palla, sfuggendo alla ragazza, va lontano.
Licia: (con alterigia) Me l’hai tirata male, Priscilla! Vai a riprenderla!
La schiava obbedisce e prontamente corre a cercarla.
Licia: Dove vai?
Priscilla: A cercare la palla!
Licia: (riflettendo) Priscilla… perchè sei così docile?
Priscilla: Perchè sono una schiava e tu sei la ma piccola… Ma dov’è andata la palla? Ah… l’ho trovata!
Licia: Ridammela.
Priscilla: Eccola (gliela porge)
Licia: Dimmi, Priscilla. Che cosa volevi dire quando hai interrotto il tuo discorso?
Priscilla: Stavo per dire la parola “padrona”, ma sbagliavo.
Licia: Perchè?
Priscilla: Perchè nessuno è padrone in questo mondo.
Licia: Come? Neppure mio padre?
Priscilla: No… proprio padrone, no.
Licia: Neppure l’imperatore?
Priscilla: Neppure.
Licia: Ora chiamerò Svetonio e ti farò fustigare. Vedrai se esistono i padroni! (A voce alta) Svetonio! Svetonio!
Svetonio: piccola padrona, hai chiamato?
Licia: (pentita) Non voglio nulla. Vattene. (Svetonio se ne va)
Priscilla: (avvicinandosi alla ragazza) Ti ringrazio, Licia.
Licia: Sì… Priscilla. Tu sei tanto buona! Ma dimmi: nessuno dunque è padrone nel mondo?
Priscilla: Veramente un padrone c’è!
Licia: E chi è?
Priscilla: Non posso dirlo.
Licia: Dimmelo.
Priscilla: E’ il Padre nostro, che è nei cieli, infinitamente buono.
Licia: Priscilla, io non dirò nulla a nessuno, ma tu parlami di questo dio…
Marco Petreio
Narratore: Nel 52 aC tutte le stirpi galliche, sotto il comando del loro capo Vercingetorige, si ribellarono ai Romani e, presso le mura di Gergovia, in Frangia, sconfissero i legionari di Cesare. In tale occasione rifulse l’eroismo del centurione Marco Petreio.
Lucio Fabio, centurione: Orsù, legionari, rinnoviamo a Gergovia i fasti di Avarico! Ricordate quanta preda facemmo in quella città? Qui una preda ancor maggiore ci attende: alle mura, alle mura! Alzatemi sulle vostre spalle, perchè voglio giunger primo alla cima! Così… forza… ecco! Ed ora a voi? Già i nemici fuggono atterriti!
Sesto Furio, centurione: Non odi le trombe che chiamano a raccolta? Discendi dalle mura, così vuole Cesare!
Lucio Fabio, centurione: Oh, Sesto. Chi ha paura non porti la spada, ma la rocca e il pennecchio! Avanti, miei legionari, avanti! Vedete là Marco Petreio che con i suoi sta ormai calandosi dalle mura nella città? Volete essere a loro secondi? Addosso ai barbari! Addosso!”
Un legionario: Quante teste di meno avranno i Galli tra poco…
Un altro legionario: E noi, quante collane d’oro avremo in più…
Marco Petreio, centurione: Presto, legionari, corriamo ad aprire le porte!
Teutomato, principe gallico (rivolto ai suoi): Ancora una volta fuggiranno, dunque, quelli a cui è affidata la libertà della Gallia? Scacciate il timore e disponetevi alla battaglia! Non vedete che soltanto pochi nemici han varcato le mura?
Narratore: Così si accese una mischia furibonda tra i pochi Romani e la moltitudine crescente dei barbari. Lucio Fabio cadde trafitto in mezzo a molti dei suoi. Marco Petreio, pur gravemente ferito, si slanciò tra i nemici
Marco Petreio, centurione: Lucio Fabio è caduto e tanti altri con lui: salvatevi, legionari! Come potremo noi sostenere lo sforzo di così gran numero di nemici? Io, per desiderio di gloria, vi ho gettati nel pericolo, ed io vi salverò. Giacchè non posso salvare me stesso, procurerò almeno di salvare voi.
Narratore: Da solo Marco Petreio sostenne l’ira nemica, finchè cadde a terra straziato da mille colpi. Poco tempo dopo Cesare piegava per sempre i Galli e il loro capo Vercingetorige doveva seguire in catene il carro trionfale del grande generale romano.
(U. Gaiardi)
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Per strada
Personaggi: Aulo, Licio, il pedagogo di Licio
Aulo: Amico Licio, giochiamo con la moneta?
Licio: Ce l’hai?
Aulo: Guarda. Me l’ha data il liberto Lucano, ieri, quando è venuto a casa mia. (tira fuori una moneta) Ha l’effige del dio Giano. Da un verso c’è la testa del dio, dall’altro una nave. Testa o nave? A te la scelta!
Licio: Nave!
Aulo: Ed io testa. Aspetta: poso in terra le mie tavolette, e poi lancio la moneta. (posa le tavolette e lancia in aria la moneta)
Licio: Ah! E’ venuta la testa per davvero! Ho perso. Tieni. (offre al vincitore il polpaccio della gamba; e questi giù un bel colpo con la mano) Ahi!
Aulo: Ora sta a me scegliere. Scelgo la nave.
Licio: Io, la testa. (Aulo lancia di nuovo la moneta)
Aulo: Ho vinto un’altra volta. E’ venuta la nave. Su, dammi la gamba ancora. (Licio offre di nuovo la gamba; e l’altro, giù un secondo colpo con la mano)
Licio: Hai! Sembri mio padre quando frusta uno schiavo. Però ora, la moneta, la voglio lanciare io!
Aulo: No, la lancio sempre io.
Licio: Perchè?
Aulo: Perchè è mia!
Licio: Questa non è ragione giusta. Il gioco così non va bene. Potresti farmi un inganno.
Aulo: Prova a ripeterlo!
Licio: Sì, lo ripeto: mi puoi ingannare. Cesariano!
Aulo: (con disprezzo) Pompeiano!
(I due ragazzi si avvicinano per misurarsi nella lotta).
Il pegagogo di Aulo: (arrivando) Vergogna, sembrate figlioli di schiavi o di miserabili plebei. Guardate come si sciupano le vostre toghe Se non ti fermi subito, Aulo, sentirai questa sera tuo padre!
Aulo: Per Giove, staccati, Licio! Oggi l’ho già sentito abbastanza, mio padre!
Il lavoro trasforma la terra
Narratore: Nei primi anni della Repubblica, si racconta, viveva in Roma un agricoltore, padrone di un campicello, alle porte della città. I vicini lo invidiavano e, qualche volta, parlavano di lui con malignità.
Primo contadino: Un campicello miracolo, dicono… Ogni anno dà buoni raccolti.
Secondo contadino: Altro che miracoloso, amico mio, qui c’è sotto qualcosa. La pioggia scroscia, le nostre terre si allagano e il campo di Cresino resta all’asciutto…
Primo contadino: Viene la siccità, brucia tutto, e il campo di Cresino è verde e rigoglioso come a marzo
Secondo contadino: E i raccolti? Pianta uno e raccoglie venti. Sempre così, sia grano, orzo o avena.
Primo contadino: E il frutteto non lo conti? Alberi sempre carichi, mele grosse così, bianche e rosse.
Secondo contadino: Qui c’è sotto qualcosa. Arti magiche, te lo dico io!
Primo contadino: Bravo, è quel che ho sempre pensato: il vecchio la faccia di stregone ce l’ha.
Secondo contadino: E quella sua figlia spilungona che sta sempre per i campi… Canta certe nenie, tutto il giorno, china sulla zappa…
Primo contadino: Brutta faccenda. E il peggio è che non si accontentano di far prosperare le loro biade. Io temo…
Secondo contadino: Mi hai tolto la parola di bocca. Quelli hanno messo il malocchio nei nostri campi: ecco perchè, annata dopo annata, le cose vanno di male in peggio.
Primo contadino: E noi ce ne stiamo qui con le mani in mano…
Secondo contadino: Ah, no! Questa storia deve finire, e presto. Se te la senti di venire con me dal giudice trascineremo in tribunale padre e figlia.
Primo contadino: Certo che me la sento. Andiamo.
Narratore: Di lì a qualche giorno Cresino e sua figlia furono chiamati in giudizio dal magistrato, incolpati di arti magiche in danno dei vicini.
Primo contadino: Guarda là, se ne vanno al Foro sul carro trainato dai buoi…
Secondo contadino: Come se andassero alla festa…
Primo contadino: E si portano appresso l’aratro e vanghe e zappe e tridenti.
Secondo contadino: Mah… forse il vecchio è sicuro della condanna e già pensa a sloggiare.
Primo contadino: Staremo a vedere.
Narratore: Quando il magistrato lesse l’accusa, Cresino e la figlia se ne stettero fermi e zitti, senza badare ai commenti della folla di curiosi che gremiva il Foro.
Magistrato: Cresino, ora conosci le accuse: puoi parlare in tua discolpa. Sii breve e preciso.
Cresino: Voi mi accusate di stregoneria, voi dite che il mio campo prospera per le mie arti magiche… Ebbene, non tenterò di difendermi, o Romani, anzi vi svelerò il segreto: ecco qui queste mie forti braccia che mai si stancano, ecco queste mie mani callose che quando afferrano la zappa par che non vogliano più abbandonarla… Ed ecco mia figlia che dall’alba al tramonto mi sta a fianco nei campi; ed ecco i miei buoi, i più forti, i più ben curati dell’Agro Romano… ed ecco i miei strumenti, zappe, vanghe, picche, sempre risplendenti, sempre in moto. Romani, io esercito la magia del lavoro… Orsù, magistrati, riconoscete la mia colpa e punitemi come prescrivono le leggi.
Narratore: Dalla folla si alzò un grido di ammirazione. Il magistrato alzò un braccio, impose il silenzio, poi disse…
Magistrato: Cresino, le tue arti magiche sono le stesse che hanno fatto grande la nostra città: la tenacia, la perseveranza, il lavoro. Noi magistrati di Roma ci uniamo alle lodi che ha tributato il popolo.
Recite per bambini ANTICA ROMA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Antico Egitto dettati ortografici e letture – una raccolta di brevi testi di autori vari per la classe quarta della scuola primaria.
Gli Egizi
L’Egitto è una terra sulla quale la pioggia cade assai raramente. Il deserto di pietra e di sabbia si stende a perdita d’occhio. L’Egitto è percorso da un grande fiume, il Nilo. Esso, una volta all’anno, nel periodo da maggio a ottobre, straripa, inonda il territorio circostante e vi depone una fanghiglia fertile. Quando le acque si sono di nuovo ritirate, il contadino ara i campi, semina e, in meno di quattro mesi, raccoglie grano in abbondanza.
Seimila anni fa, lungo le sponde del fiume benefico, sorse una grande civiltà: quella degli Egizi. Gli Egizi seppero sfruttare il Nilo; regolarono il corso delle sue acque, le incanalarono, edificarono in altro le loro case per proteggerle dagli allagamenti.
Essi formarono una società bene ordinata, guidata da leggi, governata da un re, detto faraone, venerato come un dio.
Gli Egizi erano molto religiosi: adoravano il Sole, la Luna, e molti animali. Essi credevano che ogni uomo avesse un’anima, la quale durava oltre la morte, fino a quando il corpo si fosse conservato; si preoccupavano, perciò, di imbalsamare le salme, di fasciarle e di porle in sarcofaghi riccamente decorati. I corpi così preparati si dicono mummie e sono ancora oggi intatti. Alcuni faraoni si fecero costruire tombe gigantesche, le piramidi, alte più di cento metri, occupate da corridoi, gallerie e sale.
I personaggi più importati dello Stato erano i sacerdoti e i guerrieri; poi c’era il popolo dei contadini, degli artigiani e dei mercanti; ultimi venivano gli schiavi, trattati al pari delle bestie. I sacerdoti amministravano la religione e la giustizia; istruivano il popolo, erano astronomi, scienziati, ingegneri. I guerrieri erano i nobili; seguivano il re e combattevano in gruppi di fanteria con lance, archi, scuri e pugnali.
Gli Egizi scrivevano su una specie di carta ricavata dalla pianta del papiro. Prima usarono una scrittura a disegni detti geroglifici, poi inventarono un vero e proprio alfabeto.
L’Egitto e il Nilo
L’Egitto deve la sua straordinaria fecondità alle periodiche inondazioni del fiume. D’estate, per effetto delle grandi piogge equatoriali cadute nelle zone del suo alto corso, il Nilo si gonfia tanto che l’acqua trabocca dalle rive ed inonda tutto il paese intorno, deponendo sul terreno un limo fecondatore.
In autunno, quando le acque si ritirano, il suolo riemerge meravigliosamente fertilizzato. A novembre si semina e quattro mesi dopo si miete un abbondantissimo raccolto.
Gli antichi abitanti dell’Egitto, colpiti dal meraviglioso fenomeno, non conoscendone le cause, adorarono il fiume come un dio benefico.
Ma quelle acque, abbandonate a se stesse, potevano essere anche rovinose: perciò fin dai tempi più antichi gli Egizi costruirono canali, argini e laghi artificiali, per disciplinarle a proprio vantaggio. Dono dunque del Nilo, ma anche dell’intelligenza e del lavoro umano, l’Egitto.
Le città
Lungo il Nilo gli Egizi costruirono meravigliose città. Le più belle furono Menfi e Tebe. Quest’ultima aveva cento porte di bronzo e magnifici templi dedicati al dio Sole, buono e generoso come il Nilo.
Le credenze religiose
Gli Egiziani più antichi adoravano gli animali, come il falco, l’avvoltoio, il cane, lo scorpione, convinti che in essi si incarnassero e si manifestassero gli dei.
Con particolare devozione essi adoravano Api, un bue tutto nero con una macchia bianca sulla fronte: volevano così esprimere la loro riconoscenza all’animale che aiuta l’uomo nelle fatiche dei campi.
Adoravano inoltre la Luna, che chiamavano Iside, e che pensavano fosse la moglie del Sole, cioè di Osiride.
Un’altra divinità egiziana era Ibis, l’uccello sacro che portava sulle grandi ali le anime dei morti nel regno delle ombre.
Gli Egiziani credevano che, alla morte di ogni uomo, l’anima, dopo un lungo viaggio sulle ali di Ibis, comparisse davanti ai giudici, in mezzo ai quali sedeva il dio Osiride, cioè il Sole che tutto vede. Osiride pesava le anime su una bilancia e ascoltava le loro confessioni. Le anime leggere, cioè senza colpe, volavano negli incantevoli giardini dove il grano era alto sette braccia. Le anime pesanti, cioè quelle cattive, erano subito punite.
Il culto dei morti
Quando qualcuno moriva, gli Egiziani ne imbalsamavano il corpo e lo fasciavano con lunghe e strette bende intrise di sostanze resinose.
Deponevano il morto così fasciato dentro una custodia di legno a forma umana, sulla quale facevano il disegno del volto e del vestito.
Le salme così preparate si chiamavano mummie.
Sono state ritrovate dopo migliaia e migliaia di anni e ora si trovano nei musei.
Nella tomba, accanto alla mummia, venivano posti gli oggetti appartenenti al morto.
Si credeva che esso dovesse fare un lungo viaggio. Perciò insieme con gli oggetti d’uso, si ponevano nelle tombe anche i cibi necessari per via.
Le grandi piramidi
Le più grandi piramidi furono costruite oltre quattro millenni e mezzo fa. Quella di Cheope supera i 145 metri di altezza, ciascuno dei quattro lati è 230 metri. Plinio dice che vi lavorarono 400.000 uomini per venti anni.
A destra di essa sono le minori piramidi di Chefren e di Micerino.
La sfinge
La sfinge è un monumento egiziano che sorge vicino alle piramidi di Giza. Raffigura un dio egizio con testa di donna e corpo di leone. E’ alta 17 metri ed è lunga 38. Questa statua vuole significare la forza e l’intelligenza dei Faraoni, che erano i padroni di tutte le ricchezze egiziane.
Tutankhamon
La tomba di questo famoso faraone, che regnò in Egitto dal 1358 al 1349 aC, fu scoperta nella Valle dei Re nel 1922. Il corpo mummificato del giovane re, giaceva in una bara d’oro. Attorno furono rinvenute suppellettili funerarie, e, come di consueto nelle tombe egizie, gli oggetti che avevano servito il vivo ed altri che l’affetto dei sudditi offriva perchè il faraone potesse abitare nella nuova casa dell’al di là.
La scrittura.
Gli Egiziani sapevano scrivere ma, poichè la carta non era ancora stata scoperta, essi scrivevano sulle pareti dei templi e nelle tombe, o sui fogli del papiro, un arbusto che nasce lungo il Nilo. Per scrivere sulla pietra usavano scalpelli. Per scrivere sul papiro usavano pennellini intinti nel color rosso.
Essi non usavano le lettere dell’alfabeto, come facciamo noi; disegnavano invece moltissime figurine (circa 3000), ciascuna delle quali aveva un significato. Questi disegni si dicono ideogrammi; le iscrizione composte di molti ideogrammi sono dette iscrizioni a caratteri geroglifici.
Ogni figurina aveva un suo significato. Per dire “Il sole è forte” disegnavano un tondo (che significava il sole) e accanto vi disegnavano un leone (che significava la forza).
Per dire “L’uomo è puro”, disegnavano un uomo e accanto un fiore di loto, che nasceva in riva al Nilo e dava l’idea di purezza.
La terra dei vivi
L’egiziano era un popolo semplice e la sua vita era fatta di piccole cose che per gran parte oggi ci sono rimaste conservate nelle tombe. La casa dell’uomo comune era una piccola capanna a un solo locale con una porta – finestra costruita in mattoni cotti al sole. Il tetto era per lo più di paglia.
Nell’interno c’era un focolare e molte stuoie arrotolate che venivano distese per la notte sulla terra battuta del pavimento. Pochi cibi bastavano per vivere: un po’ di pane, di quello duro che ognuno cuoceva nel proprio focolare; cipolle, minestra di ceci. Fichi freschi e fave completavano il pasto quotidiano.
Vita d’oltretomba
Gli Egiziani pensavano che ci fosse una vita anche dopo la morte. Dopo un periodo di permanenza nella cella funeraria, l’anima poteva emigrare in un’altra terra. L’anima, lasciata la tomba, deve volgere le spalle alla vallata, ed inoltrarsi arditamente nel deserto. Lì incontrerà un albero di sicomoro, detto anche “albero – fata”. Dall’albero uscirà una dea, che offrirà all’anima un piatto pieno di pan e un vaso colmo d’acqua. L’anima che accetta questi doni diviene ospite della dea, e non può più ritornare indietro, senza il permesso della dea stessa.
Paesaggi spaventosi si offrono allora all’anima: dove serpenti e ogni sorta di animali feroci si aggirano indisturbati; dove torrenti di acqua bollente scorrono impetuosi, interrotti da paludi dove scimmie gigantesche prendono i “doppi” con le reti. Di fronte a simili pericoli, molte anime non resistono e muoiono; ma quelle che sono fornite di amuleti e di incantesimi proseguono, e arrivano in vista di un gran lago, oltre il quale sono le isole dei beati.
L’uccello sacro, l’ibis, solleva le anime sulle sue ali e le trasporta davanti ad Osiride.
Un tribunale assai strano
In una grande sala sono adunati quarantadue assessori; in mezzo ad essi siede il dio Osiride. L’ibis pesa il cuore delle anime sulla sua bilancia. Da un altro lato, la dea Verità suggerisce alle anime una confessione negativa, che le dichiara innocenti di ogni peccato. Se il tribunale dà parere favorevole, le anime possono entrare nei campi delle fave.
I campi delle fave sono di una fertilità inesauribile: lì la battaglia del grano deve essere stata combattuta con tutte le regole… Pensate che il grano è alto sette braccia, di cui due rappresentano la spiga. I morti coltivano, mietono, ripongono le messi: però, se sono stanchi, c’è chi lavora per loro. Sono i “rispondenti”, cioè certe statuine di smalto che sono state chiuse con loro nella tomba. Si chiamano “rispondenti” proprio perchè rispondono quando il padrone li chiama al lavoro (chi sa a quanti ragazzi farebbe comodo un rispondente quando c’è un compito di grammatica, o un problema difficile…).
Ad eccezione dei lavori dei campi, le anime non fanno altro: o meglio, pensano a divertirsi, con canti, giochi e balli.
Le tre possibilità dell’anima
L’anima che esca dal corpo e dalla tomba alla ricerca di beni ultramondani ha tre possibilità:
1. il soggiorno nei campi di Jaru, dove i defunti ricevono in compenso del loro lavoro il doppio e il triplo di quanto è riservato al coltivatore del paese d’Egitto.
2. il soggiorno nei campi delle offerte, dove ogni sorta di cibi e di vivande è messa a disposizione dei fortunati che riescono a raggiungerlo.
3. il Duat, che il morto deve raggiungere prendendo posto sulla barca del Sole e dove vivono gli dei immortali. (T. Venturi)
L’enigma della scrittura egiziana
Fino a un secolo e mezzo fa la scrittura egiziana rimase indecifrabile; le lunghe iscrizione incise sulle pareti dei templi, delle piramidi, sugli obelischi, e i numerosi papiri erano un mistero.
Nel 1798, durane la spedizione napoleonica in Egitto, un ufficiale francese trovò a Rosetta, sul delta del Nilo, una stele di porfido con un’iscrizione redatta in tre forme di caratteri: egiziano antico, egiziano meno remoto, e greco. Fu quello il punto di partenza. Dal confronto fra i segni greci e i corrispondenti segni egiziani fu possibile desumere il significato di questi. Nel 1822 lo studioso francese Champollion riuscì a sciogliere l’enigma della scrittura egiziana.
Il papiro
L’albero che permise agli uomini di scrivere è il papiro. Il papiro è una grande erba perenne acquatica, con radice sotterranea – strisciante, dura e carnosa. Il fusto esterno, triangolare, si erge diritto da due fino a cinque metri, e termina con chioma a ombrello: una specie di piumino.
Il papiro prosperava già anticamente nell’Egitto, lungo il Nilo, e in Asia sulle rive dell’Eufrate. Secondo lo scrittore Cassiodoro che lasciò parecchi libri di storia, filosofia e scienza, le rive del Nilo si potevano allora scambiare per “un’immensa foresta senza rami, una boscaglia senza foglie”.
Oggi il papiro si trova con maggiore facilità e diffusione, ma è meno cercato. Lo si trova in Palestina, in Africa, a Malta; ed anche in Sicilia, presso Siracusa, sulle rive dell’Anapo, dove lo trapiantarono gli Arabi.
Gli antichi trassero dalla corteggia del papiro un foglio largo, lungo e sottile, molto pieghevole, su cui poterono scrivere: il suo altro fusto, tagliato in sottili listarelle avvicinate le une alle altre nei due sensi verticale e orizzontale, come si farebbe per i fili di una stoffa, forniva una carta di un colore gialliccio che assomiglia alla buccia delle cipolle. (G. Bitelli).
La prima lettera
Quando gli altri popoli della terra andavano ancora a caccia con la mazza e abitavano nelle caverne, gli Egiziani costruivano le piramidi e irrigavano i terreni.
Fu così che un bel giorno un egiziano, ancora più intelligente degli altri, ebbe un’idea. Doveva mandare a dire una cosa ad un suo amico che abitava nel paese vicino. C’era appunto un tale che doveva recarvisi e l’egiziano pensò di approfittare dell’occasione. Ma se poi quello, strada facendo, si fosse dimenticato il messaggio?
L’egiziano intelligente ebbe allora un’idea: prese un bel foglio di papiro, che era una pianta che cresceva sulle sponde del Nilo, appuntì un ramoscello e si mise a fare dei disegnini sulla scorza molle.
Voleva dire “casa”? E disegnava una casa, o magari solo il tetto, o un rettangolo, qualche cosa insomma che somigliasse a una casa.
Voleva dire “bue”? Ed ecco un bel paio di corna, e l’amico doveva proprio essere tardo se non capiva che quello voleva dire bue.
La “luna” poi era presto fatta, e così il “sole”.
Quando l’egiziano ebbe finito, guardò compiaciuto i suoi disegnini, fece un rotolo del suo papiro e lo consegnò al messaggero con mille raccomandazioni e tanti saluti per l’amico.
Questi, magari, ricevendo il plico non ci avrà capito niente ed avrà pensato che l’altro aveva del tempo da perdere; invece, altro che tempo da perdere!
In quel preciso momento in cui l’egiziano intelligente tracciava i suoi disegnini sopra un pezzo di scorza di papiro, era nata nientemeno che la scrittura e nello stesso tempo, la prima lettera. (M. Menicucci)
Il passaggio del Faraone
Neris, ragazzo egiziano di quattromila anni fa, viveva in un villaggio di povere case di fango presso il delta del Nilo. Era il maggiore di diversi fratellini e sorelline. Un proverbio dell’antico Egitto diceva: “Famiglia numerosa, grazia degli dei”.
Tutte le mattine la mamma, dopo essere stata al fiume per l’acqua, e aver preparato qualche focaccia di grano tritato, affidava le bestie ai figli: ai maschietti gli asini ed i buoi, alle bimbe le oche. Solo Neris andava col babbo, che si recava sulle sponde del Nilo a tagliare i fusti di papiro.
Ogni tanto un mercante, giunto da lontano, caricava sul suo barcone i fusti e li portava via. Neris sapeva che sarebbero serviti per fabbricare fogli su cui certi uomini sapienti avrebbero scritto. Il mercante gli aveva anche detto che la loro scrittura somigliava ai disegnini che i ragazzi facevano talvolta con uno stecco nel fango del Nilo. Quei sapienti si chiamavano scribi e il mercante soleva ripetere: – Beati loro! Gli scribi possono diventare generali, governatori, architetti, sacerdoti…-
– Ma tu, o mercante – gli chiedeva Neris, – li hai visti questi personaggi importanti? –
– Sicuro! Li vedo sempre quando vado a Tebe, la città capitale. A Tebe ho veduto più volte anche il Faraone…-
– Davvero? E com’è? –
– Il suo passaggio è meraviglioso. Egli passa alto e rigido sul cocchio, preceduto dai Grandi Sacerdoti vestiti di porpora. Indossa abiti dorati, ha i capelli lunghi e arricciati, ma il viso tutto rasato. Le sue ciglia sono dipinte di verde, le unghie dei piedi e delle mani di rosso. In testa ha una corona sormontata da un serpente d’oro e di smalto con testa d’avorio. E’ un simbolo. Vuol dire che il Faraone ha il diritto di vita e di morte sui cittadini. Il Faraone è il figlio del Sole, un dio! –
Neris, con entusiasmo, esclamò: – Beato te, che hai veduto il Faraone! –
Allora il mercante, godendo di quella infantile sincerità, chiese al babbo di Neris di poter condurre il ragazzo a Tebe. Il babbo restò un poco incerto. Poi acconsentì.
Pochi giorni dopo, Neris saliva sul barcone del mercante. Il babbo, dopo avergli dato l’addio alzò le mani in alto e pregò il Nilo: – Salute a te che esci dalla terra e arrivi per dar vita all’Egitto! Tu che nascondi la tua origine nelle tenebre, tu, che quando straripi fai urlare la terra di gioia, tu che fai da specchio al dio Ra, il Sole, e alla dea Iside, la Luna, accompagna dolcemente il mio figliolo, che va a riverire il figlio del Sole! –
E il viaggio di Neris fu felice. Il ragazzo osservò lungo il Nilo i palazzi dell’antichissima Menfi, vide le belle navi a vela per le cerimonie religiose e quelle che trasportavano le mummie, ammirò la sfinge e le colossali piramidi. Giunto a Tebe, la città dalle cento porte di bronzo, restò meravigliato dei palazzi e dei templi maestosi. Mentre si trovava vicino al tempio di Ammone, una squadra di arcieri a cavallo annunciò il passaggio del Faraone. Il popolo si ritirò tutto da una parte della piazza in religiosa attesa.
Il cuore di Neris battè. Finalmente avrebbe goduto anche lui la vista del figlio del Sole! Ma ecco giungere altri soldati, che gridarono: – Il radioso Faraone oggi non permette lo sguardo del popolo! Giù tutti, col capo chino! Guai a chi solleverà lo sguardo! –
Il popolo si inchinò e piegò il capo. Anche Neris dovette fare altrettanto; anzi il mercante per essere sicuro del ragazzo, gli tenne una mano sul capo. Sapeva bene come fosse pericolosa una disobbedienza al figlio del Sole!
Così passò il corteo reale e il povero ragazzo non vide nulla.
– Non ti dispiacere – gli disse dopo il buon mercante, – se non hai visto il Faraone. Del resto, anch’io non l’ho mai osservato bene! Ed è giusto che sia così, perchè il Faraone è un dio. –
Ma durante il viaggio di ritorno Neris si disperò e pianse. E solo la promessa di un nuovo viaggio che il mercante gli fece, valse a consolarlo un po’. (R. Botticelli)
La famiglia egiziana – Una breve recitina
La comune famiglia dell’antico Egitto viveva poveramente in case di fango. La mattina, mentre l’uomo usciva al lavoro agricolo, la donna accudiva alle faccende e mandava le bestie al pascolo, affidandole ai bambini.
Personaggi: la madre e quattro bambini: Koti, Kamcis, Rames e Neris.
Madre: Figlioli, quando vi vedo attorno a me, sapete a cosa penso?
tutti e quattro i figli: A che cosa, mamma?
madre: al proverbio “famiglia numerosa, grazia degli dei” !
Koti: Bene! Possiamo andare?
madre: Ah no! Tu, Koti, che sei il più grande, porterai gli asini ed i buoi all’abbeveratoio; tu Kamcis accompagnerai le oche; ma non fare a cavalluccio con quelle povere bestie, capito?; tu, Rames, cercherai sterco di animali per fare il combustibile; e infine tu, piccolo Neris, andrai in cerca di foglie secche e fuscelli
Rames: io lo sterco non lo voglio raccogliere oggi. Perchè sempre io?
madre: e va bene. Ci penserà Kamcis, e tu Rames condurrai le oche…
Koti: le oche a Rames? Non è buono, madre! Gli scapperanno come farfalle!
madre: insomma, mettetevi d’accordo. Tutti dovete lavorare. Non siete figli di uno scriba. Vostro padre lavora la terra che Api rende fertile e io ho tante cose da fare. Chi prepara, ad esempio, il pane che trovate a casa?
tutti: Tu, mamma!
madre: andate, dunque. Gli dei vi proteggano. Se vi metterete d’accordo, dirò a vostro padre che vi racconti come fu che a Tebe vide il Faraone.
(in costruzione…)
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Storia di Roma – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici sull’antica Roma, dalla fondazione a tutto il periodo regio, di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.
Nasce Roma
Secondo gli studiosi, verso la metà dell’ottavo secolo a.C. quando la potenza etrusca si estendeva dalle Alpi fin presso il Tevere, sorse nel cuore dell’Italia un umile villaggio di Latini, destinato a diventare il dominatore del mondo: Roma.
I Latini si erano stabiliti nella vasta pianura ondulata che è tra il basso Tevere, i colli Albani ed il mare. Il nome Lazio, dato alla regione, significa “luogo largo ed aperto”.
Il suolo era adatto alla pastorizia ed all’agricoltura ed infatti i Latini furono pastori ed agricoltori. Vivevano in capanne sparse per la campagna o si raggruppavano in villaggi detti vici ed oppida, che servivano da rifugio anche alla popolazione sparsa per la campagna, quando vi fosse qualche pericolo.
I villaggi erano fondati sulle alture sia per ragioni di sicurezza, sia per igiene: infatti i popoli delle vicine montagne (Sabini, Marsi), facevano frequenti scorrerie nella pianura per saccheggiare i raccolti, e le acque dei fiumi, impaludando, provocavano la malaria.
Il villaggio sul colle Palatino fu il primo nucleo di Roma, la Roma quadrata. Coi Latini del Palatino si fusero ben presto i Sabini del Quirinale.
Questo gli studiosi hanno potuto sicuramente stabilire attraverso i ritrovamenti archeologici e l’interpretazione di essi, liberando il vero dalle molte leggende che avvolgono le origini di Roma.
Secondo la leggenda
Quando i Romani furono i signori del mondo, vollero nobilitare le loro origini ed elaborarono una vasta leggenda che li diceva discendenti dall’eroe troiano Enea, figlio di Venere, scampato dalla distruzione della sua patria. Narra il mito che Enea, sbarcato dopo lunga navigazione nel Lazio, ebbe ospitalità ed amicizia dal re del luogo, Latino, che gli diede in sposa la figlia Lavinia, in onore della quale Enea fondò la città di Lavinio. Suo figlio Ascanio o Julo fondò Albalonga, e tra i suoi discendenti fu Romolo, il mitico fondatore di Roma.
Dopo una lunga serie di re albani discendenti da Enea, il trono passò a Proca, che ebbe due figli: Numitore e Amulio. Quest’ultimo spodestò il fratello e costrinse la figlia di lui, Rea Silvia, a farsi sacerdotessa di Vesta, per impedire ogni pericolo di restaurazione da parte dei suoi discendenti. Le vestali non potevano sposarsi, nè avere figli sotto pena di essere sepolte vive.
Ma Rea Silvia ebbe dal dio Marte due gemelli e Amulio li fece esporre in una cesta, sulla riva del Tevere, ai piedi del Palatino. Una lupa, prodigiosamente, li nutrì del suo latte; un pastore di nome Faustolo li raccolse e li allevò, chiamandoli Romolo e Remo. Divenuti forti ed animosi giovani, i due fratelli vollero fondare una città presso il luogo dove erano stati raccolti.
Il rito della fondazione di una nuova città, che i Latini avevano appreso dagli Etruschi, consisteva nel tracciare anzitutto, col vomere, un solco di forma quadrata, che ne era il perimetro. Per stabilire chi dei due dovesse tracciarlo ed essere re, i due fratelli consultarono il volere degli dei, cioè presero gli auspici.
Remo dal colle Aventino vide sei avvoltoi, Romolo dall’alto del Palatino ne scorse dodici. Gli dei avevano favorito Romolo. Egli, aggiogati un bianco vitello e una vacca bianca, tracciò sul Palatino il solco quadrato, lungo il quale dovevano essere erette le mura, sollevando il vomere alla metà di ogni lato, per le porte. Il solco era sacro e nessuno poteva violarlo. Remo, deluso, per scherno lo saltò, e Romolo, accecato dall’ira, lo uccise.
Così rimase re della città e le impose il proprio nome: Roma. Secondo la tradizione la fondazione avvenne il 21 aprile del 753 aC. Da quel giorno i Romani computarono il tempo ab urbe condita e, a ricordo dell’avvenimento ogni anno, il 21 aprile celebrarono delle feste campestri.
La Roma quadrata fu un piccolo villaggio di pastori e di agricoltori, non diverso dagli altri che già sorgevano nel Lazio. I suoi abitanti si vestivano di pelli, perchè scarsa era ancora la lana, abitavano in capanne di forma circolare a tetto spiovente, coperte di canne, con le pareti fatte di legname dei vicini boschi e rinforzate da pezzi di tufo.
21 aprile: Natale di Roma
In un lontano giorno di primavera, nell’anno 753 aC, due giovani fratelli, Romolo e Remo, tracciarono un solco con l’aratro sulla sinistra del Tevere, e segnarono il posto dove volevano fondare una città. Era il 21 aprile, e la città che sorse in quel solco fu Roma. Roma diventò grande e potente, conquistò tutti i Paesi intorno al Mediterraneo e fu la capitale di un vasto impero, a cui diede le sue leggi e la sua civiltà. Dopo la caduta dell’Impero romano, Roma, divenuta la sede del papato, fu il centro del mondo cristiano e cattolico. Roma è la capitale d’Italia.
Nascita di Roma
Qualche colle selvaggio. Una conca di valle, acquitrinosa. Un mattino d’aprile. Pochi, rudi uomini (pastori? guerrieri?) intorno a un rude capo, sulla sommità di un colle. Un volo augurale passa nel cielo. Il capo ha aggiogato all’aratro un bue e una giovenca: guida con mano ferma e il vomere traccia un solco quadrato. Guai a chi, nemico, varcherà quel solco! Roma.
Roma antica
Augusti quartieri di capanne di fango; ecco che cos’era la Roma di allora. Ogni abituro era coperto con tetto di paglia e destinato ad una sola famiglia. Il tetto faceva da granaio. Il fumo del focolare usciva dalla porta. La casa era circondata da stalle, il bestiame correva per le vie. Nell’inverno il romano primitivo abitava sul Palatino e sul Quirinale, e nell’estate scendeva giù al piano per attendere ai lavori del campo. Anche il cittadino più ragguardevole si metteva dietro l’aratro. Vie non lastricate, ripide scale conducevano alla città da colle a colle. (T. Birth)
Roma
Sulla collina più vicina al guado del fiume, alcuni Latini costruirono le loro capanne. Il posto era comodo per commerciare. Infatti tutti i Latini che volevano commerciare con gli Etruschi dovevano passare da quel guado.
Quel colle si chiamava Palatino; il villaggio costruito sul colle fu chiamato Roma, che, a quel che sembra, vuol dire “città del fiume”.
Roma era una città per modo di dire Era un villaggio di capanne rotonde, col tetto aperto nel mezzo per fare uscire il fumo del focolare. Tutto intorno al villaggio c’era un muro di grosse pietre. Nel muro c’era una porta che si apriva sul viottolo che portava verso la pianura e il fiume. Di qui passavano i mercanti che andavano a commerciare, i contadini che andavano nel loro campo, i pastori che portavano le pecore e le mucche al pascolo. La mattina, appena era sorto il sole, tutta la città risuonava dei muggiti del bestiame che andava al pascolo. Per questo la porta era chiamata Mugonia.
I Latini
Tra le popolazioni italiche, una delle più importanti era quella dei Latini. Essi occupavano i colli e le pianure del Lazio ed erano circondati da altre popolazioni: i Sabini, assai vicini, i Campani, i Sanniti, i Marsi. A nord, appena varcato il Tevere, cominciava il territorio degli Etruschi.
Un giorno un gruppo di pastori latini si portò su un colle che sorgeva in vista delle rive del Tevere e vi fondò un villaggio.
La località era propizia al pascolo e alla difesa. Poichè la dea di questi pastori si chiamava Pale, intitolarono ad essa il colle, che si chiamò, perciò, Palatino.
Il Palatino era di difficile accesso e quindi si prestava ad essere ben difeso dai nemici; altra difesa naturale era il Tevere, il quale, inoltre, con le sue frequenti inondazioni, rendeva fertili i campi circostanti e serviva molto bene come mezzo di comunicazione per i trasporti.
Anche il mare non era troppo lontano e permetteva il commercio con l’Etruria, con la Grecia, con la Fenicia. V’era, infine, abbondanza di acqua potabile e i terreni, parte in pianura, parte in collina, si prestavano a ogni sorta di coltivazioni. (F. Palazzi)
Romolo e Remo
Non lontano dalle rive del Tevere, in una povera capanna, abitavano Faustolo, un vecchio pastore, e sua moglie Laurenzia.
Una sera Faustolo sedeva stanco sulla porta della capanna. Il sole era tramontato lontano nel mare, verso la foce del fiume Tevere, ed il silenzio era grande.
Nell’interno dell’umile capanna, Laurenzia, la buona moglie di Faustolo, preparava lo scarso cibo serale.
All’improvviso, dal bosco, si intese un fruscio, e laggiù, verso il fiume un’ombra scura scivolò alla riva…
“Sarà bene andare a vedere” , mormorò Faustolo fra sè. Disse alla moglie di aspettarlo ed avanzò cauto verso la riva del Tevere. Era tutto un pantano. Per le piogge recenti, il fiume aveva allagato i campi ed il terreno era cosparso di larghe pozze di acqua. In una di quelle pozze, ai piedi di un albero, Faustolo vide una lupa enorme, col dorso appoggiato al tronco della pianta. Era sdraiata e due bambini si nutrivano del suo latte.
Credeva di sognare. Si ritirò piano piano, rifece la strada percorsa e tornò alla capanna. Giunto sulla soglia gridò: “Laurenzia, ho visto una lupa che allatta due gemelli…”
“Saranno lupacchiotti”, rispose tranquillamente la donna.
“Ma no, ma no: due bambini, ti dico. Vieni, vieni subito a vedere!”
E prima che ella potesse rifiutarsi, l’afferrò per un braccio e la trascinò verso il fiume. Poco dopo, i due trovatelli riposavano al caldo, nella capanna di Faustolo. Laurenzia aveva acceso un gran fuoco e si affannava intorno alla culla sorridendo fra le lacrime: “Gli dei”, mormorava “ne fanno delle belle: mi mandano due bambini adesso che sono vecchia e stanca! Ma non temete, poveri piccoli, Laurenzia è vecchia, ma la nonna ve la saprà fare”.
I trovatelli crebbero presto. In pochi anni, furono due ragazzi grandi e forti, un po’ selvaggi, ma buoni. Faustolo li aveva chiamati Romolo e Remo; ed essi lo rispettavano come un padre. Correvano a perdifiato il monte e il piano, come due puledri. Tornavano, a sera, stanchi e felici, per ricominciare il giorno dopo. E ogni giorno si spingevano più lontano, in cerca di nuove avventure… (G. Brigante Colonna)
La fondazione di Roma
Cominciò la cerimonia. Le vestali, tutte candide, portarono nei vasi sacri il fuoco, e lo deposero sugli altari. Aggiunsero piccoli pezzi di legna secca, arida, e svilupparono la fiamma: poi i sacerdoti giovani scannarono le vittime per i sacrifici; e i vecchi ne esaminarono le viscere per dare responsi.
“Gli dei accettano i sacrifici!”
“Proteggeranno la città nuova!”
“La renderanno grande e forte!”
“Vogliamo che si chiami Roma!”
“Roma durerà in eterno!”
“A Roma verranno le genti di ogni parte d’Italia e del mondo!”
Così dissero i sacerdoti esaminando le viscere delle vittime mentre i fuochi scoppiettavano sugli altari. Da quel popolo radunato si alzò allora un altissimo grido: “Roma, Roma, Roma! Viva Roma, ora e sempre!”
Due uomini portarono al principe Romolo un aratro grande, di bronzo, trascinato da un toro bianco e da una vacca bianca. E il principe lo guidò nel solco, cantando preghiere, seguito dai compagni silenziosi. (L. Orvieto)
I patrizi, i plebei, gli schiavi
Le famiglie dei primi abitatori dei colli, che avevano occupato il territorio, erano raggruppate in “genti”. La gente era l’insieme delle famiglie che discendevano dallo stesso antenato, legate fra loro oltre che da vincoli di sangue e d’affetto, anche dal culto dei propri dèi gentili. Tutti i componenti la gente portavano lo stesso nome gentilizio, avevano gli stessi altari familiari, la tomba e la proprietà fondiaria in comune. Essi si chiamavano patrizi, ossia discendenti da un medesimo pater. La plebe era una moltitudine varia e sempre più numerosa, formata dagli abitanti delle città vinte costretti a stabilirsi in Roma, da commercianti ed artigiani venuti ad esercitare la loro attività, da clienti di cui si erano estinti i patroni. Erano liberi della propria persona, ma esclusi dalla vita politica e dalle cerimonie religiose (perchè religione e stato formavano una cosa sola), nè potevano contrarre matrimonio con i patrizi.
Il governo di Romolo
Romolo fu dunque il primo re e i primi abitanti furono i compagni di lui, umili pastori, che lo avevano seguito da Alba. Per popolare la città, Romolo la offerse come asilo a schiavi fuggiaschi e a liberi perseguitati. Vi affluì una turba di uomini di infima condizione, banditi, avventurieri. Mancavano le donne e non era facile, per tale gente, ottenerle pacificamente dai popoli vicini. Allora Romolo ricorse allo stratagemma del ratto delle Sabine.
Invitò i popoli vicini ad una grande festa, e quelli accorsero numerosi, specialmente i Sabini. Ma a metà della festa, a un segnale convenuto, molti Romani armati si gettarono sulle donne e le rapirono.
Da ciò nacque una guerra fra i due popoli. I Sabini superarono le difese, erette da Romolo sul Campidoglio, per il tradimento di una giovane romana, Tarpea, figlia del guardiano della rocca, che fu dallo stesso nemico gettata da una rupe (Rupe Tarpea). Di là furono, in seguito, gettati i traditori della patria.
Ma le donne sabine si interposero poi fra Romani e Sabini e la pace fu fatta. Romani e Sabini formarono un popolo solo e Romolo regnò su tutti. Egli organizzò il primo esercito e si circondò d’un consiglio, il Senato, composto di uomini anziani e saggi, detti senatori.
Dopo trentotto anni di regno (753-715 aC) Romolo scomparve misteriosamente durante un uragano, mentre passava in rivista l’esercito. Si disse che era stato assunto in cielo da suo padre, Marte, e più tardi venne onorato come dio col nome di Quirinio.
Numa Pompilio
Dopo la morte di Romolo fu eletto re il sabino Numa Pompilio, uomo pacifico e pio. Egli fece innalzare un tempio alla dea Vesta ed uno a Giano, dio della pace e della guerra, e pose a capo della religione un pontefice massimo.
Tullo Ostilio
Alla morte di Numa divenne re Tullo Ostilio. Era un re guerriero e tosto venne a battaglia con gli Albani, che abitavano sui colli vicini ed avevano come capitale Albalonga. Per evitare troppi lutti e rovine, ci si accordò perchè tutto fosse deciso dallo scontro di tre soldati romani e di tre soldati albani. Scesero in campo tre fratelli romani, gli Orazi, e tre fratelli albani, i Curiazi. In breve due Orazi furono colpiti a morte; il terzo si diede alla fuga, incalzato dagli avversari. All’improvviso si fermò, si volse e uccise l’inseguitore più vicino, e così fece con il secondo, poi con l’ultimo. La vittoria toccò a Roma che si impadronì di Albalonga ed estese maggiormente il suo territorio.
Anco Marzio
Tullio Ostilio fu ucciso e fu creato re Anco Marzio, nipote di Numa e, come il nonno, uomo pacifico. Egli fece costruire un ponte, detto Sublicio (ponte di travi) sul Tevere e un porto sulla marina di Ostia.
Tarquinio Prisco
Alla reggia di Anco Marzio era giunto un nobile forestiero, Tarquinio Prisco. Egli apparteneva al vicino e civilissimo popolo degli Etruschi. Tarquinio s’era conquistata la stima del re romano e ne era diventato il consigliere e l’amico. Alla morte di Anco, Tarquinio ne divenne il successore. Il nuovo re portò tra i Romani le abitudini raffinate degli Etruschi. In Roma furono costruiti nuovi templi, fu tracciata una grande piazza, il Foro, per il mercato e le riunioni pubbliche. La città ebbe, con la cloaca massima, il primo impianto di fognature.
Servio Tullio
Il figlio di Tarquinio, Servio Tullio, ebbe in eredità dal padre una città ricca e potente. Seppe ordinarla ed organizzarla così bene, che i sudditi lo chiamarono “secondo fondatore di Roma”. La città si estendeva ormai su sette colli e Servio Tullio la circondò di mura robuste. Egli divise il popolo in classi e centurie e stabilì che i cittadini pagassero tasse secondo la loro ricchezza.
Lucio Tarquinio
Servio Tullio fu assassinato per iniziativa di Lucio Tarquinio, il quale diventò re. Subito, si dimostrò ingiusto e violento a tal segno che il popolo insorse e cacciò il tiranno. Lucio Tarquinio, detto il Superbo, si rifugiò presso gli amici Etruschi a preparare la rivincita.
Roma al tempo dei re
Al tempo dei re, la città di Roma non era certo bella come Atene. Essa era una città di capanne rotonde col tetto aperto nel centro perchè il fumo del focolare potesse uscire.
I suoi abitanti vivevano poveramente, ma amavano molto la terra che avevano scelto come loro dimora.
Assai più belle invece erano le case degli dei, cioè i templi.
Accanto al re, c’era il Senato, cioè un’assemblea di uomini saggi che lo aiutavano a dettare le leggi e lo consigliavano se doveva fare guerra o stringere amicizia con i popoli vicini.
La religione romana
I Romani adoravano press’a poco gli stessi déi dei Greci: Giove, Giunone, Minerva, Apollo, Diana, Nettuno, ma specialmente Marte, il dio della guerra e Vesta, la dea del fuoco sacro e protettrice della città.
Le sacerdotesse di Vesta, chiamate Vestali, avevano speciali onori, un posto riservato in tutti gli spettacoli pubblici, e il privilegio di graziare il condannato a morte che le incontrasse per strada, mentre lo conducevano al patibolo.
Un dio tutto romano e solamente romano era Giano, il dio delle porte. Il suo tempio restava sempre chiuso in tempo di pace; si apriva soltanto quando il paese era in guerra.
Accanto a queste divinità che erano adorate da tutto il popolo, ogni famiglia aveva i suoi dei particolari, protettori del focolare domestico, i Lari e i Penati. E questi erano adorati soltanto dai membri della famiglia.
A tutti questi dei venivano offerti sacrifici: si uccideva cioè sull’altare, in loro onore, qualche animale, scelto specialmente tra i tori, le pecore, i maiali. Agli dei si offrivano anche le primizie agricole e i profumi.
Tra i vari sacerdoti, avevano una speciale importanza gli Auguri, i quali, dal volo degli uccelli e da altri segni celesti, pretendevano interpretare la volontà degli dei e prevedere perfino il futuro.
I Romani erano molto religiosi. Non intraprendevano alcuna azione importante senza prima aver fatto un sacrificio agli dei e interrogato gli Auguri. La religione dei Romani era assai più austera di quella greca.
Un sacrificio agli dei
Una processione di uomini dall’aspetto grave e solenne avanza lentamente. Che è mai? Se guardiamo bene, vediamo le colonne di alcuni templi e un’ara, cioè un altare verso il quale quei personaggi si dirigono.
Essi stanno offrendo un sacrificio agli dei. In loro onore si offrono di solito frutti, si bruciano nei tripodi i profumi, si immolano animali. Questo è un sacrificio solenne e verranno uccisi un maiale, una pecora e un toro.
Tra poco il sacerdote sacrificatore salirà il gradino dell’ara e la toccherà con la mano per invocare l’aiuto della divinità a cui si sacrifica.
Poi metterà un poco di farina cotta e di sale sul capo dell’animale, vi verserà del vino e infine lo ucciderà. Il sangue della vittima verrà raccolto in grandi vasi chiamati patere.
Sull’ara arde il fuoco che brucerà le carni dei tre animali. I sacerdoti ne osserveranno bene le viscere, guarderanno come si agitano le fiamme e come si alza il fumo dell’incenso per capire ciò che gli dei vogliono.
Il territorio su cui sorse Roma
L’aspetto di Roma, al tempo in cui sorse sul Palatino, era ben diverso da quello di oggi. Regnava allora una squallida solitudine intorno a quei colli selvaggi rivestiti di querce, di faggi, di lauri e incisi da valli poderose, solcate da fiumi la cui piena riempiva di acquitrini e di paludi tutta la zona.
Qui vivevano genti primitive, fiere e rozze, che erano tutte dedite all’agricoltura ed alla pastorizia. Era logico che i Latini si stabilissero sui colli. Essi erano un ottimo presidio per resistere agli assalti dei nemici interni e di quelli che si fossero avventurati a risalire il Tevere. Attraverso il fiume poi si potevano allacciare relazioni con i navigatori greci ed etruschi. Il Tevere era anche una via naturale per il commercio del sale, che divenne in breve importantissimo.
Roma. infatti, dovette al sale la sua prima ricchezza ed al sale dedicò un’arteria importante: la via Salaria.
Perciò i Latini non trascurarono neppure la pianura sia per rendere più facile la navigazione del fiume, sia per poterla coltivare. Si misero a bonificare il terreno paludoso, a prosciugare le valli, a regolare il corso del Tevere.
Fondazione di una città
Il rito che i Latini compivano per la fondazione di una città non era molto semplice e sembra che essi lo abbiano appreso dagli Etruschi. Con molta probabilità Roma fu fondata secondo quel rito.
Ecco: un gruppo di pastori e di contadini è giunto sul colle dove dovrà sorgere la nuova città. Viene acceso un fuoco di sterpi e ciascuno di essi salta attraverso la fiamma per purificarsi da ogni peccato.
Quello che sarà il fondatore della città scava una fossa profonda e ciascuno dei presenti vi getta un po’ di terra dei villaggi da cui proviene. Ora il fondatore indossa le vesti sacerdotali; aggioga un toro e una mucca all’aratro ed egli stesso lo guida per tracciare il solco. Lungo quel solco saranno tracciate le mura della città; dove si apriranno le porte, il fondatore solleva l’aratro e interrompe per un breve tratto il solco. Il recinto tracciato è sacro: nè gli stranieri nè i cittadini hanno il permesso di oltrepassarlo senza il permesso del fondatore. Saltare al di là del piccolo solco è un atto empio che viene punito con la morte.
La tradizione sull’età regia (753-510 aC)
Roma ebbe per lungo tempo un governo monarchico: la tradizione ci ha conservato i nomi di sette re, ma probabilmente furono di più: Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo.
I primi quattro furono alternativamente latini e sabini, gli ultimi tre etruschi: i latini furono guerrieri, i sabini pacifici, gli etruschi costruttori e organizzatori.
Evidentemente gli Etruschi, stabiliti anche nella Campania, si impadronirono un certo momento di Roma, testa di ponte sul Tevere, importante per le comunicazioni terrestri tra l’Etruria ed i nuovi acquisti campani. Ai primi due elementi etnici, Latini e Sabini, se ne aggiunse così un terzo: l’etrusco.
Le notizie tramandate di questo primo periodo sono in gran parte leggendarie. I Latini fra l’VIII e il VI secolo non conoscevano ancora la scrittura o la usavano pochissimo: i fatti affidati al puro racconto orale, passando di generazione in generazione, furono in parte dimenticati, travisati e abbelliti dall’orgoglio civile di quel popolo così fervidamente partecipe della storia della sua città, che volle illuminata di gloria anche nelle ore della sconfitta.
Tuttavia, attraverso i ritrovamenti archeologici e la critica della tradizione, i caratteri complessivi dell’età regia sono sufficientemente netti.
Il re mite
Numa fu, fra i Re di Roma, il più mite e saggio. Si racconta che una volta chiese a Giove che cosa dovesse fare per scongiurare il pericolo del fiume. Dal folto del bosco uscì una voce che disse: “Taglia un capo!”. Numa ne fu inorridito, ma bisognava che obbedisse. Pensò un poco, poi si fece portare il capo d’aglio. Prese la spada e lo tagliò. Così aveva obbedito a Giove e non aveva fatto male a nessuno!
Romolo Quirino
Stava Romolo parlando ai soldati che passava in rassegna, quando un temporale, sorto all’improvviso con gran rumore di tuoni, lo circondò di una nuvola così densa da toglierlo alla vista dei soldati. La gioventù romana, quando, cessata la paura e tornato il cielo sereno, vide vuoto il trono, prestò fede ai senatori, che erano stati più vicini al re, i quali affermavano che la violenza del temporale lo aveva portato in alto, e quasi sbigottita stesse per qualche tempo in doloroso silenzio. Quindi decretarono che Romolo, dio nato da un dio, dovesse venire onorato come Re e padre della città di Roma, e gli rivolsero preghiere affinchè concedesse pace alla sua stirpe.
Un tale di nome Giulio Proculo, vedendo il popolo agitato per la scomparsa del Re lo rianimò dicendo: “O Quiriti, stamane all’alba, sceso improvvisamente dall’alto, mi venne incontro, e mentre io lo guardavo pieno di terrore e di venerazione: -Va’-, mi disse – e annuncia ai Romani che gli dei vogliono che la mia Roma sia capo del mondo; perciò curino l’arte militare, e sappiano e tramandino ai posteri che nessuna forza umana potrà resistere alle armi di Roma-. Ciò detto, l’apparizione si innalzò in cielo”. (Tito Livio)
Monelli dell’antica Roma
– Ave, maestro -, con questo saluto i ragazzi entrarono nella scuola, una povera stanza presa in affitto dal maestro. Questo sedeva su una sedia con spalliera, che si chiamava cattedra.
– Salve, miei discepoli – rispose il maestro. – Minerva vi protegga. Sedete e aspettate in silenzio -.
Non c’erano i banchi. I ragazzi sedettero, alcuni su una piccola panca, altri su sgabelli, tenendo sulle ginocchia la loro tavoletta di legno spalmata di cera e l’occorrente per scrivere.
– Vediamo -, riprese il maestro – ci siete tutti? Aulo, Marzio, Gaio, Licio, Tullio, Terenzio… Bene, prendete ora il vostro sacchettino dei calcoli e venga qui, vicino a me, il piccolo Aulo –
Aulo, tenendo in mano il suo sacchettino, si avvicinò al maestro, che gli disse: – Tira su dieci calcoli –
Aulo introdusse la mano nel sacchetto, ma la tirò subito indietro, tutta sporca.
– Che hai lì dentro? – strillò il maestro, – Fammi vedere! – . Frugò nel sacchettino di Aulo. – Frutta fradicia! – esclamò sbalordito, tirando fuori un pugno di susine andate a male.
Una gran risata accolse quel gesto.
Aulo, balbettando, provò a scusarsi, dicendo che un compagno doveva certo avergli combinato un brutto scherzo, ma il maestro non intese regioni.
Era stato l’amico Terenzio a fare ad Aulo il brutto scherzo. E non era il primo che combinava!
Una volta gli aveva forato con un punteruolo la tavoletta cerata; una seconda volta gli aveva nascosto lo stilo, e una terza volta, oh che brutta idea! Gli aveva bagnato il libro di papiro, facendo sbiadire una buona parte delle lettere. Aulo aveva provato a protestare, ma neppure gli altri compagni lo avevano spalleggiato, perchè dicevano: “Si tratta di scherzi. Non devi prendertela!”. Ma quel giorno Aulo era rimasto proprio mortificato.
– Cosa ti è successo?- gli chiese il pedagogo, che era lo schiavo accompagnatore, perchè bisogna sapere che tutte le famiglie patrizie tenevano in casa uno schiavo che aveva il compito di badare ai fanciulli. Aulo raccontò la sua disavventura e il pedagogo, mentre passavano per il Foro, gli dette un consiglio per fare cessare quei brutti scherzi.
Il giorno dopo, Aulo mostrò ai compagni, sotto il portico della scuola, un bel carrettino: uno di quei carrettini che i ragazzi romani amavano attaccare a un cane o a una capretta, immaginando di far le corse nel Circo. Era così perfetto, che i compagni glielo invidiarono. Allora Aulo, volgendosi a Terenzio, gli disse: – Sarà tuo se, in presenza di tutti, ti farai dare da me dieci colpi di mano sul polpaccio della gamba -.
Terenzio, vinto dalla tentazione, gli disse: – Va bene, accetto. –
– Giuralo –
– Per Giove e per Giunone, giuro che prenderò il carretto solo dopo il decimo colpo –
Gli altri ragazzi si strinsero attorno in cerchio; Terenzio offrì ad Aulo il polpaccio della gamba destra, e questi, giù un bel colpo con tutta la forza del braccio!
– Ahi! – strillò Terenzio
– E uno! E due! E tre! – ma arrivato al nono, Aulo si arrestò.
– Perchè aspetti? – chiese impaziente Terenzio.
– Non ne ho più voglia – rispose Aulo con calma.
– Allora il carretto è mio –
– Niente affatto. Hai giurato che l’avresti preso dopo il decimo colpo. Non vorrai certo attirarti le vendette di Giove! –
– Allora dammi il decimo colpo – disse Terenzio, offrendo di nuovo il polpaccio.
– No, no – rispose fermo Aulo – Tu tieni i nove colpi ricevuti, e io mi terrò il carretto. –
Risero i compagni, risero i pedagoghi presenti. Terenzio andò a casa arrabbiatissimo, ma il giorno dopo sembrava un altro. Piano piano, i due piccoli Romani divennero amici per la pelle. (R. Botticelli)
Le oche dei tre Romani
Nell’antica Roma c’erano gli schiavi. Ma non tutti i padroni erano esosi tiranni. Ascoltate. Il patrizio Marco Licio Petronio andò al mercato degli schiavi. C’erano, sui palchi girevoli, giovinetti da vendere in serie, buffoni che facevano boccacce, muscolosi giganti adatti per i lavori di fatica, agili portatori di lettighe… I poveretti, come ogni merce, portavano un cartello con l’indicazione del prezzo, del luogo d’origine, dei pregi.
Marco Licio Petronio cercava un precettore, cioè un insegnante privato che facesse scuola al figlio, il quale aveva finito i ludi letterari, ossia la scuola elementare. Non c’è da ridere! Anche gli insegnanti venivano venduti e comprati. Marco Licio Petronio trovò un Greco dottissimo, ma lo pagò a caro prezzo, tanto caro che, quando fu a casa, chiamò a sè tutti gli altri servi e disse: – Il grammatico mi costa fior di sesterzi. State attenti alla sua salute. Che non prenda neppure un raffreddore! -.
In quel tempo Marco Licio Petronio era tormentato da tre clienti, che non lo lasciavano mai in pace. I clienti, al tempo di Roma antica, erano degli sfaccendati che vivevano alle spalle di un patrizio: la mattina correvano a dargli il buon giorno, lo lodavano, gli battevano le mani quando parlava, cercando in ogni modo di fargli piacere. Tutti i patrizi avevano i loro clienti: anche Marco Licio Petronio ne aveva molti, ma i tre erano troppo fastidiosi.
Un giorno, per levarseli di torno, Marco Licio Petronio regalò loro undici oche vive e disse: – Tu, o Sestilio, prendine la metà. Tu, o Vitulio, la quarta parte. Tu, o Renzio, la sesta parte -.
I tre clienti si trovarono nei guai: come fare la metà di undici oche? E come farne la quarta parte? E come la sesta?
I tre, dopo aver bisticciato, si recarono dal grammatico: – O precettore, illuminaci su questa difficoltà!-
Il precettore chiese un giorno per pensarci. Il giorno dopo mostrò ai tre litiganti una piccola oca di legno e disse: – Immaginiamola vera. Quante oche avete ora? –
– Dodici – risposero in coro i tre clienti.
– Bene – disse il grammatico – a te, Sestilio, spettano sei oche, cioè la metà; a te, Vitulio, tre oche, cioè la quarta parte. E a te, Renzio, due oche, cioè la sesta parte. In tutto sono undici. A me restituite quella di legno -.
I tre si presero, tutti contenti, le oche così distribuite.
Quando Marco Licio Petronio venne a conoscere l’ingegnosità del precettore lo chiamò a sè e gli disse: – Ti ho pagato carissimo, ma apprezzo il tuo ingegno e ti rendo libero. Come liberto, spero che resterai qui, ad istruire mio figlio, ma riceverai una ricompensa e potrai lasciarci quando vorrai -. (R. Botticelli)
I primi quattro re
Gli abitanti della città quadrata erano pochi e, per popolarla, Romolo la offerse come asilo a schiavi fuggitivi e a liberi perseguitati. Poichè questi banditi non avevano diritto di connubio, cioè di nozze, coi popoli vicini, Romolo si procurò le donne per creare le famiglie, facendo rapire, durante una festa religiosa, quelle dei Sabini intervenuti.
Ne derivò una guerra, presto finita per l’interposizione delle stesse donne rapite, divenute spose dei Romani, e i due popoli si fusero.
Da questa fusione la tradizione fa derivare il doppio nome del popolo: Romani, nome di guerra, Quiriti (da Curi, capitale dei Sabini) nome religioso e civile.
Romolo regnò per qualche tempo insieme al re sabino Tito Tazio, poi da solo, e a lui sono attribuiti i primi ordinamenti civili e militari: il Senato di 100 membri, la divisione del popolo in tre tribù, Tizii, Ramnensi, Luceri, ed in trenta curie, l’ordinamento dell’esercito nella legione (leva) di 3000 fanti e 300 cavalieri (costituzione romulea).
I Ramnensi erano i Latini, compagni di Romolo; i Tizii, i Sabini venuti con Tito Tazio; i Luceri, erano stranieri di cui è dubbia l’origine (chi dice etrusca, e chi latina), stabiliti sul colle Celio.
Dopo 37 anni di regno, Romolo scomparve misteriosamente durante un uragano, assunto si disse in cielo dal padre Marte; e fu venerato anche lui come dio col nome di Quirino.
La tradizione fa seguire a Romolo il lungo e pacifico regno di Numa Pompilio, sabino. E come a Romolo furono attribuite tutte le prime istituzioni politiche e militari, così ai sabini Numa Pompilio e Anco Marzio sono riferite quelle religiose e pacifiche.
Ispirato dalla ninfa Egeria, Numa intese a mitigare con le istituzioni religiose e col sentimento della giustizia gli spiriti fieri del popolo incline alla violenza. Edificò templi, fra cui quello di Giano, le cui porte erano chiuse in tempo di pace, aperte in tempo di guerra, perchè Giano, dio della porta (ianua) seguiva l’esercito in campo. Istituì i grandi ordini sacerdotali: i Pontefici, le Vestali, gli Auguri, gli Aruspici, i Saliari, i Fratelli Arvali, i Flamini. Dette impulso all’agricoltura e, per regolarne i lavori, riformò il calendario, premettendo all’anno, che prima era di dieci mesi e cominciava il primo marzo, gennaio e febbraio.
Tullio Ostilio, romano, rispecchia l’ardore guerriero della sua stirpe. Delle imprese militari che condusse, la più importante fu quella contro Alba, decisa, per evitare spargimento di sangue, da un combattimento fra i trigemini Orazi romani e i trigemini Curiazi albani, finito vittoriosamente per i primi. Alba dovette sottomettersi a Roma. In seguito, avendo il dittatore albano Mezio Fuffezio tenuto un contegno ambiguo durante una guerra di Roma contro l’etrusca Veio, Tullio Ostilio lo mise a morte, facendolo dilacerare da due quadriglie lanciate in opposta direzione. Alba fu distrutta, la sua popolazione dedotta a forza a Roma, il territorio annesso. Roma divenne così la prima città del Lazio.
Anco Marzio, sabino, fu pari a Numa per spirito pacifico e religioso, ma costretto anche a combattere, per la sicurezza di Roma, contro i Latini. Alcune città latine furono prese e così il territorio romano si estese fino al mare ed alla foce del Tevere, dove Anco Marzio fondò il porto di Ostia (nome che significa “le bocche del fiume”), e Roma divenne padrona del commercio del sale, che si svolgeva per la via detta poi Salaria, la quale dal mare raggiungeva il paese dei Sabini e degli Umbri. Tuttavia l’antico popolo romano non sentì nessuna attrazione per il mare, dove per lungo tempo non contese il commercio ai Tirreni, ai Cartaginesi, ai Greci.
Anco Marzio estese la città dalla parte dell’Aventino, ed edificò una fortezza sul Gianicolo, il colle che, essendo sulla destra del Tevere, costituiva un baluardo verso l’Etruria; a lui sono attribuiti anche il primo ponte di legno sul fiume, il ponte Sublicio, e il carcere Tulliano ai piedi del Campidoglio, detto più tardi Carcere Mamertino, di cui ancora si ammirano i resti.
Coi Latini, Anco Marzio concluse un trattato con il quale si affermava la supremazia di Roma sul Lazio. Tale trattato era custodito nel tempio federale dedicato a Diana sull’Aventino, dove i rappresentanti delle città alleate si riunivano per celebrare le feriae latinae, come un tempo di faceva in Alba.
L’età dei Tarquini e la fine della monarchia
Mentre i primi quattro re erano stati eletti dalle Curie, ora o per successione ereditaria o per violenza, i re si fanno da se stessi. Il fatto è significativo, perchè denota la tendenza della monarchia a passare dalle forme costituzionali al dispotismo.
Con Tarquinio Prisco comincia la serie dei re etruschi.
La leggenda dice che era figlio di un ricco mercante greco di Corinto, stabilitosi a Tarquinia. Avido di gloria, venne a Roma, dove seppe acquistarsi larga popolarità e la fiducia di Anco Marzio che, morendo, lo nominò tutore dei figli ancora giovani. Ma Tarquinio si impossessò del trono.
Egli ampliò il territorio con guerre fortunate contro i Sabini ed i Latini, ma soprattutto fu imponente l’impulso da lui dato alle costruzioni pubbliche.
Spianò il Foro, che divenne la piazza principale di Roma, edificò fuori della città il Circo Massimo, per i giochi pubblici, prosciugò la parte bassa della città con un sistema di fognature o cloache confluenti in un canale più grande, la Cloaca Massima, che sbocca nel Tevere. A lui è attribuita l’introduzione di istituzioni e costumi etruschi; i ludi del circo, la pretesta (toga orlata tutto intorno di porpora, portata dai magistrati), i littori, la sedia curule, l’arte della divinazione.
Tarquinio Prisco morì ucciso dai figli di Anco Marzio, ma il trono non passò a loro, perchè la vedova di Tarquinio, la scaltra Tanaquilla, dalla leggenda presentata come una profetessa ispirata, favorì la successione di un suo fedele, allevato a corte, anch’egli etrusco e genero, pare, del morto re: Servio Tullio.
A questi la tradizione attribuisce la costruzione di una nuova cerchia di mura in sasso (mura serviane), delle quali rimangono ancor oggi alcuni tratti, includente tutti i sette colli; e un nuovo ordinamento civile e militare che va sotto il nome di riforma serviana, ma appartiene invece ad un’età più tarda. Così Roma divenne il septimontium, la città dei sette colli, avendo come centro il Palatino. I colli Capitolino, Aventino e Gianicolo non si abitavano, ma rimasero per uso militare.
Anche il regno di Servio Tullio finì tragicamente. La tradizione narra che egli fu ucciso da un figlio o nipote di Tarquinio, Lucio Tarquinio, al quale aveva data in sposa una sua figlia, Tullia, e narra anche la scelleratezza di questa che, per giungere più presto ad essere acclamata regina, passò con il cocchio sul cadavere del padre. La monarchia degenerava in tirannide.
Tarquinio il Superbo governò dispoticamente, perseguitando l’aristocrazia. Molti nobili condannò a morte o all’esilio, per impadronirsi delle loro ricchezze; guerra, pace, alleanze trattò da solo senza consultare nè il popolo nè il Senato. Condusse molte guerre con esito fortunato, sottomettendo fra le altre la città di Ardea e, a tradimento, Gabii. L’oltraggio fatto da suo figlio Sesto alla matrona Lucrezia esasperò gli animi, incitandoli alla rivoluzione. A capo di questa furono Collatino, il marito di Lucrezia, e un suo parente, Giunio Bruto.
I Tarquini, cacciati da Roma, ripararono in Etruria: la monarchia fu abolita e vi subentrò una repubblica aristocratica (510 aC).
Storia di Roma – dettati ortografici e letture. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria: una raccolta di racconti, dialoghi e piccole recite sulla Preistoria, di autori vari, per la scuola primaria.
Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria Dialogo
– E’ permesso? Posso entrare? Sono venuto ad ammirare le tue nuove armi. Desidero molto vederle?-
– Entra, entra pure! Ti farò vedere anche alcuni monili che ho perfezionato ieri! Intanto, vedi questo? E’ un pugnale di ferro, ti piace?-
– Oh, com’è appuntito! Questa sì che è un’arma!-
– Non siamo più nell’età della pietra, mio caro! Con la scoperta dei metalli, è finita! –
– Osserva, ti prego, queste frecce con la punta di ferro.
– Come sono acuminate! E questi monili sono di rame? –
-No, sono di bronzo. Ho impiegato un po’ di tempo a fondere insieme rame e stagno. Ma guarda, che bel lavoro ho fatto! –
-Sei bravo davvero! Ti ringrazio di avermi mostrato i tuoi lavoretti e ti attendo presto a vedere l’imbarcazione che ho costruito. E’ molto più comoda e più solida di quella che avevo prima. –
Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria Il primo amore per gli animali
Al tempo dei tempi, quando gli uomini abitavano le caverne e si vestivano di pelli, un uomo, Grog, ebbe l’idea geniale di scavare il primo trabocchetto per gli animali.
Che barriti lanciava il grosso mammut quando vi cadeva dentro! Come grugniva il cinghiale! Grog, tutto contento, accorreva al trabocchetto con gli altri uomini della tribù, e tutti insieme, servendosi di sassi, di pali appuntiti e di accette di pietra, uccidevano la bestia.
Grog aveva un bambino e una bambina. Un giorno i due fratelli ebbero l’idea di fare come il babbo. Dove la terra era più tenera, scavarono una buca coprendola di rami e frasche. La mattina dopo vi trovarono una pecorella che belava pietosamente. Anche le pecore, si intende, erano allora animali selvaggi. Tutti e due si dettero a raccogliere pietre per ucciderla, ma quando il bambino fu pronto per scagliarle, la sorella gli fermò il braccio: “Sarek, fermati!”, gli gridò.
“Che c’è, Mughi?” chiese il bambino.
Mughi fissò la pecora che chiedeva pietà. “Non voglio ucciderla!” gridò, e con un salto si calò nel trabocchetto, andando a finire accanto alla pecorella.
Sarek, a salti, come un cerbiatto, tornò alla caverna dai suoi genitori.
“Papà!” disse Sarek, “Mughi ed io abbiamo preso in trappola un animale bianco, ma Mughi non vuole ucciderlo!”
Il padre si alzò. “Andiamo”, disse a Sarek.
Quando padre e figlio giunsero al luogo del trabocchetto, non vi trovarono più nessuno. Ma, più in là, lungo un ruscello, Mughi stava accarezzando la pecorella. All’arrivo dell’uomo, l’animale fece un balzo e tentò di fuggire, ma Mughi lo calmò accarezzandolo.
“Papà”, disse Sarek, “ecco l’animale che Mughi non vuole uccidere”.
L’uomo osservò con meraviglia la pecorella che si lasciava accarezzare. Allora, dentro di sè, fece questa riflessione: “Se esistono degli animali che si lasciano ammansire dalle carezze, perchè non catturarli ed allevarli? Così a nessun uomo mancherà mai più il cibo, neppure nei periodi più tristi dell’inverno, quando la neve rende pericolosa la caccia”.
Grog, allora, suscitando la sorpresa di suo figlio, gridò: “Non si deve uccidere un animale così buono!”
R. Botticelli
Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria Come il cane divenne domestico
Quel che vi racconto accadde quando gli animali domestici erano ancora selvatici.
Naturalmente era selvatico anche l’uomo, e soltanto quando la donna gli fece capire che così non le piaceva, cominciò a perdere la sua selvaticità. Ella preparò una graziosa caverna asciutta; per non dormire su un mucchio di foglie umide, sparse sul suolo un po’ di sabbia chiara e fine e accese un bel fuoco di legna, poi mise una pelle di cavallo all’ingresso della caverna e disse all’uomo: “Quando entri, asciugati i piedi”.
La sera, a cena, mangiavano un po’ di montone cotto su pietre calde e condito con aglio e pepe selvatici, dell’anatra selvatica ripiena di riso, del midollo di ossa di toro e delle ciliegie di bosco.
Mentre l’uomo si addormentava contento vicino al fuoco, laggiù, nel bosco umido, tutti gli animali selvatici si riunirono in un luogo da cui potevano vedere la luce della fiamma e si domandarono che cosa stesse succedendo.
Il cavallo scalpitò e disse: “Animali amici e nemici, mi sapete dire perchè l’uomo e la donna hanno fatto nella caverna quella gran luce? Che ci preparino qualche tranello?”
Il cane alzò il muso, fiutò l’odore di montone cotto e dichiarò: “Andrò io a vedere. Credo però che non preparino niente di male”.
E il cane se ne andò di buon passo. Quando giunse sulla soglia della caverna, alzò il muso e annusò l’odore del montone cotto; la donna lo sentì, rise e domandò: “Selvatico figlio dei boschi, che vuoi?”
Il cane rispose: “Mia nemica e moglie del mio nemico, che cos’è questo buon odore che si spande per i boschi?”
La donna prese un osso di montone e glielo gettò, dicendo: “Assaggialo e lo saprai”.
Il cane rosicchiò l’osso, lo trovò migliore di tutte le cose che aveva fino ad allora mangiato e dichiarò: “Dammene un altro”.
Disse la donna: “Se tu aiuterai l’uomo durante il giorno nella caccia e se custodirai di notte questa caverna, io ti darò tutti gli ossi che vuoi”.
Il cane entrò strisciando nella caverna, mise la testa sulle ginocchia della donna e disse: “Amica e moglie del mio amico, io aiuterò l’uomo nella caccia e custodirò la caverna”.
Quando l’uomo si svegliò e vide il cane, disse: “Che fa qui il cane?”
La donna rispose: “Non si chiama più cane selvatico, ma Primo Amico. Egli sarà nostro amico per sempre e ti aiuterà nella caccia.
R. Kipling
Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria Il gatto
Migliaia e migliaia di anni fa, quando l’uomo abitava nelle caverne, il gatto era il più selvatico degli animali. Un giorno si avvicinò alla caverna dell’uomo. Sentì il buon calore del fuoco, il buon odore del latte che la donna aveva appena munto dalla mucca.
“Che vuoi?” gli chiese la donna, “Tu non sei ne un’amico ne un aiuto per l’uomo. Vattene!”
“Lasciami entrare nella tua casa, la sera, perchè mi riscaldi al tuo fianco e beva un po’ di latte”.
“Potrei entrare solo quando dirò una parola in tua lode; se ne dirò due ti riscalderai al fuoco; se ne dirò tre berrai il latte”.
“Va bene!” disse il gatto e si accovacciò al sole, fuori della caverna.
La donna mise fuori il suo bambino. Il bambino a star da solo di annoiava e si mise a piangere. Il gatto gli si accovacciò, strofinò il suo pelo morbido contro le gambette del bimbo e gli fece il solletico sotto il mento, con la coda. Il bimbo rise.
“Bravo micio!” disse la donna che preparava il pranzo. Pronto il gatto entrò nella caverna: la donna aveva detto una parola di lode. Il bimbo, fuori, si mise di nuovo a piangere e a strillare. Il gatto tornò vicino a lui e si mise a fare mille moine. Il bimbo cominciò a ridere forte, poi si addormentò.
“Caro gatto, sei molto abile!” disse la donna. Subito il gatto si accovacciò vicino al fuoco e fece le fusa. Tutto era tranquillo, quando un topolino attraversò la caverna.
“Aiuto! Aiuto!” gridò la donna, saltando qua e là. Il gatto, con un balzo, afferrò il topolino.
“Grazie, grazie! Sei più bravo del cane!” disse la donna.
“Questa è la terza volta che tu mi lodi. Ora posso bere il latte ogni giorno”, disse il gatto.
Così il gatto rimase nella caverna.
R. Kipling
Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria Una lotta mortale nella preistoria
I terribili tori selvaggi detti uri, dalla testa crespa e barbuta, dalle corna arcuate e fangose, stavano avvicinandosi alla riva del fiume, quando un alto clamore si levò dalla foresta: arrivavano i mammut.
La schiera dei mammut sbucò dalla foresta e si precipitò verso la riva del fiume, arrivandovi contemporaneamente alla schiera degli uri. I mammut, secondo le loro abitudini, pretesero di passare per primi: qualcuno tra gli uri si irritò. Gli otto tori giganteschi che guidavano il branco, vedendo che i mammut volevano passare avanti, emisero un lungo grido di guerra, col muso in alto e la gola gonfia.
I mammut barrirono.
Gli uri scossero le criniere grasse: il più forte, il capo dei capi, abbassò la fronte grave, le corna lucenti, e, slanciandosi come un enorme proiettile, balzò addosso al mammut più vicino. Ferito alla spalla, benchè avesse attutito il colpo sferzando con la proboscide l’avversario, il colosso cadde sulle ginocchia. L’uro proseguì il combattimento con l’ostinazione della sua razza. Ebbe la meglio.
Da principio, il combattimento aveva sorpreso gli altri maschi. I quattro mammut e i sette tori stavano faccia a faccia, in una formidabile attesa. Nessuno fece l’atto di intervenire; ma tutti si sentivano minacciati. I mammut furono i primi a dar segni di impazienza. Il più alto, soffiando, agitò le orecchie membranose, simili a giganteschi pipistrelli, e avanzò.
Si scagliavano gli uni contro gli altri in un combattimento cieco; il ruggito profondo dei tori cozzava col barrito stridente dei mammut.
I capi maschi incarnavano la guerra; i loro corpi si mescolavano in un groviglio informe, in un immenso stritolio di ossa e di carne. Al primo urto i mammut avevano avuto la peggio; ma poi, avventatisi insieme sugli avversari, li avevano colpiti, soffocati, feriti. Infine un toro incominciò ad arretrare, poi si volse e fuggì, e la sua fuga provocò quella dei tori che combattevano ancora e che conobbero l’infinito contagio del terrore. Allora la colonna dei giganti color d’argilla si schierò sulla riva e si mise a bere in pace.
J. H. Rosny Aine
Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria La scoperta del fuoco
Al piccolo coro parlato possono partecipare diversi bambini, anche tutta la classe. E’ consigliabile preparare piccoli gruppetti. Potete far osservare ai bambini che il linguaggio degli uomini primitivi doveva essere probabilmente molto povero, e che essi comunicavano più a gesti e a monosillabi, che non con un vero e proprio linguaggio.
Personaggi: Narratore, Primo uomo preistorico, Secondo uomo preistorico, Terzo uomo preistorico, Uomini, Bambini.
Narratore: Gli uomini preistorici abitavano nelle grotte e nelle caverne, cacciavano gli animali, si coprivano con le pelli degli animali uccisi e ne mangiavano le carni crude. Per armi avevano soltanto pietre. Ma infine conobbero il fuoco e la loro vita cambiò. Era una serata tremenda. L’immensa foresta era scossa da un terribile temporale…
Primo uomo preistorico: Ah!… Ah!… Là!
Secondo uomo preistorico: Cosa dire?
Primo uomo preistorico: Là! Luce alta! Muovere! Vivere!
Altri uomini: Oh, oh, spavento! Spavento!
Parecchi uomini: Terribile!
Terzo uomo preistorico: Io vedere! Luce cadere da cielo, poi luce salire da terra!
Bambini: Paura!
Uomini: Morire! Finito! Morire tutti!
Narratore: Sì, la prima impressione del fuoco fu di gran terrore, finchè, dopo un altro temporale…
Primo uomo preistorico: Fuoco fare giorno notte!
Secondo uomo preistorico: Fuoco fare caldo!
Parecchi uomini: Fuoco fare bene noi!
Primo uomo preistorico: Ma Fuoco lasciare noi. Fuoco lasciare! Diventare piccolo!
Parecchi uomini: Fuoco abbandonare noi!
Alcuni uomini: Andare chiedere luce a Fuoco, andare a chiedere calore noi!
Altri uomini: No! No! Morire!
Bambini: Oh, oh, freddo noi morire! Freddo morire!
Narratore: Fu l’amore per i bambini che spinse l’uomo a vincere la paura.
Primo uomo preistorico: Io andare Fuoco: no paura bestie, no paura grande luce. Fuoco salvare bambini!
Narratore: E l’uomo andò nella foresta e tornò con un ramo infuocato. Alla sua vista, gli altri si spaventarono nuovamente.
Uomini: Fuggire! Noi morire!
Primo uomo preistorico: Fermare! Fuoco di noi! Fuoco dare luce! Fuoco dare caldo!
(R. Botticelli, adattamento Lapappadolce)
Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria L’uomo impara a domare il fuoco
Narratore: Una volta scoperto il fuoco, gli uomini preistorici furono presi dalla preoccupazione di conservarlo. C’era sempre chi lo vegliava e lo alimentava, perchè non si spegnesse. Ma un giorno, in una tribù…
Narratore: L’uomo aveva il fuoco. Ora non viveva più nelle caverne, ma all’interno di capanne. Tuttavia non si sentiva affatto al sicuro. Una grande paura lo assillava continuamente. Ed ecco che da tribù a tribù passò la voce di una geniale idea….
Grog: Sarik, tu cercavi me?
Sarik: Sì, Grog. Cosa importante! Cosa importante!
Grog: Ah ah ah ah! Fai ridere! Zala con te, bambini con te, vuoi anche mia compagnia?
Sarik: Grande Grog, cosa importante! Cosa importante!
Grog: Grog ha orecchie. Non ripetere. Parla.
Sarik: Dietro montagna qui c’è lago. Lago è calmo come faccia di luna.
Grog: Grog sa questo.
Sarik: Grog sa anche che tribù di stranieri conficcato grandi pali su fondo di lago? Poi steso legni, tanti legni e su legni su lago stranieri costruito loro capanne! Capanne come nostre!
Grog: Stranieri sono pericolo per noi come bestie?
Sarik: No, Grog
Grog: allora perchè Sarik dice questo a Grog?
Sarik: Grog… capanne straniere sono su acqua!
Grog: Sarik ha già detto. Grog ha sentito.
Sarik: Oh, grande Grog! Scendi anche noi su lago, anche noi capanne su lago!
Grog: No!
Sarik: Noi più forti con capanne su acqua…
Grog: Noi essere forti! Nostre pietre uccidono bestie! No. Grog dice no!
Zala: Oh grande Grog…
Grog: Basta!
Sarik: Grog senti Zala, Sarik prega Grog…
Grog: Zala parlare.
Zala: mio piccolo bimbo aveva pelle chiara come ruscello, occhi di luce come stelle, e belve sbranato di notte. Con capanna su lago, niente bestie! Pietà Grog per Zala… pietà Grog… Zala altri bimbi, loro diventare forti e aiutare sempre Grog!
Grog: Grog andare a vedere con Sarik e Zala. Grog vuole vedere tribù stranieri e capanne su lago.
Narratore: Andarono infatti al lago: e anche la tribù di Grog decise di costruire abitazioni su palafitte.
(R. Botticelli adattamento Lapappadolce)
Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria: tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Poesie e filastrocche CRISTOFORO COLOMBO – Una collezione di poesie e filastrocche sul tema “Cristoforo Colombo e la scoperta dell’America” (12 ottobre 1492), per la scuola primaria.
Colombo Va, sotto il cielo di piombo, va la fragile caravella che la Regina Isabella t’ha regalato, Colombo… Quand’ecco su dal suo cuore che più l’angoscia non serra prorompe un grido: “La terra!”La prima! San Salvatore! Ora il gran cielo di piombo tutto s’irradia di luce… è sempre il sole: Colombo! (Zietta Liù)
Tre caravelle Sul mare azzurro tre caravelle filano lente sotto le stelle. Vengon da un porto molto lontano: le guida intrepido un italiano. Cercano terra di là dal mare da tanto tempo e nulla appare. Nulla si vede la ciurma è stanca. Nulla si vede la lena manca. Sopra la tolda sol l’italiano, solo Colombo guarda lontano. “Terra!” si grida. Eccola, appare sul far del giorno bruna sul mare. Quel dì la terra nuova toccò Colombo, e a Dio la consacrò. (G. Fanciulli)
Colombo C’era una volta, sì, c’era… Sembra la favola bella della Regina Isabella… Pure è una favola vera. Oh, lunghe notti! Di piombo il cielo, ostile ed infido. Tu chiudi in cuore il tuo grido e speri, e speri, Colombo. Talvolta, l’angoscia che serra e soffoca il cuore è sì forte, che quasi tu pensi alla morte… Ed ecco la terra, la terra! Hai vinto. La terra lontana s’ammanta di fulgido sole, s’ammanta di gloria italiana. C’era una volta, sì, c’era… Sembra una favola bella, pure è una favola vera. (Zietta Liù)
La scoperta dell’America Colombo, il tuo ardire fu tanto, ardire di fede e coraggio, che te rassomiglia ad un santo nell’aspro e lunghissimo viaggio. Partisti con tre caravelle, tre fragili navi spagnole, passavano notti di stelle, passavano giorni di sole, di flutti pacati e procelle e mai alla meta arrivavi; la ciurma gridava ribelle: tu solo credevi e speravi. Ed ecco un mattino apparire il lido da tanto sognato: che cosa importava il patire, se infine sei stato premiato? Scendesti la terra a baciare e colmo di gioia nel cuore volesti quel suolo chiamare col nome di San Salvatore. (T. Romei Correggi)
Terra! Terra!… notturna, d’un tratto, bandì dalle coffe una voce. Vesti il mantello scarlatto, solleva il vessillo e la croce, tu che mettesti la prora nel pallido occaso, e l’aurora seguì la tua scia! Guarda: fu ieri: una canna nuotava sul mare profondo; oggi si cullano in panna le navi sull’orlo del mondo. Sorgi, Colombo: l’aurora nel grande vestibolo indora la Santa Maria. (G. Pascoli)
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…idee per realizzare delle sensory tubs preistoriche che, seguendo i corretti principi scientifici, riproducono uno scavo archeologico in forma di gioco didattico…
Queste due sensory tubs preistoriche sono nate da un’idea di Enza (vedi qui)…
io mi sono solo prestata a fare il “braccio”, cercando di interpretare nel modo più corretto possibile il suo progetto (le parti in grassetto).
Realizzate le vaschette, Enza ha potuto aggiungere le sue note (le parti in corsivo), che penso potranno davvero essere utili per chi vuole presentare questa attività ai bambini .
Le due proposte si rivolgono, con finalità un po’ diverse:
– ai bambini più piccoli
– ai bambini più grandi, considerando che i programmi scolastici collocano lo studio della Preistoria in terza classe di scuola primaria.
Coi bambini più piccoli, teniamo presenti tutti gli obiettivi del gioco sensoriale.
Inoltre, facendo anche leva sul periodo nel quale più o meno tutti i bimbi amano il mondo dei dinosauri, senza dare particolari informazioni verbali, ma semplicemente presentando il materiale e gli strumenti, possiamo fare una grande cosa che si rivelerà vantaggiosa in seguito: creiamo un’immagine e un ricordo di uno scavo archeologico, che potrà essere la base per un interesse vivo e attivo verso lo studio della Storia.
Naturalmente sta tutto nell’abilità dell’adulto preparare la vaschetta pensando al bambino reale che ne godrà, e dirigere ed osservare l’attività facendo in modo che possa svolgersi in modo piacevole e magico: non essere rigidi, osservare se subentra stanchezza, valutare quanti reperti inserire, quanto nasconderli, ecc… sono alcuni aspetti importanti. Come sempre la preparazione dell’ambiente è tutto.
Considerate anche che l’attività può essere preparata e presentata, ma poi la vaschetta può essere lasciata a disposizione del bambino per più giorni, in modo che possa dedicarsi allo scavo quando è lui a desiderarlo. Se l’esperienza invece di essere stimolante diventa noiosa, non avremo certo fatto un buon lavoro: altro modo per dire “la felicità del bambino è la prova della correttezza dell’agire educativo”.
Sarebbe importante creare un angolo dedicato alla Preistoria, dove mettere a disposizione del bambino, accanto alla vaschetta, dei bei libri illustrati, dinosauri giocattolo, memory e carte tematiche a tema, ecc…
Coi bambini più grandi, e sarà meraviglioso se da piccoli hanno potuto fare esperienze più ludiche di scavo, possiamo creare una situazione che riproduce con un certo grado di esattezza scientifica il lavoro dell’archeologo.
L’elemento della sensorialità (stimolazione visiva, olfattiva, tattile, ecc…) rimane importante e va tutta a beneficio dell’apprendimento, ma possono essere aggiunte informazioni scientifiche in merito alla procedura di scavo, all’analisi degli strati, alla corretta cronologia, ai metodi di archiviazione e classificazione dei reperti, ecc…
L’esperienza, e questo a maggior ragione vale coi bambini più grandi, non esaurisce tutto quello che c’è da dire sul lavoro dell’archeologo e sugli scavi, e iniziando la studio della storia parlando di documentazione e fonti, dopo l’esperienza pratica sarebbe importante organizzare schede, lezioni, carte delle nomenclature, esercitazioni di compilazione di schede reperto, ecc… Per tutto questo Enza ci darà nei prossimi appuntamenti nuovi spunti.
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Sostrato
Una sensory tub preistorica dovrebbe prima di tutto avere due o più livelli, perché’ uno dei principi dello scavo e’ proprio la stratigrafia, la capacita di distinguere i diversi livelli che (generalmente ma non per forza) si susseguono in ordine cronologico: in alto il più recente, in basso, mano a mano che si scava, il più antico. L’ideale è trovare materiali ben distinti, per colore e per consistenza.
Io ho pensato di realizzare entrambe le sensory tubs preistoriche con tre strati: sul fondo argilla espansa, poi terriccio bagnato e in superficie sabbia. Per creare un legame visivo con lo scavare davvero sotto di noi, ho aggiunto una “siepe” di crescione.
I reperti
Enza ci consiglia:
– ciottoli di fiume, di qualche centimetro, di calcare o selce, in tutti e tre gli strati
– per il primo strato (più recente), dei frammenti di ceramica smaltata (basta rompere una tazza della nonna) ed aggiungere frammenti di ceramica, mattoni e mattonelle: sono la costante di qualunque scavo! Si può arricchire con qualche perla (meglio se di vetro soffiato, pasta di vetro o pietre dure) e qualche moneta
– per il secondo strato, postulando che sia preistorico, servono strumenti di selce o altra pietra. La selce si trova lungo le sponde di fiumi e ruscelli, ma una qualunque pietra rotta in modo appuntito, o affilato, può andare bene. Per trovare ispirazione si può fare una ricerca immagini nel web inserendo “flint tools”
– per non schizzinosi l’ideale sarebbe aggiungere ossa, anche solo un paio di cosce di pollo (basta far bollire le ossa per pulirle perfettamente). In alternativa, nei negozi si trovano scheletri di plastica di vario tipo…
– in entrambi gli strati si possono aggiungere conchiglie di terra e di mare
– un terzo strato potrebbe essere quello precedente alla comparsa dell’uomo, e potrebbe contenere ossa e fossili (ma non conchiglie)
Il tutto verrà spiegato meglio in seguito…
Seguendo le indicazioni, questi sono i reperti che sono riuscita a produrre:
– la tazza della nonna, naturalmente, e un po’ di cocci rossi per completare il sostrato superficiale (non avevo mattoni a disposizione):
– sassolini vari e conchiglie
– perle e qualche yen giapponese
– gli strumenti di pietra, che ho realizzato spaccando qualche sasso col martello e rifinendo col Dremel (in modo molto poco preistorico!):
– alcuni “fossili”, che potete realizzare così:
versate un po’ di sabbia in un cartone per uova, bagnate bene, poi premete bene le conchiglie. Se avete a disposizione una sabbia molto fine (o conchiglie più belle), potete rimuovere la conchiglia, io ho dovuto lasciarle:
preparate in un bicchiere un po’ di cemento o di gesso aggiungendo dell’acqua, versate e fate asciugare:
Una volta asciutti, togliete la sabbia con un pennello:
– le ossa: non sono schizzinosa, per cui ho bollito le ossa di pollo:
Se le ossa vengono messe nello strato più profondo insieme ai fossili, potrebbero anche essere ossa di dinosauro; se vengono messe insieme ai sassi scheggiati, possiamo immaginare altri animali preistorici, come il mammut o il rinoceronte lanoso! (vedi il terzo strato per la vaschetta per grandi).
Reperti – variante per i più piccoli
Coi bambini più piccoli, se pensate che le perline siano troppo piccole per loro, o se i frammenti di tazza risultano troppo taglienti, oppure se temete che i vostri utensili di pietra scheggiata preistorica possano passare per “normali sassi”, si può preparare un play dough che una volta asciutto si sbricioli molto facilmente; basterà mescolare 4 cucchiai di farina, 4 di fondi di caffè (o terra), 2 di sale e 3 di acqua; dimezzando la farina risulterà ancora più friabile.
E’ la ricetta classica che tutte le maestre conoscono per preparare il gioco delle “uova di dinosauro”, nelle quali di solito si nascondono dinosauri di plastica che il bambino deve aprire col martello… In questo caso lo useremo con la funzione di “incrostazione di terra” attorno agli oggetti, con il vantaggio per i piccoli di poter usare con tutta tranquillità le mani per cercarli ed estrarli: sabbia e terra sono un richiamo irresistibile per le loro manine.
Per la tazza, le perline e le monete, appartenendo allo strato “più recente” potete lasciare l’oggetto in evidenza:
Per gli oggetti appartenenti agli strati più antichi potete nascondere completamente l’oggetto. Qui ho decorato con conchiglie i “sassi” contenenti gli strumenti di pietra, e con pietre preziose i “sassi” contenti le ossa.
Per rendere lo scavo ancora più interessante, possiamo fotografare i reperti prima di inserirli nel play dough, preparare delle schede tipo memory o bingo, plastificarle, e proporle ai bambini in fase di rottura dei “sassi”. Il bambino metterà sui tabelloni i reperti corrispondenti alle immagini.
Queste sono ad esempio le mie schede:
scheda memory per sensory tub preistoria – pietre scheggiate pdf
scheda memory per sensory tub preistoria – fossili pdf
scheda memory per sensory tub preistoria – ossa pdf
Reperti – variante per i bambini più grandi
Coi bambini più grandi il play dough non serve:
– le perline, proprio perchè molto piccole, si possono raccogliere con la pinzetta, oppure setacciando la terra con lo scolapasta
– per quanto riguarda la tazza, se si raccolgono i reperti all’aperto, questi saranno naturalmente smussati e non ci sarà il rischio di tagliarsi; inoltre si possono semplicemente levigare le parti taglienti oppure spiegare ai bambini che in uno scavo archeologico è importante utilizzare gli strumenti e non le mani.
Per i bambini più grandi Enza ha preparato una scheda modello, da utilizzare in fase di scavo, che potete scaricare e stampare qui:
(i diritti appartengono all’autrice)
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Materiali per scavare e altre cose da archeologi:
1. Per rimuovere la sabbia, si può usare praticamente tutto, anche le mani, però si può rendere la cosa più complicata e divertente usando per esempio una peretta, che gonfiata e sgonfiata soffia via i granelli (vedi qui: http://www.veneziando.it).
Va anche benissimo aggiungere uno spazzolino da denti per far emergere il reperto un po’ più velocemente.
2. Per lo scavo della parte più compatta, si potrebbero usare:
– un bastoncino di legno appuntito del diametro di un dito più o meno, e lungo una ventina di centimetri (vedi qui: http://www.archtools.eu/)
– una pinzetta per le sopracciglia usata
– una paletta da giardinaggio di metallo con manico di legno, in alternativa alla trowel (cazzuola con punta) che usiamo noi
– un kit paletta/scopetta.
3. Per bambini piu’ grandi, si possono aggiungere:
– una macchina fotografica per fotografare i reperti prima di tirarli fuori
– un metro (da sarto o a stecca) per prendere le misure
– una lavagnetta piccola con i gessetti: noi le usiamo per scriverci sopra la data e il nome dello strato quando facciamo le foto.
– un quaderno “Diario di scavo”
– penne, matite, blocchi da disegno, eventualmente puntine da disegno, spago
– 3 schede di scavo, una per ogni strato (vedi sopra)
4. Per tutti gli strati la sensory tub dovrebbe essere corredata da:
– paletta o una bottiglia di plastica tagliata a metà che funga da paletta
– uno scolapasta e un secchiello, e uno o più secchi dove buttare il sostrato setacciato (si possono inserire sacchetti di plastica in un’insalatiera o secchio, così non servono troppi contenitori e il piano di lavoro dei bambini resta più ordinato)
5. Per il recupero dei reperti servono:
– delle bustine di plastica trasparente da frigo, meglio se con chiusura incorporata e possibilmente adatte alle dimensioni dei reperti
– un pennarello ed un rotolo di scotch carta, da usare per etichettare quello che si trova (noi facciamo veramente cosi!). In alternativa si può scrivere direttamente sulla bustina.
Per avere un’idea dei materiali che si usano comunemente durante uno scavo si può consultare questo sito: http://www.archtools.eu/.
Per i più piccoli, se usate il play dough, possono servire (se volete) un piccolo martello e un tagliere, ed eventualmente le schede memory – bingo. Potete anche aggiungere strumenti interessanti per i piccoli, come un rullino da pittura, uno spruzzino d’acqua, ecc…
Come si possono preparare le sensory tubs preistoriche
(per i bambini più piccoli e per quelli più grandi)
Per questa vaschetta sensoriale ho preferito in entrambi i casi la trasparenza della plastica, pensando che fosse importante dare un’impressione visiva degli strati.
Terzo strato – per i piccoli:
Sul fondo ho messo argilla espansa, conchiglie e sassi; come leggerete poi, sarebbe più corretto non mettere in questo strato le conchiglie, ma casomai i fossili. Ho pensato che per i più piccoli, che arrivati a questo strato avranno ormai lavorato tantissimo, potesse essere meglio per loro mettere molte decorazioni colorate e attraenti e pochi reperti…
e ho aggiunto i “sassi” che nascondono le ossa, decorati con pietre preziose…
… in alternativa alle ossa vere, meno scientifico ma con un grande impatto visivo, nei sassi di play dough potrebbero essere inseriti dinosauri di plastica e magari anche ossa finte:
Terzo strato – per i più grandi:
Per i più grandi si può invece preparare un vero “strato dinosauri” con argilla espansa, sassi, ossa (le più grandi) e fossili:
Secondo strato – terra
Terminato lo strato di argilla espansa, ho ricoperto tutto, per entrambe le vaschette, con uno strato di terra (avevo terriccio per cactus), ho bagnato un po’ con lo spruzzino e pressato con la cazzuola.
Secondo strato – per i piccoli
in questo strato ho messo i “sassi” che nascondono gli strumenti di pietra preistorici, ed i fossili. Uno strato che contiene insomma molti reperti, alcuni da aprire, altri già pronti…
Secondo strato – per i grandi
Come accennato sopra, è più corretto da un punto di vista scientifico mettere i fossili con le ossa: i fossili stanno bene nello strato più antico, quello dove non c’e’ l’uomo, per intenderci, e quindi ci sono i dinosauri. Quando noi troviamo conchiglie nei nostri scavi, non sono fossili. Quindi conchiglie fossili di preferenza sotto e conchiglie normali in entrambi gli strati superiori (quello di sabbia, cioè il primo e quello di terra, cioè il secondo).
Le ossa fossili stanno bene coi dinosauri, ma anche negli scavi paleolitici si trovano tantissime ossa, piu o meno fossilizzate (perchè la parte organica si mineralizza col passare del tempo). Volendo quindi si possono mettere delle ossa in entrambi gli strati.
Quindi, ipotizzando una sensory tub per bambini più grandi, il secondo strato potrebbe essere preparato così: pietre scheggiate preistoriche, conchiglie ed ossa (le più piccole)
Primo strato – sabbia
Preparato anche il secondo strato, ho coperto con altro terriccio e pressato con la cazzuola dopo aver bagnato un po’ con lo spruzzino.
Ho poi preparato lo strato di sabbia, e ho posato la tazza rotta, le monete e le perle, e aggiunto cocci di terracotta, pietre e conchiglie.
Primo strato – per i piccoli
Primo strato – per i grandi
Infine, per entrambe le vaschette, ho nascosto tutti i reperti con un altro po’ di sabbia e ho aggiunto il crescione.
Attività con questa sensory tub coi bambini più piccoli
Attività con questa sensory tub coi bambini più grandi
(L’attività di scavo può essere organizzata per gruppi di bambini, o si può anche svolgere in più giorni successivi)
Procedere nello scavo cercando di togliere la terra molto piano e senza fare buchi: si deve togliere uno strato per volta.
Individuare dolcemente il reperto, scoprirlo il più possibile con il pennello o la peretta.
Scrivere la scheda di scavo, fare le eventuali fotografie ed infine toglierlo.
Metterlo su una superficie pulita dove si può liberare della terra rimasta, molto lentamente, usando il bastoncino di legno e le mani. Lo stesso vale per eventuali reperti che possono trovarsi nello scolapasta dopo il setacciamento.
Una volta finito, riporre il reperto nella bustina e segnare cos’e’ e il numero. Se possibile usare due numerazioni: una continua per tutti i reperti, ed una per ogni tipo di reperto. Esempio: trovati due frammenti di tazza, una perla ed un osso. Saranno 1-tazza 1; 2-tazza 2; 3- perla 1; 4- osso 1 eccetera.
Lo scavo archeologico non e’ una caccia al tesoro, ma un’attività scientifica organizzata!
Nei prossimi giorni la generosa attività di divulgazione di Enza ci aiuterà a realizzare:
– vere schede reperto da archeologa
– la ricostruzione della tazza della nonna, che al momento si presenta così:
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Enza Spinapolice e’ un’archeologa del Paleolitico e lavora all’Istituto di Antropologia Evoluzionista Max Planck, di Leipzig. Ha studiato Preistoria a Roma, poi ha conseguito un dottorato Europeo tra Roma e Bordeaux, e da tre anni fa ricerca in Germania. Si interessa in particolare all’origine biologica e culturale della nostra specie, all’estinzione dei neandertaliani ed alle società di cacciatori raccoglitori passate e presenti. Oltre a girare il mondo e studiare il passato, Enza ha una famiglia multiculturale, ed un bimbo di due anni e mezzo, a cui spera di insegnare molto presto la preistoria.
Dettati ortografici PREISTORIA – Una collezione di dettati ortografici sulla preistoria, di autori vari, per la scuola primaria.
L’uomo antico. L’uomo più antico era un mammifero molto brutto e piccolissimo; il calore del sole ed il vento ne avevano colorito la pelle di un bruno scuro. La testa, la maggior parte del tronco e le estremità erano coperte di peli ispidi e lunghi. La fronte era bassa e la mandibola era come quella di un animale che usi i denti come coltello e forchetta insieme. Non portava indumenti e non aveva mai visto il fuoco. Quando aveva fame mangiava le foglie crude e le radici delle piante e rubava le uova agli uccelli per procurare cibo ai suoi piccoli. Passava le ore del giorno in cerca di nutrimento.
I ragazzi della preistoria. I ragazzi vivevano accanto ai grandi. Aiutavano la mamma nei lavori di casa, attingevano acqua, accendevano il fuoco, imparavano i riti e le poche parole dello scarso vocabolario. Imparavano a lanciare il giavellotto contro le belve, ma un solo sbaglio era la morte; imparavano a distinguere le erbe buone da quelle velenose, ma un solo sbaglio era la morte. In quella vita non erano ammessi sbagli: la loro scuola era quindi più difficile della tua. C. Negro
Una capanna nel villaggio. La capanna del capo è nel centro del villaggio. In essa vi sono molte cose interessanti: armi e grande quantità di attrezzi di legno o di osso. C’è, per esempio, una serie di aghi appuntiti, con una cruna perfetta, ricavati da ossa di cervo. Assai belli sono alcuni vasi e ciotole di terracotta. Il capo li ha foggiati con le sue mani, li ha dipinti, ne ha rassodato la forma e fissato il colore con il fuoco. E c’è dell’altro nella capanna: un telaio quadrato, con una trama di fibre vegetali tenute ben tese dal peso di una dozzina di sassi. Stuoie, mantelli e tuniche nascono sul telaio, sotto le agili dita delle donne. Il capo, domani, al mercato del villaggio, cambierà una stuoia con una collana di conchiglie raccolte sulla riva lontana del mare e ne farà dono alla sposa.
Lungo la strada dei secoli: l’uomo e il lavoro. Quando l’uomo apparve nel mondo, viveva nelle caverne; nudo, coperto di ispidi peli, correva per le foreste in cerca di cibo, non aveva armi per difendersi, non conosceva il fuoco, tramava di terrore quando udiva scoppiare il tuono fra le nubi, e si nutriva di carne cruda e di frutta selvatica. Ebbene, l’uomo così debole, vinse il leone e la tigre, conquistò il fuoco, trasse dalle viscere della terra i metalli, si fabbricò le armi, costruì le case e le città, addomesticò gli animali e li piegò alla sua volontà, tracciò le strade, navigò sui mari; e tutte queste meraviglie compì appunto col lavoro, grazie a quel suo senso di irrequietezza che lo spinge a non essere mai pago, a fare sempre, a studiare, cercare… F. Perri
L’uomo è smarrito in un mondo misterioso. I primi uomini che comparvero sulla terra vivevano in un mondo che appariva loro misterioso ed ostile. Sotto i ripari delle rocce, nel fondo delle caverne, essi ascoltavano, smarriti, il brontolio del tuono, il fragore delle cascate, l’urlo degli animali selvaggi; e per le loro menti ignare tutto era motivo di stupore e di incontrollato terrore. Mille pericoli li circondavano ovunque: il freddo, il caldo, la siccità, le alluvioni, i movimenti della terra ancora in fase di assestamento. Se cercavano scampo sulle montagne, per sfuggire alle inondazioni e ai torrenti impetuosi, spesso dovevano abbandonarle perchè da esse scaturiva il fuoco dei vulcani. Il suolo dove posavano i piedi talvolta tremava, scosso dai terremoti. In questa natura selvaggia ed insidiosa, essi, per nutrirsi, dovevano andare in cerca di acqua, di erbe, di semi commestibili, di frutta, di cacciagione. E questo significava dover affrontare le fiere che popolavano le pianure e le foreste, dai mammut, grandi più di qualunque elefante,agli orsi e alle tigri; e anche correre il rischio di smarrirsi o di trovarsi separati dai compagni. Sembra quasi impossibile che l’uomo primitivo abbia potuto sopravvivere, nella disperata lotta per l’esistenza, a tante insidie. Eppure vi riuscì proprio perchè non era quell’essere indifeso e disarmato che sembrava a prima vista: aveva la forza dei muscoli, l’abilità delle mani, la potenza dei sensi. Aveva soprattutto l’aiuto inestimabile dell’intelligenza. M. Confalonieri
L’uomo primitivo. L’uomo primitivo viveva nell’oscura umidità delle selve. Quando sentiva lo stimolo della fame, mangiava le foglie crude e le radici delle piante e rubava le uova agli uccelli per procurare cibo ai propri piccoli. Alle volte gli capitava, dopo una caccia lunga e paziente, un uccello o un cagnolino selvatico, magari un coniglio. E li mangiava crudi, perchè non aveva ancora scoperto che la carne è più saporita quando è cotta. Quando scendeva la notte, nascondeva la moglie e i bambini nel cavo di un tronco o dietro qualche riparo naturale, perchè era circondato da belve che sceglievano la notte per andare in cerca di vitto e gradivano il sapore delle carni umane. Era un mondo nel quale bisognava o mangiare o essere mangiati. Al pari di molti animali che riempiono l’aria di grida, anche l’uomo primitivo amava ciarlare. O meglio, ripeteva senza posa lo stesso vociare incomprensibile, solo perchè gli piaceva udire il suono della propria voce. Col tempo imparò che poteva usare quei suoni gutturali per mettere in guardia il compagno contro la minaccia di un pericolo: ed emetteva certi strilli che, col tempo, vennero a significare “Una tigre”, oppure “Degli elefanti”, e gli altri rigrugnivano di ritorno qualche cosa che significava “Ho visto” oppure “Scappiamo a nasconderci”. Fu probabilmente questa, l’origine del linguaggio. Van Loon
I primi abitatori dell’Italia. I primi abitatori dell’Italia per difendersi dalle fiere e dai nemici usarono la clava, un grosso bastone, simile a quello che nelle statue e nelle pitture vedete in mano ad Ercole. Gli uomini primitivi impararono ad usare la pietra, non solo per scagliarla contro i nemici, ma per foggiare quegli utensili e quelle armi che potete vedere allineati nelle sale dei Musei preistorici delle principali città italiane. E’ assai probabile che, passando in quelle sale, davanti a quei rozzi avanzi preistorici non vi siate neppure fermati, trovandoli privi di interesse. Li guarderete invece con stupore, se penserete che quegli oggetti furono foggiati parecchie migliaia di anni fa, da uomini che non conoscevano i metalli e che con quei pezzi di pietra triangolari ed ovali cacciavano le fiere, combattevano, tagliavano il legno. Gli uomini che modellarono ed usarono quegli strumenti abitavano nelle caverne, vivevano di pesca e di caccia, lottavano con gli ultimi mammut e con altri spaventosi animali. Una volta uccisi, ne lavoravano, con i rozzi coltelli di pietra, le ossa e le corna, e ne facevano utensili. Si coprivano con le pelli degli stessi animali, e quando volevano ornarsi, si facevano monili di vertebre di pesce e di conchiglie o si tingevano il corpo di rosso. Avevano gran cura dei morti e li seppellivano, con tutti i loro ornamenti, entro le caverne nelle quali erano vissuti. A poco a poco questi uomini impararono a levigare la pietra, a far vasi con l’argilla, a coltivare il lino e il frumento; ebbero animali domestici ed impararono a costruirsi capanne. Se vi recate in visita al grazioso laghetto di Varese in una giornata in cui l’acqua sia molto bassa e trasparente, potrete vedere dei pali conficcati nel fondo del lago: sono gli avanzi di un villaggio costruito 4000 anni fa. Gli abitanti (che non erano forse della stessa razza degli uomini che vivevano nelle caverne, ma erano venuti da noi attraverso le Alpi) conficcavano tronchi di pini, di betulle e di altri alberi, nel fondo del lago, e su queste palafitte costruivano le lor capanne, nelle quali vivevano tra il cielo e l’acqua che li difendeva dal pericolo degli animali feroci. Nei musei preistorici, insieme agli oggetti di pietra, di terra, di osso su cui è scritto “proveniente da abitazioni lacustri”, troverete anche i primi oggetti e strumenti di bronzo.
Aspetto dell’Italia antica La scienza ha cercato di ricostruire l’aspetto dell’Italia preistorica e di scoprire chi furono i suoi antichissimi abitatori e come vivevano. La pianura padana era in gran parte coperta d’acqua: i fiumi che confusamente scendevano dalle Alpi e dagli Appennini, non frenati dall’opera dell’uomo, impaludavano. Vaste foreste coprivano gran parte dei suoi monti e delle sue valli; le coste, spesso invase dalle acque, avevano clima malsano.
I primi abitatori della nostra penisola Gli scavi hanno rivelato l’esistenza di nuclei di popolazione dell’età della pietra grezza. Poco o nulla sappiamo di quelle antichissime genti. Abitavano in caverne, vivevano di caccia e di pesca, ignare quasi della pastorizia e dell’agricoltura. Liguri furono chiamati questi antichi abitatori della penisola, sparsi non solo nella Liguria propriamente detta, ma in gran parte dell’odierno Piemonte e nelle valli delle Alpi occidentali. Anche zone del Veneto erano abitate fin dall’età paleolitica dagli Euganei, che lasciarono il nome colli vicini a Padova: provenivano forse dall’Illiria. I Sicani e i Siculi della Sicilia, come pure i Sardi ed i Corsi, pare fossero affini agli Iberi o addirittura Iberi. Verso il 2000 aC le popolazioni più antiche della valle del Po furono sopraffatte sa altre popolazioni indoeuropee più numerose e forti, scese dalle Alpi, che avevano un grado superiore di civiltà (pare conoscessero l’uso del bronzo). Queste invasioni avvennero a ondate successive al principio dell’età del bronzo, e i nuovi venuti spinsero di mano in mano sempre più a sud, lungo la penisola, quelli che li avevano preceduti. Frattanto, dalle caverne si passò alle palafitte, raggruppate in villaggi lacustri. Un po’ più tardi villaggi simili sorsero anche in zone non lacustri, su terrazzi sopraelevati trattenuti e sostenuti da pali infilati saldamente nel suolo e circondati da un fossato che difendeva dall’assalto delle belve e dei nemici. Terramara è chiamata questa speciale costruzione. Gli abitanti delle terramare conoscevano l’uso del bronzo, allevavano animali addomesticati, coltivavano la terra, tessevano il lino e la lana.
Come gli uomini primitivi trovavano riparo. Per migliaia di anni, gli uomini primitivi, muniti soltanto di rozzi bastoni e di pietre dovettero accontentarsi di ripari naturali: caverne, strette valli riparate dagli alberi, rocce sporgenti costituirono i loro unici rifugi. In ogni caso, dimore fisse e ben costruite sarebbero state di scarsa utilità a uomini obbligati a trascorrere la loro vita vagando da un luogo all’altro in cerca di cibo. Alcune popolazioni che vivono tuttora di caccia e di raccolto, come gli Waddis dell’Australia settentrionale, non si costruiscono dimore fisse. Ma col tempo, gli antichi uomini cominciarono a costruirsi dei ripari mobili, che potessero trasportare con sè. Talvolta, come gli Waddis, essi usavano semplicemente delle pelli animali, che, tese fra i rami degli alberi, potevano formare una specie di tetto. Talvolta, come gli Indiani d’America, essi si costruirono delle vere e proprie tende. Più tardi, quando gli uomini divennero proprietari di greggi e cominciarono a coltivare la terra, sentirono la necessità di un posto riparato dove tenere i loro attrezzi, dove cucinare i cibi e dove dormire al sicuro la notte, per molti anni. Queste prime case erano talvolta costruite col fango seccato e indurito al sole. Quando gli uomini ebbero a disposizione scuri robuste per abbattere alberi e tagliare grossi rami, le case furono costruite con tronchi. Un altro materiale da costruzione conosciuto dai tempi antichi è la pietra; ma poichè essa era pesante ed era difficile darle forma, non fu impiegata subito nella costruzione di abitazioni comuni. L’impiego della pietra presentava molte difficoltà: tra le altre, quella di lasciare delle aperture per le porte e per far entrare la luce; i primi architetti, infatti, non conoscevano l’arco con cui più tardi i Romani costruirono i loro ponti di pietra. Talvolta si risolveva il problema appoggiando su due o più pietre verticali una pietra orizzontale. Oppure si scavava in una collinetta una specie di vasta camera sotterranea; le pietre servivano poi a puntellare il soffitto e le pareti e a rinforzare l’entrata.
Si costruiscono templi. Gli antichissimi architetti dell’età della pietra costruivano i loro templi con grossi e rozzi macigni. Per il trasporto venivano usate rudimentali slitte. Per sovrapporre ai due o tre massi verticali una di queste enormi pietre, veniva probabilmente costruito un terrapieno a piano inclinao che raggiungesse la sommità dei pilastri. Resti di questi grandiosi monumenti si vedono ancor oggi in alcune zone dell’Inghilterra e della Francia.
L’uomo impara a usare il fuoco. Nevicò per mesi e mesi. Tutte le piante morirono e gli animali fuggirono in cerca di sole. L’uomo prese i piccoli sul dorso e si unì agli animali. Ma non potendo viaggiare con la stessa rapidità delle creature più veloci di lui o era condannato a morire oppure doveva ingegnarsi a sopravvivere. Anzitutto trovò modo di coprirsi per non morire congelato. Imparò a scavare buche, nascondendole sotto ramaglie frondose, e in esse intrappolò orsi e iene che poi uccise con macigni e scorticò per usarne le pelli come indumento per sè e la famiglia. Poi c’era il problema della casa: più semplice. Molti animali avevano l’usanza di dormire in caverne; l’uomo li imitò. Cacciò le bestie dai loro ricoveri, e si impadronì delle loro case calde. Ma, anche così, il clima era troppo freddo. Allora un genio ideò l’uso del fuoco. Una volta che era fuori a caccia s’era trovato in mezzo a una foresta incendiata. Ricordava solo di aver rischiato di arrostirsi; e da allora in poi aveva considerato il fuoco come un nemico. Ma ora se lo fece amico. Portò nella caverna un tronco secco e vi appiccò il fuoco usando i tizzoni ardenti raccolti in una selva in fiamme. Con questo mezzo convertì la caverna in una stanzetta deliziosamente riscaldata. E poi, una sera, un pollastro cadde nel fuoco. Nessuno ve lo tolse finchè non fosse diventato arrosto. L’uomo scoprì che la carne cotta aveva un sapore più buono, e senz’altro smise una delle abitudini che aveva fin allora condiviso con gli altri animali, e da quel giorno in poi cominciò a cucinarsi il cibo. Van Loon
L’illuminazione. Com’erano buie le caverne! Dalla piccola apertura, nelle notti di luna, s’intravedeva un incerto chiarore, ma quando il cielo era coperto da nubi, ai poveri abitanti non restava che raggomitolarsi, stretti l’uno contro l’altro, nei caldi giacigli imbottiti di erba e rivestiti di soffici pellicce d’orso. E i loro occhi, inutilmente spalancati nel buio, finivano per chiudersi nel sonno. Ma un giorno l’uomo fece una grande scoperta: riuscì ad imprigionare il fuoco, e la sua caverna conobbe la prima forma di illuminazione notturna. Per molto tempo il ramo infuocato dell’albero fu il solo mezzo di illuminazione conosciuto. Poi l’uomo si accorse che certi rami impiegavano più tempo a spegnersi perchè erano ricchi di una gomma profumata: la resina. Ci fu chi raccolse questa resina e la fece liquefare in recipienti di terra. Bastava immergere un ramo in questo liquido e lasciarlo asciugare per avere una torcia dalla fiamma brillante e duratura. Finalmente ci fu chi trovò l’olio. E l’uomo inventò la lanterna. Le prime erano in terracotta, simili a tazze, chiuse sopra, con un foro e un beccuccio da cui usciva il lucignolo che, acceso, bruciava lentamente. Risale al tempo delle persecuzioni cristiane l’apparizione delle prime candele di cera.
La famiglia al tempo dei tempi. Sì, era molto diversa dalla nostra la vita degli uomini primitivi, ma qualcosa di uguale c’era: una famiglia stretta da un sentimento di amore. Senza l’amore, senza l’affetto familiare, l’uomo sarebbe rimasto selvatico. Ecco perchè si dice che la famiglia è la base della società, il fondamento, il piedistallo della grande famiglia umana. I papà e le mamme, in ogni tempo, hanno fatto il loro dovere. Hanno dato nutrimento, protezione e affetto ai loro piccoli. Ma questo non bastava. C’era da insegnar loro tante cose, tante e poi tante: come si accende il fuoco, come si mantiene e come si custodisce; quali frutti ed erbe si possono mangiare; come si imita il grido degli animali per richiamarli, quali sono le grida delle tribù; come si rende aguzza una pietra; come si fa stagionare un ramo per ricavarne un arco; come si segue, si affronta, si colpisce, si scuoia un animale; come si lavora una pelle; come si costruiscono i cesti di giunchi; come si conservano i frutti… E poi quegli antichi genitori insegnavano a leggere nel cielo i segni della prossima pioggia, nelle acque del fiume il preannuncio della piena, e nella terra le orme degli animali. Insegnavano a mettere delle pietre bianche sul sentiero in modo che esse indicassero “qui sono passato io inseguendo un branco di cervi”. Oppure a incidere la corteccia di un albero in modo da far comprendere che quelle intorno erano terre nemiche. G. Valle
Negli anni più lontani la nostra terra non è sempre stata così, come oggi noi la vediamo. Appena nata, negli anni più lontani, la terra era infuocata, ribollente. Era avvolta da una nube fittissima di vapori scuri. Molto lentamente essa si andò raffreddando, prese forma e si rivestì di una crosta dura di roccia. La nube di vapori che avvolgeva la terra si trasformò in acqua e precipitò sotto forma di piogge torrenziali; tutto ne fu inondato, ogni valle ne fu riempita. Nacquero fiumi, laghi, mari. E, dentro, la terra ancora ribolliva. Tale sua forza scuoteva la crosta di roccia con terremoti violenti; la spezzava, la deformava, vi apriva le bocche infuocate dei vulcani. Sulla terra, intanto, trascorrevano periodi lunghissimi in cui, di volta in volta, il clima era mite o estremamente rigido. Quando il freddo avvolgeva ampie zone della terra si formavano ghiacciai immensi, dalla cima delle montagne fino alla pianura. Poi i ghiacci si ritiravano, si scioglievano, lasciando dietro di sè un paesaggio nuovo. Dopo un lunghissimo periodo di sconvolgimenti, la terra si riposò. Sulla sua superficie si formarono foreste immense; le acque furono popolate di alghe. Animali mostruosi e terribili, molto simili ai draghi, vagavano per foreste e montagne, combattendosi ferocemente per il possesso della preda ed emettendo gridi terribili. Un giorno essi scomparvero ed altri animali, di grandezza smisurata, come ad esempio il mammut, abitarono la terra. L’uomo comparve molto più tardi; per poter sopravvivere dovette combattere questi mastodontici animali, difendendosi unicamente con armi offerte dalla natura: pietre, rami, ossa… Egli non aveva casa, non conosceva il fuoco per scaldarsi e cuocere i cibi, non conosceva i metalli, non sapeva coltivare i campi, nè navigare o servirsi delle infinite cose che erano attorno a lui. Per sua fortuna, aveva con sè un tesoro inestimabile: l’intelligenza.
La caverna fu la scomoda abitazione degli uomini primitivi. In essa vi era ben poco: alcune grosse pietre e, nell’angolo più riparato, un mucchio di ramoscelli e foglie secche su cui poter dormire. La caverna riceveva luce soltanto dall’imboccatura. L’uomo primitivo si copriva il corpo con le pelli degli animali che uccideva.
La vita dell’uomo incominciò quando già da migliaia e migliaia di anni sulla terra verdeggiavano le foreste e si muovevano gli animali. Usando l’intelligenza, dono che egli solo possedeva, seppe ben presto distinguersi dalle altre creature; imparò a difendersi dai pericoli e a migliorare le sue condizioni di vita.
Era un uomo muscoloso, scuro di pelle, aveva la fronte bassa e la mascella robusta, munita di denti che gli servivano da forchetta e da coltello. Durante il giorno era continuamente alla ricerca di cibo per sè e per la sua famiglia. Di notte metteva al riparo la moglie ed i piccoli nel cavo di un albero o tra le rocce, ed era pronto a difenderli dagli assalti degli animali feroci.
I primi uomini vivevano in un mondo nemico, nel quale si uccideva o si era uccisi. Essi non sapevano ancora parlare ed esprimevano con grida la paura, il dolore, la gioia.
L’uomo si spostava continuamente. Quando nella zona non vi erano più frutti da raccogliere e animali da cacciare, era costretto ad andare a cercarli altrove. Se si fermava nelle località montuose poteva ancora rifugiarsi nelle caverne, ma nelle località pianeggianti doveva pensare a costruirsi un riparo dal freddo e dalle fiere. Nacquero così le prime capanne che, secondo i luoghi, erano ora di fango, ora di tronchi d’albero, ora di rami. Per difendersi meglio dagli animali, gli uomini le costruirono sugli alberi oppure le recinsero con siepi e con pali.
Vicino ai laghi, i villaggi erano ancora più sicuri. Le capanne costruite su pali infitti nella melma (palafitte), avevano un ponte che li univa alla riva. Di notte gli uomini lo ritiravano in modo che gli animali non potessero penetrare nelle capanne. Per costruire le palafitte furono tagliati e lavorati migliaia di pali con rozze accette di pietra.
Come si scoprì il fuoco? Tante volte l’uomo, durante furiosi temporali, aveva visto gli alberi della foresta incendiarsi, colpiti da misteriose “lingue” che venivano dal cielo. Egli era sempre fuggito terrorizzato, come gli animali. Poi, a poco a poco. cominciò ad avere meno paura: quella luce rischiarava la notte e diffondeva intorno un piacevole chiarore. Un giorno, un coraggioso prese un ramo in fiamme e lo portò con sè a rischiarare la caverna… Come era utile quella fiamma! Con essa l’uomo imparò a cucinare il cibo, a riscaldare il proprio corpo e a difendersi dagli assalti degli animali. Bisognava però aver cura che il fuoco non si spegnesse; perciò dapprima, l’uomo dovette custodirlo e alimentarlo continuamente. In seguito, riuscì ad accenderlo quando voleva, strofinando tra loro due pietre e facendo scoccare la scintilla vicino a foglie secche.
Le armi preistoriche
Per difendersi dagli animali e per cacciarli, l’uomo usò, dapprima, un ramo o un sasso. Rami e sassi furono le prime armi. L’uomo primitivo usò specialmente le pietre, per la loro durezza e per il loro peso. Egli seppe renderle armi pericolose: le appuntì, le lisciò, ne assottigliò i bordi. Preparò così pugnali, asce, punte di lancia e di freccia legate a bastoni, ottenendo armi per la lotta da vicino e da lontano. Con il legno e con la pietra, l’uomo foggiò oggetti di uso comune: raschiatoi, macine, ornamenti.
La prima arma
Il cacciatore cadde, senza forze, davanti alla caverna: il sangue gli usciva da ferite profonde sulle braccia, sulle gambe, sul volto. Quel giorno era stato sfortunato: aveva tentato di uccidere un orso per averne la calda pelliccia; era balzato impugnando un sasso appuntito, ma l’orso era stato più svelto di lui, si era alzato sulle zampe posteriori e gli aveva piantato gli unghioni nelle carni. Il cacciatore era riuscito a stento a liberarsi della belva ed era fuggito, urlando di dolore.
Ecco: era troppo pericoloso assalire gli orsi da vicino… occorreva trovare il modo di colpirli a distanza.
Il cacciatore, mentre lavava le sue ferite con l’acqua e le fasciava con lunghe foglie, pensò: “Legherò una punta di selce ad un bastone, lo scaglierò sull’orso da lontano, all’improvviso, e l’orso cadrà e non potrà ferirmi”. Si mise subito al lavoro; scelse la pietra più aguzza ed il ramo più dritto, poi li unì saldamente; il cacciatore aveva nelle sue mani la prima lancia.
I metalli
Il focolare primitivo era composto di pietre sovrapposte. Alcune di queste pietre contenevano metalli. Un giorno, per il gran calore, il metallo contenuto nelle pietre si liquefece e colò sul basamento irregolare del focolare. Raffreddandosi, indurì, mantenendo inalterata la forma delle asperità del focolare sulle quali era colato. L’uomo preparò degli stampi, vi fece colare il metallo e ottenne nuove armi e nuovi utensili, molto più resistenti delle antiche armi di pietra scheggiata. Il primo metallo che l’uomo seppe fondere e lavorare fu il rame. In seguito, l’uomo imparò a fondere altri metalli, a lavorarli e a ricavarne armi, utensili e monili sempre più perfezionati. L’età della pietra era finita e la vita dell’uomo divenne più facile.
Verso la civiltà
Lottando con gli animali e vivendo tra essi, l’uomo imparò a riconoscere i più mansueti, quelli che si lasciavano accostare. Pensò all’utilità di avere sempre vicino, per la carne, per il latte, per le pelli, un buon numero di pecore o di buoi o di cavalli. Imparò a servirsene ed a proteggerli. L’uomo diventò così pastore. L’uomo affamato si cibava di molti frutti e di molte erbe. Alcuni particolarmente gli piacquero. Egli osservò che le pianticelle rinascevano dai loro semi. Provò a deporli in quantità nella terra ed ebbe la grande gioia di vedere il primo campicello verdeggiante. L’uomo rimase fedele alle sue pianticelle e divenne agricoltore.
Qualcuno osservò che gli oggetti rotondi rotolano, e inventò la ruota; più tardi costruì il carro. Un altro si accorse che il legno galleggia sull’acqua e si ingegnò a navigare sopra tavole di legno oppure dentro un tronco d’albero scavato. L’uomo dei paesi freddi costruì la slitta, vi attaccò un animale addomesticato e si fece trascinare sulle ampie distese di neve e di ghiaccio.
Gli uomini avevano ormai i loro mezzi di trasporto. Si spostarono più volentieri, si incontrarono con altri uomini , cominciarono a scambiare tra loro gli oggetti che sapevano far meglio o che possedevano in abbondanza: una manciata di grano per una ciotola di latte, bei frutti maturi per una pelle di pecora.
L’uomo imparò a contrattare. Molti prodotti nuovi arricchirono la sua tavola e la sua casa. Nacquero così i primi commerci.
A piccoli passi, gli uomini si avviarono verso nuove civiltà, godendo di maggior benessere.
Poi essi inventarono la scrittura e ci lasciarono notizie scritte. Da quel momento termina il lungo periodo della preistoria, e ha inizio la storia.
Madre terra
L’uomo preistorico fece un passo decisivo sulla via della civiltà quando scoprì che la terra si poteva coltivare. L’uomo delle caverne è diventato, oggi, l’uomo dei grattacieli, ma non ha ancora inventato qualche cosa che gli permetta di sfamarsi senza ricorrere, direttamente o indirettamente, alla terra. E la coltiva diligentemente perchè produca sempre di più.
Il sottotitolo di questo post potrebbe essere: abbasso la confusione! Chiedetelo ad uno qualunque di noi, archeologi, (paleo)antropologi, paleontologi e saranno tutti unanimi nell’affermare che le nostre rispettive discipline sono spesso considerate tutte un po’ la stessa cosa.
A quanto pare basta indossare pantaloni con le tasche ed un buffo cappello et voilà, il gioco è fatto, l’iconografia ci ha intrappolato!
Cioè, certo che siamo tutti fratelli e nessuno vuol negare che le discipline in questione siano affini, ma di fatto facciamo un lavoro diverso, ed abbiamo formazioni diverse.
Non vorrei esser troppo presuntuosa e presumere che i giornalisti scientifici leggeranno questo post e useranno le dovute etichette d’ora in poi, anche se confesso che la cosa mi solleverebbe non poco.
Né tantomeno oso sperare che parlando di giocattoli si incorra in un’improvvisa illuminazione:
Aspiro più realisticamente ad un pubblico di lettori-genitori ed educatori, pronti ad correggere tutti gli errori dell’amata prole.
Quali sono quindi le differenze? Vi propongo un rapido e spero efficace prontuario dei mestieri.
L’archeologia (secondo la Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/archeologia/) e’’la “Scienza dell’antichità che mira alla ricostruzione delle civiltà antiche attraverso lo studio delle testimonianze materiali (monumentali, epigrafiche, numismatiche, dei manufatti ecc.), anche mediante il concorso di eventuali fonti scritte e iconografiche. Caratteristica dell’archeologia è il metodo di acquisizione delle conoscenze, mediante cioè lo scavo sul terreno, la ricognizione di superficie, la lettura dei resti monumentali residui.”
L’archeologo è colui che ricostruisce il passato tramite lo studio diretto di ciò che è giunti fino a noi. E allora, dov’è il trucco? Il trucco è nella parola “civiltà’”, proprio lì nella definizione. Gli archeologi studiano l’uomo, il passato dell’uomo, i comportamenti, gli usi e costumi, la storia. L’archeologia, anche quella preistorica, fa parte delle “scienze sociali” e gli archeologi quindi hanno generalmente una formazione umanistica.
Di conseguenza i siti in cui non c’è la testimonianza di attività umana non sono “siti archeologici”. Quindi, poiché ovviamente i dinosauri si sono estinti molto molto tempo prima la comparsa dell’uomo, l’”Archeologia dei dinosauri” non esiste.
L’archeologia ha numerosissime branche, che possono variare per il periodo studiato (Preistoria, Protostoria, Età Romana eccetera), ma anche per il tipo di materiale studiato di preferenza (litica, ceramica eccetera). Alcuni archeologi si occupano di ossa animali, sono gli zooarcheologi (o archeozoologi), e studiano le faune presenti negli scavi archeologici ed in particolare l’impatto dell’uomo su questi animali (sono stati cacciati? cotti e mangiati? allevati? macellati?…eccetera).
La paleontologia è lo studio dei fossili, ed in generale delle specie estinte. Essendo un campo molto vasto, questa scienza è divisa in molte categorie (invertebrati, vertebrati, micropaleontologia, eccetera). Tra i paleontologi dei vertebrati, c’è chi studia di dinosauri e chi si dedica ad altre specie. Si può essere paleontologi senza aver mai sfiorato un dinosauro! Questa scienza copre un lasso temporale molto ampio, dall’origine della vita (cioè dalle sue prime testimonianze fossili) fino a tempi molto più recenti.
I paleontologi hanno quindi una formazione scientifica, generalmente studiano Scienze naturali o Geologia. A loro non interessa la traccia “umana”, ne’ la civiltà del passato che ha dato origine ai siti. Si occupano dello sviluppo, anzi dell’evoluzione delle specie nel tempo, la loro nascita, ed eventualmente la loro estinzione.
E i paleoantropologi allora? Beh, questi signori sono innanzitutto antropologi fisici. Sono specialisti nello studio dell’uomo ed in particolare del “posto dell’uomo nella natura”. I paleoantropologi sono specializzati nelle specie di ominidi fossili, e le studiano con lo scopo di ricostruire la successione di specie del nostro ramo evolutivo, quella quindi che ha portato fino a noi (o si è estinta).
I paleoantropologi generalmente sono biologi, biologi evoluzionisti o anche medici.
Come fare allora a distinguere questi signori?
Per allenarvi vi propongo un rapido quiz. Rispondete: a = archeologo; z = zooarcheologo; p = paleontologo; pa = paleoantropologo.
1) Vi trovate nel museo di Storia naturale di Milano e siete cosi fortunati da imbattervi in uno studioso intento ad esaminare una zanna di Homotherium. Che disciplina pratica questo signore?
2) La vostra scuola organizza una conferenza di Giorgio Manzi, che vi parlerà dell’Uomo di Neanderthal in Italia. Il professor Manzi è un a) az) p) o un pa?
3) In viaggio in famiglia, fate una sosta al complesso di siti Paleolitici dei Balzi Rossi, al confine tra Francia ed Italia, dove io ed altri colleghi vi accompagnamo in una visita guidata dei siti. Qual è la nostra disciplina?
4) Ai Balzi Rossi, visitando il laboratorio annesso al museo, la Dott.ssa Zeppieri vi mostra le ossa animali provenienti dal sito di Riparo Mochi, spiegandovi che tipo di animali erano, quanti anni avevano e mostrandovi le tracce che gli strumenti di selce hanno lasciato sulle ossa. Cosa studia questa ricercatrice?
Risposte esatte: 1) p; 2) pa; 3) a; 4) za
Bene, se avete risposto correttamente a tutte le domande, congratulazioni! Se invece vi è sfuggito qualcosa, tornate su e rileggete con attenzione. Oppure scrivetemi, cercherò’ di sciogliere i vostri dubbi.
Enza Spinapolice e’ un’archeologa del Paleolitico e lavora all’Istituto di Antropologia Evoluzionista Max Planck, di Leipzig. Ha studiato Preistoria a Roma, poi ha conseguito un dottorato Europeo tra Roma e Bordeaux, e da tre anni fa ricerca in Germania. Si interessa in particolare all’origine biologica e culturale della nostra specie, all’estinzione dei neandertaliani ed alle società di cacciatori raccoglitori passate e presenti. Oltre a girare il mondo e studiare il passato, Enza ha una famiglia multiculturale, ed un bimbo di due anni e mezzo, a cui spera di insegnare molto presto la preistoria.
Dinosauri – nomenclature Montessori. Sul tema dinosauri ho preparato queste carte delle nomenclature che includono le carte illustrate, i cartellini dei nomi, le carte con immagine e nome del dinosauro, e anche delle schede illustrate abbinate a schede con testo descrittivo.
Altro materiale didattico sull’argomento dinosauri si trova qui:
queste carte delle nomenclature includono: – le carte illustrate, – i cartellini dei nomi, – le carte con immagine e nome del dinosauro, – le schede illustrate abbinate a schede con testo descrittivo.
L’epoca dei dinosauri corrisponde al periodo di tempo chiamato dai geologi ERA MESOZOICA, da 248 a 65 milioni di anni fa. L’era Mesozoica si divide a sua volta in tre periodi: – PERIODO TRIASSICO: 248 – 208 milioni di anni fa. Sono comparsi i primi dinosauri. – PERIODO GIURASSICO: 208 – 144 milioni di anni fa. I dinosauri hanno raggiunto le loro massime dimensioni. – PERIODO CRETACEO: 144 – 65 milioni di anni fa. Il popolo dei dinosauri ha raggiunto la massima varietà.
Nell’era MESOZOICA le masse terrestri si sono gradualmente spostate a causa di un processo che noi oggi chiamiamo “deriva dei continenti”: – nel TRIASSICO tutti gli attuali continenti erano uniti per formarne uno solo, chiamato PANGEA; – nel GIURASSICO il supercontinente Pangea si è diviso in due parti: LAURASIA a Nord e GONDWANA a sud; – nel CRETACEO Laurasia e Gondwana si sono a loro volta suddivise, dando luogo ai continenti così come li conosciamo oggi.
I dinosauri hanno dominato il mondo per 160 milioni di anni, più a lungo di qualsiasi altro gruppo animale. 65 milioni di anni fa si sono estinti, cioè sono morti tutti, e molti altri rettili preistorici acquatici e volanti sono scomparsi insieme ai dinosauri. Questa “estinzione di massa” ha coinvolto anche altri animali e piante.
Una possibile spiegazione potrebbe essere fornita da qualche nuovo tipo di malattia, diffusasi per terra e per mare.
L’estinzione di massa può essere attribuita a una serie di disastrose eruzioni vulcaniche, che avrebbero sparso su tutta la Terra le proprie ceneri velenose.
Un’altra spiegazione per l’estinzione di massa fa riferimento a un possibile cambiamento climatico: un riscaldamento globale che potrebbe essere durato secoli, o anche più.
Una teoria ben nota vuole che l’estinzione di massa sia stata dovuta a un meteorite precipitato dallo spazio sulla Terra. Un meteorite gigante, del diametro di circa 10 km, avrebbe scatenato terremoti ed eruzioni vulcaniche, oscurando il cielo di polvere. Il cielo oscurato dalla polvere, per un anno o più, avrebbe portato alla morte di gran parte delle piante, dunque degli animali erbivori e infine dei carnivori.
Rimane un enigma irrisolto: perchè altri rettili, come i coccodrilli, le lucertole, le tartarughe, sono sopravvissuti?
STUDIARE I DINOSAURI
La maggior parte delle informazioni che abbiamo sui dinosauri ci vengono dai loro fossili.
I fossili sono quel che resta di organismi viventi trasformati, nel corso di milioni di anni, in solida roccia. Non solo i dinosauri, ma molti altri esseri preistorici hanno lasciato per noi i propri resti fossili: mammiferi, uccelli, lucertole, pesci, insetti, e anche piante di vario genere. La carne, le interiora e le altre parti molli di un dinosauro morto venivano di solito mangiate rapidamente da altri animali, oppure andavano in decomposizione, perciò molto raramente ne troviamo tra i fossili. La sabbia e il fango che circondavano i resti di un animale o di una pianta venivano nel corso del tempo sottoposti a una grande pressione, cementandosi in un’unica massa rocciosa. Come il sedimento (cioè la sabbia o il fango) anche i resti animali e vegetali si sono poi trasformati in pietra. La fossilizzazione è un processo estremamente lungo e soggetto a ogni tipo di imprevisto.
Solo una minima parte degli esseri viventi ci è giunta sotto forma fossile. Dato il modo in cui i fossili si sono formati, la maggior parte di essi si trova nei pressi dei corsi d’acqua.
La maggior parte dei dinosauri deve essere ricostruita da resti fossili che si limitano alle parti più dure del corpo: denti, corna, artigli. Nella ricostruzione ci si aiuta spesso guardando alle caratteristiche di altri dinosauri simili, e cercando così di immaginare la forma delle parti mancanti: denti, ma anche code, arti, e perfino la testa. Per quel che riguarda le parti molli, ci si aiuta osservando le caratteristiche di rettili simili tra quelli viventi oggi, specialmente lucertole e coccodrilli. Si cerca di immaginare la struttura dei muscoli e degli organi interni.
Molto raramente il corpo del dinosauro si è rapidamente disseccato e ce ne sono giunti alcuni resti mummificati e fossili. Uno dei più noti dinosauri che ci sia giunto parzialmente mummificato è Sue, un esemplare di Tyrannosaurus trovato negli USA nel 1990: il Tyrannosaurus più grande e soprattutto meglio conservato che sia mai stato trovato. Sue era una femmina e il suo nome deriva da quello della sua scopritrice: Susan Hendrickson.
trovato nel Villaggio dei Pescatori a Trieste. È un “Tethysadros insularis”, specie vegetariana di medie dimensioni. Viveva 70 milioni di anni fa fra l’Africa e l’Europa.
ritrovato nel 1980 a Pietraroja (Benevento), è conosciuto in tutto il mondo per l’eccezionale conservazione degli organi interni: l’intestino contenente i resti dell’ultimo pasto, il fegato, la trachea, gli occhi, persino fasci di fibre muscolari. Ciro è il primo dinosauro al mondo a poter essere stato sottoposto ad una vera e propria autopsia. Probabilmente lo scheletro apparteneva ad un cucciolo trascinato in acqua durante un’alluvione e morto annegato 113 milioni di anni fa. Da adulto avrebbe raggiunto la lunghezza di almeno due metri per un metro e mezzo di altezza ed il peso di circa 20 kg; si pensa fosse affine al più famoso Velociraptor.
I fossili non sono le uniche informazioni che abbiamo sui dinosauri. Ci sono rimaste altre tracce, che non si riferiscono a parti del loro corpo. Queste informazioni derivano dalle uova, dalle impronte, dai segni lasciati da denti e artigli, e anche dai coproliti, gli escrementi fossili dei dinosauri.
Maschi e femmine
Per stabilire il sesso dei dinosauri gli studiosi osservano le ossa del bacino e le creste sul capo.
Gli occhi
Prima del ritrovamento di Ciro, non si sono mai trovati occhi fossili di dinosauro: gli occhi sono molli, si decompongono rapidamente dopo la morte e sono le prime parti ad essere divorate dai predatori. I principali indizi sugli occhi dei dinosauri sono le cavità del cranio, le orbite, destinate ad ospitarli. Le orbite dei crani fossili dei dinosauri suggeriscono che i loro occhi fossero simili a quelli dei rettili attuali. I dinosauri dagli occhi piccoli probabilmente avevano una buona vista nelle ore diurne. Gli occhi di molti dinosauri erbivori erano posti ai lati del capo, garantendo così una visione a 360 gradi.
Il naso
Come tante altre creature, i dinosauri respiravano per mezzo della bocca e del naso. I crani fossili dei dinosauri ci mostrano l’esistenza di due aperture nasali, o narici, che portavano alle camere nasali, dove si trovavano gli organi dell’odorato. Alcuni carnivori avevano camere nasali particolarmente grandi, e probabilmente il loro senso dell’olfatto era molto sviluppato.
Le corna
Il corno di un dinosauro cresceva con il crescere dell’animale; non cadeva per ricrescere ogni anno, come succede con le corna dei cervi. Ogni corno aveva un’anima ossea e un rivestimento esterno di una sostanza cornea, formata prevalentemente di cheratina. E’ probabile che le corna siano state usate più per intimidire i rivali scuotendo il capo, che per infliggere reali ferite. E’ anche possibile che i dinosauri si sfidassero in prove di forza allacciando rispettivamente le corna: un po’ come fanno oggi le antilopi.
I becchi
Molte specie di dinosauri avevano il muso che terminava in una specie di becco senza denti. La maggior parte dei dinosauri col becco avevano denti per la masticazione nel retro della bocca, all’altezza delle guance. Con ogni probabilità i dinosauri usavano il becco per strappare, spezzare e tagliare il cibo; il becco può essere servito anche come arma difensiva contro i nemici.
I denti
I denti del dinosauro sono tra i resti fossili più comuni, perchè sono le parti più durature del corpo. I denti di dinosauro sono estremamente diversi fra loro per forma e dimensioni: scalpelli, coltelli, cesoie, chiodi, raspanti, stringenti, trituranti, a pettine, a rastrello… La forma, il numero e la disposizione dei denti sulle mascelle costituiscono indizi chiari di ciò che mangiava ciascun dinosauro. I carnivori come il Tyrannosaurus avevano denti grandi e affilati per dilaniare le loro prede. Alcuni erbivori, come l’Apatosaurus, non avevano neppure un molare. I denti vecchi, rotti o usurati dei dinosauri forse potevano ricrescere, come succede a quelli dei rettili di oggi.
Zampe e postura
Tutti i dinosauri avevano quattro zampe. A differenza di altri rettili, come i serpenti, non hanno perso le zampe nel corso del processo evolutivo. Alcuni dinosauri, come i grandi sauropodi, camminavano a quattro zampe. Quando un animale cammina a quattro zampe si dice che è quadrupede. Altri dinosauri, come gli agili dromesauri carnivori del tipo del Deinonychus, camminavano stando ritti sulle zampe posteriori. Gli arti anteriori erano usati come braccia. Quando un animale cammina utilizzando le sole zampe posteriori si dice che è bipede. Altri dinosauri ancora, potevano muoversi a quattro zampe oppure, a scelta, sulle sole zampe posteriori. I dinosauri hanno le zampe poste direttamente sotto il corpo, e questa postura, più efficiente rispetto all’avere le zampe poste lateralmente, è una delle ragioni che possono spiegare il successo dei dinosauri rispetto ad altri animali del loro tempo.
Ossa dell’anca
Tutti i dinosauri sono classificati all’interno di due grandi famiglie a seconda della forma delle ossa dell’anca:
– SAURISCHI, che significa dinosauri “dall’anca di lucertola”. Nei saurischi le ossa del pube sporgono in avanti e verso il basso. Tutti i dinosauri carnivori erano saurischi, ma lo erano anche i più grandi dinosauri erbivori. La forma ad “anca di lucertola” è quella particolarmente adatta alla corsa, perchè permette un miglior ancoraggio dei muscoli delle zampe.
– ORNITISCHI, che significa dinosauri “dall’anca di uccello”. Negli ornitischi le ossa del pube si proiettano verso il basso e all’indietro. Tutti gli ornitischi erano erbivori.
Artigli
Come molti rettili di oggi, i dinosauri erano muniti di artigli, cioè di forti unghie all’estremità delle dita. Gli artigli dei dinosauri erano probabilmente fatti di cheratina, la stessa sostanza che rivestiva le loro corna e di cui sono costituite le nostre unghie. La forma e la dimensione degli artigli varia molto da un dinosauro all’altro; in molti dinosauri carnivori, che si muovevano sulle zampe posteriori, gli artigli erano lunghi ed affilati come quelli dei felini, mentre i grandi erbivori avevano zampe simili a quelle dell’elefante con unghie simili a zoccoli.
Pelle
Resti fossili di pelle sono stati trovati in più occasioni, così sappiamo che i dinosauri erano ricoperti di squame, come i rettili di oggi. Come nei coccodrilli, le squame dei dinosauri non erano distribuite sovrapposte sulla superficie della pelle, come nei serpenti, ma affondate in una spessa pelle, forte come il cuoio. Le squame sovrapposte proteggevano i dinosauri dai denti e dagli artigli degli avversari, come anche dalle ferite accidentali e dai fastidiosi morsi degli insetti.
Molti dinosauri possedevano corazze difensive. Alcuni di queste corazze erano composte da grandi piastre ossee inserite nella pelle. Un dinosauro corazzato poteva pesare il doppio di un dinosauro della stessa mole non corazzato.
Cresta
Molti dinosauri avevano sul capo escrescenze e protuberanze ossee dalle forme più diverse; è possibile che queste creste fossero rivestite in vita da pelle vivacemente colorata allo scopo di servire come richiamo, e poteva anche servire ad amplificare i suoni.
Vele
Dalla schiena di alcuni dinosauri si alzavano verticalmente delle spine o bastoni; è probabile che queste protuberanze ossee reggessero una vasta superficie di pelle, a formare quelle che ora sono chiamate vele dorsali. Troviamo le vele dorsali sia in dinosauri erbivori sia carnivori. La pelle della vela dorsale dei dinosauri poteva avere colori brillanti e forse anche cambiare colore, come avviene oggi alla pelle dei camaleonti. Poteva servire per controllare la temperatura corporea: esposta in pieno sole, poteva assorbire rapidamente il calore e trasmetterlo al corpo del dinosauro; tenuta all’ombra, poteva garantire un rapido refrigerio evitando il surriscaldamento del corpo.
Piedi
I piedi dei dinosauri erano molto diversi a seconda della forma, del peso, e in generale dello stile di vita dell’animale. Il tipico piede anteriore aveva ossa metacarpali oltre il polso e due o tre falangi per ogni dito con un artiglio al termine. Il piede posteriore del dinosauro era costituito da ossa metatarsali sotto la caviglia. Alcuni dinosauri avevano cinque dita per piede, come avviene per la maggior parte dei rettili (e anche degli uccelli e dei mammiferi).
Coda
Tutti i dinosauri erano muniti di coda, a meno che non l’avessero persa in combattimento. La lunghezza della coda relativamente al corpo, la sua forma, la sua consistenza e altre caratteristiche ci rivelano molto sull’uso che ne faceva ciascun dinosauro. Molti dinosauri carnivori che si appoggiavano e correvano sulle zampe posteriori erano muniti di una coda massiccia destinata a controbilanciare il peso del corpo e della testa. I piccoli carnivori, agili e veloci, usavano la propria coda per mantenere l’equilibrio quando scattavano e balzavano sulla preda.
Cervello
Esiste una relazione tra l’intelligenza di un animale e il rapporto fra la grandezza del suo cervello e quella del corpo. I crani fossili di alcuni dinosauri ci mostrano il volume della scatola cranica, che ci rivela il volume e la forma del cervello; in certi casi all’interno della scatola cranica si è formata una massa fossile con la forma e le dimensioni del cervello originario. Il cervello dello Stegosaurus rappresentava soltanto 1/25.000 del suo peso; quello del Brachiosaurus era forse pari a 1/100.000, e quello del piccolo carnivoro Troodon era circa 1/1.000. Il rapporto cervello-corpo nei dinosauri, insomma, non deve essere stato molto diverso che nei rettili attuali. Si pensa che i carnivori piccoli e medi avessero un’intelligenza paragonabile a quella di un pappagallo o di un topo.
Supponiamo che i dinosauri fossero a sangue freddo come i rettili di oggi: in questo caso sarebbero rimasti inattivi o quasi durante la stagione fredda. Se al contrario fossero stati animali a sangue caldo, come gli uccelli e i mammiferi di oggi, sarebbero stati in grado di mantenersi caldi e in attività anche nella stagione fredda. Una volta gli scienziati ritenevano che i dinosauri fossero tutti a sangue freddo, oggi le opinioni sono diverse. Una prova a favore del sangue caldo è fornita dalla struttura interna di alcune ossa fossili particolarmente ben conservate, compatibile più con gli animali a sangue caldo che con i rettili attuali. Alcuni piccoli dinosauri carnivori sembrano essersi evoluti in uccelli, e gli uccelli sono animali a sangue caldo. Considerando i reperti fossili, il numero dei predatori sembra più simile a quello riscontrabile tra i mammiferi rispetto a quello riscontrabile fra i rettili. Se i dinosauri fossero stati a sangue caldo avrebbero dovuto procurarsi quantità di cibo dieci volte superiori rispetto ai rettili a sangue freddo. Questo perchè occorre bruciare cibo per fornire l’energia destinata a riscaldare il corpo.
Nidi e uova
Le scoperte di nidi e uova fossili si contano a centinaia, spesso accanto ai genitori. Per quel che ne sappiamo, le femmine di dinosauro deponevano uova da cui nascevano i cuccioli. Il tempo che trascorreva tra la deposizione delle uova e la loro schiusa (tempo di incubazione), poteva variare da settimane a mesi, anche in base alla temperatura esterna, come avviene oggi nei rettili.
Nessuno può dire come fosse la crescita dei dinosauri, quanto durasse l’infanzia e quanto lunga fosse la loro vita. Possiamo immaginare che la loro crescita e il loro invecchiamento fossero simili a quelli dei rettili d’oggi; in questo caso i dinosauri crescevano continuamente fino alla morte, ma più velocemente da giovani che da vecchi. Le stime sull’età di un carnivoro adulto come il Tyrannosaurus vanno da 20 fino a oltre 50 anni, mentre la vita dei piccoli carnivori poteva andare dai 3 ai 10 anni. Gli erbivori sauropodi giganti potevano vivere almeno 50 anni, ma forse anche più di 100. Nel corso della sua vita un Brachiosaurus poteva aumentare il proprio peso fino a 2.000 volte, contro le 20 volte di un essere umano.
Migrazioni
Quasi nessun rettile terrestre di oggi affronta migrazioni, cioè spostamenti regolari su lunga distanza, ma negli ultimi 30 anni gli studiosi hanno raccolto le prove di migrazioni regolari da parte di alcuni dinosauri. Un elemento a favore delle migrazioni si trova nella posizione dei continenti all’epoca dei dinosauri: in certe regioni, gli inverni freddi potrebbero aver impedito la crescita delle piante mangiate dai dinosauri. I ritrovamenti fossili dimostrano che le piante smettevano di crescere nei periodi particolarmente caldi e asciutti, costringendo così i dinosauri a emigrare in cerca di cibo. Un’altra possibile prova delle migrazioni è data dalle orme di interi branchi di dinosauri in marcia.
Letargo
E’ probabile che i dinosauri attraversassero lunghi periodi di vita latente durante la stagione invernale, come fanno molti rettili anche oggi. Fossili di dinosauro sono stati trovati anche nelle regioni artiche vicine al Polo Nord, e anche se 120 – 100 milioni di anni fa il clima era relativamente mite e i due Poli non erano coperti di ghiaccio, i dinosauri artici durante l’inverno dovevano per forza cadere in letargo oppure migrare verso sud.
Domande e risposte
I dinosauri erano gli unici abitanti della Terra nella loro era? No. C’erano molti altri animali, dai vermi agli insetti, ai pesci e ai rettili di ogni specie.
C’erano dinosauri volanti? No, però esistevano rettili volanti, chiamati PTEROSAURI.
C’erano dinosauri marini? No, però esistevano rettili marini, come l’ITTIOSAURO o il PLESIOSAURO.
I mammiferi sono comparsi sulla Terra dopo la scomparsa dei dinosauri? No. Al tempo dei dinosauri vivevano numerosi piccoli mammiferi.
C’è una specie di dinosauri che è vissuta durante tutta l’era dei dinosauri? No. Alcune specie sono riuscite a sopravvivere per 10, 20 e anche 30 milioni di anni, ma nessuna si è neppure avvicinata ai 160 milioni di anni che rappresentano l’intera durata dell’era dei dinosauri.
I dinosauri erano lucertole giganti? No. I dinosauri erano rettili, ma non appartenevano alla famiglia delle lucertole.
I dinosauri partorivano i loro cuccioli? No. Per quanto sappiamo tutti i dinosauri deponevano uova.
Ci sono dinosauri sopravvissuti fino ad oggi? No, per quanto ne sappiamo, ma possiamo continuare a fantasticare.
Uomini e dinosauri si sono battuti all’ultimo sangue? No. L’ultimo dei dinosauri è scomparso più di 60 milioni di anni fa, prima della comparsa dell’uomo.
Curiosità
Pietre singolarmente lisce e arrotondate, simili a ciottoli di fiume, sono state trovate frammiste ai resti fossili di alcuni dinosauri. Questi ciottoli vengono rinvenuti troppo spesso per pensare che si tratti di un caso. Le pietre lisce sono state trovate soprattutto nel caso di ritrovamenti fossili di grandi dinosauri erbivori: alcuni dinosauri erbivori possono aver utilizzato le pietre lisce per aiutarsi nella digestione. Questi dinosauri, insomma, non masticavano il cibo prima di inghiottirlo, e ingoiavano sassi per triturare il cibo in un grande ventriglio. Questo permetteva loro di procurarsi il cibo senza perdere tempo nella masticazione. I ciottoli lisci trovati tra i resti fossili dei dinosauri vengono perciò chiamati gastroliti o macine gastriche.
Impronte di dinosauro sono state trovate a migliaia, praticamente in ogni angolo del mondo. A volte i dinosauri hanno lasciato le loro impronte camminando lungo le rive fangose o sabbiose dei fiumi. Il fango si è poi indurito al calore del sole ed è stato ricoperto da altro fango o altra sabbia. Così le impronte fossilizzate sono giunte fino a noi. In altri casi le impronte di fango sono state ricoperte dalla cenere emessa da un vulcano in eruzione. Anche in questo caso le impronte fossilizzate sono giunte fino a noi. Spesso le impronte sono allineate lungo percorsi chiamati “piste”: ciò suggerisce l’idea che le impronte siano state lasciate da dinosauri che si muovevano in branchi, seguendo regolarmente gli stessi percorsi. La distanza tra impronte dello stesso tipo ci rivela se il dinosauro stava camminando, trottando, oppure correndo.
Nessuno può dire di conoscere i colori dei dinosauri. Esemplari fossili di pelle di dinosauro non mancano, ma il loro colore attuale non può che essere quello della pietra. Un fossile infatti non è altro che una sostanza organica pietrificata. Alcuni scienziati suppongono che il colore dei dinosauri fosse simile a quello dei coccodrilli attuali: bruno e verdastro. Posto che fossero colorati di bruno o verdastro, i dinosauri si sarebbero mimetizzati in un ambiente di alberi, terra e rocce. Altri esperti pensano che i dinosauri esibissero colori vivaci come giallo, rosso e blu, senza escludere manti striati e maculati, come quelli di molti serpenti e lucertole di oggi. I dinosauri potrebbero aver esibito colori vivaci per intimorire gli avversari o per prevalere sui rivali nella stagione dell’accoppiamento.
I coproliti sono gli escrementi fossili di animali preistorici come i dinosauri. I coproliti non sono molli e non puzzano; come tutti i fossili sono ormai fatti di solida pietra. Migliaia di coproliti di dinosauro sono stati trovati nei giacimenti di fossili di tutto il mondo. Sezionando i coproliti, a volte si può vedere quel che il dinosauro aveva mangiato negli ultimi tempi: i coproliti dei grandi carnivori contengono spesso le ossa delle loro prede. Gli studiosi sono anche in grado di stabilire quali specie vegetali crescessero in un determinato periodo esaminando i coproliti dei dinosauri erbivori.
Per quanto riguarda la voce dei dinosauri, sono pochi i rettili di oggi che emettono suoni, limitandosi al più a sibili e leggeri ruggiti. I resti fossili suggeriscono invece che i dinosauri potessero emettere una varietà di suoni in molti modi diversi. Diversi posso essere stati anche gli scopi per cui i dinosauri emettevano suoni: per mantenersi in contatto con gli altri individui del branco, per spaventare i nemici, per intimidire i rivali oppure per corteggiare le femmine.
Il film Jurassic Park fa vedere dei dinosauri resuscitati come creature viventi nel nostro mondo a partire dal DNA proveniente non dai resti fossili dei dinosauri, ma dal sangue succhiato dalle zanzare, che si sono a loro volta conservate fino ad oggi incapsulate nell’ambra fossile. Nella realtà gli scienziati hanno davvero trovato frammenti di DNA da resti fossili risalenti all’epoca dei dinosauri, ma questi frammenti rappresentano una minima parte del DNA che sarebbe necessario per ricreare un essere vivente. La maggior parte degli scienziati dubita fortemente che si possano ricreare dinosauri viventi partendo dal DNA trovato nei fossili: sarebbe come voler riscrivere tutte le opere di Shakespeare a partire da un paio di parole. Inoltre i vegetali del nostro tempo potrebbero essere del tutto inadatti alle esigenze di un dinosauro e i dinosauri potrebbero essere sterminati dalle malattie moderne.
I PRIMI DINOSAURI
I primissimi dinosauri erano animali piuttosto piccoli, carnivori, con denti e artigli affilati. Correvano veloci sulle zampe posteriori, che erano lunghe e robuste.
HERRERASAURUS
I resti fossili dell’Herrerasaurus risalgono a 228 milioni di anni fa e furono trovati a San Juan, in Argentina. Era lungo circa 3 metri e doveva pesare circa 90 Kg. Fu uno dei primi carnivori. Si reggeva su due robuste zampe. La testa relativamente sottile, i denti robusti e gli artigli affilati anticipano le caratteristiche dei carnivori che lo hanno seguito. Andava a caccia di piccoli animali come insetti, lucertole, e altri piccoli rettili.
STAURIKOSAURUS
Uno dei primi dinosauri, un carnivoro relativamente piccolo, lungo circa 2 metri. Correva veloce sulle zampe posteriori, mantenendo l’equilibrio grazie alla lunga coda. Simile all’Herrerasaurus, visse nello stesso periodo, ma più a nord, nell’attuale Brasile.
I GRANDI CARNIVORI
I grandi dinosauri carnivori appartenevano a un gruppo noto col nome di carnosauri. Tutti i carnosauri avevano un aspetto simile: il loro modello era il terribile TARBOSAURUS.
Il più grande tra i carnosauri fu il GIGANOTOSAURUS, il più grande carnivoro mai esistito sulla terra. Era lungo fino a 16 metri e pesava almeno 8 tonnellate.
Alcuni carnivori possono aver avuto un cervello relativamente sviluppato, che permetteva loro di cooperare e cacciare in gruppo. I dinosauri erano rettili, ma oggi nessun rettile caccia in gruppo, mostrando cioè segni di cooperazione. Coccodrilli ed alligatori talvolta si buttano insieme sulle prede, ma senza mostrare segni di cooperazione. I resti fossili dei dinosauri sembrano invece dimostrare che molti carnivori cacciavano in gruppo cooperando tra loro. Si sono ritrovati i resti fossili di molti individui della stessa specie in un unico luogo. Ciò sembra testimoniare qualche forma di vita sociale. I resti fossili di alcuni dinosauri erbivori portano il segno di morsi inferti da predatori di taglia diversa, che dunque sembrano aver cacciato in gruppo.
TARBOSAURUS
Il tarbosaurus, asiatico, era molto simile al TYRANNOSAURUS americano. Vissero entrambi nella stessa epoca, 70 – 65 milioni di anni fa. Alcuni scienziati ritengono che il Tarbosaurus non sia stato altro che la versione asiatica del Tyrannosaurus americano e che ad entrambi gli animali spetti il nome di tirannosauri. Le possenti dita di questo dinosauro terminavano con piedi muniti di tre dita. Le zampe anteriori erano ridotte, ma le mascelle erano grandi e fortissime.
TYRANNOSAURUS
E’ forse il dinosauro più famoso, e anche uno dei più conosciuti. Grazie a numerosi ritrovamenti in molti luoghi del Nordamerica, abbiamo molte ossa, denti fossili, e anche scheletri completi. Il Tyrannosaurus visse verso la fine dell’era dei dinosauri, circa 68 – 65 milioni di anni fa. Il suo nome completo è TYRANNOSAURUS REX, che vuol dire “re dei rettili tiranni”. Un Tyrannosaurus adulto era lungo 13 metri circa e più alto di un autobus a due piani. Pesava 6 – 7 tonnellate. La sua testa era lunga 1 metro e 20 cm, ed era munita di 50 denti simili a pugnali, lunghi anche 15 cm; le mascelle si articolavano molto indietro nella testa consentendo una grande apertura della bocca. Fino agli anni novanta del secolo scorso, cioè fino alla scoperta del Giganotosaurus, si riteneva che il Tyrannosaurus fosse stato il più grande carnivoro mai esistito. Le sue zampe anteriori, munite di due dita, erano così corte che non gli permettevano ci portare il cibo alla bocca: sembra non abbiamo avuto nessuna utilità. Il collo ricurvo permetteva alla testa di guardare in avanti, e il torace sviluppato garantiva una buona resistenza nella corsa. Durante la marcia, la coda forte e pesante controbilanciava il resto del corpo. I piedi terminavano in tre enormi dita e reggevano ciascuno un peso di 3 – 4 tonnellate. Scavi recenti hanno portato alla luce i resti fossili di un gruppo di tirannosauri, inclusi alcuni cuccioli. Questo suggerisce la possibilità che questi animali vivessero in piccoli branchi familiari. Il Tyrannosaurus poteva essere un cacciatore attivo in grado di catturare la preda battendola in velocità, ma anche un predatore capace di tendere agguati improvvisi agli animali vecchi o malati.
I RAPTOR
Raptor è il nome attribuito al gruppo dei dromeosauri (“rettili veloci”). Raptor significa “cacciatore”, “ladro”, “rapinatore”: la radice è la stessa di “rapace”. I dromesauri o raptor erano dinosauri carnivori di media dimensione, agili e forti. Vissero tra i 150 e i 65 milioni di anni fa. Misuravano tra 1,5 e 3 metri dal muso alla punta della coda, ed erano alti 1 o 2 metri. Avevano su ciascun piede un lungo artiglio ricurvo che poteva infliggere profonde ferite nel corpo delle vittime.
VELOCIRAPTOR
Il Velocitaptor (ladro veloce), era un tipico dromesauro, con un terribile unghione su ciascun piede capace di infliggere alle prede ferite lunghe anche un metro. I suoi resti sono stati ritrovati nell’Asia centrale. Visse 70 – 75 milioni di anni fa nelle steppe e nei deserti della Mongolia. Come gli altri raptor, era probabilmente un corridore veloce, che poteva compiere grandi balzi grazie alle forti zampe posteriori.
DEINONYCHUS
Il deinonychus è probabilmente il più noto tra i raptor. Oltre ad essere agile e veloce, era capace di balzare sulla preda aiutandosi con la coda. Il nome Deinonychus significa “artiglio terribile”. Visse nel Cretaceo medio, 115 – 100 milioni di anni fa. I fossili di Deinonychus provengono dagli Stati Uniti. Questo dinosauro misurava, dal muso alla coda, circa 3 metri e il suo peso era sui 60 – 70 kg, pressapoco come un essere umano. Quando si sono potuti studiare, negli anni sessanta, i resti dei Deinonychus, è stata completamente abbandonata la leggenda che rappresentava i dinosauri come animali dal cervello minuscolo, lenti e stupidi. Veloci, agili, forti, i Deinonychus cacciavano probabilmente in gruppo, come oggi fanno i leoni e i lupi. Il Deinonychus aveva grandi zampe, munite di dita possenti e unghioni affilati. Ciascun piede era dotato di un grande artiglio falcato che poteva infliggere gravi ferite alle vittime. La coda era piuttosto rigida e non poteva essere usata come frusta. La combinazione di zampe lunghe e forti, che permettevano di balzare sulla preda, con artigli e denti affilati faceva di questi raptor una formidabile macchina da caccia. Attaccavano in gruppo ed erano così in grado di affrontare prede molto più grandi di loro.
OVIRAPTOR
L’Oviraptor era un curioso carnivoro che visse nel Cretaceo superiore (85 – 75 milioni di anni fa). I fossili di Oviraptor sono stati trovati nel deserto del Gobi (Asia Centrale). Il suo nome significa “ladro di uova”, perchè il primo di questi fossili fu trovato in mezzo alle uova rotte di un altro dinosauro. Dal becco alla punta della coda misurava circa 2 metri, aveva un becco sdentato simile a quello di un pappagallo e una robusta cresta ossea, che forse serviva ad indicare gli individui dominanti in un gruppo o un’area particolare. All’interno del becco aveva due punte ossee che probabilmente servivano per rompere le uova. Si nutriva di uova, e forse anche di crostacei, di cui poteva rompere il guscio grazie al forte becco.
UCCELLI – DINOSAURO
Negli ultimi vent’anni sono stati ritrovati fossili che provano come vi fossero dinosauri coperti di penne o di pelo. Per la scienza moderna ogni pennuto è un uccello. E così ci sono scienziati che sostengono che i dinosauri pennuti non sono in realtà dinosauri, ma propriamente uccelli. Altri scienziati sostengono che sono gli uccelli a non essere un gruppo separato di animali: si tratterebbe in realtà di un sottogruppo dei dinosauri sopravvissuto fino a noi. Dovremmo dunque considerare gli uccelli come dinosauri pennuti.
AVIMIMUS
L’Aviminus era un dinosauro piccolo e leggero, vissuto 85 – 82 milioni di anni fa. I suoi fossili sono stati trovati in Cina e in Mongolia. Il suo muso terminava con una specie di becco, le ossa degli arti anteriori avevano piccole creste, esattamente come le ossa delle ali che reggono le penne negli uccelli. Le sue penne potevano avere una funzione mimetica, servire come segnale, oppure per tener caldo il corpo. In quest’ultimo caso si tratterebbe di un animale a sangue caldo.
I DINOSAURI PIU’ PICCOLI
COMPSOGNATHUS
Uno dei dinosauri più piccoli era il COMPSOGNATHUS, che visse tra i 155 e i 150 milioni di anni fa, nel Giurassico superiore. I fossili di questo dinosauro provengono dall’Europa, in particolare dalla Germania e dalla Francia, e sono relativamente rari. Non era più lungo di 1 metro e si sono trovati esemplari ancora più piccoli (70 cm); era snello, con una lunga coda sottile, e pesava probabilmente meno di 3 kg. Gli arti anteriori avevano due dita unghiate, mentre quelli posteriori avevano ciascuno tre dita unghiate per la corsa. Un ultimo dito unghiato si trovava all’altezza della caviglia. I denti erano ricurvi, piccoli ma acuminati. E’ probabile che il Compsognathus infilasse il muso nel sottobosco alla ricerca di insetti, vermi, ragni e altre piccole prede. I Comsognathus erano agili e veloci, ma forse si muovevano in branco per autodifesa.
DROMAEOSAURUS
Il Dromaeosaurus, snello e agile, era un bravissimo cacciatore. Correva veloce e cacciava in gruppo: questa capacità gli permettevano di avere la meglio anche su animali molto più grandi.
SPINOSAURUS
Lo Spinosaurus era un predatore grande quasi come il Tyrannosaurus. La sua vela deve aver raggiunto quasi due metri di altezza. E’ vissuto 100 milioni di anni fa, e i suoi fossili sono stati trovati nel Nordafrica.
I DINOSAURI ERBIVORI
Durante il periodo Giurassico, caldo e umido, la vita vegetale si sviluppò lussureggiante, affermandosi anche in aree che prima erano desertiche.Le specie di dinosauri erbivori, che cioè si nutrivano di vegetali, si contano a centinaia. Con il passare del tempo, le piante che costituivano il loro cibo si sono evolute, sono cambiate.
All’inizio dell’era dei dinosauri, durante il periodo Triassico, le principali piante a disposizione dei dinosauri erano conifere, ginkgo, cicadine, felci, equiseti e muschi. Alcune cicadine sono giunte fino a noi. Sembrano palme dal tronco grosso e cilindrico recanti all’estremità un gran ciuffo di foglie pennate. Il ginkgo è una grande pianta, di cui un’unica specie è giunta fino a noi, coltivata da sempre in Cina e in Giappone.
Nel periodo Triassico soltanto i dinosauri prosauropodi erano abbastanza grandi o avevano un collo lungo a sufficienza per raggiungere le foglie del ginkgo e delle cicadine. Nel periodo Giurassico si affermarono le grandi conifere come le sequoie e le araucarie. I grandi sauropodi del periodo Giurassico potevano raggiungere, con il loro lungo collo, i rami bassi delle grandi conifere.
Nel medio Cretaceo comparirono piante di un nuovo tipo: le piante con fiori. Alla fine del periodo Cretaceo le piante con fiore erano diventate abbondanti: magnolie, aceri, noci. I dinosauri non mangiavano erba. Le prime erbe comparvero sulla Terra soltanto 20 o 30 milioni di anni fa, quando i dinosauri si erano estinti da tempo.
PROSAUROPODI
Furono i primi dinosauri veramente grandi ad apparire sulla Terra; erano vegetariani e vissero tra i 230 e i 180 milioni di anni fa. Avevano una testa piccola, un lungo collo, una lunga coda e quattro zampe massicce.
PLATEOSAURUS
Uno dei primi prosauropodi fu il PLATEOSAURUS, che visse circa 220 milioni di anni fa in Europa (Svizzera, Francia, Germania). Il Plateosaurus camminava normalmente a quattro zampe, ma probabilmente riusciva ad alzarsi sulle zampe posteriori per raggiungere i rami più alti (2 o 3 metri dal suolo). Raggiungeva gli 8 metri di lunghezza e pesava circa una tonnellata.
Il nome PLATEOSAURUS significa “rettile piatto”.Il Plateosaurus aveva denti piccoli e fitti, per strappare e masticare i vegetali. Le dita unghiate erano molto flessibili, forse per portare i rami alla bocca, e consentivano al Plateosaurus di camminare a quattro zampe. Il pollice aveva un’unghia particolarmente lunga e affilata, probabilmente un’arma per colpire e ferire gli aggressori. I paleontologi del passato pensavano che trascinasse la coda a terra durante la marcia; oggi si pensa invece che tenesse la coda rialzata per controbilanciare il peso del capo, del lungo collo e della parte anteriore del corpo. Fu uno dei primi dinosauri ad essere ufficialmente battezzati, nel 1837, quando non si era ancora adottata neppure la parola “dinosauro”.
SAUROPODI
Ai Prosauropodi seguirono i SAUROPODI: con lo stesso aspetto, colli lunghi e lunghe code, ma con un corpo ancora più grande. I Sauropodi, come il Brachiosauro o l’Argentinosauro furono i più grandi tra i dinosauri, ma stabilire esattamente quanto pesassero è molto difficile. Il peso di un dinosauro viene stimato sulla base di un modello dello scheletro “rimpolpato” con muscoli, viscere e pelle. Per la stima ci si basa su rettili simili conosciuti, come il coccodrillo. Il volume di un modello di dinosauro viene calcolato immergendolo in acqua, e il volume del dinosauro reale viene calcolato poi tenendo conto della scala in cui è realizzato il modello. I giganteschi sauropodi erbivori vissero nel periodo Giurassico: 208 – 144 milioni di anni fa. Il sauropode tipico aveva una testa piccola, un collo e una coda molto lunghi, un grande corpo arrotondato e quattro zampe massicce, simili a quelle di un elefante, ma molto più grandi. Tra i sauropodi troviamo dinosauri molto noti: il Mamenchisaurus, il Cetiosaurus, il Diplodocus, il Brachiosaurus e l’Apatosaurus.
BRONTOSAURUS
Alcuni fossili di dinosauri noti come Brontosaurus furono in seguito riconosciuti come identici ai fossili di APATOSAURUS. Poichè l’Apatosaurus era stato battezzato per primo, questo fu il nome prescelto: ufficialmente non ci sono più dinosauri chiamati Brontosaurus. L’APATOSAURUS, dunque, ci è noto grazie al ritrovamento di circa 12 scheletri: praticamente abbiamo a disposizione tutte le ossa del suo corpo. Diversi scienziati hanno tentato di “rimpolpare” lo scheletro di un Apatosaurus: le stime sul suo peso oscillano tra le 20 e le 50 tonnellate; la sua lunghezza è invece conosciuta con precisione: 23 metri. Si pensa che l’Apatosaurus, nonostante la mole massiccia, potesse trottare con sorprendente velocità, grazie alle zampe relativamente lunghe.
ANCHILOSAURIDI
Gli Anchilosauridi erano protetti da una corazza di placche ossee. A differenza dei NODOSAURIDI, anch’essi corazzati, gli Anchilosauridi avevano una mazza ossea all’estremità della coda, che usavano come martello o come clava.
EUOPLOCEPHALUS
L’ EUOPLOCEPHALUS (“testa ben corazzata”) è uno degli Anchilosauridi di cui sappiamo di più, grazie al ritrovamento dei resti di circa 40 esemplari. Aveva il capo e il corpo protetti da scaglie ossee; perfino le palpebre erano ossee. Era un robusto dinosauro lungo 7 metri e pesante almeno 2 tonnellate. Visse in Canada e negli USA circa 75 – 70 milioni di anni fa. Gli esemplari trovati erano isolati: possiamo dedurne che non viveva in branco. Nonostante la corazza, questi dinosauri avevano il ventre molle e vulnerabile, e probabilmente erano costretti a camminare quasi raso terra. Avevano denti piccoli e deboli: probabilmente si nutrivano di felci (morbide e basse) e di equiseti. La mazza ossea posta all’estremità della coda era costituita da varie placche ossee fuse tra loro e poteva essere usata con forza tremenda contro un assalitore.
ANKYLOSAURUS
La mazza caudale dell’Ankylosaurus aveva il raggio di un metro e poteva infliggere colpi tremendi a un predatore impreparato. Inoltre, la testa e il dorso erano protetti da punte e pesanti placche ossee.
CERATOPSIDI
Ceratopside significa “faccia cornuta”, per i vari corni presenti sul muso e sulla fronte di questi dinosauri. I Ceratopsidi erano grandi dinosauri erbivori, apparsi meno di 90 milioni di anni fa. La maggior parte dei fossili di ceratopsidi proviene dal Nordamerica. Si tratta di un gruppo di dinosauri caratterizzati da un vistoso collare, da un muso cornuto e dal becco simile a quello di un pappagallo. Le loro mascelle erano fortissime e consentivano di masticare le piante più coriacee. Probabilmente si spostavano in branchi. In Canada si sono trovati più di 300 scheletri in un unico giacimento. Tra i ceratopsidi più noti troviamo il TRICERATOPS, lo STYRACOSAURUS e il CHASMOSAURUS
TRICERATOPS
I resti fossili del TRICERATOPS sono relativamente abbondanti, e perciò questo è uno dei dinosauri su cui sappiamo di più. Nel Nordamerica sono stati rinvenuti i resti fossili di una cinquantina di Triceratops, ma non si è mai trovato uno scheletro completo. Il Triceratops fu il più grande tra i dinosauri cornuti (Ceratopsidi). Era lungo circa 9 metri e pesava 5 o 6 tonnellate: quanto un grande elefante di oggi. Visse alla fine dell’era dei dinosauri, circa 67 – 65 milioni di anni fa. Il Triceratops aveva un corno frontale e due grandi corni orbitali, e un collo tozzo protetto da un collare osseo simile a uno scudo ricurvo. Il collare osseo serviva anche da ancoraggio per i suoi potenti muscoli masticatori, oltre a proteggere nei confronti dei predatori. E’ possibile che il collare fosse vivacemente colorato: i colori avevano lo scopo di impressionare i rivali e i nemici. Il muso del Triceratops terminava con una specie di becco senza denti, ma le mascelle possedevano robusti denti per la masticazione. I Triceratops si muovevano in branchi per proteggersi dai predatori. Furono tra gli ultimi dinosauri, alla fine del periodo Cretaceo.
STYRACOSAURUS
CHASMOSAURUS
MAMEMCHILOSAURUS
Il Mamemchilosaurus era un colossale dinosauro erbivoro. Il suo peso è stimato attorno alle 20 – 35 tonnellate. Visse nel tardo Giurassico, tra i 140 e i 160 milioni di anni fa. Il lunghissimo collo del Mamemchilosaurus rappresentava oltre la metà della sua lunghezza totale, e contava fino a 19 vertebre: più di ogni altro dinosauro. Erano ossa cave, per ridurre il peso del collo. I muscoli e i legamenti fra ogni paio di vertebre devono essere stati incredibilmente robusti perchè il collo non trovava un adeguato contrappeso nella coda, e tali da consentire al dinosauro di alzare ed abbassare il capo con disinvoltura. I fossili di Mamenchilosaurus sono state trovate in Cina, e il suo nome deriva dal luogo in cui sono stati scoperti: il torrente Mamen. Il lungo collo può essere servito per raggiungere le foglie alte degli alberi o anche, ma è meno verosimile, per raggiungere il cibo sul fondo degli stagni e delle paludi.
HETERODONTOSAURUS
L’Heterodontosaurus era un dinosauro molto piccolo: lungo 1,2 metri, arrivava all’altezza delle nostre ginocchia, ed era grande quanto un grosso cane. Visse tra i 205 e i 195 milioni di anni fa, all’inizio del periodo Giurassico. I suoi fossili sono stati trovati nello Stato di Lesotho e in Sudafrica. Si nutriva di piante basse, come le felci. Heterodontosaurus significa “rettile con diversi tipi di denti”, perchè mentre la maggior parte dei dinosauri aveva denti tutti dello stesso tipo, questo animale aveva tre tipi di denti diversi.
STEGOSAURIDI
Gli Stegosauridi erano un gruppo di dinosauri erbivori vissuti nel tardo periodo Giurassico, 160 – 140 milioni di anni fa. Il nome Stegosauridi deriva dal più noto membro del gruppo: lo Stegosaurus. Sono comunemente noti come “dinosauri a placche”, per le grandi placche o scudi ossei che ne proteggono il dorso. Gli stegosauridi sono comparsi originariamente in Asia, diffondendosi poi in Africa e Nordamerica. La maggior parte degli stegosauridi era priva di denti anteriori, ma aveva becchi ossei che permettevano di strappare le foglie dagli alberi e avevano file di piccoli denti all’interno della bocca, che consentivano loro di masticare.
KENTROSAURUS
Lo stegosauride Kentrosaurus visse nell’Africa orientale circa 155 – 150 milioni di anni fa, era lungo circa 5 metri e si pensa che pesasse una tonnellata. Kentrosaurus significa “rettile spinuto”. Questo dinosauro aveva un apparato difensivo davvero notevole: un insieme di placche e punte lungo il dorso e lungo la coda. Il cosiddetto “secondo cervello” collocato in una cavità all’altezza dei fianchi si è rivelato essere una massa di nervi destinati al controllo dei movimenti della coda e delle zampe posteriori.
STEGOSAURUS
Lo stegosaurus fu il più grande degli stegosauridi: lungo in tutto 8 o 9 metri, pesava più di due tonnellate.I fossili di stegosaurus sono stati trovati per lo più negli Stati Uniti. Visse alla fine del periodo Giurassico, circa 150 milioni di anni fa. Si pensa che lo Stegosaurus sia stato il dinosauro con il cervello più piccolo in relazione alla massa corporea. Eppure gli Stegosauri sono sopravvissuti per oltre 50 milioni di anni. Erano erbivori lenti e pacifici, e perciò non avevano bisogno del cervello necessario ai predatori veloci. Il nome Stegosaurus significa “rettile dal tetto”, e deriva dalla convinzione dei primi scopritori che le grandi placche ossee, lunghe 80 cm, fossero disposte di piatto sul dorso, come tegole su un tetto. Oggi si pensa invece che le placche fossero disposte verticalmente su due lunghe file. E’ possibile che queste placche avessero una funzione di controllo termico: disponendo al sole le placche irrorate di sangue, il rettile poteva scaldare rapidamente il proprio corpo. E’ anche possibile che le placche dorsali fossero vivacemente colorate allo scopo di intimorire gli avversari. In ogni caso, le placche erano troppo sottili per servire come protezioni effettive. Le zampe anteriori relativamente corte indicano che lo Stegosaurus si cibava di piante del suolo. Il becco era senza denti e la masticazione avveniva grazie ai denti posti più indietro, all’interno delle guance. La coda dello Stegosaurus era armata con quattro grandi aculei: usando la coda come una frusta, il dinosauro poteva difendersi dai nemici.
HYPSILOPHODON
Il piccolo erbivoro Hypsilophodon era un dinosauro bipede, che camminava e correva reggendosi sulle zampe posteriori.
ADROSAURIDI
Gli Adrosauridi sono comunemente chiamati BECCHI D’ANATRA. Erano degli erbivori che camminavano prevalentemente sulle robuste zampe posteriori. Sono stati una delle ultime famiglie di dinosauri comparse sulla Terra, meno di 100 milioni di anni fa. Gran parte di questi dinosauri aveva un muso appiattito fino a formare una specie di becco senza denti, simile al becco di un’anatra; denti numerosi, disposti in file serrate, si trovavano invece nella parte posteriore della bocca, per masticare i vegetali più coriacei. Alcuni Adrosauridi avevano sul capo creste ossee dalle forme variegate.
PARASAUROLOPHUS
Il Parasaurolophus usava forse le cavità interne della sua lunga cresta per amplificare i suoni. Si trattava di cavità tubolari che andavano dal naso fino all’estremità della cresta. I suoni così ottenuti potevano servire per avvertire della propria presenza o come segnali di allarme. La cresta del Parasaurolophus, nel caso di individui adulti e probabilmente maschi, poteva raggiungere la lunghezza di 1 metro e 80 centimetri.
ho realizzato un libro artigianale sull’arte preistorica:
che si compone di due parti: la stella che mostra una galleria di pitture rupestri, ed un libretto inserito nella tasca realizzata all’interno della copertina, che contiene un estratto di un bellissimo racconto di Fabrizio Silei, “Solo una macchia” pubblicato all’interno della rivista di Artebambini Dada, anno VI n°24 (se non la conoscete, la consiglio di cuore 🙂 ), e appunti di storia dell’arte sull’arte preistorica.
Per realizzarlo ho utilizzato, come spiegato nel tutorial del libretto a stella, 18 strisce di carta suddivise a 6 a 6 in tre lunghezze diverse:
– strisce lunghe: cartoncino beige
– strisce medie: carta “artigianale” (Ikea)
– strisce corte: della carta “sperimentale” fatta in casa, dall’aspetto molto “roccioso” che si è rivelata l’ideale per riprodurre l’arte preistorica.
Per la “carta roccia” in particolare ho fatto macerare:
cartoni delle uova, come ingrediente principale
altra carta di scarto (carta di stampante, sacchetti del pane e altra carta da pacco marrone),
altro materiale di scarto: fiocchi di riso, bucce di melanzana e cipolla (non bolliti), fili vari, cocco tritato, spezie varie per colorare, peperoncini secchi, semi (per rendere la superficie più ruvida)
legante: farina di riso e di mais e aceto bianco (in alternativa potete usare colla vinilica o colla in polvere per carta da parati).
Preparata la pasta di carta con i vostri ingredienti preferiti, diluite nella vaschetta in proporzione 1 parte di pasta per 3 parti di acqua, per ottenere fogli di un certo spessore (per la carta normale si diluisce di solito in un rapporto 1 a 4)
Cueva de las manos (grotta delle mani), 9.330 anni aC, Valle del rio Pinturas, Patagonia, Argentina. Queste pitture rupestri mostrano delle mani rosse, gialle, nere e bianche, negative e positive, realizzate con la tecnica della mascherina mediante aspersione di coloranti naturali.
Per realizzare sul mio libretto questo genere di “pittura rupestre” ho preparato delle mascherine positivo e negativo, e ho colorato spruzzando colore e utilizzando tamponcini di cotone, pennellini, lo spazzolino da denti…
Prima pagina:
Lascaux – scena di caccia – riproduzione di Asok Mukhopadhyay
This is a derivative image of the stag hunting has been found in Lascaux Cave 15,000-13,000 B.C.
Per questa e le altre “pitture rupestri” ho stampato l’immagine, ho ritagliato approssimativamente i contorni ed ho incollato l’immagine alla mia carta-sasso.
Poi ho bagnato il foglio e pressato in modo tale che la carta fatta a mano ha inglobato la carta stampata, ho ripassato la figura a penna, e seguito la colorazione dell’originale con acquarelli, carboncino, pastelli e gessetti.
(pagina a destra) Figure antropomorfe stilizzate in gruppi che evocano miti o cerimonie. Sembra una lunga processione di figure tutte senza faccia, con maschere o capigliature che nascondono la fisionomia. Tanzania, presso Kondoa. Fonte: Rivista Dada – Artebambini anno VI n°24
e questa è la “stella” montata, prima delle rifiniture:
Con uno scarto di lino marrone ho preparato un rinforzo per il dorso del libretto, l’ho incollato e sfilacciato con l’aiuto di un taglierino:
Per la copertina ho preparato ed applicato una tasca, che dovrà contenere il libretto di storia dell’arte:
Ho fissato un cordoncino sulla tasca, e rivestito la parte anteriore del libretto così:
Ho applicato un cordoncino anche sul retro (senza aggiungere tasche) e l’ho rivestito:
Ho messo ad asciugare il mio libretto con delle mollette da bucato a tenere la rilegatura, e dei sassi:
Per il libricino di storia dell’arte ho piegato a metà dei foglietti A3 e li ho rilegati (presto qualche tutorial sulle tecniche di rilegatura a mano)…
Questo è il contenuto della parte più “nozionistica” del libretto:
La Preistoria viene suddivisa in periodi, individuati in base alla conquista di nuove abilità nella lavorazione delle materie prime e ai conseguenti mutamenti economici e sociali. Il passaggio da uno stadio all’altro non è avvenuto ovunque nello stesso periodo; le tappe qui riportate appartengono all’evoluzione culturale europea.
650.000 – 10.000 aC: Paleolitico. L’uomo è nomade e cacciatore. Vive in caverne e si serve della pietra, scheggiandola per ricavare rudimentali strumenti per la caccia e la difesa. Solo intorno al 35.000 aC, con l’HOMO SAPIENS, la specie umana raggiunge capacità artigianali e tecniche tali da far parlare di espressioni artistiche. Nell’arte pittorica del paleolitico prevalgono figure di grandi dimensioni dipinte nella gamma delle ocre e dei bruni, con il nero. I fini magici e rituali portano alla creazione di immagini realistiche e ricche di azione. I cavalli, i bisonti, i mammut rappresentati diventavano un modo per appropriarsi in maniera magica di animali che erano essenziali per la sopravvivenza. Si praticano pitture rupestri e graffiti. Per ottenere i colori si impastavano terre e pietre polverizzate con acqua o con grasso animale. Il nero del carbone era impiegato come gli attuali carboncini. Le terre davano l’ocra, l’ematite per il rosso, la limonite per il giallo, il caolino per il bianco. Ossa svuotate servivano come recipienti, e i colori venivano applicati direttamente con le dita, o utilizzando pelli animali erano spruzzati con la bocca sulle pareti delle rocce. I colori venivano inoltre applicati con tamponi di materiale vegetale, ciuffi di peli o bastoncini pestati che fungevano da pennelli. L’autore si sforza di dare realismo alle immagini: nelle scene di caccia dipinge gli animali di grandi proporzioni e in alcuni casi addirittura sfrutta la sporgenza delle rocce per rafforzarne il volume. In tutto il Paleolitico la figura umana è poco rappresentata. Fanno eccezione le cosiddette veneri, scolpite in pietra, in osso o in avorio e rappresentanti figure femminili. In queste statuette, che possono essere alte da due o tre, fino a quindici centimetri, le forme femminili sono molto accentuate.
10.000 – 6.000 aC: Mesolitico. L’uomo impara ad addomesticare gli animali e abbandona le caverne.
6.000 – 3.000 Ac: Neolitico. L’uomo impara a levigare la pietra in modo più raffinato, produce ciotole e vasi in ceramica, si dedica alla tessitura. Ormai vive in insediamenti stanziali e si dedica all’allevamento e all’agricoltura. Nell’arte pittorica del Neolitico prevalgono figure schematizzate, segni geometrici ed astratti. Si descrivono elementi della quotidianità: persone, animali, ruote, utensili. Si utilizzano segni convenzionali, simbolici. L’uomo osserva a lungo l’ambiente e impara a conoscerlo meglio. Le cose rappresentate assumono così contorni più definiti. Il bisonte ora vive accanto all’uomo, nel recinto. Rappresentarlo può essere un gesto pensato e voluto. In alcuni casi è raffigurato con pochi tratti riconoscibili: bastano le corna, le zampe, una linea per il corpo. I segni geometrici e quasi astratti che compaiono nell’arte del neolitico evidenziano ciò che gli animali hanno in comune. Lo stesso vale per raffigurare gli elementi naturali, ad esempio il sole, o l’uomo e i suoi oggetti: armi, ruote, carri, l’aratro. Le immagini ora servono per documentare un avvenimento, per trasmettere informazioni. I disegni schematici formano un codice espressivo e anticipano, quasi, la prima forma di scrittura. L’arte neolitica ci ha lasciato svariati documenti graffiti. Ricordiamo quelli dei Camuni della Valcamonica, presso Brescia, o gli splendidi esempi realizzati dalle popolazioni sahariane. Questa tecnica consiste semplicemente nel graffiare ripetutamente la roccia con una pietra dura e appuntita. Il segno poteva essere poi colorato in varie sfumature con terre. L’arte delle incisioni è spesso legata all’attività religiosa. Forse si trasmetteva di sacerdote in sacerdote, o da maestro in allievo.
3.000 – 1.800 aC: Eneolitico. L’uomo utilizza il bronzo, e costruisce grandi edifici in pietra : i megaliti. Tra i megaliti ricordiamo il menhir (dal bretone men “pietra”, e hir “lunga”), costituito da una possente pietra conficcata nel terreno (alcuni sfiorano i 20 metri di altezza) e il dolmen (dal bretone doul “tavola” e men “pietra”) che caratterizza luoghi sacri o sepolcri collettivi. In questo caso è formato da più blocchi portanti, e talvolta presenta un corridoio di accesso. L’insieme è interamente ricoperto di terra. Si compone di due o più pietre verticali conficcate nel terreno, cui è sovrapposta una lastra orizzontale. Questo sistema costruttivo è il primo utilizzato dall’uomo e prende il nome di trilitico perché composto da tre pietre: due verticali (piedritti) che sostengono una terza orizzontale, l’architrave. Applicazione monumentale del sistema trilitico è il cromlech (dal bretone crom “rotondo” e lech “pietra”). Si tratta di una serie di dolmen disposti in modo da formare figure circolari concentriche. Il cromlech più noto è quello di Stonehenge, in Gran Bretagna, costruito tra il 2.500 e il 1.500 aC.
(fonti: Storia delle arti visuali, Gillo Dorfles, Cristina Dalla Costa, Marcello Ragazzi – Atlas; Rivista Artebambini Dada, anno IV n°24)
Questo è il libretto chiuso; fronte: retro:
E questo è il libretto aperto, con il suo libricino inserito nella tasca anteriore:
E questa è la galleria aperta:
Prehistoric art star book tutorial. Following the model of the star book (you can find the tutorial here), I made a handmade book on prehistoric art:
which it consists of two parts: the star that shows a gallery of rock paintings, and a booklet inserted into the pocket made inside the cover, which contains an extract of a beautiful story of Fabrizio Silei, “Only a stain”, and notes of art history.
To make it I used, as explained in the tutorial of the book Star 18 strips of paper divided in 6 to 6 in three different lengths:
– Long strips: beige cardboard – Strips medium: “craft” paper – Short strips: “experimental” paper, homemade, looking very “rocky” which proved ideal to Reproduce the prehistoric art.
For “rock paper” in particular I macerated:
egg cartons, as the main ingredient
other scrap paper (printer paper, bread bags and other wrapping paper brown)
other waste materials: rice flakes, peels of eggplant and onions (not boiled), various threads, shredded coconut, spices to color, dried chillies, seeds (to make the surface rougher)
Binder: rice flour and corn and white vinegar (or you can use glue or adhesive powder for wallpaper).
Prepared paper pulp with your favorite ingredients, diluted in the pan in proportion 1 part of dough to 3 parts water, to obtain sheets of a certain thickness (for normal paper, it dilutes usually in a ratio of 1 to 4)
Cueva de las Manos (Cave of the Hands), 9330 years BC, the Valley of the Rio Pinturas, Patagonia, Argentina. These cave paintings show many hands red, yellow, black and white, negative and positive, made with the technique of the mask by sprinkling of natural dyes.
To achieve on my book this kind of “cave painting” I prepared masks positive and negative, and I colored spraying color and using cotton swabs, brushes, toothbrush…
First page:
Lascaux – scena di caccia – riproduzione di Asok Mukhopadhyay
This is a derivative image of the stag hunting has been found in Lascaux Cave 15,000-13,000 B.C.
For this and other “cave paintings” I printed the image, I cut approximately the contours and pasted the image to my paper-rock.
Then I wet the paper and pressed so that the handmade paper has incorporated the press, I rehearsed the figure in pen, and followed the original coloring with watercolors, charcoal, pastels and crayons.
(page right) stylized anthropomorphic figures in groups that evoke myths or ceremonies. It seems a long procession of figures all faceless, with masks that hide the appearance or hairstyles. Tanzania, from Kondoa. Source: Journal Dada – Artebambini year VI No. 24
Creazionismo ed Evoluzionismo: cosa rispondere ai creazionisti (adulti) e come educare alla scienza i vostri bambini
“Infine, avrei una domanda per Enza riguardo la datazione. Una persona che conosco inorridisce o sorride ironica quando si parla di ‘x milioni di anni fa’ sostenendo che la datazione ufficiale è completamente sbagliata (tesi secondo lei sostenuta da molti studiosi). Inoltre, essendo lei ‘creazionista’ per religione non può ammettere che la terra sia così vecchia: la Bibbia parla di molti meno anni!!!!!
Ecco, io non ho dubbi in merito, però mi piacerebbe chiedere a Enza cosa ne pensa e cosa risponderebbe a queste affermazioni, soprattutto alla questione della datazione.” (qui)
[Cari tutti, confesso che è da un po’ che sto rimuginando su questo post, perché’ l’argomento mi sta particolarmente a cuore e credo che sia anche un po’ mio “dovere” di divulgatrice e scienziata, dire la mia e farlo in modo semplice e chiaro.
La domanda di Vanna ha risvegliato i miei istinti bellicosi, e quindi eccomi qua.
Cari genitori,
se avete un credo religioso forte e pensate che questo credo vada di là di qualunque dimostrazione, di qualunque evidenza, di qualunque ragionamento, perché la FEDE è la risposta a tutte le vostre domande, allora potete smettere subito di leggere. Però poi, una volta smesso, dovreste anche spegnere il computer, e magari aprire la porta e regalarlo alla prima persona che passa. Fatto questo potete passare a sbarazzarvi di tutti gli elettrodomestici, dell’auto, e svuotare il vostro armadietto dei medicinali. Fatto?
Credo che anche una bella ripulita dell’armadio, per eliminare tutti questi fastidiosi abiti fatti con telai a macchina ci starebbe bene. Conto su di voi per esaminare il contenuto del frigo, rimuovere tutta la plastica che avete in casa…ah e controllate i mobili. Probabile che ve ne siano di fabbricati con legni esotici, che non sarebbero potuti arrivare fino a voi senza un trasporto su ruota o (orrore!) aereo.
Fatto questo, avrete tutta la mia stima di persone coerenti…e se volete qualche indicazione sui comportamenti dei pastori dell’Età del Bronzo (che hanno ricevuto la rivelazione), su come costruirvi una capanna, allevare il bestiame, tessere e filare, io e qualche altro collega benintenzionato siamo a vostra disposizione!
Voi che avete continuato a leggere avete probabilmente la curiosità di guardarvi intorno e, soprattutto se siete genitori, il compito di rispondere alle domande dei vostri figli. Non è sempre facile, ed è qui che intervengo io, almeno per quello che conosco un pochino.
E parliamo della Scienza. Con la maiuscola. Siccome oggi mi sento pedante, vi propongo un paio di definizioni dal dizionario Treccani (http://www.treccani.it/vocabolario/scienza/)
2 Sapere, dottrina, insieme di conoscenze ordinate e coerenti, organizzate logicamente a partire da principî fissati univocamente e ottenute con metodologie rigorose, secondo criterî proprî delle diverse epoche storiche.
3. Al sing., la totalità delle varie scienze, il sapere scientifico, l’insieme delle cognizioni acquisite attraverso la ricerca scientifica; in partic., la sc. moderna, l’insieme delle conoscenze quale si è configurato nella sua struttura gerarchica, nelle sue partizioni disciplinari, nei suoi aspetti organizzativi e istituzionali, a partire dalla rivoluzione scientifica del Seicento: concepita inizialmente (per es. con Galileo) come concezione del sapere alternativa alle dottrine tradizionali, in quanto sintesi di esperienza e ragione, acquisizione di conoscenze verificabili e criticabili pubblicamente (e quindi libera da ogni principio di autorità), si è andata via via affermando sia dal punto di vista sociale e istituzionale, sia dal punto di vista metodologico e culturale, finendo per divenire uno degli aspetti sociali che meglio caratterizzano, anche per le sue innumerevoli applicazioni tecniche, il mondo contemporaneo e i valori culturali che esso esprime.
Ecco qua, tiro un sospiro di sollievo! Era cosi facile!
“Insieme di conoscenze ordinate e coerenti”! “Ottenute con metodologie rigorose”! “L’insieme delle conoscenze acquisite dal Seicento”!
Non so a voi, ma a me PIACE la scienza. Mi piace sapere che migliaia, milioni di persone si sono fatti delle domande e per trovare le risposte hanno lavorato duro, hanno fatto esperimenti, hanno discusso per giorni e notti. Mi piace sapere che il mio punto di partenza è il punto di arrivo di qualcun altro, e cosi via, in una catena che va indietro, fino alle profondità del tempo.
La scienza parte dall’osservazione di quello che ci circonda. Ditelo ai vostri bambini! Imparare ad osservare il mondo è uno dei migliori regali che possiamo far loro.
E’ attraverso questa osservazione, ed il tentativo di spiegare le cose, che la nostra specie è arrivata fin qui. E’ attraverso attività apparentemente insensate, tentativi a vuoto, esempi vani.
E quindi, a chi vi chiede perché credere all’evoluzionismo, cari miei, volendo potete rispondere semplicemente “Perché è scienza”. Perché, allo stato attuale delle nostre conoscenze (accumulate da centinaia di anni), è l’UNICA spiegazione “ordinata, coerente, ed organizzata logicamente”, del mondo naturale.
Essendo scienza, non è una risposta DEFINITIVA perché’ la scienza non è mai definitiva (per questo non è una religione!). Non è un credo. Non è una presa di posizione. E’ la constatazione di un dato di fatto, è la ricerca della spiegazione migliore, oggi e qui. Ah, la scienza ha uno standard. Non ci si inventa scienziati. Gli scienziati fanno parte di una comunità scientifica che può approvare i loro lavori oppure no. Gli scienziati hanno bisogno di convincere la loro comunità della giustezza delle loro osservazioni. Convincerli con le prove, cari miei. Non basta formulare illazioni, non basta appellarsi al buon senso, non basta giurare di aver parlato con entità superiori.
Il neo-darwinismo è la migliore spiegazione qui ed ora, di fenomeni osservati da scienze indipendenti come la biologia, la genetica, la geologia, la paleontologia eccetera. Dal 1859, anno di pubblicazione dell’Origine delle Specie, molte nuove discipline si sono affacciate nel panorama scientifico e tutte hanno apportato nuove evidenze alla teoria dell’evoluzione.
Quindi, per quanto riguarda gli adulti che mettono in dubbio l’Evoluzionismo, io li liquiderei usando la parola magica (scienza!). Ma per i bambini, armiamoci di pazienza e snoccioliamo qualche fatto.
In campo paleontologico, le evidenze che provano la teoria dell’evoluzione sono:
1) la documentazione fossile
2) la sequenza dei fossili negli strati
3) la relazione tra specie estinte e specie attuali
4) la presenza di forme di transizione.
Riassumendo, esistono un certo numero di specie fossili che sono ordinate cronologicamente e stratigraficamente, ed è possibile stabilire i legami di queste specie con le specie attuali.
E’ possibile inoltre legare le specie viventi con determinati ecosistemi, e comprendere i meccanismi della selezione naturale attraverso l’osservazione del comportamento degli animali in Natura. La selezione naturale opera infatti anche adesso, nuove specie nascono ed altre si estinguono.
Inoltre, è possibile ricostruire il percorso evolutivo delle specie attraverso l’universalità del codice genetico, evidenza della loro discendenza comune.
Ed ecco qui un breve prontuario con risposte possibili per pargoli curiosi.
Chi era Darwin? Darwin era un naturalista, e un viaggiatore. Le sue osservazioni lo hanno portato alla pubblicazione del libro “L’Origine delle Specie” nel 1859.
Perché’ è importante?Wow, questo meriterebbe un altro post! Diciamo che la teoria di Darwin ha rivoluzionato il nostro modo di vedere il mondo e la natura, unendo informazioni provenienti da diverse aree ed offrendoci una nuova chiave di lettura del mondo.
Che cos’è l’evoluzionismo? L’evoluzionismo è la teoria scientifica che spiega i cambiamenti delle specie attraverso il tempo.
L’evoluzionismo è “provato scientificamente”? Si. Attualmente tutte le scienze della vita confermano la teoria neo-evoluzionista.
Come funziona la selezione naturale? Lo dice la parola stessa. E’ la Natura (con la maiuscola! yuhu!) che seleziona….i più adatti alla sopravvivenza in un determinato ambiente e tempo.
Cosa si vince? Si vincono la sopravvivenza 1) individuale 2) della propria discendenza (figli, nipoti, eccetera) 3) della propria specie.
E se si perde? Allora si muore senza lasciare una discendenza (figli), mettendo a rischio la sopravvivenza della specie. Stephen J. Gould, il padre del Neodarwinismo, diceva che la sopravvivenza è l’eccezione, non la regola!
La Selezione Naturale esiste anche adesso? Si, esiste anche in questo momento, tutto il nostro pianeta è soggetto a questo principio, tutto quello che vedi, tutti gli animali che ti vengono in mente, e anche tu. Si proprio tu!
Come fa la Natura a selezionare i più adatti? La Natura seleziona concedendo una lunga vita, in cui si hanno (molte) occasioni di lasciare una (abbondante) discendenza. Attraverso questo tesoro di geni, lasciato ai nostri figli, noi contribuiamo alla conservazione della nostra specie.
A proposito, noi che specie siamo?Homo sapiens.
Come funziona l’evoluzione delle specie? Tramite l’effetto combinato della selezione naturale e di un processo chiamato speciazione. Cioè la nascita di nuove specie. Alcune specie si estinguono, e nuove specie nascono.
Come nascono nuove specie? Le nuove specie nascono attraverso una combinazione di due fattori. Il primo fattore sono i cambiamenti CASUALI che avvengono nella genetica. In questo modo, alcuni individui possiedono delle caratteristiche che li rendono diversi dai loro parenti. Queste caratteristiche possono includere il colore della pelle, la lunghezza degli arti, la forma della bocca eccetera. Il secondo fattore deriva dall’interazione tra i cambiamenti genetici e l’ambiente.
Come facciamo a sapere cose è successo nel passato? Tramite la geologia, la paleontologia e l’archeologia. La geologia studia la Terra, la Paleontologia le specie che sono vissute nel passato attraverso i fossili e la loro posizione stratigrafica, l’archeologia si occupa delle culture del passato (quindi l’azione dell’uomo!).
Come datiamo il passato? Possiamo dire all’amica di Vanna che conosciamo l’età della Terra attraverso due tipi di datazioni, quelle relative e quelle assolute. Le datazioni relative si basano sui principi di stratigrafia, già stabiliti nel 1600. Possediamo poi un potente strumento scientifico che si chiama datazione radiometrica. Andate pure a fare un giro su Wikipedia per saperne di più.
Quando è stata scritta la Bibbia? La Bibbia è una riscrittura tarda di avvenimenti avvenuti alla fine dell’Età del Bronzo (XIV-XIII sec.) in Palestina e tramandati attraverso la tradizione orale. Nel libro di Mario Liverani “Oltre la Bibbia” la storia di questo periodo viene ricostruita sulla base delle fonti storiche, archeologiche ed epigrafiche.
Ai tempi in cui è stata scritta la Bibbia esistevano la geologia, la paleontologia e l’archeologia? No.
Vi consiglio caldamente la frequentazione di:
PIKAIA il portale italiano dell’evoluzione,
La teoria dell’evoluzione -“corso online”
La teoria dell’evoluzione schede e giochi didattici;
MINIDARWIN l’evoluzione raccontata ai bambini
MINIDARWIN giochi…
A presto!
Enza Spinapolice
Enza Spinapolice e’ un’archeologa del Paleolitico e lavora all’Istituto di Antropologia Evoluzionista Max Planck, di Leipzig. Ha studiato Preistoria a Roma, poi ha conseguito un dottorato Europeo tra Roma e Bordeaux, e da tre anni fa ricerca in Germania. Si interessa in particolare all’origine biologica e culturale della nostra specie, all’estinzione dei neandertaliani ed alle società di cacciatori raccoglitori passate e presenti. Oltre a girare il mondo e studiare il passato, Enza ha una famiglia multiculturale, ed un bimbo di due anni e mezzo, a cui spera di insegnare molto presto la preistoria.
La ceramica è stata inventata circa 10.000 anni fa, nell’epoca Neolitica, e da allora noi uomini non abbiamo mai smesso di usarla! Per questo motivo, questo materiale è uno dei più diffusi negli scavi archeologici, molto spesso sotto forma di frammenti.
Ed eccomi qua, a riprendere l’idea del restauro della tazza della nonna.
Il laboratorio diventa ancora più interessante per i bambini se prepariamo per loro due o più tazze della nonna rotte, i cui frammenti sono mischiati. Supponiamo di averle messe entrambe nella nostra vaschetta sensoriale preistorica,
di averle scavate e numerate, di averle classificate con l’etichetta “ceramica” e messe nei nostri sacchettini da frigo.
Nel nostro esempio abbiamo due tazze di ceramica ed un vaso in terracotta:
Nel caso in cui si avesse solo una tazza da restaurare, si può saltare la fase di divisione dei materiali (vedi più sotto) ed andare direttamente oltre. Un’alternativa è quella di mischiare alla tazza “intera” altri frammenti di ceramica che non sono attinenti, scegliendoli perché hanno colori diversi, o si distinguono in qualche modo dall’altro materiale.
Se non si è fatto lo scavo della vaschetta, si può comunque preparare il tutto rompendo una o due tazze che non ci servono più (è per una buona causa!), scegliendone due abbastanza diverse tra loro. Si imbustano poi i pezzi uno per uno in sacchetti da frigo, e si numerano in ordine progressivo (mischiando le tazze!) con l’etichetta “ceramica 1, 2, 3” eccetera, come abbiamo spiegato qui.
Ricordate che se rompete appositamente delle tazze per questa attività, i bordi possono essere taglienti (mentre è molto raramente cosi nei siti archeologici), quindi sorvegliare il lavoro da vicino. Un’alternativa può essere quella di limare i bordi prima di rendere i frammenti di tazza accessibili ai bambini.
Ed ora si procede con il lavoro sul materiale.
Per prima cosa si tolgono tutti i pezzi di ceramica dalle rispettive bustine, riponendoli sulla bustina stessa…ricordiamoci che sulla busta è indicato il numero che classifica ciascun pezzo!
Fase 1 – lavaggio
Servono una semplice bacinella da bucato ed uno spazzolino da denti.
Si prende ciascun pezzo di ceramica,
lo si immerge nell’acqua
e lo si strofina delicatamente con lo spazzolino.
Lo scopo è di eliminare tutti i residui di terra dello scavo.
Dopo aver lavato ogni pezzo lo si ripone accuratamente sulla sua bustina e si aspetta che tutti i frammenti siano ben asciutti.
Fase 2 – siglatura
La siglatura consiste nello scrivere su ogni pezzo di ceramica il numero che lo identifica, in modo da poter poi eliminare le bustine.
Si scrive direttamente sul pezzo con un pennarello indelebile (noi di solito usiamo i lumocolor) oppure con pennino ed inchiostro.
Ovviamente con i bambini più piccoli si può saltare questa fase, oppure disegnare sui pezzi dei piccoli simboli, come fiori, cuori, sfere o triangoli.
Fase 3 – riordino
Una volta finita la siglatura, si possono eliminare le bustine.
A questo punto, allineando tutti i frammenti, dobbiamo cercare di capire quali appartengono potenzialmente allo stesso vaso. Aiuteremo i bambini a dividerli per colore, consistenza, decorazioni, eccetera.
Immaginiamo di avere, alla fine del lavoro, due o tre mucchietti di ceramiche diverse sul nostro piano da lavoro.
Fase 4 – ricomposizione del vaso
E’ arrivato il momento di cominciare la ricomposizione del vaso!
Si sceglie un mucchietto (il più promettente!) e si allineano tutti i pezzi sul tavolo. Si comincia a questo punto a cercare di ricostruire la tazza, come se fosse un puzzle. Noi archeologi chiamiamo questa fase “trovare gli attacchi”.
Il modo ideale per procedere a questa operazione è di farlo in una bacinella larga e dai bordi bassi riempita di sabbia. A mano a mano che troviamo un attacco, oppure l’orientamento di un pezzo, lo “piantiamo” nella sabbia per tenerlo su.
Per far tenere insieme i pezzi, si può usare uno scotch carta.
Questa è la fase centrale del lavoro, può richiedere un po’ di tempo, ma è anche la parte più creativa!
Ricordatevi che se qualche pezzo manca, si può sempre dare un’occhiata negli altri mucchietti di ceramica, quella “scartata” per vedere se abbiamo dimenticato qualche pezzo!
Fase 5 – incollaggio
Una volta finito, si può eventualmente ripassare il reperto restaurato con la colla. Ricordatevi però che i restauratori giudicano di volta in volta se sia il caso di incollare e quale colla usare!
Per questa attività vi consigliamo di usare la colla UHU, ma attenzione! Questa colla richiede una posa di contatto di circa 15 minuti, durante i quali occorre tenere premuto un coccio contro l’altro, e questo per ogni pezzo.
In alternativa esistono colle per ceramica che richiedono tempi di contatto decisamente minori, quella scelta per realizzare le immagini richiede un tempo di contatto di 10 secondi, e un tempo di asciugatura di 24 ore.
Il restauro e’ un’attività che richiede molta pazienza!
Consiglio di incollare i pezzi due a due e lasciarli asciugare (dopo aver premuto un coccio contro l’altro per i minuti richiesti dalla colla scelta), o almeno fino a quando se si lascia uno dei due pezzi questo non si stacca dall’altro, sostenuti dallo scotch di carta e magari piantati nella vaschetta di sabbia.
L’ideale sarebbe lasciarli asciugare tutta la notte, il giorno dopo rimuovere lo scotch e incollare di nuovo i pezzi così ottenuti due a due e ripetere le operazioni di asciugamento, fino a ricomporre la tazzina.
È un procedimento molto lungo che può durare anche qualche giorno, ma se non si lascia asciugare bene la colla, i pezzi si staccano o il vaso “collassa”.
Fase 6 – documentazione
Quando avete finito ed il vostro vaso è pronto, si può procedere con un bel disegno, ed una descrizione nella scheda apposita:
La scheda è disponibile gratuitamente per gli abbonati
Enza Spinapolice e’ un’archeologa del Paleolitico e lavora all’Istituto di Antropologia Evoluzionista Max Planck, di Leipzig. Ha studiato Preistoria a Roma, poi ha conseguito un dottorato Europeo tra Roma e Bordeaux, e da tre anni fa ricerca in Germania. Si interessa in particolare all’origine biologica e culturale della nostra specie, all’estinzione dei neandertaliani ed alle società di cacciatori raccoglitori passate e presenti. Oltre a girare il mondo e studiare il passato, Enza ha una famiglia multiculturale, ed un bimbo di due anni e mezzo, a cui spera di insegnare molto presto la preistoria.
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Archeology for children: RESTORATION OF CERAMICS (guest post). Ceramics was invented about 10,000 years ago, in the Neolithic period, and since then we humans have never stopped using it! For this reason, this material is one of the most widespread in archaeological excavations, very often in the form of fragments.
And here I am, to take up the idea of the restoration of the grandmother’s cup.
The laboratory becomes even more interesting for children if we prepare for them two or more broken cups, whose fragments are mixed. Suppose we have made both in our prehistoric sensory tub,
have them excavated and numbered, have them classified with the label “ceramic” and have them put in our plastic bags.
In our example we have two ceramic cups and a terracotta vase:
In case you had only a cup to be restored, you can skip step of the division of materials (see below) and go straight over.
An alternative is to mix the cup “entire” with other ceramic fragments that are not related, choosing them because they have different colors, or are distinguished in some way from other material.
If you have not made the excavation of the tub, you can still prepare everything by breaking one or two cups that no longer serve us (it’s for a good cause!), choosing two quite different. Then put the pieces one by one in plastic bags, and number them consecutively (mixing cups!) with the label “ceramics 1, 2, 3” and so on, as we have explained here.
Remember that if you break the cups specifically for this activity, the edges can be sharp (but is rarely so in archaeological sites), then supervise the work closely. An alternative may be to sand the edges before you make the fragments of cup accessible to children.
Archeology for children: RESTORATION OF CERAMICS And now we proceed with work on the material.
First remove all the pieces of ceramics from the respective bags, placing them on the bag itself … remember that on the envelope there is indicated the number that classifies each piece!
Archeology for children: RESTORATION OF CERAMICS Step 1 – Washing
They serve a simple bowl and a toothbrush. Take each piece,
immers it in water:
and rub it gently with a toothbrush.
The aim is to eliminate all traces of earth of the excavation.
After washing each piece, place it carefully on his bag and expects that all the pieces are completely dry.
Archeology for children: RESTORATION OF CERAMICS
Step 2 – labeling
The labeling consists in writing on each piece of ceramics the number that identifies it, so you can then remove the bags.
Write directly on the piece with a permanent marker (we usually use the Lumocolor) or with pen and ink.
Obviously with younger children you can skip this step, or draw on the pieces small symbols such as flowers, hearts, spheres or triangles.
Archeology for children: RESTORATION OF CERAMICS Step 3 – reordering
After finishing the labeling, you can eliminate bags.
At this point, aligning all the fragments, we must try to understand what potentially belong to the same vase. We will help the children to separate them by color, texture, decoration, and so on.
Imagine that you have, at the end of the work, two or three piles of different ceramics on our plan work.
Archeology for children: RESTORATION OF CERAMICS
Step 4 – recomposition of the vase
It ‘s time to begin the reconstruction of the vase!
Choose a pile (the most promising!) and line up all the pieces on the table. Now try to reconstruct the cup, as if it were a puzzle. We archaeologists call this stage “to find the attacks.”
The ideal way to carry out this operation is to do it in a wide and low sides basin filled with sand. As we find an attack, or the orientation of a piece,we “plant” it in the sand to keep it up.
To hold the pieces together, you can use masking tape.
This is the central phase of the work, can take a long time, but it is also the most creative!
Remember that if any piece is missing, you can always take a look in the other piles of ceramics, to see if we have forgotten a piece!
Archeology for children: RESTORATION OF CERAMICS
Step 5 – bonding
Once finished, you can possibly reviewing the finding restored with glue. But remember that the restorers judge from time to time whether it is appropriate and what glue to use to paste!
There are glues for ceramics which require rapid contact times, that chosen for producing the images requires a contact time of 10 seconds and a drying time of 24 hours.
The restoration is an activity that requires a lot of patience!
I recommend to glue the pieces two by two and let them dry (after pressing a piece against the other for the minutes required by the glue choice), or at least until when you leave one of the two pieces that do not come off the other , supported by the masking tape and perhaps planted in the pan of sand.
The ideal is to let them dry overnight, the next day to remove the tape and glue back the pieces obtained two by two, and repeat the operations of drying, until reassemble the cup.
It is a long process that can last a few days, but if you do not let dry the glue, the pieces come off or the vase “collapses”.
Archeology for children: RESTORATION OF CERAMICS
Step 6 – documentation
When you are done and your vessel It is ready, you can proceed with a beautiful drawing, and a description of it in the sheet:
Enza Spinapolice is an archaeologist of the Paleolithic, and works at the Institute of Evolutionist Anthropology Max Planck, Leipzig. She studied Prehistory (Rome), obtained an European PhD (Rome and Bordeaux), and in the last three years working in Germany. She is particularly interested in biological and cultural origin of our species, the extinction of the Neanderthals and the hunter-gatherer societies past and present. In addition to travel the world and study the past, Enza has a multicultural family, and a child of two and a half years, and she hopes to teach him prehistory very soon.
…un’altra esperienza di scavo archeologico preistorico ispirata dalla sensory tub preistorica di Enza…
L’articolo è il frutto del lavoro di due grandi archeologi, Mr A (quasi 3 anni) e Mr B (quasi 6), e della loro mamma Vanna.
A loro la parola…
Nel leggere il post della sensory tub preistorica sono rimasta affascinata. Ho due bambini di quasi 3 e quasi 6 anni, e ho deciso di proporre loro questo bel percorso sulla Preistoria e lo scavo archeologico, che affascina tantissimo anche me (adoro la storia!)
Per prima cosa siamo stati in biblioteca a documentarci; abbiamo preso a prestito alcuni libri per bambini che descrivevano in maniera semplice e con molte figure la preistoria, i dinosauri, l’uomo preistorico, il lavoro dell’archeologo. Così ogni tanto leggevamo insieme qualche pagina, senza fretta ma con molta curiosità. Ho visto che i piccoli apprezzavano l’argomento (soprattutto i dinosauri! Ma anche i mammut e gli uomini vestiti solo di pelliccia), e ho iniziato a preparare la tub preistorica, seguendo le indicazioni del post.
E’ stato molto facile reperire tutto il materiale necessario in casa: conchiglie e sassi rinvenuti durante varie gite fuori porta, ossa di pollo, monete, ‘perle’ e ‘pietre preziose’, terra, sabbia, palette, pennelli, attrezzi da giardino di vario genere, etc.
Nonostante la differenza di età dei due bambini ho proposto un unico contenitore in modo che collaborassero.
Ecco le fasi di preparazione e poi le attività di scavo.
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I reperti
conchiglie fossili
ossa di pollo
qualche conchiglia
monete
pietre dure
perle e preziosi
Un uovo di dinosauro (in polistirolo e colorato con pennarello) e due ghiande
sassi di vario genere
Preparazione della vaschetta
Terzo strato: fossili + ossa di dinosauro + uno stegosauro di plastica nascosto dal play dough marrone.
Secondo strato: sassi e conchiglie
Primo strato: perle, monete, qualche pezzo di mattone e un qualche pietra affilata.
L’attività di scavo
Siccome i bambini non sanno ancora leggere e scrivere ho preparato dei contenitori dei reperti divisi per categorie e con disegnato il tipo di reperto da riporre.
Una perla viene riposta usando la pinzetta
Un reperto viene osservato con la lente di ingrandimento
Un reperto viene pulito con un pennello
Un altro reperto ripulito con le mani
Una conchiglia fossile!!!
Veduta ‘aerea’dello scavo
I reperti riposti nei contenitori
Un reperto viene ripulito con uno straccetto
I bambini si sono divertiti molto, tanto che il giorno seguente mi hanno chiesto di poter giocare di nuovo ‘allo scavo’. Ho risposto che non avevo niente di pronto e così si sono offerti di auto-costruirsi la vaschetta. Ho dato loro i reperti e la terra, e loro si sono rifatti la tub e li hanno ri-estratti!
Attività aggiuntive
In un parco dei divertimenti che abbiamo visitato in questo periodo abbiamo potuto osservare una mostra di fossili del terziario e varie riproduzioni di dinosauri!
In aggiunta a questo, ho cercato su internet se ci fossero vicino a noi luoghi di scavo o simili, adatti ad una gita, e ho scoperto che esiste un paesino di nome Bolca (vicino a Vicenza) che è chiamato ‘La capitale mondiale dei fossili dell’era terziaria’. Così abbiamo organizzato una bella gita in occasione della Festa della Paleontologia (prima domenica di Luglio) e abbiamo visitato il Museo dei Fossili, oltre che gli scavi della Pesciara (chiamata così perché vi sono stati ritrovati migliaia di pesci fossili), il Monte Purga e i dintorni.
Alla Pesciara, all’esterno della cava dove vengono estratti i fossili, dotati di martelletto, abbiamo cercato tra le pietre(che sarebbero ‘gli scarti’) … ed ecco che meravigliosa scoperta!
Un fossile tutto per noi!!!!!!!!!!
Per chiarezza: alla cava eravamo accompagnati da chi si occupa del museo e degli scavi, ed essendo quelle pietre scarti di estrazione, chiunque può cercarvi piccoli resti fossili e nel caso di ritrovamento può tenerli, salvo che il reperto non rappresenti una scoperta straordinaria… il che è quasi impossibile visto che quelle pietre sono di piccole dimensioni e sono gli scarti, appunto.
Però per noi che emozione grandissima!!!
Sto poi rispolverando un po’ delle mie conoscenze di storia dell’arte per preparare un’attività di pittura rupestre. Vi farò avere notizie!
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Infine, avrei una domanda per Enza riguardo la datazione. Una persona che conosco inorridisce o sorride ironica quando si parla di ‘x milioni di anni fa’ sostenendo che la datazione ufficiale è completamente sbagliata (tesi secondo lei sostenuta da molti studiosi). Inoltre, essendo lei ‘creazionista’ per religione non può ammettere che la terra sia così vecchia: la Bibbia parla di molti meno anni!!!!!
Ecco, io non ho dubbi in merito, però mi piacerebbe chiedere a Enza cosa ne pensa e cosa risponderebbe a queste affermazioni, soprattutto alla questione della datazione.
Vanna
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Meraviglioso! Grazie, grazie, grazie, Mr A., Mr B. e Vanna! Grazie per l’entusiasmo, per la bravura, e per la condivisione. La vostra elaborazione con le vaschette a scomparti e i disegni per i bambini più piccoli sarà sicuramente un ottimo spunto per molti altri bambini. Conosco Bolca, è un gran classico dalle nostre parti per le gite scolastiche, e merita davvero. Grazie anche per la domanda, Enza sarà felice di occuparsi di questo argomento in uno dei prossimi post preistorici (mentre io conoscendola già sorrido un po’…) e non vedo l’ora, insieme a voi, di leggerla 🙂
Ora un ringraziamento e un saluto specialissimo ai nostri due grandi archeologi, tutti i nostri complimenti per il loro splendido lavoro (avete anche rifatto la vaschetta da soli, siete fantastici!), e tutti i nostri migliori auguri per la vostra carriera (già più che brillante) di ricercatori.
E’ una grande emozione per me presentarvi il lavoro di due grandi archeologi, Miss Z. (9 anni) e Mr J. (7anni), e della loro straordinaria MammaMaestra:
Loro stanno studiando, all’interno del loro programma di homeschooling, l’epoca preistorica, e sono riusciti a realizzare uno scavo archeologico all’aperto:
I reperti sono di grande impatto: terracotta, ossa di grandi dimensioni (anche un teschio!), bellissime conchiglie, e molto altro…
e i bambini hanno potuto collaborare allo scavo, con compiti diversi ed adeguati alle loro diverse età:
Allo scavo è seguita la compilazione delle schede, e anche il restauro della ceramica:
Grazie di cuore, Miss Z. e Mr J. per aver voluto condividere questa esperienza con noi, Enza ed io siamo rimaste davvero senza parole… ma non abbastanza per non farvi tanti, tantissimi complimenti ed i nostri migliori auguri per la vostra già brillante carriera di ricercatori!
Guest post: an outdoors archaeological excavation. The images of the prehistoric sensory tub elaborated in the form of outdoor archaeological excavation .
It is a thrill for me to present the work of two great archaeologists, Miss Z. (9 years) and Mr. J. (7 years), and their extraordinary mom “MammaMaestra”
They are studying, within their program of homeschooling, the prehistoric era, and have managed to create an archaeological excavation outside:
The finds are of great impact: tile, large bones (even a skull!), beautiful shells, and much more …
and the children were able to collaborate with the excavation, with different tasks and adapted to their different ages:
The excavation is followed the data recording, and also the restoration of ceramics:
Guest post: Perchè insegnare la Preistoria ai bambini?
La domanda è molto semplice, e forse anche la risposta può esserlo. Perché i bambini saranno adulti. Perché insegnando loro, si può sperare che certe forme di oscurantismo del nostro tempo, tra qualche decennio saranno finite. Out. Over.
Perché qualche giorno fa una ragazza universitaria che stimo molto, mi ha chiesto “Ma tu sei creazionista o evoluzionista?”.
E poi anche per ragioni più ludiche. Perché studiare scienza è nutrimento per la fantasia, e non è mai troppo presto.
Perché con lo studio della storia della nostra specie ci si può sporcare le mani. Gli archeologi sono una delle poche categorie di adulti ai quali è consentito sguazzare nel fango, infilare le mani in buchi terrosi, scalare un pendio cercando grotte.
Perché i viaggi sono garantiti, non solo in luoghi lontani dai nomi oscuri ed evocativi, ma anche nel tempo, e proprio nel giardino di casa. Scoprire dove c’è oggi la nostra casa un giorno ci pascolavano gli ippopotami o cacciavano le tigri dai denti a sciabola è impagabile.
Perché abbiamo il frigo, il fornello, ed il forno. E se non li avessimo? E se provassimo a vivere una giornata senza elettricità? Ed una senza acqua corrente? E senza cibi confezionati?
Perché quel signore li, vestito con pochi pezzi di stoffa, con una grossa barba ed una lunga lancia, non è un “selvaggio”, è un Aborigeno. Il suo popolo abita l’Australia da 80.000 anni. Il suo popolo non ha mai coltivato la terra. Non ha mai posseduto la terra. Non ha mai rinchiuso un animale in gabbia. Quel signore lì conosce canti sull’inizio del tempo, e se stiamo attenti e sappiamo ascoltare potrebbe anche decidere di cantarceli, un giorno.
Per fare i saputelli con gli zii ed i nonni e spiegar loro con aria annoiata che no, i dinosauri e gli esseri umani non si sono mai incontrati.
Perché siamo tutti fratelli, e non come progenie di Adamo ed Eva, e rassicuratevi, nessuno ci ha mai scacciato a causa di una mela. Ma siamo i discendenti di un piccolo gruppo di persone che un giorno hanno deciso di andare un po’ più in là dell’orizzonte. E non ci siamo mai fermati, e continuiamo ad andare su e giù, in qua e in là, perché’ fa parte della nostra natura.
Enza Spinapolice
Enza Spinapolice e’ un’archeologa del Paleolitico e lavora all’Istituto di Antropologia Evoluzionista Max Planck, di Leipzig. Ha studiato Preistoria a Roma, poi ha conseguito un dottorato Europeo tra Roma e Bordeaux, e da tre anni fa ricerca in Germania. Si interessa in particolare all’origine biologica e culturale della nostra specie, all’estinzione dei neandertaliani ed alle società di cacciatori raccoglitori passate e presenti. Oltre a girare il mondo e studiare il passato, Enza ha una famiglia multiculturale, ed un bimbo di due anni e mezzo, a cui spera di insegnare molto presto la preistoria.
Poesie e filastrocche – Storia.Una raccolta di poesie e filastrocche su argomenti storici, di autori vari, per la scuola primaria.
Storia universale
In principio la Terra era tutta sbagliata,
renderla più abitabile fu una bella faticata.
Per passare i fiumi non c’erano i ponti.
Non c’erano sentieri per salire sui monti.
Ti volevi sedere?
Neanche l’ombra di un panchetto.
Cascavi dal sonno? Non esisteva il letto.
Per non pungerti i piedi, nè scarpe, nè stivali.
Se ci vedevi poco non trovavi gli occhiali.
Per fare una partita non c’erano palloni:
mancava la pentola e il fuoco
per cuocere i maccheroni,
anzi a guardare bene mancava anche la pasta.
Non c’era nulla di niente.
Zero via zero, e basta.
C’erano solo gli uomini, con due braccia per lavorare,
e agli errori più grossi si potè rimediare.
Da correggere, però, ne restano ancora tanti:
rimboccatevi le maniche,
c’è lavoro per tutti quanti!
(G. Rodari)
La caverna
Era una volta all’uomo dolce nido
la tiepida caverna tra le rocce…
Uscio non c’era: entrava e usciva il vento,
servo dell’uomo, con le sue bracciate
di foglie secche; a sera il firmamento
chiudeva il varco con le sue vetrate
fitte di stelle; e innanzi alla caverna
appendeva la luna la lanterna. (N. Venieri)
Poesie e filastrocche – Storia. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Intuizione del passato per la preparazione allo studio della Storia per bambini della scuola primaria, secondo il metodo globale.
Per avere una prima intuizione, seppur sommaria, del passato, si invitano i bambini a tornare indietro nel tempo a partire dai propri genitori, per poi passare ai nonni, ai bisnonni, ecc…
Quanto tempo fa sono vissute queste persone? Venti anni fa, cinquanta anni fa, cento anni fa… Voi non eravate ancora nati, la vostra mamma era piccola come voi adesso, la vostra nonna era una bambina, …
Queste persone saranno vissuto nelle stesse condizioni in cui viviamo adesso?
Non c’era il telefono, il tram andava a cavalli, non c’erano le automobili, le case non avevano le comodità di oggi. Andiamo a vedere qualche casa antica del rione e del paese.
Parliamo della diversità delle case antiche e moderne. Ma andiamo ancora più indietro. Un tempo non c’erano affatto case in muratura. L’uomo non aveva ancora imparato a impastare la calce e a fare i mattoni. Come costruiva le sue abitazioni? Con tronchi d’albero che ricopriva poi di rami.
Forse, in campagna, c’è ancora qualche capanna costruita in questo modo che serve da rifugio ai pastori o ai cacciatori o ai guardiani, e in fondo il modo di costruirla è rimasto quasi lo stesso.
Ma le capanne costruite in questo modo, e in aperta campagna, erano poco sicure. Le belve potevano entrarvi, e così gli animali selvatici. L’uomo allora pensò di costruire la sua abitazione sopra solidi pali infissi nell’acqua o nel terreno. Era più facile difendere queste costruzioni.
Andiamo ancora a ritroso. L’uomo non sapeva lavorare, non conosceva i metalli… si rifugiava nelle caverne, nelle grotte, nelle tane abbandonate dagli animali. Come sarà vissuto in queste abitazioni? Andava a caccia, uccideva gli animali, li portava nella grotta e li mangiava crudi. Perchè? Non aveva ancora scoperto il modo di procurarsi il fuoco.
La nostra lezione, più che esposta, sarà illustrata. Non ci mancherà modo di avere delle illustrazioni che ritaglieremo ed incolleremo su schede. Ecco l’uomo primitivo a caccia con la mazza… ecco la sua abitazione, una grotta naturale… ecco le prime capanne… le prime casette in muratura… Potremo aggiungere questo materiale a quello che presentato quando abbiamo parlato della casa. Disponiamo le schede in ordine cronologico.
Ricostruiamo la vita dell’uomo delle caverne. Abita in una grotta naturale, va a caccia con la mazza, con la fionda, uccide un animale, lo scuoia, si avvolge con la sua pelle, porta la preda alla famiglia che lo aspetta nella grotta al sicuro. Un giorno scopre il modo di procurarsi il fuoco.
Strofinando energicamente due pezzi di legno, forse per levigare un tronco, fa sprizzare una scintilla. La scintilla cade su un mucchio di foglie secche: è la fiamma, la luce, il calore. La grotta prende un nuovo aspetto: è chiara, riscaldata. L’uomo gusta per la prima volta il cibo cotto…
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