Gioco cantato: Il tuo mulin (Svizzera)

Gioco cantato: Il tuo mulin (Svizzera), per bambini della scuola d’infanzia e primaria. Con testo, istruzioni di gioco, spartito stampabile e traccia mp3.

Gioco cantato: Il tuo mulin (Svizzera)
istruzioni di gioco

I giocatori formano due cerchi concentrici.

I bambini di ciascun cerchio si tengono per mano.

I cerchi girano in direzioni opposte, durante tutta prima frase: “Il tuo mulin va troppo in fretta, il tuo mulin va troppo fort“.

A “Mugnaio tu dormi” i bambini del cerchio interno alzano le braccia e le mettono dietro al collo di quelli del cerchio esterno

formando un solo cerchio incatenato a ghirlanda.

Due “poli” (cioè due bambini che stanno di fronte) del nuovo cerchio si avvicinano al centro e tornano indietro, poi altri due poli fanno lo stesso durante tutta la seconda frase.

Gioco cantato: Il tuo mulin (Svizzera)
Spartito sonoro stampabile e traccia mp3
qui:

Recite per bambini – Qua qua, attaccati là

Recite per bambini – Qua qua, attaccati là. Qualche anno fa, per la mia prima prima classe,  avevo messo in rima questa fiaba, che fa parte delle Fiabe italiane raccolte da Italo Calvino. Mi sono presa qualche licenza, ad esempio per me il papà del Tignoso non fa il ciabattino, ma lavora nella vigna (che fa rima con tigna… )…

Qua qua, attaccati là (la fiaba originale)

Un Re aveva una figlia, bella come la luce del sole, che tutti i principi e i gran signori l’avrebbero voluta in sposa, se non fosse per via del patto che aveva stabilito con suo padre.
Bisogna sapere che una volta questo Re aveva offerto un gran pranzo, e mentre tutti gli invitati ridevano e stavano in allegria, solo sua figlia rimaneva seria  e scura in volto. “Perchè sei così triste?” le domandarono i commensali. E lei: zitta. Tutti si provarono a farla ridere, ma nessuno ci riusciva.
“Figlia mia, sei arrabbiata?” le chiese il padre.

“No, no, padre mio.”
“E allora, perchè non ridi?”
“Non riderei nemmeno se ne andasse della mia vita.”
Al Re allora venne quest’idea: “Brava! Visto che ti sei così intestata a non ridere, facciamo una prova, anzi un patto. Chi ti vorrà sposare, dovrà riuscire a farti ridere.”
“Va bene, padre” disse la principessa, “Ma ci aggiungo questa condizione: che chi cercherà di farmi ridere e non ci riuscirà, gli sarà tagliata la testa”.
E così fu stabilito, tutti i commensali erano testimoni e ormai la parola data non si poteva più ritirarla.
La voce si sparse per il mondo, e tutti i principi e i gran signori volevano provare a conquistare la mano di quella Principessa così bella. Ma quanti ci provavano, tutti ci rimettevano la testa. Ogni mattina di buonora la Principessa si metteva sul poggiolo ad aspettare che arrivasse un pretendente. Così passavano gli anni, e il Re aveva paura di vedersi questa figlia andarsene in spiga come un vecchio cespo di insalata.
Ora accadde che la notizia capitò anche in un paesotto. Si sa che a veglia si vengono a sapere storie di tutti i generi, e così si parlò di quel patto della Principessa. Un ragazzo con la tigna in testa, figlio di un povero ciabattino, era stato a sentire a bocca aperta. E disse: “Ci voglio andare io!”
“Ma va’ là, tu! Non dire sciocchezze, figlio mio.” fece suo padre.
“Sì, padre, voglio andare a vedere. Domani mi metto in viaggio.”

“T’ammazzeranno, quelli non scherzano”
“Padre, io voglio diventare Re!”
“Sì, sì” risero tutti “un Re con la tigna in testa!”
L’indomani mattina, il padre non pensava nemmeno più a quell’idea del figlio, quando se lo vide comparire davanti e dire: “Allora, padre, io vado; qui tutti mi guardano brutto per via della tigna. Datemi tre pani, tre carantani (moneta di rame) e una boccia di vino.”
“Ma pensa…”
“Ho già pensato a tutto”, e partì.
Cammina cammina, incontra una povera donna che si trascinava appoggiandosi a un bastone. “Avete fame, padrona?”, le chiese il tignoso.
“Sì, figlio, e tanta. Avresti qualcosa da darmi da mangiare?”
Il tignoso le diede uno dei suoi tre pani, e la donna lo mangiò. Ma visto che aveva ancora fame, le diede anche il secondo, e poichè gli faceva proprio pietà, finì col darle anche il terzo.
E cammina cammina. Trova un’altra donna, tutta in stracci: “Figliolo, mi daresti qualche soldo per comprarmi un vestituccio?”

Il tignoso le diede un carantano; poi pensò che forse un carantano solo non bastava, gliene diede un altro; ma la donna gli faceva tanta pietà che le diede anche il terzo.
E cammina cammina. Incontra un’altra donna, vecchia, grinzosa, che se ne stava a lingua fuori dalla sete che aveva: “Figliolo, se mi dai un po’ d’acqua da bagnarmi la lingua, salvi un’anima del Purgatorio”.
Il tignoso le porse la sua boccia di vino; la vecchia ne bevve un po’ e lui la invitò a berne ancora, finchè non gliel’ebbe scolata tutta. Rialzò il viso, e non era più una vecchia, ma una bella fanciulla bionda, con una stella tra i capelli: “Io so dove vai, e ho conosciuto il tuo buon cuore perchè le tre donne che hai incontrato ero sempre io. Voglio aiutarti. Prendi questa bella oca, e portala sempre con te. E’ un’oca che quando qualcuno la tocca, stilla “Quaquà” e tu devi dire subito: ‘Attaccati là’.” E la bella fanciulla sparì.
Il tignoso continuò la strada portandosi dietro l’oca. A sera arrivò a un’osteria e, senza soldi com’era, si sedette fuori, su una panca. Uscì l’oste e voleva cacciarlo via, ma in quella capitarono le due figlie dell’oste e, vista l’oca, dissero al padre: “Ti prego, non mandar via questo forestiero. Fallo entrare e dagli da mangiare e da dormire”.
L’oste guardò l’oca, capì cosa avevano in testa le figlie e disse: “Bene, il giovane dormirà in una bella camera, e l’oca la porteremo nella stalla”.

“Questo poi no” disse il tignoso “l’oca la tengo con me; è un’oca troppo bella per stare in una stalla”.
Dopo mangiato, il tignoso andò a dormire e l’oca la mise sotto il letto. Mentre dormiva, gli parve di sentire un tramestio; e tutt’a un tratto l’oca fece “Quaquà”. “Attaccati là” gridò lui, e s’alzò per vedere.
Era la figlia dell’oste, che s’era avvicinata carponi, in camicia, aveva abbrancato l’oca per portarle via le piume e ora era rimasta appiccicata in quella posizione.
“Aiuto sorella! Vienimi a staccare!” gridò. Venne la sorella, in camicia anche lei, abbraccia la sorella alla vita per staccarla dall’oca, ma l’oca grida: “Quaquà”. E il tignoso: “Attaccati là!”, e anche la sorella resta lì attaccata.
Il giovane s’affacciò alla finestra: era quasi giorno. Si vestì e uscì dall’osteria, con l’oca dietro e le due figlie dell’oste attaccate. Per strada incontrò un prete. Vedendo le figlie dell’oste in camicia, il prete cominciò a dire: “Ah, svergognate! E’ così che si va in giro a quest’ora? Ora vi faccio vedere io!”. E giù una sculacciata.
“Quaquà!” fa l’oca.
“Attaccati là!” dice il tignoso, e il prete resta attaccato anche lui.

Continuano la strada, con tre persone attaccate all’oca. Incontrano un calderaio carico di casseruole, pentole e tegami. “Ah, cosa mi tocca di vedere! Un prete in quella posizione! Aspetta me!” E giù una bastonata.
“Quaquà!” fa l’oca.
“Attaccati là!” fa il tignoso, e ci resta attaccato anche il calderaio, con tutte le sue pentole.
La figlia del Re quella mattina era come al solito sul poggiolo, quando vide arrivare quella compagnia: il tignoso, l’oca, la prima figlia dell’oste attaccata all’oca, la seconda figlia dell’oste attaccata alla prima, il prete attaccato alla seconda, il calderaio con casseruole, pentole e tegami attaccato al prete. A quella vista la Principessa scoppiò a ridere come una matta, poi chiamò il padre, e anche lui si mise a ridere: tutta la Corte s’affacciò alle finestre e tutti ridevano a crepapancia.
Sul più bello della risata generale, l’oca e tutti quelli che c’erano attaccati sparirono.
Restò il tignoso. Salì le scale e si presentò al Re. Il Re gli diede un’occhiata, lo vide lì con la tigna in testa, vestito di mezzalana, tutto rattoppato, e non sapeva come fare. “Bravo, giovane” gli disse ” ti prendo per servitore. Ti va?”. Ma il tignoso non volle accettare: voleva sposare la Principessa.

Il Re, per prendere tempo, cominciò a farlo lavare bene, e vestire da signore. Quando si ripresentò, il giovane non si riconosceva più: era tanto bello che la Principessa se ne innamorò e non vide più che per gli occhi suoi.
Per prima cosa, il giovane volle andare a prendere suo padre. Arrivò in carrozza, e il povero ciabattino si stava lamentando sulla soglia della porta, perchè quell’unico figlio lo aveva abbondonato.

Lo portò alla Reggia, lo presentò al Re suo suocero e alla Principessa sua sposa e si fecero le nozze.

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Recite per bambini – Qua qua, attaccati là

In rima per una recita

Narratore:
Un Re aveva una figlia più bella di una rosa,
tutti i principi e i gran signori
l’avrebbero voluta in sposa
ma tanto tempo fa ad una festa
di non ridere si era messa in testa

Re:
Tutti ci provano a farti divertire
ma nessuno ci sembra riuscire
ordino che il primo che ce la farà
come premio in sposa ti avrà!

Principessa:
Va bene padre, ma aggiungo una richiesta
a chi fallirà taglierai la testa.

Narratore:
La notizia circolò rapidamente
e ogni giorno arrivava un pretendente.
Niente.
Il tempo passava
e il Re si disperava
neanche un piccolo sorriso
si affacciava su quel viso
e temeva che la figlia tanto bella
sarebbe rimasta per sempre zitella.
Ora accadde che passando di bocca in bocca
la notizia arrivò ad una bicocca
di un contadino che lavorava la sua vigna
col suo ragazzo che in testa avea la tigna.

Tignoso:
Dalla Principessa ci voglio andare io!

Contadino:
Va’ là, non dir sciocchezze, figlio mio!
Tignoso:
Sì, padre, domani partirò!

Contadino:
T’ammazzeranno, mai più ti rivedrò.
Tignoso:
Padre, io sarà Re, e tu verrai alla festa…

Contadino:
Sì, un Re con la tigna in testa!

Narratore:
La mattina seguente il contadino
non ricordava più l’idea del ragazzino
quando gli comparì davanti e prese a dire:

Tignoso:
Padre, io ti saluto, ho da partire
Dammi tre pani, vino e tre denari.

Contadino:
Pensaci figlio, ti uccideran domani!
Tignoso:
Ho già pensato, padre tanto amato,
ma mentre tu lavori nella vigna
tutti mi guardan storto per la tigna…

Narratore:
Il ragazzo comincia il suo cammino
e una povera donna gli si fa vicino
il viaggio della vecchia è assai penoso
e compassione muove nel tignoso

Tignoso:
Avete fame, povera comare?

Vecchia uno:
Sì caro, e tanta. Hai da mangiare?

Narratore:
Il tignoso le porse uno dei pani
la donna se lo prese tra le mani
lo mangiò, ma ancor non era sazia
seppur felice di cotanta grazia:
voi penserete forse ad uno scherzo,
finì col darle anche il secondo e il terzo.
E cammina, cammina, cammina
un’altra donna al tignoso s’avvicina
mal vestita, di stracci ricoperta
dice al tignoso con voce sofferta:

Vecchia due:
Figliolo, qualche soldo mi puoi dare
chè un vestituccio mi possa comprare?

Narratore:
il tignoso le diede un carantano
poi le allungò il secondo nella mano
e vide così povera e indifesa
che anche il terzo le donò con sua sorpresa.
E cammina cammina cammina
ora un vecchia al tignoso di avvicina
dalla gran sete con la lingua fuori.

Tignoso:
Povera vecchia, se tu non bevi muori!

Narratore:
il tignoso le porge la sua brocca
il vino già le scorre nella bocca
la la invita a berne un altro sorso
lei gliela vuota senza alcun rimorso
ma quando poi finito ebbe di bere
il tignoso un gran prodigio ebbe a vedere:
era una fanciulla bionda e bella
e tra i capelli d’oro avea una stella!

Fata:
So dove vai e vincerai sicuro
so di certo che il tuo cuore è puro
io ero le tre donne che hai aiutato
e ho deciso che vai ricompensato.
Prendi quest’oca dal bianco piumaggio
e portala con te lungo il tuo viaggio
e se qualcuno te la toccherà
la sentirai stillare “Quaquaquà”

Tignoso:
E se strilla che cosa devo fare?

Fata
“Attaccati là” presto dovrei gridare.

Narratore:
Il tignoso riprese il suo cammino
tenendo sempre l’oca a lui vicino.
A sera arrivò ad un’osteria
ma senza soldi, ne ne restò per via.
Uscì l’oste a cacciare il forestiero
ma alle sue figlie balenò un pensiero

Figlie:
Diamogli da mangiare e da dormire
mentre lui dorme l’oca può sparire…

Narratore:
Dopo aver mangiato e senza alcun sospetto
il tignoso prese sonno con l’oca sotto il letto.
Mentre dormiva ebbe un balzo al cuore:
nella sua stanza c’era un gran rumore

Oca: Quaquaquà
Tignoso: Attaccati là!

Narratore
La figlia dell’oste in camicione
voleva compier la cattiva azione
carponi sotto il letto s’era intrufolata
ed ora all’oca era rimasta appiccicata

Figlia uno: Aiuto sorella, vienimi a salvare!
Figlia due: Arrivo, arrivo, smetti di strillare!

Oca: Quaquaquà
Tignoso: Attaccati là!

Narratore:
E per voler salvare la sorella
rimase appiccicata pure quella.
Il tignoso si vestì e uscì dall’osteria
davanti a quella strana compagnia
di due ragazze ancora in camicione
appiccicate all’oca in quella posizione.
E cammina cammina cammina
a loro un sacerdote si avvicina…

Prete: Ah, svergognate, in camicia da notte!

Narratore:
E si avvicina per dar loro le botte

Oca: Quaquaquà
Tignoso: Attaccati là!

Narratore:
la mano che stava per dar la sculacciata
al sedere della ragazza rimase appiccicata.
E cammina cammina cammina
un pentolaio adesso si avvicina
e vedendo un prete in quella situazione
si arrabbia e vuole dargli una lezione

Pentolaio:
Ma guarda che mi tocca di vedere
un prete tocca una donna sul sedere!

Narratore:
E giù un bel colpo di bastone

Oca: quaquaquà
Tignoso: Attaccati là!

Narratore:
Il pentolaio con tutta la mercanzia
si aggiunge a quella strana compagnia.
La Principessa affacciata tristemente
al suo poggiolo, attendeva un pretendente
quando vide arrivare in fila indiana
quella strana sgangherata carovana:
un povero tignoso davanti a un’oca bella
una ragazza in camicione e dietro sua sorella
un prete che la toccava sul sedere
e il pentolaio con i suoi attrezzi del mestiere.
A quella vista la Principessa scontrosa
scoppiò in una risata fragorosa
chiamò suo padre, e anche lui non si trattenne
tutta la corte rideva a crepapelle.
E sul più bello del riso generale
sparì l’oca col suo corteo da carnevale.
La Principessa vide il tignoso avanti a sè
salir le scale e presentarsi al Re.
Egli lo vide così brutto e rattoppato

Re:
Quel che è giusto ti verrà dato
a mia figlia hai ridato il buon umore
per premio diverrai mio servitore

Narratore:
Ma il tignoso non volle accettare
la Principessa voleva sposare
E per prendersi il tempo di pensare
il Re gli ordinò intanto di andarsi a imbellettare.
Quando davanti a loro si ripresentò
la Principessa se ne innamorò
così bello era diventato quel tignoso
che ora lo amava e lo voleva in sposo.

Favole racconti e leggende sugli animali

[wpmoneyclick id=87865 /]Favole e leggende sugli animali – una raccolta di favole e leggende, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

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 Come nacquero il gatto e il topo

 Un giorno il leone incontrò un cinghiale. Il leone aveva una bella pelliccia rossastra e un paio di baffi che erano il suo orgoglio. Il cinghiale, invece, era scuro, di pelo corto; aveva il muso appuntito e due zanne bianche di cui andava molto fiero.

“Io sono molto più bello e più forte di te!” si vantò subito il leone, scuotendo la sua criniera.

Il cinghiale rise mostrando le sue zanne affilate. “Non ti consiglio di mettermi alla prova” disse, “ho la pelle dura io  e non temo i tuoi artigli.”

“Dunque non mi temi?” chiese sorpreso il leone abituato ad essere rispettato da tutti gli animali.

“Perchè dovrei temerti?” rispose il cinghiale, “Se starnutissi, dalle mie narici uscirebbe un animale che ti farebbe fuggire”.

“E allora starnutisci,” disse il leone, “e dopo starnutirò io”.

Il cinghiale puntò le zampette, inarcò la groppa, fece vibrare il suo codino, e finalmente starnutì. Dalle sue narici uscì un animaletto nericcio, col musino a punta e una codina fina fina. Era il topo, che gli somigliava.

Ed ecco il leone scuotere la criniera e starnutire impetuosamente. Dalle sue narici uscì fuori un animale peloso, ornato di artigli. Era il gatto, che gli somigliava.

Il topo a quella vista fuggì via, ma il gatto lo inseguì, fino a che il topo non sparì dentro un buco.

“Hai visto, presuntuoso?” disse il leone al cinghiale, “Il tuo starnuto si è dovuto nascondere per non essere divorato dal mio”. (Leggenda berbera)

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L’asino spaccone

Il leone volendo andare a caccia, chiamò l’asino, lo coprì di frasche e lo istruì perchè spaventasse, a forza di ragli, gli animali della foresta non abituati alla sua voce. Gli animali si sarebbero dati alla fuga, ed il leone li avrebbe aspettati al varco.
L’orecchiuto eseguì la consegna. Sotto la maschera verde, si mise a ragliare con quanto fiato aveva, spaventando con quell’insolito clamore gli animali rintanati nel folto. Trepidando, se la davano tutti a gambe verso il varco ove il leone in agguato balzava loro addosso e li atterrava a uno a uno.
Stanco alla fine, della carneficina, il leone chiamò l’asino e gli ordinò di tacere. Quegli, allora, con aria di gradasso: “Che potenza ha la mia voce!” disse “guarda quanti morti!”
“Straordinario!” rispose il leone “Anch’io sono stato lì lì per battermela, tanto la tua voce è terribile; ma per fortuna ti conoscevo bene e sapevo che tu, in fondo, non sei altro che un coniglio diventato grande:”

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La ranocchia e il bue

Una volta alcune rane stavano giocando sulla riva di un fosso; si gettavano nell’acqua, uscivano fuori, saltavano qua e là, piene d’allegria. Ma ecco un grosso bue che pascolava lì presso, si avvicina e scende alla riva per bere. Alcune delle rane impaurite si tuffano nell’acqua, le altre coraggiose stanno a guardare il pacifico animale. “Com’è bello! Com’è grosso!” dice una ranocchia giovinetta che non ha mai visto un bue. “Sarei proprio felice se potessi diventare come lui… sono così piccina…” E tutta presa da questa idea, la ranocchia comincia a gonfiarsi… Eh, ci vuole altro! Le altre rane la stanno a guardare con tanto d’occhi. “Cresco?” chiede sbuffando la ranocchia. “Un po’, un po’!”. E quella si gonfia ancora. “Cresco?”. Ma ad un tratto… altro che crescere! La povera ranocchia scoppia per lo sforzo e muore; e così non c’è più, nè piccola nè grossa. E’ ridicolo ed inutile l’affaticarsi a parere ciò che non si è. (M. Bersani)

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L’orsacchiotto troppo piccolo

L’orsacchiotto era il più piccolo di tutti.
Era più piccolo delle sue sorelle, molto più piccolo di suo fratello, molto molto più piccolo del suo babbo.
Molto spesso, perchè era troppo piccolo, era lasciato al di fuori di tutto quello che si faceva in casa.
Un giorno, il povero orsacchiotto si sentiva del tutto abbandonato.
Sua sorella era andata a raccogliere verdure nell’orto, e quando egli aveva chiesto di accompagnarla, aveva detto: “No, io sarò occupata e non potrò sorvegliarti; tu sei troppo piccolo e puoi perderti”.
Suo fratello stava andando a pescare. L’orsacchiotto gli domandò se poteva andare con lui, ma egli rispose: “No, io sarò occupato a pescare e non potrò sorvegliarti; tu sei troppo piccolo e potresti cadere nel lago”.
“Oh,” si lamentò l’orsacchiotto, triste e abbandonato sulla soglia di casa come un piccolo mucchietto di peli, “sono troppo piccolo per tutto…”
Proprio in quel momento, stava uscendo il suo grosso babbo, che udì il suo lamento. “Non direi, orsacchiotto” disse il babbo, “io sto andando a fare la spesa e tu sei della misura giusta per venire con me, seduto sulle mie spalle”.
L’orsacchiotto si asciugò le lacrime, e andò con il babbo.
Comprarono pane, burro, limoni, pesce, maionese, ed un grosso vaso di miele. Quando tornarono a casa il babbo disse: “Non avrei mai potuto portare a casa tutta questa roba senza l’aiuto del piccolo orsacchiotto”.
A queste parole, l’orsacchiotto si sentì forte, grande, allegro, orgoglioso di poter aiutare il babbo, come deve fare ogni bravo orsacchiotto.
(K. Jackson)

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La chiocciola, la formica e il gambero

Molto tempo fa, quando il mondo era giovane, una Chiocciola, una Formica e un Gambero decisero di coltivare insieme una risaia.

Bisogna però tenere presente che in quei giorni lontani questi tre animali erano molto diversi da come appaiono ora: la Chiocciola era completamente nascosta nel suo guscio, dal quale non usciva mai; il Gambero era incolore; e la Formica aveva il corpo grassoccio e a forma di salsiccia.

I tre amici discussero sulla distribuzione dei compiti.

“Dobbiamo dividere il lavoro in parti uguali” disse la Chiocciola.

“Nessuno deve faticare più degli altri” convenne la Formica.

“Penso che sarebbe meglio se voi due lavoraste nel campo ed io badassi alle faccende domestiche” disse il Gambero.

Così decisero. Il Gambero sarebbe rimasto in casa, mentre la Chiocciola e la Formica si sarebbero recate in risaia.

Il giorno dopo all’alba la Chiocciola e la Formica uscirono di casa portando con sé un po’ di cibo preparato dal Gambero. Era così presto che gli uccelli non erano ancora volati via dagli alberi. La Chiocciola e la formica lavorarono sodo per tutto il giorno, mondando il riso nel campo. Quando il sole cominciò a calare, si accorsero di avere una gran fame.

Nel frattempo, a casa, il Gambero era affaccendatissimo a preparare una bella cenetta. Dopo essere andato nella foresta a raccogliere la legna e un mazzo di barbabietole novelle, stava mescolando sul fuoco una bella zuppa. Ne assaggiò una cucchiaiata: deliziosa!

In quel momento sentì i suoi amici tornare dalla risaia. Si affrettò a togliere dal fuoco la pentola con la zuppa. Ma ahimè, nella fretta capitombolò nel liquido bollente.

“Aiuto, aiuto!” gridò il povero Gambero, “Ti prego, aiutami, Chiocciola!”

“Un attimo!” rispose la Chiocciola “lascia che mi soffi il naso!”.

Ma ahimè! La Chiocciola si soffiò il naso così forte che schizzò mezza fuori dal guscio.

“Un attimo” rispose la Formica “lasciami prima stringere la cintura attorno ai fianchi.”

Ma ahimè, la Formica tirò la cintura così forte che il suo corpo si divise quasi in due.

Così i tre amici incorsero tutti in un terribile destino: da quel giorno il Gambero, con la bollitura, diventò rosso vivo; la Chiocciola visse per metà fuori dal guscio e il corpo della Formica rimase pressoché diviso in due.

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Il topo, l’uccello e la salsiccia

Questa è la storia di un topo, un uccello e una salsiccia che decisero di vivere assieme. La loro casetta sorgeva, bianca, con un bel tetto di paglia, in una radura in mezzo alla foresta: tutt’intorno crescevano alti alberi e nel profondo della foresta tenebrosa si aggiravano orsi e lupi.
I tre amici si erano divisi i compiti: l’uccello doveva provvedere alla legna da ardere, il topo accendeva il fuoco, portava l’acqua dal pozzo e apparecchiava la tavola, e la salsiccia cucinava.
Tutto andò bene per un po’ e i tre vivevano felici e contenti. Ma un bel giorno, l’uccello, volando nella foresta in cerca di legna, incontrò un corvo e chiacchierando con lui cominciò a vantarsi della sua buona sorte e dell’eccellente accordo che aveva stretto col topo e con la salsiccia.
“Craa!” gracchiò il corvo. “E la chiami fortuna questa? Dammi retta, il grosso del lavoro lo hanno scaricato su di te: eccoti qua a faticare per raccogliere la legna, mentre il topo e la salsiccia se ne stanno tranquillamente a casa. Immagino che il topo possa concedersi un bel pisolino dopo aver acceso il fuoco, portato l’acqua e preparata la tavola. Quanto alla salsiccia, quella sì che può prendersela comoda! Non deve far altro che sorvegliare la pentola, e quando è ora di pranzo rotolarsi una o due volte nella verdura, ed ecco fatto: la verdura è condita, salata e pronta da mangiare! Ti sembra faticoso?”
L’uccello ascoltò attentamente il discorso del corvo, e cominciò a pensare che quel che aveva detto doveva essere vero. Così il giorno dopo, quando fu il momento di andare a raccogliere la legna, dichiarò al topo e alla salsiccia: “Ne ho abbastanza di fare i lavori più pesanti in questa casa! So benissimo come ve la prendete comoda mentre io volo nella foresta. Bisogna che stabiliamo un altro accordo: mi rifiuto di andare ancora a raccogliere la legna.”
Il topo e la salsiccia ci rimasero male. Era andato tutto così bene fino a quel momento: ognuno aveva fatto il suo dovere senza lamentarsi. Comunque, decisero di sorteggiare i compiti. L’uccello prese tre rametti: chi avesse estratto il più lungo avrebbe raccolto la legna, chi il più corto avrebbe cucinato, e chi quello di mezzo, avrebbe acceso il fuoco, preparato la tavola e preso l’acqua.
Fu così che alla salsiccia toccò raccogliere la legna, all’uccello accendere il fuoco, preparare la tavola e prendere l’acqua, e al topo cucinare.
La salsiccia andò dunque nella foresta: ahimè, non aveva fatto molta strada quando si imbattè in un lupo affamato, che la divorò in men che non si dica. Questa fu la fine della salsiccia.
L’uccello, nell frattempo, dopo aver acceso il fuoco, si era recato al pozzo per prendere l’acqua.
“Il topo non se la prendeva tanto comoda, dopotutto!” pensava affaticandosi a tirar su il pesante secchio. Ma ahimè, nel momento in cui il secchio stava per raggiungere l’orlo del pozzo, l’uccello perse la presa, e nel tentativo di riafferrarlo, cadde nell’acqua e affogò. Questa fu la fine dell’uccello.
E il topo? Ignaro della sorte toccata ai suoi amici, sorvegliava la pentola, mescolando la verdura. Quando fu ora di pranzo si ricordò che la salsiccia era solita rotolarsi nella verdura per condirla e salarla, e volle fare lo stesso. Ma ahimè! Buttarsi nella pentola e finire arrostito fu tutt’uno. Questa fu la fine del topo.
Così la casetta nella radura rimase vuota e abbandonata, ed è un peccato, perchè se l’uccello non avesse dato ascolto ai cattivi consigli del corvo, i tre amici sarebbero ancora là e vivrebbero felici e contenti.

Come l’anatra imparò a nuotare

Nel buon tempo antico, quando Adamo non aveva ancora la barba lunga,  e anche il cuculo non deponeva ancora le sue uova nel nido altrui, l’anatra non sapeva ancora nuotare. Però amava l’acqua e stava volentieri sulle sponde dei laghi e degli stagni. Lì incontrava talvolta l’airone.

Un giorno, mentre chiacchieravano, ebbero l’idea che avrebbero pur dovuto imparare a nuotare.

“Chissà se il creatore lo permette?”

“Si può chiedere”.

Dunque ci pensarono su.

“Certo” disse benevolo creatore “quello di voi che domattina salterà per primo fuori dal nido potrà nuotare.”

Alla sera andarono entrambi a dormire presto. L’anatra infilò come al solito il becco sotto le penne e si addormentò. Ma l’airone no. Si propose di star sveglio tutta la notte. Per tutto il tempo stette lì a pensare che cosa avrebbe gridato all’anatra quando al mattino avesse nuotato superbo nell’acqua. Finalmente, e già il sole appariva sui monti, l’aveva trovato: “Tutto il dì sullo stagno scintillante, l’airone nuota calmo ed elegante”. Ma quando scorse il giorno i suoi occhi si chiusero per la stanchezza. L’anitra invece aveva riposato bene, uscì lesta dal nido e si tuffò nelle onde. Era capace di nuotare! L’acqua fresca lambiva il suo petto.

“Tutto il dì nuoto sul lago e dico

addio, airone, mio caro amico”.

Il povero airone si destò, ma troppo tardi. Era capace soltanto di sguazzare un pochino nell’acqua. Lì si fermò, sulle sue lunghe gambe a trampolo e allungò il collo verso l’anatra. Lo si può vedere fermo così anche al giorno d’oggi.

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Il povero caprone

Era un caldo giorno d’estate. Il sole splendeva alto nel cielo azzurro, spandendo i suoi raggi sulla terra. Una volpe, attraversando di corsa un campo di grano, giunse presso una cisterna all’ombra di una siepe verdeggiante. Aveva sete, e decise di bere alla cisterna: ma quando dall’orlo si chinò per bere, scivolò sulla terra viscida e, perduto l’equilibrio… pluff! Cadde nell’acqua. Cominciò a sguazzare, agitando le zampe in tutti i versi, ma senza risultato: non riusciva a venir fuori. Era intrappolata nella cisterna! E sapeva benissimo che il contadino cui apparteneva il campo, se l’avesse trovata, non avrebbe avuto pietà di lei: non più tardi del giorno innanzi era entrata in mezzo al gregge e aveva ucciso un agnellino; e la settimana prima aveva rubato un bel pollastro. Ahimè! Se non riusciva a venir fuori da lì, le sue ore erano contate!
Poco dopo, giunse al campo di grano un caprone bianco, con la fronte ornata di credi corna e una serica barbetta sotto il mento. Anche lui moriva di sete, e decise di abbeverarsi alla cisterna. Quale fu la sua sorpresa quando, affacciatosi, vide la volpe che nuotava nell’acqua!
“Buongiorno amica volpe” disse il caprone “dì un po’, è buona da bere quest’acqua?”
La volpe sogghignò vedendo l’espressione ingenua del caprone. “Ottima, fratel caprone: anzi, la migliore che abbia mai bevuto. Infatti, come vedi, sono entrata addirittura nella cisterna per poterne gustare a mio piacimento; ma se vuoi venire anche tu, ce n’è per tutti e due.”

Senza starci a pensare su troppo, il caprone saltò dentro la cisterna, e cominciò a lambire l’acqua con gusto, senza sollevare la testa finchè non si fu dissetato.
“Avevi proprio ragione, amica volpe” belò, con la testa gocciolante, “non ho mai assaggiato un’acqua migliore!”
La volpe sorrise. “Ora, fratel caprone, dobbiamo trovare il modo di uscire da questa cisterna”.
“E’ vero!” esclamò il caprone, guardando preoccupato le alte, lisce pareti della cisterna.
“Ho un piano” disse la volpe “ma dobbiamo unire i nostri sforzi per portarlo a compimento.”
“Farò tutto ciò che posso” belò il caprone prontamente.
“In tal caso” disse la volpe “fammi il piacere di appoggiare le zampe davanti alla parete della cisterna e di tenere ben in alto le corna: io mi arrampicherò sopra di te, e quando sarò fuori tirerò su anche te.”
Il caprone, volenteroso, seguì le istruzioni e la volpe, arrampicandosi su pre i fianchi, le spalle e le corna del caprone, raggiunse l’orlo della cisterna e si trovò finalmente sana e salva all’asciutto. Si scosse via l’acqua in attimo.
Il caprone la chiamò dalla cisterna: ” E io, amica? Non dimenticare il patto: ti ho aiutata a uscire, ora devi tirarmi su!”
La volpe si affacciò alla cisterna lanciando uno sguardo di scherno al caprone. “Tu, fratel caprone, hai più peli nella barba che cervello in testa. E’ colpa tua se ora resti prigioniero nella cisterna: avresti dovuto fermarti a pensare come saresti uscito, prima di saltar dentro. Non ho alcuna intenzione di aiutarti!”
E mentre il caprone cominciava a belare piagnucoloso, la volpe trotterellò via attraverso il campo e fu presto lontana.

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Il leone e il cinghiale

In un caldissimo giorno d’estate, un leone e un cinghiale giunsero nella stessa pozza di acqua. Sul terreno intorno erano impresse le tracce di molti animali, cervi e capre, volpi e sciacalli, elefanti e rinoceronti, nessuno dei quali avrebbe mai osato abbeverarsi insieme al leone perché ne avevano troppa paura. Ma il feroce cinghiale con le sue zanne affilate era forte quanto il leone con i suoi crudeli artigli.

Il cinghiale si avvicinò alla pozza, ma prima che potesse bere, il leone, nell’impazienza di raggiungere l’acqua, lo spinse da parte.

“Sono arrivato prima di te” grugnì furiosamente il cinghiale “quindi ho diritto di bere per primo”

“Fuori dai piedi” ruggì il leone “berrai quando mi sarò dissetato io”

“Se non aspetti il tuo turno ti farò a pezzi con le mie zanne affilate” lo minacciò il cinghiale.

“Ti ridurrò a brandelli con gli artigli, se non ti levi di torno” replicò il leone.

E di colpo si lanciarono uno contro l’altro, decisi a battersi all’ultimo sangue. Il cinghiale assalì il leone lacerandogli i fianchi fino a farne sgorgare abbondantemente il sangue. Il leone balzò sul cinghiale e lo colpì con gli artigli al punto che il poveraccio si reggeva a malapena in piedi.

D’un tratto udirono un fruscio tra gli alberi, e guardando scorsero in su un gruppo di neri avvoltoi appollaiati sui rami sopra di loro, in attesa di divorare quello dei due che sarebbe morto.

Non ci volle altro per porre fine alla lite!

Il leone disse: “Veniamo ad una tregua: è meglio per noi essere amici, piuttosto che finire in pasto a quegli uccelli del malaugurio”

Il cinghiale accettò di cuore: così, leccandosi le ferite, bevvero a turno e si lasciarono da buoni amici.

Gallo, maiale e pecorone in alto mare
Una volta gallo, maiale e pecorone veleggiavano in alto mare. Il tempo era brutto e la barca piccola.
Già temevano di non giungere più a riva.
Il maiale reggeva il timone, il pecorone buttava fuori l’acqua, mentre il gallo stava sull’albero  di vedetta contro i cavalloni.
“Remi sottovento, remi sottovento!” cantava il gallo.
“Salveremo la beeh, beehlle? Salveremo la beeh, beehlle?” belava il pecorone.
“Luff, luff! Luff, luff!” grugniva il maiale, e il viaggio non gli sembrava più così eccitante.
Finalmente giunsero a terra sani e salvi. Il pecorone se ne andò subito nel prato, il gallo trovò le sue galline, ma al maiale tremava ancora il lardo per il freddo.
“Luff, luff! Meglio tra erbe amare, che stare in alto mare!”

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La volpe vedova

C’era una volta una volpe vedova. Viveva in un’ampia tana e si era presa come serva una gattina. Per un po’ di tempo la volpe pianse il marito morto, ma quando le settimane di lutto furono passate e venne il sabato sera, essa si ripulì il pelo, sedette per benino su di uno sgabello e aspettò che qualcuno apparisse alla porta. Poco dopo si udì bussare.

“Corri e guarda chi bussa” disse la volpe vedova alla serva. La gatta corse e sbirciò fuori. Vide un grosso orso. Tornò lesta indietro.

“Com’è il suo pelo?” chiese la volpe vedova.

“Bruno come la scorza del pinastro” disse la gatta.

“E le gambe?”

“Larghe come foglie di farfaro”

“E la coda?”

“Corta come le pigne”

“Questo non lo faccio entrare” disse la volpe vedova e saltò giù dal suo sgabello.

Dopo una settimana fu di nuovo sabato. La volpe vedova si pulì il pelo, sedette sullo sgabello e aspettò. Dopo un po’ si udì bussare alla porta.

“Corri lesta a guardare chi bussa” disse la volpe vedova alla serva. Questa volta alla  porta c’era un lupo.

“Com’è il suo pelo?” volle sapere la volpe.

“Grigio come corteccia di abete”

“E le sue gambe?”

“Lunghe come sbarre di recinto”

“E la sua coda?”

“Pendente come rami di abete” disse la gatta.

“A questo non apriamo la porta” disse la volpe vedova. Di nuovo passò una settimana, finchè venne il sabato sera. La volpe vedova si pulì la pelliccia, sedette e attese. Presto si udì battere all’uscio, questa volta leggermente.

“Corri e guarda” disse le volpe vedova alla serva. La gatta corse. Davanti all’uscio c’era un ermellino. Lesta tornò indietro a dare informazioni.

“Com’è il suo pelo?”

“Bianco come corteccia di betulla” rispose la gatta.

“E le sue gambe?”

“Sottili come steli d’erba”

“E la coda?”

“Ha la punta nera”

“Questo non lo facciamo entrare” disse la volpe vedova. Dopo una settimana fu di nuovo sabato sera. La volpe vedova si pulì la pelliccia e sedette a modino sullo sgabello ad aspettare. Anche questa volta qualcuno bussò. La serva corse a sbirciare, mentre la volpe vedova stava accovacciata sullo sgabello. Quando la gatta tornò, la volpe vedova chiese:

“Com’è il suo pelo?”

“Rosso e fine come quello della mia riverita padrona” disse la gatta.

“E le sue gambe?”

“Non più lunghe e non più corte di quelle della mia riverita padrona” disse la gatta.

“E la coda?”

“Ha la punta bianca come quella della mia riverita padrona”.

“Questo lo facciamo entrare!” gridò contenta la volpe vedova e saltò giù dal suo sedile, perché adesso davanti alla porta c’era il vero innamorato. Allora l’uscio venne aperto. Quella stessa sera si celebrarono le nozze nella tana della volpe.

Il pollo che voleva andare sul monte Dovrefjell perchè non finisse il mondo intero

Una sera un pollo si era accomodato su di una grande quercia. Durante la notte sognò che il mondo intero doveva finire se lui non arrivava sul monte Dovrefjell. Allora saltò lesto giù dalla quercia e si mise in cammino.
Aveva camminato un po’ quando incontrò un gallo.

“Buongiorno Gallo Ballo” disse il pollo.
“Buongiorno Pollo Bollo, dove vuoi andare così di buon mattino?” chiese il gallo.
“Ah, devo andare sul monte Dovrefjell, perchè non finisca il mondo intero.”
“Chi te l’ha detto, Pollo Bollo?”
“Questa notte ero sulla quercia e l’ho sognato.”
“Ma io vengo con te” disse il gallo.
Proseguirono un po’ e incontrarono un’anatra.
“Buongiorno Anatra Banatra”, salutò il gallo
“Buongiorno Gallo Ballo. Dove ti porta la strada così di buon mattino?” chiese l’anatra.
“Sul monte Dovrefjell, perchè non finisca il mondo intero.”
“Chi te l’ha detto, Gallo ballo?”
“Il pollo bollo”
“come fai a saperlo, pollo bollo?”
“Questa notte ero sulla quercia e l’ho sognato.”
“Vengo con voi” disse l’anatra.
Avevano camminato ancora un po’ quando incontrarono un’oca.
“Buongiorno oca poca” salutò l’anatra.
“Buongiorno anatra banatra” disse l’oca “Dove andate così di buon mattino?”
“Sul monte Dovrefjell, perchè non finisca il mondo intero.”
“Chi te l’ha detto, anatra banatra?”
“Il gallo ballo”
“E tu da chi lo sai, gallo ballo?”
“dal pollo bollo”
“E tu, pollo bollo?”
“Questa notte ero sulla quercia e l’ho sognato.”
“Allora devo venire con voi” disse oca poca.
Quando ebbero camminato per un bel po’, incontrarono una volpe.
“Buongiorno volpe golpe” salutò l’oca poca.
“Buongiorno cari amici, dove volete andare?” chiese la volpe.
“Sul monte Dovrefjell, perchè non finisca il mondo intero.” dissero i suoi cari amici.
“Da dove lo sapete?”
“Il gallo ballo”
“Il pollo bollo questa notte era sulla quercia e l’ha sognato.”
“Che discorsi!” disse la volpe. “Il mondo non finisce così presto! Venite con me nella mia tana, dove si sta caldi e comodi. E’ molto che siete per la via, penso. E voi lo sapete: il riposo alleggerisce il peso.”
Sì, a tutti quanti la proposta sembrò buona.

Arrivati alla tana della volpe, il padrone di casa incominciò ad accendere un bel fuoco, im modo che i suoi compagni furono presi dal sonno.

Anatra banatra e oca poca sedettero in un angolo, gallo ballo e pollo bollo volarono su una trave.
Non avevano dormito molto, che la volpe mise l’anatra banatra sulle braci per arrostirla. Pollo bollo però, nel dormiveglia, sentì l’odore e gridò: “Beh, qui c’è puzza!”
“Che discorsi!” disse la volpe “è soltanto il fumo che torna indietro dalla cappa. Va’ avanti a dormire.”
Quando ebbe mangiato l’anatra banatra, la volpe fece la stessa cosa con l’oca poca, e la mise sulla brace ad arrostire.

Di nuovo pollo bollo sentì l’odore, volò su una trave più alta e gridò: “Beh, qui c’è puzza!”
Anche gallo ballo aprì gli occhi , e videro rquello che era successo all’anatra banatra e all’oca poca. Allora entrambi volarono in alto, dove potevano sbirciare dal fumaiolo, e pollo bollo gridò: “Guarda che splendide oche laggiù!”.

La volpe non se lo fece ripetere due volte. Corse lesta fuori per acchiapparne un’altra.
E con questo gallo ballo e pollo bollo se ne uscirono entrambi per il fumaiolo.
E se non fossero finalmente arrivati al monte Dovrefjell, il mondo non ci sarebbe più.

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Tiro alla fune

La tartaruga era un piccolo animale che aveva una grande opinione di sè. Si trascinava lentamente attraverso la giungla vantandosi: “Guardatemi! Sono potente come l’elefante! Sono forte come l’ippopotamo!”.
Nella giungla le notizie si diffondono rapidamente: non ci sono giornali, ma gli animali sono molto chiacchieroni e in poco tempo ognuno sa tutto quello che c’è da sapere. Ben presto quindi l’elefante e l’ippopotamo vennero a conoscenza delle vanterie della tartaruga. Il grande elefante grigio sollevò la proboscide e barrì: “Quella stupida insulsa tartaruga! Chi le dà retta?”. L’ippopotamo spalancò le grandi mascelle e sghignazzò: “Già, chi dà retta  a quella stupida insignificante creatura?”.

Rapidamente questi commenti giunsero alla tartaruga che, indignata verso l’ippopotamo e l’elefante, disse: “Dunque sarei un’insulsa insignificante creatura! Glielo faccio vedere io che cosa sono!”.
E si mise in cammino finchè non giunse nel luogo dove l’elefante stava sdraiato all’ombra di un banano. Che potente animale, con la lunga proboscide, le forti zanne, i piedi enormi! La piccola tartaruga gli si piazzò davanti e gridò: “Ehi, elefante, eccomi qua! Alzati e salutami, amico!”.
L’elefante girò la testa per vedere chi lo aveva apostrofato così familiarmente, e con somma meraviglia scoprì la piccola tartaruga.

“Come osi chiamarmi amico, bruscolino?”, s’indignò.
“Ti chiamo amico perchè siamo pari di forza e potenza” rispose la tartaruga “tu credi che non sia possibile perchè tu sei grande e io sono piccola, ma hai torto, e te lo proverò! Ti sfido a una gara di tiro alla fune!”
“Che idea balorda, piccola tartaruga!” disse l’elefante.

“Io sono pronta a gareggiare, se lo sei anche tu.” disse la tartaruga “Chi dei due riuscirà a trascinare l’altro, si dimostrerà il più forte; ma se nessuno dei due vince, saremo pari e ci chiameremo amici.”
L’elefante sospirò con aria di condiscendenza. “E va bene, piccola tartaruga, gareggerò con te.”
Allora la tartaruga prese una lunga lunga liana e ne diede un’estremità all’elefante.
“Tieni questa” disse “io mi allontano finchè la liana non sia tesa; poi tireremo finchè uno dei due riuscirà a trascinare l’altro, o la liana si spezzerà.”

E lentamente si allontanò tenendo nel becco l’altro estremo della liana. Camminò fino al fiume melmoso dove trovò l’ippopotamo che sguazzava nel fango.
“Ehi, ippopotamo, eccomi qua!” gridò. “Alzati e salutami, amico!”
L’ippopotamo guardò in su per vedere chi lo aveva apostrofato così insolentemente, e con somma meraviglia vide la piccola tartaruga.

“Come osi chiamarmi amico, piccolo bruscolino?”, s’indignò.
“Ti chiamo amico perchè siamo pari di forza e di potenza” rispose la tartaruga “tu credi che non sia possibile, perchè tu sei grande e io sono piccola, ma hai torto e te lo dimostrerò! Ti sfido a una gara di tiro alla fune!”
“Che idea balorda, piccola tartaruga!” disse l’ippopotamo.
“Io sono pronta a gareggiare, se lo sei anche tu” disse la tartaruga.

E l’ippopotamo finì per accettare la sfida, proprio come l’elefante. Allora la tartaruga gli diede il capo della liana che teneva in bocca. “Prendi questo” gli disse “io vado a prendere l’altro estremo, poi tireremo finchè uno dei due trascinerà l’altro, o la liana si spezzerà.
Adesso è chiaro il piano della piccola tartaruga! A un estremo c’era l’elefante e all’altro l’ippopotamo! La tartaruga si portò a metà della liana e, senza lasciarsi scorgere, diede uno strattone.
Appena l’elefante e l’ippopotamo sentirono muoversi la liana, cominciarono a tirare con tutte le loro forze. Come tirava e grugniva l’elefante! Come sbuffava e tirava l’ippopotamo! La liana era tesa al massimo, ma nessuno riusciva ad avere la meglio.

“Oh, potentissima piccola tartaruga!” gemette l’elefante.
“Oh, fortissima piccola tartaruga!” esclamò l’ippopotamo.
La tartaruga diede uno sguardo alla liana che tremava, poi, lasciando i due tirare, andò tranquillamente a  fare un ottimo spuntino di funghi; schiacciò un pisolino, e quando si destò era ormai il tramonto.
“Farei bene ad andare a vedere come si sono messe le cose”, pensò.
Tornò al mezzo della liana: era ancora tesa al massimo. L’elefante e l’ippopotamo avevano continuato a tirare tutto il giorno, ma nessuno dei due aveva sopraffatto l’altro.

“Credo proprio che basti” pensò la tartaruga, e con un colpo di becco spezzò in due la liana.
Che poteva mai accadere? Allentatasi la liana, l’elefante e l’ippopotamo caddero all’indietro, uno di qua e l’altro di là, percuotendo il suolo con due colpi tremendi, che rimbombarono per tutta la giungla.
Allora la tartaruga si recò dall’elefante.

“Oh, tartaruga!” disse l’elefante “Non credevo che tu fossi così forte! Ora la liana si è spezzata, perciò siamo uguali. Avevi ragione, la taglia non conta. Ora ci chiameremo amici.”

La tartaruga era giubilante: aveva trionfato sul grande elefante grigio! Poi si recò dall’ippopotamo.
“Oh, tartaruga!” disse l’ippopotamo “Non pensavo che tu fossi così forte! La liana si è spezzata, perciò siamo uguali. Avevi ragione, la taglia non conta: ora ci chiameremo amici.”

La tartaruga era veramente al colmo della felicità: aveva trionfato anche sull’ippopotamo!
E da quel giorno in poi ogni volta che il potente elefante o il forte ippopotamo incontravano la tartaruga nella giungla, la chiamavano amica.

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La storia della banderuola

Nella soleggiata terra di Spagna, dove le arance crescono in abbondanza sugli alberi, una chioccia nera covava l’uovo che aveva deposto, aspettando che il guscio si schiudesse. Ed ecco che udì un pic-piccare, e il pulcino uscì dal guscio.

Ma che pulcino buffo! La chioccia, nel vederlo, gorgogliò di stupore: era come un mezzo pulcino, un pulcino tagliato in due per il lungo. Mezzopulcino saltò fuori dal guscio rotto sulla sua unica zampa, agitò la sua unica aluccia gialla e guardò la madre con il suo unico vispo occhietto.

Tuttavia la chioccia nera amava il suo Mezzopulcino nè più nè meno che i suoi fratelli e le sue sorelle, che erano tutti pulcini regolari.
Ma quando Mezzopulcino  crebbe e diventò Mezzogalletto, mostrò di essere un dispettoso guastafeste della forza di due galletti interi.
Si cacciava sempre nei guai per qualche marachella. Infastidiva il grande cane che faceva la guardia all’aia, era arrogante con quel bell’imbusto del gallo, e correva schiamazzando dietro alle altezzose oche grigie quando scendevano dondolandosi verso il ruscello.

Poi, un bel giorno, Mezzogalletto si presentò saltellando alla chioccia nera e disse: “Sono stufo di vivere qui, in questa stupida aia. Me ne vado a Madrid in cerca di fortuna.”
Come si agittò la chioccia nera nell’udire questa notizia! Madrid, la capitale di Spagna, distava molte e molte miglia!

“Perchè vuoi andare a Madrid?” chiese.
“Voglio vedere il re di Spagna” disse Mezzogalletto “e sono sicuro che il re di Spagna sarà lieto di vedere me”, soggiunse impudente.
“Madrid è molto lontana” lo ammonì la chioccia nera “è meglio che tu resti a casa tua, nella fattoria.”
“Vedrai che ci arriverò” la rassicurò Mezzogalletto.
E partì op-op-op, per la grande città.
Ben presto giunse ad un ruscelletto. Il ruscello era nei guai, perchè le erbacce avevano invaso le sue acque.
“Aiutami, Mezzogalletto!” gorgogliò il ruscello “Fai pulizia di queste erbacce, in modo che io possa tornare a scorrere libero!”

Ma Mezzogalletto non volle aiutare il ruscello.
“Non posso fermarmi ora!” gridò “Sto andando a Madrid per vedere il re di Spagna”.
E continuò per la sua strada.
Dopo un po’ giunse ad un bosco tenebroso e una radura vide un fuoco acceso dai taglialegna. Il fuoco era nei guai perchè, per mancanza di combustibile, si stava spegnendo.
“Aiutami, Mezzogalletto!”, crepitò il fuoco “Raccogli qualche ramoscello e gettalo su di me, in modo che io possa tornare a bruciare allegramente”.
Ma Mezzogalletto non volle aiutare il fuoco.

“Ho fretta” gridò “Sto andando a Madrid per vedere il re di Spagna”.
E continuò per la sua strada.
Dopo aver percorso molte miglia saltellando su di piede solo giunse finalmente alla grande città di Madrid. Alti edifici sorgevano ai lati delle strade affollate e caotiche. Mezzogalletto continuò a saltellare fino al palazzo reale. Vicino al cancello che dava accesso al palazzo cresceva un ippocastano in fiore. Mezzogalletto vide le sue foglie a cinque dita e le sue candele di fiori rosa oscillare su e giù e udì la voce del vento chiamarlo dall’intrico dei rami.
“Aiutami, Mezzogalletto!” gemeva il vento “Mi sono impigliato in quest’albero. Liberami, ti prego!”
Ma Mezzogalletto non volle aiutare il vento.

“Non ho tempo di ascoltarti!” gridò “Sono venuto per vedere il re!”.
Attraversò il cortile del palazzo, dove montavano la guardia dei soldati in lucenti armature d’argento; spiò per una porta aperta, e un attimo dopo era dentro. Si trovò in uno stanzone dove bruciava un gran fuoco, sul quale uno spiedo con della carne girava lentamente, manovrato da due sguatteri. Al centro della stanza c’era un tavolo carico di pentole, padelle e piatti. Era la cucina reale.

Mezzogalletto, naturalmente, non lo sapeva. “Che reggia!” pensò “Questa dev’essere la sala del trono!”.
Proprio in quel momento entrò un uomo che indossava un grembiule bianco e un alto cappello pieghettato. Era il cuoco reale. Mezzogalletto, naturalmente, non lo sapeva. “E questo deve essere il re di Spagna in persona” pensò “ecco com’è la corona reale!”.
Irrigiditosi sulla sua unica zampa, fece il saluto con la sua unica ala gialla.

Il cuoco diede uno sguardo a Mezzogalletto e disse allegramente: “Stasera brodo di pollo! Era proprio te che aspettavo!”.
E afferrato il misero tra pollice e indice, lo tuffò, piume e tutto, in un pentolone che gorgogliava sul fuoco.
“Oh, acqua! Come mi scotti!” strillò Mezzogalletto.
“Hai dunque dimenticato il ruscello invaso dalle erbacce e il tuo rifiuto di aiutarlo?”, chiese l’acqua, e continuò a bollire.
Allora Mezzogalletto invocò il fuoco: “Oh, fuoco! Come mi bruciano le tue fiamme!”
“Hai dunque dimenticato il nostro incontro nel bosco e il tuo rifiuto di gettarmi sopra una manciata di ramoscelli?” chiese il fuoco, e continuò ad ardere.

In quel momento Mezzogalletto udì un sibilo su per la cappa del camino e supplicò disperato: “Oh, vento! Spegni il fuoco e rovescia la pentola con l’acqua in modo che io possa sfuggire a questo terribile destino!”
“Tu non hai voluto aiutarmi quando io ero imbrigliato nell’ippocastano” sibilò il vento. “Ma non importa. Ho pietà di te.”
E il vento soffiò facendo schizzare Mezzogalletto fuori dal pentolone, e lo trascinò in alto sopra i tetti di Madrid.
“Fermati! Fermati!” gridava Mezzogalletto.
Ma il vento non si fermò finchè non ebbe trasportato mezzogalletto proprio in cima alla guglia della chiesa più alta di Madrid, così alta da toccare le nuvole del cielo.
“Eccoti arrivato”, disse il vento beffardo.
E da quel giorno Mezzogalletto è rimasto lassù. Ora è ricoperto di una vernice d’oro che il sole fa scintillare. Spesso i cittadini odono dal basso un cigolio. Allora guardano verso la guglia e dicono:
“Che rumore fa la banderuola oggi!”
Non sanno che il cigolio è il lamento di Mezzogalletto, che ripete instancabilmente: “Oh, se avessi dato retta a mia madre, e fossi rimasto nella fattoria con lei!”

Il gatto, il topo e il vaso di strutto

C’erano una volta un gatto e un topo che diventarono amici. Il topo viveva in una chiesa, e s’era fatto il nido nel cuscino di un inginocchiatoio. Senonchè il gatto lo convinse ad andare ad abitare con lui.

“Ti sono così affezionato, che non sopporto di starti lontano” disse al topo.

“D’accordo, amico”. Il topo accettò, e così i due misero su casa assieme. Sebbene fosse estate, il gatto, da previdente massaio che era, disse: “E’ bene che facciamo provviste per l’inverno,se non vogliamo soffrire la fame”.

Il topo fu d’accordo, perciò comprarono un vaso di strutto.

“Dove lo possiamo tenere?” chiese il topo “Non abbiamo dispensa”.

“Ho un’idea” rispose il gatto “teniamolo in un angolino fresco e buio della chiesa: sarà al sicuro, e quando verrà l’inverno andremo a riprenderlo.”

Così fecero. Passarono i giorni, ma, chissà come, il gatto non poteva fare a meno di pensare con desiderio al vaso di strutto. Oh, poterne leccare anche soltanto lo strato superiore!

Una mattina il gatto disse al suo caro amico topo: “Mio cugino mi ha chiesto di fare da padrino al battesimo del suo ultimo nato, perciò oggi devo andare in chiesa: starai tu a sorvegliare la casa.”

Il topo non ebbe alcun sospetto: “Ma certo, vai tranquillo, e auguri per il battesimo.”

Il gatto andò in chiesa. Naturalmente non c’erano nè cugini nè battesimi. Si avvicinò furtivamente all’angolo dove era nascosto il vaso dello strutto e cominciò a leccarne lo strato superiore. Delizioso! Il gatto faceva le fusa dal piacere.

Quando tornò a casa, il topo gli chiese: “Com’è andato il battesimo? Spero che tu abbia passato una buona giornata”.

“Tutto bene” rispose il gatto.

“Che nome hanno dato al piccolo?” s’informò il topo.

“Viasopra” rispose con freddezza il gatto. “E’ bianco come la neve, davvero carino.”

“Viasopra!” esclamò il topo “Che strano nome!”

“Non certo più strano di Magnabriciole, com’è stato chiamato, se ben ricordo, uno dei tuoi figliocci” replicò il gatto.

Poco tempo dopo il gatto fu di nuovo preso da una gran voglia di assaggiare lo strutto, così disse al topo: “Sono stato pregato di fare da padrino a un altro battesimo: devo di nuovo lasciarti a sorvegliare la casa”

“Non preoccuparti, farò da me” rispose il topo “spero che tutto vada bene come l’ultima volta.”

Il gatto tornò in chiesa e sgattaiolò nell’angolo buio. Si diede molto da fare attorno al vaso: lo strutto sembrava ancora più delizioso! Il gatto si leccò i baffi dalla soddisfazione.

Quando tornò a casa, il topo lo salutò: “Spero che tutto sia andato bene. E che nome hanno dato al piccolo?”

“Viamezzo”, rispose il gatto in tono indifferente “E’ color guscio di tartaruga, un bel piccino!”

“Viamezzo? E’ ancora più strano di Viasopra!”

“Non peggio di Magnacacio, come, se non sbaglio, hanno chiamato un altro tuo figlioccio” rispose il gatto.

Passato ancora un po’ di tempo il gatto si sentì l’acquolina in bocca al pensiero di quel delizioso strutto.

“Pensa un po’!” disse al topo “Mi hanno chiesto una terza volta di fare da padrino. Devo andare di nuovo in chiesa, tu resta qui a badare alla casa”.

Stavolta il topo sembrava pensieroso.

“Mi chiedo che razza di nome daranno a questo figlio!” disse “Viasopra, Viamezzo… qualche altra scemenza del genere, scommetto! Ma non ti trattengo, amico, e spero che tutto vada bene come le altre volte”.

Il gatto andò in chiesa… e questa volta leccò tutto lo strutto rimasto. Che buono! Passò bene la lingua attorno alle pareti, per essere sicuro che non ne restasse nemmeno un’ombra.

“Allora, come l’hanno chiamato?” chiese incuriosito il topo quando il gatto tornò a casa.

“Temo che ti sembrerà ancora più strano” rispose il gatto “Si chiama Viatutto. E’ proprio notevole, nero con le zampe bianche.”

“Viatutto…” ripetè il topo “Questo nome è molto sospetto”.

E aveva un’aria ancora più pensierosa di prima.

Comunque il resto dell’estate e l’autunno trascorsero serenamente. Strano a dirsi, il gatto non fu più invitato ad alcun battesimo.

Venne l’inverno. La neve copriva il terreno, il ghiaccio incrostava i vetri delle finestre ed era difficile trovare da mangiare. I due amici avevano fame. Allora il topo pensò alle provviste saggiamente messe da parte per i tempi duri, cioè al vaso di strutto nascosto in chiesa.

“Andiamo a prendere il vaso di strutto che avevamo messo da parte” disse al gatto.

Il gatto gli diede un’occhiata obliqua e rispose: “D’accordo, amico”.

Appena giunti in chiesa, il topo si affrettò verso l’angolo dov’era il vaso. Quale fu il suo disappunto quando trovò il vaso ripulito fino in fondo!

“Ahimè!” squittì “Ora so che i miei sospetti erano fondati: tu non sei mai stato ad alcun battesimo! Tu sei venuto tre volte in chiesa per mangiarti tutto lo strutto. La prima volta hai leccato via lo strato superiore, la seconda volta hai leccato via la metà, e la terza volta hai leccato…”

“Sta zitto!” gridò il gatto affamato “Se dici un’altra parola ti mangio!”

Ma ormai il topo l’aveva sulla punta della lingua, e così quel “Viatutto” venne fuori…

Con un balzo il gatto fu sul topo e lo divorò.

E così è finita anche la storia.

La divisione del formaggio
C’erano una volta due ladruncoli di gatti, che avevano rubato un grande formaggio giallo.
“Dividiamolo” disse il primo gatto, una bella bestia dal pelo tigrato e dai lunghi baffi, “Farò io le parti.”
“Andiamoci piano, amico.” disse il secondo gatto, che aveva il pelo nero lucido, tranne una zampa candida e un orecchio accartocciato come un cavolfiore.
“Mbeh?” chiese il primo gatto.
“Come posso esssere sicuro che tu lo divida equamente?” disse il secondo. “Potresti approfittarne per prenderti la fetta più grossa. Penso che dovremo trovare una terza persona che faccia le parti per noi.
“D’accordo”, acconsentì il primo gatto, “ma mi dispiace vedere che non ti fidi di me, amico.”
Così il gatto nero e il gatto tigrato si misero in cerca di una terza persona che dividesse il grande formaggio giallo, e subito trovarono una scimmia dagli occhi vivaci, che aveva ascoltato tutta la conversazione stando seduta su un banano proprio sopra di loro.
“Per piacere, scimmia, potresti essere così gentile da dividere questo formaggio in due parti uguali?” dissero i gatti.
La scimmia rise sotto i baffi, pensando che quella richiesta poteva volgersi a suo favore.
“Aspettate, vado a prendere un filo per tagliare il formaggio e una bilancia” disse “peserò i due pezzi per essere sicura che siano uguali.”
Poco dopo fu di ritorno col filo e con la bilancia e tagliò il formaggio in due pezzi, mentre il gatto nero e il gatto tigrato aspettavano ansiosi. Ma l’astuta scimmia tagliò un pezzo più grande dell’altro, sicchè quando li pose sui due piatti della bilancia, uno pendeva di più.
“Povera me!” disse la scimmia “Non sono stata molto abile, vero? Bisogna eguagliare.” E con ciò si mise a mangiare il pezzo più grosso.
“Ehi, scimmia! Che storie sono queste?” s’indignarono i gatti.
La scimmia li guardò con falsa meraviglia.
“Ma come?” disse “Sto alleggerendo questo pezzo di formaggio, così bilancerà quell’altro. Non volete che io sia rigorosamente giusta?”
“Ma sì, ma sì” risposero esitanti i gatti, e stettero a guardare ancor più ansiosi mentre la scimmia prsava di nuovo i due pezzi di formaggio.
Ma ahimè! La scimmia aveva dato un morso di troppo al pezzo più grosso, che ora pesava un po’ meno dell’altro.
La scimmia scosse la testa: “Povera me!” disse “Ne ho mangiato un po’ troppo, vero? Ma niente paura, correggo subito l’errore!” e cominciò a mangiare l’altro pezzo.
“Ma cosa ti salta in mente?” protestarono i gatti “Non penserai che ti abbiamo invitata a un banchetto!”
Il muso della scimmia si atteggiò alla più completa innocenza.
“Sto solo cercando di essere rigorosamente giusta.” rispose in tono risentito, “Mi avete chiesto di dividere equamente il formaggio, e io faccio del mio meglio!”
Pesò di nuovo i due pezzi, che a questo punto erano diventati molto piccoli, ma ancora non si equilibravano: stava quindi per mettersi di nuovo a mangiar via un pezzo da quello più pesante, quando i gatti, non resistendo più a vederla divorare il loro delizioso formaggio, gridarono: “Basta, basta! Lasciaci quel che è rimasto!”
L’astuta scimmia capì che la festa era finita.
“Come volete” disse “credo  che dopotutto non ci teniate veramente ad avere parti uguali: siete solo una coppia di vecchi ladruncoli ingordi!”.
Risalì con un salto sul suo banano e cominciò a tempestare i due gatti con una pioggia di piccole banane verdi.
Ma il gatto nero e il gatto tigrato pensavano solo al loro formaggio. Non si curavano più di sapre se un pezzo era più grande dell’altro! Senonchè, dopo tutta quella commedia, i due pessi erano diventati così piccoli, che ai gatti, temo, non resto granchè da gustare: l’astuta scimmia aveva finito col mangiarne la maggior parte!

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Il cavallo e la volpe

Il cavallo era invecchiato al servizio del suo padrone, e ormai non era più in grado di compiere una giornata intera di lavoro. Non ce la faceva più a stare tutto il giorno nei campi, aggiogato all’aratro, nè a tirare ogni settimana il carico fino al mercato. Ma il suo padrone era un uomo senza cuore e, visto che il fedele cavallo non poteva più fare il suo lavoro, gli negò cibo e tetto. Lo scacciò dalla stalla dicendo: “Qui non c’è posto per chi non si guadagna da vivere. Perciò fuori dai piedi, e che non ti  veda mai più!”
Poi aggiunse: “Potrai tornare a vivere nella mia stalla e a mangiare il mio fieno quando mi dimostrerai di essere forte come il leone!”, e proruppe in uno scoppio di risa beffarde.
Il povero vecchio cavallo si mise a vagare per la campagna. Teneva la testa bassa e si sentiva molto infelice. Infine giunse nella grande foresta dove vivavano le bestrie selvatiche. Qui si imbattè nella volpe dal pelo fulvo.
“Perchè te ne stai così triste a testa bass?” chiese la volpe al cavallo.
Il cavallo sospirò: “Non posso più lavorare per il mio padrone, così questi mi ha scacciato e non vuole più vedermi. Ha dimenticato quanti anni di fedele lavoro ho fatto per lui”.
“Ahimè!” disse la volpe “Gli uomini sono creature crudeli. Ma dimmi, non ti ha per caso offerto una possibilità di rimanere con lui?”
Il cavallo si ricordò allora della condizione postagli dal padrone nel mandarlo via: “Mi ha detto che potrò tornare alla stalla se dimostrerò di essere forte come il leone. Dunque mi ha chiesto l’impossibile, perchè sono debole e vecchio.”
La volpe, inclinando la testa da un lato, si mise a studiare il problema, poi disse: “Fai come ti dico, e finirà tutto bene. Devi solo stenderti per terra come se fossi morto e non muoverti. Io torno subito.”
Il cavallo obbedì e si stese a terra. Intanto la volpe trotterellò dino alla tana del leone nella foresta.
“Maestà” disse inchinandosi profondamente “C’è un cavallo morto poco lontano da qui. Seguimi, e avrai un lauto pranzetto.”
Il leone si alzò sollecito e speranzoso e seguì la volpe, la quale lo condusse nel luogo dove si trovava il cavallo. Come tremò il cavallo dentro di sè quando udì il leone che gli si aggirava intorno! Tuttavia non fece alcun movimento, anzi se ne stette immobile il più possibile, fidandosi della volpe.
Allora la volpe disse: “Non è degno di te banchettare in pubblico, maestà. Lascia che ti attacchi il cavallo alla coda, così potrai trascinarlo nella tua tana e lì divorarlo in pace.”
Il leone accettò di buon grado il suggerimento della volpe, e si distese a terra in modo che questa potesse attaccargli il cavallo alla coda. Fu allora che la volpe mise in opera la sua furberia: girò la coda del cavallo così saldamente intorno alle zampe del leone che nessuno avrebbe potuto staccarla.
“Adesso tira, vecchio cavallo, tira più che puoi!” grigò.
Il cavallo si rizzò sulle zampe e cominciò a tirare, e così si trascinò dietro il potente ma inerme leone. Il leone ruggiva e si divincolava, ma non riusciva a spezzare il nodo fatto dalla volpe. In tal modo il cavallo trascinò il leone fuori dalla foresta fino alla fattoria del suo padrone.
Potete immaginare quale fu lo stupore del padrone nel vedere il vecchio cavallo comparire alla porta della stalla trascinandosi dietro un leone!
“Dunque, vecchio mio, hai dimostrato di essere più forte di un leone!” gridò, “E’ più di quanto ti avevo messo come condizione. Benissimo! Torna pure alla tua stalla, ed io ti nutrirò e ti curerò, anche se ormai non puoi più lavorare.”
Mantenne la parola, e il cavallo trascorse il resto della sua vita in piacevole ozio.

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La volpe e l’uva

Un giorno una volpe affamata venne a passare accanto a una vigna e scorse alcuni bellissimi grappoli d’uva che pendevano da un pergolato. I dolci acini le fecero venire l’acquolina in bocca, ma non poteva arrivarci, perchè erano posti troppo in alto. La volpe allora se ne andò con aria dignitosa, dicendo: “Sono troppo verdi: la frutta acerba fa male…”

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

DIVISIONE IN SILLABE – schede

DIVISIONE IN SILLABE – schede: i bambini hanno a disposizione in classe una scatola-schedario di esercizi vari per ogni materia, da scegliere liberamente, che è uno per tutti: abbiamo per cominciare uno schedario per la Matematica, uno per l’Italiano, uno per la Musica e uno per l’Inglese.

Ogni bambino ha poi una scatola-schedario individuale, col suo nome, dove conserva i cartellini che ha usato per i suoi esercizi. E’ assurdo incollare fotocopie su fotocopie sui quaderni! Questa modalità favorisce il lavoro individuale e individualizzato, ma anche l’aiuto reciproco e la collaborazione: se un bambino ha già provato un dato esercizio, può dare una mano al compagno che lo sta facendo; poi ci sono anche schede per lavorare in coppia, ad esempio quelle dei dettati che prevedono che un bambino legga al bambino che scrive.

E’ naturalmente sempre il bambino a scegliere; se lo desidera può portare anche il lavoro a casa: vi sembrerà assurdo, ma a me che non uso dare compiti, i bambini li chiedono…

A differenza degli eserciziari “a libro”, lo schedario mi permette di aggiornare l’offerta di esercizi in base agli interessi dei bambini, o alle difficoltà che mostrano, e inoltre si integra benissimo coi materiali montessoriani già a disposizione.

Cominciamo con le schede per esercitare la divisione in sillabe.

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DIVISIONE IN SILLABE – REGOLE

Le regole della nostra lingua non sono affatto semplici, ricordiamole:

– una vocale a inizio parola, seguita da una sola consonante, fa sillaba a sè: a-nima, i-sola, o-livo

– le consonanti semplici fanno sillaba con la vocale che segue: li-mo-na-ta, se-re-ni-tà

– le consonanti doppie di dividono in due sillabe: pez-zet-ti-no, am-mat-ti-re; rientrano tra le doppie le parole con cqu: ac-qua, ac-quisto, nac-que

– due o tre consonanti diverse tra loro (non doppie) fanno sillaba con la vocale seguente, se esistono come gruppo anche all’inizio delle parole: a-bra-sivo ( perchè br esiste come inizio di parole, ad esempio in brina), ca-tra-me (treno), pu- le -dro (dritto),

– la esse impura (s seguita da consonanti) si attacca alla sillaba: e-scludo, ma-stino

– quando il gruppo di consonanti non esiste come inizio di parole, la prima consonante si stacca dalla sillaba: arit- metica (tme), pal-ma (lm), bam-bino (mbi),

– dittonghi e trittonghi non si possono dividere (au, ia, …), a meno che non si tratti di uno iato (ma meglio prendere la regola come generale, per non sbagliare, perchè ad esempio pi-o-lo è giusto, ma non si può fare pi-o-ve; allora meglio pio-lo pio-ve)

– digrammi e trigrammi non di dividono mai (sc, gl, gn,…)

– l’apostrofo in fin di riga è ammesso.

I bambini piccoli naturalmente imparano molto meglio a ricoscere la sillaba e quindi a dividere correttamente, seguendo la musicalità dei suoni e facendo esercizio. Ad esempio quando devono andare a capo insegniamo loro a dire la parola a voce alta battendo forte le mani ad ogni interruzione di sillaba: non sbagliano quasi mai!

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DIVISIONE IN SILLABE – Ecco le schede, se possono esservi utili:

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Questo è il contenuto delle schede:

Dividi in sillabe: 

rosa vaso rame casa nove mare lama tino pipa rana rapa seme
Ro-sa Va-so Ra-me Ca-sa No-ve Ma-re La-ma Ti-no Pi-pa Ra-na Ra-pa Se-me

pino tara caro sodo pila meno tana rupe palo pera sale luna vino
Pi-no Ta-ra Ca-ro So-do Pi-la Me-no Ta-na Ru-pe Pa-lo Pe-ra Sa-le Lu-na Vi–no

naso zero foglia vite libro uva pietra pane treno mosto campo orto fiori
Na–so Ze–ro Fo–glia vi-te li-bro u–va pie–tra pa–ne tre–no mo–sto cam–po or–to fio–ri

mamma palla masso tazza asse mazza pollo prezzo pazzo nonno pezza colla razzo
Mam–ma pal–la mas–so taz–za as–se maz–za pol–lo prez–zo paz–zo non–no pez–za col–la raz-zo

pozzo carro nonna cavallo carrozza fazzoletto mezza notte pallottola gallina mazzetto collina caramella
Poz-zo Car-ro Non-na Ca–val-lo Car–roz-za Faz–zo–let-to Mez-za Not-te Pal–lot–to-la Gal–li-na Maz–zet-to Col-li-na Ca–ra–mel-la

ciclismo cieco ladro mascella mondo ospedale orso placca prosciutto qualcuno romanzo simpatia spingere
Ci–cli-smo cie-co la-dro ma–scel- la mon-do o-spe-da-le or-so plac-ca pro-sciut-to qual–cu-no ro-man-zo sim-pa-ti-a spin–ge-re

idea adagio bordo balbettare badia balestra balsamo bambola balneare batticuore bavaglino beato biglia biforcuto biliardo bimbo bilancia
i–de-a a–da-gio bor-do bal-bet-ta-re ba-di-a ba-le-stra bal–sa-mo bam- bo-la bal–ne–a-re bat–ti–cuo-re ba–va–gli-no be–a-to bi–glia bi-for-cu-to bi-liar-do bim-bo bi-lan-cia

idrante archetto arachide arbitrio aprile arte attraente attrezzo avaro avverbio avventura avvoltoio azione azzuffarsi bagaglio bagnare baia
i–dran-te ar–chet-to a-ra-chi-de ar–bi-trio a-pri-le ar-te at–tra–en-te at–trez-zo a–va-ro av–ver-bio av–ven-tu-ra av–vol–to-io a–zio–ne az–zuf–far-si ba–ga-glio ba–gna-re ba-ia

appunto bitorzolo bisonte birichino blindato bivio boato boccaglio bomba bolgia borghese borsa bottiglia branzino briciola briglia brodo
ap–pun-to bi–tor–zo-lo bi–son-te bi-ri-ch-no blin-da-to bi-vio bo–a-to boc–ca-glio bom-ba bol-gia bor-ghe-se bor-sa bot-ti–glia bran–zi-no bri-cio-la bri-glia bro-do

bisbetica buono buongustaio buonora buonsenso burla calcagno calce calendario calligrafia calzamaglia
bi-sbe-ti-ca buo-no buon-gu–sta-io buo–no-ra buon-sen-so bur-la cal–ca-gno cal-ce ca–len–da-rio cal–li–gra-fia cal-za–ma-glia

cambio calzetta camoscio camicia campanel la campagna candeggi na canguro canto canzone bacio
cam-bio cal–zet-ta ca–mo-scio ca–mi-cia cam–pa-nel-la cam–pa-gna can-deg-gi-na can-gu-ro can-to can–zo-ne ba-cio

capretto capsula carbone carnivoro cartella casalinga catechismo catasto catrame cattedra brutto
ca–pret-to cap–su-la car-bo-ne car-ni-vo-ro car–tel-la ca-sa–lin-ga ca–te-chi-smo ca–ta-sto ca-tra-me cat–te-dra brut-to

cattiveria cattedrale catenaccio causa cauzione cavalcare cavalletto caviglia cavia cavolfiore celeste celebre cencio cemento
Cat-ti-ve-ria cat-te–dra-le ca–te–nac-cio cau-sa cau–zio-ne ca-val–ca-re ca–val–let-to ca–vi-glia ca-via ca–vol–fio-re ce–le-ste ce–le-bre cen-cio ce–men-to

centro centesimo cento cerimonia ceramista cervello certificato chiara chiamare cestino chiave chicco chiedere chiesa
Cen-tro Cen–te–si-mo Cen-to Ce-ri–mo-nia Ce–ra–mi- sta Cer–vel-lo Cer–ti–fi–ca-to Chia-ra Chia–ma-re Ce-sti-no Chia-ve chic-co chie-de-re chie-sa

chilometro chissà chiocciola chiosco chirurgo chitarra chiuso ciao cialda ciambella cigno ciclismo cicogna ciecamente
Chi-lo–me-tro chis-sà chioc-cio-la chio-sco chi–rur-go chi-tar-ra chiu-so cia-o cial-da ciam-bel-la ci-gno ci–cli-smo ci–co-gna cie–ca–men te

cicogna cifra cielo ciclone cilindro ciliegia ciminie ra cinghia cinquanta cipresso cintura circolare civiltà cisterna classe clessidra cliente
ci-co-gna ci-fra cie-lo ci–clo-ne ci–lin-dro ci–lie-gia ci–mi–nie-ra cin-ghia cin–quan-ta ci–pres-so cin-tu-ra   cir–co–la-re   ci–vil-tà ci-ster-na clas-se cles–si-dra cli–en-te

cobra coccinella cognome colbacco collaudo collegio colmo coltivare combattimento commedia commessa compagnia compagno compatto compito composto condividere
co-bra coc-ci-nel-la co–gno-me col–bac-co col–lau-do col–le-gio col-mo col-ti–va-re com–bat–ti–men-to com–me-dia com–mes-sa com-pa-gnia com-pa-gno com-pat-to com-pi-to com–po-sto con-di-vi-de-re

confettura confine congelare coniglio conoscenza consiglio conquista consegna consenso conserva contato contento conto convento coppa coprire cooperativa
Con–fet–tu-ra Con–fi-ne Con–ge–la-re Co–ni-glio co–no–scen-za con-si-glio con-qui-sta con-se-gna con–sen-so con–ser-va con–ta-to con-ten-to con-to con-ven-to cop-pa co-pri-re co–o–pe-ra-ti-va

coordinarecoperta copia coprifuoco copriletto coraggio corda cordialità coriandolo cornacchia cornetto cornuto corpo correggere corrente corridoio cortesia
Co – or – di – na – reCo – per – taco – pia co – pri – fuo – co co – pri – let  – to co – rag – gio cor- da cor – dia – li- tà co – rian – do – lo cor- nac  – chia cor – net – to cor – nu –  to cor – po cor – reg – ge – re cor – ren – te cor – ri – do – io cor –te – sia

coscienza coscia costo cosmetico costare crampo costume cratere crauti cranio creato creare creatività crescita cristallo crimine critica
Co–scien-za co-scia co-sto cos–me-ti-co co–sta-re cram-po co–stu-me cra-te-re crau-ti cra-nio cre-a-to cre-a-re crea-ti-vi-tà cre–sci-ta cri–stal-lo cri-mi-ne cri–ti-ca

criticone crostata crudo culmine culto cuore acquarello curiosità dalmata cuscinetto dentista danzare dardo dattero davanti degradabile decenza
cri-ti–co-ne cro–sta-ta cru-do cul-mi-ne cul-to cuo-re ac–qua–rel-lo cu-rio-si-tà dal–ma-ta cu–sci–net-to den–ti-sta dan-za-re dar-do dat-te-ro da–van-ti de–gra–da-bi-le de-cen-za

dente deserto desiderio diabolico deviazione diamante dicembre dettaglio diabete dialogare diplomazia discesa discorso distanza domanda
Den-te de–ser-to de-si-de-rio dia–bo–li-co de-via–zio-ne dia–man-te di-cem-bre det-ta-glio dia-be-te dia–lo–ga-re di–plo–ma-zia di-sce-sa di-scor-so di-stan-za do–man-da

fango fauna febbraio fat toria ferragosto fiamma fiaba filastrocca firmamento fiocco finta fosforescente foschia fraterno francobollo
fan-go fau-na feb–bra-io fat-to-ri-a fer–ra–go-sto fiam-ma fia-ba fi-la–stroc-ca fir–ma–men-to fioc-co fin-ta fo-sfo-re-scen-te fo–schi-a fra-ter-no fran-co–bol-lo

frangia frullino frusta fronte frutta galassia gaiezza geranio genio gente gioire gioioso gioco giocattolo gonnellina
Fran-gia Frul-li-no Fru-sta Fron-te  frut-ta ga–las-sia ga–iez-za ge–ra-nio ge-nio gen-te gio-i-re gio-io-so gio-co gio–cat–to-lo gon–nel-li-na

grattugia granello guardaroba guscio guida guinzaglio illustrazione imballa re imburrato i mitare impegno incantesimo infarinare insetto insegnare
grat-tu-gia gra–nel-lo guar–da–ro-ba gu-scio gui-da guin–za-glio il–lu–stra–zio-ne im–bal–la-re im-bur-ra-to i-mi-ta-re im–pe-gno in-can-te–si-mo in–fa-ri–na-re in-set-to in–se–gna-re

lastra levante lezione lineamenti lingua lungo maestra maestà magnetico magro maiuscolo maltempo marea margine marmellata
la-stra le–van-te le–zio-ne li–nea–men-ti lin-gua lun-go ma–e-stra mae-stà ma-gne-ti-co ma-gro ma–iu–sco-lo mal–tem-po ma–re-a mar-gi-ne mar–mel–la-ta

marinaio maschera mastello materia meglio metropolitana microfono migliaio miscela miseria moderno molla monte montante movimento mungere
Ma-ri–na-io Ma–sche-ra ma–stel-lo ma–te-ria me-glio me–tro-po-li-ta-na mi–cro–fo-no mi–glia-io mi-sce-la mi-se-ria mo-der-no mol-la mon-te mon-tan-te mo-vi–men-to mun-ge-re

nascere nastrino nascondino neolitico neonato nervoso nucleo obliquo oculista olivo ombelico ombrellone opposto opuscolo oriente organo
na-sce-re na-stri-no na–scon-di-no neo-li-ti-co neo-na-to ner-vo-so nu-cleo o-bli-quo o–cu-li-sta o-li-vo om–be-li-co om-brel-lo-ne op-po-sto o-pu-sco-lo o-rien-te or-ga-no

pannocchia pappagallo parte percussione pestifero piano placca polmonite portafortuna pozzanghera prefisso privato proibito promessa proprio
Pan-noc-chia pap-pa–gal-lo par-te per–cus-sio-ne pe-sti-fe-ro pia-no plac-ca pol-mo-ni-te por-ta-for-tu-na poz-zan–ghe-ra pre-fis-so pri–va-to proi-bi-to pro-mes-sa pro-prio

pugno pulpito pulizia qualifica quantità questione quiete raccolta raddoppiare rampicante reagire realista richiamo rischio risposta ruota
pu-gno pul-pi-to pu-li-zia qua-li-fi-ca quan-ti-tà que–stio-ne qui–e-te rac–col-ta rad-dop-pia-re ram-pi–can-te rea-gi-re rea-li-sta ri-chia-mo ri-schio ri-spo-sta ruo-ta

saldare scegliere scarto sciacquare segmento società sospirare stringa tecnologia terzo tombino trofeo ultimo unghia urlo utile
sal–da-re sce-glie-re scar-to sciac-qua-re seg–men-to so-cie-tà so–spi-ra-re strin-ga tec-no-lo-gia ter-zo tom–bi-no tro-fe-o ul-ti-mo un-ghia ur-lo u-ti-le

vario verso vetro vigneto volante zaino zucchero zoppicare zenzero zampone zafferano vuoto vulcano vostro versare vaglia
va-rio ver-so ve-tro  vi-gne-to vo–lan-te zai-no zuc-che-ro  zop-pi-ca-re zen-ze-ro zam-po-ne zaf–fe-ra-no vuo-to vul-ca-no vo-stro ver-sa-re va-glia

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Sul retro, dove ci sono le soluzioni per la correzione e l’autocorrezione, pinzo un foglietto, così prima di riporre la scheda il bambino può mettere la sua firma. E poi fa un po’ da “tenda del mistero”…

Il passaggio dal maiuscolo al minuscolo come trasformazione della forma. Una storia tutta da disegnare.

Il passaggio dal maiuscolo al minuscolo come trasformazione della forma. Una storia tutta da disegnare, in uso nelle scuole Waldorf, per presentare lo stampato minuscolo.

Il passaggio dal maiuscolo al minuscolo

Dopo essere state maltrattate per un anno intero, chiuse nei quaderni dei bambini della prima classe, le povere letterine tornarono a casa lamentandosi: la povera A aveva le gambe tutte larghe, la S non ne parliamo visto che ogni tanto i bambini la mettevano addirittura a testa in giù, poi c’era la D con la gobba, la T col tetto cadente, la R con una gamba rotta, la H zoppa, la P con la pancia che pendeva, la I col mal di schiena, la O piena di bitorzoli, la V che prendeva il volo… insomma non vedevano proprio l’ora di tornare a casa a riposare.

Ma non appena varcarono la soglia, quale sorpresa trovarono! Mentre loro erano state coi bambini di prima, le loro sorelline ne avevano approfittato per mettere tutta la casa sottosopra.
Le sorelle maiuscole, stanche e tutte ammaccate, non riuscivano proprio a riposare con tutta quella confusione, e per di più le minuscole facevano un sacco di capricci, e dicevano che anche loro volevano andare a scuola e conoscere i bambini della classe.

Dopo aver passato la notte in bianco, il mattino seguente le poverette stavano peggio di prima, e così decisero di andare tutte dal dottore. Visto che erano gravi, il dottore decise di ricoverarle tutte in ospedale. Ognuna venne curata, medicata, incerottata, ingessata e massaggiata, e dopo due settimane poterono tutte insieme lasciare l’ospedale. Erano tornate come nuove e si sentivano davvero bene, ma il dottore si raccomandò di non interrompere le cure, e consigliò loro di trascorrere un periodo di convalescenza in montagna. Nonostante le cure, infatti, erano ancora piuttosto deboli, e c’era il pericolo di ricadute. Così il dottore si fece promettere che sarebbero andate in montagna da sole, senza le sorelline minuscole.

E le maiuscole uscirono dall’ospedale in fila indiana, ed erano proprio belle: A B C D E F G H I L M N O P Q R S T U V Z.

Andarono a casa per preparare le valige e salutare le sorelline minuscole, ma quelle cominciarono a strillare e a far dispetti, e testarde e capricciose com’erano, non volevano sentir ragioni. Anche loro volevano andare in vacanza in montagna! Le povere sorelle maiuscole cercarono in ogni modo di convincerle, si spiegar loro che era stato il dottore a prescrivere il riposo assoluto, e che finchè non fossero completamente guarite, non avevano proprio le forze per occuparsi di loro in vacanza.

Ma non c’era niente da fare… Promisero allora che, non appena si fossero sentite un po’ meglio, le avrebbero chiamate, e così anche loro avrebbero fatto un po’ di vacanze in montagna, ma anche questa promessa non servì a nulla, se non a far aumentare le lagne e i capricci.

Allora si accordarono in segreto di far finta davanti alle piccole di aver cambiato idea e di aver rinunciato a partire, e si diedero appuntamento a mezzanotte nella stanza di A. Cenarono come se niente fosse, si lavarono, diedero il bacio della buonanotte alle sorelline e andarono a letto facendo finta di dormire. A mezzanotte, sicure che le piccole monelle fossero cadute nel tranello, si radunarono senza far nessun rumore e si prepararono alla fuga. Ma non si accorsero che due occhietti brillavano sotto il letto, e che una delle sorelline le aveva spiate ed era pronta a spifferare tutto alle altre.

Così, mentre le sorelle maiuscole preparavano i bagagli nella camera di A ed aspettavano l’alba per iniziare il loro viaggio, la sorellina piccola aveva già dato l’allarme alle altre, ed un’altra riunione segreta si stava tenendo al piano di sotto, in cucina…

Alle prime luci del mattino, le maiuscole uscirono in punta di piedi, coi loro zaini e le loro valige, e intrapresero il cammino verso la montagna… pensavano proprio di essere riuscite a farla franca. E non sospettarono mai di nulla, finchè non giunsero ad un’altura che dominava tutto il paesaggio sottostante: l’ampia vallata era disseminata di piccoli e graziosi paesini, ciascuno con la sua chiesetta e il suo alto campanile, c’era un magnifico laghetto che specchiava l’azzurro del cielo e il verde delle montagne, c’erano prati e covoni di fieno… e un po’ più in basso, dietro di loro, c’erano ahimè le sorelline minuscole…

-Aspettateci!-, gridavano quelle sciocchine, troppo piccole per avventurarsi da sole per quei ripidi sentieri -Vogliamo venire con voi!-

Le sorelle maiuscole erano più spaventate che meravigliate, e temendo ormai il peggio gridarono: -Tornate indietro! Potreste cadere da un momento all’altro! Non vedete? Per voi è troppo pericoloso salire fin quassù!-
E mentre le maggiori pensavano di averle finalmente convinte a si fermarono a fare un picnic prima di proseguire per la ripida salita, le piccole fecero finta di tornare indietro, ma approfittando della distrazione delle sorelle, si nascosero dietro ai sassi, agli alberi ed ai cespugli, e ripresero l’inseguimento.

Quando le grandi ripresero il cammino, le piccole fecero altrettanto… arrancavano a gran fatica, cercando di non farsi scoprire, in fila indiana, per mano una dietro l’altra, ma quella salita era davvero troppo per le loro piccole gambette. E successe l’irreparabile: la prima della fila perse l’equilibrio e gridando: -Aiutooooo!- cominciò a rotolare a valle lungo il pendio della montagna, trascinando con sè nella rovinosa caduta tutte le altre.

Di scatto le sorelle maggiori, giunte quasi in vetta, si voltarono e videro le piccole monelle rotolare come una valanga verso il basso, e sparire nell’ampia vallata sottostante. Non restava altro da fare che dire addio alla vacanza, e scendere a cercarle a valle, sperando per il meglio.

Con le orecchie ben aperte ridiscesero il sentiero, e stavano ormai disperando dopo ore ed ore di inutili ricerche.
Giunte a valle, sempre più preoccupate, decisero di dividersi per cercare meglio, ed ognuna prese una direzione diversa.

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Una storia per presentare le vocali in prima classe

Una storia per presentare le vocali in prima classe – un racconto in uso nella scuola Waldorf per presentare ai bambini vocali dell’alfabeto maiuscolo.

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Una storia per presentare le vocali in prima classe

“La storia di Lauretta”

 

Molto, molto tempo fa, in un paese ai confini del mondo,viveva una bambina che si chiamava Lauretta. Quel paese era come un giardino, era un mare d’erba senza confini, i fiori erano i pesci, di mille colori e di mille specie. Se ne occupava un giardiniere, che conosceva tutti i segreti della vita, così quei fiori non appassivano mai, anzi diventavano sempre più belli, luminosi, profumati. Lauretta viveva proprio in quel giardino come un fiore tra i fiori. Ma proprio davanti alla sua casetta di fiori non ce n’erano. Anche lì l’erba era tenera e delicata, l’aria luminosa e tiepida come una carezza, ma non un fiore. E questa sua aiuola davanti casa le metteva malinconia.

Un giorno arrivarono nel paese un uomo e una donna: camminavano lentamente, con la schiena curva, sembravano molto stanchi. Andarono dal giardiniere e gli consegnarono due sacchettini. Poi si stesero sull’erba a riposare, e mentre dormivano il giardiniere aprì i due sacchetti e sparse i semi che contenevano nel prato. Magicamente apparvero nuovi meravigliosi fiori. Lauretta, che aveva osservato la scena da lontano, corse allora dal giardiniere per chiedergli una manciata di quei semi da spargere sulla sua aiuola senza fiori. Ma il giardiniere le disse che lui altri semi non li aveva, e che non ne esistevano nemmeno altri in tutto il loro paese: per procurarseli bisognava essere disposti a partire per un lungo viaggio.

 

Lauretta provava un desiderio fortissimo, che la spinse ai margini del giardino e senza che quasi se ne rendesse conto, si trovò a percorrere il sentiero del bosco, un sentiero che diventava sempre più ripido, stretto e buio. Lauretta aveva paura, ma proprio quando pensò di tornare indietro ricordò il giardiniere e il suo volto rassicurante e sereno, e si fece coraggio. Rialzando lo sguardo, vide sorgere davanti a sè, in fondo al sentiero, un grande arco luminoso. Lo oltrepassò, e si trovò in un’ampia sala circolare, al centro della quale splendeva una creatura incantevole. La sua veste era candida come neve, i suoi capelli una cascata d’argento fine, il suo volto pallido e luminoso come luna d’estate. La splendida creatura sedeva su un cuscino di seta finissima, e teneva fra le dita delicate un sottilissimo filo di luce, che avvolgeva lentamente, in silenzio, formando un gomitolo sempre più grande. Non guardò Lauretta, sembrò proprio non accorgersi nemmeno di lei, continuando ad avvolgere il gomitolo. Lauretta la guardava trasognata e col cuore in attesa.

 

La creatura finalmente si alzò, e fissandola negli occhi, le porse il gomitolo di luce. Lauretta se lo portò al cuore, chiuse gli occhi per un istante poi, raccogliendo tutto il suo coraggio, lo lanciò dietro di sè. Subito si sentì venir meno le forze, e cadde addormentata, mentre il filo magico, srotolandosi, disegnò un sentiero tortuoso, che si perdeva in lontananza, tra il verde. Lauretta si svegliò nell’ora magica dell’aurora, quando tutto è avvolto da pallida luce azzurra. Tutto era silenzio. La natura era immersa nel sonno. Dormivano gli uccelli nel nido con la testina sotto l’ala, dormivano gli scoiattoli raggomitolati nelle loro tane, dormivano le api nelle loro cellette, dormiva la coccinella dentro il calice del fiore bianco, dormiva la lucertola sotto il sasso, dormiva la lumaca sotto la foglia, perfino le mosche dormivano, e le zanzare, e le libellule e le farfalle. I fiori non mostravano i petali, perchè dormivano anche loro. Lauretta si sentiva smarrita, non ricordava nulla di ciò che le era accaduto fino a quel momento, ma lo spettacolo che le si presentò era così straordinario che la fece commuovere: il sole stava sorgendo lentamente all’orizzonte, e intorno a lui si spandeva una calda luce rosata. Le labbra di Lauretta si schiusero senza che se ne rendesse conto, e tutta la sua ammirazione e la sua devozione risuonarono come una lunga A. Dopo qualche istante il sole comparve rosso in tutta la sua maestosità, ed Lauretta fu quasi accecata da tanto splendore.

 

Così cominciò a percorrere il lungo sentiero che il gomitolo di luce aveva tracciato per lei. Il mondo era magnifico, Lauretta non sapeva da che parte voltarsi per ammirare tutto quello che aveva intorno. Era un mondo da scoprire e gustare: colori, suoni, e profumi ovunque. I fiori si erano svegliati e stiracchiavano al primo sole i loro petali, mentre l’erba sembrava un tappeto tessuto con tutte le sfumature di verde. L’aria vibrava del canto degli uccelli. Lauretta corse sui prati, si rotolò tra l’erba, ammirò i cespugli fioriti, vide alberi di ogni forma e grandezza e tra le frode vide fervere la vita: uccelli che costruivano il nido, scoiattoli che si rincorrevano saltando da un ramo all’altro, insetti che ronzavano leggeri nell’aria.”Chi sei?” chiese Lauretta a una creaturina col vestito giallo e nero, che volava di fiore in fiore. “Sono l’ape operosa, faccio visita agli amici fiori che mi danno il dolce nettare da portare nella mia casetta. Con quel succo farò il miele, che piace tanto agli uomini”. Ma ora cosa stava succendendo? Un fiorellino bianco si era messo a volare? Ma no, era una farfalla. “Non devi toccarmi, sulle mie ali c’è la polverina magica che mi fa volare, e se me la sciupi non potrò più visitare i fiori, che mi sono fratelli. Sai, loro hanno le radici e non possono volare, sono io che racconto loro i segreti del cielo, dell’aria e della luce.” La farfalla si posò tra i capelli di Lauretta, e subito altre se ne aggiunsero, a formare una corona. “Ma guardate, farfalline! Lì la terra si sta muovendo, chesuccede?” Un buffo musetto comparve davanti a lei, appuntito, con gli occhi chiusi. “E tu chi sei?”

“Sono la talpa, scavo gallerie sotterranee. Le mie zampette sono anche meglio delle pale che usano gli uomini nel loro lavoro. Piacere di averti conosciuta Lauretta, ma ora è meglio tornare a casa per me, questa luce mi dà fastidio e ho molto lavoro da sbrigare”.

Mentre la talpa ne ne andava, Lauretta sentì solletico a un piede e vide un cosino piccolo e nero camminare veloce veloce “Sono la formica, non farmi perdere tempo bimba. Devo raccogliere il chicco che ho perduto e correre dalle mie sorelle che mi stanno aspettando.””Posso vedere la tua casa?””Sì, ma promettimi di non toccarla, potresti rovinare il lavoro di ore solo muovendo un dito. Se hai pazienza e mi aspetti, ti indicherò la strada.”

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Presentazione dello stampato maiuscolo e dei numeri in prima classe

Presentazione dello stampato maiuscolo e dei numeri in prima classe – un racconto in uso nella scuola Waldorf per presentare ai bambini le lettere dell’alfabeto ed i numeri.

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Presentazione dello stampato maiuscolo e dei numeri in prima classe

Tonino il pastorello

In un paese lontano lontano, ai piedi dei monti, c’era una volta un pastorello di nome Tonino. Viveva da solo in una casetta ai margini del bosco con il suo piccolo gregge di pecorelle. Era molto povero e possedeva soltanto un carrettino che gli serviva per raccogliere la legna per il fuoco e un flauto dal quale sapeva tirar fuori splendide melodie. Non sapeva leggere nè scrivere perchè non mai potuto frequentare la scuola, ma era molto saggio e aveva imparato a leggere nel grande libro della natura, che gli aveva rivelato molti segreti; conosceva i tesori racchiusi in ogni fronda, sapeva distinguere le varietà di minerali nascosti nella roccia, sapeva interpretare il linguaggio del vento, il formarsi delle nuvole, il suono della pioggia. Nel vicino villaggio tutti gli volevano bene perchè era buono e generoso e pur amando la vita solitaria era sempre pronto a rendersi utile, e quando c’era bisogno di lui non negava mai il suo aiuto a nessuno.

Durante l’estate lo si vedeva poco al villaggio, perchè portava le pecore al pascolo sugli alti monti e non tornava che di tanto in tanto. Trascorreva in quei luoghi dei lunghi periodi vivendo sempre all’aperto, parlando solo con le sue pecorelle a cui era molto affezionato, e che conosceva tutte per nome: Bianchina, Batuffolo, Berta, Gippetta… Loro amavano il loro padroncino e mentre brucavano ascoltavano liete il suono del flauto di Tonino che si diffondeva tra i monti, i boschi e le ampie vallate.Di notte il pastorello dormiva sotto le stelle accoccolato accanto al gregge, il buio non gli faceva paura: si sentiva protetto dalla volta stellata che lo avvolgeva come un magico manto.

 

Al sopraggiungere dell’inverno teneva le pecorelle al riparo nell’ovile, e trascorreva le sue giornate occupato in mille lavori che sapeva svolgere con bravura e precisione. Con le sue mani costruiva gli oggetti più svariati: dai cestini di vimini intrecciati che regalava al fornaio in cambio di qualche pagnotta, ai giocattoli per i bambini del villaggio che sapeva intagliare nel legno, dagli arnesi da lavoro per il contadino Virgilio, agli utensili più svariati che gli venivano richiesti. Era davvero bravo e pensava a tutti.

Un giorno, sul finire dell’estate, accadde un fatto molto strano. Il pastorello aveva portato le sue pecorelle a pascolare su un’altura dove l’erba era tenera e fresca. Stava ammirando lo splendido panorama quando, guardando verso il basso, vide un bambino e una bambina che giocavano. Come si divertivano! Il pastorello, dall’alto, poteva sentire le loro grida festose e dalle loro voci li riconobbe: erano Bianca e Berto, i figli del taglialegna; vide che Bianca teneva in braccio proprio quella bambolina che teneva tra le mani anche quando, tempo prima, era andata da lui per chiedergli se poteva farle una culletta di legno. Ma ecco, i bimbi prima gioiosi e tranquilli, cominciarono improvvisamente a litigare.

Tonino cercò di chiamarli, ma erano troppo lontani e non lo potevano sentire, impegnati com’erano a scambiarsi parole cattive. Il litigio si fece sempre più acceso, e i due bimbi finirono per picchiarsi. La bambolina era abbandonata lì, sull’erba. Mentre Tonino pensava al da farsi, vide spuntare dal folto del bosco un esserino con un buffo cappuccetto e un sacchettino sulle spalle. Si guardò intorno con aria furtiva, afferrò la bambolina dimenticata, e quella si rimpicciolì, tanto da poter entrare nel suo minuscolo sacchettino. Poi con la rapidità di un fulmine, sparì tra i cespugli. Per la prima volta il pastorello lasciò incustodite le sue pecorelle, e si precipitò lungo il pendio per inseguire il ladro. Ma le sue ricerche furono vane, sembrava proprio che fosse sparito nel nulla. Sconcertato di fronte a questo mistero, non riusciva a darsi pace, e il giorno dopo si recò a casa di Bianca per capirne qualcosa di più. La trovò molto triste. “Sai cos’è successo? Ho perduto la mia bambolina, proprio quella che mi aveva fatto la mamma. Adesso la cullina che mi avevi fatto per lei è vuota”. Tonino cercò di consolarla, poi la salutò senza dire nulla di ciò che aveva visto, convinto che nessuno gli avrebbe creduto.

Si incamminò verso casa, immerso nei suoi pensieri, quando passando accanto all’abitazione del contadino Virgilio, udì una gran confusione: tutta la famiglia era in agitazione e ognuno si affannava alla ricerca di qualcosa che era misteriosamente scomparso. Il pastorello si avvicinò a Virgilio, e gli chiese cosa stesse succedendo. “Stavo falciando l’erba del campo, quando ho sentito un caldo afoso e insopportabile, così sono entrato un momento in casa a bere e quando sono ritornato fuori la falce era sparita. Mentre andavano insieme a cercarla, in cuor suo Tonino temeva che la falce avesse fatto la stessa fine della bambola di Bianca. Iniziarono a cercare, e mentre Virgilio ispezionava una siepe, sentì dietro di sé una risatina. Si girò con aria minacciosa verso il povero Tonino “Cos’hai da ridere? Mi stai prendendo in giro? Tira subito fuori la mia falce. Adesso sono sicuro che me l’hai presa tu!”. Il pastorello cercò di spiegargli che non era colpevole e che anche lui aveva sentito quella risatina, ma siccome Virgilio invece di credergli si arrabbiava sempre più, non gli restò che andarsene via dispiaciuto, senza dir niente.

Arrivò a casa avvilito e sconsolato, e come se ancora non bastasse lo aspettava un’altra brutta sorpresa: era sparito il suo tavolino nuovo. L’aveva da poco finito di costruire e quella mattina, prima di andare da Bianca, gli aveva dato gli ultimi ritocchi, l’aveva levigato e, dopo averlo verniciato, l’aveva messo fuori perchè si asciugasse. E ora era sparito. Ma cosa stava succedendo? Per non farsi prendere dallo scoramento, decise di impegnare il tempo in qualcosa di utile. Aveva promesso a Bianca un lettino per la nuova bambola che la nonna le stava preparando. Così prese un pezzo di legno di abete e si mise all’opera. Ci mise tanta passione che dimenticò perfino di mangiare. Ma quale soddisfazione a lavoro finito… chissà come sarebbe stata contenta Bianca.

Proprio in quel momento bussarono alla porta, era Bianca che in lacrime diceva “Sei stato cattivo, perchè mi hai portato via la culla? Ho cercato dappertutto in casa, l’hai presa tu. E anche il nonno è arrabbiato e dice che gli ho nascosto la sua pipa, ma io non sono stata”.

Tonino cercò di calmare Bianca come poteva. “Non piangere, lo so che non hai nascosto tu la pipa. Succedono fatti inspiegabili in questi giorni, c’è sotto un mistero, credimi. Anche il mio tavolino è scomparso nel nulla. Ma guarda, ho un regalo per te…” e le mostrò il lettino per la bambola nuova. Bianca tornò a casa col lettino, e fece anche pace col nonno, ma non sapeva che presto anche il lettino sarebbe scomparso.

Nei giorni seguenti nel villaggio continuarono a verificarsi strane sparizioni, che provocarono litigi tra gli abitanti: mogli e mariti si incolpavano a vicenda di trascuratezza e distrazione, i genitori sgridavano i bambini pensando che si divertissero in brutti scherzi, i bimbi litigavano tra loro perchè perdevano i giocattoli… insomma in breve tempo quel paese era diventato il regno del discordia. Una sera gli abitanti decisero di riunirsi nella piazza per cercare insieme una spiegazione. Discussero animatamente per ore. Erano forse tutti vittime di qualche sconosciuta malattia che li aveva colpiti rendendoli disordinati e maldestri? C’era forse tra di loro un ladruncolo, che si divertiva alle loro spalle? Ma chi poteva essere, se tutti si conoscevano così bene e ciascuno godeva della piena fiducia di tutti?Il problema sembrava non aver soluzione, e alla fine ognuno tornò alla propria casa più triste e preoccupato di prima.

Anche Tonino non si dava pace, e una sera, all’imbrunire, mentre come al solito si trovava nel bosco col suo carrettino per raccogliere la legna per il fuoco, accadde un fatto nuovo e inaspettato. Il carrettino procedeva lungo il sentiero sassoso e accidentato, quando all’improvviso una ruota si staccò e cominciò a rotolare lungo il pendio, sempre più veloce. Tonino si mise a correre per cercare di recuperarla, mentre quella si allontanava sempre più lungo i sentieri scoscesi, passando tra cespugli e anfratti di rocce, inoltrandosi nel folto del bosco. Esausto per la lunga corsa, la vide infine fermarsi davanti a una grotta, e quando si avvicinò rimase sbalordito: chi l’aveva fermata? La ruota non poggiava su nessun ostacolo e appariva come trattenuta da una forza invisibile. Con molta cautela, e mantenendosi prudentemente a una certa distanza, scrutò all’interno della grotta e gli parve di distinguere, al debole chiarore di una lanterna, le sagome di alcuni degli oggetti che erano scomparsi nel villaggio. Si fece coraggio e si apprestò ad entrare nella grotta, ma una forza misteriosa lo respingeva, impedendogli di procedere.

Cercò allora di riprendersi almeno la ruota, ma fu inutile. Sembrava incollata al suolo. Tonino era molto spaventato, ma alla fine la curiosità vinse sulla paura e si avvicinò all’ingresso della grotta per cercare nuovamente di entrare. In quel momento sentì dal suo interno un rumore sordo e tonante che lo spaventò come non mai: qualcuno stava russando lì dentro. Terrorizzato Tonino fuggì via correndo come un matto. Percorse di volata la difficile salita e giunse in un’ampia radura erbosa. Si fermò a riprendere fiato, ma le ore erano passate, il sole stava tramontando e c’era solo la luce pallida della luna a illuminare il sentiero. Come trovare la via del ritorno?

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La canzone dell’alfabeto

La canzone dell’alfabeto per bambini della scuola primaria, con testo, sparito stampabile e traccia mp3.

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La canzone dell’alfabeto
Testo

La canzone dell’alfabeto

A come armatura,
B come bravura
C come canaglia
con me vieni in questura!
D come diamante,
E come elefante,
F è il furfante
che in galera finirà.
Per G c’è tanta gente,
per H non c’è niente
per I immediatamente
alla L passerò.
L è l’animale,
M meno male,
N è Natale…
tanti doni avrò!
Per O c’è l’orco,
per P c’è Pinocchio,
per Q quel ranocchio
che domani mangerò.
R come rana,
S come strade
T tutte le strade
che a Roma porteranno.
U che bella storia,
V vi ho raccontato,
Z ho tanto sonno e
a letto me ne andrò,
sotto le coperte
tutte le parole
fanno capriole
e una fiaba sognerò.

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La canzone dell’alfabeto
spartito

spartito stampabile e file mp3 qui:

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Presentazione delle lettere dell’alfabeto maiuscolo in prima classe

Presentazione delle lettere dell’alfabeto maiuscolo in prima classe – un racconto in uso nella scuola Waldorf per presentare ai bambini le lettere dell’alfabeto.

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Presentazione delle lettere dell’alfabeto maiuscolo in prima classe

 “In una ridente vallata ai confini del mondo…”

 

In una ridente vallata ai confini del mondo, c’era una volta un piccolo villaggio. Le case erano poche, soltanto undici, e c’era una sola stalla, sufficiente ad ospitare tutti gli animali del piccolo paese.

Gli abitanti della ridente vallata erano persone tranquille e felici. Ognuno di essi lavorava e svolgeva il proprio compito in modo da mantenere l’ordine e la prosperità del villaggio.

Le piccole, accoglienti case, erano tutte costruite col legno ricavato dai numerosi pini del bosco. Su ciascuna porta era intagliato il simbolo del mestiere svolto dal capofamiglia. Ciò era necessario in quanto le persone del paese non sapevano ne leggere ne scrivere.

Come dicevamo, ognuno lavorava sodo dalla mattina alla sera. Il contadino Virgilio, ad esempio, dissodava la terra, seminava il grano e gli ortaggi, curava gli alberi da frutto, e faceva tutto questo con tanto amore che i risultati erano sempre più che soddisfacenti. Nella stagione calda il grano era alto e dorato, gli ortaggi di un bel verde splendente e gli alberi davano frutti grossi e succosi. Virgilio contadino aveva il viso rugoso, cotto dal sole, ma sempre ridente, con le sue forti braccia e con l’unica falce esistente in paese manteneva l’erba sempre ben rasata, tanto da farla sembrare un soffice tappeto. Con l’erba tagliata formava dei bei covoni, e i suoi figli si divertivano a saltarci sopra, inventando sempre nuovi giochi, finchè il papà li richiamava all’ordine. Poi, quando il sole aveva asciugato  ben bene l’erba, facendola diventare fieno, i bambini avevano il compito di riporla nel fienile.

Vicino alla casa del contadino Virgilio abitava l’apicoltore, il signor Orazio. Orazio aveva costruito con le sue mani tante piccole casette affinchè le api potessero porvi il nettare che succhiavano dai fiori, dopo averlo trasformato in miele.

Orazio era amico delle api, enon aveva alcun timore di  avvicinarsi alle casette per raccogliere il miele, che distribuiva poi a tutti gli abitanti del villaggio.

Viveva da solo, non aveva ne moglie ne figli, e le sue uniche compagne erano le api. Queste gli raccontavano tante storie sulla vita dei fiori e degli esseri dell’aria.

Un altro abitante del villaggio era Bastiano, il pastore, che oltre alla sua casa aveva una grande stalla dove ogni sera riportava il bestiame al ritorno dal pascolo.

Il suo compito era piuttosto faticoso: partiva all’alba con pecore e le mucche, e anche qualche capretta, saliva per il monti e camminava e camminava, finchè trovava un bel prato verde dove gli animali avrebbero brucato della buona erba.

Bastiano aveva un cane di nome Fido, che lo aiutava nel suo lavoro. Era un cane da pastore, forte, coraggioso e fedele. Bastiano trascorreva molte ore a contatto con la natura, e così era diventato amico degli gnomi e delle ondine che vivevano lassù e cantavano e scherzavano con lui.

Il suo nanetto preferito era Dondolo, il più piccole e il più vivace di tutti. Poi, quando il sole tramontava e scendeva la sera, il pastore riportava il bestiame nella stalla.

Subito iniziava a mungere le mucche e le capre. Il buon latte serviva per fare il burro e il formaggio, oltre che essere bevuto al mattino con la polenta calda. Poi nella stagione giusta, tosava le pecore e portava la lana alle tre filatrici che abitavano nella casa accanto alla sua.

Le tre filatrici erano piuttosto vecchie. Si chiamavano Berta, Nena e Pia e brontolavano in continuazione perchè la lana o era troppo sporca, o troppo corta o troppo riccia, insomma Bastiano non riusciva mai ad accontentarle. Berta aveva un grosso labbrone a forza di leccare il filo di lana,  Nena aveva un pollicione a forza di torcere il filo, e Pia aveva un grosso piedone a forza di calcare il pedale della rocca.

Comunque le tre filatrici facevano bene il loro lavoro: tessevano la lana, la coloravano, poi confezionavano abiti, coperte ed altre cose utili per gli abitanti del villaggio.Nel paese naturalmente c’era anche bisogno di legna da ardere nei camini, o di qualche mobile ed utensile per la casa.

A tutto questo pensava Tobia, che era il boscaiolo. Si recava nel bosco tutti i giorni. Sempre allegro, cantando, con la sua grande scure e le sue forti braccia, abbatteva i pini, ne segava i tronchi, e li preparava per poterli trasportare a valle, nella sua casa. Qui poteva lavorare con gli arnesi adatti e costruiva ciò di cui c’era bisogno. Il suo vicino di casa era Martino, il fabbro.

Dalle sue finestre usciva sempre un gran rumore: infatti egli ferrava i cavalli, batteva sull’incudine e forgiava il ferro caldo per fare utensili per le massaie. I bambini del villaggio amavano molto la casa di Martino: restavano per ore affascinati ad osservarlo mentre svolgeva il suo lavoro.

Ciò che attirava soprattutto i bimbi era il gran fuoco che ardeva in continuazione e nel quale essi riuscivano a vedere gli spiritelli danzare.Il villaggio era attraversato da un torrente che scendeva gorgogliando dalla montagna; l’acqua era pura e cristallina.Sulle rive del torrente si affacciavano la casa del vasaio e il mulino del mugnaio.

Il vasaio si chiamava Domenico ed era abilissimo nel lavorare la creta. La impastava con l’acqua, e dalle sue mani uscivano le più belle ciotole ed i più bei vasi.

Il suo vicino, il mugnaio Giovanni, aveva invece un gran lavorare per preparare la farina. La ruota del mulino girava senza sosta, mossa dall’acqua del torrente, ed il grano posto all’interno del mulino, sulla pietra che la ruota faceva girare, si frantumava fino a diventare impalpabile farina.

Domenico viveva nel mulino che aveva costruito con l’aiuto del boscaiolo, e anche se non era una casa vera e propria, ci stava come un re.

Quando i bambini lo incontravano, si prendevano sempre gioco di lui perchè il suo aspetto era davvero buffo, tutto coperto di polvere bianca dalla testa ai piedi com’era. Giovanni non amava molto lavarsi e più di qualche volta i suoi amici erano costretti con la forza e con gran divertimento, ad immergerlo nel torrente per vederlo pulito.

Pietro era il calzolaio ed preparava e riparava le scarpe per tutti gli abitanti del villaggio. Lavorava molto: i piedi erano tanti! Inoltre doveva conciare le pelli degli animali, renderle morbide e colorarle.

Tutto il paese attendeva con gioia l’autunno: la stagione dell’uva matura e della vendemmia. Vi partecipava in allegria tutto il villaggio, cantando e ballando fino al calar della sera. C’era un gran viavai di gente dai vigneti alla casa di Giacomo il vinaio, che aveva il compito di preparare il vino e conservarlo nelle botti, al buio della sua cantina.

Quando il sole splendeva e dorava i prati, tutti potevano vedere Alchemio, il dottore del paese, che con la schiena ricurva dera e raccoglieva con pazienza erbe, piante e radici per preparare buoni sciroppi e medicamenti per gli ammalati.

Alchemio era molto vecchio e saggio; se qualcuno aveva un problema da risolvere, si consigliava con lui, che sapeva tante cose.

Nelle ora più calde del pomeriggio, i bambini si raccoglievano attorno al vecchio dottore e seduti all’ombra di una grande quercia, ascoltavano rapiti storie e leggende che il saggio conosceva, ma nessuno sapeva come.

Ed ecco, un giorno avvenne qualcosa di molto misterioso, che turbò la serenità del piccolo villaggio…

In una notte di luna piena, comparve nel paese uno strano vecchio tutto vestito di nero. Si guardò intorno con aria furtiva, poi si diresse senza esitare verso la prima casa: quella di Virgilio il contadino.

Bussò alla porta con insistenza. “Chi è a quest’ora di notte?” chiese Virgilio. “Sono un vecchio viandante, devo mangiare qualcosa, e riposare, fatemi entrare…”. Virgilio aprì la porta, un po’ titubante, e fece entrare lo strano vecchio. Lo fece sedere a tavola, e mentre gli preparava il piatto si accorse che la fiamma del camino si spegneva. Come poteva sapere che dove il vecchio passava, ogni fonte di calore si esauriva?

Il povero contadino ne fu molto imbarazzato; avrebbe voluto chiedere spiegazione per ciò che era successo, ma gliene mancò il coraggio. Il vecchio finì di mangiare in silenzio, come se non si fosse accorto di nulla, quindi si alzò, si riavvolse ben bene nel suo grande mantello nero, come per nascondere il suo vero essere, e chiese a Virgilio con tono di comando: “Dov’è lo stanzino degli attrezzi da lavoro?”.

Il contadino, sempre più impaurito, lo accompagnò, e non appena la porta si aprì, il vecchio prese a fissare la falce con i suoi occhi di ghiaccio, lanciando nell’aria il suono “Fffffffff!”. All’istante la bella lucente falce si trasformò in un rigido segno scolpito nell’aria.

Tutto avvenne così rapidamente che Virgilio, sbigottito più che mai, non si accorse neppure che il vecchio se ne era andato.

Poco dopo nell’umile cucina il fuoco riprese ad ardere e tutto tornò come prima. Il povero contadino però, quella notte non potè dormire ripensando all’accaduto, e rischiò più volte di svegliare la moglie che dormiva tranquilla e non si era accorta di nulla.

Ma nel piccolo villaggio c’era qualcun altro che non poteva dormire… era Pietro il calzolaio, che doveva finire di cucire gli stivaletti rossi per i nanetti del bosco, che dovevano essere pronti assolutamente per giorno dopo.

Dovete infatti sapere che Pietro aveva una figlia, unica consolazione della sua vita. Aveva cercato di farla crescere dandole tutto l’amore e le cure possibili perchè non sentisse troppo la mancanza della sua mamma. Ma la bimba si era ammalata gravemente e deperiva ogni giorno di più.

Invano il vecchio saggio dottor Alchemio aveva tentato di guarirla con le sue medicine, così il padre, disperato, un giorno l’aveva presa in braccio e, dopo averla avvolta in una bella coperta di lana, l’aveva portata nel bosco nella speranza che l’aria balsamica della pineta potesse giovarle.

La bimba si lamentava debolmente mentre Pietro piangendo, pregava il buon Dio di aiutarla. Fu così che gli gnomi del bosco, che udirono tutto, uscirono dalle loro case mossi a compassione, si riunirono, parlottarono tra loro, poi svelti svelti cominciarono a raccogliere radici, bacche e succhi della terra.

Si rivolsero quindi a Pietro dicendogli: “Non disperare buon uomo, la tua bimba guarirà se tu per sette giorni la nutrirai con questi prodotti speciali. In cambio però vogliamo qualcosa.”. “Dite pure, sono pronto a qualsiasi sacrificio”.

“Bene, entro sette giorni dovrai confezionare per noi sette paia di stivaletti rossi”. Pietro promise che avrebbe eseguito di certo il lavoro, e se ne tornò sereno a casa con la sua piccina. Fece tutto quello che le creature del bosco gli avevano ordinato e la piccola, un po’ alla volta, cominciò a stare meglio.

Riprese un bel colorito e presto smise di lamentarsi. Sicuramente sarebbe presto ritornata allegra e felice a correre e saltare per casa. Quella notte dunque, Pietro stava lavorando di buona lena per gli gnomi, quando senza farsi sentire anche in casa sua entrò il vecchio dal nero mantello. Il calzolaio sentì solo un brivido di freddo, e non si accorse d’altro.

Il vecchio intanto s’era avvicinato alla sedia dove stava posata la bambola della bimba, e dopo averla fissata coi suoi occhi di ghiaccio, aveva preso a lanciare nell’aria il suono “Bbbbbbb!”. All’istante al posto della bambola rimase nell’aria uno strano segno, ed il vecchio sparì, in silenzio così come era entrato.

Da qualche tempo nel villaggio fervevano i preparativi perchè si stava avvicinando il giorno delle nozze tra il pastore Bastiano e la figlia di Tobia il boscaiolo.

Il padre della sposa doveva procurarsi il legname per fare i mobili che servivano ad arredare la camera da letto degli sposi. Il pastore Bastiano infatti non aveva un letto a casa sua, perchè dormiva da sempre in un giaciglio, e spesso anche nella stalla, dove faceva più caldo, e dove gli animali gli tenevano compagnia.

Una mattina all’alba, il boscaiolo Tobia si avviò nel bosco per abbattere gli alberi che servivano a preparare il legno necessario per la costruzione del letto. Per fortuna era di buon umore, perchè proprio quel giorno i folletti, i nanetti e le altre creature del bosco erano in vena di scherzi, anche più del solito.

Tobia li conosceva bene, e quindi non si stupì quando vide il primo tronco abbattuto muoversi da solo. Quando poi era pronto ad abbattere un secondo albero, la sua scure era sparita, e solo dopo lunghe ricerche la trovò nascosta tra i rami di un pino.

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Una canzoncina per sillabare

Una canzoncina per sillabare e una filastrocca, per bambini della scuola primaria, con testo, spartito stampabile e traccia mp3.

Sillabare

Sillabare è un giocherello, che non stanca il tuo cervello
quando ad ERRE aggiungo un’A, fo una sillaba che è RA;
a GI ed ELLE aggiungo un’I, ho una sillaba che è GLI;
or se RA e GLI riuniamo, la parola RAGLI abbiamo
Dunque RAGLI è risultato da due sillabe formato
con due sillabe bel bello, RAGLIA RAGLIA l’asinello
son tre sillabe in BEL LEZ ZA
e son quatto in GEN TI LEZ ZA
or da solo puoi spezzare le parole e sillabare.
Pensa Mila fra di sè: “No, difficile non è
ora provo a frazionare le parole e sillabare
questo è proprio un giocherello
che non stanca il mio cervello”.

Una canzoncina per sillabare – testo

T A: ta

T E: te, ta te

T I: ti, ta te ti

T O: to, ta te ti to

T U: tu, ta te ti to tu

Una canzoncina per sillabare – spartito e file mp3 qui:

Alfabeto illustrato steineriano

Alfabeto illustrato steineriano: ogni lettera illustrata con un oggetto che inizia con la lettera scelta, ma che anche richiama la forma della lettera nella sua forma stessa.

 

A angelo
B bambola
C culla
D drago
E elicottero
F falce
G grotta (gnomo)
H è muta
I io
L letto
M montagne
N nano
O orologio
P pipa
Q quadro(quattro)
R ruota
S serpente
T tavolo
U uva
V valle
Z zaino

Come vedete, lo sforzo è quello di cercare  un elemento che richiami nella forma e nel suono iniziale del suo nome, la forma della lettera…

Per la lettera A usiamo l’angelo. Ricordo però che generalmente le vocali sono presentate a parte, evocando il sentimento e richiamando alla forma del suono nell’euritmia, e non solo la forma della lettera:

 

Alfabeto illustrato steineriano – LETTERA B: BAMBOLA

Alfabeto illustrato steineriano – LETTERA C: CARROZZINA (O CULLA)

 

Alfabeto illustrato steineriano – LETTERA D: DRAGO

 

LETTERA E: ELICOTTERO

LETTERA F: FALCE

 

LETTERA G: GROTTA

LETTERA H

 

 

LETTERA I: IO

 

LETTERA L: LETTO

 

LETTERA M: MONTAGNA

Alfabeto illustrato steineriano LETTERA N: NANO

 

LETTERA O: OROLOGIO

 

LETTERA P: PIPA

 

LETTERA Q: QUADRO

 

LETTERA R: RUOTA

 

LETTERA S: SERPENTE

LETTERA T: TAVOLO

 

LETTERA U: UVA

LETTERA V: VALLE

LETTERA Z: ZAINO

 

 

 

Poesie per salutarsi prima della campanella

Poesie per salutarsi prima della campanella in uso nella scuola steineriana, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Di lavorare ho terminato
riposi adesso quel che ho imparato
e viva nel profondo del mio cuore
per darmi luce, saggezza e amore
perch’io sia buono nel profondo
per tutti gli uomini e per il mondo.

 

Chiocciola
Chiocciolina chiocciolina
vieni dentro alla casina
che se dentro tu verrai
bello il mondo sognerai.
si parte in cerchio per mano, l’insegnante lascia la mano di un bambino e guida la fila a formare una spirale verso l’interno
Chiocciolina chiocciolina
vieni fuor dalla casina
che se fuori tu verrai
bello il mondo tu vedrai.
il bambino più esterno, il “capofila” guida tutti a sciogliere la spirale e si riforma il cerchio.

 

Chi entra in questa casa porti amore
chi vi sta dentro cerchi conoscenza
chi ne esce porti pace nel suo cuore

 

Perchè siamo scesi dal cielo?
Non era più bello restare
tra nuvole d’oro, fra stelle,
fra gli angeli in coro a cantare?
spirale verso l’interno, per mano
Sì, certo, ma è solo qui in terra
che io posso imparare
a voler diventare
un libero uomo
capace di fare.
spirale verso l’esterno, per mano, poi cerchio

 

 

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Poesie e filastrocche del mattino

Poesie e filastrocche del mattino, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Alba nel mio giardino
O l’alba luminosa del mio giardino…
il sole brilla, gli uccelli cantano…
io scendo in giardino, e sono felice e contento
quanti fiori odorosi… quanta freschezza!
Che bellezza nel mio giardino…
i meli hanno già le foglie verdi
con dei piccoli fiori bianchi che si aprono.
Il fico alza le foglie larghe nell’aria.
Le acque zampillano da ogni parte.
Le farfalle si posano leggere sui fiori.
Ah! che gioia entrare in quel giardino! (Agur)

Io sono
Io sono
cammino
più forte che posso
io salto, io salto, io salto
e m’arresto.

Io salto sul muro
raggiungo la torre
e suono le campane
che suonano a stormo.
Lontano ed ampio
ampio e alto
ancora più ampio
io sono.

Scuoletta
La scuoletta tutta bella
del paese piccolino
fa suonar la campanella
ch’è al muretto del giardino.
Chiama, squilla, canta, invita!
Non lo vedi che, a star cheta,
la catena è arruginita?
Hedda

Campanella
Cara voce, campanellina
che dormivi dimenticata
finalmente ti sei svegliata
e rallegri la mattina.
Pallido il sole; giù dai rami
qualche foglia lenta vola;
campanellina della scuola
ma tu canti, ma tu chiami.
Scolarine, scolaretti,
già si affrettano ai cancelli
così lieti, così belli:
uno stuolo d’uccelletti.
D. Rebucci

Io vengo dalle stelle
Io vengo dalle stelle
che proteggono i miei pensieri
io vengo dalla terra
che sostiene i miei passi
io offro il mio cuore
al mondo intero.

Cose belle
Nell’aria gli uccellini,
nell’acqua i pesciolini
in terra i frutti e i fiori,
di splendidi colori
in cielo tante stelle,
ah, quante cose belle.

C’è gioia
C’è gioia nell’acqua che scorre
nel vento che corre
nel fuoco che brilla
nel canto che trilla
c’è gioia nel fiore che sboccia
in tutto è la gioia, la vita
che freme infinita
che ride, che chiama
che palpita ed ama.

Nel cielo stellato
Nel cielo stellato,
che guardo ammirato
nel sasso nel fiore,
ti vedo o Signore
nell’essere mio,
ti sento buon Dio
mi accendi nel cuore,
per tutto l’amore.

Ammirare il bello
Ammirare il bello,
difendere la verità
venerare ciò che è nobile,
decidere il bene
ciò conduce l’uomo,
alle mete nella vita
al giusto nelle sue azioni,
alla pace nel suo sentire
alla luce nel suo pensare,
e gli insegna a confidare
nel governo divino
in tutto ciò che è
nell’universo
in fondo all’anima.
(Rudolf Steiner)

Le montagne
Le montagne sono silenziose e immobili.
Nel loro silenzio, nella loro quiete
parlano della tua grandezza
aiutami ad essere quieto e silenzioso
come una montagna
seduto in silenzio
per ascoltare la tua voce.

Il sole
“Dimmi bel sole”
chiede il bambino
“Che fai levandoti presto al mattino?”
Risponde il sole: “Spengo le stelle
che della notte sono fiammelle.
Fasci di rose spargo sul mare
tutta la terra vado a destare.
Bacio coi raggi fiori e uccellini
batto ai balconi
sveglio i bambini”

Del sol l’amata luce
Del sol l’amata luce,
il giorno a me rischiara
dell’anima la forza,
agli arti dà vigore
nello splendor solare,
onoro o Dio la forza
che tu benevolmente,
nell’anima ponesti
che io sia laborioso,
di apprendere desioso
nascon così da te,
la luce ed il vigore
fluisca ognor a te,
riconoscenza e amore.
(Rudolf Steiner)

Sole che porti la notte e il giorno
Sole che porti la notte e il giorno
lieto saluto il tuo ritorno
sotto il tuo raggio crescon le piante
sotto il tuo raggio sbocciano i fiori
tutti vestiti di bei colori
nella tua luce vola l’uccello
pascon sui monti pecora e agnello
l’ape ronzando raccoglie i succhi
per dare il miele a tutti, a tutti
ed io bambino, t’apro il mio cuore
perchè v’accenda luce e calore
come te sole, forte e giocondo
vorrei irradiarli in questo mondo.

Pura
Pura come l’oro più fino
forte come la roccia
limpida come il cristallo
sia l’anima mia.
(Silesio)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Uso delle lettere smerigliate Montessori (o alfabeto tattile)

Uso delle lettere smerigliate Montessori (o alfabeto tattile). La presentazione ai bambini dell’alfabeto tattile, nel metodo Montessori, rappresenta la prima tappa dell’apprendimento della scrittura e della lettura.

Capita a volte che bambini anche molto piccoli (due o tre anni) comincino a chiedere agli adulti cosa significa una certa scritta, oppure che desiderino scrivere una certa parola e chiedano aiuto, ma sarebbe bene non spingere i bambini alla scrittura così presto. Al di sotto dei tre anni essi stanno ancora lavorando allo sviluppo delle loro capacità di linguaggio, sensoriali e motorie, stanno cioè costruendo le solide basi per tutti gli apprendimenti successivi.
Dall’altro versante, se a qualunque età il bambino si mostra più interessato a mordicchiare le lettere o a vedere quanto sono belle mentre le lancia in aria, è chiaro che vi state muovendo in anticipo rispetto al suo stadio di sviluppo, ed è quindi consigliato, con tutta la dovuta delicatezza, riporre il materiale e attendere del tempo prima di riproporlo.

photocredit: http://www.alisonsmontessori.com/

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Se possibile il consiglio è di cominciare con lo stampato minuscolo, iniziando a lavorare al solo riconoscimento delle singole lettere, abbinando correttamente fonema e grafema. In un secondo momento, quando il bambino sarà davvero pronto, potrà dedicarsi a collegare le lettere fra loro per formare le parole, utilizzando l’alfabeto mobile.

Nell’approccio montessoriano i suoni delle lettere vengono insegnati prima dei nomi delle lettere. Le ricerche hanno dimostrato che è meglio imparare una cosa alla volta.

Se si insegna al bambino parola e suono delle lettere, il bambino è confuso e fatica a riconoscere il suono delle singole lettere, dovendole trovare all’interno di una parola, e per lui è difficile ricordare la lettera che rappresenta un dato suono nella parola stessa.

Perciò per prima cosa si insegna il suono di ogni lettera, mentre la formazione delle parole e i nomi delle lettere stesse vengono insegnati più tardi. E siccome alcune lettere possono rappresentare più di un suono, si comincia con l’attribuire alla lettera il suono che si incontra più di frequente, e solo più tardi si aggiungono gli altri. Il bambino all’inizio deve imparare così: un suono per ogni lettera.

E’ un errore pensare che per i bambini sia più facile identificare la lettera iniziale delle parole. Ma è un errore ancor più grave confondere i bambini pensando che essi debbano ascoltare solo il primo suono di una parola. I bambini hanno bisogno di sentire i suoni in tutte le parti della parola. Secondo l’approccio montessoriano, i bambini vengono perciò guidati a sentire come i suoni che loro stanno imparando si trovano in parti diverse delle parole. Con questo esercizio cominciano presto a rendersi conto della sequenza di suoni nelle parole.

L’apprendimento dei suoni e delle lettere avviene attraverso un lavoro multisensoriale.
Il bambino sente il suono, ne vede la sua rappresentazione nella forma della lettera, sente il modo in cui è scritta attraverso il tatto, con le sue dita.

Siccome ogni schema motorio deve essere imparato correttamente da subito, è molto importante che il bambino sia seguito con grande attenzione mentre traccia le lettere con le dita. Questo lo aiuterà a sviluppare una calligrafia chiara e pulita.

Il primo alfabeto proposto al bambino, dunque, dovrebbe essere lo stampato minuscolo, che è una forma base del corsivo.

Questo perchè, quando il bambino passerà dallo scrivere le lettere staccate ad uno stile corsivo e collegato, non dovrà cambiare il suo schema motorio, ma soltanto estendere il modello connettendo tra loro le lettere. Questo non avverrebbe cominciando l’apprendimento dell’alfabeto con lo stampato maiuscolo.

L’unica differenza per il bambino tra la lettera stampata e la sua scrittura corsiva, sarà dunque la connessione, il non staccare la penna dal foglio. La tracciatura delle lettere sulle schede tattili seguirà dunque questo modello di movimento:

La scelta di cominciare con lo stampato minuscolo, però, non è condivisa da tutti gli insegnanti che usano questo metodo, e in molte scuole Montessori si sceglie di cominciare da subito con il corsivo, proponendo l’alfabeto tattile in corsivo, gli alfabeti mobili, le schede delle nomenclature e tutto il materiale di lettura e scrittura, tutto in corsivo.

Questa scelta è sostenuta dal fatto che la scrittura del corsivo, col suo scorrere continuo, è più dolce per il bambino e rappresenta un esercizio motorio migliore rispetto allo stampato che prevede continue interruzioni del tratto. Inoltre si sostiene che il corsivo permette meglio di visualizzare le singole parole, che risultano staccate in modo più netto le une dalle altre.

Tuttavia va considerato che i bambini con problemi di dislessia e disgrafia incontrano maggiori problemi nella lettura e nella scrittura del corsivo: infatti nella scrittura del corsivo il bambino, mentre scrive una lettera è costretto a pensare a quale lettera sarà la successiva che deve essere connessa a quella che sta scrivendo.

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Uso delle lettere smerigliate Montessori (o alfabeto tattile) – Presentazione ai bambini: panoramica generale

Lo scopo della presentazione dell’alfabeto tattile  è  imparare il suono e la forma delle lettere dell’alfabeto ed acquisire una memoria corporea manuale della forma delle lettere come preparazione alla scrittura.

Prima di iniziare a lavorare con l’alfabeto si può raccontare una breve storia della scrittura su questa traccia: “Quando l’uomo scoprì la possibilità di rappresentare ognuno dei suoni di una lingua con un simbolo, fu una grande scoperta, perchè significò che tutte le parole potevano essere scritte usando pochi simboli. Prima di ciò ogni parola aveva un simbolo suo proprio, e imparare a scrivere richiedeva uno sforzo mnemonico monumentale. E poi era un problema trovare simboli per le parole nuove. Oggi invece chiunque può scrivere il suono  di qualsiasi parola.”

Si consiglia di cominciare offrendo al bambino una selezione di tre lettere, pronunciando il suono di ogni lettera mentre se ne segue il percorso con indice e medio uniti.

E ‘importante pronunciare il suono e non il nome della lettera (“P” e non “PI”).

Lasciare poi che il bambino tracci la lettera più volte, sempre pronunciandone il suono. Solo dopo molte ripetizioni offrire la seconda lettera, e quindi la terza. Al termine presentare le tre lettere insieme davanti al bambino per verificare se è in grado di abbinare correttamente grafema e fonema.

Naturalmente è consigliabile che tra le prime lettere presentate ci siano delle vocali, perchè questo aiuta tantissimo il bambino a intuire la formazione delle sillabe e delle parole.

Durante il periodo in cui si presenta l’alfabeto tattile, è importante che il bambino abbia a disposizione vari materiali coi quali esercitarsi a riprodurre le lettere: la lavagna di sabbia, naturalmente,

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ma anche pasta da modellare, chicchi e semi, pennelli e colori, ecc…

Osservando con attenzione le attività che svolge il bambino, possiamo accorgerci che è molto sicuro nel riconoscimento di alcune lettere, mentre non lo è per altre: in questi casi è importante riproporre la presentazione.

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Uso delle lettere smerigliate Montessori (o alfabeto tattile) – Lezione in tre tempi per presentare l’alfabeto tattile: prima versione

Primo tempo
1. Il bambino si lava le mani con l’acqua calda, così che esse siano calde e sensibili. L’insegnante prende due lettere che si contrappongono per suono e forma, ad esempio t ed a, poi siede accanto al bambino.
2. Mette una lettera di fronte al bambino, gli chiede di guardare e traccia leggermente molte volte la lettera, nella direzione corretta, con indice  e medio uniti della mano dominante, ripetendo il suono della lettera mentre la traccia
3. Affida la lettera al bambino e gli chiede di tracciarla con le sue dita, e mentre lo fa l’insegnante continua a ripeterne il suono; non chiede al bambino pronunciarlo già da solo,  ma se il bambino la copia, è positivo.
4. Si ripete lo stesso processo anche per la seconda lettera.

Secondo tempo
L’insegnante controlla che il bambino abbia associato correttamente ogni suono alla lettera corrispondente ponendo entrambe le lettere di fronte al bambino e chiedendogli: “Indicami t e tracciala con le dita”. Se il bambino sceglie la lettera giusta, l’insegnate lo invita a tracciarla di nuovo più volte, mentre lei ripete il suono. Questo esercizio viene ripetuto per ogni lettera molte volte.

Terzo tempo
L’insegnante ora verifica che il bambino sia capace di pronunciare correttamente i suoni proponendogli una lettere alla volta e chiedendogli di tracciarla e di pronunciare lui stesso il suono. Anche questo esercizio va ripetuto più volte.

Ricapitolazione

L’insegnante propone al bambino di ascoltare delle parole che contengono i suoni imparati. Ad esempio gli mostra la lettera t e gli dice: “Ascolta. Senti se ci sono delle t mentre dico queste parole: tavolo, vite, gatto, caduto?”. E’ importante scegliere parole nelle quali il bambino possa sentire il suono della lettera in esame  in posizioni diverse, e non solo all’inizio.
Poi si può chiedere al bambino di pensare a parole che contengano i suoni che ha imparato nella lezione, ad esempio dicendo: “Se ti vengono in mente parole con t o con a, vieni a dirmele”.

Uso delle lettere smerigliate Montessori (o alfabeto tattile) – Variante di presentazione

Parte uno: scegliete tre lettere, ad esempio a, t, s. Usando indice e medio insieme, seguite il contorno della prima lettera rispettando la direzione nella quale viene normalmente scritta, e pronunciandone il suono mentre lo fate. Mettete poi la lettera davanti al bambino e invitatelo a seguirne il contorno come avete fatto voi pronunciando anche lui il suono corrispondente. Presentate allo stesso modo anche le altre due lettere,  ma senza formare sillabe o parole, per il momento.

Parte due: chiedete al bambino di mostrarvi la t (pronunciando il suono e non il nome della lettera, cioè dicendo t, e non “ti”). Ripetere per le altre due lettere scelte. Se il bambino indica le lettere corrispondenti ai suoni in modo corretto, rinforzarlo dicendo ad esempio “Sì, questa è la t”.

Parte tre: indicate una lettera e chiedete al bambino: “Questa che è lettera è?”. Se il bambino pronuncia il suono corretto, ripetere “Sì, questa è la t”, quindi passare allo stesso modo alle altre lettere presentate.

Potete interrompere la lezione in qualsiasi momento, se vedete che il bambino è stanco. La cosa più importante è che il bambino ascolti bene i suoni, guardi con attenzione, e tracci le lettere pronunciando correttamente i suoni corrispondenti. Tracciare le lettere è parte integrante dell’esercizio, per questo le lettere smerigliate non sono sostituibili con lettere stampate che non permettono la stessa esperienza tattile.

Può succedere che un bambino abbia già imparato i nomi delle lettere prima che voi gli proponiate questo metodo; in questo caso sarà importante spiegargli che ogni lettera ha un nome ma ha anche un suono, e che siccome lui conosce già i nomi, ora ne conoscerà i suoni. Si dovrà durante la lezione fare attenzione a che il bambino usi sempre il suono della lettera presentata e non il nome…

Uso delle lettere smerigliate Montessori (o alfabeto tattile) – Qualche video:




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Metodo Montessori per l’apprendimento della scrittura e della lettura

Metodo Montessori per l’apprendimento della scrittura e della lettura – Maria Montessori, fin dall’inizio del suo lavoro nel 1900, notò che imparare a scrivere  è un problema dell’adulto, convinto che l’apprendimento dell’alfabeto debba costare grande fatica. Scoprì invece che per i bambini è un divertimento occuparsi delle lettere, se solo avviene al momento giusto.

Osservò che l’interesse per la lettura e la scrittura non comincia con l’inizio della scuola. Fin dall’età di due o tre anni il bambino si rende conto che per gli adulti scrivere è di grande importanza e così cerca di imitarli scarabocchiando sulla carta e leggendo poi a voce altra quello che crede di aver scritto.

Dopo un poco il bambino scopre che non basta semplicemente scarabocchiare, ma che bisogna tracciare determinati segni, allineati uno vicino all’altro, che poi possono essere letti.

Per giungere a questo si mettono a disposizione del bambino le lettere tattili. Soprattutto i piccoli si divertono molto nel sentire un suono e insieme vedere e toccare il misterioso segno che gli corrisponde.

photo credit: http://kidkenmontessori.com/product_info.php?cPath=48&products_id=383 
 
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Questo modo di prepararsi a scrivere, fatto di movimento e di esperienza sensoriale, è particolarmente interessante per il bambino piccolo mentre a sei anni la scrittura delle lettere non segue lo stesso processo spontaneo.
In prima elementare può essere utile una tabella delle lettere da mettere a disposizione di ogni bambino.

 
photo credit: http://crisblogmeumundo.blogspot.com/2008/11/alfabeto-e-silabrio-simples.html

Il secondo alfabeto figurato è fatto a tasche in modo che, grazie a una vasta offerta di lettere e di materiale illustrativo, il bambino possa inserire figure la cui iniziale corrisponda a quella della tasca.
In questo modo impara molto presto a memorizzare le lettere.

Inoltre compone parole con l’alfabeto mobile, usa i timbri, scrive alla lavagna con il gesso, o con le matite su di un grande foglio di carta.

In principio scriverà la parola come la sente pronunciare, ad esempio mama, papa, nona, nono. Altri scrivono addirittura interi messaggi: cometiciami (come ti chiami) o simili.

A questo stadio il comportamento dell’adulto è di enorme importanza. Spesso non si riesce a resistere quando i bambini, nei loro tentativi grafici, seguono percorsi personali o addirittura fanno deviazioni e procedono in maniera del tutto diversa gli uni dagli altri.

Molti adulti tendono ad intervenire con impazienza per dire al bambino che ha fatto qualcosa di sbagliato; gli propongono percorsi “migliori”, più precisi e veloci.

Il bambino però aveva manifestato la sua conoscenza dei suoni e dei segni acquisita con fatica, e ne era fiero.
In questo modo comincia a dubitare dei propri processi di apprendimento e di percezione e forse smette anche di scrivere.
Nella fase della scrittura spontanea dovremmo partecipare con gioia alla gioia del bambino, e non bloccarla per paura che commetta errori.

Dal momento che i bambini spesso chiedono che si legga a voce alta quello che hanno scritto, è doveroso farlo con esattezza, poichè questo offre un aiuto alla comprensione sia per il bambino sia per noi adulti. Se con tono allegro leggiamo “mama”, è facile che il bambino dica: “Ma io volevo scrivere mamma!”. Allora si aggiunge un’altra lettera emme.

In questa fase è importante preservare la fiducia del bambino. Per costruirla è sufficiente ricordare quanto abbiamo gioito delle prime parole e delle prime frasette del bambino dette nel primo anno di vita: a nessuno verrebbe in mente di proibire o di correggere le parole sbagliate a un piccino che comincia a parlare.

Gli adulti dovrebbero piuttosto prender nota delle parole inventate dai bambini, poichè vi si scopre un’ingegnosità che spesso noi adulti abbiamo perduto.
Le divergenze fra la lingua infantile e quella degli adulti non sono da considerarsi scorrette, ma solo tappe verso la lingua “normale”.

Allo stesso modo, nella conquista della lingua scritta, gli adulti dovrebbero riconoscere nel cometiciami una vera prestazione del bambino in una determinata fase di sviluppo, e non considerarlo un errore rispetto alla “scrittura normale”.

D’altra parte c’è da stare tranquilli: i bambini infatti abbandonano ben presto lo stadio della trascrizione fonetica, poichè fanno nuove esperienze e imparano nuove regole dello scrivere. E’ necessario però fare loro offerte adeguate.

Noi non dobbiamo occuparci se il bambino, nello svolgimento del processo, imparerà prima a leggere o a scrivere e se gli sarà più facile l’una o l’altra cosa; questo noi lo dobbiamo attendere dall’esperienza senza alcun preconcetto, anzi aspettandoci probabili differenze individuali nello svolgimento prevalente dell’uno o dell’altro atto.
Ciò permette uno studio di psicologia individuale assai interessante e la continuazione dell’indirizzo pratico del nostro metodo, che si fonda sulla libera espansione dell’individualità“. Maria Montessori, La scoperta del bambino.

Il linguaggio

Il linguaggio è un elemento fondamentale per la società umana e gli individui. Le persone non possono vivere senza comunicare, e la civiltà umana non può sopravvivere se l’uomo non usa il linguaggio per tramandare il pensiero collettivo. Le persone usano la lingua per esprimere sentimenti, pensieri, idee e desideri, e per ricevere informazioni da altri. Attraverso la lingua possiamo creare amore, odio e tutte le sfumature che stanno in mezzo. Il linguaggio è molto  più del leggere e dello scrivere.

Maria Montessori definì il linguaggio come “espressione di accordo fra un gruppo di uomini, che può essere capito solo da quelli che sono d’accordo col fatto che determinati suoni rappresentano determinate idee. E’ lo strumento del pensare insieme”.

Il linguaggio è l’essenza dello sviluppo del bambino, perchè lo rende capace di comunicare con gli altri, e perchè è un’espressione dello spirito umano.

Quando un bambino è in grado di parlare, ascoltare, scrivere e leggere, è pronto per accedere alla conoscenza ed esplorare la civiltà umana da solo!

Ma prima che lui possa farlo indipendentemente, ha bisogno di una guida che lo aiuti ad esplorare il linguaggio.
Maria Montessori osservò che il bambino è interessato prima di tutto alla voce umana, ed emette prima delle sillabe, poi parole di più sillabe, poi afferra la sintassi e la grammatica, applicando al linguaggio genere e numero, tempo verbale e tono sentimentale.

Maria Montessori osservò che il periodo sensibile del linguaggio dura dalla nascita ai 6 anni:
nascita – 1 anno: il bambino è sensibile ai suoni, guarda ed ascolta
1 – 2 anni: il bambino è sensibile alle parole, e comincia ad usare parole semplici
2 – 3 anni: il vocabolario del bambino aumenta in modo impressionante (circa da 300 a 1000 parole)
4 anni: è il periodo sensibile per l’apprendimento della scrittura
4 – 5 anni e mezzo: il bambino impara a classificare le parole e leggere
5 – 6 anni: il bambino è sensibile allo studio delle parti del discorso ed all’uso delle parole.

In ognuno di questi periodi il bambino ha dei compiti da realizzare dettati dal potere interno che lo guida all’apprendimento del linguaggio verso il raggiungimento della perfezione. L’insegnante deve saper osservare i bisogni del bambino e seguire le sue necessità offrendogli l’aiuto di cui ha bisogno, utilizzando un approccio indiretto.

Deve preparare il bambino a raggiungere le sue mete di apprendimento con un atteggiamento positivo, sicuro di sé e delle proprie capacità, tenendo vivo l’interesse ad imparare che poi lo accompagnerà per tutta la vita.
Il linguaggio nella scuola non viene curato come materia a sè, ma tutte le attività vanno ad alimentare naturalmente lo sviluppo delle abilità richieste per imparare la lingua, scrivere e leggere.

Con le attività di vita pratica il bambino sviluppa il controllo del movimento e la coordinazione occhio-mano (pulire la tavola, abbottonarsi, levigando oggetti, ecc…).

Con le attività sensoriali si sviluppano le capacità di percezione, discriminazione uditiva e visuale, abilità di comparare e classificare, il movimento fine, la leggerezza del tocco, ecc.. Tutte queste abilità sono fondamentali per la preparazione alla lettura ed alla scrittura.

Lo sviluppo del linguaggio continua con i libri, le attività di gruppo (canto, teatrini, giochi cantati), la conversazione di gruppo, l’arricchimento del vocabolario (materiali di nomenclatura, schede illustrate, ecc).

Quando l’insegnante è sicuro che il bambino è consapevole dei suoni presenti nelle parole, presenta l’alfabeto tattile. I sensi della vista e del tatto del bambino sono molto sensibili verso i 3 anni e mezzo di età, ed il bambino è in grado senza fatica di sviluppare una memoria muscolare in relazione ad ogni lettera. In questa fase non si incoraggia la scrittura, si tratta solo di un’esplorazione del suono e della forma.

Quando il bambino conosce circa 10 lettere, è pronto per l’alfabeto mobile.
Il bambino comincia a voler scrivere anche senza alfabeto mobile, e scriverà come parla, per cui non sillaberà correttamente, perchè sta utilizzando il suo proprio modo di analizzare le parole, sta esprimendo il suo modo personale di percepirle. Non va corretto, mai in questa fase. Il processo è più importante del prodotto finito.

Contemporaneamente si possono presentare al bambino i materiali per la lettura (scatola dei segreti, ecc…), in accordo con quelli che sono i suoi desideri.

Facendo fare al bambino molte esperienze di lettura e scrittura, egli capirà che scrivere significa codificare i pensieri. Il suo vocabolario orale è ora il suo vocabolario di lettura.

Poi si presenta al bambino la funzione delle parole e durante questa fase il bambino legge da solo.

Più tardi si dà avvio alla grammatica, alla lettura avanzata ed alla scrittura creativa.

L’apprendimento del linguaggio è un processo che dura per tutta la vita, ma i primi anni sono la formazione di base.

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