LA FAMIGLIA dettati ortografici e letture

LA FAMIGLIA dettati ortografici e letture
Quadretti familiari: preparativi

A volte la sera, in montagna, mio padre si preparava per gite o ascensioni. Inginocchiato a terra, ungeva le scarpe sue e dei miei fratelli con del grasso di balena; pensava che lui solo sapeva ungerle le scarpe con quel grasso. Poi si sentiva per tutta la casa un gran rumore di ferraglia: era lui che cercava i ramponi, i chiodi, le piccozze.
“Dove avete cacciato la mia piccozza?” tuonava, “Lidia! Lidia! Dove avete cacciato la mia piccozza?”
(N. Ginzburg)

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Quadretti familiari: a passeggio con papà

Mio padre… mi portava ogni domenica, fin da bambino, fuori di porta.
Si andava via doli dopo mangiato, senza parlare, il babbo sapeva certe strade solitarie, deserte, fuori mano, dove si camminava adagio per ore intere e senza incontrare un’anima. Non sempre, veramente: qualche volta ci s’imbatteva in un prete, in un contadino, in una vecchia. Ci salutavano e si tirava di lungo.
Il babbo era quasi sempre sovrappensiero; io ruminavo fra me… ingenui abbozzi di idee. Ma guardavo.
(G. Papini)

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Quadretti familiari: la mamma piccina
Mi rammento che, quando ero stanco di correre, andavo a sedermi davanti alla tavola del tè sul mio alto seggiolino. Era già tardi… e gli occhi mi si chiudevano dal sonno; ma non mi muovevo: restavo lì fermo e ascoltavo. Come non ascoltare? La mamma parla con alcune persone…
La guardo fisso fisso con gli occhi offuscati dal sonno e ad un tratto ella diventa piccina piccina: la sua faccia non è più grande di uno dei miei bottoni, ma la distinguo nettamente e vedo che mi guarda e mi sorride… Chiudo ancor più le palpebre, ed ella diminuisce, diminuisce…
Ma, ecco, mi sono mosso e l’incanto è rotto. Chiudo ancora gli occhi, cambio posizione, faccio di tutto per richiamare quell’immagine, ma non ci riesco…
(L. Tolstoj)

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Quadretti familiari: lo zio

La piccina ordinò allo zio di sedere e gli si arrampicò sulle ginocchia. “Perchè sei venuto?” disse ella. “Non c’è mica, sai il pranzo per te”.
“Me lo farai tu il pranzo. Son venuto per stare con te”.
“Sempre?”
“Sempre.”
“Proprio sempre sempre sempre?”
“Proprio sempre sempre.”
Maria tacque pensierosa. Poi domandò: ” E che cosa mi hai portato?”
Lo zio si levò di tasca un fantoccio di gomma.
“E’ brutto questo regalo” dissuggella ricordando di altri dello zio. “E se resti qui non mi porti più niente?”
“Più niente”.
“Va’ via, zio” diss’ella.
Lo zio sorrise.
(A. Fogazzaro)

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Quadretti familiari: il fratellino minore
L’ho davanti a me, piccolo, nero, vivo come un razzo. Era come una trottola: no, come un ciottolo lasciato che appena si derma, cade lungo disteso per terra. Dove arrivava si arrampicava e arrivava da per tutto. Non capisco come mai un bimbo così piccolino riuscisse a mettere l’una sull’altra tante sedie e sgabelli; ma ci riusciva, si arrampicava e appena arrivava in cima alla catasta rovinava giù con un fracasso indiavolato, che faceva accorrere spaventate tutte le donne di casa.
Cascava dalla tavola, dal letto, dai bauli, ruzzolava giù per le scale dieci volte al giorno, sì che aveva la fronte e il capo gonfi di bernoccoli.
(V. Brocchi)

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Quadretti familiari: il lume dell’altra casa
Fu una sera, di domenica, al ritorno da una lunga passeggiata. Tullio Buti aveva preso in affitto quella camera da circa due mesi. La padrona di casa, signora Nini, buona vecchietta all’antica, e la figliola ormai zitellina appassita, non lo vedevano mai. Usciva ogni mattina per tempo e rincasava a sera inoltrata. Sapevano che era impiegato  al Ministero di Grazia e Giustizia; che era anche avvocato; nient’altro. La cameretta, piuttosto angusta ammobiliata modestamente, non serbava traccia dell’abitazione di lui. Pareva che di proposito, con studio, egli volesse restarvi estraneo, come in una stanza d’albergo. Aveva sì, disposto la biancheria nel cassettone, appeso qualche abito nell’armadio; ma poi, alle pareti, sugli altri mobili, nulla: né un astuccio, né un libro, né un ritratto; mai sul tavolino qualche busta lacerata; mai su qualche seggiola un capo di biancheria lasciato, un colletto, una cravatta, a dar segno che egli lì si considerava in casa sua.
(L. Pirandello)

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Quadretti familiari: Geppetto fa il burattino Pinocchio
Dopo la bocca gli fece il mento, poi il collo, le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani.
Appena finite le mani  Geppetto sentì portarsi via la parrucca dal capo. Si voltò in su, e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in mano al burattino.
“Pinocchio!… rendimi subito la mia parrucca!”
E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la mise in capo, rimanendovi sotto mezzo affogato.
A questo sgarbo insolente e derisorio, Geppetto si fece triste e melanconico, come non era stato mai in vita sua: e voltandosi verso Pinocchio gli disse: “Birba d’un figliolo! Non sei ancora finito di fare e già cominci di mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male!”
E si asciugò una lacrima.
(C. Collodi)

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Composizione del nucleo familiare

Come ti chiami?
Come si chiama il tuo papà?
E la tua mamma?
Hai fratelli e sorelle? Quanti? Qual è il loro nome?
Ci sono altri parenti che vivono con te? Chi sono? Come si chiamano?

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Aspetto dei familiari

Osserva bene ciascuna persona della tua famiglia; com’è?
Che statura ha? (Alta, bassa, normale)
Com’è la sua corporatura? (Robusta, normale, sottile)
Di che colore sono i suoi capelli? Come sono? (Ricci, ondulati, lisci)
E i suoi occhi quale colore hanno?
Com’è la sua voce?
Osserva ognuno dei tuoi familiari quando mangia, quando parla, quando ascolta, quando legge, quando scrive, quando riposa: ha qualche speciale abitudine? Compie qualche gesto caratteristico? Quale?
Quali sono i membri della tua famiglia che si assomigliano di più? In che cosa si assomigliano?

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Storia della famiglia

In che anno è nato ciascun membro della tua famiglia?
C’è qualcuno tra i tuoi zii o zie paterni e materni che sia sposato? Ha figli? Quanti? Conosci il nome di tutti i tuoi cugini?
Quali sono i parenti che vengono più spesso a farti visita? Sei contento quando vengono da te? Tu vai spesso a trovarli? Se stai molto tempo senza vederli, sei contento quando vai da loro o essi vengono da te? Che fai quando sei in loro compagnia? Quali sono i tuoi parenti per i quali provi più simpatia?

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Affetti familiari

Vi sono momenti della giornata in cui la tua famiglia si trova tutta riunita? Quando? Quale di questi momenti è quello che tu preferisci? Sei contento quando i tuoi familiari sono riuniti intorno a te? Se qualcuno di loro è assente, ti dispiace?
I tuoi familiari sono sempre contenti di ciò che tu fai?
Nella tua famiglia si usa ricordare gli onomastici e i  compleanni dei vari membri? In che modo? Hai mai avuto occasione di fare dei doni ai tuoi genitori o ai tuoi fratelli? Come li hanno accolti? E tu, ne ricevi spesso di doni? In quali occasioni? Sei più contento quando li ricevi, i doni, o quando li fai?

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Il lavoro dei familiari

Quanti sono i tuoi familiari che lavorano? Quali sono? Quale lavoro svolge ognuno di essi?
A che ora cominciano il lavoro? A che ora finiscono? Per recarsi al lavoro indossano un tenuta da lavoro? Com’è?
Dove lavorano? Il luogo dove lavorano è vicino a casa o è lontano? Di quale mezzo si servono per recarvisi?
Cosa fanno quando tornano dal lavoro? Sono stanchi? Tu fai qualcosa per aiutarli? Che cosa?
Hai mai osservato quanti lavori compiono in casa nel corso di una giornata? Prova ad elencarli.
Avanza loro molto tempo per riposare? Sono stanchi, quando è sera? Tu li aiuti nel corso della giornata? In che modo? Quando ti chiedono di aiutarli lo fai volentieri oppure ti fai pregare per accontentarli?
Qual è il lavoro dei tuoi zii? Hai anche dei cugini che lavorano? Qual è il loro lavoro?
Perchè lavorano il tuo papà, la tua mamma, i tuoi fratelli? A che serve il loro guadagno? Anche tu dovrai andare a lavorare da grande? Quale lavoro ti piacerebbe fare? Perchè?
Anche ora che sei un bambini, hai dei lavori da svolgere? Quali? Qual è il lavoro di un bambino che va a scuola? E’ importante farlo bene, questo lavoro? Perchè?

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La mia famiglia

La mia è una famiglia felice perchè rispetta il prossimo, non guarda mai nella cassetta delle lettere degli altri, e prima di stendere la biancheria, avverte sempre i vicini del piano di sotto. In casa si dice che bisogna avere rispetto degli altri, perchè le famiglie sono come delle tessere di un grande mosaico, che rappresenta l’umanità. Se una tessera è guasta oppure stonata, si vede subito, e allora bisognerebbe cambiarla. E per essere delle famiglie per bene, ci vuole il rispetto reciproco dei genitori, l’obbedienza dei figli e la carità verso i vecchi, che sono un poco come i bambini. Nella mia famiglia ci sono tutte queste cose, ed esistevano già quando io non c’ero ancora e i miei genitori erano giovani e non avevano figli. Il mio papà dice sempre: “Una famiglia onesta e dignitosa fa la stessa figura di uno stato potente e ben organizzato; perchè uno stato potente e organizzato non è altro che la somma di tante famiglie come la nostra”.
Siamo proprio una famiglia felice: cinque persone che si vogliono tutto il bene del mondo: papà, mamma, io, la nonna di ottant’anni che sferruzza ancora tutto il giorno senza portare gli occhiali, e quel frugoletto di Paolino che ha appena quattro anni e combina già tante marachelle. I capi della ‘tribù’ (una parola che piace tanto alla mamma) sono il papà e la mamma. Il papà va in Municipio per le pratiche, in Farmacia per le medicine, e quando fa il turno di notte (lavora in una fabbrica di automobili), impiega tutta la mattina a far la spesa al mercato. La mia cara mamma ha folti capelli annodati sulla nuca e due fossette sulle guance. E’ alta, ben piantata (non ha timore di ingrassare); è proprio una bella mamma. La nonna invece, con un dente solo e tutti i capelli bianchi, è minuta come una bambola, e certe volte sembra proprio che i vestiti camminino da soli.  Non sente più niente, neanche se le bombardassi le orecchie con un megafono. Sorride sempre, mostrando il dente, e sferruzza: calze, magliette, per me, per il babbo, per Paolino. Ride, non sente e sferruzza: la sua giornata è quella. “Sia benedetta quella donna” dice sempre il babbo, “portatele rispetto. Se non ci fosse stata lei, non ci sarei io, e non ci sareste neppure voi”.
L’ultimo in graduatoria è Paolino: quattro anni, l’argento vivo addosso, dei dentini che se ti mordono lasciano il segno blu per dieci minuti, e una cascata di perchè. Perchè questo, perchè quello.
La mia famiglia è arrivata due anni fa dal sud. Prima abitavamo fuori città in una casupola che era servita da stalla per le mucche. Ci ridevano sempre dietro, perchè il babbo non parlava l’italiano. Adesso siamo in città, e la nostra casa è un alloggetto all’ultimo piano di un grattacielo. Alcuni la chiamano soffitta, ma invece è un tale paradiso di sole, che sembra di essere ancora a Sorrento. Non paghiamo l’affitto  perchè la mamma se lo guadagna pulendo le scale di tutta la casa. Uno scalino, due scalini, trecento scalini; e tutte le porte con la targa di ottone e uno spioncino che serve agli inquilini per vedere chi preme il campanello. Affitto gratuito, dunque, e molti regali a Natale.
Il babbo lavora in fabbrica, una settimana di notte, l’altra settimana tra mattina e pomeriggio. Quando fa il turno di notte, la giornata è più serena perchè a pranzo di siamo tutti. Le altre volte io mi siedo al suo posto.
Adesso che ci siamo ambientati (quanta fatica in principio, specie d’inverno, senza cappotto e col mio dialetto che non lo capiva nessuno…) la vita è proprio bella. Ridiamo sempre, specie se ci siamo tutti, e talvolta vengono dei signori del palazzo a trovarci perchè dicono che “si respira aria pura, come ai tempi d’una volta”.
E’ proprio vero. Papà e mamma,  sono sempre stanchi, ma sorridono. Paolino è un incosciente che si mordicchia il pollice tutto il giorno, dandoci una montagna di soddisfazioni. A poco a poco la nostalgia del nostro cielo e del nostro mare ci sta lasciando. Anche qui è molto bello, nonostante le ciminiere che mandano fumo.
Dimenticavo una cosa molto importante; da quando è nato Paolino, c’è una signora che non vuole rivelare il suo nome, la quale tutti i mesi consegna una busta di soldi alla mamma. E’ una benefattrice, e quel denaro cade proprio al punto giusto. Paolino non lo capisce ancora, ma quando sarà più alto, avrà tutti i suoi buoni motivi per ringraziare la provvidenza. Per intanto, tutte le volte che arriva la busta, gli regaliamo un confetto speciale ed egli se lo conficca tutto in bocca per grande che sia. Il babbo se lo guarda per delle ore, ripetendo fino alla noia: “Tutto suo nonno, guarda, mamma, come gli somiglia; tutto suo nonno. Se fosse ancora vivo, sarebbe ancora più bello…”. Poi afferra Paolino tra le braccia, se lo stringe a lungo e mormora fra sè: “Contentiamoci, contentiamoci… siamo fortunati”.
(M. Fracchia)

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Il corpo umano OSSA E MUSCOLI materiale didattico

Il corpo umano OSSA E MUSCOLI materiale didattico
Domande per la conversazione e per il lavoro di ricerca
Perchè il nostro corpo può tenersi ben eretto?
Come si chiamano quegli organi che permettono all’uomo di muoversi e compiere degli sforzi?
Quando sollevi un peso la parte superiore del tuo braccio si gonfia e si irrigidisce.
Noi abbiamo i muscoli soltanto nelle braccia e nelle gambe?
Secondo te ci sono dei muscoli che si contraggono anche quando noi non lo vogliamo?
Per conservare in piena efficienza i muscoli, occorre esercitarli con regolarità e moderazione, praticando ginnastica e sport. Quale sport pratichi?
Sai dire che cos’è una frattura?
Quali norme igieniche devi osservare per mantenere alla tua colonna vertebrale una eretta posizione?
Che cosa sono i muscoli? Quali forme possono avere? Qual è la principale proprietà dei muscoli? Quale funzione fondamentale compiono? Che cosa sono i tendini?
A che cosa servono i muscoli? Perchè alcuni si dicono volontari e altri muscoli involontari? Sai indicare alcuni muscoli volontari e alcuni muscoli involontari?
Quali funzioni ha e da quali parti è costituito lo scheletro dell’uomo?
Quali forme possono avere le ossa?
Come possono essere le articolazioni delle ossa?
Quali sono le principali ossa di ciascuna parte del corpo?
In caso di frattura delle ossa, come occorre comportarsi?

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Funzioni dello scheletro

Il corpo è sostenuto da circa duecento ossa che, tutte insieme, formano lo scheletro. Lo scheletro è l’impalcatura del nostro corpo. Esso assolve tre funzioni fondamentali: permette di tenere la posizione eretta; protegge le parti molli e delicate del nostro organismo (come il cervello, il cuore, i polmoni); consente di compiere i movimenti mediante l’azione dei muscoli.
(G. Petter)

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Tipi di ossa

Nel nostro corpo distinguiamo tre tipi di ossa: le ossa lunghe (come, ad esempio, quelle delle braccia e delle gambe); le ossa piatte o larghe (come quelle del cranio e della faccia); le ossa corte (come quelle dei polsi).
Nelle ossa lunghe è contenuto il midollo osseo, una sostanza molle e molto ricca di vasi sanguigni. Parte del midollo è destinata alla produzione dei globuli rossi del sangue.
(G. Petter)

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Lo scheletro del capo

Lo scheletro viene diviso in tre parti:
1. scheletro della testa
2. scheletro del tronco
3. scheletro degli arti (cioè delle braccia e delle gambe).
Lo scheletro della testa è formato dalle ossa del cranio e dalle ossa della faccia. Il cranio è una robusta scatola  ossea che contiene e protegge il cervello, il cervelletto e il midollo allungato. Le ossa della faccia sono quattordici e solo una di esse è mobile: il mascellare inferiore o mandibola.
(G. Petter)

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Lo scheletro del tronco

Lo scheletro del tronco comprende la colonna vertebrale e la gabbia toracica.
La colonna vertebrale è composta da 33 vertebre, a forma di anelli, sovrapposte e separate tra loro da piccoli cuscini o, più precisamente, da dischi di sostanza meno dura di quella ossea. Nella colonna vertebrale è racchiuso e protetto il midollo spinale.
La gabbia toracica è formata dalle costole e dallo sterno. Le costole sono dodici paia di ossa piatte articolate con le vertebre dorsali. Le prime sette paia di costole si dicono costole vere o sternali perchè si attaccano direttamente allo sterno, un osso piatto che si trova nella parte anteriore del torace. La gabbia toracica protegge il cuore e i polmoni.
(G. Petter)

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Lo scheletro degli arti

Gli arti sono distinti in arti superiori (le braccia) e in arti inferiori (le gambe). Gli arti superiori si uniscono al tronco con il cinto scapolare o toracico. Esso corrisponde alla spalla ed è formato da due scapole e da due clavicole.
Il braccio è diviso in cinque parti: il braccio vero e proprio formato dall’omero; l’avambraccio formato dall’ulna e dal radio; il polso con ossa del carpo; la mano con le ossa del metacarpo; le dita con le falangi.
Gli arti inferiori si uniscono al tronco con la cintura addominale o bacino.
La gamba comprende: la coscia con l’osso del femore; la gamba con la rotula, la tibia e il perone (o fibula); il tallone con le ossa del tarso; il piede con le ossa del metatarso; le dita con le falangi.
(G. Petter)

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Le articolazioni

Le ossa sono connesse tra loro mediante giunture o articolazioni.
Esse possono essere di tre tipi, secondo le funzioni che sono destinate a compiere. Per esempio, le articolazioni del ginocchio o del femore, che permettono ampi movimenti degli arti inferiori, si dicono articolazioni mobili.
Le articolazioni della colonna vertebrale e quelle che si trovano tra le costole e lo sterno, che concedono solo limitati movimenti, si chiamano articolazioni semi-mobili, cioè mobili solo per metà.
Le articolazioni delle ossa del cranio, che non tollerano nessun movimento, si dicono articolazioni immobili.
(G. Petter)

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La colonna vertebrale

Piegate un braccio dietro la schiena. Allungate la mano, dietro, fino in mezzo alle spalle; ora scendete verso il basso, sempre scivolando con le dita lungo la metà della schiena. Sentite? Sembra di scivolare con le dita lungo una fila di palline. Ognuno di questi piccoli nodi duri che sentite è una vertebra.
Quella che voi sentite con le dita è la spina dorsale, cioè l’insieme delle punte delle vertebre, le quali sono sovrapposte le une alle altre e formano la colonna vertebrale.
Alla colonna vertebrale sono collegate le altre ossa del nostro corpo.
La vertebra più in alto della colonna vertebrale regge la testa. Le vertebre del collo si muovono facilmente e fanno muovere la testa.
(G. Petter)

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Perchè le dita della mano possono toccarsi e quelle del piede no?

Osserva la tua mano contro la luce di una forte lampadina: la carne appare rosea e quasi trasparente; si vedono anche le ossa delle dita, più scure. Piega una ad una le dita della mano; nella mano ci sono tanti ossicini collegati l’uno all’altro, che permettono di fare tanti movimenti; muovendo le ossa della mano, riusciamo a toccare col pollice tutte le altre dita.
Per questo con la mano possiamo fare tante cose; la mano può servire come pinza, come martello, come pala…
Osserva invece il piede; si sono molti ossicini anche qui, ma il pollice non riesce a toccare le altre dita; con il piede non possiamo prendere oggetti, il piede serve solo per camminare ed è la base su cui poggia tutto il nostro corpo; infatti, per dire ‘ stare dritti’ diciamo ‘stare in piedi’.
Avete mai provato a far stare in piedi una figura di cartone?
Più grande è la figura, più grande deve essere la base su cui si appoggia.
I piedi sono la nostra base. Più alto è un uomo, più lunghi sono i suoi piedi. Ogni anno, via via che crescete, la mamma vi deve comprare scarpe più grandi.
(G. Petter)

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Lo scheletro degli animali

Il nostro scheletro è simile a quello degli altri mammiferi. Nonostante questi abbiano (generalmente) quattro zampe, notiamo che in essi la disposizione delle ossa è simile alla nostra.
Dato il grande sviluppo del cervello, la fronte dell’uomo è molto più pronunciata che negli altri animali.
In molti mammiferi terrestri le dita, sia degli arti anteriori, sia degli arti posteriori, sono talvolta saldate, a due o tre insieme, con le unghie trasformate in zoccoli (come nel cavallo e nei bovini).
Nei cetacei gli arti anteriori sono trasformati in pinne e gli arti posteriori mancano; la coda è formata dalla pelle.
Nei pipistrelli le dita della mano sono molto grandi rispetto al corpo; servono a sostenere una membrana che sembra un’ala.
In molti animali (come il gatto, la lepre, il coniglio, il canguro e, tra gli anfibi, la rana) gli arti posteriori sono molto più sviluppati di quelli anteriori: si tratta di animali che procedono a salti e possono compiere lunghi balzi.
Negli animali acquatici, sia mammiferi (foca, lontra, castoro) sia uccelli (oca, anatra) sia anfibi (rana) sia rettili (tartaruga), le dita sono unite da una membrana palmare.
Nei pesci gli arti anteriori e posteriori sono trasformati in pinne; negli uccelli gli arti anteriori sono trasformati in ali. Le ossa degli uccelli, estremamente porose, sono collegate con sacche di aria. Ciò contribuisce a conferire leggerezza ai volatori. Inoltre, lo sterno a forma di carena dà al loro corpo una sagoma aerodinamica, atta a fendere l’aria.
Nei serpenti osserviamo che le costole, sul davanti, non sono saldate allo sterno, ma sono libere. Ciò permette snodatezza nei movimenti, indispensabile per lo spostamento perchè, com’è noto, i serpenti, non avendo zampe, si muovono strisciando. La mandibola dei serpenti non è articolata direttamente al cranio, ma attraverso un osso, detto osso quadrato. Questo permette ai rettili una enorme apertura boccale, che consente loro di ingoiare animali interi. Il che supplisce alla mancanza di denti.

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Che cosa sono i muscoli?
I muscoli sono la carne del nostro corpo. Noi abbiamo molti muscoli perchè moltissimi sono i movimenti che facciamo.
Prova ad aprire e chiudere gli occhi; prova ad aprire e chiudere la bocca; prova a girare la testa; mettiti seduto; corri; salta; cammina: puoi fare questi movimenti perchè i muscoli che hai nella testa, nella faccia, nel collo, nella schiena, nel petto, nelle gambe, nelle braccia, nelle mani, nei piedi, si allungano e si accorciano, si stringono e si allargano, e così mettono in movimento le ossa dello scheletro.

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I muscoli e il movimento

Noi quindi possiamo muoverci e compiere degli sforzi grazie ai muscoli che sono distribuiti in tutte le parti del nostro corpo e si possono vedere più chiaramente nelle braccia e nelle gambe. Essi hanno forme varie e sono di un colore rosso vivo.
I muscoli sono uniti alle ossa per mezzo di cordoni duri e bianchi detti tendini (e non nervi, come si dicono comunemente). Accorciandosi e distendendosi i muscoli muovono le ossa e quindi, come abbiamo detto, permettono al nostro corpo di compiere i movimenti.
Sono volontari i muscoli che obbediscono agli ordini dati dal cervello e muovono la lingua, le labbra, gli occhi, la testa, il tronco e gli arti.
Sono involontari quelli che costituiscono la muscolatura dello stomaco, del cuore, dei polmoni e degli intestini. Essi agiscono indipendentemente dalla nostra volontà.

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La forza dei muscoli

Comandati dal sistema nervoso, i muscoli lavorano ed esplicano una tale forza da stupire. Anche prendendo come esempio elementi non eccessivamente grandi quali quelli della mandibola, che servono alla masticazione, vediamo che la loro forza è molto superiore a quanto comunemente si crede.
Nel caso in cui si rompa una nocciola coi denti, esercitano una pressione che varia tra gli ottanta e i cento chilogrammi. Robustissimi e laboriosissimi, i muscoli hanno grande bisogno di assimilare nutrimento, e in particolar modo grassi e zuccheri.
Se voi fate una lunga gita in montagna o nuotate per lungo tempo o eseguite esercizi fisici faticosi, il mezzo migliore per ridare ai vostri rossi servitori l’energia necessaria è quello di mangiare una buona dose di zollette di zucchero. Lo zucchero, infatti, per quanto riguarda il lavoro muscolare, è assai più indicato della carne: infatti poco più di 170 grammi di zucchero sostituiscono vantaggiosamente oltre 700 grammi di buone bistecche.

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I muscoli negli animali

Nei mammiferi sono sviluppati i muscoli delle orecchie (che rendono mobili i padiglioni) e il muscolo pellicciaio posto sotto la pelle (che, nel caso del riccio, permette all’animale di avvolgersi a palla).
Negli uccelli volatori sono sviluppati i muscoli pettorali.
Nei serpenti e nei pesci i muscoli permettono lo strisciare e il nuoto.
Negli anfibi (rane) i muscoli delle zampe favoriscono il salto.

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Igiene del movimento

Il movimento è una necessità per il nostro organismo. Se non ci muovessimo mai, tutti gli organi si indebolirebbero e, a lungo andare, il corpo stesso finirebbe per perire.
Perchè il moto sia veramente utile, e non dannoso, occorre però tener conto di alcune norme, dettate dal buon senso prima ancora che dall’igiene.
Innanzitutto, niente strapazzi! Ogni sforzo, quando è richiesto, deve essere compiuto nella giusta misura: chi abusa delle proprie forze finisce col perderle e col danneggiare non soltanto lo scheletro e i muscoli, ma anche il cuore, i polmoni, i nervi e tutti gli altri organi del corpo, con conseguenze molto gravi.
Si riposi quanto occorre poichè il riposo giova al corpo più ancora dell’alimento: i muscoli stanchi riacquistano le forze perdute, e l’organismo è messo nelle condizioni di affrontare e superare agevolmente nuove fatiche.

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Dettati ortografici e letture sul VENETO

Dettati ortografici e letture sul VENETO
Veneto: cartina fisica
Confini: Mar Adriatico, Friuli Venezia Giulia, Austria, Trentino Alto Adige, Lombardia, Emilia Romagna
Lagune: Laguna Veneta, Laguna di Caorle
Monti: Alpi Orientali (Dolomitiche e Carniche); cime più alte: Civetta, Marmolada, Le Tofane, Cristallo, Cime di Lavaredo, Sorapis, Antelao. Prealpi Venete (Monti Lessini, Altopiano di Asiago, Prealpi Bellunesi); cime più alte: Monte Baldo, Cima Carega, Monte Grappa
Valli: Alta Valle del Piace, d’Auronzo, del Cordevole
Valichi: Pordoi, Falzarego, Monte Croce di Comelico, Mauria
Colline: Montello, Monti Berici, Colli Euganei
Pianure: Veneta, Polesine
Fiumi: Po col suo affluente Mincio, Tartaro, Adige, Brenta col suo affluente Bacchiglione, Sile, Piave con i suoi affluenti Boite e Cordevole, Livenza, Tagliamento
Canali: Adigetto, Bianco
Laghi: di Garda, di Santa Croce, di Misurina, di Alleghe
Isole: di Murano, di Burano

Dettati ortografici e letture sul VENETO
Osserviamo la cartina

Il Veneto è così chiamato dagli antichi popoli che lo abitarono: gli Euganei prima, i Veneti poi. E’ protetta al nord dalle Dolomiti e dalle Prealpi Venete che degradano dolcemente, con valli pittoresche, fino alla pianura; questa si affaccia sull’Adriatico con una zona litoranea a costa bassa, sparsa di lagune.
Solcata dai fiumi Adige, Brenta e Piave, la regione è ricca di acque; la terra è fertilissima. Appartiene al Veneto anche la riva sinistra del Lago di Garda.
Per la particolare feracità del suolo, il Veneto ha nell’agricoltura una grande fonte di ricchezza. Sui monti, i boschi danno ottimo e abbondante legname, e gli estesi pascoli permettono l’allevamento di bovini ed ovini.
Sulle colline si coltivano gli alberi da frutto e la vite, che produce i noti vini di Valpolicella, di Bardolino e di Soave.
Nella pianura si coltivano frumento, granoturco, barbabietole da zucchero e tabacco.
In provincia di Verona è curato l’allevamento dei cavalli.
Notevole è la pesca delle anguille nelle lagune; esercitata con profitto è anche la piscicoltura.

Dettati ortografici e letture sul VENETO
Sguardo d’insieme

Il Veneto era anche chiamato Venezia Euganea, nome derivato dai Colli Euganei che sorgono nel mezzo della pianura, presso Padova, e che anticamente erano vulcani.
Vulcani in questa pianura solcata in ogni senso da fiumi, da canali e da navigli più che qualunque altra parte d’Italia? Se era fondo di mare e col mare lotta ancora!
Sì, vulcani! E dovevano offrire un interessante spettacolo quelle isolette, ora colline, quando fiammeggiavano e rumoreggiavano sull’acqua.
Ora sui Colli Euganei ridono le vigne. Tutto intorno mareggiano non più i flutti salati, ma le messi biondeggianti del grano, del granoturco, o col variare delle stagioni, verdeggiano le praterie i gelseti e le canapine; oppure spiccano bruni i campi arati per la semina dell’orzo, dell’avena, della segale, del tabacco.
E quegli specchi d’acqua che brillano?
Sono le risaie.
E quelle chiazze rosee, là in quei boschi di alberi bassi e regolari, specialmente intorno a Verona?
Sembrano boschi di lillipuziani, e sono pescheti…
Verona è anche un centro agricolo di notevole importanza e ogni anno vi si tiene una fiera di cavalli che attira visitatori da tutta Italia e da fuori.
Le montagne del Cadore sono rivestite di oscure selve di abeti.
Sulla Laguna e sul mare aperto si slanciano i bragozzi a vele spiegate. Pescano migliaia di quintali di pesce l’anno, e hanno marinai che per settimane intere sanno resistere ai venti ed ai marosi fra le scogliere dell’Istria e della Dalmazia.
Centro della vita veneziana è Piazza San Marco, vasta sala marmorea, che ha per tetto il cielo, palpitante delle ali dei suoi innumerevoli colombi.

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L’alta pianura veneta
L’alta pianura veneta comincia già verso i 50 metri sul mare e sale dolcemente incontro ai colli subalpini. In certi tratti si restringe molto o quasi scompare (come al piede dei Lessini). Vi scorrono alcuni fiumi e torrenti che vengono dalla montagna. Da questi corsi d’acqua è stato diramato qualche canale e così il paesaggio della campagna ci offre anche prati da foraggio irrigati.
Lo sguardo si posa dovunque su una campagna tutta coltivata e ripartita in modo assai regolare da allineamenti di gelsi e talora d’alberi da frutto, e più ancora da alberi cui maritano le viti, e da filari meno vistosi di viti appoggiate a sostegni morti. Alternano nei campi le diverse gradazioni di verde del grano e del granoturco, dei fagioli e delle leguminose foraggere, e anche spiccano qua e là, nei campi della parte veronese e vicentina, le ampie foglie del tabacco.

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La bassa pianura veneta

Dalle vicinanze dell’Adige fin oltre il Piave, la bassa pianura veneta offre dovunque la vista di campagne ridenti e fittamente abitate. Alternano nei campi il frumento, il granoturco, la barbabietola, i fieni. Le alberature a filari dividono a riquadri il terreno, e la vite diffusissima appoggia i suoi festoni a olmi, aceri, pioppi, salici.
La presenza e la proporzione delle diverse colture variano anche secondo la fertilità del suolo, mentre le richieste del mercato hanno incoraggiato qua e là le colture orticole e più ancora l’impianto di frutteti, i quali offrono uno spettacolo magnifico specie all’epoca della fioritura.
Le abitazioni rurali sparse sono molto numerose: case in genere modeste, spesso tinteggiate di colori rosati. Spiccano qua e là alcune boarie, complessi di edifici staccati e disposti a corte più o meno aperta, con vistosità della stalla e dei grandi fienili, in quanto corrispondono a vaste aziende cerealicolo-zootecniche. Oppure fan bella mostra di sé vile signorili, spesso di singolare grazia.

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I colli Euganei

Il nome ufficiale della regione è ‘Veneto’, ma un tempo non molto lontano essa era chiamata col nome di Venezia Euganea derivato dai colli Euganei che sorgono nel mezzo della pianura, presso Padova, e che anticamente erano vulcani.
“Vulcani i colli Euganei!” direte voi, “I vulcani in questa pianura solcata in ogni senso da fiumi, da navigli e da canali più che qualunque parte d’Italia? Ma se conserva ancora, si può dire, le tracce di quando era fondo di mare, e col mare lotta ancora e quasi si confonde nelle estreme lagune!”.
Sì, i vulcani! E dovevano offrire uno spettacolo interessante quelle isolette, ora colline, quando fiammeggiavano e rumoreggiavano sull’acqua.
Ora sui colli Euganei ci sono le vigne. Tutto intorno ondeggiano non più le acque salate, ma le messi del grano e del granoturco o, col variare delle stagioni, verdeggiano le praterie, oppure spiccano bruni i campi arati per la semina dell’orzo, dell’avena, della segale, del tabacco.

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Paesaggio lagunare

Attraverso i secoli la vita delle lagune ha trovato le sue basi nell’attività peschereccia, marinara e mercantile.
La pesca offre tuttora aspetti caratteristici mentre non manca l’attività agricola sugli antichi cordoni sabbiosi dei delta, sui lidi, in alcune isole: molto concentrata, ma anche molto caratteristica, perchè intensiva e fondata essenzialmente sula vite e sugli ortaggi.
Ne sorgono così piccoli lembi di uno speciale paesaggio orticolo rappresentato in modo tipico e più estesamente intorno a Chioggia e a sud fino all’Adige, su vecchie dune spianate dall’uomo e diventate fertili con l’assiduo lavoro e le abbondanti concimazioni. Aiuole strette e lunghe, dense di ortaggi e di patate primaticce, e anche di viti, si susseguono l’una all’altra.
Una nota speciale vi portano i cannicci che in certe stagioni si stendono su sostegni inclinati, a protezione dal vento marino e dal freddo.

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Adige, re dei fiumi

Adige, re dei fiumi“: così Adriano Valerini, autore veronese del ‘500, innamorato della sua città e della sua terra, chiama il grande fiume, precisando però, che qui ci sono altre… somme autorità: “Benaco, imperador de i laghi, il Carpione, monarca de i pesci“.
Certo, il grande fiume dalle sorgenti tanto lontane, dal percorso mutevole e dalle impennate tanto furiose, ha accentrato su di sé, di volta in volta, l’attenzione, le cure, le apprensioni, la paura della terra e degli uomini di cui, in fondo, è quasi sempre il benefattore, a volte il tiranno.
Lo si vede giungere già formidabile alle Chiuse, dopo essersi impossessato di tante acque altoatesine e trentine, e arricchirsi di tutti i corsi d’acqua che scendono dai Lessini e che non hanno né tempo né spazio sufficienti per divenire fiumi. Per contenere le improvvise piene primaverili sono stati costruiti, ampliati, rinnovati, argini degni del ricordo di Dante, ma nemmeno questi, a volte, nel corso delle cento e cento inondazioni, hanno resistito. Anche Verona sa cosa significhi una piena rapida e violenta, allorché le acque, che sanno ancora di neve e di ghiaccio, urgono contro i Lungadige e dilagano verso la campagna tumultuando entro gli argini pensili e i grandi canali di deflusso.
Il fiume attraversa la città di Verona con andamento sinuoso, carezzevole, ricorda un poco il Canalazzo veneziano, quindi dopo un angolo retto sembra voler accettare la sorte di tanti altri fiumi e piega verso il Po; ma dopo Legnago, l’Adige ci ripensa, si riprende, punta energicamente verso oriente e raggiunge con una foce sue il mare.

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L’Adige non fa più paura

Da Verona in poi l’Adige è pensile e scorre fra potenti argini. Prima che gli argini venissero costruiti rappresentava un grosso pericolo per le fertili campagne che lo fiancheggiavano perchè, nei periodi di piena, gli argini denunciano infiltrazioni d’acqua che ne minacciavano seriamente la consistenza. Oggi, invece, nessuno più lo teme, perchè finalmente è stato portato a termine il canale Adige-Garda che consente di convogliare al lago le acque di esubero prima che il fiume trabocchi in pianura. Lo chiamiamo canale, ma in realtà è una galleria lunga 10 chilometri, alta 9 metri e larga 8, tutta scavata nella roccia, che parte nei pressi di Mori, a nord di Verona, e raggiunge Torbole, sulla riva orientale del Garda, dopo aver attraversato il Monte Faè.
Il vecchio Adige è diventato il più tranquillo dei fiumi e delle sue piene si sta perdendo anche il ricordo.

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Il monte Grappa

Spostiamoci ora rapidamente nel settore nord-orientale della provincia e, oltrepassata Bassano col suo celebre Ponte degli Alpini, imbocchiamo la strada che si inerpica sui brulli costoni del monte Grappa, caro alla memoria e immortalato da una canzone popolare. Per i pendii del Col d’Averto e del Col Campeggia si giunge al Campo di Solagna, la cui terrazza è strapiombante sulla profonda valle del Brenta.
Più su, a Ponte san Lorenzo, oltrepassiamo il punto della massima avanzata austriaca del 15 giugno 1918 e pieghiamo sul fianco meridionale del monte Asolone (m 1520) per risalire, tra un paesaggio carsico di impressionante squallore, fin verso i 1700 metri, dove comincia la ‘zona sacra’.
La vetta del Grappa è a 1776 metri, ma non si offre più, alla sommità, la vista delle rocce martoriate e sbriciolate dai cannoni. Oggi il vertice del monte è segnato da un’immensa gradinata che rappresenta il cimitero-ossario, sovrastato dalla Madonnina benedicente. L’occhio qui spazia sui luoghi che videro la morte di tanti combattenti e non soltanto della guerra del 1915-18. Anche durante la guerra partigiana, dal 1943 al 1945, il Grappa fu teatro di intensi rastrellamenti e di feroci rappresaglie da parte dei Nazisti e, a Bassano, il viale dei Martiri ricorda il sacrificio dei Partigiani catturati sul Grappa mentre combattevano per la libertà.

Un’alluvione del Po
Il Polesine è una terra tristemente famosa per le alluvioni del Po. Quando il fiume entra in piena per il disgelo delle nevi o per le continue piogge, le popolazioni che vivono lungo il suo corso, specie quelle prossime al delta, sono di continuo in stato di allarme. Attaccate alla loro casa, alla stalla, alla terra, guardano tra la paura e la speranza il fiume che ingrossa livido. Squadre di vigilanza vanno e vengono lungo gli argini, se ne rinforzano i tratti che sembrano più minacciati e che presentano infiltrazioni d’acqua, si approntano i mezzi di soccorso. Ma non si può prevedere né dove né quando la furia delle acque si scatenerà. L’alluvione irrompe improvvisa, in direzioni imprevedibili, dilagando nella pianura, abbattendo e distruggendo ogni cosa, tagliando la via della fuga.
E’ quanto avvenne il mezzogiorno del 15 novembre 1951, quando il Polesine fu sconvolto da una delle più tragiche alluvioni che si ricordino. Il Po ruppe gli argini nell’ansa di Pontelagoscuro, nei pressi di Ferrara, e per tre falle invase l’Alto Polesine giungendo in due giorni alle soglie di Rovigo, dirigendosi improvvisamente verso Adria, investendo Cavarzere, compiendo in cinque giorni un’avanzata di circa 60 chilometri! Le statistiche del disastro riportarono cifre impressionanti. Ma anche al dinamica dell’alluvione fu studiata in tutti i particolari. Se ne ricavarono dati che consentirono di imbrigliare le acque del fiume con opere di protezione che garantiscono un maggior margine di sicurezza.

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L’agricoltura

In Veneto l’agricoltura riveste una grande importanza. La pianura non è così fertile come quella lombarda, emiliana, piemontese. Molto elevata è la produzione di grano e di granoturco.
Nelle zone collinari e in alcuni tratti della pianura è importante la coltura della vite, da cui si ricavano vini famosi (Bardolino, Soave, Valpolicella, Prosecco).
Appena inferiore a quello lombardo è l’allevamento dei bovini; superiore è l’allevamento del pollame e la produzione delle uova.

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Il vino di Verona

La vite si coltiva in Italia da tempi antichissimi. Il disordine che portò la fine dell’Impero romano, aveva tra l’altro danneggiato grandemente anche la coltivazione di questa pianta.
Venne ripresa per impulso del Cristianesimo.
Religiosi di ogni ordine si fecero viticoltori, per la necessità di produrre il vino occorrente per la Messa.
Molti vigneti anche famosi non solo in Italia, ma anche in Francia e in Germania, furono opera di monaci Benedettini e Cistercensi.
Anche ai Barbari, che un tempo invasero la nostra terra, piaceva molto il vino. Esiste un documento storico che lo prova. Si tratta di una lettera di Cassiodoro, ministro di Teodorico, scritta all’ambasciatore a Venezia. Scrive Cassiodoro che la cantina del suo re ha bisogno di essere rifornita di vino. Ordina all’ambasciatore di acquistarne di quello prodotto nel Veronese che è il solo degno della mensa reale.
Questo documento è anche una testimonianza dell’antica fama che gode anche adesso il vino prodotto in provincia di Verona e precisamente il Valpolicella.

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Tokai e Tocai

La vite è la pianta più lieta di quella lieta regione che è il Veneto. Ed è anche intraprendente e tenace; una vera pianta veneta, insomma che si arrampica sulle montagne e sulle colline, si stende tra le coltivazioni di tutta la pianura, e dilaga nella nostra provincia, fino al mare, fino alle dune e agli arbusti scapigliati di Jesolo, di Eraclea, fino agli orti sistemati tra i cordoni dunali di Chioggia e di Sottomarina. Dove un pezzo di terra, anche piccolo così, viene bonificato, lì un vitigno arriva e attecchisce, e poi ne escono certi vini… Ogni zona, si può dire, ha un suo vino i suoi maestri del vino, perchè ancor oggi, un bicchiere di Tocai bello, buono, schietto, ancor oggi è una laboriosa opera d’arte.
“Tokai o Tocai?”, domandiamo al signor Piero, un maestro della vite, che dai suoi vigneti di Lison, un paesino piccolo così, vicino a Portogruaro, produce un Tocai malandrino, dall’apparenza innocua, dall’invitante color paglierino (solo Lison lo produce di questo colore) che ti rivela di colpo, alle orecchie e alle ginocchia, quando ormai è troppo tardi, la gradazione… pericolosa a cui può giungere!
“Tocai! Tocai!” garantisce il sior Piero, “Vino tutto nostro, che nulla ha a che vedere col vino ungherese. Forse, chissà quando, lo abbiamo mandato noi Veneti lassù!. Mentre il Tokai ungherese è dato da una combinazione di uve diverse, il nostro deriva da un vitigno solo, ma selezionatissimo: ci vuole il nostro sole, la nostra terra argillosa, che sembra povera, ci vuole la nostra cura per tutto l’anno, dalla preparazione del terreno al dosaggio dei pampini perchè il sole non sia troppo violento, e anche le nostre paure quando c’è in giro minacciosa e maligna… la ‘mare de san Piero’ in estate, che a volte, con una grandinata radente, ti lascia lì, a scherno, solo i mozziconi dei vitigni, affioranti dal suolo tra mucchi di foglie e di grappoli maciullati. E allora è una desolazione. Ma speriamo bene, stavolta, per me e per tutti perchè è così bello il raccolto!”.
E sior Piero si allontana tra le pergole perfette dalle quali pende l’ambra preziosa dei grappoli che presto diverranno raccolto.

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Le province

Capoluogo del Veneto è Venezia, una delle più belle e singolari città del mondo. E’ costruita al centro della Laguna du 118 isolette congiunte da più di 400 ponti. Dei suoi 160 canali, il più famoso è il Canal Grande, arteria principale della città, in cui si specchiano stupendi palazzi marmorei. Meta di turisti di ogni Paese, ha monumenti di incomparabile splendore: la Basilica di San Marco con la sua fantastica piazza, il Palazzo Ducale, il Ponte dei Sospiri, la Ca’ d’Oro, la Torre dell’Orologio, il Ponte di Rialto. La città è sede di importanti manifestazioni artistiche. Nei suoi limiti amministrativi rientrano Porto Marghera, centro di numerose industrie, e Mestre, importantissimo nodo di comunicazioni, cui è collegata da un ponte stradale e uno ferroviario. Notissimi sono i suoi sobborghi lagunari di Murano, di Burano, di Torcello e del Lido.
Rovigo è il capoluogo del Polesine, una regione compresa tra il Po e l’Adige, fertile ma purtroppo soggetta a inondazioni.
Verona sorge sull’Adige. E’ un importante nodo stradale e ferroviario, un grande mercato agricolo e la sede di notevoli industrie. Monumenti pregevoli sono: l’Arena, il Duomo, la Basilica di San Zeno, il Castel Vecchio con il magnifico Ponte sull’Adige, le Tombe degli Scaligeri.
Vicenza è detta la ‘città del Palladio’ in onore del celebre architetto Andrea Palladio che vi lasciò splendidi capolavori, tra cui il Teatro Olimpico, la Basilica, il Santuario di Monte Berico, la Rotonda.
Padova sorge nel cuore della pianura. E’ una città attiva, sede di notevoli industrie. E’ famosa per la sua antica Università e per i suo i pregevolissimi monumenti, quali la Basilica si Sant’Antonio, la statua equestre di Gattamelata, la Cappella degli Scrovegni, il Palazzo della Ragione.
Treviso è importante centro agricolo e commerciale. Tra i suoi monumenti sono degni di nota: il Duomo, il Palazzo dei Trecento, le chiese di San Francesco e di San Nicolò.
Belluno è una graziosa città che conserva bei monumenti: il Duomo, il Palazzo dei Rettori, la Chiesa di Santo Stefano.

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A zonzo per canali e lagune

Ritrovandomi a passare per Chioggia, un po’ per amor del pittoresco e un po’ perchè quelli son posti dove nessuno va di solito, ho voluto recarmi a Pellestrina e a San Piero in Volta, due località di pochi abitanti situate lungo la diga meridionale del sistema lagunare veneziano, quasi sospese tra acqua e cielo, a circa venti chilometri da Venezia e a una decina da Chioggia. Pellestrina si presenta bene a chi vi arriva in vaporetto. Una fila di casucce strette e rossastre, scrostate dalla salsedine, separate tra loro da calli e da piazzette, si specchia malinconicamente nell’acqua del canale come un vecchio sogno perduto.
Davanti passano continuamente, durante la giornata, oltre che i vaporetti che fan la spola da Venezia a Chioggia, i numerosi bragozzi e velieri che vi trasportano merci d’ogni genere dal fertile Polesine; e sono spesso lungi convogli e motovelieri di forte stazzatura. Il borgo si direbbe che abbia concentrato ogni sua risorsa nella coltivazione di alcuni orti situati tra il paese e la poderosa diga che lo difende dal mare. Questa diga che, qua e là interrotta, corre da Sottomarina fino al golfo di Malamocco e difende la laguna dagli assalti del mare aperto, dandole sicurezza e facilità di trasporti, è detta popolarmente ‘I Murazzi’, ed è una celebre opera costruttiva che non sarà mai abbastanza lodata e ammirata. Fu l’ultima grande creazione della Repubblica Veneta. E’ una grossa muraglia di massi d’Istria cementati con pozzolana; costo venti milioni di lire venete ed è lunga quattromila e ventisette metri.
Stando a Chioggia, nulla è più divertente che osservare la vita tacita e irrequieta che si agita sulla laguna. La quale è di continuo solcata da trasporti; vapori e pescherecci d’ogni genere, che con lo splendore delle grandi vele rossastre e istoriate sembrano tuttavia volerle serbare l’antica patetica bellezza.
(C. Linati)

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Il Po e Padova

Quando il Po, l’antico Padus, attraversava la pianura con corso molto variabile, gran parte del territorio che oggi costituisce la provincia di Padova, era occupato da acquitrini e paludi. Passarono i secoli e le acque si scavarono un letto definitivo, lasciando allo scoperto, nel loro ritirarsi, vasti lembi di terra. Appunto su uno di questi sorse Padova, che dal fiume prese il nome di Padua, latinizzato poi in Patavium. Questa, secondo l’opinione di alcuni storici accreditati, l’origine del nome Padova, che altri vorrebbero far derivare da una corruzione di ‘palus’, cioè palude.
Certo la zona doveva essere il regno delle acque, ora limpide e tranquille, ora fangose e turbolente, ora perfidamente malariche. Oggi di esse non resta che il Bacchiglione, il fiume che attraversa la città.

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Le stagioni di Verona

Due volte l’anno Verona, scuotendosi di dosso la sua bonaria e secolare indolenza, sembra quasi miracolosamente trovare il ritmo febbrile di una grande città.
La prima stagione veronese si apre con la Fiera Internazionale.
Col maturare dell’estate e del caldo, ecco la seconda grande stagione di Verona: l’Arena e gli Spettacoli Lirici. E’ questo il tempo in cui diventano familiari i nomi dei grandi musicisti (Verdi, Rossini, Puccini, Wagner), i titoli degli immortali melodrammi (Aida, Turandot, Bohème, Lohengrin), le voci e i volti dei celebri cantanti. E’ anche il tempo in cui ogni buon veronese rispolvera il suo riposto bagaglio di motivi, di ariette e di romanze o sciorina insospettate doti di critico musicale. Tra luglio e agosto, quasi ogni sera, l’Arena di Verona raduna sulle secolari gradinate migliaia di spettatori italiani e stranieri, fraternamente congiungendoli nell’incanto delle melodie e nell’amore per la musica.
Da qualche anno poi, accanto agli spettacoli lirici, Verona offre anche un ciclo di rappresentazioni teatrali. Teatro shakespeariano, naturalmente, perchè Shakespeare, grazie all’immortale favola di Giulietta e Romeo, di Verona è un po’ figlio adottivo. Alla bellezza dei suoi drammi niente sembra tanto convenire quanto la suggestiva cornice del Teatro Romano o di Piazza dei  Signori o di Castel Vecchio.
Così nel nome del lavoro e dell’arte, Verona vive con impegno e con entusiasmo i suoi giorni più belli e più internazionali: è dunque giusto che essa torni finalmente a sdraiarsi, con la grazia di una vecchia signora, lungo le anse armoniose del suo verde Adige.
(R. Bresciani)

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I libri ammalati guariscono a Praglia

A Praglia, nella monumentale abbazia benedettina, in una gran sala del Cinquecento, dotata ora di moderne scaffalature, e nel vecchio archivio al piano superiore, sono custoditi cinquantamila volumi, in varie lingue.
La millenaria tradizione benedettina d’amore per il libro è stata riconfermata, qui, con un’importante iniziativa, rapidamente conosciuta ed apprezzata negli ambienti internazionali qualificati. In un’ala del monastero è stato costruito un moderno istituto con laboratorio scientifico per il restauro del libro.
Quando arriva un malato, spiega un esperto monaco, la degenza è piuttosto lunga, in quanto il ricoverato, dopo la compilazione della cartella clinica, deve passare quasi sempre nei diversi reparti. Accertate le condizioni del libro, la sezione chimica procede alla diagnosi delle cause, che deve essere esatta per stabilire la cura appropriata.
Spesso, nei libri, e in particolare nelle pergamene, si osservano manifestazioni patologiche di natura microbica, e cioè prodotte da microorganismi che danneggiano, oltre alla scrittura, la consistenza stessa della materia. Si ricorre allora a reagenti chimici, a disinfezione in vasche speciali, in bagni di soluzioni a base di cloro o di altre sostanze adatte.
Si procede poi al restauro definitivo (lavaggio, rinforzo delle fibre con bagni rigeneratori, stiratura) e alla rilegatura. Un lavoro meticoloso, di lunga durata, che tende soprattutto alla bonifica della materia con assoluto rispetto dell’integrità dei vari elementi che compongono i libri.
Oltre un migliaio di opere, codici, incunaboli, libri rari, stampe, antiche carte geografiche e mappamondi, sono state perfettamente restaurate finora nell’istituto, che lavora attivamente per molte biblioteche pubbliche e di stato.
(U. Maraldi)

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I Veneti: sorrisi e parole

Vivono in un paese di pianura verde e rosa, e sono il più sorridente fra tutti i popoli italiani. Parlano sorridendo e mescolando il riso alle parole. Traggono un immenso piacere dal pianto, ma anche le loro lacrime sono mescolate al sorriso.  Parlano molto e senza sforzo, senza fatica. E io non penso che parlino molto perchè sono ciarlieri, ma perchè han la bocca grande e piena di parole e non san che farsene di tante parole e le spendono.
Parlano, uomini e donne, guardandoti in viso e sorridendo: e ti guardano negli occhi, con una curiosità singolare, come se si guardassero nello specchio, e intanto si toccano il viso come per essere sicuri che il viso che vedono sei tuoi occhi è il loro, non quello di un altro. Son buoni i veneti e se hanno qualcosa in loro della naturale malvagità umana, lo sfogano non in cose e fatti e detti e parole malvagie, ma in ‘ciacole’, in chiacchiere, in pettegolezzi.  E’ il paese della gentilezza, il paese sorridente, il solo paese in Italia che sa sorridere fra le lacrime.
(Curzio Malaparte)

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Mercato a Chioggia

Le banchine son ben provviste e offrono uno spettacolo di animazione vivissima. I venditori schierati lungo il vasto terrazzo urlano allegri la loro merce, tra i viavai della gente.
Cumuli di sfoglie, che hanno il bel lucido della porcellana, si alternano alle sarde dal colore metallico o alle anguille ancora guizzanti che hanno il motoso e il verdastro dei bassifondi, ai mucchi stillanti dei garusi, delle cannocchie, delle capesante dal cuore arancione, alle seppie gelatinose, ai moli, ai peoci, alle verdognole carpe squartate a mezzo.
In certi punti, tutto quel ben di dio, sembra il quadro di un pittore fiammingo. E su tutto vola l’odore acre del mare, e la festa dei gridi di richiamo.
La gente si ferma, guarda, sceglie, compra, passa via.
(C. Linati)

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Pesca in laguna

Scrisse un viaggiatore tedesco: ai giorni di festa, Chioggia sembra recinta da una legione di baionette giganti. Sono alberi, antenne, pennoni di navi, pali da sostenere le reti, pertiche da reggere nasse, cestoni, cordami; e nelle acque che circondano la città, nei canali, c’è una fitta di barche d’ogni grandezza e d’ogni foggia, arnesi galleggianti e tutto ciò che serve ad andare sull’acqua con la forza del vento e del braccio: grandi vele latine dipinte di immagini simboliche, stampate di lettere maiuscole, listate ed inquadrate con stemmi; remi enormi che due uomini muovono a fatica, e remi leggeri che le due braccia del battelliere sollevano agevolmente; ancore buone da mordere nella sabbia e nello scoglio. E insieme tutte le varietà di ordigni per la pesca, dalla vasta rete che imprigiona il pesce inconsapevole, e che, stringendosi, lo serra, lo preme, gli toglie il moto e il respiro, sino all’umile lenza che il pescatore paziente affonda nelle ore calme e ritrae carica d’un pesciolino che guizza, che si divincola e non vuol morire, sino agli arpioni per trascinare i pescecani e  i tonni, ai sacchi per le ostriche, ai canestri per la minutaglia, per il ‘pesce popolo’, che, infarinato a dovere, crepita e s’indora nelle classiche padelle dei friggitori.
(P. Gribaudi)

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La veneta piazzetta

La veneta piazzetta
antica e mesta, accoglie
odor di mare. E voli
di colombi. Ma resta
nella memoria il volo
del giovane ciclista
volto all’amico: un soffio
melodico: “Vai solo?” (S. Penna)

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La laguna veneta
E’ molto interessante visitare qualche tratto della laguna veneta, specialmente se stiamo un po’ discosti da Venezia. Per il nostro lavoro di osservazione meglio si presterebbe la laguna di Caorle o quella di Marano, in parte ancora allo stato naturale.
Ci troviamo davanti a cordoni di sabbia, più o meno lunghi più o meno ampi; a tanti canali, per i quali l’acqua del mare va a confondersi con la terraferma. Questi specchi d’acqua salmastra, noti col nome di lagune, sono soggetti ad un continuo mutamento. La laguna infatti, vista in certe ore del giorno, lascia affiorare qua e là isolotti fangosi (le velve) che poi, con l’alta marea, scompaiono totalmente. Altrove si possono notare isolotti erbosi detti barene che rimangono sempre emersi. Ma il mutamento maggiore è apportato dai detriti depositati alla foce dei fiumi, i quali, giungendo al mare con decorso assai lento per l’insensibile dislivello, non possono riversare in mare tutta l’abbondante quantità dei materiali convogliati. Si creano così davanti ai bassi fondali costieri tante zone paludose ed estesi acquitrini, che nel Veneto vengono anche chiamate col nome di valli, adibite per lo più alla pesca. L’opera di bonifica, di prosciugamento e di incanalamento di tutte queste acque, che vanno ad impantanare la fascia costiera, ha oggi in parte redento la zona, e l’ha resa meno instabile nella sua configurazione.
Un tempo la laguna si stendeva ininterrottamente da Ravenna ad Aquileia, e se Venezia non si fosse difesa contro questo progressivo insabbiamento, ora sarebbe città di terraferma, come è avvenuto per Ravenna stessa, per Adria e per tanti altri centri veneti, un tempo bagnati dal mare.
Venezia infatti ha deviato il corso del Brenta e del Bacchiglione verso sud, il Sile e il Piave verso est, ha predisposto per lo stesso grande Po un nuovo ramo di sbocco, il Po di Goro, ha eretto argini lungo le sponde dei fiumi, ha innalzato i caratteristici murazzi a difesa delle isole della laguna, insomma ha fatto di tutto per preservare la sua tipica fisionomia.
Ancora oggi il Magistrato delle acque, ente appositamente costituito a Venezia, non dorme sonni tranquilli perchè l’azione fluviale, il moto ondoso e le maree instancabilmente, anche se lentamente, compiono il loro lavoro di modellamento costiero.
E’ bene sapere come avviene il meccanismo della marea, che è uno dei tre moti a cui va soggetto il mare.
La marea è un movimento periodico che porta la massa acquea ora ad un grande innalzamento, detto flusso, ora ad un generale abbassamento, detto riflusso. Queste due fasi si alternano circa ogni sei ore al giorno, in corrispondenza del passaggio della Luna sul meridiano. Perchè occorre sapere che è proprio la Luna, con la sua forza di attrazione sul nostro pianeta (e particolarmente sulla massa liquida) quella che causa lo strano fenomeno.
A Venezia tra l’alta e la bassa marea si registra un divario di poco più di un metro, divario però sufficiente a produrre il ricambio delle acque della laguna. Se si arrestasse questo ricambio, si avrebbe una zona di acque morte.
Il fenomeno si può osservare molto bene anche su altre spiagge dell’Adriatico, specialmente in una giornata di mare tranquillo. Alla mattina presto si vede un lembo di spiaggia ben più largo di quello che si stenderà a mezzogiorno, perchè con l’alta marea le acque hanno ripreso ad innalzarsi e quindi ad invadere una più ampia fascia di litorale.
Sul nostro globo la marea raggiunge il suo massimo nella baia di Fundy, in Canada, con oltre 20 metri di dislivello tra il flusso e il deflusso.
La marea è un moto periodico, mentre le onde sono un moto variabile e le correnti un moto costante. In totale tre moti del mare.

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La piazza delle Erbe a Verona
Piazza delle Erbe a Verona è certo una delle piazze più pittoresche d’Italia che rimane nella memoria come uno spettacolo: una commedia, essa sola, di cui sarebbe facile rianimare i personaggi e farli parlare. Su questa piazza, grande come un foro, si tiene il mercato, testimonianza della vocazione della città che ha fondato la propria prosperità sulla campagna e sugli alimenti terrestri. In piazza delle Erbe, sotto un centinaio di ombrelloni, si vende una tale varietà di frutta, di ortaggi e di legumi come raramente se ne vedono radunati in così gran numero. I pomodori spargono il loro rosso squillante accanto ai limoni d’oro, ai cedri, alle angurie, alle melanzane, al verde tappeto delle insalate: un odore di campagna aleggia sotto gli ombrelloni di tela, e compone un’atmosfera pacifica e ghiottona.
Non si pensa più allora ai Montecchi e ai Capuleti; non si pensa che Tebaldo avesse potuto uccidere Mercuzio a Verona; la vista di un mercato fa dimenticare tutte le tragedie: quelle della vita, quelle della storia, quelle dei poeti.
Tuttavia quando si alza lo sguardo al di sopra di queste mostre attraenti, si scorge a nord della piazza, sopra una colonna di marmo, il leone di San Marco, simbolo di un’antica dipendenza, quando Venezia regnava sulla terraferma.
Al centro della piazza un’altra colonna di marmo; e per inquadrare, per contenere questo vasto mercato, palazzi un tempo ornati di affreschi dei quali rimane qualche traccia.
(G. Bauer)

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Curiosità su Padova

Vuoi conoscere alcuni proverbi padovani? Eccoli:
– A fare un proverbio ghe voe cent’anni.
– Venezia bea, Padoa so sorela.
– Veneziani gran signori, Padovani gran dottori, Visentini magnagati, Veronesi tuti mati.
– Pan padoan, vin visentin, tripe trevisane, done veneziane.
– Bologna la grassa, Padoa la passa.
– Co canta la cigala, se taja la segala, co canta el cigalon, se taja el formenton.
– De Santa Madalena se taja l’avena.
– De San Valentin se pianta l’ajo e el seolin.
– Tera mora fa bon fruto, tera bianca gninte del tuto.

“A Padoa ghe xe un Santo sensa nome, un cafè sensa porte e un prà sensa erba”. Questo detto si riferisce a:
– sant’Antonio, che viene chiamato da tutti semplicemente ‘il santo’;
– il Caffè Pedrocchi, che per molto tempo non ebbe porte perchè rimaneva aperto sia di giorno che di notte;
– al Prato della Valle, che non è un prato, ma una piazza grandiosa, e quindi non ha assolutamente erba.

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Curiosità su Treviso
A Treviso l’arco che unisce il Palazzo del Podestà al Palazzo dei Trecento è detto ‘sottoportico dei soffioni’ perchè vi spira sempre un notevole vento.
A Treviso nella chiesa romanico-ogivale di San Francesco, si può ammirare un affresco del 1453, raffigurante un crocefisso dipinto per ordine dell’Inquisitore a spese di un oste ebreo che aveva servito carne di venerdì.
Sempre nella nuda ed austera chiesa di San Francesco a Treviso, possiamo sostare sia davanti alla pietra tombale di Francesca, figlia di Francesco Petrarca, morta nell’agosto del 1384, sia davanti all’arca di Pietro, figlio di Dante Alighieri, morto a Treviso nel 1364.
Nel giardino del Museo della Casa Trevigiana c’è una piccola Casa del XIV-XV secolo, nella quale è disposta la ‘Raccolta Sanguinazzi’, interessante esempio di Gabinetto di Storia Naturale del XVII secolo con collezione di strumenti scientifici, tra cui i celebri prismi di Newton.
C’è chi ha cantato in versi, anche se un po’ zoppicanti, il famoso radicchio trevisano: “Se lo guardi è un sorriso, se lo mangi è un paradiso, il radicchio di Treviso”.
Sull’iscrizione di una credenza da cucina che ora si trova nel Museo di Treviso possiamo leggere questi versi di ispirazioni popolare, pieni di confidente abbandono, di devota accettazione in un’umile realtà quotidiana, di decoro e di discrezione:
Gaetano santo vu che si sora la providenza
prega che ge sta sempre de buon in sta credenza
e se non vacorda divina onnipotenza
fa che la mangemo suta con pazienza
che per ultimo ne basta grazie del ciel
e de polenta no restar senza“.

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Curiosità su Belluno

“Christus nobiscum stat”. Le case feltrine sono caratteristiche per i tetti fortemente aggettanti e per le facciate ornate da affreschi o graffiti attribuiti a Del Morto da Feltre e alla sua scuola. Su molti portali è inciso il motto: “Christus nobiscum stat” (Cristo vive tra noi).
A sud di Cortina, lungo il torrente Costeana, sorge il Sacrario di Pocol, costituito da una torre con basamento quadrato; in esso sono custodite le salme di 10.000 caduti della guerra 1915-1918.
Il gonfalone di Pieve di Cadore è decorato con medaglia d’oro per la “memoranda e tenace resistenza fatta nel 1848 dalle popolazioni cadorine contro soverchiante e agguerrito invasore”, e con la Croce di Guerra per la resistenza nel 1918.
A sud di Mas, sulla strada tra questa località e Mis, si trovano le Rovine di Vedana, costituite da un grandioso e disordinato ammasso di terra e pietre (3 milioni di metri cubi) disteso attraverso la valle. Secondo alcuni geologi tale ammasso sarebbe franato, in epoche remote, dai monti Vedana e Peron, seppellendo i villaggi di Cordova e Cornia. Poco lontano sorge la Certosa la cui origine si fa risalire a un ospizio di San Marco di Vedana, esistente nel 1155. La Certosa subì alterne vicende finché, recuperata nel 1768 dai Certosini francesi, du fatta risorgere. Qui nacque Gerolamo Segato (1792-1836) famoso oltre che come instancabile viaggiatore, cartografo e naturalista, anche per aver inventato un processo di pietrificazione dei cadaveri.

Vedi anche MATERIALE DIDATTICO SU VENEZIA

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LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture

LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture per la scuola primaria: Amalfi, Pisa, Venezia e Genova.

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La leggenda dell’Anno Mille

Dice la leggenda che nell’imminenza dell’anno 1000, per una errata interpretazione di alcuni passi delle Sacre Scritture, le genti attendessero con terrore la fine del mondo, ma che poi, liberate dall’incubo, continuando il mondo la sua uguale vicenda, riprendessero a vivere con maggior lena. Si iniziava una nuova era, feconda di lavoro, di creatività in tutti i campi, materiale e morale.
La leggenda ha un suo valore perchè esprime, come un simbolo, quella ripresa di vita economica e politica, quel risveglio culturale ed artistico che nell’XI secolo rinnovò tutta l’Europa e i cui segni sono particolarmente visibili in Italia. Ebbe così fine l’età feudale che, con quella dei regni romano-barbarici, costituisce l’Alto Medioevo, e si iniziò il Basso Medioevo, durante il quale la Chiesa e l’Italia si sottrassero alla dipendenza degli imperatori germanici e fiorì la nuova civiltà dei Comuni e delle Signorie (1000 – 1492).
Di là dalle Alpi, in Francia, in Inghilterra e in Spagna, si costituivano invece le grandi monarchie nazionali.

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Le Repubbliche marinare

Alcune città marinare, favorite dalla loro naturale posizione e dalla ripresa dei traffici, raggiunsero, prima delle città di terraferma, un notevole grado di ricchezza e di indipendenza politica; esse furono Amalfi, Venezia, Pisa e Genova.

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Amalfi

Posta sul golfo di Salerno, fu la più fiorente città marinara del sud, superando di gran lunga Napoli, Gaeta e Bari. Trascurata dal governo di Bisanzio, minacciata dalle incursioni dei Saraceni, dovette assai per tempo provvedere alla sua difesa con una flotta, e al suo governo: tutti i cittadini, riuniti a Parlamento, eleggevano il capo della città, cioè il Duca. Tale governo repubblicano favorì in modo particolare i commerci e la navigazione. Nel X secolo Amalfi era già un centro attivissimo di commercio col Levante: a Costantinopoli, ad Antiochia, ad Alessandria e al Cairo, gli Amalfitani avevano fondachi ed alberghi, chiese ed ospizi.
In quelle città del Levante portavano i prodotti agricoli italiani e caricavano damaschi, armi, profumi, spezie, tappeti e indaco che rivendevano nell’Italia centro-meridionale.
La moneta amalfitana, il tari, aveva corso in tutti i porti del Mediterraneo. Gli Amalfitani compilarono il primo codice di leggi marittime, le famose Tavole Amalfitane, adottate da gran parte degli Stati mediterranei.
Altro loro merito è quello di aver introdotto in Occidente l’uso della bussola, già adoperata da Cinesi ed Indiani, perfezionandola; leggendaria è l’attribuzione di essa all’amalfitano Flavio Gioia.
Breve fu la vita florida e indipendente di Amalfi: verso la fine del secolo XI fu soggiogata dai Normanni, conquistatori ed unificatori di tutta l’Italia meridionale. In seguito, combattuta e vinta da Pisa, sua rivale nel Tirreno, perdette la flotta e con essa la potenza.

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Venezia

Abbiamo visto come le isole della laguna veneta, dall’invasione di Attila in poi, diventarono a più ripresa rifugio degli abitanti delle città venete, che andarono ad aggiungersi ai pochi e poveri pescatori che già vi dimoravano.
Sicure dalle invasioni, perchè difese da un labirinto di canali, ma povere, quelle terre non potevano dare mezzi di vita a una popolazione numerosa, che perciò si volse prestissimo al commercio marittimo lungo le coste dell’Adriatico e il corso dei fiumi veneti, prima vendendovi il sale e i prodotti della pesca, poi le merci importate dall’Oriente bizantino a Ravenna.
Nominalmente questi centri lagunari dipendevano dall’Esarca, ma a mano a mano che l’autorità di Bisanzio si affievoliva, essi andavano organizzando un’amministrazione autonoma. Già alla fine del VII secolo gli abitanti delle isole eleggevano a vita un magistrato supremo o Duca (in veneziano, Doge).
A Rialto e sulle isolette ad essa congiunte per mezzo di ponti, si incominciò a costruire la nuova Venezia (città dei Veneti), destinata a diventare una delle più belle e ricche città del mondo; essa fu posta sotto la protezione dell’evangelista San Marco, le cui reliquie, trasportate da Alessandria d’Egitto, furono deposte nell’omonima Basilica, sorta fra i primi monumenti.
Nel X secolo Venezia dovette combattere i pirati slavi (Schiavoni), che infestavano l’Adriatico. La vittoria definitiva su di essi fu riportata nell’anno 1000 dal Doge Pietro Orseolo II che occupò le coste dell’Istria e parecchie isole e città della Dalmazia. Il doge di Venezia prese allora il titolo di Dux Veneticorum et Dalmaticorum.

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Per il lavoro di ricerca

In che anno incominciò a sgretolarsi il sistema feudale?
Intanto cosa avveniva nelle città?
Come si chiamò la nuova classe sociale?
Quali furono le città marinare che divennero, prima delle città di terraferma, centri attivissimi di commercio e politicamente indipendenti?
Conosci gli stemmi delle gloriose Repubbliche marinare?
Quale fu la più fiorente città marinara del sud?
Quali meriti ebbero gli Amalfitani?
Sapresti dire a che cosa servivano le Tavole Amalfitane?
Qual era la moneta amalfitana?
Chi introdusse in Occidente l’uso della bussola?
Quando finì la potenza della gloriosa Amalfi?
Da chi fu costruita Venezia? Com’era chiamato il capo della Repubblica di Venezia?
Come si chiamava la sua nave?
Quale cerimonia era in uso il giorno dell’Ascensione?
Chi era il Santo protettore di Venezia?
Come si chiamava la moneta di Venezia?
Che cos’erano le galee? Da che cosa derivò il loro nome?
Su quali altri tipi di navi i marinai delle Repubbliche marinare percorrevano e dominavano i mari?
Ricerca notizie sulla potenza della Repubblica di Venezia.

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La bandiera navale italiana

Nella bandiera navale italiana lo stemma, al centro del tricolore, è costituito dai quattro stemmi di Amalfi (croce bianca in campo azzurro), di Pisa (croce bianca in campo rosso), di Genova (croce rossa in campo bianco) e di Venezia (il leone alato d’oro in campo rosso), a segnare la grande tradizione marinara della nostra storia.

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Storia di una parola

La cannella, il pepe, le droghe aromatiche venivano tutte dall’Oriente ed erano fra noi chiamate spezie. Esse non servivano solo per preparare le raffinatissime salse tanto in voga nel Medioevo; erano, secondo i ricettari farmaceutici del tempo, necessarie per la preparazione di medicine e di pomate. Ecco perchè il farmacista di allora veniva chiamato speziale, appellativo che familiarmente gli viene ancora dato in molti luoghi d’Italia.

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Le nuove monete

I mercanti delle Repubbliche marinare, che avevano navi, andavano in Oriente a comprare merci e le rivendevano in Europa a caro prezzo. Così le Repubbliche marinare si arricchivano rapidamente. Con l’oro portato dall’Africa, con l’argento ricavato nelle miniere di Spagna, di Francia, di Germania, vennero coniate nuove e belle monete, che incominciarono a circolare in Europa al posto dei denari e dei bisanti, cioè al posto delle monete araba e bizantina. La moneta di Venezia si chiamava ducato, quella di Genova genovese o genovino.

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Le navi delle città marinare

La galea deriva il suo nome dalla forma snella che la fa assomigliare al pesce spada che in greco è appunto chiamato galeos.
Fin verso il 1000 le galee venivano usate per il trasporto di merci quanto per le azioni di guerra, ma quando, attorno a quest’epoca, in tutte le città marinare d’Italia rifiorirono le costruzioni navali, si cominciarono a progettare galee destinate esclusivamente alla battaglia. Allora, poiché nella stiva non si dovevano più immagazzinare merci, si potevano imbarcare fino a 120 vogatori, in qualche caso anche 200.
In molte galee ogni remo era manovrato da due, tre o anche quattro vogatori. Inoltre le vele venivano considerate un motore ausiliario; queste navi usavano la vela triangolare, detta vela latina, e di frequente avevano due alberi.
L’armamento di una galea era costituito si armi da lancio e grosse baliste; erano inoltre armate di un enorme sperone per forare lo scafo delle navi avversarie. Ciascuna galea era, infine, munita di grossi ganci e di ponti che servivano per agganciare le navi nemiche e per attaccarle all’arrembaggio.
Fra vogatori, marinai, bombardieri, arcieri e soldati assalitori, l’equipaggio di tale nave poteva contare anche più di 500 uomini.
Le prime galee usavano la vela quadrata, come i navigatori greci e romani. Solo verso il secolo XII si apprese dagli Arabi a usare la vela triangolare, con la quale era possibile navigare anche contro vento. La vela triangolare è detta vela latina. Ma questo nome non indica l’origine della vela. Esso deriva dalla storpiatura di vela ‘alla trina’. Così si chiamava infatti la vela triangolare, o perchè fatta a triangolo o perchè legata con la trina, una treccia di canapa formata da tre fili e usata per le legature volanti.
L’equipaggio era suddiviso in compagni d’albero (marinai) e rematori. Questi ultimi erano dei detenuti, condannati al trattamento più inumano. Erano in parte condannati per delitti comuni e in parte prigionieri di guerra; alcuni erano volontari, gentaglia che non sapeva far alcun altro mestiere, e venivano chiamati, per ironia, buanavoglia. Per essere riconosciuti in caso di fuga, questi rematori delle galee, detti appunti galeotti, dovevano avere i capelli rasati o tagliati a ciuffo.
Se la nave affondava, i galeotti affondavano con essa. Dovettero purtroppo trascorrere alcuni secoli prima che venissero abolite queste barbare condanne.

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Le navi da carico

Le nostre città marinare usarono diversi tipi di navi da carico: le galee grosse o di mercanzia, le cocche, le caracche. Erano navi alte di bordo, più larghe e tondeggianti delle galee, adatte a portare grandi carichi (e da ciò il nome di caracche che deriva dall’espressione latina navis caricata); esse furono fra le prime del Mediterraneo ad applicare una grande innovazione, apparsa già da un secolo nei navigli del Mare del Nord: la sostituzione dei remi di governo con un vero e proprio timone a barra, detto timone ‘alla navaresca’. Ben presto Genovesi e Veneziani si accorsero che queste navi erano adattissime anche al combattimento, perchè con esse si potevano colpire i nemici dall’alto, standosene ben protetti negli alti castelli di poppa e di prua.

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La Repubblica di Amalfi

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Splendore e decadenza di Amalfi
Amalfi, nell’anno 839 si rese indipendente da Napoli (del cui ducato faceva parte) ed elesse come governatore un comite (magistrato annuale). Cominciò allora la fortuna marinara della città che divenne la prima delle potenti repubbliche marinare del Tirreno. Essa seppe difendere la propria indipendenza sia contro Bisanzio sia contro i Longobardi.
La sua importanza, analogamente a quella di Venezia, si fondava esclusivamente sui traffici e la navigazione.
Le sue navi visitavano Alessandria e Beirut, in parte per condurvi pellegrini, in parte per andare a prendere prodotti che si potevano vendere comodamente in Italia.
Ben presto  i mercanti di Amalfi costituirono colonie a Palermo, a Siracusa e Messina, tutte città che si trovavano nelle mani dei musulmani.
Gli Arabi gradivano questi scambi di merce, dai quali essi stessi traevano vantaggio.
Concedevano generosamente ai forestieri luoghi di residenza, i cosiddetti fonduk, dove i mercanti  potevano svolgere la loro attività, come anche a Venezia esistevano i fondachi per gli stranieri.
Amalfi sfruttò abbondantemente i suoi vantaggi.
In questa cittadina, nel periodo del suo massimo splendore (X secolo), vivevano 50.000 abitanti, cifra assai ragguardevole per quei tempi.
Probabilmente Amalfi era allora la città di gran lunga più popolata di tutto l’Occidente.
La sua moneta (il tari) circolava in tutta Italia e perfino in Oriente.
Le sue leggi venivano rispettate ovunque e spesso venivano adottate da altre città.
Il codice della navigazione di Amalfi, Tabula Amalphitana, divenne il modello di tutto il diritto marittimo dell’Occidente.
A uno dei suoi cittadini, Flavio Gioia, fu attribuita l’invenzione della bussola. E’ vero che ciò non è esatto perchè l’ago magnetico era già noto ai Cinesi, tuttavia Amalfi può rivendicare il merito di aver messo questa invenzione al servizio della navigazione, collegando l’ago magnetico con la Rosa dei Venti.
Amalfi decadde quando, nell’anno 1131, fu conquistata dai Normanni, che avevano già occupato la Sicilia.
La città si era appena riavuta da questo colpo, quando fu attaccata, sconfitta, saccheggiata e definitivamente distrutta dai Pisani.
Oggi esistono soltanto rovine che indicano il punto in cui sorgeva l’antica Amalfi.
(‘I mercanti trasformano il mondo’, E. Samhaber)

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Uno strumento nuovo: la bussola

I mercanti delle repubbliche marinare che commerciavano con l’Oriente portarono in Europa uno strumento utilissimo per la navigazione. Si trattava di uno strumento proveniente dalla lontana Cina, che sembrava opera di magia. Era un piccolo recipiente colmo d’acqua, cioè una bussola, sul quale galleggiava una lancetta di ferro calamitato, sorretta da una scheggia di legno. La lancetta si indirizzava sempre verso nord e rendeva facile l’orientamento anche alle navi che si trovavano in mezzo al mare, lontano dalla costa, o quando di giorno o di notte, il cielo era coperto di nuvole e non si vedevano le stelle.

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La Repubblica di Venezia

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Nascita di Venezia

Rialto, piccolo ammasso di isolotti, era sto fino ad allora scarsamente abitato, ma l’inviolabile asilo che aveva offerto ai profughi di Eraclea lo designava per la scelta quale sede preferibile e permanente dello Stato.
Prese singolarmente, le isolette di Rialto erano certo meno estese di Torcello, di Burano o di Eraclea, ma il gruppo ne annoverava ben sessanta, separate da stretti canali sui quali sarebbe stato agevole gettare ponti, in modo da rendere disponibile per la capitale una superficie considerevole e di molto superiore ad ogni altra.
La via d’acqua larga e profonda che spartiva in due gruppi l’arcipelago era il corso del fiume Prealto, ramo staccato del Brenta; se ne fece il Canal Grande. Le sue dimensioni avrebbero consentito il passaggio delle maggiori imbarcazioni e sulle sue rive si sarebbero create banchine e depositi, nei luoghi più adatti.
Al limite degli isolotti periferici si sarebbero potuti costruire una cinta muraria e un riparo in pietra, a circondare e proteggere la nuova città.
Come se presentisse quale splendido destino lo attendeva, tutto il popolo di pose all’opera con incrollabile entusiasmo.
Da ogni parte si innalzarono costruzioni, dapprima di legno, poi di mattoni e di pietra.
Per il palazzo del doge si scelse la posizione che sarebbe rimasta immutata per sempre.
Quanto al nome della città gloriosa i Veneti le diedero il proprio, quella che in origine si era chiamata Rialto, civitas Rivoalti, divenne Venetia, ossia Venezia.
Questo avveniva nell’anno 810 dC.
(A. Bailly)

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Grandezza di Venezia

Venezia divenne una grande città commerciale. Le sue navi la fecero dominatrice del Mediterraneo. Le sue flotte mercantili, protette dalle navi da guerra, commerciavano fino a Costantinopoli, entravano nel Mar Nero per ritirare i prodotti russi e gli altri prodotti che dall’Asia e dalla Cina vi arrivavano per mezzo delle carovane. Lungo le coste della Palestina e della Siria, le navi veneziane caricavano i prodotti della Mesopotamia, della Persia e dell’India, qui portati dalle carovane. Esse avevano commerci con l’Egitto, lungo le coste della Francia e della Spagna, e oltre l’Atlantico, con l’Olanda, il Belgio, l’Inghilterra e la Scandinavia. Quasi tutti i Paesi d’Europa compravano i prodotti asiatici da Venezia. Nei giorni in cui Venezia era il grande magazzino del commercio orientale, i suoi nobili mercanti, i suoi artigiani ed il suo governo costruirono bellissimi edifici. I suoi banchieri prestavano denaro ai principi di tutta Europa.
Intanto i Turchi andavano occupando l’Oriente e assalivano le navi veneziane; Cristoforo Colombo aveva aperto gli orizzonti verso terre vergini dell’Occidente molto più remunerative.
Di più, era giunta notizia che un portoghese di nome Vasco de Gama aveva trovato una via per le navi per arrivare direttamente in India girando attorno all’Africa.
Un triste giorno i prezzi delle merci caddero circa alla metà, e non si rialzarono più.
Quando i mercanti ed i banchieri veneziani seppero della scoperta di Colombo e, ancor peggio, di de Gama, capirono che Venezia non avrebbe più potuto essere il grande emporio.
Essa si erge ancora con i suoi magnifici, vecchi edifici, i suoi ponti ad arco sopra i canali, le gondole che scivolano ancora lungo le calme acque delle sue strade. Invece dell’assordante rumore delle automobili, si sente il canto del gondoliere o il fischio del vaporetto.
La Repubblica di Venezia fu la sola tra le Repubbliche marinare a diventare anche una grande potenza di terraferma, fino a contare, a un certo punto, tra i più forti stati europei. La sua ricchezza, comunque, le venne da Oriente. L’Adriatico diventò qualcosa come un lago veneziano, già prima delle Crociate, con la fondazione delle colonie in Istria e in Dalmazia. Le Crociate offrirono ai Veneziani l’occasione di allargare i loro traffici, prima provvedendo al trasporto dei guerrieri cristiani in Palestina, poi con la fondazione di colonie commerciali nei paesi d’Oriente, in Grecia, nel Mar Nero. Durante la quarta Crociata i Veneziani, in cambio del trasporto degli eserciti con le loro navi, ottennero addirittura di far combattere i Crociati per ristabilire la sovranità di Venezia sulla ribelle Zara e per allargarla nei territori dell’Impero d’Oriente. Il Doge di Venezia ottenne il titolo di ‘Signore di una quarta parte e mezzo dell’Impero Greco’.
La Repubblica di San Marco visse fino al 1797, quando passò sotto l’Austria.
(R. Smith)

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I Veneti e i loro commerci

Le iniziative mercanti dei Veneti li portavano già in tutti i porti del bacino mediterraneo.
Gli audaci navigatori, un tempo pescatori di laguna, andavano a commerciare a Costantinopoli, nello Ionio e nel Mar Nero, in Siria e in Africa.
Non rimanevano nell’attesa che le merci forestiere fossero portate loro, ma volevano scegliere e acquistare all’origine i prodotti dai quali potessero trarre maggior lucro.
Anche per via terra, a gruppi o isolati, percorrevano le strade d’Italia sostando specialmente a Pavia e a Roma.
Ma essi avevano una vera e propria industria nazionale: la costruzione di navi, arte nella quale fin dal VI secolo erano già considerati maestri e in seguito si erano perfezionati, avendo studiato anche in Slavonia e in Istria nuove forme di scafi e di chiglie, altre disposizioni di remi e di vele.
Naturalmente, le aveva studiate e modificate assimilandole alla propria tecnica costruttiva e avevano finanche chiamati calafati e carpentieri greci e siriani per apprendere i metodi di lavoro.
Ormai nessun popolo pensava più ad emularli, in questo campo.
Nell’VIII secolo le isole superavano in prosperità quasi tutti i paesi europei; praticamente i Veneti avevano il monopolio del grande commercio internazionale.
Partivano col consueto carico di sale, ma al ritorno recavano ricche merci straniere: oli, cereali, tessuti, spezie.
Nei lontani porti frequentati dai loro navigli i Veneti aprirono numerose agenzie, simili ai nostri attuali consolati, dirette da connazionali che studiavano le attività economiche dei paesi di residenza, le loro risorse e necessità, annodavano relazioni d’affari con le genti del luogo e agevolavano gli scambi tenendo in deposito nei loro magazzini tanto i carichi in arrivo che quelli in partenza.
In seguito, anche Venezia dovette a sua volta ospitare agenti dei mercanti forestieri e concedere loro siti di sbarco e di magazzinaggio: ne conservano ancor oggi memoria il Fondaco dei Turchi e il Fondaco dei Tedeschi.
Questa corrente di scambi, già molto intensa al sorgere della nuova capitale, doveva rendere splendida oltre ogni ottimistica previsione la città edificata su quegli isolotti di Rialto dei quali l’omonimo ponte, che domina con il suo maestoso arco il Canal Grande, custodisce il lontano ricordo.
(A. Bailly)

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Come era governata Venezia

A Venezia dominava l’aristocrazia: tutti i poteri erano nelle mani del temibile Consiglio dei Dieci. Il Doge aveva solo il compito rappresentativo e presiedeva il Consiglio dei ministri, o Serenissima Signoria, composto di nove membri: si trattava ancora di altri dieci personaggi. In totale, venti nobili veneziani amministravano gli affari della Repubblica sotto il controllo molto blando del Senato, formato anch’esso da soli patrizi.
Nel  1355, sembra che un Doge abbia cospirato con elementi popolari, benchè l’affare sia rimasto oscuro (I Dieci hanno fatto scomparire gli incartamenti). Il tentativo fallì. I complici del Doge furono impiccati alle finestre del Palazzo Ducale e il Doge stesso, Marin Faliero, fu decapitato il giorno seguente sulla scala della Corte d’Onore. La Regina dell’Adriatico, in questo periodo è al suo apogeo: essa conta trecento navi grandi e tremila piccole; quarantacinque galee proteggono validamente le sue rotte marittime. In uno scenario incomparabile, opulento e grandioso, essa mostra con esuberanza la sua fiducia e la sua gioia nelle feste di un carnevale che si prolunga a poco a poco per tutti i giorni dell’anno.

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L’arsenale di Venezia

Il suo arsenale, situato sulle due isole Gemelle nella parte orientale della città, era il più grande e il migliore che allora si conoscesse; ancor oggi se ne vedono le profonde darsene e i tre canali scavati in seguito per collegare gli impianti originari con quelli successivi.
In esso, da prototipi accuratamente studiati e uniformemente riprodotti, si costituivano ogni sorta di imbarcazioni: guerreschi vascelli rostrati dai fianchi scudati di cuoio e dai ponti muniti di catapulte e di torri per arcieri e balestrieri, navi mercantili più  pesanti e lente, nelle quali l’abbondante velatura rimpiazzava i duecento vogatori delle galee e dei ‘gatti’.
Questa è la tradizionale, autentica industria nazionale.
Non v’è popolano che non appartenga alla marineria: marinaio, pescatore o calafato che sia.
Anche coloro che esercitano un mestiere legato alla terra sono per origine dei marittimi. Del resto, vivono sul mare, il mare è il loro elemento naturale e la barca il basilare strumento di lavoro; il giorno in cui lo Stato ha bisogno di loro non fanno che cambiare i remi della barca in quelli della trireme, con una maestria marinara d’altronde indispensabile affinché la Repubblica possa essere presente là dove la chiamano i suoi interessi, ora con lo sguardo svolto a Bisanzio, della quale prevede la successione, ora ai Normanni, dei quali teme la forza e le mire ambiziose.
(A. Bailly)

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La forza navale di Venezia

Sotto il comando del General da Mar e del Capitano del Golfo le forze navali di Venezia, o Armata Veneta, erano formate da navi a vela, che costituivano l’Armata Grossa, e da navi a remi, o Armata Sottile, mosse quest’ultime da galeotti o condannati ai remi della galea, oppure da rematori volontari chiamati buonavoglia. Comandavano le prime i Governatori del Mare, mentre le navi a remi dipendevano da un Sopracomito.
Tutta l’Armata usciva dall’Arsenale, che poteva fornire navi con armamenti completi in tempo ridottissimo e che era un mosaico di squeri o cantieri. Anzi, era, a sua volta, un enorme cantiere funzionante. Dante stesso mostra di essere rimasto colpito agli ordini degli Inquisitori dell’Arsenale, dei Provveditori all’Armar e di quei Visdomini alla Tana che facevano arrivare da una località sul Mar Nero, Tanai, alle foci dell’odierno Don, la canapa destinata a divenire solida gomena in un reparto dell’Arsenale stesso, chiamato, ‘La Tana’.
Popolazione vivacissima dell’Arsenale, gli arsenalotti, erano artefici abilissimi, gelosi del loro mestiere, tramandato di generazione in generazione, e del privilegio di spingere, a suon di remi, nel giorno dello Sposalizio del Mare, il Bucintoro, l’imbarcazione dogale, che sdegnava l’aiuto degli alberi e delle vele.

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Le ‘uscieri’

Uscieri  si chiamavano le grosse navi a vela, per gli sportelli o usci praticati sui fianchi per agevolare l’imbarco di cavalli e di macchine da guerra. Insieme alle galee e alle navi minori partecipavano anch’essi alla battaglia, rovesciando vere fortezze galleggianti dai loro castelli e dai loro ponti volanti, con adatti ordigni, i proiettili sulle navi avversarie.
Fortezze che talora, in battaglia, venivano tra di loro legate per formare il cosiddetto porto d’alto mare, o porto galleggiante, perchè il vento non ne isolasse qualcuna, facendola preda delle più veloci galee, superiori certo, queste, per molti secoli, nei combattimenti rapidi in mare aperto.
(M. Bini)

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Severissima disciplina sulle galee veneziane

La disciplina, severa in tutte le marine italiane, era severissima sulle navi di Venezia. Nel 1293 il Gran Consiglio veneziano aveva decretato che, quando l’ammiraglio aveva dato l’ordine di attaccare il nemico, se una qualche galea si fosse allontanata dal luogo della battaglia, i capi divisione, i capitani, i nocchieri e i timonieri venissero decapitati. Se non si poteva raggiungerli, venivano condannati al perpetuo esilio e tutti i loro beni erano confiscati.

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Vita di galeotto

Durissima era la vita al remo nelle galee. I rematori di destra stavano con il piede sinistro incatenato alla banchina (e i vogatori di sinistra inversamente) e così sul banco vogavano per dieci o dodici ore; unico riparo era una tenda o una leggera sovrastruttura. Quando si intimava il silenzio dovevano mettersi in bocca il tappo di sughero che portavano appeso al collo. La ciurma era comandata da un sottufficiale, l’aguzzino, che aveva diritto di vita e di morte sui vogatori. Dalla corsia ammoniva a nerbate, puniva a sciabolate o (dopo l’invenzione della pistola) piantando una palla in testa ai recalcitranti.

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Dal ponte di comando alla catena del remo

La condizione delle ciurme nelle battaglie era spaventosa e orribile; esposte ai colpi dei loro correligionari e fratelli (poichè sulle galee cristiani gli schiavi erano turchi e su quelle turche erano cristiani), avevano come unica speranza di liberazione la cattura della galea. Avveniva così talvolta che capitani di navi, e anche ammiragli, passassero dal comando al remo o dal remo ancora al comando!

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Lo sposalizio del mare

Venezia stabilì di commemorare annualmente le sue vittorie con una festa nazionale che dapprima si espresse nella benedizione del mare: all’Ascensione, il vescovo di Olivolo si recava con il clero all’estremo limite dell’isola e lì, alla presenza della folla, tracciava sul mare, sede e strumento della grandezza veneziana, il sacro segno che lo univa a Dio e gli uomini.
In seguito la cerimonia doveva assumere un significato ancora più chiaro e di un simbolismo più adatto a colpire l’animo della massa.
Nacque così lo Sposalizio del Mare nel quale il Doge, vivente personificazione dello Stato, faceva suo il mare così come ogni uomo lega a sé la donna scelta in sposa.
Per la tradizione fu il papa Alessandro III che, avendo riconosciuta la sovranità veneziana sull’Adriatico, inviò al Doge l’anello benedetto accompagnandolo con queste parole: “Ricevetelo come il segno del vostro imperio sul mare; voi e i vostri successori rinnoverete gli sponsali ogni anno affinché i tempi a venire sappiano che il mare è vostro e vi appartiene come la sposa allo sposo”.
Ogni anno il doge saliva a bordo del Bucintoro, la galea nazionale fantasiosamente decorata di sculture e dorature, perfino nei remi.
Diritto sotto un baldacchino purpureo circondato dalla sua Corte, percorreva la laguna in direzione del Lido e per il vicino passaggio entrava nell’Adriatico.
Qui, dal Bucintoro galleggiante sul mare che Venezia considerava suo, il Doge lanciava in acqua il suo anello d’oro, pronunciando la formula rituale: “Desponsamus te, mare, in signum veri perpetuique dominii”.
(A. Bailly)

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Il Bucintoro

Il Bucintoro era il grande e maestoso naviglio sul quale, nel dì dell’Ascensione, il Doge di Venezia procedeva, ogni anno, a solennizzare la cerimonia dello sposalizio col mare. Il Bucintoro, adornato riccamente, lungo trentun metri e largo sette, aveva due piani: nell’inferiore stavano i remiganti, nel superiore il Doge, il Patriarca, gli ambasciatori, i governatori degli arsenali, i membri del Governo, gli altri personaggi della Repubblica.
(P. Persico)

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Ultime parole del Doge Mocenigo

Il grande doge di Venezia Mocenigo, sempre vigile nella cura della Repubblica, così disse ai maggiorenti della città, racconti attorno al suo letto di morte: “Ormai io più non posso giovare alla patria mia; perciò vi ho chiamato per raccomandarvi questa cristiana città e persuadervi ad amare i cittadini e a far giustizia e a pigliar pace… La guerra con il Turco vi ha fatto valorosi ed esperti per mare, avete sei capitani da guerra, avete molti uomini sperimentati nelle ambascerie e nel governo, avete molti dottori di diverse scienze e specialmente molti legali… La vostra zecca batte ogni anno un milione di ducati d’oro, duecentomila d’argento e ottocentomila in soldoni… Perciò sappiate governare un tale stato e abbiate cura che per negligenza mai diminuisca”.
M. Bini

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San Marco, patrono di Venezia

L’evangelista Marco ha come simbolo un leone , e coi caratteri del Leone appare Gesù nel vangelo di San Marco, cioè con le qualità del forte, che scaccia i demoni, che guarisce gli ammalati e che vince la morte.
Questo perchè san Marco rivolgeva il suo vangelo ai Romani, che non avrebbero dato nessun valore alle lunghe genealogie ebraiche o alle profezie. I Romani non conoscevano che il diritto e la forza. Perciò, nel vangelo di Marco, il Redentore rappresenta sempre il diritto e la forza a cui nulla può resistere.
Si sa che la sua tomba di marmo, ad Alessandria, era venerata anche durante la dominazione dei Maomettani. Nell’828, due mercanti veneziani vollero togliere le reliquie di san Marco dalla terra dominata dagli infedeli. Si disse che di nascosto i due veneziani togliessero dalla tomba le ossa del santo e le nascondessero in fondo a un paniere, riempito poi di vettovaglie. Altre leggende fiorirono intorno alla venuta di san Marco sul suolo veneziano. Fra queste la più poetica ebbe credito nella città lagunare.
San Marco sarebbe giunto a Venezia non dopo morto, ma ancora vivo, a causa di una grande tempesta che avrebbe spinto la sua nave, da Alessandria d’Egitto verso la laguna veneta. Sulla spiaggia, appena sbarcato, egli sarebbe stato accolto da un angelo, che gli avrebbe detto: “Pace a te, Marco evangelista mio”.
Sono le parole che si leggono ancora sulle pagine del libro, tenuto dagli artigli di un leone alato, che forma lo stemma di Venezia, chiamata perciò la ‘città di San Marco’.

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Indiscrezioni da Venezia

La dogaressa Selvo è al centro di animatissime discussioni nell’alta società veneziana.  Si sa che la dogaressa è bizantina di nascita, figlia di un imperatore e sorella di Michele VII Ducas; e fin da quando era giunta a Venezia si sapeva che era cresciuta in mezzo a lussi che noi non immaginiamo nemmeno. Si è subito fatta notare per la ricchezza e lo splendore dei suoi abiti. Ora poi sono trapelate alcune indiscrezioni che hanno scandalizzato i Veneziani. Si dice che la signora si lavi con acque odorose, si profumi, e si rinfreschi il volto con la rugiada, raccolta per lei ogni mattina dai servi.
Ma ciò che le sta attirando, a quanto pare, le ire del famoso predicatore Pier Damiani è una strana abitudine della dogaressa. Pare infatti che per portare il cibo alla bocca si serva di uno strumento d’oro a due denti, invece di usare le mani. Secondo Pier Damiani si tratta di uno strumento diabolico.
(L. Pisetzky)

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Una nuova basilica custodirà il corpo di san Marco

Un incendio ha distrutto la Cattedrale. Ma subito si pensa a costruirne una più grande e più bella.
L’incarico di progettare e di innalzare la nuova chiesa è stato dato ad architetti bizantini, essendo Venezia assai legata all’Oriente, ed essendo i Veneziani molto sensibili al gusto che viene di là.
Anche la nuova chiesa sarà dedicata a san Marco e ne custodirà le reliquie, come la vecchia chiesa.
San Marco evangelista è infatti, da 150 anni circa, il protettore di Venezia. Precisamente da quando due mercanti veneziani, che a causa dei loro traffici si trovavano ad Alessandria d’Egitto, vennero a sapere dai cristiani di quella città,  dove si trovavano nascoste le reliquie di san Marco. Ottenute quelle reliquie, essi le portarono a Venezia, facendola in barba al controllo degli Arabi. E sapete come?
Al di sopra della cassa contenente il corpo del santo, misero uno strato di carni suine; gli Arabi, ai quali è vietato mangiare carne di maiale, fecero subito passare quella merce, che era bene lasciasse l’Egitto; e con la carne suina passò quel corpo, venerato ora in Venezia.

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Il doge Orseolo e la Dalmazia

Gli Schiavoni si erano stabiliti in Croazia e in Dalmazia e le città costiere, che politicamente dipendevano dall’Impero greco ma che questo non era però in grado di proteggere, difficilmente potevano resistere da sole alle incursioni barbaresche.
Venezia invece, sia per la sua vicinanza che per la potenza della sua flotta, poteva difenderle o liberarle.
Perciò esse ne richiesero l’aiuto, che Orseolo concesse a patto che le città dichiarassero obbedienza alla Repubblica, giurandole fedeltà e fornendole dei rinforzi per l’opera di liberazione.
Due soltanto, Lesina e Curzola, ricusarono la sottomissione, ma tutte le altre accettarono, cosicchè nel maggio dell’anno 1000 il doge si recò a Pola con una poderosa flotta e vi si stabilì solennemente per ricevere l’omaggio dei magistrati di tutte le città costiere e incorporare nelle sue truppe i contingenti dei quali aveva imposto l’obbligo.
Quindi fece vela per Zara, dove i magistrati delle città marittime dalmate vennero a loro volta per fare atto di sottomissione e presentare i rinforzi.
In tal modo più di venti tra le città e isole si posero sotto il dominio di Venezia, che diventava di fatto la padrona delle coste istriana e dalmata.
Contro Lesina e Curzola, le due riottose, il doge passò alla maniera forte prendendole d’assalto, ed esse dovettero reputarsi fortunate di trovare un vincitore che, contrariamente alle usanze dei tempi, risparmiasse la vita agli abitanti.
Dopo di che, Orseolo sferrò l’attacco ai nidi dei pirati sul litorale, ne distrusse le imbarcazioni, li inseguì nella fuga entroterra e ne fece tale carneficina che per molto tempo furono ridotti all’assoluta impotenza.
Quando il doge ritornò a Venezia, alla testa della flotta vittoriosa, fu accolto dagli osanna del popolo entusiasta; per merito suo, infatti, la Repubblica si era assicurata il dominio delle coste illiriche e dalmate.
Quanto ai Greci, anziché adombrarsi dell’imponente successo veneziano, lo riconobbero e l’imperatore lo sancì conferendo al doge il titolo di Duca di Dalmazia.
(A. Bailly)

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Il trasporto del corpo di san Marco

Il nome di san Marco era da secoli venerato nell’estuario veneto. Era antica tradizione che l’evangelista fosse stato il primo propagatore della fede sulle coste dell’Adriatico settentrionale, e il fondatore della prima chiesa di Aquileia.
La leggenda narrava che la nave che lo aveva trasportato verso Aquileia da Alessandria d’Egitto, durante il suo tragitto era stata colta da una violenta burrasca, che aveva costretto l’equipaggio ad entrare nella laguna e ad approdare alle isole di Rialto. E lì, mentre il santo, sceso a terra, si riposava in attesa di riprendere il viaggio, gli era apparso un angelo che lo aveva salutato con le parole “Pax tibi, Marce, Evangelista meus”, e gli aveva annunciato che su quella terra le sue ossa avrebbero avuto un giorno riposo e venerazione.
Questa leggenda, che dava quasi al luogo, scelto dai Veneti come loro capitale, una designazione soprannaturale, aveva acceso nell’animo di molti di essi il desiderio di impadronirsi dei resti mortali del santo, secondo un costume molto diffuso in quei tempi in tutta la cristianità. Senonché le ossa di san Marco erano ad Alessandria d’Egitto, dove il santo aveva subito il martirio ai tempi di Nerone, e dove, per raccoglierle, era stata costruita una bellissima chiesa.
In quel tempo, in seguito alle ostilità esistenti tra l’Imperatore di Costantinopoli e i Saraceni, era severamente proibito ai mercanti veneti di approdare in Egitto, dominato dai Saraceni, e di esercitarvi quei commerci che nel passato erano stati fiorenti. Tuttavia, malgrado il divieto, i mercanti più arditi continuavano a frequentare quei posti.
Due di questi, secondo la tradizione Rustico da Torcello e Bon da Malamocco, approdano un giorno ad Alessandria con ben dieci navi cariche di merci; vi trovarono i cristiani del luogo addoloratissimi, perchè i musulmani dominatori  spogliavano ogni giorno le chiese dei vasi sacri e di ogni prezioso arredo, per arricchire le moschee e i loro palazzi, e già correva voce che il sultano avesse in animo di abbattere la chiesa nella quale erano custoditi i resti di san Marco per impiegare altrove i materiali.
Questa notizia colpì vivamente l’animo dei due mercanti veneziani, i quali decisero di impadronirsi della reliquia e di portarla alla loro patria.
Dopo molte difficoltà, riuscirono a persuadere i due religiosi greci che avevano la custodia del corpo del santo, a consegnarlo a loro, e lo trassero a bordo di una delle loro navi. Elusa con un’astuzia la sorveglianza dei doganieri, dopo un viaggio avventuroso giunsero in vista della laguna veneta, ma non osarono approdare perchè colpevoli di aver violato il divieto di commerciare coi Saraceni e inviarono un messo al doge perchè gli recasse la confessione del loro fallo e l’annuncio del prezioso carico.
La notizia fu accolta con immenso giubilo. Il doge perdonò l’infrazione alle leggi e si dispose, con tutto il popolo, a ricevere degnamente le spoglie dell’evangelista. Esse vennero collocate nella cappella di san Teodoro, adiacente al Palazzo Ducale, in attesa che le accogliesse un maestoso tempio, del quale si iniziò presto la costruzione.
San Marco fu eletto patrono della Confederazione veneziana, che adottò come stemma il leone alato, simbolo dell’evangelista; insieme con il libro dei vangeli e il motto “Pax tibi, Marce, Evangelista meus”.
(E. Zorzi)

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Una dimora veneziana

Il Procuratore Contarini ordinò a Giovanni Buono la facciata della casa, chiamata d’Oro per le dorature di cui era adorna. Compiuta la facciata che, nonostante le offese del tempo, ride ancora di una immortale bellezza, fu chiamato mastro Giovanni di Francia, per ornarla ‘de pentura’. Come doveva apparire quel gioiello dell’architettura veneta! Maestro Giovanni si impegnava a dorare le rose, gli stemmi, i leoni, gli archetti, il fogliame dei capitelli e i dentelli, dipingere le ‘tresse dazuro oltremarin fin ben dopiado per muodo che i la stia benissimo’. Le merlature dovevano essere dipinte con biacca e venate come il marmo; le fasce bizantine a tralci di vite, tinte di bianco su fondo nero, e tutte le pietre rosse e tutte le ‘dentade rosse sia onte de oio e de vernixe con color che le para rosse’.
(P. Molmenti)

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Diplomatici veneziani

E’ logico supporre che l’esaltazione di Venezia e delle sue bellezze ad opera di visitatori di ogni terra e di ogni condizione, concorresse a creare intorno alla città una leggenda avvalorata più che mai dalla chiara realtà di una flotta senza uguali, dalla ricchezza inesauribile dei commerci. Venezia è una potenza con la quale altre potenze si onorano di avere rapporti profondi e amichevoli; gli ambasciatori veneziani, educati alla più alta scuola di diplomazia e introdotti nelle corti più difficili, colgono ritratti ed atteggiamenti e li fissano per sempre nelle loro relazioni.
Ecco come la grande Elisabetta d’Inghilterra accoglie l’ambasciatore della Serenissima:
“Era la Regina in quel giorno vestita di taffetà d’argento e bianco fregiato d’oro, con abito aperto alquanto davanti sì che mostrava la gola, cinta di perle e di rubini fin a mezzo il petto. La testa aveva di capelli di un color chiaro che non lo può far la natura, con file di perle grosse intorno alla fronte e con archi in forma di cuffia e corona imperiale; faceva mostra di un gran numero di gemme e di perle, e nella persona era quasi coperta di cinto d’oro gioiellato e di gioielli in pezzi separati di carbonchi, balassi e diamanti, avendo anco le mani in luogo di mantili, filze doppie di perle più che mezzane, e tale in aspetto di regina non di anni 76…
Sedeva sua maestà su una sedia sopra un poggiolo quadrato di due scalini… e all’entrare che feci in quella stanza si levò in piedi, e procedendo io nelle debite riverenze, giunto a lei, in atto di porre in ginocchio sopra il primo gradino, la sua maestà non permettendolo, con ambe le mani quasi mi sollevò, e mi porse la destra, la quale baciai, e in quest’atto ad un tempo stesso mi disse: <<Sia ben venuto in Inghilterra il segretario. E’ ben ora che la Repubblica mandi a vedere una regina che l’ha tanto onorata in tutte le occasioni>>.

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Diplomazia veneziana

Un documento di singolare importanza per il contenuto e per la forma è l’accordo che il sultano Murad II (Amorato), colui che prepara la strada a Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli, stipula con Venezia nel 1430: trattato di breve durata. Mirabile la vivacità delle espressioni che nella parlata veneta acquistano una solennità inattesa:
In nome del gran Dio nostro, amen.
Mi Gran Signor e Grande Amirà, Soldan Amorato, zuro in loDio, creator del zielo e de la terra et alo gran nostro profeta Maomet et ali sete Mussafi che avemo e confessemo nuy Musulmani, et ali CXXIII mila profeti et in anema de mio avo e de mio padre, et in anema mia, et in la mia testa, e per la spada che me zengo, prometo mi Gran Signor Amorato, e zuro in li soraditi sagramenti:
che dal di d’anchuo, prometo e digo de aver con mio fredello, el Doxe, con lo honorado et lustrissimo Chomun de la dogal signoria de Vienexia e con i so zentilomeni grandi e pizoli, bona, dreta, fedel, ferma et veraxia paxe per mar e per terra, et in le terre, zitade, castelli, ixole e tuti luoghi che chomanda la serenissima signoria de Vienexia, in quanti castelli, terre e zitade, ixole e luoghi, i qual lieva la insegna del San Marco, e quanti la leverà da mo in avanti”.

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Venezia prima delle Crociate

Lo scarso sviluppo quantitativo del commercio veneziano dei due secoli che precedono le Crociate ci è attestato dalle condizioni in cui si svolgevano i trasporti sia per mare sia per terra.
I viaggi per mare erano fatti generalmente da navi di piccolissimo tonnellaggio, molte delle quali erano sprovviste di ancora, che doveva essere presa a nolo per la durata del viaggio.
La mancanza di ogni strumento di orientamento obbligava a limitare la durata giornaliera del viaggio alle ore della luce solare, riparando la notte in qualche insenatura della costa istriana o dalmata, oppure lungo le rive generalmente basse e piatte della costa italiana su cui si doveva tirare in secca le piccole imbarcazioni.
Ai pericoli del mare si aggiungevano e spesso sovrastavano quelli della pirateria slava, per cui, a differenza di quello che avverrà nei secoli successivi, le navi erano obbligate a viaggiare in convoglio fino al canale d’Otranto, mentre, uscite da questo, era loro permesso di viaggiare isolate; e questo non tanto perchè nel mar Ionio e nel Mar di Levante la loro sicurezza fosse garantita dalla vigilanza della flotta bizantina, ma perchè il loro piccolo numero e la varietà delle rotte che esse seguivano verso gli Stretti, verso la Siria, l’Egitto o la Sicilia, rendeva impossibile riunirle in convoglia protetti da una scorta armata.
Non molto migliori erano le condizioni dei trasporti per terra, per i quali il mezzo di gran lunga preferito era la via fluviale, che si presentava relativamente agevole lungo il corso inferiore del Po e dell’Adige, ma che per questi stessi fiumi a monte di foce Mincio e di Legnago e per tanti altri corsi d’acqua del Veneto e della Valle Padana si prestavano soltanto a barche di fondo piatto e di minima portata, che in certi tratti più ripidi dovevano essere tirate con funi; mentre in montagna e specialmente lungo i valichi alpini, che talvolta incominciavano ad essere pericolosi, non potevano esser fatte che da somieri, che difficilmente portavano più di un quintale ciascuno.
Tutto sommato dunque, se si può affermare che nel corso del X e del XI secolo si sono create tutte o quasi tutte le condizioni che permetteranno il grande sviluppo del commercio e di tutta l’economia veneziana nei due secoli successivi, è anche certo che questo sviluppo è stato poi decisamente favorito dalle Crociate, e che soltanto da queste ha origine la creazione di un impero coloniale veneziano nel Levante.
(C. Luzzatto)

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La Repubblica di Pisa

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La Repubblica di Pisa
Pisa cominciò a reggersi a Repubblica nella seconda metà del secolo XI. Dapprima fu assai ostacolata nei suoi traffici marittimi dai Saraceni, ma, in seguito, aiutata da Genova, riuscì, dopo lunga e accanita lotta, a snidare quei pericolosi pirati arabi dalle isole Baleari, dalla Corsica e dalla Sardegna, dove infestavano il Tirreno e saccheggiavano anche le altre città costiere italiane.
Pur combattendo contro i Saraceni, Pisa aveva empori in Oriente e trafficava con i Turchi, i Libici, i Parti e i Caldei. Molti vantaggi economici ottenne poi dalle Crociate. Splendidi monumenti, palazzi, magnifiche chiese testimoniano ancora quanto fosse ricca e prospera questa Repubblica.

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Decadenza della Repubblica di Pisa

Durante il secolo XIII Pisa decadde, combattuta per terra da Firenze e da Lucca, per mare da Genova.
Nella grande battaglia della Meloria, la flotta pisana fu completamente disfatta da quella genovese (1284), e migliaia di Pisani caddero prigionieri della potente rivale. Dopo questa tremenda sconfitta, Pisa non si risollevò più: perdette, l’uno dopo l’altro, i suoi possedimenti di Sardegna, di Corsica e la Colonia di San Giovanni d’Acri (Asia Minore); cedette a Genova l’Isola d’Elba, e non potè evitare la rovina commerciale del proprio porto. Ai disastri esterni si aggiunse la discordia interna tra Guelfi e Ghibellini.
Un episodio ben noto di questa lotta è quello del Conte Ugolino della Gherardesca, che tentò di farsi signore della città, appoggiandosi ora ai Guelfi ora ai Ghibellini.
Preso a tradimento dall’arcivescovo Ruggieri, suo rivale, venne chiuso con due figli  e due nipoti in una torre, e lì fu fatto morire di fame insieme con gli altri quattro sciagurati. Dante immortalò il tragico avvenimento nel XXXIII canto dell’Inferno.

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Pisa

L’esistenza di Pisa quale città marinara è nota fin dall’età romana: la città sorgeva alla foce dell’Arno, ed aveva un porto grande e sicuro. Dopo l’oscura parentesi delle invasioni barbariche, Pisa conquistò la propria indipendenza e già nel secolo VIII disponeva di una grossa flotta mercantile protetta da numerose navi da guerra. Alle incursioni ed alle minacce dei Saraceni, che correvano in lungo e in largo il Mediterraneo, i Pisani risposero con una guerra spietata, caratterizzata da imprese veramente leggendarie. Nel 1063, le navi pisane, rotta la grande catena del porto arabo di Palermo, irruppero in esso, attaccando le navi alla fonda.
Altre imprese vittoriose vennero compiute, nel giro di secoli di battaglie, a Reggio Calabria, sulle coste della Spagna, delle Baleari, della Sardegna, dell’Africa; famosa, e cantata dai poeti medioevali, la distruzione della roccaforte saracena di Mehedia (1087). La crescente potenza commerciale e militare pisana suscitò tuttavia la gelosia della sua grande vicina, Genova. La rivalità tra le due repubbliche le condusse ad una lunga serie di guerre nelle quali Pisa si venne sempre più indebolendo: la sconfitta della Meloria (1284) segnò l’inizio della sua inarrestabile, rapida decadenza.

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Lo scoglio della Meloria

Al largo del porto di Livorno, circa 7 chilometri a ponente, c’è lo scoglio della Meloria, su cui sorge un’antica torre. Sai perchè lo scoglio è famoso?
Perchè nei suoi pressi i Genovesi inflissero una dura sconfitta alle navi pisane nel lontano 1284, il 6 agosto, al tempo delle lotte combattute dalle repubbliche marinare di Genova e Pisa per il dominio del Mar Tirreno. Durante la sanguinosa battaglia navale due galee genovesi accoppiate, fra le quali era tesa una grossa catena, investirono la nave capitana pisana troncandone di netto lo stendardo bianco con l’immagine della Vergine. La vittoria genovese è ricordata da un iscrizione posta sulla facciata di San Matteo, chiesa dei Doria di Genova.

Morte del conte Ugolino
Alla battaglia della Meloria, nel 1284, i Pisani furono battuti definitivamente e lasciarono diecimila prigionieri nelle mani dei Genovesi. Fu allora che i guelfi toscani, alleati di Genova, minacciarono di marciare su Pisa per distruggerla. In tal frangente fu nominato prima podestà e poi capitano del popolo il conte Ugolino della Gherardesca; il quale, persuaso che si dovesse lottare contro Genova e non contro i guelfi della Toscana, si accordò con questi cedendo loro alcuni castelli e impegnandosi a render guelfa la sua città: gesto di amor patrio che andava oltre la passione politica di fazione; ma non la pensarono così i suoi concittadini che, accusatolo di tradimento, lo imprigionarono con i due figli e i due nipoti nella torre che, dopo di lui, fu detta della fame. Lì i cinque prigionieri furono lasciati miseramente morire di fame. Era l’anno 1288. Tutta la Toscana fu pervasa da un fremito di orrore per tale crudele condanna, che colpiva soprattutto gli innocenti figli e nipoti del conte.
Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, ricostruisce gli ultimi giorni e la fine, ad uno ad uno, dei prigionieri, con un verismo poetico di enorme potenza.

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Pisa ha corso un grave pericolo

Pisa, 1005
La città ha subito un improvviso e duro assalto da parte di armati saraceni, provenienti dalla Sardegna al comando del feroce Musetto. Ecco come essa si salvò dal terribile pericolo.
Pisa è immersa nel sonno. L’unico rumore sommesso è il mormorio dell’Arno, che attraversa la città. Ma forse, nelle loro case, non tutti i Pisani dormono tranquilli. Certo ignorano che alcune galee saracene, risalito il corso dell’Arno, stanno per raggiungere Porta Marina.
Musetto ha scelto il momento giusto: egli sa che questa oscura notte di settembre gli permetterà di dare a fuoco le porte, di irrompere nella città, di saccheggiare, di fare strage fra i Pisani, di portar via come schiavi donne e fanciulli. Lente, silenziose, le galee saracene ormeggiano ora ai serragli del primo ponte. Ed ecco che in un attimo i pirati sono sotto Porta Marina con le fiaccole accese, assalgono con scale e raffi le mura. Abbattuta la Porta i pirati irrompono urlando nelle prime case, con le torce e le spade sguainate. Cominciano a levarsi grida di orrore. Svegliate di colpo, nel sonno, famiglie sbigottite cercano scampo a quella furia nascondendosi, fuggendo, supplicando. In pochi istanti lo scompiglio diventa indescrivibile. In mezzo a tanto sgomento, una sola fanciulla (sembra incredibile) sa conservare la calma. Questa fanciulla è Cinzica de’ Sismondi.  Cinzica comprende subito che occorre fare una sola cosa, per la salvezza di Pisa: raggiungere il Palazzo del Comune e suonare a stormo le campane per dare l’allarme all’intera città. Incurante dei rischi cui va incontro, Cinzica scende dunque nella strada affollata di fuggiaschi e di Saraceni e comincia a correre, a correre… Finalmente, rischiando mille volte la morte, l’intrepida fanciulla è al Palazzo del Comune. Esausta, dà di piglio alla corda delle campane e suona, finché non le rimangono più forze. Poche ore più tardi la città è salva. I Pisani, infatti, svegliati dalle campane e corsi alle armi, erano riusciti a fermare i Saraceni, a travolgerli, a costringerli alla fuga.

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LE REPUBBLICHE MARINARE dettati ortografici e letture
La Repubblica di Genova

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La Repubblica di Genova

Genova fu particolarmente favorita, nello sviluppo commerciale, dalla felice posizione geografica del suo porto, situato in un golfo ampio, profondo e sicuro, protetto alle spalle da un’alta cerchia di monti. Rovinata dai Longobardi, si riebbe solo sotto i Carolingi e divenne presto il centro più importante delle due Riviere di Levante e di Ponente.
Genova, liberata dal dominio dei marchesi e dei vescovi-conti verso la metà del secolo XI, si resse subito a Repubblica, e, lottando alleata con Pisa, contro i Saraceni, s’impadronì della Corsica; ottenuta poi dal Papa l’investitura sulla Sardegna, divenne la vera padrona del Tirreno, strappandone il predominio agli antichi alleati Pisani.
Debellata Pisa, accrebbe la sua potenza militare, politica e commerciale, assicurandosi depositi e magazzini di merci in tutti i porti principali del Mediterraneo orientale e perfino nel Mar Nero, per cui entrò in concorrenza, e rivaleggiò, con Venezia dalla fine del secolo XIII alla fine del secolo XIV.

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Il duello tra Genova e Venezia

Era così grande la potenza di Venezia e di Genova, che le sorti dell’Impero Bizantino, dipendevano dall’esito delle rivalità tra le due Repubbliche.
Il duello, tra Genova e Venezia, pieno di implacabile odio, ebbe varia fortuna e fu combattuto su tutti i mari, e senza quartiere, tra le potenti flotte delle due grandi nemiche, comandate da famosi ammiragli.
L’episodio più importante di questo lungo conflitto fu la guerra di Chioggia (1378), durante la quale Pietro Doria, ammiraglio dei Genovesi, superbamente impose a Venezia la resa. Quest’ultima proposta esasperò i Veneziani, che, da assediati, divennero assediatori, guidati da Vittor Pisani.
I Genovesi, così, furono costretti ad arrendersi per fame e a chiedere la pace, che fu stipulata a Torino (1381) per la mediazione di Amedeo VI di Savoia.
La guerra di Chioggia segnò il tramonto della potenza marittima e commerciale di Genova che non fu più in condizione di prendersi la rivincita su Venezia. Questa infatti ebbe la libertà dei suoi commerci e dei suoi possedimenti in Oriente e la possibilità di espansione anche per terra in Occidente.
Da allora la Repubblica di San Giorgio (Genova) fu tormentata da continue discordie interne e da guerre civili, e, per avere un po’ di pace e di tranquillità, dovette appoggiarsi ora a questa ora a quella potenza straniera a prezzo della propria libertà.

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Genova

Nell’anno 641 i Longobardi attaccarono e distrussero Genova: da questa catastrofe la città riuscì a risollevarsi nel giro di tre lunghi secoli. Il suo risveglio era ormai avvenuto quando, nel 935, i Saraceni piombarono su di essa, saccheggiandola ferocemente. Proprio le ripetute e gravissime incursioni arabe spinsero i genovesi ad apprestare una potente flotta con la quale difendere la città ed i suoi traffici; sorse così la Compagna, una potente associazione di mercanti-guerrieri. Verso il 1100, i consoli della Compagna divennero consoli della Repubblica genovese. Genova ebbe una grande espansione commerciale in tutto il Mediterraneo e stabilì basi e colonie un po’ ovunque; ma la sua storia è soprattutto caratterizzata dalle lunghe guerre condotte contro le repubbliche rivali, quella di Pisa e di Venezia. In più di un secolo di ostilità, alternata a lunghi periodi di pace ed anche di alleanza, Genova piegò Pisa e a sua volta venne piegata da Venezia e s’avviò alla decadenza.

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Genova e l’Oriente

La potenza della Repubblica marinara di Genova, in alcuni periodi, non fu inferiore a quella di Venezia. Anche i Genovesi, che, guidati dai loro mercanti e armatori, erano riusciti a rendersi indipendenti dall’Impero, raggiunsero il massimo della loro forza durante le Crociate, dapprima provvedendo ai rifornimenti degli eserciti cristiani ed ottenendone in cambio importanti posizioni nei porti della Siria e dell’Egitto.  Qui essi vendevano i prodotti europei, i metalli necessari per le armature, il ferro e il legname per le navi. Qui acquistavano, per rivenderli in tutta l’Europa, i prodotti orientali portati dalle carovane che provenivano dall’interno, specialmente droghe e sete indiane. Mentre nel Tirreno la potenza di Genova entrò in conflitto con quella di Pisa (e vinsero i Genovesi sconfiggendo la rivale), in Oriente l’antagonismo fu principalmente tra genovesi e veneziani, per il monopolio dei commerci nel Mar Egeo e nel Mar Nero. Lo scontro si risolse, dopo alterne vicende, a favore di Venezia. I Genovesi (come i Veneziani e i Pisani) possedevano, nei porti orientali, banchine speciali per l’attracco delle loro navi, magazzini, strade, talvolta interi quartieri, governati con le leggi della madrepatria.

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Genova Repubblica marinara
Siamo agli arbori di Genova Repubblica marinara: nel 1016, per iniziativa di papa Benedetto VIII, viene allestita una flotta, composta quasi esclusivamente di navi genovesi e pisane, la quale infligge una sconfitta, lungo le coste sarde al re saraceno Mujahid che si era impadronito dell’isola e molestava con sistematiche depredazioni le coste liguri. Questa vittoria e la successiva opera di penetrazione in Sardegna e in Corsica, segna l’inizio della rivalità tra Genova e Pisa; le due città non esiteranno però ad allearsi con Gaeta, Salerno e Amalfi per combattere più volte il comune nemico:
Nella seconda metà del secolo XI si inaspriscono i conflitti tra i vescovi e i visconti; ma la lotta si compone nel 1099 per merito del vescovo Arialdo, quando nasce la Compagna Communis composta dal vescovo, dai visconti e dalle compagne locali. Riunendo i nobili, i proprietari terrieri, i cittadini dediti al commercio e alla marineria, e il vescovo che conserva i suoi poteri tradizionali, la Compagna Communis si identifica col Comune e nasce così lo Stato Genovese. Nello stesso tempo la potenza marinara di Genova si consolida e si espande sulle due riviere, da Lavagna a Ventimiglia, con vasto retroterra capace di fornirle uomini e mezzi.

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Leone alato e croce rossa di San Giorgio

Quelli che hanno viaggiato per il mar Mediterraneo e sono passati vicini ai promontori, accanto alle mille isole dell’Egeo, e sono entrati nei porti avranno visto sempre, in cima al colle che sovrasta il mare o la città, un grande castello grigio, enorme, quasi sempre abbandonato, rovinato, cadente. Ognuno di questi castelli è un segno dell’antica potenza di Venezia, di Genova, di Pisa, di Amalfi.
Essa arrivava fino a Costantinopoli, fino all’Egitto. Quando i pirati o gli infedeli vedevano all’albero di una nave la bandiera di Venezia, che era il leone alato, o la croce rossa di san Giorgio, che era la bandiera di Genova, sapevano che c’erano a bordo dei marinai animosi che non avevano paura di attaccare battaglia e, se non si sentivano molto superiori di forze, fuggivano…
Era tale il terrore che quelle bandiere davano ai pirati che quando gli abitanti dell’Inghilterra incominciarono a fare lunghi viaggi per mere con le loro navi, domandarono il permesso ai Genovesi di poter innalzare anch’essi i colori di san Giorgio, per essere più rispettati.
I Genovesi acconsentirono, e perciò, anche oggi, voi vedete che la bandiera d’Inghilterra reca, nell’angolo superiore sinistro, la croce rossa, che è quella dell’antica Repubblica di Genova.
(P. Monelli)

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Un documento commerciale marittimo del 1158

Giovanni Filardo, mercante genovese, s’era recato in Egitto, ad Alessandria, per farvi acquisti, portando un capitale di 753 lire genovesi. Al ritorno, poichè doveva allontanarsi per andare a San Giacomo di Galizia a sciogliervi un voto, stese un preciso inventario delle merci, per conoscenza del suo socio e parente Guglielmo che ne fece ricevuta. E’ forse uno dei più antichi documenti commerciali che noi oggi possediamo:
Io Guglielmo Filardo dichiaro che sono presso di me, nel mio magazzino:
I. della commenda che feci a te Giovanni dei beni di Ansaldino mio nipote:
14 sporte di pepe del peso di 65 cantari e 45 rotuli (
il cantaro era circa 80 chilogrammi e il rotulo 800 grammi)
6 fasci di legno brasile del peso di 47 cantari
10 libbre di noce moscata
1 zurra di cannella uguale
87 e mezzo menne o fasci
1 fascio di chiodi di garofano.
II: della commenda fatta a te dei beni di mio nipote Guglielmo:
3 sacchi di pepe del peso di 17 cantari e 42 rotuli
1 fascio di legno brasile del peso di 7 cantari e 52 rutuli
1 zurra di cannella del peso 187 libbre
60 libbre di spica
(olio di nardo)
2 libbre e mezzo di noce moscata
III: della società che ho teco:
2 fasci di legno brasile selvatico del peso di 16 cantari e 88 rotuli
3 sporte di pepe e tre sacchi del peso di 29 cantari e 114 rotuli
4 fasci di galanga
(radici per concia)“.

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Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA

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Cartina fisica
Confini: Mar Ligure, Toscana, Emilia Romagna, Piemonte, Francia
Golfi: di Genova (Riviera di Levante, Riviera di Ponente), del Tigullio, di La Spezia
Promontori: Capo Mele, Capo di Noli, Punta di Portofino,  Punta di Sestri Levante
Monti: Alpi Occidentali (Liguri); cime più alte: Monte Saccarello (m 2.220). Appennino Settentrionale (Ligure); cime più alte: Maggiorasca (m 1.803)
Valichi: Colle di Nava, Passo di Cadibona, Passo del Turchino, Passo dei Giovi, Passo della Scoffera, Passo di Cento Croci, Passo del Bracco
Pianure: di Albenga, di Chiavari
Fiumi: Roia, Centa, Polcevera, Bisagno, Entella, Magra col suo affluente Vara.

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Osserviamo la cartina
La Liguria comprende una fascia montuosa a forma di arco che si specchia, con un ampio golfo, nel Mar Ligure. Dura fatica hanno sostenuto i Liguri per dissodare la loro terra impervia e arida: il terreno fertile dovette essere creato a colpi di piccone. I dirupi furono ridotti a terrazze, sostenute da rocce e da muriccioli a secco per ottenere orti, campicelli, vigneti, giardini.
Tutto l’arco della costa ligure è detto Riviera, e Genova lo divide in Riviera di Ponente e Riviera di Levante, verdeggianti di pinete e di chiari olivi.

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Agricoltura

Data la natura poco fertile e la scarsità del terreno, la produzione agricola non ha grande sviluppo. Si coltivano olivi, frutta, primizie ortofrutticole e soprattutto fiori.

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Province

La Liguria conta quattro province: Genova, Imperia, Savona e La Spezia.
Genova, il capoluogo, sorge ad anfiteatro sul mare. E’ il più attivo porto del Mediterraneo ed uno dei centri siderurgici più importanti d’Italia.
Imperia è famosa per i suoi oli ed i suoi pastifici.
Savona, il secondo porto della Liguria, è un notevole centro commerciale.
La Spezia, sul golfo omonimo, è un porto militare.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio della Liguria?
Come puoi rilevare dalla cartina i fiumi liguri sono tutti assai brevi: sai spiegarne la ragione?
Quali sono i maggiori valichi che permettono le comunicazioni della Liguria con l’Emilia Romagna?
Conosci il nome dell’autostrada che congiunge Genova con Milano?
Come sono le coste liguri?
Perchè il clima della regione è mite? Quali particolari coltivazioni favorisce?
Vi sono industrie importanti in Liguria? Dove?
Che cosa sono le terrazze?
E’ molto importante la pesca in Liguria? Perchè?
Che cosa sono i vigneti del mare?
Quali sono le principali città della regione?
Perchè è importante Genova?
Quando nacque la provincia di Imperia?
Quale cittadina ligure è chiamata ‘la capitale dell’acciaio’?
Quali sono le località balneari più famose?
Ricerca notizie sull’artigianato e il folklore della Liguria.

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La Liguria

La Liguria è come una falce di luna posata sul mare. Il luminoso Tirreno blandisce le sue sponde; le Alpi e gli Appennini, a ridosso, la proteggono dai venti.E’ una stretta e arcuata striscia di terra, verde di palme e di ulivi, dalle case variopinte, profumata di fiori, di aranci, di gelsomini, e di salmastro; dove maturano i frutti più saporiti, dove i vigneti si inerpicano sulle rocce tra i pini e i cipressi, dove molli colline si alternano a brusche e scoscese riviere.
(O. Grosso)

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La costa ligure

Tutta la costa ligure è un incanto e in particolar modo la Riviera di Ponente. A ogni svolta della strada, che ora sale ora scende, ti si para davanti un nuovo quadro pieno di colore, di vita, di attrattive: qua macchie gialle di esili mimose fiorite, là boschetti di contorti ulivi dal lucido fogliame, di oleandri in fiore che spandono lontano il loro profumo; più oltre agavi dall’altissimo stelo fiorito che sembra un pino; palme di ogni specie, aurei mandarini e aranci che punteggiano il verde scuro del fogliame; e viottoli ombrosi e chiesette dedicate alla Madonna della Guardia, protettrice dei marinai, e qualche torrione rotondo da cui, nell’alto Medioevo, si sorvegliava la costa da improvvisi assalti dei Saraceni.
(G. Assereto)

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Aspetto di una scogliera

Ecco scogliere nude, che danno un marmo nero e giallo, il portoro, tra cui si abbarbica la vigna; poi la vigna si stende, e copre interamente il fondo roccioso con fusti bassi per difendere i pampini dal vento robusto del mare. Pochi e monotoni colori, ma lucenti, quasi uno smalto; e pochi personaggi, la vite, il cactus, l’agave, l’albero del fico, le case solitarie a metà pendio che non servono da abitazione ma soltanto a pigiare l’uva che appassisce sui tetti. Gli oggetti distinti a uno a uno, come in un presepe un po’ sordo.
Gli abitanti delle Cinque Terre sono piccoli vignaioli o pescatori favoriti dal mare pescoso di scoglio.
(G. Piovene)

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Il ghiottone è servito

Profumo di mare e profumo di terra: l’uno e l’altra offrono i loro doni più preziosi alla gastronomia genovese, particolarmente saporita e fantasiosa. Re indiscusso ne è il pesto, la salsa a base di aglio, basilico, formaggio pecorino e olio, pestati nel mortaio di marmo col lucido pestello di legno d’olivo. Chi non ha sentito parlare delle trenette al pesto, uno dei più tipici piatti locali?
I piatti più ricercati sono riservati per le festività solenni. A Natale, maccheroni in brodo e, come dolce tradizionale il ‘pan duce’ una specie di panettone, ma più pesante e consistente del confratello milanese.
Per San Giuseppe si friggono i ‘friscen’, frittelle di zibibbo, mele, baccalà e aromi; a Sant’Antonio di preparano zucchini ripieni, mentre i piatti di rito per il giorno dei morti sono i ‘bacilli’, fave fresche con patate, e i ‘balletti’, le castagne bollite. E altri piatti tradizionali non sono meno noti dai buongustai: frittura di gianchetti, il cappon magro, la cima (cioè la pancetta di vitello ripiena), la torta pasqualina.

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Le coste liguri

Sono molto alte. Le principali sporgenze sono Capo Mele, Noli, Portofino e Portovenere.
Molte sono le rientranze e, benché non siano grandi, presentano porti sicuri, tra cui i principali sono quelli di Genova, di La Spezia e di Savona.
In fondo al golfo di Genova, sotto il quale nome si comprende la parte più settentrionale del mar Ligure, si trova il porto di Genova, il più attivo d’Italia.
Il golfo di La Spezia è formato a occidente da una penisoletta che termina con Portovenere.
Nelle due Riviere, di Levante e di Ponente, vi sono numerose e celebri stazioni climatiche (Bordighera, Sanremo, Alassio, Nervi, Santa Margherita, Rapallo).

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Il clima della Riviera Ligure

La regione che, come un ampio anfiteatro, si affaccia sul Mar Ligure, gode di condizioni climatiche privilegiate, che si prolungano dalla Versilia e sul litorale pisano fino a Livorno. Esse sono conseguenza del contatto ampio e profondo di questa striscia litoranea col mare, della sua esposizione verso mezzogiorno che la apre all’influenza dei tiepidi e umidi venti sud-occidentali, e soprattutto dalla sua orografia, perchè i rilievi della regione non solo costituiscono un efficace schermo contro le fredde correnti settentrionali, ma anche intiepidiscono poi queste ultime per riscaldamento dinamico durante la loro discesa al mare.
Queste condizioni particolari agiscono in modo decisivo su tutti gli elementi del clima e in primo luogo sulla temperatura, che è eccezionalmente mite, tanto che la Riviera si può considerare come un grande tepidario naturale, date le sue elevate temperature invernali che hanno riscontro solo nell’Italia meridionale a sud di Napoli. Tuttavia si notano importanti diseguaglianze, sia nella Riviera di Levante, dove arriva spesso il freddo Mistral del Golfo del Leone, sia nella Riviera di Ponente, allo sbocco di alcune valli principali, da cui scendono violenti e freddi i venti del Piemonte.

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Le Cinque Terre

Dopo Levanto, la costa già alta, rocciosa, si fa ancora più aspra e precipita quasi a picco sul mare. Dal Bracco, contrafforti scendono a formare un’insenatura meravigliosa nella sua selvaggia, naturale bellezza: il Golfo delle Cinque Terre.
Ancora negli anni ’70 unico mezzo per giungere a questo piccolo angolo di quiete e di bellezza era il treno, perchè l’asperità del rilievo e una certa trascuratezza nel considerare la necessità di questi piccoli centri: Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola, Riomaggiore, hanno sempre rimandato al domani la costruzione della litoranea da lungo tempo auspicata dalle piccole comunità, troppo isolate dal centro di maggior attrazione commerciale: La Spezia.
Potrà sembrare strano in una costa dal rilievo così accentuato, dalla costa che si tuffa precipitando nel mare, ma l’attività principale degli abitanti non è la pesca, ma l’agricoltura: le colture della vite e dell’ulivo. I pescatori ci sono, ma rappresentano un’esigua minoranza della popolazione residente; e il pesce sbarcato, specie nei periodi di massimo afflusso turistico, è insufficiente a soddisfare la richiesta.
La grande meraviglia è invece su, in quei piccoli terrazzi strapiombanti sul mare dai quali i grappoli turgidi occhieggiano provocanti in agosto e settembre.
Ogni metro di terra conquistato è costato innumerevoli sacrifici alla tenace gente di questi piccoli centri; la terra, se di terra si può parlare tanto è ancora rudimentale la disgregazione della roccia madre, è stata difesa con muretti a secco, portati, pietra su pietra, da chissà dove, nei grandi cesti che gli uomini portavano sulle spalle e le donne sul capo.
Nell’epoca della vendemmia, ogni minuscolo terrazzo si anima di un fermento insolito; i piccoli sentieri, a scalini impossibili, che separano terrazzo da terrazzo, sono teatro di un continuo andirivieni di uomini e donne con grandi ceste ricolme di uva. Nei paesi l’aria è presto satura dell’odore del mosto. Il vino, sia quello bianco secco, che va giù liscio tra un calamaretto e un polipo fritto, o fra un’orata o una mormora, come quello liquoroso e di maggior gradazione e pregio, che suggella una cena tra amici o un più pretenzioso pasto, chiamato Sciacchetracche è sovente troppo magra ricompensa a tanti sacrifici e tanti sforzi e, naturalmente, non basta ad assicurare il pane per tutto l’anno, anche perchè la proprietà è molto frazionata. Perciò gli uomini, a partire dagli anni ’60, hanno lasciato la terra ai vecchi e alle donne per un’occupazione meno saltuaria e più redditizia presso l’Arsenale di La Spezia o i cantieri di Muggiano o le raffinerie di petrolio.
Sui declivi più scoscesi, dove l’opera dell’uomo non è giunta a redimere la terra, la macchia mediterranea con le sue erbe aromatiche, i suoi pini ad ombrello, le sue ginestre e i suoi lecci contende lo spazio vitale all’ulivo, meno numeroso delle viti, ma che dà un olio finissimo e molto ricercato.
Altra specialità delle Cinque Terre sono le acciughe conservate con grande cura  e abilità.
(E. Dubois)

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Le comunicazioni
Le montagne, pur occupando tutta la regione, offrono valichi frequenti alle strade che collegano la Liguria con l’Italia settentrionale, la Francia e il resto della penisola. L’arco costiero è percorso dalla via Aurelia, in molti tratti tortuosa, stretta, congestionata. Le autostrade collegano Savona con Ventimiglia e il confine francese, avviano il traffico verso il Piemonte e la Lombardia. Una linea ferroviaria percorre tutto l’arco della costa proveniente dalla Francia e diretta alla Toscana. L’aeroporto internazionale di Genova sorge su una penisola artificiale slanciata nel mare per due chilometri.

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L’agricoltura

Il territorio della Liguria, invaso dalle catene alpine e appenniniche, offre pochissimo suolo adatto alle colture; i brevi avvallamenti, i tratti limitati di pianura che potrebbero essere meglio sfruttati sono sempre più occupati dallo sviluppo edilizio. Gli agricoltori liguri, che sono una piccola parte della popolazione attiva, si dedicano perciò a coltivazioni specializzate, favorite dal clima mite, utilizzando i declivi prossimi al mare, faticosamente sistemati a terrazzi. In essi producono ortaggi pregiati e primizie, frutta, uve (molto noti sono i vini delle Cinque Terre); coltivano l’olivo e i fiori: famosi sono i garofani di Sanremo e le rose, la cui produzione raggiunge il 75% del prodotto nazionale.

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L’attività industriale

L’attività industriale della Liguria è assai intensa e di importanza primaria sul piano nazionale: notevoli sono le industrie metallurgiche e siderurgiche. Tali industrie legano la loro attività a quella dei cantieri navali. Caratteristiche della liguria sono le industrie di trasformazione di prodotti locali e di importazione: oleifici, pastifici, saponifici, zuccherifici, raffinerie.
In questa regione, affacciata sul mare, dotata di grandi impianti portuali, fonte di ricchezza sono principalmente le attività commerciali che intorno ai  porti hanno  il loro sviluppo più intenso e si irradiano lungo le strade e le ferrovie dirette all’Europa centrale e lungo le rotte di navigazione del Mediterraneo e dell’oceano Atlantico.
La dolcezza del clima e la mutevole bellezza del paesaggio sono tal da suscitare una vivacissima attività turistica estiva e invernale, distribuita lungo i centri grandi e piccoli della Riviera di Ponente e di quella di Levante, da Rapallo a Portofino, da Alassio a Sanremo, a Bordighera.

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Il ricco manto di fiori e di piante

Gran parte del fascino della Riviera di Ponente deriva dallo splendido scenario di piante e di fiori che festosamente veste ogni più remoto anglo del territorio.
La vegetazione della costa ci appare rigogliosa e varia. La macchia mediterranea, formata di arbusti profumati e sempreverdi, è integrata dai bellissimi pini marittimi e italici e dalle argentee fronde dell’ulivo, che qui trova il suo ambiente d’elezione.
Gli oleandri, i gerani, i garofani compongono, nel paesaggio avvolto da una luce ora tenera ora violenta, meravigliosi arazzi dai colori più diversi.
Sugli speroni rocciosi che si protendono verso verso il mare, crescono piante grasse xerofite, che formano un pittoresco contrasto con la nuda roccia: sono le agavi, spesso gigantesche, e i fichi d’India.
Nei giardini, sui muretti, lungo le crose, s’arrampicano le rose e i gelsomini odorosi, le passiflore e le splendide buganvillee dai fiori rossi e violetti.
Le favorevoli condizioni ambientali hanno permesso il facile acclimatarsi di piante esotiche quali gli eucalipti, le magnolie e soprattutto le palme, dalle specie più svariate, tra cui primeggiano le palme da dattero. Spuntano un po’ dappertutto tra le costruzioni, emergono dai giardini, fiancheggiano le vie.
Ma la visione più suggestiva della flora della provincia ci è offerta dallo splendido giardino Hanbury che occupa tutto il costone della Mortola e scende fino al mare; è uno dei più celebri giardini di acclimatazione di specie esotiche.
Man  mano ci si allontana dal mare e ci si inoltra nell’interno delle vallate, le pendici dei colli abbandonano il tipo di vegetazione che abbiamo descritto e ci si presentano, specie nell’alta Valle Argentina, rivestite di castagneti, di pini, di carpini e di frassini.

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Fiori e profumi

Centinaia e centinaia di ettari di terreno, nei dintorni di Sanremo, di Porto Maurizio, di Albenga, vengono coltivati a rose, a garofani,  a violette, ad acacie, a resede, a bulbose. Qui sono roseti a perdita d’occhio, là garofaneti intramezzati da colture di narcisi, di anemoni, di tuberose, di giacinti… e quali cure assidue richiede un fiore!
Un ettaro di terreno coltivato a garofani comporta l’impiego di quindici persone per tutto l’anno. Migliaia di lavoratori sono dediti alla coltura dei fiori, senza tener conto delle persone addette agli impianti irrigatori, alla fabbricazione delle ceste, all’imballaggio, alla spedizione, ai trasporti… Vi sono mercati quotidiani di fiori. Treni speciali provvedono al rapido trasporto nelle principali città italiane e straniere dei fiori recisi nelle belle aiuole della Liguria.
Quintali di vellutate corolle di rose si spediscono ogni anno dalla Riviera ligure in Francia, per l’industria profumiera, e si esportano anche viole, fiori d’arancio, lavanda, timo, menta, giaggioli.
(L. Sasso)

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Il treno dei fiori

Ogni giorno, da Ventimiglia, viaggia in Riviera un treno speciale, carico di fiori, raccolti, sui trenta chilometri dell’incantevole cornice, a Ventimiglia, Bordighera, Ospedaletti, Taggia, Riva. Fila a Genova, ove si staccano vagoni diretti a piazze interne e riceve piante e fogliami ornamentali dalla Toscana; quindi si rimette in moto, diretto ai confini di dove dispensa a quindici nazioni, dal cuore d’Europa alla Scandinavia, il sorriso della più smagliante produzione delle nostre terre…
Sette tonnellate di fiori della Riviera che portano il calore e il sole d’Italia nei freddi paesi del Nord, nelle case della Germania, della Danimarca, della Norvegia e della Svezia.
La Liguria è il regno quasi assoluto del garofano e della rosa, assieme a violette, margherite, violaciocche, resede, narcisi, anemoni, mimose, foglie ornamentali.

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La pesca

Il Mar Ligure, come si è già avuto occasione di rilevare parlando dell’economia della provincia di Genova, è poco pescoso a causa del fondale marino roccioso, della brevità della piattaforma litorale, di una indiscriminata e colpevole cattura del pesce, anche in stagioni dell’anno nelle quali essa non sarebbe consigliabile.
La pesca è praticata con imbarcazioni di piccolo tonnellaggio, che sbarcano il prodotto sulle banchine del porto di Imperia da dove il pesce raggiunge i mercati di Bordighera e di Sanremo.

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I vigneti del mare

Chi le vede per la prima volta, magari solcando le acque del golfo su un vaporetto della linea di Lerici o di Portovenere, non sa spiegarsi il perchè di quelle lunghe file di trespoli di legno affioranti dal pelo dell’acqua, allineati con precisione geometrica. Sembrano vigneti. Sotto il mare, da quei trespoli si dipartono ghirlande strane, dalle quali pendono lunghe corde, tenute verticali da grosse pietre, e su queste corde, ormai coperte d’uno spesso strato di alghe, nascono i mitili, i saporosi frutti di mare, che col nome di muscoli o di cozze sono noti ai buongustai di tutta Italia.
Questi molluschi richiedono una cura meticolosa: operai e manovali si aggirano ogni giorno su pesante barconi da carico tra i vigneti, estraggono dall’acqua le pesanti ghirlande, e poi rimettono ogni cosa al suo posto. E i piccoli pontili di legno dei mitilicoltori, coperti da pittoresche baracche costruite con legname di fortune, ricordano lontanamente i paesaggi esotici delle remote città dei mari della Cina.
(A. Lugli)

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Le province

Capoluogo della Liguria è Genova che si stende ad anfiteatro in un’ampia insenatura dell’omonimo golfo. E’ detta ‘la Superba’ per la magnificenza e la grandiosità delle sue opere d’are, tra cui il Palazzo Ducale, antica residenza dei Dogi, il Palazzo Doria, il Palazzo San Giorgio, il Palazzo Reale, la Cattedrale di San Lorenzo, la Porta Soprana. E’ un grande centro industriale e commerciale. Il suo porto, dominato dalla caratteristica Lanterna, è il secondo del Mediterraneo, il primo d’Italia per traffico di merci: vi fanno capo numerosissime linee di navigazione italiane e straniere. Nei limiti amministrativi della Grande Genova sono compresi diversi centri, che sorgono a Ponente e a Levante della città su un tratto di costa lungo circa trenta chilometri. Notissimi sono: Sampierdarena, Cornigilano e Sestri Ponente, con grandi complessi industriali e cantieri navali; Pegli e Voltri, stazioni balneari; Nervi, rinomata stazione climatica. Nei suoi dintorni sorge il celebre Santuario della Madonna della Guardia.
Imperia, formata dall’unione di Oneglia e Porto Maurizio, è sede di attive industrie ed è un importante mercato dell’olio.
Savona è uno dei maggiori porti d’Italia, specializzato soprattutto nell’importazione del carbon fossile, e sede di grandi industrie siderurgiche, meccaniche e alimentari. Il vicino porto di Vado è particolarmente attrezzato per l’importazione di petrolio.
La Spezia sorge in bella posizione, sul magnifico golfo omonimo. Vi hanno sede industrie meccaniche e chimiche, cantieri navali, raffinerie di petrolio. Il suo porto, ben protetto dalla Penisola di Portovenere, è uno dei più importanti d’Italia e base navale militare.

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Curiosità su Genova

In provincia di Alessandria (Piemonte) i paesi Novi Ligure, Parodi Ligure e altri ancora dimostrano che in antico quei luoghi erano abitati dal popolo dei Liguri.
Il via Fieschi, a Genova, c’è la casa dove Colombo passò la sua giovinezza; è vicino alla monumentale Porta Soprana, alta 31 metri, eretta nel 1155, che si apre fra due torri.
Se oggi vogliamo indicare Voltri, Pegli ed altri comuni, dobbiamo dire Genova-Voltri, Genova-Pegli, ecc. Sai perchè? Perchè nel 1026, con un regio decreto, fu disposta la fusione del comune di Genova con altri 19 comuni limitrofi.
Il nome Liguria deriva dai Liguri, i quali furono i primi abitatori della regione. Si conosce ben poco di questo popolo, giunto qui, forse, dalla Spagna, all’alba della storia. E’ certo, però, che nel settimo secolo aC, i Liguri occupavano un territorio che si estendeva a nord fino al fiume Po e oltre, e che era, quindi, assai più vasto di quello della Liguria d’oggi.
Numerosi paesi della Liguria, soprattutto della Riviera di Ponente, appaiono divisi in due parti: una nuova, costruita in riva al mare, e l’altra, antica, costruita un po’ più addentro sui colli. Fu la paura dei pirati che spinse la popolazione a cercare riparo in alto nel retroterra.

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Curiosità su Savona

Curiosa sorte quella di Savona: non è né la più piccola né la più grande provincia italiana; non è né la più nota né la più importante; eppure è l’unica che può vantare un tratto di Alpi, un tratto di Appennini ed un tratto di mare tutti per sé.
Una nota leggendaria farebbe derivare Priamar dal nome di un condottiero cartaginese. La toponomastica, invece, certo con maggior fondamento, lo fa derivare da due termini dialettali: pria (pietra) e mar (mare). Quindi il significato è chiarissimo: la fortezza Priamar non è che uno scoglio sul mare.
A Garessio, secondo un’antica leggenda, nelle balze della Pietra Ardena, avrebbe trovato rifugio nel secolo X Alasia, figlia dell’Imperatore di Germania Ottone I, e Aleramo, capostipite dei marchesi di Monferrato.
Dal 1950 Albenga si è arricchita del Museo Navale Romano unico nel suo genere, in seguito al tentativo di recupero del carico e dei resti di una nave romana del I secolo aC affondata a due miglia dalla riva, intrapreso dalla celebre nave Artiglio. Il mare ha così restituito oltre mille anfore vinarie, resti lignei e metallici dello scafo, numerosi vasi di diverso tipo, provenienti forse dalla cucina della nave, varie rifiniture metalliche, oggetti nautici e tre elmi di bronzo.

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Curiosità su La Spezia

Lo sai che il ‘La’ che si premette al nome Spezia è un articolo? Fin dalle più antiche carte geografiche lo si trova infatti declinato come tale. Quindi dovrei dire ‘provincia della Spezia’, ‘golfo della Spezia’, e così via. Purtroppo non tutti sanno o ricordano questa regoletta grammaticale e capita abbastanza spesso di trovar scritto, anche in documenti ufficiali, ‘provincia di La Spezia’, o ‘una nave proveniente da La Spezia’.
Se ti trovi alla Spezia la seconda domenica d’agosto, potrai godere di una interessante manifestazione folkloristica: il Palio Marinaro del Golfo. E’ una gara remiera, che si disputa su un percorso di duemila metri nelle acque della rada e vi partecipano tutte le borgate del Golfo con le loro imbarcazioni tipiche a quattro vogatori. Prima della gara si snoda attraverso le vie della città un pittoresco corteo, al quale partecipano anche rappresentanze in costumi medioevali delle antiche Repubbliche marinare.
I buongustai sanno che a Portovenere o nell’isola Palmaria si può gustare un piatto prelibato: la zuppa di datteri marini. La tradizione vuole che lo stesso Federico Barbarossa ne fosse tanto ghiotto, da far obbligo ai Signori del luogo di consegnargli uno scudo pieno di datteri ogni volta che con i suoi soldati passasse da quelle parti.

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Il più potente faro d’Italia

Dice un vecchio proverbio genovese che ogni volta che un napoletano entra in porto, la Lanterna, cioè il faro di  Genova che si innalza sul Capo Benigno, si metta a tremare… Perchè la Lanterna si metta a tremare il proverbio non lo dice, ma è facile capire che non sia esattamente per la gioia di illuminare un forestiero.
Sul Capo Promontorio, detto successivamente di San Benigno, o di Faro, vi fu in origine un piccolo fortilizio romano che vigilava sulla vicina via Aurelia e sul mare: e furono i primi fuochi di bivacco di quella guarnigione a dar seguito alla consuetudine, creando un punto luminoso di riferimento sicuro per le navi in rotta davanti a Genova. Il piccolo fortilizio continuò a servire anche dopo la caduta di Roma. La prima torre che fu costruita nel perimetro del fortilizio risale ai primi anni del secolo dodicesimo: una torre di modeste dimensioni sulla quale si facevano segnali con piccoli fuochi, come accadeva in tutte le altre torri del tempo.
Nel 1543, poi, i Padri del Comune decisero di fabbricare di nuovo la torre. I lavori durarono un anno. Antiche carte parlano di 2000 quintali di calce, 120.000 mattoni, 2600 palmi di pietra lavorata a scalpello, ed altri 1000 di pietra pregiata di Finale di Lavagna.
(G. V. Grazzini)

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Nascita di una città

Imperia è nata soltanto il 21 ottobre 1923, quando un decreto del governo stabilì l’unione dei comuni di Oneglia e di Porto Maurizio: tra i due abitati scorrono le acque del torrente Impero, che un tempo divideva le due città sorelle.
Ora i due centri sono collegati da una strada fiancheggiata da pini e da piante esotiche, ampia e panoramica, nel cui punto medio è stato eretto il Municipio. Negli ultimi anni, però, moltissime costruzioni sono sorte lungo i tre chilometri del viale e gli abitati si sono fusi senza soluzione di continuità.
Nonostante questo, Oneglia e Porto Maurizio conservano caratteristiche proprie, sia per la posizione geografica che per l’aspetto e la vita economica.
Il volto di Imperia è dunque composito, ma non per questo meno interessante; il turista che voglia visitarla ha dunque la singolare possibilità di conoscere due città in una.
Oneglia, tutta al piano, con le belle vie rettilinee e spaziose, ha l’aspetto di città commerciale e industriale; Porto Maurizio assomma alle caratteristiche dei tipici centri liguri, con la città vecchia disposta sul promontorio roccioso, quelle di moderna città residenziale, animata da ville e alberghi e allietata da giardini ricchi di fiori e di palme.

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La Spezia

Alla fine del Settecento La Spezia aveva tremila abitanti. Nel 1849 Massimo d’Azeglio, ospite di amici spezzini, scriveva alla moglie una frase che brucia ancora adesso: “Qui il paese è codino (retrogado) e ci si fa la vita più tranquilla del mondo”.
Ma Napoleone aveva avuto l’intuizione di costruire nel paese ‘codino’ un porto militare; Cavour riesumò l’idea napoleonica e la fece sua; fra il 1862 e il 1869, secondo i progetti del generale Chiodo, fu edificato l’arsenale. Cominciò così l’aumento vorticoso della popolazione, accorsa da ogni parte d’Italia.
La Spezia può essere considerata città di pionieri, improvvisa e artificiale, tipo Texas. Nascono intorno all’arsenale le industrie navali e meccaniche. Le strade sono piene di ufficiali e di marinai. Viene un periodo di prosperità concentrato intorno alla marina. Poi, la guerra: La Spezia è distrutta. Nel 1945 è ridotta in rovine, ed è abbandonata a se stessa.
Oggi è di nuovo un’importante città industriale.

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Camogli

Camogli è una graziosa cittadina, cosparsa di ville degradanti verso il mare, un angolo pittoresco della pittoresca Liguria, dove il soggiorno per il turista è veramente incantevole.
Ma Camogli è anche rinomato centro peschereccio, città di pescatori e di uomini di mare, e fin dall’antichità ha dato alla marineria ottimi armatori e valenti capitani la cui fama è corsa attraverso i mari fin ai più lontani paesi.
I ‘bianchi velieri’ di Camogli, come venivano chiamati i bastimenti, i ‘barchi’, erano così numerosi e così conosciuti in tutto il mondo che lo stesso Luigi Filippo, re di Francia, quando nel 1830 intraprese la conquista dell’Algeria, pensò di servirsi di essi per il trasporto di artiglierie, di batterie, di carriaggi, di derrate, di foraggi. La marina mercantile camogliese fu ritenuta, dunque, più adatta di quella francese per le necessità di una campagna che doveva durare dieci anni.
E attraverso i secoli Camogli è sempre stata all’altezza della sua fama. Anche Camillo di Cavour soleva dire che se i servizi per le truppe piemontesi andarono bene durante la guerra di Crimea, il merito era tutto dei camogliesi che avevano saputo dare al Piemonte una vera flotta mercantile.
Ma in alcuni giorni dell’anno, la graziosa cittadina sembra dimenticare il consueto, duro e tenace lavoro: si anima e diviene allegra, riempendosi di gente giunta da ogni parte d’Italia. E’ il tempo delle manifestazioni folkloristiche, tra cui è rinomata la Sagra del Pesce.
Sul porticciolo di Camogli, in mezzo a una folla variopinta e chiassosa, i pescatori friggono quintali e quintali di pesce in enormi padelle. Poi lo offrono a tutti generosamente, secondo una gentile tradizione di ospitalità: “Mangiate pesce! Mangiate fosforo fritto!” essi gridano allegramente, muovendosi tra i tavoli pieni di commensali improvvisati ed offrendo piatti colmi di pesce dorato e croccante. E tutti mangiano abbondantemente fra risa, canti, motteggi, richiami.
Camogli, cittadina di sogno, in questi giorni sembra davvero un’altra, sembra perfino aver dimenticato quella riservatezza e quella scontrosità propria degli uomini di mare.

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I fuochi di San Giovanni

Genova la notte di San Giovanni è tanto piena di luci, di razzi, di falò, da far pensare, a chi la vede dall’alto del Castelletto o dal Righi, che il bel cielo di giugno tempestato di stelle si sia rovesciato e l’abbia imbrillantata dei sui fulgori.
Le piazze e le strade sono invase, e la folla, densa come una colata di lava, è attraversata da righe di palloncini multicolori, da solchi di bengala abbaglianti, da processioni di fantastici quadri di carta velina illuminata; è agitata da canzoni, da trilli felici, da grida di venditori ambulanti, da suoni di fisarmoniche e di chitarre.
Il mare umano si incanala su per i carruggi e passa tra le case che, scintillanti di fiamme su tutte le finestre, pare che anch’esse si prendano a braccetto, perchè gettano da una facciata all’altra, dall’uno all’altro balconcino o terrazzo ghirlande di lanterne di carta, e da ogni angolo spunta un altarino coronato di fiori freschi e ornato di lumini a olio o lampadine elettriche.
Canta uno dei tipici poeti genovesi, Carlo Malinverni:
“Dove gh’è lampa o candeja
gh’è o Battista in te unn-a niccia,
no se sbaglia, ch’è un Baciccia
dove l’è acceizo un falò”.
Sì, perchè San Giovanni Battista è il patrono di Genova, e col nome di Giovan Battista erano battezzati migliaia di bambini genovesi che diventavano prima Baciccin e poi Baciccia.
(E. Cozzani)

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Visita al porto

Vogliamo visitare un grande porto marittimo? Ecco all’esterno un lungo e spesso muro che affiora tra i flutti e sembra difendere le acque interne dalla violenza dei marosi: è la diga foranea, che se da un’estremità è congiunta alla terraferma prende il nome di molo frangiflutti.
All’estremità della diga si leva la torre cilindrica del faro che, durante la notte, indica alle navi in arrivo l’imboccatura del porto.
Il faro vero e proprio è una potente lampada elettrica circondata da un sistema di lenti, prismi e specchi, i quali proiettano il fascio luminoso a grande distanza (anche 30 chilometri). Il faro, o proiettore, è girevole e può illuminare così tutti i punti dell’orizzonte. Ogni faro ha un suo linguaggio: cioè la durata d’accensione e di spegnimento è diversa per ogni porto; in tal modo i marinai possono sapere a quale località si stanno accostando.
Proseguendo l’esplorazione, scorgiamo, ormeggiata, una piccola imbarcazione a motore. E’ la lancia o pilotina, per il fatto che reca a bordo un esperto pilota, il quale salito sulla nave in arrivo, conoscendo bene il porto, la potrà condurre con sicurezza al molo che è stato destinato dalla Capitaneria di Porto. Questa utile ed essenziale assistenza si chiama ‘servizio di pilotaggio’.
Ma guardate là: altre piccole e tozzi imbarcazioni si accostano alle grandi navi, le prendono a rimorchio con dei cavi, le fanno delicatamente manovrare sulla loro scia, e le conducono, quasi per mano, al loro posto tra le altre navi già in sosta: si tratta dei rimorchiatori, i corti ma potenti battelli che hanno il compito di far eseguire alle loro sorelle maggiori quei piccoli spostamenti che esse, ingombranti come sono, da sole non saprebbero compiere. Così al momento della partenza, le estraggono dallo schieramento delle altre navi e le trascinano fin là da dove prenderanno il largo.
Giunte dunque al loro posteggio, le navi vengono trattenute alla terraferma con le gomene, grosse funi che si avvolgono attorno a certe colonnette di ferro (le bitte) fissate sulle banchine, e gettano l’ancora.
La nave che seguiamo è da carico; viene quindi avviata verso la zona destinata a tali navi.
Da vari ponti sporgenti qua e là si levano attrezzature per il carico e lo scarico delle merci: le gru. Esse prelevano rapidamente il materiale dalla stiva delle navi e lo depongono sulle chiatte, o sui vagoni merci o sulle stesse banchine, o anche su appositi autocarri. Il raggio d’azione delle gru si dice sbraccio; esso può raggiungere una trentina di metri e reggere il peso di qualche tonnellata.
C’è inoltre, nel grande porto, una zona appartata che appare chiusa da sbarramenti. Perchè? Qui approdano le grandi petroliere, cariche del prezioso ma pericoloso liquido infiammabile.
Entrate nel loro grande recinto di acqua, gli sbarramenti impediranno che il petrolio eventualmente sparso sulle acque, galleggiando si diffonda nel porto, con grave pericolo di incendio per tutte le altre navi in sosta. Da questa zona partono i tubi che si innestano negli oleodotti: questi poi raggiungono città e terre anche molto lontane.
Il porto di Genova merita una visita perchè è il primo d’Italia e del Mediterraneo per il movimento di merci. La sua grande espansione avvenne dopo il 1860; sino a quell’epoca era limitato al bacino del Porto Vecchio. Ecco come si dividono e come si denominano le sue zone più importanti: l’Avamporto, zona di attesa delle navi; il Bacino delle Grazie, per le navi in riparazione; il Ponte Doria e il Ponte dei Mille, stazioni per il servizio passeggeri.
In prosecuzione al porto, nella zona di Cornigliano, c’è l’aeroporto, e presso Sestri Ponente sorge un altro porto per i cantieri navali e per i petroli.

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I Liguri

I Liguri stanno affacciati al mare dal davanzale dei loro monti, e han voci strascicate unte d’olio, parlano come se avessero la bocca piena di sardine all’olio. Storcono la bocca, parlando, e questo forse viene per la ragione che le loro parole non sono rotonde, ma bislunghe, fatte a losanga, a triangolo isoscele, e per farle uscire di bocca bisogna storcere la bocca. Oppure per la ragione che i liguri le tengono tra i denti, e non le vogliono lasciar andare, e se le ciucciano, e le mordono, e le stringono tra le gengive, e quelle si divincolano, si dimenano, per uscire, finché escono di bocca unte e storte. Oppure perchè le parole liguri sono fatte come i pesci, e vogliono sgusciare di bocca, e conviene tenerle, perchè il discorso venga fuori con le parole-lische e gli aggettivi, e i verbi a posto, l’un dietro l’altro, secondo l’ordine dell’italiano.
Vivono in un paese stretto tra il mare e i monti, e non han posto per camminare, e perciò vanno in barca e solo per questo sono marinai, quando sono marinai. Poiché non è detto che sian tutti marinai; in grandissima parte sono montanari o contadini, e coltivano l’olio, il grano, poco vino, e fiori.
La maggior parte vive sui monti, o in collina. E la minor parte sta di casa sul mare, cammina stando attenta a non bagnarsi i piedi, così stretta è la riva, tanto che la sera i genovesi non escono di casa, per paura di cascare nell’acqua.
(Curzio Malaparte)

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Liguria

La Liguria più vera, quella che conserva un’anima antica e un volto più umano, non la trovi sulle spiagge affollate di turisti o nei grandi centri mercantili e industriali, ma è nell’interno dove la terra si fa arida, pietrosa, aspra, dove ogni palmo conquistato alle colture è un giardino, dove le linee del paesaggio, acceso dal sole e confortato dalla presenza del mare, ha una sobria grazia, che occorre saper assaporare conquistandola per le strette, lastricate stradine dei colli che scendono ripidi al mare.
E’ la Liguria una terra leggiadra.
Il sasso ardente, l’argilla pulita,
s’avvivano di pampini al sole.
E’ gigante l’ulivo. A primavera
appar dovunque la mimosa effimera.
Ombra e sole s’alternano
per quelle fonde valli
che si celano al mare,
per le vie lastricate
che vanno in su, fra campi di rose,
pozzi e terre spaccate,
costeggiando poderi e vigne chiuse.
In quell’arida terra il sole striscia
sulle pietre come un serpe.
Il mare in certi giorni
è un giardino fiorito.
Reca messaggi il vento.
Venere torna a nascere
ai soffi del maestrale.
O chiese di Liguria, come navi
disposte a esser varate!
O aperti ai vanti e all’onde
liguri cimiteri!
Una rosea tristezza vi colora
quando di sera, simile ad un fiore
che marcisce, la grande luce
si va sfacendo e muore. (V. Cardarelli)

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Nel porto di Genova

Al porto il battello si posa:
nel crepuscolo che brilla,
negli alberi quieti di frutti di luce,
nel paesaggio mitico
di navi nel seno dell’infinito,
ne la sera
calida di felicità, lucente
in un grande in un grande velario
di diamanti disteso sul crepuscolo,
in mille e mille diamanti, in un grande velario vivente
il battello si scarica
ininterrottamente cigolante,
instancabilmente introna;
e la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul molo
corrono i fanciulli e gridano
con gridi di felicità.
Già a frotte s’avventurano
i viaggiatori alla città tonante
che stende le sue piazze e le sue vie;
la grande luce mediterranea
s’è fusa in pietra di cenere:
pei vichi antichi e profondi
fragore di vita, gioia intensa e fugace:
velario d’oro di felicità
è il cielo ove il sole ricchissimo
lasciò le sue spoglie preziose.
E la Città comprende
e s’accende
e la fiamma titilla ed assorbe
i resti magnificenti del sole,
e intesse un sudario d’oblio,
divino per gli uomini stanchi.
Perdute nel crepuscolo tonante
ombre di viaggiatori
vanno per la Superba
terribili e grotteschi come ciechi.
Vasto, dentro un odor tenue, vanito
di catrame, vegliato da le lune
elettriche, sul mare appena vivo,
il vasto porto si addorme. (Dino Campana)

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Vecchia Zena
(Genova)
Scendi al sestriere de La Maddalena,
svolta nel vico dell’Amor Perfetto
che sottile s’avvia, fra tetto e tetto,
alla piazzetta nitida e serena.
Tace, sopita, l’affannosa pena
fra questi muri di vetusto aspetto
e si spegne il frastuono di Campetto,
pulsante arteria nella vecchia Zena.
Poco lontano, Sottoripa, al Molo,
tanti oscuri caruggi maleodoranti
si snodano, ovattati di mistero.
Nel vico dell’Amor Perfetto, solo,
s’acciambella indolente un gatto nero. (C. Mandel)

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Le palme di Sanremo

Tu mi dicevi: Guarda com’è bella
e come ignuda dorme la Riviera
mentre sommerge l’estasi lunare
le palme di Sanremo abbandonate
alle fiumane tacite del vento
all’umore implacabile del mare. (G. Ligurio)

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Sera di Liguria

Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria…
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare. (V. Cardarelli)

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Paesetto di Riviera

La sera amorosa
ha raccolto le logge
per farle salpare;
le case tranquille,
sognanti la rosea
vaghezza dei poggi,
discendono al mare
in isole, in ville,
accanto alle chiese. (A. Gatto)

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IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
Come si diventa cavaliere

A sette anni, il figlio di un nobile o di un cavaliere, cominciava un’educazione robusta fra giochi militari  nel castello paterno: quindi, uscito dall’infanzia, andava come paggio presso qualche barone rinomato per fasto, per antichità di stirpe, o generosità d’imprese. Lì rendeva servigi al signore e alla dama, corteggiando, ossequiando, accompagnando in viaggi, in visite, in passeggi: servendo i confetti, i dolci, il vin chiaretto e il cotto, e altre bevande con cui si chiudeva la mensa o preveniva il sonno.

Intanto col cavallo o col falcone cacciava le fiere e gli uccelli; in finti attacchi avvezzava l’animo alla guerra; ed alla guerra ed all’onore lo incitava l’esempio di baroni e cavalieri. A quattordici anni, padre e madre, col cero alla mano, conducevano il ragazzo all’altare, dal quale il sacerdote celebrante prendeva una spada e una cintura, e benedetti, li cingeva al giovane che diventava così scudiero: padrini e madrine promettevano amore e lealtà suo nome e gli stringevano gli sperono d’argento. Allora egli si accompagnava a qualche cavaliere, vigilava sui cavalli, teneva in ordine le armi, portandole al suo signore quando doveva usarle, e tenendogli la staffa quando montava in sella; custodiva i prigionieri; viaggiando conduceva a mano il destriero sul quale cavalcava il suo padrone.

Dopo alcuni anni di tale vita, l’iniziato si preparava a ricevere l’ordine della cavalleria con digiuni, preghiere, penitenze; poi si comunicava e vestiva l’abito bianco in segno dell’acquistata purezza, spesso si lavava accuratamente in un bagno. Poi cambiava la candida veste dell’innocenza in quella scarlatta che esprimeva il desiderio di versare il sangue per la religione, e si faceva tagliare i capelli in segno di servitù. Durante tutta la notte precedente la cerimonia faceva orazioni solo o con sacerdoti o con padrini. Giunto l’istante solenne, era accompagnato all’altare da cavalieri e scudieri, si inginocchiava con la spada a tracolla, e si offriva al sacerdote che lo benediceva e gliela rimetteva. Il signore che lo doveva nominare cavaliere gli domandava: “Perchè vuoi essere cavaliere? Per farti ricco? Trarre onore senza farne alla cavalleria?”. L’aspirante rispondeva di volerlo per onorare Dio, la religione e la cavalleria, e ne dava giuramento sulla spada del signore. Allora il giovane veniva addobbato da più cavalieri, dame, damigelle, che gli mettevano la maglia d’acciaio, la corazza, i bracciali, i guanti, la spada, e gli speroni d’oro, distintivo della sua dignità. Il signore, alzandosi dal suo seggio, gli dava tre colpi di piatto con la spada nuda sopra la spalla e uno schiaffo, ultima ingiuria che egli dovesse soffrire invendicato; e gli diceva: “In nome di Dio, di San Giorgio, di San Michele, ti fo cavaliere, sii prode, coraggioso, leale”. Allora erano portati al nuovo cavaliere l’elmo, lo scudo, la lancia, il cavallo sul quale, balzando senza staffa, caracollava brandendo le armi, e uscito di chiesa faceva altrettanto innanzi al popolo applaudente. (C. Cantù)

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
I dieci comandamenti della Cavalleria
Ecco le dieci norme e comandamenti che si insegnavano ai giovani in attesa di essere investiti cavalieri.
1. Crederai agli insegnamenti della Chiesa e ne osserverai i comandamenti.
2. Proteggerai la Chiesa.
3. Difenderai ogni debole.
4. Amerai il paese in cui sei nato.
5. Non indietreggerai mai davanti al nemico.
6. Combatterai fino all’ultimo sangue contro gli infedeli.
7. Adempirai ai tuoi doveri feudali, purché non contrastino con la legge di Dio.
8. Non mentirai, e manterrai la parola data.
9. Sarai munifico e generoso con tutti.
10. Sarai sempre e dovunque il difensore del diritto e del bene contro l’ingiustizia e il male.

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
Il futuro cavaliere
(dialogo immaginario all’interno di un castello)
Ragazzo: Che scalpitio di cavalli, che abbaiare di cani, che affaccendarsi di scudieri e di servi questa mattina! Ora il castello è tornato più silenzioso di sempre. Che noia… Hai visto quanto erano belli i nuovi cavalli del conte? Hai osservato i nuovi falchi e sparvieri ammaestrati?
Bambina: Che uccellacci!
Ragazzo: Sì, ma volano in alto e portano la preda!
Bambina: A me ha fatto impressione solo il fatto che questa volta il conte e la contessa avevano con sé il figlio minore, che non ha ancora sette anni: già sulla sella di un cavallo, poverino!
Ragazzo: Fortunato lui, invece! Egli è destinato a diventare cavaliere. Per questo il conte ha voluto che sapesse cavalcare prestissimo. Fra non molto, so che lascerà questo castello e si recherà presso un altro feudatario, di cui diventerà paggio. Imparerà a servire gentilmente il signore e la sua dama. Poi, a quattordici anni, diverrà scudiero: imparerà l’uso delle armi, avrà cura del cavallo e del suo signore e dei cavalieri suoi ospiti, gli porterà lo scudo e provvederà a mille servizi sempre meno umili, finché a ventun anni potrà avere l’investitura a cavaliere. E allora a lui saranno riserbate magnifiche imprese e avventure, come quelle che narrano i giullari che arrivano al castello. Oh, se potessi diventare anch’io un cavaliere!
Bambina: Un cavaliere tu? Il figlio di un fabbro? Sarebbe lo stesso che io, figlia di un mugnaio, sognassi di diventare una dama. La cavalleria è dei nobili!
(R. Botticelli)

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Degradazione di un cavaliere

Se un cavaliere compiva un atto basso o vile subiva la degradazione. Le sue armi venivano spezzate, dal suo scudo si cancellava lo stemma, poi lo si appendeva alla coda di un cavallo che lo trascinava nel fango. Intanto il colpevole era coperto di contumelie e gli si diceva che il suo vero nome era quello di traditore. Poi gli veniva rovesciata una bacinella di acqua calda sul capo come a significare che gli veniva cancellata l’investitura. Finalmente, avvolto in un panno funereo, l’ex-cavaliere veniva condotto in chiesa e su di lui, chiuso sotto un graticcio, si celebrava l’ufficio dei morti. I suoi figli erano dichiarati ignobili e banditi dalla corte e dall’esercito. (A. Gigli)

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Le città nell’età feudale

Le città nell’età feudale, fin verso il X secolo, sono scarse di popolazione, prive di importanza economica e politica. Formano, di diritto, parte di un feudo, ma il signore non le cura: vigilano su di esse i vescovi. La popolazione è formata da militi e da una classe di operai e artigiani.

In qualche città si tenevano mercati, in cui gli abitanti della campagna periodicamente si recavano per scambiare l’eccesso dei loro prodotti con gli oggetti fabbricati dagli artigiani urbani.

La tecnica fece nel Medioevo molti importanti progressi, grazie soprattutto all’inventiva degli artigiani. Non progredì invece la scienza, cioè lo studio  e la conoscenza delle leggi e delle forze della natura: nelle università medievali, sorte poco dopo il Mille, lo studio della natura era trascurato a favore delle discipline tradizionali (teologia, filosofia, grammatica, retorica e poche altre). I progressi tecnici, d’altronde, poco giovarono al miglioramento delle condizioni di vita, che nelle campagne e specialmente nelle città medioevali erano senz’altro disastrose.

Caduti in rovina gli acquedotti romani, le città restarono prive di sicuri e abbondanti rifornimenti d’acqua potabile. Le strade erano ingombre di ogni sorta di sozzure, perchè le fognature mancavano del tutto, e così la pavimentazione stradale: i rifiuti venivano gettati dalle finestre. L’inosservanza di qualsiasi igiene era la causa, naturalmente, di terribili e frequenti epidemie. Di notte, le strade non erano illuminate, e quindi malsicure: in pratica, la vita cittadina si interrompeva totalmente al calar del sole, per riprendere solamente all’alba. Solo all’inizio dei tempi moderni, dal 500 in poi, si ebbe qualche progresso: le strade vennero pavimentate, si costruirono acquedotti e fu introdotto un primitivo sistema di illuminazione. (A. Gigli)

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
Come ci si comportava a tavola nell’epoca medioevale

Nel Medioevo si mangiava, come si fa ancora in certe campagne, in semplici scodelle, usando il cucchiaio e il coltello (spesso un coltello serviva per due o più persone), ma l’uso di un piatto per ciascun convitato era sconosciuto e così pure quello delle forchette e dei tovaglioli. Le tovaglie erano una rarità riservata ai giorni di festa nelle case dei ricchi. Solo nel secolo XIV si cominciò ad adottare la biancheria da tavola e da allora si diffuse sempre più. Le tovaglie, quando si mettevano, scendevano fino a terra; i convitati, che adoperavano abbondantemente le dita per portarsi in bocca i cibi, le usavano per pulirsele e anche per la bocca e la barba; così che nei grandi pranzi, si dovevano cambiare le tovaglie dopo le portate principali.

Al principio dei pasti ci si lavava le mai con poche gocce d’acqua versate da un’ampolla sopra un piccolo catino. Nei monasteri era lo stesso abate che in segno di cortesia versava l’acqua sulle dita dei suoi ospiti; nelle case signorili questo servizio era invece reso dagli scudieri. Il loro arrivo con le ampolle e i catini era il modo con cui si annunciava che il pranzo era pronto. Quando si voleva essere raffinati si serviva acqua profumata con infusioni di petali di rosa, di menta, di verbena.

Il primo piatto era una minestra assai liquida, versata in una scodella e nella quale si inzuppava una fetta di pane; per portarla alla bocca si adoperava il cucchiaio. Poi veniva il piatto di carne costituito da grandi arrosti, o umidi, che venivano tagliati a fette e serviti su larghi pezzi di pane posti, come oggi si fa con i piatti, davanti ad ogni convitato; i pezzi di pane di inzuppavano di sugo e si mangiava il pane e la carne simultaneamente a morsi come oggi si fa con i panini. Nei grandi pranzi non si mangiava il pane, che veniva raccolto in ceste e dato ai poveri.

Nelle tavole signorili, gli scudieri erano incaricati di rifornire di carne le fette di pane dei loro signori; oppure ognuno si serviva mettendo la mano nel piatto centrale, ed era raccomandato di farlo con delicatezza e di non affondare nel sugo che la punta delle dita. Alla fine del pasto era servito il vino nel quale era anche usanza inzuppare del pane o dei biscotti. (G. Haucourt)

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Cibi del Medioevo

Osservando delle miniature o delle pitture riproducenti scene di vita medioevale notiamo anche banchetti con tavole ricche e piatti appetitosi. Questi consistevano principalmente di carne di maiale, di cinghiale, di coniglio e, rare volte, di bue, animale il cui allevamento era costoso. Pure apprezzati erano il fagiano ed il pavone le cui carni erano cotte e poi portate a tavola in piatti ornati delle loro superbe e policrome piume. Anche i piccioni, il cui allevamento era riservato ai ricchi, erano di frequente fra i piatti prelibati.

Durante i digiuni, imposti dalla religione cristiana, i banchetti si arricchivano di pesci, per lo più di carpe, di tinche, che popolavano i fossati pieni d’acqua che circondavano le mura. Si consumava anche carne di aringhe secche e di molluschi di mare.

Il cibo veniva condito con varie spezie; perciò molti erano i mercanti che le commerciavano, detti speziali. Tra le più importanti spezie, per lo più di provenienza orientale, ricordiamo: il chiodo di garofano, che veniva masticato dai cortigiani per rendere profumato l’alito; lo zenzero, col quale veniva profumato il pan pepato; la noce moscata, il cui svariato uso è noto anche oggi; e infine lo zafferano e il pepe, che avevano prezzi proibitivi e venivano dai più sostituiti con aglio, cipolla, senape. I nostri avi non poterono gustare la carne di tacchino, né la fragranza del pomodoro, né la patata., non essendo stata ancora scoperta l’America, da cui furono in seguito importati.

E i dolci? Uno, squisito, era costituito da una specie di torrone, pieno di mandorle e di pistacchi e di miele, detto ‘halva’; un altro dolce era il ‘lokum’, un insieme di amido e pistacchi. Assai diffuso era il gelato, in particolare al melograno o al miele. Non esistendo i nostri moderni frigoriferi, il ghiaccio necessario veniva preparato durante le fredde notti invernali. Preparata l’acqua in bacini poco profondi, una volta ghiacciata col rigore del freddo, veniva immessa nel fondo a fresche cantine, particolarmente adatte alla sua conservazione. I gelati si ottenevano grattugiando il ghiaccio e aggiungendovi miele, amido cotto ed essenze varie.

Nel XIII secolo in Europa non si beveva ancora il caffè, né il tè, bevande invece già note agli Arabi

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L’igiene personale nel Medioevo

Generalmente nel Medioevo la toletta quotidiana di faceva dopo essersi vestiti e si limitava al lavaggio delle parti del corpo che restavano ancora visibili, ossia la faccia e le mani. Non c’erano allora gabinetti appartati, ma ci si lavava nella stessa camera dove si dormiva. L’uso medioevale era di dormire in molte persone in una stessa camera.

Ma non si può dire che in quest’epoca si fosse incapaci di una pulizia più a fondo; questa era fatta nelle occasioni importanti, una volta alla settimana o anche più di rado, a torso nudo davanti a un secchio d’acqua.

Gli abitanti delle città e dei castelli conoscevano anche i piaceri del bagno, che i monasteri riservavano sono ai malati ed ai convalescenti. Questo ristoro veniva preso nelle tinozze di legno che servivano a fare il bucato. Se ne copriva il fondo con un panno per impedire che le scaglie potessero ferire la pelle, e il bagnante vi si sedeva dentro con le ginocchia piegate. Questi bagni a domicilio si prendevano o di mattina o al ritorno da un esercizio faticoso come un viaggio, una caccia, un torneo.

Per le persone meno ricche, esistevano anche dei bagni pubblici, di cui a Parigi nel 1282 ne ne contavano non meno di 26. Essi restavano aperti tutti i giorni eccetto le domeniche e i giorni di festa. Quando l’acqua era calda, venivano mandati per la città degli annunciatori che gridavano che i bagni erano pronti.

Non mancavano, allora come sempre, le cure di eleganza: depilazioni, uso di unguenti e profumi, tintura dei capelli. Noi conosciamo molte ricette medievali di bellezza quasi tutte fatte a base di erbe, radici e fiori.
(G. Haucourt)

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Spettacoli teatrali nel Medioevo

Gli attori non indossavano costumi nell’antichità, ma vestiti del loro tempo che erano diversi secondo la professione (per esempio i medici vestivano in un certo modo, e così i maestri, gli avvocati, ecc.). Quando entravano in scena essi si annunciavano indicando il personaggio che rappresentavano: per esempio “Io sono Abramo”, oppure “Io sono Erode” e così via. Dio Onnipotente aveva una barba maestosa e una mitra in testa e portava guanti e mantello bianchi. I re cattivi avevano un turbante come gli arabi e giuravano in nome di Belzebù. I gran sacerdoti ebrei erano vestiti come vescovi cristiani ed erano sempre radunati in consiglio. I dottori della legge avevano cappucci rotondi e cappe di pelliccia. Contadini e soldati portavano vestiti dei contadini e dei soldati del tempo. Maria Maddalena, prima della conversione, era sempre addobbata con vestiti fastosi.
Gli angeli salivano e scendevano dal cielo per mezzo di scale a pioli di legno appoggiate ai muri. Impressionante era la bocca dell’inferno, fatta in modo che si poteva aprire e chiudere; diavoli neri, blu e rossi ne uscivano fuori per reclamare e trascinarsi dentro i dannati, mentre un gran fracasso di pentole e pignatte stava ad indicare la discordia e la confusione che regna all’inferno.
(C.M. Smith)

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I giochi del Medioevo

Molti giochi che pratichiamo oggi hanno origine da quelli che si tenevano nel Medioevo. Il gioco del calcio, per esempio, era già in uso nelle città italiane a quei tempi; e così la pallacorda, cioè quel gioco che ora si chiama tennis. I bambini piccoli si accontentavano della palla, una bella palla di legno, mentre le bambine avevano bambole di pezza col viso di terracotta dipinta. Gli adulti si cimentavano nelle gare di nuoto, di salto, di tiro alla fionda e di tiro al bersaglio. Ma c’erano giochi molto curiosi nel Medioevo.
A Bologna si usava il gioco delle uova che consisteva in una battaglia fra due squadre di giovani; gli uni armati di bastoni; gli altri, che portavano maschere a rete di ferro per proteggere le facce, armati… di ceste di uova.
A Venezia era in uso il gioco del ponte: qui pure si dividevano i partecipanti in due squadre che lottavano su un ponte privo di parapetto, finché una gran parte dei giocatori non aveva fatto un bel tuffo nell’acqua.
(A. Enriquez)

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Civiltà medioevale

Se ai nostri giorni fosse necessario, per essere ufficiali, comprare un carro armato e pagare i propri soldati, solamente i più ricchi potrebbero farlo Nel secolo XI, per andare in guerra a cavallo, armati da capo a piedi, occorreva un grosso patrimonio: la cavalleria, cioè il fulcro dell’esercito, era formata da proprietari terrieri, cioè da feudatari. Essi erano circondati di rispetto come, prima di loro, lo erano stati i nobili della tarda romanità e del periodo barbarico-romano, scomparsi nel crollo dell’Impero. Per di più, il loro era un compito pericoloso e necessario… Questi cavalieri sono all’origine, specie in Francia ma anche in Italia, della nobiltà militare.
A quindici anni circa si consegnavano al giovane cavaliere le armi e il cavallo di battaglia. Ma ne avrebbe fatto buon uso? La forza è cattiva consigliera, soprattutto in una società rozza  e senza leggi. Fin da allora si prese l’abitudine di raccomandare al giovane di essere leale e misericordioso, di essere prode.
Ben presto la Chiesa colse l’occasione per accaparrarsi la cerimonia della vestizione, che diventò una piccola festa religiosa e simbolica. Per esempio, perchè consegnare al futuro combattente degli speroni? Per ricordargli che deve obbedire a Dio come il cavallo al suo padrone… La cavalleria diventò così una specie di ordine laico in cui uomini violenti, e spesso perfino brutali, si sforzarono di comportarsi da folli pieni di onore.
Essi amavano tanto le mischie che, quando cessarono le invasioni e i conseguenti disordini, continuarono a far la guerra, ma la fecero fra di loro, e questa fu una sventura per le campagne. Allora la Chiese stabilì la ‘Pace di Dio’. Proibì la guerra, per mezzo della ‘tregua di Dio’ dal mercoledì sera  al lunedì mattina (1041). E quando i più accaniti si dimenticavano quelle restrizioni, la Chiesa li puniva, oppure altri si incaricavano di punirli in sua vece: in una regione della Francia, verso la fine del secolo XII, gli incappucciati (con il volto coperto da una cappa) prendevano nota dei combattenti incorreggibili e li pugnalavano.

Come nei formicai si distinguono i soldati e le operaie, così la società medioevale non ha conosciuto quell’uguaglianza cui noi tanto teniamo: in essa vi sono quelli che combattono, quelli che pregano e quelli che lavorano. Quando si dice ‘lavoratore’, in questo periodo, si intende dire ‘contadino’: nove persone su dieci, di quelle che vivevano in quel tempo, coltivavano la terra. I tre quarti degli italiani di oggi discendono da qualche contadino, servo o villano, del secolo XI. La loro storia sarebbe dunque la prima in ordine di importanza: sfortunatamente, i documenti preferiscono parlarci dei grandi di questa terra. Coltivare il terreno, vendemmiare, allevare il bestiame e le greggi serviva ad assicurare l’alimentazione di tutti, ma a volte era causa di maltrattamenti e sempre di disprezzo.
Basta pensare alla parola villano che, in origine, indicava il fattore della villa e che oggi è usata in senso spregiativo: gli uomini del Medioevo vedevano, dunque, nel lavoratore dei campi solamente maleducazione e grossolanità. Quanto a certe usanze brutali, qualche volta sono state esagerate. E’ stato detto per esempio che il servo era una ‘mano morta’ perchè, alla sua morte, gli si tagliava una mano per offrirla al signore, per indicare con ciò che il suo servo non l’avrebbe più servito. In realtà quella poco simpatica parola vuol dire semplicemente che i beni de servo senza eredi, ritornano, in caso di morte, al suo signore.
I contadini temevano, a giusta ragione, altre molestie di cui si parla di meno. Essi temevano soprattutto gli effetti di certe usanze. Poteva accadere che un signore feudale, in un momento critico, chiedesse agli abitanti del villaggio  di andare a falciare i suoi prati. Ecco che quella che era stata una prestazione eccezionale, di carattere straordinario, si trasformava facilmente in un obbligo permanente. Il signore esigeva, ora, che i contadini di quel dato villaggio gli falciassero sempre, e gratis, i suoi prati. In questo caso si vede come il nostro villano avesse buoni motivi per cercare di non prestare un simile servizio e di sottrarsi a obblighi del genere.
Tali resistenze, e molte altre, fecero comprendere a poco a poco ai signori, anche ai più duri, che conveniva loro trattare bene il contadino; già nel secolo XI incomincia il grande movimento di liberazione dei servi. Nell’epoca che stiamo studiando si poteva notare la comparsa, o per meglio dire la ricomparsa, lungo e strade e lungo i fiumi, di una specie di uomini abituati al rischio: i mercanti. Certo, era facile fare irruzione sui convogli di carri e di muli e impadronirsi della merce; la tentazione era forte e vi furono dei signori i quali si dedicarono a questo genere di saccheggio. Ma ve ne furono altri, dal cervello meno ristretto, i quali ebbero l’idea di accontentarsi di un pedaggio e concessero perfino vantaggi d’ogni specie per attirare nel loro feudo, con le fiere, folle di persone dalle quali si poteva ricavare qualche guadagno.

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Il tributo: recita sul Medioevo

Il tributo: recita sul Medioevo. La scena è immaginata nell’umile casa di un servo della gleba, il contadino di allora.

Personaggi: il servo della gleba, il figlio, due alabardieri (soldati)

Figlio: Babbo, perchè sei triste? Sono stato al castello, sai! Mi hanno fatto entrare per aiutare gli sguatteri, perchè ieri c’è stata festa al castello, fino a notte fonda! Sono passato per lunghi corridoi e grandi stanze; una di queste è lunga quasi tutto il borgo… Ma perchè sei triste?

Servo della gleba: Per niente! Ti ascolto!

Figlio: Alle pareti sono appese teste di lupi e di cinghiali, corna di cervi e di caprioli. Questi animali li ha uccisi il conte, sai! E poi dappertutto si trovano lance, alabarde, mazze ferrate, e sui tavoli si vedono vassoi d’argento e coppe d’oro. Vedessi come sono lunghe le tavole della sala per il banchetto! Cento brocche di vino c’erano sopra. Nello spiedo ho visto girare un cinghiale intero e sul camino friggere in padella cento e cento uova. Uno scudiero mi ha fatto assaggiare una pietanza strana, che era avanzata e che io non avevo mai visto… Com’era buona!… Ma perchè sei triste?

Servo della gleba: Per niente, ti ripeto. Continua.

Figlio: Poi un paggio mi ha fatto entrare nella sala del banchetto, dove, insieme col conte e la contessa, c’erano i cavalieri, le dame, il menestrello, il buffone. Il conte e la contessa mi hanno sorriso.

Si sente battere alla porta con forza.

Una voce (con alterigia): Aprite! Aprite!

Il ragazzo corre ad aprire ed entrano due alabardieri.

Servo della gleba: Ah, gli esattori!

Soldato: Per ordine di messere il conte cerchiamo te. Tu devi ancora pagare la tassa del pascolo.

Servo della gleba: Messeri, ieri vi ho corrisposto il pedaggio per passare il ponte sul torrente e la tassa si mulitura. I miei prodotti li ho portati tutti al castello.

Soldato: Bene. Pagaci il tributo del pascolo con quel sacco di farina.

Servo della gleba: Ma è l’unico rimasto per me e il mio figliolo!

Soldato: Allora vieni con noi.

Servo della gleba: Dove mi conducete?

Soldato: Per ora davanti a messere il Conte, e poi…

Servo della gleba: Ma io…

Soldato: Ordine di messere il Conte!

(Lo afferrano)

Figlio: No! No! Babbo, diamo il sacco di farina. In qualche modo ci sfameremo.

Servo della gleba: E va bene, figliolo. Prendete pure, alabardieri. Il tributo per il pascolo è pagato.

(da: Recitiamo la Storia, Rodolfo Botticelli, editrice La Scuola)

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Recita sul Medioevo

L’investitura del feudatario

L’investitura del feudatario
Personaggi: l’Imperatore e il Feudatario.

L’investitura del feudatario – Dialogo tra Imperatore e Feudatario

Feudatario (inginocchiato): Sire, inginocchiato davanti alla vostra augusta persona, con le mani giunte per umiltà nelle vostre, prometto di essere vostro uomo e di servirvi lealmente e fedelmente.

Imperatore: Nobile dignitario, io sono pronto a te, che mi presti omaggio come vassallo, a trasmettere il possesso del grande feudo di Pieve Lontana e a concedere il titolo di Marchese, purché tu presti giuramento che tu e la Marca mi sarete di valido aiuto nei perigli: giuramento che farai in nome di Dio Nostro Signore, mancando al quale sarai dichiarato fellone e spogliato del feudo.

Feudatario: In nome d’Iddio Nostro Signore, giuro davanti alla Vostra Grazia, o Sire, che mi concedete il beneficio del feudo, di custodire i vostri segreti, di rispettare e fare rispettare il vostro onore, di seguirvi in battaglia accompagnato dai miei cavalieri e fanti; vi giuro formalmente fedeltà, mi dichiaro formalmente vostro uomo, vostro fedele, e vi riconosco mio signore.

Imperatore: Per il tuo sacro giuramento ti offro il simbolo del feudo di Pieve Lontana e il titolo di Marchese concedendoti le immunità secondo il Capitolare della mia legge.

Avvenuta l’investitura del marchese o del conte, questi possono trasmettere parte del feudo ad altri minori feudatari, valvassori, ripetendo la stessa cerimonia, e questi ultimi ad altri ancora, valvassini. Basterà cambiare alcune parole e il simbolo del feudo, ricordando che si usavano gonfaloni, spade e scettri, se si trattava di feudi cospicui, e zolle, rametti o mazzi di spighe, se si trattava di feudi minori. Un pezzo di stoffa può fare da gonfalone, una riga da spada, e così via…

(da: Recitiamo la Storia, Rodolfo Botticelli, editrice La Scuola)

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L’investitura del feudatario

Recite per bambini per Carnevale: operazione chirurgica

Recite per bambini per Carnevale: operazione chirurgica, per bambini della scuola primaria. Trovi altre recite per Carnevale qui: RECITE PER CARNEVALE.

Personaggi: il primario e quattro medici.

Costumi: grembiuli bianchi e guanti di gomma.

Scenografia: in un angolo un attaccapanni o una sedia su cui sono appesi un camice bianco e un paio di guanti di gomma.

Azione: quattro personaggi sono in scena, posti uno dietro l’altro, fronte al pubblico, ma sfasati di mezza persona in diagonale, così che il pubblico possa vedere distintamente mezza persona di ognuno di loro. Entra il primario, si toglie la giacca, la appende all’attaccapanni e prende il camice. Due medici lo aiutano ad indossarlo. Va a mettersi all’inizio della fila, più vicino al pubblico: gambe leggermente divaricate, aria superiore. Si lascia infilare i guanti dagli altri, i quali lo trattano con deferenza.

Primario (voltandosi, verso quello immediatamente dietro di lui): Avanti l’ammalato.

Primo medico (voltandosi verso quello immediatamente dietro di lui, con lo stesso tono dottorale e annoiato): Avanti l’ammalato.

Secondo medico (al terzo, come sopra): Avanti l’ammalato.

Terzo medico (al quarto, come sopra): Avanti l’ammalato.

(Il quarto medico si volta, fa un passo, imita l’apertura di una porta, spinge una barella immaginaria fino davanti al primario).

Primario (considera attentamente l’ammalato sulla barella. Lo tasta. Gli sente il polso. Poi ordina): Bisturi!

Primo medico, secondo, terzo: Bisturi. Bisturi. Bisturi.

Quarto medico (raccoglie dal tavolo chirurgico il bisturi, tenendolo delicatamente come una penna, e lo fa passare a ogni compagno).

Primario (prende il bisturi, prende la mira e, calmissimo, lo affonda nel paziente. Si china a guardare dentro): Pinze.

Primo, secondo, terzo: Pinze!

Quarto (raccoglie, mimicamente, un paio di tenaglie e le passa).

Primario (continuando l’operazione, allarga i lembi della ferita, ne estrae parecchi metri di intestino che arrotola sulle braccia del secondo. Estrae il cuore, lo ascolta, lo massaggia, sorride e lo rimette dentro. Riprende la matassa degli intestini e la dispone nel paziente. Poi, soddisfatto) Ago!

Primo, secondo, terzo: Ago!

Quarto (prende l’ago e, porgendolo al secondo, lo punge inavvertitamente. Sussulto del secondo. Con precauzione, l’ago arriva al primario).

Primario: Filo!

Primo, secondo, terzo: Filo! (Il filo giunge al primario. Questi lo infila, poi, tenendo l’ago alto, si volta al primo)

Primario: Nodo!

Primo: (esegue)

Primario (incomincia a dare i primi punti. Ma il filo non scorre bene): Sapone!

Primo, secondo, terzo: Sapone!

Quarto (prende il sapone e lo passa. La saponetta sfugge di mano al terzo, il quale riesce a prenderla al volo, e la passa al secondo).

Primario (passa la saponetta sul filo, poi, imitando un enorme sforzo, punta il piede sul malato e riesce a cucire. Improvvisamente si interrompe, accorgendosi che il paziente sta male. Con voce svelta): Etere!

Primo, secondo, terzo (tutti con voce svelta guardando curiosamente oltre le spalle del primario) Etere!

Quarto (passa la bottiglietta dell’etere).

Primario (versa l’etere sul malato. Ne versa troppo. Si sente male lui. Accenna a cadere all’indietro).

Primo, secondo, terzo: Sali!

Quarto (prende i sali, li odora, li passa al terzo che li odora anche lui, così il secondo, il primo li mette sotto il naso del primario).

Primario (rinviene, si china sul paziente, mostra grande spavento. Con voce concitata): Ossigeno!

Primo, secondo, terzo: Ossigeno!

Quarto (faticosamente spinge la grossa bombola dell’ossigeno. Così gli altri).

Primario (Fa il gesto di staccare la mascherina dalla bombola e di porgerla al paziente. Si capisce che l’ossigeno non è sufficiente. Con voce agitatissima): Ossigeno! Ossigeno!

Primo, secondo, terzo (con la stessa voce agitatissima): Ossigeno! Ossigeno!

Quarto (passa altro ossigeno, asciugandosi il sudore, e si sporge ad osservare).

Primario (porge l’altro ossigeno, osserva, poi, tornando calmo, con voce normale): Acqua santa!

Primo, secondo, terzo: Acqua santa!

Quarto (raccoglie un immaginario aspersorio, che viene fatto passare).

Primario (agita l’aspersorio sul malato. Lo posa. Poi, veloce, con aria annoiata, mentre col piede spinge via la barella del morto): Avanti un altro!

Primo, secondo, terzo: Avanti un altro!

(M. L. e R. Varvelli)

Recite per bambini per Carnevale: operazione chirurgica – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

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Il menestrello

Il menestrello – racconto ambientato nel Medioevo per bambini della scuola primaria, adatto alla lettura e al riassunto.

Era da poco cominciato l’inverno, ed i fossi erano tutti gelati, quando un giovane venne a suonare il corno davanti al castello di sir Galihud Sans Pitiè.

Dalla finestra del barbacane un soldato gli chiese: “Che volete?”.

“Sono un menestrello” rispose il giovane, “e voglio entrare, per rallegrare il signore di questo luogo con le mie poesie”.

“Se vuoi un consiglio, vattene via. Sir Galihud Sans Pitiè non ama se non la caccia e la guerra”.

“Ma ci saranno pure delle dame, al castello, e dei cavalieri cortesi!”

“Ci sono”.

“Bene” disse il menestrello “aprimi, allora. Io canterò per loro”.

Il ponte levatoio s’abbassò, la porta si aprì ed il menestrello entrò nel maniero. Era un giovane biondo, dai lunghi capelli, dal viso bianco come la cera, dalle spalle delicate e rotonde. Vestiva di scarlatto, ed aveva a tracolla un liuto ed una sacca piena di carte. Il soldato lo condusse subito nella sala ove sir Galihud teneva tavola imbandita.

Quando videro il menestrello, le dame ed i cavalieri che vivevano al castello, o che vi erano ospiti si rallegrarono e lo invitarono a cantare le sue canzoni.

“Col permesso del signore, delle dolci dame e dei giovani cavalieri” disse allora il menestrello, “canterò la storia d’amore della regina Didone per l’eroe Enea” e cominciò a suonare ed a cantare; ma non aveva tratto che poche e delicate note, quando sir Galihud esclamò: “No, no! Codesta canzone non mi piace!”.

Il menestrello si inchinò e cominciò un’altra canzone; ma l’aveva appena intonata, che sir Galihud esclamò: “Via, via, nemmeno questa mi piace!”.

Per la terza volta il menestrello ricominciò, e per la terza volta sir Galihud lo interruppe, esclamando: “Basta con questi lamenti!”.

Il menestrello allora gli si volse e disse: “Parlando in codesto modo, messere, voi fate una grande villania prima a voi stesso che a me. Perchè cosa penseranno, le dame ed i cavalieri che vi ascoltano, se non che siete un uomo sgarbato e rozzo e senza cortesia?”

A queste parole tene dietro un lungo silenzio; e sir Galihud, alzandosi dal suo scranno esclamò: “Tu hai parlato troppo!” e scavalcata la tavola si avventò sul menestrello, e strappandogli il liuto, prese con questo a batterlo: e lo fece con tanta rabbia che ben presto il giovane cominciò a sanguinare dal naso e dalle orecchie, e cadde a terra svenuto. sir Galihud stava per colpirlo ancora, quando il giovane sir Lionel, un cavaliere ospite del castello, lo agguantò per le braccia trattenendolo e gridò: “Vergogna, sir Galihud! Voi avete battuto un uomo disarmato!”.

“Lasciatemi subito andare e chiedetemi perdono!” rispose furibondo il cavaliere “O vi batterete con me!”.

Sir Lionel lasciò la presa e disse: “Così sia. Mi batterò con voi quando vorrete!”.

“Ciò sarà subito!” replicò sir Galihud, e lasciò la stanza, per andare a prepararsi. Le dame e gli altri cavalieri seduti alla tavola, allora, si rivolsero a sir Lionel, scongiurandolo di lasciare subito il castello e di non misurarsi con sir Galihud. “Egli è feroce come un leone” gli dissero “e vi ucciderà, come avrebbe ucciso questo menestrello, perchè non ha mai dato quartiere ai suoi nemici”.

Sir Lionel rispose: “La nostra vita è nelle mani di Dio; ed anche se io morrò, almeno avrò salvato la vita di questo giovane”, e qui si chinò sul menestrello insanguinato e gli disse: “Coraggio, poeta! Di queste ferite non si muore!”.

Il menestrello aprì gli occhi e mormorò: “Dio vi ricompensi, messere, per quello che avete fatto. Da parte mia, io non lo scorderò mai”.

In questo momento entrarono gli araldi e dissero come sir Galihud fosse già sceso nel cortile ed aspettasse sir Lionel per il duello. Sir Lionel allora, con sereno volto, prese il suo cimiero e si avviò, tra il pianto delle dame ed i sospiri dei cavalieri.

sir Galihud era già in sella, e quando vide sir Lionel gridò, levando il pugno: “Nemo me impune lacessit!” che era un motto che significava ‘nessuno mi ha mai sfidato impunemente’. Sir Lionel montando in sella rispose: “Dio mi è testimone che non vi feci offesa alcuna”.

In breve, i due furono pronti per il duello, ed al segnale corsero fieramente ad incontrarsi, e ruppero le lance con strepito e fragore; ma sir Lionel fu scavalcato e piombò a terra, ed allora sir Galihud, smontato sveltamente da cavallo, gli si fece addosso e, toltogli l’elmo, gli troncò di netto la testa. Le dame gridarono, coprendosi il volto con le mani ed anche i cavalieri volsero gli occhi per non vedere.

Sir Galihud gridò: “Dov’è il menestrello? Portatelo qui!”

Due soldati trascinarono nel cortile il menestrello; e sir Galihud gli disse, accennando al corpo di sir Lionel: “Prendi il tuo protettore, e vattene. Ricorda: se metterai ancora piede nel mio castello, ti ucciderò!”.

Nel gran silenzio del cortile, il menestrello avanzò e con molta pietà prese tra le braccia sir Lionel: barcollando sotto il peso, poi, uscì dal castello. Quando fu fuori, scavò con le sue mani una fossa, e vi depose il morto, e dopo avere lungamente pianto e pregato lo coprì di terra dicendo: “Sir Lionel, non mi scorderò di voi!”.

Passarono due anni. Venne due volte la neve e cancellò ogni cosa. Poi due primavere portarono cielo azzurro e fiori, e fecero spuntare tenera erba sulla tomba di sir Lionel; giunsero due rigogliose estati, e gli autunni ricchi di foglie e di colori. Quando il terzo inverno riapparve coi primi geli, le sere tornarono a farsi molto lunghe nelle sale del castello ove sui camini ardevano ceppi resinosi.

Una sera assai fredda, ecco suonare il corno sotto il castello di sir Galihud. Questi, che sonnecchiava accanto al fuoco, domandò: “Chi suona a quest’ora?”

“Messere” annunciò un servo, “è un menestrello che chiede di entrare”.

“Ah, fatelo entrare, sir Galihud!” gridarono le dame, che si annoiavano profondamente, “che ci narri qualche storia d’amore e d’avventura!”.

“Io non sono amico dei menestrelli, lo sapete e sterminerei la loro razza. Ma poichè la sera vi sembra tanto lunga, ebbene, che quel poeta salga a cantarvi le sue canzoni!”.

Così fu fatto, ed il menestrello entrò nel maniero e venne condotto nella sala; ma, anziché avanzarsi verso la tavola, si arrestò sulla soglia, dove la luce delle torce giungeva appena.

“Vieni avanti, menestrello!” ordinò sir Galihud.

“Ci sarà tempo, per questo” rispose il menestrello senza muoversi; e le dame mormorarono: “In verità questa sembra la voce di un guerriero, e non di un poeta!”.

“Va bene, sta pure dove sei” disse sir Galihud. “Quale canzone buoi cantare?”

Stando nell’ombra il menestrello disse: “Col permesso del signore, dello dolci dame e dei nobili cavalieri, io narrerò la storia di un prode e generoso cavaliere, che venne ucciso da un villano signore senza pietà, perchè aveva difeso un povero menestrello come me”.

Tutti rabbrividirono e si volsero verso sir Galihud; e questi, buttato a terra il boccale di sidro che teneva in mano esclamò levandosi in piedi: “Codesta storia non mi piace! E tu, menestrello, fatti avanti, in modo che io ti veda in volto!”.

Allora, mentre tutti tacevano, il menestrello camminò verso il centro della sala, e rivelò l’essere suo; e tutti mormorarono stupidi perchè, malgrado avesse capelli corti da soldato, viso abbronzato, spalle larghe e quadrate, riconobbero in lui il menestrello venuto due anni prima e percosso da sir Galihud. E questi disse: “Hai sbagliato a tornare nel mio castello! Avevo promesso che ti avrei ucciso! Tu vuoi morire!”.

“Non sono ancora giunto a questo.”

“Ebbene, vi giungerai!”.

Sir Galihud prese un grosso coltello, che serviva per tagliare la carne, e si avventò sul menestrello; ma questi corse al muro dove erano appesi i trofei di guerra, e staccò da esso una spada, e brandendola disse: “Io sono qui sir Galihud, per vendicare la morte di sir Lionel!”.

“Tu morrai come lui! Nemo me impune lacessit!”

Sir Galihud menò alcuni colpi col suo coltello, ma il menestrello li schivò facilmente tutti, ed anzi a sua volta colpì di spada e ruppe il pesante giaco di cuoio di cui il cavaliere era rivestito. Tutti si meravigliarono che un poeta sapesse duellare con tanta perizia; ed ancor più si stupirono, quando sir Galihud venne ferito a un fianco, e cominciò a perdere sangue.

“Tu combatti con una spada, menestrello! Lascia dunque” esclamò il malvagio cavaliere arrestandosi ” che io mi armi come te”.

“Messere, sia come volete. Ciò non vi salverà dalla morte”.

Sir Galihud andò allora accanto al muro dei trofei di guerra; ma, invece di prendere una spada come quella del menestrello, ecco che staccò un enorme spadone che si impugnava a due mani; e con esso, roteandolo furiosamente, si fece avanti.

I cavalieri presenti pensarono, allora, che nessun onore poteva venire a sir Galihud da una simile azione. Il menestrello però non dimostrò alcuna paura, e fermamente fronteggiò sir Galihud, arretrando ed abilmente schivando tutti i terribili fendenti dello spadone.

Quando ebbe compiuto per tre volte il giro della grande sala, senza mai riuscire a menare un colpo al segno, sir Galihud si fermò ansimante e disse: “Tu fuggi, codardo!”.

“L’ho fatto fino ad ora” replicò il menestrello “perchè voi vi battete con due mani, ed io non una. Ma a questo” aggiunse fieramente, “c’è rimedio!” e con un gran fendente, tagliò netta la mano sinistra di sir Galihud. “Ecco che ora combatterete con una mano sola!” disse ancora, e mentre il malvagio cavaliere cercava, con una sola mano, di manovrare quel suo pesantissimo spadone, il menestrello lo colpì sulla testa con tanta violenza che sir Galihud cadde morto e non si mosse più.

Allora il menestrello si volse alle dame ed ai cavalieri, che avevano dato un grido, ma che non erano mossi, e disse loro: “Per due anni, signori, scordando poesia e canzoni, combattendo nella Terra Santa per il riscatto del sepolcro di Gesù, mi sono esercitato nell’arte della guerra, fortificando il mio spirito e il mio corpo. E ciò ho fatto, perchè dovevo compiere giustizia e vendicare la morte di sir Lionel. Ho atteso lungamente: ma ora che quest’uomo senza pietà è perduto ecco io rinuncio alla lancia ed alla spada. E” concluse “torno per sempre al mio liuto ed alle mie poesie”.

Così dicendo lasciò cadere la spada; né volle fermarsi al castello, benché fuori smisuratamente fioccasse la neve; e si allontanò sul suo cavallo, e mentre si allontanava, lo udirono cantare una dolce e triste canzone d’amore e di guerra.

(P. Selva)

Il menestrello – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Il menestrello

Amalfi e la bussola – recita

Amalfi e la bussola – recita per la scuola primaria

Amalfi e la bussola – Personaggi
-Feliciano, figlio di un navigatore amalfitano
– Marina, sua sorella
– un compagno, che entra alla fine della scena.

Amalfi e la bussola – Testo
Marina: Feliciano, hai visto che nebbia c’è sul mare?
Feliciano: E’ davvero una cosa rara per Amalfi
Marina: Da lontano non si deve distinguere né la costa né il faro. Sto in pensiero per il nostro babbo. La sua nave dovrebbe essere la prima ad arrivare in porto.
Feliciano: Oh, non temere! Il babbo e i suoi marinai sono abili navigatori. Noi Amalfitani abbiamo il mare nel sangue, dice il babbo. Anche io sarò un navigatore!
Marina: Tu dici così, ma io non sono affatto tranquilla. Primo, per il maltempo; secondo, perchè so che il babbo dovrebbe far scaricare le sue stoffe, provenienti da Costantinopoli, entro domani l’altro per un impegno preso con certi mercanti. Come potrà trovare la direzione giusta con questa nebbia?
Feliciano: Senti, Marina. Tu forse non sai ancora che le galee amalfitane hanno a bordo qualcosa che fa trovar loro l’orientamento anche senza il sole né le stelle.
Marina: Ma che dici?
Feliciano: Sì. Si tratta di una cosa semplice, ma meravigliosa: un ago calamitato, che il babbo chiama magnetico, fissato sopra un pezzo di legno, il quale viene fatto galleggiare in un recipiente con acqua. Questo ago ha una proprietà particolare: volge la sua punta verso nord, e così i naviganti possono conoscere la posizione dei punti cardinali. Credo che i nostri marinai abbiano appreso l’udo di questo strumento dai naviganti arabi; ma c’è chi dice che sia invenzione di un Amalfitano.
Marina: Ma a me il babbo non ha detto nulla di tutto ciò!
Feliciano: (con orgoglio) Tu sei una bambina. Non sarai mai un navigatore. Invece io…!
Un compagno: (entrando trafelato) Feliciano! Marina! Sta entrando in porto la nave di vostro padre!
Marina: Papà! Papà!

(da: Recitiamo la Storia, Rodolfo Botticelli, editrice La Scuola)

Amalfi e la bussola 

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Amalfi e la bussola

Abdullah e il pepe

Abdullah e il pepe: un racconto ambientato nell’epoca delle crociate, per bambini della scuola primaria adatto alla lettura e il riassunto.

Il Pascià di Alessandria, dopo aver ascoltato distrattamente tre religiosi biancovestiti, con una croce rossa e blu sul petto, chini umilmente davanti a lui, contò e ricontò la somma piuttosto forte che gli era stata appena consegnata. Poi fece schioccare le dita: “Chiamate Abdullah!”.

Lo schiavo Abdullah spuntò fuori dalle cucine dove stava lavorando da quasi undici anni. Era uno schiavo dagli occhi azzurri e dal naso un poco all’insù, vissuto fino a dieci anni, con il nome di Giannetto, in un villaggio della valle della Loira.  Per aver seguito un pastore di Vendome che predicava la Crociata dei Fanciulli, egli era andato a finire in qualità di marmittone in mano ai Barbareschi…

Il Pascià gli disse: “Ecco degli ulema (dotti) del tuo paese che mi hanno versato un buon prezzo per il tuo riscatto. Poiché ti sei comportato bene, ti restituisco la libertà. Ricorda che tu sei vissuto fra noi più a lungo che non presso i Franchi; se un giorno sentissi il desiderio di ritornare da noi potrai invocare la mia protezione”.

E Abdullah-Giannetto partì con i monaci trinitari verso il molo dove si riunivano gli schiavi riscattati.

Ma verso la fine di settembre, appena cinque mesi dopo la sua liberazione, egli si trovava di nuovo davanti al Pascià, in compagnia di un altro cristiano fornito di un’enorme bisaccia di cuoio. Affondato in un sofà di seta verde, il Pascià prendeva da una cesta delle arance candite e delle uova sode…

“E così” gridò “tu hai fatto naufragio… racconta!”.

“Dopo dieci settimane di navigazione” racconta Giannetto, “la nostra nave andò a sbattere contro uno scoglio a fior d’acqua, si squarciò e affondò. Io fui spinto sugli scogli, e riuscii a toccar terra, mezzo annegato. Dopo aver preso fiato e vestito com’ero con i soli pantaloni, mi inoltrai nell’interno del paese finché raggiunsi una città fortificata, costruita sulle pendici di una collina. La gente vi parla la lingua di Felì, il Provenzale, il nostro schiavo pasticcere. Verso sera, quasi morto di fame e di sete, mi fermai alla porta di una taverna. Nel vedermi, l’enorme padrone si pose sulla soglia della porta e bastò questo  per sbarrarmi l’ingresso.
In quel momento io sentii in tasca delle palline dure: automaticamente ne tirai fuori alcune per vedere ci che si trattava. Erano aromi che Felì mi aveva donato al momento della partenza. Non appena vide quei granellini, l’oste mi stese la sua manaccia in modo così imperioso che io aprii le dita e cinque grani verdastri vi rotolarono. Vedendo di che cosa si trattava, l’omaccio esclamò: ‘Guarda un po’! Del pepe!’. Mi fece entrare nella cucina e mi diede da lavare dei bicchieri e dei piatti maleodoranti. Allora pensai che non avevo niente da guadagnare a essere libero… La mia cena furono un pezzo di pane e pochi fichi, prima di andare a dormire nel granaio.
Qui ebbi il tempo di contare i miei grani di pepe: me ne restavano 13 e li rimisi nel sacchetto. Senza riflettere bene a quello che facevo, nascosi quel sacchetto sotto una trave: era tutta la mia fortuna e ciò mi fece ridere!… Nel cuore della notte, fui risvegliato dall’oste: alla luce fioca della candela frugava nei miei pantaloni. Poiché sapeva bene che io non avevo denaro certamente stava cercando il pepe. A forza di frugare perfino nelle cuciture, scoprì un grano che mi era sfuggito, fece un grugnito di soddisfazione e se ne andò.
Il mattino, me la squagliai, naturalmente con il mio pepe!”.

“Parlami dell’oste, non è stato bastonato?” domandò il Pascià tra un boccone e l’altro.

I racconti arabi si snodano senza fine, come una stella filante, inseguendo le vicende di tutti i personaggi. Il Pascià fu quindi deluso nel sentire che Giannetto non sapeva nulla del suo ladro.

Il ragazzo riprese: “Fuori scorsi un uomo di alta statura, che mi sembrava un religioso, vestito di bianco. Costui si dirigeva verso una casa che aveva l’aspetto di una fortezza. Con il cuore che mi batteva forte, mi misi a correre e oltrepassai la porta subito dopo di lui.  Cercai di raccontargli la mia avventura perchè volevo che qualcuno mi aiutasse, ma egli non ne aveva alcuna intenzione. Allora, preso dalla disperazione, gli offrii tre grani di pepe. Subito, un altro religioso che era rimasto in parte silenzioso, venne verso di me; prese i grani, mi condusse in cucina, dove mi fu data una buona minestra e poi nel magazzino dove mi vestirono decentemente.
Quando uscii di là, il mercato era zeppo di gente e nessuno faceva caso a me. A un certo momento, nel tumulto delle discussioni, sentii una voce che gridava: ‘E’ caro come il pepe!’. Allora non esitai a tentare il colpo grosso: mi avvicinai a un farmacista, che aveva il negozio traboccante di fiale, di vasi e di boccali sigillati. In seguito seppi che si chiamava Pastenague. Dapprima egli si mostrò arrogante, ma io me l’aspettavo… Alcuni grani nel palmo della mia mano gli fecero allungare il collo e arrotondare l’occhio come una gallina che ha scorto un verme. Io fissai un prezzo: quattro denari d’argento per ogni grano; ci volle molto tempo perchè si decidesse, ma, alla fine, aprì uno scrigno chiodato sul quale era seduto, prese quattro grani e mi diede in cambio sedici monete d’argento tirate fuori dallo scrigno”.

“Potevi chiederne anche di più” disse il Pascià da uomo che se ne intendeva, “i giauzzi (infedeli) sono più avidi di pepe che d’oro. Ma che cosa è successo poi ai monaci?”

“Non so.” rispose Giannetto, “Con il mio denaro andai ad alloggiare nell’albergo della Palma, il migliore della città, e feci alcune spese necessarie per il viaggio. Infatti, con i cinque grani che mi restavano, credevo ormai possibile il ritorno al mio villaggio. La sera, a cena, una compagnia di mercanti che stavano andando alla fiera di Beaucaire, venne a sedermisi vicino. Essi erano molto allegri, io bevvi del vino e parlai loro del mio sacchetto di pepe che portavo appeso al collo come uno scapolare. Essi mi assicurarono che alla fiera ne avrei ricavato comodamente una libbra parigina per ogni grano e mi proposero di fare la strada assieme a loro: mi avrebbero aiutato a ricavarne un buon guadagno. Io ne provai un piacere tale che feci versare da bere molte volte a tutta la tavolata. Ma il vino che non conoscevo oramai da molti anni mi fece girar la testa…
Mi svegliai, tardi, il mattino seguente; l’albergo era silenzioso, senza i campanelli dei muli, senza nitriti e senza il va e vieni dei palafrenieri con gli zoccoli. Mi precipitai alla finestra…”

Qui il Pascià si lasciò andare sul dorso agitando le gambe, chiocciando di soddisfazione.

“Ho indovinato!” gridò, “La carovana ti aveva piantato dopo averti derubato!”.

“Sì, ero stato derubato” fece Giannetto. “Qualcuno aveva tagliato il cordoncino del mio sacchetto; andai a sedermi nella grande sala, accasciato… e passò un po’ di tempo.
Verso mezzogiorno, vidi entrare Pastenague preoccupato in cerca di qualcuno. Mi si avvicinò lentamente, mi tirò per la manica e mi disse all’orecchio: ‘Mi impegno a comperare tutto il pepe che potrai vendermi, fino a un quarto di libbra e a buon prezzo’. Mi voltai verso di lui e gli dissi che potevo procurargliene non solamente a dozzine di grani, e neppure a quarti di libbra, ma a centinaia di sacchi di cento libbre… e così pure per la vaniglia, per la noce moscata, e per i chiodi di garofano… Pastenague spalancò gli occhi e mi guardò spaventato: mi credeva matto! Ma oramai mi ero lanciato; descrissi le banchine del porto di Alessandria, i suoi magazzini dove si ammucchiano a montagne le balle delle spezie profumate. L’impressione del mio discorso su così viva che, prima di sera, avevamo firmato un contratto a tre: Pastenague, Goffredo, un socio che ho trovato senza difficoltà, ed io. Tu lo conosci, o signore, poichè ne hai visto l’originale e la traduzione. Tu hai certamente notato che il mio aiuto consiste nella conoscenza della lingua, ma soprattutto nella promessa della tua magnanima protezione…”.

“Avrai tutte le merci che desideri” disse il Pascià “alle stesse condizioni che noi facciamo ai mercanti genovesi”. Poi aggiunse: “I credenti e i giaurri non andranno mai d’accordo, ma possono però commerciare: il commercio è gradito a Dio; il tuo viaggio ti renderà ricco. A proposito: ti ricordo che io da solo voglio guadagnare quanto voi riuniti insieme. Ma voi siete solamente due. Parlami del tuo farmacista”.

“A proposito di lui, posso risponderti. Eravamo sulla nave in partenza col cuore stretto dall’angoscia al pensiero dei pericoli che ci attendevano. Il capitano comandò di ritirare la passerella che ci collegava ancora alla terra. Si udì allora un grido acuto e noi vedemmo Pastenague che fuggiva dalla nave correndo sulla passerella con il suo scrigno sulle spalle; e, sempre gridando, scomparve fra i pini sulla spiaggia. In quel momento il capitano lanciò l’ultimo ordine: ‘Fate le vele, con l’aiuto di Dio’.”.

Abdullah e il pepe – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Abdullah e il pepe

LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture

LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture per la scuola primaria.

LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture
La circolazione

La circolazione del sangue provvede a distribuire a tutte le cellule del corpo la parte del cibo assorbita dai villi intestinali (chilo).
Il sangue circola continuamente in un sistema chiuso di vasi elastici che fanno capo ad un organo centrale: il cuore.
I vasi sanguigni sono le arterie, le vene ed i capillari.
Il sangue è un tessuto composto di una sostanza liquida, il plasma, nella quale stanno immersi piccolissimi corpuscoli: i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine.
I globuli rossi, a forma di dischetti, contengono l’emoglobina, una sostanza che ha la proprietà di combinarsi con l’ossigeno.
I globuli bianchi ci difendono dalle malattie perchè distruggono i germi nocivi.
Le piastrine contengono una sostanza che permette al sangue di coagularsi in caso di ferite.
Il cuore, che è costituito da una massa muscolare chiamata miocardi, è un organo cavo, grosso come il pugno di una mano, ed è posto nella gabbia toracica, tra i due polmoni.
Esso ha la forma di un cono con la punta rivolta verso il basso e a sinistra; è diviso in quattro cavità: due orecchiette in alto e due ventricoli in basso.
Le arterie sono i vasi che portano il sangue dal cuore alla periferia, ossia a tutte le parti del corpo. In esse scorre sangue rosso, puro, ricco cioè di ossigeno.
Le vene sono i vasi che riportano il sangue dalla periferia, cioè da tutte le parti del corpo, fino al cuore. In esse scorre sangue scuro, impuro, carico di anidride carbonica.
I capillari sono vasi piccolissimi e con pareti sottilissime i quali, proprio come dei ponti, mettono in comunicazione le arterie con le vene e favoriscono gli scambi dei gas e del materiale nutritivo fra le cellule e il sangue.
Quando il ventricolo sinistro del cuore si contrae, il sangue viene spinto in una grossa arteria chiamata aorta, la quale si ramifica in arterie sempre più piccole fino a divenire sottilissimi vasi capillari.
In questo giro il sangue, di un colore rosso vivo, distribuisce a tutti gli organi le sostanze nutritive e l’ossigeno, indispensabili alla vita delle cellule, e si carica di rifiuti e di anidride carbonica.
Perde così il suo colore rosso vivo e diviene scuro.
Ripartendo dai capillari, il torrente sanguigno si raccoglie in canali sempre più grossi, le vene, che lo riportano all’orecchietta destra del cuore e quindi al ventricolo destro.
Dal ventricolo destro il sangue passa nei polmoni, dove si libera dell’anidride carbonica e si carica nuovamente di ossigeno. Poi ritorna all’orecchietta e al ventricolo di sinistra per iniziare velocissimo il suo nuovo viaggio, che durerà soltanto pochi secondi.
La circolazione del sangue nel corpo dell’uomo (e di molti animali) si dice doppia e completa. Essa è doppia perchè il sangue passa due volte attraverso il cuore, e completa perchè il sangue arterioso non si mescola mai con quello venoso.

LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture
Costituzione del sangue e sua funzione

Il sangue appare come un liquido rosso; è costituito di una sostanza liquida detta plasma, in cui sono contenuti vari elementi in sospensione. Vediamo di analizzare queste parti. Disponendo di un microscopio, si può osservare direttamente.
Disinfettiamoci un dito (il mignolo, che si usa meno delle altre dita) e con un ago disinfettato pratichiamo una piccola puntura sul polpastrello, raccogliamo la gocciolina di sangue sul vetrino e facciamo aderire su quello un vetrino copri-oggetto, in modo che la goccia si schiacci e si presenti molto sottile all’osservazione. Vedremo allora tanti dischetti di un colore giallo arancione disposti in pile simili a rotoli di monete.
Sono i globuli rossi, cellule a forma di disco con il margine ingrossato, il cui diametro è di 7 micron. In un millimetro cubo ne sono contenuti da 4 a 5 milioni. I globuli rossi si formano nel midollo osseo ed hanno una vita breve, che dura da 40 a 120 giorni; i globuli vecchi vengono distrutti dal fegato e dalla milza.

I globuli rossi contengono una importante sostanza, l’emoglobina, che dà il colore rosso ai globuli.

Se il microscopio fosse potente, colorando con tecniche speciale il  sangue, si potrebbero notare altri corpiccioli incolore, i globuli banchi; ne sono contenuti da 6 a 8 mila per millimetro cubico.

Nel sangue sono inoltre presenti le piastrine, corpi piccolissimi che provocano la coagulazione del sangue.

Nel plasma è inoltre contenuta una sostanza detta fibrinogeno.

Procuratevi del sangue animale e riempitene un bicchiere; lasciatelo esposto all’aria per qualche ora. Dopo questo tempo il sangue si è coagulato formando una massa gelatinosa. Che cosa è avvenuto?
Il fibrinogeno si è rappreso formando una massa filamentosa di fibrina, in cui si sono impigliati i globuli rossi ed i globuli bianchi. Questa massa si dice coagulo. Se lo lasciate fermo per almeno 24 ore, esso si contrae in una massa rossa sul fondo e sopra compare un liquido giallognolo trasparente, il siero.
Quando ci si fa un piccolo taglio, esce una gocciolina di sangue che rapidamente si rapprende: si può infatti vedere il coagulo rosso con un poco di siero sopra. Se non lo tocchiamo si asciuga, lasciando una piccola crosta che impedisce l’uscita di altro sangue; dopo pochi giorni la piccola ferita si è rimarginata.
In una famiglia reale europea esisteva una malattia, ereditata per via femminile, che colpiva però soltanto i rappresentanti maschili: l’emofilia. Il sangue di questi individui aveva perduto la capacità di coagularsi e quindi una ferita anche piccola poteva essere mortale, poichè il sangue continuava ad uscire ininterrottamente con pericolo di dissanguamento.

Qual è la funzione del sangue? Perchè circola in tutto il corpo?
Il sangue che dai polmoni va al cuore mediante le vene polmonari è ricco di ossigeno (di solito nelle figure colorate che rappresentano la circolazione del sangue è disegnato con un colore rosso vivo); l’ossigeno, portato dall’aria all’interno dei polmoni nella respirazione, è stato catturato dall’emoglobina. Nel suo giro il sangue ossigenato passa quindi nell’atrio sinistro, nel ventricolo sinistro, e viene distribuito a tutto il corpo, per mezzo dell’arteria aorta e dei vasi capillari.

Nel suo lungo cammino attraverso i capillari l’emoglobina cede lentamente l’ossigeno a tutte le cellule e raccoglie da esse l’anidride carbonica. Diventa via via più scuro, ricco di anidride carbonica, si raccoglie nelle vene cave ascendente e discendente, va all’atrio destro, al ventricolo destro (di solito nelle figure questo sangue è colorato di blu) e quindi l’arteria polmonare lo conduce ai polmoni, dove l’emoglobina cede l’anidride carbonica e prende l’ossigeno, ricominciando il ciclo.

Quindi la parte sinistra del cuore ha sempre sangue ricco di ossigeno, mentre la parte destra ha sempre sangue ricco di anidride carbonica, che non possono mescolarsi, per la presenza della parete che separa la parte destra del cuore da quella di sinistra.

La circolazione del sangue nell’uomo e negli animali mammiferi appunto per questo è detta circolazione completa; sarà quindi per quanto abbiamo detto prima, una circolazione doppia e completa.
Nel sangue avviene un doppio scambio; nei polmoni esso prende ossigeno e cede all’aria anidride carbonica; nelle cellule esso cede ossigeno e raccoglie anidride carbonica. L’ossigeno viene consumato dalle cellule in una combustione lenta che produce calore. Il corpo dei mammiferi ha perciò la possibilità di mantenere costante la sua temperatura, proprio in virtù di questo calore che continuamente si produce.

Quale sostanza viene bruciata nelle cellule?
Vi ricordate che cosa avviene nel cibo ingerito? Mediante la digestione esso viene reso solubile; i villi intestinali lo assorbono e lo cedono al sangue: questa è la sostanza che viene bruciata nelle cellule. In tal modo si capisce qual è l’importante funzione del sangue: porta con sé il combustibile (il cibo ingerito) ed il comburente (l’ossigeno) per distribuirli ad ogni cellula del corpo, porta via i materiali di rifiuto: l’anidride carbonica, che viene eliminata nella respirazione, ed altre sostanze che impareremo a conoscere.
I globuli rossi sono importanti, perchè contengono l’emoglobina per il trasporto dell’ossigeno e dell’anidride carbonica.

I globuli bianchi hanno invece una funzione di difesa, poichè sono capaci di uccidere, divorandoli, i germi patogeni delle malattie, entrati per varie vie nell’organismo. Quando una ferita si infetta, ciò avviene per la presenza di germi: i globuli bianchi accorrono numerosi, alcuni vengono uccisi e formano il pus, la sostanza giallastra che dimostra con la sua presenza l’avvenuta lotta fra globuli bianchi e germi.
Anticamente, in caso di ferite, gli uomini usavano rimedi… peggiori del male: usavano mettervi sopra sostanze varie, quali ragnatele, che consideravano curative. In quel modo costringevano i globuli bianchi ad un lavoro supplementare per distruggere altri milioni di germi.
Ora molti farmaci antibiotici aiutano il corpo umano nella sua difesa.

L’apparato circolatorio è molto importante e quindi va difeso per evitare malattie o altri inconvenienti. Non è bene portare fasce o legacci troppo stretti, soprattutto negli arti, perchè impedirebbero la circolazione del sangue. Se legate strettamente un dito, dopo pochi minuti lo vedrete diventare rosso e poi bluastro; si dice che assume un colore cianotico, perchè il sangue non può circolare e portare l’ossigeno di cui ogni cellula ha continuamente bisogno. Le cellule vengono perciò colpite da asfissia, la quale, se prolungata nel tempo, porta alla cancrena, che è la morte dei tessuti.

Dopo una fatica o uno sforzo intenso il nostro cuore batte più rapidamente, perchè deve mandare più sangue e più ossigeno alle cellule che ne hanno consumato una grande quantità. Uno sforzo prolungato oltre i limiti sopportabili, potrebbe portare gravi inconvenienti: gli atleti devono avere necessariamente un cuore molto robusto.

L’abuso di eccitanti, come il caffè e l’alcool, può provocare danni al cuore; l’alcool ingerito passa immediatamente nel sangue ed entra in circolazione determinandone dei pericolosi squilibri.
Il cuore è quindi un organo importantissimo nel sistema circolatorio: il suo battito segna il ritmo della nostra vita; al suo fermarsi, la vita di ferma.

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Parla il cuore

Tic tac, tic tac: sono l’orologio della vita! Comincio a battere quando l’uomo comincia a vivere, finisco quando l’uomo muore.
Egli sosta dal suo lavoro e riposa, egli si corica e dorme: io non mi arresto mai. Tutti gli altri orologi si fermano qualche volta e vanno a farsi pulire o aggiustare dall’orologiaio: io non mi fermo che una volta sola, e per sempre… Quante volte batto? …Settanta, ottanta volte ogni minuto: quattro o cinquemila volte l’ora. Più di centomila volte in una giornata!
(L. Craici e G. Zibordi)

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LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture – Immagini:
 https://pixabay.com/it/blog/posts/public-domain-images-what-is-allowed-and-what-is-4/ ;
http://www.laboratorio-italia.it/protocolli-di-laboratorio/ematologia/adesione-piastrine-anticorpi-protocollo/;
http://sistemacardiovascolare.blogspot.it/2015_05_01_archive.html

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L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico per la scuola primaria.

La misura del tempo è indispensabile all’uomo, che senza di essa non saprebbe disporre ordinatamente le sue azioni nella giornata. Ecco perchè egli ha sentito il bisogno, fin dall’antichità, di misurare il tempo, ed è riuscito a farlo… anche senza i nostri modernissimi e perfetti orologi (dal greco orologhion = che dice l’ora). Come? Lo spiegheremo nel modo più preciso e rapido possibile.

Il primo e più perfetto orologio per gli uomini è stato il sole. Esso apparentemente compie un cammino giornaliero, le cui tappe grossolanamente si indicano coi termini di alba, mezzogiorno, pomeriggio, tramonto.

Dapprima l’uomo pensò di stabilire tale cammino, misurando coi passi l’ombra di un obelisco (dal latino obeliscus, diminutivo di obelos = spiedo, poi colonna terminante a punta) in una giornata solare: al mattino l’ombra era più lunga, verso mezzogiorno si accorciava, alla sera si allungava ancora di più. Un po’ semplicistica, certo, questa misurazione e senza dubbio imperfetta, e poi non ovunque c’era un obelisco.

Egitto (Luxor)

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Allora l’uomo pensò di ridurre l’obelisco a più modeste proporzioni e costruì il primo vero strumento di misurazione del tempo che si conosca, lo gnomone (dal greco gnomon = indice), un’asta dritta e rigida, munita di appositi segni, eretta verticalmente su un piano orizzontale. La lunghezza della sua ombra permetteva di dividere approssimativamente il giorno in varie parti. Non si sa se l’origine di tale strumento risalga ai Caldei, agli Egizi o ai Cinesi. Comunque il più antico esemplare (1500 aC) che si conosca, è egizio e se ne conserva un frammento nel Museo di Berlino.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Strumento di misura più perfetto dello gnomone, da cui deriva e di cui elimina alcuni inconvenienti, è il quadrante solare, chiamato anche meridiana (dal latino meridies = mezzogiorno) o orologio solare. Esso consiste in un’asta rettilinea, detta stilo, parallela alla linea dei poli, che può essere anche una linea disegnata o fittizia o addirittura essere costituita da un foro. Tale asta ha una base, o piana o sferica o cilindrica o leggermente curva, destinata a ricevere l’ombra e con su tracciate delle linee, dette orarie, che indicano appunto le ore della giornata. La usarono gli Egizi, i Babilonesi, i Greci e i Romani e ne vedono ancora oggi esemplari medioevali sulle facciate di molte chiese e palazzi antichi, con graziosissimi detti latini come “Horas non numero nisi serenas” (segno solo le ore serene), “Sine sole sileo” (senza sole taccio), ecc.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

La meridiana aveva, tra gli altri, un grosso inconveniente, denunciato dalle scritte latine riferite sopra: non funzionava quando mancava il sole. Ecco allora l’uomo escogitare un nuovo orologio, capace di misurare il tempo anche senza il sole: la clessidra ad acqua(dal greco klepsydra, da klepto = portar via, e ydor = acqua) detta anche orologio ad acqua, che fu usata prima dai Babilonesi e dagli Egizi, poi dai Greci e dai Romani fino al sorgere dell’orologio meccanico. Essa era sostanzialmente costituita da un recipiente cavo, che si riempiva di acqua e questa attraverso un forellino gocciolava in un serbatoio. La durata del flusso era indicata da diversi segni orari, tracciati ad altezze varie tra la parte superiore ed il fondo del recipiente. Più tardi all’acqua fu sostituita la sabbia e si ebbe così la clessidra a sabbia.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Ma l’uomo non si accontentò più né di quadranti solari né di clessidre, che avevano non lievi inconvenienti e pensò quindi di costruire orologi meccanici. Creò allora un quadrante con su segnate le ore indicate da una lancetta collegata a un rullo, il cui giro era regolato da un peso. Tale orologio fu per la prima volta portato in Europa dai Crociati, che probabilmente lo assunsero dagli Arabi. Gli Europei ne perfezionarono il meccanismo e a partire dal 1300 cominciarono a vedersi nelle chiese e nei palazzi pubblici enormi orologi a pesi con quadrante di squisita fattura. Si pensi al famoso orologio dei Mori in Piazza San Marco a Venezia, a quello astronomico di Strasburgo, che segna il tempo, il calendario e i movimenti degli astri, al Big Ben della torre del palazzo del Parlamento a Londra, che è forse il più grande orologio del mondo, con quattro quadranti, ciascuno del diametro di otto metri.

San Marco – Venezia

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Big Ben – Londra

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Ma il ritmo della vita rese necessari all’uomo orologi meno ingombranti di quelli a peso, cioè individuali, di dimensioni piccole, più perfezionati e più comodi. Ed ecco nascere (nel 1550) i primi orologi da tasca, il cui inventore fu Peter Henlein di Norimberga, che ne basò il funzionamento du una molla elastica in sostituzione e con le stesse funzioni del peso. Tali orologi furono detti “uova di Norimberga”, ma non avevano affatto la forma delle uova: erano rotondi e più tardi assunsero le più svariate e impensate forme, di croci, cuori, farfalle, gigli, ghiande, libri e perfino… teschi.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Ma al perfezionamento totale degli orologi contribuì il pendolo, la cui scoperta si deve a Galileo Galilei (1639), il quale constatò che la durata delle oscillazioni di un pendolo dipendeva dalla lunghezza del filo a cui era sospeso: più corto era il filo, più breve era la durata dell’oscillazione. Tale principio fu applicato agli orologi dallo scienziato inglese Christian Huygens (1657) e da allora l’orologio cominciò a diventare popolare e alla portata di tutti.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

In tempi più recenti all’orologio da tasca fu sostituito l’orologio da polso, anche detto cronometro (dal greco chronos = tempo e metron = misura), quando indica le frazioni di secondo. Il cronometro è utilissimo, ad esempio, nelle gare sportive.

(immagini da https://pixabay.com/it/blog/posts/public-domain-images-what-is-allowed-and-what-is-4/)

L’uomo e la misura del tempo

Problemi sul perimetro dei POLIGONI

Problemi sul perimetro dei POLIGONI (poligoni regolari, trapezio, rettangolo, rombo, parallelogramma), con schede scaricabili e stampabili in formato pdf, per la classe quarta della scuola primaria.

Problemi sul perimetro dei POLIGONI

Problemi sul perimetro dei POLIGONI

La pagina dei perché

La pagina dei perché: perché la pioggia cade a gocce? Perché il sale fa venire sete? Perchè il pane vecchio diventa duro? Perché prima si vede il lampo e poi si sente il tuono? Una collezione di perché risolti per bambini della scuola primaria. Ho preparato una versione in schede, che possono essere utili per stimolare la lettura.

La pagina dei perché

Simboli grammaticali Montessori e definizioni materiale stampabile per il SECONDO LIVELLO

Simboli grammaticali Montessori e definizioni materiale stampabile per il SECONDO LIVELLO. Come già detto nel post “Simboli grammaticali Montessori e definizioni: materiale stampabile per il PRIMO LIVELLO”,

per i simboli grammaticali abbiamo due livelli:
– primo livello: comprende le nove parti del discorso
– secondo livello: in aggiunta alle nove parti del discorso, comprende i “simboli avanzati” che precisano il nome (nome comune, proprio, astratto, collettivo) e il verbo (transitivo, intransitivo, copulativo, infinito, gerundio, participio, ausiliare).

Simboli grammaticali Montessori e definizioni materiale stampabile per il SECONDO LIVELLO

Cartellini dei titoli delle parti del discorso con simboli grammaticali:

Comprendono i simboli del primo e del secondo livello insieme. Sono utili per etichettare le scatole dei materiali e per le presentazioni. Se vuoi utilizzare quelli che ho preparato, li trovi qui:

Simboli grammaticali Montessori e definizioni materiale stampabile per il SECONDO LIVELLO

Carte delle nomenclature per i simboli avanzati, da aggiungere alle nomenclature delle nove parti del discorso:

utili per le presentazioni e per l’esercizio individuale. Se vuoi utilizzare quelle che ho preparato io, le puoi scaricare qui:


Simboli grammaticali Montessori e definizioni materiale stampabile per il SECONDO LIVELLO

Simboli grammaticali grandi (livello II), utili per le presentazioni e per l’esercizio individuale.

Se vuoi utilizzare quelle che ho preparato io, le puoi scaricare qui:

Simboli grammaticali Montessori e definizioni materiale stampabile per il SECONDO LIVELLO

Simboli grammaticali piccoli (livello II):

Per conservarli io ho preparato delle scatoline origami molto semplici e veloci: la scatola con una pagina dell’elenco telefonico, e il coperchio in carta colorata. Basta utilizzare per la scatola un foglio di circa 0,5 cm più piccolo rispetto al foglio che usiamo per il coperchio, e l’incastro è perfetto. Il tutorial fotografico per le scatoline lo avevo già pubblicato qui: 

Aggiungo qui un tutorial video:

I simboli grammaticali ritagliati sono utilissimi nelle presentazioni, per etichettare il materiale, e naturalmente per gli esercizi di analisi dei bambini. Sono facilmente realizzabili, anche in cartoncino colorato.

Simboli grammaticali Montessori e definizioni materiale stampabile per il SECONDO LIVELLO

Tavola delle parti del discorso secondo livello: da tenere a disposizione dei bambini o da appendere al muro, in prossimità dello scaffale per i materiali della psicogrammatica. Comprende le nove parti del discorso, e i simboli avanzati:

Simboli grammaticali Montessori e definizioni materiale stampabile per il SECONDO LIVELLO

Libretto delle parti del discorso secondo livello: utile da consultare mentre si lavora con le carte delle nomenclature, e durante i lavori di analisi, anche per approfondimenti e per stimolare la ricerca. Comprende le nove parti del discorso, ed i simboli avanzati (nome comune, proprio, collettivo, astratto; verbo (transitivo, intransitivo, copulativo, infinito, gerundio, participio, ausiliare):

Album Montessori per l’area linguistica 6-9 anni

Nel corso degli anni ho pubblicato nel sito moltissime presentazioni relative all’area linguistica per la fascia d’età 6-9 anni. Le trovi qui:

AREA LINGUISTICA MONTESSORI

Il progetto è quello di realizzare e mettere a disposizione gli album Montessori per l’area linguistica… ci sto lavorando.

La mole di argomenti richiede una suddivisione per aree:

1: LETTURA, SCRITTURA E CALLIGRAFIA
2: STUDIO DELLE PAROLE
3: ANALISI GRAMMATICALE
4: ANALISI LOGICA E DEL PERIODO.

Al momento è pronto l’Album per lo studio delle parole in formato corso online qui:

. STUDIO DELLE PAROLE MONTESSORI

CANTI DI NATALE Stille Nacht (Astro del ciel) (Silent night)

CANTI DI NATALE Stille Nacht (Astro del ciel) (Silent night) . Per flauto dolce e canto, testo in Tedesco, Italiano e Inglese, con spartito stampabile e file mp3. 

Testo e musica furono composti da Franz Guber, maestro di scuola e organista, il 25 dicembre 1818.

CANTI DI NATALE  Stille Nacht
(Astro del ciel) (Silent night)
SPARTITO STAMPABILE e FILE mp3

https://www.lapappadolce.net/wp-content/uploads/2023/03/Stille-Nacht-Astro-del-ciel.mp3

CANTI DI NATALE  Stille Nacht
TESTO

Testo tedesco

1. Stille Nacht! Heilige Nacht!
Alles schläft; einsam wacht
Nur das traute hochheilige Paar.
Holder Knabe im lockigen Haar,
Schlafe in himmlischer Ruh!
Schlafe in himmlischer Ruh!
2. Stille Nacht! Heilige Nacht!
Gottes Sohn! O wie lacht
Lieb´ aus deinem göttlichen Mund,
Da schlägt uns die rettende Stund,
Jesus in deiner Geburt!
Jesus in deiner Geburt!
3. Stille Nacht! Heilige Nacht!
Hirten erst kundgemacht
Durch der Engel Alleluja.
Tönt es laut bei Ferne und Nah:
Jesus, der Retter ist da!
Jesus, der Retter ist da!

Testo italiano

1. Astro del Ciel, pargol divin,
Mite agnello, Redentor,
Tu che i Vati da lungi sognâr,
Tu che angeliche voci annunziâr,
Luce dona alle menti,
Pace infondi nei cuor.
2. Astro del Ciel, pargol divin,
Mite agnello, Redentor,
Tu di stirpe regale decor,
Tu virgineo, mistico fior,
Luce dona alle menti,
Pace infondi nei cuor.
3. Astro del Ciel, pargol divin,
Mite agnello, Redentor,
Tu disceso a scontare l’error,
Tu sol nato a parlare d’amor,
Luce dona alle menti,
Pace infondi nei cuor.

Testo inglese

1. Silent night, holy night!
All is calm, all is bright.
Round yon Virgin, Mother and Child.
Holy infant so tender and mild,
Sleep in heavenly peace,
Sleep in heavenly peace.
2. Silent night, holy night!
Shepherds quake at the sight.
Glories stream from heaven afar
Heavenly hosts sing Alleluia,
Christ the Savior is born!
Christ the Savior is born.
3. Silent night, holy night!
Son of God love’s pure light.
Radiant beams from Thy holy face
With dawn of redeeming grace,
Jesus Lord, at Thy birth.
Jesus Lord, at Thy birth.

CANTI DI NATALE Jingle bells

CANTI DI NATALE Jingle Bells è una tradizionale canzone natalizia, scritta da James Pierpont nel 1857, ma nel tempo sono state create numerose versioni.

Inizialmente, la canzone è stata pubblicata con il titolo The One Horse Open Sleigh.

Con testo inglese, spartito stampabile e traccia mp3.

CANTI DI NATALE Jingle bells
SPARTITO SONORO STAMPABILE e FILE mp3

spartito e file mp3 qui:

https://www.lapappadolce.net/wp-content/uploads/2015/11/Jingle-bells.mp3

CANTI DI NATALE Jingle bells
Testo originale inglese

Dashing through the snow In a one-horse open sleigh
Through the fields we go Laughing all the way.
Bells on bob-tail ring Making spirits bright
What fun it is to ride and sing A sleighing song tonight.

Jingle bells, jingle bells Jingle all the way,
Oh what fun it is to ride In a one-horse open sleigh,
O Jingle bells, jingle bells Jingle all the way,
Oh what fun it is to ride In a one-horse open sleigh.

A day or two ago I thought I’d take a ride
And soon Miss Fanny Bright Was seated by my side;
The horse was lean and lank Misfortune seemed his lot,
We ran into a drifted bank And there we got upsot.

A day or two ago The story I must tell
I went out on the snow And on my back I fell;
A gent was riding by In a one-horse open sleigh
He laughed at me as I there sprawling laid But quickly drove away.

Now the ground is white, Go it while you’re young,
Take the girls along And sing this sleighing song.
Just bet a bob-tailed bay, Two-forty as his speed,
Hitch him to an open sleigh and crack! You’ll take the lead.

CANTI DI NATALE The little drummer boy

CANTI DI NATALE The little drummer boy – Canto natalizio tradizionale inglese, con spartito stampabile, file mp3 e testo italiano e inglese.

https://www.lapappadolce.net/wp-content/uploads/2023/03/The-little-drummer-boy.mp3

CANTI DI NATALE The little drummer boy
Testo inglese

1. Come they told me, parapapampam,
a new born king to see, parapapampam,
our finest gifts we bring, parapapampam,
to lay before the king, parapapapam,
rapapampam, rapapampam,
so they honour them, parapapampam,
when we come.
2. Little baby, parapapampam,
I am a poor boy, parapapampam,
I have no gifts to bring parapapampam,
rapapampam, rapapampam,
that’s fit to give our king, parapapampam,
on my drum.

3. Mary nodded parapapampam,
the ox and lamb kept time, parapapampam,
I played my drum for him, parapapampam,
I played my best for him, parapapampam,
rapapampam, rapapampam,
then he smiled me, parapapampam.

CANTI DI NATALE The little drummer boy
Testo italiano

1. Tamburino, parapapampam,
vieni anche tu con noi, parapapampam,
è nato un re in Bethlem, parapapampam,
e noi corriam laggiù, parapapampam,
qualche dono, parapapampam,
a lui rechiam.

2. Bambinello, parapapampam,
un tamburino son, parapapampam,
queste mie mani, parapapampam,
non recan dono alcun, parapapampam,
il tamburo, parapapampam,
il mio sol ben.
3. Batterò per te, parapapampam,
un ritmo allegro assai, parapapampam,
che mette gioia, parapapampam,
in chi lo sta a sentir, parapapampam,
io sonai e Lui, parapapampam,
sorrise a me.

CANTI DI NATALE The little drummer boy
SPARTITO  STAMPABILE e FILE mp3

 

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA
Osserviamo la cartina

Confini: Mare Adriatico, Slovenia, Austria, Veneto
Lagune: di Marano, di Grado
Golfi: di Trieste, Vallone di Muggia
Promontori: Punta Sdobba
Monti: Alpi Orientali (Carniche), Prealpi Venete (Carniche, Giulie).
Cime più alte: Monte Coglians, Monte Montasio, Monte Mangart, Monte Canin (Alpi Carniche); Col Nudo, Cima dei Preti, Monte Pramaggiore (Prealpi Venete)
Valli: del Tagliamento
Valichi: della Mauria, di Monte Croce Carnico, di Tarvisio, del Predil
Fiumi: Livenza col suo affluente Meduna; Tagliamento col suo affluente Fella; Isonzo (italiano solo nell’ultimo tratto) con il suo affluente Torre e il subaffluente Natisone; Stella; Aussa; Timavo.
Isole: di Grado.

Anche questa regione è costituita da due territori: il Friuli, rappresentato dal bacino idrografico del Tagliamento, e la Venezia Giulia.
Gran parte dei territori che costituivano la regione prima del secondo conflitto mondiale sono stati ceduti alla Repubblica iugoslava in seguito alle sfortunate vicende della guerra.
La regione è limitata a nord dalle Alpi Carniche che degradano verso l’alta Valle del Tagliamento. A sud la fertile pianura è limitata dall’Adriatico che ne bagna la costa lagunosa.

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA
Vita economica

L’agricoltura è l’attività prevalente in tutta la regione; si producono uva e patate sulle colline, ortaggi, barbabietole, cereali, tabacco e frutta, in pianura. Numerose zone forestali, della Carnia, danno ottimo legname, e i pascoli consentono l’allevamento dei bovini. Nelle acque dell’alto Adriatico è esercitata la pesca. Le industrie prevalenti sono rappresentate dai cantieri navali, dalle raffinerie di petrolio, dagli stabilimenti siderurgici e meccanici, dalle industrie chimiche, alimentari e dai cotonifici. Monto attivo è il turismo e il commercio.

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA
Le province

Le province della regione, che gode di una particolare autonomia, sono quattro: Trieste, Udine, Pordenone e Gorizia.
Trieste, capoluogo della regione, ricca di ricordi cari al cuore degli italiani, è un notevole porto commerciale e industriale dell’Adriatico.
Udine è un buon centro industriale, agricolo e commerciale e un nodo stradale e ferroviario di grande transito.
Gorizia, adagiata nel luogo in cui la Valle dell’Isonzo sbocca nella pianura, è chiamata per il suo clima mite, la “Nizza veneta”.

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA
Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio del Friuli Venezia Giulia? Quali gruppi montuosi vi si elevano?
Dove si verificano i fenomeni carsici e che cosa sono?
Quali fiumi scorrono nel Friuli Venezia Giulia?
Il Tagliamento segna per un tratto il confine con una regione: quale?
Quali sono le maggiori risorse del Friuli Venezia Giulia?
Quali industrie sono sviluppate a Trieste? E a Monfalcone?
Che cos’è la bora?
Che cosa sono i magredi?
Perchè soltanto la bassa pianura è fertile?
Perchè la Venezia Giulia è più ricca e industrializzata del Friuli?
Quali sono le province e le località importanti della provincia? Perchè sono note?
Ricerca notizie sulle tradizioni, gli usi e i costumi del Friuli Venezia Giulia.
Che cosa ti ricorda Redipuglia?
E Aquileia?

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA
Il Friuli

Ippolito Nievo definì il Friuli “un piccolo compendio dell’universo”, cioè un armonico riassunto, un felice mosaico, un gradevole cocktail di tutto ciò che di bello esiste su questa terra. Dalle altre montagne della catena Carnica, con la vetta massima del monte Coglians, a quasi 2800 metri, alle colline che degradano in dolci declivi, dalle campagne verdi e fertili alle vastissime spiagge adriatiche, dai laghetti del Predil e di Fusine al bacino morenico di San Daniele, dalle aree sassose e aspre, ai boschi fitti e intricati. Nel Friuli c’è di tutto, come se, e una leggenda antica lo dice, infatti, il creatore, al termine della propria fatica, si fosse accorto che era rimasto qualcosa ancora da utilizzare, dell’enorme materia prima predisposta per forgiare il mondo, e, a capriccio, avesse sparso tale residuo a piene mani in quest’angolo gettato tra le Alpi e l’Adriatico, per fare di esso un campionario di tutte le bellezze del mondo.
Le bellezze del Friuli meritano la massima attenzione. Dalle località balneari che hanno il loro centro massimo in Lignano Sabbiadoro fino alle nevi del Tarvisio e di Stella Nevea, di Forni di Sopra e del Matajur, si sta compiendo ogni sforzo per incrementare la recettività turistica, con impianti e attrezzature di primissimo ordine, comprese quelle degli sport invernali, al fine di offrire all’ospite italiano e straniero il meglio della tradizionale e calda accoglienza friulana, fatta di gentilezza, di rispetto, di onestà, di altissimo senso civico.
Accanto alle bellezze naturali, il Friuli tutto è una miniera di meraviglie artistiche. La plurisecolare storia del Friuli, dai più remoti tempi celtici preromani fino alla colonizzazione romana, alle invasioni longobarde, alla conquista della regione da parte di Venezia, ha dato al Friuli infiniti monumenti e vestigia che ben meriterebbero di essere maggiormente conosciuti. Dalle rovine di Aquileia, con il suo foro, il suo porto, la sua basilica; da Udine con la sua collezione di opere di Gian Battista Tiepolo, il suo duomo del Trecento, il suo castello; da Cividale, l’antica Forum Julii di Giulio Cesare con il suo tempio longobardo di Santa Maria in Valle e il Battistero di Callisto; da Pordenone, l’antica Portus Naonis, con il suo duomo e il suo municipio; da Porcia, con i suoi portali e il suo castello; da Palmanova, la città fortezza che ancora conserva intatte le sue caratteristiche: non basterebbe un volume per elencare tutte le bellezze artistiche di questa terra generosa, ospitale, di questo piccolo compendio dell’universo che non chiede che di essere meglio conosciuta: per essere apprezzata e amata come merita.

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA
Friuli Venezia Giulia, regione autonoma

Il 10 maggio 1964 è nata in Italia una nuova regione autonoma: il Friuli Venezia Giulia. In tal giorno si è votato nelle province di Udine e di Gorizia e nel territorio di Trieste. Sono stati eletti i 61 rappresentanti del parlamento regionale. Esso a sua volta, ha  scelto al suo interno il presidente e i dieci assessori destinati a governare la regione per quattro anni. Pur dipendendo sempre da Roma per quel che riguarda le leggi fondamentali della Repubblica Italiana, il Friuli Venezia Giulia si è dato proprie leggi per ciò che riguarda determinate attività locali. E non versa più a Roma tutto l’importo delle tasse governative, ma ne amministra direttamente una parte per risolvere i non lievi problemi regionali.
Prima dello sviluppo dei notevoli centri industriali di Pordenone ed Udine, il Friuli era una zona depressa. Il reddito per persona era tra i più bassi e moltissimi friulani emigrarono per cercare lavoro.
La Carnia è molto bella, con le sue Alpi che non superano i 2800 metri, ed era anch’essa una zona molto povera.
Il Friuli ha una sua unità, basata sul dialetto e sulla storia. Il dialetto non è veneto, ma un idioma neolatino, affine al ladino, al provenzale e al romeno. Il ducato longobardo del Friuli lottò contro le invasioni degli Slavi. Sotto la dominazione veneziana, gli orgogliosi comuni friulani ottennero larghe autonomie. Dal 1895 al 1814 il Friuli fece parte del Regno d’Italia napoleonico. Poi passò all’Austria. Nel 1866 con la terza guerra d’indipendenza si ricongiunse all’Italia.
La provincia di Gorizia è stata ridotta a pochi brandelli dalla seconda guerra mondiale e l’allora Jugoslavia si è presa il resto. Era la città prediletta dagli Asburgo, ma lo stesso imperatore Giuseppe II ne riconosceva il carattere schiettamente italiano. Fu liberata nel 1916, perduta nel 1917 con Caporetto, annessa definitivamente all’Italia nel 1918.
Anche il territorio triestino è ridotto ai minimi termini, in seguito alle vicende belliche e all’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Trieste, sotto l’Austria, era il secondo porto del Mediterraneo e il primo dell’Adriatico. L’ardente irredentismo si concluse con l’unione all’Italia, nel 1918.
Trieste è la capitale della regione. Alcuni assessorati possono risiedere però a Udine o in altre città.
(G. Zannoni)

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA
Trieste

Al primo affacciarsi sulla strada litoranea sul golfo, la città intera appare allo sguardo, in un incontro fulmineo. Se splende il sole, cielo e mare avvolgono la città in un unico bagliore. Dall’auto e dal treno, la stupenda visione si presenta come in una lunga carrellata cinematografica.
La strada segue l’arco del golfo fra suggestivi e arditi strapiombi sul mare, sì che, spesso, si ha la sensazione di stare sospesi sulla lucente pianura dell’Adriatico.
Dal medioevale Castello di Duino, già baluardo contro i Turchi ed i pirati dove forse sostò Dante, ambasciatore di Cangrande della Scala, alla sognante baia di Sistiana, a quella di Grignano, a Miramare, pare di compiere un’allucinante immersione in un’atmosfera solare  e marina. Il paesaggio varia ad ogni passo. Mare, roccia, verde: i sensi finiscono col percepire solo questi tre motivi fondamentali, mentre la città si palesa sempre più vicina e più viva.
L’aria è impregnata di salsedine e di resina. Infine: il Lungomare di Barcola. Da un lato la scogliera, con la cantilena delle onde, le vele, le barche, il porticciolo, dall’altro la movimentata teoria delle ville e dei luoghi di ritrovo, alla fine di un viale alberato, incontreremo la città viva e pulsante.
L’arrivo dalle vie di mare avviene in un diverso accordo di colori, più sfumati. Il passeggero avrà l’impressione di essere nelle vie della città già prima di sbarcare quando la nave all’entrata nel porto sfiora rive e moli. Un arrivo dal cielo consente un abbraccio ideale all’intera città: un mareggiare di colli, di pendici smaltate di verde, tutto un rampicare di case, dai massi dei palazzi sulle rive ai dadi delle ville che si affacciano all’altipiano.
Ma, si giunga da una parte o dall’altra, l’attenzione finisce con l’essere dominata da una culminante visione. San Giusto: il vecchio castello veneto, la poderosa quadrata torre della basilica, la platea romana sul Colle Capitolino. La storia, l’anima di Trieste sono lassù; tutte le età, tutte le vicende accostate, accomunate, sovrapposte parlano.
Il Castello fu costruito al principio del 1500 sul posto della rocca romana e di una successiva fortezza trecentesca.
Dal bastione rotondo che alza la sua massa sulla Piazza San Giusto, l’occhio spazia su un panorama grandioso.
Di lassù Trieste appare come una scacchiera ondulata fra il verde dei colli ed il turchino del mare. Il golfo lunato si distende nelle sue nobili linee dalla riviera che va verso Miramare, Duino, Monfalcone sino alla dolce curva della laguna gradese. Nelle ore più propizie si vedono profilarsi laggiù, in controluce, i contorni delle Alpi e delle Prealpi, i campanili di Aquileia e di Grado. Girando lo sguardo, sulla sinistra appare il vago disegno della costa istriana; e l’occhio può accompagnarla fino allo sperone di Pirano, alla Punta di Salvore.
Monumento caratteristico di Trieste è il Faro della Vittoria eretto in memoria dei Caduti del mare. Alto 116 metri sul livello del mare, per grandezza è il terzo del mondo dopo quelli di New York e Santo Domingo. Il suo raggio spazia per 36 miglia e le navi lo vedono già a metà rotta tra Venezia e Trieste.
Altra opera notevole, il Canal Grande, che penetra nel cuore della città.
Fu scavato nel 1750 per i velieri che così potevano scaricare le merci proprio davanti ai magazzini, allineati allora lungo il canale. E’ anche grazie ad esso che poche città come Trieste sentono la presenza del mare e di continuo lo vedono non solo dalle alture, ma in fondo alle vie.
(B. Parisi)

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA
Udine

In questa chiara Udine, una certa mollezza veneta, risalendo dalla pianura e da occidente, addolcisce il nobile parlare della gente friulana e adorna di piacevoli forme le architetture.
L’Udinese, lo distingui subito per una sua pacatezza corretta: lo interroghi su un indirizzo, lo chiami a te per un motivo qualsiasi, e subito si offre: “Mandi” (che è poi una derivazione del veneziano “comandi”). Ma ti accorgi benissimo che, Friulana dal ceppo morbido fuori e duro assai dentro, non si farebbe comandare da nessuno, a meno di non offrire spontaneamente la sua fedeltà.
Insomma, Venezia sì, ma nella parte migliore e più forte, escludendo il lato settecentesco e diremmo goldoniano del pur affascinante costume lagunare. E poi, Udine è capitale! Meno ricca e attiva di Pordenone, forse, ma il cuore del Friuli è lei, un prodigioso e fiero cuore che ha resistito a molti brutti scossoni della storia.
Non era difficile, fino a trent’anni fa,  trovare a Udine chi ricordasse distintamente l’entrata delle truppe austriache in città, dopo Caporetto. Neppure l’ultima guerra è stata pietosa con la città, e il ferro e il fuoco non furono risparmiati a tentare di domare questi Udinesi gentili ma incapaci di obbedire a un occupante dai metodi così poco corretti.
Ed ora, oso dire che il momento buono per conoscerla non è durante il giorno, quando le ampie strade del centro pullulano di ente vivace e ordinata; l’ora buona è al principio della notte. Dopo le nove Udine, da antica e dignitosa capitale qual è, se ne sta a casa, e le sue vie semi deserte offrono una straordinaria suggestione. Qualcuno si attarda in discorsi sotto l’enorme platano di via Zanon, e alle calme voci friulane risponde discreta la roggia, che ancora lì corre scoperta.
Seguite allora il labirinto di certe stradine, con le simpatiche, antiche case dai balconi delicati, traboccanti di fiori; trascorrete il mirabile impianto urbanistico: Udine può ripetervi il suo racconto di persona, meglio di qualsiasi storico.
(F. Piselli)

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA
La bora

Mentre tutto intorno alla casa domina il frastuono della bora, un fanciullo studia da un suo manuale geografico che “in Italia la velocità del vento supera di rado i 42 chilometri orari”. Bel privilegio questo di Trieste, fra le città italiane, di essere visitata spesse volte durante ‘anno e specie d’inverno, da un vento che, quando è mite, soffia con una velocità di 60 chilometri e, in certe giornate di furore, raggiunge i 140.
Visitatore sgarbato e violento, per cui la città sta sempre sul chi vive. E lo sanno gli ingegneri della luce e dei telefoni, e tutti i costruttori, i quali non sono mai abbastanza previdenti nel calcolare la violenza di questo nemico delle condutture e dei cavi aerei, dei comignoli e dei tetti. Lo sanno i marinai che non rafforzano mai abbastanza gli ormeggi.
Lo sanno infine i cittadini, che per quanto lo conoscano per tradizione e per esperienza, non riescono mai a premunirsi in modo da non doverlo temere.
(G. Stuparich)

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L’acqua e la pietra

Il Carso è un altopiano che dalle Alpi Giulie va degradando verso l’Adriatico ed è compreso tra il basso corso dell’Isonzo e il Golfo del Carnaro. Di questo altopiano, soltanto una piccola parte è inclusa nei confini politici dell’attuale Venezia Giulia e precisamente quella striscia che si affaccia sul Golfo di Trieste. Essa si distingue in Carso Monfalconese e Carso Triestino, divisi l’uno dall’altro dal Vallone di Gorizia. Il Carso è caratterizzato dall’assenza di corsi d’acqua; la sua superficie perciò si presenta arida, costituita in gran parte di rocce bianche e nude. L’acqua piovana tende a scorrere rapidamente attraverso le fessure delle rocce e scompare nel sottosuolo.
Nel sottosuolo non meno che alla superficie, l’acqua silenziosamente lavora. E’ l’acqua che conferisce al paesaggio carsico quell’aspetto di terra caotica e tormentata che lo distingue da ogni altro.
In superficie la roccia appare scavata da solchi, incisa da crepacci, stranamente forata, ridotta a lame taglienti e a punte aguzze. Nel sottosuolo, si formano cavità di ogni genere: caverne spesso grandissime, grotte ramificate come labirinti, canali, gallerie, pozzi, cunicoli. In questo mondo sotterraneo, l’acqua scorre, spumeggia, gorgoglia, continua a scavare, seguendo vie misteriose che la conducono al mare. Il crollo della volta di una grotta ha dato origine, in superficie, a una conca, una valletta che ha forma di scodella o di imbuto. Questa conca si chiama, con parola slava, dolina. Quando la dolina termina con un inghiottitoio a pozzo, che spesso è profondissimo, si chiama foiba (dal latino fovea, che significa fossa). Il Carso è tutto bucherellato di doline; viste dall’alto sembrano piccoli crateri vulcanici: un paesaggio quasi lunare.
Tra le numerose grotte del Carso Triestino va ricordata la Grotta Gigante, che si trova a qualche chilometro da Trieste. Attraverso una breve galleria si raggiunge una cavità immensa, alta 115 metri, che potrebbe contenere la cupola di San Pietro in Vaticano. La grotta è attrezzata per le visite turistiche; fasci di luce elettrica illuminano nel modo più fantastico i cristalli delle meravigliose stalagmiti. E’ il capolavoro dell’acqua.
Non si deve credere che il Carso sia tutto e soltanto un deserto di pietra. Il Carso Triestino, assai meno brullo di quello di Monfalcone, è rallegrato da pinete che formano chiazze verde scuro in mezzo al biancheggiare dei macigni, da boscaglie di querce che coprono le sue colline, da prati, da cespugli di ginepro, di rovo, di biancospino. La primavera fa fiorire tra i sassi il timo e la salvia; compaiono fiori di alta montagna che fanno dimenticare di trovarsi a pochi passi dal mare.
La terra coltivata è poca: qualche vigna, qualche breve campetto nel fondo delle doline.
La roccia del Carso è il calcare, sul quale l’acqua agisce facilmente. Dovunque vi sia il calcare, si manifestano gli stessi fenomeni che si osservano nel Carso: aridità in superficie e acque sotto terra, macigni corrosi, grotte e caverne. Poiché questi fenomeni sono  più evidenti nel Carso che altrove, hanno preso da esso il nome: si chiamano fenomeni carsici o carsismo.
In Italia, i terreni di natura calcarea sono molto estesi; quindi anche il carsismo è frequente in tutta la penisola. Zone carsiche si trovano nelle Prealpi Lombarde, nelle Alpi Apuane, nel Gargano, nelle Murge, nelle Madonie, nell’Iglesiente; le doline non mancano nel bresciano, nell’Appennino bolognese; un grandioso complesso di grotte è quello di Castellana in Puglia; i fiumi a corso sotterraneo sono frequenti nell’Appennino meridionale.
Il fatto è che nel Carso i fenomeni carsici sono tutti riuniti e presenti.
(S. Pezzetta)

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Le grotte di Postumia

Un vecchio proverbio latino dice che la goccia scava la pietra: una goccia che cade occasionalmente su un sasso, no di certo, ma dieci, cento, mille, un milione di gocce che cadono una dopo l’altra sempre sullo stesso punto, sì. Se poi le gocce, scorrendo su una roccia calcarea, si sono arricchite di sostanze minerali, avviene il fenomeno contrario: invece di scavare, esse… costruiscono: depositano a poco a poco il calcare; un po’ resta attaccato alla fessura da cui cola l’acqua, un po’ si consolida a terra.
Così nascono le stalattiti e le stalagmiti nelle caverne carsiche. Come tutti sanno anche l’Italia è ricchissima di caverne di questo genere, ma le più celebri del mondo  sono certamente quelle di Postumia, italiane fino all’ultima guerra, slovene dopo le spartizioni territoriali seguite alla pace. Le grotte di Postojna (questo è l’attuale nome) sono ancora meta di numerosissimi turisti. Sono tanto grandi che in esse si snoda una ferrovia a scartamento ridotto di ben tre chilometri. Ma a piedi se ne possono percorrere sei  e, tenendo conto dei numerosi canali secondari, si giunge ad un’estensione di oltre trenta chilometri.

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Bellezza delle Alpi Giulie

Le Alpi Giulie sono tra le più attraenti della nostra cerchia alpina. Due ardite ferrovie conducono al loro cuore, parallelamente a due grandi, magnifiche strade: la strada e la ferrovia del Canal di Ferro e quelle della Valle dell’Isonzo.
In questo estremo lembo orientale d’Italia sono profuse con magnifica prodigalità tutte le bellezze di cui si vanta l’Alpe, bellezze che dalla poesia mite e pastorale dei pascoli alti, vanno a quella solenne delle foreste, e da questa a quella tragica delle rupi nude e precipiti, erette sulle loro basi cinte di ghiaioni, superbamente sfidanti il vento e il sole. Le Giulie hanno in comune con le Dolomiti la costituzione; ma le loro valli sono profonde e selvagge, scarsamente collegate da passi, con altopiani di rocce nude, con nevai sperduti nel mare delle rocce calcaree. Forse manca loro la grandiosità delle masse montuose e la maestà delle nevi perenni, ma in compenso l’Alpe conserva intatta la sua fisionomia selvaggia, primordiale, fatta di pietra e di abeti, quieta e raccolta. Ogni valle ha i suoi monti posti a custodia, il suo torrente spumoso e sonante, le sue foreste. La Val Saisera ha il Montasio, la Val di Resia il Canin.
Ecco la Sella di Nevea, culla dell’alpinismo giuliano e tappa per le più belle vette delle Giulie, convegno di venti, splendore di pascoli verdi, dove germoglia rubescente il rododendro e spicca, flessibile al vento, l’azzurra genziana!
Ecco la vetta del Monte Nero, sacro alla gloria dei nostri Alpini; ecco la Valbruna, teatro di abeti e di pareti incombenti, chiusa nello sfondo da uno dei panorami più belli delle Alpi, nell’inverno, paradiso bianco dello sciatore. Ecco ancora la verde dovizia dei boschi di Pontebba, variati di pascoli alti e di baite, da dove si domina il Canal del Ferro smagliante di tinte e di contrasti, lungo il corso sonoro del torrente Fella.
(O. Samengo)

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Usanze, tradizioni, costumi

Feste e sagre si celebrano numerose nel Friuli. Ad Aquileia e Cividale si celebra, per l’Epifania, la Messa dello Spadone, durante la quale il diacono, riccamente vestito, e con l’elmo piumato sulla testa, saluta il popolo con un antico spadone, simbolo del tramontato potere temporale e militare dei Patriarchi (Vescovi, principi di quelle terre).
A Gemona viene celebrata ogni anno la sagra dei surisins (topolini). I quali topolini sono minuscoli razzi che, fischiando e scintillando, scivolano lungo un fil di ferro teso in una piazza di Borgo Villa, non senza staccarsi e finire in mezzo alla folla che si agita con ilare spavento.
A Comeglians, e anche in altri paesi, nella notte dell’Epifania, il cielo è solcato da cento meteore che ricadono sui clivi montani sprizzando scintille. Sono le cidulis ossia rotelle di faggio che un cidular arroventa al fuoco e scaglia lontano a mezzo di un bastone flessibile. Ad ogni cidula che vola nella notte, si grida il nome di una fanciulla del paese.

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La bora

La bora è un vento locale che raggiunge forza e velocità straordinarie. Quando essa soffia, si devono rafforzare gli ormeggi alle navi che sono nel porto. Nelle vie più battute cessa quasi del tutto il traffico degli autoveicoli. Quelli che devono forzatamente circolare sono guidati a fatica e fatti procedere a passo d’uomo. I pedoni si aggrappano a corde tese nei punti più flagellati da vento ed evitano, per quanto possono, di attraversare le strade e di avventurarsi nelle piazze aperte.
La rovinosità di questo vento dipende dal fatto che soffia rasente terra. Si tratta infatti di una corrente di aria fredda e secca che proviene da Nord Est. Essa, scontrandosi con l’aria mediterranea, più calda e leggera, la fa salire e poi scorrazza da padrona negli strati più bassi. La sua velocità raggiunge perfino i 200 orari.

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Trieste, città del mare

Non v’è forse altra città che viva in intima unione col mare come Trieste. Un lato della piazza maggiore è spalancata senza neppure il riparo di una balaustra, sull’infinita distesa abbagliante e per tutte le vie penetra da quella gran bocca, l’odore salso dell’onda. Nei giorni di tempesta i cavalloni, non impediti da alcun ostacolo, sormontano il breve dislivello e si riversano e si frangono contro le soglie marmoree dei fabbricati. Questa città, che allinea lungo intere contrade palazzi di favolosa ricchezza per ospitarvi banche, compagnie di navigazione, vive mescolata al suo mare come potrebbe un povero villaggio di pescatori. Il porto di Trieste offre uno spettacolo inebriante e sempre nuovo d’attività e di forza, coi suoi moli formicolanti di gente operosa, con la sua sfilata di magazzini, di cantieri navali, di opifici fumanti e sonanti, col suo andirivieni di navi giganteschi e minuscoli, col suo trascorrere di vele candide e gialle e rosse, coi suoi rapidi voli d’idroplani.
(G. De Agostini)

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La campana di Rovereto

E’ la sera del 2 novembre. Attraverso la radio si diffonde, in tutto il mondo, un suono lento, grave, solenne: Don!… Don!… Don!…
E’ la voce di Maria Dolens, la campana di Rovereto. Essa ci ricorda i caduti, tutti i caduti della guerra: italiani, francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi, slavi, giapponesi, americani… sono migliaia e migliaia di uomini che rivivono nel suono della campana. Quante cose dice al nostro cuore questo suono: “Pace!… Pace!… Pace!… Vogliatevi bene! Siate tutti fratelli!… Soltanto la pace può rendervi felici!”.
Questo ci dice la campana di Rovereto. I suoi mesti rintocchi si disperdono nell’aria ormai oscura della sera. Essi  si diffondono attraverso lo spazio, come un messaggio di pace e di amore fra tutti gli uomini di buona volontà.
(R. Dal Piaz)

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Il Carso

Ci sono cose nella Venezia Giulia che meritano di essere viste. Si tratta di grotte, di inghiottitoi, di doline: di curiosi fenomeni insomma che, appunto dal nome della regione, si chiamano fenomeni carsici.
La regione del Carso è formata da rocce calcaree assai tenere, porose e piene di fessure. Le acque piovane, filtrando attraverso le fessure, con l’andare dei secoli, le hanno allargate e si sono aperte nel sottosuolo gallerie, cunicoli e grandi cavità in cui esse scorrono come fiumi sotterranei. E’ avvenuto che molte di quelle acque circolanti nel sottosuolo, avendo trovato una nuova strada più breve e più profonda, hanno abbandonato le gallerie nelle quali prima scorrevano, lasciandole vuote. Queste gallerie abbandonate dalle acque sono appunto le grotte.
E’ assai interessante il penetrare e l’avventurarsi nell’interno di questi sotterranei. Dal soffitto penetrano e luccicano certe bizzarre concrezioni di roccia che si dicono stalattiti; dal pavimento sorgono altre concrezioni coniche dette stalagmiti e spesso le une e le altre congiunte insieme formano esili o poderose colonne. Le pareti qua e là sono rivestite,  si potrebbe anche dire adornate, di coltri, frange, panneggiamenti, anch’essi di roccia più o meno trasparente e variamente colorata.
(G. Assereto)

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Aquileia romana

Aquileia è una città ricca di storia e di preziose vestigia: ebbe due momenti di grande splendore sotto Augusto e nell’alto Medioevo. Maestose si levano nei suoi dintorni le rovine romane: uno splendido colonnato dell’antico foro si staglia contro il cielo e nel sepolcreto romano altri ruderi dell’antica Roma attirano l’attenzione dei visitatori.
Una raccolta di lapidi, anfore, urne, terrecotte, monete, si trova nel Museo Archeologico della città e gli scavi, nei dintorni, continuano.
Tra il verde ecco un’altra visione, questa volta medioevale: la grandiosa Basilica romanica costruita intorno all’anno 1.000: agile ed alto ben 73 metri, si leva, a fianco delle possenti mura, l’antico campanile.

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Una città come una stella

Una strana cittadina, Palmanova! Se tu la vedessi dall’aereo, ti apparirebbe come un’immensa stella a nove punte. Si tratta di un’antica città fortezza costruita da Venezia, contro le minacce sia dei Turchi, sia dell’Impero d’Asburgo.
Un particolare va ricordato: la cittadina fu fondata nel 1593, il 7 ottobre, anniversario (il ventiduesimo) d’una famosa battaglia navale contro i Turchi: la battaglia di Lepanto. La pianta di questa città è certamente una delle più belle esistenti in Italia: bastioni, casermette, torri, depositi costituiscono un poligono regolarissimo con diciotto lati: al centro c’è una piazza dove sorge il Duomo. Palmanova è nella pianura friulana, quasi a metà sulla via tra Udine ed Aquileia.

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IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture

IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia.

IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture
Le terre che Carlo Magno aveva distribuito a conti e marchesi di chiamavano feudi, e coloro che le avevano ricevute venivano chiamati col nome generico di feudatari.
Il possesso di un feudo durava quanto la vita del feudatario, e alla morte di quest’ultimo tornava sotto la diretta signoria dell’Imperatore.
Coloro che avevano ricevuto un feudo dall’imperatore divenivano suoi vassalli e, finché vivevano, potevano godere di tutti i prodotti della terra su cui governavano.
I vassalli, in cambio, giuravano fedeltà all’imperatore, avevano l’obbligo di versargli una parte delle ricchezze ricavate dal feudo e, in caso di necessità, di procurargli un dato numero di guerrieri.
Col tempo i vassalli ottennero di essere esonerati dal pagamento delle tasse e dall’arruolamento di guerrieri.
Infine, i feudatari più potenti, approfittando della debolezza di alcuni imperatori, ottennero che i loro feudi , da vitalizi, diventassero ereditari.
I vassalli, divenuti proprietari del loro feudo, ne assegnarono, a loro volta, una parte ad uomini loro fedeli che si chiamavano valvassori. Costoro avevano verso i feudatari gli stessi obblighi che i feudatari avevano verso l’imperatore. Col tempo, ottennero anch’essi che le loro terre, assegnate a vita, divenissero ereditarie. Talvolta anche i valvassori affidarono una parte delle loro terre ad altri: i valvassini.
La terra era lavorata di coloni e dai servi della gleba.
I coloni dovevano dare al signore una parte dei raccolti e lavorare gratuitamente per la manutenzione di strade, ponti, canali.
I servi della gleba (cioè i servi della terra) vivevano quasi come schiavi; non potevano sposarsi, né farsi religiosi, né cambiare mestiere, né trasferirsi altrove senza il consenso del padrone che, spesso, li tormentava con ogni sorta di prepotenze. In caso di vendita del fondo su cui lavoravano, i servi della gleba passavano in potere del nuovo padrone, come cose o animali.
La cerimonia con cui si consegnava un feudo a un vassallo si chiamava investitura. Essa avveniva alla presenza di tutti i maggiori dignitari dell’Impero.
Il vassallo, in ginocchio, poneva le mani nelle mani dell’imperatore giurandogli fedeltà. L’imperatore, allora, se il feudo era una marca, gli consegnava una spada per ricordargli che doveva essere pronto a difendere con le armi quanto gli era stato affidato; se invece si trattava di una contea, gli offriva una zolla di terra o un mannello di spighe.
I feudi, divenuti ereditari, spettavano sempre al figlio primogenito. Gli altri figli si avviavano alla vita ecclesiastica o, ricevuti dal padre un’armatura e un cavallo, cercano gloria e fortuna combattendo per i potenti. Dapprima i cavalieri, ammirando soltanto la forza, si mostrarono intrepidi e crudeli. Poi, per merito della Chiesa, che predicava l’amore per il prossimo, divennero generosi, onesti, e si dedicarono alla difesa dei deboli e degli oppressi.

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Per il lavoro di ricerca

Che cosa erano i feudi e come si chiamavano gli assegnatari?
Di che cosa poteva godere il vassallo?
Quali obblighi aveva verso l’imperatore?
Chi erano i valvassori e i valvassini?
Chi erano  i coloni e i servi della gleba?
Come erano considerati questi ultimi?
Che cos’era l’investitura a vassallo?
Come avveniva?
Chi erano i cavalieri e come dovevano comportarsi?
Come si svolgeva la giornata del castellano?
Quali erano i costumi feudali?
Quale era la cerimonia dell’armamento di un cavaliere?
Come ci si comportava a tavola nell’epoca medioevale? E quali erano i cibi?
Come si faceva la toletta quotidiana?
Esistono ancora molti castelli in Italia; cerca, se possibile, di visitarne uno e osserva la sua struttura caratteristica (il ponte levatoio, il fossato, le torri, il torrione, ecc..); cerca di spiegarti perchè mai sia stato costruito così in alto; procura infine di disegnare un castello, magari servendoti di un’illustrazione.
Visita qualche museo o ricerca delle illustrazioni che raffigurino le armi e le armature dei soldati di questo periodo.
Le case dei servi della gleba sorgevano ai piedi del castello. Perchè?
Come e cosa mangiavano i nobili signori del Castello?
Quali divertimenti avevano i feudatari?
Procura di conoscere i particolari della cerimonia detta dell’investitura e poi, con l’aiuto di qualche amico, prepara una scenetta da recitare in classe.
Chi erano i Cavalieri?
Quale scopo si prefiggeva la Cavalleria?
Quale carriera doveva seguire un giovane prima di essere nominato cavaliere?

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Il borgo

Il feudatario viveva nel castello. Intorno ad esso sorgeva il borgo, cioè l’insieme delle umili abitazioni degli artigiani e dei servi della gleba. Gli uni fornivano al feudatario i prodotti agricoli, gli altri (tessitori, sarti, calzolai, falegnami, fabbri) gli oggetti indispensabili alla sua vita  e a quella dei suoi soldati e servitori. In caso di guerra, gli abitanti del borgo si rifugiavano nel castello.

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Potenza dei feudatari

Il feudo aveva tre elementi costitutivi: il beneficio, cioè la concessione del territorio, fatta dal re; il Vassallaggio, ossia l’assunzione degli obblighi verso il sovrano da parte del feudatario; l’immunità, cioè praticamente una sempre maggiore indipendenza del feudatario nei confronti del re. A questi elementi venne ad aggiungersi anche l’ereditarietà. Dopo la morte di Carlo Magno, infatti, i grandi feudatari esercitarono  fortissime pressioni per ottenere che, alla loro morte, i territori da essi amministrati, anziché tornare al re, passassero in eredità ai loro figli.
Carlo il Calvo, uno degli imbelli sovrani succeduti a Carlo Magno, finì col cedere a questa richiesta e nel Capitolare di Kiersy dell’anno 877 dichiarò di riconoscere ed accettare il principio dell’ereditarietà. I feudi divennero gradatamente sempre più potenti e indipendenti, e formarono veri e propri stati negli stessi  confini del regno. I potenti feudatari vivevano nei loro Castelli turriti che, dapprima non furono che semplici fortezze, ma vennero col tempo a trasformarsi in comode e splendide dimore, centri di vita economica, sociale e culturale.

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Omaggio e investitura

L’investitura era la cerimonia simbolica con la quale veniva stabilito il contratto feudale: in origine, il vassallo si chinava ai piedi del signore e, mettendo e sue mani nelle mani di lui, gli si dichiarava vassallo. Questo atto era detto omaggio: a sua volta, il signore lo sollevava e lo baciava sulla bocca; seguiva un giuramento di fedeltà, poi il signore gli  consegnava un simbolo della terra datagli in feudo: la spada, per difenderla,  oppure un ramo, un mazzo di spighe, una zolla.

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La vita nell’epoca feudale

Nell’epoca feudale le città sono in piena decadenza: vi vivevano piccoli commercianti ed artigiani, povera gente gelosa della libertà, ma senza difesa e soggetta a tutte le angherie degli eserciti che passavano. Anche le città facevano parte del feudo, ma erano generalmente trascurate dai signori, perchè il centro della vita feudale era il castello; vi aveva invece una certa importanza il Vescovo.
Il castello, in cui risiedeva il feudatario, era costruito in posizione dominante e facilmente difendibile. La massiccia costruzione era cinta di mura poderose, orlate alla sommità di merli che servivano di riparo ai combattenti. Intorno vi correva un fossato, pieno di acqua, su cui si abbassavano uno o più ponti levatoi: in caso di difesa essi venivano alzati, in modo da impedire ogni passaggio verso l’interno del fortilizio.
All’interno vi erano ampi cortili su cui si aprivano le abitazioni, i magazzini, le scuderie, gli altri locali adibiti a vari usi. Le stanze erano vaste ma disadorne e piuttosto oscure. Solo in seguito le dimore signorili si abbellirono di ornamenti, oltre che di trofei di caccia e di guerra, e divennero più comode e perfino lussuose. Il castello è un poco il simbolo della vita aspra e violenta dell’età feudale.
La guerra, la preda, il saccheggio, le incursioni nei territori nemici erano quasi consuetudini. La forza fisica, il coraggio, l’abilità di maneggiare le pesanti armi erano le doti più considerate.
La caccia era insieme un divertimento e un mezzo per procacciarsi la selvaggina per i banchetti del castello.
Non vi erano altri divertimenti che i tornei, combattimenti simulati tra guerrieri o tra gruppi, i conviti e le gagliarde bevute; si assisteva talora ai lazzi ed agli esercizi di giullari o si ascoltavano i canti d’amore e di guerra dei trovatori.
Una cerimonia solenne della vita feudale era l’investitura. Il signore alla presenza della sua corte riunita riceveva l’atto di omaggio del vassallo e il giuramento di fedeltà; poi lo investiva del feudo, cioè gli conferiva i diritti sul territorio, consegnandogli un simbolo: una spada, un anelo, un gonfalone o, se il feudo era modesto, un fascio di spighe o anche una zolla.
La povera gente viveva in capanne o in squallide dimore poste nelle immediate vicinanze del castello, in cui si rifugiava quando si avvicinava la minaccia della guerra.
Attività fondamentale era l’agricoltura, praticata in grandi proprietà, che avevano per centro il castello o la curtis (cioè la fattoria con le abitazioni, le stalle, i fienili, i magazzini, i mulini e tutto quanto occorreva). In esse si produceva quello che era necessario alla vita degli abitanti: al di fuori si comperava ben poco, solo qualche prodotto essenziale come l’olio o il sale, e ben poco si andava a vendere alle fiere e ai mercati che periodicamente si tenevano in certe località.
Per questo, ed anche per la mancanza di vie di comunicazione e per i continui atti di brigantaggio, i traffici erano scarsissimi.
Il feudo era un mondo chiuso che bastava a se stesso.
(C. Bini)

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Il castello

Il feudalesimo è l’età dei castelli. Massicci e ben fortificati, essi sorgono per lo più in luoghi naturalmente difesi, sulle alture da cui dominano la piana sottostante, all’imbocco di gole montane  o presso un ponte o negli incroci delle vie più battute, per obbligare i passanti a pagare pedaggi e tributi per il trasporto delle merci.
Varie cerchia di mura merlate, con torri e porte, cingevano il castello. Esternamente e tra una cerchia di mura e l’altra, correvano larghi fossati sormontati da ponti levatoi. Alte torri fiancheggiavano l’edificio, da cui spiare le mosse del nemico e scagliare dardi e pietre sugli assalitori: poche e strette feritoie si aprivano nelle mura esterne.
Oltrepassato il ponte levatoio si giungeva nel cortile del castello al cui centro, generalmente, c’era un pozzo.
Tutto attorno al cortile si aprivano le porte della scuderia; dell’armeria, piena di corazze, di spade, di lance, di archi e di scudi; della cucina, ampissima e annerita dal fumo; degli alloggi per la servitù e, infine, quelle della cappella.
Una scala conduceva al piano superiore, dove’erano le stanze del feudatario e dei suoi familiari. Le pareti degli ampi locali erano generalmente coperte da arazzi e da affreschi. Il pavimento, invece, era di semplice pietra.
I mobili, scarsi e poco comodi, consistevano in grandi cassoni di legno scolpito, dove venivano riposti gli abiti; in sedie rigide e dure con alti schienali; in tavoli robusti.
Per la pulizia del mattino, nelle camera da letto si trovava soltanto una bacinella sorretta da un treppiede di ferro o di legno.
Le stanze non erano luminose poichè le finestre, per ragioni di difesa e per il costo dei vetri, erano assai piccole.
Al calar del sole di infilavano in appositi anelli, fissati alle pareti, grosse torce resinose che illuminavano le sale di una luce rossastra e incerta.
Nella stagione invernale l’unico mezzo di riscaldamento era costituito da immensi camini, il cui calore si disperdeva nei vasti saloni.
Nel castello si rendeva giustizia e si tenevano i prigionieri; spesso sotterranee, tetre e umide erano le carceri, presso le quali era la camera di tortura.
Dentro il castello si rifugiavano i contadini, quando le loro terre erano invase.
Nel castello feudale si distinguono tre parti: la cinta, il mastio (che avevano entrambi scopi di difesa) e il palazzo dove abitava il signore.
La cinta era in muratura, con torri agli angoli. Si ebbero anche due o tre mura di cinta; la più esterna racchiudeva il borgo.
Dopo il secolo III, specie nei castelli di pianura, comparve il fossato, col ponte levatoio.
Il mastio era la torre più alta che sorvegliava tutta la cinta, e in cui ci si asserragliava per l’ultima difesa. Il palazzo comprendeva la sala delle udienze, le stanze del feudatario, affacciate sul grande cortile interno, le camere dei cortigiani e della servitù, le cucine e le scuderie.
Nei sotterranei vi erano le prigioni ed i magazzini.

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Vita nel castello

Nelle lunghe serate invernali, non appena le prime ombre battono ai vetri a piombo filato delle finestre, nella sala oscura si accendono le lucerne ad olio; la cena è pronta ed il signore, la madonna, i figli e gli ospiti si seggono a tavola. Subito dopo, la famiglia si riunisce sotto la cappa del vasto camino e al riverbero della fiamma, recita la preghiera. Fatto il segno della croce, il signore si alza e si avvia verso le sue stanze; i familiari lo seguono; la fumosa fiamma della lucerna scompare davanti a loro e il buio si fa più denso, il silenzio più profondo; il castello si addormenta.
Nei profumati pomeriggi di primavera, invece, tutta la famiglia si raccoglie sul verziere e, fra risa e canti, si intrattiene in lieti passatempi, in dolci novellari. Spesso i giovani escono e sul sagrato della chiesa o sul largo spiazzo del castello, danzano il trescone.  E’ in questo tempo che il giocoliere bussa alla porta del castello: la famiglia accorre, gli fa festa ed egli, al suono di un vecchio strumento musicale, fa ballare l’orso e la bertuccia.
La sera il giocoliere, con raffinata arte immaginativa, racconta ai familiari le proprie avventure: parla di luoghi lontani e meravigliosi, di imprese leggendarie ed eroiche, di ricchezze favolose, di tragedie sinistre; sorride e freme la famiglia a quel parlare.

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La sentinella

Sulla torre più alta del castello stava di guardia una sentinella che doveva sempre vigilare, particolarmente di notte.
Per resistere al sonno, la sentinella scambiava ogni tanto un grido con i soldati di guardia in altre parti del castello.
Un gridava: “Sentinella all’erta!” e l’altro rispondeva: “All’erta sto!”.
Di giorno la sentinella segnalava l’arrivo di estranei, fossero essi amici o nemici.

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Il saluto

Quando nel castello entrava un cavaliere, si toglieva l’elmo per dimostrare le sue intenzioni pacifiche e soprattutto la sua certezza di non essere tradito.
Tale uso passò nell’esercito: ma poichè un soldato non poteva mai presentarsi disarmato, i guerrieri medioevali, trovandosi di fronte ad un loro superiore, non si toglievano l’elmo ma sollevavano la visiera scoprendo il volto. La consuetudine di portare la mano alla fronte, quasi per alzare un’immaginaria visiera, sussiste ancora oggi.

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La guerra

Quando il feudatario doveva partecipare alle guerre intraprese dall’imperatore, conduceva con sé un certo numero di guerrieri. A guardia del castello rimanevano allora pochi soldati, i servitori e gli umili abitanti del borgo. Altre volte la guerra scoppiava fra due o più feudatari: allora il più forte invadeva i territori dell’avversario, ne devastava i raccolti e, infine, assaliva il castello.

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La tecnica dell’assedio

L’assalto a un castello si svolgeva generalmente second una tecnica fissa. Una prima fase consisteva nel circondare completamente il castello, con la cavalleria, per impedire agli assediati ogni possibilità di fuga. Seguiva il bombardamento con le macchine da lancio: mangani e trabucchi; in questo modo di cercava di smantellare le difese dell’avversario e di danneggiare le sue macchine belliche, per preparare le condizioni adatte al vero e proprio assalto.
L’assalto veniva preceduto dal tentativo di colmare il fossato; a questo scopo molti uomini correvano fin sul ciglio, vi gettavano delle fascine e poi si ritiravano precipitosamente, per evitare le pietre, le sostanze infuocate e le frecce che i difensori lanciavano su di loro. Ripetendo molte volte questa manovra, si poteva creare un passaggio attraverso il fossato per le truppe di assalto che dovevano tentare la scalata delle mura servendosi di lunghe scale. La loro azione era coadiuvata dalle torri mobili, dall’alto delle quali si potevano colpire i difensori delle mura molto meglio che dal basso.

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La tecnica difensiva

E i difensori? Non restava loro che cercare di distruggere o di incendiare le macchine nemiche, lanciando pietre e sostanze incendiarie. A quelli che tentavano la scalata delle mura, riservavano una speciale accoglienza, a base di pentoloni di pece e di olio bollente.
Se con l’uso di questi mezzi o con qualche audace sortita notturna non riuscivano a piegare la volontà degli aggressori, i difensori di un castello assediato mantenevano ben poche speranze di salvezza. Se non volevano arrendersi, dovevano prepararsi all’ultima disperata difesa nel mastio,la costruzione centrale del castello, nella quale si sarebbero asserragliati quando le mura e i cortili fossero caduti in mano al nemico.

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Vita feudale

Appena dalle alte torri si avvistava l’approssimarsi di un attacco nemico, i popolani del borgo entravano nel cortile, si alzava il ponte levatoio e il castello restava isolato dal profondo fossato che gli attaccanti cercavano di superare con ponti mobili. Dalle mura fioccavano frecce, sassi, olio bollente e qualsiasi cosa potesse colpire gli attaccanti, che tentavano di salire con scale a pioli.
In tempo di pace, il castello era ugualmente luogo di raccolta dei borghigiani. Nell’interno, non mancava mai la cappella. Nei giorni in cui il cortile si trasformava in mercato, vi convenivano non solo i mercanti della regione, ma  anche i venditori ambulanti che arrivavano da lontano; questi accorrevano specialmente nei castelli dove il Barone aveva appeso il proprio sudo con lo stemma di famiglia nel cortile o sulle mura: questo significava che aveva sfidato altri Baroni a una giostra cortese e, in occasione di tali spettacoli, arrivavano sempre persone in vena di… spendere, e gli ambulanti facevano buoni affari. Oltre alle giostre d’armi, i Baroni organizzavano grandi battute di caccia, nelle quali mettevano in mostra non solo la loro abilità nel cavalcare, ma anche quella dei cani e degli uccelli rapaci, come falchi e astori, addestrati a catturare la selvaggina. Nella caccia, la preda preferita era il cervo. Quando la cattiva stagione non permetteva di divertirsi all’aperto, il Barone invitava i suoi amici nobili a banchetto nella grande sala del castello, l’unica ad essere riscaldata, perchè il fuoco era sempre acceso nel caminetto. Durante i banchetti, si divoravano enormi arrosti e si rideva ai lazzi dei giocolieri; lo spettacolo più gradito era quello offerto dai giullari che cantavano le avventure dei Paladini di Carlo Magno o le vicende dei Cavalieri della corte inglese di Re Artù. Oltre ai giullari, nei castelli vennero in seguito i trovatori e i menestrelli esperti nel comporre e nel cantare canzoni d’amore in onore delle belle dame. A tavola, I Baroni si divertivano anche con le pesanti coppe di metallo: per mettere in mostra la loro forza afferravano in due una coppa colma di vino alla quale l’uno e l’altro cercavano di bere tirandola a sé. Una specie di braccio di ferro, insomma.
Nel castello non esisteva un bagno. Solo in casi… eccezionali (perchè di diceva che la pulizia togliesse la forza), il Barone si lavava in un mastello di legno.
La castellana aveva anche il compito particolare di prendere e uccidere i pidocchi e le pulci che infestavano il Barone. Purtroppo, con Carlo Magno non era scomparsa solo la grandezza dell’Impero Carolingio, ma anche la bella abitudine di fare spesso il bagno!

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La giornata di un castellano

Appena vestito, il Castellano fa le prime devozioni prostrato all’inginocchiatoio, e la Castellana nel piccolo oratorio adiacente alla sua camera. Poi tutta la famiglia si raccoglie ad ascoltare la messa nella ricca e fastosa cappella, celebrata da un religioso che risiede nel castello. Dopo di che la Castellana dà una prima capatina alle cucine, e il Signore alle scuderie o alla sala d’armi, dove attende ad armeggiare col figliolo, o con gli ospiti, o con gli scudieri. Le figlie girellano intanto nel giardino, cogliendo fiori.
Alle dieci della mattina uno squillo di corno annuncia il pasto. Anche nei giorni ordinari vengono serviti molti e grassi piatti: carne di bue, di cinghiale, di montone, di capriolo, galline, fagiani e via dicendo, condite con salse piccanti, tutte aromi e pizzicorini mordenti come pepe, chiodi di garofano, cannella, ginepro, ambra, benzoino, noce moscata, anice, ed altre nostrane ed orientali delizie, sulle quali primeggiano l’aglio e la cipolla.
Dopo il pranzo, che è protratto il più lungamente possibile, il Signore fa la siesta; i fanciulli, dopo essersi dedicati ad alcuni esercizi sportivi, riparano col pedagogo nella stanza degli studi. La Castellana e le figlie si ritirano nelle loro camere, ove attendono, nella speranza di qualche visita, ad adornarsi.
Quando capitano visite, o vi sono ospiti in casa, verso le due tutti convengono in giardino o nel parlatorio, e là si trattengono mangiando dolci e bevendo. Vengo serviti rosolio, marmellata, e perfino uccelletti arrosto, oltre alla migliore frutta della stagione. La Castellana appresta canzonieri scelti ed ogni sorta di strumenti musicali, e si canta e si suona fino all’ora della cena, che avviene tra le quattro e le cinque pomeridiane ed è il pasto principale della giornata.
Venuta la sera, il Castellano si riduce accanto al fuoco in sonnecchioso silenzio, e le dame, fatte alcune lente danze al fioco chiarore delle fumose lucerne, prima novellano alquanto tra di loro, indi recitano in cerchio le preghiere, ed il cappellano dà loro lo spunto. Poi i valletti mescono al padrone il vino del sonno, quindi i Castellani, augurata la buona notte, seguiti dai rispettivi servi, si recano a dormire.
(G. Giacosa)

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Occupazione di una castellana

La ragazza che andava sposa ad un feudatario, passava improvvisamente dallo stato di soggezione che aveva subito come figlia ad una posizione di attività ed importanza. Essa non era affatto la schiava del marito, ma la sua consigliera e la sua fedele collaboratrice. Gli interessi del marito diventavano la sua preoccupazione principale e ad essi sacrificava anche l’accudimento e l’educazione dei figli, che erano affidati a delle nutrici. La castellana era più moglie e padrona che madre.
Organizzava tutto il necessario per nutrire e vestire gli abitanti del castello; era questo un lavoro che occupava un’intera vita e richiedeva abilità di attenta amministratrice. Quello che era necessario per una casa non poteva essere acquistato come oggi con una rapida spesa in negozio: ciò che non veniva fornito dai campi doveva essere ordinato molto tempo prima là dove lo si poteva trovare e nella quantità necessaria.
Inoltre la castellana doveva curare la conservazione delle carni, della cacciagione e dei pesci e assicurare la legna per i caminetti e per la cucina. Era anche la signora che dirigeva i lavori di filatura della lana, di tessitura delle stoffe e di manifattura dei vestiti, che veniva eseguita dalle domestiche e dalle contadine.
(G. M. Trevelyan)

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La caccia

Il feudatario, fosse o non fosse leale nei confronti del suo re, viveva essenzialmente per la guerra; e si teneva pronto, da un giorno all’altro a lasciare il suo castello ed a partire con i suoi più fedeli cavalieri a combattere. Quando, tuttavia, non v’era guerra, i suoi divertimenti prediletti erano altrettanto rudi: la caccia o il torneo.
Se la caccia allietava il signore, essa era, per i miseri servi della gleba, un vero flagello. Per inseguire un cervo in fuga, o per catturare cinghiali, i cacciatori non esitavano di solito a lanciarsi, a cavallo, attraverso i campi coltivati con lunga ed assidua fatica, distruggendo gran parte delle colture. La caccia era rigorosamente riservata al signore, e pene gravissime erano comminate per chi osasse abbattere un qualsiasi capo di selvaggina. Più tardi, anche ai contadini fu permesso cacciare, ed il codice di nobiltà feudale distingueva gli animali in nobili ed ignobili. I primi, riservati ai signori, erano il cervo, l’alce, il capriolo e la lepre; i secondi, che potevano essere cacciati anche dai contadini: il lupo, la volpe, il cinghiale e la lince.
La caccia dava occasione a festosi raduni, a grandi cavalcate, a lotte avventurose con le belve (orsi, lupi, cinghiali) che allora non mancavano nei boschi. Una forma di caccia più tranquilla ed elegante, praticata anche dalle dame e dalle damigelle, era la falconeria, cioè l’arte di dar la caccia agli uccelli servendosi di falconi addestrati in modo particolare. Questo addestramento era opera di specialisti, ma gli stessi signori vi spendevano molto tempo.
Il cacciatore o la cacciatrice portavano il falcone sul polso avvolto in un guanto di cuoio. Appena avvistava la preda, il falcone si lanciava a volo, uccideva e tornava a posarsi sulla mano aperta del padrone che lo attendeva. I signori più ricchi tenevano costose collezioni di uccelli da caccia, non soltanto falconi, e schiere di falconieri addetti al loro addestramento.
Il signore e la signora amavano tenere con sé il falcone preferito anche durante le conversazioni. Alcune dame se lo portavano perfino in chiesa, appollaiato sul polso. L’imperatore Federico II compose un famoso trattato sull’arte della falconeria.
Ancora oggi talune popolazioni nordiche vanno a caccia con l’aquila: in Estremo Oriente si va ancora a pesca col cormorano.

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La caccia: passatempo e necessità

La caccia tanto celebrata dai poeti non è tanto un passatempo della nobiltà, quale si rispecchia nella poesia cavalleresca del Medioevo, quanto una necessità di carattere economico.
L’allevamento del bestiame da macello non era sufficiente per coprire il fabbisogno: perciò si andava nei boschi a procacciarsi la carne.
Le risorse di grossa selvaggina erano così abbondanti, che in una buona partita di caccia ci si poteva rifornire per molte settimane.
Più di tutto abbondavano i cinghiali; anche gli orsi si trovavano, e ancora oggi si trovano, in tutte le parti d’Europa; non occorrevano lunghi appostamenti per cervi e caprioli, e quanto ai volatili ce n’era a volontà.
Ma i cacciatori procedettero con tanto impegno che dopo un paio di secoli una buona parte della selvaggina era sterminata.
Gli europei del Medioevo mangiavano molta carne. L’alimentazione dei poveri era invero pregiudicata spesso dalle necessità della guerra o dalla scarsità dei raccolti, ma in tempi di pace era relativamente buona. Poiché c’erano poche grandi città, ai contadini rimaneva più roba.
(Morus)

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Il torneo

Il torneo è il gioco che si avvicina di più alla guerra. Perciò, quando si offre l’occasione di prendere parte a una di queste feste, che vengono annunciate con molto anticipo a suon di tromba, il signore non le perde. Eppure, la partecipazione a un torneo è costosissima. Molti signori si rovinano, volendo gareggiare in lusso con quelli che sono più ricchi. Infatti, bisogna comprare una lancia con gli stemmi, uno scudo con il blasone del signore che permetta agli spettatori di riconoscerlo anche quando ha abbassato la visiera dell’elmo, un’armatura nuova e una bardatura di lusso per il cavallo…
Alla vigilia dell’incontro, la città nella quale sta per avere luogo il torneo è illuminata. Gli scudi dei combattenti sono appesi davanti alle case dove essi sono alloggiati. Al suono delle trombe ha inizio, attraverso la città, la sfilata dei cavalieri che prenderanno parte al torneo.
Il giorno dopo, un tratto di strada viene chiuso da barriere perchè serva da campo di battaglia. L’acciottolato viene coperto di paglia e di sabbia; tutte le finestre delle case che fiancheggiano questa lizza traboccano di spettatori. Coloro che non sono stati ammessi ai posti d’onore si ammassano dietro le barriere. L’araldo annuncia con voce squillante il nome dei combattenti che entrano in quel momento dai due lati opposti della lizza. Essi fermano per un istante la cavalcatura, salutano con la lancia le nobili dame e attendono il segnale della tromba. Risuona un breve squillo. Gli avversari speronano il corsiero e si dirigono l’uno verso l’altro con la lancia stretta sotto il gomito destro e lo scudo appeso al braccio sinistro che serve loro contemporaneamente per guidare la bestia. Quando si scontrano verso la metà del percorso, un colpo sordo risuona. Spesso uno dei due avversari viene buttato a gambe all’aria e va a rotolare nella polvere, oppure le due lance si rompono e i due cavalieri trasportati dal loro slancio continuano la corsa fino all’estremità della lizza; qui si voltano subito, per ricominciare una nuova carica con un’altra lancia che uno scudiero presenta loro.
I tornei offrono a quelli che sono abili giostratori anche una possibilità di… guadagno, oltre al piacere di battersi e di riportare una vittoria davanti a una brillante assemblea di dame e di signori. Il vincitore, infatti, si può impossessare dell’equipaggiamento e del cavallo del vinto: talvolta, anche della persona e gli restituisce la libertà solo a prezzo di un forte riscatto.

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La giustizia durante l’età feudale

Allorché un accusato non aveva altro modo per provare la propria innocenza, ricorreva al giudizio di dio, certi com’erano gli uomini di quei tempi che dio avrebbe aumentato le forze dell’innocente e diminuite quelle del colpevole. Il duello era il più diffuso tra i giudizi di dio: dei due duellanti il vincitore era l’innocente o colui che aveva ragione in una vertenza.
Altro giudizio era la prova dell’acqua: se l’acqua era bollente, l’accusato doveva immergervi un braccio senza scottarsi; se era fredda, l’imputato doveva tuffarcisi dentro (si trattava di un tino molto più alto di lui) senza toccare il fondo ma galleggiando.
Se le prove non riuscivano egli era colpevole.
La prova del fuoco in un certo senso era simile a quella dell’acqua bollente: l’accusato doveva portare per tre metri una massa di ferro rovente fra le mani; poi il sacerdote gli congiungeva le mani, le fasciava e vi poneva il proprio sigillo: dopo tre giorni, se vi erano scottature era colpevole.
Altre prove del fuoco consistevano nel camminare su lastre roventi o di passare fra cataste ardenti, per un pertugio ampio poco più di mezzo metro.
(C. Bini)

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Alcune pene per  i colpevoli

Nel Medioevo la pena di morte era comminata frequentemente e talvolta per delitti che oggi avrebbero un castigo assai lieve; ma il modo di vedere le cose, in quei tempi, era assai dissimile da quello moderno, e soprattutto vigeva il criterio, in epoche così torbide e malsicure, di reprimere certi delitti molto frequenti e facilitati dalla situazione. La pena di morte veniva applicata con la decapitazione, con l’impiccagione, lo squartamento, l’annegamento e con altri barbari sistemi, il più crudele dei quali era il seppellimento da vivi, inflitto agli omicidi.
Un castigo diffusissimo era la berlina, che consisteva nell’esporre al pubblico dileggio il condannato, in vari modi.
Il tratto di corda, cioè una barbara fustigazione, serviva soprattutto a strappare le confessioni del reo; ma molto spesso confessavano anche gli innocenti!
Gli ecclesiastici erano duramente colpiti; a loro era riservata la gabbia, in cui venivano chiusi come uccelli ed esposti alle intemperie anche per anni, mentre venivano nutriti a pane e acqua.
Si praticavano anche le mutilazioni e la marchiatura a fuoco.

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I servi della gleba

Mentre, al tempo di Augusto, tutti erano contenti di far parte dell’impero romano, perchè in esso vi era pace e sicurezza, a poco a poco, col passare del tempo e con l’aumentare delle tasse, le popolazioni si sentivano schiave ed oppresse.
Le città si spopolavano perchè, per la povertà della gente, non si potevano più fare buoni commerci. La gente si rifugiava nelle campagne e nei boschi, per nascondersi ai funzionari dello stato. Molti plebei chiedevano protezione a qualche ricco proprietario, che dava loro un po’ di terra da coltivare, li aiutava a pagare le tasse per loro.  In cambio questi plebei lavoravano anche le terre del padrone e si impegnavano a non abbandonarle mai. Essi diventavano, insomma, quasi schiavi: venivano chiamati servi della gleba, che vuol dire servi della zolla, cioè della terra.
E intanto i barbari si stringevano sempre più intorno ai confini, si infiltravano dentro, dovunque il confine non era ben custodito.
Circondato dai nemici, oppresso dalla povertà, l’impero sembrava una grande barca sul punto di affondare.

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Le tasse del contadino

Il contadino feudale era ricco solo… di tasse. In denaro aveva tre tasse annue: una modesta tassa annua, per persona, al governo, cioè al re; un modesto affitto per la casa e l’orto al signore; un’imposta richiesta una o più volte l’anno dal signore.
Inoltre il contadino aveva questi obblighi: offrire al signore, ogni anno, un decimo del raccolto agricolo o del bestiame; lavorare gratis per il signore un certo numero di giorni l’anno; doveva macinare il grano, cuocere il pane, pigiare l’uva, ecc. sempre nel castello e usando le attrezzature del signore (naturalmente pagava per ogni cosa); pagare per avere il diritto di pescare, di cacciare e di pascolare le bestie nelle terre del signore; pagare quando il signore gli rendeva giustizia in tribunale; servire nella milizia del signore in caso di guerra; contribuire a pagare la somma del riscatto se il signore cadeva prigioniero; offrire ricchi doni al figlio del signore quando veniva fatto cavaliere; pagare al signore una tassa per ogni merce che vendeva nei mercati viciniori; aspettare a vendere il suo vino (o la sua birra, o qualche altro prodotto) finché il signore non avesse venduto il proprio; pagare una multa se intendeva far studiare, o mandare in seminario un figlio, perchè il castello perdeva un uomo; pagare una multa se sposava una persona appartenente ad un altro castello e poi si trasferiva; pagare una decima annua alla Chiesa.
Tutto ciò può sembrare gravosissimo, ai nostri occhi. Ma va tenuto conto di alcune cose: mai il contadino era tenuto a tutte insieme queste prestazioni, ma solo ad alcune tra esse, a seconda dei casi. Inoltre, non aveva altre spese, e il signore doveva provvedere alla difesa, alle opere pubbliche, in certi casi alle spese connesse con l’agricoltura (sementi, qualche volta attrezzi, bestiame selezionato da riproduzione), e spesso anche l’obbligo di assistere il colono in caso di malattia o di vecchiaia: questo specialmente per i feudi tenuti da ecclesiastici.
In definitiva, è stato calcolato che riguardo al guadagno medio, le tasse che doveva pagare il colono feudale erano meno gravose di quelle che noi paghiamo oggi.

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Nel castello feudale

Un grande castello era come un piccolo mondo. Nel vasti cortili erano le dimore degli armigeri e dei servi, grandi cisterne, magazzini e botteghe per gli armaioli, i macellai e i fornai.
Nulla vi mancava: dalla cappella alle immense cucine con ampi e bassi camini; dalla sala del trono, nella quale il feudatario rendeva giustizia, al carcere tetro e sotterraneo.
Gli uomini che abitavano queste solitarie dimore, quando non erano in guerra, cercavano distrazioni nella caccia, negli esercizi cavallereschi e nei tornei.
I tornei si bandivano per lo più in occasione di feste religiose, di incoronazioni o matrimoni di principi e di trattati di pace.
Era molto gradito l’arrivo di qualche poeta (trovatore) il quale cantava le tragiche avventure di qualche dama o di qualche barone, o le meravigliose imprese dei paladini di Carlo Magno.
Lauti banchetti talora si protraevano per giorni e settimane con feste e baldorie.

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Il torneo

I tornei erano grandiose feste d’armi in cui coppie o squadre di cavalieri si assalivano dentro un recinto, contendendosi la vittoria. I cavalieri scendevano in campo rivestiti di armature. Tre squilli di tromba davano il segnale dell’assalto e subito i combattenti si slanciavano l’un contro l’altro, usando lance, spade, mazze.
Quando i giudici ritenevano sufficiente la prova lanciavano in mezzo ai cavalieri un bastone, per significare che la giostra era finita; poi proclamavano solennemente il nome del vincitore, che riceveva il premio dalle mani di qualche dama eletta regina del torneo.

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Banchetti medioevali

Guardando certe miniature o certi quadri che rappresentano scene di banchetti medioevali siamo generalmente colpiti dallo sfarzo del vasellame e delle vesti, dall’allegria e dalla vivacità dei commensali.
Non vi siete mai chiesti quali profumati e appetitosi piatti potessero comparire su quelle mense?
Gli uomini del Medioevo non avevano certo a disposizione la varietà e la quantità di cibi che abbiamo noi, oggi che le comunicazioni con tutto il resto del mondo ci permettono di avere sul nostro tavolo cibi provenienti dai più lontani paesi e basta entrare in un negozio per trovare quanto ci occorre. Abbiamo più volte osservato che, se in quell’epoca la caccia era tanto di moda, lo era non solo come… passatempo, ma perchè permetteva, anche ai signori, di unire l’utile (la selvaggina) al dilettevole (occupare gradevolmente le molte ore della giornata).
Vediamo dunque che cosa avevano gli uomini del Medioevo a disposizione del loro… appetito.
Quanto ai cereali, grano, segale, orzo e riso continuavano ad essere coltivati, come nell’antichità. Anzi, nei paesi occupati dagli Arabi queste colture rifioriscono, perchè gli Arabi sono maestri nell’arte dell’irrigazione. Ci sono zone della Spagna, dal suolo arido, che essi trasformarono in veri giardini: ancora oggi quelle zone conservano il nome di huertas, cioè “orti”.
Anche per la trebbiatura, fatta nei nostri paesi battendo le spighe con cinghie e corregge, gli Arabi si mostrano all’avanguardia. Essi trascinano, sulle spighe tagliate, speciali macchine fornite di rulli, allo scopo di separare i chicchi dalla paglia. E’ merito degli Arabi anche l’introduzione nell’Africa del Nord di una specie di grano a chicco duro che, una volta macinato, dà la semola, farina che più tardi sarà particolarmente indicata per la fabbricazione delle paste alimentari.
Il grano saraceno, o grano nero, viene anch’esso dalla Tartaria e dalla Russia, giungendo fino in Bretagna e in Normandia dove ancora viene coltivato, così come da noi in alcune vallate alpine, per farne frittelle o, come in quel di Sondrio, la polenta taragna.
La patata è ancora assente dalle tavole del vecchio mondo, dove avrebbe potuto bene impedire molte carestie… A quei tempi essa è conosciuta solo nel suo paese d’origine, la Cordigliera delle Ande.
I contadini, da noi, devono accontentarsi delle fave; i fagiolini e i fagioli sono noti invece sia agli Arabi sia agli indigeni d’America. E’ probabile che le invasioni barbariche, oltre alle molte disgrazie, ci abbiano portato anche la ricetta delle minestre e dei minestroni nei quali i legumi cuociono insieme alla carne.
E veniamo alla carne. Il contadino del Medioevo assapora raramente la carne bovina. L’allevamento di questi animali è infatti costoso; essi sono perciò impiegati essenzialmente come animali da lavoro e vengono macellati solo in occasione di banchetti speciali.
Più comune è invece l’uso della carne di maiale, animale più facile da allevare perchè è poco esigente circa la qualità del cibo che gli viene dato. In Europa, naturalmente; non tra gli Arabi, perchè la religione musulmana proibisce loro di mangiare carne di maiale (e giustamente,  perchè non è molto igienica nei paesi caldi).
Presso gli Arabi invece, le vetrine delle macellerie offrono carne di cane, di gatto, di lucertola e di serpente. Le teste e le pelli di questi animali sono esposte accanto alla carne perchè il cliente sappia bene che cosa compra.
Presso gli Aztechi, in America, si mangiano cani di un razza curiosa, sprovvisti di peli, che vengono ingrassati prima di essere sacrificati.
Un animale frequentemente cacciato in Italia, Inghilterra e Olanda, prima che dalle specie selvatiche si ottengano quelle domestiche, è il coniglio.
Gli uccelli più apprezzati in Europa sono il fagiano e il pavone, che sono serviti sulla tavola circondati dalle loro superbe piume. Anche i piccioni sono pregiati: infatti solamente i ricchi hanno diritto di allevarne. Attorno alle loro piccionaie, gli Arabi piantano la ruta, una pianta amara che ha il compito di tenere lontani i serpenti. I pesci sono ricercati per sostituire la carne durante i periodi di digiuno imposti dalla religione cristiana. I fossati pieni d’acqua che circondano le mura, si popolano di carpe. Durante la quaresima, si vendono anche, come cibo, le aringhe secche e carne secca di balena.
Anche i vari tipi di molluschi di mare aiutano a sopportare i rigori della quaresima. In Polinesia si pratica la pesca sottomarina con l’arpione da più di mille anni.
E’ venuto il momento di parlare delle famose spezie che venivano dall’Oriente.
Per condire i piatti, profumare dolci e anche, almeno così si credo, per curare molte malattie, le spezie mettono in movimento mezzo mondo. Carovane e navi ne assicurano il trasporto e giungono dall’Estremo Oriente, dalle coste dell’Africa o dell’India, coi loro carichi preziosi e odorosi. Quando i Turchi rendono pericoloso il trasporto delle spezie, si cerca un’altra strada da ovest, per mare; sarà il sogno di Cristoforo Colombo.
I mercanti di spezie, gli speziali, fanno fortuna; essi vendono: il chiodo di garofano, conosciuto in Cina fin dalla più remota antichità e masticato dai cortigiani per profumarsi l’alito; la noce moscata, portata in Europa dagli Arabi fin dal secolo XI; lo zenzero, ricercato per profumare il pan pepato. Non meno ricercata è la cannella, una scorza proveniente da Ceylon e dalla costa del Malabar che, a partire dal secolo XIII, giunge in Europa attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e il Mediterraneo. Lo zafferano è coltivato su larga scala in Medio Oriente, ma costa carissimo: in cambio di sei libbre di zafferano si può avere un buon cavallo da sella! Quanto al pepe, la questione del prezzo è risolta in modo molto semplice: esso vale tanto oro quanto pesa. La gente modesta deve accontentarsi di aglio, di cipolla e di senape consumati in quantità enormi. Alcuni mulini hanno un paio di macine per la senape e due paia di macine per il grano.
Per completare questo viaggio da buongustai facciamo una visitina nella pasticceria di un bazar orientale.  Potete offrirvi un po’ di halva, torrone di miele selvatico riempito di pistacchi e mandorle, e i lokum dolciastri di amido e pistacchi.
Ma cos’è questa meraviglia che un pasticcere presenta alla folla stupefatta? Si direbbe un boschetto di rose con le sue foglie; questo dolce raro è riservato per un’occasione eccezionale: si tratta della corona di matrimonio offerta a due giovani sposi. Essa è fatta di zucchero candito, alimento ancora costoso, poichè la coltivazione della canna da zucchero, pianta venuta dalle Indie, è possibile solo nelle regioni molto calde del bacino mediterraneo. Al tempo delle Crociate, la canna da zucchero giunge progressivamente in Spagna e in Sicilia, dove le canne sono macinate da macchine mosse da mulini a vento. E’ una specie di canna che bisogna tagliare a pezzi e torchiare poi in un frantoio per estrarne il succo zuccherino. Questo viene riscaldato e fatto evaporare finché perde i tre quarti del suo volume; quindi versato in appositi stampi, dove solidificando dà dei pani di zucchero.
Ma continuiamo la nostra visita attraverso le botteghe del bazar. La polvere ci riempie la gola; perchè dunque non dobbiamo rinfrescarci con un gelato alla melagrana o al miele? Bisogna allora farsi avanti con i gomiti perchè gli amatori sono numerosi. Da dove viene il ghiaccio? Nel Medioevo è già un vero prodotto industriale, in Oriente. Le notti fredde d’inverno permettono di far gelare l’acqua in grandi bacini, poco profondi; gli operai rompono il ghiaccio, che si è formato per lo spessore di alcuni centimetri, e lo fanno scivolare verso il fondo di fresche cantine, dove si conserva facilmente. Questa industria è così prospera che certi Stati ne fanno un monopoli, come avviene oggi in Italia per il tabacco. I gelati sono fatti di ghiaccio grattugiato, di miele e di amido cotto a cui sono aggiunti i frutti e le essenze.
Se ne avete voglia potete offrirvi anche una tazza di buon caffè. A partire dal secolo XIII, lo si può bere sia a Aden che in Egitto o in Persia; l’uso del tè, venuto dalla Cina, comincia a diffondersi anche nei paesi musulmani verso lo stesso periodo; ma l’Europa Occidentale ignora ancora il tè e il caffè, nonostante i numerosi viaggi in Oriente. A quei tempi, all’altro capo del mondo, i Messicani mangiano un cioccolato secco fatto di fave di cacao macinate con sale, ambra rossa, pepe e spezie. Essi apprezzano anche il cioccolato liquido aromatizzato con la vaniglia; l’albero che dà il cacao viene probabilmente dalle foreste dell’Amazzonia. L’America conosce anche l’albero del chinino e la coca che gli indigeni masticano per piacere.

IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture
Breus

Un fanciullo, incantato alla vista di un cavaliere in armi bello, anzi più bello, per lui, di San Michele, abbandona la casa, e per dieci anni sotto il nome fittizio di Breus, si copre di gloria divenendo il migliore dei cavalieri. Ma la mamma, per il dolore di quella partenza, muore; e quando egli una sera chiede ospitalità a una vecchia e trascurata dimora è accolto da una fanciulla in lacrime. Ella piange ogni volta che vede un cavaliere perchè rammenta il fratello che a dieci anni ha lasciato la casa. Lì è rimasta lei, sola con la nutrice. Commosso, Breus, che altri non è che il fanciullo partito un giorno ormai lontano, si rivela alla sorella. Il delicato racconto pascoliano, sempre tenuto su un tono di favola e di ingenuo ardimento, rivela il suo significato profondo negli ultimi versi: non c’è gloria che possa compensare il dolore mortale di una mamma. Per poter abbracciare ancora la madre, Breus darebbe ora tutte le sue più belle vittorie e si accontenterebbe di strigliare umilmente il suo ronzino.

Viveva con sua madre in Cornovaglia:
un dì trasecolò nella boscaglia.
Nella boscaglia un dì, tra cerro e cerro,
vide passare un uomo tutto ferro.
Morvan pensò che fosse san Michele:
s’inginocchiò: “Signore san Michele,
non mi far male, per l’amor di dio!”.
“Né mal fo io, né san Michel son io.
No: san Michele non posso chiamarmi:
cavalier, sì: son cavaliere d’armi”.
“Un cavaliere? Ma che cosa è mai?”
“Guardami, o figlio, e che cos’è saprai”.
“Che è codesto lungo legno greve?”
“La lancia; ha sete e dove giunge, beve”.
“Che è codesta di cui tu sei cinto?”
“Spada, se hai vinto; croce, se sei vinto”.
“Di che vesti? La veste è pesa e dura”.
“E’ ferro. Figlio, questa è l’armatura”.
“E tu nascesti già così coperto?”
Rise e rispose il cavalier: “No, certo”.
“E chi la pose, dunque, indosso a te?”
“Chi può”. “Chi può?”. “Ma, caro figlio, il re!”.
Il fanciullo tornò dalla sua mamma,
e le saltò sulle ginocchia: “Mamma,
mammina (cinguettò), tu non lo sai!
Ho visto quello che non vidi mai!
Un uomo bello più di san Michele
ch’è in chiesa, tra il chiaror delle candele!”
“Non c’è uomo più bello, figlio mio,
più bello, no, d’un angelo di dio”.
“Ma sì, ce n’è, mammina, se permetti:
ce n’è, mammina, cavalier son detti.
E io, mammina, voglio andar con loro,
E aver veste di ferro e sproni d’oro”.
La madre a terra cadde come morta
che già Morvan usciva dalla porta:
Morvan usciva e le volgea le spalle,
ed entrò difilato nelle stalle;
nelle stalle trovò solo un ronzino:
lo sciolse, vi montò sopra: in cammino.
Egli partì, né salutò persona:
eccolo fuori, ecco che batte e sprona,
Eccolo già lontano dal castello,
dietro quell’uomo ch’era così bello.
Dopo dieci anni, dieci tutti intieri,
Breus il cavalier de’ cavalieri
sostò pensoso avanti quel castello.
Era fradicio e rotto il ponticello.
Entrò pensoso nella corte antica:
c’era tant’erba, c’era tanta ortica.
Il rovo vi crescea come siepe,
e la muraglia piena era di crepe.
L’edera aveva la muraglia invasa:
l’erba copria la soglia della casa.
E l’uscio era imporrito e tristo a mo’
Di tomba. Egli picchiò, picchiò, picchiò…
Ecco alfine una donna, ecco una donna
antica e cieca, che gli aprì. ” Voi, nonna,
mi potete albergar per questa notte?”
“Albergar vi si può per questa notte,
albergar vi si può di tutto cuore,
ma l’albergo non è forse il migliore.
Ché questa casa è tutta in abbandono
da che il figlio partì, dieci anni or sono”.
Era discesa una donzella in tanto,
che appena lo guardò, ruppe in un pianto.
“Perchè piangete, buona damigella?
perchè piangete, cara damigella?”.
“Io voglio dirvi, sire cavaliere,
io voglio dirvi, che mi fa dolere.
Un mio fratello che dieci anni fa
(ora sarebbe della vostra età),
ci abbandonò per farsi cavaliere.
Io piango appena vedo un cavaliere.
Se vedo un cavalier presso il castello,
piango pensando al mio dolce fratello”.
“Non avete la madre, o damigella?
Non un altro fratello? Una sorella?”.
“Nessuno… almeno ch’io li veda in viso:
son, fratelli e sorelle, in paradiso.
Anche la mamma l’ha chiamata Iddio:
non c’è più qui che la nutrice ed io.
La mia madre morì dal dispiacere
quand’e’ partì per farsi cavaliere.
Ecco il suo letto presso il limitare,
ecco il suo seggio presso il focolare.
La sua crocetta porto sopra me.
Pel mio povero cuore altro non c’è”.
Mise un singhiozzo il cavalier d’un tratto.
Ella il pallido alzò viso disfatto.
La damigella alzò con meraviglia
gli occhi ch’aveano il pianto sulle ciglia.
“Iddio la mamma ancora a voi l’ha presa,
ch’ora piangete, che m’avete intesa?”
“Ancora a me la mamma prese Iddio;
ma chi gli disse: ‘Prendila’ fui io”.
“Voi? Ma chi siete? Qual è il vostro nome?”.
“Morvan il nome, Breus il soprannome.
O sorellina, io sono pien di gloria:
ogni giorno ho contata una vittoria:
ma se potevo indovinar quel giorno,
che l’avrei veduta al mio ritorno,
o sorellina, non sarei partito!
O sorellina, non sarei fuggito!
Oh! Per vederla qui sul limitare,
per rivederla presso il focolare,
per abbracciare qui con te pur lei,
le mie vittorie tutte le darei:
sarei felice, pur ch’a lei vicino,
di strigliar tuttavia quel mio ronzino”.
(G. Pascoli)

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CARLO MAGNO dettati ortografici e letture

CARLO MAGNO dettati ortografici e letture, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

I Franchi

I Franchi, verso il secolo V, varcato il Reno, erano penetrati in Gallia e vi avevano fondato un regno romano-barbarico. Il loro re Clodoveo (481-511), capostipite della dinastia che fu detta dei Merovingi, era stato il primo fra i Germani che con il suo popolo si era convertito al cattolicesimo.
A Clodoveo erano succeduti re inetti al governo che avevano lasciato il potere in mano ai Maggiordomi. Fra questi, aveva avuto grande autorità Carlo Martello, che nel 732 aveva sconfitto gli Arabi a Poitiers, salvando l’Europa.
Il figlio di lui, Pipino il Breve, nel 752 fece chiudere in convento l’ultimo merovingio e si proclamò re dei Franchi. Il papa Stefano II si recò personalmente in Francia ad incoronarlo. Aveva così inizio la dinastia del Carolingi.
Pipino, sollecitato dal Papa, calò in Italia e sconfisse il re longobardo Astolfo due volte, nel 754 e nel 756, costringendolo a cedere alla Chiesa le terre occupate.
Il figlio di Pipino, Carlo, assunse quindi il titolo di re dei Franchi e dei Longobardi. Al papa confermò ed accrebbe le precedenti donazioni, dando vita ormai a un vero e proprio Stato Pontificio che da Roma, attraverso il Lazio, l’Umbria e le Marche, si estendeva fino alla Romagna e comprendeva le antiche terre del dominio bizantino.

CARLO MAGNO dettati ortografici e letture
Re Carlo

Carlo, Re dei Franchi, detto dai posteri, per ammirazione, Magno, fu veramente uno dei più notevoli personaggi del Medioevo. Egli fu soprattutto un grande unificatore e si giovò anche della religione per dare unità spirituale ai diversi popoli del suo immenso dominio. Egli condusse vittoriosamente in tutta l’Europa occidentale circa sessanta imprese militari e riunì sotto il suo scettro un territorio vastissimo che comprendeva la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Germania, l’Austria, la Repubblica Ceca, la Serbia, la Croazia, l’Ungheria, la Svizzera e metà dell’Italia odierne.
Per garantire il confine dei Pirenei marciò contro gli Arabi della Spagna, tolse loro le due regioni dell’Aragona e della Catalogna, con le quali costituì la Marca Spagnola.
Durante il ritorno da questa spedizione nel 778, la retroguardia di Carlo, comandata dal famoso paladino Orlando, fu assalita dai Baschi nella gola di Roncisvalle e distrutta. L’eroica morte di Orlando, caduto combattendo per il suo re e per la sua fede, fu cantata nella Chanson de Roland, il primo di una lunga serie di poemi cavallereschi sui paladini di Francia.
La vastità, l’unità del dominio di Carlo e l’alto prestigio politico di cui godeva fecero rinascere l’idea dell’Impero Romano, che fu consacrata dal papa Leone III la notte di Natale dell’800 a Roma, nella basilica di San Pietro. Con una cerimonia solenne il Papa incoronò Carlo imperatore del Sacro Romano Impero, mentre tutto il popolo acclamava: “A Carlo, piissimo, augusto, coronato da dio grande e pacifico imperatore dei Romani,  vita e vittoria!”.
Carlo meritò effettivamente questi onori perchè fu un sovrano illuminato. Benché analfabeta, promosse gli studi, le arti e l’istruzione pubblica, facendo aprire numerosissime scuole per ricchi e poveri, e fondando in Aquisgrana, sua residenza preferita, l’Accademia Palatina, che accolse i dotti del tempo.
Carlo Magno morì ad Aquisgrana nell’814, dopo 46 anni di regno, e lì fu sepolto.

CARLO MAGNO dettati ortografici e letture
Come governò Carlo Magno

Carlo Magno amministrò saggiamente il suo vasto impero. Per poterlo governare meglio, secondo un’usanza franca, lo suddivise in contee, che affidò a uomini a lui fedeli; presso i confini creò contee più estese e militarmente più forti che si chiamarono marche. Coloro che governavano marche e contee, cioè i marchesi ed i conti, dipendevano direttamente dall’Imperatore ed avevano poteri amplissimi.
Dapprima Carlo Magno non diede una capitale al suo Impero perchè, per meglio conoscere le condizioni di vita dei suoi sudditi, viaggiava moltissimo. Infine si stabilì ad Aquisgrana, in Germania, che divenne la capitale del Sacro Romano Impero. In quella città egli morì nell’anno 814.
Carlo Magno fu uno dei più grandi imperatori germanici, valoroso e saggio. Sotto il suo Impero anche la cultura rifiorì. Egli, che l’apprezzava molto, volle che alla sua corte si raccogliessero i più dotti uomini del tempo fra i quali ricordiamo Alcuino, Paolo Diacono e Paolino, patriarca di  Aquileia.  Volle inoltre l’istituzione di scuole per l’istruzione dei fanciulli.

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Per il lavoro di ricerca

Ricerca notizie sulla figura e la cultura di Carlo Magno.
Contro quali popoli combatté Carlo Magno?
Dove vinse gli Arabi?
Chi erano i paladini?
Ricerca notizie sulla morte del paladino Orlando.
Quali terre comprendeva l’impero di Carlo Magno?
Perchè fu chiamato Sacro Romano Impero?
Come fu governato amministrativamente l’impero?
Chi erano i “missi dominici” e che cosa dovevano controllare?
Come si viveva ai tempi di Carlo Magno?
Che cosa era la “legge salica?”
Quando e dove morì Carlo Magno?

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Carlo Magno non sapeva né leggere né scrivere

Questa era la sua spina nel fianco, il suo lato patetico. Carlo, che la sera andava presto a letto, dovunque si trovasse, ma soffriva di insonnia, trascorreva spesso la notte compitando l’abbecedario e cercando di capirne le lettere. Ma inutilmente. Questo genio della politica e della guerra, che era riuscito a conquistare mezzo mondo, non riuscì mai a conquistare l’alfabeto.
A furia di farseli ripetere dal confessore, imparò a memoria i salmi, e li cantava anzi abbastanza bene perchè, se la sua voce era stridula, l’orecchio era buono. Ma sebbene fino alla tarda vecchiaia seguitasse a trascorrere le sue notti a fare le aste, la soddisfazione di scrivere e di leggere da sé egli non l’ebbe mai. Eppure fu Carlo Magno.
(I. Montanelli e R. Gervaso)

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La figura di Carlo Magno

Era re Carlo di corporatura massiccia e robusta, di statura alta che pur tuttavia non eccedeva una giusta misura. Aveva testa tonda, occhi grandissimi e vivaci, il naso un po’ più lungo del normale, bei capelli bianchi, volto sereno e gioviale che gli conferiva una grandissima autorità e pari dignità di aspetto. Sicuro nell’incedere, emanava da tutto il corpo un fascino virile.
Si esercitava di frequente all’equitazione ed alla caccia, ed era questa una passione che aveva fin da bambino.
Amava anche molto i bagni minerali e spesso si esercitava al nuoto. Per tale ragione costruì una reggia in Aquisgrana ricca di acque minerali; ivi trascorse gli ultimi anni della sua vita.
Invitava al bagno con lui, non soltanto i figli, ma anche i grandi del regno e gli amici e talora perfino tutte le proprie guardie del corpo.
Vestiva sempre nel costume nazionale dei Franchi. Rifuggiva dai costumi di altri paesi, anche se bellissimi, e non amò mai indossarli, meno che a Roma, quando su richiesta di papa Adriano, acconsentì a portare una lunga tunica e la clamide ed i sandali alla moda dei Romani…
Era assai sobrio nel mangiare e nel bere. Mentre cenava gli piaceva udire qualche musica o qualche lettura. Gli leggevano le storie degli antichi, ma amava ascoltare anche le opere di Sant’Agostino. Aveva facile e copioso l’eloquio, e sapeva esprimere con molta chiarezza il proprio pensiero.

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La cultura di Carlo

La sua istruzione e la sua cultura non derivano da studi teorici; ma piuttosto dall’esperienza pratica e dalla viva voce di chi gli stava introno. Tuttavia erano grandissime.
Egli parlava la lingua franca, ma conosceva anche il latino, parlato dai suoi sudditi gallo-romani, e perfino il greco, benchè si curasse poco di parlarlo.
Non era un matematico, ma aveva la mente aperta a penetrare rapidamente la complessità delle cifre e dei calcoli.
Carlo possedeva cognizioni di anatomia umana e soprattutto di anatomia animale, perchè, come cacciatore, era abituato a scannare e a scuoiare la selvaggina che uccideva.  Sapeva bene come vivono e come si cacciano gli uccelli, e soprattutto era molto pratico di cavalli.
Conosceva un po’ tutti i mestieri perchè era abituato a sorvegliare di persona i suoi servi al lavoro: avrebbe potuto non solo riparare la bardatura del suo cavallo, ma anche estirparsi i denti e medicarsi le ferite, in caso di necessità.
Inoltre conosceva, attraverso i canti dei giullari di corte, le gesta degli antenati suoi e le storie dei re dei paesi vicini.
Egli tentò anche di imparare a scrivere, e, a questo scopo, aveva l’abitudine di tenere sotto i cuscini del letto alcune tavolette e alcuni fogli di pergamena per esercitarsi a tracciare di propria mano qualche lettera. Ma poco gli fruttò questo lavoro disordinato e iniziato troppo tardi.
(Baker)

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Carlo Magno e gli scolari

Un giorno l’imperatore Carlo Magno visitò una scuola a Parigi e volle vedere i compiti fatti dagli alunni. Osservò che quelli fatti dai ragazzi del popolo erano molto migliori di quelli fatti dai figli dei nobili.
Allora l’imperatore fece passare alla sua destra i più bravi e disse loro: “Grazie figlioli miei; studiate ancora per diventare sempre più bravi e io, quando sarete grandi, vi darò ogni sorta di onori, perchè solo voi siete degni ai miei occhi”.
Po si volse a quelli che erano alla sua sinistra, fece loro un viso molto accigliato e disse: “In nome di Dio io vi dico che non mi importa nulla della vostra nobiltà e della vostra bellezza fisica. Vi ammiri pure chi vuole, per queste stolte cose. Io vi avverto che, se non diventerete migliori, non otterrete nulla da Carlo”.

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Le conquiste di Carlo Magno

Carlo Magno intervenne in difesa del Papa in lotta contro i Longobardi e vinse l’ultimo re longobardo Desiderio; poi cinse a Pavia la corona dei re longobardi, stabilendo così in Italia il dominio dei Franchi.
Questa fu una delle numerose guerre che egli combatté nei 46 anni del suo regno, per costituire un vasto impero in occidente.
Per ben 32 anni Carlo Magno guerreggiò contro i Sassoni, un popolo ancora barbaro e idolatra che abitava la regione settentrionale della Germania.
Alla fine il loro re Vitichindo si sottomise a Carlo, che lo costrinse a convertirsi al cristianesimo con tutto il suo popolo.
Ardua fu anche la lotta combattuta contro gli Arabi di Spagna. Spintosi al di là dei Pirenei, Carlo Magno riportò qualche brillante successo, ma non potò conquistare Saragozza. Durante la ritirata, la sua retroguardia fu completamente distrutta al passo di Roncisvalle (778). Cadde eroicamente in quella battaglia il più famoso dei Conti Palatini, Orlando.
Questa battaglia esercitò un grande fascino sulla fantasia popolare, e il ricordo di essa si tramandò con vivi e poetici particolari. Intorno a Carlo e ai suoi paladini, combattenti per la fede e per la patria, fiorì una serie di leggende che furono materia di molti poemi cavallereschi scritti da poeti francesi ed italiani.
Più tardi Carlo si impadronì di tutta la regione fra i Pirenei e l’Ebro e vi costituì la Marca Spagnola, che servì da baluardo all’Europa contro gli Arabi.
Carlo Magno combatté con fortuna contro i Bavari, gli Avari (stanziati nell’odierna Austria) e contro gli Slavi. Alla fine di queste guerre poteva considerarsi padrone di quasi tutta l’Europa occidentale e centrale.

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Carlo Magno sotto le mura di Pavia

I soldati franchi giunsero ben presto sotto le mura di Pavia. All’avvicinarsi di essi, il re Desiderio e il duca Ottocaro salirono su di una torre altissima, da dove si poteva abbracciare con l’occhio tutta la campagna.
Apparvero dapprima delle macchine da guerra che avrebbero fatto invidia a Dario e a Cesare. Desiderio domandò ad Ottocaro: “Carlo si trova in quell’immensa folla?”
“Non ancora”, rispose questi.
Vedendo poi le milizie raccolte in ogni parte del nostro vasto impero, il longobardo disse: “Certo, Carlo avanza trionfalmente in mezzo a quelle masse profonde”.
“No, non ancora, non ancora”.
Il re, turbandosi, mormorava: “Ora che faremo noi, se vengono con forze così considerevoli?”
“Voi non capirete chi sia Carlo Magno ” diceva Ottocaro, “che quando comparirà. Quello che accadrà di noi allora, io non lo so”.
Mentre scambiavano queste parole, giungeva la guardia reale, che non conosce mai riposo. Desiderio era stupefatto.
“In fede mia, non è là Carlo!” diceva.
“Non ancora!”
Poi sfilano con gran seguito i vescovi, gli abati, i chierici della cappella palatina ed i Conti. A tal vista Desiderio, on potendo più oltre sopportare la luce del giorno e sentendo il freddo della morte, rompe in singulti e balbetta: “Discendiamo, nascondiamoci nelle viscere della terra, lontano dalla faccia e dal furore di un così terribile nemico!”.
Ottocaro, anch’egli tremando, egli che ben conosceva la potenza di Carlo e che in tempi migliori era vissuto vicino a lui, dice: “Quando vedrai nella montagna erigersi come una messe di lance, quando le onde oscurate del Po e del Ticino, non riflettendo che il ferro delle armi, avranno gettato sulle mura nuovi torrenti di uomini coperti di ferro, allora saprai che Carlo è vicino!”.
Non aveva terminato di dire, che all’improvviso l’occidente di velò di una nube tenebrosa; pareva che un uragano avesse oscurato la luce del cielo. A misura che il re avanzava, il luccicare delle spade proiettò sulla città un giorno più sinistro della stessa notte.
Ben presto Carlo fu in vista, gigante di ferro: sul capo un elmo di ferro, guanti di ferro alle mani, il petto e le spalle coperti di una corazza di ferro.
La mano sinistra brandiva una lancia di ferro, mentre la destra era distesa sul ferro della sua invincibile spada. Il ferro copriva le vie ed i piani; in ogni dove i raggi del sole riverberavano sul ferro.
Dalla città si elevava un clamore confuso: “Quanto ferro, ohimè!”
“Re!” gridò Ottocaro, “Ecco colui che i vostri occhi cercavano da gran tempo!”
E pronunciando queste parole cadde svenuto.
(Monaco di San Gallo)

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Il Sacro Romano Impero

Dopo tante guerre, Carlo Magno regnava su una buona parte d’Europa e dimostrava di saper governare saggiamente. Tutti vedevano in lui un grande imperatore amante della pace e dell’ordine, ed egli sognava di far rinascere l’antico ordinamento romano. Infatti il nuovo impero si chiamò Sacro Romano Impero.
Ben diverso dall’antico Impero Romano, che era uno stato vero e proprio, retto dalla forza delle leggi di Roma,  questo di Carlo Magno era un agglomerato di popoli diversi, ciascuno dei quali conservava le proprie leggi e le proprie tradizioni.
Uguale per tutti fu invece l’ordinamento amministrativo: il territorio fu diviso in contee con a capo un conte. Nelle zone di confine si crearono le marche, più vaste e più forti delle contee, governate da marchesi (per esempio la Marca Spagnola, posta come baluardo contro gli Arabi; la Marca Avarica, l’odierna Austria, contro gli Slavi). Accanto ai conti erano per importanza i Vescovi, cui furono affidati molti uffici.
Conti e marchesi reclutavano i soldati e li fornivano all’esercito imperiale, amministravano la giustizia e riscuotevano i tributi in nome dell’Imperatore.
L’imperatore controllava conti e marchesi, mandando periodicamente coppie di ispettori detti “missi dominici” dei quali uno era laico e l’altro ecclesiastico, a visitare le contee; essi ascoltavano le querele delle popolazioni, si informavano dei bisogni e sopprimevano gli abusi.
Carlo Magno dettò per tutto l’impero alcune leggi generali dette “Capitolari”. Ogni anno, in primavera, si radunava presso la residenza imperiale un’assemblea generale di tutti gli uomini liberi, detta Campo di maggio: vi si approvavano le leggi già preparate.
Carlo Magno non scelse una città come capitale stabile; a seconda delle necessità del governo, egli mutava residenza. Negli ultimi anni risiedette di solito ad Aquisgrana.

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Provvedimenti economici

Carlo Magno diede incremento anche alla vita economica, provvedendo con una serie di editti alla buona amministrazione del suolo coltivato, all’incremento dell’allevamento del bestiame, regolando le prestazioni personali dei contadini, tentando, ma invano, di salvare la classe dei piccoli proprietari.
Rese più sicuro e facile il cambio con l’introduzione di un sistema monetario e di uno di pesi e misure unico per tutto l’Impero.
L’avanzata degli Arabi aveva quasi del tutto distrutto le relazioni commerciali fra l’Oriente e l’Occidente; l’economia accentuò quindi il suo carattere particolaristico ed agricolo. Molte merci di lusso, provenienti dall’Oriente, erano sparite o diventate assai rare: Carlo Magno dovette perciò sostituire nella monetazione l’argento all’oro; il papiro, a partire dal secolo VIII, in Gallia cedette il posto alla pergamena.

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Ciò che i missi dominici dovevano controllare

In una legge stabilita nell’802 Carlo Magno indicò che i missi dominici dovevano controllare. Tra le altre cose, essi dovevano informare l’imperatore sull’osservanza di questi obblighi:
“E’ fatto obbligo ai giudici di giudicare con giustizia secondo quanto prescrive la legge scritta e non seguendo il loro arbitrio”.
“Le misure siano uguali ed esatte e giuste e uguali per tutti i pesi”.
“Non di compiano di domenica lavori servili”.
“Si tengano tutti pronti per quando possa venire, in qualsiasi momento, un ordine dell’Imperatore”.
“Tutti gli promettano fedeltà”.
“I nostri missi, ovunque se ne riconosca la necessità, ricerchino e si preoccupino del giusto quanto alle chiese di dio, alle vedove, agli orfani, ai pupilli e a tutti gli altri uomini. Quanto si trovi da correggere, essi correggano il meglio che possono; quanto non riescono a correggere traducano al nostro tribunale”.
(da Capitulare missorum)

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La notte di Natale dell’800

Nella cattedrale di San Pietro c’era messa solenne, la notte di Natale dell’800; tutti i sacerdoti della curia erano assisi negli scranni; in mezzo il trono del pontefice Leone III. Al momento del Vangelo questi si alzò dirigendosi verso l’altare maggiore dove stava inginocchiato Carlo Magno, il conquistatore d’Europa, che abbandonate le vesti guerriere, indossava uno sfarzoso abito da patrizio romano.
Papa Leone, nel silenzio attonito, pose sul capo di Carlo la corona degli imperatori di Roma dicendo: “A Carlo Augusto, coronato da dio, grande e pacifico imperatore, vita e vittoria”. E parve allora che Roma fosse nuovamente tornata al centro del mondo.

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Morte di Carlo Magno

Carlo Magno, in età di 72 anni, dopo aver regnato per 46 anni come re e 14 come imperatore, morì in Aquisgrana, nell’814, e fu sepolto nella basilica da lui stesso voluta. Il suo corpo fu imbalsamato e posto nel sepolcro seduto su uno scranno d’oro, cinto della spada d’oro e con in mano il Vangelo, con la corona sul capo e nella corona incastonato un frammento ligneo della croce.
Indossava abiti imperiali; il volto era coperto da un sudario. Davanti a lui furono appesi lo scettro e lo scudo. Poi il sepolcro fu chiuso e sigillato.

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I giudizi di dio

La legge salica, che formava quasi la “costituzione” dei popoli franchi, conteneva parecchie norme che regolavano lo svolgimento dei processi. Per dimostrare l’innocenza o la colpevolezza dell’accusato si ricorreva spesso al cosiddetto “giudizio di dio”. Si pensava cioè che dio intervenisse direttamente a favore dell’innocente. Per esempio, l’accusato veniva legato mani e piedi e gettato in un fiume, che era stato in precedenza benedetto.
Se l’annegato andava a fondo, era innocente: se galleggiava era colpevole: si pensava infatti che l’acqua benedetta respingesse chi fosse macchiato da un delitto. Si presume che poi l’innocente venisse ripescato!
Altre volte la prova consisteva nel camminare a piedi nudi su carboni ardenti, o nel reggere in mano un ferro incandescente.
Molto spesso, infine, si decideva una controversia ricorrendo a un duello: dio avrebbe guidato la mano di chi aveva ragione e avrebbe dato la morte a chi aveva torto.

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Morte di Orlando

Le gesta di Carlo Magno e dei suoi paladini per cacciare i Mori di Spagna ispirarono uno dei più bei capolavori della poesia epica di tutti i tempi; La canzone di Orlando (La chanson de Roland)  dovuta, pare, al francese Turoldo. La pietosa fine del paladino Orlando tradito e massacrato nella gola di Roncisvalle, nei Pirenei, mentre guidava sulla via del ritorno la retroguardia dell’esercito, occupa alcune delle più belle pagine del poema.
Orlando è ormai ferito a morte e tenta, ma invano, di infrangere la sua invitta e prodigiosa spada Durlindana. Sente che la morte lo possiede e lo invade dalla testa al cuore. Corre sotto un pino e si corica sull’erba verde, faccia a terra; mette sotto il corpo la spada e il corno; poi volge il capo verso i pagani, perchè vuole che Carlo e tutti dicano che il nobile paladino è morto combattendo. Poi con flebile voce grida i suoi peccati e tende a dio il guanto e le sue colpe.
Sa che la sua vita è finita. E’ sopra un poggio aguzzo, il viso verso la Spagna; con una mano si batte il petto: “Confesso, o Signore, davanti alla tua maestà la mia colpa per tutti i miei peccati, da quando sono nato ad oggi, che sono battuto”. Tende il guanto destro a dio, gli angeli scendono a lui.
Il paladino Orlando giace sotto il pino, ed ha la faccia rivolta verso la Spagna. E di molte cose si rammenta, di tante terre, della dolce Francia, degli uomini della sua stirpe, di Carlo suo signore che lo aveva nutrito.  E non può esimersi dal piangere e dal sospirare. Ma non vuole dimenticare se stesso, confessa i propri peccati e implora da dio pietà. Offre a dio il suo guanto destro. E san Gabriele lo prende di propria mano. Sul braccio tiene il capo chino, poi a mani giunte attende la morte. Dio gli manda un suo angelo cherubino e san Michele del Periglio. E con questi San Gabriele. E così portano in paradiso l’anima del paladino.

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Carlo Magno

Persona ampia e robusta, era piuttosto alto ma non troppo. Aveva testa rotonda, occhi grandi e vivaci, naso un po’ più largo del comune. Usava assiduamente cavalcare e cacciare. Si esercitava di frequentare al nuoto e invitava a bagnarsi con lui non soltanto con i figlioli, ma anche le persone più altolocate e gli amici, e talvolta perfino la moltitudine delle sue guardie del corpo, così che in certe occasioni ci furono in acqua insieme con lui cento persone e anche più. Nei giorni normali, il suo pasto principale constava di quattro portate, senza contare l’arrosto che i cacciatori solevano portare infilato negli spiedi, e che era il suo piatto preferito.
Mentre cenava, ascoltava un po’ di musica o di lettura. Era così sobrio in fatto di vini che non beveva mai più di tre volte per pasto. D’estate, dopo il pasto di mezzogiorno, prendeva qualche frutto, beveva una sola volta, poi spogliatosi delle vesti e delle scarpe, come fosse notte, riposava due o tre ore.

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I passatempi di Carlo Magno

Passatempi preferiti del sovrano furono l’equitazione e la caccia, dei quali ebbe il gusto fin dalla fanciullezza. Molto lo dilettavano anche le acque termali. Spesso si dava al piacere del nuoto, vincendo in gara chiunque competesse con lui. Infatti ai bagni della Mosa, per i quali ad Aquisgrana aveva costruito un palazzo, convenivano oltre ai figli anche i dignitari della corte. Si vedevano spesso nello specchio d’acqua, assieme con l’imperatore, anche cento e più persone.
Aveva buona salute; non fu malato che negli ultimi quattro anni della sua vita, quando fu soggetto a frequenti attacchi di febbre. Ma anche allora sdegnava il consiglio dei medici: egli li aveva in uggia e non voleva assoggettarsi alle loro prescrizioni, perchè gli vietavano l’uso delle carni arrostite. Questo era il piatto da lui preferito. L’Imperatore fu particolarmente sobrio nel bere perchè in tutte le persone condannava l’ubriachezza.
Fin dall’infanzia fu iniziato alla vita devota e si dedicava con scrupolo alle pratiche religiose. Ma egli seguì anche i precetti evangelici della carità: aiutò i poveri anche fuori del suo Impero, inviando elemosine in Siria, in Egitto e altrove. La povertà di quegli uomini muoveva la sua compassione; e appunto per procurare a costoro qualche conforto ricercò l’amicizia dei sovrani d’oltremare.
(Eginardo)

CARLO MAGNO dettati ortografici e letture
Il giuramento dei Vassalli

Io giuro per questi santi vangeli, che d’ora in avanti sarò fedele a costui come deve un vassallo al signore, e ciò che egli affiderà alla mia fedeltà, non rivelerò consapevolmente ad altri in suo danno.
Io giuro su questi santi vangeli che d’ora innanzi sino all’ultimo giorno della vita sarò fedele a te, mio signore, contro ogni uomo eccetto l’imperatore. Cioè giuro che scientemente non parteciperò mai a deliberazione o ad atto per cui tu perda la vita o qualche membro, o riceva danno nella persona, o ingiustizia o insulto, che tu perda qualche diritto che tu hai o in futuro avrai. E se avrò saputo o udito di alcuno che voglia fare qualcuna di queste cose a tuo danno, cercherò di impedire, nella misura delle mie forze, che questo avvenga, e se non potrò oppormi ti avviserò al più presto possibile, e ti aiuterò contro di lui quando potrò. E se accadrò che tu perda qualche cosa che hai o avrai, per ingiustizia o per caso, ti aiuterò a recuperarla, e, recuperata, a conservarla. E se avrò saputo che tu vuoi giustamente assalire qualcuno, e sarò stato da te invitato, sia in forma generale sia personale, ti darò il mio aiuto come potrò. E se tu mi avrai rivelato qualche segreto, non lo svelerò al alcuno, senza tuo permesso, né farò in modo che sia svelato. E se mi chiederai consiglio su qualche cosa ti darò il consiglio che mi sembra più utile per te. E mai di persona farò coscientemente cosa che possa essere di danno ed insulto a te e ai tuoi.

CARLO MAGNO dettati ortografici e letture – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE

Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Osserviamo la cartina

Confini: Austria, Veneto, Lombardia
Monti: Alpi Centrali (Retiche) , Alpi Orientali (Atesine e Dolomitiche), Prealpi Venete.
Cime più alte: Cima Tosa nel gruppo di Brenta; Presanella; Cevedale; Ortles; Palla Bianca; Vetta d’Italia; Picco dei Tre Signori; Cime di Lavaredo; Marmolada; Catinaccio; Latemar; Pale di San Martino; Monte Baldo; Pasubio
Valli: Giudicarie, Val di Non, Val di Sole, Val d’Ultimo, Val Venosta, Passiria, Val Sarentina, dell’Isarco, Val Pusteria, Val Gardena, Val di Fassa, Val di Fiemme, Valsugana, Valle Lagerina
Valichi: della Mendola, del Tonale, dello Stelvio, Di Resia, del Giovo, Del Brennero, di Dobbiaco, Monte Croce di Comelico, di Sella, del Pordoi, di Costalunga, di Rolle
Fiumi: Adige, Chiese, Sarca, Brenta. Affluenti di sinistra dell’Adige: Isarco (col suo affluente Rienza), Avisio. Affluenti di sinistra: Noce
Laghi: di Garda, di Ledro, di Molveno, di Tovel, di Resia, di Braies, di Carezza, di Levico, di Caldonazzo.

Questa regione, che si incunea tra la Lombardia e il Veneto, è formata da due territori: il Trentino e l’Alto Adige. Interamente montuosa, la regione comprende le Alpi Retiche e un gruppo delle Dolomiti, che si innalzano aspre e ardite.
Numerosi laghetti alpini rendono pittoresche le verdi conche; deliziose sono le stazioni climatiche e famosi i centri sportivi invernali.
Solcata dall’Adige, questa regione, ricchissima di ricordi e di testimonianze dell’eroismo profuso dai nostri soldati nella guerra combattuta, dal 1915 al 1918, per ridare alla nostra Patria i suoi confini naturali, è una delle più pittoresche d’Italia.

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Vita economica

L’agricoltura, alla base dell’economia della regione, è una delle principali fonti di ricchezza. Sui pendii dei monti, in pieno sole, vi sono vigneti, campi di grano, di patate, di frutta, di tabacco.
Nei prati estesi e ben tenuti pascolano bovini, ovini ed equini.
Le folte e scure foreste danno abbondante e pregiato legname.
Per l’abbondanza delle acque primeggiano le industrie idroelettriche, poi quelle alimentari, le industrie chimiche, i cotonifici, le fabbriche di cemento. Attrezzatissima è l’industria turistica ed alberghiera.
Dalle cave si estraggono marmi pregiati e porfido, usato per le massicciate stradali. Notevole è pure l’artigianato.

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Province

Il Trentino Alto Adige ha un’amministrazione autonoma e comprende due province. Trento, il capoluogo del Trentino, sorge sulle rive dell’Adige. Di origine antichissima, è città ricca di ricordi storici e patriottici.
Bolzano, capoluogo dell’Alto Adige, è per la sua posizione un centro commerciale e alberghiero di prim’ordine. Vanta industrie idroelettriche, chimiche e meccaniche.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio del Trentino Alto Adige?
Il tratto delle Alpi che si erge tra il Trentino Alto Adige e il Veneto è costituito da magnifiche montagne, meta di numerosi turisti. Sai come si chiamano e quali sono le loro più attraenti caratteristiche?
Nel Trentino Alto Adige c’è la vetta che segna il punto più settentrionale dell’Italia; come si chiama? Conosci il nome di qualcuno tra i più bei laghi delle Dolomiti?
Il lago di Garda fa parte della regione?
Qual è la risorsa principale della Regione?
Che cosa offre l’agricoltura?
Quali industrie primeggiano nel Trentino?
E’ molto importante l’allevamento del bestiame?
Ricerca notizie sulla flora e la fauna altoatesina.
Il Trentino Alto Adige ha amministrazione autonoma. Che cosa significa?
Qual sono le località più importanti della Regione e perchè sono note?
Perchè nel Trentino Alto Adige si parla anche la lingua tedesca?
Perchè è famosa la Val Gardena?

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Ai confini con l’Austria

Il Trentino Alto Adige è stato giustamente definito il regno delle montagne. Infatti tutto il territorio abbraccia catene di monti, alti bacini, una grande vallata (Adige) e una serie di solchi minori. Tra le nostre regioni è quella che si spinge più a settentrione, incuneandosi tra la Lombardia e il Veneto.
Qui si trova la Vetta d’Italia, punto estremo nord del territorio italiano. Osserviamo sulla cartina il complesso di catene e gruppi montuosi del Trentino. Si possono notare in ciascuna le cime più elevate. Queste si trovano per lo più nella catena delle Alpi Atesine, sul cui crinale corre il confine con l’Austria.
Ricordiamo soltanto la Palla Bianca, il Pan di Zucchero, il Pizzo dei tre Signori con candide colate di ghiaccio. Nessuno oltrepassa i 4000 metri, eppure nel loro complesso danno un quadro  di poco inferiore per asprezza a quello visto nella cerchia piemontese. Del resto è un fatto da segnalare che man mano le Alpi si avvicinano alla loro conclusione ad oriente, vanno notevolmente abbassando le loro vette.
In questo tratto si aprono tre valichi di grande importanza per il traffico transalpino: il Passo di Resia, il Brennero, e il Passo di Dobbiaco; il primo percorso da strada,  e gli altri due da strada e ferrovia. Pure importanti per le comunicazioni con la Lombardia sono i Passi dello Stelvio e del Tonale, posti tra i gruppi dell’Adamello e dell’Ortles-Cevedale, sul lato occidentale.
Il quadro alpino più splendido, il Trentino Alto Adige ce lo riserva sul lato orientale, dal quale si innalzano le Dolomiti. Nel loro insieme costituiscono quasi un mondo a sé, notevolmente diverso dagli altri gruppi montuosi.
Si tratta di rocce di particolare formazione, di origine sedimentaria come tante del sistema alpino, ma passate attraverso altre vicende. Le Dolomiti, viste da vicino nel loro gruppi principali (il Sella, il Catinaccio, il Sasso Lungo, la Marmolada, le Pale di San Martino) presentano ora guglie slanciate, ora esili muri smerigliati, ora tozzi castelli, tra loro intagliati da paurosi strapiombi e da ripidi canaloni, ai piedi dei quali viene ad accumularsi una massa di ghiaia e di detriti che si sono staccati dalla roccia.
Completa il rilievo del Trentino Alto Adige il settore meridionale, anch’esso montuoso, costituito dai più dolci e blandi contrafforti prealpini (Monti Lessini, il Pasubio, il Monte Baldo).
Il fiume Adige è il grande collettore delle acque della regione: nasce al Passo di Resia e subito dopo pochi chilometri passa per un ampio solco dal piatto fondo, che si fa via via più dilatato e costituisce l’unico lembo di piano in mezzo a tante conche e declivi.

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L’agricoltura

La regione ha la sua principale fonte di ricchezza (metà del territorio ne è coperta) nel patrimonio boschivo, costituito per la maggior parte da alberi pregiati dell’abete rosso, del larice, del pino. Nel Trentino i boschi sono quasi tutti di proprietà comunale, così fa garantire un’equa distribuzione del reddito tra la popolazione locale; prevale invece la proprietà privata nei boschi dell’Alto Adige. Pur presentando il paesaggio vaste e verdi estensioni prative, l’allevamento del bestiame non raggiunge un livello eccezionale; le mandrie bovine vivono durante l’estate negli alti pascoli e in quelli bassi in primavera e in autunno; molti di questi pascoli, come i boschi, sono di proprietà comune.
Le vallate della regione hanno un’eccellente produzione di frutta; in particolare, uva e mele; ovunque è possibile si sviluppa la coltivazione dei cereali e delle patate.

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L’allevamento del bestiame

Nel modo di vita dei montanari, l’allevamento del bestiame appare una caratteristica importante.
I villaggi non grossi sono siti in prevalenza nei fondi vallivi; attorno ad essi si stendono minute scacchiere di campicelli, scacchiere evidenti al momento della maturazione delle messi, quando i riquadri assumono colori diversi (orzo e segale, patate, ortaggi, ecc.). Ma le risorse propriamente agricole sono in genere tutt’altro che sufficienti.
Ed ecco, ben connaturato con l’ambiente alpino, l’allevamento del bestiame bovino (quello delle pecore e delle capre ha perduto via via d’importanza): nei fondovalle, sui coni e sulle prossime falde si coltivano piante foraggere col sussidio dell’irrigazione, pratica molto diffusa nelle Alpi; radure, appositamente aperte nella fascia boschiva, offrono pascolo e prati da sfalcio; le praterie superiori al limite del bosco costituiscono una vera riserva di erba estiva, in genere utilizzata direttamente col pascolo, portandovi il bestiame dei villaggi.

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Trento

Trento, capoluogo della regione, sorge sull’Adige, tra una magnifica schiera di monti. Ha notevoli monumenti, quali il Duomo (dedicato a San Virgilio), il Castello del Buon Consiglio, la Chiesa di Santa Maria Maggiore, il Monumento a Dante (eretto nel 1896, sotto la dominazione austriaca), il monumento a Cesare Battisti, cui la città diede i natali.

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Bolzano

Situata in un’ampia conca, sulla destra dell’Isarco, è città di aspetto moderno, attivo centro industriale, commerciale e turistico, importante nodo di comunicazioni. Vi si tene annualmente una Fiera Campionaria Internazionale. Ha bei monumenti, tra cui il Duomo, Castel Roncolo (uno dei più belli dell’Alto Adige), il monumento alla Vittoria.

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Cittadine del Trentino

Centri notevoli della regione sono: Rovereto, vecchio centro industriale del setificio e patria del filosofo Antonio Rosmini; Merano, in posizione incantevole e dal clima mitissimo; Bressanone, nota stazione climatica; Riva, adagiata sulla sponda del lago di Garda e centro alberghiero; Arco, dominata da un’asperrima rupe su cui troneggiano e rovine di una rocca, che ha dato i natali al grande pittore Giovanni Segantini; Levico, famosa per le sue acque minerali terapeutiche, alle sorgenti del fiume Brenta, dominata dalle montagne degli altipiani vicentini che le stanno di fronte; Molveno, sulla riva del lago omonimo, che ebbe origine dallo sbarramento di una enorme frana preistorica (oggi è stato sbarrato, per alimentare un’imponente centrale idroelettrica); Fiera di Primiero, notevole centro di villeggiatura nella Valle del fiume Cismon, ai piedi del villaggio turistico di San Martino di Castrozza e del gruppo dolomitico delle Pale di San Martino.

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Trento

Quella graziosa, gaia, linda città che è Trento congiunge nel suo aspetto lo spirito montanaro, un avanzo d’ordine austriaco ed il pittoresco del Veneto. Non è ricca, eppure le strade sono ben asfaltate, hanno la pulizia cristallina delle Alpi. Contemplo con piacere le antiche case, con facciate dipinte di figure. Nei giorni di sole il castello del Buon Consiglio riacquista letizia benchè chiuda fra le sue mura la tomba di Battisti e degli altri martiri. Ma bisogna vedere al buio il palazzo Tabarelli che fu, secondo la leggenda, eretto dal diavolo in una notte. Piace ai trentini andare in gita a Castel Toblino… oppure nella Val Rendena, verso Madonna di Campiglio, in cui si vedono chiesette con le pareti esterne ricoperte di affreschi popolari che fanno pensare al Messico.
(G. Piovene)

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Bolzano

Percorrendo in treno il canale alpino che va da Trento a Bolzano, ci vien fatto di immaginare come venti secoli fa le legioni imperiali con le lance e le insegne romane, e i  manipoli di cavalieri, risalissero questa valle, attraverso pantani, tempeste e orrori di un’epoca presso a pressapoco antidiluviana.
Ecco infatti venirci addosso le Dolomiti che fiancheggiano la strada ferrata: ci si parano dinanzi, a tratti, improvvise di luce, ciclopiche.
Rosse, rosee, cineree pareti da scalare con le corde e la piccozza. Lassù, inaccessibili, sull’orlo degli abissi, sporgono la testa ogni tanto i fortilizi italiani, eccelsi nell’azzurro come il Walhalla.
Sotto le Dolomiti, nelle verdi e piane pezze di terra c’è la vigna bassa e fitta, coi tralci distesi e tirati a tetto come si sua nelle colline dei Castelli romani (le graticciate di ferro della linea a fili elettrici, gli orti carichi e pieni di grosse mele rosse) e le acque correnti limpide come il cristallo.
Qui si comincia a respirare, a narici dilatate, la famosa aria di Bolzano.
Quest’aria fina e leggera dalla carezza fredda, quest’arietta frizzante e movimentata, che con la complicità del vinello che c’è da queste parti ti fa venire il naso rosso, che ti assidera un po’ le orecchie, pura al cento per cento.
Bolzano è chiusa, circondata da alte montagne. La vallata è profonda, circoscritta; più che una valle è un buco. Nelle ere geologiche qui c’era forse un lago, un serbatoio naturale di acque, di fango e di mostri anfibi di una specie umida e favolosa, perduta ormai per sempre; adesso c’è un clima asciutto, secco, l’aria pungente e pura e il fiume Isarco: velo trasparente d’acqua che le vivaci trote risalgono.
Qui tutto esprime la gioia di vivere: i grandi alberi con il fogliame così pulito e risplendente di freschezza che si direbbe l’abbian messo in bucato e poi ad asciugare sotto il tenero sole di Bolzano; le fontane di acque alpine che scrosciano davanti alla stazione; il largo e tranquillo traffico degli uomini e delle automobili.
(B. Barilli)

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La campana dei caduti

Nella Val Lagarina, in prossimità di Trento, giace Rovereto, industre cittadina lambita dall’Adige. Tra i monti dei dintorni, alcuni portano nomi che ricordano l’eroismo e la tenacia dei soldati italiani durante la prima guerra mondiale: il Pasubio, l’Altopiano di Asiago, la Cima Dodici, che furono teatro di battaglia tra le più aspre che insanguinarono i monti della patria. Oggi Rovereto lavora tranquilla e operosa nella sua conca, battuta dal sole implacabile dell’estate e dai rigidi venti dell’inverno; ma non dimentica i Caduti di quelle epiche lotte sostenute per l’indipendenza di quell’estrema regione d’Italia. Glieli ricordano i 36 cimiteri di guerra che la circondano; gliela ricorda Maria Dolente, la campana che ogni sera batte cento rintocchi in loro memoria e in memoria dei Caduti delle guerre di tutto il mondo. Fusa nel bronzo dei cannoni degli eserciti che parteciparono alla prima guerra mondiale e benedetta con l’acqua dei fiumi e dei mari che furono testimoni delle più aspre battaglie, i suo i rintocchi sono come voce di madre che implori la pace per i figli diletti.

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Un po’ di geologia

Le Dolomiti costituiscono un mondo alpino a sé stante sia per confermazione geologica che per aspetto.
Esse devono il loro nome al geologo Deodat Gratet de Dolomieu che, per primo, ne studiò la complessa costituzione. Alla cosiddetta “dolomia principale”, che è l’elemento più evidente, si intercalano rocce tenere e rocce calcaree: mentre le prime offrono una limitata resistenza all’incessante opera modellatrice degli agenti esogeni, cioè all’azione di ghiacci, delle piogge e del vento, le rocce calcaree rimangono nettamente staccate, compatte su estese fasce e falde di detriti e di ghiaia.
Nel paesaggio dolomitico, quindi, mancano i grandi altipiani, appaiono raramente le creste continue e i fianchi ampi e poderosi arrotondati dalla millenaria azione dei ghiacciai. Le Dolomiti sono il regno delle moli isolate, delle cime dagli aspetti più complessi, più strani, più irreali: guglie slanciate e tozzi castelli, miri sottili ricamati da aerei trafori e bastioni poderosi come giganteschi contrafforti. E strana, pittoresca è la nomenclatura che ben si s’addice alla singolarità del paesaggio: piz (pizzo), croda (roccia nuda, parete), pala (parete rocciosa), cadin (conca) giaroni (falde di ghiaia).

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Strade dolomitiche

Non ci sono ghiacciai sulle dolomiti: ci sono laghetti azzurri, scuri abeti secolari, pascoli verdi e nudi picchi di roccia. Sono rocce rosa, grige, color oro o color sabbia, a seconda del sole; sono rocce solide e potenti o guglie sottili in bilico sui declivi erbosi; sono talvolta strane moli che sembrano, con il variare delle luci, cattedrali o castelli. E fra queste rocce, fra questi abeti, fra questi pascoli si inerpicano le strade dolomitiche; salgono ai valichi famosi, al Pordoi, al Rolle, al Falzanego; vengono dalla Val Gardena, dalla Val Pusteria, dal Lago di Carezza, vanno verso Cortina d’Ampezzo, verso l’incanto di Misurina.
(A. Danti)

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La leggenda dell’edelweiss

Nelle Dolomiti viveva un re il cui figlio sognava da anni di andare sulla Luna. Un giorno il principe riuscì a realizzare il desiderio, aiutato da due strani omini che però lo avvisarono: “Non resterai a lungo lassù; lì è tutto bianco ed abbagliante e ci perderesti la vista”.
Infatti dopo non molto tornò sulla Terra, portandosi in sposa la figlia del re della Luna, che era bellissima e diffondeva, attorno a sé, una gran luce bianca. La principessa aveva recato certi fiori bianchi che sulla Luna coprivano campi e monti come uno strato di neve. E questi fiori si diffusero per tutte le Alpi; gli Italiani li chiamano “stelle alpine” e i Tedeschi “edelweiss”.

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Dimore di pastori nel Trentino

Nella zona dei prati e dei pascoli di alta montagna sono comuni le “malghe” e le “manzare”, dimore temporanee che servono per la monticazione estiva rispettivamente delle mucche da latte e delle bestie asciutte.
Le malghe constano di solito di due fabbricati costruiti di muro e coperti con tetti di scandole, ossia assicelle di legno; uno, il maggiore, è la stalla. In esso si tengono chiusi gli animali durante la notte. L’altro, più solidamente costruito e meglio riparato, è la malga propriamente detta, dove vivono e dormono il malgaro con la  famiglia e talvolta anche i pastori. I locali essenziali sono tre: la cucina, dove si lavora il latte; il locale dove si conserva il formaggio e quello dove si mette il latte ad affiorare.
Nella cucina trovi un primitivo focolare formato da tre o quattro sassi grossi, intorno al quale ci sono delle rozze panche. E’ il focolare d’uso privato, dove i pastori e il malgaro si preparano i pasti: immancabile la polenta di granoturco, meno frequente di grano saraceno, che si mangia col formaggio o col latte o con la ricotta. Su una tavola, spesso fissata al muro, e su rozze mensolette trovi disposte le scodelle e le ciotole di terracotta, il vasetto del caffè e quello del sale. In un canto la padella e il paiolo di rame.
Di fronte al focolare, in una rientranza del muro, c’è la caldaia di rame, di grandi dimensioni, ove si riscalda il latte spannato e si prepara il formaggio. Vicini alla caldaia si vedono dei bastoni a un’estremità dei quali sono infissi, a raggiera, dei pioli: sono gli strumenti che si adoperano per la cagliata, adattissimi a smuovere la massa che va cuocendo. Essenziale in una malga, oltre la caldaia, è la zangola, una specie di botticella girevole sopra un sistema di leve, nella quale si batte la panna per trarre il burro. Completano l’arredamento della cucina: la cassapanca dove si tengono le farine, i secchielli che si usano per mungere il latte, il ceppo con l’accetta per spaccare la legna, le schiumarole di legno per spannare il latte, il brentone (grande mastello dove si conserva il siero), qualche mestolo di legno col mestolone della polenta.
Annesso alla cucina è il locale dove si mette il latte appena munto, tenendovelo dalla sera alla mattina, affinché vi faccia la panna. Si procura che il locale sia fresco scegliendolo a tramontana e facendovi scorrere l’acqua per dei canaletti scavati nel suolo. Vicino al locale del latte c’è il locale dove si conserva il formaggio, collocato su mensole di legno alte da terra e sostenute da paletti conficcati trasversalmente nel muro.
(L. Bertagnolli)

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Un lago rosso

Le acque del laghetto di Tovel, nelle dolomiti, ogni estate si fanno di color rosso sanguigno. Nulla di strano! E’ il clenodio, animaletto microscopico che in questa stagione si moltiplica enormemente, a dare questa tinta a quell’acqua, giacché il clenodio è rosso e d’estate si ammassa sulla superficie dell’acqua.
Non abbiamo quindi solo il Mar Rosso che deve il suo nome a un fenomeno molto simile, ma anche il Lago Rosso.

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Fauna e flora trento-atesina

Limitandoci a percorrere le strade, non troveremo che animali e piante comuni. E’ nei boschi, cominciando dai 500 metri di altezza e, via via salendo fino ai 3000, che potremo imbatterci in lepri grige e bianche, in caprioli, in marmotte, in volpi, in tassi, in orsi, in rettili, in cervi e, là dove si elevano le rocce, anche in qualche esemplare di camoscio. Fra gli uccelli potremmo incontrare l’aquila, il gallo cedrone, il francolino, la starna, la coturnice, il lucherino.
Tra i numerosi pesci di fiume e di lago ricordiamo la trota, il salmerino, il carpione, la carpa, la tinca, il barbo,…
Per la flora ricorderemo, accanto all’olivo che prospera sulle rive del Garda, il cipresso, l’alloro, il rosmarino, il fico, il cappero, e, accanto alla stella alpina, il rododendro, la sassifraga, la primula, la campanula, il nasturzio, la genziana.
La fioritura dei pascoli alpini, meravigliosa, è una delle più gentili attrazioni della regione.

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Il Trentino Alto Adige

Meravigliosi panorami montani, aperti pascoli, folte foreste: ecco quello che ci ricorda il nome di questa regione. Ma, soprattutto, vediamo il magico gruppo delle Dolomiti con le loro pareti a picco, profondamente incise dalle piogge e dai venti, coi loro pinnacoli aguzzi che le fanno somigliare a cattedrali immense, con la loro colorazione di madreperla, sempre variante dal rosa al viola, talora squillante in toni di fiamma. Nessuna meraviglia se l’industria alberghiera prospera in questo paese e ne costituisce la principale risorsa.

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Frutteti Alto Atesini

Il treno fila veloce nell’ampia vallata dell’Adige tra il succedersi di grosse e piccole borgate, di vigneti, di frutteti e campicelli di granoturco. Tutta la vallata è il regno della frutta. I più intraprendenti frutticoltori per ottenere un prodotto perfetto, per avere cioè mele senza il più piccolo difetto, quando il frutto di primavera è ancora piccino, lo racchiudono in un sacchetto di carta cerata che lo protegge dalle eventuali nebbie e dalle punture degli insetti, e lo lasciano fino a quando il frutto può dirsi maturo.
Ma dentro al sacchetto di carta il frutto rimane verde, e perciò un po’ prima della raccolta, si tolgono uno ad uno i sacchetti che a centinaia pendono da ogni albero, perchè le mele acquistino il bel roseo e il giallo dono del sole. Bisognerebbe essere qui all’inizio della primavera, quando fioriscono mandorli, pruni, peschi, ciliegi, peri e meli. La valle è tutta un fiore, ed è uno spettacolo meraviglioso.
(G. Assereto)

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Dolomiti

Variano ad ogni variare delle ore, hanno la stessa mutabilità del mare. Il vento, le nubi, il giorno, la notte, il sole e la luna le riplasmano ad ogni istante. A volte tra cumuli di nubi grigie la luce scende perpendicolarmente e rasente illuminando le erte pareti di barlumi freddi come nell’interno di una cattedrale; contro la prima luce dell’alba appaiono nere, informi ed immiserite, ma poi il sole arriva a definirle precise in ogni contorno, accendendo nell’azzurro nettissimo il rosso aragosta delle spaccature profonde. Nel pomeriggio con calde nubi immobili le cime si inombrano tra squarci di sole, ma la loro massiccia potenza è nelle giornate di tempesta: allora tra l’irto delle punte è formidabile il tumulto di sublimi battaglie.
(G. Comisso)

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La valle dei giocattoli

Val Gardena! Una guida avverte il viaggiatore che fino a non molti anni fa si esportavano da qui settecento quintali di lavori in legno scolpito, ci cui la metà tra santi e altari e metà giocattoli-
Trecentocinquanta quintali di giocattoli per anno! Oh, valle di delizia! Valle di sogno! Per secoli questa gente è cresciuta in mezzo a questo silenzio di nevi tra invenzioni ilari e gioconde, ideando buffi congegni e personaggi gaudiosi, per l’estro sempre accesso e rivolto ad una gioia di bimbo, o al suo stupore ingenuo e ridente. Ed ha inondato il mondo di questo riso fecondo.
(G. Cenzato)

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Bolzano

Bolzano è opulenta, moderna. Ma la sua bellezza è gotica: le sue vie fiancheggiate di portici, abbellite non tanto da questa o da quella costruzione, quanto dal movimento degli angoli e dalle sporgenze che creano fondali e teatro, giochi di luce. Il suo sapore viene dall’incontro di questo sfondo con l’emigrazione italiana. Una folla irrequieta, petulante, variabile, che parla forte in diversi dialetti, si esibisce, gesticola, litiga, simile a un o sciame di maschere nello scenario opaco delle case e degli animi locali. Appare nel contrasto più meridionale. Bolzano è una città di montagna dell’Austria a cui si sovrappone un porto levantino.
(G. Piovene)

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Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta

Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta per la scuola primaria. Per la fabbricazione della carta coi bambini e altri cenni storici vai qui: Fare la carta coi bambini.

L’argomento si presta ad essere affrontato anche nell’ambito della Quarta grande lezione Montessori

Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta
Dall’albero al giornale

Ognuno di noi sa che la carta si fa ora, quasi tutta, con la corteccia degli alberi, ma non tutti sanno quanto poco tempo occorra perchè un albero si trasformi in carta.
Ecco che cosa accadde un giorno in una grande fabbrica di carta.
Alle sette e trentacinque del mattino, tre alberi furono tagliati nella foresta, portati subito alla fabbrica, scorticati e macinati. Il legno fu ridotto, passando per diversi bagni, ad un pasta la quale fu subito portata alle macchine della carta, che la distesero in fogli sottili, e alle nove e trenta usciva il primo foglio di carta.
La tipografia di un giornale quotidiano sorgeva a quattro chilometri di là, e il foglio portato da un’automobile fu immediatamente messo sotto la rotativa. Alle dieci del mattino usciva il giornale stampato.
Erano bastate due ore e venticinque minuti per leggere le notizie del giorno su di un foglio di carta, che quella mattina stessa era parte di un albero dritto e fiero nella foresta. (F. Lombroso)

Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta
Come si fabbrica la carta

I fusti vengono segati in pezzi regolari e passati in uno scortecciatore e quindi uno sminuzzatore che riduce i pezzi di legno in minuti frammenti. Questi frammenti con un nastro trasportatore vengono immersi in un mescolatore cui il legno viene mescolato a calcare e ad altre sostanze che concorrono a fare del legno una pasta omogenea. Questa pasta viene raccolta in un serbatoio e da qui passata su una tavola piana che porta la pasta a rulli pressori dai quali esce il foglio di carta che passa attraverso una serie di essiccatori. Per cento chili di tale pasta occorrono trecento chili di legno. Per via chimica, invece, si ottiene la cellulosa. La carta pronta viene calandrata, cioè avvolta in grossi rotoli per essere messa in commercio.
La carta venne fabbricata per la prima volta con fibre vegetali in Cina; gli Arabi la introdussero in Sicilia. Le grandi cartiere di Fabriano risalgono al 1276.

Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta
La carta

Carta da lettera, carta da sigarette, carta da giornali, carta moneta, carta da pacchi: quindici milioni di tonnellate  almeno di carta di diverso tipo vengono prodotti ogni anno nel mondo. Intere foreste vengono, ogni anno, trasformate in poltiglia di cellulosa, consegnata poi alle cartiere.
La materia prima della carta italiana è il pioppo o anche la canna gentile (lavorata a Torri di Zuino, presso Cervignano del Friuli), mentre a Foggia si lavora con successo la paglia, per la carta da imballaggio.

(in costruzione)

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Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA

Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Osserviamo la cartina

Confini: Svizzera, Trentino Alto Adige, Veneto, Emilia, Piemonte
Monti: Alpi Centrali (Lepontine, Retiche, Orobie); Prealpi Lombarde (Bergamasche e Bresciane)
Cime più alte: Bernina, Disgrazia, Ortles, Cevedale, Adamello (Alpi Centrali);  Grigna settentrionale, Resegone, Presolana (Prealpi Lombarde)
Valli: Valle del Ticino, di San Giacomo, Val Bregaglia, Valtellina, Val Camonica (Alpi); Val Brembana, Seriana, Trompia (Prealpi)
Valichi: Spluga, Maloggia, Aprica, Stelvio, Tonale.
Colline: del Varesotto, della Brianza, del Garda, Oltrepò Pavese
Pianure: Padana, con alcune zone ben delimitate (Lomellina)
Fiumi: Po. Affluenti di sinistra: Ticino, Olona, Lambro, Adda con l’affluente Serio, Oglio con gli affluenti Mella e Chiese, Mincio.
Canali: Naviglio Grande, Naviglio Pavese, Naviglio della Martesana, Canale Villoresi
Laghi: Lago Maggiore (lombarda solo la sponda orientale), Lago di Lugano (lombardi i rami estremi), Lago di Como, Lago di Garda (lombarda solo la sponda occidentale), Lago d’Idro, Lago di Monate, Lago di Comabbio, di Pusiano, d’Annone, d’Endine, di Varese.

La Lombardia deve il suo nome ai Longobardi, che la occuparono nell’anno 568 e posero in Pavia la loro capitale.
La Lombardia confina ad ovest col Piemonte, a nord con la Svizzera, ad est con l’Alto Adige, il Trentino ed il Veneto, a sud con l’Emilia. La parte settentrionale di questa regione è montuosa, comprende le Alpi Lepontine, le Retiche e le Orobie, che degradano nelle Prealpi Lombarde, percorse da amene valli ed adornate da pittoreschi laghi; la parte meridionale della Lombardia si estende nella Pianura Padana, irrigatissima. Solo nell’estremo lembo dell’Oltrepò Pavese si allunga l’Appennino Ligure. Dalle Alpi scendono vari corsi d’acqua, tutti affluenti di sinistra del Po ed in genere immissari ed emissari dei laghi. Si ha, al confine col Piemonte, un buon tratto di Lago Maggiore (la sponda orientale) da cui esce il Ticino; pure lombarda è una piccola porzione di costa del lago di Lugano. Dal lago di Como scende l’Adda, dall’Iseo l’Oglio, dal Garda il Mincio, che segna il confine col Veneto; da ricordare anche i fiumi Brembo, Serio, Chiese e Mella.
La regione, a breve distanza dagli scali marittimi di Genova e di Venezia, è pure centro di un grande traffico commerciale, ed occupa i primi posti nelle attività industriali e nell’economia del nostro Paese.

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Economia

Anche la Lombardia, come il Piemonte, comprende tre zone: la montuosa, la collinare e la pianeggiante.
La zona alpina, ricca di pascoli, favorisce l’allevamento del bestiame, il quale, praticato con criteri razionali anche in pianura, permette di ottenere una sempre maggiore produzione di latte.
Sulla collina e in pianura si producono in abbondanza uva, frutta, granoturco, frumento, foraggi, riso, barbabietole da zucchero e ortaggi.
L’industria è molto sviluppata, in ogni settore produttivo. Modesti sono invece i prodotti del sottosuolo.
Il commercio è molto attivo ed è favorito da una fitta rete di vie di comunicazione (stradali, ferroviarie ed aree).

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Province della Lombardia

La Lombardia è divisa in dodici province.
Milano è un grandissimo centro industriale e commerciale, tra i maggiori d’Europa. Oltre le sue industrie, la città vanta splendidi monumenti e insigni opere d’arte.
Bergamo, la “città dei mille”, posta trai fiumi Brembo e Serio, raccoglie e commercia i prodotti delle sue ricche e laboriose vallate prealpine.
Brescia, detta “leonessa d’Italia”, sorge allo sbocco della industriale Val Trompia, al limite delle Prealpi e la fertilissima pianura. Ha notevoli complessi industriali, tra i quali primeggiano le fabbriche di armi.
Como, sul lago omonimo, fu patria di Alessandro Volta. Nota per le seterie, è un notevole nodo stradale e ferroviario situato a poca distanza dal confine svizzero.
Cremona, importante per le sue industrie alimentari, fu patria dei più celebri liutai d’Europa. Anche oggi vi si fabbricano violini e pianoforti.
Lecco  è celebre per essere il luogo in cui Alessandro Manzoni ambientò il romanzo de I Promessi Sposi, che costituisce la più significativa eredità culturale lecchese, oltre ad affermarsi fra Ottocento e Novecento come uno dei primi centri industriali in Italia.
Lodi è un importante nodo stradale e centro industriale nei settori della cosmesi, dell’artigianato e della produzione lattiero-casearia. È inoltre il punto di riferimento di un territorio prevalentemente votato all’agricoltura e all’allevamento.
Mantova, nei cui pressi, a Pietole, nacque Virgilio, è posta sul Mincio. La sua provincia ha un’economia prevalentemente agricola.
La provincia di Monza e della Brianza è stata istituita nel 2004, ed è divenuta operativa nel 2009 con l’elezione del primo consiglio provinciale. E’ nata dallo scorporo di una porzione di territorio della allora provincia di Milano. Capoluogo della provincia è Monza, già residenza estiva del regno longobardo all’epoca di Teodolinda e Agilulfo.
Pavia, la romana Ticinum, è mercato agricolo e città industriale. E’ anche sede di una famosa Università.
Sondrio, sul fondo dell’ampia Valtellina, è città rinomata per l’industria enologica, le centrali elettriche ed i boschi che danno prezioso legname.
Varese, la gemma delle Prealpi, situata tra i laghi di Varese, Maggiore e di Lugano, è centro turistico, ma soprattutto industriale.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio della Lombardia? Quali gruppi montuosi vi si elevano? Quali ne sono le cime principali?
Nomina i principali valichi alpini che permettono le comunicazioni fra la Lombardia, lo Stato confinante e le altre regioni.
Quali sono oltre al Lago di Como gli altri laghi della Lombardia?
Come si chiama la grande pianura che si estende nella parte meridionale della Lombardia e che è anche la più vasta d’Italia? Da quali fiumi è solcata?
Segui il corso dell’Adda dalla sorgente: come si chiama la valle entro cui scorre nel primo tratto? E il lago di cui è immissario? Come si chiama il canale che collega le sue acque con quelle del Ticino? Di quale fiume è affluente l’Adda?
Quali sono le principali attività economiche della regione?
Quali sono i principali prodotti agricoli?
Perchè è famosa la fiera di Milano?
La regione vanta complessi industriali famosi non solo in Italia, ma in tutto il mondo: ricordi i principali?
Ricerca notizie sull’artigianato, le tradizioni, gli usi e i costumi della Lombardia.
Quante e quali sono le province in cui è suddivisa la Lombardia?
Per che cosa è nota la città di Como? E Cremona? E le altre province lombarde?
Da Milano si irradiano grandi autostrade: verso quali città? Osserva le linee ferroviarie che partono da Milano in direzione est, ovest, nord, sud: quali centri collegano? Dovendoti recare da Mantova a Varese quali città attraverseresti? E se da Voghera volessi giungere a Brescia quali fiumi dovresti attraversare?

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La Lombardia

La Lombardia, coronata dalle Alpi Lepontine e Retiche e limitata dall’ininterrotta via d’acqua Garda-Mincio-Ticino-Po, è terra aperta e luminosa, tutta pervasa da un ritmo febbrile di vita. Nessun’altra regione, forse, come questa, presenta condizioni tanto diverse: pianura, collina, montagne, nettamente delimitate; centri fragorosi di industrie e commerci come Milano e Brescia, e quiete cittadine prevalentemente rurali come Lodi e Mantova, ostinatamente impegnate nella grande battaglia da cui gli uomini traggono il pane. In Lombardia si trova il maggior numero di laghi alpini; sono lombardi infatti i laghi di Como e d’Iseo, tutta la parte italiana del lago di Lugano, la riviera orientale del lago Maggiore e quella occidentale del lago di Garda. (C. Paci)

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Le vie di comunicazione

Da Milano si irradia una fittissima rete di strade, autostrade e ferrovie dirette verso le altre regioni italiane e verso l’estero. A Milano fanno capo le autostrade per Torino, Varese, Como, Bergamo, Brescia, Verona, Padova, Mestre, Trieste, Napoli (autostrada del sole) e Genova.
Tutta la regione è solcata da strade statali e provinciali: importanti sono quelle dirette ai passi dello Spluga (Svizzera), dello Stelvio e del Tonale (Trentino Alto Adige). Milano è nodo ferroviario di importanza internazionale per tutte le linee che si diramano verso il Sempione, il San Gottardo e gli Stati dell’Europa occidentale e orientale, e, attraverso la Pianura Padana, lungo tutta la penisola. La Lombardia è servita dagli aeroporti della Malpensa e di Linate, nei pressi di Milano.

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Le vie d’acqua

Quando le strade erano scarse e mancavano motori e treni, esistevano già in Lombardia alcune assai utili vie d’acqua.
Il Naviglio Grande è forse il più antico dei canali: risale al 1777 ed ha una lunghezza di 150 chilometri. Esce dal Ticino e giunge a Milano, a Porta Ticinese; fu questo naviglio che permise di trasportare da Candoglia, presso Fondotoce sul Lago Maggiore, i marmi per il Duomo, su ampi barconi.
Il Naviglio di Pavia congiunge Milano col Ticino, che confluisce nel Po. Attraverso questa via d’acqua si poteva raggiungere il Mare Adriatico.
Il Naviglio della Martesana esce dal fiume Adda in vicinanza di Trezzo e giunge quindi a Milano. Fu ideato e voluto, nel 1460, da Francesco Sforza; venne prolungato da Ludovico il Moro. Questo naviglio prese il nome del contado della Martesana, che attraversa.
Il Canale Villoresi serve ad unire il Ticino con l’Adda. Le sue acque rendono più fertile la bassa Brianza. Fu iniziato nel 1881 e porta il nome del suo ideatore.

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Il lago di Como

Chi ha vissuto una sera d’estate in riva a un lago sa che cosa sia la beatitudine. Un calore fermo, avvolgente, sale in quell’ora dalle acque che sembrano  lasciate lì, immobili e qua e là increspate dall’ultimo fiato di vento che il giorno andandosene ha esalato, e il loro aspetto è morto e grigio. Si prova allora, più che in qualunque altro istante della giornata, quella dolce infinita sensazione di riposo auditivo che danno le lagune, dove i rumori non giungono che ovattati.. Come sanno d’acqua le parole che dicono i barcaioli che a quell’ora stanno a chiacchierare sulla scaletta! Come rimbalzano chiocce nell’aria! I rintocchi delle squille lontane attivano all’orecchio a grado a grado e rotondi, scivolando dall’alto del cielo pianamente a guisa di lentissimi bolidi. La sera scorre placida, è tutta un estatico bambolarsi, un fluire di cose silenziose a fior d’acqua. Naufraga d’un tratto in un chiacchiericcio alto, intenso, diffuso, simile al clamore di una festa lontana, appena si accendono i lampioni, tra le risate e le voci varie e gaie che escono dagli alberghi dopo cena e il fragore allegro di un pianoforte che giunge dall’altra riva.
Poi tutto sfuma e rientra ben presto nel gran silenzio lacustre, dove più non si ode che il battere degli orologi che suonano ogni quarto d’ora, a poca distanza l’uno dall’altro, da tutti i punti della sponda, e quel soave, assiduo scampanio delle reti che i pescatori lasciano andare di sera alla deriva, che fa pensare insistentemente a un invisibile gregge in cammino.
Nelle notti di luna piena i monti che non la ricevono sono cento volte più neri e le vie ed i viottoli della campagna paiono tante scie di lumaca.
(V. Cardarelli)

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Agricoltura

Nel settore agricolo la Lombardia è ai primi posti tra le regione italiane. Ciò è dovuto sia a motivi d’ordine naturale (la grassa terra padana, l’abbondanza di acqua e le tiepide risorgive) sia ad una razionale organizzazione del lavoro umano, che si avvale dei più moderni ritrovati meccanici e chimici (macchine, concimi ecc…). Nell’alta pianura, dove sono stati scavati numerosi canali, si produce mais; nella bassa grano e riso. La produzione di foraggi, ingentissima, è favorita dalle marcite, ove, sfruttando l’acqua delle risorgive (18° di temperatura) si attuano sette o otto raccolti l’anno. Notevole anche la produzione di barbabietola, canapa, ortaggi, patate e legumi. In regresso è la cultura del gelso per l’allevamento del baco da seta; molto sviluppato è l’allevamento dei bovini. Sviluppatissima è l’industria dei latticini, con lo scarto dei quali di confezionano mangimi per l’allevamento dei suini. Nelle colline vi sono frutteti e vigneti; attorno ai laghi il clima permette la coltivazione di olivi e agrumi.

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La marcita

E’ una speciale caratteristica coltura a prato della regione lombarda. La  denominazione deriva dal pratum marcidum, cioè terra bassa, con acque non del tutto stagnanti.
L’osservazione, assai antica, del persistere di una certa vegetazione a prato, anche durante il periodo invernale, fece sorgere l’idea dell’irrigazione in tempo d’inverno, usufruendo della abbondanti acque del terreno. Dapprima si trattò di distribuire meglio l’acqua sorgiva (della zona dei fontanili), favorendone anche il deflusso.
Si attribuisce a San Benedetto ( secoli V – VI) il merito di aver insegnato ai contadini lombardi i metodi di tale coltura, ma i maggiori perfezionamenti si ebbero più tardi, nel secolo XIX, con l’attuazione di impianti di irrigazione, studiati per tale scopo.
D’inverno le marcite si presentano verdeggianti, perchè sono irrigate dall’acqua delle sorgive che hanno una temperatura relativamente elevata, che impedisce il gelo.
Importanti marcite si trovano nei dintorni di Melegnano; questa zona viene irrigata dalle acque della Vettabbia, che attraversano Milano.
Con il sistema delle marcite si possono avere vari raccolti  di erba falciata; in genere da sei a otto tagli.

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Milano

Milano è il capoluogo della Lombardia. E’ una città movimentatissima e di aspetto moderno. Annualmente vi si teneva la Fiera Campionaria Internazionale, che era tra le più importanti nel mondo. Attualmente la Fiera di Milano è costituita dai due poli espositivi di Fieramilano (situato in un’area al confine tra i comuni di Rho e di Pero) e di Fieramilanocity (situato nel quartiere Portello del comune di Milano). E’ il polo fieristico più grande d’Europa.
Vanta quattro Università e il Teatro alla Scala, uno dei più celebri teatri lirici del mondo; ospita numerose gallerie d’arte, musei di eccezionale interesse, e parecchie manifestazioni culturali.
Ha grandiosi monumenti, tra cui lo splendido, marmoreo Duomo, con la famosa Madonnina dorata sulla più alta guglia; poi la Basilica di San Lorenzo, la Basilica di Sant’Ambrogio, la Chiesa di Santa Maria delle Grazie (con il Cenacolo di Leonardo), il Palazzo della Ragione, il Castello Sforzesco, il Palazzo di Brera, la Galleria Vittorio Emanuele II.

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Milano, città che risorge

Durante la seconda guerra mondiale, Milano, che ormai superava il milione di abitanti ed era il più importante centro industriale d’Italia, subì una lunga serie di bombardamenti aerei, molti dei quali a tappeto, che la distrussero in gran parte. Quando la guerra finì, la città appariva come svuotata: i muri superstiti, con le occhiaie vuote delle finestre che lasciavano vedere il cielo, si levavano dritti come quinte di un tragico scenario. Le vie erano sconvolte e intasate dalle macerie, i servizi quasi inservibili, la popolazione viveva ammucchiata nelle poche case ancora abitabili e rabberciate alla meglio, senza vetri alle finestre, con i tetti sconnessi e gocciolanti, e porte scardinate; oppure abitava nei paesi dei dintorni e si sottoponeva alla fatica di continui viaggi con mezzi di fortuna, pur di non abbandonare il lavoro, sperando in un domani migliore. Questo domani migliore è venuto per merito soprattutto della febbrile attività dei Milanesi. Milano si merita davvero il soprannome di “capitale morale d’Italia”.

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Il duomo di Milano

Chi non l’ha veduto se non in fotografia, quando gli si trova davanti prova un senso di stupore, quasi di sgomento. Possibile che dei piccoli uomini, unendo marmo a marmo, abbiano elevato una montagna simile, traforata come un gioiello, gremita di statue, fiorita di ricami aerei, candida di un candore roseo di carne e di un biancore azzurrino d’argento? E’ possibile sì, ragazzi miei, perché quei piccoli uomini avevano due cose che smuovono le montagne: fiducia e genio.
Entriamo ora nel tempio. Cinque navate immense; una selva di piloni colossali che si ramificano, lassù, a reggere le volte venate come foglie, e, tutt’attorno, finestroni eccelsi che riversano raggi colorati dalle vetrate incandescenti di rubino e d’azzurro, nella penombra piena di mistero.
Ma poiché siamo a Milano voglio dirvi alcuni numeri precisi che vi faranno sgranare gli occhi: sapete quanto è lungo il Duomo? Centocinquantotto metri. Sapete quanto è alto, dal suolo alla corona di stelle della Madonnina? Centootto metri, l’altezza di un colle. Sapete quanti sono i finestroni esterni? Centosessantanove, per servirti. E quante le guglie? Centoquarantacinque. E quante le statue? Circa tremilacinquecento, la popolazione di un paese. E indovina indovina… quanto pesa? Pesa centottantaquattro milioni di chilogrammi. Non uno di più né uno di meno.
(G. E. Mottini)

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Città dell’eterna giovinezza

Pavia è la città goliardica per eccellenza. Molte altre città italiane hanno, tra le loro mura, un Ateneo: qualcuna può anche vantare un Ateneo più insigne di questo pavese, per anzianità e per il nome di qualcuno dei suoi Maestri. Ma forse nessuna città italiana vive, come Pavia, dei suoi studenti. Si direbbe che essa respiri del respiro del suo Studium. D’estate, per esempio, svuotata com’è di tutta la sua ventenne popolazione goliardica, quando i porticati dell’Università si allungano deserti e silenziosi intorno ai cortili quadrati dove ancora l’erba tenera cresce tra i sassi bianchi; quando nelle aule addormentate non s’ode che il ronzio di qualche moscone che danza nel pulviscolo d’oro di un raggio di sole, e le cento lapidi che tappezzano i muri si rimandano l’una con l’altra gli elogi dei grandi Maestri che vi tennero cattedra; d’estate, Pavia si direbbe che sonnecchi sulle rive del suo bel Ticino gonfio di mulinelli e di minuscoli vortici, tra i due ponti: quello nuovo che la guerra ha rispettato e il Ponte Coperto.
Ma quando viene l’autunno, e lungo i boschi del Ticino cominciano a salire le prime nebbie azzurrine, tornano gli studenti, e la città si ravviva, il ritmo delle sue giornate di fa gioioso e vibrante, le strade si rifanno giovani, i cortili dell’Università si ripopolano, le aule si affollano, i due grandi Collegi, il Ghislieri e il Borromeo, ridiventano due giganteschi alveari di giovinezza. E’ una specie di rito, diventato, lungo il corso dei secoli, abitudine di vita. Ecco perchè a fogliare le vecchie cronache universitarie, e soprattutto le vecchie cronache di quel Ghislieri che gli studenti si tramandano con geloso amore di generazione in generazione, da quasi cinque secoli, come potrebbe una famiglia tramandare una vecchia casa che d’anno in anno si rinnova; ecco perchè si trae la sensazione che Pavia sia una città privilegiata. E’ il privilegio dell’eterna giovinezza, in fondo: una fiaccola che ogni “sfornata” di laureati consegna, occhi negli occhi, e attenti a non mancare alla consegna all’infornata di matricole.
“Ragazzi” dicono i ‘vecchi’ andandosene (e chissà cosa costi loro lasciare questa cara città), “Ragazzi, noi ce ne andiamo, la vita ci chiama e sarà quel che sarà. Ma voi, che venite a riempire il vuoto che noi lasciamo; voi che raccogliete dalle nostre mani questa secolare eredità di fresca gaiezza e di gioconda primavera spirituale (primavera, sissignori, anche quando scende fitta la neve  e mette gli orli di velluto bianco sulla severa facciata di San Pietro in Ciel d’Oro, e dell’incompiuto duomo del Bramante e sull’incanto romanico di San Teodoro che bisogna andare a scoprire per stradette medioevali e di quel San Francesco che è un esempio di snella gotica eleganza; e incappuccia di ermellino le statue che popolano i cortiletti dell’Università; primavera anche quando le gelide piogge sferzano le piccole piazze e le anguste strade e trasformano il corso in un torrentello che domandava dei ponticelli di legno per passare dall’uno all’altro marciapiedi): voi che raccogliete questa nostra eredità benedetta, siatene degni, continuatela con impegno, in questi indimenticabili anni che il destino vi ha concesso di trascorrere tra il Castello visconteo e il Ticino…”
(G. Cornali)

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Valenti armaioli a Brescia

Un tempo Brescia fu famosa in tutto il mondo per le sue fabbriche di armi. Tale industria si sviluppò perchè le valli a nord della città erano ricche di minerali, specialmente di ferro di ottima qualità. Ne approfittò particolarmente Venezia, che durante il periodo della sua massima potenza commissionò a Brescia, che le era soggetta, le sue armi migliori. Gli armaioli bresciani per due secoli fornirono gli eserciti di Venezia e di mezza Europa.
La decadenza di un’industria tanto fiorente cominciò quando Brescia fu dominata dagli Austriaci i quali non permisero a un’attività tanto pericolosa per loro di prosperare. I nomi dei più valenti armaioli sono affidati alle armi da loro costruite. Così un fabbricante, Lazzarino Cominazzo, diede il nome alle canne che da lui si dicono “lazzarine” (in Brasile fino al principio del XX secolo “lazzarina” era sinonimo di pistola). Ancor oggi la pistola calibro 9 in dotazione all’esercito di chiama “Beretta”, dal nome di un noto armaiolo bresciano.

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Bergamo, città sana. Uomini solidi, facce di alpini

Non si è ancora usciti da Milano, e già si arriva a Bergamo. Le lunghe ore del cammino di Renzo fino all’Adda ed oltre sono diventate, sulle fettucce di asfalto dell’autostrada, minuti, pochi minuti. Bergamo bassa, il Borgo come ancora dicono i vecchi, se ne sta appiattata nella pianura; la si sfiorerebbe, quasi senza accorgersene, se non fosse per il faro della città alta. Stretta nelle sue mura venete,  adagiata su un tappeto di foschia invernale, la vecchia Bergamo sembra sospesa a mezz’aria: come l’isola volante dei viaggi di Gulliver. Il distacco tra le due città, quella alta e quella bassa, non è solo il prodotto di un’illusione ottica. E’ una realtà psicologica, economica, urbanistica. Una città con due corpi: e in un certo senso una città con due anime.
Città bassa: il traffico è intenso, ma senza le punte di convulsione esasperante delle metropoli. Strade pulite, bei negozi. Chi si metta sul Sentierone respira ordine, sicurezza, dignità. Uomini solidi, facce di alpini. Gli agricoltori che vengono dalle campagne per le loro contrattazioni suggellano tuttora gli affari con pesanti strette di mano (e i mediatori, che vogliono arrivare a una conclusione, tentano disperatamente, durante i lunghi sì e no, di avvicinare l’una all’altra le grosse, callose, riluttanti mani). Gente che afferma orgogliosamente: “Non sono mai stato in tribunale né come imputato né come testimone”.
Questo è il Borgo: un’appendice della vera Bergamo.
Gli uffici pubblici scappano dalla città alta. Il comune è giù, la prefettura è giù, il tribunale anche. In città alta è rimasto, tra le massime autorità, soltanto il vescovo. Non è sceso e non scenderà. La domenica la vecchia Bergamo, la Bergamo alta, è gremita di gitanti. Ma nei giorni feriali la vita vi pulsa assai più lentamente che in pianura. Il tempo è misurato con un metro diverso. La sera il campanone della torre civica dà il coprifuoco con cento rintocchi.
Le dimore signorili guardano orgogliosamente, dall’alto, il Borgo. Non indovinereste mai, percorrendo le strette vie, il panorama aereo che si apre davanti a queste case. Ecco palazzo Scotti: lì Gaetano Donizetti terminò il suo tragitto terreno cominciato in due bui locali bassi di Borgo Canale: “Nacqui sotto terra in Borgo Canale: si scendeva per una scala in cantino dove mai penetrò ombra di luce. E siccome gufo presi il volo”.
(M. Cervi)

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Varese: il cielo sui laghi

Nessuna provincia è ricca, come quella varesina, di bacini lacustri, anche se a tale ricchezza fa riscontro una relativa scarsità di corsi d’acqua. Sette sono i laghi che ingemmano il territorio della provincia.
Il lago di Varese, di origine glaciale, è lungo otto chilometri e largo circa quattro e mezzo.
Il lago di Biandronno ha rive piuttosto melmose ricche di torba e di canne palustri.
Il lago di Monate ha limpide acque azzurre ricche di pesci.
Il lago di Comabbio vanta una piscicoltura condotta con criteri razionali.
Il lago di Ghirla occhieggia nella verde Valcuvia.
Il lago di Delio è un piccolo specchio che se sta raccolto tra i monti di una solitaria conda nell’alto luinese.
Il lago di Ganna è nascosto tra il verde della valle omonima, ed è originato da uno sbarramento morenico.
Vi sono poi i grandi laghi che appartengono alla provincia di Varese solo in parte: ad est il lago di Lugano, sulle cui acque scorre in parte il confine con la Svizzera, ad ovest il lago Maggiore la cui riva destra è novarese.
Il lago di Lugano, sulla sponda italiana, è ancora chiamato, come un tempo dai Romani, Ceresio. A nord è riparato dai venti freddi da alte catene montuose; a sud, una serie di colline moreniche fa da barriera alle nebbie; così sulle sue rive si gode sempre una temperatura piuttosto moderata. Dei suoi quattro rami, che si allungano fra incantevoli montagne, interessa la provincia di Varese quello che va da Porto Ceresio fino a Ponte Tresa.
Grande, il lago Maggiore, dovette apparire anche ai Celti se lo chiamarono Verbano, cioè “grande recipiente”; a meno che si voglia collegare l’appellativo alle copiose erbe verbene o verbane che crescono lungo le sue sponde.
Nel lago Maggiore, amministrativamente per metà novarese, come abbiamo detto, confluiscono (oltre al Ticino che vi entra presso Locarno e ne esce a Sesto Calende, e al fiume Tresa, emissario del lago di Lugano) i torrenti varesini Boesio e Bardello, il quale ultimo vi porta le acque dei laghi, pure varesini, di Biandronno e di Comabbio.
Con la varietà dei suoi aspetti, ora severi, ora dolci e ridenti, il lago Maggiore ha il potere di incantare i visitatori.
Antonio Stoppani, l’autore de “Il bel Paese” scriveva: “Ho veduto più volte il lago Maggiore e sempre mi è parso nuovo, sempre mi è parso bello. Ognuno vorrebbe passarvi la vita”.

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Mantova

Secondo la leggenda la città fu fondata da alcuni profughi greci, tra cui la sacerdotessa indovina Manto. Mantova raggiunse grande splendore sotto i Gonzaga. Quattro sono le sue piazze monumentali: Piazza Sordello, dove si ergono il Duomo, il Palazzo Bonacolsi (signori della città dal 1273 al 1328), il Palazzo dei Gonzaga; Piazza delle Erbe con il Palazzo della Ragione, la Torre dell’Orologio e la Rotonda di San Lorenzo; Piazza Broletto con la Torre civica; Piazza Mantegna con la Chiesa di Sant’Andrea.
Per chi voglia dire di conoscere l’Italia, Mantova è un punto importante. Mantova è un mondo.
Mantova fu prima una città comunale, con una delle più belle piazze che sia dato vedere in Italia, la Piazza delle Erbe, tra una torre e un palazzo, tra una facciata di terracotta e un muro scabro, di quei vecchi muri compatti e nudi su cui l’azione del tempo ha descritto un lavoro suo, bello quanto una striscia istoriata da qualche grande scultore, dove la fantasia legge una storia senza immagini e senza parole precise. Vecchi muri ciechi di tutta l’Italia, dominati la notte da un lampione scialbo, questo muro di Mantova è uno dei più belli, un capolavoro del tempo e della natura. Il mercato con le osterie intorno è vegliato dalla figura di Virgilio in un bassorilievo medioevale, seduto a un banco, che svolge il suo libro.
La città comunale è pressapoco tutta qui. Ma tra il Palazzo del Te, che è un padiglione e un chiosco gigantesco, e la Reggia, si ritrova il più straordinario sogno di grandezza che sia dato osservare. Sono quattordici grandi sale nel Palazzo del Te, che era una specie di casa di campagna dove si andava a passare un’ora tra le stanze decorate e i giardini; sono cinquecento stanze la Reggia, ma non c’è un solo appartamento, una sola camera che si possano chiudere a chiave, e tutto è fatto per la rappresentazione, come in certi piccoli appartamenti moderni, dove tutte le stanze sono salotti e la sera divengono tutte stanze da letto.
(C. Alvaro)

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Vini famosi in Valtellina

Degno complemento alla polenta taragna (cibo caratteristico della Valtellina preparato con il grano saraceno) sono i famosi vini. Infatti, nella parte della vallata esposta a sud, dalle zone pedemontane fin oltre i seicento metri, si ha la coltivazione a vigneto, con i caratteristici terrazzamenti, sostenuti sulle scoscese pendici a destra dell’Adda, da lunghi muretti di sassi che danno all’insieme l’aspetto di un’ordinata scacchiera.
Di fronte a queste ordinate coltivazioni non si può trattenere un moto di stupita ammirazione, soprattutto quando si pensa che sono state create dalla costante e secolare laboriosità della gente valtellinese che lottò contro una conformazione naturale del terreno difficile, quasi esclusivamente con le sole forze fisiche, riuscendo così a strappare, anche da terre apparentemente avare, un prodotto pregiato. L’ottimo vino che si ricava da questi vigneti ricompensa però i sacrifici dei valligiani; infatti proprio da queste uve si ottengono vini squisiti, delizia dei buongustai, così da essere annoverati tra i migliori d’Italia e di godere di una certa rinomanza anche al’estero: tali sono il Sassella, il Grumello, l’Inferno, il Valgella e il Fracia.

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Il torrone di Cremona

Come si può pensare a Cremona senza associarla al suo dolce tipico, il torrone, che, nelle sue confezioni così tradizionalmente conservatrici, entra, si può dire, in ogni casa d’Italia, specialmente nel periodo delle feste natalizie?
Come accade per tutti i personaggi illustri di cui l’origine non sia storicamente accertata, anche per il torrone molti paesi si contendono l’onore di avergli dato i natali, e infinite sono le leggende che il popolo ha creato intorno alla sua nascita. Chi lo vuole originario dell’Oriente, chi lo considera una ghiottoneria italiana di antichissima data.
Raccontano che una donna fu sorpresa dalla notte in una località selvaggia mentre si recava al mercato trascinando su un carro i prodotti della sua terra: mandorle, miele e uova. Per difendersi dagli animali feroci che infestavano la zona, la donna si costruì un riparo, usando come materiale tutti i generi alimentari che aveva con sé, dopo averli opportunamente impastati; si salvò perchè le belve, intente a divorare golosamente quella leccornia, furono sorprese dalla luce dell’alba che le mise in fuga.
Narrano anche che i Crociati sostenevano da tempo un lungo assedio in Terra santa. Quando ormai stavano per arrendersi, stremati dalla fame, i mattoni delle torri e delle mura che li difendevano si trasformarono miracolosamente in mandorle, e la calce che li cementava, bagnata dalle loro lacrime, in miele.
Senza cercare nelle leggende le origini del torrone, sappiamo che i Romani erano ghiottissimi di un impasto i cui ingredienti, miele, noci e uova, erano pressapoco quelli dell’odierno torrone; chiamavano “turandae” le focaccine ottenute, e da quel nome a quello di torrone il passo è breve.
Del resto quando Biancamaria Visconti sposò Francesco Sforza, il dolce che rallegrò il banchetto nuziale era un vero e proprio torrone, la cui forma rappresentava il Torrazzo di Cremona, la città che la sposa portava in dote al marito.
E la leggenda si avvicina alla storia…

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Lombardia

La bella regione che ha preso il nome dal dominio dei Longobardi, scende dalle catene dell’Alpe Retica fino al Po, oltrepassando in parte, ed estendendosi al centro della grande pianura padana, fra le terre venete e piemontesi. Tocca tutta la gamma del paesaggio continentale italiano, dalle distese ghiacciate, ai monti prealpini, e da questi, attraverso la splendente regione dei laghi e a dolce zona collinosa dei loro archi morenici, alla prima fascia asciutta del piano per morire nelle molli zolle erbose dove erra il nostro massimo fiume. E questa varietà stupenda di forme è come il simbolo della poliedrica attività del suo popolo intraprendente.
(I. Zaina)

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L’irrigazione in Lombardia

Le acque di monte o di pioggia, penetrate per le spaccature e raccolte sui profondi strati impermeabili della terra, scorrono lungo i pendii e risgorgano nei fontanili. Da fiumi e da fontanili, gli uomini, col lavoro e con sapienza secolari, hanno derivato navigli, canali, rivi, fossi… tutto un mirabile sistema di condotti, di cateratte, di conche, di pescaie, di argini che guida, raccoglie, convoglia, modera, smaltisce. Assicura l’irrigazione, combatte le piene; risana gli acquitrini, concede la navigazione, dà vita alle risaie e alle marcite, dà moto agli opifici e ai mulini, dà freschezza alle campagne e pane alla gente.

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Bergamo

La romantica città che adagiata sul colle e cinta dall’arborato cerchio delle mura venete, si innalza sul piano, profilando nel cielo, al di sopra dell’armonioso chiarore delle sue case raggruppate in chiaro scuro pittoresco, le sue torri, gli aerei campanili, le salde cupole, a lato della Rocca imponente e austera, non ebbe nel corso della sua vita secolare splendori di corti principesche né fasti di glorie ducali…
L’essere la città antica, unica dell’alta Italia, sopralzata sulla pianura di circa cento metri, ha isolato questa città dall’imperversare della modernità violenta ed eguagliatrice.  E poichè la stessa attività cittadina e il tradizionale bergamasco fervore di lavoro non potevano non affermarsi imponenti nell’ultimo cinquantennio, tale sviluppo di vita si è ampiamente svolto al piede del colle, nell’ingrandirsi e nell’espandersi progressivo e intenso della nuova città.
(L. Angelini)

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Pavia

Vivere a Pavia è una condizione felice, un regalo continuato: la sua quiete, la sua pace, e la modestia, che qui tutte le cose ispirano, sono sottolineate dal colore fondamentale della città che è tra il rosso vivo del mattone e il grigio un po’ pigro dell’arenaria.
Intanto il cittadino a passeggio per le vie non sente per nulla umiliata la sua statura di uomo camminando tra file di case basse. Pensate a Milano o a Torino dive la persona è schiacciata da quei palazzoni: uno perde subito la confidenza del passeggiare e dello stare.
Quelle sono metropoli, è vero, città cosmopolite. E lo siano. Ma per quei loro corsi sgargianti e tumultuanti, noi non daremo una spanna della nostra settecentesca via Foscolo o il silenzio di via Boezio. Vie tutte piene di cielo, illuminate e, direi, completate da certi bei nomi che ricordano glorie municipali o santi o costumi locali: contrada degli Apostoli, via dei Mulini, del Lino, e anche strada nuova, che poi si chiama così fin dal mille e trecento.
(C. Angelini)

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Mantova

Quando fummo alle mura di Mantova, una stazione accertava che c’era sempre una città ci questo nome. C’era: di strade acciottolate, fra case fosche, invano lavate da tanta acqua… Il canale che, nascostamente, taglia la città da lago a lago, era sordido di spazzatura galleggiante. Un sentore d’acqua stagnante saliva, per il lavandino, nella camera d’albergo. Come una città continuamente minacciata di marcire dalle fondamenta. Ma per le strade dure di ciottoli, sotto i portici, non erravano fantasmi acquatili: corpi vivi di uomini e donne con ombrelli andavano, ben sicuri di non sciogliersi in acqua, nella città da tanti secoli murata dentro l’ansa del Mincio dilagato in tre laghi. Nel tramonto livido, al ponte San Giorgio, il lago inferiore aveva la tristezza bigia, immota, della palude Stigia.
(G. Caprin)

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Milano

Togliete all’Italia Milano e sarà come togliere ad un’automobile il serbatoio della benzina o, se più vi piace, lo spinterogeno. Se essa è una città di nessun tempo, di nessuna epoca gli è perchè è di tutti i tempi e di tutte le epoche. Essa è nata da sé e vive di sé. Pensate al suo Duomo. Dite San Pietro e vi si affaccia Michelangelo, dite Santa Maria del Fiore e pensate al Brunelleschi della cupola o al Giotto del campanile. Ma per Duomo di Milano nessun nome grandeggia: esso è nato dal denaro di tutti i milanesi, che a turno vi portarono le pietre: avvocati, medici, operai, nobili e popolani. Negli archivi della Fabbrica, dove si conserva, scritta giorno per giorno, la storia immensa del sovrumano edificio, leggete migliaia e migliaia di donazioni che vanno da terre, da case, da sostanze ingenti, a lasciti di poche lire o di poche libbre di cera.
(G. Cenzato)

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Il famoso nebbione della bassa

Si cammina adagio: non si vede a un palmo dal proprio naso: un odore acre sale alle narici e penetra in gola. Sembra di essere immersi in una umida, vaporosa bambagia; i rumori giungono attutiti; come echi; gli oggetti appaiono all’improvviso, come ombre sorte dal nulla: la nebbia avvolge tutto, grava su ogni cosa.

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Luci di laghi

A paragonare il lago di Varese a una perla azzurrina legata in pallido argento dalla nebbietta smagliante, poco più che un sospetto di foschia luminosa, che lo ingrandiva singolarmente, e addolciva il crudo lume del sereno invernale, le terre bruciate dal gelo, le nitide rive e le spiagge; a paragonarlo ad una perla, si dice poco e non senza preziosità leziosa: per altro, il suo colore era quello; e mi pare di non aver mai vista, adunata in una conca di lago, una tanta effusione di luce perlacea, come quella che saliva e posava sulla viva quiete delle sue acque, mentre scendevo verso il lago per la proda lene del suo lato meridionale, che da codesta parte è aperto e disteso, adagiato, coniugato col fondo. E ci sono viottoli e stradette antiche, piene di un garbo agreste e gentilmente austero, di quella naturale ritrosia che conferisce un carattere sobrio  e segreto, di idilliaca rusticità , al paese subalpino lombardo e piemontese, non appena si esce dalle strade maestre.
Quella riva è più romita, a tratti deserta, ma poi ingentilita da una rustica osteria, da un casale quieto fra le cannucce, da una piccola darsena, da un capitello con l’immagine della Madonna, levato sull’acqua come ad indicare l’approdo alle barche, col lumicino dell’immagine sacra…
(R. Bacchelli)

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Il lago di Como

Il lago di Como è fatto come una Y capovolta. Si direbbe che madre natura si sia prodigata in modo particolare per rivestire le sponde montuose di varia ed esuberante vegetazione. Gli uomini hanno fatto il resto. Vi crearono ville e giardini e alberghi senza numero con parchi ombrosi, terrazze, chioschi, e scenari vegetali che le acque cristalline del lago concorrono a colorire e animare.
Fra i giardini primeggia quello annesso alla Villa Carlotta a Cadenabbia, famoso in tutto il mondo. Lo si direbbe creato dalla fantasia di parecchie generazioni di artisti. Nel mese di maggio specialmente, quando azalee, camelie, rose, rododendri e ogni sorta di fiori rari, trionfano tra le aiole disseminate tra i viali e i boschetti di cipresso, di pini e di piante esotiche, sembra proprio una casa di sogno e di favola.

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Il Garda in burrasca

… Uno di questi giorni, anzi una notte, stavo ascoltando il Garda in burrasca.
La burrasca, propriamente, allentava, abbonacciava; il vento, ormai caduto, non frastornava più, con le sue stormenti folate, il fragore delle onde rompenti e frangenti. Aveva smesso di percuoterle e premerle, di incalzarle e istigarle, col flagello delle raffiche che esprimono dalla terra e dalle acque e dall’aria quella sorta di strozzato e strepitante spasimo della natura nel tormento, nello strido, nell’ululo dei turbini in tempesta.
Piene, alte, libere, sciolte, si levavano in pacata vigoria le onde, e correvano a riva, a frangere in largo scroscio disteso sui greti delle spiagge e fra i sassi delle scogliere.
Saliva dal lago un rumore, un suono spianato  in ampiezza di tempo e di volume, anch’esso vigorosamente tranquillo; e continuo, cadenzato, rotondo. Era quel fragore e clamore di tono alto, spiegato, sonante e risonante, proprio come d’una forza, liberata e placata, che assumono le onde nel cedere e nell’allentare della tempesta.
(R. Bacchelli)

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La terra del latte

Milano è città di confine; attraversandola da nord a sud, sud-est si passa dalla Lombardia dei laghi alla Lombardia dei fiumi e dei canali, dei prati a marcita, delle cascine dove le stalle lunghissime reggono appena al penso  dei fieni. In nessun luogo più giustamente che a Lodi poteva sorgere una fiera del latte.
Di burro e formaggio nella regione semichiusa fra Adda, Lambro e Po, si produce quasi la sesta pare che nel resto d’Italia. Ma tutto questo esplodere di rustiche e non rustiche grandezze sembra spostare solo di un filo, nella piccola città di Lodi, le abitudini giornaliere, appena appena vi s’incrina l’armonia in grigio e in silenzio della vecchia Piazza Maggiore, degli archi, delle chiese, delle vie piane e dolcemente larghette dove si stende e sogna il centro cittadino. Nella Piazza, sotto i portici, si sorprendono ora conversazioni in lingue e dialetti disparatissimi o in quell’esperanto che appartiene a ogni riunione eteroclita… si penserebbe a una biennale veneziana del burro e del formaggio; le voci tuttavia sono calme e discrete.
Dal giro di facciate che si sporgono così gentilmente, coi balconi di ferro battuto e le insegne in rilievo nei negozi e dei caffè, agli angoli segreti del Broletto, la Piazza ha ancora l’aria di attendere con modesto decoro qualche gruppo di viaggiatori in arrivo con la diligenza. Le vie, che se ne distaccano ben regolate, incrociandosi al punto giusto, portano un senso di leggerezza nelle misure né troppo grandi né troppo piccole e nelle tinte non monotone, solo quiete: leggerezza cui si accompagna una particolare malinconia, come spesso nei paesaggi che seguono un fiume. Sta come un deposito umido nella luce delle giornate anche più limpide: un velo d’acqua rende più morbide le voci delle campane. L’acqua che scorre ampia nei fiumi, con lentezza; che scivola canalizzata, lambendo i salici e i pioppi, a imbevere i campi; e questa gente non languida è ben lontana dall’allungarne il sangue delle sue vene, il latte delle sue stalle, o il vino delle sue osterie, ma l’acqua rimane qui l’elemento primordiale.
(G. Ferrata)

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Milano città d’arte

A nessun visitatore, a nessun turista viene mai in mente che una città così simpaticamente brutta (gli angolini sconosciuti non fanno che confermare la regola), così moderna, così presa dal ritmo del lavoro, possa non già produrre, ma avere una qualche segreta bellezza che faccia perennemente parte della sua natura.
Per la stragrande maggioranza dei visitatori, la Milano artistica si riduce dunque al Duomo. Gli stranieri dopo aver appreso che le statue sono 3.159, che la Madonnina è altra dal suolo 108 metri e 50 centimetri, che i lavori cominciati nel 1386 si conclusero soltanto nel XIX secolo, penetrano anche nell’interno ad ammirare le grandi navate gotiche, i cinque colonnati, il sarcofago di Ariberto d’Intimiano, arcivescovo del Carroccio. Gli Italiani molto spesso non entrano neppure. Ripetuto in mille modi da cartoline, documentari, panettoni, il Duomo di Milano è tanto familiare, tanto noto che la sua conoscenza, al pari di quella di certi romanzi famosi, viene data per scontata, non val neppure la pena di entrarci, basta uno sguardo fuggevole alle guglie velate di nebbia dalle arcate dei portici settentrionali.
Solo un’esigua minoranza, gli animi più sensibili, le comitive organizzate, trovano il tempo per una seconda tappa: L’ultima cena di Leonardo da Vinci, a Santa Maria delle Grazie, che dopo la pazientissima, miracolosa opera di restauro effettuata nel 1953 da Mauro Pellicioli, ha riacquistato parte della sua luminosità e dei suoi colori.
Duomo e Cenacolo sono  gli unici due monumenti di Milano turisticamente vivi, frequentati in ogni ora e in ogni stagione da folte comitive come succede ai capolavori fiorentini o romani. Il resto, deserto. Alla Pinacoteca Ambrosiana in questa stagione capita più di una volta che nel corso dell’intera giornata neppure una persona si presenti all’ingresso; al Museo della Scala i visitatori si contano sulla punta delle dita; a Brera, il più famoso di tutti, solo la domenica c’è una certa animazione. Eppure si tratta di raccolte di valore europeo, talune delle quali addirittura uniche nel loro genere.
Prendiamo il caso di Brera. Sede, oltre che della Pinacoteca, di una grande biblioteca e dell’Accademia di Belle Arti, questo grande palazzo barocco-lombardo, costruito verso la fine del Seicento dall’architetto milanese Francesco Maria Richini, è un po’ il centro del quartiere artistico milanese, con i suoi cortili monumentali, i suoi loggiati, i suoi scaloni su cui spiccano ancora i colossali portacenere d’ottone dove i visitatori del secolo scorso erano pregati di abbandonare i loro sigari.
Ma il cuore, il gioiello di Brera è la Pinacoteca. Sorse nel 1809 per volere di Napoleone il quale, al fine di cementare l’unità del regno italico, dette precise disposizioni affinché vi fossero radunate opere di tutte le scuole pittoriche italiane. Unità politica attraverso l’unità artistica. Così Brera è forse l’unica pinacoteca italiana a carattere spiccatamente nazionale. Chi volesse avere un’idea panoramica della pittura del nostro Paese visitando un solo museo dovrebbe per forza di cose venire qui. Accanto ai capolavori di Raffaello, del Mantegna, di Giovanni Bellini, di Piero della Francesca, del Bramante, nelle trentotto grandi sale sono rappresentate organicamente tutte le scuole dell’Italia settentrionale: quella veneta (Tiziano, Tintoretto, Veronese, Guardi, Canaletto, Longhi), quella lombarda (Luini, Bramantino), quella ferrarese (Tura, Cossa, Costa, Ercole De Roberti) e non mancano fulgide testimonianze di altre regioni e di altri Paesi (El Greco, Rembrandt). I due quadri più famosi, quelli che tutti conoscono, sono Lo sposalizio della Vergine di Raffaello e il Cristo Morto del Mantegna, colto dai piedi in audacissima prospettiva.
In Piazza della Scala c’è un altro museo unico in Europa: quello che per l’appunto prende il nome dal massimo teatro lirico milanese. Ci si accede per una scaletta bassa, angusta, modesta come quasi sempre sono le scalette dei teatri; anche le sue sale sono piccole, ma della piccolezza ovattata, ricca, quasi sontuosa, che contraddistingue i palchi della Scala. Fra marmi e velluti sono ordinati spartiti, cimeli, lettere dei maggiori musicisti del mondo. C’è l’orologio di Puccini, la penna d’avorio di Boito, gli occhiali d’oro di Rossini, la spinetta di Paisiello. Gli oggetti di Verdi sono tanti che riempiono addirittura due sale. Alle pareti, accanto ai ritratti di Giuditta Pasta, della Malibran, di Caruso e di Toscanini, spiccano locandine scaligere di tutti i tempi. Ma oltre quella della Scala, attraverso pregevoli collezioni di maschere greche e romane, di riproduzioni scenografiche, di documenti, il museo rifà praticamente la storia di tutto il teatro.
(G. Tumiati)

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Curiosità sulla Lombardia

La Lombardia ebbe il suo nome di battesimo circa 600 anni dopo Cristo; lo prese dalla popolazione di origine germanica dei Longobardi, che si erano stanziati nel territorio di questa regione verso il 570 dC.
I confini perimetrali della Lombardia misurano quasi 1.400 chilometri.
C’è un pezzettino di Lombardia (e perciò d’Italia)… all’estero: è il Comune di Campione d’Italia, nel Cantone Ticino (Svizzera):
Benché sia difficile precisarlo, si può stimare che nella regione esistano circa 2.000 fontanili. Si può inoltre dire che il volume d’acqua donato da tutti i fontanili lombardi sia almeno pari alla portata media di un fiume come l’Adda.
Dei tre grandi laghi lombardi il lago di Como è l’unico che sia interamente lombardo. Il lago Maggiore, infatti, ha la costa occidentale in territorio piemontese e l’estremità settentrionale addirittura in Svizzera; il lago di Garda ha la costa orientale nel Veneto e l’estremità settentrionale nel Trentino.
Il campanile più alto d’Italia è il Torrazzo di Cremona, alto 111 metri. Le mura sono spesse cinque metri alla base, due metri e mezzo all’altezza della cella campanaria. Le sette campane che vi sono installate furono fuse nel 1774 da Bartolomeo Bozzi; la maggiore, detta di Sant’Omobono, pesa 35 quintali.
La fertile pianura in cui sorge Crema era una palude, denominata Lago Gerundio, da cui emergeva un isolotto. Su questa poca terra fu fondata Crema.
(R. Mezzanotte)

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Pavia

Amo la libertà de’ tuoi romiti
vicoli e delle tue piazze deserte,
rossa Pavia, città della mia pace.
Le fontanelle cantano ai crocicchi
con chioccolio sommesso: alte le torri
sbarran gli sfondi, e, se pesante ho il cuore,
me l’avventano su verso le nubi.
Guizzan, svelti, i tuoi vicoli, e s’intrecciano
a labirinto; ed ai muretto pendono
glicini e madreselve; e vi s’affacciano
alberi di gran fronda, dai giardini
nascosti. Viene da quel verde un fresco
pispigliare d’uccelli, una fragranza
di fiori e frutti, un senso di rifugio
inviolato, ove la vita ignara
sia di pianto e di morte. Assai più belli,
i bei giardini, se nascosti: tutto
mi par più bello, se lo vedo in sogno.
E a me basta passar lungo i muretti
caldi di sole; e perdermi ne’  tuoi
vicoli che serpeggian come bisce
fra verzure d’occulti orti da fiaba
rossa Pavia, città della mia pace.
(A. Negri)

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Grattacielo a Milano

Quando rincasavo la sera
c’erano due lumi rossi
agli angoli dello sterrato.
In quel fosso è nato
il grattacielo di Milano,
un piccolo segno di vittoria
per noi apostoli di cannoni nuovi
del nuovo vangelo.
Me lo trovo impagliato
di fronte all’Albergo Doria
come se io l’avessi innaffiato.
Mi fa ombra sul viso
all’angolo del marciapiede,
dove la fioraia contadina
portava un tempo edelweiss
e narcisi.
(L. Sinisgalli)

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Pace

Milano, alle tue soglie
l’erma badia di Chiaravalle tace.
Milano, alle tue soglie hai la tua pace.
Quando da te mi toglie
un desiderio d’esser consolato,
vado al tuo camposanto fatto prato.
L’erba è fitta d’occhietti
azzurri, e l’aria è un saettar di voli:
sotto gli archi i sarcofaghi stan soli.
Tra i gracili alberetti
dei mandorli, certo, anime celesti
muovono i lembi dell’eteree vesti.
Pena mi si disperde
fra gli alti muri e le patrizie tombe:
vita non pesa, morte non incombe.
Seggo in quel chiuso verde
presso il solingo tempio: e morte appare
sorella, e che sia dolce in lei posare.
(F. Pastonchi)

Tradizioni comasche
Oggi, a Como, i bambini sono danno più una malattia per la pampara. Ma un tempo era un’altra cosa. Nel giorno di Sant’Antonio c’era la benedizione di mucche e di cavalli.  Bancarelle a iosa con le pampare e i firun. Non sono mai riuscita a sapere l’origine del nome pampara. Si tratta di una sottile canna di bambù con inserite, in diversi taglietti della corteccia, larghe ostie colorate e tante di quelle coserelline che sono care ai bambini. Di modo che ogni bambino prendeva la sua, più bella e più guarnita delle altre, per tornarsene a casa trionfante.
I furin sono collane di castagne cotte,  infilate in uno spago, che i venditori recano in lunghe ceste.
Naturalmente la piazzuola, per il gran giorno, ha mille altre cianfrusaglie in vendita: dalle immagini alle statuette sacre ai prodotti mangerecci.
(M. Fagnani)

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REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture di autori vari, per bambini della scuola primaria: Vandali, Ostrogoti, Visigoti, Eruli, Bizantini e Longobardi; Odoacre, Teodorico, Genserico, Teodolinda, Rotari, ecc…

Nell’immenso territorio, dove l’autorità dell’antico Impero era venuta meno, i popoli germanici formarono i loro regni: i Visigoti si stabilirono in Spagna, i Franchi in Gallia, i Vandali in Africa.
Si costituirono in tal modo i regno romano-barbarici, così detti perché sotto lo stesso nuovo governo si riunivano le antiche popolazioni romane e le nuove genti barbariche di stirpe germanica.
Col passare degli anni questi due popoli, dapprima separati, lentamente si fusero con una reciproca influenza.
Molto più vasta ed efficace per la superiore civiltà, fu quella esercitata dai vinti sui conquistatori, che finirono per adottare la lingua, i costumi, le leggi e la religione del popolo che avevano sottomesso.

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Gli Eruli

Gli Eruli giunsero in Italia guidati da Odoacre, che tolse il trono a Romolo Augustolo. Questi, che i soldati romani avevano acclamato loro imperatore, era un fanciullo e non aveva quindi alcuna energia per opporsi all’invasione. Fatto prigioniero, fu rinchiuso in un castello della Campania e nessun imperatore fu eletto a succedergli in Occidente.
Odoacre, proclamatosi rappresentante dell’imperatore d’Oriente si insediò a Ravenna e governò l’Italia col titolo di Patrizio. Era l’anno 476 dC; esso segna la fine dell’Impero di Roma e l’inizio del Medioevo, cioè l’età di mezzo tra l’epoca antica e quella moderna.

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Gli Ostrogoti

Teodorico, un barbaro valoroso ed intelligente, nella sua giovinezza era stato per molti anni ostaggio alla corte di Costantinopoli: aveva così potuto conoscere ed apprezzare la cultura e la civiltà romane. Acclamato re degli Ostrogoti, che occupavano allora la Pannonia (l’odierna Ungheria), vagheggiava nuove conquiste per dare sedi migliori al suo popolo, poco amante dell’agricoltura ed inquieto.
Nel 489 Teodorico giunse alla Alpi Orientali. Non lo seguiva solo un esercito, ma un popolo intero con le donne, i figli, i servi, i carri colmi di masserizie e tende: trecentomila persone.
Odoacre, sconfitto in più battaglie, si chiuse in Ravenna. Dopo tre anni di assedio, si arrese con la promessa di aver salva la vita; invece fu fatto trucidare a tradimento (493).
Così finì il dominio erulo in Italia e subentrò quello degli Ostrogoti.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture
Il governo di Teodorico

Teodorico governò per trentatré anni col titolo di re degli Ostrogoti e Patrizio d’Italia. Egli mirò a far convivere pacificamente i due popoli pur così diversi: lasciò ai Goti l’uso delle armi e affidò agli Italici l’amministrazione civile.
Migliorò le condizioni economiche dell’Italia con lavori di bonifica e con la costruzione di strade e di acquedotti, restaurò molti monumenti romani, abbellì Ravenna di un grandioso palazzo reale, un mausoleo e altri edifici; protesse le lettere e le arti, chiamò ad alti uffici uomini di valore, come lo storico Simmaco, il filosofo Severino Boezio e il dotto Cassiodoro, che divenne suo primo ministro. Benché ariano, Teodorico fu tollerante con i cattolici.
Ma l’avversione degli Italici e gli intrighi della corte bizantina avvelenarono gli ultimi anni del suo regno, rendendolo sospettoso e crudele: si diede ad arrestare, perseguitare, uccidere.
Anche Boezio e Simmaco furono messi  a morte, e lo stesso papa Giovanni I visse i suoi ultimi giorni in carcere.
Teodorico morì nel 526 e fu sepolto nel superbo mausoleo di Ravenna.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – I Bizantini

Le relazioni tra i Romani e gli Ostrogoti peggiorarono assai con i successori di Teodorico. Ne approfittò l’imperatore d’Oriente Giustiniano per unire l’Italia all’Impero d’Oriente (553).
Il dominio bizantino (così detto da Bisanzio, antico nome di Costantinopoli) produsse opposti, molteplici effetti. Infatti, se da un lato attivò le relazioni tra Italia e Oriente e fede della capitale Ravenna una città ricca e adorna di splendidi monumenti (come la famosa chiesa di San Vitale costruita appunto nel VI secolo e tutta rivestita di mosaici e d’oro), di contro afflisse le misere popolazioni con nuovi insopportabili balzelli, imposti senza ritegno dai rapaci funzionari imperiali.
La vita dei commerci e delle industrie intristì e grave fu il disagio delle città e delle campagne.
A rimedio di tanti guai solo la Chiesa diffondeva un po’ di bene fra le afflitte popolazioni ed accresceva in mezzo ad esse il suo prestigio.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – Per il lavoro di ricerca

Quale barbaro fu chiamato “re della terra e del mare”?
Quando cadde l’Impero Romano d’Occidente?
Per opera di chi?
Come si chiamava l’ultimo imperatore romano?
Da chi fu sconfitto Odoacre?
Come governò Teodorico? Come morì?
Qual era la capitale del regno degli Ostrogoti?
Che cosa era l’ “editto di Teodorico?”
Da chi furono scacciati gli Ostrogoti?
Perchè divenne famoso Giustiniano?
Come governarono i Bizantini in Italia?
Come fu divisa l’Italia in quel periodo?

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – Il re della terra e del mare

Genserico, alla testa dei suoi Vandali, è alle porte di Cartagine. In città gli uomini fanno festa, ignari che il nemico è sotto le mura; così, mentre Genserico si accinge ad assalire i bastioni, i Cartaginesi sono nel circo. Ma d’un tratto alle porte del circo si sente qualcuno che batte per farsi aprire; i custodi chiedono chi sia mai costui che domanda di entrare in un’ora così fuori dal consueto.
“Sono il re della terra e del mare!” risponde il vincitore.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture –  Odoacre e la fine dell’Impero

Mentre l’Impero Romano d’Oriente fronteggiava con buon successo i barbari, e restava saldo ed unito, l’Impero Romano d’Occidente era percorso continuamente da orde selvagge, insanguinato da guerre e saccheggi, e finì per essere alla mercé dei capi barbarici e dei generali germanici. Uno di questi, Oreste, giunse nel 475 a porre sul trono imperiale suo figlio Romolo (che venne poi per spregio detto l’ “Augustolo” cioè il piccolo, misero Augusto). Ma questi regnò poco: l’anno dopo, un altro generale barbaro, Odoacre, piombò su Ravenna, la conquistò, uccise Oreste e depose l’Augustolo.
Una volta deposto quel debole imperatore, Odoacre assunse il titolo di “Patrizio” ed il potere in Italia, e mandò le insegne imperiali a Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente: un solo imperatore, disse, è più che sufficiente! Per una amara beffa del destino, l’ultimo re di Roma portava il nome del primo re, Romolo, colui che, secondo la leggenda, aveva fondato la città e gettato le fondamenta della sua potenza. Così nel 476 si concludeva miserevolmente la storia dell’Impero di Roma.

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Curiosità

Gli ultimi imperatori dell’Impero d’Occidente salirono al trono ancora bambini: Giuliano aveva sei anni, Graziano diciassette, Valentino II cinque, e Romolo Augustolo quattordici.
Per molti secoli l’Impero romano aveva avuto una difesa pronta e vigile ai confini anche lontanissimi. I barbari così spiegano il fatto: sul Campidoglio esisteva un tempietto consacrato alla Difesa entro cui erano molte statue raffiguranti le varie province di confine.
Ognuna aveva al collo un campanellino e appena questa provincia fosse stata minacciata esso preannunciava il pericolo suonando. Ecco perchè, ogni qualvolta i barbari toccavano le terre di confine romano, trovavano le truppe pronte alla difesa.

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Gli Ostrogoti, Teodorico e i Longobardi

Quando nel 488 Teodorico, il giovane re degli Ostrogoti, venne attraverso le Alpi Giulie in Italia, col suo esercito, fu la fine del governo di Odoacre. Questi, sconfitto prima sull’Isonzo, fu poi costretto a chiudersi in Ravenna, dove resistette valorosamente per due anni e mezzo; ma alla fine avendogli promesso Teodorico di salvargli la vita si  arrese.
Il patto non fu però mantenuto e Odoacre fu ucciso assieme ai suoi familiari, nel corso di una disputa insorta durante un banchetto.
Teodorico, riconosciuto re d’Italia dall’imperatore di Costantinopoli, per un certo periodo governò saggiamente. Stabilì la capitale del regno a Ravenna e chi anche oggi visita quella città può ammirare splendidi monumenti come la chiesa di sant’Apollinare, il battistero, il mausoleo di Galla Placida, ecc…
Negli ultimi anni del suo regno diventò crudele e sospettoso.  Fece uccidere il suo consigliere, Boezio, al quale aveva conferito gli onori di console, di patrizio e di maestro degli uffizi, e fece condannare a morte Simmaco, suocero di Boezio, solo perchè ne aveva pianto in pubblico la morte.
Prima di morire aveva ordinato la chiusura di tutte le chiese dei cattolici, ma l’ordine non ebbe seguito.
Morì nel 526 e così ebbe fine, con un breve periodo di tirannia, un lungo e glorioso regno.
Amalasunta, sua figlia, gli eresse un monumento presso Ravenna.

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Teodorico

Di Teodorico dobbiamo ammirare la saggezza con la quale governò l’Italia, gli sforzi fatti per fondere i Romani con i barbari sopraggiunti (fu questo il suo ideale e non è colpa sua se non poté raggiungerlo); a suo merito dobbiamo ricordare la protezione da lui data ai grandi uomini che fecero splendere di nuova luce le lettere romane: Cassiodoro, Emiodo, Boezio e le opere pubbliche che egli iniziò, i monumenti restaurati, gli edifici innalzati nelle sue città predilette: Verona, Pavia, Ravenna.
Quest’ultima città, un tempo sede della flotta romana, era divenuta già sotto Odoacre la capitale d’Italia e fioriva sulla sua laguna non ancora occupata dalle sabbie. Teodorico l’ornò di chiese e monumenti che in gran parte ancora sussistono e ci danno in modo strano l’illusione di rivivere ai tempi del grande Goto. Eppure questo re tanto amante delle arti non sapeva scrivere e per tracciare le lettere del suo nome doveva usare una laminetta traforata, attraverso la quale a fatica conduceva la penna! Assai meglio della penna egli maneggiava la spada, e lo sperimentarono numerosi popoli che egli assoggettò, entro e fuori d’Italia.

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Leggende sulla morte di Teodorico

Procopio racconta che, trovandosi Teodorico ad un banchetto, gli fu portato un grosso pesce, il quale, digrignando i denti e rivolgendo minacciosamente gli occhi, pareva che assumesse le sembianze di Simmaco. Spaventato di ciò, il re si sentì preso da brividi che lo costrinsero a mettersi a letto, dove non vi furono panni che bastassero a riscaldarlo; ed il 30 agosto 526, in età di settantadue anni, fu da una forte dissenteria condotto a morte.
Un’altra leggenda racconta che un collettore di tasse, passando per l’isola di Lipari, vi trovò un eremita che subito esclamò: “E’ morto Teodorico!”
“Come mai” rispose l’altro “se non è molto che io lo lasciai in buona salute?”
“Eppure” soggiunse l’eremita, “io l’ho visto or ora passare con le mani legate, fra papa Giovanni I e Simmaco, ed essere gettato nel cratere del vulcano di Lipari”.
Un’altra leggenda racconta che Teodorico fu portato da un cavallo nero, a corsa sfrenata, fin presso il vulcano ove fu scaraventato. (Villani)

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Dalla raccolta di leggi di Teodorico

1 Prima di tutto decretiamo che se un giudice avrà accettato denaro per giudicare a danno di un innocente contrariamente alle leggi e al diritto, sarà punito con la condanna a morte.
34 Nessuno, o Romano o barbaro, si prenda la roba altrui: e se con inganno se ne sarà impadronito non potrà tenerla, e dovrà immediatamente restituirla con gli interessi.
108 Se qualcuno sarà sorpreso a sacrificare col rito pagano sarà condannato a morte. Quelli che praticano arti malefiche, cioè gli stregoni, spogliati di tutte le loro sostanze, se di agiata condizione, saranno condannati all’esilio, se di umile condizione, a morte…

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Giustiniano e la liberazione dell’Italia dagli Ostrogoti

Mentre i Goti dominavano l’Italia, l’Impero d’Oriente, ancora solido e quasi intatto, cominciava ad interessarsi delle sorti dell’Italia, oramai da troppo tempo abbandonata nell’arbitrio dei barbari.
Nel 527, un anno dopo la morte di Teodorico, a Costantinopoli saliva al trono il più grande degli imperatori d’Oriente, Giustiniano.
Romano di animo e di propositi, egli inaugurò il suo regno con un’opera immortale, ordinando che si raccogliessero tutte le leggi dei Romani in un unico codice che rimane tuttora il solenne monumento del genio giuridico di Roma antica.
Giustiniano volle anche ricostruire l’unità dell’Impero romano  e in breve strappò ai Vandali l’Africa, sottrasse ai Visigoti la spagna meridionale, e finalmente, nel 535, sbarcò con un esercito in Italia per liberarla dai Goti e ricongiungerla all’Impero. La guerra durò ben diciotto anni e devastò tutta l’Italia, ma alla fine i Goti furono definitivamente sconfitti.

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Il governo bizantino in Italia (553-568)

L’Italia tornò così a far parte dell’Impero romano come una provincia. L’Imperatore la governò per mezzo di un suo rappresentante, detto Esarca, che risiedeva a Ravenna, con sommi poteri civili e militari.
Ravenna, che mostra ancora nelle belle chiese di San Vitale e di Sant’Apollinare, adorne di splendidi mosaici, i ricordi di questo periodo, divenne il centro delle comunicazioni con l’Oriente.
A tutta l’Italia divisa in ducati (così chiamati perchè governati da duchi bizantini) fu esteso il codice giustinianeo.
Fra i vari ducati ebbe una particolare importanza il ducato di Roma, per la presenza del papa, capo della Chiesa cattolica.
I Bizantini cercarono di migliorare le condizioni della penisola con l’aiuto dei Vescovi, a cui furono affidati uffici civili. Con ciò si accrebbe il potere temporale dei Vescovi, che avrà tanta importanza in seguito.
Ma per sopperire alle spese della difesa e dell’amministrazione, il governo bizantino aggravò le popolazioni italiane di tasse esose, rese ancora più aspre dai metodi di riscossione e dalla corruzione dei funzionari. Per questo e per la sua breve durata, esso non potè recare all’Italia i benefici che tutti speravano.
Infatti l’Italia rimase bizantina solamente quindici anni. Nel 568, appena tre anni dopo la morte di Giustiniano, una nuova ondata di barbari, i Longobardi, si rovesciò sul nostro paese

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La conquista dei Longobardi

Non erano passati quindici anni dalla definitiva conquista dell’Italia da parte dei Bizantini quando, nell’anno 568, attraverso le Alpi Giulie sopraggiunsero nuovi invasori: i Longobardi.
I soldati dell’Impero d’Oriente che presidiavano l’Italia non seppero validamente difenderla; essi si ritirarono nelle città costiere, dove avevano basi militari e flotte.
I Longobardi non avevano navi cosicchè non riuscirono mai a scacciare i Bizantini dalle coste italiane e ad unire tutta l’Italia sotto il loro dominio.
Fu questa una delle tristi conseguenze della conquista longobarda: l’Italia, unita dai Romani, si spezzetta in domini Bizantini e in domini Longobardi; ed anche quando finirono quei domini, l’Italia continuerà ad essere politicamente divisa.

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La conversione dei Longobardi

Il dominio dei Longobardi durò dal 568 al 774. Nei primi anni il loro governo fu aspro; poi venne mitigandosi soprattutto per la conversione al cattolicesimo della regina Teodolinda per opera di papa Gregorio Magno.
Fu questo un fatto di grande valore politico e civile, perchè influì sui costumi dei dominatori, rese più umana la condizione dei vinti latini e permise non solo la convivenza ma, più tardi, anche al fusione tra vincitori e vinti.
Nell’anno 603 la regina Teodolinda, adempiendo un suo voto, fece erigere in Monza la Basilica di san Giovanni Battista, decorata di preziosi ornamenti d’oro e d’argento.
Nella cappella, detta ancor oggi “cappella della regina Teodolinda”, si conserva la famosa corona ferrea, la quale, dopo essere stata di Teodolinda ed aver cinto il capo dei re longobardi, servì nei secoli successivi a cingere anche la fronte imperiale di Carlo Magno, poi quella dei re d’Italia nel Medioevo e più tardi ancora quella dei re di Germania imperatori del Sacro Romano Impero.

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Per il lavoro di ricerca

Di che stirpe erano i Longobardi?
Come vivevano?
Quali leggi li governavano?
Com’erano le loro case?
Come si vestivano?
Quando vennero in Italia?
Da chi erano guidati?
Come governò Alboino?
Perchè è famoso l’editto di Rotari?
Quando e per opera di chi si convertirono al cattolicesimo?
Chi fu Teodolinda? Che cos’è la corona ferrea e dove si trova? Conosci la sua leggenda?

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Il sogno di Teodolinda

Dice una leggenda che Teodolinda aveva promesso di erigere un tempio a San Giovanni e aspettava che un’ispirazione divina le indicasse il luogo più adatto. Mentre cavalcava col suo seguito attraverso una piana ricca di olmi e bagnata dal Lambro, la regina si fermò a riposare lungo le rive del fiume, all’ombra di un albero.
Addormentatasi, ella vide in sogno una colomba che si fermò poco lontano da lei e le disse: “Modo” (cioè qui).
Prontamente la regina rispose: “Etiam” (sì) e fece costruire la basilica nel luogo indicatole dalla colomba.
Quella zona fu poi chiamata Modoetia (Monza).

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Odoacre, amico di San Severino

Non pare che Odoacre avesse la ferocia dei barbari di Attila o di certi imperatori romani; la leggenda ci tramanda infatti la sua vivissima amicizia con San Severino, un asceta molto venerato. Al barbaro Odoacre si attribuiscono poi sentimenti e atti pietosi verso il piccolo Romolo Augustolo che “per compassione della sua infanzia gli salvò la vita e, perchè era un bel bimbo, gli diede una rendita di seimila soldi e lo mandò in Campania a viverci liberamente con i parenti”.

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Alboino in Pavia

I Longobardi (“uomini dalle lunghe barbe”) appartenevano a quelle tribù germaniche vissute lontano dai confini dell’Impero romano e rimaste sprofondate nella più oscura barbarie. Nomadi, essi avevano vagato senza meta nell’Europa Centrale; e si trovavano nei territori tra le Serbia, Croazia e Ungheria, quando sentirono parlare del clima mite, delle ricche città, dei pingui campi dell’Italia. Ciò decise il loro re, il fiero e crudele Alboino, ad ordinare un esodo di massa. Nella primavera del 568, una carovana di trecentomila longobardi, tra guerrieri, donne, vecchi e bimbi, si presentò al passo del Predil, nel Friuli, e dilagò poi nella pianura veneta. L’Italia, appena uscita, stremata, dalla lunghissima guerra greco-gotica, venne rapidamente conquistata.
In breve tempo i Longobardi si impadronirono di gran parte dell’Italia settentrionale, della Toscana spingendosi a sud, fino ad occupare Benevento. Una sola città oppose agli invasori strenua resistenza: Pavia che, stretta d’assedio, respinse per tre anni gli attacchi longobardi, arrendendosi solo per fame. Era il 572: re Alboino entrava finalmente in Pavia, che sarebbe diventata, con Verona, la capitale del nuovo Regno. Iniziava per l’Italia una nuova, decisiva fase della sua storia.
“E’ mia questa Italia!” gridò Alboino, affacciandosi dalle Alpi e scendendo nella pianura del Po che gli sembrò molto bella e fertile. Scelse per sua capitale Pavia. I Longobardi rimasero a lungo in quella regione. E anche quando cessò il suo dominio, il nome rimase. Infatti anche oggi il nome Lombardia ricorda la dominazione dei Longobardi.
I Longobardi erano tutti biondi rossicci. Alti di statura, portavano capelli a ciuffo sulla fronte, baffi spioventi e barbe lunghe. Sui copricapo, di pelo, portavano corna di animali. La loro arma preferita era una lunga alabarda. Nel vedere quei nuovi barbari i ragazzi italiani dicevano scherzando: “Sembrano carote!”
I Longobardi, dalle Alpi, giunsero fino al mar Ionio, percorrendo tutta la penisola italiana.
“Fin qui è il mio regno!” disse un successore di Alboino, Autari, spingendo il cavallo nel mare, a Reggio Calabria. Proprio così. Pareva che ormai fossero i padroni di tutta l’Italia e che nessuno li potesse sconfiggere.

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Alboino e Rosmunda

Per capire quanto fossero crudeli, basti dire che coi crani degli avversari uccisi si facevano coppe per il vino. Così ogni volta che bevevano, accostavano le labbra alle ossa del loro nemico.
Anche Alboino aveva preso stanza nella città di Verona e occupava il castello già abitato da Teodorico. Suo nemico era stato Cunimondo, re dei Gepiti, che Alboino aveva ucciso in battaglia, sposando poi la figlia del re morto, chiamata Rosmunda.
Un giorno dopo un pranzo durante il quale aveva più volte accostato le labbra al teschio di Cunimondo, mezzo brillo, Alboino chiamò uno del suo seguito e gli disse: “Perideo, prendi questa coppa di buon vino e portala alla mia dolce sposa Rosmunda”.
Perideo obbedì. Quando la regina riconobbe il teschio del proprio padre, inorridì. Ma non volle mostrare la sua commozione e il suo orrore. Prese la coppa e accostò le labbra sbiancate all’orto del cranio paterno.
Con gli occhi dilatati dall’orrore, mentre beveva, fissava Perideo, il quale lesse in quello sguardo una muta invocazione: “Vendicami…”
Presso i barbari la vendetta era sacra. E pochi giorni dopo Perideo uccideva Alboino, per vendicare Rosmunda. (P. Bargellini)

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Autari e Teodolinda

Una cupa leggenda circonda il nome di Alboino, il re longobardo che guidò il suo popolo, trecentomila persone comprese le donne e i bambini, una carovana zingaresca di carri e masserizie, guidata da fortissimi guerrieri, a sud delle Alpi: si dice che egli costringesse la moglie Rosmunda, a bere in un boccale ricavato dal teschio del padre, ucciso dallo stesso Alboino.
Più gentile e poetica è la leggenda del re Autari e della regina Teodolinda. Autari, prima di sposare quella principessa,, figlia del re degli Avari, si recò alla sua corte in incognito, per conoscerla, fingendosi un ambasciatore. La fanciulla venne chiamata alla sua presenza, perchè egli potesse vederla e, come diceva, “riferire al suo re”.
Teodolinda offerse da bere agli ospiti. Quando venne il turno di Autari, questi le sfiorò la mano con un dito e le passò la destra sulla fronte, sul naso e sulla guancia. Teodolinda, turbata, riferì la cosa alla sua nutrice. Ma la vecchia la rassicurò: “Non avere timore: nessun uomo avrebbe osato toccare la futura sposa del re. Quel cavaliere è senza dubbio Autari in persona”. Così conobbe il suo sposo la giovane che, diventata regina, favorì la conversione dei Longobardi (i quali professavano a religione ariana) al cattolicesimo.
Sotto i primi anni del dominio longobardo, l’Italia conobbe il più nero e doloroso periodo della sua storia. Ma col passare degli anni i Longobardi (che non riuscirono mai a costruire uno stato forte ed unito) addolcirono un poco i loro barbari costumi. Nel 643 il re Rotari emanò un complesso di leggi, attraverso il quale possiamo farci un’idea della società longobarda, in gran parte ancora barbara, ma già influenzata dallo spirito romano.
L’Editto di Rotari elenca i possibili reati, indicando, per ciascuno di essi, la pena da scontare o la multa da pagare.
Una curiosa disposizione dice: ” Se qualcuno avrà pelato la coda del cavallo di un altro, pagherà sei soldi”.

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Leggi longobarde

I Longobardi obbedivano alle tradizioni ed ai costumi di tutte le tribù germaniche. Vigeva, tra di essi, la vendetta privata, chiamata faida: l’omicida poteva essere a sua volta ucciso da un membro della famiglia del morto; le lotte tra famiglie, in tal modo, duravano molto a lungo, e spesso si tramandavano di generazione in generazione.
Un’altra barbara usanza era il “giudizio di dio”. Per stabilire se un uomo era innocente o colpevole del crimine che gli era ascritto, lo si sottoponeva a brutali prove, nella convinzione che dio avrebbe provato la sua innocenza salvandolo. Al giudizio di dio facevano ricorso spesso i Longobardi: l’imputato, legato, viene tuffato in acqua alla presenza di numerosi testimoni; se rimane a galla è ritenuto colpevole, e quindi condannato; se, invece, affonda, la sua innocenza sarà provata! Per tutto il corso del Medioevo, del resto, si ebbero varie forme del giudizio di dio: una delle più frequenti era il duello: l’accusato si doveva battere contro l’accusatore (talvolta costoro erano sostituiti da loro amici, o “campioni”): il vincitore avrebbe provato di essere nel giusto, poiché la sua vittoria, si credeva, veniva dal fatto di difendere una causa giusta.
Un certo miglioramento dei costumi longobardi fu ottenuto da re Rotari, il quale, con il suo editto, limitò a pochi casi sia la faida sia il giudizio di dio.
Regola della giustizia divenne il “guidrigildo”, cioè il compenso dell’offesa patita. Questi compensi erano fissati con una scrupolosa esattezza.
“Chi taglia il naso ad un altro gli dovrà pagare tredici soldi” diceva la legge: ed ecco che il ferito riceveva solennemente, dal feritore, la somma dovuta.
Un altro articolo diceva: “Chi fa cadere ad uno i denti mascellari, gli dovrà pagare diciannove soldi per ogni dente”.
Più curiosa era quest’altra disposizione: “Se qualcuno avrà colpito un altro in testa, e gli avrà rotto le ossa, gli dovrà pagare: per un osso, dodici soldi; per due ossa, trentasei soldi. Se le ossa rotte saranno più di due, non si contino. Bisogna però che una di queste ossa sia di tale misura che, lasciata cadere all’aperto, su di uno scudo, faccia un suono udibile a dodici piedi di distanza”.
Assai cara era pagata una mano: metà del prezzo necessario per compensare una vita.
In longobardo, l’offesa era detta walopaus.

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Come si vestivano e si acconciavano i Longobardi

Nelle decorazioni del palazzo di Monza, si può vedere molto bene in che modo a quel tempo i Longobardi vestivano e si acconciavano. Essi avevano i capelli rasi fino all’occipite e ricadenti sulla fronte fino all’altezza della bocca, divisi in due bande da una scriminatura. Le loro vesti erano ampie e generalmente di lino, ornate di strisce intessute abbastanza larghe e di vario colore. Portavano calzari aperti all’estremità e fermati da lacci intrecciati.

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In una casa longobarda

Sono entrato nella casa, chiamiamola così, di un guerriero longobardo molto stimato dai suoi connazionali per il suo valore. A me, che sono latino, è sembrato di ritornare indietro nel tempo di millecinquecento anni. L’abitazione consta di un unico vano, le cui pareti sono di legno e il tetto di paglia. Le suppellettili sono ridotte al minimo indispensabile: pentole di terra o di rame, corna di bue per contenere l’olio, o da usare come bicchiere, un mulino portatile per macinare il grano, pelli buttate per terra che servono da letto. Siccome il mio ospite era, come vi ho detto, un soldato valoroso, appesi alle pareti c’erano parecchi crani, quelli dei nemici che il gentiluomo aveva ucciso con le sue mani: così mi ha lui stesso spiegato.

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L’editto di Rotari

Rotari era un re longobardo. Nacque nel 606 e salì al trono nel 636 sposando Gondeberga, vedova di Ariovaldo. Sotto il suo regno lo stato si ingrandì grazie alla conquista della Liguria, tolta ai Greci. Ma la sua fama resta legata soprattutto all’opera di legislatore (aveva del resto dato prova della sua grandezza d’animo proteggendo i cattolici pur essendo ariano). L’editto di Rotari, detto anche editto longobardo, promulgato a Pavia nel 643, è uno specchio fedele delle condizioni di vita e di civiltà del popolo longobardo. L’editto è un vero e proprio codice, composto di 338 capitoli, di diritto penale e privato, riguardanti la repressione dei reati contro lo stato, contro l’incolumità delle persone e la salvaguardia del patrimonio, del diritto ereditario, del diritto di famiglia, dei diritti reali, dei diritti di obbligazione, della responsabilità per i servi, dei danneggiamenti e delle obbligazioni.
In questo editto, scritto in latino, per la prima volta dei barbari, come dovevano essere considerati i Longobardi, tenevano conto delle esperienze del diritto romano e delle innovazioni del cristianesimo. Grande importanza è attribuita dall’editto alla famiglia, centro dell’ordinamento sociale e politico, ed a tutte le questioni familiari.

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La conversione dei Longobardi

I Longobardi dominarono per ben due secoli nell’Italia settentrionale, e in così lungo periodo ebbero modo di subire la benefica influenza della civiltà romana, alla quale attinsero per l’organizzazione dello stato, per la compilazione delle leggi mescolando addirittura il proprio linguaggio alla lingua latina. La religione cattolica contribuì in gran parte a modificare le caratteristiche di questo popolo barbaro. La conversione al cattolicesimo avvenne per opera della regina Teodolinda. I Longobardi infatti erano ariani.
Era allora pontefice Gregorio Magno, monaco benedettino che, salito alla cattedra di Pietro, diceva tuttavia di sé “io sono il servo dei servi di dio”, e non sdegnava di servire i poveri, che voleva alla sua mensa.
Gregorio Magno paternalmente ammonì Teodolinda, e la convertì al cattolicesimo. Ancora molti anni dovettero passare prima che la religione ariana scomparisse tra il popolo longobardo. Tuttavia l’esempio della regina operò grandi conversioni e preparò il terreno per la conversione di tutto il suo popolo.

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Teodolinda, regina dei Longobardi e dei Latini

L’Italia è dominata dai barbari. Orde di ogni stirpe cavalcano sulle dolci terre e le distruggono. Da qualche anno vi comandano i Longobardi, ma già i Franchi hanno preso a combatterli e a fatica il longobardo Autari li ha ricacciati oltre il confine. Gli Italici attendevano i Franchi come liberatori: chi li proteggerà ora? Autari è crudele e minaccia di morte chiunque sei suoi voglia battezzare i figli. Inutilmente la moglie, Teodolinda, lo supplica di moderarsi… E’ la morte a portarsi via il re prepotente. Teodolinda rimane sola.
Esce spesso dalla reggia e si reca fra la povera gente. E’ una fiammata di intima, calda sensibilità a spingerla a far del bene, ed il suo cuore ignora la differenza tra Longobardi e Latini. Un mattino, mentre la regina cavalca verso Monza, un uomo lacero traversa la strada. E’ stremato, traballa… cade. Teodolinda, incurante del fango che le insudicerà il mantello, scende di sella e si china sul mendico.
“Chi sei?” il povero ha aperto gli occhi e fissa stupito la dama bionda.
“Teodolinda”
“La regina! Dio ti protegga sempre… tutti i Latini dicono che sei buona”
“La mia gente ti trasporterà nel più vicino castello…”
“Tu ami gli amici Italici…” mormora ancora l’uomo “dacci un re che ci comprenda! Lo puoi!”
“Sì”.
Teodolinda, cattolica, sposa in seconde nozze di Agilulfo, duca di Torino, che non perseguiterà più i cattolici. E papa Gregorio invia ai due sposi una preziosa corona. Preziosa per le gemme che la compongono, ma ancor più preziosa per il sottile cerchio di ferro che la delimita internamente, formato secondo la leggenda da un chiodo della croce: la corona ferrea. Quella che Teodolinda deporrà nella basilica di San Giovanni Battista, che ha fatto erigere in Monza. (R. Gelardini)

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La corona ferrea

Secondo un’antica tradizione, Sant’Elena, madre dell’Imperatore Costantino, trovò sul Calvario la Croce. Ella ne tolse un chiodo e lo fece applicare all’interno di una corona d’oro, che regalò a suo figlio. Questi la donò al papa. Circa tre secoli dopo, Gregorio Magno regalò la corona, chiamata ferrea per il chiodo che aveva internamente, alla regina Teodolinda. Ella, a sua volta, ne fece dono al Duomo di Monza, fatto edificare da lei stessa.
La corona si trova lì ancora oggi.

REGNI ROMANO – BARBARICI dettati ortografici e letture –  Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture

ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture di autori vari, per bambini della scuola primaria.

I figli del deserto

Nella prima metà del VII secolo, e più precisamente nel 634 dC, gli Arabi assumono una posizione di primo piano alla ribalta della storia.
Fino ad allora questo popolo era vissuto sparso per il deserto in tribù nomadi formate di carovanieri, di pastori e di razziatori, detti beduini, cioè figli del deserto, e sono una parte di esso, insediata lungo le coste, praticava l’agricoltura.
Gli Arabi adoravano più dei; fra i tanti idoli propri di ciascuna tribù, ce ne era uno comune a tutte, la pietra nera, che si credeva portata dal cielo dall’arcangelo Gabriele e che si venerava in un santuario di forma cubica, la Càaba, alla Mecca, centro religioso e commerciale dell’Arabia.
Qui da ogni parte della penisola affluivano una volta all’anno gli Arabi, in pellegrinaggio, per celebrarvi i riti e per trafficare.

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Maometto

Alla Mecca, verso l’anno 570, nacque Maometto. Costui sentendosi ispirato da dio, incominciò a raccontare le rivelazioni che la divinità gli faceva e a diffondere in mezzo al popolo i principi di una religione.
Maometto insegnava che vi è un dio unico, Allàh, il quale dopo aver inviato come suoi profeti Abramo, Mosè e Gesù, suscitava ora il suo ultimo e più grande profeta, Maometto: “Allàh è il solo dio e Maometto è il suo profeta”.
“Gli uomini di fronte ad Allàh sono tutti uguali” diceva Maometto “come i denti di un pettine”. Chi crede in Allàh si abbandona interamente al suo volere, perchè sa che egli nella sua sapienza ha fissato per ciascun uomo un destino, che nulla può mutare.
Questa fede cieca, o abbandono in Allàh, si chiama Islàm, e Islamici o Musulmani si chiamano coloro che la professano. Ad essi è riservato il paradiso, un meraviglioso giardino pieno di delizie, per meritarsi il quale adempiere i doveri religiosi, che sono: la preghiera, cinque volte al giorno, quando il muezzin, affacciato al minareto ne grida il segnale; il digiuno, dall’alba al tramonto, nel mese di Ramadàn (febbraio); l’elemosina, che il ricco deve al povero; il pellegrinaggio alla Mecca, almeno una volta nella vita; la guerra santa contro gli infedeli.
Le dottrine di Maometto furono raccolte dai discepoli in un libro sacro: il Corano.

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La guerra santa

La guerra santa predicata da Maometto trasformò rapidamente quel piccolo popolo di nomadi in un grande popolo di guerrieri e di conquistatori. Sotto la guida dei califfi, gli Arabi dilagarono in Mesopotamia e in Persia, poi in Palestina, in Siria e in Egitto.
Nel 711 i Musulmani conquistarono la Spagna, passarono quindi i Pirenei, invadendo la Gallia; ma nel 732 furono respinti da Carlo Martello, generale dei Franchi.
Non perciò si arrestarono le conquiste arabe nel Mediterraneo: nei primi anni dell’800, la Sicilia e le altre isole italiane erano in potere degli Arabi: il Mediterraneo divenne un mare arabo.
Palermo fu allora una delle principali città d’Europa per ricchezza di monumenti e per numero di abitanti. La Sicilia, dopo i tempi floridi di Siracusa e delle colonie greche, aveva sofferto per la rapacità dei governatori romani; si era un poco sollevata nei primi due secoli dell’Impero, per ricadere poi nelle più tristi condizioni per le invasioni dei barbari e per il pessimo governo dei Bizantini. Caduta in dominio degli Arabi, rifiorì a nuova vita; le sue campagne furono allora assai ben coltivate: le industrie, i commerci, le arti prosperarono.
La Sicilia raccolse e sviluppò tanta parte di civiltà degli Arabi, la diffuse nei paesi bagnati dal Mediterraneo e, prima che altrove, in Italia.

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Per il lavoro di ricerca

Descrivi in paese dell’Arabia e le condizioni dei suoi abitanti prima di Maometto. Che cos’è la Kaaba?
Quando visse Maometto?
Che importanza ha per gli Arabi l’Egira?
In quale libro è contenuta la dottrina di Maometto?
Qual è il principio fondamentale della dottrina di Maometto?
Perchè gli Arabi giudicarono santa la guerra?
Chi erano i Califfi?
Quali terre conquistarono gli Arabi  in Occidente e in Oriente?
Quando giunsero vittoriosi nella Spagna e chi sconfissero?
Come governarono gli Arabi in Sicilia?
Quale contributo diete all’agricoltura la conquista araba?
Quali furono le città più ricche degli Arabi?
Quali furono le scienze da loro più coltivate?

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Ritratto di Maometto

Maometto era un uomo dignitoso e raramente rideva. Di costituzione delicata, era nervoso, impressionabile, propenso alla meditazione melanconica. Nei momenti di eccitazione o di rabbia le vene del viso gli si gonfiavano pericolosamente, ma egli sapeva reprimere le proprie passioni e poteva facilmente perdonare a un nemico vinto e pentito… Era un uomo semplice e senza pretese. Gli appartamenti in cui successivamente dimorò erano casette di mattoni non cotti, con tetti di rami di palma; la porta era riparata da una tenda di pelo di capra o di cammello; l’arredamento consisteva in un materasso e alcuni cuscini sul pavimento. Fu visto spesso rammendare i propri vestiti o aggiustarsi le scarpe, accendere il fuoco, scopare il pavimento, mungere la capra in cortile e fare acquisti al mercato. Si cibava di datteri e di pane di orzo, raramente si concedeva il lusso di gustare latte o miele, e dava per primo l’esempio di astenersi dal vino.
Cortese con i potenti, affabile con gli umili, indulgente verso i suoi aiutanti, gentili con tutti eccetto che con i nemici. Visitava i malati e si univa a ogni funerale che incontrasse per via. Non amava dimostrazioni di magnificenza e di grandezza. Non richiedeva il lavoro di schiavi quando aveva tempo e forza per fare da solo. Spendeva poco per la famiglia, ancor meno per sé, molto in opere di carità.
(W. Durant)

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Maometto e l’Islamismo

Maometto affermava l’esistenza di un dio solo, e voleva che tutti gli idoli fossero distrutti; i sacerdoti e i ricchi mercanti della Mecca suscitarono contro di lui una tale agitazione, che dovette fuggire e rifugiarsi a Yatrib, detta poi Medina (“Città del Profeta”).
Ciò avvenne l’anno 622.
Questa fuga (in arabo Egira) è considerata dagli Arabi l’inizio di una nuova era. Perciò essi cominciarono a contare gli anni dal 622, che è l’anno primo della loro era.
La dottrina maomettana è contenuta nel Corano, che potrebbe definirsi la Bibbia dei Musulmani, e deriva in parte dai Giudaismo e dal Cristianesimo adattati alla natura del popolo arabo.
Il principio fondamentale di questa dottrina è l’esistenza di un dio solo, Allah, il quale ha già rivelato la sua legge per mezzo di Mosè e di Gesù, ed ora la rivela in modo più perfetto per mezzo di Maometto, dopo il quale non apparirà più alcun profeta.
I fedeli devono obbedire ciecamente ad Allah, accettare con rassegnazione la sua volontà, annullando la propria: tutto è da Allah ineluttabilmente prestabilito. Questo abbandono alla volontà di dio si dice con parola araba Islam. Perciò Islamismo si disse la dottrina di Maometto; islamici o musulmani sono i suoi seguaci.
Il paradiso è immaginato come un luogo di godimenti e di piaceri materiali, in forma di giardino, posto sulla vetta di un monte, irrorato da fresche fontane. I dannati piombano invece nell’abisso pieno di fiamme.
E’ un dovere degli Arabi convertire alla vera fede di Allah gli infedeli, soprattutto gli idolatri; se gli infedeli resistono si devono sterminare con le armi. Chi cade nella guerra santa è sicuro del paradiso. Questo miraggio, unito al fanatismo religioso, trasformò gli Arabi, da povero popolo di pastori nomadi e contadini, in conquistatori.
Il Corano prescrive minutamente i doveri del credente; quali: l’abluzione, la preghiera da farsi cinque volte al giorno a un segnale dato dal muezzin; il digiuno nel mese del Ramadan; il pellegrinaggio, almeno una volta nella vita, ai luoghi santi, ecc…

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Norme del Corano

Oriente e Occidente sono di Allah. Il Signore è ovunque volgete l’occhio e riempie l’universo con la sua sapienza ed infinità.
L’esistenza dei cieli e della terra, della notte e del giorno che si succedono, della nave che corre sui nari a vantaggio degli uomini, della pioggia che scende dalle nubi e vivifica la terra, degli animali che popolano la superficie terrestre, dei venti che spirano or di qua or di là, delle nuvole erranti tra terra e cielo, tutto ciò è il segno della potenza dell’Altissimo anche davanti agli occhi degli ignoranti.
Nel giorno del giudizio finale tutti i visi degli uomini saranno o bui o risplendenti. I rinnegatori della fede avranno il viso coperto di tenebra e Allah dirà loro : “Andate in preda alle fiamme, giacché siete stati apostati”. Invece, quelli il cui viso risplenderà, proveranno la divina bontà e di essa avranno eterno gioire.
Il Signore vi ordina di giudicare con giustizia i vostri simili. Obbeditegli, perché egli tutto vede e tutto sa. Oh credenti, siate cauti nel giudicare; talvolta il giudizio è ingiusto. Frenate la vostra curiosità; non lacerate la reputazione degli assenti.
Allah è autore di ogni bene che ti giunga. Tu sei l’autore del male che ti giunge. Chi obbedisce al Profeta, obbedisce al Allah.
Anche il verme più vile è creatura di Dio, nutrita da lui;  Dio conosce il suo rifugio e dove dovrà morire.
La terra presenta ad ogni passo un quadro sempre più vario, qui giardini con vigneti e legumi, là palme, ora solitarie ora in boschetti. La stessa acqua irriga tutti i frutti, ma il suo sapore è diverso. Ecco come Dio dà la prova della sua potenza a quelli che comprendono.
La spada è la chiave del cielo e dell’inferno; una goccia di sangue versato per la causa di Dio, una notte sotto le armi, avranno maggior valore che due mesi di digiuno e di preghiera. Colui che morrà in battaglia, otterrà il perdono dei peccati, nell’ultimo giorno le sue ferite saranno rosse come il vermiglio, profumate come il muschio, ed ali d’argento e di cherubino terranno il posto delle membra che avrà perdute.

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I successori di Maometto e le loro grandi conquiste

Raccolto a Medina un nucleo di fedeli, Maometto potè rientrare trionfalmente alla Mecca nel 630, dopo aver sanguinosamente vinto i suoi avversari. Cominciava la guerra santa.
Quando il Profeta morì (632), quasi tutta l’Arabia era convertita all’Islamismo e le tribù, prima divise, formavano un saldo organismo politico, militare e religioso. I suoi successori si chiamarono Califfi; i primi furono elettivi, poi si fondò una dinastia.
La marcia degli Arabi si sviluppò in due direzioni: ad occidente, verso l’Africa mediterranea; a nord e a oriente, verso la Siria, l’Asia Minore e il Regno di Persia. Essa fu favorita dalla debolezza in cui si trovavano allora i due stati vicini: l’Impero d’Oriente e il Regno di Persia.  Il primo perdette parte dei territori, il secondo si sfasciò.
Conquistata tutta l’Africa mediterranea, l’anno 711 gli Arabi varcarono lo stretto che la separa dalla Spagna e che, dal nome del loro condottiero, fu chiamato Gibilterra (Gebel-el-Tarik, cioè monte di Tarik), cozzando contro il regno dei Visigoti. In due anni questo crollò: i Visigoti superstiti ripararono nelle Asturie, una regione montagnosa lungo la costa settentrionale della penisola iberica. Né l’impervia catena dei Pirenei arrestò la formidabile espansione degli Arabi, che irruppero in Francia. Ma un valoroso duca franco, maggiordomo del re, Carlo Martello, li sconfisse a Poitiers (732), ricacciandoli al di là dei Pirenei.
Nel giro di un secolo, dopo la morte del Profeta, gli Arabi avevano costituito un immenso impero che dall’India si estendeva fino alle coste dell’Atlantico, dai Pirenei al Mar Nero e dal lago d’Aral giungeva fino al deserto del Sahara e all’oceano indiano.
In Asia, il loro dominio confinava col grande impero cinese.

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La civiltà araba: agricoltura, commercio, industria

Nei primi tempi della loro espansione, gli Arabi recarono gravi danni alle civiltà conquistate, perchè saccheggiarono  e distrussero opere utili ed opere artistiche. Si deve a loro la distruzione completa della Biblioteca di Alessandria.
Ma ben presto essi sentirono interesse ed ammirazione per le civiltà dei popoli con cui erano venuti il contatto, e le assorbirono apportandovi anche originali contributi.
Agricoltura, industria e commercio fiorirono rapidamente in tutti i paesi conquistati, promuovendone la ricchezza.
Nuove piante furono introdotte e diffuse nel bacino del Mediterraneo, come l’arancio, la palma, l’albicocco, il cedro, il carciofo, l’asparago, lo zafferano, il riso, il cotone, ecc…
Sistemi ingegnosi di irrigazione furono attuati in Spagna meridionale e nella Sicilia, che diventò allora un giardino fiorente; ancora restano celebri avanzi di pozzi, acquedotti, bacini.
Nelle regioni d’Oriente gli Arabi appresero la fabbricazione di eleganti tessuti, la lavorazione del cuoio, dei metalli, del vetro, dell’avorio e del legno.
Le armi di Damasco e di Toledo, i leggeri tessuti di Mosul (mussoline), le sete, i broccati, i tappeti di Damasco, il cuoio del Marocco, i mobili intarsiati in avorio, le vetrerie, i vasi, le lampade di Baghdad e di Cordova costituirono i più raffinati prodotti al mondo tra l’VII e il XII secolo.
Tutta questa produzione industriale era alimentata dalla facilità degli scambi. Provvisto di porti numerosi, dotato di una flotta potente e di antiche e regolari vie carovaniere, l’Impero arabo era intermediario tra l’Occidente e l’Estremo Oriente. Molte parole della nostra lingua, che riguardano la navigazione ed il commercio, sono derivate dall’arabo (arsenale, ammiraglio, fondaco, dogana, magazzino, ecc…).
Mentre nell’Europa cristiana le maggiori città andavano decadendo e la vita economica si restringeva nelle curtis, gli Arabi crearono ovunque nuove città o impressero una floridezza nuova a quelle già esistenti.

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La ricchezza degli Arabi poveri

Gli Arabi poveri raramente erano tanto poveri da non possedere nemmeno questa semplice ricchezza: un cammello o, meglio un dromedario.
Esso dava loro nutrimento, con la sua carne, il latte e i prodotti che da questo ne ricavavano. Il suo pelo serviva per la tessitura delle tende e delle vesti. Persino il suo sterco veniva raccolto e usato come eccellente combustibile. Il cammello era prezioso come mezzo di trasporto. Alla resistenza dell’animale, alla sua sobrietà, che lo fa star contento delle erbe della steppa, e che gli permette di star giorni interi senza bere, si deve se le grandi distese desertiche non sono state per i beduini un ostacolo insormontabile e se essi hanno potuto regolarmente varcarle con le loro carovane, con gli eserciti, con conseguenze di grande portata per la storia politica, economica e culturale.
(M. Guidi)

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I musulmani e la schiavitù

Tra i musulmani la schiavitù era abbastanza diffusa, limitatamente però ai lavori domestici: gli Arabi non avevano grandi proprietà terriere in cui occorresse il lavoro degli schiavi. La religione considerava atto di pietà la liberazione di uno schiavo musulmano; considerava un dovere, invece, la riduzione in schiavitù dei nemici. La dura sorte di venir venduti come schiavi toccò, così, anche a molti europei, catturati in battaglia, o durante le scorrerie degli Arabi lungo le coste, o in seguito alle imprese dei pirati arabi che molestavano il traffico delle navi degli “infedeli” nel Mediterraneo.
Se i prigionieri erano di buona famiglia, ed esisteva la speranza di un buon riscatto, anziché venduti sui mercati erano restituiti alle famiglie dietro pagamento di una grossa taglia. C’è da dire che i padroni arabi non erano duri con gli schiavi. I più colti praticavano la virtù della misericordia, raccomandata dal Corano, anche nei loro confronti. Quando poi, in Spagna, gli Arabi vennero sconfitti dalle forze della nascente potenza spagnola, toccò a loro essere venduti come schiavi, dove venivano adibiti ai servizi domestici. Molti villaggi, in Liguria, sono sorti in cima alle colline proprio per essere al riparo dalle scorrerie arabe.

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La cultura araba

Magnifico sviluppo ebbe l’architettura, dalle linee armoniose e dalla ricchissima colorazione policroma. I più bei monumenti sono: il palazzo dell’Alhambra a Granata e l’Alcazar a Siviglia. Non ebbe invece grande sviluppo la pittura per il divieto, posto da Maometto, di rappresentare dio in figura umana, allo scopo di impedire il ritorno degli Arabi all’idolatria: in compenso fiorì l’arte decorativa col bizzarro, caratteristico stile degli arabeschi. Tra le opere letterarie, celebre è la raccolta di novelle “Le mille e una notte”.
Nel campo delle scienze, partendo dalle conquiste dei Greci e dei popoli orientali, gli Arabi fecero molti progressi: crearono l’algebra, diedero nuova forma al calcolo con l’uso delle cifre arabiche, introdussero lo zero, posero le basi della chimica moderna; la geografia, l’astronomia, la medicina e la chirurgia ebbero da loro contributi nuovi.
Ma la civiltà araba, dopo aver raggiunto il suo massimo sviluppo tra il X e il XII secolo, si arrestò e decadde.

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Le mille e una notte

Le mille e una notte sono una raccolta di fiabe e novelle arabe famose in tutto il mondo. La cornice favolosa è data dalla leggenda della principessa Sheherazade, che per mille e una notte intrattenne il Sultano con i suoi racconti, ottenendo dalla sua curiosità il continuo rinvio della morte cui era condannata.
Al termine dei racconti, il Sultano si riconcilia con lei, ritira la condanna e dà una grande festa. Il libro è pieno di magie, stregonerie, trasformazioni di uomini in animali e viceversa, strumenti fatati (la lampada di Aladino, il tappeto volante e così via). Ma è anche ricchissimo di descrizioni della vita araba nella splendida capitale e nella reggia di Baghdad o nei vicoli del Cairo, dove si aggira una folla pittoresca di facchini, comari, artigiani, mariuoli, avventurieri.
Negli straordinari viaggi del marinaio Sindbad rivive l’epopea di qualche Ulisse arabo nei mari d’Oriente. Principi, mercanti, navigatori, studiosi, poeti, uomini del popolo sono i personaggi di una commedia umana che ha per noi il valore di un grande documentario dei costumi e della mentalità degli Arabi nel periodo di maggior splendore della loro civiltà.

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Le armi degli Arabi

Le spade caratteristiche degli Arabi erano ricurve: spesso le lame erano finemente lavorate con intarsi d’oro e d’argento e i foderi erano ornati di pietre preziose. I soldati erano armati poi di giavellotto e di lunghe lance orante di criniere di cavallo, e portavano uno scudo piuttosto piccolo.
Usavano un elmo con nasale e gorgiera di maglia di ferro per riparare il collo e il naso. Gli uomini indossavano il Kaftan, cioè un ampio mantello di lana e portavano lunghe braghe, strette alle caviglie. Si coprivano il capo con il turbante.

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L’incendio della biblioteca di Alessandria d’Egitto

Amru, generale del califfo Omar, conquistò l’Egitto. Entrato in Alessandria, dove ancora esisteva al famosa biblioteca, in cui i Tolomei avevano raccolto tutte le opere dei Greci antichi, Amru, che stimava le scienze e il letterati, fece amicizia con un dotto greco, di nome Giovanni. Si narra che questi volesse approfittare dell’amicizia che aveva con lui per salvare la biblioteca di Alessandria, ricca di ben 600.000 volumi e lo supplicasse di conservarla.
“Io non posso rispondere di nulla ” disse Amru “senza aver ottenuta l’approvazione dell’imperatore dei fedeli”.
Ne scrive pertanto al califfo, il quale gli dà questa risposta: “Se i libri di cui parli non contengono ciò che è nel libro di dio, essi sono inutili, falli bruciare; se non si accordano, essi sono dannosi, falli bruciare”.
Amru a malincuore obbedì scrupolosamente all’ordine del califfo.
(Manaresi)

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I pirati arabi distruggono un’abbazia

I monaci benedettini di Montecassino e di San Vincenzo al Volturno si incontravano spesso per feste religiose. In una di queste, che aveva raccolto il popolo delle due badie, avvenne un tremendo massacro. Assaliti dalle orde dei Saraceni che erano risaliti dal litorale di Castel Volturno, furono asserragliati, massacrati e sgozzati; massacro di un esercito inerme preso al laccio dal nemico in una gola di monti senza scampo. La basilica, le chiese furono depredate e incendiate, con grande lutto per la fede e per l’arte. Una traccia resta ancora nell’oratorio di San Lorenzo, unica chiesa superstite ma non indenne.

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Gli Arabi in Sicilia

La Sicilia, passata dal governo tirannico di Bisanzio a quello più illuminato degli Arabi, fece enormi progressi intellettuali ed economici, i cui benefici effetti si risentirono con le altre dominazioni.
Gli Arabi, bravi agricoltori, curarono i boschi, i corsi d’acqua, la piantagione di alberi fruttiferi, la coltivazione delle ortaglie e del cotone, introdussero in Sicilia la coltivazione della canna da zucchero e degli agrumi, oggi grande ricchezza dell’isola. Divisero le grandi estensioni di terreno in tante piccole proprietà.
Palermo divenne, assieme ad altre, una bella, popolosa, ricca città.

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Parole arabe in italiano

Molto spesso, parlando di qualche cosa, noi usiamo, senza saperlo, parole che sono state introdotte nella nostra lingua da un grande popolo del passato: gli Arabi.
Zucchero, per esempio, è una parola di derivazione araba, come arabe sono le parole cotone, magazzino, almanacco, ammiraglio, albicocca, denaro, divano, materasso e molte altre. Queste stesse parole sono presenti anche in altre lingue europee.
Per esempio, dalla parola araba sukkar deriva l’italiano zucchero, lo spagnolo azucar, il francese sucre , l’inglese sugar, il tedesco zucker.

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I cavalli, orgoglio degli Arabi

Gli Arabi non avevano grandi mandrie di bovini, ma pecore e cammelli, asini e cavalli.
I cavalli erano il loro orgoglio, animali svelti, alti e ben proporzionati, di temperamento nervoso e velocissimi.
I migliori provenivano dall’altopiano di Nedshd; e in tutto l’Oriente erano considerati il più nobile prodotto della natura; in realtà erano il risultato di un accurato allevamento.
Il cavalo ebbe fin dall’inizio una notevole importanza nella storia e nelle leggende dell’Islam.
Lo stesso Maometto, che non era un beduino, ma un cittadino, fin dalla prima giovinezza aveva avuto gran confidenza con gli animali.
Da bambino aveva accompagnato suo zio in un viaggio in Siria, e più tardi guidò egli stesso carovane di mercanti attraverso il deserto, al servizio di una ricca vedova attempata che possedeva alla Mecca un’impresa di trasporti e che poi divenne sua moglie.
Probabilmente faceva i suoi viaggi di affari su di un cammello, o su un asino, ma quando diventò conquistatore, e si coprì di gloria, ebbe un focoso destriero, anche per le sue missioni spirituali.
I suoi fedeli raccontano che sul suo cavallo miracoloso, Barak, guidato dall’arcangelo Gabriele cavalcò nella santa notte dalla Mecca al Tempio di Gerusalemme e di là salì in cielo.
Presso la rupe dalla quale il cavallo aveva spiccato il volo verso il cielo, il secondo califfo Omar al-Khattab, al posto del Tempio di Salomone fece erigere la grandiosa moschea che porta il suo nome.
Ciò nonostante, Omar fece il suo ingresso a Gerusalemme come semplice beduino, su un cammello che portava un sacco di biada, un altro di datteri e una borsa di cuoio con acqua da bere.
I successi militari degli Arabi sconfinavano nel prodigioso.
Con piccole squadre di cavalieri sottomisero i più grandi regni. I Persiani cercarono di trattenerli con un considerevole corpo di elefanti, ma dopo una lotta durata tre giorni, la battaglia degli elefanti di Kadesia si risolse a favore dei lancieri arabi; trecento arabi e settemila berberi presero la Spagna; solo a Poitiers, nel centro della Francia, la cavalleria araba fu bloccata per la prima volta.
(Morus)

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Il grande viaggio

La morte non atterriva gli Arabi, perchè essi sapevano che nell’aldilà esiste un dio giusto che premia chi ha vissuto con fede e ha sempre compiuto il bene. Perciò, quando un Arabo doveva intraprendere un lungo viaggio, metteva nel suo bagaglio anche il lenzuolo candido che avrebbe fatto da sudario. Durante il cammino, se l’Arabo si sentiva male e comprendeva che non aveva ormai più molto da vivere, avvertiva i compagni e si faceva dare un’ultima fiasca d’acqua. Poi si allontanava in solitudine. Scavava la sua fossa, con l’acqua faceva le ultime abluzioni rituali, recitava le preghiere e infine si sdraiava serenamente nella buca, in attesa della morte. Non si preoccupava per la sepoltura: avrebbe pensato il vento del deserto ad accumulare in poche ore la sabbia sulla sua fossa.

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Inferno e paradiso
Certamente noi preparammo ai cattivi il fuoco che li circonderà di un turbine di fumo, e, se chiederanno aiuto, avranno acqua che brucerà loro la faccia come se fosse rame fuso. Ma a quelli che avranno invece creduto e operato con rettitudine, non lasceremo mancare il premio dei giusti. Avranno i giardini del Paradiso, saranno adorni di bracciali d’oro  e vestiti di abiti verdi di seta preziosa intessuta d’oro e di una sopravveste splendente.

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Dal Corano

Dio ha creato per voi il bestiame; esso vi dà calore  e profitto, vi dà nutrimento. La sera quando le bestie tornano alla stalla, la mattina quando vanno al pascolo, sono per voi uno spettacolo bello da vedere. Trasportano i vostri carichi a paesi che non raggiungereste senza affanno e fatica, poichè il Vostro Signore è buono e pietoso. Egli ha creato cavalli, muli ed asini per cavalcatura e per ornamento, e altre cose che non conoscete neppure.
A Dio appartiene quanto è nei cieli e sulla terra: Egli è colui che basta a se stesso… e se tutti gli alberi della terra fossero penne, ed al mare fossero aggiunti sette mari, tutti d’inchiostro, non si esaurirebbero scrivendo le parole di Dio. Certo Egli è potente e saggio…

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La Sicilia sotto gli Arabi

La Sicilia fu governata da un Emiro (Balì) che dipendeva giuridicamente dall’Emiro di Kairouan, ma che, eccezion fatta per l’interpretazione dei dogmi, esercitava un governo assoluto. Palermo fu la capitale del nuovo stato. Dall’Emiro dipendevano i Cadì, che amministravano le città importanti, e funzionari minori.
Dopo gli atti violenti della conquista, gli Arabi divennero miti, e il loro governo fu tutt’altro che gravoso. L’isola fu divisa in tre province o valli: Mazara (anche oggi, Mazara del Vallo), Demone e Noto. In generale, Val Demone (Sicilia nord orientale) formata dalle catene dei Peloritani e dei Nebrodi e dall’Etna, tutta aspre valli ed impervie montagne, rimase indipendente di fatto, con municipalità locali; Val di Noto (Sicilia sud orientale) fu resa tributaria; a Sicilia centrale e occidentale, Val di Mazara, era veramente suddita. I beni ecclesiastici e demaniali vennero confiscati dal governo musulmano, ma i cittadini, pur perdendo ogni autorità politica, continuavano a vivere secondo le proprie leggi e costumi, godevano pienamente il diritto di proprietà, potevano praticare la loro religione.
La legge musulmana proteggeva le persone e gli averi con le medesime sanzioni penali per i musulmani, e ammetteva ogni contrattazione civile tra loro e i dominatori, anche i lasciti per testamento.
Tutti gli uomini liberi, di qualsiasi grado, erano davanti ai vincitori ragguagliati in un’unica condizione, detta dsimma. I dsimmi (sudditi o umiliati) erano sottoposti a vari divieti: non potevano portare armi né andare a cavallo, né bere vino in pubblico, né celebrare pompe funebri; la loro condizione di inferiorità, indicata esteriormente con un segno sulla porta di casa e sul vestito, si rivelava dall’obbligo di cedere per strada il passo ai musulmani e di alzarsi nei ritrovi quando entrava un musulmano.
In complesso, al condizione fatta dagli Arabi ai vinti non fu eccessivamente gravosa. Per questo e per l’odio verso l’antico dominate bizantino, i Siciliani non si ribellarono e la signoria araba si consolidò; occorrerà una forza proveniente dall’esterno, i Normanni, per abbatterla.
La Sicilia sotto i Musulmani fiorì di commerci e di industrie. Come Cordova, in Spagna, Palermo fu uno dei centri principali della civiltà araba: nel secolo X contava circa 300.000 abitanti ed era ricca e festosa. Con essa gareggiavano Catania, Messina, Siracusa, Castrogiovanni.
L’agricoltura fu favorita dallo spezzettamento del latifondo: molte grandi proprietà del dominio bizantino o della Chiesa, confiscate dal governo musulmano, furono in parte divise tra i conquistatori, in parte date in affitto o in enfiteusi.
Maometto aveva stabilito che chiunque rendesse una vita alla terra incolta, ne divenisse proprietario. Questo favorì il dissodamento e la coltura intensiva di terre abbandonate. Gli Arabi introdussero nell’isola piante e metodi di coltura che avevano appreso in Oriente: agrumi, fichi d’India, palme da dattero, gelso, cotone, canna da zucchero, ecc., e seppero regolare il corso dei fiumi con sapienti lavori idraulici.
La lingua e la cultura indigena non vennero soffocate, anzi valorizzate e arricchite dalla cultura greco orientale, di cui gli Arabi furono mediatori.

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La tecnica araba

Gli Arabi furono i primi ad iniziare un’applicazione più sistematica della ruota ad acqua e del mulino a vento.
Mentre nel mondo classico la ruota ad acqua non ebbe mai un’importanza particolare, gli Arabi ne fecero una delle loro principali risorse.
In Mesopotamia essi adottarono una ruota a pale galleggianti su chiatte ancorate alle rive del Tigri, per dare energia ai mulini, alle fabbriche di carta e ad altri macchinari, dove fecero grande uso di ruote dentate di legno e di altri congegni di trasmissione dell’energia.
Riferisce un antico storico che “… nell’Afghanistan tutti i mulini a vento sono mossi dal vento del nord e quindi orientati in questa direzione. Applicate ai mulini a vento vi sono delle file di persiane che vengono chiuse o aperte per trattenere o immettere il vento. Infatti, se questo è troppo forte, la farina brucia e diventa nera e la stessa macina può surriscaldarsi e guastarsi.”
Questo nuovo modello di mulino a vento è dovuto agli Arabi.
Nell’epoca d’oro della civiltà islamica (900-1.000) una serie di scienziati fece progredire la tecnica chimica studiando attentamente sostanze organiche e inorganiche, grazie allo sviluppo di strumenti scientifici.
Lo scienziato arabo Al-Biruni usò il suo picnometro per determinare il peso specifico di molti minerali e pietre preziose.
Uno degli strumenti maggiormente diffusi nel  mondo arabo fu l’astrolabio.
Risale certamente a Tolomeo e ad altri astronomi ellenistici, ma gli Arabi lo perfezionarono fino a farne uno strumento utile e di impiego universale per la misurazione degli angoli e il calcolo delle posizioni dei corpi celesti.
Gli Arabi furono anche famosi per l’arte del vasellame e specialmente per gli smalti lucenti e colorati applicati alle terraglie.
Quei recipienti smaltati, molti dei quali a prova di fuoco, erano particolarmente adatti agli esperimenti tecnici.
Il miglioramento della qualità del vasellame aiutò grandemente i chimici arabi ad intraprendere una produzione su larga scala di certi prodotti chimici.
Essi inventarono i forni cilindrici o conici, in cui venivano poste file di alambicchi per la produzione di acqua di rose o di nafta (benzina) per la combustione dei gas.
Nel 1085 un incendio nella cittadella del Cairo distrusse non meno di 300 tonnellate di benzina. La produzione di quantitativi così ingenti era possibile soltanto con il suddetto metodo.
Città come Damasco erano, secondo testi antichi, centri di produzione e distillazione.
Gli  Arabi si interessarono anche alla produzione di tessili.
Come certi nomi di sostanze e apparecchi chimici (quali alcali, antimonio, alambicco), passarono dalla lingua araba alla nostra, anche molti nomi arabi di tessuti furono adottati da noi.
Così il damasco, ad esempio, deriva originariamente da Damasco, e la mussola da Mosul, mentre la parola taffetà deriva dal persiano taftah e il fustagno, una stoffa famosa nel Medioevo, da Fostat, un sobborgo del Cairo.
Il sorgere di un’industria araba della carta fu dovuto ai contatti con la Cina.
Nel 793 sorgeva a Baghdad la prima cartiera. Ben presto l’uso della carta divenne così diffuso, che intorno all’800 troviamo scrivani che si scusavano se per stendere le lettere dovevano ricorrere ancora al papiro.
Verso il 900 si introdussero a Baghdad formati standard di carta e se ne fabbricarono qualità assai leggere, che servivano per la posta aerea di allora, cioè il servizio dei piccioni viaggiatori.
L’industria della carta era strettamente connessa con quella della legatura dei libri, nella quale eccellevano gli Arabi.
Essi facevano bellissime copertine di cuoio lavorato a mano e decorato d’oro.
Gli Arabi per primi escogitarono un procedimento di raffinazione dello zucchero, e speciali procedimenti per l’estrazione dei profumi dai fiori.
E’ di quei tempi l’introduzione su larga scala delle armi chimiche.

ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture
Il Corano

La dottrina di Maometto è contenuta nel Corano. Corano (“lettura, recitazione”) è l’insieme delle recitazioni pronunciate da Maometto come profeta che si riteneva ispirato dalla rivelazione divina, le quali, raccolte dai suoi ascoltatori, vennero riunite dopo la sua morte.
Il Corano è completato dalla Sunna, ossia dalla condotta pratica del Profeta, come risulta dai sui detti e atti tramandati dalla tradizione.
Il dogma musulmano è assai semplice. L’unità e l’onnipotenza di Dio (Allah), la vita futura con pene e ricompense, la missione divina di Maometto: questi sono gli articoli di fede.
Allah comunica con gli uomini mediante la rivelazione, trasmessa per mezzo dei profeti: ogni popolo ha il suo profeta, ogni epoca il suo libro sacro.
Tra i grandi profeti che hanno preceduto Maometto è Gesù: Maometto, l’ultimo venuto tra i profeti, è il profeta per eccellenza, ha apportato la rivelazione definitiva.
Dopo la morte l’uomo deve rendere conto delle sue azioni: i reprobi e gli infedeli verranno precipitati nella Gehenna, ove saranno tormentati; ai veri credenti, ai giusti è invece riservato il paradiso, le cui delizie saranno eterne.
Per meritare le gioie del paradiso l’uomo deve avere fede e sottomissione assoluta ad Allah, non deve mai rappresentarlo sotto forme visibili, deve obbedire alla sua legge, diffonderla per il mondo anche con le armi, compiere le pratiche essenziali del culto (preghiere, abluzioni, pellegrinaggi), fare elemosina.
La carità è stretto obbligo per i Musulmani. La morale è intimamente legata alla religione: il Corano condanna l’avarizia, la menzogna, l’orgoglio, la malvagità; proibisce vino e gioco, i due vizi favoriti dagli Arabi, raccomanda la modestia, la castità, la rettitudine, la pazienza, l’umiltà, e soprattutto la carità.
I credenti sono tutti fratelli: gli ebrei e i cristiani potranno, pagando tributo, professare la propria fede.
Il Corano permette più mogli, ma la monogamia è considerata preferibile; proibisce l’infanticidio; protegge i deboli, gli orfani, gli schiavi.
Si può quindi affermare che la legislazione del Corano abbia costituito per gli Arabi un effettivo progresso.
Per il Musulmano il Corano è ciò che la Bibbia è per il popolo ebraico: il libro per eccellenza, che sta al di sopra di ogni altro libro per il suo carattere sacro.
Quando vengono letti  ad alta voce i versetti del Corano, tutti i presenti devono osservare un assoluto silenzio e nessuno può permettersi di bere o di fumare. In parecchi luoghi era consuetudine insegnare ai bambini inferiori ai dieci anni i 6.200 versetti a memoria, ridotti poi, nelle scuole di tipo più moderno , ad una scelta antologica che non affatichi tanto la memoria.
L’unicità di dio è continuamente ribadita nel Corano: “Egli è Dio; non ci è altro Dio che Lui, conoscitore del visibile e dell’invisibile, il misericordioso, il compassionevole! Egli è Dio, non v’è altro Dio che Lui, il re, il santo, il pacificatore, il fedele, il custode, il potente, il dominatore, il grandissimo”.
Ci sono versetti che esortano a confidare nella sapienza di Dio, che ha fini ben precisi da realizzare: “Non disperare dello Spirito di Dio”; “Non pensare che Dio sia immemore di coloro che commettono ingiustizie”.
Anche nel Corano, come nella tradizione cristiana e presso altre religioni, si possono trovare espressioni quasi proverbiali che aiutano la gente modesta, a portare il peso del vivere con rassegnazione e con totale fiducia in Dio: “Dio non aggrava un’anima più di quanto essa non possa sopportare”; “Se la tentazione da parte di Satana ti inducesse al male, cerca rifugio in Dio che tutto ascolta e conosce”; “Nessuna anima porterà il peso di un’altra”.
(L. Salvatorelli)

ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Osserviamo la cartina

Confini: Francia, Svizzera, Piemonte
Monti: Alpi Occidentali (Graie) e Centrali (Pennine)
Cime più alte: Gran Paradiso, La Grivola, Monte Bianco, Cervino, Monte Rosa
Valli: della Dora Baltea, con le valli laterali. A sud: Veny, La Thuile, Valgrisanche, di Rheme, di Cogne. A nord: Ferret, del Gran San Bernardo, Valpelline, Valtournanche, d’Ayas, di Gressoney
Valichi: Piccolo San Bernardo, Col Ferret, Gran San Bernardo
Fiumi: Dora Baltea (nel suo corso superiore).

La Valle d’Aosta, la più piccola e montuosa regione d’Italia, è il regno delle cime inaccessibili, delle nevi perenni. Il Gran Paradiso, il Monte Bianco, il Cervino, il Monte Rosa sono nomi noti agli alpinisti di tutto il mondo. DA queste vette lo sguardo scende verso la valle operosa, percorsa dalla Dora Baltea. Il fiume scorre tra dolci declivi, raccogliendo le acque dei torrenti che scendono dalle valli collaterali.
La Valle d’Aosta è famosa, oltre che per le sue montagne, anche per i numerosi castelli medioevali, meta continua di visitatori.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Vita economica

L’economia della Valle d’Aosta si basa principalmente sull’industria dell’energia idroelettrica, prodotta dalle imponenti centrali scaglionate lungo le valli.
Miniere di carbone sopra La Thuile, e di ferro sopra Cogne, alimentano ferriere ed acciaierie. Nella Valtournanche si estrae marmo serpentino.
Estesi pascoli favoriscono l’allevamento di bovini ed ovini; abbondante quindi è la produzione di latticini (fontina della Val d’Aosta).
Fiorente è l’industria turistica della valle; gli appassionati della montagna e degli sport invernali frequentano assiduamente le migliori località di soggiorno della Valle ed i rifugi alpini, situati ad altissime quote.
Il capoluogo della regione è Aosta, città antichissima, fondata dall’Imperatore Augusto, da cui prese il nome.
Con tutto il suo territorio la Valle d’Aosta forma una regione autonoma, governata da un parlamento detto Consiglio della Valle.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Per il lavoro di ricerca

Chi furono i primi abitanti di Aosta?
A quale epoca risale la fondazione della città?
Con quali province e con quali stati confina la Valle d’Aosta?
Da quale fiume è attraversata l’intera regione?
Quali fiumi e quali torrenti si gettano nella Dora Baltea?
Com’è il clima?
Quali importanti gruppi di montagne comprende?
Quali sono le vette principali?
Quali passi, valichi, trafori mettono in comunicazione la Valle d’Aosta con la Francia e con la Svizzera?
Quali sono le maggiori risorse economiche della regione?
Conosci qualcuno fra i costumi più famosi della Valle d’Aosta?
Hai già sentito parlare della funivia dei ghiacciai?
Che cos’è il Parco Nazionale del Gran Paradiso?
Nell’interno del Parco Nazionale, sono permesse la caccia, il taglio delle piante e la pesca?
Ricerca notizie sul Monte Rosa e sul Cervino.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Sulle ali della fantasia

Numerosissime sono le leggende create dalla fantasia ed ispirate dall’animo poetico dei valligiani. Molte di esse hanno per protagonista il diavolo. E non poteva davvero il diavolo mancare nella tradizione popolare valdostana. Il diavolo, infatti, rappresenta uno dei termini della lotta tra il bene e il male: l’altro è rappresentato dall’angelo e dal santo.
Rivive in questi contrasti, che la fantasia popolare abbellisce con le pittoresche e ingenuo integrazioni, un atteggiamento caro alla poesia medioevale, anche alla poesia di Dante.
E nella Valle d’Aosta, in cui la solitudine antica dei monti sembra creare l’ideale luogo per l’ascesi dello spirito, il dramma tra il bene e il male si risolve con la vittoria della santità.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – La Valle d’Aosta: sguardo d’insieme

Nel luogo dove i confini dell’Italia, della Francia e della Svizzera trovano il loro punto d’incontro si estende la Valle d’Aosta, la più piccola fra le regioni italiane.
Il nome Valle ne indica solo parzialmente il carattere: in realtà essa presenta in breve spazio tutto ciò che la montagna può offrire di bello, di solenne, di orrido, di affascinante: qui sono le cime più alte, le pareti più vertiginose, i nevai più estesi, i torrenti più impetuosi.
Si esce appena dalla ridente campagna canavesana, l’occhio riposa ancora sul dolce paesaggio morenico, quando entriamo nella vallata centrale che ci apre il paesaggio tra i massicci montuosi e percorre la regione in tutta la sua lunghezza.
L’ingresso è ampio, accogliente, ma la valle non tarda a serrare i suoi bastioni di roccia nella stretta selvaggia di Bard; e subito, come per un pentimento, si slarga di nuovo, concedendo spazio ai coltivi, al corso della Dora vorticosa, torbida, grigia di sabbie. Poi si rinserra repentinamente alla Mongiovetta. La Dora scroscia in una gola profonda e la strada si arrampica su pei dirupi. Nuovamente la valle si allarga dove sorge l’elegante centro turistico di Saint Vincent, su su fino alla conca di Aosta, la piccola capitale. Di qui riprende deciso il dominio delle montagne che stringono sempre più da vicino la strada ed il fiume, ma, a tratti, lasciano spazio ai paesini, ai villaggi e cedono ancora al verde dei prati dell’ultima, stupenda conca di Courmayeur.
La valle, che trae il nome dalla città di Aosta, è come un tronco torto e nodoso da cui si dipartono, a destra e a sinistra, i rami delle valli minori.
Ciascuna di esse è solcata da un torrente che reca il suo apporto di acque alla grande Dora. In alto, fra i picche nevosi, occhieggiano laghetti azzurri, distendono acque increspate dal vento i bacini idrici serrati fra il monte e le altissime dighe.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Lo sai?

Aosta è la romana Augusta Praetoria, fondata nel 24 aC per volere dell’imperatore Cesare Augusto.
Entrèves (frazioni di Courmayeur): in località La Palud, l’arditissima “funivia dei ghiacciai”, inaugurata nel 1057, porta sul Monte Bianco raggiungendo i 3842 metri di altezza (Aiguille du Midi) e scavalca l’imponente massiccio per scendere poi a Chamonix (Francia).
La funivia supera un percorso di quindici chilometri.
Gran San Bernardo: vi è un ospizio di monaci Agostiniani e un allevamento di cani di razza San Bernardo. Questi cani, un tempo, erano impiegati dai monaci per ricercare gli alpinisti sperduti.
Piccolo San Bernardo: verso la fine di settembre del 218 aC vi passò molto probabilmente Annibale, con il suo esercito. Pochi giorni dopo, il generale cartaginese sconfisse una prima volta i Romani, comandati dal console Publio Cornelio Scipione, presso il Ticino.
Gran Paradiso: la zona ospita un Parco Nazionale per la conservazione della flora e della fauna. In questo parco vivono numerosi camosci e stambecchi.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Minerali della Valle d’Aosta

Miniere di ferro a Cogne e miniere di carbon fossile a La Thuile;  cave di pietra da taglio, di granito, di marmo verde; filoni di amianto e di ferro magnetico; giacimenti di rame, manganese, di galena argentifera, di pirite, di cristallo di rocca ed infine il carbone bianco, cioè la grande abbondanza di acqua per l’energia elettrica; sorgenti di acque minerali a Saint Vincent e Courmayeur.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Curiosità

I giacimenti di minerale di ferro più alti d’Europa di trovano a Cogne, in Val d’Aosta a millecinquecento metri sul livello del mare. Vi lavorano circa settecento minatori anche d’inverno, ospitati in un moderno e ben attrezzato villaggio. Annualmente ricavano circa duecentoquaranta mila tonnellate di ferro.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Artigianato

Non c’è angolo della Val d’Aosta che non rispecchi gentilezza, fantasia e non riveli qualche segno dell’umile, delicatissima arte. Qua è una porta estrosamente intagliata, là è una fontana o un balcone dalle forme ingegnosamente sagomate… Il legno dei boschi assume, nelle mani dei Valdostani, gli aspetti più svariati. Da secoli lo lavorano e ne ricavano oggetti graziosissimi, utili e d’ornamento… Armadi, cassettoni, conocchie, pipe, coppe, bastoni, manici per piccozze, oggetti d’arte sacra. Ognuno di questi oggetti è intagliato, decorato, cesellato, arabescato con disegni.
Tutta questa produzione non è soltanto nelle case. Assieme a merletti, trine, tessuti a mano, oggetti di stagno sbalzato ed altre caratteristiche creazioni valdostane, fanno bella mostra di sé in negozi e mercati dove turisti ed amatori li acquistano…

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – In una bottega s’Aosta

Nelle botteghe di Aosta fanno bella mostra numerosissimi oggetti in legno (astucci, ciotole, pipe, piccoli scrigni, bastoni, culle) lavorati con grande, abilità dei valligiani.
Alcuni di questi oggetti finemente intagliati e decorati, hanno un vero valore artistico.
Altri lavori caratteristici sono i merletti, le trine, i tessuti fatti a mano e gli oggetti di peltro.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Il Monte Rosa

Splendida corona alla Valsesia è il Monte Rosa, un imponente massiccio delle Alpi Pennine, il secondo in Europa per altitudine subito dopo il Monte Bianco.
Esso si estende tra il Colle di Teodulo e il Passo del Monte Moro e comprende numerose e gigantesche vette che superano tutte i quattromila metri, come la Punta Giordani, la Piramide Vincent, il Corno Nero, la Punta Parrot, la Punta Gnifetti, la Punta Zumstein, la Punta Dufour, che è la più elevata, e la Nordend.
Bellissime vallate si aprono ai piedi del massiccio, uno dei più conosciuti ed amati delle nostre Alpi.
Scintillanti ghiacciai, e assai vasti, ricoprono i fianchi del Monte Rosa (il Gornergletschern, nel versante svizzero, e, nel versante del Lys, il ghiacciaio dallo stesso nome): la solitudine immensa e il divino silenzio accolgono gli animosi alpinisti che vi si avventurano.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Il Monte Cervino

Nelle Alpi Pennine, ad ovest del Rosa, si erge solitario, al disopra di una meravigliosa cerchia di monti, il capriccioso Cervino. Ha una caratteristica forma piramidale, e l’elegante cuspide aguzza è quasi sempre avvolta da una corona di nubi.
I tentativi di conquistare la vetta durarono quasi un secolo e la prima ascensione fortunata, dal versante italiano, segnò una delle pagine più radiose nella storia dell’alpinismo valdostano.
La scalata del Cervino è tuttora difficile e pericolosa. Le famosissime guide di Valtournanche si addestrano sulle sue levigate pareti.
Il Brocherel (la Valle d’Aosta) dice del Cervino: “La visione del Cervino è sempre affascinante e comprensiva, perchè contenuta nella sintesi di un colpo d’occhio. Ergendosi isolato senza corteo di satelliti, il Cervino avvince ed assorbe l’attenzione per la schematica semplicità delle forme; la mole giganteggia appunto per il taglio netto degli spigoli e la levigatura delle pareti. La bellezza scenografica del Cervino consiste nella composizione geometrica del suo profilo, che possiede uno stile proprio, da qualunque parte lo di guardi.
Da Zermatt il Cervino assume la forma di un immenso cristallo di rocca e le scintillanti incrostazioni di ghiacci rendono ancor più evidente la somiglianza; dal Breuil sembra il torso di un gigante addormentato, la testa sciabolata di rughe, gli omeri fasciati dai drappeggi dei ghiacciai; dal Dent l’Hérens, la sagoma è ancor più affusolata, e sembra un massiccio obelisco, istoriato dai geroglifici delle chiazze di neve”.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Itinerario in funivia sul Monte Bianco

Da Entrèves nella Valle d’Aosta a Chamonix in territorio francese, si può attraversare la massiccia catena del Monte Bianco, salendo fino a quota 3.842 metri (Aiguille du Midi) stando comodamente seduti nei piccoli vagoncini sospesi della funivia. La chiamano “la Funivia dei Ghiacciai”). Ogni tanto, quando un gruppo di carrelli giunge a una delle stazioni terminali, tutto il complesso si ferma e si resta sospesi magari sul ghiacciaio del Gigante o sulla Vallée Blanche, a più di 3.500 metri di altezza, mentre sotto di noi si distendono sconfinate distese candide, picchi solenni, una foresta pietrificata di cime, una fuga vertiginosa di vallate scoscese.
Questa è la Funivia dei Ghiacciai, un’ opera ardita e meravigliosa di ingegneria. Quando la progettarono, sul Colle del Gigante mancavano i sostegni naturali sui quali appoggiare i piloni che dovevano sostenere la grande campata di 5.093 metri fino a Gros Rognon, a 3541 metri di altezza. Allora i costruttori idearono un pilone sospeso, sorretto dalle due parti da un sistema di cavi di acciaio che furono fissati da un lato al Grand Flambeau e dall’altro alle pendici del Dente del Gigante.  L’apparecchiatura, che sostiene al loro passaggio i carrelli, pesa da sola diverse tonnellate e sembra di volare, senza scosse, incantati da quello spettacolo straordinario.
Per chi vorrà poi attraversare le Alpi nello stesso punto, ma facendo a meno di ammirare lo straordinario spettacolo della catena, si è perforato il Monte Bianco in persona! Lungo 11.700 metri, senza superare i 1.500 metri di altezza, il traforo guida gli automobilisti in linea retta e in meno di mezz’ora dall’Italia alla Francia e viceversa. (A. Lugli)

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Il traforo del Monte Bianco

Il traforo del Monte Bianco è la più grande galleria stradale d’Europa e attraversa il monte più alto d’Europa, alto 4810 metri. Il tunnel passa esattamente sotto il ghiacciaio di Toulà, tocca la verticale dell’Aiguille de Toule (che segna il confine tra l’Italia e la Francia; in galleria il confine è indicato da due grandi cartelli), attraversa il Ghiacciaio del Gigante, la Vallée Blanche e tocca infine la verticale dell’Aiguille du Midi, per ridiscendere sotto il ghiacciaio des Pelerins. Per la realizzazione del traforo sono state impiegate sei milioni e trecentomila ore lavorative, pari a circa ottocentomila giornate lavorative. In cantiere si sono trovati fino a seicento tra operai e tecnici. (A. Selmi)

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Guide valdostane

Essendo uomini della montagna, sono per natura schivi, rifuggono istintivamente dai clamori e dal chiasso che circondano tanto spesso i personaggi più in vista.
Sono coraggiosi e forti, profondamente buoni e generosi, sempre pronti a correre là dove qualcuno si trova in pericolo, disposti ad ogni sacrificio, fosse pure quello della vita, che del resto tanto spesso mettono a repentaglio, quando la necessità lo richieda. Ma, appena la loro presenza non è più necessaria, quando tutto è tornato normale e ogni pericolo è svanito, si eclissano silenziosamente, quasi si adombrassero dei ringraziamenti e delle lodi che si vorrebbero loro tributare.
Innamorati delle loro belle montagne, ne hanno assorbito lo spirito, rude e fiero in apparenza, nel fondo estremamente generoso, gentile e sensibile: ne è una dimostrazione evidente questa loro ritrosia, che non vuole mettere in imbarazzo nessuno, che inconsciamente vuol conservare agli atti eroici la purezza che li ha ispirati.
Tali sono le famose guide valdostane.
E anche noi, che comprendiamo ed apprezziamo la delicatezza del loro spirito, rispetteremo il loro desiderio di rimanere nel buio, accontentandoci di dire che li abbiamo ammirati tante volte, che li ammiriamo tuttora per il loro coraggio, per la loro silenziosa abnegazione, che spesso rasenta e raggiunge le vette del più sublime eroismo.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Il Parco Nazionale del Gran Paradiso

Una delle gite più interessanti che si possono fare sulle Alpi Piemontesi è quello che ha come meta il Parco Nazionale del Gran Paradiso. Entriamo in un regno meraviglioso, perchè qui tutto è rimasto intatto con piante, fiori, animali, uccelli ed insetti protetti contro ogni sovversione o modifica che la mano dell’uomo vi può apportare.
Una legge apposita del governo italiano, che risale al 1922, ha stabilito pene severissime per chi intacca il patrimonio vegetale ed animale di questa zona, diventata zona di protezione o, come si suole chiamare, Parco Nazionale.
Esso comprende il massiccio del Gran Paradiso ed alcuni territori dei comuni di Ceresole Reale, di Locana, di Cogne, di Valsavara, di Ronco Canavese e di altri, compresa l’ex riserva di caccia dei Savoia. Il perimetro del Parco è segnato da cartelli indicatori.
Nell’interno è vietato qualsiasi genere di caccia e uccellagione, la pesca, il taglio di piante, le iscrizioni, i cartelloni pubblicitari e qualsiasi altra deturpazione delle bellezze naturali. E’ perfino vietato l’ingresso con cani e il campeggio.
Tutto questo a quale scopo?
Perchè sia salvo, almeno in qualche angolo del nostro stupendo arco alpino, il paesaggio naturale quale doveva apparire un tempo quassù, prima che l’uomo iniziasse con la caccia e il diboscamento la trasformazione dell’ambiente montano. Orma sia al piano che sulle valli del nostro Paese è rimasto ben poco del quadro primitivo e selvaggio di un tempo, ed ancor meno resterà con il progressivo deturpamento di ogni bellezza naturale.
Si ampliano le città al piano, sorgono stabilimenti per ogni dove, si inquinano le acque, si aprono mille strade, si disbosca in modo eccessivo, e così a poco a poco le nostre regioni assumono un volto diverso e ben lontano dal primitivo aspetto. Proprio per arrestare questo lento ma profondo mutamento, sono state istituite varie zone di protezione (parchi del Gran Paradiso, dello Stelvio, degli Abruzzi, del Circeo, …) e non in Italia soltanto, ma in ogni nazione del mondo.
Così nel Parco del Gran Paradiso si è potuto salvare lo stambecco, scomparso da tempo da ogni altro angolo delle Alpi. Lo Stambecco è una grande capra di forme tozze ma robusta, di pelame bruno, folto e ruvido, con corna nodose incurvate all’indietro, vive per lo più oltre il limite superiore della vegetazione arborea. Pascola di notte, e nell’inverno cerca grotte e terrazzi ben esposti al sole, al riparo dalle valanghe. E’ agilissimo e con destrezza di arrampica svelto svelto su cammini e canaloni. Ma nel Parco vivono molti atri animali selvatici, dentro fitte pinete, con un lussureggiante sottobosco: camosci, ermellini, volpi, donnole, marmotte, lepri bianche, faine, martore, tassi, lontre e numerosi uccelli (l’aquila reale, il gufo, il picchio, la coturnice, il fagiano di monte, il gallo cedrone, la nocciolaia, il merlo alpino e tanti e tanti altri).
Una gita a questo Parco è veramente interessante; sembra per un momento di vivere in un altro mondo, lontani dal frastuono delle città e dal rumorio solito di macchine e automobili. La natura, se rispettata, conserva questo incanto, questo arcano potere di avvicinarci alle sue meravigliose bellezze. (C. Verga)

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Testimonianze di antiche tradizioni e folklore valdostano

Una gioiosa fiaccolata di giovani annuncia l’arrivo del nuovo anno, cantando davanti ad ogni casa. Sempre a Capodanno (la tradizione è viva in quasi tutta la Valle) i bambini, a gruppi, si recano nelle case a porgere gli auguri e sono affettuosamente accolti e ricevono piccoli doni, di solito caramelle e dolci.
Secondo una tradizione, detta del “baldzor d’an”, nella notte dell’Epifania si scrivono i nomi di tutte le fanciulle e di tutti i giovani del paese du piccole strisce di carta, che poi si mettono in due cassette: una coi nomi delle donne, una con quelli degli uomini. Un bambino estrae, alternativamente, un biglietto dall’una e dall’altra urna, formando così le coppie: e le due strisce, unite assieme, vengono poi sparse il giorno successivo sulla piazza principale del paese…
Durante il Carnevale, ancora ricco di maschere che variano secondo le località, il martedì grasso, a Châtillon, si distribuisce ai poveri una minestra di fagioli e polenta con fontina, il tutto preparato sulla piazza del paese.
La Domenica delle Palme, oltre i rami d’olivo, si fanno benedire anche mele che si ritiene preservino dal mal di gola e dal morso delle vipere.
La vigilia di San Giovanni e di San Pietro in molti paesi della Valle si accendono grandi falò (i “sidora”, fuochi di gioia).
La sera dei Morti si preparano legna ed acqua e si lascia la tavola imbandita per le anime dei defunti… Inoltre la stessa sera, ragazzi e ragazze si riuniscono in due stanze diverse e a turno bevono dalla stessa grolla (una coppa di legno): poi, quando scocca la mezzanotte, bussano ad ogni porta per ricordare che è tempo di preghiera… Se ci si dimenticasse dei morti, vuole la tradizione, si provocherebbe da parte delle anime defunte un rumoroso “tzarivari”, una specie di rumorosa sarabanda che si organizza anche in occasione delle nozze di un vedovo o vedova, servendosi di ogni oggetto che produca gran fracasso…
Durante la notte di Natale i bambini sono soliti appendere, davanti alla porta di casa o alla finestra, piccoli canestri per i doni.
Gentile è l’usanza di conservare con molta cura il cero che viene acceso durante il battesimo dei neonati: questo stesso cero viene riacceso durante le malattie del bambino per affrettarne la guarigione…
Fra i giochi infantili tradizionali, molto praticato nella Valle è il “palet”, simile a quello delle bocce, con la differenza che le bocce sono sostituite da sassi piatti.
Fra gli adulti si gioca allo “tzan” (o cian): si organizzano anche tornei tra paese e paese. Consiste nel lancio di una palla di legno, posta su una pertica, per mezzo di un’assicella (“piota”). Si gioca anche al “piollét” che consiste nel lanciare il più lontano possibile una palla ovale di bosso, appesantita da chiodi di rame e di ottone.
Ma la competizione più famosa e più caratteristica è la “battaglia delle reines” per il conferimento del titolo di “reine de reines”, regina delle regine, che si svolge ad Aosta e a Châtillon alla fine dell’estate fra i campioni bovini (reines) delle varie mandrie, che si sono conquistati il titolo di “reines” durante l’alpeggio estivo.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – La leggenda del monte Rutor

Vi fu un tempo, assai lontano, in cui le cime e le conche del Rutor erano ricoperte di una vegetazione lussureggiante.
Un giorno un saggio, travestito da povero, andò ai pascoli del Rutor per provare il cuore del ricco proprietario, le cui uniche mucche pascolavano sparse a migliaia sull’immenso pianoro.
Quando egli si presentò, umile e supplichevole sulla soglia di casa, il padrone stava osservando i suoi servi i quali riempivano di latte un tino di straordinaria grandezza. Nessuno badò all’infelice che attendeva sulla porta.
Allorché il recipiente fu pieno, il padrone disse, brutalmente, rivolgendosi al poveretto: “Chi sei e ce cosa vuoi, tu che ci togli la luce, standotene così davanti alla mia porta?”
“Un po’ di latte per ammorbidire il mio pane, e avrete luce per l’eternità” rispose il povero.
Uno scoppio di risa interruppe le sue suppliche. Disse il ricco dal cuore di pietra: “Ah, sì? Ebbene, ascoltami: piuttosto che dare una scodella di latte a un vagabondo come te, spanderò tutto il contenuto del tino sull’erba del prato!”
Detto ciò, ordinò ai suoi servi di spandere il latte proprio sopra il prato, che si estendeva davanti alla casa.
I servi per un po’ esitarono, ma alla fine, timorosi dello sguardo infuriato del loro padrone, obbedirono. Il tino fu capovolto e il latte, sparso interamente, colò sui pendii del pianoro in ruscelletti bianchi che scesero lontano, gorgogliando.
Il riccone, intanto, guardava con aria malvagia e trionfante il povero. E questi mormorò con tristezza, osservando la prateria inondata di latte: “Guarda come biancheggiano i più lontani prati…”
Poi, alzando gli occhi in alto aggiunge: “E già arrivano le nubi…”
Il ricco montanaro guardò in alto e vide delle enormi nuvole avanzare rapidamente, simili ad una minacciosa armata. Poi la dolce luce del sole si oscurò. Quando abbassò gli occhi, il ricco si accorse che il poveretto era scomparso.
La notte seguente egli udì spesso risuonare nelle proprie orecchi le ultime parole del mago, cioè del mendicante respinto: “Guarda come biancheggiano i più lontani prati…”
Queste parole non gli davano pace. Alla fine, per sfuggire all’incubo, egli si alzò e guardò dalla finestra. Era l’alba e, lontano, i prati erano tutti bianchi. E nevicava ancora. E nevicò tutto il giorno ed ancora il giorno seguente. E venne il terzo giorno e nevicava sempre e per molto tempo la neve cadde notte e giorno.
L’uomo ricco fu sepolto sotto il bianco lenzuolo di neve, con tutti i suoi beni. E lassù la neve rimase e rimarrà per sempre, fino alla fine del mondo.
Così i bei pascoli verdeggianti dell’uomo ricco sono diventati il ghiacciaio del Rutor, che splende ancora oggi ai raggi del sole.
(J. Favre)

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – La conquista del Cervino

Quattro italiani si trovano sulla Spalla del Cervino, ai piedi dell’ultimo picco. La vetta è ormai vicina. Mancheranno sì e no duecentocinquanta metri. Siamo nel 1865, il 14 luglio, una giornata stupenda senza una nube. Il Cervino è il picco più bello delle Alpi, uno dei più belli del mondo. Poco meno di 4.500 metri. Tutte le altre vette delle Alpi sono state conquistate dall’uomo. Il Cervino non ancora. Il Cervino fa paura. Molti lo ritengono invincibile. Dà la sensazione di un gigante cattivo che non lascerà passare nessuno. Eppure l’uomo ha una voglia immensa di salire lassù. Che cosa ci sarà in cima? Che cosa si vedrà? Che difficoltà ci sono da superare? Non esistono ancora le comodità che ci saranno nel secolo ventesimo. Altro che strade asfaltate e funivie. Con la carrozza si può arrivare soltanto a Valtournanche. Per arrivare al Breuil resta una lunga camminata. E il Breuil, dove esistono poche casupole e un modesto albergo, non è neppure alla base del gigante. Per raggiungere le rocce, parecchie ore di salita. Anche i mezzi per salire le montagne sono semplicissimi e rozzi. Scarponi ferrati, corde rudimentali e, per scavare i gradini nel ghiaccio, non la piccozza ma un’ascia, come quelle che servono a tagliare la legna. E soprattutto c’è il mistero. La montagna è ancora un enigma. Eppure gli uomini avevano giurato di arrivare lassù. Quali uomini? Pochi, pochissimi ancora. In Italia, nel 1863, era nato il Club Alpino. E i fondatori, tra cui erano Quintino Sella e Felice Giordano, pensarono subito a un’impresa che facesse onore all’Italia e alla nuova associazione. Fino ad allora, sulle Alpi, erano stati gli Inglesi i più forti. L’Inghilterra, patria degli sport, era scesa alle Alpi per dimostrare la superiorità fisica e morale dei suoi campioni. Questa nobile emulazione tra Inglesi e Italiani si concentrò sul Cervino.
Il Cervino era la posta più difficile e gloriosa. L’ultimo duello fu combattuto tra due tipi formidabili, degni uno dell’altro, il cui nome è rimasto famoso. Ecco Jean-Antoine Carrel, cacciatore e guida alpina di Valtournanche, detto “il bersagliere” perché alla battaglia di San Martino si era guadagnato i galloni di sergente. Era un giovane forte e orgoglioso e con il Cervino aveva un fatto personale: il Cervino egli lo considerava casa sua. L’idea che a conquistarlo potesse essere uno straniero lo faceva impazzire. Ma il pericolo c’era.
Ecco infatti Edward Whimper, inglese colto e di raro talento artistico. Giovane di bellissimo aspetto, carattere di ferro per la tenacia addirittura testarda. A quell’epoca gli alpinisti senza guida non esistevano ancora, ma Whimper era uno che sapeva anche pagare di persona.
In un primo tempo Carrel e Whimper collaborarono. Legati alla stessa corda fecero, sul Cervino, tre tentativi. Ma quando poi si mossero i capi del Club Alpino Italiano, e Felice Giordano venne a Valtournanche per cercare di lui, Carrel lasciò il cliente inglese. Che bisognasse ricorrere a Carrel non c’erano dubbi. Nessuno, neppure tra le guide svizzere, poteva stargli al paragone. Quando Carrel si rifiutò di accompagnarlo ancora, Whimper se prese.
“Privo di Carrel ” racconta Guido Rei nel vecchio ma bellissimo libro ‘Il Monte Cervino’, “Whimper è rimasto come un generale senza esercito.
E Giordano, che sovrintende ai preparativi italiani, si illude di avere ormai partita vinta. Tanto più che la salita dal versante svizzero è giudicata da tutti impossibile. Ma ci vuol altro per abbattere Whimper. Whimper si affretta a Zermatt per cercare qualche compagno e qualche brava guida.
E’ chiaro che non c’è da perdere neppure una giornata. Il duello volge alla fine.
Carrel intanto parte. Lo accompagnano Cesar Carrel, Carlo Gorret e Jean-Joseph Maquignaz, tutti di Valtournanche. Ma l’11 e il 12 il tempo è proibitivo. Soltanto il 13 si rischiara e si può andare all’attacco.
Alle due del pomeriggio del 14 luglio Carrel e suoi sono arrivati alla “spalla”. Più avanti comincia l’ignoto. Ma on è lungo il tratto che resta da superare. La vittoria è là, su può dire, a portata di mano. Prima di sera, gli amici dal fondo valle, vedranno sventolare in vetta il tricolore? No, purtroppo non è ancora venuto il momento. I quattro sostano a riprendere fiato e a rifocillarsi. Discutono sulla via da seguire. Che cosa si dissero precisamente? Perchè cominciarono a litigare? Ancor oggi è un enigma. E probabilmente nessuno lo saprà mai. Gli animi si scaldavano, gli spiriti si inasprivano: si rimisero i sacchi in spalla, voltarono le schiene alla vetta, si avviarono giù per le rocce.
Avevano da poco fatto dietro front che si udì una voce lontana. Era una voce d’uomo. Veniva dall’alto. Si voltarono. Lassù, sulla vetta, contro il cielo azzurro due figurine agitavano la mano. Erano Whimper e la guida Croz di Zermatt, i primi due di una cordata di sette: quattro inglesi con tre guide svizzere.
Che cosa passò in quel momento nell’animo del grande Carrel? Si pentì di aver ceduto a un momento di debolezza, oppure pensò che tutto fosse dovuto alla fatalità? Carrel fu tentato di fare per la seconda volta dietro front e di ritornare all’attacco, per arrivare anche lui in vetta, nello stesso giorno di Whimper. Ma i compagni non erano più in condizioni di seguirlo. Ora amarissima, colma di umiliazione e nello stesso tempo commovente. Tanti anni di speranze, di attesa, di fatiche, di sacrifici buttati via. L’orgoglio della valle umiliato. Giordano e i capi del Club Alpino amaramente delusi. Con che faccia Carrel avrebbe avuto il coraggio di ripresentarsi in paese? Ancor più cruda fu la delusione di Giordano. Ancora più rabbiosa fu la volontà di salvare almeno l’onore e di scalare al più presto il Cervino dal versante italiano. Ciò che riuscì infatti a fare, da par suo, Carrel, tre giorni dopo con l’abate Amè Gorret, Jean-Augustin Meinet e Jean-Baptiste Bich, servitori di un albergo. E la nostra bandiera sventolò tra le folate di nebbia, accanto a quella britannica. Ma né Giordano in fondo valle né Carrel sulla vetta sapevano che cosa era successo. A Zermatt, invece che le musiche del trionfo c’era il tetro silenzio della morte.
Whimper e i sei compagni, che erano il reverendo Hudson, il diciannovenne Hadow, il giovane lord Douglas (tre inglesi a cui Whimper si era aggregato perchè disponevano di guide), la guida Michele Croz di Zermatt, le guide Petter Tanguralder e il figlio, erano sulla via della discesa da appena un’ora quando il signor Hadow scivolò. Erano tutti legati da un’unica corda, ciò che oggi, soprattutto in roccia, sarebbe giudicato pazzesco. Croz, che precedeva, cercò di sorreggere l’inglese ma ne restò travolto. I due precipitarono. La corda si tese violentemente. Lo strappo divelse Hudson dalle rocce. A sua volta il giovane lord Douglas fu trascinato giù dall’urto. Al di sopra, le guide Tanguralder padre e figlio, con Whimper, si puntarono alla rupe con tutte le forze. La violenza del colpo dovette essere tremenda. Come i tre scalatori potevano trattenere quattro corpi che piombavano giù nella voragine? La corda si spezzò. I quattro precipitarono, sfracellandosi di roccia in roccia. E nessuno ne udì le ultime voci. Così il gigante sconfitto si vendicava atrocemente. E un tragico sudario parve avvolgere il picco, rendendolo ancora più celebre e più temuto.
(D. Buzzati)

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La leggenda di Attila e Leone I in recita

La leggenda di Attila e Leone I in recita – Questa leggenda misteriosa nella sua semplicità, ha ispirato molti artisti che la hanno immortalata su tela e nel marmo: tra queste opere  è celebre l’affresco di Raffaello in Vaticano.

La leggenda di Attila e Leone I in recita
Scena I

(In una piazza della città di Aquileia, assediata dagli Unni)

Personaggi:
Primo cittadino
Secondo cittadino
Terzo cittadino
Quarto cittadino
Altri cittadini intorno

Primo cittadino: Amici! Cittadini! Conviene ancora resistere alle forza di Attila? Da settimane lottiamo contro la forza che ci serra, ma è inutile: la fine della nostra città è vicina. C’è una sola speranza di salvezza…

Secondo cittadino: Quale?

Primo cittadino: Quella riposta nelle trattative con Attila. Offriamo al re degli Unni la nostra amicizia. I barbari sono clementi quando sperano di avere una nuova amicizia.

Secondo cittadino: Di quale speranza vaneggi? Quale follia ti spinge a proporre tali trattative? Il re degli Unni non vuole parole, non vuole amici, e nemmeno traditori: desidera solo per i suoi nemici morte, rovina, fuoco.

Terzo cittadino: Il nome di Attila vuol dire ferro. Egli è di ferro. Soprattutto il suo cuore è di ferro.

Quarto cittadino: Attila è il flagello di dio. Dovunque le sue orde sono passate, è rimasta la desolazione. Donne, vecchi, fanciulli non sono risparmiati dalla sua ferocia. Se una speranza c’è, questa è riposta nella resistenza delle nostre mura e dei nostri petti.

Primo cittadino: Guardate lassù! Una cicogna sfugge dalla nostra città spingendo davanti a sé i suoi piccoli. Oh, potessi fare altrettanto io! Potessi mettere in salvo i miei figlioli!

La leggenda di Attila e Leone I in recita
Scena II

(E’ la visione della futura Venezia. La scena si svolge in una qualsiasi città del Veneto, dopo che Aquileia è caduta).

Personaggi:
Primo cittadino
Secondo cittadino
Vescovo
Altri cittadini

Primo cittadino: Amici! Una terribile notizia. Aquileia è caduta in mano degli Unni. La porta l’Italia è aperta al più crudele dei barbari.

Cittadini: Che facciamo? Decidiamo di resistere?

Primo cittadino: E’ inutile. Non abbiamo armi sufficienti e poi… da quando l’Italia consce il piede dei Barbari, la virtù romana è spenta!

Secondo cittadino: Ecco ciò che faremo: aspetteremo Attila ed i suoi Unni con le porte della città aperte, lo accoglieremo con onori, lo blandiremo con gli elogi. I barbari, quando ricevono buona accoglienza, entrano da una parte ed escono dall’altra.

Primo cittadino: E’ un consiglio vile e pericoloso!

Secondo cittadino: E che altro si può fare? Vorresti forse che le nostre case fossero bruciate, le nostre donne uccise, i nostri fanciulli rapiti?

Cittadini: Ha ragione!

Vescovo: Calma, figlioli! La paura del pericolo non vi mostra la via più chiara. Io, insieme con la benedizione di dio, sono pronto a darvi un consiglio.

Cittadini: Quale?

Vescovo: Lasciamo le nostre terre e trasferiamoci al di là del mare, sulle isole della laguna. Che Attila trovi le nostre città deserte. Che Attila trovi il silenzio. Là, sulle isole, non verrà. Là, sulle isole, noi costruiremo le nostre case.

Primo cittadino: Le nostre case! Forse vi troveremo la salvezza, ma non un solido avvenire. La terra è sabbiosa, il mare è minaccioso. Come costruire una nuova città?

Vescovo: Oh cittadini! Oh figlioli! Sulla sabbia, dove lavorino uomini animati da speranza e fiducia, possono sorgere case solide e serene. Ecco, io la vedo, la nostra nuova città. E’ tutta di marmo, si innalza al cielo con cupole e campanili, e si specchia nel mare. Il sole vi batte sopra radioso.

La leggenda di Attila e Leone I in recita
Scena III
(Nella tenda di Attila)

Personaggi:
Attila
Generale
Servo

Generale: Oh re, quale cruccio ti rende inquieto?

Attila: Ho trovato città abbandonate, campagne silenziose e morte. Non questa Italia sognavo. Mi aspettavo un’Italia verde e ricca da saccheggiare con profitto.

Generale: Oh re, ma noi andiamo avanti!

Attila: Sì, andremo avanti, finché non troveremo…

Servo (entrando): Oh mio re, ambasciatori romani sono arrivati per parlarti.

Attila: Ambasciatori? Immagino quello che mi vogliono dire. Mi vorranno fermare, offrendomi denaro. Io lo rifiuterò! O forse mi offriranno il possesso di una provincia. Che sciocca proposta sarebbe! Perché dovrei accontentarmi di una provincia, quando posso prendermele tutte? (esce).

Generale: Sperano di fermare il nostro re, ma è inutile…

Servo: Non so.

Generale: Noi Unni continueremo la nostra marcia.

Servo: Non so.

Generale: Niente può resistere alla nostra furia.

Servo: Non so.

Generale: Ma che vuol dire questo “non so”?

Servo: Ecco, rientra il nostro re!

Attila (entrando): Ufficiale, ordina a tutti di tornare indietro!

Generale (meravigliato): Ma come?

Attila (sconvolto) Non sono chiaro? Con me si paga ogni discussione. Suvvia, torneremo indietro, lasceremo l’Italia!

La leggenda di Attila e Leone I in recita
Scena IV

(Nella tenda di Attila, lontano dall’Italia)

Personaggi:
Attila
Generale

Generale: Oh re, ora che i nostri eserciti sono rientrati nella steppa tranquilla, dimmi, se è possibile: perchè lasciasti improvvisamente l’Italia?

Attila: Quel giorno mi incontrai col papa Leone Magno. Fu lui che mi convinse di tornare indietro.

Generale: Perchè? Quante legioni aveva il papa?

Attila: Nessuna. Neppure un uomo armato!

Generale: E allora? Che accadde?

Attila: Dietro alla sua figura ho avuto la visione di una spada di fuoco. Io, che fin da bambino avevo adorato la forza materiale, capii quel giorno che esiste una potenza d’altro genere. Una potenza contro la quale è inutile afferrare le spade e preparare guerre. E sarà sempre inutile.

(Rodolfo Botticelli, adattamento da “Recitiamo la Storia”, editrice La Scuola 1967)

Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE

Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Il Piemonte in breve

confini: Francia, Valle d’Aosta, Svizzera, Lombardia, Emilia, Liguria
monti: Alpi Occidentali (Liguri, Marittime, Cozie, Graie), Alpi Centrali (Pennine, Lepontine)
cime più alte: Argentera, Monviso, Granero, Rocciamelone, Gran Paradiso, Monte Rosa
valli: della Stura di Demonte, Maira, del Chisone, di Susa, di Viù, Sesia, Anzasca, d’Ossola, Formazza, Vigezzo
valichi: Colle di Tenda, Colle della Maddalena, Monginevro, Frejus, Moncenisio, Sempione, di San Giacomo
colline: Langhe, Monferrato, Colline del Po, Canavese, Serra di Ivrea
pianure: di Alessandria, del Vercellese, del Novarese
fiumi: Po, Toce. Affluenti di destra del Po: Varaita, Maira, Tanaro con i suoi affluenti Stura di Damonte e Bormida, Scrivia. Affluenti di sinistra del Po: Pellice col suo affluente Chisone, Dora Riparia, Stura di Lanzo, Orco, Dora Baltea, Sesia, Agogna, Ticino
canali: canale Cavour
laghi: Maggiore (piemontese solo la sponda occidentale), d’Orta, di Viverone, di Candia.
province: Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Torino, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli.

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Osserviamo la cartina

Il Piemonte deve il suo nome alla sua posizione ai piedi dei monti. Infatti le Alpi occidentali, con le più alte vette d’Europa, abbracciano la regione da tre lati.
Numerosi sono i valichi e le gallerie che permettono rapide e frequenti comunicazioni con la Francia e la Svizzera. Le gallerie autostradali del Monte Bianco e del Gran San Bernardo rendono possibili, anche durante la brutta stagione, i viaggi attraverso la catena alpina.
La parte piana della regione è costituita dal primo tratto della Pianura Padana, nella quale si elevano le colline delle Langhe, del Monferrato e di Torino.
La parte montuosa è ricca di acque. Infatti, oltre che dal corso superiore del Po, il Piemonte è solcato da molti affluenti alpini; piemontesi sono anche la riva destra del Ticino e quella del Lago Maggiore. Numerosi laghetti e canali artificiali rendono pittoresca la montagna e fertile la pianura.

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Vita economica

Gli estesi pascoli montani favoriscono l’allevamento del bestiame bovino ed ovino, che fornisce latticini, carne, lana. I boschi danno legname, castagne e tartufi (Alba). I vigneti del Monferrato producono vini pregiati, e le colline delle Langhe frutta di ottima qualità. La fertile e ben irrigata pianura è ricca di grano, granoturco e riso (circa la metà della produzione nazionale).
Le industrie, favorite dalle importanti risorse idroelettriche, sono molto sviluppate; particolare importanza hanno quelle automobilistiche, tessili e dolciarie.
Dal sottosuolo si estrae talco, grafite, pirite; dalle cave granito e calcare per cemento.

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Per il lavoro di ricerca

Con quali Stati e quali regioni confina il Piemonte?
Come si presenta il suo territorio?
Da quali rilievi è costituita la zona montuosa?
Quali cime vi si elevano?
Osserva la cartina: in quanti modi potresti raggiungere la Francia e quali valichi o trafori dovresti attraversare?
Partendo da Torino, quale itinerario seguiresti per andare in Svizzera?
Indica sulla cartina i principali fiumi del Piemonte; quali città bagnano?
Quali città piemontesi sorgono lungo le rive del Po?
Quali sono le principali risorse economiche e dove sorgono i maggiori centri industriali?
Dove è nata l’industria automobilistica italiana?
Che cosa significa la parola FIAT?
Qual è il tipico prodotto delle colline piemontesi?
Perchè in Piemonte si coltiva il riso?
Ricerca notizie sulle città del Piemonte.
Dov’è il Valentino?
Ricerca notizie sulla basilica di Superga.
Di chi fu opera la Mole Antonelliana? Quando fu iniziata? Quando fu portata a compimento? Quanto è alta la sua guglia?
Ricerca notizie sull’artigianato e il folklore del Piemonte.
Che cos’è il Palio di Asti? Quando si svolge?

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Paesaggio torinese

La stupenda varietà di paesaggi della provincia di Torino si può comporre in un quadro nel quale le linee fondamentali sono riconducibili a quattro motivi essenziali. Un poderoso arco di vette nevose e di belle vallate, ciascuna delle quali ha una singolare ed estremamente pittoresca fisionomia; le dolci ondulazioni della collina torinese che il corso del grande Po abbraccia a settentrione in un armonioso arco;  il verde Canavese che digrada dalla fascia alpina all’anfiteatro morenico di Ivrea, alla landa, che conserva una sua romantica bellezza, e alla ben coltivata campagna; l’incantevole pianura che si adagia a semicerchio tra la provincia di Cuneo e quella di Vercelli, costituiscono infatti il paesaggio geografico del Piemonte.

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Piemonte: sguardo d’insieme

Per un lungo tratto le Alpi occidentali segnano, su tre lati, il confine della regione piemontese.
Questo tratto, imponente ed erto, è la caratteristica che più colpisce la nostra attenzione. Svettano qui le alte cime del Monviso dominante la valle del Po, del Rocciamelone affacciato sulla Valle di Susa, e del Gran Paradiso a cavallo tra il Piemonte e la Valle d’Aosta.
Ma non soltanto di montagne è fatto il territorio del Piemonte (le montagne invadono ben più ampiamente altre regioni italiane: ad esempio la Liguria, il Trentino Alto Adige, l’Abruzzo); gli alti rilievi, privi di Prealpi, cedono di netto il passo alla pianura; questa  si estende più o meno vastamente e, quasi di sorpresa, risale in ondulazioni di colline tondeggianti o di tagliente profilo. Così che ad una osservazione panoramica il Piemonte presenta un semicerchio estremo di catene montuose, una fascia mediana di pianure ed un grosso cuore di suggestive colline.
La muraglia alpina piemontese appare compatta soltanto a chi la veda di lontano; se ci avviciniamo, scorgiamo vaste brecce aperte ai suoi piedi e addentrate in essa: le vallate che conducono ai valichi alpini e lungo le quali scorrono torrenti e fiumi.
I corsi d’acqua del Piemonte hanno un percorso alpino breve (relativamente brevi sono le vallate) e precipitoso; i torrenti scendono talvolta minacciosi e rotolano a valle ciottoli e grossi macigni.
Le colline che sorgono al centro della regione rendono tortuoso e vario il corso dei torrenti e dei fiumi e li dividono in due gruppi: l’uno raccolto attorno al Tanaro, l’altro attorno al Po.
Il Piemonte, privo come sappiamo della fascia prealpina, non possiede quei grandi laghi che caratterizzano un certo paesaggio lombardo; soltanto per un tratto del suo confine orientale si affaccia allo splendido scenario del lago Maggiore; alcuni laghi morenici e numerosi laghetti alpini variano qua e là il suo paesaggio.
Le colline piemontesi occupano un’ampia zona della regione; offrono lo spettacolo di un mare immobile, pezzato di verde e di bruno, con onde altre oltre gli 800 metri, talvolta crestate, talvolta tondeggianti. Sulla sommità dei rilievi collinosi si profilano i paesi di origine medioevale, con le torri ed i campanili svettanti; i nuovi borghi si estendono invece a valle, presso le strade e le linee ferroviarie. Al limite settentrionale del Piemonte, dove si apre la Valle d’Aosta, è un vasto paesaggio morenico. In esso spicca la suggestiva morena di La Serra, la cui cresta si allunga, perfettamente rettilinea, per una quindicina di chilometri.
La pianura disposta a ferro di cavallo attorno al massiccio delle colline, presenta una bella varietà di paesaggi e di coltivazioni; alle zone aride e brulle succedono quelle irrigue, fertili, popolose.

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Alte montagne, fertili pianure

Il Piemonte, ossia la regione “ai piè del monte” come dice il suo nome, e la piccola Valle d’Aosta, sono regioni montane per eccellenza. Là si levano i fianchi rocciosi del Monte Bianco, il più alto d’Europa, un colosso sempre biancheggiante di nubi, che domina la vallata con la sua imponenza. Là si stagliano l’aguzza vetta del Cervino e le numerose cime del Monte Rosa, non rosate, come si potrebbe credere, ma ghiacciate, come indica il nome nell’antico dialetto del luogo, “Rosà”. E là, d’inverno, le nevi si popolano di sciatori che disegnano velocemente le loro eleganti volute lungo le pendici.
Le Alpi si stendono a semicerchio intorno alla pianura percorsa da molti fiumi che corrono a gettarsi nel Po. Vi è laggiù un vasto scintillio di risaie che rispecchiano l’azzurro del cielo nelle loro acque immobili da cui spuntano sottili steli. Ma nella zona meridionale, fra le Alpi e la pianura, dove il terreno è ondulato in basse colline, si susseguono i ricchi vigneti produttori di alcuni fra i più celebri vini del mondo. I vigneti aggirano i colli in filari paralleli e continui; è una distesa di verdi pampini che suscita immagini di vendemmia e di festa.

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La città spumeggiante

Asti è celebre per i suoi vini: il Barbera, il Grignolino, il Fresia, il Nebiolo, il Moscato. Questa ricca produzione le viene dal fatto che la sua provincia è quasi tutta in zona collinare.
Già i Romani, quando vi giunsero la prima volta, restarono stupiti per i grandi tini che videro per le vie dei borghi.

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Il castello del Valentino

Il Castello del Valentino, con il bellissimo parco che si stende lungo la sponda sinistra del Po è, insieme alla Mole Antonelliana, uno dei motivi più tipici di Torino, l’antica capitale del Ducato di Savoia ed del Regno Sardo e, per brevi anni, anche del Regno d’Italia.
Il grandioso edificio fu eretto tra il 1630 e il 1660 da Carlo e Amedeo da Castellamonte, i quali trasformarono precedenti costruzioni, per volere di madama reale Cristina. Esso presenta alcuni elementi architettonici che sono propri dei castelli francesi della stessa epoca, ma l’elegante decorazione e la barocca monumentalità offrono un chiaro esempio di arte italiana.

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Superga

Superga è come una sintesi geografica e storica del Piemonte. Dal colle si può abbracciare, con un solo sguardo, tutto il maestoso e vario paesaggio della regione: le Alpi superbe, i colli ridenti, i nastri argentei dei fiumi, la vasta pianura che sfugge e sfuma nella foschia. Ma la presenza della Basilica, in cui riposano i principi sabaudi, è un invito a rivivere la storia del Regno di Sardegna, da cui ebbe inizio l’unità d’Italia. La Basilica è sorta in uno dei momenti più difficili della sua storia, a cui è legato il ricordo di Pietro Micca, l’eroe che si sacrificò per salvare Torino assediata dai Francesi. Il duca Vittorio Amedeo II, come ringraziamento della vittoria che liberò il Piemonte dagli invasori, la fece erigere dall’architetto Filippo Juvara che, iniziata la grandiosa costruzione nel 1717, la portò a termine nel 1731, qualche anno dopo che l’antico ducato sabaudo era diventato Regno di Sardegna.

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Da Superga

L’ultima volta che vi andai, un tramonto arancione splendeva dietro la corona dei monti; le cupole della città ed i monti di fondo, ritagliandosi neri e piatti su quel colore favoloso, sembravano a eguale distanza; il Po dava bagliori, la neve spruzzava i pendii; si esprimevano nel paesaggio una modestia montanara, una rusticità fine, un misto di signorile e di agreste.
(G. Piovene)

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Marroni in tutto il mondo

Gli Svizzeri e in particolare i Ticinesi, che acquistano frutta italiana da conservare e da esportare in tutto il mondo, scoprirono che i marroni di Cuneo, una volta che avevano subito la sterilizzazione necessaria a tutta la frutta che deve varcare frontiere internazionali, si conservano per un tempo quasi illimitato. Naturalmente utilizzarono subito la scoperta, servendosene per una larga esportazione. Questo commercio trovò sviluppo soprattutto verso l’America, dove gli emigrati italiani ritrovavano nella castagna di casa loro un ricordo della patria lontana.

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I vini piemontesi

Il Piemonte è la terra classica del vino. In tutte le sue province, dalle lievi ondulazioni che si elevano sulla pianura padana fino alla prime zone alpestri, la vite è attivamente coltivata a filari, a spalliere, a pergolati, a festoni, a terrazzi.
Barolo, Barbaresco, Nebbiolo, Gattianara, Ghemme, Lessona, Barbera, Freisa, Dolcetto, Grignolino, Brachetto tra i vini rossi; Cortese, Moscato, Caluso tra i vini bianchi, sono i più celebrati.
Ma il vero principe dei vini piemontesi è il Barolo. La sua nobiltà è tradizionale.
Si narra che Cesare, tornando dalla conquista delle Gallie, gustasse tanto i vini dell Morra, in quel di Alba, da portarsene a Roma.
Anche Plinio parla dei vini di Alba, riferendo che essi derivano da un vitigno (la vite Eugenia) trasportata in Piemonte da Taormina; il qual vitigno “non è utile se non nel territorio di Alba perchè, com’è piantato altrove, traligna”.
Nel Medioevo e nei secoli successivi il Barolo conquistò sempre più larga fama come vino di mense regali.
Carlo Alberto lo preferì tanto che acquistò il castello di Verduno e le annesse fattorie, in prossimità delle tenute dei marchesi di Barolo.
Anche Vittorio Emanuele II acquistò a Barolo una fattoria (la Cascina del Re); e Cavour produceva a Grinzano del Barolo eccellente, che divenne famoso nei pranzi diplomatici.
E’ fama che Carlo Alberto, quando ancora non conosceva il Barolo che per averne sentito parlare, dicesse alla marchesa di Barolo: “Mandatemi un assaggio del vino delle vostre tenute che tutti mi lodano”. E qualche giorno dopo un reggimento di robusti carri campagnoli, più di trecento, scaricavano alla Reggia ciascuno una carrata di vino; e la carrata è di ottocento litri.
(F. Palazzi)

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Le colline del Barbera e del Moscato

Le Langhe sono un tipico territorio collinare, che si trova in Piemonte, a sud di Asti, tra il Bormida e il Tanaro.
I versanti più ripidi ed esposti a nord sono coperti di boschi di castagni, di querce e, più in alto, di faggi. Anche qui case sparse accompagnano al solito i poderi, mentre i piccoli centri sorgono sulle sommità dei colli e sono ben collegati da strade che, invece di scendere a valle, tendono a mantenersi in alto, sulla cresta delle alture, divenendo così delle stupende strade panoramiche. Non molto diverso da questo è il paesaggio che si estende più a nord e che da Asti giunge fino a Torino e al Po: è il Monferrato, patria di alcuni famosissimi vini: il Barbera, il Brachetto, il Freisa, il Moscato d’Asti.
Le forme dei colli sono qui più regolari che nelle Langhe e la coltura della vite conserva l’importanza e la fama tradizionale.
Il terreno è tutto distribuito tra piccoli proprietari che abitano piccoli centri posti sulle sommità dei colli. Solo sul fondo delle valli maggiori sorge qualche grosso abitato.
Possiamo dire che il Monferrato è, fra i paesaggi collinari italiani, uno dei più vivaci, allegri e civettuoli.

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Nel Monferrato

Chi percorre la statale che unisce Alessandria a Torino si trova, quasi improvvisamente, nel bel mezzo di un paesaggio che ricorda da vicino le serene colline toscane e che fa quasi dimenticare il Piemonte. E’ tutto un susseguirsi di groppe tondeggianti, una dolce ondulazione che si stende a perdita d’occhio… Siamo nel paese dei vini e qui l’autunno è sinonimo di vendemmia ed evoca immagini di grappoli, di tini, di campi, di lavoro.
Siamo nel Monferrato. Ogni collina dà l’impressione di un campo su cui un gigantesco aratro abbia tracciato innumerevoli solchi paralleli, ricercando la migliore esposizione ai raggi del sole. Vigneti e vini appaiono nella nostra fantasia, accompagnati dalle note festose della tradizionale danza locale, la “monferrina”.
Dove la collina ancora resiste all’opera di coltivazione, cioè nella parte più alta, occupata da pascoli e boschi, la terra mostra le sue viscere sanguigne o grigiastre; la diresti sterile e affocata, e il suo colore non è altro che il simbolo della sua ricchezza e della sua feracità. Tra le tante etimologie escogitate dai filologi per indicare questa zona, potrebbe trovar posto anche questa: “mons ferx”.

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Nella risaia

La prima immagine che la risaia offre è quella si una pianura che si distende a perdita d’occhio e sulla quale ristagna, nel sereno tempo primaverile il velo azzurro delle acque, interrotto dalla geometria dei bassi argini e degli aerei ventagli dei pioppi.
Allora i borghi e i  cascinali sembrano a poco a poco dissolversi, come in un miraggio di mobili luci ed ombre, e nasce un paesaggio insolito nella nostra penisola e, possiamo dire, in tutta l’Europa, e che fa correre la fantasia a regioni lontanissime dell’Asia orientale.
In questa grande palude artificiale si svolge un ciclo di coltivazione, quello del riso, che impegna severamente uomini e donne: e una lunga tradizione di lavoro, di fatica, di povertà, di lotta si viene disegnando nella nostra mente e nel cuore non appena, abbandonata la contemplazione di così singolare aspetto della pianura vercellese, riflettiamo intorno ad un’altra realtà la quale, in secoli e secoli, ha dato origine all’attuale condizione economico-sociale della vita dei contadini della risaia, di gran lunga migliore anche solo se confrontata agli ultimi decenni dell’Ottocento, e che ancora nel Novecento non aveva raggiunto un suo punto di equilibrio.
Le acque stagnanti della risaia, sfiorate dalle ali delle rondini tornate ai vecchi nidi per San Benedetto, si trasformano, nell’estate, in un immenso tappeto verde, teneramente agitato dal soffio del vento; poi, nell’autunno, quando le spighe fanno piegare sotto il peso generoso gli steli, in una grande macchia di color giallo opaco; finché, a raccolto ultimato, sepolta la risaia nella nebbia invernale, ecco la terra e l’acqua mescolarsi di nuovo, divenire il fango che l’opera dell’uomo renderà fertilissimo.
Il tratto della pianura vercellese, che comprende circa cinquanta comuni, ed è dominato dalla risaia, si continua, oltre il solco ben delineato dal fiume Sesia, nel Novarese e nella Lomellina, con una analoga struttura agricola e di paesaggio.

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Paesaggio vercellese e biellese

La province di Vercelli e Biella formano come un rettangolo delimitato a nord da un succedersi imponente e meraviglioso di montagne, che diminuiscono sensibilmente di altitudine da occidente a oriente lungo i contrafforti del sistema alpino, e che si estendono per una quarantina di chilometri dalla Punta Gnifetti, nel massiccio del Rosa, fino alla punte del Pizzo Montevecchio, del Pizzo Tignaga e della Cima Capezzone, e chiuso, a sud, dal corso del Po che lambisce le verdi campagne di Crescentino, di Trino, di Motta dei Conti.
Ad occidente i confini della provincia di Vercelli sono segnati dalla valle di Gressoney e da quella della Dora Baltea e ad oriente dal bacino del piccolo e delizioso lago d’Orta, dal quasi rettilineo corso del fiume Sesia e dalla stretta del monte Fenera alla confluenza nel Po.
Ora, se guardiamo attentamente una cartina fisica della provincia, si farà facile distinguere le caratteristiche del territorio il quale risulta in parte pianeggiante e in parte collinoso e montuoso.
La linea di divisione tra pianura, collina e montagna è abbastanza netta e corre, in senso lato, a nord del lago di Viverone, di Biella, Vigliano, Cossato, Masserano, Gattinara e Romagnano.
Un paesaggio, dunque, chiaramente definito e individuato che dall’azzurro velo delle acque delle risaie sale a poco a poco, in un intreccio di pittoresche vallate in cui ferve l’opera dell’uomo, fino ai ghiacciai e alle nevi eterne del monte Rosa, lo splendido massiccio delle Alpi Pennine che domina tanta parte della regione piemontese e lombarda.
La pianura, fertile e bene irrigata, la zona collinosa e prealpina del Biellese, ad economia prevalentemente industriale, la superficie, in gran parte montuosa e alpestre della Valsesia, cara all’arte ed alla fede cattolica, costituiscono i tre paesaggi tipici di Vercelli e Biella.

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I tartufi d’Alba

Alba è celeberrima per i suoi tartufi bianchi. Ogni anno sono circa 1500 chilogrammi del celebre fungo che vengono dissotterrati da questi colli fragranti e a venderli al prezzo del mercato è una bella ricchezza che va a seppellirsi nelle tasche di questi contadini.
I cercatori di tartufi s’addentrano nei querceti delle Langhe, scavano, rompono, dissodano, aiutati dai cani… laureati, o dai bastone con cui percuotono il terreno che dà una speciale sonorità quando, di sotto, il tartufo abbia creato, crescendo, una nicchia. La ricerca si fa di notte, anche per evitare di essere seguiti da altri, giacchè, trattandosi di abilità e astuzia, tutti i cercatori sono naturalmente gelosi uno dell’altro.
Avrei creduto che gli Albesi fossero ghiotti dei tartufi, ma non lo sono di più di quanto lo sia in Cremonese del suo torrone o il Milanese del suo panettone. Ne sono orgogliosi, sanno di avere un primato nel mondo, ma non sono dei lucumoni gaudenti. Hanno tante altre belle cose qui! Il vino, profumato e delizioso, i vitelli bianchissimi, certi formaggi piccanti che a spalmare due fette di pane fresco e a irrorarlo poi con un po’ di barbaresco c’è da risparmiare il termosifone. E’ una terra benedetta e fragrante questa, e pare che vino, tartufi, e uve da tavola, e pesche, di cui si fa un mercato colossale, siano tutti segni di benevolenza degli antichi dei, i quali, come è noto, stavano a tavola volentieri.
(G. Cenzato)

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Una foresta di marmo

In Valle del Gesso, nei pressi di Cuneo, per la lunghezza di una ventina di chilometri e per la larghezza di tre si stende una strana foresta. E’ interamente pietrificata. Doveva essere, in epoche remote della Preistoria, una rigogliosa foresta. Oggi i suoi tronchi giacciono a terra e sembrano sassi. In quei lontani tempi il Piemonte aveva una vegetazione tropicale, e le foreste erano rigogliose. Oggi sono rimasti solo questi sassi di cui si sono accorti per primi i montanari che vedendoli esclamavano: “Ma questi sono tronchi, sono schegge di legno!”.

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I Biellesi gente dura (racconto breve)

Un contadino scendeva un giorno a Biella. Faceva un tempo così brutto che per le strade non si poteva quasi andare avanti. Ma il contadino aveva un affare importante e continuava ad andare a testa bassa, contro la pioggia e la tempesta.
Incontrò un vecchio che gli fece: “Buon dì! Dove andate, buon uomo, così in fretta?”
“A Biella”, disse il contadino, senza fermarsi.
“Potreste dire almeno ‘se Dio vuole’ “.
Il contadino si fermò, guardò il vecchio in faccia e ribatté: “Se Dio vuole, vado a Biella.; se Dio non vuole, devo andarci lo stesso”.
Ora, quel vecchio era il Signore.
“Allora a Biella ci andrete tra sette anni”, gli disse. “Intanto, fate un salto dentro quel pantano e stateci sette anni”.
E il contadino si trasformò tutt’a un tratto in una rana, spiccò un salto e giù nel pantano.
Passarono sette anni. Il contadino uscì dal pantano, tornò uomo, si calcò il cappello in testa e riprese la strada per il mercato. Dopo pochi passi, ecco di nuovo quel vecchio.
“Dove andate di bello, buon uomo?”
“A Biella”
“Potreste dire ‘Se Dio vuole’ “.
“Se Dio vuole, bene; se no il patto lo conosco e nel pantano ci so andare da solo”.
E non di fu verso di cavarne altro.
(Italo Calvino)

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Cuneo

Come una grande mano aperta, col palmo rovesciato, Cuneo se ne sta sulle carte geografiche mostrando le vene che sono i fiumi, gli avvallamenti che sono le verdi e secche e azzurre Langhe, la cornice estrema delle Alpi che chiudono il piano. Sembra un angolo di riposo (e i castelli e le ville reali sparsi dicono che lo fu davvero per i Savoia); ma non lo si creda fuori dalla storia. I cuneesi sono stati dappertutto. (G. Arpino)

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Tempo di carnevale a Vercelli

La sfilata dei carri allegorici e dei gruppi mascherati, e le manifestazioni folkloristiche che accompagnano il Carnevale, vedono convenire a Vercelli, dalla campagna e dalle vallate, una numerosa rappresentanza della popolazione che rinnova, intorno alle maschere di Biciulan e della Bela Majn, l’antico incontro della città con il contato, l’incontro cioè di modi di vita, di interessi economici, di civiltà diverse.
Il nome della maschera Biciulan deriva dei profumati biscotti che sembrano rinnovare i fasti si un’età passata, quando le buone ricette della nonna venivano gelosamente tramandate e consultate ad ogni lieta ricorrenza nel preciso ritmo delle feste religiose o familiari e del succedersi delle stagioni, ciascuna delle quali portava con sé una particolare, agreste cucina.
Personaggio di invenzione non troppo lontano nel tempo, Biciulan è nato con un pizzico di bizzarria; fratello minore di Gianduia torinese e di Meneghino milanese, avrebbe dovuto interpretare la realtà contadina della campagna vercellese, la sua radice profonda germinata tra acqua e terra feracissima, ed invece Biciulan si è messo addosso un elegante abito militare sul quale fanno spicco gli alamari: un travestimento meraviglioso, un’arguzia impensabile e, chi sa, forse anche una celebrazione dei sacrifici e delle virtù contadine.
La Bela Majn, l’avrete già compreso, è la compagna di Biciulan e s’è presa anch’essa il gusto di vestire, almeno a carnevale, con gli abiti di una gran dama: i contadini che rifanno il canto ai nobili, nel gran giorno della libertà carnevalesca, esprimono certo un tema di grande interesse sociale.

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Canti e sagre popolari a Novara

A Novara, come in tutte le altre città dell’Italia settentrionale, sono poche ormai le tradizioni che sopravvivono. Possiamo ricordare, tra le manifestazioni folkloristiche, la sfilata dei carri di carnevale sui quali troneggia la maschera di Re Biscottino.
Profondamente suggestiva è la rievocazione della Passione di Gesù che ogni anno, nel giorno del Venerdì Santo, si tiene a Romagnano Sesia.
Un invito alla letizia è invece l’autunnale sagra dell’uva di Borgomanero: con la sciora Togna tutto il paese è in festa.
Il vino, se non l’uva, è di scena anche a Casale Corte Cerro, ma in tutt’altra stagione: infatti nel giorno di San Giorgio, che cade il 23 aprile, la Fontana del vino distribuisce gratuitamente il suo liquore tra la gioia che si può immaginare.

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Il palio di Asti

La seconda domenica di maggio, cavalli e fantini vengono scelti da un comitato facente capo alle singole parrocchie cittadine e presieduto da un Rettore.
Dall’edificio dell’Alla, dove generalmente ha luogo la fiera dei cavalli con grande concorso, un tempo, anche dei rinomati cavalli ungheresi, parte il corteo: comitato, vessilliferi, paggi e fantini in testa, codazzo di popolo tumultuoso e allegro al seguito.
Nella Piazza del Santo, come viene chiamata per antonomasia la piazza in cui sorge la Collegiata, ha luogo la presentazione al comitato e la consegna  ai fantini del casco tradizionale.
C’è un’aria di festa sanamente provinciale e bonariamente solenne al passaggio dei vessilli vivaci, recanti, in genere, il nome di un santo: rosso e verdi quelli di san Pietro, rossi e azzurri quelli di santa Caterina, rossi e gialli quelli di san Paolo. Ecco il rosso e il bianco del vessillo più amato: è San Secondo stesso che attraversa le vie della sua città.
Manca ancora quella tensione che si comunica alla folla quando squillano le trombe che annunciano l’inizio delle gare.
I due giri di pista sono presto percorsi, ma i minuti sembrano secoli e ogni particolare della corsa è seguito con attenzione spasmodica. La ragazzaglia applaude incitando a gran voce i concorrenti con frizzi arguti e ingenuamente sboccati. Anche i mercanti di cavalli hanno interrotto i loro affari: il volto sanguigno, acceso dalle copiose bevute, la catena d’oro ballonzolante sul gran ventre, una mano che stringe la frusta sottile e infiocchettata e l’altra infilata nel panciotto per evitare che nella ressa il portafoglio a fisarmonica possa prendere il volo, valutano da intenditori lo slancio delle bestie, seguono ansimando l’ansimare dell’animale proteso verso il traguardo, e gocce di sudore cadono dalla loro fronte come i fiocchi di schiuma dai fianchi dei cavalli.
La corsa è finita: è il momento della premiazione. Al vincitore il palio, al secondo arrivato la borsa, al terzo gli speroni, al quarto il gallo (il famoso galletto di sant’Alessio) e al quinto… un’acciuga con l’insalata. La provincia e lo spirito borghigiano sono sempre vivi.

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Il traforo del Frejus

Fra i vari progetti che, subito dopo la prima guerra d’indipendenza e cioè nel famoso “decennio di preparazione” bollivano in pentola, nella capace e previdente pentola di Camillo Cavour, c’era anche, sia pure appena accennato, un certo progetto che riguardava la “necessità di perforare la barriera delle Alpi e di far passare una ferrovia”.
Era un progetto addirittura pazzesco per quell’epoca; passeranno diversi anni prima che prenda sostanza nella realtà. E si giunge fino al 1857 allorché il Parlamento piemontese approva l’esecuzione del traforo del Frejus, con uno stanziamento di 41 milioni di lire.
Il 31 agosto di questo stesso anno, il mondo apprese con immenso stupore che lo scoppio di una mina a Modane aveva segnato l’inizio della formidabile impresa.
La prima mina era stata fatta brillare dallo stesso re Vittorio Emanuele II, con il principe Gerolamo Bonaparte, attorniati di personalità, tecnici e migliaia di valligiani.
L’audacissimo assalto alla montagna era iniziato; esso si concluderà il giorno di Natale del 1870. L’inaugurazione della linea del Frejus avverrà l’anno successivo, nel 1871, fra un tripudio di bandiere e un entusiasmo incandescente.

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Dettati ortografici sull’educazione stradale

Dettati ortografici sull’educazione stradale – una collezione di dettati ortografici per la scuola primaria, di autori vari, sul tema dell’educazione stradale. Difficoltà ortografiche varie.

Dettati ortografici sull’educazione stradale
La strada
La strada principale e le strade che ti portano ad essa, nel giorno di mercato non si riconoscono più. Le auto non possono circolare, il traffico è sostituito dalla confusione; le bancarelle sono vicine le une alle altre e su esse sono esposte merci si ogni genere. I venditori urlano; ognuno ha un tono di voce e un modo particolare per attrarre la gente e convincerla ad acquistare: sono tutti bravissimi attori.
La gente si avvicina alle bancarelle, osserva, ascolta, discute e, a volte, compera.

Dettati ortografici sull’educazione stradale
Impara a camminare

Tieni la destra, cammina sul marciapiede e fila dritto; non bordeggiare come una barca, e il naso tienilo davanti a te e non in aria.
Se attraversi ad un incrocio, stai attento ai semafori ed ai segnali stradali; cammina sulle strisce pedonali e procedi sicuro, ma non ti incantare!
Se attraversi dove non ci sono segnali, guarda bene a sinistra e a destra e, soltanto quando sei ben sicuro del fatto tuo, taglia la strada ad angolo retto speditamente, senza correre e senza esitare.

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Impara ad andare in bicicletta

Tieni la destra e sorpassa a sinistra.
Non fermarti di colpo senza guardarti indietro. Il veicolo che ti segue può precipitarti addosso. Se cambi direzione, fai prima segno stendendo il braccio a sinistra o a destra; ma dai tempo a quelli che ti seguono di capire le tue intenzioni e dai un’occhiata indietro.
Attento ai segnali. Ve ne sono due che particolarmente ti riguardono: quelli di divieto di transito e quelli di senso vietato. Li conosci?

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Storia dei segnali stradali

Non solo nel nostro tempo l’uomo ha sentito il bisogno di agevolare il traffico collocando sulle strade segnali utili ai viaggiatori. Già i Romani infatti, lungo le arterie che coprivano con una fitta rete tutto il loro vasto Impero, avevano collocato cippi miliari con l’indicazione delle distanze.
Ma solo ai nostri giorni la segnaletica è divenuta tanto indispensabile, e la sua mancanza renderebbe la circolazione quasi impossibile.
Il primo segnale comparso sulle strade moderne è la croce di sant’Andrea che, con la diffusione delle ferrovie, fu collocata nei pressi dei passaggi a livello per indicare il pericolo dei treni in transito.
In seguito, con l’accrescersi del numero dei veicoli stradali a motore, furono adottati altri segnali per indicare pericoli quali curve ed incroci.
Nel 1918, a New York, furono sperimentati sulla Quinta Strada i primi semafori.
La segnaletica adottata nei vari paesi, però, era molto varia; accadeva, così, che l’automobilista che si recava all’estero non si raccapezzasse più di fronte a segnali per lui spesso incomprensibili, con grave danno per la sicurezza e la regolarità della circolazione.
Ed ecco, allora, che nel 1931 i rappresentanti di molti paesi si riunirono a Ginevra per studiare una segnaletica unica per tutte le strade del mondo.
Fu raggiunto fin d’allora un primo accordo e successivamente, di fronte a nuovi problemi creati dal traffico sempre più intenso, si aggiunsero altri segnali fino a giungere alla segnaletica attualmente collocata sulle nostre strade; essa regola minuziosamente, e con un linguaggio simbolico comprensibile agli utenti di qualsiasi lingua, tutte le possibili situazioni di traffico.

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Per strada

Come è bello poter passeggiare senza preoccupazioni per i viottoli di campagna! Ma non è sempre possibile evitare le grandi strade di comunicazione e i conseguenti pericoli. Bisognerà allora che ognuno di noi, quando si muove di casa, pensi prima bene all’itinerario che deve percorrere per andare in un dato posto. La prima norma è quella di scegliere le strade meno battute, ma insieme regolate da semafori o dalla presenza di un vigile. E’ facile infatti constatare che certe piccole vie, apparentemente deserte, sono i luoghi più frequenti di incidenti perchè chi le percorre, non temendo alcun pericolo, facilmente si distrae o aumenta la propria velocità e non osserva le norme della circolazione.
Una volta scelto il percorso da compiere, chi procede a piedi, starà attento di camminare sempre sui marciapiedi o, nei casi in cui questi non esistessero, ai margini della strada. E’ vero che è frequente la tentazione di scendere dal marciapiedi o, magari per superare un gruppo di persone che procede lentamente, ma questa manovra va compiuta con molta attenzione. Chi vive in città, infatti, sa troppo bene come le macchine si dispongano le une accanto alle altre occupando tutta la strada e talvolta giungano a sfiorare i passanti che procedono sul marciapiede. Scendere sulla strada all’improvviso può costituire pericolo di morte.
Quando poi si deve effettuare un attraversamento sarà bene attendere un incrocio, dove si sia un semaforo, un segno obbligatorio di stop, o l’indicazione di passaggio pedonale sull’asfalto.
Solo in questo modo si avranno assicurate le condizioni necessarie per non correre pericoli e si avrà eventualmente diritto di protestare di fronte a casi di disobbedienza da parte dei guidatori di veicoli.

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La strada

La strada, che è sempre esistita da quando l’uomo ha sentito il bisogno di spostarsi da un luogo all’altro (celebri erano e sono ancora le grandi vie costruite dai Romani), è divenuta oggi, per l’enorme traffico che la percorre, un argomento di vivaci dibattiti, di leggi, nonché, noi diremmo, motivo di educazione e di sano vivere civile. Riteniamo pertanto che anche un breve esame della più comune e fondamentale terminologia stradale, possa contribuire a far sì che della strada si faccia un uso corretto, che è auspicato non solo dalle autorità, ma anche da quanti sono gelosi del bene pubblico e dell’incolumità dei cittadini.

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La strada

La strada è la via per la quale si snoda il traffico. E’ così detta perchè è massicciata, ha cioè una base di massi, resistente alla pressione di quanti, uomini, animali e veicoli, vi transitano sopra. La massicciata nelle strade antiche era visibile, come del resto lo è ancora oggi in alcune vie dei centri urbani; invece nelle strade moderne di solito è ricoperta da uno strato di catrame, prodotto oleoso ottenuto dalla distillazione dei carboni fossili o del legno. La strada si dice allora asfaltata (dal greco “asphaltos” che significa “bitume della Giudea”).
La strada può essere di specie e dimensioni diverse ed assumere allora denominazioni varie: sentiero, viottolo, strada secondaria, strada maestra, strada comunale, provinciale, autostrada, superstrada, ecc… a cui si devono aggiungere le varietà delle vie cittadine quali la piazza, il piazzale, il foro, il largo, il corso, il vicolo, il calle (celebri quelli di Venezia), ecc…
La strada che collega le varie città, paesi e borgate, deve adattarsi alle cosiddette situazioni locali, cioè alla particolare configurazione geografica. Se essa scorre in pianura di solito è dritta; se scorre in montagna è piena di curve, di difficoltà e di pericoli.
In ogni caso il traffico che si snoda in esso è regolato da precise indicazioni contenute nei segnali, che sono di pericolo, di prescrizione, di indicazione e orizzontali.
Lungo le strade di comunicazione il traffico è sorvegliato dalla Polizia Stradale, un corpo militare che controlla che nella strada tutto avvenga nel pieno rispetto delle norme stradali. E’ un corpo preziosissimo, che ha salvato e salva numerose vite umane, e molte più ne salverebbe, se tutti gli utenti della strada fossero giudiziosi e prudenti.
Nelle città e nei centri abitati, data la congestione del traffico e la necessità maggiore di tutelare l’incolumità dei cittadini, bisogna tener conto di altre norme e quindi di altri termini.
Qui infatti troviamo i semafori, apparecchi con segnali gialli, rossi e verdi, i quali negli incrodi indicano ai pedoni ed ai veicoli il momento preciso del passaggio nelle varie direzioni. In certi momenti di diminuito traffico, i semafori fungono da lampeggiatori, lampeggiano cioè ad intermittenza regolari la luce gialla, per indicare la presenza di un incrocio pericoloso.
Là dove non esistono semafori e un po’ ovunque per la città, troviamo i vigili urbani, che sono i tutori e i regolatori del traffico entro il perimetro urbano. Quando essi si collocano negli incroci, con le mani e con le braccia ricoperte da guanti o bracciali bianchi, danno ai passanti segnalazioni varie.
Obbedire ai vigili e rispettarli è un dovere fondamentale degli utenti della strada; disobbedire loro, oltre che dimostrazione di scarso civismo, è anche pericoloso… per il portafoglio, perchè essi hanno la facoltà come del resto la polizia stradale, di elevare delle multe o contravvenzioni (dal latino medioevale “contraventio” che significa “andare contro la legge”), e nei casi più gravi di arrestare.

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IL PAESE DI GRAMMATICA racconto e schede didattiche

IL PAESE DI GRAMMATICA racconto e schede didattiche sulle nove parti  del discorso, per bambini della scuola primaria, con simboli grammaticali Montessori.

Ho elaborato questo materiale prendendo spunto da un classico della letteratura americana per l’infanzia usato per presentare le nove parti del discorso: “Grammar Land” di M. L. Nesbitt 1878, adattandolo alla grammatica italiana e modificando gli elementi un po’ troppo datati per i bambini di oggi.

La storia si svolge nell’aula di tribunale del Paese di Grammatica, davanti al Giudice di Grammatica e ai suoi due assistenti, l’avvocato Analisi e il dottor Sintassi. In caso di necessità interviene la Critica, che è la polizia del luogo.  Poiché gli abitanti del paese non riescono a vivere in armonia, vengono convocati uno ad uno, e alle riunioni partecipano anche i bambini della Contea degli Studenti, che offrono quando occorre il loro aiuto.

Ho scelto di completare il racconto inserendo i simboli grammaticali montessoriani, che avevo già presentato qui La psicogrammatica Montessori,

ma il racconto si presta anche ad essere usato in chiave steineriana, presentandone una puntata alla volta ed accompagnando il racconto a disegni alla lavagna, e disegni riassunti ed esercizi sui quaderni. Avevo già preparato racconti di questo genere, ad esempio la Storia di Misbrigo, Preciso e Giulivo.

In questo blog trovate un esempio di lavoro svolto in questo modo (in inglese) Homeschooling Waldorf.

Per quanto riguarda i simboli grammaticali montessoriani, la psicogrammatica Montessori, o filosofia della grammatica, rappresenta un notevole aiuto che possiamo offrire ai bambini per orientarsi nei vari ambiti del linguaggio.
Nella lingua italiana ci sono nove parti del discorso, e nella didattica montessoriana ognuna è rappresentata da un suo simbolo.

I simboli per le nove parti del discorso non sono certo stati scelti a caso. Maria Montessori associò al nome la forma della piramide. Il simbolo grammaticale per il nome è quindi il triangolo nero. La piramide è solida e stabile ed è una costruzione molto antica. Anche i nomi sono solidi e stabili e molto antichi: probabilmente furono le prime parole usate dagli esseri umani, per capirsi fra loro. Il nero rappresenta la materia e il carbone, altro elemento antichissimo.
Al verbo associò l’immagine di una sfera rossa. Il simbolo grammaticale per il verbo è dunque un cerchio rosso. Il rosso simboleggia l’energia, e la sfera e movimento e dinamicità.
Tra nome e verbo inserì le altre sette parti del discorso, i cui simboli dovevano rendere chiara una data relazione o con il verbo, o con il sostantivo.
L’intera parentela tra le parti del discorso nella psicogrammatica montessoriana è legata alla coppia nome/verbo. Il significato psicologico e filosofico di questo approccio alla grammatica è particolarmente chiaro nel racconto inventato da Maria Montessori e raccontato dal figlio Mario durante un convegno a Francoforte nel 1954, per spiegare ai bambini la funzione delle parole (puoi leggere il racconto qui: )


Tornando a considerare le nove parti del discorso nel loro insieme avremo:
famiglia del nome: articolo, aggettivo, nome e pronome. Per il nome si usa una grande piramide nera, per l’aggettivo una piramide media blu, per l’articolo una piccola piramide azzurra e per il pronome una piramide allungata viola. I simboli relativi sono un grande triangolo equilatero nero, un triangolo equilatero medio blu, un triangolo equilatero piccolo azzurro e un triangolo isoscele viola;
famiglia del verbo: avverbio, verbo. La sfera rossa rappresenta il sole, che dà vita, luce e calore. I verbi danno energia alla frase e animano la famiglia del nome. L’avverbio è una sfera arancione più piccola.
I simboli relativi sono un cerchio rosso grande e un cerchio arancione medio.
particelle: preposizioni, congiunzioni, interiezioni. La congiunzione è un piccolo parallelepipedo rosa, che unisce come un trattino due parole o due parti di una frase. Il simbolo relativo è un rettangolo rosa.
La preposizione è un arco verde, che collega come un ponte due oggetti tra di loro. Il simbolo relativo è una mezzaluna verde. L’interiezione è una piramide dorata con una sfera posta sull’apice; somiglia ad una serratura, e ricorda la forma del punto esclamativo.
Nella Casa dei bambini i simboli grammaticali vengono utilizzati per rendere concreto ciò che è astratto, al fine di aiutare il bambino a scoprire la funzione delle parole e classificarle. Questa preparazione indiretta fornisce una base forte, a cui si aggiungono ulteriori scoperte, finché poi, nella scuola primaria, queste conoscenze sfociano nell’analisi grammaticale vera a propria.
Sappiamo tutti quanto sia importante fare una prima buona impressione, e nella didattica Montessori ci sono presentazioni che hanno lo scopo di lasciare nei bambini un’impressione profonda e duratura, accendendo la loro immaginazione.

Le storie per presentare le funzioni delle parole possono essere varie; l’importante è che siano brevi, semplici e memorabili. La Fiaba per le parti del discorso di Maria Montessori, già citata, è particolarmente indicata per i bambini più piccoli, ma si può considerare tranquillamente di proporla anche nella scuola primaria. Si può anche scegliere un racconto più complesso, che si deve svolgere nell’arco di più giorni: Il Paese di Grammatica.
Sia nella scuola d’infanzia, sia nella scuola primaria, l’atmosfera che si crea durante il racconto è importantissima, indipendentemente dal racconto che scegliamo: bisognerebbe parlare ai bambini come se si stesse svelando loro un grande segreto.

Normalmente le parti del discorso vengono presentate, nella scuola primaria, in questo ordine: nome, articolo, aggettivo, congiunzione, preposizione, verbo, e l’avverbio. Nella Casa dei bambini il bambino svolge un lavoro di preparazione allo studio della grammatica vero e proprio, che avverrà nella scuola primaria. Generalmente in prima classe (6 – 7 anni) si studiano approfonditamente:
– nome
– articolo
– aggettivo
– pronome
– verbo
e si prosegue in seconda classe (7 – 8 anni) con:
– modi, tempi e forme verbali
– preposizioni
– avverbi
– congiunzioni
– interiezioni.
Facendo molti esercizi sulla funzione delle parole, già nella scuola d’infanzia il bambino vedrà crescere il proprio interesse per la lingua che parla, e si renderà conto che le parole hanno funzioni speciali e che possono essere classificate in base a queste loro funzioni. Il requisito per la presentazione di questi esercizi, è che il bambino sappia leggere la maggior parte delle parole con facilità. D’altra parte questi esercizi rappresenteranno per lui anche un buon esercizio di lettura.
Poiché il bambino si trova nel periodo sensibile del linguaggio, ogni nuova funzione delle parole che gli viene presentata rappresenta per lui un’interessante nuova scoperta. La maggior parte di questi esercizi non sono individuali, ma prevedono il lavoro in piccoli gruppi. Le attività, oltre ad essere interessanti, sono molto divertenti.

Il racconto presentato di seguito è diviso in un’Introduzione e 15 capitoli. Al termine di ogni capitolo troverete una scheda didattica che contiene i compiti che via via vengono assegnati ai bambini della Contea degli Studenti dal Giudice di Grammatica. Potete scaricare tutte le schede didattiche pronte qui:

UMBRIA dettati ortografici e letture

UMBRIA  dettati ortografici e letture – una raccolta di dettati ortografici e letture sull’Umbria, di autori vari, per la scuola primaria.

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L’Umbria

Questa regione non si affaccia sul mare, ma è attraversata dal Tevere e dai suoi affluenti che la rendono fertile, ricca di pascoli e di boschi. Per questo meritò d’essere chiamata la “verde Umbria”. Essa offre paesaggi dolci e sereni, che ispirarono a San Francesco d’Assisi le belle lodi che egli cantò al creato. Il capoluogo della regione è Perugia, che domina dall’alto di un colle un vasto e pittoresco paesaggio. Vicino al capoluogo sorge Assisi, una cittadina antica e suggestiva, patria di San Francesco.

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Umbria: cartina fisico – politica

I confini: Marche, Toscana, Lazio.

I monti: Appennino Centrale (Umbro – marchigiano).
Le cime più alte: Monte Vettore (m 2478), nei Monti Sibillini; Monte Pennino (m 1570); Monte Subasio (m 1290)
I valichi: Bocca Taabaria (m 1044); Bocca Serriola (m 730); Passo di Scheggia (m 575): Colle di Fossato (m 740)

Le pianure: Valle Tiberina; Conca di Gubbio; Conca di Norcia; Conca di Terni; Valle Umbra.

I fiumi: Tevere. Affluenti di destra: Nestore, Paglia. Affluenti di sinistra: Chiasco con l’affluente Topino e il subaffluente Clitunno; Nera con il suo affluente Velino, che forma la Cascata delle Marmore.

I laghi: Trasimeno (kmq 128, profondità m 6,6); lago di Piediluco.

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Osserviamo la cartina

Lontana dal mare, nel cuore della Penisola, l’Umbria sembra tutta raccogliersi attorno ai suoi verdi colli. Gli Umbri, che la abitarono nell’antichità, le diedero il nome.
Il suo paesaggio dolce e sereno è un alternarsi di campi e di prati che si distendono in brevi pianure; di colline verdi, di oliveti e vigneti, di giogaie appenniniche rivestite di boschi.
Le sue valli sono bagnate dal Tevere e dal Nera; il Lago Trasimeno si stende azzurro nella pianura a ovest di Perugia.
Pellegrini di tutto il mondo giungono ogni giorno ad Assisi, la bianca città di San Francesco, dalle cui torri e dalle cui chiese corre da secoli un messaggio d’amore, un invito alla pace.

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Vita economica

L’agricoltura è l’attività principale della popolazione. Cereali e viti sono coltivati sulle colline e nelle conche pianeggianti; gli olivi allignano nella zona del Lago Trasimeno.
L’allevamento, sui monti ricchi di pascoli, è rivolto in modo particolare agli ovini. Sulle colline sono allevati buoi e suini.

Sono sviluppate le industrie idroelettriche, che utilizzano le abbondanti acque del Tevere e dei suoi affluenti. Si hanno inoltre industrie metallurgiche e siderurgiche a Terni, dolciarie a Perugia. Sono famose le ceramiche di Gubbio.

Le città, ricche di fascino per le loro costruzioni antiche e medioevali, sono meta di numerosi turisti italiani e stranieri.

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Province

Le province dell’Umbria sono due: Perugia e Terni.
Perugia, il capoluogo, è città etrusca che domina da un poggio la Val Tiberina. E’ celebre per i suoi monumenti antichi e medioevali, per l’Università e per le fabbriche di dolciumi e paste alimentari.
Terni, sorge sul fiume Nera, dove questo riceve le acque del Velino, formando la Cascata delle Marmore. Dalla caduta di questa acqua traggono l’energia le importanti industrie siderurgiche della città.

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Per il lavoro di ricerca

L’Umbria è una delle poche regioni d’Italia che non si affacci sul mare; quali sono le altre che hai finora studiato?
Osservando la cartina fisica, come ti appare il territorio dell’Umbria?
Quali sono le più notevoli cime dell’Appennino Umbro?
Le zone pianeggianti dell’Umbria, sono quelle che si estendono lungo il corso di un grande fiume e dei suoi affluenti. Come si chiama questo fiume? Dove nasce e dove sfocia?
Da chi sono formate le cascate delle Marmore?
Come sono le comunicazioni?
La regione è percorsa dall’autostrada del Sole?
Perche sono famose le Fonti del Clitunno?
Che origini ha il lago Trasimeno?
Quali colture sono particolarmente sviluppate in Umbria?
Che cosa sono i tartufi?
L’attività industriale è importante?
Perchè Terni è detta la “città del ferro e del fuoco”?
Quali sono i prodotti dell’artigianato umbro?
Perchè è famosa Sangemini?
Ricerca notizie sulle più importanti località dell’Umbria.
Perchè l’Umbria è detta “Santa”?
Qual è la “città della carta”?
Conosci la leggenda della Verna e la leggenda di Todi?
Dove si gioca la “Giostra della Quintana”?
Ricerca notizie sulle altre manifestazioni folcloristiche e religiose della regione.

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L’Umbria

Quante sono le regioni d’Italia senza neppure un po’ di mare? Una è l’Umbria. In compenso il lago Trasimeno era un lago rispettabile; ma ora è in crisi. Che resta, allora, a questa regione così “sfortunata” per le acque? Una delle più belle cascate, quella delle Marmore. Essa ha pagato il suo tributo al progresso e si è sacrificata per dar luce a chi sa quante case. Ma nei giorni festivi si riposa e il formarsi dell’immensa massa precipite è uno spettacolo emozionante. L’ultima domenica di giugno essa costituisce l’attrazione principale della “Festa delle acque”, ormai caratteristica in Umbria, dove anche le sorgenti minerali sono abbastanza numerose  e rinomate.
E poi che cosa c’è in Umbria? Le tradizioni popolari e religiose: Gubbio con i ceri e gli arceri; Assisi con le memorie e le celebrazioni francescane; Foligno (il “centro d’Italia” come lo chiamano i suoi abitanti) con la giostra della Quintana. E poi le memorie storiche dei più antichi popoli (ad Amelia, mura ciclopiche); degli Umbri (che sul Monteluce di Spoleto avevano la sede di una lega sacra). degli Etruschi, dei Romani, dei Longobardi.
L’Umbria ha, nel capoluogo Perugia, una delle città più armoniose.

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Paesaggi Umbri

L’Umbria è l’unica regione dell’Italia peninsulare che non si affacci, neppure per un breve tratto, sul mare. Si estende nel cuore dell’Appennino, dove la catena devia verso sud e comincia a smagliarsi, dividendosi in una serie di catene interrotte da avvallamenti longitudinali. Accade così che l’Umbria, invasa in pieno dal sistema appenninico, quasi non appaia regione montuosa: le catene sono sottili, intervallate da zone piane, ora ampie ora strette e profonde, mosse da rilievi collinari.

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Umbria verde

La regione è detta “Umbria verde” e il verde che spicca è quello appunto delle valli e delle colline, mentre le linee montuose, di mediocre altezza (generalmente non superano i mille metri), sono rocciose, aride, accidentate, hanno versanti ripidi, opposti per durezza, di muraglie al mareggiare delle colline. Per questi motivi la vita delle popolazioni umbre è concentrata negli avvallamenti e sui lenti dossi collinari.
La montagna umbra torna ad assumere l’aspetto comune al sistema appenninico nella zona sud-orientale della regione, dove hanno radici i rilievi caratteristici del vicino Abruzzo. Qui, la montagna umbra è nuovamente accessibile, più boscosa ed abitabile.
Una delle lunghe conche umbre, la Val Tiberina, è percorsa dall’unico grande fiume della regione (tutti gli altri sono affluenti): il Tevere. Esso ha le sue sorgenti nell’Appennino romagnolo e non è contenuto entro i confini dell’Umbria: ne esce infatti all’estremità meridionale entrando nel Lazio. Per un buon tratto (oltre 200 chilometri) il fiume scorre serpeggiando nella valle, con un regime di acque alquanto irregolare: vi affluiscono numerosi torrenti e fiumiciattoli, i cui apporti variano molto durante l’anno; il Tevere diventa un vero fiume dopo aver ricevuto le acque del Nera, quasi sul confine  laziale. Il Nera, ricco di acque, le cede in parte ad un canale di deviazione che le scarica nel lago di Piediluco. Tali acque ritornano poi al Nera attraverso il Velino che, nel punto di confluenza, genera le cascate delle Marmore, non lontane dalla città di Terni.
un altro avvallamento della regione è attualmente invaso dal lago Trasimeno, uno specchio d’acqua appena increspato dai venti, di minima profondità, circondato da sponde ondulate e  verdissime, punteggiate di casolari e paesi.

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Le comunicazioni

L’Umbria, per la sua posizione e la struttura del suo suolo, ha notevoli difficoltà di comunicazione stradale e ferroviaria. Le barriere appenniniche, non elevate ma povere di valichi accessibili, la isolano dalle regioni circostanti; ugualmente in difficoltà è il tracciato delle strade interne tra l’uno e l’altro avvallamento.
L’arteria più importante è la Flaminia, che unisce la valle del Tevere con la conca di Terni, proseguendo verso Spoleto. Nella parte occidentale la regione è percorsa dall’Autostrada del Sole. Tronchi ferroviari notevoli sono quelli della Roma-Ancona e della Roma-Firenze.

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La cascata delle Marmore

Quando la Nera, divisa in cento rapidi e spumeggianti canali, è vigilata all’intorno dal sorriso dei colli sui quali i Celti e gli antenati di Roma cercarono scampo dalle alluvioni preistoriche, entra nella sonante vallata di Terni, ha già ricevuto il tributo delle acque di un altro fiume: il Velino. E’ questo un tributo non volontario che dura da secoli. Trecento anni a. C. il Velino, prigioniero delle sue stesse incrostazioni calcaree, adagiava le acque in vastissimi e pestiferi stagni che, per successivi balzi, dal ciglione orientale delle Marmore scendevano ad infestare la valle sottostante… Il console Marco Curio Dentato, risalendo da Roma con le sue gloriose legioni le antiche valli del Tevere, fece scavare dai soldati un profondo canale il quale, raccogliendo le acque limacciose delle paludi, costrinse il Velino a cadere speditamente nella Nera attraverso il grande salto delle Marmore.
Da quel giorno remotissimo, la massa imponente delle acque veline con moto incessante si precipita bianca e spumeggiante nel baratro e, a spire, a vortici, mugghiando e rimbalzando sulle rocce calcaree che formano la pittoresca stretta e il profilo del salto, raggiunge le onde calme della Nera, formando la cascata delle Marmore, una delle più belle non solo d’Italia, ma d’Europa. (G. Fravolini)

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L’agricoltura

Soltanto metà del territorio umbro può essere sfruttato dall’agricoltura, e non sempre con risultati brillanti. Molto importante è l’olivo, le cui piantagioni sono largamente sparse nelle campagne e danno una produzione di olio assai pregiato. Anche la vite è coltivata, in lunghi filari tra i campi: è noto il vino di Orvieto. E’ diffusa la coltivazione del grano, il quale non consente però una produzione abbondante.
Nella regione sono frequenti i boschi di querce, da cui si ricavano le ghiande che permettono un ricco allevamento di maiali. Sulle aridi pendici appenniniche è diffuso l’allevamento degli ovini. Caratteristico dell’Umbria (Norcia) è il tartufo nero.

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L’industria

L’Umbria è regione di scarsa attività industriale. La buona produzione di energia elettrica ha concentrato nella zona di Terni alcuni impianti siderurgici, metallurgici e chimici.
A Perugia sono attive le industrie alimentari e dolciarie (Buitoni, Perugina).
Gli artigiani umbri sono celebrati per le ceramiche, i ferri battuti, i merletti.
La regione serba numerosi ricordi del periodo medioevale. Molti centri, abbarbicati sui rilievi collinari, offrono monumenti stupendi di quel periodo: oltre a Perugia, Spoleto, Gubbio, Todi, Orvieto, Assisi unisce alle opere d’arte la fama di città francescana, con le memorie della vita del grande santo, che rivivono negli affreschi giotteschi noti in tutto il mondo.

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L’artigianato

L’artigianato sembra corrispondere al genio di un popolo che ama il lavoro preciso, minuto, gentile. Le ceramiche si producono un po’ dappertutto, specialmente a Deruta, ma anche a Gualdo Tadino, Orvieto, Gubbio, Piediluco, Perugia.
Si aggiungano le tipografie di Foligno, Città di Castello, Perugia, Todi; i ferri battuti di Perugia, i ricami in bianco ad Assisi, ed ancora a Perugia i lavori in legno ed in cuoio. Proprio l’artigianato riempie Perugia di botteghe-quadro che incantano gli stranieri: alcune in sotterranei gotici ove si scende dalla strada per una scaletta sghemba, e i lavoranti si scorgono, passando, di scorcio; altre in un antro nero e fuligginoso, in fondo a cui rosseggia il fuoco. (G. Piovene)

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Le sorgenti di acque terapeutiche e altre cose

L’Umbria è particolarmente ricca di sorgenti minerali. Ma le più importanti si trovano proprio nella zona che va da Narni a Todi. Le acque di Sangemini sgorgano a due chilometri circa al di là dell’abitato. L’eccezionale purezza e leggerezza le fa consigliare a convalescenti e bambini, e son una deliziosa acqua da tavola. Andando per la strada verso Todi si vede, tra il verde del parco, il modernissimo stabilimento albergo dove si fanno le cure, da maggio a settembre, e l’imbottigliamento.
I clienti delle acque, e non solo essi  naturalmente, hanno una meta eccezionale alle loro gite. A qualche chilometro a nord, su un pianoro erboso che si addossa a calve alture, si trovano i resti della romana Carsulae. Oggi vi si va con una bella strada tutta asfaltata, che insieme agli scavi e alla sistemazione delle rovine, ha valorizzato notevolmente la zona archeologica, la quale senza dubbio è tra le più importanti, se non addirittura la più importante dell’Umbria. Fino a pochi anni fa gli unici segni della città, che sorta sulla via Flaminia acquistò nei secoli dell’Impero importanza e floridezza, erano alcuni tratti di strada selciata a grossi blocchi di travertino incisi dai solchi scavati dalle ruote, lo scheletro di un arco-porta monumentale e il materiale di spoglio che si vede immurato nella umile chiesetta di San Damiano. Gli scavi hanno riportato ora alla luce il teatro e l’anfiteatro, il tempio capitolino e altri edifici del Foro e tutto il percorso urbano della via Flaminia. Sparse sul solitario pianoro erboso, ove tra radi alberi pascolano cavalli e greggi, le bianche rovine suggestionano più che per se stesse, per l’incanto del luogo, la sua solitudine, lo struggente orizzonte e la morbida luce che scende dalle vicine alture.
Si diceva delle acque minerali che abbondano nella zona: ed ecco che, procedendo verso Todi, un cartello indica sulla sinistra la sorgente Furapane, che insieme con quella dell’Amerino costituisce il patrimonio terapeutico di un’altra stazione idrotermale, Acquasparta, la quale appare poco dopo la cima a un colle ai margini della strada. Acquasparta non ha la stessa fama di Sangemini, pur possedendo acque di identico tipo. Ma forse la batte in quantità se non in qualità di clientela, di provenienza soprattutto regionale. La batte anche in amenità del sito, aperto e ventilato. Le attività operaie (buona parte della popolazione lavora nelle industrie ternane) più che contadine, dei suoi abitanti le danno un tono vivace e spigliato.

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Le fonti del Clitunno

Il Clitunno è un breve fiume che nasce nei pressi di Spoleto e scorre nella conca di Foligno, portando poi le sue acque al fiume Topino. Pur modesto come tanti altri che scorrono nelle valli e nelle conche della regione, è tuttavia famoso per le sue sorgenti, che sgorgano in un luogo fra i più singolari e i più incantevoli dell’Umbria. Le fonti erano molto note anche nell’antichità: gli antichi pagani portavano di preferenza a quelle fonti i buoi destinati ai sacrifici, perchè di purificassero nelle sue acque. Poeti, tra cui Virgilio, ne cantarono la suggestiva bellezza. Le limpide polle di acqua sorgiva, che esce abbondante dalle falde del monte, incominciano a scorrere in molti rivi e laghetti tra le fresche sponde erbose, all’ombra di pioppi e di salici piangenti. Non sfuggì alla suggestione del luogo nemmeno il poeta Giosuè Carducci, che alle fonti del Clitunno dedicò una delle sue odi più ispirate. (F. Botto)

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Il romano Tevere è… umbro

Il Tevere non nasce in Umbria, ma vi entra dopo soli 40 km dalla sua origine e vi compie poi circa metà del suo corso. Ma non solo per questo il Tevere può dirsi umbro. Esso è veramente il centro idrografico di tutta la regione,Il lago Trasimeno
Il lago Trasimeno, attorno al quale fioriscono numerose leggende, è il più vasto lago dell’Italia peninsulare ed ha sorgenti interne, non riceve acqua da fiumi. Nel lago Trasimeno vi sono varie isole; la più grande non è, come il nome farebbe sembrare, quella chiamata Maggiore, ma l’isola Polvese. Sull’isola Maggiore San Francesco d’Assisi trascorse tutta una quaresima solo, digiunando e facendo penitenza.

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Le province

Capoluogo della regione è Perugia, splendida città in posizione elevata, da dove si domina la valle del Tevere. Di grandissimo interesse storico ed artistico sono i suoi monumenti; tra essi l’Arco Etrusco o di Augusto, la Porta Marzia, il Palazzo dei Priori, la Fontana Maggiore, la Chiesa di San Pietro, l’Oratorio di San Bernardino. Vi hanno sede un’antichissima Università e la moderna Università per stranieri. Nelle immediate vicinanze della città sorgono varie industrie alimentari, dolciarie, ecc…
Terni è situata sulla Nera, in una verde pianura, circondata da amene colline. E’ una città moderna, con poderose industrie. Fra i suoi monumenti più pregevoli sono il Duomo e le chiese di San Salvatore e di San Francesco. Località notevoli della regione sono Città di Castello (nota per le sue industrie della ceramica e tipografiche), Foligno (centro commerciale e industriale), Spoleto (nota per i suoi insigni monumenti), Gualdo Tadino, Gubbio (dalla schietta impronta medioevale), Assisi, Norcia, Todi, Orvieto (celebre per il suo Duomo meraviglioso e nota per i suoi vini) e Narni.

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Lo sai?

Perugia è città di origine etrusca. Fu colonia romana (Augusta Perusia); libero comune nel secolo XI; signoria dei Baglioni; dominio papale dal 1534. Le truppe italiane vi entrarono nel 1860. Diede i natali ad Andrea Fortebraccio, detto Braccio da Montone (1368-1424) e a Nicolò Piccinino (1386-1444) entrambi capitani di ventura; e al Pinturicchio (1454-1513), pittore.
Città di Pieve (provincia di Perugia): vi nacque Pietro Vannucci, detto il Perugino (1445-1523) sommo pittore, maestro di Raffaello.
Lago Trasimeno (provincia di Perugia): sulla sua sponda settentrionale, nei pressi di Tuoro, l’esercito romano guidato dal console Caio Flaminio, nel 217 aC venne assalito da Annibale e subì una disastrosa sconfitta.
Assisi (provincia di Perugia): situata sulle pendici del monte Subasio, è una delle località più suggestive, meta di continui pellegrinaggi, legata com’è al santo cui diede i natali: San Francesco (1182-1226), patrono d’Italia. Dei suoi monumenti, particolarmente degna di nota è la splendida basilica a due chiese sovrapposte, con la tomba del santo e magnifici affreschi di sommi pittori quali Cimabue, Giotto, Simone Martini. A poca distanza sorge la basilica di Santa Maria degli Angeli, con la cappella del Transito, dove san Francesco morì. Ad Assisi è nata anche Santa Chiara (1194-1253) fondatrice dell’ordine delle Clarisse.
Gubbio (provincia di Perugia): Il suo nome è legato all’episodio del lupo ammansito da San Francesco. Vi si tengono ogni anno due feste caratteristiche: la corsa dei ceri e il palio dei balestrieri.
Norcia (provincia di Perugia): è la città di San Benedetto (480-547), fondatore dell’ordine dei Benedettini, patrono d’Europa.
Cascia (provincia di Perugia): nei suoi pressi, a Roccaporena, nacque santa Caterina da Cascia (1381-1457), monaca agostiniana.
Todi (provincia di Perugia): Diede i natali a Jacopo Benedetti, detto Jacopone da Todi (1230-1306), poeta religioso autore delle famose Laudi.
Foligno (provincia di Perugia): vi si svolge ogni anno, nella piazza principale, la Giostra della Quintana, la cui origine risale al 1600.
Narni (provincia di Terni): è la città natale di Erasmo da Narni, detto il Gattamelata (1370-1443), uno dei più valorosi condottieri di ventura.
Terni: vi nacque Publio Cornelio Tacito (54-120 aC), uno dei maggiori storici latini.
Orvieto (provincia di Terni): Nel suo Duomo si conserva il Corporale del Miracolo, cioè il panno di lino che a Bolsena, nel 1263, si macchiò di alcune gocce di sangue sgorgate da un’ostia consacrata.

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Assisi

Assisi è un paese di pace e di soave contemplazione: silenzio nella bella campagna, solitudine nelle ripide stradette. Lo spirito di San Francesco, la mansueta bontà di Santa Chiara pare che nel passato abbiano sopito ogni ira, mitigata ogni truculenza. Non tetri ricordi dunque, e del Palazzo dei Priori, del bellissimo Tempio di Minerva in fuori, nulla che non parli del poverello di Cristo e della sua fedele compagna.
Cara Assisi col suo magnifico San Francesco, le antiche chiese, il bel Duomo vetusto, il conventino di San Damiano, dove si dice che San Francesco abbia composto il Cantico del Sole, la Porziuncola laggiù ove egli morì, la Cripta ove riposa e, infine, più bella di ogni cosa, l’Eremo delle Carceri, dove usava ritirarsi a penitenza.
Il monte Subasio prende tutto da un lato. Viene giù da mille e duecento metri con una costa facile e dolce e va a finire nella tranquilla pianura umbra. A circa 800 metri c’era, al tempo dei tempi, un oratorio, la chiesuola della Grazia, e intorno un fitto bosco di lecci, dove il sole non trapassa,  e dentro il bosco buche e grotte. In una di esse si ritrasse San Francesco a quaresimare, nelle altre lo seguivano i compagni, Leone, Matteo, Elia. Andateci. La mattina è fresca, la montagna odora, il cielo ride sereno sul nostro capo come ai giorni del Santo.
Si suona tirando una funicella ed appare un fratino che fa da guida col suo bel sorriso. Mi mostra i cimeli del Santo, veri, autentici. Poi mi conduce in un borro nel bosco. “Questo affossamento” mi dice “è asciutto dal giorno in cui San Francesco, che era nella selva a pregare, si volse all’acqua che scorreva per dirle che gli dava molestia; e la sorella acqua torcè il muso per altro cammino”.
Da allora il borro è secco, salvo che in caso di calamità, guerre, pestilenze, terremoti, che sovrastino il paese. Ho veduto anche un crocifisso che il santo portava con sè quando viaggiava, e che morto lui, un Cardinale, contro il volere dei frati, volle a Roma: ma il crocifisso una notte da Roma tornò tutto solo ad Assisi, anzi nell’eremo delle Carceri, e lì si mise e lì rimase.
In una cappelletta c’è un dipinto, bello del resto, di un Cristo con le braccia quasi allargate. Uno di questi bracci ha una storia. Si narra che un fraticello dell’eremo, alcuni secoli or sono, venisse a pregare su questi gradini: era sera, era stanco, la preghiera gli morì sulle labbra, lasciò cadere le mani, chiuse gli occhi e si addormentò. Il Cristo dipinto alzò allora un braccio e con la mano aperta percosse la gota del frate dicendo: “Nella casa del Signore si viene a pregare, non a dormire!”. Il fraticello rimase male. (R. Balsamo Crivelli)

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La cascata delle Marmore

L’enorme massa ha dapprima un unico salto di quasi cento metri; è una colonna liquida e spumeggiante che si inabissa in una fossa profonda, che con rabbia si è scavata essa stessa, e da cui con furore riesce tosto, e tra un fracasso irato si riversa tra le rocce lucide e splendenti, muggendo, sprizzando, saltando, effondendo un pulviscolo denso come una nube di polvere e che ricade in piccole gocce di rugiada. Le onde, i bollori, i gorghi si insinuano per il letto tempestoso in un biancore smagliante, dove il sole vi riflette tutti i colori dell’iride. A poco a poco le industrie hanno preso parte delle acque del Velino e la cascata si è molto assottigliata. (O. Guerrieri)

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Chi dice Umbria

…dice monti e colline con centri abitati che si aggrappano ai loro fianchi o si posano sulle loro cime come cappelli. L’Umbria non è come la Lombardia, e le sue città non possono permettersi il  lusso di offrire agli abitanti di andar comodi senza discese nè salite. I suoi abitati, sottratti alle nebbie della bassura, si incidono come scalinate su coste inverdite dei lecci e argentate dagli ulivi, o coronano le alture spingendo verso il cielo torri e campanili.
Trevi parte a mezza costa di un’altura e ne guadagna la cima mettendo file di edifici uno sull’altro, così da dare l’idea di un grattacielo medioevale che, a differenza di quelli d’oggi, i quali aggiungono piano su piano, aggiunge case su case creando una serie di salite senza riposi.
Spello è fatta a scivolo: così dolce che ti tira su senza fartene accorgere, e poi te la senti nelle gambe. Una volta entrati in paese, ecco chiese dopo chiese, torri dopo torri, pitture dopo pitture da far di Spello tutta una galleria , finchè arrivi al Belvedere e di lì ti godi una veduta stupenda sulla piana del Topino, con le grandi strade una volta bianche e adesso nere d’asfalto gettate attraverso il verde della pianura.
Foligno invece non ha panorama e si fa guardare sulla testa dai paesi che lo circondano. E’ la sorte delle persone basse di statura… Foligno è la soglia di Assisi, centro di una conca con attorno paesi che la guardano dalle loro posizioni arroccate: si distende sulla soglia di quella conca come un grosso cane al sole, in un atteggiamento che non si adatta a una città la quale voglia essere veramente umbra. (A. Fratelli)

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Il pozzo di san Patrizio, a Orvieto

A Orvieto, in tempi lontani, c’era scarsità d’acqua, il che indusse il papa, Clemente VII, ad intervenire.
Egli ordinò ad un famoso architetto, Antonio da San Gallo, di scavare un profondo pozzo: ciò avveniva intorno all’anno 1527. Egli lavorò per circa dieci anni e costruì il pozzo che esiste tuttora e che è largo 13 metri  e profondo 63. Vi si può scendere con due scale (248 scalini ognuna) che si sviluppano a spirale e corrono in una intercapedine situata tra il muro interno del pozzo e il terreno circostante. Per fare un poco di luce a chi scende nel profondo baratro, furono aperte nel muro 72 finestre… A 60 metri di profondità si trova l’acqua.
Un’opera ingegnosa ed ardua per quei tempi, dettata dal bisogno di un elemento prezioso quale è l’acqua; un’opera che merita di essere visitata e ammirata.
Ora però Orvieto, più che per l’acqua è celebre per il suo vino.

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Terni, la città del ferro e del fuoco

Le acciaierie occupano l’area di un mezzo paese. Fantastico paese del fuoco e del ferro, che ha capannoni grandi come chiese, ciminiere alte come campanili; sempre in movimento, attraverso un velo di fumo e di polvere, tra stridere di macchine e rimbombare di magli.
I forni offrono uno spettacolo dei più belli. Lungo l’intera parete di un capannone sono allineate le bocche di quei grandi forni mai spenti, ed il loro altissimo calore si irradia ben lontano. Di tanto in tanto bisogna dar da mangiare ai forni, cioè versare in quel gran fuoco del nuovo minerale, per aumentare la pasta incandescente…
Ma vediamo qualcosa di straordinario, una colata.
Si chiama colata l’operazione per la quale il metallo incandescente e liquido viene versato negli stampi. Un immenso secchio, sorretto da alte catene, ed un dato comando si muove e va a mettersi sotto la bocca del forno; il coperchio si alza, ed ecco uscir fuori dalla larga apertura un’ondata, un rivo di metallo liquefatto, che ha il color rosso e dorato del fuoco.
La terribile ondata (è acciaio) si versa nel secchio, schizzando da ogni parte scintille vive, abbaglianti. Fra quei fulgori, gli operai sembrano uomini miracolosi.
Poi il secchio, colmo fino all’orlo, si muove lentamente e va a collocarsi sopra la lunga fila degli stampi. Con una delicatezza di movimenti che non si immaginerebbe in quel colosso, il secchio si alza da un lato, si piega in avanti e versa dal beccuccio il suo tremendo liquido nella forma di terra refrattaria. Così di passo in passo, di secchio in secchio, con estrema esattezza, fino al termine della fila. Il minerale si raffredda, si solidifica, e dalla forma aperta esce un bel pane di metallo.
Nelle acciaierie di Terni si fabbricano corazze per le navi da guerra, ruote per le locomotive, verghe per la ferrovia, fili di ferro e di acciaio di vari spessori, prodotti che fanno onore alla metallurgia nazionale.

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Umbria

Fior d’amaranto,
all’Umbria diede il cielo l’ornamento
di ricche messi e d’un bel verde ammanto.
Qui nacque il Santo Abate che il lavoro
prescrisse unito con le preci in coro
e nacque inoltre il Santo dell’amore,
che dell’Italia nostra è protettore.

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Viti e uva ad Orvieto

La fama di Orvieto poggia du due solidi pilastri: il suo Duomo, che è un miracolo dell’arte; e il suo vino che è un miracolo di natura… Del paesaggio agricolo, la vite è elemento essenziale, ma non esclusivo. Qui, secondo un sistema che rispecchia ancora un’economia patriarcale, e sembra tuttora il più redditizio, vige la coltura promiscua. La vite si alterna all’olivo e fra alberata e alberata, opportunamente spaziate, rosseggia il maggese ed esplode, d’estate, il biondo del grano.
Le uve che qui si producono sono di specie diversa e si alternano una all’altra nello stesso vigneto. Rare sono le nere, perchè di resa mediocre. La gamma delle bianche è la più differenziata; ognuna ha la sua grana, il suo colore e sapore. C’è il ‘verdello’ dolcissimo di chicco piccolo e duro, con la buccia verdognola, che si macula a maturazione, di tenera ruggine; c’è il ‘procanico’ liquoroso, dal grappolo lungo; il ‘rupeccio’ con grani grossi compatti, di sapore asprigno; la pendula ‘malvasia’, il ‘grechetto’, che dona il più ricercato vin santo; c’è, sebbene meno pregiata, al pari del  ‘montonico’, la grassa ‘vernaccia’ acquosa e caramellosa, ma di straordinaria resa.
La sapiente mescolanza di queste uve nella vinificazione, gioca sul grado di alcolicità del vino e sulla forza e delicatezza del suo profumo e sapore. Sta nella qualità delle uve, che il terreno e il sole insaporiscono di specifiche, irripetibili sapidezze, il segreto primo dello squisito ‘Orvieto’.
(A. Sestini)

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La leggenda della Verna

La Verna è il monte sacro dei francescano. Qui san Francesco ricevette le stimmate, il 14 settembre 1224. Oggi vi si ammira un grande monastero. Questo è unito alla chiesa da un corridoio. Ogni notte i frati lo percorrono per riunirsi in chiesa a pregare, nella cappella delle Stimmate. Una notte, mentre fuori fischiava il vento e turbinava la neve, il corridoio pareva più freddo del solito e i frati non lasciarono la cella e non si recarono a pregare. Allora gli animali del bosco lasciarono la loro tana, percorsero il corridoio e rimasero in chiesa al posto dei religiosi.
Essi, il giorno dopo, si accorsero del fatto, osservando le impronte lasciate dagli animali sulla neve. E neve nel corridoio e ancora neve in chiesa. Neve abbandonata dagli zoccoli e dalle zampe degli animali.
Da allora i frati, per quanto il freddo incrudelisse, non hanno mai tralasciato di raggiungere la cappella nel cuore della notte.
(A. Santi)

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La leggenda di Todi

L’origine della città di Todi risale ai tempi in cui una tribù di Umbri si accampò presso il Tevere.
Narra la leggenda che la principessa di questa tribù stava un giorno bagnandosi nel fiume quando, improvvisamente, vide calare dal cielo un’aquila, ghermire una parte delle vesti della fanciulla, alzarsi in volo verso il vicino colle e scomparire fra gli alberi che ne coprivano la cima.
La principessa non esitò. Uscì dal Tevere, si avviò su per il colle e, raggiuntane faticosamente la vetta, ebbe la lieta sorpresa di trovarvi le sue vesti. Guardandosi attorno non poca fu la sua meraviglia, stupita dalla bellezza del panorama che le si apriva davanti: laggiù la valle del Tevere appariva rigata dalle argentee acque del fiume e dei suoi affluenti; e la cingevano, tutt’intorno, boscose schiere di colli simili a onde di smeraldo coronate a loro volta da un’austera chiostra di montagne.
Che spettacolo incantevole! La principessa ne era commossa e pensava: “Dirò al re, mio padre, che ci porti ad abitare qui, sulla cima di questo colle”.
E difatti così avvenne. La tribù si trasferì sul colle, vi costruì le prime casupole e la vita di Todi ebbe inizio.

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L’Umbria e il suo santo

Siamo in Umbria, nella terra dei Santi e dei pittori, breve regione senza mare, raccolta fra le sue colline come un nido tra i rami di un albero, con le valli dove cresce il cipresso e dove si apre qualche sereno occhio di lago.
Il paesaggio umbro, come quello toscano, è intimamente italiano: non ha forse lo splendore del paesaggio napoletano, né le vastissime luci distese che fanno così belli i nostri cieli settentrionali, ma è quieto, sognante, raccolto.
Quando i nostri pittori del Quattrocento, dipingendo i quadri della vita di Gesù, dovettero raffigurare i colli, i fiumi di Palestina, non andarono laggiù, ma trovarono che la terra umbra, con le sue verdi colline, i suoi ruscelli e i suoi cieli al tramonto e all’alba, entro i quale era così bello immaginare voli di angeli e corone di cherubini, era ben degna di incorniciare la figura del figlio di Dio.
Assisi è nel cuore di questa terra. Il più grande dei santi, san Francesco, è nato, ha predicato ed è morto qui. Una grande chiesa, una chiesa a tre piani, l’unica al mondo costruita così, è dedicata alla sua memoria, eretta nel campo dove un tempo si seppellivano i giustiziati e dove, nella sua umiltà, il santo volle essere oscuramente sepolto.
(O. Vergani)

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Antichi usi e costumi

I sentimento religioso, profondamente radicato in un popolo come questo, attaccato alle tradizioni, si manifesta tra l’altro con ingenui racconti intorno alla vita di alcuni santi (Alessio, Antonio, Caterina, ecc.) oppure intorno alla Passione. Tali racconti, che vanno sotto il nome di ‘orazioni’, e sono considerati vere e proprie preghiere, sono cantati dai contadini nelle stalle durante le serate invernali.
Ogni paesino ha la sua Confraternita intitolata al santo del luogo: le entrate (elemosine, offerte) sono amministrate dai ‘santesi’ che preparano e organizzano le feste patronali.
Non mancano residui di superstizioni antiche come quelle ispirate dal terrore della morte; il sacerdote che porta il viatico a un morente non deve lasciar appoggiare la croce al muro della casa per evitare che vi resti appesa la morte e se una persona presenzia al decesso, deve fermarsi nella casa del morto per nove giorni affinché non porti in giro i germi della morte.
Nelle campagne si usa raschiare un po’ di intonaco dalle pareti di una ‘maestà’ (così sono chiamate le piccole cappelle sparse un po’ ovunque), racchiuderlo in sacchetto di tela e porlo al capezzale dell’ammalato; se questo muore, il sacchetto viene collocato nella bara; se guarisce, viene appeso come ex-voto in quella maestà.
I frati di alcuni conventi praticano ancora l’esorcismo, cioè la cacciata del diavolo da persone che ne sono credute invase: ma usano delle precauzioni per evitare che i diavoli, usciti dall’indemoniato, provochino temporali o grandinate.
La mattina del matrimonio, lo sposo, a cavallo con un certo numero di amici, si presenta alla casa della sposa e provoca la finta scena del suo rapimento. Segue la cavalcata nuziale fino alla chiesa.
La cucina umbra è tanto appetitosa quanto semplice e, come condimento, vi predomina lo squisito olio delle sue colline, accompagnato dai celebri tartufi neri e dal non meno famoso vino di Orvieto.
La più antica e caratteristica minestra è quella di farro che si ottiene facendo lentamente cuocere questo cereale, in un brodo di cosciotto di maiale.
(A. Basetti Sani – 1967)

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Feste tradizionali ad Assisi

Le principali feste tradizionali in Assisi sono: la festa del Perdono, la festa di San Francesco, la festa del Voto.
La festa del Perdono dal punto di vista religioso è la più famosa e richiama alla città un numero talvolta eccezionale di pellegrini. Essa ebbe origine, nel 1223, dalla concessione che papa Onorio III fece personalmente a San Francesco di un’indulgenza plenaria: peccati e pene a quelli annesse ottengono il perdono totale dopo la confessione, la comunione e la visita alla Porziuncola in Santa Maria degli Angeli. Dal 31 luglio al 2 agosto immense folle di fedeli, tra cui moltissimi vestiti nei caratteristici costumi regionali, sciamano per le vie della città, salgono all’eremo delle Carceri e scendono in pianura a Santa Maria degli Angeli, per pregare alla Porziuncola, alla cappella del Transito e a quella del Roseto. Nella grande Basilica, dal vespro del 31 luglio ha inizio la commovente veglia notturna che si protrae con solenni funzioni fino al mattino del 1 agosto.
La festa di San Francesco viene celebrata tra il 3 ed il 4 ottobre. La mattina del 3, nella Chiesa Inferiore dedicata al Santo, del quale in quel giorno si commemora la morte, dai vari comuni d’Italia viene effettuata la simbolica offerta dell’olio per la lampada votiva che sempre arde davanti alla tomba di San Francesco. Al tramonto dello stesso giorno è rievocato, in modo emozionante, il Transito, cioè la morte del Poverello di Assisi, e tale rievocazione, viene ripetuta poi, a tarda sera, anche nella basilica di Santa Maria degli Angeli.
La festa del Voto si svolge tra il 21 e il 22 giugno a ricordo della vittoria del 1241 sui Saraceni per opera ed intercessione di Santa Chiara. La sera del 21 giugno e mura, le torri, i campanili, le case si illuminano con migliaia di fiaccole. Tutto il popolo di Assisi rievoca la veglia d’armi, durante la quale Santa Chiara con le compagne pregò in San Damiano per ottenere che la città restasse libera e fosse così salva dai Saraceni.  E’ uno spettacolo veramente fantastico!
(A. Basetti Sani – 1967)

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Giostra della Quintana

Questa rievocazione storico-cavalleresca, che si tiene a Foligno, risale al 1613. La Quintana è un fantoccio di legno, infisso in un perno girevole, che sorregge col braccio sinistro uno scudo e impugna con la mano destra un bastone munito di un anello. La Giostra, che si corre in settembre nel Campo dei Giochi, è una gara di destrezza fra dieci cavalieri che rappresentano altrettante contrade storiche della città: Ammanniti, Badia, Cassero, Contrastanga, Croce Bianca, Giotti, La Mora, Spada, Morlupo, Pugilli. Il cavaliere, compiendo il percorso al galoppo nel più breve tempo possibile, deve infilare con la lancia l’anello della Quintana ed evitare di perdere il cappello, in mantello, la staffa o altro.
La manifestazione si apre con la lettura del bando fatta dal balcone del Municipio ed è preceduta, la vigilia, da uno sfarzoso corteo di circa 500 persone in costume del 600: dame e cavalieri, valletti e palafrenieri, alabardieri, trombettieri e tamburini, che sfilano di sera attraverso la città alla luce di fiaccole e bengala. L’attrattiva della Giostra è costituita oltre che dalle prove di destrezza dei cavalieri, dallo scenografico spettacolo di questa massa in costume nella quale ai colori delle sete e dei broccati e allo splendore delle bellezze muliebri fanno riscontro lo sfolgorio delle corazze e delle armi e l’austerità dei magistrati.
(F. Monaco)

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La festa dei ceri a Gubbio

Come si fa a farla capire a chi non l’ha mai vista?
Tutta la città brucia e risplende in una specie di gioioso delirio.
Non c’è una posta, non c’è competizione sportiva, non c’è un palio da vincere e da conservare per un anno nella contrada, come in altre mirabili feste italiane. Nella forsennata corsa sul Monte con le tre pesanti macchine, fino al convento di sant’Ubaldo, con cui si conclude al crepuscolo la grande giornata, non c’è un primo e un ultimo arrivato.
I Ceri non devono sorpassarsi, né d’altronde lo potrebbero per quell’aspro viottolo; essi giungono lassù nell’ordine stabilito da sempre: Sant’Ubaldo, San Giorgio, Sant’Antonio. Soltanto se un schiera rallenta per un attimo la massacrante andatura, viene sbeffeggiata da quella che incalza. Si deve arrivare tutti insieme, ma nel minor tempo possibile.
I Ceri non dividono ma uniscono  l’anima di Gubbio. E i ceraioli sono ricchi e operai, professionisti e commercianti, possidenti e contadini.
Lo spettacolo vero, il fatto straordinario e forse unico, quello che ti attira e trascina, ti fa fermare, lacrimare, urlare, è nello spontaneo entusiasmo di tutto il popolo, nella passione che prorompe irrefrenabile diresti non solo fagli uomini, ma anche dal cielo e dalle pietre…
Questo, nessuna parola lo potrà mai dire.
(M. Carafoli)

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Umbria

Situata proprio nel cuore della penisola, tutta a monti e a colline, essa si apre in conche e pianure lungo il Tevere che la attraversa, e lungo i suoi affluenti, che la rendono verde di muschi, di viti, di ulivi, di gelsi. Regione dunque essenzialmente agricola, in cui però non mancano le industrie (acciaierie, industrie delle ceramiche e delle maioliche artistiche, industrie dolciarie ed alimentari). Il capoluogo è Perugia, alta sopra il suo colle, con monumenti importanti, come il palazzo del Comune, la Cattedrale, l’arco Etrusco.
Ricordiamo il pittoresco lago Trasimeno, le sorgenti del Clitunno che scorrono limpide tra i salici; Spoleto, cinta di mura e dominata dalla rocca, Orvieto con il meraviglioso Duomo, Assisi dove visse San Francesco.

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Dolcezza umbra

Penso che l’Umbria è proprio questo: città e uomini con radici nel passato così profonde da essere ancora visibilmente vicini ad esse. Perciò i suoi artisti e i suoi santi poterono fondere nell’arte e nella religione l’amore della natura e delle cose della natura con l’amore degli uomini, in un dialogo che ha creato quella dolcezza che è il dono dell’Umbria e che è così raro, nei nostri tempi, trovare. Qui si riconquista quella dolcezza, anche se il destino moderno dell’Umbria sembra ripetere quello dell’Etruria sua madre. Tanta incantevole pace si paga dagli Umbri con un sentimento di abbandono, di segregazione. Nei loro discorsi, un po’ amari, ho scoperto un rammaricato rimprovero a tutti gli italiani. Molti mi hanno detto che l’Umbria è stata dimenticata o, come approfittando della sua dolcezza, la si lascia languire e intristire economicamente.
(G. Russo)

Umbria verde

In realtà l’Umbria, se se ne toglie qualche angoletto come le fonti del Clitunno o il Monteluco, non è più verde del Canavese o della Brianza; anzi il verde vi è meno deciso per lo spesseggiare delle pallide macchie degli uliveti e l’affiorare della roccia non appena i bordi dei pianori cominciano a guadagnare l’altezza e le colline a diventare montagne. Allora la civilissima campagna, cosparsa di fattorie, di ville, di borghi, e paesi compatti nella loro cinta di mura medioevali, si inselvatichisce e si spacca in burroni dove il verde si aggrappa a rupi che scoprono l’ossatura calcarea dell’Appennino umbro. E la stessa vegetazione dei fertili pianori non è tutta dolce di pioppi dalle foglioline tremolanti, ma vigilata qua e là da severi cipressi e da querce vigorose che vi stanno come le torri e le rocche degli abitanti.
(A. Fratelli)

Gubbio silenziosa

Sotto la montagna di Gubbio la campagna verde tagliata in rettangoli geometrici come pezze di diversi colori, fa posto a un paesaggio brullo, con boschi dal verde cupo dei lecci e sassi bianchi la dove la montagna fu spogliata. Nella città del lupo si entra per un vecchio arco e subito vi sorprende il silenzio straordinario che vi accoglie. a città pare deserta, abbandonata, e neanche la domenica vi sono automobili fastidiose. Dalla vasta piazza che è ai piedi delle mura si resta ad ammirare i palazzi e le case che si alzano sulle collina. Se si vuole ritrovare la nobile pace della provincia italiana, si deve venire a Gubbio, a riscoprire l’Umbria rimasta silenziosa e vergine, schiva e gentile.
(G. Russo)

L’albero dell’Umbria

L’ulivo è l’albero dell’Umbria. Collane di ulivi cingono i poggi con il loro grigio- verde, discendono sul lago, si arrampicano sui monti, fin dove il freddo non li respinge, contenti di poca terra, avviticchiando le radici alla roccia. Sono, massime in alto, piccoli ulivi fenduti, squartati, smidollati per resistere alle malattie di un clima troppo rigido, non più tronchi, ma cortecce bucate, nodose, contorte, che di notte sembrano anime in pena protendenti le braccia alle stelle. Essi stendono sul paesaggio una velatura di malinconia, e danno la ricchezza di un olio saporito come il burro, e biondo come il sole. Se la nota dominante dell’Umbria è la pace, questa pace nasce dal martirio. Come l’ulivo.
(M. Sticco)

Il Trasimeno

Il Trasimeno… un lago del silenzio e della solitudine. Tolti i battelli del servizio di circumnavigazione e qualche motoscafo, non vi sono che le barche dei pescatori che si costruiscono ancora come tanti secoli fa, con il ventre piatto per il basso fondo e con la prua sopravanzata per varcare i canneti. A ritrovarsi nel mezzo del lago si ha la sensazione di un vastissimo spazio, una sensazione che può dare solo il Trasimeno perchè non lo circondano montagne elevate né scogliere a picco, ma colline dolcemente sfumate e digradanti. Sulle colline biancheggiano vecchi castelli e le antiche abbazie. Le tre isole, la Polvese, la Maggiore e la Minore, sonnecchiano immerse in una luce celeste.
(O. Guerrieri)

Assisi

Quando si sale verso di essa dalla pianura di Santa Maria degli Angeli, la città si presenta chiara e luminosa, tutta distesa a scaglioni sovrapposti lunghi e sottili, da San Francesco, con le enormi costruzioni del sacro Convento, al campanile alto e snello di Santa Chiara e , più in su, alla torre poderosa e scura del Duomo.
Tutta in pietra di Subasio, rossa e grigio chiara, la città manda agli occhi un fulgore di luce quasi orientale. Più di accresce l’effetto in certi tramonti accesi, quando il largo dorso del Subasio, sovrastante alla città, assume un rosso di fiamma, quale massa di metallo incandescente. La vista di Assisi sfolgorante suscita allora l’impressione di un paradiso lontano, misterioso e inaccessibile. Colore e linee si fondono senza scomparire, in una lenta continua oscillazione di luce e d’ombra; e tutte le cose comunicano fra loro e con lo spirito di che guarda, in una mistica unità.
Accade talvolta che su questa assorta contemplazione arrivi il rintocco lento, solenne, oscillante della campana di San Francesco; vicinissima, e che pur sembra risonare da una misteriosa lontananza, direttamente dal cielo. Suono e visione, l’uno nell’altra, rapiscono lo spirito: non si guarda più e non si ascolta: il tempo si annulla e un attimo vale un secolo. Per quell’attimo, Assisi è il vestibolo dell’eternità-
(L. Salvatorelli)

Acquarello steineriano natalizio tutorial

Acquarello steineriano natalizio – tutorial passo passo per realizzare un quadretto in tema natalizio, adatto a bambini  a partire dalla classe terza della scuola primaria. Può essere una bella decorazione della casa, un bel regalo per una persona cara, un meraviglioso biglietto di auguri…

La tecnica dell’acquarello steineriano prevede l’utilizzo del foglio bagnato, e l’uso dei soli colori primari. Una caratteristica di questa tecnica è inoltre quella di lavorare per superfici di colore e non per contorni. Se è la prima volta che vi cimentate, vi consiglio di leggere questa presentazione:

Acquarello steineriano natalizio – Materiale occorrente:
– un foglio di carta da acquarello
– una spugna
– acquarello blu di prussia, rosso carminio e giallo limone
– un barattolo di acqua
– pennello

Acquarello steineriano natalizio – Come si fa:

Preparate un bello sfondo col blu di prussia, partendo dai margini del foglio col colore più concentrato, e sfumandolo con pennellate tondeggianti e dolci verso il centro:

col rosso carminio definite la linea che separa cielo e terra (il rosso e il blu, mescolandosi, formeranno un bel viola):

Sfumate il rosso nel blu creando in basso un paesaggio notturno e in alto un bel cielo, seguendo la direzione delle pennellate precedenti:

riprendete il blu di Prussia, e scurite ulteriormente il paesaggio, creando colline, nella valle, con poche pennellate fate sorgere un villaggio visto in lontananza:

Ora lavate bene il pennello, asciugatelo, e schiarite il punto più chiaro del cielo, asportando il colore del foglio. Procedete così più volte: lavate il pennello, asciugatelo, asportate del colore dal foglio, rilavate il pennello, asciugatelo, e togliete altro colore:

con la stessa tecnica schiarite dei raggi che partendo dal punto chiaro che avete creato si diramino in tutte le direzioni:

Sempre asportando il colore, create nel paesaggio una stradina serpeggiante che porti al villaggio:

e delle finestrelle nelle casette. Col blu di prussia, abbozzate delle figure nella stradina che si stanno avviando per via, infine col pennello pulito e pochissimo giallo limone illuminate la stella.
Questa è la pittura bagnata:

E questa la pittura asciutta:

Le proprietà fisiche dei corpi

Le proprietà fisiche dei corpi unità didattica completa per bambini della scuola primaria, con idee per le lezioni ed esperimenti scientifici per dimostrare i concetti.

Se domandiamo ai bambini cosa si intende per corpo, ci sentiremo rispondere: “Cose come la cattedra, la lavagna, il banco, sono corpi”. I bambini classificano per tipi e non per definizioni, ma se ci pensiamo anche lo scienziato si serve di questo tipo di classificazione quando non ha ancora colto i caratteri essenziali specifici di una determinata serie di oggetti.
Se poi chiediamo ai bambini se il pensiero, la bontà, la giustizia, la verità, sono corpi, ci risponderenno di no, perchè non si vedono: i bambini pensano che un corpo deve essere percepito dalla vista; questo spiega perchè trovino difficile considerare l’aria un corpo.
Tuttavia è semplice spiegare loro che il carattere di “visibile” non è sufficiente a designare il “corpo”, e basterà far osservare loro che, per esempio, la luce che emana da una lampadina elettrica, o da una qualsiasi altra fonte luminosa, anche se si vede, evidentemente non è un corpo.
Tornando a chiedere ai bambini cosa si intende con “corpo”, i bambini diranno che un corpo si deve poter toccare, deve essere in qualche modo percepito col tatto. “Ma allora è un corpo il calore che emana dalla stufa, dal sole, da qualsiasi altra fonte di calore?”. A questo ulteriore stimolo, i nostri piccoli scienziati cercheranno espressioni più precise, ad esempio diranno che un un corpo si deve poter prendere in mano, perchè se stringo la mano in una stanza luminosa non afferro nulla, puure non posso portare un pezzo di calore da un luogo all’altro come posso fare con un pezzo di legno o di ferro.
In questo modo ci stiamo avvicinando alla realtà un passo alla volta, ma non l’abbiamo ancora raggiunta. A questo punto ancora il bambino non potrà credere che l’aria sia un corpo, perchè non si può (o meglio non di si accorge di potere) stringere nella mano.

Le proprietà fisiche dei corpi

Primo esperimento
Prendiamo una bilancia e proviamo a spiegargli il grande mistero: mettiamo su uno dei piatti una moneta, una pallina, una riga, una matita, e la bilancia perderà costantemente il suo equilibrio, obbligandoci, per ristabilirlo, a gettare un peso corrispondente sull’altro piattello.
Ripesiamo ora attentamente la moneta (o meglio ancora, se l’abbiamo, una sfera di metallo). Poi togliamola dalla bilancia, facciamola riscaldare e rimettiamola sul piatto: rimessa sul piatto il suo peso sarà identico a prima.
Pesiamo ora una torcia elettrica spenta, e poi ripesiamola accesa: anche in questo caso i due pesi saranno identici.
La luce e il calore non sono corpi perchè non hanno un peso, o meglio non hanno un peso controllabile da alcuna bilancia, per quanto precisa essa sia. La precisazione è dovuta, in quanto la fisica afferma l’equivalenza tra massa ed energia, e questo conduce teoricamente ad affermare che anche calore e luce hanno un peso (un chilogrammo di ghiaccio pesa lievemente meno dell’acqua che risulta dalla sua fusione). Ma si tratta di differenze talmente minime e imponderabili anche con le più sensibili bilance di precisione che, per non portare i bambini nel campo dell’indimostrabile (che per loro equivarrebbe a incredibile), non è un gran male mantenere provvisoriamente questo vecchio carattere distintivo della fisica classica, aggiungendo che quel “non peso” è legato agli strumenti di cui noi disponiamo per controllarlo, e al nostro senso barico.

Quello che possiamo definire come “corpo” ha un peso avvertibile dal nostro senso barico, o almeno da strumenti che lo sostituiscono. Naturalmente un corpo può essere percepito anche con gli altri sensi: visivo, uditivo, olfattivo, gustativo, termico; ma l’essenziale sarà sempre che cade sotto il senso barico e, quando ciò non è possibile per le dimensioni o la lontananza dal corpo, o impossibile da controllare per l’insufficiente finezza del  senso, bisognerà comunque dimostrare, per effetti, che esso pesa.
Con questo criterio, il bambino non sbaglierà più, mentre altre definizioni di “corpo”, come “corpo è tutto ciò che cade o può cadere sotto il dominio dei sensi”, oppure “corpo è una porzione di materia collocata nello spazio”, possono confonderlo: la prima può portarlo a credere che siano corpi anche la luce, il calore e il suono; la seconda, rigorosamente scientifica, è superiore in questa prima fase alla sua capacità di astrazione.

Stabilito questo primo carattere dei corpi, non ci sarà molto difficile fargli notare che essi possono presentarsi sotto diversi stati, anzi che uno stesso corpo può passare dall’uno all’altro di questi stati per effetto di un aumento o di una diminuzione di calore. Non è ancora il momento di dirgli che anche la pressione può essere causa di cambiamento.
I corpi che i bambini ci hanno nominato di primo acchito (cattedra, lavagna, banco) sono corpi che hanno una forma propria ed occupano perciò uno spazio determinato e invariabile. Ma ve ne sono altri che, pur avendo un volume costante, cioè occupando una stessa quantità di spazio, variano di forma, a seconda del recipiente che li contiene: un litro di acqua, o di latte, o bibita, è sempre un litro, ma assume forma conica, cilindrica, prismatica a seconda del recipiente che lo contiene.
C’è inoltre una terza categoria di corpi che non hanno ne forma ne volume costanti, ma, assumendo la forma del recipiente che li contiene, non giungono, come i liquidi, ad un determinato livello, bensì lo occupano tutto, per grande che sia, e tendono ad espandersi in uno spazio sempre maggiore, così che, aprendo il recipiente che li contiene, essi ne escono fuori.

Le proprietà fisiche dei corpi

Secondo esperimento
Mettiamo in una bottiglietta qualche cristallo di iodio (se non si trova in farmacia, si può acquistare la tintura di iodio, versarla in un piattino di plastica e lasciare evaporare a temperatura ambiente la base alcolica: sul piattino si formeranno i cristallini di iodio) chiudiamo ermeticamente per evitare le fuoriuscita dei vapori, e facciamolo riscaldare: magnifiche colorazioni rosso-violacee, cioè vapori di iodio, riempiranno la bottiglia. Mettiamo la stessa quantità di iodio in una seconda bottiglie, di forma e dimensioni diverse: quelle stesse colorazioni riempiranno tutto la bottiglia, mentre la quantità di liquido che serve a riempire la bottiglietta non sarà naturalmente mai sufficiente a riempire anche la bottiglia.

Se tutti i gas si vedessero, come i vapori di iodio, e se avessero tutti un odore, il bambino si convincerebbe facilmente della loro esistenza. Ma quando gli parliamo dell’aria, il bambino avrà dei dubbi: nessuno dei suoi sensi riceve da essa qualche impressione, che possa fargli ritenere che l’aria è un corpo, e molto meno quella sensazione barica che ha imparato a ricercare come primo contrassegno dei corpi.
Facciamogli capire, prima di tutto, quanto peso esercita una pressione, e che il peso altro non è che la pressione esercitata da un corpo su un altro che gli impedisce di cadere.

Le proprietà fisiche dei corpi

Terzo esperimento
Prendiamo un bicchiere pieno d’acqua e facciamo il classico esperimento di capovolgerlo su un foglietto di carta (una cartolina va benissimo) fatto prima aderire perfettamente all’orlo del bicchiere: l’acqua non si versa.

Evidentemente c’è una forza che sostiene l’acqua, qualcosa al di fuori deve esercitare una pressione sul foglio di carta, superiore al peso dell’acqua contenuta nel bicchiere, e, poichè non c’è altro che aria sotto il bicchiere, l’aria soltanto può essere la causa del fenomeno.

Le proprietà fisiche dei corpi

Quarto esperimento
Prendiamo una bottiglia dal collo largo e non lavorato, e dopo averne rarefatto l’aria con  la combustione di un pezzo di carta (la carta bruciando consuma l’ossigeno dell’aria in essa contenuto), collochiamo rapidamente alla sua imboccatura, come un turacciolo, un uovo sodo sgusciato.
Lo vedremo presto allungarsi, assottigliarsi e infine precipitare, con una piccola detonazione, sul fondo della bottiglia. Chi ha esercitato sull’uovo un peso capace di operare il prodigio? L’aria, nient’altro che l’aria.

Ora proviamo a dare ai bambini l’idea del peso che l’atmosfera esercita su tutti i corpi, proponendo l’esperimento del Torricelli.
La realizzazione dell’esperimento prevede l’uso di un tubo barometrico e di mercurio. Si riempie il tubo di mercurio, si versa altro mercurio in una scodella, si chiude col pollice il tubo e si capovolge tenendolo chiuso fino a portare il foro al di sotto del mercurio contenuto nella scodella:

Si osserva che, liberando l’apertura, il mercurio scenderà nel tubo di circa 24 cm. Chi è che sostiene il peso della colonnina alta circa 76 cm che vi rimane sospesa, contrariamente a quanto il bambino si attenderebbe dovesse avvenire per effetto della gravità?
L’aria; nient’altro che l’aria che preme sul mercurio della scodella.

Le proprietà fisiche dei corpi

Poichè l’esperimento prevede l’uso di mercurio, possiamo mostrare ai bambini un video:

E anche se non vogliamo fare ora il semplice calcolo del peso di quella colonnina di mercurio, corrispondente a quello della pressione atmosferica, rimandandolo alle lezioni riguardanti la meccanica degli aeriformi, da cui sapremo di reggere sulla testa il bel peso di oltre due quintali, potremo sempre darne un’idea al bambino versando il contenuto del tubo barometrico in un recipiente qualsiasi ed invitandolo a reggere quel recipiente.
Non c’è alcun dubbio che l’aria pesi un peso controllabile e misurabile, e che debba perciò essere considerata a tutti gli effetti un corpo.
Ma il bambino si porrà a questo punto una nuova domanda: “Se l’aria pesa, e pesa così considerevolmente su ogni porzione della superficie del nostro corpo come pesa sul mercurio, come mai non ci schiaccia?”

Rifacciamo l’esperimento dell’uovo sodo che funziona come tappo della bottiglia, ma senza consumare l’ossigeno dell’aria in essa contenuta (non bruciamo la carta al suo interno): l’uovo vi resterà immobile nella sua funzione di tappo.
Ricordiamo l’esperimento della cartolina che, sostenuta dall’aria, sosteneva l’acqua contenuta nel bicchiere capovolto. Per dimostrare la pressione dell’aria dall’alto al basso (che è quella a cui noi diamo il nome di peso) occorre eliminare quella dal basso verso l’alto, altrimenti, sollecitato da due forze contrarie, l’uovo non obbedisce a nessuna delle due.

Allo stesso modo, se due bambini spingono con uguale forza un banco, uno verso destra e l’altro verso sinistra, il banco rimarrà dov’è, non si accorgerà nemmeno di essere spinto.

Le proprietà fisiche dei corpi – Il “trasformismo” della materia

Dicendo che i corpi possono presentarsi sotto tre aspetti diversi, abbiamo già accennato ai bambini che uno stesso corpo può assumere l’uno o l’altro di questi aspetti: l’esempio più facile è quello dell’acqua che, sottoposta ad un notevole raffreddamento, solidifica, mentre sottoposta all’azione del calore si trasforma in vapore acqueo.
Con grande meraviglia dei bambini potremo fabbricare, seduta stante, del ghiaccio artificiale, mettendo un po’ di acqua in una provetta e immergendola in un miscuglio frigorifero (ad esempio neve mista a sale).
Ma potremo anche partire dallo stato solido per arrivare al liquido e all’aeriforme, servendoci della cera o di qualsiasi altro corpo facilmente fusibile con un fornelletto.

Le proprietà fisiche dei corpi – Proprietà classiche dei corpi

Stabilito ormai che cosa si intenda per corpo, quali siano gli aspetti sotto cui i corpi possono presentarsi, e come ciascuno di essi possa assumere l’uno o l’altro dei tre stati della materia arriveremo a ricercare coi bambini quali siano i caratteri propri a tutti i corpi, e quali invece siano propri solo a quelli che si trovano in un determinato stato della materia.
Una proprietà comune a tutti l’abbiamo già incontrata, ed è il peso, ma ce n’è un’altra, intuitiva, che il bambino ha già implicitamente osservato e che già faceva capolino, nei sui primi tentativi di definizione di corpo, quando diceva che il corpo deve potersi “toccare”.

Questo toccare, almeno nei corpi solidi, equivale per il bambino ad isolare il corpo nello spazio, a limitarlo per mezzo della superficie, a verificare quanto si stende in lunghezza, in larghezza, in profondità. Se il bambino lo leva dal luogo dov’è collocato, lo spazio che occupava si confonde con lo spazio circostante non occupato da oggetti, ma, se il corpo potesse lasciare una traccia nello spazio, il bambino potrebbe avere davanti a sè, ben definita, la porzione di spazio precedentemente occupata dal corpo: questa porzione si chiama volume, e la proprietà del corpo di occupare quello spazio si chiama estensione.
Che anche i liquidi occupino uno spazio è intuitivo e non c’è bisogno di alcun esperimento particolare. Un liquido che riempie un recipiente occuperà tanto spazio quanto ne occupa il recipiente, eliminato lo spessore delle pareti del recipiente stesso.
Degli aeriformi potremo dire la stessa cosa se li consideriamo in recipienti chiusi, e potremo perciò richiamarci all’esperimento dei vapori di iodio; ma, anche immaginando di stappare i recipienti, essi occuperanno sempre tutto lo spazio disponibile.

Le proprietà fisiche dei corpi

Quinto esperimento
Diciamo ora ai bambini di mettere un libro nello spazio preciso occupato da un altro libro: per farlo i bambini dovranno levare quello che già si trova in quello spazio per collocarvi l’altro che noi gli abbiamo indicato.
Facciamo gettare ai bambini un sasso in un bicchiere pieno d’acqua, e un po’ d’acqua (tanta quanta corrisponde al volume del sasso) uscirà dal bicchiere.
Se il bicchiere non è pieno d’acqua e vi immergiamo un corpo qualsiasi, l’acqua si sposterà per lasciar posto al corpo, elevando il suo livello nel recipiente.
Se in una scodella piena di latte vogliamo versare dell’acqua, i due liquidi potranno mescolarsi, ma una parte del miscuglio dovrà traboccare dagli orli della scodella.
Questa proprietà generale della materia per cui nessun corpo può occupare la porzione di spazio già occupata da un altro corpo, si dice impenetrabilità, e si può sperimentare in tantissimi modi.
E’ però facile che il bambino non creda all’impenetrabilità dei gas, e in particolare dell’aria, perchè, mentre l’aria è dappertutto, noi ci muoviamo al suo interno liberamente. Possiamo allora ricordargli, per analogia, quello che succede quando si tuffa in piscina: l’acqua si sposta al suo passaggio, si apre davanti a lui e si richiude dietro di lui, ma dove si stende il suo corpo non può contemporaneamente stendersi l’acqua. Nella vasca da bagno si può vedere l’acqua che si alza di livello quando ci immergiamo, ma questo fenomeno non  è visibile in piscina, o al mare, perchè lo spazio occupato dal nostro corpo è infinitesimo in rapporto alla loro estensione.
Ebbene, ciò che avviene nell’acqua avviene anche nell’aria; essa si sposta al suo passaggio; si apre davanti a noi, si richiude dietro di noi, ma dove si trova il nostro corpo non ci può essere contemporaneamente aria.

Le proprietà fisiche dei corpi

Sesto esperimento
Per convincere praticamente i bambini che dove c’è un corpo non ci può essere aria, o meglio ancora, reciprocamente, che dove c’è aria lo spazio non può essere occupato da un altro corpo, possiamo fare un semplice esperimento.
Prendiamo una ciotola trasparente d’acqua e cerchiamo di mettere sul pelo dell’acqua un bicchiere vuoto capovolto: il livello dell’acqua nel bicchiere sarà uguale a quello dell’acqua presente nella ciotola.


Ma  se premendo e inclinando il bicchiere faremo uscire le bolle d’aria in esso contenuta, l’acqua salirà dentro di esso per un buon tratto.

 L’acqua non poteva entrare nel bicchiere finchè vi era aria, perchè l’aria, come tutti i corpi, è impenetrabile.

Mettiamoci ora alla ricerca di qualche altra proprietà generale della materia. Se prendiamo un po’ di chicchi di caffè e li maciniamo, otterremo da ogni chicco un numero grandissimo di granelli. Ma ognuno di quei granelli è ben lontano da rappresentare la più piccola parte in cui quel corpo solido si può suddividere.
Se mettiamo un po’ di zucchero o un po’ di sale in un bicchiere d’acqua, queste sostanze si divideranno e si suddivideranno in parti così minime che non ci sarà più possibile afferrarne con l’occhio l’esistenza.
Se soffiamo con forza in uno spruzzatore, o schizziamo fuori l’acqua da una peretta di gomma, essa si suddividerà in una quantità di minutissime goccioline, e così avverrebbe per qualsiasi altro liquido.
Questa possibilità di dividersi in parti piccolissime si chiama divisibilità, ed è anch’essa una proprietà di tutti i corpi.

La più piccola parte ottenibile da queste divisioni si chiama atomo, da una parola greca che vuol dire appunto “indivisibile”. Questo “indivisibile” non è affatto indivisibile, ma ci conviene per il momento considerarlo come tale. Che esso sia effettivamente tale dal punto di vista chimico, ma che, viceversa, lo si debba pensare fisicamente divisibile, e che ciò sia stato confermato praticamente con la divisione dell’atomo, in questa prima fase di osservazione dei fenomeni della natura è prematuro da affrontare. Rimandiamo queste nozioni ad un secondo momento. La momentanea “ignoranza” non costituisce però ne un errore (in quanto l’atomo scisso non rappresenta più il corpo semplice, o elemento, che eventualmente volessimo considerare), ne un ostacolo alla comprensione dei fenomeni che ci prepariamo a spiegare.
Questi atomi, dunque (a cui, del resto, neppure il fisico ha cambiato il nome), si riuniscono in piccoli gruppi detti molecole per effetto di una reciproca attrazione, e le molecole a loro volta si attraggono a formare il corpo; se si respingessero, il corpo, evidentemente, non starebbe unito, ma ogni particella se ne andrebbe per suo conto nello spazio. E’ ciò che avviene, in parte, nei corpi aeriformi, che in quella loro tendenza ad espandersi, mentre provano la loro divisibilità, mostrano di essere forniti di ben poca attrazione tra le particelle che lo costituiscono, attrazione che è anch’essa una proprietà della materia e prende più propriamente il nome di coesione.

L’aver ammesso che i corpi sono formati da particelle piccolissime di materia ci conduce ad un’altra interessante considerazione. Le particelle che formano un corpo sono saldate, fuse insieme? Oppure, nella loro attrazione reciproca, le particelle mantengono una certa distanza tra loro in modo da formare nel corpo degli spazi invisibili tra loro?
Tutto induce a ritenere esatta la seconda supposizione, evidentissima per gli aeriformi, ma non evidente nei solidi e nei liquidi se non con l’aiuto di qualche esperimento.

Le proprietà fisiche dei corpi

Settimo esperimento
Se metto dell’acqua all’interno di un recipiente di terracotta non verniciato e osservo, dopo poco tempo la superficie esterna di esso, vi noterò minutissime goccioline che ne inumidiscono tutta la superficie. Ma come può essere uscito il liquido dal vaso che io non ho toccato? Evidentemente esso si è fatto strada attraverso piccoli spazi che io non vedo osservando la terracotta, e che si chiamano pori.
I membri di un’accademia scientifica, l’Accademia del Cimento,  vollero un giorno (circa 3 secoli e mezzo fa) provare se il volume di una certa quantità di acqua fosse comprimibile. Fecero fare per questo una bella sfera d’argento fuso, la riempirono d’acqua, la chiusero ermeticamente, poi si dettero a percuoterla con dei martelli, per ridurre, ammaccandola, il volume della sfera, e con esso il volume dell’acqua. Ma non le avevano ancora prodotta alcuna ammaccatura, che la sfera si era tutta ricoperta di goccioline d’acqua, le quali, evidentemente, erano trapelate attraverso i pori dell’argento. Essi ne dedussero che l’acqua non fosse comprimibile, e si sbagliarono (la scienza è poi riuscita a ridurre il volume dell’acqua a meno della metà sotto una pressione di cinquantamila atmosfere), ma dimostrarono intanto certamente una proprietà dell’argento, condivisa anche da ogni altro corpo solido, e cioè la porosità.
Questa stessa caratteristica detta porosità si può trovare facilmente anche nei liquidi, riempendo d’acqua a metà circa un vasetto di vetro, quindi versandovi sopra, con molta cautela e fino a riempimento dell’alcol colorato che, per la sua leggerezza maggiore di quella dell’acqua, dovrà stare a galla. A questo punto chiudiamo il vasetto con un tappo attraversato da una cannuccia trasparente, e introduciamo nella cannuccia  altro alcol colorato fino a un certo livello. Agitando il vaso, l’alcol e l’acqua si mescoleranno e il livello del liquido nella cannuccia discenderà, dimostrandoci una riduzione di volume.
Poichè abbiamo già dimostrato l’impenetrabilità della materia, non si potrà risolvere altrimenti il problema se non supponendo che i due liquidi siano penetrati reciprocamente l’uno nei pori dell’altro.

Le proprietà fisiche dei corpi

Ottavo esperimento
Per dimostrare una proprietà dei corpi detta variabilità di volume, in genere si usa per i solidi l’anello di Gravesande,

photo credit http://museo.liceofoscarini.it/

per i liquidi e gli aeriformi un’ampolla di vetro apposita che presenta un’imboccatura a forma di tubo di piccolo calibro, in cui si introduce, a seconda dei casi, un liquido colorato o un gas, che dovrà, aumentando di volume, spingere in alto una goccia di mercurio contenuta nel cannello.
Ma si possono fare le stesse esperienze senza questi apparecchi.

Le proprietà fisiche dei corpi

Esperimento
Si prende un bicchiere; si appoggia sull’apertura del bicchiere un foglio di cartoncino rigido, e in questo si pratica un taglio lungo perfettamente quanto il diametro di una moneta e largo quanto la costa della medesima, in modo che essa, infilata nel taglio, cada nel bicchiere come dentro a un salvadanaio. Togliamo la moneta, riscaldiamola, e vedremo che la moneta non passerà più nel taglio, e dimostrerà così di essere aumentata di volume.
Come potremo convincere il bambino che questo apparente aumento di materia non è che un allungamento degli spazio intermolecolari e interatomici, un allontanamento tra particella e particella che costituiscono il corpo, e non un accrescimento della sostanza di cui il corpo è composto? Semplicemente pesando la moneta riscaldata e mostrando che nell’aumento di volume non subisce alcun aumento di peso verificabile.

La variabilità di volume nei liquidi o negli aeriformi può essere dimostrata facilmente con una bottiglietta qualsiasi tappata da un tappo entro il quale si è infilata una cannuccia trasparente. Per i liquidi si introduce dell’acqua colorata in modo che il livello superi l’imboccatura della cannuccia: riscaldando l’acqua, essa corre su per la cannuccia mostrando con evidenza l’aumento di volume.
Per i gas lasciamo lasciamo all’imboccatura di base della cannuccia una gocciolina di acqua colorata: scaldando l’aria contenuta nella bottiglia, la goccia d’acqua salirà rapidamente lungo il tubo.

Passiamo ad un altro ordine di osservazioni: ce ne offre l’occasione il gioco della palla. Battendo sul terreno la palla si schiaccia, cioè ne tocca la superficie orizzontale non in un punto, come avviene se io la poso delicatamente a terra, ma per un’estensione circolare che potrei anche ottenere annerendo il piano, ad esempio, con del nerofumo.
Quando poi la palla ci rimbalza nuovamente tra le mani, è ancora perfettamente rotonda, e non porta nessuna traccia della deformazione.
Prendiamo un elastico: tirandolo si allunga e cessando la trazione torna alla lunghezza originaria.
Questa proprietà per cui i corpi riprendono la forma o il volume primitivo quando cessa la causa di alterazione su di essi, si chiama elasticità.

Prendiamo la lama di un coltello ed incurviamola: cessando di esercitare questa forza la lama torna rettilinea. Attorcigliamo due funi legate ad uno stesso corpo pesante che faremo girare rapidamente: e le funi torneranno a dividersi non appena cesseremo di costringere il peso a ruotare nella direzione da noi voluta.
Anche se non vogliamo ora parla di elasticità alla compressione, alla tensione, alla flessione, alla torsione, ci basta averle dimostrate per effetto.

Potremo anche proporre al bambino dei divertenti giochi che gli fissino nella memoria queste proprietà: per esempio, chiediamogli di  trovare il modo di allontanare una moneta dall’estremità di una fila di altre monete identiche, unite costa a costa, senza toccarla in nessun modo.

Basterà urtare la moneta che si trova all’estremità opposta, e quella da noi indicata si allontanerà, senza che si muovano le monete intermedie.

Evidentemente le particelle che le compongono devono essersi spostate con violenza verso l’ultima, che ne è fuggita lontano, ma devono anche essere ritornate nella posizione primitiva.

Un apparecchio molto simile al pendolo di Newton:

si può costruire prendendo un’asta di legno e facendovi alcuni fori distanti l’uno dall’altro quanto il diametro di alcune palline di legno, tutte uguali. Attaccando le palline a dei fili che passino per i fori praticati, fermando l’estremità superiore dei fili con un nodo, e sospendendo la riga a due sostegni qualsiasi, avremo  tanti pendoli che si toccano fianco a fianco. Scostando la prima di queste palline e lasciandola cadere contro la successiva, l’ultima si scosterà senza che si muovano le intermedie:

Con questi esperimenti non avremo dimostrato l’elasticità dei solidi, ma solo di alcuni solidi, e non potremo generalizzare da questi pochi casi, se non avvisando il bambino che gli scienziati hanno fatto esperimenti che dimostrano come tutti i corpi siano elastici e che quelli che a lui non appaiono tali lo sono in così piccola misura da richiedere, per la dimostrazione, mezzi di cui è possibile disporre solo nei laboratori. Questa precisazione è importantissima per non assecondare la pericolosa tendenza, già propria dei bambini, di generalizzare da uno o pochi casi, cioè di formulare la legge in base a un numero insufficiente di osservazioni o di esperimenti.

Ci sarà però facile dimostrargli l’elasticità di qualche liquido, invitandolo a girare il rubinetto dell’acqua potabile: l’acqua, per il suo peso, scenderà precipitosamente nella vaschetta, ma in breve il bambino si troverà tutto cosparso da un’infinità di goccioline minutissime di acqua, quasi argentee in quella loro piccolezza di volume. Ma come l’acqua è saltata addosso a lui? Non doveva dunque scendere verticalmente, anelando, per il peso, a cadere sempre più in basso? Doveva, ed è caduta, ma le gocce d’acqua che, cadendo, non hanno potuto infilare il foro del condotto hanno naturalmente battuto con violenza sul fondo della vaschetta: ed ecco che esse hanno fatto come la sua palla di gomma e sono rimbalzate con violenza verso l’alto, ad investirlo, a spruzzarlo, agili, leggere e perfettamente rotonde.
Non ci sarà nemmeno difficile mostrare ai bambini l’elasticità di un gas: l’aria che un bambino comprime in piccolo volume quando gonfia le gomme della sua bicicletta vuole riacquistare quello che aveva in origine e sfugge, sibilando, dalla valvola, non appena essa le venga aperta. Se possiamo procurarci una pompa da bicicletta in cui scorre uno stantuffo di gomma a perfetta tenuta infilato e fermato ad un’asta di metallo, in modo da poterlo spingere in giù, faremo vedere che l’aria compressa là dentro dalla discesa dello stantuffo lo spingerà indietro, al cessare della nostra pressione, per riacquistare il volume primitivo, qualora noi si tappi con un dito il foro inferiore, invece di infilarlo sopra la valvola del pneumatico.
Chiuderemo questi nostri cenni sulle proprietà generali dei corpi con alcuni esperimenti riguardanti l’inerzia.

Le proprietà fisiche dei corpi

Le proprietà fisiche dei corpi – Il gioco delle bocce può offrire utile materiale didattico

Noi usiamo comunemente il termine “inerte” per indicare ciò che non si muove, che non lavora, che non produce.  Scientificamente, però, la parola ha un altro valore: indica cioè non soltanto la quiete, anche il moto.
Nel primo senso la cosa è troppo evidente per aver bisogno di spiegazione; un corpo inanimato non potrà mai mettersi in movimento se una forza ad esso estranea non verrà a smuoverlo. Non è altrettanto evidente, o almeno così sembra a prima vista, il fatto che un corpo inanimato non possa mai cessare quel movimento dopo che gli è stato impresso, se una forza estranea non interviene per fermarlo, nè possa accelerare o rallentare il suo moto senza cause esteriori che possano produrre su di lui tali modificazioni.
Il moto, una volta impresso ad un coro, dovrebbe durare per anni, per secoli, per millenni, se si realizzassero condizioni ambientali tali da non poter influire minimamente su di esso. Non è facile dimostrare al bambino questa legge: possiamo solo parzialmente basarci su esperimenti e abbiamo bisogno, per completare le nostre spiegazioni, di supporre, di astrarre, di immaginare, di costruire una realtà su elementi irreali. Il bambino ci potrà capire? Possiamo tentare.

Le proprietà fisiche dei corpi – Esperimento
Prendiamo una boccia e diciamo al bambino di farla rotolare  in un cortile o su una strada pavimentata a ciottoli: urtata, nella sua corsa, dagli spigoli dei sassi, la boccia non andrà molto lontano. Facciamo poi rotolare la boccia su una strada di terra battuta: la palla arriverà molto più lontano, e ancora più lontano potrà andare su una bella strada asfaltata.
Certo, anche in questo caso la boccia, sia pure a notevole distanza, si fermerà, ma per liscio che sia il pavimento, vi sarà pur sempre un po’ di attrito tra la boccia e il terreno, senza considerare la resistenza opposta al moto della boccia dall’aria. Il bambino stesso può provare questa resistenza mettendosi a correre: l’aria gli aliterà sul viso come se improvvisamente si fosse levato il vento. Senza queste cause la boccia una volta messa in moto non si fermerebbe più.

Possiamo fare esempi di questo moto osservando una gran quantità di eventi quotidiani, che il bambino ha sperimentato inconsapevolmente mille volte, ma senza mai averli analizzati nelle loro cause e nei loro effetti.
Se il bambino si trova su un vagone del treno lanciato a velocità notevole, all’arresto del treno si sentirà spingere con forza nella stessa direzione seguita dal vagone, perchè il suo corpo, che si muoveva con esso nella stessa direzione, tende a permanere in quello stato di movimento. Se il treno da una traiettoria rettilinea passa ad un tratto a descriverne una fortemente curva,  il bambino si sentirà come lanciato al di fuori, per la tendenza che il suo corpo aveva di continuare il moto secondo la traiettoria rettilinea. Se di un treno in rapida corsa si arresta improvvisamente il motore, i vagoni che seguono la locomotiva urteranno l’uno con l’altro, si accavalleranno addirittura, per quella forza d’inerzia che tende a farle persistere nel movimento iniziale.

Un fenomeno analogo avviene anche per i liquidi: se la pioggia violenta ci ha sorpresi per la strada senza ombrello, possiamo liberare il cappello dall’acqua che lo inzuppa scuotendolo come se no volessimo gettare a terra, mentre poi lo tratteniamo saldamente; ma le gocce, cui già era stato impresso il movimento di discesa, lo continuano per inerzia ed escono dal cappello per cadere sul terreno.

Negli aeriformi potremo far osservare al bambino il vapore acqueo che esce da una pentola che bolle: le molecole che lo costituiscono continuano a salire finchò non trovano un ostacolo che le arresti nel loro cammino e che, nel nostro caso, sarà rappresentato dal soffitto della stanza in cui ci troviamo. Non che tutti i gas si comportino come il vapore acqueo, preso qui come esempio perchè visibile: il vapore infatti sale perchè è più leggero dell’aria, ma esistono anche gas più pesanti dell’aria. Detto questo anche per i secondi vale le legge per cui una volta iniziato il moto le loro molecole tenderebbero a muoversi infinitamente, se non arrestate da ostacoli. Ma non complichiamo per ora questo concetto con la qualità del moto che un corpo, per inerzia, dovrebbe seguire: l’uniformità della velocità e la l’andamento rettilineo della traiettoria percorsa sarebbero complicazioni astratte e non controllabili attraverso l’esperienza diretta.
D’altra parte non siamo interessati alla compiutezza delle nozioni, ma piuttosto al fatto che quelle illustrate siano esatte e che mai il bambino debba farle proprie per autorità. Vogliamo che il bambino assimili queste nozioni attraverso quella convinzione incrollabile che può dare solo l’esperienza concreta.

Le proprietà fisiche dei corpi – Ogni classe di corpi tende a differenziarsi dalle altre

Dopo aver condotto il nostro piccolo scienziato allo studio delle proprietà generali della materia, sia attraverso l’osservazione di fenomeni naturali, si attraverso la loro riproduzione artificiale per mezzo di esperimenti, ci rimarrà ancora un lungo cammino da percorrere per guidarlo nello studio  delle proprietà comuni solo a certi stati della materia.
Noi finora abbiamo volutamente fermato l’attenzione su caratteri che si riscontrano in qualsiasi corpo, ed abbiamo insistito perchè il bambino non generalizzasse precipitosamente in legge le conclusioni a cui i suoi sensi parevano guidarlo nei rapporti di un determinato stato della materia.
Questo era indispensabile, perchè, insieme ai caratteri generali, ogni corpo ne possiede altri particolari del suo stato, ed altri ancora specifici a un gruppo di quello stato, ed altri infine del tutto individuali che lo differenziano fra tutti e costituiscono il suo essere.
I solidi, ad esempio, hanno caratteri propri, quali la durezza e la tenacità; i liquidi proprietà specifiche come la scorrevolezza delle molecole e il potere di trasformare in liquido un solido immerso in essi; mentre l’espansibilità e la tensione sono fenomeni che si riscontrano solo negli aeriformi.
Così alcuni caratteri fisici sono propri, ad esempio, solo di certi corpi solidi, come la plasticità, la malleabilità, la duttilità, la friabilità, la fragilità, ecc…, mentre la forma, il sapore, il calore, l’odore ecc… sono proprietà essenzialmente individualizzatrici.

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Il cane del barbiere

Un forestiero, di passaggio da una piccola borgata della Francia, aveva bisogno di farsi radere la barba ed entrò da un barbiere. Sedutosi, un grosso cane gli si mise vicino e si dette a guardarlo con attenzione.

Il forestiero, un po’ allarmato, si rivolse al barbiere e gli disse: “Il vostro cane mi fa paura: guarda come se volesse mangiarmi!”

“Difatti!” fece il barbiere “E’ abituato così: aspetta sempre vicino ai clienti. E’ furbo, sapete, perche se riesco a tagliare un pezzo di orecchio a qualcuno, è proprio lui che lo mangia. Ecco perché aspetta”.

Il forestiero, col viso insaponato, si alzò di scatto e fuggì inorridito. E il barbiere è là che ride ancora.

Farsi, sudutosi, si mise, si dette, si rivolse, si alzò sono verbi di forma riflessiva. Il verbo è di forma riflessiva quando esprime un’azione che ritorna, si riflette sul soggetto stesso che la compie.

Nei verbi in forma riflessiva sono sempre  presenti le particelle pronominali mi, ti, si, ci, vi. Esempi: io mi lavo, noi ci laviamo, tu ti lavi, voi vi lavate, egli si lava, essi si lavano.

La coniugazione riflessiva è uguale a quella attiva, con l’aggiunta della particella pronominale adatta.

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