Dettati ortografici: Dicembre

Dettati ortografici su dicembre – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Il nome di dicembre

Dicembre ha questo nome perchè, al tempo degli antichi Romani, quando cioè l’anno cominciava a marzo, era il decimo mese del calendario. Poi i mesi diventarono dodici, ma il nome restò, così come è restato a settembre, a ottobre e a novembre.

La campagna

La campagna è squallida; nei boschi la vita sembra scomparsa, ma in realtà la volpe, la donnola ed il lupo si avventurano nei campi in cerca di cibo. La stagione invernale è propizia a coloro che amano gli sport di montagna e si recano a sciare sui campi di neve. Nel mese di dicembre proseguono nei campi i dissodamenti, il taglio delle siepi, la potatura degli alberi e la pulizia dei fossi. Si bacchiano le olive e, nelle regioni più calde e nelle isole, si raccolgono gli agrumi che andranno in ogni parte d’Italia e all’estero.

Dicembre

Dicembre è un mese freddo, uno dei più freddi dell’anno. Il cielo è quasi sempre grigio, piovoso; spesso cade la neve. Il vento soffia tra i rami degli alberi spogli e li fa tremare sotto la sua gelida furia. Gli uccellini non cantano più. Soltanto i passeri pigolano, infreddoliti e affamati.

Dicembre

Dicembre è un mese freddo perchè con esso entra l’inverno col suo corteo di nebbie, di pioggia, di neve. Ma se scostate il mantello di dicembre scorgerete una quantità di giocattoli, e un bell’albero di Natale. Dicembre è anche un mese pieno di belle e piacevoli sorprese.

Dicembre

A dicembre come passano le giornate, e che freddo! Si fa tutto in fretta, ma il tempo non basta mai: viene subito sera, ed una volta a letto, sotto il caldo delle coperte, si ripensa all’estate trascorsa, alle belle giornate, alla campagna verde e festosa. Ora, dappertutto foglie secche e niente fiori, niente uccelli. Dove sono andate a finire le rondini tanto allegre? Si vedono solo passeri e pettirossi tristi e infreddoliti.
(G. Cauzillo)

Dicembre

Dicembre è un mese brutto per i poveri. Hanno bisogno di fuoco, di indumenti pesanti, di cibo, di casa. E spesso, i poveri non hanno nulla di tutto questo. Il vento soffia impetuoso e penetra sotto le travi sconnesse. I poveri desiderano la primavera, ma la bella stagione è lontana. Per i poveri l’inverno è duro e doloroso.

Dicembre

Il freddo è arrivato. Gli alberi hanno perduto tutte le foglie e scheletriti e nudi rabbrividiscono al vento che li scuote. Lucertole, bisce, insetti, sono tutti giù, sotto terra a dormire. Si sveglieranno a primavera. Il cielo è grigio e spesso piove. Allora, nella strada, si allargano le pozzanghere fangose, che rispecchiano le nuvole grigie.

Dicembre

Dicembre è un mese pieno di belle feste. Feste di santi, che portano i doni, festa del bambino Gesù, che in questo mese è nato, festa dell’anno vecchio che se ne va per lasciare il posto all’anno nuovo, che tutti sperano sia più buono di quello che è passato.

Dicembre

Dicembre rassomiglia a un vecchione con la lunga barba bianca, tutto avvolto nel suo ampio mantello coperto di neve. Ma se schiude un po’ quel suo misterioso mantello, ecco far capolino un bell’albero di Natale, e tanti, tanti doni, per la gioia dei bambini buoni.

La campagna

I contadini lavorano attorno alla casa: provvedono alla pulitura e alla preparazione degli attrezzi. Viene travasato il vino nuovo. Continua e termina la raccolta delle olive; nei mercati, sulle mense, compaiono arance e mandarini. In questo mese si festeggiano l’Immacolata e la Madonna di Loreto con processioni e falò. In Lombardia, nel Veneto e in Sicilia i bambini attendono i doni da Santa Lucia. Il Natale raduna tutte le famiglie davanti al presepe e attorno al desco per la tradizionale cena della vigilia. San Silvestro chiude l’anno con danze e canti.

Dicembre

E’ dicembre e l’inverno non aspetta la data ufficiale per fare il suo ingresso. Guardiamoci attorno: le manifestazioni invernali sono visibili ovunque. Il cielo, almeno in Italia, è quasi sempre grigio, nuvoloso, percorso da nubi spesse e pesanti. Osserviamo il cielo non solo durante le sue variazioni (pioggia, sereno, nebbia, ecc.) ma anche nelle varie ore del giorno.
Guardiamoci intorno. I segni dell’inverno sono dappertutto. Prati brulli, spesso coperti di brina, cespugli secchi, alberi scheletriti che ormai hanno perduto quasi tutte le foglie, siepi spoglie che lasciano vedere l’intrico dei rami.
In tanto squallore spicca la macchia scura di qualche albero sempreverde. Osserviamo la foglia di questi alberi. Se si tratta di conifere, la foglia è sottile, appuntita come un ago e resistente agli agenti atmosferici. Osserviamo anche gli altri sempreverdi: l’ulivo, l’alloro, ecc. Hanno le foglie dure, resistenti, spesso rivestite di uno spesso strato di cutina, una sostanza coriacea e impermeabile che le difende dalla pioggia, dal freddo, dal gelo.
Nonostante la campagna sia spoglia, non mancano piante da osservare. Non hanno l’esuberanza della vegetazione primaverile ed estiva. Alcune piante sono fornite di bacche: le rose selvatiche, per esempio, e le piante caratteristiche di dicembre: l’agrifoglio e il pungitopo, che spesso servono come motivo di decorazione natalizio.
Le manifestazioni della vita animale sono scarse perchè quasi tutti gli uccelli sono emigrati, fatta eccezione per i passeri, i merli, gli scriccioli, i pettirossi e pochi altri. Alcuni animali, come le lucertole, le bisce, le marmotte, i tassi, i ghiri, sono immersi nel letargo, un sonno profondissimo durante il quale la respirazione e le pulsazioni del cuore sono rallentate al massimo. L’animale, immerso nel letargo, non ha bisogno di mangiare e consuma il grasso accumulato durante la buona stagione.
E gli insetti? Spariti, morti, magari dopo aver deposto le uova in un luogo dove il piccolo nato troverà culla e cibo. Sotto terra ci sono le larve, mollicce, oppure coriacee, ma sempre inerti, come morte. Non sono morte; attendono invece alla loro metamorfosi. A primavera le vedremo trasformate in insetti perfetti.

Dicembre

Nelle campagne è un gran silenzio. La terra dorme, spesso coperta di neve, ma, sotto, lavora. La neve la ripara dal gelo e i chicchi si svegliano, ma non osano metter fuori le loro foglioline verdi. Si danno, invece, da fare con le radici che s’insinuano coraggiose fra le zolle e si moltiplicano e diventano forti per poter essere in grado, dopo, di nutrire e fortificare la pianta che spunterà in primavera.

Dicembre

E’ l’ultimo mese dell’anno e porta nebbia, freddo, pioggia e, spesso, neve. Ma anche il freddo è necessario. Le piante perdono le foglie, ma le radici, sotto terra, si moltiplicano e diventano più robuste. Saranno, così, in grado di sostenere e di nutrire meglio la pianta a primavera quando tutta la natura si ridesterà a nuova vita. Gli alberi alzano verso il cielo grigio le loro braccia spoglie. Sembrano morti, ma lungo il tronco e i nei rami, scorre la linfa che è il sangue della pianta. Scorre piano, lentamente, senza forza, ma a primavera ricomincerà a vivificare l’albero che metterà foglie e fiori.

Una giornata di dicembre
Era una di quelle giornate di dicembre, in cui si direbbe che si solennizzi il vero ingresso trionfale, definitivo, dell’inverno,  con un immenso parata di neve. Chi si era svegliato presto aveva sentito battere sordamente le ore dalla vicina torre, quasi la campana fosse coperta da un panno, o il batacchio rivestito d’ovatta.
Chi è solito aspettare il giorno tra le coperte, ne aveva visto la luce distendersi sulle pareti con insolita bianchezza. Chi aveva messo la faccia fuori, l’aveva ritirata esclamando: “Ehi! Che bella nevicata!”.
Chi fosse salito il alto, avrebbe visto i tetti, le strade, le mura, le campagne al di fuori, l’immenso piano, i colli, le Prealpi, le Alpi, se erano visibili, tutto d’un solo colore.
Quando mi affacciai alla finestra la neve veniva ancora giù, a larghe falde.
(A. Stoppani)

Mattinata di dicembre
La tramontana di stanotte ha seccato la strada; le carreggiate sono dure come il vetro e luccicano per un po’ di brina nell’ombra scura degli ulivi.
Gli alberi nudi frastagliano il cielo coi loro rami e le loro vette che sembrano d’oro.
Sono vicino ad un orto di contadino pieno di piante di carciofi. Oltre l’orto c’è una loggetta e, sotto, una donna che leva il pane dal forno.
Arriva fino a me l’odore del pane misto a quello della terra. Dopo tanta acqua i campi esultano a sentirsi riscaldati e prosciugati da un po’ di sole.
Il grano si rialza dal fango delle zolle, nei solchi c’è però ancora dell’acqua che riflette il cielo azzurro.
(A. Soffici)

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Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento

Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento – una raccolta di dettati ortografici per la scuola primaria, difficoltà miste, di autori vari.

L’ambiente natalizio
Il Natale si festeggia in dicembre, all’inizio dell’inverno astronomico. Tutta l’atmosfera è pervasa dall’incanto di questa ricorrenza.
Il Natale si associa al freddo, alla neve, al rovaio e quindi alla casa riscaldata, intima, festosa, all’amore rinnovato per la propria famiglia anche perchè questa festa è attesa e desiderata in particolar modo dai bambini. Il nuovo nato è un bambino come loro ed essi lo sentono vicino, hanno confidenza con lui, gli chiedono grazie e doni.
Osserviamo l’ambiente natalizio. Dell’inverno abbiamo già parlato, ma cercheremo di rinnovare le nostre impressioni naturalistiche. Elementi del paesaggio natalizio sono il freddo, la nebbia, la neve, il ghiaccio, gli alberi spogli. Ed ecco questo ambiente vivificato da una stella luminosa, ecco i cieli azzurri del presepe, le palme dei paesi caldi, il contrasto fra gli smorti colori dell’inverno e i vivi colori del presepe, che eccita i bambini e li dispone all’attesa.
Anche la casa acquista grande importanza. Oltre all’ambiente naturale, osserviamo le vetrine cariche. Vetrine di negozi alimentari con salumi, pollame, cibi d’ogni genere, sempre invitanti ed eccezionali, vetrine di giocattoli, vetrine di pasticceri dove fanno mostra di sé i dolci caratteristici del Natale, panettoni, torroni e quanto la tradizione locale offre.

Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento
Notizie storiche

Il Natale, che oggi si festeggia il 25 dicembre, non fu solennizzato sempre nello stesso giorno. Pare che nel secolo III si festeggiasse il Natale insieme all’Epifania il 6 gennaio, specie in Oriente; ma verso la metà del IV secolo la Chiesa romana fissò tale solennità al 25 dicembre, forse sotto Papa Liberio. Ciò per sovrapporre la festa cristiana a quella pagana del sole.
Tra i costumi natalizi, comuni a tutti i paesi cattolici, sono la messa si mezzanotte e il presepe. Il primo presepe viene attribuito a San Francesco, il quale ricostruì la scena della natività a Greccio, un piccolo paese dell’Appennino umbro. La parola presepe vuol dire stalla e, anche, mangiatoia che si pone nella stalla. L’uso del presepe, dapprima limitata alle chiese, si estese in seguito fra i privati e molti scultori e pittori vi si ispirarono per produrre pregevolissime opere.
Altro uso natalizio, che ha auto origine nei paesi del Nord, è l’albero di Natale.

La terra di Gesù
Palestina si chiamava anticamente la sola parte costiera della regione a cui più tardi fu esteso questo nome; il nome deriva dall’ebraico Pelistin con cui veniva indicato il popolo dei Filistei. Questo paese è formato da tre zone parallele: la zona costiera, l’altopiano e la valle del Giordano. Il Giordano è un piccolo fiume che scorre nel fondo di una stretta valle, forma alcuni laghi, dei quali il più celebre è quello di Genezareth o Tiberiade, e finisce nel Mar Morto, un mare interno che è posto a 400 m sotto il livello del Mediterraneo e le cui acque sono salmastre e contengono bitume, cosicchè le sue rive sono desolate e deserte. L’altopiano è monto accidentato, ed è il prolungamento della catena del Libano; oggi è nudo e roccioso, ma nei tempi antichi aveva ampie foreste e vi crescevano viti, olivi e buoni pascoli, tanto che agli occhi degli Ebrei, quando vi si stabilirono cacciandone i Filistei, sembrò un paese incantevole e lo chiamarono la “Terra Promessa”. La parte settentrionale dell’altopiano si chiama Galilea, la centrale Samaria, le due meridionali Giudea e Idumea. (P. Silva)

Il Natale di Gesù
La data della nascita di Gesù fu parecchio controversa. Per parecchio tempo, le chiese orientali festeggiarono il Natale il 6 gennaio. La chiesa romana, invece, adottò la data attuale fin dal IV secolo dC. Alla scelta di tale data contribuì anche la considerazione di un fatto religioso pagano: il 25 dicembre veniva celebrato dai pagani il giorno natalizio del Sole vittorioso, la cui nascita coincide appunto col solstizio d’inverno. Dopo il 21 dicembre, infatti, il sole ricomincia a percorrere nell’azzurro del cielo archi sempre maggiori e le giornate si allungano.
Contrapporre la nascita di Gesù a quella del sole invitto significava poter distogliere dalla celebrazione della festa pagana molte persone. E come, poi, non pensare a Gesù, sole delle genti, via e luce, quando il sole ricomincia ad annunciare la sua vittoria sulle brume della stagione inclemente? (R. Lesage)

Tre messe
Quel che caratterizza la festa di Natale è la celebrazione delle tre messe solenni a mezzanotte, all’aurora e alla mattina. La messa di mezzanotte risale a pappa Sisto III (432-440) che, a seguito del Concilio di Efeso, aveva fatto grandi restauri alla Basilica Liberiana, dedicata alla Madonna, costruendovi in una piccola cripta una riproduzione della grotta di Betlemme, che diede poi il nome alla Basilica stessa, facendola chiamare Santa Maria del Presepe. Qui infatti, forse ad imitazione della celebrazione notturna che si faceva alla Basilica  della Natività a Betlemme, Sisto III ordinò un’ufficiatura notturna, che si concludeva poi con la messa. (R. Lesage)

Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento
Natale, cenni storici

Il Natale si celebra il 25 dicembre. Anticamente questa festa non si celebrava sempre nello stesso giorno; fu il papa Giulio II che, nel secolo IV, fissò la data del 25 dicembre, dopo aver fatto eseguire diligenti ricerche negli archivi.
Dal secolo VI fu permesso ai sacerdoti di celebrare tre messe in questo giorno: la prima è detta “messa di mezzanotte”, la seconda “messa dell’aurora” e la terza “messa del giorno”.
Nel Medioevo si celebravano i “Misteri”, cioè scene della vita e della passione di Gesù. Oggi si celebrano ancora in alcuni paesi.
Fra gli usi natalizi più comuni è il presepe, il quale dapprima si faceva solamente in chiesa, poi si diffuse nelle case. Verso il Settecento ebbe la massima diffusione. (C. Bucci)

Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento
Regione che vai, Natale che trovi

Cominciamo il nostro itinerario dalle regioni settentrionali, seguendo solo il filo della fantasia e citando in ordine alfabetico le località dove si possono trovare tracce originali di storie curiose ed abitudini antiche, legate alla mistica suggestione della Santa Notte.

Ad Andalo, in Valtellina, la vigilia di Natale, in segno di promessa, gli innamorati depongono sul davanzale delle loro amate, usando un lungo bastone, uno zoccolo dipinto, arricchito da nastri e nappe. L’usanza ricorda lo sfortunato amore di un mago dal “pie’ bisulco” che, recandosi a trovare la sua bella, perse uno zoccolo a doppia unghia e con esso il suo magico potere, tramutandosi in un povero pastore.

A Bergamo è diffusa la credenza che nella Notte Santa tutti gli animali, e specialmente i gatti, acquistino poteri divinatori e con il loro atteggiamento suggeriscano l’esito delle future vicende familiari.

In Brianza, a Porto d’Adda, all’avvicinarsi del Natale gruppi di giovani confezionano dei fischietti con canne di bambù e girano per le vie del paese suonando nenie natalizie, formando una banda che la gente chiama degli “organini”.

A Como quasi tutti, a Natale, fanno un presepe molto grande e bruciano il ginepro. Alla sera, tutte le famiglie si riuniscono nelle cucine accanto ai grandi camini e intonano cori natalizi accompagnati dai caratteristici strumenti musicali del luogo: gli zufoli, chiamati in dialetto fifuc.

A Mantova la sera della vigilia il più anziano della casa benedice i tortelli con l’acqua santa e tutti recitano le preghiere prima di iniziare la cena.

Si racconta che il Monte Bernina ed il suo celebre ghiacciaio, sorto dove un giorno si stendeva un florido pascolo, siano opera del diavolo che, nella notte di Natale, volle punire un pastore il quale, rifiutando asilo a un mendicante, gli concesse soltanto di accostarsi al truogolo del maiale. Immediatamente prese a nevicare e l’indomani, al dissolversi di una pesante nuvola nera, al posto del pascolo e della malga apparve l’immenso ghiacciaio.

A Boca (Novara) nel 1600, a breve distanza da un miracoloso crocefisso, il 24 dicembre a tarda sera, due ladri attendevano il passaggio di un giovane che tornava al paese dopo un anno di lavoro, con in tasca un discreto gruzzolo. A passo lesto per giungere in tempo alla Messa di mezzanotte, il viandante attraversa il bosco recitando il rosario quando, giunto in vista dei due ladri, li vide fuggire a gambe levate. Il giorno seguente seppe che a mettere in fuga i malfattori era stata l’apparizione di due aitanti gendarmi alle sue spalle. Inutile dire che dei due misteriosi protettori non si ebbe più notizia. Sul luogo dell’incontro il giovane fece erigere una chiesetta, oggi diventata un celebre santuario.

Sul monte Cesarino, il cui nome ricorda il passaggio di Giulio Cesare,  è credenza popolare che viva un cane feroce il quale sputa fiamme dalla bocca e azzanna e divora i bambini che di notte si avventurino per boschi o sentieri. Soltanto la sera della vigilia il cane fantasma si ammansisce; e anzi, se incontra un fanciullo lo accompagna per tutta la strada, difendendolo e lambendogli le mani.

A Deiva Marina (La Spezia) all’interno della chiesa di Santa Maria Assunta si legge su una lapide del settimo secolo una strana iscrizione che riporterebbe fedelmente il testo di una lettera di Cristo, caduta dal cielo per ammonire i fedeli. Nel messaggio è detto, tra l’altro, che dalla mezzanotte della vigilia all’alba di Santo Stefano persino i diavoli fanno festa, perchè neppure loro possono sottrarsi alla suggestione ed al misticismo della divina notte.

Secondo la credenza popolare, al Pian di strì (Piano delle Streghe), sotto il monte Gridone,verso la Val Vigezzo, streghe, maghi e folletti si riuniscono da tempo immemorabile in base a un ben prestabilito calendario settimanale. Solo nella settimana di Natale il “Pian di strì rimane deserto ed ognuno può passarvi anche in piena notte senza timore di cattivi quanto ultraterreni incontri.

Il nome di Frassinoro, una località vicino a Modena, deriverebbe secondo un’antica leggenda da un prodigioso fatto accaduto durante una processione natalizia e che viene ancor oggi celebrato nella ricorrenza. Un simulacro della Vergine, appeso al ramo di un grande frassino, avrebbe preso a brillare intensamente facendo diventare tutta d’oro la chioma dell’albero, fra la commossa esultanza dei fedeli.

A Genova, come è d’uso da secoli, a Natale si accende un ciocco di legno in mezzo alle piazze e tutti vanno a prendere un tizzone di brace per il proprio camino. Chi non ha il camino lo mette ad ardere negli scaldini di ferro.

A Graines (Aosta) in ricordo di una vecchia usanza per cui i contadini del luogo erano costretti, all’inizio dell’inverno, a coprire di terriccio i risplendenti ghiacciai della Becca di Torchè, affinchè il loro riverbero non bruciasse la delicata carnagione delle signore del castello, la vigilia di Natale, durante una fastosa luminaria, i giovani vanno a buttare ai margini del ghiacciaio sacchetti di terra e fiori di carta in segno augurale e in atto di omaggio verso le ragazze del paese.

A Pieve di Cadore la sera del 24 dicembre, prima che giungano gli ospiti per il cenone di mezzanotte, si pone in ogni casa una scopa attraverso la soglia della cucina. Secondo la leggenda, se una delle ospiti fosse una strega travestita, alla vista della scopa, sua tradizionale cavalcatura, non saprebbe resistere al desiderio di inforcarla, facendosi così riconoscere.
A Treviso per la vigilia di Natale è tradizione accendere al tramonto grandi falò, intonando una filastrocca propiziatrice per un raccolto abbondante: “Pan e vin, la laganega soto el camin, la farina soto la panera…” e così via. Poi, spento il fuoco propiziatorio, si fruga nella cenere con lunghi bastoni e dalla direzione che prendono le faville si traggono auspici per la prossima annata: se esse prendono il vento verso il Friuli conviene rassegnarsi ad un raccolto misero, mentre se vanno verso occidente tutto andrà nel migliore dei modi.
La beata Stefania Quinzani, oggi venerata in tutto il cremonese, durante la sua gioventù era giunta a Zappello, da Brescia, col proposito di fare la domestica in un pio istituto. La notte di Natale, per far sì che i bambini affidatile attendessero tranquillamente i dodici rintocchi per assistere alla santa messa, miracolosamente ottenne che un grande melo dell’orto del convento fruttificasse d’improvviso, in modo da permettere ai piccini di cogliere e mangiare quei saporitissimi pomi.

In provincia di Piacenza si usa preparare il pranzo due giorni prima. Alla vigilia si fa il pranzo serale: è composto di un bel piatto di tortelli alla piacentina, cioè col ripieno a base di spinaci, ricotta, formaggio e uova.

A Benevento nella notte natalizia si usa sempre, in tutto il territorio di questa provincia, porre una scopa fuori della porta d’ingresso nella credenza che le eventuali streghe,  prima di entrare, debbano strappare i fili di saggina, ad uno ad uno, finchè l’alba, sorprendendole ancora affaccendate in questo lavoro, le costringe a fuggire. Ed effettivamente, per quanto ciò possa destare incredulità, le scope lasciate sulla soglia la sera, al mattino vengono sempre ritrovate rotte o sciupate.

Nelle Marche in occasione del Natale, i fidanzati si scambiano fazzoletti di lino ripieni di castagne, di noci e di mandorle.

A Nereto (Teramo) alle due di notte dell’antivigilia di Natale a campana maggiore della parrocchia viene puntualmente messa in moto ed i suoi rintocchi risuonano a lungo, in ricordo del prodigioso intervento della Madonna che, anticamente, mise in fuga una colonna di Francesi incamminata verso il paese con il proposito di metterlo a ferro e fuoco.

In Puglia anche sei il progresso ha sostituito ai vecchi camini più moderni sistemi di riscaldamento, la tradizione del ceppo natalizio sopravvive tuttora tenace nelle campagne e nelle borgate. In Puglia il ceppo viene circondato da dodici pezzi di legno diversi, che rappresentano i dodici apostoli; attorno alla tavola siede la famiglia che ospita tanti poveri quanti sono i suoi defunti. Analoga è l’usanza che vige in Calabria, dove però si usa adornare il ceppo con tralci di edera.

A Bari  a mezzanotte si vedono tutte le strade illuminate di stelle filanti e di fuochi d’artificio sotto forma di topi che vanno dietro alle persone. Poi, il topo va in aria e scoppia, illuminandosi. Con queste luminarie si sta alzati fino alla mattina del Natale. I dolciumi che si fanno a Natale sono cartellate, torrone, castanielle, panzerotti, taralli con il pepe e con lo zucchero.

Nel Santuario de La Verna (Arezzo) per tradizione i frati devono recarsi in processione due volte nel pomeriggio e di notte lungo il corridoio delle Stimmate. Si racconta che una vigilia di Natale, non potendo i frati raggiungere, per la troppa neve caduta, il porticato che si snoda sino alla cappella dove San Francesco ricevette i sacri segni, il mattino seguente si scorsero sulla bianca coltre le impronte degli animali della foresta che avevano compiuto, invece dei monaci, il mistico percorso.

In molti paesi della Sardegna a Natale si usa confezionare dolci speciali a forma di nuraghi, che si chiamano passalinas e che vengono offerti a chiunque bussi alla porta perchè la leggenda vuole che Gesù e San Pietro scendano sulla terra vestiti da mendichi e bussino alla porta di tutti per provare il cuore degli uomini.

In Toscana la festa del ceppo è una tradizione natalizia che consacra il dovere dell’ospitalità: il 24 dicembre, al tramonto, il capofamiglia pone sugli alari una grossa radice di ulivo o di quercia e vi dà fuoco; fintanto che il ciocco continua ad ardere la porta di casa resta aperta e chiunque entri ha diritto ad un piatto di arrosto e, se vuole, anche ad un letto per la notte.
In altre regioni il compito di accendere il gaio fuoco natalizio non spetta al capofamiglia ma alla persona più anziana, la quale chiama poi attorno a sè i giovani, invitandoli a percuotere con un bastone il ciocco per farne sprizzare le scintille allo scopo di trarne auspicio.
Altrove sono i fidanzati a ricavare l’oroscopo dal ceppo acceso nella santa notte, sulla cui brace vengono gettate alcune noci a seconda che esse scoppino o brucino lentamente.

In Calabria finita la messa di mezzanotte  le persone baciano Gesù bambino ed escono dalla chiesa. I pastori con le loro zampogne suonano per le strade principali ed annunciano la nascita del redentore. Nelle vie sparano i mortaretti.
In altri paesi dell’Italia meridionale c’è l’abitudine di tenere, la notte di Natale, la porta aperta e la tavola imbandita fino al ritorno dalla chiesa dopo aver ascoltato la messa di mezzanotte. Una vecchia leggenda dice che la Madonna e il Bambinello hanno modo di scaldarsi e di nutrirsi e benedire così la casa.
In certi paesi gruppi di ragazzi si riuniscono nel pomeriggio di Natale e poi passano di casa in casa a cantare una canzone natalizia, ricevendo così vari doni.

In Sicilia sul piazzale della chiesa, sempre nella notte della vigilia, brucia un fuoco di legna che vuole significare che il popolo intende riscaldare il santo bambino. Un’altra usanza, che fa sembrare sempre più bella la giornata del Natale, è di scegliere un bambino povero e di vestirlo come Gesù, e poi deporlo presso l’altare. Ogni abitante del luogo porta a quel piccino un piccolo dono. Terminata la messa, il bimbo trionfante ritorna alla propria casa.
Ciò che mangiano alcuni Siciliani alla vigilia è pesce e olive, il loto cibo preferito, e nello stesso giorno preparano dei buonissimi dolci.

In Campania alla vigilia di Natale si spara il mortaretto e, giusto alla mezzanotte della vigilia, si lancia nel cielo una stella tutta illuminata a ricordo della nascita del redentore.
Concludiamo questa nostra rapida carrellata ricordando un’altra simbolica consuetudine profondamente radicata in tutte le regioni italiane: quella del pungitopo, la pianta sempreverde che in occasione delle festività natalizie e di Capodanno fa la sua comparsa in migliaia e migliaia di case. Essa ha origine da una delicata e commovente leggenda che risale all’alto Medioevo e che può essere così riassunta: molti secoli fa, nella notte del 24 dicembre, un arbusto disadorno, dalle foglie dure e aguzze come aculei, se ne stava tutto solo in mezzo alla radura di un bosco, schivato da ogni essere vivente,  quando si accorse che un grosso lupo si teneva nascosto dietro a un cespuglio, pronto ad assalire due leprotti; la pianticella allora cercò di attirare l’attenzione di un topolino di passaggio, si chinò e lo punse leggermente e gli sussurrò di far sì che le piccole lepri minacciate di morte corressero a mettersi sotto la sua protezione. Così infatti avvenne: l’arbusto diede asilo alle tre bestiole disponendo i rami in modo da formare una specie di gabbia con gli aculei rivolti verso l’esterno; il lupo tentò invano, per tutta la notte, di ghermire la sua preda, finchè fu costretto a rinunciare e dovette allontanarsi ferito e scornato.
Al mattino, molte delle foglie aguzze erano spezzate o divelte, e in loro vece delle bellissime bacche rosse, nate all’improvviso, adornavano la pianta, che da allora in poi si sarebbe chiamata “pungitopo”.
Così, tra streghe e folletti messi in fuga, tradizioni serene ed altre un po’ meno, continua ancora oggi e si perpetua in Italia, come in ogni altro Paese del mondo, il lunghissimo racconto di Natale, questa favolosa storia punteggiata di comete e di prodigi, ovattata dal candore della neve: la storia di una Notte in cui l’impossibile diventa realtà e la realtà, quanche volta, sfiora l’incredibile: la notte santa, che vide la nascita del redentore di tutte le genti che vivono su questa terra.

Natale nel mondo
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento

Tra i Lapponi, insieme con i pastori di renne che vivono vagabondi lungo le giogaie di questa sterminata landa, sono disceso per la notte di Natale a Karasjok, villaggio formato da una trentina di capanne sparse attorno alla chiesetta. Per la celebrazione natalizia più di seicento Lapponi sogliono adunarsi a questa volta. Alcuni sono giunti a cavallo dalle regioni della Finlandia, dai clivi settentrionali della Svezia, dai mardi del Fiord di Tana che sfocia sulle coste del Mare di Barents. Altri su slitte trainate da renne hanno risalito le anse tortuose dei fiumi trasformati in lastre di cristallo. Altri ancora, i poverissimi, i derelitti, sono venuti a piedi, armati di canna e di bisaccia, dalle impervie montagne del Capo Nord aprendosi a forza il varco tra gli arbusti congelati della tundra, come la gente di dio al tempo dei miracoli. Su tutti i pellegrini si stende la notte: questa ininterrotta, spietata notte polare, che solo nell’intervallo di due ora meridiane sembra elevare all’orizzonte una promessa ingannevole e fugacissima. La piccola chiesa di Karasjok, unico tempio cristiano in tutta questa regione, è eretta al centro di un piazzale sopraelevato a cui fanno barriera due rozze cancellate. E’ una costruzione di legno verniciato di bianco, sormontata da un tetto a punta aguzza, da un campanile corto e sottile come l’orecchio di un coniglio. A un richiamo della campana il sagrato si affolla; sta per cominciare la messa. (V. B. Brocchieri)

Tra gli Eschimesi passare il Natale in una capanna di ghiaccio, su un paesaggio di neve, è un’emozione che solo il Polo può donare. Per giunta il 25 dicembre è il punto culminante della notte polare, e le stelle brillano fin quasi a mezzogiorno. Nonostante il freddo e il buio, i cristiani vogliono passare bene le feste. Alcuni giorni prima, si riuniscono a consiglio, caricano le slitte con montagne di roba: pelli, letti, carne gelata di caribù, orso, foca e salmone; gli uomini a piedi, le donne col più piccino le cappuccio dietro il dorso, e gli altri bambini sopra la slitta, e si parte in carovana verso la chiesa. Vi arrivano da lontano, talvolta da trecento chilometri, dopo tre, otto, dieci giorni di corsa sul ghiaccio. Il Natale, insieme alla Pasqua, è forse l’unica solennità in cui si può contare l’entità numerica di un distretto cattolico del nord: trenta slitte con  più di centocinquanta Eschimesi e trecento cani. E poichè è una festa comune, oltre che l’igloo di famiglia, se ne costruisce un altro molto grande dove i pellegrini si raccolgono per passare il tempo in allegria. E’ la migliore occasione per il cantastorie di farsi onore.

Nelle distese bianche della Norvegia, il Natale reca naturalmente la gioia a tutti; ma è nata qui una gentile e specifica tradizione secondo cui devono gioire non soltanto gli uomini, ma anche le bestie. E quindi, già nei giorni della vigilia, i bimbetti norvegesi, imbacuccati nelle pellicce, corrono nei campi coperti di neve e vi spargono a piene mani il grano. Così gli uccelli, almeno a Natale, troveranno di che sfamarsi anche sul bianco e nemico lenzuolo gelido che ricopre per tanto tempo la terra norvegese. Questo atto gentile vuol essere una specie di simbolico atto di gratitudine al bue e all’asino che riscaldarono Gesù.
In Inghilterra le feste natalizie, pur tra freddo, pioggia e bruma, durano più di una settimana ed hanno un carattere del tutto familiare. La sera della vigilia i bambini, con un palo a cui è sovrapposta una lanterna con due corna di bue, girano per le strade nebbiose, e di tratto in tratto gridano: “Buon Natale!”. Le sere del 24 e del 25 dicembre quel grande alveare umano che è Londra assume quasi l’aspetto di una città abbandonata , perchè tutti rimangono in casa, nella dolce intimità familiare.

In Svezia la notte di Natale in ogni casa uno dei figli entra, seguito da quattro bambini vestiti di bianco con fasce rosse attorno alla vita e porta appeso ad un bastone una lanterna di carta come una grande stella. La gioia esplode da tutti i cuori a quella vista e i genitori porgono ai bambini dolci e doni.

In Norvegia, sempre nella notte natalizia, i pastori e i contadini riuniti a frotte, si recano nelle vecchie foreste e abbattuto un albero, gli danno fuoco tra la più grande allegria generale.

Nella vecchia Russia si usava invece innalzare un mucchio di grano sulla tavola con un grande dolce in mezzo. Il padre si sedeva ad un capo della tavola e chiedeva ai figlioli che erano dal lato opposto, se lo vedevano. I figli rispondevano che non lo vedevano. L’ingenua risposta era un segno d’augurio che nell’annata il grano sarebbe cresciuto così alto nei campi, da nascondere una persona.

Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento
Il primo presepe

San Francesco, nel 1223, era tornato da poco dalla Palestina. Qui era riuscito a visitare i luoghi santi grazie a un salvacondotto concessogli miracolosamente dal sultano, ed ancora aveva nel cuore le commoventi visioni di quella terra.

Pensava certamente a Betlemme quando, essendo ormai vicino il Natale, chiamò l’amico Giovanni Vellita e gli disse: “Vorrei celebrare la messa di Natale nel bosco di Greccio, di fronte a una grotta che è sulla collinetta che tu hai donato ai frati. E vorrei che in quella grotta ci fossero una mangiatoia, un bue e un asinello come quando nacque Gesù. Puoi, amico mio, procurarmi tutto questo?”
Giovanni Vellita,  che era un generoso proprietario terriero benefattore dell’Ordine dei Frati Minori fondato da San Francesco, si adoperò per far trovare al santo quanto desiderava.

La notte di Natale, con grande devozione, i contadini, i pastori e gli artigiani del luogo, gente di ogni età e condizione, si avviarono alla grotta in pellegrinaggio. Un sacerdote celebrò la messa di mezzanotte sopra una mangiatoia. San Francesco, non essendo sacerdote ma soltanto diacono, cantò il vangelo della nascita e lo spiegò al popolo, accorso nel bosco con le fiaccole accese. Giovanni Vellita ebbe il premio della sua bontà e tutti quello della loro fede: nella mangiatoia, fra il bue e l’asinello, apparve il Bambin Gesù, luminoso e sorridente.
Questa fu l’origine del presepe: riprodurre la scena della natività, prima con quadri viventi, con sacre rappresentazioni, con personaggi reali, e poi con statuine e plastici.

Presepi artistici
La più antica raffigurazione del presepe di cui si abbia documentazione sicura è quella che si conserva a Roma nella Basilica di Santa Maria Maggiore; si tratta di una grandissima opera d’arte, scolpita verso la fine del 1200 da Arnolfo di Cambio. Fin dal V secolo, però, la basilica possedeva una rozza scultura in legno della natività, e dal VII secolo custodisce quella che, secondo la tradizione, è la culla di Gesù bambino, costruita da san Giuseppe durante la fuga in Egitto per adagiarvi il bimbo, e formata da cinque assicelle di legno scuro.

Per venire alle vere e proprie statuine e alle raffigurazioni del presepe in Europa, ecco alcune notizie delle origini e dei primi secoli di questa arte minore.

Pare sia stata la regina Sancia, moglie di Roberto d’Angiò re francese di Napoli, che fece allestire il primo presepe artistico a statuette. Da allora i presepi napoletani hanno avuto una grande tradizione. Celebre fu quello di S. Domenico Maggiore, nel 1400: le pietre della grotta furono portate da Betlemme fra difficoltà enormi, come è facile immaginare.

Nel 1375 le suore domenicane di Lucca donarono a santa Caterina da Siena che le visitava una statuina di Gesù bambino in stucco dipinto. Queste statuine venivano fatte nei conventi della città. Due secoli dopo suor Costanza Micheli si adoperò per spedire le statuine in tutte le capitali europee, al prezzo di 50 scudi. La Repubblica Lucchese le inviava come omaggio tipico della città agli altri Governi.

Ai primi del 1700 si ha notizia di figurinai (cioè fabbricanti di statuine) lucchesi in Germania. Alla fine del settecento i figurinai, esperti nella lavorazione del gesso, erano organizzati in compagnie sui mercati di Spagna, Francia e Inghilterra.

Diversa la tecnica dei Napoletani, più elaborata ed artistica. A san Giovanni a Carbonara si può ammirare il primo presepe dell’Italia meridionale, in legno intagliato: realizzato nel 1484, segna l’inizio di un modo particolare di realizzare la scena natalizia che si diffuse anch’esso in tutta Europa: profondità di spazio, moltiplicarsi di figure secondarie, e l’adottare lo stile e i costumi del popolo e del luogo in cui l’opera viene realizzata, quasi a dire che il presepe ha un significato eterno e può essere raffigurato in costumi popolari napoletani invece che in quelli storici. Il più bel presepio del mondo di questo tipo si trova nella Reggia di Caserta, nella Sala degli Specchi.

Gli altri popoli adattarono dunque, sull’esempio napoletano, la raffigurazione del presepe all’ambiente e ai costumi nazionali.

In Spagna i presepi artistici del passato ed anche le presenti realizzazioni mostrano, sull’esempio di un celebre modello di Granada, un patio dell’architettura andalusa, con archi moreschi, e persino gon gitani che ballano le tipiche danze iberiche. Inutilmente cerchereste un asinello nella grotta: vi troverete invece accanto al bue la mula, il paziente animale cui il popolo spagnolo tanto ha dovuto sui campi e per i sentieri, per secoli.

In Olanda i personaggi trovano collocazione non in una grotta, ma in una graziosa casetta (è noto l’amore che gli Olandesi hanno per la casa!) e, sullo sfondo, un mulino a vento. Non pastori, ma mugnai infarinati e contadini, pescatori, marinai.

I Finlandesi, e specialmente i Lapponi e altri popoli nordici, costruiscono il presepe in un igloo o in una capanna lappone, con pastori di renne e non di pecore, e cacciatori in abiti di pelliccia e di lane multicolore. Risulta evidente così si comporta come se la natività fosse avvenuta sul suo territorio.

In Inghilterra il presepe non era molto conosciuto; i cattolici sono solo una piccola percentuale della popolazione, e l’usanza prevalente era quella dell’albero. Oggi l’uso del presepe si diffonde ovunque, anche presso gli Anglicani, ed è diventata una tradizione dei grandi magazzini che allestiscono una vetrina apposta.

I materiali usati sono i più rari: legno o maiolica nelle opere di maggior impegno, legno nel Tirolo, gesso dalla Lucchesia in tutta Europa, argilla per terrecotte a Roma( famosissimi i figurinai romani!), in Umbria e nelle Marche (celebri i figurinai di Ascoli), di cartapesta con teste di creta (a Napoli), di corallo, rame dorato, cera, avorio, madreperla, alabastro, sughero, conchiglie marine, tela incollata in Sicilia e Sardegna, tanto per restare in Italia.

In Provenza c’è un fiorente artigianato di statuine (“santos”) in argilla, o anche ceramica. Vengono esposte e vendute in una fiera annuale nella principale via di Marsiglia.

Presepi viventi
Da quel primo di Greccio, molti altri presepi viventi sono derivati. In Inghilterra, a Leeds, per tutte le sere del periodo natalizio un corteo sfila per le vie della città: c’è la sacra famiglia, ci sono i re magi e i pastori; il gruppo si ferma sempre sulla scala del Municipio, dove viene accolto a turno dalla popolazione e dai rappresentanti di varie organizzazioni che cantano melodie natalizie.

In Francia, nella Provenza, la messa di mezzanotte è l’occasione per una sorta di sacra rappresentazione detta del “Pastrage”. Dietro l’altare, una voce che rappresenta un angelo annuncia la natività; allora entra in chiesa, al suono di pifferi e tamburi, un corteo di pastori e pastorelle nei costumi della regione; li segue un carretto trainato da un montone ben infiocchettato, che trasporta un belante agnellino. Il pastore più anziano prende l’agnello e lo offre inginocchiato al bambino Gesù.

In Svizzera, a Rappenswill (Cantone di San Gallo), il presepe vivente inizia con un solenne e pittoresco corteo che si dirige verso la piazza principale, gremita di folla. Lo precedono bambini e bambine vestiti di tuniche bianche fluttuanti, seguono i personaggi della sacra famiglia, poi i re magi e i  pastori con le loro greggi.

L’albero di Natale
Accanto all’italianissima tradizione del presepe, si è diffusa sempre più anche da noi la consuetudine dell’albero di Natale. Come è nata questa tradizione?
Molti sono propensi a credere che l’albero di Natale sia un residuo del culto pagano adottato dai cristiani e da essi rivolto alla propria fede.

I Romani usavano portare in giro, durante i Saturnali, un giovane abete quale segno della fine dell’inverno e dell’avvento della primavera, e migliaia di alberi sempreverdi in tutta la città erano adornati con lumi e festoni colorati, per indicare il fervore della vita che caratterizza l’inizio della primavera.
Questa pratica fu estesa alla Germania e ad altri Paesi dell’Europa centrale, quando i Romani occuparono questi luoghi verso il 15 aC.

Un tardo mito germanico narra di San Vilfredo, come di colui che per primo vide nell’albero di Natale un simbolo della nascita di Gesù. Il santo aveva tagliato una grossa quercia, che era stata oggetto di venerazione da parte dei Druidi; appena la quercia fu abbattuta, si scatenò un furioso temporale che distrusse completamente l’albero, mentre un giovane abete che stava lì vicino rimase intatto. San Vilfredo ne trasse argomento per una predica, nella quale chiamò l’abete albero della pace, poichè dal suo legno si fanno le abitazioni degli uomini, e emblema della vita infinita perchè le sue foglie sono sempre verdi, e terminò con l’esortazione di chiamare l’abete anche albero del bambin Gesù.

La Germania è il Paese che più entra nella storia dell’albero di Natale. Leggiamo che Martin Lutero fu tanto impressionato,  una sera di Natale, dal miracolo del cielo trapunto di stelle, che preparò per i suoi figli un albero illuminato da candele, quasi a rappresentare con esso  il cielo stellato, da dove scendeva Gesù. Più tardi l’albero di Natale fece la sua comparsa in Inghilterra.
Nel 1840 la regina Vittoria collocò un albero di Natale tra i suoi ornamenti natalizi, e sembra che questo fatto abbia dato il segnale dell’adozione generale dell’usanza.
In alcuni Paesi il significato religioso dell’albero è così sentito che non è permesso appendere ai suoi rami altro che candele e ornamenti, mentre i doni vengono collocati davanti o intorno alla pianta. Che l’albero di Natale sia o non sia un residuo del culto pagano, è certo che esso è diventato col cristianesimo un emblema della natività e un elemento essenziale di tutte le feste che riguardano l’infanzia.

Il primo Babbo Natale
Babbo Natale, personaggio di fiaba che si inserisce nella realtà della tradizione natalizia dei nostri giorni, è una figura molto cara all’infanzia. Il buon vecchio incappucciato, con la lunga barba bianca, il rosso vestito, il bastone in mano e la gerla in spalla, è il mago benefico che tuttora si può incontrare anche nel frastuono delle affollate vie cittadine, animate per la ricorrenza natalizia.

Eppure questo personaggio un po’ burlesco e di fiaba ha la sua vera storia che risale, nientemeno, a San Nicola di Bari, vescovo di Mira (Venezia), santo dei giovani, dei bambini, degli studenti e che quasi tutti i paesi del mondo elessero a loro patrono, tanto la fama del santo era diffusa.

Il santo fu infatti assunto a patrono dei giuristi, avvocati e studenti in Francia; dei mercanti in Germania; dei marinai in Grecia; dei viaggiatori e dei bambini in Belgio; dei bottegai in Inghilterra; degli scolari in Olanda.
Ovunque egli fu sempre raffigurato con la mitria in testa, il rosso pallio sulle spalle, il pastorale in mano e la lunga barba bianca.

Narra la storia che a Parigi, verso la fine del XII secolo, era invalsa l’usanza presso un collegio di quella città, che nella ricorrenza della festa del santo, il 6 dicembre, uno studente travestito da San Nicola distribuisse doni ai bimbi bisognosi.

Questa simpatica usanza si diffuse presto anche in Germania ed in Olanda, paesi prevalentemente protestanti, e qui il San Nicola perse i caratteri sacerdotali e divenne il buon vecchio che porta i doni ai bambini; il pastorale fu sostituito da un comune bastone, la mitria vescovile da un rosso cappuccio orlato di bianca pelliccia, ed il pallio da una tunica, pure rossa.

Ecco come nacque il personaggio del Babbo Natale che, qualche secolo più tardi, attraversò anche l’oceano ad opera degli emigranti olandesi; così il Sint Klaes olandese si tramutò nel Santa Claus degli americani, che è poi ritornato a noi come Babbo Natale, ma in definitiva altri non è se non il San Nicola laicizzato.

Natale si avvicina. La nebbia sale dalla valle e si confonde col fumo lento delle case. E’ una lentezza pacata che si distende sulle fatiche ultimate degli uomini; è una carezza, un premio. Cominciano le veglie nelle case, che sono tutte una lunga veglia di Natale. La natura è spenta e la terra svapora. I suoni sono spogliati e si perdono in un’aria vuota, dove sembrano morire. S’odono voci di bimbi, versi di tacchini, campane che si sciolgono l’una dietro l’altra, come lo snodarsi di una catena sonora. (B. Sanminiatelli)

Presto sarà Natale: la più dolce, la più attesa festa dell’anno. Si comincia ad attenderla sin dal primo venire del freddo, sin dal primo giorno di cielo buio. E i giorni passano. Le ultime foglie secche fuggono crepitando davanti al vento gonfio di neve. Il sole e l’azzurro non sono più che un lontano ricordo. Sembra che la primavera non debba venire più, che gli alberi non avranno più fiori, che il cielo non avrà più luce. Allora tutte le speranze si rifugiano nel Natale, questo giorno tiepido e risplendente, questo spuntar miracoloso di frutti d’oro e d’argento e di candeline accese sui rami degli alberi, questo palpitante accendersi di stelle, nel purissimo azzurro del cielo del presepe. Ai primi di dicembre il Natale si annuncia con la vista e l’odore dei mandarini, quei mandarini ravvolti nella carta velina colorata che, a bruciarla, vola sin quasi al soffitto e, se giunge a toccarlo, è di buonissimo augurio. Poi i dolci nelle vetrine, le botteghe adorne di foglie di alloro, di stagnola, di striscioline di carta, le mostre di giocattoli in tutte le strade; ed ogni giorno che passa è un passo in più verso la sempre più grande, sempre più risplendente luce del Natale. (G. Mosca)

Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento

Il Natale arriva ogni anno, eppure ogni volta ci sembra un Natale nuovo e la festa ci riempie il cuore di rinnovata dolcezza. Possiamo dire veramente che il Natale è la festa di un bambino e di tutti i bambini, che più degli adulti sentono la gioia della nascita di un bambino simile a loro.

Fuori fa freddo. Le cose posano tacite, immobili, nella notte invernale. Lenta ed uguale cade la neve. Dan! Dan! Dan! All’improvviso il suono largo e festoso della campane rompe il grande silenzio della notte tranquilla. Questa è la notte santa. Din, don, dan! Venite. E’ nato. (A. Colombo)

Fra nebbie grigie e candori di neve, trascorrono i giorni più brevi dell’anno. E’ tornato dicembre a portarci le feste serene, a ricondurre a casa coloro che erano lontani, a riunire le famiglie attorno al presepe. Grande o piccino, ogni casa conosce la gioia del presepe, preparato nei giorni dell’attesa. A poco a poco s’innalzano e si allungano sullo sfondo verdi colline incoronate di palmeti e di castelli. Ruscelli d’argento scendono giù, dai brevi pendii, ad abbeverare i bianchi greggi in cammino verso la capanna. I pastori riposano all’ombra delle palme: seduti, sdraiati, alcuni davanti al fuoco acceso. Bianche stradine di ghiaia conducono donne e uomini, bimbi e piccoli branchi di animali domestici ad incontrare Gesù. Lento e silenzioso è il loro andare. Non c’è fretta: non è ancora il giorno della vigilia! Ma la mangiatoia della capanna è già colma di bionda paglia. L’asino e il bue aspettano pazienti. Maria e Giuseppe stanno per giungere. Quando suoneranno le campane di mezzanotte, il bimbo più piccolo di casa poserà il piccolo Gesù nella fredda stalla, e al chiarore delle candeline, la cometa brillerà di grande splendore. (R. Lageder)

La notte era senza luna, ma tutta la campagna risplendeva di una luce bianca ed uguale come nel plenilunio, poichè il bambino era nato: dalla capanna lontana i raggi si diffondevano nella solitudine. Il bambino Gesù rideva teneramente, tendendo le braccia aperte verso l’alto; e l’asino e il bue lo riscaldavano col loro fiato, che fumava nell’aria gelida come un aroma sulla fiamma. Maria e Giuseppe di tratto in tratto di scuotevano dalla contemplazione estatica e si chinavano per baciare il figliolo. Vennero i pastori, dal piano e dal monte, portando i doni, e vennero anche i re magi. Erano tre. (G. D’Annunzio)

Il Natale si celebra il 25 dicembre in tutto il mondo, ma specialmente nei paesi cattolici questa è una festa della massima importanza. In questo giorno le famiglie si riuniscono, e anche chi si è dovuto allontanare da casa per ragioni di lavoro, fa tutto il possibile per tornare a trascorrere la festa natalizia con la propria famiglia. (F. Monelli)

Nel presepe dalle valli sbucano fiumi; le montagne sono ripide e selvagge. Sembra un paese vero. C’è quello che porta la ricottina. C’è il cacciatore col fucile, c’è quello che porta l’agnello e fuma una lunga pipa; c’è il mendicante. C’è la gente che balla fra il tamburino, il piffero e la zampogna davanti al presepe. C’è l’osteria dove si mangia il maiale e la gente beve, accanto alla fontana dove la donnina lava i panni. I re magi spuntano dall’alto della montagna con i servitori che guidano i cammelli. La stella splende sulla grotta e gli angeli vi danzano sopra leggeri e celesti come i pensieri dei bambini e degli uomini, in questi giorni. (C. Alvaro)

S’avvicina il momento della nascita di Gesù bambino. La notte è tranquilla. La luna è nascosta. All’improvviso le campane si svegliano e, da collina a collina, si rispondono in mezzo alla nebbia. Da vicino e da lontano, su prati e su boscaglie, si innalzano e si abbassano e sembrano ripetere sonore e chiare: “Pace”.

San Francesco d’Assisi trovandosi, nella notte di Natale, in un paesello di montagna, si recò in una grotta e, per raffigurarsi meglio la scena della natività, vi depose una mangiatoia e, ai lati di questa, mise un asino e un bue. Mentre era immerso in profondi pensieri, vide apparire sulla paglia Gesù bambino che lo benediceva sorridendo. Questo fu il primo presepe.

A Natale, la tavola è imbandita festosamente e sopra vi compaiono saporite pietanze e dolci squisiti. Ma il pranzo più prelibato è quello che si celebra in pace e allegria e soprattutto quello che lascia il posto agli ospiti che possono bussare alla porta.

Natale è la festa più bella di tutte, perchè con la nascita di Gesù, l’innocenza tornò nel mondo. Da allora, questa è la festa della speranza e della pace. Tutto sembra fatto per la gioia dei ragazzi che sono la speranza del mondo. Nei paesi s’è lavorato tutta la settimana per fare il presepe. Nel fondo si tendono rami di aranci carichi di frutta. Si lanciano ponti coperti di muschio da un punto all’altro, si costruiscono montagne ripide e selvagge, steccati per le mandrie, e laghetti. (C. Alvaro)

Che cosa c’è, nell’anno, di più soave, bello, gioioso? Nel Natale è la festa luminosa della natura, della vita, dell’incanto e della grazia. Il Natale è la gioia delle nostre case, anche dove esistono preoccupazioni e tristezze. (Breviario di Papa Giovanni)

I pastori vegliavano nella notte quando furono sorpresi dalla luce e dalle parole di un angelo. E appena videro, nella poca luce della stalla, una donna giovane e bella, che contemplava in silenzio il figliolo, e videro il bambino con gli occhi aperti allora, quel corpicino roseo e delicato, quella bocca che non aveva ancor mangiato, il loro cuore s’intenerì. Offrirono quel poco che avevano, quel poco che è tanto se è dato con amore: il latte, il formaggio, la lana, l’agnello. (G. Papini)

Una felice tradizione racconta che San Francesco d’Assisi, tre anni prima di morire, fece apparecchiare il primo presepe a Greccio, nella selva, fra la mangiatoia e il fieno, con l’asinello e il bue. Era limpidissima la notte di Natale: la selva splendeva di lumi e risonava di canti. Da ogni parte il santo aveva chiamato i suo i fratelli e la gente devota. Fu celebrata anche la messa, e san Francesco, come inebriato di allegria, cantò il Vangelo. (F. Flora)

Il presepe sorge di sughero e di muschio a creare una regione di piccole valli, ove qua l’argento crea un fiumicello e là uno specchio, cinto di terra, forma il lago, e variamente le casette e i pastori e gli animali formano gruppo, e una fontana con un piccolo vero zampillo fluisce: e nella grotta Maria e Giuseppe, l’asino e il bue, aspettano Gesù bambino. All’ora della nascita, tra i lumi delle candele, spente le altre luci in ogni stanza, lo porta nella bambagia il più piccolo della casa. Ed è la festa più cara, dove gli adulti e i vecchi ritrovano per poco l’infanzia e odono il canto degli angeli che dice gloria e pace sulla terra agli uomini di buona volontà. (F. Flora)

E il gallo cantò: “Cuccurucù, è nato Gesù!”. “Do?”, chiedevano i buoi dalle stalle. “Betlem, betlem!” belavano le pecore. Passava il vento: “Ave, ave, ave!”. Come fuori al transitar della notte, la luce si faceva strada da oriente, si profilava l’oro dell’aurora in cammino. I pastori, trasognati, si levarono abbagliati dalla gran luce. E il cielo era pieno di incanti. “Che c’è, che c’è, che c’è?”, diceva una cincia. “Dio, dio, dio!” garrivano tutti gli uccelli. E l’intero firmamento di astri cedeva il posto a uno solo. (F. Tombari)

Anticamente con la parola “avvento” si indicava soltanto il giorno della nascita di Gesù. Ora invece si intende indicare anche un periodo precedente il Natale e che esattamente comprende le quattro domeniche prima della festa. In principio, durante l’avvento, si osservava il digiuno, ma col tempo questa regola severa fu abbandonata ed attualmente viene rispettata solo dagli ordini religiosi. L’avvento è un periodo di meditazione e di attesa. Il ciclo dell’anno liturgico inizia proprio con l’avvento.

Il Natale si celebra in tutto il mondo cattolico il 25 dicembre e ricorda la nascita di Gesù a Betlemme. Questo avvenimento segna una data fondamentale anche nella Storia che, da questo momento, si divide in due grandi periodi: quello che comprende gli anni prima della nascita di Cristo, e quello degli anni trascorsi dopo. Tutti gli avvenimenti della Storia perciò vengono considerati come avvenuti “avanti Cristo” e “dopo Cristo”.

Nell’aria di Natale si entrava decisamente solo con l’arrivo degli zampognari. Giungevano all’improvviso, si fermavano alle porte del paese, e cominciavano subito a suonare. Erano di solito due. Non guardavano in faccia nessuno mentre suonavano, i loro occhi pareva non vedessero, come quelli delle statue. E il loro viso era immobile, fisso, non diceva nulla. Il più giovane, finita la suonata, faceva il giro della cerca, ignorando il folto cerchio dei ragazzi. Raccolto qualche soldo, la zampogna ripigliava come prima. Gli zampognari entravano anche nelle case dove c’era il presepe, e in quelle suonavano anche la “pastorella” come si sarebbe cantata in chiesa la notte di Natale. Poi ripartivano, nevicasse o piovesse. Passati gli zampognari, il Natale pareva più vicino. L’aria della festa restava nel paese come un’attesa fiduciosa, una buona notizia, un’allegria comune. (G. Titta Rosa)

Ad un tratto cominciai a udire un suono di campane, lontano, lontano, d’una dolcezza infinita. Erano cinque campane che sonavano a concerto: prima la più piccina, poi la grandicella, poi ancora la piccina, e così via: la mezzana, la grande… intrecciandosi strettamente via via, fino alla maggiore che chiudeva la cantata con il suo vocione, e dicevano: – Sai bene, sai bene che domani è Natale.- (F. Chiesa)

E’ festa grande il giorno di Natale! Ogni bambino nel lettino sogna una cesta di dolci e di balocchi, e appena sveglio, con i piedi scalzi, corre a guardare l’albero, felice.

L’albero è pieno di luci e di fuochi che fan sembrare d’oro e di cristallo ogni ninnolo appeso. Ed anche l’albero, anche l’abete è felice. Egli pensa: “Quand’ero nel bosco, sognavo d’avere la vela un giorno, e condurre col vento una nave lontana! E tutto allora io mi beavo di questo mio sogno e ne fremevo impaziente d’attesa.

Ora che più non odo l’usignolo, che nel mio verde teneva dimora, pur sono felice perchè qui ricolmo di luci e di doni, mi beo delle voci di tanti bimbi, che sì, non conosco, ma sono buoni, e trillano sereni come i miei passerotti. Questa casa se non è quieta come il verde bosco dove sono nato, tuttavia rispetta il giorno santo che Gesù nasceva. E qui mi sento come in Paradiso.” (G. Serafini)

A mezzanotte, ben coperti, chiudevano la porta e s’avventuravano nell’ombra, sulla strada piena di neve, per recarsi alla messa di Natale. Ai rintocchi della campana, la montagna si popolava di lumi, di fiaccole. Quando i rintocchi tacevano, si distingueva lontano la nenia di una zampogna, rispondeva più vicino il gaio ritornello di uno zufolo, che si intrecciava a una sinfonia di pifferi e di viole: erano i pastori che lasciavano nell’ovile le pecore e scendevano a messa. E lungo la via si affratellavano coi contadini che portavano manciate di grano da far benedire, con i montanari dalle grosse scarpe ferrate e dai cappelli ornati di vischio. (O. Visentini)

Felice giorno di Natale, quando i piccoli con le gambine si agitano per l’impazienza, e gli occhi accesi, spiano davanti alle porte chiuse, dietro alle quali di preparano luminose e fragranti meraviglie, e stanno a guardare con visi intenti la mamma che cuoce il pesce per la cena! Con vecchie canzoni sulle fresche labbra, trotterellano verso la nonna, che sogna nell’alta poltrona davanti al fuoco, per baciarle le mani piene di rughe. Poi arriva anche il babbo. Racconta di Gesù bambino: che gli è venuto incontro coi i capelli che sembravano d’oro e le mani piene di meravigliose cose variopinte. Fuori urla la bufera, una slitta si ode tintinnare lontano e tutto ciò è così pieno di mistero e così grande e così gioioso che non lo si può mai dimenticare. (M. R. Rilke)

La sera della vigilia di Natale la luce dei negozi pioveva sulle merci esposte fuori, e i riflessi si stendevano sul selciato appiccicaticcio della via. Il cielo era nascosto da una nebbiolina che tremava intorno agli aloni dei fanali. Per le vie strette e irregolari non passavano nè automobili, nè tram. Ceste colme di arance fra le arance di carta velina. Mele rosse e lucenti.

A passarci accanto scorgevo l’interno illuminato di una bottega. Continuando la via, mi restava negli occhi l’immagine di quell’interno: lo splendore della lampada sospesa nel mezzo sotto il piattello bianco, la luce che pioveva in basso, dolce, sulle persone che parlavano, sul cranio lucido del bottegaio e sui suoi gesti silenziosi. Seguitavo a camminare. Senza scosse passavo sul selciato umido e sconnesso, sui ricami di fanghiglia iridati dai riflessi incerti delle luci, sui rifiuti, sui detriti, sull’umidore in ombra.

L’indomani era festa! Un sorriso mi saliva dall’anima agli occhi e alle labbra. Camminavo nella città, fra la gente, i passi suonavano quieti sul selciato. Accanto, altri rumori di passi. L’attesa colava nella via come un liquido impalpabile. Tutti si muovevano come me, attenti a evitare ogni stridore che rompesse l’incanto. (M. Cancogni)

Erano venuti per fare raccolta di muschio e di fronde verdi, essendo l’antivigilia di Natale, vale a dire il momento di costruire in una delle cappelle della chiesa il presepe. Chi portava un sacco, chi un cesto, chi un falcetto, chi semplicemente le proprie mani, le quali pure bastavano a strappar via dai tronchi lunghi strascichi di edera ed a svellere alla terra e ai ceppi quelle belle zolle pelose, d’un verde forte e dorato, morbide e pulite, che anche gli angeli potevano essere contenti di farvi due passi sopra. Il maestro sceglieva qua e là nel bosco i più bei rami d’agrifoglio, di tasso e di pino silvestre. (F. Chiesa)

 Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento
L’attesa

Presto sarà Natale: la più dolce, la più attesa festa dell’anno. Si comincia ad attenderla sin dal primo venire del freddo, sin dal primo giorno di cielo buio. E i giorni passano. Le ultime foglie secche fuggono crepitando dinanzi al vento gonfio di neve. Il sole e l’azzurro non sono più che un lontano ricordo.
Sembra che la primavera non debba venire più, che gli alberi non avranno più fiori, che il cielo non avrà più luce. Allora tutte le speranze si rifugiano nel Natale, questo giorno tiepido e risplendente, questo spuntare miracoloso di frutti d’oro e d’argento e di candeline accese sui rami degli alberi, questo palpitante accendersi di stelle, nel purissimo azzurro del cielo del presepe.
Ai primi di dicembre il Natale si annuncia con la vista e l’odore dei mandarini, quei mandarini avvolti nella carta velina colorata che, a bruciarla, vola sin quasi al soffitto, e se giunge a toccarlo è di buonissimo augurio.
Poi i dolci nelle vetrine, le botteghe adorne di foglie di alloro, di stagnola, di striscioline di carta, le mostre di giocattoli in tutte le strade; ed ogni giorno che passa è un passo di più verso la sempre più grande, sempre più risplendente luce del Natale. (G. Mosca)

 

Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

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Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – 21 novembre

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – 21 novembre. Una raccolta di dettati ortografici di autori vari per la scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

In molte parti del mondo, sia i grandi che i bambini, piantano gli alberi in un giorno speciale chiamato “Festa degli alberi”. Essa cade in giorni diversi nei vari paesi del mondo. Se tu fossi un bambino indiano o una bambina messicana, avresti un albero tutto tuo! In quei paesi ogni volta che nasce un bimbo, i genitori piantano un albero dandogli il nome del bambino. In Israele, gli scolari piantano gli alberi in un giorno chiamato Tu B’ Shebat. Molto tempo fa infatti, in quel giardino, gli Ebrei piantavano un albero per ciascun bimbo nato in quell’anno, un cedro per i maschi e un cipresso per le bambine.

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI
Il 21 novembre si celebra la festa degli alberi. Perchè amiamo gli alberi? Perchè la loro funzione è benefica. Gli alberi purificano l’aria; sentite che buon odore quando attraversiamo un bosco? Gli alberi trattengono le acque che altrimenti irromperebbero a valle, trascinando terra, piante, e purtroppo anche case. Gli alberi fanno da riparo ai venti. Danno bellezza al paesaggio: osservate la diversità fra una zona alberata e una zona brulla. Gli alberi ci danno il legno, materiale prezioso per costruire… che cosa? Guardiamoci intorno e cerchiamo tutto quello che è fatto di legno. Legno di quali alberi? Abete, castagno, pino, noce. E ancora, gli alberi ci danno la frutta. Ricordiamo gli alberi più noti: il castagno, l’olivo, il pero, il melo, il susino, il noce…

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI

Se l’albero è così utile e benefico, cosa possiamo fare noi per lui? Innanzitutto piantarli: sui margini dei fiumi, sulle pendici scoscese, nelle zone brulle, nei luoghi frequentati dai bambini. Un albero viene danneggiato se lo si lega stretto, se vi si piantano chiodi, se si strappa la corteccia, se si spezzano i rami, se il tronco viene ferito. Cerchiamo di proteggere questi giganti buoni. Sembrano potenti, ma anche un bambino può far loro del male.

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI
Il 21 novembre è la festa degli alberi. In questa data si vogliono ricordare a tutti, ma soprattutto ai bambini, le grandi virtù di questi giganti della foresta, e insieme richiamare l’attenzione sull’importanza che essi hanno per tutti noi. Vuol far presente anche i gravi danni arrecati dal disboscamento, dovuti ad incuria e speculazioni disoneste. In questi casi è necessario il rimboschimento. E a questo rimboschimento partecipano i bambini con la festa degli alberi.

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI
Un albero è tutto un vario, singolare, molteplice mondo. Eccone uno, tacito, solitario, immobile, gigantesco, sul ciglio dell’aspra strada di campagna. Sembra un essere dormiente, sembra serrato in non si sa quale suo cruccio, ed allarga, sul terreno diseguale, la sua ombra fresca e ferma. Si passa, di solit, vicino ad un albero, lo si sfiora, ci si appoggia a lui, si gode della sua ombra, quasi sempre senza pensare che vive come noi. (C. Allori)

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – Rispettate gli alberi
Rispettate gli alberi per il verde delle loro foglie, per il profumo dei loro fiori, per la bontà della loro frutta, per la delizia della loro ombra. Rispettateli perchè sono amici dell’uomo, perchè rendono più bella la campagna, perchè proteggono gli uccellini.

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – L’albero
Quando in un lontano giorno il seme cadde in terra e germogliò, la radice era soltanto un filo che succhiava; guarda che cosa è diventato quel filo: braccia nerborute di gigante che non mollano la presa. Guarda il tronco: era uno stelo sottile, verde, debole. Si piegava ad ogni soffio di vento. Ora è diventato una colonna, bella, diritta, solida.

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI 

Gli alberi, oltre ad essere belli e a rendere suggestivo il paesaggio, sono utili all’uomo. Tutti conoscono i prodotti degli alberi da frutto, necessari alla nostra alimetazione, tutti sanno che dall’albero si ricava il legname così utilizzato dalle industrie, ma bisogna anche sapere che l’albero ci è utile con la sua sola presenza perchè difende il terreno dalle alluvioni, perchè modifica il clima rendendolo più fresco e più salubre, perchè bonifica l’aria.

L’albero nella storia
Gli antichi amavano molto gli alberi. I Greci adoravano il dio Pan, nume dei boschi; i Romani il dio Silvano, simile, nell’aspetto, al dio dei Greci. Tutti i popoli germanici ritenevano sacri gli alberi e compivano i loro sacrifici e i riti religiosi nelle foreste, presso una quercia.

L’albero
L’albero si incontra in ogni regione del mondo nelle sue diverse specie e varietà, ed è prezioso per i suoi prodotti e per l’influenza che esso ha sulla temperatura dell’ambiente e sulla vita stessa dell’uomo. Vi sono alberi da frutto, peschi, peri, meli, susini, ciliegi; alberi che danno ottimo legname utilizzato nelle industrie, alberi che, come l’olivo, ci forniscono un ottimo condimento per i nostri cibi.

Parla l’albero
Sono nato da un piccolo seme, che un vecchio piantò nella terra; l’uomo sapeva che non mi avrebbe visto crescere, ma pensò ai figli dei suoi figli. Crebbi esile pianticella prima, poi tronco robusto e vigoroso. Invano il vento si accanì contro di me. Opposi alla sua forza la mia chioma rigogliosa e, con i miei fratelli, difesi dal turbine il paesello che stava sotto la mia protezione.

I boschi
I boschi abbelliscono il paesaggio e lo rendono più suggestivo. Ma soprattutto, influiscono sul clima mitigandone il calore. Inoltre, gli alberi si oppongono efficacemente alla violenza dei venti e, trattenendo le acque, alimentano le sorgenti. Le radici impediscono lo scoscendamento del terreno ed evitano le frane. Gli alberi sono altresì di ostacolo alle valanghe a cui oppongono la resistenza dei loro tronchi proteggendo la zona anche dalle inondazioni.

Il culto degli alberi
Fin dalla più remota antichità, gli alberi sono sempre stati sacri all’uomo e i grandi poemi, testimonianze delle prime civiltà, lo provano. Gli antichi Romani avevano il fico ruminale, perchè la leggenda diceva che sotto ad esso erano stati trovati Romolo e Remo. La pianta più cara ai Latini era la quercia, anche perchè si cibavano delle sue ghiande. La palma era l’albero sacro dei Fenici e dei Cartaginesi, l’olivo dei Greci, il tiglio dei popoli germanici, la vite degli Indo-Persiani. (A. Beltramelli)

I nemici dell’albero
L’albero va curato come tutti gli esseri viventi. Le intemperie, gli insetti ed altri animali possono essere i suoi nemici. Gli insetti ne bucherellano la corteccia, vi scavano delle lunghe gallerie e ne divorano le foglie, i frutti e anche l’interno dei tronchi. Le intemperie possono spezzare rami, strappare foglie, schiantare tronchi. Anche le capre possono essere dannose agli alberi. Esse possono arrampicarsi sui dirupi arrivando così a brucare i giovanissimi arbusti di cui divorano le gemme.

L’albero
L’albero giovane è come un bambino. Quando il sole lo riscalda, nella tiepida primavera, apre le gemme, mette le prime foglie e diffonde intorno a sè la stessa dolcezza che viene dagli occhi dei bambini. In seguito, l’albero acquista vigore, e spande i suoi rami, si riveste di foglie e mormora e freme, e canta quando il vento soffia. (F. Ciarlantini)

Gli alberi
Come sono belli, alti e fronzuti, diritti contro il vento che li scuote! Gli alberi danno la bellezza ai luoghi dove crescono, danno la salute perchè purificano l’aria, proteggono il paese perchè trattengono le acque dirompenti che porterebbero la rovina. Rispettiamo gli alberi, i giganti della montagna, che ci danno soltanto bene.

Rispetta l’albero
L’albero si può danneggiare incidendo la sua corteccia, troncando i rami, legandolo troppo stretto e piantando chiodi nel suo tronco. Si difende curando le sue ferite, e cioè otturando le cavità con gesso o altro, sostenendolo con pali durante la crescita, proteggendolo dall’opera nefasta degli insetti. Proteggi l’albero e l’albero ricambierà le tue cure dandoti ombra, i suoi frutti e il suo legno.

Il bosco
Le piante crescono invadendo il regno dell’aria coi robusti polloni e penetrando la terra con le grosse radici: i rami si dividono, si moltiplicano, scendono, fanno capolino dappertutto: sono brune in cima, pallide in basso, e offrono tutte le più delicate tinte al verde da quello opalino, trasparente, pallido, sino al vigoroso e forte che quasi sembra nero. Il sole manda negli interstizi certi raggi sottili che paiono capelli biondi luminosi, getta in terra tanti cerchietti lucidi che sono la sua piccola e ridente immagine; la luce è buona e dolce nel bosco. (M. Serao)

Rispetta gli alberi
Gli alberi rendono l’aria pura e balsamica; le radici, affondando nel terreno, impediscono che l’acqua trascini con sè la terra fertile. Se tu trovi una fresca sorgente nel bosco, lo devi in parte, anche agli alberi che con le loro radici trattengono il terreno e con questo l’acqua. Invece del torrente rovinoso, hai lo zampillo che dà origine al limpido ruscello.

L’albero e gli uccelli
All’uscita del campo e della foresta, che era autunnalmente spoglia e aperta alla vista, come se fosse stato spalancato un portone per dare accesso alla sua vacuità, cresceva bella e solitaria, unica, fra gli alberi, ad aver conservato il fogliame intatto, una rugginosa, fulva pianta di sorbe. Cresceva su un rialzo fangoso del terreno e protendeva verso l’alto, fino al cielo, nella plumbea oscurità delle intemperie che precedono l’inverno, i piatti corimbi delle bacche indurite. Gli uccelli invernali dalle penne chiare come le aurore del gelo, fringuelli e cinciarelle, venivano a posarsi sul sorbo, beccavano lentamente , scegliendole, le bacche più grosse e, sollevando i capini, allungando il collo, le inghiottivano faticosamente. Fra gli uccelli e l’albero s’era stabilita una sorta di viva intimità. Come se il sorbo capisse e , dopo aver resistito a lungo, si arrendesse, cedendo impietosito: “Che posso fare per voi! Ma sì, mangiatemi, mangiatemi pure. Nutritevi.”. E sorrideva. (B. L. Pasternak)

Conoscere le piante
Avete mai pensato solo per un momento a quello che gli alberi rappresentano ancora oggi per noi?
Guardate, ecco, ho una matita in mano: la grafite è chiusa nel legno. Di quale legno? Si sa tutti che il legno è fornito dagli alberi, ma qual è l’albero che ha fornito questo particolare legno di grana fine, senza fibre, facile da essere tagliato, adatto, insomma, a fare matite? Forse nessuno di voi immagina che sia un ginepro della Virginia, il Red Cedar degli Americani, importato in Inghilterra nel 1600 e oggi coltivato proprio per questo uso industriale.
Per matite meno costose si adoperano anche il legno di ontano e di tiglio, che sono alberi caratteristici del nostro paese.
Scrivo su della carta, naturalmente, come su della carta fate ogni giorno i compiti di scuola. La carta di che cosa è fatta? Di stracci. Sì, anche, ma soprattutto di legno, preparati convenientemente, ridotto in pasta e poi steso. I migliori legni per fare ciò sono quelli di abete e di pioppo.
Un albero così simpatico, dalle foglie che si agitano al vento sui lunghi peduncoli, dai tronchi chiari e di così rapida crescita.
Oltre alla cellulosa per la carta, il legno per i fiammiferi, quante ne sono le utilizzazioni: pali, imballaggi, tutto ciò che richiede un legno leggero, unito, facile da lavorare e, naturalmente, anche i mobili. Tutti sappiamo che tavoli, armadi, sedie, poltrone sono di legno di vari tipi, lucidati o verniciati, oltre che di pioppo sono fatti di abete, di quercia, di noce, di castagno. Il mio tavolo, per esempio, ha il piano in compensato di quercia.
Che cos’è il compensato? E’ un procedimento moderno per cui si ottengono fogli di vari spessori di sottilissimi strati di legno pressati e incollati insieme, e che offrono il vantaggio di essere leggeri, resistenti, e possono essere utilizzati nei modi più vari.
Mentre il grande scrittoio giù a casa di mio nonno è un solido pesante tavolo di noce massiccio, ben levigato e costruito a regola d’arte, come si faceva cento anni fa, e che ha la durata di parecchie generazioni. Un mobile signore, dunque, benchè di forma che noi può non piacere più.
E la seggiola su cui siedo? E’ di acero chiaro, fresco, leggero, piacevole alla vista e al tatto.
Sicuramente sarete stati a sentire un concerto. Ebbene, davanti a quella massa di lucenti violini, vi siete domandati qual è il legno sonoro, meraviglioso, che diede la possibilità ai liutai di Cremona di costruire i loro famosi strumenti ricercati in tutto il mondo? Anch’esso è l’acero.
Ogni giorno si adoperano tanti oggetti e utensili comuni, anche esteticamente così poco interessanti, ma così utili, ormai fissati nelle loro semplici forme, perchè le migliori, da generazione a generazione, e tutti di legno o in parte di legno. Mestoli per esempio, e ciotole per la cucina, e s manici di martelli o di cacciavite, e casse nelle quali vengono spedite le merci, dalla frutta alle conserve. Oggetti rozzi, eppure son fatti di faggio, uno degli alberi più belli delle nostre montagne, che da tempo immemorabile vive sul nostro suolo.

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI

Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Dettati ortografici sugli ALBERI

Dettati ortografici sugli ALBERI – Una collezione di dettati ortografici sugli alberi per la scuola primaria, di autori vari.

La quercia
La quercia è un albero rude e forte, che si innalza lento, vestito di una scorza ruvida, ma che custodisce un legno che dura in eterno e resiste alle insidie del tempo. Quando la quercia è ancora giovane, è un albero come un altro. Non diventa bella che quando ha mezzo secolo, e con gli anni va sempre crescendo la maestosità del portamento, la frondosità dei rami, la densità delle sue fresche ombre. La quercia è nel fiore della sua bellezza quando conta almeno un secolo di vita, ed è bellissima quando è tre, quattro volte centenaria. (P. Mantegazza)

Alberi di montagna in primavera
Anche gli alberi si vestono a festa! In basso, sulle prime pendici, ecco gli alberi da frutta, spogli da alcune settimane della neve invernale, rivestirsi d’un’altra neve, quella dei loro fiori. Più su, i castagni, i faggi, i diversi arbusti, si ricoprono delle loro foglie dal verde tenero e da un giorno all’altro par che la montagna si sia rivestita con un meraviglioso drappo, in cui il velluto si mescola con la seta. (G. Reclus)

Il mandorlo fiorito
Quale miracolo è mai avvenuto questa mattina? E’ caduta una neve odorosa oppure miriadi di farfalle si sono posate sui rami del mandorlo?
Pur ieri l’alberello era nudo e freddo. Ma stanotte, all’alito dei venti, esso è sbocciato, è fiorito; s’è ricoperto di candide ali, di mille stelline.
Sembra cosparso di fior di farina soffice e fragile con lievi riflessi di rosa.
Gli occhi restano beati a mirarlo; ed intanto, nel cuore, passa nascosto il primo soffio della primavera. (F. Lanza)

Una gemma si apre
Osserviamo le gemme del castagno: al centro, la bambagia avvolge le sue tenere foglioline; all’esterno una solida corazza di scaglie disposte come le tegole d’un tetto, le chiude strettamente. Le parti dell’armatura scagliosa sono incatramate con un mastice che, simile a vernice disseccata, diventa molle, in primavera, per permettere alla gemma di schiudersi. Le scaglie, non più incollate fra loro, si allargano vischiose, e le prime foglie si spiegano al centro della loro culla socchiusa. (H. Fabre)

Ciliegio in fiore
L’albero era sino a ieri nudo; nudo nel tronco, nei rami qua e là contorti dall’aspro battere del vento. Cosa sarà accaduto perchè, stamane, io abbia visto invece dell’albero, una nube bianca fatta tutta di fiori stretti così fittamente gli uni agli altri da formare una cosa sola, impalpabile, quasi aerea, attraverso la quale non mi riesce più di distinguere nè rami, nè tronco? (A. Anile)

La prima fogliolina
Nessuno s’è trovato mai davanti a un albero nel momento preciso in cui spunta la prima fogliolina. Tutti abbiamo questo desiderio perchè ci piacerebbe tanto poter dire: “Sono io che quest’anno ho visto per primo la primavera”. Ma, dopo aver tanto atteso, una mattina ci alziamo, scendiamo giù in cortile, e vediamo che le foglie sono già tutte spuntate. (Giovanni Mosca)

Il mandorlo frettoloso
Un mandorlo frettoloso ha già spiegato al solicello la sua bianca fioritura; non gli importa se una brinata farà cadere troppo presto quella bella veste; come sempre, vuole essere il primo ad annunciare la primavera!
I meli, i peri, i peschi, più prudenti, rimangono indietro. (G. Fanciulli)

Gli aranci
In primavera, la Sicilia odora di zagare dalla Punta del Faro alla Conca d’Oro, dall’Agro trapanese a quello di Catania. Nei mattini tersi, nelle serene notti di luna, la soavissima fragranza dei sui venti, si diffonde sin nei più interni quartieri delle popolose città dell’isola e pare che ogni casa abbia un arancio fiorito davanti alla porta. Migliaia di aranci intanto costellano le distese degli aranceti siciliani. Quelle migliaia di piccole sfere, nelle cupole dei fitti e slanciati alberi, sembrano granelli di sole splendenti. (G. Patanè)

Il castagno

Il castagno, per l’alto valore nutritivo dei suoi frutti, è considerato l’albero del pane delle nostre montagne. Esso alligna tra i 400 e i 1000 metri d’altitudine. Il castagno giovane ha un tronco diritto e liscio, color bruno chiaro; il castagno vecchio è ricoperto di una corteccia bruna e screpolata. Di solito questa pianta raggiunge i dieci metri d’altezza, ma qualche castagno gigante può raggiungere anche i trenta metri. Le foglie, a punta di lancia e con il margine seghettato, sono lunghe quindici, venti centimetri. Il castagno fiorisce in maggio – giugno. I suoi fiori sono di due specie. Alcuni sono ricchi di  polline giallo; quando questo viene portato via dal vento i fiori seccano e cadono. Altri fiori invece ricevono il polline trasportato dal vento e dagli insetti, si ingrossano e diventano castagne. Il frutto matura da settembre a novembre. Il riccio è la buccia verde e spinosa in cui sono racchiude una, due o tre castagne.

La palma

La palma esiste fin dai tempi preistorici in alcune zone dell’Africa e dell’Asia. Fuori da queste regioni o non fiorisce o non fruttifica, è unicamente ornamentale.
Si trova infatti anche in Italia, ove fu importata dagli Arabi.
La foglia della palma fu simbolo di vittoria: i trionfatori romani usavano fare il loro ingresso solenne in Roma con un ramo di palma in mano. Essa è pure simbolo di fede.

L’olivo

L’albero dell’olivo è sempre stato considerato con grande rispetto: esso è infatti simbolo di pace, di bellezza, di sapienza. Due colombe che tenevano nel becco un ramoscello di olivo annunciarono a Noè la fine del diluvio. Nelle religioni greca e romana l’olivo era sacro ad Atena e a Minerva. In Grecia i vincitori dei giochi olimpici venivano incoronati con rami di olivo e di palma. E ancora oggi l’olivo è simbolo di pace.

 

Fioritura

Il mandorlo si è tutto magnificamente coperto di fiori biancorosei, che brillano al nuovo sole come gemme cristalline e fragranti.
Le margheritine silenziose e tranquille tremolano in bianca folla al tiepido vento. La giunchiglia piega sul gracile stelo il velato suo calice. Persino nelle lande più pietrose e deserte, qualche fiore solitario apre all’aria nuova le sue tre o quattro foglioline, soffuse di un pallido rosa, o venate di tenui righe violacee.
In ogni albero canta un nido e in ogni cuore resuscita una speranza. (E. Nencioni)

Un piccolo vandalo

Luigi non ama gli alberi. Uno dei suoi passatempi preferiti, quando va a giocare nel prato, è quello di incidere nel tronco delle sue vittime arboree disegni e messaggi che salutano la sua squadra di calcio preferita. Le piante non sopportano scherzi del genere; la corteccia salta via a pezzi strappata dal temperino di Luigi. Il povero albero soffre, proprio come soffriremmo noi se ci strappassero la pelle a pezzetti per incidere dentro un bel disegno. (M. Bettini)

Il bosco

Qui la vegetazione è libera; le piante crescono invadendo tutto e penetrano la terra con robuste radici. Le fronde salgono, scendono, si dividono, si moltiplicano liberamente; offrono le più delicate tinte del verde; da quello opalino trasparente, pallido, sino al vigoroso e forte che sembra quasi nero. Giungono odori forti e sani: i profumi che esalano quegli alberi meravigliosi, i rigogli della loro gioventù, i succhi di vita che salgono in essi e rompono la corteccia.
Quiete stupenda in tanta vitalità, sicurezza profonda in tanta libertà. (M. Serao)

L’albero di sera

C’è un pino in cui di notte si raccolgono a dormire i passeri. Ma ci sono tanti alberi che servono da albergo agli uccellini! Vi è mai capitato di osservare a sera, quando essi giungono da tutte le parti e pare che affondino nell’albero ospitale? Un gran frastuono, pigolii, cinguettii… al più piccolo rumore silenzio improvviso.
Poi di nuovo il frastuono dell’albero immobile, sì che pare da sè cinguetti. (G. Pascoli)

Il platano

Era mezzogiorno d’estate. Due viaggiatori camminavano sotto il sole ardente. Erano stanchi, accaldati. Scorsero un platano e con un sospiro di sollievo si rifugiarono e si sdraiarono alla sua fresca ombra. Riposavano e intanto guardavano su trai rami frondosi. Disse uno dei due al compagno: “Ecco un albero sterile e inutile all’uomo”. L’altro approvò. L’albero prese la parola e li rimproverò: “Come? Proprio mentre godete dei miei benefici mi trattate da sterile e da inutile?”. (Esopo)

Il pioppo

Il pioppo è uno degli alberi più belli della nostra zona temperata. Alto, snello, robusto, si lancia in alto, diritto come un cipresso, ma non mai triste e severo come lui. I suoi filari non guidano al cimitero, ma fanno da lieti colonnati ai fiumi ed ai canali, diritti come sentinelle. (P. Mantegazza)

Il ciliegio

La frutta saporitissima che viene raccolta a ciocche, a mazzolini caratteristici anche per il vivo colore, è la ciliegia.
L’albero, il ciliegio, fu importato in Europa dall’Asia Minore. Spesso arriva fino a venti metri di altezza. Il tronco del ciliegio è robusto e coperto di corteccia bruno – rossastra. La chioma è tondeggiante. Le foglie sono ovali, larghe, lucide, doppiamente seghettate, tinte di un verde assai scuro.
I fiori, a mazzetti bianchi, profumati, si sviluppano numerosissimi in primavera: l’albero, a distanza, tutto bianco, sembra quasi coperto di neve.

Alberi da frutto
I prodotti degli alberi sono noti. Innanzitutto la frutta. E’ la cosa più evidente. Vediamoli un po’ da vicino questi alberi da frutto: sono meli, peri, ciliegi, susini, peschi,… Facendo ricerche nell’ambiente, i bambini saranno in grado di descrivere questi alberi e i loro prodotti. In autunno sarà facile osservare il castagno e l’olivo che ci danno i loro prodotti. L’albero si incontra pressochè in ogni regione del mondo, nelle sue diverse specie e varietà, ed è prezioso per i suoi prodotti e per l’influenza che esso ha sulla temperatura dell’ambiente e sulla vita stessa dell’uomo.
Affonda nel terreno le sue robuste radici, eleva il suo tronco rivestito di una corteccia rugosa, e si espande in alto con i rami rivestiti di foglie le quali formano la chioma.

Gli alberi nella storia
Gli antichi amavano molto gli alberi. Nei tempi più remoti, si usava seppellire i defunti alla radice dell’albero, con la convinzione che essi sarebbero risorti nel tronco e nelle foglie. Questa pratica era in uso fino a poco tempo fa in Giappone dove si credeva che in alcuni alberi fossero rinchiusi gli spiriti degli eroi nazionali sepolti al loro piede. Usanze simili si riscontrano tuttora presso alcuni popoli primitivi d’Africa e d’Asia.
I Greci adoravano il dio Pan, nume dei boschi. Essi lo raffiguravano incoronato di rami di pino, con le orecchie dritte, in mano un bastone da pastore e il fianco sinistro coperto da una pelle di daino.
I Romani adoravano il dio Silvano dall’apparenza simile a quella di Pan. Essi credevano che negli alberi fossero ospitate le Ninfe, divinità considerate come forme ed energie della natura.
Tutti i popoli germanici ritenevano sacri gli alberi e compivano i loro sacrifici e i riti religiosi nelle foreste, presso una quercia, ritenuta simbolo della divinità.

Boschi e macchie
Gli alberi possono ergersi isolati oppure riuniti in gran numero in un’estensione che generalmente si chiama bosco. Più precisamente prende il nome di foresta quando è formata da alberi di alto fusto, selva quando ha un’estensione minore della foresta, macchia quando è una radura disseminata di alberi. I boschi possono essere costituiti da piante a foglie larghe o a foglie minute, o come si dice aghiformi. Molti dei primi si spogliano della loro vegetazione in autunno; gli altri sono nella maggior parte delle specie sempreverdi.
A seconda degli alberi che lo compongono, il bosco può assumere diverse denominazioni: querceto, faggeto, pineta, abetaia. Si chiama ceduo il bosco sottoposto a taglio periodico.

 

Utilità degli alberi
I boschi non soltanto abbelliscono il paesaggio, elemento questo niente affatto da trascurare, ma influiscono sul clima mitigando il calore. Inoltre, gli alberi si oppongono efficacemente alla violenza dei venti e alimentano le sorgenti. Le radici impediscono il franamento del terreno ed evitano le frane. Gli alberi sono di freno alle valanghe a cui oppongono la resistenza dei loro tronchi e proteggono dalle inondazioni in quanto, con le loro radici, consolidano il terreno e impediscono l’infiltrazione rapida delle acque nel sottosuolo. Inoltre, com’è funzione di tutte le piante, durante il giorno esse assorbono anidride carbonica ed emettono ossigeno e quindi rendono l’aria più salubre.

Gli alberi non crescono ugualmente in tutte le zone. A seconda degli alberi che vi prosperano si possono distinguere quattro zone in Italia.

Vi è la zona calda, denominata anche zona dell’ulivo dove, oltre all’ulivo crescono la quercia da sughero, il leccio, il carrubo, il pistacchio, il pino da pinoli, il pino marittimo, il cipresso e l’eucalipto.

Nella zona temperata, o zona del castagno, abbiamo oltre al castagno due specie di quercia, il cerro e il rovere.
Nella zona fredda o zona del faggio (fino a 1200 metri) crescono la betulla, l’ontano e il tiglio.

Nella zona rigida o zona delle conifere, troviamo l’abete rosso e il larice.
Le conifere hanno, in particolare, la proprietà di rendere l’aria balsamica e pura. Sono alberi che hanno il frutto a cono (pino, abete, …) comunemente detto pigna. Il pino, nelle sue diverse specie, si può trovare tanto in montagna che in riva al mare. In quest’ultimo caso si tratta del pino marittimo; l’altro è il pino a ombrello. Facendo un’incisione nel tronco di quest’albero, si vedrà gocciolare una sostanza attaccaticcia e profumata, la resina, che è utilizzata in varie industrie. Mescolata a nero fumo forma la pece dei calzolai; la si usa nei fuochi d’artificio e per rendere più vibranti le corde del violino; e nella fabbricazione dei balsami.

Il tronco del pino, così alto e diritto, viene utilizzato per fare gli alberi delle navi.
L’olmo, l’ontano e il pioppo ci danno la cellulosa, ampiamente usata nelle più svariate  industrie, come la fabbricazione della carta, della stoffa e perfino degli esplosivi.

Il legno dell’ontano che, crescendo vicino all’acqua è molto resistente all’umidità, viene utilizzato per i pali delle palafitte. Dalla corteccia di quest’albero si ricava il tannino, sostanza colorante usata in tintoria.

L’età degli alberi
Gli alberi possono raggiungere anche migliaia e migliaia di anni di vita. In Sicilia esiste ancora il castagno dei cento cavalli, chiamato così perchè, secondo la tradizione, Giovanna d’Aragona, sorpresa dalla tempesta, si rifugiò sotto la sua chioma con cento cavalieri del seguito. Pare che questo immenso albero abbia almeno quattromila anni!
A Somma Lombardo esiste un cipresso che si dice abbia duemila anni.
L’età di un albero si può constatare soltanto quando l’albero è abbattuto. Infatti, poichè il tronco aumenta di solito di uno strato all’anno, contando in un tronco tagliato questi strati, che sono disposti in cerchi concentrici, si può sapere approssimativamente quanti anni è vissuto l’albero.

Il papiro
L’albero che permise agli uomini di scrivere è il papiro. Il papiro è una grande erba perenne acquatica, con radice sotterranea strisciante, dura e carnosa. Il fusto esterno, triangolare, si erge diritto da due fino a cinque metri, e termina con chioma a ombrello: una specie di piumino.
Oggi il papiro si trova con maggiore facilità e diffusione, ma è meno cercato. Lo si trova in Palestina, in Africa, a Malta, ed anche in Sicilia presso Siracusa, dove lo trapiantarono gli Arabi.
Gli antichi trassero dalla corteccia del papiro un foglio largo, lungo e sottile, molto pieghevole, su cui poterono scrivere. Il papiro deve considerarsi quindi come una specie di “albero della scienza” poichè alla sua corteccia furono affidati, fino dall’alba della civiltà, i pensieri dell’uomo, le sue idee storiche, letterarie, artistiche, scientifiche. (G. Bitelli)

Sugli alberi
Il nostro giardino era pieno d’alberi. C’era un ippocastano rosso con due rami a forca che per salire bisognava metterci dentro il piede, e poi non potendolo più levare ci lasciavo la scarpa. Dalle ultime vette vedevo i coppi rossi della nostra casa, pieni di sole e di passeri. C’era una specie d abete, vecchissimo, su cui si arrampicava un glicine grosso come un serpente boa, rugoso, scannellato, storto, che serviva magnificamente per le salite precipitose quando si giocava a nascondersi. Io mi nascondevo spesso su quel vecchio cipresso ricco di cantucci folti e di cespugli, e in primavera, mentre spiavo di lassù il passo cauto dello stanatore, mi divertivo a ciucciare la ciocca di glicine che mi batteva fresca sugli occhi come un grappolo d’uva. (S. Slataper)

Il re delle Alpi
Il larice viene definito il re delle Alpi. E’ un albero maestoso che può raggiungere i 50 metri di altezza; il suo legno duro e resistentissimo viene usato soprattutto per le costruzioni navali. E’ una delle poche conifere che perdono le foglie durante l’inverno. E’ l’albero più tipico delle nostre Alpi, dove forma grandi boschi e si trova fino a 2200 metri di altezza. Altri alberi che popolano le nostre montagne sono il pino, l’abete e il faggio.

 

Proteggiamo l’albero
I boschi sono affidati alla protezione dello Stato il quale soltanto ne può consentire l’abbattimento. Per questo, esiste uno speciale corpo di Guardie Forestali che hanno l’incarico non soltanto di difendere gli alberi dal vandalismo degli uomini, ma di curarli perchè non deperiscano e di ripopolare, mediante appositi vivai, le zone che ne sono sprovviste.

Ma la difesa dell’albero è affidata soprattutto al senso civico di ogni cittadino che deve apprezzare gli alberi non soltanto per il guadagno che ne può ricavare, ma anche perchè proteggono la salute, rendono bello il paesaggio, oppongono una valida difesa contro i pericoli delle alluvioni e delle valanghe.
Come si può danneggiare un albero? Non soltanto con l’abbattimento, il che produce un danno definitivo ed irraparabile, ma anche strappando i rami senza discriminazione, scortecciando i tronchi, piantando chiodi sul tronco o stringendolo con fili di ferro. Tutti questi traumi possono danneggiare la salute dell’albero e causare anche la sua morte.

L’albero va curato come tutti gli esseri vivi. Gli insetti, le intemperie, alcuni animali possono essere i nemici dell’albero. Gli insetti ne bucherellano la corteccia, scavano sotto di essa lunghe gallerie e pur così piccoli come sono, possono provocare la morte dell’albero in brevissimo tempo. Anche le capre sono nemiche dell’albero. Infatti esse brucano anche i teneri germogli dei rami. Animali del bosco, come scoiattoli, ghiri ed altri, rodono talvolta anche la corteccia, causando danni rilevanti a questi giganti che non possono opporre nessuna valida difesa contro i loro dentini implacabili.

Il sottobosco
Non dimentichiamo il sottobosco e quello che esso ci fornisce: funghi, fragole, lamponi, mirtilli. Anche questi prodotti minori della foresta hanno il loro valore tanto più che non implicano spese di sorta.

Guarda da vicino un albero
Guarda da vicino un albero: vedrai tante cose che neppure immaginavi e rimarrai stupito. Guarda le sue radici, o almeno quello che affiora di esse. Sono grosse, nodose, capaci di sollevare la durissima crosta della terra. Se il vento tira forte e vuol sradicare l’albero, non può; ci sono le radici che tengono il tronco saldamente piantato sul terreno e il vento si sforza e ulula in una vana rabbia.

Quando il seme cadde in terra e germogliò, la radice era soltanto un filo che succhiava; guarda che cosa è diventato quel filo: braccia nerborute di gigante che non lasciano la presa.
Guarda il tronco. Era uno stelo sottile, verde, debole. Si piegava a ogni soffio di vento. Ora è diventato una colonna, bella, diritta, solida. Colui che per primo fabbricò una chiesa coi suoi colonnati e i suoi pilastri e le sue volte profonde, si ispirò agli alberi di un bosco.

Una corteccia dura, legnosa, ruvida, copre questo tronco diritto. La pioggia l’ha gonfiata, il vento l’ha screpolata, gli insetti l’hanno percossa, sforacchiandola da tutte le parti; sembra una cosa insensibile, tanto è ruvida, rozza, eppure, se la ferisci col tuo coltellino, se ne stacchi un pezzo, da quella ferita gemerà il sangue dell’albero, e l’albero, indifeso, in quel punto sarà alla mercè della tempesta e del freddo e se non correrà ai ripari potrà anche morire per quella ferita che tu hai inferto alla corteccia che lo proteggeva.

La ferita si rimarginerà, ma rimarrà un gonfiore scabro che non se ne andrà più. Quel gonfiore scabro è la cicatrice, il ricordo del dolore che egli ha sofferto.
Guarda i rami. Sono come grandi braccia che si tendono per proteggere. Proteggono tutto ciò che si rifugia sotto di essi: il coniglio pauroso che si nasconde nell’ombra, l’uccellino che vuol dormire. Proteggono anche te che cerchi ristoro al solleone. E il vento va ad infrangere la sua violenza contro la chioma ampia del bell’albero grande.

Guarda la foglia. E’ così delicata nella sua nervatura che sembra un ricamo. Guardala contro luce; nessuno saprebbe fare una cosa delicata e perfetta come la gemma, che meraviglia! La gemma, dentro, è un astuccio di velluto, e fuori è impellicciata come una bambina freddolosa. L’acqua e il freddo non riescono a penetrare nell’interno e, se è necessario, la gemma si riveste di resine e di cera o, magari, di una crosta dura come il metallo. A lei è affidato il tesoro dell’albero che è anche il suo avvenire: la foglia, il fiore, il frutto.

Il fiore si apre, così rosato e lieve che sembra quasi impossibile sia potuto sbocciare da un ramo tanto duro e ruvido. Fa la stessa impressione della mano morbida di un bambino posata sulla guancia rugosa del nonno. Ma i fiori degli alberi durano poco: oggi li vedi, domani non li vedi più. C’è solo una sfiorita di petali per terra. L’albero ha fretta: deve preparare i suoi frutti, prima verdi, duri, informi, poi grossi, rotondi, morbidi e coloriti che sembrano messi lì apposta per bellezza, come si mettono le palline lucide e sono felice.

Ecco, tutto questo è l’albero; basta che lo guardi da vicino, tanto da vicino per sentire il suo grande cuore battere nel tronco ruvido, da sentire la sua linfa vitale frusciare lungo le sue vene generose.
(M. Menicucci)

La storia dell’uomo e del bosco
C’era un uomo che possedeva un bosco. Questo bosco era fatto di alberi alti e fronzuti, castagni, pini, lecci  e querce. A primavera pareva vivo: gli uccellini facevano il nido sui rami e svolazzavano di qua e di là, cinguettando. Fra le erbe ronzavano gli insetti e volavano le farfalle. C’era un bel fresco sotto gli alberi del bosco e in mezzo a quegli alberi l’uomo aveva la sua casa.

In autunno la famiglia andava a raccogliere le castagne e i bambini più piccoli cercavano i pinoli. Durante l’inverno, nel camino della casa, ardeva  un bellissimo fuoco che illuminava e scaldava. La famiglia mangiava la polenta e anche i funghi quando ne trovava. Qualche volta mangiava anche le salsicce perchè con le ghiande si poteva allevare un maiale grasso e bello.

Un giorno salì, fino al bosco, un tale che non si era mai visto. Disse all’uomo: “Volete vendere il bosco?”
L’uomo stette un pezzo a pensare, poi disse: “E io come camperò? Il bosco mi dà tutto: pane, companatico e la legna per l’inverno”.

L’altro si mise a ridere.
“Siete un uomo semplice che non farà mai fortuna. Quando mi avrete venduto il bosco, io farò tagliare gli alberi e li porterò con via. Voi sul terreno rimasto libero, potete seminare il grano e piantare le patate. Senza pensare che io vi darò molti milioni e con questi potrete spassarvela un bel po’.
L’uomo si mise a pensare ancora, poi disse: “Va bene, accetto. La cosa mi conviene”.

Dopo alcuni giorni vennero i boscaioli e cominciarono ad abbattere gli alberi. I grossi tronchi cadevano giù di schianto, con un gran frastuono di rami fruscianti; poi, con le mine, gli uomini fecero saltare le radici. Gli uccelletti fuggivano spaventati abbandonando i nidi. Anche le lepri scappavano e i conigli selvatici, le martore, le donnole e le faine.

“Non credevo che nel bosco ci fossero tanti animali!” diceva l’uomo meravigliato, e guardava i carri che portavano via, albero per albero, tutto il suo bosco. C’era rimasto solo un pino verde che pareva triste in tanta solitudine.

Il terreno restò sgombero e il sole, che ora spadroneggiava, seccò ben presto le erbe e i cespugli.
L’uomo si mise a vangare la terra e da boscaiolo si fece contadino. Seminò il grano e piantò le patate. Diceva: “Avremo un bel raccolto!”, ma la moglie non era contenta.

“Senza il bosco mi sento sperduta” diceva, “C’era una bell’ombra e un bel fresco. Ora la casa mi sembra senza difesa”.
I ragazzi, che non potevano più andare in cerca di castagne e di pinoli, furono mandati con un branco di tacchini e un piccolo gregge di pecore, in giro per la montagna.
Il raccolto fu buono. La terra grassa produsse molto grano e molte patate e nella casa del contadino sembrò entrare l’agiatezza.

Poi venne l’autunno e con l’autunno le piogge.
“Piove molto quest’anno” disse un giorno la moglie: “Piove più degli altri anni. Forse è perchè non ci sono più gli alberi”
“Stupidaggini” rispose il marito; “la pioggia viene dal cielo e gli alberi non c’entrano per niente”.
“Ma la pioggia viene giù a precipizio per il monte e si porta via la terra.”
Il contadino dovette convenire che era vero. L’acqua, non più trattenuta dalle grosse radici, lavava il terreno e se lo portava a valle.

“E’ una brutta storia” disse la moglie “Qualche anno così e non ci resterà più terra, soltanto roccia.
Intanto, a valle, il torrente gonfio rumoreggiava e il contadino seppe che gli abitanti del villaggio cercavano di rinforzare gli argini per paura delle piene.

L’inverno passò e fu  un inverno molto più freddo del solito. C’era poca legna e nella casa, non più riparata, il vento entrava da padrone. Finalmente venne la primavera e tutta la famiglia respirò di sollievo. Senza la protezione del bosco aveva passato delle brutte giornate.

Il contadino aveva seminato anche stavolta grano e patate, ma il terreno, lavato dalle piogge, non era più fertile e ricco come prima. Il raccolto fu scarso. Il sole che batteva a piombo seccava anche le erbe e il gregge trovò poco da pascolare.
“Non so com’è” diceva la donna, “Ma quando c’erano gli alberi si stava meglio. L’aria era più fresca e più buona e i ragazzi erano pieni di salute. Ora sono pallidi e meno forti. E poi, tutto era più bello. Se ne sono andai anche gli uccelli.

Infatti, nelle ore calde, non si sentiva nemmeno un cinguettio, solo il falco roteava in alto silenziosamente.
Tornò l’inverno e con l’inverno la neve. La famiglia si chiuse in casa per non soffrire il freddo.
Quell’anno la neve fu molta. C’erano dei mucchi alti che il vento spostava e faceva turbinare.
“Non mi piace questa neve” diceva la donna “Non ne ho mai vista tanta.”

L’inverno fu lungo e cattivo, ma finalmente si aprì, nel cielo, uno spiraglio d’azzurro. La donna respirò di sollievo. Arrivava la primavera.
Il contadino era pensieroso; le cose non andavano bene. Sotto la neve che si scioglieva non si vedeva la terra, ma la roccia. La terra se ne era andata a valle con la furia dell’acqua.
Una mattina, tutta la famiglia uscì dalla casa a prendere il primo raggio di sole. C’era ancora tanta neve che scintillava intatta.

Ad un tratto si sentì un rumore lontano. Pareva un muggito. La donna ebbe paura.
“Che cos’è?”
Il contadino tendeva l’orecchio. Anche le pecore erano inquiete e si accalcavano le une accosto alle altre, come se volessero sfuggire un pericolo.
L’uomo andò sopra un’altura e guardò lontano.
“Si vede un polverio bianco…”
Il rombo si faceva più forte; veniva dall’alto del monte.
“Andiamo via” disse l’uomo, “Andiamo a metterci al riparo di quei massi. Fuggiamo di qui, è troppo scoperto…”
Scapparono tutti meno le pecore chè non c’era tempo di radunarle.

Ora il rombo era forte e cupo e si avvicinava.
“La valanga!” gridò l’uomo diventando bianco di paura. E si prese i figlioli tra le braccia e si nascose con loro dentro una grotta.
Il turbine di neve si avvicinava con un rombo come il tuono. Ma non era tuono, il cielo restava sereno. Era una gran massa di neve che rotolava per il fianco della montagna, s’ingrossava lungo il cammino, schiantava, rovinava, travolgeva tutto al suo passaggio, non più arrestata dagli alberi che per tanto tempo le avevano sbarrato il passo.

Passò come un turbine, si scontrò con la casetta, la seppellì, la travolse, si perdette a valle con un muggito lungo e pauroso…
E la famiglia uscita salva dalla grotta, stava a vedere, piangendo, la rovina che la valanga si era lasciata dietro e pensava che se ci fossero stati gli alberi, quella rovina non sarebbe avvenuta…
(M. Menicucci)

 

Morte di un albero
La donna lavava i piatti con un gran ciabattare e scrosciare d’acqua. Il marito fumava, leggendo il giornale.
Era sera e faceva molto freddo. Brutta annata: gelate, tramontana, ventaccio e poca legna.
La donna era di malumore e brontolava.

“Con tanti alberi, qui nel viale, non si può avere un ciocco di legna da buttare sul fuoco. Qui signori del Municipio! Tutto per la bellezza del paese! Come se la bellezza si potesse mangiare!”
Il marito non diceva niente. Sapeva che la moglie bisognava lasciarla sfogare.

“Vorrei sapere che cosa ci stanno a fare quegli alberi sulla strada! Per dar fastidio! D’inverno ti levano la luce e d’estate ti coprono la finestra che non si può vedere neanche chi passa. C’è questo qui davanti poi, che è un castigo. Sembra che per i passeri non ci sia che quell’albero. Tutti lì, tutti lì, e la sera ti stordiscono per il chiasso che fanno e la mattina ti svegliano all’alba. E se per caso ti vien voglia di sederti all’aria fresca… sudicioni! L’altr’anno mi rovinarono il vestito nuovo!”

L’uomo fumava e taceva, ma gli si vedeva un risolino sotto i baffi.
“Tu ridi, eh, ridi! E non vedi che siamo senza fuoco? Lo sai che la legna è quasi finita e l’inverno è appena cominciato? Ridi, invece di procurarti un po’ di fascine e di ciocchi!”.

La donna tacque per riprendere fiato.
“Dimmi un po’” disse dopo un momento di silenzio “Non potresti tagliare qualche ramo?”
“Sì, per andare in prigione!” rispose, flemmatico, l’uomo.

“In prigione! In prigione ci manderei quei signori del Municipio che non sanno far altro che piantare alberi! E perchè, poi? Per scimmiottare la città. Sicuro! E intanto, la povera gente non ha nemmeno il sole, chè se lo ruban tutto loro, foglie e rami!”.

La donna gettò uno sguardo iroso fuori della finestra dove s’intravedeva la sagoma scura e stecchita del grande albero spoglio.
L’albero dormiva. Aveva perduto da un pezzo le foglie e ora si era chiuso tutto nella scorza dura per impedire che il gelo frugasse nelle fibre tenere e bianche.

Un sonno lungo, il suo, che cominciava ai primi freddi e finiva in primavera. Ma quanti sogni! Che cosa può sognare un albero? L’inverno che finisce e tutto e ancor freddo, immobile ma i rami cominciano a rabbrividire e, dentro, la linfa preme, gonfia la corteccia fin che la spacca e la gemma verde si affaccia per godersi il primo tepore dell’aria. Allora l’albero riviveva ed era una vita magnifica e possente. La linfa gagliarda andava su e giù finchè prorompeva in migliaia di germogli che scoppiavano da tutte le parti, si aprivano e mettevano le foglie, belle, grandi, lucide.

Passato quel primo tripudio di giovinezza in cui l’albero si sentiva un po’ pazzo, cominciava il lavoro calmo dell’estate.
Diventava bello. Chi si ricordava più di quello scheletro magro ed asciutto? Il vento giocava coi rami, li strapazzava un po’, ma rifaceva subito pace portando profumi e tepori. Il sole si divertiva a trapelare tra le foglie e a ricamarle d’oro fino.

E poi, i passeri. Pettegoli, prepotenti, che allegria mettevano nel vecchio tronco! Non ci facevano il nido, preferivano il tetto, più sicuro, ma il primo volo, ai piccini, glielo facevan fare lì, dal tetto all’albero, che li accoglieva tutto intenerito, poveri piccoli piumaccioli, morbidi, tondi e tanto felici!

Poi la sera, a nanna, fra i suoi rami. Che chiasso! La gente alzava la testa, sorridendo e qualcuno si divertiva a fare un colpo con le mani, forte. E allora tutto lo stormo scappava, spaventato e nell’albero si faceva un gran silenzio. Ma non avevano paura, fingevano soltanto; tornavano alla spicciolata perchè sapevano che era un gioco e ci si divertivano anche loro. E, dopo un momento, riecco il cicaleccio fitto fitto. Avevano tante cose da dirsi, la sera! Infine, pian piano, qualcuno, stanco, taceva. Stava un po’ zitto e raggomitolato, con gli occhietti semichiusi, poi, tutt’a un tratto, ficcava la testina sotto l’ala e buonanotte a tutti!

Questo sognava il grande albero, ma nessuno lo immaginava, vedendolo così cupo e immobile. Di che cosa si accorgono gli uomini, egoisti e meschini? Ma l’avrebbero lasciato vivere se non fosse stato per l’odio di una donna.

“Un mezzo ci sarebbe per far seccare l’albero!” disse l’uomo levandosi la pipa dai denti e sputando lontano.
La donna si fermò davanti a lui con le mani sui fianchi.

“Forse” riprese il marito “se l’albero seccasse, ci toccherebbe parecchia legna. Non per questa stagione, naturalmente, ma si potrebbe far provvista per l’inverno che viene. Non la porterebbero via tutta”.
“Parla dunque”
“In una sera di gelo, basta rovesciare, sulle radici dell’albero, un paiolo di acqua calda. Non so com’è, ma l’albero secca”.
Una luce cattiva passò negli occhi della donna.
“Ma io direi di farlo vivere” si affrettò a dire l’uomo, pentito di quanto si era lasciato scappare. “In fondo è un bell’albero e ha faticato per crescere”.

La donna non  lo  degnò di una risposta: prese il paiolo e andò a metterlo sul fuoco.
“Non ci pensi molto, tu” disse l’uomo andandosi a mettere davanti alla finestra. Gli dispiaceva d’aver parlato, ma non credeva che la moglie mettesse subito in atto il suo progetto. L’albero si levava nella notte come un fantasma nero. Un soffio di tramontana fece vibrare i vetri.
“Dove la trovi una notte più fredda di questa?” disse la donna “Vogliono gelare persino  i sassi della strada”. E alimentò il fuoco sotto il paiolo.
Il marito tacque. S’era pentito delle sue parole, ma ormai sapeva che c’era più nulla da fare. Aveva rimorso di veder uccidere deliberatamente l’albero che, infine, era una creatura viva. Poi pensò che, forse, quella poca acqua non sarebbe stata sufficiente ad uccidere un colosso così. La donna prese il paiolo, si ravvolse in uno scialle e scese nella strada.

Il cielo, scintillante di stelle, prometteva una gelata bianca come un sudario di morte.
L’albero si destò. Un’onda di tepore saliva lungo le sue fibre con una dolcezza primaverile. Stupì. Ad ogni suo risveglio era abituato a vedersi attorno una fioritura leggera e il cielo azzurro, tenero e soave. Invece era notte e tutto era nudo, scheletrito e deserto.

Ma il tepore persisteva e l’albero si rallegrò. Dilatò le sue fibre e lo accolse trepidante. Le radici, anch’esse improvvisamente rideste, si abbeverarono a quel calore dolce, fremendo.
Il tronco si scosse e aprì i suoi pori già serrati contro il gelo e il tiepido succo salì, ricercò la sua vita più profonda, la rianimò, diffondendo sotto la corteccia un benessere gaudioso. E per l’albero fu primavera.
Ecco, la sua rinascita cominciava. Il gelo delle sue membra si scioglieva, le ombre dei sogni fuggivano di fronte a questa magnifica realtà; l’albero si preparò a ricevere il nuovo, benefico afflusso di vita…
Una raffica violenta lo investì; rigida come una lama si infiltrò nelle fibre dilatate e indifese; lo frustò fino al midollo tenero e bianco, serrò in una morsa gelida le radici deste e vive, scosse i rami vibranti e li fermò in un abbraccio mortale…
Poi passò come un impeto di furia vittoriosa, oltre l’albero, che restò immerso in uno stupore desolato…
Il vecchio cuore, colpito dall’inganno, impietrì senza più vita.
Sopra un ramo, un passero pigolò piano, e nel sonno si scosse tutto rabbrividendo.
(M. Menicucci)

Le piante si difendono dalla siccità e dal freddo eccessivi, liberandosi delle foglie

La caduta delle foglie è un fenomeno che avrai osservato tante volte: è lo spettacolo suggestivo e poetico che l’autunno ogni anno ci offre.
Gli alberi restituiscono alla terra le loro verdi spoglie.
Nelle regioni a clima temperato, come l’Italia, la caduta delle foglie avviene ai primi freddi autunnali. In altri paesi delle regioni tropicali la caduta delle foglie coincide con l’inizio dell’estate.
Come mai le piante si comportano in così diversa maniera?
Non è il caldo o il freddo che direttamente fanno cadere le foglie. E’ un’altra la ragione. Tu sai che le piante traspirano attraverso le foglie, cioè eliminano vapore acqueo.
Nelle regioni tropicali il periodo estivo è caratterizzato dalla mancanza di piogge: le piante seccherebbero tutte se continuassero a traspirare regolarmente attraverso le foglie. Invece le lasciano cadere e passano il periodo di siccità in una specie di sonno estivo.
Nelle regioni temperate accade che all’inizio dell’autunno il freddo fa abbassare la temperatura del terreno: le radici delle piante, allora, non riescono più a trarre da esso quella quantità d’acqua di cui ha bisogno. Se la traspirazione delle piante continuasse normalmente, le piante seccherebbero completamente. E così, più o meno rapidamente, le piante si liberano dalle foglie.
In certe piante (faggio, nocciolo) la caduta delle foglie ha inizio dalla cima dei rami e va verso la base. In altri invece (tiglio, salice, pioppo) avviene il contrario: cadono prima quelle più in basso e poi quelle dei rami superiori.
La caduta delle foglie è certo una  perdita di sostanze per le piante: è un danno ma presenta anche dei notevoli vantaggi. D’altra parte la pianta, prima di perdere il suo verde manto, ha compiuto una… operazione di recupero delle cellule delle foglie: ha portato via amidi, zuccheri, grassi, li ha messi da parte nel tronco per utilizzarli poi in primavera per creare nuove e più giovani foglie. Ecco perchè le foglie, prima di cadere, cambiano colore e diventano gialle, o arancione o brune in infinite sfumature, creando con i loro colori il meraviglioso paesaggio autunnale. La pianta dunque cede alla terra solo gli scheletri delle foglie, ricche soprattutto di una sostanza, che si è accumulata durante l’estate, l’ossalato di calcio. Questa sostanza non solo non è più utile alla pianta, ma ne riuscirebbe dannosa, se la conservasse ancora.
La caduta delle foglie ha un po’ anche il compito di purificare la pianta e liberarla dalle sostanze inutili e dannosi: un’operazione simile  all’escrezione degli animali.
Le foglie cadute al suolo lentamente si decompongono e contribuiscono alla formazione dell’humus, che è un elemento fondamentale per la fertilità del terreno.
Come si staccano le foglie?
E’ forse il vento che le porta via con il suo gelido soffio?
Certo le foglie cadono più facilmente e rapidamente per lo stimolo di cause esterne; ma è la pianta stessa, che lavora per liberarsi delle foglie.
Essa forma sul picciolo delle foglie una specie di anello di cellule, che ha il compito di operare la separazione delle foglie dalla pianta.
Basta allora un alito di vento o il peso stesso delle foglie a determinarne la caduta.

Alberi nani

I giardinieri giapponesi sanno ottenere incantati giardini in miniatura, allevando gli alberi in piccoli vasi, ove vegetano lentissimamente per decine e decine di anni, assumendo l’aspetto di vecchie piante, pur essendo alte pochi centimetri. Per ottenere questo nanismo, si seminano in piccoli vasi i semi più piccoli delle piante in terriccio povero: le piantine vanno poco innaffiate e abbondantemente potate. La radice principale viene tagliata, le radici laterali vengono in parte scoperte. Si cerca di dare alla pianta la forma di un vecchio albero con tronco e rami tortuosi. Un tale ricorda di aver osservato in Giappone una pianta di ciliegio, che aveva l’età di centocinquanta anni. A questo tipo di allevamento si presta bene l’albero della canfora, con foglie alterne sempreverdi, picciolate ovali, a fiori piccoli e biancastri; così pure il cedro, resinoso, dal caratteristico odore aromatico, la quercia e l’albero del pane, dai cui frutti si ricava un lattice, che col calore si rapprende formando una specie di pane, commestibile.

Albero tuttofare

Un europeo viaggiava per i paesi dell’India meridionale sotto un sole implacabile, quando, stanco e spossato per il lungo cammino, decise di bussare ad una solitaria capanna circondata da altissime palme di cocco. L’ospitalità dell’indiano fu veramente squisita: per prima cosa gli offrì una bibita dissetante affinché si ristorasse, poi gli servì un pranzo così vario e nutriente che il viaggiatore, meravigliato, domandò al suo ospite chi in quel luogo così solitario lo provvedesse di tutte quelle cose.
“Le mie palme!” gli rispose l’ospite. “La bibita dissetante che vi ho offerto è ricavata dal frutto prima che sia maturo. Questo latte, che voi trovate così gradevole, è contenuto nell’interno della mandorla. Questa verdura così delicata è il tenero germoglio dell’albero di cocco. Il vino, di cui voi siete così contento, è anch’esso fornito dal cocco, durante tutto l’anno. E infine, tutto questo vasellame e questi utensili di cui ci siamo serviti a tavola, sono stati fatti con il guscio del cocco.

Vita dell’albero

Vive col tempo, con le stagioni, progredisce, si protende, si innalza. Nei suoi anelli concentrici sono impresse le vicende di tutte le annate trascorse, sì che leggendo in un tronco tagliato, puoi avere notizia non solo della sua età, ma della siccità o meno di tutte le annate da lui vissute. Combatte con le intemperie, con gli animali, coi parassiti, coi venti, coi fulmini; si difende, si cura, si guarisce da solo. Guardalo. Pesa quintali e quintali e non ne vedi il peso; vedi la forza semmai, lo slancio, la leggerezza, la freschezza, la grazia. (F. Tombari)

Alberi in fiore
Sull’alto della collina, il contadino ripartisce lo stabbio col tridente e attorno a lui è già una vasta punteggiatura sulla terra grigia.
Col solito anticipo sugli altri alberi da frutta i mandorli sono già fioriti; tutta la collina ne è bianca e rosa. Da quando Maria posò tra i suoi rami Gesù neonato, per nasconderlo agli sbirri di Erode, secondo quello che narrano i vecchi, il mandorlo si affretta ogni anno a fiorire, anche a costo, come spesso capita,  di perdere fiori e frutti alla prima gelata.
In fondo alla valle si estende il mosaico verdegrigio dei campicelli. Sui rettangoli e quadrati verdi, frotte di ragazzi e donne già zappettano per dare aria alla terra incrostata e liberare il grano tenero dalle erbe selvatiche; sulle parti grigie, uomini con zappa, aratri e bestie lavorano alle semine di granoturco, di piselli, di fave, di ceci, di lenticchie, mondano i fossi, rafforzano i cigli, le fratte.
(I. Silone)

Dettati ortografici sugli ALBERI – Vedi anche:

Dettati ortografici sugli ALBERI – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Dettati ortografici: L’olivo

Dettati ortografici sull’olivo – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Le olive sono ormai tutte nere e grasse e a spremerle emanano il loro denso liquore; gli olivi, poveretti, implorano di essere alleggeriti da tanto peso. Non ne possono più. E le raccoglitrici cercano in terra e non lasciano che una sola bacca sfugga ai loro sguardi. Cantano, intrecciano stornelli. Una canta e le altre rispondono. Così per tutto il giorno. Verso il tramonto le lavoratrici si radunano e partono intonando ancora una canzone. (A. Palazzeschi)

L’olivo Con la vite e col grano, l’olivo è la terza pianta propria del nostro suolo. Pianta povera, modesta nell’aspetto, mite nei frutti, cresce sui colli, esposta al sole e ai danni degli insetti, che ne rovinano il tronco. Per crescere e fruttificare bene, impiega circa trent’anni: però chi la pianta non la pianta mai per sè, ma per i figli e i nipoti e per amore verso la terra. (F. Tombari)

L’olivo Veste di grigio-verde le nostre colline, e di notte s’inargenta ai raggi della luna. I suoi rami sono contorti, ma le foglioline robuste sono dritte e lucide come piccole lame. Si afferra con le radici al terreno, si nutre d’aria, di sole, di salmastro. I suoi frutti non sono dorati, profumati, grossi, ma sono quei piccoli tesori bruni nei quali si nasconde tanto oro: l’olio che cola dal frantoio e va ad allietare la nostra tavola. (G. Vaj Pedotti)

Il dolce olivo
Dovunque l’aria sia mite e il clima non troppo mutevole, ne umido, ne secco, l’olivo resiste: all’opera attenta dell’uomo è legata la sua lunga vita. Beato chi ha piantato l’albero d’olivo, nella propria terra, a difesa del grano che non ama essere investito dal vento invernale; beato chi può raccoglierne le bacche, appena macchiate di violetto o biancastre, o screziate, o verdoline, in questo mese dolce, dopo il primo temporale d’autunno, sulla terra ancora dura che odora di vendemmia! Dalle vigne ove rare piante segnano i confini, alle coste ondulate delle colline, alla pianura gialla e nera di ristoppie arse dal fuoco, il paesaggio di questa terra agli olivi affida la sua decorazione: quel distacco ricco di ombre ferme che variano dal grigio all’argenteo, dal verde al cupreo, a seconda dei riflessi della luce, dello splendore del giorno, della trasparenza della sera. Tra gli spazi di questo paesaggio, ecco donne ricurve: soltanto le mani si muovono, e il grembiule si gonfia di olive. Qualcuna è salita sull’albero e scrolla con grazia esitante i rami più alti. (R. M. De Angelis Beltempo)

La raccolta delle olive

Alla metà di novembre i contadini raccolgono le olive. Quanti mesi sono passati da quando gli olivi, nelle chiare giornate di aprile, si coprirono di fiorellini gialli!

Ora i campi sono squallidi. Viti, pioppi, gelsi sono tutti senza foglie. L’aria è bigia e fredda, senza voli e senza canti. I contadini escono di casa ben coperti, camminano per la viottola fino agli ulivi che occupano la parte più alta della collina, dove la terra è più asciutta e sassosa, poi si accingono al lavoro pazienti. L’aria è fredda e le mani presto si intorpidiscono. Ma i contadini resistono alle fatiche e al disagio per ore  e ore; sanno che le olive costituiscono il raccolto più ricco dell’anno; sono il loro tesoro, e non vogliono perderne nemmeno una. (G. Fanciulli)

L’olivo è un albero sempreverde, dalle foglie coriacee, verdi di sopra, biancastre di sotto, fortemente cutinizzate, rivestite cioè di cutina, una sostanza dura e impermeabile che permette al fogliame di difendersi dal freddo e dall’umidità. Il frutto dell’olivo è l’oliva, una drupa con polpa oleosa e nocciolo duro nell’interno. Dell’olivo esistono due sottospecie: l’olivo coltivato (olivo gentile) e l’olivo selvatico detto anche oleastro.

Questo non è da confondersi con l’olivastro, chiamato anche erroneamente olivo selvatico e che invece proviene da seme di olivi coltivati e cresce nelle siepi e nei boschi senza coltura. Produce frutti più piccoli, meno carnosi che danno generalmente un prodotto più scarso, ma superiore per qualità a quello dell’olivo coltivato. Le olive sono ricoperte da una pellicola verde che con la maturazione diventa, man mano, più scura, fino a raggiungere una tinta bruno – violacea o nerastra. Le olive, a seconda della qualità, vengono utilizzate in vari modi, conciate, salate, seccate, ma l’utilizzazione più importante è quella dell’estrazione dell’olio.

L’olivo cresce in regioni che hanno un clima dolce e uniforme. Non prospera dove è troppo freddo, ma nemmeno dove è troppo caldo. Qualunque terreno, purchè non sia paludoso, conviene all’olivo. Nei terreni fertili esso è più produttivo, ma la qualità del suo frutto è inferiore a quello che può dare in un terreno sassoso sito in posizione alquanto elevata e che costituisce l’ambiente ideale.

Il legno dell’olivo, che si presenta compatto ed elegantemente variato per l’andamento delle sue fibre, è molto usato nell’industria per la fabbricazione di mobili e per lavori di tarsia. L’olivo cresce con lentezza e può vivere anche più di quattro o cinque secoli. Si dice che lo pianta il nonno per il nipote. In alcune regioni, si usa raccogliere le olive percuotendo l’albero con un lungo bastone, ma questo sistema è dannoso. Il miglior modo di procedere alla raccolta è quello di cogliere l’oliva a mano.

L’olivo fu conosciuto fin dalla più remota antichità. I Greci premiavano i vincitori dei giochi con corone di olivo e fecero di questa pianta il simbolo della saggezza, dell’abbondanza, della pace. Quest’albero fu tenuto in considerazione anche dai Romani; spesso, i popoli vinti chiedevano la pace a Roma portando rami di olivo. Secondo la Bibbia la colomba del diluvio tornò nell’Arca con un ramoscello di olivo nel becco, simbolo della pace tra Dio e gli uomini.

L’olivo viene distribuito insieme alle palme, nelle chiese la domenica prima di Pasqua, chiamata perciò domenica delle palme o degli ulivi, in ricordo del giorno in cui Gesù entrò in Gerusalemme, festeggiato dalla folla che agitava rami di palma e di ulivo in segno di giubilo.

Dettati ortografici sull’olivo – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Dettati ortografici NOVEMBRE

Dettati ortografici NOVEMBRE – Una raccolta di dettati ortografici, con vari livelli di difficoltà, sul mese di novembre, per bambini della scuola primaria.

Novembre
E’ un mese freddo, nebbioso, umido. Gli alberi sono spogli e alzano, verso il cielo grigio, le loro braccia stecchite. I prati sono umidi di nebbia, la siepe è nuda e mostra l’intrigo dei suoi rami spinosi. Si sente l’inverno vicino.

Fa freddo
Le belle giornate di sole ormai se ne sono andate. Il cielo, quasi sempre grigio, nebbioso, lascia cadere una pioggerellina minuta e fredda. Gli animali si sono rifugiati sotto terra, nelle loro tane tiepide e sicure, i rettili sono nascosti nel profondo dei crepacci, i pipistrelli, a testa in giù, si sono appesi sotto la volta delle grotte oscure. Si sveglieranno a primavera.

I doni di novembre
Novembre porta la pioggia, la nebbia, la brina. Il cieso è sempre grigio, cade una pioggerella minuta e fredda, i prati sono zuppi di umidità, sopra ogni filo d’erba brilla una goccia. Se questa umidità si gela, avremo la brina, la fredda sorella della neve.

L’estate di San Martino
Nei primi giorni di novembre, talvolta il cielo si rischiara. Il sole appare tra la nuvolaglia grigia, i fioretti si schiudono, le erbe raddrizzano i loro steli. Sembra tornata la primavera. Ma è soltanto l’estate di San Martino.

L’estate di san Martino
Il cielo è nebbioso; i rami secchi degli alberri, ormai privi di foglie, lasciano cadere lente gocce di umidità rappresa. Ma ecco che, un bel giorno, il cielo si rasserena, il sole torna a scaldare, tiepido, la terra, i passeri cinguettano, qualche fiore sboccia pensando che sia primavera: è l’estate di San Martino, breve, dolce stagione, piena di tepore e di bellezza.

Novembre
Il cielo non ha più il suo bel colore azzurro. Ora è bigio e coperto di nuvole dense. Gli alberi hanno perduto le foglie. Erano così belli, vestiti di verde! Sono rimasti nudi e stecchiti e rabbrividiscono al vento freddo che scuote i rami con triste fruscio.

Freddo
Il freddo è arrivato. Gli alberi hanno ormai perso tutte le foglie, e scheletriti e nudi, rabbrividiscono al vento che soffia, violento, fra i rami. Lucertole, bisce, insetti, sono tutti giù, sottoterra, immersi nel letargo. Si sveglieranno a primavera. I prati sono senza erba; sulle zolle si forma la brina e sui cespugli secchi si posano i passeri infreddoliti alla ricerca di un granellino per sfamarsi.

Novembre
Una nebbia leggera leggera ingombra l’orizzonte. E’ una nebbia uguale, soffice, trasparente, quasi un velo che non nasconde, ma dà bellezza nuova al paesaggio. Tutto tace nella campagna. Di tratto in tratto, a voli brevi, i passeri si slanciano, dai comignoli al piano, e lo scricciolo dal cespuglio alla macchia. (A. Stoppani)

Novembre
Al tempo degli antichi Romani, che furono quelli a dar il nome ai mesi, l’anno cominciava con marzo, ed ecco che novembre era, appunto il nono mese. Mutò il calendario, ma il nome restò, così come sono restati quelli di settembre, di ottobre e di dicembre.

Giorno di nebbia
La nebbia, fitta, umida, silenziosa, bianca, al mattino avvolge in un velo leggero le persone, le automobili, i contorni delle case. Sembra di vivere in un mondo sconosciuto, in mezzo ad ombre. Perfino i suoni sembrano avere un tono più lieve. Verso mezzogiorno la nebbia si dirada e il sole appare in cielo.

Nebbia
Leggera e silenziosa è calata la nebbia. Nasconde col suo velo la luce pallida del sole, i colori degli ultimi fiori dell’autunno. Le case, gli alberi, le persone sembrano ombre. Io cammino adagio, stretto alla mano della mamma. Forse tra poco un raggio di sole riuscirà a sciogliere il velo fitto della nebbia. Allora guarderò lassù per rivedere il cielo.

Pioggia
Il cielo è grigio, pare che un velo lo ricopra tutto. Piove piano, piano. Le gocce si rincorrono in un gioco scherzoso. Ecco, ora una goccia leggera batte ai vetri della finestra. Toc, tic, tac. La pioggia canta la sua canzone. Io l’ascolto in silenzio e osservo nella pozzanghera del cortile il cielo che si riflette.

Arriva il gelo
Viene nelle notti serene, quasi all’improvviso. Si stende tacito sulla terra che si irrigidisce e diventa dura come la pietra. Al mattino un’aria tagliente ci sferza il viso. Tutte le pozzanghere e i fossi sono ricoperti di uno strato di ghiaccio.

 Novembre

Un uomo vestito di grigio, magro e palliduccio, avanza a gran passi. Porta con sè un sacchetto, poche foglie ingiallite e molti crisantemi bianchi. Ma che cosa perde da quel sacchetto? Chicchi di grano? Si capisce, è Novembre, il seminatore.

L’autunno intorno a noi

Guarda: ogni stagione ha la sua poesia di giorni e di cose. Se la primavera inventa i colori, l’autunno li cancella. La terra ha lavorato a dar fieni e biade, ed ecco l’autunno coprirla di foglie cadute, velarla di nebbie sottili, perchè s’addormenti e dolcemente riposi. Gli alberi fino a ieri così folti di chiome, così beati d’ombre e popolati di nidi, ingialliscono e si spogliano. E dove sono gli uccelli?

Nel mese di novembre continua la semina del frumento, delle fave, dell’orzo e della segale. Da per tutto, negli orti e nei giardini, fioriscono i crisantemi. Le giornate sono sempre più brevi. Nel calendario romano novembre era il nono mese dell’anno ed era dedicato a Diana, la dea della caccia. Il mese di novembre è consacrato al culto dei defunti.

Dice la terra: “Ho maturato il grano e l’uva, ho dato il pane agli uomini e alle formiche; dopo tanta fatica, devo riposare. Datemi il seme, che io lo chiuda dentro di me, perchè appena tornerà il sole maturerò ancora le piante che devono darvi il pane”.

Un uomo vestito di grigio, magro e palliduccio, avanza a gran passi. Porta con sè un sacchetto, poche foglie ingiallite e molti crisantemi bianchi. Ma che cosa perde da quel sacchetto? Chicchi di grano? Si capisce, è Novembre, il seminatore.

 

Novembre

Ottime, per la semina, queste giornate di novembre brumose, nebbiose, piovigginose; così la terra è molliccia e le formiche non rubano i chicchi, e i passerotti non li beccano e i polli, razzolando, non li trovano. E intanto, si colgono gli ultimi frutti: no, gli ultimi frutti sono, veramente, le olive. Or che la campagna si addormenta nel riposo invernale, le olive rimangono alla pioggia e al gelido vento sui rami fronzuti. (T. Pellizzari)

L’ultimo raccolto di novembre

Quando la campagna si addormenta nel riposo invernale, le olive rimangono alla pioggia e al gelido vento, nei rami fronzuti. E si gonfiano. E si annerano. E si colmano di olio odoroso. E il contadino comincia a coglierle. E le frangerà sotto la macina. E le torchierà nel pressoio. E dal pressoio, fluiranno taciti rivi d’oro. (T. Pellizzari)

Novembre in campagna

Una nebbia leggera leggera ingombra l’orizzonte. E’ una nebbia uguale, soffice, trasparente, quasi un velo che non nasconde, ma dà bellezza nuova al paesaggio. Tutto tace nella campagna… Di tratto in tratto, a voli brevi e furtivi, i passeri si slanciano dai comignoli al piano e lo scricciolo dal cespuglio alla macchia. (A. Stoppani)

Fiori di novembre

I giardini non hanno più fiori: soltanto i crisantemi fanno nei cespugli una macchia rossastra, gialla, bianca. Sono fiori grandi, rotondi, fitti di petali, oppure semplici e piccoli come margherite. La gente li coglie per portarli alle tombe dei morti e il cimitero, in quei giorni, sembra un grande, magnifico giardino. Ma non c’è allegria come negli altri giardini.

Novembre

Novembre è un mese triste. Porta la brina, la nebbia, la pioggia. Il cielo è quasi sempre nuvoloso. I rami degli alberi sono stecchiti perchè hanno perdute tutte le foglie. In questo mese si ricordano le persone care che non ci sono più. Sulle loro tombe si portano i crisantemi che fanno, nel cimitero, un grande giardino. Pure, qualche cosa di allegro c’è anche a novembre. Si raccolgono le castagne che piacciono molto ai bambini. Nei campi il contadino semina. I chicchi affondano nel terreno lavorato. A primavera la terra sarà tutta verde e fresca.

Estate di san Martino

Novembre è un mese triste: nebbia, freddo, cielo nuvoloso, alberi che si spogliano. Passano gli ultimi stormi di uccelli migratori che si dirigono verso i paesi caldi. Sui rami degli alberi, ormai privi di foglie, si formano grosse gocce di umidità rappresa. Gli insetti sono spariti, la natura è brulla e silenziosa. Ma ecco che un giorno il cielo si rasserena, il sole torna a scaldare tiepido, la terra, i passeri cinguettano, qualche fiore sboccia illudendosi che sia tornata la primavera. Non è primavera: è l’estate di san Martino, breve dolce stagione piena di tepore e di bellezza.

E’ novembre
Presto, cogliamo questi ultimi lampi di bellezza della terra esausta che si prepara a morire. Quante volte avremmo voluto fissare sulla carta l’emozione, il nostro amore per la zolla grassa, bollente, coperta di verde, per la spiga pesante che il sole abbrustolisce, per il grappolo azzurro, lustro, per il ramo curvo carico di frutta! Non abbiamo saputo! Non perdiamo questi splendori estremi. Riempiamoci gli occhi del vermiglione, della porpora, dell’arancione dei pampini agonizzanti; del giallo e del bianco dei fiori ritardatari. L’erba fresca inzuppata di rugiada, le foglie scintillanti nelle mattine ancora soleggiate, i campi e le prode fumanti come la groppa di un bue che ha lavorato troppo. Domani il sipario della nebbia calerà su tutto e sul nostro cuore. Non vedremo, non ameremo più nulla che i nostri ricordi. (A. Soffici)

Giornate novembrine
In questi giorni d’autunno, solo la natura ha colori smaglianti, più festosi di quelli di primavera. Le foglie delle viti e dei boschi vanno dal giallo canarino al rosso carabiniere, passando attraverso ogni sfumatura; l’oro grezzo, il bronzo nuovo, il cuoio vecchio, il pane. La gente in ogni villaggio, la mattina dei Santi, quando ci sono passato, andava al cimitero a portare fiori. Avevano tutti l’abito buono. I giovani o quasi giovani vestiti come in città, i vecchi contadini ancora con il fazzoletto di seta bianca legato al collo, il cappello di feltro tondo con qualche buffetto, il sigaro toscano o la pipa tra i denti, la carnagione arrossata dal sole e dai buoni vini.
La gente andava a piedi, in motoretta, con le donne aggrappate al sellino posteriore, o in automobile. C’erano automobili a centinaia da tutte le parti, vecchie rabberciate e ridipinte, quasi nuove ben lucidate, e nuovissime appena uscite dal negozio. Si allineavano in bell’ordine, all’ingresso del cimitero, dove il vigile, vestito a nuovo, faceva autorevoli segni. Le donne portavano grandi mazzi, tenuti stretti al petto come un bambino, per lo più crisantemi color d’oro, grandissimi, certamente molto più grandi di quelli che si usavano prima della guerra, rinchiusi in sacchi di plastica, perchè non si sciupassero. L’ordine era nelle cose ma anche nei sentimenti, nell’obbedienza ai precetti e alle tradizioni, nella pietà per i defunti. (L. Barzini J un)

Colore di novembre
Novembre: mese delle prime brinate, delle prime nebbie, delle uggiose piogge. Qualche volta fa la sua apparizione la neve; sovente accade già di trovare, il mattino, fontane e ruscelli gelati. Nelle case, sui focolari scoppiettanti, o sulle stufe che brontolano, c’è quasi sempre una pentola che fuma. I bimbi disegnano casine, barche ed alberi sui vetri appannati.
In questo mese, l’acqua è davvero presente in quasi tutti i suoi travestimenti.

Il mese di novembre
La campagna lentamente si spoglia. I campi arati fumano, e la prima nebbia li fascia; e gli alberi nudi levano come scheletri le braccia. Cadono pioggerelle fini, e intanto i solchi e le zolle si vanno riempendo di semi che danno frutti alla nuova stagione.
I contadini piantano nuovi vigneti e nuovi filari di alberi.
Si raccolgono le prime olive da mangiare dolci; sulle bancarelle dei fruttivendoli fanno spicco i vivaci colori delle mele, delle pere, dei cachi, mentre le caldarroste spandono all’intorno un gradevole profumo.
Nei giardini sbocciano gli ultimi fiori: i crisantemi, bianchi, viola, gialli, dal profumo amaro.

 

Tempo di caccia
Il primo sole del novembre si affaccia malinconico alle ultime cime della montagna, già biancheggianti per la neve caduta di fresco, e, mandando i suoi languidi raggi attraversi ai rami brulli dei castagneti, tinge di rosa la croce di ferro del campanile.

Qualche nuvola bianca sta fissa sui monti più lontani, uno strato bigio di nebbia allaga la pianura, e il villaggio dorme ancora sotto un freddo e splendido sereno d’autunno.

I cacciatori son già tutti partiti, dopo che ha suonato la campana dell’alba; vi è stato allora un breve segno di vita, qualche latrato, qualche fischio, qualche colpo alle porte per destare i compagni addormentati, e poi deserto e silenzio turbato soltanto ad intervalli dal fruscio delle foglie secche dei platani della piazzetta, che bisbigliano lievi lievi, portate in giro sul lastrico da radi sbuffi di tramontana. (R. Fucini)

San Martino

Nacque nel 316 in Ungheria. Suo padre era un ufficiale romano. Ancora ragazzo fu avviato alla carriera delle armi che più tardi, divenuto prete, abbandonò. Fu eletto vescovo di Tours. Morì nel 397. La leggenda narra che San Martino, il santo della carità, divise il proprio mantello con un povero incontrato in una rigida giornata autunnale. Come premio a questo suo atto generoso, Dio mutò la temperatura di quella giornata in un clima di primavera. Da quel giorno quel periodo venne chiamato “l’estate di San Martino”. San Martino è considerato anche il simbolo dell’abbondanza.

San Martino

Nacque in Pannonia. Suo padre, tribuno romano, fece di lui un soldato. Ebbe innato il senso della carità. E’ particolarmente noto l’episodio di cui fu protagonista in una fredda giornata di novembre. Mentre a cavallo percorreva un solitario sentiero, si imbatté in un poveretto tremante. Non esitò a dividere con lui il suo mantello. Nella notte, in sogno, gli apparve un giovane uomo rivestito del drappo che aveva donato al poveretto e lo ringraziò.
Commosso da questo strano sogno, non esitò a convertirsi al Cristianesimo. Fondò poi alcuni monasteri ed ebbe grande popolarità.
La sua tomba divenne meta di numerosi pellegrinaggi, cosicché in quel luogo sorse una stupenda Basilica.

Dettati ortografici su NOVEMBRE – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

GLI ANIMALI DEL FREDDO: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici – GLI ANIMALI DEL FREDDO. Una collezione di dettati ortografici sugli animali del freddo: foca, tricheco, orso polare, ecc…

La foca piange

Per quanto viva nel mare, la foca è un mammifero. Essa ha uno spesso strato di grasso che le permette di trattenersi per ore ed ore sul ghiaccio senza congelarsi.

La voce della foca è un aspro latrato o muggito; quando è in collera ringhia come un cane. Ha sensi eccellenti e tutti ugualmente sviluppati. Il naso e le orecchie sono chiudibili a volontà dell’animale.

Gli occhi sono grandi e la pupilla non è tondeggiante e allungata, ma divisa in quattro raggi.

Da ciò probabilmente dipende la facoltà che la foca possiede di vedere ugualmente bene sia di giorno che di notte, come a diverse profondità sott’acqua.

La foca ha uno sguardo espressivo e quando sente dolore, piange. Questa è la riprova che la foca non è un pesce. E’ un mammifero e dei più sviluppati. O. Valle

La foca

Le foche rendono possibile, all’uomo che vive sulle nevi, la vita nella patria inospitale. L’uomo trae profitto di tutte le parti della foca. Sono per lui utili la carne e il grasso. Il sangue, cotto con acqua di mare, serve da minestra, l’olio si beve dalla brocca, che nella misera capanna non manca mai come da noi la caffettiera. Gli intestini, tesi sulle finestre, lasciano penetrare una scarsa luce nelle abitazioni e le proteggono dal freddo. La pelle fornisce il cuoio per le calzature e gli abiti. Non si gettano via neppure gli ossicini: servono da giocattoli per i bambini.

L’orso bianco
Vive nelle regioni più fredde della terra, dove non esiste vegetazione e regnano i ghiacci eterni. E’ il re del Polo, sfida la bufera, i lastroni di ghiaccio gli servono da barca, la neve da cuscino.
Essendo un carnivoro, si nutre di foche, di pesci e di lontre. Molti cacciatori polari e gli eschimesi gli danno una caccia spietata.

L’orso 
L’orso è un mammifero carnivoro, appartenente alla famiglia degli ursidi, molto affine a quella dei canidi. Vive in Europa (orso bruno del Trentino e dell’Abruzzo), in Asia (orso bruno della Siberia e orso nero del Tibet) e nelle due Americhe (orso bruno, grizzly, baribal).
L’orso bianco è un animale artico, ha il muso e il collo lunghi, le orecchie corte. E’ un buon nuotatore e si ciba di foche, di pesci e di sostanze vegetali.
Gli orsi hanno artigli poderosi, non retrattili; quasi tutti sono capaci di arrampicarsi. Attaccano di rado l’uomo, ma possiedono grande forza e sono animali assai temibili.
Può raggiungere l’altezza di un metro e venti, la lunghezza di oltre due metri, il peso di duecento, trecento chili in individui adulti, prima del letargo invernale. Ha pelliccia molto folta, che va dal bruno-nero al bruno-grigio, al bruno-rossastro, a seconda della distribuzione geografica. E’ forestale, bisognoso di grande estensione per aggirarsi a piacere e per il reperimento del cibo. La fame lo spinge ad uscire solo o in piccoli gruppi, durane la notte o al crepuscolo o al mattino presto. Mangia mirtilli, bacche, frutta in genere, germogli e radici, coleotteri, lumache, chiocciole, pesci. Nel cavo degli alberi, ricerca i favi di miele, di cui è molto ghiotto. A volte fa scorribande nei coltivi e si rimpinza di grano, di segale, si orzo, di pannocchie. Non molesta l’uomo se non preso alle strette, ma è aggressivo sul bestiame, specialmente quando, magro ed affamato, si desta dal letargo. Allora abbatte pecore e anche vitelli.
(G. Menicucci)

La foca
E’ un animale mammifero marino.  Nuota agilmente, e sulla terra si muove in modo buffo e pesante.
La foca vive in branchi numerosi e alleva i piccoli con cura. Va a caccia di notte; di giorno se ne sta sdraiata al sole, sulle rocce e sulle spiagge. Abbaia come i cani, brontola rabbiosa, ruggisce nelle lotte, urla quando è colpita dall’arpione.
L’uomo caccia la foca per l’ottima pelle, l’olio e i grassi; i popoli nordici ne usano gli intestini per confezionare mantelli impermeabili.

La foca
La foca è un mammifero carnivoro pinnipede. Si conoscono molte specie di foche che vivono soprattutto nelle regioni artiche e antartiche. La foca monaca, di pelame bruno o nerastro sul dorso e quasi bianco sul ventre, abita il Mediterraneo e talvolta viene catturata sulle coste italiane.
La foca ha un capo tondeggiante, privo di padiglioni auricolari. Le zampe posteriori non servono per camminare e restano protese all’indietro. Nuota molto bene e si ciba di pesci.
La foca vive in gruppi numerosi; è un animale intelligente e facile da addomesticare.

Il colosso dei ghiacci
Le regioni artiche non sono affatto regioni deserte come molti di voi potrebbero pensare, anzi. Vi abitano numerosi mammiferi: i lupi, i buoi muschiati, i caribù, le lepri del polo, i lemming, gli ermellini, e molti mammiferi marini, come le foche e i trichechi di cui parleremo questa volta.
Oggi i trichechi i trovano solamente nell’estremo Nord della Groenlandia e nella zona circostante lo stretto di Bering: sono animali goffi, che possono raggiungere tranquillamente il peso di una tonnellata e mezzo e la lunghezza di quattro metri e mezzo. Sotto la pelle i trichechi hanno uno spesso strato di grasso, che li protegge dal freddo terribile e permette loro di nuotare senza danno nelle acque gelide del Mar Artico.
Può darsi che i trichechi vivano anche altrove, ma si tratterebbe in questo caso di regioni inesplorate: infatti non si hanno notizie della presenza di trichechi se non nelle regioni che abbiamo detto. E pensare che di fu un tempo in cui i trichechi erano numerosissimi in tutta la zona intorno al Circolo Polare Artico: ma questi animali, come gli elefanti, possiedono una ricchezza che fa gola: l’avorio!  I denti incisivi del tricheco sono sviluppati come due vere e proprie zanne: possono raggiungere i settanta centimetri di lunghezza  e il peso di oltre tre chili. Furono proprio queste zanne a suscitare la cupidigia degli uomini, tanto che i trichechi furono massacrati senza pietà, e oggi di molti milioni di esemplari non ne rimangono che trenta-quarantamila. Un tempo tutto il tricheco ucciso veniva utilizzato, e lo stessa fanno oggi gli eschimesi che sfruttano la carne, il grasso, la pelle per gli usi più diversi. Un tempo le pelli dei trichechi venivano trasformate in cordami per navi e, a onor del vero, si trattava delle funi più solide che si possano immaginare.
L’aspetto si questo grosso bestione, la femmina pesa circa due terzi del maschio, ricorda grosso modo quello di un vecchio contadino tranquillo e bonaccione. I lunghi baffi lucidi e rigidi contribuiscono non poco a dare al tricheco una certa aria simpatica. Quando è piccolo, il tricheco è ricoperto da una pelliccia giallo-bruna, che presto diventa bianca, per poi cadere. Fatto adulto,  il tricheco non ha su tutto il corpo nemmeno un peluzzo ad eccezione dei baffi: la sua pelle si presenta nuda, piena di rughe e di grinze, coperta di cicatrice che testimoniano le feroci lotte combattute durante il periodo degli amori. Questo è l’unico momento in cui i l tricheco si mostra combattivo e feroce: per lo più .se ne sta tranquillo a ronfare sulla banchisa. Meglio non fidarsi troppo, però, della bonarietà del tricheco, né della sua lentezza, quando cammina sulla terraferma. Le sue zanne sono armi terribili con le quali il nostro amico osa affrontare persino l’orso bianco: per questo più permettersi di sonnecchiare pigramente sulla banchisa: nessuno degli animali polari, nemmeno il più feroce, oserebbe avvicinarsi a lui. Le zanne del tricheco hanno però anche un’altra funzione: oltre ad essere arma di difesa e piccolo aratro per stanare gli animali di cui esso si ciba sono utilizzate come bastone di sostegno. Il tricheco, infatti, se ne serve per sollevarsi e per reggersi in piedi sulle rocce e sul ghiaccio. Il suo nome scientifico, del resto, Odobenus, significa appunto “colui che cammina sui denti”.
Ma il tricheco usa anche un altro sistema per camminare: come la foca e a differenza dell’otaria, porta avanti le pinne natatorie, si appoggia su di esse, e, dopo di aver sollevato in questo modo tutta la parte posteriore del suo corpo, con un brusco movimento si getta in avanti.
Mamma tricheco è particolarmente affettuosa con le sue creature: due piccoli che nascono a primavera, pesanti già di una settantina di chili, e che deve allattare per due anni. Essa ama giocare con i suoi  piccoli, li fa rimbalzare come palle e improvvisa con loro una specie di nascondino acquatico.
Una particolarità anatomica dei trichechi è che sono praticamente privi di unghie: su ciascun dito delle cinque dita delle pinne natatorie anteriori hanno infatti solo una parvenza di unghie, sulle pinne posteriori hanno un’unghia sola, piuttosto lunga, sul dito esterno.
Il tricheco si trascina faticosamente per terra, e si trova invece meravigliosamente a suo agio in acqua: per questo si tuffa spesso a grandi profondità in cerca di cibo: conchiglie, asterie, ricci di mare e molti altri invertebrati sono il suo pasto preferito. Il tricheco infatti non si nutre di carne o di pesci come le foche, ma si ciba quasi esclusivamente con i piccoli animali che abbiamo detto.: li pesca in acqua o, con le zanne, li cerca nel fango ai limiti della banchisa. Per triturare queste leccornie, il tricheco è armato di sedici denti, oltre alle due zanne che sono la sua più formidabile arma di difesa. Questi sedici denti hanno la forma di piccoli coni resistentissimi e smussati sulla punta.

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ANIMALI AFRICANI: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici ANIMALI AFRICANI –  una raccolta di dettati ortografici sugli animali africani: leone, leopardo, elefante, giraffa, ecc…

L’elefante. L’elefante è un mammifero erbivoro tra i più grossi attualmente esistenti sulla terra. Il suo muso è caratteristico per la presenza della proboscide, un organo muscoloso, lungo, robusto, mobile, formato dal naso e dal labbro superiore cresciuti insieme. I due denti incisivi superiori, enormemente sviluppati, sono detti zanne. La sua pelle è durissima, e per questo è chiamato pachiderma.

Leopardo. Questo feroce carnivoro, che vive in Africa e in Asia, è capace di arrampicarsi sugli alberi, dove sta in agguato per sorprendere la preda. E’ cacciato dall’uomo per la sua pelliccia, di colore giallognolo e macchiettata di nero.

Leone. Il leone è il re della foresta e il suo possente ruggito spaventa e mette in fuga antilopi, zebre e giraffe. Il suo mantello è di colore rossiccio; il capo è ornato di una folta criniera. Il corpo è forte ed agile. Con i robusti artigli e i denti acuminati avvinghia e sbrana la preda.

Giraffa. La giraffa è un mammifero ruminante che vive in tutte le regioni a steppe e a boscaglie dell’Africa. E’ molto alta, con un collo lunghissimo e due piccole corna. Il suo mantello è di colore giallognolo, con grandi macchie castane.

La nave del deserto. Gli Arabi chiamano il cammello “la nave del deserto”. In mezzo alle sabbie e tre le nuvole di rena che il vento spinge ad ondate impetuose, questo ruminante ha un grande vantaggio sugli altri animali: dotato di lungo collo, erge il capo e tiene le narici al di sopra del vortice polveroso, con gli occhi mezzo chiusi  e difesi da densi peli. Il cammello porta enormi pesi; dà latte, carne, pelo, pelle; la notte serve da guardia come un cane; ha l’istinto di sentire le acque lontane; riconosce a meraviglia la strada; sopporta la fatica con grande mansuetudine. All’esterno del rumine del cammello vi sono tante tasche sempre piene di acqua; è la riserva da consumare in caso di bisogno. La gobba che ha sul dorso è formata di grasso che l’animale consuma in caso di carestia; essa infatti scema e sparisce nei giorni di fame. Come il soldato che intraprende una lunga marcia di guerra, il cammello ha i suoi viveri di riserva, indispensabili nella lotta contro la natura avversa dei paesi desolati. O. Valle

Il più bello dei felini: la tigre

La tigre può raggiungere la lunghezza di tre metri, compresa la coda; e l’altezza di più di un metro, misurata dalla spalla. Ha pellame fulvo, con larghe striature nere, nella parte superiore; nelle parti inferiori, biancastro.

La tigre è un terribile carnivoro, molto più coraggioso del leone. Essa si nutre di cervi, antilopi, giovani bufali, giovani cinghiali e anche di scimmie, di pavoni e altri animali. Se riesce a scoprire un luogo dove ci sia del bestiame domestico, fa strage di capre e cavalli. Va a caccia sempre da sola, silenziosamente, e non ruggendo come il leone. Avanza lentamente verso la preda, e la atterra con una zampata; dopo le torce il collo, fratturandole le vertebre cervicali.

Animali selvatici

Una mandria di zebre e di antilopi pascolavano nella radura. Erano migliaia e ricoprivano tutto il vasto pianoro come un immenso mantello che, al loro lento procedere sembrava fosse trascinato via da qualcuno, formando pieghe e viluppi a seconda degli avvallamenti del terreno. Fra le zebre e le antilopi, a passi lunghi e maestosi, camminavano alcune frotte di struzzi dalle smisurate zampe spoglie, di un vivido bianco e nero i maschi, e di un grigio sporco le femmine.
(Cloete)

L’abbeverata

Non venivano avanti uno per uno, per due e nemmeno a gruppi, bensì in schiere compatte e serrate e facevano rintronare e tremare tutto il terreno fangoso. Dapprima una mandria di elefanti, guidati da una femmina gigantesca, scese sino all’acqua e si mise a bere, a ruzzare, a giocare, e in mezzo a loro si muovevano, imperturbabili, gli ippopotami che, come succhiando il fango coi piedi, sbucavano dall’acqua sempre più numerosi, per buttarsi sulla riva a pascolare l’erba folta.
(Cloete)

La tigre
La sua pelliccia è color giallo ruggine a strisce nere. La tigre non teme l’uomo.
Vive lontana dagli abitati, nelle grandi foreste e tra le erbe alte. I suoi movimenti sono eleganti e rapidi. Sa strisciare come i serpenti, si arrampica sugli alberi, artiglia come le aquile.
E’ il terrore di tutti gli animali, ma teme molto l’elefante, il rinoceronte, il bufalo; fa strage di cinghiali, cervi, antilopi. E’ un animale ricercato per i circhi e gli zoo.

La tigre
La tigre è un grosso mammifero carnivoro della famiglia dei felidi. E’ un bell’animale per il suo mantello rosso fulvo a strisce nere verticali, mentre la gola e il ventre sono bianchi.
La tigre è un animale asiatico: abita le foreste e le boscaglie fitte e umide (giungle).
Si nutre di diversi mammiferi selvatici o domestici e divora in un sol pasto anche 40 chilogrammi di carne.
La tigre è addomesticabile e vive senza difficoltà in cattività, dove però di rado dà alla luce figli.

Il leopardo
Il leopardo ha mantello giallo con macchie e disegni neri; è diffuso in tutto il Continente Africano e in Asia. L’esemplare asiatico ha dimensioni maggiori di quello africano e vien detto pantera; questa presenta talvolta il mantello completamente nero. Di preferenza assale animali di piccola taglia; tuttavia non esita ad assalire anche mammiferi di grande mole.
Esso sorprende gli animali con l’agguato: agilissimo e astuto, striscia sul terreno, appiattendosi e riuscendo a celarsi anche il erba poco alta. Compie balzi improvvisi e potenti; si arrampica sugli alberi con velocità incredibile; balza di ramo in ramo a grande altezza dal suolo, tenendosi in perfetto equilibrio con la più spericolata sicurezza. Di rado assale l’uomo. Ma vi sono esemplari antropofagi i quali, pur non tralasciando la caccia agli animali selvatici, attaccano anche l’uomo.

Il leone
Attraversavo, in compagnia di ottimi amici e con una piccola scorta armata di gregari, un tratto di savana estesa lungo la riva destra del Giuba tra i villaggio fi Gar Uama e la carovaniera che porta a Bobbuin. Brillava sul cielo l’ultima falce di luna, dalla foresta esalava un mormorio sterminato come il frastuono dell’Oceano ce dà a chi ascolta il senso della madre natura: dai guaiti dei serpenti afflosciati nell’intrico erboso, al frullare garrulo degli aironi, delle otarde (grosso trampoliere), annaspante tra i rami e i tronchi; dalle lamentazioni gutturali di certe antilopi allo squittire elettrico delle gazzelle, degli struzzi, dei trampolieri, dal barrito misterioso dell’elefante al brulichio dei gattopardi, delle iene, degli sciacalli che vanno  di notte rimuovendo gli anfratti della boscaglia o battono in cerca di preda i greti alluvionali.
Noi camminavamo da lungo pezzo ascoltando. A un tratto gli indigeni si sono fermati, come colpiti da un avvenimento, in quel silenzio subitaneo, quasi sotto l’effetto paralizzante del panico. Anche noi ci siamo arrestati, trattenendo il respiro; sensazione di vuoto assoluto: tutto taceva, tutto era come inabissato. In mezzo a quel silenzio si percepì lontano, lontanissimo, un boato. Io, ignaro di cose d’Africa, non comprendevo che fosse: pareva un vocalizzo nasale, come se un basso dalla voce cupa si ostinasse a ripetere a lettera emme tenendo le labbra chiuse. Eppure faceva spavento.
“E’ la voce del leone”, mi hanno detto gli indigeni.
Fatto straordinario: quando risuona il grido del domatore tutti ammutoliscono. Non è semplice superiorità di forza fisica, giacché innumerevoli animali, quanto a massa e volume, meccanismo di muscoli, preponderanza di peso, potrebbero avere ragione di lui. E’ il sentimento di una dignità superiore, di una prevalenza ideale. Tutti temono il leone non perché egli sia il più brutale fra i bruti, ma perché egli è il più nobile. Il più fiero, il più dignitoso tra i viventi. Ogni animale tace e s’arresta davanti a chi lo supera nella scala dei valori, cioè davanti all’uomo, infinitamente più forte nello spirito, quantunque infinitamente più debole nel corpo. Questa è la vera spiegazione psicologica di quel fenomeno che tante volte è stato descritto e sul quale tante ironie si sono consumate: la timidezza del re della foresta di fronte al cacciatore.
((V. B. Brocchieri)

Il leone
Il leone è un grosso carnivoro della famiglia dei felidi. Non vive nelle foreste e nei deserti, ma abita le boscaglie e le savane dove va a caccia di giorno e di notte. Assalta antilopi, giraffe, zebre e costituisce un pericolo per l’uomo.
Il leone possiede una grossa testa, zampe robuste e coda con ciuffo nero in punta. Il pelame è color fulvo uniforme.  I maschi hanno il collo rivestito da una caratteristica criniera.
Oggi, vive in Africa e in Asia, ma in zone ormai limitatissime e protette (riserve), dove non può venir cacciato e sterminato come è accaduto in Africa e in certe regioni asiatiche in cui praticamente è scomparso.

L’elefante
Esistono due tipi di elefanti: quella africana e quella asiatica. L’elefante asiatico è più piccolo.
Una caratteristica dell’elefante è il naso prolungato, la proboscide, che può superare i due metri di lunghezza. Con la proboscide, l’elefante porta il cibo alla bocca, si fa la doccia, beve, fiuta, testa e carezza.
Altra caratteristica degli elefanti sono le zanne, due denti inseriti nella mascella superiore che si sono allungati in modo enorme. Esse sono armi di difesa e di offesa: l’animale le adopera anche per scortecciare e sradicare alberi.
L’elefante ha la pelle spessa, senza peli, di colore grigio. Ha un udito finissimo. Vive pacifico in famiglie e si lascia facilmente addomesticare.

L’elefante
L’elefante è il più grande mammifero terrestre. Durante età antichissime ne esistevano parecchie specie, ora scomparse. Oggi vivono: l’elefante asiatico (dalle orecchie relativamente piccole) e l’elefante africano (dalle orecchie grandissime, simili a ventagli, che coprono parte delle spalle).
L’elefante fa parte dell’ordine dei proboscidati. Il suo corpo è massiccio, di grande mole, sorretto da zampe robuste, simili a colonne.
La pelle è di colore grigio, rugosa, spessa, quasi senza peli. I denti sono in tutto sei: due incisivi superiori che sporgono dalla bocca, detti zanne, e quattro molari distribuiti uno per lato in ciascuna mascella. L’elefante può vivere fino a 120-130 anni di età.

La giraffa
E’ un mammifero, quadrupede, selvatico, erbivoro, ruminante. E’ il  più alto degli animali: un maschio adulto misura da 5 a 6 metri. Almeno due metri spettano al collo. Eppure le vertebre che reggono questo collo smisurato sono solamente sette, come nella maggior parte dei mammiferi. Naturalmente sono vertebre… giganti. Questo simpatico erbivoro ha le misure tutte eccezionali: ha 2 metri di zampe e mezzo metro di… lingua! Eppure, con tanta lingua, la giraffa è muta. Alcuni naturalisti sostengono che la giraffa fischia per chiamare i piccoli. In genere si pensa che almeno la coda, in questo lungo animale, sia piccola. Nossignori; la giraffa può vantare una coda di m 1,20!
Il peso della giraffa oscilla da kg 500 a 1000. Quando i giraffini nascono misurano già 2 metri e dopo tre o quattro settimane sono già alti 3 metri.
Il nome della giraffa deriva dalla parola araba zurafah, che significa mite, buona. Infatti  la giraffa dai dolci occhi è un animale tranquillo. Di giorno vaga nelle rade boscaglie africane, dove abita col piccolo branco delle compagne (10-20 individui).
La giraffa cammina in modo goffo e curioso, muovendo insieme prima le due zampe di destra, poi quelle di sinistra, e galoppa dondolando il collo. Nella corsa non sembra veloce, eppure il suo galoppo è più rapido e più resistente di quello del cavallo.
Non crediate però che la giraffa sia paurosa: è solo prudente. Se un leone, che fra gli animali è il suo nemico più pericoloso, attacca i suoi piccoli, li difende strenuamente, sferrando potenti calci.
A sera la giraffa scende all’abbeverata. La povera bestia deve faticare molto per bere: per arrivare al pelo dell’acqua deve divaricare le zampe anteriori come le aste di un compasso, oppure deve ripiegarle, con buffe e scomode contorsioni. Pare impossibile, ma il suo collo non è abbastanza lungo!

Gli ippopotami
La parentela tra ippopotami e suini è riconoscibile dal fatto che entrambi i gruppi sono forniti  di canini potenti e di piedi con quattro dita. Gli ippopotami sono quasi del tutto nudi, salvo qualche raro pelo sul dorso e alcune setole rigide sul muso. Il corpo è potente, tocco; il collo è corto e robusto; la testa quadrata e enorme.
L’ippopotamo pesa dal 2000 ai 2500 chili, talvolta perfino 3000. La femmina è molto più grossa del maschio. La pelle è di un colore che va dal rosso rame al grigio blu. Quando l’ippopotamo rimane per molto tempo fuori dell’acqua, e la sua pelle si secca, delle ghiandole sottocutanee secernono un liquido rossastro che aveva fatto pensare che l’animale perdesse sangue.
Il muso è più voluminoso della scatola cranica. I canini ricurvi della mascella inferiore possono raggiungere la lunghezza di 70 cm e il peso di 4 kg. I canini superiori sono rivolti verso il basso e sono assai più piccoli. Di solito questi denti sono nascosti dalle labbra ma vi suono individui nei quali uno o due o anche tutti e quattro spuntano fuori dalla bocca. I canini dell’ippopotamo vengono utilizzati per l’avorio che è molto più pregiato di quello degli elefanti. Un tempo gli ippopotami vivevano lungo il Nilo, ma ormai sono stati del tutto sterminati a nord di Cartum. Questa specie si trova invece ancora lungo le coste di quasi tutti i grandi fiumi e laghi dell’Africa tropicale e in modo particolare nell’Africa equatoriale, dal Kenya fino al Senegal.
Gli ippopotami sono buoni nuotatori, e infatti sono stati visti svariate volte in mare oltre le foci dei fiumi. Si è constatato anche che essi sono in grado di attraversare il braccio di mare che separa il continente africano da Zanzibar. Peraltro si incontrano anche nelle zone di notevole altitudine fino a 1500 e a 2500 metri sul mare, dove gli inverni possono essere freddi al punto che i laghi gelano. In realtà questi enormi animali possono sopportare il freddo grazie allo spessore della loro pelle.
Di giorno rimangono a lungo nell’acqua dei fiumi o dei laghi; mangiano piante acquatiche e poi fanno dei bagni di sole, sdraiati su degli isolotti melmosi. Quando si immergono per dissotterrare i rizomi delle piante acquatiche dal fondo, restano sott’acqua da 1 a 4 minuti. Di notte compiono spesso delle spedizioni per saccheggiare le piantagioni e distruggere i raccolti calpestandoli. In genere vivono in mandrie di 20-30 animali, ma all’epoca dell’accoppiamento, i maschi si abbandonano a furiosi combattimenti. La gestazione dura circa otto mesi. Appena nato, il piccolo ippopotamo, che pesa all’incirca 40 chili, è condotto dalla madre in acqua. Quando vuol dargli il latte, essa si corica su un fianco per consentirgli di succhiare le mammelle. I giovani sono più scuri degli adulti e restano sotto la sorveglianza della madre durante il primo anno di vita- In acqua sono trasportati, di solito, sul dorso materno. All’uscita dell’acqua, gli ippopotami scrollano le orecchie e dimenano la coda rapidamente. Si riconosce la zona del territorio su cui essi vivono per il fatto che lasciano dappertutto depositi di escrementi.
(H. Hvass)

La zebra
Le zebre vivono nella savana dell’Africa a sud del Sahara e sono facilmente riconoscibili per le striature brune sul fondo biancastro della pelle.
La coda termina con un lungo fiocco, le orecchie hanno una lunghezza intermedia tra quelle dei cavalli e quella degli asini. Le mandrie di zebre possono essere composte  da parecchie centinaia di individui talvolta perfino da mille, che brucano placidamente tra le antilopi e le giraffe. Spesso degli uccelli bovari si appoggiano sul loro dorso; in caso di pericolo spiccano il volo dando così l’allarme. Ma ciò non preserva del tutto le zebre dal loro peggiore nemico: il nemico che osserva i movimenti del branco durante l’abbeverata, solitamente serale.
La mandria di zebre è condotta da un maschio che mantiene la disciplina nel gruppo. Le zebre corrono in fretta, ma non sono molto resistenti e un buon cavaliere può riprenderle facilmente.
Alcune zebre sono state addestrate nei  circhi o attaccate alle carrozze, ma non è mai stato possibile addomesticarle completamente; in qualsiasi lavoro esse sono inferiori ai cavalli e agli asini.

Il rinoceronte africano
Le specie di rinoceronti che vivono in Africa si differenziano da quelle asiatiche per la presenza di due o più corna sul muso, mentre i rinoceronti indiani ne posseggono solo uno. Hanno corpo massiccio, lungo anche quattro metri, rivestito di una robusta pelle che sembra una corazza. Le zampe sono corte e tozze, ma ciò non toglie che il rinoceronte possa caricare gli intrusi, correndo a una certa velocità.
Il rinoceronte africano è diffuso particolarmente nelle regioni dei grandi laghi dell’est, poiché preferisce i terreni ricchi di acqua. Le sue abitudini sono prevalentemente notturne. Esce dall’ombra dei cespugli solo per pascolare e alle erbe preferisce gli arbusti verdi, compresi quelli spinosi. Nelle ore calde ama immergersi nelle acque fangose, dalle quali esce con uno strato di fango  sulla pelle che, essiccandosi, forma una crosta protettiva contro le punture degli insetti.

La scimmia
Se ne sta sui rami oppure gioca e fugge sulle cime degli alberi; si afferra ai rami con le mani e con i piedi; una grande famiglia di scimmie, per appigliarsi ai sostegni, usa anche la coda.
Ci sono grosse scimmie: gli oranghi, gli scimpanzé, i gorilla. L’orango ha braccia lunghissime; non spicca salti e raramente cammina sul terreno; si sposta da un ramo all’altro e scende a terra solo se spinto dalla sete. Vive in Asia (nelle isole di Sumatra e Borneo).
Lo scimpanzé vive in Africa. E’ l’animale più intelligente che esista. Può essere addomesticato e può imparare una quantità di  cose. Cammina eretto come l’uomo, ma se avverte qualche pericolo si allontana a quattro zampe. E’ di colore nero.

La scimmia
La scimmia è un mammifero e viene anche detto “quadrumane”; rappresenta senza dubbio un gruppo di animali molto intelligenti.
Possiede una dentatura completa; cammina poggiando completamente la pianta del piede a terra, le unghie sono quasi sempre piatte, gli alluci e talvolta anche i pollici sono opponibili alle altre dita.
Il pelame è di colorazioni molto varie e spesso vivaci.
La scimmia abita le regioni tropicali. Moltissime specie vivono sugli alberi: sono agilissime ed hanno ottima vista; le specie che vivono a terra hanno sviluppatissimo l’olfatto.

Il gorilla
Il gorilla è la più grande e più possente fra le scimmie. Pur possedendo una forza enorme, però, esso è abbastanza pacifico e non presenta alcun pericolo per l’uomo, se non viene molestato. E’ invece assai temuto dagli animali, che difficilmente osano attaccarlo, ben sapendo che avrebbero la peggio in un eventuale corpo a corpo. Il gorilla è alto fino a due metri in posizione eretta.
Ha un corpo massiccio e arti assai muscolosi, muso prominente e ampie narici. Ne esistono due varietà, una di pianura con pelame grigio scuro, e una di montagna, che nel Congo vive fino  a tremila metri, con le pelliccia completamente nera.
Di solito vivono in branchi di pochi individui, comprendenti giovani e vecchi, e si costruiscono rudimentali abitazioni che hanno l’aspetto di piattaforme di rami e ramoscelli, poste sugli alberi a qualche metro da terra. Non conducono però vita arboricola, preferendo vagare durante il giorno sul terreno, alla  ricerca di cibo.  Si nutrono di foglie, di radici e di frutti che la foresta offre in abbondanza.

Dettati ortografici – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.

Dettati ortografici SOLE TERRA LUNA

Dettati ortografici SOLE TERRA LUNA – Una collezione di dettati ortografici e letture su argomenti di geografia astronomica per la scuola primaria: il sole, la luna e la terra…

Il sole già brilla all’orizzonte quando… non è ancora spuntato. 

L’alba imbiancava appena il cielo quando la comitiva si rimise in cammino sul candidissimo nevaio per muovere alla conquista di una delle vette dell’imponente massiccio alpino. Verso le ore cinque e mezza il primo raggio di sole si diffuse sulla neve animandola d’una delicatissima tinta roseo – dorata.

“E pensare” esclamò uno degli alpinisti arrestatosi ad ammirare la scena, “che noi vediamo il sole sorgere là dietro quelle vette nevose, mentre in realtà è ancora immerso al disotto dell’orizzonte!”

“Come?” esclamò Carlo, “Noi vediamo il sole ed esso non è ancora spuntato? E perchè mai?”

“Per via della rifrazione atmosferica”, spiegò gentilmente l’alpinista. ” Tu avrai certo già osservato che immergendo obliquamente un bastone per metà nell’acqua, il bastone appare spezzato, perchè un raggio di luce (in questo caso i raggi che illuminavano il bastone e ritornano a noi) passando da un mezzo in un altro, cioè dall’aria nell’acqua o nel vetro, bruscamente devia, si frange, e continua la strada su un cammino diverso. Perciò i raggi luminosi dei corpi celesti, penetrando nell’oceano atmosferico vengono deviati, subiscono un processo di rifrazione; anzi, vengono più volte deviati, rifratti, a seconda degli strati atmosferici che attraversano, e queste rifrazioni continue fanno sì che essi percorrano una linea curva.

Perciò la visuale che noi abbiamo d’un corpo celeste corrisponde alla sua posizione reale, ma è diretta più in alto. Ecco perchè il fenomeno della rifrazione atmosferica ci dà un apparente anticipo nel sorgere degli astri ed un apparente ritardo nel loro tramontare.

Nelle zone equatoriali si vede, ad esempio, il sole sorgere con circa due minuti d’anticipo, mentre al Polo, dove il sole sembra rotolare attorno all’orizzonte, lo si vede sorgere con un anticipo di circa un giorno e mezzo e tramontare con uguale ritardo!”

Le fasi della luna

Perchè vediamo la luna talora illuminata in tutta la sua faccia che ci guarda, talora invece solo per metà come una falce e perchè talora essa ci rimane totalmente invisibile? La causa di ciò sta proprio nel moto di rivoluzione attorno alla terra.

Infatti quando la luna sorge insieme al sole, questo, che si trova al di là della luna, illumina solo quella faccia della luna che è a noi invisibile; e noi della luna vediamo a mala pena parte del bordo circolare. Abbiamo quindi la luna nuova, cioè oscura.

Quando, dopo circa una settimana, essa sorge a mezzogiorno, vale a dire quando il sole ha raggiunto il culmine del suo arco, noi la vediamo illuminata solo per un quarto e cioè la metà della faccia rivolta al sole: siamo al primo quarto; la mezzaluna volta la gobba a ponente, quindi, come dice bene il proverbio, è luna crescente.

Quando ancora, dopo un’altra settimana, essa sorge col tramontare del sole, noi la vediamo illuminata completamente per quella faccia volta al sole e a noi. Siamo in luna piena.

E quando, infine, ancora dopo una settimana, sorge a mezzanotte, la vediamo illuminata solo per un quarto, stavolta però con la gobba a levante, quindi è luna calante (ultimo quarto).

Così, dopo 29 giorni circa, ritorna a sorgere col sole al mattino e perciò ridiventa luna nuova. Questo tempo, compreso tra due fasi successive di luna nuova, si chiama mese lunare. Concludendo, le fasi della luna sono quattro: luna nuova, primo quarto, luna piena, ultimo quarto.

G. Nangeroni

E’ vero che se la terra invece di impiegare un giorno per girare attorno al proprio asse impiegasse solo qualche ora, noi saremmo lanciati nello spazio?

Sì, certamente. E te lo spiego. Lega un sasso ad uno spago, fa girare e poi lascia andare. Se hai fatto girare adagio il sasso con lo spago cadrà ai tuoi piedi; ma se lo hai fatto girare in fretta, sasso e spago saranno lanciati lontano. Non è così forse che si  usa la fionda? Questa forza si chiama forza centrifuga.

Ebbene, torniamo alla terra. Se la terra impiegasse solo qualche ora, invece di ventiquattro, a fare il giro come vedremo, vuol dire che avrebbe una velocità molto maggiore e quindi imprimerebbe a tutti i corpi che stanno su di essa una forza centrifuga enorme. In tal caso tutti i corpi che non stanno proprio attaccati ad essa verrebbero lanciati nello spazio; così verrebbero lanciati nello spazio le pietre, gli animali, tutti noi, e verrebbero magari sradicate anche le piante che vedremmo volare nello spazio insieme con noi. Sarebbe veramente un caos.

Ma non abbiate timore! E’ da millenni che la terra possiede la velocità che ha oggi; e non c’è motivo di credere che essa aumenti o diminuisca la sua velocità, almeno per ancora qualche milione di anni! E ad ogni modo è più probabile che la velocità diminuisca.

G. Nangeroni

L’alba e il tramonto

Dato che ogni regione della terra, ad un certo punto della sua rotazione, volta le spalle alla luce ed entra nell’ombra (o viceversa), perchè noi non osserviamo questo passaggio in modo repentino, non passiamo, cioè, dalla luce all’oscurità e dall’oscurità alla luce in un solo attimo?

Se godiamo il beneficio di un passaggio graduale il merito è dell’atmosfera che circonda la terra. Già prima di apparirci sull’orizzonte il sole invia i suoi raggi sopra di noi, nella parte dell’atmosfera che li diffonde; in questo modo ci rischiara ancora prima che lo possiamo vedere. E’ l’alba.

Altrettanto avviene al tramonto. Il sole è già scomparso all’orizzonte e ancora il cielo è chiaro perchè gli ultimi raggi del sole, attraversandolo, vengono dispersi.

Le stagioni

 Mezzanotte del 31 dicembe: insieme con alcuni diplomatici e dignitari, un alto funzionario dell’O.N.U. sta festeggiando il nuovo anno in una sala del grande Palazzo di Vetro, la sede delle Nazioni Unite a New York. Fuori il freddo è intenso, dai vetri si vede la neve che cade. Poco dopo mezzanotte, l’alto funzionario lascia la riunione, e, ben imbacuccato, si precipita all’aeroporto dove lo attende un aereo.

Dopo diverse ore di volo, una gentile hostess lo avverte che l’atterraggio è prossimo. Il funzionario si ritira nei bagni e, dopo qualche minuto, ne sce con un bel completo leggero estivo. No, non gli ha dato alla testa il brindisi di poche ore prima: questo cambio d’abito è una cerimonia alla quale è abituato, nei lunghi viaggi che la sua carica richiede. Casi del genere accadono abbastanza spesso a diplomatici o grandi uomini d’affari, che si spostano velocemente da un emisfero all’altro della terra.

Mentre, per esempio, a New York siamo in pieno inverno, sulle spiagge del Sud America infuria invece la canicola.

Perchè? Come può verificarsi una cosa simile? La colpa è della terra, o meglio, del modo in cui la terra gira intorno al sole. Prima di tutto, dobbiamo dire una cosa molto importante: i raggi del sole che arrivano sulla terra possono essere considerati tutti paralleli tra loro. Ciò si spiega con la grande distanza fra la terra e il sole.

Prendiamo ora in esame un fascio di questi raggi, che arrivano su una superficie. Se sono perpendicolari ad essa, i raggi colpiscono in pieno una parte della superficie; se invece arrivano obliqui, colpiscono una parte maggiore; tanto maggiore quanto più cadono obliqui. Essi sono tanto più obliqui quanto più ci spostiamo verso i poli. E’ evidente che lo stesso fascio  di raggi solari riscalderà più intensamente una superficie piccola che una superficie grande. Da quanto abbiamo detto, è chiaro che le variazioni di temperatura, e quindi il susseguirsi delle stagioni, su una data zona della terra, dipendono dal modo in cui i raggi solari cadono su di essa.

A. Manzi

Conseguenze dei movimenti della terra

 L’alternarsi del giorno e della notte, la durata del giorno stesso e quella dell’anno, l’avvicendarsi delle stagioni sono tutte conseguenze dei movimenti del nostro pianeta. Difficilmente si può trovare qualcosa di più singolare di questi fenomeni che regolano la nostra vita. La durata della nostra esistenza, i suoi vari periodi, le occupazioni, il calendario annuale e le epoche della storia sono vicende strattamente legate ai moti della terra, i quali appunto determinano il nostro tempo. Un tempo che è totalmente diverso da quello che si verifica su altri mondi.

Si pensi, ad esempio, alla luna, dove l’anno non conta che dodici giorni e dodici notte, pur avendo la stessa durata del nostro; su Giove l’anno è quasi dodici volte più lungo di quello terrestre, mentre il giorno è più breve della metà: un anno di 10.455 giorni! Su Saturno la sproporzione è ancor più straordinaria: un anno dura 30 dei nostri. Se quel pianeta fosse abitato da esseri uguali a noi, un bambino di 9 anni avrebbe in realtà vissuto 270 anni dei nostri.

La terra è rotonda

Prima osservazione. I viaggi che i navigatori hanno compiuto attorno al globo terrestre sono una prova della rotondità della terra. I navigatori, infatti, partiti da un punto, hanno potuto farvi ritorno senza mai invertire la rotta.

Seconda osservazione. Gli astronauti che si allontanano dalla terra a bordo di navicelle spaziali, vedono a poco a poco la superficie terrestre incurvarsi. Quando poi gli astronauti si allontano ulteriormente, vedono il nostro pianeta sospeso, come una grossa palla, nello spazio.

Terza osservazione. L’orizzonte, cioè quella linea circolare dove sembra che il cielo tocchi la terra, non è sempre ad uguale distanza: più saliamo, più questa linea si allontana, permettendoci di abbracciare con lo sguardo una zona sempre più vasta.

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Dettati ortografici LA SUDDIVISIONE DEL TEMPO

Dettati ortografici LA SUDDIVISIONE DEL TEMPO – Una collezione di dettati ortografici sul tema della suddivisione del tempo, per la scuola primaria: il calendario, l’orologio, ecc…

Il sole, la luna e le stelle non soltanto furono le prime pietre miliari dell’uomo, ma anche il primo orologio.

Durante il giorno, l’antico cacciatore che viveva a nord dei tropici poteva vedere le lunghe ombre del mattino indicare l’ovest diventando via via più corte, finchè il sole raggiungeva il suo punto più alto nel cielo, a mezzogiorno; e poi di nuovo allungarsi, a poco a poco, con il calar del sole, puntando verso est.

Così dalla lunghezza delle ombre si poteva sapere all’incirca quel che noi diremmo “che ora è”.

Vegliando per sorvegliare il fuoco, gli uomini antichi si accorsero che la luna, quando è piena, giunge al suo punto più alto nel cielo a metà della notte.

Col tempo, gli osservatori più acuti impararono a giudicare le ore notturne dalla posizione di certe costellazioni che ruotano intorno alla Stella Polare. Il tempo scorre e contare i giorni e i mesi è ben diverso che contare i cervi uccisi o i denti di orso.

I nostri progenitori verosimilmente risolsero il problema incidendo una tacca su un bastone  una pietra per segnare il passare di ciascun giorno: una tacca, un giorno; due tacche, due giorni; così via.

Col tempo si accorsero che passano sempre trenta giorni tra una luna piena e la seguente. Così essi marcarono con una tacca più grande il giorno in cui cadeva la luna piena.

Dodici di queste tacche più grandi ammontavano a 360 giorni; un anno circa. Così si ebbe un primo approssimativo calendario lunare, che comprendeva le quattro stagioni.
L. Hogben

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Dettati ortografici SAN FRANCESCO

Dettati ortografici SAN FRANCESCO – Una collezione di dettati ortografici su San Francesco, di autori vari, per la scuola primaria.

San Francesco era ricco e si fece povero. Vedeva in tutte le cose grandezza e bontà. Amava tutte le creature: le piante, i fiori, le erbe, il fuoco che riscalda e illumina, l’acqua che corre, canta, lava, disseta. Parlava agli uccelli, alle cicale, ai pesci. E le creature lo amavano, capivano le sue parole e lo seguivano.

San Francesco

Vi era in quel tempo molto odio nella città fra uomini e famiglie; le strade erano spesso insanguinate per zuffe feroci, di cui sola causa erano superbia ed egoismo. E Francesco parlò di carità, di amore, di umiltà, di pace. Prima fu deriso e maltrattato; poi la sua bontà e la sua dolcezza invincibili, l’amore accorato con cui parlava algi uomini che non erano buoni e non sapevano amare, vinsero i cuori più duri e in molti entrò la pace, e molti lo seguirono.

San Francesco

Un giorno San Francesco incontra un giovane che va a vendere delle tortore. Francesco lo guarda con occhio pietoso, ha timore che esse vengano poi uccise da persone crudeli e chiede al giovane le care bestiole. Il giovane regala le tortore a Francesco, che le porta al convento, ed esse, senza gabbia, stanno libere assieme ai frati, libere e felici fino a che Francesco dà loro il permesso di andar via.

Dettati ortografici SAN FRANCESCO

Dove compariva, l’aria fioriva tutta di miracoli limpidi. Un giorno San Francesco andava con alcuni dei suoi frati verso Alviano, un paesello, per predicare e convertire quella gente. Arrivato in paese, salì su un muretto della piazza dove c’era il mercato. Domandò il silenzio e incominciò. Tutti zitti e attenti.

Ma poichè si era d’aprile, il cielo era pieno di rondini che volavano attorno alle torri dove avevano i nidi, garrivano, garrivamo come delle matte, fino a disturbare il predicatore. Francesco allora si voltò alle rondini e disse: “Sorelle rondini, avete già parlato abbastanza. Ora state zitte, perchè devo parlare io”.

Come se fossero tanti cristiani, quelle rondini capirono a volo e, raccoltesi tutte sulle gronde delle case vicine, stettero lì ferme e quiete sino all’ultimo. Finita la predica, la gente di Alviano si raccolse tutta attorno a Francesco acclamandolo e dicendo “Quest’uomo è un santo”. C. Angelini

San Francesco

Il 4 ottobre dovrebbe essere giorno di festa per tutti gli animali. Tanti anni fa, infatti, proprio il 4 ottobre, andò in cielo San Francesco, il miglior amico degli animali.

Egli diceva: “Noi siamo tutti figli dello stesso Padre, il buon Dio che è in cielo, che è il creatore di tutte le cose: il sole. la luna, i fiori del prato, gli uomini e tutti quanti gli animali.”.

Così dunque egli chiamava il bianco bue: “Fratello bue!”. E il piccolo asino: “Fratello Asino!”. E la gallinella nera: “Sorella Gallina!”. E l’anitra chiacchierona: “La mia cara sorella Anitra, che parla troppo!”.
P. Worm

Dettati ortografici SAN FRANCESCO

Una volta san Francesco, mentre con i suoi compagni si trovava a passare vicino alla cittadina di Brevagna, vide una moltitudine di uccelli posata sugli alberi che fiancheggiavano la via ed altri ancora intenti a beccare in un campo vicino.

Il santo si rallegrò alla vista di quelle innocenti bestiole; entrò nel campo e, mentre gli uccellini facevano circolo intorno a lui, alzò la scarna mano nel segno della benedizione e così parlò: “Fratelli miei uccellini, infinita è la riconoscenza che voi dovete avere verso Dio, vostro creatore, e continue lodi dovete fare di Lui, che vi ha dato il permesso di volare liberamente in ogni luogo.

Voi non seminate nè mietete, ma c’è Iddio che provvede al vostro nutrimento e dà fiumi e fonti perchè possiate bere. Vi dà, inoltre, le alte piante per costruire i vostri nidi e, benchè non sappiate filare nè cucire, Egli vi veste riccamente. Non peccate, quindi, di ingratitudine verso di Lui che tanto vi ama e studiatevi di lodarLo sempre”. Nell’udire queste parole, tutti gli uccelli cominciarono ad aprire i becchi, a muovere le alucce, a chinare il capo verso terra, a dimostrare, con atti e canti, che frate Francesco procurava loro gran gioia.

Finita la sua predica, il Santo diede agli uccellini il permesso di andarsene: e quelli, allora, si levarono in aria con meravigliosi canti e poi si divisero in quattro schiere: una diretta ad Oriente, un’altra ad Occidente, una terza verso Sud e la quarta verso Nord. (da “Fioretti di San Francesco”)

San Francesco

San Francesco saliva un giorno lentamente per la collina. Al suo passare le spine diventavano rose e i fiori si inchinavano. Ed ecco, un ramo secco di cipresso si impigliò nella tonaca del santo. San Francesco, tutto contento, prese con sè il ramo, pensando di farne un bel fuoco.

Appena fu giunto al convento, buttò il ramo secco nel grande camino; ma il ramo non volle ardere. San Francesco, allora, lo levò dal fuoco dicendo: “Tu vuoi vivere, fratello.

Bene, ti pianterò nel mio orto; crescerai, diventerai un grande albero, metterai tanti rami, e gli uccellini vi costruiranno il nido e canteranno lietamente. Infatti, con le sue stesse mani, il santo piantò il ramo secco e bruciacchiato nel suo piccolo orto; e il ramo mise le radici, crebbe, diventò alto alto.

Per anni e anni fu gran festa di voli e di canti. Oh, quante uova furono deposte! Quante si schiusero nei caldi nidi sostenuti dagli intricati e forti ram del cipresso, piantato dalle mani del santo! (N. Oddi Azzanesi)

San Francesco

Fra tutte del creature del mondo, San Francesco amava di più gli uccelli, bestiole innocenti; e, tra gli uccelli, l’allodola. E sapete perchè? Perchè, diceva, l’allodola è un uccellino senza superbia, che si accontenta di mangiare quello che capita, perfino un piccolo chicco di frumento che trova in mezzo al letame. E dopo aver mangiato tutto quello che le capita, che fa l’allodola? Sempre contenta, se ne sale in alto nel cielo, e comincia a cantare il suo ringraziamento… (G.. E. Nuccio)

San Francesco e gli uccelli

Un giorno, mentre Francesco predicava, sentì che le rondini, con le loro strida, coprivano la sua voce. Dolcemente egli disse loro di tacere e quelle tacquero finchè egli non finì di predicare. Nello stesso posto, scorgendo in quel prato moltissimi uccelli, Francesco rivolse loro la parola e quelli si affollarono intorno a lui per ascoltarlo e quando egli ebbe terminato il suo parlare, si sparsero per il cielo in direzione della croce che il santo aveva tracciato nell’aria. (M. Menicucci)

Dettati ortografici SAN FRANCESCO Un giorno di festa

C’è un giorno in cui tutti gli animali del mondo possono ballare, ridere, cantare ed è loro concesso ciò che vogliono mangiare. Ogni anno, il 4 ottobre, è il gran giorno di festa per tutti gli animali. Ma perchè il 4 ottobre? Perchè la notte prima, un uomo, il più grande amico delle creature, andò in cielo. Quest’uomo era San Francesco. Non è questa una ragione per fare festa, una grande festa? Ed è la festa di tutte le creature, perchè egli chiamava tutte le creature  suoi fratelli e sorelle. Egli diceva: “Noi siamo tutti figli dello stesso padre: il sole, la luna, i fiori del prato, gli uomini e tutti gli animali”. Così era il poverello, sempre lieto e felice. (P. Worms)

San Francesco

La pietà di San Francesco per le bestie era infinita e senza esclusione. Gli agnelli belanti portati al mercato gli ferivano il cuore, e li riscattava vendendo il suo grande cappuccio, anche a costo di battere i denti dal freddo. Faceva dare miele e vino, d’inverno, alle api perchè il freddo non le uccidesse. Incontrando i vermi per strada li raccoglieva e li metteva da parte perchè non fossero calpestati. (L. Salvatorelli)

San Francesco d’Assisi

Tra le belle brigate d’Assisi che passavano la notte cantando e musicando, egli era il più ardente e il più ardito. Lo chiamavano “il fiore della gioventù”. Ma un bel giorno Francesco parve stanco di questa giovinezza dorata, sentì noia di festini e di feste, di tornei e cortei, e divenne solitario e pensoso. Che cosa era mai accaduto? Aperto a caso il vangelo, aveva letto l’invio che Gesù fa al giovane ricco di lasciare ogni cosa diletta e di seguirlo nell’umile povertà.
Francesco, che aveva cuore generoso, l’intese come una chiamata. Lasciò brigate e fondachi, si spogliò di ogni cosa che apparteneva al padre, e fu tutto preso della povertà. (Cesare Angelini)

San Francesco

Il ricco Francesco, fattosi poverello per amore, andò mendicando di uscio in uscio, accettò l’ospitalità della buona gente, non curò l’ira dei suoi familiari nè il disprezzo degli altri.
Fu uno dei più grandi imitatori di Gesù. Tutto sentì fraternamente: il sole, il vento, il fuoco, l’aria e l’acqua, la tortorella e il lupo, e lodò Dio a nome di tutte le creature in un suo inno al sole, “che è bello e radiante con grande splendore”.  (Cesare Angelini)

Il santo poeta

Il santo poeta è da molti secoli nella memoria degli uomini e la sua poesia è ormai nella natura stessa. Francesco d’Assisi non è solo un santo che si veneri nelle chiese; è il poeta che noi sentiamo e veneriamo davanti a tutte le cose belle. Tutto ciò che vive e palpita sulla terra, dal cuore dell’uomo alla venatura di una foglia. Francesco amava col fervore più materno, col trasporto più ingenuo. (M. Moretti)

Dettati ortografici SAN FRANCESCO
Nacque in Assisi nel 1182, da un ricco mercante di stoffe, Pietro Bernardone, e da una nobildonna provenzale, chiamata Pica. Trascorse la giovinezza tra i divertimenti, la musica e la vita delle armi.

Durante una malattia, a Spoleto, ebbe una visione che gli rivelò la sua vocazione: “…non al servizio degli uomini, ma al servizio di Dio”. Si recò a Roma in pellegrinaggio e, sulla porta di San Pietro, distribuì tutto ciò che aveva ai poveri; ritornò in Assisi in veste da mendicante.

La gente prese a schernirlo; il padre lo rinchiuse in casa, poi lo trascinò davanti ai Consoli della città. Francesco fu irremovibile. In presenza del vescovo di Assisi, si spogliò degli abiti, rinunciò ai beni paterni, indossò una specie di sacco (con un foro per lasciar passare la testa e con una croce cucita sulla parte posteriore) e si dichiarò, misticamente, sposo di Madonna Povertà.

Il suo esempio, la sua virtù, la sua parola, che predicava pietà, amore, pace e salvezza per le anime, attrassero gli umili e li consolarono, mentre si univano a lui i primi discepoli, che presto divennero moltissimi. Allora Francesco dettò una regola per sè e per loro; Papa Innocenzo III la approvò nel 1210.

San Francesco scelse come sede la Porziuncola vicino ad Assisi, attorno alla quale sorsero le umili capanne dei frati suoi seguaci. Francesco si recò missionario in Oriente. Ritornato in patria, nel 1224 salì in ritiro e in preghiera sul monte della Verna e qui ricevette le sacre stimmate.

Predicò e compì miracoli; finchè, vinto dal male, dalle fatiche, dalle terribili privazioni, e sentendo vicina la morte, si fece portare alla Porziuncola dove, nella notte fra il 3 e il 4 ottobre 1226, morì. Nel 1228, Papa Gregorio IX lo proclamò santo.

Nel 1230, il corpo di San Francesco fu traslato trionfalmente in Assisi e sepolto dove oggi sorge la basilica a lui dedicata. (G. D’Alesio)

San Francesco
Il nostro grande poeta Dante Alighieri dice che con San Francesco d’Assisi “nacque al mondo un sole”. Un sole! L’immagine non poteva essere più ampia, nè più vera, perchè la luce di Francesco che tiene ancora estatica Assisi tra l’avorio delle sue pietre e il suo cielo felice, illuminò e illumina tutta l’Umbria, e l’Italia, e il mondo intero. Si sente che, parlando di lui, si parla dell’uomo che più si è avvicinato a Gesù, nella santità della vita, tutta ardore per Dio, tutto amore per il prossimo.
Il bisogno della letizia era sempre vivo in san Francesco e nella sua predicazione. Egli tutto sentì in modo nuovo e fraterno: il sole e il vento, il fuoco e l’acqua e l’aria, la luna e le stelle, le tortorelle e il lupo; e, a nome di tutte le creature, lodò Dio in un suo inno al sole, che è bello e raggiante con grande splendore. (C. Angelini)

Dettati ortografici SAN FRANCESCO – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Dettati ortografici CRISTOFORO COLOMBO

Dettati ortografici CRISTOFORO COLOMBO – Una collezione di dettati ortografici e letture per la scuola primaria su Cristoforo Colombo e la scoperta dell’America (12 ottobre 1492).

Cristoforo Colombo

Cristoforo Colombo, tra i molti navigatori che intorno al 1500 compirono audaci viaggi di esplorazione per mare, alla ricerca di nuove terre o di più comode vie di navigazione, è certamente il più famoso. Egli era convinto che la nostra terra avesse la forma di una sfera; pensava, quindi, che chi partisse da un qualsiasi punto e navigasse sempre in direzione di ponente, avrebbe finito per giungere alle favolose terre di oriente: il Giappone, le Indie, la Cina.

Non gli fu però facile porre in atto il suo proposito, spesso giudicato addirittura pazzesco: ma, finalmente, dopo lunghi anni di insistenze e di preghiere, ottenne, dalla regina di Spagna, tre vecchie caravelle scarsamente attrezzate e male equipaggiate e potè cominciare il suo viaggio, tra stenti e pericoli di ogni sorta, con una ciurma inesperta e ribelle. Finalmente, il 12 ottobre 1492, dopo settanta giorni di navigazione, egli riusciva a toccare terra approdando su un’isola che dapprima credette fosse il lembo estremo delle Indie, ma che in realtà era quel nuovo mondo, fino allora sconosciuto, che prese il nome di America.

Dopo questo viaggio Cristoforo Colombo ne effettuò altri ancora; quindi numerosi navigatori di ogni nazione seguirono il suo esempio e percorsero gli oceani ormai aperti ad ogni impresa. Fu così che, per l’eroismo del grande genovese, ebbero inizio quelle straordinarie esplorazioni che raddoppiarono la superficie del mondo allora sconosciuto, dettero il via a nuovi studi e procurarono ricchezze favolose.

Cristoforo Colombo

Un tempo non si sapeva che la terra fosse rotonda. Cristoforo Colombo, marinaio genovese e grande navigatore, fu uno dei primi ad affermarlo. Al fine di dimostrare ciò che diceva, egli intraprese un viaggio verso le Indie. Fu un viaggio avventuroso, lungo e disagiato, ma finalmente, dopo tre mesi di navigazione, il 12 ottobre la terra fu avvistata.

Cristoforo Colombo

Era italiano il grande navigatore che scoprì l’America. Con pochi uomini, su tre caravelle: la Nina, la Pinta e la Santa Maria, ebbe il coraggio di attraversare l’oceano sconfinato. Gli uomini dell’equipaggio avevano perduto la fede in lui, ma lui non l’aveva perduta. Finalmente ecco la terra. Colombo scende sulla riva, si inginocchia e la bacia. Era il 12 ottobre 1492.

Cristoforo Colombo

Alle due dopo mezzanotte, la Pinta, che veleggiava in testa, sparò un colpo di bombarda. “Terra! Terra!”. Ed era vero, stavolta, e la videro tutti, ombra nera sul cielo turchino, un paio di leghe più avanti.

Fu un delirio, una frenesia, un tripudio che pareva fossero tutti impazziti. I rombi delle bombarde rintronarono la notte e bandiere di gala furono alzate.

Gli uomini si abbracciarono gridando, singhiozzando, corsero all’impazzata da poppa a prora, da una banda all’altra; come se l’angusto spazio delle navi non bastasse più al loro bisogno di agitarsi, di sbracciarsi, di gridarsi l’un l’altro che la prova sovrumana era finita, che avevano compiuto la più grande impresa di mare che mai fosse stata tentata dai tempi dei tempi. (M. Ghisalberti)

Cristoforo Colombo

Cristoforo Colombo nacque a Genova nel 1451 e morì a Valladolid nel 1506.
Figlio di un cardatore di lana, fece, per qualche tempo, il mestiere del padre, quindi cominciò a navigare per vendere le sue mercanzie. Avendo sposato la figlia di un navigatore, ereditò, da quest’ultimo, carte e strumenti che lo invogliarono a intraprendere lunghi viaggi.

Convinto dal suo amico Paolo Toscanelli, bravissimo disegnatore di carte geografiche, il quale affermava che la terra era rotonda, Colombo concepì il progetto di una spedizione verso le coste orientali dell’Asia, per raggiungere le quali avrebbe attraversato l’Oceano Atlantico da oriente ad occidente.

Propose questa spedizione al Senato di Genova. La Repubblica genovese non accettò l’offerta e allora Colombo si recò in Portogallo dove presentò la stessa proposta al re di quel paese. Ma nemmeno qui Colombo ebbe fortuna. Anzi, si cercò di carpirgli la gloria del successo, inviando una spedizione sulla rotta da lui indicata.

La spedizione fallì e Colombo si recò allora in Spagna dove riuscì a presentare ai sovrani spagnoli la sua proposta, che fu presa finalmente in considerazione. Anzi, il genovese riuscì a stipulare con gli stessi sovrani, il 17 aprile 1492, un vero e proprio contratto in cui, in cambio delle terre da lui scoperte, gli venivano concessi il titolo di ammiraglio dell’oceano, il vicereame delle isole o terre da lui occupate, e una sovvenzione in denaro che doveva coprire le spese della spedizione.  Gli furono concesse anche tre caravelle, la Nina, la Pinta e la Santa Maria, e con esse Colombo prese il mare, da Palos, un porto spagnolo, il 3 agosto 1492.

Dopo più di due mesi di navigazione verso occidente, in cui egli ebbe a lottare strenuamente contro lo scoraggiamento e le minacce dell’equipaggio, il 12 ottobre Colombo scorse il primo lembo di terra. Si trattava di un’isola dove le tre navi approdarono e che fu chiamata, da Colombo, San Salvador.

Convinto di essere sbarcato sull’estremo lembo dell’Asia, Colombo esplorò successivamente altre isole del luogo, quelle che un giorno si sarebbero chiamate le Bahamas. In una di queste costruì un fortilizio e lasciò una parte dei suoi uomini. Queste terre sconosciute erano abitate da uomini dalla pelle rossastra, molto ingenui e primitivi, che Colombo chiamò Indiani, sempre credendo di essere sbarcato in India.

Le due navi (la Santa Maria era nel frattempo naufragata) volsero la prua al ritorno e Colombo rientrò a Palos, accolto trionfalmente dai reali e dal popolo.
Confermato nella sua carica di ammiraglio dell’oceano e vicerè delle Indie Occidentali, chè così egli aveva chiamato le terre su cui era sbarcato, Colombo allestì una nuova spedizione, questa volta con diciassette vascelli. Rifatto il vecchio percorso, sia pure con una certa deviazione, il navigatore scoprì altre isole nel periodo di tre anni (1493-96). In un terzo viaggio (1498-500) si inoltrò anche nel continente, ma qui la malvagità e le calunnie dei suoi nemici lo raggiunsero, sì che egli fu destituito, fatto prigioniero e mandato, in catene, in Spagna. Qui giunto tentò di discolparsi e, liberato, potè intraprendere una quarta spedizione (1502-1504) in cui riuscì ad allargare le sue scoperte e a farne delle nuove.

Tornato in Spagna, fu ancora calunniato e tradito. Abbandonato dalla corte e vituperato dal popolo, il grande navigatore morì in miseria il 20 maggio 1506.

Il viaggio di Colombo

Dopo circa settanta giorni di un viaggio pieno di pericoli e di minacce da parte dei marinai scoraggiati, Colombo riuscì finalmente a toccare terra. L’isola a cui per primo approdò fu, da esso, chiamata San Salvador. Nei giorni seguenti scopriva altre isole; poi tornò in Spagna dove ebbe accoglienze trionfali. (D. Martellini)

I primi segni della terra vicina

O fresco ramoscello di biancospino, verdissimo e fiorito, divelto appena dal tronco, che ti culli sulle onde dolcemente, e sei assalito e rapito e portato in trionfo sulle navi, e sollevato nell’azzurro religiosamente, chi può dire di che brivido sacro e di quanta poesia hai scosso e inebriato ogni cuore? O erbe verdi di fiume, che chiazzano le onde qua e là, portate dalle correnti alla foce; o piccolo nido pieno d’uova entro la biforcazione di un ramo, che la madre non ha abbandonato e continua a covare sull’onde; o giunchi verdi da poco divelti alla zolla natia, con ancora tra le radici qualche minuzzolo di terra! (A. Albieri)

Terra! Terra!

L’equipaggio della Pinta scorse una canna e un bastone lavorato con ferro; la gente della  Nina vide pure altri segni della terra e un piccolo ramo di rose canine. E la caravalla Pinta, siccome più veloce degli altri legni andava innanzi alla Santa Maria, ammiraglia, scorse la terra e fece i segnali ordinati. Terra! Terra! Si grida dai tre ponti. (Dal giornale di bordo di Cristoforo Colombo)

Terra! Terra!

Alle due del mattino, un colpo di cannone tuona sull’oceano dalla tolda della Pinta che, navigando in testa per scandagliare il mare, ha scorto la terra a due leghe di distanza. “Terra! Terra!“. Il grido tanto a lungo represso, l’urlo forsennato si libera dai petti esultanti.  (R. Rippo)

La scoperta dell’America

Spunta l’alba dell’undici ottobre. Un giunco verde, fiorito tocca la Santa Maria, e l’equipaggio della Pinta raccoglie una canna, poi un piccolo palo lavorato, mentre quello della Nina afferra un ramoscello carico di insetti. La vita li sfiora, la dolce vita da cui si credevano abbandonati. Poi cala la notte, ma i segni che la terra è vicina, sono ormai certi. (R. Rippo)

La partenza di Colombo

Era l’alba e il porto di Palos si svegliava alla luce del mattino. Tre caravelle erano in procinto di salpare. Il gran pavese sventolava al vento mattutino e l’equipaggio, arrampicato sulle sartie e sui pennoni, salutava festosamente chi rimaneva a terra. Sembrava un giorno come tutti gli altri, e invece era un giorno che la storia avrebbe ricordato come una data fondamentale.

L’equipaggio di Colombo

I mormorii si fanno, in breve, clamori e minacce. Ormai l’ammiraglio doveva affrontare la ribellione aperta dei suoi uomini che pur devono aiutarlo a compiere l’impresa. Egli è solo contro tutti: non un cuore che lo comprenda, che vibri dello stesso disperato amore per questa terra che gli manda incontro il profumo dei suoi fiori, il canto dei suoi uccelli, i suoi richiami più allettanti e, pure, come per un gioco crudele, gli si nasconde ancora e si vela! (A. Albieri)

Alla scoperta dell’America

La terra nascosta continua a mandare i suoi messaggi incontro ai naviganti; sono sciami di uccelli variopinti e canori che riempiono l’aria di trilli, di gorgheggi, di melodie e, la notte, continuano a passare, frusciando con innumerevoli battiti d’ali; sono pesci in gran numero; e poi un airone, un pellicano, persino un’anatra che volano, anch’essi, verso libeccio. Avventuroso mattino, quello dell’undici ottobre! Sereno e dolcissimo, con l’aria tanto imbalsamata, che a chiudere gli occhi si poteva pensare a giardini in fiore. (A. Albieri)

Le isole del nuovo mondo

Posso annunciare alle Vostre Altezze che io potrei fornir loro tutto l’oro di cui potranno aver bisogno, e con un po’ d’aiuto dalla loro parte, anche spezie e cotone. Potrò anche fornire aloe e tanti schiavi quanti mi comanderanno di spedirne. Io credo di aver trovato anche rabarbaro e cannella; e la gente che ho lasciata laggiù troverà mille altri prodotti, non essendomi io potuto fermare in nessun posto ed avendo sempre dovuto navigare. In verità, credo di aver ben compiuto il mio dovere. (Dalla lettera inviata da Colombo ai reali di Spagna)

La scoperta dell’America

Cristoforo si destò di soprassalto, scese dal lettuccio, cercò a tastoni in quell’angolo. Sentì sotto le mani il rocchio della sagola d’uno scandaglio che egli aveva adoperato qualche giorno prima.
Lo prese e uscì sulla tolda.
Bonaccia di vento e di mare; la nave era immobile.

Cristoforo si sporse col busto fuori bordo, fissò l’acqua nera e immota sotto si sè, vi tuffò il piombino dello scandaglio, lasciò svolgere cautamente la sagola. Non ne aveva sfilato nemmeno venti braccia quando sentì che il piombino toccava fondo. Nello sesso istante udì un frullare di piccole ali  alto sul suo capo, un chioccolio d’uccelli migranti nella notte.

“Terra!” gli gridò, dentro, il cuore “ora sì, terra!”.
Lasciò andare lo scandaglio, che giacesse là, su quel fondo saliente dell’abisso a dare il segno della prossima fine del mare.
“Terra!”
E un inno muto, solenne, immenso come quel mare che egli aveva varcato sollevò l’anima sua verso il cielo.
… Di lì a poco l’equipaggio della Pinta vide galleggiare una canna e un bastone, e più tardi pescò un altro bastone ingegnosamente lavorato.

Si levò il mare grosso più che in tutto il viaggio, il vento divenne incostante, a groppi, come in prossimità della costa. Alcune procellarie stridettero rauche in cresta alle onde. Verso mezzogiorno il mare s’abbonacciò, e allora i marinai della capitana videro un giunco ancora fresco passare vicino alla nave e guizzare un grosso pesce verde, di quelli che non s’allontanano mai dagli scogli.

La Pinta s’accostò alla capitana e Martin Alonzo vociferò di aver visto un altro pezzo di canna, ed erba diversa dalla solita, erba di terra, e una tavoletta.

Poi fu la volta della Nina, che passò accosto, sopravvento. Vicente Pinzon agitò, come una bandiera, un ramo di spino carico di bacche rosse, ripescato poco prima da uno dei suoi uomini.

“Portatelo al signor Capitano” gridò. “E’ stato tagliato di fresco!”.
Lo lanciò a bordo della Santa Maria. Giacomo lo afferrò a volo, si precipitò nell’alloggio di Cristoforo.
“Guarda!”
Il ramo gli tremava in mano, pareva che gli occhietti gli schizzassero dalle orbite, che l’esultanza gli mozzasse il respiro.
Cristoforo prese il ramo, lo guardò quasi come una reliquia. Andò a deporlo ai piedi della statuetta della Vergine.
Allora credettero tutti, e fu un velettare febbrile, un arrampicarsi sugli alberi, un ridere, un chiamarsi festoso. A sera, il Salve Regina echeggiò sul mare come un Gloria…

Alle due dopo mezzanotte, la Pinta, che veleggiava in testa, sparò un colpo di bombarda. “Terra! Terra!”.
Ed era vero stavolta, e la videro tutti, ombra nera sul cupo turchino, un paio di leghe più avanti.
Fu un delirio, una frenesia, un tripudio che pareva fossero tutti impazziti.

I rombi delle bombarde rintronarono nella notte, le bandiere di gala furono issate, il Gloria in excelsis eruppe da tutti i petti e parve che ogni gola trovasse la potenza sonora di un organo. Gli uomini s’abbracciarono gridando, singhiozzando, corsero all’impazzata da poppa a prora, da una banda all’altra, come se l’angusto spazio delle navi non bastasse più al loro bisogno di agitarsi, di sbracciarsi, di gridarsi, l’un l’altro, che la prova sovrumana era finita, che avevano compiuto la più grande impresa di mare che mai fosse stata tentata dai tempi dei tempi.
(Mario Ghisalberti)

La caravella
Era una bella barca davvero la caravella, barca festosa, tutta colori e gale, tutta luccichio e bandiere. Lunga una quarantina di metri, larga sette o otto, era dipinta sui fianchi di bei colori vivaci: azzurro, bianco, rosso, giallo. Ornamenti dorati erano dappertutto. Aveva tre alberi: il trinchetto a prua, il maestro al centro, l’albero di mezzana a poppa. Le funi della manovra, a gruppi di cinque, portavano cinque lettere per poterle riconoscere: A. V. M. G. P. (Ave Virgo Maria Gratia Plena). Così i marinai, nella manovra delle vele, invocavano la Madonna.

La vita a  bordo
Ma se la caravella era bella, la vita che vi si faceva sopra era dura. Il lavoro era febbrile, a tutte le ore del giorno e della notte; il mangiare consisteva sempre in pane secco e pesce salato. Solo il Capitano e i piloti avevano una tavola, i marinai mangiavano sui ginocchi o seduti sui talloni e tuffavano le mani in un unico piatto di legno messo in mezzo.

Il servizio era diviso in quarti di quattro ore a cominciare dalle otto del mattino.

Al primo quarto del giorno il mozzo voltava la clessidra, recitava l’Ave Maria e cantava: “Benedetta sia la luce e la santa croce; benedetto il Signore che è verità e la santa trinità”. La sera, al crepuscolo, il mozzo cantava: “Benedetta Maria che concepì il Signore, benedetto Giovanni che lo battezzò, Maria e Giovanni guardateci in quest’ore”.

 

Cristoforo Colombo
Il 13 agosto 1476 Colombo si trovava a bordo di una delle navi genovesi che trasportavano  merce a Lisbona. Verso sera il convoglio venne attaccato da una squadra navale franco-portoghese, e le navi genovesi, inferiori per numero e per armamento, vennero affondate.

Colombo, ferito, riuscì a nuotare per sei miglia e raggiunse la terra; fu quello il suo arrivo in Portogallo, il luogo in cui maturò il suo grande progetto.

Quando vi si stabilì Colombo, Lisbona, la capitale portoghese, era la città di mare più attiva, più intraprendente, più aperta ai grandi e audaci progetti. Il desiderio di scoprire la via di mare verso le Indie era vivissimo. Erano stati fatti molti tentativi e sempre per quella unica via ritenuta possibile: giungere alle Indie, circumnavigando l’Africa. Nessuno aveva pensato all’oceano fino al giorno in cui Colombo, forte della teoria del Toscanelli, propose al re del Portogallo di concedergli una piccola flotta per arrivare alle Indie dopo aver attraversato l’oceano. Il navigatore genovese destinava le innumerevoli ricchezze, che l’impresa avrebbe fruttato, all’allestimento di una poderosa crociata destinata a liberare definitivamente i luoghi santi.

Il re del Portogallo giudicò lui folle, e folli le sue idee. Tuttavia Colombo lo convinse a sottoporre il suo progetto alla Commissione scientifica per la navigazione: la Commissione non bocciò del tutto il progetto, lo ritenne realizzabile.

Colombo aveva speso tutto nel tentativo di far approvare il suo progetto. Temendo di essere arrestato per debiti, abbandonò Lisbona per la Spagna. Cercò di convincere i reali spagnoli; il suo progetto venne esaminato e giudicato inattuabile, da un’altra commissione. Per ben sei anni Colombo tenne duro, tra umiliazioni d’ogni genere. Infine, dopo tanti anni, la casa reale spagnola bocciava definitivamente il progetto ritenendo eccessive le spese per attuarlo.

Colombo, deluso nelle sue speranze, pensava di raggiungere la corte francese. Ma la regina Isabella lo fece richiamare: convinta dal suo confessore, amico di Colombo, lo finanziava e gli concedeva tra navi per tentare l’avventura. I sovrani avevano capito (nel frattempo il portoghese Bartolomeo Diaz aveva doppiato il Capo di Buona Speranza) che conveniva giocare quella carta: il rischio economico era minimo se si consideravano i vantaggi che potevano derivare dal felice esito della spedizione. Colombo ebbe tre caravelle, il titolo di Ammiraglio dell’Oceano e venne fatto vicerè e governatore di tutte quelle terre che avrebbe eventualmente scoperto.
Dopo il primo viaggio, Colombo venne accolto in Spagna con tutti gli onori: il suo merito riconosciuto ed esaltato. Ma, in seguito, cadde in disgrazia. Le terre scoperte non erano favolosamente ricche come si  sperava; la colonizzazione si presentava difficile; le Indie non erano state raggiunte.

Di tutto, Colombo venne ritenuto responsabile. Gli fu tolto il titolo di vicerè, e il suo successore, senza attendere ordini dai sovrani, lo spedì in Spagna incatenato, come un malfattore. I sovrani spagnoli ripararono quell’affronto, liberando il grande navigatore, ma Colombo non riacquistò mai più il favore, i benefici di cui aveva goduto un tempo.
Finì i suoi giorni a Valladolid, fino all’ultimo convinto di aver raggiunto l’Asia, non un nuovo continente.

La grande avventura di Cristoforo Colombo
Porto Palos, agosto 1492
Sta per salpare una strana spedizione capeggiata dal genovese Cristoforo Colombo, che si propone di raggiungere le Indie navigando  verso ovest, presupponendo che la terra sia rotonda. L’equipaggio è di 87 uomini, in massima parte spagnoli. Si imbarcheranno su tre navi: la Santa Maria, ammiraglia, che stazza 230 tonnellate, è lunga 30 metri e larga 9; la Pinta di 75 tonnellate di stazza, 22 metri di lunghezza e 7 di larghezza; e la Nina che stazza 60 tonnellate, è lunga 20 metri e larga 7.

L’11 ottobre
La terra nascosta continua a mandare i suoi messaggi incontro ai naviganti; sono sciami di uccelli variopinti e canori che riempiono l’aria di trilli, di gorgheggi, di melodie, e la notte continuano a passare, frusciando con innumerevoli battiti d’ali; sono pesci in gran numero; e poi un airone, un pellicano, perfino un’anatra che volano, anch’essi, verso libeccio. Avventuroso mattino, quello dell’undici ottobre! Sereno e dolcissimo, con l’aria tanto imbalsamata, che a chiudere gli occhi si poteva pensare a giardini in fiore. (A. Albieri)

L’impresa di Cristoforo Colombo
Il tre agosto, Colombo, all’età di quarantun anni, partiva da Palos. Era il suo strano e meraviglioso viaggio, su un oceano che nessuno aveva mai solcato e per una meta che non si sapeva se fosse raggiungibile.
Per due mesi le tre unità corsero per mari sconosciuti in balia d’eterne tempeste e bonacce, senza vedere terra alcuna. Le ciurme stanche tumultuavano, volendo tornare indietro, ma Colombo tenne fermo finchè un giorno potè mostrare alcune erbe galleggianti sulle acque del mare e un ramo appena diverto: prove che la terra era vicina. Infatti alle dieci di sera dell’undici ottobre, Colombo che vegliava tra l’ansia e il timore, vide in lontananza un lumicino che su muoveva e lo additò alla ciurma.

Poco dopo, alle due dopo mezzanotte, dalla nave che correva più avanti si levò il grido: “Terra! Terra!”
All’alba ecco apparire sull’orizzonte un’isola tuta verdeggiante di boschi e di prati.
Colombo sbarcò per primo tenendo in una mano la bandiera della Spagna e nell’altra la spada sguainata, ma appena toccata terra, si inginocchiò, la baciò, e fece piantare una croce.
Quella prima isola scoperta venne chiamata San Salvatore.

Una lunga storia
Da quattordici giorni le caravelle di Colombo avevano toccato la nuova terra sconosciuta e navigavano tra le isole meravigliose.
Quel mattino, era il ventotto ottobre 1942, le caravelle gettarono le ancore nell’insenatura di una terra incantevole: l’isola di Cuba.
Le sue rive verdissime si perdevano all’orizzonte. Un forte profumo emanava dai suoi boschi. Colombo e il suo equipaggio erano affascinati e felici.
Poi Colombo mandò due suoi capitani ad esplorare la nuova terra. Quando tornarono, essi portavano con sè alcuni oggetti preziosi e frutti mai visti. Alcuni di questi erano avvolti entro lunghe foglie grigiastre. Ma bastava toglierle per vedere luccicare qualcosa che pareva d’oro. Gli indigeni li chiamavano maiz, li coltivavano estesamente e se ne nutrivano.
Fu così che gli abitanti d’Europa conobbero, per la prima volta, il maiz che gli Indiani d’America coltivavano fin dai tempi dei tempi.

La nuova terra
Queste isole erano molto fertili; possiedono molti porti e numerosi spiagge salubri e bellissime tutte accessibili, coperte di una lussureggiante vegetazione, con alberi di mille specie che quasi toccano il  cielo. Io penso che essi non perdano mai le foglie, poichè li vidi così verdi e belli, come lo sono gli alberi in Spagna nel mese di maggio. Alcuni erano in fiore, altri carichi di frutti ed altri si trovavano in condizioni secondo la loro natura. Vi sono sei o sette specie di palme bellissime per la loro varietà.
Vi sono delle pinete meravigliose, dei campi vastissimi, molte specie di uccelli e numerosissime qualità di frutta. Gli usignoli ed altri uccelli di mille specie cantavano nel mese di novembre, quando io giunsi in questi luoghi. (da una lettera di Cristoforo Colombo)

Le isole del nuovo mondo
Posso annunciare alle Vostre Altezze che io potrei fornir loro tutto l’oro di cui potranno aver bisogno, e con un po’ di aiuto dalla loro parte, anche spezie e cotone. Potrò anche fornire aloe e tanti schiavi quanti mi comanderanno di spedirne. Io credo di aver trovato anche rabarbaro e cannella; e la gente che ho lasciata quaggiù troverà mille altri prodotti, non essendomi io potuto fermare in nessun posto ed avendo sempre dovuto navigare. In verità, credo di aver ben compiuto il mio dovere. (Dalla lettera inviata da Colombo ai Reali di Spagna).

 

Impressioni di Colombo dopo il suo primo viaggio
E’ Colombo che parla del suo viaggio, dei suoi incontri, della sua meravigliosa avventura. La descrizione è semplice, limpida e serena come l’animo e il cuore del grande navigatore.
Ho trovato moltissime isole popolate da innumerevoli abitanti e di tutte ho preso possesso in nome delle Vostre Maestà proclamandole padrone di queste terre e piantandovi la bandiera reale senza incontrare resistenza.

Tutte queste isole sono estremamente fertili: esse posseggono molti porti superiori ai nostri porti cristiani e numerose spiagge salubri e bellissime. Queste isole sono molto belle, tutte accessibili, coperte di una lussureggiante vegetazione, con alberi di mille specie che quasi toccano il cielo. Io credo fermamente che essi non perdano mai le foglie, poichè li vidi così verdi e così belli quali lo sono gli alberi in Spagna nel mese di maggio. Alcuni erano in fiore, altri carichi di frutti ed altri si trovavano in altre condizioni secondo la loro natura.

Gli usignoli ed altri piccoli uccelli di mille specie cantavano al mese di novembre quando io giunsi in questi paraggi. Vi sono delle palme di sei o sette specie, bellissime per la loro varietà. Vi sono delle pinete meravigliose, dei campi vastissimi, del miele, molte specie di uccelli e svariatissime qualità di frutta. Gli abitanti di queste isole non hanno ne ferro, ne acciaio, ne armi, delle quali d’altronde non sarebbero capaci di servirsi, non perchè essi non siano robusti, ma perchè sono sorprendentemente paurosi. Essi non hanno altre armi che una canna alla cui estremità vi è un piccolo pezzo di legno aguzzo.

Non conoscono ne sette ne idolatrie di alcun genere, e sono convinti solamente che la felicità e la forza sono in cielo. Credevano fermamente che io con le mie navi ed i miei uomini fossi sceso dal cielo, e con questa credenza essi mi ricevettero in tutti i luoghi dopo aver vinto la loro timidezza. Sono molto intelligenti, perfetti conoscitori di questi mari, e si rendono conto di tutto ciò che fanno,  benchè non abbiano mai veduto gente civile, nè navi grandi come le nostre.

Appena arrivai alle Indie, nella prima isola dove atterrai, feci alcuni prigionieri, perchè apprendessero la nostra lingua e ci dessero le informazioni di ciò che vi era in questa regione: così noi arrivammo a comprenderci mutualmente con parole e con segni. Ancora oggi io ho con me questi Indiani, i quali mi sono di grande utilità, perchè credendo sempre che io venga dal cielo dal cielo, mi annunciano ai loro compatrioti come un inviato celeste. A questo annuncio tutti accorrono e ci portano da mangiare e da bere con una sorprendente affidabilità. (C. Colombo)

Dettati ortografici CRISTOFORO COLOMBO – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.

Dettati ortografici e poesie LA RUGIADA

Dettati ortografici e poesie LA RUGIADA – Una collezione di dettati ortografici, poesie e filastrocche, sulla rugiada, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Rugiada

Questa graziosa fata del mattino, che stende sui prati il suo velo rilucente, è anch’essa prodotta dal valore acqueo accumulato nell’atmosfera durante il giorno: la vegetazione, il suolo, tutti gli oggetti che sono stati esposti al calore diurno del sole, dopo il tramonto di questo si raffreddano più rapidamente dell’aria; ed allora il vapore acqueo, a contatto con essi, si trasforma in minutissime goccioline, che imperlano così tutte le cose e brillano come diamanti alla luce dell’alba nuova.

Rugiada
Soltanto un ciuffo d’erba
e gocciole tremanti
posate sulla pianta:
un velo di rugiada.
Ma tremuli diamanti
su dei fili di giada. (C. Jacobelli)

La rugiada
“Perchè, dimmi, mammina,
i fioretti del prato, la mattina
anche quelli lontano dalla fonte
hanno una goccia d’acqua sulla fronte?”
“Anche i fioretti, vedi, bimbo mio,
appena il sol li tocca,
aprono tutti l’odorosa bocca
a ringraziare della vita Iddio,
e si fan tutti il segno della crode
con un’acqua lustrale
che trovano nell’aria mattinale.
E di quel santo segno loro resta,
come accade anche a te,
una goccia d’acqua sulla testa
che brilla come gemma di re”. (R. Pezzani)

Esercizi di vocabolario

Rugiada: rugiadoso, rorido.
La rugiada può essere: benefica, abbondante, fresca, scintillante, …
La rugiada: imperla, cade, imbrillanta, rinfresca, ristora, disseta, rianima, ricopre, …
Modi di dire: benefica come la rugiada; parole rugiadose; rorido di rugiada;  bagnato di rugiada; …

Ricerche e relazioni

Come si forma la rugiada.

Differenza tra rugiada e brina. Effetti sulla vegetazione dell’una e dell’altra.

La rugiada. Osservazione e descrizione di un prato dove sia caduta la rugiada.

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Dettati ortografici: Autunno

Dettati ortografici: Autunno. Dettati e letture di autori vari, per la scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Autunno
Sono bastati tre giorni di vento freddo e qualche ora di pioggia grossa per cambiare faccia al mondo. Adesso, sì, è l’autunno.
L’azzurro non splende più da sé, ma riflette per trasparenza una luce che sembra essersi allontanata, ritirata al fondo del cielo; basse sull’orizzonte fumano bellissime nuvole grigiazzurre falla gran cresta bianca. Nei campi, tra il verde brillante, spiccano grovigli di vigne rossastre chiazzate d’uva viola; gracili robinie, tremule d’oro, si levano da dietro le siepi nere.

Autunno
Muore sul poggio l’ultima eco delle canzoni della vendemmia: nel giardino passa l’aria fredda dell’aurora a tingere di rosso le foglie della vitalba; sbocciano, ultimi fiori, le corolle dei crisantemi; le dalie appassite piegano il grosso capo. Lievi strati di nebbia si stendono qua e là, fra gli alberi dalle fronde già diradate, sui campi arati di fresco, sul corso serpeggiante del fiume. (V. Bersezio)

Autunno
La nuova stagione ha avuto inizio con l’equinozio d’autunno, il 23 settembre, e terminerà il 21 dicembre. Equinozio è parola che deriva dal latino e vuol dire “giorno uguale alla notte”. Gli equinozi sono due poichè oltre a quello d’autunno c’è quello di primavera, il 21 marzo. In detti periodi la notte ha, dunque, la stessa durata del giorno.

Mattino d’autunno
Il sole non era ancora tutto apparso all’orizzonte… Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole si alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalla sommità dei monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendii e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando dai rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere a qualche passo distante dall’albero. (A. Manzoni)

Autunno

L’autunno cominciò precocemente, quell’anno: un settembre piovoso e freddo seguiva all’agosto torbido di uragani. La vegetazione risentiva già la vecchiaia; si coloriva d’oro e di rosso. Cade una foglia che pare tinta di sole e nel cadere ha l’iridescenza della farfalla. Appena a terra si confonde, con l’ombra, già morta. (G. Deledda)

La caduta delle foglie

Cadono lente, con un breve volo, come se fossero stanche di stare attaccate al ramo. Se, invece, tira vento, ecco che vengono strappate con rabbia e si disperdono finchè alla fine cadono a terra dove vanno a formare un frusciante tappeto. La pioggia le bagna, le fa marcire. Ma esse vanno ad arricchire il terreno, che a primavera sarà più prodigioso di succhi e darà maggior nutrimento all’albero che metterà nuove foglie e nuovi frutti.

Il lamento dell’albero

E’ bastato il fruscio della foglia a scuotere l’albero che cominciava a lamentarsi. D’albero in albero, il lamento si estende; tutto il frutteto è agitato, e sembra che non sia il vento a scuoterlo, ma una forza interiore, un’angoscia mista a rivolta. Giù tutte le foglie! E’ inutile tenerle quando non sono più parte viva del ramo: e con le foglie cade anche qualche frutto: la pigna si spacca e i pinoli si staccano e cadono. I rami più alti, con ancora le foglie verdi, si sbattono in una lotta leggera. (G. Deledda)

Autunno

Nell’aria, che si riposa sulla campagna, volano schiere di uccelli: dal bosco vicino, che comincia a tingersi di macchie rossastre, viene il canto dorato e lento del cuculo. La stagione indugia dorandosi in un’attesa piena di sopore. Le strade odorano di mele cotogne e d’uva e dalle porte spalancate delle cantine esce il fumo delle caldaie schiumanti di mosto, fra le voci aspre e clamorose dei pigiatori. (G. Titta Rosa)

Autunno

Settembre era passato e i primi giorni di ottobre erano grigi, freddi; nelle notti, sempre più lunghe, cadeva una brina cristallina che bruciava le erbe; il bosco aveva mutato aspetto, voce; il vento traeva dagli alberi quasi nudi non più fruscii, ma gemiti. Ad uno ad uno gli animali erano migrati o si erano barricati in casa per cadere in letargo. (R. Calzini)

Autunno

Un silenzio penoso domina pianure e colline. Le foglie rosse della vite che si dondolano ai tralci parlano ancora di solleoni, di grappoli d’oro, di ronzanti mosconi. Fluttua nell’aria quasi un resto di profumo vendemmiale e insieme l’eco di allegri richiami, di cantilene, di risa e di chiacchiere… Ciò era appena ieri; eppure sembra già così lontano. (A. S. Novaro)

Rondini addio

Si chiamano, si rincorrono, volano di qua e di là, dai nidi vuoti al campanile, dal campanile alle grondaie; stanno ferme un momento posate lungo il cornicione quasi a consultarsi, poi scappano.
Volteggiano, stridono: è il gran giorno della partenza… Ecco: le prime hanno già spiccato il volo; ecco altre e altre le seguono; eccole tutte partite.
Addio, rondini! Volano via lentamente, stridono quasi indugiando nei saluti. Sono già lontane. Addio, rondini, addio! (L. Capuana)

Autunno

L’estate fresca e piovosa non ha ingiallito la campagna, e le poche foglie appassite tendono sugli orti al rosso e al violetto. Limpida l’aria, nitidi i colori, un autunno che sembra primavera.
Bianche nuvole corrono per il cielo luminoso, lungo le siepi ronzano ancora le api, fioriscono le rose selvatiche, ma all’orizzonte è in partenza una nera fila di uccelli fuggenti l’inverno in agguato. (G. Mosca)

Sole d’autunno
La nuvolaglia si ruppe e ne scattò un bel raggio di sole. Baciò le piante umide di pioggia e le fece brillare; fece scintillare le pozzanghere, dorò le montagne, disperse la nebbia e la natura sembrò ridere di gioia sotto il bel sole d’autunno.

Mattino d’autunno
Un venticello d’autunno, staccando dai rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere a qualche passo distante dall’albero. A destra, a sinistra, nelle vigne, su tralci ancora tesi, brillavano le foglie rosseggianti a varie tinte, e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta nei campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza. (A. Manzoni)

L’autunno

I campi arati fumano e la prima nebbia li fascia. Gli alberi nudi levano come scheletri le braccia. Comincia la stagione piovosa, come vuole l’agricoltura. Cadono pioggerelle fini e intanto i solchi e le zolle si vanno riempiendo di semi che daranno frutti alla nuova stagione.

L’autunno
L’autunno è una bella stagione che ci regala ancora qualche bella giornata di sole. E ci regala anche tanta frutta nutriente e saporita: mele, pere, fichi, uva, castagne. Saranno gli ultimi doni, poi la terra si addormenterà e si sveglierà a primavera.

Mattino d’autunno
Si apriva appena il più bel giorno d’autunno.  Pareva che la notte, seguita dalle tenebre e dalle stelle, fuggisse dal sole che usciva nel suo immenso splendore, dalle nubi d’oriente, quasi dominatore dell’universo; e l’universo sorrideva. Le nuvole dorate e dipinte di mille colori salivano la volta del cielo. Gli alberi sussurrando soavemente facevano tremolare, contro la luce, le gocce trasparenti di rugiada.  (U. Foscolo)

La caduta delle foglie.
Cade una foglia che pare tinta di sole, ma appena giunta a terra si confonde con l’ombra, già morta. E’ bastato il suo fruscio per scuotere tutto l’albero, che comincia a lamentarsi. D’albero in albero, il lamento si estende: tutto il frutteto è agitato. Giù tutte le foglie! E’ inutile tenerle quando non sono più parte viva del ramo. I rami più alti, con ancora le foglie verdi, si battono in una lotta leggera; alcuni dicono di sì, altri di no. Poi tutto di nuovo si placa, in una stanchezza dolce, rassegnata. (G. Deledda)

Pioggia autunnale.

Alla fine dell’autunno, in un solo giorno, cambiava il tempo. Di notte dovevamo chiudere le finestre perchè non entrasse la pioggia e il vento freddo strappava le foglie dagli alberi della piazza. Le foglie giacevano fradicie nella pioggia contro il grosso autobus verde al capolinea; il caffè era gremito e le vetrine erano appannate dal caldo e dal fumo dell’interno. (E. Hemingwai)

Rondini, addio.
Si chiamano, si rincorrono, volano di qua e di là, dai nidi vuoti al campanile, dal campanile alle grondaie, stanno ferme un momento, posate lungo il cornicione quasi a consultarsi, poi scappano. Volteggiano, stridono: è il giorno delle partenze! (L. Capuana)

Il letargo.
La marmotta, il riccio, il ghiro, il tasso, lo scoiattolo, la talpa, la tartaruga, la lumaca, la lucertola combattono il freddo e la fame andando in letargo. Prima di abbandonarsi al sonno ognuno prende le sue brave precauzioni: respira il meno possibile e non si muove. Una tale vita di risparmio si può paragonare a un focolare il cui carbone brucia lentamente sotto la cenere. ((H. Fabre)

Autunno
E’ arrivato l’autunno e ha portato i bei frutti saporiti e nutrienti, pere, mele, noci, castagne. Le foglie degli alberi sono diventate rossastre e appena tira un soffio di vento si staccano dal ramo e cadono al suolo dove formano un bel tappeto frusciante. Nel cielo vagano nuvoloni soffici che ben presto si scioglieranno in pioggia.

Autunno
L’autunno dipinge di rosso, di giallo, di viola il bosco e la vigna. Nel bosco, ai piedi degli alberi, spuntano grossi funghi e nei prati fiori violetti dalla corolla delicata e leggera. Sono i colchici autunnali.

Autunno
E’ una bella stagione anche se non è calda e allegra come l’estate. L’aria è mite, il sole dorato, la campagna è tutto uno splendore di toni rossastri, gialli, verdi. Dagli alberi pendono i frutti maturi; la vigna è ormai spoglia, ma ci ha regalato i bei grappoli d’uva succosa. Gli uccelli sono partiti, ma quelli che sono rimasti cinguettano dolcemente fra i rami degli alberi e il fischio allegro dei merli riempie il silenzio del bosco.

Autunno
Tutto intorno l’autunno vive nelle sue creature. Le olive, piccole uova con l’osso dentro, cadono ai piedi dei loro tronchi feriti. Le formiche, il granello tra le mandibole, passano tutte in fila. Forse anche per loro questo è l’ultimo giorno, poi si chiuderanno nel nido a dormire. Per l’aria le grandi nuvole sono gonfie di pioggia. Da una gran zucca gialla salta fuor un cosino nero. Il riccio ha un battito di cuore, poi si accorge che è un topo e ride. Più lontano, su uno stagno, un uccello dal largo becco pesca. Si sente strisciare: è la serpe che avanza. Pioviggina un poco e la quercia assopita prova dei brividi di dolcezza. (F. Tombari)

Alberi d’autunno
Sono ancora fronzuti, anche se le foglie hanno dei toni gialli e rossastri. L’albero non le nutre più e al più lieve soffio di vento, alla prima pioggia, ecco che le foglie si staccano e, con un volo leggero, cadono per terra. L’albero resterà presto spoglio del suo bel manto.

Alberi d’autunno
Hanno perduto quasi tutte le foglie ed ora alzano, verso il cielo grigio, i loro rami spogli. Pure, se guardate bene dove prima c’era la foglia, vedrete già la piccola gemma che aspetta la primavera per dar vita a una nuova foglia, a un fiore, a un frutto.

Autunno
Viene l’autunno, grasso, allegro, rubicondo. Ha un cesto di frutta squisite: mele, pere, castagne, uva, noci… Fra un raccolto e l’altro si diverte a dare alle foglie una bella tinta rossastra. Ma qualche volta è di cattivo umore e tira fuori un ventaccio strapazzone che stacca le foglie dagli alberi e le fa turbinare nell’aria.

Giornata d’autunno
Una brutta mattina la campagna si risveglia ammantata di brina. Cominciano i primi freddi! Piove a dirotto. Fuori ombrelli, impermeabili e maglie di lana. Tutto è brullo e squallido. Solo i pallidi crisantemi fioriscono ancora sui cespugli.

Autunno
L’autunno arrivò e subito si mise a ridere giocondamente. Era di carattere allegro, e quando stava in compagnia, non rifiutava un bicchiere di vino. Appena giunto, fu sua cura andare nella vigna per vedere se i grappoli erano maturi. I grappoli c’erano, ma ancora verdi e acerbi. L’autunno li toccò con la punta delle dita e quelli diventarono pieni di succo fino a scoppiare. L’autunno poi, si guardò intorno e osservò: “C’è troppo verde qui. E’ monotono”. E con un largo pennello chiazzò di giallo, di rosso, di bruno, le chiome degli alberi.

Autunno
L’autunno andò nel frutteto. C’erano pere, mele, noci. “Evviva!” esclamò e ne fece una scorpacciata. Poi andò nel bosco a scrollare i castagni e fece cadere i ricci che schiacciò col piede per farne uscire le castagne. Disse al tasso, alla marmotta, al ghiro: “Ebbene? Che cosa aspettate per andare a dormire?”. Ma il tasso, la marmotta e il ghiro gli risposero che era troppo presto e che ancora non avevano sonno. Allora l’autunno fece levare un forte vento di tramontana e il tasso, la marmotta e il ghiro scapparono subito a rintanarsi.

Autunno
E’ una stagione che ci regala ancora qualche bella giornata di sole. E ci regala, anche, tanta frutta saporita e nutriente: mele, pere, castagne, noci, uva. Saranno gli ultimi doni della terra che poi si addormenterà per il lungo riposo invernale.

Sole d’autunno
La nuvolaglia si ruppe e ne scattò un bel raggio di sole che baciò le piante umide di pioggia e le fece brillare. Trasse scintille dalle pozzanghere, dorò le montagne e disperse la nebbia. La natura sembrò ridere di gioia sotto il tiepido sole d’autunno.

Autunno
Ecco l’autunno tutto grappoli e frutti, e odoroso di mosto. La campagna lentamente si spoglia; fuggono gli uccelli che fecero lieta l’estate, e nel cielo grigio veleggiano i corvi e le gru che sentono l’acqua. I campi arati fumano, e la prima nebbia li fascia. Gli alberi nudi levano come scheletri le braccia. (F. Lanza)

Vento d’autunno
Un venticello d’autunno, staccando dai rami le foglie appassite dal gelo, le portava a cadere qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra nelle vigne, sui tralci ancora tesi, brillavano le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta nei campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza. (A. Manzoni)

Autunno
La bella estate è finita. Le rondini sono partite e i nidi sono rimasti deserti. Il cielo ha perduto il suo bel colore azzurro. Ora è bigio e coperto di nuvole. Gli alberi si spogliano delle loro chiome. Erano così belli, tutti vestiti di verde! Ora sono nudi e stecchiti e rabbrividiscono al vento freddo che scuote i rami e strappa le foglie.

Il ghiro
Il ghiro esce dalla sua tana. Ghiotto ghiotto mangia nocciole e ghiande. Se non le trova, sbuffa e borbotta; quindi saltella di ramo in ramo. Sale sul noce e coi dentini aguzzi ruba alle noci il saporito gheriglio.

Autunno
Anche l’autunno ha la sua bellezza. Passano alti gli uccelli migratori che vanno verso i paesi caldi. Torneranno con la bella stagione. Le foglie sono spennellate di rosso e di giallo, il cielo è dolcemente velato, il sole è tiepido; sulle siepi rosseggiano le bacche e fra l’erba sbocciano gli ultimi fiori.

Le rondini
Una mattina le rondini si raccolsero sui fili e sulle gronde delle case. La rondine più bella partì come una freccia, lanciando un grido acuto. Tutte, con un frullo solo, si levarono nell’aria e la seguirono in stormo. Volteggiarono un poco intorno al campanile, salutarono il vecchio nido, il bosco, i prati… Volarono verso il sole… Addio, rondini!

Partono le rondini
Hai sentito la folata? Guarda, guarda quante rondini sul mare! Sono più di mille: una nuvola viva. Guarda come brillano! Ora partono per un gran viaggio, verso una terra distante; l’ombra cammina sull’acqua con loro; qualche piuma cade, si farà sera; incontreranno le barche in alto mare, vedranno i fuochi, udiranno i canti dei marinai; i marinai le guarderanno passare rasente alle vele; qualcuna si poserà stanca sul ponte.

Autunno
I giorni si sono accorciati. L’aria si è fatta più fredda. Il cielo è spesso nuvoloso, piove e c’è nebbia. In autunno si ripongono i vestiti estivi e si levano dagli armadi quelli più pesanti e le coperte di lana. Le rondini migrano verso paesi più caldi perchè non resisterebbero ai rigori invernali e non troverebbero insetti per cibarsi. Il passero e lo scricciolo non migrano. Alcuni animali si preparano a cadere in letargo. Essi sono: il ghiro, il pipistrello, l’orso, la vipera, il rospo, ecc… Prima di cadere in letargo mangiano moltissimo, poi, fino a primavera, non prendono più cibo. Lo scoiattolo ogni tanto si sveglia per mangiare ghiande, nocciole e bacche che aveva nascoste. In autunno scendono al piano le greggi.

Autunno
L’autunno comincia il 23 settembre e termina il 20 dicembre. Le giornate sono più corte che in estate: il sole si leva più tardi e tramonta più presto. Fa meno caldo che in estate e il mattino, la sera e durante la notte la temperatura è abbastanza fresca. Dobbiamo già indossare abiti pesanti. Raramente il cielo è limpido e azzurro. Generalmente è grigio e nebbioso. Al mattino e alla sera in alcune zone particolarmente ricche di acqua il bianco velo della nebbia avvolge silenziosamente tutte le cose, trasportandoci in un mondo di fiaba. I prati, al mattino, come in estate, sono costellati di limpide goccioline di rugiada che, a volte, quando la temperatura della notte è particolarmente fredda, si trasformano in bianchi aghetti di ghiaccio: la brina.

E’ tempo di semina e di raccolta. Si semina il frumento: i solchi si vanno riempendo di semi che daranno spighe d’oro nella calda estate. I frutteti si spogliano offrendoci i loro doni. Fra i cespugli, nei castagneti e nelle abetaie spuntano i funghi. Si raccolgono pere, mele, cachi, noci, nocciole, castagne. Il bosco è una meraviglia, perchè le foglie cambiano colore: ve ne sono di gialle, di rossastre, di brune, di dorate. Il vento le porta via, la pioggia le fa marcire, ma anche così le foglie saranno ancora utili, perchè decomponendosi renderanno più fertile il terreno. Il bosco è deserto e silenzioso, ma nelle vigne si odono i canti dei vendemmiatori: questi staccano i grappoli maturi dai tralci e riempiono ceste e bigonce. A novembre sarà pronto il nuovo vino.

Le rondini lasciano le nostre regioni per migrare verso i paesi più caldi: ma in primavera le rondini ritorneranno, ripareranno i nidi rotti e ne costruiranno di nuovi sotto le grondaie. Lo scoiattolo, la formica, il tasso e la talpa sanno che in inverno non potranno procurarsi il cibo e approfittano dell’autunno per completare le provviste. La marmotta, il pipistrello, il riccio, il ghiro, l’orso si riparano nelle loro tane e, prima che giunga l’inverno, cadono in letargo.

Si ritorna a scuola dopo le liete vacanze: per i bambini è tempo di rimettersi al lavoro con gioia.

Esternamente il bosco non sembra cambiato, eppure aleggia tra le piante qualcosa come se ogni essere fosse teso nell’attesa di una sciagura. Il verde delle foglie comincia ad attenuarsi e si rivelano quei colori che erano stati sempre nascosti dalla verde clorofilla. Il manto degli alberi si fa bruno, giallo, rossastro; ogni foglia si prepara a cadere. Alla base del suo stelo si forma una parete di separazione e basterà un leggero soffio di vento o una goccia di pioggia a farla precipitare. Dalla fine di ottobre il suolo comincerà a tappezzarsi d’oro. E sul tappeto di foglie lavoreranno i microscopici animali che trasformeranno le foglie in nutrimento della terra.

Il cielo in autunno può essere: nebbioso, nuvoloso, grigio, cupo, livido, fuligginoso, piovoso, celeste, burrascoso, caliginoso, tetro, buio, oscuro, tempestoso.

Elenco della frutta d’autunno: noci, mele, pere, castagne, arance, mandarini, limoni, fichi, mandorle, nespole, nocciole, uva.

Elenco degli ortaggi d’autunno: piselli, fagioli, cavolfiori, carote, sedano, prezzemolo, rape, cavoli, cicoria, lattughe, fave, ceci, spinaci, indivia.

Le rondini partono.
Le hai viste per l’ultima volta in un pomeriggio nuvoloso, appoggiate tutte in fila sui cavi della corrente elettrica. Lanciavano qualche raro richiamo alle compagne lontane. Sembravano tristi. Di tanto in tanto si ravvivavano col becco il nero mantello lucente, come per prepararsi al lungo viaggio. Poi sono partite. QUasi obbedendo a un richiamo misterioso, sono partite in stormi verso le lontane terre d’Africa. D’inverno non troverebbero più cibo da noi. Perciò ogni anno, in autunno, affrontano venti contrari e tempeste, attraverso il mare con volo lungo e faticoso, per raggiungere le terre calde del sud, dove nell’aria brulicano ancora gli insetti. Con esse partono anche altri uccelli migratori: le cicogne, le anatre, le gru. Torneranno in primavera, con i mandorli in fiore.

Per le ultime notti il tasso esce per procurarsi il cibo. Presto verrà il freddo, e il nostro amico si ritirerà nella tana ben pulita e foderata di erba secca e là, al calduccio, si addormenterà e passerà in letargo tutto l’inverno. Durante l’estate si è nutrito di talpe e di serpenti; ha saccheggiato nidi di pernici e nidiate di leprotti; ha divorato favi di miele rubati alle api- Ora, però, preferisce cibi vegetali e mangia voracemente tutto ciò che il bosco, il frutteto e l’orto gli offrono. Sotto la pelle ha accumulato molto grasso. Durante il sonno invernale questo a poco a poco si consumerà, e a primavera il tasso uscirà di nuovo magro e affamato.

L’autunno intorno a noi. Guarda: ogni stagione ha la sua poesia di giorni e di cose. Se la primavera inventa i colori, l’autunno li cancella. La terra ha lavorato a dar fieno e biada, ed ecco l’autunno coprirla di foglie cadute, velarla di nebbie sottili, perchè s’addormenti e dolcemente riposi. Gli alberi fino a ieri così folti di chiome, così beati di ombre e popolati di nidi, ingialliscono e si spogliano. L’autunno li prepara alla vita più segreta delle radici. E dove sono gli uccelli? Le rondini dove sono? La bella stagione andandosene li ha chiamati con sè. Il cielo lascia vedere la sua malinconia, e tocca le cose con un sole impallidito, che al mattino si alza tardi; ed è subito sera. (R. Pezzani)

Tardo autunno. L’autunno tutto grappoli e frutti e odoroso di mosto si è ormai dileguato. La campagna rapidamente si spoglia; fuggono gli uccelli, che fecero allegra l’estate, e nel cielo grigio veleggiano i corvi e le gru. I campi arati fumano e la prima nebbia li fascia; e gli alberi nudi levano come scheletri le braccia. Comincia la stagione piovosa come vuole l’agricoltura. Cadono pioggerelle fini ad inzuppare il contadino e, intanto, i solchi e le zolle si vanno riempendo di semi. che daranno frutto alla nuova stagione. (F. Lanza)

Gli alberi si spogliano

Le foglie cadevano! Era una pioggia continua e silenziosa. Le foglie gialle si staccavano lievi lievi, volteggiando per l’aria come ali di farfalle. A volte era una soltanto che cadeva, poi, più lontano, quattro o cinque, poi venti trenta cinquanta falde d’oro che erravano per l’aria verso il suolo, senza interruzione, come una tranquilla nevicata gialla. Il vento autunnale mandava forti folate talvolta; e allora era un agitarsi di rami e di fronde; un rumore stridente e confuso come sciacquio d’onde sul lido.

Un angolo di bosco in autunno
Ho visto un angolo di bosco. Non lo dimenticherò mai. Non era che un pezzetto di terra, ma che meraviglie comprendeva!
Era raccolto intorno al piede di un castagno molto grosso, macchiettato qua e là di muschio verdastro.
Da un nodo della corteccia nascevano alcune foglie ancora fresche, ma già punteggiate di ruggine, a terra ne giacevano altre secche, color marrone bruciato, accartocciate e rotte: a toccarle sarebbero andate in briciole.
Dall’alto pendeva un tralcio di vite del Canada. Sembra impossibile che su uno stesso getto si trovino tanti colori. Le foglie più alte, grosse e un po’ avvizzite, erano opache; ma a mano a mano che digradavano si accendevano di bruno e di fiamma, più simili a fiori che a foglie. Così ordinate a cinque, si piegavano ad arco sollevandosi dal tronco, quasi cercassero luce ed aria fuori dal groviglio delle erbe. Altre avevano strani colori: verde tenerissimo al centro, rosa corallo verso le punte, e ciclamino, scarlatto, viola, marrone, giallo nei toni più svariati, tutti sparsi sulla superficie senza alcun ordine. Lo stelo era appena rosato, con una indefinibile sfumatura bruno – rossiccia.
Ho voluto toccare un gruppetto delle ultime foglie; una sola ne è rimasta attaccata, la meno rossa. Perchè la bellezza più appariscente a volte è così fragile? Un semplice tocco di mano e l’ordine del tralcio era distrutto.
Cresceva anche un rovo al piede del castagno: col gambo rigido e spinoso e le foglie scure rosicchiate dagli insetti, si slanciava arditamente al di sopra delle felci, formando un intreccio confuso di rami sottili e robusti.
Seminascosti nell’ombra si intravvedevano due ricci di castagna. Uno era ancora tutto chiuso, l’altro offriva da una spaccatura i frutti lucidi e chiari: due grossi ai lati che ne racchiudevano al centro uno più striminzito; ma tutti erano lisci, con la punta chiara ornata di un pennacchietto.
Sotto l’albero nascevano anche due funghi. L’ombrello del più grosso presentava solo una gobba poco accentuata ala sommità; tutto intorno aveva una delicata raggera di alette regolari e rideva da una spaccatura bianca, che faceva contrasto col rosso dell’ombrello. Il fungo sorgeva come una ninfa da un calice tenero e bianco, con un gambo dalla linea elegante e slanciata, ora  stretta, ora più arrotondata. L’altro fungo poteva sembrare un fiore: era tutto chiuso in una membrana chiara; soltanto in cima si mostrava con una puntina di rosso e così rotondo pareva non avesse radici.
Nell’angolino di bosco viveva perfino una chiocciola. Saggiava guardinga il terreno da percorrere con i cornetti flessibili, e segnava dietro di sè una striscia argentea che attingeva dal sole riflessi iridati.
La terra, nei tratti scoperti, era di un arido color ocra, ma sotto la vegetazione presentava grumi scuri, impastati di umidore.
Ogni tanto un raggio filtrava dalle fronde e accendeva di fugaci trasparenze i colori delle foglie attraverso la nebbiolina che fumava dalla terra. Intanto la chiocciola, perduto all’improvviso l’equilibrio, era precipitata a capofitto trascinando le erbe. Sotto brillava uno zaffiro di rugiada, trepido e pronto a rotolare da un momento all’altro nel terreno assetato.
(G. Ramponi)

Un silenzio pensoso
Un silenzio pensoso domina pianure e colline. Le foglie rosse della vite che si dondolano ai tralci parlano ancora di solleoni, di grappoli d’oro, di ronzanti mosconi. Fluttua nell’aria quasi un resto di profumo vendemmiale e insieme l’eco di allegri richiami, di cantilene meridiane, di risa e chiacchiere strepitose protratte per le placide notti bagnate e benedette di luna.
Ciò era appena ieri: eppure sembra già così lontano! (A. S. Novaro)

Autunno
Ecco, è l’autunno.
D’un verde più cupo, più gialli e più rossi, gli alberi rendono freschi e dolci i villaggi dell’Ohio, con le foglie che tremolano a un mite vento, le mele pendono mature nei frutteti, pendono i grappoli dai pergolati (avverti l’aroma dei grappoli sui tralci? Senti l’odore del grano saraceno, dove testè ronzavano le api?).
Su tutto si apre il cielo, così limpido e calmo dopo la pioggia, e con mirabili nubi; anche al disotto è tutto calmo, pieno di vita, bello; il podere è in fiore. (W. Whitman)

Pomeriggio d’autunno
I conigli erano stranamente audaci quel pomeriggio; continuavano a sbucar fuori da ogni parte intorno a noi e a lanciarsi giù per la scarpata come se stessero giocando un loro gioco speciale. Ma gli animaletti ronzanti che vivono nell’erba erano tutti morti: tutti meno uno; mentre me ne stavo lì steso sulla terra calda, un insettino di un verde tenero pallidissimo uscì fuori dall’erba saltellando penosamente e tentò di raggiungere con un balzo un ciuffo di campanule. Non vi riuscì, cadde indietro e rimase lì con la testa abbassata fra le lunghe zampe, le lunghe antenne vibranti come se aspettassero che qualcosa giungesse a finirlo… (W. Cather)

Vien l’autunno a Venezia
L’estate se ne va bruscamente, senza lasciare strascichi di sorta. Cola a picco nei canali come una vecchia gondola logora. E ci si accorge del suo passaggio dal diradarsi dei turisti che, in numero sempre più esiguo, occupano i tavoli dei caffè di piazza San Marco. In quelle file gloriose riempite fino a ieri da un pubblico dorato e fittizio, si sono fati a un tratto dei vuoti melanconicissimi. Ormai le poche persone che vi si attardano verso sera non sono più nemmeno forestieri smarriti, ma clienti abituali, tipi del luogo, che si confusero nei mesi estivi con la grossa ondata turistica, per poi rimanere scoperti sulla gran piazza come gusci di riccio e ossa si seppia sulla spiaggia. Intanto l’autunno veneziano si accompagna a questo vasto senso di esodo e di solitudine inattesa. I crepuscoli scendono rapido, soverchiamente bruni… (V. Cardarelli)

Sulla spiaggia d’autunno
Le giornate erano ancora tanto lunghe che bastava fermarsi un momento a guardarsi dattorno, per sentirsi isolati come fuori dal tempo. Stefano aveva scoperto che il cielo marino si faceva più fresco e come vitreo, quasi ringiovanisse. A posare il piede nudo sulla sabbia, pareva di posarlo sull’erba. Ciò avvenne dopo un groppo di temporali notturni…
Ritornò il sereno, ma a mezza mattina, l’incendio, la lucida desolazione della canicola, erano ormai cosa lontana. Certe mattine Stefano  s’accorgeva che grosse barche da pesca, a secco sulla sabbia e avvolte di tela, erano state spinte in mare nella notte; e non di rado i pescatori che non aveva mai visto prima, si lasciavano sorprendere a smagliare reti ancora umide. (C. Pavese)

Gli ultimi bagnanti Venne l’autunno: si era levato il promo vento gagliardo. In cielo si incalzavano lembi di nuvole sottili e grige. Il mare fosco, sconvolto, era tutto coperto di schiuma. Onde altissime si avvicinavano con terribile inesorabile calma, si incurvavano maestosamente formando una cavità verde cupa lucida come il metallo, poi si rovesciavano sulla spiaggia con fragore di tuono. La stagione era finita. Quella parte di spiaggia di solito gremita d’una folla di bagnanti, già quasi sgombra di cabine e con pochi seggiolini di vimini pareva ormai morta. Ogni tanto un gabbiano sfrecciava sul mare gettando il suo grido di uccello rapace. Toni e Morten contemplavano le verdi pareti delle onde, tappezzate di alghe, che avanzavano minacciose e s’infrangevano contro la roccia, in quell’eterno fragore che stordisce, rende muti e distrugge la sensazione del tempo. (T. Mann)

Bosco d’autunno Piove, l’aria autunnale discende dai boschi, toccati da una fiamma che diventa sensibile di giorno in giorno. L’autunno comincia così a bruciare questa tenera vegetazione. Lo so, i castani sono fragili, impallidiscono alla prima burrasca, poi passano attraverso tutta la ricchezza del rosso e del giallo: quel rosso e quel giallo vegetale, che sembrano morire e invece durano due, tre mesi, finchè il vento gelido non li polverizza. (M. Ferro)

Bosco d’autunno Nel bosco, l’autunno aveva già disegnato nettamente i confini tra il mondo delle conifere e il mondo delle foglie. Il primo si rizzava in profondità come una parete cupa, quasi nera, mentre il secondo traluceva qua e là con macchie rossodorate. La terra, piena di buche e nei solchi della foresta percorsa e indurita dai geli mattutini, era fittamente cosparsa e come lastricata dalle foglie del salice piangente, aride, secche e accartocciate. L’autunno sapeva di quell’amaro fogliame bruno e di infiniti altri aromi. (B. L. Pasternak)

Il lamento dell’albero E’ bastato il fruscio della foglia a scuotere l’albero che comincia a lamentarsi. D’albero in albero, il lamento si estende; tutto il frutteto è agitato, e sembra che non sia il vento a scuoterlo, ma una forza interiore un’angoscia mista a rivolta. Giù tutte le foglie! E’ inutile  tenerle quando non sono più parte viva del ramo: e con le foglie cade anche qualche frutto: la pigna si spacca e i pinoli si staccano e cadono. I rami più alti, con ancora le foglie verdi, si sbattono in una lotta leggera. (G. Deledda)

Cadono le foglie Un continuo mormorio, un sussurro continuo correvano per il bosco: parole di congedo delle foglie, che cadevano dai cespugli e dagli alberi. Una volta avevano cantato il cantico della loro forza vitale, sotto il venticello che le agitava, un cantico con molte strofe: dal tenero sussurro allo stormire cupo e doloroso. Quando germogliavano sotto l’invito e il bacio del sole primaverile, erano d’un verde pallido, quasi giallo, come il cielo all’inizio del giorno. Saldamente attaccate ai rami, ai ramoscelli sottili, ai virgulti oscillanti, si sarebbe detto che dovessero essere eternamente giovani. Poi, percorse dal succo nutritivo, crescevano e diventavano d’un verde più intenso. Alcune avevano il rovescio argenteo, velato da una deliziosa peluria bianca; altre erano vigorose e lisce, molte mandavano un odore gradevole… Ora lo smalto era sparito, svanito l’aroma, scomparsi i superbi colori. L’età toglieva ad alcune la luminosità argentea, ad altre la levigatezza compatta. Ora erano secche, senza forze, raggrinzite. (F. Salten)

 

Dettati ortografici: Autunno – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici per i frutti dell’autunno

Dettati ortografici per i frutti dell’autunno. Una collezione di dettati ortografici per la scuola primaria sui frutti dell’autunno: funghi, uva, castagne, frutta secca, ecc…

Funghi

Il bosco si è ripopolato di funghi. Curvi sotto un gran cappellone, i porcini; altri grassocci, tondi come osti, altri ancora più piccini, col cappuccio, un po’ storti, riuniti a famigliole simili a funghi bambini, bruni, giallicci e bianchi, sporchi di fango, fanno capolino qua e là, nascosti sotto il cumulo delle foglie, sul terriccio molle, su muschio, dietro gli alberi. (F. Tombari)

Il grappolo d’uva

Il grappolo d’uva occhieggia fra i pampini con i suoi chicchi maturati al sole. Chicchi d’oro, chicchi bruni, così belli e dolci che il bimbo, al solo vederli, tende le mani, pieno di desiderio. Chicco dopo chicco, ben presto del bel grappolo non resta che il raspo.

L’offerta

Il sole pallido batte sulla siepe e sul bosco. Disegna con le ombre degli stecchi e dei rami strane figure sulla terra imbiancata dal freddo. Ma su quella ragnatela di scarabocchi oscuri si accendono i colori delle bacche, risaltano le sagome della frutta secca. Pare che il mondo delle piante si sia spogliato per rendere più visibile l’offerta dei suoi dono agli uccelli che si preparano al lungo volo, agli animali che si preparano al grande digiuno e al lungo sonno.

La vendemmia

Gli allegri vendemmiatori si spargono nella vigna, armati di cesoie e di panieri. Ad uno ad uno, i bei grappoli vengono staccati dal tralcio e cadono nelle ceste. Le ceste ricolme sono rovesciate nei tini dove un uomo, a piedi nudi, pigia l’uva. Ecco il mosto dolce e profumato. E’ una fatica allegra. Tutti sono nelle vigne, perfini i bambini più piccini; ognuno ha il suo grappolo da portare nel tino.

I semi del pino

E’ venuto il vento e ha seccato l’aria. Le pigne si aprono crepitando. Poi, nel chiarore del nuovo mattino, si vedono volteggiare piccole eliche. Sono i semi del pino: quasi puntini neri, tanto sono piccoli. Da questi “puntini” nasceranno i pini marittimi: i giganti che combattono contro il vento, per donare all’uomo terra buona ed aria purissima.

Nella vigna

L’uva è stata vendemmiata. Fra i tralci c’è rimasto solo qualche grappolino dimenticato dal vendemmiatore, ma non dimenticato dalle vespe che vi ronzano attorno, ansiose di succhiare la bella polpa zuccherina.

La castagna

La castagna è un frutto prezioso. L’albero delle castagne è il castagno. E’ un albero alto e ricco di rami. Il bosco di castagni si chiama castagneto. La castagna è protetta dal riccio spinoso. Dalla castagna si ottiene una farina dolciastra che serve per preparare i dolci. Io mangio volentieri le castagne arrosto e lessate. Al mattino incontro il venditore di caldarroste. Conosco un indovinello che dice: “Il riccio pungente, la buccia lucente, si mangiano cotte, arroste o ballotte”.

Il mosto bolle

Il mosto bolle nelle buie cantine. Un odore acuto si sprigiona dai tini. E’ pericoloso entrare nelle cantine quando il mosto bolle. Ma il contadino prudente lo sa; e, quando vi scende, accende una candela. Se la candela si spegne, egli sa che c’è pericolo e si affretta a risalire.

Caldarroste

Sull’angolo della strada è già comparso il solito carretto che si annuncia da lontano con l’odore delle castagne arrostite. Il fornello ha la bocca rossa; la grande padella forata, messa lì sopra, viene scoperta di tanto in tanto per rimestare le castagne, e manda una fumata.

L’uva è matura

L’uva è matura e fra i pampini s’intravedono i grappoli grossi e lucenti. Tac tac, si sente il rumore delle cesoie che recidono i tralci e i grappoli che vanno a cadere nelle ceste. Le ceste colme sono poi rovesciate nei tini, dove l’uomo è già pronto per pigiare i grappoli e spremerne il buon mosto profumato.

Le castagne

Gli alberi del bosco dicevano al castagno: “Tu non dai che spine e foglie”. Venne l’autunno, e gli alberi tristi e soli si lamentavano ancora: “Non abbiamo più frutta. Non abbiamo più bacche. Sono fuggiti gli uccelli, sono fuggiti i bambini. E tu, vecchio castagno, ancora non dai che spine”. Il castagno taceva e soffriva. E soffrì tanto che i suoi frutti spinosi si ruppero e… tac tac tac, caddero le castagne scure sulle foglie morte. Le vide un bambino. Chiamò i compagni. E, nel bosco, pieno di canti e di voci, tornò per alcuni giorni la gioia, come a primavera. (Comassi – Monchieri)

La vite

La vite, in primavera, ha fiorito, ma non ha fatto fiori vistosi, bensì dei fiorellini minuti e modesti. Questi, dopo essere stati visitati dagli insetti, ghiotti del dolce nettare che essi contengono, si sono poi trasformati in chicchi dolcissimi. E ora, dalla vite, pendono grossi grappoli color d’oro e di rubino che sono un frutto squisito e sano.

La raccolta delle castagne

Uomini, donne, ragazzi, raccolgono le castagne su per il bosco. Dai ricci secchi e spaccati, le castagne sono ruzzolate in terra tra l’erba e i ciuffi delle felci. Le castagne vengono gettate nel paniere, che ciascuno di quei montanari porta al braccio. Come son belle, gonfie, lustre! I ragazzi vuotano i panieri colmi nei sacchi, giù presso la viottola grande. Poi passerà il carro per portare i sacchi a casa. (G. Fanciulli)

La pigiatura

Quando il tino è pieno di grappoli, vi entra un baldo giovanotto, a piedi nudi, che comincia un allegro ballo. Dall’uva schiacciata esce il succo, il mosto dolcissimo e profumato. Esso viene messo in tini capaci e, nella profondità della cantina, bolle e, come meglio si dice, fermenta. Dopo qualche tempo, non è più mosto: è vino.

La stagione delle castagne

La stagione delle castagne è anche quella del vino e le due opere si incrociano. Grandi faccende da per tutto. Mentre in paese gli uomini provvedono ai tini, le donne e i ragazzi s’inerpicano su su nei boschi a raccogliere le prime castagne. Sotto le grandi chiome dei castagni, i richiami, le voci, i canti hanno un tremolio, un calore come di eco. Tratto tratto le sassate improvvise dei ragazzi saettano le chiome. Con un tonfo pieno, qua e là i ricci cadono da sè sulla terra morbida; ne sgusceranno castagne tutte nuove, umide e ammiccanti come occhi. E questa è vendemmia dei ricchi e dei poveri; il castagno è una buona pianta che qualcosa dà a tutti. “La castagna ha la coda: chi l’acchiappa è la sua!”. Questo vuol dire che le castagne che cadono nei viottoli del castagneto sono di chi le prende. (P. Pancrazi)

La vendemmia

L’epoca della vendemmia è la più lieta di tutto l’anno. Nessun altro prodotto della campagna, neppure le spighe d’oro, è portato a casa in mezzo a tanta festa. Nei lavori della vendemmia tutti possono essere utili. Curve sui filari le fanciulle e le donne, avvolti intorno al capo i loro bei fazzoletti colorati, muovono rapidamente le forbici tra i pampini e staccano i grappoli che pongono con cura dentro i canestri posti ai loro piedi. Gli uomini con le bigonce si avvicinano e versano in esse l’uva dei cesti, piano, sospingendola con le mani. (R. Lombardini)

La castagna 

Il castagno fiorisce in maggio – giugno. I suoi fiori sono di due specie. Alcuni sono ricchi di polline giallo; quando questo viene portato via dal vento i fiori seccano e cadono. Alcuni fiori invece ricevono il polline trasportato dal vento e dagli insetti, si ingrossano e diventano castagne. Il frutto matura da settembre a novembre. Il riccio è la buccia verde e spinosa in cui sono racchiuse una, due o tre castagne.  La polpa bianca, molto nutriente, della castagna è protetta da due bucce: quella esterna è bruna, lucida e dura, più chiara alla base perchè unita al riccio; quella interna è bionda, sottile e pelosa. Ci sono molte varietà di castagne: la più grossa e saporita si chiama marrone. Il frutto dell’ippocastano, o castagno d’India, è simile alla castagna, ma non si può mangiare perchè è di cattivo sapore. La raccolta delle castagne avviene in autunno con la bacchiatura, così chiamata perchè i contadini fanno cadere le castagne percuotendo i rami della pianta con un bastone grosso e lungo detto appunto bacchio. Le castagne si mangiano lessate, arrostite (caldarroste), o condite (fatte bollire in uno sciroppo di zucchero). Per conservarle i montanari usano ammucchiare le castagne sotto ricci vuoti, foglie e terriccio. Un altro metodo per la conservazione delle castagne è quello di affumicarle, bagnarle e farle seccare più volte: preparate così, vengono vendute sciolte o infilate a treccia. Le castagne possono anche essere seccate a fuoco in appositi recipienti; poi si sbucciano e si hanno così le castagne pelate o peste, che si mangiano cotte in acqua con un po’ di vino, o nel latte. Con la farina di castagne si fa il castagnaccio, una torta casalinga con l’aggiunta di noci e pinoli.

La vite

Il contadino coltiva la vite in filari, a festoni,  a pergolato. La vite ha un fusto contorto e i rami (tralci) che si afferrano con facilità ai sostegni per mezzo dei viticci. Le foglie (pampini) sono larghe, a forma di cuore, con contorno dentellato. La vite produce grappoli d’uva scura o bionda. Ogni grappolo è composto di un raspo e di acini tondi o allungati. La polpa dell’acino è rivestita da una buccia resistente e contiene alcuni semi, detti vinaccioli. La vite viene attaccata da un piccolo insetto, la fillossera, che punge le radici e provoca la morte della pianta. Un altro parassita della vite è la peronospora che il contadino combatte con lo zolfo. La vite preferisce colline piene di sole, ma prospera bene anche in pianura ed in montagna, non oltre i mille metri. In Italia, perciò ci sono tante varietà d’uva. L’uva dell’Italia meridionale è zuccherina; quella dell’Italia settentrionale è più acida. La vendemmia avviene a settembre ed il raccolto dell’uva in Italia è uno dei più ricchi. Noti in tutto il mondo sono i vini italiani.

La vite e l’uva

Nelle antiche mitologie esiste la leggenda del primo che piantò la vite. Per gli Egiziani fu Osiride, per i Greci Dioniso che, allevato dalle Ninfe, era nutrito da queste con grappoli d’uva. Gli Indiani, che facevano col succo d’uva sacrifici agli dei, chiamarono questo succo vinas, cioè amato. E quando gli Arabi penetrarono in Europa, vi portarono questa parola: “vino”.
La coltivazione della vite è antichissima e se ne sono trovate tracce anche nei villaggi di palafitte.
Le foglie della vite si chiamano pampini, i rami tralci e i loro filamenti attorcigliati, che si avvinghiano ai sostegni, viticci. Il grappolo è composto di acini (o chicchi) che sono bacche contenenti i semi o vinaccioli. L’acino è costituito dalla buccia e dalla polpa. La buccia può essere di colore verde che assume varie gradazioni, quando non di tratti della cosiddetta uva nera che assume invece una tinta violacea più o meno scura.
La buccia è ricoperta di uno strato di cera che ha il compito di difendere l’acino dalla pioggia e dalla puntura degli insetti. Questo strato cereo si chiama pruina.
L’Italia fu chiamata anticamente Enotria, dalla voce greca oinòs che vuol dire vino, quindi, terra del vino.
La vite prospera in regioni temperate e anche in quelle calde purchè abbia un sufficiente grado di umidità. Si conoscono numerosissime varietà di uva non soltanto in relazione al colore, ma anche al sapore, alla consistenza della polpa, all’uso, ecc… Si hanno quindi uve da tavola e uve da vino.
Nemici della vite sono la filossera, un insetto dannosissimo che può distruggere interi vigneti e la peronospera, malattia causata da un fungo.

Il vino

L’uva viene pigiata in capaci tini e se nei tempi passati questa operazione si faceva coi piedi, oggi generalmente viene fatta con apposite macchine pigiatrici.
Dall’uva schiacciata si ricava il mosto, un liquido dolce, dal caratteristico profumo.
Dopo qualche giorno, il mosto fermenta. Anticamente si davano le versioni più disparate di questo fenomeno che non si sapeva spiegare. Fu Pasteur che, per primo, scoprì come la fermentazione fosse dovuta a speciali microorganismi esistenti sulle bucce e che, trasportati dall’aria sulle sostanze zuccherine dell’uva, si sviluppano e sono la causa della trasformazione dello zucchero in alcool e anidride carbonica. Il liquido perde così il suo sapore dolce; l’alcool resta nel vino, mentre l’anidride carbonica si disperde nell’aria dopo essere salita alla superficie del liquido smuovendo la massa.
L’anidride carbonica è un gas irrespirabile. Ecco perchè la permanenza nelle cantine durante la fermentazione costituisce un pericolo che può essere anche mortale. E’ prudente, quindi, scendere in cantina con una candela accesa. Se la candela si spegne vuol dire che esiste anidride carbonica in eccesso.
Quando la fermentazione è compiuta, si tolgono le bucce ed i semi. Il vino è composto di una gran quantità di acqua, una piccola quantità di alcool, vitamine, sostanze varie ed enocianina, che è la sostanza colorante contenuta nelle bucce.
Se si espone il vino all’aria, dopo un po’ esso diventa aceto per opera anche questa volta di microorganismi vegetali che formano, alla superficie del liquido, un velo detto appunto madre dell’aceto. Questi microorganismi trasformano l’alcool in acido.

Vendemmia

Nelle ultime settimane di agosto il paese mutava, si agitava, pareva ammalarsi d’ansia. Cantine, che per noi non aerano mai state porte chiuse, con un buco sulla soglia per i gatti, si aprivano, rivelandoci androni bui in cui troneggiavano cupamente tini, botti e qualche misteriosa macchina, simile a un gigante che avesse per petto un’enorme vite di legno e per testa una trave di traverso. (E. Cozzani)

Vendemmia

Tutto il paese fa la veglia, tra le vasche e le botti, e mangia sorbe bagnate nel mosto e tracanna bicchieri di vino fermentato, che sprizza vivido e vermiglio dai tini coperti di graspi. Solo all’alba, quando la stella del giorno è lassù a sfiammare nello spazio e annuncia il primo chiarore, il paese va a riposare.
La vendemmia durava due settimane, tra la raccolta delle noci e le prime semine. Così la stagione, dopo tanto pacato indugiare, cadeva spossata: si alzavano le prime nebbie, partivano gli uccelli, e la campagna si spogliava al vento d’autunno. (G. Titta Rosa)

Vendemmia

L’afa era ancora pesante, il cielo velato di vapori. La pioggia doveva essere assai lontana, e si cominciò la vendemmia. Nelle vigne popolate di vespe e di calabroni i grappoli appena punti si disfacevano. Un odore denso era dappertutto. Le donne si sparsero per il campo con le loro ceste sul capo, e si adagiavano sotto le viti. Le dita si appiccicavano legate dai succhi e dalle ragnatele. Nell’aria si intonavano canzoni cui si rispondeva da vite a vite, e i peri e i peschi buttavano giù con un tonfo qualche frutto troppo maturo.
Verso mezzogiorno il palmento si riempì d’uva e fu il primo convegno delle vespe che salivano stordite alla superficie dei grappoli. L’aria era divenuta di miele, e l’aroma delle piante bruciate dal sole si mescolava a quello dolce e inebriante delle uve che non riuscivano più a contenere i succhi e che si disfacevano, un grappolo sull’altro, nel reciproco peso. (C. Alvaro)

Si vendemmia

In ogni vigna si vendemmia: l’uva bianca e l’uva nera passa dalle mani invischiate delle ragazze che la mondano degli acini secchi o guasti e ne riempiono ceste e bigonce. Ronzano vespe e mosche ubriache. Il sole scotta ancora: le ombre del pomeriggio sono brevi, raccolte ai piedi dei tronchi, nascoste nelle siepi. Frullano per ogni dove, passi di gioia, schiere di uccelli; anche per essi si vendemmia. Da una vigna all’altra i canti si chiamano, si rispondono, tacciono; e s’ode un’accetta, in quel silenzio a un tratto slargato, battere nel bosco vicino. Poi il rumore d’un carro, le voci del paese dalle aie, un fischio lontano. Il giorno pare che riposi su se stesso, adagiato in un calmo dorato sopore, in un tempo che sembra fermo, come in uno specchio.
Le poche, scarse nebbioline azzurre della mattina se l’era assorbite il cielo, bevute il sole. Saluto dal monte cinto di nuvole arrossate, il sole s’era avviato a varcare la curva dello spazio con vittoriosa lentezza. Ora comincia a discendere, e pare che i colli si alzino con le lunghe loro ombre per seguirlo. Poi, poco prima che giunga la sera, un grillo si mette a cantare tutto solo. Chiama la notte, la luna. (G. Titta Rosa)

La sfogliatura

Pochi uomini intorno alla macchina. Le grosse pannocchie incartocciate venivano immesse in una specie di imbuto e da una bocca situata in basso, simile a una pioggia d’oro, usciva una cascata di chicchi che rimbalzavano a terra dove il mucchio si elevava.
Dall’altro lato i tutoli, e le foglie che prima avvolgevano le pannocchie, venivano rigettati al di fuori da due diverse aperture.
Un uomo spalava i chicchi che più tardi sarebbero stati distesi sull’aia e rivoltati accuratamente per la completa asciugatura; intanto una ragazza ammucchiava con un rastrello i tutoli che sarebbero serviti per avviare il fuoco. Un’altra ragazza affastellava le foglie crocchianti dentro le quali, con alti strilli di gioia che superavano il ronzio della macchina, i bambini facevano le capriole. (Q. P. Fontanelli)

La sfogliatura del granoturco

Un canto di più voci, lento e dolcissimo, che scende da una casa buia, mi conduce su per una scala di pietra di un granaio dove in dieci o dodici stanno sfogliando il granoturco. Seduti in cerchio, uomini, donne, fanciulli, fra i cartocci già alti sull’impiantito; in mezzo al cerchio pende una lacrimosa lanterna da stalla. L’ombra di questa lanterna si distende su ogni cosa; la sua fioca luce sembra il riflesso di un lontano lume.
I cartocci si aprono come strani fiori, i loro gambi si spezzano crocchiando e le pannocchie stupendamente lucide e compatte vanno a cadere nel mucchio. (U. Fracchia)

La bacchiatura delle noci

Sotto la pertica lunga sbattuta con forza addosso ai rami, le belle noci cascano con tonfi umidi e sordi sul muschio del piede dell’albero, e i loro malli, spaccandosi, cacciano odore di verde e di radici. I bambini, che naturalmente alla festa non mancano, è il loro mestiere raccogliere nel sacco e portarle fino a casa; dove, riposte in solaio o in dispensa, saranno ambito companatico alla lieta merenda. Tanto che un proverbio dialettale lombardo, con una rima che in lingua non torna, dice che pane e noci è mangiare da sposi, volendo dire che è molto gustoso. (C. Angelini)

La vite

La vite è una pianta sarmentosa, provvista di radici molto sviluppate e minutamente ramificate (radici capillari o barboline).
La radice continua nel fusto o ceppo, che si eleva più o meno da terra e si dirama nelle branche sulle quali sono inseriti i rami di uno o due anni, detti tralci.
Questi sono lunghi, esili, cilindrici e ingrossati ai nodi.
I tralci, quando sono ancora allo stato erbaceo, si chiamano cacciate e terminano col germoglio. Il tratto che corre tra un nodo e l’altro è detto internodo; esso contiene un midollo molto sviluppato, interrotto da un diaframma legnoso in corrispondenza dei nodi.
Sui nodi dei tralci si trovano le gemme dormienti, che si formano d’estate e danno in primavera i tralci fruttiferi. Invece le gemme che si sviluppano subito dopo formate si chiamano gemme pronte e danno rami inutili, che si chiamano femminelle.
Sul legno vecchio talora spuntano, da gemme latenti, tralci detti succhioni, che non portano frutto.
Le foglie sono palmate, dentate, lobate (divise in tre o cinque lobi divisi a loro volta dalle rispettive insenature). La pagina inferiore è spesso pelosa o feltrata. I viticci o cirri sono organi filiformi, coi quali la vite si attacca a sostegni durante il suo sviluppo.
I grappolini dei fiori in boccio si chiamano lame fiorifere.
I fiori sono minuti ed odorosi.
Il grappolo è formato dal graspo, nel quale si distinguono: la raffide, cioè l’asse principale; i racemi, ossia le diramazioni secondarie ed i pedicelli, ai quali sono attaccati gli acini.
La buccia è ricoperta da una sostanza biancastra, di natura cerosa, detta pruina.
Gli acini contengono da uno a quattro vinaccioli.

Perchè il vino, che deriva dall’uva, ha un sapore così diverso?

Quando l’uva viene pigiata nei tini o nella pigiatrice, il suo succo si trasforma in mosto. Questo sembra bollire e gorgoglia continuamente. Che cosa succede? Nel mosto si trovano certi funghi piccolissimi chiamati saccaromiceti (funghi mangiatori di zucchero). Questi funghi si raccolgono sugli acini sin da quando l’uva, ancora sulla pianta, comincia a maturare e con essa passano nei tini. Appena l’uva viene pigiata, si mettono in alacre attività: cominciano a nutrirsi e a produrre, in conseguenza, un gas, l’anidride carbonica; è questa che, salendo attraverso il liquido, per uscire all’aria fra gli altri gas, fa gorgogliare. Attenzione! E’ un gas venefico: gli ambienti dove il vino fermenta devono avere tanti finestroni; guai a lasciarli chiusi, anche se solo per poco si può anche morire, uccisi dall’anidride carbonica, che gli operai degli stabilimenti vinicoli chiamano lupo. Ma, mangiando lo zucchero, i saccaromiceti, e questo è il buon servizio che ci rendono, lo trasformano in alcool, che dà la gradazione e il sapore al vino. Il vino viene lasciato nelle botti, sul fondo delle quali si sedimentano le impurità. Dopo un po’, perciò, il vino va travasato in altri recipienti puliti

Gli agrumi, riserva di sole e di vitamine

Pochi frutti riscuotono in tutto il mondo tanto successo quanto gli agrumi. Aranci, mandarini, limoni, cedri, pompelmi sono divenuti oggetto di un commercio attivissimo e redditizio che non si limita a rifornire le nostre tavole di frutti gustosi e decorativi, ma costituisce la materia prima per molti impieghi industriali. Gli agrumi trovano infatti largo impiego in profumeria, farmacia e nella fabbricazione delle bevande dissetanti. Con aranci e mandarini sono stati ottenuti incroci interessantissimi, come i mandaranci e le clementine.
(P. Tombari)

Dettati ortografici – I frutti dell’autunno. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici su ottobre

Dettati ortografici su ottobre, di autori vari, per la scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Ottobre
Al tempo degli antichi Romani, che furono quelli a dar il nome ai mesi, l’anno cominciava con marzo, ed ecco che ottobre era, appunto l’ottavo mese. Mutò il calendario, ma il nome restò, così come sono restati quelli di settembre, di novembre e di dicembre.

Ottobre al mare
Come corre l’acqua lungo i rigagnoli delle strade! Addio, estate! Addio, bagni!

E’ tanto bello anche il mare così grigio e malinconico senza più traccia alcuna di umanità, come al giorno della sua creazione. Già gli alberghi, le pensioni, chiusi i vetri sul mare, hanno ritirato i tavolo dalle rotonde, dai terrazzi.

Sono le sere in cui i pochi villeggianti rimasti si illudono di avere il mare tutto per loro e tornano dalle passeggiate, chiusi negli impermeabili; sono le notti di vento e di salsedine, quando cadono lungo i viali le foglie di tiglio che la prima tramontana spazzerà via del tutto. (F. Tombari)

Ottobre
Ottobre tinge tutto d’oro. D’oro sono le foglie che si staccano dall’albero, d’oro sono i tramonti, d’oro il sole che manda i suoi tiepidi raggi ad illuminare la terra arata, la campagna ormai stanca, il cielo velato dalle prime nebbie di autunno.

E’ un bel mese, ottobre. Il sole è un po’ stanco, ma si dà ancora da fare per dipingere le foglie di rosso e di giallo. E le foglie insuperbiscono di quel colore, senza immaginare che basta un soffio di vento per staccarle dal ramo. Un lieve volo e giù, per terra. Se durante la notte il vento ha tirato un po’ forte, la mattina c’è tutto un tappeto frusciate per terra.

Due ricchezze ci dona la terra nel mese di ottobre: nei tini canta il vino frizzante; nei boschi i ricci aperti lasciano cadere le castagne, che un tempo davano cibo nutriente ai montanari. Ma ai frutti freschi e succosi bisogna dire addio. Il sole, ormai debole e pallido, non riesce a maturare gli ultimi: la sorba e la nespola. Esse finiranno di maturare, nel granaio, nel tepore della paglia. (F. Bartorelli)

Ottobre

Ottobre dà l’idea di un grasso oste che, col grembiule bianco e il pancione, ci inviti a passare nella sua cantina. Vuole darvi ad intendere che ha il vino nuovo, ma non gli date retta. E’ ancora il vino dell’altr’anno; quello di adesso bolle ancora nel tino, giù nel profondo della cantina.

E i contadini hanno paura di questo vino che bolle. Sanno che può far brutti scherzi e, quando devono scendere giù dove la vinaccia gorgoglia, ci vanno con la candela accesa. Se la candela si spegne scappano subito e dicono: “Giù non si può respirare; c’è il vino che bolle”. E non scendono finchè il pericolo non è passato.

Ma se non c’è il vino nuovo nell’osteria di Mastro Ottobre, un leprotto al forno lo troverete di certo. E’ tempo di caccia e per la campagna si sentono gli spari dei cacciatori. Pum pum, e starne e beccacce e lepri cadon giù stecchite sopra il campo arato, dopo aver cercato invano di sfuggire alla corsa disperata dei cani.

Ottobre

E’ un bel mese, ottobre. Il sole è un po’ stanco, ma si dà ancora da fare per dipingere le foglie di rosso e di giallo. E le foglie insuperbiscono di quel colore, senza immaginare che basta un soffio di vento per staccarle dal ramo. Un lieve volo e giù, per terra. Se durante la notte il vento ha tirato un po’ forte, la mattina c’è tutto un tappeto frusciate per terra.

In montagna, gli stambecchi, rinvigoriti, fanno battaglia con le loro corna; la marmotta s’è ritirata nella sua tana a mangiare il fieno che ha messo in serbo. Fra poco s’addormenterà per risvegliarsi soltanto quando il venticello di marzo farà frusciare i rami degli alberi rinverditi.

I campi sono tutti scuri, puliti, con certi solchi dritti, pronti a ricevere il seme.
(M. Manicucci)

Ottobre

Nei luoghi in cui si coltiva la vite si vendemmia; l’uva viene pigiata per ottenere il mosto che, con la fermentazione, diverrà vino. Nei campi si ara e in alcuni luoghi comincia la semina del grano. Finisce la raccolta del granoturco ed inizia quella delle castagne, delle noci e delle nocciole. Si potano gli alberi da frutto. Il mese di ottobre nel nostro calendario è il decimo mese dell’anno; nel più antico calendario romano era l’ottavo mese.

Ottobre
Gli alberi a foglie caduche si spogliano lentamente ai forti venti autunnali. Sui monti è già freddo e le greggi scendono al piano. Gli insetti spariscono nelle cavità degli alberi o sotto terra; molti animali, come il riccio, la talpa e la marmotta cadono in letargo; altri, come la volpe, infoltiscono la loro pelliccia; molti uccelli, come la rondine,  migrano verso i paesi più caldi.

I contadini curano i frutteti, disinfettano le piante, sistemano l’orto, piantano i cavolfiori, i piselli, le fave, l’aglio. Nei luoghi in cui si coltiva la vite si vendemmia; l’uva viene pigiata per ottenere il mosto che, con la fermentazione diventerà vino. Nei campi si ara e in alcuni luoghi comincia la semina del grano. Finisce la raccolta del granoturco ed inizia quella delle castagne, delle noci e delle nocciole. Si potano gli alberi da frutto.

Il mese di ottobre sul nostro calendario è il decimo mese dell’anno; nel più antico calendario romano era l’ottavo mese.

Ottobre
Odore di ottobre. Nell’aria, che si riposa nella campagna, volano schiere di uccelli: dal bosco vicino, che comincia a tingersi di macchie rossastre, viene il canto dosato e lento del cuculo. La stagione indugia, dorandosi in un’attesa piena di sopore. Le strade odorano di mele cotogne e d’uva, e dalle porte spalancate delle cantine esce il fumo delle caldaie schiumanti il mosto, fra le voci aspre e clamorose dei pigiatori. (G. Titta Rosa)

Vento d’ottobre
Un soffio di vento ottobrino scuote gli alberi del bosco. E’ un vento frizzante che scende dai monti già avvolti di nebbia. Alcune foglie si staccano; scivolano, quasi trattenute ancora, lungo i rami più grossi; volteggiano nell’aria; si posano al suolo umido e nero.

“Addio!” dicono le foglie gialle, “Addio, albero amico! Il vento ci strappa senza pietà. Non sentiremo più il canto degli uccelli, non godremo più i raggi del sole!”

Un soffio più impetuoso… Numerose foglie sfarfallano intorno; altre si alzano da terra in un breve ultimo volo. Ora sul prato si stende un giallo tappeto di foglie morte; ma, a primavera, nuove foglie rivestiranno di tenero verde tutti gli alberi del bosco. (L. Fiorentini)

Dettati ortografici su ottobre. Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici – la semina

Dettati ortografici – Una collezione di dettati ortografici sul tema “l’autunno e la semina” per la scuola primaria.

La semina
Il campo è stato arato. I buoi hanno tracciato i lunghi solchi diritti e il contadino si prepara a gettarvi il seme. Poi il seme sarà ricoperto di terra, la pioggia lo gonfierà, il tepore della terra lo riscalderà e, un bel giorno, tante piantine verdi ricopriranno la superficie del campo.

La semina
I buoi hanno tracciato i lunghi solchi diritti nel bruno campo. Il contadino vi getterà il seme e, ai primi tepori, vedremo tante piantine verdi che un giorno diverranno le preziose spighe del grano. Quanta fatica e quanto tempo perchè il seme del frumento possa trasformarsi nel buon pane profumato!

Il seme
Il seme è stato gettato nel solco. L’acqua lo gonfierà, la neve lo coprirà col suo candido mantello, la terra lo nutrirà e finalmente, da quel semino, nascerà la bella pianta del grano che un giorno diverrà pane.

Sotto terra
I campi, in inverno, sono brulli, spogli, deserti. Sembra che non debbano produrre nulla e invece, sotto terra, i piccoli semi del grano germogliano: fra poco spunteranno all’aperto tante piantine verdi che un giorno ci daranno il cibo più prezioso: il pane.

Le speranze del contadino
Il contadino spera quando semina il grano, spera quando vede il primo biondeggiar delle spighe, spera quando i primi fiori della vite spandono il loro profumo e, attraverso una bella fiorita di speranze, porta al granaio le messi, alla botte il mosto, alla cucina i legumi dell’orto. (P. Mantegazza)

Il seme
E’ caduto nel solco e fra poco germoglierà. Da quel piccolo seme nascerà una piantina prima debole, sottile, poi, man mano, più robusta e forte. Infine la vedremo mettere, in cima, una bella spiga che col calore del sole diverrà dorata e maturerà. E in quella pianta, nata da un semino solo, ci saranno migliaia e migliaia di semi come quelli gettati nel solco in un giorno lontano.

La semina

I buoi abbassano la testa soffiando, il gioco cigola, l’aratro scricchiola. Il vomero affonda nella terra, apre il solco, e lascia indietro, ai lati, le grosse zolle. A poco a poco tutto il campo è segnato da lunghi solchi scuri. Poi il contadino cammina nel solco, portando un paniere al braccio. Tuffa la mano nel paniere, prende un pugnetto di grano e, via via, con un gesto largo lo sparge nel solco. Dietro a lui, donne ed uomini rompono le zolle con la zappa e ricoprono di terra i semi. (G. Fanciulli)

Il seminatore

“Guarda che figura!” esclamò Federico, soffermandosi ed indicando il seminatore: “Ha l’altezza di un uomo, eppure sembra un gigante”.  Egli avanzava per il  campo in linea dritta con una lentezza misurata. Con la sinistra teneva il saccolo; con la destra prendeva la semenza e la spargeva. Il suo gesto era largo, gagliardo e sapiente e il grano, involtandosi dal pugno, brillava talvolta nell’aria come faville d’oro e cadeva sulle zolle umide ugualmente ripartito. (G. D’Annunzio)

L’aratro

In principio l’aratro fu soltanto un ramo ricurvo da cui ebbe origine il cosiddetto aratro a uncino, grosso ramo biforcuto di cui la parte più corta penetrava nella terra scavandovi un solco e quella più lunga serviva da traino. Più tardi, alla parte più corta di questo aratro fu applicata una selce appuntita per facilitare la sua penetrazione nel terreno; la selce, in seguito, fu sostituita da una punta di rame, di bronzo e infine di ferro: fu l’aratro a chiodo, usato dai nostri bisnonni, e ancor oggi nei paesi meno progrediti.
L’invenzione del giogo permise all’uomo di attaccare all’aratro gli animali a coppia, in genere buoi.
Attualmente l’aratro, nelle sue parti principali, si compone del coltello, una lama che taglia la terra verticalmente; del vomere, che è una lama che taglia la terra orizzontalmente al di sotto della sua superficie; dell’orecchio, così chiamato per la sua forma e che ha il compito di far ruotare la terra tagliata dall’azione combinata del coltello e del vomere e di rovesciarla nel solco.

Il lavoro della terra

Dal materno grembo della terra viene tutto ciò che è necessario all’uomo. Egli ne ricava le piante che gli servono per sfamarsi e poichè si nutre anche di carne, ecco la terra nutrire gli animali che egli alleva a tale scopo. Tutto gli viene dalla terra purchè l’uomo  le dia il suo lavoro di ogni giorno, quel lavoro che cominciò in un giorno lontano, quando un essere irsuto, selvaggio, vestito di pelli e di corteccia d’albero gettò nel terreno alcuni granelli di una spiga e stette a vedere cosa sarebbe successo.

L’aratro

L’uomo preistorico si servì del ramo di un albero biforcuto per tracciare il primo solco nel terreno. Era il primo aratro. Poi, a questo ramo fu applicata una punta, prima fatta di pietra, poi di metallo. Oggi l’aratro si è perfezionato, compie il suo lavoro in modo razionale, risparmiando all’uomo fatica e tempo. L’intelligenza dell’uomo e la sua industriosità non conoscono limiti.

Il seminatore

Avanzava per il campo direttamente e con una lentezza misurata. Un saccolo bianco gli perdeva dal collo per una striscia di cuoio, scendendogli davanti, alla cintura, pieno di grano. Con la manca teneva aperto il sacco, con la destra prendeva la semenza e la spargeva. Il suo gesto era largo e sapiente, moderato da un ritmo uguale. (G. D’Annunzio)

Sulla tomba di un mietitore romano

Sono nato da povera famiglia e da poveri genitori. Vissi coltivando il campo nel quale nacqui e che non cessai mai di coltivare. Quando le messi erano mature,  io fui il primo a mietere, e allorchè la schiera dei mietitori si recava ai campi, io precedevo tutti lasciandomi dietro la lunga fila di essi. Dopo aver mietuto  dodici volte sotto il sole torrido, in premio al lavoro compiuto, fui eletto capo dei mietitori. Gli anni della mia vita furono belli, senza offese o accuse. Così meritò di morire chi visse senza commettere cattive azioni.

continua nelle pagine seguenti (segui i numeri delle pagine):

Dettati ortografici letture e poesie su Venezia

Dettati ortografici letture e poesie su Venezia – un raccolta di dettati ortografici, letture e poesie, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche varie.

Festa notturna a Venezia

Fantasmagoria di luci, di moltitudine, di architetture, d’acqua in subbuglio a specchio di luminarie  erranti e di stelle; di addobbi versicolori e di navigli fermi o in movimento; del lungo ponte di barche steso dalla riva alla Salute, gremito di fedeli nereggianti contro lo splendore della stupenda chiesa, grandeggiante a guisa di un picco diafano nel cielo cupo; delle barche coperte di verdi pergole con grappoli di lampioncini trasparenti di ogni tinta, cariche di comitive spillanti vino in botticelle inghirlandate, uomini e donne beventi, cantanti e tripudianti al suono di mandolini, chitarre, fisarmoniche, ed altri strumenti. (A. Soffici)

Viene l’autunno a Venezia

L’estate se ne va bruscamente, senza lasciare strascichi di sorta. Cola a picco nei canali come una vecchia gondola logora.
E ci si accorge del suo passaggio dal diradarsi dei forestieri che, in numero sempre più esiguo, occupano i tavoli dei caffè di Piazza San Marco.
In quelle file gloriose riempite fino a ieri da un pubblico dorato e fittizio, si sono fatti a un tratto dei vuoti melanconicissimi.
Ormai le poche persone che vi si attardano verso sera non sono più neppure forestieri smarriti,  ma clienti abituali, tipi del luogo, che si confusero nei mesi estivi, con la grossa ondata turistica, per poi rimanere scoperti sulla gran piazza come gusci di riccio e ossa di seppia sulla spiaggia…
Intanto l’autunno veneziano si accompagna a questo vasto senso di esodo e di solitudine inattesa.
I crepuscoli scendono rapidi, soverchiamente bruni… (V. Cardarelli)

Artigianato veneziano
Passare alla gentile fragilità delle creazioni di artigianato dopo la visione, magari notturna, illuminata dai fari e dai rigurgiti di fiamma di Porto Marghera, comporta un cambiamento acrobatico: ma se esiste un’attività completamente, compiutamente veneziana, questa è l’artigianato elevato, non raramente, alla dignità di arte.
Non solo, ma le formelle in ceramica di Altino, i gioielli di Altino, ci spiegano perchè il gusto dell’oggetto raffinato, della cosa bella, è innato in questa città in cui ogni particolare ha contribuito a realizzare compiutamente l’ideale della bellezza.
L’arte del vetro, del merletto, del mobile, l’arte del tessere e di tingere stoffe preziose (ricordiamo i velluti e i broccati ‘a pastiglia’ dei Vivarini o dei Crivelli), l’arte di creare e decorare ceramiche, sono squisitamente veneziane; e non meno abili, orafi e argentieri, battirame e fonditori creavano, con il metallo, ori per le dame, oggetti sacri e oggetti di lusso per il culto e per i fasti di famiglia, oggetti d’argento e d’oro, a quintali,  perchè ogni chiesa, ogni ‘scuola’, ogni ‘casata’ voleva essere la più ricca, e farlo vedere. E c’erano poi le armature, le vere da pozzo, le inferriate, le lanterne, i picchiotti dei portoni, e la serie interminabili dei peltri, in cui la pesante mano del maestro ferraio realizzava ombre, luci, arabeschi degni di un orafo.

Vetrai di Murano
Ferveva il lavoro intorno alla fornace. In cima ai ferri da soffio il vetro fuso si gonfiava, serpeggiava, diventava argentino come una nuvoletta, splendeva come la luna, scoppiava, si divideva in mille frammenti sottilissimi, crepitanti, rutilanti, più esigui dei fili che si vedono al mattino nei boschi tra ramo e ramo. I garzoni ponevano una piccola pera di pasta ardente nei punti indicati dai maestri, e la pera si allungava, si torceva, si mutava in un’ansa, in un labbro, in un becco, in uno stelo, in una base. Sotto gli strumenti il rossore a poco a poco si spegneva, e il calice nascente era esposto di nuovo alla fiamma, infisso nell’asta; poi ne veniva estratto, docile, duttile, sensibile ai più tenui tocchi che lo ornavano, che lo affilavano, che lo rendevano conforme al modello trasmesso dagli avi o all’invenzione libera del nuovo creatore. Straordinariamente agili e leggeri erano i gesti umani intorno a quelle eleganti creature del fuoco, dell’alito e del ferro, come i gesti di una danza silenziosa.
“Appena formato, si mette il vaso nella camera della fornace per dargli la temperatura” rispondeva uno dei maestri vetrai a Stelio che lo interrogava, “Si spezzerebbe in mille frantumi se fosse esposto all’aria esterna d’un tratto”.
Si scorgevano infatti per un’apertura, adunati in un ricettacolo, che era il prolungamento del forno fusorio, i vasi brillanti, ancora schiavi del fuoco, ancora nel suo dominio.
“Sono già là da dieci ore” diceva il vetraio indicando la leggiadra famiglia. Poi le belle creature esigue abbandonavano il padre, si distaccavano da lui per sempre, si raffreddavano, diventavano gelide gemme, vivevano della loro vita nuova nel mondo, si assoggettavano agli uomini, andavano incontro ai pericoli, seguivano le variazioni della luce, ricevevano il fiore reciso o la bevanda inebriante.
(G. D’Annunzio)

Le origini di Venezia
Gli Unni avevano distrutti nel loro passaggio Aquileia, ed entrati nel Veneto avevano sparso il terrore tra le popolazioni che si rifugiarono nelle isole e nelle isolette delle vicine lagune, dove si fermarono attendendo alle industrie del mare e del commercio. In seguito, le umili case di questi fuggiaschi, a poco a poco, si trasformarono nella sontuosa città di Venezia.
(G. Zanetti)

Venezia
Venezia sorge a quattro chilometri dalla terraferma nella laguna adriatica e la singolarità del suo aspetto, unita alla ricchezza dei suoi tesori d’arte, ne fanno una delle più caratteristiche città del mondo. Attraversata da più di centocinquanta canali, si serve per le comunicazioni interne di vaporetti che sono i tram delle città di terraferma e di gondole e di motoscafi, che ne rappresentano le automobili ed i taxi. Quattrocento ponti collegano le sponde dei canali e centinaia di piazzette dette campi e campielli, si aprono all’occhio del visitatore per mostrare qualche gioiello d’arte o qualche caratteristica.
La singolare città è divisa in due parti dal Canal Grande, che si snoda tranquillo e maestoso. Questa regale via acquea è fiancheggiata da ricchi palazzi marmorei, costruiti dal XII al XVIII secolo, per la fastosa dimora delle più nobili famiglie veneziane, ed è solcata da vaporetti, gondole, motoscafi e barche di ogni tipo.
Alle vie d’acqua detti rii si accompagnano e si alternano le vie di pietra, le calli, formando una doppia fittissima rete a linee brevi e spezzate. Sull’angusto suolo conteso dalle acque, le case sorgono strette una all’altra, e pure non mancano ariose piazzette e verdi giardini tra le mura.
Il campanile di San Marco rappresenta, in certo modo, un simbolo di Venezia. Quando crollò, nel 1908, venne ricostruito ‘com’era e dov’era’ per unanime decisione dei veneziani.
La città è sorta su di una miriade di isole, nella grande laguna, divise tra di loro da innumerevoli canali: il loro numero si è venuto riducendo con l’andar del tempo perchè molti canali furono interrati naturalmente e artificialmente: oggi ci sono circa 160 isole. Tra le più notevoli vi è l’isola di San Giorgio, già Isola dei Cipressi.
Tra i problemi da risolvere, data la struttura geologica del territorio, vi era la necessità di rassodare il terreno e di ampliare in parte i confini delle piccole isole per costruire anche sul mare: venne risolto mirabilmente con la messa in opera di palafitte (serie di grossi pali conficcati nel terreno sotto il mare ai margini delle isole, generalmente) che servirono come piattaforme, sulle quali vennero elevate le costruzioni in muratura.

Tradizioni
A Venezia, città il cui vescovo assume il nome di Patriarca, sopravvivono alcune delle molte feste religiose che ai tempi dei dogi venivano celebrate con grande sfarzo e con riti pittoreschi. La più nota è la festa del Redentore che cade la terza domenica di luglio. La notte che la precede è tutto un susseguirsi di fuochi d’artificio: si canta, si banchetta, si passeggia in gondola al lume dei lampioncini. La veglia si conclude al Lido dove molti si recano ad assistere alla levata del sole.
La festa del Redentore alla Giudecca, è una tipica festa votiva: ricorda la liberazione della città dalla peste nel 1630.
Un’altra festa veneziana votiva è quella del 21 novembre che si intitola alla Madonna della Salute e che ricorda la fine della pestilenza del 1576.
La festa della Sensa o festa dell’Ascensione è caratterizzata dalla comparsa, sulla torre dell’Orologio in piazza San Marco, dei tre Re Magi i quali avanzano da una porticina a sinistra, si inchinano davanti alla Madonna  e scompaiono da quella di destra. Un tempo la festa era ricca di spunti pittoreschi: vi si teneva una fiera e il doge compiva la cerimonia dello Sposalizio del Mare, gettando in acqua, dall’alto di una grande imbarcazione (bucintoro) un anello.

Nascita di Venezia
Rialto, piccolo ammasso di isolotti, era sto fino ad allora scarsamente abitato, ma l’inviolabile asilo che aveva offerto ai profughi di Eraclea lo designava per la scelta quale sede preferibile e permanente dello Stato.
Prese singolarmente, le isolette di Rialto erano certo meno estese di Torcello, di Burano o di Eraclea, ma il gruppo ne annoverava ben sessanta, separate da stretti canali sui quali sarebbe stato agevole gettare ponti, in modo da rendere disponibile per la capitale una superficie considerevole e di molto superiore ad ogni altra.
La via d’acqua larga e profonda che spartiva in due gruppi l’arcipelago era il corso del fiume Prealto, ramo staccato del Brenta; se ne fece il Canal Grande. Le sue dimensioni avrebbero consentito il passaggio delle maggiori imbarcazioni e sulle sue rive si sarebbero create banchine e depositi, nei luoghi più adatti.
Al limite degli isolotti periferici si sarebbero potuti costruire una cinta muraria e un riparo in pietra, a circondare e proteggere la nuova città.
Come se presentisse quale splendido destino lo attendeva, tutto il popolo di pose all’opera con incrollabile entusiasmo.
Da ogni parte si innalzarono costruzioni, dapprima di legno, poi di mattoni e di pietra.
Per il palazzo del doge si scelse la posizione che sarebbe rimasta immutata per sempre.
Quanto al nome della città gloriosa i Veneti le diedero il proprio, quella che in origine si era chiamata Rialto, civitas Rivoalti, divenne Venetia, ossia Venezia.
Questo avveniva nell’anno 810 dC.
(A. Bailly)

San Marco, patrono di Venezia
L’evangelista Marco ha come simbolo un leone , e coi caratteri del Leone appare Gesù nel vangelo di San Marco, cioè con le qualità del forte, che scaccia i demoni, che guarisce gli ammalati e che vince la morte.
Questo perchè san Marco rivolgeva il suo vangelo ai Romani, che non avrebbero dato nessun valore alle lunghe genealogie ebraiche o alle profezie. I Romani non conoscevano che il diritto e la forza. Perciò, nel vangelo di Marco, il Redentore rappresenta sempre il diritto e la forza a cui nulla può resistere.
Si sa che la sua tomba di marmo, ad Alessandria, era venerata anche durante la dominazione dei Maomettani. Nell’828, due mercanti veneziani vollero togliere le reliquie di san Marco dalla terra dominata dagli infedeli. Si disse che di nascosto i due veneziani togliessero dalla tomba le ossa del santo e le nascondessero in fondo a un paniere, riempito poi di vettovaglie. Altre leggende fiorirono intorno alla venuta di san Marco sul suolo veneziano. Fra queste la più poetica ebbe credito nella città lagunare.
San Marco sarebbe giunto a Venezia non dopo morto, ma ancora vivo, a causa di una grande tempesta che avrebbe spinto la sua nave, da Alessandria d’Egitto verso la laguna veneta. Sulla spiaggia, appena sbarcato, egli sarebbe stato accolto da un angelo, che gli avrebbe detto: “Pace a te, Marco evangelista mio”.
Sono le parole che si leggono ancora sulle pagine del libro, tenuto dagli artigli di un leone alato, che forma lo stemma di Venezia, chiamata perciò la ‘città di San Marco’.

Una nuova basilica custodirà il corpo di san Marco
Un incendio ha distrutto la Cattedrale. Ma subito si pensa a costruirne una più grande e più bella.
L’incarico di progettare e di innalzare la nuova chiesa è stato dato ad architetti bizantini, essendo Venezia assai legata all’Oriente, ed essendo i Veneziani molto sensibili al gusto che viene di là.
Anche la nuova chiesa sarà dedicata a san Marco e ne custodirà le reliquie, come la vecchia chiesa.
San Marco evangelista è infatti, da 150 anni circa, il protettore di Venezia. Precisamente da quando due mercanti veneziani, che a causa dei loro traffici si trovavano ad Alessandria d’Egitto, vennero a sapere dai cristiani di quella città,  dove si trovavano nascoste le reliquie di san Marco. Ottenute quelle reliquie, essi le portarono a Venezia, facendola in barba al controllo degli Arabi. E sapete come?
Al di sopra della cassa contenente il corpo del santo, misero uno strato di carni suine; gli Arabi, ai quali è vietato mangiare carne di maiale, fecero subito passare quella merce, che era bene lasciasse l’Egitto; e con la carne suina passò quel corpo, venerato ora in Venezia.

Cartolina illustrata da Venezia
Una laguna pallida. Un palazzo in riva al mare, con una facciata color di rosa. Una piazza piena di sole con due colonne come un proscenio, e, su una colonna un leone ruggente, con una zampa fiera appoggiata ad un Vangelo. E un gruppo di cupole dorate; un campanile altissimo. Una gondola nera, lunga, sottile, che accarezza mollemente le acque. Un grande silenzio…
(O. Vergani)

Venezia
La prima volta che si vede Venezia si ha l’impressione di trovarsi in una città di retroterra che abbia sofferto un’inondazione. I pali del telegrafo, che corrono bellamente sulla laguna, le isole che ne emergono qua e là, con gli alberi e i caseggiati, come da una pianura allagata, quella barca comune su cui arranca un vigile urbano in tenuta estiva, lungo il Canal Grande, la quale par proprio una barca di salvataggio, tutto concorre a favorire l’inganno. Illusi dalle apparenze ci perdiamo a seguire con gli occhi e con la fantasia, in tutta la sua estensione, il flagello, che ha colpito questa città, seppellendola per metà nelle acque, invadendo tutte le sue vie e viuzze, i suoi negozi e le sue cantine. Ma una gondola che spunta a un tratto, sull’angolo di un palazzo del Canal Grande, ci ricorda che siamo a Venezia. Quello che ammiriamo non è il prodotto di un cataclisma, bensì opera dell’uomo, capolavoro di una razza ingegnosa e paziente, che costruì una città in mezzo all’acqua, per ragioni difensive, beninteso, ma soprattutto, io credo, per essersi innamorata di quest’idea, per fare una cosa inaudita e mai vista: Venezia.
(V. Cardarelli)

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Dettati ortografici – Il corpo umano e la salute

Dettati ortografici – Il corpo umano e la salute – una collezione di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

L’uomo è un mammifero?

Abbiamo sentito ripetere tante volte che l’uomo è un animale e certamente siamo convinti che non è una pianta o un minerale. E badate bene che quando si dice ‘l’uomo’ ci si riferisce agli esseri umani in genere, siano essi uomini, o donne o bambini, come si dice ‘il gatto’ parlando della specie gatto, anche si tratta di una gattina. Sappiamo già che ogni specie animale ha caratteri suoi che la distinguono dalle altre ad anche l’uomo ha propri caratteri distintivi; ma prima di esaminare tali caratteri ricordiamoci di una cosa importante: tutti i bambini appena nati non hanno altro nutrimento che il latte e di solito è la mamma che allatta i propri bambini.
Questo fatto ci induce a pensare che anche l’uomo sia un mammifero e per esserne veramente sicuri controlliamo se esso presenta gli altri caratteri, che sono tipici dei mammiferi:
1. Esistono i peli sul corpo: infatti se osservate le vostre braccia e le vostre gambe con attenzione vedrete che esse sono rivestite di piccoli e delicati peli, la cosiddetta peluria, che diviene più evidente negli adulti; il capo è fittamente ricoperto di altri peli che sono i capelli; di peli sono costituite le ciglia e le sopracciglia; peli si trovano sotto le ascelle e così via.
2. Esistono i padiglioni auricolari attorno al meato uditivo esterno.
3. La bocca è con i denti.
4. E’ viviparo.
5. La temperatura del corpo è costante, infatti sappiamo che quando siamo malati, il medico per prima cosa controlla la nostra temperatura mediante un termometro. Se trova una temperatura di circa 37° il medico non si preoccupa troppo, perchè questa è la temperatura normale del nostro corpo; ma se la temperatura è più alta vuol dire che nel nostro organismo c’è qualcosa che non va bene, cioè che siamo malati. Questo vi dice quanto sia importante il fatto che i mammiferi abbiano una temperatura costante. (Lagreca – Tomaselli)

Che cosa distingue l’uomo dagli altri mammiferi?
Vediamo adesso di scoprire quali sono i caratteri che distinguono l’uomo da tutti i mammiferi che finora conosciamo.
1. Innanzitutto l’intelligenza: anche altri mammiferi possono essere più o meno intelligenti (basti pensare al cane), ma l’uomo ha un’intelligenza di gran lunga più sviluppata, che gli ha permesso di compiere cose meravigliose, di indagare sul mondo che lo circonda e di scoprire tante leggi naturali, di amare le cose belle, di fuggire il male, di esprimersi mediante un linguaggio articolato, che è ben diverso dai semplici suoni che emettono altri animali.
2. La posizione eretta che lo porta a camminare sugli arti posteriori che nell’uomo (appunto perchè sta eretto) si possono considerare arti inferiori; anche qualche scimmia o qualche orso possono reggersi o camminare per un poco sulle zampe posteriori, ma più spesso tornano ad usare anche le zampe anteriori.
3. L’uso delle dita degli arti anteriori, o meglio arti superiori, cioè delle dita delle mani, per afferrare e maneggiare oggetti; anche un topolino o il coniglio o uno scoiattolo possono afferrare oggetti fra le dita degli arti anteriori, ma non possono muoverle indipendentemente l’una dall’altra e soprattutto non possono ripiegare il pollice contro le altre dita (provate voi a farlo e osservate l’agilità delle vostre mani), come fa l’uomo (e le scimmie) che ha quindi il pollice opponibile.
4. La mancanza di coda. Esistono però altri mammiferi senza la coda.
(Lagreca – Tomaselli)

Il corpo umano
Ci sono animali e piante che possono vivere solo nelle calde regioni dell’equatore, altri che vivono nei gelidi climi polari.
L’uomo può vivere invece in ogni regione della Terra perchè il suo corpo si adatta a tutti i climi.
Il corpo dell’uomo resiste alla siccità, all’umidità, sopporta la mancanza di cibo, le intemperie, le fatiche, i lavori più pesanti, più di quello di ogni altro animale.
Vi sono animali dotati di zampe robuste: con esse corrono veloci sulla terra; altri animali hanno arti simili a braccia e possono arrampicarsi sugli alberi; altri ancora hanno le pinne e le usano per muoversi nell’acqua. Il corpo dell’uomo, fornito di braccia e di gambe, è adatto ad ogni forma di moto: può camminare, correre, saltare, strisciare, arrampicarsi, nuotare.
L’uomo ha le mani, con cui può afferrare e tenere saldi gli oggetti, ha il busto e il capo eretti, così da poter guardare lontano, ha la voce, capace di emettere innumerevoli suoni diversi.

E’ proprio vero!
Nel nostro corpo c’è tanto ferro da fabbricare cinque chiavi piuttosto grosse. Ma il fabbro preferirà certamente adoperare il ferro che ha nella fucina.
Quanto al sale, niente paura. Ce n’è in abbondanza tanto da riempire quaranta barattoli. Forse gli sciocchi ne hanno un po’ meno.
Volete un po’ di luce? Il nostro corpo vi potrebbe dare tanta cera da fabbricare cinque candele. Le signore api, se sapessero questo, sarebbero meno orgogliose dei loro favi di purissima cera, con la differenza, però, che per la loro cera le candele di fabbricano per davvero.
Nel nostro corpo c’è tanto zucchero da dolcificare venti tazze di caffè. Ma adesso non succhiatevi il dito con la scusa di sentire se è dolce. Il dito non è dolce e succhiarlo è soltanto una cosa poco pulita…
(M. Menicucci)

La macchina perfetta
Il corpo umano è spesso paragonato ad una macchina, perchè, considerato nel suo insieme, è costruito in modo da compiere nella maniera più spedita e più abile tutte le operazioni per conservare la vita e per migliorarne le condizioni. Come ogni macchina è composto di varie parti o organi (la mano, il cervello, il cuore, la bocca, i polmoni, lo stomaco, ecc.) che funzionano in collaborazione tra loro.
Ma il corpo umano può essere paragonato anche ad un laboratorio chimico, poichè riesce a trasformare le materie solide, liquide e gassose che esso si procura in altre sostanze utilizzabili per il proprio funzionamento.
Le sostanze utilizzate sono trasformate a loro volta in modo da produrre l’energia e il calore necessari perchè il corpo umano possa compiere tutte le operazioni di cui è capace.

La vera ricchezza
Un uomo si credeva povero. Diceva: “Lavoro tutto il giorno e non ho mai un soldo in tasca per divertirmi. Quello che guadagno mi basta appena per levarmi la fame!”.
Un tale che lo sentì, disse: “Mi venderesti un occhio per mille euro? Ne hai due, uno puoi darlo a me”.
Quello lo guardò stupito, poi disse di no.
“Se non vuoi darmi un occhio, vendimi un braccio per la stessa somma!”.
Ma l’uomo, che si credeva povero, disse anche questa volta di no.
“Allora vendimi una gamba”.
Ma quello rispose che non gli avrebbe venduto nemmeno un dente, e ne aveva trentadue tutti sani.
Allora quel tale fece un conto: “Duemila euro per gli occhi, duemila per le braccia e duemila per le gambe, e sono seimila. Poi tu hai cuore, fegato, stomaco che varranno molto di più perchè senza questi organi non potresti vivere. Consideriamo che il tuo corpo valga quanto un capitale di due milioni. E dici di essere povero? Ma l’uomo più ricco della terra, che abbia uno di questi organi malati, è indubbiamente più povero di te, perchè può darsi che tutte le ricchezze della terra non riescano a guarirlo”.

La salute è un tesoro che non ha l’eguale, perchè, quando non c’è la salute, tutto perde valore ai nostri occhi. Se è una bellissima giornata e noi ci sentiamo male e siamo costretti a letto, non possiamo godere del bel sole e della bella natura, se abbiamo nel piatto una squisita pietanza e abbiamo lo stomaco malato, non possiamo gustarla. Quindi noi dobbiamo cercare di mantenere il nostro corpo in perfetta salute. Inoltre, l’uomo sano lavora e se lavora produce e guadagna. L’uomo malato, invece, non lavora e vive del lavoro degli altri.

Ma per mantenere il nostro corpo in perfetta salute, noi dobbiamo sapere come è fatto e come funziona.
Il corpo è ricoperto di pelle, che lo riveste tutto come una corazza. Sotto la pelle ci sono i muscoli, che sviluppano la forza per cui l’uomo può lavorare, e sotto i muscoli c’è una solida impalcatura che sorregge il corpo, lo scheletro. Infatti, se lo scheletro non ci fosse, il corpo si affloscerebbe come un sacco vuoto.

Vediamo intanto come si chiamano le varie parti di cui si compone il corpo: la testa con gli occhi, il naso, la bocca, le orecchie. Nella testa è contenuto il cervello che possiamo considerare il motore della macchina. Abbiamo quattro arti, due braccia e due gambe rispettivamente con mani e piedi. E poi ancora il torace e l’addome. Nel torace sono contenuti i polmoni e il cuore, nell’addome l’intestino, il fegato e la milza.

Il corpo umano è una macchina meravigliosa con ingranaggi perfetti, ma, come tutte le macchine, ha bisogno di combustibile. Il combustibile della macchina – uomo si chiama pastasciutta, carne, verdura, frutta. L’uomo, per star bene, non deve mangiare sempre e soltanto gli stessi alimenti, ma deve mangiare di tutto. Caricata di combustibile la macchina – uomo produce energia, che ci permette di muoverci, di camminare, di lavorare.

La salute è il bene più prezioso della terra. L’uomo che ha perduto la salute , ha perduto un tesoro che tutte le ricchezze del mondo non potrebbero riacquistare.

L’uomo sano è l’uomo più ricco della terra. Egli può lavorare e col suo lavoro guadagnare tanto che basti a sè e alla sua famiglia. L’uomo malato, invece, vive del lavoro degli altri.

Il nostro corpo è ricoperto di pelle. Sotto la pelle ci sono i muscoli che sviluppano la forza per mezzo della quale l’uomo può lavorare. E sotto i muscoli c’è un solido sostegno: lo scheletro.

Cerca di mantenerti sano. I tuoi organi sono parti delicate e perfette del tuo corpo: conservali sani. La salute ti farà felice.

Nel corpo umano possiamo distinguere la testa. Nella testa è contenuto il cervello. Poi ci sono le braccia e le gambe, che sono gli arti. Nel tronco ci sono il torace, dove sono contenuti il cuore e i polmoni, e l’addome, dove si trovano intestino, fegato e milza.

La salute è un tesoro che non ha eguali in nessun tesoro della terra. Quando non c’è la salute, tutto perde di valore ai nostri occhi.

Il corpo umano è una macchina meravigliosa che, come tutte le macchine, ha bisogno di combustibile. Il combustibile della macchina uomo si chiama pastasciutta, carne, verdura, pane, frutta, latte.

Rispetta il tuo corpo!
La duchessa Anna di Francia (1462-1512) stava un giorno assistendo ad una partita di caccia quando udì dei gemiti quasi umani, e domandò chi gemesse in quel modo. Le fu risposto che erano gemiti di un ermellino che era stato accerchiato dai cacciatori.
La duchessa fece pochi passi e si trovò davanti a questa scena: un ermellino candidissimo, ormai accerchiato dai cacciatori, stava davanti all’acqua di uno stagno gemendo dolorosamente. Essa chiese: “Ma perchè non si salva gettandosi in acqua?”.
Le fu risposto che quelle bestiole sono gelosissime del loro candore e che, piuttosto di macchiarlo, preferiscono perdere la vita.
La duchessa fu talmente impressionata che fece incidere sul suo stemma le parole: “Potius mori quam foedari!” (Meglio morire che macchiarsi).

Come si difende il corpo

Ogni giorno il nostro corpo è invaso da miliardi di germi, molti dei quali possono provocare malattie e perfino la morte. Ciò nonostante ci conserviamo sani. Innumerevoli batteri e virus riescono a penetrare nel nostro organismo con il cibo che mangiamo, o con l’aria che respiriamo, o attraverso qualche ferita della pelle. Eppure ci conserviamo sani. Alcuni germi si stabiliscono permanentemente nella bocca, nel naso, nella gola o negli intestini, dove possono moltiplicarsi in modo incredibile. Ciò nonostante ci conserviamo sani. Che cosa ci protegge da questi assalti?

A poco a poco, durante secoli di studi, gli scienziati sono riusciti a scoprire che cosa accade. La nostra salute è protetta, essi affermano, da una serie ingegnosa di difese, disposte in profondità, come le linee successive di un esercito trincerato per respingere l’invasore.

Supponiamo, ad esempio, che una particella di polvere carica di microbi penetri nell’occhio. Con tutta probabilità non c’è alcun motivo di preoccuparsi. La superficie del globo oculare è costantemente bagnata da un liquido lacrimale, il quale contiene un antisettico detto lisozima, che uccide i batteri.

I germi che penetrano dal naso devono passare attraverso una complicata rete filtrante. La superficie delle vie nasali è mantenuta umida da un liquido mucoso che trattiene i germi. Se questi causano un’irritazione, sono espulsi con lo sternuto.

Cosa avviene nel nostro corpo quando ci facciamo una ferita,  sia pure un graffio? Dalla ferita alcuni microbi patogeni (cioè generatori di malattie) penetrano nel corpo. Il pericolo è tremendo perchè i batteri si moltiplicano con spaventosa rapidità e in breve tempo potrebbero invadere tutto l’organismo e anche ucciderlo.

Ma il nostro corpo si mette subito in allarme e un meraviglioso sistema di difesa entra immediatamente in azione. Migliaia e migliaia di globuli bianche (leucociti) accorrono, attaccano i batteri, li circondano e li distruggono.

Questo, quando i globuli bianchi (leucociti) contrattaccano in tempo e i  batteri non sono troppo numerosi e virulenti. Se invece i batteri resistono e riescono a moltiplicarsi uccidono le cellule dei tessuti. Allora i globuli bianchi non solo devono combattere i batteri, ma devono distruggere anche le cellule morte che potrebbero divenire pericolose per il corpo umano. In questa lotta tremenda, che ha come posta finale la salvezza o un grave danno per il corpo umano, molti globuli bianchi muoiono e si trasformano in pus. Ma da ogni parte accorrono sempre più numerosi rinforzi: i globuli bianchi arrestano così l’invasione; la bloccano in un punto (il foruncolo) impedendo che l’infezione si diffonda in tutto il sangue. In breve le cellule riparano i danni provocati dalla ferita e nel corpo cessa lo stato di allarme.

Molte volte però i batteri, appena entrano nel nostro organismo, emettono delle sostanze velenose, le tossine. Il tetano e la difterite sono alcune fra le malattie provocate da tossine batteriche. Il sangue allora, o meglio il siero del sangue, fabbrica subito del soldati capaci di attaccare le tossine nemiche: le antitossine. Questi anticorpi, così vengono chiamate le antitossine, combattono le tossine e spesso le vincono.
Molte volte però il sangue non riesce a fabbricare subito le antitossine. Ci vuole tempo. E le tossine batteriche hanno tutto il tempo per attaccare e vincere. Il corpo è costretto allora ad una lotta che può durare anche delle settimane.
Per aiutare il corpo nella lotta contro i batteri, i medici vaccinano, ossia iniettano nel sangue degli anticorpi (antitossine) già preparati, così il sangue ha già le antitossine pronte e può vincere l’attacco nemico.

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Dettati ortografici sui cinque sensi

Dettati ortografici sui cinque sensi – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

I sensi

I sensi sono cinque: vista, odorato, gusto, udito, tatto. Sappi mantenere sani gli organi dei sensi perchè con essi puoi godere le belle cose del creato.

La vista
la vista è un bene prezioso. Conservala meglio che puoi. Pensa alla sventura di chi è cieco, che non può vedere la bellezza della natura, il viso delle persone care.

L’occhio

L’occhio è la via della luce. Quando chiudi i tuoi occhi, anche per gioco, ti trovi avvolto nelle tenebre e il mondo non sembra esistere più attorno a te. Per mezzo degli occhi tu conosci il volto della tua mamma, del babbo, delle persone che ami di più. Con gli occhi tu cogli  i colori della natura, le forme infinite delle cose del mondo in cui vivi. Gli occhi ti permettono di leggere ciò che è stato scritto per te, ti permettono di allineare sul candido foglio il nitido segno delle parole che vuoi scrivere tu.
Che i tuoi occhi possano vedere sempre immagini di bontà e di bellezza!

L’occhio

Se ci guardiamo allo specchio, l’occhio appare come un globo che ha una parte bianca, umida e liscia, chiamata cornea. Il cerchietto scuro che vediamo al centro dell’occhio è la pupilla, un forellino la cui apertura è in parte variabile. La pupilla è circondata da un anello colorato detto iride, che può essere azzurro, marrone, verde, giallo, nero.

La superficie dell’occhio è tenuta sempre umida e pulita dalle ghiandole lacrimali, che emettono un liquido, non solo quando piangiamo. Le ciglia difendono gli occhi dal pulviscolo, mentre le sopracciglia impediscono che il sudore o un altro liquido scorra dalla fronte negli occhi.

E ora vediamo come l’immagine si forma nell’occhio. Ammettiamo che una candela accesa si trovi in una stanza buia. I raggi di luce che essa emette passano prima di tutto attraverso la cornea, che è trasparente; poi attraverso un liquido trasparente anch’esso (detto umor acqueo) e il foro che sta al centro dell’iride, giungono al cristallino. Questo è come una lente, che trasmette i raggi, attraverso un altro liquido detto umor vitreo, alla retina. Il cristallino, che sta dietro all’iride, appare nero, poichè non respinge i raggi di luce, ma li lascia passare.
Sulla retina l’immagine appare capovolta. Le immagini attraverso il nervo ottico sono trasmesse al cervello, il quale le percepisce, non più capovolte, ma nella giusta posizione.

L’udito
Il senso dell’udito ti permette di udire la musica, il soave canto degli uccellini, la voce della mamma. Ma con l’udito senti anche il rombo del tuono, lo scoppio di una bomba, lo stridio del treno sulle rotaie.

L’orecchio

Sentinella continuamente all’erta, il tuo orecchio ti avverte dei pericoli, richiama la tua attenzione, ti fa sentire che intorno a te si agita il mondo immenso delle cose, degli animali, degli uomini.
Con l’orecchio tu ascolti le parole di chi ti ama e ti guida, cogli l’armonia del canto e della musica, odi le mille voci della natura e il rumore degli strumenti che accompagnano la fatica dell’uomo.

L’orecchio

I suoni vengono raccolti da padiglione e, passando per il condotto, o canale uditivo, fanno vibrare il timpano, che trasmette la vibrazione agli ossicini. A loro volta gli ossicini trasmettono la vibrazione all’orecchio interno, il quale è un organo delicatissimo incassato ancor più profondamente nel cranio. L’orecchio interno è pieno di liquido, per cui le vibrazioni ricevute vi generano delle onde, che vanno ad eccitare delle terminazioni nervose e che vengono trasformate in impulsi inviati al cervello, in modo che noi possiamo sentire. In poche parole, nell’orecchio si riproduce la vibrazione e quindi il suono proveniente da un oggetto qualsiasi: da una limetta, dalla corda di un violino, da una moneta, e via dicendo.

Così, anche senza vedere, noi sappiamo se sulla strada transita un’automobile e da quale parte proviene la voce di qualcuno che ci chiama.

Una funzione dell’orecchio interno è quella di informarci sulla posizione della nostra persona, così da tenerci in equilibrio.

L’odorato
Il senso dell’odorato risiede nel naso. Questo senso ti permette di sentire i soavi odori dei fiori, i gustosi odori del cibo.

Il naso

Di quante cose ti avverte il tuo piccolo naso curioso! I profumi delicati dei fiori  ti insegnano ad amare la natura. Lo squisito profumo dei cibi più graditi e delle leccornie ti fa pregustare il piacere di mangiarle. Gli odori sgradevoli ti tengono lontano da ciò che ti potrebbe far male. Anche il naso, a suo modo, è una piccola sentinella.

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Dettati ortografici ESCLAMAZIONI

Dettati ortografici ESCLAMAZIONI – Una collezione di dettati ortografici per esercitare la scrittura delle esclamazioni, per la scuola primaria.

“Eh, via, non c’è bisogno di piangere!”.

“Ehi! Ehi! Dove andate? Non sapete che di qui non si può passare?”.

“Deh, siate generoso! Perdonatelo!”.

“Ohi! Ohi! Affogo!”, gridava il ragazzo, sentendosi mancare il respiro.

“Uh! che bestiaccia!”.

“Ahimè! La cosa è molto grave: bisognerà avvertire la mamma.”.

Ahi! Ma perchè non hai fatto attenzione? Mi hai pestato un piede.

Ehi, Emilio, giacchè sei qui, puoi darmi una mano nei preparativi o ti dispiace?

Ohi ohi, le cose si mettono male. Alberto è molto arrabbiato; ogni volta che sente parlare di Giovanni va in escandescenze. Eppure, fino a pochi giorni fa andavano d’accordo. Cosa sarà successo fra loro? Mah!

Toh, chi si vede!

Ah! Oggi sono stato proprio sfortunato!

Ahi! Non vedi che mi hai fatto male?

Sta attento ve’!

Oh, Gino, ti è piaciuto lo spettacolo?

(in costruzione)

Dettati ortografici ESCLAMAZIONI – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici APOSTROFO

Dettati ortografici APOSTROFO – Una collezione di dettati ortografici per esercitarsi con le parole con l’apostrofo, per la scuola primaria.

Non posso giocare all’aperto perchè piove.

Un’amica di Giorgio è ricoverata all’ospedale di Milano.

Tutti i bambini si ritroveranno nell’atrio della scuola.

Nell’acquario guizzano i pesci rossi.

Le lancette dell’orologio segnano le cinque.

Le orecchie dell’asino sono lunghe.

La visita dell’amico mi ha procurato tanta gioia.

L’aquila ha il nido sull’alto monte.

Sull’albero di Natale splendono le luci.

Dall’America sono partite grosse navi. Dall’alba al tramonto tutti lavorano.

Da’ retta a me e sarai contento.

Fa’ il tuo dovere.

Di’ sempre il vero quando ti si chiede qualcosa.

Va’ dritto per la tua strada se non vuoi essere importunato.

Da’ a lui quanto chiede.

Fa’ a me questo favore.

Sta’ a me vicina.

Fa’ in piacere di star zitto.

Va’ ad imbucare la lettera che ti ho dato.

Di’ che stia tranquillo.

Va’ a comprarmi un francobollo.

Quest’anno il tempo è stato abbastanza clemente.

Scarse le piogge di quest’autunno, brevi le apparizioni della neve quest’inverno.

Ricordo l’altro anno: quell’albero di pino si curvava perfino sotto il peso della neve.

Quell’angolo del cortile si era trasformato in un pantano.

Ricordate come quell’argine del canale avesse ceduto in seguito alla pioggia? In quell’occasione tutti ebbero paura e gli uomini dovettero abbattere quell’antico cascinale, che sorgeva proprio vicino all’argine. Tuttavia a quest’ora lo avranno già ricostruito un po’ più lontano.

C’era un giornale là, chi l’ha preso?

S’era stabilito così: c’era anche il papà quella sera, ora è impossibile cambiare l’ora.

S’è dimenticata che m’aveva promesso d’avvertirmi.

M’hai portato un bel libro da leggere quando sarò in campagna quest’estate?

Luisa, l’hanno consegnato a te quel pacco così pesante?

Vieni, e lascia che ti aiuti un po’.

Quand’egli t’indicò il cespuglio, vedesti dov’era nascosta la palla.

Sull’imbrunire c’incamminammo verso l’altro paese che s’intravvedeva sulla collina soprastante.

Un’ascia s’abbattè sul tronco dell’albero.

Quand’era stanco si riposava sui massi.

Ripreso il cammino spingeva avanti, quant’era possibile, lo sguardo.

Quand’era arrivato il treno io ero appena giunto alla stazione.

Quant’è bella la scena che ci offre la natura in questi giorni di primavera!

Raccolse tant’erba quant’era necessaria a mantenere le due mucche che aveva comprato.

E’ un bel cane, è il terz’anno che l’ho con me.

L’altr’anno l’ho incontrato durante le vacanze.

Anch’io gliel’ho detto di non tardare mezz’ora perchè non occorreva nient’altro.

Quand’ella verrà glielo dirò. Gliel’hai spiegato dov’è la casa di Giorgio?

Gliel’avevo detto quando partì.

Gliel’ho disegnato  proprio com’era.

Gliel’hanno detto appena è arrivato.

L’ho visto pallido e magro: dev’essere stato malato.

Gliel’hai detto che quella sera suo fratello s’era sentito male?

Se lui t’ha offeso ti chiederà perdono.

T’ho detto e t’ho ripetuto che io non so nulla.

M’è passato proprio davanti, ma non l’ho riconosciuto.

Adolfo è il conforto, l’aiuto, il sollievo della sua povera madre.

La lettera che t’invio v’apporterà nell’animo una dolce soddisfazione.

Questo o quest’altro per me fa lo stesso.

Chi loda se stesso s’imbroglia.

Quell’uomo non aveva una bella cera.

Quando tu m’hai detto quella cosa, io pensavo a tutt’altro.

Se t’avessi rimproverato avrei fatto meglio.

Quand’egli seppe la notizia, corse subito a riferirla alla mamma.

Ci accorgemmo ch’era tardi e c’impaurimmo.

C’incamminammo verso l’uscita, ma dovemmo girare mezz’ora per trovarla.

Il nonno m’ha raccontato una favola, ma tu dov’eri?

L’altr’anno durante le vacanze natalizie andai a sciare.

T’indicai l’uscita e tu te ne andasti mogio mogio.

Dettati ortografici APOSTROFO – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici ACCENTO

Dettati ortografici ACCENTO – Una raccolta di dettati ortografici per questa difficoltà di scrittura per la scuola primaria.

Mario uscì, passò il cancello, infilò la strada e corse finchè non ne potè più. S’era alzato tardi per andare a scuola. Suo fratello invece era già pronto, perchè s’era alzato presto. Entrò in cucina, mangiò tranquillamente, poi adagio s’avviò alla stazione. Quando il treno arrivò egli salì e partì per recarsi in città.

Là, sull’estremo orizzonte, dove nè la terra nè il cielo hanno precisi contorni, rimane per poco un chiarore rossastro: è l’ultimo saluto del dì che muore. Il sole, l’astro del giorno, dà un bacio al cielo prima che s’ingemmi di stelle, dà un bacio alla terra prima che si sprofondi nella quiete della notte. Il ricordo che di sè ci lascia è così dolce e così caro che le ore future saranno di rimpianto e d’attesa.

Non lo vidi nè a scuola nè in cortile e il giorno mi sembrò più lungo e più noioso. Andai anche  a cercarlo là, al solito posto accanto al cantiere, ma i compagni mi dissero che lì non era venuto. Uno aggiunse che forse suo padre se l’era portato con sè. “Sì”, intervenne un altro, “mi sembra proprio di averlo visto in automobile: si dirigevano verso la campagna”. Da mio fratello seppi poi che era vero. Tuttavia la sua assenza mi dà pensiero perchè è la prima volta che parte senza avvertirmi.

Da più giorni piove. Il temporale non ci dà tregua. Là, nell’angolo più basso del cortile, si è formata la più grande pozzanghera. La pioggia può cessare da un momento all’altro, ma è anche vero che ora vien giù come se non dovesse smettere mai. Ciò ci impensierisce perchè già lo scorso  anno avemmo un allagamento, che ci costrinse in casa tutto un dì. Nè io nè i  miei fratelli ci azzardammo ad uscire. Solo il giorno dopo il babbo ci portò con sè.

Ma ve lo devo proprio portare lì? Qui non c’è anima viva.

E’ più di là che di qua.

Non ti verrò mai più vicino.

 Dettati ortografici – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici DOPPIE

Dettati ortografici  DOPPIE – Una raccolta di dettati per la scuola primaria per questa difficoltà ortografica.

Il fumo esce dal camino. Quando fummo in cammino incominciammo a cantare.

Io sono stanco ed ho sonno.

Tutti sanno che chi è sano deve cercare di conservare la sua salute.

Nel mese di giugno le messi sono abbondanti.

Ada va a passeggio lungo le rive dell’Adda.

Entrai in casa e mi tolsi il cappello; m’accorsi allora che mio padre aveva un diavolo per capello.

Alla sera i pulcini vanno sotto l’ala della chioccia ed i fiori vengono portati nella serra.

In un vano della mia casa c’è una cassa di libri.

Una bella pecorella bela nell’ovile.

Spesso la mamma dice che ha speso troppo.

Nel vaso sono disposte alcune rose rosse di serra.

La sera giunge presto e la nonna serra al cuore il nipotino.

Giorgio gioca con la pala, Luisa invece preferisce divertirsi con la palla.

Sul nono gradino della scalinata c’era il nonno di Attilio.

Difficoltà ortografiche DIGRAMMI VARI

Difficoltà ortografiche DIGRAMMI VARI – Una raccolta di dettati ortografici per la scuola primaria.

La neve si scioglie e diventa acqua liquida.

I bambini non bevono i liquori.

Quella stoffa è di buona qualità.

Sul quadro c’è qualche macchia.

L’aquila è un uccello rapace.

Gli inquilini della casa sono tranquilli.

Lucia sa costruire gli aquiloni.

Quando tornerà la mamma?

C’era una grande quantità di neve.

Quattro spazzini spazzarono la strada.

Il nonno ha comprato quattro quintali di patate.

La quercia produce le ghiande.

L’acqua è indispensabile per la vita dell’uomo, delle piante, degli animali.

In cucina c’è l’acquaio.

Scende un’acquerugiola noiosa.

Che acquazzone!

Quel panettone fa venire l’acquolina in bocca.

In Sardegna c’è un grande acquedotto.

Nell’acqua vivono i pesci.

Scendendo le scale Mario scivolò.

Non sciupare i libri.

Un ragnetto ha tessuto la ragnatela nel cavo di una pigna.

La magnolia offre dei fiori bellissimi.

Quando compio il mio dovere, poi ho la coscienza tranquilla.

I soldati mangiano la pagnotta.

Emilio si è bagnato giocando presso lo stagno.

Ho fasciato un dito, perchè mi sono tagliato.

L’agnello belava nel prato.

I fogli del quaderno sono rigati.

Il pesce è fresco.

I cuochi sono i re della cucina.

Quando piove calzo un paio di scarpe di cuoio.

Quel banchiere riscuote le somme di denaro.

Sul taccuino ho segnato il numero di telefono di Giovanni.

Ci fu un tempo in cui i merli erano tutti bianchi e facevano il nido in gennaio. Una merla sbeffeggiava il gennaio così: “E’ la sera del ventotto. Tu stai per andartene. Ah ah! Le tue minacce non m’impauriscono più!”. Ma ecco la vendetta di gennaio ! Negli ultimi tre giorni del suo regno accumulò un freddo intensissimo. L’infelice merla dovette rifugiarsi, soi suoi figli, su su in un camino fuligginoso. Da allora i merli divennero neri e gli ultimi tre giorni di gennaio sono sempre rimasti i più freddi dell’anno.

Quando ho affermato che l’acqua occupa i quattro quinti del globo, tu non l’hai creduto. Eppure l’acqua, come l’aria, è ovunque. Ha il suo proprio luogo negli oceani, nei mari, nei laghi, nei fiumi, sotto terra, ma in notevole quantità la troviamo anche in tutti i corpi che hanno vita.Hai mai osservato una vite potata? L’esile tralcio tagliato è diventato una piccola fontanella da cui gocciolano stille lucentissime: le lacrime della vita. I vegetali ne hanno in quantità copiosa e non poca è all’interno del nostro corpo e di quello degli animali.

Un contadino aveva quattrocento monete d’argento. Andò al  mercato e comprò delle pecore. Gliene dettero una ogni cinque monete. Tornando si trovò a dover passare un fiume gonfio d’acqua per una gran pioggia ch’era venuto giù. Sulla riva c’era una barchetta così piccina che potevano entrarci il contadino e una pecora per volta. Cominciò dunque il pover’uomo a passare con una pecora… Ma qui il narratore di questa novella tacque. “E dopo?” gli chiesero gli ascoltatori. “Dopo? Lasciamo prima passare tutte le pecore; quando saranno passate seguiterò.

Nella famiglia ognuno ha le affettuose e sollecite cure dei genitori, nella scuola tutte le attenzioni del maestro che ci istruisce e ci educa. Che possiamo desiderare di più? Oh, pensiamo a tanti bambini che non hanno nè le carezze dei loro cari, nè le gioie serene di una vita tranquilla: nulla di tutto quanto può alleviare le sofferenze inevitabili della vita, nulla di ciò che la rende bella.

In inverno c’è sempre molta nebbia.

Saremo promossi se se lo meriteremo.

Il pavimento si pulisce con la cera.

Alla festa c’era anche il direttore della scuola.

M’ha detto che quand’anche io gli avessi fatto questo torto, egli m’avrebbe perdonato.

Difficoltà ortografiche DIGRAMMI VARI – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici SE SE’ S’E’, SERA S’ERA, uso di E’ ed E

Dettati ortografici – SE SE’ S’E’, SERA S’ERA, uso di E’ ed E – una raccolta di dettati ortografici su queste difficoltà di scrittura per la scuola primaria.

Se mi dirai la verità io ti perdonerò.

Egli aveva condotto con sè il fratello.

Antonio s’è dimenticato d’avvertirci.

Egli s’era trovato lì per caso sabato sera.

Egli s’era impegnato a fare tutto da sè.

Tutta la sera non ha fatto che piovere.

S’era sbucciato un po’ il ginocchio sinistro.

Tutti aspettavano con ansia quella sera. L’egoista non pensa che a sè.

A me piacciono i fiori. M’è caro il tuo ricordo. Vieni da me oggi.

Lo zio Nino ha mandato un bellissimo dono per te. T’è piaciuto il dono dello zio Nino?

Questa fiaba m’è piaciuta molto, e a te?

La pianta del tè è coltivata nei paesi caldi.

Preferisci bere il caffè o il tè?

Questa mattina al mercato m’è parso di vedere tua cugina.

A me e a te non piace il tè.

M’è passato proprio davanti, ma non l’ho riconosciuto.

S’era fatto buio e per le strade non c’era più nessuno.

Quant’è faticoso il lavoro compiuto contro la nostra volontà!

L’avevo detto che di te non c’è da fidarsi!

S’era fatto sera improvvisamente.

Dov’eri che ti ho cercato per tutta la sera?

Una vera fortuna non aver trovato la nebbia quella sera.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici SC GN GL

Dettati ortografici SC GN GL  – una raccolta di dettati su queste difficoltà ortografiche per la scuola primaria.

La scimmia si diverte dondolandosi ai rami di un albero.

Il pesce  spada è molto pericoloso.

I coniglietti dello zio hanno il pelo bianco.

Non sciupare i fogli del quaderno.

La campagna è spoglia.

Le foglie dell’abete resistono al freddo dell’inverno.

Che sciocchezza!

Il pastorello raccoglie le pigne.

Gli scoiattoli sono in letargo.

Nella bottiglia non c’è più latte.

Arturo ha sciupato il suo libro di favole.

Le lavandaie sciorinano i panni al sole. Il giglio è candido.

Ogni medaglia ha il suo rovescio.

Sulla soglia di casa tutta la famiglia attendeva la zia. Io e Iei abbiamo passeggiato sotto il viale dei tigli.

I gladiatori combattevano nel circo con le fiere.

Maglione, fogliame, tovaglia, voglia, paglia, aglio, pagliaio, foglia, meglio, scegliere, coniglio, figli, conchiglie, tiglio, miglio, pagliericcio, scoglio, bottiglia, foglio, sveglia, sbadigliare.

Bagno, ragno, cigno, legno, regno, sogno, gnomo, guadagno, agnello, falegname, campagna, cicogna, lasagne. prugne, stagno, signore, compagno, maligno, ragnatela, insegnante, mugnaio, pugno, usignolo, lagna.

DETTATI ORTOGRAFICI – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici GLIA LIA, GLIO LIO

Dettati ortografici GLIA LIA, GLIO LIO – Una collezione di dettati per la scuola primaria per queste difficoltà ortografiche.

La zia Gigliola nel mese di luglio venne con un naviglio dall’Australia, e visitò i suoi parenti in Italia.

C’era la bella Lilia che aveva lunghe ciglia, la cuginetta Amalia che lavorava a maglia, la sorellina Aurelia che all’alba era già sveglia, mentre il cugino Emilio faceva uno sbadiglio.

Il nipote Basilio si curava col tiglio, ed il bisnonno Giulio preparava un intruglio.

La cognatina Clelia infornava una teglia, ed il prozio Aurelio sceglieva sempre il meglio. Il piccolo Virgilio giocava col coniglio e col cagnetto Ollio sul prato di trifoglio.

La cameriera Cecilia, pulita la fanghiglia, ritornava in famiglia. Partiva per la Puglia e arrivava in Sicilia.

Prima di ripartire, zia Gigliola posò per una statua di scagliola: prima di ritornare in Australia col naviglio, la regalò alla balia che amava la cianfrusaglia.

Molti furono costretti a vivere in esilio per sfuggire alle vendette dei tiranni.

Il figlio del signor Guglielmo si chiama Giulio.

Clelia coltivava con amore una bella pianta di dalia.

Stamattina Aurelio spedì un vaglia al proprio figlio che viveva sull’isola del Giglio.

L’olio di oliva è un ottimo condimento.

Gli uccelli si nutrono di miglio, di insalata, di frutta e di insetti.

La mia balia è una donna della campagna romana.

Mentre lavoravo mi è sfuggita una maglia.

Attilio se ne stava tranquillamente seduto su uno scoglio.

DETTATI ORTOGRAFICI – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici CA CU CO CHE CHI, GHE GHI GE GI

Dettati ortografici CA CU CO CHE CHI, GHE GHI GE GI – Una raccolta di dettati per la scuola primaria per queste difficoltà ortografiche.

Nella gabbia grande canta un canarino giallo. Il gelo di questi giorni è intenso: ha fatto ghiacciare anche la fontana dei giardini pubblici.

La chiave è nella serratura e la porta è chiusa.

Chi parla troppo, sbaglia; chi parla poco, pensa.

Il cielo è nebbioso.

Giochiamo in cerchio.

Giorgio e Amerigo sono amici. Anche Giovanna ha due amiche.

Gli occhiali del nonno sono rotti.

Chiediamo a Maria se ha visto i bachi.

I bruchi sono degli animaletti.

Alla mamma ho dato un bacio affettuoso.

Sai giocare a bocce?

Nel legno ci sono alcuni buchi.

Gli aghi sono appuntiti.

Il lago di Como è incantevole.

Le ghiande piacciono ai porcellini.

Col fuoco si fa un bel rogo.

Il vento mugghia.

Pagheremo domani il droghiere.

Chi dorme come un ghiro?

La marmotta è in letargo.

Ca cu co H no; che chi H sì!

Cotone, casetta, custode, chiave, nacchere, cuscino, colorificio, cartella, chiesina, maccheroni, costoso, cullare, canestro, cuore, bocche, chiudere, inchiostro, castagna, commercio, racchiuso, immacolato, boccone, vacchiette.

Ga gu go H no, ghe ghi H sì!

Gavetta, guscio, goloso, margherite, ghiottone, gastronomia, rugoso, guercio, ghette, maghi, gas, guizzare, spigolo, ghianda, arguto, magro, ghirlanda, regata, gomma, gufo, vaghe, lago, rughe, righetto, gattino, rogo.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici S Z

Dettati ortografici S Z – Dettati per la scuola primaria per questa difficoltà ortografica.

In classe c’è silenzio. Che bellezza, ho ritrovato il mazzolino di fiori!

Dovevo studiare la lezione, ora devo eseguire le addizioni.

La visione del tramonto del sole è sempre bella.

La provvidenza pensa a tutto.

L’aviazione italiana è valorosa.

La tazza è rotta.

Le tasse vanno pagate subito.

(in costruzione)

 

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

 

Dettati ortografici SCI SCE

Dettati ortografici SCI SCE – Una raccolta di dettati per la scuola primaria per queste difficoltà ortografiche.

Gli sciatori scendono sulla neve con gli sci, e scendono veloci sulla discesa. Chi invece non sa sciare, scivola sul ghiaccio con gli schettini o scende dall’altro con slitte e slittini gridando: “Pistaaa!”. Attenti però a non schiantarsi sui tronchi scendendo troppo veloci.

Fruscio, frusciare, frusciante, nascere, nascita, pascere, uscio, uscire, ruscello, ruscellare, sciolto, sciogliere, sciabola, asciugare, asciugamani, asciugatoio, asciutto, sciupare, sciupone, sciupato, sciame, sciamare.

Guscio, uscio, scintilla, conoscere, pescecane, scenata, sconosciuto, ambasciata, scimmiotto, nascere, scegliere, sci, sciare, scenario, scioperato, visceri, scialle, conosciuto, maresciallo, sciacallo.

Pesce, fascia, scialle, prosciutto, cuscino, sciabola, fascio, coscia, ruscello, sciatore, scimmia, ascia, uscio, sciarpa, liscio, scendere, guscio, scena, sciame, sciocco, sciupare, pescivendolo, asciugamano.

La scimmia è un animale che imita tutto ciò che vede fare agli uomini. Che animale sciocco!

Via le galline dal campo di grano. Sciò sciò! La massaia le scaccia, ma quelle tornano sempre.

Un pesciolino nuotava nel ruscello. Un giorno quel pesciolino volle arrivare fino al mare. Come finì il pesciolino?

Una biscia è nel fosso. Non aver paura della biscia. Essa non è velenosa come la vipera.

Il pescatore scambiò Pinocchio per un pesce e per poco non lo mise  in padella a friggere con gli altri pesci.

La scimmia è un animale scioccherello. Sa imitare i gesti degli uomini e si dà, per questo, molte arie.

Il ruscello corre fra le erbe e i fiori, cantando la sua canzone. E’ un ruscelletto gaio che fruscia allegramente.

Lo sciatore scivola sulla neve. Ma ad un tratto, povero sciatore! Non scivola più. Ha fatto un bel ruzzolone.

Pesce, fascia, scena, scimmia, sciopero, cuscino, biscia, scellerato, sciocco, sciatore, fasciatura, scena, scimmietta, strisce, discesa, scenario, uscita, scettro, mascella, sciame, sciatrice, cuscinetto, sciarpa.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici R

Dettati ortografici R – Una raccolta di dettati per la scuola primaria per questa difficoltà ortografica.

Padre, madre, freno, prato, drago, grillo, brocca, freddo, infreddolito, freddoloso, raffreddore, fragile, labbra, drago, febbre, febbricitante, febbrone, cresta, frastuono, fabbrica, trappola, intrappolare, braccio, abbracciare, ombrello, ombrellaio, ombrellone, ombrellino, maglieria.

Strada, stradina, stradone, istradare, stradino, straniero, stramazzare, strillo, strillare, strillone, sgranare, tromba, strombettare, trombettiere, spruzzo, spruzzare, sprizzare, crosta, scrostare, crostata, crema, scremare, strutto, struggere.

(in costruzione)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici e filastrocche per la Q

Dettati ortografici e filastrocche per la Q – una raccolta di dettati per la scuola primaria per questa difficoltà ortografica.

Questa è la storia di un’anatra con quattro anatrini che si chiamavano Qua, Que, Qui e Quo. Tutti i giorni, quando mamma anatra li chiamava perchè andassero a tuffarsi con lei nell’acqua dello stagno, doveva starnazzare un bel po’ e urlare a squarciagola, perchè Qua era lento, Que era pigro, Qui era distratto e Quo dormiva sempre. Infine, quando Qua, Que, Qui e Quo si mettevano in fila, l’anatra li portava a tuffarsi nell’acqua quieta dello stagno.

Giorni fa venne qui da noi quel birichino di Quadrio. Indossava, come sempre quando piove, quel suo giubbetto di cuoio scuro. Disse che era di ritorno da scuola: infatti aveva con sè alcuni quaderni. Stette alquanto in cucina a disturbare Maria, la vecchia cuoca. Questa, che stava cuocendo la cena, prima gli promise quattro scappellotti, poi lo spruzzò d’acqua e infine fece l’atto di percuoterlo col mestolo che teneva in mano.

Quaranta, quaresima, quaderno, equestre, liquido, cinquanta, eloquenza, quadrupede, questura, quiete, questore, quercia, pasqua, liquefatto, quoziente, quasi, aquilino, quaglia.

Aquilone, quaderno, qualità, quantità, cinquanta, quadro, squillo, Pasqua, quattro, soqquadro, quattrini, quadrupede, liquirizia, squame, squadra.

Qua qua, fanno le anatre grasse e tranquille. E vanno verso la pozza fangosa dove troveranno squisiti bocconi.
Un bellissimo aquilone vola alto alto nel cielo tranquillo. E’ un aquilone di carta azzurra e ha una coda con quattordici anelli.

L’aquila volava in alto in alto. Disse un aquilone: “Arriverò fino all’aquila se il vento mi aiuta!”. Ma l’aquilone non arrivò fino all’aquila. Era soltanto un aquilone di carta.

Quanti passeri nel bosco! Dicono ai fratellini: “Qui! Qui!” Venite qui! Troverete da mangiare!”.

Qua qua, fa l’anatra ai suoi anatroccoli. “Venite qua”. E li porta a una pozza fangosa dove gli anatroccoli sono felici di nuotare.

Quattro uccellini sono sul ramo e cantano tutti: “Ci! Ci!”. Quattro bambini li guardano e sospirano. Dicono: “Venite da noi, uccellini. Ci divertiremo insieme.”

Aquila, aquilone, aquilotto, quaderno, quattro, cinquanta, soqquadro, squattrinato, qualità, quantità, squillare, liquore, squallido, squadra.

Liquore, quoto, aquila, quattro, quadro, questo, aquilone, cinque, questua, quindici, quotidiani, quarto, quando, quasi, quello.

Il vecchio nano Q, sta sempre con la U
ma vuole ancor di più.
Dice: “Soltanto in tre, si sta come dei Re”
Allora una per volta, chiama O A I E
e finalmente canta: qui quo qua e questa è que.

Ecco qui quattro fratelli, tutti belli questi e quelli
li ritrovai tali e quali, nei quaderni e nei quintali
nei quattrini e nei querceti, in quaranta bimbi inquieti
presso l’aquila che ruota, quando scende a bassa quota
nella quaglia e nel questore, non li trovi invece in cuore
nella scuola oppur nel cuoco, che cucina accanto al fuoco.

Qua… que… qui… quo…
or succede un qui-pro-quo…
perchè in cuor la q non va,
ma ci vuole in qualità,
in querela, in questo, in quello,
e nel quattro e nel quaranta,
e nella quaglia che vola e canta,
ed in quindici, e in Quirino
nella squadra e nel quattrino,
e in soqquadro che, per cose sue,
invece d’una ne vuole due!
Zietta Liù

Filastrocca del qui e del que
Filastrocca del qui e del que:
bimbi cari venite da me.
Filastrocca dei qui e del qua:
bimbi cari vi piacerà.
C’è un quaderno con tanti quadretti,
c’è un bel quadro con quattro angioletti,
c’è una squadra di soldatini,
ci sono cinque vispi bambini.
Corron di qua, saltan di là:
presto la casa a soqquadro sarà.

Il quaderno della Q
Il quaderno della Q
è un quaderno un poco matto:
se tu scambi C con Q
ahi! ti buschi un brutto quattro,
perchè in cuor la Q non va,
ma ci vuole in qualità.
Vuol la C il signor cuoco,
vuol la Q squadra per far gioco.
Con la C si va in cucina.
Pippo a scuola stamattina
ha imparato la lezione:
che soqquadro è un gran padrone
che si scrive con due Q.
Che pasticcio, dimmi tu!

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici MB MP

Dettati ortografici MB MP – una raccolta di dettati per la scuola primaria per queste difficoltà ortografiche.

In novembre e dicembre le foglie cambiano colore e cadono. Solo i sempreverdi sembrano avere compassione dei bambini e le trattengono, così campi e giardini sono meno tristi e brulli. Poi di neve imbiancano e a primavera i rami spogli si riempiono di nuove foglioline, che offrono la loro ombra alle prime campanule.

Tempo, temporale, temporalesco, tempesta, bomba, rimbombo, lampo, lampeggiare, lampada, bimba, bambola, gamba, ambizioso, impaurito, impaurire.

Carluccio rompe tutto; dopo è scontento, rimpiange i giocattoli che ha rotto e tenta di farseli ricomprare. Chi ha accompagnato quel bambino dal dentista? Giulia esce di casa per tempo per venire a scuola; per la via ode un rombo; leva il viso e vede un aeroplano che solca il cielo limpido: pare una rondine lucente.

Imbuto, piombo, bambina, gamba, lombrico, bombardiere, ambo, imberbe, imbarcare, timbro, imboccare, imbroglio, tombola, ombra, tomba, ombrello, tombino, ombroso, bambagia, imbrunire, gambero.
Pompiere, rompere, impigliare, impacco, limpido, empio, impedire, ampio, campana, rampante, rimpianto, completo, camposanto, zampone, campagna, lampione, campione, zampogna, impossibile.

Spugna, bisogno, castagna, bagnino, guadagnare, fogna, carogna, legnaia, prugna, cognato, castagnaccio, gnocco, ingegnoso, sognatore, signorina, regnante, segno, cagnolino, vigna, zampogna.

Temporale, bimba, rimbombo, bambino, ambizioso, impaurito, rombo, lambire, ambo, impetuoso, lampeggiare, tempo.

Un bambino aveva avuto in dono una tromba e suonava tutto il giorno. Diceva la mamma: “Bimbo mio, tu mi farai diventare sorda!”.

Una bambina aveva avuto in dono una bella bambola. Diceva quella bambina: “Ti voglio tanto bene. Tu sei la bambola del mio cuore”.

Mario ha voluto che ti regalassero un ombrello. Ora piove, ma il bambino non può uscire. Dice Mario: “Che cosa me ne farò di un ombrello se poi non posso uscire quando piove?”.

Quando fa il temporale, il cielo è buio e tempestoso, i lampi rischiarano la terra, cade la pioggia, il tuono rimbomba.

Un bambino era molto pauroso. Si impauriva del rimbombo del tuono, del chiarore dei lampi, aveva paura del buio. Quel bambino non aveva affatto coraggio.

Rampa, pompa, bambino, lamp, rombo, campo, lombo, tampone, cambiare, zampa, tomba, impaccare, imbottire,  impostare, lembo, tempo, cambio, temporale, impiego, imparare, rimborso, bomba.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici GN

Dettati ortografici GN – una raccolta di dettati per la scuola primaria su questa difficoltà ortografica.

Un Re aveva dimenticato nel bosco una pigna d’oro. La vide uno gnomo che pensò di impossessarsene. Chiamò in aiuto il ragno che si mise a tessere intorno alla pigna una ragnatela d’argento… (da completare coi bambini)

Agnello, gnocchi, ignorante, ingegno, ingegnere, ingegnarsi, bagno, bagnarsi, pugno, impugnare, impugnatura, vergogna, sostegno, impegno, legno, legnata, legnaia.

Ragno, lavagna, pigna, cigno, agnello, ragnatela, pugno, legno, vigna, falegname, ignorante, legnata, bagnare, vergogna, sostegno, gnocchi, castagna, cagnolino.

Un ragno era pieno di appetito. Fabbricò la sua ragnatela in un angolo della stanza. Arrivò una mosca, si posò sulla ragnatela. Il ragno se la mangiò.

L’agnellino ha perduto la sua mamma e bela. Chi aiuterà il povero agnellino? La sua mamma ha sentito il suo pianto e corre da lui.

Lo gnomo è un nanetto che vive nei boschi. Ha la sua casina dentro un fungo. Lo gnomo ha una lunga barba bianca e il cappuccio rosso.

Un agnellino bianco e ricciuto giocava fra l’erba. Un giorno, si allontanò dalla sua mamma. Venne il  lupo e se lo mangiò.

Il falegname lavora il legno. I mobili della tua casa sono di legno. Sai scrivere il loro nome?

Agnese ha mangiato troppe castagne e ora dorme, ma il suo sonno non è tranquillo. Fa dei brutti sogni. Sogna l’orco e le streghe. Troppe castagne, Agnese!

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Dettati ortografici GL

Dettati ortografici GL – una raccolta di dettati per la scuola primaria per questa difficoltà ortografica.

Moglie, magliaia, raglio, foglietti, pagliuzza, conchiglia, giglio, quaglia, voglia, imbroglio, tagliare, taglio, ciglio, maglia, tovagliolo, scompiglio, imbroglione, svogliato.

Aglio, figlio, giglio, maglia, foglia, taglia, paglia, raglio, pagliaio, medaglia, tovaglia, coniglio.

Conigliera, impagliato, medagliere, figliolo, famiglia, conchiglia, Guglielmo, tagliare, veglione.

Il bambino capriccioso dice: “Voglio questo! Voglio quello!”. E invece non ha nulla.

Un coniglio pauroso vide una foglia e scappò a tutta velocità dicendo: “Mamma mia, un mostro!”.

Il pagliaio è un mucchio di paglia. La paglia è stata tolta dal grano e ora serverà da letto per gli animali della stalla.

Il giglio è un bel fiore candido e profumato. Un bambino assomiglia sempre a un candido giglio.

Il ciuchino raglia. Che cosa dice col suo raglio, il povero ciuchino? Dice: “Vorrei biada e fieno, non soltanto paglia!”.

In autunno sono cadute le foglie. Ma a primavera l’albero metterà le gemme e da quelle gemme nasceranno le foglioline nuove.

Coniglio, conigliera, paglia, pagliaio, impagliare, spagliare, medaglia, medagliere, mitraglia, mitragliere, figliolo, famiglia, conchiglia, bottiglia, imbottigliare, ragliare, tagliare, intagliato, veglia, sveglia, svegliare, voglia, svogliato.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici GHE GHI

Dettati ortografici GHE GHI Una raccolta di dettati per la scuola primaria per questa difficoltà ortografica.

Lo scoiattolo è ghiotto di gherigli di noci, mangia anche ghiande, sorreggendole con le zampette unite, quasi recitasse una preghiera. Prima dell’inverno, quel ghiottone si rimpinza per bene, poi dorme quieto, come un ghiro. Poi a primavera, appena è giorno, scivola giù dalla tana, si guarda intorno nel bosco agghindato a festa, e felice corre e gioca, tra le prime ghirlande di fiori gialli e rossi.

Mughetti, laghi, ghermire, ghiotto, ghepardo, ghiandola, gherminella, ghiaia, rughe, ghiaccio, gheriglio, ghiottoneria, ghermitore, ghiacciaia, beghe, aghi, seghe, ghiro, maghe, ghisa, vaghe, ghirigoro.

Funghi, streghe, paghe, sfoghi, acciughe, draghi, aghi, maghi, ghianda, seghe, gheriglio, ghiro, preghiera, unghie, ghiottone, segheria, margherita, laghi, rughe, ghiaia, ghirlanda, cinghiale.

Ghiottoncello, alghe, ghiaccio, inghiottire, ringhiera, agghiacciante.

Il ghiro è un ghiottoncello che ha sempre sonno. Prima si riempie ben bene il pancino di ghiande, noci, bacche. Poi, quando è diventato grasso, si addormenta. Dorme tutto l’inverno.

La margheritina aprì il suo collarino bianco orlato di rosso e il prato fu molto felice. Era tutto fiorito di margherite.

La margheritina era ancora chiusa. Arrivò il sole e picchiò sulla sua corolla: “Apriti, margheritina!”. E la margherita si schiuse tutta al bel sole.

Quanto ghiaccio sulle strade, nei fossati, nelle pozze! Se ne andrà quando verrà il sole caldo. Ma ora  i ghiaccioli pendono dai tetti.

Mario è un ghiottone. Va alla credenza e trova un piattino di funghi che la mamma ha preparato per la cena. Mario mangia i funghi e poi non ha più appetito.

Il nonno ha il viso pieno di rughe. Tante rughe sulla fronte, sulle guance, sul collo. Povero nonnino, queste rughe sono state fatte dal tempo e dai dolori!

Ghiaccio, ghiacciaio, ghiacciare, agghiacciare, ghiacciolo, ghiotto, inghiottire, ghiottoneria, pieghe, pieghevole, ghiro, ghianda, ringhiera, funghi.

Sulla tavola c’è una bella torta piena di ghirigori di zucchero. Margherita, col suo ditino, va a toccare quella bellissima torta, poi non resiste al desiderio di assaggiarne un pezzetto. Margherita è una ghiottoncella.

Dettati ortografici GHE GHI – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici A HA, O HO, uso dell’H

Dettati ortografici A HA, O HO, uso dell’H – Una raccolta di dettati per la scuola primaria su queste difficoltà ortografiche.

Ricordati di pensare la parolina “avevo” al posto di tutti gli “o” che trovi. Se puoi pensare “avevo” al posto di “o” e la frase non cambia senso, davanti ad “o” ci vuole la H. Proviamo? Io o una cartella nuova: si può pensare “io avevo una cartella nuova”? Sì! Allora “o” deve essere preceduto da “h” e  si deve scrivere “Io ho una cartella nuova”. Vuoi leggere o scrivere: si può pensare “Vuoi leggere avevo scrivere”? No! Allora “o” deve essere scritto senza “h”.

La casa ha le porte e le finestre.

Quando vado a scuola porto con me i libri.

La mamma mi ha preparato una torta.

Ieri la nostra maestra ci ha accompagnati fino a metà viale, poi ci ha salutati sorridendo.

Il babbo ha comprato una nuova macchina; è una Cinquecento e ha cinque marce.

La nostra aula ha tre ampie finestre ed è esposta a sud.

In quella città c’è una grande stazione ferroviaria.

Essa ha quindici binari per i treni in partenza e in arrivo.

Tu hai un morbido berretto che hai comprato in un negozio vicino ai giardini.

Ho male a un dito; mi duole ed ho timore a medicarlo.

I miei cugini hanno un bel cane lupo; glielo regalarono l’anno scorso quando andarono in campagna.

Sebastiano non ha ancora il trattore. Costa molto ed egli non ha denaro sufficiente per comprarlo. Si ingegna perciò con i buoi; ne ha tre coppie che lo aiutano a preparare il terreno per le semine.

Ho contato le cartoline della raccolta e ne ho numerose.

Hai dato il giornaletto ai tuoi cugini?

Il maestro m’ha consigliato un libretto e la mamma me l’ha comperato subito. E’ un libretto per bambini dagli otto ai nove anni. La sua lettura m’ha insegnato molte cose, ma una sola m’ha colpito più delle altre. L’aiutarsi a vicenda rende la vita più facile. Ciò è vero.

Come m’ha reso felice il sorriso di ringraziamento di un mio amico dopo averlo difeso dalle accuse ingiuste di cattivi compagni! Anche lui era già felice e me l’ha detto quel suo sorriso.

Il babbo è uscito presto. Tu dormivi ancora e non l’hai visto. T’ha dato un bacio leggero per non svegliarti. Tu non l’hai sentito. Ora, sulla tavola, con la scodella del latte c’è un pane fresco. Quel pane l’ha guadagnato il tuo babbo per te, col suo lavoro di tutti i giorni. Il primo dono della giornata che ricevi dal suo amore è quel pane di grano che ha la forma di un cuore.

Lo zio è partito: l’ho salutato stamattina alla stazione.

La mamma cerca la chiave della camera; l’hai vista da qualche parte?

Giorgio voleva la palla per giocare e l’ha persa.

Tutti vogliono salutare il vincitore, ma non l’hanno lasciato libero!

Vorrei leggere il giornale; dove l’hai messo?

Il fuoco si è levato improvvisamente, ma i pompieri sono accorsi e l’hanno domato.

L’anno prossimo frequenteremo la quarta classe.

Tutti l’hanno visto arrivare, pochi l’hanno visto partire.

Questo quadernetto l’ho comprato l’anno scorso.

Il maestro m’ha sgridato, ma la colpa non l’avevo. Tu m’hai detto stamattina che quella lezione non l’avremmo studiata. Quando m’ha detto: “Ma tu come fai a non saperlo?” io non ho saputo cosa dire. Non m’ero mai trovato in un momento simile. Ma un’altra volta non capiterà, te l’assicuro! M’hai messo in un imbroglio, ma non mi ci metterai più. M’hai capito?

Io ho otto anni e mezzo e frequento la terza classe.

La mia merenda consiste in pane imburrato o in frutta mista.

La maestra ci chiede sempre se preferiamo iniziare la lezione con una poesia o con un canto.

Questa mattina ho scritto molti pensierini sulle ricerche fatte e ho l’impressione di aver fatto un buon lavoro.

Olga sbatacchiò la porta e la mamma gliela fece richiudere con garbo.

La donna desiderava alcune arance e io gliele portai.

Aldo desiderava un po’ delle tue susine e tu gliene hai date sette.

Carlo aveva il  tuo libro; gliel’ho visto in mano.

Lo zio mi ha detto che durante l’esame gliene hai combinate di tutti i colori.

Quella bambola gliel’ha regalata la mamma.

Desiderava tanto provare i miei pattini e io glieli ho prestati.

Ma come, non siete ancora pronti?

Devo andare dalla mamma, m’ha chiamato più volte.

La nonna m’ha preparato un buon dolce.

Non s’era mai visto nulla di  simile.

M’hai fatto spaventare con le tue parole.

Andrea promette molto, ma mantiene poco.

Non sarà un bel lavoro ma l’ho fatto da solo.

Lo studio finora m’ha dato molte soddisfazioni.

Mai e poi mai farò ciò che tu mi dici.

Non m’hai ancora raccontato come hai trascorso le vacanze.

Non m’hai avvertito e non sono venuto.

Il maestro s’alzò e disse: “Ragazzi miei, io v’ho concessa fin qui la maggiore libertà, e voi ne avete abusato; io v’ho trattato da ragazzi educati, e voi m’avete fatto comprendere che volete essere trattati da sbarazzini”.

“Mario, io vado un momento dalla nonna e poi torno subito” disse la buona donna al figlio, e questi rispose: “Va’ pure tranquilla, mamma, che io saprò corrispondere alla tua fiducia”.

Vi sono dei momenti nella vita in cui una parola buona può fare maggior bene di qualsiasi beneficio.

Che cosa v’ha detto a questo riguardo il maestro?

Maria ha chiesto il permesso di recarsi ai giardini, ma i genitori non gliel’hanno concesso perchè è stata disobbediente.

Ieri mentre attraversavo la strada m’hai scorto, ma non m’hai salutato.

La mamma ha rimproverato Carlo e l’ha castigato.

Il giorno del tuo onomastico che cos’hai avuto in dono?

Tua madre mi ha scritto un biglietto gentile; mi ha detto che i tuoi fratelli t’hanno preparato un bel regalo, ma che te lo consegneranno quando porterai a casa la pagella.

Che bella bicicletta ha quel ragazzo! Non gliel’ho mai vista.

M’hai forse visto qualche volta parlare con quell’imbroglione?

L’ha detto per scherzo e senz’altro non credeva di offendere nè te, nè nessuno dei presenti.

Pinuccio ti ha chiesto in prestito un foglio, ma tu non gliel’hai dato.

Io ho acquistato quattro quaderni per la scuola; Maria invece ne ha comprati solo tre e ne n’è fatto prestare uno da Lucia; ora gliel’ha restituito.

La gomma è utile per cancellare se si sbaglia. Chi non l’ha deve stare attento a non sbagliare.

Ho una bella cartella che ha comprato la nonna. Antonio però non l’ha come la mia.

Sullo scaffale c’è la riga? Chi l’ha persa? Maria l’ha trovata e l’ha messa qui.

Vado con la bicicletta al supermercato, per prendere la carta; se non ce l’ha, non so proprio come fare.

Era difficile la poesia, ma Edoardo l’ha studiata a memoria.

Ha prestato la squadra, ma non l’ha più riavuta indietro.

Ha rotto la vetrina, ma non l’ha fatto apposta!

Non l’ha visto e l’ha buttato in terra.

Te l’ha detto la maestra che dovevi fare la divisione!

Dettati ortografici – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici GA GU GO

Dettati ortografici GA GU GO  – una raccolta di dettati per la scuola primaria per questa difficoltà ortografica.

Gatto, augurio, gola, gabbia, gusto, goffo, gallina, gustare, gobba, magagna, anguria, agosto, fuga, guardia, godimento, gancio, guglia, gocciola, gambale, guizzo, gonfio.

(in costruzione)

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Dettati ortografici CQ

Dettati ortografici CQ – una raccolta di dettati per la scuola primaria per questa difficoltà ortografica.

Acquitrino, acquoso, acquasantiera, acquiescenza, acquisto, acquolina, acquirente, acquamarina, nacque, risciacquare, acquattarsi, acquavite, acqueruguiola, acquazzone, acqua.

Acqua, acquetta, acquolina, acquazzone, acquarello, acquaio, acquata, acquedotto, acquavite, acquitrino, acquerugiola, acquistare, annacquare, acquatico.

Acquistare, acquavite,  acquatico, annacquare, acquazzone, acquolina, acquarellare, acquietare.

Quanta acqua! Piove a dirotto e le piante bevono bevono. Il cielo è buio. Tanta acqua vuol venire sulla terra.

Le nuvole sono nere nere. Poi si aprono e viene giù un acquazzone dirotto. Pian piano, l’acquazzone cessa e nel cielo appare un bellissimo arcobaleno.

La rana è un animale acquatico. Vive nell’acqua delle pozze. Quando salta fuori fa cra cra, lieta di essere al sole.

L’acqua cade piano piano, poi diventa più forte ed ecco un acquazzone cadere sulla terra. L’acqua farà spuntare tante piantine verdi.

“Nuvola, nuvola, dove vai?”. “Dove mi porta il vento. Poi farò cadere tanta acqua e la terra sarà ristorata.

Maria non ama l’acqua e strilla quando la mamma vuol lavarla. Ma la mamma la strofina bene con acqua e sapone. Maria, quando si sente pulita e fresca, non strilla più.

La famiglia acqua.

Mamma Acqua ha diversi figlioli. Il più monello è Acquazzone: quando arriva lui fanno tutti la doccia, anche senza averne voglia. Una persona seria è Acquedotto, che pensa a distribuire acqua alle case dei paesi e delle città. Acquario invece gioca volentieri coi pesci, mentre Acquaio fa la pulizia in cucina. In famiglia c’è anche un pittore, Acquerello, che usa i pennelli dal mattino alla sera. La più piccina di tutti è Acquolina, che sta sempre con il naso incollato alle vetrine delle pasticcerie. Naturalmente la famiglia Acqua è una famiglia fortunata, perchè anche d’estate non soffre mai la sete.

Acqua, acquedotto, acquazzone, acquatico, annacquato, acquaforte, acquaio, acquario, acqueo, acquarello, acquistare.

Dettati ortografici CQ – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

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