Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA

Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA

Cartina fisica
Confini: Mar Ligure, Toscana, Emilia Romagna, Piemonte, Francia
Golfi: di Genova (Riviera di Levante, Riviera di Ponente), del Tigullio, di La Spezia
Promontori: Capo Mele, Capo di Noli, Punta di Portofino,  Punta di Sestri Levante
Monti: Alpi Occidentali (Liguri); cime più alte: Monte Saccarello (m 2.220). Appennino Settentrionale (Ligure); cime più alte: Maggiorasca (m 1.803)
Valichi: Colle di Nava, Passo di Cadibona, Passo del Turchino, Passo dei Giovi, Passo della Scoffera, Passo di Cento Croci, Passo del Bracco
Pianure: di Albenga, di Chiavari
Fiumi: Roia, Centa, Polcevera, Bisagno, Entella, Magra col suo affluente Vara.

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Osserviamo la cartina
La Liguria comprende una fascia montuosa a forma di arco che si specchia, con un ampio golfo, nel Mar Ligure. Dura fatica hanno sostenuto i Liguri per dissodare la loro terra impervia e arida: il terreno fertile dovette essere creato a colpi di piccone. I dirupi furono ridotti a terrazze, sostenute da rocce e da muriccioli a secco per ottenere orti, campicelli, vigneti, giardini.
Tutto l’arco della costa ligure è detto Riviera, e Genova lo divide in Riviera di Ponente e Riviera di Levante, verdeggianti di pinete e di chiari olivi.

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Agricoltura

Data la natura poco fertile e la scarsità del terreno, la produzione agricola non ha grande sviluppo. Si coltivano olivi, frutta, primizie ortofrutticole e soprattutto fiori.

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Province

La Liguria conta quattro province: Genova, Imperia, Savona e La Spezia.
Genova, il capoluogo, sorge ad anfiteatro sul mare. E’ il più attivo porto del Mediterraneo ed uno dei centri siderurgici più importanti d’Italia.
Imperia è famosa per i suoi oli ed i suoi pastifici.
Savona, il secondo porto della Liguria, è un notevole centro commerciale.
La Spezia, sul golfo omonimo, è un porto militare.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio della Liguria?
Come puoi rilevare dalla cartina i fiumi liguri sono tutti assai brevi: sai spiegarne la ragione?
Quali sono i maggiori valichi che permettono le comunicazioni della Liguria con l’Emilia Romagna?
Conosci il nome dell’autostrada che congiunge Genova con Milano?
Come sono le coste liguri?
Perchè il clima della regione è mite? Quali particolari coltivazioni favorisce?
Vi sono industrie importanti in Liguria? Dove?
Che cosa sono le terrazze?
E’ molto importante la pesca in Liguria? Perchè?
Che cosa sono i vigneti del mare?
Quali sono le principali città della regione?
Perchè è importante Genova?
Quando nacque la provincia di Imperia?
Quale cittadina ligure è chiamata ‘la capitale dell’acciaio’?
Quali sono le località balneari più famose?
Ricerca notizie sull’artigianato e il folklore della Liguria.

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La Liguria

La Liguria è come una falce di luna posata sul mare. Il luminoso Tirreno blandisce le sue sponde; le Alpi e gli Appennini, a ridosso, la proteggono dai venti.E’ una stretta e arcuata striscia di terra, verde di palme e di ulivi, dalle case variopinte, profumata di fiori, di aranci, di gelsomini, e di salmastro; dove maturano i frutti più saporiti, dove i vigneti si inerpicano sulle rocce tra i pini e i cipressi, dove molli colline si alternano a brusche e scoscese riviere.
(O. Grosso)

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La costa ligure

Tutta la costa ligure è un incanto e in particolar modo la Riviera di Ponente. A ogni svolta della strada, che ora sale ora scende, ti si para davanti un nuovo quadro pieno di colore, di vita, di attrattive: qua macchie gialle di esili mimose fiorite, là boschetti di contorti ulivi dal lucido fogliame, di oleandri in fiore che spandono lontano il loro profumo; più oltre agavi dall’altissimo stelo fiorito che sembra un pino; palme di ogni specie, aurei mandarini e aranci che punteggiano il verde scuro del fogliame; e viottoli ombrosi e chiesette dedicate alla Madonna della Guardia, protettrice dei marinai, e qualche torrione rotondo da cui, nell’alto Medioevo, si sorvegliava la costa da improvvisi assalti dei Saraceni.
(G. Assereto)

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Aspetto di una scogliera

Ecco scogliere nude, che danno un marmo nero e giallo, il portoro, tra cui si abbarbica la vigna; poi la vigna si stende, e copre interamente il fondo roccioso con fusti bassi per difendere i pampini dal vento robusto del mare. Pochi e monotoni colori, ma lucenti, quasi uno smalto; e pochi personaggi, la vite, il cactus, l’agave, l’albero del fico, le case solitarie a metà pendio che non servono da abitazione ma soltanto a pigiare l’uva che appassisce sui tetti. Gli oggetti distinti a uno a uno, come in un presepe un po’ sordo.
Gli abitanti delle Cinque Terre sono piccoli vignaioli o pescatori favoriti dal mare pescoso di scoglio.
(G. Piovene)

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Il ghiottone è servito

Profumo di mare e profumo di terra: l’uno e l’altra offrono i loro doni più preziosi alla gastronomia genovese, particolarmente saporita e fantasiosa. Re indiscusso ne è il pesto, la salsa a base di aglio, basilico, formaggio pecorino e olio, pestati nel mortaio di marmo col lucido pestello di legno d’olivo. Chi non ha sentito parlare delle trenette al pesto, uno dei più tipici piatti locali?
I piatti più ricercati sono riservati per le festività solenni. A Natale, maccheroni in brodo e, come dolce tradizionale il ‘pan duce’ una specie di panettone, ma più pesante e consistente del confratello milanese.
Per San Giuseppe si friggono i ‘friscen’, frittelle di zibibbo, mele, baccalà e aromi; a Sant’Antonio di preparano zucchini ripieni, mentre i piatti di rito per il giorno dei morti sono i ‘bacilli’, fave fresche con patate, e i ‘balletti’, le castagne bollite. E altri piatti tradizionali non sono meno noti dai buongustai: frittura di gianchetti, il cappon magro, la cima (cioè la pancetta di vitello ripiena), la torta pasqualina.

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Le coste liguri

Sono molto alte. Le principali sporgenze sono Capo Mele, Noli, Portofino e Portovenere.
Molte sono le rientranze e, benché non siano grandi, presentano porti sicuri, tra cui i principali sono quelli di Genova, di La Spezia e di Savona.
In fondo al golfo di Genova, sotto il quale nome si comprende la parte più settentrionale del mar Ligure, si trova il porto di Genova, il più attivo d’Italia.
Il golfo di La Spezia è formato a occidente da una penisoletta che termina con Portovenere.
Nelle due Riviere, di Levante e di Ponente, vi sono numerose e celebri stazioni climatiche (Bordighera, Sanremo, Alassio, Nervi, Santa Margherita, Rapallo).

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Il clima della Riviera Ligure

La regione che, come un ampio anfiteatro, si affaccia sul Mar Ligure, gode di condizioni climatiche privilegiate, che si prolungano dalla Versilia e sul litorale pisano fino a Livorno. Esse sono conseguenza del contatto ampio e profondo di questa striscia litoranea col mare, della sua esposizione verso mezzogiorno che la apre all’influenza dei tiepidi e umidi venti sud-occidentali, e soprattutto dalla sua orografia, perchè i rilievi della regione non solo costituiscono un efficace schermo contro le fredde correnti settentrionali, ma anche intiepidiscono poi queste ultime per riscaldamento dinamico durante la loro discesa al mare.
Queste condizioni particolari agiscono in modo decisivo su tutti gli elementi del clima e in primo luogo sulla temperatura, che è eccezionalmente mite, tanto che la Riviera si può considerare come un grande tepidario naturale, date le sue elevate temperature invernali che hanno riscontro solo nell’Italia meridionale a sud di Napoli. Tuttavia si notano importanti diseguaglianze, sia nella Riviera di Levante, dove arriva spesso il freddo Mistral del Golfo del Leone, sia nella Riviera di Ponente, allo sbocco di alcune valli principali, da cui scendono violenti e freddi i venti del Piemonte.

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Le Cinque Terre

Dopo Levanto, la costa già alta, rocciosa, si fa ancora più aspra e precipita quasi a picco sul mare. Dal Bracco, contrafforti scendono a formare un’insenatura meravigliosa nella sua selvaggia, naturale bellezza: il Golfo delle Cinque Terre.
Ancora negli anni ’70 unico mezzo per giungere a questo piccolo angolo di quiete e di bellezza era il treno, perchè l’asperità del rilievo e una certa trascuratezza nel considerare la necessità di questi piccoli centri: Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola, Riomaggiore, hanno sempre rimandato al domani la costruzione della litoranea da lungo tempo auspicata dalle piccole comunità, troppo isolate dal centro di maggior attrazione commerciale: La Spezia.
Potrà sembrare strano in una costa dal rilievo così accentuato, dalla costa che si tuffa precipitando nel mare, ma l’attività principale degli abitanti non è la pesca, ma l’agricoltura: le colture della vite e dell’ulivo. I pescatori ci sono, ma rappresentano un’esigua minoranza della popolazione residente; e il pesce sbarcato, specie nei periodi di massimo afflusso turistico, è insufficiente a soddisfare la richiesta.
La grande meraviglia è invece su, in quei piccoli terrazzi strapiombanti sul mare dai quali i grappoli turgidi occhieggiano provocanti in agosto e settembre.
Ogni metro di terra conquistato è costato innumerevoli sacrifici alla tenace gente di questi piccoli centri; la terra, se di terra si può parlare tanto è ancora rudimentale la disgregazione della roccia madre, è stata difesa con muretti a secco, portati, pietra su pietra, da chissà dove, nei grandi cesti che gli uomini portavano sulle spalle e le donne sul capo.
Nell’epoca della vendemmia, ogni minuscolo terrazzo si anima di un fermento insolito; i piccoli sentieri, a scalini impossibili, che separano terrazzo da terrazzo, sono teatro di un continuo andirivieni di uomini e donne con grandi ceste ricolme di uva. Nei paesi l’aria è presto satura dell’odore del mosto. Il vino, sia quello bianco secco, che va giù liscio tra un calamaretto e un polipo fritto, o fra un’orata o una mormora, come quello liquoroso e di maggior gradazione e pregio, che suggella una cena tra amici o un più pretenzioso pasto, chiamato Sciacchetracche è sovente troppo magra ricompensa a tanti sacrifici e tanti sforzi e, naturalmente, non basta ad assicurare il pane per tutto l’anno, anche perchè la proprietà è molto frazionata. Perciò gli uomini, a partire dagli anni ’60, hanno lasciato la terra ai vecchi e alle donne per un’occupazione meno saltuaria e più redditizia presso l’Arsenale di La Spezia o i cantieri di Muggiano o le raffinerie di petrolio.
Sui declivi più scoscesi, dove l’opera dell’uomo non è giunta a redimere la terra, la macchia mediterranea con le sue erbe aromatiche, i suoi pini ad ombrello, le sue ginestre e i suoi lecci contende lo spazio vitale all’ulivo, meno numeroso delle viti, ma che dà un olio finissimo e molto ricercato.
Altra specialità delle Cinque Terre sono le acciughe conservate con grande cura  e abilità.
(E. Dubois)

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Le comunicazioni
Le montagne, pur occupando tutta la regione, offrono valichi frequenti alle strade che collegano la Liguria con l’Italia settentrionale, la Francia e il resto della penisola. L’arco costiero è percorso dalla via Aurelia, in molti tratti tortuosa, stretta, congestionata. Le autostrade collegano Savona con Ventimiglia e il confine francese, avviano il traffico verso il Piemonte e la Lombardia. Una linea ferroviaria percorre tutto l’arco della costa proveniente dalla Francia e diretta alla Toscana. L’aeroporto internazionale di Genova sorge su una penisola artificiale slanciata nel mare per due chilometri.

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L’agricoltura

Il territorio della Liguria, invaso dalle catene alpine e appenniniche, offre pochissimo suolo adatto alle colture; i brevi avvallamenti, i tratti limitati di pianura che potrebbero essere meglio sfruttati sono sempre più occupati dallo sviluppo edilizio. Gli agricoltori liguri, che sono una piccola parte della popolazione attiva, si dedicano perciò a coltivazioni specializzate, favorite dal clima mite, utilizzando i declivi prossimi al mare, faticosamente sistemati a terrazzi. In essi producono ortaggi pregiati e primizie, frutta, uve (molto noti sono i vini delle Cinque Terre); coltivano l’olivo e i fiori: famosi sono i garofani di Sanremo e le rose, la cui produzione raggiunge il 75% del prodotto nazionale.

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L’attività industriale

L’attività industriale della Liguria è assai intensa e di importanza primaria sul piano nazionale: notevoli sono le industrie metallurgiche e siderurgiche. Tali industrie legano la loro attività a quella dei cantieri navali. Caratteristiche della liguria sono le industrie di trasformazione di prodotti locali e di importazione: oleifici, pastifici, saponifici, zuccherifici, raffinerie.
In questa regione, affacciata sul mare, dotata di grandi impianti portuali, fonte di ricchezza sono principalmente le attività commerciali che intorno ai  porti hanno  il loro sviluppo più intenso e si irradiano lungo le strade e le ferrovie dirette all’Europa centrale e lungo le rotte di navigazione del Mediterraneo e dell’oceano Atlantico.
La dolcezza del clima e la mutevole bellezza del paesaggio sono tal da suscitare una vivacissima attività turistica estiva e invernale, distribuita lungo i centri grandi e piccoli della Riviera di Ponente e di quella di Levante, da Rapallo a Portofino, da Alassio a Sanremo, a Bordighera.

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Il ricco manto di fiori e di piante

Gran parte del fascino della Riviera di Ponente deriva dallo splendido scenario di piante e di fiori che festosamente veste ogni più remoto anglo del territorio.
La vegetazione della costa ci appare rigogliosa e varia. La macchia mediterranea, formata di arbusti profumati e sempreverdi, è integrata dai bellissimi pini marittimi e italici e dalle argentee fronde dell’ulivo, che qui trova il suo ambiente d’elezione.
Gli oleandri, i gerani, i garofani compongono, nel paesaggio avvolto da una luce ora tenera ora violenta, meravigliosi arazzi dai colori più diversi.
Sugli speroni rocciosi che si protendono verso verso il mare, crescono piante grasse xerofite, che formano un pittoresco contrasto con la nuda roccia: sono le agavi, spesso gigantesche, e i fichi d’India.
Nei giardini, sui muretti, lungo le crose, s’arrampicano le rose e i gelsomini odorosi, le passiflore e le splendide buganvillee dai fiori rossi e violetti.
Le favorevoli condizioni ambientali hanno permesso il facile acclimatarsi di piante esotiche quali gli eucalipti, le magnolie e soprattutto le palme, dalle specie più svariate, tra cui primeggiano le palme da dattero. Spuntano un po’ dappertutto tra le costruzioni, emergono dai giardini, fiancheggiano le vie.
Ma la visione più suggestiva della flora della provincia ci è offerta dallo splendido giardino Hanbury che occupa tutto il costone della Mortola e scende fino al mare; è uno dei più celebri giardini di acclimatazione di specie esotiche.
Man  mano ci si allontana dal mare e ci si inoltra nell’interno delle vallate, le pendici dei colli abbandonano il tipo di vegetazione che abbiamo descritto e ci si presentano, specie nell’alta Valle Argentina, rivestite di castagneti, di pini, di carpini e di frassini.

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Fiori e profumi

Centinaia e centinaia di ettari di terreno, nei dintorni di Sanremo, di Porto Maurizio, di Albenga, vengono coltivati a rose, a garofani,  a violette, ad acacie, a resede, a bulbose. Qui sono roseti a perdita d’occhio, là garofaneti intramezzati da colture di narcisi, di anemoni, di tuberose, di giacinti… e quali cure assidue richiede un fiore!
Un ettaro di terreno coltivato a garofani comporta l’impiego di quindici persone per tutto l’anno. Migliaia di lavoratori sono dediti alla coltura dei fiori, senza tener conto delle persone addette agli impianti irrigatori, alla fabbricazione delle ceste, all’imballaggio, alla spedizione, ai trasporti… Vi sono mercati quotidiani di fiori. Treni speciali provvedono al rapido trasporto nelle principali città italiane e straniere dei fiori recisi nelle belle aiuole della Liguria.
Quintali di vellutate corolle di rose si spediscono ogni anno dalla Riviera ligure in Francia, per l’industria profumiera, e si esportano anche viole, fiori d’arancio, lavanda, timo, menta, giaggioli.
(L. Sasso)

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Il treno dei fiori

Ogni giorno, da Ventimiglia, viaggia in Riviera un treno speciale, carico di fiori, raccolti, sui trenta chilometri dell’incantevole cornice, a Ventimiglia, Bordighera, Ospedaletti, Taggia, Riva. Fila a Genova, ove si staccano vagoni diretti a piazze interne e riceve piante e fogliami ornamentali dalla Toscana; quindi si rimette in moto, diretto ai confini di dove dispensa a quindici nazioni, dal cuore d’Europa alla Scandinavia, il sorriso della più smagliante produzione delle nostre terre…
Sette tonnellate di fiori della Riviera che portano il calore e il sole d’Italia nei freddi paesi del Nord, nelle case della Germania, della Danimarca, della Norvegia e della Svezia.
La Liguria è il regno quasi assoluto del garofano e della rosa, assieme a violette, margherite, violaciocche, resede, narcisi, anemoni, mimose, foglie ornamentali.

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La pesca

Il Mar Ligure, come si è già avuto occasione di rilevare parlando dell’economia della provincia di Genova, è poco pescoso a causa del fondale marino roccioso, della brevità della piattaforma litorale, di una indiscriminata e colpevole cattura del pesce, anche in stagioni dell’anno nelle quali essa non sarebbe consigliabile.
La pesca è praticata con imbarcazioni di piccolo tonnellaggio, che sbarcano il prodotto sulle banchine del porto di Imperia da dove il pesce raggiunge i mercati di Bordighera e di Sanremo.

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I vigneti del mare

Chi le vede per la prima volta, magari solcando le acque del golfo su un vaporetto della linea di Lerici o di Portovenere, non sa spiegarsi il perchè di quelle lunghe file di trespoli di legno affioranti dal pelo dell’acqua, allineati con precisione geometrica. Sembrano vigneti. Sotto il mare, da quei trespoli si dipartono ghirlande strane, dalle quali pendono lunghe corde, tenute verticali da grosse pietre, e su queste corde, ormai coperte d’uno spesso strato di alghe, nascono i mitili, i saporosi frutti di mare, che col nome di muscoli o di cozze sono noti ai buongustai di tutta Italia.
Questi molluschi richiedono una cura meticolosa: operai e manovali si aggirano ogni giorno su pesante barconi da carico tra i vigneti, estraggono dall’acqua le pesanti ghirlande, e poi rimettono ogni cosa al suo posto. E i piccoli pontili di legno dei mitilicoltori, coperti da pittoresche baracche costruite con legname di fortune, ricordano lontanamente i paesaggi esotici delle remote città dei mari della Cina.
(A. Lugli)

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Le province

Capoluogo della Liguria è Genova che si stende ad anfiteatro in un’ampia insenatura dell’omonimo golfo. E’ detta ‘la Superba’ per la magnificenza e la grandiosità delle sue opere d’are, tra cui il Palazzo Ducale, antica residenza dei Dogi, il Palazzo Doria, il Palazzo San Giorgio, il Palazzo Reale, la Cattedrale di San Lorenzo, la Porta Soprana. E’ un grande centro industriale e commerciale. Il suo porto, dominato dalla caratteristica Lanterna, è il secondo del Mediterraneo, il primo d’Italia per traffico di merci: vi fanno capo numerosissime linee di navigazione italiane e straniere. Nei limiti amministrativi della Grande Genova sono compresi diversi centri, che sorgono a Ponente e a Levante della città su un tratto di costa lungo circa trenta chilometri. Notissimi sono: Sampierdarena, Cornigilano e Sestri Ponente, con grandi complessi industriali e cantieri navali; Pegli e Voltri, stazioni balneari; Nervi, rinomata stazione climatica. Nei suoi dintorni sorge il celebre Santuario della Madonna della Guardia.
Imperia, formata dall’unione di Oneglia e Porto Maurizio, è sede di attive industrie ed è un importante mercato dell’olio.
Savona è uno dei maggiori porti d’Italia, specializzato soprattutto nell’importazione del carbon fossile, e sede di grandi industrie siderurgiche, meccaniche e alimentari. Il vicino porto di Vado è particolarmente attrezzato per l’importazione di petrolio.
La Spezia sorge in bella posizione, sul magnifico golfo omonimo. Vi hanno sede industrie meccaniche e chimiche, cantieri navali, raffinerie di petrolio. Il suo porto, ben protetto dalla Penisola di Portovenere, è uno dei più importanti d’Italia e base navale militare.

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Curiosità su Genova

In provincia di Alessandria (Piemonte) i paesi Novi Ligure, Parodi Ligure e altri ancora dimostrano che in antico quei luoghi erano abitati dal popolo dei Liguri.
Il via Fieschi, a Genova, c’è la casa dove Colombo passò la sua giovinezza; è vicino alla monumentale Porta Soprana, alta 31 metri, eretta nel 1155, che si apre fra due torri.
Se oggi vogliamo indicare Voltri, Pegli ed altri comuni, dobbiamo dire Genova-Voltri, Genova-Pegli, ecc. Sai perchè? Perchè nel 1026, con un regio decreto, fu disposta la fusione del comune di Genova con altri 19 comuni limitrofi.
Il nome Liguria deriva dai Liguri, i quali furono i primi abitatori della regione. Si conosce ben poco di questo popolo, giunto qui, forse, dalla Spagna, all’alba della storia. E’ certo, però, che nel settimo secolo aC, i Liguri occupavano un territorio che si estendeva a nord fino al fiume Po e oltre, e che era, quindi, assai più vasto di quello della Liguria d’oggi.
Numerosi paesi della Liguria, soprattutto della Riviera di Ponente, appaiono divisi in due parti: una nuova, costruita in riva al mare, e l’altra, antica, costruita un po’ più addentro sui colli. Fu la paura dei pirati che spinse la popolazione a cercare riparo in alto nel retroterra.

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Curiosità su Savona

Curiosa sorte quella di Savona: non è né la più piccola né la più grande provincia italiana; non è né la più nota né la più importante; eppure è l’unica che può vantare un tratto di Alpi, un tratto di Appennini ed un tratto di mare tutti per sé.
Una nota leggendaria farebbe derivare Priamar dal nome di un condottiero cartaginese. La toponomastica, invece, certo con maggior fondamento, lo fa derivare da due termini dialettali: pria (pietra) e mar (mare). Quindi il significato è chiarissimo: la fortezza Priamar non è che uno scoglio sul mare.
A Garessio, secondo un’antica leggenda, nelle balze della Pietra Ardena, avrebbe trovato rifugio nel secolo X Alasia, figlia dell’Imperatore di Germania Ottone I, e Aleramo, capostipite dei marchesi di Monferrato.
Dal 1950 Albenga si è arricchita del Museo Navale Romano unico nel suo genere, in seguito al tentativo di recupero del carico e dei resti di una nave romana del I secolo aC affondata a due miglia dalla riva, intrapreso dalla celebre nave Artiglio. Il mare ha così restituito oltre mille anfore vinarie, resti lignei e metallici dello scafo, numerosi vasi di diverso tipo, provenienti forse dalla cucina della nave, varie rifiniture metalliche, oggetti nautici e tre elmi di bronzo.

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Curiosità su La Spezia

Lo sai che il ‘La’ che si premette al nome Spezia è un articolo? Fin dalle più antiche carte geografiche lo si trova infatti declinato come tale. Quindi dovrei dire ‘provincia della Spezia’, ‘golfo della Spezia’, e così via. Purtroppo non tutti sanno o ricordano questa regoletta grammaticale e capita abbastanza spesso di trovar scritto, anche in documenti ufficiali, ‘provincia di La Spezia’, o ‘una nave proveniente da La Spezia’.
Se ti trovi alla Spezia la seconda domenica d’agosto, potrai godere di una interessante manifestazione folkloristica: il Palio Marinaro del Golfo. E’ una gara remiera, che si disputa su un percorso di duemila metri nelle acque della rada e vi partecipano tutte le borgate del Golfo con le loro imbarcazioni tipiche a quattro vogatori. Prima della gara si snoda attraverso le vie della città un pittoresco corteo, al quale partecipano anche rappresentanze in costumi medioevali delle antiche Repubbliche marinare.
I buongustai sanno che a Portovenere o nell’isola Palmaria si può gustare un piatto prelibato: la zuppa di datteri marini. La tradizione vuole che lo stesso Federico Barbarossa ne fosse tanto ghiotto, da far obbligo ai Signori del luogo di consegnargli uno scudo pieno di datteri ogni volta che con i suoi soldati passasse da quelle parti.

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Il più potente faro d’Italia

Dice un vecchio proverbio genovese che ogni volta che un napoletano entra in porto, la Lanterna, cioè il faro di  Genova che si innalza sul Capo Benigno, si metta a tremare… Perchè la Lanterna si metta a tremare il proverbio non lo dice, ma è facile capire che non sia esattamente per la gioia di illuminare un forestiero.
Sul Capo Promontorio, detto successivamente di San Benigno, o di Faro, vi fu in origine un piccolo fortilizio romano che vigilava sulla vicina via Aurelia e sul mare: e furono i primi fuochi di bivacco di quella guarnigione a dar seguito alla consuetudine, creando un punto luminoso di riferimento sicuro per le navi in rotta davanti a Genova. Il piccolo fortilizio continuò a servire anche dopo la caduta di Roma. La prima torre che fu costruita nel perimetro del fortilizio risale ai primi anni del secolo dodicesimo: una torre di modeste dimensioni sulla quale si facevano segnali con piccoli fuochi, come accadeva in tutte le altre torri del tempo.
Nel 1543, poi, i Padri del Comune decisero di fabbricare di nuovo la torre. I lavori durarono un anno. Antiche carte parlano di 2000 quintali di calce, 120.000 mattoni, 2600 palmi di pietra lavorata a scalpello, ed altri 1000 di pietra pregiata di Finale di Lavagna.
(G. V. Grazzini)

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Nascita di una città

Imperia è nata soltanto il 21 ottobre 1923, quando un decreto del governo stabilì l’unione dei comuni di Oneglia e di Porto Maurizio: tra i due abitati scorrono le acque del torrente Impero, che un tempo divideva le due città sorelle.
Ora i due centri sono collegati da una strada fiancheggiata da pini e da piante esotiche, ampia e panoramica, nel cui punto medio è stato eretto il Municipio. Negli ultimi anni, però, moltissime costruzioni sono sorte lungo i tre chilometri del viale e gli abitati si sono fusi senza soluzione di continuità.
Nonostante questo, Oneglia e Porto Maurizio conservano caratteristiche proprie, sia per la posizione geografica che per l’aspetto e la vita economica.
Il volto di Imperia è dunque composito, ma non per questo meno interessante; il turista che voglia visitarla ha dunque la singolare possibilità di conoscere due città in una.
Oneglia, tutta al piano, con le belle vie rettilinee e spaziose, ha l’aspetto di città commerciale e industriale; Porto Maurizio assomma alle caratteristiche dei tipici centri liguri, con la città vecchia disposta sul promontorio roccioso, quelle di moderna città residenziale, animata da ville e alberghi e allietata da giardini ricchi di fiori e di palme.

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La Spezia

Alla fine del Settecento La Spezia aveva tremila abitanti. Nel 1849 Massimo d’Azeglio, ospite di amici spezzini, scriveva alla moglie una frase che brucia ancora adesso: “Qui il paese è codino (retrogado) e ci si fa la vita più tranquilla del mondo”.
Ma Napoleone aveva avuto l’intuizione di costruire nel paese ‘codino’ un porto militare; Cavour riesumò l’idea napoleonica e la fece sua; fra il 1862 e il 1869, secondo i progetti del generale Chiodo, fu edificato l’arsenale. Cominciò così l’aumento vorticoso della popolazione, accorsa da ogni parte d’Italia.
La Spezia può essere considerata città di pionieri, improvvisa e artificiale, tipo Texas. Nascono intorno all’arsenale le industrie navali e meccaniche. Le strade sono piene di ufficiali e di marinai. Viene un periodo di prosperità concentrato intorno alla marina. Poi, la guerra: La Spezia è distrutta. Nel 1945 è ridotta in rovine, ed è abbandonata a se stessa.
Oggi è di nuovo un’importante città industriale.

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Camogli

Camogli è una graziosa cittadina, cosparsa di ville degradanti verso il mare, un angolo pittoresco della pittoresca Liguria, dove il soggiorno per il turista è veramente incantevole.
Ma Camogli è anche rinomato centro peschereccio, città di pescatori e di uomini di mare, e fin dall’antichità ha dato alla marineria ottimi armatori e valenti capitani la cui fama è corsa attraverso i mari fin ai più lontani paesi.
I ‘bianchi velieri’ di Camogli, come venivano chiamati i bastimenti, i ‘barchi’, erano così numerosi e così conosciuti in tutto il mondo che lo stesso Luigi Filippo, re di Francia, quando nel 1830 intraprese la conquista dell’Algeria, pensò di servirsi di essi per il trasporto di artiglierie, di batterie, di carriaggi, di derrate, di foraggi. La marina mercantile camogliese fu ritenuta, dunque, più adatta di quella francese per le necessità di una campagna che doveva durare dieci anni.
E attraverso i secoli Camogli è sempre stata all’altezza della sua fama. Anche Camillo di Cavour soleva dire che se i servizi per le truppe piemontesi andarono bene durante la guerra di Crimea, il merito era tutto dei camogliesi che avevano saputo dare al Piemonte una vera flotta mercantile.
Ma in alcuni giorni dell’anno, la graziosa cittadina sembra dimenticare il consueto, duro e tenace lavoro: si anima e diviene allegra, riempendosi di gente giunta da ogni parte d’Italia. E’ il tempo delle manifestazioni folkloristiche, tra cui è rinomata la Sagra del Pesce.
Sul porticciolo di Camogli, in mezzo a una folla variopinta e chiassosa, i pescatori friggono quintali e quintali di pesce in enormi padelle. Poi lo offrono a tutti generosamente, secondo una gentile tradizione di ospitalità: “Mangiate pesce! Mangiate fosforo fritto!” essi gridano allegramente, muovendosi tra i tavoli pieni di commensali improvvisati ed offrendo piatti colmi di pesce dorato e croccante. E tutti mangiano abbondantemente fra risa, canti, motteggi, richiami.
Camogli, cittadina di sogno, in questi giorni sembra davvero un’altra, sembra perfino aver dimenticato quella riservatezza e quella scontrosità propria degli uomini di mare.

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I fuochi di San Giovanni

Genova la notte di San Giovanni è tanto piena di luci, di razzi, di falò, da far pensare, a chi la vede dall’alto del Castelletto o dal Righi, che il bel cielo di giugno tempestato di stelle si sia rovesciato e l’abbia imbrillantata dei sui fulgori.
Le piazze e le strade sono invase, e la folla, densa come una colata di lava, è attraversata da righe di palloncini multicolori, da solchi di bengala abbaglianti, da processioni di fantastici quadri di carta velina illuminata; è agitata da canzoni, da trilli felici, da grida di venditori ambulanti, da suoni di fisarmoniche e di chitarre.
Il mare umano si incanala su per i carruggi e passa tra le case che, scintillanti di fiamme su tutte le finestre, pare che anch’esse si prendano a braccetto, perchè gettano da una facciata all’altra, dall’uno all’altro balconcino o terrazzo ghirlande di lanterne di carta, e da ogni angolo spunta un altarino coronato di fiori freschi e ornato di lumini a olio o lampadine elettriche.
Canta uno dei tipici poeti genovesi, Carlo Malinverni:
“Dove gh’è lampa o candeja
gh’è o Battista in te unn-a niccia,
no se sbaglia, ch’è un Baciccia
dove l’è acceizo un falò”.
Sì, perchè San Giovanni Battista è il patrono di Genova, e col nome di Giovan Battista erano battezzati migliaia di bambini genovesi che diventavano prima Baciccin e poi Baciccia.
(E. Cozzani)

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Visita al porto

Vogliamo visitare un grande porto marittimo? Ecco all’esterno un lungo e spesso muro che affiora tra i flutti e sembra difendere le acque interne dalla violenza dei marosi: è la diga foranea, che se da un’estremità è congiunta alla terraferma prende il nome di molo frangiflutti.
All’estremità della diga si leva la torre cilindrica del faro che, durante la notte, indica alle navi in arrivo l’imboccatura del porto.
Il faro vero e proprio è una potente lampada elettrica circondata da un sistema di lenti, prismi e specchi, i quali proiettano il fascio luminoso a grande distanza (anche 30 chilometri). Il faro, o proiettore, è girevole e può illuminare così tutti i punti dell’orizzonte. Ogni faro ha un suo linguaggio: cioè la durata d’accensione e di spegnimento è diversa per ogni porto; in tal modo i marinai possono sapere a quale località si stanno accostando.
Proseguendo l’esplorazione, scorgiamo, ormeggiata, una piccola imbarcazione a motore. E’ la lancia o pilotina, per il fatto che reca a bordo un esperto pilota, il quale salito sulla nave in arrivo, conoscendo bene il porto, la potrà condurre con sicurezza al molo che è stato destinato dalla Capitaneria di Porto. Questa utile ed essenziale assistenza si chiama ‘servizio di pilotaggio’.
Ma guardate là: altre piccole e tozzi imbarcazioni si accostano alle grandi navi, le prendono a rimorchio con dei cavi, le fanno delicatamente manovrare sulla loro scia, e le conducono, quasi per mano, al loro posto tra le altre navi già in sosta: si tratta dei rimorchiatori, i corti ma potenti battelli che hanno il compito di far eseguire alle loro sorelle maggiori quei piccoli spostamenti che esse, ingombranti come sono, da sole non saprebbero compiere. Così al momento della partenza, le estraggono dallo schieramento delle altre navi e le trascinano fin là da dove prenderanno il largo.
Giunte dunque al loro posteggio, le navi vengono trattenute alla terraferma con le gomene, grosse funi che si avvolgono attorno a certe colonnette di ferro (le bitte) fissate sulle banchine, e gettano l’ancora.
La nave che seguiamo è da carico; viene quindi avviata verso la zona destinata a tali navi.
Da vari ponti sporgenti qua e là si levano attrezzature per il carico e lo scarico delle merci: le gru. Esse prelevano rapidamente il materiale dalla stiva delle navi e lo depongono sulle chiatte, o sui vagoni merci o sulle stesse banchine, o anche su appositi autocarri. Il raggio d’azione delle gru si dice sbraccio; esso può raggiungere una trentina di metri e reggere il peso di qualche tonnellata.
C’è inoltre, nel grande porto, una zona appartata che appare chiusa da sbarramenti. Perchè? Qui approdano le grandi petroliere, cariche del prezioso ma pericoloso liquido infiammabile.
Entrate nel loro grande recinto di acqua, gli sbarramenti impediranno che il petrolio eventualmente sparso sulle acque, galleggiando si diffonda nel porto, con grave pericolo di incendio per tutte le altre navi in sosta. Da questa zona partono i tubi che si innestano negli oleodotti: questi poi raggiungono città e terre anche molto lontane.
Il porto di Genova merita una visita perchè è il primo d’Italia e del Mediterraneo per il movimento di merci. La sua grande espansione avvenne dopo il 1860; sino a quell’epoca era limitato al bacino del Porto Vecchio. Ecco come si dividono e come si denominano le sue zone più importanti: l’Avamporto, zona di attesa delle navi; il Bacino delle Grazie, per le navi in riparazione; il Ponte Doria e il Ponte dei Mille, stazioni per il servizio passeggeri.
In prosecuzione al porto, nella zona di Cornigliano, c’è l’aeroporto, e presso Sestri Ponente sorge un altro porto per i cantieri navali e per i petroli.

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I Liguri

I Liguri stanno affacciati al mare dal davanzale dei loro monti, e han voci strascicate unte d’olio, parlano come se avessero la bocca piena di sardine all’olio. Storcono la bocca, parlando, e questo forse viene per la ragione che le loro parole non sono rotonde, ma bislunghe, fatte a losanga, a triangolo isoscele, e per farle uscire di bocca bisogna storcere la bocca. Oppure per la ragione che i liguri le tengono tra i denti, e non le vogliono lasciar andare, e se le ciucciano, e le mordono, e le stringono tra le gengive, e quelle si divincolano, si dimenano, per uscire, finché escono di bocca unte e storte. Oppure perchè le parole liguri sono fatte come i pesci, e vogliono sgusciare di bocca, e conviene tenerle, perchè il discorso venga fuori con le parole-lische e gli aggettivi, e i verbi a posto, l’un dietro l’altro, secondo l’ordine dell’italiano.
Vivono in un paese stretto tra il mare e i monti, e non han posto per camminare, e perciò vanno in barca e solo per questo sono marinai, quando sono marinai. Poiché non è detto che sian tutti marinai; in grandissima parte sono montanari o contadini, e coltivano l’olio, il grano, poco vino, e fiori.
La maggior parte vive sui monti, o in collina. E la minor parte sta di casa sul mare, cammina stando attenta a non bagnarsi i piedi, così stretta è la riva, tanto che la sera i genovesi non escono di casa, per paura di cascare nell’acqua.
(Curzio Malaparte)

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Liguria

La Liguria più vera, quella che conserva un’anima antica e un volto più umano, non la trovi sulle spiagge affollate di turisti o nei grandi centri mercantili e industriali, ma è nell’interno dove la terra si fa arida, pietrosa, aspra, dove ogni palmo conquistato alle colture è un giardino, dove le linee del paesaggio, acceso dal sole e confortato dalla presenza del mare, ha una sobria grazia, che occorre saper assaporare conquistandola per le strette, lastricate stradine dei colli che scendono ripidi al mare.
E’ la Liguria una terra leggiadra.
Il sasso ardente, l’argilla pulita,
s’avvivano di pampini al sole.
E’ gigante l’ulivo. A primavera
appar dovunque la mimosa effimera.
Ombra e sole s’alternano
per quelle fonde valli
che si celano al mare,
per le vie lastricate
che vanno in su, fra campi di rose,
pozzi e terre spaccate,
costeggiando poderi e vigne chiuse.
In quell’arida terra il sole striscia
sulle pietre come un serpe.
Il mare in certi giorni
è un giardino fiorito.
Reca messaggi il vento.
Venere torna a nascere
ai soffi del maestrale.
O chiese di Liguria, come navi
disposte a esser varate!
O aperti ai vanti e all’onde
liguri cimiteri!
Una rosea tristezza vi colora
quando di sera, simile ad un fiore
che marcisce, la grande luce
si va sfacendo e muore. (V. Cardarelli)

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Nel porto di Genova

Al porto il battello si posa:
nel crepuscolo che brilla,
negli alberi quieti di frutti di luce,
nel paesaggio mitico
di navi nel seno dell’infinito,
ne la sera
calida di felicità, lucente
in un grande in un grande velario
di diamanti disteso sul crepuscolo,
in mille e mille diamanti, in un grande velario vivente
il battello si scarica
ininterrottamente cigolante,
instancabilmente introna;
e la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul molo
corrono i fanciulli e gridano
con gridi di felicità.
Già a frotte s’avventurano
i viaggiatori alla città tonante
che stende le sue piazze e le sue vie;
la grande luce mediterranea
s’è fusa in pietra di cenere:
pei vichi antichi e profondi
fragore di vita, gioia intensa e fugace:
velario d’oro di felicità
è il cielo ove il sole ricchissimo
lasciò le sue spoglie preziose.
E la Città comprende
e s’accende
e la fiamma titilla ed assorbe
i resti magnificenti del sole,
e intesse un sudario d’oblio,
divino per gli uomini stanchi.
Perdute nel crepuscolo tonante
ombre di viaggiatori
vanno per la Superba
terribili e grotteschi come ciechi.
Vasto, dentro un odor tenue, vanito
di catrame, vegliato da le lune
elettriche, sul mare appena vivo,
il vasto porto si addorme. (Dino Campana)

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Vecchia Zena
(Genova)
Scendi al sestriere de La Maddalena,
svolta nel vico dell’Amor Perfetto
che sottile s’avvia, fra tetto e tetto,
alla piazzetta nitida e serena.
Tace, sopita, l’affannosa pena
fra questi muri di vetusto aspetto
e si spegne il frastuono di Campetto,
pulsante arteria nella vecchia Zena.
Poco lontano, Sottoripa, al Molo,
tanti oscuri caruggi maleodoranti
si snodano, ovattati di mistero.
Nel vico dell’Amor Perfetto, solo,
s’acciambella indolente un gatto nero. (C. Mandel)

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Le palme di Sanremo

Tu mi dicevi: Guarda com’è bella
e come ignuda dorme la Riviera
mentre sommerge l’estasi lunare
le palme di Sanremo abbandonate
alle fiumane tacite del vento
all’umore implacabile del mare. (G. Ligurio)

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Sera di Liguria

Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria…
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare. (V. Cardarelli)

Dettati ortografici letture e poesie sulla LIGURIA
Paesetto di Riviera

La sera amorosa
ha raccolto le logge
per farle salpare;
le case tranquille,
sognanti la rosea
vaghezza dei poggi,
discendono al mare
in isole, in ville,
accanto alle chiese. (A. Gatto)

Dettati ortografici e letture sulla LIGURIA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Psicogrammatica Montessori: scatola grammaticale IV (cartellini) PREPOSIZIONE

Psicogrammatica Montessori: scatola grammaticale IV  – presentazione del materiale, e i cartellini di riempimento pronti per il download e la stampa. Con questa scatola i bambini approfondiscono lo studio della preposizione.

Il materiale per l’analisi delle parole è costituito da varie serie di cartellini della frase di colore viola e da varie serie di cartellini delle parole di diverso colore:
– viola per le preposizioni
– rosso per i verbi
– marrone chiaro per gli  articoli
– nero per i nomi
– marrone scuro per gli aggettivi
che si scelgono a seconda dell’esercizio che si vuole proporre e si collocano nella scatola grammaticale IV.

Il primo esercizio è anche qui quello della composizione di frasi, analizzate coi cartellini colorati.

La scatola grammaticale ha cinque caselle del colore corrispondente alla parte grammaticale. Nella casella più grande si collocano sei cartellini delle frasi.

Ad ogni parola scritta nei cartellini della frase corrisponde un cartellino della parola, e ad ogni parola scritta, corrisponde un cartellino nel casellario, ad eccezione delle parole ripetute all’interno di ogni cartellino della frase.  

Come per le altre scatole grammaticali, i cartellini colorati delle parole non corrispondono esattamente alle parole delle frasi che dovranno ricomporre, perchè le parole comuni nelle frasi di uno stesso biglietto non sono ripetute. E’ solo la preposizione, che, sostituita, cambia la frase.

Le varie serie di cartellini ognuna in una scatolina viola, e il gruppi di frasi relativi ad ogni serie sono separati con degli elastici:

Questi sono i cartellini pronti, rivisitati sostituendo i vocaboli caduti in disuso e tenendo conto di chi non ha la fortuna di disporre del materiale sensoriale in uso nella Casa dei bambini:

MATERIALI PREVISTI PER LA SCATOLA GRAMMATICALE IV PREPOSIZIONE
(con la codifica che ho utilizzato io per la preparazione dei cartellini)

scatola grammaticale IV (qui il tutorial per costruirla: Costruire le scatole grammaticali)

4 scatoline di riempimento di colore rosso contrassegnate IVA, IVB, IVC, IVD.
una scatolina aperta rossa per il libretto degli elenchi e per il libretto delle regole

PREPOSIZIONE

Contenuto delle scatole di riempimento

scatola IVA: scheda della definizione e cartellini (i 4 gruppi di cartellini stanno nella scatola IVA separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IVA-1: (cartellini delle parole + 5 cartellini frase)
  • cartellini IVA-2: (cartellini delle parole + 5 cartellini frase)
  • cartellini IVA-3: (cartellini delle parole + 5 cartellini frase)
  • cartellini IVA-4: (cartellini delle parole + 4 cartellini frase)

scatola IVB: scheda della definizione e cartellini (i 4 gruppi di cartellini stanno nella scatola IVB separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IVB-1: (cartellini delle parole + 5 cartellini frase)
  • cartellini IVB-2: (cartellini delle parole + 5 cartellini frase)
  • cartellini IVB-3: (cartellini delle parole + 5 cartellini frase)
  • cartellini IVB-4: (cartellini delle parole + 4 cartellini frase)

scatola IVC: scheda della definizione e cartellini ( i 3 gruppi di cartellini stanno nella scatola IVC separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IVC-1: (cartellini delle parole + 5 cartellini frase)
  • cartellini IVC-2: (cartellini delle parole + 5 cartellini frase)
  • cartellini IVC-3: (cartellini delle parole + 5 cartellini frase)

scatola IVD: scheda della definizione e cartellini ( i 3 gruppi di cartellini stanno nella scatola IVD  separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IVD-1: (cartellini delle parole + 5 cartellini frase)
  • cartellini IVD-2: (cartellini delle parole + 7 cartellini frase)
  • cartellini IVD-3: (cartellini delle parole + 6 cartellini frase)

scatolina aperta VIOLA:

  • libretto degli elenchi per la preposizione (facoltativo)
  • libretto delle regole grammaticali per la preposizione.

Questo è il materiale pronto:

ISTRUZIONI per confezionare i libretti
(nell’esempio un libretto delle nomenclature)

La mia stampante è in bianco e nero, ma consiglio di stampare a colori. Per il libretto ritagliate le pagine seguendo i tratteggi:

piegate ogni striscia così, per ottenere pagine stampate fronte/retro:

rilegate. Io ho usato la foratrice per spirali:

_________________________

MATERIALI PER LA SCATOLA GRAMMATICALE IV

Si tratta di un materiale rivisitato e attualizzato ai mutamenti che la lingua ha subito e ai vocaboli che più appartengono alla realtà dei bambino oggi.
L’organizzazione originale del materiale non cambia, ho aggiunto però dei set che isolano ulteriori aspetti delle regole grammaticali.
Ciascuna parte del discorso ha un suo codice colore, che è diverso da quello dei simboli grammaticali (ad eccezione del nome e del verbo).

I simboli grammaticali possono entrare a far parte degli esercizi con le scatole grammaticali: i bambini possono porre i simboli mobili sulle parole scritte nei cartellini della frase, o anche possono copiare le frasi e disegnare i simboli (anche utilizzando gli stencil).

USO DEL MATERIALE

Avere a disposizione le scatole grammaticali di legno è sicuramente la situazione ideale, ma considerando il costo, non è la situazione alla portata di tutti. Si possono preparare delle bellissime alternative in cartone o anche sostituire alle scatole delle “tovagliette stampate“. Si può anche decidere di non utilizzare nulla, e di mettere semplicemente i cartellini sul tavolo, divisi in base al loro codice colore e ponendo sopra di essi dei cartellini-titolo (per la prima scatola ‘ARTICOLO’ e ‘NOME’).
Lo stesso discorso vale per le scatole di riempimento e per le scatole dei comandi, che possono essere acquistate in legno, o possono essere facilmente realizzate in cartoncino. Si può anche optare per qualsiasi altra soluzione alternativa: buste di carta colorata, sacchetti di plastica trasparente, cestini, ecc.

Le scatole grammaticali servono all’esercizio del bambino, dopo le presentazioni e le lezioni chiave relative alle parti del discorso che vogliamo esercitare.

Con le scatole grammaticali si possono svolgere vari esercizi.

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
Come si diventa cavaliere

A sette anni, il figlio di un nobile o di un cavaliere, cominciava un’educazione robusta fra giochi militari  nel castello paterno: quindi, uscito dall’infanzia, andava come paggio presso qualche barone rinomato per fasto, per antichità di stirpe, o generosità d’imprese. Lì rendeva servigi al signore e alla dama, corteggiando, ossequiando, accompagnando in viaggi, in visite, in passeggi: servendo i confetti, i dolci, il vin chiaretto e il cotto, e altre bevande con cui si chiudeva la mensa o preveniva il sonno.

Intanto col cavallo o col falcone cacciava le fiere e gli uccelli; in finti attacchi avvezzava l’animo alla guerra; ed alla guerra ed all’onore lo incitava l’esempio di baroni e cavalieri. A quattordici anni, padre e madre, col cero alla mano, conducevano il ragazzo all’altare, dal quale il sacerdote celebrante prendeva una spada e una cintura, e benedetti, li cingeva al giovane che diventava così scudiero: padrini e madrine promettevano amore e lealtà suo nome e gli stringevano gli sperono d’argento. Allora egli si accompagnava a qualche cavaliere, vigilava sui cavalli, teneva in ordine le armi, portandole al suo signore quando doveva usarle, e tenendogli la staffa quando montava in sella; custodiva i prigionieri; viaggiando conduceva a mano il destriero sul quale cavalcava il suo padrone.

Dopo alcuni anni di tale vita, l’iniziato si preparava a ricevere l’ordine della cavalleria con digiuni, preghiere, penitenze; poi si comunicava e vestiva l’abito bianco in segno dell’acquistata purezza, spesso si lavava accuratamente in un bagno. Poi cambiava la candida veste dell’innocenza in quella scarlatta che esprimeva il desiderio di versare il sangue per la religione, e si faceva tagliare i capelli in segno di servitù. Durante tutta la notte precedente la cerimonia faceva orazioni solo o con sacerdoti o con padrini. Giunto l’istante solenne, era accompagnato all’altare da cavalieri e scudieri, si inginocchiava con la spada a tracolla, e si offriva al sacerdote che lo benediceva e gliela rimetteva. Il signore che lo doveva nominare cavaliere gli domandava: “Perchè vuoi essere cavaliere? Per farti ricco? Trarre onore senza farne alla cavalleria?”. L’aspirante rispondeva di volerlo per onorare Dio, la religione e la cavalleria, e ne dava giuramento sulla spada del signore. Allora il giovane veniva addobbato da più cavalieri, dame, damigelle, che gli mettevano la maglia d’acciaio, la corazza, i bracciali, i guanti, la spada, e gli speroni d’oro, distintivo della sua dignità. Il signore, alzandosi dal suo seggio, gli dava tre colpi di piatto con la spada nuda sopra la spalla e uno schiaffo, ultima ingiuria che egli dovesse soffrire invendicato; e gli diceva: “In nome di Dio, di San Giorgio, di San Michele, ti fo cavaliere, sii prode, coraggioso, leale”. Allora erano portati al nuovo cavaliere l’elmo, lo scudo, la lancia, il cavallo sul quale, balzando senza staffa, caracollava brandendo le armi, e uscito di chiesa faceva altrettanto innanzi al popolo applaudente. (C. Cantù)

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
I dieci comandamenti della Cavalleria
Ecco le dieci norme e comandamenti che si insegnavano ai giovani in attesa di essere investiti cavalieri.
1. Crederai agli insegnamenti della Chiesa e ne osserverai i comandamenti.
2. Proteggerai la Chiesa.
3. Difenderai ogni debole.
4. Amerai il paese in cui sei nato.
5. Non indietreggerai mai davanti al nemico.
6. Combatterai fino all’ultimo sangue contro gli infedeli.
7. Adempirai ai tuoi doveri feudali, purché non contrastino con la legge di Dio.
8. Non mentirai, e manterrai la parola data.
9. Sarai munifico e generoso con tutti.
10. Sarai sempre e dovunque il difensore del diritto e del bene contro l’ingiustizia e il male.

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
Il futuro cavaliere
(dialogo immaginario all’interno di un castello)
Ragazzo: Che scalpitio di cavalli, che abbaiare di cani, che affaccendarsi di scudieri e di servi questa mattina! Ora il castello è tornato più silenzioso di sempre. Che noia… Hai visto quanto erano belli i nuovi cavalli del conte? Hai osservato i nuovi falchi e sparvieri ammaestrati?
Bambina: Che uccellacci!
Ragazzo: Sì, ma volano in alto e portano la preda!
Bambina: A me ha fatto impressione solo il fatto che questa volta il conte e la contessa avevano con sé il figlio minore, che non ha ancora sette anni: già sulla sella di un cavallo, poverino!
Ragazzo: Fortunato lui, invece! Egli è destinato a diventare cavaliere. Per questo il conte ha voluto che sapesse cavalcare prestissimo. Fra non molto, so che lascerà questo castello e si recherà presso un altro feudatario, di cui diventerà paggio. Imparerà a servire gentilmente il signore e la sua dama. Poi, a quattordici anni, diverrà scudiero: imparerà l’uso delle armi, avrà cura del cavallo e del suo signore e dei cavalieri suoi ospiti, gli porterà lo scudo e provvederà a mille servizi sempre meno umili, finché a ventun anni potrà avere l’investitura a cavaliere. E allora a lui saranno riserbate magnifiche imprese e avventure, come quelle che narrano i giullari che arrivano al castello. Oh, se potessi diventare anch’io un cavaliere!
Bambina: Un cavaliere tu? Il figlio di un fabbro? Sarebbe lo stesso che io, figlia di un mugnaio, sognassi di diventare una dama. La cavalleria è dei nobili!
(R. Botticelli)

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
Degradazione di un cavaliere

Se un cavaliere compiva un atto basso o vile subiva la degradazione. Le sue armi venivano spezzate, dal suo scudo si cancellava lo stemma, poi lo si appendeva alla coda di un cavallo che lo trascinava nel fango. Intanto il colpevole era coperto di contumelie e gli si diceva che il suo vero nome era quello di traditore. Poi gli veniva rovesciata una bacinella di acqua calda sul capo come a significare che gli veniva cancellata l’investitura. Finalmente, avvolto in un panno funereo, l’ex-cavaliere veniva condotto in chiesa e su di lui, chiuso sotto un graticcio, si celebrava l’ufficio dei morti. I suoi figli erano dichiarati ignobili e banditi dalla corte e dall’esercito. (A. Gigli)

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
Le città nell’età feudale

Le città nell’età feudale, fin verso il X secolo, sono scarse di popolazione, prive di importanza economica e politica. Formano, di diritto, parte di un feudo, ma il signore non le cura: vigilano su di esse i vescovi. La popolazione è formata da militi e da una classe di operai e artigiani.

In qualche città si tenevano mercati, in cui gli abitanti della campagna periodicamente si recavano per scambiare l’eccesso dei loro prodotti con gli oggetti fabbricati dagli artigiani urbani.

La tecnica fece nel Medioevo molti importanti progressi, grazie soprattutto all’inventiva degli artigiani. Non progredì invece la scienza, cioè lo studio  e la conoscenza delle leggi e delle forze della natura: nelle università medievali, sorte poco dopo il Mille, lo studio della natura era trascurato a favore delle discipline tradizionali (teologia, filosofia, grammatica, retorica e poche altre). I progressi tecnici, d’altronde, poco giovarono al miglioramento delle condizioni di vita, che nelle campagne e specialmente nelle città medioevali erano senz’altro disastrose.

Caduti in rovina gli acquedotti romani, le città restarono prive di sicuri e abbondanti rifornimenti d’acqua potabile. Le strade erano ingombre di ogni sorta di sozzure, perchè le fognature mancavano del tutto, e così la pavimentazione stradale: i rifiuti venivano gettati dalle finestre. L’inosservanza di qualsiasi igiene era la causa, naturalmente, di terribili e frequenti epidemie. Di notte, le strade non erano illuminate, e quindi malsicure: in pratica, la vita cittadina si interrompeva totalmente al calar del sole, per riprendere solamente all’alba. Solo all’inizio dei tempi moderni, dal 500 in poi, si ebbe qualche progresso: le strade vennero pavimentate, si costruirono acquedotti e fu introdotto un primitivo sistema di illuminazione. (A. Gigli)

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
Come ci si comportava a tavola nell’epoca medioevale

Nel Medioevo si mangiava, come si fa ancora in certe campagne, in semplici scodelle, usando il cucchiaio e il coltello (spesso un coltello serviva per due o più persone), ma l’uso di un piatto per ciascun convitato era sconosciuto e così pure quello delle forchette e dei tovaglioli. Le tovaglie erano una rarità riservata ai giorni di festa nelle case dei ricchi. Solo nel secolo XIV si cominciò ad adottare la biancheria da tavola e da allora si diffuse sempre più. Le tovaglie, quando si mettevano, scendevano fino a terra; i convitati, che adoperavano abbondantemente le dita per portarsi in bocca i cibi, le usavano per pulirsele e anche per la bocca e la barba; così che nei grandi pranzi, si dovevano cambiare le tovaglie dopo le portate principali.

Al principio dei pasti ci si lavava le mai con poche gocce d’acqua versate da un’ampolla sopra un piccolo catino. Nei monasteri era lo stesso abate che in segno di cortesia versava l’acqua sulle dita dei suoi ospiti; nelle case signorili questo servizio era invece reso dagli scudieri. Il loro arrivo con le ampolle e i catini era il modo con cui si annunciava che il pranzo era pronto. Quando si voleva essere raffinati si serviva acqua profumata con infusioni di petali di rosa, di menta, di verbena.

Il primo piatto era una minestra assai liquida, versata in una scodella e nella quale si inzuppava una fetta di pane; per portarla alla bocca si adoperava il cucchiaio. Poi veniva il piatto di carne costituito da grandi arrosti, o umidi, che venivano tagliati a fette e serviti su larghi pezzi di pane posti, come oggi si fa con i piatti, davanti ad ogni convitato; i pezzi di pane di inzuppavano di sugo e si mangiava il pane e la carne simultaneamente a morsi come oggi si fa con i panini. Nei grandi pranzi non si mangiava il pane, che veniva raccolto in ceste e dato ai poveri.

Nelle tavole signorili, gli scudieri erano incaricati di rifornire di carne le fette di pane dei loro signori; oppure ognuno si serviva mettendo la mano nel piatto centrale, ed era raccomandato di farlo con delicatezza e di non affondare nel sugo che la punta delle dita. Alla fine del pasto era servito il vino nel quale era anche usanza inzuppare del pane o dei biscotti. (G. Haucourt)

IL MEDIOEVO dettati ortografici e letture
Cibi del Medioevo

Osservando delle miniature o delle pitture riproducenti scene di vita medioevale notiamo anche banchetti con tavole ricche e piatti appetitosi. Questi consistevano principalmente di carne di maiale, di cinghiale, di coniglio e, rare volte, di bue, animale il cui allevamento era costoso. Pure apprezzati erano il fagiano ed il pavone le cui carni erano cotte e poi portate a tavola in piatti ornati delle loro superbe e policrome piume. Anche i piccioni, il cui allevamento era riservato ai ricchi, erano di frequente fra i piatti prelibati.

Durante i digiuni, imposti dalla religione cristiana, i banchetti si arricchivano di pesci, per lo più di carpe, di tinche, che popolavano i fossati pieni d’acqua che circondavano le mura. Si consumava anche carne di aringhe secche e di molluschi di mare.

Il cibo veniva condito con varie spezie; perciò molti erano i mercanti che le commerciavano, detti speziali. Tra le più importanti spezie, per lo più di provenienza orientale, ricordiamo: il chiodo di garofano, che veniva masticato dai cortigiani per rendere profumato l’alito; lo zenzero, col quale veniva profumato il pan pepato; la noce moscata, il cui svariato uso è noto anche oggi; e infine lo zafferano e il pepe, che avevano prezzi proibitivi e venivano dai più sostituiti con aglio, cipolla, senape. I nostri avi non poterono gustare la carne di tacchino, né la fragranza del pomodoro, né la patata., non essendo stata ancora scoperta l’America, da cui furono in seguito importati.

E i dolci? Uno, squisito, era costituito da una specie di torrone, pieno di mandorle e di pistacchi e di miele, detto ‘halva’; un altro dolce era il ‘lokum’, un insieme di amido e pistacchi. Assai diffuso era il gelato, in particolare al melograno o al miele. Non esistendo i nostri moderni frigoriferi, il ghiaccio necessario veniva preparato durante le fredde notti invernali. Preparata l’acqua in bacini poco profondi, una volta ghiacciata col rigore del freddo, veniva immessa nel fondo a fresche cantine, particolarmente adatte alla sua conservazione. I gelati si ottenevano grattugiando il ghiaccio e aggiungendovi miele, amido cotto ed essenze varie.

Nel XIII secolo in Europa non si beveva ancora il caffè, né il tè, bevande invece già note agli Arabi

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L’igiene personale nel Medioevo

Generalmente nel Medioevo la toletta quotidiana di faceva dopo essersi vestiti e si limitava al lavaggio delle parti del corpo che restavano ancora visibili, ossia la faccia e le mani. Non c’erano allora gabinetti appartati, ma ci si lavava nella stessa camera dove si dormiva. L’uso medioevale era di dormire in molte persone in una stessa camera.

Ma non si può dire che in quest’epoca si fosse incapaci di una pulizia più a fondo; questa era fatta nelle occasioni importanti, una volta alla settimana o anche più di rado, a torso nudo davanti a un secchio d’acqua.

Gli abitanti delle città e dei castelli conoscevano anche i piaceri del bagno, che i monasteri riservavano sono ai malati ed ai convalescenti. Questo ristoro veniva preso nelle tinozze di legno che servivano a fare il bucato. Se ne copriva il fondo con un panno per impedire che le scaglie potessero ferire la pelle, e il bagnante vi si sedeva dentro con le ginocchia piegate. Questi bagni a domicilio si prendevano o di mattina o al ritorno da un esercizio faticoso come un viaggio, una caccia, un torneo.

Per le persone meno ricche, esistevano anche dei bagni pubblici, di cui a Parigi nel 1282 ne ne contavano non meno di 26. Essi restavano aperti tutti i giorni eccetto le domeniche e i giorni di festa. Quando l’acqua era calda, venivano mandati per la città degli annunciatori che gridavano che i bagni erano pronti.

Non mancavano, allora come sempre, le cure di eleganza: depilazioni, uso di unguenti e profumi, tintura dei capelli. Noi conosciamo molte ricette medievali di bellezza quasi tutte fatte a base di erbe, radici e fiori.
(G. Haucourt)

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Spettacoli teatrali nel Medioevo

Gli attori non indossavano costumi nell’antichità, ma vestiti del loro tempo che erano diversi secondo la professione (per esempio i medici vestivano in un certo modo, e così i maestri, gli avvocati, ecc.). Quando entravano in scena essi si annunciavano indicando il personaggio che rappresentavano: per esempio “Io sono Abramo”, oppure “Io sono Erode” e così via. Dio Onnipotente aveva una barba maestosa e una mitra in testa e portava guanti e mantello bianchi. I re cattivi avevano un turbante come gli arabi e giuravano in nome di Belzebù. I gran sacerdoti ebrei erano vestiti come vescovi cristiani ed erano sempre radunati in consiglio. I dottori della legge avevano cappucci rotondi e cappe di pelliccia. Contadini e soldati portavano vestiti dei contadini e dei soldati del tempo. Maria Maddalena, prima della conversione, era sempre addobbata con vestiti fastosi.
Gli angeli salivano e scendevano dal cielo per mezzo di scale a pioli di legno appoggiate ai muri. Impressionante era la bocca dell’inferno, fatta in modo che si poteva aprire e chiudere; diavoli neri, blu e rossi ne uscivano fuori per reclamare e trascinarsi dentro i dannati, mentre un gran fracasso di pentole e pignatte stava ad indicare la discordia e la confusione che regna all’inferno.
(C.M. Smith)

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I giochi del Medioevo

Molti giochi che pratichiamo oggi hanno origine da quelli che si tenevano nel Medioevo. Il gioco del calcio, per esempio, era già in uso nelle città italiane a quei tempi; e così la pallacorda, cioè quel gioco che ora si chiama tennis. I bambini piccoli si accontentavano della palla, una bella palla di legno, mentre le bambine avevano bambole di pezza col viso di terracotta dipinta. Gli adulti si cimentavano nelle gare di nuoto, di salto, di tiro alla fionda e di tiro al bersaglio. Ma c’erano giochi molto curiosi nel Medioevo.
A Bologna si usava il gioco delle uova che consisteva in una battaglia fra due squadre di giovani; gli uni armati di bastoni; gli altri, che portavano maschere a rete di ferro per proteggere le facce, armati… di ceste di uova.
A Venezia era in uso il gioco del ponte: qui pure si dividevano i partecipanti in due squadre che lottavano su un ponte privo di parapetto, finché una gran parte dei giocatori non aveva fatto un bel tuffo nell’acqua.
(A. Enriquez)

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Civiltà medioevale

Se ai nostri giorni fosse necessario, per essere ufficiali, comprare un carro armato e pagare i propri soldati, solamente i più ricchi potrebbero farlo Nel secolo XI, per andare in guerra a cavallo, armati da capo a piedi, occorreva un grosso patrimonio: la cavalleria, cioè il fulcro dell’esercito, era formata da proprietari terrieri, cioè da feudatari. Essi erano circondati di rispetto come, prima di loro, lo erano stati i nobili della tarda romanità e del periodo barbarico-romano, scomparsi nel crollo dell’Impero. Per di più, il loro era un compito pericoloso e necessario… Questi cavalieri sono all’origine, specie in Francia ma anche in Italia, della nobiltà militare.
A quindici anni circa si consegnavano al giovane cavaliere le armi e il cavallo di battaglia. Ma ne avrebbe fatto buon uso? La forza è cattiva consigliera, soprattutto in una società rozza  e senza leggi. Fin da allora si prese l’abitudine di raccomandare al giovane di essere leale e misericordioso, di essere prode.
Ben presto la Chiesa colse l’occasione per accaparrarsi la cerimonia della vestizione, che diventò una piccola festa religiosa e simbolica. Per esempio, perchè consegnare al futuro combattente degli speroni? Per ricordargli che deve obbedire a Dio come il cavallo al suo padrone… La cavalleria diventò così una specie di ordine laico in cui uomini violenti, e spesso perfino brutali, si sforzarono di comportarsi da folli pieni di onore.
Essi amavano tanto le mischie che, quando cessarono le invasioni e i conseguenti disordini, continuarono a far la guerra, ma la fecero fra di loro, e questa fu una sventura per le campagne. Allora la Chiese stabilì la ‘Pace di Dio’. Proibì la guerra, per mezzo della ‘tregua di Dio’ dal mercoledì sera  al lunedì mattina (1041). E quando i più accaniti si dimenticavano quelle restrizioni, la Chiesa li puniva, oppure altri si incaricavano di punirli in sua vece: in una regione della Francia, verso la fine del secolo XII, gli incappucciati (con il volto coperto da una cappa) prendevano nota dei combattenti incorreggibili e li pugnalavano.

Come nei formicai si distinguono i soldati e le operaie, così la società medioevale non ha conosciuto quell’uguaglianza cui noi tanto teniamo: in essa vi sono quelli che combattono, quelli che pregano e quelli che lavorano. Quando si dice ‘lavoratore’, in questo periodo, si intende dire ‘contadino’: nove persone su dieci, di quelle che vivevano in quel tempo, coltivavano la terra. I tre quarti degli italiani di oggi discendono da qualche contadino, servo o villano, del secolo XI. La loro storia sarebbe dunque la prima in ordine di importanza: sfortunatamente, i documenti preferiscono parlarci dei grandi di questa terra. Coltivare il terreno, vendemmiare, allevare il bestiame e le greggi serviva ad assicurare l’alimentazione di tutti, ma a volte era causa di maltrattamenti e sempre di disprezzo.
Basta pensare alla parola villano che, in origine, indicava il fattore della villa e che oggi è usata in senso spregiativo: gli uomini del Medioevo vedevano, dunque, nel lavoratore dei campi solamente maleducazione e grossolanità. Quanto a certe usanze brutali, qualche volta sono state esagerate. E’ stato detto per esempio che il servo era una ‘mano morta’ perchè, alla sua morte, gli si tagliava una mano per offrirla al signore, per indicare con ciò che il suo servo non l’avrebbe più servito. In realtà quella poco simpatica parola vuol dire semplicemente che i beni de servo senza eredi, ritornano, in caso di morte, al suo signore.
I contadini temevano, a giusta ragione, altre molestie di cui si parla di meno. Essi temevano soprattutto gli effetti di certe usanze. Poteva accadere che un signore feudale, in un momento critico, chiedesse agli abitanti del villaggio  di andare a falciare i suoi prati. Ecco che quella che era stata una prestazione eccezionale, di carattere straordinario, si trasformava facilmente in un obbligo permanente. Il signore esigeva, ora, che i contadini di quel dato villaggio gli falciassero sempre, e gratis, i suoi prati. In questo caso si vede come il nostro villano avesse buoni motivi per cercare di non prestare un simile servizio e di sottrarsi a obblighi del genere.
Tali resistenze, e molte altre, fecero comprendere a poco a poco ai signori, anche ai più duri, che conveniva loro trattare bene il contadino; già nel secolo XI incomincia il grande movimento di liberazione dei servi. Nell’epoca che stiamo studiando si poteva notare la comparsa, o per meglio dire la ricomparsa, lungo e strade e lungo i fiumi, di una specie di uomini abituati al rischio: i mercanti. Certo, era facile fare irruzione sui convogli di carri e di muli e impadronirsi della merce; la tentazione era forte e vi furono dei signori i quali si dedicarono a questo genere di saccheggio. Ma ve ne furono altri, dal cervello meno ristretto, i quali ebbero l’idea di accontentarsi di un pedaggio e concessero perfino vantaggi d’ogni specie per attirare nel loro feudo, con le fiere, folle di persone dalle quali si poteva ricavare qualche guadagno.

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Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III (cartellini)

Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III – presentazione del materiale, e i cartellini di riempimento pronti per il download e la stampa. Con questa scatola i bambini approfondiscono lo studio del verbo in relazione al nome, all’articolo e all’aggettivo.

Il materiale per l’analisi delle parole è costituito da varie serie di cartellini della frase di colore rosso e da varie serie di cartellini delle parole di diverso colore:
– rosso per i verbi
– marrone chiaro per gli  articoli
– nero per i nomi
– marrone scuro per gli aggettivi
che si scelgono a seconda dell’esercizio che si vuole proporre e si collocano nella scatola grammaticale III.

Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III

Maria Montessori racconta che questo materiale è nato durante l’esperienza nella Scuola Ortofrenica. Con i bambini dell’Istituto si era concentrata principalmente sui nomi e sui verbi: il nome era l’oggetto e il verbo l’azione. Queste due parti del discorso venivano distinte con grande chiarezza, come si distingue la materia dalla forza, o la chimica dalla fisica.  Per comprendere il nome in tutti i suoi aspetti di facevano esercizi con gli oggetti. Per comprendere il verbo si facevano eseguire ai bambini delle azioni.

Poiché i bambini devono essere guidati nell’esecuzione delle azioni, perchè non sempre sono in grado di interpretare una parola con un’azione che corrisponda ad essa con precisione, l’insegnante dovrà dare delle lezioni individuali per insegnare loro ad interpretare il verbo.

Presentiamo una scatola con quattro caselle per l’articolo, il nome, l’aggettivo e il verbo, contrassegnate da etichette marrone chiaro, nero, marrone scuro e rosso. Nella casella posteriore stanno per ogni esercizio sei cartellini della frase.

Ad ogni parola scritta nei cartellini della frase corrisponde un cartellino della parola: e ad ogni parola scritta, corrisponde un cartellino nel casellario, ad eccezione delle parole ripetute all’interno di ogni cartellino della frase. Se, ad esempio, nel cartellino della frase di trova scritto: lancia una piccola gomma /getta una piccola gomma; i cartellini saranno lancia, una, piccola, gomma, scaraventa.

Infatti il bambino comporrà la prima frase sul tavolino, eseguirà l’azione, cambierà solo un cartellino (getta invece di lancia) ed eseguirà la seconda azione.

In questo modo vedrà che, avendo sostituito il verbo, le due frasi indicano azioni diverse.

Le varie serie di cartellini ognuna in una scatolina rossa, e il gruppi di frasi relativi ad ogni serie sono separati con degli elastici:

Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III

Nelle serie originali preparate da Maria Montessori i verbi erano contrastanti o sinonimi.

Questi sono i cartellini pronti, rivisitati sostituendo i vocaboli caduti in disuso e tenendo conto di chi non ha la fortuna di disporre del materiale sensoriale in uso nella Casa dei bambini:

Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III

MATERIALI PREVISTI PER LA SCATOLA GRAMMATICALE III
(con la codifica che ho utilizzato io per la preparazione dei cartellini)

scatola grammaticale III (qui il tutorial per costruirla: Costruire le scatole grammaticali)
– 5 scatoline di riempimento di colore rosso contrassegnate IIIA, IIIB, IIIC, IIID, IIIE.
una scatolina aperta rossa per il libretto degli elenchi e per il libretto delle regole

Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III

Contenuto delle scatole di riempimento

scatola IIIA: scheda della definizione e cartellini (i 5 gruppi di cartellini stanno nella scatola IIIA separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IIIA-1: (cartellini verbi, articoli, nomi + 6 cartellini frase)
  • cartellini IIIA-2: (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)
  • cartellini IIIA-3: (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)
  • cartellini IIIA-4: (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)
  • cartellini IIIA-5: (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)

scatola IIIB: scheda della definizione e cartellini (i 5 gruppi di cartellini stanno nella scatola IIIB separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IIIB-1: comandi semplici opposti con oggetto diretto senza aggettivi (cartellini verbi, articoli, nomi, + 6 cartellini frase)
  • cartellini IIIB-2:  comandi semplici con oggetto diretto e aggettivi (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)
  • cartellini IIIB-3:  comandi semplici opposti con oggetto diretto (cartellini verbi, articoli, nomi, + 6 cartellini frase)
  • cartellini IIIB-4:  comandi semplici opposti con oggetto diretto e aggettivi (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)
  • cartellini IIIB-5:  comandi semplici opposti con oggetto diretto e aggettivi (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)

scatola IIIC: scheda della definizione e cartellini ( i due gruppi di cartellini stanno nella scatola IIC separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IIIC-1: comandi semplici con oggetto diretto, aggettivi e azioni consecutive (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)
  • cartellini IIIC-2: comandi semplici con oggetto diretto, aggettivi e azioni consecutive (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)

scatola IIID: scheda della definizione e cartellini ( i 6 gruppi di cartellini stanno nella scatola IIID  separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IIID-1: comandi con verbi sensoriali e un oggetto (cartellini verbi, articoli, nomi + 7 cartellini frase)
  • cartellini IIID-2: comandi con verbi d’azione e un oggetto (cartellini verbi, articoli, nomi + 7 cartellini frase)
  • cartellini IIID-3: comandi con verbi, oggetti d’uso domestico e aggettivi (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 7 cartellini frase)
  • cartellini IIID-4: comandi con verbi, oggetti d’uso scolastico e aggettivi  (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 7 cartellini frase)
  • cartellini IIID-5: concordanza nome-verbo (cartellini verbi, nomi, articoli)
  • cartellini IIID-6: concordanza nome-verbo (cartellini verbi, nomi, articoli)

scatola IIIE: scheda della definizione e cartellini ( i 4 gruppi di cartellini stanno nella scatola IIIE  separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IIE-1: frasi semplici con oggetto diretto e aggettivi (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)
  • cartellini IIIE-2: frasi semplici con oggetto diretto e aggettivi (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)
  • cartellini IIIE-3: frasi semplici con oggetto diretto e aggettivi (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)
  • cartellini IIIE-4: frasi semplici con oggetto diretto e aggettivi (cartellini verbi, articoli, nomi, aggettivi + 6 cartellini frase)

scatolina aperta rossa:

  • libretto degli elenchi per il verbo (facoltativo)
  • libretto delle regole grammaticali per il verbo.

Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III

Questo è il materiale pronto:

Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III

Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III

Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III
PDF QUI: LIBRO DELLE REGOLE GRAMMATICALI PER L’USO DEL VERBO

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Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III
ISTRUZIONI per confezionare i libretti
(nell’esempio un libretto delle nomenclature)

La mia stampante è in bianco e nero, ma consiglio di stampare a colori. Per il libretto ritagliate le pagine seguendo i tratteggi:

piegate ogni striscia così, per ottenere pagine stampate fronte/retro:

rilegate. Io ho usato la foratrice per spirali:

Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III

MATERIALI PER LA SCATOLA GRAMMATICALE II

Si tratta di un materiale rivisitato e attualizzato ai mutamenti che la lingua ha subito e ai vocaboli che più appartengono alla realtà dei bambino oggi.
L’organizzazione originale del materiale non cambia, ho aggiunto però dei set che isolano ulteriori aspetti delle regole grammaticali.
Ciascuna parte del discorso ha un suo codice colore, che è diverso da quello dei simboli grammaticali (ad eccezione del nome e del verbo).


I simboli grammaticali possono entrare a far parte degli esercizi con le scatole grammaticali: i bambini possono porre i simboli mobili sulle parole scritte nei cartellini della frase, o anche possono copiare le frasi e disegnare i simboli (anche utilizzando gli stencil).

Psicogrammatica Montessori SCATOLA GRAMMATICALE III

USO DEL MATERIALE

Avere a disposizione le scatole grammaticali di legno è sicuramente la situazione ideale, ma considerando il costo, non è la situazione alla portata di tutti. Si possono preparare delle bellissime alternative in cartone o anche sostituire alle scatole delle “tovagliette stampate“. Si può anche decidere di non utilizzare nulla, e di mettere semplicemente i cartellini sul tavolo, divisi in base al loro codice colore e ponendo sopra di essi dei cartellini-titolo (per la prima scatola ‘ARTICOLO’ e ‘NOME’).
Lo stesso discorso vale per le scatole di riempimento e per le scatole dei comandi, che possono essere acquistate in legno, o possono essere facilmente realizzate in cartoncino. Si può anche optare per qualsiasi altra soluzione alternativa: buste di carta colorata, sacchetti di plastica trasparente, cestini, ecc.

Le scatole grammaticali servono all’esercizio del bambino, dopo le presentazioni e le lezioni chiave relative alle parti del discorso che vogliamo esercitare.

Il tributo: recita sul Medioevo

Il tributo: recita sul Medioevo. La scena è immaginata nell’umile casa di un servo della gleba, il contadino di allora.

Personaggi: il servo della gleba, il figlio, due alabardieri (soldati)

Figlio: Babbo, perchè sei triste? Sono stato al castello, sai! Mi hanno fatto entrare per aiutare gli sguatteri, perchè ieri c’è stata festa al castello, fino a notte fonda! Sono passato per lunghi corridoi e grandi stanze; una di queste è lunga quasi tutto il borgo… Ma perchè sei triste?

Servo della gleba: Per niente! Ti ascolto!

Figlio: Alle pareti sono appese teste di lupi e di cinghiali, corna di cervi e di caprioli. Questi animali li ha uccisi il conte, sai! E poi dappertutto si trovano lance, alabarde, mazze ferrate, e sui tavoli si vedono vassoi d’argento e coppe d’oro. Vedessi come sono lunghe le tavole della sala per il banchetto! Cento brocche di vino c’erano sopra. Nello spiedo ho visto girare un cinghiale intero e sul camino friggere in padella cento e cento uova. Uno scudiero mi ha fatto assaggiare una pietanza strana, che era avanzata e che io non avevo mai visto… Com’era buona!… Ma perchè sei triste?

Servo della gleba: Per niente, ti ripeto. Continua.

Figlio: Poi un paggio mi ha fatto entrare nella sala del banchetto, dove, insieme col conte e la contessa, c’erano i cavalieri, le dame, il menestrello, il buffone. Il conte e la contessa mi hanno sorriso.

Si sente battere alla porta con forza.

Una voce (con alterigia): Aprite! Aprite!

Il ragazzo corre ad aprire ed entrano due alabardieri.

Servo della gleba: Ah, gli esattori!

Soldato: Per ordine di messere il conte cerchiamo te. Tu devi ancora pagare la tassa del pascolo.

Servo della gleba: Messeri, ieri vi ho corrisposto il pedaggio per passare il ponte sul torrente e la tassa si mulitura. I miei prodotti li ho portati tutti al castello.

Soldato: Bene. Pagaci il tributo del pascolo con quel sacco di farina.

Servo della gleba: Ma è l’unico rimasto per me e il mio figliolo!

Soldato: Allora vieni con noi.

Servo della gleba: Dove mi conducete?

Soldato: Per ora davanti a messere il Conte, e poi…

Servo della gleba: Ma io…

Soldato: Ordine di messere il Conte!

(Lo afferrano)

Figlio: No! No! Babbo, diamo il sacco di farina. In qualche modo ci sfameremo.

Servo della gleba: E va bene, figliolo. Prendete pure, alabardieri. Il tributo per il pascolo è pagato.

(da: Recitiamo la Storia, Rodolfo Botticelli, editrice La Scuola)

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Recita sul Medioevo

L’investitura del feudatario

L’investitura del feudatario
Personaggi: l’Imperatore e il Feudatario.

L’investitura del feudatario – Dialogo tra Imperatore e Feudatario

Feudatario (inginocchiato): Sire, inginocchiato davanti alla vostra augusta persona, con le mani giunte per umiltà nelle vostre, prometto di essere vostro uomo e di servirvi lealmente e fedelmente.

Imperatore: Nobile dignitario, io sono pronto a te, che mi presti omaggio come vassallo, a trasmettere il possesso del grande feudo di Pieve Lontana e a concedere il titolo di Marchese, purché tu presti giuramento che tu e la Marca mi sarete di valido aiuto nei perigli: giuramento che farai in nome di Dio Nostro Signore, mancando al quale sarai dichiarato fellone e spogliato del feudo.

Feudatario: In nome d’Iddio Nostro Signore, giuro davanti alla Vostra Grazia, o Sire, che mi concedete il beneficio del feudo, di custodire i vostri segreti, di rispettare e fare rispettare il vostro onore, di seguirvi in battaglia accompagnato dai miei cavalieri e fanti; vi giuro formalmente fedeltà, mi dichiaro formalmente vostro uomo, vostro fedele, e vi riconosco mio signore.

Imperatore: Per il tuo sacro giuramento ti offro il simbolo del feudo di Pieve Lontana e il titolo di Marchese concedendoti le immunità secondo il Capitolare della mia legge.

Avvenuta l’investitura del marchese o del conte, questi possono trasmettere parte del feudo ad altri minori feudatari, valvassori, ripetendo la stessa cerimonia, e questi ultimi ad altri ancora, valvassini. Basterà cambiare alcune parole e il simbolo del feudo, ricordando che si usavano gonfaloni, spade e scettri, se si trattava di feudi cospicui, e zolle, rametti o mazzi di spighe, se si trattava di feudi minori. Un pezzo di stoffa può fare da gonfalone, una riga da spada, e così via…

(da: Recitiamo la Storia, Rodolfo Botticelli, editrice La Scuola)

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L’investitura del feudatario

La croda rossa leggenda del Trentino Alto Adige

La croda rossa leggenda del Trentino Alto Adige per bambini della scuola primaria.

Ai piedi della Croda, in una capanna tra gli abeti, c’era, nella beata età delle favole, una fanciulla bella come un’alba montana. Era figlia di legnaioli e, rimasta orfana in tenerissima età, viveva sola con alcune pecorelle in un valloncello romito, ove ben di rado l’uomo stampava la sua orma. era quindi una creatura semi selvaggia, che agilmente si arrampicava sino alle ultime “gusele” della Croda, che cacciava il capriolo ed il camoscio tra le balze rocciose, che godeva della più sconfinata libertà nel suo selvaggio regno.

Ora avvenne che un giorno un giovane principe, figlio del Re delle Valli, capitò sulla Croda a caccia del camoscio. Il giovane, forte ed ardito, inseguendo un animale già ferito, abbandonò i suoi compagni e finì con lo smarrirsi tra i contrafforti della montagna.

Il sole stava tramontando, la notte si avvicinava ed il principe non sapeva come fare a trarsi d’impaccio. Suonò a lungo il corno di caccia, ma solo l’eco delle vallate rispose al suo richiamo. Quando già si preparava a trascorrere la notte all’addiaccio sotto un cornicione di roccia, gli parve di udire un belato, seguito da un richiamo umano. Tosto egli si diresse verso quel segno di vita e ad un tratto si fermò, rapito dinanzi ad uno spettacolo d’una incomparabile bellezza. Presso una fonte che sgusciava da un masso, c’era una fanciulla vestita di pelli d’animale, che era certamente la più bella di tutte quelle che egli avesse mai visto.

I due giovani rimasero estatici a guardarsi, e subito d’accesero d’una fiamma d’amore. Seduti accanto alla fonte, mentre l’aria scuriva e la sera fasciava di silenzio le cose, sotto il palpitare di una limpida serenata di stelle, i due si dissero pianamente, dolcemente tutto il loro amore e giurarono di non separarsi mai più.

L’indomani il principe ritornò alla reggia di suo padre, conducendo seco la silvestre fidanzata. Quando egli espresse l’incrollabile volontà di farla sua sposa, tutta la Corte inorridì come per un sanguinoso insulto. Ma il vecchio re, che amava molto il figlio, non seppe dirgli di no, perciò gli sponsali si fecero, splendidi e memorabili, tra i sogghignare maligno delle dame di Corte, che non potevano capacitarsi d’esser state posposte ad una creatura selvaggia della foresta.

Un giorno in cui il giovane principe era lontano per una spedizione di guerra, le dame di Corte cominciarono il solito gioco maligno delle insinuazioni contro la principessa. Per farle ancora una volta sentire che la consideravano un essere inferiore, un’intrusa, cominciarono a descrivere il lusso e gli agi dei palazzi ov’erano state allevate.

“Vuol raccontarci, di grazia, dove e come fu allevata?”

Un risolino di sprezzo apparve sulla bocca delle dame di Corte.

La principessa sentì un’onda di sangue salire al volto. Scattò in piedi e corse verso una balconata, la spalancò, gridando: “Ecco, ecco, lassù io sono stata allevata! Nacqui in terra libera e sempre fui libera. Castello mi fu la Croda, più grande e più bello di tutti i castelli. Ebbi compagne le creature della foresta, più caste, più pure, più sincere d’ogni cortigiano. Quello è il regno dove fui regina e dove tornerò”.

La Croda, nella chiarità del tramonto, ardeva come una torcia d’una stupenda luce porporina e pareva un autentico castello di sovrumane proporzioni, scolpito nel rubino.

La principessa si sentì mancare il cuore. Era per lei, per lei che la Croda s’era fatta tanto bella, s’era ammantata di broccati di luce, s’era cinta di aristocratiche sembianze, per confondere i suoi nemici, per esaltare la sua figliola! Era un miracolo d’amore, questo… Ed allora, non potendo più resistere al richiamo che sentiva dentro di sé, approfittando del fatto che tutti stavano rapiti a contemplare la montagna porporina, la giovane fuggì e, risalendo la valle, ritrovò la sua capanna e fu di nuovo libera e felice.

Quando il principe tornò e seppe che sua moglie era scomparsa, pensò subito dove avrebbe potuto rintracciarla e partì di gran carriera verso la Croda. Lassù ritrovò la fuggitiva, che lo accolse con tutta la sua gioia, ma non volle tornare alla reggia, dove regnava la malignità e l’ipocrisia. Posto nella alternativa di rinunciare alla moglie o alla successione al trono, il giovane non esitò: scelse la sconfinata pace della Croda e restò nella silvestre capanna accanto alla sua donna. I due vissero liberi e felici ed allevarono tanti e tanti figlioli, sani arditi e belli, come i loro genitori.

Da quella sera lontana la Croda ripete il suo miracolo d’amore, diventando, al tramonto, la più bella, la più fiammeggiante vetta dei Monti Pallidi. E perciò d allora in poi fu chiamata la “Croda Rossa”.

(R. Baccino)

Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Psicogrammatica Montessori: scatola grammaticale II AGGETTIVI

Psicogrammatica Montessori: scatola grammaticale II AGGETTIVI – presentazione del materiale, e i cartellini di riempimento pronti per il download e la stampa. Con questa scatola i bambini approfondiscono lo studio dell’aggettivo in relazione al nome e all’articolo.

Il materiale per l’analisi delle parole è costituito da varie serie di cartellini della frase di colore marrone scuro e da varie serie di cartellini delle parole di diverso colore:
– marrone chiaro per gli  articoli
– nero per i nomi
– marrone scuro per gli aggettivi
che si scelgono a seconda dell’esercizio che si vuole proporre e si collocano nella scatola grammaticale II.

Secondo le indicazioni di Maria Montessori il bambino legge una frase, prende gli oggetti che vi sono indicati, e poi compone la frase coi cartellini delle parole. Ad esempio, se il cartellino della frase contiene questa indicazione: ‘il colore verde – il colore turchino – il colore rosso’, il bambino prende tre spolette (verde, turchina e rossa) dalla scatola delle spolette dei colori, e le mette sul tavolo. Poi compone la frase la frase ‘il colore verde‘ e pone la spoletta verde accanto alla frase.

Quindi, lasciando sul tavolo i due primi cartellini, cambia solo quello relativo all’aggettivo, e sostituisce ‘verde’ con ‘turchino’, e infine cambia la spoletta verde con quella turchina.

In ultimo ripete la procedura con il colore rosso.

(Nel mio esempio ho utilizzato dei pennarelli al posto delle spolette dei colori. Per realizzarle in proprio trovate il tutorial qui: Costruire le spolette dei colori Montessori).

Le frasi originali proposte da Maria Montessori si riferiscono tutte ai materiali sensoriali che si utilizzano nella Casa dei Bambini.
Nella scatola grammaticale II si pongono un certo numero cartellini della frase alla volta (di solito sei), e i relativi cartellini delle parole, che corrispondono alle necessità dell’esercizio e non alle frasi, nel senso che gli articoli ed i nomi non sono ripetuti).

MATERIALI PREVISTI PER LA SCATOLA GRAMMATICALE II AGGETTIVI
(con la codifica che ho utilizzato io per la preparazione dei cartellini)

scatola grammaticale II (qui il tutorial per costruirla: Costruire le scatole grammaticali)
6 scatoline di riempimento color marrone chiaro contrassegnate IIA, IIB, IIC, IID, IIE, IIF.
una scatolina aperta marrone chiaro per il libretto degli elenchi e per il libretto delle regole

scatola grammaticale II AGGETTIVI – Contenuto delle scatole di riempimento

scatola IIA: scheda della definizione e cartellini (i tre gruppi di cartellini stanno nella scatola IIA separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IIA-1: colori (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IIA-2: colori (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IIA-3: colori (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)

scatola IIB: scheda della definizione e cartellini (i tre gruppi di cartellini stanno nella scatola IIB separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IIB-1: qualità opposte (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IIB-2:  dimensioni opposte (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IIB-3:  stati d’animo opposti (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)

scatola IIC: scheda della definizione e cartellini scheda della definizione e cartellini  ( i quattro gruppi di cartellini stanno nella scatola IIC separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IIC-1: forma e quantità (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IIC-2: quantità (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IIC-3: dimensioni (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IIC-4: forma (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)

scatola IID: scheda della definizione e cartellini ( i sette gruppi di cartellini stanno nella scatola IID  separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IID-1: qualità sensoriali (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IID-2: sensazioni tattili (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IID-3: olfatto e udito (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IID-4:  olfatto e gusto (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IID-5: sensazioni uditive (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IID-6: sensazioni tattili (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)
  • cartellini IID-7: udito, olfatto e gusto (cartellini articoli, nomi, aggettivi + cartellini frase)

scatola IIE: scheda della definizione e cartellini ( i cinque gruppi di cartellini stanno nella scatola IIE  separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IIE-1: gradi dell’aggettivo (cartellini aggettivo positivo, comparativo, superlativo + titoli)
  • cartellini IIE-2: gradi dell’aggettivo (cartellini aggettivo positivo, comparativo, superlativo + titoli)
  • cartellini IIE-3: gradi dell’aggettivo (cartellini aggettivo positivo, comparativo, superlativo + titoli)

scatola IIF: scheda della definizione e cartellini ( i sei gruppi di cartellini stanno nella scatola IIF  separati tra loro per mezzo di elastici)

  • cartellini IIF-1: concordanza nome/aggettivo (cartellini nome e aggettivo + cartellini frase)
  • cartellini IIF-2: concordanza nome/aggettivo (cartellini nome e aggettivo + cartellini frase)
  • cartellini IIF-3: concordanza nome/aggettivo (cartellini nome e aggettivo + cartellini frase)
  • cartellini IIF-4: concordanza nome/aggettivo (cartellini nome e aggettivo + cartellini frase).

scatolina aperta marrone scuro:

  • libretto degli elenchi per l’aggettivo (facoltativo)
  • libretto delle regole per l’aggettivo.

Questo è il materiale pronto:

PDF QUI

scatola grammaticale II AGGETTIVI – ISTRUZIONI per confezionare i libretti
(nell’esempio un libretto delle nomenclature)

La mia stampante è in bianco e nero, ma consiglio di stampare a colori. Per il libretto ritagliate le pagine seguendo i tratteggi:

piegate ogni striscia così, per ottenere pagine stampate fronte/retro:

rilegate. Io ho usato la foratrice per spirali:

scatola grammaticale II AGGETTIVI

MATERIALI PER LA SCATOLA GRAMMATICALE II

Si tratta di un materiale rivisitato e attualizzato ai mutamenti che la lingua ha subito e ai vocaboli che più appartengono alla realtà dei bambino oggi.
L’organizzazione originale del materiale non cambia, ho aggiunto però dei set che isolano ulteriori aspetti delle regole grammaticali.
Ciascuna parte del discorso ha un suo codice colore, che è diverso da quello dei simboli grammaticali (ad eccezione del nome e del verbo).
I simboli grammaticali possono entrare a far parte degli esercizi con le scatole grammaticali: i bambini possono porre i simboli mobili sulle parole scritte nei cartellini della frase, o anche possono copiare le frasi e disegnare i simboli (anche utilizzando gli stencil).

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scatola grammaticale II AGGETTIVI

USO DEL MATERIALE

Avere a disposizione le scatole grammaticali di legno è sicuramente la situazione ideale, ma considerando il costo, non è la situazione alla portata di tutti. Si possono preparare delle bellissime alternative in cartone o anche sostituire alle scatole delle “tovagliette stampate“. Si può anche decidere di non utilizzare nulla, e di mettere semplicemente i cartellini sul tavolo, divisi in base al loro codice colore e ponendo sopra di essi dei cartellini-titolo (per la prima scatola ‘ARTICOLO’ e ‘NOME’).
Lo stesso discorso vale per le scatole di riempimento e per le scatole dei comandi, che possono essere acquistate in legno, o possono essere facilmente realizzate in cartoncino. Si può anche optare per qualsiasi altra soluzione alternativa: buste di carta colorata, sacchetti di plastica trasparente, cestini, ecc.

Le scatole grammaticali servono all’esercizio del bambino, dopo le presentazioni e le lezioni chiave relative alle parti del discorso che vogliamo esercitare.

Recite per bambini per Carnevale: operazione chirurgica

Recite per bambini per Carnevale: operazione chirurgica, per bambini della scuola primaria. Trovi altre recite per Carnevale qui: RECITE PER CARNEVALE.

Personaggi: il primario e quattro medici.

Costumi: grembiuli bianchi e guanti di gomma.

Scenografia: in un angolo un attaccapanni o una sedia su cui sono appesi un camice bianco e un paio di guanti di gomma.

Azione: quattro personaggi sono in scena, posti uno dietro l’altro, fronte al pubblico, ma sfasati di mezza persona in diagonale, così che il pubblico possa vedere distintamente mezza persona di ognuno di loro. Entra il primario, si toglie la giacca, la appende all’attaccapanni e prende il camice. Due medici lo aiutano ad indossarlo. Va a mettersi all’inizio della fila, più vicino al pubblico: gambe leggermente divaricate, aria superiore. Si lascia infilare i guanti dagli altri, i quali lo trattano con deferenza.

Primario (voltandosi, verso quello immediatamente dietro di lui): Avanti l’ammalato.

Primo medico (voltandosi verso quello immediatamente dietro di lui, con lo stesso tono dottorale e annoiato): Avanti l’ammalato.

Secondo medico (al terzo, come sopra): Avanti l’ammalato.

Terzo medico (al quarto, come sopra): Avanti l’ammalato.

(Il quarto medico si volta, fa un passo, imita l’apertura di una porta, spinge una barella immaginaria fino davanti al primario).

Primario (considera attentamente l’ammalato sulla barella. Lo tasta. Gli sente il polso. Poi ordina): Bisturi!

Primo medico, secondo, terzo: Bisturi. Bisturi. Bisturi.

Quarto medico (raccoglie dal tavolo chirurgico il bisturi, tenendolo delicatamente come una penna, e lo fa passare a ogni compagno).

Primario (prende il bisturi, prende la mira e, calmissimo, lo affonda nel paziente. Si china a guardare dentro): Pinze.

Primo, secondo, terzo: Pinze!

Quarto (raccoglie, mimicamente, un paio di tenaglie e le passa).

Primario (continuando l’operazione, allarga i lembi della ferita, ne estrae parecchi metri di intestino che arrotola sulle braccia del secondo. Estrae il cuore, lo ascolta, lo massaggia, sorride e lo rimette dentro. Riprende la matassa degli intestini e la dispone nel paziente. Poi, soddisfatto) Ago!

Primo, secondo, terzo: Ago!

Quarto (prende l’ago e, porgendolo al secondo, lo punge inavvertitamente. Sussulto del secondo. Con precauzione, l’ago arriva al primario).

Primario: Filo!

Primo, secondo, terzo: Filo! (Il filo giunge al primario. Questi lo infila, poi, tenendo l’ago alto, si volta al primo)

Primario: Nodo!

Primo: (esegue)

Primario (incomincia a dare i primi punti. Ma il filo non scorre bene): Sapone!

Primo, secondo, terzo: Sapone!

Quarto (prende il sapone e lo passa. La saponetta sfugge di mano al terzo, il quale riesce a prenderla al volo, e la passa al secondo).

Primario (passa la saponetta sul filo, poi, imitando un enorme sforzo, punta il piede sul malato e riesce a cucire. Improvvisamente si interrompe, accorgendosi che il paziente sta male. Con voce svelta): Etere!

Primo, secondo, terzo (tutti con voce svelta guardando curiosamente oltre le spalle del primario) Etere!

Quarto (passa la bottiglietta dell’etere).

Primario (versa l’etere sul malato. Ne versa troppo. Si sente male lui. Accenna a cadere all’indietro).

Primo, secondo, terzo: Sali!

Quarto (prende i sali, li odora, li passa al terzo che li odora anche lui, così il secondo, il primo li mette sotto il naso del primario).

Primario (rinviene, si china sul paziente, mostra grande spavento. Con voce concitata): Ossigeno!

Primo, secondo, terzo: Ossigeno!

Quarto (faticosamente spinge la grossa bombola dell’ossigeno. Così gli altri).

Primario (Fa il gesto di staccare la mascherina dalla bombola e di porgerla al paziente. Si capisce che l’ossigeno non è sufficiente. Con voce agitatissima): Ossigeno! Ossigeno!

Primo, secondo, terzo (con la stessa voce agitatissima): Ossigeno! Ossigeno!

Quarto (passa altro ossigeno, asciugandosi il sudore, e si sporge ad osservare).

Primario (porge l’altro ossigeno, osserva, poi, tornando calmo, con voce normale): Acqua santa!

Primo, secondo, terzo: Acqua santa!

Quarto (raccoglie un immaginario aspersorio, che viene fatto passare).

Primario (agita l’aspersorio sul malato. Lo posa. Poi, veloce, con aria annoiata, mentre col piede spinge via la barella del morto): Avanti un altro!

Primo, secondo, terzo: Avanti un altro!

(M. L. e R. Varvelli)

Recite per bambini per Carnevale: operazione chirurgica – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Recite per bambini per Carnevale: operazione chirurgica

Il chiodo di Sant’Ambrogio

Il chiodo di Sant’Ambrogio: leggenda della Lombardia per bambini della scuola primaria, per la lettura e il riassunto.

Un bel giorno sant’Ambrogio, vescovo di Milano, venne chiamato a Roma dal Papa. Arriva dunque la lettera:  sant’Ambrogio la apre e legge, e vede che non c’è tempo da perdere: il Papa ha da parlargli d’urgenza.

L’indomani mattina subito, di buonissima ora che in giro suonavano le prime avemarie,  sant’Ambrogio si alza, si veste da pellegrino, mette la testa in sacrestia e dice al sagrestano: “Suona pure il primo segno della messa, che io vado un momentino a Roma a parlare col Papa; gli altri segni dalli a suo tempo che, per la solita ora, io sono qui di ritorno”.

Ripone il breviario in scarsella, salta in groppa alla mula e via per Roma, pregando il cielo che gliela mandi buona. Fosse l’aria sottile di quel mattino che metteva le ali ad ogni cosa, o non so che diamine fosse, la mula andava come il vento quando ha fretta.

Sicché, in un batter d’occhio, arriva a Roma. Naturalmente a quell’ora i romani erano ancora tutti a letto che russavano. Ambrogio va sull’uscio della casa del Papa, e giù una bella scampanellata che tutte le sale ne squillarono a lungo.

Di lì a un po’ un vecchio servitore viene ad aprire borbottando: “Son queste l’ore di disturbare Sua Santità?”

Calmo, Ambrogio gli mostra il rotolo della pergamena papale con tanto di espresso, e aggiunge: “Fate il piacere di dire al Papa che faccia presto, perchè io ho premura di tornare a Milano per dir messa”. E intanto si accomoda nella sala d’aspetto.

Il Papa sente la notizia, si alza, si lava la faccia alla meglio, poi va in sala d’aspetto e saluta l’ospite: “Buon giorno, Ambrogio”.

“Buongiorno, Santità”.

“Ho una ramanzina da farti”

“Son qui a prenderla” fa Ambrogio, lisciandosi la bella barba d’oro, simile allo sciame d’api. E poichè lì dentro faceva caldo, si levò il mantello, ma invece di attaccarlo a uno dei cavicchi d’argento che erano lì apposta, lo mise a cavallo di un raggio di sole che entrava dalla finestra.

Il Papa guarda quella faccenda, un po’ stupito. Che diavolo d’uomo era costui? L’aveva chiamato per fargli una ramanzina e adesso gli vede far cose che, se non fanno la santità, però la dimostrano; e quasi quasi non trovava il coraggio di incominciare.

Ambrogio, vedendo che andava alla lunga: “Fate presto, Santità!” gli dice con quell’aria sbrigativa propria dei santi che sanno di essere sul sicuro, qualunque cosa dicano o facciano, “Fate presto, perchè io sento già suonare il secondo segno della messa al mio paese” (che era poi Milano).

A quel parlare il Papa lo guarda con un più attento stupore: “Cos’hai detto? Che senti le campane di Milano?”

“Sì, Santità, mettete il vostro piede qui sul mio e sentirete anche voi”.

Il Papa allunga la sua pantofola vicino alla povera scarpa di Ambrogio e, mirabile cosa! anche lui sente suonare le campane di Milano. Allora entrò in sospetto anche più forte di essere veramente davanti a un santo. Tuttavia si ricordò che il Papa è sempre il Papa, cioè il superiore anche dei santi e ha il dovere di rimbrottarli quando è il caso. Sicché cominciò a parlare e gli diede il fatto suo.

Sant’Ambrogio ascoltò quella parlata fino alla fine, in umiltà grande e in silenzio, lisciandosi di tratto in tratto la bella barba d’oro. Finito che ebbe il Papa di parlare, Ambrogio gli fa: “Va bene. Nient’altro?”

“Nient’altro.”

“Allora buongiorno, Santità”

“Buongiorno, Ambrogio”

E Ambrogio scende in fretta le scale, dà la buona mano al servitore che gli aveva custodita la mula, vi monta in sella e via come una spia.

E’ a un chilometro appena fuori di città, che la mula perde un ferro e non c’è più verso di farla correre. Bisogna metterglielo, dunque.

Ambrogio scende, entra nella bottega di un fabbro che era lì a un tiro di sasso e lo prega di ferrargli la mula, raccomandandosi di mettere il ferro a rovescio, sì che le impronte siano verso Roma. Ora, mentre il fabbro faceva il suo mestiere, Ambrogio guarda dentro una cassetta piena di ferri vecchi e ci vede un chiodo tutto bistorto, un chiodo da cantiere. Lo prende in mano e chiede al fabbro: “Me lo cedi?”

“Portalo pure via!” dice il fabbro.

“A che prezzo?”

“Portalo via e non seccarmi, che te lo do proprio per ferro rotto”.

Ma Ambrogio vuole pagarlo ad ogni costo. Lo butta sulla bilancia, lo pesa, e tanto pesava il chiodo, tanto gli corrisponde in oro. Ambrogio salta in sella, e via al galoppo. Aveva fatto sì e no cinquanta passi, che tutte le campane di Roma, din don dan, din don dan, si mettono a suonare a distesa disperatamente come quando c’è il giubileo, quasi a salutare la partenza del chiodo.

Fra i romani subito nacque gran rumore, e tutti si fecero agli usci e alle finestre a domandare che diamine ci fosse. I più vicini a San Pietro si spinsero fin sotto le finestre del Papa: il quale, anche lui, in questa faccenda, ne sapeva meno degli altri. Però, subito dopo, si ricordò di Ambrogio e disse ai più vicini: “Non è un quarto d’ora che è uscito da Roma Ambrogio da Milano; è certo lui che ha sollevato questo putiferio. Ne ha fatte di stranezze, anche in casa mia; corretegli dietro e raggiungetelo, che è sulla strada di Milano a dorso di una mula bianca.

Una dozzina di quei romani più scalmanati montano in groppa a certi sauri del Papa e via al galoppo per la strada di Milano. Passano innanzi alla bottega del fabbro e gli chiedono: “Avete visto passare un uomo così e così?”

“Altro che se l’ho visto!” risponde il fabbro. “Gli ho ferrata la mula, e poi ha voluto portar via un vecchio chiodo bistorto, pagandomelo, ad ogni  costo, a peso d’oro!.”

“Qui c’è qualche miracolo in giro” fa il più furbo di quelli; e via dietro all’uomo del miracolo, così rapidamente che i cavalli non facevano in tempo a toccar terra. Galoppa e galoppa, lo raggiungono a Milano, e precisamente vicino a Porta Romana. Lo fermano e gli chiedono: “Tu hai portato via un chiodo così e così?”

“Sì” fa Ambrogio un po’ seccato.

“Per questo a Roma  si son mosse a suonare tutte le campane. Segno è che esso è un chiodo prezioso”.

“Non ne so nulla io” rispose Ambrogio, “Piuttosto, lasciatemi andare che ho da dir messa e sento suonare già l’ultimo segno”.

“Ma è un chiodo prezioso” insistono i Romani, “Portalo subito indietro, che Roma lo vuole”.

“No, no” fa Sant’Ambrogio “Io l’ho ben pagato al suo padrone, e adesso è mio”.

Sì, no, è mio, è nostro, la cosa diventa spessa. Sicché Sant’Ambrogio, ch’era spiccio anche col Papa, dice ai romani: “Sentite, diamogli un taglio e facciamo così: adesso andiamo a casa mia, in Duomo io butto il chiodo in alto, verso la cupola; se il chiodo resta su, sospeso, è segno che deve restare qui; se invece cade a terra, lo riportate via voialtri”. D’accordo, vanno in Duomo tutti insieme.

Sul volto di Ambrogio c’era tanto splendore come se vi si fosse adunata la luce del sole. Ambrogio va sotto la cupola e, uno, due, tre, lo butta in alto con un soavissimo gesto. E il chiodo restò sospeso, lassù. Ed è là ancora oggi.

(C. Angelini)

Il chiodo di Sant’Ambrogio – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Il chiodo di Sant’Ambrogio

Il menestrello

Il menestrello – racconto ambientato nel Medioevo per bambini della scuola primaria, adatto alla lettura e al riassunto.

Era da poco cominciato l’inverno, ed i fossi erano tutti gelati, quando un giovane venne a suonare il corno davanti al castello di sir Galihud Sans Pitiè.

Dalla finestra del barbacane un soldato gli chiese: “Che volete?”.

“Sono un menestrello” rispose il giovane, “e voglio entrare, per rallegrare il signore di questo luogo con le mie poesie”.

“Se vuoi un consiglio, vattene via. Sir Galihud Sans Pitiè non ama se non la caccia e la guerra”.

“Ma ci saranno pure delle dame, al castello, e dei cavalieri cortesi!”

“Ci sono”.

“Bene” disse il menestrello “aprimi, allora. Io canterò per loro”.

Il ponte levatoio s’abbassò, la porta si aprì ed il menestrello entrò nel maniero. Era un giovane biondo, dai lunghi capelli, dal viso bianco come la cera, dalle spalle delicate e rotonde. Vestiva di scarlatto, ed aveva a tracolla un liuto ed una sacca piena di carte. Il soldato lo condusse subito nella sala ove sir Galihud teneva tavola imbandita.

Quando videro il menestrello, le dame ed i cavalieri che vivevano al castello, o che vi erano ospiti si rallegrarono e lo invitarono a cantare le sue canzoni.

“Col permesso del signore, delle dolci dame e dei giovani cavalieri” disse allora il menestrello, “canterò la storia d’amore della regina Didone per l’eroe Enea” e cominciò a suonare ed a cantare; ma non aveva tratto che poche e delicate note, quando sir Galihud esclamò: “No, no! Codesta canzone non mi piace!”.

Il menestrello si inchinò e cominciò un’altra canzone; ma l’aveva appena intonata, che sir Galihud esclamò: “Via, via, nemmeno questa mi piace!”.

Per la terza volta il menestrello ricominciò, e per la terza volta sir Galihud lo interruppe, esclamando: “Basta con questi lamenti!”.

Il menestrello allora gli si volse e disse: “Parlando in codesto modo, messere, voi fate una grande villania prima a voi stesso che a me. Perchè cosa penseranno, le dame ed i cavalieri che vi ascoltano, se non che siete un uomo sgarbato e rozzo e senza cortesia?”

A queste parole tene dietro un lungo silenzio; e sir Galihud, alzandosi dal suo scranno esclamò: “Tu hai parlato troppo!” e scavalcata la tavola si avventò sul menestrello, e strappandogli il liuto, prese con questo a batterlo: e lo fece con tanta rabbia che ben presto il giovane cominciò a sanguinare dal naso e dalle orecchie, e cadde a terra svenuto. sir Galihud stava per colpirlo ancora, quando il giovane sir Lionel, un cavaliere ospite del castello, lo agguantò per le braccia trattenendolo e gridò: “Vergogna, sir Galihud! Voi avete battuto un uomo disarmato!”.

“Lasciatemi subito andare e chiedetemi perdono!” rispose furibondo il cavaliere “O vi batterete con me!”.

Sir Lionel lasciò la presa e disse: “Così sia. Mi batterò con voi quando vorrete!”.

“Ciò sarà subito!” replicò sir Galihud, e lasciò la stanza, per andare a prepararsi. Le dame e gli altri cavalieri seduti alla tavola, allora, si rivolsero a sir Lionel, scongiurandolo di lasciare subito il castello e di non misurarsi con sir Galihud. “Egli è feroce come un leone” gli dissero “e vi ucciderà, come avrebbe ucciso questo menestrello, perchè non ha mai dato quartiere ai suoi nemici”.

Sir Lionel rispose: “La nostra vita è nelle mani di Dio; ed anche se io morrò, almeno avrò salvato la vita di questo giovane”, e qui si chinò sul menestrello insanguinato e gli disse: “Coraggio, poeta! Di queste ferite non si muore!”.

Il menestrello aprì gli occhi e mormorò: “Dio vi ricompensi, messere, per quello che avete fatto. Da parte mia, io non lo scorderò mai”.

In questo momento entrarono gli araldi e dissero come sir Galihud fosse già sceso nel cortile ed aspettasse sir Lionel per il duello. Sir Lionel allora, con sereno volto, prese il suo cimiero e si avviò, tra il pianto delle dame ed i sospiri dei cavalieri.

sir Galihud era già in sella, e quando vide sir Lionel gridò, levando il pugno: “Nemo me impune lacessit!” che era un motto che significava ‘nessuno mi ha mai sfidato impunemente’. Sir Lionel montando in sella rispose: “Dio mi è testimone che non vi feci offesa alcuna”.

In breve, i due furono pronti per il duello, ed al segnale corsero fieramente ad incontrarsi, e ruppero le lance con strepito e fragore; ma sir Lionel fu scavalcato e piombò a terra, ed allora sir Galihud, smontato sveltamente da cavallo, gli si fece addosso e, toltogli l’elmo, gli troncò di netto la testa. Le dame gridarono, coprendosi il volto con le mani ed anche i cavalieri volsero gli occhi per non vedere.

Sir Galihud gridò: “Dov’è il menestrello? Portatelo qui!”

Due soldati trascinarono nel cortile il menestrello; e sir Galihud gli disse, accennando al corpo di sir Lionel: “Prendi il tuo protettore, e vattene. Ricorda: se metterai ancora piede nel mio castello, ti ucciderò!”.

Nel gran silenzio del cortile, il menestrello avanzò e con molta pietà prese tra le braccia sir Lionel: barcollando sotto il peso, poi, uscì dal castello. Quando fu fuori, scavò con le sue mani una fossa, e vi depose il morto, e dopo avere lungamente pianto e pregato lo coprì di terra dicendo: “Sir Lionel, non mi scorderò di voi!”.

Passarono due anni. Venne due volte la neve e cancellò ogni cosa. Poi due primavere portarono cielo azzurro e fiori, e fecero spuntare tenera erba sulla tomba di sir Lionel; giunsero due rigogliose estati, e gli autunni ricchi di foglie e di colori. Quando il terzo inverno riapparve coi primi geli, le sere tornarono a farsi molto lunghe nelle sale del castello ove sui camini ardevano ceppi resinosi.

Una sera assai fredda, ecco suonare il corno sotto il castello di sir Galihud. Questi, che sonnecchiava accanto al fuoco, domandò: “Chi suona a quest’ora?”

“Messere” annunciò un servo, “è un menestrello che chiede di entrare”.

“Ah, fatelo entrare, sir Galihud!” gridarono le dame, che si annoiavano profondamente, “che ci narri qualche storia d’amore e d’avventura!”.

“Io non sono amico dei menestrelli, lo sapete e sterminerei la loro razza. Ma poichè la sera vi sembra tanto lunga, ebbene, che quel poeta salga a cantarvi le sue canzoni!”.

Così fu fatto, ed il menestrello entrò nel maniero e venne condotto nella sala; ma, anziché avanzarsi verso la tavola, si arrestò sulla soglia, dove la luce delle torce giungeva appena.

“Vieni avanti, menestrello!” ordinò sir Galihud.

“Ci sarà tempo, per questo” rispose il menestrello senza muoversi; e le dame mormorarono: “In verità questa sembra la voce di un guerriero, e non di un poeta!”.

“Va bene, sta pure dove sei” disse sir Galihud. “Quale canzone buoi cantare?”

Stando nell’ombra il menestrello disse: “Col permesso del signore, dello dolci dame e dei nobili cavalieri, io narrerò la storia di un prode e generoso cavaliere, che venne ucciso da un villano signore senza pietà, perchè aveva difeso un povero menestrello come me”.

Tutti rabbrividirono e si volsero verso sir Galihud; e questi, buttato a terra il boccale di sidro che teneva in mano esclamò levandosi in piedi: “Codesta storia non mi piace! E tu, menestrello, fatti avanti, in modo che io ti veda in volto!”.

Allora, mentre tutti tacevano, il menestrello camminò verso il centro della sala, e rivelò l’essere suo; e tutti mormorarono stupidi perchè, malgrado avesse capelli corti da soldato, viso abbronzato, spalle larghe e quadrate, riconobbero in lui il menestrello venuto due anni prima e percosso da sir Galihud. E questi disse: “Hai sbagliato a tornare nel mio castello! Avevo promesso che ti avrei ucciso! Tu vuoi morire!”.

“Non sono ancora giunto a questo.”

“Ebbene, vi giungerai!”.

Sir Galihud prese un grosso coltello, che serviva per tagliare la carne, e si avventò sul menestrello; ma questi corse al muro dove erano appesi i trofei di guerra, e staccò da esso una spada, e brandendola disse: “Io sono qui sir Galihud, per vendicare la morte di sir Lionel!”.

“Tu morrai come lui! Nemo me impune lacessit!”

Sir Galihud menò alcuni colpi col suo coltello, ma il menestrello li schivò facilmente tutti, ed anzi a sua volta colpì di spada e ruppe il pesante giaco di cuoio di cui il cavaliere era rivestito. Tutti si meravigliarono che un poeta sapesse duellare con tanta perizia; ed ancor più si stupirono, quando sir Galihud venne ferito a un fianco, e cominciò a perdere sangue.

“Tu combatti con una spada, menestrello! Lascia dunque” esclamò il malvagio cavaliere arrestandosi ” che io mi armi come te”.

“Messere, sia come volete. Ciò non vi salverà dalla morte”.

Sir Galihud andò allora accanto al muro dei trofei di guerra; ma, invece di prendere una spada come quella del menestrello, ecco che staccò un enorme spadone che si impugnava a due mani; e con esso, roteandolo furiosamente, si fece avanti.

I cavalieri presenti pensarono, allora, che nessun onore poteva venire a sir Galihud da una simile azione. Il menestrello però non dimostrò alcuna paura, e fermamente fronteggiò sir Galihud, arretrando ed abilmente schivando tutti i terribili fendenti dello spadone.

Quando ebbe compiuto per tre volte il giro della grande sala, senza mai riuscire a menare un colpo al segno, sir Galihud si fermò ansimante e disse: “Tu fuggi, codardo!”.

“L’ho fatto fino ad ora” replicò il menestrello “perchè voi vi battete con due mani, ed io non una. Ma a questo” aggiunse fieramente, “c’è rimedio!” e con un gran fendente, tagliò netta la mano sinistra di sir Galihud. “Ecco che ora combatterete con una mano sola!” disse ancora, e mentre il malvagio cavaliere cercava, con una sola mano, di manovrare quel suo pesantissimo spadone, il menestrello lo colpì sulla testa con tanta violenza che sir Galihud cadde morto e non si mosse più.

Allora il menestrello si volse alle dame ed ai cavalieri, che avevano dato un grido, ma che non erano mossi, e disse loro: “Per due anni, signori, scordando poesia e canzoni, combattendo nella Terra Santa per il riscatto del sepolcro di Gesù, mi sono esercitato nell’arte della guerra, fortificando il mio spirito e il mio corpo. E ciò ho fatto, perchè dovevo compiere giustizia e vendicare la morte di sir Lionel. Ho atteso lungamente: ma ora che quest’uomo senza pietà è perduto ecco io rinuncio alla lancia ed alla spada. E” concluse “torno per sempre al mio liuto ed alle mie poesie”.

Così dicendo lasciò cadere la spada; né volle fermarsi al castello, benché fuori smisuratamente fioccasse la neve; e si allontanò sul suo cavallo, e mentre si allontanava, lo udirono cantare una dolce e triste canzone d’amore e di guerra.

(P. Selva)

Il menestrello – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Il menestrello

Amalfi e la bussola – recita

Amalfi e la bussola – recita per la scuola primaria

Amalfi e la bussola – Personaggi
-Feliciano, figlio di un navigatore amalfitano
– Marina, sua sorella
– un compagno, che entra alla fine della scena.

Amalfi e la bussola – Testo
Marina: Feliciano, hai visto che nebbia c’è sul mare?
Feliciano: E’ davvero una cosa rara per Amalfi
Marina: Da lontano non si deve distinguere né la costa né il faro. Sto in pensiero per il nostro babbo. La sua nave dovrebbe essere la prima ad arrivare in porto.
Feliciano: Oh, non temere! Il babbo e i suoi marinai sono abili navigatori. Noi Amalfitani abbiamo il mare nel sangue, dice il babbo. Anche io sarò un navigatore!
Marina: Tu dici così, ma io non sono affatto tranquilla. Primo, per il maltempo; secondo, perchè so che il babbo dovrebbe far scaricare le sue stoffe, provenienti da Costantinopoli, entro domani l’altro per un impegno preso con certi mercanti. Come potrà trovare la direzione giusta con questa nebbia?
Feliciano: Senti, Marina. Tu forse non sai ancora che le galee amalfitane hanno a bordo qualcosa che fa trovar loro l’orientamento anche senza il sole né le stelle.
Marina: Ma che dici?
Feliciano: Sì. Si tratta di una cosa semplice, ma meravigliosa: un ago calamitato, che il babbo chiama magnetico, fissato sopra un pezzo di legno, il quale viene fatto galleggiare in un recipiente con acqua. Questo ago ha una proprietà particolare: volge la sua punta verso nord, e così i naviganti possono conoscere la posizione dei punti cardinali. Credo che i nostri marinai abbiano appreso l’udo di questo strumento dai naviganti arabi; ma c’è chi dice che sia invenzione di un Amalfitano.
Marina: Ma a me il babbo non ha detto nulla di tutto ciò!
Feliciano: (con orgoglio) Tu sei una bambina. Non sarai mai un navigatore. Invece io…!
Un compagno: (entrando trafelato) Feliciano! Marina! Sta entrando in porto la nave di vostro padre!
Marina: Papà! Papà!

(da: Recitiamo la Storia, Rodolfo Botticelli, editrice La Scuola)

Amalfi e la bussola 

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Amalfi e la bussola

Abdullah e il pepe

Abdullah e il pepe: un racconto ambientato nell’epoca delle crociate, per bambini della scuola primaria adatto alla lettura e il riassunto.

Il Pascià di Alessandria, dopo aver ascoltato distrattamente tre religiosi biancovestiti, con una croce rossa e blu sul petto, chini umilmente davanti a lui, contò e ricontò la somma piuttosto forte che gli era stata appena consegnata. Poi fece schioccare le dita: “Chiamate Abdullah!”.

Lo schiavo Abdullah spuntò fuori dalle cucine dove stava lavorando da quasi undici anni. Era uno schiavo dagli occhi azzurri e dal naso un poco all’insù, vissuto fino a dieci anni, con il nome di Giannetto, in un villaggio della valle della Loira.  Per aver seguito un pastore di Vendome che predicava la Crociata dei Fanciulli, egli era andato a finire in qualità di marmittone in mano ai Barbareschi…

Il Pascià gli disse: “Ecco degli ulema (dotti) del tuo paese che mi hanno versato un buon prezzo per il tuo riscatto. Poiché ti sei comportato bene, ti restituisco la libertà. Ricorda che tu sei vissuto fra noi più a lungo che non presso i Franchi; se un giorno sentissi il desiderio di ritornare da noi potrai invocare la mia protezione”.

E Abdullah-Giannetto partì con i monaci trinitari verso il molo dove si riunivano gli schiavi riscattati.

Ma verso la fine di settembre, appena cinque mesi dopo la sua liberazione, egli si trovava di nuovo davanti al Pascià, in compagnia di un altro cristiano fornito di un’enorme bisaccia di cuoio. Affondato in un sofà di seta verde, il Pascià prendeva da una cesta delle arance candite e delle uova sode…

“E così” gridò “tu hai fatto naufragio… racconta!”.

“Dopo dieci settimane di navigazione” racconta Giannetto, “la nostra nave andò a sbattere contro uno scoglio a fior d’acqua, si squarciò e affondò. Io fui spinto sugli scogli, e riuscii a toccar terra, mezzo annegato. Dopo aver preso fiato e vestito com’ero con i soli pantaloni, mi inoltrai nell’interno del paese finché raggiunsi una città fortificata, costruita sulle pendici di una collina. La gente vi parla la lingua di Felì, il Provenzale, il nostro schiavo pasticcere. Verso sera, quasi morto di fame e di sete, mi fermai alla porta di una taverna. Nel vedermi, l’enorme padrone si pose sulla soglia della porta e bastò questo  per sbarrarmi l’ingresso.
In quel momento io sentii in tasca delle palline dure: automaticamente ne tirai fuori alcune per vedere ci che si trattava. Erano aromi che Felì mi aveva donato al momento della partenza. Non appena vide quei granellini, l’oste mi stese la sua manaccia in modo così imperioso che io aprii le dita e cinque grani verdastri vi rotolarono. Vedendo di che cosa si trattava, l’omaccio esclamò: ‘Guarda un po’! Del pepe!’. Mi fece entrare nella cucina e mi diede da lavare dei bicchieri e dei piatti maleodoranti. Allora pensai che non avevo niente da guadagnare a essere libero… La mia cena furono un pezzo di pane e pochi fichi, prima di andare a dormire nel granaio.
Qui ebbi il tempo di contare i miei grani di pepe: me ne restavano 13 e li rimisi nel sacchetto. Senza riflettere bene a quello che facevo, nascosi quel sacchetto sotto una trave: era tutta la mia fortuna e ciò mi fece ridere!… Nel cuore della notte, fui risvegliato dall’oste: alla luce fioca della candela frugava nei miei pantaloni. Poiché sapeva bene che io non avevo denaro certamente stava cercando il pepe. A forza di frugare perfino nelle cuciture, scoprì un grano che mi era sfuggito, fece un grugnito di soddisfazione e se ne andò.
Il mattino, me la squagliai, naturalmente con il mio pepe!”.

“Parlami dell’oste, non è stato bastonato?” domandò il Pascià tra un boccone e l’altro.

I racconti arabi si snodano senza fine, come una stella filante, inseguendo le vicende di tutti i personaggi. Il Pascià fu quindi deluso nel sentire che Giannetto non sapeva nulla del suo ladro.

Il ragazzo riprese: “Fuori scorsi un uomo di alta statura, che mi sembrava un religioso, vestito di bianco. Costui si dirigeva verso una casa che aveva l’aspetto di una fortezza. Con il cuore che mi batteva forte, mi misi a correre e oltrepassai la porta subito dopo di lui.  Cercai di raccontargli la mia avventura perchè volevo che qualcuno mi aiutasse, ma egli non ne aveva alcuna intenzione. Allora, preso dalla disperazione, gli offrii tre grani di pepe. Subito, un altro religioso che era rimasto in parte silenzioso, venne verso di me; prese i grani, mi condusse in cucina, dove mi fu data una buona minestra e poi nel magazzino dove mi vestirono decentemente.
Quando uscii di là, il mercato era zeppo di gente e nessuno faceva caso a me. A un certo momento, nel tumulto delle discussioni, sentii una voce che gridava: ‘E’ caro come il pepe!’. Allora non esitai a tentare il colpo grosso: mi avvicinai a un farmacista, che aveva il negozio traboccante di fiale, di vasi e di boccali sigillati. In seguito seppi che si chiamava Pastenague. Dapprima egli si mostrò arrogante, ma io me l’aspettavo… Alcuni grani nel palmo della mia mano gli fecero allungare il collo e arrotondare l’occhio come una gallina che ha scorto un verme. Io fissai un prezzo: quattro denari d’argento per ogni grano; ci volle molto tempo perchè si decidesse, ma, alla fine, aprì uno scrigno chiodato sul quale era seduto, prese quattro grani e mi diede in cambio sedici monete d’argento tirate fuori dallo scrigno”.

“Potevi chiederne anche di più” disse il Pascià da uomo che se ne intendeva, “i giauzzi (infedeli) sono più avidi di pepe che d’oro. Ma che cosa è successo poi ai monaci?”

“Non so.” rispose Giannetto, “Con il mio denaro andai ad alloggiare nell’albergo della Palma, il migliore della città, e feci alcune spese necessarie per il viaggio. Infatti, con i cinque grani che mi restavano, credevo ormai possibile il ritorno al mio villaggio. La sera, a cena, una compagnia di mercanti che stavano andando alla fiera di Beaucaire, venne a sedermisi vicino. Essi erano molto allegri, io bevvi del vino e parlai loro del mio sacchetto di pepe che portavo appeso al collo come uno scapolare. Essi mi assicurarono che alla fiera ne avrei ricavato comodamente una libbra parigina per ogni grano e mi proposero di fare la strada assieme a loro: mi avrebbero aiutato a ricavarne un buon guadagno. Io ne provai un piacere tale che feci versare da bere molte volte a tutta la tavolata. Ma il vino che non conoscevo oramai da molti anni mi fece girar la testa…
Mi svegliai, tardi, il mattino seguente; l’albergo era silenzioso, senza i campanelli dei muli, senza nitriti e senza il va e vieni dei palafrenieri con gli zoccoli. Mi precipitai alla finestra…”

Qui il Pascià si lasciò andare sul dorso agitando le gambe, chiocciando di soddisfazione.

“Ho indovinato!” gridò, “La carovana ti aveva piantato dopo averti derubato!”.

“Sì, ero stato derubato” fece Giannetto. “Qualcuno aveva tagliato il cordoncino del mio sacchetto; andai a sedermi nella grande sala, accasciato… e passò un po’ di tempo.
Verso mezzogiorno, vidi entrare Pastenague preoccupato in cerca di qualcuno. Mi si avvicinò lentamente, mi tirò per la manica e mi disse all’orecchio: ‘Mi impegno a comperare tutto il pepe che potrai vendermi, fino a un quarto di libbra e a buon prezzo’. Mi voltai verso di lui e gli dissi che potevo procurargliene non solamente a dozzine di grani, e neppure a quarti di libbra, ma a centinaia di sacchi di cento libbre… e così pure per la vaniglia, per la noce moscata, e per i chiodi di garofano… Pastenague spalancò gli occhi e mi guardò spaventato: mi credeva matto! Ma oramai mi ero lanciato; descrissi le banchine del porto di Alessandria, i suoi magazzini dove si ammucchiano a montagne le balle delle spezie profumate. L’impressione del mio discorso su così viva che, prima di sera, avevamo firmato un contratto a tre: Pastenague, Goffredo, un socio che ho trovato senza difficoltà, ed io. Tu lo conosci, o signore, poichè ne hai visto l’originale e la traduzione. Tu hai certamente notato che il mio aiuto consiste nella conoscenza della lingua, ma soprattutto nella promessa della tua magnanima protezione…”.

“Avrai tutte le merci che desideri” disse il Pascià “alle stesse condizioni che noi facciamo ai mercanti genovesi”. Poi aggiunse: “I credenti e i giaurri non andranno mai d’accordo, ma possono però commerciare: il commercio è gradito a Dio; il tuo viaggio ti renderà ricco. A proposito: ti ricordo che io da solo voglio guadagnare quanto voi riuniti insieme. Ma voi siete solamente due. Parlami del tuo farmacista”.

“A proposito di lui, posso risponderti. Eravamo sulla nave in partenza col cuore stretto dall’angoscia al pensiero dei pericoli che ci attendevano. Il capitano comandò di ritirare la passerella che ci collegava ancora alla terra. Si udì allora un grido acuto e noi vedemmo Pastenague che fuggiva dalla nave correndo sulla passerella con il suo scrigno sulle spalle; e, sempre gridando, scomparve fra i pini sulla spiaggia. In quel momento il capitano lanciò l’ultimo ordine: ‘Fate le vele, con l’aiuto di Dio’.”.

Abdullah e il pepe – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Abdullah e il pepe

LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture

LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture per la scuola primaria.

LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture
La circolazione

La circolazione del sangue provvede a distribuire a tutte le cellule del corpo la parte del cibo assorbita dai villi intestinali (chilo).
Il sangue circola continuamente in un sistema chiuso di vasi elastici che fanno capo ad un organo centrale: il cuore.
I vasi sanguigni sono le arterie, le vene ed i capillari.
Il sangue è un tessuto composto di una sostanza liquida, il plasma, nella quale stanno immersi piccolissimi corpuscoli: i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine.
I globuli rossi, a forma di dischetti, contengono l’emoglobina, una sostanza che ha la proprietà di combinarsi con l’ossigeno.
I globuli bianchi ci difendono dalle malattie perchè distruggono i germi nocivi.
Le piastrine contengono una sostanza che permette al sangue di coagularsi in caso di ferite.
Il cuore, che è costituito da una massa muscolare chiamata miocardi, è un organo cavo, grosso come il pugno di una mano, ed è posto nella gabbia toracica, tra i due polmoni.
Esso ha la forma di un cono con la punta rivolta verso il basso e a sinistra; è diviso in quattro cavità: due orecchiette in alto e due ventricoli in basso.
Le arterie sono i vasi che portano il sangue dal cuore alla periferia, ossia a tutte le parti del corpo. In esse scorre sangue rosso, puro, ricco cioè di ossigeno.
Le vene sono i vasi che riportano il sangue dalla periferia, cioè da tutte le parti del corpo, fino al cuore. In esse scorre sangue scuro, impuro, carico di anidride carbonica.
I capillari sono vasi piccolissimi e con pareti sottilissime i quali, proprio come dei ponti, mettono in comunicazione le arterie con le vene e favoriscono gli scambi dei gas e del materiale nutritivo fra le cellule e il sangue.
Quando il ventricolo sinistro del cuore si contrae, il sangue viene spinto in una grossa arteria chiamata aorta, la quale si ramifica in arterie sempre più piccole fino a divenire sottilissimi vasi capillari.
In questo giro il sangue, di un colore rosso vivo, distribuisce a tutti gli organi le sostanze nutritive e l’ossigeno, indispensabili alla vita delle cellule, e si carica di rifiuti e di anidride carbonica.
Perde così il suo colore rosso vivo e diviene scuro.
Ripartendo dai capillari, il torrente sanguigno si raccoglie in canali sempre più grossi, le vene, che lo riportano all’orecchietta destra del cuore e quindi al ventricolo destro.
Dal ventricolo destro il sangue passa nei polmoni, dove si libera dell’anidride carbonica e si carica nuovamente di ossigeno. Poi ritorna all’orecchietta e al ventricolo di sinistra per iniziare velocissimo il suo nuovo viaggio, che durerà soltanto pochi secondi.
La circolazione del sangue nel corpo dell’uomo (e di molti animali) si dice doppia e completa. Essa è doppia perchè il sangue passa due volte attraverso il cuore, e completa perchè il sangue arterioso non si mescola mai con quello venoso.

LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture
Costituzione del sangue e sua funzione

Il sangue appare come un liquido rosso; è costituito di una sostanza liquida detta plasma, in cui sono contenuti vari elementi in sospensione. Vediamo di analizzare queste parti. Disponendo di un microscopio, si può osservare direttamente.
Disinfettiamoci un dito (il mignolo, che si usa meno delle altre dita) e con un ago disinfettato pratichiamo una piccola puntura sul polpastrello, raccogliamo la gocciolina di sangue sul vetrino e facciamo aderire su quello un vetrino copri-oggetto, in modo che la goccia si schiacci e si presenti molto sottile all’osservazione. Vedremo allora tanti dischetti di un colore giallo arancione disposti in pile simili a rotoli di monete.
Sono i globuli rossi, cellule a forma di disco con il margine ingrossato, il cui diametro è di 7 micron. In un millimetro cubo ne sono contenuti da 4 a 5 milioni. I globuli rossi si formano nel midollo osseo ed hanno una vita breve, che dura da 40 a 120 giorni; i globuli vecchi vengono distrutti dal fegato e dalla milza.

I globuli rossi contengono una importante sostanza, l’emoglobina, che dà il colore rosso ai globuli.

Se il microscopio fosse potente, colorando con tecniche speciale il  sangue, si potrebbero notare altri corpiccioli incolore, i globuli banchi; ne sono contenuti da 6 a 8 mila per millimetro cubico.

Nel sangue sono inoltre presenti le piastrine, corpi piccolissimi che provocano la coagulazione del sangue.

Nel plasma è inoltre contenuta una sostanza detta fibrinogeno.

Procuratevi del sangue animale e riempitene un bicchiere; lasciatelo esposto all’aria per qualche ora. Dopo questo tempo il sangue si è coagulato formando una massa gelatinosa. Che cosa è avvenuto?
Il fibrinogeno si è rappreso formando una massa filamentosa di fibrina, in cui si sono impigliati i globuli rossi ed i globuli bianchi. Questa massa si dice coagulo. Se lo lasciate fermo per almeno 24 ore, esso si contrae in una massa rossa sul fondo e sopra compare un liquido giallognolo trasparente, il siero.
Quando ci si fa un piccolo taglio, esce una gocciolina di sangue che rapidamente si rapprende: si può infatti vedere il coagulo rosso con un poco di siero sopra. Se non lo tocchiamo si asciuga, lasciando una piccola crosta che impedisce l’uscita di altro sangue; dopo pochi giorni la piccola ferita si è rimarginata.
In una famiglia reale europea esisteva una malattia, ereditata per via femminile, che colpiva però soltanto i rappresentanti maschili: l’emofilia. Il sangue di questi individui aveva perduto la capacità di coagularsi e quindi una ferita anche piccola poteva essere mortale, poichè il sangue continuava ad uscire ininterrottamente con pericolo di dissanguamento.

Qual è la funzione del sangue? Perchè circola in tutto il corpo?
Il sangue che dai polmoni va al cuore mediante le vene polmonari è ricco di ossigeno (di solito nelle figure colorate che rappresentano la circolazione del sangue è disegnato con un colore rosso vivo); l’ossigeno, portato dall’aria all’interno dei polmoni nella respirazione, è stato catturato dall’emoglobina. Nel suo giro il sangue ossigenato passa quindi nell’atrio sinistro, nel ventricolo sinistro, e viene distribuito a tutto il corpo, per mezzo dell’arteria aorta e dei vasi capillari.

Nel suo lungo cammino attraverso i capillari l’emoglobina cede lentamente l’ossigeno a tutte le cellule e raccoglie da esse l’anidride carbonica. Diventa via via più scuro, ricco di anidride carbonica, si raccoglie nelle vene cave ascendente e discendente, va all’atrio destro, al ventricolo destro (di solito nelle figure questo sangue è colorato di blu) e quindi l’arteria polmonare lo conduce ai polmoni, dove l’emoglobina cede l’anidride carbonica e prende l’ossigeno, ricominciando il ciclo.

Quindi la parte sinistra del cuore ha sempre sangue ricco di ossigeno, mentre la parte destra ha sempre sangue ricco di anidride carbonica, che non possono mescolarsi, per la presenza della parete che separa la parte destra del cuore da quella di sinistra.

La circolazione del sangue nell’uomo e negli animali mammiferi appunto per questo è detta circolazione completa; sarà quindi per quanto abbiamo detto prima, una circolazione doppia e completa.
Nel sangue avviene un doppio scambio; nei polmoni esso prende ossigeno e cede all’aria anidride carbonica; nelle cellule esso cede ossigeno e raccoglie anidride carbonica. L’ossigeno viene consumato dalle cellule in una combustione lenta che produce calore. Il corpo dei mammiferi ha perciò la possibilità di mantenere costante la sua temperatura, proprio in virtù di questo calore che continuamente si produce.

Quale sostanza viene bruciata nelle cellule?
Vi ricordate che cosa avviene nel cibo ingerito? Mediante la digestione esso viene reso solubile; i villi intestinali lo assorbono e lo cedono al sangue: questa è la sostanza che viene bruciata nelle cellule. In tal modo si capisce qual è l’importante funzione del sangue: porta con sé il combustibile (il cibo ingerito) ed il comburente (l’ossigeno) per distribuirli ad ogni cellula del corpo, porta via i materiali di rifiuto: l’anidride carbonica, che viene eliminata nella respirazione, ed altre sostanze che impareremo a conoscere.
I globuli rossi sono importanti, perchè contengono l’emoglobina per il trasporto dell’ossigeno e dell’anidride carbonica.

I globuli bianchi hanno invece una funzione di difesa, poichè sono capaci di uccidere, divorandoli, i germi patogeni delle malattie, entrati per varie vie nell’organismo. Quando una ferita si infetta, ciò avviene per la presenza di germi: i globuli bianchi accorrono numerosi, alcuni vengono uccisi e formano il pus, la sostanza giallastra che dimostra con la sua presenza l’avvenuta lotta fra globuli bianchi e germi.
Anticamente, in caso di ferite, gli uomini usavano rimedi… peggiori del male: usavano mettervi sopra sostanze varie, quali ragnatele, che consideravano curative. In quel modo costringevano i globuli bianchi ad un lavoro supplementare per distruggere altri milioni di germi.
Ora molti farmaci antibiotici aiutano il corpo umano nella sua difesa.

L’apparato circolatorio è molto importante e quindi va difeso per evitare malattie o altri inconvenienti. Non è bene portare fasce o legacci troppo stretti, soprattutto negli arti, perchè impedirebbero la circolazione del sangue. Se legate strettamente un dito, dopo pochi minuti lo vedrete diventare rosso e poi bluastro; si dice che assume un colore cianotico, perchè il sangue non può circolare e portare l’ossigeno di cui ogni cellula ha continuamente bisogno. Le cellule vengono perciò colpite da asfissia, la quale, se prolungata nel tempo, porta alla cancrena, che è la morte dei tessuti.

Dopo una fatica o uno sforzo intenso il nostro cuore batte più rapidamente, perchè deve mandare più sangue e più ossigeno alle cellule che ne hanno consumato una grande quantità. Uno sforzo prolungato oltre i limiti sopportabili, potrebbe portare gravi inconvenienti: gli atleti devono avere necessariamente un cuore molto robusto.

L’abuso di eccitanti, come il caffè e l’alcool, può provocare danni al cuore; l’alcool ingerito passa immediatamente nel sangue ed entra in circolazione determinandone dei pericolosi squilibri.
Il cuore è quindi un organo importantissimo nel sistema circolatorio: il suo battito segna il ritmo della nostra vita; al suo fermarsi, la vita di ferma.

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Parla il cuore

Tic tac, tic tac: sono l’orologio della vita! Comincio a battere quando l’uomo comincia a vivere, finisco quando l’uomo muore.
Egli sosta dal suo lavoro e riposa, egli si corica e dorme: io non mi arresto mai. Tutti gli altri orologi si fermano qualche volta e vanno a farsi pulire o aggiustare dall’orologiaio: io non mi fermo che una volta sola, e per sempre… Quante volte batto? …Settanta, ottanta volte ogni minuto: quattro o cinquemila volte l’ora. Più di centomila volte in una giornata!
(L. Craici e G. Zibordi)

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LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA materiale didattico e letture – Immagini:
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http://www.laboratorio-italia.it/protocolli-di-laboratorio/ematologia/adesione-piastrine-anticorpi-protocollo/;
http://sistemacardiovascolare.blogspot.it/2015_05_01_archive.html

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L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico per la scuola primaria.

La misura del tempo è indispensabile all’uomo, che senza di essa non saprebbe disporre ordinatamente le sue azioni nella giornata. Ecco perchè egli ha sentito il bisogno, fin dall’antichità, di misurare il tempo, ed è riuscito a farlo… anche senza i nostri modernissimi e perfetti orologi (dal greco orologhion = che dice l’ora). Come? Lo spiegheremo nel modo più preciso e rapido possibile.

Il primo e più perfetto orologio per gli uomini è stato il sole. Esso apparentemente compie un cammino giornaliero, le cui tappe grossolanamente si indicano coi termini di alba, mezzogiorno, pomeriggio, tramonto.

Dapprima l’uomo pensò di stabilire tale cammino, misurando coi passi l’ombra di un obelisco (dal latino obeliscus, diminutivo di obelos = spiedo, poi colonna terminante a punta) in una giornata solare: al mattino l’ombra era più lunga, verso mezzogiorno si accorciava, alla sera si allungava ancora di più. Un po’ semplicistica, certo, questa misurazione e senza dubbio imperfetta, e poi non ovunque c’era un obelisco.

Egitto (Luxor)

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Allora l’uomo pensò di ridurre l’obelisco a più modeste proporzioni e costruì il primo vero strumento di misurazione del tempo che si conosca, lo gnomone (dal greco gnomon = indice), un’asta dritta e rigida, munita di appositi segni, eretta verticalmente su un piano orizzontale. La lunghezza della sua ombra permetteva di dividere approssimativamente il giorno in varie parti. Non si sa se l’origine di tale strumento risalga ai Caldei, agli Egizi o ai Cinesi. Comunque il più antico esemplare (1500 aC) che si conosca, è egizio e se ne conserva un frammento nel Museo di Berlino.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Strumento di misura più perfetto dello gnomone, da cui deriva e di cui elimina alcuni inconvenienti, è il quadrante solare, chiamato anche meridiana (dal latino meridies = mezzogiorno) o orologio solare. Esso consiste in un’asta rettilinea, detta stilo, parallela alla linea dei poli, che può essere anche una linea disegnata o fittizia o addirittura essere costituita da un foro. Tale asta ha una base, o piana o sferica o cilindrica o leggermente curva, destinata a ricevere l’ombra e con su tracciate delle linee, dette orarie, che indicano appunto le ore della giornata. La usarono gli Egizi, i Babilonesi, i Greci e i Romani e ne vedono ancora oggi esemplari medioevali sulle facciate di molte chiese e palazzi antichi, con graziosissimi detti latini come “Horas non numero nisi serenas” (segno solo le ore serene), “Sine sole sileo” (senza sole taccio), ecc.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

La meridiana aveva, tra gli altri, un grosso inconveniente, denunciato dalle scritte latine riferite sopra: non funzionava quando mancava il sole. Ecco allora l’uomo escogitare un nuovo orologio, capace di misurare il tempo anche senza il sole: la clessidra ad acqua(dal greco klepsydra, da klepto = portar via, e ydor = acqua) detta anche orologio ad acqua, che fu usata prima dai Babilonesi e dagli Egizi, poi dai Greci e dai Romani fino al sorgere dell’orologio meccanico. Essa era sostanzialmente costituita da un recipiente cavo, che si riempiva di acqua e questa attraverso un forellino gocciolava in un serbatoio. La durata del flusso era indicata da diversi segni orari, tracciati ad altezze varie tra la parte superiore ed il fondo del recipiente. Più tardi all’acqua fu sostituita la sabbia e si ebbe così la clessidra a sabbia.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Ma l’uomo non si accontentò più né di quadranti solari né di clessidre, che avevano non lievi inconvenienti e pensò quindi di costruire orologi meccanici. Creò allora un quadrante con su segnate le ore indicate da una lancetta collegata a un rullo, il cui giro era regolato da un peso. Tale orologio fu per la prima volta portato in Europa dai Crociati, che probabilmente lo assunsero dagli Arabi. Gli Europei ne perfezionarono il meccanismo e a partire dal 1300 cominciarono a vedersi nelle chiese e nei palazzi pubblici enormi orologi a pesi con quadrante di squisita fattura. Si pensi al famoso orologio dei Mori in Piazza San Marco a Venezia, a quello astronomico di Strasburgo, che segna il tempo, il calendario e i movimenti degli astri, al Big Ben della torre del palazzo del Parlamento a Londra, che è forse il più grande orologio del mondo, con quattro quadranti, ciascuno del diametro di otto metri.

San Marco – Venezia

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Big Ben – Londra

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Ma il ritmo della vita rese necessari all’uomo orologi meno ingombranti di quelli a peso, cioè individuali, di dimensioni piccole, più perfezionati e più comodi. Ed ecco nascere (nel 1550) i primi orologi da tasca, il cui inventore fu Peter Henlein di Norimberga, che ne basò il funzionamento du una molla elastica in sostituzione e con le stesse funzioni del peso. Tali orologi furono detti “uova di Norimberga”, ma non avevano affatto la forma delle uova: erano rotondi e più tardi assunsero le più svariate e impensate forme, di croci, cuori, farfalle, gigli, ghiande, libri e perfino… teschi.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

Ma al perfezionamento totale degli orologi contribuì il pendolo, la cui scoperta si deve a Galileo Galilei (1639), il quale constatò che la durata delle oscillazioni di un pendolo dipendeva dalla lunghezza del filo a cui era sospeso: più corto era il filo, più breve era la durata dell’oscillazione. Tale principio fu applicato agli orologi dallo scienziato inglese Christian Huygens (1657) e da allora l’orologio cominciò a diventare popolare e alla portata di tutti.

L’uomo e la misura del tempo – materiale didattico

In tempi più recenti all’orologio da tasca fu sostituito l’orologio da polso, anche detto cronometro (dal greco chronos = tempo e metron = misura), quando indica le frazioni di secondo. Il cronometro è utilissimo, ad esempio, nelle gare sportive.

(immagini da https://pixabay.com/it/blog/posts/public-domain-images-what-is-allowed-and-what-is-4/)

L’uomo e la misura del tempo

Comandi sui nomi LE CHIAMATE

Comandi sui nomi LE CHIAMATE. Nell’articolo puoi trovare esempi di presentazione e d’uso, e il materiale pronto per il download e la stampa. Questi cartellini dei comandi sono utilizzati in relazione al lavoro con la scatola grammaticale I (nome e articolo).

Per saperne di più sull’uso dei comandi puoi leggere qui: LE LEZIONI E I COMANDI

Il gioco con i cartellini dei comandi piace molto ai bambini, e possono essere usati sia in ambito grammaticale, come quelli presentati in questo articolo, sia per esercitare la lettura interpretata, come quelli proposti qui: cartellini dei comandi per i primi esercizi di lettura e composizione.

In generale l’esercizio con i cartellini dei comandi si svolge così: in un piccolo gruppo di bambini, a turno, un bambino legge in silenzio un cartellino e poi lo esegue riproducendo le parole e le azioni indicate. Generalmente i comandi richiedono il coinvolgimento dei compagni, quindi si prestano allo svolgersi di piccole recite. Maria Montessori ricorda che a partire dall’età di cinque anni i bambini hanno una spiccatissima tendenza alla recitazione, e provano grande piacere nel pronunciare le parole con tono sentimentale, accompagnandole con dei gesti.
I comandi delle “chiamate” possono dar luogo a piccole commedie. Possono avere un tono imperioso,  di preghiera, gentile o brusco.

Il materiale che ho preparato io segue la stessa codifica delle scatole grammaticali, quindi, poichè questi comandi sono in relazione alla scatola grammaticale I, avremo i cartellini EI-1 ed EI-2.

Questi sono i cartellini dei comandi per il nome, anche detti “chiamate”:

Altri comandi sul nome possono essere fatti chiedendo al bambino di disegnare determinate cose e scriverne i nomi (E1-2):

Comandi sui nomi LE CHIAMATE

L’ELEFANTE dettati ortografici e letture

L’ELEFANTE dettati ortografici e letture.In molti Paesi asiatici migliaia di giganteschi pachidermi, ridotti in cattività, passano l’esistenza al servizio dell’uomo. Testo per la dettatura, la lettura e il riassunto.

Apparve all’improvviso, stagliandosi in tutta la sua mole contro il denso verde di una foresta dell’India meridionale: un colosso con la pelle color grigio scuro che scendeva per il sentiero soleggiato di montagna, trasportando un tronco di palissandro serrato fra le zanne e la proboscide arrotolata. Aveva una grazia ed un’agilità di movimenti inaspettata. Si sarebbe quasi detto che il vero re della giungla asiatica trovasse divertente lavorare per l’uomo come boscaiolo.

Era la prima volta che vedevo un elefante al lavoro. In molti Paesi asiatici migliaia di questi meravigliosi animali passano parecchi anni della loro vita al servizio degli uomini, trasportando, spingendo, sollevando e manovrando pesanti carichi. Aggiogato a un aratro, uno di questi elefanti può dissodare il terreno lungo il confine tra l’India e il Nepal. Carico di medicinali può avanzare nella giungla thailandese e raggiungere villaggi malarici tagliati fuori dal mondo. Servendosi dell’ampia e ben corazzata fronte, riesce a smistare i vagoni merci in una stazione ferroviaria e, con l’aiuto delle zanne e della poderosa testa, a raddrizzare un’auto capovolta.

Ma è come boscaiolo che questo elefante tuttofare primeggia. Lo si può vedere all’opera nelle foreste thailandesi mentre sposta un tronco di legno di tek pesante due tonnellate, lo spinge fino all’orlo di un precipizio e poi lo fa cadere in un corso d’acqua che scorre quasi 100 metri più in basso. E’ capace di sciogliere un groviglio di tronchi che galleggiano su un fiume della Birmania, individuando con esattezza quello che blocca gli altri e smuovendolo, pronto a tirarsi da parte per evitare di essere investito dalla valanga dei tronchi liberati. Con una fune legata ai grossi molari lunghi 30 centimetri può, insieme con un compagno, trascinare un tronco del diametro superiore all’altezza di un uomo. Nello Stato del Kerala, nell’India meridionale, c’è perfino un elefante privo di una zanna che è capace di sollevare l’estremità si un tronco fino alla ribalta posteriore di un autocarro e poi, afferrata saldamente con la proboscide e con l’unica zanna l’altra estremità, di spingerlo pian piano fino in fondo.

Ma non è solo in tempi recenti che l’elefante asiatico ha messo la sua eccezionale abilità al servizio dell’uomo. Già nel 326 aC il re indiano Poro andò incontro alle schiere di Alessandro Magno con 200 elefanti da guerra.  Inoltre per secoli l’elefante, ornato da splendide bardature, ha preso parte a cerimonie con re e sacerdoti. Diversi anni fa, all’incoronazione del re Mahendra del Nepal, ho assistito a una processione di questi nobili animali. Dipinti di nero, di rosso vermiglio e d’oro, sfilavano solenni lungo le strade tutte imbandierate di Kathmandu davanti alle autorità nepalesi ed estere.

Come può un animale selvatico, cresciuto nella giungla, ritrovarsi un bel giorno a far parte di un corteo, a trasportare medicinali o a trainare legname in una foresta di alberi di tek? Sono le sue stesse abitudini e la sua stessa indole mite a spiegare come mai sia così addomesticabile.

Allo stato libero l’elefante asiatico, che vive in branchi formati da 5 a 50 individui, si muove di continuo nelle foreste per procurarsi i quasi 300 chilogrammi di cibo che costituiscono la sua razione giornaliera. Strappa un ramo da una panta di bambù o da un fico e se lo mangia tutto, oppure, sradicato un arbusto dal sapore gradito, lo sbatte contro la zampa anteriore per liberarlo dalla terra e, contraendo i 40.000 muscoli della sua potente proboscide, lo porta alla bocca. Per annaffiare il pasto, poi, raggiunge un fiume o uno stagno e aspira enormi quantità d’acqua, da 130 a 190 litri il giorno.

Ma nella sua ricerca di cibo e di acqua l’elefante lascia dietro di sé tracce evidenti, facilitando il compito a chi vuole catturarlo. Uno dei modi più semplici consiste nello scavare una grande fossa e nell’aspettare che ci caschi dentro. Una volta caduto in trappola, l’animale viene legato e condotto fuori su per una rampa fra due elefanti già addomesticati. Esistono però altri metodi di cattura: lunghe funi terminanti in grossi nodi scorsoi sistemate lungo le piste della foresta in modo da accalappiare gli elefanti per le zampe; oppio mescolato a foraggio e portato nella foresta; proiettili anestetizzanti; elefantesse addomesticate, vere e proprie Dalila della foresta, che attirano i maschi selvatici così che i mah-out possano prenderli al laccio.  Interi branchi vengono catturati in India e in Pakistan orientale con lo spettacolare sistema del kheddah: gli elefanti selvaggi vengono sospinti fuori del cuore delle foreste e convogliati verso un recinto circondato da un largo e profondo fossato o da un’alta palizzata provvisoria.

Tra gli elefanti catturati ce ne sono alcuni troppo riottosi o troppo vecchi per essere addomesticati. Ma di solito dopo un periodo che va dai nove mesi a un anno questi colossi, ormai domati, cominciano la loro vita di lavoro. Seguiamo ora un elefante indiano nel suo corso di addestramento.

Chiameremo il nostro elefante Ravi, dal nome del fiume che nasce nell’Himalaya. E’ un animale nobile, alto quasi tre metri, con testa e torace massicci, dorso allungato, piatto e spiovente, zampe corte e grosse e una lunga coda che termina in un ciuffo. Quando lo incontriamo sta barrendo con furia. E’ appena uscito dalla fossa in cui era caduto e una o due coppie di elefanti addomesticati lo spingono ai fianchi guidandolo verso il kraal.

Il kraal è un recinto di grossi tronchi nel quale gli elefanti catturati vengono chiusi e impastoiati. “Dopo una settimana o due”, spiega l’incaricato, “il mah-out entrerà nel kraal, darà a Ravi delle foglie di palma, lo farà bere e gli offrirà melassa o banane per ingraziarselo, comincerà a carezzagli il fianco e il muso e a parlargli con dolcezza. Dopo u mese circa Ravi lascerà il kraal, sempre accompagnato da una coppia di elefanti addomesticati, andrà al fiume a fare un bagno e poi verrà legato a un albero. Nel recinto ormai non tornerà più”.

Poco per volta il mah-out insegna a Ravi ad eseguire gli ordini che lui gli dà, sempre con la stessa inflessione, in lingua hindi: “Siediti”, “Chinati”, “Vai avanti”, “Sdraiati”, “Bevi”, “Alza la zampa”. Quante parole imparerà a riconoscere Ravi? Forse, e senza fatica, più di una ventina. Ma nessuno sa quale sia il limite massimo. Sir Richard Aluwihare, ex alto commissario di Ceylon in India, ha affermato che un elefante può arrivare a conoscere fino ad 82 parole.

Una vita ordinata, dei pasti regolari e l’affetto di cui è circondato finiscono col far superare all’elefante lo shock iniziale della cattività. Adesso Ravi, non appena il mah-out lo tocca anche lievemente dietro l’orecchio o contrae i muscoli della coscia, obbedisce subito, senza esitare. Alla prossima asta di elefanti Ravi sarà con ogni probabilità venduto a un prezzo molto alto.

Se viene impiegato per il lavoro nelle foreste dello Stato di Mysore, in India, un elefante come Ravi comincerà la sua fatica alle otto del mattino e finirà all’una del pomeriggio: fa troppo caldo per lavorare otto ore al giorno. Quando la sua giornata lavorativa è finita, l’elefante fa ritorno al campo, riposa finché il sudore non gli si è asciugato, poi scende al fiume dove il mah-out lo striglia con una pietra o con il guscio di una noce di cocco. Tornato al campo, consuma il suo pasto, quasi 25 chili di paglia e una quindicina di chili di riso, e quindi è libero di andarsene in giro per la foresta a farsi un altro spuntino. A sera fa un altro pasto e, dopo aver dormito solo quattro ore, torna a girovagare nella foresta mangiucchiando fino all’alba.

Gli elefanti adibiti al lavoro sono trattati con molta cura. “Noi accertiamo la capacità di traino di ogni elefante” mi disse Raghavendra Rao, veterinario del Ministero delle Foreste del Mysore, “e lo stabiliamo in rapporto alla pendenza del terreno, al volume dei tronchi, alla distanza da percorrere e alle condizioni dell’elefante”. Mentre Rao mi parlava, arrivò un mah-out seguito dal suo elefante. L’elefante sembrava camminare a fatica e il mah-out era venuto a chiedere un consiglio. “Gli elefanti che lavorano”, mi spiegò Rao, “possono soffrire di disturbi di stomaco, di coliche, di diarrea o di malattie contagiose”. Quell’elefante aveva una piaga infetta sul ventre. Rao diede al mah-out una pomata allo iodio e questi la spalmò con delicatezza sulla piaga. Lo iodio certamente bruciava, ma l’elefante per trovare un po’ di sollievo al dolore si limitava a dondolare la zampa anteriore.

Le premure che i mah-out hanno per i loro elefanti sono comprensibili. Lavorando nella foresta con questi giganteschi boscaioli essi finiscono con l’affezionarcisi. A parte qualche eccezione, i colossi sono in genere docili, mansueti ed estremamente pazienti. Le femmine poi sembrano avere il carattere più tranquillo e più mite del mondo.

Riusciranno gli elefanti a continuare a sopravvivere come forze lavorative nell’Asia moderna? Riusciranno a competere con i trattori e con le nuove macchine che abbattono, smembrano, spuntano ed accatastano gli alberi?

In alcune foreste, certamente no. La Thailandia, per esempio, sta sostituendo gli elefanti con trattori adibiti al trasporto di tronchi, mentre nei cantieri di disboscamento in India il numero degli elefanti che lavorano è in diminuzione. Ma l’Asia p grande e ci sono ancora foreste per centinaia di milioni di ettari dove il lavoro degli elefanti è indispensabile. Non soltanto l’elefante è un mezzo più economico, ma è anche insieme un motore, un trattore, una gru, un autocarro e, per finire, anche una specie di calcolatore elettronico.

“I vari movimenti che un elefante compie nel manovrare i tronchi non sono il risultato di un addestramento”, dice il dottor John F. Eisenberg del Parco Zoologico Nazionale di Washington “E’ l’animale che, una volta sollevata un’estremità del tronco da terra e sistemata la catena in bocca, la sposta fino a trovare il punto di equilibrio. Quando l’elefante capisce che cosa si vuole da lui, lo fa improvvisando. Esiste forse una macchina capace di tanto?”.

Certo è probabile che, con l’intelligenza che ha, l’elefante selvatico possa aver già fatto dei nuovi programmi per il suo avvenire che escludono la possibilità di lavorare per l’uomo. Alcuni elefanti, mi ha detto in tono solenne una guardia forestale, hanno imparato a tenere con la proboscide una lunga canna di bambù in posizione verticale e quando se ne vanno in giro nella foresta saggiano con quella il terreno per assicurarsi che non nasconda insidie.

La guardia forestale non aveva mai visto personalmente gli elefanti farlo, ne aveva soltanto sentito parlare. Siccome mi trovavo in un kraal in India, pensai di porre a bruciapelo la domanda proprio a un elefante. Non mi rispose, si limitò a strizzarmi l’occhio.

S. E. Fraezer

L’ELEFANTE dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

L’ELEFANTE dettati ortografici e letture

I RODITORI dettati ortografici poesie e letture

I RODITORI dettati ortografici poesie e letture. Una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

I RODITORI dettati ortografici poesie e letture
La lepre e il coniglio

Sono stretti parenti  e tutti e due hanno, dietro gli incisivi superiori, altri due piccolissimi denti. La lepre è agile, con le orecchie lunghe; mangia di tutto, foglie, gemme, cortecce d’albero. Perciò, specie d’inverno, quando non trova altro, è assai dannosa ai giovani alberi di cui rode la corteccia.
Il coniglio, più piccolo della lepre, vive nelle tane che scava da sé. E’ un animale enormemente prolifico: da una sola coppia, in un anno, possono nascere, con le successive generazioni, oltre mille coniglietti.

I RODITORI dettati ortografici poesie e letture
La vita dei castori

Il castoro è uno dei più grossi roditori; infatti, raggiunge il metro di lunghezza senza la coda e può pesare fino a trenta chilogrammi. Il suo corpo, sostenuto da arti corti e robusti, è tozzo e massiccio; la testa, di forma conica; il collo, molto corto. Ma la caratteristica essenziale del castoro consiste nel suo notevole adattamento alla vita acquatica. Le zampe posteriori di questo animale, palmate come quelle di un’anitra, gli permettono di nuotare rapidamente; la coda, larga, piatta e ricoperta di squame, gli serve per nuotare. Le narici e i condotti auricolari vengono chiusi mediante valvole, quando nuota in immersione; mentre la cavità boccale si chiude dietro gli incisivi quando, in fondo ai fiumi o ai laghi, rode il legno coi denti.
In Europa i castori sono quasi scomparsi; se ne trovano ancora in Francia nella valle del Rodano, in Norvegia, in Polonia, in Russia e lungo il corso medio dell’Elba; ma essi abbondano in modo particolare in Canada. I costumi del castoro, il suo meraviglioso istinto, la sua intelligenza, fanno di lui un animale assolutamente unico. Sotto certi aspetti, la sua vita è simile a quella dell’uomo: vive in società, costruisce la sua dimora e accumula provviste.

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Abili boscaioli

I castori del Canada si stabiliscono nelle regioni boscose attraversate da numerosi piccoli corsi d’acqua. Riuniti in gruppi, che variano dai 200 ai 300 individui, essi edificano, anzitutto, una diga sul corso d’acqua attiguo al loro accampamento. La forma della diga dipende dalle condizioni del terreno. Certe dighe sono convesse, altre concave, altre infine a zig-zag. La loro lunghezza può variare da un metro a più di 500 e l’altezza raggiunge uno o due metri.
Di volta in volta boscaioli, carpentieri, muratori, i castori abbattono gli alberi necessari per edificare la diga che si propongono di costruire; li rodono a una trentina di centimetri di altezza, in modo da formare un intaglio tutt’intorno, che viene approfondito in forma conica. Se l’albero è vicino alla riva del fiume, lo intaccano più profondamente dalla parte dell’acqua, il che dimostra che essi sanno molto bene dirigerne la caduta. Quando l’albero è sul punto di crollare, essi continuano più lentamente la loro operazione e, appena comincia a inclinarsi, ne aiutano e ne dirigono la caduta con le zampe anteriori. Appena l’albero è caduto in acqua, i castori si tuffano e restano nascosti per qualche attimo, senza dubbio per timore che il rumore del crollo attiri qualche loro nemico. I nemici, d’altra parte, sono segnalati da apposite sentinelle, le quali battono sull’acqua grandi colpi di coda.
Una volta abbattuto l’albero, il castoro lo trasporta ai piedi della diga, lasciandolo galleggiare e trascinandolo. Per trasportare gli alberi, abbattuti lontano dal luogo in cui deve sorgere la diga, essi scavano canali artificiali lunghi anche parecchie centinaia di metri, in modo da poter sfruttare la corrente dell’acqua.
Quando il tronco è stato in tal modo trasportato vicino al punto in cui deve essere costruita la diga, il castoro se ne impossessa definitivamente, ne aggiusta un’estremità sotto il collo e lo spinge avanti, fin là dove deve essere trascinato sott’acqua. Generalmente i castori fanno andare a fondo il legname per le costruzioni lasciando che si inzuppi e si impregni d’acqua, ma talvolta lo trascinano essi stessi, nuotando in immersione, e lo ormeggiano sott’acqua.

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Abilissimi ingegneri

Quando il materiale è pronto, gli animali si mettono all’opera. Sul fondo del fiume essi piantano dei pioli alti un metro e mezzo o due e li allineano gli uni accanto agli altri; in compenso li rendono stabili con grosse pietre. Successivamente li collegano gli uni agli altri con rami flessibili e saldano il tutto con fango mescolato a foglie morte. Essi lavorano il fango soprattutto con l’aiuto delle zampe anteriori, che hanno l’agilità delle mani; contrariamente a quanto si crede, la coda non serve loro da cazzuola.
Una diga terminata ha uno spessore di 3-4 metri alla base e di metri 0,60 nella parte superiore. La parete a monte è inclinata di circa 45 gradi; quella a valle è verticale. E’ questa la disposizione migliore per resistere alla pressione dell’acqua, che si esercita così su una superficie in pendenza. In certi casi i castori spingono ancora più oltre la loro scienza innata sulla resistenza dei materiali. Infatti se il corso d’acqua è lento, essi costruiscono generalmente una diga rettilinea, perpendicolare alle due rive; se è rapido e torrentizio, costruiscono una diga ricurva, in modo che la sua convessità sia rivolta a monte. Così essa resiste meglio alla corrente, che potrebbe travolgerla se fosse dritta.
La costruzione delle dighe comincia durante l’estate, quando le acque hanno il livello più basso, e si protrae fino ai primi freddi. Inoltre i castori, in caso di necessità, sanno scavare canali di scarico per i bacini.
Nel lavoro, che essi svolgono di comune accordo, i castori hanno a volte delle iniziative stupefacenti, che dimostrano in questi roditori l’esistenza di un’intelligenza e di una notevole capacità di intesa e di collaborazione. Si è scoperto, per esempio, un canale costruito dai castori che scorreva su terreni a diverse altezze: il suo corso era stato sbarrato da tre dighe, una per ogni dislivello del terreno. La prima parte di tale canale era alimentata dall’acqua di uno stagno, le altre dalle acque scorrenti che le dighe, prolungandosi ben oltre le due sponde, riuscivano a raccogliere. Era in atto qui un sistema di chiuse simili a quelle realizzate dall’uomo come ingegnoso mezzo destinato a raccogliere le acque sparse.

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Una casa per ogni famiglia

Una volta costruita la diga, i castori si separano in coppie e ciascuna di esse si costruisce una capanna o sulle piccole isole degli stagni formati dalle dighe, o sugli argini.
Le capanne sono fatte di rami intrecciati, di pietre e di ghiaia e tutto viene cementato per mezzo di mota e di foglie morte. Esse misurano da tre a cinque metri di diametro e sono alte un metro me mezzo o due metri. L’ingresso è costituito da un tunnel sommerso, in modo che il castoro è protetto contro gli attacchi dei nemici esterni.
In inverno le pareti della capanna gelano,, divenendo solide e impenetrabili anche a un orso che per avventura potesse raggiungerle, quando lo stagno è coperto di ghiaccio. L’interno della capanna è una stanza vasta e confortevole.
I castori, nonostante la vita quasi acquatica, non si nutrono di pesci. Durante la bella stagione rodono le radici delle piante d’acqua e soprattutto le radici delle ninfee. La scorza dei grandi alberi o degli alberi di media grossezza, che è troppo dura, non serve loro come cibo, ma in compenso essi rosicchiano con gusto la scorza dei ramoscelli e degli arbusti, che è tenera e nutriente. Per procurarsela, essi abbattono gli alberi come abbiamo visto, e ne staccano i rami.
Quando viene l’inverno, il castoro si immerge sotto il ghiaccio che ricopre lo stagno sulle cui rive egli si è stabilito, sceglie tra il mucchio delle provviste accumulate quel ramo che gli sembra più conveniente e lo trasporta nella capanna. Se è un ramo di betulla, ne mangia la seconda scorza e lo strato situato tra la scorza e la parte più interna, mentre utilizza la scorza esterna, ridotta in trucioli, per rifare il giaciglio. Se invece si tratta di un ramo di pioppo, egli rosicchia tutta la scorza, abbandonando il pezzo di legno.
Ogni anno, a primavera, la femmina dà alla luce da due a sei piccoli, che nascono ciechi e che la madre allatta per circa un mese. Nel frattempo essa allontana dalla capanna il maschio, il quale deve andare ad abitare in un altro alloggio. I piccoli del castoro acquistano la vista solo verso la fine dell’ottavo giorno; si muovono con difficoltà e non sanno nuotare. A tre mesi essi sono ancora impacciati e restano sott’acqua solo per poco tempo. E’ necessario un certo esercizio, prima che riescano a trattenere la respirazione per qualche minuto. Quando ormai sono diventati adulti, il che avviene verso l’età di due anni, prendono possesso della capanna dei loro genitori i quali se ne costruiscono una nuova. La vita dei castori dura da quindici a venti anni. Il castoro è un animale simpatico, che si lascia facilmente addomesticare. Ma, generalmente, quando viene addomesticato, perde ogni iniziativa e ogni volontà. Per questo, di solito, si mettono a sua disposizione dei cunicoli artificiali, simili a quelli nei quali egli vive in libertà, e un vano largo e ben aerato che può aprirsi sull’esterno per permettere di pulire l’ambiente. Generalmente lo si nutre con scorze, grano e carote. All’inizio egli cerca di trasportare le sue provvigioni in un altro luogo, poi si abitua al nuovo genere di vita e si fissa definitivamente nella sua dimora.

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Girotondo dei topi

Trottano i sorci lungo le pareti del solaio,
sono d’umore gaio:
è morto il gatto del secondo piano,
quel tremendo soriano!
L’hanno visto stecchito
tenuto per la coda dai ragazzi
che l’hanno seppellito
in fondo all’orto.
Allegri! E’ proprio morto!
Erano tutti sotto l’abbaino
a guardar giù coi musetti appuntiti
e gli occhi che lucevan come spilli.
Ora per la soffitta
corrono in tondo in tondo
e fanno un gran fruscio
tra le cartacce vecchie.
Son quaderni ingialliti
di greco e di latino
buoni da rosicchiare:
un bel festino!
Poi ancora a trottare
con le code diritte come stecchi
fra i mobili azzoppati,
fra le sedie sfondate,
gli stracci e i ferrivecchi.
Ogni tanto qualcuno si riposa
e va a guardare
dentro il buco nel muro
la sua nidiata di topini rosa.
Girano in tondo in tondo
nella soffitta oscura.
Ah, com’è bello il mondo
se non c’è la paura!
(Enrico Guastaroba)

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La trappola

La trappola a è lì, alla posta,
all’angolo della soffitta:
all’uncino di ferro una crosta
di pecorino è confitta,
e spande oltre il telaio
di fili un odore che invita
i topi, che nel solaio
trascorrono la loro vita.
La trascorrono lieti e sereni
tra fugaci guizzi di code
tra rapidi andirivieni
tra i rumori del dente che rode,
che rode la buccia ed il chicco,
un brano di libro illustrato
e ciò che in dispensa o nel ricco
ripostiglio hanno rubato.
Ora hanno scoperto qualcosa
di strano, una scatola a fili
che sta ferma nell’ombra, una cosa
che manda profumi sottili.
V’entra un topo. Ha toccato col muso
appena la crosta, che scatta
la molla; il portello s’è chiuso
con rabbia quasi di gatta.
E’ passata tutta la notte
sul terrore del prigioniero;
ma l’alba s’affaccia alle porte
della terra, svelando il mistero.
L’uomo piano piano è salito
a vedere. Sì, c’era. E vicini
alla madre dall’occhio spaurito
ha veduto sei topolini:
sei topini di rosa ivi nati
la notte, in prigione. Anche un gatto
li avrebbe, forse, lasciati.
Il cacio, all’uncino, era intatto.
(Giuseppe Porto)

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La pagina dei perché

La pagina dei perché: perché la pioggia cade a gocce? Perché il sale fa venire sete? Perchè il pane vecchio diventa duro? Perché prima si vede il lampo e poi si sente il tuono? Una collezione di perché risolti per bambini della scuola primaria. Ho preparato una versione in schede, che possono essere utili per stimolare la lettura.

La pagina dei perché

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali: in questo articolo affrontiamo la presentazione delle funzioni delle parole in abbinamento ai simboli grammaticali. Nella prima parte ci sono esempi di esercizi per la Casa dei bambini, di seguito un esempio di presentazione per la scuola primaria.

Consideriamo le nove parti del discorso:
– famiglia del nome: articolo, aggettivo, nome e pronome;
– famiglia del verbo: avverbio, verbo;
– particelle: preposizioni, congiunzioni, interiezioni .

Nella Casa dei bambini i simboli grammaticali servono a mostrare ai bambini che all’interno della lingua esistono dei modelli, che le parole hanno delle funzioni determinate, e che le parole cambiano, ma i modelli rimangono gli stessi. I simboli vengono utilizzati per rendere concreto ciò che è astratto, al fine di aiutare il bambino a scoprire la funzione delle parole e classificarle. Questa preparazione indiretta fornisce una base forte, a cui si aggiungono ulteriori scoperte, finché poi, nella scuola primaria,  queste conoscenze sfociano nella psicogrammatica.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

La famiglia del nome

Maria Montessori ha associato la famiglia del nome con le piramidi, che sono oggetti fissi, stabili, molto antichi e che rappresentano la materia.
Per il nome si usa una grande piramide nera, per l’aggettivo una piramide media blu, per l’articolo una piccola piramide azzurra e per il pronome una piramide allungata viola. I simboli relativi sono un grande triangolo equilatero nero, un triangolo equilatero medio blu, un triangolo equilatero piccolo azzurro e un triangolo isoscele viola.
La piramide nera ha una base larga, è solida. Ricorda la civiltà dell’antico Egitto, una civiltà antica che ha avuto un ruolo importantissimo nella storia della scrittura e dell’architettura. I nomi costruiscono le frasi. La piramide è nera perchè il nero è il colore del carbone, un combustibile, perchè i nomi sono il combustibile delle frasi. La piramide è pesante, per dare una forte impressione di  solidità.
L’aggettivo è indipendente, come un bambino della scuola primaria, mentre l’articolo dipende dal sostantivo, come un bambino piccolo dipende dalla madre.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

La famiglia del verbo

La sfera rossa rappresenta il sole, che dà vita, luce e calore. I verbi danno energia alla frase e animano la famiglia del nome.
L’avverbio è una sfera arancione più piccola.
I simboli relativi sono un cerchio rosso grande e un cerchio arancione medio.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Le particelle
La congiunzione è un piccolo parallelepipedo rosa, che unisce come un trattino due parole o due parti di una frase. Il simbolo relativo è un rettangolo rosa.
La preposizione è un arco verde, che collega come un ponte due oggetti tra di loro. Il simbolo relativo è una mezzaluna verde.
L’interiezione è una piramide dorata con una sfera posta sull’apice; somiglia ad una serratura, e ricorda la forma del punto esclamativo.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Simboli e carte dei simboli

Per le prime presentazioni utilizziamo i simboli solidi, immagini dall’universo.

I simboli solidi possono essere realizzati facilmente con la pasta di sale:

Sappiamo tutti quanto sia importante fare una prima buona impressione. Nella didattica Montessori ci sono presentazioni che hanno lo scopo di lasciare sui bambini un’impressione profonda e duratura, accendendo la loro immaginazione.
Le storie per presentare le funzioni delle parole possono essere varie; l’importante è che siano brevi, semplici e memorabili. Un primo esempio di racconto per presentare la funzione delle parole è pubblicato qui:  Fiaba per le parti del discorso 

ed è particolarmente indicata coi bambini più piccoli, ma si può considerare tranquillamente di proporla anche nella scuola primaria, in alternativa a quella presentata nella seconda parte dell’articolo. Potete anche scegliere un racconto più complesso, che si deve svolgere nell’arco di più giorni: Il Paese di Grammatica.

Sia nella scuola d’infanzia, sia nella scuola primaria, l’atmosfera che si crea durante il racconto è importantissima, indipendentemente dal racconto che scegliamo: bisognerebbe parlare ai bambini come se si stesse svelando loro un grande segreto.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Presentazione dei simboli grammaticali 

Con i nostri alfabeti creiamo centinaia di parole, ma non sono tutte uguali: ogni parola ha il suo compito. Ci sono nove tipi di compiti che le parole possono svolgere per noi. Questi compiti si chiamano funzioni.
A seconda della loro funzione, tutte le parole possono essere divise in nove famiglie speciali: queste famiglie si chiamano “parti del discorso”.
I nomi di queste parti del discorso sono: nome, articolo, aggettivo, verbo, avverbio, pronome, congiunzione, preposizione e interiezione.
In classe abbiamo un colore speciale ed un simbolo per ognuna di queste famiglie. (Mostrare la scatola dei simboli grammaticali).

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

LA FUNZIONE DELLE PAROLE NELLA CASA DEI BAMBINI 

Nella Casa dei bambini si possono svolgere molti esercizi che servono a comprendere la funzione delle parole. Ne faccio una panoramica che può essere utile anche nella scuola primaria, soprattutto se i bambini non hanno frequentato una scuola d’infanzia montessoriana. Verranno trattati dettagliatamente in articoli specifici.
Si tratta di attività che portano il bambino ad avere un’esperienza sensoriale delle funzioni delle varie parti del discorso, e sono pensati per focalizzare l’attenzione del bambino su una parola alla volta. L’esperienza sensoriale è rafforzata dall’uso dei simboli colorati, che aiutano il bambino anche ad interiorizzare l’ordine delle parole nella frase.
Non di tratta di lezioni di grammatica, ma di esperienze sulla funzione delle parole. Per questo non vengono fornite ai bambini definizioni. Facendo queste esperienza, il bambino apprende comunque i nomi delle varie parti del discorso. Ad esempio, quando lavora col gioco dei triangoli, impara la parola “aggettivo” ed il suo significato.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Normalmente le parti del discorso vengono presentate, nella scuola primaria, in questo ordine: nome, articolo, aggettivo, congiunzione, preposizione, verbo, e l’avverbio. Nella Casa dei bambini il bambino svolge un lavoro di preparazione allo studio della grammatica vero e proprio, che avverrà nella scuola primaria. Generalmente in prima classe (6 – 7 anni) si studiano approfonditamente:
– nome
– articolo
– aggettivo
– pronome
– verbo
e si prosegue in seconda classe (7 – 8 anni) con:
– modi, tempi e forme verbali
– preposizioni
– avverbi
– congiunzioni
– interiezioni.

Facendo molti esercizi sulla funzione delle parole, già nella scuola d’infanzia il bambino vedrà crescere il proprio interesse per la lingua che parla, e si renderà conto che le parole hanno funzioni speciali e che possono essere classificate in base a queste loro funzioni. Il requisito per la presentazione di questi esercizi, è che il bambino sappia leggere la maggior parte delle parole con facilità. D’altra parte questi esercizi rappresenteranno per lui anche un buon esercizio di lettura.

Poiché il bambino si trova nel periodo sensibile del linguaggio, ogni nuova funzione delle parole che gli viene presentata rappresenta per lui un’interessante nuova scoperta. La maggior parte di questi esercizi non sono individuali, ma prevedono il lavoro in piccoli gruppi. Le attività, oltre ad essere interessanti, sono molto divertenti.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

ESEMPI DI ESERCIZI SULLA FUNZIONE DELL’ARTICOLO NELLA CASA DEI BAMBINI

Durante la normale giornata a scuola, inseriamo vari giochi verbali che pongano l’attenzione dei bambini sugli articoli. Ad esempio diciamo loro “Mostrami UNA sedia”, “Indicami GLI spazzolini da denti. Indicami LO spazzolino da denti che usi tu”. Facciamo anche notare, ad esempio, che diciamo IL cavallo e non LO cavallo, e vari altri esempi simili, ogni volta che se ne presenta l’occasione.

Prepariamo una scatola degli oggetti, contenente numerosi oggetti. Alcuni di questi oggetti saranno in un unico esemplare, altri in più esemplari identici (singolare e plurale, determinativi e indeterminativi).
La scelta degli oggetti deve essere accurata: cominceremo con oggetti che cominciano con le consonanti, poi, per introdurre l’uso degli articolo apostrofato, aggiungeremo anche oggetti che cominciano per vocale. Selezioniamo con altrettanta attenzione maschili e femminili.
Per ogni scatola che prepariamo per il bambino, scriviamo anche i cartellini:
–  dei nomi degli oggetti
–  degli articoli da abbinare
– cartellini di controllo (che contengono il giusto abbinamento articolo – nome).

Per presentare l’esercizio ai bambini, mettiamo sul tappeto la scatola degli oggetti e, a un lato del tappeto, formiamo una colonna dei nomi e una colonna degli articoli, in ordine casuale.

Togliamo il primo oggetto (o gruppo di oggetti identici) dalla scatola, e mettiamolo sul tappeto, quindi scegliamo il nome adatto e aggiungiamo davanti ad esso l’articolo.

A seconda degli obiettivi che vogliamo raggiungere con l’esercizio, facciamo gli esempi necessari per dare ai bambini le indicazioni necessarie (ad esempio su singolare e plurale, o su determinativo e indeterminativo).

Quando il bambino è pronto, può proseguire da solo. Al termine del lavoro aggiungerà allo schema i cartellini di controllo.

Il gioco può essere variato. Ad esempio possiamo scrivere dei piccoli comandi al momento, per far indovinare al bambino l’oggetto che vogliamo prendere dalla scatola, oppure possiamo commettere “errori” nell’abbinare articolo e nome, e il bambino dovrà correggerci.

Esercizi con carte illustrate e cartellini possono essere preparati nello stesso modo, sostituendo appunto alla scatola degli oggetti carte illustrate appositamente preparate per i bambini.

Esercizi di compilazione di elenchi. Incoraggiamo i bambini a compilare elenchi (articolo e nome) di oggetti presenti nella classe o nella Fattoria. La Fattoria è un materiale piuttosto costoso, che si presta a molte attività nell’area linguistica. Può essere sostituita da una casa di bambola; io faccio così, in effetti, aggiungendo molti animali di plastica e gruppi di oggetti:

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Questa è una fattoria, completa di cartellini, che ho preparato in versione stampabile:

La fattoria (o la casa di bambole, lo zoo, il negozio, la strada) sono giochi che  incoraggiano lo sviluppo del linguaggio verbale e contribuiscono, accompagnati da cartellini appositamente preparati, a comprendere la grammatica e la sintassi.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

ESEMPI DI ESERCIZI SULLA FUNZIONE DELL’AGGETTIVO NELLA CASA DEI BAMBINI

Durante la normale giornata a scuola, inseriamo vari giochi verbali che pongano l’attenzione dei bambini sugli aggettivi. E’ un lavoro che si fa normalmente utilizzando il materiale sensoriale (spolette dei colori, tavolette tattili ecc…), e durante le attività di vita pratica. Poniamo durante la giornata domande del tipo: è pulita? Di cosa è fatta? Mi descrivi i tuoi vestiti?
Possiamo poi fare dei giochi, tipo comandi, dicendo ai bambini: “Alzino le mani i bambini coi capelli biondi”, “si accuccino sotto il banco tutti i bambini che hanno scarpe scure”,  ecc.

Prepariamo una scatola degli oggetti contenente molti oggetti che in qualche modo sono legati tra loro, con la possibilità di differenziarli con gli aggettivi qualificativi per dimensione, colore, ecc.
Prepariamo una serie di cartellini di frasi che descrivono ciascun oggetto, ad esempio: la poltrona grande azzurra, il cane piccolo marrone, l’uomo alto anziano, ecc.

Prepariamo poi i cartellini delle parole che compongono ciascuna delle frasi che abbiamo preparato, divisi in nomi, articoli, aggettivi. I cartellini possono essere messi in buste o scatoline separate che recano il simbolo appropriato. Si possono anche usare dei casellari, come questi: 

Ogni gruppo di cartellini preparati, deve fare naturalmente riferimento alle frasi e agli oggetti di un determinato set. I bambini devono comporre le frasi prendendo nomi, articoli e aggettivi appropriati, e abbinare ad essi l’oggetto che descrivono.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Esercizi con la fattoria (la casa di bambola, lo zoo, ecc…).

Sediamoci vicino alla fattoria e prendiamo sei oggetti (o sei animali), quindi diciamo ai bambini: “Sto pensando ad una di queste cose. Vi aiuterò a scoprire qual è”.
Scriviamo su un cartellino, in nero, l’articolo e il nome, ad esempio “Il cavallo”.
Il bambino legge il cartellino, prende un cavallo e lo pone accanto al cartellino. Allora diciamo: “Hai preso l’animale della specie giusta, ma io stavo pensando ad un altro cavallo…”
Aggiungiamo quindi un aggettivo al cartellino, scrivendolo in rosso, ad esempio “marrone”.
Il bambino legge il cartellino, quindi prende l’oggetto giusto.
Ripetere il gioco con altri oggetti, anche utilizzando più aggettivi insieme.

Per portare l’attenzione sull’ordine della parole, possiamo fare lo stesso gioco scrivendo prima gli aggettivi, poi nomi e articoli. Quando il bambino ha abbinato l’oggetto corretto, tagliamo il cartellino e rimettiamo le parole nel giusto ordine. Ad esempio scriviamo prima “giallo” “piccolo” e poi “il piatto”

Per rinforzare l’uso dei simboli grammaticali, possiamo chiedere ai bambini: “Qual è la parola che ci dice il nome dell’oggetto che voglio?”. Posizioniamo il triangolo nero sulla parola “piatto”. “Quali sono le parole che ci spiegano meglio quale tipo di piatto?”. Posizioniamo un triangolo blu sulla parola “giallo” e un altro triangolo blu sulla parola “piccolo”. “Qual è la parola che ci dice che sta per arrivare un nome? Che ci dice se c’è un piatto o ce ne sono tanti?”. Posizioniamo un triangolino azzurro sulla parola “il”.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Esercizi scritti e simboli. Incoraggiamo il bambino a scrivere frasi per descrivere vestiti, oggetti preferiti o altro, e poi ad aggiungere alle parole i simboli grammaticali (disegnandoli o usando i simboli di cartoncino pronti), o usando simboli pronti di carta da incollare.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Caccia agli aggettivi. Chiediamo ai bambini di cercare gli aggettivi in un libro di lettura, a sottolinearli oppure ad elencarli su un foglio.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Logico Gioco con l’aggettivo. Prepariamo dei set di cartellini composti da una decina di cartellini neri per i nomi, e una decina di cartellini blu per gli aggettivi. Mettiamo i cartellini in due buste o scatoline separate, che recano ciascuna il proprio simbolo grammaticale.
Il bambino prende i nomi, li legge uno ad uno e li pone in colonna, uno sotto l’altro, sul tappeto. Poi prende gli aggettivi, li legge uno ad uno e li pone in colonna, uno sotto l’altro, a destra della colonna dei nomi. Si formeranno così abbinamenti nome-articolo casuali. I bambini li leggono (di solito si formano abbinamenti divertenti). Poi lascia al loro posto gli aggettivi appropriati, e raccoglie quelli che non lo sono. Rilegge uno alla volta gli aggettivi, e li abbina al nome più adatto.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Esercizi di scrittura di aggettivi. Diamo al bambino un cartellino del nome e una serie di cartellini di aggettivi. Il bambino copia il nome sul quaderno, poi aggiunge ad esso quanti più aggettivi possono essere appropriati.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Il gioco dei triangoli per l’aggettivo. E’ dettagliatamente spiegato qui, con il tutorial per costruirlo e le istruzioni di gioco:

Il gioco dei triangoli

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

ESEMPI DI ESERCIZI SULLA FUNZIONE DELLA CONGIUNZIONE NELLA CASA DEI BAMBINI

Facciamo coi bambini vari giochi verbali che li aiutino a riconoscere la funzione della congiunzione. Ad esempio si può giocare alle associazioni: si dice una parola, e i bambini devono aggiungere una cosa che si abbina ad essa (calze e scarpe, bottiglia e bicchiere, testa e cappello, scopa e paletta, ecc…)

Gioco della congiunzione. Prepariamo sul tappeto un mazzolino di fiori di vari colori tenuti insieme con un nastro rosa, oppure un fascio di pennarelli o di matite. Lasciamo che il bambino identifichi i colori dei fiori (o delle matite o dei pennarelli) e sciogliamo il nastro rosa. Prendiamoli in mano e andiamo col bambino a distribuire i fiori per la classe, poi torniamo al tappeto.


Scriviamo su un cartellino “i fiori rosa”, diamo il cartellino al bambino e chiediamogli di portarci quello che abbiamo scritto.
Mettiamo i fiori rosa sul tappeto, e sotto ad essi poniamo il cartellino.
Consegniamo al bambino un secondo cartellino: “i fiori gialli”.
Il bambino ci porta anche i fiori gialli, e lo poniamo insieme al cartellino sul tappeto, accanto ai fiori rosa.
Consegniamo al bambino un terzo cartellino: “i fiori blu”.
Il bambino ci porta anche i fiori blu, e lo poniamo insieme al cartellino sul tappeto, accanto ai fiori gialli.
Tra i tre gruppi di fiori aggiungiamo due cartellini “e” scritti in rosso, e leggiamo: “I fiori rosa e i fiori gialli e i fiori blu”.


Leghiamo di nuovo tutti i fiori col nastro rosa e mettiamo i simboli sulle congiunzioni.

Esercizi per il raggruppamento di oggetti uniti da congiunzioni possono essere fatti preparando scatole degli oggetti e cartellini, e con la fattoria (la casa di bambola, lo zoo, ecc…).

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

ESEMPI DI ESERCIZI SULLA FUNZIONE DELLA PREPOSIZIONE NELLA CASA DEI BAMBINI

Si possono fare coi bambini vari giochi verbali sulle preposizioni. Ad esempio possiamo dare loro dei semplici comandi: sali sulla sedia, vai in giardino, metti le mani in tasca, cammina da destra a sinistra, ecc… Oppure possiamo giocare con gli oggetti della fattoria facendo provare ai bambini la posizione di un dato personaggio rispetto agli oggetti: metti il gallo sull’albero, sposta l’asino dalla stalla al recinto, ecc…

Prepariamo una scatola degli oggetti (ad esempio un mazzo di fiori nel vaso, alcune matite in un astuccio, e simili) da abbinare a cartellini della frase e cartellini delle parole, sempre suddivisi in buste o scatoline contrassegnate dal simbolo grammaticale.

Esercizi con la fattoria (la casa di bambola, lo zoo, ecc…). Scriviamo una frase che contenga aggettivi, articoli, nomi, preposizioni e congiunzioni, ad esempio: “la teiera rossa sul vassoio grande con la zuccheriera e una tazza sul piattino e un cucchiaino sul tovagliolo”.
Il bambino legge i cartellini e mette insieme gli oggetti. Poi compone la frase usando i cartellini delle parole (sempre divisi per tipo in casellari, buste o scatoline, di colori diversi e contrassegnati dal simbolo grammaticale). Chiediamo al bambino: “Quali sono le parole che vi hanno spiegato dove mettere esattamente gli oggetti? Su ognuna di queste parole, mettete il ponte verde”.  Si può completare l’esercizio mettendo sopra ad ogni parola il simbolo grammaticale corretto.
Possiamo anche preparare dei cartellini di comandi che il bambino legge e usa per ricreare la scena descritta, usando gli oggetti della fattoria, ad esempio: tre maiali sul tetto del fienile, una papera dietro al cane, ecc…

Esercizi scritti: incoraggiamo il bambino a scrivere proprie frasi utilizzando le preposizioni.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

ESEMPI DI ESERCIZI SULLA FUNZIONE DEL VERBO NELLA CASA DEI BAMBINI

Si possono fare vari giochi sul verbo con i bambini, ad esempio dare loro cartellini dei comandi che contengono azioni da eseguire.
Possiamo metterci accanto al tappeto, scrivere su un cartellino un verbo e darlo al bambino. Il bambino legge ed esegue l’azione, ad esempio “ridere”. Chiediamogli: “Puoi portarmi ridere?”. Il bambino ci penserà, e risponderà di no. Chiediamogli: “Puoi farlo?”, e il bambino risponderà di sì.
Facciamo la stessa cosa con altri verbi, di modo che il bambino capisca che l’azione può essere eseguita, ma non manipolata, presa, portata.
Il bambino, attraverso questi esercizi, si rende conto della differenza tra energia e materia.

Esercizi con la fattoria (la casa di bambola, lo zoo, ecc…). Prepariamo sul tappeto una raccolta oggetti, la scatola dei simboli grammaticali e una decina di cartellini rossi dei verbi. Il bambino legge un verbo e inventa una scena utilizzando quel verbo e gli oggetti che ha a disposizione. La frase può essere scritta su una striscia, e su ogni parola si metteranno i simboli grammaticali corretti.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

ESEMPI DI ESERCIZI SULLA FUNZIONE DELL’AVVERBIO NELLA CASA DEI BAMBINI

Vari giochi verbali possono essere fatti coi bambini, chiedendo loro di eseguire azioni in un determinato modo, ad esempio camminare velocemente, parlare piano, cantare tristemente, ecc… Possiamo anche usare cartellini dei comandi da leggere ed eseguire. Gli esercizi sugli avverbi aiutano il bambino a capire il contenuto emotivo della scrittura.

Scriviamo un verbo in nero e un avverbio in rosso, ad esempio: “ridere forte”. Il bambino eseguirà l’azione, come indicata. Ripetiamo con altri esempi: parlare lentamente, muoversi furtivamente, sorridere teneramente, camminare tristemente. Dopo ogni azione eseguita, mettere il cartellino sul tappeto, ed aggiungere i simboli grammaticali, per evidenziare gli avverbi. Chiediamo ai bambini: “Qual è la parola che ti è servita per capire come eseguire l’azione?”.

Gioco logico sugli avverbi: scegliamo una decina di verbi, scritti su cartellini rossi, e una decina di avverbi scritti su cartellini arancioni. Mettiamo i cartellini in due buste o scatoline separate e contrassegnate dai relativi simboli grammaticali.


Il bambino prende i verbi, li legge uno ad uno e con essi forma sul tappeto una colonna. Poi prende gli avverbi, e fa la stessa cosa, formando una seconda colonna a destra di quella dei verbi. Si formeranno così degli abbinamenti verbo-avverbio casuali, alcuni dei quali avranno un senso, mentre altri saranno assurdi.

Lasciare sul tappeto gli avverbi sensati, raccogliere gli altri e cercare di fare con essi abbinamenti corretti. Terminato il lavoro, il bambino può mettere su ogni colonna il simbolo grammaticale corretto.

Esercizi scritti. Possiamo dare ai bambini un cartellino del verbo e chiedergli di copiarlo sul suo quaderno e di aggiungere una lista di avverbi, cioè di indicazioni su come l’azione può essere eseguita. Possiamo fare la stessa cosa anche dandogli un cartellino del verbo ed un certo numero di cartellini degli avverbi (alcuni appropriati ed altri no), ed il bambino comporrà la sua lista sul tappeto.

Caccia di avverbi: il bambino può cercare avverbi su giornali e riviste e sottolineare quelli che trova.

Lettura interpretata: Prepariamo una busta o una scatolina con dei cartellini che contengono frasi o brani tratti da testi letterari, che descrivano in modo dettagliato le azioni dei personaggi o il loro stato emotivo mentre le eseguono. All’inizio proponiamo frasi che contengano una sola azione, poi inseriamo anche frasi più complesse. Il bambino legge ed interpreta i brani. Facendo questo, deve prestare attenzione al significato esatto delle parole, ma anche al significato esatto della frase nel suo complesso, cioè all’ordine delle parole.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

ESEMPI DI ESERCIZI SULLA FUNZIONE DEL VERBO TRANSITIVO E INTRANSITIVO NELLA CASA DEI BAMBINI

Raduniamo un piccolo gruppo di bambini. Ad uno di essi diamo un cartellino con un verbo transitivo, ad esempio “passeggiare per la classe”, e diciamo di leggere l’azione ed eseguirla. Mentre il bambino continua a passeggiare per la classe, diamo ad un altro bambino un cartellino con un verbo transitivo, ad esempio: “srotolare un tappeto”. Il secondo bambino legge il suo cartellino ed esegue l’azione.
Diamo ad un terzo bambino un cartellino con un altro verbo transitivo, ad esempio, “mettere una matita rossa sul tavolo”. Continuare così finché i bambini non notano le differenze tra la prima azione e le altre. I verbi intransitivi non hanno un oggetto e proseguono nel tempo, mentre i verbi transitivi hanno un oggetto e una volta eseguiti si fermano. Non serve dare ai bambini la terminologia, l’importante è che capiscano questa differenza.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

ESEMPI DI ESERCIZI SULLA FUNZIONE DEI TEMPI VERBALI NELLA CASA DEI BAMBINI
Scriviamo una frase su un cartellino, ad esempio “portare un libro”. Un bambino legge il cartellino, mentre noi eseguiamo l’azione dicendo: “Sto portando un libro”.
Chiediamo al bambino di rileggere il cartellino. Senza fare nulla, diciamo: “Ho portato un libro”.
Ripetere con altri esempi, finché il bambino non si rende conte che il presente dura per il tempo necessario al completamento dell’azione, e che una volta che essa è finita, diventa passato.

Scriviamo una frase che contenga un verbo non di movimento, ad esempio: pensare alla mamma. Il bambino legge ed esegue l’azione.  Dopo una pausa, chiediamo al bambino: “Cosa hai fatto?” e lui risponderà: “Ho pensato alla mamma”. Diciamo al bambino: “Adesso stai parlando con me”.
Facciamo altri esempi simili, finché il bambino non si rende conto che alcuni verbi si riferiscono ad azioni visibili, mentre altri verbi sono invisibili.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticale
LA FUNZIONE DELLE PAROLE NELLA SCUOLA PRIMARIA

(trovi altre presentazioni e materiali stampabili pronti negli articoli dedicati ad ogni parte del discorso)

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali – IL NOME

Poniamo il simbolo del nome sul tappeto, mentre i bambini si radunano per ascoltare la storia.

Quando eravate piccoli, avete imparato a parlare. Le prime parole che avete usato erano probabilmente “mamma”, “papà”, oppure “gatto”. Sono tutte parole che servono a denominare le cose. Forse quando i primi uomini sulla terra iniziarono a parlare tra loro, usarono per prime le parole “fuoco”, “cibo”, “bambino”. Anche se questi uomini vissero moltissimo tempo fa, le parole che usarono esistono ancora oggi. Gli esseri umani usano le parole per dare un nome ad ogni cosa. Le parole che usiamo per dare un nome alle cose sono parole molto speciali. Sono solide e stabili. Rappresentano le cose del nostro mondo.
Per questo usiamo questa piramide nera per rappresentare queste parole: la piramide è infatti molto antica e molto stabile, ha una base molto larga. Usiamo il colore nero perchè è il colore del carbonio, l’elemento più antico e diffuso sulla terra.
Queste parole si chiamano NOMI e servono a chiamare le persone, i luoghi e tutte le cose del nostro mondo.

Anche se questo racconto è estremamente semplice, è sufficiente a stimolare i bambini ad etichettare con il relativo nome tutti gli oggetti presenti nell’aula, a fare liste di nomi di cose che vedono per strada, a casa, ecc…, a porre il simbolo del nome in modo appropriato nelle loro frasi scritte.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali – L’ARTICOLO

Poniamo il simbolo del nome e dell’articolo sul tappeto, mentre i bambini si radunano per ascoltare la storia. Mettiamo sul tappeto anche alcuni oggetti, ad esempio un pennarello, una matita e due tubetti di colla.

Cercando i nomi attorno a voi, ed anche nelle frasi e nelle storie, avete notato che ci sono anche altri tipi di parole? Parole che fanno un lavoro diverso dal nome? Ci sono ad esempio un gruppo di parole, molto corte, che fanno un lavoro molto importante…
Chiediamo a un bambino di portarci una matita, posiamola sul tappeto sotto al simbolo del nome e scriviamo il cartellino “la matita”. Poi facciamo portare un pennarello e scriviamo “il pennarello”. Infine facciamoci portare una delle due colle e scriviamo “una colla”.

Sappiamo che queste parole sono nomi (indichiamo i nomi sotto la piramide nera). Queste altre parole non sono nomi (indichiamo gli articoli): il loro compito è quello di segnalare che presto arriverà un nome. Noi chiamiamo queste parole ARTICOLI. Nella nostra lingua ce ne sono nove in tutto. In Inglese ce ne sono soltanto tre. Alcune lingue ne hanno molti di più e alcune lingue non ne hanno affatto.
Per gli articoli usiamo una piccola piramide, perchè l’articolo fa parte della famiglia del nome, e serve sempre ad annunciare che sta arrivando un nome dopo di lui. La parola articolo deriva dal Latino e significa “piccolo membro”. L’articolo è infatti un piccolo membro della famiglia del nome. Ma anche se piccolo, è un membro molto importante.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali – L’AGGETTIVO 

Poniamo il simbolo del nome, dell’aggettivo e dell’articolo sul tappeto, mentre i bambini si radunano per ascoltare la storia.

Abbiamo parlato dei nomi e degli articoli, ed ora è il momento di conoscere un nuovo simbolo.
Chiediamo ad un bambino di portarci una matita. Il bambino ce ne porta una, ma noi diciamo: “Grazie, ma non è quella che voglio”. Chiediamo quindi ad un altro bambino di portarci una matita, e ancora diciamo: “Grazie, ma non è quella che voglio”. Chiediamo allora ad un terzo bambino: “Mi porti una matita gialla?” (o di un altro colore, se una matita gialla era già stata portata).
E’ stato difficile per me avere la matita che volevo, finché non ho aggiunto un’altra parola alle parole “una matita”. Il simbolo di cui parliamo adesso rappresenta le parole che usiamo per descrivere un nome. Queste parole possono dirci il colore del nome, o il numero, oppure molte altre cose: se è freddo, caldo, pesante, leggero, pieno, vuoto, grande, piccolo…
Usiamo una piramide media, di colore blu scuro, perchè questa parola fa parte della famiglia del nome e sta sempre accanto ad esso, di solito nella nostra lingua viene dopo, ma a volte può anche stare prima. In Inglese invece si mette sempre prima.
A volte possono esserci anche due o più di queste parole, ad esempio io posso dire “una matita gialla”, oppure “una piccola matita gialla”, oppure “una matita gialla nuova”.
Questo genere di parole di chiama AGGETTIVI. La parola aggettivo deriva dal Latino e significa “che aggiunge qualcosa a”, e si aggiunge infatti al nome per descriverlo o dirci qualcosa di più su di lui.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali  – IL VERBO

Prepariamo una serie di cartellini di nomi scritti in rosso ed una serie di cartellini di verbi scritti in nero; ad esempio: fazzoletto forbici elastico candela, e saltare sorridere camminare applaudire.
Chiediamo ai bambini di portarci un fazzoletto, le forbici, un elastico, una candela, e via via poniamo il cartellino accanto all’oggetto.
Ora chiediamo ai bambini di portarci saltare. Naturalmente i bambini si metteranno a saltare davanti a noi, allora diremo: “Questa è una buona dimostrazione di come si fa a saltare, ma non possiamo mettere niente accanto al cartellino…”
Chiediamo di portarci sorridere, poi camminare, poi applaudire. I bambini presto si renderanno conto di non poterlo fare: non si può portare alla maestra sorridere, camminare o applaudire.
Indichiamo i nomi e chiediamo: “Vi ricordate che tipo di parole sono queste?” I bambini diranno che si tratta di nomi.
Poi indichiamo i verbi e diciamo: “Queste parole sono diverse. Sono cose che si possono fare, hanno movimento ed energia.
Mettiamo in alto il simbolo del nome e il simbolo del verbo.


Ricordate che il sostantivo è solido e stabile, se gli do una spinta non va molto lontano. Ma guardate cosa succede se do una spinta a questo…Va molto lontano ed ha l’energia di muoversi liberamente, in qualsiasi direzione. Usiamo una sfera rossa per rappresentare queste parole perchè il rosso è il colore del fuoco e la sfera è la forma del sole, che dà energia alla terra.
Queste parole si chiamano VERBI. La parola verbo deriva dal Latino e significa “parola per eccellenza”, cioè la parola più importante di tutte nella frase.”

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali – LA PREPOSIZIONE

Diamo ad ogni bambino una molletta da bucato e diciamo che useremo queste mollette per imparare un nuovo tipo di parole. 
Ora vi darò delle indicazioni, e voi dovrete seguirle e dirmi ogni volta la posizione della molletta.”
“Mettete la molletta sulla vostra testa. Dove si trova?” Si trova sulla testa.
“Mettete la molletta in tasca. Dove si trova?” Si trova in tasca.
“Mettete la molletta insieme a quelle degli altri. Dove si trova?” Si trova con le altre

“Nascondete la molletta tra le mani. Dove si trova?” Si trova nelle mani
“Mettete la molletta sulla schiena. Dove si trova?” Si trova dietro.

Continuare così a piacere. Poi mostriamo ai bambini il simbolo grammaticale e diciamo: “Come simbolo per questo tipo di parole usiamo un ponte verde.  Queste parole ci dicono la nostra posizione. Possiamo essere sul ponte, sotto il ponte, davanti al ponte, accanto al ponte, sopra il ponte… Chiamiamo queste parole PREPOSIZIONI.  La parola preposizione deriva dal Latino e significa “messo davanti” perchè si mette davanti al secondo nome e serve a stabilire una relazione tra due nomi.”

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali – L’AVVERBIO

 Scriviamo dei cartellini con dei verbi (in rosso) e degli avverbi (in arancione) e mettiamoli sul tappeto insieme ai simboli grammaticali del verbo e dell’avverbio.


Ecco un altro simbolo che rappresenta una parola che può muoversi liberamente attorno al verbo come il nostro pianeta di muove attorno al sole. Proviamo.” Facciamo rotolare l’avverbio attorno al verbo.
Leggiamo questo cartellino: camminare. Camminare è un verbo. Ora voglio aggiungere ad essa la parola lentamente”. Continuiamo, ad esempio, con respirare profondamente, cantare dolcemente, parlare allegramente, mangiare poco.
“Queste parole vengono aggiunte al verbo per dirci come eseguire l’azione. Si chiamano AVVERBI, che significa “aggiunti al verbo”. 
Leggendo i cartellini sul tappeto, i bambini possono notare che molti avverbi terminano in -mente. Possiamo anche farlo notare noi, e dire che è vero che molti avverbi terminano così, ma non tutti.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali – IL PRONOME

Prepariamo dei semplicissimi cappellini di carta viola  a forma di cono. Su ogni cono scriviamo un pronome personale: io, tu, lui (egli), lei (ella), esso, noi, voi, loro (essi, esse).

Prepariamo anche serie di frasi scritte su cartellini, facendo riferimento ai nomi dei bambini, ad esempio: Maria dà la matita ad Antonio; Massimo legge un libro alla classe; Alma e Gaia giocano a carte con Giovanni ecc…
Ho preparato questi cappellini per voi, li useremo nella nostra lezione. Ora leggerò questa frase: Maria dà la matita ad Antonio. Antonio e Maria, venite“. Diamo a Maria il cappello col pronome LEI e ad Antonio il cappello col pronome LUI. Ora diciamo: “Lei dà la matita a lui“.
Facciamo altri esempi: “Massimo legge un libro alla classe“. Diamo a Massimo il cappello col pronome LUI (o egli) e mettiamo il cappello NOI al centro della classe. Ora diciamo: “Lui legge un libro a noi“.
Proseguiamo fino a quando non avremo utilizzato tutti i cappelli.
Queste parole svolgono un lavoro molto importante: prendono il posto dei nomi. Si alzano in piedi con fierezza e sono viola”. Mostriamo il simbolo. “Queste parole si chiamano PRONOMI. La parola pronome deriva dal Latino e significa ‘al posto del nome’.”

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali – LA CONGIUNZIONE

Prepariamo dei nastrini rosa e un mazzolino di fiori di due colori diversi.

Diamo ad ogni bambino una coppia di fiori di colori diversi, e chiediamo loro di legarli insieme con un nastrino rosa. Diciamo loro frasi del tipo: “Vuoi il fiore giallo e il fiore arancione?”, “Vuoi legare insieme quello giallo e l’altro?” “Ti do sia il fiore giallo sia il fiore arancione”, “Ti do questo e anche questo”, “Ti do questi fiori affinché li leghi insieme”, ecc…
Mettiamo alcuni cartellini di congiunzioni usate sul tappeto, e diciamo: “Questo parole servono ad unire tra lo delle parole o delle frasi. Si chiamano CONGIUNZIONI. Congiunzione significa ‘unire con’. Usiamo questo rettangolino rosa per ricordare il nastro rosa che abbiamo usato per tenere uniti i nostri fiori. 
Spesso capita che vedendo il simbolo della congiunzione i bambini dicano che somiglia a una gomma da masticare. Se vi succede, potete dire che è un buon modo per ricordarsi la funzione della congiunzione, perchè la gomma da masticare è appiccicosa e quindi può unire tra loro le cose, come il nastro.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali – L’interiezione 

Per l’interiezione possiamo prendere come modello la presentazione del punto esclamativo, utilizzando una clava disegnata o di plastica. Raccontando la storia, ogni volta che pronunciamo un’interiezione, alziamo la clava in verticale, facendola sembrare un punto esclamativo.


Vi racconto una storia accaduta tantissimi anni fa, quando gli uomini vivevano ancora nelle caverne e andavano a caccia per procurarsi il cibo. Una sera un uomo prese la sua clava e uscì dalla caverna per andare a cercare qualcosa da portare alla sua famiglia per cena. Dopo qualche ora l’uomo tornò a casa, stanco e avvilito. La sua famiglia lo stava aspettando. I bambini dissero: “Papà è tornato! Ma dov’è il cibo?”. E il papà rispose: “Oh! Stasera non c’è cibo”.
Il giorno seguente l’uomo uscì di nuovo, e rientrò alla caverna ancora più tardi. Era stanco. La sua famiglia lo stava aspettando e gli chiese: “C’è qualcosa da mangiare?”. E lui rispose: “Ahimè! Stasera niente cibo”.
Il terzo giorno il papà uscì di nuovo. Aveva piovuto. L’uomo era uscito già da molto tempo, e quando rientrò i bambini non gli chiesero nemmeno se aveva trovato qualcosa per cena. Lui mise un bel pezzo di carne sul sasso che nella caverna faceva da tavolo e disse: “Evviva! Stasera si mangia!”.

La famiglia applaudì al papà gridando:”Evviva!”, “Urrà!”. E il papà fu molto felice.
Mettiamo sul tappeto i cartellini delle interiezioni che abbiamo usato durante il racconto. Poi aggiungiamo ad ogni interiezione una breve frase.
“Come vedete le frasi possono stare anche da sole, ma diventano molto più interessanti con l’aggiunta di queste parole. Esse aggiungono il sentimento di chi parla. Questa parole si chiamano INTERIEZIONI. Interiezione deriva dal Latino e significa ‘gettare tra qualcosa’. Noi gettiamo queste parole tra le frasi  per esprimere le nostre emozioni.”
Se questa presentazione non vi piace, potete anche far leva sulla somiglianza del simbolo dell’interiezione ad una serratura, e dire ai bambini che l’interiezione è la chiave delle emozioni, in una frase.

Introduzione alle parti del discorso e simboli grammaticali

Costruire l’alfabeto smerigliato Montessori per il corsivo – tutorial

Costruire l’alfabeto smerigliato Montessori per il corsivo – tutorial.  

Per prima cosa ho  preparato le strisce di carta bianca leggera, (normali fogli A4 da stampante o anche carta da quaderno) piegandola in tre per marcare due righe. Così possiamo essere sicuri che le lettere siano proporzionate tra loro e che si possano congiungere,  come avviene con la scrittura.

Poi con pennello e tempera rossa ho disegnato le lettere. Ho usato il rosso perchè poi queste sagome non si buttano, ma possono diventare un super economico alfabeto mobile…

Ritagliate le lettere, le ho posizionate a rovescio sul rovescio della carta vetrata, e ho tracciato i contorni.

Quindi ho ritagliato le lettere dalla carta vetrata e le ho  incollate su cartoncino rosa per le vocali e azzurro per le consonanti.

Con la matita bianca ho aggiunto le indicazioni del percorso, e per aiutare i bambini a riconoscere le lettere “che salgono” e le lettere che “scendono”, ho anche tracciato a matita la linea di base.

Se preferite usare modelli di lettera stampati invece di scrivere a mano, qui trovate un primo modello, in stampato minuscolo:

e qui l’alfabeto corsivo minuscolo che potete utilizzare sia per l’alfabeto tattile, sia per quello mobile:

Coi modelli di carta avanzati dalla costruzione dell’alfabeto tattile, si può costruire un semplice alfabeto mobile:

Recita per San Martino

Recita per San Martino per bambini della scuola primaria, o per allestire un teatrino per i più piccoli.

Narratore: San Martino era un santo guerriero e viveva nei paesi del Nord dove già da novembre fa un gran freddo. Spesso, tutto avvolto nel proprio mantello per proteggersi dal gelo, egli galoppava sul suo bianco cavallo per le strade della sua terra, andando da un paese all’altro. Egli, in uno dei primi giorni di novembre, stava galoppando a briglia sciolta per una di queste strade di campagna. Era un giorno particolarmente freddo, e…

Martino: Questo gelo intorpidisce le membra e toglie il fiato. Per fortuna ho il mantello che mi copre e mi ripara…

Narratore: il cavallo scalpitava forte. Il respiro, uscendo dalle sue narici, si condensava in nuvole di vapore, e Martino…

Martino: La corsa fa sentir meno il gelo al mio cavallo. Ma che cosa vedo laggiù? Quei due che vengono lentamente sulla strada sembrano ombre avvolte negli stracci.

Narratore: Martino rallentò l’andatura del proprio destriero e quando i due uomini che aveva intravisti nella gelida bruma gli furono vicini, gli si strinse il cuore.

Martino: Poveretti! E’ dunque tanto grande la loro miseria da non avere nemmeno un mantello per ripararsi dal freddo?

Primo mendicante: Fammi la carità, o cavaliere! Ho freddo e ho fame.

Secondo mendicante: Fa’ la carità anche a me, buon cavaliere!

Narratore: Pietosa era la voce di entrambi i mendicanti e Martino pensò che avrebbe potuto lenire la sofferenza di uno di loro, donandogli metà del suo mantello. Si tolse il mantello, impugnò la spada e, con un taglio netto, recise a metà l’indumento.

Martino: Prendi questo, copriti le spalle e continua il tuo cammino. Non avrai più freddo.

Primo mendicante: grazie, cavaliere! Con questo tuo dono potrò raggiungere la città vicina senza il timore di morire assiderato.

Narratore: Il primo mendicante, avvolto nella calda stoffa, continuò felice il suo cammino, ma l’altro mendicante fece udire la sua lamentevole voce.

Secondo mendicante: E a me non dai nulla, cavaliere? Anch’io sono povero come lui! Anch’io ho freddo e fame!

Narratore: A Martino era rimasta soltanto una metà del mantello. Impugnò nuovamente la spada e la divise ancora.

Martino: Prendi, ravvolgiti in questo. Basterà per tutti e due.

Secondo mendicante: Dio ti ricompensi per la tua bontà, cavaliere! Ma ora avrai freddo… un quarto del mantello che avevi non basterà a ripararti dal freddo mentre cavalchi.

Martino: Se ripara te, riparerà anche me. Va’? Raggiungi anche tu la città. Io continuo il mio cammino.

Narratore: Martino spronò il suo destriero e partì al galoppo. Il suo mantello non svolazzava più. Era una pezza di stoffa gettata sulle spalle, ma sulle labbra del santo c’era un sorriso. Era felice di aver fatto del bene. E il cielo lo premiò con una improvvisa dolcezza dell’atmosfera, con una giornata di tiepido sole, sereno… Quel breve periodo che ancora oggi si chiama l’ “estate di San Martino”.

(adattato da D. Volpi e D. Forina)

Recita per San Martino

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA
Osserviamo la cartina

Confini: Mare Adriatico, Slovenia, Austria, Veneto
Lagune: di Marano, di Grado
Golfi: di Trieste, Vallone di Muggia
Promontori: Punta Sdobba
Monti: Alpi Orientali (Carniche), Prealpi Venete (Carniche, Giulie).
Cime più alte: Monte Coglians, Monte Montasio, Monte Mangart, Monte Canin (Alpi Carniche); Col Nudo, Cima dei Preti, Monte Pramaggiore (Prealpi Venete)
Valli: del Tagliamento
Valichi: della Mauria, di Monte Croce Carnico, di Tarvisio, del Predil
Fiumi: Livenza col suo affluente Meduna; Tagliamento col suo affluente Fella; Isonzo (italiano solo nell’ultimo tratto) con il suo affluente Torre e il subaffluente Natisone; Stella; Aussa; Timavo.
Isole: di Grado.

Anche questa regione è costituita da due territori: il Friuli, rappresentato dal bacino idrografico del Tagliamento, e la Venezia Giulia.
Gran parte dei territori che costituivano la regione prima del secondo conflitto mondiale sono stati ceduti alla Repubblica iugoslava in seguito alle sfortunate vicende della guerra.
La regione è limitata a nord dalle Alpi Carniche che degradano verso l’alta Valle del Tagliamento. A sud la fertile pianura è limitata dall’Adriatico che ne bagna la costa lagunosa.

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Vita economica

L’agricoltura è l’attività prevalente in tutta la regione; si producono uva e patate sulle colline, ortaggi, barbabietole, cereali, tabacco e frutta, in pianura. Numerose zone forestali, della Carnia, danno ottimo legname, e i pascoli consentono l’allevamento dei bovini. Nelle acque dell’alto Adriatico è esercitata la pesca. Le industrie prevalenti sono rappresentate dai cantieri navali, dalle raffinerie di petrolio, dagli stabilimenti siderurgici e meccanici, dalle industrie chimiche, alimentari e dai cotonifici. Monto attivo è il turismo e il commercio.

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Le province

Le province della regione, che gode di una particolare autonomia, sono quattro: Trieste, Udine, Pordenone e Gorizia.
Trieste, capoluogo della regione, ricca di ricordi cari al cuore degli italiani, è un notevole porto commerciale e industriale dell’Adriatico.
Udine è un buon centro industriale, agricolo e commerciale e un nodo stradale e ferroviario di grande transito.
Gorizia, adagiata nel luogo in cui la Valle dell’Isonzo sbocca nella pianura, è chiamata per il suo clima mite, la “Nizza veneta”.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio del Friuli Venezia Giulia? Quali gruppi montuosi vi si elevano?
Dove si verificano i fenomeni carsici e che cosa sono?
Quali fiumi scorrono nel Friuli Venezia Giulia?
Il Tagliamento segna per un tratto il confine con una regione: quale?
Quali sono le maggiori risorse del Friuli Venezia Giulia?
Quali industrie sono sviluppate a Trieste? E a Monfalcone?
Che cos’è la bora?
Che cosa sono i magredi?
Perchè soltanto la bassa pianura è fertile?
Perchè la Venezia Giulia è più ricca e industrializzata del Friuli?
Quali sono le province e le località importanti della provincia? Perchè sono note?
Ricerca notizie sulle tradizioni, gli usi e i costumi del Friuli Venezia Giulia.
Che cosa ti ricorda Redipuglia?
E Aquileia?

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Il Friuli

Ippolito Nievo definì il Friuli “un piccolo compendio dell’universo”, cioè un armonico riassunto, un felice mosaico, un gradevole cocktail di tutto ciò che di bello esiste su questa terra. Dalle altre montagne della catena Carnica, con la vetta massima del monte Coglians, a quasi 2800 metri, alle colline che degradano in dolci declivi, dalle campagne verdi e fertili alle vastissime spiagge adriatiche, dai laghetti del Predil e di Fusine al bacino morenico di San Daniele, dalle aree sassose e aspre, ai boschi fitti e intricati. Nel Friuli c’è di tutto, come se, e una leggenda antica lo dice, infatti, il creatore, al termine della propria fatica, si fosse accorto che era rimasto qualcosa ancora da utilizzare, dell’enorme materia prima predisposta per forgiare il mondo, e, a capriccio, avesse sparso tale residuo a piene mani in quest’angolo gettato tra le Alpi e l’Adriatico, per fare di esso un campionario di tutte le bellezze del mondo.
Le bellezze del Friuli meritano la massima attenzione. Dalle località balneari che hanno il loro centro massimo in Lignano Sabbiadoro fino alle nevi del Tarvisio e di Stella Nevea, di Forni di Sopra e del Matajur, si sta compiendo ogni sforzo per incrementare la recettività turistica, con impianti e attrezzature di primissimo ordine, comprese quelle degli sport invernali, al fine di offrire all’ospite italiano e straniero il meglio della tradizionale e calda accoglienza friulana, fatta di gentilezza, di rispetto, di onestà, di altissimo senso civico.
Accanto alle bellezze naturali, il Friuli tutto è una miniera di meraviglie artistiche. La plurisecolare storia del Friuli, dai più remoti tempi celtici preromani fino alla colonizzazione romana, alle invasioni longobarde, alla conquista della regione da parte di Venezia, ha dato al Friuli infiniti monumenti e vestigia che ben meriterebbero di essere maggiormente conosciuti. Dalle rovine di Aquileia, con il suo foro, il suo porto, la sua basilica; da Udine con la sua collezione di opere di Gian Battista Tiepolo, il suo duomo del Trecento, il suo castello; da Cividale, l’antica Forum Julii di Giulio Cesare con il suo tempio longobardo di Santa Maria in Valle e il Battistero di Callisto; da Pordenone, l’antica Portus Naonis, con il suo duomo e il suo municipio; da Porcia, con i suoi portali e il suo castello; da Palmanova, la città fortezza che ancora conserva intatte le sue caratteristiche: non basterebbe un volume per elencare tutte le bellezze artistiche di questa terra generosa, ospitale, di questo piccolo compendio dell’universo che non chiede che di essere meglio conosciuta: per essere apprezzata e amata come merita.

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Friuli Venezia Giulia, regione autonoma

Il 10 maggio 1964 è nata in Italia una nuova regione autonoma: il Friuli Venezia Giulia. In tal giorno si è votato nelle province di Udine e di Gorizia e nel territorio di Trieste. Sono stati eletti i 61 rappresentanti del parlamento regionale. Esso a sua volta, ha  scelto al suo interno il presidente e i dieci assessori destinati a governare la regione per quattro anni. Pur dipendendo sempre da Roma per quel che riguarda le leggi fondamentali della Repubblica Italiana, il Friuli Venezia Giulia si è dato proprie leggi per ciò che riguarda determinate attività locali. E non versa più a Roma tutto l’importo delle tasse governative, ma ne amministra direttamente una parte per risolvere i non lievi problemi regionali.
Prima dello sviluppo dei notevoli centri industriali di Pordenone ed Udine, il Friuli era una zona depressa. Il reddito per persona era tra i più bassi e moltissimi friulani emigrarono per cercare lavoro.
La Carnia è molto bella, con le sue Alpi che non superano i 2800 metri, ed era anch’essa una zona molto povera.
Il Friuli ha una sua unità, basata sul dialetto e sulla storia. Il dialetto non è veneto, ma un idioma neolatino, affine al ladino, al provenzale e al romeno. Il ducato longobardo del Friuli lottò contro le invasioni degli Slavi. Sotto la dominazione veneziana, gli orgogliosi comuni friulani ottennero larghe autonomie. Dal 1895 al 1814 il Friuli fece parte del Regno d’Italia napoleonico. Poi passò all’Austria. Nel 1866 con la terza guerra d’indipendenza si ricongiunse all’Italia.
La provincia di Gorizia è stata ridotta a pochi brandelli dalla seconda guerra mondiale e l’allora Jugoslavia si è presa il resto. Era la città prediletta dagli Asburgo, ma lo stesso imperatore Giuseppe II ne riconosceva il carattere schiettamente italiano. Fu liberata nel 1916, perduta nel 1917 con Caporetto, annessa definitivamente all’Italia nel 1918.
Anche il territorio triestino è ridotto ai minimi termini, in seguito alle vicende belliche e all’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Trieste, sotto l’Austria, era il secondo porto del Mediterraneo e il primo dell’Adriatico. L’ardente irredentismo si concluse con l’unione all’Italia, nel 1918.
Trieste è la capitale della regione. Alcuni assessorati possono risiedere però a Udine o in altre città.
(G. Zannoni)

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Trieste

Al primo affacciarsi sulla strada litoranea sul golfo, la città intera appare allo sguardo, in un incontro fulmineo. Se splende il sole, cielo e mare avvolgono la città in un unico bagliore. Dall’auto e dal treno, la stupenda visione si presenta come in una lunga carrellata cinematografica.
La strada segue l’arco del golfo fra suggestivi e arditi strapiombi sul mare, sì che, spesso, si ha la sensazione di stare sospesi sulla lucente pianura dell’Adriatico.
Dal medioevale Castello di Duino, già baluardo contro i Turchi ed i pirati dove forse sostò Dante, ambasciatore di Cangrande della Scala, alla sognante baia di Sistiana, a quella di Grignano, a Miramare, pare di compiere un’allucinante immersione in un’atmosfera solare  e marina. Il paesaggio varia ad ogni passo. Mare, roccia, verde: i sensi finiscono col percepire solo questi tre motivi fondamentali, mentre la città si palesa sempre più vicina e più viva.
L’aria è impregnata di salsedine e di resina. Infine: il Lungomare di Barcola. Da un lato la scogliera, con la cantilena delle onde, le vele, le barche, il porticciolo, dall’altro la movimentata teoria delle ville e dei luoghi di ritrovo, alla fine di un viale alberato, incontreremo la città viva e pulsante.
L’arrivo dalle vie di mare avviene in un diverso accordo di colori, più sfumati. Il passeggero avrà l’impressione di essere nelle vie della città già prima di sbarcare quando la nave all’entrata nel porto sfiora rive e moli. Un arrivo dal cielo consente un abbraccio ideale all’intera città: un mareggiare di colli, di pendici smaltate di verde, tutto un rampicare di case, dai massi dei palazzi sulle rive ai dadi delle ville che si affacciano all’altipiano.
Ma, si giunga da una parte o dall’altra, l’attenzione finisce con l’essere dominata da una culminante visione. San Giusto: il vecchio castello veneto, la poderosa quadrata torre della basilica, la platea romana sul Colle Capitolino. La storia, l’anima di Trieste sono lassù; tutte le età, tutte le vicende accostate, accomunate, sovrapposte parlano.
Il Castello fu costruito al principio del 1500 sul posto della rocca romana e di una successiva fortezza trecentesca.
Dal bastione rotondo che alza la sua massa sulla Piazza San Giusto, l’occhio spazia su un panorama grandioso.
Di lassù Trieste appare come una scacchiera ondulata fra il verde dei colli ed il turchino del mare. Il golfo lunato si distende nelle sue nobili linee dalla riviera che va verso Miramare, Duino, Monfalcone sino alla dolce curva della laguna gradese. Nelle ore più propizie si vedono profilarsi laggiù, in controluce, i contorni delle Alpi e delle Prealpi, i campanili di Aquileia e di Grado. Girando lo sguardo, sulla sinistra appare il vago disegno della costa istriana; e l’occhio può accompagnarla fino allo sperone di Pirano, alla Punta di Salvore.
Monumento caratteristico di Trieste è il Faro della Vittoria eretto in memoria dei Caduti del mare. Alto 116 metri sul livello del mare, per grandezza è il terzo del mondo dopo quelli di New York e Santo Domingo. Il suo raggio spazia per 36 miglia e le navi lo vedono già a metà rotta tra Venezia e Trieste.
Altra opera notevole, il Canal Grande, che penetra nel cuore della città.
Fu scavato nel 1750 per i velieri che così potevano scaricare le merci proprio davanti ai magazzini, allineati allora lungo il canale. E’ anche grazie ad esso che poche città come Trieste sentono la presenza del mare e di continuo lo vedono non solo dalle alture, ma in fondo alle vie.
(B. Parisi)

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Udine

In questa chiara Udine, una certa mollezza veneta, risalendo dalla pianura e da occidente, addolcisce il nobile parlare della gente friulana e adorna di piacevoli forme le architetture.
L’Udinese, lo distingui subito per una sua pacatezza corretta: lo interroghi su un indirizzo, lo chiami a te per un motivo qualsiasi, e subito si offre: “Mandi” (che è poi una derivazione del veneziano “comandi”). Ma ti accorgi benissimo che, Friulana dal ceppo morbido fuori e duro assai dentro, non si farebbe comandare da nessuno, a meno di non offrire spontaneamente la sua fedeltà.
Insomma, Venezia sì, ma nella parte migliore e più forte, escludendo il lato settecentesco e diremmo goldoniano del pur affascinante costume lagunare. E poi, Udine è capitale! Meno ricca e attiva di Pordenone, forse, ma il cuore del Friuli è lei, un prodigioso e fiero cuore che ha resistito a molti brutti scossoni della storia.
Non era difficile, fino a trent’anni fa,  trovare a Udine chi ricordasse distintamente l’entrata delle truppe austriache in città, dopo Caporetto. Neppure l’ultima guerra è stata pietosa con la città, e il ferro e il fuoco non furono risparmiati a tentare di domare questi Udinesi gentili ma incapaci di obbedire a un occupante dai metodi così poco corretti.
Ed ora, oso dire che il momento buono per conoscerla non è durante il giorno, quando le ampie strade del centro pullulano di ente vivace e ordinata; l’ora buona è al principio della notte. Dopo le nove Udine, da antica e dignitosa capitale qual è, se ne sta a casa, e le sue vie semi deserte offrono una straordinaria suggestione. Qualcuno si attarda in discorsi sotto l’enorme platano di via Zanon, e alle calme voci friulane risponde discreta la roggia, che ancora lì corre scoperta.
Seguite allora il labirinto di certe stradine, con le simpatiche, antiche case dai balconi delicati, traboccanti di fiori; trascorrete il mirabile impianto urbanistico: Udine può ripetervi il suo racconto di persona, meglio di qualsiasi storico.
(F. Piselli)

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La bora

Mentre tutto intorno alla casa domina il frastuono della bora, un fanciullo studia da un suo manuale geografico che “in Italia la velocità del vento supera di rado i 42 chilometri orari”. Bel privilegio questo di Trieste, fra le città italiane, di essere visitata spesse volte durante ‘anno e specie d’inverno, da un vento che, quando è mite, soffia con una velocità di 60 chilometri e, in certe giornate di furore, raggiunge i 140.
Visitatore sgarbato e violento, per cui la città sta sempre sul chi vive. E lo sanno gli ingegneri della luce e dei telefoni, e tutti i costruttori, i quali non sono mai abbastanza previdenti nel calcolare la violenza di questo nemico delle condutture e dei cavi aerei, dei comignoli e dei tetti. Lo sanno i marinai che non rafforzano mai abbastanza gli ormeggi.
Lo sanno infine i cittadini, che per quanto lo conoscano per tradizione e per esperienza, non riescono mai a premunirsi in modo da non doverlo temere.
(G. Stuparich)

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L’acqua e la pietra

Il Carso è un altopiano che dalle Alpi Giulie va degradando verso l’Adriatico ed è compreso tra il basso corso dell’Isonzo e il Golfo del Carnaro. Di questo altopiano, soltanto una piccola parte è inclusa nei confini politici dell’attuale Venezia Giulia e precisamente quella striscia che si affaccia sul Golfo di Trieste. Essa si distingue in Carso Monfalconese e Carso Triestino, divisi l’uno dall’altro dal Vallone di Gorizia. Il Carso è caratterizzato dall’assenza di corsi d’acqua; la sua superficie perciò si presenta arida, costituita in gran parte di rocce bianche e nude. L’acqua piovana tende a scorrere rapidamente attraverso le fessure delle rocce e scompare nel sottosuolo.
Nel sottosuolo non meno che alla superficie, l’acqua silenziosamente lavora. E’ l’acqua che conferisce al paesaggio carsico quell’aspetto di terra caotica e tormentata che lo distingue da ogni altro.
In superficie la roccia appare scavata da solchi, incisa da crepacci, stranamente forata, ridotta a lame taglienti e a punte aguzze. Nel sottosuolo, si formano cavità di ogni genere: caverne spesso grandissime, grotte ramificate come labirinti, canali, gallerie, pozzi, cunicoli. In questo mondo sotterraneo, l’acqua scorre, spumeggia, gorgoglia, continua a scavare, seguendo vie misteriose che la conducono al mare. Il crollo della volta di una grotta ha dato origine, in superficie, a una conca, una valletta che ha forma di scodella o di imbuto. Questa conca si chiama, con parola slava, dolina. Quando la dolina termina con un inghiottitoio a pozzo, che spesso è profondissimo, si chiama foiba (dal latino fovea, che significa fossa). Il Carso è tutto bucherellato di doline; viste dall’alto sembrano piccoli crateri vulcanici: un paesaggio quasi lunare.
Tra le numerose grotte del Carso Triestino va ricordata la Grotta Gigante, che si trova a qualche chilometro da Trieste. Attraverso una breve galleria si raggiunge una cavità immensa, alta 115 metri, che potrebbe contenere la cupola di San Pietro in Vaticano. La grotta è attrezzata per le visite turistiche; fasci di luce elettrica illuminano nel modo più fantastico i cristalli delle meravigliose stalagmiti. E’ il capolavoro dell’acqua.
Non si deve credere che il Carso sia tutto e soltanto un deserto di pietra. Il Carso Triestino, assai meno brullo di quello di Monfalcone, è rallegrato da pinete che formano chiazze verde scuro in mezzo al biancheggiare dei macigni, da boscaglie di querce che coprono le sue colline, da prati, da cespugli di ginepro, di rovo, di biancospino. La primavera fa fiorire tra i sassi il timo e la salvia; compaiono fiori di alta montagna che fanno dimenticare di trovarsi a pochi passi dal mare.
La terra coltivata è poca: qualche vigna, qualche breve campetto nel fondo delle doline.
La roccia del Carso è il calcare, sul quale l’acqua agisce facilmente. Dovunque vi sia il calcare, si manifestano gli stessi fenomeni che si osservano nel Carso: aridità in superficie e acque sotto terra, macigni corrosi, grotte e caverne. Poiché questi fenomeni sono  più evidenti nel Carso che altrove, hanno preso da esso il nome: si chiamano fenomeni carsici o carsismo.
In Italia, i terreni di natura calcarea sono molto estesi; quindi anche il carsismo è frequente in tutta la penisola. Zone carsiche si trovano nelle Prealpi Lombarde, nelle Alpi Apuane, nel Gargano, nelle Murge, nelle Madonie, nell’Iglesiente; le doline non mancano nel bresciano, nell’Appennino bolognese; un grandioso complesso di grotte è quello di Castellana in Puglia; i fiumi a corso sotterraneo sono frequenti nell’Appennino meridionale.
Il fatto è che nel Carso i fenomeni carsici sono tutti riuniti e presenti.
(S. Pezzetta)

Dettati ortografici e materiale didattico sul FRIULI VENEZIA GIULIA
Le grotte di Postumia

Un vecchio proverbio latino dice che la goccia scava la pietra: una goccia che cade occasionalmente su un sasso, no di certo, ma dieci, cento, mille, un milione di gocce che cadono una dopo l’altra sempre sullo stesso punto, sì. Se poi le gocce, scorrendo su una roccia calcarea, si sono arricchite di sostanze minerali, avviene il fenomeno contrario: invece di scavare, esse… costruiscono: depositano a poco a poco il calcare; un po’ resta attaccato alla fessura da cui cola l’acqua, un po’ si consolida a terra.
Così nascono le stalattiti e le stalagmiti nelle caverne carsiche. Come tutti sanno anche l’Italia è ricchissima di caverne di questo genere, ma le più celebri del mondo  sono certamente quelle di Postumia, italiane fino all’ultima guerra, slovene dopo le spartizioni territoriali seguite alla pace. Le grotte di Postojna (questo è l’attuale nome) sono ancora meta di numerosissimi turisti. Sono tanto grandi che in esse si snoda una ferrovia a scartamento ridotto di ben tre chilometri. Ma a piedi se ne possono percorrere sei  e, tenendo conto dei numerosi canali secondari, si giunge ad un’estensione di oltre trenta chilometri.

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Bellezza delle Alpi Giulie

Le Alpi Giulie sono tra le più attraenti della nostra cerchia alpina. Due ardite ferrovie conducono al loro cuore, parallelamente a due grandi, magnifiche strade: la strada e la ferrovia del Canal di Ferro e quelle della Valle dell’Isonzo.
In questo estremo lembo orientale d’Italia sono profuse con magnifica prodigalità tutte le bellezze di cui si vanta l’Alpe, bellezze che dalla poesia mite e pastorale dei pascoli alti, vanno a quella solenne delle foreste, e da questa a quella tragica delle rupi nude e precipiti, erette sulle loro basi cinte di ghiaioni, superbamente sfidanti il vento e il sole. Le Giulie hanno in comune con le Dolomiti la costituzione; ma le loro valli sono profonde e selvagge, scarsamente collegate da passi, con altopiani di rocce nude, con nevai sperduti nel mare delle rocce calcaree. Forse manca loro la grandiosità delle masse montuose e la maestà delle nevi perenni, ma in compenso l’Alpe conserva intatta la sua fisionomia selvaggia, primordiale, fatta di pietra e di abeti, quieta e raccolta. Ogni valle ha i suoi monti posti a custodia, il suo torrente spumoso e sonante, le sue foreste. La Val Saisera ha il Montasio, la Val di Resia il Canin.
Ecco la Sella di Nevea, culla dell’alpinismo giuliano e tappa per le più belle vette delle Giulie, convegno di venti, splendore di pascoli verdi, dove germoglia rubescente il rododendro e spicca, flessibile al vento, l’azzurra genziana!
Ecco la vetta del Monte Nero, sacro alla gloria dei nostri Alpini; ecco la Valbruna, teatro di abeti e di pareti incombenti, chiusa nello sfondo da uno dei panorami più belli delle Alpi, nell’inverno, paradiso bianco dello sciatore. Ecco ancora la verde dovizia dei boschi di Pontebba, variati di pascoli alti e di baite, da dove si domina il Canal del Ferro smagliante di tinte e di contrasti, lungo il corso sonoro del torrente Fella.
(O. Samengo)

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Usanze, tradizioni, costumi

Feste e sagre si celebrano numerose nel Friuli. Ad Aquileia e Cividale si celebra, per l’Epifania, la Messa dello Spadone, durante la quale il diacono, riccamente vestito, e con l’elmo piumato sulla testa, saluta il popolo con un antico spadone, simbolo del tramontato potere temporale e militare dei Patriarchi (Vescovi, principi di quelle terre).
A Gemona viene celebrata ogni anno la sagra dei surisins (topolini). I quali topolini sono minuscoli razzi che, fischiando e scintillando, scivolano lungo un fil di ferro teso in una piazza di Borgo Villa, non senza staccarsi e finire in mezzo alla folla che si agita con ilare spavento.
A Comeglians, e anche in altri paesi, nella notte dell’Epifania, il cielo è solcato da cento meteore che ricadono sui clivi montani sprizzando scintille. Sono le cidulis ossia rotelle di faggio che un cidular arroventa al fuoco e scaglia lontano a mezzo di un bastone flessibile. Ad ogni cidula che vola nella notte, si grida il nome di una fanciulla del paese.

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La bora

La bora è un vento locale che raggiunge forza e velocità straordinarie. Quando essa soffia, si devono rafforzare gli ormeggi alle navi che sono nel porto. Nelle vie più battute cessa quasi del tutto il traffico degli autoveicoli. Quelli che devono forzatamente circolare sono guidati a fatica e fatti procedere a passo d’uomo. I pedoni si aggrappano a corde tese nei punti più flagellati da vento ed evitano, per quanto possono, di attraversare le strade e di avventurarsi nelle piazze aperte.
La rovinosità di questo vento dipende dal fatto che soffia rasente terra. Si tratta infatti di una corrente di aria fredda e secca che proviene da Nord Est. Essa, scontrandosi con l’aria mediterranea, più calda e leggera, la fa salire e poi scorrazza da padrona negli strati più bassi. La sua velocità raggiunge perfino i 200 orari.

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Trieste, città del mare

Non v’è forse altra città che viva in intima unione col mare come Trieste. Un lato della piazza maggiore è spalancata senza neppure il riparo di una balaustra, sull’infinita distesa abbagliante e per tutte le vie penetra da quella gran bocca, l’odore salso dell’onda. Nei giorni di tempesta i cavalloni, non impediti da alcun ostacolo, sormontano il breve dislivello e si riversano e si frangono contro le soglie marmoree dei fabbricati. Questa città, che allinea lungo intere contrade palazzi di favolosa ricchezza per ospitarvi banche, compagnie di navigazione, vive mescolata al suo mare come potrebbe un povero villaggio di pescatori. Il porto di Trieste offre uno spettacolo inebriante e sempre nuovo d’attività e di forza, coi suoi moli formicolanti di gente operosa, con la sua sfilata di magazzini, di cantieri navali, di opifici fumanti e sonanti, col suo andirivieni di navi giganteschi e minuscoli, col suo trascorrere di vele candide e gialle e rosse, coi suoi rapidi voli d’idroplani.
(G. De Agostini)

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La campana di Rovereto

E’ la sera del 2 novembre. Attraverso la radio si diffonde, in tutto il mondo, un suono lento, grave, solenne: Don!… Don!… Don!…
E’ la voce di Maria Dolens, la campana di Rovereto. Essa ci ricorda i caduti, tutti i caduti della guerra: italiani, francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi, slavi, giapponesi, americani… sono migliaia e migliaia di uomini che rivivono nel suono della campana. Quante cose dice al nostro cuore questo suono: “Pace!… Pace!… Pace!… Vogliatevi bene! Siate tutti fratelli!… Soltanto la pace può rendervi felici!”.
Questo ci dice la campana di Rovereto. I suoi mesti rintocchi si disperdono nell’aria ormai oscura della sera. Essi  si diffondono attraverso lo spazio, come un messaggio di pace e di amore fra tutti gli uomini di buona volontà.
(R. Dal Piaz)

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Il Carso

Ci sono cose nella Venezia Giulia che meritano di essere viste. Si tratta di grotte, di inghiottitoi, di doline: di curiosi fenomeni insomma che, appunto dal nome della regione, si chiamano fenomeni carsici.
La regione del Carso è formata da rocce calcaree assai tenere, porose e piene di fessure. Le acque piovane, filtrando attraverso le fessure, con l’andare dei secoli, le hanno allargate e si sono aperte nel sottosuolo gallerie, cunicoli e grandi cavità in cui esse scorrono come fiumi sotterranei. E’ avvenuto che molte di quelle acque circolanti nel sottosuolo, avendo trovato una nuova strada più breve e più profonda, hanno abbandonato le gallerie nelle quali prima scorrevano, lasciandole vuote. Queste gallerie abbandonate dalle acque sono appunto le grotte.
E’ assai interessante il penetrare e l’avventurarsi nell’interno di questi sotterranei. Dal soffitto penetrano e luccicano certe bizzarre concrezioni di roccia che si dicono stalattiti; dal pavimento sorgono altre concrezioni coniche dette stalagmiti e spesso le une e le altre congiunte insieme formano esili o poderose colonne. Le pareti qua e là sono rivestite,  si potrebbe anche dire adornate, di coltri, frange, panneggiamenti, anch’essi di roccia più o meno trasparente e variamente colorata.
(G. Assereto)

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Aquileia romana

Aquileia è una città ricca di storia e di preziose vestigia: ebbe due momenti di grande splendore sotto Augusto e nell’alto Medioevo. Maestose si levano nei suoi dintorni le rovine romane: uno splendido colonnato dell’antico foro si staglia contro il cielo e nel sepolcreto romano altri ruderi dell’antica Roma attirano l’attenzione dei visitatori.
Una raccolta di lapidi, anfore, urne, terrecotte, monete, si trova nel Museo Archeologico della città e gli scavi, nei dintorni, continuano.
Tra il verde ecco un’altra visione, questa volta medioevale: la grandiosa Basilica romanica costruita intorno all’anno 1.000: agile ed alto ben 73 metri, si leva, a fianco delle possenti mura, l’antico campanile.

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Una città come una stella

Una strana cittadina, Palmanova! Se tu la vedessi dall’aereo, ti apparirebbe come un’immensa stella a nove punte. Si tratta di un’antica città fortezza costruita da Venezia, contro le minacce sia dei Turchi, sia dell’Impero d’Asburgo.
Un particolare va ricordato: la cittadina fu fondata nel 1593, il 7 ottobre, anniversario (il ventiduesimo) d’una famosa battaglia navale contro i Turchi: la battaglia di Lepanto. La pianta di questa città è certamente una delle più belle esistenti in Italia: bastioni, casermette, torri, depositi costituiscono un poligono regolarissimo con diciotto lati: al centro c’è una piazza dove sorge il Duomo. Palmanova è nella pianura friulana, quasi a metà sulla via tra Udine ed Aquileia.

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IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture

IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia.

IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture
Le terre che Carlo Magno aveva distribuito a conti e marchesi di chiamavano feudi, e coloro che le avevano ricevute venivano chiamati col nome generico di feudatari.
Il possesso di un feudo durava quanto la vita del feudatario, e alla morte di quest’ultimo tornava sotto la diretta signoria dell’Imperatore.
Coloro che avevano ricevuto un feudo dall’imperatore divenivano suoi vassalli e, finché vivevano, potevano godere di tutti i prodotti della terra su cui governavano.
I vassalli, in cambio, giuravano fedeltà all’imperatore, avevano l’obbligo di versargli una parte delle ricchezze ricavate dal feudo e, in caso di necessità, di procurargli un dato numero di guerrieri.
Col tempo i vassalli ottennero di essere esonerati dal pagamento delle tasse e dall’arruolamento di guerrieri.
Infine, i feudatari più potenti, approfittando della debolezza di alcuni imperatori, ottennero che i loro feudi , da vitalizi, diventassero ereditari.
I vassalli, divenuti proprietari del loro feudo, ne assegnarono, a loro volta, una parte ad uomini loro fedeli che si chiamavano valvassori. Costoro avevano verso i feudatari gli stessi obblighi che i feudatari avevano verso l’imperatore. Col tempo, ottennero anch’essi che le loro terre, assegnate a vita, divenissero ereditarie. Talvolta anche i valvassori affidarono una parte delle loro terre ad altri: i valvassini.
La terra era lavorata di coloni e dai servi della gleba.
I coloni dovevano dare al signore una parte dei raccolti e lavorare gratuitamente per la manutenzione di strade, ponti, canali.
I servi della gleba (cioè i servi della terra) vivevano quasi come schiavi; non potevano sposarsi, né farsi religiosi, né cambiare mestiere, né trasferirsi altrove senza il consenso del padrone che, spesso, li tormentava con ogni sorta di prepotenze. In caso di vendita del fondo su cui lavoravano, i servi della gleba passavano in potere del nuovo padrone, come cose o animali.
La cerimonia con cui si consegnava un feudo a un vassallo si chiamava investitura. Essa avveniva alla presenza di tutti i maggiori dignitari dell’Impero.
Il vassallo, in ginocchio, poneva le mani nelle mani dell’imperatore giurandogli fedeltà. L’imperatore, allora, se il feudo era una marca, gli consegnava una spada per ricordargli che doveva essere pronto a difendere con le armi quanto gli era stato affidato; se invece si trattava di una contea, gli offriva una zolla di terra o un mannello di spighe.
I feudi, divenuti ereditari, spettavano sempre al figlio primogenito. Gli altri figli si avviavano alla vita ecclesiastica o, ricevuti dal padre un’armatura e un cavallo, cercano gloria e fortuna combattendo per i potenti. Dapprima i cavalieri, ammirando soltanto la forza, si mostrarono intrepidi e crudeli. Poi, per merito della Chiesa, che predicava l’amore per il prossimo, divennero generosi, onesti, e si dedicarono alla difesa dei deboli e degli oppressi.

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Per il lavoro di ricerca

Che cosa erano i feudi e come si chiamavano gli assegnatari?
Di che cosa poteva godere il vassallo?
Quali obblighi aveva verso l’imperatore?
Chi erano i valvassori e i valvassini?
Chi erano  i coloni e i servi della gleba?
Come erano considerati questi ultimi?
Che cos’era l’investitura a vassallo?
Come avveniva?
Chi erano i cavalieri e come dovevano comportarsi?
Come si svolgeva la giornata del castellano?
Quali erano i costumi feudali?
Quale era la cerimonia dell’armamento di un cavaliere?
Come ci si comportava a tavola nell’epoca medioevale? E quali erano i cibi?
Come si faceva la toletta quotidiana?
Esistono ancora molti castelli in Italia; cerca, se possibile, di visitarne uno e osserva la sua struttura caratteristica (il ponte levatoio, il fossato, le torri, il torrione, ecc..); cerca di spiegarti perchè mai sia stato costruito così in alto; procura infine di disegnare un castello, magari servendoti di un’illustrazione.
Visita qualche museo o ricerca delle illustrazioni che raffigurino le armi e le armature dei soldati di questo periodo.
Le case dei servi della gleba sorgevano ai piedi del castello. Perchè?
Come e cosa mangiavano i nobili signori del Castello?
Quali divertimenti avevano i feudatari?
Procura di conoscere i particolari della cerimonia detta dell’investitura e poi, con l’aiuto di qualche amico, prepara una scenetta da recitare in classe.
Chi erano i Cavalieri?
Quale scopo si prefiggeva la Cavalleria?
Quale carriera doveva seguire un giovane prima di essere nominato cavaliere?

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Il borgo

Il feudatario viveva nel castello. Intorno ad esso sorgeva il borgo, cioè l’insieme delle umili abitazioni degli artigiani e dei servi della gleba. Gli uni fornivano al feudatario i prodotti agricoli, gli altri (tessitori, sarti, calzolai, falegnami, fabbri) gli oggetti indispensabili alla sua vita  e a quella dei suoi soldati e servitori. In caso di guerra, gli abitanti del borgo si rifugiavano nel castello.

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Potenza dei feudatari

Il feudo aveva tre elementi costitutivi: il beneficio, cioè la concessione del territorio, fatta dal re; il Vassallaggio, ossia l’assunzione degli obblighi verso il sovrano da parte del feudatario; l’immunità, cioè praticamente una sempre maggiore indipendenza del feudatario nei confronti del re. A questi elementi venne ad aggiungersi anche l’ereditarietà. Dopo la morte di Carlo Magno, infatti, i grandi feudatari esercitarono  fortissime pressioni per ottenere che, alla loro morte, i territori da essi amministrati, anziché tornare al re, passassero in eredità ai loro figli.
Carlo il Calvo, uno degli imbelli sovrani succeduti a Carlo Magno, finì col cedere a questa richiesta e nel Capitolare di Kiersy dell’anno 877 dichiarò di riconoscere ed accettare il principio dell’ereditarietà. I feudi divennero gradatamente sempre più potenti e indipendenti, e formarono veri e propri stati negli stessi  confini del regno. I potenti feudatari vivevano nei loro Castelli turriti che, dapprima non furono che semplici fortezze, ma vennero col tempo a trasformarsi in comode e splendide dimore, centri di vita economica, sociale e culturale.

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Omaggio e investitura

L’investitura era la cerimonia simbolica con la quale veniva stabilito il contratto feudale: in origine, il vassallo si chinava ai piedi del signore e, mettendo e sue mani nelle mani di lui, gli si dichiarava vassallo. Questo atto era detto omaggio: a sua volta, il signore lo sollevava e lo baciava sulla bocca; seguiva un giuramento di fedeltà, poi il signore gli  consegnava un simbolo della terra datagli in feudo: la spada, per difenderla,  oppure un ramo, un mazzo di spighe, una zolla.

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La vita nell’epoca feudale

Nell’epoca feudale le città sono in piena decadenza: vi vivevano piccoli commercianti ed artigiani, povera gente gelosa della libertà, ma senza difesa e soggetta a tutte le angherie degli eserciti che passavano. Anche le città facevano parte del feudo, ma erano generalmente trascurate dai signori, perchè il centro della vita feudale era il castello; vi aveva invece una certa importanza il Vescovo.
Il castello, in cui risiedeva il feudatario, era costruito in posizione dominante e facilmente difendibile. La massiccia costruzione era cinta di mura poderose, orlate alla sommità di merli che servivano di riparo ai combattenti. Intorno vi correva un fossato, pieno di acqua, su cui si abbassavano uno o più ponti levatoi: in caso di difesa essi venivano alzati, in modo da impedire ogni passaggio verso l’interno del fortilizio.
All’interno vi erano ampi cortili su cui si aprivano le abitazioni, i magazzini, le scuderie, gli altri locali adibiti a vari usi. Le stanze erano vaste ma disadorne e piuttosto oscure. Solo in seguito le dimore signorili si abbellirono di ornamenti, oltre che di trofei di caccia e di guerra, e divennero più comode e perfino lussuose. Il castello è un poco il simbolo della vita aspra e violenta dell’età feudale.
La guerra, la preda, il saccheggio, le incursioni nei territori nemici erano quasi consuetudini. La forza fisica, il coraggio, l’abilità di maneggiare le pesanti armi erano le doti più considerate.
La caccia era insieme un divertimento e un mezzo per procacciarsi la selvaggina per i banchetti del castello.
Non vi erano altri divertimenti che i tornei, combattimenti simulati tra guerrieri o tra gruppi, i conviti e le gagliarde bevute; si assisteva talora ai lazzi ed agli esercizi di giullari o si ascoltavano i canti d’amore e di guerra dei trovatori.
Una cerimonia solenne della vita feudale era l’investitura. Il signore alla presenza della sua corte riunita riceveva l’atto di omaggio del vassallo e il giuramento di fedeltà; poi lo investiva del feudo, cioè gli conferiva i diritti sul territorio, consegnandogli un simbolo: una spada, un anelo, un gonfalone o, se il feudo era modesto, un fascio di spighe o anche una zolla.
La povera gente viveva in capanne o in squallide dimore poste nelle immediate vicinanze del castello, in cui si rifugiava quando si avvicinava la minaccia della guerra.
Attività fondamentale era l’agricoltura, praticata in grandi proprietà, che avevano per centro il castello o la curtis (cioè la fattoria con le abitazioni, le stalle, i fienili, i magazzini, i mulini e tutto quanto occorreva). In esse si produceva quello che era necessario alla vita degli abitanti: al di fuori si comperava ben poco, solo qualche prodotto essenziale come l’olio o il sale, e ben poco si andava a vendere alle fiere e ai mercati che periodicamente si tenevano in certe località.
Per questo, ed anche per la mancanza di vie di comunicazione e per i continui atti di brigantaggio, i traffici erano scarsissimi.
Il feudo era un mondo chiuso che bastava a se stesso.
(C. Bini)

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Il castello

Il feudalesimo è l’età dei castelli. Massicci e ben fortificati, essi sorgono per lo più in luoghi naturalmente difesi, sulle alture da cui dominano la piana sottostante, all’imbocco di gole montane  o presso un ponte o negli incroci delle vie più battute, per obbligare i passanti a pagare pedaggi e tributi per il trasporto delle merci.
Varie cerchia di mura merlate, con torri e porte, cingevano il castello. Esternamente e tra una cerchia di mura e l’altra, correvano larghi fossati sormontati da ponti levatoi. Alte torri fiancheggiavano l’edificio, da cui spiare le mosse del nemico e scagliare dardi e pietre sugli assalitori: poche e strette feritoie si aprivano nelle mura esterne.
Oltrepassato il ponte levatoio si giungeva nel cortile del castello al cui centro, generalmente, c’era un pozzo.
Tutto attorno al cortile si aprivano le porte della scuderia; dell’armeria, piena di corazze, di spade, di lance, di archi e di scudi; della cucina, ampissima e annerita dal fumo; degli alloggi per la servitù e, infine, quelle della cappella.
Una scala conduceva al piano superiore, dove’erano le stanze del feudatario e dei suoi familiari. Le pareti degli ampi locali erano generalmente coperte da arazzi e da affreschi. Il pavimento, invece, era di semplice pietra.
I mobili, scarsi e poco comodi, consistevano in grandi cassoni di legno scolpito, dove venivano riposti gli abiti; in sedie rigide e dure con alti schienali; in tavoli robusti.
Per la pulizia del mattino, nelle camera da letto si trovava soltanto una bacinella sorretta da un treppiede di ferro o di legno.
Le stanze non erano luminose poichè le finestre, per ragioni di difesa e per il costo dei vetri, erano assai piccole.
Al calar del sole di infilavano in appositi anelli, fissati alle pareti, grosse torce resinose che illuminavano le sale di una luce rossastra e incerta.
Nella stagione invernale l’unico mezzo di riscaldamento era costituito da immensi camini, il cui calore si disperdeva nei vasti saloni.
Nel castello si rendeva giustizia e si tenevano i prigionieri; spesso sotterranee, tetre e umide erano le carceri, presso le quali era la camera di tortura.
Dentro il castello si rifugiavano i contadini, quando le loro terre erano invase.
Nel castello feudale si distinguono tre parti: la cinta, il mastio (che avevano entrambi scopi di difesa) e il palazzo dove abitava il signore.
La cinta era in muratura, con torri agli angoli. Si ebbero anche due o tre mura di cinta; la più esterna racchiudeva il borgo.
Dopo il secolo III, specie nei castelli di pianura, comparve il fossato, col ponte levatoio.
Il mastio era la torre più alta che sorvegliava tutta la cinta, e in cui ci si asserragliava per l’ultima difesa. Il palazzo comprendeva la sala delle udienze, le stanze del feudatario, affacciate sul grande cortile interno, le camere dei cortigiani e della servitù, le cucine e le scuderie.
Nei sotterranei vi erano le prigioni ed i magazzini.

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Vita nel castello

Nelle lunghe serate invernali, non appena le prime ombre battono ai vetri a piombo filato delle finestre, nella sala oscura si accendono le lucerne ad olio; la cena è pronta ed il signore, la madonna, i figli e gli ospiti si seggono a tavola. Subito dopo, la famiglia si riunisce sotto la cappa del vasto camino e al riverbero della fiamma, recita la preghiera. Fatto il segno della croce, il signore si alza e si avvia verso le sue stanze; i familiari lo seguono; la fumosa fiamma della lucerna scompare davanti a loro e il buio si fa più denso, il silenzio più profondo; il castello si addormenta.
Nei profumati pomeriggi di primavera, invece, tutta la famiglia si raccoglie sul verziere e, fra risa e canti, si intrattiene in lieti passatempi, in dolci novellari. Spesso i giovani escono e sul sagrato della chiesa o sul largo spiazzo del castello, danzano il trescone.  E’ in questo tempo che il giocoliere bussa alla porta del castello: la famiglia accorre, gli fa festa ed egli, al suono di un vecchio strumento musicale, fa ballare l’orso e la bertuccia.
La sera il giocoliere, con raffinata arte immaginativa, racconta ai familiari le proprie avventure: parla di luoghi lontani e meravigliosi, di imprese leggendarie ed eroiche, di ricchezze favolose, di tragedie sinistre; sorride e freme la famiglia a quel parlare.

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La sentinella

Sulla torre più alta del castello stava di guardia una sentinella che doveva sempre vigilare, particolarmente di notte.
Per resistere al sonno, la sentinella scambiava ogni tanto un grido con i soldati di guardia in altre parti del castello.
Un gridava: “Sentinella all’erta!” e l’altro rispondeva: “All’erta sto!”.
Di giorno la sentinella segnalava l’arrivo di estranei, fossero essi amici o nemici.

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Il saluto

Quando nel castello entrava un cavaliere, si toglieva l’elmo per dimostrare le sue intenzioni pacifiche e soprattutto la sua certezza di non essere tradito.
Tale uso passò nell’esercito: ma poichè un soldato non poteva mai presentarsi disarmato, i guerrieri medioevali, trovandosi di fronte ad un loro superiore, non si toglievano l’elmo ma sollevavano la visiera scoprendo il volto. La consuetudine di portare la mano alla fronte, quasi per alzare un’immaginaria visiera, sussiste ancora oggi.

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La guerra

Quando il feudatario doveva partecipare alle guerre intraprese dall’imperatore, conduceva con sé un certo numero di guerrieri. A guardia del castello rimanevano allora pochi soldati, i servitori e gli umili abitanti del borgo. Altre volte la guerra scoppiava fra due o più feudatari: allora il più forte invadeva i territori dell’avversario, ne devastava i raccolti e, infine, assaliva il castello.

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La tecnica dell’assedio

L’assalto a un castello si svolgeva generalmente second una tecnica fissa. Una prima fase consisteva nel circondare completamente il castello, con la cavalleria, per impedire agli assediati ogni possibilità di fuga. Seguiva il bombardamento con le macchine da lancio: mangani e trabucchi; in questo modo di cercava di smantellare le difese dell’avversario e di danneggiare le sue macchine belliche, per preparare le condizioni adatte al vero e proprio assalto.
L’assalto veniva preceduto dal tentativo di colmare il fossato; a questo scopo molti uomini correvano fin sul ciglio, vi gettavano delle fascine e poi si ritiravano precipitosamente, per evitare le pietre, le sostanze infuocate e le frecce che i difensori lanciavano su di loro. Ripetendo molte volte questa manovra, si poteva creare un passaggio attraverso il fossato per le truppe di assalto che dovevano tentare la scalata delle mura servendosi di lunghe scale. La loro azione era coadiuvata dalle torri mobili, dall’alto delle quali si potevano colpire i difensori delle mura molto meglio che dal basso.

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La tecnica difensiva

E i difensori? Non restava loro che cercare di distruggere o di incendiare le macchine nemiche, lanciando pietre e sostanze incendiarie. A quelli che tentavano la scalata delle mura, riservavano una speciale accoglienza, a base di pentoloni di pece e di olio bollente.
Se con l’uso di questi mezzi o con qualche audace sortita notturna non riuscivano a piegare la volontà degli aggressori, i difensori di un castello assediato mantenevano ben poche speranze di salvezza. Se non volevano arrendersi, dovevano prepararsi all’ultima disperata difesa nel mastio,la costruzione centrale del castello, nella quale si sarebbero asserragliati quando le mura e i cortili fossero caduti in mano al nemico.

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Vita feudale

Appena dalle alte torri si avvistava l’approssimarsi di un attacco nemico, i popolani del borgo entravano nel cortile, si alzava il ponte levatoio e il castello restava isolato dal profondo fossato che gli attaccanti cercavano di superare con ponti mobili. Dalle mura fioccavano frecce, sassi, olio bollente e qualsiasi cosa potesse colpire gli attaccanti, che tentavano di salire con scale a pioli.
In tempo di pace, il castello era ugualmente luogo di raccolta dei borghigiani. Nell’interno, non mancava mai la cappella. Nei giorni in cui il cortile si trasformava in mercato, vi convenivano non solo i mercanti della regione, ma  anche i venditori ambulanti che arrivavano da lontano; questi accorrevano specialmente nei castelli dove il Barone aveva appeso il proprio sudo con lo stemma di famiglia nel cortile o sulle mura: questo significava che aveva sfidato altri Baroni a una giostra cortese e, in occasione di tali spettacoli, arrivavano sempre persone in vena di… spendere, e gli ambulanti facevano buoni affari. Oltre alle giostre d’armi, i Baroni organizzavano grandi battute di caccia, nelle quali mettevano in mostra non solo la loro abilità nel cavalcare, ma anche quella dei cani e degli uccelli rapaci, come falchi e astori, addestrati a catturare la selvaggina. Nella caccia, la preda preferita era il cervo. Quando la cattiva stagione non permetteva di divertirsi all’aperto, il Barone invitava i suoi amici nobili a banchetto nella grande sala del castello, l’unica ad essere riscaldata, perchè il fuoco era sempre acceso nel caminetto. Durante i banchetti, si divoravano enormi arrosti e si rideva ai lazzi dei giocolieri; lo spettacolo più gradito era quello offerto dai giullari che cantavano le avventure dei Paladini di Carlo Magno o le vicende dei Cavalieri della corte inglese di Re Artù. Oltre ai giullari, nei castelli vennero in seguito i trovatori e i menestrelli esperti nel comporre e nel cantare canzoni d’amore in onore delle belle dame. A tavola, I Baroni si divertivano anche con le pesanti coppe di metallo: per mettere in mostra la loro forza afferravano in due una coppa colma di vino alla quale l’uno e l’altro cercavano di bere tirandola a sé. Una specie di braccio di ferro, insomma.
Nel castello non esisteva un bagno. Solo in casi… eccezionali (perchè di diceva che la pulizia togliesse la forza), il Barone si lavava in un mastello di legno.
La castellana aveva anche il compito particolare di prendere e uccidere i pidocchi e le pulci che infestavano il Barone. Purtroppo, con Carlo Magno non era scomparsa solo la grandezza dell’Impero Carolingio, ma anche la bella abitudine di fare spesso il bagno!

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La giornata di un castellano

Appena vestito, il Castellano fa le prime devozioni prostrato all’inginocchiatoio, e la Castellana nel piccolo oratorio adiacente alla sua camera. Poi tutta la famiglia si raccoglie ad ascoltare la messa nella ricca e fastosa cappella, celebrata da un religioso che risiede nel castello. Dopo di che la Castellana dà una prima capatina alle cucine, e il Signore alle scuderie o alla sala d’armi, dove attende ad armeggiare col figliolo, o con gli ospiti, o con gli scudieri. Le figlie girellano intanto nel giardino, cogliendo fiori.
Alle dieci della mattina uno squillo di corno annuncia il pasto. Anche nei giorni ordinari vengono serviti molti e grassi piatti: carne di bue, di cinghiale, di montone, di capriolo, galline, fagiani e via dicendo, condite con salse piccanti, tutte aromi e pizzicorini mordenti come pepe, chiodi di garofano, cannella, ginepro, ambra, benzoino, noce moscata, anice, ed altre nostrane ed orientali delizie, sulle quali primeggiano l’aglio e la cipolla.
Dopo il pranzo, che è protratto il più lungamente possibile, il Signore fa la siesta; i fanciulli, dopo essersi dedicati ad alcuni esercizi sportivi, riparano col pedagogo nella stanza degli studi. La Castellana e le figlie si ritirano nelle loro camere, ove attendono, nella speranza di qualche visita, ad adornarsi.
Quando capitano visite, o vi sono ospiti in casa, verso le due tutti convengono in giardino o nel parlatorio, e là si trattengono mangiando dolci e bevendo. Vengo serviti rosolio, marmellata, e perfino uccelletti arrosto, oltre alla migliore frutta della stagione. La Castellana appresta canzonieri scelti ed ogni sorta di strumenti musicali, e si canta e si suona fino all’ora della cena, che avviene tra le quattro e le cinque pomeridiane ed è il pasto principale della giornata.
Venuta la sera, il Castellano si riduce accanto al fuoco in sonnecchioso silenzio, e le dame, fatte alcune lente danze al fioco chiarore delle fumose lucerne, prima novellano alquanto tra di loro, indi recitano in cerchio le preghiere, ed il cappellano dà loro lo spunto. Poi i valletti mescono al padrone il vino del sonno, quindi i Castellani, augurata la buona notte, seguiti dai rispettivi servi, si recano a dormire.
(G. Giacosa)

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Occupazione di una castellana

La ragazza che andava sposa ad un feudatario, passava improvvisamente dallo stato di soggezione che aveva subito come figlia ad una posizione di attività ed importanza. Essa non era affatto la schiava del marito, ma la sua consigliera e la sua fedele collaboratrice. Gli interessi del marito diventavano la sua preoccupazione principale e ad essi sacrificava anche l’accudimento e l’educazione dei figli, che erano affidati a delle nutrici. La castellana era più moglie e padrona che madre.
Organizzava tutto il necessario per nutrire e vestire gli abitanti del castello; era questo un lavoro che occupava un’intera vita e richiedeva abilità di attenta amministratrice. Quello che era necessario per una casa non poteva essere acquistato come oggi con una rapida spesa in negozio: ciò che non veniva fornito dai campi doveva essere ordinato molto tempo prima là dove lo si poteva trovare e nella quantità necessaria.
Inoltre la castellana doveva curare la conservazione delle carni, della cacciagione e dei pesci e assicurare la legna per i caminetti e per la cucina. Era anche la signora che dirigeva i lavori di filatura della lana, di tessitura delle stoffe e di manifattura dei vestiti, che veniva eseguita dalle domestiche e dalle contadine.
(G. M. Trevelyan)

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La caccia

Il feudatario, fosse o non fosse leale nei confronti del suo re, viveva essenzialmente per la guerra; e si teneva pronto, da un giorno all’altro a lasciare il suo castello ed a partire con i suoi più fedeli cavalieri a combattere. Quando, tuttavia, non v’era guerra, i suoi divertimenti prediletti erano altrettanto rudi: la caccia o il torneo.
Se la caccia allietava il signore, essa era, per i miseri servi della gleba, un vero flagello. Per inseguire un cervo in fuga, o per catturare cinghiali, i cacciatori non esitavano di solito a lanciarsi, a cavallo, attraverso i campi coltivati con lunga ed assidua fatica, distruggendo gran parte delle colture. La caccia era rigorosamente riservata al signore, e pene gravissime erano comminate per chi osasse abbattere un qualsiasi capo di selvaggina. Più tardi, anche ai contadini fu permesso cacciare, ed il codice di nobiltà feudale distingueva gli animali in nobili ed ignobili. I primi, riservati ai signori, erano il cervo, l’alce, il capriolo e la lepre; i secondi, che potevano essere cacciati anche dai contadini: il lupo, la volpe, il cinghiale e la lince.
La caccia dava occasione a festosi raduni, a grandi cavalcate, a lotte avventurose con le belve (orsi, lupi, cinghiali) che allora non mancavano nei boschi. Una forma di caccia più tranquilla ed elegante, praticata anche dalle dame e dalle damigelle, era la falconeria, cioè l’arte di dar la caccia agli uccelli servendosi di falconi addestrati in modo particolare. Questo addestramento era opera di specialisti, ma gli stessi signori vi spendevano molto tempo.
Il cacciatore o la cacciatrice portavano il falcone sul polso avvolto in un guanto di cuoio. Appena avvistava la preda, il falcone si lanciava a volo, uccideva e tornava a posarsi sulla mano aperta del padrone che lo attendeva. I signori più ricchi tenevano costose collezioni di uccelli da caccia, non soltanto falconi, e schiere di falconieri addetti al loro addestramento.
Il signore e la signora amavano tenere con sé il falcone preferito anche durante le conversazioni. Alcune dame se lo portavano perfino in chiesa, appollaiato sul polso. L’imperatore Federico II compose un famoso trattato sull’arte della falconeria.
Ancora oggi talune popolazioni nordiche vanno a caccia con l’aquila: in Estremo Oriente si va ancora a pesca col cormorano.

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La caccia: passatempo e necessità

La caccia tanto celebrata dai poeti non è tanto un passatempo della nobiltà, quale si rispecchia nella poesia cavalleresca del Medioevo, quanto una necessità di carattere economico.
L’allevamento del bestiame da macello non era sufficiente per coprire il fabbisogno: perciò si andava nei boschi a procacciarsi la carne.
Le risorse di grossa selvaggina erano così abbondanti, che in una buona partita di caccia ci si poteva rifornire per molte settimane.
Più di tutto abbondavano i cinghiali; anche gli orsi si trovavano, e ancora oggi si trovano, in tutte le parti d’Europa; non occorrevano lunghi appostamenti per cervi e caprioli, e quanto ai volatili ce n’era a volontà.
Ma i cacciatori procedettero con tanto impegno che dopo un paio di secoli una buona parte della selvaggina era sterminata.
Gli europei del Medioevo mangiavano molta carne. L’alimentazione dei poveri era invero pregiudicata spesso dalle necessità della guerra o dalla scarsità dei raccolti, ma in tempi di pace era relativamente buona. Poiché c’erano poche grandi città, ai contadini rimaneva più roba.
(Morus)

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Il torneo

Il torneo è il gioco che si avvicina di più alla guerra. Perciò, quando si offre l’occasione di prendere parte a una di queste feste, che vengono annunciate con molto anticipo a suon di tromba, il signore non le perde. Eppure, la partecipazione a un torneo è costosissima. Molti signori si rovinano, volendo gareggiare in lusso con quelli che sono più ricchi. Infatti, bisogna comprare una lancia con gli stemmi, uno scudo con il blasone del signore che permetta agli spettatori di riconoscerlo anche quando ha abbassato la visiera dell’elmo, un’armatura nuova e una bardatura di lusso per il cavallo…
Alla vigilia dell’incontro, la città nella quale sta per avere luogo il torneo è illuminata. Gli scudi dei combattenti sono appesi davanti alle case dove essi sono alloggiati. Al suono delle trombe ha inizio, attraverso la città, la sfilata dei cavalieri che prenderanno parte al torneo.
Il giorno dopo, un tratto di strada viene chiuso da barriere perchè serva da campo di battaglia. L’acciottolato viene coperto di paglia e di sabbia; tutte le finestre delle case che fiancheggiano questa lizza traboccano di spettatori. Coloro che non sono stati ammessi ai posti d’onore si ammassano dietro le barriere. L’araldo annuncia con voce squillante il nome dei combattenti che entrano in quel momento dai due lati opposti della lizza. Essi fermano per un istante la cavalcatura, salutano con la lancia le nobili dame e attendono il segnale della tromba. Risuona un breve squillo. Gli avversari speronano il corsiero e si dirigono l’uno verso l’altro con la lancia stretta sotto il gomito destro e lo scudo appeso al braccio sinistro che serve loro contemporaneamente per guidare la bestia. Quando si scontrano verso la metà del percorso, un colpo sordo risuona. Spesso uno dei due avversari viene buttato a gambe all’aria e va a rotolare nella polvere, oppure le due lance si rompono e i due cavalieri trasportati dal loro slancio continuano la corsa fino all’estremità della lizza; qui si voltano subito, per ricominciare una nuova carica con un’altra lancia che uno scudiero presenta loro.
I tornei offrono a quelli che sono abili giostratori anche una possibilità di… guadagno, oltre al piacere di battersi e di riportare una vittoria davanti a una brillante assemblea di dame e di signori. Il vincitore, infatti, si può impossessare dell’equipaggiamento e del cavallo del vinto: talvolta, anche della persona e gli restituisce la libertà solo a prezzo di un forte riscatto.

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La giustizia durante l’età feudale

Allorché un accusato non aveva altro modo per provare la propria innocenza, ricorreva al giudizio di dio, certi com’erano gli uomini di quei tempi che dio avrebbe aumentato le forze dell’innocente e diminuite quelle del colpevole. Il duello era il più diffuso tra i giudizi di dio: dei due duellanti il vincitore era l’innocente o colui che aveva ragione in una vertenza.
Altro giudizio era la prova dell’acqua: se l’acqua era bollente, l’accusato doveva immergervi un braccio senza scottarsi; se era fredda, l’imputato doveva tuffarcisi dentro (si trattava di un tino molto più alto di lui) senza toccare il fondo ma galleggiando.
Se le prove non riuscivano egli era colpevole.
La prova del fuoco in un certo senso era simile a quella dell’acqua bollente: l’accusato doveva portare per tre metri una massa di ferro rovente fra le mani; poi il sacerdote gli congiungeva le mani, le fasciava e vi poneva il proprio sigillo: dopo tre giorni, se vi erano scottature era colpevole.
Altre prove del fuoco consistevano nel camminare su lastre roventi o di passare fra cataste ardenti, per un pertugio ampio poco più di mezzo metro.
(C. Bini)

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Alcune pene per  i colpevoli

Nel Medioevo la pena di morte era comminata frequentemente e talvolta per delitti che oggi avrebbero un castigo assai lieve; ma il modo di vedere le cose, in quei tempi, era assai dissimile da quello moderno, e soprattutto vigeva il criterio, in epoche così torbide e malsicure, di reprimere certi delitti molto frequenti e facilitati dalla situazione. La pena di morte veniva applicata con la decapitazione, con l’impiccagione, lo squartamento, l’annegamento e con altri barbari sistemi, il più crudele dei quali era il seppellimento da vivi, inflitto agli omicidi.
Un castigo diffusissimo era la berlina, che consisteva nell’esporre al pubblico dileggio il condannato, in vari modi.
Il tratto di corda, cioè una barbara fustigazione, serviva soprattutto a strappare le confessioni del reo; ma molto spesso confessavano anche gli innocenti!
Gli ecclesiastici erano duramente colpiti; a loro era riservata la gabbia, in cui venivano chiusi come uccelli ed esposti alle intemperie anche per anni, mentre venivano nutriti a pane e acqua.
Si praticavano anche le mutilazioni e la marchiatura a fuoco.

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I servi della gleba

Mentre, al tempo di Augusto, tutti erano contenti di far parte dell’impero romano, perchè in esso vi era pace e sicurezza, a poco a poco, col passare del tempo e con l’aumentare delle tasse, le popolazioni si sentivano schiave ed oppresse.
Le città si spopolavano perchè, per la povertà della gente, non si potevano più fare buoni commerci. La gente si rifugiava nelle campagne e nei boschi, per nascondersi ai funzionari dello stato. Molti plebei chiedevano protezione a qualche ricco proprietario, che dava loro un po’ di terra da coltivare, li aiutava a pagare le tasse per loro.  In cambio questi plebei lavoravano anche le terre del padrone e si impegnavano a non abbandonarle mai. Essi diventavano, insomma, quasi schiavi: venivano chiamati servi della gleba, che vuol dire servi della zolla, cioè della terra.
E intanto i barbari si stringevano sempre più intorno ai confini, si infiltravano dentro, dovunque il confine non era ben custodito.
Circondato dai nemici, oppresso dalla povertà, l’impero sembrava una grande barca sul punto di affondare.

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Le tasse del contadino

Il contadino feudale era ricco solo… di tasse. In denaro aveva tre tasse annue: una modesta tassa annua, per persona, al governo, cioè al re; un modesto affitto per la casa e l’orto al signore; un’imposta richiesta una o più volte l’anno dal signore.
Inoltre il contadino aveva questi obblighi: offrire al signore, ogni anno, un decimo del raccolto agricolo o del bestiame; lavorare gratis per il signore un certo numero di giorni l’anno; doveva macinare il grano, cuocere il pane, pigiare l’uva, ecc. sempre nel castello e usando le attrezzature del signore (naturalmente pagava per ogni cosa); pagare per avere il diritto di pescare, di cacciare e di pascolare le bestie nelle terre del signore; pagare quando il signore gli rendeva giustizia in tribunale; servire nella milizia del signore in caso di guerra; contribuire a pagare la somma del riscatto se il signore cadeva prigioniero; offrire ricchi doni al figlio del signore quando veniva fatto cavaliere; pagare al signore una tassa per ogni merce che vendeva nei mercati viciniori; aspettare a vendere il suo vino (o la sua birra, o qualche altro prodotto) finché il signore non avesse venduto il proprio; pagare una multa se intendeva far studiare, o mandare in seminario un figlio, perchè il castello perdeva un uomo; pagare una multa se sposava una persona appartenente ad un altro castello e poi si trasferiva; pagare una decima annua alla Chiesa.
Tutto ciò può sembrare gravosissimo, ai nostri occhi. Ma va tenuto conto di alcune cose: mai il contadino era tenuto a tutte insieme queste prestazioni, ma solo ad alcune tra esse, a seconda dei casi. Inoltre, non aveva altre spese, e il signore doveva provvedere alla difesa, alle opere pubbliche, in certi casi alle spese connesse con l’agricoltura (sementi, qualche volta attrezzi, bestiame selezionato da riproduzione), e spesso anche l’obbligo di assistere il colono in caso di malattia o di vecchiaia: questo specialmente per i feudi tenuti da ecclesiastici.
In definitiva, è stato calcolato che riguardo al guadagno medio, le tasse che doveva pagare il colono feudale erano meno gravose di quelle che noi paghiamo oggi.

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Nel castello feudale

Un grande castello era come un piccolo mondo. Nel vasti cortili erano le dimore degli armigeri e dei servi, grandi cisterne, magazzini e botteghe per gli armaioli, i macellai e i fornai.
Nulla vi mancava: dalla cappella alle immense cucine con ampi e bassi camini; dalla sala del trono, nella quale il feudatario rendeva giustizia, al carcere tetro e sotterraneo.
Gli uomini che abitavano queste solitarie dimore, quando non erano in guerra, cercavano distrazioni nella caccia, negli esercizi cavallereschi e nei tornei.
I tornei si bandivano per lo più in occasione di feste religiose, di incoronazioni o matrimoni di principi e di trattati di pace.
Era molto gradito l’arrivo di qualche poeta (trovatore) il quale cantava le tragiche avventure di qualche dama o di qualche barone, o le meravigliose imprese dei paladini di Carlo Magno.
Lauti banchetti talora si protraevano per giorni e settimane con feste e baldorie.

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Il torneo

I tornei erano grandiose feste d’armi in cui coppie o squadre di cavalieri si assalivano dentro un recinto, contendendosi la vittoria. I cavalieri scendevano in campo rivestiti di armature. Tre squilli di tromba davano il segnale dell’assalto e subito i combattenti si slanciavano l’un contro l’altro, usando lance, spade, mazze.
Quando i giudici ritenevano sufficiente la prova lanciavano in mezzo ai cavalieri un bastone, per significare che la giostra era finita; poi proclamavano solennemente il nome del vincitore, che riceveva il premio dalle mani di qualche dama eletta regina del torneo.

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Banchetti medioevali

Guardando certe miniature o certi quadri che rappresentano scene di banchetti medioevali siamo generalmente colpiti dallo sfarzo del vasellame e delle vesti, dall’allegria e dalla vivacità dei commensali.
Non vi siete mai chiesti quali profumati e appetitosi piatti potessero comparire su quelle mense?
Gli uomini del Medioevo non avevano certo a disposizione la varietà e la quantità di cibi che abbiamo noi, oggi che le comunicazioni con tutto il resto del mondo ci permettono di avere sul nostro tavolo cibi provenienti dai più lontani paesi e basta entrare in un negozio per trovare quanto ci occorre. Abbiamo più volte osservato che, se in quell’epoca la caccia era tanto di moda, lo era non solo come… passatempo, ma perchè permetteva, anche ai signori, di unire l’utile (la selvaggina) al dilettevole (occupare gradevolmente le molte ore della giornata).
Vediamo dunque che cosa avevano gli uomini del Medioevo a disposizione del loro… appetito.
Quanto ai cereali, grano, segale, orzo e riso continuavano ad essere coltivati, come nell’antichità. Anzi, nei paesi occupati dagli Arabi queste colture rifioriscono, perchè gli Arabi sono maestri nell’arte dell’irrigazione. Ci sono zone della Spagna, dal suolo arido, che essi trasformarono in veri giardini: ancora oggi quelle zone conservano il nome di huertas, cioè “orti”.
Anche per la trebbiatura, fatta nei nostri paesi battendo le spighe con cinghie e corregge, gli Arabi si mostrano all’avanguardia. Essi trascinano, sulle spighe tagliate, speciali macchine fornite di rulli, allo scopo di separare i chicchi dalla paglia. E’ merito degli Arabi anche l’introduzione nell’Africa del Nord di una specie di grano a chicco duro che, una volta macinato, dà la semola, farina che più tardi sarà particolarmente indicata per la fabbricazione delle paste alimentari.
Il grano saraceno, o grano nero, viene anch’esso dalla Tartaria e dalla Russia, giungendo fino in Bretagna e in Normandia dove ancora viene coltivato, così come da noi in alcune vallate alpine, per farne frittelle o, come in quel di Sondrio, la polenta taragna.
La patata è ancora assente dalle tavole del vecchio mondo, dove avrebbe potuto bene impedire molte carestie… A quei tempi essa è conosciuta solo nel suo paese d’origine, la Cordigliera delle Ande.
I contadini, da noi, devono accontentarsi delle fave; i fagiolini e i fagioli sono noti invece sia agli Arabi sia agli indigeni d’America. E’ probabile che le invasioni barbariche, oltre alle molte disgrazie, ci abbiano portato anche la ricetta delle minestre e dei minestroni nei quali i legumi cuociono insieme alla carne.
E veniamo alla carne. Il contadino del Medioevo assapora raramente la carne bovina. L’allevamento di questi animali è infatti costoso; essi sono perciò impiegati essenzialmente come animali da lavoro e vengono macellati solo in occasione di banchetti speciali.
Più comune è invece l’uso della carne di maiale, animale più facile da allevare perchè è poco esigente circa la qualità del cibo che gli viene dato. In Europa, naturalmente; non tra gli Arabi, perchè la religione musulmana proibisce loro di mangiare carne di maiale (e giustamente,  perchè non è molto igienica nei paesi caldi).
Presso gli Arabi invece, le vetrine delle macellerie offrono carne di cane, di gatto, di lucertola e di serpente. Le teste e le pelli di questi animali sono esposte accanto alla carne perchè il cliente sappia bene che cosa compra.
Presso gli Aztechi, in America, si mangiano cani di un razza curiosa, sprovvisti di peli, che vengono ingrassati prima di essere sacrificati.
Un animale frequentemente cacciato in Italia, Inghilterra e Olanda, prima che dalle specie selvatiche si ottengano quelle domestiche, è il coniglio.
Gli uccelli più apprezzati in Europa sono il fagiano e il pavone, che sono serviti sulla tavola circondati dalle loro superbe piume. Anche i piccioni sono pregiati: infatti solamente i ricchi hanno diritto di allevarne. Attorno alle loro piccionaie, gli Arabi piantano la ruta, una pianta amara che ha il compito di tenere lontani i serpenti. I pesci sono ricercati per sostituire la carne durante i periodi di digiuno imposti dalla religione cristiana. I fossati pieni d’acqua che circondano le mura, si popolano di carpe. Durante la quaresima, si vendono anche, come cibo, le aringhe secche e carne secca di balena.
Anche i vari tipi di molluschi di mare aiutano a sopportare i rigori della quaresima. In Polinesia si pratica la pesca sottomarina con l’arpione da più di mille anni.
E’ venuto il momento di parlare delle famose spezie che venivano dall’Oriente.
Per condire i piatti, profumare dolci e anche, almeno così si credo, per curare molte malattie, le spezie mettono in movimento mezzo mondo. Carovane e navi ne assicurano il trasporto e giungono dall’Estremo Oriente, dalle coste dell’Africa o dell’India, coi loro carichi preziosi e odorosi. Quando i Turchi rendono pericoloso il trasporto delle spezie, si cerca un’altra strada da ovest, per mare; sarà il sogno di Cristoforo Colombo.
I mercanti di spezie, gli speziali, fanno fortuna; essi vendono: il chiodo di garofano, conosciuto in Cina fin dalla più remota antichità e masticato dai cortigiani per profumarsi l’alito; la noce moscata, portata in Europa dagli Arabi fin dal secolo XI; lo zenzero, ricercato per profumare il pan pepato. Non meno ricercata è la cannella, una scorza proveniente da Ceylon e dalla costa del Malabar che, a partire dal secolo XIII, giunge in Europa attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e il Mediterraneo. Lo zafferano è coltivato su larga scala in Medio Oriente, ma costa carissimo: in cambio di sei libbre di zafferano si può avere un buon cavallo da sella! Quanto al pepe, la questione del prezzo è risolta in modo molto semplice: esso vale tanto oro quanto pesa. La gente modesta deve accontentarsi di aglio, di cipolla e di senape consumati in quantità enormi. Alcuni mulini hanno un paio di macine per la senape e due paia di macine per il grano.
Per completare questo viaggio da buongustai facciamo una visitina nella pasticceria di un bazar orientale.  Potete offrirvi un po’ di halva, torrone di miele selvatico riempito di pistacchi e mandorle, e i lokum dolciastri di amido e pistacchi.
Ma cos’è questa meraviglia che un pasticcere presenta alla folla stupefatta? Si direbbe un boschetto di rose con le sue foglie; questo dolce raro è riservato per un’occasione eccezionale: si tratta della corona di matrimonio offerta a due giovani sposi. Essa è fatta di zucchero candito, alimento ancora costoso, poichè la coltivazione della canna da zucchero, pianta venuta dalle Indie, è possibile solo nelle regioni molto calde del bacino mediterraneo. Al tempo delle Crociate, la canna da zucchero giunge progressivamente in Spagna e in Sicilia, dove le canne sono macinate da macchine mosse da mulini a vento. E’ una specie di canna che bisogna tagliare a pezzi e torchiare poi in un frantoio per estrarne il succo zuccherino. Questo viene riscaldato e fatto evaporare finché perde i tre quarti del suo volume; quindi versato in appositi stampi, dove solidificando dà dei pani di zucchero.
Ma continuiamo la nostra visita attraverso le botteghe del bazar. La polvere ci riempie la gola; perchè dunque non dobbiamo rinfrescarci con un gelato alla melagrana o al miele? Bisogna allora farsi avanti con i gomiti perchè gli amatori sono numerosi. Da dove viene il ghiaccio? Nel Medioevo è già un vero prodotto industriale, in Oriente. Le notti fredde d’inverno permettono di far gelare l’acqua in grandi bacini, poco profondi; gli operai rompono il ghiaccio, che si è formato per lo spessore di alcuni centimetri, e lo fanno scivolare verso il fondo di fresche cantine, dove si conserva facilmente. Questa industria è così prospera che certi Stati ne fanno un monopoli, come avviene oggi in Italia per il tabacco. I gelati sono fatti di ghiaccio grattugiato, di miele e di amido cotto a cui sono aggiunti i frutti e le essenze.
Se ne avete voglia potete offrirvi anche una tazza di buon caffè. A partire dal secolo XIII, lo si può bere sia a Aden che in Egitto o in Persia; l’uso del tè, venuto dalla Cina, comincia a diffondersi anche nei paesi musulmani verso lo stesso periodo; ma l’Europa Occidentale ignora ancora il tè e il caffè, nonostante i numerosi viaggi in Oriente. A quei tempi, all’altro capo del mondo, i Messicani mangiano un cioccolato secco fatto di fave di cacao macinate con sale, ambra rossa, pepe e spezie. Essi apprezzano anche il cioccolato liquido aromatizzato con la vaniglia; l’albero che dà il cacao viene probabilmente dalle foreste dell’Amazzonia. L’America conosce anche l’albero del chinino e la coca che gli indigeni masticano per piacere.

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Breus

Un fanciullo, incantato alla vista di un cavaliere in armi bello, anzi più bello, per lui, di San Michele, abbandona la casa, e per dieci anni sotto il nome fittizio di Breus, si copre di gloria divenendo il migliore dei cavalieri. Ma la mamma, per il dolore di quella partenza, muore; e quando egli una sera chiede ospitalità a una vecchia e trascurata dimora è accolto da una fanciulla in lacrime. Ella piange ogni volta che vede un cavaliere perchè rammenta il fratello che a dieci anni ha lasciato la casa. Lì è rimasta lei, sola con la nutrice. Commosso, Breus, che altri non è che il fanciullo partito un giorno ormai lontano, si rivela alla sorella. Il delicato racconto pascoliano, sempre tenuto su un tono di favola e di ingenuo ardimento, rivela il suo significato profondo negli ultimi versi: non c’è gloria che possa compensare il dolore mortale di una mamma. Per poter abbracciare ancora la madre, Breus darebbe ora tutte le sue più belle vittorie e si accontenterebbe di strigliare umilmente il suo ronzino.

Viveva con sua madre in Cornovaglia:
un dì trasecolò nella boscaglia.
Nella boscaglia un dì, tra cerro e cerro,
vide passare un uomo tutto ferro.
Morvan pensò che fosse san Michele:
s’inginocchiò: “Signore san Michele,
non mi far male, per l’amor di dio!”.
“Né mal fo io, né san Michel son io.
No: san Michele non posso chiamarmi:
cavalier, sì: son cavaliere d’armi”.
“Un cavaliere? Ma che cosa è mai?”
“Guardami, o figlio, e che cos’è saprai”.
“Che è codesto lungo legno greve?”
“La lancia; ha sete e dove giunge, beve”.
“Che è codesta di cui tu sei cinto?”
“Spada, se hai vinto; croce, se sei vinto”.
“Di che vesti? La veste è pesa e dura”.
“E’ ferro. Figlio, questa è l’armatura”.
“E tu nascesti già così coperto?”
Rise e rispose il cavalier: “No, certo”.
“E chi la pose, dunque, indosso a te?”
“Chi può”. “Chi può?”. “Ma, caro figlio, il re!”.
Il fanciullo tornò dalla sua mamma,
e le saltò sulle ginocchia: “Mamma,
mammina (cinguettò), tu non lo sai!
Ho visto quello che non vidi mai!
Un uomo bello più di san Michele
ch’è in chiesa, tra il chiaror delle candele!”
“Non c’è uomo più bello, figlio mio,
più bello, no, d’un angelo di dio”.
“Ma sì, ce n’è, mammina, se permetti:
ce n’è, mammina, cavalier son detti.
E io, mammina, voglio andar con loro,
E aver veste di ferro e sproni d’oro”.
La madre a terra cadde come morta
che già Morvan usciva dalla porta:
Morvan usciva e le volgea le spalle,
ed entrò difilato nelle stalle;
nelle stalle trovò solo un ronzino:
lo sciolse, vi montò sopra: in cammino.
Egli partì, né salutò persona:
eccolo fuori, ecco che batte e sprona,
Eccolo già lontano dal castello,
dietro quell’uomo ch’era così bello.
Dopo dieci anni, dieci tutti intieri,
Breus il cavalier de’ cavalieri
sostò pensoso avanti quel castello.
Era fradicio e rotto il ponticello.
Entrò pensoso nella corte antica:
c’era tant’erba, c’era tanta ortica.
Il rovo vi crescea come siepe,
e la muraglia piena era di crepe.
L’edera aveva la muraglia invasa:
l’erba copria la soglia della casa.
E l’uscio era imporrito e tristo a mo’
Di tomba. Egli picchiò, picchiò, picchiò…
Ecco alfine una donna, ecco una donna
antica e cieca, che gli aprì. ” Voi, nonna,
mi potete albergar per questa notte?”
“Albergar vi si può per questa notte,
albergar vi si può di tutto cuore,
ma l’albergo non è forse il migliore.
Ché questa casa è tutta in abbandono
da che il figlio partì, dieci anni or sono”.
Era discesa una donzella in tanto,
che appena lo guardò, ruppe in un pianto.
“Perchè piangete, buona damigella?
perchè piangete, cara damigella?”.
“Io voglio dirvi, sire cavaliere,
io voglio dirvi, che mi fa dolere.
Un mio fratello che dieci anni fa
(ora sarebbe della vostra età),
ci abbandonò per farsi cavaliere.
Io piango appena vedo un cavaliere.
Se vedo un cavalier presso il castello,
piango pensando al mio dolce fratello”.
“Non avete la madre, o damigella?
Non un altro fratello? Una sorella?”.
“Nessuno… almeno ch’io li veda in viso:
son, fratelli e sorelle, in paradiso.
Anche la mamma l’ha chiamata Iddio:
non c’è più qui che la nutrice ed io.
La mia madre morì dal dispiacere
quand’e’ partì per farsi cavaliere.
Ecco il suo letto presso il limitare,
ecco il suo seggio presso il focolare.
La sua crocetta porto sopra me.
Pel mio povero cuore altro non c’è”.
Mise un singhiozzo il cavalier d’un tratto.
Ella il pallido alzò viso disfatto.
La damigella alzò con meraviglia
gli occhi ch’aveano il pianto sulle ciglia.
“Iddio la mamma ancora a voi l’ha presa,
ch’ora piangete, che m’avete intesa?”
“Ancora a me la mamma prese Iddio;
ma chi gli disse: ‘Prendila’ fui io”.
“Voi? Ma chi siete? Qual è il vostro nome?”.
“Morvan il nome, Breus il soprannome.
O sorellina, io sono pien di gloria:
ogni giorno ho contata una vittoria:
ma se potevo indovinar quel giorno,
che l’avrei veduta al mio ritorno,
o sorellina, non sarei partito!
O sorellina, non sarei fuggito!
Oh! Per vederla qui sul limitare,
per rivederla presso il focolare,
per abbracciare qui con te pur lei,
le mie vittorie tutte le darei:
sarei felice, pur ch’a lei vicino,
di strigliar tuttavia quel mio ronzino”.
(G. Pascoli)

IL FEUDALESIMO dettati ortografici e letture – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

CARLO MAGNO dettati ortografici e letture

CARLO MAGNO dettati ortografici e letture, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

I Franchi

I Franchi, verso il secolo V, varcato il Reno, erano penetrati in Gallia e vi avevano fondato un regno romano-barbarico. Il loro re Clodoveo (481-511), capostipite della dinastia che fu detta dei Merovingi, era stato il primo fra i Germani che con il suo popolo si era convertito al cattolicesimo.
A Clodoveo erano succeduti re inetti al governo che avevano lasciato il potere in mano ai Maggiordomi. Fra questi, aveva avuto grande autorità Carlo Martello, che nel 732 aveva sconfitto gli Arabi a Poitiers, salvando l’Europa.
Il figlio di lui, Pipino il Breve, nel 752 fece chiudere in convento l’ultimo merovingio e si proclamò re dei Franchi. Il papa Stefano II si recò personalmente in Francia ad incoronarlo. Aveva così inizio la dinastia del Carolingi.
Pipino, sollecitato dal Papa, calò in Italia e sconfisse il re longobardo Astolfo due volte, nel 754 e nel 756, costringendolo a cedere alla Chiesa le terre occupate.
Il figlio di Pipino, Carlo, assunse quindi il titolo di re dei Franchi e dei Longobardi. Al papa confermò ed accrebbe le precedenti donazioni, dando vita ormai a un vero e proprio Stato Pontificio che da Roma, attraverso il Lazio, l’Umbria e le Marche, si estendeva fino alla Romagna e comprendeva le antiche terre del dominio bizantino.

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Re Carlo

Carlo, Re dei Franchi, detto dai posteri, per ammirazione, Magno, fu veramente uno dei più notevoli personaggi del Medioevo. Egli fu soprattutto un grande unificatore e si giovò anche della religione per dare unità spirituale ai diversi popoli del suo immenso dominio. Egli condusse vittoriosamente in tutta l’Europa occidentale circa sessanta imprese militari e riunì sotto il suo scettro un territorio vastissimo che comprendeva la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Germania, l’Austria, la Repubblica Ceca, la Serbia, la Croazia, l’Ungheria, la Svizzera e metà dell’Italia odierne.
Per garantire il confine dei Pirenei marciò contro gli Arabi della Spagna, tolse loro le due regioni dell’Aragona e della Catalogna, con le quali costituì la Marca Spagnola.
Durante il ritorno da questa spedizione nel 778, la retroguardia di Carlo, comandata dal famoso paladino Orlando, fu assalita dai Baschi nella gola di Roncisvalle e distrutta. L’eroica morte di Orlando, caduto combattendo per il suo re e per la sua fede, fu cantata nella Chanson de Roland, il primo di una lunga serie di poemi cavallereschi sui paladini di Francia.
La vastità, l’unità del dominio di Carlo e l’alto prestigio politico di cui godeva fecero rinascere l’idea dell’Impero Romano, che fu consacrata dal papa Leone III la notte di Natale dell’800 a Roma, nella basilica di San Pietro. Con una cerimonia solenne il Papa incoronò Carlo imperatore del Sacro Romano Impero, mentre tutto il popolo acclamava: “A Carlo, piissimo, augusto, coronato da dio grande e pacifico imperatore dei Romani,  vita e vittoria!”.
Carlo meritò effettivamente questi onori perchè fu un sovrano illuminato. Benché analfabeta, promosse gli studi, le arti e l’istruzione pubblica, facendo aprire numerosissime scuole per ricchi e poveri, e fondando in Aquisgrana, sua residenza preferita, l’Accademia Palatina, che accolse i dotti del tempo.
Carlo Magno morì ad Aquisgrana nell’814, dopo 46 anni di regno, e lì fu sepolto.

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Come governò Carlo Magno

Carlo Magno amministrò saggiamente il suo vasto impero. Per poterlo governare meglio, secondo un’usanza franca, lo suddivise in contee, che affidò a uomini a lui fedeli; presso i confini creò contee più estese e militarmente più forti che si chiamarono marche. Coloro che governavano marche e contee, cioè i marchesi ed i conti, dipendevano direttamente dall’Imperatore ed avevano poteri amplissimi.
Dapprima Carlo Magno non diede una capitale al suo Impero perchè, per meglio conoscere le condizioni di vita dei suoi sudditi, viaggiava moltissimo. Infine si stabilì ad Aquisgrana, in Germania, che divenne la capitale del Sacro Romano Impero. In quella città egli morì nell’anno 814.
Carlo Magno fu uno dei più grandi imperatori germanici, valoroso e saggio. Sotto il suo Impero anche la cultura rifiorì. Egli, che l’apprezzava molto, volle che alla sua corte si raccogliessero i più dotti uomini del tempo fra i quali ricordiamo Alcuino, Paolo Diacono e Paolino, patriarca di  Aquileia.  Volle inoltre l’istituzione di scuole per l’istruzione dei fanciulli.

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Per il lavoro di ricerca

Ricerca notizie sulla figura e la cultura di Carlo Magno.
Contro quali popoli combatté Carlo Magno?
Dove vinse gli Arabi?
Chi erano i paladini?
Ricerca notizie sulla morte del paladino Orlando.
Quali terre comprendeva l’impero di Carlo Magno?
Perchè fu chiamato Sacro Romano Impero?
Come fu governato amministrativamente l’impero?
Chi erano i “missi dominici” e che cosa dovevano controllare?
Come si viveva ai tempi di Carlo Magno?
Che cosa era la “legge salica?”
Quando e dove morì Carlo Magno?

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Carlo Magno non sapeva né leggere né scrivere

Questa era la sua spina nel fianco, il suo lato patetico. Carlo, che la sera andava presto a letto, dovunque si trovasse, ma soffriva di insonnia, trascorreva spesso la notte compitando l’abbecedario e cercando di capirne le lettere. Ma inutilmente. Questo genio della politica e della guerra, che era riuscito a conquistare mezzo mondo, non riuscì mai a conquistare l’alfabeto.
A furia di farseli ripetere dal confessore, imparò a memoria i salmi, e li cantava anzi abbastanza bene perchè, se la sua voce era stridula, l’orecchio era buono. Ma sebbene fino alla tarda vecchiaia seguitasse a trascorrere le sue notti a fare le aste, la soddisfazione di scrivere e di leggere da sé egli non l’ebbe mai. Eppure fu Carlo Magno.
(I. Montanelli e R. Gervaso)

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La figura di Carlo Magno

Era re Carlo di corporatura massiccia e robusta, di statura alta che pur tuttavia non eccedeva una giusta misura. Aveva testa tonda, occhi grandissimi e vivaci, il naso un po’ più lungo del normale, bei capelli bianchi, volto sereno e gioviale che gli conferiva una grandissima autorità e pari dignità di aspetto. Sicuro nell’incedere, emanava da tutto il corpo un fascino virile.
Si esercitava di frequente all’equitazione ed alla caccia, ed era questa una passione che aveva fin da bambino.
Amava anche molto i bagni minerali e spesso si esercitava al nuoto. Per tale ragione costruì una reggia in Aquisgrana ricca di acque minerali; ivi trascorse gli ultimi anni della sua vita.
Invitava al bagno con lui, non soltanto i figli, ma anche i grandi del regno e gli amici e talora perfino tutte le proprie guardie del corpo.
Vestiva sempre nel costume nazionale dei Franchi. Rifuggiva dai costumi di altri paesi, anche se bellissimi, e non amò mai indossarli, meno che a Roma, quando su richiesta di papa Adriano, acconsentì a portare una lunga tunica e la clamide ed i sandali alla moda dei Romani…
Era assai sobrio nel mangiare e nel bere. Mentre cenava gli piaceva udire qualche musica o qualche lettura. Gli leggevano le storie degli antichi, ma amava ascoltare anche le opere di Sant’Agostino. Aveva facile e copioso l’eloquio, e sapeva esprimere con molta chiarezza il proprio pensiero.

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La cultura di Carlo

La sua istruzione e la sua cultura non derivano da studi teorici; ma piuttosto dall’esperienza pratica e dalla viva voce di chi gli stava introno. Tuttavia erano grandissime.
Egli parlava la lingua franca, ma conosceva anche il latino, parlato dai suoi sudditi gallo-romani, e perfino il greco, benchè si curasse poco di parlarlo.
Non era un matematico, ma aveva la mente aperta a penetrare rapidamente la complessità delle cifre e dei calcoli.
Carlo possedeva cognizioni di anatomia umana e soprattutto di anatomia animale, perchè, come cacciatore, era abituato a scannare e a scuoiare la selvaggina che uccideva.  Sapeva bene come vivono e come si cacciano gli uccelli, e soprattutto era molto pratico di cavalli.
Conosceva un po’ tutti i mestieri perchè era abituato a sorvegliare di persona i suoi servi al lavoro: avrebbe potuto non solo riparare la bardatura del suo cavallo, ma anche estirparsi i denti e medicarsi le ferite, in caso di necessità.
Inoltre conosceva, attraverso i canti dei giullari di corte, le gesta degli antenati suoi e le storie dei re dei paesi vicini.
Egli tentò anche di imparare a scrivere, e, a questo scopo, aveva l’abitudine di tenere sotto i cuscini del letto alcune tavolette e alcuni fogli di pergamena per esercitarsi a tracciare di propria mano qualche lettera. Ma poco gli fruttò questo lavoro disordinato e iniziato troppo tardi.
(Baker)

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Carlo Magno e gli scolari

Un giorno l’imperatore Carlo Magno visitò una scuola a Parigi e volle vedere i compiti fatti dagli alunni. Osservò che quelli fatti dai ragazzi del popolo erano molto migliori di quelli fatti dai figli dei nobili.
Allora l’imperatore fece passare alla sua destra i più bravi e disse loro: “Grazie figlioli miei; studiate ancora per diventare sempre più bravi e io, quando sarete grandi, vi darò ogni sorta di onori, perchè solo voi siete degni ai miei occhi”.
Po si volse a quelli che erano alla sua sinistra, fece loro un viso molto accigliato e disse: “In nome di Dio io vi dico che non mi importa nulla della vostra nobiltà e della vostra bellezza fisica. Vi ammiri pure chi vuole, per queste stolte cose. Io vi avverto che, se non diventerete migliori, non otterrete nulla da Carlo”.

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Le conquiste di Carlo Magno

Carlo Magno intervenne in difesa del Papa in lotta contro i Longobardi e vinse l’ultimo re longobardo Desiderio; poi cinse a Pavia la corona dei re longobardi, stabilendo così in Italia il dominio dei Franchi.
Questa fu una delle numerose guerre che egli combatté nei 46 anni del suo regno, per costituire un vasto impero in occidente.
Per ben 32 anni Carlo Magno guerreggiò contro i Sassoni, un popolo ancora barbaro e idolatra che abitava la regione settentrionale della Germania.
Alla fine il loro re Vitichindo si sottomise a Carlo, che lo costrinse a convertirsi al cristianesimo con tutto il suo popolo.
Ardua fu anche la lotta combattuta contro gli Arabi di Spagna. Spintosi al di là dei Pirenei, Carlo Magno riportò qualche brillante successo, ma non potò conquistare Saragozza. Durante la ritirata, la sua retroguardia fu completamente distrutta al passo di Roncisvalle (778). Cadde eroicamente in quella battaglia il più famoso dei Conti Palatini, Orlando.
Questa battaglia esercitò un grande fascino sulla fantasia popolare, e il ricordo di essa si tramandò con vivi e poetici particolari. Intorno a Carlo e ai suoi paladini, combattenti per la fede e per la patria, fiorì una serie di leggende che furono materia di molti poemi cavallereschi scritti da poeti francesi ed italiani.
Più tardi Carlo si impadronì di tutta la regione fra i Pirenei e l’Ebro e vi costituì la Marca Spagnola, che servì da baluardo all’Europa contro gli Arabi.
Carlo Magno combatté con fortuna contro i Bavari, gli Avari (stanziati nell’odierna Austria) e contro gli Slavi. Alla fine di queste guerre poteva considerarsi padrone di quasi tutta l’Europa occidentale e centrale.

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Carlo Magno sotto le mura di Pavia

I soldati franchi giunsero ben presto sotto le mura di Pavia. All’avvicinarsi di essi, il re Desiderio e il duca Ottocaro salirono su di una torre altissima, da dove si poteva abbracciare con l’occhio tutta la campagna.
Apparvero dapprima delle macchine da guerra che avrebbero fatto invidia a Dario e a Cesare. Desiderio domandò ad Ottocaro: “Carlo si trova in quell’immensa folla?”
“Non ancora”, rispose questi.
Vedendo poi le milizie raccolte in ogni parte del nostro vasto impero, il longobardo disse: “Certo, Carlo avanza trionfalmente in mezzo a quelle masse profonde”.
“No, non ancora, non ancora”.
Il re, turbandosi, mormorava: “Ora che faremo noi, se vengono con forze così considerevoli?”
“Voi non capirete chi sia Carlo Magno ” diceva Ottocaro, “che quando comparirà. Quello che accadrà di noi allora, io non lo so”.
Mentre scambiavano queste parole, giungeva la guardia reale, che non conosce mai riposo. Desiderio era stupefatto.
“In fede mia, non è là Carlo!” diceva.
“Non ancora!”
Poi sfilano con gran seguito i vescovi, gli abati, i chierici della cappella palatina ed i Conti. A tal vista Desiderio, on potendo più oltre sopportare la luce del giorno e sentendo il freddo della morte, rompe in singulti e balbetta: “Discendiamo, nascondiamoci nelle viscere della terra, lontano dalla faccia e dal furore di un così terribile nemico!”.
Ottocaro, anch’egli tremando, egli che ben conosceva la potenza di Carlo e che in tempi migliori era vissuto vicino a lui, dice: “Quando vedrai nella montagna erigersi come una messe di lance, quando le onde oscurate del Po e del Ticino, non riflettendo che il ferro delle armi, avranno gettato sulle mura nuovi torrenti di uomini coperti di ferro, allora saprai che Carlo è vicino!”.
Non aveva terminato di dire, che all’improvviso l’occidente di velò di una nube tenebrosa; pareva che un uragano avesse oscurato la luce del cielo. A misura che il re avanzava, il luccicare delle spade proiettò sulla città un giorno più sinistro della stessa notte.
Ben presto Carlo fu in vista, gigante di ferro: sul capo un elmo di ferro, guanti di ferro alle mani, il petto e le spalle coperti di una corazza di ferro.
La mano sinistra brandiva una lancia di ferro, mentre la destra era distesa sul ferro della sua invincibile spada. Il ferro copriva le vie ed i piani; in ogni dove i raggi del sole riverberavano sul ferro.
Dalla città si elevava un clamore confuso: “Quanto ferro, ohimè!”
“Re!” gridò Ottocaro, “Ecco colui che i vostri occhi cercavano da gran tempo!”
E pronunciando queste parole cadde svenuto.
(Monaco di San Gallo)

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Il Sacro Romano Impero

Dopo tante guerre, Carlo Magno regnava su una buona parte d’Europa e dimostrava di saper governare saggiamente. Tutti vedevano in lui un grande imperatore amante della pace e dell’ordine, ed egli sognava di far rinascere l’antico ordinamento romano. Infatti il nuovo impero si chiamò Sacro Romano Impero.
Ben diverso dall’antico Impero Romano, che era uno stato vero e proprio, retto dalla forza delle leggi di Roma,  questo di Carlo Magno era un agglomerato di popoli diversi, ciascuno dei quali conservava le proprie leggi e le proprie tradizioni.
Uguale per tutti fu invece l’ordinamento amministrativo: il territorio fu diviso in contee con a capo un conte. Nelle zone di confine si crearono le marche, più vaste e più forti delle contee, governate da marchesi (per esempio la Marca Spagnola, posta come baluardo contro gli Arabi; la Marca Avarica, l’odierna Austria, contro gli Slavi). Accanto ai conti erano per importanza i Vescovi, cui furono affidati molti uffici.
Conti e marchesi reclutavano i soldati e li fornivano all’esercito imperiale, amministravano la giustizia e riscuotevano i tributi in nome dell’Imperatore.
L’imperatore controllava conti e marchesi, mandando periodicamente coppie di ispettori detti “missi dominici” dei quali uno era laico e l’altro ecclesiastico, a visitare le contee; essi ascoltavano le querele delle popolazioni, si informavano dei bisogni e sopprimevano gli abusi.
Carlo Magno dettò per tutto l’impero alcune leggi generali dette “Capitolari”. Ogni anno, in primavera, si radunava presso la residenza imperiale un’assemblea generale di tutti gli uomini liberi, detta Campo di maggio: vi si approvavano le leggi già preparate.
Carlo Magno non scelse una città come capitale stabile; a seconda delle necessità del governo, egli mutava residenza. Negli ultimi anni risiedette di solito ad Aquisgrana.

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Provvedimenti economici

Carlo Magno diede incremento anche alla vita economica, provvedendo con una serie di editti alla buona amministrazione del suolo coltivato, all’incremento dell’allevamento del bestiame, regolando le prestazioni personali dei contadini, tentando, ma invano, di salvare la classe dei piccoli proprietari.
Rese più sicuro e facile il cambio con l’introduzione di un sistema monetario e di uno di pesi e misure unico per tutto l’Impero.
L’avanzata degli Arabi aveva quasi del tutto distrutto le relazioni commerciali fra l’Oriente e l’Occidente; l’economia accentuò quindi il suo carattere particolaristico ed agricolo. Molte merci di lusso, provenienti dall’Oriente, erano sparite o diventate assai rare: Carlo Magno dovette perciò sostituire nella monetazione l’argento all’oro; il papiro, a partire dal secolo VIII, in Gallia cedette il posto alla pergamena.

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Ciò che i missi dominici dovevano controllare

In una legge stabilita nell’802 Carlo Magno indicò che i missi dominici dovevano controllare. Tra le altre cose, essi dovevano informare l’imperatore sull’osservanza di questi obblighi:
“E’ fatto obbligo ai giudici di giudicare con giustizia secondo quanto prescrive la legge scritta e non seguendo il loro arbitrio”.
“Le misure siano uguali ed esatte e giuste e uguali per tutti i pesi”.
“Non di compiano di domenica lavori servili”.
“Si tengano tutti pronti per quando possa venire, in qualsiasi momento, un ordine dell’Imperatore”.
“Tutti gli promettano fedeltà”.
“I nostri missi, ovunque se ne riconosca la necessità, ricerchino e si preoccupino del giusto quanto alle chiese di dio, alle vedove, agli orfani, ai pupilli e a tutti gli altri uomini. Quanto si trovi da correggere, essi correggano il meglio che possono; quanto non riescono a correggere traducano al nostro tribunale”.
(da Capitulare missorum)

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La notte di Natale dell’800

Nella cattedrale di San Pietro c’era messa solenne, la notte di Natale dell’800; tutti i sacerdoti della curia erano assisi negli scranni; in mezzo il trono del pontefice Leone III. Al momento del Vangelo questi si alzò dirigendosi verso l’altare maggiore dove stava inginocchiato Carlo Magno, il conquistatore d’Europa, che abbandonate le vesti guerriere, indossava uno sfarzoso abito da patrizio romano.
Papa Leone, nel silenzio attonito, pose sul capo di Carlo la corona degli imperatori di Roma dicendo: “A Carlo Augusto, coronato da dio, grande e pacifico imperatore, vita e vittoria”. E parve allora che Roma fosse nuovamente tornata al centro del mondo.

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Morte di Carlo Magno

Carlo Magno, in età di 72 anni, dopo aver regnato per 46 anni come re e 14 come imperatore, morì in Aquisgrana, nell’814, e fu sepolto nella basilica da lui stesso voluta. Il suo corpo fu imbalsamato e posto nel sepolcro seduto su uno scranno d’oro, cinto della spada d’oro e con in mano il Vangelo, con la corona sul capo e nella corona incastonato un frammento ligneo della croce.
Indossava abiti imperiali; il volto era coperto da un sudario. Davanti a lui furono appesi lo scettro e lo scudo. Poi il sepolcro fu chiuso e sigillato.

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I giudizi di dio

La legge salica, che formava quasi la “costituzione” dei popoli franchi, conteneva parecchie norme che regolavano lo svolgimento dei processi. Per dimostrare l’innocenza o la colpevolezza dell’accusato si ricorreva spesso al cosiddetto “giudizio di dio”. Si pensava cioè che dio intervenisse direttamente a favore dell’innocente. Per esempio, l’accusato veniva legato mani e piedi e gettato in un fiume, che era stato in precedenza benedetto.
Se l’annegato andava a fondo, era innocente: se galleggiava era colpevole: si pensava infatti che l’acqua benedetta respingesse chi fosse macchiato da un delitto. Si presume che poi l’innocente venisse ripescato!
Altre volte la prova consisteva nel camminare a piedi nudi su carboni ardenti, o nel reggere in mano un ferro incandescente.
Molto spesso, infine, si decideva una controversia ricorrendo a un duello: dio avrebbe guidato la mano di chi aveva ragione e avrebbe dato la morte a chi aveva torto.

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Morte di Orlando

Le gesta di Carlo Magno e dei suoi paladini per cacciare i Mori di Spagna ispirarono uno dei più bei capolavori della poesia epica di tutti i tempi; La canzone di Orlando (La chanson de Roland)  dovuta, pare, al francese Turoldo. La pietosa fine del paladino Orlando tradito e massacrato nella gola di Roncisvalle, nei Pirenei, mentre guidava sulla via del ritorno la retroguardia dell’esercito, occupa alcune delle più belle pagine del poema.
Orlando è ormai ferito a morte e tenta, ma invano, di infrangere la sua invitta e prodigiosa spada Durlindana. Sente che la morte lo possiede e lo invade dalla testa al cuore. Corre sotto un pino e si corica sull’erba verde, faccia a terra; mette sotto il corpo la spada e il corno; poi volge il capo verso i pagani, perchè vuole che Carlo e tutti dicano che il nobile paladino è morto combattendo. Poi con flebile voce grida i suoi peccati e tende a dio il guanto e le sue colpe.
Sa che la sua vita è finita. E’ sopra un poggio aguzzo, il viso verso la Spagna; con una mano si batte il petto: “Confesso, o Signore, davanti alla tua maestà la mia colpa per tutti i miei peccati, da quando sono nato ad oggi, che sono battuto”. Tende il guanto destro a dio, gli angeli scendono a lui.
Il paladino Orlando giace sotto il pino, ed ha la faccia rivolta verso la Spagna. E di molte cose si rammenta, di tante terre, della dolce Francia, degli uomini della sua stirpe, di Carlo suo signore che lo aveva nutrito.  E non può esimersi dal piangere e dal sospirare. Ma non vuole dimenticare se stesso, confessa i propri peccati e implora da dio pietà. Offre a dio il suo guanto destro. E san Gabriele lo prende di propria mano. Sul braccio tiene il capo chino, poi a mani giunte attende la morte. Dio gli manda un suo angelo cherubino e san Michele del Periglio. E con questi San Gabriele. E così portano in paradiso l’anima del paladino.

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Carlo Magno

Persona ampia e robusta, era piuttosto alto ma non troppo. Aveva testa rotonda, occhi grandi e vivaci, naso un po’ più largo del comune. Usava assiduamente cavalcare e cacciare. Si esercitava di frequentare al nuoto e invitava a bagnarsi con lui non soltanto con i figlioli, ma anche le persone più altolocate e gli amici, e talvolta perfino la moltitudine delle sue guardie del corpo, così che in certe occasioni ci furono in acqua insieme con lui cento persone e anche più. Nei giorni normali, il suo pasto principale constava di quattro portate, senza contare l’arrosto che i cacciatori solevano portare infilato negli spiedi, e che era il suo piatto preferito.
Mentre cenava, ascoltava un po’ di musica o di lettura. Era così sobrio in fatto di vini che non beveva mai più di tre volte per pasto. D’estate, dopo il pasto di mezzogiorno, prendeva qualche frutto, beveva una sola volta, poi spogliatosi delle vesti e delle scarpe, come fosse notte, riposava due o tre ore.

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I passatempi di Carlo Magno

Passatempi preferiti del sovrano furono l’equitazione e la caccia, dei quali ebbe il gusto fin dalla fanciullezza. Molto lo dilettavano anche le acque termali. Spesso si dava al piacere del nuoto, vincendo in gara chiunque competesse con lui. Infatti ai bagni della Mosa, per i quali ad Aquisgrana aveva costruito un palazzo, convenivano oltre ai figli anche i dignitari della corte. Si vedevano spesso nello specchio d’acqua, assieme con l’imperatore, anche cento e più persone.
Aveva buona salute; non fu malato che negli ultimi quattro anni della sua vita, quando fu soggetto a frequenti attacchi di febbre. Ma anche allora sdegnava il consiglio dei medici: egli li aveva in uggia e non voleva assoggettarsi alle loro prescrizioni, perchè gli vietavano l’uso delle carni arrostite. Questo era il piatto da lui preferito. L’Imperatore fu particolarmente sobrio nel bere perchè in tutte le persone condannava l’ubriachezza.
Fin dall’infanzia fu iniziato alla vita devota e si dedicava con scrupolo alle pratiche religiose. Ma egli seguì anche i precetti evangelici della carità: aiutò i poveri anche fuori del suo Impero, inviando elemosine in Siria, in Egitto e altrove. La povertà di quegli uomini muoveva la sua compassione; e appunto per procurare a costoro qualche conforto ricercò l’amicizia dei sovrani d’oltremare.
(Eginardo)

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Il giuramento dei Vassalli

Io giuro per questi santi vangeli, che d’ora in avanti sarò fedele a costui come deve un vassallo al signore, e ciò che egli affiderà alla mia fedeltà, non rivelerò consapevolmente ad altri in suo danno.
Io giuro su questi santi vangeli che d’ora innanzi sino all’ultimo giorno della vita sarò fedele a te, mio signore, contro ogni uomo eccetto l’imperatore. Cioè giuro che scientemente non parteciperò mai a deliberazione o ad atto per cui tu perda la vita o qualche membro, o riceva danno nella persona, o ingiustizia o insulto, che tu perda qualche diritto che tu hai o in futuro avrai. E se avrò saputo o udito di alcuno che voglia fare qualcuna di queste cose a tuo danno, cercherò di impedire, nella misura delle mie forze, che questo avvenga, e se non potrò oppormi ti avviserò al più presto possibile, e ti aiuterò contro di lui quando potrò. E se accadrò che tu perda qualche cosa che hai o avrai, per ingiustizia o per caso, ti aiuterò a recuperarla, e, recuperata, a conservarla. E se avrò saputo che tu vuoi giustamente assalire qualcuno, e sarò stato da te invitato, sia in forma generale sia personale, ti darò il mio aiuto come potrò. E se tu mi avrai rivelato qualche segreto, non lo svelerò al alcuno, senza tuo permesso, né farò in modo che sia svelato. E se mi chiederai consiglio su qualche cosa ti darò il consiglio che mi sembra più utile per te. E mai di persona farò coscientemente cosa che possa essere di danno ed insulto a te e ai tuoi.

CARLO MAGNO dettati ortografici e letture – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici e materiale didattico sul TRENTINO ALTO ADIGE

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Osserviamo la cartina

Confini: Austria, Veneto, Lombardia
Monti: Alpi Centrali (Retiche) , Alpi Orientali (Atesine e Dolomitiche), Prealpi Venete.
Cime più alte: Cima Tosa nel gruppo di Brenta; Presanella; Cevedale; Ortles; Palla Bianca; Vetta d’Italia; Picco dei Tre Signori; Cime di Lavaredo; Marmolada; Catinaccio; Latemar; Pale di San Martino; Monte Baldo; Pasubio
Valli: Giudicarie, Val di Non, Val di Sole, Val d’Ultimo, Val Venosta, Passiria, Val Sarentina, dell’Isarco, Val Pusteria, Val Gardena, Val di Fassa, Val di Fiemme, Valsugana, Valle Lagerina
Valichi: della Mendola, del Tonale, dello Stelvio, Di Resia, del Giovo, Del Brennero, di Dobbiaco, Monte Croce di Comelico, di Sella, del Pordoi, di Costalunga, di Rolle
Fiumi: Adige, Chiese, Sarca, Brenta. Affluenti di sinistra dell’Adige: Isarco (col suo affluente Rienza), Avisio. Affluenti di sinistra: Noce
Laghi: di Garda, di Ledro, di Molveno, di Tovel, di Resia, di Braies, di Carezza, di Levico, di Caldonazzo.

Questa regione, che si incunea tra la Lombardia e il Veneto, è formata da due territori: il Trentino e l’Alto Adige. Interamente montuosa, la regione comprende le Alpi Retiche e un gruppo delle Dolomiti, che si innalzano aspre e ardite.
Numerosi laghetti alpini rendono pittoresche le verdi conche; deliziose sono le stazioni climatiche e famosi i centri sportivi invernali.
Solcata dall’Adige, questa regione, ricchissima di ricordi e di testimonianze dell’eroismo profuso dai nostri soldati nella guerra combattuta, dal 1915 al 1918, per ridare alla nostra Patria i suoi confini naturali, è una delle più pittoresche d’Italia.

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Vita economica

L’agricoltura, alla base dell’economia della regione, è una delle principali fonti di ricchezza. Sui pendii dei monti, in pieno sole, vi sono vigneti, campi di grano, di patate, di frutta, di tabacco.
Nei prati estesi e ben tenuti pascolano bovini, ovini ed equini.
Le folte e scure foreste danno abbondante e pregiato legname.
Per l’abbondanza delle acque primeggiano le industrie idroelettriche, poi quelle alimentari, le industrie chimiche, i cotonifici, le fabbriche di cemento. Attrezzatissima è l’industria turistica ed alberghiera.
Dalle cave si estraggono marmi pregiati e porfido, usato per le massicciate stradali. Notevole è pure l’artigianato.

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Province

Il Trentino Alto Adige ha un’amministrazione autonoma e comprende due province. Trento, il capoluogo del Trentino, sorge sulle rive dell’Adige. Di origine antichissima, è città ricca di ricordi storici e patriottici.
Bolzano, capoluogo dell’Alto Adige, è per la sua posizione un centro commerciale e alberghiero di prim’ordine. Vanta industrie idroelettriche, chimiche e meccaniche.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio del Trentino Alto Adige?
Il tratto delle Alpi che si erge tra il Trentino Alto Adige e il Veneto è costituito da magnifiche montagne, meta di numerosi turisti. Sai come si chiamano e quali sono le loro più attraenti caratteristiche?
Nel Trentino Alto Adige c’è la vetta che segna il punto più settentrionale dell’Italia; come si chiama? Conosci il nome di qualcuno tra i più bei laghi delle Dolomiti?
Il lago di Garda fa parte della regione?
Qual è la risorsa principale della Regione?
Che cosa offre l’agricoltura?
Quali industrie primeggiano nel Trentino?
E’ molto importante l’allevamento del bestiame?
Ricerca notizie sulla flora e la fauna altoatesina.
Il Trentino Alto Adige ha amministrazione autonoma. Che cosa significa?
Qual sono le località più importanti della Regione e perchè sono note?
Perchè nel Trentino Alto Adige si parla anche la lingua tedesca?
Perchè è famosa la Val Gardena?

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Ai confini con l’Austria

Il Trentino Alto Adige è stato giustamente definito il regno delle montagne. Infatti tutto il territorio abbraccia catene di monti, alti bacini, una grande vallata (Adige) e una serie di solchi minori. Tra le nostre regioni è quella che si spinge più a settentrione, incuneandosi tra la Lombardia e il Veneto.
Qui si trova la Vetta d’Italia, punto estremo nord del territorio italiano. Osserviamo sulla cartina il complesso di catene e gruppi montuosi del Trentino. Si possono notare in ciascuna le cime più elevate. Queste si trovano per lo più nella catena delle Alpi Atesine, sul cui crinale corre il confine con l’Austria.
Ricordiamo soltanto la Palla Bianca, il Pan di Zucchero, il Pizzo dei tre Signori con candide colate di ghiaccio. Nessuno oltrepassa i 4000 metri, eppure nel loro complesso danno un quadro  di poco inferiore per asprezza a quello visto nella cerchia piemontese. Del resto è un fatto da segnalare che man mano le Alpi si avvicinano alla loro conclusione ad oriente, vanno notevolmente abbassando le loro vette.
In questo tratto si aprono tre valichi di grande importanza per il traffico transalpino: il Passo di Resia, il Brennero, e il Passo di Dobbiaco; il primo percorso da strada,  e gli altri due da strada e ferrovia. Pure importanti per le comunicazioni con la Lombardia sono i Passi dello Stelvio e del Tonale, posti tra i gruppi dell’Adamello e dell’Ortles-Cevedale, sul lato occidentale.
Il quadro alpino più splendido, il Trentino Alto Adige ce lo riserva sul lato orientale, dal quale si innalzano le Dolomiti. Nel loro insieme costituiscono quasi un mondo a sé, notevolmente diverso dagli altri gruppi montuosi.
Si tratta di rocce di particolare formazione, di origine sedimentaria come tante del sistema alpino, ma passate attraverso altre vicende. Le Dolomiti, viste da vicino nel loro gruppi principali (il Sella, il Catinaccio, il Sasso Lungo, la Marmolada, le Pale di San Martino) presentano ora guglie slanciate, ora esili muri smerigliati, ora tozzi castelli, tra loro intagliati da paurosi strapiombi e da ripidi canaloni, ai piedi dei quali viene ad accumularsi una massa di ghiaia e di detriti che si sono staccati dalla roccia.
Completa il rilievo del Trentino Alto Adige il settore meridionale, anch’esso montuoso, costituito dai più dolci e blandi contrafforti prealpini (Monti Lessini, il Pasubio, il Monte Baldo).
Il fiume Adige è il grande collettore delle acque della regione: nasce al Passo di Resia e subito dopo pochi chilometri passa per un ampio solco dal piatto fondo, che si fa via via più dilatato e costituisce l’unico lembo di piano in mezzo a tante conche e declivi.

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L’agricoltura

La regione ha la sua principale fonte di ricchezza (metà del territorio ne è coperta) nel patrimonio boschivo, costituito per la maggior parte da alberi pregiati dell’abete rosso, del larice, del pino. Nel Trentino i boschi sono quasi tutti di proprietà comunale, così fa garantire un’equa distribuzione del reddito tra la popolazione locale; prevale invece la proprietà privata nei boschi dell’Alto Adige. Pur presentando il paesaggio vaste e verdi estensioni prative, l’allevamento del bestiame non raggiunge un livello eccezionale; le mandrie bovine vivono durante l’estate negli alti pascoli e in quelli bassi in primavera e in autunno; molti di questi pascoli, come i boschi, sono di proprietà comune.
Le vallate della regione hanno un’eccellente produzione di frutta; in particolare, uva e mele; ovunque è possibile si sviluppa la coltivazione dei cereali e delle patate.

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L’allevamento del bestiame

Nel modo di vita dei montanari, l’allevamento del bestiame appare una caratteristica importante.
I villaggi non grossi sono siti in prevalenza nei fondi vallivi; attorno ad essi si stendono minute scacchiere di campicelli, scacchiere evidenti al momento della maturazione delle messi, quando i riquadri assumono colori diversi (orzo e segale, patate, ortaggi, ecc.). Ma le risorse propriamente agricole sono in genere tutt’altro che sufficienti.
Ed ecco, ben connaturato con l’ambiente alpino, l’allevamento del bestiame bovino (quello delle pecore e delle capre ha perduto via via d’importanza): nei fondovalle, sui coni e sulle prossime falde si coltivano piante foraggere col sussidio dell’irrigazione, pratica molto diffusa nelle Alpi; radure, appositamente aperte nella fascia boschiva, offrono pascolo e prati da sfalcio; le praterie superiori al limite del bosco costituiscono una vera riserva di erba estiva, in genere utilizzata direttamente col pascolo, portandovi il bestiame dei villaggi.

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Trento

Trento, capoluogo della regione, sorge sull’Adige, tra una magnifica schiera di monti. Ha notevoli monumenti, quali il Duomo (dedicato a San Virgilio), il Castello del Buon Consiglio, la Chiesa di Santa Maria Maggiore, il Monumento a Dante (eretto nel 1896, sotto la dominazione austriaca), il monumento a Cesare Battisti, cui la città diede i natali.

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Bolzano

Situata in un’ampia conca, sulla destra dell’Isarco, è città di aspetto moderno, attivo centro industriale, commerciale e turistico, importante nodo di comunicazioni. Vi si tene annualmente una Fiera Campionaria Internazionale. Ha bei monumenti, tra cui il Duomo, Castel Roncolo (uno dei più belli dell’Alto Adige), il monumento alla Vittoria.

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Cittadine del Trentino

Centri notevoli della regione sono: Rovereto, vecchio centro industriale del setificio e patria del filosofo Antonio Rosmini; Merano, in posizione incantevole e dal clima mitissimo; Bressanone, nota stazione climatica; Riva, adagiata sulla sponda del lago di Garda e centro alberghiero; Arco, dominata da un’asperrima rupe su cui troneggiano e rovine di una rocca, che ha dato i natali al grande pittore Giovanni Segantini; Levico, famosa per le sue acque minerali terapeutiche, alle sorgenti del fiume Brenta, dominata dalle montagne degli altipiani vicentini che le stanno di fronte; Molveno, sulla riva del lago omonimo, che ebbe origine dallo sbarramento di una enorme frana preistorica (oggi è stato sbarrato, per alimentare un’imponente centrale idroelettrica); Fiera di Primiero, notevole centro di villeggiatura nella Valle del fiume Cismon, ai piedi del villaggio turistico di San Martino di Castrozza e del gruppo dolomitico delle Pale di San Martino.

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Trento

Quella graziosa, gaia, linda città che è Trento congiunge nel suo aspetto lo spirito montanaro, un avanzo d’ordine austriaco ed il pittoresco del Veneto. Non è ricca, eppure le strade sono ben asfaltate, hanno la pulizia cristallina delle Alpi. Contemplo con piacere le antiche case, con facciate dipinte di figure. Nei giorni di sole il castello del Buon Consiglio riacquista letizia benchè chiuda fra le sue mura la tomba di Battisti e degli altri martiri. Ma bisogna vedere al buio il palazzo Tabarelli che fu, secondo la leggenda, eretto dal diavolo in una notte. Piace ai trentini andare in gita a Castel Toblino… oppure nella Val Rendena, verso Madonna di Campiglio, in cui si vedono chiesette con le pareti esterne ricoperte di affreschi popolari che fanno pensare al Messico.
(G. Piovene)

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Bolzano

Percorrendo in treno il canale alpino che va da Trento a Bolzano, ci vien fatto di immaginare come venti secoli fa le legioni imperiali con le lance e le insegne romane, e i  manipoli di cavalieri, risalissero questa valle, attraverso pantani, tempeste e orrori di un’epoca presso a pressapoco antidiluviana.
Ecco infatti venirci addosso le Dolomiti che fiancheggiano la strada ferrata: ci si parano dinanzi, a tratti, improvvise di luce, ciclopiche.
Rosse, rosee, cineree pareti da scalare con le corde e la piccozza. Lassù, inaccessibili, sull’orlo degli abissi, sporgono la testa ogni tanto i fortilizi italiani, eccelsi nell’azzurro come il Walhalla.
Sotto le Dolomiti, nelle verdi e piane pezze di terra c’è la vigna bassa e fitta, coi tralci distesi e tirati a tetto come si sua nelle colline dei Castelli romani (le graticciate di ferro della linea a fili elettrici, gli orti carichi e pieni di grosse mele rosse) e le acque correnti limpide come il cristallo.
Qui si comincia a respirare, a narici dilatate, la famosa aria di Bolzano.
Quest’aria fina e leggera dalla carezza fredda, quest’arietta frizzante e movimentata, che con la complicità del vinello che c’è da queste parti ti fa venire il naso rosso, che ti assidera un po’ le orecchie, pura al cento per cento.
Bolzano è chiusa, circondata da alte montagne. La vallata è profonda, circoscritta; più che una valle è un buco. Nelle ere geologiche qui c’era forse un lago, un serbatoio naturale di acque, di fango e di mostri anfibi di una specie umida e favolosa, perduta ormai per sempre; adesso c’è un clima asciutto, secco, l’aria pungente e pura e il fiume Isarco: velo trasparente d’acqua che le vivaci trote risalgono.
Qui tutto esprime la gioia di vivere: i grandi alberi con il fogliame così pulito e risplendente di freschezza che si direbbe l’abbian messo in bucato e poi ad asciugare sotto il tenero sole di Bolzano; le fontane di acque alpine che scrosciano davanti alla stazione; il largo e tranquillo traffico degli uomini e delle automobili.
(B. Barilli)

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La campana dei caduti

Nella Val Lagarina, in prossimità di Trento, giace Rovereto, industre cittadina lambita dall’Adige. Tra i monti dei dintorni, alcuni portano nomi che ricordano l’eroismo e la tenacia dei soldati italiani durante la prima guerra mondiale: il Pasubio, l’Altopiano di Asiago, la Cima Dodici, che furono teatro di battaglia tra le più aspre che insanguinarono i monti della patria. Oggi Rovereto lavora tranquilla e operosa nella sua conca, battuta dal sole implacabile dell’estate e dai rigidi venti dell’inverno; ma non dimentica i Caduti di quelle epiche lotte sostenute per l’indipendenza di quell’estrema regione d’Italia. Glieli ricordano i 36 cimiteri di guerra che la circondano; gliela ricorda Maria Dolente, la campana che ogni sera batte cento rintocchi in loro memoria e in memoria dei Caduti delle guerre di tutto il mondo. Fusa nel bronzo dei cannoni degli eserciti che parteciparono alla prima guerra mondiale e benedetta con l’acqua dei fiumi e dei mari che furono testimoni delle più aspre battaglie, i suo i rintocchi sono come voce di madre che implori la pace per i figli diletti.

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Un po’ di geologia

Le Dolomiti costituiscono un mondo alpino a sé stante sia per confermazione geologica che per aspetto.
Esse devono il loro nome al geologo Deodat Gratet de Dolomieu che, per primo, ne studiò la complessa costituzione. Alla cosiddetta “dolomia principale”, che è l’elemento più evidente, si intercalano rocce tenere e rocce calcaree: mentre le prime offrono una limitata resistenza all’incessante opera modellatrice degli agenti esogeni, cioè all’azione di ghiacci, delle piogge e del vento, le rocce calcaree rimangono nettamente staccate, compatte su estese fasce e falde di detriti e di ghiaia.
Nel paesaggio dolomitico, quindi, mancano i grandi altipiani, appaiono raramente le creste continue e i fianchi ampi e poderosi arrotondati dalla millenaria azione dei ghiacciai. Le Dolomiti sono il regno delle moli isolate, delle cime dagli aspetti più complessi, più strani, più irreali: guglie slanciate e tozzi castelli, miri sottili ricamati da aerei trafori e bastioni poderosi come giganteschi contrafforti. E strana, pittoresca è la nomenclatura che ben si s’addice alla singolarità del paesaggio: piz (pizzo), croda (roccia nuda, parete), pala (parete rocciosa), cadin (conca) giaroni (falde di ghiaia).

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Strade dolomitiche

Non ci sono ghiacciai sulle dolomiti: ci sono laghetti azzurri, scuri abeti secolari, pascoli verdi e nudi picchi di roccia. Sono rocce rosa, grige, color oro o color sabbia, a seconda del sole; sono rocce solide e potenti o guglie sottili in bilico sui declivi erbosi; sono talvolta strane moli che sembrano, con il variare delle luci, cattedrali o castelli. E fra queste rocce, fra questi abeti, fra questi pascoli si inerpicano le strade dolomitiche; salgono ai valichi famosi, al Pordoi, al Rolle, al Falzanego; vengono dalla Val Gardena, dalla Val Pusteria, dal Lago di Carezza, vanno verso Cortina d’Ampezzo, verso l’incanto di Misurina.
(A. Danti)

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La leggenda dell’edelweiss

Nelle Dolomiti viveva un re il cui figlio sognava da anni di andare sulla Luna. Un giorno il principe riuscì a realizzare il desiderio, aiutato da due strani omini che però lo avvisarono: “Non resterai a lungo lassù; lì è tutto bianco ed abbagliante e ci perderesti la vista”.
Infatti dopo non molto tornò sulla Terra, portandosi in sposa la figlia del re della Luna, che era bellissima e diffondeva, attorno a sé, una gran luce bianca. La principessa aveva recato certi fiori bianchi che sulla Luna coprivano campi e monti come uno strato di neve. E questi fiori si diffusero per tutte le Alpi; gli Italiani li chiamano “stelle alpine” e i Tedeschi “edelweiss”.

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Dimore di pastori nel Trentino

Nella zona dei prati e dei pascoli di alta montagna sono comuni le “malghe” e le “manzare”, dimore temporanee che servono per la monticazione estiva rispettivamente delle mucche da latte e delle bestie asciutte.
Le malghe constano di solito di due fabbricati costruiti di muro e coperti con tetti di scandole, ossia assicelle di legno; uno, il maggiore, è la stalla. In esso si tengono chiusi gli animali durante la notte. L’altro, più solidamente costruito e meglio riparato, è la malga propriamente detta, dove vivono e dormono il malgaro con la  famiglia e talvolta anche i pastori. I locali essenziali sono tre: la cucina, dove si lavora il latte; il locale dove si conserva il formaggio e quello dove si mette il latte ad affiorare.
Nella cucina trovi un primitivo focolare formato da tre o quattro sassi grossi, intorno al quale ci sono delle rozze panche. E’ il focolare d’uso privato, dove i pastori e il malgaro si preparano i pasti: immancabile la polenta di granoturco, meno frequente di grano saraceno, che si mangia col formaggio o col latte o con la ricotta. Su una tavola, spesso fissata al muro, e su rozze mensolette trovi disposte le scodelle e le ciotole di terracotta, il vasetto del caffè e quello del sale. In un canto la padella e il paiolo di rame.
Di fronte al focolare, in una rientranza del muro, c’è la caldaia di rame, di grandi dimensioni, ove si riscalda il latte spannato e si prepara il formaggio. Vicini alla caldaia si vedono dei bastoni a un’estremità dei quali sono infissi, a raggiera, dei pioli: sono gli strumenti che si adoperano per la cagliata, adattissimi a smuovere la massa che va cuocendo. Essenziale in una malga, oltre la caldaia, è la zangola, una specie di botticella girevole sopra un sistema di leve, nella quale si batte la panna per trarre il burro. Completano l’arredamento della cucina: la cassapanca dove si tengono le farine, i secchielli che si usano per mungere il latte, il ceppo con l’accetta per spaccare la legna, le schiumarole di legno per spannare il latte, il brentone (grande mastello dove si conserva il siero), qualche mestolo di legno col mestolone della polenta.
Annesso alla cucina è il locale dove si mette il latte appena munto, tenendovelo dalla sera alla mattina, affinché vi faccia la panna. Si procura che il locale sia fresco scegliendolo a tramontana e facendovi scorrere l’acqua per dei canaletti scavati nel suolo. Vicino al locale del latte c’è il locale dove si conserva il formaggio, collocato su mensole di legno alte da terra e sostenute da paletti conficcati trasversalmente nel muro.
(L. Bertagnolli)

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Un lago rosso

Le acque del laghetto di Tovel, nelle dolomiti, ogni estate si fanno di color rosso sanguigno. Nulla di strano! E’ il clenodio, animaletto microscopico che in questa stagione si moltiplica enormemente, a dare questa tinta a quell’acqua, giacché il clenodio è rosso e d’estate si ammassa sulla superficie dell’acqua.
Non abbiamo quindi solo il Mar Rosso che deve il suo nome a un fenomeno molto simile, ma anche il Lago Rosso.

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Fauna e flora trento-atesina

Limitandoci a percorrere le strade, non troveremo che animali e piante comuni. E’ nei boschi, cominciando dai 500 metri di altezza e, via via salendo fino ai 3000, che potremo imbatterci in lepri grige e bianche, in caprioli, in marmotte, in volpi, in tassi, in orsi, in rettili, in cervi e, là dove si elevano le rocce, anche in qualche esemplare di camoscio. Fra gli uccelli potremmo incontrare l’aquila, il gallo cedrone, il francolino, la starna, la coturnice, il lucherino.
Tra i numerosi pesci di fiume e di lago ricordiamo la trota, il salmerino, il carpione, la carpa, la tinca, il barbo,…
Per la flora ricorderemo, accanto all’olivo che prospera sulle rive del Garda, il cipresso, l’alloro, il rosmarino, il fico, il cappero, e, accanto alla stella alpina, il rododendro, la sassifraga, la primula, la campanula, il nasturzio, la genziana.
La fioritura dei pascoli alpini, meravigliosa, è una delle più gentili attrazioni della regione.

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Il Trentino Alto Adige

Meravigliosi panorami montani, aperti pascoli, folte foreste: ecco quello che ci ricorda il nome di questa regione. Ma, soprattutto, vediamo il magico gruppo delle Dolomiti con le loro pareti a picco, profondamente incise dalle piogge e dai venti, coi loro pinnacoli aguzzi che le fanno somigliare a cattedrali immense, con la loro colorazione di madreperla, sempre variante dal rosa al viola, talora squillante in toni di fiamma. Nessuna meraviglia se l’industria alberghiera prospera in questo paese e ne costituisce la principale risorsa.

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Frutteti Alto Atesini

Il treno fila veloce nell’ampia vallata dell’Adige tra il succedersi di grosse e piccole borgate, di vigneti, di frutteti e campicelli di granoturco. Tutta la vallata è il regno della frutta. I più intraprendenti frutticoltori per ottenere un prodotto perfetto, per avere cioè mele senza il più piccolo difetto, quando il frutto di primavera è ancora piccino, lo racchiudono in un sacchetto di carta cerata che lo protegge dalle eventuali nebbie e dalle punture degli insetti, e lo lasciano fino a quando il frutto può dirsi maturo.
Ma dentro al sacchetto di carta il frutto rimane verde, e perciò un po’ prima della raccolta, si tolgono uno ad uno i sacchetti che a centinaia pendono da ogni albero, perchè le mele acquistino il bel roseo e il giallo dono del sole. Bisognerebbe essere qui all’inizio della primavera, quando fioriscono mandorli, pruni, peschi, ciliegi, peri e meli. La valle è tutta un fiore, ed è uno spettacolo meraviglioso.
(G. Assereto)

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Dolomiti

Variano ad ogni variare delle ore, hanno la stessa mutabilità del mare. Il vento, le nubi, il giorno, la notte, il sole e la luna le riplasmano ad ogni istante. A volte tra cumuli di nubi grigie la luce scende perpendicolarmente e rasente illuminando le erte pareti di barlumi freddi come nell’interno di una cattedrale; contro la prima luce dell’alba appaiono nere, informi ed immiserite, ma poi il sole arriva a definirle precise in ogni contorno, accendendo nell’azzurro nettissimo il rosso aragosta delle spaccature profonde. Nel pomeriggio con calde nubi immobili le cime si inombrano tra squarci di sole, ma la loro massiccia potenza è nelle giornate di tempesta: allora tra l’irto delle punte è formidabile il tumulto di sublimi battaglie.
(G. Comisso)

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La valle dei giocattoli

Val Gardena! Una guida avverte il viaggiatore che fino a non molti anni fa si esportavano da qui settecento quintali di lavori in legno scolpito, ci cui la metà tra santi e altari e metà giocattoli-
Trecentocinquanta quintali di giocattoli per anno! Oh, valle di delizia! Valle di sogno! Per secoli questa gente è cresciuta in mezzo a questo silenzio di nevi tra invenzioni ilari e gioconde, ideando buffi congegni e personaggi gaudiosi, per l’estro sempre accesso e rivolto ad una gioia di bimbo, o al suo stupore ingenuo e ridente. Ed ha inondato il mondo di questo riso fecondo.
(G. Cenzato)

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Bolzano

Bolzano è opulenta, moderna. Ma la sua bellezza è gotica: le sue vie fiancheggiate di portici, abbellite non tanto da questa o da quella costruzione, quanto dal movimento degli angoli e dalle sporgenze che creano fondali e teatro, giochi di luce. Il suo sapore viene dall’incontro di questo sfondo con l’emigrazione italiana. Una folla irrequieta, petulante, variabile, che parla forte in diversi dialetti, si esibisce, gesticola, litiga, simile a un o sciame di maschere nello scenario opaco delle case e degli animi locali. Appare nel contrasto più meridionale. Bolzano è una città di montagna dell’Austria a cui si sovrappone un porto levantino.
(G. Piovene)

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Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta

Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta per la scuola primaria. Per la fabbricazione della carta coi bambini e altri cenni storici vai qui: Fare la carta coi bambini.

L’argomento si presta ad essere affrontato anche nell’ambito della Quarta grande lezione Montessori

Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta
Dall’albero al giornale

Ognuno di noi sa che la carta si fa ora, quasi tutta, con la corteccia degli alberi, ma non tutti sanno quanto poco tempo occorra perchè un albero si trasformi in carta.
Ecco che cosa accadde un giorno in una grande fabbrica di carta.
Alle sette e trentacinque del mattino, tre alberi furono tagliati nella foresta, portati subito alla fabbrica, scorticati e macinati. Il legno fu ridotto, passando per diversi bagni, ad un pasta la quale fu subito portata alle macchine della carta, che la distesero in fogli sottili, e alle nove e trenta usciva il primo foglio di carta.
La tipografia di un giornale quotidiano sorgeva a quattro chilometri di là, e il foglio portato da un’automobile fu immediatamente messo sotto la rotativa. Alle dieci del mattino usciva il giornale stampato.
Erano bastate due ore e venticinque minuti per leggere le notizie del giorno su di un foglio di carta, che quella mattina stessa era parte di un albero dritto e fiero nella foresta. (F. Lombroso)

Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta
Come si fabbrica la carta

I fusti vengono segati in pezzi regolari e passati in uno scortecciatore e quindi uno sminuzzatore che riduce i pezzi di legno in minuti frammenti. Questi frammenti con un nastro trasportatore vengono immersi in un mescolatore cui il legno viene mescolato a calcare e ad altre sostanze che concorrono a fare del legno una pasta omogenea. Questa pasta viene raccolta in un serbatoio e da qui passata su una tavola piana che porta la pasta a rulli pressori dai quali esce il foglio di carta che passa attraverso una serie di essiccatori. Per cento chili di tale pasta occorrono trecento chili di legno. Per via chimica, invece, si ottiene la cellulosa. La carta pronta viene calandrata, cioè avvolta in grossi rotoli per essere messa in commercio.
La carta venne fabbricata per la prima volta con fibre vegetali in Cina; gli Arabi la introdussero in Sicilia. Le grandi cartiere di Fabriano risalgono al 1276.

Dettati ortografici e letture sulla fabbricazione della carta
La carta

Carta da lettera, carta da sigarette, carta da giornali, carta moneta, carta da pacchi: quindici milioni di tonnellate  almeno di carta di diverso tipo vengono prodotti ogni anno nel mondo. Intere foreste vengono, ogni anno, trasformate in poltiglia di cellulosa, consegnata poi alle cartiere.
La materia prima della carta italiana è il pioppo o anche la canna gentile (lavorata a Torri di Zuino, presso Cervignano del Friuli), mentre a Foggia si lavora con successo la paglia, per la carta da imballaggio.

(in costruzione)

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Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA

Dettati ortografici e materiale didattico sulla LOMBARDIA, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Osserviamo la cartina

Confini: Svizzera, Trentino Alto Adige, Veneto, Emilia, Piemonte
Monti: Alpi Centrali (Lepontine, Retiche, Orobie); Prealpi Lombarde (Bergamasche e Bresciane)
Cime più alte: Bernina, Disgrazia, Ortles, Cevedale, Adamello (Alpi Centrali);  Grigna settentrionale, Resegone, Presolana (Prealpi Lombarde)
Valli: Valle del Ticino, di San Giacomo, Val Bregaglia, Valtellina, Val Camonica (Alpi); Val Brembana, Seriana, Trompia (Prealpi)
Valichi: Spluga, Maloggia, Aprica, Stelvio, Tonale.
Colline: del Varesotto, della Brianza, del Garda, Oltrepò Pavese
Pianure: Padana, con alcune zone ben delimitate (Lomellina)
Fiumi: Po. Affluenti di sinistra: Ticino, Olona, Lambro, Adda con l’affluente Serio, Oglio con gli affluenti Mella e Chiese, Mincio.
Canali: Naviglio Grande, Naviglio Pavese, Naviglio della Martesana, Canale Villoresi
Laghi: Lago Maggiore (lombarda solo la sponda orientale), Lago di Lugano (lombardi i rami estremi), Lago di Como, Lago di Garda (lombarda solo la sponda occidentale), Lago d’Idro, Lago di Monate, Lago di Comabbio, di Pusiano, d’Annone, d’Endine, di Varese.

La Lombardia deve il suo nome ai Longobardi, che la occuparono nell’anno 568 e posero in Pavia la loro capitale.
La Lombardia confina ad ovest col Piemonte, a nord con la Svizzera, ad est con l’Alto Adige, il Trentino ed il Veneto, a sud con l’Emilia. La parte settentrionale di questa regione è montuosa, comprende le Alpi Lepontine, le Retiche e le Orobie, che degradano nelle Prealpi Lombarde, percorse da amene valli ed adornate da pittoreschi laghi; la parte meridionale della Lombardia si estende nella Pianura Padana, irrigatissima. Solo nell’estremo lembo dell’Oltrepò Pavese si allunga l’Appennino Ligure. Dalle Alpi scendono vari corsi d’acqua, tutti affluenti di sinistra del Po ed in genere immissari ed emissari dei laghi. Si ha, al confine col Piemonte, un buon tratto di Lago Maggiore (la sponda orientale) da cui esce il Ticino; pure lombarda è una piccola porzione di costa del lago di Lugano. Dal lago di Como scende l’Adda, dall’Iseo l’Oglio, dal Garda il Mincio, che segna il confine col Veneto; da ricordare anche i fiumi Brembo, Serio, Chiese e Mella.
La regione, a breve distanza dagli scali marittimi di Genova e di Venezia, è pure centro di un grande traffico commerciale, ed occupa i primi posti nelle attività industriali e nell’economia del nostro Paese.

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Economia

Anche la Lombardia, come il Piemonte, comprende tre zone: la montuosa, la collinare e la pianeggiante.
La zona alpina, ricca di pascoli, favorisce l’allevamento del bestiame, il quale, praticato con criteri razionali anche in pianura, permette di ottenere una sempre maggiore produzione di latte.
Sulla collina e in pianura si producono in abbondanza uva, frutta, granoturco, frumento, foraggi, riso, barbabietole da zucchero e ortaggi.
L’industria è molto sviluppata, in ogni settore produttivo. Modesti sono invece i prodotti del sottosuolo.
Il commercio è molto attivo ed è favorito da una fitta rete di vie di comunicazione (stradali, ferroviarie ed aree).

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Province della Lombardia

La Lombardia è divisa in dodici province.
Milano è un grandissimo centro industriale e commerciale, tra i maggiori d’Europa. Oltre le sue industrie, la città vanta splendidi monumenti e insigni opere d’arte.
Bergamo, la “città dei mille”, posta trai fiumi Brembo e Serio, raccoglie e commercia i prodotti delle sue ricche e laboriose vallate prealpine.
Brescia, detta “leonessa d’Italia”, sorge allo sbocco della industriale Val Trompia, al limite delle Prealpi e la fertilissima pianura. Ha notevoli complessi industriali, tra i quali primeggiano le fabbriche di armi.
Como, sul lago omonimo, fu patria di Alessandro Volta. Nota per le seterie, è un notevole nodo stradale e ferroviario situato a poca distanza dal confine svizzero.
Cremona, importante per le sue industrie alimentari, fu patria dei più celebri liutai d’Europa. Anche oggi vi si fabbricano violini e pianoforti.
Lecco  è celebre per essere il luogo in cui Alessandro Manzoni ambientò il romanzo de I Promessi Sposi, che costituisce la più significativa eredità culturale lecchese, oltre ad affermarsi fra Ottocento e Novecento come uno dei primi centri industriali in Italia.
Lodi è un importante nodo stradale e centro industriale nei settori della cosmesi, dell’artigianato e della produzione lattiero-casearia. È inoltre il punto di riferimento di un territorio prevalentemente votato all’agricoltura e all’allevamento.
Mantova, nei cui pressi, a Pietole, nacque Virgilio, è posta sul Mincio. La sua provincia ha un’economia prevalentemente agricola.
La provincia di Monza e della Brianza è stata istituita nel 2004, ed è divenuta operativa nel 2009 con l’elezione del primo consiglio provinciale. E’ nata dallo scorporo di una porzione di territorio della allora provincia di Milano. Capoluogo della provincia è Monza, già residenza estiva del regno longobardo all’epoca di Teodolinda e Agilulfo.
Pavia, la romana Ticinum, è mercato agricolo e città industriale. E’ anche sede di una famosa Università.
Sondrio, sul fondo dell’ampia Valtellina, è città rinomata per l’industria enologica, le centrali elettriche ed i boschi che danno prezioso legname.
Varese, la gemma delle Prealpi, situata tra i laghi di Varese, Maggiore e di Lugano, è centro turistico, ma soprattutto industriale.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio della Lombardia? Quali gruppi montuosi vi si elevano? Quali ne sono le cime principali?
Nomina i principali valichi alpini che permettono le comunicazioni fra la Lombardia, lo Stato confinante e le altre regioni.
Quali sono oltre al Lago di Como gli altri laghi della Lombardia?
Come si chiama la grande pianura che si estende nella parte meridionale della Lombardia e che è anche la più vasta d’Italia? Da quali fiumi è solcata?
Segui il corso dell’Adda dalla sorgente: come si chiama la valle entro cui scorre nel primo tratto? E il lago di cui è immissario? Come si chiama il canale che collega le sue acque con quelle del Ticino? Di quale fiume è affluente l’Adda?
Quali sono le principali attività economiche della regione?
Quali sono i principali prodotti agricoli?
Perchè è famosa la fiera di Milano?
La regione vanta complessi industriali famosi non solo in Italia, ma in tutto il mondo: ricordi i principali?
Ricerca notizie sull’artigianato, le tradizioni, gli usi e i costumi della Lombardia.
Quante e quali sono le province in cui è suddivisa la Lombardia?
Per che cosa è nota la città di Como? E Cremona? E le altre province lombarde?
Da Milano si irradiano grandi autostrade: verso quali città? Osserva le linee ferroviarie che partono da Milano in direzione est, ovest, nord, sud: quali centri collegano? Dovendoti recare da Mantova a Varese quali città attraverseresti? E se da Voghera volessi giungere a Brescia quali fiumi dovresti attraversare?

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La Lombardia

La Lombardia, coronata dalle Alpi Lepontine e Retiche e limitata dall’ininterrotta via d’acqua Garda-Mincio-Ticino-Po, è terra aperta e luminosa, tutta pervasa da un ritmo febbrile di vita. Nessun’altra regione, forse, come questa, presenta condizioni tanto diverse: pianura, collina, montagne, nettamente delimitate; centri fragorosi di industrie e commerci come Milano e Brescia, e quiete cittadine prevalentemente rurali come Lodi e Mantova, ostinatamente impegnate nella grande battaglia da cui gli uomini traggono il pane. In Lombardia si trova il maggior numero di laghi alpini; sono lombardi infatti i laghi di Como e d’Iseo, tutta la parte italiana del lago di Lugano, la riviera orientale del lago Maggiore e quella occidentale del lago di Garda. (C. Paci)

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Le vie di comunicazione

Da Milano si irradia una fittissima rete di strade, autostrade e ferrovie dirette verso le altre regioni italiane e verso l’estero. A Milano fanno capo le autostrade per Torino, Varese, Como, Bergamo, Brescia, Verona, Padova, Mestre, Trieste, Napoli (autostrada del sole) e Genova.
Tutta la regione è solcata da strade statali e provinciali: importanti sono quelle dirette ai passi dello Spluga (Svizzera), dello Stelvio e del Tonale (Trentino Alto Adige). Milano è nodo ferroviario di importanza internazionale per tutte le linee che si diramano verso il Sempione, il San Gottardo e gli Stati dell’Europa occidentale e orientale, e, attraverso la Pianura Padana, lungo tutta la penisola. La Lombardia è servita dagli aeroporti della Malpensa e di Linate, nei pressi di Milano.

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Le vie d’acqua

Quando le strade erano scarse e mancavano motori e treni, esistevano già in Lombardia alcune assai utili vie d’acqua.
Il Naviglio Grande è forse il più antico dei canali: risale al 1777 ed ha una lunghezza di 150 chilometri. Esce dal Ticino e giunge a Milano, a Porta Ticinese; fu questo naviglio che permise di trasportare da Candoglia, presso Fondotoce sul Lago Maggiore, i marmi per il Duomo, su ampi barconi.
Il Naviglio di Pavia congiunge Milano col Ticino, che confluisce nel Po. Attraverso questa via d’acqua si poteva raggiungere il Mare Adriatico.
Il Naviglio della Martesana esce dal fiume Adda in vicinanza di Trezzo e giunge quindi a Milano. Fu ideato e voluto, nel 1460, da Francesco Sforza; venne prolungato da Ludovico il Moro. Questo naviglio prese il nome del contado della Martesana, che attraversa.
Il Canale Villoresi serve ad unire il Ticino con l’Adda. Le sue acque rendono più fertile la bassa Brianza. Fu iniziato nel 1881 e porta il nome del suo ideatore.

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Il lago di Como

Chi ha vissuto una sera d’estate in riva a un lago sa che cosa sia la beatitudine. Un calore fermo, avvolgente, sale in quell’ora dalle acque che sembrano  lasciate lì, immobili e qua e là increspate dall’ultimo fiato di vento che il giorno andandosene ha esalato, e il loro aspetto è morto e grigio. Si prova allora, più che in qualunque altro istante della giornata, quella dolce infinita sensazione di riposo auditivo che danno le lagune, dove i rumori non giungono che ovattati.. Come sanno d’acqua le parole che dicono i barcaioli che a quell’ora stanno a chiacchierare sulla scaletta! Come rimbalzano chiocce nell’aria! I rintocchi delle squille lontane attivano all’orecchio a grado a grado e rotondi, scivolando dall’alto del cielo pianamente a guisa di lentissimi bolidi. La sera scorre placida, è tutta un estatico bambolarsi, un fluire di cose silenziose a fior d’acqua. Naufraga d’un tratto in un chiacchiericcio alto, intenso, diffuso, simile al clamore di una festa lontana, appena si accendono i lampioni, tra le risate e le voci varie e gaie che escono dagli alberghi dopo cena e il fragore allegro di un pianoforte che giunge dall’altra riva.
Poi tutto sfuma e rientra ben presto nel gran silenzio lacustre, dove più non si ode che il battere degli orologi che suonano ogni quarto d’ora, a poca distanza l’uno dall’altro, da tutti i punti della sponda, e quel soave, assiduo scampanio delle reti che i pescatori lasciano andare di sera alla deriva, che fa pensare insistentemente a un invisibile gregge in cammino.
Nelle notti di luna piena i monti che non la ricevono sono cento volte più neri e le vie ed i viottoli della campagna paiono tante scie di lumaca.
(V. Cardarelli)

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Agricoltura

Nel settore agricolo la Lombardia è ai primi posti tra le regione italiane. Ciò è dovuto sia a motivi d’ordine naturale (la grassa terra padana, l’abbondanza di acqua e le tiepide risorgive) sia ad una razionale organizzazione del lavoro umano, che si avvale dei più moderni ritrovati meccanici e chimici (macchine, concimi ecc…). Nell’alta pianura, dove sono stati scavati numerosi canali, si produce mais; nella bassa grano e riso. La produzione di foraggi, ingentissima, è favorita dalle marcite, ove, sfruttando l’acqua delle risorgive (18° di temperatura) si attuano sette o otto raccolti l’anno. Notevole anche la produzione di barbabietola, canapa, ortaggi, patate e legumi. In regresso è la cultura del gelso per l’allevamento del baco da seta; molto sviluppato è l’allevamento dei bovini. Sviluppatissima è l’industria dei latticini, con lo scarto dei quali di confezionano mangimi per l’allevamento dei suini. Nelle colline vi sono frutteti e vigneti; attorno ai laghi il clima permette la coltivazione di olivi e agrumi.

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La marcita

E’ una speciale caratteristica coltura a prato della regione lombarda. La  denominazione deriva dal pratum marcidum, cioè terra bassa, con acque non del tutto stagnanti.
L’osservazione, assai antica, del persistere di una certa vegetazione a prato, anche durante il periodo invernale, fece sorgere l’idea dell’irrigazione in tempo d’inverno, usufruendo della abbondanti acque del terreno. Dapprima si trattò di distribuire meglio l’acqua sorgiva (della zona dei fontanili), favorendone anche il deflusso.
Si attribuisce a San Benedetto ( secoli V – VI) il merito di aver insegnato ai contadini lombardi i metodi di tale coltura, ma i maggiori perfezionamenti si ebbero più tardi, nel secolo XIX, con l’attuazione di impianti di irrigazione, studiati per tale scopo.
D’inverno le marcite si presentano verdeggianti, perchè sono irrigate dall’acqua delle sorgive che hanno una temperatura relativamente elevata, che impedisce il gelo.
Importanti marcite si trovano nei dintorni di Melegnano; questa zona viene irrigata dalle acque della Vettabbia, che attraversano Milano.
Con il sistema delle marcite si possono avere vari raccolti  di erba falciata; in genere da sei a otto tagli.

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Milano

Milano è il capoluogo della Lombardia. E’ una città movimentatissima e di aspetto moderno. Annualmente vi si teneva la Fiera Campionaria Internazionale, che era tra le più importanti nel mondo. Attualmente la Fiera di Milano è costituita dai due poli espositivi di Fieramilano (situato in un’area al confine tra i comuni di Rho e di Pero) e di Fieramilanocity (situato nel quartiere Portello del comune di Milano). E’ il polo fieristico più grande d’Europa.
Vanta quattro Università e il Teatro alla Scala, uno dei più celebri teatri lirici del mondo; ospita numerose gallerie d’arte, musei di eccezionale interesse, e parecchie manifestazioni culturali.
Ha grandiosi monumenti, tra cui lo splendido, marmoreo Duomo, con la famosa Madonnina dorata sulla più alta guglia; poi la Basilica di San Lorenzo, la Basilica di Sant’Ambrogio, la Chiesa di Santa Maria delle Grazie (con il Cenacolo di Leonardo), il Palazzo della Ragione, il Castello Sforzesco, il Palazzo di Brera, la Galleria Vittorio Emanuele II.

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Milano, città che risorge

Durante la seconda guerra mondiale, Milano, che ormai superava il milione di abitanti ed era il più importante centro industriale d’Italia, subì una lunga serie di bombardamenti aerei, molti dei quali a tappeto, che la distrussero in gran parte. Quando la guerra finì, la città appariva come svuotata: i muri superstiti, con le occhiaie vuote delle finestre che lasciavano vedere il cielo, si levavano dritti come quinte di un tragico scenario. Le vie erano sconvolte e intasate dalle macerie, i servizi quasi inservibili, la popolazione viveva ammucchiata nelle poche case ancora abitabili e rabberciate alla meglio, senza vetri alle finestre, con i tetti sconnessi e gocciolanti, e porte scardinate; oppure abitava nei paesi dei dintorni e si sottoponeva alla fatica di continui viaggi con mezzi di fortuna, pur di non abbandonare il lavoro, sperando in un domani migliore. Questo domani migliore è venuto per merito soprattutto della febbrile attività dei Milanesi. Milano si merita davvero il soprannome di “capitale morale d’Italia”.

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Il duomo di Milano

Chi non l’ha veduto se non in fotografia, quando gli si trova davanti prova un senso di stupore, quasi di sgomento. Possibile che dei piccoli uomini, unendo marmo a marmo, abbiano elevato una montagna simile, traforata come un gioiello, gremita di statue, fiorita di ricami aerei, candida di un candore roseo di carne e di un biancore azzurrino d’argento? E’ possibile sì, ragazzi miei, perché quei piccoli uomini avevano due cose che smuovono le montagne: fiducia e genio.
Entriamo ora nel tempio. Cinque navate immense; una selva di piloni colossali che si ramificano, lassù, a reggere le volte venate come foglie, e, tutt’attorno, finestroni eccelsi che riversano raggi colorati dalle vetrate incandescenti di rubino e d’azzurro, nella penombra piena di mistero.
Ma poiché siamo a Milano voglio dirvi alcuni numeri precisi che vi faranno sgranare gli occhi: sapete quanto è lungo il Duomo? Centocinquantotto metri. Sapete quanto è alto, dal suolo alla corona di stelle della Madonnina? Centootto metri, l’altezza di un colle. Sapete quanti sono i finestroni esterni? Centosessantanove, per servirti. E quante le guglie? Centoquarantacinque. E quante le statue? Circa tremilacinquecento, la popolazione di un paese. E indovina indovina… quanto pesa? Pesa centottantaquattro milioni di chilogrammi. Non uno di più né uno di meno.
(G. E. Mottini)

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Città dell’eterna giovinezza

Pavia è la città goliardica per eccellenza. Molte altre città italiane hanno, tra le loro mura, un Ateneo: qualcuna può anche vantare un Ateneo più insigne di questo pavese, per anzianità e per il nome di qualcuno dei suoi Maestri. Ma forse nessuna città italiana vive, come Pavia, dei suoi studenti. Si direbbe che essa respiri del respiro del suo Studium. D’estate, per esempio, svuotata com’è di tutta la sua ventenne popolazione goliardica, quando i porticati dell’Università si allungano deserti e silenziosi intorno ai cortili quadrati dove ancora l’erba tenera cresce tra i sassi bianchi; quando nelle aule addormentate non s’ode che il ronzio di qualche moscone che danza nel pulviscolo d’oro di un raggio di sole, e le cento lapidi che tappezzano i muri si rimandano l’una con l’altra gli elogi dei grandi Maestri che vi tennero cattedra; d’estate, Pavia si direbbe che sonnecchi sulle rive del suo bel Ticino gonfio di mulinelli e di minuscoli vortici, tra i due ponti: quello nuovo che la guerra ha rispettato e il Ponte Coperto.
Ma quando viene l’autunno, e lungo i boschi del Ticino cominciano a salire le prime nebbie azzurrine, tornano gli studenti, e la città si ravviva, il ritmo delle sue giornate di fa gioioso e vibrante, le strade si rifanno giovani, i cortili dell’Università si ripopolano, le aule si affollano, i due grandi Collegi, il Ghislieri e il Borromeo, ridiventano due giganteschi alveari di giovinezza. E’ una specie di rito, diventato, lungo il corso dei secoli, abitudine di vita. Ecco perchè a fogliare le vecchie cronache universitarie, e soprattutto le vecchie cronache di quel Ghislieri che gli studenti si tramandano con geloso amore di generazione in generazione, da quasi cinque secoli, come potrebbe una famiglia tramandare una vecchia casa che d’anno in anno si rinnova; ecco perchè si trae la sensazione che Pavia sia una città privilegiata. E’ il privilegio dell’eterna giovinezza, in fondo: una fiaccola che ogni “sfornata” di laureati consegna, occhi negli occhi, e attenti a non mancare alla consegna all’infornata di matricole.
“Ragazzi” dicono i ‘vecchi’ andandosene (e chissà cosa costi loro lasciare questa cara città), “Ragazzi, noi ce ne andiamo, la vita ci chiama e sarà quel che sarà. Ma voi, che venite a riempire il vuoto che noi lasciamo; voi che raccogliete dalle nostre mani questa secolare eredità di fresca gaiezza e di gioconda primavera spirituale (primavera, sissignori, anche quando scende fitta la neve  e mette gli orli di velluto bianco sulla severa facciata di San Pietro in Ciel d’Oro, e dell’incompiuto duomo del Bramante e sull’incanto romanico di San Teodoro che bisogna andare a scoprire per stradette medioevali e di quel San Francesco che è un esempio di snella gotica eleganza; e incappuccia di ermellino le statue che popolano i cortiletti dell’Università; primavera anche quando le gelide piogge sferzano le piccole piazze e le anguste strade e trasformano il corso in un torrentello che domandava dei ponticelli di legno per passare dall’uno all’altro marciapiedi): voi che raccogliete questa nostra eredità benedetta, siatene degni, continuatela con impegno, in questi indimenticabili anni che il destino vi ha concesso di trascorrere tra il Castello visconteo e il Ticino…”
(G. Cornali)

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Valenti armaioli a Brescia

Un tempo Brescia fu famosa in tutto il mondo per le sue fabbriche di armi. Tale industria si sviluppò perchè le valli a nord della città erano ricche di minerali, specialmente di ferro di ottima qualità. Ne approfittò particolarmente Venezia, che durante il periodo della sua massima potenza commissionò a Brescia, che le era soggetta, le sue armi migliori. Gli armaioli bresciani per due secoli fornirono gli eserciti di Venezia e di mezza Europa.
La decadenza di un’industria tanto fiorente cominciò quando Brescia fu dominata dagli Austriaci i quali non permisero a un’attività tanto pericolosa per loro di prosperare. I nomi dei più valenti armaioli sono affidati alle armi da loro costruite. Così un fabbricante, Lazzarino Cominazzo, diede il nome alle canne che da lui si dicono “lazzarine” (in Brasile fino al principio del XX secolo “lazzarina” era sinonimo di pistola). Ancor oggi la pistola calibro 9 in dotazione all’esercito di chiama “Beretta”, dal nome di un noto armaiolo bresciano.

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Bergamo, città sana. Uomini solidi, facce di alpini

Non si è ancora usciti da Milano, e già si arriva a Bergamo. Le lunghe ore del cammino di Renzo fino all’Adda ed oltre sono diventate, sulle fettucce di asfalto dell’autostrada, minuti, pochi minuti. Bergamo bassa, il Borgo come ancora dicono i vecchi, se ne sta appiattata nella pianura; la si sfiorerebbe, quasi senza accorgersene, se non fosse per il faro della città alta. Stretta nelle sue mura venete,  adagiata su un tappeto di foschia invernale, la vecchia Bergamo sembra sospesa a mezz’aria: come l’isola volante dei viaggi di Gulliver. Il distacco tra le due città, quella alta e quella bassa, non è solo il prodotto di un’illusione ottica. E’ una realtà psicologica, economica, urbanistica. Una città con due corpi: e in un certo senso una città con due anime.
Città bassa: il traffico è intenso, ma senza le punte di convulsione esasperante delle metropoli. Strade pulite, bei negozi. Chi si metta sul Sentierone respira ordine, sicurezza, dignità. Uomini solidi, facce di alpini. Gli agricoltori che vengono dalle campagne per le loro contrattazioni suggellano tuttora gli affari con pesanti strette di mano (e i mediatori, che vogliono arrivare a una conclusione, tentano disperatamente, durante i lunghi sì e no, di avvicinare l’una all’altra le grosse, callose, riluttanti mani). Gente che afferma orgogliosamente: “Non sono mai stato in tribunale né come imputato né come testimone”.
Questo è il Borgo: un’appendice della vera Bergamo.
Gli uffici pubblici scappano dalla città alta. Il comune è giù, la prefettura è giù, il tribunale anche. In città alta è rimasto, tra le massime autorità, soltanto il vescovo. Non è sceso e non scenderà. La domenica la vecchia Bergamo, la Bergamo alta, è gremita di gitanti. Ma nei giorni feriali la vita vi pulsa assai più lentamente che in pianura. Il tempo è misurato con un metro diverso. La sera il campanone della torre civica dà il coprifuoco con cento rintocchi.
Le dimore signorili guardano orgogliosamente, dall’alto, il Borgo. Non indovinereste mai, percorrendo le strette vie, il panorama aereo che si apre davanti a queste case. Ecco palazzo Scotti: lì Gaetano Donizetti terminò il suo tragitto terreno cominciato in due bui locali bassi di Borgo Canale: “Nacqui sotto terra in Borgo Canale: si scendeva per una scala in cantino dove mai penetrò ombra di luce. E siccome gufo presi il volo”.
(M. Cervi)

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Varese: il cielo sui laghi

Nessuna provincia è ricca, come quella varesina, di bacini lacustri, anche se a tale ricchezza fa riscontro una relativa scarsità di corsi d’acqua. Sette sono i laghi che ingemmano il territorio della provincia.
Il lago di Varese, di origine glaciale, è lungo otto chilometri e largo circa quattro e mezzo.
Il lago di Biandronno ha rive piuttosto melmose ricche di torba e di canne palustri.
Il lago di Monate ha limpide acque azzurre ricche di pesci.
Il lago di Comabbio vanta una piscicoltura condotta con criteri razionali.
Il lago di Ghirla occhieggia nella verde Valcuvia.
Il lago di Delio è un piccolo specchio che se sta raccolto tra i monti di una solitaria conda nell’alto luinese.
Il lago di Ganna è nascosto tra il verde della valle omonima, ed è originato da uno sbarramento morenico.
Vi sono poi i grandi laghi che appartengono alla provincia di Varese solo in parte: ad est il lago di Lugano, sulle cui acque scorre in parte il confine con la Svizzera, ad ovest il lago Maggiore la cui riva destra è novarese.
Il lago di Lugano, sulla sponda italiana, è ancora chiamato, come un tempo dai Romani, Ceresio. A nord è riparato dai venti freddi da alte catene montuose; a sud, una serie di colline moreniche fa da barriera alle nebbie; così sulle sue rive si gode sempre una temperatura piuttosto moderata. Dei suoi quattro rami, che si allungano fra incantevoli montagne, interessa la provincia di Varese quello che va da Porto Ceresio fino a Ponte Tresa.
Grande, il lago Maggiore, dovette apparire anche ai Celti se lo chiamarono Verbano, cioè “grande recipiente”; a meno che si voglia collegare l’appellativo alle copiose erbe verbene o verbane che crescono lungo le sue sponde.
Nel lago Maggiore, amministrativamente per metà novarese, come abbiamo detto, confluiscono (oltre al Ticino che vi entra presso Locarno e ne esce a Sesto Calende, e al fiume Tresa, emissario del lago di Lugano) i torrenti varesini Boesio e Bardello, il quale ultimo vi porta le acque dei laghi, pure varesini, di Biandronno e di Comabbio.
Con la varietà dei suoi aspetti, ora severi, ora dolci e ridenti, il lago Maggiore ha il potere di incantare i visitatori.
Antonio Stoppani, l’autore de “Il bel Paese” scriveva: “Ho veduto più volte il lago Maggiore e sempre mi è parso nuovo, sempre mi è parso bello. Ognuno vorrebbe passarvi la vita”.

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Mantova

Secondo la leggenda la città fu fondata da alcuni profughi greci, tra cui la sacerdotessa indovina Manto. Mantova raggiunse grande splendore sotto i Gonzaga. Quattro sono le sue piazze monumentali: Piazza Sordello, dove si ergono il Duomo, il Palazzo Bonacolsi (signori della città dal 1273 al 1328), il Palazzo dei Gonzaga; Piazza delle Erbe con il Palazzo della Ragione, la Torre dell’Orologio e la Rotonda di San Lorenzo; Piazza Broletto con la Torre civica; Piazza Mantegna con la Chiesa di Sant’Andrea.
Per chi voglia dire di conoscere l’Italia, Mantova è un punto importante. Mantova è un mondo.
Mantova fu prima una città comunale, con una delle più belle piazze che sia dato vedere in Italia, la Piazza delle Erbe, tra una torre e un palazzo, tra una facciata di terracotta e un muro scabro, di quei vecchi muri compatti e nudi su cui l’azione del tempo ha descritto un lavoro suo, bello quanto una striscia istoriata da qualche grande scultore, dove la fantasia legge una storia senza immagini e senza parole precise. Vecchi muri ciechi di tutta l’Italia, dominati la notte da un lampione scialbo, questo muro di Mantova è uno dei più belli, un capolavoro del tempo e della natura. Il mercato con le osterie intorno è vegliato dalla figura di Virgilio in un bassorilievo medioevale, seduto a un banco, che svolge il suo libro.
La città comunale è pressapoco tutta qui. Ma tra il Palazzo del Te, che è un padiglione e un chiosco gigantesco, e la Reggia, si ritrova il più straordinario sogno di grandezza che sia dato osservare. Sono quattordici grandi sale nel Palazzo del Te, che era una specie di casa di campagna dove si andava a passare un’ora tra le stanze decorate e i giardini; sono cinquecento stanze la Reggia, ma non c’è un solo appartamento, una sola camera che si possano chiudere a chiave, e tutto è fatto per la rappresentazione, come in certi piccoli appartamenti moderni, dove tutte le stanze sono salotti e la sera divengono tutte stanze da letto.
(C. Alvaro)

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Vini famosi in Valtellina

Degno complemento alla polenta taragna (cibo caratteristico della Valtellina preparato con il grano saraceno) sono i famosi vini. Infatti, nella parte della vallata esposta a sud, dalle zone pedemontane fin oltre i seicento metri, si ha la coltivazione a vigneto, con i caratteristici terrazzamenti, sostenuti sulle scoscese pendici a destra dell’Adda, da lunghi muretti di sassi che danno all’insieme l’aspetto di un’ordinata scacchiera.
Di fronte a queste ordinate coltivazioni non si può trattenere un moto di stupita ammirazione, soprattutto quando si pensa che sono state create dalla costante e secolare laboriosità della gente valtellinese che lottò contro una conformazione naturale del terreno difficile, quasi esclusivamente con le sole forze fisiche, riuscendo così a strappare, anche da terre apparentemente avare, un prodotto pregiato. L’ottimo vino che si ricava da questi vigneti ricompensa però i sacrifici dei valligiani; infatti proprio da queste uve si ottengono vini squisiti, delizia dei buongustai, così da essere annoverati tra i migliori d’Italia e di godere di una certa rinomanza anche al’estero: tali sono il Sassella, il Grumello, l’Inferno, il Valgella e il Fracia.

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Il torrone di Cremona

Come si può pensare a Cremona senza associarla al suo dolce tipico, il torrone, che, nelle sue confezioni così tradizionalmente conservatrici, entra, si può dire, in ogni casa d’Italia, specialmente nel periodo delle feste natalizie?
Come accade per tutti i personaggi illustri di cui l’origine non sia storicamente accertata, anche per il torrone molti paesi si contendono l’onore di avergli dato i natali, e infinite sono le leggende che il popolo ha creato intorno alla sua nascita. Chi lo vuole originario dell’Oriente, chi lo considera una ghiottoneria italiana di antichissima data.
Raccontano che una donna fu sorpresa dalla notte in una località selvaggia mentre si recava al mercato trascinando su un carro i prodotti della sua terra: mandorle, miele e uova. Per difendersi dagli animali feroci che infestavano la zona, la donna si costruì un riparo, usando come materiale tutti i generi alimentari che aveva con sé, dopo averli opportunamente impastati; si salvò perchè le belve, intente a divorare golosamente quella leccornia, furono sorprese dalla luce dell’alba che le mise in fuga.
Narrano anche che i Crociati sostenevano da tempo un lungo assedio in Terra santa. Quando ormai stavano per arrendersi, stremati dalla fame, i mattoni delle torri e delle mura che li difendevano si trasformarono miracolosamente in mandorle, e la calce che li cementava, bagnata dalle loro lacrime, in miele.
Senza cercare nelle leggende le origini del torrone, sappiamo che i Romani erano ghiottissimi di un impasto i cui ingredienti, miele, noci e uova, erano pressapoco quelli dell’odierno torrone; chiamavano “turandae” le focaccine ottenute, e da quel nome a quello di torrone il passo è breve.
Del resto quando Biancamaria Visconti sposò Francesco Sforza, il dolce che rallegrò il banchetto nuziale era un vero e proprio torrone, la cui forma rappresentava il Torrazzo di Cremona, la città che la sposa portava in dote al marito.
E la leggenda si avvicina alla storia…

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Lombardia

La bella regione che ha preso il nome dal dominio dei Longobardi, scende dalle catene dell’Alpe Retica fino al Po, oltrepassando in parte, ed estendendosi al centro della grande pianura padana, fra le terre venete e piemontesi. Tocca tutta la gamma del paesaggio continentale italiano, dalle distese ghiacciate, ai monti prealpini, e da questi, attraverso la splendente regione dei laghi e a dolce zona collinosa dei loro archi morenici, alla prima fascia asciutta del piano per morire nelle molli zolle erbose dove erra il nostro massimo fiume. E questa varietà stupenda di forme è come il simbolo della poliedrica attività del suo popolo intraprendente.
(I. Zaina)

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L’irrigazione in Lombardia

Le acque di monte o di pioggia, penetrate per le spaccature e raccolte sui profondi strati impermeabili della terra, scorrono lungo i pendii e risgorgano nei fontanili. Da fiumi e da fontanili, gli uomini, col lavoro e con sapienza secolari, hanno derivato navigli, canali, rivi, fossi… tutto un mirabile sistema di condotti, di cateratte, di conche, di pescaie, di argini che guida, raccoglie, convoglia, modera, smaltisce. Assicura l’irrigazione, combatte le piene; risana gli acquitrini, concede la navigazione, dà vita alle risaie e alle marcite, dà moto agli opifici e ai mulini, dà freschezza alle campagne e pane alla gente.

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Bergamo

La romantica città che adagiata sul colle e cinta dall’arborato cerchio delle mura venete, si innalza sul piano, profilando nel cielo, al di sopra dell’armonioso chiarore delle sue case raggruppate in chiaro scuro pittoresco, le sue torri, gli aerei campanili, le salde cupole, a lato della Rocca imponente e austera, non ebbe nel corso della sua vita secolare splendori di corti principesche né fasti di glorie ducali…
L’essere la città antica, unica dell’alta Italia, sopralzata sulla pianura di circa cento metri, ha isolato questa città dall’imperversare della modernità violenta ed eguagliatrice.  E poichè la stessa attività cittadina e il tradizionale bergamasco fervore di lavoro non potevano non affermarsi imponenti nell’ultimo cinquantennio, tale sviluppo di vita si è ampiamente svolto al piede del colle, nell’ingrandirsi e nell’espandersi progressivo e intenso della nuova città.
(L. Angelini)

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Pavia

Vivere a Pavia è una condizione felice, un regalo continuato: la sua quiete, la sua pace, e la modestia, che qui tutte le cose ispirano, sono sottolineate dal colore fondamentale della città che è tra il rosso vivo del mattone e il grigio un po’ pigro dell’arenaria.
Intanto il cittadino a passeggio per le vie non sente per nulla umiliata la sua statura di uomo camminando tra file di case basse. Pensate a Milano o a Torino dive la persona è schiacciata da quei palazzoni: uno perde subito la confidenza del passeggiare e dello stare.
Quelle sono metropoli, è vero, città cosmopolite. E lo siano. Ma per quei loro corsi sgargianti e tumultuanti, noi non daremo una spanna della nostra settecentesca via Foscolo o il silenzio di via Boezio. Vie tutte piene di cielo, illuminate e, direi, completate da certi bei nomi che ricordano glorie municipali o santi o costumi locali: contrada degli Apostoli, via dei Mulini, del Lino, e anche strada nuova, che poi si chiama così fin dal mille e trecento.
(C. Angelini)

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Mantova

Quando fummo alle mura di Mantova, una stazione accertava che c’era sempre una città ci questo nome. C’era: di strade acciottolate, fra case fosche, invano lavate da tanta acqua… Il canale che, nascostamente, taglia la città da lago a lago, era sordido di spazzatura galleggiante. Un sentore d’acqua stagnante saliva, per il lavandino, nella camera d’albergo. Come una città continuamente minacciata di marcire dalle fondamenta. Ma per le strade dure di ciottoli, sotto i portici, non erravano fantasmi acquatili: corpi vivi di uomini e donne con ombrelli andavano, ben sicuri di non sciogliersi in acqua, nella città da tanti secoli murata dentro l’ansa del Mincio dilagato in tre laghi. Nel tramonto livido, al ponte San Giorgio, il lago inferiore aveva la tristezza bigia, immota, della palude Stigia.
(G. Caprin)

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Milano

Togliete all’Italia Milano e sarà come togliere ad un’automobile il serbatoio della benzina o, se più vi piace, lo spinterogeno. Se essa è una città di nessun tempo, di nessuna epoca gli è perchè è di tutti i tempi e di tutte le epoche. Essa è nata da sé e vive di sé. Pensate al suo Duomo. Dite San Pietro e vi si affaccia Michelangelo, dite Santa Maria del Fiore e pensate al Brunelleschi della cupola o al Giotto del campanile. Ma per Duomo di Milano nessun nome grandeggia: esso è nato dal denaro di tutti i milanesi, che a turno vi portarono le pietre: avvocati, medici, operai, nobili e popolani. Negli archivi della Fabbrica, dove si conserva, scritta giorno per giorno, la storia immensa del sovrumano edificio, leggete migliaia e migliaia di donazioni che vanno da terre, da case, da sostanze ingenti, a lasciti di poche lire o di poche libbre di cera.
(G. Cenzato)

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Il famoso nebbione della bassa

Si cammina adagio: non si vede a un palmo dal proprio naso: un odore acre sale alle narici e penetra in gola. Sembra di essere immersi in una umida, vaporosa bambagia; i rumori giungono attutiti; come echi; gli oggetti appaiono all’improvviso, come ombre sorte dal nulla: la nebbia avvolge tutto, grava su ogni cosa.

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Luci di laghi

A paragonare il lago di Varese a una perla azzurrina legata in pallido argento dalla nebbietta smagliante, poco più che un sospetto di foschia luminosa, che lo ingrandiva singolarmente, e addolciva il crudo lume del sereno invernale, le terre bruciate dal gelo, le nitide rive e le spiagge; a paragonarlo ad una perla, si dice poco e non senza preziosità leziosa: per altro, il suo colore era quello; e mi pare di non aver mai vista, adunata in una conca di lago, una tanta effusione di luce perlacea, come quella che saliva e posava sulla viva quiete delle sue acque, mentre scendevo verso il lago per la proda lene del suo lato meridionale, che da codesta parte è aperto e disteso, adagiato, coniugato col fondo. E ci sono viottoli e stradette antiche, piene di un garbo agreste e gentilmente austero, di quella naturale ritrosia che conferisce un carattere sobrio  e segreto, di idilliaca rusticità , al paese subalpino lombardo e piemontese, non appena si esce dalle strade maestre.
Quella riva è più romita, a tratti deserta, ma poi ingentilita da una rustica osteria, da un casale quieto fra le cannucce, da una piccola darsena, da un capitello con l’immagine della Madonna, levato sull’acqua come ad indicare l’approdo alle barche, col lumicino dell’immagine sacra…
(R. Bacchelli)

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Il lago di Como

Il lago di Como è fatto come una Y capovolta. Si direbbe che madre natura si sia prodigata in modo particolare per rivestire le sponde montuose di varia ed esuberante vegetazione. Gli uomini hanno fatto il resto. Vi crearono ville e giardini e alberghi senza numero con parchi ombrosi, terrazze, chioschi, e scenari vegetali che le acque cristalline del lago concorrono a colorire e animare.
Fra i giardini primeggia quello annesso alla Villa Carlotta a Cadenabbia, famoso in tutto il mondo. Lo si direbbe creato dalla fantasia di parecchie generazioni di artisti. Nel mese di maggio specialmente, quando azalee, camelie, rose, rododendri e ogni sorta di fiori rari, trionfano tra le aiole disseminate tra i viali e i boschetti di cipresso, di pini e di piante esotiche, sembra proprio una casa di sogno e di favola.

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Il Garda in burrasca

… Uno di questi giorni, anzi una notte, stavo ascoltando il Garda in burrasca.
La burrasca, propriamente, allentava, abbonacciava; il vento, ormai caduto, non frastornava più, con le sue stormenti folate, il fragore delle onde rompenti e frangenti. Aveva smesso di percuoterle e premerle, di incalzarle e istigarle, col flagello delle raffiche che esprimono dalla terra e dalle acque e dall’aria quella sorta di strozzato e strepitante spasimo della natura nel tormento, nello strido, nell’ululo dei turbini in tempesta.
Piene, alte, libere, sciolte, si levavano in pacata vigoria le onde, e correvano a riva, a frangere in largo scroscio disteso sui greti delle spiagge e fra i sassi delle scogliere.
Saliva dal lago un rumore, un suono spianato  in ampiezza di tempo e di volume, anch’esso vigorosamente tranquillo; e continuo, cadenzato, rotondo. Era quel fragore e clamore di tono alto, spiegato, sonante e risonante, proprio come d’una forza, liberata e placata, che assumono le onde nel cedere e nell’allentare della tempesta.
(R. Bacchelli)

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La terra del latte

Milano è città di confine; attraversandola da nord a sud, sud-est si passa dalla Lombardia dei laghi alla Lombardia dei fiumi e dei canali, dei prati a marcita, delle cascine dove le stalle lunghissime reggono appena al penso  dei fieni. In nessun luogo più giustamente che a Lodi poteva sorgere una fiera del latte.
Di burro e formaggio nella regione semichiusa fra Adda, Lambro e Po, si produce quasi la sesta pare che nel resto d’Italia. Ma tutto questo esplodere di rustiche e non rustiche grandezze sembra spostare solo di un filo, nella piccola città di Lodi, le abitudini giornaliere, appena appena vi s’incrina l’armonia in grigio e in silenzio della vecchia Piazza Maggiore, degli archi, delle chiese, delle vie piane e dolcemente larghette dove si stende e sogna il centro cittadino. Nella Piazza, sotto i portici, si sorprendono ora conversazioni in lingue e dialetti disparatissimi o in quell’esperanto che appartiene a ogni riunione eteroclita… si penserebbe a una biennale veneziana del burro e del formaggio; le voci tuttavia sono calme e discrete.
Dal giro di facciate che si sporgono così gentilmente, coi balconi di ferro battuto e le insegne in rilievo nei negozi e dei caffè, agli angoli segreti del Broletto, la Piazza ha ancora l’aria di attendere con modesto decoro qualche gruppo di viaggiatori in arrivo con la diligenza. Le vie, che se ne distaccano ben regolate, incrociandosi al punto giusto, portano un senso di leggerezza nelle misure né troppo grandi né troppo piccole e nelle tinte non monotone, solo quiete: leggerezza cui si accompagna una particolare malinconia, come spesso nei paesaggi che seguono un fiume. Sta come un deposito umido nella luce delle giornate anche più limpide: un velo d’acqua rende più morbide le voci delle campane. L’acqua che scorre ampia nei fiumi, con lentezza; che scivola canalizzata, lambendo i salici e i pioppi, a imbevere i campi; e questa gente non languida è ben lontana dall’allungarne il sangue delle sue vene, il latte delle sue stalle, o il vino delle sue osterie, ma l’acqua rimane qui l’elemento primordiale.
(G. Ferrata)

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Milano città d’arte

A nessun visitatore, a nessun turista viene mai in mente che una città così simpaticamente brutta (gli angolini sconosciuti non fanno che confermare la regola), così moderna, così presa dal ritmo del lavoro, possa non già produrre, ma avere una qualche segreta bellezza che faccia perennemente parte della sua natura.
Per la stragrande maggioranza dei visitatori, la Milano artistica si riduce dunque al Duomo. Gli stranieri dopo aver appreso che le statue sono 3.159, che la Madonnina è altra dal suolo 108 metri e 50 centimetri, che i lavori cominciati nel 1386 si conclusero soltanto nel XIX secolo, penetrano anche nell’interno ad ammirare le grandi navate gotiche, i cinque colonnati, il sarcofago di Ariberto d’Intimiano, arcivescovo del Carroccio. Gli Italiani molto spesso non entrano neppure. Ripetuto in mille modi da cartoline, documentari, panettoni, il Duomo di Milano è tanto familiare, tanto noto che la sua conoscenza, al pari di quella di certi romanzi famosi, viene data per scontata, non val neppure la pena di entrarci, basta uno sguardo fuggevole alle guglie velate di nebbia dalle arcate dei portici settentrionali.
Solo un’esigua minoranza, gli animi più sensibili, le comitive organizzate, trovano il tempo per una seconda tappa: L’ultima cena di Leonardo da Vinci, a Santa Maria delle Grazie, che dopo la pazientissima, miracolosa opera di restauro effettuata nel 1953 da Mauro Pellicioli, ha riacquistato parte della sua luminosità e dei suoi colori.
Duomo e Cenacolo sono  gli unici due monumenti di Milano turisticamente vivi, frequentati in ogni ora e in ogni stagione da folte comitive come succede ai capolavori fiorentini o romani. Il resto, deserto. Alla Pinacoteca Ambrosiana in questa stagione capita più di una volta che nel corso dell’intera giornata neppure una persona si presenti all’ingresso; al Museo della Scala i visitatori si contano sulla punta delle dita; a Brera, il più famoso di tutti, solo la domenica c’è una certa animazione. Eppure si tratta di raccolte di valore europeo, talune delle quali addirittura uniche nel loro genere.
Prendiamo il caso di Brera. Sede, oltre che della Pinacoteca, di una grande biblioteca e dell’Accademia di Belle Arti, questo grande palazzo barocco-lombardo, costruito verso la fine del Seicento dall’architetto milanese Francesco Maria Richini, è un po’ il centro del quartiere artistico milanese, con i suoi cortili monumentali, i suoi loggiati, i suoi scaloni su cui spiccano ancora i colossali portacenere d’ottone dove i visitatori del secolo scorso erano pregati di abbandonare i loro sigari.
Ma il cuore, il gioiello di Brera è la Pinacoteca. Sorse nel 1809 per volere di Napoleone il quale, al fine di cementare l’unità del regno italico, dette precise disposizioni affinché vi fossero radunate opere di tutte le scuole pittoriche italiane. Unità politica attraverso l’unità artistica. Così Brera è forse l’unica pinacoteca italiana a carattere spiccatamente nazionale. Chi volesse avere un’idea panoramica della pittura del nostro Paese visitando un solo museo dovrebbe per forza di cose venire qui. Accanto ai capolavori di Raffaello, del Mantegna, di Giovanni Bellini, di Piero della Francesca, del Bramante, nelle trentotto grandi sale sono rappresentate organicamente tutte le scuole dell’Italia settentrionale: quella veneta (Tiziano, Tintoretto, Veronese, Guardi, Canaletto, Longhi), quella lombarda (Luini, Bramantino), quella ferrarese (Tura, Cossa, Costa, Ercole De Roberti) e non mancano fulgide testimonianze di altre regioni e di altri Paesi (El Greco, Rembrandt). I due quadri più famosi, quelli che tutti conoscono, sono Lo sposalizio della Vergine di Raffaello e il Cristo Morto del Mantegna, colto dai piedi in audacissima prospettiva.
In Piazza della Scala c’è un altro museo unico in Europa: quello che per l’appunto prende il nome dal massimo teatro lirico milanese. Ci si accede per una scaletta bassa, angusta, modesta come quasi sempre sono le scalette dei teatri; anche le sue sale sono piccole, ma della piccolezza ovattata, ricca, quasi sontuosa, che contraddistingue i palchi della Scala. Fra marmi e velluti sono ordinati spartiti, cimeli, lettere dei maggiori musicisti del mondo. C’è l’orologio di Puccini, la penna d’avorio di Boito, gli occhiali d’oro di Rossini, la spinetta di Paisiello. Gli oggetti di Verdi sono tanti che riempiono addirittura due sale. Alle pareti, accanto ai ritratti di Giuditta Pasta, della Malibran, di Caruso e di Toscanini, spiccano locandine scaligere di tutti i tempi. Ma oltre quella della Scala, attraverso pregevoli collezioni di maschere greche e romane, di riproduzioni scenografiche, di documenti, il museo rifà praticamente la storia di tutto il teatro.
(G. Tumiati)

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Curiosità sulla Lombardia

La Lombardia ebbe il suo nome di battesimo circa 600 anni dopo Cristo; lo prese dalla popolazione di origine germanica dei Longobardi, che si erano stanziati nel territorio di questa regione verso il 570 dC.
I confini perimetrali della Lombardia misurano quasi 1.400 chilometri.
C’è un pezzettino di Lombardia (e perciò d’Italia)… all’estero: è il Comune di Campione d’Italia, nel Cantone Ticino (Svizzera):
Benché sia difficile precisarlo, si può stimare che nella regione esistano circa 2.000 fontanili. Si può inoltre dire che il volume d’acqua donato da tutti i fontanili lombardi sia almeno pari alla portata media di un fiume come l’Adda.
Dei tre grandi laghi lombardi il lago di Como è l’unico che sia interamente lombardo. Il lago Maggiore, infatti, ha la costa occidentale in territorio piemontese e l’estremità settentrionale addirittura in Svizzera; il lago di Garda ha la costa orientale nel Veneto e l’estremità settentrionale nel Trentino.
Il campanile più alto d’Italia è il Torrazzo di Cremona, alto 111 metri. Le mura sono spesse cinque metri alla base, due metri e mezzo all’altezza della cella campanaria. Le sette campane che vi sono installate furono fuse nel 1774 da Bartolomeo Bozzi; la maggiore, detta di Sant’Omobono, pesa 35 quintali.
La fertile pianura in cui sorge Crema era una palude, denominata Lago Gerundio, da cui emergeva un isolotto. Su questa poca terra fu fondata Crema.
(R. Mezzanotte)

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Pavia

Amo la libertà de’ tuoi romiti
vicoli e delle tue piazze deserte,
rossa Pavia, città della mia pace.
Le fontanelle cantano ai crocicchi
con chioccolio sommesso: alte le torri
sbarran gli sfondi, e, se pesante ho il cuore,
me l’avventano su verso le nubi.
Guizzan, svelti, i tuoi vicoli, e s’intrecciano
a labirinto; ed ai muretto pendono
glicini e madreselve; e vi s’affacciano
alberi di gran fronda, dai giardini
nascosti. Viene da quel verde un fresco
pispigliare d’uccelli, una fragranza
di fiori e frutti, un senso di rifugio
inviolato, ove la vita ignara
sia di pianto e di morte. Assai più belli,
i bei giardini, se nascosti: tutto
mi par più bello, se lo vedo in sogno.
E a me basta passar lungo i muretti
caldi di sole; e perdermi ne’  tuoi
vicoli che serpeggian come bisce
fra verzure d’occulti orti da fiaba
rossa Pavia, città della mia pace.
(A. Negri)

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Grattacielo a Milano

Quando rincasavo la sera
c’erano due lumi rossi
agli angoli dello sterrato.
In quel fosso è nato
il grattacielo di Milano,
un piccolo segno di vittoria
per noi apostoli di cannoni nuovi
del nuovo vangelo.
Me lo trovo impagliato
di fronte all’Albergo Doria
come se io l’avessi innaffiato.
Mi fa ombra sul viso
all’angolo del marciapiede,
dove la fioraia contadina
portava un tempo edelweiss
e narcisi.
(L. Sinisgalli)

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Pace

Milano, alle tue soglie
l’erma badia di Chiaravalle tace.
Milano, alle tue soglie hai la tua pace.
Quando da te mi toglie
un desiderio d’esser consolato,
vado al tuo camposanto fatto prato.
L’erba è fitta d’occhietti
azzurri, e l’aria è un saettar di voli:
sotto gli archi i sarcofaghi stan soli.
Tra i gracili alberetti
dei mandorli, certo, anime celesti
muovono i lembi dell’eteree vesti.
Pena mi si disperde
fra gli alti muri e le patrizie tombe:
vita non pesa, morte non incombe.
Seggo in quel chiuso verde
presso il solingo tempio: e morte appare
sorella, e che sia dolce in lei posare.
(F. Pastonchi)

Tradizioni comasche
Oggi, a Como, i bambini sono danno più una malattia per la pampara. Ma un tempo era un’altra cosa. Nel giorno di Sant’Antonio c’era la benedizione di mucche e di cavalli.  Bancarelle a iosa con le pampare e i firun. Non sono mai riuscita a sapere l’origine del nome pampara. Si tratta di una sottile canna di bambù con inserite, in diversi taglietti della corteccia, larghe ostie colorate e tante di quelle coserelline che sono care ai bambini. Di modo che ogni bambino prendeva la sua, più bella e più guarnita delle altre, per tornarsene a casa trionfante.
I furin sono collane di castagne cotte,  infilate in uno spago, che i venditori recano in lunghe ceste.
Naturalmente la piazzuola, per il gran giorno, ha mille altre cianfrusaglie in vendita: dalle immagini alle statuette sacre ai prodotti mangerecci.
(M. Fagnani)

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REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture di autori vari, per bambini della scuola primaria: Vandali, Ostrogoti, Visigoti, Eruli, Bizantini e Longobardi; Odoacre, Teodorico, Genserico, Teodolinda, Rotari, ecc…

Nell’immenso territorio, dove l’autorità dell’antico Impero era venuta meno, i popoli germanici formarono i loro regni: i Visigoti si stabilirono in Spagna, i Franchi in Gallia, i Vandali in Africa.
Si costituirono in tal modo i regno romano-barbarici, così detti perché sotto lo stesso nuovo governo si riunivano le antiche popolazioni romane e le nuove genti barbariche di stirpe germanica.
Col passare degli anni questi due popoli, dapprima separati, lentamente si fusero con una reciproca influenza.
Molto più vasta ed efficace per la superiore civiltà, fu quella esercitata dai vinti sui conquistatori, che finirono per adottare la lingua, i costumi, le leggi e la religione del popolo che avevano sottomesso.

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Gli Eruli

Gli Eruli giunsero in Italia guidati da Odoacre, che tolse il trono a Romolo Augustolo. Questi, che i soldati romani avevano acclamato loro imperatore, era un fanciullo e non aveva quindi alcuna energia per opporsi all’invasione. Fatto prigioniero, fu rinchiuso in un castello della Campania e nessun imperatore fu eletto a succedergli in Occidente.
Odoacre, proclamatosi rappresentante dell’imperatore d’Oriente si insediò a Ravenna e governò l’Italia col titolo di Patrizio. Era l’anno 476 dC; esso segna la fine dell’Impero di Roma e l’inizio del Medioevo, cioè l’età di mezzo tra l’epoca antica e quella moderna.

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Gli Ostrogoti

Teodorico, un barbaro valoroso ed intelligente, nella sua giovinezza era stato per molti anni ostaggio alla corte di Costantinopoli: aveva così potuto conoscere ed apprezzare la cultura e la civiltà romane. Acclamato re degli Ostrogoti, che occupavano allora la Pannonia (l’odierna Ungheria), vagheggiava nuove conquiste per dare sedi migliori al suo popolo, poco amante dell’agricoltura ed inquieto.
Nel 489 Teodorico giunse alla Alpi Orientali. Non lo seguiva solo un esercito, ma un popolo intero con le donne, i figli, i servi, i carri colmi di masserizie e tende: trecentomila persone.
Odoacre, sconfitto in più battaglie, si chiuse in Ravenna. Dopo tre anni di assedio, si arrese con la promessa di aver salva la vita; invece fu fatto trucidare a tradimento (493).
Così finì il dominio erulo in Italia e subentrò quello degli Ostrogoti.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture
Il governo di Teodorico

Teodorico governò per trentatré anni col titolo di re degli Ostrogoti e Patrizio d’Italia. Egli mirò a far convivere pacificamente i due popoli pur così diversi: lasciò ai Goti l’uso delle armi e affidò agli Italici l’amministrazione civile.
Migliorò le condizioni economiche dell’Italia con lavori di bonifica e con la costruzione di strade e di acquedotti, restaurò molti monumenti romani, abbellì Ravenna di un grandioso palazzo reale, un mausoleo e altri edifici; protesse le lettere e le arti, chiamò ad alti uffici uomini di valore, come lo storico Simmaco, il filosofo Severino Boezio e il dotto Cassiodoro, che divenne suo primo ministro. Benché ariano, Teodorico fu tollerante con i cattolici.
Ma l’avversione degli Italici e gli intrighi della corte bizantina avvelenarono gli ultimi anni del suo regno, rendendolo sospettoso e crudele: si diede ad arrestare, perseguitare, uccidere.
Anche Boezio e Simmaco furono messi  a morte, e lo stesso papa Giovanni I visse i suoi ultimi giorni in carcere.
Teodorico morì nel 526 e fu sepolto nel superbo mausoleo di Ravenna.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – I Bizantini

Le relazioni tra i Romani e gli Ostrogoti peggiorarono assai con i successori di Teodorico. Ne approfittò l’imperatore d’Oriente Giustiniano per unire l’Italia all’Impero d’Oriente (553).
Il dominio bizantino (così detto da Bisanzio, antico nome di Costantinopoli) produsse opposti, molteplici effetti. Infatti, se da un lato attivò le relazioni tra Italia e Oriente e fede della capitale Ravenna una città ricca e adorna di splendidi monumenti (come la famosa chiesa di San Vitale costruita appunto nel VI secolo e tutta rivestita di mosaici e d’oro), di contro afflisse le misere popolazioni con nuovi insopportabili balzelli, imposti senza ritegno dai rapaci funzionari imperiali.
La vita dei commerci e delle industrie intristì e grave fu il disagio delle città e delle campagne.
A rimedio di tanti guai solo la Chiesa diffondeva un po’ di bene fra le afflitte popolazioni ed accresceva in mezzo ad esse il suo prestigio.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – Per il lavoro di ricerca

Quale barbaro fu chiamato “re della terra e del mare”?
Quando cadde l’Impero Romano d’Occidente?
Per opera di chi?
Come si chiamava l’ultimo imperatore romano?
Da chi fu sconfitto Odoacre?
Come governò Teodorico? Come morì?
Qual era la capitale del regno degli Ostrogoti?
Che cosa era l’ “editto di Teodorico?”
Da chi furono scacciati gli Ostrogoti?
Perchè divenne famoso Giustiniano?
Come governarono i Bizantini in Italia?
Come fu divisa l’Italia in quel periodo?

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture – Il re della terra e del mare

Genserico, alla testa dei suoi Vandali, è alle porte di Cartagine. In città gli uomini fanno festa, ignari che il nemico è sotto le mura; così, mentre Genserico si accinge ad assalire i bastioni, i Cartaginesi sono nel circo. Ma d’un tratto alle porte del circo si sente qualcuno che batte per farsi aprire; i custodi chiedono chi sia mai costui che domanda di entrare in un’ora così fuori dal consueto.
“Sono il re della terra e del mare!” risponde il vincitore.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture –  Odoacre e la fine dell’Impero

Mentre l’Impero Romano d’Oriente fronteggiava con buon successo i barbari, e restava saldo ed unito, l’Impero Romano d’Occidente era percorso continuamente da orde selvagge, insanguinato da guerre e saccheggi, e finì per essere alla mercé dei capi barbarici e dei generali germanici. Uno di questi, Oreste, giunse nel 475 a porre sul trono imperiale suo figlio Romolo (che venne poi per spregio detto l’ “Augustolo” cioè il piccolo, misero Augusto). Ma questi regnò poco: l’anno dopo, un altro generale barbaro, Odoacre, piombò su Ravenna, la conquistò, uccise Oreste e depose l’Augustolo.
Una volta deposto quel debole imperatore, Odoacre assunse il titolo di “Patrizio” ed il potere in Italia, e mandò le insegne imperiali a Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente: un solo imperatore, disse, è più che sufficiente! Per una amara beffa del destino, l’ultimo re di Roma portava il nome del primo re, Romolo, colui che, secondo la leggenda, aveva fondato la città e gettato le fondamenta della sua potenza. Così nel 476 si concludeva miserevolmente la storia dell’Impero di Roma.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture
Curiosità

Gli ultimi imperatori dell’Impero d’Occidente salirono al trono ancora bambini: Giuliano aveva sei anni, Graziano diciassette, Valentino II cinque, e Romolo Augustolo quattordici.
Per molti secoli l’Impero romano aveva avuto una difesa pronta e vigile ai confini anche lontanissimi. I barbari così spiegano il fatto: sul Campidoglio esisteva un tempietto consacrato alla Difesa entro cui erano molte statue raffiguranti le varie province di confine.
Ognuna aveva al collo un campanellino e appena questa provincia fosse stata minacciata esso preannunciava il pericolo suonando. Ecco perchè, ogni qualvolta i barbari toccavano le terre di confine romano, trovavano le truppe pronte alla difesa.

REGNI ROMANO BARBARICI dettati ortografici e letture
Gli Ostrogoti, Teodorico e i Longobardi

Quando nel 488 Teodorico, il giovane re degli Ostrogoti, venne attraverso le Alpi Giulie in Italia, col suo esercito, fu la fine del governo di Odoacre. Questi, sconfitto prima sull’Isonzo, fu poi costretto a chiudersi in Ravenna, dove resistette valorosamente per due anni e mezzo; ma alla fine avendogli promesso Teodorico di salvargli la vita si  arrese.
Il patto non fu però mantenuto e Odoacre fu ucciso assieme ai suoi familiari, nel corso di una disputa insorta durante un banchetto.
Teodorico, riconosciuto re d’Italia dall’imperatore di Costantinopoli, per un certo periodo governò saggiamente. Stabilì la capitale del regno a Ravenna e chi anche oggi visita quella città può ammirare splendidi monumenti come la chiesa di sant’Apollinare, il battistero, il mausoleo di Galla Placida, ecc…
Negli ultimi anni del suo regno diventò crudele e sospettoso.  Fece uccidere il suo consigliere, Boezio, al quale aveva conferito gli onori di console, di patrizio e di maestro degli uffizi, e fece condannare a morte Simmaco, suocero di Boezio, solo perchè ne aveva pianto in pubblico la morte.
Prima di morire aveva ordinato la chiusura di tutte le chiese dei cattolici, ma l’ordine non ebbe seguito.
Morì nel 526 e così ebbe fine, con un breve periodo di tirannia, un lungo e glorioso regno.
Amalasunta, sua figlia, gli eresse un monumento presso Ravenna.

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Teodorico

Di Teodorico dobbiamo ammirare la saggezza con la quale governò l’Italia, gli sforzi fatti per fondere i Romani con i barbari sopraggiunti (fu questo il suo ideale e non è colpa sua se non poté raggiungerlo); a suo merito dobbiamo ricordare la protezione da lui data ai grandi uomini che fecero splendere di nuova luce le lettere romane: Cassiodoro, Emiodo, Boezio e le opere pubbliche che egli iniziò, i monumenti restaurati, gli edifici innalzati nelle sue città predilette: Verona, Pavia, Ravenna.
Quest’ultima città, un tempo sede della flotta romana, era divenuta già sotto Odoacre la capitale d’Italia e fioriva sulla sua laguna non ancora occupata dalle sabbie. Teodorico l’ornò di chiese e monumenti che in gran parte ancora sussistono e ci danno in modo strano l’illusione di rivivere ai tempi del grande Goto. Eppure questo re tanto amante delle arti non sapeva scrivere e per tracciare le lettere del suo nome doveva usare una laminetta traforata, attraverso la quale a fatica conduceva la penna! Assai meglio della penna egli maneggiava la spada, e lo sperimentarono numerosi popoli che egli assoggettò, entro e fuori d’Italia.

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Leggende sulla morte di Teodorico

Procopio racconta che, trovandosi Teodorico ad un banchetto, gli fu portato un grosso pesce, il quale, digrignando i denti e rivolgendo minacciosamente gli occhi, pareva che assumesse le sembianze di Simmaco. Spaventato di ciò, il re si sentì preso da brividi che lo costrinsero a mettersi a letto, dove non vi furono panni che bastassero a riscaldarlo; ed il 30 agosto 526, in età di settantadue anni, fu da una forte dissenteria condotto a morte.
Un’altra leggenda racconta che un collettore di tasse, passando per l’isola di Lipari, vi trovò un eremita che subito esclamò: “E’ morto Teodorico!”
“Come mai” rispose l’altro “se non è molto che io lo lasciai in buona salute?”
“Eppure” soggiunse l’eremita, “io l’ho visto or ora passare con le mani legate, fra papa Giovanni I e Simmaco, ed essere gettato nel cratere del vulcano di Lipari”.
Un’altra leggenda racconta che Teodorico fu portato da un cavallo nero, a corsa sfrenata, fin presso il vulcano ove fu scaraventato. (Villani)

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Dalla raccolta di leggi di Teodorico

1 Prima di tutto decretiamo che se un giudice avrà accettato denaro per giudicare a danno di un innocente contrariamente alle leggi e al diritto, sarà punito con la condanna a morte.
34 Nessuno, o Romano o barbaro, si prenda la roba altrui: e se con inganno se ne sarà impadronito non potrà tenerla, e dovrà immediatamente restituirla con gli interessi.
108 Se qualcuno sarà sorpreso a sacrificare col rito pagano sarà condannato a morte. Quelli che praticano arti malefiche, cioè gli stregoni, spogliati di tutte le loro sostanze, se di agiata condizione, saranno condannati all’esilio, se di umile condizione, a morte…

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Giustiniano e la liberazione dell’Italia dagli Ostrogoti

Mentre i Goti dominavano l’Italia, l’Impero d’Oriente, ancora solido e quasi intatto, cominciava ad interessarsi delle sorti dell’Italia, oramai da troppo tempo abbandonata nell’arbitrio dei barbari.
Nel 527, un anno dopo la morte di Teodorico, a Costantinopoli saliva al trono il più grande degli imperatori d’Oriente, Giustiniano.
Romano di animo e di propositi, egli inaugurò il suo regno con un’opera immortale, ordinando che si raccogliessero tutte le leggi dei Romani in un unico codice che rimane tuttora il solenne monumento del genio giuridico di Roma antica.
Giustiniano volle anche ricostruire l’unità dell’Impero romano  e in breve strappò ai Vandali l’Africa, sottrasse ai Visigoti la spagna meridionale, e finalmente, nel 535, sbarcò con un esercito in Italia per liberarla dai Goti e ricongiungerla all’Impero. La guerra durò ben diciotto anni e devastò tutta l’Italia, ma alla fine i Goti furono definitivamente sconfitti.

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Il governo bizantino in Italia (553-568)

L’Italia tornò così a far parte dell’Impero romano come una provincia. L’Imperatore la governò per mezzo di un suo rappresentante, detto Esarca, che risiedeva a Ravenna, con sommi poteri civili e militari.
Ravenna, che mostra ancora nelle belle chiese di San Vitale e di Sant’Apollinare, adorne di splendidi mosaici, i ricordi di questo periodo, divenne il centro delle comunicazioni con l’Oriente.
A tutta l’Italia divisa in ducati (così chiamati perchè governati da duchi bizantini) fu esteso il codice giustinianeo.
Fra i vari ducati ebbe una particolare importanza il ducato di Roma, per la presenza del papa, capo della Chiesa cattolica.
I Bizantini cercarono di migliorare le condizioni della penisola con l’aiuto dei Vescovi, a cui furono affidati uffici civili. Con ciò si accrebbe il potere temporale dei Vescovi, che avrà tanta importanza in seguito.
Ma per sopperire alle spese della difesa e dell’amministrazione, il governo bizantino aggravò le popolazioni italiane di tasse esose, rese ancora più aspre dai metodi di riscossione e dalla corruzione dei funzionari. Per questo e per la sua breve durata, esso non potè recare all’Italia i benefici che tutti speravano.
Infatti l’Italia rimase bizantina solamente quindici anni. Nel 568, appena tre anni dopo la morte di Giustiniano, una nuova ondata di barbari, i Longobardi, si rovesciò sul nostro paese

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La conquista dei Longobardi

Non erano passati quindici anni dalla definitiva conquista dell’Italia da parte dei Bizantini quando, nell’anno 568, attraverso le Alpi Giulie sopraggiunsero nuovi invasori: i Longobardi.
I soldati dell’Impero d’Oriente che presidiavano l’Italia non seppero validamente difenderla; essi si ritirarono nelle città costiere, dove avevano basi militari e flotte.
I Longobardi non avevano navi cosicchè non riuscirono mai a scacciare i Bizantini dalle coste italiane e ad unire tutta l’Italia sotto il loro dominio.
Fu questa una delle tristi conseguenze della conquista longobarda: l’Italia, unita dai Romani, si spezzetta in domini Bizantini e in domini Longobardi; ed anche quando finirono quei domini, l’Italia continuerà ad essere politicamente divisa.

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La conversione dei Longobardi

Il dominio dei Longobardi durò dal 568 al 774. Nei primi anni il loro governo fu aspro; poi venne mitigandosi soprattutto per la conversione al cattolicesimo della regina Teodolinda per opera di papa Gregorio Magno.
Fu questo un fatto di grande valore politico e civile, perchè influì sui costumi dei dominatori, rese più umana la condizione dei vinti latini e permise non solo la convivenza ma, più tardi, anche al fusione tra vincitori e vinti.
Nell’anno 603 la regina Teodolinda, adempiendo un suo voto, fece erigere in Monza la Basilica di san Giovanni Battista, decorata di preziosi ornamenti d’oro e d’argento.
Nella cappella, detta ancor oggi “cappella della regina Teodolinda”, si conserva la famosa corona ferrea, la quale, dopo essere stata di Teodolinda ed aver cinto il capo dei re longobardi, servì nei secoli successivi a cingere anche la fronte imperiale di Carlo Magno, poi quella dei re d’Italia nel Medioevo e più tardi ancora quella dei re di Germania imperatori del Sacro Romano Impero.

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Per il lavoro di ricerca

Di che stirpe erano i Longobardi?
Come vivevano?
Quali leggi li governavano?
Com’erano le loro case?
Come si vestivano?
Quando vennero in Italia?
Da chi erano guidati?
Come governò Alboino?
Perchè è famoso l’editto di Rotari?
Quando e per opera di chi si convertirono al cattolicesimo?
Chi fu Teodolinda? Che cos’è la corona ferrea e dove si trova? Conosci la sua leggenda?

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Il sogno di Teodolinda

Dice una leggenda che Teodolinda aveva promesso di erigere un tempio a San Giovanni e aspettava che un’ispirazione divina le indicasse il luogo più adatto. Mentre cavalcava col suo seguito attraverso una piana ricca di olmi e bagnata dal Lambro, la regina si fermò a riposare lungo le rive del fiume, all’ombra di un albero.
Addormentatasi, ella vide in sogno una colomba che si fermò poco lontano da lei e le disse: “Modo” (cioè qui).
Prontamente la regina rispose: “Etiam” (sì) e fece costruire la basilica nel luogo indicatole dalla colomba.
Quella zona fu poi chiamata Modoetia (Monza).

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Odoacre, amico di San Severino

Non pare che Odoacre avesse la ferocia dei barbari di Attila o di certi imperatori romani; la leggenda ci tramanda infatti la sua vivissima amicizia con San Severino, un asceta molto venerato. Al barbaro Odoacre si attribuiscono poi sentimenti e atti pietosi verso il piccolo Romolo Augustolo che “per compassione della sua infanzia gli salvò la vita e, perchè era un bel bimbo, gli diede una rendita di seimila soldi e lo mandò in Campania a viverci liberamente con i parenti”.

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Alboino in Pavia

I Longobardi (“uomini dalle lunghe barbe”) appartenevano a quelle tribù germaniche vissute lontano dai confini dell’Impero romano e rimaste sprofondate nella più oscura barbarie. Nomadi, essi avevano vagato senza meta nell’Europa Centrale; e si trovavano nei territori tra le Serbia, Croazia e Ungheria, quando sentirono parlare del clima mite, delle ricche città, dei pingui campi dell’Italia. Ciò decise il loro re, il fiero e crudele Alboino, ad ordinare un esodo di massa. Nella primavera del 568, una carovana di trecentomila longobardi, tra guerrieri, donne, vecchi e bimbi, si presentò al passo del Predil, nel Friuli, e dilagò poi nella pianura veneta. L’Italia, appena uscita, stremata, dalla lunghissima guerra greco-gotica, venne rapidamente conquistata.
In breve tempo i Longobardi si impadronirono di gran parte dell’Italia settentrionale, della Toscana spingendosi a sud, fino ad occupare Benevento. Una sola città oppose agli invasori strenua resistenza: Pavia che, stretta d’assedio, respinse per tre anni gli attacchi longobardi, arrendendosi solo per fame. Era il 572: re Alboino entrava finalmente in Pavia, che sarebbe diventata, con Verona, la capitale del nuovo Regno. Iniziava per l’Italia una nuova, decisiva fase della sua storia.
“E’ mia questa Italia!” gridò Alboino, affacciandosi dalle Alpi e scendendo nella pianura del Po che gli sembrò molto bella e fertile. Scelse per sua capitale Pavia. I Longobardi rimasero a lungo in quella regione. E anche quando cessò il suo dominio, il nome rimase. Infatti anche oggi il nome Lombardia ricorda la dominazione dei Longobardi.
I Longobardi erano tutti biondi rossicci. Alti di statura, portavano capelli a ciuffo sulla fronte, baffi spioventi e barbe lunghe. Sui copricapo, di pelo, portavano corna di animali. La loro arma preferita era una lunga alabarda. Nel vedere quei nuovi barbari i ragazzi italiani dicevano scherzando: “Sembrano carote!”
I Longobardi, dalle Alpi, giunsero fino al mar Ionio, percorrendo tutta la penisola italiana.
“Fin qui è il mio regno!” disse un successore di Alboino, Autari, spingendo il cavallo nel mare, a Reggio Calabria. Proprio così. Pareva che ormai fossero i padroni di tutta l’Italia e che nessuno li potesse sconfiggere.

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Alboino e Rosmunda

Per capire quanto fossero crudeli, basti dire che coi crani degli avversari uccisi si facevano coppe per il vino. Così ogni volta che bevevano, accostavano le labbra alle ossa del loro nemico.
Anche Alboino aveva preso stanza nella città di Verona e occupava il castello già abitato da Teodorico. Suo nemico era stato Cunimondo, re dei Gepiti, che Alboino aveva ucciso in battaglia, sposando poi la figlia del re morto, chiamata Rosmunda.
Un giorno dopo un pranzo durante il quale aveva più volte accostato le labbra al teschio di Cunimondo, mezzo brillo, Alboino chiamò uno del suo seguito e gli disse: “Perideo, prendi questa coppa di buon vino e portala alla mia dolce sposa Rosmunda”.
Perideo obbedì. Quando la regina riconobbe il teschio del proprio padre, inorridì. Ma non volle mostrare la sua commozione e il suo orrore. Prese la coppa e accostò le labbra sbiancate all’orto del cranio paterno.
Con gli occhi dilatati dall’orrore, mentre beveva, fissava Perideo, il quale lesse in quello sguardo una muta invocazione: “Vendicami…”
Presso i barbari la vendetta era sacra. E pochi giorni dopo Perideo uccideva Alboino, per vendicare Rosmunda. (P. Bargellini)

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Autari e Teodolinda

Una cupa leggenda circonda il nome di Alboino, il re longobardo che guidò il suo popolo, trecentomila persone comprese le donne e i bambini, una carovana zingaresca di carri e masserizie, guidata da fortissimi guerrieri, a sud delle Alpi: si dice che egli costringesse la moglie Rosmunda, a bere in un boccale ricavato dal teschio del padre, ucciso dallo stesso Alboino.
Più gentile e poetica è la leggenda del re Autari e della regina Teodolinda. Autari, prima di sposare quella principessa,, figlia del re degli Avari, si recò alla sua corte in incognito, per conoscerla, fingendosi un ambasciatore. La fanciulla venne chiamata alla sua presenza, perchè egli potesse vederla e, come diceva, “riferire al suo re”.
Teodolinda offerse da bere agli ospiti. Quando venne il turno di Autari, questi le sfiorò la mano con un dito e le passò la destra sulla fronte, sul naso e sulla guancia. Teodolinda, turbata, riferì la cosa alla sua nutrice. Ma la vecchia la rassicurò: “Non avere timore: nessun uomo avrebbe osato toccare la futura sposa del re. Quel cavaliere è senza dubbio Autari in persona”. Così conobbe il suo sposo la giovane che, diventata regina, favorì la conversione dei Longobardi (i quali professavano a religione ariana) al cattolicesimo.
Sotto i primi anni del dominio longobardo, l’Italia conobbe il più nero e doloroso periodo della sua storia. Ma col passare degli anni i Longobardi (che non riuscirono mai a costruire uno stato forte ed unito) addolcirono un poco i loro barbari costumi. Nel 643 il re Rotari emanò un complesso di leggi, attraverso il quale possiamo farci un’idea della società longobarda, in gran parte ancora barbara, ma già influenzata dallo spirito romano.
L’Editto di Rotari elenca i possibili reati, indicando, per ciascuno di essi, la pena da scontare o la multa da pagare.
Una curiosa disposizione dice: ” Se qualcuno avrà pelato la coda del cavallo di un altro, pagherà sei soldi”.

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Leggi longobarde

I Longobardi obbedivano alle tradizioni ed ai costumi di tutte le tribù germaniche. Vigeva, tra di essi, la vendetta privata, chiamata faida: l’omicida poteva essere a sua volta ucciso da un membro della famiglia del morto; le lotte tra famiglie, in tal modo, duravano molto a lungo, e spesso si tramandavano di generazione in generazione.
Un’altra barbara usanza era il “giudizio di dio”. Per stabilire se un uomo era innocente o colpevole del crimine che gli era ascritto, lo si sottoponeva a brutali prove, nella convinzione che dio avrebbe provato la sua innocenza salvandolo. Al giudizio di dio facevano ricorso spesso i Longobardi: l’imputato, legato, viene tuffato in acqua alla presenza di numerosi testimoni; se rimane a galla è ritenuto colpevole, e quindi condannato; se, invece, affonda, la sua innocenza sarà provata! Per tutto il corso del Medioevo, del resto, si ebbero varie forme del giudizio di dio: una delle più frequenti era il duello: l’accusato si doveva battere contro l’accusatore (talvolta costoro erano sostituiti da loro amici, o “campioni”): il vincitore avrebbe provato di essere nel giusto, poiché la sua vittoria, si credeva, veniva dal fatto di difendere una causa giusta.
Un certo miglioramento dei costumi longobardi fu ottenuto da re Rotari, il quale, con il suo editto, limitò a pochi casi sia la faida sia il giudizio di dio.
Regola della giustizia divenne il “guidrigildo”, cioè il compenso dell’offesa patita. Questi compensi erano fissati con una scrupolosa esattezza.
“Chi taglia il naso ad un altro gli dovrà pagare tredici soldi” diceva la legge: ed ecco che il ferito riceveva solennemente, dal feritore, la somma dovuta.
Un altro articolo diceva: “Chi fa cadere ad uno i denti mascellari, gli dovrà pagare diciannove soldi per ogni dente”.
Più curiosa era quest’altra disposizione: “Se qualcuno avrà colpito un altro in testa, e gli avrà rotto le ossa, gli dovrà pagare: per un osso, dodici soldi; per due ossa, trentasei soldi. Se le ossa rotte saranno più di due, non si contino. Bisogna però che una di queste ossa sia di tale misura che, lasciata cadere all’aperto, su di uno scudo, faccia un suono udibile a dodici piedi di distanza”.
Assai cara era pagata una mano: metà del prezzo necessario per compensare una vita.
In longobardo, l’offesa era detta walopaus.

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Come si vestivano e si acconciavano i Longobardi

Nelle decorazioni del palazzo di Monza, si può vedere molto bene in che modo a quel tempo i Longobardi vestivano e si acconciavano. Essi avevano i capelli rasi fino all’occipite e ricadenti sulla fronte fino all’altezza della bocca, divisi in due bande da una scriminatura. Le loro vesti erano ampie e generalmente di lino, ornate di strisce intessute abbastanza larghe e di vario colore. Portavano calzari aperti all’estremità e fermati da lacci intrecciati.

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In una casa longobarda

Sono entrato nella casa, chiamiamola così, di un guerriero longobardo molto stimato dai suoi connazionali per il suo valore. A me, che sono latino, è sembrato di ritornare indietro nel tempo di millecinquecento anni. L’abitazione consta di un unico vano, le cui pareti sono di legno e il tetto di paglia. Le suppellettili sono ridotte al minimo indispensabile: pentole di terra o di rame, corna di bue per contenere l’olio, o da usare come bicchiere, un mulino portatile per macinare il grano, pelli buttate per terra che servono da letto. Siccome il mio ospite era, come vi ho detto, un soldato valoroso, appesi alle pareti c’erano parecchi crani, quelli dei nemici che il gentiluomo aveva ucciso con le sue mani: così mi ha lui stesso spiegato.

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L’editto di Rotari

Rotari era un re longobardo. Nacque nel 606 e salì al trono nel 636 sposando Gondeberga, vedova di Ariovaldo. Sotto il suo regno lo stato si ingrandì grazie alla conquista della Liguria, tolta ai Greci. Ma la sua fama resta legata soprattutto all’opera di legislatore (aveva del resto dato prova della sua grandezza d’animo proteggendo i cattolici pur essendo ariano). L’editto di Rotari, detto anche editto longobardo, promulgato a Pavia nel 643, è uno specchio fedele delle condizioni di vita e di civiltà del popolo longobardo. L’editto è un vero e proprio codice, composto di 338 capitoli, di diritto penale e privato, riguardanti la repressione dei reati contro lo stato, contro l’incolumità delle persone e la salvaguardia del patrimonio, del diritto ereditario, del diritto di famiglia, dei diritti reali, dei diritti di obbligazione, della responsabilità per i servi, dei danneggiamenti e delle obbligazioni.
In questo editto, scritto in latino, per la prima volta dei barbari, come dovevano essere considerati i Longobardi, tenevano conto delle esperienze del diritto romano e delle innovazioni del cristianesimo. Grande importanza è attribuita dall’editto alla famiglia, centro dell’ordinamento sociale e politico, ed a tutte le questioni familiari.

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La conversione dei Longobardi

I Longobardi dominarono per ben due secoli nell’Italia settentrionale, e in così lungo periodo ebbero modo di subire la benefica influenza della civiltà romana, alla quale attinsero per l’organizzazione dello stato, per la compilazione delle leggi mescolando addirittura il proprio linguaggio alla lingua latina. La religione cattolica contribuì in gran parte a modificare le caratteristiche di questo popolo barbaro. La conversione al cattolicesimo avvenne per opera della regina Teodolinda. I Longobardi infatti erano ariani.
Era allora pontefice Gregorio Magno, monaco benedettino che, salito alla cattedra di Pietro, diceva tuttavia di sé “io sono il servo dei servi di dio”, e non sdegnava di servire i poveri, che voleva alla sua mensa.
Gregorio Magno paternalmente ammonì Teodolinda, e la convertì al cattolicesimo. Ancora molti anni dovettero passare prima che la religione ariana scomparisse tra il popolo longobardo. Tuttavia l’esempio della regina operò grandi conversioni e preparò il terreno per la conversione di tutto il suo popolo.

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Teodolinda, regina dei Longobardi e dei Latini

L’Italia è dominata dai barbari. Orde di ogni stirpe cavalcano sulle dolci terre e le distruggono. Da qualche anno vi comandano i Longobardi, ma già i Franchi hanno preso a combatterli e a fatica il longobardo Autari li ha ricacciati oltre il confine. Gli Italici attendevano i Franchi come liberatori: chi li proteggerà ora? Autari è crudele e minaccia di morte chiunque sei suoi voglia battezzare i figli. Inutilmente la moglie, Teodolinda, lo supplica di moderarsi… E’ la morte a portarsi via il re prepotente. Teodolinda rimane sola.
Esce spesso dalla reggia e si reca fra la povera gente. E’ una fiammata di intima, calda sensibilità a spingerla a far del bene, ed il suo cuore ignora la differenza tra Longobardi e Latini. Un mattino, mentre la regina cavalca verso Monza, un uomo lacero traversa la strada. E’ stremato, traballa… cade. Teodolinda, incurante del fango che le insudicerà il mantello, scende di sella e si china sul mendico.
“Chi sei?” il povero ha aperto gli occhi e fissa stupito la dama bionda.
“Teodolinda”
“La regina! Dio ti protegga sempre… tutti i Latini dicono che sei buona”
“La mia gente ti trasporterà nel più vicino castello…”
“Tu ami gli amici Italici…” mormora ancora l’uomo “dacci un re che ci comprenda! Lo puoi!”
“Sì”.
Teodolinda, cattolica, sposa in seconde nozze di Agilulfo, duca di Torino, che non perseguiterà più i cattolici. E papa Gregorio invia ai due sposi una preziosa corona. Preziosa per le gemme che la compongono, ma ancor più preziosa per il sottile cerchio di ferro che la delimita internamente, formato secondo la leggenda da un chiodo della croce: la corona ferrea. Quella che Teodolinda deporrà nella basilica di San Giovanni Battista, che ha fatto erigere in Monza. (R. Gelardini)

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La corona ferrea

Secondo un’antica tradizione, Sant’Elena, madre dell’Imperatore Costantino, trovò sul Calvario la Croce. Ella ne tolse un chiodo e lo fece applicare all’interno di una corona d’oro, che regalò a suo figlio. Questi la donò al papa. Circa tre secoli dopo, Gregorio Magno regalò la corona, chiamata ferrea per il chiodo che aveva internamente, alla regina Teodolinda. Ella, a sua volta, ne fece dono al Duomo di Monza, fatto edificare da lei stessa.
La corona si trova lì ancora oggi.

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ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture

ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture di autori vari, per bambini della scuola primaria.

I figli del deserto

Nella prima metà del VII secolo, e più precisamente nel 634 dC, gli Arabi assumono una posizione di primo piano alla ribalta della storia.
Fino ad allora questo popolo era vissuto sparso per il deserto in tribù nomadi formate di carovanieri, di pastori e di razziatori, detti beduini, cioè figli del deserto, e sono una parte di esso, insediata lungo le coste, praticava l’agricoltura.
Gli Arabi adoravano più dei; fra i tanti idoli propri di ciascuna tribù, ce ne era uno comune a tutte, la pietra nera, che si credeva portata dal cielo dall’arcangelo Gabriele e che si venerava in un santuario di forma cubica, la Càaba, alla Mecca, centro religioso e commerciale dell’Arabia.
Qui da ogni parte della penisola affluivano una volta all’anno gli Arabi, in pellegrinaggio, per celebrarvi i riti e per trafficare.

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Maometto

Alla Mecca, verso l’anno 570, nacque Maometto. Costui sentendosi ispirato da dio, incominciò a raccontare le rivelazioni che la divinità gli faceva e a diffondere in mezzo al popolo i principi di una religione.
Maometto insegnava che vi è un dio unico, Allàh, il quale dopo aver inviato come suoi profeti Abramo, Mosè e Gesù, suscitava ora il suo ultimo e più grande profeta, Maometto: “Allàh è il solo dio e Maometto è il suo profeta”.
“Gli uomini di fronte ad Allàh sono tutti uguali” diceva Maometto “come i denti di un pettine”. Chi crede in Allàh si abbandona interamente al suo volere, perchè sa che egli nella sua sapienza ha fissato per ciascun uomo un destino, che nulla può mutare.
Questa fede cieca, o abbandono in Allàh, si chiama Islàm, e Islamici o Musulmani si chiamano coloro che la professano. Ad essi è riservato il paradiso, un meraviglioso giardino pieno di delizie, per meritarsi il quale adempiere i doveri religiosi, che sono: la preghiera, cinque volte al giorno, quando il muezzin, affacciato al minareto ne grida il segnale; il digiuno, dall’alba al tramonto, nel mese di Ramadàn (febbraio); l’elemosina, che il ricco deve al povero; il pellegrinaggio alla Mecca, almeno una volta nella vita; la guerra santa contro gli infedeli.
Le dottrine di Maometto furono raccolte dai discepoli in un libro sacro: il Corano.

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La guerra santa

La guerra santa predicata da Maometto trasformò rapidamente quel piccolo popolo di nomadi in un grande popolo di guerrieri e di conquistatori. Sotto la guida dei califfi, gli Arabi dilagarono in Mesopotamia e in Persia, poi in Palestina, in Siria e in Egitto.
Nel 711 i Musulmani conquistarono la Spagna, passarono quindi i Pirenei, invadendo la Gallia; ma nel 732 furono respinti da Carlo Martello, generale dei Franchi.
Non perciò si arrestarono le conquiste arabe nel Mediterraneo: nei primi anni dell’800, la Sicilia e le altre isole italiane erano in potere degli Arabi: il Mediterraneo divenne un mare arabo.
Palermo fu allora una delle principali città d’Europa per ricchezza di monumenti e per numero di abitanti. La Sicilia, dopo i tempi floridi di Siracusa e delle colonie greche, aveva sofferto per la rapacità dei governatori romani; si era un poco sollevata nei primi due secoli dell’Impero, per ricadere poi nelle più tristi condizioni per le invasioni dei barbari e per il pessimo governo dei Bizantini. Caduta in dominio degli Arabi, rifiorì a nuova vita; le sue campagne furono allora assai ben coltivate: le industrie, i commerci, le arti prosperarono.
La Sicilia raccolse e sviluppò tanta parte di civiltà degli Arabi, la diffuse nei paesi bagnati dal Mediterraneo e, prima che altrove, in Italia.

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Per il lavoro di ricerca

Descrivi in paese dell’Arabia e le condizioni dei suoi abitanti prima di Maometto. Che cos’è la Kaaba?
Quando visse Maometto?
Che importanza ha per gli Arabi l’Egira?
In quale libro è contenuta la dottrina di Maometto?
Qual è il principio fondamentale della dottrina di Maometto?
Perchè gli Arabi giudicarono santa la guerra?
Chi erano i Califfi?
Quali terre conquistarono gli Arabi  in Occidente e in Oriente?
Quando giunsero vittoriosi nella Spagna e chi sconfissero?
Come governarono gli Arabi in Sicilia?
Quale contributo diete all’agricoltura la conquista araba?
Quali furono le città più ricche degli Arabi?
Quali furono le scienze da loro più coltivate?

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Ritratto di Maometto

Maometto era un uomo dignitoso e raramente rideva. Di costituzione delicata, era nervoso, impressionabile, propenso alla meditazione melanconica. Nei momenti di eccitazione o di rabbia le vene del viso gli si gonfiavano pericolosamente, ma egli sapeva reprimere le proprie passioni e poteva facilmente perdonare a un nemico vinto e pentito… Era un uomo semplice e senza pretese. Gli appartamenti in cui successivamente dimorò erano casette di mattoni non cotti, con tetti di rami di palma; la porta era riparata da una tenda di pelo di capra o di cammello; l’arredamento consisteva in un materasso e alcuni cuscini sul pavimento. Fu visto spesso rammendare i propri vestiti o aggiustarsi le scarpe, accendere il fuoco, scopare il pavimento, mungere la capra in cortile e fare acquisti al mercato. Si cibava di datteri e di pane di orzo, raramente si concedeva il lusso di gustare latte o miele, e dava per primo l’esempio di astenersi dal vino.
Cortese con i potenti, affabile con gli umili, indulgente verso i suoi aiutanti, gentili con tutti eccetto che con i nemici. Visitava i malati e si univa a ogni funerale che incontrasse per via. Non amava dimostrazioni di magnificenza e di grandezza. Non richiedeva il lavoro di schiavi quando aveva tempo e forza per fare da solo. Spendeva poco per la famiglia, ancor meno per sé, molto in opere di carità.
(W. Durant)

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Maometto e l’Islamismo

Maometto affermava l’esistenza di un dio solo, e voleva che tutti gli idoli fossero distrutti; i sacerdoti e i ricchi mercanti della Mecca suscitarono contro di lui una tale agitazione, che dovette fuggire e rifugiarsi a Yatrib, detta poi Medina (“Città del Profeta”).
Ciò avvenne l’anno 622.
Questa fuga (in arabo Egira) è considerata dagli Arabi l’inizio di una nuova era. Perciò essi cominciarono a contare gli anni dal 622, che è l’anno primo della loro era.
La dottrina maomettana è contenuta nel Corano, che potrebbe definirsi la Bibbia dei Musulmani, e deriva in parte dai Giudaismo e dal Cristianesimo adattati alla natura del popolo arabo.
Il principio fondamentale di questa dottrina è l’esistenza di un dio solo, Allah, il quale ha già rivelato la sua legge per mezzo di Mosè e di Gesù, ed ora la rivela in modo più perfetto per mezzo di Maometto, dopo il quale non apparirà più alcun profeta.
I fedeli devono obbedire ciecamente ad Allah, accettare con rassegnazione la sua volontà, annullando la propria: tutto è da Allah ineluttabilmente prestabilito. Questo abbandono alla volontà di dio si dice con parola araba Islam. Perciò Islamismo si disse la dottrina di Maometto; islamici o musulmani sono i suoi seguaci.
Il paradiso è immaginato come un luogo di godimenti e di piaceri materiali, in forma di giardino, posto sulla vetta di un monte, irrorato da fresche fontane. I dannati piombano invece nell’abisso pieno di fiamme.
E’ un dovere degli Arabi convertire alla vera fede di Allah gli infedeli, soprattutto gli idolatri; se gli infedeli resistono si devono sterminare con le armi. Chi cade nella guerra santa è sicuro del paradiso. Questo miraggio, unito al fanatismo religioso, trasformò gli Arabi, da povero popolo di pastori nomadi e contadini, in conquistatori.
Il Corano prescrive minutamente i doveri del credente; quali: l’abluzione, la preghiera da farsi cinque volte al giorno a un segnale dato dal muezzin; il digiuno nel mese del Ramadan; il pellegrinaggio, almeno una volta nella vita, ai luoghi santi, ecc…

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Norme del Corano

Oriente e Occidente sono di Allah. Il Signore è ovunque volgete l’occhio e riempie l’universo con la sua sapienza ed infinità.
L’esistenza dei cieli e della terra, della notte e del giorno che si succedono, della nave che corre sui nari a vantaggio degli uomini, della pioggia che scende dalle nubi e vivifica la terra, degli animali che popolano la superficie terrestre, dei venti che spirano or di qua or di là, delle nuvole erranti tra terra e cielo, tutto ciò è il segno della potenza dell’Altissimo anche davanti agli occhi degli ignoranti.
Nel giorno del giudizio finale tutti i visi degli uomini saranno o bui o risplendenti. I rinnegatori della fede avranno il viso coperto di tenebra e Allah dirà loro : “Andate in preda alle fiamme, giacché siete stati apostati”. Invece, quelli il cui viso risplenderà, proveranno la divina bontà e di essa avranno eterno gioire.
Il Signore vi ordina di giudicare con giustizia i vostri simili. Obbeditegli, perché egli tutto vede e tutto sa. Oh credenti, siate cauti nel giudicare; talvolta il giudizio è ingiusto. Frenate la vostra curiosità; non lacerate la reputazione degli assenti.
Allah è autore di ogni bene che ti giunga. Tu sei l’autore del male che ti giunge. Chi obbedisce al Profeta, obbedisce al Allah.
Anche il verme più vile è creatura di Dio, nutrita da lui;  Dio conosce il suo rifugio e dove dovrà morire.
La terra presenta ad ogni passo un quadro sempre più vario, qui giardini con vigneti e legumi, là palme, ora solitarie ora in boschetti. La stessa acqua irriga tutti i frutti, ma il suo sapore è diverso. Ecco come Dio dà la prova della sua potenza a quelli che comprendono.
La spada è la chiave del cielo e dell’inferno; una goccia di sangue versato per la causa di Dio, una notte sotto le armi, avranno maggior valore che due mesi di digiuno e di preghiera. Colui che morrà in battaglia, otterrà il perdono dei peccati, nell’ultimo giorno le sue ferite saranno rosse come il vermiglio, profumate come il muschio, ed ali d’argento e di cherubino terranno il posto delle membra che avrà perdute.

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I successori di Maometto e le loro grandi conquiste

Raccolto a Medina un nucleo di fedeli, Maometto potè rientrare trionfalmente alla Mecca nel 630, dopo aver sanguinosamente vinto i suoi avversari. Cominciava la guerra santa.
Quando il Profeta morì (632), quasi tutta l’Arabia era convertita all’Islamismo e le tribù, prima divise, formavano un saldo organismo politico, militare e religioso. I suoi successori si chiamarono Califfi; i primi furono elettivi, poi si fondò una dinastia.
La marcia degli Arabi si sviluppò in due direzioni: ad occidente, verso l’Africa mediterranea; a nord e a oriente, verso la Siria, l’Asia Minore e il Regno di Persia. Essa fu favorita dalla debolezza in cui si trovavano allora i due stati vicini: l’Impero d’Oriente e il Regno di Persia.  Il primo perdette parte dei territori, il secondo si sfasciò.
Conquistata tutta l’Africa mediterranea, l’anno 711 gli Arabi varcarono lo stretto che la separa dalla Spagna e che, dal nome del loro condottiero, fu chiamato Gibilterra (Gebel-el-Tarik, cioè monte di Tarik), cozzando contro il regno dei Visigoti. In due anni questo crollò: i Visigoti superstiti ripararono nelle Asturie, una regione montagnosa lungo la costa settentrionale della penisola iberica. Né l’impervia catena dei Pirenei arrestò la formidabile espansione degli Arabi, che irruppero in Francia. Ma un valoroso duca franco, maggiordomo del re, Carlo Martello, li sconfisse a Poitiers (732), ricacciandoli al di là dei Pirenei.
Nel giro di un secolo, dopo la morte del Profeta, gli Arabi avevano costituito un immenso impero che dall’India si estendeva fino alle coste dell’Atlantico, dai Pirenei al Mar Nero e dal lago d’Aral giungeva fino al deserto del Sahara e all’oceano indiano.
In Asia, il loro dominio confinava col grande impero cinese.

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La civiltà araba: agricoltura, commercio, industria

Nei primi tempi della loro espansione, gli Arabi recarono gravi danni alle civiltà conquistate, perchè saccheggiarono  e distrussero opere utili ed opere artistiche. Si deve a loro la distruzione completa della Biblioteca di Alessandria.
Ma ben presto essi sentirono interesse ed ammirazione per le civiltà dei popoli con cui erano venuti il contatto, e le assorbirono apportandovi anche originali contributi.
Agricoltura, industria e commercio fiorirono rapidamente in tutti i paesi conquistati, promuovendone la ricchezza.
Nuove piante furono introdotte e diffuse nel bacino del Mediterraneo, come l’arancio, la palma, l’albicocco, il cedro, il carciofo, l’asparago, lo zafferano, il riso, il cotone, ecc…
Sistemi ingegnosi di irrigazione furono attuati in Spagna meridionale e nella Sicilia, che diventò allora un giardino fiorente; ancora restano celebri avanzi di pozzi, acquedotti, bacini.
Nelle regioni d’Oriente gli Arabi appresero la fabbricazione di eleganti tessuti, la lavorazione del cuoio, dei metalli, del vetro, dell’avorio e del legno.
Le armi di Damasco e di Toledo, i leggeri tessuti di Mosul (mussoline), le sete, i broccati, i tappeti di Damasco, il cuoio del Marocco, i mobili intarsiati in avorio, le vetrerie, i vasi, le lampade di Baghdad e di Cordova costituirono i più raffinati prodotti al mondo tra l’VII e il XII secolo.
Tutta questa produzione industriale era alimentata dalla facilità degli scambi. Provvisto di porti numerosi, dotato di una flotta potente e di antiche e regolari vie carovaniere, l’Impero arabo era intermediario tra l’Occidente e l’Estremo Oriente. Molte parole della nostra lingua, che riguardano la navigazione ed il commercio, sono derivate dall’arabo (arsenale, ammiraglio, fondaco, dogana, magazzino, ecc…).
Mentre nell’Europa cristiana le maggiori città andavano decadendo e la vita economica si restringeva nelle curtis, gli Arabi crearono ovunque nuove città o impressero una floridezza nuova a quelle già esistenti.

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La ricchezza degli Arabi poveri

Gli Arabi poveri raramente erano tanto poveri da non possedere nemmeno questa semplice ricchezza: un cammello o, meglio un dromedario.
Esso dava loro nutrimento, con la sua carne, il latte e i prodotti che da questo ne ricavavano. Il suo pelo serviva per la tessitura delle tende e delle vesti. Persino il suo sterco veniva raccolto e usato come eccellente combustibile. Il cammello era prezioso come mezzo di trasporto. Alla resistenza dell’animale, alla sua sobrietà, che lo fa star contento delle erbe della steppa, e che gli permette di star giorni interi senza bere, si deve se le grandi distese desertiche non sono state per i beduini un ostacolo insormontabile e se essi hanno potuto regolarmente varcarle con le loro carovane, con gli eserciti, con conseguenze di grande portata per la storia politica, economica e culturale.
(M. Guidi)

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I musulmani e la schiavitù

Tra i musulmani la schiavitù era abbastanza diffusa, limitatamente però ai lavori domestici: gli Arabi non avevano grandi proprietà terriere in cui occorresse il lavoro degli schiavi. La religione considerava atto di pietà la liberazione di uno schiavo musulmano; considerava un dovere, invece, la riduzione in schiavitù dei nemici. La dura sorte di venir venduti come schiavi toccò, così, anche a molti europei, catturati in battaglia, o durante le scorrerie degli Arabi lungo le coste, o in seguito alle imprese dei pirati arabi che molestavano il traffico delle navi degli “infedeli” nel Mediterraneo.
Se i prigionieri erano di buona famiglia, ed esisteva la speranza di un buon riscatto, anziché venduti sui mercati erano restituiti alle famiglie dietro pagamento di una grossa taglia. C’è da dire che i padroni arabi non erano duri con gli schiavi. I più colti praticavano la virtù della misericordia, raccomandata dal Corano, anche nei loro confronti. Quando poi, in Spagna, gli Arabi vennero sconfitti dalle forze della nascente potenza spagnola, toccò a loro essere venduti come schiavi, dove venivano adibiti ai servizi domestici. Molti villaggi, in Liguria, sono sorti in cima alle colline proprio per essere al riparo dalle scorrerie arabe.

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La cultura araba

Magnifico sviluppo ebbe l’architettura, dalle linee armoniose e dalla ricchissima colorazione policroma. I più bei monumenti sono: il palazzo dell’Alhambra a Granata e l’Alcazar a Siviglia. Non ebbe invece grande sviluppo la pittura per il divieto, posto da Maometto, di rappresentare dio in figura umana, allo scopo di impedire il ritorno degli Arabi all’idolatria: in compenso fiorì l’arte decorativa col bizzarro, caratteristico stile degli arabeschi. Tra le opere letterarie, celebre è la raccolta di novelle “Le mille e una notte”.
Nel campo delle scienze, partendo dalle conquiste dei Greci e dei popoli orientali, gli Arabi fecero molti progressi: crearono l’algebra, diedero nuova forma al calcolo con l’uso delle cifre arabiche, introdussero lo zero, posero le basi della chimica moderna; la geografia, l’astronomia, la medicina e la chirurgia ebbero da loro contributi nuovi.
Ma la civiltà araba, dopo aver raggiunto il suo massimo sviluppo tra il X e il XII secolo, si arrestò e decadde.

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Le mille e una notte

Le mille e una notte sono una raccolta di fiabe e novelle arabe famose in tutto il mondo. La cornice favolosa è data dalla leggenda della principessa Sheherazade, che per mille e una notte intrattenne il Sultano con i suoi racconti, ottenendo dalla sua curiosità il continuo rinvio della morte cui era condannata.
Al termine dei racconti, il Sultano si riconcilia con lei, ritira la condanna e dà una grande festa. Il libro è pieno di magie, stregonerie, trasformazioni di uomini in animali e viceversa, strumenti fatati (la lampada di Aladino, il tappeto volante e così via). Ma è anche ricchissimo di descrizioni della vita araba nella splendida capitale e nella reggia di Baghdad o nei vicoli del Cairo, dove si aggira una folla pittoresca di facchini, comari, artigiani, mariuoli, avventurieri.
Negli straordinari viaggi del marinaio Sindbad rivive l’epopea di qualche Ulisse arabo nei mari d’Oriente. Principi, mercanti, navigatori, studiosi, poeti, uomini del popolo sono i personaggi di una commedia umana che ha per noi il valore di un grande documentario dei costumi e della mentalità degli Arabi nel periodo di maggior splendore della loro civiltà.

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Le armi degli Arabi

Le spade caratteristiche degli Arabi erano ricurve: spesso le lame erano finemente lavorate con intarsi d’oro e d’argento e i foderi erano ornati di pietre preziose. I soldati erano armati poi di giavellotto e di lunghe lance orante di criniere di cavallo, e portavano uno scudo piuttosto piccolo.
Usavano un elmo con nasale e gorgiera di maglia di ferro per riparare il collo e il naso. Gli uomini indossavano il Kaftan, cioè un ampio mantello di lana e portavano lunghe braghe, strette alle caviglie. Si coprivano il capo con il turbante.

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L’incendio della biblioteca di Alessandria d’Egitto

Amru, generale del califfo Omar, conquistò l’Egitto. Entrato in Alessandria, dove ancora esisteva al famosa biblioteca, in cui i Tolomei avevano raccolto tutte le opere dei Greci antichi, Amru, che stimava le scienze e il letterati, fece amicizia con un dotto greco, di nome Giovanni. Si narra che questi volesse approfittare dell’amicizia che aveva con lui per salvare la biblioteca di Alessandria, ricca di ben 600.000 volumi e lo supplicasse di conservarla.
“Io non posso rispondere di nulla ” disse Amru “senza aver ottenuta l’approvazione dell’imperatore dei fedeli”.
Ne scrive pertanto al califfo, il quale gli dà questa risposta: “Se i libri di cui parli non contengono ciò che è nel libro di dio, essi sono inutili, falli bruciare; se non si accordano, essi sono dannosi, falli bruciare”.
Amru a malincuore obbedì scrupolosamente all’ordine del califfo.
(Manaresi)

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I pirati arabi distruggono un’abbazia

I monaci benedettini di Montecassino e di San Vincenzo al Volturno si incontravano spesso per feste religiose. In una di queste, che aveva raccolto il popolo delle due badie, avvenne un tremendo massacro. Assaliti dalle orde dei Saraceni che erano risaliti dal litorale di Castel Volturno, furono asserragliati, massacrati e sgozzati; massacro di un esercito inerme preso al laccio dal nemico in una gola di monti senza scampo. La basilica, le chiese furono depredate e incendiate, con grande lutto per la fede e per l’arte. Una traccia resta ancora nell’oratorio di San Lorenzo, unica chiesa superstite ma non indenne.

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Gli Arabi in Sicilia

La Sicilia, passata dal governo tirannico di Bisanzio a quello più illuminato degli Arabi, fece enormi progressi intellettuali ed economici, i cui benefici effetti si risentirono con le altre dominazioni.
Gli Arabi, bravi agricoltori, curarono i boschi, i corsi d’acqua, la piantagione di alberi fruttiferi, la coltivazione delle ortaglie e del cotone, introdussero in Sicilia la coltivazione della canna da zucchero e degli agrumi, oggi grande ricchezza dell’isola. Divisero le grandi estensioni di terreno in tante piccole proprietà.
Palermo divenne, assieme ad altre, una bella, popolosa, ricca città.

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Parole arabe in italiano

Molto spesso, parlando di qualche cosa, noi usiamo, senza saperlo, parole che sono state introdotte nella nostra lingua da un grande popolo del passato: gli Arabi.
Zucchero, per esempio, è una parola di derivazione araba, come arabe sono le parole cotone, magazzino, almanacco, ammiraglio, albicocca, denaro, divano, materasso e molte altre. Queste stesse parole sono presenti anche in altre lingue europee.
Per esempio, dalla parola araba sukkar deriva l’italiano zucchero, lo spagnolo azucar, il francese sucre , l’inglese sugar, il tedesco zucker.

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I cavalli, orgoglio degli Arabi

Gli Arabi non avevano grandi mandrie di bovini, ma pecore e cammelli, asini e cavalli.
I cavalli erano il loro orgoglio, animali svelti, alti e ben proporzionati, di temperamento nervoso e velocissimi.
I migliori provenivano dall’altopiano di Nedshd; e in tutto l’Oriente erano considerati il più nobile prodotto della natura; in realtà erano il risultato di un accurato allevamento.
Il cavalo ebbe fin dall’inizio una notevole importanza nella storia e nelle leggende dell’Islam.
Lo stesso Maometto, che non era un beduino, ma un cittadino, fin dalla prima giovinezza aveva avuto gran confidenza con gli animali.
Da bambino aveva accompagnato suo zio in un viaggio in Siria, e più tardi guidò egli stesso carovane di mercanti attraverso il deserto, al servizio di una ricca vedova attempata che possedeva alla Mecca un’impresa di trasporti e che poi divenne sua moglie.
Probabilmente faceva i suoi viaggi di affari su di un cammello, o su un asino, ma quando diventò conquistatore, e si coprì di gloria, ebbe un focoso destriero, anche per le sue missioni spirituali.
I suoi fedeli raccontano che sul suo cavallo miracoloso, Barak, guidato dall’arcangelo Gabriele cavalcò nella santa notte dalla Mecca al Tempio di Gerusalemme e di là salì in cielo.
Presso la rupe dalla quale il cavallo aveva spiccato il volo verso il cielo, il secondo califfo Omar al-Khattab, al posto del Tempio di Salomone fece erigere la grandiosa moschea che porta il suo nome.
Ciò nonostante, Omar fece il suo ingresso a Gerusalemme come semplice beduino, su un cammello che portava un sacco di biada, un altro di datteri e una borsa di cuoio con acqua da bere.
I successi militari degli Arabi sconfinavano nel prodigioso.
Con piccole squadre di cavalieri sottomisero i più grandi regni. I Persiani cercarono di trattenerli con un considerevole corpo di elefanti, ma dopo una lotta durata tre giorni, la battaglia degli elefanti di Kadesia si risolse a favore dei lancieri arabi; trecento arabi e settemila berberi presero la Spagna; solo a Poitiers, nel centro della Francia, la cavalleria araba fu bloccata per la prima volta.
(Morus)

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Il grande viaggio

La morte non atterriva gli Arabi, perchè essi sapevano che nell’aldilà esiste un dio giusto che premia chi ha vissuto con fede e ha sempre compiuto il bene. Perciò, quando un Arabo doveva intraprendere un lungo viaggio, metteva nel suo bagaglio anche il lenzuolo candido che avrebbe fatto da sudario. Durante il cammino, se l’Arabo si sentiva male e comprendeva che non aveva ormai più molto da vivere, avvertiva i compagni e si faceva dare un’ultima fiasca d’acqua. Poi si allontanava in solitudine. Scavava la sua fossa, con l’acqua faceva le ultime abluzioni rituali, recitava le preghiere e infine si sdraiava serenamente nella buca, in attesa della morte. Non si preoccupava per la sepoltura: avrebbe pensato il vento del deserto ad accumulare in poche ore la sabbia sulla sua fossa.

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Inferno e paradiso
Certamente noi preparammo ai cattivi il fuoco che li circonderà di un turbine di fumo, e, se chiederanno aiuto, avranno acqua che brucerà loro la faccia come se fosse rame fuso. Ma a quelli che avranno invece creduto e operato con rettitudine, non lasceremo mancare il premio dei giusti. Avranno i giardini del Paradiso, saranno adorni di bracciali d’oro  e vestiti di abiti verdi di seta preziosa intessuta d’oro e di una sopravveste splendente.

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Dal Corano

Dio ha creato per voi il bestiame; esso vi dà calore  e profitto, vi dà nutrimento. La sera quando le bestie tornano alla stalla, la mattina quando vanno al pascolo, sono per voi uno spettacolo bello da vedere. Trasportano i vostri carichi a paesi che non raggiungereste senza affanno e fatica, poichè il Vostro Signore è buono e pietoso. Egli ha creato cavalli, muli ed asini per cavalcatura e per ornamento, e altre cose che non conoscete neppure.
A Dio appartiene quanto è nei cieli e sulla terra: Egli è colui che basta a se stesso… e se tutti gli alberi della terra fossero penne, ed al mare fossero aggiunti sette mari, tutti d’inchiostro, non si esaurirebbero scrivendo le parole di Dio. Certo Egli è potente e saggio…

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La Sicilia sotto gli Arabi

La Sicilia fu governata da un Emiro (Balì) che dipendeva giuridicamente dall’Emiro di Kairouan, ma che, eccezion fatta per l’interpretazione dei dogmi, esercitava un governo assoluto. Palermo fu la capitale del nuovo stato. Dall’Emiro dipendevano i Cadì, che amministravano le città importanti, e funzionari minori.
Dopo gli atti violenti della conquista, gli Arabi divennero miti, e il loro governo fu tutt’altro che gravoso. L’isola fu divisa in tre province o valli: Mazara (anche oggi, Mazara del Vallo), Demone e Noto. In generale, Val Demone (Sicilia nord orientale) formata dalle catene dei Peloritani e dei Nebrodi e dall’Etna, tutta aspre valli ed impervie montagne, rimase indipendente di fatto, con municipalità locali; Val di Noto (Sicilia sud orientale) fu resa tributaria; a Sicilia centrale e occidentale, Val di Mazara, era veramente suddita. I beni ecclesiastici e demaniali vennero confiscati dal governo musulmano, ma i cittadini, pur perdendo ogni autorità politica, continuavano a vivere secondo le proprie leggi e costumi, godevano pienamente il diritto di proprietà, potevano praticare la loro religione.
La legge musulmana proteggeva le persone e gli averi con le medesime sanzioni penali per i musulmani, e ammetteva ogni contrattazione civile tra loro e i dominatori, anche i lasciti per testamento.
Tutti gli uomini liberi, di qualsiasi grado, erano davanti ai vincitori ragguagliati in un’unica condizione, detta dsimma. I dsimmi (sudditi o umiliati) erano sottoposti a vari divieti: non potevano portare armi né andare a cavallo, né bere vino in pubblico, né celebrare pompe funebri; la loro condizione di inferiorità, indicata esteriormente con un segno sulla porta di casa e sul vestito, si rivelava dall’obbligo di cedere per strada il passo ai musulmani e di alzarsi nei ritrovi quando entrava un musulmano.
In complesso, al condizione fatta dagli Arabi ai vinti non fu eccessivamente gravosa. Per questo e per l’odio verso l’antico dominate bizantino, i Siciliani non si ribellarono e la signoria araba si consolidò; occorrerà una forza proveniente dall’esterno, i Normanni, per abbatterla.
La Sicilia sotto i Musulmani fiorì di commerci e di industrie. Come Cordova, in Spagna, Palermo fu uno dei centri principali della civiltà araba: nel secolo X contava circa 300.000 abitanti ed era ricca e festosa. Con essa gareggiavano Catania, Messina, Siracusa, Castrogiovanni.
L’agricoltura fu favorita dallo spezzettamento del latifondo: molte grandi proprietà del dominio bizantino o della Chiesa, confiscate dal governo musulmano, furono in parte divise tra i conquistatori, in parte date in affitto o in enfiteusi.
Maometto aveva stabilito che chiunque rendesse una vita alla terra incolta, ne divenisse proprietario. Questo favorì il dissodamento e la coltura intensiva di terre abbandonate. Gli Arabi introdussero nell’isola piante e metodi di coltura che avevano appreso in Oriente: agrumi, fichi d’India, palme da dattero, gelso, cotone, canna da zucchero, ecc., e seppero regolare il corso dei fiumi con sapienti lavori idraulici.
La lingua e la cultura indigena non vennero soffocate, anzi valorizzate e arricchite dalla cultura greco orientale, di cui gli Arabi furono mediatori.

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La tecnica araba

Gli Arabi furono i primi ad iniziare un’applicazione più sistematica della ruota ad acqua e del mulino a vento.
Mentre nel mondo classico la ruota ad acqua non ebbe mai un’importanza particolare, gli Arabi ne fecero una delle loro principali risorse.
In Mesopotamia essi adottarono una ruota a pale galleggianti su chiatte ancorate alle rive del Tigri, per dare energia ai mulini, alle fabbriche di carta e ad altri macchinari, dove fecero grande uso di ruote dentate di legno e di altri congegni di trasmissione dell’energia.
Riferisce un antico storico che “… nell’Afghanistan tutti i mulini a vento sono mossi dal vento del nord e quindi orientati in questa direzione. Applicate ai mulini a vento vi sono delle file di persiane che vengono chiuse o aperte per trattenere o immettere il vento. Infatti, se questo è troppo forte, la farina brucia e diventa nera e la stessa macina può surriscaldarsi e guastarsi.”
Questo nuovo modello di mulino a vento è dovuto agli Arabi.
Nell’epoca d’oro della civiltà islamica (900-1.000) una serie di scienziati fece progredire la tecnica chimica studiando attentamente sostanze organiche e inorganiche, grazie allo sviluppo di strumenti scientifici.
Lo scienziato arabo Al-Biruni usò il suo picnometro per determinare il peso specifico di molti minerali e pietre preziose.
Uno degli strumenti maggiormente diffusi nel  mondo arabo fu l’astrolabio.
Risale certamente a Tolomeo e ad altri astronomi ellenistici, ma gli Arabi lo perfezionarono fino a farne uno strumento utile e di impiego universale per la misurazione degli angoli e il calcolo delle posizioni dei corpi celesti.
Gli Arabi furono anche famosi per l’arte del vasellame e specialmente per gli smalti lucenti e colorati applicati alle terraglie.
Quei recipienti smaltati, molti dei quali a prova di fuoco, erano particolarmente adatti agli esperimenti tecnici.
Il miglioramento della qualità del vasellame aiutò grandemente i chimici arabi ad intraprendere una produzione su larga scala di certi prodotti chimici.
Essi inventarono i forni cilindrici o conici, in cui venivano poste file di alambicchi per la produzione di acqua di rose o di nafta (benzina) per la combustione dei gas.
Nel 1085 un incendio nella cittadella del Cairo distrusse non meno di 300 tonnellate di benzina. La produzione di quantitativi così ingenti era possibile soltanto con il suddetto metodo.
Città come Damasco erano, secondo testi antichi, centri di produzione e distillazione.
Gli  Arabi si interessarono anche alla produzione di tessili.
Come certi nomi di sostanze e apparecchi chimici (quali alcali, antimonio, alambicco), passarono dalla lingua araba alla nostra, anche molti nomi arabi di tessuti furono adottati da noi.
Così il damasco, ad esempio, deriva originariamente da Damasco, e la mussola da Mosul, mentre la parola taffetà deriva dal persiano taftah e il fustagno, una stoffa famosa nel Medioevo, da Fostat, un sobborgo del Cairo.
Il sorgere di un’industria araba della carta fu dovuto ai contatti con la Cina.
Nel 793 sorgeva a Baghdad la prima cartiera. Ben presto l’uso della carta divenne così diffuso, che intorno all’800 troviamo scrivani che si scusavano se per stendere le lettere dovevano ricorrere ancora al papiro.
Verso il 900 si introdussero a Baghdad formati standard di carta e se ne fabbricarono qualità assai leggere, che servivano per la posta aerea di allora, cioè il servizio dei piccioni viaggiatori.
L’industria della carta era strettamente connessa con quella della legatura dei libri, nella quale eccellevano gli Arabi.
Essi facevano bellissime copertine di cuoio lavorato a mano e decorato d’oro.
Gli Arabi per primi escogitarono un procedimento di raffinazione dello zucchero, e speciali procedimenti per l’estrazione dei profumi dai fiori.
E’ di quei tempi l’introduzione su larga scala delle armi chimiche.

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Il Corano

La dottrina di Maometto è contenuta nel Corano. Corano (“lettura, recitazione”) è l’insieme delle recitazioni pronunciate da Maometto come profeta che si riteneva ispirato dalla rivelazione divina, le quali, raccolte dai suoi ascoltatori, vennero riunite dopo la sua morte.
Il Corano è completato dalla Sunna, ossia dalla condotta pratica del Profeta, come risulta dai sui detti e atti tramandati dalla tradizione.
Il dogma musulmano è assai semplice. L’unità e l’onnipotenza di Dio (Allah), la vita futura con pene e ricompense, la missione divina di Maometto: questi sono gli articoli di fede.
Allah comunica con gli uomini mediante la rivelazione, trasmessa per mezzo dei profeti: ogni popolo ha il suo profeta, ogni epoca il suo libro sacro.
Tra i grandi profeti che hanno preceduto Maometto è Gesù: Maometto, l’ultimo venuto tra i profeti, è il profeta per eccellenza, ha apportato la rivelazione definitiva.
Dopo la morte l’uomo deve rendere conto delle sue azioni: i reprobi e gli infedeli verranno precipitati nella Gehenna, ove saranno tormentati; ai veri credenti, ai giusti è invece riservato il paradiso, le cui delizie saranno eterne.
Per meritare le gioie del paradiso l’uomo deve avere fede e sottomissione assoluta ad Allah, non deve mai rappresentarlo sotto forme visibili, deve obbedire alla sua legge, diffonderla per il mondo anche con le armi, compiere le pratiche essenziali del culto (preghiere, abluzioni, pellegrinaggi), fare elemosina.
La carità è stretto obbligo per i Musulmani. La morale è intimamente legata alla religione: il Corano condanna l’avarizia, la menzogna, l’orgoglio, la malvagità; proibisce vino e gioco, i due vizi favoriti dagli Arabi, raccomanda la modestia, la castità, la rettitudine, la pazienza, l’umiltà, e soprattutto la carità.
I credenti sono tutti fratelli: gli ebrei e i cristiani potranno, pagando tributo, professare la propria fede.
Il Corano permette più mogli, ma la monogamia è considerata preferibile; proibisce l’infanticidio; protegge i deboli, gli orfani, gli schiavi.
Si può quindi affermare che la legislazione del Corano abbia costituito per gli Arabi un effettivo progresso.
Per il Musulmano il Corano è ciò che la Bibbia è per il popolo ebraico: il libro per eccellenza, che sta al di sopra di ogni altro libro per il suo carattere sacro.
Quando vengono letti  ad alta voce i versetti del Corano, tutti i presenti devono osservare un assoluto silenzio e nessuno può permettersi di bere o di fumare. In parecchi luoghi era consuetudine insegnare ai bambini inferiori ai dieci anni i 6.200 versetti a memoria, ridotti poi, nelle scuole di tipo più moderno , ad una scelta antologica che non affatichi tanto la memoria.
L’unicità di dio è continuamente ribadita nel Corano: “Egli è Dio; non ci è altro Dio che Lui, conoscitore del visibile e dell’invisibile, il misericordioso, il compassionevole! Egli è Dio, non v’è altro Dio che Lui, il re, il santo, il pacificatore, il fedele, il custode, il potente, il dominatore, il grandissimo”.
Ci sono versetti che esortano a confidare nella sapienza di Dio, che ha fini ben precisi da realizzare: “Non disperare dello Spirito di Dio”; “Non pensare che Dio sia immemore di coloro che commettono ingiustizie”.
Anche nel Corano, come nella tradizione cristiana e presso altre religioni, si possono trovare espressioni quasi proverbiali che aiutano la gente modesta, a portare il peso del vivere con rassegnazione e con totale fiducia in Dio: “Dio non aggrava un’anima più di quanto essa non possa sopportare”; “Se la tentazione da parte di Satana ti inducesse al male, cerca rifugio in Dio che tutto ascolta e conosce”; “Nessuna anima porterà il peso di un’altra”.
(L. Salvatorelli)

ESPANSIONE E CIVILTÀ DEGLI ARABI dettati ortografici e letture – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Osserviamo la cartina

Confini: Francia, Svizzera, Piemonte
Monti: Alpi Occidentali (Graie) e Centrali (Pennine)
Cime più alte: Gran Paradiso, La Grivola, Monte Bianco, Cervino, Monte Rosa
Valli: della Dora Baltea, con le valli laterali. A sud: Veny, La Thuile, Valgrisanche, di Rheme, di Cogne. A nord: Ferret, del Gran San Bernardo, Valpelline, Valtournanche, d’Ayas, di Gressoney
Valichi: Piccolo San Bernardo, Col Ferret, Gran San Bernardo
Fiumi: Dora Baltea (nel suo corso superiore).

La Valle d’Aosta, la più piccola e montuosa regione d’Italia, è il regno delle cime inaccessibili, delle nevi perenni. Il Gran Paradiso, il Monte Bianco, il Cervino, il Monte Rosa sono nomi noti agli alpinisti di tutto il mondo. DA queste vette lo sguardo scende verso la valle operosa, percorsa dalla Dora Baltea. Il fiume scorre tra dolci declivi, raccogliendo le acque dei torrenti che scendono dalle valli collaterali.
La Valle d’Aosta è famosa, oltre che per le sue montagne, anche per i numerosi castelli medioevali, meta continua di visitatori.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Vita economica

L’economia della Valle d’Aosta si basa principalmente sull’industria dell’energia idroelettrica, prodotta dalle imponenti centrali scaglionate lungo le valli.
Miniere di carbone sopra La Thuile, e di ferro sopra Cogne, alimentano ferriere ed acciaierie. Nella Valtournanche si estrae marmo serpentino.
Estesi pascoli favoriscono l’allevamento di bovini ed ovini; abbondante quindi è la produzione di latticini (fontina della Val d’Aosta).
Fiorente è l’industria turistica della valle; gli appassionati della montagna e degli sport invernali frequentano assiduamente le migliori località di soggiorno della Valle ed i rifugi alpini, situati ad altissime quote.
Il capoluogo della regione è Aosta, città antichissima, fondata dall’Imperatore Augusto, da cui prese il nome.
Con tutto il suo territorio la Valle d’Aosta forma una regione autonoma, governata da un parlamento detto Consiglio della Valle.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Per il lavoro di ricerca

Chi furono i primi abitanti di Aosta?
A quale epoca risale la fondazione della città?
Con quali province e con quali stati confina la Valle d’Aosta?
Da quale fiume è attraversata l’intera regione?
Quali fiumi e quali torrenti si gettano nella Dora Baltea?
Com’è il clima?
Quali importanti gruppi di montagne comprende?
Quali sono le vette principali?
Quali passi, valichi, trafori mettono in comunicazione la Valle d’Aosta con la Francia e con la Svizzera?
Quali sono le maggiori risorse economiche della regione?
Conosci qualcuno fra i costumi più famosi della Valle d’Aosta?
Hai già sentito parlare della funivia dei ghiacciai?
Che cos’è il Parco Nazionale del Gran Paradiso?
Nell’interno del Parco Nazionale, sono permesse la caccia, il taglio delle piante e la pesca?
Ricerca notizie sul Monte Rosa e sul Cervino.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Sulle ali della fantasia

Numerosissime sono le leggende create dalla fantasia ed ispirate dall’animo poetico dei valligiani. Molte di esse hanno per protagonista il diavolo. E non poteva davvero il diavolo mancare nella tradizione popolare valdostana. Il diavolo, infatti, rappresenta uno dei termini della lotta tra il bene e il male: l’altro è rappresentato dall’angelo e dal santo.
Rivive in questi contrasti, che la fantasia popolare abbellisce con le pittoresche e ingenuo integrazioni, un atteggiamento caro alla poesia medioevale, anche alla poesia di Dante.
E nella Valle d’Aosta, in cui la solitudine antica dei monti sembra creare l’ideale luogo per l’ascesi dello spirito, il dramma tra il bene e il male si risolve con la vittoria della santità.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – La Valle d’Aosta: sguardo d’insieme

Nel luogo dove i confini dell’Italia, della Francia e della Svizzera trovano il loro punto d’incontro si estende la Valle d’Aosta, la più piccola fra le regioni italiane.
Il nome Valle ne indica solo parzialmente il carattere: in realtà essa presenta in breve spazio tutto ciò che la montagna può offrire di bello, di solenne, di orrido, di affascinante: qui sono le cime più alte, le pareti più vertiginose, i nevai più estesi, i torrenti più impetuosi.
Si esce appena dalla ridente campagna canavesana, l’occhio riposa ancora sul dolce paesaggio morenico, quando entriamo nella vallata centrale che ci apre il paesaggio tra i massicci montuosi e percorre la regione in tutta la sua lunghezza.
L’ingresso è ampio, accogliente, ma la valle non tarda a serrare i suoi bastioni di roccia nella stretta selvaggia di Bard; e subito, come per un pentimento, si slarga di nuovo, concedendo spazio ai coltivi, al corso della Dora vorticosa, torbida, grigia di sabbie. Poi si rinserra repentinamente alla Mongiovetta. La Dora scroscia in una gola profonda e la strada si arrampica su pei dirupi. Nuovamente la valle si allarga dove sorge l’elegante centro turistico di Saint Vincent, su su fino alla conca di Aosta, la piccola capitale. Di qui riprende deciso il dominio delle montagne che stringono sempre più da vicino la strada ed il fiume, ma, a tratti, lasciano spazio ai paesini, ai villaggi e cedono ancora al verde dei prati dell’ultima, stupenda conca di Courmayeur.
La valle, che trae il nome dalla città di Aosta, è come un tronco torto e nodoso da cui si dipartono, a destra e a sinistra, i rami delle valli minori.
Ciascuna di esse è solcata da un torrente che reca il suo apporto di acque alla grande Dora. In alto, fra i picche nevosi, occhieggiano laghetti azzurri, distendono acque increspate dal vento i bacini idrici serrati fra il monte e le altissime dighe.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Lo sai?

Aosta è la romana Augusta Praetoria, fondata nel 24 aC per volere dell’imperatore Cesare Augusto.
Entrèves (frazioni di Courmayeur): in località La Palud, l’arditissima “funivia dei ghiacciai”, inaugurata nel 1057, porta sul Monte Bianco raggiungendo i 3842 metri di altezza (Aiguille du Midi) e scavalca l’imponente massiccio per scendere poi a Chamonix (Francia).
La funivia supera un percorso di quindici chilometri.
Gran San Bernardo: vi è un ospizio di monaci Agostiniani e un allevamento di cani di razza San Bernardo. Questi cani, un tempo, erano impiegati dai monaci per ricercare gli alpinisti sperduti.
Piccolo San Bernardo: verso la fine di settembre del 218 aC vi passò molto probabilmente Annibale, con il suo esercito. Pochi giorni dopo, il generale cartaginese sconfisse una prima volta i Romani, comandati dal console Publio Cornelio Scipione, presso il Ticino.
Gran Paradiso: la zona ospita un Parco Nazionale per la conservazione della flora e della fauna. In questo parco vivono numerosi camosci e stambecchi.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Minerali della Valle d’Aosta

Miniere di ferro a Cogne e miniere di carbon fossile a La Thuile;  cave di pietra da taglio, di granito, di marmo verde; filoni di amianto e di ferro magnetico; giacimenti di rame, manganese, di galena argentifera, di pirite, di cristallo di rocca ed infine il carbone bianco, cioè la grande abbondanza di acqua per l’energia elettrica; sorgenti di acque minerali a Saint Vincent e Courmayeur.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Curiosità

I giacimenti di minerale di ferro più alti d’Europa di trovano a Cogne, in Val d’Aosta a millecinquecento metri sul livello del mare. Vi lavorano circa settecento minatori anche d’inverno, ospitati in un moderno e ben attrezzato villaggio. Annualmente ricavano circa duecentoquaranta mila tonnellate di ferro.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Artigianato

Non c’è angolo della Val d’Aosta che non rispecchi gentilezza, fantasia e non riveli qualche segno dell’umile, delicatissima arte. Qua è una porta estrosamente intagliata, là è una fontana o un balcone dalle forme ingegnosamente sagomate… Il legno dei boschi assume, nelle mani dei Valdostani, gli aspetti più svariati. Da secoli lo lavorano e ne ricavano oggetti graziosissimi, utili e d’ornamento… Armadi, cassettoni, conocchie, pipe, coppe, bastoni, manici per piccozze, oggetti d’arte sacra. Ognuno di questi oggetti è intagliato, decorato, cesellato, arabescato con disegni.
Tutta questa produzione non è soltanto nelle case. Assieme a merletti, trine, tessuti a mano, oggetti di stagno sbalzato ed altre caratteristiche creazioni valdostane, fanno bella mostra di sé in negozi e mercati dove turisti ed amatori li acquistano…

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – In una bottega s’Aosta

Nelle botteghe di Aosta fanno bella mostra numerosissimi oggetti in legno (astucci, ciotole, pipe, piccoli scrigni, bastoni, culle) lavorati con grande, abilità dei valligiani.
Alcuni di questi oggetti finemente intagliati e decorati, hanno un vero valore artistico.
Altri lavori caratteristici sono i merletti, le trine, i tessuti fatti a mano e gli oggetti di peltro.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Il Monte Rosa

Splendida corona alla Valsesia è il Monte Rosa, un imponente massiccio delle Alpi Pennine, il secondo in Europa per altitudine subito dopo il Monte Bianco.
Esso si estende tra il Colle di Teodulo e il Passo del Monte Moro e comprende numerose e gigantesche vette che superano tutte i quattromila metri, come la Punta Giordani, la Piramide Vincent, il Corno Nero, la Punta Parrot, la Punta Gnifetti, la Punta Zumstein, la Punta Dufour, che è la più elevata, e la Nordend.
Bellissime vallate si aprono ai piedi del massiccio, uno dei più conosciuti ed amati delle nostre Alpi.
Scintillanti ghiacciai, e assai vasti, ricoprono i fianchi del Monte Rosa (il Gornergletschern, nel versante svizzero, e, nel versante del Lys, il ghiacciaio dallo stesso nome): la solitudine immensa e il divino silenzio accolgono gli animosi alpinisti che vi si avventurano.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Il Monte Cervino

Nelle Alpi Pennine, ad ovest del Rosa, si erge solitario, al disopra di una meravigliosa cerchia di monti, il capriccioso Cervino. Ha una caratteristica forma piramidale, e l’elegante cuspide aguzza è quasi sempre avvolta da una corona di nubi.
I tentativi di conquistare la vetta durarono quasi un secolo e la prima ascensione fortunata, dal versante italiano, segnò una delle pagine più radiose nella storia dell’alpinismo valdostano.
La scalata del Cervino è tuttora difficile e pericolosa. Le famosissime guide di Valtournanche si addestrano sulle sue levigate pareti.
Il Brocherel (la Valle d’Aosta) dice del Cervino: “La visione del Cervino è sempre affascinante e comprensiva, perchè contenuta nella sintesi di un colpo d’occhio. Ergendosi isolato senza corteo di satelliti, il Cervino avvince ed assorbe l’attenzione per la schematica semplicità delle forme; la mole giganteggia appunto per il taglio netto degli spigoli e la levigatura delle pareti. La bellezza scenografica del Cervino consiste nella composizione geometrica del suo profilo, che possiede uno stile proprio, da qualunque parte lo di guardi.
Da Zermatt il Cervino assume la forma di un immenso cristallo di rocca e le scintillanti incrostazioni di ghiacci rendono ancor più evidente la somiglianza; dal Breuil sembra il torso di un gigante addormentato, la testa sciabolata di rughe, gli omeri fasciati dai drappeggi dei ghiacciai; dal Dent l’Hérens, la sagoma è ancor più affusolata, e sembra un massiccio obelisco, istoriato dai geroglifici delle chiazze di neve”.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Itinerario in funivia sul Monte Bianco

Da Entrèves nella Valle d’Aosta a Chamonix in territorio francese, si può attraversare la massiccia catena del Monte Bianco, salendo fino a quota 3.842 metri (Aiguille du Midi) stando comodamente seduti nei piccoli vagoncini sospesi della funivia. La chiamano “la Funivia dei Ghiacciai”). Ogni tanto, quando un gruppo di carrelli giunge a una delle stazioni terminali, tutto il complesso si ferma e si resta sospesi magari sul ghiacciaio del Gigante o sulla Vallée Blanche, a più di 3.500 metri di altezza, mentre sotto di noi si distendono sconfinate distese candide, picchi solenni, una foresta pietrificata di cime, una fuga vertiginosa di vallate scoscese.
Questa è la Funivia dei Ghiacciai, un’ opera ardita e meravigliosa di ingegneria. Quando la progettarono, sul Colle del Gigante mancavano i sostegni naturali sui quali appoggiare i piloni che dovevano sostenere la grande campata di 5.093 metri fino a Gros Rognon, a 3541 metri di altezza. Allora i costruttori idearono un pilone sospeso, sorretto dalle due parti da un sistema di cavi di acciaio che furono fissati da un lato al Grand Flambeau e dall’altro alle pendici del Dente del Gigante.  L’apparecchiatura, che sostiene al loro passaggio i carrelli, pesa da sola diverse tonnellate e sembra di volare, senza scosse, incantati da quello spettacolo straordinario.
Per chi vorrà poi attraversare le Alpi nello stesso punto, ma facendo a meno di ammirare lo straordinario spettacolo della catena, si è perforato il Monte Bianco in persona! Lungo 11.700 metri, senza superare i 1.500 metri di altezza, il traforo guida gli automobilisti in linea retta e in meno di mezz’ora dall’Italia alla Francia e viceversa. (A. Lugli)

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Il traforo del Monte Bianco

Il traforo del Monte Bianco è la più grande galleria stradale d’Europa e attraversa il monte più alto d’Europa, alto 4810 metri. Il tunnel passa esattamente sotto il ghiacciaio di Toulà, tocca la verticale dell’Aiguille de Toule (che segna il confine tra l’Italia e la Francia; in galleria il confine è indicato da due grandi cartelli), attraversa il Ghiacciaio del Gigante, la Vallée Blanche e tocca infine la verticale dell’Aiguille du Midi, per ridiscendere sotto il ghiacciaio des Pelerins. Per la realizzazione del traforo sono state impiegate sei milioni e trecentomila ore lavorative, pari a circa ottocentomila giornate lavorative. In cantiere si sono trovati fino a seicento tra operai e tecnici. (A. Selmi)

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Guide valdostane

Essendo uomini della montagna, sono per natura schivi, rifuggono istintivamente dai clamori e dal chiasso che circondano tanto spesso i personaggi più in vista.
Sono coraggiosi e forti, profondamente buoni e generosi, sempre pronti a correre là dove qualcuno si trova in pericolo, disposti ad ogni sacrificio, fosse pure quello della vita, che del resto tanto spesso mettono a repentaglio, quando la necessità lo richieda. Ma, appena la loro presenza non è più necessaria, quando tutto è tornato normale e ogni pericolo è svanito, si eclissano silenziosamente, quasi si adombrassero dei ringraziamenti e delle lodi che si vorrebbero loro tributare.
Innamorati delle loro belle montagne, ne hanno assorbito lo spirito, rude e fiero in apparenza, nel fondo estremamente generoso, gentile e sensibile: ne è una dimostrazione evidente questa loro ritrosia, che non vuole mettere in imbarazzo nessuno, che inconsciamente vuol conservare agli atti eroici la purezza che li ha ispirati.
Tali sono le famose guide valdostane.
E anche noi, che comprendiamo ed apprezziamo la delicatezza del loro spirito, rispetteremo il loro desiderio di rimanere nel buio, accontentandoci di dire che li abbiamo ammirati tante volte, che li ammiriamo tuttora per il loro coraggio, per la loro silenziosa abnegazione, che spesso rasenta e raggiunge le vette del più sublime eroismo.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Il Parco Nazionale del Gran Paradiso

Una delle gite più interessanti che si possono fare sulle Alpi Piemontesi è quello che ha come meta il Parco Nazionale del Gran Paradiso. Entriamo in un regno meraviglioso, perchè qui tutto è rimasto intatto con piante, fiori, animali, uccelli ed insetti protetti contro ogni sovversione o modifica che la mano dell’uomo vi può apportare.
Una legge apposita del governo italiano, che risale al 1922, ha stabilito pene severissime per chi intacca il patrimonio vegetale ed animale di questa zona, diventata zona di protezione o, come si suole chiamare, Parco Nazionale.
Esso comprende il massiccio del Gran Paradiso ed alcuni territori dei comuni di Ceresole Reale, di Locana, di Cogne, di Valsavara, di Ronco Canavese e di altri, compresa l’ex riserva di caccia dei Savoia. Il perimetro del Parco è segnato da cartelli indicatori.
Nell’interno è vietato qualsiasi genere di caccia e uccellagione, la pesca, il taglio di piante, le iscrizioni, i cartelloni pubblicitari e qualsiasi altra deturpazione delle bellezze naturali. E’ perfino vietato l’ingresso con cani e il campeggio.
Tutto questo a quale scopo?
Perchè sia salvo, almeno in qualche angolo del nostro stupendo arco alpino, il paesaggio naturale quale doveva apparire un tempo quassù, prima che l’uomo iniziasse con la caccia e il diboscamento la trasformazione dell’ambiente montano. Orma sia al piano che sulle valli del nostro Paese è rimasto ben poco del quadro primitivo e selvaggio di un tempo, ed ancor meno resterà con il progressivo deturpamento di ogni bellezza naturale.
Si ampliano le città al piano, sorgono stabilimenti per ogni dove, si inquinano le acque, si aprono mille strade, si disbosca in modo eccessivo, e così a poco a poco le nostre regioni assumono un volto diverso e ben lontano dal primitivo aspetto. Proprio per arrestare questo lento ma profondo mutamento, sono state istituite varie zone di protezione (parchi del Gran Paradiso, dello Stelvio, degli Abruzzi, del Circeo, …) e non in Italia soltanto, ma in ogni nazione del mondo.
Così nel Parco del Gran Paradiso si è potuto salvare lo stambecco, scomparso da tempo da ogni altro angolo delle Alpi. Lo Stambecco è una grande capra di forme tozze ma robusta, di pelame bruno, folto e ruvido, con corna nodose incurvate all’indietro, vive per lo più oltre il limite superiore della vegetazione arborea. Pascola di notte, e nell’inverno cerca grotte e terrazzi ben esposti al sole, al riparo dalle valanghe. E’ agilissimo e con destrezza di arrampica svelto svelto su cammini e canaloni. Ma nel Parco vivono molti atri animali selvatici, dentro fitte pinete, con un lussureggiante sottobosco: camosci, ermellini, volpi, donnole, marmotte, lepri bianche, faine, martore, tassi, lontre e numerosi uccelli (l’aquila reale, il gufo, il picchio, la coturnice, il fagiano di monte, il gallo cedrone, la nocciolaia, il merlo alpino e tanti e tanti altri).
Una gita a questo Parco è veramente interessante; sembra per un momento di vivere in un altro mondo, lontani dal frastuono delle città e dal rumorio solito di macchine e automobili. La natura, se rispettata, conserva questo incanto, questo arcano potere di avvicinarci alle sue meravigliose bellezze. (C. Verga)

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – Testimonianze di antiche tradizioni e folklore valdostano

Una gioiosa fiaccolata di giovani annuncia l’arrivo del nuovo anno, cantando davanti ad ogni casa. Sempre a Capodanno (la tradizione è viva in quasi tutta la Valle) i bambini, a gruppi, si recano nelle case a porgere gli auguri e sono affettuosamente accolti e ricevono piccoli doni, di solito caramelle e dolci.
Secondo una tradizione, detta del “baldzor d’an”, nella notte dell’Epifania si scrivono i nomi di tutte le fanciulle e di tutti i giovani del paese du piccole strisce di carta, che poi si mettono in due cassette: una coi nomi delle donne, una con quelli degli uomini. Un bambino estrae, alternativamente, un biglietto dall’una e dall’altra urna, formando così le coppie: e le due strisce, unite assieme, vengono poi sparse il giorno successivo sulla piazza principale del paese…
Durante il Carnevale, ancora ricco di maschere che variano secondo le località, il martedì grasso, a Châtillon, si distribuisce ai poveri una minestra di fagioli e polenta con fontina, il tutto preparato sulla piazza del paese.
La Domenica delle Palme, oltre i rami d’olivo, si fanno benedire anche mele che si ritiene preservino dal mal di gola e dal morso delle vipere.
La vigilia di San Giovanni e di San Pietro in molti paesi della Valle si accendono grandi falò (i “sidora”, fuochi di gioia).
La sera dei Morti si preparano legna ed acqua e si lascia la tavola imbandita per le anime dei defunti… Inoltre la stessa sera, ragazzi e ragazze si riuniscono in due stanze diverse e a turno bevono dalla stessa grolla (una coppa di legno): poi, quando scocca la mezzanotte, bussano ad ogni porta per ricordare che è tempo di preghiera… Se ci si dimenticasse dei morti, vuole la tradizione, si provocherebbe da parte delle anime defunte un rumoroso “tzarivari”, una specie di rumorosa sarabanda che si organizza anche in occasione delle nozze di un vedovo o vedova, servendosi di ogni oggetto che produca gran fracasso…
Durante la notte di Natale i bambini sono soliti appendere, davanti alla porta di casa o alla finestra, piccoli canestri per i doni.
Gentile è l’usanza di conservare con molta cura il cero che viene acceso durante il battesimo dei neonati: questo stesso cero viene riacceso durante le malattie del bambino per affrettarne la guarigione…
Fra i giochi infantili tradizionali, molto praticato nella Valle è il “palet”, simile a quello delle bocce, con la differenza che le bocce sono sostituite da sassi piatti.
Fra gli adulti si gioca allo “tzan” (o cian): si organizzano anche tornei tra paese e paese. Consiste nel lancio di una palla di legno, posta su una pertica, per mezzo di un’assicella (“piota”). Si gioca anche al “piollét” che consiste nel lanciare il più lontano possibile una palla ovale di bosso, appesantita da chiodi di rame e di ottone.
Ma la competizione più famosa e più caratteristica è la “battaglia delle reines” per il conferimento del titolo di “reine de reines”, regina delle regine, che si svolge ad Aosta e a Châtillon alla fine dell’estate fra i campioni bovini (reines) delle varie mandrie, che si sono conquistati il titolo di “reines” durante l’alpeggio estivo.

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – La leggenda del monte Rutor

Vi fu un tempo, assai lontano, in cui le cime e le conche del Rutor erano ricoperte di una vegetazione lussureggiante.
Un giorno un saggio, travestito da povero, andò ai pascoli del Rutor per provare il cuore del ricco proprietario, le cui uniche mucche pascolavano sparse a migliaia sull’immenso pianoro.
Quando egli si presentò, umile e supplichevole sulla soglia di casa, il padrone stava osservando i suoi servi i quali riempivano di latte un tino di straordinaria grandezza. Nessuno badò all’infelice che attendeva sulla porta.
Allorché il recipiente fu pieno, il padrone disse, brutalmente, rivolgendosi al poveretto: “Chi sei e ce cosa vuoi, tu che ci togli la luce, standotene così davanti alla mia porta?”
“Un po’ di latte per ammorbidire il mio pane, e avrete luce per l’eternità” rispose il povero.
Uno scoppio di risa interruppe le sue suppliche. Disse il ricco dal cuore di pietra: “Ah, sì? Ebbene, ascoltami: piuttosto che dare una scodella di latte a un vagabondo come te, spanderò tutto il contenuto del tino sull’erba del prato!”
Detto ciò, ordinò ai suoi servi di spandere il latte proprio sopra il prato, che si estendeva davanti alla casa.
I servi per un po’ esitarono, ma alla fine, timorosi dello sguardo infuriato del loro padrone, obbedirono. Il tino fu capovolto e il latte, sparso interamente, colò sui pendii del pianoro in ruscelletti bianchi che scesero lontano, gorgogliando.
Il riccone, intanto, guardava con aria malvagia e trionfante il povero. E questi mormorò con tristezza, osservando la prateria inondata di latte: “Guarda come biancheggiano i più lontani prati…”
Poi, alzando gli occhi in alto aggiunge: “E già arrivano le nubi…”
Il ricco montanaro guardò in alto e vide delle enormi nuvole avanzare rapidamente, simili ad una minacciosa armata. Poi la dolce luce del sole si oscurò. Quando abbassò gli occhi, il ricco si accorse che il poveretto era scomparso.
La notte seguente egli udì spesso risuonare nelle proprie orecchi le ultime parole del mago, cioè del mendicante respinto: “Guarda come biancheggiano i più lontani prati…”
Queste parole non gli davano pace. Alla fine, per sfuggire all’incubo, egli si alzò e guardò dalla finestra. Era l’alba e, lontano, i prati erano tutti bianchi. E nevicava ancora. E nevicò tutto il giorno ed ancora il giorno seguente. E venne il terzo giorno e nevicava sempre e per molto tempo la neve cadde notte e giorno.
L’uomo ricco fu sepolto sotto il bianco lenzuolo di neve, con tutti i suoi beni. E lassù la neve rimase e rimarrà per sempre, fino alla fine del mondo.
Così i bei pascoli verdeggianti dell’uomo ricco sono diventati il ghiacciaio del Rutor, che splende ancora oggi ai raggi del sole.
(J. Favre)

Dettati ortografici e materiale didattico sulla VALLE D’AOSTA – La conquista del Cervino

Quattro italiani si trovano sulla Spalla del Cervino, ai piedi dell’ultimo picco. La vetta è ormai vicina. Mancheranno sì e no duecentocinquanta metri. Siamo nel 1865, il 14 luglio, una giornata stupenda senza una nube. Il Cervino è il picco più bello delle Alpi, uno dei più belli del mondo. Poco meno di 4.500 metri. Tutte le altre vette delle Alpi sono state conquistate dall’uomo. Il Cervino non ancora. Il Cervino fa paura. Molti lo ritengono invincibile. Dà la sensazione di un gigante cattivo che non lascerà passare nessuno. Eppure l’uomo ha una voglia immensa di salire lassù. Che cosa ci sarà in cima? Che cosa si vedrà? Che difficoltà ci sono da superare? Non esistono ancora le comodità che ci saranno nel secolo ventesimo. Altro che strade asfaltate e funivie. Con la carrozza si può arrivare soltanto a Valtournanche. Per arrivare al Breuil resta una lunga camminata. E il Breuil, dove esistono poche casupole e un modesto albergo, non è neppure alla base del gigante. Per raggiungere le rocce, parecchie ore di salita. Anche i mezzi per salire le montagne sono semplicissimi e rozzi. Scarponi ferrati, corde rudimentali e, per scavare i gradini nel ghiaccio, non la piccozza ma un’ascia, come quelle che servono a tagliare la legna. E soprattutto c’è il mistero. La montagna è ancora un enigma. Eppure gli uomini avevano giurato di arrivare lassù. Quali uomini? Pochi, pochissimi ancora. In Italia, nel 1863, era nato il Club Alpino. E i fondatori, tra cui erano Quintino Sella e Felice Giordano, pensarono subito a un’impresa che facesse onore all’Italia e alla nuova associazione. Fino ad allora, sulle Alpi, erano stati gli Inglesi i più forti. L’Inghilterra, patria degli sport, era scesa alle Alpi per dimostrare la superiorità fisica e morale dei suoi campioni. Questa nobile emulazione tra Inglesi e Italiani si concentrò sul Cervino.
Il Cervino era la posta più difficile e gloriosa. L’ultimo duello fu combattuto tra due tipi formidabili, degni uno dell’altro, il cui nome è rimasto famoso. Ecco Jean-Antoine Carrel, cacciatore e guida alpina di Valtournanche, detto “il bersagliere” perché alla battaglia di San Martino si era guadagnato i galloni di sergente. Era un giovane forte e orgoglioso e con il Cervino aveva un fatto personale: il Cervino egli lo considerava casa sua. L’idea che a conquistarlo potesse essere uno straniero lo faceva impazzire. Ma il pericolo c’era.
Ecco infatti Edward Whimper, inglese colto e di raro talento artistico. Giovane di bellissimo aspetto, carattere di ferro per la tenacia addirittura testarda. A quell’epoca gli alpinisti senza guida non esistevano ancora, ma Whimper era uno che sapeva anche pagare di persona.
In un primo tempo Carrel e Whimper collaborarono. Legati alla stessa corda fecero, sul Cervino, tre tentativi. Ma quando poi si mossero i capi del Club Alpino Italiano, e Felice Giordano venne a Valtournanche per cercare di lui, Carrel lasciò il cliente inglese. Che bisognasse ricorrere a Carrel non c’erano dubbi. Nessuno, neppure tra le guide svizzere, poteva stargli al paragone. Quando Carrel si rifiutò di accompagnarlo ancora, Whimper se prese.
“Privo di Carrel ” racconta Guido Rei nel vecchio ma bellissimo libro ‘Il Monte Cervino’, “Whimper è rimasto come un generale senza esercito.
E Giordano, che sovrintende ai preparativi italiani, si illude di avere ormai partita vinta. Tanto più che la salita dal versante svizzero è giudicata da tutti impossibile. Ma ci vuol altro per abbattere Whimper. Whimper si affretta a Zermatt per cercare qualche compagno e qualche brava guida.
E’ chiaro che non c’è da perdere neppure una giornata. Il duello volge alla fine.
Carrel intanto parte. Lo accompagnano Cesar Carrel, Carlo Gorret e Jean-Joseph Maquignaz, tutti di Valtournanche. Ma l’11 e il 12 il tempo è proibitivo. Soltanto il 13 si rischiara e si può andare all’attacco.
Alle due del pomeriggio del 14 luglio Carrel e suoi sono arrivati alla “spalla”. Più avanti comincia l’ignoto. Ma on è lungo il tratto che resta da superare. La vittoria è là, su può dire, a portata di mano. Prima di sera, gli amici dal fondo valle, vedranno sventolare in vetta il tricolore? No, purtroppo non è ancora venuto il momento. I quattro sostano a riprendere fiato e a rifocillarsi. Discutono sulla via da seguire. Che cosa si dissero precisamente? Perchè cominciarono a litigare? Ancor oggi è un enigma. E probabilmente nessuno lo saprà mai. Gli animi si scaldavano, gli spiriti si inasprivano: si rimisero i sacchi in spalla, voltarono le schiene alla vetta, si avviarono giù per le rocce.
Avevano da poco fatto dietro front che si udì una voce lontana. Era una voce d’uomo. Veniva dall’alto. Si voltarono. Lassù, sulla vetta, contro il cielo azzurro due figurine agitavano la mano. Erano Whimper e la guida Croz di Zermatt, i primi due di una cordata di sette: quattro inglesi con tre guide svizzere.
Che cosa passò in quel momento nell’animo del grande Carrel? Si pentì di aver ceduto a un momento di debolezza, oppure pensò che tutto fosse dovuto alla fatalità? Carrel fu tentato di fare per la seconda volta dietro front e di ritornare all’attacco, per arrivare anche lui in vetta, nello stesso giorno di Whimper. Ma i compagni non erano più in condizioni di seguirlo. Ora amarissima, colma di umiliazione e nello stesso tempo commovente. Tanti anni di speranze, di attesa, di fatiche, di sacrifici buttati via. L’orgoglio della valle umiliato. Giordano e i capi del Club Alpino amaramente delusi. Con che faccia Carrel avrebbe avuto il coraggio di ripresentarsi in paese? Ancor più cruda fu la delusione di Giordano. Ancora più rabbiosa fu la volontà di salvare almeno l’onore e di scalare al più presto il Cervino dal versante italiano. Ciò che riuscì infatti a fare, da par suo, Carrel, tre giorni dopo con l’abate Amè Gorret, Jean-Augustin Meinet e Jean-Baptiste Bich, servitori di un albergo. E la nostra bandiera sventolò tra le folate di nebbia, accanto a quella britannica. Ma né Giordano in fondo valle né Carrel sulla vetta sapevano che cosa era successo. A Zermatt, invece che le musiche del trionfo c’era il tetro silenzio della morte.
Whimper e i sei compagni, che erano il reverendo Hudson, il diciannovenne Hadow, il giovane lord Douglas (tre inglesi a cui Whimper si era aggregato perchè disponevano di guide), la guida Michele Croz di Zermatt, le guide Petter Tanguralder e il figlio, erano sulla via della discesa da appena un’ora quando il signor Hadow scivolò. Erano tutti legati da un’unica corda, ciò che oggi, soprattutto in roccia, sarebbe giudicato pazzesco. Croz, che precedeva, cercò di sorreggere l’inglese ma ne restò travolto. I due precipitarono. La corda si tese violentemente. Lo strappo divelse Hudson dalle rocce. A sua volta il giovane lord Douglas fu trascinato giù dall’urto. Al di sopra, le guide Tanguralder padre e figlio, con Whimper, si puntarono alla rupe con tutte le forze. La violenza del colpo dovette essere tremenda. Come i tre scalatori potevano trattenere quattro corpi che piombavano giù nella voragine? La corda si spezzò. I quattro precipitarono, sfracellandosi di roccia in roccia. E nessuno ne udì le ultime voci. Così il gigante sconfitto si vendicava atrocemente. E un tragico sudario parve avvolgere il picco, rendendolo ancora più celebre e più temuto.
(D. Buzzati)

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La leggenda di Attila e Leone I in recita

La leggenda di Attila e Leone I in recita – Questa leggenda misteriosa nella sua semplicità, ha ispirato molti artisti che la hanno immortalata su tela e nel marmo: tra queste opere  è celebre l’affresco di Raffaello in Vaticano.

La leggenda di Attila e Leone I in recita
Scena I

(In una piazza della città di Aquileia, assediata dagli Unni)

Personaggi:
Primo cittadino
Secondo cittadino
Terzo cittadino
Quarto cittadino
Altri cittadini intorno

Primo cittadino: Amici! Cittadini! Conviene ancora resistere alle forza di Attila? Da settimane lottiamo contro la forza che ci serra, ma è inutile: la fine della nostra città è vicina. C’è una sola speranza di salvezza…

Secondo cittadino: Quale?

Primo cittadino: Quella riposta nelle trattative con Attila. Offriamo al re degli Unni la nostra amicizia. I barbari sono clementi quando sperano di avere una nuova amicizia.

Secondo cittadino: Di quale speranza vaneggi? Quale follia ti spinge a proporre tali trattative? Il re degli Unni non vuole parole, non vuole amici, e nemmeno traditori: desidera solo per i suoi nemici morte, rovina, fuoco.

Terzo cittadino: Il nome di Attila vuol dire ferro. Egli è di ferro. Soprattutto il suo cuore è di ferro.

Quarto cittadino: Attila è il flagello di dio. Dovunque le sue orde sono passate, è rimasta la desolazione. Donne, vecchi, fanciulli non sono risparmiati dalla sua ferocia. Se una speranza c’è, questa è riposta nella resistenza delle nostre mura e dei nostri petti.

Primo cittadino: Guardate lassù! Una cicogna sfugge dalla nostra città spingendo davanti a sé i suoi piccoli. Oh, potessi fare altrettanto io! Potessi mettere in salvo i miei figlioli!

La leggenda di Attila e Leone I in recita
Scena II

(E’ la visione della futura Venezia. La scena si svolge in una qualsiasi città del Veneto, dopo che Aquileia è caduta).

Personaggi:
Primo cittadino
Secondo cittadino
Vescovo
Altri cittadini

Primo cittadino: Amici! Una terribile notizia. Aquileia è caduta in mano degli Unni. La porta l’Italia è aperta al più crudele dei barbari.

Cittadini: Che facciamo? Decidiamo di resistere?

Primo cittadino: E’ inutile. Non abbiamo armi sufficienti e poi… da quando l’Italia consce il piede dei Barbari, la virtù romana è spenta!

Secondo cittadino: Ecco ciò che faremo: aspetteremo Attila ed i suoi Unni con le porte della città aperte, lo accoglieremo con onori, lo blandiremo con gli elogi. I barbari, quando ricevono buona accoglienza, entrano da una parte ed escono dall’altra.

Primo cittadino: E’ un consiglio vile e pericoloso!

Secondo cittadino: E che altro si può fare? Vorresti forse che le nostre case fossero bruciate, le nostre donne uccise, i nostri fanciulli rapiti?

Cittadini: Ha ragione!

Vescovo: Calma, figlioli! La paura del pericolo non vi mostra la via più chiara. Io, insieme con la benedizione di dio, sono pronto a darvi un consiglio.

Cittadini: Quale?

Vescovo: Lasciamo le nostre terre e trasferiamoci al di là del mare, sulle isole della laguna. Che Attila trovi le nostre città deserte. Che Attila trovi il silenzio. Là, sulle isole, non verrà. Là, sulle isole, noi costruiremo le nostre case.

Primo cittadino: Le nostre case! Forse vi troveremo la salvezza, ma non un solido avvenire. La terra è sabbiosa, il mare è minaccioso. Come costruire una nuova città?

Vescovo: Oh cittadini! Oh figlioli! Sulla sabbia, dove lavorino uomini animati da speranza e fiducia, possono sorgere case solide e serene. Ecco, io la vedo, la nostra nuova città. E’ tutta di marmo, si innalza al cielo con cupole e campanili, e si specchia nel mare. Il sole vi batte sopra radioso.

La leggenda di Attila e Leone I in recita
Scena III
(Nella tenda di Attila)

Personaggi:
Attila
Generale
Servo

Generale: Oh re, quale cruccio ti rende inquieto?

Attila: Ho trovato città abbandonate, campagne silenziose e morte. Non questa Italia sognavo. Mi aspettavo un’Italia verde e ricca da saccheggiare con profitto.

Generale: Oh re, ma noi andiamo avanti!

Attila: Sì, andremo avanti, finché non troveremo…

Servo (entrando): Oh mio re, ambasciatori romani sono arrivati per parlarti.

Attila: Ambasciatori? Immagino quello che mi vogliono dire. Mi vorranno fermare, offrendomi denaro. Io lo rifiuterò! O forse mi offriranno il possesso di una provincia. Che sciocca proposta sarebbe! Perché dovrei accontentarmi di una provincia, quando posso prendermele tutte? (esce).

Generale: Sperano di fermare il nostro re, ma è inutile…

Servo: Non so.

Generale: Noi Unni continueremo la nostra marcia.

Servo: Non so.

Generale: Niente può resistere alla nostra furia.

Servo: Non so.

Generale: Ma che vuol dire questo “non so”?

Servo: Ecco, rientra il nostro re!

Attila (entrando): Ufficiale, ordina a tutti di tornare indietro!

Generale (meravigliato): Ma come?

Attila (sconvolto) Non sono chiaro? Con me si paga ogni discussione. Suvvia, torneremo indietro, lasceremo l’Italia!

La leggenda di Attila e Leone I in recita
Scena IV

(Nella tenda di Attila, lontano dall’Italia)

Personaggi:
Attila
Generale

Generale: Oh re, ora che i nostri eserciti sono rientrati nella steppa tranquilla, dimmi, se è possibile: perchè lasciasti improvvisamente l’Italia?

Attila: Quel giorno mi incontrai col papa Leone Magno. Fu lui che mi convinse di tornare indietro.

Generale: Perchè? Quante legioni aveva il papa?

Attila: Nessuna. Neppure un uomo armato!

Generale: E allora? Che accadde?

Attila: Dietro alla sua figura ho avuto la visione di una spada di fuoco. Io, che fin da bambino avevo adorato la forza materiale, capii quel giorno che esiste una potenza d’altro genere. Una potenza contro la quale è inutile afferrare le spade e preparare guerre. E sarà sempre inutile.

(Rodolfo Botticelli, adattamento da “Recitiamo la Storia”, editrice La Scuola 1967)

Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE

Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Il Piemonte in breve

confini: Francia, Valle d’Aosta, Svizzera, Lombardia, Emilia, Liguria
monti: Alpi Occidentali (Liguri, Marittime, Cozie, Graie), Alpi Centrali (Pennine, Lepontine)
cime più alte: Argentera, Monviso, Granero, Rocciamelone, Gran Paradiso, Monte Rosa
valli: della Stura di Demonte, Maira, del Chisone, di Susa, di Viù, Sesia, Anzasca, d’Ossola, Formazza, Vigezzo
valichi: Colle di Tenda, Colle della Maddalena, Monginevro, Frejus, Moncenisio, Sempione, di San Giacomo
colline: Langhe, Monferrato, Colline del Po, Canavese, Serra di Ivrea
pianure: di Alessandria, del Vercellese, del Novarese
fiumi: Po, Toce. Affluenti di destra del Po: Varaita, Maira, Tanaro con i suoi affluenti Stura di Damonte e Bormida, Scrivia. Affluenti di sinistra del Po: Pellice col suo affluente Chisone, Dora Riparia, Stura di Lanzo, Orco, Dora Baltea, Sesia, Agogna, Ticino
canali: canale Cavour
laghi: Maggiore (piemontese solo la sponda occidentale), d’Orta, di Viverone, di Candia.
province: Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Torino, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli.

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Osserviamo la cartina

Il Piemonte deve il suo nome alla sua posizione ai piedi dei monti. Infatti le Alpi occidentali, con le più alte vette d’Europa, abbracciano la regione da tre lati.
Numerosi sono i valichi e le gallerie che permettono rapide e frequenti comunicazioni con la Francia e la Svizzera. Le gallerie autostradali del Monte Bianco e del Gran San Bernardo rendono possibili, anche durante la brutta stagione, i viaggi attraverso la catena alpina.
La parte piana della regione è costituita dal primo tratto della Pianura Padana, nella quale si elevano le colline delle Langhe, del Monferrato e di Torino.
La parte montuosa è ricca di acque. Infatti, oltre che dal corso superiore del Po, il Piemonte è solcato da molti affluenti alpini; piemontesi sono anche la riva destra del Ticino e quella del Lago Maggiore. Numerosi laghetti e canali artificiali rendono pittoresca la montagna e fertile la pianura.

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Vita economica

Gli estesi pascoli montani favoriscono l’allevamento del bestiame bovino ed ovino, che fornisce latticini, carne, lana. I boschi danno legname, castagne e tartufi (Alba). I vigneti del Monferrato producono vini pregiati, e le colline delle Langhe frutta di ottima qualità. La fertile e ben irrigata pianura è ricca di grano, granoturco e riso (circa la metà della produzione nazionale).
Le industrie, favorite dalle importanti risorse idroelettriche, sono molto sviluppate; particolare importanza hanno quelle automobilistiche, tessili e dolciarie.
Dal sottosuolo si estrae talco, grafite, pirite; dalle cave granito e calcare per cemento.

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Per il lavoro di ricerca

Con quali Stati e quali regioni confina il Piemonte?
Come si presenta il suo territorio?
Da quali rilievi è costituita la zona montuosa?
Quali cime vi si elevano?
Osserva la cartina: in quanti modi potresti raggiungere la Francia e quali valichi o trafori dovresti attraversare?
Partendo da Torino, quale itinerario seguiresti per andare in Svizzera?
Indica sulla cartina i principali fiumi del Piemonte; quali città bagnano?
Quali città piemontesi sorgono lungo le rive del Po?
Quali sono le principali risorse economiche e dove sorgono i maggiori centri industriali?
Dove è nata l’industria automobilistica italiana?
Che cosa significa la parola FIAT?
Qual è il tipico prodotto delle colline piemontesi?
Perchè in Piemonte si coltiva il riso?
Ricerca notizie sulle città del Piemonte.
Dov’è il Valentino?
Ricerca notizie sulla basilica di Superga.
Di chi fu opera la Mole Antonelliana? Quando fu iniziata? Quando fu portata a compimento? Quanto è alta la sua guglia?
Ricerca notizie sull’artigianato e il folklore del Piemonte.
Che cos’è il Palio di Asti? Quando si svolge?

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Paesaggio torinese

La stupenda varietà di paesaggi della provincia di Torino si può comporre in un quadro nel quale le linee fondamentali sono riconducibili a quattro motivi essenziali. Un poderoso arco di vette nevose e di belle vallate, ciascuna delle quali ha una singolare ed estremamente pittoresca fisionomia; le dolci ondulazioni della collina torinese che il corso del grande Po abbraccia a settentrione in un armonioso arco;  il verde Canavese che digrada dalla fascia alpina all’anfiteatro morenico di Ivrea, alla landa, che conserva una sua romantica bellezza, e alla ben coltivata campagna; l’incantevole pianura che si adagia a semicerchio tra la provincia di Cuneo e quella di Vercelli, costituiscono infatti il paesaggio geografico del Piemonte.

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Piemonte: sguardo d’insieme

Per un lungo tratto le Alpi occidentali segnano, su tre lati, il confine della regione piemontese.
Questo tratto, imponente ed erto, è la caratteristica che più colpisce la nostra attenzione. Svettano qui le alte cime del Monviso dominante la valle del Po, del Rocciamelone affacciato sulla Valle di Susa, e del Gran Paradiso a cavallo tra il Piemonte e la Valle d’Aosta.
Ma non soltanto di montagne è fatto il territorio del Piemonte (le montagne invadono ben più ampiamente altre regioni italiane: ad esempio la Liguria, il Trentino Alto Adige, l’Abruzzo); gli alti rilievi, privi di Prealpi, cedono di netto il passo alla pianura; questa  si estende più o meno vastamente e, quasi di sorpresa, risale in ondulazioni di colline tondeggianti o di tagliente profilo. Così che ad una osservazione panoramica il Piemonte presenta un semicerchio estremo di catene montuose, una fascia mediana di pianure ed un grosso cuore di suggestive colline.
La muraglia alpina piemontese appare compatta soltanto a chi la veda di lontano; se ci avviciniamo, scorgiamo vaste brecce aperte ai suoi piedi e addentrate in essa: le vallate che conducono ai valichi alpini e lungo le quali scorrono torrenti e fiumi.
I corsi d’acqua del Piemonte hanno un percorso alpino breve (relativamente brevi sono le vallate) e precipitoso; i torrenti scendono talvolta minacciosi e rotolano a valle ciottoli e grossi macigni.
Le colline che sorgono al centro della regione rendono tortuoso e vario il corso dei torrenti e dei fiumi e li dividono in due gruppi: l’uno raccolto attorno al Tanaro, l’altro attorno al Po.
Il Piemonte, privo come sappiamo della fascia prealpina, non possiede quei grandi laghi che caratterizzano un certo paesaggio lombardo; soltanto per un tratto del suo confine orientale si affaccia allo splendido scenario del lago Maggiore; alcuni laghi morenici e numerosi laghetti alpini variano qua e là il suo paesaggio.
Le colline piemontesi occupano un’ampia zona della regione; offrono lo spettacolo di un mare immobile, pezzato di verde e di bruno, con onde altre oltre gli 800 metri, talvolta crestate, talvolta tondeggianti. Sulla sommità dei rilievi collinosi si profilano i paesi di origine medioevale, con le torri ed i campanili svettanti; i nuovi borghi si estendono invece a valle, presso le strade e le linee ferroviarie. Al limite settentrionale del Piemonte, dove si apre la Valle d’Aosta, è un vasto paesaggio morenico. In esso spicca la suggestiva morena di La Serra, la cui cresta si allunga, perfettamente rettilinea, per una quindicina di chilometri.
La pianura disposta a ferro di cavallo attorno al massiccio delle colline, presenta una bella varietà di paesaggi e di coltivazioni; alle zone aride e brulle succedono quelle irrigue, fertili, popolose.

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Alte montagne, fertili pianure

Il Piemonte, ossia la regione “ai piè del monte” come dice il suo nome, e la piccola Valle d’Aosta, sono regioni montane per eccellenza. Là si levano i fianchi rocciosi del Monte Bianco, il più alto d’Europa, un colosso sempre biancheggiante di nubi, che domina la vallata con la sua imponenza. Là si stagliano l’aguzza vetta del Cervino e le numerose cime del Monte Rosa, non rosate, come si potrebbe credere, ma ghiacciate, come indica il nome nell’antico dialetto del luogo, “Rosà”. E là, d’inverno, le nevi si popolano di sciatori che disegnano velocemente le loro eleganti volute lungo le pendici.
Le Alpi si stendono a semicerchio intorno alla pianura percorsa da molti fiumi che corrono a gettarsi nel Po. Vi è laggiù un vasto scintillio di risaie che rispecchiano l’azzurro del cielo nelle loro acque immobili da cui spuntano sottili steli. Ma nella zona meridionale, fra le Alpi e la pianura, dove il terreno è ondulato in basse colline, si susseguono i ricchi vigneti produttori di alcuni fra i più celebri vini del mondo. I vigneti aggirano i colli in filari paralleli e continui; è una distesa di verdi pampini che suscita immagini di vendemmia e di festa.

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La città spumeggiante

Asti è celebre per i suoi vini: il Barbera, il Grignolino, il Fresia, il Nebiolo, il Moscato. Questa ricca produzione le viene dal fatto che la sua provincia è quasi tutta in zona collinare.
Già i Romani, quando vi giunsero la prima volta, restarono stupiti per i grandi tini che videro per le vie dei borghi.

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Il castello del Valentino

Il Castello del Valentino, con il bellissimo parco che si stende lungo la sponda sinistra del Po è, insieme alla Mole Antonelliana, uno dei motivi più tipici di Torino, l’antica capitale del Ducato di Savoia ed del Regno Sardo e, per brevi anni, anche del Regno d’Italia.
Il grandioso edificio fu eretto tra il 1630 e il 1660 da Carlo e Amedeo da Castellamonte, i quali trasformarono precedenti costruzioni, per volere di madama reale Cristina. Esso presenta alcuni elementi architettonici che sono propri dei castelli francesi della stessa epoca, ma l’elegante decorazione e la barocca monumentalità offrono un chiaro esempio di arte italiana.

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Superga

Superga è come una sintesi geografica e storica del Piemonte. Dal colle si può abbracciare, con un solo sguardo, tutto il maestoso e vario paesaggio della regione: le Alpi superbe, i colli ridenti, i nastri argentei dei fiumi, la vasta pianura che sfugge e sfuma nella foschia. Ma la presenza della Basilica, in cui riposano i principi sabaudi, è un invito a rivivere la storia del Regno di Sardegna, da cui ebbe inizio l’unità d’Italia. La Basilica è sorta in uno dei momenti più difficili della sua storia, a cui è legato il ricordo di Pietro Micca, l’eroe che si sacrificò per salvare Torino assediata dai Francesi. Il duca Vittorio Amedeo II, come ringraziamento della vittoria che liberò il Piemonte dagli invasori, la fece erigere dall’architetto Filippo Juvara che, iniziata la grandiosa costruzione nel 1717, la portò a termine nel 1731, qualche anno dopo che l’antico ducato sabaudo era diventato Regno di Sardegna.

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Da Superga

L’ultima volta che vi andai, un tramonto arancione splendeva dietro la corona dei monti; le cupole della città ed i monti di fondo, ritagliandosi neri e piatti su quel colore favoloso, sembravano a eguale distanza; il Po dava bagliori, la neve spruzzava i pendii; si esprimevano nel paesaggio una modestia montanara, una rusticità fine, un misto di signorile e di agreste.
(G. Piovene)

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Marroni in tutto il mondo

Gli Svizzeri e in particolare i Ticinesi, che acquistano frutta italiana da conservare e da esportare in tutto il mondo, scoprirono che i marroni di Cuneo, una volta che avevano subito la sterilizzazione necessaria a tutta la frutta che deve varcare frontiere internazionali, si conservano per un tempo quasi illimitato. Naturalmente utilizzarono subito la scoperta, servendosene per una larga esportazione. Questo commercio trovò sviluppo soprattutto verso l’America, dove gli emigrati italiani ritrovavano nella castagna di casa loro un ricordo della patria lontana.

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I vini piemontesi

Il Piemonte è la terra classica del vino. In tutte le sue province, dalle lievi ondulazioni che si elevano sulla pianura padana fino alla prime zone alpestri, la vite è attivamente coltivata a filari, a spalliere, a pergolati, a festoni, a terrazzi.
Barolo, Barbaresco, Nebbiolo, Gattianara, Ghemme, Lessona, Barbera, Freisa, Dolcetto, Grignolino, Brachetto tra i vini rossi; Cortese, Moscato, Caluso tra i vini bianchi, sono i più celebrati.
Ma il vero principe dei vini piemontesi è il Barolo. La sua nobiltà è tradizionale.
Si narra che Cesare, tornando dalla conquista delle Gallie, gustasse tanto i vini dell Morra, in quel di Alba, da portarsene a Roma.
Anche Plinio parla dei vini di Alba, riferendo che essi derivano da un vitigno (la vite Eugenia) trasportata in Piemonte da Taormina; il qual vitigno “non è utile se non nel territorio di Alba perchè, com’è piantato altrove, traligna”.
Nel Medioevo e nei secoli successivi il Barolo conquistò sempre più larga fama come vino di mense regali.
Carlo Alberto lo preferì tanto che acquistò il castello di Verduno e le annesse fattorie, in prossimità delle tenute dei marchesi di Barolo.
Anche Vittorio Emanuele II acquistò a Barolo una fattoria (la Cascina del Re); e Cavour produceva a Grinzano del Barolo eccellente, che divenne famoso nei pranzi diplomatici.
E’ fama che Carlo Alberto, quando ancora non conosceva il Barolo che per averne sentito parlare, dicesse alla marchesa di Barolo: “Mandatemi un assaggio del vino delle vostre tenute che tutti mi lodano”. E qualche giorno dopo un reggimento di robusti carri campagnoli, più di trecento, scaricavano alla Reggia ciascuno una carrata di vino; e la carrata è di ottocento litri.
(F. Palazzi)

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Le colline del Barbera e del Moscato

Le Langhe sono un tipico territorio collinare, che si trova in Piemonte, a sud di Asti, tra il Bormida e il Tanaro.
I versanti più ripidi ed esposti a nord sono coperti di boschi di castagni, di querce e, più in alto, di faggi. Anche qui case sparse accompagnano al solito i poderi, mentre i piccoli centri sorgono sulle sommità dei colli e sono ben collegati da strade che, invece di scendere a valle, tendono a mantenersi in alto, sulla cresta delle alture, divenendo così delle stupende strade panoramiche. Non molto diverso da questo è il paesaggio che si estende più a nord e che da Asti giunge fino a Torino e al Po: è il Monferrato, patria di alcuni famosissimi vini: il Barbera, il Brachetto, il Freisa, il Moscato d’Asti.
Le forme dei colli sono qui più regolari che nelle Langhe e la coltura della vite conserva l’importanza e la fama tradizionale.
Il terreno è tutto distribuito tra piccoli proprietari che abitano piccoli centri posti sulle sommità dei colli. Solo sul fondo delle valli maggiori sorge qualche grosso abitato.
Possiamo dire che il Monferrato è, fra i paesaggi collinari italiani, uno dei più vivaci, allegri e civettuoli.

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Nel Monferrato

Chi percorre la statale che unisce Alessandria a Torino si trova, quasi improvvisamente, nel bel mezzo di un paesaggio che ricorda da vicino le serene colline toscane e che fa quasi dimenticare il Piemonte. E’ tutto un susseguirsi di groppe tondeggianti, una dolce ondulazione che si stende a perdita d’occhio… Siamo nel paese dei vini e qui l’autunno è sinonimo di vendemmia ed evoca immagini di grappoli, di tini, di campi, di lavoro.
Siamo nel Monferrato. Ogni collina dà l’impressione di un campo su cui un gigantesco aratro abbia tracciato innumerevoli solchi paralleli, ricercando la migliore esposizione ai raggi del sole. Vigneti e vini appaiono nella nostra fantasia, accompagnati dalle note festose della tradizionale danza locale, la “monferrina”.
Dove la collina ancora resiste all’opera di coltivazione, cioè nella parte più alta, occupata da pascoli e boschi, la terra mostra le sue viscere sanguigne o grigiastre; la diresti sterile e affocata, e il suo colore non è altro che il simbolo della sua ricchezza e della sua feracità. Tra le tante etimologie escogitate dai filologi per indicare questa zona, potrebbe trovar posto anche questa: “mons ferx”.

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Nella risaia

La prima immagine che la risaia offre è quella si una pianura che si distende a perdita d’occhio e sulla quale ristagna, nel sereno tempo primaverile il velo azzurro delle acque, interrotto dalla geometria dei bassi argini e degli aerei ventagli dei pioppi.
Allora i borghi e i  cascinali sembrano a poco a poco dissolversi, come in un miraggio di mobili luci ed ombre, e nasce un paesaggio insolito nella nostra penisola e, possiamo dire, in tutta l’Europa, e che fa correre la fantasia a regioni lontanissime dell’Asia orientale.
In questa grande palude artificiale si svolge un ciclo di coltivazione, quello del riso, che impegna severamente uomini e donne: e una lunga tradizione di lavoro, di fatica, di povertà, di lotta si viene disegnando nella nostra mente e nel cuore non appena, abbandonata la contemplazione di così singolare aspetto della pianura vercellese, riflettiamo intorno ad un’altra realtà la quale, in secoli e secoli, ha dato origine all’attuale condizione economico-sociale della vita dei contadini della risaia, di gran lunga migliore anche solo se confrontata agli ultimi decenni dell’Ottocento, e che ancora nel Novecento non aveva raggiunto un suo punto di equilibrio.
Le acque stagnanti della risaia, sfiorate dalle ali delle rondini tornate ai vecchi nidi per San Benedetto, si trasformano, nell’estate, in un immenso tappeto verde, teneramente agitato dal soffio del vento; poi, nell’autunno, quando le spighe fanno piegare sotto il peso generoso gli steli, in una grande macchia di color giallo opaco; finché, a raccolto ultimato, sepolta la risaia nella nebbia invernale, ecco la terra e l’acqua mescolarsi di nuovo, divenire il fango che l’opera dell’uomo renderà fertilissimo.
Il tratto della pianura vercellese, che comprende circa cinquanta comuni, ed è dominato dalla risaia, si continua, oltre il solco ben delineato dal fiume Sesia, nel Novarese e nella Lomellina, con una analoga struttura agricola e di paesaggio.

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Paesaggio vercellese e biellese

La province di Vercelli e Biella formano come un rettangolo delimitato a nord da un succedersi imponente e meraviglioso di montagne, che diminuiscono sensibilmente di altitudine da occidente a oriente lungo i contrafforti del sistema alpino, e che si estendono per una quarantina di chilometri dalla Punta Gnifetti, nel massiccio del Rosa, fino alla punte del Pizzo Montevecchio, del Pizzo Tignaga e della Cima Capezzone, e chiuso, a sud, dal corso del Po che lambisce le verdi campagne di Crescentino, di Trino, di Motta dei Conti.
Ad occidente i confini della provincia di Vercelli sono segnati dalla valle di Gressoney e da quella della Dora Baltea e ad oriente dal bacino del piccolo e delizioso lago d’Orta, dal quasi rettilineo corso del fiume Sesia e dalla stretta del monte Fenera alla confluenza nel Po.
Ora, se guardiamo attentamente una cartina fisica della provincia, si farà facile distinguere le caratteristiche del territorio il quale risulta in parte pianeggiante e in parte collinoso e montuoso.
La linea di divisione tra pianura, collina e montagna è abbastanza netta e corre, in senso lato, a nord del lago di Viverone, di Biella, Vigliano, Cossato, Masserano, Gattinara e Romagnano.
Un paesaggio, dunque, chiaramente definito e individuato che dall’azzurro velo delle acque delle risaie sale a poco a poco, in un intreccio di pittoresche vallate in cui ferve l’opera dell’uomo, fino ai ghiacciai e alle nevi eterne del monte Rosa, lo splendido massiccio delle Alpi Pennine che domina tanta parte della regione piemontese e lombarda.
La pianura, fertile e bene irrigata, la zona collinosa e prealpina del Biellese, ad economia prevalentemente industriale, la superficie, in gran parte montuosa e alpestre della Valsesia, cara all’arte ed alla fede cattolica, costituiscono i tre paesaggi tipici di Vercelli e Biella.

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I tartufi d’Alba

Alba è celeberrima per i suoi tartufi bianchi. Ogni anno sono circa 1500 chilogrammi del celebre fungo che vengono dissotterrati da questi colli fragranti e a venderli al prezzo del mercato è una bella ricchezza che va a seppellirsi nelle tasche di questi contadini.
I cercatori di tartufi s’addentrano nei querceti delle Langhe, scavano, rompono, dissodano, aiutati dai cani… laureati, o dai bastone con cui percuotono il terreno che dà una speciale sonorità quando, di sotto, il tartufo abbia creato, crescendo, una nicchia. La ricerca si fa di notte, anche per evitare di essere seguiti da altri, giacchè, trattandosi di abilità e astuzia, tutti i cercatori sono naturalmente gelosi uno dell’altro.
Avrei creduto che gli Albesi fossero ghiotti dei tartufi, ma non lo sono di più di quanto lo sia in Cremonese del suo torrone o il Milanese del suo panettone. Ne sono orgogliosi, sanno di avere un primato nel mondo, ma non sono dei lucumoni gaudenti. Hanno tante altre belle cose qui! Il vino, profumato e delizioso, i vitelli bianchissimi, certi formaggi piccanti che a spalmare due fette di pane fresco e a irrorarlo poi con un po’ di barbaresco c’è da risparmiare il termosifone. E’ una terra benedetta e fragrante questa, e pare che vino, tartufi, e uve da tavola, e pesche, di cui si fa un mercato colossale, siano tutti segni di benevolenza degli antichi dei, i quali, come è noto, stavano a tavola volentieri.
(G. Cenzato)

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Una foresta di marmo

In Valle del Gesso, nei pressi di Cuneo, per la lunghezza di una ventina di chilometri e per la larghezza di tre si stende una strana foresta. E’ interamente pietrificata. Doveva essere, in epoche remote della Preistoria, una rigogliosa foresta. Oggi i suoi tronchi giacciono a terra e sembrano sassi. In quei lontani tempi il Piemonte aveva una vegetazione tropicale, e le foreste erano rigogliose. Oggi sono rimasti solo questi sassi di cui si sono accorti per primi i montanari che vedendoli esclamavano: “Ma questi sono tronchi, sono schegge di legno!”.

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I Biellesi gente dura (racconto breve)

Un contadino scendeva un giorno a Biella. Faceva un tempo così brutto che per le strade non si poteva quasi andare avanti. Ma il contadino aveva un affare importante e continuava ad andare a testa bassa, contro la pioggia e la tempesta.
Incontrò un vecchio che gli fece: “Buon dì! Dove andate, buon uomo, così in fretta?”
“A Biella”, disse il contadino, senza fermarsi.
“Potreste dire almeno ‘se Dio vuole’ “.
Il contadino si fermò, guardò il vecchio in faccia e ribatté: “Se Dio vuole, vado a Biella.; se Dio non vuole, devo andarci lo stesso”.
Ora, quel vecchio era il Signore.
“Allora a Biella ci andrete tra sette anni”, gli disse. “Intanto, fate un salto dentro quel pantano e stateci sette anni”.
E il contadino si trasformò tutt’a un tratto in una rana, spiccò un salto e giù nel pantano.
Passarono sette anni. Il contadino uscì dal pantano, tornò uomo, si calcò il cappello in testa e riprese la strada per il mercato. Dopo pochi passi, ecco di nuovo quel vecchio.
“Dove andate di bello, buon uomo?”
“A Biella”
“Potreste dire ‘Se Dio vuole’ “.
“Se Dio vuole, bene; se no il patto lo conosco e nel pantano ci so andare da solo”.
E non di fu verso di cavarne altro.
(Italo Calvino)

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Cuneo

Come una grande mano aperta, col palmo rovesciato, Cuneo se ne sta sulle carte geografiche mostrando le vene che sono i fiumi, gli avvallamenti che sono le verdi e secche e azzurre Langhe, la cornice estrema delle Alpi che chiudono il piano. Sembra un angolo di riposo (e i castelli e le ville reali sparsi dicono che lo fu davvero per i Savoia); ma non lo si creda fuori dalla storia. I cuneesi sono stati dappertutto. (G. Arpino)

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Tempo di carnevale a Vercelli

La sfilata dei carri allegorici e dei gruppi mascherati, e le manifestazioni folkloristiche che accompagnano il Carnevale, vedono convenire a Vercelli, dalla campagna e dalle vallate, una numerosa rappresentanza della popolazione che rinnova, intorno alle maschere di Biciulan e della Bela Majn, l’antico incontro della città con il contato, l’incontro cioè di modi di vita, di interessi economici, di civiltà diverse.
Il nome della maschera Biciulan deriva dei profumati biscotti che sembrano rinnovare i fasti si un’età passata, quando le buone ricette della nonna venivano gelosamente tramandate e consultate ad ogni lieta ricorrenza nel preciso ritmo delle feste religiose o familiari e del succedersi delle stagioni, ciascuna delle quali portava con sé una particolare, agreste cucina.
Personaggio di invenzione non troppo lontano nel tempo, Biciulan è nato con un pizzico di bizzarria; fratello minore di Gianduia torinese e di Meneghino milanese, avrebbe dovuto interpretare la realtà contadina della campagna vercellese, la sua radice profonda germinata tra acqua e terra feracissima, ed invece Biciulan si è messo addosso un elegante abito militare sul quale fanno spicco gli alamari: un travestimento meraviglioso, un’arguzia impensabile e, chi sa, forse anche una celebrazione dei sacrifici e delle virtù contadine.
La Bela Majn, l’avrete già compreso, è la compagna di Biciulan e s’è presa anch’essa il gusto di vestire, almeno a carnevale, con gli abiti di una gran dama: i contadini che rifanno il canto ai nobili, nel gran giorno della libertà carnevalesca, esprimono certo un tema di grande interesse sociale.

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Canti e sagre popolari a Novara

A Novara, come in tutte le altre città dell’Italia settentrionale, sono poche ormai le tradizioni che sopravvivono. Possiamo ricordare, tra le manifestazioni folkloristiche, la sfilata dei carri di carnevale sui quali troneggia la maschera di Re Biscottino.
Profondamente suggestiva è la rievocazione della Passione di Gesù che ogni anno, nel giorno del Venerdì Santo, si tiene a Romagnano Sesia.
Un invito alla letizia è invece l’autunnale sagra dell’uva di Borgomanero: con la sciora Togna tutto il paese è in festa.
Il vino, se non l’uva, è di scena anche a Casale Corte Cerro, ma in tutt’altra stagione: infatti nel giorno di San Giorgio, che cade il 23 aprile, la Fontana del vino distribuisce gratuitamente il suo liquore tra la gioia che si può immaginare.

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Il palio di Asti

La seconda domenica di maggio, cavalli e fantini vengono scelti da un comitato facente capo alle singole parrocchie cittadine e presieduto da un Rettore.
Dall’edificio dell’Alla, dove generalmente ha luogo la fiera dei cavalli con grande concorso, un tempo, anche dei rinomati cavalli ungheresi, parte il corteo: comitato, vessilliferi, paggi e fantini in testa, codazzo di popolo tumultuoso e allegro al seguito.
Nella Piazza del Santo, come viene chiamata per antonomasia la piazza in cui sorge la Collegiata, ha luogo la presentazione al comitato e la consegna  ai fantini del casco tradizionale.
C’è un’aria di festa sanamente provinciale e bonariamente solenne al passaggio dei vessilli vivaci, recanti, in genere, il nome di un santo: rosso e verdi quelli di san Pietro, rossi e azzurri quelli di santa Caterina, rossi e gialli quelli di san Paolo. Ecco il rosso e il bianco del vessillo più amato: è San Secondo stesso che attraversa le vie della sua città.
Manca ancora quella tensione che si comunica alla folla quando squillano le trombe che annunciano l’inizio delle gare.
I due giri di pista sono presto percorsi, ma i minuti sembrano secoli e ogni particolare della corsa è seguito con attenzione spasmodica. La ragazzaglia applaude incitando a gran voce i concorrenti con frizzi arguti e ingenuamente sboccati. Anche i mercanti di cavalli hanno interrotto i loro affari: il volto sanguigno, acceso dalle copiose bevute, la catena d’oro ballonzolante sul gran ventre, una mano che stringe la frusta sottile e infiocchettata e l’altra infilata nel panciotto per evitare che nella ressa il portafoglio a fisarmonica possa prendere il volo, valutano da intenditori lo slancio delle bestie, seguono ansimando l’ansimare dell’animale proteso verso il traguardo, e gocce di sudore cadono dalla loro fronte come i fiocchi di schiuma dai fianchi dei cavalli.
La corsa è finita: è il momento della premiazione. Al vincitore il palio, al secondo arrivato la borsa, al terzo gli speroni, al quarto il gallo (il famoso galletto di sant’Alessio) e al quinto… un’acciuga con l’insalata. La provincia e lo spirito borghigiano sono sempre vivi.

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Il traforo del Frejus

Fra i vari progetti che, subito dopo la prima guerra d’indipendenza e cioè nel famoso “decennio di preparazione” bollivano in pentola, nella capace e previdente pentola di Camillo Cavour, c’era anche, sia pure appena accennato, un certo progetto che riguardava la “necessità di perforare la barriera delle Alpi e di far passare una ferrovia”.
Era un progetto addirittura pazzesco per quell’epoca; passeranno diversi anni prima che prenda sostanza nella realtà. E si giunge fino al 1857 allorché il Parlamento piemontese approva l’esecuzione del traforo del Frejus, con uno stanziamento di 41 milioni di lire.
Il 31 agosto di questo stesso anno, il mondo apprese con immenso stupore che lo scoppio di una mina a Modane aveva segnato l’inizio della formidabile impresa.
La prima mina era stata fatta brillare dallo stesso re Vittorio Emanuele II, con il principe Gerolamo Bonaparte, attorniati di personalità, tecnici e migliaia di valligiani.
L’audacissimo assalto alla montagna era iniziato; esso si concluderà il giorno di Natale del 1870. L’inaugurazione della linea del Frejus avverrà l’anno successivo, nel 1871, fra un tripudio di bandiere e un entusiasmo incandescente.

Dettati ortografici e materiale didattico sul PIEMONTE – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici sull’educazione stradale

Dettati ortografici sull’educazione stradale – una collezione di dettati ortografici per la scuola primaria, di autori vari, sul tema dell’educazione stradale. Difficoltà ortografiche varie.

Dettati ortografici sull’educazione stradale
La strada
La strada principale e le strade che ti portano ad essa, nel giorno di mercato non si riconoscono più. Le auto non possono circolare, il traffico è sostituito dalla confusione; le bancarelle sono vicine le une alle altre e su esse sono esposte merci si ogni genere. I venditori urlano; ognuno ha un tono di voce e un modo particolare per attrarre la gente e convincerla ad acquistare: sono tutti bravissimi attori.
La gente si avvicina alle bancarelle, osserva, ascolta, discute e, a volte, compera.

Dettati ortografici sull’educazione stradale
Impara a camminare

Tieni la destra, cammina sul marciapiede e fila dritto; non bordeggiare come una barca, e il naso tienilo davanti a te e non in aria.
Se attraversi ad un incrocio, stai attento ai semafori ed ai segnali stradali; cammina sulle strisce pedonali e procedi sicuro, ma non ti incantare!
Se attraversi dove non ci sono segnali, guarda bene a sinistra e a destra e, soltanto quando sei ben sicuro del fatto tuo, taglia la strada ad angolo retto speditamente, senza correre e senza esitare.

Dettati ortografici sull’educazione stradale
Impara ad andare in bicicletta

Tieni la destra e sorpassa a sinistra.
Non fermarti di colpo senza guardarti indietro. Il veicolo che ti segue può precipitarti addosso. Se cambi direzione, fai prima segno stendendo il braccio a sinistra o a destra; ma dai tempo a quelli che ti seguono di capire le tue intenzioni e dai un’occhiata indietro.
Attento ai segnali. Ve ne sono due che particolarmente ti riguardono: quelli di divieto di transito e quelli di senso vietato. Li conosci?

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Storia dei segnali stradali

Non solo nel nostro tempo l’uomo ha sentito il bisogno di agevolare il traffico collocando sulle strade segnali utili ai viaggiatori. Già i Romani infatti, lungo le arterie che coprivano con una fitta rete tutto il loro vasto Impero, avevano collocato cippi miliari con l’indicazione delle distanze.
Ma solo ai nostri giorni la segnaletica è divenuta tanto indispensabile, e la sua mancanza renderebbe la circolazione quasi impossibile.
Il primo segnale comparso sulle strade moderne è la croce di sant’Andrea che, con la diffusione delle ferrovie, fu collocata nei pressi dei passaggi a livello per indicare il pericolo dei treni in transito.
In seguito, con l’accrescersi del numero dei veicoli stradali a motore, furono adottati altri segnali per indicare pericoli quali curve ed incroci.
Nel 1918, a New York, furono sperimentati sulla Quinta Strada i primi semafori.
La segnaletica adottata nei vari paesi, però, era molto varia; accadeva, così, che l’automobilista che si recava all’estero non si raccapezzasse più di fronte a segnali per lui spesso incomprensibili, con grave danno per la sicurezza e la regolarità della circolazione.
Ed ecco, allora, che nel 1931 i rappresentanti di molti paesi si riunirono a Ginevra per studiare una segnaletica unica per tutte le strade del mondo.
Fu raggiunto fin d’allora un primo accordo e successivamente, di fronte a nuovi problemi creati dal traffico sempre più intenso, si aggiunsero altri segnali fino a giungere alla segnaletica attualmente collocata sulle nostre strade; essa regola minuziosamente, e con un linguaggio simbolico comprensibile agli utenti di qualsiasi lingua, tutte le possibili situazioni di traffico.

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Per strada

Come è bello poter passeggiare senza preoccupazioni per i viottoli di campagna! Ma non è sempre possibile evitare le grandi strade di comunicazione e i conseguenti pericoli. Bisognerà allora che ognuno di noi, quando si muove di casa, pensi prima bene all’itinerario che deve percorrere per andare in un dato posto. La prima norma è quella di scegliere le strade meno battute, ma insieme regolate da semafori o dalla presenza di un vigile. E’ facile infatti constatare che certe piccole vie, apparentemente deserte, sono i luoghi più frequenti di incidenti perchè chi le percorre, non temendo alcun pericolo, facilmente si distrae o aumenta la propria velocità e non osserva le norme della circolazione.
Una volta scelto il percorso da compiere, chi procede a piedi, starà attento di camminare sempre sui marciapiedi o, nei casi in cui questi non esistessero, ai margini della strada. E’ vero che è frequente la tentazione di scendere dal marciapiedi o, magari per superare un gruppo di persone che procede lentamente, ma questa manovra va compiuta con molta attenzione. Chi vive in città, infatti, sa troppo bene come le macchine si dispongano le une accanto alle altre occupando tutta la strada e talvolta giungano a sfiorare i passanti che procedono sul marciapiede. Scendere sulla strada all’improvviso può costituire pericolo di morte.
Quando poi si deve effettuare un attraversamento sarà bene attendere un incrocio, dove si sia un semaforo, un segno obbligatorio di stop, o l’indicazione di passaggio pedonale sull’asfalto.
Solo in questo modo si avranno assicurate le condizioni necessarie per non correre pericoli e si avrà eventualmente diritto di protestare di fronte a casi di disobbedienza da parte dei guidatori di veicoli.

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La strada

La strada, che è sempre esistita da quando l’uomo ha sentito il bisogno di spostarsi da un luogo all’altro (celebri erano e sono ancora le grandi vie costruite dai Romani), è divenuta oggi, per l’enorme traffico che la percorre, un argomento di vivaci dibattiti, di leggi, nonché, noi diremmo, motivo di educazione e di sano vivere civile. Riteniamo pertanto che anche un breve esame della più comune e fondamentale terminologia stradale, possa contribuire a far sì che della strada si faccia un uso corretto, che è auspicato non solo dalle autorità, ma anche da quanti sono gelosi del bene pubblico e dell’incolumità dei cittadini.

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La strada

La strada è la via per la quale si snoda il traffico. E’ così detta perchè è massicciata, ha cioè una base di massi, resistente alla pressione di quanti, uomini, animali e veicoli, vi transitano sopra. La massicciata nelle strade antiche era visibile, come del resto lo è ancora oggi in alcune vie dei centri urbani; invece nelle strade moderne di solito è ricoperta da uno strato di catrame, prodotto oleoso ottenuto dalla distillazione dei carboni fossili o del legno. La strada si dice allora asfaltata (dal greco “asphaltos” che significa “bitume della Giudea”).
La strada può essere di specie e dimensioni diverse ed assumere allora denominazioni varie: sentiero, viottolo, strada secondaria, strada maestra, strada comunale, provinciale, autostrada, superstrada, ecc… a cui si devono aggiungere le varietà delle vie cittadine quali la piazza, il piazzale, il foro, il largo, il corso, il vicolo, il calle (celebri quelli di Venezia), ecc…
La strada che collega le varie città, paesi e borgate, deve adattarsi alle cosiddette situazioni locali, cioè alla particolare configurazione geografica. Se essa scorre in pianura di solito è dritta; se scorre in montagna è piena di curve, di difficoltà e di pericoli.
In ogni caso il traffico che si snoda in esso è regolato da precise indicazioni contenute nei segnali, che sono di pericolo, di prescrizione, di indicazione e orizzontali.
Lungo le strade di comunicazione il traffico è sorvegliato dalla Polizia Stradale, un corpo militare che controlla che nella strada tutto avvenga nel pieno rispetto delle norme stradali. E’ un corpo preziosissimo, che ha salvato e salva numerose vite umane, e molte più ne salverebbe, se tutti gli utenti della strada fossero giudiziosi e prudenti.
Nelle città e nei centri abitati, data la congestione del traffico e la necessità maggiore di tutelare l’incolumità dei cittadini, bisogna tener conto di altre norme e quindi di altri termini.
Qui infatti troviamo i semafori, apparecchi con segnali gialli, rossi e verdi, i quali negli incrodi indicano ai pedoni ed ai veicoli il momento preciso del passaggio nelle varie direzioni. In certi momenti di diminuito traffico, i semafori fungono da lampeggiatori, lampeggiano cioè ad intermittenza regolari la luce gialla, per indicare la presenza di un incrocio pericoloso.
Là dove non esistono semafori e un po’ ovunque per la città, troviamo i vigili urbani, che sono i tutori e i regolatori del traffico entro il perimetro urbano. Quando essi si collocano negli incroci, con le mani e con le braccia ricoperte da guanti o bracciali bianchi, danno ai passanti segnalazioni varie.
Obbedire ai vigili e rispettarli è un dovere fondamentale degli utenti della strada; disobbedire loro, oltre che dimostrazione di scarso civismo, è anche pericoloso… per il portafoglio, perchè essi hanno la facoltà come del resto la polizia stradale, di elevare delle multe o contravvenzioni (dal latino medioevale “contraventio” che significa “andare contro la legge”), e nei casi più gravi di arrestare.

Dettati ortografici sull’educazione stradale – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

La divisione in sillabe col metodo Montessori

La divisione in sillabe col metodo Montessori : ho raccolto qui qualche idea pratica per affrontare l’argomento coi bambini, con materiale pronto per la stampa in formato pdf. Questo è il contenuto dell’articolo:
– Andare a capo: presentazione ai bambini (prima versione)
– Andare a capo: presentazione ai bambini (seconda versione)
– Esercizio 1
– Esercizio 2
– Esercizio 3 (schede autocorrettive per la divisione in sillabe)
– Schede delle regole della divisione in sillabe.
Tutto il materiale stampabile si trova raggruppato qui:

La divisione in sillabe col metodo Montessori
Presentazione ai bambini
(prima versione)

Materiale occorrente:
Foglio a righe con margini
Penna rossa
Matita e gomma
Cartellino titolo: ANDARE A CAPO

La divisione in sillabe col metodo Montessori 1

Presentazione:
– Invitiamo un gruppo di bambini alla presentazione e srotoliamo un tappeto.

– Scriviamo davanti ai bambini un paragrafo a matita, copiandolo o facendoselo dettare da un bambino.

– Quando lo spazio della riga si esaurisce, cioè si arriva al margine, diciamo: -Oh! Non c’è spazio. Forse dovrei scrivere più in piccolo…-.

– Cancelliamo l’ultima parola e tentiamo di far stare la parola entro il margine. Diciamo: -Non mi sembra che vada bene, così…-.

– Cancelliamo di nuovo e invitiamo i bambini a battere le mani per ogni sillaba della parola; nel mio esempio: LUN (battere le mani) GA, TER (battere le mani) RA. Scriviamo quindi LUNe disegnano i trattini in rosso per poi andare a capo con GA.

– Scriviamo il resto della frase.

– Terminato il lavoro diciamo ai bambini: -Quando arrivo al margine del foglio e la parola non può starci intera, ne scrivo una parte, e il resto lo scrivo nella riga sottostante. Per spiegare che ho diviso la parola aggiungo vicino al margine due trattini. Questa operazione si chiama ANDARE A CAPO.-.

Se volete, potete aggiungere che nei testi stampati e se scriviamo al computer, per andare a capo si usa un trattino corto. I programmi di videoscrittura però usano sistemi automatici per adeguare le righe ai margini, e non richiedono quasi più l’uso della divisione in sillabe.

La divisione in sillabe col metodo Montessori – Estensioni:
Nei giorni seguenti fare coi bambini molti esercizi battendo le mani, presentando man mano che si presentano le varie regole della divisione in sillabe.
Creare nei giorni seguenti occasioni pratiche per l’esercizio scritto.

La divisione in sillabe col metodo Montessori
Presentazione ai bambini
(seconda versione)

Materiale:
strisce bianche di carta, penna, forbici, cartellini del titolo (1a sillaba, 2a sillaba, 3a sillaba, 4a sillaba, 5a sillaba), cartellino dell’etimologia della parola sillaba.

 La divisione in sillabe col metodo Montessori 2

Presentazione:
– Raccogliamo un piccolo gruppo di bambini interessati e diciamo loro che parleremo di come si possono dividere le parole.

– Mettiamoci in cerchio e chiediamo ai bambini di scandire lentamente i propri nomi, battendo le mani quando serve. Questa sarà la prima dimostrazione.

– Poi diciamo: – Ascoltate attentamente questa parola: casa. Battete le mani quando sentite che nella parola può esserci uno stacco.-. Diciamo poi che la parola casa è formata da due parti.

– Scriviamo la parola casa su una striscia di carta, e tagliamola dove abbiamo sentito che c’è uno stacco nel suono.

– Spieghiamo ai bambini che le parti di una parola si chiamano sillabe, poniamo sul tappeto (al centro, sul margine superiore) il cartellino dell’etimologia e diciamo che la parola “sillaba” deriva dal Greco syl (insieme) e lamb (prendo).

– Mettiamo i primi due cartellini sotto al cartellino, leggendoli.

– Poi poniamo sotto di essi le due parti della parola.

– Continuiamo con altre parole di due sillabe, poi passare a parole più lunghe, aggiungendo altri cartellini dei titoli.

La divisione in sillabe col metodo Montessori
Esercizio 1

Materiale:
cartellini di parole preparati con parole di 1, 2, 3, 4, 5 sillabe; stuzzicadenti. Puoi prepararli a mano, secondo le esigenze dei bambini; se preferisci, ne trovi alcuni già pronti qui (con tabella autocorrettiva):

La divisione in sillabe col metodo Montessori 3

La divisione in sillabe col metodo Montessori 3 tabella autocorrettiva

Presentazione:
– Raccogliamo un piccolo gruppo di bambini, e cominciamo leggendo loro una parola di due sillabe. Chiediamo quante sillabe contiene.

– Mettiamo il cartellino della parola sul tappeto e poniamo uno stuzzicadenti tra le due sillabe.

– Continuiamo allo stesso modo con altre parole, di due, tre, quattro, cinque sillabe.

– I bambini possono registrare l’esercizio sul quaderno.

La divisione in sillabe col metodo Montessori
Esercizio 2
Cartellini auto correttivi delle parole

Materiali:
molti cartellini di parole di 1,2,3,4,5 sillabe scritti fronte e retro (da un lato la parola intera, dall’altro la parola divisa in sillabe, per l’autocorrezione). Puoi prepararli a mano, secondo le esigenze dei bambini; se preferisci, ne trovi alcuni già pronti qui (ritagliare e piegare lungo la metà ogni cartellino, per ottenere il fronte-retro):

La divisione in sillabe col metodo Montessori 4

cartellini dei titoli (1 sillaba, 2 sillabe, 3 sillabe, 4 sillabe, 5 sillabe):

titoli per le sillabe

alfabeti mobili di colori diversi:

Presentazione:
– Disporre i cartellini dei titoli sul tappeto (sul margine superiore) e distribuire i cartellini delle parole tra i bambini.

– I bambini posizionano le loro parole sotto il titolo corretto.

– Ogni bambino sceglie una parola e la trascrive con gli alfabeti mobili, alternando i colori tra le sillabe, poi volta il cartellino per verificare se ha diviso la parola correttamente.


La divisione in sillabe col metodo Montessori
Esercizio 3
Schede auto correttive per la divisione in sillabe

Avevo preparato tempo fa queste schede, che contengono parole di difficoltà diversa, e sono pronte in formato pdf per il download e la stampa gratuiti. Le ho sempre trovate molto utili.

La divisione in sillabe col metodo Montessori
Schede delle regole della divisione in sillabe

Le regole per la divisione in sillabe, che tutto sommato non sono molte, possono essere scritte su cartellini di colori diversi. I bambini possono usarle per studiare le parole, per risolvere dubbi, o possono copiarle, se lo desiderano, sui loro quaderni.

Stili letterari e scrittura creativa secondo il metodo Montessori

Stili letterari e scrittura creativa secondo il metodo Montessori.Quando parliamo di stile di scrittura, dobbiamo sempre tenere presente che il nostro compito di educatori è sviluppare la personalità del bambino, non soltanto il suo linguaggio: la lingua è l’espressione della persona. Per questo è importante, nella scuola primaria, lavorare sulla lingua attraverso un fare sempre nuove scoperte, e non soltanto attraverso la lettura e la scrittura.

Possiamo definire lo stile come il modo che usiamo per rappresentare noi stessi al mondo. La parola stile deriva dal latino stylus, stilo, che era lo strumento utilizzato per scrivere. Lo stile è dunque il modo in cui si esprime il proprio pensiero nel linguaggio scritto e verbale, selezionando ed organizzando le parole in un modo piuttosto che in un altro. Lo stile riguarda tutte le componenti che riguardano la forma, e non il contenuto del pensiero espresso.

Nella scuola primaria lo stile viene preso in considerazione da due punti di vista, cioè la scrittura del bambino e la letteratura: la scrittura del bambino, perché vogliamo che essa sia piacevole all’orecchio, e non soltanto grammaticalmente corretta; la letteratura in quanto è possibile analizzarla ed operare confronti tra autori diversi.

Lo stile di scrittura deve essere legato al contesto, cioè deve adattarsi al tema. Lo stile dovrebbe essere scelto in base al tipo di lavoro che si intende sviluppare: narrativa, saggistica, prosa, racconti, poesie, testi teatrali, discorsi, articoli giornalistici.

La buona scrittura deve essere grammaticalmente corretta, chiara e appropriata al soggetto.

Fino ai sei anni, nella fase di apprendimento del meccanismo, il lavoro del bambino deve essere guardato con fiducia e rispetto, perché le critiche possono interferire con il suo normale sviluppo. Soltanto se il bambino stesso si mostra insoddisfatto dei propri risultati, ed è lui a chiedervi aiuto, ha senso fornirgli consigli e pensare a lavori individualizzati che possano aiutarlo a superare le difficoltà.

Quando il bambino è in possesso dei meccanismi della lettura e della scrittura ed arriva alla scuola primaria, cominciamo a considerare anche l’aspetto dello stile.

Innanzitutto dobbiamo aiutarlo ad esprimersi con il suo proprio stile, uno stile che sia espressione di sé e che sia, contemporaneamente, chiaro e bello.

Un grande aiuto deriva dalle audizioni, cioè dalle letture a voce alta fatte in classe dall’insegnante. Attraverso questo importante strumento, i bambini hanno la possibilità di entrare in contatto con una grande varietà di autori diversi, e diventano consapevoli delle differenze di stile che esistono tra di loro; imparano a sentire che ogni persona ha il proprio modo di esprimersi.

Questo è il primo passo per fare in modo che il bambino sviluppi il proprio stile di scrittura, e che apprezzi gli stili degli altri. Selezionare per i bambini letteratura di qualità è uno dei modi migliori per aiutare i bambini ad apprezzare lo stile. Quando leggiamo ai bambini, dovremmo essere sicuri di aver scelto stili di scrittura differenti, testi provenienti da diversi periodi della letteratura italiana e mondiale.

La scrittura del bambino deve essere grammaticalmente corretta, chiara, ed appropriata al tema.

Nello svolgersi dell’anno scolastico si lavora molto alla grammatica, attraverso il programma di psicogrammatica. Questa materia non è rigidamente separata dalle altre, ed è portata ai bambini come qualcosa di vivente, come vivente è la lingua. La grammatica fluisce attraverso l’espressione, e non è legata alla memorizzazione di elenchi di regole. Un grande aiuto lo ricaviamo dai materiali montessoriani, primi fra tutti i simboli grammaticali, di cui parleremo approfonditamente nei prossimi articoli. Lavorando con questi materiali, i bambini imparano a vedere le strutture, i modelli che stanno nascosti nelle nostre frasi.

La chiarezza di espressione è una qualità che va coltivata. Per prima cosa, se un bambino non ha pensieri chiari, non saranno chiare le sue espressioni. Lavorare con i materiali dell’analisi grammaticale e dell’analisi logica, manipolando frasi composte e complesse, aiuta molto i bambini a conseguire una buona chiarezza espressiva. Per questo motivo non è affatto prematuro introdurre i simboli già da quando i bambini cominciano a scrivere e leggere.

All’interno del programma di psicogrammatica, ci sono delle sezioni che aiutano molto i bambini a sviluppare consapevolezza e sensibilità verso lo stile di scrittura:

  • analisi grammaticale: oltre ai simboli grammaticali, cui abbiamo già accennato e che servono a rivelare visivamente i modelli linguistici, abbiamo a disposizione le scatole grammaticali, che in particolare lavorando alle permutazioni tra le parti del discorso danno importanti informazioni ai bambini sull’importanza della sintassi. Altro materiale interessante è quello dei cartellini dei comandi per le parti del discorso: quando ad esempio iniziano a lavorare con questi cartellini alle coniugazioni verbali, acquisiscono grandi abilità nelle concordanze soggetto – predicato verbale.

  • analisi logica: attraverso l’analisi logica i bambini vedono come le frasi variano in lunghezza e complessità di pensiero. Analizzando pensieri e frasi altrui, si accorgono che la chiarezza dipende non soltanto dalla scelta delle parole, ma anche dalla struttura in cui vengono inserite. I bambini vedono come frasi variano in lunghezza e complessità del pensiero. Un approccio organizzato e logico al linguaggio dà gli strumenti per un’efficace auto-espressione.
  • studio della parola: lo studio della parola contribuisci ad arricchire il vocabolario dei bambini ed a renderlo più specifico, rendendo la scrittura più chiara e precisa.

Oltre ad essere chiaro, lo stile di scrittura deve essere adeguato al contenuto dello scritto. Come già detto, i bambini devono usare uno stile che metta in evidenza il significato che vogliono trasmettere, e deve al tempo stesso riflettere la personalità di chi scrive.

Per sostenerlo in questo aspetto della scrittura, è importante che il bambini legga i propri testi in prosa e in poesia ai compagni, in modo da tenere sempre vivo il confronto.

Per quanto riguarda le letture individuali, è importante che, soprattutto con i primi libri, i bambini sentano la lettura come un piacere, per questo motivo non dobbiamo imporre loro di terminare tutti i libri che iniziano a leggere. Piuttosto impariamo a notare le preferenze di ognuno, per essere in grado di proporre testi che hanno una buona probabilità di incontrare il loro favore. I bambini stessi potranno stilare delle proprie liste di autori preferiti. Letto un libro, i bambini dovrebbero avere occasione, in classe, di parlarne ai compagni, raccontando di cosa parlava, quali parti gli sono piaciute, e che impressioni ne ha tratto.

Per esplorare lo stile di un autore che è piaciuto, possono copiare una frase dal testo e analizzarla coi simboli grammaticali, per avere l’immagine della struttura delle sue frasi e scoprire se, ad esempio, usa molti aggettivi, o preferisce frasi corte, o utilizza invece molti avverbi, ecc… Con la stessa tecnica di analisi si possono confrontare tra loro due brevi frasi di autori diversi, o anche due frasi di uno stesso autore, per vedere se il suo stile è coerente.

Nella scuola primaria si sviluppa un forte collegamento tra letteratura e scrittura dei bambini. Dopo che essi sono entrati in contatto con molti stili letterari diversi, e quando i meccanismi della scrittura sono acquisiti, comincia la sfida della scrittura creativa.

Stili letterari e scrittura creativa secondo il metodo Montessori
Regole fondamentali

Esistono moltissimi manuali di scrittura creativa e stile, ma quello che mi sento di consigliare è un piccolo testo (una novantina di pagine), Elementi di stile, di Strunk e White. Si tratta di un classico della letteratura americana, e nella versione per la lingua italiana è stato curato da Mirko Sabatino. Il manuale contiene tutte le regole di stile fondamentali, che possono essere presentate ai bambini che si avvicinano alla scrittura creativa.

Le regole fondamentali, che possiamo qui riassumere, sono:

  • una frase non deve contenere parole inutili; un paragrafo non deve contenere frasi inutili. Questo per lo stesso motivo per cui un disegno non deve contenere linee inutili, e un’auto non deve contenere componenti inutili. Ogni parola che si scrive deve raccontare qualcosa;
  • bisogna scrivere su ciò che si sa:
  • bisogna dire ciò che si vuole dire;
  • bisogna usare un linguaggio definito, concreto e specifico;
  • bisogna rimanere centrati sul soggetto del testo;
  • bisogna che le parole siano legate tra loro, altrimenti la scrittura può diventare ambigua;
  • bisogna essere concisi;
  • bisogna evitare i luoghi comuni; chiediamo ai bambini se hanno già sentito quella certa combinazione di parole prima, ed in caso affermativo, consigliare di non usarla:
  • bisogna utilizzare verbi forti e nomi precisi; sono i sostantivi ed i verbi gli elementi che danno alla prosa colore e forza;
  • gli aggettivi devono servire a portare maggior chiarezza;
  • bisogna preferire la forma attiva del verbo; quando lo scrittore vuole che la sua prosa sia diretta e vigorosa, la forma attiva del verbo è indispensabile;
  • evitare la ripetizione delle stesse parole: le parole abusate perdono la loro efficacia;
  • bisogna rispettare le concordanze verbali, soprattutto una storia deve svolgersi nel presente, nel passato o nel futuro, per tutta la sua durata;
  • bisogna organizzare i pensieri in frasi e paragrafi;
  • le lunghe argomentazioni devono essere organizzate in capitoli e paragrafi.
  • le dichiarazioni positive sono migliori di quelle negative; ad esempio è preferibile dire “è in ritardo” invece di “non è puntuale “.

Stili letterari e scrittura creativa secondo il metodo Montessori
Esercizi di scrittura creativa e stile

L’insegnante ha il compito di portare le regole di stile all’attenzione del bambino, e lavorare con lui al raggiungimento degli obiettivi. Sarà l’interazione insegnante-bambino ed il nostro entusiasmo ad illuminare le loro menti. Se a noi per primi mancano le abilità di scrittura, sarà molto difficile aiutare i bambini a sviluppare il loro stile personale di scrittura.

Qui di seguito trovi una serie di idee ed esercizi utili a favorire lo sviluppo di un buono stile di scrittura, chiaro, corretto e personale, da parte dei bambini della scuola primaria.

  1. I bambini possono esercitarsi a scrivere qualcosa di proprio nello stile di uno dei loro autori preferiti. Si inizia naturalmente con un paragrafo, poi via via il lavoro tenderà ad espandersi a composizioni più grandi, grazie all’entusiasmo che questo genere di attività suscita sempre nei bambini.
  2. Quando, durante la lettura di un romanzo, i bambini sentono un dato personaggio come familiare, possiamo suggerire loro di usare la voce di quel personaggio per scrivere una pagina del suo diario, o una lettera ad un altro personaggio del romanzo stesso.
  3. Possiamo chiedere ai bambini di scrivere sullo stesso argomento utilizzando stili diversi, ad esempio descrivere un tramonto prima nello stile di un dato autore, e poi nello stile di un altro.
  4. Possiamo scrivere la stessa cosa utilizzando stili diversi: ad esempio la descrizione di un temporale come testo descrittivo, saggio, poesia.
  5. Fiabe, favole e racconti popolari sono molto facili da analizzare ed i bambini si divertiranno molto a scriverne.
  6. Favorire la riscrittura da parte dei bambini di biografie, saggi, manuali di istruzioni, lettere, articoli di giornale, documenti storici e poesie.
  7. Lavorare alla scrittura di descrizioni di stati d’animo, racconti d’avventura, racconti d’azione, momenti contemplativi. Parlare ai bambini di ciò che l’autore ha fatto per rendere un certo stato d’animo.
  8. Lavorare alla scrittura umoristica è anche molto interessante.
  9. Lavorare ai testi poetici, in particolare, dà la possibilità di parlare di similitudini, metafore, allitterazioni, assonanze, personificazioni, ecc… che arricchiranno le loro prose.
  10. Esplorare modi di dire, proverbi e indovinelli: i bambini amano i giochi di parole, amano pensare, cercare, e cercare di spiegare espressioni bizzarre, come fare qualcosa a ufo, cadere a fagiolo, ecc…
  11. Tradurre uno scrittore nello stile di un altro.
  12. Tradurre un brano scritto da un bambino nello stile di un certo autore.
  13. Consentire ai bambini di scrivere sia in modo collaborativo, sia individuale.
  14. Scegliamo un’immagine interessante e chiediamo ai bambini di scrivere i propri pensieri su di essa, di getto. Poi riorganizzare insieme il testo, considerando che ciò che ci dà piacere, da lettori, è l’ordine e la simmetria del testo.

Stili letterari e scrittura creativa secondo il metodo Montessori

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI: lettura meccanica, interpretativa, a voce alta.

Nell’articolo puoi trovare vario materiale pronto per il download e la stampa, in formato pdf. Tra questo materiale:

primi esercizi di lettura: scatole degli oggetti, scatole delle illustrazioni, schede delle sei immagini, cartellini di parole da abbinare ad oggetti, gioco di lettura di parole con gli oggetti, cartellini di lettura di parole, gioco alla lavagna per la lettura di frasi, cartellini dei comandi per la lettura di frasi (cinque serie)

esercizi di lettura successivi: la lettura ad alta voce, il primo libro di lettura, comandi per la lettura interpretata (7 serie), comandi per la lettura di poesie, le audizioni.

La lettura comincia, nella scuola d’infanzia, fin da quando i bambini rileggono le prime parole che hanno composto con l’alfabeto mobile, anche se non si tratta di lettura vera e propria, perché manca l’elemento della comprensione: i bambini infatti conoscono già il significato della parola, avendola scritta loro stessi. In questa fase, comunque, l’attenzione del bambino è rivolta alla pronuncia dei suoni della parola scritta, ma questa attenzione lo porterà poi a voler riconoscere le parole scritte da altri.

La buona pronuncia della parola letta ha un grande valore: si può dire che sia lo scopo principale della lettura nella scuola d’infanzia. Tuttavia è difficile raggiunger questo obiettivo, se nel suo sviluppo il bambino ha sviluppato difetti di pronuncia nella lingua orale.  Quando l’intelligenza vuole volare, le sue ali devono essere pronte. Immaginate se il pittore, nel momento in cui giunge l’ispirazione, dovesse mettersi a fabbricare i pennelli!

Secondo Maria Montessori nella lettura intervengono due fatti diversi: l’interpretazione del senso, e la pronuncia ad alta voce della parola scritta. L’osservazione dimostra che i bambini interpretano il senso leggendo mentalmente: l’interpretazione richiede raccoglimento, perché è l’intelligenza che legge.

Durante l’apprendimento della lettura nella scuola d’infanzia, bisogna distinguere tra scrittura e lettura, perché o due atti non sono contemporanei e la scrittura precede la lettura: nella scrittura prevale il meccanismo psico-motorio, mentre la lettura è un lavoro puramente intellettuale.

Quando il bambino che sa scrivere si trova davanti ad una parola che deve interpretare leggendo, tace a lungo, e legge i suoni con la stessa lentezza con cui la scriverebbe.

Ma il senso della parola diventa evidente solo quando essa è pronunciata in modo chiaro e con l’accento corretto. Ora, per trovare l’accento corretto, il bambino deve riconoscere la parola, cioè deve riconoscere l’idea che la parola rappresenta.

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI
Primi esercizi di lettura
 

  • Scatole degli oggetti
  • Scatole delle illustrazioni
  • Schede delle sei immagini
  • Cartellini di parole da abbinare ad oggetti
  • Gioco di lettura di parole con gli oggetti
  • Cartellini di lettura di parole
  • Gioco alla lavagna per la lettura di frasi
  • Cartellini dei comandi per la lettura di frasi (cinque serie)

La composizione deve precedere la lettura logica, come la scrittura deve precedere la lettura della parola. Inoltre la lettura, se ha il significato di recepire un‘idea, deve essere mentale e non vocale. Come spiegheremo meglio dopo, la lettura ad alta voce è un compito complesso. Anche una persona adulta che deve leggere un documento in pubblico si prepara per impadronirsi prima del contenuto. Nel bambino che comincia a leggere, la lingua scritta deve essere isolata dall’articolazione dei suoni. La scrittura rappresenta lo strumento per trasmettere il pensiero a distanza, mentre i sensi e il meccanismo muscolare tacciono.

Per la maggior parte dei bambini, la lettura si sviluppa spontaneamente attraverso la pratica nella costruzione delle parole. Ma ogni bambino è diverso. Alcuni hanno bisogno di molti esercizi di composizione di parole, mentre altri abbastanza presto leggono i suoni scritti. Per questa ragione l’insegnante dovrà osservare ogni bambino e giudicare quando è pronto per la presentazione della lettura. Si devono preparare molti materiali in grande varietà, per permettere ai bambini di fare molta pratica tenendo sempre vivo l’interesse con materiale nuovo. Tutti questi materiali possono essere usati in una prima fase per comporre le parole con gli alfabeti mobili, mentre in una seconda fase possono essere usati per la sola lettura.

Non smorzate l’entusiasmo del bambino per l’esercizio correggendo ogni errore. Se un bambino lavora con interesse e capisce quello che sta facendo, è meglio non interferire: migliorerà rapidamente con la pratica. Se invece non capisce quello che sta facendo, ripetere la lezione il giorno successivo, prima che lui abbia il tempo di prendere il materiale da solo. Se sbaglia ripetutamente l’ortografia di una stessa parola, gli può essere mostrata con delicatezza la composizione corretta della parola. Non bisogna chiedere al bambino di leggere le parole che ha composto, anche se sono scritte correttamente, perché quello del leggere è un processo completamente diverso rispetto a quello del comporre le parole.

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI – Scatole degli oggetti

Si tratta di scatole che contengono oggetti attraenti. Le parole corrispondenti agli oggetti devono essere scritte su cartellini, sempre conservati in scatoline.
il cartellino della parola letta viene posto sotto l’oggetto cui corrisponde, e si continua così tutti gli altri cartellini. L’insegnante continua ad aiutare il bambino finché capisce bene l’esercizio, poi lo lascia libero di lavorare da solo. Una volta che ha completato il lavoro con una scatola di oggetti, può scegliere di continuare con un’altra scatola.

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI – Scatole delle illustrazioni

Sono scatole che contengono schede di illustrazioni, e altre scatole per i nomi corrispondenti, sempre scritti su cartellini.

Il bambino prende una scatola di schede illustrate, legge le parole dei cartellini, e le abbina. Fatto ciò, può scegliere di continuare con un’altra scatola.

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI – Schede delle sei immagini

Sono schede che contengono una raccolta di sei immagini ciascuna. I nomi corrispondenti sono scritti su foglietti inseriti in una busta. Sotto ogni immagine c’è lo spazio per inserire il cartellino del nome.

Il bambino prende una grande busta contenente sei foto. Poi prende la busta con le parole, le legge e le abbina alle foto.
L’insegnante mostra al bambino ogni esercizio dedicandogli tutti il tempo necessario, se occorre dando il suo aiuto. L’obiettivo è quello di dare al bambino una varietà di attività dello stesso tipo, mantenendo vivo il suo interesse. Se un bambino ha difficoltà con la lettura, l’insegnante dà ogni giorno un aiuto supplementare, facendo tutto il possibile per suscitare il suo interesse e dargli la sensazione che lui è in grado di leggere. Dopo che i bambini hanno lavorato per un po’ con un dato materiale, nell’aula viene portato materiale nuovo.

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI – Cartellini di parole da abbinare ad oggetti

Prepariamo una serie di foglietti realizzati con comune carta da scrivere. Su ciascuno di questi scriviamo in caratteri grandi e chiari alcune parole di uso frequente, che il bambino conosce di certo. Se la parola si riferisce ad un oggetto, poniamolo sul tavolo del bambino facilitare la sua interpretazione della parola.
Gli oggetti utilizzati in questi giochi possono essere pezzi dell’arredamento della casa delle bambole, palloni, bambole, alberi, greggi di pecore o altri animali, soldatini, ferrovie, e altre figure semplici.

Cominciamo con la lettura dei nomi di oggetti ben noti e presenti. Non importa distinguere tra parole facili e difficili, perché il bambino sa già leggere qualsiasi parola, cioè sa leggere i suoni che la compongono. Lasciamo quindi che il bambino traduca pure la parola scritta in suoni lentamente, e se l’interpretazione è esatta, limitiamoci a dire, “più veloce”.  Di solito Il bambino legge più in fretta la seconda volta, ma spesso ancora senza capire. Ripetiamo: “Più veloce, più veloce.”

Questo è tutto per quanto riguarda l’esercizio di lettura.
Quando il bambino ha letto la parola, egli abbina il foglietto all’oggetto corrispondente, e l’esercizio è finito.

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI – Gioco di lettura di parole con gli oggetti

Su un grande tavolo disponiamo in ordine sparso una grande varietà di giocattoli. Scriviamo i foglietti coi nomi corrispondenti, pieghiamoli a metà e mettiamoli in un cesto. I bambini a turno pescano dal cesto un foglietto, e vanno al proprio tavolo. Quando un bambino legge e comprende il contenuto del suo foglietto, lo consegna alla maestra, e questo diventa la piccola moneta corrente con la quale acquistare il giocattolo nominato.

Quando tutti i bambini partecipanti al gioco hanno conquistato un giocattolo, prepariamo un altro cestino, nel quale invece di oggetti ci saranno i nomi dei compagni che non sanno ancora leggere, e che per questo motivo non hanno ricevuto il giocattolo. I bambini che leggono correttamente il nome, offrono il loro giocattolo all’amico più piccolo.

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI – Cartellini di lettura di parole

Prepariamo centinaia di foglietti scritti, contenenti i nomi dei bambini, nomi di città, di oggetti, di colori e anche di qualità conosciute attraverso gli esercizi sensoriali, e poniamole in scatole aperte che i bambini possono utilizzare liberamente. Vedremo i bambini rapiti da questi foglietti, e presto stimolati a leggere anche insegne dei negozi, scritte sui calendari, ecc… anche senza che sia stato presentato loro lo stampato minuscolo.

Dopo aver ottenuto coi bambini più piccoli che essi riuscissero a leggere, comprendendoli, cartellini contenenti parole e frasi, Maria Montessori pensò che non rimanesse che proporre ai bambini un libro, ma non ne trovò di adatti al suo metodo. Grazie ai risultati raggiunti nelle sue case dei bambini, le furono regalati molti libri illustrati, che furono dati ai bambini: essi sembravano molto interessati a questi libri, ma la Montessori fece degli esperimenti per comprendere meglio la cosa.

Innanzitutto chiese ad un’insegnante di raccontare una delle storie ai bambini, mentre lei osservava fino a che punto essi erano spontaneamente interessati, e vide che l’attenzione dei bambini calava dopo poche parole. Era evidente che i bambini, che sembravano leggere questi libri con tanto piacere, non traevano piacere dal senso, ma soltanto dall’abilità meccanica che avevano acquisito di tradurre i segni grafici in suoni e quindi di riconoscere le singole parole. Inoltre i bambini non avevano nella lettura dei libri la stessa costanza che avevano dimostrato verso i foglietti scritti, perché nei libri incontravano troppe parole a loro sconosciute. Come seconda prova chiese ai bambini di leggere un libro per lei. Diede un libro a un bambino, si sedette accanto a lui, e il bambino cominciò a leggere. Ad un certo punto chiese: “Hai capito quello che stavi leggendo?”, e il bambino rispose: “No.”, mentre l’espressione del suo viso sembrava chiedere una spiegazione della sua domanda.

In realtà, l’idea che la lettura di una serie di parole possa comunicarci i pensieri di altre persone, era una conquista che ancora non poteva essere raggiunta dai bambini, e che si sarebbe realizzata sicuramente nel futuro.
Tra il saper leggere le parole ed il comprendere il senso di un libro, c’è la stessa distanza che esiste tra il saper pronunciare una parola e fare un discorso. Interruppe quindi la lettura di libri ed attese.

Maria Montessori osservò che i bambini, che si sono esercitati ogni giorno a comporre e leggere parole, ad un certo punto arrivano spontaneamente alla composizione di frasi.
Quando questo avviene, è il momento per procedere con la lettura di frasi.

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI – Gioco alla lavagna per la lettura di frasi

La Montessori scrisse alla lavagna: “Mi volete bene?” I bambini stettero in silenzio per un attimo, poi gridarono: “Sì, sì!”. Quindi scrisse: “Allora fate silenzio, e guardatemi. “. I bambini lessero, e fecero silenzio.
Iniziò così tra loro una comunicazione per mezzo del linguaggio scritto.

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI – Cartellini dei comandi per la lettura di frasi

Prepariamo un buon numero di cartellini nei quali scriveremo frasi lunghe che descrivono azioni che i bambini devono svolgere, ad esempio chiudere le tapparelle; aprire la porta d’ingresso; chiedere a otto compagni di lasciare le loro sedie, mettersi in doppia fila al centro della stanza e marciare avanti e indietro in punta di piedi, senza fare rumore; chiedere a tre compagni che cantano bene di andare al centro della stanza, mettersi in fila e cantare con loro una canzone ; ecc…

Per prima cosa stabiliamo un profondo silenzio, poi presentiamo un cesto contenente i vari cartellini piegati a metà. Tutti i bambini che sanno leggere possono prendere un cartellino e leggerlo, poi consegnano il cartellino alla maestra ed eseguono l’azione descritta. Dal momento che molte di queste azioni richiedono l’aiuto degli altri bambini che non sanno leggere, e dal momento che molti richiedono l’uso di oggetti e materiali, si crea un clima di generale attività e di disciplina spontanea.

Il materiale consiste in un set progressivo di carte che invitano il bambino a creare una scena, o che promuovono un’attività osservabile dall’insegnante.
Per la presentazione mostriamo ai bambini dove trovare le carte e spieghiamo che possono lavorare in gruppo o da soli. Diciamo ai bambini che dovranno tenere il cartellino in mano mentre eseguono l’azione.
Il bambino poi sceglie una carta ed esegue l’azione.

Queste sono le serie dei cartellini dei comandi pronte:

  • Prima serie
  • Seconda serie
  • Terza serie
  • Quarta serie
  • Quinta serie

Puoi scaricarle tutte insieme qui:

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI
Esercizi di lettura successivi

 – la lettura ad alta voce
– il primo libro di lettura
– comandi per la lettura interpretata (7 serie)
– comandi per la lettura di poesie
– le audizioni (letture a voce alta dell’insegnante).

La lettura ad alta voce è una cosa diversa dalla lettura mentale. Mentre la lingua orale è legata alla capacità di udire, la lettura è legata alla scrittura. Nella scrittura, in un certo senso, non ci sono suoni da udire o da pronunciare. E’ la persona, sola con se stessa, che entra in contatto con tutti gli uomini del passato, del presente e del futuro in tutti gli angoli della Terra. Non i suoni, ma la scrittura, è ciò che permette questo tipo di comunicazione. La mente, silenziosamente, riceve i messaggi muti contenuti nei testi scritti.

La lettura ad alta voce, quindi, è una mescolanza di due linguaggi, ed è più complessa sia del solo linguaggio orale, sia della sola scrittura.

Per fare in modo che la lettura ad alta voce sia per lo meno comprensibile, è necessario che la mente e l’occhio facciano rapidamente il lavoro di scorrere l’intera frase, mentre la voce ne riproduce i suoni, dando l’espressione che è necessaria a comprenderne il senso. Quando chiediamo ad un bambino nel primo anno della scuola primaria di raggiungere questo risultato, non è difficile capire perché la lettura sia uno degli scogli più ardui da superare.

Questo schema mostra l’insieme dei fatti che riguardano la lettura:

La vera lettura è solo quella interpretativa. La lettura ad alta voce, invece, è un insieme di lettura ed espressione verbale. La lettura ad alta voce permette ad un gruppo di persone di condividere un’esperienza di lettura, ma non è uguale al lavoro mentale che richiede l’ascoltare la viva voce di una persona che racconta qualcosa in prima persona. Sappiamo tutti quanto sia difficile seguire una lettura fatta da altri, e che il saper leggere è un rarissimo pregio. E’ un’arte. Per insegnare la lettura a voce alta, non è particolarmente utile parlare di tono di voce, pause, gesto: ciò che è davvero importante nell’arte di leggere è l’interpretazione viva ed intensa, che porta ad immedesimarsi nella cosa letta. Il bambino deve, mentre legge a voce alta, comprendere profondamente il testo. Per provarci che hanno capito ciò che hanno letto a voce alta, dovremo chiedere loro di ripeterne il contenuto con parole proprie.

Il bambino che è in grado di esprimere col suo racconto, sia pure imperfetto, quello che ha capito della lettura, si trova in uno stadio più avanzato rispetto a chi non è in grado di farlo. Tuttavia anche questi bambini, ascoltandolo, non si tratterranno dal correggerlo per le sue imprecisioni.

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI – Il primo libro di lettura

Anche se consideriamo della massima importanza la lettura interpretata, offriamo al bambino anche un libretto di lettura che può leggere da sì a voce bassa e poi, quando lo ha capito, anche a voce alta, pronunciando le parole con espressione e chiarezza.

Il primo libretto ideato da Maria Montessori era estremamente semplice. Le pagine scritte erano solo quelle che si offrivano ad apertura del libro, cioè le facciate si sinistra erano bianche. Le pagine inoltre, venti in tutto, non sempre riempivano la pagina, che sopra e sotto il testo era adornata da cornicette.

Il libretto conteneva frasi di questo tipo:

  • La mia scuola si chiama “Casa dei Bambini”.
  • Nella “Casa dei Bambini” ci sono per noi tante seggioline e piccoli tavolini.
  • Ci sono pure graziose credenzine: ogni bambino ha il suo cassetto.
  • Piante verdi e mazzolini di fiori sono dappertutto nella nostra bella scuola.
  • Io mi fermo spesso a guardare i quadri appesi alle pareti.
  • Noi facciamo tutto: ci laviamo, mettiamo in ordine gli oggetti, puliamo i mobili, studiamo e impariamo le cose.
  • Sapete come abbiamo imparato a vestirci? Lavorando molto con le nostre dita sui telai per allacciare, slacciare, agganciare, sganciare, abbottonare, sbottonare, annodar, snodare.
  • I cubi della torretta sono dieci e sono di diversa grandezza: io li spargo prima su un tappeto e poi mi diverto a metterli uno sull’altro, scegliendo sempre il più grande.
  • La torretta serve anche a fare un bell’esercizio di equilibrio: si porta in giro per la sala senza farla comporre. Ma spesso non ci si riesce!
  • Anche le aste lunghe mi piacciono: si devono mettere vicino le aste in gradazione, badando a che i pezzi turchini stiano vicini ai pezzi turchini e i pezzi rossi vicini ai rossi. Così si forma una scala a strisce rosse e turchine.
  • Ma una vera scala io la formo con i prismi marrone. Questi prismi sono di grossezza diversa. Io li metto l’uno accanto all’altro, per ordine di grossezza: ed ecco una bella scala di dieci gradini.

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori – Comandi per la lettura interpretata

Le letture interpretate si fanno, come i primi esercizi di lettura, con dei cartellini. Il bambino sceglie un cartellino, lo legge mentalmente, e poi esegue l’azione indicata.
Di questi cartellini esistono varie serie, di complessità crescente: frasi con un’azione, frasi con due o più azioni, molte frasi, frasi con una o più subordinate, dialoghi e scene che richiedono la collaborazione di due o più bambini. I testi provengono per la maggior parte da opere letterarie.
Insieme ai cartellini dei comandi possiamo offrire un assortimento di semplici travestimenti: mantelli, cappelli, ecc…

Distribuiamo le carte del primo set ad un piccolo gruppo di bambini. Chiediamo a un bambino di leggere in silenzio e poi di eseguire l’azione, come se fosse un attore sul palcoscenico. Quando il bambino ha eseguito l’azione, gli altri bambini provano a indovinare cosa c’era scritto nel cartellino. Il bambino legge il cartellino, e si continua così per tutti gli altri cartellini.

I bambini eseguono le azioni indicate, ma non con freddezza: mettono una cura artistica nell’espressione del sentimento. Interpretano l’azione e la studiano, provando e riprovando, come per una rappresentazione teatrale, e cogliendo tutte le sfumature delle parole. Per esempio la frase ‘stava a capo chino’ non indica ‘piegò il capo’. Se il bambino ha compreso, resterà a capo chino, con un’espressione più o meno viva, a seconda del sentimento che deve esprimere.

Trovi tutte le sette serie qui:

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI – Comandi per la lettura interpretata – Serie 1

Comandi per la lettura interpretata – Serie 2

In questa serie abbiamo periodi di due proposizioni coordinate: i bambini eseguono due azioni consecutive, invece di una sola.

Comandi per la lettura interpretata – Serie 3

Nella terza serie di letture ci sono periodi con più proposizioni coordinate.

Comandi per la lettura interpretata – Serie 4

le letture consistono in periodi  di due proposizioni, una principale ed una subordinata.

Comandi per la lettura interpretata – Serie 5

In questa serie prevalgono periodi di più proposizioni subordinate e coordinate. La lettura contiene delle descrizioni più complesse, e l’interpretazione deve corrisponderle in ogni minimo particolare.

Comandi per la lettura interpretata – Serie 6

in queste letture c’è un’azione drammatica più difficile da interpretare. Spesso occorre pronunciare qualche frase.

Comandi per la lettura interpretata – Serie 7

Letture che richiedono l’interpretazione di due o più persone (scenette, dialoghi,…)

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI – Comandi per la lettura di poesie

I bambini non si limitano solo a riprodurre le scene, ma in un secondo tempo leggono ad alta voce tutti i brani che hanno rappresentato, con espressione. I bambini tendono a leggere e rileggere moltissime volte i brani, e ne imparano molti a memoria. Per questo possiamo mettere insieme alcune poesie, facendone un libretto. I bambini le leggono mentalmente e ad alta voce, o le imparano a memoria e le recitano.
Possiamo anche preparare dei cartellini di poesie.

La pratica della lettura secondo il metodo Montessori I COMANDI – Le audizioni

Dopo questo lavoro preparatorio con i cartellini dei comandi per la lettura interpretata, i bambini sono in grado di capire ciò che leggono. Hanno infatti superato tutte le difficoltà di comprensione dei periodi, legate alle loro costruzioni, conoscono il significato di moltissime parole, e nel frattempo hanno iniziato lo studio dell’analisi grammaticale. Questo lavoro si trasforma in una forza che porterà ad un movimento intenso e spontaneo.

Ad un certo punto, infatti, esploderà in classe la passione per la lettura. I bambini sentiranno il desiderio di leggere, leggere, leggere. I libri che riusciremo a raccogliere nella biblioteca di classe sembreranno sempre pochi e sarà necessaria qualche visita alle biblioteche pubbliche.

L’insegnante può dedicare del tempo alla lettura a voce alta per i bambini, ad esempio durante le ore di disegno.

Le letture fatte nella prima scuola Montessori sono state: le favole di Andersen, alcune novelle del Capuana, il Cuore di De Amicis, episodi della vita di Gesù, Fabiola, I promessi sposi, La capanna dello zio Tom, la storia del risorgimento italiano, L’educazione del selvaggio dell’Aveyron di Itard.

Il libro della storia del risorgimento non era di quelli che si credono adatti ai bambini, al contrario: era l’opera di Pasquale De Luca, I liberatori. Ciò che caratterizza questo libro sono i documenti del tempo riportati in fac simile e attestanti l’autenticità dei fatti. Ci sono brani di giornali dell’epoca, sentenze di morte, lettere autografate di Pio IX, di Garibaldi, alcuni documenti riprodotti (nota per la somministrazione di colpi di bastoni, stampe allegoriche affisse nei muri alla vigilia delle sommosse, dispacci telegrafici),  e poi medaglie commemorative, inni patriottici dei quali è riportata anche la musica, e ricche illustrazioni.

Questa lettura documentata era così appassionante che i bambini discorrevano animatamente su vari argomenti, giudicando e discutendo; erano indignati di un editto del re di Napoli che ingannava il popolo, fremevano delle ingiustizie e delle persecuzioni, si entusiasmavano degli eroismi, e infine si mettevano d’accordo in tre o quattro e rappresentavano degli episodi con grande drammaticità.

La lettura del libro del De Luca, fu una rivelazione per Maria Montessori, sia per quanto riguarda la lettura, sia per quanto riguarda l’insegnamento della storia. Capì che per insegnare la storia ai bambini, basta dare una verità vivente e documentata.

Un altro libro che fece grande impressione fu la lettura del Selvaggio dell’Aveyron di Itard. Tutti i particolari psicologici dei tentativi educativi, sembravano toccare l’anima dei bambini. Maria Montessori pensò di portare i bambini più grandi in una Casa dei Bambini, e di spiegare loro il metodo pedagogico. Si accorse di come i bambini più grandi erano in grado di seguire lo sviluppo infantile con una sensibilità a prima vista sorprendente. Riflettendo meglio, però, sappiamo che i migliori maestri dei bambini sono i bambini stessi.

Spesso abbiamo dei bambini un’idea fantastica, e li releghiamo ad una specie umana diversa dalla nostra, mentre invece sono i nostri figli, più puri di noi. L’amore, il bello, il vero, li affascina intensamente e rappresentano per loro delle vere necessità della vita.

Queste esperienze dimostrarono a Maria Montessori di aver trovato un metodo per insegnare ai bambini la storia e perfino la pedagogia, attraverso le letture, ma esistono letture di ogni genere, quindi si può insegnare la geografia attraverso i racconti di viaggio, le scienze naturali attraverso racconti sulla vita degli insetti, e così via.

L’insegnante, attraverso le letture che propone ai bambini, può farli entrare in vari campi del sapere. I bambini, così stimolati, potranno poi entrarvi liberamente, dando sfogo alla loro passione per la lettura.

Il bambino ama molto la lettura, e preferisce la lettura di storie vere. Molti studi dimostrano questo fatto.

Il linguaggio orale nella scuola primaria

Il linguaggio orale nella scuola primaria costituisce gran parte del lavoro. Come nella scuola d’infanzia, l’ambiente deve consentire ai bambini di condividere i propri pensieri e le proprie idee. Il linguaggio orale, a questo livello, svolge un grande compito: libera l’intelletto e consente la condivisione dei pensieri.

Sappiamo che, nella scuola d’infanzia, il bambino fa un grande lavoro sul linguaggio orale, per perfezionarlo sempre più come strumento dell’espressione di sé. Fatto questo, porterà questa esperienza nella scuola primaria.

Nella scuola primaria ci sono molte aree in cui il linguaggio orale, e non il linguaggio scritto, ha un ruolo fondamentale.

Quello che contraddistingue il linguaggio orale è che richiede la capacità di esprimersi chiaramente in tempo reale, sul momento, senza lunghi tempi di riflessioni, come avviene invece col linguaggio scritto. Prima di scrivere qualcosa, possiamo prenderci molto tempo per pensare alle parole che intendiamo usare, o dopo aver fatto la prima stesura, possiamo tornare indietro, rileggere, correggere, se ci accorgiamo che quello che abbiamo scritto non esprime esattamente ciò che volevamo dire. Col linguaggio orale questo non è possibile, e per questo possono insorgere malintesi, incomprensioni, confusione.

Secondo Maria Montessori l’aula scolastica deve somigliare più a un salotto che non agli ambienti scolastici cui siamo abituati, con file di banchi e sedie tutte uguali. L’aula non deve essere un ambiente di silenzio rotto soltanto dalla voce dell’adulto.

Non dobbiamo imporre un livello di silenzio che fa comodo solo a noi, ma dovremmo farci guidare dal buonsenso. I bambini imparano ad essere consapevoli del proprio tono di voce, e sapranno modularlo in modo che sia adeguato al lavoro in classe. Quando siamo riusciti a creare questo equilibrio, il parlare diventa parte integrante della vita di classe, e non un qualcosa che deve essere fermato.

Maria Montessori dice che il suono della classe dovrebbe essere simile al ronzio di un alveare.

L’aula è un luogo di relazioni, dove i bambini comunicano e interagiscono tra loro. I bambini non se ne stanno seduti in silenzio a ricevere piccole dosi di informazioni dall’adulto, non parlano solo col suo permesso o per rispondere ad una sua domanda.

La conversazione tra di loro e con l’insegnante è parte integrante del lavoro dei bambini. Se i bambini vogliono condividere qualcosa, devono avere sempre la possibilità di farlo, ma senza sentirsi costretto a farlo.

Il tono e il volume della voce devono essere controllati, ed a volte ci sarà bisogno di intervenire per portare consapevolezza. I bambini devono essere liberi di parlare in classe, ma ci devono essere dei limiti.  Uno dei compiti dell’insegnante è quello di garantire che il livello di rumore non diventi troppo forte, ad esempio suonando un campanellino, perché se vogliamo attirare l’attenzione dei bambini sul suono, dobbiamo usare un suono.

La conversazione amplia il vocabolario dei bambini, e migliora la loro capacità di esprimersi. Nella scuola primaria puntiamo ad un linguaggio che si basi sul mettere a fuoco le capacità di ragionamento logico, e che sia lo strumento per sviluppare un argomento in modo razionale, non colorato dall’emotività. Vogliamo aiutare i bambini nella loro capacità di esprimere un parere motivato. Naturalmente esprimere le proprie emozioni è importante, ma non a scapito della ragione: ci deve essere equilibrio tra questi due aspetti. I bambini devono sviluppare una modalità di comunicazione orale che permetta loro di comunicare con la società che li circonda, perché essi ne fanno parte, e ne faranno parte sempre di più man mano che crescono.

Oltre che del proprio lavoro, i bambini possono parlare anche di altre cose: hanno bisogno di lavorare, ma anche di riposare. Un momento particolarmente adatto alla conversazione libera è quello durante i pasti. I bambini dovrebbero apparecchiare, portare a tavola il loro cibo e scegliere di mangiare quando vogliono e con chi, quindi riordinare tutto per renderlo disponibile per un altro gruppo. Si tratta di una responsabilità che i bambini sono in grado di assumersi. L’ideale sarebbe che il pranzo fosse libero e gestito dai bambini stessi, senza l’intervento degli adulti. Basta dedicare un angolo della classe a questa funzione.

Durante la giornata, i bambini sono liberi di discutere il lavoro che stanno facendo, e guardare quello che stanno facendo gli altri: questo promuove l’apprendimento tra bambini.

Il linguaggio orale nella scuola primaria

Oltre alla pratica di parlare del proprio lavoro, in classe si tengono anche:

– DISCUSSIONI: le discussioni tra i bambini sono molto importanti, in tutte le aree di studio. Mentre si lavora in gruppo coi bambini, dobbiamo sempre incoraggiare la discussione, tenendo in considerazione le loro opinioni ed ascoltando ciò che ogni bambino ha da dire. Quando ascoltiamo con attenzione un bambino, lo stiamo incoraggiando. Quando abbiamo attenzione e rispetto nei confronti di chi sta parlando, insegniamo ai bambini a fare lo stesso. Ascoltiamo tutti i bambini che desiderano condividere il proprio punto di vista, e questo ascolto rispettoso incoraggerà la discussione.

Una discussione può nascere, ad esempio, dopo una presentazione. In questo caso i bambini esprimono i propri pensieri di ciò che stanno imparando, sviluppano idee, fanno collegamenti. Le discussioni stimolano i bambini ad esplorare nuovi aspetti dell’argomento. Facciamo in modo che i bambini imparino ad esprimere i motivi che li hanno portati ad una certa conclusione.

Discutere in gruppo insegna ai bambini ad esprimere se stessi senza sminuire il parere degli altri, a riconoscere opinioni diverse dalle loro, ad ascoltare con rispetto.

Anche la discussione con gli adulti è importante, ma dobbiamo fare in modo che non viga mai la regola che l’adulto ha sempre ragione: il nostro compito è quello di fungere da catalizzatori per tenere la mente del bambino sempre in movimento. Dobbiamo tenere accesa in lui la fiamma dell’interesse.

– ESPOSIZIONI orali di relazioni, che offrono una grande opportunità di confronto e condivisione delle idee. Un bambino può esporre un lavoro a nome proprio, o di un gruppo di lavoro cui ha partecipato. In questo caso possono avvicendarsi più bambini, ognuno dei quali può riferirne una parte: ad esempio un bambino spiega le illustrazioni, un altro parla dei libri consultati, ecc… In questo modo i bambini si preparano a parlare in pubblico. Le relazioni non dovrebbero avere solo forma scritta. Quando sono scritti possono essere scritti, illustrati, decorati, accompagnati da mappe o tabelle.

Se si tratta di un lavoro di gruppo, una volta ultimato, i bambini devono decidere come condividerlo con gli altri, e per far questo tengono una riunione per dividersi i compiti. A volte possono fare una presentazione a tutta la classe, altre volte possono invitare all’ascolto i bambini che lo desiderano.  Le relazioni possono essere scritti e poi lette a voce alta, mentre a volte le informazioni possono essere condivise solo oralmente. Queste esposizioni permettono ai bambini di ispirarsi a vicenda.

Questo lavoro, inoltre, è un processo complesso che richiede pensieri, discussioni, capacità di collaborare, esercizio pratico. Questo processo aiuta i bambini a cogliere la responsabilità che hanno nei confronti della società, responsabilità della quale il linguaggio fa parte. Quando aiutiamo i bambini a valutare se quello che hanno prodotto è degno di essere condiviso con gli altri o meno, li aiutiamo ad essere sempre più responsabili.

– DISCORSI: soprattutto tra i 9 ed i 12 anni, i bambini tengono discorsi. Questi discorsi vengono preparati molto bene, studiati, scritti, arricchiti da riflessioni personali. Il bambino sceglie un argomento di suo interesse e pertinente col lavoro che si sta svolgendo in classe. L’insegnante può fornire ai bambini copie di discorsi famosi. Mentre le relazioni sono frutto, in genere, di lavori di gruppo, i discorsi sono sempre lavori individuali. L’insegnante può dare indicazioni sulla postura corretta, il contatto visivo col pubblico altri elementi della retorica.

DIBATTITI: i dibattiti piacciono molto ai bambini. Spesso nascono dopo il discorso tenuto da un bambino, quando qualcuno ha una visione completamente diversa dell’argomento e vuole confrontarsi con l’oratore. Prima del dibattito è importante la ricerca delle informazioni di base: per essere un oratore efficace, bisogna conoscere vari punti di vista sull’argomento, e costruire un impianto logico solido. Bisogna essere chiari e convincenti. I dibattiti dovrebbero seguire regole precise, come la parità di tempo a disposizione di ognuno per l’esposizione, la confutazione e la chiusura.

LETTURE DI POESIE interpretate: è un’attività che non dovrebbe essere praticata prima dei 9 anni. A partire da questa età i bambini leggono, scrivono e memorizzano molte poesie. Se hanno fatto negli anni precedenti pratica con la forma poetica, anche i più piccoli possono partecipare come ascoltatori alle letture, e ne potranno godere. Le poesie, oltre che lette, possono essere recitate a memoria. Maria Montessori consiglia di non far leggere i bambini a voce alta troppo precocemente, perché è un’attività che richiede abilità complesse: coinvolge il movimento degli occhi, la comprensione attraverso la mente di ciò che l’occhio percepisce, la voce che deve riprodurre le parole mentre l’occhio deve muoversi in avanti. La lettura ad alta voce dovrebbe essere il punto di arrivo di un lungo processo di preparazione.

– DIALOGHI PARLATI, soprattutto dai 9 ai 12 anni. I bambini possono preparare dialoghi tra personaggi storici o letterari.  (Per la preparazione di questi dialoghi consulta le idee presentate nell’articolo sugli esercizi di scrittura in prosa). Possono assumere anche la forma di intervista.

– RECITE. I bambini si preparano alle loro recite a partire dalla lettura interpretativa di testi. Possono essere monologhi o lavori di gruppo. Da questi lavori interpretativi, scaturisce spontaneamente la scrittura di testi teatrali per i compagni. Se i bambini si riuniscono per allestire un testo teatrale che hanno scritto, hanno bisogno di discutere di molte cose: come si comportano i personaggi, come dovrebbe essere la loro voce, ecc… L’allestimento di una recita da parte dei bambini dovrebbe comprendere la scrittura e l’esecuzione; possono anche preparare da sé i costumi e la scenografia.

Il linguaggio orale nella scuola primaria

Schede per i primi esercizi di composizione poetica

Schede per i primi esercizi di composizione poetica scaricabili e stampabili gratuitamente in formato pdf. Gli esercizi comprendono: Lettura di poesie, poesia ripetitiva, poesia di elenchi, poesia di bugie, poesia con ritornello, poesia in rima,  allitterazioni, Haiku.

Schede per i primi esercizi di composizione poetica

Lettura di poesie

Quando presentiamo una poesia, offriamone una copia ad ogni bambino su fogli singoli. Leggiamo la poesia a voce alta ai bambini. Chiediamo poi ai bambini di unirsi a noi nella recitazione a voce alta: questa esperienza può essere ripetuta per più giorni consecutivi. In seguito facciamo leggere ai bambini la poesia all’unisono. Diamo poi ai bambini la loro copia, da inserire in un quaderno di poesie, copiare in bella grafia, illustrare ecc…

In questo modo possiamo proporre ai bambini diversi tipi di poesia, di modo che i bambini possano averne molti esempi e sviluppare sensibilità verso questo tipo di composizione, partendo dall’aspetto orale.

Trovi una vasta scelta di poesie qui: https://www.lapappadolce.net/category/italiano/poesie-e-filastrocche/

Schede per i primi esercizi di composizione poetica

Poesia ripetitiva

Materiale occorrente per la presentazione: lavagna cancellabile, gessi o pennarelli.

Riunite un gruppo di bambini, e dite che comporrete una poesia insieme. La poesia sarà ripetitiva: ogni linea dovrà iniziare con le stesse parole.

Ogni bambino contribuisce alla composizione con una linea. Scrivere le linee sulla lavagna in forma poetica.

Chiediamo poi ai bambini di leggere la poesia, facciamo tutti i cambi che desideriamo per creare l’ordine che preferiamo per la nostra composizione.

Quando i bambini sono soddisfatti, copiano la loro poesia sul quaderno delle poesie, o su un foglio in bella grafia. Se lo desiderano la possono illustrare.

In seguito possiamo mettere a disposizione dei bambini delle carte pronte da completare per comporre le loro poesie ripetitive, individualmente o in piccoli gruppi.

Schede per i primi esercizi di composizione poetica
Poesia di elenchi

L’esercizio si svolge come il precedente, ma invece di ripetere l’inizio per ogni verso, mettiamo il membro di una data lista, ad esempio nomi di fiori, di alberi, di mammiferi, di pianeti, ecc…

Schede per i primi esercizi di composizione poetica
Poesia di bugie

Diciamo ai bambini che il poeta vuole raccontare bugie divertenti, per allietare i suoi lettori, o per enfatizzare la realtà mostrandola rovesciata (ad esempio: la pioggia sale, il cielo è sempre giallo,ecc…)

Schede per i primi esercizi di composizione poetica
Poesia con ritornello

Diciamo ai bambini che comporremo una poesia in cui una certa frase si ripete a intervalli regolari. Discutiamo sul significato di ritornello, strofa, verso, ripetizione. Usando lo schema, i bambini si cimentano con le loro composizioni poetiche.

Schede per i primi esercizi di composizione poetica
Poesia in rima

Per la composizione di poesie in rima può essere utile mettere a disposizione dei bambini un rimario, ad esempio:

Esistono molti rimari anche online, volendo, ad esempio: http://www.rimario.net/

Introduciamo il libro e diciamo ai bambini che l’autore ha compilato liste di parole che terminano tutte con lo stesso suono. Leggiamo loro qualche pagina d’esempio, di modo che possano farsi l’idea di cosa siano le rime. Diciamo poi delle parole e chiediamo ai bambini di dirci delle rime. Quando i bambini hanno capito, possono dedicarsi alle loro composizioni. Possiamo fornire loro schede che suggeriscano dei soggetti, avendo cura di scegliere parole che rimano facilmente.

Schede per i primi esercizi di composizione in poesia
Allitterazioni

L’allitterazione è la ripetizione degli stessi suoni all’inizio o all’interno delle parole. Per introdurre l’argomento il testo migliore è l’Alfabetiere di Bruno Munari:

che presenta con allitterazioni le lettere dell’alfabeto una ad una. Introduciamo il libro, e diciamo che l’autore ha scritto allitterazioni per ogni lettera dell’alfabeto. Leggiamo le poesie ai bambini, di modo che si possano fare un’idea di cosa sia un’allitterazione.
(Un bel lavoro realizzato dai bambini con questo materiale si trova qui: https://arringo.wordpress.com/

Scriviamo alla lavagna una parola, ad esempio L Lucertola, e chiediamo ai bambini di dirci tutte le parole con L che vengono loro in mente, scriviamole alla lavagna. Sviluppare le parole in una o due frasi, quindi farle copiare ai bambini sui loro quaderni delle poesie, o su fogli da illustrare e decorare.

A questo punto i bambini possono comporre le loro allitterazioni. Possono consultare il dizionario e il dizionario dei sinonimi e dei contrari per cercare parole che iniziano con lo stesso suono.

Schede per i primi esercizi di composizione in poesia
Haiku

La poesia Haiku, nata in Giappone, è stata adottata dai poeti di tutto il mondo. L’italiano è particolarmente adatto agli Haiku, perché la quantità di sillabe presente in ogni parola è equivalente al giapponese, così che il volume di informazioni che si può includere in 5-7-5 sillabe è quasi uguale nelle due lingue.

Materiali: un libro di haiku, lavagna cancellabile e pennarelli, copie di un haiku per ogni bambino e matite.

Questa è una raccolta scritta per i bambini, ad esempio Un gatto nero in candeggina finì… 35 haiku per bambini di ogni età di Pino Pace:

Presentazione:

Riuniamo un gruppo di bambini e diciamo loro che leggeremo delle poesie scritte con uno schema che si chiama Haiku. Prima di iniziare a leggere, chiedere ai bambini di stare attenti, per vedere se riescono a capire di quale schema stiamo parlando.

Leggiamo qualche poesia, poi cominciamo a raccogliere le risposte dei bambini (diranno ad esempio che non ci sono rime, che parlano dalla natura o delle stagioni, ecc…)

Ora diamo ai bambini un Haiku e chiediamo loro di leggere la prima riga, battendo le mani per ogni sillaba. Alla fine della riga, chiediamo di scrivere il numero di sillabe contate. Facciamo lo stesso per tutte e tre le righe: le sillabe sono sempre 5 -7 – 5.

Altre caratteristiche dell’Haiku (informazioni per l’insegnante):

  • Sono ispirati da elementi naturali. Gli haiku contemporanei possono anche non avere per soggetto la natura, ma parlare di ambienti urbani, emozioni, relazioni e argomenti comici.
  • Un Haiku non ha mai titolo
  • Gli Haiku dovrebbero sempre contenere due idee sovrapposte. Le due parti sono grammaticalmente indipendenti, e sono di solito immagini separate. L’idea è creare un distacco tra le due parti per creare un paragone interno. Per questo nell’Haiku è obbligatorio l’inserimento di una pausa tra le due parti.
  • Gli Haiku sono concentrati su dettagli dell’ambiente che si legano alla condizione umana.
  • I poeti giapponesi usavano tradizionalmente l’haiku per catturare e cogliere l’essenza un’immagine naturale effimera, come una rana che salta in uno stagno, la pioggia che cade sulle foglie, o un fiore che si piega nel vento. Molte persone fanno passeggiate solo per trovare l’ispirazione per le loro poesie, definite in giapponese passeggiate ginkgo.
  • Un riferimento alla stagione o al passare della stagione, definito in giapponese “kigo”, è un altro elemento fondamentale. Il riferimento può essere diretto (nome della stagione) o indiretto (foglie che cadono, alberi che fioriscono). In Giappone esiste lo Saijiki, o Antologia delle Quattro Stagioni, che è un dizionario specializzato contenente un elenco completo di tutti i riferimenti stagionali.
  • Gli Haiku sono composti di dettagli osservati dai cinque sensi. Il poeta assiste a un evento e usa le parole per comprimere .Cosa hai notato riguardo al soggetto? Che colori, forme e contrasti hai osservato?Quali erano i suoni del soggetto? Qual era il tono e il volume dell’evento che è appena accaduto? Aveva un sapore o un odore? Come puoi descrivere in modo preciso la sensazione che hai provato?

Metodo (in breve) per comporre Haiku:

  • Leggi molti Haiku.
  • Tieni presenti le regole per la composizione di Haiku: 3 versi (5 – 7 – 5 sillabe; un riferimento stagionale, una pausa).
  • Fissa nella tua mente l’istante che ti ha colpito, la sensazione che hai provato, e descrivila cercando di ricrearlo a livello emotivo in tutti i particolari, senza descrizioni esteriori.
  • Elimina tutte le parole superflue: ti servono veramente tutti gli aggettivi e gli articoli che hai inserito?
  • Definisci la stagione in cui vuoi collocare la tua composizione: cioè inserisci il kigo.
  • Non inserire metafore.
  • Non inserire rime.
  • Cerca la tua pausa ed inseriscila.

Invitiamo i bambini a scrivere il loro primo Haiku, immaginando di essere un elemento della natura, ad esempio un pettirosso.

Schede per i primi esercizi di composizione in prosa

Schede per i primi esercizi di composizione in prosa scaricabili e stampabili gratuitamente in formato pdf. Le schede comprendono:

  • Gioco di gruppo di scrittura di un paragrafo
  • Questionario per valutare un testo
  • Osservo la mia scrittura
  • Schede per la scrittura di didascalie
  • Cartellini delle frasi da completare
  • Cartellini delle similitudini da completare
  • Schede questionario per la composizione di storie
  • Cartellini di idee per comporre storie
  • Scheda per scrivere dialoghi tra due persone
  • Cartellini di idee per scrivere dialoghi

Schede per i primi esercizi di composizione in prosa

Gioco di gruppo di scrittura di un paragrafo

Riuniamo un gruppo di bambini e spieghiamo loro che scriveremo un paragrafo insieme. Un paragrafo è un gruppo di frasi che sviluppano un’idea principale.

Scegliamo un argomento e scriviamolo nella casella del titolo. Poi chiediamo ai bambini di mettere insieme le loro idee sull’argomento, e riempiamo il primo schema.

A questo punto scegliamo cosa vogliamo usare come frase iniziale, cosa per ognuna delle tre frasi centrali, e cosa come frase finale, e riempiamo il secondo schema.

Infine scriviamo il nostro paragrafo.

Il processo di scrittura di un racconto consta di quattro fasi principali:

  1. Fase preparatoria: si generano le idee. E’ la fase dell’esplorazione delle proprie idee e dei propri sentimenti. Senza abusarne, possiamo preparare per i bambini degli incipit che i bambini devono poi completare.
  2. Composizione: è l’attuazione delle idee. I bambini hanno bisogno di tempo, e molti racconti non vanno oltre questa fase.
  3. Rilettura e correzione: durante questa fase il bambino toglie, aggiunge, cambia e corregge. Questa fase non si attua in genere prima degli 8 anni, e non è bene affrettare il processo.
  4. Pubblicazione: si rende pubblico il racconto. La pubblicazione può avvenire in vari formati: libro, libro illustrato, cartellone, rotolo, presentazione video, ecc…

Si possono organizzare delle riunioni tra l’insegnante e un bambino o un gruppo di bambini, per parlare insieme del loro lavoro. Queste riunioni sono parte integrante del processo di scrittura, se il bambino decide di pubblicare il suo scritto. Queste riunioni possono essere di quattro tipi:

  • Riunioni sul contenuto: hanno lo scopo di aiutare lo scrittore a fare chiarezza, discutendo su cosa è davvero importante nella storia.
  • Riunioni sul processo: hanno lo scopo di aiutare il bambino a porsi domande. L’insegnante chiede al bambino di spiegare i perché delle sue scelte; la riunione si conclude con la domanda: “Cosa dovrai fare dopo?”
  • Riunioni sulla redazione: queste riunioni si fanno quando il contenuto è già pronto e non ha bisogno di modifiche.
  • Riunioni di valutazione: queste riunioni hanno lo scopo di aiutare il bambino a comprendere cosa rende buono un testo scritto. I bambini imparano gradualmente a scegliere i propri lavori migliori per la pubblicazione.

Per la valutazione di un testo scritto, può essere di grande aiuto usare un questionario, come questo:

Schede per i primi esercizi di composizione in prosa

Osservo la mia scrittura

Questo secondo questionario può essere utile per tutti i tipi di testo, come strumento per l’autocorrezione:

Schede per i primi esercizi di composizione in prosa

Schede per la scrittura di didascalie

I bambini scrivono una didascalia in riferimento all’immagine che trovano sulla scheda. Al termine, chiediamo loro di condividere quello che hanno scritto con gli altri, di modo che tutti possano ascoltare anche ciò che hanno scritto i compagni.

Ho preparato una scheda bianca, su cui potete disegnare o incollare le immagini che vi sembrano più indicate per i vostri bambini, ed una serie si schede complete di immagini, pronte.

Schede per i primi esercizi di composizione in prosa

Cartellini delle frasi da completare

Il bambino sceglie una carta da copiare, e completa la frase. I bambini possono usare il dizionario, o chiedere a un amico di aiutarli con l’ortografia.

Schede per i primi esercizi di composizione in prosa

Cartellini delle similitudini da completare

Questo esercizio è indicato per bambini dopo i 9 anni. Il bambino sceglie un cartellino e completa la similitudine. E’ un esercizio molto utile anche come preparazione alla scrittura di poesie.

Schede per i primi esercizi di composizione in prosa

Schede questionario per la composizione di storie

Due bambini scelgono una scheda della serie, entrambi contribuiscono alla creazione della storia, a solo uno è lo “scriba”.

Schede per i primi esercizi di composizione in prosa

Cartellini di idee per comporre storie

Schede per i primi esercizi di composizione in prosa

Scheda per scrivere dialoghi tra due persone

Schede per i primi esercizi di composizione in prosa

Cartellini di idee per scrivere dialoghi

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