Recita per bambini – Gli alberi fioriti

Recita per bambini – Gli alberi fioriti : una piccola recita adatta a bambini della scuola d’infanzia e primaria sulla primavera.

Mandorlo: Che lungo sonno ho fatto!

Pesco: Anch’io ho dormito a lungo…

Melo: Ho sognato freddo e gelo. Mi pareva di dover morire…

Pesco: Non era un sogno. Nel dormiveglia ho udito il vento sibilare e la pioggia scrosciare.

Mandorlo: Un giorno, ho socchiuso un occhio e ho visto tutto bianco. Mi sembrava di essere fiorito.

Melo: Era la neve.

Mandorlo: Amici, non sentite questo verso?

Cuculo: Cu cu, cu cu, cu cu!

Melo: E’ il cuculo! Se è arrivato lui, è arrivata la primavera!

Pesco: Sentite che tepore?

Mandorlo: Vedete il sole com’è chiaro? Sembra lavato da poco.

Melo: Anche la pioggia è tiepida. Fa piacere riceverla.

Mandorlo: Io direi che è giunto il momento di fiorire…

Melo: E se poi tornasse qualche giornataccia di freddo?

Pesco: E se facesse ancora la brina?

Mandorlo: Come siete paurosi!

Pesco: Non siamo paurosi. Siamo prudenti.

Melo: Se la brina uccide i nostri fiori, addio frutti… addio mele!

Pesco: Addio pesche!

Cuculo: Cu cu, cu cu, cu cu!

Mandorlo: Lo so bene che è un pericolo, ma non udite il cuculo? Pare che ci inviti a fiorire!

Pesco: E’ vero. Anch’io sento il desiderio di salutare il sole con i miei fiori rosa.

Melo: Se fiorite voi, fiorirò anch’io.

Cuculo: Cu cu, cu cu, cu cu!

Mandorlo: Coraggio, fratelli. Le mie gemme si schiudono.  Aprite anche voi le corolle alla luce: uno, due, tre!

Pesco: Come sei bello, fratello mandorlo, tutto bianco! Voglio fiorire anch’io! Uno, due, tre!

Melo: Come sei bello, fratello pesco, tutto rosa! Voglio fiorire anch’io! Uno, due, tre!

Un bambino: Gli alberi sono fioriti! Sembrano nuvole leggere e profumate. Che bellezza!

(Batte le mani di felicità)

Assiro Babilonesi – materiale didattico vario

Assiro Babilonesi – materiale didattico vario – dettati ortografici, racconti, testi brevi, di autori vari, per la scuola primaria.

Gli Assiro Babilonesi

Gli Assiri e i Babilonesi abitavano una vasta regione dell’Asia che, essendo posta tra i fiumi Tigri ed Eufrate, venne chiamata Mesopotamia, cioè “terra in mezzo ai fiumi”.

Come il Nilo aveva reso possibile la nascita di una grande civiltà, così il Tigri e l’Eufrate, ricchissimi di acque, permisero agli Assiro – Babilonesi, rendendo fertile il luogo da essi abitato, di diventare molto potenti.

Essi avrebbero preferito dedicarsi al lavoro dei campi ma, essendosi insediati in una regione che i popoli dell’Asia percorrevano per giungere al Mediterraneo, furono costretti a combattere e divennero guerrieri famosi.

Ebbero due grandiose città: Ninive e Babilonia.

A Babilonia il re Nabucodonosor e la regina Semiramide avevano fatto costruire palazzi favolosi con i tetti muniti di giardini pensili.

Gli Assiro – Babilonesi adoravano il Sole, la Luna, ed avevano molte altre divinità; amavano l’arte, le scienze, la poesia, e furono valenti astronomi. Essi studiarono il movimento degli astri e suddivisero l’anno in dodici  mesi.

Per scrivere non usavano la pietra o il papiro, bensì mattoni di molle argilla che riempivano di fittissimi segni a forma di cuneo. La loro scrittura si disse perciò “cuneiforme”.

Tra il Tigri e l’Eufrate

Dalle montagne dell’Armenia, una ragione dell’Asia Minore, scendono due fiumi che sfociano nel Golfo Persico: il Tigri e l’Eufrate. La terra situata tra questi due fiumi è la Mesopotamia ed era abitata nei tempi antichi da due popoli che, pur essendo della stessa razza e della stessa religione, si odiavano ed erano sempre in lotta tra loro: gli Assiri e i Babilonesi. Dapprima furono i Babilonesi a dominare tutta la Mesopotamia. Essi fondarono un impero vastissimo che comprendeva altre regioni dell’Asia, elevarono numerose città e scavarono molti canali di irrigazione. Ma poi la situazione si capovolse: gli Assiri li vinsero e presero il loro posto. Dopo molti anni però, i Babilonesi vinsero di nuovo, e Babilonia, la loro capitale, divenne magnifica. Parlavano tutti di questa città, dei suoi splendidi, ricchi palazzi e dei suoi giardini pensili.

La terra tra i due fiumi

Anche la Mesopotamia, come l’Egitto, era una terra benedetta dalla presenza delle acque dei fiumi. Il Tigri e l’Eufrate, straripando periodicamente, depositavano il loro fertile limo sulle terre circostanti. Il territorio, senza la presenza benefica di questi fiumi, sarebbe stato un arido deserto.

Il popolo quindi traeva dall’agricoltura i mezzi necessari per la vita. Non crescevano alberi ad alto fusto e non c’erano nemmeno pietre da costruzione. C’era solo ricchezza di terra argillosa della quale gli abitanti si servivano per le loro costruzioni.

Il diritto di guerra

Guai a quei popoli che in guerra fossero stati vinti dagli Assiri! Questi assalivano le città nemiche, le assediavano con tanta violenza e tanto ardimento che queste erano costrette a cedere. I soldati procedevano all’assalto delle mura delle città, fra un nugolo di frecce lanciate dagli assediati. Ma gli Assiri, valendosi del loro numero e della loro forza, riuscivano a scalare le mura e a conquistare la città. E allora, guai ai vinti! I guerrieri presi con le armi alla mano e i principali cittadini erano messi a morte con supplizi di vario genere. Un incaricato registrava sopra una pergamena il numero delle teste recise durante la battaglia, e poi queste venivano ammonticchiate in un luogo determinato, le une sulle altre, a guisa di trofeo. Il guerriero più bravo era quello che aveva tagliato un maggior numero di teste. Dopo essersi sbarazzati dei nemici più pericolosi, gli Assiri depredavano e saccheggiavano la città, portando via tutto quello di prezioso che essa conteneva.

Guerrieri crudeli, ma gaudenti in pace

Gli Assiri erano assai bellicosi e crudeli in guerra: però, in tempo di pace, sapevano divertirsi e passar bene il loro tempo. Nella loro fastosa capitale Ninive, gli Assiri avevano palazzi anche più belli di quelli dei Babilonesi: con immense gradinate, e statue grandiose di re e di regine; bassorilievi, con scene di caccia e di guerra.

Vogliamo assistere ad un convito di Assiri? In una grande sala, in cui la luce di torce accese fa risaltare lo smalto azzurro delle pareti e i fregi dorati che le attraversano, vi sono parecchie piccole tavole. Ad ogni tavola sono seduti su scranni rotondi, senza spalliere nè braccioli, sei personaggi: tre per parte. Hanno lunghe barbe ben pettinate, capelli lunghi, ondulati, su cui posano corone di fiori e di nastri. Sulle tavole, coperte di tovaglia, sono disposte grandi porzioni di carne, focacce di farina bianca e frutta. I principi non sdegnano di prendere il cibo con le loro nobili mani… e si fermano solo per bere, nelle coppe dorate, il vino che le ancelle versano copiosamente, passando da una tavola all’altra. Bevono alzando il alto le coppe, e lanciando alte grida, mentre dai lati della sala giungono dolci suoni di musiche.

Il più antico tunnel del mondo

Avete sentito dire che le grandi città come Parigi, Londra, Roma e Milano hanno vie sotterranee, attraversate da ferrovie o da tram elettrici. Non c’è da meravigliarsi: i Babilonesi avevano anche loro una bellissima via sotterranea, scavata sotto il letto del fiume, la quale metteva in comunicazione i due palazzi reali, posti uno nalla parte orientale e uno nella parte occidentale della città. Così i Re e i principi di Babilonia potevano farsi visita senza bisogno di passare in mezzo alla folla variopinta, pettegola e, spesso maleolente, che stava in fazione sul ponte.

I giardini nell’aria

Ma c’era ancora un’altra via privilegiata, che metteva in comunicazione i palazzi reali, lungi dal contatto della folla: i giardini pensili. I giardini pensili di Babilonia, costruiti all’altezza dei tetti delle case, da una parte e dall’altra della strada, erano una delle meraviglie del mondo antico. Si dicevano costruiti dalla regina Semiramide, ma effettivamente furono anch’essi opera del gran re Nabucodonosor. Erano giardini meravigliosi per le piante rarissime che vi crescevano; dove i fiori splendidi mettevano le note più intense di colori e di profumi. Tra i rami, era tutto un gorgheggiare di uccelli rari; un susseguirsi rapido e buffo di scimmiette. Nei viali, passeggiavano donne ornate di gioielli, vestite con lunghe tuniche mirabilmente tessute e ricamate coi più vivaci colori. Nella notte, luci suggestive si accendevano tra i rami, accompagnate da suoni melodiosi di strumenti musicali. Da lontano, avresti detto che un paese fantastico, incantato, sorgesse a mezz’aria, tra il cielo e la terra. Invece i giardini pensili erano costruiti sopra solidi terrazzi sostenuti da grossi pilastri e da archi robusti, alti venticinque o ventisei metri. I terrazzi erano ricoperti da lastroni di pietra, lunghi circa cinque metri e larghi un metro; a questi era sovrapposto uno strato di canne con bitume; quindi un doppio suolo di mattoni cotti; e da ultimo larghe falde di piombo su cui posava la terra in quantità tale da permettere la coltivazione anche di piante di alto fusto. Al problema dell’irrigazione di questi giardini, provvedeva l’Eufrate. Apposite macchine sollevavano l’acqua dal fiume e permettevano così di annaffiare abbondantemente le magnifiche piantagioni. Nella parte sottostante, tra i piloni e le volte, vi erano appartamenti per le persone addette alla manutenzione dei giardini.

Gli scienziati dell’antichità

I Babilonesi furono gli scienziati dell’antichità; i sacerdoti della Caldea (una provincia mesopotamica) perfezionarono le invenzioni dei Sumeri, studiando il cielo ed i fenomeni celesti. I tre Re Magi che andarono a Betlemme per portare a Gesù bambino oro incenso e mirra erano appunto astronomi caldei e avevano avvistato la fulgente cometa dai loro osservatori. Questi osservatori si trovavano sulla sommità delle ziqqurat, le torri a piani che erano la più caratteristica costruzione mesopotamica; facevano parte del tempio, e i sacerdoti dicevano che gli dei vi abitavano quando scendevano in terra. Dall’ultima terrazza di queste alte torri multicolori, i Magi Caldei osservavano gli astri e studiavano i venti, l’addensarsi delle nubi, i lampi, le folgori. Furono così abili che, in quel tempo lontano, quando non c’erano nè cannocchiali nè telescopi nè altri strumenti, riuscirono a calcolare la distanza che corre tra alcune stelle!

Le credenze religiose

Le antiche divinità babilonesi hanno carattere naturalistico, cioè rispecchiano i grandi fenomeni della natura. Al sommo di esse era una triade, Anu, il dio del cielo, che divide il governo del mondo con Enlil, signore dell’aria e della terra, e con Ea, dio delle acque. Quando Babilonia divenne capitale di un vasto impero, il suo dio Marduk prevalse su tutte le altre divinità: era il Sole benefico, forza creatrice della natura. Gli Assiri, prevalendo politicamente, vi sostituirono il loro dio Assur, rappresentato con l’immagine di un Sole alato e concepito, a somiglianza di quelli che lo adoravano, guerriero, vendicativo e crudele.

Accanto al Sole i Babilonesi adoravano la Luna, i pianeti, le costellazioni dello Zodiaco perchè da essi sentivano dipendere la sorte degli uomini e delle cose. Il pianeta più nobile era quello di Venere, detta Istar, dea dell’amore e della fecondità.

Gli Assiro Babilonesi non ebbero sull’immortalità dell’anima e sul mondo dell’oltretomba  le chiare e consolanti credenze degli Egizi.  Immaginavano che i morti abitassero una sconsolata cavità sotterranea, perpetuamente immersa nelle tenebre. Oltre che agli dei, gli Assiro Babilonesi credevano anche nei demoni, spiriti malvagi, insidiatori dell’uomo: tutti i mali dai quali l’uomo è colpito, erano attribuiti a questi spiriti malvagi entrati nel corpo del paziente.

Usanze babilonesi

I Babilonesi vestono una tunica di lino lunga fino ai piedi, sopra di essa pongono una sopravveste di lana e una bianca clamide. Portano anche calzoni di forma strana e hanno cura dei capelli e si cospargono il corpo di profumati unguenti. Tutti gli uomini portano l’anello col sigillo e un bastone che mostra in cima una figura scolpita. Mangiano molti pesci seccati al sole; li stritolano col pestello nei mortai e ne fanno una specie di farinata, oppure li impastano e li cuociono come pane. (Erodoto)

Proverbi babilonesi

Se un uomo non esercita un lavoro non ottiene nulla nella vita.

Sorveglia la tua bocca: le parole dette in fretta si rinnegano altrettanto in fretta.

Dove si  profuma molto si maligna moltissimo.

Canali di irrigazione

Posta tra due fiumi, la Mesopotamia poteva essere ricca di prodotti agricoli solo se si scavavano e si mantenevano in efficienza i canali che irrigavano i terreni e che, nello stesso tempo, imbrigliavano le inondazioni. I canali erano progettati così bene che i moderni governi dell’Iraq (corrispondente all’antica Mesopotamia) hanno stabilito di ricostruirli con la tecnica moderna, ma seguendo la stessa rete. Hammurabi si preoccupò di realizzare lavori idraulici di vasta portata e ne fu tanto soddisfatto da cedere alla tentazione di lodarsi: “Io ho trasformato il deserto in terra fiorita; io ho procurato al paese fertilità e abbondanza; io ne ho fatto la patria del benessere!”.

Babilonia

Babilonia, la capitale dei Babilonesi, era una splendida città. Il re Nabucodonosor e la regina Semiramide l’avevano abbellita con palazzi rivestiti di mattonelle multicolori. Sui tetti avevano fatto costruire i celebri giardini pensili, ornati dei fiori più rari.

Babilonia sorse nel centro di una grande pianura ed era attraversata dal fiume Eufrate. Era una città a forma quadrata, i cui lati misuravano ventidue chilometri ciascuno. La città era difesa con una muraglia larga venticinque metri e alta cento. Nell’interno le vie erano parallele e perpendicolari tra loro.

Nel centro della città sorgevano i due edifici più belli: il tempio e la reggia. Il tempio aveva una torre di otto piani. Tra un piano e un altro vi erano sedili e stanze per il riposo. All’ultimo piano vi era una mensa d’oro massiccio per il sacrificio agli dei.

Non c’era la statua del dio, ma un divano sul quale si credeva che egli andasse a distendersi. Il tempio era dedicato al sole, alla luna e alle stelle, le divinità più  venerate.

La reggia si innalzava a forma di piramide con una serie di giardini pensili. Qui la corte conduceva la sua esistenza sfarzosa.

La scrittura cuneiforme

Anche gli Assiro Babilonesi conoscevano l’arte della scrittura. Essi non si servivano però del papiro, come gli Egiziani, ma di mattoni o tavolette di molle argilla, che venivano poi fatti cuocere al fuoco o seccare al sole.

In questo modo i segni, fatti con asticelle di metallo o di legno, non si cancellavano più. Moltissime tavolette di argilla sono pervenute fino a noi: tra le rovine di Ninive, antica città assira, è stata addirittura ritrovata la biblioteca si un re di questa città.

La scrittura degli Assiro Babilonesi si chiama cuneiforme perchè formata da segni triangolari simili a cunei.

Ferocia degli Assiri

“Io diedi l’assalto alla città e la espugnai; tremila dei suoi guerrieri passai per le armi e presi come bottino i loro beni; molti ne feci buttare tra le fiamme e moltissimi ne feci prigionieri; ad alcuni feci tagliare le mani e le dita, ad altri il naso e le orecchie; molti ordinai che fossero accecati. Feci con le teste e con gli arti tagliati due grandi mucchi… Poi feci distruggere la città, devastare tutto, incendiare tutto”.

Così racconta, attraverso un’antica iscrizione, il re degli Assiri Assurbanipal; e queste poche frasi ci danno in breve un ritratto del carattere di quel popolo: guerriero e crudele.

I primi studiosi di astronomia

Gli Assiri e i Babilonesi adoravano, come la maggior parte dei popoli antichi, molte divinità fra le quali il Sole, la Luna, le stelle.

Il culto del Sole e delle stelle fece sì che i sacerdoti intuissero molte delle leggi che regolano il moto celeste.

Seppero calcolare la distanza di alcuni pianeti dalla Terra. Inventarono la clessidra, introdussero la settimana, i cui giorni erano dedicati al Sole, alla Luna e a ciascuno dei pianeti allora conosciuti (cioè a Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno). Seppero prevedere le eclissi di sole e di luna, divisero il giorno e la notte in dodici parti uguali, ogni ora in sessanta minuti e il minuto in sessanta secondi.

Le scoperte dei mercanti assiro babilonesi

Comparvero, per la prima volta, in questo paese, le bilance, i pesi e il denaro. I mercanti babilonesi si recarono fin nelle terre più lontane a scambiare le loro merci con l’orzo che, in quei tempi, veniva accettato in pagamento da tutti. Ma era scomodo tornare in patria con del “denaro” tanto pesante sicchè essi, un bel giorno, stabilirono di sostituire l’orzo con l’argento. Dapprima pesavano l’argento all’atto del pagamento, poi pensarono di farlo fondere in piccole barrette sulle quali era inciso il peso. Questo fu il primo tipo di denaro usato dall’uomo.

Palazzi di mattoni

Nella Mesopotamia non vi erano cave di pietra dalle quali cavare il materiale per costruire i palazzi. Per questo motivo i palazzi dei re e i templi degli dei furono costruiti con mattoni di argilla cotti al sole e, solo più tardi, cotti nei forni. I mattoni sono meno resistenti della pietra e col passare del tempo la pioggia ed il sole li sbriciolano e li riducono in polvere. Infatti di quei palazzi poco si è salvato. Oggi, nella Mesopotamia, si incontrano qua e là delle collinette di terra a forma di panettone. Queste collinette sono quanto resta degli antichi palazzi e templi ridotti in polvere dal tempo.

La statua d’oro di Nabucodonosor

Venne da Babilonia un re superbo e ricco, chiamato Nabucodonosor, per combattere contro Gerusalemme. Aveva molti soldati. Questi si accamparono attorno alla città; poi vi entrarono, demolirono le mura, bruciarono molti palazzi e il bel tempio di Salomone: presero tutti gli arredi d’oro che vi erano e li portarono in Babilonia.

Nabucodonosor prese pure il re che era a Gerusalemme e lo tenne prigioniero finchè visse: uccise molti ebrei, e molti altri fece schiavi in Babilonia.

Sedevano gli Ebrei presso i fiumi di Babilonia e piangevano. Non vollero più cantare i loro salmi come erano soliti fare ed appesero le loro arpe ai salici, sulle rive dei fiumi.

Nabucodonosor fece una statua d’oro fuori della città e mandò a chiamare tutti i giudici, i capitani del regno e un gran numero di ricchi perchè venissero a vederla. Nabucodonosor, che aveva nominato giudici tre giovani ebrei, li volle alla festa dell’inaugurazione. Giunti che furono tutti, capitani, giudici e ricchi, stettero intorno alla statua, ed un uomo gridò ad alta voce: – O voi tutti quando udirete il suono della musica, gettatevi a terra e adorate la statua d’oro. Chiunque non si getterà in terra e non la adorerà, sarà immediatamente gettato in una fornace ardente! –

Poco dopo suonò la musica, ed il popolo si gettò in terra e adorò la statua. Ma i tre giovani non obbedirono  all’ordine del re. Nabucodonosor, fattili condurre alla sua presenza, disse loro: – Per la vostra disobbedienza dovrete essere puniti; qual è quel Dio che potrà liberarvi dalle mie mani? –

Quei giovani risposero: – O Nabucodonosor, il nostro Dio saprà liberarci dalla fornace ardente, e ci libererà anche dalle tue mani, o re. Ma noi non adoreremo i tuoi dei, nè la statua d’oro che hai innalzato –

Allora Nabucodonosor ordinò ai suoi servitori di gettare quei tre giovani nella fornace. Furono legati perchè non potessero muoversi; e così vestiti ed avvinghiati furono precipitati tra le fiamme, le quali divamparono tutto intorno in modo che rimasero presi ed inceneriti anche i soldati.

Nabucodonosor, che stava presso la fornace e voleva veder bruciare quei giovani, li vide invece camminare in mezzo al fuoco accompagnati da un giovane bellissimo: un angelo di Dio.

Il re capì allora che vi era un Dio che poteva liberare i suoi servitori dalle fiamme e ordinò che non si impedisse ai tre giovani di onorare il loro Dio.

Assiro Babilonesi – materiale didattico vario. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Leggenda polacca L’USIGNOLO E LA CORNACCHIA

Leggenda polacca L’USIGNOLO E LA CORNACCHIA

Wesna, dea della Primavera,  aveva un terribile nemico: il gigante Kuskaia. Forte, violentissimo e implacabile, da anni, da lustri, da secoli Kuskaia perseguitava la dea leggiadra e gentile, la signora dei campi verdi e delle foreste gioconde. Wesna cercava di sottrarsi al suo odio irragionevole, nascondendosi nelle caverne, distendendosi tra gli arbusti di ginepro, sul muschio folto e morbido delle selve. Ma doveva, povera dea perseguitata, vegliare di continuo, ascoltare attentissima i rumori più lievi, essere pronta, di continuo, alla fuga. Perciò, meschinella, aveva sempre sonno e le sue palpebre, qualche volta, pesavano più del piombo.

Ma una notte di giugno, assai dolce, una notte carica di profumo e di tiepido silenzio, la Dea capì di non poter vincere la stanchezza.

Pregò allora una cornacchia e un usignolo di vegliare per lei, e se si fosse presentato un pericolo, di avvertirla col loro cinguettio. In quell’epoca lontana lontana nel tempo, gli uccelli, tutti gli uccelli, avevano su per giù voce identica.

L’usignolo e la cornacchia accettarono l’incarico con entusiasmo. L’usignolo andò a mettersi in vedetta sulla cima di un larice, la cornacchia si cercò come osservatorio un abete alto e solenne.

Wesna si sdraiò sul muschio morbido e si addormentò subito:  si addormentò di un sonno sodo, di un sonno di pietra. Anche la cornacchia, che era grassottella e placida e aveva fatto una lauta cena, dimenticò la dea gentile, dimenticò il suo compito e scivolò spensieratamente, beatamente, nel mondo lieve dei sogni.

Quando Kuskaia, il perfido e terribile Kuskaia, giunse, ghignando, nella foresta silenziosa, fu solo l’usignoletto che, dall’alto del larice, vide la sua ombra gigantesca, fu solo l’usignoletto che, sgolandosi come gli fu possibile, avvertì la dea del grave pericolo e le diede modo di fuggire, di salvarsi.

Wesna volle poi premiare il fedelissimo amico e castigare la cornacchia pigra. Donò al primo una splendida voce, una voce che raccoglie in sè tutti i suoni e le musicali dolcezze della primavera trionfante, e all’altra una voce gutturale, aspra, antipatica.

Disse all’usignolo: – Il mondo ascolterà commosso le tue delicatissime canzoni, ti amerà, ti loderà –

Disse alla cornacchia: – Tu non avrai che disprezzo e beffe. Nessuno vorrà udirti, nessuno cercherà la tua compagnia.-

Leggenda polacca L’USIGNOLO E LA CORNACCHIA Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconto LE PIUME DEL CORVO

Racconto LE PIUME DEL CORVO per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Nel tempo dei tempi, il corvo aveva le penne bianche. Avvenne che un giorno esso propose alla cicogna una gara per vedere chi dei due avrebbe volato più alto. La cicogna accettò ed entrambi si slanciarono nell’aria. Il corvo con volo impetuoso salì altissimo e giunse così vicino al sole che le sue piume bruciarono e diventarono tutte nere. Spaventata, la cicogna presto presto ridiscese e preferì perdere la gara piuttosto che annerire.

Perciò da quel giorno il corvo ha le piume nere, mentre la cicogna è rimasta bianca.

Racconto LE PIUME DEL CORVO Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconto LA LUNA E LA GRU

Racconto LA LUNA E LA GRU

I Pellirosse raccontano che nel tempo dei tempi, prima ancora che ci fossero uomini sulla terra, gli animali erano più grandi, più forti e più saggi di quanto sono ora. Potevano servirsi delle loro zampe come gli uomini si servono delle loro mani e compiere molte cose che neppure gli uomini ora possono compiere. In quei giorni lontani, i rami, i bastoni e le pietre erano pure vive.

Quando un animale tentava di raccattare dal suolo un bastoncino, un ramoscello caduto, questo si ribellava e picchiava la povera bestia finchè essa non lo mollava. Così, se un animale tentava di raccogliere una pietra, la pietra si metteva a colpirlo finchè esso non la lasciava nuovamente cadere al suolo. Perciò gli animali non potevano fabbricarsi nè frecce nè archi; perchè le pietre e i bastoni non volevano essere foggiati in tal guisa.

La Luna era molto spiacente per gli animali e tentò di aiutarli. Una notte che ella filtrava i suoi raggi attraverso il fogliame di una foresta, vide una gru che picchiava col capo contro il ramo di un albero.

– Che stai facendo? – chiese la Luna.

– Sto cercando di spezzare questo ramo per farne una canna da pesca – rispose la gru, – vorrei pescare qualche pesce nel fiume, per cena… –

– Perchè non spezzi il ramo con una grossa pietra? –

– Ho provato, ma la pietra non voleva, si è messa a colpirmi sul dorso, mi ha fatto male e non mi ha lasciato proseguire… –

– Prova ancora, – consigliò la Luna.

La gru obbedì, ma di nuovo la pietra si ribellò e la picchiò finchè l’uccello non fu costretto a fuggire.

– Non scappare – le gridò la Luna – torna indietro e ti aiuterò io! –

La gru obbedì e la Luna raccolse la pietra nelle sue lunghe mani d’argento, la sollevò e poi la gettò nuovamente a terra.

– Pietra – le disse – ora starai lì e non farai più male a nessuno. Non ti muoverai più finchè qualcuno non ti muoverà. E così avverrà per tutte le altre pietre tue simili. Dovete imparare a rimanere tranquille. E ora – continuò rivolgendosi alla gru – raccatta la pietra e spacca il ramo con essa -.

La gru obbedì e spezzò il ramo. E la pietra non le fece alcun male e non potè più ribellarsi. Era una pietra e nulla più.

– Questo ramo è troppo corto – fece la gru – sarebbe molto meglio che io avessi una di quelle canne laggiù, per pescare, ma ho paura che mi picchi, se tento di prenderla… –

Allora la Luna prese una canna nelle sue lunghe mani d’argento, la sollevò e poi la gettò nuovamente in terra. – Canna – le disse, – ora starai lì ferma e non farai più male a nessuno. Non ti muoverai più finchè qualcuno non ti muoverà. E così avverrà per tutte  le canne, i rami e i bastoni. Dovete imparare a rimanere tranquilli. E ora – continuò volgendosi alla gru – vieni qui da me. Tu hai bisogno di procurarti del pesce per nutrimento, e io voglio che tu possa procurartelo più facilmente.-

Così dicendo, toccò con le sue mani d’argento il becco della gru e il becco si allungò per incanto.

– Ecco, ora hai un bel becco per pescare i pesci: sarà molto meglio che una canna!-

Poi toccò ancora le zampe della gru e anch’esse per incanto si allungarono.

– Ecco, ora puoi entrare nell’acqua comodamente per pescare!-

La gru ci si provò subito: entrò nell’acqua con le lunghe zampe e si mise a pescare col suo lungo becco. Era comodissimo!

E da quel giorno la gru è diventata una magnifica pescatrice.

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Racconto LA GRU E I PESCI

Racconto LA GRU E  I PESCI

Una volta, in India, vi fu un’estate caldissima. In una foresta vi erano due stagni, uno grande e l’altro piccolo; nel piccolo vivevano numerosissimi pesci e sul grande sbocciavano innumerevoli fiori di loto. Con la calura il piccolo stagno rimase quasi a secco; mentre le acque dello stagno grande, che i loti con le loro foglie proteggevano dal sole, restavano abbondanti e fresche.

Una gru venne a passare fra i due stagni, vide i pesci e si soffermò a meditare, ritta su una zampa sola. “Quei pesci” pensava, “sarebbero per me dei bocconcini prelibati. Se li assalissi bruscamente, sono agili e mi sfuggirebbero… sarà meglio che giochi d’astuzia…”

In quella un pesciolino mise il muso fuor d’acqua e chiese alla gru: – Che cosa stai meditando, venerabile uccello? –

– Medito sulla tristezza della tua sorte e di quella dei tuoi fratelli –

– Che vuoi mai dire? –

– Voi soffrite nelle acque troppo basse, infelici! E di giorno in giorno il caldo aumenta, e se lo stagno rimane a secco, che farete mai? Dovrete perire tutti miseramente, poveri pesciolini! Ah, davvero che il cuore mi si serra, se ci penso… –

Il pesciolino e i suoi fratelli si sentirono assai turbati dalle parole della gru e le chiesero con angoscia: – Venerabile uccello, non conosceresti un mezzo per salvarci? –

La gru finse di meditare ancora, poi disse: – Credo di aver trovato un rimedio alla vostra misera sorte -. I pesci la ascoltavano avidamente. – Qui vicino c’è uno stagno meraviglioso, assai più grande di quello in cui vivete, tutto coperto di loti, che difendono le sue acque dalla vampa del sole. Se volete, vi prenderò a uno a uno nel becco e vi porterò fino alle onde del grande stagno, così sarete salvi -.

In quel momento si udì un risolino scettico; era un gambero, che disse: – Mi meraviglio assai! Da che mondo è mondo non ho mai saputo che una gru si interessi ai pesci, se non per mangiarli…-

La gru prese un’aria contrita e protestò: – Come, cattivo gambero, tu sospetti che io voglia ingannare dei poveri pesciolini minacciati da una morte crudele? Solo il desiderio della vostra salvezza mi ispira, è solo per il vostro bene che parlo. Ma se non ci credete, mettete alla prova la mia buona fede; scegliete uno di voi perchè lo porti nel becco fino allo stagno dei loti. Esso lo vedrà, poi io lo riprenderò  e lo riporterò qui. Ed il vostro compagno vi dirà che cosa bisogna pensare di me”.

I pesci accettarono e fu designato un vecchio pesce molto saggio;  la gru lo portò nel becco allo stagno dei loti, ve lo lasciò nuotare nell’acqua fresca a suo piacimento e poi lo riportò al piccolo stagno. Il vecchio pesce, entusiasta, non ebbe difficoltà a persuadere i suoi fratelli a lasciarsi trasportare dalla gru.

Ahimè, quale follia! Uno dopo l’altro la gru fece finta di trasportarli e invece se li pappò tutti.  Rimase solo il gambero, che si sentiva tutt’altro che tranquillo sulla sorte dei pesci e pensava: “Temo che la gru se li sia mangiati tutti. Se quello che temo è vero, li vendicherò”.

– E’ la tua volta –  gli disse la gru con aria innocente. – Vuoi che ti trasporti nello stagno dei loti? –

– Volentieri –  rispose il gambero – Ma come mi trasporterai? –

– Nel becco, come ho fatto per gli altri –

– No no, il mio guscio liscio mi farebbe scivolar giù facilmente dal tuo becco. Lascia invece che mi aggrappi al tuo collo con le branche: starò attento a non farti male -.

La gru acconsentì. Giunta a mezza strada, però, si arrestò sotto un albero.

– Che cosa fai? – le domandò il gambero – Sei stanca che ti fermi a metà cammino? –

La gru, imbarazzata, non sapeva che dire.

– Che cosa vedo mai? – continuò il gambero – Che cos’è quel mucchio di lische ai piedi di questo albero? Ah, traditrice, ti sei preso gioco dei pesci, eh? Ma io non morirò senza prima averti uccisa…-

E il gambero stringeva il collo della gru fra le branche, senza pietà.

– Caro gambero, non farmi male… – supplicava la gru, con le lacrime agli occhi per la sofferenza – Ti porterò nello stagno, stai tranquillo… –

– Avanti, allora! – ordinò il gambero.

La gru andò fino allo stagno e tese il collo  sull’acqua in modo che il gambero non aveva che da lasciarsi scivolare giù. Ma esso era risoluto a vendicare i pesci e prima di abbandonare la presa tagliò netto il collo della perfida gru.

Racconto LA GRU E  I PESCI Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

IL MARE poesie e filastrocche

IL MARE poesie e filastrocche di autori vari per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

L’onda
Scherzosa, spumosa, gioconda,
tu mormori e corri, lieve onda,
con mille e poi mille sorelle,
che danzano e ridon fra loro
nel bacio del bel sole d’oro
e sotto la luna e le stelle.
Tu fai dondolare la candida
e fragile vela per gioco,
la culli col canto tuo fioco,
pian piano,
e intanto la porti lontano,
lontano.
Eppoi ti trastulli felice
coi bimbi: li spruzzi, li arruffi
se fra le tue braccia si tuffano;
con loro discorri. Che dice
la voce tua blanda e ridente
in note sì chiare?
I bimbi l’intendono:
la viva lor gioia lo sente
che sei come loro gioconda,
scherzosa, serena, live onda
del mare. (Gentucca)

I giardini del mare
Chi li ha visti i giardini del mare
dove ogni cosa un gioiello pare?
In una luce di seta verdina
un popolo cammina
assorto, silenzioso,
ospite d’un mondo prezioso.
C’è un prato d’alghe: lentamente oscilla;
rupe muscosa scintilla:
fra i rami di corolla
guizzano pesci vestiti di giallo,
sogliole d’argento…
E le seppie dal passo sonnolento
vanno con le lamprede
in cerca di facili prede;
dagli antri dove dormon le sirene
escon le murene
e la medusa che danzando sciacqua
la veste color d’acqua…
Nella luce di seta verdina
così un popolo vive e cammina:
assorto, silenzioso,
ospite d’un mondo prezioso.
Più in fondo è il regno del nero
e vi alberga il mistero. (Mario Pucci)

IL MARE poesie e filastrocche Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

LA COLLINA materiale didattico vario

LA COLLINA materiale didattico vario – dettati ortografici, racconti, testi brevi, di autori vari, per la scuola primaria.

La collina

Le montagne, di solito, non si elevano a picco dalla pianura, ma sono precedute da modeste alture, le colline, dalle cime tondeggianti e dai dolci declivi. Esse non superano i 600 metri sopra il livello del mare; quando si elevano oltre i 600 e gli 800 metri si chiamano colli.

La strada che porta in collina sale con larghi tornanti tra ulivi e vigneti; lungo le strisce di terra pianeggiante che i contadini hanno ricavato dopo lungo e faticoso lavoro, e sui fianchi soleggiati e asciutti, sono coltivati gli ortaggi, gli alberi da frutta, il granoturco.

Fitti boschi di castagni e di noci coprono generalmente il versante non soleggiato, umido e ombroso, rotto qua e là da profondi burroni scavati dall’acqua piovana.

Le piogge che scorrono sui fianchi delle colline smuovono il terreno causando frane e burroni. L’uomo per impedire ciò costruisce muretti ed opere di sostegno.

E’ difficile irrigare le coltivazioni in collina perchè l’acqua scorre nel piano o  in profondità. L’uomo perciò costruisce serbatoi e condotti.

Sulle colline, oggi, si fabbricano di preferenza case e villette nelle quali l’uomo ritrova la quiete e l’aria pura, ormai scomparse nelle grandi città.

Quadretto

Sulla cima del colle, tra boschetti di lauri, la casa sorge splendente nel rosso tramonto. Dietro ha il monte ripido; e sul monte una fila di cipressi gracili e austeri dentellano del loro verde cupo l’orizzonte. Più dietro è una torre o un castello. Il sole calante batte nelle vetrate del piano superiore della casa che paiono incendiarsi come il riflesso di uno scudo incantato. (G. Carducci)

Origine delle colline

Ci sono colline nate dall’accumularsi di materiale strappato alle montagne, ma ve ne sono anche di sorte come per incanto dalla terra, sotto forma di vulcani.

Naturalmente Questo è accaduto molti millenni or sono. I vulcani poi si sono spenti, e il loro cratere si è adagio adagio riempito di terra.

Oggi è difficile distinguere le une dalle altre.

 I doni delle colline

Le colline sono generose nel ripagare le fatiche degli agricoltori. I pendii esposti al sole producono, come in pianura, cereali di ottima qualità, e poi ortaggi, agrumi, fiori.

A primavera la collina sembra un paesaggio di sogno, avvolta com’è dalla fioritura rosea e bianca dei suoi frutteti, che daranno poi ciliegie dal delizioso sapore, pesche vellutate, pere, mele, albicocche, e tanti altri frutti. Molti sono anche i vigneti, dalle basse viti a spalliera, che donano uva dolce, e gli oliveti dagli alberi centenari.

Sui pendii poco soleggiati crescono boschi di querce, di castagni e di noccioli. In questi boschi si raccolgono fragole dolcissime e funghi mangerecci, mughetti e narcisi dall’acuto profumo.

L’oliveto

Anche l’oliveto ha bisogno di sole. La terra, intorno agli olivi, è piuttosto arida. Il raccolto delle olive si fa ogni anno, ma è abbondante solo ogni due anni. In autunno, in alcuni paesi, si  lascia che le olive, nere e mature, cadano a terra da sè e poi si raccolgono dal suolo. In altri paesi, invece, si fanno cadere dai rami scuotendoli con lunghe pertiche.

Il castagneto

Ogni anno, in autunno, il castagneto viene invaso dai bacchiatori che portano scale e lunghe pertiche. I castagni, che sono vecchi anche di centinaia di anni, sopportano tutto con la pazienza dei nonni. Forse sanno di far felici soprattutto i bambini allorchè le castagne, tolte dai ricci spinosi, saranno lessate o arrostite.

La cisterna

L’acqua piovana in collina è preziosa e viene conservata. Dalla grondaia è avviata, per mezzo di docce, nella cisterna. Naturalmente l’acqua della cisterna non è potabile. Serve per abbeverare gli animali, oppure, dopo un’accurata bollitura, per le necessità di cucina. L’acqua potabile invece si ricava dai pozzi.

Il terrazzamento

Una volta i colli che oggi vediamo ricchi di ville e di paesi, di campi e di vigne, erano incolti. Le acque piovane corrodevano il terreno, che in molte zone diveniva brullo e coperto di pietrame.

Per coltivare in collina, l’uomo dovette diboscare o levare a una a una le pietre che coprivano il terreno. Con queste costruì dei muri a secco, cioè senza cementare le pietre con la malta, per permettere alla pioggia di scorrere via tra una pietra e l’altra. Poi riempì lo spazio tra il muro e la china del colle con terra buona, che portò su dal piano con gerle, cesti e canestri. Alla fine il contadino seminò erbe e piantò viti ed olivi; così le piante, con le loro radici, trattennero la terra.

Ancora oggi i muretti devono essere sorvegliati, perchè possono cedere in qualche punto sotto l’azione di una pioggia a dirotto o per un’improvvisa frana del terreno sottostante. In questi casi il contadino, con paziente lavoro, deve rafforzare e riassettare i muretti nei punti pericolanti.

Sistemazione dei pendii collinari

Il terrazzamento consente di coltivare anche i  pendii molto ripidi. Consiste nel trasformare il pendio collinare in ripiani orizzontali, sostenuti da muretti.

Il girapoggio è una sistemazione del terreno adatta alle colline pendenti uniformemente. Consiste nello scavo di fosse orizzontali intorno alla collina per impedire alle acque di scorrere da cima a fondo.

La spina è una sistemazione del terreno che consente di ottenere apprezzamenti di una certa regolarità. Consiste nello scavare sul pendio collinare dei canaletti disposti a spina di pesce.

Colline italiane

In Italia, vi sono territori assai estesi occupati completamente da colline. E su queste colline prosperano vigneti e oliveti. Le colline italiane più note sono quelle del Monferrato e delle Langhe, in Piemonte, le colline della Toscana, del Veneto e del Lazio.

Su alcune colline si vedono i resti dei castelli medioevali e, qua e là, borgate e paesini, tutti stretti attorno alla lor chiesa. Ci sono anche delle città che si stendono sulla collina, occupando la sommità e buona parte dei declivi.

La casa in collina

Non sempre si vive bene in pianura. Anzi, specie nei tempi antichi, quando i fiumi, non ben arginati, allagavano spesso il piano trasformandolo in palude, gli uomini preferivano costruire le loro abitazioni sulle alture. Quando poi si voleva erigere un castello, si sceglieva la cima di un colle; in tal modo era possibile vigilare per un buon tratto i dintorni, evitando così le sgradevoli sorprese di un attacco nemico. Attorno al castello, in seguito, sorgevano le case dei contadini, la chiesa e il piccolo cimitero. Così son nati quasi tutti i paesi collinari d’Italia.

Altre ragioni hanno spinto l’uomo a costruire la propria casa in collina: ad esempio, la vicinanza dei terreni da coltivare permette all’agricoltore un notevole risparmio di tempo e di fatica. In mezzo agli uliveti ed ai vigneti, alla sommità di una serie di terrazze, c’è la fattoria, non molto dissimile da quella di pianura: spesso ha il frantoio per l’olio; sempre le capaci cantine odoranti di mosto. Presso ogni cascinale c’è un profondo pozzo dal quale si estrae l’acqua necessaria ad irrigare i campi e ad abbeverare il bestiame.

Il turismo

Molti sono i villeggianti che vanno a trascorrere l’estate sulle colline fresche di ombre, e molti soggiornano, in tutte le stagioni, nei pressi delle zone collinose presso il mare o i laghi, perchè il clima è costantemente mite. Assai sviluppata è quindi l’industria alberghiera, che dà lavoro a molti abitanti del luogo.

La collina

Sui campi bassi del frumento si allineano i gelsi e innalzano vaghe cupole verdi; pinete pervase dal sole qua e là segnano la linea dei colli; gli oliveti salgono le pendici col fluttuare del loro bigio argenteo. Ma su tutto dominano le vigne, tappeti alti, chiari a primavera e cupi nell’estate, tesi giù per il dorso delle colline, a coprire la dura, smorta argilla, e a preparare la festa del vino. Bianchi e lieti fra tanta ricchezza, si scoprono i paesi… (G. Fanciulli)

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Recita per bambini ARTIGIANI DEL COMUNE

Recita per bambini ARTIGIANI DEL COMUNE – Queste due scene vogliono spiegare l’importanza delle Corporazioni, specie di organizzazioni sindacali, linfa vitale dei liberi Comuni. Siamo a Firenze, dentro una delle tante botteghe dove si fabbricano tessuti di lana.

Scena I

Personaggi:
Messer Currado, maestro d’Arte
Una bambina

Messer Currado è vicino all’ingresso della bottega, quando arriva una bambina.

bambina: Messer Currado! Mi manda mia madre per dirvi…

Messer Currado: Ah, cara bambina, come è andata quella faccenda?

bambina: Male, messere. Se non ci aiutate voi, saranno guai. Il proprietario della casa vuole espellere dalle sue abitazioni tutte le filatrici, perchè dice che vuol trasformare le sue case a modo proprio…

Messer Currado: Dovrà mettersi contro la nostra Arte! Stai certa che non ce la farà: dì a tua madre di lavorare tranquilla, perchè nel Comune la nostra Arte ha grande importanza e stasera lo farà sapere ai Priori stessi Parola di Messer Currado!

Scena II

Personaggi:
Guido, piccolo apprendista artigiano
Antoniotto, piccolo operaio laniero

Guido: dimmi, Antoniotto, tu che da quattro mesi non sei più apprendista da me…

Antoniotto: Da cinque mesi, vorrai dire. Son cinque mesi che sono un operaio della lana! Ci tengo. Ora anch’io guadagno!

Guido: Vorrei sapere, Antoniotto, che cosa significano le parole che si sono dette il nostro Maestro e quella bambina

Antoniotto: Mi sembrano chiare

Guido: A me no

Antoniotto: La madre di quella bambina è una filatrice di lana e lavora in casa con altre filatrici. Il proprietario le vuole scacciare, benchè esse paghino la pigione puntualmente

Guido: E messer Currado che c’entra?

Antoniotto: Si sente che sei un apprendista ai primi passi! Già, si vede dall’aspetto che non sei maturo: hai undici anni e ne dimostri dieci

Guido (contrariato): Non ne ho colpa io!

Antoniotto: Via, non te ne avere a male! Ora ti spiego. Del resto messer Currado dice che noi dobbiamo insegnare a quelli più piccoli…

Guido: Allora?

Antoniotto: Tutti coloro che lavorano con uno stesso scopo formano un’associazione, cioè una corporazione, che difende i loro interessi. Per esempio, tutti coloro che lavorano la lana, tessitori, filatori, tintori, venditori di lana, e così sia, sono uniti in una corporazione che di chiama Arte della Lana. Qui a Firenze l’Arte della Lana è potentissima. Ma ci sono, come in altri Comuni, anche le corporazioni dei mercanti, dei medici, dei calzolai, dei fabbri, dei legnaioli, degli albergatori, e così via.

Guido: Va bene. Ma che c’entra questo con la casa della filatrice?

Antoniotto: Le corporazioni, che hanno propri rappresentanti nel Comune, godono di alcuni diritti a favore dei propri artigiani: per esempio, quello che proibisce ad un proprietario di case di sloggiare, per suo capriccio e improvvisamente, che lavora la lana a casa.

Guido: Ora capisco. Insomma: la corporazione difende chi lavora.

Antoniotto: Si capisce. Questo è un piccolo esempio. Ma ce ne sono tanti altri e più importanti. E’  la Corporazione che fissa quante ore dobbiamo lavorare in una giornata, che stabilisce i giorni festivi durante l’anno, che combatte la concorrenza sleale, che pretende che i propri iscritti lavorino sempre meglio e col massimo impegno. Ora ti faccio una domanda: “Sai perchè a Firenze si fabbricano i migliori tessuti di lana di tutto il mondo?

Guido: Non so

Antoniotto: Perchè la stessa Arte della Lana punisce coloro che fabbrichino stoffe scadenti. Così, difende il lavoro di tutti, perchè i tessuti sono sempre più richiesti. Poi devi sapere che ogni Arte ha un’insegna…

Guido: La nostra qual è?

Antoniotto: Un montone bianco disegnato in campo azzurro.

Guido: Sì, l’ho vista!

Antoniotto: L’Arte dei Mercanti ha per insegna un’aquila d’oro, l’Arte dei Fabbri un paio di tenaglie, l’Arte dei Legnaioli un albero; e così via. Ogni Corporazione è sotto la protezione di un Santo; perchè devi sapere che gli iscritti alla Corporazione si impegnano prima di tutto alla preghiera, a fare opere di misericordia, a costruire ospedali e chiese. Anzi, sembra… Ma tu oggi mi fai rimanere indietro col lavoro.

Guido: Ora ti lascio, ma finisci la fraze, te ne prego

Antoniotto: Sembra che l’Arte della Lana voglia sostenere le spese per la nuova cattedrale che i Fiorentini vorrebbero costruire in onore della Madonna: Santa Maria del Fiore!

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cambiatori
chiavaioli
fabbri
lanaioli
pellicciai
setaioli
spadai
speziali

I COMUNI materiale didattico vario

I COMUNI materiale didattico vario per la scuola primaria.

I Comuni: una nuova civiltà
Le prime città italiane che divennero libere e ricche furono le città marinare. In seguito però anche nei borghi lontani dal mare si fece strada una nuova civiltà.
Nella campagne i contadini, con nuovi metodi di coltivazione, riuscivano a produrre raccolti più abbondanti, la cui vendita permetteva loro di comprare presso gli artigiani delle città le merci necessarie a rendere meno difficili le loro condizioni di vita. Così il benessere delle campagne influì direttamente sullo sviluppo delle città dove artigiani e mercanti, con la crescente richiesta delle loro merci, trovarono nuovo interesse al lavoro e alla produzione.
Molti servi della gleba lasciarono i villaggi per trasferirsi nelle città, che diventarono a poco a poco più grandi, più belle, più ricche.
Dai loro castelli i feudatari guardavano preoccupati questo improvviso risveglio di vita creato dal lavoro e vedevano diventare potenti non uomini d’armi, ma i pacifici mercanti, i banchieri, gli artigiani.

La nascita dei liberi Comuni
A poco a poco le città si sottrassero al dominio dei feudatari ed acquistarono l’indipendenza. Dapprima affidarono la protezione dei loro diritti ai vescovi, poi si liberarono anche della loro influenza e si governarono da sole.
Nacquero così i liberi Comuni italiani, piccoli Stati indipendenti.
Il Comune era retto da due o tre consoli che venivano eletti per la durata di un anno. Più tardi furono sostituiti da un podestà, chiamato da fuori perchè governasse con maggior giustizia. I consoli e i podestà erano aiutati da pochi cittadini che formavano il Consiglio minore e maggiore.
Quando si doveva prendere una decisione importante, tutti i cittadini si raccoglievano in parlamento davanti al Palazzo del Comune.

La vita nella città comunale
La città comunale era circondata da torri, chiusa da porte, ma non risuonava solo dei passi dei soldati come il vecchio castello. Essa infatti era piena delle voci degli artigiani e dei mercanti intenti al lavoro. Questi ultimi, arrivati con i loro carri nella piazza del mercato, esponevano ogni sorta di merci.
Dalla piazza del mercato, che era anche la piazza dove si teneva il parlamento, si irradiavano tutte le strade della città: la via degli orafi, dove avevano le loro botteghe i maestri nell’arte di cesellare i metalli preziosi; la via degli armaioli, dove erano i fabbricanti di lance, corazze e scudi; la via dei lanaioli, dove erano i mercanti che vendevano la stoffa; e ancora la via dei cuoiai, degli speziali, dei falegnami, dei pentolai, dei cambiatori, dove si cambiavano le monete.
Tutti coloro che esercitavano la stessa professione erano riuniti in associazioni chiamate corporazioni, che fissavano i prezzi delle merci, il metodo di lavorazione, il numero degli operai che potevano lavorare in una bottega, la durata del lavoro giornaliero.
In questo modo il lavoro era ben disciplinato e tutti potevano vivere meglio.
A poco a poco la città diventò così ricca che poteva prestare denaro a principi e a re. I mercanti e gli artigiani offrivano il proprio denaro ai consoli perchè chiamassero architetti e pittori famosi ad abbellire i pubblici palazzi.
Una voce era rimasta fuori della città: la voce del corno che dava l’allarme nel castello o che risuonava nel bosco durante le cacce, la voce della dominazione feudale.
Al suo posto si udiva la campana che chiamava con con gioia se era tempo di festa, con ansia se la città era minacciata. Allora tutti accorrevano davanti al Palazzo del Comune, per armarsi e difendere la piccola e amata città.

Per il lavoro di ricerca
Come e quando nacquero i liberi Comuni?
Chi li guidò dapprima? E in seguito?
Quali furono i maggiori Comuni italiani?
Quale Comune si distinse per la sua potenza e magnificenza?
Che cosa era il parlamento?
Quali cittadini facevano parte del “popolo grasso” e del “popolo minuto”?
Vissero sempre in concordia fra di loro i Comuni?
Chi erano i Guelfi e i Ghibellini?
Come era la vita pubblica ed economica?
Come era l’aspetto di una città nell’età comunale? Come erano le case dell’epoca comunale?
Quando nacque la nostra lingua?
Quali grandi uomini vissero nel periodo comunale?
Quali “arti” e “mestieri” si svilupparono particolarmente durante l’età comunale?

Sorge il Comune
Nelle campagne deserte, fra le immense foreste, lungo i fiumi, nelle vaste piane malsane per gli acquitrini che qualche solerte ordine monastico tentava appena di risanare, la vita era triste e pericolosa.
Nelle città si era più sicuri.
Vi erano buone e salde mura e le porte, sprangate la notte e sorvegliate da scolte (sentinelle), permettevano un tranquillo riposo dopo la giornata laboriosa.
Perchè nelle città si lavora.
Le milizie hanno bisogno di armi  e armature. Si sviluppano i commerci e le industrie.
Palazzi, fortezze, monasteri e chiese richiedono maestranze provette, artigiani del legno, del ferro, della pietra, dei laterizi.
Le corti hanno bisogno di ricche stoffe per gli abbigliamenti degli uomini e delle dame, le chiese si adornano di paramenti preziosi.
A Colonia, Norimberga, Milano, Brescia risuonano le incudini delle mille fucine degli armaioli; i piccoli signori di campagna preferiscono alla sede deserta e mal difendibile del castelletto, il palazzo in città su cui s’erge la torre.
Gli interessi si moltiplicano al di fuori della vita dei signori e degli ecclesiastici: amanuensi e notai, maestri di arti guadagnano denaro col loro lavoro; e guadagnano, arricchendosi, i mercanti audaci che per le lunghe vie di terra e di mare tessono la rete profittevole dei loro scambi.
A Genova, a Venezia, a Pisa gli armatori, padroni di navi da traffico, sono una casta nuova ricca di denaro liquido, difficile a controllare e a taglieggiare; con essi i signori, i vescovi, l’imperatore stesso dovranno venire a patti se vogliono avere tributi od aiuti, e in cambio di questi offrono franchigie e libertà.
Sorgono così le città che si governano da sè, con magistrati locali, scelti per la libera elezione dagli uomini che lavorano; sorge il Comune.
Un ricordo remoto di romanità, mai spento per trascorrere di secoli, dà ai reggitori del Comune il nome famoso di consoli.
Sulla fine dell’XI secolo, nell’Italia settentrionale, fra il disordine e l’assenza dei governi imperiale e regale, appare consolidata la vita dei Comuni.
Uno scritto del 1093 accerta l’esistenza di un governo comunale a Biandrate,  presso Novara; certamente nella stessa epoca Milano, Lodi, Crema, Cremona, avevano ormai la loro costituzione comunale. (E. Momigliano)

I maggiori Comuni italiani
Alcuni Comuni si svilupparono maggiormente, sia per la loro posizione che per l’operosità dei loro abitanti.
Milano fu famosa per l’abilità dei suoi artigiani nel fabbricare armi e corazze, richieste da principi e sovrani di tutta Europa; Venezia fu celebre per la lavorazione del vetro, arte appresa da operai di Bisanzio; Firenze fu nota per i suoi tessuti di lana e di seta; Pisa per la fusione delle campane; Pesaro, Urbino e Gubbio per le loro stupende ceramiche; Lucca per i ferri battuti.

Il governo del Comune
E’ naturale che dapprima prevalessero nel Comune i nobili, proprietari di terre, e i valvassori: i mercanti e gli artigiani erano ancora poco numerosi e poco autorevoli. Infatti, i magistrati posti a capo della città e detti romanamente consoli, furono fin verso la fine del secolo  XII sempre nobili. Duravano in carica generalmente un anno, avevano il potere esecutivo, militare e giudiziario, erano assistiti da un Consiglio minore o degli Anziani (Senato). Ma quando si doveva decidere su questioni molto importanti, si convocava tutto il popolo. Questa adunanza generale nella piazza principale o arengo si chiamava Parlametno o Concione.
La borghesia, cresciuta di numero e di potenza, ambì, un certo momento, di impadronirsi del potere.
Dopo un periodo di contrasti e di torbidi, i consoli furono sostituiti da un magistrato nuovo, il podestà. Il podestà era quasi sempre uno straniero, che veniva invitato a governare per uno o due anni il Comune. Non avendo ne amici ne parenti ne interessi particolari da difendere nel Comune, il podestà straniero dava garanzie di poter governare con rettitudine e senza fare favoritismi. Il sistema dei podestà rimase in uso per tutto il secolo XIII, ma neppure questo riuscì ad eliminare le discordie fra i cittadini.
Per stroncare con la forza le ribellioni, allora si decise di affidare il Governo a un uomo solo, energico, capace di far rispettare su tutti la sua volontà. Per questo compito si scelse il Capitano del Popolo, cioè un condottiero esperto nelle faccende militari e dotato di grande popolarità fra i soldati. Nelle mani dei Capitani del Popolo, i Comuni ritrovarono la pace e l’ordine, ma perdettero la loro libertà. Infatti il condottiero finì con il governare da solo, sopprimendo ogni diritto dei cittadini. Finiva così l’età dei Comuni e cominciava quella delle Signorie.

Il Parlamento
I capi delle Corporazioni, riuniti insieme eleggevano il capo del Comune. Tutti insieme fissavano le tasse da pagare e le opere pubbliche da realizzare.
Per le decisioni importanti veniva convocato a parlamento tutto il popolo. Ogni cittadino era anche soldato. Sorsero le mura e i fossati intorno alle città.
Ai feudatari non restava che una scelta: lotta senza quartiere contro il Comune, oppure inserirsi attivamente nella vita di esso.

Popolo grasso e popolo minuto
Come sempre succede, anche nel Comune i cittadini non avevano tutti la medesima ricchezza. C’erano i nobili, i grandi commercianti, i notai, i banchieri e in genere coloro che possedevano grandi ricchezze: questi formavano il cosiddetto popolo grasso, che in pratica riusciva ad accaparrarsi le cariche più importanti del Comune.
Il popolo minuto era  invece formato dagli artigiani, da coloro che lavoravano alle dipendenze altrui, dai poveri in generale. Ma anche se non disponeva di ricchezza materiale e non poteva accedere facilmente alle cariche pubbliche più alte, il popolo minuto non era composto di servi. Anche il più povero dei cittadini era un uomo libero, che poteva partecipare al Governo in modo attivo prendendo parte alle riunioni dell’Assemblea o Parlamento o Arengo (a seconda delle città).

Le guerre del Comune
Praticamente ogni primavera l’esercito comunale, composto dai cittadini e guidato da un Console, usciva dalle mura e compiva incursioni guerresche nei territori vicini. L’obiettivo principale di quelle azioni belliche era molto spesso rappresentato dai vari castelli feudali, che minacciavano costantemente la libertà e l’autonomia del Comune. I cittadini aggredivano il castello, sopraffacevano la guarnigione e costringevano il feudatario a trasferirsi in città oppure a concedere un solenne riconoscimento dell’indipendenza del Comune. Così a poco a poco il Comune ingrandiva i propri possedimenti territoriali, ed eliminava i suoi nemici più pericolosi.
Molto spesso, poi, i Comuni facevano guerra fra loro. La posta in palio era rappresentata da una strada, un fiume, un territorio particolarmente ricco: la floridezza del Comune derivava in grandissima parte dalla sua attività commerciale, e tutto ciò che poteva favorire i traffici doveva entrare in possesso dei cittadini. Allo stesso modo, infine, era necessario eliminare i concorrenti, cioè i Comuni diventati troppo potenti.
Ma intanto si profilava una nuova, gravissima minaccia per i liberi Comuni: l’imperatore. Questi cominciava a rivendicare il possesso di quelle città che gli erano appartenute e che ora erano diventate tanto floride. Poichè i cittadini non intendevano assolutamente cedere le armi di fronte  alle pretese dell’imperatore, una durissima, decisiva lotta si annunciava imminente.

Vita comunale
Le città feudali sorgevano di solito in luoghi elevati, presso incroci di strade importanti, lungo fiumi navigabili o non lontano dalle frontiere. Attorno alle mura del castello feudale o del monastero fortificato si erano lentamente sviluppati i commerci e le modeste industrie dei cittadini o borghigiani.
Quando cessarono le scorrerie barbare, l’attività fuori dalle mura castellane crebbe,  le botteghe si moltiplicarono e i mercanti e gli artigiani, che prima non abitavano stabilmente in città, vi si stabilirono definitivamente. La popolazione che viveva fuori del castello costruì a propria protezione una seconda cinta di mura.
Il Comune batteva moneta, stabiliva e sorvegliava i lavori pubblici, costruiva strade, ponti e canali, pavimentava le principali vie della città, disponeva il rifornimento dei generi alimentari, proibiva l’accaparramento, la compera all’ingrosso o l’incetta, favoriva il diretto contatto tra venditori e compratori ai mercati e alle fiere, esaminava pesi e misure, ispezionava le merci, puniva l’adulterazione delle derrate, controllava esportazioni e importazioni, immagazzinava grano per gli anni magri, in caso d’emergenza forniva grano a buon mercato, fissava i prezzi dei generi alimentari di prima necessità. Quando il prezzo di una derrata desiderabile era fissato troppo basso e ci si accorgeva che la produzione ne soffriva, allora il Comune lasciava che i prezzi di quella determinata merce trovassero il loro equilibrio mediante la concorrenza; ma con corti o assise del pane e della birra manteneva la vendita al minuto in costante relazione con il costo del grano e dell’orzo. Pubblicava periodicamente una lista di prezzi e riteneva che ogni merce dovesse avere un giusto prezzo che tenesse conto del costo del materiale e delle ore di lavoro. (W. Durant)

Gli artigiani
Gli artigiani erano uomini semplici e laboriosi. Andavano sbarbati, ma tenevano i capelli lunghi, a zazzera. In capo portavno un berrettino a cono o a papalina. Indosso un farsetto stretto alla vita da una cintola di cuoio. Portavano calze lunghe di panno, con la suola di cuoio, chiamate calze solate. Le scarpe erano usate soltanto per i lunghi viaggi. I vestiti non avevano tasche e tutto veniva portato in cintola, mediante fermagli: borse, pugnali, oggetti vari. Lavoravano dall’alba al tramonto e dopo il lavoro si raccontavano novelle e storielle.

Le donne filavano, tessevano, cucivano, facevano il pane, mettevano l’olio nelle lucerne. Anch’esse, dalla mattina alla sera, non facevano che lavorare. Vestivano molto semplicemente, con un vestito ripreso alla vita dalla cintura di cuoio, e sotto di questo una gonna più chiara, chiamata sottana. In testa un panno di lino e ai piedi le pianelle.

Le case nel centro della città, strette fra loro, erano altissime e si chiamavano case-torri. In ogni casa c’era l’occorrente per la vita: il pozzo per l’acqua, la cantina per il vino, il forno per il pane, l’orciaia per l’olio, la stalla per il cavallo, il telaio per il panno. Pochissime case avevano le finestre coi vetri. Di solito le finestre erano chiuse con panni bianchi, imbevuti d’olio perchè fossero più trasparenti. Anche oggi le parti delle finestre si chiamano telai e impannate.
Il mobilio era scarso. Qualche panca, poche panchette, alcuni cassoni pieni di biancheria e vestiti. Per difendere la lana dalle tignole si metteva nei cassoni molto pepe. Le armi stavano in un mobile chiamato armario, da cui è venuto il nome armadio.
Si viaggiava o a piedi o a cavallo. Soltanto allora si portava un cappello di feltro a larghe tese, con un cordone annodato sotto il mento. Quando non pioveva o il sole non bruciava, il cappello veniva gettato dietro le spalle. (P. Bargellini)

La vita economica
Dopo la vittoriosa affermazione di Legnano, la vita dei liberi Comuni italiani cominciò ad espandersi in tutta la sua esuberanza.
I mercanti e gli artigiani si associarono sempre più numerosi in corporazioni delle Arti: vi erano le Arti Maggiori e le Arti Minori (con a capo di ciascuna un priore), a seconda dell’attività esercitata. Ciò facevano, e gli uni e gli altri, per la tutela dei propri interessi, ma erano mossi anche dall’amore verso la patria, dal desiderio di renderla più forte, più ricca, più splendida.
Le industrie fiorirono e diedero impulso ai commerci: a Firenze fiorì l’industria della lana; a Bologna quella della seta; a Genova e a Zoagli quella dei velluti; a Murano quella dei vetri; a Faenza quella delle stoviglie; a Milano quella delle armature; da per tutto quelle del cuoio e delle pellicce, oltre agli arsenali di Venezia e di Genova, pieni di navi in costruzione.
I mercanti italiani percorsero l’Europa vendendo materie lavorate e comprendo materie grezze; aprirono le prime banche pubbliche, come il Banco di San Giorgio a Genova, e divennero i primi banchieri del mondo, come i Medici, i Peruzzi, i Bardi, grandi mercanti fiorentini che avevano banche in tutte le principali città d’Italia e d’Europa.
I banchieri lombardi dominavano il mercato del denaro fino in Inghilterra, e lombardo divenne sinonimo di italiano. Perfino i più potenti re d’Europa si rivolgevano ai banchieri italiani per avere grossi prestiti di denaro. Furono inventati allora i principali strumenti bancari, come la cambiale, la scrittura doppia e la società dei assicurazioni.
Riapparve in circolazione la moneta d’oro, scomparsa da parecchi secoli ormai dall’Europa impoverita con le invasioni barbariche: si coniarono il fiorino di Firenze, lo zecchino di Venezia, il genoino di Genova, ecc…; e poichè ogni città aveva il suo sistema monetario, ebbe inizio l’attività dei cambiavalute e dei banchieri. Famosi tra essi i  banchieri fiorentini, lombardi e genovesi.

Arti e mestieri
Le città sono piene di artigiani che lavorano con grande bravura il ferro, il cuoio, il legno, che tessono e colorano belle stoffe di  lana e di seta. I fabbri lucchesi  sono maestri a tutti: anche i più comuni oggetti, una chiave, una cancellata, un portastendardi, paiono opere d’arte.
Famosi fonditori di campane sono i Pisani e da per tutto li chiamano perchè ormai non c’è chiesa o palazzo del Comune senza campane.
Brescia e Milano, invece, hanno rinomanza in tutta Europa per le fabbriche d’armi.
I setaioli lucchesi, fiorentini, milanesi, non hanno nessuno che possa star pari a loro. E’ un’arte venuta dalla Sicilia in Toscana e dalla Toscana passata ad altri luoghi.
Anche nell’arte della lana sono maestri i Fiorentini. Importano dall’estero panni rozzi e li restituiscono che sono una meraviglia.
E le maioliche di Gubbio, di Urbino, di Pesaro, di Faenza? Nessun Paese al mondo ne dava di così belle ed apprezzate: colo rosso, color oro, color azzurro, color perla.
Altre arti fiorivano a Venezia. E innanzi a tutte l’arte del vetro, arte famosa, arte veneziana di Murano, portata  là da operai di Bisanzio e di Ravenna. Nell’isoletta di Burano invece, le donne lavoravano merletti e trine leggere e vaporose.
Dove non andavano allora gli italiani? I mercanti e i banchieri , anche di piccole città come Prato, si potevano incontrare in Francia, in Inghilterra, in Polonia, nella Spagna.
Molti di essi si arricchivano; e la ricchezza acquistata veniva spesa per adornare le città con belle chiese e begli edifici.

La bottega
Nel Medioevo non esistevano grandi fabbriche: il lavoro e la produzione erano concentrati nelle botteghe artigiane. Vi lavoravano il maestro, i suoi soci e i suoi discepoli, che potevano anche essere i figli o i parenti del maestro, e mentre apprendevano il lavoro non ricevevano alcun salario. Anche i pittori e gli scultori avevano la loro bottega e i loro discepoli. Arti e mestieri si tramandavano di padre in figlio. La bottega era una famiglia più grande. Padroni e dipendenti mangiavano alla stessa tavola, dormivano tutti nello stesso stanzone. Le botteghe di un certo tipo erano concentrate nello stesso quartiere, spesso nella stessa via, che prendeva nome dall’arte che vi si praticava.
Nelle nostre città molti di quegli antichi nomi sono rimasti sulle targhe delle vie moderne: a Milano, per esempio, c’è ancora via degli Orefici, c’è via dei Mercanti; a Firenze via dei Calzaioli, ecc…; a Roma via dei Sediari, via dei Chiavari, via dei Giubbonari ecc… Qualche volta il nome della via preesisteva. Così per esempio a Firenze, in via di  Calimala si concentravano i tintori di stoffe francesi o inglesi e la loro associazione, dal nome della via, venne detta arte di Calimala.

Nel Medioevo gli artigiani non dovevano avere segreti
Molte città italiane hanno vie che traggono il nome di una qualche attività artigiana: via degli Orefici, via dei Carradori, via degli Spadari, e così via. Questo perchè nel Medioevo gli artigiani di una stessa corporazione abitavano il più delle volte nella stessa via. Qui le botteghe si stipavano. Erano viuzze in cui la luce penetrava difficilmente e il sole mai. E questa era una ragione per cui gli operai lavoravano vicino alla finestra. Ma un’altra ragione è che non si permetteva agli artigiani che avessero segreti: l’orafo o il fabbro dovevano avere fucina in bottega, lo scudaiolo doveva limare e tornire il rame solo sul banco presso la finestra. Nulla doveva essere nascosto agli occhi di chi passava o di chi voleva controllare.

Il popolo e i nobili
Tutto questo meraviglioso rigoglio di vita fu opera soprattutto del popolo lavoratore.
Accanto al popolo intraprendente e geniale viveva la classe dei cosiddetti nobili, trasferitisi dai loro castelli nelle città, con la stessa superbia e lo stesso spirito di violenza e di sopraffazione dei tempi feudali. Giravano costoro sempre armati e abitavano foschi palazzi merlati muniti di alte torri, da cui eran sempre pronti a gettar ferro e fuoco sugli assalitori.
Il popolo celebrava i suoi giorni di festa con cerimonie religiose e processioni solenni in onore del Santo Patrono, a cui si aggiungevano talvolta rappresentazioni di misteri riproducenti scene della passione di Cristo o episodi della vita dei Santi, da cui trasse le prime origini il nuovo teatro.
I nobili invece si trastullavano ancora in tornei, giostre, caroselli, quintane e in simili spettacoli di antico carattere feudale, a cui pure accorreva la folla curiosa.
Spesso però le rivalità e gli odi tremendi tra le famiglie dei grandi, i contrasti violenti tra le fazioni politiche (famose quelle dei Bianchi e Neri a Firenze) o le insurrezioni della plebe esasperata funestavano la fervida vita comunale, esplodendo talvolta in vere e proprie battaglie cittadine. Queste continue risse sanguinose, che spargevano il lutto e perpetuavano gli odi tra le famiglie, corruppero con l’andar del tempo le istituzioni comunali preparando le condizioni per l’avvento di un signore assoluto, unico moderatore della cosa pubblica.

L’arte e la vita culturale
Non solo la vita economica, ma anche la vita artistica e culturale ebbe nei Comuni italiani straordinario rigoglio.
L’architettura, nel duplice stile romanico con l’arco tondo, e gotico con l’arco acuto, popola di palazzi comunali, di duomi e cattedrali, di torri e di campanili, di case aristocratiche e borghesi le piazze delle cento e cento città d’Italia.
Nobili e borghesi, a gara, fecero sorgere con i loro contributi splendide costruzioni: ogni città ebbe il suo Palazzo del Comune, la Torre, l’Arengo, legge e chiese di bella architettura.
Tutta la penisola italiana ne è disseminata: la Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, quella di San Marco a Venezia, le possenti cattedrali di Parma, Modena, Cremona, il Duomo di Milano, le chiese di Firenze, il Duomo di Pisa, quelli di Orvieto e di Siena, stupendi di marmi, di ori, di mosaici, di pitture.
Tutta l’arte si rinnovò per opera di grandi maestri: Arnolfo di Cambio, architetto; Cimabue, Giotto, Duccio di Buoninsegna, pittori; Giovanni e Andrea Pisano, scultori.
E rifiorì anche la cultura, fino allora chiusa nei conventi, e ora aperta a tutti nelle Università, dette Studi. Famose, in Italia, quelle di Bologna e di Pavia per lo studio del diritto romano, e l’Università di Salerno per la medicina. Furono tutte di carattere internazionale, e per i loro professori chiamati per fama da un estremo all’altro d’Europa, e per i loro studenti che si trasferivano (clerici vaganti) da un’università all’altra, ad ascoltare i professori dalla cui fama erano attirati.
A Palermo, in Sicilia, sorse la prima scuola poetica italiana, continuata poi a Bologna e condotta a maggior gloria in Firenze soprattutto da Dante.

La cattedrale
Molte città italiane possiedono cattedrali erette nel Medioevo: romaniche (con l’arco a tutto sesto, impiantato su robuste colonne) o gotiche, secondo lo stile venuto dal nord (l’arco a sesto acuto, lo slancio delle colone e delle guglie verso l’alto). A elencarle non basterebbe una scheda: da Sant’Ambrogio di Milano a San Michele Maggiore di Pavia, dal Duomo di Piacenza a quello di Modena, dal San Zeno di Verona al Duomo e al Battistero di Pisa. Questi bellissimi monumenti dell’arte e della fede sono fioriti nell’epoca dei Comuni: essi sono, anzi, monumenti alla civiltà comunale. Erano eretti a spese del popolo intero.
Generazioni di muratori, di artigiani, di architetti, di scultori lavoravano per innalzarli ed abbellirli. La popolazione intera si appassionava all’opera, ne era orgogliosa perchè era cosa sua, il segno visibile della sua unità, della sua forza, anche della sua ricchezza. Prima di allora i grandi monumenti erano sorti per iniziativa di un imperatore, per servire alla sua gloria: il popolo del Comune glorificava se stesso, con un’impresa collettiva senza precedenti e della quale anche in seguito si trovano pochi esempi nella storia. Pittori e scultori arricchirono poi le cattedrali delle loro opere d’arte.

Le Università
“Parigi è la fonte della scienza, da cui si irradiano gli acquedotti del sapere che si allungano fino all’estremità del mondo”. Così ha scritto uno studente universitario  nel 1200. L’Università di Parigi fu uno dei più importanti centri di studio del Medioevo.
In Italia, già dal decimo secolo, i Benedettini avevano a Salerno una scuola per l’insegnamento della medicina, e nell’undicesimo secolo nacque a Bologna lo Studio Giuridico (cioè una Università per lo studio delle leggi).
In seguito, l’Italia ebbe moltissime Università assai frequentate.
In tutte queste scuole superiori gli studiosi di tutte le nazionalità parlano la stessa lingua, il latino, e professano gli ideali di una medesima fede; le Università perciò sono i centri di fusione del pensiero europeo e celebrano quell’unità e fraternità dei popoli che Roma aveva preparato con la legge  e il cristianesimo con il Vangelo.

Le campane comunali
Ogni Comune aveva la sua campana che con la voce austera raffigurava il simbolo onnipresente del Comune.Tutti i cittadini accorrevano quando la campana chiamava a raccolta. Era la voce stessa del Comune. Ed ogni campana oltre a decorazioni più o meno ricche, alla data e alle raffigurazioni allegoriche, recava incise frasi di incitamento e di devozione alla patria.

L’aspetto di una città nell’età comunale
La città medioevale è quasi sempre piccola. Tra noi solo Venezia, Milano, Firenze, hanno talvolta superato i centomila abitanti; ma le altre città restano assai al di sotto.
Da principio l’aspetto delle città comunali non dovette essere molto attraente. Case basse di legno o di mattoni crudi, coperte di tegole o di paglia o di canne, addossate le une alle altre; tetti molto sporgenti e piccole finestre per lo più chiuse con impannate di tela o di carta; vie strette, irregolari, luride, dove tra i rifiuti delle case vivevano in libertà maiali e galline: ma vie già animate da mercanti e da artieri e sonanti di opere varie; botteghe aperte sulle strade, veri bazar nei quali erano esposte le cose più necessarie alla vita quotidiana. Qua frutta ed erbaggi, là carni e selvaggina, uova, vino, pesce e formaggi, più in là utensili domestici e attrezzi agricoli e armi. Qua e là, tuttavia, massicce e solide costruzioni di pietra e di mattoni, merlate e turrite, annerite dal tempo e talora dal fuoco, ricordo perenne d fiere lotte civili. E poi la chiesa col suo sagrato, dove si seppellivano i morti, specialmente i nobili e gli ecclesiastici. E infine il palazzo del Comune, pur esso merlato e turrito, e rumoroso di soldati e giudici, di notai e contabili, di consiglieri e cittadini.
Ma nel secolo XII, col nascere della ricchezza privata e pubblica, l’aspetto esteriore delle città si fa migliore; alle case di legno succedono case nuove e comode, di pietra e mattoni; cominciano a selciarsi le vie più importanti e le piazze di maggior commercio; si spazzano le vie, si restaurano le facciate delle case, si regolano le fiere e i mercati; e sorgono più fieri i palazzi del Comune, più maestose le Cattedrali, più irti i palazzotti dei signori feudali o delle famiglie nobili. Le grandi ricchezze accumulate con le industrie e i commerci permettevano, specialmente nel secolo XII, di innalzare magnifiche sedi per le arti, e logge, e chiese, e ospedali, e monumenti funebri: tanto più che gli uomini del popolo, pur essendo dediti alla mercatura e alle industrie, avevano  raffinato il gusto dell’arte. (Pochettino – Olmo)

Case dell’epoca comunale
Normalmente la casa era a tre piani e aveva una sola stanza per piano. La stanza del pianterreno serviva da sala bassa: lì la famiglia pranzava. Il primo piano era elevatissimo, come mezzo di sicurezza; è questo il particolare più notevole della costruzione. In questo piano una camera, nella quale il padrone di casa abitava con la moglie. La casa era quasi sempre fiancheggiata da una torre d’angolo, il più delle volte quadrata. Al secondo piano una stanza che probabilmente serviva ai bambini e al resto della famiglia. Al di sopra, assai spesso, una piccola piattaforma, destinata evidentemente a servire da osservatorio. (A. Saitta)

La casa – torre
Molte città italiane conservano qualche torre del Medioevo. A San Gimignano ne sono  rimaste decine. Nell’età dei Comuni, Firenze giunse ad averne fino a centocinquanta. Bologna non ne ebbe forse meno.
Queste torri non facevano parte del sistema difensivo  del Comune, che aveva le sue mura e le sue porte, ben guardate. Erano abitazioni, case-torri, in cui le famiglie più ricche e  potenti si rinserravano come in una fortezza privata.
Per passare da un piano all’altro ci si serviva di scale che, all’occorrenza, potevano essere tolte.
Nelle città le lotte di fazioni erano frequenti e sanguinose, e chi poteva si premuniva contro gli attacchi dei suoi nemici. Aver la torre più alta, poi, diventava una ragione di prestigio e, finchè i  Comuni imposero di non superare una certa altezza, le famiglie gareggiavano a colpi di piani. A San Gimignano vi mostrano ancora qualche torre più bassa e vi narrano che appartenne a una famiglia sconfitta, che dovette abbattere un piano o due per imposizione del vincitore. Sarà una leggenda, ma rende l’atmosfera di certe antiche contese familiari ed aiuta a capire che cosa furono, all’interno dei Comuni, le lotte fra Guelfi e Ghibellini, ecc… Lenta e difficile fu la nascita di una nazione italiana.

Feste comunali
Le feste religiose erano le maggiori occasioni di svago e di divertimento nelle città medioevali.
A Firenze la più grande festa dell’anno era la festa di San Giovanni, patrono della città. Essa era caratterizzata da una solenne processione, aperta dai capi del Comune, il Podestà e il Capitano del Popolo, e dai Priori delle arti. Ogni arte sfilava col suo gonfalone: era la grande parata del Comune. Le arti erano le associazioni di mestiere, le Corporazioni, di cui facevano parte tutti gli artigiani e i loro dipendenti. Non si poteva esercitare la fabbricazione e il commercio della lana se non si apparteneva all’arte dei Lanaioli.
Il medico e lo speziale appartenevano alla stessa arte. Vi erano a Firenze, sette arti maggiori e quattordici minori. Le arti dettavano legge in materia di orari di lavoro, di prezzi, di salari, di qualità della merce. Erano leggi minuziose e severissime. Alcune arti si intromettevano anche nella vita privata dei loro associati. Per esempio, proibivano al socio di prender moglie senza chiedere il permesso ai suoi compagni.
Era tutt’altro che facile passare da un’arte all’altra.
Tanto rigore non poteva impedire le disuguaglianze. I mercanti e i banchieri più ricchi divennero così forti da diventare “signori” della città.

I giochi
Accanto alle feste religiose, e talvolta in coincidenza con esse, si svolgevano nelle città medioevali giochi popolari e spettacoli che in parte sono giunti fino ai nostri giorni.
Questo non si può dire del “gioco del pallone” che si giocava a Firenze, e che è assai diverso dal nostro calcio, di cui sono stati gli Inglesi del secolo scorso a fornire le regole. Spesso però, a Firenze, l’antico gioco è rievocato con partite in costume che richiamano gran folla di turisti.
A Siena, invece, si correva il Palio delle contrade: e si corre ancora oggi con lo stesso accanimento, con le stesse sfide tra fantini e rioni, con lo stesso accompagnamento di sfilate e di bandiere.
Ad Arezzo si correva, e si corre tuttora una volta all’anno, la giostra del Saracino: cavalieri armati di lancia, a turno, si gettavano al galoppo contro un fantoccio addobbato con abiti orientali, per colpirlo in modo da farlo girare su se stesso. Altri giochi di questo genere si svolgevano in molte città italiane. Ricordiamo ancora la “partita a scacchi” che si giocava a Marostica, nel Veneto: uomini e donne in costume aveva il ruolo del re, della regina, degli alfieri e dei pedoni. Forse avreste visto una partita del genere rievocata alla televisione: ha l’aria di un elegantissimo balletto.

La prosperità di Firenze
La popolazione di Firenze, saliva a novantamila.
Erano più di millecinquecento i forestieri; si contavano ottantamila abitanti nelle terre sottoposte alla giurisdizione del Comune.
Le chiese sommavano a centodieci; ventiquattro erano i monasteri di monache con cinquecento donne; cinque le badie con ottanta monaci; tre gli ospedali con più di mille letti per poveri e infermi.
Le botteghe dell’arte della lana erano duecento e più, e facevano da settanta a ottantamila panni, dando vita a più di trentamila persone.
I fondachi dell’arte di Calimala (lavorazione dei tessuti grezzi) dei panni francesi e oltremontani erano circa venti, che facevano venire ogni anno più di diecimila panni per il valore di trecento migliaia di fiorini d’oro (il fiorino era la moneta di Firenze); che venivano venduti tutti in Firenze, senza contare quelli che si mandavano fuori.
I banchi dei cambiatori di moneta erano circa ottanta.
La moneta d’oro che si batteva era per circa trecentocinquantamila fiorini, e talora quattrocentomila.
Il collegio dei giudici era di circa ottanta; i notai seicento; i medici, i fisici, i chirurghi, sessanta; le botteghe degli speziali circa cento.
Mercanti e merciai erano tanti, da non potere sistemare le botteghe dei calzolai, pianellai e zoccolai; erano trecento e più quelli che andavano fuori di Firenze a negoziare, e molti altri maestri di più mestieri e maestri di pietra e legname.
Aveva allora Firenze centoquarantasei forni. (G.  Villani)

Il più antico dei liberi Comuni d’Italia
Un solo Comune italiano mi si trasformò in Signoria, anzi ancora sussiste nella sua interezza,  tanto da essere degno del titolo di più antico Comune d’Italia. Rimasto sempre libero, non vi fu mai potente confinante che riuscisse ad assorbirlo, nè perdette la sua autonomia quando tutti gli stati accettarono l’annessione al Piemonte durante i Risorgimento: italiano per lingua e tradizione, volle comunque restare indipendente e sovrano. Retto da un’antica costituzione repubblicana, il piccolo Comune, si trova tra Marche e Romagna, vive ancora nella fiera autonomia: è la Repubblica di San Marino.

La lingua volgare
Nei monasteri si pregava e si scriveva in lingua latina. Nei castelli si cantavano le gesta dei Paladini in lingua francese.
Nei Comuni, invece, gli artigiani parlavano una lingua nuova, che proveniva dal latino, ma sembrava rozza e corrotta. Era la lingua del volgo, cioè del popolo che non aveva studiato. Si chiamava perciò lingua volgare.
Da prima, questo rozzo dialetto era una lingua soltanto parlata. Poi venne scritta in qualche documento privato. Infine fu usata dai letterati e dai poeti.
Specialmente a Firenze, questa lingua divenne dolce e aggraziata. La usarono perciò tre grandi scrittori: Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Per merito loro la lingua volgare si nobilitò, divenne la lingua italiana che ancora oggi usiamo.

Guelfi e Ghibellini
Un nobil giovane di Firenze, Buondelmonte de’ Buondelmonti aveva promesso di sposare una fanciulla della famiglia Amedei. Ora avvenne che Buondelmonte, cavalcando un giorno per la città, passò davanti alla casa dei Donati, ove lo chiamò una gentildonna dal balcone, che mostrandogli la sua figliola bellissima, gli disse: “Chi vuoi prendere per moglie? Questa ti avevo serbata io”.
La vide il cavaliere e ne fu subito sì preso, che la tolse per donna, scordando l’altro parentado. Di ciò sdegnati, gli Amedei e  i parenti loro deliberarono di vendicarsi; e nel giorno di Pasqua venendo Bondelmonte d’oltre Arno su un bianco palafreno, lo assalirono ai piedi del Ponte Vecchio e lo uccisero (1215).
Per questo omicidio tutta la città corse alle armi, e le famiglie si divisero in due, le une seguendo i Buondelmonti, e le altre gli Uberti ed Amedei, e sconvolsero per molti anni la patria, tenendo quelli il partito ed il nome di Guelfi, e questi di Ghibellini. (D. Compagni)

Curiosità
Al tempo in cui i Comuni italiani vivevano isolati uno dall’altro come altrettanti stati indipendenti, si ebbero fra essi varie lotte e anche per i motivi più futili.
Ad esempio una secchia che i Modenesi rubarono a quelli di Bologna fu causa di guerra tra le due città; un ambasciatore di Firenze promise a un cardinale il suo cagnolino, ma lo promise anche a un Pisano, da cui venne guerra accanita tra le due città. Perugia e Chiusi si azzuffarono per un anello, che si diceva essere quello donato da san Giuseppe alla Madonna il giorno del loro matrimonio. Per un chiavistello si accapigliarono Anghiari e Borgo san Lorenzo.

Grandi uomini del periodo comunale
San Francesco nacque in Assisi nel 1182. Suo padre era un ricco mercante di stoffe. Trascorse la sua giovinezza in allegre brigate, partecipando alle guerre che si accendevano fra l’uno e l’altro Comune. Durante una delle sue avventure militaari, cadde gravemente malato e sentì, all’improvviso, la chiamata di Dio. Tornato in Assisi, lasciò ogni ricchezza, vestì un ruvido saio e andò predicando la povertà, la purezza di cuore, l’amore tra gli uomini e per tutte le creature.
Attorno a lui vennero molti discepoli ed egli li accolse nell’ordine dei Frati Minori.

Marco Polo. I più grandi viaggiatori del Medioevo furono i veneziani Matteo, Niccolò e Marco Polo,  figlio di Niccolò. Essi lasciarono Venezia nell’anno 1271 e giunsero, dopo anni di cammino, nella misteriosa città di Cambaluc (Pechino), dove viveva il Gran Kan, cioè l’imperatore dei Tartari. I tre veneziani furono ben accolti dall’Imperatore, che amò moltissimo Marco e lo nominò perfino governatore di una regione assai vasta. Marco potè così viaggiare e conoscere i costumi e le tradizioni di tanti popoli.
Dopo anni e anni di lontananza dalla loro città, i tre viaggiatori desideravano rivedere la loro patria. Il Gran Kan li lasciò partire, dopo averli pregati di accompagnare nel viaggio la propria figlia che andava sposa al re di Persia.
Fatta l’ambasciata, i Polo proseguirono e poi, con alcune navi, sbarcarono a Venezia. Erano così cambiati nell’aspetto e vestivano in maniera così strana che gli amici non li riconobbero.
Nell’anno 1298, durante la guerra tra Venezia e Genova, Marco rimase prigioniero. Mentre era in carcere, egli dettò a Rustichello da Pisa la storia del meraviglioso viaggio nel Catai. Nacque così il Milione, un libro bello come una fiaba.

Dante Alighieri nacque a Firenze nel maggio del 1265. Frequenti erano a quel tempo le lotte fra i partiti di una stessa città e proprio per queste lotte, Dante fu esiliato e dovette andare, quasi mendico, di corte in corte, ospite di vari Signori.
Durante l’esilio compose la sua più grande opera, la Commedia, che fu poi detta Divina, nella quale il poeta immagina di compiere un viaggio attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, cioè attraverso i regni della morte, della speranza e della gloria dell’anima.
Dante morì a Ravenna nel 1321 e fu sepolto con grandi onori nella Chiesa di San Francesco.
Così lo descrisse un giorno un suo concittadino: “Fu grande letterato e dottore in ogni scienza, sommo poeta e filosofo.” Scrisse la Commedia, il poema in versi dove immaginò di essere stato nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, e di aver parlato con le anime che vi si trovano. In questo modo potè mettere in versi le sue cognizioni scientifiche, astronomiche e politiche.
Dante fu esiliato da Firenze perchè prevalse la fazione contraria a quella nella quale militava; ma con le sue nobili opere diede grandissima fama alla sua città. (G. Villani)

Dante e il fabbro
Dante Alighieri una volta udì un fabbro, il quale, battendo il ferro, accompagnava il proprio lavoro cantando i versi della Divina Commedia.
Per adattare quei versi al suo lavoro li allungava, li scorciava, lo storpiava. Era un vero strazio! Dante Alighieri, che si faceva prendere facilmente dall’ira, entrò nella bottega del fabbro, gettando in mezzo alla strada martelli e tenaglie.
“Perchè rovini la mia arte?” gli gridò il fabbro indignato.
“E tu, perchè sciupi la mia?”.
Il fabbro rimase interdetto.
“Io non danneggio nessuno”
“Danneggi la mia arte. Io sono l’autore dei versi che cantando alteri e storpi!”.
Se ci fosse stata l’Arte dei Poeti, Dante avrebbe potuto ricorrere ai suoi Priori. Ma quell’Arte non c’era e se il poeta volle entrare nel governo della città, dovette iscriversi all’Arte dei Medici e Spaziali.
Come speziale, fu eletto Priore nel 1300 ed entrò nel governo del libero Comune di Firenze. (P. Bargellini)

Giotto di Bondone
Giotto nacque a Vespignano nel 1266. Suo padre, di nome Bondone, era contadino e Giotto lo aiutò custodendo il gregge.
Un giorno, mentre su una pietra disegnava una pecora, passò di là Cimabue, il più grande pittore di quel tempo. Egli si meravigliò dell’abilità del pastorello e lo portò con sè a Firenze.
Ben presto Giotto superò il maestro e fu chiamato a dipingere in ogni parte d’Italia. Ad Assisi affrescò molti episodi della vita di San Francesco, a Firenze progettò il bel campanile di Santa Maria in Fiore. Morì a Firenze nel 1336.

Una buffa di Buffalmacco
Nel Trecento vissero in Firenze uomini di grandissimo ingegno: poeti e scrittori come Dante, Petrarca, Boccaccio; pittori famosi come Cimabue, Giotto e tanti altri. Con le loro opere essi dettero gloria e bellezza all’Italia e al mondo. Molti di questi artisti erano tipi bizzarri e buontemponi che amavano inventare burle sulle quali si facevano matte risate.
Anche Buffalmacco era un bravo pittore del Trecento, ma non aveva la voglia di lavorare che dimostrava invece Giotto. Gli piaceva mangiare e bere, forse perchè essendo povero mangiava e beveva sempre poco. Veniva chiamato a dipingere nei conventi, e si sa, nei conventi il cibo non è mai ne abbondante ne appetitoso.
Una volta capitò in un convento dove, quasi tutti i giorni, si mangiava cipolla. Al pittore la cipolla piaceva poco, e quando si vedeva portare quel piatto storceva la bocca.
Ma come dire al Padre Guardiano che quel cibo non gli andava a genio? Pensò allora di fare una burla e si mise a disegnare tutte le figure di schiena, con le facce che non si vedevano.
Il Padre Guardiano, che tutti i giorni si recava a vedere come procedesse il lavoro di Buffalmacco, notò la cosa e chiese all’artista: “Come mai non fate le figure da quest’altra parte, con la faccia rivolta in fuori, in modo che si possano vedere i volti dei personaggi?”
“Caro Padre” rispose serio il pittore “le disegno rivolte in qua, ma poi, mentre dipingo, essi si rigirano e nascondono la faccia. E sapete la ragione? Perchè il mio fiato puzza talmente di cipolle, che le figure non lo sopportano, e rivoltano la faccia dall’altra parte”.
Il Padre Guardiano capì la burla e da quel giorno, invece di cipolle, fece servire al pittore altri cibi più saporiti e appetitosi.
Le figure di Buffalmacco, allora, tornarono a mostrare i loro volti dalla parte giusta! (P. Bargellini)

Vita comunale
I mezzi di trasporto sono scarsi, perciò il movimento cittadino è poca cosa. La gente va a piedi, il passaggio di un nobile a cavallo attira le comari alla finestra; scarsi i carri che si destreggiamo penosamente fra le strettoie e le tortuosità delle strade; più frequente il passare di giumente cariche di sacchi e di mercanzie. Solo il centro è animato. Nei giorni di mercato la piazza del Comune è tutta un formicolio di folla intorno ai banchi dei venditori, un vociare confuso di sensali e di compratori, mentre il cantastorie grida alto, strimpellando la sua chitarra per tirar gente, e il banditore, a suon di tromba, annuncia gli ordini del Podestà. Quando la sera cade, la campana del duomo suona il coprifuoco; si chiudono le botteghe e le case; un silenzio profondo invade le vie, immerse in un buio pauroso,  rotto solamente qua e là dal barlume di una lampada accesa davanti a una Madonnella, o dal balenio improvviso delle lanterne degli ultimi passanti. (A. Manaresi)

L’arte della lana a Firenze
Situata sull’Arno, lontana dal mare, Firenze non poteva sperare di avere una parte importante nel commercio. Perciò i suoi cittadini si dedicarono all’artigianato. Impararono l’arte della tessitura dagli orientali e la perfezionarono.
La corporazione di Calimala, cui era affidata la rifinitura e il raffinamento dei tessuti, creò nel campo della tintura un procedimento nuovo che venne tenuto gelosamente segreto.
I fiorentini riuscirono a migliorare l’apprettatura e la preparazione e in particolar modo a conferire alle stoffe una così splendida lucentezza che la loro produzione divenne presto celebre e richiesta su tutti i mercati europei.
Poichè la lana della Toscana non bastava, la si faceva venire dalla Francia, dalle Fiandre e perfino dall’Inghilterra. Giganteschi carri coperti partivano da Gand, passavano per Bruxelles, Parigi, Avignone, Marsiglia, e dopo aver superato gli Appennini arrivavano  a Firenze.
Talvolta i mercanti fiorentini facevano tessere la loro lana nelle Fiandre e in Francia; essa però veniva sempre tinta a Fireze con coloranti, soprattutto l’indaco, importati di solito dall’Oriente.
Nel 1338 esistevano a Firenze più di 200 opifici che producevano annualmente da 70 a 80.000 pezze.
Ovunque i clienti chiedevano stoffe fiorentine, perchè in tutta Europa non c’erano tessuti così perfetti. (E. Samhaber)

Così giurava il podestà di un Comune
Pur diverse nelle apparenze, sostanzialmente uguali erano le formule dei giuramenti dei podestà comunali; giuramenti che li impegnavano al rispetto delle leggi liberamente volute dai cittadini del comune.
Così, per esempio, giurava sul finire del XIII secolo il podestà di Verona:
“Nel nome di Dio onnipotente, e del figliol suo unigenito nostro signore Gesù Cristo, e dello Spirito Santo, e della santa gloriosa e sempre Vergine Maria, e per i quattro Vangeli che tengo nelle mie mani, e dei santi arcangeli Michele e Gabriele, giuro di prestare alla città e comunità e università di Verona una coscienza pura e un fraterno servigio, in ossequio all’amministrazione che mi è stata affidata. Giuro altresì che cercherò di pacificare tutte le discordie che sono o che saranno in futuro in questa città o nel distretto che la riguarda; di ricondurvi la pace al più presto possibile, specie se ne sarò sollecitato; giuro infine che non sarò spia o guida ai danni di Verona e a vantaggio dei suoi  nemici. Non perpetrerò furto o frode delle cose del comune con nessun mezzo nè acconsentirò che altri lo facciano. E costringerò con tutti i mezzi a mia disposizione coloro che lo avessero commesso, a restituire.
Dichiaro di essere soddisfatto delle 3000 lire di denaro e dell’alloggio e stallo del comune di Verona e della mobilia che ivi si trova, così come dichiaro di essere soddisfatto delle 1000 lire che mi vengono date come rifusione per le mie perdite e danni; e anche di quelli che mi vengono dati come subalterni, e della scorta armata che mi viene attribuita, e dei dodici soldati armati che terrò a mie spese e al servizio del comune per tutto il tempo della mia carica.
Cessato dal mio incarico, mi fermerò per quindici giorni ancora con i giudici del comune e con i soldati che sono stati con me, e mi fermerò in città a spese del comune, per le ultime consegne: farò giustizia di tutti coloro che avranno da far lamentele contro il mio operato, dei giudici e dei soldati.
Se qualcuno avrà scalfito un po’ d’oro dai denari veronesi, io se potrò, non appena conosciuta la verità su tale delitto e senza fare inganno per non conoscerla, farò troncare la mano al reo. Così proibirò che, durante tutto il mio governo, si tengano scrofe in città o negli immediati sobborghi. Proibirò il gioco d’azzardo o dei dadi o del bianco e nero, facendo eccezioni per i giochi della dama o degli scacchi; e chi contravviene sarà multato con venti lire”.

Ambiziose origini dei Comuni
L’ammirazione degli Italiani per Roma era tale, ai tempi dei comuni, che ogni città pretendeva di avere origini che si innestassero in un modo o nell’altro nella più antica storia dell’Urbe.
Firenze, ad esempio, diceva che perfino lo stemma cittadino, il giglio, era di origine romana, e il cronista fiorentino Giovanni Villani, che alla sua città dedicò la maggior opera sua, racconta che al tempo di Numa Pompilio, per divino miracolo, cadde in Roma dal cielo uno scudo vermiglio “per la qual cosa e augurio i Romani presero quello stemma e poi vi aggiunsero S.P.Q.R. in lettere d’oro, cioè senato e popolo romano.
Così a Perugia, a Firenze e a Pisa; ma i Fiorentini, per il nome della città, vi aggiunsero per intrassegno il giglio bianco; e i Perugini talvolta il grifone bianco e Viterbo il campo rosso e Orvieto l’aquila bianca.
La città di Firenze era in quel tempo come figliola e fattura di Roma in tutte le cose, da Romani abitata… E un tale Uberto Cesare, soprannominato Giulio Cesare, che fu figliolo di Catilina, rimasto in Fiesole giovinetto ancora dopo che quello morì, proprio per opera di Giulio Cesare fu fatto grande cittadino di Firenze; e avendo molti figlioli, egli e la sua discendenza furono per lungo tempo signori di quella terra; i loro discendenti furono grandi signori e capostipiti delle famiglie fiorentine.” (M. Bini)

Dalla società feudale alla società comunale
Tra la fine del primo e l’inizio del secondo millennio dell’era cristiana, la crisi del feudalesimo si fece più profonda. Il sistema era già stato scosso dalle lotte fra i grandi feudatari e l’imperatore; lo fu ancora di più quando si acuirono i contrasti tra vassalli e valvassori (questi ultimi otterranno, nel 1037, l’ereditarietà dei loro possessi) e tra la feudalità laica e quella ecclesiastica.
Nelle campagne si manifestarono fermenti di vita nuova, dopo che l’oscuro timore di grandi catastrofi naturali al sopraggiungere dell’anno mille (si parlava addirittura della fine del mondo) si rivelò del tutto infondato.
L’agricoltura aveva rappresentato negli ultimi secoli l’unica attività economica praticata su larga scala, ma le condizioni di vita dei contadini, soprattutto dei servi della gleba e dei coloni vessati dai loro signori, erano assai modeste; per di più la popolazione rurale andava aumentando molto rapidamente.
Da questa situazione ebbero origine le richieste di svincolo dalla servitù della gleba e di patti, di contratti scritti, di carte più favorevoli e non modificabili ad arbitrio del proprietario, richieste che portarono, se accolte, ad un’ulteriore allargamento delle aree messe a coltura, e se respinte, alla fuga dei contadini dalle campagne verso la città.  (L. Mumford, da “La città nella storia”)

La città
La decadenza, in epoca feudale, delle città non aveva riguardato proprio tutti i centri urbani; in alcuni si era mantenuta viva la tradizione artigianale o commerciale, anche se la circolazione dei prodotti era diminuita e l’uso della moneta si era fatto più raro.
L’aumento generale della popolazione si ripercosse anche sulla vita delle città, amministrate di solito da un feudatario ecclesiastico, il vescovo-conte, il quale poteva godere di una certa autonomia, dato che il feudo era vitalizio e non trasmissibile.
L’accresciuto numeri dei cittadini (molti dei quali provenivano dalla circostante campagna  o dai borghi feudali, quando non erano addirittura nobili e feudatari minori) creò una serie di problemi nuovi, collegati anche al rifiorire della produzione di beni di consumo e del loro scambio con altre merci in mercati e fiere sempre più frequentati, mentre anche la moneta faceva la sua riapparizione in grande quantità.
Alla soluzione dei problemi che le toccavano da vicino si impegnarono direttamente tanto la piccola nobiltà inurbatasi quanto la nascente classe sociale della borghesia (grossi artigiani e mercanti), dando vita ad associazioni, regolate da proprie norme, in grado di tutelare gli interessi comuni dei membri e di ottenere e di esercitare, sempre in comune, nuovi diritti e privilegi.
In seguito tali associazioni ottengono o conquistano di partecipare ancora più attivamente alla cura degli interessi di tutta quanta la città sino a sostituirsi, grazie alle immunità ed ai privilegi via via acquisiti, ai signori feudali ed ai vescovi-conti nel pieno governo della città stessa.
E’ nato così il Comune, piccolo Stato che inizialmente ha per confine la cerchia delle mura cittadine e che sceglie i propri governanti tra coloro che abitano appunto entro detta cerchia.
Il Comune si comporta come uno Stato sovrano: esercita i poteri politici, civili, militari; ha un proprio esercito, si dà le leggi, amministra la giustizia; impone tributi e batte moneta; dichiara la guerra. Sarà proprio in questo suo comportamento da Stato autonomo la causa dei lunghi, ripetuti, sanguinosi conflitti che coinvolgeranno da una parte i sovrani dell’Impero, intenzionati a restaurare la loro autorità nelle città che ritenevano ribelli perchè si erano rese arbitrariamente indipendenti (erano prerogativa del re coniare monete, dare le leggi, concedere il gradimento alla nomina dei magistrati, riscuotere i tributi, ecc…), e dall’altra i Comuni dell’Italia settentrionale, desiderosi di conservare l’indipendenza acquisita e di estendere la sovranità anche sui possessi feudali del contado.
La lotta sarà particolarmente aspra durante il regno di Federico I di Svevia (la Casa succeduta a quella di Franconia sul trono di Germania, d’Italia e dell’Impero), sceso ripetutamente con i suoi eserciti nella pianura padana, più volte vittorioso e distruttore di città (Milano, 1162), battuto infine a Legnano (1176) dalle truppe fornite alla Lega Lombarda dai Comuni della Regione (e la Lega godeva pure dell’alto appoggio dell’autorità del Pontefice Alessandro III) e costretto a sottoscrivere la pace di Costanza (1183), che riconoscerà ai Comuni il godimento dei diritti acquisiti e ridurrà la sovranità imperiale ad una formalità.  (L. Mumford, da “La città nella storia”)

Classi sociali e ordinamenti
Le situazioni in cui si dormano e si sviluppano i Comuni sono molto diverse tra loro. Le vicende di Milano, il più importante centro di vita comunale nella pianura padana, solo in parte sono simili a quelle di Firenze o di altri Comuni dell’Italia centrale.
Una maggiore uniformità si può invece riscontrare nelle classi sociali e negli ordinamenti che li caratterizzano.
Anche nel Comune, che pure contrapponeva il principio dell’uguaglianza politica e civile dei suoi abitanti al principio della stretta gerarchia e delle dipendenze del sistema feudale, esistono di fatto più classi sociali, dalla nobiltà alla plebe. Sarà proprio l’ascesa economica e politica delle classi inizialmente meno potenti a costituire uno dei motivi fondamentali dell’età comunale.
Il governo del Comune è repubblicano; la sovranità risiede nelle mani del popolo, il quale, riunendosi nell’Assemblea Generale, detta anche Parlamento o Arengo o Concione, delibera sulle questioni più gravi d’interesse comune (guerra, pace, trattati) ed elegge i magistrati annuali cui spetta il potere esecutivo, i Consoli, che sono due o più a seconda dell’importanza del Comune.
Alle volte il Consiglio maggiore sostituisce l’Assemblea generale dei liberi cittadini.
Il Consiglio minore o Senato o Consiglio di Credenza aiuta e regola l’attività dei Consoli; è composto dai cittadini più influenti o da loro familiari ed esprime, in pratica, la volontà della classe dominante.
Tale ordinamento rispecchia la vita politica nei secoli XI e XII, quando il Comune è ancora impegnato a lottare contro i feudatari per raggiungere la piena libertà; il potere è nelle mani dei nobili o magnati o grandi (feudatari minori trasferitisi in città, mercanti, grossi artigiani, proprietari di case e di terreni entro la cerchia delle mura).
Il secolo XIII è caratterizzato da continue discordie interne che oppongono tra loro partiti e classi. I Consoli sono troppo legati a particolari interessi cittadini per garantire assoluta e costante imparzialità: al loro posto viene eletto un magistrato unico, il Podestà, chiamato in città dalla sua residenza abituale; un forestiero, dunque.
Intanto il cosiddetto popolo grasso, composto da mercanti, da banchieri, e da grossi artigiani organizzati in Corporazioni o Arti maggiori, cerca di limitare il potere dei nobili e di sostituirli al governo della città.
Accanto al podestà viene eletto un Capitano del Popolo, che rimarrà solo in carica dopo l’affermazione della borghesia.
Altre istituzioni si affiancano a quelle preesistenti, se ancora valide. Sono il Consiglio delle Arti o dei Priori, che raggruppa i rappresentanti delle singole Arti (un priore è a capo di ogni Arte, maggiore media o minore che sia) e che aiuta il Capitano del Popolo nelle sue mansioni, ed il Consiglio del Popolo con compiti quasi analoghi.
La borghesia raggiunge il potere nella seconda metà del XIII secolo, ma non per questo cessano le lotte interne nelle città. Anche il popolo minuto, infatti, quello delle Arti medie e minori, esige la sua parte di governo e tumultuano perfino i rappresentanti della plebe, composta di lavoratori per lo più salariati, ad esempio gli operai degli opifici e dei laboratori ove si tessono e tingono le stoffe.
Non dovunque e non sempre il popolo minuto può accedere al potere, però il suo contributo allo sviluppo economico del Comune resta rilevante.  (L. Mumford, da “La città nella storia”)

Le corporazioni
L’istituzione più tipica della vita associata, a parte la Chiesa, era la corporazione, e queste due basi di un’esistenza fondata sulla solidarietà, sul lavoro collettivo e su una fede comune erano associate nella città medioevale.
La corporazione non perdette mai il suo fondamento religioso. Rimase una confraternita conviviale, che si attribuiva particolari compiti economici e responsabilità commerciali, ma non si esauriva in essi.
I confratelli mangiavano e bevevano insieme in occasioni regolarmente ripetute, fissavano ordinanze attinenti alla loro arte, progettavano e finanziavano sacre rappresentazioni a edificazione dei concittadini.
Nei periodi prosperi costruivano cappelle, donavano messe di suffragio, fondavano scuole elementari (le prime scuole laiche dalla fine dell’evo antico) e al colmo del loro potere si costruivano una sede a volte sontuosa come il mercato dei panni di Ypres. Intorno alla loro arte edificavano un’intera vita rivaleggiando amichevolmente con le altre corporazioni e, da buoni fratelli, si alternavano nel presidiare le mura adiacenti al loro quartiere.
Se le corporazioni dei mercanti precedettero in genere di mezzo secolo quelle degli artigiani, bisogna però ricordare che, tranne che per i traffici internazionali, la linea divisoria tra mercanti e artigiani non era molto precisa, in quanto l’artigiano lavorava per vendere l’eccedenza della sua produzione.
Nel periodo iniziale gli artigiani entravano così a far parte delle corporazioni dei mercanti  e ne costituivano probabilmente la maggioranza: e così più tardi anche gli esponenti dell’ordine feudale o gli intellettuali che desideravano partecipare al governo cittadino dovevano diventare membri di una corporazione, per esempio di quella degli speziali o dei pittori.
La corporazione dei mercanti organizzava e controllava la vita economica dell’intera città, fissando le condizioni di vendita, proteggendo il consumatore dalle estorsioni e l’onesto bottegaio dalla concorrenza sleale, impedendo infine che il mercato locale venisse turbato da influenze estranee.
La corporazione degli artigiani era invece un’associazione di maestri nei diversi mestieri allo scopo di regolare la produzione e di fissare i criteri di esecuzione.
Entrambe queste istituzioni finirono per trovare espressione nella città: la prima nella loggia dei mercanti, la seconda nel palazzo delle corporazioni, risultato di uno sforzo collettivo o, come a Venezia, in una serie di sedi apposite, una per ogni arte.
Probabilmente le prime sedi di questi organismi erano modeste casette o stanze prese in affitto, oggi da tempo scomparse, come quelle degli antichi colleghi di cui abbiamo qualche testimonianza.
Ma gli edifici che ci sono rimasti rivaleggiano spesso in magnificenza con i Palazzi di Città e con le cattedrali.
L’importante funzione svolta dalle corporazioni nella città medioevale sino al Quattrocento denota che il lavoro, e in particolare il lavoro manuale, era ormai tenuto in ala considerazione, e anche questo fu in buona parte merito della Chiesa, un po’ perchè aveva dato adeguata importanza alle attività dei poveri e degli umili, e soprattutto perchè, con la regola benedettina, aveva accettato la fatica manuale come componente essenziale del viver bene: “lavorare e pregare”.
La vergogna del lavoro, questo penoso retaggio delle culture servili, a poco a poco scomparve, e le frequenti prodezze degli artigiani e dei mercanti in battaglia diedero un duro colpo alle pretese dei signori feudali i quali disprezzavano ogni forma di fatica fisica eccetto la caccia e la guerra.
Una città dove la maggioranza degli abitanti erano liberi cittadini che lavoravano uno accanto all’altro in condizioni di parità, e senza schiavi ai loro ordini, era un fatto nuovo nella storia urbana. (L. Mumford, da “La città nella storia”)

Il Comune rustico

L’epoca dei Comuni fu gloriosa per l’Italia. Carducci, profondo conoscitore della storia d’Italia e poeta, ricostruisce la vita di uno dei tanti Comuni italiani, piccolo sì, sperduto tra i monti, presso Udine, ma tanto valoroso e saldo nei suoi ordinamenti. La fantasia, nella ricostruzione poetica, non prevale sulla verità storica. Orgoglio, valore, fede sono i sentimenti che pervadono la composizione; da ammirare il quadretto conclusivo.

O che tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda ombra si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero
che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
sognando l’ombre di un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,
ma del comun la rustica virtù
accampata a l’opaca ampia frescura
veggo ne la stagion de la pastura
dopo la messa il giorno de la festa.
il consol dice, e poste ha pria le mani
sopra i santi segnacoli cristiani:
– Ecco, io parto tra voi quella foresta
d’abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
e la belante a quelle cime là.
E voi, se l’unno o se lo slavo invade,
eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade,
morrete per la nostra libertà-.
Un fremito d’orgoglio empiva i pettti,
ergea le bionde teste; e de gli eletti
in su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
invocavan la madre alma de’ cieli.
Con la man tesa il console seguiva:
– Questo, al nome di Cristo e di Maria,
ordino e voglio che nel popol sia-.
A man levata il popol dicea, Sì.
E le rosse giovenche di su ‘l prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando su gli abeti il mezzodì. (G. Carducci)

O che tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda ombra si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero…
Addio, o alberi di noci della Carnia, sia che (o che) al sole puro e leggero del mattino la vostra ombra si stampi solitaria (erma) sui prati di color verde vivo (campi smeraldini) tra i faggi e gli abeti, sia che si stenda cupa (foscheggi) e immobile sul far della sera (nel giorno morente) sulle case (ville) intorno alla chiesa, da dove si alzano le preghiere, o al silenzioso cimitero.

…che tace, o noci de la Carnia, addio!…
Le Prealpi Carniche, poste a nord della pianura friulana, sono ricche di alberi di noci; ed è questo elemento caratteristico del paesaggio che il poeta, partendo, saluta con nostalgia e tenerezza.

…Erra tra i vostri rami il pensier mio
sognando l’ombre di un tempo che fu…
Il pensiero del poeta erra tra i rami dei noci e corre al tempo passato.

…Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,…
Il Carducci ci precisa quale passato vada egli rievocando: non le manifestazioni dello spirito nordico con paurose leggende di morti e conciliaboli di streghe e diavoli, ma l’affermazione della civiltà latina su quella barbarica nell’organizzazione e nella vita di un libero Comune rustico, quale doveva essere in quelle zone montuose della Carnia, poste presso il confine e soggette ad invasioni.

…ma del comun la rustica virtù
accampata a l’opaca ampia frescura
veggo ne la stagion de la pastura
dopo la messa il giorno de la festa…
Ma vedo nel giorno della festa (probabilmente  quella del santo protettore del Comune) dopo la messa, nella stagione del pascolo (pastura), gli abitanti del Comune, dalle schiette e salde virtù della vita pastorale (del comun la rustica virtù), riuniti al fresco di un ampio spazio ombroso (a l’opaca ampia frescura).

il consol dice, e poste ha pria le mani
sopra i santi segnacoli cristiani:
– Ecco, io parto tra voi quella foresta
d’abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
e la belante a quelle cime là.
Consol: i Comuni rinnovarono il glorioso titolo dei capi di Stato romano per insignire la loro massima autorità;
santi segnacoli cristiani: la croce e i vangeli;
parto: divido;
al confin: presso il confine. Si tratta dunque di un rustico Comune di confine;
la mugghiante greggia e la belante: gli armenti di bovini e le greggi di pecore.

E voi, se l’unno o se lo slavo invade,
eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade,
morrete per la nostra libertà-.
unno e slavo  sta ad indicare lo straniero in genere, nel ricordo delle invasioni barbariche dei secoli precedenti;
aste: le lance, le picche.

Un fremito d’orgoglio empiva i petti,
ergea le bionde teste; e de gli eletti
in su le fronti il sol grande feriva.
eletti: prescelti alla sacra difesa della patria;
il sol grande feriva: il sole batteva sulle loro fronti illuminandole e quasi benedicendole.

Ma le donne piangenti sotto i veli
invocavan la madre alma de’ cieli.
Gli uomini fremono d’orgoglio, ma le donne, madri o spose o sorelle, sentono l’orrore della parola morrete e pregano piangendo.
La madre alma de’ cieli: la Vergine Maria.

Con la man tesa il console seguiva:
– Questo, al nome di Cristo e di Maria,
ordino e voglio che nel popol sia-.
A man levata il popol dicea, Sì.
E le rosse giovenche di su ‘l prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando su gli abeti il mezzodì.
Al nome: nel nome
a man levata: nota qui il singolare usato invece del plurale, poichè il popolo non ha una mano sola; ma il poeta dice man levata come a rendere più intensa l’unione di tutte le mani in una sola;
piccolo senato: la piccola accolta degli uomini che formavano il consiglio del Comune.

La ribellione dei Comuni
Mentre i Comuni, ormai indipendenti, stavano acquistando grande potenza, diveniva imperatore di Germania Federico I della casa di Svevia, chiamato Federico Barbarossa per il colore della sua barba.
Federico era un uomo energico e coraggioso che voleva ricostruire l’unità dell’Impero, come ai tempi di Carlo Magno. I Comuni non vollero però assoggettarsi all’Imperatore, non accolsero i suoi magistrati e i suoi podestà, e rifiutarono di pagargli i tributi, come invece continuavano a fare i feudatari del contado.

Federico Barbarossa in Italia
Federico I decise di richiamare i Comuni all’obbedienza. Venne perciò in Italia nell’anno 1154 e iniziò una lunga lotta contro le città comunali e soprattutto contro Milano, che era la più importante. L’imperatore distrusse Tortona, in Piemonte, poi si diresse verso Roma per esservi incoronato dal Papa.
Ritornato in Germania, quando seppe che i  Comuni d’Italia si erano fatti ancora più potenti, Federico ripassò le Alpi con il suo esercito e circondò Milano. Dopo un assedio lungo e terribile, per salvare la città, dove era scoppiata anche la peste, i consoli andarono dall’Imperatore, gli posero ai piedi gli stendardi e gli consegnarono le chiavi delle porte. Piangendo implorarono pietà. L’imperatore non si lasciò commuovere e distrusse Milano facendo abbattere le sue 300 torri.

La Lega Lombarda
Federico Barbarossa aveva dato ai Comuni italiani una terribile lezione, ma il desiderio di libertà e di indipendenza fu più forte della paura. Nel 1167, nel convento di Pontida, presso Bergamo, si riunirono i rappresentanti delle città del Veneto, dell’Emilia, della Lombardia e del Piemonte; essi giurarono sul Vangelo di aiutarsi concludendo un patto chiamato Lega Lombarda. Milano fu ricostruita e in Piemonte, in onore del papa Alessandro III che era un fedele alleato dei Comuni, fu fondata la città di Alessandria.

La battaglia di Legnano
Il Barbarossa, per sbaragliare i Comuni in modo definitivo, ridiscese in Italia con un forte esercito. La battaglia decisiva avvenne il 29 maggio 1176 poco lontano da Legnano. I Fanti e i cavalieri dei Comuni alleati sconfissero l’Imperatore, che si salvò a stento con la fuga. Il Barbarossa chiede la pace e riconobbe ai Comuni la libertà di governo.

Per il lavoro di ricerca
I cittadini del Comune erano sempre in lotta: come si svolgeva questa lotta all’interno del Comune?
Che cos’erano le regalie?
Chi accusò i Comuni italiani di aver usurpato i poteri spettanti all’imperatore?
Quante volte Federico Barbarossa scese in Italia?
Come avvenne la resa e la distruzione di Milano?
Ricerca notizie sulla Lega Lombarda e il giuramento di Pontida. Trova notizie sulla battaglia di Legnano e sulla conclusione della lotta tra i Comuni e l’Impero.
Come avveniva l’incoronazione di un imperatore nei secoli X, XI e XII?
Cerca notizie sull’origine e sul significato del Carroccio e della Compagnia della Morte.
Grande è la figura di Alberto da Giussano; trova notizie esaurienti su di lui.
Chi era Bonifacio VII?
Quando la sede papale fu trasferita ad Avignone?
Quando e per merito di chi fu riportata a Roma la sede pontificia?

La battaglia di Legnano
Dalla quiete dei campi attorno a Legnano, improvvisa come la tempesta, s’era alzata la voce della battaglia.
I fanti e i cavalieri tedeschi, protetti dalle pesanti armature, avevano resistito al primo urto dei soldati lombardi i quali disperavano ormai di poter vincere la superiorità nemica. Le grida dei combattenti si confondevano con le dolorose invocazioni dei feriti. La terra fu ben presto coperta di morti. Nel cielo scintillava la croce del Carroccio, ondeggiava libero il gonfalone ricordando ai combattenti una promessa.
Ad un tratto il sacerdote che celebrava la Messa fu colpito da una freccia e cadde. Allora un giovinetto balzò sul Carroccio, afferrò la corda della martinella e diede a tirare a gran forza. La campana diffuse i suoi rintocchi, chiamò i soldati della Compagnia della Morte perchè difendessero il Carroccio.
Accorsero qui generosi, guidati da Alberto da Giussano, e volsero in fuga i Tedeschi. La martinella continuava a squillare agitata dal coraggioso fanciullo che, perdute le mani per un colpo di spada, aveva afferrata la corda con i denti.
Nel cielo salivano i canti di vittoria dei soldati della Lega.

Non tutti i cittadini avevano gli stessi interessi
I vari gruppi di cittadini nei quali era divisa la popolazione di un Comune avevano interessi diversi. Ogni gruppo desiderava leggi che soddisfacessero ai suoi interessi.
I proprietari di case e di terreni volevano leggi che garantissero loro di guadagnare molto con gli affitti delle case e con la vendita dei prodotti della terra.
I grandi mercanti e i banchieri volevano che gli affitti delle case e i prodotti della terra costassero poco, perchè in questo modo gli operai che da loro dipendevano avrebbero potuto vivere con un basso salario.
Gli operai volevano un salario che permettesse loro di vivere senza soffrire la fame.
I piccoli artigiani e i piccoli negozianti erano d’accordo con loro, perchè potevano lavorare solo se gli operai, che formavano la maggior parte della popolazione, potevano comprare le loro merci.
Per ottenere quello che voleva, ogni gruppo cercava di eleggere a capo del Comune uomini di sua fiducia. Ma siccome i capi di vari gruppi non riuscivano quasi mai a mettersi d’accordo, allora si ricorreva alla violenza e ai combattimenti.
Come si svolgevano queste lotte all’interno del Comune?
Quando uno di questi gruppi vinceva, cacciava dalla città i suoi nemici, finchè, vinto a sua volta, doveva abbandonare lui il Comune.
Così la vita del Comune era un continuo succedersi di lotte sanguinose. Spesso i grandi proprietari, i grandi mercanti e i banchieri, meno numerosi, ma più potenti, perchè avevano maggiori ricchezze, erano d’accordo in una sola cosa: non permettere ai più poveri di governare.

I Comuni si affermano sul feudalesimo declinante
Fino alla metà del XII secolo i Comuni cittadini poterono moltiplicarsi nell’Italia settentrionale e centrale senza incontrare nel decadente mondo feudale ostacoli seri. I piccoli feudatari, infatti, avevano preferito far causa comune con gli abitanti delle città nella lotta contro i grandi feudatari delle campagne. In tal modo questi ultimi avevano perduto ogni giorno terreno e avevano finito per cedere ai Comuni gran parte delle prerogative e dei privilegi  che i loro antenati avevano strappato ai sovrani dall’epoca carolingia in poi. Così i Comuni si trovarono a disporre di molti poteri che normalmente spettavano all’imperatore o al re (ed erano detti perciò regalie), senza averne ricevuta la concessione da alcun sovrano.
Intanto, dopo un lungo periodo di lotte tra i feudatari tedeschi, seguito dalla morte di Enrico V (1125) ultimo sovrano della Casa di Franconia, nel 1152 saliva al trono imperiale Federico I di Svevia che, gelosissimo dei suoi diritti, subito accusò i Comuni italiani di aver usurpato i poteri spettanti all’imperatore.

L’imperatore
Ecco come avveniva l’incoronazione di un imperatore nel secolo X.
I magistrati, l’arcivescovo di Magonza, il clero e il popolo aspettavano il corteo del nuovo re nella basilica di Aquisgrana. Quando esso avanzò, l’arcivescovo gli mosse incontro e toccò con la sinistra la mano destra del re; poi si portò al centro della chiesa, e rivolto al popolo che stava sulle logge disse: “Ecco, io vi conduco Ottone, eletto da Dio, e poco fa proclamanto re di tutti i Principi”.
Poi l’arcivescovo, insieme al re che era vestito di una tunica attillata, si recò all’altare, sul quale erano collocate le insegne regali: la spada con la banboliera, il mantello coi fermagli, il bastone con lo scettro e il diadema. L’arcivescovo prese la spada e, rivolto al re, disse: “Accetta questa spada per proteggere l’Impero dai barbari e dagli avversari di Cristo.”
Preso il mantello, ne rivestì Ottone e disse: “Questi lembi che scendono al suolo ti ammoniscano a proteggere la pace fino alla fine dei tuoi giorni”.
Poi preso lo scettro e il bastone disse: “Ammonito da questo insegne, punisci paternamente i sudditi colpevoli e porgi la mano misericordiosa alle vedove e agli orfani”.
Dopo di che Ottone fu incoronato con un diadema d’oro.

Discesa in Italia di Federico Barbarossa
Nel 1152 fu eletto imperatore Federico I di Svevia detto il Barbarossa, il quale, sedate le ribellioni in Germania, scese in Italia per ristabilirvi i diritti dell’impero non più riconosciuti dai Comuni maggiori.
Nella prima discesa che fece al di qua delle Alpi (1154-1155) l’imperatore tedesco si limitò a trattare con ostilità i rappresentanti dei maggiori Comune e, spintosi fino a Roma, abbattè il regime comunale costituito per iniziativa di un monaco ribelle al papato, Arnaldo da Brescia; restituì quindi il dominio della città al papa Adriano IV, dal quale ottenne l’incorporazione imperiale. Arnaldo da Brescia, condannato come eretico, fu arso sul rogo.
Nella seconda discesa, avvenuta nel 1158, Federico si propose di agire più a fondo. Posto l’assedio a Milano, costrinse alla resa la città e obbligò i consoli a prestargli omaggio; poi fece riunire a Roncaglia, presso Piacenza, una dieta di tutti i vassalli italiani, alla quale parteciparono anche alcuni giuristi dell’Università di Bologna. Proprio da costoro l’imperatore fece proclamare, sulla base del diritto romano, la legittimità delle sue disposizioni: divieto assoluto delle lotte private, sia tra città sia tra feudatari; obbligo per tutti di rivolgersi ai tribunali imperiali per risolvere le contese; scioglimento delle leghe tra città e delle Consorterie nobiliari; riconoscimento da parte dei vassalli e dei Comuni, del diritto imperiale di nominare magistrati, coniare moneta, imporre tasse e pedaggi, ecc…
Le deliberazioni di Roncaglia miravano insomma, nei disegni di Federico, a rinsaldare il potere centrale, trasformando i regni d’Italia e di Germania in  una monarchia assoluta.

I Comuni e il Papato si oppongono all’Imperatore

Questa ambiziosa politica trovò un ostacolo insormontabile nel desiderio di libertà che animava i giovani Comuni italiani. Quando infatti Federico volle imporre alle città alcuni podestà di sua nomina, molte di queste, con a capo Milano, si rifiutarono di riceverli.
Intanto anche il nuovo papa Alessandro III, misurando il pericolo che l’aumentato potere imperiale rappresentava per l’indipendenza del papato, aveva assunto un atteggiamento contrario a Federico, rispondendo con la scomunica al tentativo da questi fatto di contrapporgli un antipapa. Contrariato da tali segni di ostilità, l’imperatore volle subito ristabilire il suo prestigio sulle città italiane e cinse d’assedio Milano.

La resa e la restituzione di Milano
Due anni durò l’assedio, poi la peste ricominciò a infierire fra gli eroici difensori; un incendio distrusse la maggior parte dei magazzini di granaglie e la fame livida tornò a mietere vittime. Sembrava che un fato tremendo pesasse sulla roccaforte della libertà lombarda.
Alla fine del febbraio 1162, sulle torri lesionate della città, la rossa croce del comune venne sostituita dalla bianca bandiera della resa! E dopo la sconfitta, l’umiliazione…
… al primo di marzo i consoli cavalcarono alla volta di Lodi dove il Cesare li attendeva. Appiedati, le spade in pugno, gli giurarono servitù ed obbedienza.
E tre giorni dopo, tutti i nobili e i grandi di Milano, in numero di trecento, vennero a spezzare le loro spade ai piedi del Cesare. Poi il podestà, mastro Guitelmo, in ginocchio gli offrì le chiavi di ferro della città. I trentasei stendardi delle contrade si inchinarono nella polvere. Superbo il sire, circondato dai suoi cavalieri, teneva lo sguardo fisso avanti a sè.
E due giorni dopo, volle anche il popolo. Uscirono da tre porte i Milanesi,  le corde al collo, i piedi nella polvere, le croci in mano. Li seguiva il Carroccio parato a guerra. Squillarono per l’ultima volta le trombe milanesi, la campana rintoccò per l’ultima volta ed il vessillo, il bel vessillo crociato di Milano, cadde nella polvere. L’imperatore ne calpestò i lembi.
Ed il popolo in ginocchio, piangente, chiedeva pietà.
Poi l’ordine imperiale: “Che i Milanesi atterrino le mura e le torri, affinchè l’esercito possa passare schierato a battaglia”. E così fu fatto.
E dopo nove giorni di preghiere, un ordine nuovo: “Vadan disperse le genti di Milano: otto giorni concede l’imperatore per trarre a salvamento robe e masserizie; poi la città verrà distrutta, il sale seminato sulle rovine”. E così fu. Preghiere, pianti di donne e bambini, supplicare di vecchi e malati, nulla piegò il Barbarossa, nulla valse umiliarsi ancora alla bionda imperatrice. Convenne lasciare la città ai fanti di Como e Lodi che la diroccarono al suolo.
Intanto i vincitori, nobili e fanti, saccheggiarono la città di quanto era prezioso, gli altari furono spogliati, le case private di ogni ricchezza.
Ed il 31 marzo l’imperatore, cavalcando il bianco destriero di guerra, seminò lo sterile sale.
Ed era il giorno di Pasqua!
Tanta è l’importanza che Federico ammette a questa sua vittoria su Milano, che egli data ormai i suoi atti e le sue lettere “dalla distruzione di Milano”. (G. Gozzano)

La Lega Lombarda e la battaglia di Legnano
Ma il Barbarossa non aveva potuto piegare l’animo di quei vinti. Il suo trionfo fu breve: le varie città dell’Italia settentrionale, anche quelle che avevano fino ad allora collaborato con l’imperatore, cominciarono a temere della loro futura sorte e in breve si stancarono dell’arroganza dei podestà imperiali. Dall’imperatore erano offese anche nei loro interessi economici: Venezia, ad esempio, che commerciava lungo le vie fluviali con l’Italia settentrionale, ed attraverso i valichi alpini con il centro dell’Europa, vedeva ora sbarrate queste vie dai nuovi prepotenti feudatari tedeschi creati dal Barbarossa.
Perciò nel Veneto cominciò la resistenza: nel 1164 Venezia favorì la formazione di una Lega, detta Veronese, tra Verona, Padova e Vicenza.
L’esempio fu di incitamento: tre anni dopo (1167) alcuni Comuni lombardi, insieme con esuli milanesi, nel monastero di Pontida, presso Bergamo, strinsero una lega anti-imperiale, detta Lega Lombarda, che si  fuse con quella veronese. Gli odi e le gelosie municipali scomparvero di fronte al  comune pericolo. Fu cominciata subito la ricostruzione di Milano. Il papa Alessandro III diede alla lega l’appoggio della sua alta autorità. Perciò la fortezza che i Comuni alleati fondarono in Piemonte, fra il Tanaro e la Bormida, per ragioni strategiche, fu chiamata Alessandria in onore del papa.
Mentre fervevano questi preparativi, l’imperatore era sceso altre due volte in Italia, senza concludere nulla.
Solo nel 1174 si decise a scendere con un grande esercito per schiantare le forze della Lega.
Questa comprendeva allora 36 Comuni e molte Signorie feudali, e si estendeva per tutta la Pianura Padana. Posto invano l’assedio ad Alessandra, dopo sei mesi l’imperatore dovette ritirarsi per non essere a sua volta accerchiato dai nemici. Lo scontro decisivo avvenne a Legnano il 29 maggio 1176 e fu una splendida, decisiva vittoria per l’esercito della Lega.

Giuramento della Lega Lombarda
Nel nome del Signore, amen.
1. Io giuro sui santi Vangeli di Dio che non farò pace ne tregua, ne guerra finta, ne altro accordo con l’imperatore Federico, ne con i figli e la moglie di lui, ne con altra persona in suo nome: e questo non farò io, ne per mezzo di altra persona, e se altri lo facessero non lo approverò.
2. Mi sforzerà in buona fede, secondo il mio potere, con tutte le mie forze, perchè nessun esercito piccolo o grande venga in Italia dalla Germania o da altra terra imperiale che sia oltremonti. E se detto esercito entrasse, io farò guerra attiva all’imperatore e a tutte le persone che sono o saranno del partito dell’imperatore, finchè il predetto esercito esca dall’Italia.
3. Ed io in buona fede e per mezzo di tutte le persone a me soggette salverò e custodirò le persone e le cose di tutti gli uomini della Lega della Lombardia, Marca e Romagna, e specie il marchese Obizzo Malaspina e tutte le persone che ora sono in detta Lega.
6. Tutti questi patti manterrò in buona fede, senza inganno per cinquanta anni continui, e tutto ciò che fosse aggiunto o tolto dal Consiglio dei Rettori della Lega: e lo farò giurare ai miei figli quando abbiano quattordici anni, entro due mesi dal compimento di questa età, e a quanti e quali dei miei piacerà ai Rettori. (C. Manaresi, dal testo latino in “Gli atti del Comune di Milano)

Il Carroccio, simbolo del Comune
A Milano, che divenne Comune nel 1081 dopo un’aspra lotta contro i feudatari, venne creato quello che in seguito divenne il simbolo stesso della libertà comunale: il Carroccio.
Questo era un carro tirato da bianchi buoi, sul quale era eretto un altare, un pennone con lo stendardo (il gonfalone) del Comune e una campana detta martinella.
Il Carroccio seguiva i soldati fin sul campo di battaglia: nell’imminenza dello scontro un sacerdote celebrava la Messa, mentre quando la lotta era già iniziata un addetto suonava a distesa la martinella per incitare i combattenti.
Il Carroccio aveva anche una funzione pratica. Attorno ad esso si raccoglievano le truppe di fanteria non appena la cavalleria nemica stava per sferrare una carica. Così raccolti attorno al carro, i fanti formavano una specie di invalicabile blocco di lance puntate, che era in grado di reggere l’urto dei cavalieri avversari, e di respingerlo. Il Carroccio, con il suo alto pennone sul quale sventolava il gonfalone, serviva anche come punto di riferimento ai soldati: anche nelle mischie più furibonde bastava levare gli occhi in alto per capire subito dove si trovavano i propri compagni.
Perdere in battaglia il Carroccio era il più grave disonore per i cittadini del Comune: per questo ognuno era disposto a morire su di esso, piuttosto che lasciarlo conquistare dal nemico.

Lo stendardo de Carroccio
Così Arnolfo, cronista milanese, descrive l’insegna del Carroccio: “Un’alta antenna, a guisa di albero di nave, era piantata sul Carroccio e si ergeva in alto portando in sulla cima un pomo aureo con due limbi di lino candido pendenti. In mezzo stava infissa la veneranda croce con dipinta l’immagine del Redentore, a braccia aperte rivolte verso le schiere, perchè qualunque fosse l’esito della battaglia, ognuno dei soldati, guardando quell’insegna, ne avessero conforto.”.

L’esercito imperiale e l’esercito dei Comuni
Tra i due eserciti, quello dell’imperatore, composto di cavalieri, era il più numeroso e quello più pesantemente armato. Quello della Lega Lombarda, meno numeroso, era composto quasi esclusivamente di fanterie.
Ma le fanterie dei Comuni non erano più le fanterie dell’epoca di Carlo Magno, composte di contadini armati di forconi. Erano fanterie di tipo nuovo. Quei fanti erano mercanti e artigiani ben forniti di denaro, che avevano avuto la possibilità di comprarsi un’armatura buone come quella dei cavalieri, e forse anche migliore, perchè nelle valli del bergamasco, proprio vicino a Milano, vi erano artigiani che costruivano le migliori armi d’Europa.
I cavalieri del Barbarossa, coperti, loro e i loro cavalli, da molti chili di ferro, si muovevano non troppo facilmente ed erano abituati ad un tipo di combattimento tutto particolare: due schiere di cavalieri si scontravano frontalmente e raggiungeva la vittoria chi era più pesantemente armato e riusciva a disarcionare i suoi avversari.
La fanteria lombarda aveva armature resistenti ma leggere, che permettevano una notevole facilità di movimenti. Era accompagnata da una certa quantità di cavalieri, che la sostenevano nei momenti più difficili della battaglia.

La battaglia di Legnano
Da Como il Barbarossa con non più di duemila uomini si porta a Cairate; a Legnano le forze della Lega ascendono ad almeno cinquemila uomini.
Tutti i quartieri di Milano risorta hanno i loro uomini e i loro stendardi.
Al vento di maggio garriscono le bandiere: la rossa di Porta Romana, la bianca di Porta Ticinese, la balzana (bicolore) di Porta Vercellina, l’inquadrata di bianco e di rosso di Porta Comacina; Porta Nuova ha lo stendardo col leone bianco e minacciosa sventola fosca la bandiera nera di Porta Orientale.
Il Carroccio coi bovi bianchi aggiogati porta in alto, sopra il castelletto, il legno ove era appesa la campana, il gonfalone del Comune con la grande croce rossa sul campo candidissimo del drappo.
Intorno su trecento carri stanno le milizie popolane. Un esercito di uomini, di bandiere, di animi,  che attende la sua ora.
L’imperatore ordina l’assalto. La mischia si fa terribile e sanguinosa. Le ondate di cavalieri tedeschi si rinnovano. I Milanesi cedono e poi si riprendono, si sbandano e si radunano in alterna vicenda.
Sul Carroccio la martinella suona a distesa, i trombettieri sotto il grandinar delle frecce lanciano il loro squillo.
L’imperatore ha l’intuizione del pericolo mortale: è un soldato e non dimentica di esserlo: un nuovo assalto è comandato da lui, egli è in prima fila, alto, vicino al vessillifero  che porta l’aquila dell’impero.
La galoppata mortale si avventa ancora una volta contro i Milanesi che resistono; si vede nella mischia scomparire la bandiera dell’impero e poi anche l’imperatore non si vede più.
I suoi si sgomentano. E’ la sconfitta; il panico prende le forze imperiali; fuggono i Pavesi e i Comaschi, fuggono i Tedeschi, lasciando dietro di loro  il tesoro, i bagagli, i morti , i feriti.
I Milanesi avanzano, raccolgono il bottino, inseguono per un poco i fuggitivi e poi li lasciano.
Hanno vinto, hanno fretta di ritornare, di correre alla città che li attende a dir la grande, l’incredibile novella: l’imperatore è sconfitto, non lo si trova più, forse è morto in battaglia, il suo esercito è disperso, il ricco tesoro di guerra, lo scudo e la spada stessa del Barbarossa sono nelle mani dei Milanesi. (E. Momigliano)

Consuntivo della battaglia di Legnano
Così riferirono i Milanesi a Bologna la battaglia di Legnano: “Non si poterono contare gli uccisi, gli annegati, i prigionieri. Lo scudo dell’imperatore, il suo vessillo, la croce e la lancia caddero nelle nostre mani. Fra i suoi bagagli abbiamo trovato molto oro e argento; nè crediamo che sia possibile fare una precisa stima del cospicuo bottino che abbiamo fatto. Durane la battaglia sono stati fatti prigionieri il duca Bertoldo,  il fratello dell’arcivescovo di Colonia e lo stesso nipote dell’imperatore”.

Il Capitano della Compagnia della Morte
Il comandante dei cavalieri della Compagnia della Morte fu Alberto, detto da Giussano perchè nativo di Giussano, paese che si trova vicino a Milano.
Nelle cronache del tempo egli è anche indicato col nome di Alberigo,e soprannominato “il Gigante” per la sua alta statura.
Capitanò una schiera di eroi che, prima di partire in battaglia contro il Barbarossa, giurarono sulla croce di morire piuttosto di cedere davanti al nemico. Infatti si dovette alla resistenza della Compagnia della Morte, al suo slancio audace e temerario, gran parte del merito di avere vinto a Legnano, il 29 maggio 1176, l’imperatore germanico, sgominando le sue truppe.

Papa Bonifacio VIII
Bonifacio VIII (1294-1303) fu l’ultimo grande papa medioevale, ed in un mondo mutato tentò di riaffermare i diritti della chiesa, come ai tempi di Gregorio VII e di Innocenzo III.
Ma, se per qualche tempo potè avere successo, non riuscì invece ad avere ragione della resistenza del Re di Francia, Filippo IV il Bello, che volle imporre nuove tasse sul clero francese. Il papa lo minacciò di scomunica ma il re di Francia inviò a Roma i suoi emissari, con a capo Guglielmo di Nogaret, che con l’appoggio della famiglia nobile dei Colonna, poterono impadronirsi dello stesso pontefice, ad Anagni, presso Roma, dove egli si trovava. Sembrava anzi che egli venisse allora oltraggiato dai suoi nemici, tanto che questo triste episodio passò alla storia col nome di “schiaffo di Anagni”.
Ma il popolo insorse, liberò il papa, e lo ricondusse a Roma, dove morì un mese dopo.

Trasporto della sede papale ad Agignone
Qualche tempo dopo il nuovo papa, francese, lasciò addirittura Roma e l’assenza del Papato dall’Italia durò circa settant’anni, dal 1305 al 1377.
Essa si stabilì in Avignone, nel sud della Francia, in una zona che divenne possesso pontificio; ivi i papi furono protetti, o piuttosto, soggetti al re di Francia, anche se a più riprese tentarono di riconquistare la loro indipendenza. Ma il danno maggiore di quest’assenza del papa da Roma fu per l’Italia che si vedeva privata dell’onore di essere sede papale, e abbandonata allo scatenarsi di tutte le discordie intestine fra principi e città, fino allora tenute a freno, in assenza dell’imperatore, dal papa. Soprattutto in Roma e nello Stato della Chiesa si scatenò la più grande anarchia, e questi territori furono rattristati da una guerra continua.
Finalmente, nel 1377, il papa Gregorio XI, cedendo alle preghiere e agli inviti che gli venivano da ogni parte d’Italia, e specialmente alle appassionate ed insistenti invocazioni di Santa Caterina da Siena, riportò a Roma la sede pontificia.

Leggenda
Si narra che, per aver ragione della resistenza di Crema, il Barbarossa fece accostare alle mura della città una torre mobile sulla quale aveva legato alcuni giovinetti cremaschi, avuti in ostaggio. Ma i valorosi difensori non desistettero dal lanciare coi mangani le pietre contro la torre, gridando ai giovinetti: “Beati voi che morite per la patria!”.

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ABRUZZO materiale didattico vario

ABRUZZO materiale didattico vario – una raccolta di dettati ortografici e letture sull’Abruzzo, di autori vari, per la scuola primaria.

L’Abruzzo

Quando, in inverno, nevica sugli alti monti dell’Abruzzo, il viaggiatore, l’alpinista che li osservi, ha la netta impressione di trovarsi fra le Alpi: le catene sono imponenti, le cime aspre, rocciose, aguzze come quelle alpine. Ma se si guada attorno si vede vicino gli alberi di olivo. Così è fatto l’Abruzzo: una delle regioni più elevate  e montuose del nostro paese, con le cime che si avvicinano ai tremila metri, aspre, tormentate; ma ai piedi delle pareti rocciose cresce l’ulivo e si estendono pascoli verdissimi.

Abruzzo: sguardo d’insieme
E’ la regione nella quale l’Appennino si impone con le cime più elevate e solenni; esso occupa la maggior parte del territorio fino alla riva adriatica, ma ha caratteristiche nettamente diverse nell’interno e nel settore costiero.
E’ proprio nella parte più interna, sino ai confini con il Lazio, che l’Appennino ha il suo sviluppo più notevole: non presenta catene ordinate, ma piuttosto rilievi raggruppati attorno alle vette più alte, separati da larghi avvallamenti nei quali si raccoglie fitta la popolazione.
Questi gruppi montuosi appaiono solitamente brulli, battuti nell’inverno da violente bufere di neve, poveri di acque, che filtrano in profondità negli  strati calcarei e zampillano in ricche sorgenti al piede delle montagne; gole profonde e anguste, talora intransitabili, rompono l’uniformità dei dossi.
I gruppi montuosi si dispongono, grosso modo, su tre linee successive: ai confini settentrionali con il Lazio si individuano i monti della Laga; ad ovest i monti Simbruini e i  monti della Meta stanno a cavallo tra Lazio e Abruzzo.
In tutta evidenza, nel cuore della regione, sono i massicci del Gran Sasso (con l’alta vetta del Monte Corno) e della Maiella, che raggiunge il culmine nel Monte Amaro, i monti del Morrone e le alte cime del Velino e del Sirente. Il Gran Sasso, guardato nel suo profilo solenne, appare come una cresta i cui denti hanno nome di Corno Grande, Corno Piccolo, Monte Camicia, Monte Prena, e superano tutti i 2500 metri. Ha pareti scoscese, di tono bianco – grigio, ai piedi delle quali si estendono cumuli di detriti franati dall’alto. La valle in cui si insinua il fiume Pescara separa il Gran Sasso dalla Maiella; questo massiccio cede di poco, con le sue vette più alte, al contrapposto Gran Sasso. E’ un rilievo tormentato: nei punti più alti, oltre i 2500 metri, si trovano improvvisi pianori dolcemente ondulati e, d’un tratto, profonde spaccature, valli di aspetto selvaggio.
Tra il gruppo dei Simbruini e le vette dei ricordati Velino e Sirente si estende la Conca del Fucino, un antico lago più vasto di quello di Como, del tutto prosciugato, razionalmente irrigato e destinato a ricche coltivazioni. Ancora tra il Velino, il Sirente e i massicci del Gran Sasso e della Maiella è la lunga conca dell’Aquila che, per la strozzatura della valle di San Venazio, comunica con la conca di Sulmona; ambedue sono bene irrigate e molto produttive.
L’Abruzzo esterno, quello affacciato al mare, è ancora montuoso, ma l’Appennino dà segni di stanchezza e ripete il disegno proprio dell’Appennino Emiliano e Marchigiano: basse catene, pressochè perpendicolari alla costa, orlate all’estremità di colline; negli avvallamenti corrono i fiumi (i principali sono il Tronto, il Pescara e il Sangro); la maggior parte di essi ha un corso longitudinale attraverso gli alti rilievi dell’interno, in valli anguste e scoscese, e prende poi la direzione trasversale tra le catene costiere; sono fiumi abbastanza ricchi, alimentati dalle sorgenti dell’Appennino; alcuni di essi hanno notevoli magre estive che riducono il loro corso ad esili fili d’acqua.
La costa, incalzata da presso dai rilievi montuosi e collinari, presenta una breve striscia uniforme e sabbiosa, priva di insenature e di porti; così esile da permettere appena, in alcuni tratti, il passaggio della strada e della ferrovia.

I monti
La regione è occupata in gran parte dalla montagna; appare evidente la distinzione in un Abruzzo interno, il più montuoso, e in un Abruzzo esterno in cui l’Appennino si abbassa, declina in colline, si dispone in brevi catene perpendicolari alla costa. Nell’Abruzzo interno, intervallati da ampie conche, si individuano grossi gruppi montuosi: i monti della Laga, i Simbruini, i monti della Meta; più ad est sono i massicci del Gran Sasso l’Italia (Monte Corno, m 2914) e della Maiella (monte Amaro, m 2795), i monti del Morrone, le cime del Velino (m 2487) e del Sirente (m 2349).
Vasta conca verde fra gli alti monti è quella del Fucino.
Estese sono le valli dell’Aquila e di Sulmona.

I fiumi
I fiumi dell’Abruzzo attingono a generose sorgenti appenniniche, tuttavia hanno notevoli variazioni di portata nei diversi mesi dell’anno.
Il Tronto nasce sui monti della Laga, attraversa un tratto del Lazio, un tratto delle Marche e segna il confine tra questa regione e l’Abruzzo: è lungo 93 chilometri.
Dai monti della Laga nasce anche l’Aterno, il quale è arricchito nel suo alto corso da numerosi affluenti. Nel tratto inferiore assume il nome di Pescara, riceve altri affluenti e sbocca nell’Adriatico dopo 145 chilometri; la sua foce è stata trasformata in portocanale.
Il Sangro nasce nei monti che si affacciano alla conca del Fucino, attraversa la regione e sfocia nell’Adriatico dopo 117 chilometri.

Lungo il litorale
Il breve tratto della provincia di Pescara affacciato all’Adriatico non è più l’arenile selvatico dove si arenavano le paranze e dove l’Adriatico restituiva gli avanzi dei naufragi: oggi è almeno per metà trasformato in spiaggia per famiglie, lungo la quale gli stabilimenti si succedono agli stabilimenti, i ristoranti ai ristoranti: sa essi esce l’odore del fritto, misto al fracasso della televisione, all’urlio della radio…
Ma appena fuori dalla zona balneare, al di là delle incastellature del porto, che non è più soltanto un porto peschereccio, ma un porto industriale, le greggi pascolano ancora presso la battigia dove alla sabbia si mischiano certe magre erbette di sapore salmastro; ed è un pezzo d’Abruzzo antico che si innesta su un Abruzzo rinnovato ed operoso che, senza nemmeno saperlo, ritrova nelle sue antiche virtù la forza e il vigore per la rinascita. (A. Zorzi)

Il gruppo del Gran Sasso
Da Teramo, raccolta in una conca verde, il Gran Sasso si vede più vicino che da ogni altra città abruzzese. Nelle giornate limpide è lì, quasi a ridosso; brullo, ferrigno, corso da rughe di canaloni. Ma l’inverno è un’enorme, altissima, bianca muraglia; con le teste coronate di nuvole. Da ragazzo io lo vedevo andando all’Aquila. S’arrivava all’Aquila verso mezzogiorno, le campane delle molte chiese suonavano a gloria. E pareva che quel suono di gloria, navigante nel libero spazio, spingesse le nuvole che scendevano aeree mongolfiere bianche e oro, dal Gran Sasso verso i monti della Sabina. E il Gran Sasso, come si saliva verso la città, si mostrava lassù lontanissimo, con la sua ardita punta stagliata verso il cielo; il Corno Grande, ferrigno d’estate, candido d’inverno. E io guardavo se il Gran Sasso avesse le brache o il cappello, se cioè la neve fosse alle falde o sulla cima e indicasse perciò un lungo o corto inverno. Ma si era di primo autunno, e il Monte Corno aveva un colore bronzeo che la distanza velava d’una lieve tinta violetta. Dall’altra parte si scorgeva il Sirente proteso come un’enorme selce aguzza sul nero delle boscaglie, coi canaloni biancheggianti come quelli del Gran Sasso. E laggiù alle nostre spalle tra le lievitanti brume violacee, il massiccio lontano della Maiella, la montagna madre della gente d’Abruzzo . (G. Titta Rosa)

Il Parco Nazionale d’Abruzzo
Amato poco dai pastori, che vedono ridursi i pascoli, contenente ancora fino a poco tempo fa alcuni carbonai sperduti in condizioni quasi primitive, il Parco Nazionale è una delle grandi speranze turistiche del centro Italia. Nato, come anche quello del Gran Paradiso, sul luogo di una riserva reale di caccia per iniziativa privata, questo meraviglioso parco si allunga ai confini del Lazio, e infatti travalica sia nel Lazio sia nel Molise, coprendo un territorio di 300 chilometri quadrati appartenente a diciassette comuni.
Quasi interamente posto sopra i mille metri di altezza, è rinchiuso tra catene impervie che sorgono dai faggeti. Il viaggiatore pigro può farsene una mezza idea percorrendone il fondo valle, lungo il corso del Sangro. Ma i parchi nazionali, per il loro stesso proposito di conservare aspetti di natura selvaggia, sottraggono allo sguardo dei pigri i loro segreti. La mancanza di strade fino ad epoche recenti e la scarsa popolazione hanno salvato i boschi e gli animali altrove distrutti. Risalire le valli secondarie vuol dire dunque ritrovarsi in un’Italia più che antica, remota. Nel nostro Mezzogiorno la natura alpina prede un rigoglio che non può avere a nord; gli stessi alberi delle Alpi diventano qui più  fitti ed intricati così da sbarrare il passo; tali questi immensi faggeti, dove il verde si alterna al rosso, e che conservano sotto le foglie vive una coltre perenne di foglie morte di colore purpureo. I faggeti si arrestano contro le pareti di roccia, e non appena ci si libera dalla foresta ci si trova a ridosso delle cime, tra cui spiccano le catene del Marsicano e del Meta… Nel Parco è Pescasseroli, oggi centro alberghiero come altri borghi della zona, e destinato a diventare un centro alberghiero più grande…
Un piacere di Pescasseroli, che è sede della Direzione del Parco, è discorrere con le guardie… Questi uomini che fanno a piedi una ventina di chilometri al giorno sono i depositari dei segreti del Parco, il quale, oltre agli animali dei quali diremo tra poco, contiene martore, faine, volpi, gatti selvatici, tassi, aquile reali, gufi e forse galli di montagna. Qui si sono raccolti gli ultimi discendenti dell’orso marsicano, diverso da tutti gli orsi del mondo… Si è ritirato in questa cittadella, e la difesa della legge gli consente di conservare la propria rarità di esemplare unico… Secondo i calcoli prudenti vi erano negli anni ’70 del novecento una settantina di orsi rintanati nelle alte forre; animali pacifici, carnivori per eccezione, e così moderati che non spingano mai le loro orge sanguinarie più in là di una sola pecora. Pressapoco dello stesso numero erano anche i camosci, anch’essi diversi da tutti gli altri camosci della terra, esemplari appenninici dissimili da quelli alpini, dai quali si distinguono anche per le corna più lunghe. Pochi invece i caprioli…
Nocivi, e perciò da uccidere, sono considerati da sempre i lupi, animali nomadi, insieme con le volpi, e tutti nemici dei giovani orsi e camosci, delle pecore e delle capre. E’ difficile che i viaggiatori, come me, di passaggio, che non si internano tra foreste e spelonche, vedano in libertà orsi, lupi e camosci; essi devono accontentarsi di accostarne qualcuno cresciuto in cattività presso la Direzione, o gli esemplari imbalsamati nel museo.
La vita delle guardie non è drammatica come quella del Gran Paradiso, dove si svolge una battaglia perpetua tra la legge e i contrabbandieri; si passerebbero però giornate intere ad udirne i racconti. Quello ad esempio della lotta tra l’orso e il lupo, testimoniata dalle tracce rimaste sulla neve, ciuffi di peli di orso misti alla bava. Ma non peli di lupo: segno che, benchè più forte, l’orso non poteva azzannare il suo più agile avversario. Si impara qui che la faina, esile come un verme, ed appuntita come un trapano, uccide la volpe afferrandola al capo coi dentini aguzzi; e che la martora, presa nella tagliola sulla neve, se ne libera spesso recidendo la zampa con i suoi stessi denti, forse senza soffrire, perchè la zampa è anestetizzata dalla stretta e dal freddo. Perciò nel museo si vedono esemplari di martore con la zampina monca… (G. Piovene)

La conca del Fucino
Proprio nel cuore della regione montuosa dell’Italia Centrale si stende una ampia, fertile pianura. All’intorno essa è chiusa da alti monti calcarei di color grigio chiaro, culminanti a quasi 2500 metri nel Velino. In contrasto con queste alture inospitali, che fino a primavera inoltrata portano un bianco mantello di neve, sta la ridente pianura, alla quale danno un’impronta di fertilità campi, prati, gruppi d’alberi e lunghe file di alti pioppi.
Ma fino ad un secolo fa il bacino offriva tutt’altro aspetto, poichè esso era occupato da uno specchio d’acqua, il lago Fucino, che per grandezza appariva il terzo lago d’Italia.
Esso non era alimentato da corsi d’acqua importanti, nè da sorgenti, ma invece soprattutto dalle acque di pioggia, per cui, essendo queste irregolarmente distribuite nel corso dell’anno, il livello risultava variabile. E’ facile comprendere come questi dislivelli fossero dannosi per gli abitanti e per le colture, tanto più che nelle zone abbandonate temporaneamente dalle acque si spigionavano delle pericolose febbri.
In antico già l’imperatore Claudio si era interessato del prosciugamento del lago. Egli ordinò lo scavo di una galleria sotterranea, che avrebbe portato le acque nel Liri, non lontano dal luogo dove si trova ora il villaggio di Capistrello. E nell’anno 52 dC la galleria, che è uno dei maggiori lavori dell’antichità, risultando lunga quasi sei chilometri, venne ultimata. Sopravvenute le invasioni barbariche, il lago prese di nuovo possesso del suo antico fondo e i tentativi di rimettere in efficienza il canale sotterraneo rimasero senza esito.
Nel 1800, poichè lo Stato, a quel tempo il Regno di Napoli, non era in grado di disporre delle somme necessarie a lavori di prosciugamento, un audace milionario romano, il banchiere Alessandro Torlonia, si fece iniziatore del progetto a spese proprie, a condizione che il fondo del lago, una volta liberato dalle acque, diventasse di sua proprietà. Sa allora il suo motto divenne: “O io asciugo il Fucino, o il Fucino asciuga me”.
I lavori ebbero inizio nel 1854 sotto la direzione di un ingegnere svizzero. Le difficoltà da superare erano molteplici, anche perchè allora le condizioni della viabilità erano tutt’altro che buone. Nel 1862 la costruzione del nuovo canale veniva ultimata, ma solo nel 1875 si ebbe, dopo ottenuti due nuovi abbassamenti del livello, il prosciugamento totale, che causò la morte di migliaia di pesci. Oltre ad un canale centrale rettilineo, per evitare la sommersione della parte più depressa, vennero scavati circa 300 chilometri di canali secondari, uno dei quali cinge il bacino alla sua periferia, raccogliendo le acque dei torrenti che scendono dai monti vicini. L’audace banchiere riuscì così a trionfare d’ogni difficoltà e come riconoscimento venne nominato Principe del Fucino.
Oggi, quello che era un tempo il fondo pianeggiante del lago costituisce col suo fertile terreno la più vasta zona coltivata dell’Abruzzo. Dove un tempo gettavano le reti duecento pescatori, arano alcune migliaia di agricoltori. In mezzo ai frutteti si estendono campi di cereali, di patate, di ortaggi. Vaste zone sono piantate a vite e un quinto della superficie è coltivata a barbabietole. (K. Hassert)

Flora e fauna
I tiepidi venti dell’Ovest non riescono a passare l’Appennino e a portare il loro benefico influsso nell’altro versante; per questo, nelle montagne abruzzesi, fa freddo e le precipitazioni sono abbondanti; nella zona costiera, invece, il clima è migliore: il mare mitiga i calori estivi e il freddo invernale.
La flora delle alte montagne ricorda quella delle Alpi. Sopra i duemila metri vi sono prati, spesso con erbe medicinali ed aromatiche. Subito sotto incominciano i boschi: pini, faggi e, più basso, le querce. Nella zona adriatica vengono coltivati l’olivo e la vite; fino ai mille metri vive il castagno. Peschi e mandorli abbondano nelle conche interne.
La fauna era molto ricca e varia fino a qualche secolo fa. (M. Menicucci)

La produzione agricola
La produzione agricola dell’Abruzzo deve fare i conti con le difficoltà di un suolo in parte montuoso, in parte accidentato per frane e calanchi, colpito da alluvioni. La montagna è generalmente brulla; soltanto nel Parco Nazionale, esteso nell’alta valle del Sangro presso i monti della Meta, sono ricche foreste. Il diboscamento è stato causato anche dalla pastorizia, che tendeva, in passato, ad eliminare i boschi per estendere le terre adatte al pascolo: la pastorizia abruzzese è attiva ancora oggi ed è caratteristica per le sue transumanze (spostamento invernale di migliaia di capi dall’Abruzzo alle piane laziali e pugliesi); tale transumanza, che un tempo avveniva lungo i tratturi (piste segnate dal passaggio delle greggi), si svolge oggi più rapidamente su autocarri e  treni.
L’agricoltura è attiva, pur senza offrire mai un reddito elevato, nelle zone costiere, collinari e nelle vaste conche tra i monti; fatta eccezione per la valle del Fucino, il resto della campagna è spezzettato in piccole e minime proprietà.
Prodotti importanti sono la frutta, gli ortaggi (pomodori e primizie); caratteristica nella piana dell’Aquila è la coltivazione dello zafferano.

L’attività industriale
L’industria abruzzese ha uno sviluppo modesto, anche se si è recentemente indirizzata verso attività nuove: quelle della produzione idroelettrica (centrali del Sangro e del Pescara), dell’estrazione di petrolio (pozzi di Alanno) e di metano (zona di Vasto); si estrae anche bauxite dai monti della Marsica e dal monte Velino, e si usa il minerale in stabilimenti per la produzione di alluminio.
Sono presenti stabilimenti chimici per la produzione di esplosivi e concimi. La vecchia industria è rappresentata da zuccherifici.

Lo zafferano
Nell’Aquilano è molto estesa la coltivazione di questa pianta, specialmente a Prata d’Ansidonia. E’ un’erba perenne dai grandi fiori violacei e dagli stimmi di odore forte e di sapore aromatico. Il fiore viene raccolto in ottobre, prima del levar del sole. Gli stimmi, separati dalle rimanenti parti del fiore, vengono riposti in panierini aperti per facilitarne l’essiccazione; quindi, macinati, danno lo zafferano, polvere usata in cucina come aroma, in medicina nella preparazione del laudano, nell’industria come colorante di sostanze alimentari. (M. Menicucci)

La fiera di San Quintino
I mercanti di zafferano giungevano la mattina alla fiera. Ad essi era riservato lo spazio davanti alle vetrine della farmacia e alla porta del circolo, che era il posto dei signori.
Le bilance luccicavano come quelle del farmacista.
Seduti, o in piedi davanti alla bilancia, i mercanti di zafferano non battevano ciglio, non rivolgevano la parola a nessuno.
I contadini passavano e ripassavano davanti a quei tavolini allineati, s’informavano sui prezzi e si decidevano a tirar di sotto il cappotto il loro sacchetto di zafferano solo quando si erano persuasi che sarebbe stato impossibile vendere a un prezzo maggiore.
Allora, cautamente, mostravano il frutto prezioso delle loro cure e fatiche.
Perchè lo zafferano è una pianta che richiede cure infinite, va allevata come un bambino; vuole terreno leggero come la seta, lavorato più di un orto, non si finisce mai di stargli intorno.
I vecchi, rievocando le fiere di San Quintino dei loro tempi, ripetono ancora il proverbio: “A San Quintino anche il povero becca un quattrino”.
Finchè sulla piazza non si sente più uggiolare qualche cane sparso, che abbaia al vento e alla luna. (G. Titta Rosa)

Pastori abruzzesi
Nel novembre con i primi freddi e le prime grigie caligini crepuscolari, passano lungo il tratturo, una speciale strada erbosa che va, lungo il mare, alle Puglie, dai ricchi pascoli e dalla mite temperatura invernale, grandi greggi, agili capre davanti, pecore obbedienti dietro, formidabili cani ai lati, i pastori dall’alta mazza, memore del lituo etrusco, intagliata di pazienti disegni, di figure e di nomi, vegliano alla compattezza del branco. Alle soste, un gran cerchio di rete chiude il gregge, e lo spettacolo di quella pace di animali mansueti, che brucano l’erba rada e di uomini semplici, che attendono con gesti lenti, silenziosamente, alle monotone cure della pastorizia è d’una grandezza e d’una dolcezza infinita; intorno, io ne ho vedute di queste soste, sulle rive del Pescara, è la magnifica scena della vallata, il cui silenzio nel cadere dell’ombra, è accresciuto dal mormorio del fiume lungo i greti; da presso, le cime dei pioppi palpitano nella chiarita tenue del cielo  e lontano, ad occidente, i monti neri hanno un profilo formidabile di titano gigante. Verso la fine di giugno le greggi passano, dirette ai pascoli montani, e a distanza di mezzo anno, quel fluttuare uniforme di dorsi lanosi, quel rado abbaiare di cani e incitare di voci dai monosillabi gutturali, e il tono digradante dei campani in lontananza, e le forme nere degli uomini, eretti sulla linea dell’orizzonte nella lucentezza palpitante delle pure sere estive piene di stelle, sembrano la grande giornata che segue alla grande giornata, senza interruzione, nella vita dei pastori, che vivono con i bruti, con la terra e con Dio, pensosi di chi sa quali oscuri abissali misteri dell’essere. (E. Janni)

I tratturi
In settembre, i pastori d’Abruzzo lasciano i pascoli alpestri e si recano verso le pianure della Puglia o verso quelle dell’Agro Romano attraverso i tratturi, strade d’erba la cui origine si perde nella lontananza dei tempi. E’ certo che esistettero già prima che sorgesse Roma e che rimasero immutabili nel tempo. Oggi i tratturi  sono diminuiti di numero anche perchè i pastori preferiscono trasportare il gregge con appositi, razionali e rapidi mezzi. E’ ancora lunghissima la processione che si snoda attraverso “l’erbal fiume silente” dove sono già passate migliaia e migliaia di pecore come quelle di oggi, migliaia di pastori, come quelli di oggi. Anche il paesaggio è ancora quello di una volta e il pastore moderno rinnova sempre la propria meraviglia quando, alla sera, sull’ora del tramonto, gli appare in lontananza il mare Adriatico che verde è come i pascoli dei monti.
Forse, chi preferisce abbandonare l’usanza antica e trasportare il gregge con autocarri, non ha tempo di ammirare i colori del mare, la bellezza dei colli che si rincorrono come onde digradanti verso la marina, le belle vallate ornate di colori variopinti, i dolci fiumi che, silenziosi, si avvicinano all’Adriatico.
Il pastore che segue gli antichi tratturi impiega ancora due o tre settimane per raggiungere i pascoli di pianura; egli, come il suo gregge, non ha fretta di arrivare; per lui , il tempo non ha importanza. Ciò che importa è sapere che la strada che percorre è la stessa seguita dai suoi padri, fin dalla più remota antichità. Attraverso i tratturi, il cammino delle greggi è facile e sicuro; non c’è il pericolo di sbagliare strada e le pecore trovano facilmente di che nutrirsi lungo il viaggio. Poi scende la sera: il pastore si sdraia all’aperto sotto le stelle e può così contemplare il cielo e ripensare, già con nostalgia, alla montagna che, lassù, aspetta il suo ritorno a primavera.

Artigianato
In Pescara e provincia è localizzata l’industria abruzzese: fonderie, impastatrici, macine, torchi, frantoi, motori a scoppio, alluminio, concimi, asfalti e bitumi, acido solforico, solfato di rame…
Nelle altre parti della regione prevale l’artigianato che ha sempre sopperito alla richiesta locale e, in più di un caso, ha aperto la via all’esportazione.
A l’Aquila, Gessopalena, Isernia si fanno trine, merletti, ricami; a Giulianova ferve la lavorazione dei coralli; a Guardiagrele quella dei ferri battuti; a Sulmona l’industria dolciaria (confetti); a Chieti e Salle si fabbricano le corde armoniche; nel lancianese e ortonese ci sono lanifici e tintorie; sono rinomati i pastifici del chietino e del Molise; famosi i caciocavalli, i provoloni e le scarmorze della Marsica e del molisano; parecchie le distillerie e i liquori fatti con le erbe aromatiche della Maiella. Dalle argille e calcari locali traggono vita numerose fornaci di laterizi e di calce, terrecotte e ceramiche. Stimate le coltellerie di Campobasso e di Frosolone, la fonderia di campane di Agnone. Fiorente la lavorazione del rame a sbalzo.

I ceramisti di Castelli
Alle falde del monte Camicia, sedici chilometri a sud di Teramo, Castelli sorge da un tumulto di torrenti e di rocce che si rincorrono, si sorpassano, si confondono.
Il paese è sostenuto contro la rupe e difeso dalle frane, da grandissime arcate a tre ordini. Il terreno umido e argilloso, infatti, lo minava alla base e lo minacciava dall’alto; ma proprio in questo, Castelli trovò la sua fortuna, perchè l’acqua, l’argilla ed il bosco crearono le maioliche ormai famose nel mondo.
La ceramica di Castelli ebbe origine al tempo degli Etruschi.
Si conserva lo stesso sistema di lavoro da millenni; e quel lavoro paziente si svolge nello stesso ritmo di una vita semplice, con la medesima ruota, tra pani di creta e cataste di legna, in antri antichi ed umidi.
Quelle stesse fornaci produssero i tondini smaltati di vivaci colori che dal decimo secolo ornano i campanili e le chiese dell’Abruzzo.
La casa dei Pompei segna una data certa nella storia della ceramica castellana; infatti sulla facciata della sua abitazione Orazio Pompei murò una pietra con una scritta in latino che significava: “Questa è la casa del vasaio Orazio”, e sopra la porta mise una mattonella in cui aveva dipinto una Madonna, con la firma e la data: 1551.

Le province
L’Aquila sorge a 720 metri d’altezza, sopra una collina che domina la ben irrigata conca dell’Aterno, allungata tra la catena del Gran Sasso e l’altopiano del Monte Velino.
A Sulmona, notevole centro ferroviario alle falde della Maiella, nacque Ovidio, poeta latino; ed è famosa per le fabbriche di confetti. Sopra Sulmona, da una parte, Scanno sul lago omonimo, villaggio famoso per i costumi, i ricami e i merletti; e dall’altra, il grande Piano delle Cinquemiglia, oggi meta di turismo invernale.
Avezzano sorge presso l’antica conca lacustre del Fucino, ora trasformata in fertilissima campagna tutta coltivata a bietole, grano e pioppi: bietole per un importante zuccherificio, pioppi per una cartiera di prim’ordine. Un canale in galleria scavato sotto le montagne conduce l’eccesso di acqua della conca nel fiume Liri e quindi nel Tirreno.
Dalle montagne attorno, cioè dalla regione chiamata Marsica, si ricava buona bauxite (una terra rossa e bruna da cui si estrae alluminio). Qui si ha il villaggio più elevato dell’Appennino, cioè Rocca di Cambio, su un bell’altopiano della rispettabile altezza di 1434 metri. E nel Parco Nazionale d’Abruzzo, il villaggio di Roccaraso offre un bell’esempio di attrezzatura alberghiera per villeggiatura e turismo montano; come anche Pescasseroli, la patria del grande filosofo, storico e letterato Benedetto Croce.
Chieti si stende su un colle a 15 chilometri dal mare, dominante la valle del Pescara. Numerose industrie sono sorte sulla sottostante piana: zuccherificio, cartiera, manifattura tabacchi, fonderie, officine di macchine agricole ecc…
Cittadina di una certa importanza è Lanciano, nell’interno collinoso. Sulla costa: Francavilla, centro balneare; Ortona, centro di pesca; Vasto.
Pescara è invece presso l’Adriatico alla foce del fiume omonimo; distrutta durante la guerra, è ora in forte sviluppo sia per il turismo sia soprattutto per le industrie (cantieri navali ecc…). Il fiume Pescara venne canalizzato fino al mare tanto che oggi è diventato un ottimo porto – canale. Pescara è la patria del poeta Gabriele D’Annunzio.
Nell’interno della valle della Pescara, Bussi è notevole per una grossa industria chimica e per giacimenti di alluminio. Non lontano vi sono anche notevoli pozzi di petrolio. Dal piano di una grande conca sopra Bussi sgorgano grandiose sorgenti: è una parte delle acque assorbite dalle spaccature delle rocce calcari del Gran Sasso che, dopo un percorso sotterraneo tra le viscere dei monti, riemergono limpide alla superficie per alimentare le campagne e per essere utilizzate dalla Centrale idroelettrica di Bussi.
Teramo è situata su un poggio sporgente a dominare la confluenza del Tordino col Vezzola, da cui il nome latino di  Interamna (tra i fiumi) da cui poi Teramo. La zona collinosa circostante è alquanto franosa e solcata a calanchi.
Giulianova e Roseto degli Abruzzi sono buone stazioni balneari e pescherecce. (G. Nangerone)

L’Aquila
Le sue origini sono confuse: si parla di 99 castelli che contribuirono alla sua fondazione, per cui sono rimasti i 99 tocchi della campana della Torre del Palazzo di Giustizia e le 99 cannelle della Fontana della Riviera. Si ricorda come una volta la città avesse 99 chiese: ora non sono più tante, ma quelle che rimangono sono belle e ammirate. La città è dominata dall’imponente castello, isolato e protetto da un fosso profondo. La città, su una collina con scoscendimenti ai lati, è adagiata intorno a due grandi arterie tagliate a croce: il corso Federico II, dagli Alberelli alla piazza Margherita, e la via Roma, dalla porta omonima a San Bernardino. Ha per stemma l’aquila imperiale di Federico II Svevo. Nel Medioevo fu fiera delle sue libertà e le difese con le armi, sempre. I sentimenti di fierezza e di amore per la libertà si mantennero attraverso le secolari vicende e nel periodo del Risorgimento L’Aquila fu rappresentata, nelle lotte contro la tirannide, dai suoi migliori cittadini. (U. Postiglione)

A Pescara: il porto – canale
Fino a qualche anno fa, all’ora del tramonto, quando il mare assume il colore dell’ametista e si stacca per una sola linea dal rosseggiare del cielo, scorgevi la distesa popolata di vele, l’una gialla, l’una rossa, l’altra arancione, tutte con un simbolo, quale di Sant’Andrea, quale il calice dell’ostia, quale la mezzaluna, quale il mondo sovrastato dalla croce luminosa; e tutte queste vele si incrociavano, perdendosi nella distanza la misura di quella che fosse più innanzi a quella che fosse più indietro, gareggiando nell’ingresso al porto canale.
Ora non è più così. I nuovi pescherecci sono tutti motobarche. Cosicchè la sera, quando i pescatori rientrano, il porto canale è tutto un rumorio di motori, un tun tun tun continuo, incessante che si ripete da barca a barca, via via che entrano nel porto, e al sorgere del nuovo rumore le donne sollevano il capo, per vedere se con esso rientra il loro uomo. Infatti è inutile che esse si spingano sul molo, come una volta, a indovinare, tra le tante barche, per un segno inconfondibile, quella che sta loro a cuore, e se ne stanno sedute, lungo i moli, dove sanno che la loro barca attraccherà, cianciando tra loro, con tra i piedi il cesto del pesce che sta per giungere, ad attendere che un nuovo rullio gli faccia sollevare il capo. Ma frattanto tutto è animato, tutto è  concitato, e mentre sempre nuovi uomini si avvicendano attorno alle barche già attraccate, un calafato continua imperterrito il suo lavoro. (G. Vittorini)

Un grosso centro
Pescara nuova è uno dei prodigi del dopoguerra. Dopo la guerra, infatti, questo grosso centro si è raddoppiato. La città nuova sulla costa a settentrione della vecchia, oltre il ponte sul Pescara, sorse da una colonia di ferrovieri quando nacque la ferrovia.
I vecchi pescaresi sono sommersi dalla folla degli immigrati: gente di tutto l’Abruzzo scende a Pescara. La città attrae perchè è nella zona di gran lunga più ricca di prodotti agricoli. Nella vallata del Pescara sono poi sorte le vere industrie dell’Abruzzo. Così com’è Pescara ha una sua bellezza, diversa dalla consueta delle città italiane.
Una gran festa a cui ho assistito faceva veramente ricordare i Far West: bande e cori sembravano galleggiare sopra un mare di folla che riempiva le piazze e il lungomare, tutta macchiata di colori vivaci, tra cui predominava il rosso. Cori e bande nei chioschi si esibivano a gara. Le bande, con i loro maestri, per lo più musicisti o cantanti in ritiro che educavano i suonatori, appassionavano l’Abruzzo.
Erano le bande migliori d’Italia che giravano trionfalmente di centro in centro.
Ora le bande hanno perso un po’ di importanza, non perchè la passione sia estinta, ma perchè troppo alto è il prezzo degli strumenti, degli spartiti e dei variopinti costumi. (G. Piovene)

Chieti: una provincia pittoresca
Si estende a oriente del fiume Pescara fino a toccare col Trigno il contiguo Molise, e va dalla montagna al mare, avendo per sfondo il massiccio della Maiella e per termine a nord l’Adriatico, attraverso un’ondulata distesa di colli folti di olivi e di vigneti e popolati di borghi e di ville.
E se in alto, specie laddove balza il Sangro col suo corso aspro e tortuoso, il paesaggio è severo, presto, scendendo dai precipiti fianchi della Maiella, esso diventa blando e festoso. La natura vi manifesta una sua bellezza riposante, dalla quale è esclusa ogni nota violenta di linee e di colori, e tutto è condotto col disegno leggero e i toni attenuati propri di un pastello.
L’agricoltura è redditizia per cereali, vigneti, uliveti e frutteti. L’economia agricola è integrata solo dall’artigianato e da qualche piccola industria locale (pasta alimentare a Fara di San Martino e a Villa Santa Maria; tessili a Lanciano; piccolo armamento per la pesca e per il traffico con l’altra sponda ad Ortona). (Panfilo Gentile)

Folclore
Gli abitanti della montagna abruzzese hanno conservato riti, tradizioni ed usanze antichissime. Vivissimo è il culto dei morti: in ogni paese resistono al riguardo tracce di costumi curiosi, come quelli delle nenie, cantate da donne pagate allo scopo. Anche la nascita, il matrimonio e tutti i momenti più importanti della vita umana sono accompagnati da cerimonie che testimoniano un profondo senso religioso ed un sacro rispetto per la famiglia. Silenziosa e seria, la gente abruzzese sa diventare, in occasione di feste e ricorrenze, chiassosa e vivace. Ne fanno fede le sontuose feste patronali, le processioni e le sagre di paese, allietate da esibizioni bandistiche e canore, da affollatissime fiere, da fuochi di artificio e da scoppi di mortaretti.
Tipiche di certi luoghi sono usanze legate al remoto mondo pagano, come la sagra dei serpari di Cocullo e il bove portato in processione a Loreto Aprutino il lunedì dopo la Pentecoste. Notissimi i ricchi costumi femminili e le zampogne che, con la fisarmonica, accompagnano gli stupendi canti locali. Non meno ricco di folclore è il Molise, che vanta Sacre Rappresentazioni a Termoli e processioni (i Misteri di Campobasso) la cui origine si può far risalire al Medioevo.

La festa dei serpenti in Abruzzo
E’ una festa singolare che si svolge a Cucullo, in Abruzzo.
Il primo maggio si porta in processione la statua del patrono San Domenico. Avanzano gli uomini e i ragazzi con serpi arrotolate al collo, alle braccia e al petto. Seguono le donne, in costume locale con grossi ceri in mano, i musicanti, i sacerdoti. Il parroco, in un cofanetto d’argento, porta un dente del Santo.
Durante il lento cammino i serpari e altri popolani lanciano contro la statua del Santo lucertole e serpi, che l’avvolgono sulla testa, al collo, alle braccia, alla vita. Si vedono penzolare con le bocche aperte; se alcune cadono a terra, sono raccolte e rigettate sulla statua, dove si urtano, guizzano, strisciano, si avvolgono in atteggiamenti minacciosi, percuotono con le code il Santo, che avanza tra chiassose invocazioni, canti e suoni di bande, in un frastuono indescrivibile.

La festa del solco
La festa del solco si tiene ogni anno, in ottobre, a Rocca si Mezzo quando le piogge dell’autunno hanno ammorbidito la terra e già son tutti terminati i lavori dei campi.
Il clima e le intemperie non contano per i bravi rocchigiani la notte della gara dei solchi. Vento, pioggia o neve, le squadre dei concorrenti escono al tramonto dall’abitato e risalgono, ciascuna dietro il proprio aratro, la montagna che li vedrà impegnati nella gara fino alle luci dell’alba.
Lentamente, tra gli auguri delle donne che li accompagnano per un tratto, i gruppi vocianti (ciascun gruppo conta una quindicina di uomini con due mucche e un aratro), traversano le stoppie, superano siepi e ruscelli, rimontano costoni e burrati finchè non li inghiotte il buio della notte.
Alla vigilia è un affannoso andirivieni per le case in cerca di lumi, di torce, di lanterne, di paletti e di altri arnesi adatti; uomini e ragazzi vivono in un’atmosfera febbrile; si scommette, si fanno previsioni su chi alla mattina avrà tirato il solco più dritto. All’Ave Maria, sul piazzale della chiesa, in cima al paese, viene acceso il faro che guiderà gli aratori nelle tenebre. A quel faro si indirizzeranno tutte le file dei lumi, tante quante sono le squadre concorrenti, che faranno la strada all’aratro nel profondo della notte.
E’ uno spettacolo che non si dimentica. Nel silenzio e nel buio si odono richiami lontani e incitamenti e comandi: e a quelle voci si muovono i lumicini come gigantesche lucciole che vadano al allinearsi per una parata di fiaba.
Vediamo le tracce luminose formate dalle torce e dalle lanterne spostarsi lentamente dalla sommità della montagna verso la pendice ed immaginiamo lo sforzo degli uomini e delle bestie attorno all’aratro, la difficoltà di superare botri e torrenti e scoscendimenti e di riprendere il solco in perfetto allineamento con il tronco già tracciato; ammiriamo la bravura del capo squadra nel guidare i portatori di lumi in modo che sappiano disporli in corrispondenza col faro della chiesa e con le lanterne – guida piantate lungo il cammino. E ancor più restiamo stupiti al mattino quando, come per incanto, vediamo i fianchi del monte Rotondo squarciati da sette, dieci lunghi solchi, tutti sufficientemente diritti da richiedere un severo vaglio da parte della giuria.
Poi vincitori e vinti, con gli aratri adorni di festoni e con le bandiere conquistate nella gara si incolonnano dietro la processione della Madonna in onore della quale per dieci lunghe ore hanno gareggiato nell’oscurità e nel freddo. (M. Arpea)

Il pastore abruzzese
Prima “che in ciel la stella ultima cada” il pastore è in piedi, conduce il suo gregge impaziente al pascolo, e quando il sole  dardeggia riposa, nella capanna, o in qualche ombrata radura si dedica a facili e utili lavori: rammenda le calze, intesse le fiscelle dove sarà colato e posto ad essiccare il formaggio, concia le pelli, in cui egli pure durante l’inverno troverà riparo dal freddo. La munta del latte e la fabbricazione del formaggio sono le faccende che più richiedono, giornalmente, tempo e cura.
La prima stella che si accende nei cieli, trova i pastori già avvolti nelle coperte di lana, che si  riposano dopo la fatica.
In ottobre, quando alle prime scrollate della tramontana succedono le piogge, ed il Gran Sasso rimette il suo berrettone bianco, i pastori raccolgono le mandrie e le guidano sulla via del ritorno… (R. Biordi)

La più bella ora dell’Aquila
Non ho mai visto l’Aquila dall’alto: ma se dovessi darne un’immagine dall’alto, l’assomiglierei a una grande croce bianca adagiata su un colle: le braccia rivolte a ponente e a levente, fra Porta Romana e San Bernardino, i piedi e la testa distesi fra sud e nord, da Porta Napoli al Castello. La lunga strada che sale dal declivio nel cui fondo scorre l’Aterno e con lieve ascesa giunge alla mole fosca e potente del Castello, per ridiscendere rapidamente dalla parte opposta del colle, taglia la città in due parti. Oppure l’assomiglierei, con immagine storica e simbolica a un tempo, a un’aquila dalle grandi ali distese, gli artigli e il becco tesi da sud a nord,  le ali aperte e adagiate da levante a ponente.
La più bella ora dell’Aquila è quando suona mezzogiorno.
Ad un tratto dalle sue chiese il rombo delle campane esplode nell’aria luminosa, corre sui tetti come un fiume sonoro, dilaga per le vie, per le piazze, verso la campagna. La chiesa di San Bernardino, alta sulle altre, intensifica quel rombo che giunge dalle campane della Piazza Grande, dalle chiese di San Marciano, di San Domenico, di Santa Giusta, lo ridiffonde fino a confonderlo al suono disteso e trionfale delle campane di Collemaggio; gli echi dei monti circostanti lo riecheggiano moltiplicandolo e tutta l’aria è come un mare di suono. (G. Titta Rosa)

Il numero dell’Aquila
Un’antica e popolare tradizione dice che l’Aquila è la città del numero 99. Novantanove chiese, novantanove piazze, novantanove fontane. Il numero si riferisce a 99 villaggi che si dice partecipassero all’edificazione della città, fondata com’è noto da Federico II. Chiese, piazze, fontane, se una volta furono davvero novantanove, con l’andar del tempo sono diminuite di molto; ma è restata la fontana di novantanove cannelle, in uno dei borghi bassi della città, e sono novantanove i colpi che batte alle dieci di sera la campana della torre Palazzo.
La fontana versa l’acqua dalla bocca di novantanove mascheroni, l’uno diverso dall’altro, entro una lunga vasca, dove tuffano, sbattono e torcono i panni le lavandaie cittadine. (G. Titta Rosa)

Nel Parco Nazionale
A Pescasseroli sembrerebbe già di essere al centro del Parco. Ma essa in realtà ne è ancora ai limiti: per ora il Parco è solo questo verde che mi si versa negli occhi e mi riempie di stupore. E’ cominciato dopo Gioia Vecchia, perchè prima la montagna era tutta aspra, a tinte grigie a strappi marroni, con qualche macchia di bosco più fitto. Poi a un tratto, il verde ha prevalso, il verde tenero dei prati e l’altro cupo tendente al nero delle montagne. I monti mi si stringono addosso e non hanno cime, ma solo fogliame: un fogliame così denso da far pensare al muschio, a toppe e strati di muschio umido e fitto, di quello che invoglia a ficcarci dentro la mano. E’ il loro colore a farmeli apparire favolosi, a darmi a tratti l’impressione di muovermi ai bordi di un presepe. La strada taglia dritto fra i boschi e i boschi si impennano in su, fanno parete da ambedue i lati. Non c’è sole: si ferma più in alto, a formare una striscia d’un verde nitido e asciutto. Qui, al contrario, il verde è bruno, l’ombra compatta, pare quella di un acquario.
Sono giunto ormai nel cuore del Parco. La strada, tutta svolte, s’addentra per la gola e va a morire alla fine proprio ai piedi di questa mitica montagna, la Camosciara, la più nota del Parco. Solo allora mi viene addosso, svela un’ampiezza che mi lascia smarrito. (M. Pompilio)

Pescara, città americana
Quello che mi stava davanti non quadrava con i ricordi: mi pareva non tanto di confrontare una città con i ricordi personali di una prima visita, ma con una serie di stampe vecchie almeno un secolo. La Pescara di prima così per me divenne quasi una fantasia. Era una cittadina d’aspetto più vecchio che antico, col suo piccolo centro provinciale, traversata anche allora dalla ferrovia costiera. La casa di D’Annunzio, che non è grande, poteva ancora prendere qualche spicco; e quei dintorni pastorali, coi loro alberi fioriti, tendevano nel ricordo a sopraffare l’abitato. La Pescara che ritrovavo era una città moderna, senza più vero centro, ne quello provinciale di una volta ne un altro. Si espandeva e allungava indefinitamente lungo la riva, simile, per certi aspetti, a qualche città americana; moderna, ribollente, formicolante d’una folla composta soprattutto dagli immigrati. I residui della città che conoscevo vi si erano smarriti dentro o erano come inserti che bisognava cercare nella confusione. (G. Piovene)

Dal Gran Sasso
Sono intorno tutte le cime del gruppo: il Corno Piccolo, il Pizzo Cefalone,  il Pizzo d’Intermesele, il monte dell Portella e altre e altre… E giù per le valli, ad oriente, l’Abruzzo verde e ridente, l’Adriatico, con lontano  l’arancifero promontorio del Gargano e le isole Tremiti.
Se la mattina è pura, sgombra di caligine, si profila all’orizzonte l’altra riva dell’Adriatico, la Dalmazia, morbido segno come d’una nuvola uguale a fiore di mare. E già dall’altra parte l’altipiano aquilano, e l’Aquila e la valle dell’Aterno, e più a mezzogiorno la florida conca di Sulmona e, lontano, sull’orizzonte, la riga azzurra del Tirreno. (E. Janni)

Abruzzo

Fior d’ananasso,
nel popolo d’Abruzzo c’è il riflesso
della potenza austera del Gran Sasso.
Qui trovi ricche greggi e vino e grano
e trovi liquirizia e zafferano.
Ma ciò che a questa terra dà risalto
è la sua ricca produzion d’asfalto,
che viene atteso in tutte le contrade,
dove c’è amor d’aver belle strade.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

GIOCO GRAMMATICALE SUL NOME per la classe quarta

GIOCO GRAMMATICALE SUL NOME per la classe quarta della scuola  primaria su nomi comuni, propri, primitivi, derivati, alterati, maschili, femminili, singolari, plurali e collettivi.

Il gioco può essere preparato agevolmente a mano, ma se preferite ho preparato una versione pronta, scaricabile e stampabile in formato pdf.

Preparare dieci buste, su ciascuna delle quali i bambini scriveranno, oltre al proprio nome, le indicazioni seguenti:

  1. NOMI COMUNI
  2. NOMI PROPRI
  3. NOMI PRIMITIVI
  4. NOMI DERIVATI
  5. NOMI ALTERATI
  6. NOMI MASCHILI
  7. NOMI FEMMINILI
  8. NOMI SINGOLARI
  9. NOMI PLURALI
  10.  NOMI COLLETTIVI

(se volete potete stampare le buste già pronte da ritagliare e incollare)

Predisporre poi le striscioline di carta, sulle quali sono scritte i gruppi di parole per ciascun gioco (anche queste, se volete, già pronte per la stampa).

Gioco 1 – buste 1 e 2 (nomi comuni e propri) – Gruppi di parole
CICLISTA BALDINI
MONTE CERVINO
ETTORE CALZOLAIO
LAGO TRASIMENO
VIALE CARDUCCI
PASCOLI POETA
MANZONI SCRITTORE
NAZIONE FRANCIA
PAPA GIOVANNI
RE GUSTAVO ADOLFO
CARLO ALBERTO PRINCIPE
FIUMI ADDA TEVERE ARNO
EMILIA SARDEGNA UMBRIA REGIONI

Gioco 2 – buste 3, 4 e 5 (nomi primitivi, derivati e alterati) – Gruppi di parole:
RAGAZZINO RAGAZZETTO RAGAZZATA
OMETTO OMACCIO OMINO
BASTONE BASTONCINO BASTONATA BASTONATURA
COLTELLO FORCHETTA CUCCHIAIO CUCCHIAINO
CANNELLA CANNONE CANNUCCIA
CAVALCATURA CAVALIERE CAVALLETTO CAVALLONE
PEDATA PEDONE PIEDINO
MANIGLIA MANINA MANONE MANUBRIO

Gioco 3 – buste 6 e 7 (nomi maschili e femminili) – Gruppi di parole:
LIMONE ARANCIO ARANCIA DATTERO CILIEGIA
QUERCIA ABETE LARICE ONTANO VITE
LOMBARDIA ABRUZZO UMBRIA CAMPANIA ROMAGNA LAZIO FRIULI
ITALIA FRANCIA BELGIO OLANDA CILE PORTOGALLO GERMANIA SVIZZERA
ATENE FERRARA BRINDISI ASTI ACQUI PIREO TARANTO CAGLIARI AGRIGENTO CAIRO
PROBLEMA OPERAZIONE TEMA RISOLUZIONE SVOLGIMENTO RISPOSTA
GUIDA SENTINELLA SOLDATO RECLUTA AVIATORE GUARDIA

Gioco 4 – buste 8, 9 e 10 (nomi singolari, plurali e collettivi) – Gruppi di parole:
CESPUGLIO PIANTA ALBERI PINETA BOSCO FRUTTETO
SUONATORE BANDA MUSICISTI FANFARA
SOLDATO SENTINELLA GUARDIA PLOTONE SQUADRA BATTAGLIONE TENENTE UFFICIALE
API VESPA SCIAME MIELE ARNIA.

Al via dell’insegnante, i bambini dividono, tagliandole con le forbici, parola per parola, le striscioline di carta, e inseriranno ogni bigliettino con una parola sola nella busta voluta.

L’insegnante potrà poi ritirare le buste di tutti i bambini e controllato il contenuto potrà proclamare il campione di grammatica della classe.

Naturalmente il gioco può essere condotto anche in modo non competitivo, conducendo la correzione con tutta la classe insieme.

Racconto di Natale IL PANE

Racconto di Natale IL PANE

In un castello situato su un’altura abitava un re. Da lassù egli poteva rivolgere lo sguardo lontano e vedere tutta la terra. Il re aveva un figlio, che ogni giorno se ne stava per lunghissimo tempo alla finestre del castello. Che cosa poteva cercare il suo sguardo nelle lontananze del mondo? Cercava gli uomini, e osservava come vivevano, come operavano e come si trovavano nel bisogno.
Un giorno disse a suo padre: “Gli uomini soffrono la miseria e la fame, lasciami andare da loro a portare del pane”.

Il re, che amava molto il proprio figlio, gli diede la sua benedizione per il lungo viaggio. Il figlio si spogliò dei suoi abiti regali, indossò tunica e scarpe da viaggio, prese con sè la bisaccia con il pane e si pose il cappello sul capo. Poi si mise in viaggio.
Il cammino era arduo, ma il figlio del re non si concesse riposo: pensava solo alla miseria degli uomini e voleva giungere da loro il più presto possibile.

Finalmente arrivò alle case dove abitavano gli uomini. Bussò subito alla prima casa, ma la porta era chiusa a chiave. Guardò attraverso la finestra. Dentro sedeva un uomo, il capo tra le mani, e si poteva udire come si lamentava della sua triste povertà.
Il figlio del re diede qualche colpetto al vetro della finestra e gridò: “Aprimi, io voglio aiutarti!”.
Ma l’uomo non sollevò nemmeno lo sguardo e continuò a lamentarsi dicendo: “Nessuno mi potrà aiutare…”
La porta rimase chiusa e il figlio del re dovette proseguire.

Anche alla casa seguente la porta era chiusa a chiave. Attraverso la finestra potè vedere una donna che con zelo stirava la sua biancheria. “Aprimi!”, gridò il figlio del re “C’è un ospite qui fuori che vuole farti visita…”
Ma la donna aumentò ancora di più il suo zelo e gridò: “Non mi serve alcun ospite, io devo sempre e solo lavorare per poter nutrire i miei bambini!”. E la porta rimase chiusa.

Il figlio del re andò così bussando di casa in casa, ma ovunque trovò porte chiuse.
Alla fine giunse ad una casupola, che era la più povera di tutte.
Gli abitava Gianni, lo spaccalegna, con sua moglie. Aveva già visto il viandante che scendeva lungo la via e disse a sua moglie: “Si sta facendo notte, vogliamo dargli rifugio?”.
La donna era d’accordo, ed entrambi si affacciarono sulla porta. Salutarono il viandante e lo invitarono a passare la notte con loro.

Il viandante entrò volentieri nella casupola. La donna gli offrì il posto a tavola, lo spaccalegna gli si sedette accanto, mentre la moglie preparava la cena.
“Per fortuna abbiamo ancora una piccola crosta di pane”, mormorò tra sè la donna “e la nostra cara capra che ci dà il latte, così posso cuocere una zuppa…”
Spezzettò il pane nella pentola, vi mise un pizzico di sale, vi versò un po’ di acqua bollente e poi il  latte.
“Ecco” disse all’ospite, mentre posava la pentola da cui usciva un caldo vapore “questa zuppa calda vi farà bene, dopo il lungo viaggio”.

Si sedettero insieme e gustarono con gioia la calda zuppa.
Lo spaccalegna era così povero che nella sua casupola aveva solo un letto per sua moglie. Per se stesso aveva un pagliericcio. Durante la cena la donna pensò tra sè: “Il viandante sarà stanco, gli voglio offrire il mio letto, così che possa stare al caldo e riposarsi…”.
“Qui” disse all’ospite, dopo che ebbero terminato di mangiare, e mostrò l’angolo dove era situato il letto “è il vostro giaciglio per la notte”.

Allo spaccalegna piacque che la moglie offrisse il suo letto al viandante. Prese dallo stanzino ancora della paglia per un altro letto, augurarono insieme al viandante la buonanotte e anche loro si coricarono.
Al mattino la donna si alzò di buonora. Voleva mungere la sua capra prima che l’ospite si svegliasse, poichè quel latte era l’unica cosa che poteva offrirgli per colazione. L’ultimo tozzo di pane l’aveva già usato per la zuppa la sera prima.

Presto l’intera capanna fu desta. La moglie dello spaccalegna posò la brocca del latte sulla tavola e disse un po’ rattristata: “Purtroppo questo è tutto quanto vi posso offrire per colazione: non abbiamo nemmeno più un pezzettino di pane per voi”.
Allora il viandante aprì la sua bisaccia e posò sulla tavola un intero pane. Fu una gioia, e per lo spaccalegna e sua moglie fu come se non avessero mai mangiato un pane così buono.
Il viandante ringraziò per l’ospitalità e proseguì il suo cammino.

Il pane però lo lasciò sulla tavola, per lo spaccalegna e sua moglie. Così lo spaccalegna potè prenderne con sè un grosso pezzo quando andò nel bosco a lavorare.
Anche la donna se ne tagliò un altro pezzettino e fece ancora un piccolo spuntino prima di riporlo nella madia. Quel pane era proprio una bontà.
Ad un tratto sentì un bambino piangere là fuori. Il bambino aveva fame e non aveva niente da mangiare. Allora la moglie dello spaccalegna gli portò un pezzo del suo buon pane. Il bambino tornò presto felice e ne avanzò un pezzetto per il suo fratellino, che era con lui.
Sulla via c’erano altri bambini e tutti vollero un po’ di quel pane che la moglie dello spaccalegna aveva dato al primo bambino, poichè affamati lo erano tutti quanti.

La moglie dello spaccalegna vide dalla finestra ciò che stava accadendo là fuori. Chiamò i bambini e con il suo grosso coltello tagliò una fetta di pane dopo l’altra e le distribuì. E sempre più bambini entravano nella casetta, e ognuno ne voleva un pezzetto.
La moglie dello spaccalegna sorrise e disse: “Vedo già che mi toccherà affettare tutto il pane!”
Ma che meraviglia fu quando si accorse che, nonostante continuasse ad affettare il pane, questo tornava intero!
Presto tutti i bambini corsero fuori, gustandosi il loro pezzo di pane. La gente chiese loro da chi lo avessero avuto.

“Cosa? Dalla moglie dello spaccalegna? Ma non è possibile! Non hanno da mangiare neppure per loro stessi!”.
Erano tutti curiosi, molto curiosi, e corsero dalla donna per farsi raccontare da chi avesse avuto tutto quel pane. La donna raccontò del viandante che avevano ospitato e che prima di partire aveva donato loro il pane.
Nella casa dello spaccalegna, da allora in poi, non ci fu più miseria.
C’era sempre pane a sufficienza; così anche la gente del paese poteva averne, quando rimaneva senza.

Adattamento da un racconto natalizio in uso nella scuola Waldorf, autore ignoto.

RECITA NATALIZIA musicata

RECITA NATALIZIA musicata con parti cantate e parti per flauto dolce, adatta a bambini della scuola primaria e, solo col canto, anche per la scuola d’infanzia. In uso nella scuola Waldorf, di autore ignoto.

Testo della prima parte cantata:

Sulle stelle sopra il sole
va con passo lieve Maria
prende per il suo piccino
oro puro e calda armonia.
Dalle stelle il coro guarda
la Madonna mentre va,
ciò che essa ha preparato
al divino suo bambin.
Chiama il sole per filare
al suo bimbo un abito d’or
e per lui chiede alla luna
tanta gioia e immenso amor.
La circodan le stelline
come chiara aureola,
l’accompagna per il cielo
finchè a terra lei giungerà.

 

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Maria: Dopo tanto peregrinare siamo stanchi Giuseppe, mio sposo. Chiediamo a quel casolare un letto per il nostro riposo.

Giuseppe: Quel taverniere conosco bene, senz’altro ci aiuterà. Solleveremo le nostre pene con la sua dolce carità.

Testo della seconda parte cantata:

Giuseppe: Bussa bussa, facci entrar. Taverniere: La casa è piena dovete andar.
Giuseppe: Bussa bussa, non ci lasciar. Taverniere: Nella stalla vi posso ospitar.

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Taverniere: Nella casa non potete restare, dentro la stalla dovete andare, con il bue e l’asino a riposare.

Testo della terza parte cantata:

Guarda guarda nella stalla
nella greppia c’è un bambino.
Una stella luminosa
illumina il firmamento.
Oh! Dolce tenera notte
portato ha l’angelo un bimbo.
Tutti gli uomini l’adoreranno
gli animali lo rispetteranno
ed i fiori gli si inchineranno,
tutte le pietre umilmente ai suoi piedi,
tutti gli esseri lo serviranno
Cherubini e Serafini.

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Maria: Un ciuffo di fieno, Giuseppe,  prendiamo, ed al bambino un letto facciamo.

Bue ed asinello: Questo povero bambino sulla greppia tanto dura, riscaldiamo i suoi piedini con il fiato addirittura. Ih oh, ih oh. Muh, muh.

Testo della quarta parte cantata:

Tre angeli vengon volando
il primo porge una fiamma
tre angeli vengon cantando
s’inchina un altro alla mamma
tre angeli vengon cantando
il terzo suona la nanna
e canta tutti Osanna in cor.

https://www.lapappadolce.net/wp-content/uploads/2023/03/Recita-natalizia-cantata-4-mp3.mp3

Attivano i pastori, e girano in cerchio introno al presepe suonando il flauto 

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Primo pastore: Brr, l’aria è gelata, questa pelliccia prendi.

Secondo pastore: Fratello, le pecore stringi, stiamo all’erta in questa nottata.

Testo della quinta parte cantata:
Corri agnellin
sul monte vicin
su presto presto
corri agnellin.
Suona agnellin
col tuo campanellin
e suona suona suona agnellin.
Dormi agnellin
così piccolin
su dormi dormi
ti siamo vicin.

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Pastore: Vieni agnellino, vieni mio bello, caldo avrò col tuo morbido vello

Testo della sesta parte cantata:

Un angel venuto ai pastori annunciò
correte al bambino che di notte arrivò.
Là nel freddo casolar
dal bove e l’asinel
egli si fa scaldar.

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Parlano i pastori:
Ehi, Tonio, hai sento l’angel che dal cielo è venuto?
Da lui abbiamo saputo che a Betlemme dobbiamo andare
il nuovo nato ad adorare.

I pastori suonano il flauto mentre si incamminano verso la stalla:

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Primo pastore: Maria, in dono questa lana prendi e per il tuo bimbo nelle greppia la stendi.

Secondo pastore: Dalla mia mucca ho ricevuto or del latte per te, mio Salvator.

Agnellino: Con la lana del mio vello riscalderò il tuo bambinello.

Maria: Per i doni ricevuti da voi questa sera, Giuseppe ed io ci uniremo in preghiera.

https://www.lapappadolce.net/wp-content/uploads/2023/03/Recita-natalizia-musicata-8-mp3.mp3

Recita natalizia IL PASTORELLO

Recita natalizia IL PASTORELLO per bambini della scuola primaria. Testo in rima, in uso nelle scuole steineriane, di  autore ignoto.

Personaggi:
Maria
Giuseppe
primo bambino
secondo bambino
terzo bambino
coro di bambini
pastorello
primo pastore
secondo pastore
terzo pastore
coro di pastori
un angelo
re magi
narratore

Maria (entra sorridendo):
Ecco fatto:
accudito è l’asinello
con le pecore e l’agnello
l’orto è stato ben curato
ed il pranzo preparato.
Or mi posso riposare
e quest’aria respirare
dove splende il caro sole
che rallegra tutti in cuore.
Cantan lieti gli uccellini
dolci lodi sì piccini
al buon Dio loro createre
e con loro voglio gioire
ringraziare il buon Signore
dei suoi doni a non finire.

Primo bambino (entra e si rivolge agli altri bambini, ancora dietro le quinte):
Su guardate, c’è Maria,
ma sbrigatevi suvvia
la dobbiamo salutare
e con lei possiam giocare.

Maria (rivolgendosi al gruppo di bambini che entra in scena):
O piccini, su venite
e con me lieti gioite
di quest’aria sì serena
che cancella ogni pena.

Coro di bambini
Salve, dolce e bella Maria,
gioca un po’ con noi, suvvia

Maria
Su prendiamoci per mano
e un girotondo cominciamo.

Pendendosi le mani, Maria e i bambini fanno un girotondo cantando:
Girotondo girotondo
com’è bello questo mondo,
gli facciamo un bell’inchino
e poi alziamoci pianino
ci stringiamo sul suo cuore
poi ci apriamo come un fiore.
Innalziam le mani al sole
che scaldarci sempre vuole
e abbracciamo bene il mondo
tutto quanto tondo tondo.
Salutiamo poi ogni cosa
che la vita fa gioiosa.
Riprendiamoci la mano
stanchi a terra ci sediamo.

Pastorello (entra, camminando lento e triste con una gamba dura)

Maria
Ma chi è mai questo bambino
che cammina a capo chino
ed avanza triste e solo
procurandomi gran duolo?

Secondo bambino
Lascia perdere, è lo storpio
tanto lui non può giocare.

Terzo bambino
Ma non vedi che è uno sgorbio?
Non può correr nè saltare.

Maria (alzandosi)
Ma che dite? Che parole
mai pronuncia il vostro cuore?
(al pastorello)
Caro bimbo, mio piccino,
vieni qui a noi vicino
perchè solo te ne vai
ed insieme a noi non stai?

Pastorello (dolce e triste)
Io non posso mai giocare
devo andare a lavorare:
son pastore e sono zoppo
qui da voi sarei di troppo.

Maria
Caro mio bel pastorello
guarda il cielo com’è bello
tu ben lieto devi stare
per le pecore guardare,
così tenere e mansuete
offron tanta pace e quiete.

Pastorello
Ven ben che splende il sole
e per lui è tutto il mio cuore
e son lieto di guardare
le mie pecore brucare,
ma fatica la mia gamba
e da soli ci si stanca:
son sì brutto che nessuno
mi vuol bene e con me sta.

Maria
Cosa dici? Lassù uno
il suo cuore a tutti dà.
Guarda questo fiorellino
non ti sembra sì piccino?
Eppur Dio l’ha sì adornato
che rallegra tutto il prato.
Sii ben certo che anche tu
sei amato da lassù.
Lieto l’animo apri al mondo
e lui saprà farti giocondo,
perchè ognuno ha sue qualità
sian le tue dolcezza e bontà.
Io ti dono questo fiore
che saprà scaldarti il cuore
e voi bimbi ora andate
e il pastore accompagnate.

Bambini (si alzano e prendono il pastorello per mano)
Certo Maria, come vuoi tu,
non resterà solo mai più.

Pastorello
Grazie, non so che altro dire
per il tuo dolce cuor riverire.

Maria
Solo in un modo mi puoi ringraziare
loda il Signore e non fare mai male.
Ora vai, bimbo, felice al lavoro
e sii nell’anima assai fiducioso
perchè in terra non s’è mai vista
cosa gioiosa o che sembri trista
che non risponda alle leggi d’amore
del nostro sommo divino Signore.

I bambini escono e Maria resta in piedi al centro della scena. Entra l’angelo con un giglio bianco in mano, e si inginocchia davanti a lei.
Angelo
O piena di grazie, a te m’inchino

Maria
Chi mai spendente più chiaro
fino ai piedi si china
di un’umile fanciulla?

Angelo
E’ il messaggero di Dio, Gabriele,
che porta a te l’annuncio che in culla
presto un bimbo avvolgerai in tele.

Maria (si inginocchia umilmente)
Sono io che davanti a te mi inginocchio
e a terra volgo l’indegno mio occhio
ma perdona il mio ardire se chiedo
come un figlio può avere
chi marito non tiene?

Angelo
Tu concepirai da Dio l’unico suo figlio
dall’anima più pura di un candido giglio
(offre a Maria il fiore)
di voi tutti redentore
sarà il re dell’amore
e si chiede di lassù
che il suo nome sia Gesù.

Maria
Umile ancella mi piego al volere
di chi dal sommo del suo potere
ha donato a sì piccola serva l’onore
di portare in grembo sì nobile fiore.

(Escono di scena, ed entrano i bambini col pastorello)

Primo bambino
Orsù giochiamo in questo bel prato
e tu non startene lì imbronciato.

Pastorello
Ma io con voi non posso giocare
qui in disparte lasciatemi stare.

Primo bambino
Ma no, troviamo qualcosa che puoi
fare anche tu insieme con noi.

Secondo bambino
Dicci un po’: che cosa sai fare?

Pastorello
Beh, il mio flauto so ben suonare.

Terzo bambino
E allora che aspetti ad intonare
una melodia per farci cantare?

(Il pastorello suona e i bambini cantano)

Primo bambino
Ma sei ben bravo, bravo davvero
lo devo dire, sono sincero.

Secondo bambino
Fa le tue mani e le tue labbra
ciò che non riesce a far la tua gamba.

Pastorello
Sì, questo è vero, ma come vorrei
corre con voi, amici miei.

Terzo bambino
Ma troveremo mille maniere
per giocare sempre tutti insieme.

Coro di bambini
Or ti aiutiamo le pecore a chiamare
così alle stalle le puoi riportare.

(Escono di scena, mentre sullo sfondo entrano Giuseppe e Maria)

Maria
Caro Giuseppe, sento che è il tempo
che ora si schiuda il mio grembo
e mostri sl mondo il frutto soave
donato dal cielo a domare ogni male.

Giuseppe
Sei sicura Maria che sia proprio l’ora?
Un riparo per la notte non abbiamo ancora…

Maria
Son certa, Giuseppe, freme la vita
che se ne stava prima sopita.

Giuseppe
Lì poco più avanti mi pare una grotta
darà a noi riparo ora che annotta.

Maria
Stammi vicino, marito caro,
ora che il bimbo divino verrà
trema il mio cuore davanti al sovrano
che le mie umili braccia terran.
Come potrò esser mai degna
di far da madre a chi in cielo regna?

Giuseppe
Dolce Maria, non aver paura.
l’anima tua è limpida e pura;
abbi fiducia nel nostro Signore
che al ventre tuo donò il salvatore.

Maria
Preghiamo insieme perchè dall’alto
scenda su noi fede e coraggio.

Maria e Giuseppe (si inginocchiano)
Sudditi noi c’inchiniamo obbedienti
che tu c’invii gioie oppur stenti
sia fatta comunque la tua volontà
che muove sempre da immensa bontà.

Si alzano ed entrano nella grotta (dei teli in un angolo che si richiudono su di loro). Dei pastori stanno seduti al centro della scena, e accendono un fuoco. Il pastorello sta sa un lato.

Pastorello
Che strana notte, strana davvero,
nell’aria si sente pungere il gelo
eppure dolce scende un tepore
che dona al sangue nuovo vigore
e nella pace di questo momento
sembra che tutto sia in pieno fermento.

Primo pastore (arrogante)
Ehi, tu, pastorello,
smetti di sognare
non startene bel bello
datti un po’ da fare:
porta un po’ di legna
che il fuoco non si spenga
cerca almeno di far presto
la tua gamba muovi lesto!

Compare in cielo la cometa, mentre il pastorello si alza.
Pastorello
Ma cosa succede, guardate lassù
che splendida stella squarcia il cielo blu!

Secondo pastore (spaventato)
Il ragazzo ha ragione, che mai sarà?
La fine del mondo presto verrà!

Coro di pastori (terrorizzati)
Su presto, di corsa, fuggiamo, fuggiamo,
il più possibile lontano andiamo!

Pastorello
Ma dove andate? Allor non udite?
Il canto sublime voi non sentite?

Terzo pastore
Saranno i diavoli che vengono in branchi
via, prima che tutta la terra si squarci!

Pastorello
Ma insomma, che cosa mai temete,
non sentite com’è dolce questa quiete?
Se qualcuno dovesse mai apparire
sarà un angelo splendido oltre ogni dire.

Angelo
Bene hai parlato, fanciullo caro,
il tuo cuore vede assai chiaro,
é questa una notte davvero speciale
che fa dileguare le tenebre e il male.
A voi  pastori voglio annunciare
la nascita in terra del vostro messia
correte in fretta ad adorare
il bimbo Gesù nato a Maria.

Narratore
Nell’auro ricamo di stelle
un cielo di mille fiammelle
è apparsa la luce d’oriente
che annuncia del bimbo incantato
l’arrivo nel mondo stregato.

Intanto i pastori sono usciti seguendo l’angelo. Resta in scena il pastorello.
Pastorello
Ecco, l’angelo d’oro è sparito
e i pastori gli hanno obbedito:
sono corsi a riverire
il bambino e in lui gioire.
Ma come posso fare io
con lo zoppicare mio
da Maria ad arrivare
e suo figlio anch’io osannare?
Lento e storto io cammino
troppo tardi arriverò
e così io mai, tapino,
il piccino adorerò.
(Cammina lentamente)
Lungo e duro è il sentire
non ce la farò davvero.
Ma un modo ci sarà
perchè giunga anch’io fin là!
(Appare l’angelo alle sue spalle. Al un certo punto il pastorello si ferma.)
Certo è vero, un modo c’è
perchè anch’io lodi il mio re:
se le gambe mie van zoppe
non del flauto le sue note
danzeranno lor nel vento
a festeggiare il lieto evento
e alle orecchie di Maria
porteran la mia poesia.
(Prende il flauto e suona. Si illumina la stalla ancora chiusa.)
Ma che succede, vedo un chiarore
che accende il me un nuovo ardore
odo una voce che forte mi chiama
sono sicuro, è qualcuno che mi ama!

Angelo (mostrandosi)
Certo, hai ragione, tenero bimbo,
ora hai finito di viver nel limbo
riconosciuta hai la voce d’amore
che parla a chi ode il canto del cuore.
Corri, che aspetti, non puoi più tardare,
dal tuo signore ti vuoi inginocchiare?

Pastorello
Come vorrei poter volare
ed al mio re tutto donare,
ma non ho altro che un piede storto
che ne farà mai di un povero storpio?

Angelo
Abbi fiducia, mio pastorello,
non potrai fargli dono più bello
della tua anima limpida e chiara
che il signore così tanto ama.

L’angelo lo spinge dolcemente, e intanto si aprono i teli della grotta e la scena illumina la sacra famiglia con i Re e i pastori in adorazione.

Pastorello
Ma che succede? Che cosa mi accade?
Quasi mi sembra di poter volare!
(Riesce a camminare bene e veloce).
Ecco li vedo, splendon di sole
ed è sì piccino il mio signore.
Nato in un’umile e fredda stalla
è lì deposto tra povera paglia.

Narratore
Osanna dal fondo dei cuori
di bimbi di re e di pastori
che giungono qui a riverire
tra la paglia di un caldo fienile
il balsamo di tutti i mali
donato dal cielo agli umani.

Pastorello
Tutti si chinano innanzi a loro
pastori e re con le corone d’oro.
Sol presuntuoso un pastorello
se ne sta ritto come alberello?

Angelo (spingendolo dolcemente verso terra)
Su, piega il ginocchio dinnanzi al re
che è sceso qui in terra anche per te.

Pastorello (inginocchiandosi)
Ma mi posso inginocchiare!

Angelo
Vedi come ti sorride
è contento il buon Gesù;
ora cosa gli vuoi offrire
fagli un dono pure tu

Pastorello
Al suo sguardo pien d’amore
il mio corpo è un tremore
ma di gioia e libertà
chiedo sol la sua maestà.
Da donare ho sol me stesso
e mi offro tutto adesso
d’ora in poi lui soltanto
sarà re di me piccino
e protetto dal suo manto
sarà dritto il mio cammino:
il vero sempre seguirò
e della vita sol gioirò.
Solo questo ho da donare
che mi diede un dì tua madre
(tira fuori il fiorellino)
Sempre splende di sua vita
la corolla colorita.
(posa il fiorellino davanti a Gesù bambino).

Maria
Gioisce il mio figliolo
ti ringrazia del tuo dono
ma tutti i giorni gli hai donato
ciò che hai fatto di tua vita
e la voce del tuo flauto
fino in cielo si è sentita.

Angelo
Ognuno offre quello che ha:
pace in terra, gioia in cielo
che dischiude il suo velo
a chi ha buona volontà.

Narratore
Avvolto da cori celesti
coperto di umili vesti
è apparso nel mondo un piccino
che cela un mistero divino:
del sole lui reca la luce
e il calore che al vero conduce.
Esulta gioioso ogni cuore
è nato il re dell’amore.

(Recita in uso nelle scuole steineriane, autore ignoto).

MARI ITALIANI materiale didattico

MARI ITALIANI materiale didattico di autori vari per la scuola primaria.

Facciamo un viaggio per mare, imbarcandoci con la fantasia, su uno di quei pescherecci che vanno al lago a pescare sogliole e muggini, oppure su una nave da diporto che ci porterà in crociera toccando i porti più notevoli dei nostri mari, costeggiando le rive, godendo dei pittoreschi paesaggi delle nostre coste.
Il mare dove l’Italia si stende è uno solo, il mar Mediterraneo, che i Romani chiamavano orgogliosamente Mare nostro. Ora non è più tutto nostro; nostri, cioè italiani, sono  i mari che il Mediterraneo forma quando arriva a bagnare le coste della  penisola. Si chiamano Mar Ligure, Mar Tirreno, Mar Ionio, Mare Adriatico.
Il mar Ionio è il più profondo, il mar Adriatico il meno profondo ma in compenso il più pescoso. I pesci amano i fondali relativamente bassi dove trovano in abbondanza di che soddisfare il loro appetito. Se è vero che il pesce grosso mangia il piccolo, come dice il proverbio, è anche vero che tutti i pesci si nutrono del plancton che è composto da minutissime alghe e microscopici animaletti che vi dimorano. Quindi se vogliamo fare una partita di pesca sceglieremo l’Adriatico

Il Mar Ligure e il Mar Terreno
Il Mar Ligure non è molto esteso. Prende questo nome dalla bellissima regione che esso bagna, una delle più pittoresche d’Italia. Palme, aranci, olivi, un cielo quasi sempre azzurro, un clima mite, un mare stupendo; ecco ciò che si presenta gli occhi di coloro che visitano questa meravigliosa regione. Nel cuore di tutta questa bellezza c’è Genova, la superba, coi suoi cantieri sonanti, i suoi traffici intensi, aerei oltre che marittimi, il suo popolo fiero, laborioso, generoso.
Genova sorge in fondo a un grande golfo che ne prende il nome.
Appena usciti dal golfo di Genova, ecco, in una profonda insenatura, una città che sembra fatta di ferro, un porto popolato anch’esso di navi di ferro, su cui il profilo dei cannoni mette un’ombra minacciosa. E’ La Spezia, uno dei maggiori porti militari d’Italia, una città forte, severa, risonante di lavoro e di fabbriche di armi.
Dopo La Spezia, la costa si fa bassa, sabbiosa. E’ l’incantevole spiaggia toscana dove sorgono graziosissime cittadine balneari. Non vi si trovano grandi porti, eccettuato quello di Livorno, anch’esso risonante di lavoro perchè nel suo cantiere si costruiscono belle navi da carico e da trasporto. I costruttori livornesi sono conosciuti anche all’estero.
Ed ecco in lontananza elevate ciminiere da cui escono nuvole di fumo denso e nero. Sono gli altiforni di Piombino, dove si lavora il ferro ricavato dalla vicina Isola d’Elba, il cui profilo si scorge all’orizzonte.
Proseguendo nel nostro viaggio, dopo la costa toscana, superato appena il pittoresco promontorio dell’Argentario, ecco la costa laziale, un tempo brulla, malsana e infestata dalla malaria. E’ l’Agro romano, che oggi, per opera dell’uomo, è diventato una terra fertile, verdeggiante, salubre… Qui sfocia lento, torbido, solenne, il Tevere, il fiume di Roma, spettatore di tanta storia.
Il fantasioso viaggio continua e ben presto lo sguardo si rallegra soffermandosi su una costa verde, coperta di una lussureggiante vegetazione fatta di olivi, viti, aranci. E’ la costa campana. Incontriamo prima Gaeta col suo piccolo ma delizioso golfo, e infine l’ampia insenatura in fondo alla quale sorge Napoli, dove cielo e mare sono inverosimilmente azzurri, dove la gente lavora lieta nel dolcissimo clima che dà ricchi prodotti e una terra fertile, ai piedi del Vesuvio.

Le isole del Mar Tirreno
Le isole maggiori sono la Sicilia, isola ricca di agrumi, sulla quale si leva il vulcano più alto d’Europa, l’Etna; la Sardegna, bellissima nel suo paesaggio rude e roccioso dove esistono ancora i nuraghi, le antiche, misteriose costruzioni di un popolo la cui storia si perde nella notte dei tempi; la Corsica, che appartiene politicamente alla Francia.
Non dimenticheremo le isole minori: l’Arcipelago Toscano con l’Isola d’Elba; l’Arcipelago Campano di cui fanno parte le gemme del Tirreno Ischia, Capri, Procida; l’Arcipelago Ponziano di cui l’isola di Ponza è la principale; il gruppo delle isole Eolie o Lipari, in una delle quali sorge lo Stromboli, il terzo vulcano attivo d’Italia. Più a ovest, ecco Ustica e infine il gruppo delle Egadi a ponente della Sicilia. Tra Sicilia ed Africa si trovano le vulcaniche isole Pelagie e l’isola di Pantelleria.
Siamo così giunti allo stretto di Messina, un tempo terrore dei naviganti: chi passava lo stretto, correva il rischio, secondo la favola antica, di morire. Due terribili mostri, Scilla e Cariddi, vi facevano la guardia e chi sfuggiva alle insidie di Scilla, cadeva nell’inganno di Cariddi, e chi si salvava da Cariddi, non poteva evitare il tranello di Scilla. Favole. Che però avevano un fondo di verità. Le correnti dello stretto sono così impetuose che le antiche imbarcazioni, poco sicure, naufragavano facilmente; ciò giustificava la mitologica presenza dei due terribili mostri. Oggi lo stretto si attraversa agevolmente con le navi – traghetto, che trasportano treni ed automobili, e con i veloci aliscafi. Ottimi porti si aprono sulla costa tirrenica della Sicilia: Palermo e Trapani.

Il mar Ionio
Siamo così giunti al mar Ionio, il più profondo d’Italia. Ampi porti si aprono in questo mare: Messina, Siracusa, Augusta, in Sicilia. Lasciandoci alle spalle l’isola maggiore d’Italia, bordeggeremo lungo il tacco dello stivale, dopo essere entrati nell’ampio golfo di Taranto, dove sorge il più grande porto militare in cui stanno alla fonda le navi da guerra. Al largo incontriamo le imbarcazioni che vanno alla pesca del pesce spada. Queste barche inalberano un lungo palo in cima al quale si aggrappa un uomo salito fin lassù per avvistare, nell’immensità del mare, il guizzare pesante dello squalo che poi sarà trafitto con la fiocina.

Il mar Adriatico
Dopo aver superato il tacco dello stivale, e cioè la Penisola Salentina, eccoci nel Mar Adriatico, azzurro, pescoso e amarissimo. E’ infatti il più salato. Sono coste quasi rettilinee, uniformi, dove si trovano i porti di Brindisi, scalo per le navi che vanno in Oriente, Bari, Barletta, tutti ai limiti della fertilissima terra pugliese e il Tavoliere delle Puglie, dove si produce in quantità grano e vino.
Lungo la costa ora non si trovano più insenature importanti e quindi non vi sono porti di rilievo, eccettuato quello di Ancona, situato in un gomito della costa stessa (il so nome in greco significa appunto gomito). Incontriamo però buoni porti pescherecci, situati negli estuari dei fiumi. Il principale di questi è San Benedetto del Tronto.
Proseguendo oltre Ancona troviamo piccoli porti – canali sui ridenti lidi romagnoli dove si stendono ampie spiagge dalla sabbia dorata, popolate di bagnanti e di turisti; infine Ravenna e la Laguna di Comacchio che si chiama anche valle, ma soltanto in gergo peschereccio, perchè in queste valli non si raccoglie il grano bensì il pesce, di cui si fanno importanti allevamenti. E’ nelle valli di Comacchio che si pescano le saporitissime anguille.
Eccoci poi nell’ampio golfo di Venezia. E’ questo un nome che fa sognare italiani e stranieri. E’ una città unica al mondo, costruita su numerose isolette dove, per recarsi da un luogo all’altro, ci si serve di strette vie (le famose calli) o dei numerosi canali solcati da gondole e vaporetti. Una città dove i palazzi di marmo sembrano sorgere dall’acqua, una città che nel passato estendeva i suoi domini fino ai paesi del Mediterraneo orientale.
Non immaginavano certo questo splendido destino quei profughi che, per sfuggire all’invasione dei Barbari, andarono a rifugiarsi sulle deserte isole della laguna. Forse, queste popolazioni, in tempi diventati più sicuri, avrebbero abbandonato le loro provvisorie abitazioni, se non avessero trovato, in queste isolette, un tesoro: il sale. Il sale fu la prima moneta di Venezia, e se è vero come si dice che dove si semina sale non nasce più nulla, Venezia smentì clamorosamente questo detto perchè seminò sale e raccolse oro. Il sale, a quei tempi, era molto richiesto, e Venezia lo estrasse dal mare e lo esportò nei paesi dove le sue navi approdavano. Era una ricchezza che costava poco o nulla, e Venezia ne approfittò per aumentare la sua potenza.
Siamo quasi alla fine del nostro viaggio. Non mancheremo di fare una visita a Trieste, la città italianissima, sul confine, col suo cantiere fervente di lavoro e col suo porto dove si svolgono traffici intensi.

Mari d’Italia
La penisola italiana si spinge nel Mar Mediterraneo dividendolo in due grandi parti: l’orientale e l’occidentale, ed è bagnata da ben sei dei mari minori in cui il Mediterraneo si divide, e cioè: il Mare Ligure, il Mare Tirreno, il Mare di Sardegna, il Mare di Sicilia, il Mare Ionio ed il Mare Adriatico.
Il Mediterraneo gode di una temperatura media superficiale di 23° – 24° nel periodo estivo, e di circa 12° nel periodo invernale. Una temperatura davvero mite.
Le maree, ovvero il periodico innalzarsi e successivo abbassarsi delle acque, dovuto all’influsso della luna, provocano nel Mediterraneo differenze fra massimo e minimo soltanto di pochi decimetri: ad esempio 36 cm a Napoli e 27 cm a Genova; più accentuata la differenza a Venezia, circa un metro
Il Mar Ligure si estende tra le zone settentrionali della Corsica e le coste liguri; è poco pescoso e piuttosto profondo (massima profondità 2800 m).
Il Mar Tirreno è compreso fra le tre isole Sicilia, Sardegna e Corsica e la costa occidentale dell’Itala; è abbastanza pescoso e profondo (massima profondità 3700 m); numerose le isole.
Il Mar di Sicilia è situato tra le coste africane e quelle meridionali siciliane; è  ricco di pesci ma poco profondo (profondità massima 1600 m, in qualche punto).
Il Mar di Sardegna è compreso fra la Corsica (Francia), le Baleari (Spagna) e le coste occidentali della Sardegna; è pescoso e profondo (profondità massima 3100 m).
Il Mar Ionio si stende tra l’Italia, l’Africa e le coste occidentali della Grecia; è molto profondo ed anche caldo (profondità massima 4400 m).
Il Mar Adriatico si allunga fra la Dalmazia e le nostre coste; non è molto profondo e appunto per questo è molto pescoso (massima profondità 1250 m, ma nel Golfo di Venezia non supera i 25 m). E’ il mare più salato.

L’Italia nel Mediterraneo
Il Mediterraneo, chiuso fra le terre d’Africa, d’Asia e d’Europa, è ben riparato dai venti freddi del settentrione ed è favorito da un clima, assai dolce in inverno, che fa fiorire sulle sue sponde una ricca vegetazione, varia e sempreverde, d’agrumi e d’olivi, di palme e di cipressi, di lecci e di pini, e di altre piante che nel loro complesso costituiscono insieme la macchia mediterranea.
Attratte dal clima e dalla ricchezza della vegetazione, fin dalle epoche più remote, molte genti si stabilirono sulle rive di questo mare il quale, col passare dei secoli, divenne il crocevia e il centro di fusione di molte antiche civiltà.
In mezzo al Mar Mediterraneo, sì da dividerlo in due parti quasi uguali, si protende, snella e slanciata, la Penisola Italiana.

Le coste italiane
Le coste italiane hanno uno sviluppo complessivo, comprese le isole (ma senza la Corsica) di circa 8000 km.
Le coste del Mar Ligure disegnano un grande arco tra Capo Ferrat e Capo Corvo; alte e rocciose, con frequenti scoscesi promontori e minuscole insenature, offrono scorci panoramici vari e pittoreschi.
Sulla Riviera di Ponente stanno Savona, Ventimiglia, Varazze, Bordighera, Sanremo, Imperia, Albenga; sulla Riviera di Levante stanno Genova, il nostro maggior porto mercantile; La Spezia, porto militare, il cui golfo è chiuso dalla penisoletta di Porto Venere; Rapallo, Chiavari e Sestri.
Le coste del Mar Tirreno si sviluppano da Capo Corvo alla punta del Pezzo, sullo stretto di Messina. Lungo la Toscana, il Lazio e parte della Campania, le coste sono basse, scarse di porti e un tempo orlate di terreni palustri come nelle Maremme e nelle Paludi Pontine, ora quasi completamente bonificate. La maggiore insenatura è il golfo di Gaeta; i promontori più accentuati sono quelli di Piombino, dell’Argentario e del Circeo; Livorno e Civitavecchia i porti più attivi. Nella sua sezione meridionale, lungo la Campania e la Calabria, la costa tirrenica presenta sporgenze e coste alte e rocciose e insenature a fondo piatto. Le sporgenze più pronunciate sono la penisola Sorrentina, il Cilento, la penisoletta del Poro; le maggiori insenature sono i golfi di Napoli, di Salerno, di Policastro, di Santa Eufemia, di Gioia; il porto più attivo è Napoli, seguito a grande distanza dai porti di Torre Annunziata, Castellammare, Salerno. Le coste calabresi non hanno porti.
Il Tirreno è il mare italiano più ricco di isole: arcipelago Toscano, isole Pontine, Partenopee, oltre a quelle contermini alla Sicilia e alla Sardegna.
Le coste del Mar Ionio, generalmente basse e lisce, si sviluppano dalla punta del Pezzo al Capo di Santa Maria di Leuca; alle foci dei fiumi si hanno tratti di pianure alluvionali. Alcuni erti promontori, tuttavia, si spingono a punta nel mare: Capo delle  Armi, Capo Spartivento, la penisoletta di Crotone. Tra le penisole calabrese e salentina si stende il golfo di Taranto; assai più piccolo, a sud, il golfo di Squillace. Rari i porti: Reggio Calabria, Taranto (militare), Crotone e Gallipoli.
Le coste italiane del Mar Adriatico si sviluppano dal Capo di Leuca a Trieste. Mentre la costa dalmata è alta e rocciosa, spaccata da profonde insenature, frastagliata da lunghe isole parallele, la costa italiana è unita, bassa (tranne alla Testa del Gargano e al promontorio del Conero). A sud e a nord del Gargano ricorrono tratti paludosi e lagune (laghi di Lesina, di Varano, di Salpi); ma le lagune più importanti sono, come abbiamo detto, quelle della costa veneta.
A nord l’Adriatico forma i golfi di Venezia e di Trieste.
I porti più importanti, lungo la costa italiana, sono quelli di Brindisi e di Bari in Puglia, di Ancona nelle Marche, di Venezia e di Trieste in Veneto e Friuli.

Dettati ortografici

La vita dell’Italia è sul mare
L’Italia deve ricorrere essenzialmente alle vie marittime per assicurare la vita materiale ed economica del suo popolo. L’Italia ha il suo territorio racchiuso nel Mediterraneo. Tutte le sue comunicazioni terrestri debbono attraversare la barriera delle Alpi, come tutte le sue comunicazioni marittime devono passare attraverso gli stretti situati a mille miglia dai nostri porti. Perciò possiamo dire che il mare è la linfa vitale, il sangue dell’Italia.

La pesca dell’Adriatico
L’Adriatico, specialmente nella parte superiore, è più pescoso del resto del Mediterraneo. Lo percorrono in buona parte i bragozzi chioggiotti che si tengono, per la pesca, discosti dalle rive. Le barche di altre località, invece, si allontanano poco dalla costa, limitandosi alla pesca con reti fisse, collocate in luoghi adatti e con reti  a strascico. D’estate e di primavera, però, si spingono al largo alla pesca delle sardine le quali attraversano date zone in sciami o branchi. (Mottini)

Mari d’Italia
Il mar Ionio è il più profondo, il mar Adriatico il più pescoso. I pesci amano i fondali bassi dove trovano in abbondanza di che soddisfare il loro appetito perchè, se è vero che il pesce grosso mangia il piccolo, come dice il proverbio, è anche vero che tutti i pesci si nutrono del plancton, che è composto di minutissime alghe e di microscopici animaletti che fra esse dimorano. E il plancton si trova generalmente nei bassi fondali.

Le coste del Mar Ligure
Sulla costa ligure vanno  a veleggiare italiani e stranieri, famosa com’è in tutto il mondo, per la bellezza dei paesaggi e la dolcezza del clima. Palme, aranci, olivi, un cielo quasi sempre azzurro, un mare stupendo, delle coste pittoresche, ecco ciò che si presenta all’occhio di chi ha la fortuna di visitare questo bellissimo paese. Nel cuore di tutta questa bellezza sorge Genova, la Superba, coi suoi cantieri sonanti, i suoi traffici intensi, il suo popolo fiero e generoso.

La costa campana
Costeggiando l’Italia verso sud, il nostro sguardo si potrà rallegrare soffermandosi su rive verdi, coperte di una lussureggiante vegetazione di olivi, di viti, di aranci. Incontriamo prima Gaeta, nel suo piccolo ma delizioso golfo e infine Napoli, il secondo porto d’Italia, dove il cielo e il mare sono inverosimilmente azzurri, il clima è dolcissimo e la terra fertilissima.

Lo stretto di Messina
Una volta la traversata di questo stretto spaventava i navigatori, ma oggi non spaventa più nessuno. Basti dire che si può attraversare senza neppure scendere dal treno. Infatti questo viene istradato su una nave traghetto che compie la traversata, dopo di che il treno riprende la sua strada sull’altra riva. Messina fu distrutta da un tremendo terremoto, ma oggi è risorta più bella e attiva di prima.

I mostri dello stretto
Un tempo chi attraversava lo stretto di Messina correva il rischio di sprofondare nel mare, almeno a quanto raccontava la leggenda. Due terribili mostri, Scilla e Cariddi, vi facevano la guardia e chi sfuggiva a Cariddi non poteva evitare Scilla. Leggende, naturalmente, ma che avevano un fondo di verità. Infatti, le correnti dello stretto sono così impetuose e le navi dell’epoca così fragili e malsicure, che i naufragi erano frequentissimi e tali da giustificare la fiabesca esistenza dei due terribili mostri.

Venezia
E’ un nome che fa sognare italiani e stranieri. E’ una città unica al mondo, costruita su isolette dove, fatta eccezione per strettissime calli, non ci sono strade per recarsi da un luogo all’altro, bensì canali che bisogna percorrere in gondola o in vaporetto. Una città dove si costruivano stupendi palazzi di marmo quando ancora molte altre avevano capanne di fango; una città che divenne ricca e potente, riuscendo ad estendere il suo dominio fino al lontano oriente.

La cattura del pesce spada
Sul mar Ionio si pratica la pesca del pesce spada. Sull’imbarcazione attrezzata per tale impresa, si leva un albero altissimo e un uomo sta lassù, aggrappato in cima all’asta dondolante, per tentare di scorgere, nell’immensità del mare, il guizzare del grosso pesce. Quando viene avvistato, l’imbarcazione tenta di avvicinarsi senza provocarne la fuga. Ed ecco un altro uomo all’opera. Armato di una lunga fiocina, cerca di colpire lo squalo, lanciando l’arma con mano abile e potente. La fiocina è assicurata da una corda e quando il pesce è colpito, non c’è che da tirarlo a bordo, sia pure con grande fatica e talvolta, date le dimensioni, anche con pericolo.

Parla il mare d’Italia
Bella Italia, mia regina! Tirreno, Ionio, Adriatico, io non sono che un mare, il tuo mare! Vi fu un tempo che ti custodivo tutta in me: tu sei emersa, ma ancor oggi, nelle pieghe delle tue montagne, custodisci le sabbie e le argille che io vi ho deposto, serbi nelle tue pietre le conchiglie e le alghe di cui ti adornavo. Sei sinuosa di rive, facile agli approdi, dolce di lagune, traboccante di garofani e di rose, bianca di marmi, dorata di biade, fiammeggiante di vulcani, profumata di agrumi! Tutta io t’investo a temperare i freddi venti del settentrione e i brucianti fiati del sud.

Venezia
Per sfuggire alle invasioni dei barbari, molti profughi andarono a stabilirsi su alcune isolette che sorgevano sulla laguna. Forse, in seguito, questi profughi avrebbero abbandonato le provvidenziali isolette se non si fossero accorte di avere, a portata di mano, un grande tesoro: il sale. Il sale fu la prima moneta di Venezia e se è vero quanto si dice, che dove si semina sale non nasce più nulla, per Venezia fu tutto il contrario: seminò sale e raccolse oro.

Il mare d’Italia
Marinaro è il tuo popolo, Italia, e marinare sono le tue sorti! Sul mare vennero al lido tirreno le navi di Enea, nel mare crollò il potere di Cartagine e sorse l’impero mediterraneo di Roma; sul mare spiegarono le vele e gli stendardi, al traffico e alla guerra, i galeoni di Amalfi, di Gaeta, di Pisa, di Genova e di Venezia che fermarono le flotte turche e barbaresche, e Genova andò superba della propria ricchezza, e Venezia levò palazzi di trine marmoree e chiese dalle cupole d’oro. Sul mare, su tutti i mari, tentando nuovi passaggi, scoprendo isole e continenti, donando terre e imperi a sovrani, navigarono gli arditi marinai del Medioevo, navigarono Cristoforo Colombo, genovese, Giovanni Caboto, veneziano, Amerigo Vespucci, fiorentino, e Antonio Pigafetta che, al servizio del portoghese Magellano, fu il primo italiano a compiere il giro del mondo.

Le coste d’Italia
Cinta per gran parte dal mare, l’Italia si allunga in una distesa di svariatissime coste, qua lentamente digradanti con dolce pendio, là scoscese e percosse dalle onde: ora selvose, ora nude, ora coronate di ridenti colline che si protendono in lunghi promontori e capi e file di scogli, o scavate in vasti golfi o porti amplissimi e sicuri contro ogni insidia del mare. Isole e isolette qua e là, in faccia alle spiagge, accrescono varietà e bellezza delle coste italiane.

Il mare
Il mare è un immenso serbatoio di vita. Le sue acque contengono il sale, i pesci più svariati, le alghe da cui si ricavano sostanze medicinali e soprattutto assorbono lentamente il calore del sole e lo restituiscono lentamente alla terra. Quindi, mentre la terra rapidamente si riscalda e altrettanto rapidamente si raffredda, il mare ha una temperatura più costante e rende più mite, cioè più dolce, il clima, non solo delle spiagge, ma anche di un largo tratto dell’interno. (P. De Martino)

Mari, coste, pini e sole
Tu credi che i mari si assomiglino tutti? Sono tutti fatti d’acqua, con tanta acqua salata… Ma è la luce che li fa diversi. Ci sono i mari del sole e quelli della nebbia, quelli azzurri e quelli grigi. Se tu hai visto qualche volta i mari dell’Europa settentrionale vedrai che il nostro è tanto più azzurro di quelli. Quasi verde l’Adriatico, cerulo lo Ionio, azzurro di cobalto il Mediterraneo, celeste chiarissimo il Tirreno. Attorno a Napoli, a Sorrento, a Procida, a Capri, l’azzurro è luminoso come uno smalto.
E, come il colore del mare, varia all’infinito la bellezza delle coste. Siamo sulle rive di una stessa terra, ma la costa della Liguria come fai a confrontarla con quella veneta? E quella toscana con quella di Puglia?
Due cose le ritrovi ovunque: i pini e il sole. (O. Vergani)

Mari colorati
Talvolta, in prossimità delle coste, la superficie assume un colore giallo sporco per i materiali portati dai grandi fiumi; nelle calde notti estive, i mari tropicali hanno curiosi fenomeni di fosforescenza per l’azione di miliardi di microrganismi che emettono una luce simile a quella delle lucciole.
Alcuni mari debbono il loro nome proprio al colore predominante delle acque: come il Mar Rosso, i cui riflessi rossastri sembra siano da attribuire a una grande quantità di alghe di quel colore; o come il Mar Giallo, così chiamato per il limo portato dal fiume Hoang-ho; il Mar Bianco, ovviamente, trae il suo nome dalla presenza dei ghiacci galleggianti sulle sue acque.

La sinfonia marina
Arrivava l’onda con una veemenza d’amore o di collera sui massi incrollabili; vi si precipitava rimbombando, vi si dilatava gorgogliando, ne occupava, con la sua liquidità, tutti i meati più segreti. E quasi pareva che un’anima naturale oltresovrana empisse della sua agitazione frenetica uno strumento vasto e molteplice come un organo, passando per tutte le discordanze, toccando tutte le note della gioia e del dolore.
Rideva, gemeva,  pregava, cantava, accarezzava, singhiozzava, minacciava: ilare, flebile, umile, ironica, lusinghevole, disperata, crudele. Balzava a colmare sulla cima del più alto scoglio una piccola cavità rotonda come una coppa votiva; s’insinuava nella fenditura obliqua dove i molluschi prolificavano; piombava sui folti e molli tappeti di coralline lacerandoli o vi strisciava leggera come una serpe sul musco. (G. D’Annunzio)

A pesca nell’Adriatico
Le principali barche da pesca dell’Adriatico sono le paranze e le lancette. Le prime sono di maggior grandezza, pescano sempre accoppiate e non rimangono in mare più di quindici giorni, provvedendo al trasporto del pesce a terra con battelli a vela o a remi. Le lancette sono barche di più piccola dimensione che navigano non discostandosi molto da terra. Lasciano la spiaggia la mattina prima dell’alba e, dopo una giornata di pesca, ritornano a terra, sì che la sera, verso il tramonto, empiono il mare di uno sbandieramento vivace, pittoresco, con la gaiezza delle loro vele scarlatte. (V. Guizzardi)

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MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario di autori vari per bambini della scuola primaria.

I conventi
Durante e dopo le incursioni dei Barbari, l’Italia offrì un ben triste spettacolo: rovine e stragi, i templi distrutti, i monumenti abbattuti, le opere l’arte e della letteratura abbandonate e neglette. Pareva che la vita non avesse più valore tanto erano ormai diventate realtà di tutti i giorni le morti, le stragi, le violenze.
Questo stato di cose favorì lo sviluppo del cristianesimo. Più perdeva valore la vita terrena, più ne acquistava la vita eterna. Fu così che alcuni uomini si ritirarono in luoghi deserti, preferibilmente sulla sommità di alte montagne, per dedicarsi esclusivamente alla preghiera in solitudine. Questi uomini furono chiamati eremiti ed erano tenuti in grande considerazione.
In seguito, questi religiosi si riunirono a far vita comune, dedicata esclusivamente a Dio e alle opere di bene. Sorsero così i conventi. Il convento più famoso, fondato in quell’epoca, fu quello di Cassino, sorto per opera di San Benedetto.

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – San Benedetto
San Benedetto era nato a Norcia, paese dell’Umbria, da nobile famiglia. Fin da giovanetto aveva sentito l’attrazione per la vita eremitica e abbandonata la sua casa si era ritirato a vivere in una grotta, tra i monti di Subiaco e vi stette tre anni. La fama della sua santità si sparse dovunque e alcuni eremiti gli chiesero di far vita comune con lui.
Sorse così un convento. Benedetto dettò la regola che fu però diversa dalle regole che governavano altri conventi. Infatti, mentre in questi si osservava soltanto l’obbligo della preghiera, a Montecassino i monaci dovevano anche lavorare. Anche il lavoro è preghiera, se dedicato a Dio. “Ora et labora” fu la regola dei monaci benedettini, i quali si dedicavano alle opere sia intellettuali che manuali. Chi si dedicava allo studio, alla salvaguardia dei vecchi codici e alla miniatura dei codici nuovi, chi zappava la terra, allevava le api, costruiva abitazioni. A causa dell’avvilimento a cui li avevano costretti le invasioni e le distruzioni dei barbari, gli uomini non pensavano più ai valori spirituali della vita, alle arti, alle belle scuole, alle opere letterarie scritte nelle età antiche, ai poemi, alle sculture. Fu per merito dei conventi e dei monaci in essi ospitati, se molte di queste opere furono salvate. I religiosi raccolsero gli antichi manoscritti, quando erano rovinati li ricopiarono pazientemente, li studiarono, li commentarono. Fu merito dei conventi se le opere di molti scrittori e poeti dell’antichità poterono giungere fino a noi.
Ma l’opera dei monaci non si fermò qui. La miseria della popolazione era tanta e i conventi raccolsero i poveri, i derelitti, i perseguitati. Chiunque veniva accolto in un convento, centro di lavoro agricolo e artigiano oltre che di preghiera, era al sicuro dalla fame e dalle vendette dei nemici.
Sorsero così nell’interno dei conventi ospedali, scuole, laboratori, opere di pietà e di assistenza. Tutti quelli che chiedevano asilo venivano accolti e confortati.

Notizie da ricordare
Nel Medioevo si costituirono per la prima volta i conventi, luoghi dove si raccoglievano uomini votati esclusivamente a Dio.
Il convento più famoso fu quello di Montecassino, fondato da San Benedetto. L’ordine benedettino aveva per regola il motto “ora et labora”, cioè prega e lavora.
In questi conventi furono raccolti e restaurati preziosi libri manoscritti dell’antichità che furono così salvati dalla distruzione e dalla dispersione.
Intorno ai conventi sorsero scuole, ospedali, laboratori, opere di pietà e di assistenza. Chiunque si rifugiava nel convento aveva diritto di asilo ed era al sicuro dalla vendetta dei nemici.

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – Questionario
Come e perchè sorsero i conventi?
Quali opere fecero i monaci?
Perchè si dice che i conventi salvarono la cultura?
Chi era San Benedetto?
Quale regola dette ai monaci?

La vita nei conventi
Ogni monastero, chiuso da un muro di cinta, era come una grande fattoria e provvedeva a tutti i suoi bisogni. Accanto alla chiesa e al convento vero e proprio, con le celle dei monaci e la cucina e il refettorio, c’era la biblioteca, in cui si conservavano i testi sacri e i manoscritti antiche che i monaci più colti, nelle ore dedicate allo studio, leggevano, commentavano oppure copiavano in bella scrittura sui grandi fogli lisci di pergamena. I fanciulli accanto a loro imparavano scrivendo con uno stilo aguzzo su tavolette cerate; la cartapecora era troppo rara e costosa, perchè mani inesperte la potessero scarabocchiare. Chi sapeva dipingere, ornava le pagine con miniature di bei colori vividi, che ritraevano il volto della Madonna, di Gesù, degli Angeli e degli Apostoli. Altri ragazzini imparavano a calcolare con i sassolini o si esercitavano a cantare le preghiere e gli inni in lode al Signore.
Annesso al convento c’era il granaio, la cantina e il frantoio per estrarre l’olio dalle olive e i laboratori perchè i monaci provvedevano da sé  a tutti i loro bisogni, dai sandali agli aratri, dalle vesti alle panche. L’acqua di un torrente, opportunamente incanalata, faceva girare la ruota del mulino; l’orto provvedeva gli ortaggi e i campi le messi. Chi entrava, raramente aveva bisogno di uscire se non per andare a far opera di bene, sia portando soccorsi, sia predicando.
Gli ospiti che bussavano alla porta, erano ricevuti come Gesù in persona ed onorati in particolar modo se erano religiosi o pellegrini venuti da lontano. Quando ne era annunciato uno, il priore stesso gli andava incontro per il benvenuto e dopo una breve preghiera gli dava il bacio della pace e gli usava ogni cortesia. A mensa gli offriva l’acqua per le mani, come allora si usava sempre prima di mettersi a mangiare, dato che di posate si adoperava solo il cucchiaio e i cibi si prendevano con le dita.
Dei poveri, in particolare, si doveva aver cura e anche ad essi si lavavano i piedi, come Gesù aveva fatto con i suoi apostoli. Vi erano nel convento celle pronte a dare asilo a chi domandava ospitalità, con letti sempre preparati.
In quel tempo, ben pochi viaggiavano, perchè non si andava che a piedi e a cavallo, e le strade era scomode e malsicure, interrotte da frane o da alluvioni, e infestate da briganti. Non si trovavano alberghi per sostare la notte, poche erano anche le osterie in cui prender cibo e troppo spesso gli osti stessi erano ladroni che derubavano chi si fermava da loro. I conventi benedettini erano perciò asili sicuri a cui i pellegrini cercavano di giungere prima che cadessero le tenebre. La carità dei monaci li consolava dei disagi del viaggio ed essi si fermavano, talora, più di un giorno, prima di riprendere il cammino. Qualche volta non ripartivano più e chiedevano all’abate di accoglierli tra i suoi discepoli; nella luce del chiostro dimenticavano le bufere del mondo, dove sovrani si combattevano, popoli si strappavano l’un l’altro, con accanimento, i pochi beni della vita. (C. Lorenzoni)

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – Totila
Tutti parlavano di San Benedetto, del grande monastero di Montecassino, della chiesa che vi era stata eretta e soprattutto parlavano del santo abate, che possedeva il dono della profezia e sapeva leggere nel cuore degli uomini solo guardandoli negli occhi.

Era in quel tempo re dei Goti, Totila, un barbaro valoroso ma rozzo, che combatteva strenuamente contro gli eserciti romani e seminava morte e distruzione ovunque passasse con le sue milizie; di religione era ariano e odiava i cattolici.
Anche a re Totila però, era arrivata la voce che a Montecassino abitava un uomo prodigioso, a cui Dio rivelava il passato, il presente e il futuro e che compiva miracoli. E gli venne il desiderio di conoscere quest’uomo straordinario; perciò mandò al convento un suo messaggero a chiedere di essere ricevuto, e Benedetto rispose che sarebbe stato il benvenuto.
Ma Totila, che credeva di essere astuto, volle allora tendere un tranello malizioso per vedere se fosse vero che il santo indovinava tutto. Fece chiamare un suo scudiero, di nome Rigo, gli fece indossare le sue vesti di re, gli diede la sua spada, il suo scettro, il suo cavallo e lo fece accompagnare dai tre baroni che lo seguivano sempre. Rigo doveva presentarsi al convento come fosse stato il re, e andare davanti a Benedetto che, non avendolo mai visto, non lo conosceva di persona.
Così fu fatto. Il piccolo corteo fastoso salì alla cima del monte, bussò alla porta del monastero, entrò e fu introdotto nella sala del Capitolo dove l’abate aspettava. Ma Rigo non aveva ancora posato il piede sulla soglia che la voce di Benedetto lo arrestò: “Figliolo, metti giù codesti ornamenti che non sono i tuoi”.
A queste parole, lo scudiero fu turbato tanto che cadde a terra, tremando in cuor suo per aver osato farsi beffe di quest’uomo di Dio; e si prostrarono a terra costernati anche i tre baroni e i paggi e i soldati del seguito. Quando poi Benedetto disse loro di alzarsi, non osarono avanzare fino a lui, ma ritornarono all’accampamento, pallidi e sgomenti, come mai era loro accaduto nella loro vita di guerrieri, avvezzi a sfidare la  morte sul campo di battaglia.
Rigo raccontò a Totila quanto era avvenuto e il re ebbe paura. Chi ha molti peccati sulla coscienza trema di tutto e il re goto sapeva di essersi macchiato di molte colpe in quegli anni di guerra spietata e crudele; se Benedetto sapeva tutto, doveva sapere anche questo, e al re pareva di non poter avere più requie se non andava da lui, non lo vedeva e non udiva la sua parola. E così un giorno si recò al monastero, non come un potente sovrano, ma come un penitente qualsiasi, e quando vide da lontano San Benedetto non osò più avanzare, ma si gettò a terra in atto di umile omaggio. E il Santo, che sapeva chi egli fosse, anche se non gli vedeva addosso le vesti regali, gli disse: “Alzati”.
Egli, tutto tremante, non osava neppure levare il capo davanti a Benedetto, e allora il Santo si levò dalla sua sedia e lo fece alzare e lo fece sedere vicino a sè. Poi cominciò a parlargli con voce grave e volto accorato.
“Perchè sei re e comandi un grande esercito, ti credi forse tutto permesso? Vi è qualcuno, su in cielo, che è ben più potente di te e che un giorno ti dovrà giudicare.  Molti mali hai fatto e molti ne stai facendo ancora; se continui così perderai l’anima tua in eterno. Frena la tua iniquità, perchè non hai ancora una vita molto lunga davanti a te. Tu riuscirai a prendere Roma e dopo passerai il mare; ma Dio ti ha concesso solo nove anni di regno; il decimo morrai”.
Così profetizzò Benedetto a re Totila, e re Totila, di cui tutti avevano paura, lo ascoltava sgomento e, dopo avergli chiesto di pregare con lui, se ne tornò molto turbato al suo accampamento.
Si dice che da quel giorno egli fosse meno crudele. Certo, le profezie di Benedetto si avverarono tutte: Totila di lì a qualche tempo assediò Roma e la prese, poi passò in Sicilia; ma al decimo anno di regno combattendo in battaglia contro un nuovo generale che l’imperatore d’Oriente aveva mandato in Italia, perdeva la vita. (C. Lorenzoni)

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – San Benedetto
San Benedetto fondò un ordine fra i più importanti della Chiesa. Il suo motto era: prega e lavora. Egli amò Dio non solo con la preghiera, ma anche con il lavoro. Infatti lavorare serenamente per amare Dio e per fare del bene al prossimo è come pregare.
Il convento di San Benedetto si scorgeva lontano, col muro rosso e il melograno verde sulla soglia. Vi andavano le rondini a volo ed i poveri col passo stanco: per le une c’era una gronda, per gli altri, sempre, un tozzo di pane.
Un anno, che ghignava la carestia e neppure la malerba attecchiva nei campi, i bisognosi aumentarono a dismisura; una fila lunga di cenci, di sospiri, su per il colle, all’uscio del convento.
“Una crosta di pane, per carità!”
“Una tazza di olio, in nome di Dio!”
Regala oggi, largheggia domani gli orcioli dell’olio mostrarono presto il fondo: tutti, meno uno, piccolino, lasciato in disparte per condire le fave dei frati. E, quel giorno, il padre guardiano rimandò a mani vuote un vecchietto che era venuto con la sua ciotola.
Quando il santo lo seppe, disse parole di rimprovero, scese in dispensa e ruppe l’orciolo prezioso: l’olio si sparse, lento, tra le anfore vuote. E quelle, appena toccate, si riempirono fino all’orlo del buon alimento.
I frati gridarono al miracolo ed uscirono di cella a lodare il Signore: fuori, le rondini volavano ai nidi e il volto dei poveri aveva, nel sole, una ruga di meno.

Il monachesimo
Le invasioni, la fame, le pestilenze, le continue guerre, avevano distrutto la vita civile in tutta l’Europa: nei villaggi spopolati non c’era più chi tramandasse ai superstiti l’arte di coltivare i campi o di costruire una casa; gli uomini vivevano a stento senza speranze per il futuro.
Per trovare forza e conforto nella loro fede, alcuni uomini si ritiravano in solitudine nelle terre d’Oriente e vivevano in preghiera e meditazione: erano gli eremiti.
In Occidente, e proprio in Italia, le cose andarono diversamente. Nell’anno 480 nacque a Norcia, in Umbria, un bambino di nobile famiglia. Si chiamava Benedetto e, ancora ragazzo, sentì dentro di sé una forte vocazione religiosa. Benedetto si ritirò in una grotta poco lontana da Subiaco, dove i boschi  sono fitti e dove corrono le acque del fiume Aniene. In questa grotta trascorse alcuni anni; un po’ alla volta, la fama della sua santità corse per l’Italia. Vennero allora a Subiaco altri uomini stanchi e disperati, che volevano affidarsi a dio come Benedetto.
Il santo, però, aveva capito che gli uomini del suo tempo non dovevano essere aiutati solo con le preghiere: era necessario guidarli con l’esempio e insegnare loro nuovamente a lavorare perchè i campi rifiorissero e le tecniche rendessero più facile la vita. San Benedetto uscì così dalla caverna di Subiaco e fondò dodici monasteri nella valle del fiume Aniene; poi fondò il monastero più famoso, quello di Montecassino. Qui preparò la Regola, cioè le leggi alle quali avrebbero dovuto obbedire i suoi monaci. La Regola si può riassumere in due parole: prega e lavora. Con la preghiera, infatti, il monaco invocava dio e ne riceveva la forza per non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà; con il lavoro, aiutava il prossimo a costruire una nuova società, rifacendosi alle esperienze e alle conquiste tecniche degli antichi.
A voi forse sembra impossibile, ma la gente che viveva all’epoca di San Benedetto aveva proprio dimenticato quasi tutti i mestieri. Non sapevano più cosa fosse un aratro, né come si costruisse una strada o si alzasse un solido muro! Furono i monaci a raccogliere, a perfezionare e ad insegnare tutte le tecniche. San Benedetto aveva raccomandato ai suoi seguaci di portare una roncola appesa alla cintura, tutti così capivano che i benedettini erano sempre pronti a lottare contro la natura selvaggia per aprire un sentiero nelle boscaglie o per liberare un campo coltivabile. Il monaco Teodulfo insegnò tanto bene ai contadini del suo paese a lavorare la terra che, alla sua morte, il popolo pretese di appendere in chiesa il suo aratro. E fu proprio San Mauro a diffondere di nuovo l’uso dell’erpice e dell’aratro con il vomere di ferro. Per secoli, i monaci furono veri coloni agricoli; seguendo il loro esempio, i proprietari terrieri ricominciarono a liberare la buona terra dalle macchie e dai rovi, e cercarono di prosciugare le paludi.
I monaci fondarono anche ospedali, aprirono ospizi e scuole, mentre nei loro magazzini si ammassavano le provviste per i tempi difficili. Inoltre, fecero rifiorire lo studio e, copiando e ricopiando gli antichi manoscritti, conservarono le opere degli antichi sapienti, latini e greci.
Nei primi tempi i monasteri erano piccoli, con una chiesetta, pochi monaci e un pugno di terra da lavorare. Poi la comunità aumentò e intorno al monastero sorsero i villaggi, mentre le zone montane ridiventavano verdi per il rimboschimento. Fu merito dei monaci se molte popolazioni poterono superare carestie ed epidemie, perchè i magazzini delle abbazie venivano sempre aperte per distribuire sementi ed attrezzi agricoli. Fu merito dei monaci se tante famiglie sfuggirono alla morte durante le guerre e le invasioni, perchè gli indifesi potevano rifugiarsi nell’interno dell’abbazia al primo allarme. I monaci furono anche esploratori e viaggiarono molto nel nord Europa.

Visita a un monastero di san Benedetto
Bussiamo, e il monaco portinaio ci apre dicendo: “Sia lodato Gesù Cristo”. Entriamo nel chiostro. In mezzo è il pozzo. Sotto le arcate si aprono le porte dei vari magazzini, perchè il monastero è una specie di fattoria. I monaci lavorano la terra, scavano canali d’acqua, fanno le bonifiche, e i loro raccolti sono abbondanti. Hanno stalle di buoi; il mulino, il frantoio delle olive, la cantina. Hanno officine. E infine una  bella e luminosa biblioteca. Quanti libri! Sono stati salvati dai barbari che li volevano bruciare. E che cosa fanno tutti questi monaci curvi sui tavolini, con una penna d’oca in mano? Ricopiano pazientemente antichi volumi latini e greci, su pezzi di pelle di pecora, detta appunto cartapecora. Così, mentre i barbari devastavano le campagne, i monaci benedettini coltivano; mentre i barbari distruggono i libri, i monaci benedettini li salvano e li ricopiano.
Se la civiltà non andrà perduta, si deve a questi uomini vestiti di bianco, chiusi in questi monasteri, che sono come nidi di pace in messo a un mondo pieno di strepiti d’armi (P. Bargellini)

San Benedetto
Nacque a Norcia, nell’Umbria, nell’anno 480. Dopo qualche tempo, la sua infanzia fu rallegrata dalla nascita di una sorellina: Scolastica. Fratello e sorella crebbero buoni, amandosi teneramente fra loro. San Benedetto studiò a Roma, ma ben presto, stanco della città rumorosa e delle frivole compagnie, ottenne dal padre di ritirarsi a vivere in campagna. Nella quiete serena dei campi continuò a studiare; alternando lo studio ad una costante e fervida preghiera. Secondo la leggenda, un giorno avvenne che alla sua fedele nutrice si rompesse una pregevole anfora avuta in prestito. La disperazione della donna indusse il giovane padrone a prendere i pezzi del vaso e a rimetterli insieme; dopo una breve preghiera, ecco l’anfora ritornata come nuova. Fu il suo primo miracolo.
La fama di santità che gli fu attribuita, dopo questo fatto, lo sgomentò: fuggì  e trovò rifugio in una grotta presso Subiaco.
Qui rimase tre anni, finché si decise ad accogliere, presso d sé, alcuni giovani che erano accorsi a lui, per condividerne la vita di sacrificio e di preghiera. Istituì così la prima regola di quello che sarà poi il grande ordine dei Benedettini. A Subiaco venne anche la sorella Scolastica, che vicina ai conventi del fratello fondò un eremo femminile.
Dopo qualche anno entrambi lasciarono questo luogo e, giunti in Campania, al piè di un monte erto e boscoso di fermarono. Lì cominciò la costruzione della famosa abbazia di Montecassino; poco distante, nella vallata, santa Scolastica fondò un convento ove accolse le nuove sorelle. Una volta l’anno fratello e sorella si incontravano e trascorrevano la giornata conversando.

Torna il benessere attorno ai monasteri
San Benedetto morì nel 543. Ma pochi anni dopo la sua morte i monasteri benedettini erano già diffusi in tutta l’Europa, fino in Gallia, in Germania, nella lontana Britannia.
Esteriormente il monastero si presentava come una fortezza: alto su un colle, protetto di spesse muraglie e da robustissimi portoni. Tutt’intorno si era sviluppato un villaggio, costruito dai contadini e dagli artigiani, che avevano abbandonato le loro terre devastate dai barbari, per cercare rifugio all’ombra del monastero. In caso di attacco, infatti, gli abitanti del villaggio si ritiravano nel monastero finché la minaccia non si fosse allontanata. Oltre che a diffondere sempre più la religione cristiana, e ad insegnare a tutti ad apprezzare la cultura e il sapere, i monasteri divennero anche grandi propulsori di un rinnovamento civile ed economico.
I monaci, infatti, bonificarono paludi, costruirono strade, restaurarono ed edificarono palazzi, fondarono scuole e ospedali. Le paludi bonificate si trasformarono in rigogliose campagne. Sulle nuove strade tornarono mercanti e viaggiatori, che trovavano rifugio per la notte nella foresteria, istituita presso ogni monastero. I monaci diedero poi vita a vere e proprie scuole artigianali, per far apprendere ai giovani le varie tecniche di lavoro, che erano state trascurate e quasi dimenticate nei terribili anni delle invasioni barbariche.
Molto spesso, infine, il monastero e il villaggio che si era formato attorno ad esso acquistarono un notevole peso politico. All’Abate (padre, cioè il rettore della comunità) vennero riconosciuti privilegi, immunità e diritti, come quelli di amministrare la giustizia o di imporre e di riscuotere le tasse. Grandemente accresciuti durante il Feudalesimo, questi privilegi durarono fino alle soglie dell’età contemporanea.

La regola d’oro: prega e lavora
Per disciplinare la vita della comunità, San Benedetto aveva dettato una regola. Essa si riassume tutta in due parole: prega e lavora (ora et labora). Il medesimo concetto era ripetuto anche nello stemma del monastero, che rappresentava la croce e un aratro.
Benedetto credeva che la preghiera e il lavoro fossero i due doveri fondamentali del vero cristiano. I monaci dovevano quindi pregare e adorare Dio con tutte le loro forze. Ma nello stesso tempo avevano l’obbligo di lavorare per aiutare materialmente la comunità e tutti coloro che avevano bisogno: era questo un modo concreto di amare il prossimo.
Il lavoro dei monaci era tanto intellettuale quanto manuale. Due ore al giorno venivano dedicate allo studio: ogni monaco doveva essere capace di leggere e scrivere. Altre sette ore erano poi dedicate al lavoro manuale. Ognuno aveva la propria attività: chi lavorava i campi, chi costruiva nuovi edifici o riparava quelli già esistenti, chi faceva da mangiare, chi fabbricava le scarpe, i vestiti, gli strumenti di lavoro per i confratelli e per i contadini che intanto cominciavano a raccogliersi attorno al monastero.
C’erano poi i monaci scultori, i pittori, gli insegnanti, che facevano apprendere a chiunque lo desiderasse tutta la loro scienza.
Infine c’erano i monaci amanuensi, che ricopiavano su grandi fogli di carta-pecora le grandi opere dell’antichità adornandone le pagine con deliziose miniature. Il lavoro di questi pazienti amanuensi ottenne un duplice effetto: salvò dalla scomparsa i capolavori antiche e lasciò a noi dei nuovi capolavori nell’arte della miniatura.

Il lavoro giornaliero
L’ozio è nemico dell’anima. Per questo i confratelli devono occupare certe ore della giornata col lavoro manuale e in altre ore devono dedicarsi alla lettura sacra. Al mattino, lavorino dall’ora prima all’ora quarta (6-10) in ciò che è necessario. Dalla ora quarta alla sesta (10-12) si dedichino alla lettura. Dopo l’ora sesta, alzandosi da tavola, riposino nei loro letti. Se qualcuno invece vuol leggere, legga pure, purché non disturbi gli altri. Si faccia questo fino all’ora ottava (14) che è l’ora della preghiera. Poi si lavori di nuovo fino a sera. Il lavoro sia però proporzionato alle forze di ciascuno. I fratelli is servano l’un l’altro e nessuno sia dispensato dal servizio di cucina, se non per malattia o per occupazione da cui si ricavi maggior merito o carità. (Dall’articolo 48 della Regola)

La vita in un monastero benedettino
Come si svolge la vita quotidiana in monastero benedettino?
Alle tre di notte la campanella del monastero già suona la sveglia. I monaci lasciano il duro letto di tavole, su cui hanno dormito per poche ore, e in fila si recano in chiesa. Qui recitano per tre ore il “mattutino”, cioè le preghiere del mattino. Indossano un saio interamente bianco, chiamato l’abito di coro.
Prima di iniziare il faticoso lavoro della giornata, ogni monaco si ritira nella sua celletta e si dedica soprattutto alla lettura dei libri sacri. Nella celletta vi sono umili arredi: un lettuccio, un attaccapanni, una acquasantiera e un armadietto, sufficiente per sistemare le pochissime cose di cui un monaco può disporre.
Alle undici i monaci si riuniscono nel refettorio, dove consumano un frugalissimo pasto. Le pietanze sono sempre le stesse: un piatto di legumi, un pezzetto di formaggio, patate e frutta. Durante il periodo della Quaresima, che per i monaci dura alcuni mesi, essi si cibano soltanto di pane, acqua e frutta.
Per sette ore al giorno i monaci sono impegnati in lavori manuali. Ciascuno di essi, secondo le proprie capacità, ha una mansione da compiere. Pur di fare bene al prossimo essi si sottopongono volentieri ai lavori più faticosi. Si presenta la necessità di costruire un ospedale o una scuola? Ecco che i monaci si trasformano in muratori e in falegnami. Le invasioni straniere riducono in miseria intere popolazioni? Ecco i monaci pronti a lavorare la terra e a distribuirne i prodotti ai più bisognosi.
Oltre a ciò, i monaci raccolgono, istruiscono ed educano i bambini rimasti privi di assistenza.
Al calare del sole infine, i monaci hanno già concluso la loro giornata di preghiera e di lavoro. Li attendono allora la squallida celletta ed il duro letto, sul quale si coricano vestiti dell’abito di coro. Ogni giorno si ripete la stessa vita di sacrificio, che i buoni monaci accettano per onorare dio ed aiutare il prossimo.

Come si entrava nell’Ordine di San Benedetto
Prima di San Benedetto coloro che entravano in un monastero non facevano voto alcuno. Benedetto pensò che l’aspirante doveva invece seguire un noviziato e apprendere così, per esperienza diretta, le difficoltà della vita monacale.
Solo dopo tale prova il novizio, se ancora lo desiderava, poteva prendere i voti. Con questi si impegnava allora, per iscritto, “a stare per sempre nel monastero, a obbedire e a riformare il suo carattere”, e il voto, firmato alla presenza di testimoni, doveva essere deposto sull’altare dallo stesso novizio, in rito solenne. Da questo momento il monaco non poteva abbandonare il monastero senza il consenso dell’abate.
L’abate era scelto dalla comunità ed era tenuto a consultarla nelle cose di importanza; ma la decisione finale spettava a lui solo e gli altri dovevano obbedire in silenzio e in umiltà. I monaci dovevano parlare solo se necessario, non dovevano scherzare o ridere ad alta voce, dovevano camminare con gli occhi fissi a terra. Non si poteva tenere in proprietà privata “né un libro, né le tavolette (per scrivere), né una penna, niente del tutto”. Ogni cosa era di proprietà comune. Era ignorata e dimenticata la condizione precedente al suo ingresso al monastero; fosse stato libero o schiavo, ricco o povero, poco importava; ora era uguale a ogni altro.
(W. Durant)

Recita: In un monastero benedettino
Personaggi: l’abate, un ospite del monastero col proprio figlioletto Basilio, Paolo (fanciullo del monastero).
Ospite: Vengo da lontano. I soldati longobardi hanno fatto un’irruzione nelle mie terre. Hanno calpestato le seminagioni, distrutto le piantagioni, annullato in poche ore i lavori che erano costati sudore e fatica immensi. Presi dalla paura, i coloni sono fuggiti, abbandonando le campagne. Con quello che m’era rimasto e con mio figlio, mi sono messo in viaggio per raggiungere la terra di alcuni miei parenti. Ma anche lungo il cammino ho incontrato soldati barbari che mi hanno tolto quel poco che avevo, gente che mi ha negato ospitalità… Solo qui mi è parso di trovare un piccolo paradiso. Voi monaci mi siete venuti incontro e mi avete abbracciato. Fra voi ho finalmente risentito una voce amica.
Abate: Fratello, io sono l’abate del monastero. Per noi, l’ospite, il pellegrino, l’infermo, il perseguitato, devono essere ricevuti come fossero Gesù Cristo. Anche questo è nella Regola lasciataci dal fondatore del nostro Ordine, San Benedetto.
(Passa vicino un fanciullo)
Ospite: (meravigliato) Avete anche fanciulli?
Abate: Sì, abbiamo anche fanciulli. Quello è Paolo, figlio di un patrizio che lo ha affidato a noi per la sua educazione. Paolo, vieni qui.
Paolo: Eccomi, padre.
Abate: (rivolto all’ospite) Fratello, vieni. Ti mostrerò le stanze destinate agli ospiti. Lasciamo che i fanciulli parlino fra loro.
Paolo: Come ti chiami?
Basilio: Mi chiamo Basilio.
Paolo: Anche il tuo è il nome di un santo.
Basilio: Come sei istruito! Qui forse i fanciulli imparano a leggere e a scrivere?
Paolo: Sicuro, piccolo fratello. I monaci hanno un vero amore per la cultura. Se tu rimanessi qui, ti farei vedere quanti libri esistono nel monastero! I monaci non vogliono che essi vadano distrutti, perchè se no sparirebbe il meglio dell’umanità. Per questo vanno alla ricerca di libri dappertutto.
Basilio: Anche in terre lontane?
Paolo: Anche lontanissime. Anche a costo di enormi sacrifici. Ma tu vedessi che gioia, quando possono tornare al monastero, come le api all’alveare, portando con sé qualche prezioso codice!
Basilio: E allora?
Paolo: Allora, mio piccolo fratello, ci sono i frati amanuensi che ricopiano questi codici e ne fanno parecchie copie, in modo che i frati possano tutti leggere e studiare.
Basilio: E’ meraviglioso. E voi, fanciulli, come fate a studiare? Leggete anche voi su quei libri?
Paolo: Oh, no. Dapprincipio no. Ci sono libri apposta per noi.
Basilio: E dove li trovano i frati?
Paolo: Li scrivono loro stessi.
Basilio: Quanto lavoro!
Paolo: E’ vero. Ma tu saprai già che la Regola benedettina poggia proprio sul motto “prega e lavora”. La preghiera è il fondamento, ma subito dopo c’è il lavoro. La maggior parte dei monaci, si intende, si dedica al lavoro manuale. Lo stesso monastero è stato costruito e via via ampliato dai monaci. Essi, dando l’esempio, vangano, zappano, arano, piantano, tagliano legna, macinano grano, e così via.
(R. Botticelli)

La Chiesa nell’epoca barbarica
I barbari portano lo sfacelo: tutta la civiltà romana crolla sotto il loro dominio crudele e incapace di respirare l’aria densa di storia del grande impero abbattuto. Templi, opere d’arte, intere città sono dati alle fiamme; biblioteche intere vengono distrutte; sembra che debba calare il buio della preistoria sul mondo in rovina. Ma sulle macerie del mondo romano sorge il cristianesimo, che svolge così la funzione di baluardo della civiltà.
Osserva lo storico francese Taine che per ben 500 anni la chiesa salvò quanto ancora c’era da salvare della cultura umana. Essa affrontai barbari e li doma.  Davanti al  vescovo in cappa dorata, davanti al monaco vestito di pelli, il Germanico convertito ha paura: quanto aveva intuito sulla giustizia divina, dettata dalla nuova fede e che si mescolava nel suo istinto religioso, risvegliava in lui terrori superstiziosi che nessuna altra forza avrebbe potuto suscitare.
Così, prima di violare un santuario si domanda se non cadrà sulla soglia folgorato dall’ira divina. Si ferma, risparmia il villaggio, la città che vive sotto la tutela di un sacerdote.  D’altronde, a lato dei capi barbari siedono vescovi e monaci nelle assemblee: sono i soli che sanno scrivere e parlare. Segretari, consiglieri, teologi partecipano agli editti, mettono le mani nelle cose di governo, si danno da fare per metter ordine nel grande disordine, per rendere più razionale e umana la legge, per ristabilire e conservare l’istruzione, la giustizia, il patrimonio privato.
Nelle chiese e nei conventi si conservano le antiche conquiste dell’umanità: la lingua latina, la letteratura, la dottrina cristiana, le scienze, l’architettura, la scultura, la pittura, le arti e le industrie più utili, che danno all’uomo di che vivere, di che coprirsi e dove abitare; e soprattutto la migliore di tutte le conquiste umane e la più contraria al temperamento del barbaro nomade: l’abitudine e il gusto del lavoro.

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I BARBARI materiale didattico vario e dettati ortografici di autori vari per la scuola primaria.

Decadenza dell’Impero romano
L’impero romano sembrava ancora grande; in realtà non lo era più. Gli Imperatori che si succedevano, elevati al potere da truppe indisciplinate, non erano più gli strenui difensori e restauratori della potenza di Roma; erano deboli, crudeli, con un potere effimero. La nobiltà era corrotta, le frequenti guerre avevano impoverito le popolazioni; i piccoli agricoltori, esauriti e impoveriti per la lunga permanenza sotto le armi, lasciavano i loro campi, insufficienti a sfamarli, e si rifugiavano in città, oziosi e turbolenti, oppure diventavano servi dei ricchi. Gli schiavi, che col propagarsi della religione cattolica era diventati quasi tutti cristiani, pensavano al premio riservato in cielo agli umili e, pur restando ottimi servitori, non si curavano molto delle cose del mondo. Tutto l’insieme sociale e politico dell’impero si andava sfasciando sia dall’interno, che nelle lontane province e ai confini.

Gli stranieri
Alle frontiere non c’erano più difese valide perchè i soldati delle legioni romane erano pagati per la loro opera e perciò facevano la guerra come un mestiere. Spesso, poi, si trattava addirittura di truppe straniere che non pensavano che alla paga e al bottino. Non solo, ma spesso queste truppe straniere erano consanguinee di quelle che premevano alla frontiera e quindi il loro spirito combattivo era assai scarso. Tutti i popoli forestieri, dai Romani erano chiamati Barbari perchè i Romani si ritenevano il popolo più civile di quel tempo. Effettivamente i popoli che furoreggiavano alle frontiere dell’Italia, erano veramente incivili e selvaggi. Vestivano di pelli, preferivano razziare ignorando il lavoro dei campi, non conoscevano le arti, la cultura, avevano barba e capelli incolti, erano rozzi,  brutali, e dove passavano portavano rovina e morte.
Alcune di queste tribù ebbero dai Romani il permesso di stabilirsi entro i confini dell’Impero, e poichè erano gravate di tasse, presero l’abitudine di andare a protestare a Roma. Ebbero, così, modo di vedere le fertili pianure, le ricche città dell’Impero e di constatare che non esisteva più l’antica forza che aveva permesso ai Romani di conquistare quasi tutto il mondo conosciuto.
Per questi motivi, Roma era diventata una residenza poco comoda per gli Imperatori e fu per questo che Costantino, che regnò dal 307 al 337, decise di trasferirsi in un’altra capitale e scelse Bisanzio, passaggio obbligato per il commercio tra l’Asia e l’Europa.
Prima di morire Costantino aveva diviso l’impero fra i suoi figli allo scopo di renderne più facile l’amministrazione. Al figlio Costantino assegnò la Gallia, a Costanzo l’Asia e l’Egitto, a Costante l’Italia, l’Africa e l’Illirico e le altre regioni ad altri suoi discendenti.
Fu in questo periodo che si intensificarono le incursioni dei Barbari che, approfittando delle condizioni di debolezza dell’Impero, passarono le frontiere e invasero i territori.

Come vivevano i barbari
Non avevano leggi fisse, e obbedivano ciecamente a un capo. Non avevano arte, non letteratura, non agricoltura. Vivevano di rapina e di guerra. Portavano lunghi capelli, barba e baffi. In capo trofei di fiere uccise, indosso vestiti di pelli e uno strano indumento sconosciuto ai Romani: i calzoni. Poichè venivano da paesi freddi, essi usavano ripararsi le gambe con tubi di stoffa spesso tenuti stretti con legacci. Dove passavano, distruggevano. Tagliavano alberi da frutta, viti e olivi per fare fuoco; abbattevano monumenti e cuocevano le statue di marmo per farne calcina; bruciavano le biblioteche con libri di carta arrotolata e detti appunto volumi. Mangiare, bere, rubare. Non conoscevano altro. E ammazzare, bevendo magari il sangue dell’avversario fatto di crani umani. Questi erano gli uomini che l’Impero romano si trovò contro e che la Chiesa dovette domare. (P. Bargellini)

I barbari

L’Impero Romano d’Oriente ebbe una vita lunga e senza gloria. L’Impero Romano d’Occidente, invece, crollò quasi all’improvviso. Le cause che favorirono la sua fine furono molte; innanzitutto l’estensione. Una linea di confine interminabile doveva essere difesa in tutta la sua lunghezza da legiooni di soldati, da torri di vedetta, fortezze, trincee.
I Romani erano sempre stati considerati i migliori soldati del mondo; ora, il lusso e le ricchezze facevano loro disdegnare il servizio delle armi; preferivano occuparsi degli affari o divertirsi agli spettacoli del circo. Sorse così la necessità di arruolare soldati tra i popoli vinti, tra gli stranieri abitanti oltre i confini dell’Impero; ma occorreva pagare queste truppe a caro prezzo e non sempre esse erano fedeli e disposte a morire nel nome di Roma.
I Romani erano stati anche ottimi contadini, affezionati alla loro terra ed al loro aratro. Poco alla volta avevano perso l’amore all’agricoltura e avevano abbandonato il lavoro dei campi affidandolo a schiavi e a liberti, gente senza scrupoli che portava le campagne in rovina.
Lo Stato romano, sempre più avido di denaro, gravava di nuove tasse i cittadini e sovente erano i meno ricchi a sopportarne il peso maggiore. Furono queste le cause principali dell’indebolimento dell’Impero che, quando i popoli barbari si affacciarono minacciosi ai suoi confini, non seppe più opporre una valida resistenza.
Chi erano i barbari?
Erano popoli che abitavano nel Nord Europa, lungo i grandi fiumi come il Reno, il Danubio, la Vistola. Erano venuti da molto lontano ed erano giunti in Europa con marce faticose, portando sui carri le donne, i vecchi e i bambini, e trascinando con sè gli armenti.
Benchè vinti più volte dai generali romani, erano diventati così forti che nessuno poteva fermarne l’impeto. Il loro nome incuteva terrore.
I barbari vivevano di caccia e di pastorizia, usavano armi di ferro e di bronzo, si coprivano con pelli animali, non avevano leggi scritte e per fare la guerra eleggevano un capo che guidava gli eserciti in battaglia.
Non portavano alcun rispetto per il nemico vinto e consideravano sacra la vendetta. Quando capirono che l’Impero romano si stava sfaldando, varcarono i confini ed occuparono le terre più fertili.

I Visigoti

I Visigoti, un popolo germanico, vennero in Italia guidati dal re Alarico. Dal lontano Oriente giunsero fino alle porte di Roma, dove i cittadini si fecero loro incontro offrendo oro perchè non distruggessero la città.
Il feroce re accettò l’oro e si accampò nei dintorni, ma alla fine saccheggiò ugualmente Roma (410). Poi si diresse verso sud con l’intenzione di passare in Africa. Giunto in Calabria, Alarico morì improvvisamente; i suoi soldati ne seppellirono il corpo nel letto del fiume Busento, presso Cosenza, e lasciarono l’Italia.

Gli Unni

Gli Unni, provenienti dall’Asia, giunsero in Italia guidati da un terribile re, Attila, che fu chiamato “il flagello di dio”. Questi barbari vivevano in maniera del tutto primitiva: si cibavano di carni ammorbidite sotto la sella dei loro cavalli; avevano capelli lunghi che nascondevano il viso giallo dagli occhi piccoli e dagli zigomi sporgenti.
Essi passarono le Alpi e, saccheggiando, si sparsero per la Pianura Padana. Incontro ad Attila mosse allora il papa Leone I che persuase il re barbaro a lasciare l’Italia.

Ritratti di Attila
Figura deforme, carnagione olivastra, testa grossa, naso sottile, piccoli occhi affossati, pochi peli al mento, capelli brizzolati, corporatura tozza e nerboruta, fiero il portamento e lo sguardo, come un uomo che si senta superiore a quelli che lo circondano. Sua vita era la guerra. “La stella cade” diceva, “la terra trema, io sono il martello del mondo e più non cresce l’erba dove il mio cavallo ha posto il piede”.
Avendolo un eremita chiamato “flagello di Dio”, adottò questo titolo come un augurio, e convinse i popoli che lo meritava. (C. Cantù)

I Visigoti, i Vandali, gli Unni
Settantatre anni dopo la morte di Costantino i Visigoti comandati dal loro re Alarico, attraversarono l’Italia  e arrivarono a saccheggiare Roma. Anche i Vandali, altro popolo barbaro che aveva invaso le regioni confinanti con l’Italia, passarono le frontiere distruggendo tutto ciò che incontravano sul loro cammino. Abbattevano templi, opere d’arte, tagliavano alberi, incendiavano case, biblioteche, fondevano l’oro e l’argento delle statue, e la loro opera di distruzione causò tanto spavento e tanta rovina che ancor oggi si dà il nome di vandalo a colui che distrugge per il piacere di distruggere.
Dopo i Vandali, scesero in Italia gli Unni, comandati dal loro feroce re Attila. Ovunque Attila passava, portava la distruzione e la rovina. Fu chiamato per questo “flagello di dio”. Egli stesso diceva: “Dove posa lo zoccolo il mio cavallo non cresce più l’erba”.
Attila si diresse verso Roma col proposito di distruggerla, ma mentre avanzava con le sue schiere, incontrò il papa Leone I (che doveva essere poi chiamato Leone Magno), andatogli incontro per tentare di fermarlo.
Attila, che non aveva paura di nessuno, davanti a quel vecchio solenne che gli veniva incontro armato soltanto della croce, si intimorì e cadde in ginocchio davanti a lui. Dette poi ordine ai suoi soldati di abbandonare quel luogo e poco dopo lasciava l’Italia.

Fine dell’Impero romano d’Occidente
Dopo gli Unni, calarono in Italia gli Eruli, comandati dal loro re Odoacre. Sul trono di Roma sedeva in quel tempo un fanciullo chiamato in senso dispregiativo Romolo Augustolo. Odoacre potè facilmente deporlo, mettendosi a governare in sua vece. Ciò accadeva nell’anno 476 dC e, dopo questa data, nessun altro imperatore romano venne eletto.
Quest’epoca si ricorda quindi come la fine dell’Impero romano d’Occidente e Romolo Augustolo fu l’ultimo imperatore romano.

Comincia così la nuova epoca, detta Medioevo, che dal 476 dC arriva fino al 1492, anno della scoperta dell’America.
Per dieci anni Odoacre governò indisturbato ma, nel frattempo, un altro popolo barbaro scendeva in Italia. Si trattava degli Ostrogoti con a capo Teodorico, che sconfisse Odoacre e governò l’Italia.
Teodorico si era fermato a Verona che aveva eletto a sua capitale e nei primi anni del suo regno fu uomo giusto ed equilibrato, ma invecchiando divenne crudele e sospettoso tanto da mettere a morte anche i suoi più cari amici, tra cui il filosofo Boezio. Narra la leggenda che un giorno, mentre Teodorico prendeva un bagno nel fiume, apparve un cavallo nero e scalpitante. Teodorico gli salì in groppa e il cavallo lo portò a furibondo galoppo attraverso tutta l’Italia fino in Sicilia. Giunto sull’Etna (o secondo altra versione sul vulcano Lipari) il cavallo si impennò scaraventando il vecchio imperatore nel cratere fiammeggiante.

I Longobardi
Sul trono di Oriente sedeva intanto Giustiniano, il quale riuscì a cacciare i Goti dall’Italia. Morto Giustiniano, i suoi successori  non seppero mantenere il dominio sulla penisola che ricadde in preda ad altri barbari, i Longobardi, così chiamati per la loro lunga barba bionda e perchè armati di lunghe alabarde. Li conduceva il loro re Alboino, crudele e feroce che, come Teodorico, si stabilì a Verona. Alboino sposò Rosmunda, la figlia di un re nemico che egli stesso aveva ucciso. Durante un banchetto, questo re crudele e pazzo costrinse la sposa a bere nel cranio del padre ucciso. Per questo e per altri atti di crudeltà da lui compiuti, Alboino fu ucciso.
I Longobardi furono i barbari che provocarono le maggiori rovine in Italia. Distrussero chiese, devastarono città, uccisero migliaia e migliaia di persone.
I loro costumi feroci furono alquanto mitigati dalla regina Teodolinda, convertitasi al cattolicesimo, che aiutata dal papa di allora, Gregorio Magno, riuscì a convertire il suo popolo alla religione cattolica.
La regina Teodolinda fondò belle chiese a Monza e a Pavia; nel duomo di Monza si conserva, ancor oggi, la Corona ferrea con la quale allora si incoronavano i re longobardi. Nella corona è racchiuso un chiodo che, secondo la tradizione, fu tolto dalla croce di Cristo.
Dai Longobardi prese il nome la regione che oggi si chiama Lombardia.

Notizie da ricordare
Le condizioni dell’impero romano, non più forte e agguerrito, permisero la calata in Italia di popoli che i Romani chiamarono Barbari.
Scesero dapprima i Visigoti, comandati dal loro re Alarico.
Seguirono i Vandali che seminarono il loro cammino di distruzioni e di stragi.
Un altro popolo barbaro, gli Unni, con a capo il feroce re Attila, irruppe in Italia aumentando le rovine e  le morti.
Dopo gli Unni calarono gli Eruli, comandati da Odoacre che depose l’Imperatore romano che allora sedeva sul trono, un fanciullo chiamato per dispregio Romolo Augustolo, e si mise in sua vece a governare l’Italia.
Finiva così l’Impero romano d’Occidente nel 476 dC. Da questa data ha inizio in Medioevo.
Dopo dieci anni di regno, Odoacre fu scacciato da Teodorico, re degli Ostrogoti, barbari che nel frattempo erano calati in Italia.
Se l’Impero romano d’Occidente non esisteva più, esisteva ancora, forte e potente, l’Impero romano d’Oriente e quando salì sul trono il grande imperatore Giustiniano fu ripresa la lotta contro i Barbari, che furono respinti.
Morto Giustiniano, l’Italia tornò preda dei Barbari e precisamente dei Longobardi che si trattennero a lungo e soltanto dopo un periodo di distruzioni e di stragi, si convertirono al cattolicesimo per opera della loro regina Teodolinda.

Questionario
Chi erano i Barbari?
Come vestivano?
Perchè fu loro possibile scendere in Italia?
Chi furono i primi Barbari che conquistarono le terre dell’Impero?
Chi era Attila?
Da chi fu fermato?
Chi era Odoacre?
Chi stava sul trono di Roma in quell’epoca?
Perchè si dice che nel 476 dC finì l’Impero romano d’Occidente?
Chi era Teodorico?
Quale leggenda si racconta sulla sua morte?
Chi era Alboino?
Che cosa comandò a Rosmunda?
Per opera di chi, in seguito, i Longobardi mitigarono i loro costumi?
Quali popoli erano chiamati barbari dai Romani?
Quali furono le principali cause della rovina dell’Impero?
Seppero i Romani opporre una valida resistenza quando i popoli barbari si affacciarono minacciosi ai confini dell’Impero?
A quale stirpe appartenevano quasi tutti i barbari?
Quali erano gli usi e i costumi dei Germani?
Quale popolo barbaro assalì per primo l’Italia?
Da chi era guidato?
Dove fu sepolto Alarico?
Chi erano gli Unni?
Quando vennero in Italia? Comandati da chi?
Da chi fu fermato Attila?
Quando e da chi venne fondata Venezia?

La leggenda di Teodorico
Sul castello di Verona
batte il sole a mezzogiorno
dalla Chiusa al pian ritorna
solitario un suon di corno,
mormorando per l’aprico
verde il grande Adige va;
ed il re Teodorico
vecchio e triste al bagno sta.
Il gridar d’un damigello
risuonò fuor della chiostra:
“Sire, un cervo mai sì bello
non si vide all’età nostra.
Egli ha i piè d’acciaio e smalto,
ha le corna tutte d’or.”
Fuor dall’acque diede un salto
il vegliardo cacciator.
“I miei cani, il mio morello,
il mio spiedo” egli chiedeva;
e il lenzuol, quasi un mantello,
alle membra si avvolgeva.
I donzelli ivano. Intanto
il bel cervo disparì,
e d’un tratto al re d’accanto
un corsier nero nitrì.
Nero come un corbo vecchio,
e negli occhi avea carboni.
Era pronto l’apparecchio,
ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
e si misero a guair,
e guardarono il signore
e no’l vollero seguir.
In quel mezzo il caval nero
spiccò via come uno strale,
e lontan d’ogni sentiero
ora scende e ora sale:
via e via e via e via,
valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorria
ma staccar non se ne può.
Il più vecchio ed il più fido
lo seguia de’ suoi scudieri,
e mettea d’angoscia un grido
per gl’incogniti sentieri:
“O gentil re degli Amali,
ti seguii nei tuoi be’ dì,
ti seguii tra lance e strali
ma non corsi mai così.
“Teodorico di Verona,
dove vai tanto di fretta?
Tornerem, sacra corona,
alla casa che ci aspetta?”
“Mala bestia è questa mia,
mal cavallo mi toccò:
sol la vergine Maria
sa quand’io ritornerò”.
Altre cure su nel cielo
ha la vergine Maria:
sotto il grande azzurro velo
ella i martiri covria.
Ella i martiri accoglieva
della patria e della fè;
e terribile scendeva
Dio sul capo al goto re.
Via e via su balzi e grotte
va il cavallo al fren ribelle;
ei s’immerge nella notte,
ei s’aderge in ver’ le stelle.
Ecco il dorso d’Appennino
tra le tenebre scompar;
e nel pallido mattino
mugghia a basso il tosco mar.
Ecco Lipari, la reggia
di Vulcano ardua che fuma
e tra bombiti lampeggia
dell’ardor che la consuma:
quivi giunto il caval nero
contro il ciel forte springò
annitrendo; e il cavaliero
nel cratere inabissò.
Ma dal calabro confine
che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine;
non è il sole, è un’ampia fronte
sanguinosa, in un sorriso
di martirio e di splendor:
di Boezio è il santo viso
del romano senator. (G. Carducci)

Il paese, la casa, la vita dei Germani
I Barbari erano quasi tutti di stirpe germanica. L’antica Germania era un paese in massima parte coperto da boschi e paludi, freddo e rattristato da nebbie, ma nondimeno abbastanza fertile, ricco di messi e di greggi e di magnifici pascoli, e popolato di selvaggina.

Invece di città esistevano soltanto alcuni villaggi, formati da gruppi di dodici o venti capanne al più, disposte senza alcun ordine, e circondate ciascuna dalla corte e da un tratto di terreno.
Le capanne erano di legno, coperte di paglia e di giunco, addossate talvolta ad un albero gigantesco. Nell’atrio, in fondo, stava il focolare, sul quale raramente si estingueva il fuoco.

I Germani, dalla grande statura, dalla chioma bionda, dagli occhi fieri e azzurri, amavano in special modo la caccia e la guerra. Quando la guerra non c’era, passavano il più del tempo in ozio, dediti al sonno e al mangiare; i più forti, i più bellicosi, standosene inerti, lasciavano alle donne , ai vecchi, ai più deboli della famiglia il governo della casa e dei campi. Non trattavano nulla se non armati, e armati intervenivano ai banchetti.
Usavano cibi frugali, ma non erano nel bere altrettanto temperanti; e avevano una tale passione per il gioco dei dai che, dopo aver perduto ogni bene, mettevano come posta la moglie, i figli e la propria libertà. Il vinto andava in schiavitù volontaria; e quand’anche più giovane e robusto del vincitore, si lasciava legare e vendere.
Scarsi erano gli ornamenti del corpo e della casa. L’abito più importante, e comune a tutti, consisteva in una specie di mantello corto, fermato con una fibbia, o in mancanza di questa con una spina; nel resto erano ignudi. Indossavano anche pelli di animali, e i più ricchi si distinguevano per una sottoveste strettamente aderente alle membra. Le donne si vestivano come gli uomini; soltanto che spesso si coprivano di tessuti di lino di color rosso; e il loro vestito semplice e senza maniche, lasciava scoperte le braccia e la parte superiore del petto. Tutti i liberi, uomini e donne, portavano come segno onorifico del loro stato libero i capelli lunghi ondeggianti, i quali venivano tagliati a chi passava in servitù.
Pochi attrezzi bastavano per gli usi domestici: il semplice mulino a mano per il grano, alcuni vasi d’argento, di bronzo martellato, d’argilla, qualche bicchiere di vetro; strumenti di lavoro erano l’ascia, la mazza, il cuneo, lo scalpello, la falce di bronzo.
L’ospite non invitato, anche se sconosciuto, aveva ugualmente un’accoglienza gentile; i conviti erano rallegrati dall’unico genere di spettacoli che i German conoscessero, quello di giovani nudi che si slanciavano, con un salto, tra spade e lance minacciose.

La donna era molto rispettata perchè si credeva che in essa vi fosse qualcosa di santo; i servi erano trattati umanamente.
Ogni casa aveva il suo cane fedele, che seguiva dovunque il padrone e, caduti gli uomini e perfino le donne, era l’ultimo a difendere la barricata dei carri che in guerra opponevano al nemico. (Trabalza e Zucchetti)

I Germani e i loro costumi

Lungo i confini premevano minacciosi, incalzati dagli Slavi e da altri popoli ferocissimi si razza asiatica (Mongoli), i Germani.
Li imperatori, impotenti a contenere la marea barbarica, erano venuti più volte a patti con essa, concedendo ad alcuni popoli di stanziarsi nelle province di confine, purché prestassero servizio militare. L’esercito era costituito in massima parte da barbari:  barbari erano perfino i generali.
I Germani, distinti in Teutoni, Alani, Vandali, ecc… abitavano l’Europa centrale ed orientale fino al Mar Nero.
Praticavano in modo primitivo l’agricoltura, abitavano miseri villaggi e la terra intorno a questi era proprietà comune. Solo in caso di guerra e di migrazioni di uomini liberi, i membri dell’esercito e dell’assemblea eleggevano un re (Konig). Questi conduceva l’esercito in battaglia, distribuiva le terre conquistate, divideva la preda. Passato il pericolo, cessava generalmente il suo potere.

Non avevano leggi: chi riceveva un’offesa, si faceva giustizia da sé, o i familiari della vittima si prendevano vendetta dell’offensore. Faida era detta la vendetta privata, ed era un debito d’onore: così gli odi e i delitti si perpetuavano di generazione in generazione tra famiglie rivali.
Quando mancavano le prove della colpevolezza di un accusato, si ricorreva al giudizio di dio (ordalia), cioè a determinate prove, che potevano essere il duello, il fuoco o altro, ritenendo essi che dio aiutasse l’innocente a superarle.
La loro religione ricorda un poco l’antica religione greca: adoravano cioè i fenomeni naturali personificati. Il dio supremo era Wotan o Odino, re dell’aria e delle tempeste, al quale sacrificavano anche vittime umane.
Non avevano templi, ma consacravano agli dei selve e foreste.
Da questi cenni vediamo che profonda diversità c’era tra i Romani e i barbari, quando questi irruppero nelle province dell’Occidente. Essi si trovavano ancora ad uno stadio primitivo di civiltà, da cui i Romani erano usciti da secoli.
Si narra che i barbari erano comparsi in Italia fin da un secolo prima di Cristo, scivolando sui loro scudi per le chine ghiacciate delle Alpi, e che da allora molte altre volte avevano varcato i confini italici; e sempre erano stati dalle legioni romane ricacciati nelle loro foreste. Ma poi, spinti alle spalle da altri popoli barbari, irruppero da ogni parte e non fu più possibile fermarli.

Ancora sugli usi e costumi dei Germani

I barbari erano quasi tutti di stirpe germanica.
Presso i popoli germanici era una vergogna, per il capo, essere superato in valore, durante la battaglia, e un disonore, per i guerrieri, non essere pari, in coraggio, al comandante.
Ma la vergogna ancora maggiore, che durava tutta la vita, era tornare dalla battaglia lasciandovi morto il proprio capo.
La maggior parte dei giovani germanici di nobile stirpe preferiva una vita travagliata dalla guerra ad una vita di ozio nella pace; perciò essi si trasferivano spontaneamente presso i popoli che, in quel momento, erano in guerra.
I Germani amavano combattere piuttosto che arare i campi ed aspettare il succedersi delle stagioni per ottenere il raccolto. Per loro era segno di pigrizia e di viltà acquistare col sudore ciò che si poteva guadagnare col sangue, predando e saccheggiando.
Ogni volta che i Germani non erano in guerra impiegavano il loro tempo nell’andare a caccia, ma più che altro nel non far nulla, limitandosi a mangiare e a dormire. Le donne, i vecchi e i più deboli della famiglia, intanto, avevano cura della casa e dei campi.
Appena i giovani germanici si destavano dal sonno, che assai spesso si prolungava fino ad una tarda ora del mattino, si lavavano quasi sempre con acqua calda, come era in uso presso i popoli dove la stagione invernale era molto lunga. Dopo essersi lavati si mettevano a mangiare: ciascuno aveva il suo seggio e ciascuno la sua tavola.
Poi si armavano e ne andavano a trattare i loro affari o, come avveniva assai spesso, a banchettare. Passare il giorno e la notte a bere non era una vergogna per nessuno…
(riduzione ed adattamento da Tacito)

Quando una popolazione germanica abbandonava le proprie sedi per cercarne delle nuove, caricava sui carri le donne, i fanciulli, tutti i suoi averi e perfino alcune parti delle sue capanne.
Esse, infatti, erano costruite su tronchi d’albero smontabili e con canne ricoperte di fango.
I Germani non avevano moneta: scambiavano le varie merci con il bestiame tra cui, probabilmente, il vitello di un anno costituiva l’unità principale di valore.
Le terre erano proprietà di tutti e venivano distribuite ai singoli componenti di una tribù, ogni anno.
L’avversione al lavoro da parte dell’uomo cacciatore e guerriero faceva ricadere il peso della famiglia sulle spalle della donna, la quale però, godeva di grande autorità. Ella seguiva il marito ovunque, anche in battaglia.
(riduzione e adattamento da Angeloni Zolla)

Gli Unni
Sono più barbari della stessa barbarie. Non conoscono nessun condimento al cibo, nè usano fuoco a cuocerlo. Mangiano cruda la carne, dopo averla tenuta qualche tempo fra le loro gambe o il dorso dei cavalli che cavalcano.
Piccoli di statura, agili di membra e robusti, sempre a cavallo, la loro faccia, più che a viso umano, somiglia a un pezzo informe di carne, con due punti neri e scintillanti invece di occhi. Hanno pochissima barba perchè usano tagliere col ferro il viso dei loro bimbi, affinché imparino prima a sopportare le ferite che a gustare il latte materno. Adorano per loro dio una spada conficcata al suolo e sotto forme umane vivono come animali. (Giordano)

La luce di Roma
Il sole tramontava dietro la collina. Alla luce di quel tramonto infuocato, rosseggiavano i marmi come insanguinati e gli archi rotti, avvolti dall’edera, si levavano nel cielo sereno.
Tutto era rovina e silenzio. I barbari erano passati sulle pietre di Roma coi loro piedi di sterminatori. Le case erano diroccate, i monumenti abbattuti e, sui ruderi, il rovo lanciava impetuoso i suoi rami spinosi in mezzo ai quali strisciavano le vipere.
Ma non ancora sazi di preda, i barbari si aggiravano fra quelle rovine alla ricerca di tesori nascosti, di vasi, di statue da fondere in rivoli d’oro e d’argento. Grandi, nerboruti, villosi, sembravano più bestie che uomini. Frugavano fra i massi con le loro grosse mani, ma non trovavano nulla perchè a Roma più nulla di prezioso era rimasto.
A un certo punto una grossa pietra sbarrò il cammino a quei barbari. Era collocata davanti a un antro di cui chiudeva il passaggio. Un barbaro la prese e la scosse violentemente. La pietra crollò lasciando un’oscura apertura.
Nel fondo si vide brillare una tenue luce. I barbari trasalirono. Un segno di vita? Si volsero al sole che tramontava per vedere se fosse uno dei suoi raggi a riflettersi là in fondo. Ma i raggi avevano tutt’altra direzione.
Allora quegli uomini, cautamente, entrarono nell’antro. E videro. Sopra una pietra nuda giaceva un giovane guerriero romano morto. Tutto cinto di armi, aveva il petto scoperto e sopra, una gran ferita dove il sangue si era ormai raggrumato.
Una lapide portava scritto il suo nome, Pallante, e sulla sua tomba brillava una torcia accesa.
Rise, un barbaro, del suo timore, e afferrata la torcia la portò fuori della grotta. La luce brillò alta, nell’oscurità della notte ormai sopraggiunta. Il vento violento che si era levato piegò la fiaccola, ma non la spense. Allora il barbaro, ostinato, vi soffiò sopra il suo alito greve. La fiamma ondeggiò, ma poi si levò più vivida e bella.
“Muori dunque nel fango!” gridò il barbaro inferocito, e immerse la fiaccola in una pozza melmosa. La fiamma stridette come un ferro infuocato che si affonda nell’acqua, ma quando il barbaro sollevò la torcia, questa arse ancora vivida e bella.
I barbari, al prodigio, impallidirono sotto le barbe irsute e la fiaccola tremò nelle mani di chi invano aveva tentato di spegnerla.
Lento, questi tornò nell’antro e pose di nuovo la fiaccola sul capo del giovinetto eroe. Poi indietreggiò, sgomento, e con la pietra chiuse di nuovo il sepolcro.
La luce di Roma brillò ancora nell’oscurità e si levò alta e splendente. Una luce che nonostante le tenebre della barbarie, non sarebbe mai tramontata. (M. Menicucci)

Abitudini barbare

I barbari amavano sopra ogni cosa il loro cavallo. Si può dire che essi vivessero sempre a cavallo. Non solo viaggiavano a cavallo. Non solo combattevano a cavallo. A cavallo dormivano; a cavallo mangiavano.
La loro cucina si trovava addirittura sotto la sella del cavallo!
Ecco in che cosa consisteva quella cucina. Quando un barbaro uccideva qualche animale, tagliava un pezzo della sua carne e la metteva sotto la sella. Galoppa, galoppa, galoppa, la carne, a forza di colpi, anche se era dura, diventava morbida. Con l’attrito della sella si riscaldava e, come si dice, si frollava.
Arrivata la sera, il barbaro scendeva da cavallo, alzava la sella e trovava il pezzo di carne ridotto in una specie di polpetta.
Non c’era bisogno neppure di metterlo sul fuoco e l’addentava di buon appetito.
Per ornamento il barbaro sceglieva di preferenza corna di animali uccisi nella caccia e code o criniere di cavallo.

Forme di giustizia dei barbari

L’accusato di un delitto era calato nell’acqua legato a una fune. Se rimaneva a galla, era colpevole, se andava a fondo e, tirato su con la corda, ancora respirava, era innocente. Oppure si ricorreva alla prova dell’acqua calda: chi vi immergeva la mano senza scottarsi era innocente. Assai più pericolose erano altre prove: prendere in mano, ad esempio, un ferro rovente senza bruciarsi le dita o camminare sui ferri arroventati.
Le cose andavano meglio se l’accusato era invece invitato a denudarsi, ad avvicinarsi alla barella sulla quale era stato esposto il cadavere dell’ucciso, dopo di che giurava che era innocente e toccava il morto.
Se le ferite della vittima non riprendevano a sanguinare, era salvo: l’accusa era da ritenersi infondata.
La distinzione delle pene viene fatta in conformità al delitto. I traditori e i disertori vengono impiccati. Gli ignavi e i codardi… vengono immersi nella melma di una palude, gettando sopra ai medesimi dei graticci… Ma anche per i delitti più lievi la pena è proporzionata alla colpa: difatti i rei convitti vengono multati di un certo numero di cavalli o di capi di bestiame. Una parte della multa tocca al re o alla città; una parte all’offeso o, se questo fosse morto, ai suoi parenti.
D’altra parte non è concesso infliggere la pena di morte, né incarcerare, e neppure battere se non ai sacerdoti, ma non come pena o per comando di un capo, ma come per comando di un dio…
Il silenzio nelle assemblee viene imposto dai sacerdoti, i quali hanno anche il potere di ricorrere a punizioni coercitive.

Giulio Cesare così descrisse i barbari

Cesare nel De bello Gallico prima, e Tacito in Germania un secolo e mezzo dopo, ne descrissero i costumi e il carattere.
I Germani abitano fra il Reno e il Danubio, hanno gli occhi truci e cerulei, capelli rosseggianti, corpi grandi e validi solamente per l’assalto, sono abituati al freddo e alla fame, abituati a non portare che piccole pelli, e a non avere alcun vestito. Tutta la loro vita consiste nella caccia e negli esercizi bellici; fin da piccoli si induriscono nel lavoro e nelle fatiche… Non curano molto l’agricoltura e la maggior part del loro vitto consiste nel latte, nel cacio, nella carne, nei frutti selvatici…

L’erba folta

Alarico si avanza alla testa dei suoi Visigoti, e sembra spinto non dalla sua volontà, ma da una forza invisibile. Un monaco si getta sul suo cammino e tenta di fermarlo. Ma Alarico gli dice che il fermarsi non è in suo potere perchè una forza misteriosa lo spinge a distruggere Roma. Tre volte accerchia al Città Eterna e tre volte indietreggia.
Vengono ambasciatori, per indurlo a levare l’assalto, gli dicono che dovrà combattere contro una moltitudine tre volte più numerosa dei suoi eserciti.
“Sia pure!” risponde quel mietitore di uomini, “Quanto più folta è, tanto meglio l’erba si taglia!”.

La terribile notte del 24 agosto del 410

La notte del 24 agosto, forzata la Porta Salaria, le orde visigote irruppero in città dando fuoco alle prime case. L’incendio divampò dilagando e tutto distruggendo: ville, palazzi, monumenti di insigne bellezza. E non un Romano che ardisse difendere la sua città! Roma, la città che un giorno ebbe il popolo più valoroso del mondo, crolla così sommersa dalla viltà. E se spettacolo orrendo fu il vedere le fiamme divorare la meravigliosa città, se spettacolo terribile fu vedere i barbari girare urlando per le vie o irrompere nei palazzi, certo spettacolo ben più miserando fu vedere i Romani sperduti nel terrore della loro vergognosa ignavia.

I Visigoti incendiano Roma

Alarico e le sue orde entrarono nella città al suono delle trombe e al canto delle loro arie nazionali. Appena entrati dettero fuoco alle prime case. Svegliati di soprassalto dal tumulto, gli abitanti compresero subito di essere in mano al nemico, e il crescente chiarore fece intendere che gli incendi divampavano. Però si narra che al momento di passare la Porta Salaria Alarico fosse preso da un segreto terrore: quella che egli si accingeva a saccheggiare era anche una città considerata santa, così ordinò che fossero rispettate le basiliche di San Pietro e San Palo. Le fiamme, aiutate dal vento, divoravano tutto, e quel che sfuggiva al fuoco cadeva sotto lo scempio dei Visigoti che, avidi di denaro, tramutavano tutti i palazzi dei ricchi in teatri di tragedie. Una vedova di nobili natali che abitava nel suo palazzo, ma che nulla possedeva perchè tutto aveva dato ai poveri, non potendo accondiscendere alle richieste di denaro, fu talmente percossa che ne morì.
Questo martirio di Roma durò tre giorni e tre notti; poi Alarico diede il segnale di partenza. Ma nulla o quasi rimase dietro di lui.
Alarico passò oltre, diretto in Sicilia: ma morì lungo il cammino e venne sepolto, armato a cavallo, nel letto del fiume Busento. La mancata resistenza da parte degli italiani fu dovuta al fatto che essi, da qualche secolo, erano stati esentati dal servizio militare. L’Italia, quindi, mancava di una solida gioventù guerriera che difendesse le sue città proprio mentre i barbari irrompevano dalle frontiere.

Gli occhi per piangere

Dopo tre giorni di incursioni, Alarico promette ai Romani superstiti di abbandonare la loro città purché gli vengano portate tutte le ricchezze e tutti gli schiavi barbari della città. Gli chiedono allora i Romani: “Che di resterà dunque?”.
E Alarico risponde: “Gli occhi per piangere”.
Così dovettero portargli cinquemila libbre d’oro e trentamila d’argento oltre a panni di seta, pellicce e spezie. I Romani dovettero persino fondere la statua d’oro del Coraggio che essi chiamavano Virtù Guerriera.

Onorio aveva una gallina..

Quando per il mondo si sparse la terribile notizia che Roma era caduta nelle mani dei Visigoti i quali l’avevano messa a ferro e fuoco, lo sgomento dilagò ovunque. Solo l’imbelle imperatore Onorio non si turbò, anzi pareva non essersene neppure accorto, tutto intento com’era al suo allevamento di pollame nei pressi  di Ravenna. E si dice che a un suo cortigiano che gli diceva che Roma era perita rispondesse: “Non è possibile! L’ho vista poco fa!”.
E alludeva a una sua gallina a cui aveva dato il nome di Roma.

Più barbari dei barbari

E’ durante la seconda metà del IV secolo che gli Unni si affacciano alle grandi pianure orientali dell’Europa, e subito spargono il terrore attorno a sé, più barbari degli stessi barbari di cui invadono le terre.
Robustissimi, dalla testa piccola, bruna e piantata sul collo corto e tozzo, di lineamenti orientali, già nell’aspetto incutevano spavento. Indossavano rozze brache di pelle di capra, su cui portavano una sorta di tunica; sul capo, quando non avevano gli elmi di battaglia di aspetto terrificante, tenevano una berretta aderente.
Scrive Ammiano Marcellino che erano tutti di smisurata ferocia. E per dare un esempio dei loro truci costumi, riferisce che erano soliti ricoprire di profonde ferite le guance dei loro figli per impedire che, nell’età adulta, vi crescesse la barba.
Mangiavano carne cruda e radici, perchè ignoravano ogni cottura e ogni condimento; tutt’al più, per frollarla, tenevano le carne tra le cosce e il pelo del cavallo mentre cavalcavano, sì che il sudore dell’uomo e dell’animale quasi la cuocesse. Ignoravano la casa, anzi quando la conobbero la odiarono con folle e superstizioso terrore: la loro dimora era costituita dai carri, anche quando si stanziavano per lunghissimi periodi o per generazioni intere in territori invasi.
In guerra erano quasi sempre vincitori, malgrado avessero scarsa attrezzatura bellica; si può dire infatti che la loro unica arma fosse una specie di dardo dall’acuminata punta di osso, ma se ne sapevano servire con un’abilità insuperabile e sapevano spargere il terrore fra i nemici e sgominarne le file anche se meglio attrezzate perchè erano impetuosi e spericolati, e perchè emettevano grida gutturali dal suono spaventoso. Inoltre maneggiavano con abilità quasi da prestigiatori certe funi lunghissime e terminanti a cappio con le quali afferravano e scavalcavano i nemici con infallibile precisione.
Questo era il popolo che per secoli e secoli si spostò fra le terre di Tartaria, da cui aveva origine, finché non trovò in Attila un grande capo, che aveva anche l’aperta visione del capitano. Meno selvaggio dei suoi sudditi, di intelligenza acutissima, aveva anche la qualità fino allora ignota fra i suoi delle fedeltà alla parola data. Era il condottiero che poteva dominarli, frenarli e portarli verso le pingui pianure d’Europa, dopo secoli di stenti fra i deserti mongolici.
(C. Bini)

Attila

La carriera di questo re asiatico, che per vent’anni fu il terrore di tutta l’Europa, non cominciò bene: egli uccise il fratello con il quale avrebbe dovuto regnare sul popolo degli Unni e si dispose a governare da solo a suo piacimento.
Era l’anno 444 dC e Attila, definitosi “flagello di dio”, stabilì il suo piano di conquista, forte di un grande esercito di feroci cavalieri avidi di sangue e di prede.
I due imperatori di quel tempo, l’imperatore d’Oriente Teodosio e l’imperatore d’Occidente Valentiniano III, si disposero ad arginare l’invasione barbarica. Ma le orde dei cavalieri di Attila, dalle gialle facce barbute solcate di cicatrici, armati di lance e di mazze ferrate, si precipitarono sui campi fecondi e sulle città, spargendo il terrore e la morte.
Dopo aver invaso la Gallia, Attila si gettò con particolare furore contro una terra ricca e allettante: l’Italia.
Per prima investì Aquileia. Gli abitanti fuggirono terrorizzati su zattere e barche e si rifugiarono nei meandri della laguna veneta, e sugli isolotti e sulle isole costruirono capanne di frasche e di legno. Con il volger del tempo quelle capanne divennero palazzi e, a poco a poco, formarono la città di Venezia.
Ma la meta di Attila era Roma; egli marciò fino al Mincio e… qui avvenne secondo la leggenda il miracolo: Attila incontrò il papa Leone I, il quale si era mosso da Roma, sereno e fiducioso, per esortare il “flagello di dio” a risparmiare la città di Pietro e a lasciare l’Italia.
E così cadde la furia distruttrice di Attila. Il guerriero che non conosceva perdono fece levare il campo, e dopo pochi giorni, ripassò le Alpi con il suo esercito.
Questa leggenda misteriosa nella sua semplicità, ha ispirato molti artisti che la hanno immortalata su tela e nel marmo: tra queste opere è celebre l’affresco di Raffaello in Vaticano.

La leggenda di Attila e Leone I

Un’immensa folla di cavalieri, accompagnata da carri, seguiva il re degli Unni.
All’inizio dell’invasione di Attila, il papa Leone I aveva ordinato pubbliche preghiere in tutte le chiese, per implorare la protezione del Cielo contro l “flagello di dio”.
Poi mosse incontro al re barbaro, seguito da molti fedeli.
Al grido delle sue sentinelle che avevano avvistato la folla in cammino, Attila ebbe un fremito di gioia, pensando che l’esercito romano si avvicinasse al Mincio, presso cui egli era accampato, e diede ordine di prepararsi al combattimento.
Ma poco dopo tornò da lui un ufficiale esploratore, sconvolto, descrivendo quello strano corteo di prelati, religiosi e di uomini disarmati che cantavano. Il loro capo, disse, era un vecchio dalla lunga barba bianca, tutto vestito di bianco, e montato sopra un cavallo bianco.
Attila fece fermare l’esercito, galoppò verso il Mincio, spinse il cavallo in acqua e gridò, con violenza, rivolto al pontefice: “Qual è il tuo nome?”
“Leone” rispose una voce e tutta la folla cessò di cantare.
Attila attraversò il fiume e pose piede sull’altra riva: dal gruppo dei prelati si staccò il papa e venne davanti all’Unno. Nessuno saprà mai che cosa si dissero, ma improvvisamente si vide Attila scostarsi dal vecchio, attraversare il fiume e dare ordini agli ufficiali.
L’esercito volse le spalle, risalì verso nord e scomparve.
(M. Brion)

I Vandali

Quando gli Unni lasciarono l’Italia, apparvero i Vandali. Attraverso la Gallia, erano passati in Spagna e in Africa, dove avevano costruito un grande regno. Il loro re, Genserico, li condusse dall’Africa in Italia con una grande flotta.
Essi occuparono Roma e, dopo un feroce saccheggio, la incendiarono (455). Poi tornarono in Africa con un immenso bottino.
Le loro azioni furono tanto malvagie che ancora oggi si chiama “vandalo” colui che rovina e distrugge senza ragione.

La fuga da Aquileia
“Su, Marco! Presto, Valeria! Dobbiamo andare, fuggire!”
Valeria si mosse, stringendo al cuore la sua bambola, che non avrebbe abbandonato per nessuna ragione. Marco invece volle caricarsi, come tutti, di bagagli e la mamma gli affidò un sacchetto di provviste e un involto di indumenti. Al ragazzo quella fuga sembrava una bella avventura e non capiva perchè tutti avessero quell’aria preoccupata e ansiosa.
Ben sapevano invece gli adulti perchè si dovesse fuggire: arrivavano i barbari! I vecchi ricordavano un’altra invasione, quella dei Gori, ma questi dovevano essere ben peggiori.
Si sapeva che rubavano, distruggevano, uccidevano; erano Unni e il loro capo era un vero demonio. Si chiamava Attila, ma si faceva chiamare “Flagello di Dio” e la gente di Aquileia se lo immaginava come un demonio con gli occhi fiammeggianti. La città di Aquileia era troppo bella e importante perchè Attila la dimenticasse, perciò, tutti fuggivano con carri, cavalli, servi, cercando di porre in salvo i loro tesori.
“Che il Signore ci aiuti!”disse la mamma di Marco e di Valeria, prima di uscire di casa.
S’avviarono poi di buon passo per raggiungere il padre, che li aspettava più avanti. Le strade rigurgitavano di gente; molte donne piangevano. La mamma di Marco camminava col cuore stretto, guardando ancora una volta la città dov’era nata e vissuta: le case, le piazze, i colonnati, ma soprattutto la bella basilica cristiana. Anche Marco e Valeria vi entravano sempre volentieri; il pavimento a mosaico era la loro gioia e, tra una preghiera e l’altra, guardavano incantati le belle figure: c’era il buon Pastore con le sue pecorelle, v’erano uccelli, pesci, colombe, uva e spighe. Che peccato dover abbandonare tutto! Chissà quando sarebbero tornati ad Aquileia, la città ricca, piena di vita e movimento.
“Ma dove andiamo?” chiese più volte Marco quando da un pezzo ormai stavano viaggiando.
“Soltanto l’acqua ci può difendere,” spiegò il babbo: “Bisogna mettersi al sicuro sulle isole della laguna, perchè là gli Unni non potranno arrivare”.
Marco e Valeria avevano sonno, erano stanchi, ma non ci si poteva fermare.
Finalmente giunsero in vista delle isole della laguna, e riuscirono a raggiungerne una. Che povera isola! Non c’era che qualche capanna di pescatori e acqua, acqua dovunque volgessero lo sguardo. Eppure i fuggiaschi ringraziarono Dio e si inginocchiarono a baciare quella terra, che rappresentava la loro salvezza. Il padre di Marco levò le mani al cielo e pregò così:
“O Signore, salva la città di Aquileia! Proteggila e difendila! Ma se non potessimo più farvi ritorno, concedici di trovare qui un asilo sicuro!”
“Amen!” dissero gli altri in coro, compresi Marco e Valeria.
Nessuno in quel momento sapeva che da quelle parole nasceva la città di Venezia.
(G. Ajmone)

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FRASE PAROLA SILLABA LETTERA esercizi per la classe quarta

FRASE PAROLA SILLABA LETTERA esercizi per la classe quarta della scuola primaria, scaricabili e stampabili gratuitamente in formato pdf

La frase
Il nostro discorso parlato o scritto è composto di frasi. La frase comincia con la lettera maiuscola e finisce col punto. Contiene sempre un verbo, espresso o sottointeso.

La parola
Una frase è composta di parole.

La sillaba
La pronuncia delle parole comporta una serie di emissioni di voce: me-la = due emissioni. Ogni emissione di voce corrisponde a una sillaba.
Bisogna tener conto della corretta suddivisione in sillabe quando si deve riportate a capo parte della parola, in fin di rigo. Le parole fatte di una sola sillaba si chiamano monosillabe: qui, no, il, ecc… Quelle di due sillabe si chiamano bisillabe: me-la, pie-de, ecc… Quelle di tre, trisillabe: a-mo-re, e così via. Le parole di più sillabe si chiamano polisillabe.
Vi sono sillabe formate da una sola vocale: a-mi-co, e-di-le, ecc…
La sillaba può essere anche costituita da un dittongo, cioè da due vocali successive che si pronunciano con una sola emissione di voce: uo-mo, tie-ne, ecc…
Se le due vocali successive si pronunciano con due emissioni di voce, si ha lo iato, che significa apertura, appunto perchè richiede una nuova apertura di bocca per la pronuncia della seconda vocale: be-a-to, mi-o, ma-e-stro, ecc…
Se nella parole ricorre una consonante rafforzata, cioè doppia, questa viene suddivisa fra due sillabe: tap-pe-to, rac-col-ta, ecc…
Se vi ricorre un gruppo di consonanti che comincia con l e n m la separazione delle sillabe ha luogo immediatamente dopo queste: al-tro, ar-to, ar-tri-te, pun-to, con-tro, cam-po, ecc…
Se vi ricorrono gruppi di consonanti che non cominciano con una di quelle dette, tutte le consonanti appartengono alla sillaba successiva: no-stro, te-sta, ri-pre-sa, ecc…

Le lettere
Le lettere dell’alfabeto italiano sono ventuno: cinque vocali e sedici consonanti. Per non creare confusione eviteremo di fare sottili distinzioni e ci limiteremo alle norme generali.
Le vocali sono cinque, ma rappresentano sette suoni: a é è i ò o u.
Le consonanti sono sedici e rappresentano ventun suoni, i più importanti dei quali sono:
– la c ha suono dolce (o palatale) davanti alle vocali i ed e     (cielo, cena); suono duro (o gutturale) davanti alle altre vocali  e alle consonanti (cuoco, cane, crema, clamide). La c ha suono duro (o gutturale) anche davanti ad i e ad e, se seguita da h (chiesa, cherubino);
– lo stesso vale per la g (girasol, gelo, ghirlanda, gheriglio, gola, gremito);
– il digramma (dal greco “due lettere”) sc ha un particolare suono palatale davanti alla e e alla i (scena, scimmia), negli altri casi ha suono gutturale (scala, esclamare);
– il digramma gn ha sempre suono palatale (legno, ogni);
– salvo rarissime eccezioni, il digramma gl ha suono palatale liquido davanti a i seguita da vocale (giglio, maglia, raglio), ha suono gutturale davanti a i seguita da consonante (glicerina, geroglifico);
– la lettera q è usata solo davanti a u seguita da vocale (aquila, qualità); ma vi sono casi in cui si usa la c per distinguere i quali bisognerebbe rifarsi all’origine latina del termine (cuore, vacuo); in un solo caso abbiamo la doppia qq: in soqquadro; in tutti gli altri casi la q viene rafforzata con la premessa di una c: acqua, acquistare
– davanti alle lettere b e p si trova sempre la m, mai la n: gambo, campo.

IL NUMERO DEI NOMI esercizi per la classe quarta

IL NUMERO DEI NOMI esercizi per la classe quarta della scuola primaria scaricabili e stampabili in formato pdf.

Un nome è di numero singolare quando indica un solo essere (persona, animale o cosa). E’ di numero plurale quando indica più persone, cose o animali.
I nomi che al singolare terminano in o e i, al plurale prendono la terminazione i (bambino – bambini).
I nomi femminile in a prendono la e, i maschili in a prendono la i (finestre – finestre; automa – automi).
I nomi terminanti al singolare in ca e ga, mutano la terminazione in chi e ghi, se maschili (patriarca – patriarchi); in che e ghe se femminili ( amica – amiche; strega – streghe).
I nomi in cia e gia conservano al plurale la i quando su questa cade l’accento tonico (farmacia – farmacie) e quando la sillaba finale è preceduta da vocale (ciliegia – ciliegie), la perdono quando la sillaba finale è preceduta da consonante (lancia – lance; provincia – province).
I nomi in co e go, hanno alcuni i plurali in ci e gi, altri in chi e ghi (medico – medici; gioco – giochi; dialogo – dialoghi; teologo – teologi). Talvolta hanno un doppio plurale (manico – manici o manichi; stomaco – stomaci o stomachi).
I nomi in io conservano al plurale la i della sillaba finale, se su questa cade l’accento tonico (zìo – zii; logorìo – logorii); la perdono nel caso contrario (bacio – baci, talcio – talci).
Alcuni nomi maschili in o hanno due plurali: uno in i maschile, l’altro in a femminile. Ma generalmente le due forme di plurale hanno significato diverso (labbro  diventa labbri se di una ferita oppure labbra se della bocca; gesto diventa gesti nel senso di movimento o gesta nel senso di imprese).
Alcuni nomi hanno soltanto il singolare o soltanto il plurale, come prole, umiltà, calzoni, forbici.
Il plurale dei nomi composti, cioè formati da due parole, si forma in modi diversi:
– se composti da due nomi, si forma il plurale solo del secondo: capolavoro – capolavori; capogiro – capogiri; arcobaleno – arcobaleni. Però per capofamiglia il plurale è capifamiglia;

– se composti da un nome e da un aggettivo, si forma il plurale dell’uno e dell’altro: terracotta – terrecotte, cassaforte – casseforti. Però terrapieno diventa terrapieni e palcoscenico diventa palcoscenici;

– se composti da un aggettivo e un nome, si forma il plurale del secondo: biancospino – biancospini, falsariga – falsarighe. Però altoforni diventa altiforni e malalingua diventa malelingue;

– se composti da un verbo e da un nome, restano invariati nel caso in cui il nome è già al plurale: il portalettere – i portalettere. Nel caso in cui il nome è singolare o restano invariati, come portabandiera, o assumono la desinenza del plurale come in portafoglio che diventa portafogli.

IL GENERE DEL NOME ESERCIZI PER LA QUARTA CLASSE

IL GENERE DEL NOME ESERCIZI PER LA QUARTA CLASSE Una raccolta di esercizi per la quarta classe della scuola primaria, scaricabili e stampabili gratuitamente in formato pdf.

Il genere dei nomi
I nomi possono essere di genere maschile o femminile. Sono maschili o femminili i nomi di persona o di animale che si riferiscono a maschi o a femmine. Tuttavia non sempre il genere si identifica col sesso.
Infatti alcuni nomi, pur riferendosi a maschi, sono di genere femminile: una sentinella, una guardia, una spia, una guida.
La maggior parte dei nomi degli animali indica tanto il maschio quanto la femmina: civetta, gorilla, formica, giraffa, aquila, serpente. In questi casi, quando si vuole specificare il sesso, bisogna aggiungere al nome l’indicazione maschio o femmina. Questo genere di nomi si dice promiscuo.
I nomi di cosa sono maschili o femminili, non essendo suscettibili di declinazione. Gli antichi credevano che anche le cose avessero un’anima. Perciò il diverso genere del nome.
Il genere del nome si riconosce o dall’articolo o dalla desinenza o dal significato.
Salvo casi particolari, i nomi di persona o animale sono mobili, cioè hanno due forme: una per il femminile e una per il maschile: cane – cagna, uomo – donna, bue – vacca.

PRIMA GUERRA MONDIALE materiale didattico vario

PRIMA GUERRA MONDIALE e il 4 novembre materiale didattico di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Il quattro novembre
Con questa data l’Italia vuole ricordare la vittoriosa fine della guerra 1915-18 e, insieme, celebrare l’unità della Nazione e la giornata delle Forze Armate.
L’Italia è una nazione libera, democratica, civile, che non ha alcuna intenzione di offendere, ma che non vuole essere offesa, che vuol salvaguardare la pace, senza abdicare alla sua dignità, che vuole l’unità europea, ma non per questo dimentica le sue tradizioni, le sue glorie, i suoi Morti, i suoi grandi uomini. Tutto questo costituisce un patrimonio spirituale che non va messo in disparte, ma ricordato e valorizzato senza falsa retorica, senza esagerazioni, ma con giusto orgoglio, per ciò che l’Italia ha fatto nel passato e per ciò che si propone di fare nell’avvenire.

4 novembre 1918
Questa data segnò la fine di una lunga guerra, che aveva insanguinato tutta l’Europa. L’Italia vi aveva partecipato per liberare le province di Trento e di Trieste, per ristabilire, quindi i suoi confini là dove la natura li aveva segnati con una corona di monti superbi.
Seicentomila soldati italiani morirono e alla loro memoria ogni comune dedicò un monumento o una lapide che ne reca incisi i nomi. Oggi, ragazzi, onoriamo quei Caduti, visitiamo quei monumenti, leggiamo quei nomi. Sono stati scritti perchè voi serbiate la memoria di chi è morto per darvi una Patria più grande e più gloriosa; tutta unita entro le linee che le Alpi scintillanti di ghiacci e i mari azzurri d’acque profonde hanno tracciato per lei.
Dopo quella guerra vittoriosa, altre guerre sono venute per la nostra Patria: innumerevoli sono stati i morti e i dispersi, le case distrutte, i campi devastati, le famiglie sterminate.
Per tutte le vittime, per tutti gli eroi, oggi il nostro ricordo e il nostro amore sono vivi e profondi.

Quattro novembre 
Nel secondo decennio del novecento, l’Italia era una giovane nazione che non aveva ancora completato la sua unità. Trento e Trieste erano ancora fuori dai nostri confini. L’Europa era devastata da una grande guerra. Per frenare l’imperialismo dell’Impero austriaco e di quello tedesco, e per liberare le terre italiane d’oltre confine, l’Italia scese in guerra!

Il Piave mormorava
calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio:
l’esercito marciava
per raggiunger la frontiera,
per far contro il nemico una barriera…
Muti passaron quella notte i fanti:
tacere bisognava andare avanti!
S’udiva, intanto, dalle amate sponde
sommesso e lieve il mormorio dell’onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero.
Il Piave  mormorò:
“Non passa lo straniero!”.

La guerra fu dura, lunga e atroce.  I soldati di batterono sulle colline pietrose, sui monti impervi, contro fortificazioni nemiche, che erano giudicate imprendibili… Quando dalle trincee di prima linea si segnalava l’ora dell’assalto, erano momenti terribili…

“Pronti? Alzo sette… Fuoco! Fuoco di batteria!”

Ma quando tutte le bocche
dei cannoni cantarono,
all’ora fissata,
per completare la strage,
l’ansia strinse ogni gola,
e ognuno sentò
tonfare dentro il suo cranio
come sopra a un timpano
spaventoso
il rombo.

Traballava la terra
come una casa di legno;
il cielo parve incrinarsi
ogni tanto come cristallo;
Pareva si dovesse
spezzare e precipitare,
a schegge celesti ogni tanto
tra gli schianti e gli strepiti.

E sulla prima linea
nessuno fiatava
sentendo sul cuore
ognuno battere,
come gocce di sangue,
i minuti terribili
che misurano il tempo
vicino all’assalto.

“All’assalto! All’assalto!”

Molti furono i morti e i feriti, molte le battaglie, molte le vittorie. I soldati italiani conobbero ogni sacrificio, ogni gloria. E quando la sciagura d’una sconfitta minacciò l’esistenza stessa della Patria, diventarono tutti eroi.

E ritornò il nemico
per l’orgoglio e per la fame:
volea sfogare tutte le sue brame.
Vedeva il picco aprico
di lassù: voleva ancora
sfamarsi e tripudiare come allora…
“No” disse il Piave. “No” dissero i fanti
“Mai più il nemico faccia un passo avanti!”.
Si vide il Piave rigonfiar le sponde!
E come i fanti combattevan l’onde…
Rosso del sangue del nemico altero,
il Piave comandò:
“Indietro va’, straniero!”

E venne infine, dopo quattro anni, il giorno della vittoria…

(Dal Bollettino della vittoria) La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto la guida di Sua Maestà il Re, duce supremo, l’esercito italiano, inferiore per numero e mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrottamente e asprissima, per quarantun mesi, è vinta.
La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre e alla quale prendevano parte 51 divisioni italiane, 3 britanniche, 2 francesi, 1 cecoslovacca e un reggimento americano contro 63 divisioni austro-ungariche, è finita.
La fulminea arditissima avanzata su Trento del XXXIX Corpo della I Armata, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte a Occidente dalle truppe della VII, della X Armata e delle Divisioni di Cavalleria ricaccia sempre indietro il nemico fuggente.
Nella pianura, Il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III Armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già gloriosamente conquistate, che mai aveva perdute.
L’esercito austro-ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni di lotta e nell’inseguimento; ha perduto quantità ingentissime di materiali di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e depositi: ha lasciato finora nelle nostre mani 300.000 prigionieri con interi Stati Maggiori e non meno di 5.000 cannoni.
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.
$ novembre 1918 . ore 12)

Per il lavoro di ricerca
Perchè commemoriamo il 4 novembre?
Quando iniziò e quando terminò la grande guerra?
Che cos’è la Patria?
Perchè molti eroi sono caduti per la Patria?
Sai raccontare un atto eroico compiuto da qualche soldato valoroso?
Conosci qualche leggenda patriottica?
Chi è il Milite Ignoto?
Conosci qualche canzone sull’eroismo e sulla resistenza dei fanti d’Italia?

I giovani soldati morti
I giovani soldati morti non parlano. Ma nondimeno si odono nelle tranquille case: chi non li ha uditi? Essi posseggono un silenzio che parla per loro di notte e quando la sveglia batte le ore.
Dicono: fummo giovani. Siamo morti. Ricordateci.
Dicono: le nostre morti non sono nostre; sono vostre; avranno il valore che voi darete loro.
Dicono: se le nostre vite e le nostre morti furono per la pace e una nuova speranza o per nulla non possiamo dire; sarete voi a doverlo dire.
Dicono: noi vi lasciamo le nostre morti. Date loro il significato che si meritano.
Fummo giovani, dicono. Siamo morti. Ricordateci. (Archibald Mac Leish)

La prima guerra mondiale
La prima guerra mondiale iniziò il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, dopo l’attentato che aveva ucciso l’arciduca ereditario austriaco Francesco Ferdinando, a Sarajevo. Fra le maggiori potenze coinvolte nella lotta furono: da una parte la Francia, l’Inghilterra, la Russia, la Serbia, la Romania, il Belgio, poi, l’Italia e gli Stati Uniti; dall’altra la Germania, l’Impero Austro-Ungarico, la Bulgaria, la Turchia.
L’Italia entrò in guerra il 24 maggio del 1915. Dopo alcune grandi battaglie campali in Belgio, in Francia e in Russia, il conflitto divenne guerra di trincea, sanguinosissima e lunga. Sul fronte italiano, dopo alcune importanti battaglie e vittorie (degli Altipiani, dell’Isonzo, di Gorizia, del Piave, ecc…) e una sconfitta (Caporetto), venne la prima vittoria decisiva di tutta la guerra con la battaglia campale di Vittorio Veneto, ove fu annientato l’esercito austriaco (dal 23 ottobre al 3 novembre 1918). Il 4 novembre fu dato l’annuncio della vittoria.

Il Milite Ignoto
Siamo nel 1921: Roma è tutta un fremito. Un affusto di cannone trasporta una bara di quercia coperta dal Tricolore. E’ la salma del Milite Ignoto, che va a prendere dimora sull’Altare della Patria perchè in lui gli Italiani ricordino tutti i Caduti della prima guerra mondiale.
Pochi giorni prima, nella città di Aquileia erano state presentate alla mamma di un caduto in guerra dodici salme di soldati sconosciuti, ed ella aveva alzato il braccio tra le gramaglie e ne aveva indicata una.
Ecco la motivazione della Medaglia d’Oro che l’Italia assegnò al Milite Ignoto, cioè a tutti i soldati morti in guerra: “Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che l a vittoria e la grandezza della Patria”.

Guerra di trincea
Sulle pianure grigie e malinconiche o a mezza costa dei monti dove la guerra s’era accanita, si alzavano lunghe strisce di intrichi che tendevano immobili le braccia al cielo, come boschetti di piantine scheletrite. Erano reticolati.
Dietro i reticolati si aprivano le trincee. Sprofondavano nel terreno, celate, traditrici; seguivano le pieghe più adatte del terreno, salivano faticosamente, scendevano a precipizio, si nascondevano tra le piante, tagliavano le strade, rigavano i prati; non erano larghe più di un metro e mezzo alla bocca e, quando erano finite, erano profonde due; gli uomini avanzavano a fatica in esse, inciampando e scivolando. Coi numerosi camminamenti, tortuosi e sottili, si allacciavano ai ricoveri e ai paesi dove le truppe stavano in riserva; un movimento di flusso e riflusso continuo le percorreva.
Davanti al reticolato e alla trincea, si stendeva, fino all’altro reticolato e all’altra trincea, la squallida “terra di nessuno”.
Fra i reticolati, le trincee e la “terra di nessuno”, stette schiacciata al suolo, per tre anni e mezzo, la folla senza nome dei fanti d’Italia, dei contadini, degli operai, dei piccoli impiegati. Milioni di uomini ai quali era toccata l’opera più tremenda tra i fanti del mondo.
Stavano essi a combattere sul più duro suolo che Dio avesse creato. Una parte era aggrappata disperatamente al Carso. L’Isonzo dinanzi formava il gran fosso. Gli Austriaci avevano fatto dell’altipiano di macigno, da Gorizia al mare, una fortezza che pareva inestricabile e inespugnabile. Già il terreno nemico si difendeva da sè. Sorgevano dappertutto piccoli monti duri e nudi, senza vegetazione, ognuno dei quali nascondeva un agguato. Il suolo impraticabile era seminato di  tagliole. Avvicinarsi al nemico era impresa pazza. Contro il sole o il vento non alberi; contro la sete non acqua; contro l’insidia nemica nessun riparo.
Quei fanti che non combattevano sul Carso stavano a guardia della montagna: impresa anch’essa durissima. Dall’ottobre cominciava a nevicare. Nella notte, spesso, un metro di neve cadeva a coprire i dormienti e i morti. Con le proprie mani, rompendo la roccia a palmo a palmo, accoppiando pietra con terra, il fante costruiva con pena la strada e il sentiero che salivano sui monti. Il cielo era gelido e muto. Attraverso le valli e sulle creste dei colli, gli zappatori scavavano con fatica e con pazienza la trincea; la neve continuava a cadere, il freddo era acuto, si sentiva al di là,  sordo, il lavoro del nemico che pure vigilava. (A. Gatti)

4 novembre …uno degli austriaci portava, alta, una bandiera bianca
Il cannone continuava a tuonare. Le nubi grigie ne rimandavano l’eco rimbombante; sembrava un tuono, ora più rabbioso, ora sordo; sembrava spegnersi, e poi tornava a farsi sentire più forte. La battaglia infuriava ovunque, ormai, dalle montagne giù giù sino al mare. La corrente impetuosa dei fiumi del Veneto recava con sè barche sfondate, pali anneriti dal fuoco, assi, rottami. Gli italiani gettavano ponti, e l’artiglieria austriaca li distruggeva. Ecco. Tra i relitti, qualche corpo umano. Un povero soldato, venuto da qualche lontana parte d’Italia per morire sul Piave…
Il cannone tuonava da ogni parte. L’offensiva italiana era cominciata il 24 ottobre 1918; si combatteva dallo Stelvio al Lago di Garda, e via via sino al Grappa, poi lungo il Piave sino all’Adriatico.
Si combatteva per riconquistare il Veneto occupato dagli austriaci, per liberare l’Italia, per vincere la guerra. Quella era la battaglia decisiva. Lo sapevano tutti, italiani ed austriaci.
E tutti s battevano, disperatamente, per guadagnare un po’ di terreno, o per difenderlo: “Tutto il popolo italiano guarda in questo momento a noi, cui sono affidate in quest’ora le sorti della Patria”: così aveva proclamato agli italiani il nostro comando; ed il comando austriaco, arrogante: “Sarebbe una vergogna senza nome” aveva gridato alle sue truppe e al mondo “se gli italiani dovessero vincere!”.
Si combattè furiosamente per cinque giorni; caddero migliaia di uomini.
La mattina del 29 ottobre, alla trincea del Gufo, vicino a Serravalle all’Adige, in val Lagarina, si udiva il cannone tuonare da ogni parte. Ma là, c’era una relativa calma. Le sentinelle tenevano d’occhio la strada, devastata dai bombardamenti, e la linea ferroviaria, che si perdeva su, su per la stretta valle verso Rovereto e Trento. Dietro agli avamposti, si ammassavano le truppe per un attacco; c’era quella atmosfera piena di orgasmo e di tensione e di attesa che precede la battaglia…
D’un tratto, lungo la scarpata della ferrovia, apparvero tre uomini. Tre austriaci. Venivano avanti tranquillamente, come se camminassero non tra due eserciti nemici, ma su una bella strada qualsiasi…
Le sentinelle italiane alzarono i fucili, pronte al fuoco.

No. Non spararono. Rimasero là, ad occhi sbarrati, a guardare i tre austriaci. Ciò che vedevano non lo avrebbero mai più dimenticato.
Non spararono. Perchè uno dei tre austriaci portava, alta, una bandiera bianca.
L’Austria chiedeva un armistizio.
Un ufficiale, un portabandiera ed un trombettiere, venivano ad accettare la “vergogna senza nome”, a riconoscere cioè, che gli italiani avevano vinto.
La richiesta di armistizio fu accolta dagli italiani, e nel pomeriggio del 30 ottobre, su alcune automobili, sei ufficiali austriaci iniziarono le trattative, in una bella villa a qualche chilometro da Padova. E là, nella Villa Giusti, attorno ad un lucido tavolo rotondo, gli ufficiali italiani dettarono le condizioni di resa. Si dovette discutere a lungo, per tre giorni. Laggiù, in quella sala elegante, non giungeva il rombo del cannone, nè il grido delle truppe lanciate all’assalto, nè il crepitio secco delle mitragliatrici. Ma, mentre si discuteva, l’attacco italiano continuava, e le truppe austriache erano sconfitte, travolte, poste in fuga, e poi accerchiate e catturate; ed il Veneto veniva riconquistato, e la nostra bella bandiera piantata a Trento ed a Trieste..
L’armistizio fu firmato il 3 novembre. Il giorno dopo, 4 novembre, su tutto il fronte scese un grande silenzio, e non si sparò più. La bandiera gialla e nera degli austriaci fu ammainata. Il tricolore prese il suo posto.
L’Austria, però, fece di tutto per non riconoscere la sua sconfitta. Nella speranza di salvare il suo esercito, propose di sospendere le operazioni militari; poi cercò di far credere che, in verità, gli italiani non avevano dovuto combattere veramente, per vincere. Pur di non consegnare la sua flotta all’Italia, la consegnò alla Jugoslavia…
Tutto ciò, però, non potè cambiare la realtà. E la realtà è che gli austriaci, ormai in grande disordine, con i soldati che non volevano più obbedire ai comandanti, e che si abbandonavano agli incendi e ai saccheggi, furono spazzati via dal Veneto, o catturati; la realtà è che, in conseguenza alla sconfitta austriaca in Italia, la Germania (che era alleata all’Austria, e che combatteva in Francia contro i francesi, gli inglesi e gli americani) si decise ad arrendersi.
La realtà è che, dopo la battaglia decisiva, “i resti di quello che era stato uno dei più potenti eserciti del mondo risalivano in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.
Così, il 4 novembre 1918, gli italiani vinsero l’ultima guerra del Risorgimento; vinsero la loro “grande guerra”. E così, sacrificando più di mezzo milione di uomini, tra i quali i più giovani, i più forti, i più sani, e moltissimi dei migliori, che avrebbero dovuto prendere la direzione ed il governo della nostra Patria, gli italiani portarono a compimento l’opera iniziata dai loro nonni più di cento anni prima; e ci diedero l’Italia tutta intera, fino ai suoi confini naturali, che non potranno mai più essere toccati e discussi.
Così vinsero, restando per mesi e mesi nelle trincee, piene di fango e di pioggia e di topi; o gettandosi all’attacco, sicuri di morire, su per le montagne bruciate dal fuoco e scavate dal ferro; vinsero soffrendo la fame ed il freddo sulle posizioni scavate nella roccia, o battendosi disperatamente tra le macerie dei paesi del Veneto martire. Così vinsero tenendo duro, in mezzo all’amarezza ed allo scoraggiamento, dopo sconfitte e ritirate, quando tutto sembrava crollare intorno. Vinsero umilmente, facendo il loro dovere senza chiasso e senza fanfare.
E sono i nostri trisnonni, quelli della guerra mondiale, sono i nostri bisnonni: loro sono quelli del Piave e di Vittorio Veneto.

La guerra 1915 – 18
All’inizio del 1900 Inghilterra e Germania sono rivali. Questa rivalità provoca la Triplice Intesa (Inghilterra, Francia, Russia) in opposizione alla Triplice Alleanza (Germania, Austria, Italia).
La Serbia, spalleggiata dai Russi, si assume il compito dell’irredentismo slavo e la penisola balcanica diventa il punto di partenza per un conflitto che in un primo tempo localizzato, dovrà far scaturire, poi, la scintilla che susciterà un incendio immane. Questa scintilla sarà l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando che avviene il 28 giugno 1914.
Scoppia la guerra fra Austria e Serbia. In breve, quasi tutte le Nazioni europee, per le rispettive alleanze, vengono coinvolte nel conflitto. In Italia, fallite le speranze di ottenere dall’Austria, in cambio della neutralità, Trento e Trieste, città italiane ancora sotto il dominio austriaco, prevale la corrente interventista. La guerra è dichiarata il 24 maggio 1915. Subito scoppiano violente battaglie contro il nostro schieramento che va dal Trentino all’Isonzo. L’Austria vuol punire l’audacia degli Italiani e li ferisce nel profondo catturando e suppliziando i martiri dell’irredentismo: Chiesa, Sauro, Battisti e Filzi. L’Italia reagisce all’offensiva delle armi e dello spirito e le nostre truppe occupano Gorizia (9 agosto 1916).
La guerra continua fra disagi e sofferenze di ogni genere. Dopo quattro anni di dura guerra di trincea, si diffonde fra i soldati un senso di generale stanchezza. Una propaganda pacifista scatenata nel momento più propizio, darà presto i suoi frutti. L’esercito italiano, indebolito e avvilito per la disfatta di Caporetto durante la quale gli Austriaci, fanno migliaia di prigionieri, è costretto a retrocedere al di qua del Tagliamento.
E’ il momento più critico della guerra. Ma gli Italiani si riprendono dal momentaneo smarrimento e si stringono in una disperata volontà di resistere. Sul Piave da una parte e sul Monte Grappa dall’altra, gli Austriaci trovano una resistenza inaspettata.
La Marina italiana compie imprese che hanno del leggendario. Nella famosa Beffa di Buccari, alla quale partecipò il poeta Gabriele D’Annunzio insieme a Luigi Rizzo e a Costanzo Ciano, tra nostri motoscafi attaccano di sorpresa due grosse navi mercantili austriache che si credevano al sicuro entro le ben riparate insenature della costa.
Nel novembre dello stesso anno, i nostri marinai affondano la Viribus Unitis, la nave ammiraglia della flotta austriaca, nel munitissimo porto di Pola.
Intanto, sul fronte nemico, era schierato un esercito di due milioni di uomini, ma gli Alpini, al canto di “Monte Grappa, tu sei la mia Patria”, si tenevano saldi, fieri nel loro motto: “Di qui non si passa!”. Nell’anniversario di Caporetto, le nostre truppe sferrano, sul Piave, un forte attacco con gli aiuti degli Alleati a cui si era aggiunta l’America, e questo attacco si conclude con la decisiva battaglia di Vittorio Veneto e l’occupazione di Trento e Trieste (24 ottobre e 4 novembre).
Fra l’Italia e l’Austria viene firmato l’armistizio. La guerra è finita.

4 novembre 1918
Oh, la gioia di quei giorni, quando il Bollettino di Diaz annunciò il trionfo! La guerra era durata quattro anni. Milioni di  soldati avevano combattuto nelle trincee, sul mare, nell’aria. Di loro, 600.000 non tornarono più. Ma il sacrificio dei fori dava la vittoria alla Patria. Trento e Trieste liberate si congiungevano alla gran Madre. Voi non eravate ancora nati. Eppure, per tutti voi, per l’Italia dell’avvenire, la guerra fu combattuta e vinta. (G. Fanciulli)

Il milite ignoto
Per rendere onore a tutti i seicentomila morti nella guerra 1915 – 18, se ne scelse uno senza nome, che fu portato con grandi onori a Roma e collocato ai piedi dell’Altare della Patria. Il Milite Ignoto rappresenta tutti i prodi che fecero olocausto della loro vita perchè l’Italia sopravvivesse e fosse più rispettata nel mondo. Chi onora la tomba del Milite Ignoto intende onorare, attraverso quello, i combattenti italiani di tutte le guerre.

La campana di Rovereto
E’ la sera del 2 novembre. Attraverso la radio si diffonde, in tutto il mondo, un suono lento, grave solenne: Don!… Don!… Don!… E’ la voce di “Maria dolens”, la campana di Rovereto. Essa ci ricorda i caduti, tutti i caduti della guerra: italiani, francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi, serbi, croati, giapponesi, americani… Sono migliaia e migliaia di uomini che rivivono nel suono della campana. Queste cose dice al nostro cuore il suono: Pace!… Pace!… Pace!… Vogliatevi bene! Siate tutti fratelli!… Soltanto la pace può rendervi felici! (R. Dal Piaz)

Il 4 novembre
Questo giorno così vicino a quello della commemorazione dei defunti, ci ricorda l’eroismo di coloro che caddero per la Patria, che sacrificarono la loro giovane vita per darci un’Italia più grande, più forte, più rispettata. Fanciulli, non dimenticate coloro che sono morti in guerra. Anch’essi avevano dei figli, una mamma, una famiglia. Eppure, per compiere il loro dovere, non esitarono a fare l’ultimo sacrificio.

Trincee
Dietro i reticolati si aprivano le trincee. Sprofondavano nel suolo, celate, traditrici; seguivano le pieghe del terreno, salivano faticosamente, scendevano a precipizio, si nascondevano fra le piante, tagliavano le strade, rigavano i prati; dove c’era un canaletto d’acqua, un arginello, una siepe folta, là si acquattavano, per ricomparire un momento su un dorso duro di colle e su un tratto di pianura pietrosa, e scomparire di nuovo, ingoiate dalla terra. (A. Gatti)

Zona di guerra
Nell’acqua non lampeggiava riso di colore. Una larga fascia d’ovatta avvolgeva uomini e cose. Dove la terra si confondeva col cielo, al di là dei fiumi che si coprivano di nebbia, si addormentavano le città e i paesi devastati. La solitudine e la disperazione pesavano sulla terra. Tra i reticolati, le trincee e la terra di nessuno, stette schiacciata al suolo, per tre anni e mezzo, la folla senza nome dei fanti d’Italia, dei contadini, degli operai, dei piccoli impiegati. Milioni di uomini, ai quali era toccata l’opera più tremenda tra i fanti del mondo. (A. Gatti)

Epigrafi del cimitero di Redipuglia
Che ti importa il mio nome? Grida al vento: “Fante d’Italia!” e dormirò contento.
Più che il metallo alla trincea fu scudo dell’umil fante il forte petto ignudo.
Mamma mi disse: “Va’!” ed io l’attendo qua.
Seppero il nome mio gli umili fanti, quando balzammo insieme al grido: “Avanti!”.
Ogni mattina, mamma, ed ogni sera, io sento l’eco della tua preghiera.

In trincea
Che fatica infinita! Gli occhi di tutti erano velati di stanchezza e di dolore. Nessuno che non abbia vissuto nelle trincee del Carso e delle Alpi può sapere quanta disperazione sta in certi momenti nel cuore dell’uomo. I giorni di battaglia erano spaventosi, ma la grandezza del pericolo esaltava le forze. I giorni soliti, i giorni tutti uguali, in cui la morte coglieva uno a uno i suoi, qua e là, senza parere… quelli erano i più terribili…Eppure, i fanti d’Italia resistevano, e combattevano, e vincevano. (A. Gatti)

La trincea
Nella notte, spesso un metro di neve cadeva a coprire i dormienti e i morti. Con le proprie mani, rompendo la roccia a palmo a palmo, accoppiando pietra con pietra, il fante costruiva con pena la strada e il sentiero che salivano i monti. Il cielo era gelido e muto. Attraverso le valli e sulle creste dei colli, gli zappatori scavavano con fatica e con pazienza la trincea; la neve continuava a cadere, il freddo era acuto, si sentiva al di là, sonoro, il lavoro del nemico che pure vigilava. (A. Gatti)

Cimiteri di guerra
Uomini sepolti in tutti i cimiteri di guerra d’Europa, d’Asia, del mondo; mi inginocchi sulle vostre tombe come se tutti mi foste fratelli. Uomini che irroraste col vostro sangue la terra, là dove giace la spoglia mortale di uno solo tra voi, là siete tutti. Là rendiamo omaggio al fante italiano caduto nella steppa e sugli affocati deserti africani, all’americano e al giapponese caduti nella giungla selvaggia delle isole dei mari del Sud, al tedesco morto all’ombra di un antico campanile italiano. L’identico destino, l’identica morte vi affratellano. (A. M. Kanayama)

Il prete dei soldati
Parlava così quel prete barbuto,  con la sua grossa voce
pacata, l’uomo dalla purpurea croce
stampata larga sul petto, qui sul lato
sinistro, dove sotto il grigio verde affaticato
batteva forte il suo puro cuore di crociato;
Parlava, il prete, diritto e grande sui gradini
di neve, dall’altare di neve lassù ai confini
della patria, agli alpini proprio accosto alla trincea:
immensità! neve: vette: cielo: non c’era
altro, parlava semplice tra la densa barba nera;
diceva: “Qualcuno di voi, quelli che tornano
di laggiù li han veduti; ma tutti certo li conoscono:
li avete visti stampati i grattacieli americani,
quei palazzi mostruosi, torri di venti di trenta piani
che, con le case di qui, sono come i giganti coi nani.
Quei palazzi sono armati, dentro, da una grande ossatura
di ferro: un gabbione di ferro che tiene la muratura.
E ci sono operai specialisti per quel primo lavoro
del ferro: non facile: pericoloso. E molti, i più tra loro,
sono nostri, italiani: gente che ha le mani d’oro.
Un giorno, uno di questi, molto bravo nel mestiere,
condusse il figlio, un bimbo di quattr’anni,  al cantiere.
Prese i ferri: e poi, che fa? piglia su il piccoletto,
se lo lega coi ferri alla cintola ben stretto,
e su, per le armature, a lavorare sull’orlo del tetto.
Tutti fuori, appesi a una fune, dondolandosi sulla voragine,
padre e figlio. E la gente, laggiù non si dava pace,
ferma sui marciapiedi a guardare: “Che matto!” “Che cuore!”
“E la polizia che fa?” “E’ suo figlio!” “Ah, sì? bell’amore
di padre!” “Povera creatura! Sarà già morto dal terrore!”
L’uomo badava al lavoro suo. E quando fu l’ora
di scendere, scese: tranquillo; e tutta la gente allora,
tutti addosso al bambino: “Uh, guarda che cera che ha!”
“Di’: hai avuto paura? Molto, è vero?” “Di’: vieni qua…”
Ma il bimbo, sorpreso, fece: “Paura? Io? No! C’era papà…”.
Silenzio. Lo guardavano senza un respiro gli alpini.
“Ebbene, vedete. Anche noi siamo come bambini,
piccoli, piccoli, deboli, in faccia all’incerta sorte,
sospesi anche noi, sempre, ad ogni attimo, sulla morte.
Oh, ma anche per noi c’è il padre nostro che è forte!
Lui ci vuole qui a combattere: lui, il padre onnipotente
è giusto. Siamo con lui! Siamo degni! E non temiamo più niente!
Come quel bimbo, fratelli! E allora, ditemi, quale minaccia,
quale nemico, quale pericolo volete più che ci faccia
paura, se noi stiamo, sempre, tra le sue braccia?”
Si voltò all’altare, e “Credo in deum patrem…” pregò:
e il giro delle piante ferrate sul gelo crocchiò.
Un giorno, poi, quel prete fu portato a un ospedaletto
da campo, grave molto: una pallottola nel petto.
Ma tranquillo. Perchè egli era un confidente bambino
tra le braccia del padre.
S’è battuto bene: da alpino:
con la sua bella croce sanguigna sul cuore: in Trentino. (G. Zucca)

Lettere dal fronte a Cecilia Dolceamore

Cecilia dolceamore,
volevo scriverti ieri sera, ma c’erano troppe stelle, tante che pareva bastasse allungare una mano per coglierle. E tu sei venuta da me per guardare insieme le stelle, come facevamo a casa, nelle sere d’estate.
Abbiamo ritrovato Cassiopea, il Gran Carro, Arturo, e la piccola Orsa, quella che ti piaceva tanto.
Faceva fresco e tu tremavi un po’ e allora tu sei abbracciata a me per riscaldarti. Ho detto a Vincenzo di suonare l’armonica. Anche  ora che siamo in guerra. Vincenzo è sempre lo stesso spensierato soldato che tu hai conosciuto. Ha tirato fuori l’armonica dalla tasca della giacca, se l’è passata sulle labbra e si è messo a suonare una canzonetta allegra. Tu hai sorriso e il tuo sorriso splendeva più delle stelle. Poi ti sei addormentata con la testina sul mio petto, dove il cuore batteva piano per non disturbarti.
Abbiamo passato la notte così, ma, stamattina, quando mi sono destato, non c’eri più, Cecilia dolceamore, e allora ho voluto scriverti perchè così mi pare di stare ancora con te.
Voglio raccontarti una storia che è un po’ triste, ma poichè tu vuoi sapere i fatti della guerra, è necessario che tu conosca anche le cose tristi. Se ci pensi bene, il dolore, in guerra, splende di un’altra luce. Cecilia dolceamore, anche la storia del soldatino mitragliere splende di una luce solare.
Devi dunque sapere che c’era, qui, un piccolo mitragliere. Era un ragazzo sardo, bruno e piccolo di statura. Il Capitano gli aveva promesso di proporlo a sergente, a patto che egli fosse riuscito a buttar giù un apparecchio nemico. E il piccolo sardo voleva diventare a tutti i costi sergente. Da quel giorno s’era appostato con una mitragliatrice e non aveva più levato gli occhi dal cielo. E tutti gli portavano da mangiare e da bere in buca perchè quello non si sarebbe mosso di lì.
Gli apparecchi arrivavano, ma passavano alti. Sdegnavano la nostra piccola postazione, per andare a sganciare le bombe dove c’era da fare più danni.
“Almeno si fermassero qui a tirar bombe!” sospirava il soldato mitragliere. E Vincenzo rispondeva, le bombe un corno, perchè non gli piaceva quella storia.
E così  i giorni passavano, e il soldatino sparava, sparava sugli apparecchi lontani, ma gli aerei pareva nemmeno si accorgessero di quelle sventagliate troppo corte.
Il mitragliere scriveva a casa che presto sarebbe stato sergente e la mamma rispondeva che nei giorni di licenza glieli avrebbe cuciti lei, i galloni, sulla manica della giubba. Ta ta ta, faceva la mitragliatrice, ma sparava sempre a vuoto, nel gran cielo turchino.
Un giorno, finalmente, un apparecchio passò a tiro. E il soldatino sparò come un pazzo, ma era un pazzo che aveva imparato a inquadrare una rondine nel mirino. L’apparecchio rimase colpito. Cadde giù a piombo con una coda di fumo che si allungava nel cielo. E mentre cadeva, sparava anche lui, sventagliate di ferro e di fuoco, sui soldati nascosti dalle rocce.
Lo videro, che andava a frantumarsi sul terreno e poco dopo c’era una gran colonna di fuoco.
Tutti gridarono di gioia, solo il piccolo sardo no. Era rimasto nella sua buca, rattrappito sull’arma, ma il suo viso splendeva perchè prima di morire aveva visto l’apparecchio cadere.
Cecilia dolceamore, adesso ti dirò che cosa ha fatto il Capitano, quello che aveva promesso al soldatino di proporlo per l’avanzamento a sergente, se avesse abbattuto un aereo. Quel Capitano, di nascosto, quando nessuno lo vedeva, andò ad attaccare i gradi d’argento sulla giubba del soldatino caduto. Di nascosto, perchè il regolamento non consente di promuovere i morti, ma proprio non gli reggeva il cuore di farlo seppellire senza quei galloni d’argento che egli aveva tanto desiderato.
Cecilia dolceamore, il piccolo sardo adesso dorme nel cimitero di guerra e i suoi occhi, bruciati dal troppo guardare, sono ormai chiusi per sempre, ma la sua bocca sorride. E il suo cuore non è più in ansia perchè il suo sogno è ormai appagato.
Figlietta, non essere triste. Forse, un giorno, di questa storia faranno una canzone e Vincenzo la suonerà sull’armonica. E allora, vedrai che non ti sembrerà più una storia triste.
Adesso ti debbo lasciare. Mi metto le tue manine fresche sul viso che brucia. Che sollievo! Mi pare di avere sulle guance due petali di rosa.
So che la mamma ti ha fatto un vestitino celeste. Ho bisogno urgente di vederti con quel vestitino. Cercherò di sognarti così.
Tu ancora dormi e qui il cannone ha già cominciato a sparare. Dormi con la mano sotto il viso e fiori, sul balcone, il canarino canta per salutare il nuovo sole. Qui, col sole, è cominciata la musica, una musica di rombi e di scoppi che fa assordire. Ma negli intervalli, io riesco a sentire il canarino che canta. E vedo le tue ciglia tremare per trattenere il sonno che vuole lasciarti.
E su quelle ciglia che lievemente tremano, Cecilia dolceamore, ti bacia il tuo papà.

Cecilia dolceamore,
il tuo papà ti bacia le manine che hai bianche e gentili e vi appoggia la faccia ispida, ma leggermente, per non farti male.
E col viso perduto nella freschezza delle tue mani, ti racconta una storia che non sa se allegra o triste: una storia vera di questa terribile guerra.
C’era stata battaglia, Cecilia dolceamore, e molti morti giacevano sul terreno. Molti morti, amici e nemici, e all’alba, i soldati della Croce Rossa e il Cappellano andarono per comporli piamente nel piccolo cimitero.
Cecilia, dolce bambina mia, non farmi vedere lacrime nei tuoi occhi, altrimenti io non potrò più raccontarti i fatti di questa guerra, la storia del soldato Girò, storia triste e allegra.
L’avevano trovato morto, il soldato Girò, su uno sperone di roccia e l’avevano riconosciuto dalle scarpe nuove gialle, così gialle da non poterle confondere con nessun altro paio di scarpe. Gliele avevano date la mattina e lui aveva riso vedendole così gialle. “Sembro un canarino!” aveva detto.
Lo avevano riconosciuto fra i morti solo per le scarpe, il soldato Girò. Cecilia dolceamore, non chiedere di più. Tu credi che i soldati che muoiono in guerra, restino tutti sorridenti, con un bel viso pulito e tranquillo? Non è così, figlietta, ma tu pensa sempre che sia così. E’ bello sapere che una bimba vede i morti in battaglia col viso irradiato di luce come gli angeli.
Ma il soldato Girò non aveva più viso e  l’avevano riconosciuto solo dalle scarpe gialle e nuove.
Lieve era caduta su di lui la terra e ora dormiva sotto una croce di legno dove c’era scritto il suo nome.
Ma l’indomani, il soldato Girò riapparve. Con le scarpe gialle e nuove. Lo guardai stupefatto. Salutò e mi disse che non era potuto venir prima perchè era rimasto nelle linee nemiche e solo durante la notte aveva potuto svignarsela. Uno sbaglio, soldato Girò, e gli mostrai la sua tomba.
La guardò e tacque. Passò un’ora a grattare il suo nome dalla croce, poi rimase a fissare la piccola zona grattata dove non c’era più scritto “Soldato Girò” e dove ormai non si poteva scrivere nessun altro nome.
Vincenzo, quando lo vide, rise.
“Sei resuscitato?”
Risero anche gli alti e gli fecero festa. Vincenzo suonò l’armonica in suo onore. I nemici, sentendo suonare e vociare, spararono. Qualche colpo come a domandare quello che succedeva.
Poi venne l’ordine di spostarsi. Facemmo in fretta i preparativi. Smontammo le mitragliatrici, ci agganciammo i sacchi sulla schiena. Dov’era il soldato Girò? Nessuno lo trovava. Vincenzo, per chiamarlo, si passò l’armonica sulle labbra e ne cavò un trillo.
Io lo sapevo dov’era e andai da lui. Era davanti alla tomba del soldato con le scarpe gialle. Aveva acceso un lumino. Si fece il segno della croce e venne via con me.
E mentre si marciava, quel lumino ardeva nella notte e pareva una stellina caduta dal cielo. Ed eravamo in due a voltarci, io e il soldato Girò.
Cecilia dolceamore, ho finito. Forse questa storia ti è sembrata troppo triste. Non è neppure un po’ allegra come mi sembrava in principio, ma io, vedi, dovevo raccontartela perchè quel lumino, in questa guerra così tremenda e spietata, è una cosa gentile. Soave e gentile come un fiore. E io so che ti piacciono le cose gentili.
Tu a quest’ora dormi perchè è tardi e sei stanca. Un tuo ricciolo biondo si è sfatto sul guanciale e pare una seta l’oro. Cecilia dolceamore, ho bisogno, un bisogno assoluto di posare il mio viso su quella seta d’oro.
Ti bacia il tuo papà.

Figlietta,
oggi ho visto un fiore giallo. Lo coltivava un soldato dentro il bossolo di un proiettile e lo annaffiava amorosamente con l’acqua della borraccia. Cecilia dolceamore, ho accarezzato i petali di quel fiore giallo, chiudendo gli occhi, e sognavo di accarezzare la tua guancia gentile. Oggi il soldato ha bevuto una volta sola, perchè con l’acqua ha innaffiato il fiore. Vedi, è necessario qualche volta amare un fiore, perchè altrimenti, questa guerra ci farebbe troppo duri e indifferenti. Così duri che si può essere chiamati Cuore di Sasso.
Era al Colonnello che avevano dato questo nome, un viso duro e asciutto dove non balenava mai la luce di un sorriso. Cuore di Sasso viveva nella sua baracca, non parlava mai con nessuno, solo per i terribili cicchetti che dava ai soldati. Erano loro che lo chiamavano Cuore di Sasso.
Gli facevano un rigido saluto quando passava. Pareva, quando passava il Colonnello, che una nuvola nera offuscasse il sole e tutti i visi diventavano scuri.
Ora senti, figlioletta, che cosa è avvenuto. Il motociclista era andato a prendere la posta. Non tornava. Tutti guardavano la strada e gli occhi dolevano per il troppo guardare. C’era un soldato, poi (si chiamava Esposito), più ansioso degli altri. Si sporgeva fuori dal riparo e il nemico, allora, sparava qualche colpo.
Il Colonnello l’aveva guardato col cipiglio e quello, sotto il suo sguardo, si rincantucciava.
“Mi deve nascere un bambino!” diceva sorridendo. Non aveva più soggezione nemmeno di Cuore di Sasso.
Cannocchiali, occhi bruciati dal sole fissi sulla strada.
“Bisogna andare a vedere” disse il Colonnello. “Può essere rimasto ferito. Ha gli ordini del Comando”.
“Vado io, signor Colonnello?” e il soldato Esposito sorrideva timidamente e alzava la mano come a scuola, quando i ragazzi vogliono essere interrogati. “Per via del bambino…”.
Cuore di Sasso accennò di sì con la testa e il soldato Esposito inforcò la motocicletta, felice.
I nemici gli spararono dietro, ma poi la moto scomparve nel polverone. Gli occhi si riposarono dal gran guardare. Ricominciò l’attesa, scandita dai colpi rari di artiglieria. Ricognitori altissimi nel cielo.
Poi, i soldati tornarono ad affacciarsi. Cuore di Sasso imprecava che stessero giù, , mica per loro, teste matte, ma perchè in guerra la vita d’ogni soldato è preziosa.
Infine, un lontano rombo scoppiettante. Tornavano. Una motocicletta sopraggiungeva; sopra l’erano due soldati curvi, troppo curvi.
Quando arrivarono, c’era tutta una striscia di sangue dietro a loro. Avevano tracciato una strada.
Li tirarono già dalla macchina. Il portalettere era ferito, ma in modo non grave; il soldato Esposito aveva la schiena spezzata.
Il motociclista raccontò. Un aereo l’aveva mitragliato. Era rimasto sulla strada, ferito, e la macchina resa inservibile. Poi era arrivato il soldato Esposito. L’aveva caricato sulla sua moto, ma era tornato l’aereo. Esposito si era accasciato sul manubrio, poi si era ripreso. Non l’aveva creduto ferito grave. E invece, era finito.
Ora, il soldato Esposito giaceva sopra una brandina e guardava, senza parlare. Guardava il sacco della posta con gli occhi lucidi e ansiosi.
Cuore di Sasso dette ordine di aprire. Ricevette la posta nelle sue mani ossute. C’era anche un telegramma.
“Per te” disse al soldato Esposito che sorrise, felice.
Il Colonnello aprì il telegramma. Lo lesse.
“E’ nato un bel maschietto. Si chiamerà Italo. Mamma e bambino stanno bene. Baci”.
Il viso del soldato Esposito si spianò dolcemente. Le palpebre calarono piano piano sugli occhi e la bocca rimase socchiusa nel sorriso.
Cuore di Sasso gli prese il polso, poi dette ordini per il seppellimento. Aveva la gola secca, non poteva parlare. Gli era rimasto il telegramma in mano; lo consegnò a me.
“Bisogna rispondere al Comando che il telegramma non è stato consegnato per morte del destinatario”.
Lo lessi. Comunicava che la moglie del soldato Esposito era morta in seguito a bombardamento, nell’ultima incursione sulla città.
Il telegramma mi cadde di mano; preso dal vento aleggiò come un fiore, un fiore giallo.
Cuore di Sasso ispezionava le cucine. Sentii che dava un formidabile cicchetto al cuoco perchè nel rancio aveva messo troppa conserva. E quello, ristupidito, diceva di sì e stava sull’attenti con due enormi mazzi di gavette in mano.
Cecilia dolceamore, quando tornerò tu mi prenderai la mano e mi condurrai nei giardini fioriti, vicino alle vasche dei pesci rossi. Tutto sarà molto nuovo per me.  E non finirò di ammirare. Ma se qualche volta vedrai un’ombra scendere sul mio viso, passaci sopra la tua manina. Bisogna cancellare dai miei occhi la visione di quel telegramma svolazzante come un fiore giallo. Perchè, vedi, se non si potesse cancellare quel ricordo, non sarei più capace di godere della vista dei giardini fioriti e dei pesci rossi. E la vita sarebbe troppo difficile.
Ti bacia il tuo papà.

(Mimì Menicucci)

Patria
O Patria, parola sì breve
sì grande, tra tante parole,
che brilli di fuoco e di neve,
e odori di scogli in un fervido accordo
le genti vicine e lontane,
e chiami a la prece e al ricordo
con voce di mille campane;
o Patria, sii tu benedetta
per ogni remota contrada,
sei sangue e rugiada, sei vita e bontà.
O Patria, dai monti alle sponde
sei tutta un sorriso di Dio!
Te cingon di fremiti l’onde
confuse in un sol balenio.
E tutta un’immensa bellezza
dal vivo tuo cuore s’espande
letizia, virtù, giovinezza
per culmini e lande, per campi e città. (L. Orsini)

Milite Ignoto
Non sappiamo il tuo volto, o Sconosciuto,
non il tuo nome rude di soldato,
è ignoto il luogo che santificato
fu dal tuo sangue quando sei caduto;
ma il tuo viso fu bello e fu divino:
forse un imberbe viso giovinetto…
Lo vedo all’ombra fosca dell’elmetto
sorridere con occhi di bambino.
Fu nostro sangue il sangue tuo vermiglio…
Sei senza nome, ed ogni madre, ignara,
inginocchiata presso la tua bara
singhiozza un nome, il nome di suo figlio;
E che risuona in tutte le fanfare…
Hai la tua casa in ogni casolare,
ed appartieni a tutti i reggimenti.
Sente ogni madre il suono della voce
nota al suo cuore, eppure tu sei muto…;
e là, sul campo dove sei caduto,
tutte le croci sono la tua croce.
Da quelle tombe un monito e un saluto
con severo silenzio tu ci porti:
son tutti i cuori dei fratelli morti
chiusi nel cuore tuo, o Sconosciuto! (P. Rocco)

FENOMENI METEOROLOGICI materiale didattico

FENOMENI METEOROLOGICI materiale didattico di autori vari, per bambini della scuola primaria.

L’aria

L’aria è un miscuglio di gas costituenti l’atmosfera e in cui vivono, nella parte inferiore, gli animali e le piante. I gas si presetnano più rarefatti e mutano di proporzione man mano che si sale in altezza.
L’aria è trasparente, inodore e incolore se in masse limitate; azzurra se in grandi masse. I suoi costituenti principali sono l’azoto e l’ossigeno. Contenuti in piccole quantità, l’argo, l’elio, il cripto, lo xeno, l’idrogeno, con quantità variabili di vapore acqueo, anidride carbonica, ammoniaca, ozono, ecc… Particelle solide, spore, microorganismi formano il pulviscolo atmosferico.
A causa della funzione clorofilliana per cui le piante, di giorno, assorbono anidride carbonica ed emettono ossigeno, l’aria dei boschi è più salubre.
La troposfera è lo strato più basso dell’atmosfera la quale raggiunge l’altezza di circa 1000 chilometri e circonda il nostro globo seguendolo nei  suoi movimenti.

La pressione atmosferica

L’atmosfera preme enormemente sulla superficie del globo e noi non ne rimaniamo miseramente schiacciati soltanto perchè la pressione si esercita sul nostro corpo non solo esternamente da tutte le parti, ma anche internamente, ciò che produce equilibrio. Quando questo equilibrio dovesse mancare, si avrebbero gravi disturbi e la morte.
Possiamo considerare che noi portiamo sulle nostre spalle il peso di tre elefanti ci circa cinque tonnellate ciascuno e ciò senza sentire il minimo inconveniente.
Un litro d’aria pesa poco più di un grammo, ma se si pensa all’enorme spessore dell’atmosfera, il paragone degli elefanti non può sorprendere.
La pressione non è uguale dappertutto. Sulle montagne, per esempio, è molto minore che al livello del mare. Inoltre dato che l’aria fredda è più pesante di quella calda, nello stesso luogo la pressione sarà anche in base alla temperatura.
Lo strumento per misurare la pressione atmosferica è il barometro che fu inventato da Evangelista Torricelli. Questi riempì di mercurio un tubo di vetro e ne immerse l’estremità aperta in una vaschetta, anch’essa piena di mercurio. Poté constatare che la colonnina di mercurio non andava al disotto dei 76 centimetri. Era chiaro, quindi, che la pressione di una colonna di mercurio alta 76 cm e dalla sezione di un centimetro quadrato veniva equilibrata da una pressione analoga che non poteva essere che quella dell’atmosfera.
Vi sono anche altri piccoli esperimenti che  possiamo fare per constatare l’esistenza della pressione atmosferica. Eccone di seguito alcuni.

Succhiamo una bibita con una cannuccia, poi quando il liquido è giunto alla nostra bocca, appoggiamo rapidamente un dito all’estremità superiore della cannuccia e teniamolo fermo. Il liquido non uscirà, e ciò perchè il suo peso esercita una pressione minore di quella atmosferica. Non appena si toglierà il dito, il liquido uscirà dalla cannuccia.

Prendiamo un comune bicchiere e riempiamolo d’acqua fino all’orlo. Poi appoggiamo sul bicchiere un pezzo di cartone o di carta, in modo che ricopra completamente l’orlo. Capovolgiamo rapidamente il bicchiere e togliamo la mano dal cartone. Questo non cadrà e l’acqua rimarrà nel bicchiere. Perchè? Perchè nel bicchiere non c’è aria, ma soltanto acqua, e questa ha un peso inferiore a quello esercitato dalla pressione dell’aria che spinge dal basso il cartone.

Il vento

L’aria è sempre in movimento. Lo si può constatare considerandone gli effetti. Osserviamo le foglie muoversi nella brezza, il bucato sventolare,  le nuvole correre nel cielo. Questo movimento si chiama vento.
Da che cosa dipende il vento? Per poter spiegare questo fenomeno bisogna dire qualcosa sulla temperatura dell’aria. L’aria ha una sua temperatura, più calda o più fredda, secondo la stagione, l’altitudine, l’azione del sole, ecc… Ebbene: l’aria calda è più leggera dell’aria fredda e tende a salire. L’aria fredda è più pesante e tende a discendere e ad occupare quindi il posto dell’aria calda.
Possiamo procedere ad alcuni piccoli esperimenti.

Proviamo a fare sul termosifone qualche bolla di sapone. Queste saliranno verso l’alto, ciò non accadrà o accadrà con minor effetto, per le bolle di sapone che faremo in un punto lontano dalla sorgente di calore.

Se potessimo misurare, a vari livelli, la temperatura di una stanza riscaldata, potremmo constatare che, verso il soffitto, l’aria è molto più calda che nei pressi del pavimento. Ebbene, è questa differenza di temperatura che produce il vento. Quando, fuori, l’aria calda sale, l’aria fredda si precipita ad occuparne il posto e forma, così, una corrente – vento che poi noi chiamiamo con diversi nomi a seconda del punto cardinale da cui proviene.
Pensiamo adesso a tutta l’aria che avvolge il nostro globo. Sappiamo che essa è freddissima nelle regioni nordiche e caldissima nelle regioni equatoriali. Ecco perchè l’atmosfera è sempre in movimento: l’aria fredda tende ad occupare il posto di quella calda che sale e quindi si formano venti che possono essere deboli, oppure violenti e disastrosi. Abbiamo detto che essi prendono il nome del punto cardinale da cui provengono. Abbiamo così Ponente, Levante, Ostro, Tramontana, rispettivametne provenienti da ovest, est, sud e nord. E poi venti intermedi: sud-ovest Garbino o Libeccio; sud-est Scirocco; nord-est Greco; nord-ovest Maestrale. Per stabilire la direzione del vento,  si usa la rosa dei venti.

Le nuvole

Nell’atmosfera ci sono le nuvole. Ci sarà facile invitare i bambini ad osservare il cielo e quindi le nuvole. Come sono le nuvole che si presume portino la pioggia? Quali nuvole si vedono nel cielo di primavera? In quello dell’estate? Nuvole grigie, pesanti, oscure; nuvole leggere e delicate; nuvoloni bianchi e bambagiosi. Se uno di noi capitasse in una nuvola si troverebbe in breve bagnato. Infatti tutte le nuvole sono formate da vapor acqueo parzialmente condensato in minutissime gocce e, negli strati superiori dell’atmosfera, in cristallini di ghiaccio.
Ma da dove provengono queste goccioline e questi cristallini di ghiaccio? Ammassi di vapore acqueo si elevano nell’atmosfera., resi leggeri dal calore del sole. Quando il vapore acqueo si condensa diviene visibile ai nostri occhi appunto sotto forma di nubi.

Esperimento scientifico per creare nuvole in vaso qui: 

Osservazione e classificazione delle nuvole qui: 

Il ciclo dell’acqua, dettati e letture, qui: 

La pioggia

Vediamo come accade il fenomeno per cui l’acqua cade sulla superficie terrestre. Le nuvole sono sospese in una massa d’aria, che, essendosi riscaldata, sta innalzandosi. Le gocce di cui le nuvole sono formate, divenute più pesanti per la ulteriore condensazione dovuta al contatto con strati di aria fredda cominciano effettivamente a cadere, ma l’aria calda che tende ancora a salire, le risospinge verso l’alto. Facciamo l’esempio di una pallina da ping pong che venga sollevata al disopra di un ventilatore. La pallina resterà sollevata in aria, sospinta dall’aria che sale dall’apparecchio. Lo stesso avviene per le goccioline d’acqua che formano le nuvole. Ma ecco che esse ingrossano anche perchè urtandosi, si fondono tra loro e diventano quindi più pesanti. E così le gocce cominciano a cadere sulla terra. E’ la pioggia.

Esperimento scientifico per creare la pioggia in un vaso qui: 

La nebbia

L’aria è piena di vapore acqueo che proviene dalla superficie del mare o dei laghi o del suolo, potendo con sè un po’ del calore degli oggetti che ha abbandonato. Per constatare questo fenomeno basta bagnare un dito con l’alcool ed esporlo all’aria. Si avvertirà subito una sensazione di freddo e ciò perchè l’alcool, evaporando, porta con sè un po’ del calore del dito. Se il vapore acqueo che si trova nell’aria è abbondante, si dice che l’aria è umida. Quando l’aria è molto umida, l’evaporazione diminuisce ed è allora che, nelle giornate estive molto umide e afose, il sudore ci si appiccica addosso.
Abbiamo avuto occasione di vedere, specie in un raggio di sole, il pulviscolo atmosferico, cioè minutissime particelle che danzano nell’aria. Questo pulviscolo è formato dalla polvere che si leva dal suolo, da piccolissime spore, da impurità di ogni genere. Quando il vapore acqueo che proviene dal suolo ancora caldo si raffredda a contatto dell’aria fresca notturna, esso si condensa attorno ad un minuscolo granello di polvere. Queste goccioline formano una specie di nuvola bassa sul suolo, che si chiama nebbia.
Quindi, la nebbia è una specie di nuvola bassa sulla terra, formata da vapore acqueo condensato e pulviscolo atmosferico. Essa si forma anche sul mare e sui laghi e non appena il sole la riscalda a sufficienza, sparisce perchè le goccioline d’acqua evaporano e salgono nell’aria.

Esperimento scientifico per creare la nebbia in vaso qui: 

La neve

Quando l’aria è molto fredda, il vapore si condensa in tanti piccoli cristalli di ghiaccio che riunendosi formano quelli che chiamiamo i fiocchi di neve. Questi sono leggeri e morbidi perchè inglobano grandi quantità di aria. Se si osservano con una forte lente di ingrandimento, si potrà vedere che sono di  forma diversa, ma tutti fatti a stellina con sei punte.

Qui un tutorial per realizzare bellissimi fiocchi di neve di carta: 

La grandine

Il fenomeno della grandine avviene prevalentemente in estate e c’è la sua ragione. In questa stagione, l’aria è talvolta molto calda e, come abbiamo visto, tende a salire. Nelle altissime regioni atmosferiche, l’aria calda incontra generalmente  correnti assai fredde, anzi, gelate. Allora, le goccioline d’acqua che l’aria contiene, cominciano a turbinare non solo, ma gelano e si trasformano in cristalli di ghiaccio. Anche qui avviene lo stesso fenomeno della pioggia; cioè i cristalli di ghiaccio cadono e incontrano,  nella loro caduta, altre gocce d’acqua a cui si uniscono. Le correnti d’aria calda li sospingono incessantemente verso l’alto finchè i ghiaccioli, divenuti ormai grossi e pesanti, precipitano sulla terra con gli effetti disastrosi che tutti conosciamo. Nel fiocco di neve è contenuta molta aria, nel chicco di grandine no. Ecco perchè questo è più pesante e compatto.

La rugiada

Abbiamo occasione di vedere la rugiada sulle piante e sulla terra, di mattina presto, quando il calore del sole non l’ha ancora fatta evaporare.
Come si è formata? La spiegazione è semplice. Durante la giornata, i caldi raggi del sole hanno riscaldato la terra, le erbe, i fiori. Durante la notte, invece, questi si raffreddano e il vapore acqueo vi si condensa in brillanti goccioline. In autunno o in inverno, quando le notti sono molto fredde, si forma invece la brina. Mentre la rugiada è benefica, la brina, come è noto, danneggia le piante e talvolta quella che si chiama una brinata o una gelata può distruggere un intero raccolto.

Lampi e fulmini

E’ facile, durante un temporale scorgere nel cielo i lampi e vedere cadere un fulmine. La spiegazione di questo fenomeno risale a quanto abbiamo detto a proposito della pioggia. Le goccioline di acqua che, sospinte dalle correnti calde si aggirano vorticosamente nell’aria, si caricano ad opera di questo movimento di elettricità. Questa elettricità si manifesta, appunto, nel lampo che è un’enorme scintilla elettrica che scocca fra due nubi cariche di elettricità (positiva e negativa).
Se la scarica colpisce il suolo, abbiamo il fulmine di cui conosciamo gli effetti talvolta drammatici.
Il tuono è il rimbombo dell’aria quando viene squarciata dal lampo e dal fulmine, ma non deve incutere paura perchè, quando il tuono si sente, il pericolo è già passato.

L’arcobaleno

Portiamo a scuola un prisma e con esso facciamo osservare ai bambini che un raggio di sole, apparentemente fatto di luce bianca, passando attraverso il prisma si scompone di sette bellissimi colori. Ciò avviene perchè i diversi colori di cui è composta la luce bianca sono dal prisma deviati in modo diverso. La stessa cosa avviene con l’arcobaleno. Le gocce di pioggia ancora sospese nell’aria vengono attraversate dalla luce del sole i cui raggi si piegano come nel prisma di cristallo. I colori dell’arcobaleno sono sette: rosso, giallo, celeste, verde, arancione, indaco e violetto.

Un arcobaleno nella noce qui: 

L’arcobaleno nella leggenda del Lago di Carezza qui: 

Girandole e trottole per studiare lo spettro luminoso qui 

Dettati ortografici

L’aria atmosferica
La parte inferiore dell’atmosfera è costituita dallo strato gassoso che circonda il nostro globo e che lo segue nel suo movimento di rotazione. L’atmosfera è una massa gassosa alta mille chilometri.

La pressione atmosferica
L’atmosfera preme enormemente sulla superficie del nostro globo e noi non ne rimaniamo schiacciati perchè la pressione si esercita sul nostro corpo internamente ed esternamente, ciò che produce equilibrio. Quando questo equilibrio viene a mancare, come nel caso in cui l’uomo salga a grandi altezze senza essere munito di speciali apparecchi per respirare e per sostenere la mancanza di pressione, si rilevano gravi disturbi e quasi sempre la morte.

Tre elefanti sulle spalle
Chi porta elefanti sulle spalle? Chi è quest’uomo così robusto da non rimanere schiacciato non solo sotto il peso di tre elefanti, ma di uno soltanto? Siamo tutti noi, che sopportando il peso dell’aria, è come se portassimo un peso uguale a quello di tre grossi elefanti.

La pressione atmosferica
L’atmosfera pesa enormemente sopra di noi. E perchè non ne rimaniamo schiacciati? Perchè l’aria esercita questa pressione su tutte le parti del nostro corpo, non solo, ma anche nell’interno, e il risultato è che queste enormi pressioni, enormi ma uguali, si equilibrano e l’uomo può muoversi benissimo senza alcun disturbo.

La stratosfera
La stratosfera è chiamata la regione del buon tempo permanente. Il cielo è di una bellezza commovente: scuro, turchino, cupo o viola, quasi nero.
La terra, lontana, è invisibile: non si vede che nebbia. Soltanto le montagne emergono. Dapprima avvolte nelle nubi, si rivelano a poco a poco.  Una cima poi un’altra. Lo spettacolo è magnifico. (A. Piccard)

Le conquiste degli spazi
La conquista degli spazi è agli inizi. Chissà quanti palpiti, chissà quanta ammirazione, quanti evviva dovremo spendere per le sempre più meravigliose imprese future! Se siamo diversi dalle bestie, è proprio per questo insaziabile, anche se folle bisogno di andare sempre più in là, di svelare uno ad uno i misteri del creato. (D. Buzzati)

L’atmosfera
Noi siamo immersi completamente nell’aria, anzi, nella sfera d’aria che circonda la terra; meglio sarà se diremo atmosfera, che significa, appunto, sfera d’aria. La terra gira, gira vorticosamente, es e noi non ce ne accorgiamo dipende dal fatto che tutto gira con la terra, comprese le nuvole che fanno parte dell’atmosfera.

La conquista dello spazio
A ogni passo di là dalle conosciute frontiere, volere o no, il nostro cuore palpita. Al pensiero che un uomo come noi sta bivaccando lassù, nella vertiginosa e gelida parete trapunta di stelle, vien fatto di correre su per le scale, di affacciarsi sull’ultima terrazza e di agitare un lumino. Chi lo sa, se ci vede: si sentirà meno solo. (D. Buzzati)

Il lancio del missile
Il razzo, avvolto alla base da un bagliore di fiamma e da una nuvola di vapori, si stacca dalla piattaforma e sale sempre più velocemente verso l’alto. L’astronauta comincia con voce pacata a trasmettere a terra tutte le informazioni richieste dal suo eccezionale servizio e contemporaneamente esegue tutte le operazioni assegnategli come se fosse seduto davanti a una scrivania. Solo una volta, mentre la capsula ha raggiunto l’altezza di 185 chilometri, si lascia sfuggire un’esclamazione: “Che vista meravigliosa!”

Aria calda e aria fredda
Mutamenti improvvisi di temperatura molto spesso portano pioggia o tempo burrascoso. E’ per questo motivo che, alla fine di una calda giornata estiva, quando comincia a levarsi il vento e l’aria rinfresca e il cielo si copre di nuvole, si può essere quasi sicuri che ci sarà un temporale. L’aria, così calda per tutta la giornata, comincerà a salire, e quella fredda scende rapidamente a prendere il suo posto, portando con sè vento e pioggia. (J. S. Meyer)

Un oceano d’aria
Noi viviamo sul fondo di un oceano d’aria, che si innalza per chilometri e chilometri sopra le nostre teste ed è molto pesante. Se non ne sentiamo il peso è solo perchè la sua pressione si esercita sul nostro corpo dall’alto, dal basso e dai lati, in ogni direzione contemporaneamente. Inoltre c’è sempre aria nei nostri polmoni e in tutto il nostro corpo, e quest’aria che è dentro di noi e quella che è intorno a noi si bilanciano così che non di accorgiamo di quanto l’aria pesi. (J. S. Meyer)

L’atmosfera
La quasi totalità degli esseri viventi ha bisogno di aria per respirare. Anche gli alberi, le erbe, i fiori, hanno bisogno di aria; ma se potessero esistere senza di essa, sarebbero immobili come cose dipinte. Non una sola tra le innumerevoli foglie degli alberi si muoverebbe; non un solo filo d’erba si piegherebbe, e ramoscello o fronda stormirebbero ondeggiando alla brezza. E non potrebbero esserci ne api ne farfalle ne uccelli di alcuna specie, poichè come potrebbero volare se non di fosse aria a sostenerne il volo? Ogni cosa al mondo sarebbe silenziosa e muta, poichè il suono non può propagarsi se non attraverso l’aria. (J. S. Meyer)

L’aria
Senza aria o atmosfera non si avrebbe ne tempo bello ne tempo brutto, ne pioggia ne neve; e non si saprebbe che cosa sono il sereno, le nuvole, i temporali. Senz’aria non potrebbero vivere ne uomini ne animali, la quasi totalità degli esseri viventi ha bisogno di aria perchè questa necessita per respirare. ( J. S. Meyer)

Un oceano d’aria
Immaginate che cosa significherebbe vivere sul fondo dell’oceano. Supponete per un momento di poter camminare sul fondo oceanico, con tante migliaia di tonnellate d’acqua che premono su di voi e pesano come montagne. Naturalmente, non si potrebbe resistere poichè il nostro corpo non è fatto per sopportare un peso così enorme: si resterebbe schiacciati in meno di un minuto. Eppure tutti noi viviamo sul fondo di un oceano d’aria che si innalza per chilometri e chilometri sopra la nostra testa ed è molto pesante. (J. S. Meyer)

Salire nell’atmosfera
Quanto più saliamo nell’atmosfera, tanto minore è la quantità di aria sopra di  noi e minore sarà la pressione. Se potessimo salire per sessanta o settanta chilometri, difficilmente troveremmo ancora un po’ d’aria, e sarebbe la morte per noi. Il nostro corpo, infatti, è costituito per poter vivere sulla terra, nel fondo dell’oceano d’aria, e proprio dove l’aria è più pesante. (J. S. Meyer)

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Il vento

Venti e piogge
I venti non solo servono a ventilare decentemente questo nostro quartiere di residenza che è la terra, ma compiono inoltre l’alta funzione di distribuire la pioggia, senza la quale sarebbe impossibile lo sviluppo normale della vita animale e vegetale. La pioggia non è altro che acqua evaporata dagli oceani, dai mari chiusi, dalla terra arida e dalle foglie delle piante e dai nevai continentali e trasportata dall’aria sotto forma di vapore.  Quando i venti, che trasportano questo vapore, incontrano aria fredda si ha la pioggia. (Van Loon)

Il vento
Il vento è una corrente. Ma, cos’è che produce una corrente? Cos’è che la mette in moto? Le differenze di temperatura dell’aria. Di solito una parte dell’aria è più calda dell’aria circostante e quindi più leggera, e perciò tende a levarsi in alto. Levandosi, crea il vuoto. L’aria fredda delle regioni superiori, essendo più pesante, precipita turbinando nel vuoto. (Van Loon)

Vento e pioggia
Quando un vento, carico di vapore acqueo, incontra una catena di montagne, possono accadere due cose. O la sua violenza deve spezzarsi contro questo ostacolo, oppure, per poterlo oltrepassare, la corrente aerea deve innalzarsi a grande altezza. Trovando, così, una zona più fredda, il vapore acqueo si condensa, si trasforma in pioggia, e il vento, ormai diventato asciutto, passa oltre. Quindi la zona che è situata al di qua della catena di monti, avrà frequenti piogge e clima umido, la zona situata al di là avrà clima asciutto e cielo sereno. (Van Loon)

Altri dettati ortografici sul vento qui: 

Poesie e filastrocche sul vento qui: 

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Le nuvole

Le nubi che corrono all’impazzata per il cielo sono leggere, soffici e, spinte dal vento, sembrano bianchi agnelli in corsa. Si divertono qualche volta ad oscurare il sole, a cingere di un pallido alone la luna lucente, a coprire e a scoprire le cime lontane dei monti. Qualche volta si appesantiscono, si fanno nere e minacciose: sono allora foriere di temporale. Si scaricano in furiosi acquazzoni e non di rado in dannose grandinate. (R. Mari)

Le nuvole
Che cosa sono quelle nuvole soffici che vediamo pigramente e oziosamente fluttuare nel cielo azzurro? La maggior parte di esse hanno l’aspetto di fiocchi bambagiosi, delicati e soffici: sembrerebbe bello poter andar vagando qua e là per cielo, adagiati su di esse, spinti da un gentile venticello! Ma sappiamo che in realtà non si tratta di bambagia e tanto meno di fiocchi morbidi e leggeri.

Le nubi
Le nubi sono costituite da miliardi e miliardi di minutissime goccioline di acqua, ciascuna delle quali è così piccola che non si vede a occhio nudo. Di tali goccioline ce ne sono miliardi in una goccia di pioggia: di qui si potrà comprendere la piccolezza di ognuna e come possa essere invisibile a occhio nudo. (J. S. Meyer)

Forma delle nuvole
Quelle nuvole d’aspetto soffice e bambagioso sono chiamate cumuli. I cumuli spesso sono considerati come nuvole del bel tempo. Talvolta i cumuli si avvicinano e si uniscono sì che tutto il cielo ne è presto ricoperto. Non si tratta più di cumuli, ma di strati. Essi formano una specie di coltre e ci avverte che la pioggia può non essere lontana. Alte nel cielo, talvolta a quindici chilometri dalla terra, viaggiano quelle nuvole fini e delicate che sono dette cirri, che vuol dire riccioli. Sono freddissime  e invece che da goccioline d’acqua, sono costituite da minuti cristalli di ghiaccio. (J. S. Meyer)

Nuvole
La mattina, al primo chiarore, sorgono dai prati umidi. La sera sbucano in un batter d’occhio da qualche gola più oscura, si assottigliano, innalzandosi velocissime per le coste, si librano per le cime dei monti, poi, in un batter d’occhio, come scaturiscono, svaniscono. Il vento le incalza, le sbaraglia, le sgretola e le disperde dopo una lotta silenziosa di giganti. (G. Giacosa)

Le nuvole
Quando, levandosi dal suolo, l’aria calda le incontra, intorno ai mille o ai duemila metri, correnti o strati d’aria più fredda, il vapor acqueo in essa contenuto si raffredda e le minute goccioline di cui è composta si raggruppano insieme e formano gocce più grosse. Miliardi di gocce si ammassano e si condensano sempre più, formano cioè delle nuvole. A poco a poco si riuniscono tutte e in breve il cielo ne è completamente ricoperto. (J. S. Meyer)

Le nuvole
E’ appena giorno e io che mi sono svegliato presto ne approfitto per continuare a registrare le mie memorie nel mio caro giornalino, mentre i miei cinque compagni dormono della grossa.
Ieri l’altro dunque, cioè il 30 gennaio, dopo colazione, mentre stavo chiacchierando con Tino Barozzo, un altro collegiale grande, un certo Carlo Pezzi gli si accostò e gli disse sottovoce: “Nello stanzino ci sono le nuvole”.
“Ho capito!” rispose il Barozzo strizzando un occhio.
E poco dopo mi disse: “Addio Stoppani, vado a studiare” e se ne andò dalla parte dove era andato il Pezzi.
Io che avevo capito che quell’andare a studiare era una scusa bella e buona e che invece il Barozzo era andato nello stanzino accennato prima dal Pezzi, fui preso da una grande curiosità, e senza parere, lo seguii pensando “Voglio vedere le nuvole anch’io”.
E arrivato a una porticina dove avevo visto sparire il mio compagno di tavola, la spinsi e… capii ogni cosa.
In una piccola stanzetta che serviva per pulire e assettare i lumi a petrolio (ce n’erano due file da una parte, e in un angolo una gran cassetta di zinco piena di petrolio e cenci e spazzolini su una panca) stavano quattro collegiali grandi, che nel vedermi, si rimescolarono tutti, e vidi che uno, un certo Mario Michelozzi, cercava di nascondere qualcosa.
Ma c’era poco da nascondere, perchè le nuvole dicevano tutto: la stanza era piena di fumo e il fumo si sentiva subito che era di sigaro toscano.
“Perchè sei venuto?” disse il Pezzi con aria minacciosa.
“Oh bella, sono venuto a fumare anch’io”
“No, no!” saltò a dire il Barozzo “Lui non è abituato… gli farebbe male, e così tutto sarebbe scoperto”.
“Va bene, allora starò a veder fumare”
“Bada bene” disse un certo Maurizio Del Ponte, “Guai se…”
“Io, per regola” lo interruppi con grande dignità, avendo capito quel che voleva dire, “la spia non l’ho mai fatta, e spero bene!”
Allora il Michelozzi, che era rimasto sempre prudentemente con le mani di dietro, tirò fuori un sigaro toscano ancora acceso, se lo cacciò avidamente tra le labbra, tirò due o tre boccate e lo passò al Pezzi che fece lo stesso, passandolo poi al Barozzo che ripetè la medesima funzione passandolo a Del Ponte che, dopo le tre boccate di regola, lo rese al Michelozzi… e così si ripetè il passaggio parecchie volte, finchè il sigaro fu ridotto ad una misera cicca e la stanza era così piena di fumo che ci si asfissiava…
“Apri il finestrino!” disse il Pezzi al Michelozzi. E questi si era mosso per eseguire il saggio consiglio quando il Del Ponte esclamò:
“Calpurnio!”
E si precipitò fuori della stanza seguito dagli altri tre.
Io, sorpreso da quella parola ignorata, indugiai un po’ nell’istintiva ricerca del suo misterioso significato, pur comprendendo che era un segnale di pericolo; e quando a brevissima distanza dagli altri feci per uscire dalla porticina, mi trovai faccia a faccia con il signor Stanislao in persona che mi afferrò per il petto con la destra e mi ricacciò indietro esclamando: “Che cosa succede qua?”
Ma non ebbe bisogno di nessuna risposta; appena dentro la stanza comprese perfettamente  quel che era successo e con due occhi da spiritato, mentre gli tremavano i baffi scompigliati dall’ira, tuonò: “Ah, si fuma! Si fuma, e dove si fuma? Nella stanza del petrolio, a rischio di far saltare l’istituto! Sangue d’un drago! E chi ha fumato? Hai fumato tu? Fa’ sentire il fiato… march!”
E si chinò già mettendomi il viso contro il viso in modo che i suoi baffoni grigi mi facevano il pizzicorino sulle gote. Io eseguii l’ordine facendogli un gran sospiro sul naso ed egli si rialzò dicendo: “Tu no… difatti sei troppo piccolo. Hanno fumato i grandi… quelli che sono scappati di qui quando io imboccavo il corridoio. E chi erano? Svelto… march!”
“Io non lo so!”
“Non lo sai? Come! Ma se erano qui con te!”
A queste parole i baffi del signor Stanislao incominciarono a ballare con una ridda infernale.
“Ah, sangue d’un drago! Tu ardisci rispondere così al direttore? In prigione! In prigione! March!”
E afferratomi per un braccio mi portò via, chiamò il bidello e gli disse: “In prigione fino a nuovo ordine!”
(Vamba)

Poesie e filastrocche sulle nuvole qui: 

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La pioggia

Quando l’ammasso delle nuvole che si condensano con il freddo, si raffredda maggiormente, allora tutti i miliardi di goccioline che lo formano e che hanno già un discreto volume, diventano sempre più grosse e più pesanti e a un bel momento, cominceranno a staccarsi dalle nubi ed a precipitare sulla terra in forma di pioggia. La pioggia cade e le nuvole a poco a poco si dissolvono. (J. S. Meyer)

La pioggia
La pioggia non è altro che acqua evaporata dagli oceani, dai mari chiusi e dai nevai continentali e trasportata nell’aria sotto forma di vapore. Poichè l’aria calda può contenere molto maggior vapore che la fredda, il vapore acqueo viene trasportato senza molta difficoltà finchè i venti non incontrino aria fredda; quando ciò avviene, il vapore si condensa e precipita nuovamente alla superficie della terra in forma di pioggia o grandine o neve. (Van Loon)

Altri dettati ortografici sulla pioggia qui: 

Poesie e filastrocche sulla pioggia qui: 

Dettati ortografici sul temporale qui: 

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La nebbia

La nebbia è una nuvola bassa sulla terra formata da vapore acqueo e pulviscolo atmosferico. Essa si forma prevalentemente sul mare e sui laghi e non appena il sole la riscalda a sufficienza sparisce perchè le goccioline d’acqua evaporano e salgono nell’aria.

Altri dettati ortografici sulla nebbia qui: 

Poesie e filastrocche sulla nebbia qui: 

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La neve

La neve è una precipitazione atmosferica che avviene quando la temperatura dell’aria in cui il vapore acqueo si va condensando, diventa molto bassa. Per questo fatto, il vapore acqueo si condensa in minutissimi cristalli di ghiaccio disposti a forma di stella, i quali, cadendo, si raggruppano fra loro formando i fiocchi di neve.

Fiocchi di neve
Andate al’aperto con una tavola scura mentre nevica e studiate, mediante una lente di ingrandimento, le stelline graziose che vi cadono a miliardi dal cielo. Osserverete la mirabile costruzione di queste foglioline di cristallo, di questi grappoli di stelline, ognuno delle quali è un capolavoro che nessun gioielliere saprebbe mai imitare. (B. H. Burgel)

Altri dettati ortografici sulla neve qui:

Poesie e filastrocche sulla neve qui:

Un libretto fatto a mano sulla neve qui: 

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La brina

Dettati ortografici su brina,  gelo, ghiaccio, qui: 

Poesie e filastrocche su brina, gelo e ghiaccio qui: 

50 e più giochi da fare col ghiaccio qui:

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La rugiada

La rugiada compare sempre la mattina presto, di primavera, d’estate, e anche al principio dell’autunno. Se di giorno ha fatto molto caldo e la notte è fresca, è certo che al mattino seguente ci sarà molta rugiada sui prati. Sull’erba, sulle foglie, sui fiori ci saranno tante goccioline d’acqua che brillano come diamanti alla luce dell’alba. (J. S. Meyer)

Altri dettati e poesie sulla rugiada qui: 

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L’arcobaleno

Dettati ortografici sull’arcobaleno qui: 

Poesie e filastrocche sull’arcobaleno qui: 

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La grandine

La grandine è formata di granellini gelati che cadono da nuvole cineree. E’ preceduta spesso da un uragano nel quale si percepisce un rullio caratteristico causato, pare, dallo sfregamento dei granellini di ghiaccio che si muovono in moto vorticoso, rapidissimo. La grandine è sempre apportatrice di rovine; i granelli possono raggiungere anche la grandezza di un uovo e un peso notevole.

La grandine
D’estate, quando da noi fa un caldo insopportabile, a diverse migliaia di metri dal suolo la temperatura può essere bassissima; e allora succedono strane cose. L’aria calda che si solleva dalla terra comincia, a un certo punto, a turbinare e a trasportare con sè goccioline di acqua. Su, sempre più su le sospinge l’aria calda, finchè esse raggiungono gli strati d’aria dove la temperatura è molto bassa. Allora gelano, si trasformano in minuti ghiaccioli e cominciano a cadere. Così turbinando e cadendo, si uniscono fra loro e formano chicchi di ghiaccio che, per l’aumentato peso, precipitano sulla terra in forma di grandine. (J. S. Meyer)

Altri dettati sulla grandine qui: 

Poesie e filastrocche sulla grandine qui: 

La bufera

La natura è bella anche nei suoi furori: una bufera è tanto più bella, quanto più è terribile e intensa. Ecco che il cielo si oscura e il sole si nasconde fra le nuvole scure, coi contorni neri, che si rincorrono, si inseguono come eserciti in battaglia. Guizzano i lampi e le nubi vibrano e si scuotono come invase da una corrente elettrica che le illumina, ora di una luce azzurra, ora dorata, ora argentea. Di quando in quando guizzi di lampi serpeggiano nell’oscuro esercito delle nuvole.
(P. Mantegazza)

Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

IL PANE materiale didattico

IL PANE materiale didattico vario: dettati ortografici, letture, ecc…, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Il pane

L’uomo preistorico abbrustoliva i semi del grano per mangiarli e imparò soltanto più tardi a triturarli e ad impastare e cuocere la farina che ne ricavava. Questo sistema è usato ancor oggi da alcuni popoli che ottengono in questo modo una galletta dura e compatta di difficile digestione. Soltanto in un secondo tempo l’uomo imparò ad usare il lievito. Di questo si conoscono due specie: il lievito di birra e il lievito di pasta. Entrambi sono prodotti da speciali fermenti. Il lievito di pasta, usato per la confezione del pane casalingo, si ottiene facendo fermentare per alcune ore all’aria un pezzo di pasta.
La fermentazione, cioè la lievitazione, avviene per opera di un fungo che si sviluppa nella pasta e che scompone l’amido della farina in alcool e anidride carbonica. La pasta lievitata rigonfia appunto, per opera dell’anidride carbonica, ed emana un odore di vino per opera dell’alcool che si è formato.
I principali componenti della farina sono il glutine e l’amido. Quest’ultimo è formato da tanti minutissimi granelli compatti, di un colore bianco candido. Il glutine è grigiastro, vischioso ed elastico.
Quando si aggiunge acqua alla farina preparata per fare il pane, i granellini di amido di rammolliscono e si gonfiano, aumentando di volume, e il glutine si riunisce a formare una massa molle e compatta, pronta a ricever l’azione del lievito.
Con la lievitazione, la pasta si solleva, si gonfia, in una parola fermenta. Durante la fermentazione, l’amido si trasforma in destrina e quindi in zucchero o glucosio. E’ appunto quest’ultima sostanza che produce, oltre all’alcool, l’anidride carbonica per opera della quale il pane diventa spugnoso, ricco di piccole cavità. Quando il pane cuoce nel forno, il gas, dilatandosi, allarga ancora queste cavità e la massa cresce ulteriormente di volume.
Il pane si può fare anche con altri tipi di farina: con le segale, meno ricca di glutine, con l’avena, con l’orzo, col granoturco, ecc…
Nei paesi caldi, come in Africa, il raccolto del grano si fa due volte l’anno. Nei paesi freddi dove il grano non potrebbe arrivare a maturazione, si coltiva l’orzo primaverile che matura in soli tre o quattro mesi. L’avena, che ama l’umidità e il clima piuttosto fresco, viene di preferenza coltivata nei paesi nordici dove si usa,  infatti, pane di avena.
Il pane può essere confezionato in diverse forme: pagnotte, sfilatini, panini, filoni, grissini, ciambelle. Il pane integrale, fatto con farina meno setacciata e quindi più scura, è più nutriente del pane bianco anche perchè utilizza l’embrione, elemento prezioso, che è fissato alla crusca e che assurdamente viene eliminato con questa, togliendo al pane gran parte delle sue qualità nutritive.
Con la farina di grano si fanno le paste alimentari di cui in Italia esiste una vasta e ottima produzione, oggetto di esportazione in tutto il mondo. La pasta è fabbricata prevalentemente a macchina e assume le più svariate forme.

Non sciupare il pane

Non sciupare il pane! Pensa che è costato tanta fatica e che il  contadino ha seminato in autunno per raccogliere soltanto in estate. Per tutto l’anno egli ha trepidato per le gelate, per i temporali, la siccità, la malattia. E soltanto quando ha potuto mettere il suo grano al sicuro egli ha tratto un sospiro di sollievo.

Il pane

Mi chiamano ciambella, sfilatino, panino, cornetto, ma sono sempre il pane. La mia crosta è dorata. La mollica è soffice, bianca, morbida. L’anno scorso ero ancora erba verde nei solchi dove le allodole facevano il loro nido. Sono stato poi spiga matura che l’uomo ha mietuto, trebbiato, macinato. Divenni bianca farina che il fornaio ha impastato con l’acqua, il sale,  il lievito, e poi ha cotto al forno.
Quando tu mangi un pezzo di pane, ricordati di quanto ti ho detto.

Il grano

Gli uomini trovarono un’erba dal lungo stelo, che da un seme solo fa tante spighe ed ogni spiga tanti chicchi, i quali macinati, danno una polvere così bianca, così molle e queste, intrisa e rimenata e cotta, dà un cibo così soave, così forte! Quell’erba è la divina vivanda che di fa vivere: il pane! (G. Pascoli)

Il pane

Quante fatiche, quante ansietà, quante pene sono contenute in un pezzo di pane! I grandi bovini che erpicano la terra, il contadino che lo buttò a manciate nel maggese invernale, i primi fili che vincono, teneramente, la scura umidità della terra, e i mietitori che piegano i colli anneriti, l’intera giornata  e c’è da legar le manne, da portarle sull’aia. (G. Papini)

I lavori per il pane

Dopo trebbiato bisogna aspettare un po’ di vento che non sia troppo fiacco, ma neanche forte per dividere, col vaglio, i chicchi buoni dalla pula e poi c’è da macinare e da toglier la crusca con lo staccio, e da sfiorar la farina e da scaldar l’acqua per impastarla, e da scaldare il forno con l’erba secca e le fascine; tutto questo c’è da fare, con amore  e pazienza prima di avere questo pane. (G. Papini)

L’arte di fare il pane

Gli uomini primitivi cuocevano il pane su pietre roventi. Essi facevano focacce non lievitate e non pagnotte e panetti, come noi. I primi forni pubblici, dove si cuoceva il pane e dove tutti potevano comperarlo, sorsero nell’antica Roma.
Nel passato i forni erano a legna, ora sono a legna; in essi non si depositano sul pane ne cenere ne polvere e il pane è più bello. (G. Ugolini)

Non sciupare il pane

Non sciupare il pane. Pensa che esso è costato tanta fatica.  Il contadino ha lavorato la terra, l’ha seminata. Quando le piantine sono spuntate, le ha mondate dalle cattive erbe. Venuto il caldo, egli ha mietuto le spighe mature. Le ha trebbiate, ha macinato il grano, ha impastato la farina per farne dei pani. I pani sono stati cotti al forno ed ora sono sulla tua tavola. Pensa a tutto questo quando stai per sciupare anche un sol pezzo di pane.

Esercizi di vocabolario
Pane: pagnotta, panificare, panificazione, pancotto, pangrattato, panettone, pandoro, panino, panetto, panone…
Pezzo, morso, tozzo, mollica o midolla, crosta, cantuccio, fetta.
Il pane può essere: fresco, duro, rifatto, raffermo, caldo, odoroso, croccante, stantio, ammuffito, ben cotto, crudo, lievitato, mal lievitato, bianco, grigio, integrale, azzimo, soffice, leggero, bruciato, tostato, abbrustolito, biscotto, biscottato, midolloso, mollicoso, affettato, asciutto, bagnato, inzuppato,…
Il pane si impasta, lievita, cuoce, brucia, si abbrustolisce, si mangia, si spezza, si gratta, si indurisce, si affetta, …
Modi di dire: essere pane e cacio; se non è zuppa è pan bagnato; mangiare il pane a ufo; magiare pan pentito; non è pane per i suoi denti; vender per un pezzo di pane; rendere pan per focaccia; spezza il pane della scienza.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Pronome personale esercizi per la classe terza

Pronome personale esercizi per la classe terza della scuola primaria, scaricabili e stampabili in formato pdf.

I pronomi personali sono parole che si usano per sostituire il nome con lo scopo di evitare inutili ripetizioni. Essi sono:

– io, me, mi
– tu, te, ti
– egli, lui, esso
– ella, lei, essa
– noi, ce, ci
– voi, ve, vi
– essi, li, le, loro, esse.

IL VERBO esercizi per la classe terza

IL VERBO esercizi per  la classe terza della scuola primaria.

Scrivi le azioni compiute da:

uno scolaro

un automobilista

un pittore

un soldato

un maestro

un sarto

un contadino

una mamma

una sorella

un farmacista

un falegname

un musicista

un medico

un calzolaio

una sarta

un’infermiera

un fornaio

un parrucchiere

un fabbro

un giardiniere

un lattaio

un meccanico

un gatto

un cavallo

Rispondi:

Chi insegna, spiega, corregge, rimprovera, loda, classifica, incoraggia?

Chi taglia, sega, pialla, inchioda, incolla?

Chi misura, taglia, imbastisce, cuce, prova?

Chi coltiva, annaffia, pota, coglie?

Chi impasta, spezza,  inforna, sforna?

Scrivi le azioni che compi ogni mattina prima di venire a scuola e nel pomeriggio quando giochi. Ad esempio: Io mi alzo, mi lavo, preparo la cartella, saluto la mamma… Ora trascrivile in tutte le persone del tempo presente

Coniuga in tutte le persone del tempo presente le frasi:

Io ho molti fiori raccolti nel bosco.

Io non ho timore di sbagliare.

Io esco di casa e cammino velocemente verso la scuola.

Scrivi le azioni che hai compiuto ieri a scuola. Poi trascrivile in tutte le persone del tempo passato prossimo

Coniuga in tutte le persone del tempo passato prossimo le seguenti frasi:

Io ho prestato sempre attenzione alle spiegazioni del maestro.

Io ho eseguito con cura i compiti.

Io ho visto il tramonto del sole.

Trascrivi le seguenti frasi con il verbo prima al presente, poi al passato prossimo, e infine al futuro semplice:

Io andare dal nonno. Le rondini volare nel cielo. Tu accendere la luce. I cacciatori uccidere due lepri e un fagiano. Il contadino arare il campo per la semina. Noi mangiare volentieri un grappolo d’uva. Oggi arrivare gli zii di Genova. La pioggia cadere violenta. Il vento sradicare una grossa pianta. Il gatto fare le fusa.

Scrivi le azioni che compirai domani: Io mi alzerò, andrò a scuola, …

Ora trascrivile in tutte le persone del tempo futuro.

Coniuga in tutte le persone del tempo presente le seguenti frasi:

Ascoltare i consigli degli adulti. Cantare a orecchio le canzoni di successo. Leggere a voce alta e con sentimento.

Coniuga in tutte le persone del tempo passato prossimo le seguenti frasi:

Ascoltare i consigli degli adulti. Cantare a orecchio le canzoni di successo. Leggere a voce alta e con sentimento.

Coniuga in tutte le persone del tempo futuro semplice le seguenti frasi:

Ascoltare i consigli degli adulti. Cantare a orecchio le canzoni di successo. Leggere a voce alta e con sentimento.

Copia le seguenti frasi sostituendo una voce verbale adatta ai verbi espressi nell’infinito:

1. Il mese scorso mi comportare sempre bene a casa e a scuola.

2. L’autunno scorso mia sorella frequentare un corso di scherma.

3. Un mese fa aiutare una signora ad attraversare la strada.

4. La primavera scorsa una coppia di rondini costruire il nido sotto il mio tetto.

5. L’anno scorso un furioso temporale sradicare  molti alberi.

6. L’ultima estate un fulmine colpire quest’alto pioppo.

7. Le vacanze scorse mio cugino rinunciare  alla villeggiatura per fare compagnia ai nonni.

8. Alcuni giorni fa Marcella giungere in ritardo a scuola.

9. La settimana scorsa ricevere un bel libro in regalo.

Trascrivi le seguenti frasi con il verbo al passato prossimo, al passato remoto e al futuro:

Il vento solleva la polvere, schianta i rami, sbatte le porte, agita le foglie.

La mucca mangia l’erba, muggisce, ci dà il latte.

Il contadino zappa la terra, vanga, semina, miete, falcia.

Il treno fischia, corre sulle rotaie, entra in stazione, si ferma.

Il falegname sega, pialla, inchioda, costruisce i mobili.

Trascrivi le frasi seguenti con il verbo prima al presente, poi al passato prossimo, al passato remoto e infine al futuro:

Io andare dal nonno

Le rondini volare nel cielo

Tu accendere la luce

I cacciatori uccidere due lepri e un fagiano

Il contadino arare il campo per la semina

Noi mangiare volentieri un grappolo d’uva

Oggi arrivare gli zii di Genova

La pioggia cadere violenta

Il vento sradicare una grossa pianta

Il gatto fare le fusa

Coniuga nel tempo e nella persona adatta il verbo tra parentesi

Quando si (partire) per il mare si è contenti.

Mentre (uscire) di casa (sentire) cadere le prima gocce di pioggia.

Domani quei bambini (offrire) un dono alla loro mamma.

Ieri Lucia (scoprire) un gattino abbandonato nell’orto di casa sua.

L’autunno scorso Luisa (frequentare) un corso di taglio.

Un bambino che non (riflettere) (commettere) molti errori.

Ieri (assistere) ad una lite fra due bambini..

Un mese fa (giungere) a scuola in ritardo.

Domani (scrivere) alla nonna e le (descrivere) la mia nuova casa.

Mentre (leggere) il libro di Pinocchio, (giungere) le mie amichette.

Il mese scorso (andare) in campagna dalla nonna.

Quando il sole (calare) le nubi si (colorare) di rosa.

Ieri (studiare) la poesia e poi la (recitare) alla mamma.

Domani il maestro ci (spiegare) le divisioni e noi (stare) molto attenti.

Qualche mese da (stare) a casa da scuola per tre giorni.

IL RISPARMIO materiale didattico

IL RISPARMIO materiale didattico vario per bambini della scuola primaria: spunti didattici, dettati ortografici, letture, poesie e filastrocche sul tema del risparmio.

La giornata del risparmio
Il 31 ottobre in tutto il mondo si celebra la Giornata del Risparmio, si esalta una delle più nobili, delle più alte virtù umane.
Pensa: questa festa interessa tutti, piccoli e grandi, umili lavoratori e ricchi proprietari di campi o di industrie, uomini che vivono presso il gelido polo o che lottano contro le insopportabili calure dei tropici. Tutti sono accomunati dallo stesso pensiero: per nessuno il domani è certo; ognuno deve sapere che la vita non termina oggi e che quindi è necessario fondare fin d’ora con la previdenza e il risparmio un avvenire più lieto. (M. Missiroli)

Che cos’è il risparmio (conversazione)

Che cosa significa risparmiare? Spendere un po’ meno di quello che abbiamo a disposizione.
Potremo raccontare ai bambini la favola della cicale e della formica. Per cominciare dal significato morale, attireremo l’attenzione sulla spensieratezza della cicala che vive alla giornata, mentre la formica pensa al suo futuro. A chi si può paragonare la cicala? A colui che spende tutto quello che guadagna destinandolo non soltanto al necessario, il che sarebbe ovvio, ma anche al superfluo, acquistando cioè abiti troppo eleganti o ricchi per la sua condizione, dimorando in case troppo lussuose, divertendosi spensieratamente in costosi passatempi. Naturalmente, con questo regime di vita, se ne va tutto quello che l’imprevidente potrà guadagnare, anche se è molto. Ma ecco i tempi tristi più o meno inevitabili nella vita di un uomo, ecco le malattie, la mancanza di lavoro, ecco un qualsiasi guaio a cui si potrebbe mettere rimedio con una certa somma, ma lo spensierato non la possiede: ha soltanto quello che guadagna, ma, in questi casi, quello che guadagna non basta più. Se quel tale avesse risparmiato…
L’esempio della formica. A chi si può paragonare questo previdente insetto? A chi spende soltanto quello che gli è necessario, conducendo un regime di vita consono alle sue possibilità, mettendo a risparmio quel piccolo margine che resta.

Risparmio ed economia si possono considerare fratelli e buone abitudini, relative ad essi, hanno grande valore morale perchè implicano una capacità di dominio su se stessi, di vittoria su tentazioni e lusinghe, di adattamento a una vita semplice e ordinata.
Inoltre, possedere queste virtù significa discernere il limite delle proprie possibilità e non fare, come si dice con un adatto proverbio, il passo più lungo della gamba.
Il risparmio del singolo ha una grande importanza non solo nella vita di ogni individuo, ma anche nella vita di un intero Paese.

Potremo far notare che risparmiare significa anche non consumare, o, per lo meno, consumare entro i limiti del giusto. Infatti un bambino che non sciupa i vestiti fa risparmiare alla sua famiglia, mentre il bambino che rovina gli indumenti prima del tempo consentito, fa spendere alla sua famiglia più di quello che sarebbe lecito e giusto.
Sarà opportuno anche far notare che non solo non si deve sciupare la roba nostra, ma neanche quella che, comunemente, è considerata di tutti, e cioè il bene comune: strade, piante, arredi scolastici, materiale d’uso, ecc…  Spesso nei ragazzi, e non solo nei ragazzi, c’è la cattiva abitudine di considerare la roba del Comune e degli Enti pubblici come non appartenente a nessuno. E’, ovviamente, un grossolano e controproducente errore, perchè ciò che appartiene allo Stato e ai vari Enti è roba pagata con le nostre tasse.

Dal punto di vista dei bambini, il risparmio non ha che un significato: raggranellare una certa somma da adibire a un certo uso o per l’acquisto di un oggetto per cui non sono sufficienti le piccole somme che egli, saltuariamente, ha a disposizione. Ma non pretenderemo che il bambino pensi all’avvenire. Se egli acquista, sia pure in questo modo, l’abitudine al risparmio, sarà già un bel risultato.
Gli adulti, invece, risparmiano in funzione dei bisogni dell’avvenire. Lo Stato incentiva il cittadino a risparmiare attraverso i vari Istituti di previdenza e le varie forme assicurative che gli permettono di avere sussidi e pensioni in caso di malattie, di disoccupazione e di invalidità. Questa è una forma di risparmio, diciamo così, obbligatoria.

Ma vogliamo parlare anche del risparmio volontario. Quali sono gli Istituti di credito dove il risparmio può essere affidato? Le banche e le poste. E poi le industrie, sotto forma di prestiti (obbligazioni) e di partecipazione al capitale e quindi agli utili (azioni).
Se sarà possibile, potremo organizzare lavori di gruppo per fare delle piccole inchieste, interpellare impiegati di banca per sapere come si svolgono le operazioni a risparmio, quali sono le varie forme per conservare o per investire il denaro, come viene utilizzato questo danaro dalle banche o dalle industrie.  Ci potremo far dare dei moduli che poi osserveremo con calma in classe, che impareremo a riempire e che, magari, impareremo ad usare.  Ed ecco le distinte di versamento, ecco la conoscenza dei moduli di conto corrente, dei libretti a risparmio, delle azioni e delle obbligazioni. Impareremo, così, a fare come la formica e non come la spensierata cicala.

A proposito di questa favola, vogliamo correggere l’errore di storia naturale, in quanto la cicala, alla fine della sua stagione canora, finisce il suo ciclo vitale. D’altro canto, la formica, durante l’inverno, cade in letargo e non ha bisogno delle sue provviste in quanto non si nutre o si nutre molto poco.
Ed ora, una considerazione d’ordine morale. La cicala è spensierata e imprevidente, è vero, ma la formica è proprio un modello tutto da imitare? La previdenza non deve sconfinare nell’egoismo, nella mancanza di carità e soprattutto nell’avarizia. Impariamo il significato dei due termini: prodigalità e avarizia. Sono entrambi difetti, e specie l’ultimo, per nulla simpatico. Non ci si può chiudere nell’egoismo e non si possono inaridire il nostro cuore, il nostro spirito, nella grettezza. Quando è necessario, aiutiamo chi ha bisogno anche se è stato imprevidente.
(M. Menicucci)

Risparmio

Il risparmio è forza come è forza il sapersi difendere da sè. Ma, come per diventare forti fisicamente è necessario fare, fin da ragazzi, una buona ginnastica, così per poter essere forti moralmente, bisogna abituarsi per tempo all’economia, al risparmio. Anche questa è una ginnastica che tutti i ragazzi devono fare: inoltre è salutare abituarsi ai piccoli sacrifici, alle piccole rinunce, per saper sopportare i grandi sacrifici, le grandi rinunce. Essere ragazzi sobri, virtuosi e forti vuol dire essere, domani, uomini virtuosi e forti. (C. L. Guelfi)

Saper risparmiare

Il risparmio è una solida virtù che mette al sicuro l’uomo dal bisogno. Bisogna risparmiare quando si ha, pensando che potrebbe arrivare un momento in cui non si ha più. Tutto, nella natura, ti insegna il risparmio, l’ape che succhia il nettare oggi per avere il miele domani, il seminatore che per un chicco che semina, domani ne avrà mille, la formica che riempie i suoi magazzini durante la buona stagione, per stare al sicuro durante la stagione fredda, e infine l’uomo saggio che vuole assicurarsi serenità e fortuna per la sua vita a venire.

Risparmia

Se ti viene regalato del danaro, voltalo e rivoltalo prima di spenderlo. Spesso ti struggi dal desiderio di possedere una cosa: quando poi sei riuscito ad ottenerla, non sei contento e ne vuoi un’altra ancora. In questo modo, vedi, si arriva al punto di spendere senza riflessione, e di trovarsi poi in bruttissimi impicci. Tutti abbiamo il dovere di badare all’economia, e di saper moderare i desideri e le spese. (M. D’Azeglio)

Il risparmio

Risparmio ed economia si possono considerare fratelli e le buone abitudini relative ad essi hanno un grande valore morale. Chi risparmia ha il dominio su se stesso, riporta una vittoria sulle tentazioni e le lusinghe che cercano di attirarlo ad ogni passo, si adatta volentieri a una vita semplice e ordinata. Impara a risparmiare da ragazzo e il tuo futuro sarà, in gran parte, nelle tue mani.

Il risparmio

Il risparmio dell’uomo singolo ha una grande importanza non soltanto nella vita di ogni individuo, ma anche nella vita di un intero paese. Popolo risparmiatore, nazione ricca. Abituati a risparmiare fin da ragazzo: diventerai un uomo sobrio che sa dominare i suoi desideri.

Pensa al domani
“Pensa al domani” è uno dei saggi consigli che l’esperienza d’ogni giorno raccomanda alla gente. La lotta per la vita è sempre incerta: oggi sorride l’abbondanza, domani può venire la carestia, se non per noi, per tanti altri che, per solidarietà umana, dobbiamo aiutare.
Il senso del risparmio, come previdenza, si manifesta anche negli animali e nelle cose, come equilibrio di leggi naturali fissate dal Creatore per la conservazione degli esseri, in cui è sempre presente una riserva di materiale energetico per il superamento di eventuali avversità ambientali.
L’organismo umano può sopportare anche un periodo lungo di digiuno.
Il cammello può attraversare il deserto senza alcun rifornimento.
Certi animali vanno in letargo e passano l’inverno senza bisogno di mangiare.
Il chicco di grano è ripieno di riserve di glutine che garantisce la vita del germe vegetale fino al tempo della semina.
Animali e piante sono provvisti di dispositivi particolari per regolare il consumo delle energie a seconda delle necessità.
Tra i vari animali, la formica e l’ape sono certamente le più previdenti creature che pensano al domani accantonando preziose riserve durante la bella stagione.
Queste considerazioni servono per provare che il risparmio non è un’invenzione dell’uomo, un ritrovato della scienza e del progresso, ma una cosa naturale cui è legata la conservazione della vita.
L’uomo nella sua storia plurimillenaria ha dovuto ricorrere a un previdente risparmio per passare dalla grotta alla capanna, dalla solitudine della foresta alla tribù, dalla caccia alla pastorizia, dalle greggi agli armenti, dall’agricoltura all’industria e al commercio.
Questi sono i frutti di un lavoro e di una saggia previdenza che, attraverso i secoli, hanno condotto l’uomo al benessere, al progresso e alla civiltà dei nostri giorni.

Antenati del salvadanaio
Il salvadanaio, che ora si presenta sotto forma di un umile panciuto recipiente di coccio, ora di un elegante oggetto di terracotta, ora di una lucente cassettina di sicurezza, ha degli antenati fin da tempi remotissimi.
Nell’antica Cina si usavano salvadanai a forma di maialini. Il maiale per gli antichi era il simbolo della prosperità: tale forma quindi doveva essere di incitamento e augurio.
I bimbi indiani avevano, come custode dei loro risparmi, un salvadanaio a forma di elefante, simbolo della forza e del lavoro.
In Egitto il salvadanaio era fatto a forma di serpente o di dragone; i terribili guardiani dei preziosissimi tesori dei Faraoni dovevano difendere anche i risparmi dei piccoli egiziani.
Presso i Romani invece, il salvadanaio aveva la forma di una cassettina, ed era di terracotta.
In Estremo Oriente si usavano belle cassettine in legno durissimo, a volte laccato o intarsiato con avorio o pietre preziose, molto simili ai portagioie delle signore.

Come nacque la moneta
Nacque un poco per volta. La strada seguita dall’umanità per arrivare alla moneta si perde nella notte dei tempi. All’inizio della convivenza è presumibile pensare che fosse in uso soltanto lo scambio degli oggetti o delle derrate. Più tardi l’uomo deve essersi accorto che il moltiplicarsi delle necessità di scambio rendeva troppo complicato il commercio. Si procedette allora per tentativi nella scelta delle cose più comode: qualche tribù ricorse alle conchiglie, qualche altra al sale (da cui la parola salario).
Sviluppandosi il commercio, i mercanti accettavano, come prezzo della loro merce, oggetti di metallo. Questi potevano essere facilmente conservati e trasportati; potevano eventualmente anche essere trasformati in armi o in oggetti di ornamento.
Più tardi, per evitare di pesare continuamente tali pezzi di metallo, si pensò di prepararli appositamente, in forma di piccoli dischi, con l’indicazione del peso reale. E siccome poi l’avidità di certi commercianti portava all’inganno, si ricorse all’autorità dello Stato per ovviare al pericolo delle falsificazioni. Sulle monete infatti oltre i simboli di varia natura che si riferiscono al tempo e al paese in cui sono state coniate, c’è spesso l’effige dell’autorità che le ha emanate.

La carta moneta
L’uso della carta monetata ha inizio con Giovanni Law, un finanziere scozzese del XVII secolo. Egli cominciò giovanissimo ad interessarsi di questioni bancarie e nel 1716 fondò in Francia una banca che emetteva biglietti convertibili con l’oro che la stessa banca custodiva in cassa a garanzia dei biglietti emessi.
La cosa andò bene per un po’, ma ben presto si trovò che, per l’inflazione dei biglietti emessi, l’oro della cassa non corrispondeva più. Subentrò la sfiducia dei cittadini che si precipitarono in banca per cambiare la carta in oro, ma l’oro non c’era. Si dichiarò il fallimento e Law fuggì a Venezia dove morì il 1729.
Ma l’importantissima invenzione non doveva morire. Nell’era moderna la moneta di carta ha sostituito quasi completamente quella metallica (salvo per i valori più piccoli).
Di solito la moneta di carta ha il suo corrispondente valore metallico (oro e argento) in deposito nelle casse delle banche emittenti, la cui garanzia si fonda sul credito dello Stato. E’ infatti cura di tutti i governi di regolare le spese dello Stato in modo da conservare alla moneta tutto il suo valore, e ciò per chiare ragioni di ordine sociale, per non creare la sfiducia nei cittadini e per stimolare il risparmio.

Il frustino e il risparmio
Ero un bimbo di cinque o sei anni. Un giorno di festa i miei parenti mi riempirono la taschina di soldi. Mi diressi subito verso una bottega dove si vendevano balocchi. Ma, cammin facendo, fui attratto dal suono di un frustino che un altro ragazzo scuoteva.
Supplicai allora il ragazzo di cedermelo e gli diedi in cambio tutto il mio denaro.
Tornai a casa felice e mi misi a scuotere il frustino in ogni canto.
I fratelli e le sorelle quando sentirono che avevo dato tutto ciò che possedevo per quel brutto arnese, mi canzonarono. Quante cose avrei potuto comperare al suo posto!
Mi misero talmente in ridicolo,  che io piansi di dispetto.
Ebbene, il ricordo del cattivo acquisto non uscì mai dalla mia mente.
Da quel giorno, quando provavo il desiderio di comprare cose non necessarie, dicevo: “Attento a non spendere troppo per un frustino!”.
E risparmiavo il mio denaro.
(B. Franklin)

La natura insegnò il risparmio
Il cane che seppelliva l’osso che neppure un appetito canino poteva finire, lo scoiattolo che raccoglieva noci per un ulteriore festino, le api che riempivano il favo di miele, le formiche che accumulavano provviste per un giorno di pioggia furono tra i primi ispiratori della civiltà…
Così l’uomo incominciò ad essere umano quando dall’incertezza della caccia passò alla maggior sicurezza e continuità della vita pastorale.
La natura ancora insegnò all’uomo l’arte di accantonare provviste, la virtù della prudenza, il concetto di tempo. Osservando ancora i picchi che ammassavano ghiande negli alberi, e le api che accumulavano provviste negli alveari, l’uomo concepì, forse dopo millenni di stato selvaggio imprevidente, l’idea di costruire una riserva di viveri per il futuro. Trovò modi per conservare la carne; ancor meglio costruì granai protetti dalla pioggia, dall’umidità, dai parassiti, dai ladri e vi ammassò i viveri per i mesi più improduttivi. A poco a poco comprese che l’agricoltura poteva offrire una riserva di cibo migliore e più sicuro della caccia. (W. Durant)

Il risparmio dei bambini
La virtù del risparmio è cosa da adulti, ma fin da bambini occorre prenderne l’abitudine e capirne il valore.
Perchè gli uomini risparmiano? Per preparare ai loro discendenti migliori condizioni di vita; per poter sopperire ai casi di bisogno; per poter disporre di una somma maggiore accantonando somme minori, e perchè, come nel caso del risparmio assicurativo, i contributi di tutti possano servire alle necessità di ciascuno.
Il primo caso non interessa i bambini se non indirettamente. E anche per quel che riguarda il secondo, i bambini non potranno risparmiare tanto da influire vantaggiosamente nell’economia della famiglia. Essi generalmente risparmiano per poter comprare, con la sommetta accantonata, qualche cosa di cui hanno desiderio. Ma cerchiamo di sollevarci un po’ dalla funzione utilitaristica del risparmio. Chi risparmia, chi non spende subito la piccola somma che ha a disposizione, esercita una capacità di dominio e una vittoria su se stesso, controlla i suoi desideri, si adatta a una vita semplice e ordinata. Queste sono le virtù implicite del risparmio.
La giornata del risparmio si celebra in tutto il mondo, in quanto questa virtù è anche una virtù sociale. Una nazione risparmiatrice è una nazione ricca. Non si risparmia soltanto accantonando una data somma; si risparmia anche spendendo, per esempio, cinquanta invece di cento. Riferiamoci ai nostri bambini. Una bambina desidera una bella bambola; costa, mettiamo, venti euro. Se ne compera una da quindici, sarà come se avesse risparmiato cinque euro. Avrà limitato i suoi desideri, si sarà accontentata di una bambola più modesta, avrà vinto la tentazione di ottenere un dono più ricco.
Il risparmio è fratello dell’economia. Un bambino ha un bel paio di scarpe il cui acquisto è costato un notevole sacrificio ai genitori.

 

Proverbi

Il lavoro procura il denaro, il buon senso lo conserva.

Le piccole spese, se fatte senza necessità, possono a lungo consumare un grande patrimonio.

Ogni uomo che risparmia è un pubblico benefattore e ogni scialacquatore un pubblico nemico.

Popolo risparmiatore, nazione ricca.

Risparmio più nobile è quello di chi meno guadagna. (G. Carducci)

Risparmia chi è saggio, chi sa amministrare bene le sue possibilità.

Virtù conservi quello che il lavoro procura.

Il risparmio è l’amico che non rifiuta mai un prestito.

Il risparmio è espressione di rinunce, di sacrifici, di amore per l’avvenire proprio e dei figli.

Risparmiare vuol dire dominare se stessi. Chi non tien conto del poco non diventerà padrone del molto.

La capacità di risparmio di ogni generazione concorre a determinare il rendimento del lavoro di quelle che ad essa succederanno.

Il valore del risparmio si apprezza nel giorno del bisogno.

Risparmiare significa compiere un atto di solidarietà fra la nostra generazione e quella futura.

Le piccole spese moltiplicate consumano i più grandi patrimoni.

Il risparmio è indipendenza per l’uomo e sicurezza per la famiglia.

Il risparmio si forma soltanto se viene praticato con amore  e continuità.

Avere o non avere è una questione di risparmio.

Il risparmio assicura una vecchiaia serena.

Il risparmio è l’atto volitivo di chi decide di non impiegare il frutto del suo lavoro in consumi immediati, ma in beni futuri.

Il risparmio è sinonimo di civiltà: dovere di tutti è quello di sollecitarne la formazione.

Compra soltanto ciò che è necessario; il superfluo è caro anche se non costa molto.

Spendi sempre qualcosa di meno di quanto hai guadagnato.

Il risparmio crea lavoro: risparmiare è la più bella forma di altruismo.

La proprietà comincia dal primo euro risparmiato.

Chi sa privarsi a tempo, a bene riesce. (G. Carducci)

Nella famiglia la maggior sorgente di ricchezze è l’economia.

Il risparmio e l’economia sono le più sicure forme di rendita.

Poesie e filastrocche

Alla formica

Chiedo scusa alla favola antica,
se non mi piace l’avara formica.
Io sto dalla parte della cicala
che il più bel canto non vende, regala. (Gianni Rodari)

Non per oggi
Ronza l’ape: “Non per oggi a questo fiore
volo intorno!
Io ne succhio il dolce umore
per avere tanto miele un altro giorno!”.
E chi semina, con lieto animo spera
che l’arato
campo splenda
tutto verde a primavera.
Egli dice: “Non per oggi ho seminato”.
Solo un chicco verso l’umile casina
la formica
lentamente,
affannandosi trascina.
Ma non oggi il premio avrà la sua fatica!
L’uomo saggio, con fidente animo spera
fortunato
l’avvenire,
e serena la sua sera.
Egli dice: “Non per oggi ho risparmiato!” (Milly Dandolo)

Il testamento della cicala

Cara formica,
ho trovato un fuscello,
mi servirà da pennino o pennello:
ecco, lo intingo nell’acqua infangata,
prendo per foglio una foglia gelata;
dal mio giaciglio di livido strame,
mi levo appena, morente di fame;
con la zampina tremante nel vento
ti scrivo il povero mio testamento.
In gola è spenta la gaia canzone;
me sciagurata, tu avevi ragione!
Così t’avessi ascoltato, o formica,
che m’insegnavi la santa fatica,
che promettevi un sereno avvenire
a chi sa in tempo lottare e soffrire!
Pazzo, dicevo, chi pensa a lottare
quando l’estate c’invita a cantare.
Tu m’indicavi la frutta matura
e mi dicevi: “L’estate non dura!”
Poi, nel tuo chiuso granaio, o formica,
portavi i chicchi con grande fatica.
Lieta irridevo il tuo saggio sermone,
me sciagurata, tu avevi ragione!
Così ti avessi ascoltata e imitata…
Or che mi resta? Una foglia gelata.
Sibila il vento ed oscilla la foglia,
piango, e di scrivere non ho più voglia.
Più non ci vedo nell’ombra che cala…
Addio. Firmato: la pazza cicala. (Milly Dandolo)

Il bimbo e la formica

“O formicola contadinella,
con il mazzo di chiavi al fianco,
lo sai fare il pane bianco?
Devi avere una casa bella
e così piena di ben di dio
che verrei a starci anch’io.
O formicola, perchè
non ti fermi un po’ con me?”
“Chi perde tempo non trova fortuna,
fa così presto a salire la luna.
D’un chicco mi cibo, ma un chicco nascondo.
Le cose del mondo
nessuno le sa.
Se oggi fa bello
domani, bambino,
che tempo farà?
Il mio formicaio
è un salvadanaio.” (Renzo Pezzani)

Lo scoiattolo e il boscaiolo

Nell’ora calda dormono tra i fiori
libellule e farfalle: tutto tace.
Ma nel bosco, tra i mille abitatori,
sol due ne trovi insonni e senza pace.
Nel grosso tronco d’una quercia antica
lo scoiattolo insonne s’è cercata
una casina; e dentro, con fatica,
la provvista invernale ha trasportata.
Manca una noce, qualche nocciolina,
mancano poche bacche; e, finalmente,
lieta sull’uscio della sua casina
si fermerà la bestia previdente.
Tra gli alberi e i cespugli il boscaiolo
cammina raccogliendo i rami secchi.
Un fascio? No, non basta un fascio solo:
ci vuole almeno un mese a far provvista
di legna per l’inverno; e ben lo sa
il boscaiolo, ma non si rattrista
pensando al brutto tempo che verrà.
Quando  la neve cadrà lentamente
la saggia bestia dormirà beata.
Nella casa dell’uomo previdente
s’accenderà la splendida fiammata. (Milly Dandolo)

Il risparmio

Un poco oggi ed un poco domani
spiga con spiga si fa un fascetto,
con un fascetto si fan tre pani
e ci campa un poveretto.
Perchè il molto ci vien dal poco;
la goccia d’olio tien vivo il lume;
da un filo d’acqua comincia il fiume;
da una favilla ci nasce il fuoco;
e dal soldino che sai serbare
ci può nascere un libretto,
e verrà giorno, ci scommetto,
che tutto il mondo potrai comprare. (Renzo Pezzani)

Perchè?

Oh, come somiglia
a un salvadanaio
il nido grondaio
che vedi lassù.
L’ha fatto con gioia,
volando, un uccello;
un’erba, un granello,
un poco ogni dì.
Il tenero fango
s’è fatto cemento
e nulla può il vento
che passa di qui.
L’alato operaio
vi trova la pace.
Lo scalda la brace
del piccolo cuor.
Perchè mai somiglia
a un salvadanaio
il nido grondaio
che vedi lassù? (Renzo Pezzani)

Il salvadanaio

Un soldo nel salvadanaio
da solo non canta, sbadiglia;
è povero come gennaio,
è nato per stare in famiglia.
E’ come un bambino
che vuole qualcuno vicino.
Se invece un compagno gli dai
e scuoti la palla di argilla,
udrai quel soldino che trilla
il canto dei salvadanai.
Che vivere è bello,
se trovi nel mondo un fratello.
E cento soldini riuniti
già fanno un allegro coretto.
Ti costano sforzi infiniti,
ma tu ti sei fatto un ometto,
un uomo piccino
che tiene già in pugno il destino. (Renzo Pezzani)

La cicala e la formica
La cicala, ch’ha pieno il corpicello
d’una rauca perpetua canzone
cantò tutta l’estate al tempo bello
e non si ricordò d’altra stagione.
Intanto inverno vien rigido e fello,
ed ella per mangiar non ha un boccone.
Ricorre alla formica, e le domanda
qualche soccorso, e a lei si raccomanda
dicendo: “Io dalla fame morrò tosto
prestami, amica, qualche granellino,
ch’io te ne pagherò poi quest’agosto
od il mese di luglio più vicino:
e non sol ti prometto dare il costo
ma di guadagno ancor qualche quattrino”.
Ma della formichetta, che non presta
e sol risparmia, la risposta è questa:
“E che facesti tu mentre co’ rai
scaldava il sol la terra al tempo buono?”.
Rispose l’altra: “Al passeggier cantai
la notte e il dì con ammirabil suono”.
“Oh, tu cantasti? Io l’ho ben caro assai;
ma nota e intendi ben quel ch’io ragiono:
tu vi dovevi a quel tempo pensare,
tu che cantasti allora, or puoi ballare. (G. Gozzi)

Scherzi dell’avarizia
Ho conosciuto un vecchio
ricco, ma avaro: avaro a un punto tale
che guarda li quattrini nello specchio
pe’ vede raddoppiato er capitale.
Allora dice: “Quelli li do via
perchè ce faccio la beneficenza:
ma questi me li tengo pe’ prudenza…”
E li ripone ne la scrivania.

Avarizia
Ci sono tanti modi
per fare economia
ma più di questo
non credo che ci sia.
Un vecchio Mandarino
che il caldo via cacciava
invece del ventaglio
la testa dondolava.
Un altro Mandarino
era più tirchio ancora…
Per fare economia,
il riso della gente
a volo intercettava
e, non lo crederete,
con quello si sfamava.

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Poesie e filastrocche LA SCUOLA

Poesie e filastrocche LA SCUOLA – una raccolta di poesie e filastrocche, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Il libro

Prese il libro il bambino:
l’aprì, lesse,  pensò.
Egli era in un giardino
di quanti fior non so.
Guardò intorno. Nel sole
splendevan cento colori,
ma disse: “Le parole
son più belle dei fiori”. (Renzo Pezzani)

Bambini a scuola

Oh, l’ala del tempo
ben rapida vola!…
finita è l’estate,
si torna alla scuola.
Bisogna lasciare
i laghi tranquilli,
le verdi vallate
dai freschi zampilli,
le morbide rene,
i tuffi nell’onde
che il vento ricama
di trine gioconde,
i colli beati
smaltati di fiori,
le vigne fragranti,
i boschi canori,
le corse frementi
per prati ed aiuole!
Bambini, bambine:
si apron le scuole!
Su via, non torcete
le bocche soavi;
non fate le bizze:
vi voglio più savi.
Se dopo il lavoro
più lieto è il piacere,
è giusto che a questo
poi segua il dovere.
Or dunque togliete
dai vostri cassetti
i bianchi quaderni,
i libri, i righetti,
le penne, i compassi,
ed ilari e franchi,
correte a sedervi
sui soliti banchi.
La scuola, materna,
le braccia vi schiude
e al dolce suo seno
felice vi chiude.
E voi salutatela
col cuore canoro:
è bello in letizia
tornare al lavoro.
Io, giunto alla fine
di questo preludio,
depongo la penna…
Bambini, buon studio. (Gino Striuli)

La maestra ha sorriso

La maestra è accigliata,
è triste, stamattina;
trepida la nidiata
per la cara maestrina.
Lettura. Sono intenti
i bimbi; ella tace, severa.
Maestra, ma non senti
che fuori è primavera?
Occhieggiano i bambini
dal libro, un po’ spauriti,
anche i più birichini
non osano farsi arditi.
Storia. “Perchè il ministro
Cavour…”. La mano bianca
si posa sul registro
come farfalla stanca.
Franco aveva pur detto
di saper la lezione…
Ma ora un sospirone
gli sale su dal petto.
Una lacrima scende
lenta, sul ciglio chiaro:
trema il labbro innocente.
“Che c’è, piccolo caro?”
Lo guarda, ella, gli prende
il mento: oh, il dolce viso
che di nuovo risplende!
La maestra ha sorriso. (M. Tomaseri Tamagnini)

Il vecchio quaderno

Le sere d’inverno,
posato in un canto,
il vecchio quaderno
ha un triste rimpianto::
“Il bimbo che lieto,
con trepida mano,
tracciò l’alfabeto,
riposa lontano!:
Lasciò la sua mamma
ancor giovinetto;
ardeva la fiamma
nel bel caminetto.
Ed or si consola
narrando alle stelle,
dei giorni di scuola,
le favole belle.
Son favole pure
di nuvole azzurre,
d’un mondo piccino,
d’un grigio topino.
Chissà se la sera,
in tutto segreto,
dirà la preghiera
oppur l’alfabeto? (A. Libertini)

Scuola elementare

Con l’autunno precoce e capriccioso,
tu lasci la tua casa e la tua mamma.
E te ne vai, felice e baldanzoso,
verso la nuova scuola. Già una fiamma
d’amore nuovo ti risplende in viso.
Io ti porgo il cappotto e la cartella
e mi trema nel cuore il tuo sorriso.
“Sarà piena di lode la pagella!”
Pieno di fede e di speranze, ardito
mi prometti sereno di studiare.
Ma il mio cuore è un po’ triste e un po’ smarrito:
“Resta ancora con me, bimbo a giocare!”
Dal berretto calato sulla fronte
sbuca un ciuffo ribelle di capelli.
“La penna e la matita sono pronte?”
Sì, ma i tuoi ricci come sono belli!
E te ne vai felice nella via
salutandomi ancora con la mano.
Io provo una sottile nostalgia
mentre tu mi sorridi da lontano. (M. Luisa Cortese)

Scuola elementare

Ricordo della scuola elementare:
colletto bianco col nastrino blu,
un desiderio intenso di imparare
le prima cose a, e, i, o, u.
Aste tracciate a segni colorati,
con la matita nuova rossa e blu,
quaderni rilegati ed ordinati
con l’esercizio: ma, me, mi, mo, mu.
Il sillabario ancora misterioso,
rivelava col segno la parola,
qualche visetto attento e giudizioso
sgranava assorto gli occhi di viola.
Ma una bambina spesso si incantava
a guardar fuori un po’ di cielo blu,
cullata dalla voce che spiegava
dolce e paziente: ma, me, mi, mo, mu.
O signorina, così buona e attenta,
quanta pena non dette al suo lavoro
la capricciosa bimba disattenta,
che già viveva in un suo mondo d’oro,
di smagliante ed ignara fantasia,
girando attorno quei suoi occhioni blu,
già viveva di sogni e di poesia
sul ritmo lento: ma, me, mi, mo, mu. (M. Luisa Cortese)

Primo giorno di scuola

E’ pronta la cartella, il grembiulino,
il colletto stirato come va.
Dunque, va proprio a scuola, il birichino!
Stamani in casa si respirerà!
Giornale e pipa, aah! beatamente
il nonno potrà starsene sdraiato,
una mattina intera. Strilli, niente.
Un bacio a tutti… Ecco. Se n’è andato.
Ma dopo un’ora… “Forse piangerà”
(pensa la mamma) E corre alla finestra.
“Sarà buona e paziente, la maestra?”
(sospira nonna). E il nonno: “Chi lo sa…”
Un’aria così greve intorno pesa!
Son tristi l’orsacchiotto, il pulcinella,
traditi da un’ignobile cartella.
Si parla a bassa voce, come in chiesa.
Nonno aggiusta le ruote di un trenino
perchè il bimbo sorrida, al suo ritorno…
Oh, com’è lungo questo primo giorno
che del pupo d’ieri fa un omino! (Zietta Liù)

Scuola di campagna

Solitaria scuoletta di campagna,
che sorridi tra il verde al primo sole,
grato un profumo sento di viole
intorno a te, che zeffiro accompagna.
Vedo di fiori ornata la finestra
dell’aula ancora nel silenzio assorta,
vedo i bimbi schierati sulla porta
in attesa che arrivi la maestra.
Son lì composti; han fatto molta strada
per giungere alla scuola; ma quegli occhi
da cui la gioia lor part che trabocchi,
brillano come stille di rugiada.
Io so che vi rallegra: è la parola,
bimbi, di chi v’insegna tante cose,
di chi circonda di cure amorose
il dolce tempo che passate a scuola. (Ascenso Montebovi)

Scuola di campagna

E’ fuor del borgo, due passi
di là dal più fresco ruscello,
recinta di muro e cancello,
la piccola scuola di sassi.
Agnella staccata dal branco
col suono che al collo le han messo
richiama ogni bimbo al suo banco,
nell’aula che odora di gesso.
C’è ancora la vecchia lavagna,
con su l’alfabeto mal fatto;
lo scrisse un bambino, distratto
dal verde di quella campagna.
E lei che mi vide a sei anni,
c’è ancora, la voce un po’ fioca,
vestita d’identici panni,
la vecchia signora che gioca.
Il tempo passò senza lima,
su queste memorie. Ritorno
lo stesso bambino di un giorno
sereno, nell’aula di prima.
E in punta di piedi, discreto,
nell’ultimo banco mi metto
e canto, nel dolce coretto
dei bimbi, l’antico alfabeto. (Renzo Pezzani)

Compagni di banco

Che cosa vuoi? Son pronto a darti tutto:
una penna, un quaderno, un taccuino,
purchè tu venga per un po’ vicino…
…Noi sederemo ad uno stesso banco
riordineremo i libri a quando a quando,
e rileggendo un compito e guardando
sul tavolino un grande foglio bianco… (Marino Moretti)

Ritorno a scuola

Oh, sì! prendiamo la cartella scura,
il calamaio in forma di barchetta,
i pennini, la gomma e la cannetta,
la storia sacra e il libro di lettura…
Andiamo, andiamo! Il tema è messo in bella!
Andiamo, andiamo! Il tema è messo in buona!
Dio, com’è tardi! La campana suona…
Fra poco suonerà la campanella…
Ma che dico? E’ domenica, è vacanza!
non c’è scuola, quest’oggi: solamente
c’è da imparare un po’ di storia a mente,
soli, annoiati, nella propria stanza… (Marino Moretti)

La scuola

Ha riaperto la scuola i suoi battenti;
l’insegnante sorride con amore:
ben sa che degli alunni c’è nel cuore
il rimpianto pei bei divertimenti.
Monti, campagna, mare… che concerti
d’urla felici! Che giocondo ardore!
In piena libertà correvan l’ore;
e adesso invece tutti fermi e attenti!
“Consolatevi” ei dice, “il tempo vola:
verranno un’altra vola le vacanze;
ma ora, ricordate, siete a scuola.
E nello studio certo troverete
la gioia che ha dolcissime fragranze,
se trarre buon profitto voi saprete!” (Livio Ruber)

La scuola

Chi mai l’ha costruita, un po’ appartata
all’altre case, come una chiesuola,
e poi che l’ebbe tutta intonacata
le ha scritto in fronte la parola “Scuola”?
E chi le ha messo al collo per monile
una campana senza campanile?
Chi disegnò per lei quei due giardini
con pochi fiori e giovani alberelli
difesi dall’insulto dei monelli
da fascetti di brocche, irti di spini?
Chi seminò con tanto amor le zolle?
Perchè, bambino, costruir la volle?
Non per un bimbo, ma per quanti sono
nel mondo, suona quella campana;
e la scuola ti sembra così bella,
e quell’aiuola un rifiorente dono,
perchè col giardiniere e il muratore,
vi mise mano, ogni dì, anche l’amore. (Renzo Pezzani)

A scuola

Come il mulino odora di farina,
e la chiesa d’incenso e cera fina,
sa di gesso la scuola.
E’ il buon odor che lascia ogni parola
scritta sulla lavagna,
come un fioretto in mezzo alla campagna.
Tutto qui dentro è bello e sa di buono.
La campanella manda un dolce suono,
e a una parete c’è una croce appesa…
pare d’essere in chiesa:
s’entra senza cappello,
si parla a voce bassa,
si risponde all’appello…
Oh, nella scuola il tempo come passa!
S’apre il libro, si legge e la signora
spiega, per chi non sa, or questo or quello
come in un gioco: un gioco così bello
che quando di fa l’ora
d’uscir, vorremmo che durasse ancora.
Come il mulino odora di farina
e la chiesa d’incenso e cera fina,
la casa prende odor dal pane nostro
e la scuola dal gesso e dall’inchiostro. (Renzo Pezzani)

 La scuola
La scuola è proprio come una chiesetta
che i suoi fedeli aspetta:
aspetta i suoi fedeli ogni mattina
questa allegra chiesina.
Talora nelle nobili città,
ha lustro e maestà;
talor, purtroppo, è misero abituro,
il luogo angusto e oscuro.
Eppure anche se povera e modesta
prende un’aria di festa
quando è piena di voi, bimbi, la scuola,
quando non è più sola.
Di fianco non le sorge col gentile
richiamo il campanile;
eppure anch’essa snocciola bel bello
un suon di campanello.
Ed entrano i fedeli a mano a mano,
con un libretto in  mano,
per andarsi a seder tutti, o sorpresa!
sui banchi come in chiesa.
Lo studio, bimbi, in certa qual maniera,
è anch’esso una preghiera. (L. Ambrosini)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

CHICCOLINO recita per bambini

CHICCOLINO recita per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Narratore: C’era una volta un chicco di grano, lo chiameremo Chiccolino, per distinguerlo dai mille e mille altri chicchi che gli stavano accanto, sopra e sotto, tutti raccolti insieme in un granaio. Un giorno il nostro Chiccolino trasse un lungo sospiro e disse…

Chiccolino: Ah, che triste è questo luogo, scuro… silenzioso… e come si sta male così pigiati, uno sull’altro.

Narratore: Gli rispose un altro chicco di grano, lì vicino

Secondo chicco: Hai ragione, fratellino, dobbiamo starcene qui stretti, noi che eravamo abituati all’aria aperta, laggiù nel campo dorato.

Chiccolino: Ricordi come si stava bene nel grembo della spiga? Il sole intorno sorrideva…

Secondo chicco: … e il vento sussurrava le sue dolci canzoni…

Chiccolino: … e le messi ondeggiavano.

Secondo chicco: E il canto degli uccelli… Te lo ricordi il canto degli uccelli, fratellino?

Chiccolino: Altro che… E i papaveri con i loro vestitini rossi che mettevano l’allegria…

Secondo chicco: Sembrava on dovesse finire mai quella bella vita. Invece un giorno vennero gli uomini, avanzarono con le loro macchine nel campo…

Chiccolino: Recisero le spighe, a cento a cento.

Secondo chicco:  E noi sgusciammo fuori e fummo raccolti nei sacchi, poi scaricati qua, nel granaio.

Chiccolino: Una vera prigione.

Secondo chicco: Triste destino davvero… la vita era cominciata tanto bene, ed è finita così male.

Narratore: I due chicchi di grano sospirarono. Per un momento regnò un gran silenzio nel granaio, poi si udì una nuova vocina…

Terzo chicco: Non scoraggiatevi, amici miei… Io vi dico che non è finita così.

Chiccolino: Chi sei, tu?

Secondo chicco: E che ne vuoi sapere?

Terzo chicco: Sono un chicco di grano come voi, come tutti gli altri, soltanto sono più anziano di voi e conosco un po’ il mondo.

Secondo chicco: Ma come puoi dire che la nostra vita non è finita qui?

Terzo chicco: So quel che dico: ne ho visti tanti e tanti di chicchi di grano… Ne ho visti arrivare e li ho sentiti lamentarsi proprio come fate voi…

Chiccolino: E poi?

Terzo chicco: E poi, un bel giorno, li ho visti partire per un nuovo destino.

Secondo chicco: E tu?

Terzo chicco: Il mio destino è stato diverso da tutti gli altri: quando fui versato nel sacco del granaio, sono quattro anni ormai, andai a finire in una fessura del tramezzo di legno, e così sono rimasto nascosto in un cantuccio ad osservare…

Chiccolino: racconta, racconta per favore…

Secondo chicco: Su, da bravo, non farti pregare.

Terzo chicco: Con piacere, amici miei. Dovete dunque sapere che…

Narratore: Il vecchio chicco di grano non ebbe tempo di cominciare il suo racconto perchè le porte del granaio furono spalancate, e risuonarono le voci degli uomini

Primo uomo: Su, svelti, riempite quaranta sacchi.

Secondo uomo: Avanti, voi, con i sacchi. Qui a me.

Primo uomo: Poi li caricherete sull’autocarro e li porterete al mulino.

Narratore: Per tutta la mattina gli uomini affondarono le pale nel grano. Che tramestio, che confusione in quel mare di  chicchi… Alfine le voci tacquero, le porte furono chiuse e nel granaio tornarono il silenzio e l’oscurità.

Terzo chicco: Chiccolino, Chiccolino! Dove sei?

Chiccolino: Eccomi, sono qui, vecchio chicco.

Terzo chicco: Oh, meno male! Ho tremato per te…

Chiccolino: L’ho scampata bella. Per due volte la pala mi ha sfiorato… Brrr, non mi sarebbe piaciuto finire un’altra volta in un sacco.

Terzo chicco: Ci saresti rimasto per poco. Ti avrebbero portato al mulino con tutti gli altri.

Chiccolino: Al mulino? Cos’è il mulino?

Terzo chicco: Il mulino è lo stabilimento dove si macina il grano: ogni granello viene stritolato fra due ruote di pietra, ridotto in polvere bianca, in farina.

Chiccolino: Questo non può essere, non è possibile che la mia veste dorata si riduca in polverina bianca.

Terzo chicco: La veste, o involucro, è color d’oro, ma dentro sei tutto bianco. Chiccolino, come me e come tutti gli altri; dopo che la macina del mulino ci ha stritolati, la farina viene passata allo staccio.

Chiccolino: E cosa accade allora?

Terzo chicco: Lasciami dire: passata allo staccio, il candido fior di farina sarà liberato dal cruschello; da una parte il cruschello dorato, dall’altra la candida farina.

Chiccolino: E poi?

Terzo chicco: E poi gli uomini lavorano la farina nei pastifici e nei forni, fanno il pane e la pasta, due dei loro alimenti principali.

Chiccolino: Se questo sarà il mio destino, sono già rassegnato…

Terzo chicco: C’è di meglio, Chiccolino, c’è di meglio. Può darsi che ti attenda un destino migliore.

Chiccolino: Che cosa c’è ancora?

Terzo chicco: Devi sapere che ogni anno una parte del grano che gli uomini raccolgono dai campi…

Narratore: Neanche questa volta il vecchio chicco potè continuare il suo racconto: le porte del granaio si spalancarono, risuonarono ancora le voci degli uomini.

Primo uomo: Sarà cosa da poco questa volta: basteranno cinque sacchi.

Secondo uomo: La provvista per la semina.

Narratore: Ancora un gran tramestio nel granaio, le pale si immersero nel mare di grano… Ad un tratto Chiccolino si sentì sollevare, ebbe appena il tempo di gridare…

Chiccolino: Addio, vecchio chicco di grano e grazie per la buona compagnia!

Terzo chicco: Addio, Chiccolino, addio, e buona fortuna!

Narratore: Come si stava male dentro il sacco… stretti stretti, sembrava di soffocare. Ma non durò a lungo. Il mattino seguente Chiccolino sentì che qualcuno sollevava il sacco, lo portava via, lo posava sul terreno. Chiccolino si chiese…

Chiccolino: Quale sarà il mio destino?

Narratore: L’imboccatura del sacco fu sciolta, una mano si immerse nel grano… Chiccolino fu trasportato in un sacchetto appeso alla cintura di un seminatore.

Chiccolino: Ah, finalmente! Un po’ di aria fresca e la gran luce del sole! E com’è bello andarsene per i campi…

Narratore: Ma ecco nuovamente una mano si immerge nel sacchetto: Chiccolino si ritrae, ma la mano si serra, lo prende con tanti altri granelli…

Chiccolino: Ah… che gran volo!

Narratore: Era stato lanciato nella terra smossa.

Chiccolino: Ben trovata, madre terra. Con te starò benissimo.

Narratore: Chiccolino si guardava intorno, non c’erano ne erbe ne i papaveri vestiti di rosso, ma soltanto terra umida e scura. Si stava domandando che cosa gli sarebbe accaduto, quando si sentì rotolare in mezzo alle zolle di terra, e fu sepolto.

Chiccolino: Nuovamente al buio, e solo, questa volta. Questa è proprio la fine…

Narratore: Non era la fine, anzi era il principio di una nuova storia che ogni anno, da migliaia e migliaia di anni, si ripete al sopraggiungere della stagione piovosa. Racchiuso nel seno della madre terra, Chiccolino dormì tranquillo per qualche tempo. Poi, un giorno…

Chiccolino: Che succede? Mi spunta come una bianca codina…

Narratore: Sì, qualcosa di nuovo avveniva nel corpo di Chiccolino: si rigonfiava, allungava dei piccoli tentacoli. Poi un piccolo stelo si allungava su su verso l’alto, in cerca d’aria e di luce.

Chiccolino: Che bello! Che bello! Aveva ragione il vecchio chicco, una nuova vita mi attende. Evviva il sole!

Narratore: Pian piano la nuova pianticella ruppe la crosta della terra, si innalzò verso il cielo. E Chiccolino? Chiccolino non c’era più, si era trasformato in una nuova pianta di grano e quando ritornò il sole dell’estate una bella spiga dorata ondeggiava al vento, sussurrava le sue canzoni in risposta al canto degli uccelli, scherzava con i rossi papaveri che mettono allegria.

G. Valle

LA BAMBINA TROPPO PIGRA racconto

LA BAMBINA TROPPO PIGRA racconto sulla pigrizia e  il lavoro per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

La bambina troppo pigra

C’era una volta una bambina tanto pigra che la pigrizia si sarebbe vergognata di essere sua sorella. Quella bambina non si scomodava nemmeno per portarsi il cibo alla bocca.
Un giorno, mentre sedeva in rima al fiume, si udì chiamare da un palmizio. Il palmizio cresceva sull’altra sponda.
“Ehi! Ehi!” le diceva, agitando i rami alla sua volta.

La bambina era troppo pigra per rispondere, e tanto più per attraversare il fiume e chiedere alla palma che volesse.
Infine la palma, stizzita, gridò: “Possibile che tu non sia nemmeno curiosa di sapere che cosa io desidero offrirti? Guarda, al tuo fianco c’è una barca. Montaci su, rema fin qui, e cogli i miei germogli”.
La bambina pigra a malincuore si alzò, entrò nella barca, remò fino all’altra sponda, e: “Eccomi!” disse alla palma.

La palma la picchiò lievemente con i suoi rami.
“Questo” le disse, “per punirti della tua pigrizia. Ora cogli i miei germogli, portali con te, lasciali asciugare un poco al sole, e poi con essi fabbricati una cesta. Guai a te se non mi obbedirai. Allora sì che te ne pentiresti!”
La bambina quasi piangeva a dover lavorare, ma non potè fare a meno di obbedire.
Colse i germogli, se li portò a casa, li mise ad essiccare al sole e cominciò ad intrecciare una cesta di modeste dimensioni.

Quando fu pronta, la cesta disse: “Brava, ragazzina! Ora portami sulla strada che va al mercato; deponimi là dove passa la gente, poi torna a casa”.
La ragazzina obbedì. Tornò a casa. La cesta rimase dov’essa l’aveva deposta.
Passò molta gente e non fece attenzione alla cesta.

Giunse un ricco signore, la scorse e si domandò: “Chissà chi l’ha perduta? La prenderò e la porterò con me al mercato. Se troverò il suo proprietario, gliela restituirò; se non lo troverò, me la terrò per metterci gli acquisti”.
La raccolse e andò al mercato. Lì domandò se qualcuno avesse perduto la cesta. Nessuno disse di averla perduta. Allora egli fece le sue provviste e la riempì di ghiottonerie. La riempì di noci, banane, torte, datteri, pesci, riso cotto, poi la depose accanto a un pozzo, e si intrattenne a conversare con alcuni amici.
Ma quando si voltò per riprenderla, la cesta non c’era più.

Aveva messo le gambe e correva a rotta di collo verso la casa della ragazzina pigra.
Correva e gridava: “Presto, presto, vienimi incontro; da sola non riesco a trascinare questo peso”.
La bambina, sia pure di malavoglia, uscì per aiutarla. E l’aiutò.
Poi, viste le buone cose che la cesta conteneva, si disse che metteva di conto di andare tutte le mattine a porla sulla via del mercato.
Così fece. Ogni volta, la cesta ritornava a casa da sola, colma di ghiottonerie.
Poi, all’improvviso, cessò di funzionare.
La bambina, però, intanto, era guarita dalla sua pigrizia.

Ogni giorno saliva sulla barca, remava fino all’altra sponda, coglieva i germogli di palma, intrecciava ceste e andava a venderle al mercato.

Con i denari guadagnati comprava noci, banane, torte, pesci, riso cotto e datteri. E tutto le pareva più buono, perchè se lo procurava col suo lavoro.

(P. Ballario)

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