La leggenda di Attila e Leone I in recita

La leggenda di Attila e Leone I in recita – Questa leggenda misteriosa nella sua semplicità, ha ispirato molti artisti che la hanno immortalata su tela e nel marmo: tra queste opere  è celebre l’affresco di Raffaello in Vaticano.

La leggenda di Attila e Leone I in recita
Scena I

(In una piazza della città di Aquileia, assediata dagli Unni)

Personaggi:
Primo cittadino
Secondo cittadino
Terzo cittadino
Quarto cittadino
Altri cittadini intorno

Primo cittadino: Amici! Cittadini! Conviene ancora resistere alle forza di Attila? Da settimane lottiamo contro la forza che ci serra, ma è inutile: la fine della nostra città è vicina. C’è una sola speranza di salvezza…

Secondo cittadino: Quale?

Primo cittadino: Quella riposta nelle trattative con Attila. Offriamo al re degli Unni la nostra amicizia. I barbari sono clementi quando sperano di avere una nuova amicizia.

Secondo cittadino: Di quale speranza vaneggi? Quale follia ti spinge a proporre tali trattative? Il re degli Unni non vuole parole, non vuole amici, e nemmeno traditori: desidera solo per i suoi nemici morte, rovina, fuoco.

Terzo cittadino: Il nome di Attila vuol dire ferro. Egli è di ferro. Soprattutto il suo cuore è di ferro.

Quarto cittadino: Attila è il flagello di dio. Dovunque le sue orde sono passate, è rimasta la desolazione. Donne, vecchi, fanciulli non sono risparmiati dalla sua ferocia. Se una speranza c’è, questa è riposta nella resistenza delle nostre mura e dei nostri petti.

Primo cittadino: Guardate lassù! Una cicogna sfugge dalla nostra città spingendo davanti a sé i suoi piccoli. Oh, potessi fare altrettanto io! Potessi mettere in salvo i miei figlioli!

La leggenda di Attila e Leone I in recita
Scena II

(E’ la visione della futura Venezia. La scena si svolge in una qualsiasi città del Veneto, dopo che Aquileia è caduta).

Personaggi:
Primo cittadino
Secondo cittadino
Vescovo
Altri cittadini

Primo cittadino: Amici! Una terribile notizia. Aquileia è caduta in mano degli Unni. La porta l’Italia è aperta al più crudele dei barbari.

Cittadini: Che facciamo? Decidiamo di resistere?

Primo cittadino: E’ inutile. Non abbiamo armi sufficienti e poi… da quando l’Italia consce il piede dei Barbari, la virtù romana è spenta!

Secondo cittadino: Ecco ciò che faremo: aspetteremo Attila ed i suoi Unni con le porte della città aperte, lo accoglieremo con onori, lo blandiremo con gli elogi. I barbari, quando ricevono buona accoglienza, entrano da una parte ed escono dall’altra.

Primo cittadino: E’ un consiglio vile e pericoloso!

Secondo cittadino: E che altro si può fare? Vorresti forse che le nostre case fossero bruciate, le nostre donne uccise, i nostri fanciulli rapiti?

Cittadini: Ha ragione!

Vescovo: Calma, figlioli! La paura del pericolo non vi mostra la via più chiara. Io, insieme con la benedizione di dio, sono pronto a darvi un consiglio.

Cittadini: Quale?

Vescovo: Lasciamo le nostre terre e trasferiamoci al di là del mare, sulle isole della laguna. Che Attila trovi le nostre città deserte. Che Attila trovi il silenzio. Là, sulle isole, non verrà. Là, sulle isole, noi costruiremo le nostre case.

Primo cittadino: Le nostre case! Forse vi troveremo la salvezza, ma non un solido avvenire. La terra è sabbiosa, il mare è minaccioso. Come costruire una nuova città?

Vescovo: Oh cittadini! Oh figlioli! Sulla sabbia, dove lavorino uomini animati da speranza e fiducia, possono sorgere case solide e serene. Ecco, io la vedo, la nostra nuova città. E’ tutta di marmo, si innalza al cielo con cupole e campanili, e si specchia nel mare. Il sole vi batte sopra radioso.

La leggenda di Attila e Leone I in recita
Scena III
(Nella tenda di Attila)

Personaggi:
Attila
Generale
Servo

Generale: Oh re, quale cruccio ti rende inquieto?

Attila: Ho trovato città abbandonate, campagne silenziose e morte. Non questa Italia sognavo. Mi aspettavo un’Italia verde e ricca da saccheggiare con profitto.

Generale: Oh re, ma noi andiamo avanti!

Attila: Sì, andremo avanti, finché non troveremo…

Servo (entrando): Oh mio re, ambasciatori romani sono arrivati per parlarti.

Attila: Ambasciatori? Immagino quello che mi vogliono dire. Mi vorranno fermare, offrendomi denaro. Io lo rifiuterò! O forse mi offriranno il possesso di una provincia. Che sciocca proposta sarebbe! Perché dovrei accontentarmi di una provincia, quando posso prendermele tutte? (esce).

Generale: Sperano di fermare il nostro re, ma è inutile…

Servo: Non so.

Generale: Noi Unni continueremo la nostra marcia.

Servo: Non so.

Generale: Niente può resistere alla nostra furia.

Servo: Non so.

Generale: Ma che vuol dire questo “non so”?

Servo: Ecco, rientra il nostro re!

Attila (entrando): Ufficiale, ordina a tutti di tornare indietro!

Generale (meravigliato): Ma come?

Attila (sconvolto) Non sono chiaro? Con me si paga ogni discussione. Suvvia, torneremo indietro, lasceremo l’Italia!

La leggenda di Attila e Leone I in recita
Scena IV

(Nella tenda di Attila, lontano dall’Italia)

Personaggi:
Attila
Generale

Generale: Oh re, ora che i nostri eserciti sono rientrati nella steppa tranquilla, dimmi, se è possibile: perchè lasciasti improvvisamente l’Italia?

Attila: Quel giorno mi incontrai col papa Leone Magno. Fu lui che mi convinse di tornare indietro.

Generale: Perchè? Quante legioni aveva il papa?

Attila: Nessuna. Neppure un uomo armato!

Generale: E allora? Che accadde?

Attila: Dietro alla sua figura ho avuto la visione di una spada di fuoco. Io, che fin da bambino avevo adorato la forza materiale, capii quel giorno che esiste una potenza d’altro genere. Una potenza contro la quale è inutile afferrare le spade e preparare guerre. E sarà sempre inutile.

(Rodolfo Botticelli, adattamento da “Recitiamo la Storia”, editrice La Scuola 1967)

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Storia di Roma IMPERIALE – Il Cristianesimo

Durante l’Impero si compì la più grande rivoluzione della storia dell’umanità nel campo religioso e morale: il cristianesimo. La nuova dottrina fu insegnata da Gesù. Nato a Betlemme, in Palestina, quando da 27 anni Ottaviano era imperatore, Gesù trascorse un’umile giovinezza nel villaggio di Nazaret, ignorato da tutti.
A trenta iniziò la predicazione della sua dottrina. Questa è tramandata dai Vangeli che, insieme con altri libri, formano la seconda parte della Bibbia, detta Nuovo Testamento. Vangelo è parola greca che significa “buona novella”.
Gesù percorse la Palestina predicando e operando miracoli. Fra i suoi primi seguaci ne elesse dodici col nome di Apostoli, cioè propagatori della sua dottrina. Egli affermava di essere figlio di Dio e Salvatore degli uomini, che doveva riscattare dal peccato di Adamo.
Ma i Farisei lo accusarono di predicare dottrine contrarie alla religione ebraica e di cospirare contro l’autorità di Roma, in quanto si proclamava re dei Giudei.
Gesù fu arrestato e condannato a morte. Ponzio Pilato, governatore romano, pur essendo convinto dell’innocenza di Gesù, cedette al furore popolare e permise che venisse crocefisso sulla collina del Calvario, nei pressi di Gerusalemme. Gesù moriva a 33 anni, mentre a Roma regnava Tiberio.

La dottrina di Gesù

Le condizioni degli Ebrei erano molto tristi per l’oppressione di Erode e la miseria delle classi più umili. La parola di Gesù apriva alla speranza l’animo di questi diseredati. Egli voleva che il regno di Dio cominciasse qui, in terra; esso consisteva nella fratellanza degli uomini, nell’amore reciproco, nel perdono nelle offese, nella pace, nel disprezzo dei beni terreni, nella superiorità dello spirito sulla carne. Chiamò beati i poveri, gli afflitti, i reietti, i misericordiosi, quelli che soffrono persecuzioni per amore della giustizia: beati perchè più vicini a Dio e perchè solo ad essi era aperto il regno dei cieli.
Mosè aveva detto di amare il prossimo, ma Gesù aggiunse: “Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che odiano, pregate per i vostri persecutori”.
Gesù compiva una grande rivoluzione nel campo morale: molti dei suoi principii contrastavano con la concezione pagana della vita.
Se davanti a dio tutti sono uguali e fratelli, veniva meno il diritto del padrone sullo schiavo; la povertà, l’umiltà, la mansuetudine, il perdono predicati da Gesù erano in contrasto con le idee degli antichi, che consideravano la forza, la ricchezza, l’orgoglio, i più alti valori della vita.
Gesù, lavorando nella bottega di falegname del padre e scegliendo i suoi apostoli tra gli operai, aveva esaltato il lavoro manuale anche nelle sue forme più umili, mentre fino allora era stato considerato indegno di uomini liberi e solo conveniente agli schiavi.

Storia di Roma IMPERIALE – La diffusione del Cristianesimo

Gesù, prima di essere condannato alla crocefissione, aveva affidato ai suoi apostoli un compito: “Andate, dunque, e predicate a tutte le genti”. Gli apostoli avevano ascoltato le parole del maestro ed erano andati in ogni parte dell’Impero ad insegnare le nuove verità: Dio è uno solo ed è il padre amoroso e giusto di tutti gli uomini; tutti gli uomini sono uguali davanti a lui e sono fratelli fra loro.
A Roma, accanto all’antica religione, si erano diffusi culti, riti, superstizioni nati nelle più lontane regioni dell’Impero. I Romani avevano sempre rispettato queste nuove credenze, ma il cristianesimo era una forza nuova ed il governo di Roma ne provava timore; i cristiani rifiutavano di adorare come un dio l’imperatore. I patrizi erano serviti da migliaia di schiavi, considerati come esseri inferiori, al pari di bestie e di cose, e il cristianesimo parlava di fratellanza e di uguaglianza.
La nuova religione si diffuse rapidamente e trovò i primi fedeli tra gli schiavi, tra le serve e le nutrici delle case patrizie, tra i poveri e i sofferenti. Quasi tutti gli imperatori se ne preoccuparono e perseguitarono i cristiani. Molti morirono.
Si organizzavano veri spettacoli nei circhi e si assisteva soltanto a stragi di cristiani. Essi furono detti martiri, cioè testimoni della loro fede.
Le idee giuste non possono essere spente nel sangue: per ogni cristiano che moriva, centro altri si convertivano alla nuova fede. E poichè non potevano pregare e celebrare apertamente i loro riti, si nascondevano in profonde cave abbandonate nei dintorni di Roma: lì assistevano alla messa, ascoltavano le prediche, seppellivano i morti. Quelle cave si dissero catacombe, e negli anni più difficili accolsero e protessero migliaia di fedeli.

Storia di Roma IMPERIALE – La prima persecuzione in Roma

Il popolo prestava mano spontaneamente alla ricerca dei cristiani. La caccia non era tanto difficile, perchè interi gruppi di essi erano accampati con l’altra popolazione nei giardini, e perchè tutti confessavano apertamente la loro religione. Quando venivano circondati dai pretoriani, si inginocchiavano e cantavano inni lasciandosi condur via senza resistenza. La loro pazienza non faceva che irritare ed aumentare l’ira del popolaccio, il quale, senza capire il perchè, considerava la loro rassegnazione come pertinacia nel delitto. I persecutori erano impazziti.
Strappavano i cristiani alle guardie e li facevano in pezzi, le donne venivano trascinate al carcere per i capelli, si sbattevano le teste dei fanciulli contro le pietre. Giorno e notte migliaia di persone correvano per le vie urlando come bestie feroci. Si cercavano le vittime tra le rovine, nei camini, nelle cantine. Davanti  alle prigioni di celebrava l’avvenimento con baccanali e si danzava sfrenatamente intorno ai fuochi e alle botti di vino. Di sera i ruggiti di gioia salivano e scoppiettavano per tutta la città con lo strepito del fulmine. Le prigioni rigurgitavano di prigionieri.
Ogni giorno la plebaglia e i pretoriani stanavano altre vittime. La pietà era morta. Pareva che le moltitudini  non sapessero più parlare e non si ricordassero nei loro trasporti selvaggi che un grido: “Ai leoni i cristiani!”. Il calore insopportabile della giornata diventava insopportabile di notte; e l’aria stessa pareva impregnata di sangue, di delitto, di furore. A quegli atti di una crudeltà senza esempio, si rispondeva con un desiderio, pure senza esempio, di martirio. I seguaci di Cristo  andavano alla morte volenterosi, o la cercavano fino a quando non ne erano impediti dai superiori. (E. Sienkiewicz, da Quo vadis?)

Storia di Roma IMPERIALE – Le persecuzioni

I Romani si erano sempre mostrati tolleranti, anzi ospitali verso tutte le religioni. Non solo permisero ai popoli sottomessi di  continuare ad adorare i loro dei, ma divinità greche, asiatiche, egiziane furono introdotte in Roma.
Ma i cristiani non godettero di questa tolleranza: essi furono guardati subito con diffidenza e sospetto perchè la loro dottrina e i loro costumi contrastavano troppo con quelli dei pagani. Essi si rifiutavano di adorare come dio l’Imperatore e perciò furono accusati di essere nemici dello stato e perseguitati.
La tradizione conta dieci persecuzioni.
La prima fu quella di Nerone, l’imperatore che accusò i cristiani di aver voluto distruggere con un incendio Roma.
Un’altra grande persecuzione fu quella ordinata, due secoli dopo, dall’imperatore Diocleziano. Essa infuriò crudelmente soprattutto in Oriente e si protrasse per otto anni (303 – 311): fu quello il periodo chiamato l’era dei martiri.

Storia di Roma IMPERIALE – Le catacombe

I cristiani, dopo la morte, non erano seppelliti col rito pagano della cremazione. Perciò fin dal I secolo costruirono dei cimiteri detti catacombe (nel profondo). Queste erano gallerie sotterranee, scavate in vecchie cave abbandonate di rena o di pomice, o sotto giardini e ville di cristiani, nei dintorni di Roma, con nicchie orizzontali alle pareti, in cui si ponevano i morti.
Si estendevano per chilometri e chilometri, con una serie di gallerie che, nei punti di incrocio, furono ampliate fino a formare delle vaste stanze. Ai lati delle gallerie numerose lapidi recavano i vari simboli cristiani: l’olivo, l’agnello, la colomba, il pesce.
Le catacombe, oltre che cimiteri, furono anche rifugio durante le persecuzioni: i fedeli vi si riunivano per ascoltare la messa e pregare. Le catacombe si possono perciò considerare le prime chiese dei cristiani.

Storia di Roma IMPERIALE – Nelle catacombe

Scende la notte e i cristiani, uomini e vecchi, e giovani, donne e fanciulli, escono silenziosamente dalla città. A un tratto sembrano ingoiati dalla terra. Spariscono dentro le cave di pozzolana, entrando in strette gallerie.
All’ingresso hanno acceso una piccola lucerna, che rischiara a stento il corridoio sotterraneo. La piccola fiamma illumina via via tante tombe, scavate nella parete e sulle quali si possono leggere iscrizioni semplici e commoventi. Su qualche tomba è disegnato un pesce, che significa Gesù. Su qualche altra una colomba, che significa la pace. Oppure un’ancora, che significa la salvezza; oppure una spiga di grano o un grappolo d’uva, che significano la vita eterna; oppure un ramo di palma, che significa il martirio.
I cristiani camminano e pregano. Giungono così ad un luogo più spazioso, chiuso da una specie di cupola. Qui è un rozzo altare, accanto al quale si leva un vecchio. Egli è un apostolo, o un successore degli apostoli, cioè un vescovo. Egli parla della vita eterna e spiega: “Cimitero vuol dire dormitorio. I nostri morti non sono morti. Essi vivono con Gesù. Bisogna vivere in questo mondo senza mischiarsi con il peccato, per essere degni di vivere eternamente in paradiso”. I cristiani ascoltano attentamente, poi dicono in coro: “Amen”, che vuol dire così sia. (P. Bargellini)

Nelle catacombe
I cristiani, invece di bruciare i loro morti come i pagani, li seppellivano in gallerie sotterranee. Lì avrebbero riposato in pace in attesa di risvegliarsi alla vita eterna.
Dapprima i pagani derisero i cristiani per la fede che professavano e gli strani riti che celebravano. Poi presero a perseguitarli, e i Cristiani furono costretti a nascondersi nei loro cimiteri sotterranei, detti catacombe. Alla fioca luce delle lucerne leggevano i Vangeli, ascoltavano la messa, cantavano preghiere. I ricchi spartivano le loro ricchezze con i poveri perchè li consideravano fratelli.

Storia di Roma IMPERIALE – Le tombe dei primi cristiani

Le catacombe si estendono in vasta rete nel sottosuolo della Città Eterna, specialmente alla periferia; e non sono altro che cimiteri sotterranei. Solo in casi eccezionali servirono come temporaneo luogo di preghiera per i primi cristiani che si rifugiavano in esse, accanto alle tombe dei martiri, durante le persecuzioni più feroci.
Siccome le leggi romane proibivano di seppellire i morti in città, così anche i cristiani, per fare i loro cimiteri, scelsero, come i pagani, le località prossime alle strade suburbane; e, nel tufo che forma il sottosuolo di Roma, furono scavati chilometri e chilometri di gallerie, larghe mai meno di un metro, che portavano scavate nelle pareti delle nicchie, disposte le une sulle altre come cuccette di bastimento. Una lastra di marmo o di semplice terracotta chiudeva poi il loculo, ed era spesso ornata di iscrizioni e di figurazioni artistiche o simboliche.
Altre volte, invece, le tombe erano formate da una mensola sormontata da un arco (arcosolio), o erano raccolte attorno ad una stanza (cubicolo).
Al principio le catacombe servirono ad accogliere le spoglie dei cristiani più illustri, insieme con quelle dei loro familiari: ma poi, quando il numero dei Cristiani crebbe, si sentì il bisogno di sepolcri per la comunità. Furono proprio questi i tempi delle più feroci persecuzioni, e così i numerosi corpi dei martiri furono sepolti dai correligionari nei loro cimiteri. Tanto più, allora, i fedeli amarono farsi seppellire nelle catacombe, ove riposavano le spoglie di quei fulgidi esempi di cristiano eroismo, mentre cercavano, in vita, di ornare le tombe con pitture, iscrizioni e colonne, su cui ardevano lucerne.
Dal quinto secolo in poi però, i cristiani cessarono di farsi seppellire nelle catacombe, che divennero luoghi di pellegrinaggio e devozione; nelle chiese sotterranee si continuarono a celebrare gli anniversari dei defunti, e sulle tombe più venerate si innalzarono basiliche (San Pietro, Santa Agnese, San Paolo).
Ma vennero gli anni terribili delle invasioni barbariche; e i barbari non rispettarono questi sotterranei: li devastarono e ne trassero le ossa per venderle come reliquie. Allora i papi pensarono che meglio valesse trasportare i corpi dei martiri nell’interno della città. Così pian piano, alla metà del IX secolo, le catacombe restarono prive di quei sacri tesori, e perciò furono gradatamente abbandonate e si ricolmarono di rovine, ad eccezione del cimitero di San Sebastiano e di qualche altra piccola parte di sotterranei, posti sotto alcune delle più frequentate basiliche. (O. Gasperini)

Storia di Roma IMPERIALE – I martiri

Durante le persecuzioni, i cristiani venivano imprigionati e interrogati. Bastava che negassero di essere seguaci di Cristo e che bruciassero l’incenso sull’altare dell’imperatore per riavere la libertà. Alcuni lo facevano, altri invece, ed erano la maggioranza, affrontavano con animo lieto la tortura e la morte piuttosto che tradire la loro fede; essi furono chiamati martiri.
Questa parola vuol dire testimoni. Nonostante le persecuzioni, il numero di coloro che abbandonavano il culto degli dei e chiedevano di essere battezzati aumentava continuamente.

Storia di Roma IMPERIALE – I cristiani alle belve

Quanta diversità fra i Romani della repubblica e quelli dell’impero! Allora il lavoro era ritenuto un onore. Ora, invece, era quasi diventato una vergogna. La gente voleva godere e divertirsi. Si gridava: “Pane e divertimenti!”.
Il divertimento più desiderato era quello del Circo, dove si svolgevano combattimenti fra gladiatori e gladiatori, o fra gladiatori e belve.
I gladiatori erano schiavi armati di corta spada, chiamata gladio. Nell’entrare nel Circo, i gladiatori salutavano l’imperatore dicendo: “Salve Cesare, i morituri ti salutano”. Poi lottavano tra loro e si ammazzavano davvero. Quando un gladiatore cadeva a terra ferito, ma non morto, l’altro si volgeva all’imperatore. Se l’imperatore faceva un gesto, col pollice in basso, il gladiatore caduto veniva ucciso. Il gesto contrario significava che gli era salva la vita.
Molte volte i gladiatori lottavano contro belve ferocissime: leoni, tigri, leopardi.
Ma al tempo delle persecuzioni contro i cristiani, fu trovato uno spettacolo anche più crudele. Si faceva entrare nel Circo un gruppo di cristiani e poi si scatenavano le fiere, mentre il pubblico gridava pazzamente: “I cristiani alle belve!”. Donne, vecchi, bambini, uomini erano così dilaniati dai denti e dagli artigli delle fiere.  (P. Bargellini)

Storia di Roma IMPERIALE – Panem et circenses

Se la decadenza dei costumi si fosse limitata alle baldorie, susciterebbe solamente il nostro disgusto; ma essa giunse perfino agli spettacoli sanguinari, amati e approvati da tutti, che provocavano una tale frenesia nelle folle, che senatori, donne e perfino imperatori alcune volte discesero di persona nell’arena per battersi come vili gladiatori.
I cittadini poveri limitavano le loro rivendicazioni essenziali a due cose: un pezzo di pane e un posto per assistere alle stragi, “panem et circenses”, e i ricchi, che desideravano rendersi popolari, offrivano rappresentazioni sempre più grandiose.
Sotto l’Impero c’erano 165 giorni di rappresentazioni l’anno e, nel corso di certi giochi, migliaia di gladiatori e di condannati comuni furono uccisi.
Durante il mattino e nel pomeriggio il numero dei morti è limitato: sono professionisti, formati in apposite scuole, ludi, da allenatori, lanistae, che si sfidavano in duelli serrati, spesso molto lunghi prima della disfatta di uno degli avversari. Di solito si fa combattere un reziario con un mirmillone o gallo. Il primo è il pescatore, quasi nudo, agile, che cerca di avvolgere l’avversario con la sua rete e di colpirlo con il suo tridente; l’altro è un pesce pesante, coperto con placche di metallo, armato di una piccola spada; e il suo capo è rinchiuso in un casco di bronzo con la cima ornata proprio da un pesce. Quando uno degli avversari, colpito da una grave ferita, comincia a vacillare, il popolo urla: “Hoc habet!” (se l’è presa). Quando crolla a terra e alza la mano per implorare la grazia, raramente il popolo la concede, e di solito abbassa il pollice gridando: “Iugula!” (sgozzalo). Il vincintore finisce il ferito che muore con eleganza, come gli è stato insegnato a scuola.
A mezzogiorno le gradinate si vuotano. Molti vanno a pranzo e a fare la siesta, mentre il sole implacabile cade a piombo sulle teste nell’immenso anfiteatro di pietre; restano solo i fanatici: essi sanno che succederà qualche cosa anche durante quest’ora vuota. I servi dell’anfiteatro spingono nell’arena i gladiatores meridiani, cioè i condannati a morte. Viene data un’arma ad un uomo, perchè ne uccida un altro che è disarmato; quando egli ha colpito la sua vittima, gli tolgono la spada insanguinata di cui si è appena servito, per darla a un terzo che lo uccida a sua volta. Il terzo è ucciso da un quarto, e il massacro dura un’ora.

Nei circhi avvengono combattimenti fra uomini armati e animali feroci, mai primi cristiani, trattati come  criminali comuni, vengono esposti senza difesa e le bestie affamate li sbranano sotto gli occhi degli spettatori.
Tuttavia, questi vanno al circo soprattutto per vedere le corse dei carri a due cavalli, bighe, o a quattro cavalli, quadrighe. Per queste corse è stata preparata una lunga pista divisa in due in senso longitudinale da un muro chiamato spina, che lascia un passaggio solo alle due estremità. Fin dall’inizio della gara è una lotta serrata per portarsi sulla sinistra, onde prendere la curva più stretta che sia possibile contro la colonnetta, “meta”, che è all’estremità della spina. In questa lotta le ruote dei cocchi spesso si incontrano e volano in schegge. Prima di cadere, i conducenti tagliano le redini con un pugale, per non essere trascinati al suolo dai loro cavalli impazziti.
Costantino nel 325 cercò invano di proibire i giochi gladiatorii; essi continuarono ad essere effettuati nonostante le proteste dei padri della chiesa, ancora per più di un secolo. Mentre un giorno nel Colosseo si svolgeva uno di questi spettacoli, un monaco si gettò in mezzo ai combattenti cercando di strappare loro le armi. Fu ucciso: poi si seppe che si chiamava Telemaco, che era venuto dall’Oriente per compiere questa missione. Il suo sacrificio indusse l’imperatore a prendere un provvedimento decisivo. Il fatto accadde a Roma sotto Onorio ed è narrato da uno storico contemporaneo. (A. M. Colin)

Lotte di gladiatori

Squillarono le trombe e vi fu un profondo silenzio; migliaia di sguardi si diressero sulla porta verso la quale un uomo, vestito da Caronte, avanzava battendo su questa tre colpi di martello, quasi invitasse alla morte coloro che si trovavano al di là. Aperti lentamente i battenti, lasciando scorgere una cupa voragine, entrarono nel Circo i gladiatori. Avanzarono a schiere di venticinque: Traci, Mirmilloni, Sanniti, Galli; tutti armati pesantemente. Seguivano i retiarii, con la rete in una mano e nell’altra il tridente.
Furono accolti da applausi che divennero fragorosi. In tutto l’anfiteatro si vedevano facce accese, mani alzate, bocche aperte. E intanto i gladiatori, fatto il giro dell’arena con passo fermo, scintillanti nelle ricche armature, si fermarono davanti alla loggi cesarea, superbi e tranquilli. Uno squillo di tromba acuto interruppe i battimani, i gladiatori alzarono le braccia, e rivolgendosi a Cesare, intonarono lentamente:
“Salve Cesare imperatore! Coloro che sono per morire ti salutano!”
Dopo, presero posto nell’arena.
Dovevano cozzare schiera contro schiera, ma ai più famosi fu comandato di battersi singolarmente, perchè potessero meglio dar prova di sveltezze e di coraggio. Dal gruppo dei lottatori ne uscì uno ben conosciuto, di nome Macellaio (Lanio), famoso vincitore. Con l’enorme elmo e la corazza che fasciava la schiena poderosa, spiccava sulla gialla arena come un immane scarabeo. Il non meno celebre retiario Calendio gli si fece incontro.
Cominciarono le scommesse:
“Cinquecento sesterzi per Gallo!”
” Cinquecento per Calendio!”
“Per Ercole ne scommetto mille!”
“Duemila!”
Intanto il Gallo, giunto nel mezzo, cominciava a retrocedere; protendendo la spada, e piegando il capo da una parte, seguiva attentamente l’avversario, e il retiario, svelto, nudo, di forme scultoree, coperte di una sciarpa, rapidamente gli girava intorno, agitando con arte la rete, ora abbassando ora rialzando il tridente…
Ma il Gallo non fuggiva; piantandosi saldo, faceva in modo da aver sempre di fronte l’avversario. C’era qualcosa di pauroso nella sua grossa testa mostruosa e in tutta la sua persona. Gli spettatori sapevano che egli si preparava ad un balzo improvviso che avrebbe potuto decidere della lotta. E il retiario ora gli correva incontro, ora dava un balzo indietro con tale rapidità, che non era possibile seguirlo con lo sguardo.
Più volte il colpo del tridente risuonò sulla corazza: ma il Gallo rimase saldo, dando prova così della sua forza inverosimile. La sua attenzione si concentrava non sul tridente, ma sulla rete che gli girava attorno come un uccello di cattivo augurio.
Gli spettatori, trattenendo il fiato, seguivano attentamente il gioco dei lottatori. Lanio, al momento opportuno, balzò alla fine sull’avversario; ma questi, rapidissimo, gli sfuggì di mano, si raddrizzò e scagliò la rete. Il Gallo, con un giro, la respinse con lo scudo; quindi, indietreggiarono ambedue. L’anfiteatro echeggiò delle grida di “Macte!” (Ammazzalo). Nelle prime file s’impegnarono nuove scommesse.
E i gladiatori ricominciarono a lottare con arte, con precisione di movimenti, da far pensare che non si trattasse di una lotta di vita o di morte, ma di una gara di destrezza. Lanio cercava di evitare la rete, retrocedendo. Allora coloro che scommettevano, cominciarono a gridare: “Dagli addosso!”, eccitandolo a non riposarsi.
Il Gallo obbedì, e si slanciò sull’avversario, il braccio del retiario si coprì di sangue e la rete gli pendette dalla mano. Lanio si raccolse e spiccò un salto per vibrare l’ultimo colpo. Ma in quel punto Calendio, che aveva finto di non poter reggere la rete, scansò il colpo e, conficcando il tridente nelle ginocchia dell’avversario, lo fece stramazzare a terra.
Lanio, sempre più avviluppato nella rete fatale, cercava invano di rialzarsi, sempre più imbrogliandosi. Intanto altri colpi lo inchiodavano a terra; puntò la mano, raccolse le forze, ma invano: portò alla testa la mano che non reggeva più la spada, e cadde. Il Circo tremò dagli applausi, dalle grida. Il pubblico era diviso in due parti. Chi gridava morte, chi grazia. Ma il retiario non guardava che Cesare e le Vestali e aspettava la loro sentenza.
Per sventura, l’imperatore non amava Lanio, perchè aveva scommesso per lui una volta ed aveva perduto, perciò, sporgendo la mano, abbassò il pollice.
Il segno fu ripetuto dalle Vestali. (Enrico Slenkiewicz)

Il trionfo del cristianesimo

Col passare degli anni il cristianesimo si diffuse in regioni sempre più vaste. E la chiesa, cioè la congregazione dei fedeli, diventò veramente cattolica, cioè universale.
Le persecuzioni, invece di soffocar il cristianesimo, concorsero alla sua vittoria. Questa avvenne, nel IV secolo, dapprima con Costantino (Editto di Milano), poi con Teodosio (autore di un editto per il quale il cristianesimo era proclamato religione di stato).
Il cristianesimo aveva trovato un terreno più favorevole alla sua diffusione nelle città; nei villaggi, detti pagi, continuarono a vivere i seguaci delle vecchie religioni, detti perciò pagani.

La luce del Cristianesimo
Il Cristianesimo si diffuse  ben presto in tutto l’Impero Romano e vi fu portato non solo dagli apostoli, ma anche da gente qualunque, da persone della quali non conosciamo neppure il nome, ma che avevano il cuore pieno d’amore e di fiducia in Dio. Per esempio, ignoriamo ancora chi formò la prima comunità cristiana di Roma, già esistente prima dell’arrivo degli apostoli Pietro e Paolo.
Non era necessario essere sacerdoti, per parlare di Gesù e per invitare gli uomini a riflettere sulla vita futura:  potevano farlo un legionario reduce dalle Gallie, uno schiavo incatenato al remo di una nave ferma nel porto per le pulizie, o la moglie di un funzionario al ritorno dalla Giudea.
Così, da una persona all’altra, la fede arrivò in tutti gli strati della società romana. Non pensate che i primi cristiani fossero tutti schiavi tormentati dai padroni o poveri maltrattati dai ricchi… No davvero! Furono anche patrizi, uomini colti, militari, matrone di famiglia nobilissima. Perchè non basta la ricchezza per avere la pace del cuore: tutti, ricchi e poveri, avevano bisogno di Gesù.
Gli imperatori, però, non approvarono il Cristianesimo e considerarono i cristiani nemici dello Stato, perchè costoro si rifiutavano di rendere all’imperatore in carica gli onori che egli pretendeva considerandosi un dio.

Nelle catacombe
La poca luce che pioveva da certe finestre chiamate lucernari o la fumosa fiamma di una torcia illuminavano i volti di coloro che pregavano.
Lungo  le pareti delle gallerie si aprivano i loculi, cioè delle nicchie dove erano deposte le casse di legno con i cadaveri.
Una lastra di marmo o un muro, con il nome della persona sepolta, chiudeva il loculo.
Molte volte, oltre al nome, era inciso sulla lapide anche un augurio: “O caro, che tu sia felice, là dove si sta bene”.
Da questi antichi cimiteri che sorsero a Roma, in Sicilia e in Sardegna, ci giungono ancora le voci, le preghiere e la fede dei primi cristiani.

La prima arte cristiana
La prima arte cristiana si manifestò nelle catacombe.
Le pareti delle catacombe venivano, infatti,  dipinte con affreschi che rappresentavano pavoni, navicelle, grappoli di uva, pesci, anfore, lucerne, rami di palma, agnelli, un pastore.
Ognuna di queste figure aveva un significato: l’albero e il prato rappresentavano il paradiso; la spiga e il tralcio l’eucarestia; la colomba la purezza, la pace e il perdono; il pesce e l’agnello Gesù Cristo.
La raffigurazione di Gesù nel pesce si spiega ricordando che, nella lingua greca, pesce si dice ixtus,  e le lettere che compongono ixtus sono le iniziali di “Iesus Xristos Teu Uios Soter” cioè ” Gesù Cristo figlio di Dio salvatore”.
Altri simboli cristiani erano il delfino, l’anima che naviga e giunge alla salvezza; la palma, che rappresentava la vittoria del martire; la lucerna, la luce che non si spegne nel cuore di chi crede; il grappolo d’uva che simboleggiava Gesù che disseta le anime. Il pastore che porta l’agnello era Gesù che ama il suo gregge.

Le persecuzioni
I Romani si erano sempre mostrati tolleranti, anzi ospitali verso tutte le religioni, ma i Cristiani non godettero di questa tolleranza. Essi furono guardati subito con diffidenza e sospetto perchè la loro dottrina e i loro costumi contrastavano troppo con quelli dei pagani. Essi di rifiutavano di adorare come dio l’imperatore e perciò furono accusati di essere nemici dello Stato.
I Cristiani furono perseguitati per più di trecento anni e migliaia di loro morirono martiri perchè non avevano voluto rinnegare la fede in Cristo e perchè si erano rifiutati di bruciare incenso davanti alle statue degli Imperatori.
Nell’anno 64 Nerone li accusò di aver incendiato Roma e subirono la prima persecuzione. La tradizione conta dieci persecuzioni, fino a quella di Diocleziano che, fra tutte, fu la più lunga e sanguinosa (303 – 311). Non solo vescovi, sapienti ed uomini validi, ma anche giovani e giovinette affrontarono serenamente il martirio, per rivivere nel cielo accanto a Cristo.
Ecco il racconto di Santa Perpetua, martirizzata in una cittadina africana:
“Mentre eravamo tra i persecutori, mio padre insistette per dissuadermi. Allora gli dissi:
-Papà, vedi questo vasetto qui in terra? Potresti chiamarlo con un nome diverso dal suo?-.
-No-, rispose lui.
-Benissimo!- dissi io. -Nello stesso modo, non posso dire altro di me che sono cristiana!-“

Il cristianesimo
Gesù, prima di essere condannato alla crocefissione, aveva affidato ai suoi apostoli un compito bello ma difficile: “Andate, dunque, e predicate a tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Gli apostoli avevano ascoltato le parole del loro Maestro ed erano andati in ogni parte dell’Impero ad insegnare le nuove verità: Dio è uno solo ed è padre amoroso e giusto di  tutti gli uomini, tutti gli uomini sono uguali dinanzi a lui e sono fratelli fra loro.
A Roma, accanto all’antica religione, si erano diffusi culti, riti, superstizioni nati nelle più lontane regioni dell’Impero. I Romani avevano sempre rispettato queste nuove credenze, ma il Cristianesimo era una forza nuova e il governo di Roma ne provava timore; i Cristiani rifiutavano di adorare come un dio l’Imperatore. I patrizi erano serviti da migliaia di schiavi, considerati come esseri inferiori, al pari di bestie e di cose, e il cristianesimo parlava di fratellanza e di uguaglianza.
La nuova religione si diffuse rapidamente e trovò i primi fedeli tra gli schiavi, tra le serve e le nutrici delle case patrizie, tra i poveri e i sofferenti. Quasi tutti gli imperatori se ne preoccuparono e perseguitarono i cristiani. Molti morirono crocefissi, divorati dalle belve, decapitati.
Si organizzavano veri spettacoli nei circhi e si assisteva soltanto a stragi di cristiani. Essi furono detti martiri, cioè testimoni della loro fede.
Le idee non possono essere spente nel sangue: per ogni cristiano che moriva, cento altri si convertivano alla nuova fede. E poichè non potevano pregare e celebrare apertamente i loro riti, si nascondevano in profonde cave abbandonate nei dintorni di Roma: lì assistevano alla messa, ascoltavano le prediche, seppellivano i morti. Quelle cave si dissero catacombe e, negli anni più difficili, accolsero e protessero migliaia di fedeli.

Un’adunata notturna di Cristiani nelle catacombe a Roma
Allora tutta quella moltitudine di cristiani, nel sotterraneo rischiarato dal chiarore delle fiaccole, intonò un inno, dapprima a bassa voce, poi a voce sempre più alta… Quell’inno sembrava una preghiera, triste ed umile ad un tempo, di liberazione dal pericolo e dalle tenebre. Pareva che gli occhi, rivolti ad una meta lontana, e le braccia tese vedessero e supplicassero qualcuno.
All’inno seguì un istante di silenzio… Tutti sollevarono istintivamente  gli sguardi. Un vecchio, ravvolto in un mantello, ma col capo scoperto, montò su una pietra che stava accanto al fuoco. Tutti si inchinarono. Delle voci mormorarono: “Pietro… Pietro…”. Alcuni si posero in ginocchio, altri stesero le mani verso l’apostolo, e il silenzio divenne così profondo che si sarebbe potuto udire lo stridere dei tizzi arsi che cadevano dalle fiaccole, il rumore dei carri sulla via lontana e lo stormire dei pioppi nel cimitero lievemente agitati dalla brezza della sera.
Pietro cominciò a parlare: narrava la morte e la resurrezione di Cristo. Gli ascoltatori trattenevano il fiato per non perdere sillaba, ed il silenzio si fece ancora più solenne.
Quell’uomo aveva visto! Egli raccontava come persona, nella cui memoria era impressa ogni minima circostanza, e gli bastava chiudere gli occhi per rievocare quella visione.

Il piccolo schiavo
La fila dei prigionieri procedeva silenziosa sotto la pioggia. Erano stati catturati nella lontana Dacia e, a marce forzate, dovevano raggiungere Roma: avrebbero seguito incatenati il cocchio dell’imperatore nella sfarzosa sfilata trionfale.
I prigionieri erano tutti guerrieri. Alcuni di loro portavano ancora brandelli della tenuta di battaglia: chi un bracciale, chi gli schinieri, chi addirittura il pettorale della corazza.
In mezzo a loro, vestito di una corta tunica, un ragazzo: Lucio.
Quando la sua terra era stata invasa, s’era trovato in mezzo ad un gruppo di fuggiaschi in preda al panico. Aveva proceduto con loro per un giorno e una notte, finchè s’era imbattuto in questa schiera di prigionieri, tra i quali aveva scorto gente del suo paese. I soldati di guardia avevano tentato di allontanarlo, ma poi avevano lasciato che seguisse il gruppo.
E Lucio faceva del suo meglio per arrancare col suo passo, ma era stanco, molto stanco.
Al tramonto si fermarono in una stalla abbandonata. I soldati distribuirono un magro pasto e ordinarono loro di cercarsi un giaciglio sulla paglia per passare la notte.
Ma era tanta la stanchezza, il dolore alle gambe e il bruciore ai piedi, che Lucio non riusciva a prendere sonno.
Si guardò intorno: tutto buio. Solo là, in fondo, un rettangolo appena visibile, la porta: su di essa si disegnava l’ombra del soldato di sentinella.
Lucio osservò a lungo il profilo; lo riconobbe: era Marco, uno dei pochi buoni soldati che li accompagnavano, il quale gli sorrideva spesso; qualche volta, di nascosto, gli aveva regalato del cibo.
Lucio si alzò. Al lieve fruscio della paglia, Marco volse il capo verso l’interno della stalla. Nel buio vide biancheggiare la corta tunica di Lucio.
“Lucio, che fai?”
Il ragazzo non conosceva la lingua di Marco, e non rispose: andò a sederglisi accanto. Da vicino si potevano scorgere il volto: si sorrisero. Rimasero così seduti fianco a fianco, senza parlare.
Lucio guardò il cielo: aveva smesso di piovigginare, e qua e là si scorgeva tremolare qualche stella. Si segnò una piccola croce sulla fronte e si mise a pregare in silenzio.
Il soldato aveva scorto il segno. Gli toccò una spalla e, sottovoce, gli chiese: “Sei cristiano?”
Lucio alzò gli occhi. Non conosceva il linguaggio di Marco, ma la parola “cristiano” l’aveva compresa: fece cenno di sì col capo, poi con un dito disegnò una croce sulla sabbia.
A Marco si schiarì il volto e, col grosso indice, disegnò vicino alla croce un pesce.
Anch’egli era cristiano. Sorrisero contenti; poi Marco si guardò intorno: tutti dormivano. Allora si alzò e si pose in ginocchio. Lucio lo imitò. Sentinella e prigioniero, gomito a gomito, pregarono a lungo, ciascuno nella sua lingua, ma insieme.

L’incendio di Roma
Nell’anno 64 dopo la nascita di Gesù, mentre era imperatore Nerone, scoppiò a Roma un terribile incendio che durò nove giorni. Non si seppe mai la vera causa del disastro, ma corse voce che lo stesso Nerone, di cui si conoscevano le pazzie e i delitti, l’avesse voluto per ricostruire la città secondo i suoi gusti. Nerone incolpò i cristiani.
Vennero imprigionati tutti quelli che si sapevano seguaci di Cristo e mandati al supplizio come incendiari. Tra gli altri, subirono il martirio anche gli apostoli Pietro e Paolo. Questa fu la prima persecuzione.

Un processo ai cristiani sotto l’imperatore Antonino Pio
Introdotti che furono i cristiani e presentati al tribunale, il prefetto Rustico disse a Giustino: “Prima di tutto obbedisci agli dei e rendi omaggio all’imperatore”.
Giustino: Cosa santa è l’obbedire ai comandamenti del nostro salvatore Gesù.
Prefetto: Di quali dottrine vai tu discorrendo?
Giustino: Io studiai tutte le dottrine e ho prestato fede solo ai veri insegnamenti dei cristiani, anche se non piacciono ai falsi filosofi.
Prefetto: E a te, miserabile, piacciono questi discorsi?
Giustino: Sì, perchè li seguo con animo disposto ad accogliere verace dottrina….
Prefetto: Veniamo ora alla questione che bisogna sbrigare. Fatevi avanti tutti insieme, e tutti insieme fate sacrificio agli dei.
Giustino: Nessun uomo saggio passerebbe dalla religione all’empietà.
Prefetto: Se non obbedirete, sarete puniti senza remissione.
Giustino: Le nostre preghiere ci ottengono di giungere a salvezza per mezzo dei tuoi castighi; perchè questi saranno a noi scampo e conforto dinanzi al tribunale del nostro Signore e Salvatore, tribunale più terribile di questo e al quale compariranno tutti gli uomini del mondo.
Tutti gli altri cristiani dissero: Fa’ ciò che vuoi. Noi siamo cristiani, non sacrifichiamo agli dei.
Il prefetto Rustico pronunciò la sentenza: “Costoro che non vogliono sacrificare agli dei nè sottomettersi al decreto dell’imperatore, siano flagellati e condotti al supplizio, e scontino la pena di morte per decapitazione a norma del procedimento legale”. (dagli Atti dei Martiri, trad. S. Colombo)

Il martirio di San Pancrazio
Ritto e immobile nel mezzo dell’arena, il giovinetto pregava con le braccia piegate sul petto a forma di croce. Ed ecco i leopardi correre verso di lui, ruggendo. Ma che cosa accadeva? Le belve gli si avvicinarono, gli fecero ressa intorno, mandarono paurosi ruggiti, ma non gli recarono la minima offesa.  Il martire sembrava posto in mezzo ad un cerchio magico, a cui le belve non potevano avvicinarsi.
Gli fu mandato contro un toro infuriato: esso corse verso di lui a testa bassa, con impeto, ma improvvisamente si arrestò, muggendo e percuotendo con lo zoccolo il terreno.
“La pantera!” gridò allora una voce.
“La pantera! La pantera!” ripeterono mille altre voci in coro.
Apparve una gabbia: si spalancò e la fiera balzò nel mezzo dell’arena.
Benchè lungamente irritata dall’oscurità della prigionia e dal digiuno, cominciò a saltare e a correre intorno, come volesse giocare. Alla fine scorse la preda e le si avvicinò piano piano, con tutta la grazia dei suoi movimenti felini.
Pancrazio stava sempre fermo al suo posto, di fronte all’imperatore.
La pantera misurò, per un attimo, la distanza, mentre tutti trattenevano il respiro; poi, dato un ruggito, spiccò un salto e fu con le fauci strette alla gola del martire.
Pancrazio rimase per un istante in piedi, portò la mano destra alle labbra, poi cadde, e i suoi occhi si chiusero nel sonno del martirio. (E. Sienkiewicz)

La Chiesa
Le violenze non riuscirono a cancellare il cristianesimo dall’Impero. La Chiesa Cristiana, anzi, si organizzò saldamente. La parola Chiesa deriva da una parola greca che significa assemblea; i cristiani di una città, infatti, si riunivano sotto la guida del Vescovo, che era aiutato dai Preti e dai Diaconi.
I primi cristiani si riunivano la domenica per pregare e, in ricordo dell’ultima cena di Gesù, si comunicavano col pane e col vino  consacrati. Le varie comunità cristiane si scambiavano notizie e consigli, e i Vescovi si riunivano a concilio per discutere i problemi della Chiesa.
Fin dai primi tempi del Cristianesimo, il Vescovo di Roma fu riconosciuto capo di tutta la Chiesa, perchè successore di Pietro, il capo che Gesù aveva scelto.

Il Cristianesimo
Il Cristianesimo, nei primi tre secoli dell’era, che ben a ragione è detta cristiana, si diffuse in tutto l’impero. I cristiani obbedivano alle leggi civili quando esse non contrastavano con le leggi di Dio, per questo furono sospettati, calunniati, perseguitati; ma seppero sempre resistere; morirono fra i tormenti, ma non rinnegarono mai la loro fede. Stupirono, impressionarono e conquistarono le folle, perchè serenamente e docilmente, anche cantando, affrontavano il martirio.

Per il lavoro di ricerca
Da chi fu diffuso il Cristianesimo nelle terre dell’Impero?
Perchè il Cristianesimo era combattuto dallo Stato romano?
Chi furono i primi cristiani?
Come si organizzò la Chiesa cristiana?
Che cosa significa la parola “chiesa”?
Dove si manifestò la prima arte cristiana?
Che cos’erano le catacombe?
Come venivano dipinte le pareti delle catacombe?
Che cosa erano i loculi?
Quali furono i simboli religiosi dei primi cristiani?
Per quanti anni furono perseguitati i cristiani?
Quale fu la prima persecuzione dei cristiani?
Chi ebbe il nome di martire?
Riuscirono le persecuzioni a sopprimere  il Cristianesimo?

Il trionfo del cristianesimo
Tre secoli dopo la morte di Gesù, al tempo dell’imperatore Costantino, i cristiani erano alcuni milioni, sparsi in tutto il territorio dell’impero. Tra essi vi erano non solo schiavi e poveri, ma anche patrizi, senatori, ufficiali , dignitari di corte.
In quel tempo lo Stato Romano aveva due imperatori: Costantino che era stato scelto dai soldati che si trovavano in Gallia; e Massenzio che era stato eletto dal Senato e dal popolo di Roma.
I due rivali decisero di combattere l’uno contro l’altro per stabilire a chi dovesse toccare l’Impero.
Costantino con il suo esercito giunse alle porte di Roma. Dice la leggenda che mentre si preparava ad iniziare la battaglia decisiva ebbe una miracolosa visione. Una grande croce luminosa apparve nel cielo. Costantino vi lesse queste parole: “In hoc signo vinces” (con questo segno vincerai).
Egli, sebbene non fosse ancora cristiano, fece subito mettere la croce sul labaro imperiale. Poi promise che, se avesse vinto, avrebbe concesso la libertà ai cristiani.
La battaglia fu combattuta presso il Ponte Milvio, sul Tevere, e Costantino riuscì vincitore. L’anno dopo emanò un editto in cui si diceva che i cristiani erano liberi di praticare la loro religione.
In onore di Costantino sorse a Roma un grande arco di trionfo e la città di Bisanzio, in oriente, chiamata oggi Istanbul, prese il nome di Costantinopoli, che significa città di Costantino.
Il Cristianesimo trionfò nel 380 dC con l’editto di Teodosio, quando fu proclamato religione ufficiale di Stato.

Costantinopoli
Nel 330 Costantino volle dare al nuovo Impero Romano Cristiano una capitale del tutto nuova e scelse Bisanzio, sul Bosforo, che egli cercò di rendere pari a una Nuova Roma (come in un primo tempo pensò di chiamarla), arricchendola di edifici e monumenti gareggianti in bellezza con quelli di Roma.
Entro le mura sorsero con straordinaria rapidità fori, portici, archi trionfali, terme, circhi e, fra le altre imponenti costruzioni, un palazzo imperiale che comprendeva un numero grandissimo di saloni con biblioteche, teatri, caserme, ecc…
L’11 maggio del 33o, con feste che durarono quaranta giorni, fu inaugurata la nuova capitale, che prese il nome di Costantinopoli. Nella piazza centrale, tra le Vittorie alate, sorgeva un’altissima colonna di porfido, di un color caldo, che ai raggi del sole vibrava. Sulla sommità di essa si ergeva la statua di Apollo, col capo radiante, simboleggiante l’imperatore, come diceva l’iscrizione: A Costantino, splendente come il Sole.
Quel sole tramontò nel 337 mentre si accingeva a una spedizione contro il re di Persia. Prima di morire Costantino ricevette dai vescovi della sua corte il battesimo, che egli, pur essendo cristiano, non aveva ancora ricevuto.

Come mai Costantino aveva costruito una nuova capitale e aveva abbandonato Roma?
L’impero romano era troppo grande per essere difeso tutto. La parte orientale, dove era stata costruita Costantinopoli era facile da difendersi, perchè protetta dal mare e dalle montagne, e più ricca. La parte occidentale, invece, cioè le terre che oggi sono occupate dall’Italia, dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna e dall’Inghilterra, comportava maggiori difficoltà per la difesa.

Il primo Concilio Ecumenico
Costantino fu il primo imperatore cristiano e come tale dalla chiesa ha avuto il titolo di Grande. Oltre agli innumerevoli atti di governo coi quali egli favorì in tutti  i modi la nuova religione, è da ricordare soprattutto la convocazione del Concilio di Nicea.
Era sorta una controversia di fondamentale importanza tra il vescovo di Alessandria d’Egitto, Atanasio, il quale sosteneva che Gesù fosse insieme uomo e dio, e il prete della stessa città, Ario, il quale invece sosteneva che Gesù fosse soltanto uomo.
In tutto l’Oriente cristiano le discussioni fra Atanasiani e Ariani avevano acceso e diviso gli animi, sicchè apparve necessaria la convocazione di quello che fu il primo Concilio Ecumenico (cioè riunione universale di tutti i vescovi), per fissare il dogma o verità di fede.
Il Concilio ebbe luogo nel 325 a Nicea, città della Bitinia, con la partecipazione dello stesso Costantino e di un gran numero di vescovi: fu la prima solenne assemblea della chiesa vittoriosa ed ebbe una grandiosa imponenza; la dottrina di Ario fu condannata come eretica; il dogma della divinità di Cristo e della Trinità fu fissato nel cosiddetto Simbolo Niceno o Credo.

La leggenda della croce
Narra un’antica leggenda che un giorno Adamo, sentendosi prossimo alla fine, mandò suo figlio Set a bussare alla porta del Paradiso Terrestre con l’incarico di chiedere l’olio della misericordia. Ma invece dell’olio, l’angelo gli diede un ramoscello staccato dall’albero del bene e del male. Tornato a casa, Set trovò che intanto Adamo era morto e, non sapendo che dare del ramoscello, lo piantò sulla sua tomba.
Il ramoscello crebbe e divenne un albero.
Al tempo di re Salomone, l’albero venne abbattuto e poi, siccome nessuno riusciva a farne qualcosa di buono, lo sotterrarono.
Per anni e secoli, il tronco rimase nella terra; ma ne uscì, senza che nessuno lo toccasse, proprio mentre si svolgeva il processo contro Gesù. Con quel legno, i nemici di Gesù costruirono le tre croci del Calvario e, dopo la passione, le fecero sparire.
Passarono tre secoli. Alla vigilia di una grande battaglia decisiva, all’imperatore Costantino apparve un angelo che lo invitò ad affrontare il nemico prendendo la croce come insegna. Costantino vinse.
In segno di devozione, sua madre Elena andò in Palestina e riuscì a scoprire la vera Croce di Cristo.
Un grande pittore del 1400, Piero della Francesca, raffigurò gli episodi della leggenda nella Cappella di San Francesco ad Arezzo.

Teodosio
Il cristianesimo, che sotto Costanzo e Giuliano, successori di Costantino, era stato nuovamente perseguitato, riprese tutto il suo vigore con l’imperatore Teodosio, cattolico fervente e devoto al grande vescovo di Milano Sant’Ambrogio.
Nel 380 venne emanato l’Editto con cui il cristianesimo fu elevato a religione di Stato.
“Noi vogliamo che tutti i popoli retti dalla nostra clemenza partecipino a quella religione che dal divino apostolo Pietro fu trasmessa ai Romani, che si è perpetuata sino a noi, e che è professata dal Pontefice Damaso…
Vogliamo cioè che si creda, secondo la disciplina degli Apostoli e la dottrina degli Evangeli, in un solo dio sotto la specie di pia trinità, con pari maestà del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Comandiamo che chi segue questa legge prende il nome di cristiano cattolico.
Giudicando gli altri dementi e pazzi, vogliamo che sostengano l’infamia che segue a chi professa dogma eretico e che i loro conciliaboli non prendano nome di chiese.
Prima essi si attendano la vendetta di Dio, poi anche le severe punizioni, che l’autorità nostra, illuminata dalla Sapienza divina, riterrà di dover infliggere loro”.

L’impero romano d’Occidente
A poco a poco, queste due parti dell’impero si staccarono completamente l’una dall’altra. Ognuna aveva un suo imperatore. L’imperatore d’Oriente regnava a Costantinopoli. L’imperatore d’Occidente non abitava più a Roma, perchè Roma era una città troppo grande e difficile da difendersi, ma a Ravenna.
Ravenna era stata fino allora una piccola città affacciata sul mare, con un porto militare. Era circondata da paludi che la proteggevano dalle invasioni meglio di mura robuste. Per questo fu scelta come capitale. Gli imperatori, che vi abitarono, la resero splendida di palazzi e di chiese, che ancora oggi possiamo visitare.
Roma era stata abbandonata dagli imperatori e dalla maggior parte dei ricchi signori che vi abitavano.
Interi quartieri della città erano vuoti e abbandonati, ma Roma era ancora la più bella città del mondo. I suoi palazzi, le sue basiliche, le sue chiese di marmo splendevano al sole. Nelle chiese e nei palazzi erano accumulate immense ricchezze; i suoi abitanti si sentivano ancora gli uomini più potenti della terra, perchè il nome solo di Roma faceva tremare il nemico.

Sant’Ambrogio e Teodosio
Teodosio era talvolta dominato da collere violente, che sopraffacevano la sua abituale dolcezza di costumi.
Nel 390 Tessalonica (Salonicco), in occasione dei giochi di Circo, per ottenere che fosse rimesso in libertà un abile cocchiere arrestato, si sollevò.
Teodosio, che dimorava ancora in Milano, ordinò senz’altro che in Tessalonica per castigo settemila teste fossero recise.
Gli abitanti furono invitati al circo sotto pretesto di altri giochi; ma, mentre aspettavano il segnale delle corse, ecco slanciarsi fra loro la soldatesca e ferire senza misericordia e senza distinzione.
Come Sant’Ambrogio seppe a Milano di questo massacro, ne dimostò vivissimo dolore e scrisse a Teodosio, acerbamente rimproverandogli l’orribile misfatto.
E un giorno che Teodosio voleva entrare nella basilica milanese, Sant’Ambrogio, a capo del suo clero, gli andò incontro e gli vietò l’ingresso.
“Eppure” esclamò Teodosio “il re David fu assai più di me colpevole…”
“Se voi avete imitato David nel peccato” rispose l’arcivescovo “imitatelo anche nella penitenza”.
E Teodosio si sottomise al castigo della chiesa, depose gli ornamenti imperiali, confessò piangendo i suoi peccati nella basilica in presenza di tutto il popolo, e solo dopo otto mesi di penitenza fu riconciliato con la chiesa.
Alla sua morte Teodosio lasciò l’impero ai figli Arcadio e Onorio che se lo divisero: il primo governò l’Oriente e il secondo l’Occidente.

Per il lavoro di ricerca
Con quale imperatore cessarono le persecuzioni?
Perchè Costantino trasferì la capitale a Bisanzio?
Come si chiamò la nuova capitale e come si chiama oggi quella città?
Conosci la “leggenda della croce”?
Durante l’impero di Costantino a Nicea avvenne un fatto molto importante. Quale?
Perchè fu convocato il concilio di Nicea? Che cosa stabilì?
Chi era Ario? Che cosa sosteneva?
Quando e da chi il cristianesimo fu proclamato religione ufficiale dello stato?
Da chi fu incoraggiato Teodosio?
Alla morte di Teodosio, come e fra chi fu diviso l’impero?
Quale fu la capitale dell’Impero romano d’Occidente?

Cristianesimo e religioni orientali in Roma
Con le vastissime conquiste territoriali i Romani erano venuti a contatto di diverse religioni, che a poco a poco si erano diffuse anche tra la popolazione della capitale e delle province: a Roma vi erano nuclei di devoti che veneravano le divinità orientali (Iside ed Osiride, ad esempio, il cui culto era sempre vivo in Egitto) e nuclei di seguaci di nuove dottrine.
Tra queste ebbe particolare diffusione ed importanza il culto del Sole: Elagabalo era un sacerdote di questa religione siriaca, che fu accettata anche da altri imperatori (da Aureliano, ad esempio). La stessa antica religione non si era mantenuta pura: non era più intesa e praticata come al tempo della repubblica, ma aveva subito trasformazioni. Diocleziano, inaugurando la monarchia assoluta, volle unire al culto di Giove quello del Sole.
Questa trasformazione testimonia un fatto importante: l’antica religione non è più valida per tutti e molti si rivolgono al altre credenze e cercano altre fedi.
Anche per questo la diffusione del Cristianesimo fu così rapida. In principio la rivoluzione che esso implicava non fu neppure compresa. Gli imperatori del primo e del secondo secolo, tranne Nerone che perseguitò i Cristiani per motivi particolari, li tollerarono e si limitarono a intervenire contro di essi quasi solo per questioni di ordine pubblico. Nello Stato, che comprendeva popoli di diversissime tradizioni e costumi, essi erano disposti ad ammettere qualsiasi religione purchè fosse salvo il principio della necessità di prestare il culto all’imperatore, che rappresentava l’Impero. Su questo punto, invece, i Cristiani non potevano cedere e non cedettero, perchè il primo articolo della loro fede era l’impegno di adorare un unico dio. Nel terzo secolo apparve chiaramente che la nuova religione, a cui i cittadini dell’Impero aderivano in numero crescente, era pericolosa per la saldezza dello stato e ne contrastava addirittura i fondamenti.
Gli imperatori presero decisioni radicali, iniziarono violente persecuzioni e punirono con la morte coloro che si confessavano Cristiani e rifiutavano di prestare il culto all’imperatore. Avvenne con Caracalla, con Decio, con Valeriano e soprattutto con Diocleziano, che ordinò l’ultima e più terribile strage. (M. Bini)

La persecuzione contro i cristiani
Uomo fervidamente devoto alla causa della romanità, Diocleziano non poteva non difendere la religione di Stato, minacciata dal numero sempre più folto di cristiani. Nelle sue intenzioni egli voleva impedire solo con leggi severe, ma non crudeli, l’infiltrazione dei cristiani nelle carriere statali e nell’esercito. Così come aveva imposto dalla Britannia al lontano Oriente l’applicazione del diritto romano e delle leggi romane (senza tenere conto delle situazioni ambientali), della lingua e delle tradizioni latine, egli cercò di impedire il propagarsi di altre fedi, preoccupato che esse distogliessero dall’abitudine alla disciplina e all’ordine le popolazioni dell’Impero.
Istigato da Galerio, avversario fanatico dei cristiani, Diocleziano emanò a Nicodemia, il 23 febbraio del 303 dC, il suo primo editto in materia religiosa. Esso imponeva lo scioglimento delle comunità cristiane, l’incameramento dei loro beni, la distruzione dei templi e dei libri sacri; impediva le riunioni di fedeli e li escludeva dalle cariche pubbliche. La presa di posizione dell’imperatore rompeva lunghi anni di tranquillità: i Cristiani non la accettarono con la consueta sottomissione e fecero resistenza. Per protesta appiccarono il fuoco al palazzo imperiale dove in quel momento vivevano Diocleziano e Galerio, ordendo anche una congiura contro i due principi. In Siria, dove i cristiani erano numerosissimi, scoppiò una vera e propria rivoluzione fra l’esercito e i funzionari civili. Questa reazione violenta dei perseguitati spaventò l’imperatore che si arrese alle insistenze di Galerio e usò la forza. Ancora una volta però Diocleziano volle circoscrivere l’episodio: fece punire solo i responsabili dell’incendio appiccato al palazzo e coloro che avevano fomentato rivolte. Arrestò anche i vescovi e i diaconi che si rifiutavano di consegnare i libri sacri con la speranza che, privi delle loro guide spirituali, i cristiani si sarebbero rassegnati ad accettare la religione di Stato.
Questi provvedimenti vennero ordinati in un altro editto che seguì di poco il primo. Per facilitarne l’applicazione, l’imperatore, in occasione della solennità pubblica dei Vecennalia, che segnava il primo ventennio di governo dei due Augusti, emanò un’ordinanza dove annunciava che i cristiani arrestati sarebbero stati liberati se avessero rinnegato la loro religione. Per coloro che invece volevano persistere nella loro azione dilettuosa contro lo Stato il trattamento sarebbe diventato più duro.
Verso la fine del 303 dC Diocleziano si ammalò gravemente e la reggenza dell’Oriente venne assunta da Galerio, il quale ebbe finalmente via libera: per frenare le diserzioni dell’esercito, le risse ideologiche che si verificavano in tutto l’impero, il pericolo di rivolte e sedizioni, Galerio stilò un ordine di persecuzione, sottoponendolo a Diocleziano che lo sottoscrisse. Esso stabiliva che chi non avesse accettato di far sacrifici agli dei dovesse essere condannato a morte.
L’applicazione dell’editto fu molto rigorosa in Oriente, più blanda in Italia e in Occidente: l’altro imperatore, Massimiano, lasciò ai funzionari locali libertà di iniziativa; Costanzo, il Cesare di Massimiano, che non si era mai mostrato molto severo in materia religiosa, fece soltanto abbattere qualche tempio e imprigionare qualche diacono, senza però condannare a morte nessuno. La medesima politica usata contro i cristiani fu applicata da Galerio alle altre religioni. Con uguale durezza, mietendo un numero spaventoso di vittime, egli represse la setta sincretista del persiano Mani. Questa dottrina mescolava insegnamenti buddhisti e cristiani; venne avversata non solo perchè inconciliabile con l’autorità imperiale, ma soprattutto perchè proveniva dalla Persia, il paese degli implacabili nemici dei Romani.

La grande persecuzione
Diocleziano decise di dare inizio alla grande persecuzione contro i cristiani il 23 febbraio, giorno consacrato al dio Termine, quasi volesse por fine alla religione cristiana. Fu una strage enorme di cui conosciamo i raccapriccianti particolari dalla descrizione dell’apologista cristiano Lattanzio.
All’alba di quel giorno fatale il prefetto si recò nella chiesa di Nicomedia, città dell’Asia Minore che in quei tempi era una delle capitali dell’impero, accompagnato da soldati e da funzionari per cercarvi, invano, la statua del nume adorato dai cristiani. I libri sacri furono bruciato e su tutto si fece man bassa, tra la più gran confusione. I due operatori, Diocleziano e Massimiano, osservavano dall’alto del palazzo la chiesa che sorgeva verso l’acropoli di Nicomedia, e discutevano sull’opportunità di dare l’edificio alle fiamme; prevalse il parere di Diocleziano che temeva che l’incendio potesse appiccarsi anche ad altre costruzioni, danneggiando così una parte della città. Allora i pretoriani, brandendo accette e quant’altro servisse ad un’opera di distruzione, invasero l’edificio sacro e in poche ore lo abbatterono al suolo.
Il giorno seguente fu emanato un editto con cui si decretava che i seguaci della religione cristiana fossero privati di ogni carica, venissero posti alla tortura e dichiarati fuorilegge a qualsiasi categoria sociale appartenessero, in modo che non potessero neppure denunciare i delitti commessi contro il proprio patrimonio, le proprie persone e il proprio onore, e che non avessero facoltà di difendersi in giudizio.
Un cristiano, con estremo coraggio, osò stracciare l’editto, definendolo ironicamente più pretenzioso di un proclama di vittoria contro i barbari. Fu immediatamente tradotto in giudizio e condannato al rogo.

Le catacombe romane
E’ stato spesso osservato che, visitando i monumenti storici della Città Eterna qual è oggi, sembra di vedere tra Roma antica e Roma cristiana un vuoto, una lacuna che le separa. Le chiese veramente primitive andarono completamente distrutte oppure furono rifatte; sicchè i più antichi monumenti cristiani che ci rimangono sono lontani di parecchi secoli dagli ultimi monumenti pagani.
Questo lungo periodo, che non ha quasi nulla che lo rappresenti nella città come oggi la vediamo, è riempito dalle catacombe, i luoghi di sepoltura dei primi cristiani. Cinque di tali cimiteri risalgono al tempo degli apostoli; gli altri appartengono quasi tutti al secondo secolo dell’era cristiana. La zona delle catacombe, tutte sulla riva sinistra del Tevere e a circa cinque chilometri da Roma, consiste in una roccia vulcanica, il tufo; e in questo, che è facile a lavorare, sono avvenute le escavazioni. Le caracombe hanno sempre all’incirca lo stesso aspetto: un immenso labirinto di gallerie sotterranee a parecchi piani, che si tagliano ad angolo retto, qualche volta rettilinee, qualche volta tortuose. Il sostegno è formato dalle loro stesse pareti tufacee; il soffitto è quasi sempre piano; e solo in alcuni casi si ha una leggera curvatura a volta. Lo sviluppo totale delle gallerie non è inferiore ai mille chilometri, con almeno sei milioni di tombe. La catacomba era, innanzi tutto, il cimitero cristiano, ma era anche di più; perchè di fatto essa fu la vera culla del cristianesimo. Quando la plebaglia della grande capitale si dava bel tempo nelle terme, o si stancava degli orrori del circo, le prime piccole comunità cristiane, obbligate a riunirsi sotto terra, attendevano alle pratiche della loro fede accanto alle tombe dei fratelli morti.
Là, nelle tenebre, rischiarate solo qua e là da luminaria o pozzi di luce, si celebravano i riti religiosi fin dai tempi degli apostoli; e mai si parlava del fratelli e delle sorelle defunti come di morti, ma piuttosto come di persone chiamate in cielo. Questo è il segreto delle catacombe e il loro fascino. In tutto il grande mondo romano soltanto il cristiano trovava nel proprio cuore la speranza in un mondo migliore. Qui, nelle catacombe, fu per la prima volta negato il potere della morte. E il cristianesimo volle avere la prima dimora nelle catacombe, nei cimiteri dei suoi morti. (E. Huteon)

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I BARBARI materiale didattico vario e dettati ortografici

I BARBARI materiale didattico vario e dettati ortografici di autori vari per la scuola primaria.

Decadenza dell’Impero romano
L’impero romano sembrava ancora grande; in realtà non lo era più. Gli Imperatori che si succedevano, elevati al potere da truppe indisciplinate, non erano più gli strenui difensori e restauratori della potenza di Roma; erano deboli, crudeli, con un potere effimero. La nobiltà era corrotta, le frequenti guerre avevano impoverito le popolazioni; i piccoli agricoltori, esauriti e impoveriti per la lunga permanenza sotto le armi, lasciavano i loro campi, insufficienti a sfamarli, e si rifugiavano in città, oziosi e turbolenti, oppure diventavano servi dei ricchi. Gli schiavi, che col propagarsi della religione cattolica era diventati quasi tutti cristiani, pensavano al premio riservato in cielo agli umili e, pur restando ottimi servitori, non si curavano molto delle cose del mondo. Tutto l’insieme sociale e politico dell’impero si andava sfasciando sia dall’interno, che nelle lontane province e ai confini.

Gli stranieri
Alle frontiere non c’erano più difese valide perchè i soldati delle legioni romane erano pagati per la loro opera e perciò facevano la guerra come un mestiere. Spesso, poi, si trattava addirittura di truppe straniere che non pensavano che alla paga e al bottino. Non solo, ma spesso queste truppe straniere erano consanguinee di quelle che premevano alla frontiera e quindi il loro spirito combattivo era assai scarso. Tutti i popoli forestieri, dai Romani erano chiamati Barbari perchè i Romani si ritenevano il popolo più civile di quel tempo. Effettivamente i popoli che furoreggiavano alle frontiere dell’Italia, erano veramente incivili e selvaggi. Vestivano di pelli, preferivano razziare ignorando il lavoro dei campi, non conoscevano le arti, la cultura, avevano barba e capelli incolti, erano rozzi,  brutali, e dove passavano portavano rovina e morte.
Alcune di queste tribù ebbero dai Romani il permesso di stabilirsi entro i confini dell’Impero, e poichè erano gravate di tasse, presero l’abitudine di andare a protestare a Roma. Ebbero, così, modo di vedere le fertili pianure, le ricche città dell’Impero e di constatare che non esisteva più l’antica forza che aveva permesso ai Romani di conquistare quasi tutto il mondo conosciuto.
Per questi motivi, Roma era diventata una residenza poco comoda per gli Imperatori e fu per questo che Costantino, che regnò dal 307 al 337, decise di trasferirsi in un’altra capitale e scelse Bisanzio, passaggio obbligato per il commercio tra l’Asia e l’Europa.
Prima di morire Costantino aveva diviso l’impero fra i suoi figli allo scopo di renderne più facile l’amministrazione. Al figlio Costantino assegnò la Gallia, a Costanzo l’Asia e l’Egitto, a Costante l’Italia, l’Africa e l’Illirico e le altre regioni ad altri suoi discendenti.
Fu in questo periodo che si intensificarono le incursioni dei Barbari che, approfittando delle condizioni di debolezza dell’Impero, passarono le frontiere e invasero i territori.

Come vivevano i barbari
Non avevano leggi fisse, e obbedivano ciecamente a un capo. Non avevano arte, non letteratura, non agricoltura. Vivevano di rapina e di guerra. Portavano lunghi capelli, barba e baffi. In capo trofei di fiere uccise, indosso vestiti di pelli e uno strano indumento sconosciuto ai Romani: i calzoni. Poichè venivano da paesi freddi, essi usavano ripararsi le gambe con tubi di stoffa spesso tenuti stretti con legacci. Dove passavano, distruggevano. Tagliavano alberi da frutta, viti e olivi per fare fuoco; abbattevano monumenti e cuocevano le statue di marmo per farne calcina; bruciavano le biblioteche con libri di carta arrotolata e detti appunto volumi. Mangiare, bere, rubare. Non conoscevano altro. E ammazzare, bevendo magari il sangue dell’avversario fatto di crani umani. Questi erano gli uomini che l’Impero romano si trovò contro e che la Chiesa dovette domare. (P. Bargellini)

I barbari

L’Impero Romano d’Oriente ebbe una vita lunga e senza gloria. L’Impero Romano d’Occidente, invece, crollò quasi all’improvviso. Le cause che favorirono la sua fine furono molte; innanzitutto l’estensione. Una linea di confine interminabile doveva essere difesa in tutta la sua lunghezza da legiooni di soldati, da torri di vedetta, fortezze, trincee.
I Romani erano sempre stati considerati i migliori soldati del mondo; ora, il lusso e le ricchezze facevano loro disdegnare il servizio delle armi; preferivano occuparsi degli affari o divertirsi agli spettacoli del circo. Sorse così la necessità di arruolare soldati tra i popoli vinti, tra gli stranieri abitanti oltre i confini dell’Impero; ma occorreva pagare queste truppe a caro prezzo e non sempre esse erano fedeli e disposte a morire nel nome di Roma.
I Romani erano stati anche ottimi contadini, affezionati alla loro terra ed al loro aratro. Poco alla volta avevano perso l’amore all’agricoltura e avevano abbandonato il lavoro dei campi affidandolo a schiavi e a liberti, gente senza scrupoli che portava le campagne in rovina.
Lo Stato romano, sempre più avido di denaro, gravava di nuove tasse i cittadini e sovente erano i meno ricchi a sopportarne il peso maggiore. Furono queste le cause principali dell’indebolimento dell’Impero che, quando i popoli barbari si affacciarono minacciosi ai suoi confini, non seppe più opporre una valida resistenza.
Chi erano i barbari?
Erano popoli che abitavano nel Nord Europa, lungo i grandi fiumi come il Reno, il Danubio, la Vistola. Erano venuti da molto lontano ed erano giunti in Europa con marce faticose, portando sui carri le donne, i vecchi e i bambini, e trascinando con sè gli armenti.
Benchè vinti più volte dai generali romani, erano diventati così forti che nessuno poteva fermarne l’impeto. Il loro nome incuteva terrore.
I barbari vivevano di caccia e di pastorizia, usavano armi di ferro e di bronzo, si coprivano con pelli animali, non avevano leggi scritte e per fare la guerra eleggevano un capo che guidava gli eserciti in battaglia.
Non portavano alcun rispetto per il nemico vinto e consideravano sacra la vendetta. Quando capirono che l’Impero romano si stava sfaldando, varcarono i confini ed occuparono le terre più fertili.

I Visigoti

I Visigoti, un popolo germanico, vennero in Italia guidati dal re Alarico. Dal lontano Oriente giunsero fino alle porte di Roma, dove i cittadini si fecero loro incontro offrendo oro perchè non distruggessero la città.
Il feroce re accettò l’oro e si accampò nei dintorni, ma alla fine saccheggiò ugualmente Roma (410). Poi si diresse verso sud con l’intenzione di passare in Africa. Giunto in Calabria, Alarico morì improvvisamente; i suoi soldati ne seppellirono il corpo nel letto del fiume Busento, presso Cosenza, e lasciarono l’Italia.

Gli Unni

Gli Unni, provenienti dall’Asia, giunsero in Italia guidati da un terribile re, Attila, che fu chiamato “il flagello di dio”. Questi barbari vivevano in maniera del tutto primitiva: si cibavano di carni ammorbidite sotto la sella dei loro cavalli; avevano capelli lunghi che nascondevano il viso giallo dagli occhi piccoli e dagli zigomi sporgenti.
Essi passarono le Alpi e, saccheggiando, si sparsero per la Pianura Padana. Incontro ad Attila mosse allora il papa Leone I che persuase il re barbaro a lasciare l’Italia.

Ritratti di Attila
Figura deforme, carnagione olivastra, testa grossa, naso sottile, piccoli occhi affossati, pochi peli al mento, capelli brizzolati, corporatura tozza e nerboruta, fiero il portamento e lo sguardo, come un uomo che si senta superiore a quelli che lo circondano. Sua vita era la guerra. “La stella cade” diceva, “la terra trema, io sono il martello del mondo e più non cresce l’erba dove il mio cavallo ha posto il piede”.
Avendolo un eremita chiamato “flagello di Dio”, adottò questo titolo come un augurio, e convinse i popoli che lo meritava. (C. Cantù)

I Visigoti, i Vandali, gli Unni
Settantatre anni dopo la morte di Costantino i Visigoti comandati dal loro re Alarico, attraversarono l’Italia  e arrivarono a saccheggiare Roma. Anche i Vandali, altro popolo barbaro che aveva invaso le regioni confinanti con l’Italia, passarono le frontiere distruggendo tutto ciò che incontravano sul loro cammino. Abbattevano templi, opere d’arte, tagliavano alberi, incendiavano case, biblioteche, fondevano l’oro e l’argento delle statue, e la loro opera di distruzione causò tanto spavento e tanta rovina che ancor oggi si dà il nome di vandalo a colui che distrugge per il piacere di distruggere.
Dopo i Vandali, scesero in Italia gli Unni, comandati dal loro feroce re Attila. Ovunque Attila passava, portava la distruzione e la rovina. Fu chiamato per questo “flagello di dio”. Egli stesso diceva: “Dove posa lo zoccolo il mio cavallo non cresce più l’erba”.
Attila si diresse verso Roma col proposito di distruggerla, ma mentre avanzava con le sue schiere, incontrò il papa Leone I (che doveva essere poi chiamato Leone Magno), andatogli incontro per tentare di fermarlo.
Attila, che non aveva paura di nessuno, davanti a quel vecchio solenne che gli veniva incontro armato soltanto della croce, si intimorì e cadde in ginocchio davanti a lui. Dette poi ordine ai suoi soldati di abbandonare quel luogo e poco dopo lasciava l’Italia.

Fine dell’Impero romano d’Occidente
Dopo gli Unni, calarono in Italia gli Eruli, comandati dal loro re Odoacre. Sul trono di Roma sedeva in quel tempo un fanciullo chiamato in senso dispregiativo Romolo Augustolo. Odoacre potè facilmente deporlo, mettendosi a governare in sua vece. Ciò accadeva nell’anno 476 dC e, dopo questa data, nessun altro imperatore romano venne eletto.
Quest’epoca si ricorda quindi come la fine dell’Impero romano d’Occidente e Romolo Augustolo fu l’ultimo imperatore romano.

Comincia così la nuova epoca, detta Medioevo, che dal 476 dC arriva fino al 1492, anno della scoperta dell’America.
Per dieci anni Odoacre governò indisturbato ma, nel frattempo, un altro popolo barbaro scendeva in Italia. Si trattava degli Ostrogoti con a capo Teodorico, che sconfisse Odoacre e governò l’Italia.
Teodorico si era fermato a Verona che aveva eletto a sua capitale e nei primi anni del suo regno fu uomo giusto ed equilibrato, ma invecchiando divenne crudele e sospettoso tanto da mettere a morte anche i suoi più cari amici, tra cui il filosofo Boezio. Narra la leggenda che un giorno, mentre Teodorico prendeva un bagno nel fiume, apparve un cavallo nero e scalpitante. Teodorico gli salì in groppa e il cavallo lo portò a furibondo galoppo attraverso tutta l’Italia fino in Sicilia. Giunto sull’Etna (o secondo altra versione sul vulcano Lipari) il cavallo si impennò scaraventando il vecchio imperatore nel cratere fiammeggiante.

I Longobardi
Sul trono di Oriente sedeva intanto Giustiniano, il quale riuscì a cacciare i Goti dall’Italia. Morto Giustiniano, i suoi successori  non seppero mantenere il dominio sulla penisola che ricadde in preda ad altri barbari, i Longobardi, così chiamati per la loro lunga barba bionda e perchè armati di lunghe alabarde. Li conduceva il loro re Alboino, crudele e feroce che, come Teodorico, si stabilì a Verona. Alboino sposò Rosmunda, la figlia di un re nemico che egli stesso aveva ucciso. Durante un banchetto, questo re crudele e pazzo costrinse la sposa a bere nel cranio del padre ucciso. Per questo e per altri atti di crudeltà da lui compiuti, Alboino fu ucciso.
I Longobardi furono i barbari che provocarono le maggiori rovine in Italia. Distrussero chiese, devastarono città, uccisero migliaia e migliaia di persone.
I loro costumi feroci furono alquanto mitigati dalla regina Teodolinda, convertitasi al cattolicesimo, che aiutata dal papa di allora, Gregorio Magno, riuscì a convertire il suo popolo alla religione cattolica.
La regina Teodolinda fondò belle chiese a Monza e a Pavia; nel duomo di Monza si conserva, ancor oggi, la Corona ferrea con la quale allora si incoronavano i re longobardi. Nella corona è racchiuso un chiodo che, secondo la tradizione, fu tolto dalla croce di Cristo.
Dai Longobardi prese il nome la regione che oggi si chiama Lombardia.

Notizie da ricordare
Le condizioni dell’impero romano, non più forte e agguerrito, permisero la calata in Italia di popoli che i Romani chiamarono Barbari.
Scesero dapprima i Visigoti, comandati dal loro re Alarico.
Seguirono i Vandali che seminarono il loro cammino di distruzioni e di stragi.
Un altro popolo barbaro, gli Unni, con a capo il feroce re Attila, irruppe in Italia aumentando le rovine e  le morti.
Dopo gli Unni calarono gli Eruli, comandati da Odoacre che depose l’Imperatore romano che allora sedeva sul trono, un fanciullo chiamato per dispregio Romolo Augustolo, e si mise in sua vece a governare l’Italia.
Finiva così l’Impero romano d’Occidente nel 476 dC. Da questa data ha inizio in Medioevo.
Dopo dieci anni di regno, Odoacre fu scacciato da Teodorico, re degli Ostrogoti, barbari che nel frattempo erano calati in Italia.
Se l’Impero romano d’Occidente non esisteva più, esisteva ancora, forte e potente, l’Impero romano d’Oriente e quando salì sul trono il grande imperatore Giustiniano fu ripresa la lotta contro i Barbari, che furono respinti.
Morto Giustiniano, l’Italia tornò preda dei Barbari e precisamente dei Longobardi che si trattennero a lungo e soltanto dopo un periodo di distruzioni e di stragi, si convertirono al cattolicesimo per opera della loro regina Teodolinda.

Questionario
Chi erano i Barbari?
Come vestivano?
Perchè fu loro possibile scendere in Italia?
Chi furono i primi Barbari che conquistarono le terre dell’Impero?
Chi era Attila?
Da chi fu fermato?
Chi era Odoacre?
Chi stava sul trono di Roma in quell’epoca?
Perchè si dice che nel 476 dC finì l’Impero romano d’Occidente?
Chi era Teodorico?
Quale leggenda si racconta sulla sua morte?
Chi era Alboino?
Che cosa comandò a Rosmunda?
Per opera di chi, in seguito, i Longobardi mitigarono i loro costumi?
Quali popoli erano chiamati barbari dai Romani?
Quali furono le principali cause della rovina dell’Impero?
Seppero i Romani opporre una valida resistenza quando i popoli barbari si affacciarono minacciosi ai confini dell’Impero?
A quale stirpe appartenevano quasi tutti i barbari?
Quali erano gli usi e i costumi dei Germani?
Quale popolo barbaro assalì per primo l’Italia?
Da chi era guidato?
Dove fu sepolto Alarico?
Chi erano gli Unni?
Quando vennero in Italia? Comandati da chi?
Da chi fu fermato Attila?
Quando e da chi venne fondata Venezia?

La leggenda di Teodorico
Sul castello di Verona
batte il sole a mezzogiorno
dalla Chiusa al pian ritorna
solitario un suon di corno,
mormorando per l’aprico
verde il grande Adige va;
ed il re Teodorico
vecchio e triste al bagno sta.
Il gridar d’un damigello
risuonò fuor della chiostra:
“Sire, un cervo mai sì bello
non si vide all’età nostra.
Egli ha i piè d’acciaio e smalto,
ha le corna tutte d’or.”
Fuor dall’acque diede un salto
il vegliardo cacciator.
“I miei cani, il mio morello,
il mio spiedo” egli chiedeva;
e il lenzuol, quasi un mantello,
alle membra si avvolgeva.
I donzelli ivano. Intanto
il bel cervo disparì,
e d’un tratto al re d’accanto
un corsier nero nitrì.
Nero come un corbo vecchio,
e negli occhi avea carboni.
Era pronto l’apparecchio,
ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
e si misero a guair,
e guardarono il signore
e no’l vollero seguir.
In quel mezzo il caval nero
spiccò via come uno strale,
e lontan d’ogni sentiero
ora scende e ora sale:
via e via e via e via,
valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorria
ma staccar non se ne può.
Il più vecchio ed il più fido
lo seguia de’ suoi scudieri,
e mettea d’angoscia un grido
per gl’incogniti sentieri:
“O gentil re degli Amali,
ti seguii nei tuoi be’ dì,
ti seguii tra lance e strali
ma non corsi mai così.
“Teodorico di Verona,
dove vai tanto di fretta?
Tornerem, sacra corona,
alla casa che ci aspetta?”
“Mala bestia è questa mia,
mal cavallo mi toccò:
sol la vergine Maria
sa quand’io ritornerò”.
Altre cure su nel cielo
ha la vergine Maria:
sotto il grande azzurro velo
ella i martiri covria.
Ella i martiri accoglieva
della patria e della fè;
e terribile scendeva
Dio sul capo al goto re.
Via e via su balzi e grotte
va il cavallo al fren ribelle;
ei s’immerge nella notte,
ei s’aderge in ver’ le stelle.
Ecco il dorso d’Appennino
tra le tenebre scompar;
e nel pallido mattino
mugghia a basso il tosco mar.
Ecco Lipari, la reggia
di Vulcano ardua che fuma
e tra bombiti lampeggia
dell’ardor che la consuma:
quivi giunto il caval nero
contro il ciel forte springò
annitrendo; e il cavaliero
nel cratere inabissò.
Ma dal calabro confine
che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine;
non è il sole, è un’ampia fronte
sanguinosa, in un sorriso
di martirio e di splendor:
di Boezio è il santo viso
del romano senator. (G. Carducci)

Il paese, la casa, la vita dei Germani
I Barbari erano quasi tutti di stirpe germanica. L’antica Germania era un paese in massima parte coperto da boschi e paludi, freddo e rattristato da nebbie, ma nondimeno abbastanza fertile, ricco di messi e di greggi e di magnifici pascoli, e popolato di selvaggina.

Invece di città esistevano soltanto alcuni villaggi, formati da gruppi di dodici o venti capanne al più, disposte senza alcun ordine, e circondate ciascuna dalla corte e da un tratto di terreno.
Le capanne erano di legno, coperte di paglia e di giunco, addossate talvolta ad un albero gigantesco. Nell’atrio, in fondo, stava il focolare, sul quale raramente si estingueva il fuoco.

I Germani, dalla grande statura, dalla chioma bionda, dagli occhi fieri e azzurri, amavano in special modo la caccia e la guerra. Quando la guerra non c’era, passavano il più del tempo in ozio, dediti al sonno e al mangiare; i più forti, i più bellicosi, standosene inerti, lasciavano alle donne , ai vecchi, ai più deboli della famiglia il governo della casa e dei campi. Non trattavano nulla se non armati, e armati intervenivano ai banchetti.
Usavano cibi frugali, ma non erano nel bere altrettanto temperanti; e avevano una tale passione per il gioco dei dai che, dopo aver perduto ogni bene, mettevano come posta la moglie, i figli e la propria libertà. Il vinto andava in schiavitù volontaria; e quand’anche più giovane e robusto del vincitore, si lasciava legare e vendere.
Scarsi erano gli ornamenti del corpo e della casa. L’abito più importante, e comune a tutti, consisteva in una specie di mantello corto, fermato con una fibbia, o in mancanza di questa con una spina; nel resto erano ignudi. Indossavano anche pelli di animali, e i più ricchi si distinguevano per una sottoveste strettamente aderente alle membra. Le donne si vestivano come gli uomini; soltanto che spesso si coprivano di tessuti di lino di color rosso; e il loro vestito semplice e senza maniche, lasciava scoperte le braccia e la parte superiore del petto. Tutti i liberi, uomini e donne, portavano come segno onorifico del loro stato libero i capelli lunghi ondeggianti, i quali venivano tagliati a chi passava in servitù.
Pochi attrezzi bastavano per gli usi domestici: il semplice mulino a mano per il grano, alcuni vasi d’argento, di bronzo martellato, d’argilla, qualche bicchiere di vetro; strumenti di lavoro erano l’ascia, la mazza, il cuneo, lo scalpello, la falce di bronzo.
L’ospite non invitato, anche se sconosciuto, aveva ugualmente un’accoglienza gentile; i conviti erano rallegrati dall’unico genere di spettacoli che i German conoscessero, quello di giovani nudi che si slanciavano, con un salto, tra spade e lance minacciose.

La donna era molto rispettata perchè si credeva che in essa vi fosse qualcosa di santo; i servi erano trattati umanamente.
Ogni casa aveva il suo cane fedele, che seguiva dovunque il padrone e, caduti gli uomini e perfino le donne, era l’ultimo a difendere la barricata dei carri che in guerra opponevano al nemico. (Trabalza e Zucchetti)

I Germani e i loro costumi

Lungo i confini premevano minacciosi, incalzati dagli Slavi e da altri popoli ferocissimi si razza asiatica (Mongoli), i Germani.
Li imperatori, impotenti a contenere la marea barbarica, erano venuti più volte a patti con essa, concedendo ad alcuni popoli di stanziarsi nelle province di confine, purché prestassero servizio militare. L’esercito era costituito in massima parte da barbari:  barbari erano perfino i generali.
I Germani, distinti in Teutoni, Alani, Vandali, ecc… abitavano l’Europa centrale ed orientale fino al Mar Nero.
Praticavano in modo primitivo l’agricoltura, abitavano miseri villaggi e la terra intorno a questi era proprietà comune. Solo in caso di guerra e di migrazioni di uomini liberi, i membri dell’esercito e dell’assemblea eleggevano un re (Konig). Questi conduceva l’esercito in battaglia, distribuiva le terre conquistate, divideva la preda. Passato il pericolo, cessava generalmente il suo potere.

Non avevano leggi: chi riceveva un’offesa, si faceva giustizia da sé, o i familiari della vittima si prendevano vendetta dell’offensore. Faida era detta la vendetta privata, ed era un debito d’onore: così gli odi e i delitti si perpetuavano di generazione in generazione tra famiglie rivali.
Quando mancavano le prove della colpevolezza di un accusato, si ricorreva al giudizio di dio (ordalia), cioè a determinate prove, che potevano essere il duello, il fuoco o altro, ritenendo essi che dio aiutasse l’innocente a superarle.
La loro religione ricorda un poco l’antica religione greca: adoravano cioè i fenomeni naturali personificati. Il dio supremo era Wotan o Odino, re dell’aria e delle tempeste, al quale sacrificavano anche vittime umane.
Non avevano templi, ma consacravano agli dei selve e foreste.
Da questi cenni vediamo che profonda diversità c’era tra i Romani e i barbari, quando questi irruppero nelle province dell’Occidente. Essi si trovavano ancora ad uno stadio primitivo di civiltà, da cui i Romani erano usciti da secoli.
Si narra che i barbari erano comparsi in Italia fin da un secolo prima di Cristo, scivolando sui loro scudi per le chine ghiacciate delle Alpi, e che da allora molte altre volte avevano varcato i confini italici; e sempre erano stati dalle legioni romane ricacciati nelle loro foreste. Ma poi, spinti alle spalle da altri popoli barbari, irruppero da ogni parte e non fu più possibile fermarli.

Ancora sugli usi e costumi dei Germani

I barbari erano quasi tutti di stirpe germanica.
Presso i popoli germanici era una vergogna, per il capo, essere superato in valore, durante la battaglia, e un disonore, per i guerrieri, non essere pari, in coraggio, al comandante.
Ma la vergogna ancora maggiore, che durava tutta la vita, era tornare dalla battaglia lasciandovi morto il proprio capo.
La maggior parte dei giovani germanici di nobile stirpe preferiva una vita travagliata dalla guerra ad una vita di ozio nella pace; perciò essi si trasferivano spontaneamente presso i popoli che, in quel momento, erano in guerra.
I Germani amavano combattere piuttosto che arare i campi ed aspettare il succedersi delle stagioni per ottenere il raccolto. Per loro era segno di pigrizia e di viltà acquistare col sudore ciò che si poteva guadagnare col sangue, predando e saccheggiando.
Ogni volta che i Germani non erano in guerra impiegavano il loro tempo nell’andare a caccia, ma più che altro nel non far nulla, limitandosi a mangiare e a dormire. Le donne, i vecchi e i più deboli della famiglia, intanto, avevano cura della casa e dei campi.
Appena i giovani germanici si destavano dal sonno, che assai spesso si prolungava fino ad una tarda ora del mattino, si lavavano quasi sempre con acqua calda, come era in uso presso i popoli dove la stagione invernale era molto lunga. Dopo essersi lavati si mettevano a mangiare: ciascuno aveva il suo seggio e ciascuno la sua tavola.
Poi si armavano e ne andavano a trattare i loro affari o, come avveniva assai spesso, a banchettare. Passare il giorno e la notte a bere non era una vergogna per nessuno…
(riduzione ed adattamento da Tacito)

Quando una popolazione germanica abbandonava le proprie sedi per cercarne delle nuove, caricava sui carri le donne, i fanciulli, tutti i suoi averi e perfino alcune parti delle sue capanne.
Esse, infatti, erano costruite su tronchi d’albero smontabili e con canne ricoperte di fango.
I Germani non avevano moneta: scambiavano le varie merci con il bestiame tra cui, probabilmente, il vitello di un anno costituiva l’unità principale di valore.
Le terre erano proprietà di tutti e venivano distribuite ai singoli componenti di una tribù, ogni anno.
L’avversione al lavoro da parte dell’uomo cacciatore e guerriero faceva ricadere il peso della famiglia sulle spalle della donna, la quale però, godeva di grande autorità. Ella seguiva il marito ovunque, anche in battaglia.
(riduzione e adattamento da Angeloni Zolla)

Gli Unni
Sono più barbari della stessa barbarie. Non conoscono nessun condimento al cibo, nè usano fuoco a cuocerlo. Mangiano cruda la carne, dopo averla tenuta qualche tempo fra le loro gambe o il dorso dei cavalli che cavalcano.
Piccoli di statura, agili di membra e robusti, sempre a cavallo, la loro faccia, più che a viso umano, somiglia a un pezzo informe di carne, con due punti neri e scintillanti invece di occhi. Hanno pochissima barba perchè usano tagliere col ferro il viso dei loro bimbi, affinché imparino prima a sopportare le ferite che a gustare il latte materno. Adorano per loro dio una spada conficcata al suolo e sotto forme umane vivono come animali. (Giordano)

La luce di Roma
Il sole tramontava dietro la collina. Alla luce di quel tramonto infuocato, rosseggiavano i marmi come insanguinati e gli archi rotti, avvolti dall’edera, si levavano nel cielo sereno.
Tutto era rovina e silenzio. I barbari erano passati sulle pietre di Roma coi loro piedi di sterminatori. Le case erano diroccate, i monumenti abbattuti e, sui ruderi, il rovo lanciava impetuoso i suoi rami spinosi in mezzo ai quali strisciavano le vipere.
Ma non ancora sazi di preda, i barbari si aggiravano fra quelle rovine alla ricerca di tesori nascosti, di vasi, di statue da fondere in rivoli d’oro e d’argento. Grandi, nerboruti, villosi, sembravano più bestie che uomini. Frugavano fra i massi con le loro grosse mani, ma non trovavano nulla perchè a Roma più nulla di prezioso era rimasto.
A un certo punto una grossa pietra sbarrò il cammino a quei barbari. Era collocata davanti a un antro di cui chiudeva il passaggio. Un barbaro la prese e la scosse violentemente. La pietra crollò lasciando un’oscura apertura.
Nel fondo si vide brillare una tenue luce. I barbari trasalirono. Un segno di vita? Si volsero al sole che tramontava per vedere se fosse uno dei suoi raggi a riflettersi là in fondo. Ma i raggi avevano tutt’altra direzione.
Allora quegli uomini, cautamente, entrarono nell’antro. E videro. Sopra una pietra nuda giaceva un giovane guerriero romano morto. Tutto cinto di armi, aveva il petto scoperto e sopra, una gran ferita dove il sangue si era ormai raggrumato.
Una lapide portava scritto il suo nome, Pallante, e sulla sua tomba brillava una torcia accesa.
Rise, un barbaro, del suo timore, e afferrata la torcia la portò fuori della grotta. La luce brillò alta, nell’oscurità della notte ormai sopraggiunta. Il vento violento che si era levato piegò la fiaccola, ma non la spense. Allora il barbaro, ostinato, vi soffiò sopra il suo alito greve. La fiamma ondeggiò, ma poi si levò più vivida e bella.
“Muori dunque nel fango!” gridò il barbaro inferocito, e immerse la fiaccola in una pozza melmosa. La fiamma stridette come un ferro infuocato che si affonda nell’acqua, ma quando il barbaro sollevò la torcia, questa arse ancora vivida e bella.
I barbari, al prodigio, impallidirono sotto le barbe irsute e la fiaccola tremò nelle mani di chi invano aveva tentato di spegnerla.
Lento, questi tornò nell’antro e pose di nuovo la fiaccola sul capo del giovinetto eroe. Poi indietreggiò, sgomento, e con la pietra chiuse di nuovo il sepolcro.
La luce di Roma brillò ancora nell’oscurità e si levò alta e splendente. Una luce che nonostante le tenebre della barbarie, non sarebbe mai tramontata. (M. Menicucci)

Abitudini barbare

I barbari amavano sopra ogni cosa il loro cavallo. Si può dire che essi vivessero sempre a cavallo. Non solo viaggiavano a cavallo. Non solo combattevano a cavallo. A cavallo dormivano; a cavallo mangiavano.
La loro cucina si trovava addirittura sotto la sella del cavallo!
Ecco in che cosa consisteva quella cucina. Quando un barbaro uccideva qualche animale, tagliava un pezzo della sua carne e la metteva sotto la sella. Galoppa, galoppa, galoppa, la carne, a forza di colpi, anche se era dura, diventava morbida. Con l’attrito della sella si riscaldava e, come si dice, si frollava.
Arrivata la sera, il barbaro scendeva da cavallo, alzava la sella e trovava il pezzo di carne ridotto in una specie di polpetta.
Non c’era bisogno neppure di metterlo sul fuoco e l’addentava di buon appetito.
Per ornamento il barbaro sceglieva di preferenza corna di animali uccisi nella caccia e code o criniere di cavallo.

Forme di giustizia dei barbari

L’accusato di un delitto era calato nell’acqua legato a una fune. Se rimaneva a galla, era colpevole, se andava a fondo e, tirato su con la corda, ancora respirava, era innocente. Oppure si ricorreva alla prova dell’acqua calda: chi vi immergeva la mano senza scottarsi era innocente. Assai più pericolose erano altre prove: prendere in mano, ad esempio, un ferro rovente senza bruciarsi le dita o camminare sui ferri arroventati.
Le cose andavano meglio se l’accusato era invece invitato a denudarsi, ad avvicinarsi alla barella sulla quale era stato esposto il cadavere dell’ucciso, dopo di che giurava che era innocente e toccava il morto.
Se le ferite della vittima non riprendevano a sanguinare, era salvo: l’accusa era da ritenersi infondata.
La distinzione delle pene viene fatta in conformità al delitto. I traditori e i disertori vengono impiccati. Gli ignavi e i codardi… vengono immersi nella melma di una palude, gettando sopra ai medesimi dei graticci… Ma anche per i delitti più lievi la pena è proporzionata alla colpa: difatti i rei convitti vengono multati di un certo numero di cavalli o di capi di bestiame. Una parte della multa tocca al re o alla città; una parte all’offeso o, se questo fosse morto, ai suoi parenti.
D’altra parte non è concesso infliggere la pena di morte, né incarcerare, e neppure battere se non ai sacerdoti, ma non come pena o per comando di un capo, ma come per comando di un dio…
Il silenzio nelle assemblee viene imposto dai sacerdoti, i quali hanno anche il potere di ricorrere a punizioni coercitive.

Giulio Cesare così descrisse i barbari

Cesare nel De bello Gallico prima, e Tacito in Germania un secolo e mezzo dopo, ne descrissero i costumi e il carattere.
I Germani abitano fra il Reno e il Danubio, hanno gli occhi truci e cerulei, capelli rosseggianti, corpi grandi e validi solamente per l’assalto, sono abituati al freddo e alla fame, abituati a non portare che piccole pelli, e a non avere alcun vestito. Tutta la loro vita consiste nella caccia e negli esercizi bellici; fin da piccoli si induriscono nel lavoro e nelle fatiche… Non curano molto l’agricoltura e la maggior part del loro vitto consiste nel latte, nel cacio, nella carne, nei frutti selvatici…

L’erba folta

Alarico si avanza alla testa dei suoi Visigoti, e sembra spinto non dalla sua volontà, ma da una forza invisibile. Un monaco si getta sul suo cammino e tenta di fermarlo. Ma Alarico gli dice che il fermarsi non è in suo potere perchè una forza misteriosa lo spinge a distruggere Roma. Tre volte accerchia al Città Eterna e tre volte indietreggia.
Vengono ambasciatori, per indurlo a levare l’assalto, gli dicono che dovrà combattere contro una moltitudine tre volte più numerosa dei suoi eserciti.
“Sia pure!” risponde quel mietitore di uomini, “Quanto più folta è, tanto meglio l’erba si taglia!”.

La terribile notte del 24 agosto del 410

La notte del 24 agosto, forzata la Porta Salaria, le orde visigote irruppero in città dando fuoco alle prime case. L’incendio divampò dilagando e tutto distruggendo: ville, palazzi, monumenti di insigne bellezza. E non un Romano che ardisse difendere la sua città! Roma, la città che un giorno ebbe il popolo più valoroso del mondo, crolla così sommersa dalla viltà. E se spettacolo orrendo fu il vedere le fiamme divorare la meravigliosa città, se spettacolo terribile fu vedere i barbari girare urlando per le vie o irrompere nei palazzi, certo spettacolo ben più miserando fu vedere i Romani sperduti nel terrore della loro vergognosa ignavia.

I Visigoti incendiano Roma

Alarico e le sue orde entrarono nella città al suono delle trombe e al canto delle loro arie nazionali. Appena entrati dettero fuoco alle prime case. Svegliati di soprassalto dal tumulto, gli abitanti compresero subito di essere in mano al nemico, e il crescente chiarore fece intendere che gli incendi divampavano. Però si narra che al momento di passare la Porta Salaria Alarico fosse preso da un segreto terrore: quella che egli si accingeva a saccheggiare era anche una città considerata santa, così ordinò che fossero rispettate le basiliche di San Pietro e San Palo. Le fiamme, aiutate dal vento, divoravano tutto, e quel che sfuggiva al fuoco cadeva sotto lo scempio dei Visigoti che, avidi di denaro, tramutavano tutti i palazzi dei ricchi in teatri di tragedie. Una vedova di nobili natali che abitava nel suo palazzo, ma che nulla possedeva perchè tutto aveva dato ai poveri, non potendo accondiscendere alle richieste di denaro, fu talmente percossa che ne morì.
Questo martirio di Roma durò tre giorni e tre notti; poi Alarico diede il segnale di partenza. Ma nulla o quasi rimase dietro di lui.
Alarico passò oltre, diretto in Sicilia: ma morì lungo il cammino e venne sepolto, armato a cavallo, nel letto del fiume Busento. La mancata resistenza da parte degli italiani fu dovuta al fatto che essi, da qualche secolo, erano stati esentati dal servizio militare. L’Italia, quindi, mancava di una solida gioventù guerriera che difendesse le sue città proprio mentre i barbari irrompevano dalle frontiere.

Gli occhi per piangere

Dopo tre giorni di incursioni, Alarico promette ai Romani superstiti di abbandonare la loro città purché gli vengano portate tutte le ricchezze e tutti gli schiavi barbari della città. Gli chiedono allora i Romani: “Che di resterà dunque?”.
E Alarico risponde: “Gli occhi per piangere”.
Così dovettero portargli cinquemila libbre d’oro e trentamila d’argento oltre a panni di seta, pellicce e spezie. I Romani dovettero persino fondere la statua d’oro del Coraggio che essi chiamavano Virtù Guerriera.

Onorio aveva una gallina..

Quando per il mondo si sparse la terribile notizia che Roma era caduta nelle mani dei Visigoti i quali l’avevano messa a ferro e fuoco, lo sgomento dilagò ovunque. Solo l’imbelle imperatore Onorio non si turbò, anzi pareva non essersene neppure accorto, tutto intento com’era al suo allevamento di pollame nei pressi  di Ravenna. E si dice che a un suo cortigiano che gli diceva che Roma era perita rispondesse: “Non è possibile! L’ho vista poco fa!”.
E alludeva a una sua gallina a cui aveva dato il nome di Roma.

Più barbari dei barbari

E’ durante la seconda metà del IV secolo che gli Unni si affacciano alle grandi pianure orientali dell’Europa, e subito spargono il terrore attorno a sé, più barbari degli stessi barbari di cui invadono le terre.
Robustissimi, dalla testa piccola, bruna e piantata sul collo corto e tozzo, di lineamenti orientali, già nell’aspetto incutevano spavento. Indossavano rozze brache di pelle di capra, su cui portavano una sorta di tunica; sul capo, quando non avevano gli elmi di battaglia di aspetto terrificante, tenevano una berretta aderente.
Scrive Ammiano Marcellino che erano tutti di smisurata ferocia. E per dare un esempio dei loro truci costumi, riferisce che erano soliti ricoprire di profonde ferite le guance dei loro figli per impedire che, nell’età adulta, vi crescesse la barba.
Mangiavano carne cruda e radici, perchè ignoravano ogni cottura e ogni condimento; tutt’al più, per frollarla, tenevano le carne tra le cosce e il pelo del cavallo mentre cavalcavano, sì che il sudore dell’uomo e dell’animale quasi la cuocesse. Ignoravano la casa, anzi quando la conobbero la odiarono con folle e superstizioso terrore: la loro dimora era costituita dai carri, anche quando si stanziavano per lunghissimi periodi o per generazioni intere in territori invasi.
In guerra erano quasi sempre vincitori, malgrado avessero scarsa attrezzatura bellica; si può dire infatti che la loro unica arma fosse una specie di dardo dall’acuminata punta di osso, ma se ne sapevano servire con un’abilità insuperabile e sapevano spargere il terrore fra i nemici e sgominarne le file anche se meglio attrezzate perchè erano impetuosi e spericolati, e perchè emettevano grida gutturali dal suono spaventoso. Inoltre maneggiavano con abilità quasi da prestigiatori certe funi lunghissime e terminanti a cappio con le quali afferravano e scavalcavano i nemici con infallibile precisione.
Questo era il popolo che per secoli e secoli si spostò fra le terre di Tartaria, da cui aveva origine, finché non trovò in Attila un grande capo, che aveva anche l’aperta visione del capitano. Meno selvaggio dei suoi sudditi, di intelligenza acutissima, aveva anche la qualità fino allora ignota fra i suoi delle fedeltà alla parola data. Era il condottiero che poteva dominarli, frenarli e portarli verso le pingui pianure d’Europa, dopo secoli di stenti fra i deserti mongolici.
(C. Bini)

Attila

La carriera di questo re asiatico, che per vent’anni fu il terrore di tutta l’Europa, non cominciò bene: egli uccise il fratello con il quale avrebbe dovuto regnare sul popolo degli Unni e si dispose a governare da solo a suo piacimento.
Era l’anno 444 dC e Attila, definitosi “flagello di dio”, stabilì il suo piano di conquista, forte di un grande esercito di feroci cavalieri avidi di sangue e di prede.
I due imperatori di quel tempo, l’imperatore d’Oriente Teodosio e l’imperatore d’Occidente Valentiniano III, si disposero ad arginare l’invasione barbarica. Ma le orde dei cavalieri di Attila, dalle gialle facce barbute solcate di cicatrici, armati di lance e di mazze ferrate, si precipitarono sui campi fecondi e sulle città, spargendo il terrore e la morte.
Dopo aver invaso la Gallia, Attila si gettò con particolare furore contro una terra ricca e allettante: l’Italia.
Per prima investì Aquileia. Gli abitanti fuggirono terrorizzati su zattere e barche e si rifugiarono nei meandri della laguna veneta, e sugli isolotti e sulle isole costruirono capanne di frasche e di legno. Con il volger del tempo quelle capanne divennero palazzi e, a poco a poco, formarono la città di Venezia.
Ma la meta di Attila era Roma; egli marciò fino al Mincio e… qui avvenne secondo la leggenda il miracolo: Attila incontrò il papa Leone I, il quale si era mosso da Roma, sereno e fiducioso, per esortare il “flagello di dio” a risparmiare la città di Pietro e a lasciare l’Italia.
E così cadde la furia distruttrice di Attila. Il guerriero che non conosceva perdono fece levare il campo, e dopo pochi giorni, ripassò le Alpi con il suo esercito.
Questa leggenda misteriosa nella sua semplicità, ha ispirato molti artisti che la hanno immortalata su tela e nel marmo: tra queste opere è celebre l’affresco di Raffaello in Vaticano.

La leggenda di Attila e Leone I

Un’immensa folla di cavalieri, accompagnata da carri, seguiva il re degli Unni.
All’inizio dell’invasione di Attila, il papa Leone I aveva ordinato pubbliche preghiere in tutte le chiese, per implorare la protezione del Cielo contro l “flagello di dio”.
Poi mosse incontro al re barbaro, seguito da molti fedeli.
Al grido delle sue sentinelle che avevano avvistato la folla in cammino, Attila ebbe un fremito di gioia, pensando che l’esercito romano si avvicinasse al Mincio, presso cui egli era accampato, e diede ordine di prepararsi al combattimento.
Ma poco dopo tornò da lui un ufficiale esploratore, sconvolto, descrivendo quello strano corteo di prelati, religiosi e di uomini disarmati che cantavano. Il loro capo, disse, era un vecchio dalla lunga barba bianca, tutto vestito di bianco, e montato sopra un cavallo bianco.
Attila fece fermare l’esercito, galoppò verso il Mincio, spinse il cavallo in acqua e gridò, con violenza, rivolto al pontefice: “Qual è il tuo nome?”
“Leone” rispose una voce e tutta la folla cessò di cantare.
Attila attraversò il fiume e pose piede sull’altra riva: dal gruppo dei prelati si staccò il papa e venne davanti all’Unno. Nessuno saprà mai che cosa si dissero, ma improvvisamente si vide Attila scostarsi dal vecchio, attraversare il fiume e dare ordini agli ufficiali.
L’esercito volse le spalle, risalì verso nord e scomparve.
(M. Brion)

I Vandali

Quando gli Unni lasciarono l’Italia, apparvero i Vandali. Attraverso la Gallia, erano passati in Spagna e in Africa, dove avevano costruito un grande regno. Il loro re, Genserico, li condusse dall’Africa in Italia con una grande flotta.
Essi occuparono Roma e, dopo un feroce saccheggio, la incendiarono (455). Poi tornarono in Africa con un immenso bottino.
Le loro azioni furono tanto malvagie che ancora oggi si chiama “vandalo” colui che rovina e distrugge senza ragione.

La fuga da Aquileia
“Su, Marco! Presto, Valeria! Dobbiamo andare, fuggire!”
Valeria si mosse, stringendo al cuore la sua bambola, che non avrebbe abbandonato per nessuna ragione. Marco invece volle caricarsi, come tutti, di bagagli e la mamma gli affidò un sacchetto di provviste e un involto di indumenti. Al ragazzo quella fuga sembrava una bella avventura e non capiva perchè tutti avessero quell’aria preoccupata e ansiosa.
Ben sapevano invece gli adulti perchè si dovesse fuggire: arrivavano i barbari! I vecchi ricordavano un’altra invasione, quella dei Gori, ma questi dovevano essere ben peggiori.
Si sapeva che rubavano, distruggevano, uccidevano; erano Unni e il loro capo era un vero demonio. Si chiamava Attila, ma si faceva chiamare “Flagello di Dio” e la gente di Aquileia se lo immaginava come un demonio con gli occhi fiammeggianti. La città di Aquileia era troppo bella e importante perchè Attila la dimenticasse, perciò, tutti fuggivano con carri, cavalli, servi, cercando di porre in salvo i loro tesori.
“Che il Signore ci aiuti!”disse la mamma di Marco e di Valeria, prima di uscire di casa.
S’avviarono poi di buon passo per raggiungere il padre, che li aspettava più avanti. Le strade rigurgitavano di gente; molte donne piangevano. La mamma di Marco camminava col cuore stretto, guardando ancora una volta la città dov’era nata e vissuta: le case, le piazze, i colonnati, ma soprattutto la bella basilica cristiana. Anche Marco e Valeria vi entravano sempre volentieri; il pavimento a mosaico era la loro gioia e, tra una preghiera e l’altra, guardavano incantati le belle figure: c’era il buon Pastore con le sue pecorelle, v’erano uccelli, pesci, colombe, uva e spighe. Che peccato dover abbandonare tutto! Chissà quando sarebbero tornati ad Aquileia, la città ricca, piena di vita e movimento.
“Ma dove andiamo?” chiese più volte Marco quando da un pezzo ormai stavano viaggiando.
“Soltanto l’acqua ci può difendere,” spiegò il babbo: “Bisogna mettersi al sicuro sulle isole della laguna, perchè là gli Unni non potranno arrivare”.
Marco e Valeria avevano sonno, erano stanchi, ma non ci si poteva fermare.
Finalmente giunsero in vista delle isole della laguna, e riuscirono a raggiungerne una. Che povera isola! Non c’era che qualche capanna di pescatori e acqua, acqua dovunque volgessero lo sguardo. Eppure i fuggiaschi ringraziarono Dio e si inginocchiarono a baciare quella terra, che rappresentava la loro salvezza. Il padre di Marco levò le mani al cielo e pregò così:
“O Signore, salva la città di Aquileia! Proteggila e difendila! Ma se non potessimo più farvi ritorno, concedici di trovare qui un asilo sicuro!”
“Amen!” dissero gli altri in coro, compresi Marco e Valeria.
Nessuno in quel momento sapeva che da quelle parole nasceva la città di Venezia.
(G. Ajmone)

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Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Guerre contro i Sanniti

I Sanniti abitavano le montagne boscose di quella regione che ora si chiama Abruzzo. La via dura tra rocce e foreste li aveva resi forti e coraggiosi. Roma, che continuava ad estendere il suo dominio, giunse ai loro confini e incontrò una resistenza tenacissima. Per venti anni vi furono battaglie. I Sanniti riportarono una vittoria a Caudio, tra Capua  e Benevento, e costrinsero i prigionieri romani a passare chinati sotto un giogo (forche caudine). La guerra continuò incerta per altri trent’anni, finchè i Sanniti furono sottomessi ed altre terre si aggiunsero al dominio di Roma.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Taranto

Una città tutta distesa lungo il mare tentò di opporsi alla potenza di Roma: Taranto, un’antica colonia greca. Quando una piccola flotta mercantile romana apparve in vista della città, i Tarantini, per intimorire gli avversari, affondarono tre navi. Subito Roma si mosse per vendicare l’affronto. Taranto, temendo la minaccia delle legioni ormai vicine, invocò l’aiuto di Pirro, un sovrano greco avventuroso.
Egli aveva un esercito disciplinato e ben armato e lo metteva al servizio di chi lo compensava riccamente. Possedeva inoltre un’arma nuova e potente: un buon numero di elefanti, addestrati a lanciarsi nella mischia con una torre sulla groppa, dalla quale gli arcieri fulminavano con le frecce i nemici. Due volte Pirro riuscì a sconfiggere i Romani, ma pagò il successo a caro prezzo.
Superato lo sgomento, i Romani impararono a combattere contro gli elefanti: li atterrivano lanciando contro di essi dardi infuocati: così i pachidermi volgevano in fuga disordinata scompigliando le schiere di Pirro. I nemici furono travolti a Malavento (poi chiamata Benevento) nell’anno 275 prima della nascita di Cristo. L’ultimo ostacolo nella penisola era superato. Roma, padrona di mezza Italia, guardava oltre il mare: all’orizzonte appariva, come un invito, l’azzurro profilo della Sicilia.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le forche caudine

Per raggiungere l’Africa, la strada più breve passava fra i monti per una stretta gola, vicino a Caudio. I Romani si inoltrarono disavvedutamente per questo passaggio, senza l’aiuto di guide o di esploratori. Giunti alla gola Caudina trovarono il passaggio ostruito da massi e da alberi. Improvvisamente sbucarono da ogni roccia, da ogni nascondiglio, i Sanniti, fieri abitanti della regione.
Invano i Romani, combattendo con valore disperato, tentarono di spezzare il cerchio d’uomini e di ferro che li stringeva. Dopo inutili tentativi, stremati di forze, scoraggiati, ogni giorno più mancanti di viveri, essi deliberarono e iniziarono trattative con il nemico, che li costrinse a sottomettersi all’umiliazione più atroce.
Tutta l’armata preceduta dal console, al quale furono tolte le insegne ed il rosso mantello, passò sotto il giogo e subì la derisione dei Sanniti, i quali non esitarono a percuotere con le loro armi i legionari nell’atto in cui si chinavano, curvando la testa, per passare sotto le lance incrociate e conficcate a terra.
Infine, il generalissimo sannita, Caio Ponzio Telesino, rimandò tutti, soldati e ufficiali, in patria, salvo poche centinaia di nobili cavalieri, che furono trattenuti in ostaggio.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le forche caudine

Tanto i Romani che i Sanniti non avevano abbandonato il proposito di conquistare la Campania. I primi ad agire sono  i Romani: nel 327 aC, essi occupano la città di Partenope (l’odierna Napoli). La reazione dei Sanniti è però immediata: affidato il comando dell’esercito a un grande condottiero, Caio Ponzio, lo inviano in Campania contro le truppe romane.
I primi cinque anni di guerra sono favorevoli per i Romani: essi riescono persino ad occupare buona parte del Sannio.
Vista l’impossibilità di sconfiggere i Romani in battaglia, Caio Ponzio tenta allora di vincerli con l’astuzia. Fatte ritirare le sue truppe sui monti, presso Caudio, egli fa spargere la notizia che si è portato ad assediare Lucera (nell’Apulia), una città alleata di Roma. Non sospettando l’inganno, i Romani accorrono immediatamente in aiuto della città minacciata e, per giungere più presto, decidono di prendere la strada più breve che passa per Caudio.
Errore gravissimo! Presso Caudio, questa strada entra in una valle stretta e profonda, i cui monti formano all’entrata e all’uscita di essa due gole strettissime, dette Forche Caudine.
Tra quei monti e all’uscita della valle, Caio Ponzio aveva nascosto i suoi soldati. Ed ecco infatti il disastro. Attraversata la prima gola e percorsa la valle, i soldati romani trovano l’uscita bloccata da macigni.
S’accorgono allora dell’agguato, retrocedono,  tentano di ripassare da dove sono entrati; inutilmente; i Sanniti hanno occupato nel frattempo anche quella gola. Circondati da ogni parte, i soldati romani tentano con disperato valore di aprirsi un varco, ma invano. Dopo aver perduto parecchi soldati, essi sono costretti alla resa. Ben quarantamila Romani cadono prigionieri nelle mani dei Sanniti! (anno 321 aC)
Dopo la grande vittoria sui Romani, Caio Ponzio scrisse al padre ( uomo allora molto celebre tra i Sanniti per la sua grande saggezza) per chiedergli come avrebbe dovuto trattare i nemici caduti in suo potere.
Il vecchio saggio rispose: “O ucciderli tutti o rimandarli tutti salvi a Roma. Nel primo caso, prima che i nemicii abbiano ricostituito un esercito ci vorrà tempo, e ci lasceranno perciò in pace; nel secondo caso avremo per sempre la loro gratitudine”.
Ponzio decise allora di rimandarli tutti salvi a Roma, ma volle prima che si sottoponessero a una grande umiliazione. Li costrinse a passare curvi e disarmati sotto il giogo, ossia sotto una lancia legata trasversalmente ad altre due piantate nel terreno.
Il Senato Romano volle riparare immediatamente ad una sconfitta così indegna e inviò subito un nuovo esercito contro i Sanniti. La lotta fu ripresa con grande accanimento e solo nel 304 i Romani riuscirono ad ottenere presso la città di Boviano una grande vittoria sul nemico. Nella pace che ne seguì, i Sanniti dovettero riconoscere ai Romani il possesso della Campania.
Ma anche i Sanniti non sono un popolo da arrendersi facilmente. Eccoli infatti prepararsi immediatamente alla riscossa.
Quando nel 298 aC Etruschi, Umbri e Galli, desiderosi di abbattere la potenza romana, si riuniscono in una lega per combattere contro Roma, i Sanniti si affrettano ad allearsi con loro. Con l’aiuto di questi popoli, i Sanniti sperano di poter piegare per sempre i loro grandi rivali.
I  Romani non si perdono d’animo: a così grande pericolo, rispondono con fulminea rapidità. Formati tre eserciti, ne mandano uno in Etruria (l’attuale Toscana) contro gli Etruschi; il più numeroso in Umbria, dove si è concentrato il maggior numero di nemici; e lasciano il terzo a difesa di  Roma.
Tale strategia si mostra subito indovinatissima: gli Etruschi abbandonano gli alleati e accorrono a difendere la loro terra. Lo scontro decisivo, che vede impegnati trentacinquemila Romani contro cinquantamila alleati, ha luogo a Sentino (nell’Umbria). La battaglia infuria per tre giorni consecutivi: alla fine, i Sanniti vengono pienamente sconfitti.
Impressionati dalla schiacciante vittoria romana, gli Etruschi, gli Umbri ed i Galli depongono le armi e trattano la pace con Roma; ma i Sanniti non si arrendono ancora: affidano un nuovo esercito a Caio Ponzio, tentano nel 292 una nuova riscossa. In meno di due anni devono però mettere da parte ogni speranza di rivincita: il loro esercito viene annientato e lo stesso Ponzio viene fatto prigioniero.
Questa volta è veramente la fine: dopo mezzo secolo di durissime lotte, il valoroso popolo Sannita è costretto a sottomettersi alla potenza di Roma. Anche i popoli dell’Italia centrale, che si sono schierati dalla parte dei Sanniti, devono seguire la medesima sorte.
Così, al termine delle lunghe guerre sannitiche (anno 290 aC), il dominio di Roma comprende parte dell’Etruria, l’Umbria, la Sabina, il Sannio e la Campania.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Roma e Taranto

I Romani dopo aver sconfitto i Sanniti, possedevano ormai, oltre il Lazio, gran parte della Toscana e dell’Umbria, le Marche e la Campania.
Sulle coste dell’Italia meridionale sorgevano le città della Magna Grecia; esse controllavano la zona del Mediterraneo, dove le loro navi svolgevano il traffico commerciale. Queste città cominciarono a sentirsi minacciate dalla rapida avanzata di Roma.
Tra loro, Taranto era la più ricca e potente. Quando il pericolo romano si fece più vicino, i Tarantini non si sentirono però abbastanza forti per sostenere l’attacco e chiesero aiuto a Pirro, re dell’Epiro, l’odierna Albania.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Fango e sangue sulle toghe degli ambasciatori romani

I Tarantini avevano affondato alcune navi dei Romani. Roma mandò a Taranto alcuni ambasciatori che, invece di ricevere scuse, furono gravemente offesi. Ecco come si svolse l’episodio.
Gli animi dei Tarantini sono colmi d’ira: i Romani hanno osato attraversare con le loro triremi quel mare che avevano promesso di non solcare mai, ed ora mandano gli ambasciatori a protestare perchè quattro navi sono state affondate?
Passano gli ambasciatori per le strade bagnate dalla pioggia, e guardano con occhi alteri i volti dei Tarantini, che si assiepano lungo il passaggio.
Ora si fermano davanti ai capi della città e il più anziano di essi comincia a parlare.
Parla della gloria di Roma, della forza di Roma, della potenza di Roma…
Ed ecco uno della folla chinarsi, prendere una manciata di fango e gettarla sulla toga immacolata dell’ambasciatore che continua a parlare di Roma!
L’ambasciatore ammutolisce. Tra i Tarantini serpeggia il riso.
Qualcun altro, seguendo l’esempio del primo, prende di mira la toga con nuove manciate di fango.
Allora l’ambasciatore dice con voce ben chiara: “Leverete col vostro sangue questa toga, che avete macchiato col vostro fango!”
Troppo tardi nel cuore dei Tarantini trema lo sgomento: ci sarà la guerra!

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le vittorie di Pirro

Pirro, re dell’Epiro, faceva paura, anche perchè nel suo esercito marciavano animali stranissimi, fortissimi e non mai visti dai Romani.
Questi spaventosi animali erano gli elefanti.
I Romani se li videro davanti, per la prima volta, in Lucania. Perciò li chiamarono buoi lucani.
Tutti fuggivano alla vista di quei colossi, con le gambe che sembravano colonne e con le proboscidi che lanciavano gli uomini lontano.
Ma i Romani, dopo il primo momento di paura, si cacciarono sotto la pancia degli elefanti, squarciarono loro il ventre con la corta spada.
Nel vedere molti dei suoi elefanti riversi a terra e immobili come montagne, Pirro ebbe a dire: “Un’altra vittoria come questa e sono rovinato!” (P. Bargellini)

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – La spedizione di Pirro

L’Italia Meridionale era abitata in parte da popolazioni italiche, in parte da Italioti, Greci stabiliti nelle città della costa del golfo di Napoli, fino allo Ionio e all’Adriatico:
Le città greche più importanti erano Taranto e Turio. Turio, assalita dai Lucani, chiese aiuto a Roma, e per soccorrere questa città, i Romani si trovarono in guerra aperta con la potente Taranto.
I Tarantini si accorsero ben presto di aver commesso un grave errore stuzzicando i Romani, e non volendo restarne schiacciati, ricorsero ad un sovrano balcanico, Pirro. Pirro, re dell’Epiro, apparteneva come razza al gruppo illirico della famiglia indoeuropea, lo stesso che attualmente è rappresentato dagli Albanesi; era giovane, ardito e ambizioso. In tutta la sua vita aveva cercato le avventure, e l’avventura a cui lo invitavano i Tarantini gli pareva la più bella e la più promettente. Non poteva egli, introdotto in Italia dai Tarantini, diventare, vincendo i Roman, il signore dell’Italia, un paese che la voce dei mercanti gli dipingeva più bello del suo selvaggio e sterile Epiro? Pirro accettò la proposta dei Tarantini, e sbarcò a Taranto con ventitremila uomini e venti animali da cui forse il suolo d’Italia non era stato mai calcato. I Romani certo non li conoscevano e, prima di apprendere dai Greci che quegli animali si chiamavano elefanti, li chiamarono ingenuamente, dalla terra d’Italia in cui la prima volta li avevano incontrati, “bovi di Lucania”.
Il primo scontro tra Pirro e i Romani si ebbe presso una città sul golfo di Taranto chiamata Eraclea, nel 280 aC. I “bovi di Lucania”, lanciati abilmente in mezzo alle file dei combattenti, spaventarono talmente i fanti romani che, pur avendo causato tra le file degli Epiroti perdite gravissime, essi dovettero volgere in fuga alla fine della battaglia.
“Un’altra di queste vittorie, e dovrò tornare in Epiro senza un soldato”, disse allora tristemente il valoroso re balcanico, e da quel momento si chiamò “vittoria di Pirro” ogni vittoria ottenuta a troppo caro prezzo.
Il Re, invece di sfruttare il suo successo, cerca di trattare la pace con Roma, e solo quando il Senato gli impone per questa condizioni troppo gravose, si risolve a riprendere la guerra.
Caio Fabrizio e Manlio Curio Dentato sono i comandanti degli eserciti che Roma manda contro il pericoloso intruso. Pur combattendo valorosamente e vittoriosamente ad Ascoli di Puglia e a Benevento, i due forse non insegnano nel campo militare nulla di nuovo al bellicoso sovrano, ma, a stare a quanto raccontano gli storici, essi fecero sì che il Re ripassasse l’Adriatico col ricordo incancellabile della grande onestà dei magistrati romani che non solo, poveri, non si lasciarono corrompere dalle offerte di denaro, ma sapevano essere leali col nemico contro i loro interessi.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Onestà di Fabrizio

Dopo la battaglia di Eraclea, in cui i Romani furono gravemente sconfitti, giunsero ambasciatori a Pirro per trattare la restituzione dei prigionieri di guerra. Fra gli ambasciatori romani era Caio Fabrizio, noto per il suo valore e per la sua onestà. Pirro, sapendo che Fabrizio era anche molto povero, cercò di corromperlo, offrendogli una considerevole somma, come segno di amicizia. Fabrizio rispose sorridendo a Pirro che la sua povertà gli era cara quanto la libertà personale e rifiutò il  dono.
Il giorno seguente Pirro cercò di spaventare l’onesto ambasciatore facendo entrare nella tenda in cui si trattava la resa dei prigionieri un elefante (animale che Fabrizio non aveva mai veduto). Ancora una volta Fabrizio sorridendo disse che l’elefante non lo aveva spaventato più di quanto lo avesse persuaso l’offerta dell’oro.
Pirro cominciò a stimare fortemente Fabrizio e la stima accrebbe in altra occasione. Il medico personale del re aveva inviato una lettera a Fabrizio, promettendogli che se avesse avvelenato Pirro sarebbe stato ampiamente ricompensato. Per tutta risposta Fabrizio rivelò a Pirro ogni cosa, avvisandolo del tradimento e del pericolo che incombeva su di lui.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le ambizioni di Pirro e la saggezza del suo ministro

Pirro, il famoso re dell’Epiro, s’apparecchiava con grande entusiasmo alla sua spedizione in Italia, chiamato dai Tarantini contro i Romani. Non mai il suo amico e consigliere Cinea l’aveva visto così allegro.
“Vedi?” gli diceva enfaticamente il re, mettendolo a parte dei suoi progetti, delle sue ambizioni e delle sue speranze, “Adesso noi conquisteremo l’Italia.”
“E poi?”, gli rispondeva Cinea, conservando tutta la propria calma.
“Dopo l’Italia”, proseguiva Pirro, “abbatteremo Cartagine e conquisteremo l’Africa”
“E poi?”
“Poi conquisteremo la Macedonia, la Grecia e gli altri Paesi del mondo”.
“E quando avremo conquistato tutto il mondo?”
“Oh! Allora” esclamò Pirro “noi ritorneremo nel nostro regno e godremo una continua pace….”
“E perchè” l’interruppe Cinea “non cominciamo subito da questo? Perchè lasciare in ultimo quel che si può avere in principio?”
Se Pirro avesse dato ascolto al suo ministro, non gli sarebbero toccate le batoste che ebbe dai Romani a Benevento.

Nonostante le sue smodata ambizioni, il re Pirro fu uomo generoso, oltre che gran capitano. Una volta, gli fu riferito che alcuni giovani, in un banchetto, si erano scagliati a dir corna di lui. Egli li fece subito imprigionare, e condotti alla sua presenza, domandò loro se fosse vero.
“Altro che vero!” rispose uno, “E se non fosse stato che sul più bello ci mancò il vino, a parole, ti avremmo anche ammazzato!”
Rise il re Pirro, e cavallerescamente li rimandò a casa, raccomandando loro di non bere più tanto vino un’altra volta.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma IMPERIALE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma IMPERIALE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Storia di Roma IMPERIALE – Augusto

Alla morte di Cesare, tutta Roma insorse contro gli uccisori: Cesare era stato il grande conquistatore della Gallia. Egli era stato amico del popolo e il popolo voleva vendetta. I congiurati fuggirono e, a Roma, pretese il potere Marco Antonio, luogotenente di Cesare durante le guerre vittoriose. Molti temevano la prepotenza di Antonio, e i Senatori gli erano avversari accaniti.
A Marco Antonio si affiancò, intanto, un giovane di vent’anni, Cesare Ottaviano, parente ed erede di Cesare. Dapprima i due furono d’accordo e si divisero il potere dello Stato: Antonio ebbe le terre d’Oriente, Ottaviano quelle d’Occidente. Ottaviano, però, era ambizioso e sicuro di sè ed aveva l’appoggio e l’amicizia del Senato. Appena Antonio, con i suoi errori, gliene diede l’occasione, mosse guerra contro di lui e lo sconfisse nella battaglia di Azio (Grecia). Antonio si uccise. Ottaviano rimase solo al potere.
Egli ottenne, allora, ogni autorità; fu, nello stesso tempo, console, dittatore, pontefice; ebbe i titoli di Augusto, che vuol dire “grande”, “divino”, e di Imperatore, che vuol dire “comandante supremo” delle legioni.
Con Cesare Ottaviano Augusto , nell’anno 27 aC finiva la Repubblica e cominciava l’Impero.
Augusto governò saggiamente lo stato e, dopo tante lotte, garantì ai Romani un lungo periodo di tranquillità. In Roma sorse un tempio dedicato alla Pace dove l’Imperatore stesso compiva le cerimonie dei sacrifici.
Trascorsero 27 anni e, in una lontana provincia dell’Impero, la Palestina, nacque Gesù.

Storia di Roma IMPERIALE – Ottaviano, Antonio e Cleopatra

Gli uccisori di Cesare fuggirono in tutta fretta per non essere massacrati dal popolo. La repubblica fu ancora sconvolta da sanguinose guerre civili che si conclusero con la vittoria di Caio Giulio Cesare Ottaviano, nipote del morto dittatore.
L’ultimo suo rivale fu Marco Antonio, un eccellente uomo di guerra che aveva avuto dal Senato il governo delle province d’Oriente.
Laggiù aveva sposato Cleopatra, regina d’Egitto, e s’era messo, lui, governatore romano, a regalare alla moglie regina, territori che appartenevano a Roma.
Ottaviano non poteva permetterlo e perciò gli mosse guerra. La guerra fra i due rivali fu decisa da una battaglia navale, ad Azio, nel mar Ionio, 15 anni prima che nascesse Gesù.
Antonio e Cleopatra avevano una flotta di grosse navi; le navi di Ottaviano erano invece piccole, ma agilissime, ed ebbero la meglio.
Ottaviano inseguì i vinti fino in Egitto. Là, i due si uccisero: Antonio con la propria spada; Cleopatra facendosi mordere da un aspide… e anche l’Egitto cadde in potere di Roma.

Storia di Roma IMPERIALE – La battaglia di Azio

La battaglia di Azio  fu combattuta il 2 settembre del 31 aC, tra le 250 navi leggere di Ottaviano e le 500 navi pesanti di Antonio: tra queste ultimi figurano 60 vascelli egizi, uno dei quali, riconoscibile dalla vela rossa, portava Cleopatra, regina d’Egitto. Lo scontro avvenne al largo del promontorio di Azio, sulla costa occidentale della Grecia. Su quella punta sorgeva un tempio dedicato ad Apollo, e i soliti bene informati, a Roma, andavano dicendo che Ottaviano  era figlio del dio… quindi un presagio era chiaro!
Non si capisce come mai Antonio, uno dei più bravi comandanti di cavalleria di Roma, abbia preferito dar battaglia per mare. Senza dubbio fu per accontentare Cleopatra, la quale invece aveva fiducia solo nella flotta. Imbarcò dunque 2.000 legionari e 3.000 arcieri. I marinai, in queste battaglie navali, avevano solo il compito di manovrare e di accostare le navi a fianco a fianco di quelle nemiche. La battaglia era allora affidata ai fanti, i quali combattevano sui ponti delle navi come a terra. I veterani di Antonio avevano protestato: ma Antonio aveva deciso che avrebbe giocato sul mare la sua sorte.
Un debole vento spinse la sua squadra verso quella di Ottaviano, il quale attendeva al largo e per un po’, allo scopo di allontanarsi bene da terra e trovarsi in acque libere rifiutò battaglia. Poi Agrippa diede l’ordine d’attacco. Arrivate in vicinanza delle pesanti navi nemiche, i suoi soldati cercarono di raggiungerle con giavellotti incendiari. La linea di Antonio si ritirò al centro e Agrippa si infiltrò subito nella breccia aperta. Nulla certo era ancora perduto ma Cleopatra, trovandosi al centro della terribile mischia, perse la testa. In pieno combattimento ruppe il contatto col resto della sua flotta e la sua vela purpurea, immediatamente seguita da tutte le vele egizie, s’allontanò verso l’Egitto. A questo punto anche Antonio perse il controllo: abbandonando la sua squadra, che cadeva sotto i colpi nemici, raggiunse la nave regale e si accasciò affranto sul castello della nave con la testa tra le mani.
Meno di un anno dopo la regina e il comandante fuggiasco si diedero la morte: Antonio, trafiggendosi con la propria spada, Cleopatra facendosi mordere da un serpente velenoso. Tutto, anche il suicidio, gli era sembrato preferibile alla vergogna di comparire come prigioniero nel trionfo di Ottaviano.
A Roma la notizia della vittoria di Azio fece tirare al popolo un sospiro di sollievo. Tutti avevano tremato prima che la sorte delle armi avesse deciso la contesa. Roma, come ben si sapeva, aveva vinto l’Oriente solo grazie alla sua disciplina e ai suoi metodi di guerra. Se ora generali romani, come Antonio, avessero tentato di organizzare quelle masse, che cosa sarebbe accaduto?
Cessò dunque la paura, si tirarono fuori dalle cantine le anfore di vino invecchiato nell’attesa del gran giorno: finalmente cominciava un’epoca di pace! E un piccolo uomo grassoccio, fino a poco prima ufficiale assai poco valoroso tra le file di Bruto, il buon poeta Orazio, versando nella sua coppa il vino migliore, esclamava: “Nunc est bibendum!” (si beva, orsù!).
Il sole di Azio rischiarava un mondo nuovo. Difatti, seguirà un lungo periodo di pace interna, operosa, che farà dimenticare un triste passato di sangue.

Storia di Roma IMPERIALE – Ritratto di Augusto

Bello di aspetto, il volto sempre calmo e sereno, anche nei momenti più difficili, Augusto sapeva infondere rispetto e quasi venerazione in chiunque. Un capo dei Galli, che aveva deciso di ucciderlo durante un colloquio, confessò poi di essere stato trattenuto, proprio per la serena maestà del suo volto.
Aveva abitudini e gusti semplici, non amava mostrarsi in pubblico per ricevere onori; spesso anzi entrava ed usciva dalla città solo di notte perchè nessuno lo vedesse e gli rendesse gli onori. Cortese con tutti, amato dal popolo, si meritò giustamente il titoli di Padre della Patria.
Quando Ottaviano ritornò a Roma vincitore, il Senato gli conferì tutte le cariche e tutti gli onori: nessuno, prima di lui, era stato tanto esaltato! Ma egli non si insuperbì.
Il senatore Valerio Messala a nome di tutti così lo salutò: “Salute a te e alla tua casa, Cesare Augusto; noi pregando gli dei per te, preghiamo felicità perpetua e lieti destini alla Repubblica; il Senato, d’accordo col popolo romano, ti acclama Padre della Patria.”
Augusto, con le lacrime agli occhi, rispose: “Ed io pregherò gli dei perchè mi concedano di godere del favore del Senato e del popolo romano fino all’estremo giorno della mia vita”.

Storia di Roma IMPERIALE – Carattere di Augusto

Nei giorni di udienza ammetteva perfino i plebei, alla rinfusa, e con tanta benignità accoglieva i desideri di chi andava da lui, che un giorno, vedendo l’esitazione di uno che non sapeva come porgergli la sua supplica, gli disse scherzando se aveva paura di lui come di un elefante dalla minacciosa proboscide.
Nei giorni in cui teneva seduta in Senato, entrava, e quando tutti erano seduti, salutava cordialmente per nome i singoli senatori, senza che alcuno gliene ricordasse il nome.
Usava modi cortesi con tutti e non mancava mai alle solennità dei suoi amici. Egli rispettò la libertà di tutti. Era senza dubbio molto amato.
I cavalieri tutti gli ani celebravano per due giorni di seguito il suo giorno natale; gli altri ordini gettavano ogni anno nel Foro una moneta rituale per la sua salute, e per capodanno gli offrivano la strenna in Campidoglio. Quando riedificò la sua casa sul Palatino dopo l’incendio che l’aveva distrutta, i veterani e tutte le classi cittadine gli offrirono grosse somme di denaro; ed egli non levò da quelle somme che un solo denaro per ciascuna.

Storia di Roma IMPERIALE – La pace romana

Dopo tanti anni di guerre, i popoli dell’Impero accettarono ben volentieri il governo di Augusto, che assicurava a tutti di poter vivere in pace sotto il segno di un’unica legge: quella romana.
Durante il suo lungo e pacifico regno, Roma divenne bella e bene organizzata città. Furono restaurati templi ed edifici, vennero demolite numerose vecchie case, si provvide a rafforzare gli argini del Tevere, si costruirono nuovi ponti ed acquedotti.
La città si arricchì di bellissimi palazzi e ville, di giardini , fontane di marmo, statue, portici per le passeggiate, di teatri, di fastosi templi, di meravigliosi monumenti, come l’Ara Pacis, e di una grandiosa piazza, chiamata Foro di Augusto.
Molte opere furono eseguite o abbellite col denaro dello stesso Imperatore; per questo il Senato conferì ad Augusto il titolo di Restauratore degli edifici sacri e delle opere pubbliche.
L’aspetto di Roma mutò tanto che Augusto ebbe a dire: “Ho trovato una città di mattoni e la lascio di marmo”.
Anche gli scrittori ed i poeti del tempo, nominando Roma, la chiamarono grande, bellissima, aurea, eterna.

Storia di Roma IMPERIALE – Il governo di Augusto

Nella sua bella casa privata sul Palatino, Augusto diresse l’amministrazione del vasto stato. Con alcune guerre di carattere difensivo allargò i confini a nord e ad est delle Alpi, portandoli al Danubio. L’impero si estendeva ora dalle coste dell’Atlantico all’Eufrate e al Mar Rosso, dalla Manica, dal Reno, dal Danubio e dal Mar Nero alle sabbie del deserto africano, per una superficie doppia di quella dell’impero di Alessandro Magno.
Ottaviano si propose di renderlo omogeneo con leggi ed ordinamenti uguali, di migliorarne l’amministrazione, di difenderne la sicurezza, di rinnovarlo moralmente. Per poter compiere questa grande opera, fu amante della pace; tornato a Roma dall’Egitto, chiuse le porte del tempio di Giano a significare che si inaugurava per tutto l’impero la Pax Romana.
Augusto riformò anche l’amministrazione delle province antiche e nuove; anzitutto divise l’impero in 25 province distinte in senatorie ed imperiali.
Erano senatorie, cioè governate da proconsoli eletti dal Senato, quelle (12 in tutto) di più antica conquista e quindi di pacifico dominio; imperiali quelle di recente conquista e poste nelle zone di confine, facili perciò a pericoli interni ed esterni: erano governate dall’imperatore per mezzo dei suoi luogotenenti o prefetti.
A tutti i funzionari delle province assegnò un regolare stipendio. Così si cominciò a formare una classe di impiegati statali, quella che noi chiamiamo burocrazia.
Riordinò anche l’esercito. Siccome il reclutamento obbligatorio non era più gradito ai Romani, organizzò un esercito permanente, formato di volontari stipendiati che prestavano servizio per vent’anni, e poi venivano congedati, ricevendo un premio in denaro o un pezzo di terra da coltivare.
Augusto curò anche la flotta e pose basi navali, una a Ravenna e l’altra a Miseno, una terza nel Mediterraneo occidentale per sorvegliare le coste galliche e spagnole, una quarta nel Ponto Eusino per il confine orientale.
Per la protezione della sua persona, istituì nuove coorti di soldati speciali detti pretoriani, dal nome del palazzo imperiale Praetorium.
Compì grandi lavori pubblici di abbellimento e di utilità: templi, archi, acquedotti, vie.
Augusto cercò anche di ravvivare il sentimento religioso, la moralità nei costumi, l’amore all’agricoltura, il patriottismo dei cittadini, che si erano rilassati per lo smodato desiderio delle ricchezze, del lusso, dei piaceri materiali; ma queste riforme ebbero scarso risultato.
Insieme con i suoi consiglieri, Mecenate ed Agrippa, incoraggiò la letteratura e l’arte che raggiunsero allora il massimo splendore.

Storia di Roma IMPERIALE – Augusto e il centurione

Un giorno l’imperatore Cesare Ottaviano Augusto se ne stava tra i suoi amici, quando seppe che un centurione chiedeva con insistenza d essere ricevuto. Ordinò che fosse fatto passare.
Appena vide il centurione, Augusto sorrise: riconosceva in lui uno dei suoi più fedeli soldati. Gli chiese che cosa volesse.
“Il tuo aiuto, Cesare. Un nemico invidioso delle terre che mi hai regalato, come a tutti i tuoi soldati, ha presentato in tribunale una grave accusa contro di me. Io so di avere il giusto diritto dalla mia parte; egli ha una grande autorità presso  i giudici che dovranno dare la sentenza; perciò sono venuto a chiederti di difendere la mia causa”.
I presenti si guardarono tra loro sbalorditi. Come osava, un modesto centurione, parlare così al signore di Roma?
Ma Augusto ben conosceva quel soldato; sapeva che veramente era stato fedele e valoroso. Gli additò allora una persona che gli sedeva accanto, e che era un famoso avvocato.
“Ecco, questo mio amico ti difenderà davanti ai giudici perchè il tuo buon diritto trionfi. Va’ pure tranquillo”.
Ma il centurione non si mosse. Poi alzò fieramente il capo e, aprendo la veste sul petto, mostrò le ferite che lo solcavano.
“Cesare, quando nella battaglia di Azio la tua fortuna e la tua vita erano in pericolo, io non incaricai nessuno di difenderti, ma lo feci io stesso”.
Augusto tacque, colpito; poi, guardando il soldato: “Hai ragione!” disse, “Va’ senza paura: verrò io stesso in tribunale a difendere la tua causa”. (C. Lorenzoni)

Storia di Roma IMPERIALE – Ave, o Cesare

L’imperatore Cesare Augusto tornava a Roma dopo aver vinto una grande battaglia. Un popolano gli andò arditamente incontro e gli presentò un corvo, al quale egli aveva insegnato a dire: “Ave, o Cesare, vittorioso imperatore!”.
Augusto, sorpreso e lusingato, volle l’uccello e diede in cambio una forte somma di denaro.
Un povero ciabattino, che aveva assistito alla scena, con i pochi suoi risparmi comperò subito un bel pappagallo e cominciò ad ammaestrarlo,  perchè salutasse l’imperatore con le stesse parole del corvo. Ma il pappagallo stentava ad imparare e il povero ciabattino, sfiduciato, dopo ogni prova ripeteva: “Oh povero me, ho sciupato tempo e denaro!”.
Finalmente il pappagallo riuscì a ripetere le parole del saluto ed il ciabattino, contento e pieno di speranza, si presentò ad Augusto. L’uccello, sollecitato, disse con bella voce e molta sicurezza: “Ave, o Cesare, vittorioso imperatore!”.
Ma Augusto, udito il saluto, rispose disgustato: “Via! Via! Ho pieni gli orecchi di questi saluti!”.
Il povero ciabattino stava per andarsene mortificato, quando all’improvviso il pappagallo, con sfacciata petulanza, si mise ad urlare: “Oh povero me, ho sciupato tempo e denaro!”.
Augusto rise a quelle parole, richiamò il ciabattino e comprò il pappagallo a caro prezzo.

Storia di Roma IMPERIALE – L’Altare della Pace

In onore dell’Imperatore un mese dell’anno prese il nome di Agosto, che vuol dire mese di Augusto. Gli avrebbero voluto innalzare anche un tempio, ma egli non volle. Preferì che, nel cuore di Roma, sorgesse un nuovo monumento, chiamato l’ “Altare della Pace”.
Aveva forma quasi quadrata ed era costruito tutto in marmo, con due fronti e una porta per ogni fronte; internamente vi era l’altare o ara. Il monumento, privo di colonne, era percorso da magnifici bassorilievi, dove erano sculture rappresentanti una solenne processione: la processione di uomini, donne e bambini, che portavano i loro voti all’altare della pace, promettendo di essere sempre pacifici e concordi.
Nel periodo della pace di Augusto progredirono gli studi e la cultura. Visse allora il poeta Virgilio, il più grande poeta latino e uno dei più grandi dell’umanità.
Inoltre vanno ricordati Orazio, Tibullo, Ovidio, anch’essi poeti, e il grande Tito Livio.

Augusto

Augusto fu l’ultimo console e il primo imperatore romano. Il destino gli aveva preparato un grande avvenire. Non per nulla, mentre, ancora fanciullo, aveva chiesto ad un indovino che cosa li prediceva per il futuro, l’indovino stesso gli si era inginocchiato davanti. Tuttavia egli era di animo mite e giusto e benevolo.
Ad un soldato che gli diceva di difenderlo davanti ai giudici rispondeva dapprima: “Ti manderò in difes il mio migliore avvocato”.
Ma siccome il soldato insisteva dicendo: “Quando mi chiamasti per la guerra io stesso venni e non mandai altri!”, Augusto aggiunse pronto: “Hai ragione! Verrò io stesso!”.

Storia di Roma IMPERIALE – Virgilio

A Roma si diceva “Virgilio consuma più olio che vino”. Ciò voleva dire che Virgilio studiava, anche di notte, al lume della lucerna e che era sobrio, cioè mangiava poco e beveva meno.
Egli diceva di sè “Sono nato in un solco di campo, presso Mantova”. Infatti era nato da famiglia contadina, a Pietole. Si narrava che, appena nato, trovandosi in una culla, n mezzo al campo, uno sciame di api si erano posate sui rosi labbruzzi. Da grande divenne poeta dolcissimo. Le sue parole sembravano davvero di miele.
A Roma fu molto stimato dall’Imperatore Augusto e protetto da un ricco patrizio di nome Mecenate.
Egli scrisse, tra l’altro, un grande poema, nel quale narrò la storia di Enea e la fondazione di Roma. Perciò quel poema fu intitolato Eneide.
I versi dei poeti, allora, venivano cantati, con l’accompagnamento della lira, strumento musicale con cinque corde di metallo.
Nei suoi versi, Virgilio annunciava tempi nuovi, di pace e di bontà, nei quali non avrebbe più contato la forza, ma la dolcezza e la mansuetudine.
Il grande poeta morì a Brindisi nel 19 aC  e fu sepolto a Napoli, in faccia al mare da cui era venuto l’eroe del suo poema.

Virgilio

Virgilio fu un grande poeta vissuto durante l’impero di Augusto. Egli amava la natura, gli animali e le piante; preferiva la vita campestre e si affliggeva che l’agricoltura fosse, ai suoi tempi, in abbandono. La sua opera più importante fu l’Eneide, dove volle celebrare la sua patria dalle origini fino ai tempi di Augusto. Secondo le ultime volontà di Virgilio, questo poema doveva essere distrutto, ma dobbiamo ad Augusto se ancora possiamo leggere i versi armoniosi dell’Eneide.

Storia di Roma IMPERIALE – Quanti erano i cittadini romani

“Nel mio sesto consolato feci il censimento del popolo… Risultarono allora censiti 4.063.000 cittadini romani. E poi di nuovo ripetei la stessa cerimonia da solo col potere consolare, durante il consolato di Caio Censorino e Gaio Asinio. E furono in questo lustro censiti 4.233.000 cittadini romani. Per la terza volta, rivestito del potere consolare, feci il censimento avendo collega il mio figliolo Tiberio Cesare, quand’erano consoli Sesto Pompeo e Sesto Apulio; e risultarono allora cittadini romani 4.037.000” (da Res gestae divi Augusti)

Storia di Roma IMPERIALE – Roma grande emporio della terra

Il mar Mediterraneo come una cintura cinge il centro del mondo e il centro del vostro dominio; e intorno al mare si stendono i continenti colmi di ricchezze sempre a vostra disposizione. Qui affluisce, da ogni parte della terra e del mare, quello che producono le varie stagioni, le singole regioni, industrie di Greci e di barbari: per vedere tutte queste diverse cose, bisognerebbe viaggiare per tutta la terra, ma basta venire nell’Urbe. Tutto quello che si produce e si fabbrica nei singoli paesi, qui si trova. E così numerose approdano qui le navi mercantili in tutte le stagioni ad ogni mutare di costellazione, cariche di ogni sorta di mercanzie, che l’Urbe si può paragonare al grande emporio generale della terra.
E così forti carichi di vedono arrivare dall’India e perfino dall’Arabia felice da far venire il dubbio che in quei paesi siano rimasti spogli gli alberi, e gli abitanti debbano venir qui a domandare i loro prodotti quando ne hanno bisogno; e le stoffe di Babilonia e gli altri generi di lusso di quelle lontane terre barbare si vedono arrivare con molta maggiore frequenza e facilità delle mercanzie inviate da Cidno ad Atene in altri tempi.
Sono vostri granai l’Egitto, la Sicilia e la Libia nella parte abitata. (Elio Aristide)

Storia di Roma IMPERIALE – L’impero di Augusto

L’Impero Romano si stendeva ormai, con Augusto, dal Reno al Danubio, a nord, fino al deserto dell’Africa ed alle montagne dell’Atlante, a sud; dall’Atlantico, ad ovest, fino al Mar Nero, al Ponto, alla Siria, al Mar Rosso, ad est.
“Allargai i confini di tutte le province del popolo romano, alle quali erano confinanti popolazioni che non obbedivano al nostro dominio. Sottomisi le province delle Gallie e delle Spagne, e similmente la Germania, seguendo il confine dell’Oceano, da Cadice alla foce dell’Elba. Assoggettai le Alpi, dalla regione prossima al mare Adriatico fino al Tirreno, a nessuna gente recando guerra ingiustamente” (da Res gestae divi Augusti)

Storia di Roma IMPERIALE – Giustizia e generosità di Augusto

Un giorno un suo parente gli propose di mandare gli eserciti di Roma contro un piccolo popolo africano che nulla aveva fatto per meritarsi un sì tremendo castigo. Il cattivo consigliere diceva all’Imperatore: “In pochi giorni i nostri soldati conquisteranno un regno; quel popolo non si aspetta la nostra aggressione e certamente cederà senza combattere”.
Ebbene, sai come rispose Augusto? Augusto rispose così: “I Romani non si macchieranno mai di un tale delitto; la nostra forza sta nella giustizia e non nelle armi”.
Un’altra volta l’imperatore Augusto si trovò  a dover giudicare un povero colto nell’atto di rubare un pezzo di pane. Il reo si scusò in questo modo: “Rubai perchè avevo fame. Sono disoccupato”.
Pronto l’imperatore rispose: “Il furto è furto e ti condanno. Tuttavia eccoti una moneta d’oro. Espiata la condanna potrai andare avanti finchè non avrai trovato lavoro”

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Storia di Roma IMPERIALE – Altri imperatori della famiglia Giulio – Claudia

Storia di Roma IMPERIALE – Tiberio (14 – 37 dC)

Negli ultimi anni della sua vita Augusto aveva adottato e designato come erede il figliastro Tiberio, nato da Livia, sua terza moglie, appartenente all’antica e orgogliosa gens Claudia. Tiberio fu accettato tanto dal Senato che dall’esercito e con lui l’impero si trasmise per 54 anni alla famiglia Giulio – Claudia.
Nel primo anno governò saggiamente e riportò anche successi militari contro i Germani del Reno, che avevano distrutto un esercito romano. Ma negli ultimi anni Tiberio, divenuto sospettoso e crudele, si macchiò di numerosi delitti.
Ritiratosi a cercare sicurezza e pace nell’incantevole isola di Capri, lasciò il governo di Roma in mano del suo ministro Elio Seiano, che commise ogni sorta di prepotenze, finchè fu fatto uccidere dallo stesso imperatore.
Tiberio morì nel 37 dC, lasciando cattiva memoria di sè.
Negli ultimi anni del suo regno, a Gerusalemme, era stato crocefisso Gesù e i suoi discepoli si erano sparsi nelle regioni mediterranee  a diffondervi la sua dottrina: nascela così il cristianesimo.

Storia di Roma IMPERIALE – Tiberio

Ad Augusto, morto nel 14 dC, successe il figliastro Tiberio. Costui, in principio, governò saggiamente e vinse i Germani, che avevano distrutto un esercito romano. In seguito, però, divenne crudele e commise numerosi delitti. Resse l’impero non più da Roma, ma da Capri. Durane il suo regno fu crocefisso Gesù.  A Tiberio successero parenti deboli, o pazzi e crudeli.

Storia di Roma IMPERIALE – Caligola (37 – 41 dC)

Verso la fine del suo principato, Tiberio aveva dimostrato benevolenza verso un nipote, Caio, soprannominato Caligola perchè fin da bambino soleva portare le calzature militari dette caliga. Il Senato lo accolse come successore. Aveva 24 anni.
Al principio del suo regno si mostrò mite e deferente verso il Senato, ma presto, o per disposizione naturale o per una malattia che ne alterò profondamente la ragione, cominciò a commette atti folli e crudeli, sperperando ricchezze, condannando a morte i cittadini più ricchi, per confiscare i loro beni.
Fu ucciso da una congiura di pretoriani in un corridoio del palazzo.

Storia di Roma IMPERIALE – Claudio (41 – 54 dC)

Dopo questa terribile esperienza, il Senato avrebbe voluto un ritorno della repubblica. Ma i pretoriani acclamarono imperatore uno zio di Caligola, Claudio. Aveva 50 anni: uomo più di studio che d’azione, era d’animo mite e debole, inesperto di politica.
Restaurò con saggia amministrazione le finanze, rovinate dalle spese pazze di Caligola, tanto che potè costruire opere pubbliche di grande utilità: un nuovo acquedotto, che si considera uno delle più grandiose opere dell’ingegneria romana; un canale emissario del lago Fucino; l’allargamento del porto di Ostia, perchè potessero approdare le grandi navi da carico.
Con una fortunata spedizione militare fu conquistata la parte meridionale della Britannia.
Ma, vittima della sua debolezza, si lasciò raggirare dagli scaltri liberti, che divennero potenti alla sua corte, e dalla moglie ambiziosa e corrotta, Messalina.
Non migliore fu la seconda moglie di Claudio, Agrippina, già vedova, con un figlio dodicenne, Lucio Domizio Nerone. Questa donna ambiziosa, volendo assicurare l’impero al proprio figlio, circuì così abilmente il debole marito, da fargli diseredare Britannico, figlio di Claudio e di Messalina.
Poco dopo Claudio morì improvvisamente. Corse voce che Agrippina lo avesse avvelenato. I pretoriani, addomesticati e corrotti, acclamarono Nerone, e il Senato, sempre arrendevole, ne confermò l’elezione.

Storia di Roma IMPERIALE – Nerone

L’ultimo imperatore della famiglia di Tiberio fu Nerone. Egli ben presto iniziò una lunga serie di delitti. Il popolo lo accusò anche dell’incendio di Roma, che nell’anno 64 distrusse i quartieri più popolari della città. Temendo l’ira del popolo, Nerone gettò la colpa sui cristiani. Cominciò così la prima grande persecuzione, nella quale molti martiri morirono tra i più atroci tormenti.
Il malcontento contro Nerone dilagò ugualmente: la Giudea, la Gallia e la Spagna si ribellarono.
Nerone fuggì da Roma e, per non cadere vivo in mano nemica, si fece uccidere da uno schiavo. Alla sua morte scoppiarono feroci lotte per la conquista del potere.

Storia di Roma IMPERIALE – Nerone (54 – 68 dC)

Nerone saliva al trono a 17 anni. I primi cinque anni del suo governo, nei quali si lasciò guidare dai due precettori, il generale Burro e il filosofo Seneca, furono felici.
Poi i cattivi istinti ereditati dalla famiglia Claudia degeneraa, esplosero in lui sotto forma di viltà e ferocia e, cominciò l’orrenda serie dei suoi delitti.
Temendo che gli fosse contrapposto il fratellastro Britannico, lo fece avvelenare; al fratricidio seguì presto l’uccisione della madre.
Essendosi scoperta una congiura contro di lui, fu preso dal terrore e mandò a morte un grandissimo numero di persone, anche innocenti. Tra le vittime più famose furono il poeta Lucano, il suo maestro Seneca e lo scrittore Petronio, che era stato fino al giorno prima suo amico.
Ma il più grande delitto che la voce pubblica attribuì a Nerone fu l’incendio di Roma, che nel 64 distrusse vari quartieri della città. Forse l’incidente era casuale, ma il popolo esasperato minacciava vendetta: si diceva che l’imperatore volesse distruggere la città per ricostruirla più bella sulle sue rovine, oppure che volesse esaltarsi alla vista di un colossale incendio per trarre ispirazione a un poema sulla caduta di Troia.
Per discolparsi, Nerone accusò a sua volta i cristiani. L’accusa di Nerone trovò facilmente credito negli animi esasperati che esigevano la punizione dei colpevoli. Parecchi cristiani, arrestati, sotto le torture cedettero e si confessarono rei. Cominciò allora la prima grande persecuzione: molti cristiani furono condannati al rogo o dati in pasto alle belve. In questa persecuzione fu crocefisso l’apostolo Pietro e poi decapitato Paolo.
Ma il malcontento dilagava da per tutto, fra gli stessi pretoriani; la Giudea insorse e Nerone fu costretto a mandarvi contro il generale Vespasiano. Insorsero la Gallia e la Spagna, e le legioni colà stanziate proclamarono decaduto Nerone ed elessero il generale Galba, il quale marciò su Roma. Nerone, spaventato, fuggì nella sua villa, sulla via Nomentana, e per non cadere vivo nelle mani degli inseguitori, si fece uccidere da uno schiavo.
Con lui si spense la funesta dinastia dei Claudi. Le legioni più forti decidono ora la scelta dell’imperatore.
Dopo due anni di anarchia militare, durante i quali si succedettero tre imperatori (Galba, Ottone e Vitellio), che si combatterono tra di loro e morirono tutti violentemente, la pace e l’ordine furono restaurati per opera di Tito Flavio Vespasiano, fondatore della dinastia dei Flavi.

Storia di Roma IMPERIALE – Le torce viventi

La notte non era ancora discesa, e già la folla si riversava nei giardini cesarei, per assistere allo spettacolo. Roma conosceva già lo spettacolo dei roghi, non mai però s’era veduto un così gran numero di condannati. Nerone e Tigellino avevano deciso di farla finita con i cristiani, ed avevano perciò ordinato che si sbarazzassero tutti i sotterranei, non lasciandovi che un piccolo numero di vittime da servire agli spettacoli di chiusura.
La folla, entrando nei giardini, si faceva muta di meraviglia. In tutti i viali si ergevano pali spalmati di ragia, ai quali erano legati i cristiani. Dai punti più alti, dove gli alberi non impedivano la vista, si scorgevano interminabili file di pali e di condannati, cinti di fiori, d’edera e di mirto. Il numero delle vittime era più grande di ogni immaginazione.
Intorno a ciascun palo sostavano persone a gruppi, e un dubbio si manifestava in molti con la domanda: “Possibile che vi siano tanti colpevoli?”. Oppure: “Come possono aver incendiato Roma questi bambini, che ancora non si reggono da sè?”. Al dubbio e allo stupore succedeva il turbamento.
Scese la notte, e nel cielo brillarono le prime stelle. Ad ogni condannato si avvicinò uno schiavo, provvisto di fiaccola: e, quando lo squillo delle trombe risuonò da più punti del giardino ad annunciare che lo spettacolo cominciava, ciascuno depose la torcia ai piedi di un rogo.
La folla tacque; un alto gemito si levò nei giardini, e poi non si udirono che grida strazianti. Alcune vittime, però, fissando gli occhi al cielo scintillante di stelle, intonarono inni di gloria a dio. Lo spettacolo era appena cominciato, quando Nerone apparve in una magnifica quadriga circense, tirata da cavalli bianchi. Tratto tratto si arrestava per meglio godersi lo spettacolo di qualche vittima, poi proseguiva, seguito dal suo corteo. Giunto infine alla gran fontana, scese dalla quadriga e si confuse tra il popolo. Evviva e battimani lo accolsero; senatori, sacerdoti e soldati lo circondarono, ed egli, con ai lati Tigellino e Chilone, fece il giro della fontana, intorno alla quale ardevano più di dieci vittime.
I pali erano già quasi tutti arsi ovunque, e cadevano attraverso i viali, diffondendo intorno scintille, fumo, odore di legno e carne bruciata. Poi i fuochi man mano si spensero e sul giardino dominarono le tenebre della notte. La folla faceva ressa alle uscite. Cominciavano a udirsi voci di compassione per i cristiani: “Se non è vero che hanno incendiato Roma, perchè tanto sangue? Perchè tante torture e tante ingiustizie? E i numi non vendicheranno quegli innocenti? Come placare il loro sdegno?”.
Si udivano sempre più frequenti le parole “vittime innocenti”. Le donne piangevano la morte dei bambini gettati alle belve, crocefissi e bruciati vivi in quei maledetti giardini. Il sentimento di pietà traeva dai cuori maledizioni a Nerone e Tigellino.
Molti chiedevano a se stessi e agli altri: “Ma che dio è il loro che dà tanta forza di sopportare il martirio?”. E rientravano pensosi nelle loro case. (E. Sienkiewicz, da Quo vadis?)

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Storia di Roma IMPERIALE – La dinastia dei Flavi (69 – 96)

Storia di Roma IMPERIALE – Vespasiano

Nell’Impero tornò la pace con Tito Flavio Vespasiano. Egli governò ottimamente. Aprì le scuole con maestri pagati dallo stato, fece costruire grandi edifici pubblici, fra i quali l’anfiteatro Flavio, detto Colosseo.

Storia di Roma IMPERIALE – Tito Flavio Vespasiano

Fu acclamato imperatore, alla fine del 69, dalle sue legioni stanziate in Oriente per la guerra giudaica. Lasciata al figlio Tito la direzione della guerra, egli venne a Roma, dove fu accolto come un pacificatore e fu riconosciuto dal Senato.
In 10 anni di ottimo governo, riparò a tutte le sciagure che dai tempi di Nerone avevano afflitto l’impero.
Creò delle scuole con maestri stipendiati dallo stato e compì grandi opere pubbiche, fra le quali l’anfiteatro Flavio, chiamato poi Colosseo, capace di contenere 50.000 spettatori.

Storia di Roma IMPERIALE – Tito

A Vespasiano successe il figlio Tito, detto delizia del genere umano per la sua bontà. Se non compiva qualche buona azione in una giornata diceva: “Ecco un giorno perduto!”. Governò solamente tre anni. Ebbe il dolore di vedere la città di Pompei, Stabia ed Ercolano distrutte e sepolte da una tremenda eruzione del Vesuvio (79 dC).

Storia di Roma IMPERIALE – Tito

A Vespasiano successe il figlio Tito, che aveva condotto a termine felicemente la guerra giudaica, espugnando Gerusalemme. In suo onore fu costruito l’Arco Trionfale.
Per la mitezza e la generosità che lo distinguevano, meritò di essere chiamato “delizia del genere umano”.
Durante il suo breve e pacifico regno una violenta eruzione del Vesuvio, nell’anno 79, seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia.

Storia di Roma IMPERIALE – La distruzione di Pompei

Da parecchi giorni la terra era scossa da un lieve terremoto; a un tratto le scosse divennero più violente. Una grossa nuvola nera di cenere, interrotta da lingue di fuoco, usciva dal cratere del Vesuvio e si ingrandiva sempre più: discese dal monte, coprì i campi e giunse fino al mare.
La terra sprofondò. Donne, uomini, bambini, fuggirono terrorizzati dalle loro case, urlando, piangendo, invocando gli dei. Non si vedeva nulla: i fanciulli chiamavano la mamma,  le mamme i figli, i mariti le spose. Sembrava giunta la fine del mondo.
Anche a Pompei si udì un terribile boato e sulla città sembrò scendere la notte. Moltissimi si trovavano nell’anfiteatro ad assistere ad uno spettacolo di gladiatori. I cittadini, impazziti di terrore, si riversarono sulla strada che conduceva al mare. Alcuni riuscirono a salvarsi, altri si attardarono nelle loro case per prendere i gioielli e i denaro. Di questi ultimi nessuno si salvò: morirono asfissiati dalle ceneri e dai vapori ardenti. Pompei fu sepolta e così Ercolano e Stabia.

Storia di Roma IMPERIALE – La famosa eruzione del Vesuvio del 79

Lo scrittore romano Plinio il Giovane ci ha lasciato in una sua lettera questa viva e impressionante descrizione dell’eruzione del Vesuvio che nel 79 seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia. Lo zio dello scrittore, Plinio il Vecchio, considerato il più grande naturalista romano e autore di una Storia Naturale, spinto dall’amore della scienza, accorse, incurante del pericolo, per osservare da vicino il fenomeno, ma trovò la morte.
“La nube, che da lontano era difficile capire da qual monte sorgesse (solo più tardi si seppe che proveniva dal Vesuvio), somigliava per la sua forma ad un albero, più precisamente ad un pino, poichè, dopo essersi levata assai in alto, come un tronco altissimo, si ramificava intorno e appariva ora bianca, ora nerastra, secondo che era più carica di terra o di cenere.
Come era naturale, dato il suo amore alla scienza, mio zio credette che quel grandioso fenomeno fosse degno di essere esaminato più da vicino.
Ordinò dunque che gli si apparecchiasse la sua lancia (egli si trovava a Miseno, al comando della flotta romana) e stava già per uscire di casa, quando ricevette un biglietto di Rectina, moglie di Casco, atterrita dall’imminente pericolo, poichè la sua villa stava ai piedi del Vesuvio, nè altro scampo vi era se non per mare, e pregava affinchè egli volesse salvarsi da sì grande catastrofe.
Allora mio zio mutò consiglio e si accinse ad affrontare col più grande coraggio ciò che prima pensava di osservare con interesse di studioso.
Fece venire delle quadriremi, vi montò sopra egli stesso e partì per portare soccorso, non solo a Rectina, ma a molti altri, poichè la spiaggia bellissima assai era popolata.
A mano a mano che le navi si avvicinavano, una cenere più spessa e più calda pioveva su di esse; già cadevano tutt’intorno lapilli e scorie ardenti, già si era formata una improvvisa laguna, profotta dal sollevamento del fondo del mare, e il lido era reso inaccessibile peri cumuli di lapilli.
Allora, dopo essersi fermato, alquanto incerto se tornare indietro o procedere oltre, mio zio disse al pilota, che gli consigliava appunto di guadagnare l’alto mare: “La fortuna aiuta i forti: drizza la prua verso la villa di Pomponiano”.
Pomponiano si trovava a Stabia… Mio zio, portato là dal vento assai favorevole alla sua navigazione, abbraccia il suo amico tutto tremante, lo rincuora, lo esorta a farsi coraggio…
Frattanto dal Vesuvio, in più punti, si vedevano rilucere vasti incendi, il cui fulgore era accresciuto e fatto più palese dalle tenebre della notte…
Si consultarono fra loro se chiudersi dentro o se fuggire per l’aperta campagna; poichè, da un lato, le case ondeggiavano per i frequenti terremoti e sembrava che, schiantate dalle fondamenta, fossero gettate ora su un fianco ora su un altro e poi rimesse a posto; dall’altro lato, all’aperto, la pioggia delle pomici, sebbene leggere e porose, non incuteva minor paura. Tuttavia il confronto fra i due pericoli fece scegliere quest’ultimo partito: si scelse dunque l’aperta campagna…
Essi escono e si proteggono il capo, coprendosi con dei guanciali, che legano mediante lenzuoli, precauzione necessaria contro la tremenda pioggia che veniva dall’alto.
Altrove era giorno, ma là dove essi erano perdurava la notte, la più nera ed orribile fra tutte le notti, squarciata solo da un gran numero di fiaccole e da lumi d’altro genere.
Si credette bene accostarsi alla riva e vedere da vicino quello che il mare permettesse di tentare. Ma le onde erano sempre grosse e agitate da un vento contrario.
Qui, sdraiato sopra un lenzuolo che aveva fatto distendere per terra, mio zio chiede e bevve due volte dell’acqua fresca. Poi le fiamme e l’odor di zolfo, che le preannunciava, fecero fuggire tutti gli altri e costrinsero mio zio a levarsi in piedi. Si rizzò, appoggiandosi  a due schiavi, ma cadde immediatamente, come fulminato.” (Plinio il Giovane)

Storia di Roma IMPERIALE – Gli scavi di Pompei

Dopo diciassette secoli, furono iniziati gli scavi per riportare alla luce Pompei. Chi si reca oggi a visitarla, vede com’era una città al tempo di Roma antica: lunghe vie lastricate, il Foro, le terme, i templi, le case adorne di statue e affreschi, i colonnati, i giardini.
La vita a Pompei si è fermata, ma le rovine della città ci parlano ancora di quel tempo antico.

Storia di Roma IMPERIALE – La morte di Plinio

Plinio il Vecchio era un illustre scienziato. Durante l’eruzione del Vesuvio volle studiare da vicino il fenomeno e nello stesso tempo portare aiuto all’amico Pompeiano che si trovava a Stabia. Fece allestire alcune navi e partì.
Nonostante la pioggia di pietre e di ceneri ardenti, egli riuscì a giungere a Stabia.
L’indomani Plinio, Pompeiano e altri tentarono di avviarsi a piedi verso la spiaggia, ma lungo la strada l’aria, mista a vapori di zolfo, si faceva sempre più irrespirabile e Plinio morì soffocato, vittima della sua generosità.

Storia di Roma IMPERIALE – Domiziano (81 – 96)

Successe al  fratello Tito. Domiziano era avido di ricchezze  e feroce. Volendo trasformare l’impero in una monarchia assoluta, lottò contro il Senato, che fu decimato.
Si circondò di delatori e, abusando della legge di lesa maestà, processò ed uccise i cittadini più ricchi, per impadronirsi dei loro beni. Finì pugnalato.
Il Senato ne condannò la memoria e cancellò il suo nome dai monumenti pubblici.

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Storia di Roma IMPERIALE – Gli imperatori d’adozione

Storia di Roma IMPERIALE – Nerva (96 – 98)

Dopo l’assassinio di Domiziano, il Senato per impedire che l’esercito o i pretoriani acclamassero il nuovo imperatore, scelse prontamente uno dei suoi membri: il vecchio e stimato Cocceio Nerva. Con Nerva comincia un nuovo sistema di successione, cioè l’adozione.
Il nuovo eletto si associò come collega un giovane e valoroso generale, Ulpio Traiano, e lo designò come successore alla propria morte.
Gli imperatori d’adozione furono Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio.
Furono tutti uomini saggi ed illuminati, oltre che uomini d’azione e di pensiero. La loro età fu la più felice dell’impero.

Storia di Roma IMPERIALE – Traiano

Dopo qualche anno di pessimo governo, l’Impero Romano fu retto da alcuni saggi imperatori. Fra essi grande e valoroso fu Traiano. Intrepido soldato ampliò l’impero, conquistando la provincia della Dacia (l’attuale Romania) e la provincia dell’Arabia. Diminuì le tasse, ebbe a cuore i poveri e gli orfani.

Storia di Roma IMPERIALE – Traiano (98 – 117)

Nativo della Spagna, fu il primo imperatore non italiano. Valoroso soldato, moralmente onesto e giusto, egli ampliò al massimo i confini dell’impero, diminuì le imposte, amministrò la giustizia con mitezza, creò istituti di beneficenza a favore dei poveri e degli orfani.
Combattè i Daci, che si erano stabiliti a nord del Danubio inferiore, dov’è l’attuale Romania, e li sottomise, creando la nuova provincia della Dacia. Ivi pose un forte presidio e numerose colonie; edificò città, ponti e monumenti dov’era prima il deserto.
La moderna Romania conserva nel nome, come pure nella lingua, il ricordo della dominazione romana.
Per celebrare questa vittoria, fu elevata in mezzo al Foro Traiano la magnifica Colonna, alta 43 m, rivestita esternamente da una fascia di bassorilievi, che rappresentano episodi della guerra dacica. In alto vi era la statua di Traiano in bronzo.
Traiano combattè anche contro i Parti, spingendosi fino al Golfo Persico, e creò la nuova provincia dell’Arabia (Arabia del nord – ovest e penisola del Sinai).
Dal Reno al Danubio costruì una serie di fortificazioni a catena: il limes germanicus. Morì nel 117, mentre tornava dall’Oriente, e fu sepolto ai piedi della Colonna Traiana.

Storia di Roma IMPERIALE – L’imperatore Traiano e la vecchietta

Traiano fu un uomo alla buona con tutti. Un giorno, mentre partiva per una spedizione militare, gli si fece incontro una vecchietta.
“Che vuoi?” le chiese Traiano.
“Voglio giustizia, perchè hanno ammazzato il mio figliolo”.
“Ma non lo vedi che parto per la guerra? Ne parleremo al mio ritorno”.
“E se tu non tornassi?”
“Ti renderà giustizia il mio successore”
“Ma allora il merito non sarà tuo!”
“Hai ragione” disse l’imperatore.
E prima di partire per la guerra fece punire gli assassini, rendendo giustizia alla vecchia.

Storia di Roma IMPERIALE – Adriano

A Traiano successe il pacifico Adriano. Egli si dedicò ad opere di pace e visitò ogni regione facendovi costruire strade, ponti, acquedotti, templi. Fondò numerose città ed emanò sagge leggi per promuovere il benessere comune.
Inoltre Adriano si preoccupò di consolidare i confini dell’Impero, che ormai aveva raggiunto la massima espansione; fece costruire sui confini solide opere di fortificazione per tenere lontani i barbari ed assicurare così a tutti i cittadini la pace e la tranquillità.

Storia di Roma IMPERIALE – Adriano (117 – 138)

Spagnolo anche lui, ma dedito più alle opere di pace che alle conquiste, passò gran parte della sua vita viaggiando attraverso ogni regione dell’Impero e da per tutto fondando città, facendo costruire acquedotti, templi, strade, ponti.
Assicurò i confini contro le invasioni barbariche: in Bretannia, ad esempio, innalzò il famoso Vallo di Adriano, per difendere il paese dagli Scoti, una muraglia lunga 117 km, guarnita ad intervalli da 300 torri.
Ritiratosi a vivere in una magnifica villa che si era fatto costruire a Tivoli, Adriano vi morì nel 138, dopo aver adottato Antonino Pio. Fu sepolto nel grandioso mausoleo che si era fatto innalzare a Roma, sulla riva destra del Tevere: la Mole Adriana, oggi chiamata Castel Sant’Angelo.

Storia di Roma IMPERIALE – L’imperatore Adriano e il signore scortese

Adriano, prima di diventare imperatore, durante un viaggio in Asia aveva chiesto ospitalità ad un signore di Smirne.
“Non alloggio stranieri!” s’era sentito rispondere seccamente.
Adriano avrebbe anche potuto entrare con la forza, ma preferì andarsene all’albergo.
Qualche tempo dopo quel signore ebbe occasione di venire a Roma per chiedere non so quale grazia all’imperatore, che per l’appunto era Adriano.
Immaginate come rimase, quando si vide davanti l’uomo che non aveva voluto in casa sua.
Ma l’imperatore lo tolse subito dall’impaccio. “Venite,” disse sorridendo, “state tranquillo: io alloggio anche i forestieri”.
E non solo lo esaudì in tutte le sue richieste, ma finchè quel signore si trattenne a Roma, l’imperatore lo volle avere ospite, come un vecchio amico, nel palazzo imperiale.

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Storia di Roma IMPERIALE – Gli Antonini

Storia di Roma IMPERIALE – Antonino Pio (138 – 161)

Fu uno degli imperatori più saggi. Mite e buono, proibì per primo le persecuzioni dei cristiani ed i maltrattamenti degli schiavi, soccorrendo con elargizioni quanti soffrivano. Per queste virtù ebbe il soprannome di Pio.

Storia di Roma IMPERIALE – Marco Aurelio (161 – 180)

Era un austero filosofo e ci lasciò raccolti i suoi alti pensieri in un libro: Ricordi. Apparteneva anch’egli alla casa degli Antonini. Il suo regno fu turbato da uno sconfinamento dei popoli germanici, abitanti a nord del Danubio, che giunsero fino alle Alpi. Egli li sconfisse, ma poi nel trattato di pace concedette loro di stabilirsi entro il territorio dell’impero, purchè prestassero servizio militare a Roma.
Era un pericoloso espediente col quale l’imperatore sperava di evitare altre invasioni, ma avrebbe avuto gravi conseguenze: il progressivo imbarbarimento dell’esercito e le prime infiltrazioni fra i Romani dei barbari, che prepararono la rovina dell’impero.
Anche le gesta di Marco Aurelio furono celebrate nei bassorilievi di una colonna, che sorge ancora a Roma, in piazza Colonna (Colonna Antonina). Inoltre, in piazza del Campidoglio, è tuttora eretta la sua statua equestre.

Storia di Roma IMPERIALE – Commodo (180 – 192)

Questa bella serie di imperatori si chiuse tristemente con Commodo, crudele e vizioso. Era figlio di Marco Aurelio, ma profondamente diverso dal padre; finì assassinato nel 192.

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Storia di Roma IMPERIALE – Decadenza dell’impero nel III secolo

Alla morte di Commodo cominciò un periodo di anarchia militare. Le legioni dislocate nelle province pretesero di eleggere imperatori i loro generali: i pretoriani misero l’impero all’incanto, si dichiararono pronti ad acclamare colui che pagasse di più. Dopo 4 anni di disordini e di violenze, fu innalzato un generale valoroso, Settimio Severo.
Appoggiato dall’esercito, mirò a creare una monarchia assoluta e dinastica. Vinse i Parti, togliendo loro la Mesopotamia settentrionale, e combattè i Caledoni, a nord della Britannia, ove ricostruì il Vallo di Adriano. A ricordo di queste vittorie gli fu eretto nel Foro un grandioso Arco di Trionfo.

Triste inizio ebbe il regno del figlio e successore, Caracalla, così soprannominato per la foggia gallica del suo mantello, che per non dividere il trono con il fratello Geta, lo pugnalò fra le braccia della madre. Egli è famoso per l’editto del 212, col quale estese il diritto di cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero.
In Roma eresse le grandiose terme, che portano il suo nome e di cui restano imponenti ruderi. Caracalla fu ucciso.

L’esercito, di nuovo in rivolta, creò ed uccise gli imperatori. Per 50 anni questi si succedettero l’uno all’altro e scomparvero rapidamente, fra congiure e guerre civili, saccheggiando e depredando le province: tra queste, molte tentarono di tenersi indipendenti.
L’impero sembrava avviarsi fatalmente alla rovina, ma nella seconda metà del secolo fu salvato da una serie di imperatori di nazionalità illirica, che furono detti restauratori.

Il primo di essi fu Claudio Gotico, così soprannominato per la grande vittoria riportata sui Goti, i quali dal Mar Nero erano scesi verso il Mediterraneo, invadendo l’Asia minore e la Grecia.

Più grande ancora fu Aureliano, che in 5 anni di guerra domò le province insorte e consolidò le frontiere. Sconfisse i Vandali e gli Alemanni che erano penetrati in Italia, e cinse Roma di una nuova e possente cerchia di mura (mura Aureliane) che esistono ancora in gran parte. Ma dovette abbandonare la Dacia ai Goti, per accorciare i confini dell’impero e poterli meglio difenderli. Morì nel 275.

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Storia di Roma IMPERIALE – Diocleziano e la tetrarchia (285 – 305)

Dieci anni dopo si iniziava un nuovo periodo nella storia dell’Impero, per opera di Diocleziano, anch’egli di stirpe illirica e valoroso soldato. Egli fece dell’impero una vera e propria monarchia assoluta, circondandola di un fastoso cerimoniale, che ricordava quello delle corti orientali.
Convinto che un solo imperatore non bastasse più ad amministrare il vasto impero, si associò al governo l’antico suo compagno d’armi Massimiano col titolo di Augusto: questi governava la parte occidentale dell’impero, stando a Milano.
Diocleziano governava l’Oriente, da Nicomedia, una città dell’Asia Minore.
Roma, troppo lontana dal Danubio e dall’Asia, non poteva più essere la capitale dell’impero.
Successivamente i due Augusti si scelsero ognuno un collaboratore, o Cesare, designandolo come successore.
Questa partizione del potere si chiamò Tetrarchia, dal greco “comando di quattro”.
L’impero restò uno dal punto di vista giuridico, ma amministrativamente fu diviso in 4 parti dette Prefetture: ogni prefettura era divisa in diocesi, ogni diocesi in province.
Il potere civile fu separato da quello militare: l’impero diventò un complesso ingranaggio burocratico. Fu necessaria una riforma tributaria, che accrescesse il gettito delle imposte, per stipendiare questo esercito di impiegati civili e le truppe necessarie alla difesa dei confini.
Per frenare la speculazione, Diocleziano fissò con un calmiere il prezzo massimo delle merci di più largo consumo.
Convinto che, per mantenere l’unità dello stato, fosse necessaria l’unità del culto, ordinò nel 303 una persecuzione contro i cristiani, che fu la più violenta e la più lunga di tutte (303 – 311), tanto che questo periodo si chiamò l’era dei martiri. Ma il cristianesimo non fu estirpato, anzi, la chiesa si ricostituì più forte di prima.
Nel 305, dopo 20 anni di governo, volendo assistere al funzionamento del sistema che aveva creato, Diocleziano abdicò e si ritirò a Salona, presso l’odierna Spalato, nella nativa Dalmazia, dopo aver indotto il suo collega Massimiano a fare altrettanto.
I due Cesari divennero Augusti e adottarono due nuovi Cesari.
Ma il sistema non fece buona prova. Presto scoppiarono tumulti e lotte civili fra Augusti e Cesari, finchè sui vari competitori trionfò Costantino, figlio di Costanzo Cloro, il Cesare dell’Occidente.

Diocleziano

Tra i numerosi imperatori che succedettero a Adriano è da ricordare Diocleziano, feroce e sanguinario. Sotto il suo governo i Cristiani subirono la più tremenda persecuzione (303 – 311). Questo periodo fu chiamato era dei martiri.

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Storia di Roma IMPERIALE – Costantino e l’Editto di Milano

Storia di Roma IMPERIALE – Costantino

Nel 312 divenne imperatore Costantino. Si narra che, durante la guerra contro il suo rivale Massenzio, gli fosse apparsa in cielo una croce luminosa con il motto “In hoc signo vinces” e che subito avesse fatto applicare una croce sugli stendardi delle sue legioni, convinto di vincere la battaglia. Massenzio fu infatti sconfitto a Roma presso il Ponte Milvio.
Nel 313, a Milano, Costantino emanò il famoso Editto con il quale veniva permesso ai Cristiani di professare liberamente il proprio credo religioso. Durante il suo regno la capitale dell’Impero venne spostata da Roma a Bisanzio, in Oriente, che da lui prese il nome di Costantinopoli.

Storia di Roma IMPERIALE – Costantino

Egli era stato acclamato Cesare nel 306, dalle regioni della Britannia, mentre infieriva ancora la persecuzione contro i cristiani ordinata da Diocleziano. Ma Costantino aveva compreso che il cristianesimo era ormai una grande forza e, invece di perseguitare la chiesa, si appoggiò ad essa.
Venuto in Italia nel 312, si liberò dell’ultimo rivale, Massenzio, con la battaglia combattuta ai Saxa Rubra, sulla riva del Tevere, nei pressi dell’attuale ponte Milvio.
L’anno seguente, da Milano, Costantino emanò il famoso Editto di Tolleranza, con il quale pose termine alle persecuzioni e concesse ai cristiani, in tutto il territorio dell’impero, piena libertà di culto. La religione ufficiale dello stato continuava però ad essere il paganesimo.
Egli, mantenendo la divisione fatta da Diocleziano, regnava in quel tempo col collega Licinio, imperatore dell’Oriente.
Nel 324, rotti i buoni rapporti con Licinio, lo sconfisse e riunì nelle sue mani l’Oriente e l’Occidente.
L’anno seguente, nel 325, Costantino convocò a Nicea un concilio di vescovi per reprimere una dottrina sulla natura di Cristo, diffusa dal vescovo di Alessandria, Ario, e perciò detta Arianesimo. Ario sosteneva che Cristo non era dio fattosi uomo, ma creatura umana perfetta e perciò divinizzata. Molti vescovi condannarono come eretica, e cioè erronea, questa dottrina, ma essa si diffondeva pericolosamente. Nel concilio di Nicea l’arianesimo fu condannato.
Nel 330 Costantino trasferì la capitale a Bisanzio, sul Bosforo, che da lui prese il nome di Costantinopoli.
Roma però continuò ad essere la capitale morale dell’impero, anche se gli imperatori non vi risiedevano più: tanti secoli di storia gloriosa le avevano conferito un prestigio sacro.
Costantino morì nel 337.

L’impero romano-cristiano
Nel decennio successivo alla battaglia di Ponte Milvio, Costantino assunse un atteggiamento sempre più favorevole ai cristiani e giunse infine al riconoscimento del cristianesimo come religione ufficiale dell’impero. Da una minoranza eroica di perseguitati, esso si trasformava così in religione di massa, aumentando immensamente il numero dei propri aderenti ed inserendosi nella compagine statale dell’impero romano.
Fra le altre conseguenze, ciò portò ad una crescente diversificazione fra la massa dei semplici fedeli o laici (dal greco laos = popolo), spesso convertiti di fresco ed ignoranti delle dottrine cristiane, e la parte eletta dei ministri del culto o clero (dal greco kleros = scelto). In seno a quest’ultimo, sull’esempio della burocrazia imperiale, si delineò una gerarchia sempre più precisa, facente capo ai vescovi. Costantino incoraggiò questa evoluzione della Chiesa cristiana, consentendo alle comunità non solo di recuperare ciò che avevano perduto nelle persecuzioni, ma altresì di aumentare il proprio patrimonio in misura cospicua, grazie ai lasciti ed alle donazioni. Concesse al clero privilegi importanti, tra cui l’esenzione o immunità dalle prestazioni d’opera (munera). Concesse inoltre che i vescovi assumessero attribuzioni giudiziarie verso coloro che volessero ricorrere alle loro sentenze.
Il monogramma di Cristo fu posto sulle monete. Fu riconosciuta la domenica come festività ufficiale. L’imperatore inoltre pose tutta la propria energia nel rafforzare e difendere l’unità della Chiesa, in quanto organismo universale (Ecclesia Catholica) contro ogni  scissione interna. Si operava infatti, in seno al cristianesimo, una sistemazione dottrinale, in cui si precisavano a mano a mano le dottrine che tutti i fedeli dovevano accettare, respingendo quelle deviazioni o eresie, che eventualmente sorgessero. Il IV secolo, anzi, fu un’età di controversie teologiche particolarmente importanti, specie intorno alla natura ed agli attributi di Cristo. Tra esse fondamentale fu quella fra i seguaci di Atanasio, assertori del dogma della trinità, e i seguaci di Ario, il quale assimilava la natura di Cristo a quella di un uomo, negando così in sostanza il dogma trinitario.
Infine Costantino dovette affrontare l’ultimo dei suoi rivali nell’impero, cioè Licinio, dominatore dell’Oriente. Poichè quest’ultimo favoriva i pagani, la lotta assunse il carattere di un duello fra cristianesimo e paganesimo: la vittoria su Licinio (324) e quindi l’annessione anche dell’Oriente ai domini di Costantino apparvero così una vittoria cristiana.
Alla ricostituita unità dell’impero, sotto la monarchia di Costantino, corrispose altresì il ristabilimento dell’unità della chiesa, travagliata dalla controversia ariana. Si riunì pertanto il Concilio Ecumenico, cioè l’assemblea di tutti i vescovi crisitani, a Nicea (325), dietro convocazione dell’imperatore, e lì la dottrina atanasiana fu riconosciuta come la sola valida. Il concilio di Nicea fissò inoltre in modo definitivo la dottrina cristiana con una dichiarazione di fede o simbolo niceno. Attribuì infine particolare autorità sugli ecclesiastici nelle rispettive zone ai metropoliti di Roma, Alessandria ed Antiochia; pari dignità venne attribuita più tardi anche al metropolita di Bisanzio.
All’indomani della sua vittoria su Licinio, Costantino decise di creare una nuova capitale, interamente legata alla fede cristiana, trasportando la residenza imperiale a Bisanzio, che da allora assunse il nome di Costantinopoli. Alla vecchia Roma del paganesimo, si contrapponeva così la nuova Roma del cristianesimo. L’impero, sino a ieri persecutore del cristianesimo, diventava Impero Romano Cristiano.
Da allora in poi, la dignità imperiale ed il concetto stesso di Impero non dovevano più dissociarsi dall’idea cristiana e dalla funzione di sommo protettore e regolatore della cristianità. (G. Spini)

Grandezze e meschinità di Costantino
L’imperatore Costantino, passato alla storia con il nome di Grande, non fu tuttavia immune da debolezze umane; molte sue opere ce lo confermano, ed anche i suoi biografi. Secondo Eutropio, storico attendibile sia per essere vissuto in tempi abbastanza vicini, sia per essere un sommarista delle opinioni altrui, Costantino era degno di essere paragonato ai più grandi imperatori per i suoi primi anni di regno, ma per gli ultimi anni, ai più meschini. In lui rifulsero comunque moltissime virtù di animo e di corpo. Assai avido di gloria militare, ebbe favorevole la fortuna in guerra, ma non al punto da superare la sua stessa abilità. Infatti, anche dopo la guerra civile, sconfisse più volte i Goti e, in ultimo, stringendo la pace con loro, lasciò grata memoria di sè presso i barbari. Amava le belle arti e gli studi liberali; poichè desiderava la considerazione del popolo, ma voleva ben meritarsela, egli riuscì ad ottenerla con la munificenza e l’affabilità. Fu indifferente verso alcuni amici, ma caldo verso altri, e non si lasciava sfuggire occasione alcuna per beneficarli di ricchezze e di onori.
Promulgò molte leggi, alcune buone e giuste, molte però superflue, e altre severe più del dovuto. Mentre preparava la guerra contro i Parti che già premevano ai confini della Mesopotamia, morì a Nicodemia, in un  palazzo dello stato. Aveva 66 anni e il popolo disse che la sua morte fu preannunciata da una vistosa cometa che solcò il cielo per un certo tempo. (M. Bini)

Bisanzio
Bisanzio sorse nel VII secolo aC come colonia greca; nel 201 aC divenne romana.
Era una solida cittadella che, affacciata sullo stretto, poteva controllare il passaggio delle navi dal Mediterraneo al mar Nero e quindi la via verso l’Asia.
La sua posizione era quindi ideale, oltre a ciò Bisanzio era straordinariamente bella: su una penisola collinosa, circondata dalle acque azzurre del Mar di Marmara, del Bosforo e del Corno d’Oro.
Quando Costantino il Grande,  imperatore romano dal 306 al 337 dC, realizzando un progetto già caro ad Augusto, diede all’impero una capitale orientale (le province orientali superavano ormai di gran lunga per forza economica e popolazione quelle d’Occidente), le località tra cui ritenne di dover scegliere erano Troia, Bisanzio ed Alessandria.
Troia, secondo la leggenda, era la madre di Roma; Alessandria era la seconda metropoli dell’Impero. Ma la scelta cadde su Bisanzio, sia per necessità pratica sia per la bellezza della sua posizione.
Nel 330, ribattezzata Costantinopoli, fu proclamata capitale dell’Impero. (W. Schneider)

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Storia di Roma I GRACCHI – dettati ortografici e letture

Storia di Roma  I GRACCHI – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Storia di Roma I GRACCHI

Dopo la vittoria su Cartagine, Roma divenne ricca e potente, ma i benefici di tale ricchezza e potenza non erano equamente distribuiti fra tutti i cittadini. Molti fra coloro che avevano lungamente combattuto, trascurando lavoro e interessi, erano caduti in miseria.
Le terre di conquista erano distribuite ai cittadini, ma gran parte di esse toccavano a pochi patrizi che aumentavano i loro possedimenti. Essi avevano campagne estese (latifondi) a perdita d’occhio e sovente ne trascuravano la buona coltivazione.
Il numero dei poveri aumentava ogni giorno. Essi abbandonavano le loro case e i loro campicelli, e si riversavano nelle città. Era una situazione molto grave, e due nobili fratelli romani, Tiberio e Caio Gracco, cercarono con tutte le loro forze di porvi rimedio. Nominati tribuni, proposero la “legge agraria”. Essa stabiliva che molte terre fossero distribuite ai contadini più bisognosi.
I patrizi, aiutati degli amici del Senato, combatterono con ogni mezzo la legge agraria che li danneggiava.
Tanto fecero che Tiberio fu assassinato in un tumulto, e il fratello Caio, abbandonato anche dagli amici e dai beneficati, si fece uccidere da uno schiavo.

Storia di Roma I GRACCHI – I Romani diventano ricchi, ma non tutti

Roma aveva conquistato immensi territori. Divenuti ricchi, i cittadini presero ad amare il lusso, gli oggetti preziosi, i banchetti, i divertimenti. Gli schiavi lavoravano per loro.
Naturalmente, non tutti i cittadini romani erano diventati ricchi. Anzi, la maggior parte di essi era rimasta povera, più povera di prima! Solo i proprietari di vaste terre (i latifondi) ammassavano facilmente le ricchezze, facendo lavorare gli schiavi e trasformando i campi in pascoli per le greggi e gli armenti.
Infatti, siccome il grano arrivava in abbondanza dall’Africa e dall’Asia Minore, non era più necessario coltivarlo in Italia. Questo sistema riduceva in miseria i piccoli proprietari che abbandonavano i loro campicelli e si trasferivano a Roma, a vivere come oziosi mendicanti.
Due uomini vollero porre riparo a tanta miseria,  realizzando le prime riforme a favore degli operai e dei contadini: Tiberio e Caio Gracco.

Storia di Roma I GRACCHI – Tiberio e Caio Gracco

Tiberio e Caio, per l’indole egregia e per il grande studio che Cornelia mise nell’educarli, divennero i più disciplinati di quanti Romani allora vivevano; e dall’esempio loro si dimostrò che l’educazione è ottima guida per condurre gli uomini a virtù. Tiberio e Caio furono somiglianti nella forza, nella temperanza, nella liberalità, nella grandezza d’animo e nell’eloquenza; ma grandemente differivano in altre cose. Tiberio nell’aria del volto, nello sguardo e nel portamento era mite e composto. Caio, invece, era impetuoso e pieno di forza; cosicchè quando arringava il popolo, egli non si teneva già modestamente fermo al suo posto, come il fratello; anzi fu il primo dei Romani a passeggiare qua e là per la ringhiera (il palco da dove parlavano gli oratori) ed a tirarsi la toga giù dalle spalle. Se poi era preso dall’ira, s’infiammava e strillava sino a prorompere in contumelie e a confondersi nel discorso. Venendo a parlare dei costumi e della maniera di vivere, si lodavano in Tiberio la frugalità e la semplicità; mentre Caio, sebbene temperato ed austero in confronto agli altri, si poteva dire largo e magnifico rispetto al fratello. (da Plutarco)

Storia di Roma I GRACCHI – I veri gioielli

Le ricche signore romane si chiamavano matrone. Andavano coperte di ampie vesti e portavano indosso ornamenti d’oro. Molte si facevano accompagnare da uno schiavo, con un cofanetto pieno di gioielli che mostravano alle amiche.
Ma una di loro non faceva così. Si chiamava Cornelia. Si era sposata con Sempronio Gracco ed era rimasta presto vedova, con due figli, Tiberio e Caio, che allevava teneramente. Quei due ragazzi, che a Roma chiamavano i fratelli Gracchi, le davano molte soddisfazioni, perchè erano seri, buoni, studiosi. Cornelia, per quanto vedova, si sentiva contenta di loro.
Un giorno si recò a farle visita un’altra matrona, diversa da lei. Era una donna ambiziosa e vanitosa, piena di ornamenti. La seguiva uno dei soliti schiavi, col cofano dei gioielli. La matrona lo aprì dinanzi a Cornelia. Trasse fuori collane d’oro, con la bulla che era una specie di medaglia. Sollevò fili di perle opaline. Si infilò alle dita anelli gemmati. Mostrò braccialetti larghissimi, d’oro sbalzato. Eppoi, filigrane e fibule, che erano fatte come i nostri spilli di sicurezza, ma più ricchi e lavorati.
E mentre si passava, da una mano all’altra, tutti quei gioielli preziosi, i suoi occhi brillavano più che i diamanti sfaccettati.
Cornelia sorrideva per cortesia, ma in cuor suo compativa quella donna che, per darsi importanza, aveva bisogno di tutte quelle cose inutili.
A un certo momento, la matrona vanitosa chiese a Cornelia che le mostrasse i suoi gioielli. Forse la voleva umiliare. Ma Cornelia, com’era una donna di giudizio, era anche una donna di spirito. Invece di aprire un cofano o di frugare in un cassetto, chiamò presso di sè i suoi due bravi figlioli.
Prese Tiberio da una parte, Caio dall’altra. Passò sulle loro spalle le sue materne braccia, poi disse, modesta e insieme orgogliosa: “Ecco i miei gioielli!”
La sciocca matrona, a quella bellissima risposta, rimase confusa.
Abbassò gli occhi sui suoi gioielli. Le sembrò che non sfavillassero più. Anche nei suoi occhi si era spenta la luce della gioia. Richiuse il cofano. Ma ora erano gli occhi di Cornelia e dei suoi cari figlioli che riempivano di luce la casa. (P. Bargellini)

Storia di Roma I GRACCHI – Discorso di Tiberio Gracco

Tiberio Gracco, divenuto tribuno della plebe, propose nel 133 aC, una legge, per la quale la grande proprietà terriera, o latifondo, doveva essere frazionata in modo tale che nessun cittadino potesse possedere più di 1.000 giornate di demanio pubblico. Il resto doveva essere confiscato e diviso in piccoli poderi da 30 iugeri, da distribuirsi fra i cittadini nullatenenti.
Ecco il discorso con cui Tiberio arringò la folla in tale occasione:
“Le belve che vivono allo stato selvaggio hanno le loro tane, ma quelli che muoiono per l’Italia non sono padroni che dell’aria che respirano. Essi devono andare raminghi, con la moglie e con i figli, senza casa, senza tetto.
Quando i loro comandanti, prima della battaglia, li incitano a combattere per le loro tombe e per i loro Lari, mentono e sanno di mentire, perchè nessuno dei soldati possiede tali cose. I loro combattimenti, i loro morti, non servono che ad accrescere il lusso dei ricchi.
Si ha il coraggio di chiamare padroni del mondo questi disgraziati che non posseggono neppure una zolla di terra!”
(da Plutarco)

Storia di Roma I GRACCHI – Tiberio Gracco

Tiberio fu eletto Tribuno della Plebe e fece approvare una legge che vietava ai cittadini di possedere latifondi troppo estesi e imponeva ai proprietari terrieri di assumere un certo numero di contadini liberi, da far lavorare nei campi oltre agli schiavi, mentre a tutti i cittadini poveri lo Stato avrebbe assegnato un piccolo terreno. Questa legge non poteva piacere ai grandi proprietari… Non potendo privare Tiberio del potere, i patrizi provocarono aspri disordini durante le elezioni dell’anno 133 aC; Tiberio fu assalito e ucciso.

Storia di Roma I GRACCHI – Caio Gracco

Nove anni dopo, Caio Gracco, fratello minore di Tiberio, fu eletto a sua volta Tribuno della Plebe. Per favorire i poveri, Caio fece approvare una legge perchè fossero ricostruite alcune famose città: Taranto, Capua, Cartagine. Per salvare i plebei dalla fame, Caio mise in opera la legge frumentaria, che impegnava lo Stato a vendere ad ogni cittadino cinquanta chili di grano al mese, a bassissimo prezzo. Neppure queste leggi poterono essere gradite ai profittatori.
Per attaccare Caio Gracco fu trovata una scusa: Caio aveva guidato tremila coloni in Africa, perchè ricostruissero Cartagine. Ma, al termine della terza guerra punica, il territorio di Cartagine era stato dedicato alle divinità infernali. Caio Gracco fu accusato di sacrilegio e perseguitato. Morì ucciso nel 121 aC.

Storia di Roma I GRACCHI – Vicino al popolo

Caio Gracco abbandonò la propria ricca casa patrizia per andare ad abitare in una catapecchia di un quartiere popolare, e ciò per essere maggiormente vicino al popolo e vederne così con i propri occhi i bisogni.

Storia di Roma I GRACCHI – Le guerre civili

La miseria, le ingiustizie, l’inimicizia tra i pochi ricchissimi ed i molti poveri continuarono dopo la morte dei Gracchi. All’improvviso scoppiò una vera guerra fra gruppi di cittadini romani. Si disse “guerra civile” perchè era combattuta da uomini appartenenti alla stessa patria. Gli interessi della plebe erano difesi da Caio Mario, un popolano che, per il suo coraggio, era giunto ai più alti gradi militari.
Il suo avversario era il nobile Lucio Silla, intelligente e ambizioso. La lotta durò molti anni: se trionfavano gli uomini di Mario, la vendetta colpiva i “sillani”; se invece era vittorioso Silla, tutti gli amici di Mario erano perseguitati ed uccisi.
Quando Mario morì, Silla si fece nominare dittatore e governò lo stato con grande durezza fino all’anno 79 aC.

Storia di Roma I GRACCHI – Mario

Era nato da contadini. Aveva combattuto con Scipione nella Spagna, e ben presto era divenuto generale. Coraggioso, forte, abile, resisteva a qualsiasi fatica. Viveva la vita dei suoi soldati: mangiava il loro pane e, come loro, riposava sulla nuda terra. Durante le soste, metteva anch’egli mano al lavoro per scavare una fossa o un vallo (trincea). I soldati lo ammiravano e lo amavano, pronti a compiere con lui le più audaci imprese.

Storia di Roma I GRACCHI – Caio Mario, il salvatore della Patria

Mentre a Roma la plebe era in fermento, scoppiò una guerra contro Giugurta, re della Numidia. Essa fu conclusa vittoriosamente dal console Caio Mario, di umili origini. La gloria di Mario si accrebbe pochi anni dopo, quando salvò Roma dalla terribile invasione dei Cimbri e dei Teutoni, bellicosi popoli germanici. Il console fu acclamato “salvatore della patria” e “terzo Romolo”.
Caio Mario riorganizzò l’esercito. I soldati furono equipaggiati a spese dello stato e ricevettero una paga.

Storia di Roma I GRACCHI – Eroico modo di attingere acqua

I soldati di Mario, assetati, protestavano con il condottiero perchè volevano acqua. “Il campo nemico ne abbonda” disse Mario “andate a prenderla!”. E li guidò alla battaglia.

Storia di Roma I GRACCHI – Silla

Era di ricca famiglia patrizia. Aveva occhi azzurri e aspetto fiero. La sua faccia era di colore scuro, qua e là pezzato di bianco. In lui c’era un impasto di virtù e di vizi. Forte e valoroso in guerra, era poi prodigo, spavaldo, ambizioso e vendicativo. I nemici lo temevano; lo sapevano uomo senza pietà. Gli amici lo adoravano, perchè lo sapevano pronto a qualsiasi aiuto.

Storia di Roma I GRACCHI – Lucio Cornelio Silla

Nonostante le vittorie conseguite, Roma covava dentro di sè continue discordie, alimentate ora dai patrizi, ora dai plebei.
Per alcuni anni prevalse il partito dei plebei, capeggiato da Mario, che fece strage dei suoi nemici. Quando morì, si disse: “Non fu amato da nessuno, fu odiato da molti”.
Poi prevalse il partito dei patrizi, capeggiato da Silla. Ma anche di lui si disse: “Nessuno fece tanto bene ai suoi amici e tanto male ai suoi nemici”. Raggiunto il pieno potere, infatti, Silla riempì Roma di stragi senza fine e senza limite.
Molte conquiste della plebe furono distrutte: i tributi non poterono esercitare il diritto di veto e proporre le leggi. Dopo quattro anni di dittatura Silla si ritirò a vita privata.
“C’é qualcuno” domandò al popolo convocato in piazza “che voglia chiedermi conto di quello che ho fatto?” Nessuno aprì bocca.

Storia di Roma I GRACCHI – La battaglia di Aquae Sextiae

Quando tutto fu pronto, Mario col grosso delle forze si accampò verso le foci del Rodano, in luogo forte, cinto di staccati e di fosso. Ecco arrivare finalmente i nemici, in numero quasi infinito
Mario ordinò che i legionari dall’alto dei terrapieni, a turno stessero ad osservare i nemici, in modo da assuefarsi al loro aspetto strano, alle loro voci spaventose: ottenne così che i Romani non soltanto temessero più d’attaccare battaglia, ma ogni giorno chiedessero ad alte grida che il console desse il segnale. Ed egli, impassibile, li frenava. Alfine i Teutoni s’impazientirono e da ogni parte, alla rinfusa, assalirono il campo romano, quasi per provare la forza d’animo dei difensori. Respinti dalla pioggia di saette, senza ritentar la prova e quasi disprezzando quel nemico trincerato, decisero di muovere senz’altro verso i passi delle Alpi, per ricongiungersi coi Cimbri e insieme passare in Italia. Levate le tende, i barbari si avviarono, sfilando, per derisione, lungo il campo di Mario.
Solo quando le retroguardie del nemico furono scomparse, verso oriente, Mario levò il campo e li seguì cautamente. Pensava non senza ragione, che durante la marcia il disordine sarebbe entrato più facilmente in quelle enormi masse indisciplinate. Quasi ogni giorno egli faceva prigionieri gruppi di ritardatari e di sbandati. Vicino ad Aquae Sextiae potè finalmente coglierne all’improvviso una grossa schiera di trentamila, separati da un canale e, con abile manovra, parte cacciarli giù nell’acqua, parte uccidere, parte inseguire fino al campo.
Il terzo giorno la tensione degli animi era diventata tale, che Mario ritenne miglior consiglio affrontare la prova. Trasse le legioni dagli steccati e le schierò su un pendio. L’ordine dato ai soldati era semplice: mantenere ad ogni costo l’ordinanza, aspettare i nemici a piè fermo e scagliare i giavellotti a giusta distanza; Mario, come sempre, combattè in prima fila, per dare esempio e coraggio.
Dopo una lunga lotta, i barbari si ritirarono per riprendere fiato; ma ecco, in quel mentre Claudio Marcello assalirli alle spalle. Alla inattesa vicenda, i Teutoni restarono un momento incerti; combattere su due fronti non era loro costume; credettero ad un tradimento, ad un  prodigio; la confusione entrò nelle loro file. Molti corsero verso il campo, ove avevano lasciato le mogli, i vecchi, i bambini.
Le legioni allora presero l’offensiva e si slanciarono con alte grida giù dal pendio. Nella battaglia all’arma bianca, come erano quelle dell’antichità, non vi era quasi scampo per gli sconfitti; quando incominciava la ritirata, era quasi la strage sicura. Più di centomila Teutoni furono distrutti in poche ore; in parte uccisi, in parte fatti prigionieri;  tutte le loro cose divennero bottino di guerra. (A. Valori)

Storia di Roma I GRACCHI – Le proscrizioni di Silla

Silla riempì Roma di stragi senza fine e senza limite. Molti che non avevano mai avuto nulla a che fare con lui, furono fatti mandare a morte per odi personali: egli lasciava fare per compiacere i suoi amici.

Silla proscrisse dapprima ottanta cittadini senza dare alcuna comunicazione ai magistrati: ciò provocò generale indignazione. Lasciò allora passare un giorno, ma poi ne proscrisse duecentoventi altri e il terzo giorno altrettanti. Parlando al pubblico, disse che aveva proscritto chi gli era venuto in mente e che in seguito avrebbe preso la medesima misura contro altri che gli fossero venuti a memoria.

Stabilì la pena di morte per chiunque avesse dato ospitalità o salvato un proscritto, anche se fosse stato fratello, figlio, genitore, e fissò un premio di due talenti per chi avesse ucciso uno posto al bando, fosse anche il servo a uccidere il padrone o il figlio a uccidere il padre.
Ciò che parve ingiusto al massimo fu l’avere Silla stabilito la perdita di ogni diritto e la confisca dei beni anche a danno dei figli o dei nipoti dei proscritti.
Le proscrizioni non furono limitate a Roma, ma furono estese a tutte le città d’Italia. Non vi fu tempio di divinità, focolare domestico o casa paterna rimasta monda dal sangue degli uccisi: erano trucidati i mariti accanto alle mogli, i figli presso le madri.

Il numero delle vittime per rancori e odi personali fu lungi dall’eguagliare quello degli uccisi a causa delle loro ricchezze. Gli assassinati avrebbero potuto ben dire che l’uno doveva la morte alla sontuosa abitazione, l’altro al suo giardino, l’altro ancora alle sue stanze. Quinto Aurelio, uomo inoffensivo e che non partecipava a tante calamità se non con il sentire compassione per le sventure altrui, recatosi al Foro vide il suo nome nella lista dei proscritti.

“Misero me” disse “è il mio podere l’Albano che mi perseguita”. Fece qualche passo, e fu assassinato da uno che si era messo a seguirlo. (Plutarco)

Storia di Roma I GRACCHI – Il dono di Caio Mario

Caio Mario si trovava presso Vercelli, quando gli si presentò un uomo ancora giovane, sano e robusto, ma lacero e sudicio. “Salve, illustre console!”, lo salutò il mendicante.
Mario rispose con rude cenno: “Che cosa vuoi?”.

L’uomo fu un po’ turbato da quel modo aspro di trattare; pure si fece coraggio e disse: “Vorrei chiederti aiuto. Tu vedi, o console, come sono povero”.
Mario corrugò la fronte, incrociò le braccia sul petto e, dopo averlo osservato attentamente, domandò: “Quanti anni hai?”
“Ne ho compiuti trenta un mese fa”
“Va bene. Torna domani  e ti darò un dono degno di me”.
Il mendicante si chinò davanti al capitano e gli volle baciare la mano, ma fu respinto: “Ricordati che le adulazioni non mi piacciono”.

Il misero se ne andò confuso. Il giorno dopo, di buon mattino, si presentò alla tenda del console. Mario, appena lo scorse, gli disse: “L’ora è assai propizia per il dono che ti faccio”, e gli mostrò un aratro dalla lama lucidissima e ricurva, che scintillava al sole. “Adoperalo dal biancheggiare dell’alba fino al rosso del crepuscolo, e ti assicuro che non sarai più povero”. (G. Visentini)

Storia di Roma I GRACCHI – Le province

I Paesi conquistati fuori dell’Italia peninsulare ebbero il nome di province. La prima fu la Sicilia.
A capo di ogni provincia vi era un governatore romano, proconsole e propretore, cioè console o pretore uscito di carica, che governava per un anno. Costoro, pur rispettando le usanze, i costumi, la religione degli indigeni, esigevano il pagamento dei tribuni imposti ad ogni provincia, comandavano le forze armate, facevano le leve e le requisizioni, giudicavano le cause civili e penali e sorvegliavano l’amministrazione regionale e locale. Naturalmente, per disimpegnare tutte queste funzioni, erano assistiti da un numeroso stuolo di funzionari.
Il governo romano fu in generale benefico: nei paesi quasi barbari dell’Europa occidentale (Gallia e Spagna) portò la sua civiltà; nelle province del Mediterraneo orientale pose fine alle lotte che rovinavano quei popoli.

Storia di Roma I GRACCHI – Le colonie

Nelle terre di recente conquista i Romani fondavano colonie. Era scelto un luogo che fosse ben difeso per natura: alla confluenza di fiumi o su alture che dominassero vaste regioni. I coloni erano quasi tutti soldati romani che si trasferivano con le loro famiglie nel luogo prescelto. Ognuno di essi aveva in proprietà un pezzo di terra. I coloni continuavano ad essere soldati, cittadini di Roma. Potevano andare a Roma ad esercitare i loro diritti; accorrevano alla chiamata nell’esercito di Roma.
Erano dunque ben diverse queste colonie da quelle fenicie e greche, che erano indipendenti dalla Madre Patria. I diritti di cittadinanza romana, di cui godevano i coloni, erano incitamento ai vicini per meditare anch’essi quei diritti con la fedeltà e la devozione a Roma.

Storia di Roma I GRACCHI – Come i Romani fondavano una colonia

La fondazione delle colonie romane si facevano tracciando due strade principali in croce, da nord a sud l’una e da est a ovest l’altra.
Parallelamente a queste si tracciavano le altre strade. Molte nostre città conservano in modo evidente ancor oggi questa impostazione, che risale alla fondazione di una colonia romana. Torino con la sua pianta quasi geometrica si può considerare come un modello di colonia romana, con le sue ampie strade, rettilinee, che si incrociano tutte ad angolo retto. Del resto nella fondazione di una colonia i Romani rispettavano le stesse norme che essi usavano nel porre un accampamento, e molto spesso l’accampamento, e molto spesso l’accampamento a carattere permanente si trasformava col tempo in un vero e proprio villaggio, poi in città.

Storia di Roma I GRACCHI – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

La prima guerra punica: l’occasione del conflitto

L’0ccasione del conflitto coi Cartaginesi di presentò dieci anni dopo la partenza di Pirro dall’Italia. Bande di mercenari campani, detti Mamertini (ossia “uomini Mamers”, da Marte, dio della guerra), assoldate da Agatocle, tiranno di Siracusa, dopo la morte di questo si erano impossessate a tradimento di Messina, trucidandone gli abitanti, e di lì minacciavano varie località dell’isola. Un ufficiale siracusano, Gerone, che li sconfisse, fu acclamato re di Siracusa.
Ripresa la guerra, egli ambiva a occupare Messina, e a tale scopo si era alleato coi Cartaginesi, che lo prevennero, introducendo un loro presidio nella rocca. I Mamertini, stretti tra due fuochi, chiesero allora la protezione di Roma, signora della vicina Reggio.
Il Senato esitò a lungo: sentiva di offuscare il buon nome e la fede tradizionali, aiutando dei mercenari crudeli e invadendo un territorio che Cartagine considerava propria zona di influenza. Ma il popolo romano sentiva che se lo stretto di Messina fosse casuto nelle mani dei Cartaginesi, la sicurezza della penisola era minacciata. La Sicilia sarebbe diventata, come scrisse lo storico Polibio, il ponte di passaggio per i Cartaginesi in Italia. Cartagine era ormai incontrastata padrona del Mediterraneo occidentale e, col possesso delle tre maggiori isole e l’alleanza coi Galli della Provenza e coi Liguri, avviluppava tutto il Tirreno.
Perciò il console Appio Claudio, autorizzato da un decreto del popolo, assai probabilmente contro il parere dei Senatori, nell’estate del 264 aC varcò lo stretto e Messina fu occupata. Dopo i primi successi romani, Gerone si staccò dall’alleanza cartaginese, schierandosi a fianco di Roma, sotto la cui protezione si posero molte città siciliane.
Così il conflitto, inizialmente limitato a Messina, si estese a tutta l’isola.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La prima flotta romana

Si presentava a Roma questo imperativo: diventare una grande potenza anche sul mare. Era uno sforzo non facile, per una città essenzialmente continentale, che non aveva mai tentato avventure marinare e aveva rifuggito fino allora dei commerci oltremarini.
Ma la fortuna di Roma e il segreto della sua grandezza erano nella sua indomita volontà, nella sua fermezza di propositi, nella sua eroica disciplina.
La leggenda ha inventato favole strane: essa dice che le navi furono fatte a Ostia e ad Anzio, e che i marinai si allenavano al remo sulla spiaggia; in due mesi si sarebbero avute così centoquarantaquattro triremi.
I Romani erano invece navigatori prima delle guerre puniche, come mostra il trattato del 509 o del 384 aC con Cartagine… i Romani poi non avevano bisogno di ciò avendo conquistato l’Italia meridionale con città come Taranto: essi avevano modo di prendere, con la forza o con il denaro, da questi paesi, navi con tutto l’equipaggio. Quindi la flotta del 260 aC fu forse costruita ad Ostia ed Anzio per ordine del Senato, ma fu anche costruita con l’ausilio delle città costiere dell’Italia meridionale e dell’Etruria.
La formazione della flotta del 260 aC segna l’inizio delle lotte terribili per il predominio del Mediterraneo. Essa era formata di centoventi quinqueremi e tatticamente seguiva l’antica formazione a triremi. (A. Silva)

La prima guerra punica

Dopo la guerra combattuta contro Pirro, terminata con la conquista di Taranto e della circostante regione salentina, Roma divenne la più potente città d’Italia; essa dominava ormai tutta la Penisola e i suoi eserciti erano invincibili.
Sulle coste settentrionali dell’Africa, ove oggi sorge Tunisi, proprio di fronte alla Sicilia, vi era Cartagine, ricca e potente città, padrona di tutti i traffici marittimi del Mediterraneo. I Cartaginesi possedevano una potente flotta e avevano fondato delle colonie in Sardegna e in Sicilia. Roma ormai grande e potente, spingeva le sue navi sullo stesso mare.
I Cartaginesi, che vedevano mal volentieri il continuo crescere della potenza romana, cercavano di ostacolarla in tutti i modi. La guerra tra le due potenti rivali scoppiò quando Roma tentò di conquistare la Sicilia.
I Romani, fino allora, avevano combattuto soltanto per terra. Ora incontravano un nemico che aveva la sua forza sul mare, e sul mare bisognava batterlo. In due mesi costruirono una flotta si centoventi navi e al affidarono al comando del console Caio Duilio. Il console conosceva la superiorità dei nemici e trovò il modo di trasformare il combattimento da navale a terrestre. Armò gli scafi con una specie di ponte lavatoio munito di ganci, detti corvi, e li mandò ad assalire la flotta nemica che avanzava, sicura di sè, quasi senza schierarsi. Le navi romane affiancarono le cartaginesi; i corvi agganciarono i bordi e i fanti balzarono sul ponte nemico sorprendendo  e sgominando gli avversari. Lo scontro avvenne nelle acque di Milazzo e fu la prima vittoria navale dei Romani.
Roma, imbaldanzita dal successo, decise di portare la guerra sul territorio nemico. Una poderosa flotta di navi sbarcò i soldati romani davanti a Cartagine. Presto, però, essi furono indeboliti dal caldo, dalla sete e dagli scarsi rifornimenti. I nemici li assalirono con vigore disperato, li sconfissero e presero prigioniero lo stesso comandante romano, il console Attilio Regolo.
Pur avendo riportato una vittoria importante, i Cartaginesi temevano la rivincita di Roma ed erano stanchi della guerra: preferivano i loro ricchi commerci al rischio delle armi. Decisero, perciò, di lasciar libero sulla parola Attilio Regolo. Egli doveva recarsi a Roma e ottenere buone condizioni di pace; in caso di fallimento della missione, sarebbe ritornato in Africa, prigioniero.
Il console venne a Roma e, in Senato sconsigliò i concittadini a trattare con il nemico: Cartagine non avrebbe potuto resistere a lungo a nuove battaglie. Poi ritornò volontariamente nelle mani dei Cartaginesi, i quali lo fecero morire rotolandolo in una botte irta di chiodi.
La guerra riprese per terra e per mare e terminò nel 241 aC, con la vittoria dei Romani. Essi tolsero a Cartagine i possedimenti in Sicilia, e in seguito quelli della Sardegna e della Corsica. La campagna vittoriosa si disse “prima guerra punica”; i Romani, infatti, chiamavano Puni (Fenici) gli abitanti di Cartagine.

Caio Duilio

A questo complesso di navi da battagli Roma diede un comandante degno della gravità del compito che lo attendeva: il console Caio Duilio.
Lo scontro avvenne nella primavera del 260, nelle acque di Milazzo: Duilio riportò la prima grande vittoria navale dei Romani, sgominando la ben più numerosa armata cartaginese, e catturando ben cinquanta vascelli nemici, tredici affondandoli, e facendo inoltre settemila prigionieri.
Si dice che una gran parte del merito della vittoria fosse dovuto a un geniale arnese applicato dai Romani al bordo delle loro navi: il corvo o raffio, una specie di enorme uncino che veniva gettato sulla nave avversaria, obbligandola ad accostarsi, e provocando così un combattimento quasi terrestre. Naturalmente però la vittoria fu specialmente merito della genialità di Duilio e del valore dei soldati romani.
L’eco della sconfitta subita a Milazzo da Cartagine fu tale, che la sua potenza cominciò da allora a declinare. Pareva impossibile al mondo che Roma avesse potuto sconfiggere la potentissima armata dei Punici. Eppure questo trionfo segnava l’inizio della politica di espansione dell’Urbe oltre i confini territoriali della Penisola; e a Caio Duilio, che ad esso aveva legato il suo nome, il Senato e la cittadinanza romana tributarono onori trionfali.
A ricordo di quella vittoria fu elevato nel Foro una colonna rostrato, che esiste in parte ancor oggi.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Vita di Cartagine

Cartagine era stata fondata sessantun’anni prima di Roma dai Fenici e fu per molti secoli il centro dei commerci che si svolgevano nel Mediterraneo. I ricchi abitavano case a sei piani (veri grattacieli, per quell’epoca!) e avevano fatto costruire templi con colonne rivestite d’oro e d’argento, ornati di statue d’oro massiccio.
I Cartaginesi, come altri popoli di origine orientale, adoravano le divinità offrendo loro quanto di più caro avevano, persino vittime umane.
Nel porto militare di Cartagine potevano mettere l’ancora anche duecento navi. Al centro, era stata allestita un’isola artificiale, dalla quale gli ammiragli passavano in rassegna la flotta.
A Cartagine non c’era democrazia: il potere era nelle mani dei mercanti più ricchi. La città traeva grandi guadagni anche dalle industrie e dall’agricoltura.

Potenza di Cartagine

Cartagine, una colonia fenicia, sorgeva sulla costa settentrionale dell’Africa, presso l’odierna Tunisi, in una felice posizione geografica, a poca distanza dalla Sicilia, con un ottimo porto naturale.
Essa era riuscita a strappare ai Greci della Sicilia e della Magna Grecia e agli Etruschi il primato commerciale sul Mediterraneo occidentale, fondando colonie sulle coste dell’Africa settentrionale, nella Spagna meridionale, in Corsica, in Sardegna e nella Sicilia occidentale.
I Cartaginesi verso il 280 aC erano padroni di quasi tutta la Sicilia, tranne del territorio intorno a Messina e della costa orientale soggetta a Siracusa.

Le navi da guerra prima delle guerre puniche

Le navi da guerra di quell’epoca erano mosse a vela e a remi; erano munite a prua di speroni ferrati, i rostri, mediante i quali potevano speronare e affondare le navi nemiche.
Una battaglia navale richiedeva coraggio e intelligenza, e marinai svelti ai remi, alle vele, al timone. Le navi si rincorrevano sul mare azzurro e cercavano di raggiungersi. Quando due navi erano vicine, la più agile di esse puntava la prua armata di rostro contro l’altra, la squarciava e la affondava.

Caio Duilio

Roma era ormai una grande potenza terrestre; i suoi soldati avevano dimostrato di saper combattere con ineguagliabile valore e di saper vincere. Ma cosa sarebbe successo in uno scontro navale?
I Cartaginesi erano provetti marinai e da secoli avevano una flotta militare ben fornita; i Romani erano ancora ai primi passi. Ma l’ingegno di Caio Duilio supplì a tale inferiorità di Roma. Egli era console quando scoppiò la guerra tra Roma e Cartagine. Ordinò allora che venissero costruiti i corvi, speciali ponti per ogni nave romana; sull’altro lato erano infissi degli enormi uncini. Questi ponti, detti corvi, avrebbero agganciato la nave nemica, costringendo l’equipaggio a una lotta corpo a corpo. Con tale accorgimento, Caio Duilio affrontò le navi di Cartagine nelle acque di Milazzo, in Sicilia, e ottenne la piena vittoria.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Attilio Regolo

Dopo la vittoria di Milazzo, i Romani sbarcarono sulla costa africana. L’esercito romano era comandato da Attilio Regolo, il quale, sconfitto, cadde prigioniero dei Cartaginesi.
Condotto nella città nemica, gli venne dato l’incarico di ritornare a Roma, come ambasciatore. Egli doveva persuadere i Romani a fare la pace. Se fosse riuscito a convincere i senatori alla pace, sarebbe stato salvo. Se no, doveva tornare a Cartagine, dove l’avrebbe atteso una straziante morte.
Attilio Regolo accettò l’incarico e diede la sua parola d’onore di tornare a Cartagine nel caso di insuccesso.
Giunto a Roma, invece di consigliare i Senatori a far pace con Cartagine, egli disse di continuare la guerra. “Il momento è propizio”, disse Attilio Regolo, “i Cartaginesi hanno perduto gran parte della loro flotta e si sentono deboli. Bisogna dunque insistere, per avere la vittoria”.
Quando fu sicuro di avere convinto tutti i Senatori, si dispose al ritorno a Cartagine, dove l’attendeva sicura morte.
Tutti lo sconsigliavano di partire. I familiari lo trattenevano, piangendo. Ma egli diceva: “Un Romano ha una parola sola. Io ho dato la mia. Ho promesso di ritornare e devo mantenere la promessa fatta al nemico anche se mi costerà la vita”.
E partì. Tra l’ammirazione e il dolore di tutta Roma.
I Cartaginesi non seppero apprezzare la grandezza d’animo di questo grande Romano. Erano un popolo ricco ma crudele, che non capiva i gesti generosi degli eroi.
Attilio Regolo fu chiuso in una botte, irta di chiodi sporgenti nell’interno. La botte venne fatta rotolare lungo i fianchi di un monte.
La morte di Attilio Regolo fu dolorosa, ma servì da esempio, per dimostrare che i Romani erano uomini d’onore.

Come si concluse la prima guerra punica

La prima guerra punica si concluse con la vittoria di Roma: i Cartaginesi perdettero la Sicilia, che divenne così la prima grande provincia romana. A Roma, nel Foro, venne eretta la colonna rostrata, decorata cioè con i rostri delle navi catturate al nemico.

Le navi romane

A contatto con i Cartaginesi, di cui furono acerrimi rivali, i Romani si fecero esperti marinai e potenziarono la loro flotta. Le navi romane erano costruite con lunghe tavole di pino e di abete, unite con chiodi di legno e coperte all’esterno di lana intrisa nel catrame, su cui era stesa una lastra di piombo.
Le navi da guerra erano lunghe e sottili, spinte da due, tre, e perfino cinque file di remi: si dicevano perciò biremi, triremi e quinqueremi. Invece le navi da trasporto, cariche di olio, vino, cereali, bestiame, erano larghe, possenti, più lente.
Possedevano un’ampia vela quadrata e tenevano legata a rimorchio quasi sempre una scialuppa di salvataggio, chiamata scafo. Un marinaio di vedetta stava attento a che non si riempisse di acqua e affondasse. Navigavano solo di giorno e poco d’inverno. Durissima era la disciplina imposta ai marinai.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La seconda guerra punica

I Cartaginesi erano ancora molto forti. Essi volevano tornare ad essere padroni del mare, e dopo qualche anno Roma e Cartagine erano di nuovo in guerra fra loro.
I Cartaginesi misero a capo del loro esercito un grande generale, che si chiamava Annibale. I Romani sorvegliavano il mare tra Cartagine e la Sicilia perchè pensavano che i Cartaginesi sarebbero passati di lì per muovere contro Roma. Invece Annibale ancò in Spagna e poi, attraverso la Francia, arrivò ai piedi delle Alpi per cogliere di sorpresa i Romani.
Attraverso le Alpi non c’erano strade. Le montagne erano coperte di boschi, di neve o di ghiaccio. Sulle montagne abitavano popolazioni selvagge, che tendevano imboscate a tutti coloro che capitavano nelle loro terre. Per valicare le Alpi, Annibale dovette aprirsi una nuova strada e, al tempo stesso, combattere  i montanari nemici. Ma riuscì ugualmente ad attraversare le montagne con tutto il suo esercito, con i carri, i cavalli e persino con alcuni elefanti, che erano un po’ i carri armati di quel tempo.

Perchè scoppiò la seconda guerra punica

Cartagine, benchè sconfitta, non si dette mai per vinta e cercava un pretesto per poter riprendere la guerra contro Roma. Troppo forte era il desiderio di rivincita, di tornare padrona assoluta del Mediterraneo e di rioccupare le tre grandi isole della Sicilia, della Sardegna e della Corsica.
L’occasione venne dopo alcuni anni di pace, quando i Romani accorsero in difesa di Sagunto, una città della Spagna assalita dai Cartaginesi. Questi, nonostante l’intervento, non tolsero l’assedio ed ebbe così inizio la seconda guerra punica.

Vittorie di Annibale

Mentre i Romani sorvegliavano il mare, l’esercito di Annibale apparve all’improvviso, come per miracolo, nella pianura padana. L’esercito romano si mosse rapidamente per affrontare il nemico, ma i soldati di Roma arrivarono stanchi e spaventati e combatterono debolmente contro l’esercito di Annibale.
I Cartaginesi vinsero una prima volta presso il fiume Ticino. Allora i Romani si ritirarono un poco più a sud. Sulle rive del fiume Trebbia ci fu un’altra battaglia; i Cartaginesi vinsero anche questa. Allora i Romani si ritirarono ancora fin quasi alle soglie di Roma.
Questa volta erano decisi a vincere e, quando seppero che Annibale si trovava presso il lago Trasimeno, si misero in marcia anch’essi verso il lago. Ma Annibale, sentendo avvicinarsi i Romani, finse di ritirarsi, nascondendosi invece con il suo esercito sulle colline che dominavano il lago, favorito anche da una fitta nebbia.
L’esercito romano che lo inseguiva fu assalito all’improvviso mentre avanzava lungo le rive del lago, così anche nella battaglia del lago Trasimeno i Romani furono battuti.
Annibale pensava che alla fine i Romani si sarebbero arresi, ma questi perdevano le battaglie e non si arrendevano. A Canne, in Puglia, i Romani furono sconfitti ancora una volta. Annibale finse di ritirarsi e fu inseguito dai Romani che rimasero così circondati. Morirono tanti Romani che Annibale, dopo la battaglia, fece raccogliere tre cesti di quegli anelli d’oro che i patrizi portavano al dito.

Consuetudini di Annibale

Pur essendo generale Annibale conduceva una vita durissima. Nel dormire e nel vegliare non faceva nessuna differenza tra la notte e il giorno; dava al riposo soltanto il tempo che gli rimaneva dopo aver compiuto il suo lavoro, e non cercava, per dormire, ne la morbidezza del letto ne il silenzio. Più volte fu visto giacere a terra fra le guardie e i cocchi dei soldati, coperto di un semplice mantello.

Ritratto di Annibale

Audacissimo nelle imprese rischiose, ma prudentissimo nei pericoli, Annibale non poteva essere stancato da nessuna impresa e da nessuna fatica. Poteva indifferentemente sopportare il caldo e il freddo. Moderato nel bere, non mangiava oltre la necessità; non aveva limiti nella veglia e al sonno concedeva solo il tempo minimo necessario. Non si distingueva dagli altri soldati per le vesti, ma per le armi e per i cavalli; primo fra tutti i fanti e i cavalieri nell’avviarsi alla battaglia, ultimo nell’allontanarsi. Ma a tale somma di virtù corrispondevano altrettanto difetti: crudele fino ad essere disumano, perfido, menzognero e spergiuro, non aveva timore degli dei ne rispetto per gli uomini. (da Livio)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Annibale

Questa volta Cartagine ebbe la fortuna di contare su un abilissimo e coraggioso generale: Annibale.
Pochi comandanti lasciarono nella storia antica una fama pari a quella lasciata dal grande Cartaginese. Egli era veramente un uomo straordinario, che dedicò la sua vita per la grandezza della patria.
Da giovane, in compagnia del padre, aveva combattuto in Spagna contro i Romani. Il padre, prima di morire, aveva fatto giurare eterno odio a Roma. Era molto coraggioso, forte, ardito e sprezzante di ogni pericolo; dormiva poco e lavorava moltissimo.
Passava giornate intere con i suoi soldati tra stenti e fatiche, sempre pronto ad impegnare battaglia con il nemico. Faceva lunghe ed estenuanti marce, spesso sopportando la fame e la sete. Vestiva assai modestamente. In guerra era sempre il primo ad avanzare contro il nemico e l’ultimo ad abbandonare il campo di battaglia.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il piano di Annibale

Annibale attuò un piano molto audace: dalla Spagna, attraverso le Alpi, giunse in Italia e piombò di sorpresa addosso ai Romani. Cinque mesi durò il viaggio di Annibale dalla Spagna in Italia, e quindici giorni furono necessari per passare le Alpi. Con un esercito numeroso il generale cartaginese superò difficoltà di ogni genere, camminando per dirupi scoscesi, in mezzo alla neve e al ghiaccio, combattendo una guerriglia insidiosa contro i montanari. Molti soldati morirono per la strada. Le bestie, elefanti e cavalli, erano sfinite per la fame, perchè lassù mancavano i pascoli. La discesa fu più difficile della salita, ma alla fine l’esercito cartaginese raggiunse la Pianura Padana.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Furbizia di Annibale

Annibale, il grande nemico dei Romani, non solo sapeva combattere bene, ma conosceva mille furbizie e spesso le usava durante la guerra.
Una volta doveva combattere per mare contro un re che era alleato dei Romani. Questo re era molto più forte di lui, bisognava vincerlo con l’inganno, con l’astuzia. Annibale, allora, chiamò a raccolta i marinai e disse loro: “Amici, raccogliete dei serpenti velenosi vivi, quanti più ne potete trovare, e chiudeteli in vasi di coccio. Poi, quando si attaccherà battaglia, venite dietro a me, e assaliremo tutti insieme la nave del re”.
“E che faremo dei vasi di coccio?”
“Li getteremo sulle navi nemiche quando ci verranno addosso!”
“Bene, comandante. Ma come sapremo qual è la nave del re?”
“Ci penso io!”
Infatti, poco prima della battaglia, quando le due flotte erano schierate l’una di fronte all’altra, Annibale mandò un araldo, in una barchetta, in mezzo alla flotta avversaria.
“Ehi, tu, che cerchi?”, gli domandarono.
“Cerco il re: devo consegnargli questa lettera da parte di Annibale”.
Lo guidarono alla nave ammiraglia e i marinai di Annibale, che stavano a vedere, capirono così quale era e dove si trovava. Il re aprì la lettera: credeva che vi fossero delle proposte di pace, invece non trovò che delle parole di beffa!
Allora ordinò che si cominciasse a combattere. Subito le navi di Annibale assalirono quella del re da ogni parte e la costrinsero a fuggire, poi i marinai presero a gettare i vasi di coccio sulle altre navi nemiche. E i serpenti velenosi si sparsero sulle tolde avversarie portando lo spavento e la morte.
Così Annibale, con pochi uomini e molta furberia, sconfisse una potente flotta.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Gli elefanti di Annibale

Gli elefanti di Annibale, quando egli mosse dalla Spagna per venire ad invadere l’Italia, arrivati sulle rive del fiume Rodano non volevano più marciare. “Arrilì! Arrilà!” urlavano i conducenti, incitandoli e punzecchiandoli, “Va lì! Va lì! Ih! Oh! Su!” … ma era lo stesso che parlare al muro. Quegli enormi bestioni si erano impuntati, e non c’era verso di smuoverli.
E tutto l’esercito stava fermo; e Annibale, per cui ogni giorno voleva dire qualcosa, andava su e giù con il frustino, ed era assai inquieto e contrariato.
“Arrilì! Arrilà! Arrisù! Arrigiù! Che i tristi Numi vi fulmino, maledette bestiacce! Ih! Ih! Ih! Là!”
Si provarono anche a spingerli… sì! Ma era meglio dover spingere una montagna! Gli elefanti non si spostavano di un passo; cominciarono anzi a recalcitrare, alzando minacciosamente le proboscidi e guardando male con quegli occhietti furbi e feroci, pestando nervosamente la terra coi piedi.
E’ inutile! Ormai, e chi sa perchè, si erano spaventati dell’acqua e si erano intestarditi di non passare, e non passavano. Forse il giorno dopo…
Ma Annibale non voleva aspettare fino al giorno dopo!
Egli chiama un fantaccino e gli chiede: “Sei tu che sai nuotare come un pesce?”
“Lo dicono i miei compagni, capitano”
“Allora vieni qui! Piglia un bastone!”
Il fantaccino raccatta un bastone.
“Vieni con me!” gli dice Annibale. Lo conduce presso un elefante, il primo della fila, sulle rive del fiume: “Stai attento!” gli dice Annibale “Quando io ti darò il segno, appena ogni conducente sarà a posto, vicino alla sua bestia, tu da’ una bastonata nel ceppo dell’orecchia a questo elefante”
“Ma io… capitano…”
“Non sai dare una bastonata?”
“Le bastonate le so dare, me è questione…”
“Di che hai paura?”
“Gli è che l’elefante, se io gli dò una bastonata, mi afferra con la proboscide e mi scaraventa contro un albero, oppure mi mette sotto i piedi!”
“E tu” lo guarda maliziosamente Annibale, “non sai nuotare?”
“Sì”
“Buttati allora subito a nuoto, e nuota!”
“E se l’elefante…”
“Via!” comandò Annibale. Quando Annibale comandava non c’era da far altro che obbedire.
“Voi!” comandò poi anche agli altri conducenti, “State pronti a mandar avanti gli elefanti!” e al fantaccino: “A te! Via!”
Il povero disgraziato si avvicina alla prima bestia della fila, col bastone dietro la schiena, fingendo di non capire. Sta lì un poco, tanto che l’elefante si svii da ogni sospetto. Intanto guarda l’acqua del fiume, per misurare ad occhio la distanza e per contare i balzi che gli ci vogliono per tuffarsi. Con un occhio guarda il Rodano, e con quell’altro l’elefante. A un tratto, quando questo meno se lo aspetta, alza il bastone e gli dà una gran bastonata nell’orecchia, così forte, che l’orecchia dell’animale rimbomba con  uno schiocco e uno scoppio.
Numi del firmamento! L’elefante dà un barrito tremendo; drizza la proboscide; il fantaccino si è gettato in acqua; l’elefante, che non perdona, si butta in acqua anche lui.
“Arrilì! Arrilà!” urlano i conducenti agli altri elefanti. Questi, vedendo il primo che si è buttato, gli vanno dietro come pecore…
Così, in men che non si dica, furono tutti sull’altra riva.
“Avanti!” potè allora trionfalmente ordinare Annibale, rimontando  a cavallo. E l’esercito proseguì, marciando verso le Alpi e contro l’Italia. (R. Maurizi)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE  L’ardimento di Scipione giovinetto

Annibale, attraversate le Alpi, marciava su Roma; il pericolo era grave ed imminente. L’esercito romano era comandato da un valoroso console che aveva con sè il figlio diciassettenne, il quale aveva voluto seguire per la prima volta il padre in guerra. La battaglia si accese lungo le sponde del fiume Ticino. Dopo accanito combattimento la cavalleria cartaginese riuscì a travolgere le schiere romane.
Il console stesso, ormai circondato, stava per cadere nelle mani del nemico, quando una voce echeggiò sul campo. Era il figlio del console che d’un balzo si era avvicinato al padre ormai in pericolo e, facendogli scudo col proprio corpo, riusciva  a portarlo in salvo.
Mirabile esempio di ardimento e di amor filiale. Quel giovinetto era Scipione, il futuro vincitore di Annibale.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia del Trasimeno

Annibale si accampò nella pianura, tra il lago Trasimeno e i monti di Cortona, e collocò il grosso del suo esercito sulle pendici dei monti, nascondendo la cavalleria ai piedi di certe alture vicine, per tenerla pronta a sbarrare il passo ai Romani. Infatti i Romani, appena furono entrati in campo, si sentirono improvvisamente attaccare da tutte le parti prima ancora che potessero trar fuori le spade.
Il console Flaminio tentò di riordinare i soldati sbigottiti, ma una fitta nebbia levatasi dal lago impediva la visuale, tanto che era impossibile riconoscere le bandiere, mentre il rumore ed il tumulto impedivano di udire gli ordini trasmessi. Ogni soldato si trovava così a combattere secondo il proprio ardore e talento.
La zuffa durò per ben tre ore, aspra ovunque ma soprattutto intorno al console, il quale fu passato da parte a parte dalla lancia di un cavaliere che Annibale aveva arruolato in Gallia.
Nella battaglia morirono 15.000 Romani; 10.000 furono i dispersi. Dei nemici 1.500 rimasero morti sul campo. (da Livio)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Annibale ha paura

Dopo le vittoriose battaglie al Ticino, alla Trebbia e al Trasimeno, parve che Annibale volesse marciare su Roma; invece deviò verso l’Adriatico e si spinse nell’Italia meridionale. Roma era una città fortificata, cinta da colonie romane e latine fedeli: bisognava prenderla d’assalto e non con l’assedio: ma Annibale non aveva le macchine necessarie e temeva sorprese alle spalle.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il “Temporeggiatore”

Quinto Fabio Massimo fu detto il “Temporeggiatore” perchè la sua tattica era quella di stancare ed indebolire il nemico rimandando il più possibile la battaglia finale.
I soldati romani correvano verso le campagne, sorprendevano alla spicciolata le pattuglie nemiche, molestando i carriaggi e i trasporti ma si ritiravano appena appariva il grosso dell’esercito; essi non dovevano in nessun caso accettare battaglia in campo aperto, perchè i nemici erano più forti e numerosi.
Il piano di Fabio Massimo era semplice: bisognava logorare le forze dei Cartaginesi, finchè essi, sfiniti, non avessero ceduto.
Questo modo di fare la guerra, però, non soddisfò i Romani; essi erano ansiosi di combattere in campo aperto col nemico e perciò il dittatore venne presto destituito.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Fabio Massimo e i buoi di Annibale

Il dittatore Quinto Fabio Massimo era riuscito a rinchiudere in una specie di vicolo cieco, tra il fiume Volturno, il monte Callicula e il passo di Casilino, i Cartaginesi. Egli si riprometteva di sterminarli l’indomani all’alba. Ma Annibale, nella notte, radunati tutti i buoi che seguivano il suo esercito come vettovagliamento, fece legare sulle corna di ognuno un fascio di sarmenti. Poi ordinò di dar fuoco a quei fasci e di spingere gli animali terrorizzati verso il valico. Quello strano fiume ardente ruppe lo sbarramento romano e dilagò nella pianura. Soltanto all’alba i Romani si accorsero che, dietro la mandria, se ne era andato anche l’esercito cartaginese.
Quinto Fabio Massimo perse così una facile occasione per distruggere l’esercito nemico.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE La battaglia di Canne

Due furono le astuzie che Annibale usò a Canne. La prima fu nella scelta della posizione, per cui schierò i soldati con le spalle al vento il quale gettava la polvere negli occhi dei Romani; la seconda fu nel modo di schierare i suoi uomini. Mise alle due ali i più forti e valorosi, i più deboli nel centro, disponendoli a cuneo in modo che essi precedessero i più validi. Al quali ordinò che non appena i Romani avessero messo in fuga il centro penetrando così nel vuoto lasciato i dai fuggiaschi, essi li assalissero di fianco, li aggirassero, chiudendoli in una sacca. E così vinse.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia di Canne

Mentre a Roma si facevano i preparativi per la prossima campagna, era già incominciata la guerra nell’Apulia. Appena la stagione permise di abbandonare i quartieri d’inverno, Annibale si mosse, e prendendo, com’era sua abitudine, egli stesso l’iniziativa della guerra e l’offensiva, partì da Geronio, dirigendosi verso sud; lasciando da un lato Lucera, passò l’Ofanto e pree il castello di Canne (tra Canosa e Barletta) che dominava il piano canosino, e che fino allora aveva servito da magazzino principale dei Romani. L’esercito romano, il quale, dopo che Fabio ebbe deposta a metà d’autunno, a norma della costituzione, la carica di dittatore, era stato posto sotto il comando di Gneo Servilio e di Marco Regolo, prima come consoli, poi come proconsoli, non aveva saputo impedire quella piccola perdita.
Sia per riguardi militari sia per riguardi politici diveniva sempre più urgente la necessità di mettere un freno ai progressi di Annibale, per mezzo di una battaglia campale. Con questo preciso incarico del Senato giunsero all’Apulia i due nuovi generali Paolo e Varrone sul principio dell’estate 538 di Roma (corrispondente al 216 aC). Con le quattro nuove legioni e col corrispondente contingente degli Italici che essi portatono con sè, l’esercito romano ammontava a 80.000 fanti, metà cittadini e metà federati, ed a 6.000 cavalieri, un terzo cittadini e due terzi federati. L’esercito di Annibale invece vantava 10.000 cavalieri, ma soltanto 40.000 fanti.
Annibale desiderava ardentemente una battaglia non solo per i motivi generali già accennati, ma anche perchè la grande pianura dell’Apulia gli permetteva di utilizzare tutta la superiorità della sua cavalleria e perchè il mantenimento del suo grande esercito, stabilito vicino ad un eservito di piazzeforti, ben presto, nonostante la superiorità della cavalleria, gli sarebbe riuscito difficile.
Anche i capi dell’esercito romano erano, come dicemmo, in generale decisi di azzuffarsi e perciò si avvicinavano al nemico; ma i più avveduti, conoscendo la posizione di Annibale, volevano che si aspettasse e si prendesso soltanto posizione vicino al nemico per obbligarlo a ritirarsi o ad accettare battaglia su un terreno meno favorevole.
Annibale accampava presso Canne, sulla riva destra dell’Aufidus. Paolo mise il suo campo sulle due rive del fiume, in modo che la forza principale fosse sulla riva sinisra, ma un forte corpo prendeva pure posizione immediata sulla riva destra immediatamente di fronte al nemico, per impedirgli il vettovagliamento, e forse anche per minacciare Canne. Annibale, al quale premeva di venire presto a battaglia, attraversò il fiume col grosso delle sue truppe, e offrì battaglia sulla riva sinistra, ma Paolo non accettò.
Ma al console democratico spiacque questa pedanteria militare; si era detto tanto di voler entrare in campagna non per starvi a far da sentinella, ma per adoperarvi le spade! Egli comandò di marciare sul nemico dovunque lo si trovasse. Per l’antico costume, stoltamente conservato, il voto preponderante nel consiglio di guerra si avvicendava ogni giorno tra i due supremi comandanti: fu quindi necessario adattarsi alla volontà dell’eroe della piazza.
Sulla riva sinistra, dove l’ampio campo offriva buon gioco alla preponderante cavalleria del nemico, neppure egli voleva battersi; ma decise di riunire tutte le complessive forze romane sulla riva destra, prendendo posizione fra il campo cartaginese e Canne, e offrir battaglia minacciando seriamente la città.
Una divisione di 10.000 uomini rimase nell’accampamento principale romano, con l’ordine di impadronirsi del campo cartaginese durante il combattimento, tagliando così all’esercito nemico la ritirata oltre il fiume. Il grosso dell’esercito romano, coll’albeggiare del 2 agosto secondo il calendario nonriformato, forse nel mese di giugno secondo il calendario riformato, passò il fiume, scarso d’acqua in quella stagione, e che non impediva molto i movimenti delle truppe e si ordinò in linea all’occidente di Canne, vicino al campo minore romano, cui si appoggiavano tanto l’ala destra dei Romani, quanto l’ala sinistra dei Cartaginesi. La cavalleria romana stava ai lati, quella della milizia cittadina, meno valida e comandata da Paolo, a destra del fiume; quella dei confederati, più valida, a sinistra verso la pianura era guidata da Verrone. La fanteria in linee molto profonde comandate dal proconsole Gneo Servilio componeva il centro.
Annibale dispose la sua fanteria in semicerchio di fronte a quella dei Romani e in modo che le truppe celtiche ed iberiche, con la loro armatura nazionale, formassero il centro avanzato; le libiche, armate alla romana, le due ali ripiegate. Verso il fiume si spiegò tutta la cavalleria pesante sotto gli ordini di Asdrubale; verso la pianura la cavalleria leggera numidica.
Dopo un lieve combattimento di avamposti fra le truppe leggere, tutta la linea si trovò impegnata nel combattimento. Dove combatteva la cavalleria leggera dei Cartaginesi contro la cavalleria pesante di Varrone, le cariche dei cavalieri numidici si succedevano le une alle altre senza riuscire a un risultato decisivo. Nel centro invece le legioni respinsero del tutto le truppe iberiche e le galliche che prima scontrarono, e approfittando del vantaggio ottenuto, le inseguirono animosamente.
Ma intanto la fortuna aveva volto le spalle ai Romani sull’ala destra. Annibale aveva solo voluto tenere occupata l’ala sinistra della cavalleria nemica, perchè Asdrubale potesse spiegarsi con tutta la cavalleria regolare contro la debole ala destra e respingerla per la prima. Dopo una breve resistenza i cavalieri romani piegarono e quelli che non furono tagliati a pezzi, furono cacciati all’insù del fiume e dispersi nella pianura; Paolo, ferito, cavalcò verso il centro dell’esercito volendo cambiare la sorte delle legioni e condividerla con esse. Per trarre maggior profitto dalla vittoria riportata contro l’avanzata fanteria nemica, le legioni avevano cambiata la loro fronte in una colonna d’attacco che penetrava in forma di cuneo nelle file del centro nemico. Da questa posizione esse furono assalite con impeto dai due lati della fanteria libica che, convergente, si avanzava a destra e a sinistra; una parte delle legioni fu costretta a fermarsi per difendersi contro gli attacchi di fianco per cui, non solo le fu impedito di avanzare, ma la massa della fanteria, ordinata in file troppo profonde, non ebbe assolutamente lo spazio per svolgersi.
Intanto Asdrubale, finito il suo compito sull’ala comandata da Paolo, raccolse e riordinò i cavalieri, e passando dietro il centro nemico, li condusse verso l’ala comandata da Verrone. La cavalleria italica messa già abbastanza alle strette dai Numidi, sorpresa da nuove forze si disperse definitivamente. Asdrubale lasciando ai Numidi la cura di inseguire i fuggitivi, riordinò per la terza volta i suoi squadroni coi quali prese alle spalle la fanteria romana.
Questo ultimo colpo fu decisivo. La fuga era impossibile e non si dava quartiere; non c’è dorse altro esempio di un esercito tanto numeroso distrutto interamente sul campo stesso di battaglia e con sì lieve perdita dell’avversario, come fu dell’esercito romano presso Canne.
Le perdite di Annibale non superavano i 6.000 uomini, due terzi dei quali erano Celti che sostennero il primo urto delle legioni. Dei 76.000 Romani, invece, che erano schierati in battaglia, 70.000 morti coprivano il campo, fra i quali il console Lucio Paolo, il proconsole Gneo Servilio, due terzi degli ufficiali superiori, 80 senatori. Il console Marco Verrone soltanto si salvò per la sua repentina risoluzione e per la velocità del suo destriero che lo portò a Venosa ed ebbe l’animo di sopravvivere. Anche i 10.000 uomini di presidio nel campo romano furono per la gran parte fatti prigionieri: solo alcune migliaia fra le truppe di presidio e dell’esercito scamparono in Canusio. E come se in quell’anno ogni cosa dovesse andar perduta per Roma, la legione spedita nella Gallia cadde in un agguato prima ancora del termine dell’anno, e fu interamente distrutta dai Galli insieme col suo comandante Lucio Postumio, che era stato eletto console per l’anno seguente. (T. Mommsen)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Dopo la battaglia di Canne

La sera stessa della battaglia di Canne, il comandante dei cavalieri numidi, si era presentato ad Annibale: “Lasciami andare con la sola cavalleria” gli disse, “e fra cinque giorni tu banchetterai in Campidoglio”.
Ma il Cartaginese pensava altrimenti. Il suo esercito era piccolo, nè egli poteva facilmente colmarne i vuoti; non aveva macchine d’assedio, e Roma era cinta da potenti mura. E poi era certo che il solo suo apparire alle porte della città, anzicchè scoraggiare i Romani, li avrebbe eccitati ad agire.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Roma dopo Canne

Giunta in Roma la notizia di così grave sciagura, la città fu presa da tanto dolore che vennero interrotti gli annuali sacrifici di Cerere. I sacrifici non potevano essere celebrati da matrone in lutto e non c’era in tutta Roma una matrona che ne fosse esente! Per evitare che venissero trascurati gli altri sacrifici pubblici e privati, il Senato decretò che il lutto avesse termine dopo trenta giorni.
In tale occasione i Romani dettero prova di straordinaria forza d’animo e  di grande amor patrio.
Furono arruolati i giovani dai 17 anni in su, furono chieste milizie agli alleati, secondo le convenzioni, furono prelevati dai tempi e dai portici gli antichi trofei tolti ai nemici per provvedere armi, dardi e scudi. Poichè mancavano gli uomini liberi, furono arruolati 8.000 schiavi, scelti tra i più valorosi.
La sconfitta era veramente più grave di tutte le precedenti e lo dimostra il fatto che gli alleati cominciarono a disperare della salvezza di Roma e passarono alle file nemiche.
Ne il lutto generale ne le defezioni degli alleati indussero mai i Romani a parlare di pace, ne prima del ritorno in patria del console superstite (Terenzio Varrone) ne dopo il suo ritorno. In tale occasione, anzi, i Romani andarono incontro al console, che pure era stato la causa principale della disfatta, e lo ringraziarono perchè non aveva disperato della Repubblica. (da Tito Livio)

Costanza dei Romani

Nell’ultima fase della lunga guerra contro Cartagine i Romani passarono di disfatta, ma non cedettero mai alla sorte avversa e al valore dei nemici. Le donne romane offrirono oro, argento, gioielli, per sostenere lo sforzo della patria in pericolo.
Ma perchè questa costanza, questa volontà di vincere ad ogni costo? I Romani erano devoti alla patria e non esitavano ad affrontare la morta per difenderla. I soldati cartaginesi erano invece in massima parte mercenari e combattevano per guadagno.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Scipione l’Africano

Annibale vinceva sempre, ma era come chiuso in gabbia in Italia. I Cartaginesi non potevano mandargli rinforzi perchè i Romani sorvegliavano il mare. Dopo ogni battaglia, Annibale aveva un numero minore di soldati, di armi, di cavalli. Intanto i Romani, guidati dal generale Scipione, erano sbarcati in Africa e minacciavano la stessa Cartagine. Annibale fu richiamato in patria, ma a Zana subì la prima sconfitta, che segnò la fine della seconda guerra fra Roma e Cartagine. Questa volta i Romani, dopo aver vinto la guerra, vollero tutte le navi di Cartagine.
I Cartaginesi non potevano più commerciare attraverso il mare. Cartagine era ormai diventata una città senza importanza.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Scipione e gli elefanti

Publio Cornelio Scipione, nella battaglia di Zama, in Africa, vedendo i nemici dotati di elefanti, incolonnò i suoi soldati ordinando loro, quando avessero visto gli elefanti precipitarsi su di essi, di spostarsi in modo che gli animali si trovassero a percorrere una specie di corridoio. Così fu fatto: gli elefanti, giunti alle spalle dell’esercito romano, furono circondati e sopraffatti.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia di Zama

Annibale e Publio Scipione uscirono in campo con i loro eserciti e si prepararono alla battaglia: i Cartaginesi per la propria salvezza, i Romani per il dominio del Mediterraneo.
Scipione dispose le schiere del suo esercito in questo ordine: per primi gli astati e le loro insegne, a intervalli regolari; in seconda fila i principi; per ultimi i triari. Nell’ala sinistra schierò la cavalleria romana, in quella destra la cavalleria dei Numidi; quindi riempì gli intervalli della prima fila con le coorti di veliti, ordinando loro di accendere la zuffa e, qualora avessero dovuto cedere, di ritirarsi lungo la linea retta di intervallo, portandosi alle spalle dell’esercito.
Annibale schierò più di ottanta elefanti in prima fila, quindi i mercenari, circa 15.000, e dietro questi Cartaginesi e altri alleati africani. Assicurò poi le ali con la cavalleria.
Annibale diede ordine ai condottieri degli elefanti di attaccare, ma appena suonarono le trombe e i corni, alcuni elefanti, spaventati, indietreggiarono improvvisamente, creando un’indescrivibile confusione fra le schiere dei Cartaginesi. In quel momento la cavalleria romana attaccò, e le due falangi avanzarono, dapprima a passo lento e grave, poi emettendo alte grida e percuotenso gli scudi con le spade… Poichè entrambe le schiere erano uguali di numero, di valore e di armatura, la battaglia rimase a lungo indecisa e gli uomini morivano, ostinati, nello stesso luogo in cui combattevano… Infine la cavalleria aggirò Annibale e lo attaccò alle spalle, costringendo i Cartaginesi ad una precipitosa e disordinata ritirata.
In questa battaglia morirono oltre millecinquecento Romani e oltre ventimila Cartaginesi. (da Polibio)

Preghiera di Scipione

Dall’alto della sua nave, al cospetto delle sue truppe e del mare, il comandante volge al cielo la sua preghiera: “O dei e dee del mare e della terra, io chiedo a voi che ogni cosa da me fatta o che farò, sia propizia a me e  al popolo di Roma, ai nostri amici, a tutti coloro che parlano latino, a tutti quelli che ci seguono attraverso il mare, con il cuore e col pensiero. Proteggeteci; concedeteci di ritornare vincitori nelle nostre case”.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il trionfo di Scipione l’Africano

Dopo la sua magnifica vittoria su Cartagine, il Senato accordò a Scipione l’onore del Trionfo.
Il generale salì su un carro dorato, vestito di una toga di porpora ricamata d’oro, con ricchi bracciali ai polsi, la testa cinta dall’alloro, e un ramo di  alloro nella mano destra. Precedevano il carro i senatori, i trofei di guerra, i prigionieri incatenati, le insigne delle legioni vittoriose; lo seguiva tutto l’esercito, e ogni soldato teneva in mano un ramo d’alloro. Sul carro, in piedi dietro a Scipione, c’era uno schiavo che gli reggeva sulla testa una corona d’oro tempestata di gemme e che ripeteva continuamente queste parole: “Ricordati che sei un uomo”, Si ammoniva così il trionfatore di non insuperbire per tanti onori!
L’interminabile corteo sfilò fra ali acclamanti di popolo, mentre si cantavano inni di vittoria e si gettavano fiori.

Ultime parole di Scipione l’Africano

Scipione l’Africano, il vincitore della seconda guerra punica, venuto in sospetto ad alcuni suoi concittadini, sdegnosamente si ritrasse in una sua villa a Literno in Campania; passò il resto della vita intento agli studi, e prima di morire ordinò che sulla sua tomba si scrivessero queste amare parole: “Ingrata patria, non avrai le mie ossa”.
Morì in quell’anno stesso in cui il suo avversario Annibale moriva, esule, in Bitinia.

Morte di Annibale

Annibale, sino all’ultimo, non cessò di eccitare nemici contro Roma, fra cui Antioco; ma, vinto costui, si rifugiò presso Prusia, re di Bitinia, in Asia Minore, sul Ponto Eusino. I Romani inviarono ambasciatori a Prusia perchè consegnasse Annibale nelle loro mani. Allora Annibale, vedendo chiusa ogni via di scampo, bevve il veleno dicendo: “Liberiamo il popolo romano da questo suo incessante timore”.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE La terza guerra punica

Cartagine, vinta a Zama, era finita come potenza militare, ma ben presto rifiorì economicamente.
Essa rimaneva sempre lo sbocco principale dei prodotti africani; il suo porto era affollato di navi, i suoi frutteti, i vigneti, i campi erano tra i più lussureggianti del mondo.
Pur adempiendo scrupolosamente agli obblighi impostile dal trattato di pace, Cartagine sollevava sospetti e timori a Roma, espressi ripetutamente in Senato dall’ottantenne Catone il Censore (“Delenda est Carthago”, cioè “Bisogna distruggere Cartagine”).
L’occasione del conflitto fu offerta da Cartagine stessa, che stanca di subire le soverchierie di Massinissa, re della confinante Numidia, a un nuovo strappo di territorio gli mosse guerra, violando così le condizioni di pace dell’anno 201. I Romani allora sbarcarono in Africa, per punirla.
Sbigottiti, i Cartaginesi tentarono di placare il potente nemico, accettando tutte le sue condizioni: consegna di ostaggi e di tutte le armi e le navi da guerra. Ma, ottenuto ciò, i consoli intimarono ai Cartaginesi di sgomberare la città, la quale doveva essere distrutta; essi potevano costruirne un’altra, purchè non fortificata e distante dal mare almeno quindici miglia.
Il crudele comando provocò la disperata resistenza dei Cartaginesi, che difesero eroicamente, per due anni, la loro patria. Alla fine furono costretti ad arrendersi e Cartagine venne rasa al suolo. Sulle rovine della città i Romani sparsero del sale: ciò significava che essa non doveva più risorgere… e mai più risorse.
La luce di una grande civiltà si spegneva così nel Mediterraneo e si affermava sempre più quella di Roma.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Catone il Censore

Fra i Romani che maggiormente temevano il rifiorire di Cartagine c’era Catone il Censore. Costui diceva a tutti coloro con i quali parlava: “Cartagine deve essere distrutta”, ma i senatori non davano peso alle sue parole: pensavano infatti che Cartagine era lontana e non poteva dar noia.
Un giorno Catone capitò in Senato con un cesto di bellissimi fichi freschi. Invece di cominciare, secondo il suo solito, a dire: “Cartagine deve essere distrutta!”, si volse ai senatori e offrì quei frutti.
I senatori accettarono e mangiarono. Quando il cestino restò vuoto Catone, col suo miglior sorriso, domandò: “Erano buoni?”
Tutti risposero di sì: erano così freschi! Nella polpa rossa brillava persino una goccia zuccherina…
“Ebbene” dice Catone, facendosi improvvisamente serio, “ieri mattina pendevano ancora dall’albero, in un frutteto di Cartagine…”
I senatori si fecero pensosi: davvero Cartagine non è molto lontana da Roma… Se rialzasse la testa, sarebbe un guaio…
E ricordarono con angoscia Annibale quando scorrazzava per l’Italia.
Ricordarono con sgomento che, dopo Canne, accorsero sotto le armi anche giovinetti di tredici, quattordici anni, perchè gli uomini erano in gran parte morti.
Catone vide quei capi chini, quelle fronti corrucciate, e sorrise: finalmente aveva raggiunto il suo scopo; li aveva convinti.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Marco Porcio Catone

Quando il venerando Catone entrò nella curia, i senatori si levarono in piedi. Egli salutò reverente il simulacro della Vittoria e si avviò al suo seggio. Procedeva a fatica per i suoi ottantaquattro anni e con la sinistra teneva sollevato un lembo della toga, come vi chiudesse dentro un rotolo, con qualche nuovo discorso.
Invece, grande fu lo stupore del Senato quando egli trasse fuori alcuni fichi. “Questi frutti” disse “sono ancora freschi, eppure vengono da Cartagine. Cartagine è a soli tre giorni di viaggio da Roma. Bisogna distruggere Cartagine”.
Il Senato, che era stato a lungo perplesso, deliberò allora di intraprendere la terza guerra punica.
L’oratoria tagliente di Catone risonava ogni giorno in Senato e nel Foro: il popolo ripeteva i suoi motti scultorei e le sue amare ironie. Eletto censore, aveva dedicato i poteri inerenti alla carica a reprimere il lusso e la corruzione. La già esistente legge Oppia, che limitava appunto lo sfarzo delle matrone, era stata abolita; Catone non solo la ripristinò, ma la inasprì con tasse esorbitanti sulle vesti e suoi cocchi. Espulse dal Senato sette senatori che giudicò indegni di appartenervi.
Nella grande rassegna dei cavalieri, tolse a Lucio Scipione il cavallo troppo riccamente bardato.
Faceva guerra spietata a tutti gli abusi, e si procurò molte inimicizie. Fu accusato innanzi al popolo quarantaquattro volte, e sempre uscì assolto, meno una volta sola in cui dovette pagare una multa.
Quando, nella magra altissima statura, tanto indurito nelle fatiche da parere quasi legnoso, vestito semplicemente, passava riguardando con gli occhi acuti e bigi sotto la chioma rossa, tremavano tutti. Anima ferrea e tenace, fattasi un’opinione, non la mutava più.
Ora si era convinto che Roma non poteva avere un avvenire finchè il Mediterraneo fosse dominato da una potenza straniera e rivale. Perciò, di qualunque argomento parlasse, concludeva sempre il suo discorso con l’immancabile ritornello: “E poi bisogna distruggere Cartagine”.
Cartagine aveva cacciato Annibale, che si era spento lontano dalla patria; ma a lui erano sopravvissuti i suoi saggi ordinamenti. La potenza punica, prostrata dalle armi romane a Zama, era pur rifiorita per virtù dei commerci; e i navigatori cartaginesi avevano di nuovo rannodato con i traffici tutti i ricchi mercati d’Oriente.
Sotto l’assillo di Catone, che usava l’eloquenza allo stesso modo del pungolo, il Senato romano finì col proeccuparsi di così rapida minacciosa resurrezione; la terza guerra punica sarebbe stata decretata. (G. Brigante Colonna)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Distruzione di Cartagine

La battaglia feroce, incessante tra il fumo, le fiamme e il chiarore sanguinoso delle fiaccole durò sei giorni. Squadre di zappatori con accette e ramponi precedevano i manipoli d’assalto, spianando le rovine e seppellendo sotto di queste i cadaveri, i feriti, i caduti. Scipione non prese mai sonno nè riposo; combattendo come semplice soldato, sempre presente là dove poteva esserci bisogno della sua azione e della sua parola.
All’alba del settimo giorno la resistenza cartaginese era schiacciata, la battaglia finita, e una lugubre ambasceria di cittadini si recò dal console ad offrire la resa della superstite popolazione, senz’altra condizione che quella di aver salva la vita. Scipione acconsentì, facendo un’unica eccezione per i disertori romani. E allora, mentre le ultime superstiti rovine di quella che era stata Cartagine bruciavano lentamente e si rovesciavano al suolo, crosciando e crepitando, i vincitori videro sfilare dinanzi a sè circa 25.000 donne ed altrettanti uomini, che si recavano prigionieri verso il campo romano, destinati a finire la vita come schiavi in tutte le contrade del mondo antico.
Vi mancarono Asdrubale e la sua famiglia e circa 900 disertori, i quali, si erano trincerati nell’atrio del tempio di Esculapio decisi a resistere fino all’estremo. Fu intorno a questo antico, superbo edificio, che si accanì nei giorni successivi la furia degli assalitori. Alla fine anche l’orgoglio e la ferocia del generale punico caddero; e mentre tutti i suoi compagni, fatti irriconoscibili dalla stanchezza e dalla sofferenza, si rifugiavano nel tempio, e alcuni salivano sul tetto, decisi a disputare fino in fondo la vita, egli, distaccatosi dagli altri, andò a gettarsi ai piedi di Scipione, invocando pietà. Coloro che ancora si battevano, appiccarono con le loro stessa mani il fuoco all’edificio e perirono tutti sotto le sue rovine.
Così finiva Cartagine. Dalla sua tenda Scipione contemplò fra nugoli di polvere quell’estremo angolo della città punica che si sfasciava; pensava a Roma, alla sua patria, forse destinata a una non meno gigantesca rovina. (C. Barbagallo)

Mediterraneo, mare nostro

Nello stesso anno della distruzione di Cartagine, Roma sottometteva anche la Grecia. Ebbe così il predominio sul Mar Mediterraneo. I Romani, guardando questo mare, potevano ormai dire orgogliosamente: “Mediterraneo, mare nostro”.

L’esercito romano

Chi combatteva. Tutti i cittadini romani, sia patrizi che plebei, dovevano prestare il servizio militare. La chiamata alle armi si faceva solo in caso di guerra, finita la quale i soldati tornavano a casa. Erano chiamati alle armi gli uomini dai diciassette ai sessant’anni. I soldati non solo non erano pagati, ma dovevano equipaggiarsi a loro spese. Perciò i più ricchi formavano la cavalleria, gli altri la fanteria.
Il generale Caio Mario, quando riorganizzò l’esercito, stabilì invece che i soldati fossero equipaggiati a spese dello stato e ricevessero una paga.

Come era organizzato l’esercito.  Normalmente si formavano due eserciti, uno per ogni console, ed ogni esercito era composto da un dato numero di legioni, che variava secondo il bisogno. Ogni legione aveva 4.200 fanti e 3.000 cavalieri: la legione era divisa in 10 coorti,  ogni coorte in 3 manipoli, ogni manipolo in due centurie.
A capo di tutto l’esercito era un console, assistito da due o più legati, specie di aiutanti di campo; la legione era comandata da un tribuno militare; il manipolo da un centurione maggiore; la centuria da un centurione minore.

Come si schierava l’esercito sul campo di battaglia. L’esercito romano si schierava a battaglia nel seguente modo: nella prima linea c’erano gli astati, cioè i fanti armati di lancia, che erano scelti fra i più giovani. Nella seconda linea stavano i principi, cioè i fanti dotati di armi pesanti. Nella terza linea i triari, cioè i fanti anziani.
Le tre linee erano disposte a scacchiera, in modo che i vuoti della prima linea corrispondessero agli spazi occupati dalla seconda e i vuoti della seconda occupati dalla terza. Ciò serviva per evitare la rottura dello schieramento, qualora i soldati delle prime linee fossero stati costretti ad indietreggiare.
La cavalleria era usata per l’esplorazione e per l’inseguimento dei nemici in fuga.

Le armi dei legionari. Le principali armi difensive erano la galea, elmo di pelle; lo scudo, di legno e di pelle che il soldato imbracciava al lato sinistro; la lorica o corazza, formata di lamine d’acciaio, disposte a scaglie, che difendevano le spalle e il petto; gli schinieri, gambali. Sotto la corazza, il legionario vestiva una corta tunica.
Le principali armi di offesa erano il pilo o giavellotto, con l’asta e la punta di ferro per combattere a distanza; il gladio e una specie di daga, spada corta e piatta che si adoperava nella lotta corpo a corpo.

Le macchine militari. Molte erano le macchine militari usate in guerra dai Romani. La torre permetteva ai soldati di salire, difesi e coperti, fino all’altezza delle mura nemiche  e di muovere decisamente all’attacco di esse. La testuggine era una specie di capanna coperta da pelli di animali: così difesi dalle frecce che venivano scagliate dalle mura nemiche, i soldati potevano portarsi fin sotto le mura stesse, per attaccarle poi con l’ariete. La catapulta serviva per lanciare pietre dal basso verso l’alto, a mezzo di una fune che veniva tesa e lasciata andare di scatto. Qualche volta contro il nemico venivano lanciate anche frecce incendiarie. L’ariete era costituito da una robusta trave che terminava con un massiccio pezzo di ferro, generalmente a forma di testa di ariete; la trave, sospesa ad una impalcatura, serviva ad aprire brecce nelle mura nemiche.

L’accampamento. L’accampamento romano aveva forma quadrata, ed era circondato da un terrapieno, da una palizzata e da un fossato di circa 3 m di profondità e largo 4 m. Aveva quattro porte: quella che si trovava di fronte all’accampamento nemico si chiamava pretoria; quella della parte opposta, decumana. La tenda del comandante sorgeva vicino alla porta decumana, affiancata dalla tenda dei questori, dei tribuni e dei luogotenenti. Le tende dei soldati erano allineate dentro l’accampamento ed erano di cuoio o di tela.

La disciplina dell’esercito. Punizioni e premi.

Severa era la disciplina. Il comandante aveva diritto di vita e di morte su ogni soldato. Con la morte venivano punite le colpe più gravi, come l’insubordinazione. Altre pene erano la flagellazione con le verghe, la degradazione e, per colpe collettive, la decimazione. Se una legione fuggiva davanti al nemico, era decimata, vale a dire, su ogni dieci soldati si estraeva a sorte un uomo, e quelli designati dalla sorte erano decapitati.
Molte le ricompense che si davano ai valorosi: corone, medaglie. La suprema ricompensa a un console, dopo una grande vittoria era il trionfo, decretato dal Senato. Quando la vittoria era meno grande, si accordava al generale vincitore un trionfo meno solenne, detto ovazione, perchè, in luogo del toro si sacrificava agli dei una pecora (ovis).
Più tardi i Romani eternarono le imprese dei loro generali con monumenti, colonnne ed archi trionfali.
Ogni soldato portava il proprio bagaglio personale: gli altri bagagli erano caricati sui carri. L’esercito, in marcia, durante le tappe costruiva l’accampamento (castra).

La paga dei soldati

Lo stipendium istituito nel 406 aC era pagato anno per anno, e al tempo di Pobilio arrivava a 2 oboli al giorno per un soldato di fanteria. I centurioni avevano il doppio, e i cavalieri il triplo di questa somma.
Non si conosce quale fosse lo stipendio assegnato agli ufficiali superiori; sappiamo di certo che i tribuni non erano pagati. Le spese del vitto e dell’armatura erano tolte dalla paga.
La maggior parte della preda di guerra era distribuita tra i soldati e gli ufficiali; ed ognuno ne riceve una parte proporzionata allo stipendio. (G. Decia)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA – dettati ortografici e letture

Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici su Roma Rebubblicana, di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

La presa di Veio

Per impadronirsi di Veio, M. Furio Camillo fece scavare una galleria sotterranea che dall’accampamento romano conducesse alla cittadella nemica; senza interruzione fu continuata l’incessante fatica sottoterra, giorno e notte.

Quando il lavoro fu compiuto e solo un sottile diaframma mancava da abbattere, Camillo ordinò di prendere le armi e pregò: “Oh Apollo Delfico, da te ispirato, mi accingo a distruggere la città di Veio; tua sia la decima parte delle prede. E te, Giunone Regina, patrona di Veio, prego di seguirci nella nostra città, che fra poco sarà anche tua; lì avrai per dimora un bellissimo tempio”.

Dopo avere così pregato, fece assaltare la città da tutte le parti per sviare l’attenzione di Veienti dalla cittadella, dove si erano frattanto ammassati i soldati romani.

Lontani erano i Veienti dal sospettare che la cittadella fosse già piena di nemici pronti ad assalirla dal di dentro, e grandemente si meravigliarono che i Romani, come presi da improvviso furore, corressero all’impazzata verso le mura, mentre i giorni prima nessuno di essi si era mosso dai corpi di guardia.

Si racconta che mentre il re di Veio faceva il sacrificio, i Romani appostati nella galleria udissero l’augure dire che vittorioso sarebbe stato chi, primo, avesse tagliato le interiora della vittima, e che allora essi infrangessero l’ultimo diaframma del cunicolo e s’impadronissero delle interiora dell’animale sacrificato, per portarle al loro comandante.

Dalla galleria i soldati romani irruppero nel tempio di Giunone, posto nella cittadella; quindi, divelte le porte, si rovesciarono nella città, corsero sulle mura e, sbarazzatele dei difensori, sfondarono le porte. Come fiumana entrarono gli assedianti e in breve Veio fu piena di nemici. Lotta accanita e immensa strage di armati e di inermi fu in ogni strada. Poi si sedò il furore del combattimento e Camillo, per mezzo degli araldi, dette ordine di risparmiare gli inermi.

Alla vittoria seguì il saccheggio della fiorentissima Veio. Anche le ricchezze degli dei fecero parte del bottino e le stesse divinità, sebbene di esse si impadronissero i Romani più come adoratori che come saccheggiatori. Giovani romani, dal corpo mondo, bianco vestiti, entrarono riverenti nel tempio di Giunone Regina: “Vuoi venire a Roma?” le chiese uno di essi. E la dea, così videro e gridarono gli altri, fece cenno di consentire e docile seguì i movimenti di coloro che la portavano. Ad essa fu data dimora nell’Aventino, dove i voti del duce romano l’avevano chiamata.

Ebbe così fine Veio, la più fiorente città degli Etruschi, grande anche nella rovina. Per dieci estati e dieci inverni aveva retto ad ininterrotto assedio e inflitte più perdite di quante ne avesse subite. Alla fine piegava al destino, più che alla possanza degli uomini; all’astuzia, più che alla forza. (Tito Livio)

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Culto e sacerdozio presso i Romani

A capo del culto era il Collegio dei Pontefici, eletti dal Re, in seguito dai Comizi: compilavano il calendario, stabilendo i giorni consacrati al culto (dies festi) e quelli concessi agli uomini per il disbrigo dei loro affari o ai giudici per l’amministrazione della giustizia (dies fasti). Erano i depositari dei libri sacri e registravano in una specie di cronaca gli avvenimenJti più importanti (Annales Pontificum). Questo collegio era presieduto dal Pontefice Massimo, il capo della religione romana.

Gli Auguri interpretavano la volontà degli dei dai segni celesti (lampo, tuono, fulmine), dal volo o dal canto degli ucceli e dal modo come i polli ingozzavano il becchime. Essi erano consultati negli atti più importanti della vita pubblica, specialmente in caso di guerra.

L’arte degli Auguri era detta divinazione. Quella parte della divinazione che riguardava l’esame delle viscere degli animali sacrificati e l’interpretazione dei sogni, spettava ad altri sacerdoti detti Aruspici, quasi tutti di nazionalità etrusca.

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Ingiustizie contro i plebei

Alle guerre combattute da Roma prendevano parte tutti i cittadini, fossero essi patrizi o plebei. In caso di vittoria, però, il bottino veniva diviso solo tra i ricchi. Così, mentre i patrizi vedevano aumentare le loro ricchezze, i plebei, già poveri, cadevano sempre più in miseria. Essi avevano dovuto lasciare il loro piccolo campo. Se la guerra scoppiava quando era tempo di seminare, l’aratro restava nei solchi, la semente nei sacchi e in breve ogni sorta di erbacce cresceva al posto del buon grano. Se la guerra scoppiava quando era tempo di raccogliere, le spighe aspettavano invano la falce del mietitore. Quando i plebei tornavano alle loro case, la madia era vuota e il fuoco spento. Molti di essi, che avevano speso tutto il loro denaro per acquistare le armi, non avevano di che comprare un asinello o un bue che li aiutasse nel lavoro, e talvolta, nell’impossibilità di pagare i debiti, diventavano schiavi dei patrizi.

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La secessione della plebe

Uno stato così ingiusto di cose non poteva durare a lungo. I plebei andavano chiedendo una riforma delle leggi sui debiti e sulle distribuzioni dell’Agro pubblico, ma le promesse ripetute alla vigilia di una guerra, quando occorreva il braccio dei plebei, non erano poi mantenute alla fine della guerra stessa. Indignata, la plebe nel 494 decise di abbandonare il lavoro e il servizio militare; si stabilì su una collina distante pochi chilometri dalla città, che prese poi il nome di Monte Sacro, per fondarvi una nuova città. Dal verbo secedere (appartarsi), questo atto fu detto secessione. I patrizi furono quasi contenti della partenza dei plebei, ma presto si accorsero che essi erano indispensabili, perchè sapevano cuocere il pane, coltivare i campi, fabbricare armi, costruire le case e le strade. Del resto la secessione era un’arma a doppio taglio che, provocando la rovina della città, avrebbe travolto anche la plebe. Perciò il Senato decise di mandare, per intavolare trattative, un patrizio onesto ed amato dai plebei, Menenio Agrippa, che con la sua autorità ed eloquenza riuscì a placare i ribelli. Si venne ad un accordo. I plebei ottennero migliori condizioni e, cosa molto importante, potrono nominare due loro rappresentanti: i tribuni della plebe, che avevano grande autorità e difendevano, in ogni occasione, gli interessi del popolo.

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I Tribuni della plebe

I Tribuni, due da principio, ma poi accresciuti fino a dieci, e sempre plebei, avevano il compito di difendere la plebe da ogni violenza dei patrizi. Essi avevano infatti due diritti: il diritto di aiuto (ius auxiliii), per cui soccorrevano ogni plebeo che ne facesse richiesta, e il diritto di veto (ius intercedendi), per cui potevano impedire l’esecuzione di qualunque legge che ritenessero nociva ai plebei, solo pronunciando la parola veto (impedisco).

I nuovi magistrati, dichiarati inviolabili, avevano un’autorità morale grandissima e la plebe era pronta a difenderli con ogni mezzo.

Nei due secoli successivi (493-300 aC) i Tribuni, persistendo nel loro programma di rivendicazioni, vincendo l’ostilità e le resistenze del patriziato, riuscirono ad ottenere i desiderati miglioramenti economici e la completa uguaglianza politica, senza atti rivoluzionari violenti, restando sempre nel campo della legalità.

Il Senato era indignatissimo contro questa istituzione: avverso era soprattutto l’arrogante patrizio Coriolano che, non volendo sottostare al giudizio dei Tribuni, dovette lasciare Roma. Assetato di vendetta, si rifugiò presso i Volsci, che erano allora in guerra con Roma, e si pose a capo del loro esercito, guidandolo contro la sua stessa patria. Solo le preghiere della madre lo fecero desistere dalla sua scellerata impresa. I Volsci, come traditori, lo uccisero.

I Tribuni della plebe erano eletti nei primi tempi nei Comizi Centuriati, nei quali la maggioranza dei voti era assicurata ai più ricchi. Dal 471 i Tribuni si cominciarono ad eleggere nei Comizi Tributi. Questi erano formati da rappresentanti delle varie tribù, che erano partizioni territoriali della città abitate insieme da patrizi e da plebei, ma dove i plebei prevalevano numericamente. I patrizi, in principio, benchè invitati, non vollero parteciparvi, ma finirono poi col riconoscere la legalità dei Comizi stessi.

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I ragazzi dell’antica Roma

I ragazzi aiutavano i padri perchè il lavoro dei campi era la loro unica e vera scuola, il loro unico e vero sport. I padri approfittavano dell’occasione per insegnare loro che il seme dava buon frutto solo quando il cielo mandava acqua e sole; e che il cielo mandava acqua e sole quando gli dei lo volevano e che gli dei lo volevano solo quando gli uomini avevano compiuto il loro dovere verso di essi. E che il primo dovere consisteva nell’obbedienza, dei giovani ai vecchi. (I. Montanelli)

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Roma: storia e leggenda

Dopo la cacciata dei re etruschi sembrò che Roma dovesse scomparire perchè fu assalita da tutti i popoli vicini. Ma proprio in questo momento la storia di Roma racconta le più belle imprese dei suoi soldati. Si tratta di uomini coraggiosi, che amano la loro città e sono molto tenaci, cioè non si scoraggiano se subiscono una sconfitta, ma tornano a combattere ancora fino alla vittoria. In questo periodo i Romani furono veramente sconfitti molte volte, ma alla fine furono loro i vincitori. Le imprese dei loro migliori soldati e cittadini, abbellite, per l’ammirazione che esse avevano destato, furono raccontate dai padri ai figli, ai nipoti, finchè divennero racconti in cui è difficile distinguere ciò che è vero da ciò che solo inventato.

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La Repubblica romana

L’ultimo dei sette re, Tarquinio, meritava davvero i soprannome di Superbo. Era anzi peggio che superbo: era crudele, ingrato e prepotente. I Romani lo sopportarono per un po’ di tempo, ma poi, stanchi dei continui soprusi, lo cacciarono dal trono instaurando la Repubblica. A capo di Roma repubblicana c’erano due magistrati, chiamati consoli, i quali venivano eletti dal popolo. I Consoli duravano in carica un anno: essi comandavano gli eserciti ed amministravano la giustizia. Ad assistere i Consoli c’era il Senato. Quando lo Stato era in pericolo per un’invasione esterna o per torbidi interni, il Senato nominava un dittatore, che però durava in carica soli sei mesi. Il dittatore era padrone assoluto durante quei sei mesi, ma alla fine di essi doveva rendere contro al Senato delle sue azioni.

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Guerre contro gli Etruschi, i Latini, i Volsci e gli Equi

I primi anni della Repubblica furono funestati da continue guerre. La prima fu quella di Tarquinio, che per riprendere il trono si alleò col re etrusco Porsenna. I Romani, dapprima sconfitti, riuscirono a riportare finalmente una vittoria decisiva, che costrinse gli Etruschi ad abbandonare l’impresa. I Romani dovettero combattere anche contro i Latini e contro i Volsci e gli Equi, popolazioni del Lazio. Solo dopo lunghe e sanguinose lotte riuscirono a vincerli e a sottometterli. Durante la guerra contro gli Equi si distinse il dittatore Lucio Quinzio Cincinnato il quale, sconfitto il nemico, rifiutò la gloria e gli onori e ritornò a lavorare il suo campicello.

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I consoli

Il governo della Repubblica romana fu affidato a due consoli. I consoli erano eletti dai Comizi Centuriati, e duravano in carica un anno; conducevano l’esercito in guerra, convocavano i comizi per l’approvazione delle leggi che essi stessi avevano proposto, ed esercitavano anche il potere giudiziario, punendo i trasgressori. Erano preceduti dai littori, sei per ciascuno, che portavano i fasci, l’insegna del loro comando, formati di verghe strette insieme a cui era unito il manico di una scure: in guerra e fuori della città i consoli potevano condannare a morte i soldati e per questo sui fasci era infissa la scure, ma in città essa era tolta perchè la condanna non spettava ai consoli.

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Altri magistrati di Roma repubblicana

Altri magistrati erano: i questori, o tesorieri dello Stato, che riscuotevano i tributi e pagavano, secondo gli ordini dei consoli; i pretori, che giudicavano le cause civili; i censori, incaricati di eseguire ogni 5 anni il censimento e di vigilare sui costumi; gli edili, che sovraintendevano ai mercati, ai giochi pubblici, alla pulizia, ecc… In caso di pericolo dello Stato, o per una guerra esterna o per una rivolta, si nominava, in luogo dei consoli, un dittatore, che aveva pieni poteri, ma durava in carica poco tempo, al massimo sei mesi.

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Cincinnato, il vincitore degli Equi

Un messaggero arriva coperto di polvere e si dirige a spron battuto verso la Curia, dove sono riuniti i Senatori di Roma. Egli reca gravi notizie: gli Equi hanno battuto l’esercito romano e lo hanno circondato sul monte Algido. Il console potrà resistere solo per alcune ore. I Padri si consultano brevemente; poi decidono: Cincinnato è eletto dittatore. Egli è al di là del Tevere, intento ad arare con due magri buoi il suo campicello. Cincinnato accetta la carica suprema; indossa la toga bianca, corre a Roma ed ordina: “Tutti gli uomini validi si presentino armati al Campo Marzio ed ognuno porti tre pali lunghi nove piedi”. A notte l’esercito si mette in marcia verso il monte. Il campo nemico viene circondato ed ogni soldato pianta in terra i suoi pali, formando rapidamente una immensa palizzata, dentro la quale sono chiusi gli Equi. Al mattino le trombe annunciano ai soldati del console che i soccorsi sono giunti ed una pioggia di frecce provenienti da due direzioni si abbatte sugli incauti nemici. La vittoria è completa. Gli Equi si arrendono. Cincinnato ha salvato Roma e torna a seminare il grano nei solchi aperti dai due magri buoi. (da Tito Livio)

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Orazio Coclite

Tarquinio il Superbo, fuggito da Roma, si rifugiò presso il suo amico etrusco Porsenna e lo convinse a far guerra alla città che lo aveva cacciato. Porsenna marciò con un grande esercito contro Roma. Egli arrivò d’improvviso con i suoi cavalieri alla riva del Tevere, oltre il quale si estendeva Roma con le sue piccole case, i suoi templi, le sue mura. Pareva una città facile ad essere conquistata. Sul Tevere c’era un ponte di legno che univa le due rive del fiume e portava in città. Porsenna stava per attraversarlo con i suoi soldati, quando un giovane di nome Orazio Coclite si lanciò sul ponte e cominciò a combattere con terribili colpi di spada. Gli Etruschi, che non s’aspettavano tanta resistenza da un uomo solo, ripiegarono un poco. Intanto, alle spalle di Orazio Coclite, alcuni suoi compagni tagliarono con le asce il ponte Sublicio fino a che esso crollò. Orazio Coclite si gettò allora nel fiume e raggiunse a nuoto la riva. Roma era salva per il valore del giovane eroe.

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Muzio Scevola

Il re Porsenna allora decise di assediare Roma. Mise perciò i suoi soldati attorno alla città per impedire che vi arrivassero degli aiuti. In Roma scarseggiava, ormai, il frumento per gli abitanti, gli animali morivano per mancanza di erba. L’acqua dei pozzi era poca e guasta. Un altro giovane, Gaio Muzio, offerse la propria vita per la città. Egli lasciò i suoi cari e gli amici e tutto solo si diresse verso gli accampamenti degli Etruschi per uccidere il loro re. Entrato nella tenda di Porsenna, vide molti guerrieri che stavano parlando con un uomo che indossava ricche vesti. Gaio Muzio credette fosse il re e lo uccise. Egli fu subito arrestato e condotto davanti a Porsenna. Quando Gaio Muzio s’accorse di aver sbagliato, stese il braccio destro su un braciere che ardeva nella tenda e disse: “O re, punisco il mio braccio perchè ha sbagliato, ma sappi che trecento giovani romani hanno giurato, come me, di ucciderti”. Il re, ammirato, lasciò libero Gaio Muzio il quale tornò a Roma ed ebbe grandi onori. Egli fu, da allora, chiamato Scevola, cioè mancino.

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Clelia

Tra gli ostaggi che i Romani avevano dovuto consegnare a Porsenna c’era Clelia, una fanciulla di nobile famiglia. Ella riuscì a fuggire a cavallo dal campo etrusco e, passato a nuoto il Tevere, giunse a Roma. I Romani, anche se a malincuore, la rimandarono da Porsenna perchè volevano rispettare i patti. Il re etrusco, meravigliato per la lealtà dei suoi nemici, tolse l’assedio e ritornò nel suo regno.

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La vittoria del lago Regillo

Dopo che Roma ebbe concluso la pace con Porsenna, le città latine, istigate da Tarquinio il Superbo, si unirono fra di loro e le dichiararono guerra. Tuttavia, presso il lago Regillo, vennero sconfitte e le loro terre divennero dominio di Roma.

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Coriolano

Un nobile generale romano, Caio Muzio detto Coriolano perchè aveva conquistato la città di Corioli, per un grave dissenso con la plebe e col Senato fu costretto a lasciare Roma. Rifugiatosi presso il popolo dei Volsci, che erano nemici dei Romani, Coriolano, vendicativo e fiero, li incitò contro la sua città e marciò egli stesso in testa al loro esercito verso Roma. Quando il Senato seppe che i Volsci erano accampati a poche miglia dalla città, mandò degli ambasciatori per placare Coriolano; ma non ottennero nulla. Andarono poi dei Sacerdoti: inutilmente. Allora s’avviò verso il campo dei Volsci Volumnia, la madre, con la sposa ed i figlioletti di Coriolano che, quando vide sua madre, le andò incontro per abbracciarla. La madre, invece, lo fermò con un gesto e con queste parole: “Dimmi prima se sei mio figlio o il nemico della mia patria”. Coriolano abbassò il capo, si commosse, poi, abbracciando la mamma esclamò: “Madre mia, tu salvi Roma, ma perdi tuo figlio”. Difatti Coriolano fece subito cessare l’avanzata dell’esercito verso Roma, ma fu per questo ucciso dai Volsci.

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La casa romana

Le modeste abitazioni romane dei primi tempi divennero ville e palazzi eleganti. Le case furono lussuosamente ammobiliate con mobili ornati di bronzo e provvisti di coperte. I treppiedi, i bracieri, gli scaffali, le anfore abbellivano ogni stanza, ogni angolo. Ecco la casa di una ricca famiglia romana. Entriamo nell’atrio: aria e luce arrivano da un’apertura sul tetto; se piove l’acqua si raccoglie nell’impluvio. Il padrone e gli ospiti escono dal triclinio, dove hanno banchettato, e si recano nel peristilio, un cortile luminoso e verde come un giardino.

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I patrizi e i plebei

Fin dai tempi di Romolo, la cittadinanza romana fu divisa in patrizi e plebei, cioè in ricchi e poveri. I patrizi, divisi in dieci curie, avevano tutti i privilegi: soltanto essi potevano diventare senatori e occupare le massime cariche dello stato. E sempre ai patrizi spettava amministrare la giustizia, dichiarare la guerra e comandare i soldati. I plebei dovevano solo ubbidire e lavorare il loro campicello, che spesso erano costretti a vendere per pagare i debiti. Se non bastavano i pochi averi per pagare i debiti, divenivano schiavi dei patrizi.

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Come vivevano i patrizi

Il patrizio romano si alzava al mattino presto. Dopo essersi abbigliato, usciva dalla sua stanza e si recava nel vestibolo, dove stavano ad attenderlo i clienti. Questi erano cittadini devoti alla sua famiglia, che gli prestavano dei piccoli servigi e gli tenevano compagnia, ricevendo in cambio un obolo quotidiano. Seguito dai clienti il patrizio usciva per recarsi a far visite o per passeggiare. Si recava al Foro, per discutere di politica e per ascoltare gli oratori o i pubblici lettori. A mezzogiorno il patrizio rientrava in casa per consumare una colazione leggera, alla quale seguiva un breve riposo. Si recava quindi al bagno nella pubblica piscina, e verso le tre del pomeriggio era di nuovo in casa per il pasto principale della giornata. Dopo il pranzo il patrizio si fermava a tavola per conversare con gli ospiti o per giocare a dadi. Usciva quindi per l’ultima passeggiata o per recarsi al “Campo di Marte” per gli esercizi ginnastici o agli spettacoli nei teatri o nei circhi. Alla sera c’era un altro pasto, che spesso si prolungava fino a notte inoltrata.

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Come vivevano i plebei

I plebei abitavano in case comuni, altre quattro o cinque piani ed anche più; spesso il loro alloggio consisteva in un solo locale arredato modestamente: pagliericci per dormire, mensole per le stoviglie, una tavola e alcuni sgabelli. Anche le loro vesti erano modeste: normalmente indossavano un semplice mantello senza maniche, di lana o di pelle, oppure la “lacerna”, una specie di tunica, con cappuccio. Ai piedi portavano i sandali con la suola di cuoio o gli zoccoli. I plebei si dedicavano a qualche lavoro di artigianato o servivano nelle botteghe. La maggioranza dei plebei però conduceva una vita oziosa e passava gran parte della giornata a vagabondare per le strade o a giocare ai dadi nelle osterie. I plebei possedevano pochissimo denaro, ma in compenso la vita a Roma costava poco, inoltre spesso i patrizi facevano distribuzioni gratuite di grano: questo avveniva soprattutto alla vigilia delle elezioni, allo scopo di attirarsi le simpatie dei plebei ed averne il voto.

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Gli schiavi

Dapprima Roma aveva soltanto pochi schiavi, quasi tutti prigionieri di guerra impiegati nei lavori agricoli. Ma con le conquiste e l’arricchimento dei cittadini, Roma vide affluire dentro le sue mura immense schiere di schiavi e i mercanti specializzati ne conducevano sempre di nuovi. Gli schiavi venivano venduti in un mercato vicino al Foro. Li presentavano in piedi su un palco, con un cartello appeso al collo, in cui era scritto il nome, l’origine e le capacità di ognuno. La gente girava intorno, saggiava i loro muscoli, li interrogava per capire se erano intelligenti o tonti, mentre il mercante si dava da fare per vantare immaginarie virtù e per nascondere difetti. Gli schiavi non avevano alcun diritto: erano considerati come cose e si potevano comprare, vendere, picchiare, mutilare, uccidere senza che nessuno lo potesse impedire. Non potevano sposarsi e le schiave che avevano dei figli non avevano il diritto di allevarli: il padrone glieli poteva togliere quando voleva, perchè anch’essi erano schiavi e dunque appartenevano al padrone. Gli schiavi erano utilizzati per ogni genere di lavoro: vi erano schiavi zappaterra, ma anche schiavi medici. I padroni potevano trattarli duramente. Potevano punirli con severi castighi, quali la fustigazione e la condanna a girare, incatenati, con la ruota del mulino. Agli schiavi fuggitivi venivano impresse in fronte le ttere FUG con un marchio infuocato. Le mancanze più gravi erano punite con la morte.

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L’apologo di Menenio Agrippa

Dopo una campagna di guerra particolarmente gravosa, i plebei, visto che i patrizi non avevano cuore per loro, stabilirono di allontanarsi in massa da Roma e si ritirarono sul monte oltre l’Aniene, che oggi si chiama Monte Sacro. I patrizi li lasciarono partire quasi contenti, ma subito si accorsero che senza i plebei, molti dei quali esercitavano le più utili tra le professioni manuali, la città non poteva vivere. Mandarono perciò sul Monte Sacro un’ambasceria capeggiata da Menenio Agrippa, il quale, visto che i plebei non volevano ascoltar ragione, narrò loro l’istruttivo apologo delle membra del corpo umano e dello stomaco. “Le varie membra del corpo umano” disse Menenio, “erano stanche di affaticarsi a beneficio esclusivo dello stomaco. Quell’antipatico sacco, esse pensavano, non fa altro che ricevere i cibi che noi gli forniamo in mille modi, e si ingrassa sulla nostra stanchezza. La nostra sorte è quella di lavorare, la sua quella di godersi in pace il frutto delle nostre fatiche. Dichiariamo guerra a quell’egoista! Voi gambe state ferme, braccia incrociatevi, labbra state chiuse, denti non masticate… Vedremo che farà lo stomaco senza di noi. Così dissero e così fecero; ma, di lì a poco, ogni membro del corpo si sentì stanco, sfinito più di quanto doveva lavorare per lo stomaco. Lo stomaco non riceveva più cibi ma, col suo sfinimento, provocava quello di tutte le altre membra.” I plebei capirono la lezione e tornarono in Roma, dopo essersi fatti concedere dai patrizi una speciale magistratura, quella dei tribuni della plebe, destinata a proteggere i plebei.

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Leggi scritte per una sicura giustizia

I plebei ottennero anche che le leggi fossero messe per iscritto e fossero uguali per tutti. Sino a quel tempo, a Roma le leggi si tramandavano oralmente; così i patrizi, che avevano in mano le cariche più importanti dello stato, potevano interpretare le leggi in loro favore, a danno dei plebei. Ora, il Senato diede l’incarico a dieci magistrati di mettere per iscritto delle leggi che riconoscessero un giusto e uguale trattamento a tutti i cittadini. Si volle inoltre che le leggi potessero essere conosciute da tutti, e che tutti potessero, in ogni occasione, consultarle liberamente: così si pensò di esporle in un luogo pubblico. A Roma c’era una grande piazza dove si tenevano i mercati e si riuniva il popolo in assemblea. Era una zona piana che si apriva tra il Palatino e il Campidoglio; il terreno, un tempo paludoso, era stato prosciugato con la costruzione della Cloaca Massima ed era diventato poi il Foro, cioè la piazza più importante della città. Le nuove leggi furono esposte nel Foro, incise su dodici tavole di bronzo: nessuno, neanche il tempo, avrebbe potuto cancellarle.

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Alcune leggi delle dodici tavole

Se uno rompe un braccio a un altro e non fa pace con lui riceverà lo stesso danno. Se uno con la mano o con un bastone rompe un osso ad un uomo libero, deve pagare 300 assi di multa, se sfregia uno schiavo paga 150 assi. Chi fa ingiuria a qualcuno paga 25 assi. Se qualcuno ruba o compie qualche delitto di notte può essere ucciso.

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La famiglia romana antica

La famiglia romana era ben diversa dalla famiglia moderna. Essa era un organismo politico e religioso. A capo vi era il pater familias, che aveva il potere assoluto, detto patria potestas, su tutti i membri: moglie, figli, nuore, fratelli minori, nipoti, ecc… Egli era il sacerdote del culto domestico, il giudice che poteva punire con la prigionia, le pene corporali e la morte i membri della famiglia, ed era il solo padrone dei beni domestici. Morto il padre, il figlio primogenito diveniva pater familias e la madre rimasta vedova veniva sottoposta alla sua autorità. Però, benchè sempre soggetta all’autorità prima del padre, poi del marito, poi del figlio, la donna era la vera regina della casa, ed era circondata di grande rispetto: sorvegliava il lavoro degli schiavi, educava i figli, tesseva e filava. Il focolare domestico, posto nel centro della casa, era l’altare del culto familiare, di cui il padre era appunto il sacerdote. Gli dei custodi della casa erano le anime degli avi: i Lari e i Penati. L’antica famiglia romana, laboriosa, frugale, disciplinata, ligia al dovere, fu una palestra di virtù: in essa si formarono quei cittadini e quei soldati che portarono poi nell’attività politica e militare le sane energie acquistate nella casa.

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La giornata di un Romano

Gli antichi Romani erano assai mattinieri. Al sorgere del sole s’apre la porta di casa e l’atrio si riempie di numerosi visitatori. Sono gli amici di casa, i clienti: persone con pochi quattrini, di regola ben vestite ma con la pancia vuota, che si fanno un obbligo di venire a rendere omaggio al padrone anche quando il tempo è brutto. Il padrone li riceve seduto, sopra una sedia a braccioli simile a quelle dei vescovi, scambia con essi strette di mano e ne invita un certo numero a mensa; gli altri possono andare a prendere il cibo in cucina. E l’orologio? Un avvisatore annuncia l’ora nella casa. Erano noti soltanto gli orologi a sole o ad acqua. Così d’estate come d’inverno il giorno era diviso in dodici ore e altrettante la notte. All’ora terza del giorno, verso le nove, il padrone di casa esce per andare ad attendere agli affari, ai quali è dedicato il tempo che precede il mezzogiorno: in tutto il pomeriggio è libero di darsi al riposo, allo svago. Nel frattempo la donna domina la casa. I ragazzi più grandi sono a scuola con il loro custode. I più piccoli giocano nel giardino, nel porticato, insieme con i bambini degli schiavi allevati con essi. I servi sono al mercato e fanno la spesa. Le ancelle filano e tessono per i bisogni della famiglia. S’ode risuonare il canto della nutrice che allatta il più piccolo. Quindi è annunciata l’ora settima, cioè quella del mezzogiorno. Giunge il padrone per la colazione. Poi viene il più bello, la dormita del mezzogiorno, che nessuno tralascia di fare, specialmente d’estate. Quindi gran movimento nella cucina e nella sala da pranzo. La servitù prepara il desinare, che ha luogo verso le sei pomeridiane. Durante questi preparativi i signori della casa pensano alla ginnastica e al bagno. In seguito quelli di casa si raccolgono nella sala da pranzo vestiti leggermente e con libertà, nella bella stagione. Ogni commensale ha un servo per sè. La padrona, che è presente, non giace, ma siede. Il pranzo, tra conversazioni, concerti, passatempi e sorprese, si protrae fino a tarda notte. (T. Birt)

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L’abbigliamento maschile

Per un Romano vestirsi è un’operazione abbastanza semplice e rapida. Su di una specie di camicia di lino piuttosto corta ed in diretto contatto con la pelle, egli infila la tunica, ossia una veste di lana formata da due pezzi di stoffa cuciti insieme e tenuta stretta intorno al corpo da una cintura piuttosto bassa sui fianchi: la tunica cade in modo ineguale: fin sul ginocchio davanti, un po’ più lunga di dietro. Le maniche, o mancano del tutto, o non arrivano all’altezza del gomito. La tunica è la veste che porta la gente che lavora perchè è semplice e pratica. Il cittadino romano non si presenta mai in pubblico vestito della sola tunica: prima di uscire di casa egli si avvolge nella toga: essa è un manto di lana bianca pesante tutto di un pezzo. Ai piedi il Romano in casa usa i sandali, ma uscendo infila degli stivaletti di pelle fino al polpaccio e l’unico ornamento è costituito dall’anello che porta sull’anulare della mano sinistra e di cui si serve come sigillo ed ha la stessa funzione della firma per noi moderni.

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L’abbigliamento femminile

Anche le donne indossavano la tunica, differenziata da quella maschile solo per la maggior lunghezza. Sopra la tunica le matrone dovevano indossare la stola: quest’uso era stato imposto dal Senato perchè le matrone si distinguessero dalle donne di bassa condizione e dalle schiave. La stola era una veste lunga e ricca, stretta alla vita e ornata, in basso, sa una balza color porpora. Per uscire in pubblico le donne coprivano la stola con la palla, una specie di toga rettangolare che si avvolgeva intorno al corpo e di cui un lembo poteva essere portato sul capo. Se celebravano sacrifici o se prendevano parte a cerimonie religiose, coprivano la testa con un fazzoletto quadrato di stoffa purpurea o azzurra, ornato di frangia (rica).

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I vestiti nella Roma antica

Tre schiave, Ata, Mira e Dora, nell’ampia camera, le cui pareti erano rivestite di marmi preziosi, aiutavano la loro padrona, una dama della Roma antica, a vestirsi per uscire. Com’erano svelte ed abili, le schiave! La dama, bella con i capelli bruni e gli occhi neri, si mostrava piuttosto esigente e la sua voce imperiosa risuonava nella stanza: “Presto, datemi la stola!” La stola era un abito simile ad una lunga camicia di candida lana con le maniche corte, guarnito sul fondo da una frangia. Inchinandosi, Ata e Mira presentarono l’indumento alla bruna signora, e con i movimenti precisi glielo fecero indossare. Dora cinse la vita della donna con una cintura finemente lavorata. “La palla!” ordinò la dama. La palla era una specie di scialle, lungo e morbido. Mira e Dora lo sollevarono ed Ata le aiutò a farlo scendere, dal capo della loro padrona, sulle sue spalle, avvolgendolo poi con grazia intorno al suo corpo. Vanitosa, la dama non si saziava di ritoccarsi la veste, di drappeggiarsela intorno alle braccia, di aggiustarsi le pieghe dello scialle. Dora portò un paio di calzature, e inginocchiandosi Mira le infilò ai minuscoli piedi della dama. “La lettiga aspetta” disse Ata. Le tre schiave s’inchinarono profondamente, sorridendo alla loro padrona che usciva, maestosa e fiera. Nella strada, vestiti di una tunica scarlatta, immobili nell’attesa, diversi schiavi fiancheggiavano la lettiga sulla quale la dama prese il posto. Che frastuono, che vocio nelle vie della Roma antica! Bottegai, fabbri, barbieri, usciti dai loro bugigattoli senza luce, lavoravano e vendevano la propria merce nella strada. Grida, richiami s’intrecciavano nell’aria, la gente andava a veniva indaffarata. Strillando a perdifiato, bimbi piccini si rincorrevano: i più grandicelli erano andati alla scuola sin dall’alba, quando ancora la città era immersa nel sonno. Ora, sotto il sole, come cresceva l’animazione della città! Seguiti dai propri schiavi passavano uomini severi, consoli, senatori avvolti nella toga, un mantello che scendeva fino ai piedi passando con una delle sue parti sopra la spalla sinistra per lasciare libero il braccio destro. Portavano scarpe alte, chiamate calcei, il cui colore variava, rosso, nero, azzurro, secondo la dignità della persona. Passavano gli schiavi diretti al mercato e gruppi di forestieri il cui abito, nel tessuto e nella foggia, rivelava il paese da cui provenivano. La dama sorrideva, dalla sua lettiga, bella ed elegante…

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Un sontuoso pranzo

Proprio oggi si saranno molti ospiti di importanza. Ce lo dice uno schiavo che corre affannato verso il triclinio, cioè verso la sala da pranzo. Egli ha preparato ogni cosa: il pavimento riluce come uno specchio, gli stucchi delle pareti e delle colonne mostrano tutta la loro bellezza. Ascoltiamo cosa ci dice il bravo schiavo: “All’ora nona (cioè alle tre del pomeriggio) verranno dei senatori, dei generali, un grande avvocato e un poeta. Essi indosseranno la toga conviviale, si cingeranno il capo con una corona di edera o di alloro o di rose. Io ho preparato per loro tre lettucci con dei materassi: non sono letti per dormirci, ma per sdraiarcisi durante il pranzo. La padrona di casa siederà al centro dei lettucci. Un tempo invece le donne mangiavano da sole.” Ad un cenno del padrone lo schiavo servirà l’antipasto durante il quale si berrà del vino misto a miele, poi servirà le varie specie di carne e infine la frutta e i dolci. Si useranno piatti e vassoi d’argento, cucchiai e coltelli, ma le carni si porteranno alla bocca con le mani. Finito il pranzo sarà eletto il re del convito e si aspetterà l’alba fra canti di musici e brindisi.

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La scuola

L’anno scolastico aveva inizio nel mese di marzo. Nei giorni festivi e ogni nove giorni era vacanza. Le scuole non avevano banchi. Gli scolari sedevano su sgabelli e scrivevano su tavolette spalmate di cera usando una cannuccia detta stilo, un bastoncello appuntito, si legno o di metallo. Quando la tavoletta era scritta, si voltava lo stilo, che all’altra estremità era piatto, e si cancellava tutto. La carta di papiro e la pergamena costavano molto. Erano riservate agli scolari più grandi che vi scrivevano con la penna d’oca.

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Un sontuoso pranzo

Proprio oggi ci saranno molti ospiti di importanza. Ce lo dice uno schiavo che corre affannato verso il triclinio, cioè verso la sala da pranzo. Egli ha preparato ogni cosa: il pavimento riluce come uno specchio, gli stucchi della pareti e delle colonne mostrano tutta la loro bellezza. Ascoltiamo che cosa ci dice il bravo schiavo: “All’ora nona, cioè alle tre del pomeriggio, verranno dei senatori, dei generali, un grande avvocato e un poeta. Essi indosseranno la toga conviviale, si cingeranno il capo con una corona di edera o di alloro o di rose. Io ho preparato per loro tre lettucci con dei materassi: non sono letti per dormirci, ma per sdraiarcisi durante il pranzo. La padrona di casa siederà al centro dei lettucci. Un tempo invece le donne mangiavano da sole”. Ad un cenno del padrone lo schiavo servirà l’antipasto durante il quale si berrà del vino misto a miele, poi servirà le varie specie di carne e infine la frutta e i dolci. Si useranno piatti e vassoi d’argento, cucchiai e coltelli, ma le carni si porteranno alla bocca con le mani. Finito il pranzo sarà eletto il re del convito e si aspetterà l’alba fra canti di musici e brindisi.

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I giochi dei bambini

I bambini si dedicavano a un piacevole divertimento: attaccavano i topi a un carrettino di legno e poi li incitavano alla corsa. Gli altri giochi erano simili a quelli di oggi. Si giocava a pari e dispari tenendo chiusi nel pugno noci o sassolini e invitando il compagno a indovinare se erano in numero pari o dispari. Ci si divertiva pure a gettare in aria una moneta, cercando di indovinare quale sarebbe stata la parte rimasta scoperta. Avevano anche dei cerchi ornati di sonagli, trottole, barchette, bambole di terracotta.

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Gli edifici di spettacolo

I Romani preferivano le gare sportive e i combattimenti di belve e di gladiatori. Essi accorrevano ad assistervi nell’anfiteatro, una costruzione di forma ovale. Nel mezzo stava uno spazio libero, l’arena, per i lottatori; attorno, erano le gradinate per gli spettatori; sopra l’ingresso, un’alta balconata era riservata agli imperatori. Il più grande degli anfiteatri fu il Colosseo. I gladiatori erano schiavi o prigionieri di guerra istruiti in scuole speciali, al combattimento nell’arena.

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Il circo

Ecco una biga, cioè un carro velocissimo trainato da due focosi cavalli e guidato da un bravissimo auriga. A che cosa serve? La biga serve per i giochi del circo. Quando sono annunciate le corse delle bighe o anche delle quadrighe, cioè dei carri a quattro cavalli, una folla sterminata corre al circo e si dispone sulle gradinate lasciando i posti migliori ai senatori, ai consoli, ai patrizi. Ad un segnale, le bighe si lanciano a corsa pazza. Alcuni aurighi indossano una veste verde, altri azzurra, altri bianca e altri ancora rossa. I colori indicano, possiamo dire così, le squadre. Le bighe devono fare sette volte il giro di un muro che attraversa per lungo il circo. Alle estremità del muro ci sono tre colonne attorno alle quali i carri devono svoltare velocemente senza rovesciarsi. La folla grida, si entusiasma per un auriga o per un altro. Il vincitore avrà dei premi e potrà passare sotto la porta trionfale in segno di onore.

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L’anfiteatro

Nell’anfiteatro si svolgono invece altri giochi. L’arena dell’anfiteatro è trasformata ora in uno specchio d’acqua. E’ stato costruito anche un piccolo porto, davanti al quale combattono navi armate di rostro e navi armate di falci per tagliare le vele delle navi nemiche. Da un palco assiste allo spettacolo l’imperatore con la sua famiglia. Migliaia di persone accompagnano con urla l’affondamento di una nave. Se fosse invece il giorno dei combattimenti degli schiavi gladiatori, vedremmo terribili scene di paurosi duelli tra uomini e belve e tra schiavi e schiavi armati di spade, di reti e di lacci.

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Il trionfo

Il trionfo è uno spettacolo indimenticabile. Il generale vittorioso ha lasciato i suoi soldati fuori delle mura di Roma. Quando il Senato avrà decretato il trionfo, allora egli entrerà in città attraverso la porta trionfale, e su un cocchio d’oro trainato da quattro cavalli bianchi, percorrerà la via Sacra che porta al Campidoglio, fra un’immensa folla acclamante. Ecco, il trionfatore ha indossato la toga di porpora, nella mano destra tiene un ramo di alloro, sul capo ha una corona pure d’alloro. Vicino alla quadriga ci sono i trombettieri, gli aquiliferi, i re e i capitani nemici, vinti e incatenati, poi avanza l’esercito romano. Il corteo è chiuso dai senatori e da altri cittadini importanti. Dalle porte spalancate dei templi esce odore d’incenso. Dalle case si gettano rose sul vincitore. Arrivato al Campidoglio il trionfatore offrirà sacrifici agli dei.

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Abili costruttori

I Romani furono provetti costruttori di case, di acquedotti, di edifici pubblici, di templi. La casa di una famiglia ricca occupava solo il pianterreno. All’esterno essa presentava muri intonacati, senza finestre, aperti solo per la porta di ingresso e per le vetrine dei negozi che si affacciavano sulla via. L’interno era molto elegante. Molte famiglie povere abitavano in modesti alloggi di affitto entro grosse case di quattro, cinque e anche sei piani.

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Gli edifici pubblici

Attorno alla piazza principale, il Foro, i Romani costruivano gli edifici pubblici più importanti: il tempio, la basilica, nella quale sedevano i tribunali e si trattavano gli affari; le terme, stabilimenti di bagni pubblici con sale di lettura, di conversazione, per la ginnastica; la curia, dove si tenevano le riunioni dei patrizi e del Senato.

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Il Foro

A Roma il Foro era la parte più importante della città. Lì si amministrava la giustizia, lì avvenivano le sfilate dei soldati, lì si vendevano e si compravano le merci, lì erano anche templi dedicati agli dei.
Fino alle undici del mattino, il Foro era pieno di gente che acquistava e vendeva, parlava, gridava, di ragazzi che correvano, di carri e di cocchi.

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La strada romana

I Romani furono abilissimi costruttori di strade e le tracciarono in ogni periodo della loro storia. Furono anche i primi che, con potenti opere di muratura, tagliarono le vie sui fianchi dei monti.
Nei primi secoli le strade di Roma furono costruite per la guerra; poi, a mano a mano che le popolazioni sottomesse vennero pacificate, diventarono strade del lavoro e dei commerci.
Stabilito accuratamente il percorso, si scavava fino a trovare il terreno solido e lo si rafforzava validamente; su questo si sovrapponevano allora quattro strati: il primo era composto di sassi misti ad argilla, il secondo di pietre e frammenti di mattone e sabbia misti con calce, il terzo di pietrisco con frammenti di mattoni fortemente battuti, l’ultimo di lastre di pietra dura (basalto) poligonali, bene levigate e ben combacianti. Al centro, per permettere lo scolo delle acque, la strada era leggermente convessa.
Questa strada, che è la via consolare o la via pubblica, solitamente partiva da Roma col nome del personaggio che ne aveva iniziato i lavori, e, di preferenza, si snodava lungo un percorso rettilineo: infatti per ottenere tale percorso si scavavano gallerie, si rinforzavano i fianchi delle montagne, si gettavano ponti grandiosi e si costruivano solide palizzate, quando ci si trovava in presenza di terreni paludosi. A partire dal Foro, di miglio in miglio, dei cippi, le pietre miliari, indicavano la distanza dall’Urbe. La prima grande strada fu la via Appia da Roma a Capua, in seguito per Benevento fino a Brindisi.

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Gli acquedotti

I Romani furono grandi costruttori di ponti, di strade, di terme e di acquedotti. Questi ultimi erano davvero stupefacenti. Alcuni studiosi pensano che i Romani preferissero l’acquedotto su archi a quello con tubature sotterranee perchè non conoscevano il sistema dei vasi comunicanti. Ma ormai è stabilito che essi erano invece a conoscenza delle leggi fisiche dell’idraulica. Preferirono quasi sempre il sistema ad archi per comodità ed economia: infatti disponevano in abbondanza di travertino, mattoni, cemento, tutto materiale di facile impiego.
Le tubature metalliche, invece, sarebbero riuscite costose e malsicure. I Romani non sapevano lavorare con facilità la ghisa; il bronzo costava troppo; il piombo non poteva servire per una tubatura lunga anche molti chilometri, continua e di grande calibro. La lunghezza degli acquedotti romani (che non correvano sospesi per tutta la loro lunghezza, e in taluni tratti erano interrati) variava da dieci a ottanta – ottantacinque chilometri. L’altezza massima superava persino i sessanta metri.
Gli undici acquedotti esistenti nella Roma imperiale conducevano nella città circa sette milioni di ettolitri d’acqua al giorno. La cifra è alta, ma occorre tenere presente lo sciupio dovuto al sistema di far correre continuamente l’acqua, non esistendo allora i rubinetti.
Il primo acquedotto romano fu l’Appio, costruito da Appio Claudio, censore nel 312 aC. Il primo acquedotto su archi fu quello dell’Acqua Marcia (146 aC) lungo circa ottantuno chilometri.

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I fabbricatori di ponti

Costruire un ponte su un fiume abbastanza largo è un’impresa molto difficile. Gli Egiziani e i Babilonesi, per esempio, che pure sapevano costruire grandi edifici, non erano riusciti a costruire ponti sul Nilo, sul Tigri, sull’Eufrate. Per traversare i fiumi essi si servivano di zattere o di altre imbarcazioni. Costruire un ponte su un fiume non troppo largo è più semplice.
I fiumi dell’Italia non sono tanto larghi. Gli Etruschi furono capaci di costruire ponti sui fiumi e insegnarono la loro arte ai Romani. I primi ponti erano di legno.
L’arte di costruire ponti era conosciuta solo da pochi uomini. Gli uomini che costruivano ponti si chiamavano pontefici, cioè fabbricanti di ponti. Il capo di questi uomini si chiamava Pontefice Massimo.
I primi ponti costruiti sembravano agli uomini comuni opera di magia. I Romani pensavano che un ponte non potesse stare in piedi senza l’aiuto degli dei. Per questo il Pontefice Massimo, cioè l’ingegnere capo, era anche il capo di tutti i sacerdoti che pregavano gli dei.
Quando poi l’arte di costruire i ponti fu conosciuta da un maggior numero di persone e non sembrò più magia, la parola pontefice restò ad indicare solo il capo della religione di Roma. Anche oggi il capo della Chiesa si chiama Pontefice.

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Il lavoro della giornata e la cena presso i Romani

Il lavoro della giornata si concentra tutto nella mattinata e nelle prime ore del pomeriggio. Il padre di famiglia esce al mattino per le sue occupazioni. La donna si cura invece della casa. Dopo la colazione, verso il mezzogiorno, ci sarà il pranzo, un pasto leggero consistente in un piatto di pesce, legumi e frutta. Non occorre, dice uno scrittore, nè apparecchiare la tavola nè lavarsi le mani. E’ solo un rapido spuntino. Nel pomeriggio invece il Romano si mette a tavola. Sono circa le tre. Alcune cene si prolungano fino a tarda sera, altre sono più brevi.

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La posta romana

La storia ci parla di un servizio postale abbastanza organizzato in Roma. Ma non bisogna credere che si trattasse di un’istituzione a favore della popolazione. Era servizio statale di regolari comunicazioni fra capitale e provincia, necessario per l’andamento del governo. Lungo le strade, ogni tanti chilometri, v’era la “posta”, cioè una specie di stazione dove il corriere poteva rifocillarsi, cambiare il cavallo o i cavalli, e proseguire il suo viaggio.

Le insegne romane

Ciò che è per noi la bandiera, era per i Romani l’insegna. Da principio era semplicemente una lancia che portava in alto un pezzo quadrato di stoffa per la cavalleria e portava, invece, la raffigurazione di un animale, come la lupa, il cavallo, per le coorti di fanti. Le aquile d’oro o d’argento erano le insegne riservate alle legioni.
Tra i soldati più valorosi si sceglievano quelli a cui si affidavano le insegne ed essi, allora, venivano chiamati antesignani.

Istruzione dei giovani Romani

Semplice era l’insegnamento che s’impartiva nei primi tempi; l’antico Romano ne aveva abbastanza degli studi quando sapeva leggere, scrivere e far di conto. Ma negli ultimi anni della Repubblica e durante l’Impero, l’istruzione del giovane, fattasi più complessa, passava per tre gradi; le lezioni elementari si facevano nella scuola, dove i ragazzi, dopo aver imparato a leggere e a scrivere alla meglio, imparavano a far di conto e a stenografare. Si faceva lezione in qualche stanzuccia d’affitto o anche all’aperto. L’anno scolastico cominciava di marzo dopo la festa in onore di Minerva, cara soprattutto agli scolari; vi erano delle vacanze nei giorni festivi e ogni nove giorni. Che fosse stabilito un periodo estivo di vacanze non risulta chiaro; ma vi era l’uso di far riposare i ragazzi durante la calda estate. L’orario scolastico era di sei ore: le lezioni cominciavano di buon mattino; venivano interrotte verso mezzogiorno, quando gli scolari tornavano a casa per la colazione, e riprese nel pomeriggio.
L’arredamento della scuola era semplice. Solo in qualche scuola e in certi casi, gli scolari si riunivano col maestro intorno a un tavolo; di regola non vi era il banco nè per il maestro nè per gli scolari; il maestro stava seduto su di una seggiola, gli scolari su sgabelli, tenendo sulle ginocchia la tavola su cui scrivevano e che portavano con sè, insieme con la penna, la carta, l’inchiostro.
Terminati gli studi elementari, cominciavano sotto la guida del maestro di grammatica l’insegnamento medio. Anche questo, secondo l’uso e le possibilità delle famiglie, veniva impartito in casa o in una scuola pubblica tenuta da un privato.
Dalla scuola del maestro di grammatica si usciva conoscendo alla perfezione il latino e il greco, cioè le due lingue che una persona colta doveva necessariamente parlare. Anche le donne conoscevano il greco. (U. E. Paoli)

Tavole cerate, penne e inchiostro

Per scrivere gli alunni avevano le tavolette, dette cerae o tabulae ceratae, che erano usate da tutti i Romani per appunti, lettere e annotazioni brevi: erano tavolette di legno rettangolari dagli orli rilevati, entro in quali si stendeva uno strato di cera molle. Si scriveva incidendo i caratteri sulla cera mediante un cannello di avorio o di metallo (stilus) appuntito ad una estremità e incurvato e appiattito dall’altra per poter cancellare i segni tracciati e rendere di nuovo uniforme lo strato di cera. Portare questi lunghi stili, spesso pericolosi, era alquanto scomodo: si ricorreva ad un astuccio (graphiarium o graphiaria theca), che scolari, scribi e copisti avevano sempre con sè.
Sul margine delle tabulae ceratae erano praticati dei fori, attraverso i quali passava una cordicella che legava tra loro due o più tavolette, in modo da formare una specie di piccolo libro dalle pagine di legno cosparse di cera su entrambe le facciate, eccezion fatta per le tavolette estreme, che fungevano da copertina e avevano la cera solo internamente.
Per scrivere sulla carta (papiro o pergamena) si ricorreva invece all’inchiostro nero (atramentum): un miscuglio ottenuto con fuliggine, pece, liquido di seppia e feccia di vino diluito in acqua. Il calamaio (atramentarium) era formato da uno o due recipienti cilindrici uniti insieme. Per i titoli dei libri esisteva uno speciale inchiostro rosso; c’erano anche vari tipi di inchiostri “simpatici” che comparivano e scomparivano se trattati con speciali accorgimenti.
Lo stilo in questi casi era sostituito da una penna di uccello o da una cannuccia (calamus), appuntite con un coltellino (scalprum) o anche, più raramente, da una penna di bronzo.

Il gran pranzo di un arricchito

C’era gente sobria che si contentava di pan d’orzo, di legumi, un pollo o un pesce, olive e noci, un frutto e uno spicchio di cacio. C’era chi ogni tanto offriva una cena modesta ai parenti e agli amici con qualche coppia di piccioni immersi in un intingolo elaborato, con pepe, olio, aceto, vino, miele, datteri e senape; con funghi cotti nel miele e spezzatino di maiale con cavoli e lenticchie.
Ma c’era anche chi, per mostrare la sua ricchezza e sbalordire gli amici, non si peritava a far mostra della più goffa pacchianeria. Uno stuolo di schiavi accoglie gli ospiti sull’uscio di casa, li accompagna al bagno o porge l’acqua per lavarsi le mani in preziosi bacili.
Poi i servi fanno strada nel triclinio e assegnano i posti alle tavole. Gli ospiti si distendono sui sofà e vedono in bella mostra un originale vassoio per le gustationes: cominciano le meraviglie con questo asinello di bronzo che porta due bisacce, una con olive nere e una con olive verdi. Sui piatti d’argento che l’asinello sostiene, oltre al nome del padrone è inciso il loro peso perchè tutti lo possano vedere e così valutare la ricchezza dell’ospite.
Sui piatti, ghiri conditi con miele e papavero, e salsicce fumanti distese su una gratella d’argento, sotto la quale, per imitare le braci, sono state poste prugne secche, nere, cosparse di rossi chicchi di melograno.
Si dà inizio al banchetto e mentre i sonatori strimpellano una musichetta allegra, entrano altri schiavi portando un gran vassoio sul quale giace una gallina di legno intenta a covare uova che sembrano di pavone. Il padrone fa finta di diffidare della loro freschezza e si viene così a scoprire che il guscio è di farina impastata e che dentro c’è un beccafico bello grasso che nuota in un rosso d’uovo pepato.
Se un vassoio d’argento pesante mezzo quintale cade dalle mani di uno schiavo, il padrone lo fa gettare via insieme ai rifiuti. Poi altri schiavi passano per la lavanda delle mani e adoperano vino puro e non del peggiore. Il vino che vien posto sulla tavola, in anfore sigillate di grosso vetro, è Falerno di cento ani fa. Ed ecco che arriva il primo piatto forte della serata, una specie di trofeo coi dodici segni dello zodiaco e ogni segno è rappresentato da una ghiottoneria particolare: i Pesci due triglie; il Granchio un grosso gambero di mare; il Toro una braciola di manzo; e così via.
Quando tutti hanno osservato ed hanno espresso la loro ammirazione, a un cenno del padrone quattro schiavi entrano a passo di danza e sollevano la parte superiore del trofeo: sotto c’è un immenso vassoio colmo di pollastre grasse e di ventresche lardose che incorniciano una lepre alata, con la quale il cuoco ha voluto raffigurare Pegaso. Quattro satiretti versano intanto da piccoli otri una salsa piccante su certi pesci delicati che sembrano nuotare nel guazzo.
La conversazione si fa sempre più spiritosa, anche se non è tra le più fini, considerando il genere dei convitati, quasi tutti liberti arricchiti. Ed ecco altre sorprese: dopo che i servi hanno disteso nuove coperte sui letti, dipinte con reti e cacciatori, e dopo che una muta di vivacissimi cani da caccia è entrata di corsa nella stanza, arrivano dei servi portando un gigantesco cinghiale disteso su un vassoio, e alle cui zanne sono appesi due cestelli intrecciati con foglie di palma e ricolmi l’uno di datteri carioti, l’altro di datteri tebaici.
Tra le esagerate esclamazioni di meraviglia degli ospiti, si fa avanti allora una specie di barbuto cacciatore con le gambe attorte di cinghie e con una mantellina di damasco; brandito un coltello mena un gran colpo nel fianco del cinghiale, e dallo squarcio si alza a volo uno stormo di tordi. Gli uccellatori stavano pronti all’intorno, con le canne cosparse di vischio e in un attimo riacchiappano tutti gli uccellini che svolazzano come impazziti per il triclinio. Allora il padrone di casa ordina che ne venga servito uno per ciascun commensale. Intanto che gli uccelli cuociono i servi si accostano ai canestri che sono appesi alle zanne del cinghiale, e distribuiscono in egual misura tra i convitati i dolcissimi datteri delle due diverse qualità.
E il banchetto a questo punto è appena a mezzo: il padrone vuol divertirsi ancora a sbalordire gli ospiti, che in cuor loro lo mandano a quel paese, ma che, per essere venuti, sono costretti ormai a stare al gioco.
Ecco, adesso i servi portano in tavola un maiale di rispettabili dimensioni che il cuoco finge di non aver per la troppa fretta sventrato. E proprio mentre sta per essere punito della dimenticanza imperdonabile, il padrone, fingendo di cedere alle preghiere degli invitati, glielo fa aprire lì per lì, e dal ventre del porco escono salsicce e sanguinacci caldi.
Poi mettono in tavola un trionfale trofeo di dolci e di frutta che schizzano giallo zafferano addosso agli ospiti come fontane burlesche; e poi ancora galline ingrassate da rivoltar lo stomaco, con contorno di uova d’oca incappucciate e tordi di fior di farina riempiti riempiti di uvetta e di noci, e mele cotogne irte di spini per figurare dei ricci, e un’oca ingrassata circondata da pesci e da uccelli d’ogni tipo, che il cuoco con abilità da scultore ha foggiato con carne di maiale. E ancora ostriche e lumache.
Ma qualcuno scivola sotto la tavola, altri, più saggi, fanno chiamare i loro schiavi ai quali sottovoce ordinano di preparare la lettiga e le torce, poi, senza parere, tagliano la corda: il padrone è diventato triste e malinconico a causa del troppo vino che ha bevuto e comincia a parlare della morte… (Petronio, Arbitro, Satiricon)

Le grandi strade romane

La prima delle grandi strade fu, tre secoli prima di Cristo, l’Appia. Costruita per iniziativa di Appio Claudio il Cieco, censore, questa via unì Roma a Capua secondo un itinerario razionale, e in seguito fu prolungata fino a Brindisi, estremo lembo d’Italia, passando da Benevento e da Taranto.
Le altre seguirono nei secoli successivi e collegarono dapprima i luoghi vicini a Roma, come la via Clodia che portava in Etruria, la Cassia che attraverso l’Etruria portava in Emilia, l’Aurelia che menava in Liguria, la Postumia che partendo da Genova, attraverso la valle padana e il Veneto, giungeva ad Aquileia e oltre fino a Concordia sull’Adriatico, la Flaminia che arrivava a Rimini, la Salaria che congiungeva Roma all’Adriatico, l’Emilia che attraverso la pianura padana da Rimini raggiungeva Piacenza, la Latina che scavalcava l’Appennino e giungeva in Campania, la Valeria che prolungava la Triburtina da Tivoli fino a Corfinio, la Popilia che distaccandosi dall’Appia giungeva fino a Reggio Calabria attraversando la Lucania. Poi le nuove strade si protesero nelle province conquistate, come l’Egnatia in Balcania, il prolungamento dell’Aurelia in Gallia che, dalla Provenza, di cui seguiva la costa, arrivava fino a Lione seguendo la valle del Rodano, e le altre tante che si diramavano verso il confine del Reno.
Le strade, la cui larghezza massima si aggirava sui cinque metri, erano pavimentate con ghiaia o erano, come la via Appia, selciate con grossi ciottoli o con blocchi di pietra basaltica squadrati a forma di poligoni regolari.

La donna romana fa toilette

Se nei primi tempi di Roma le donne non curavano molto il loro viso e il loro abbigliamento, nell’età repubblicana, per influenza dei costumi orientali, la donna acquisì il gusto delle vesti raffinate, degli ornamenti preziosi e delle cure di bellezza. Come prima cosa il mattino, appena alzata, si lava accuratamente il viso, poi lo ammorbidisce con un unguento oleoso. Passa quindi alla pulizia dei denti e in tutte queste occupazioni è attorniata da due o più schiave che le presentano lo specchio e che sono adibite soprattutto alla sua pettinatura. Essa non ignora poi l’uso del trucco per gli occhi e il rosso per le labbra.

I teatri

Erano formati da una gradinata a semicerchio detta cavea che andava restringendosi verso il centro. Nel mezzo era l’orchestra e lì eran poste sedie riservate ai senatori. Di fronte stava la scena dietro e ai lati da muri variamente ornati. Gli attori portavano sul volto una maschera e quando recitavano le tragedie indossavano abiti pomposi e calzavano alti coturni; per le commedie e per le farse portavano abiti comuni, di colori vivaci, e ai piedi scarpe basse, dette socchi.

Gli anfiteatri

Possono considerarsi formati dall’unione di sue teatri e quindi avevano la forma quasi circolare o meglio ellittica. La gradinata girava tutt’attorno e nel mezzo c’era una spianata pure di forma ellittica in cui si svolgevano gli spettacoli. Questi consistevano in lotte fatte combattere da gladiatori fra di loro o contro bestie feroci. I primi teatri e anfiteatri romani furono costruiti in legno; soltanto nel primo secolo avanti Cristo se ne costruirono in muratura, alcuni di grandissime dimensioni, capaci di parecchie decine di migliaia di persone. In qualche luogo dove il terreno era roccioso e in forte pendio o faceva una curva quasi semicircolare, la gradinata dei teatri si costruiva sulla roccia stessa.

Le terme

Le Terme erano edifici destinati ai bagni, i quali erano molto in uso presso i Romani a causa del clima caldo e per ragioni igieniche. Queste costruzioni, prima semplici, furono più tardi grandiose e piene di lusso. Vi si potevano fare bagni freddi o tiepidi o caldi dentro ad ampie vasche dette piscine o dentro a tinozze. Oltre alla conduttura dell’acqua v’erano anche tubi attraverso cui l’aria alquanto riscaldata era trasportata in apposita stanza detta tepidario dove si raccoglievano quelli che avevano bisogno di sudare. Più tardi si introdusse l’abitudine del bagno a vapore, fatto mediante aria molto calda. Oltre alle stanze per i vari bagni, le Terme contenevano spogliatoi per bagnanti, stanze dove essi si fregavano e si ungevano il corpo dopo il bagno, locali destinati agli esercizi ginnici, al passeggio, alla conversazione.
Le Terme fatte costruire dall’imperatore Caracalla, delle quali ci restano tuttora degli avanzi notevoli, erano veramente magnifiche per grandiosità ed eleganza di costruzione architettonica, per ornamenti di colonne, di statue e di quadri, per la bellezza dei marmi che rivestivano le pareti e dei mosaici che formavano l’impiantito.

Il Carnevale dei Romani

Il giorno decimoquarto avanti le calende di gennaio, ossia per noi il 19 dicembre, a Roma avevano inizio le feste di Saturno, o Saturnalia.
Le vie erano affollate di gente in preda alla più sfrenata allegria. Particolarmente lieti erano gli schiavi, i quali, per tre giorni, erano liberi di fare ciò che volevano, come fossero i padroni. Alla festa intervenivano cantanti e suonatori che inneggiavano a Saturno con il suono acuto dei flauti e con quello più dolce della lira; giocolieri improvvisati; comitive di buffoni con il volto coperto di maschere, i quali saltavano al suono delle tibie e delle chitarre. Ad accrescere il frastuono si univano le voci dei venditori di giocattoli, di cibi e di merce varia.
A un certo punto la folla, che gremiva di continuo il tempio di Saturno, poteva assistere a uno strano spettacolo: l’ingresso del Pretore urbano, portato in trionfo da un gruppo di individui sparuti che avevano in mano una catena di ferro: erano i prigionieri del carcere Mamertino, che venivano graziati in onore del dio e che a lui portavano le loro pesanti catene. (P. Piccoli Allodoli)

Un nuovo cittadino romano

Il 17 marzo in molte case dell’antica Roma c’era festa perchè i giovinetti, che avevano compiuto i diciassette anni, vestivano la toga virile facendosi veri cittadini romani.
Anche in casa dell’avvocato Lucio Emilio Sullo erano convenuti parenti, amici e clienti per festeggiare il figlio Marco, che da poco tempo aveva passato il diciassettesimo anno. All’apparire del giovinetto, tutti esclamarono: “Gli dei ti proteggano, Marco!”
Marco rispose con un sorriso e poi si avvicinò all’altarino degli dei Lari, protettori della casa.
Davanti all’altarino si trovavano già il babbo, la mamma e i fratelli minori. Il padre, sacerdote della famiglia, si accostò a Marco e gli sganciò dal collo la catenina della bulla, una specie di medaglione, che i Romani credevano portasse fortuna.
“Ora”, gli disse il padre, “hai forze sufficienti per sorreggerti da te e non ne hai più bisogno”.
A un cenno del padre, uno schiavo aiutò Marco a togliersi la toga con la balza porpora e quindi porse una candida toga nuova fiammante, senza alcun orlo, proprio come quella che tutti gli adulti Romani indossavano sulla tunica.
La mamma stessa, con le lacrime agli occhi per la commozione, lo aiutò ad indossare l’abito che lo faceva un nuovo cittadino romano.
Quando il giovinetto apparve vestito da uomo, suo padre gli sorrise contento, sua madre lo abbracciò e tutti i presenti si congratularono con lui, ripetendo questo augurio: “Che gli dei ti conservino sano per molti anni!”
Finita la piccola cerimonia, si formò il corteo per accompagnare solennemente il giovinetto fino al Foro.
Il corteo si apriva con alcuni schiavi che avevano trombe d’argento, seguiti da fanciulli e fanciulle. Poi veniva il festeggiato con i parenti, e quindi seguivano gli amici e i conoscenti.
Giunti nel Foro, Marco si presentò davanti al Pretore, il quale scrisse su una pergamena il suo nome e lo salutò con queste parole: “Stai sano, Marco Emilio Sullo! Da oggi sei un nuovo cittadino romano!”
Il corteo proseguì verso il tempio della dea Gioventù e quindi salì il Campidoglio, il colle sul quale si ergeva il tempio di Giove, il più importante di Roma.
Qui il nuovo cittadino offrì agli dei un bianco torello, che venne ucciso davanti all’altare. Salì al cielo il fumo, mentre la sua tenera carne fu poi usata per il banchetto.
Usciti dal tempio, il padre di Marco mostrò al figliolo la città che si stendeva ai piedi del Campidoglio, bellissima coi suoi infiniti marmi bianchi, che rilucevano al sole.
“Marco”, gli disse “da oggi anche tu puoi essere utile alla regina del mondo”.
“Cercherò di esserlo” rispose Marco.
Prima di tornare a casa, il giovanetto sostò nella bottega di un barbiere. Davanti alla bottega gli invitati formarono dei gruppi in attesa. Anche i curiosi si fermavano quando sentivano dire: “C’è un giovinetto che si taglia la prima barba!”
In un recipiente speciale, la barba fu poi offerta in un tempio agli dei, e all’uscita nuovi abbracci, nuovi auguri e anche molti regali al nuovo e fortunato cittadino romano. (R. Botticelli)

Nelle terme

Lucio Valerio attraversò il vasto atrio delle terme, seguito dal corteo dei suoi schiavi. Erano le due del pomeriggio, e i saloni delle terme erano affollati.
Lucio Valerio entrò anzitutto nella palestra, dove fece alcuni esercizi ginnici che gli sciolsero le membra e gli riscaldarono il corpo, poi lasciò le vesti nello spogliatoio (uno schiavo ne rimase a guardia) e si diresse verso la grande piscina fredda: il frigidario. Si tuffò e nuotò nell’acqua gelida per diversi minuti. Quindi si recò nel tepidario, dove sedette su una delle panchine di marmo per ristorarsi con un soffio di aria tiepida… Rimaneva da fare il bagno caldo. Valerio passò nel calidario e si immerse nella vasca.
Subito gli schiavi si misero all’opera: uno gli strofinò le membra con soda per pulirgli la pelle, un altro lo massaggiò con cura, un terzo lo unse con un olio profumato, un quarto gli porse i panni per asciugarsi. Il servo rimasto nello spogliatoio arrivò con le vesti. E, per ultimo, il coppiere gli porse una tazza di vino caldo e fragrante, addolcito con miele.

Uno spettacolo nel Colosseo

Ecco l’Imperatore: il popolo, sempre in solluchero alle feste, e in specie a feste di sangue, gli batte le mani. I sacerdoti e le vestali consacrano sacrifici agli dei protettori di Roma: il sangue corre, le viscere delle vittime ardono, si consumano nel fuoco sacro; risuonano i cori e la musica; e la moltitudine schiamazza di nuovo.
Al segno di comando compaiono i gladiatori che salutano tutti col sorriso sulle labbra, come se li aspettasse uno squisito festino e non l’inesorabile morte.
Sono nati sulle montagne, nei deserti, hanno respirato l’aria pura dei campi e goduto della sacra libertà. La guerra, soltanto la guerra, ha potuto strapparli alla loro patria. In Roma li hanno ben nutriti perchè facessero buon sangue, sangue dolce da offrire in olocausto al popolo romano. Forse molti di essi, or ora, si feriranno, si uccideranno fra di loro; molti si vogliono bene, si sentono fratelli, eppure dovranno ferirsi, immolarsi.
Eccoli, già si guardano, si minacciano, si avviluppano, si gettano contro a barbara lotta. Se qualcuno, preso da paura per sè, o da compassione per il suo avversario, si tira in disparte, il maestro del circo gli conficca nelle carni nude un bottone di ferro rovente. Il sangue rosseggia, inzuppa la terra.

Lotte di gladiatori
Squillarono le trombe e vi fu un profondo silenzio; migliaia di sguardi si diressero sulla porta verso la quale un uomo, vestito da Caronte, avanzava, battendo su questa tre colpi di martello, quasi invitasse alla morte coloro che si trovavano al di là. Aperti lentamente i battenti, lasciando scorgere una cupa voragine, entrarono nel Circo i gladiatori. Avanzarono a schiere di venticinque: Traci, Mirmilloni, Sanniti, Galli; tutti armati pesantemente. Seguivano i retiarii, con la rete in una mano e nell’altra il tridente.

Furono accolti da applausi che divennero fragorosi. In tutto l’anfiteatro si vedevano facce accese, mani alzate, bocche aperte. E intanto i gladiatori, fatto il giro dell’arena con passo fermo, scintillanti nelle ricche armature, si fermarono davanti alla loggia cesarea, superbi e tranquilli. Uno squillo di tromba acuto interruppe i battimani, i gladiatori alzarono le braccia, e rivolgendosi a Cesare, intonarono lentamente: “Salve, Cesare imperatore! Coloro che sono per morire ti salutano!”.

Dopo, presero posto nell’arena.

Dovevano cozzare schiera contro schiera, ma ai più famosi fu comandato di battersi singolarmente, perchè potessero meglio dar prova di sveltezza e di coraggio. Dal gruppo dei lottatori ne uscì uno ben conosciuto, di nome Macellaio (Lanio), famoso vincitore. Con l’enorme elmo e la corazza che fasciava la schiena poderosa, spiccava sulla gialla arena come un immane scarabeo. Il non meno celebre retiario Calendio gli andò incontro.
Cominciarono le scommesse.

“Cinquecento sesterzi per il Gallo!”

“Cinquecento per Calendio!”

“Per Ercole, ne scommetto mille!”

“Duemila!”

Intanto il Gallo, giunto nel mezzo, cominciava a retrocedere; protendendo la spada, e piegando il capo da una parte, seguiva attentamente l’avversario, e il retiario, svelto, nudo, di forme scultoree, coperte di una sciarpa, rapidamente gli girava intorno, agitando con arte la rete, ora abbassando ora rialzando il tridente…

Ma il Gallo non fuggiva; piantandosi saldo, faceva in modo da avere sempre di fronte l’avversario. C’era qualcosa di pauroso nella sua grossa testa mostruosa in in tutta la sua persona. Gli spettatori sapevano che egli si preparava ad un balzo improvviso che avrebbe potuto decidere della lotta. E il retiario ora gli correva incontro, ora dava un balzo indietro con tale rapidità, che non era possibile seguirlo con lo sguardo.

Più volte il colpo del tridente risuonò sulla corazza, ma il Gallo rimase saldo, dando prova così della sua forza inverosimile. La sua attenzione si concentrava non sul tridente ma sulla rete che gli girava attorno come un uccello di cattivo augurio.

Gli spettatori, trattenendo il fiato, seguivano attentamente il gioco dei lottatori. Lanio, al momento opportuno, balzò alla fine sull’avversario, ma questi, rapidissimo, gli sfuggì di mano, si raddrizzò e scagliò la rete. Il Gallo, con un giro, la respinse con lo scudo, quindi, indietreggiarono ambedue. L’anfiteatro echeggiò delle grida di “Macte!” (ammazzalo!). Nelle prime file si impegnarono nuove scommesse.

E i gladiatori ricominciarono a lottare con arte, con precisione di movimenti, da far pensare che non si trattasse di una lotta di vita o di morte, ma di una gara di destrezza. Lanio cercava di evitare la rete, retrocedendo. Allora coloro che scommettevano cominciarono a gridare: “Dagli addosso!”, eccitandolo a non riposarsi.
Il Gallo obbedì, e si slanciò sull’avversario. Il braccio del retiario si coprì di sangue e la rete gli pendette dalla mano. Lanio si raccolse e spiccò un salto per vibrare l’ultimo colpo. Ma in quel punto, Calendio, che aveva finto di non poter reggere la rete, scansò il colpo e, conficcando il tridente nelle ginocchia dell’avversario, lo fece stramazzare a terra.
Lanio, sempre più avviluppato nella rete fatale, cercava invano di rialzarsi, sempre più imbrogliandosi. Intanto altri colpi lo inchiodavano a terra; puntò la mano, raccolse le forze ma invano: portò alla testa la mano che non reggeva più la spada, e cadde. Il Circo tremò dagli applausi, dalle grida. Il pubblico era diviso in due parti. Chi gridava morte, chi grazia. Ma il retiario non guardava che Cesare e le Vestali e aspettava la loro sentenza.

Per sventura, l’imperatore non amava Lanio, perchè aveva scommesso per lui una volta ed aveva perduto, perciò, sporgendo la mano, abbassò il pollice.

Il segno fu ripetuto dalle Vestali. (E. Sienkiewicz)

Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture

Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Le oche del Campidoglio

I Galli erano un popolo ancora selvaggio che viveva di là delle Alpi; erano alti, biondi, forti e si muovevano di terra in terra in cerca di preda. Un giorno scesero in Italia, travolsero la debole difesa degli Etruschi, penetrarono nel Lazio ed entrarono in Roma, incendiando, rubando e distruggendo ogni cosa.
I Romani, per tentare l’estrema difesa, si asserragliarono sul Campidoglio, dove erano custodite le oche, sacre alla dea Giunone. Una notte, mentre le sentinelle, stanche di vegliare, si erano addormentate, i Galli si avvicinarono silenziosi alla fortezza e ne tentarono la scalata. I Romani stavano per essere sorpresi nel sonno e uccisi, quando le oche si misero a starnazzare svegliando i difensori, che corsero alle armi e ricacciarono i nemici.

La spada di Brenno

Nella rocca scarseggiavano i viveri e i Romani furono costretti a chiedere la pace a Brenno, il capo dei Galli, che volle in cambio mille libbre d’oro.
Portata la bilancia, si cominciò a pesare l’oro, ma questo non bastava mai, perchè la bilancia dei Galli era falsa. I Romani protestarono, ma Brenno buttò la sua pesante spada sulla bilancia e disse: “Guai ai vinti! Voglio ancora tanto oro quanto pesa alla mia spada!”
In quel momento terribile, Furio Camillo, radunò i Romani timorosi e dispersi e li guidò ad un assalto improvviso. I Galli non si aspettavano certo l’attacco e furono travolti. Rapidi come erano venuti, si ritirarono nelle loro terre, incalzati dall’esercito di Camillo. Il valoroso generale romano fu chiamato il secondo fondatore di Roma.

L’invasione dei Galli

I Galli erano popoli che abitavano nella regione che oggi si chiama Francia e che anticamente era denominata Gallia. Essi passarono le Alpi e scesero in Italia in cerca di nuove terre. Dopo aver occupato gran parte dell’Italia Settentrionale, attraversarono l’Etruria (così era chiamata in quel tempo la Toscana) e penetrarono nel Lazio. I Romani si prepararono a difendere il loro paese minacciato e dettero battaglia presso l’Allia, un piccolo affluente del Tevere, a soli 16 km dalla città, contro un nemico agguerrito e triplo di numero. Le legioni romane furono travolte, e la via della città aperta al nemico (390 aC).
La popolazione, atterrita, fuggì ma gli uomini atti alle armi si raccolsero a Veio, preparandosi a continuare la resistenza. Solo per patriottismo e per attaccamento al suolo nativo, rimase a Roma un piccolo numero di vecchi, in gran parte patrizi. Un manipolo di giovani animosi si asserragliarono nella fortezza del Campidoglio da dove respinsero l’uno dopo l’altro i ripetuti attacchi del nemico.

Papirio e i Galli

Quando i Galli entrarono in Roma solo i vecchi si rifiutarono di abbandonare le loro case e rimasero in città. Quelli che avevano occupato alte cariche, indossarono la loro toga di cerimonia ed attesero, seduti sul loro scanno d’avorio.
Quando i Galli, avidi di bottino, entrarono nella indifesa città trovarono le case dei plebei sbarrate e vuote, quelle dei patrizi spalancate.
Esitanti si affacciarono dentro l’atrio delle dimore patrizie e la vista di quei vecchi maestosi, immobili come statue, solenni come divinità, li intimorì.
Si racconta che un Gallo volle lisciare la barba a uno di essi: quel gesto ruppe ogni incantesimo. Marco Papilio, tale era il nome del vecchio, colpì con lo scettro che teneva in mano il rozzo soldato e questo segnò l’inizio della strage.
Tutti i vecchi furono trucidati, tutte le case furono saccheggiate e incendiate.

Le oche salvano il Campidoglio

I Galli decidono di approfittare del favore delle tenebre per tentare l’assalto al Campidoglio; con  passo felpato e circondati da un silenzio così profondo da ingannare non solo le sentinelle ma gli stessi cani da guardia, si fanno sotto la rocca.  Non un ramo spezzato, non un bisbiglio: pare che trattengano perfino il respiro. E così cominciano la scalata. Ma non possono sfuggire alle oche sacre a Giunone, quelle oche che i Romani, malgrado la carestia dell’assedio, avevano risparmiato per ossequio alla dea. E le oche salvarono il Campidoglio, salvarono Roma. Intuita la presenza degli estranei, cominciarono a gridare, sbattendo gran colpi d’ali. Il fracasso sveglia M. Manlio che, chiamando all’armi i compagni, corre sugli spalti della rocca: un Gallo è già giunto lì sopra, pronto a scavalcare, ed egli lo precipita giù, facendogli trascinare nella caduta quelli che lo seguivano più vicini. Intanto tutti i Romani subito riuniti assaltano il nemico con ogni sorta di proiettili, specie con macigni che li schiacciano e li fanno rotolare in basso.

Il secondo fondatore di Roma

Purtroppo, costretti dalla fame, dopo pochi giorni, i coraggiosi difensori della rocca capitolina dovettero venire a patti coi Galli. E venne stabilito che il nemico avrebbe abbandonato Roma solo dietro compenso di una grande quantità d’oro.
Mentre si pesava questo oro, Brenno, il capo dei Galli, gettò sulla bilancia, dalla parte dei pesi, la sua pesante spada, per aumentare la taglia; e alle proteste dei Romani arrogantemente rispose: “Guai ai vinti!”
Proprio in quel momento rientrava in Roma Furio Camillo, valoroso generale che aveva raccolto e radunato i guerrieri fuggiaschi. Come una furia giunse sulla piazza; si arrestò di fronte a Brenno dicendo: “Non con l’oro, ma col ferro si libera Roma!”
I Romani, rianimati da tanto coraggio, ripresero la lotta, e i Galli, con enormi perdite, furono cacciati dalla città e costretti alla fuga. Roma era salva.
La città, quasi totalmente distrutta, per volere di Camillo venne ricostruita più bella e più grande.

Camillo

Camillo era un grande generale romano. Egli viveva in esilio, essendo stato accusato di essersi appropriato dei bottini di guerra. Quando apprese che i Galli stavano contrattando la resa di Roma, formò un piccolo esercito di soldati fuggiaschi, arrivò in Campidoglio e provocò la fuga dei barbari e di Brenno, il loro capo.

Furio Camillo

Nel 389 aC Roma attraversò uno dei più critici momenti della sua storia. Un’irruzione di Galli cisalpini, popolo barbaro e indubbiamente assai inferiore ai Romani in virtù militare, invase l’Etruria, minacciando il territorio della stessa Repubblica. Roma mandò loro incontro le sue milizie, ma, orgogliosamente svalutando la potenza di quelle avversarie, le affidò a sei tribuni militari, per giunta fra loro discordi. Sul piccolo fiume Allia, a nord est di Roma, avvenne lo scontro: l’esercito romano fu letteralmente distrutto.

I Galli proseguirono quindi la marcia verso l’Urbe, nella quale entrarono tre giorni dopo la battaglia: furono stupiti di trovarla indifesa e con le porte aperte. Se ne impadronirono quindi senza colpo ferire, e la saccheggiarono e incendiarono facendovi grosso bottino, ma non poterono occupare la rocca del Campidoglio, dove le forze romane superstiti si erano fortificate, pronte a sostenervi un lungo assedio. Allora i Romani pensarono di richiamare al comando dell’esercito un grande capitano che, nonostante le sue mirabili gesta in una precedente guerra contro gli Etruschi, essi avevano mandato in esilio: Marco Furio Camillo.

Camillo giunse a Roma, alla testa di un esercito proprio mentre gli assediati nel Campidoglio stavano patteggiando la resa coi Galli: questi erano comandati da Brenno.

Si era convenuto che, dietro il pagamento di mille libbre d’oro, i Galli avrebbero sgomberato la città; e già si stava pesando il prezioso metallo. Senonché quei barbari usavano inganno nel peso, prima nascostamente, poi anche in palese, come scrive Plutarco, facendo piegare la bilancia dalla loro parte.

E alle lagnanze dei Romani, Brenno aveva risposto con le arroganti parole: “Guai ai vinti!”, e, ciòò dicendo, si era slacciato la spada e insieme col pendaglio, l’aveva aggiunta ai pesi.

A questo punto si ode clamore alle porte della città: sono le avanguardie di Camillo.

E il dittatore, a gran passi, si avvicina; eccolo, è giunto sul colle Capitolino, mentre i Galli, esterrefatti, lo guardavano senza osare fermarlo.

Camillo toglie dalla bilancia l’oro, lo dà ai littori, impone ai Galli di prendere la bilancia e i pesi e di andarsene, e aggiunse che i Romani avevano per loro antica usanza di salvare la patria non con l’oro, ma col ferro.

Nacque subito una zuffa, e sarebbe degenerata in battaglia, se Brenno, con assennata prudenza, non avesse, di nottetempo, abbandonato Roma, ritirandosi a molte miglia da essa.

Ma il giorno seguente, allo spuntare del sole, quei barberi si videro davanti, sorto come per miracolo durante la notte, un esercito ordinato e scintillante di armi e di corazze: lo comandava Camillo. Questa volta furono i Romani ad attaccar battaglia, e non desistessero dal combattere finchè l’ultimo Gallo non fu trucidato o messo in fuga. Ciò fu nel febbraio del 388, essendo l’occupazione di Roma per opera di Brenno durata sette mesi.

Si può immaginare come fosse stata ridotta la città di Romolo; tanto che una corrente di cittadini e di capi fra essi, propendeva per l’abbandono dell’Urbe, e il trasferimento della capitale nella città di Veio. Camillo era di contraria opinione, ma, rispettoso delle leggi, chiede che la cosa venisse deliberata in Senato. Ora, mentre i senatori stavano parlamentando, un centurione, che si trovava a passare presso la Curia, chiamò a gran voce l’alfiere, e gli ordinò di fermarsi e di piantare l’insegna nel luogo dove si trovavano.

“Qui” soggiunse, “resteremo ottimamente”. La voce entrò come un comando e un vaticinio nell’aula senatoria, e parve lo stesso comando di un Dio. E così Roma fu salva, e a Camillo fu attribuito il titolo, mai dato ad altri, di “secondo fondatore di Roma”.

Molte altre gloriose imprese compì ancora questo magnifico condottiero e uomo politico. Basterà dire che per sei volte fu tribuno militare, per cinque dittatore, ed ebbe quattro volte gli onori del trionfo.

Ma non potè concludere, come forse avrebbe desiderato, la sua vita magnanima nell’ardore della battaglia, perchè nel 366 aC morì di pesta. A perenne ricordo gli venne eretta una statua nel Foro, ultima e postuma onoranza fra le tante che questo grande Romano ebbe dalla sua città.

Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Il primo triumvirato

Dopo la morte di Mario e Silla si costituì in Roma il primo triumvirato, cioè il primo governo di tre persone; in tal modo il Senato perdette gran parte della sua autorità e del suo potere e la Repubblica si avviò verso il tramonto.
Questo primo triumvirato era formato da Gneo Pompeo, un abile generale che aveva occupato la Palestina e vinto i Pirati; da Licinio Crasso, noto per le sue sterminate ricchezze; e da Giulio Cesare, un abile generale parenti di Mario e caro ai plebei.
A Crasso fu affidato il comando della guerra contro un popolo asiatico e vi trovò la morte. Pompeo rimase in Roma e Cesare fu inviato a combattere nella Gallia.

Crasso

Ai nostri tempi Crasso sarebbe stato un grande capitalista, un grande uomo d’affari. Aveva una maestranza specializzata di cinquecento schiavi ed ogni volta che Roma era colpita da uno dei soliti incendi o disastri edilizi (le case erano quasi tutte di legno, anche se rivestite di laterizi) egli comprava macerie e terreni e ricostruiva o restaurava.
I suoi schiavi non erano solo specializzati in costruzioni, ma molti erano istruiti e sapevano fare gli scrivani, gli amministratori, i dispensieri, i saggiatori d’argento. Una vera e propria organizzazione industriale!
Ma questo finanziere faceva anche della politica attiva e sempre in prima linea, senza interposta persona. E’ lui l’organizzatore ed il selezionatore di schiavi che, riunito un esercito, vince la battaglia alle sorgenti del Silaro, in cui Spartaco (capo di un gruppo di gladiatore rivoltosi) fu sconfitto ed ucciso.
Crasso cadde in uno sfortunato tentativo di conquista del regno dei Parti.
(F. Arnaldi)

Pompeo

Ufficiale di Silla, diviene ben presto un prode generale. E’ un uomo audace, deciso a tutto. Una volta, mentre stava per salpare  da un porto si levò un vento fortissimo e i piloti decisero di rimandare la partenza. Ma Pompeo saltò sulla nave e ordinò a gran voce che si salpasse ugualmente dicendo: “Ora è necessario navigare, e non vivere”.

Cesare

Lavorava instancabilmente: dormiva  per lo più in lettiga, per continuare la marcia anche di notte. Del cavallo era padrone assoluto, poichè, fin da ragazzo, si era abituato a montarlo e a farlo galoppare tenendo le mani incrociate sul dorso. Divenuto generale, mentre cavalcava, si teneva vicino due o tre scrivani ai quali dettava nello stesso tempo lettere su argomenti diversi.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
Giulio Cesare

Dopo gli anni delle guerre civili, la pace ritornò tra i cittadini romani. Un patrizio abile e ambizioso, Cneo Pompeo, spense le ultime resistenze del partito di Mario e si conquistò molta stima lottando vittoriosamente contro i pirati che minacciavano la navigazione nel Mediterraneo.
Con Pompeo, un altro personaggio si metteva in luce a Roma: Caio Giulio Cesare, di nobile origine, ma amico del popolo. Cesare e Pompeo si accordarono per dividersi il potere e, per alcuni anni, non si ebbero contrasti.
Un grande progetto maturava intanto nella mente di Cesare: l’Italia era tutta romana, ma di là dalle Alpi, c’erano altre terre e altri popoli da conquistare. Cesare mosse con le sue legioni verso la Gallia, la regione che oggi chiamiamo Francia. Fu una guerra lunga e difficile. Le tribù dei Galli si difesero con molto coraggio. Infine Cesare fu padrone di tutta la Gallia: una nuova terra, una provincia, si aggiungeva al dominio di Roma.
Cesare continuò la sua impresa: in dieci giorni gettò un ponte sul fiume Reno, assalì i Germani che abitavano sull’altra sponda e conquistò un tratto delle loro terre. Poi, giunto alla riva dell’oceano Atlantico, preparò una flotta, sbarcò in Britannia, la grande isola che oggi si chiama Inghilterra, e ne sottomise una parte.
Le imprese compiute da Cesare erano straordinarie e tutto il popolo seguiva con entusiasmo gli avvenimenti. Pompeo ebbe timore che la fama di Cesare oscurasse la sua e convinse il Senato a richiamare il generale vittorioso; giunto ai confini dello stato romano egli doveva congedare i legionari e presentarsi a Roma, solo.
Cesare capì che lo si voleva privare del comando. Tornò in Italia con tutto il suo esercito ed entrò in armi nello stato romano, il confine del quale era segnato, allora, dal breve corso del fiume Rubicone (nella pianura romagnola). Cesare si fermò presso il fiume un istante: valicarlo con le legioni voleva dire ribellarsi all’ordine del Senato. Poi si decise e spinse il cavallo nell’acqua esclamando: “Il dado è tratto”.
Cesare entrò in Roma accolto come un trionfatore. Pompeo e gli altri Senatori erano fuggiti dalla città. Pompeo si era rifugiato in Grecia, dove stava raccogliendo le forze rimategli fedeli per preparare la rivincita. Cesare non gliene diede il tempo: lo raggiunse e lo sconfisse in una dura battaglia a Farsalo. Pompeo fuggì in Egitto, stato amico e protetto da Roma. Il re egiziano Tolomeo capì che le sorti dello scontro volgevano a favore di Cesare; catturò Pompeo, lo fece uccidere, ne mozzò il capo e lo presentò al generale vittorioso. Cesare, davanti al nemico ucciso a tradimento, pianse: Pompeo non meritava una morte senza gloria.
Ormai Cesare non aveva più avversari in grado di contrastarlo. Tornato a Roma, fu eletto Dittatore a vita.
Egli aveva un animo grande e generoso e non abusò mai del suo potere, eppure nel cuore di molti nacque il timore che Cesare volesse sopprimere la Repubblica e farsi nuovo re di Roma. Un gruppo di suoi avversari più accaniti lo attese in Senato e lo colpì a pugnalate. Tra gli assalitori, Cesare vide anche Bruto, un giovane che egli aveva protetto e beneficato. Allora non volle più difendersi; si coprì il volto con la toga e cadde trafitto dai pugnali. Era l’anno 44 aC.

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La conquista della Gallia

La più grande impresa di Cesare fu la conquista della Gallia, che egli stesso narrò nelle bellissime pagine dei suoi Commentari. Questi famosi libri di ricordi non ci descrivono soltanto le battaglie combattute da Cesare contro i popoli che abitavano oltre le Alpi, ma ci parlano anche dei loro costumi, del loro modo di vita, delle loro credenze religiose.
I Commentari sono anche un prezioso “atlante” di geografia. Cesare, infatti, fece conoscere agli uomini del suo tempo nuove terre e descrisse i fiumi, le montagne, le città e i villaggi, attraverso i quali passava con i suoi soldati.
La Gallia era abitata da popoli quasi barbari. All’inizio delle guerre galliche, nell’accampamento romano circolavano strane voci: si diceva che i Galli erano guerrieri altissimi di statura, assai feroci, e moti soldati avevano paura.
Non appena Cesare fu a conoscenza di questo, radunò i suoi soldati e disse loro: “Ho sentito che qualcuno di voi ha paura di questi Galli, come se in guerra contasse di più la statura e l’aspetto terribile del valore e della disciplina. Chi non vuole venire con me, domani, o quando darò il segnale della marcia, rimanga pure nelle tende”.
A quelle parole i soldati gridarono: “Verremo tutti con te!”
L’indomani nell’accampamento suonarono le trombe e iniziò la marcia vittoriosa.
In meno di otto anni Giulio Cesare espugnò ottocento città. Tutta la Gallia, corrispondente più o meno alla Francia, al Belgio, all’Olanda e alla Svizzera di oggi, diventò dominio romano.

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In Britannia

Conquistate le Gallie, Cesaer superò la Manica e sbarcò in Britannia. Questa impresa d’oltremare ebbe il valore di un’esplorazione. “Cesare” scrisse lo storico Plutarco, “fu il primo a guidare una flotta romana nell’Oceano Occidentale (Atlantico). Con il suo sbarco allargò le cognizioni dei Romani al di là dei limiti del mondo conosciuto”.
Cesare raggiunse l’isola con ottocento vascelli. Non potè però portare a termine la conquista di quel paese perchè ebbe notizia di una sollevazione della Gallia.
Infatti il capo dei Galli ribelli, il principe Vercingetorige, si era posto a capo di numerose tribù per scacciare le legioni romane. Cesare lo assediò nella roccaforte di Alesia e lo costrinse alla resa. Così la Gallia divenne definitivamente una provincia romana (52 aC).

Il dado è tratto

Secondo le tradizioni, un generale vittorioso aveva il diritto di rientrare a Roma da trionfatore. Al trionfo di Cesare si oppose l’ambizioso Pompeo che, in realtà, voleva diventare il solo padrone della Repubblica. Cesare, allora, rischiò tutto per tutto e rientrò in Italia alla testa delle legioni.
Giunto al Rubicone, Giulio Cesare si fermò perplesso. Egli aveva superato ben altri fiumi, larghissimi e impetuosi. Anzi, con grande stupore dei suoi militi, si era improvvisato ingegnere, costruendo rapidamente grandi ponti di legno. Ma davanti al Rubicone si arrestò, col cavallo fermo, le zampe puntate nella riva ghiaiosa.
Il Rubicone era il confine segnato dal Senato. Egli non lo poteva attraversare senza il permesso dei Senatori romani. Attraversarlo voleva dire farsi ribelle l’autorità di Roma.
Giulio Cesare rimase un istante incerto. Una ruga gli si disegnò sulla fronte, che portava sempre scoperta, senza l’elmo. Poi, risolutamente, spinse il cavallo facendo cenno ai portatori delle Aquile di seguirlo.
Il cavallo, con un balzo, lo portò sull’altra riva. Allora il volto di Giulio Cesare si rischiarò. “Il dado è tratto!” disse. La cosa è fatta.
Avrebbe marciato su Roma e sarebbe diventato il capo, non soltanto del suo esercito, ma di tutti i Romani.

Cesare dittatore

Tornato a Roma, Cesare venne onorato con 4 grandiosi trionfi e dal Senato ricevette il titolo di dittatore a vita. Cesare seppe governare nell’interesse del popolo: distribuì terre ai poveri e ai veterani dell’esercito, scacciò i funzionari disonesti e obbligò i grandi proprietari terrieri a far coltivare le loro terre non dagli schiavi, ma da liberi cittadini: in questo modo sarebbe scomparsa la disoccupazione.

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Le idi di marzo

Più volte il Senato offrì a Cesare la corona di imperatore; ma egli sempre rifiutò, perchè credeva che ancora vosse viva la libertà della Repubblica. Tuttavia alcuni patrizi videro in lui il tiranno e decisero di ucciderlo. Fra i congiurati era persino Giunio Bruto, che Cesare amava come un figlio. Fu deciso di ucciderlo in Senato, nel giorno delle idi di marzo (cioè il 15 marzo) del 44 aC.
Pareva che il cielo si opponesse a questa infamia. Un sogno avvertì la moglie di Cesare che il marito correva un grave pericolo; ed elle cercò di trattenerlo a casa, ma invano. Poi, lungo la strada, un indovino avvertì il dittatore e un altro cercò di trattenerlo sulla porta del Senato. Ma sempre invano.
Appena entrò nel Senato, i congiurati gli si gettarono addosso coi pugnali alzati. Cesare cercò di ripararsi con la toga, ma quando vide che tra gli assalitori c’era Bruto, esclamò: “Anche tu, Bruto, figlio mio?”. Rattristato si coprì il volto con la toga per non vedere e cadde morto ai piedi della statua del suo antico avversario Pompeo.

Il calendario giuliano

Il nostro calendario si basa sul Sole, cioè sul movimento di rivoluzione della Terra che gira intorno al Sole. Gli antichi popoli, invece, avevano un calendario basato sulle fasi della Luna.
Anche il calendario romano si basava sulla Luna, e aveva causato grande confusione, tanto è vero che le feste della mietitura non capitavano più in estate, nè quelle della vendemmia in autunno.
Fu Giulio Cesare a far adottare il calendario solare, che fissava la durata dell’anno in 365 giorni e un quarto: lo stesso calendario che usiamo noi, sia pure con qualche modifica. Forse ti chiedi perchè proprio Giulio Cesare volle riformare il calendrio: perchè era Pontefice Massimo, e il calendario era un aspetto della religione. Infatti nell’Antica Roma, il sacerdote e il magistrato erano la stessa persona.

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Ritratto di Cesare

Fu di alta statura, di carnagione bianchissima, occhi neri e fulminei, salute d’acciaio, eccetto negli ultimi tempi, molto accurato nella persona e nelle vesti.
Molto sobrio nel bere, poco curante dei cibi.
Nell’eloquenza e nell’arte della guerra uguagliò se forse non superò tutti i più famosi. Cicerone scriveva di lui: “Quale oratore, anche di coloro che non hanno mai atteso ad altro, si può anteporre a Cesare? Chi più acuto e più ricco di idee? Chi più ornato ed elegante nella forma?”
Nell’uso delle armi e nel cavalcare fu abilissimo, resistente oltre dire alla fatica. Durante la marcia era sempre in testa alle truppe, qualche volta a cavallo, più spesso a piede, e a capo scoperto sia che piovesse, sia fosse bel tempo.
Faceva viaggi lunghissimi con incredibile rapidità, giungendo a percorrere cento miglia al giorno; se un fiume gli impediva di proseguire, lo attraversava a nuoto o tenendosi a galla con otri gonfiati. Nelle spedizioni guidava il suo esercito con audacia pari alla prudenza. Se doveva attraversare zone pericolose non faceva avanzare i suoi uomini se prima non aveva esaminato attentamente la natura del luogo.
Molti sono gli episodi che testimoniano il coraggio di Cesare. Una volta, per rientrare nel proprio accampamento cinto d’assedio dai Germani, si travestì da guerriero gallo ed attraversò indisturbato le linee ed i posti di guardia nemici.
Una notte tentò la traversata dell’Adriatico affidandosi da solo ad una piccola imbarcazione, senza rivelare la propria identità al barcaiolo. Solo quando la tempesta minacciò di travolgere l’imbarcazione, Cesare permise al barcaiolo di tornare indietro.
Amava i suoi soldati e ne era riamato: li giudicava infatti in base al loro valore e li trattava con grande severità o indulgenza a seconda delle necessità. Quando il nemico era vicino, esigeva nell’accampamento una disciplina ferrea e non ammetteva che si chiedesse l’ora ed il luogo del combattimento. Tutti dovevano essere pronti per attaccare o per marciare al momento che lui riteneva opportuno. Con questi metodi Cesare si assicurò la devozione dei suoi uomini e ne fece dei soldati coraggiosissimi (rid. da Svetonio, “Le vite di dodici Cesari”)

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
Cesare, uomo di attività

Il dinamismo di Cesare era leggendario e famosissimo quando ancora egli era in vita. Divenne poi quasi un esempio costante, dopo la morte del dittatore, nè alcuno storico benevolo o malevolo che fosse, si dimenticò di parlarne. Anche Plutarco fa un ritratto di Cesare in cui sottolinea il dinamismo di quel condottiero; dice, lo storico greco, che Cesare era gracile e pallido e soggetto a continue emicranie. Ma da questa debolezza del corpo egli, invece che farne una scusa per vivere in modo tranquillo con abitudini molli, trasse motivo di esercitare il corpo in continue marce, mangiando frugalmente e dimorando il più possibile all’aria aperta. Per lo più dormiva su di un carro o su di una lettiga, accoppiando così il riposo con l’azione. Durante il giorno si recava con il cocchio a visitare accampamenti, città e fortificazioni, tenendosi sempre al fianco un giovanetto esperto nello scrivere strada facendo quel che egli dettava. Lo seguiva un soldato con la spada. Viaggiava inoltre con tanta rapidità che la prima volta che partì da Roma giunse al Rodano in otto giorni. Il cavalcare gli riusciva facile perchè vi si era addestrato sin da fanciullo e sapeva stare, con le mani sul dorso, sul cavallo spinto al galoppo. E fu proprio durante quella sua prima campagna che si abituò a dettare lettere cavalcando a due scrivani contemporaneamente; anzi, secondo quel che riferisce Oppio, anche a più di due alla volta.
Era poi molto resistente alle fatiche del nuoto, cosa che lo salvò durante la battaglia di Alessandria contro Tolomeo.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
La ricognizione di Cesare in Britannia

Nel quarto anno della guerra gallica (55 aC) Cesare conduce due ardite spedizioni: una contro i Germani d’oltre Reno, che avevano oltrepassato il fiume e inflitto uno scacco alla cavalleria romano-gallica; l’altra in Britannia, sul finire dell’estate. In dieci giorni getta sul Reno un ponte magnifico e passa con tutto l’esercito. Devasta il territorio dei Sugambri e li costringe a rifugiarsi nelle selve, semina il panico fra gli stessi Suebi che pure  si occultano nelle foreste; e dopo aver fatto un soggiorno di 18 giorni sulla riva germanica, ripassa il Reno e distrugge il ponte. Evidentemente il momento non gli parve opportuno per una guerra germanica fra le selve e le paludi, con la Gallia irrequieta alle spalle: nei Commentari egli afferma che le sue intenzioni non andavano oltre una ricognizione.
E come ricognizione egli intraprese pure la sua prima spedizione in Britannia sulla fine dell’estate.
L’estate volgeva al termine, e per quanto nella Gallia settentrionale l’inverno sia precoce, Cesare iniziò i preparativi di una spedizione in Bretagna, dove sapeva che i Galli avevano ricevuto aiuti in tutte le loro guerre. Se la stagione non fosse stata sufficiente, considerata già un risultato apprezzabile riuscire a sbarcare nell’isola e osservare direttamente gli abitanti, i luoghi, i porti, le vie d’accesso, di cui i Galli non avevano quasi notizia. E’ raro infatti che qualcuno si diriga in quella regione, ad eccezione dei mercanti; del resto anche questi non conoscono altro che la zona costiera e il paese che sta di fronte alla Gallia.
Cesare chiamò a sè i mercanti da ogni dove, ma non gli fu possibile venire a conoscere ne l’estensione dell’isola, ne il numero e la natura degli abitanti, ne la loro pratica militare, ne le loro istituzioni. Oscuro parimenti gli restava quali fossero i porti adatti per un gran numero di navi grandi.
Per raccogliere le informazioni necessarie prima di affrontare la prova, mandò con una nave da guerra Voluseno, uomo di fiducia, con l’ordine di compiere un’attenta esplorazione e di tornare al più presto. A sua volta si reca fra i Morini, di dove il passaggio in Bretagna era brevissimo, e dispone che si radunino là molte navi e la flotta che l’estate precedente aveva sostenuto la campagna contro i Veneti.
Frattanto il disegno di Cesare si era divulgato e i Britanni ne erano venuti a conoscenza per mezzo dei mercanti. Alcune città dell’isola mandarono legati a lui, promettendo ostaggi e dichiarandosi pronti a obbedire agli ordini di Roma. Cesare li ascoltò con molta cordialità e li esortò a tener fede alle promesse, quindi li rimandò ai loro paesi, in compagnia di Commio, un capo che Cesare aveva fatto re degli Atrebati, dopo la vittoria riportata su di essi. Il generale romano ne conosceva molto bene il valore e l’intelligenza, lo riteneva uomo fidato, e sapeva che godeva grande prestigio in quelle regioni. Gli ordina dunque di recarsi in quante più città può, di persuaderle ad accogliere il dominio di Roma e di annunciare la sua prossima venuta. Voluseno intanto, dopo aver osservato tutte le regioni dalle navi (egli diffidava dei barbari e perciò aveva creduto bene non sbarcare), tornò cinque giorni dopo da Cesare e gli comunicò il risultato delle sue osservazioni.
Mentre Cesare indugia in questa regione per allestire la flotta, la maggior parte dei Morini mandarono legati per scusarsi della condotta tenuta in precedenza verso di lui, cioè che, barbari e ignari com’erano della consuetudine, avessero osato far guerra ai Romani, e per promettere obbedienza. Questa ambasceria parve oltremodo opportuna a Cesare, il quale non voleva lasciarsi un nemico alle spalle, nè poteva, data la stagione, fare una guerra; d’altra parte non gli era possibile anteporre alla spedizione in Bretagna questioni di sì piccola importanza. Pertanto impose loro gran numero di ostaggi. Questi furono consegnati e la loro sottomissione fu accolta.
Radunate e allestite circa ottanta navi da carico, quante gli parevano necessarie per il trasporto di due legioni, le distribuì, insieme con le navi da guerra che aveva, al questore, ai legati e ai prefetti. Cesare disponeva inoltre di diciotto navi da carico, che si trovavano a otto miglia di distanza, alle quali i venti impedivano di raggiungere il porto di concentramento; e queste le assegnò ai cavalieri. Il rimanente dell’esercito lo affidò  ai legati Quinto Titurio Sabino e Lucio Auruncueleio Cotta, perchè lo conducessero fra i Menapii e nei paesi dei Morini, che non avevano mandato legati a presentarsi. Infine ordinò al legato Sulpicio Rufo di presidiare il porto Izio con un conveniente nucleo di forze.
Appena ebbe compiuti questi preparativi e si presentò il tempo propizio alla navigazione, dopo la mezzanotte levò le ancore, ordinando in pari tempo alla cavalleria di raggiungere l’altro porto, imbarcarsi e mettersi sulla sua rotta. L’ordine fu eseguito con una certa lentezza, mentre Cesare all’ora quarta toccava la Bretagna con le prime navi. Su tutti i colli lo aspettavano schierate le forze nemiche. Il terreno presentava una serie di alture che dominavano il mare e dall’alto permettevano di lanciare dardi sulla spiaggia. Lo sbarco in quel luogo non era facile, pertanto Cesare calò le ancore e aspettò che arrivassero le rimanenti navi.
Intanto, convocati i legati e i tribuni, e messili al corrente delle informazioni avute da Voluseno, espose loro i suoi intendimenti, e raccomandò di eseguire ogni atto, al cenno del comandante e al momento opportuno, secondo le regole dell’arte militare e soprattutto della marina. Sciolta la riunione, per buona combinazione venti e marea erano propizi. Allora diede il segnale; si levarono le ancore ed egli condusse le navi ad ancorarsi a circa sette miglia da quel luogo, in una spiaggia aperta e piana. I barbari, quando videro le intenzioni dei Romani, mandarono avanti la cavalleria; fatti poi seguire i carri, con cui più di frequente combattono, e le altre forze, cercavano di impedire ai nostri di sbarcare.
Lo sbarco era oltremodo difficile per diverse ragioni. Le navi, data la loro grandezza, dovevano fermarsi al largo; i soldati, ingari dei luoghi, con le mani impegnate, gravati dal peso non indifferente delle armi, dovevano saltare dalle navi, resistere nell’acqua e dall’acqua combattere contro i nemici. Questi invece, dalla spiaggia o avanzandosi di poco in mare, liberi nella persona, lanciavano dardi e spingevano avanti i loro cavalli assuefatti a tali prove. I nostri, atterriti, non avvezzi a tale genere di combattimento, non dimostravano lo slancio e l’entusiasmo che erano loro familiari nelle battaglie di terra.
Si combattè accanitamente da ambe le parti. I nostri però non potendo ne mantenersi ordinati, ne tener fermo il piede, ne restare nei propri manipoli, si ammassarono confusamente, chi da una nave chi da un’altra, dietro le prime insegne che trovavano, provocando grande disordine. I nemici, al contrario, che conoscevano tutti gli approdi, quando dalla spiaggia vedevano qualcuno dei nostri sbarcare isolatamente, davano di sproni al cavallo e l’assalivano nel momento dello sbarco; circondavano i nostri con forze superiori, altri lanciavano dardi al fianco scoperto, prendendo di mira il grosso.  Come si rese conto della tattica del nemico, Cesare calò molti uomini in lance e altre imbarcazioni da esplorazione, e li mandò prontamente in aiuto a coloro che vedeva in situazione critica.
Quando i nostri riuscirono a raggiungere la riva e poterono riunirsi, si slanciarono contro il nemico volgendolo in fuga; ma non poterono spingersi decisamente all’inseguimento, perchè la cavalleria non era riuscita a tenere la rotta e ad approdare all’isola. Fu questa l’unica contrarietà che nella fortunata operazione Cesare dovette incontrare. I nemici furono tuttavia sconfitti, e quando si riebbero dalla fuga mandarono tosto legati a Cesare, dichiarandosi pronti a dare ostaggi e ad eseguire gli ordini che volesse dare. (Cesare, da “Commentari della Guerra Gallica”, libro IV)

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
Cesare al Rubicone

Al campo di Ravenna è di stanza la Decimaterza legione, una forza di cinquemila fanti e di trecento cavalieri. Le altre legioni sono tarde a giungere a causa delle strade impraticabili, i valichi nevosi e le strade ghiacciate. E’ il gennaio del 49 aC.
Cesare chiama alla spicciolata i centurioni e comunica in segreto, quasi uno per uno, l’obiettivo di marcia e la condotta dell’impresa: senza carico d’armi, veramente in leggerissima, puntare su Rimini, prima città della Repubblica. Occupandola di eviti il più possibile le rapine, le stragi, i tumulti del popolo.
Uscito dai quartieri militari, lasciando il comando delle truppe al suo luogotenente, Cesare passa tutto il giorno in pubblico, assistendo allo spettacolo dei gladiatori.
Sull’imbrunire presiede un banchetto perchè tutti lo vedano. Più tardi, con indifferenza studiata e con modi di affettuosità e di sorriso, chiede di allontanarsi; ritornerà a momenti; prega gli ospiti di aspettarlo.
Appena fuori della sala Cesare allungò il passo per le vie della campagna. In luogo solitario l’aspettava un gruppo di amici, al corrente del suo proposito. Ripresero il cammino. A mezza strada, nel cuore della notte, il vento alzò la nebbia e spense le fiaccole. L’oscurità smarrì i viandanti nella rete delle strade campagnole; essi battevano a tastoni i cespugli e le stoppie alla ricerca del sentiero. Sull’alba trovarono una guida del luogo che li portò a piedi per lo stretto viottolo che era la buona via.
Le coorti bivaccavano lungo gli argini del fiume Rubicone. Sulla testata del ponte spiccava la lapide terminale della Repubblica che imponeva il disarmo dei cittadini prima di passare nel territorio di Roma. Il fiume era in magra. I legionari guardavano sull’altra riva: attendevano il cenno d’avanzata.
E Cesare comanda: “Si vada dove ci invocano i prodigi degli dei e l’iniquità dei nemici. Il dado è tratto”.
Col suo cavallo guadò il Rubicone e avanzò nel territorio della Repubblica a redini abbandonate, col seguito dei cavalleggeri.
Prima di giorno, investì e prese Rimini senza colpo ferire.
(A. Foschini)

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Presagi delle idi di marzo

Tutti i biografi di Cesare concordano nel riferire alcuni episodi, casuali certo ma pieni di fascino in anni così carichi di superstizione; pareva che tutto concordasse nel dissuadere Cesare dall’andare verso il suo fatale destino. Anche Svetonio, che fra gli storici è il meno sensibile al fascino del mito, raccolse questi episodi e li riferì; il che ci conferma la loro autenticità.
Apparvero infatti strani segni a preannunciare la morte di Cesare. Un aruspice già lo aveva messo in guardia di un grave pericolo che gli incombeva entro i primi quindici giorni di marzo. E Cesare stesso, la notte prima degli idi, sognò di librarsi tra le nuvole, mentre la moglie Calpurnia sognava che il tetto della casa era crollato e Cesare ne era rimasto ferito. Per tali motivi, e anche perchè non si sentiva troppo bene, la mattina delle idi Cesare era perplesso e pensava quasi di restarsene a casa rimandando al altra data le faccende che doveva sbrigare in Senato. Ma poi, in ultimo, decise di uscire. Erano le 11 del mattino.
Sulla porta di casa si imbattè in un uomo che gli porse un messaggio con cui lo informava della congiura tramata a suo danno; Cesare non lo lesse e lo ripose fra le altre carte che portava con sè, pensando di leggerlo più tardi.
Sulla soglia della Curia si imbattè nell’aruspice: “Non hai indovinato”, gli disse scherzando, “sono trascorsi i primi quindici giorni di marzo, e non mi è capitato niente!”. Rispose l’aruspice: “Le idi di marzo non sono ancora trascorse del tutto!”.
Entrato in Senato, i congiurati gli si assieparono intorno e uno di essi, Tullio Cimbro, fece l’atto di porgergli una supplica, che Cesare rifiutò con un cenno, facendo intendere di rimandare a momento migliore. Cimbro lo afferrò per i lembi della toga e Cesare protestò: in quell’istante Casca, un altro congiurato, gli vibrò il primo colpo di pugnale alla gola. Cesare cercò di difendersi con uno stilo per scrivere, chè altro non aveva tra le mani, ma fu colpito ancora. Come si accorse che i congiurati lo stringevano da ogni lato, armati con il pugnale, si avvolse nella veste sul capo, lasciò cadere la toga sino ai piedi, per non giacere con il corpo scoperto quando fosse caduto. Ventitrè colpi lo trafissero, nè lui emise grido o sospiro.
(A. Foschini)

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Cesare e il giovane Gallo

Caio Giulio Cesare fu il conquistatore della Gallia. La guerra durò quasi dieci anni, e fu spesso dura e sanguinosa.
Cesare aveva un animo nobile e non mai crudele e vendicativo contro i nemici; anzi apprezzava il loro eroismo e la loro generosità. Puniva però severamente tutti coloro che si erano mostrati crudeli, traditori e vili.
Accadde che un gruppo di otto soldati romani fu fatto prigioniero dai Galli e trascinato in un loro villaggio fortificato. Il capo del villaggio mandò a dire a Cesare che avrebbe liberato i prigionieri se dai Romani avesse avuto un eguale peso di argento. Mentre si trattava la questione, i poveri prigionieri erano sottoposti ad inauditi tormenti, così che, appena liberati e portati davanti a Cesare, questi si indignò e diede ordine al suo luogotenente di assalire il villaggio dei Galli, di incendiarlo e di far prigionieri tutti gli abitanti, cercando di recuperare l’argento versato per il riscatto.
I Galli furono facilmente sbaragliati e il loro villaggio dato alle fiamme; tutti gli abitanti vennero fatti prigionieri e portati davanti a Cesare per il giudizio di condanna.
Il generale romano ordinò che venissero uccisi i capi e tutti coloro che avevano martoriato i prigionieri romani; gli altri si dovevano vendere come schiavi.
Un prigioniero romano, a cui i barbari avevano tagliato le mani e bruciato i piedi, disse: “Cesare, fra i Galli si trova un fanciullo che non merita condanna: egli mi portò da bere ogni giorno, medicò come potè le mie ferite, mi portò dei cibi e delle vesti: io ti chiedo di consegnarlo a me: lo tratterò come fosse mio figlio.”
Cesare fece venire il fanciullo e lo consegnò al soldato, dicendogli: “Un solo atto di pietà merita la più alta riconoscenza. E tu, fanciullo, cerca di riscattare, con l’affetto verso questo soldato, tutta l’inutile crudeltà che il tuo popolo usa coi prigionieri”.
Il fanciullo venne portato a Roma, dove imparò a vivere secondo le leggi della civiltà e della giustizia.
(C. Del Grosso)

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Recite per bambini ANTICA ROMA

Recite per bambini ANTICA ROMA – una raccolta di recite e brevi dialoghi sulla storia romana, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Attilio Regolo

Personaggi: Attilio Regolo, la moglie coi figli, primo cittadino, secondo cittadino, altri cittadini.

Popolo: Resta a Roma, oh Regolo!

Regolo: Oh amici romani, ho giurato di ritornare fra i Cartaginesi; e il giuramento è sacro. Nessuna forza potrà far sì che Regolo manchi di parola.

Moglie: Nessuna forza? Neppure la forza che viene dall’amore della tua famiglia? Guarda. Ho le lacrime agli occhi, e silenziosamente piangono anche i nostri fanciulli.

Regolo: Oh moglie mia! Non piangere. Oh figlioletti cari! Non piangete. Forte è vostro padre e anche voi siate forti, come i robusti rami di un albero saldo. Moglie mia, conduci a casa  i nostri figlioletti. Che gli dei, per mezzo tuo, li proteggano. Andate. Forse la mia decisione non è presa…

La moglie e i figli si allontanano.

Primo cittadino: Dunque, Regolo, resterai a Roma?

Regolo: Chi ha detto questo?

Primo cittadino: M’ è parso…

Regolo: Gli occhi lacrimosi dei piccoli mi hanno fatto pronunciare parole di dubbio. Ma la decisione è ben ferma nel mio cuore: tornerò fra i Cartaginesi.

Secondo cittadino: Ma i Cartaginesi non ti perdoneranno le parole che tu hai detto davanti al Senato romano!

Popolo: Resta a Roma, oh Regolo!

Regolo: Cittadini, ai miei figli, ai vostri figli insegnerete che Roma è grande perchè ricca di virtù. Col giuramento ho impegnato non solo me stesso, ma anche la dignità di Roma. E’ un Romano che ha giurato! E mi vergognerei di vivere in mezzo a voi, davanti alle statue dei nostri dei, su questo sacro Campidoglio, per non aver mantenuto la parola data!

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Annibale

Annibale: Voi sapete, oh miei soldati, che io vinco le mie battaglie per due ragioni: attacco il nemico da dove meno se lo aspetta, e lo costringo perciò alla battaglia nella località a me più favorevole. Ora si tratta, oh Cartaginesi di attaccare i Romani di sorpresa.

Soldati: Siamo in Spagna, generale. Da dove vuoi attaccare a sorpresa i Romani, in quale località della Spagna vuoi costringerli alla battaglia? Ma ti scrolli il capo, perchè?

Annibale: Perchè non sarà in Spagna che li potrò attaccare di sorpresa, ma in Italia.

Soldati: E come potremo attaccarli di sorpresa in Italia quando già le loro truppe sono in Spagna? Le dovremo fatalmente scontrare prima di raggiungere il mare e imbarcarci!

Annibale: Noi non raggiungeremo l’Italia per mare, come i Romani si aspettano, ma per la via delle Alpi a cui essi certo non pensano. Quando lo sapranno, noi saremo già nella valle del Po.

Soldati: Vuoi valicare le Alpi con sessantamila uomini?

Annibale: E gli elefanti. Così, secondo la mia tattica, farò ciò che il nemico non si aspetta.

Narratore: In tal modo Annibale giunse al fiume Trebbia, l’affluente del Po che scorre lungo i monti e le piane del piacentino. E si accampò. Con un esercito racimolato in fretta per la sorpresa dell’attacco, stanchi per il lungo cammino percorso, trafelati nell’ansia di fermare il nemico il più lontano possibile da Roma, i Romani si scontrarono con Annibale prima presso il fiume Ticino, poi presso il Trebbia. E vennero sconfitti.

(G. Aguissola)

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Cornelia

Personaggi: Cornelia, Flavia (amica di Cornelia), Tiberio e Caio.

Le due matrone romane sono sedute in conversazione. Passano ogni tanto schiave e schiavi affaccendati.

Flavia: Sai, Cornelia, che cosa penso?

Cornelia: Dimmi, Flavia.

Flavia: I Romani si fanno ogni giorno più ricchi! Non ti sembra? Osserva i miei nuovi braccialetti: sono d’oro massiccio. Guarda queste buccole preziose, che vengono dall’Oriente. Ma il mio tesoro maggiore è rappresentato da due gemme, di cui a Roma non esiste nulla di più prezioso. Forse sbaglio: so che anche tu, Cornelia, hai molti gioielli, anche se non ti piace mostrarli spesso. Ma via, sii sincera verso la tua amica Flavia; quali sono i tuoi tesori più grandi? Potranno competere con le gemme, di cui ti ho parlato?

Entrano i due ragazzi. Tiberio è il maggiore.

Tiberio e Caio: Ave, mamma!

Cornelia: Oh Tiberio, oh Caio, figlioli adorati! Ero in pensiero per voi. Roma oggi somiglia al mare in tempesta. Il pedagogo vi ha fatto passare per il Foro?

Tiberio: Sì, madre. Abbiamo visto un ufficiale minacciare alcuni poveri che tumultuavano. A noi si è stretto il cuore nel vedere una simile scena. Però il pedagogo ci ha rimproverati perchè ci siamo fatti tristi, dicendo che è indegna per i Romani una simile commozione. Ma non sono Romani anche quei poveri?

Cornelia: Sì, Tiberio. In verità, non hai torto. Anche quei poveri sono Romani.

Caio: E invece li chiamano vili canaglie. Forse, però, avranno fatto qualcosa di male!

Tiberio: Zitto, Caio! Non è vero! Ho sentito io di che si tratta. Sono cittadini che hanno dovuto vendere per forza i loro campi ai ricchi proprietari, che vogliono sempre nuove terre, ma non vi dedicano poi cure amorose. Essi chiedono giustizia. Se già fossi grande, lotterei per loro!

Caio: Ed io ti seguirei, fratello!

Cornelia: Ecco, Flavia. Tu volevi conoscere quali sono i miei più grandi tesori, vero?

Flavia: Sì, la curiosità è un difetto che non so vincere!

Cornelia: (accennando ai due ragazzi) Ebbene, questi sono i miei veri tesori, di cui spero anche in futuro di essere orgogliosa.

Cesare

Personaggi: Terenzio e Lucano, giovani romani

Terenzio: ho visto tuo padre molto felice oggi. Da molto tempo non lo vedevo così!

Lucano: Ha ben ragione d’esserlo. Tu sai che è stato favorevole a Pompeo; e perciò temeva, prima o dopo, di ricevere da Cesare l’ordine di abbandonare Roma. Invece ieri Cesare stesso l’ha fatto chiamare e gli ha detto : “Non temere Lucio Mannio. So che sei un valente e vorrei il tuo parere su una questione che mi sta a cuore”…

Terenzio: Cesare dimentica il nome dei nemici!

Lucano: E’ vero. Cesare è di animo nobile.

Terenzio: E’ generoso. Vedi quella fila di poveri?

Lucano: Sì

Terenzio: Vanno a una distribuzione di grano ordinata da Cesare in favore dei cittadini poveri. Egli, per combattere la miseria, ha distribuito le terre conquistate tra i veterani dell’esercito, ha emanato una legge contro il lusso eccessivo dei ricchi e farà costruire gigantesche opere pubbliche, tra cui un nuovo Foro, nuovi templi, basiliche e teatri.

Lucano: E’ vero che gli illustri personaggi giunti da ogni dove sono qui, a Roma, per invito di Cesare?

Terenzio: E’ vero. Molti sono studiosi. Cesare ne ha incaricati alcuni di studiare una riforma del calendario, affinchè questo sia più rispondente alla realtà dell’avvicendarsi delle stagioni. Sembra che il calendario, il quale ora conta 355 giorni, ne avrà 365,  e ogni quattro anni 366.

Lucano: Sarebbe giusto che fosse chiamato Calendario di Cesare

Terenzio: Non si chiamerà così; ma il Senato ha proposto che il settimo mese porti il nome di Julio, in onore di Cesare.

(R. Botticelli)

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Virgilio

Personaggi: Mecenate, Asinio Pollione, Virgilio

In un giardino imperiale. Si incontrano Asinio Pollione e Mecenate.

Asinio Pollione: Salve, o grande Mecenate!

Mecenate: Salve, amico Pollione! Torno ora da una passeggiata per Roma. Sono inebriato di sole, di bellezza, di felicità. Niente al mondo è più bello di Roma. Ne conosco ogni angolo; e ogni angolo mi par sempre nuovo. Le sue statue, i suoi templi, i suoi palazzi di marmo mi sembrano essi stessi coscienti della grandezza dell’Urbe. Roma è grande! Quando penso che essa è padrona di tutto il Mediterraneo e di tutto il mondo dalla Britannia alla Libia, e vedo le strade imperiali che dal Campidoglio si dipartono per ogni direzione, ripeto fra me con orgoglio “Sono cittadino romano” !”

Asinio Pollione: La fortuna di Roma, oggi, è di avere sul trono Cesare Ottaviano Augusto

Mecenate: Augusto! IL divino Augusto! Sagge leggi, e pace e benessere scendono da quel trono, come dalla sorgente un fiume che reca la vita. Oh Roma, tutti gli dei ti hanno protetta!

Asinio Pollione: Mecenate, tu che sei, per volere di Augusto, il grande protettore degli artisti e dei letterati, non ti sembra che alla nostra Roma manchi un nuovo Omero, che canti la potenza dell’Impero e la grandezza di Augusto?

Mecenate: E’ vero, o Asinio Pollione. Ci vorrebbe un poema sublime, degno dell’Odissea e dell’Iliade.

Asinio Pollione: Perchè non esorti a scriverlo il dolce Virgilio?

Mecenate: Ci avevo già pensato. L’autore delle Georgiche, che tu e io proteggiamo, è davvero un grande poeta. Ma egli è semplice e soave nell’animo. Ama la campagna, la pace, la serenità. Come potrebbe cantare anche le guerre che Roma ha dovuto combattere?

Asinio Pollione: Virgilio ama come noi la grandezza e la potenza di Roma. Vedi come gli piace abitare nell’Urbe? Vedi come abita volentieri la sontuosa villa, di cui tu gli hai fatto dono?

Mecenate: E’ vero; ma rimpiange il suo campicello di Andes, presso Mantova, da cui lui e i suoi genitori furono scacciati per una legge a loro ingiusta, e ancora ne prova dolore! Tuttavia lo esorterò, oh Asinio.

Virgilio (arrivando) E’ proprio codesto dolore, oh grande Mecenate, che oggi mi fa apprezzare in tutto il loro valore, la tua generosità, la tua amicizia e la pace romana instaurata da Augusto.

Asinio Pollione: Virgilio, dolce poeta, hai sentito le nostre parole?

Mecenate: Hai sentito che cosa speriamo da te?

Virgilio: (come se parlasse da solo) Ci fu al mondo un altro uomo, ben più famoso di me, che dovette fuggire dal luogo natio…

Asinio Pollione: Non capisco…

Mecenate: Taci, oh Asinio. Quando Virgilio parla così, la sua fantasia corre lontano. La Musa gli sta vicina. Noi non la vediamo nè la sentiamo, ma lui sì. Forse Roma avrà il suo poema immortale!

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Primi cristiani

Personaggi: Licia, ragazza romana; Priscilla, schiava; Svetonio, schiavo.

Una ragazza e una schiava giocano a palla. Ad un tratto la palla, sfuggendo alla ragazza, va lontano.

Licia: (con alterigia) Me l’hai tirata male, Priscilla! Vai a riprenderla!

La schiava obbedisce e prontamente corre a cercarla.

Licia: Dove vai?

Priscilla: A cercare la palla!

Licia: (riflettendo) Priscilla… perchè sei così docile?

Priscilla: Perchè sono una schiava e tu sei la ma piccola… Ma dov’è andata la palla? Ah… l’ho trovata!

Licia: Ridammela.

Priscilla: Eccola (gliela porge)

Licia: Dimmi, Priscilla. Che cosa volevi dire quando hai interrotto il tuo discorso?

Priscilla: Stavo per dire la parola “padrona”, ma sbagliavo.

Licia: Perchè?

Priscilla: Perchè nessuno è padrone in questo mondo.

Licia: Come? Neppure mio padre?

Priscilla: No… proprio padrone, no.

Licia: Neppure l’imperatore?

Priscilla: Neppure.

Licia: Ora chiamerò Svetonio e ti farò fustigare.  Vedrai se esistono i padroni! (A voce alta) Svetonio! Svetonio!

Svetonio: piccola padrona, hai chiamato?

Licia: (pentita) Non voglio nulla. Vattene. (Svetonio se ne va)

Priscilla: (avvicinandosi alla ragazza) Ti ringrazio, Licia.

Licia: Sì… Priscilla. Tu sei tanto buona! Ma dimmi: nessuno dunque è padrone nel mondo?

Priscilla: Veramente un padrone c’è!

Licia: E chi è?

Priscilla: Non posso dirlo.

Licia: Dimmelo.

Priscilla: E’ il Padre nostro, che è nei cieli, infinitamente buono.

Licia: Priscilla, io non dirò nulla a nessuno, ma tu parlami di questo dio…

Marco Petreio

Narratore: Nel 52 aC tutte le stirpi galliche, sotto il comando del loro capo Vercingetorige, si ribellarono ai Romani e, presso le mura di Gergovia, in Frangia, sconfissero i legionari di Cesare. In tale occasione rifulse l’eroismo del centurione Marco Petreio.

Lucio Fabio, centurione: Orsù, legionari, rinnoviamo a Gergovia i fasti di Avarico! Ricordate quanta preda facemmo in quella città? Qui una preda ancor maggiore ci attende: alle mura, alle mura! Alzatemi sulle vostre spalle, perchè voglio giunger primo alla cima! Così… forza… ecco! Ed ora a voi? Già i nemici fuggono atterriti!

Sesto Furio, centurione: Non odi le trombe che chiamano a raccolta? Discendi dalle mura, così vuole Cesare!

Lucio Fabio, centurione: Oh, Sesto. Chi ha paura non porti la spada, ma la rocca e il pennecchio! Avanti, miei legionari, avanti! Vedete là Marco Petreio che con i suoi sta ormai calandosi dalle mura nella città? Volete essere a loro secondi? Addosso ai barbari! Addosso!”

Un legionario: Quante teste di meno avranno i Galli tra poco…

Un altro legionario: E noi, quante collane d’oro avremo in più…

Marco Petreio, centurione: Presto, legionari, corriamo ad aprire le porte!

Teutomato, principe gallico (rivolto ai suoi): Ancora una volta fuggiranno, dunque, quelli a cui è affidata la libertà della Gallia? Scacciate il timore e disponetevi alla battaglia! Non vedete che soltanto pochi nemici han varcato le mura?

Narratore: Così si accese una mischia furibonda tra i pochi Romani e la moltitudine crescente dei barbari. Lucio Fabio cadde trafitto in mezzo a molti dei suoi. Marco Petreio, pur gravemente ferito, si slanciò tra i nemici

Marco Petreio, centurione: Lucio Fabio è caduto e tanti altri con lui: salvatevi, legionari! Come potremo noi sostenere lo sforzo di così gran numero di nemici? Io, per desiderio di gloria, vi ho gettati nel pericolo, ed io vi salverò. Giacchè non posso salvare me stesso, procurerò almeno di salvare voi.

Narratore: Da solo Marco Petreio sostenne l’ira nemica, finchè cadde a terra straziato da mille colpi.
Poco tempo dopo Cesare piegava per sempre i Galli e il loro capo Vercingetorige doveva seguire in catene il carro trionfale del grande generale romano.

(U. Gaiardi)

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Per strada

Personaggi: Aulo, Licio, il pedagogo di Licio

Aulo: Amico Licio, giochiamo con la moneta?

Licio: Ce l’hai?

Aulo: Guarda. Me l’ha data il liberto Lucano, ieri, quando è venuto a casa mia.
(tira fuori una moneta)
Ha l’effige del dio Giano. Da un verso c’è la testa del dio, dall’altro una nave. Testa o nave? A te la scelta!

Licio: Nave!

Aulo: Ed io testa. Aspetta: poso in terra le mie tavolette, e poi lancio la moneta.
(posa le tavolette e lancia in aria la moneta)

Licio: Ah! E’ venuta la testa per davvero! Ho perso. Tieni.
(offre al vincitore il polpaccio della gamba; e questi giù un bel colpo con la mano)
Ahi!

Aulo: Ora sta a me scegliere. Scelgo la nave.

Licio: Io, la testa.
(Aulo lancia di nuovo la moneta)

Aulo: Ho vinto un’altra volta. E’ venuta la nave. Su, dammi la gamba ancora.
(Licio offre di nuovo la gamba; e l’altro, giù un secondo colpo con la mano)

Licio: Hai! Sembri mio padre quando frusta uno schiavo. Però ora, la moneta, la voglio lanciare io!

Aulo: No, la lancio sempre io.

Licio: Perchè?

Aulo: Perchè è mia!

Licio: Questa non è ragione giusta. Il gioco così non va bene. Potresti farmi un inganno.

Aulo: Prova a ripeterlo!

Licio: Sì, lo ripeto: mi puoi ingannare. Cesariano!

Aulo: (con disprezzo) Pompeiano!

(I due ragazzi si avvicinano per misurarsi nella lotta).

Il pegagogo di Aulo: (arrivando)  Vergogna, sembrate figlioli di schiavi o di miserabili plebei. Guardate come si sciupano le vostre toghe Se non ti fermi subito, Aulo, sentirai questa sera tuo padre!

Aulo: Per Giove, staccati, Licio! Oggi l’ho già sentito abbastanza, mio padre!

Il lavoro trasforma la terra

Narratore: Nei primi anni della Repubblica, si racconta, viveva in Roma un agricoltore, padrone di un campicello, alle porte della città. I vicini lo invidiavano e, qualche volta, parlavano di lui con malignità.

Primo contadino: Un campicello miracolo, dicono… Ogni anno dà buoni raccolti.

Secondo contadino: Altro che miracoloso, amico mio, qui c’è sotto qualcosa. La pioggia scroscia, le nostre terre si allagano e il campo di Cresino resta all’asciutto…

Primo contadino: Viene la siccità, brucia tutto, e il campo di Cresino è verde e rigoglioso come a marzo

Secondo contadino: E i raccolti? Pianta uno e raccoglie venti. Sempre così, sia grano, orzo o avena.

Primo contadino: E il frutteto non lo conti? Alberi sempre carichi, mele grosse così, bianche e rosse.

Secondo contadino: Qui c’è sotto qualcosa. Arti magiche, te lo dico io!

Primo contadino: Bravo, è quel che ho sempre pensato: il vecchio la faccia di stregone ce l’ha.

Secondo contadino: E quella sua figlia spilungona che sta sempre per i campi… Canta certe nenie, tutto il giorno, china sulla zappa…

Primo contadino: Brutta faccenda. E il peggio è che non si accontentano di far prosperare le loro biade. Io temo…

Secondo contadino: Mi hai tolto la parola di bocca. Quelli hanno messo il malocchio nei nostri campi: ecco perchè, annata dopo annata, le cose vanno di male in peggio.

Primo contadino: E noi ce ne stiamo qui con le mani  in mano…

Secondo contadino: Ah, no! Questa storia deve finire, e presto. Se te la senti di venire con me dal giudice trascineremo in tribunale padre e figlia.

Primo contadino: Certo che me la sento. Andiamo.

Narratore: Di lì a qualche giorno Cresino e sua figlia furono chiamati in giudizio dal magistrato, incolpati di arti magiche in danno dei vicini.

Primo contadino: Guarda là, se ne vanno al Foro sul carro trainato dai buoi…

Secondo contadino: Come se andassero alla festa…

Primo contadino: E si portano appresso l’aratro e vanghe e zappe e tridenti.

Secondo contadino: Mah… forse il vecchio è sicuro della condanna e già pensa a sloggiare.

Primo contadino: Staremo a vedere.

Narratore: Quando il magistrato lesse l’accusa, Cresino e la figlia se ne stettero fermi e zitti, senza badare ai commenti della folla di curiosi che gremiva il Foro.

Magistrato: Cresino, ora conosci le accuse: puoi parlare in tua discolpa. Sii breve e preciso.

Cresino: Voi mi accusate di stregoneria, voi dite che il mio campo prospera per le mie arti magiche… Ebbene, non tenterò di difendermi, o Romani, anzi vi svelerò il segreto: ecco qui queste mie forti braccia che mai si stancano, ecco queste mie mani callose che quando afferrano la zappa par che non vogliano più abbandonarla… Ed ecco mia figlia che dall’alba al tramonto mi sta a fianco nei campi; ed ecco i miei buoi, i più forti, i più ben curati dell’Agro Romano… ed ecco i miei strumenti, zappe, vanghe, picche, sempre risplendenti, sempre in moto. Romani, io esercito la magia del lavoro… Orsù, magistrati, riconoscete la mia colpa e punitemi come prescrivono le leggi.

Narratore: Dalla folla si alzò un grido di ammirazione. Il magistrato alzò un braccio, impose il silenzio, poi disse…

Magistrato: Cresino, le tue arti magiche sono le stesse che hanno fatto grande la nostra città: la tenacia, la perseveranza, il lavoro. Noi magistrati di Roma ci uniamo alle lodi che ha tributato il popolo.

Recite per bambini ANTICA ROMA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma – FONDAZIONE E I SETTE RE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici sull’antica Roma, dalla fondazione a tutto il periodo regio, di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Nasce Roma

Secondo gli studiosi, verso la metà dell’ottavo secolo a.C. quando la potenza etrusca si estendeva dalle Alpi fin presso il Tevere, sorse nel cuore dell’Italia un umile villaggio di Latini, destinato a diventare il dominatore del mondo: Roma.

I Latini si erano stabiliti nella vasta pianura ondulata che è tra il basso Tevere, i colli Albani ed il mare. Il nome Lazio, dato alla regione, significa “luogo largo ed aperto”.

Il suolo era adatto alla pastorizia ed all’agricoltura ed infatti i Latini furono pastori ed agricoltori. Vivevano in capanne sparse per la campagna o si raggruppavano in villaggi detti vici ed oppida, che servivano da rifugio anche alla popolazione sparsa per la campagna, quando vi fosse qualche pericolo.

I villaggi erano fondati sulle alture sia per ragioni di sicurezza, sia per igiene: infatti i popoli delle vicine montagne (Sabini, Marsi), facevano frequenti scorrerie nella pianura per saccheggiare i raccolti, e le acque dei fiumi, impaludando, provocavano la malaria.

Il villaggio sul colle Palatino fu il primo nucleo di Roma, la Roma quadrata. Coi Latini del Palatino si fusero ben presto i Sabini del Quirinale.

Questo gli studiosi hanno potuto sicuramente stabilire attraverso i ritrovamenti archeologici e l’interpretazione di essi, liberando il vero dalle molte leggende che avvolgono le origini di Roma.

Secondo la leggenda

Quando i Romani furono i signori del mondo, vollero nobilitare le loro origini ed elaborarono una vasta leggenda che li diceva discendenti dall’eroe troiano Enea, figlio di Venere, scampato dalla distruzione della sua patria. Narra il mito che Enea, sbarcato dopo lunga navigazione nel Lazio, ebbe ospitalità ed amicizia dal re del luogo, Latino, che gli diede in sposa la figlia Lavinia, in onore della quale Enea fondò la città di Lavinio. Suo figlio Ascanio o Julo fondò Albalonga, e tra i suoi discendenti fu Romolo, il mitico fondatore di Roma.

Dopo una lunga serie di re albani discendenti da Enea, il trono passò a Proca, che ebbe due figli: Numitore e Amulio. Quest’ultimo spodestò il fratello e costrinse la figlia di lui, Rea Silvia, a farsi sacerdotessa di Vesta, per impedire ogni pericolo di restaurazione da parte dei suoi discendenti. Le vestali non potevano sposarsi, nè avere figli sotto pena di essere sepolte vive.

Ma Rea Silvia ebbe dal dio Marte due gemelli e Amulio li fece esporre in una cesta, sulla riva del Tevere, ai piedi del Palatino. Una lupa, prodigiosamente, li nutrì del suo latte; un pastore di  nome Faustolo li raccolse e li allevò, chiamandoli Romolo e Remo. Divenuti forti ed animosi giovani, i due fratelli vollero fondare una città presso il luogo dove erano stati raccolti.

Il rito della fondazione di una nuova città, che i Latini avevano appreso dagli Etruschi, consisteva nel tracciare anzitutto, col vomere, un solco di forma quadrata, che ne era il perimetro. Per stabilire chi dei due dovesse tracciarlo ed essere re, i due fratelli consultarono il volere degli dei, cioè presero gli auspici.

Remo dal colle Aventino vide sei avvoltoi, Romolo dall’alto del Palatino ne scorse dodici. Gli dei avevano favorito Romolo. Egli, aggiogati un bianco vitello e una vacca bianca, tracciò sul Palatino il solco quadrato, lungo il quale dovevano essere erette le mura, sollevando il vomere alla metà di ogni lato, per le porte. Il solco era sacro e nessuno poteva violarlo. Remo, deluso, per scherno lo saltò, e Romolo, accecato dall’ira, lo uccise.

Così rimase re della città e le impose il proprio nome: Roma. Secondo la tradizione la fondazione avvenne il 21 aprile del 753 aC. Da quel giorno i Romani computarono il tempo ab urbe condita e, a ricordo dell’avvenimento ogni anno, il 21 aprile celebrarono delle feste campestri.

La Roma quadrata fu un piccolo villaggio di pastori e di agricoltori, non diverso dagli altri che già sorgevano nel Lazio. I suoi abitanti si vestivano di pelli, perchè scarsa era ancora la lana, abitavano in capanne di forma circolare a tetto spiovente, coperte di canne, con le pareti fatte di legname dei vicini boschi e rinforzate da pezzi di tufo.

21 aprile: Natale di Roma

In un lontano giorno di primavera, nell’anno 753 aC, due giovani fratelli, Romolo e Remo, tracciarono un solco con l’aratro sulla sinistra del Tevere, e segnarono il posto dove volevano fondare una città.
Era il 21 aprile, e la città che sorse in quel solco fu Roma.
Roma diventò grande e potente, conquistò tutti i Paesi intorno al Mediterraneo e fu la capitale di un vasto impero, a cui diede le sue leggi e la sua civiltà.
Dopo la caduta dell’Impero romano, Roma, divenuta la sede del papato, fu il centro del mondo cristiano e cattolico. Roma è la capitale d’Italia.

Nascita di Roma

Qualche colle selvaggio. Una conca di valle, acquitrinosa. Un mattino d’aprile. Pochi, rudi uomini (pastori? guerrieri?) intorno a un rude capo, sulla sommità di un colle. Un volo augurale passa nel cielo. Il capo ha aggiogato all’aratro un bue e una giovenca: guida con mano ferma e il vomere traccia un solco quadrato. Guai a chi, nemico, varcherà quel solco! Roma.

Roma antica

Augusti quartieri di capanne di fango; ecco che cos’era la Roma di allora. Ogni abituro era coperto con tetto di paglia e destinato ad una sola famiglia. Il tetto faceva da granaio. Il fumo del focolare usciva dalla porta. La casa era circondata da stalle, il bestiame correva per le vie.
Nell’inverno il romano primitivo abitava sul Palatino e sul Quirinale, e nell’estate scendeva giù al piano per attendere ai lavori del campo. Anche il cittadino più ragguardevole si metteva dietro l’aratro. Vie non lastricate, ripide scale conducevano alla città da colle a colle. (T. Birth)

Roma

Sulla collina più vicina al guado del fiume, alcuni Latini costruirono le loro capanne. Il posto era comodo per commerciare. Infatti tutti i Latini che volevano commerciare con gli Etruschi dovevano passare da quel guado.

Quel colle si chiamava Palatino; il villaggio costruito sul colle fu chiamato Roma, che, a quel che sembra, vuol dire “città del fiume”.

Roma era una città per modo di dire Era un villaggio di capanne rotonde, col tetto aperto nel mezzo per fare uscire il fumo del focolare. Tutto intorno al villaggio c’era un muro di grosse pietre. Nel muro c’era una porta che si apriva sul viottolo che portava verso la pianura e il fiume. Di qui passavano i mercanti che andavano a commerciare, i contadini che andavano nel loro campo, i pastori che portavano le pecore e le mucche al pascolo. La mattina, appena era sorto il sole, tutta la città risuonava dei muggiti del bestiame che andava al pascolo. Per questo la porta era chiamata Mugonia.

I Latini

Tra le popolazioni italiche, una delle più importanti era quella dei Latini. Essi occupavano i colli e le pianure del Lazio ed erano circondati da altre popolazioni: i Sabini, assai vicini, i Campani, i Sanniti, i Marsi. A nord, appena varcato il Tevere, cominciava il territorio degli Etruschi.

Un giorno un gruppo di pastori latini si portò su un colle che sorgeva in vista delle rive del Tevere e vi fondò un villaggio.

La località era propizia al pascolo e alla difesa. Poichè la dea di questi pastori si chiamava Pale, intitolarono ad essa il colle, che si chiamò, perciò, Palatino.

Il Palatino era di difficile accesso e quindi si prestava ad essere ben difeso dai nemici; altra difesa naturale era il Tevere, il quale, inoltre, con le sue frequenti inondazioni, rendeva fertili i campi circostanti e serviva molto bene come mezzo di comunicazione per i trasporti.

Anche il mare non era troppo lontano e permetteva il commercio con l’Etruria, con la Grecia, con la Fenicia. V’era, infine, abbondanza di acqua potabile e i terreni, parte in pianura, parte in collina, si prestavano a ogni sorta di coltivazioni. (F. Palazzi)

Romolo e Remo

Non  lontano dalle rive del Tevere, in una povera capanna, abitavano Faustolo, un vecchio pastore, e sua moglie Laurenzia.

Una sera Faustolo sedeva stanco sulla porta della capanna. Il sole era tramontato lontano nel mare, verso la foce del fiume Tevere, ed il silenzio era grande.

Nell’interno dell’umile capanna, Laurenzia, la buona moglie di Faustolo, preparava lo scarso cibo serale.

All’improvviso, dal bosco, si intese un fruscio, e laggiù, verso il fiume un’ombra scura scivolò alla riva…

“Sarà bene andare a vedere” , mormorò Faustolo fra sè. Disse alla moglie di aspettarlo ed avanzò cauto verso la riva del Tevere. Era tutto un pantano. Per le piogge recenti, il fiume aveva allagato i campi ed il terreno era cosparso di larghe pozze di acqua. In una di quelle pozze, ai piedi di un albero, Faustolo vide una lupa enorme, col dorso appoggiato al tronco della pianta. Era sdraiata e due bambini si nutrivano del suo latte.

Credeva di sognare. Si ritirò piano piano, rifece la strada percorsa e tornò alla capanna. Giunto sulla soglia gridò: “Laurenzia, ho visto una lupa che allatta due gemelli…”

“Saranno lupacchiotti”, rispose tranquillamente la donna.

“Ma no, ma no: due bambini, ti dico. Vieni, vieni subito a vedere!”

E prima che ella potesse rifiutarsi, l’afferrò per un braccio e la trascinò verso il fiume. Poco dopo, i due trovatelli riposavano al caldo, nella capanna di Faustolo. Laurenzia aveva acceso un gran fuoco e si affannava intorno alla culla sorridendo fra le lacrime: “Gli dei”, mormorava “ne fanno delle belle: mi mandano due bambini adesso che sono vecchia e stanca! Ma non temete, poveri piccoli, Laurenzia è vecchia, ma la nonna ve la saprà fare”.

I trovatelli crebbero presto. In pochi anni, furono due ragazzi grandi e forti, un po’ selvaggi, ma buoni. Faustolo li aveva chiamati Romolo e Remo; ed essi lo rispettavano come un padre. Correvano a perdifiato il monte e il piano, come due puledri. Tornavano, a sera, stanchi e felici, per ricominciare il giorno dopo. E ogni giorno si spingevano più lontano, in cerca di nuove avventure… (G. Brigante Colonna)

La fondazione di Roma

Cominciò la cerimonia. Le vestali, tutte candide, portarono nei vasi sacri il fuoco, e lo deposero sugli altari. Aggiunsero piccoli pezzi di legna secca, arida, e svilupparono la fiamma: poi i sacerdoti giovani scannarono le vittime per i sacrifici; e i vecchi ne esaminarono le viscere per dare responsi.

“Gli dei accettano i sacrifici!”

“Proteggeranno la città nuova!”

“La renderanno grande e forte!”

“Vogliamo che si chiami Roma!”

“Roma durerà in eterno!”

“A Roma verranno le genti di ogni parte d’Italia e del mondo!”

Così dissero i sacerdoti esaminando le viscere delle vittime mentre i fuochi scoppiettavano sugli altari. Da quel popolo radunato si alzò allora un altissimo grido: “Roma, Roma, Roma! Viva Roma, ora e sempre!”

Due uomini portarono al principe Romolo un aratro grande, di bronzo, trascinato da un toro bianco e da una vacca bianca. E il principe lo guidò nel solco, cantando preghiere, seguito dai compagni silenziosi. (L. Orvieto)

I patrizi, i plebei, gli schiavi

Le famiglie dei primi abitatori dei colli, che avevano occupato il territorio, erano raggruppate in “genti”. La gente era l’insieme delle famiglie che discendevano dallo stesso antenato, legate fra loro oltre che da vincoli di sangue e d’affetto, anche dal culto dei propri dèi gentili. Tutti i componenti la gente portavano lo stesso nome gentilizio, avevano gli stessi altari familiari, la tomba e la proprietà fondiaria in comune. Essi si chiamavano patrizi, ossia discendenti da un medesimo pater. La plebe era una moltitudine varia e sempre più numerosa, formata dagli abitanti delle città vinte costretti a stabilirsi in Roma, da commercianti ed artigiani venuti ad esercitare la loro attività, da clienti di cui si erano estinti i patroni. Erano liberi della propria persona, ma esclusi dalla vita politica e dalle cerimonie religiose (perchè religione e stato formavano una cosa sola), nè potevano contrarre matrimonio con i patrizi.

Il governo di Romolo

Romolo fu dunque il primo re e i primi abitanti furono i compagni di lui, umili pastori, che lo avevano seguito da Alba. Per popolare la città, Romolo la offerse come asilo a schiavi fuggiaschi e a liberi perseguitati. Vi affluì una turba di uomini di infima condizione, banditi, avventurieri. Mancavano le donne e non era facile, per tale gente, ottenerle pacificamente dai popoli vicini. Allora Romolo ricorse allo stratagemma del ratto delle Sabine.

Invitò i popoli vicini ad una grande festa, e quelli accorsero numerosi, specialmente i Sabini. Ma a metà della festa, a un segnale convenuto, molti Romani armati si gettarono sulle donne e le rapirono.

Da ciò nacque una guerra fra i due popoli. I Sabini superarono le difese, erette da Romolo sul Campidoglio, per il tradimento di una giovane romana, Tarpea,  figlia del guardiano della rocca, che fu dallo stesso nemico gettata da una rupe (Rupe Tarpea). Di là furono, in seguito, gettati i traditori della patria.

Ma le donne sabine si interposero poi fra Romani e Sabini e la pace fu fatta. Romani e Sabini formarono un popolo solo e Romolo regnò su tutti. Egli organizzò il primo esercito e si circondò d’un consiglio, il Senato, composto di uomini anziani e saggi, detti senatori.

Dopo trentotto anni di regno (753-715 aC) Romolo scomparve misteriosamente durante un uragano, mentre passava in rivista l’esercito. Si disse che era stato assunto in cielo da suo padre, Marte, e più tardi venne onorato come dio col nome di Quirinio.

Numa Pompilio

Dopo la morte di Romolo fu eletto re il sabino Numa Pompilio, uomo pacifico e pio. Egli fece innalzare un tempio alla dea Vesta ed uno a Giano, dio della pace e della guerra, e pose a capo della religione un pontefice massimo.

Tullo Ostilio

Alla morte di Numa divenne re Tullo Ostilio. Era un re guerriero e tosto venne a battaglia con gli Albani, che abitavano sui colli vicini ed avevano come capitale Albalonga. Per evitare troppi lutti e rovine,  ci si accordò perchè tutto fosse deciso dallo scontro di tre soldati romani e di tre soldati albani. Scesero in campo tre fratelli romani, gli Orazi, e tre fratelli albani, i Curiazi. In breve due Orazi furono colpiti a morte; il terzo si diede alla fuga, incalzato dagli avversari. All’improvviso si fermò, si volse e uccise l’inseguitore più vicino, e così fece con il secondo, poi con l’ultimo. La vittoria toccò a Roma che si impadronì di Albalonga ed estese maggiormente il suo territorio.

Anco Marzio

Tullio Ostilio fu ucciso e fu creato re Anco Marzio, nipote di Numa e, come il nonno, uomo pacifico. Egli fece costruire un ponte, detto Sublicio (ponte di travi) sul Tevere e un porto sulla marina di Ostia.

Tarquinio Prisco

Alla reggia di Anco Marzio era giunto un nobile forestiero, Tarquinio Prisco. Egli apparteneva al vicino e civilissimo popolo degli Etruschi. Tarquinio s’era conquistata la stima del re romano e ne era diventato il consigliere e l’amico. Alla morte di Anco, Tarquinio ne divenne il successore. Il nuovo re portò tra i Romani le abitudini raffinate degli Etruschi. In Roma furono costruiti nuovi templi, fu tracciata una grande piazza, il Foro, per il mercato e le riunioni pubbliche. La città ebbe, con la cloaca massima, il primo impianto di fognature.

Servio Tullio

Il figlio di Tarquinio, Servio Tullio, ebbe in eredità dal padre una città ricca e potente. Seppe ordinarla ed organizzarla così bene, che i sudditi lo chiamarono “secondo fondatore di Roma”. La città si estendeva ormai su sette colli e Servio Tullio la circondò di mura robuste. Egli divise il popolo in classi e centurie e stabilì che i cittadini pagassero tasse secondo la loro ricchezza.

Lucio Tarquinio

Servio Tullio fu assassinato per iniziativa di Lucio Tarquinio, il quale diventò re. Subito, si dimostrò ingiusto e violento a tal segno che il popolo insorse e cacciò il tiranno. Lucio Tarquinio, detto il Superbo, si rifugiò presso gli amici Etruschi a preparare la rivincita.

Roma al tempo dei re

Al tempo dei re, la città di Roma non era certo bella come Atene. Essa era una città di capanne rotonde col tetto aperto nel centro perchè il fumo del focolare potesse uscire.

I suoi abitanti vivevano poveramente, ma amavano molto la terra che avevano scelto come loro dimora.

Assai più belle invece erano le case degli dei, cioè i templi.

Accanto al re, c’era il Senato, cioè un’assemblea di uomini saggi che lo aiutavano a dettare le leggi e lo consigliavano se doveva fare guerra o stringere amicizia con i popoli vicini.

La religione romana

I Romani adoravano press’a poco gli stessi déi dei Greci: Giove, Giunone, Minerva, Apollo, Diana, Nettuno, ma specialmente Marte, il dio della guerra e Vesta, la dea del fuoco sacro e protettrice della città.

Le sacerdotesse di Vesta, chiamate Vestali, avevano speciali onori, un posto riservato in tutti gli spettacoli pubblici, e il privilegio di graziare il condannato a morte che le incontrasse per strada, mentre lo conducevano al patibolo.

Un dio tutto romano e solamente romano era Giano, il dio delle porte. Il suo tempio restava sempre chiuso in tempo di pace; si apriva soltanto quando il paese era in guerra.

Accanto a queste divinità che erano adorate da tutto il popolo, ogni famiglia aveva i suoi dei particolari, protettori del focolare domestico, i Lari e i Penati. E questi erano adorati soltanto dai membri della famiglia.

A tutti questi dei venivano offerti sacrifici: si uccideva cioè sull’altare, in loro onore, qualche animale, scelto specialmente tra i tori, le pecore, i maiali. Agli dei si offrivano anche le primizie agricole e i profumi.

Tra i vari sacerdoti, avevano una speciale importanza gli Auguri, i quali, dal volo degli uccelli e da altri segni celesti, pretendevano interpretare la volontà degli dei e prevedere perfino il futuro.

I Romani erano molto religiosi. Non intraprendevano alcuna azione importante senza prima aver fatto un sacrificio agli dei e interrogato gli Auguri. La religione dei Romani era assai più austera di quella greca.

Un sacrificio agli dei

Una processione di uomini dall’aspetto grave e solenne avanza lentamente. Che è mai? Se guardiamo bene, vediamo le colonne di alcuni templi e un’ara, cioè un altare verso il quale quei personaggi si dirigono.

Essi stanno offrendo un sacrificio agli dei. In loro onore si offrono di solito frutti, si bruciano nei tripodi i profumi, si immolano animali. Questo è un sacrificio solenne e verranno uccisi un maiale, una pecora e un toro.

Tra poco il sacerdote sacrificatore salirà il gradino dell’ara e la toccherà con la mano per invocare l’aiuto della divinità a cui si sacrifica.

Poi metterà un poco di farina cotta e di sale sul capo dell’animale, vi verserà del vino e infine lo ucciderà. Il sangue della vittima verrà raccolto in grandi vasi chiamati patere.

Sull’ara arde il fuoco che brucerà le carni dei tre animali. I sacerdoti ne osserveranno bene le viscere, guarderanno come si agitano le fiamme e come si alza il fumo dell’incenso per capire ciò che gli dei vogliono.

Il territorio su cui sorse Roma

L’aspetto di Roma, al tempo in cui sorse sul Palatino, era ben diverso da quello di oggi. Regnava allora una squallida solitudine intorno a quei colli selvaggi rivestiti di querce, di faggi, di lauri e incisi da valli poderose, solcate da fiumi la cui piena riempiva di acquitrini e di paludi tutta la zona.

Qui vivevano genti primitive, fiere e rozze, che erano tutte dedite all’agricoltura ed alla pastorizia. Era logico che i Latini si stabilissero sui colli. Essi erano un ottimo presidio per resistere agli assalti dei nemici interni e di quelli che si fossero avventurati a risalire il Tevere. Attraverso il fiume poi si potevano allacciare relazioni con i navigatori greci ed etruschi. Il Tevere era anche una via naturale per il commercio del sale, che divenne in breve importantissimo.

Roma. infatti, dovette al sale la sua prima ricchezza ed al sale dedicò un’arteria importante: la via Salaria.

Perciò i Latini non trascurarono neppure la pianura sia per rendere più facile la navigazione del fiume, sia per poterla coltivare. Si misero a bonificare il terreno paludoso, a prosciugare le valli, a regolare il corso del Tevere.

Fondazione di una città

Il rito che i Latini compivano per la fondazione di una città non era molto semplice e sembra che essi lo abbiano appreso dagli Etruschi. Con molta probabilità Roma fu fondata secondo quel rito.

Ecco: un gruppo di pastori e di contadini è giunto sul colle dove dovrà sorgere la nuova città. Viene acceso un fuoco di sterpi e ciascuno di essi salta attraverso la fiamma per purificarsi da ogni peccato.

Quello che sarà il fondatore della città scava una fossa profonda e ciascuno dei presenti vi getta un po’ di terra dei villaggi da cui proviene. Ora il fondatore indossa le vesti sacerdotali; aggioga un toro e una mucca all’aratro ed egli stesso lo guida per tracciare il solco. Lungo quel solco saranno tracciate le mura della città; dove si apriranno le porte, il fondatore solleva l’aratro e interrompe per un breve tratto il solco. Il recinto tracciato è sacro: nè gli stranieri nè i cittadini hanno il permesso di oltrepassarlo senza il permesso del fondatore. Saltare al di là del piccolo solco è un atto empio che viene punito con la morte.

La tradizione sull’età regia (753-510 aC)

Roma ebbe per lungo tempo un governo monarchico: la tradizione ci ha conservato i nomi di sette re, ma probabilmente  furono di più: Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo.

I primi quattro furono alternativamente latini e sabini, gli ultimi tre etruschi: i latini furono guerrieri, i sabini pacifici, gli etruschi costruttori e organizzatori.

Evidentemente gli Etruschi, stabiliti anche nella Campania, si impadronirono un certo momento di Roma, testa di ponte sul Tevere, importante per le comunicazioni terrestri tra l’Etruria ed i nuovi acquisti campani. Ai primi due elementi etnici, Latini e Sabini, se ne aggiunse così un terzo: l’etrusco.

Le notizie tramandate di questo primo periodo sono in gran parte leggendarie. I Latini fra l’VIII e il VI secolo non conoscevano ancora la scrittura o la usavano pochissimo: i fatti affidati al puro racconto orale, passando di generazione in generazione, furono in parte dimenticati, travisati e abbelliti dall’orgoglio civile di quel popolo così fervidamente partecipe della storia della sua città, che volle illuminata di gloria anche nelle ore della sconfitta.

Tuttavia, attraverso i ritrovamenti archeologici e la critica della tradizione, i caratteri complessivi dell’età regia sono sufficientemente netti.

Il re mite

Numa fu, fra i Re di Roma, il più mite e saggio. Si racconta che una volta chiese a Giove che cosa dovesse fare per scongiurare il pericolo del fiume. Dal folto del bosco uscì una voce che disse: “Taglia un capo!”. Numa ne fu inorridito, ma bisognava che obbedisse. Pensò un poco, poi si fece portare il capo d’aglio. Prese la spada e lo tagliò. Così aveva obbedito a Giove e non aveva fatto male a nessuno!

Romolo Quirino

Stava Romolo parlando ai soldati che passava in rassegna, quando un temporale, sorto all’improvviso con gran rumore di tuoni, lo circondò di una nuvola così densa da toglierlo alla vista dei soldati. La gioventù romana, quando, cessata la paura e tornato il cielo sereno, vide vuoto il trono, prestò fede ai senatori, che erano stati più vicini al re, i quali affermavano che la violenza del temporale lo aveva portato in alto, e quasi sbigottita stesse per qualche tempo in doloroso silenzio. Quindi decretarono che Romolo, dio nato da un dio, dovesse venire onorato come Re e padre della città di Roma, e gli rivolsero preghiere affinchè concedesse pace alla sua stirpe.

Un tale di nome Giulio Proculo, vedendo il popolo agitato per la scomparsa del Re lo rianimò dicendo: “O Quiriti, stamane all’alba, sceso improvvisamente dall’alto, mi venne incontro, e mentre io lo guardavo pieno di terrore e di venerazione: -Va’-, mi disse – e annuncia ai Romani che gli dei vogliono che la mia Roma sia capo del mondo; perciò curino l’arte militare, e sappiano e tramandino ai posteri che nessuna forza umana potrà resistere alle armi di Roma-. Ciò detto, l’apparizione si innalzò in cielo”. (Tito Livio)

Monelli dell’antica Roma

– Ave, maestro -, con questo saluto i ragazzi entrarono nella scuola, una povera stanza presa in affitto dal maestro. Questo sedeva su una sedia con spalliera, che si chiamava cattedra.

– Salve, miei discepoli – rispose il maestro. – Minerva vi protegga. Sedete e aspettate in silenzio -.

Non c’erano i banchi. I ragazzi sedettero, alcuni su una piccola panca, altri su sgabelli, tenendo sulle ginocchia la loro tavoletta di legno spalmata di cera e l’occorrente per scrivere.

– Vediamo -, riprese il maestro – ci siete tutti? Aulo, Marzio, Gaio, Licio, Tullio, Terenzio… Bene, prendete ora il vostro sacchettino dei calcoli e venga qui, vicino a me, il piccolo Aulo –

Aulo, tenendo in mano il suo sacchettino, si avvicinò al  maestro, che gli disse: – Tira su dieci calcoli –

Aulo introdusse la mano nel sacchetto, ma la tirò subito indietro, tutta sporca.

– Che hai lì dentro? – strillò il maestro, – Fammi vedere! – .  Frugò nel sacchettino di Aulo. – Frutta fradicia! – esclamò sbalordito, tirando fuori un pugno di susine andate a male.

Una gran risata accolse quel gesto.

Aulo, balbettando, provò a scusarsi, dicendo che un compagno doveva certo avergli combinato un brutto scherzo, ma il maestro non intese regioni.

Era stato l’amico Terenzio a fare ad Aulo il brutto scherzo. E non era il primo che combinava!

Una volta gli aveva forato con un punteruolo la tavoletta cerata; una seconda volta gli aveva nascosto lo stilo, e una terza volta, oh che brutta idea! Gli aveva bagnato il libro di papiro, facendo sbiadire una buona parte delle lettere.  Aulo aveva provato a protestare, ma neppure gli altri compagni lo avevano spalleggiato, perchè dicevano: “Si tratta di scherzi. Non devi prendertela!”. Ma quel giorno Aulo era rimasto proprio mortificato.

– Cosa ti è successo?- gli chiese il pedagogo, che era lo schiavo accompagnatore, perchè bisogna sapere che tutte le famiglie patrizie tenevano in casa uno schiavo che aveva il compito di badare ai fanciulli. Aulo raccontò la sua disavventura e il pedagogo, mentre passavano per il Foro, gli dette un consiglio per fare cessare quei brutti scherzi.

– Buona idea! – esclamò Aulo. – Ti ringrazio, mio buon pedagogo -.

Il giorno dopo, Aulo mostrò ai compagni, sotto il portico della scuola, un bel carrettino: uno di quei carrettini che i ragazzi romani amavano attaccare a un cane o a una capretta, immaginando di far le corse nel Circo. Era così perfetto, che i compagni glielo invidiarono. Allora Aulo, volgendosi a Terenzio, gli disse: – Sarà tuo se, in presenza di tutti, ti farai dare da me dieci colpi di mano sul polpaccio della gamba -.

Terenzio, vinto dalla tentazione, gli disse: – Va bene, accetto. –

– Giuralo –

– Per Giove e per Giunone, giuro che prenderò il carretto solo dopo il decimo colpo –

Gli altri ragazzi si strinsero attorno in cerchio; Terenzio offrì ad Aulo il polpaccio della gamba destra, e questi, giù un bel colpo con tutta la forza del braccio!

– Ahi! – strillò Terenzio

– E uno! E due! E tre! – ma arrivato al nono, Aulo si arrestò.

– Perchè aspetti? – chiese impaziente Terenzio.

– Non ne ho più voglia – rispose Aulo con calma.

– Allora il carretto è mio –

– Niente affatto. Hai giurato che l’avresti preso dopo il decimo colpo. Non vorrai certo attirarti le vendette di Giove! –

– Allora dammi il decimo colpo – disse Terenzio, offrendo di nuovo il polpaccio.

– No, no – rispose fermo Aulo – Tu tieni i nove colpi ricevuti, e io mi terrò il carretto. –

Risero i compagni, risero i pedagoghi presenti. Terenzio andò a casa arrabbiatissimo, ma il giorno dopo sembrava un altro. Piano piano, i due piccoli Romani divennero amici per la pelle. (R. Botticelli)

Le oche dei tre Romani

Nell’antica Roma c’erano gli schiavi. Ma non tutti i padroni erano esosi tiranni. Ascoltate. Il patrizio Marco Licio Petronio andò al mercato degli  schiavi. C’erano, sui palchi girevoli, giovinetti da vendere in serie, buffoni che facevano boccacce, muscolosi giganti adatti per i lavori di fatica, agili portatori di lettighe… I poveretti, come ogni merce, portavano un cartello con l’indicazione del prezzo, del luogo d’origine, dei pregi.

Marco Licio Petronio cercava un precettore, cioè un insegnante privato che facesse scuola al figlio, il quale aveva finito i ludi letterari, ossia la scuola elementare. Non c’è da ridere! Anche gli insegnanti venivano venduti e comprati. Marco Licio Petronio trovò un Greco dottissimo, ma lo pagò a caro prezzo, tanto caro che, quando fu a casa, chiamò a sè tutti gli altri servi e disse: – Il grammatico mi costa fior di sesterzi. State attenti alla sua salute. Che non prenda neppure un raffreddore! -.

In quel tempo Marco Licio Petronio era tormentato da tre clienti, che non lo lasciavano mai in pace. I clienti, al tempo di Roma antica, erano degli sfaccendati che vivevano alle spalle di un patrizio: la mattina correvano a dargli il buon giorno, lo lodavano, gli battevano le mani quando parlava, cercando in ogni modo di fargli piacere.  Tutti i patrizi avevano i loro clienti: anche Marco Licio Petronio ne aveva molti, ma i tre erano troppo fastidiosi.

Un giorno, per levarseli di torno, Marco Licio Petronio regalò loro undici oche vive e disse: – Tu, o Sestilio, prendine la metà. Tu, o Vitulio, la quarta parte. Tu, o Renzio, la sesta parte -.

I tre clienti si trovarono nei guai: come fare la metà di undici oche? E come farne la quarta parte? E come la sesta?

I tre, dopo aver bisticciato, si recarono dal grammatico: – O precettore, illuminaci su questa difficoltà!-

Il precettore chiese un giorno per pensarci. Il giorno dopo mostrò ai tre litiganti una piccola oca di legno e disse: – Immaginiamola vera. Quante oche avete ora? –

– Dodici – risposero in coro i tre clienti.

– Bene – disse il grammatico – a te, Sestilio, spettano sei oche, cioè la metà; a te, Vitulio, tre oche, cioè la quarta parte. E a te, Renzio, due oche, cioè la sesta parte. In tutto sono undici. A me restituite quella di legno -.

I tre si presero, tutti contenti, le oche così distribuite.

Quando Marco Licio Petronio venne a conoscere l’ingegnosità del precettore lo chiamò a sè e gli disse: – Ti ho pagato carissimo, ma apprezzo il tuo ingegno e ti rendo libero. Come liberto, spero che resterai qui, ad istruire mio figlio, ma riceverai una ricompensa e potrai lasciarci quando vorrai -. (R. Botticelli)

I primi quattro re

Gli abitanti della città quadrata erano pochi e, per popolarla, Romolo la offerse come asilo a schiavi fuggitivi e a liberi perseguitati. Poichè questi banditi non avevano diritto di connubio, cioè di nozze, coi popoli vicini, Romolo si procurò le donne per creare le famiglie, facendo rapire, durante una festa religiosa, quelle dei Sabini intervenuti.

Ne derivò una guerra, presto finita per l’interposizione delle stesse donne rapite, divenute spose dei Romani, e i due popoli si fusero.

Da questa fusione la tradizione fa derivare il doppio nome del popolo: Romani, nome di guerra, Quiriti (da Curi, capitale dei Sabini) nome religioso e civile.

Romolo regnò per qualche tempo insieme al re sabino Tito Tazio, poi da solo, e a lui sono attribuiti i primi ordinamenti civili e militari: il Senato di 100 membri, la divisione del popolo in tre tribù, Tizii, Ramnensi, Luceri, ed in trenta curie, l’ordinamento dell’esercito nella legione (leva) di 3000 fanti e 300 cavalieri (costituzione romulea).

I Ramnensi erano i Latini, compagni di Romolo; i Tizii, i Sabini venuti con Tito Tazio; i Luceri, erano stranieri di cui è dubbia l’origine (chi dice etrusca, e chi latina), stabiliti sul colle Celio.

Dopo 37 anni di regno, Romolo scomparve misteriosamente durante un uragano, assunto si disse in cielo dal padre Marte; e fu venerato anche lui come dio col nome di Quirino.

La tradizione fa seguire a Romolo il lungo e pacifico regno di Numa Pompilio, sabino. E come a Romolo furono attribuite tutte le prime istituzioni politiche e militari, così ai sabini Numa Pompilio e Anco Marzio sono riferite quelle religiose e pacifiche.

Ispirato dalla ninfa Egeria, Numa intese a mitigare con le istituzioni religiose e col sentimento della giustizia gli spiriti fieri del popolo incline alla violenza. Edificò templi, fra cui quello di Giano, le cui porte erano chiuse in tempo di pace, aperte in tempo di  guerra, perchè Giano, dio della porta (ianua) seguiva l’esercito in campo. Istituì i grandi ordini sacerdotali: i Pontefici, le Vestali, gli Auguri, gli Aruspici, i Saliari, i Fratelli Arvali, i Flamini. Dette impulso all’agricoltura e, per regolarne i lavori, riformò il calendario, premettendo all’anno, che prima era di dieci mesi e cominciava il primo marzo, gennaio e febbraio.

Tullio Ostilio, romano, rispecchia l’ardore guerriero della sua stirpe. Delle imprese militari che condusse, la più importante fu quella contro Alba, decisa, per evitare spargimento di sangue, da un combattimento fra i trigemini Orazi romani e i trigemini Curiazi albani, finito vittoriosamente per i primi. Alba dovette sottomettersi a Roma. In seguito, avendo il dittatore albano Mezio Fuffezio tenuto un contegno ambiguo durante una guerra di Roma contro l’etrusca Veio, Tullio Ostilio lo mise a morte, facendolo dilacerare da due quadriglie lanciate in opposta direzione. Alba fu distrutta, la sua popolazione dedotta a forza a Roma, il territorio annesso. Roma divenne così la prima città del Lazio.

Anco Marzio, sabino, fu pari a Numa per spirito pacifico e religioso, ma costretto anche a combattere, per la sicurezza di Roma, contro i Latini.  Alcune città latine furono prese e così il territorio romano si estese fino al mare ed alla foce del Tevere, dove Anco Marzio fondò il porto di Ostia (nome che significa “le bocche del fiume”), e Roma divenne padrona del commercio del sale, che si svolgeva per la via detta poi Salaria, la quale dal mare raggiungeva il paese dei Sabini e degli Umbri. Tuttavia l’antico popolo romano non sentì nessuna attrazione per il mare, dove per lungo tempo non contese il commercio ai Tirreni, ai Cartaginesi, ai Greci.

Anco Marzio estese la città dalla parte dell’Aventino, ed edificò una fortezza sul Gianicolo, il colle che, essendo sulla destra del Tevere, costituiva un baluardo verso l’Etruria; a lui sono attribuiti anche il primo ponte di legno sul fiume, il ponte Sublicio, e il carcere Tulliano ai piedi del Campidoglio, detto più tardi Carcere Mamertino, di cui ancora si ammirano i resti.

Coi Latini, Anco Marzio concluse un trattato con il quale si affermava la supremazia di Roma sul Lazio. Tale trattato era custodito nel tempio federale dedicato a Diana sull’Aventino, dove i rappresentanti delle città alleate si riunivano per celebrare le feriae latinae, come un tempo di faceva in Alba.

L’età dei Tarquini e la fine della monarchia

Mentre i primi quattro re erano stati eletti dalle Curie, ora o per successione ereditaria o per violenza, i re si fanno da se stessi. Il fatto è significativo, perchè denota la tendenza della monarchia a passare dalle forme costituzionali al dispotismo.

Con Tarquinio Prisco comincia la serie dei re etruschi.

La leggenda dice che era figlio di un ricco mercante greco di Corinto, stabilitosi a Tarquinia. Avido di gloria, venne a Roma, dove seppe acquistarsi larga popolarità e la fiducia di Anco Marzio che, morendo, lo nominò tutore dei figli ancora giovani. Ma Tarquinio si impossessò del trono.

Egli ampliò il territorio con guerre fortunate contro i Sabini ed i Latini, ma soprattutto fu imponente l’impulso da lui dato alle costruzioni pubbliche.

Spianò il Foro, che divenne la piazza principale di Roma, edificò fuori della città il  Circo Massimo, per i giochi pubblici, prosciugò la parte bassa della città con un sistema di fognature o cloache confluenti in un canale più grande, la Cloaca Massima, che sbocca nel Tevere. A lui è attribuita l’introduzione di istituzioni e costumi etruschi; i ludi del circo, la pretesta (toga orlata tutto intorno di porpora, portata dai magistrati), i littori, la sedia curule, l’arte della divinazione.

Tarquinio Prisco morì ucciso dai figli di Anco Marzio, ma il trono non passò a loro, perchè la vedova di Tarquinio, la scaltra Tanaquilla, dalla leggenda presentata come una profetessa ispirata, favorì la successione di un suo fedele, allevato a corte, anch’egli etrusco e genero, pare, del morto re: Servio Tullio.

A questi la tradizione attribuisce la costruzione di una nuova cerchia di mura in sasso (mura serviane), delle quali rimangono ancor oggi alcuni tratti, includente tutti i sette colli; e un nuovo ordinamento civile e militare che va sotto il nome di riforma serviana, ma appartiene invece ad un’età più tarda. Così Roma divenne il septimontium, la città dei sette colli, avendo come centro il Palatino. I colli Capitolino, Aventino e Gianicolo non si abitavano, ma rimasero per uso militare.

Anche il regno di Servio Tullio finì tragicamente. La tradizione narra che egli fu ucciso da un figlio o nipote di Tarquinio, Lucio Tarquinio, al quale aveva data in sposa una sua figlia, Tullia, e narra anche la scelleratezza di questa che, per giungere più presto ad essere acclamata regina, passò con il cocchio sul cadavere del padre. La monarchia degenerava in tirannide.

Tarquinio il Superbo governò dispoticamente, perseguitando l’aristocrazia. Molti nobili  condannò a morte o all’esilio, per impadronirsi delle loro ricchezze; guerra, pace, alleanze trattò da solo senza consultare nè il popolo nè il Senato. Condusse molte guerre con esito fortunato, sottomettendo fra le altre la città di Ardea e, a tradimento, Gabii. L’oltraggio fatto da suo figlio Sesto alla matrona Lucrezia esasperò gli animi, incitandoli alla rivoluzione. A capo di questa furono Collatino, il marito di Lucrezia, e un suo parente, Giunio Bruto.

I Tarquini, cacciati da Roma, ripararono in Etruria: la monarchia fu abolita e vi subentrò una repubblica aristocratica (510 aC).

Storia di Roma – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

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