IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra

IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra, per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra

 Come mai sullo stemma della città di Terni è raffigurato un drago?
Narra la leggenda che tanti e tanti anni fa, viveva nel territorio ternano un orribile drago che teneva in continuo terrore tutta la popolazione.

Ogni zona dei dintorni era infatti malsicura per la presenza del mostro, e ben pochi erano quelli che potevano avventurarsi in un viaggio senza correre il rischio di essere assaliti. Talvolta, poi, accadeva che il drago, spinto dalla fame, arrivasse addirittura fino alle porte della città, cosicchè la gente doveva rinserrarsi nelle case. Era, insomma, un vero flagello cui occorreva porre d’urgenza rimedio.

Fu così che un giorno il Consiglio degli Anziani della città si riunì e decise di risolvere a qualsiasi costo la terribile situazione. Vennero convocati al Palazzo del Comune alcuni cittadini che avevano fama di ardimentosi. Uno dopo l’altro, però, essi rifiutarono di affrontare la rischiosa impresa.

“Signori miei” diceva uno, “Io ho moglie e figli. Non posso mettere in pericolo la mia vita”.
E un altro: “Onorevoli Consiglieri, ho un lavoro importante da svolgere, come voi sapete. Come posso abbandonarlo così d’un tratto per cimentarmi con quella bestiaccia?”

E ci fu chi si lagnò di avere un braccio malato; e chi accampò la scusa di dover fare un viaggio d’affari; e chi, persino, si rammaricò di dover esimersi dall’impresa, avendo la nonna inferma.

Gli Anziani non sapevano più a che santo rivolgersi. E già stavano per rinunciare ad ogni cosa quando, un bel mattino, si presentò loro un giovane ternano della nobile famiglia dei Cittadini. Era rivestito di un’armatura lucidissima, baldanzoso e fiero, e pareva già pronto a misurarsi col drago. Infatti disse: “Signori, col vostro permesso, ci vado io a fare una visitina  a quel mostro. Che ne dite?”

Figurarsi gli Anziani! Dissero subito di sì, che andasse pure, con tutti i loro auguri e le loro benedizioni. 

Il drago era acquattato ai margini di un boschetto. Sembrava assopito e sarebbe stata una cosa facile balzargli addosso e trafiggerlo. Ma ecco che nel preciso momento in cui il giovane stava per scagliare la lancia, il drago si eresse in tutta la sua mole e avanzò fulmineo verso il temerario. Il giovane lo evitò per miracolo.

Gli attimi che seguirono furono spaventosi. Ben due volte il giovane trafisse la bestia, ma le ferite sembravano prodotte da uno spillo. Accadde invece che, a un certo momento, il sole si riflettè nell’armatura e i lampi di luce che ne scaturirono abbagliarono il mostro. Fu questione di un secondo. Il giovane saettò la lancia con tutta la sua forza e, finalmente, trafitto da parte a parte, il drago stramazzò e rimase immobile per sempre.

Qualche cittadino di Terni, che aveva osato assistere da lontano alla scena, corse subito in città a dare la strepitosa notizia. In breve tutta la popolazione, con alla testa gli Anziani, si radunò sul luogo della lotta per constatare coi propri occhi la fine del mostro. Inutile dire che il giovane venne festeggiato solennemente e che per parecchi giorni la città visse tutta in tripudio.

Probabilmente questa leggenda ebbe origine dal fatto che, un tempo, gran parte del territorio ternano era paludoso e che la malaria diffondeva tutt’intorno il suo pestifero alito di morte, specialmente nel rione “La Chiusa”.

Poi i terreni vennero prosciugati dalla bonifica (l’assalto del giovane cavaliere), e divennero fertili e belli. Così gli acquitrini e la malaria rimasero solo un lugubre ricordo e si identificarono, nella fantasia popolare, con la figura del drago.

LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche

LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche per bambini della scuola primaria.

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LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche

 C’era un povero contadino della Valle del Tronto il quale altro non possedeva che un piccolo pezzo di terreno. Ma i miseri frutti di quel campicello non bastavano a sfamare la famiglia.

Per fortuna, sorgevano su quel terreno tre bei peri che, neri e rinsecchiti d’inverno, quando giungeva la primavera si rivestivano di teneri germogli. Spuntavano poi i  fiori bianchi e, infine, a suo tempo, ecco che facevano capolino tra il fogliame i grossi frutti succosi.

Erano proprio una meraviglia quelle pere! Il buon contadino, al momento giusto, le coglieva e le portava al mercato della città, guadagnando tanto denaro da poter acquistare il grano necessario per tutto l’inverno.

Un anno, al momento del raccolto, il contadino di accorse che qualcuno gli rubava i bei frutti. Ciò doveva accadere durante la notte, perchè solo al mattino constatava il furto, ora di dieci, ora di venti ed ora di cinquanta pere.

Il pover’uomo era disperato. Come avrebbe vissuto la famiglia il prossimo inverno?

A questo punto entrò in scena Pirillo, uno dei figli del contadino: un ragazzino agile e furbo di dieci anni. Pirillo, dunque, disse al padre: “Babbo, stanotte farò io la guardia. Vedrai che scoprirò il ladro”.

Scesa la sera, Pirillo prese pane e cacio, si armò di una roncola e, salito su uno degli alberi, si nascose fra i rami più alti. Passò un’ora e ne passarono due, e Pirillo, per vincere il sonno, diede fondo alle sue provviste.

Allorchè la campana del villaggio suonò la mezzanotte e la luna era alta nel cielo e ricamava la terra con arabeschi d’argento, d’improvviso, sgranando gli occhi, Pirillo vide avanzare una strega, un’orribile donna con la barba d’un caprone e le zanne di un cinghiale.

La vecchiaccia s’appressò all’albero e stava per cogliere una pera quando Pirillo con un gesto veloce le colpì la mano con la roncola. La strega lanciò un urlo di dolore, guardò in alto e scorse Pirillo fra i rami. Cominciò allora a lagnarsi: “Dammi una pera, ragazzino, una pera soltanto”.

E Pirillo, di rimando: “Ne hai già rubate tante, vattene!”

“Se non mi dai una pera” minacciò la strega, “scuoterò l’albero finchè non cadrai!”

Pirillo scoppiò in una risata: “Provaci, se sei capace!”

Allora la strega cominciò davvero a scuotere il pero e con tanta forza che Pirillo finì per piombare a terra ai piedi della vecchia. Questa, in un attimo, lo afferrò, lo legò stretto al suo grembiule e, montata a cavalcioni su una scopa, volò veloce fino a casa sua, in una capannuccia fra i boschi.

“Eccoci qua! Ora, invece delle pere, mangerò te!” esclamò la vecchia con voce stridula.

Così detto, accese il fuoco nel camino e vi mise sopra un enorme paiolo colmo d’acqua. Quando l’acqua bolliva, Pirillo disse alla strega: “Slegami, almeno, e fammi spogliare. Non vorrai mangiarmi con tutti i vestiti”.

La vecchia approvò, slegò il fanciullo, poi brontolò minacciosa: “Ora, spogliati, su, che l’acqua è già pronta”.

Mentre Pirillo fingeva di spogliarsi, si volse al paiolo e lo scoperchiò. Fu un attimo: Pirillo si lanciò sulla strega, la afferrò per i piedi e la capovolse nell’acqua bollente, nel paiolo dovere avrebbe dovuto finire lui.

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO – per bambini della scuola primaria.

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Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO

Ai tempi del Medioevo molti poggi ai confini della Maremma erano incoronati da mulini a vento che provvedevano a macinare il grano delle campagne circostanti. Qualcuno, ridotto in rovina, si vede ancora oggi. Uno di questi, eroso com’è da secoli, ha un aspetto così desolante, che sembra proprio un enorme spaventapasseri.

I contadini, se sono costretti a passarci sotto, si voltano dall’altra parte per non vederlo, e ricordano con un brivido la triste leggenda che si racconta intorno ad esso.

Devi sapere, dunque, che ci fu un tempo in cui questo mulino svettava superbo sul colle con le sue belle ali roteanti al minimo soffio di vento. Ne era padrone un mugnaio che, però, era una vera peste: crudele, egoista, avaro, maligno.

Questi difetti li riversava sui poverini obbligati a macinare il loro grano da lui perchè, nella zona, quel mulino era l’unico che esistesse a vista d’occhio.

Che faceva il mugnaio? Ecco qua: rubava sul peso della farina; esigeva, per consegnarla, prezzi esorbitanti; prestava denaro ai contadini bisognosi, ma solo per chiedere indietro una cifra doppia. E se qualcuno si ammalava o gli andava male il raccolto, non aveva pietà e gli portava via tutto: la casa, gli arnesi e le bestie.

Succedeva così che, mentre quei poverini diventavano sempre più poveri e timorosi, quel mugnaio diventava sempre più ricco e prepotente.

E nessuno poteva farci nulla.

Dicono che c’è una giustizia per tutti. Ed ecco che un’annata la carestia e la siccità ridussero a zero i raccolti. Furono guai per i contadini senza un chicco di grano, ma furono guai anche per il mugnaio che non ebbe più grano da macinare.

Venne l’inverno, un invernaccio per tutti. Il mugnaio, a dir la verità, se la passava ancora benino. Chiuso nella sua casa, pane e fuoco non gli mancavano ma, inutile dirlo, se li teneva per sè, sprangato dentro.

Del resto, chi mai avrebbe bussato a quella porta? Nessuno, neanche a morir di fame. Una sera, però, qualcuno bussò.

“Chi diavolo sarà!” mugugnò il mugnaio. E andò ad aprire.

Era una donna con una creaturina in braccio. Tutti e due con gli abiti stracciati, tremanti di freddo.

“Pietà signore!” implorò la donna, “Pietà di un po’ di fuoco e di un po’ di pane”

Chiunque si sarebbe sentito spezzare il cuore. Il mugnaio, no. Duro e sgarbato, rispose: “Via, via, andate a cercare in paese!”

E siccome la donna insisteva e supplicava, il malvagio esplose con un urlo: “Vattene, se non vuoi che ti bastoni!”
In quell’attimo, accadde qualcosa che fece indietreggiare il mugnaio, pieno di sgomento. La donna, d’improvviso, si era prodigiosamente trasformata; da una povera stracciona qual era, si era mutata in una signora avvolta di luce splendente. E diversa era anche la sua voce, mentre in tono ardente esclamava: “Guai a te, uomo senza cuore! D’ora in avanti il tuo mulino sarà per sempre maledetto. Le sue ali non si muoveranno più!”

E davvero, da quella notte, le ali del mulino più non si mossero. Nei giorni seguenti, invano il mugnaio si rivolse ai più abili meccanici perchè le facessero funzionare. Le ali, lassù, parevano inchiodate nel cielo. Neppure  i venti più impetuosi, neppure le bufere più violente, riuscirono a smuoverle. Ben presto, esse diventarono nidi di neri corvi che gracchiavano, volteggiando sul mulino maledetto.

Quanto al mugnaio, nessuno ne seppe più nulla. Forse, una notte, protetto dalle tenebre, era fuggito lontano dalla squallida dimora, portandosi con sè i rimorsi di tutte le sue cattive azioni. 

Leggenda di ALASSIO – Liguria

Leggenda di ALASSIO – una leggenda ligure per bambini della scuola primaria.

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Leggenda di ALASSIO – Liguria

Forse pochi sanno l’origine del nome della città di Alassio…

… mille anni fa, circa, viveva in Germania una bella e intelligente fanciulla, dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro: Alassia si chiamava, ed era figlia nientemeno che dell’imperatore di Germania, Ottone I.

Alassia amava e voleva sposare lo scudiero imperiale. Figuratevi un po’ se Ottone avrebbe permesso che sua figlia andasse sposa a uno scudiero! Egli aveva pensato per lei ben altre nozze!

Così, quando ella si presentò al padre per chiedere il consenso ne ebbe un deciso rifiuto.

I due giovani allora pensarono di fuggire. Difatti, pochi giorni dopo, quando l’alba non aveva ancora vinto le tenebre, essi lasciarono il palazzo reale e si diressero verso il sud, verso il sole.

Cammina e cammina, dopo lunghe peripezie e non poche sofferenze, essi arrivarono finalmente in una terra piena di luce e di fiori: la Liguria. Innamorati di tanta bellezza decisero di fermarsi in quel luogo incantevole. Si stabilirono, infatti, poco ad ovest di Albenga, e lì si sposarono.

Ma per vivere dovettero lavorare e lavorare: fecero i contadini, i pescatori, coltivarono i fiori. Infine lui si mise a fare il carbonaio e lei imparò a meraviglia a tessere i merletti.

Ma che importava? Vivevano contenti, mentre il loro figlio Aleramo cresceva bello, forte ed intelligente. Non poche prove di coraggio egli aveva saputo dare. Fra l’altro aveva tratto in salvo alcuni pescatori durante una furiosissima tempesta che aveva sorpreso piccole barche al largo della costa ligure.

Passarono così molti anni…

Un bel giorno, sul far della sera, arrivò nella vicina città di Albenga nientemeno che l’imperatore. Era invecchiato, molto invecchiato. Da quando la sua figliola era fuggita, preso dal rimorso, egli non aveva più conosciuto un momento di pace.

Aveva sì inviato messi a cercarla in tutte le parti dell’impero. Ogni città, ogni terra era stata frugata, ma sempre inutilmente, sicchè il povero sovrano aveva finito col perdere ogni speranza.

Ed ecco che ora viene a sapere che la sua figliola diletta vive lì vicino col marito e col figlio. L’imperatore non volle questa volta agire di propria testa. Si recò dal vescovo di Albenga e chiese a lui consiglio su quel che doveva fare: “Perdona!”, fu la risposta.

Non era il caso di dirlo, perchè questa volta l’imperatore andò anche più in là.

Non solo concesse all’amata figliola il suo paterno perdono, ma fece il nipote Aleramo marchese del Monferrato.

E quando la figlia dell’imperatore morì, la località dove ella era vissuta contenta e felice prese il suo bel nome: Alassio.

Leggenda del Lago Santo modenese

Leggenda del Lago Santo modenese – una leggenda dell’Emilia Romagna, per bambini della scuola primaria.

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Leggenda del Lago Santo modenese

“Va bene!” disse il gigante, con la sua voce di tuono, al ministro del re, “In cambio però voglio quindici paia di buoi, trenta mucche, centocinquanta pecore e cinquanta otri di vino!”

Il ministro del re, microscopico e tremante ai piedi della grotta, fece dietro front e corse a riferire. Il re accettò e subito, senza perdere un attimo, il gigante si tirò su le maniche e si mise al lavoro. E che lavoro! Si trattava, nientedimeno, di sollevare una montagna e precipitarla a valle, distruggendo così un‘intera città con tutti i suoi abitanti.

Non era, però, una gran fatica, per un gigante dalle braccia lunghe dodici miglia e le mani vaste come un paese…

“Che cos’è questa storia?” dirai tu.

E’ la storia di un lago, un lago chiamato Lago Santo, pittoresco specchio d’acqua dell’Appennino Modenese. Sta a sentire…

…Secoli e secoli or sono, un re malvagio valicò lunghe catene di monti per venire a conquistare una città. Già altre città, già altri paesi e villaggi aveva conquistato e distrutto, senza che la sua cattiveria fosse stata punita.

Questa volta, però, si trattava di una città che non meritava di essere asservita, perchè i suoi abitanti l’avevano edificata con amore, e l’avevano resa bella, ricca e fiorente.

Allorchè essi si accorsero del pericolo che stavano correndo, per notti e per giorni si misero a scavare un enorme vallone di dove, ben nascosti e protetti, al momento opportuno avrebbero potuto scacciare il nemico con una pioggia di frecce.

Venuto a conoscenza della cosa, il re chiamò il ministro e gli impose di trovare un rimedio alla situazione. Fu così che il ministro corse alla grotta del gigante e di laggiù, microscopico e tremante, gridò: “Ehi, tu! Che cosa chiedi in cambio, per darci una mano?”

“Quindici paia di buoi!” rispose il gigante, che dal suo antro seguiva e vedeva ogni cosa, “Trenta mucche…”

E intanto si stropicciava beato le mani, pensando che, con poca fatica, avrebbe avuto da mangiare e da bere per tutto l’inverno.

Ed eccolo al lavoro. Distese le braccia, lunghe dodici miglia ciascuna, roteò le mani grandi come paesi, e afferrata a caso una montagna per il cocuzzolo, se la pose sulla testa e si incamminò per raggiungere il punto giusto di dove, scagliandola, avrebbe in un batter d’occhio seppellito città e cittadini.

Ma che cosa avvenne, ad un tratto?

Avvenne questo: miliardi di formicuzze piccine e tenaci accorsero da ogni dove e cominciarono a scavare con tutte le loro energie la montagna che il gigante portava sulla testa. Scava e scava, ben presto esse l’attraversarono da un capo all’altro. Così il gigante, si ritrovò con la testa infilata nella galleria scavata dalle formiche e con la montagna tutta intorno al collo come… un collarino.

Ma che terribile collarino! Strozzato a quel modo, che poteva fare il povero gigante? Urlava, e le sue urla si perdevano in un gorgoglio. Cercava di scrollarsi di dosso la montagna, ma più scrollava e più essa gli si assestava intorno al collo…
Sbuffava e smaniava, ma tutti i suoi movimenti non producevano che un lieve rotolio di sassi e di terriccio… Era la fine. A poco a poco, infatti, le forze gli mancarono ed egli morì.

Intanto si era messo a piovere. Una pioggia abbondante, continua, che scrosciava dilagando per la campagna e per il vallone, dividendo inesorabilmente la città dai suoi nemici.

Piovve giorno e notte, per più giorni e più notti. Ormai la città era salva e i cittadini potevano guardare con gioioso sollievo quella pioggia benedetta che li aveva liberata dal pericolo.

Così, quando tornò il sole, raggiunto il luogo in cui il gigante era crollato, tutti videro che la pioggia aveva riempito fino all’orlo anche il buco scavato dalle brave formicuzze nella montagna, formando un grazioso laghetto.

A ricordo di quel gesto di bontà, lo chiamarono Lago Santo. 

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

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Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

C’era una volta un uomo che andava intorno con un carrettino sgangherato. Una notte d’estate giunse a Gemona. Non aveva il becco di un quattrino, e non sapendo dove andare a dormire, si distese sulle panchine che stanno sotto il Palazzo Comunale. Quando fu mezzanotte sentì una voce che lo chiamava. Egli si svegliò spaventato e chiese: “Chi è?”

“Costantino,” rispose una voce sommessa, “se tu hai coraggio, io posso darti la fortuna; domani sera, a quest’ora, fatti trovare qui. Io tornerò”.

Costantino, il giorno dopo, pensava impaurito che cosa avrebbe dovuto fare. Alla fine decise di tornare a dormire sotto il palazzo.

A mezzanotte precisa, l’anima ritornò.

“Costantino!” disse, “Armati di coraggio, e vieni con me sulla torre del castello. Tu non mi vedrai, ma io ti sarò sempre vicino. Appena entrato nella torre , lancia un sasso e subito dopo vedrai comparire una bestiaccia a cavallo di una gran cassa contenente un tesoro. Essa terrà una chiave in bocca. Tu non spaventarti, ma afferra la chiave e fa ogni  sforzo per levargliela di bocca. Se non ci riuscirai la prima volta, tenta la seconda ed anche una terza. Ricordati, però, che devi far questo prima che suoni il tocco.”

Costantino, tremando, salì la riva del castello ed appena entrato nella torre gettò un sasso. Immediatamente, tra tuoni e lampi, comparve la bestiaccia. Costantino le andò incontro per toglierle la chiave, ma prese a tremare per la grande paura, e la prima volta potè appena toccarla.

Provò la seconda e non riuscì a strappargliela. Provò anche la terza, ma, proprio quando stava compiendo il maggior sforzo, sentì battere l’una, e bestiaccia e cassa scomparirono tra le fiamme.

Costantino, sconvolto, uscì dalla torre, e a metà discesa ritrovò l’anima, che gli disse: “Costantino, io avevo sperato proprio che tu mi avresti liberata. Ora, purtroppo, deve ancora nascere l’albero, con cui sarà fatta la culla di colui che mi libererà”.

Sotto il Castello di Gemona dovrebbe essere sepolto un tesoro. Ci si può, dunque, spiegare perchè, come dicono, compare ogni tanto qua e là qualche buca scavata di fresco. Qualcuno, certamente, tenta nottetempo di scoprirlo.

(V. Ostermann)

CONTURINA Leggenda del Trentino Alto Adige

CONTURINA Leggenda del Trentino Alto Adige, per bambini della scuola primaria.

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CONTURINA

Leggenda del Trentino Alto Adige

Nella Valle di Contrin, adagiata ai piedi dell’immensa parete verticale della Marmolada, vive ancora il ricordo della leggenda di Conturina, la bellissima fanciulla vittima della propria bellezza e dell’odio della matrigna.

La matrigna di Conturina era una nobile e ricca signora, padrona di un castello e madre di due brutte ragazze.

Molti principi e giovani cavalieri venivano in visita al castello; tutti ammiravano Conturina e nessuno si occupava delle altre due.

La matrigna, alla quale ciò dispiaceva, un bel giorno ordinò a Conturina di non pronunciare una parola in presenza degli ospiti. E disse a tutti che la ragazza era stupida e muta.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

Allora la matrigna ordinò che, quando vi fossero ospiti in casa, Conturina restasse sempre perfettamente immobile. E disse a tutti che la figliastra era muta e paralitica.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

La matrigna, furente, mandò a chiamare una strega, la quale con un incantesimo trasformò Conturina in pietra.
Tutti si innamorarono della statua bellissima.
Allora la matrigna ordinò che la fanciulla impietrita venisse portata sopra un’altissima rupe, che domina il Passo di Ombretta, che venisse infitta nella roccia e abbandonata lassù.
E così fu fatto.
Mesi ed anni passarono senza che nessuno sapesse dove era andata a finire la povera Conturina.

Dopo alcuni anni, fra i pastori si cominciò a dire che nella solitudine della Val d’Ombretta, qualche volta si udiva cantare una voce di donna.

Una notte un giovane soldato, che era di sentinella sul passo, nel silenzio profondo riuscì a comprendere anche le parole del canto, nel quale Conturina raccontava la sua storia. Il soldato le gridò che allo spuntar del giorno si sarebbe arrampicato su quella rupe per liberarla. Ma Conturina gli rispose che era troppo tardi.

Nei primi sette anni sarebbe ancora stato possibile liberarla, ma alla fine del settimo anno l’incantesimo si era fatto insolubile e nessuna forza umana sarebbe valsa ormai a staccarla da quella rupe, dove ella era destinata a rimanere per sempre.

E così fu.

Qualche volta, chi passa per quel deserto di rocce che è la Valle Ombretta, specialmente di sera, ode ancora il mesto canto della povera Conturina.

(C. F. Wolf)

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta per bambini della scuola primaria.

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Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta

 C’erano una volta un papà e una bambina. La bimba si chiamava Misurina e Sorapis il papà. Papà era un gigante, e Misurina una bimba piccina piccina, che poteva benissimo stargli nel taschino del panciotto. Eppure, quella piccina piccina poteva a suo agio prendere in giro quel papà grande come una montagna.

E’ la sorte che tocca ai papà troppo buoni con le bambine che non meritano nessuna bontà. E Misurina intanto cresceva stizzosa ed insolente.

Al castello di babbo Sorapis tutti la fuggivano come la peste, uomini di corte e valletti di camera, dame di compagnia e donne di cucina.

“Signori miei”, gemeva Sorapis, “lo so, lo so. Misurina è un po’ monella, ma è tanto una cara bambina! Rimedieremo… rimedieremo…”.

Ma non rimediava, pover’uomo. Anzi, la piccola, crescendo, diventava sempre più insopportabile. Il suo difetto più grande, però, era la curiosità. Una bimba così curiosa non la si sarebbe incontrata in tutto il mondo. Voleva sapere tutto, voleva vedere tutto.

Un giorno la nutrice le disse: “Una signorina come te, dovrebbe possedere lo specchio Tuttosò”

“E che cos’è questo specchio?” esclamò la bimba, facendosi rossi per l’emozione.

“Uno specchio dove basta specchiarcisi per saper tutto quanto si vuol sapere”.

“Oh” mormorò Misurina, “E come posso averlo?”

“Domandalo al tuo papà, che sa tutto”.

Misurina andò dal babbo, saltellando come un passero.

“Papà,” cominciò a gridare prima di giungergli accanto, “devi farmi un regalo!”.

“Se posso, gioietta”

“Sì che puoi”

“E allora sentiamo”

“Prima giura che me lo farai”

“Non posso giurare se non so di che regalo si tratta”

“Voglio lo specchio Tuttosò”

Sorapis impallidì. “Tu non sai ciò che mi chiedi, figliola”

“Sì che lo so!”

“Ma non sai che lo specchio appartiene alla fata del Monte Cristallo?”

“E che mi importa? Lo comprerai!”

Il povero Sorapis sospirò…

“O glielo ruberai.”

“Senti… Misurina…”

“L’hai promesso, papà!”

E quel demonio di figliola si mise a piangere e a sospirare e a rotolarsi per terra. “E se non mi porterai quello specchio, io morirò”.

Il povero papà si mise in testa la corona, vestì il mantello di ermellino, prese lo scettro a mo’ di bastone, e si avviò dalla fata che abitava a pochi passi da lui. Non appena giunse al castello, bussò.

“Avanti” disse la fata, che sedeva nella sala del trono, insieme con due damigelle. “Chi sei e cosa vuoi?”

“Sono Sorapis, e voglio lo specchio Tuttosò”

“Corbezzoli!” rise la fata, “Solamente? Come se si trattasse di fragole!”

“Oh, fata, fatina, non ridere… se tu non me lo dai, la mia bambina morirà”

“La tua bambina? E che ne sa dello specchio Tuttosò? A che le serve? Come si chiama questa bambina?”

“Misurina”

“Ah, ah!” disse la fata, “La conosco di fama. Le sue grida giungono fino a me quando fa i capricci, e questo è un capriccio ben degno di lei. Va bene, io ti darò lo specchio, ma a un patto”

“Sentiamo” accondiscese il re.

“Vedi quanto sole batte da mattina a sera sopra il mio giardino?”

“Vedo” rispose Sorapis.

“Mi brucia tutti i fiori e mi dà noia. Mi ci vorrebbe una montagna a gettarmi un po’ d’ombra. Ecco, bisognerebbe che tu, grande e grosso come sei, ti contentassi di trasformarti in una bella montagna. A questo patto ti darei lo specchio Tuttosò”.

“Oh… oh…” disse Sorapis, grattandosi un orecchio e sudando freddo.

“Prendere o lasciare” disse la fata.

“Va bene! Dammi lo specchio”, sospirò il poverino.

La fata trasse da uno scrigno, che aveva a portata di mano, un grande specchio verde e glielo porse, ma poichè si accorse che il povero Sorapis era diventato smorto, ebbe pietà di lui, e gli disse:

“Facciamo una cosa; capisco che tu non hai troppo desiderio di trasformarti in una montagna, ed è naturale, ma, d’altra parte, hai paura che la tua bimba muoia se non mantieni la promessa che le hai fatto. Ritorna al tuo castello e di’ alla bimba la condizione per cui può venire in possesso dello specchio; se ella ti vuol bene rinuncerà a possederlo per non perdere il suo papà, e tu mi rimandi lo specchio, e se no, se no… io non ne ho colpa”.

“Sta bene” rispose il re, e ripartì.

Misurina lo aspettava seduta sullo spalto più alto del castello e non appena lo vide, gli gridò: “Ebbene, me l’hai portato?”

“Eh, sì, te l’ho portato”, ansimò il poverino. E presala in mano per parlarle meglio, le riferì l’ambasciata della fata del Monte Cristallo. Misurina battè le mani.

“Tutto qui?” disse, “Dammi pure lo specchio, papà, e non pensarci. Diventare una montagna deve essere una bellissima cosa. Anzitutto non morirai più, poi ti coprirai di prati e di boschi ed io mi ci divertirò.

Il poveretto impallidì, ma tanto valeva; la sua condanna era stata decretata. Non appena Misurina ebbe afferrato lo specchio, Sorapis si ampliò, si ampliò, si gonfiò, parve lievitasse nel sole, si impietrì, e in un attimo diventò la montagna che ancora oggi si erge di fronte al Monte Cristallo.

Misurina, trovatasi innalzata a quell’altezza prodigiosa sulla cresta di una montagna bianca e nuda, dove a poco a poco gli occhi di suo padre morivano, gettò un grido terribile e, presa da un capogiro, col suo specchio verde precipitò giù.

Allora dagli occhi semispenti di Sorapis, incominciarono a scendere lacrime e lacrime, fino a che gli occhi si spensero e le lacrime non piovvero più.

Con quelle lacrime si è formato il lago sotto cui giacciono Misurina e lo specchio, e in quel lago il Sorapis si riflette e cerca con gli occhi morti la sua bimba morta.

(P. Ballario)

Leggenda del MONTE DISGRAZIA – Lombardia

Leggenda del MONTE DISGRAZIA – una leggenda della Lombardia, per bambini della scuola primaria.

Leggenda del MONTE DISGRAZIA

Il Monte Disgrazia, in fondo alla val Malenco, nella provincia di Sondrio, è oggi aspro, roccioso e brullo. Ma non è sempre stato così.

Molti secoli fa, quella montagna era ammantata di incantevoli pascoli verdi. Era un luogo talmente meraviglioso che aveva meritato il nome di Monte Bello.

A primavera i pastori risalivano verso la cima e sui pascoli erbosi si fermavano fino all’autunno coi loro greggi.
Così per molti secoli.

Un giorno comparve, presso le baite situate più in alto, un vecchio uomo sfinito dal caldo e dal digiuno. I pastori, in quel momento, stavano consumando il loro frugale pasto: pane duro e formaggio.

Il povero viandante chiese, umilmente, un po’ di cibo e il permesso di riposarsi fra loro un giorno o due, dicendo che si sentiva sfinito e febbricitante. Ma i pastori lo derisero e risposero che non avevano nessuna voglia di ospitare vagabondi malati.

“Va’ a morire altrove. Qui non c’è posto per un vagabondo come te!”

Scacciato così crudelmente, il povero vecchio seguitò in silenzio il suo cammino più a valle e si fermò solo davanti all’ultima baita, la più bassa, la più piccola e, dall’aspetto, la più povera.

Qui, all’ombra di una grande quercia sedeva tutto solo un giovane e robusto pastore. Il pellegrino gli si accostò e gli si sedette a fianco senza dir nulla. Le gambe non lo reggevano più e la vista gli si annebbiava. Il giovane pastore capì quegli occhi che piangevano e che imploravano; si alzò, gli porse l’acqua fresca della sua borraccia, poi un po’ di pane e un po’ di formaggio. Quindi lo invitò a riposare nella sua baita dicendo: “Seguiterai il cammino fra qualche giorno. Io sono solo e la tua compagnia mi farà felice”.

Il vecchio lo guardò con profonda riconoscenza. “Grazie, buon pastore” gli rispose, “Ma devo arrivare al paese prima di sera. Per raggiungerlo ci vuole qualche ora di cammino ed io sono vecchio. Accompagnami, piuttosto, fino a quelle case laggiù!”

“Se proprio vuoi proseguire, ti accompagnerò volentieri. Aspetta un momento perchè io raduni il mio gregge.” disse il pastore.

“Non occorre, lascialo pure così”, rispose il pellegrino.

Ed il vecchio, appoggiandosi al giovane, fece con lui, in silenzio, un buon tratto di cammino. All’improvviso il cielo si oscurò in modo pauroso. Non erano nuvole, ma caligine, a tratti squarciata da immense vampate di fuoco.

“Non voltarti indietro” raccomandò il pellegrino. Ma il pastore si volse lo stesso. Il monte ardeva in un gigantesco rogo. Le fiamme mandavano così vivida luce che gli occhi del pastore non la potevano sostenere e rimasero ciechi. Il giovane allora, pieno di terrore, si gettò a terra piangendo e pregando: “Dio misericordioso, ti supplico, perdona la mia disobbedienza  e toglimi da questa notte!”

“Allunga la mano” disse allora il pellegrino ” e lavati con l’acqua del fiume; poi torna presso il tuo gregge,  che è  salvo nel tuo pascolo. Abbi fede!”

Appena il pastore ebbe raccolta, con le mani tremanti, un po’ d’acqua e se ne fu bagnati gli occhi, riacquistò la vista e si guardò intorno pieno di stupore. Il cielo era ritornato sereno e tutto era pace e silenzio.

Ma il monte… il bel monte prima ravvolto di boschi e di verdi pascoli era divenuto bruno, roccioso e aspro e si ergeva coi suoi aguzzi picchi e fianchi solcati da crepacci minacciosi.

Il Monte Bello si era tramutato nel Monte Disgrazia.

LEGGENDE ITALIANE I laghi di Avigliana

LEGGENDE ITALIANE I laghi di Avigliana – una leggenda del Piemonte per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

I laghi di Avigliana

C’era una volta in Piemonte, là dove ora sorgono i due laghi di Avigliana, un grosso borgo florido e ricco. Disgraziatamente la fortuna e gli agi avevano indurito e inasprito il cuore degli abitanti: essi erano così egoisti, avari e crudeli che non facevano neppure la più piccola elemosina, e vivevano pensando solo a se stessi e al proprio benessere.

Ora avvenne che una sera d’inverno, in cui infuriava una gelida tempesta di neve, un pellegrino vestito di bianco giunse alla borgata. Appariva sfinito dal lungo cammino e si trascinava a stento nella tormenta che gli sferzava il volto pallido ed emaciato, contratto dalla fatica e dalla pena.

Bussò alla porta di una casa, le cui finestre dai vetri appannati rivelavano come nell’interno vi fosse un buon tepore, e chiese per carità un po’ di pane, una ciotola di latte caldo, un ricovero per la notte: era un pellegrino, un fedele di Dio, e Dio avrebbe ricompensato chi lo avesse ospitato.

Ma vane furono le richieste e le preghiere del bianco viandante.

Tutti gli chiusero la porta in faccia con mala grazia, rifiutandogli ogni soccorso.

Ormai egli aveva percorso tutte le vie, picchiato a tutti gli usci. Restava ancora solo una misera casupola sperduta, che sporgeva su una piccola altura, un po’ fuori del paese. Dietro i vetri della minuscola finestrella si scorgeva oscillare una fioca fiammella di candela.

Il pellegrino bussò  anche a quest’ultima porta, con un ultimo barlume di speranza. Una vecchiarella tremula, poveramente vestita, gli aprì e lo invitò premurosamente ad entrare.

Lo fece accomodare accanto al camino ed accese un fuoco di sterpi e di rami secchi, raccolti pazientemente, un po’ alla volta, nei boschi, durante l’autunno. Poi gli scaldò una tazza di brodo e gli diede una fetta di pane nero, tutto ciò che le restava nella madia.

“Poverino, sei tutto fradicio!” gli disse, aiutandolo a togliersi il bianco mantello inzuppato di acqua e di neve.

Gli porse una coperta ed il pellegrino si ravvolse in essa e si stese vicino al focolare, accanto alle braci calde, per dormire. La vecchietta voleva cedergli il suo lettuccio, in una stanzetta al piano superiore, ma egli rifiutò, dicendo che questo non poteva assolutamente accettarlo. Allora la vecchina gli augurò la buona notte e andò di sopra a coricarsi.

La mattina seguente, quando ella scese in cucina, il bianco pellegrino era scomparso.

“Strano…” pensò, “… chissà perchè se ne sarà andato senza salutarmi. Forse aveva fretta di riprendere il cammino interrotto e di arrivare a destinazione…”.

Aprì la porta e si affacciò sulla soglia, per vedere se le riusciva di scorgerlo lungo la strada maestra. La tormenta era passata e splendeva il sole. Guardando il paesaggio all’intorno, la vecchiarella mandò un’esclamazione di stupore…

Il villaggio non c’era più… Nessuna traccia delle case, ai lati della strada… Al loro posto si stendevano due laghi, uno più grande e uno più piccolo, dalle cerule onde increspate dalla brezza e scintillanti nel sole, fra rive bianche di neve.

Solo la casetta della povera vecchia si era salvata dalla distruzione: così il divino viandante dal candido mantello aveva premiato il buon cuore di lei e punito la malvagità dei suoi compaesani.

LEGGENDE ITALIANE Il giovane conte cambiato in lupo

LEGGENDE ITALIANE Il giovane conte cambiato in lupo – una leggenda della Valle d’Aosta per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Valle d’Aosta

Il giovane conte cambiato in lupo

Era inverno. La neve copriva abbondantemente le falde dei monti. Anche il fondo valle era coperto di neve.

I contadini stavano rintanati nelle stalle, per ripararsi dalle intemperie. Il sepolcrale silenzio del luogo era rotto soltanto dallo scrosciare delle acque del Lys e dal fragore delle valanghe che precipitavano dai monti vicini, con grande fragore.

Paolo, un giovanotto di Lillianes, la sera della festa patronale, il 22 gennaio, si recò presso Geltrude, la sua fidanzata. Voleva avvisarla che per alcuni giorni non l’avrebbe vista, perchè doveva recarsi al villaggio di Moller per cuocervi il pane per l’estate successiva.

Il giorno seguente, prima che il sole sorgesse all’orizzonte, egli aveva già fatto ben due ore di cammino sulla neve immacolata ed era giunto lassù dove la bianca farina di segale lo attendeva per essere trasformata in pane saporito.

Gli annosi abeti della foresta vicina protendevano lunghi rami verso il suolo, stanchi della pesante stretta che dava loro la neve.

Paolo, però, non si fermò a contemplare il quadro che gli si spiegava dinnanzi; e tanto meno sentì il minimo sgomento di trovarsi in un luogo tanto selvaggio. Cominciò a togliere con il badile la neve che ingombrava l’entrata di casa, poi accese il fuoco nel forno e, sempre canterellando allegramente, pulì la madia, preparò la pasta, formò i pani e li mise a cuocere.

Poco dopo dal forno usciva un buon odore di pane e quell’odore appetitoso stuzzicò la fame del giovane montanaro.

Ma quale non fu il suo stupore, quando, voltandosi verso la porta,  vide un grosso lupo che lo stava guardando, con la lingua ciondoloni e il respiro grosso e affannato.

Non avendo alla mano altra arma di difesa, Paolo prese una palata di brace e la scaraventò sulla belva, la quale se ne andò mandando gemiti e ululati spaventosi.

Il giovanotto credette di essersi liberato della bestia importuna, ma così non fu. Il lupo, dopo una ventina di minuti, tornò a presentarsi alla capanna. Scacciato una seconda volta, tornò una terza e poi ancora, finchè a Paolo venne l’idea di gettargli un pane caldo. Allora la belva, quasi non avesse aspettato altro, addentò con avidità il pane e, questa volta, non fece più ritorno.

Quando Paolo discese a valle, raccontò ai familiari ed agli amici la storia del lupo, ma nessuno ci fece gran caso, forse perchè in quei tempi i lupi erano assai comuni nelle nostre vallate alpine.

Nell’estate seguente, Paolo volle realizzare il suo sogno di sposare la bella Geltrude.

Valicati i monti di Carisey e del Mucrone, e salutata di passaggio la Madonna nera del Santuario d’Oropa, si recò a Biella con l’intenzione di comprare l’abito nuziale per sè e per la sposa.

La cittadina era molto movimentata, a motivo della fiera.

Paolo, abituato alla semplicità del suo villaggio natio, si fermava estasiato a contemplare le vetrine dei vari negozi. Ed in mezzo a tanto trambusto era quasi sbalordito.

Ad un tratto sentì che qualcuno gli toccava la spalla. Si voltò e vide un signore alto, distinto ed elegante, che lo guardava con aria amichevole. Paolo rimase perplesso, con gli occhi fissi  in quelli dello sconosciuto.

Poi questi prese le mani del montanaro, gliele strinse con affetto e lo invitò a seguirlo nel suo castello, dove lo trattenne a pranzo.

Il povero montanaro, seduto al posto d’onore, aveva la mente tanto confusa che non osava proferir parola. A un certo punto, con evidente commozione, il padrone di casa gli richiamò alla mente quel tale lupo della montagna di Moller. Poi, dopo una lunga esitazione, aggiunse: “Quel lupo ero io!”

E continuò: “Ero un giovanotto spensierato e mi divertivo a fare escursioni sui nostri monti. Quattro anni fa ero di passaggio al Lago di Mucrone, quando una malvagia strega mi si avvicinò. Mi toccò con una bacchetta incantata e da quel momento fui mutato in lupo famelico e fui condannato a rimanere tale finchè non avessi trovato un’anima pietosa che mi regalasse un pane. Passarono i giorni, passarono i mesi, e quattro tormentose annate… Nella dolorosa attesa morì di dolore una bella castellana di Pont Saint Martin, mia fidanzata, e morì, pure di dolore, la mia povera madre. Quanto a me, per ben quattro anni dovetti percorrere monti e valli, ululando, con la morte nel cuore, aspettando che qualcuno mi ridonasse la felicità perduta”.

Allorchè Paolo ebbe udita la commovente narrazione, si gettò tra le braccia del conte e scoppiò in lacrime.

Grande fu la commozione di entrambi.

Si racconta che il conte biellese non dimenticò mai il suo benefattore.

Paolo e Geltrude, col denaro ricevuto dal conte, qualche anno dopo il loro matrimonio, fecero edificare una bella villa sul poggio che si eleva tra i villaggi Barbià e Salè, sulla strada che da Lillianes conduce a Santa Margherita, e di là  ad Oropa.

Ancora oggi se ne scorgono i ruderi e la località viene chiamata Courtil del Conte.

(C. Vercellin)

Favola Il concorso

Favola Il concorso

Una volta il re degli animali bandì un concorso che diceva: “L’animale che avrà saputo costruirsi la miglior casa, sarà nominato architetto e dichiarato vincitore del grande concorso”.

I galli dalla gran voce, le scimmie urlatrici, gli asini dai ragli sonori, gli elefanti coi loro potenti barriti si fecero banditori e portarono l’annuncio in ogni parte della terra: fra le foreste vergini dei paesi caldissimi, fra i ghiacci del polo, nelle terre selvagge  e nelle zone popolate anche dagli uomini.

Così, nel giorno fissato, tutti gli animali si riunirono in una vastissima pianura e lottarono fra di loro per prendersi un posto in prima fila.

Finalmente giunse il venerabile vecchio leone, re degli animali. Tutti fecero silenzio, per rispetto, pur continuando a sospingersi, come certi scolaretti  davanti al maestro.

“Eccovi qui” egli disse lento e grave, “tutti radunati davanti a me. Mi compiaccio; fra di voi vi è certo colui che sarà proclamato vincitore, colui che ha dimostrato più intelligenza e operosità nella costruzione della sua casa. Certo non è tra gli animali domestici; anzi, mi stupisce di vederli qui”.

Un mormorio di vittoria e di scherno corse tra i selvatici: “Visto? L’avevamo detto, noi! Fuori i venduti! Non li vogliamo!”
“Essi hanno intelligenza e virtù, miei cari” aggiunse il leone, “Ma non possono concorrere. Quel cavallino morello ha una scuderia tutta per sè, fatta in legno e muratura, più bella di tante case degli uomini…”
“Oh…”
“E vive come se fosse un signore, nutrito e strigliato… Ma la scuderia non l’ha fatta lui! Così quella mucca grassa, potrà vantarsi della sua stalla moderna, ma lei non ha fatto che la fatica di occuparla… Il signor Crestarossa col suo corteo di galline e lo stuolo delle amiche oche e anitre, ha un pollaio modello. Ma chi l’ha costruito?”

“L’uomo!” urlano i selvatici.

“No no, miei cari domestici! Noi non prendiamo in considerazione che il lavoro fatto con le proprie zampe. Si facciano avanti i veri concorrenti!”

Tutti lasciarono il passo alle belve. Si fecero innanzi la tigre, la pantera, il leopardo, il giaguaro, il lupo; a quattro passi di distanza li seguivano la iena e lo sciacallo, umili, a coda bassa, pronti a fuggire al primo ringhio. Presentarono modelli di covili, fra alte erbe secche e rocce. Non erano molto belli, parevano piuttosto scuri e puzzavano di selvatico.

“Fratelli”, disse il leone, “I nostri covili di belve saranno sicuri, ma non sono modelli di bellezza e comodità. Lasciate avanzare gli altri”.

Si presentarono cervi, elefanti, gazzelle, zebre, giraffe, coi modelli delle loro case nei boschi. Il re scuoteva la testa.

Si udirono alcuni potenti sibili: giungevano i serpenti.

“Ammirate le nostre case ben nascoste nella terra, sotto le pietre calde!” disse uno di essi fissando il popolo delle bestie, che non osava tirare il fiato.

Il vocione del coccodrillo si levò di fianco: “I miei cugini serpenti avrebbero delle buone tane, se fossero un po’ più umide. Venite a provare la mia nel letto fangoso del fiume!”

“No, no!” brontolarono divertiti gli altri, “Noi stiamo meglio all’asciutto!”.

Avanzarono le scimmie coi loro alberi, disponendovisi in mille modi: appese per la coda, per una mano, per un piede, dondolandosi, sedendosi, sdraiandosi sui rami per dimostrare la bellezza e l’utilità della loro casa.
Ma il pubblico le beffava, rifacendo i loro versi.

Vennne la volta degli animali più piccoli, che erano stati ricacciati indietro dagli altri.

La lepre, la volpe mostrarono i loro modelli di tane profonde e asciutte, con lettini di fieno e di pelo morbido. Ma la marmotta e il tasso le superarono con le loro case sotterranee, a più piani e con le dispense.

Le creature più piccole si dimostrarono le più industriose.

Gli uccelli, infatti, portarono a vedere le più varie e graziose specie di nidi: da quelli fatti a scodella, a barchetta, a vaschetta, a panierino, ad altalena, tutti intrecciati meravigliosamente, a quelli impastati con tanta bravura.

Tutti erano davvero ammirati… Si pensava che fra gli uccelli ci fosse il vincitore; e il re degli animali stava per scegliere uno di essi, quando arrivò affannato il castoro, chiedendo scusa del ritardo, poichè giungeva da lontano: nientedimeno che dal Canada.
Oh, la meravigliosa casetta che presentò! Tutta rotonda, a cupola, posata sulle palafitte, con uscita sotterranea di sicurezza, stanza delle provviste, camera da letto e piattaforma per il passeggio. Che cosa ci poteva essere di meglio?
“Diamo il premio al castoro! Viva il castoro, vero architetto!” gridava la folla.
“Adagio… adagio… c’è ancora qualcuno” avvertirono le aquile, che coi loro occhi acuti avevano visto una cosina bruna farsi largo verso il leone. Era una formica.
“Peuh! Una formica!”. Uno scoiattolino la spazzò on una zampata, facendola volare per aria. La formica ricadde a terra, riprese pazientemente la sua via e giunse davanti al giudice. La sua casetta piccola era un paesello, con strade, gallerie, camere, saloni, granai, cellette…

“Come fai a costruirtela?” comandò un animale, guardandola come un fenomeno.

“Con l’aiuto di tutte le mie compagne. Noi siamo migliaia e migliaia; ci aiutiamo sempre e andiamo perfettamente d’accordo”.

“Ha vinto la formica!” gridò la solita voce.

Ma nel sole luminoso s’avvicinava ronzando un puntolino d’oro: una piccola ape. Giungeva ben ultima; ma quale mirabile lavoro essa portava al giudizio di tutti gli animali! Il leone, che era passato di meraviglia in meraviglia, volle vedere per primo.

“Questo è un vero palazzo!” esclamò. “Neanche l’uomo sa fare tanto! Osservate le centinaia di stanzette perfettamente regolari, fatte di pura cera! Ammirate l’appartamento della regina, quello delle operaie, l’altro dei fuchi. E che dire dell’entrata e dei magazzini colmi di dolcissimo miele dorato?”
L’orso approvava calorosamente, leccandosi i baffi.

“La formica scava da perfetta minatrice” continuò il leone, “Ma l’ape costruisce con sostanze che ricava dal suo corpicino e la sua costruzione è sempre preziosa e perfetta.”

Qui il giudice tacque un momento: si alzò dal seggio e disse con ruggito solenne: “Proclamo l’ape vincitrice del grande concorso e sono sicuro che tutti i presenti sono del mio parere”.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

FAVOLA Rambè e Ambè

FAVOLA Rambè e Ambè

Nella lontana misteriosa terra del Tibet c’era una volta un gatto che viveva in un tempio infestato dai topi. Per molti anni il gatto aveva potuto catturare topi a volontà, conducendo una vita beata e tranquilla.

Ma col passare del tempo diventò vecchio e torpido e si accorse che non riusciva più a catturare i topi con tanta facilità. Non era più abbastanza veloce, e i topi si dileguavano prima che egli saltasse loro addosso.

Il gatto tuttavia era una creatura astuta, e pensò: “Se non posso più procurarmi la preda con la prontezza dei movimenti, lo farò con la prontezza dell’ingegno”.

Un giorno convocò tutti i topi per un colloquio.  I topi uscirono prudenti dai loro buchi, naso e coda vibranti, perchè non si fidavano del gatto. Ma il gatto promise di non far loro alcun male.

Poi disse: “Vi ho tutti convocati qui perchè ho qualcosa di importante da comunicarvi. Fino ad oggi ho condotto una vita poco lodevole, ma ora che sono vecchio mi pento dei danni e dei guai che vi ho arrecato. D’ora in poi tutto cambierà: ho deciso di dedicarmi alla meditazione religiosa e non vi darò più fastidio. Potete girare liberamente senza alcun timore” e fece una pausa.

“Tutto ciò che vi chiedo” soggiunse, “è che due volte al giorno voi passiate in fila davanti a me e vi prostriate in segno di gratitudine per il mio buon cuore”.

All’udire un simile discorso da parte del vecchio nemico, i topi furono sopraffatti dalla felicità, e promisero prontamente di fare come egli chiedeva. Caspita! Valeva ben la pena di umiliarsi davanti al gatto per potersi muovere liberamente!

Secondo gli accordi, quella sera il gatto venne a mettersi su un cuscino a un estremo della più grande stanza del tempio, e i topi, che avevano passato la giornata correndo liberamente attorno, cominciarono a sfilargli davanti uno dopo l’altro, inchinandosi profondamente.

Bene, ascoltate adesso qual era il piano del gatto: lasciò passare tutta la processione, ma quando fu il turno dell’ultimo topolino, fece un balzo e, afferrandolo tra le zampe, lo divorò. Nessuno di quelli che erano già passati se ne accorse.

Così andò avanti per qualche tempo. Due volte al giorno i topi passavano in fila davanti al gatto per attestare la loro riconoscenza, e due volte al giorno il gatto saltava sull’ultimo della fila e lo mangiava.

“E’ molto più facile che andare a caccia!” sogghignava il gatto pieno di sè.

Ora fra i topi che vivevano al tempio c’erano due fratelli di nome Ambè e Rambè, che erano più intelligenti degli altri. Ben presto essi si accorsero che il numero di topi nel tempio sembrava diminuire sensibilmente, sebbene il gatto avesse promesso di non molestarli più, e cominciarono a sospettare che il gatto facesse un gioco sleale. Così architettarono un piano astuto: decisero che nei giorni successivi Rambè avrebbe sempre marciato in testa alla processione dei topi, e Ambè in coda. Durante tutta la processione, Rambè avrebbe chiamato Ambè, e Ambè avrebbe risposto: così sarebbero stati certi che il numero di topi rimaneva invariato.

La sera dopo, dunque, la processione si incamminò con Rambè in testa e Ambè in coda. Subito dopo la genuflessione Rambè squittì sonoramente: “Sei ancora lì, fratello Ambè?”

E dal fondo della processione Ambè squittì di rimando: “Ci sono ancora, fratello Rambè!”

Così continuarono a chiamarsi l’un l’altro finchè Ambè non fu passato sano e salvo davanti al gatto… il quale non aveva osato saltare su di lui mentre il fratello continuava a chiamarlo.

Il gatto rimase molto male per aver mancato la solita cena: tuttavia pensò che solo per caso i due fratelli si fossero messi in testa e in coda alla processione, e sperò che la mattina dopo le cose avrebbero ripreso l’ordine consueto. Quale fu la sua rabbia quando dovette constatare invece che Rambè e Ambè si erano messi come la sera prima! Rambè chiamò Ambè finchè ogni topo fu passato, e di nuovo il gatto rimase a pancia vuota.

Questa volta il gatto cominciò a sospettare che i due topi intendessero sventare il suo astuto piano: comunque decise di fare una terza prova. Perciò quella sera si sistemò come al solito sul cuscino e attese la venuta dei topi.

Nel frattempo Rambè e Ambè avevano avvertito gli altri topi di tenersi pronti alla fuga nel caso che il gatto desse segni di rabbia. Poi la processione si incamminò con Rambè in testa e Ambè in coda.

Appena Rambè si fu inchinato davanti al gatto, squittì sonoramente: “Ci sei fratello Ambè?”

“Ci sono ancora, fratello Rambè!” venne in risposta l’acuto squittio dal fondo.

Questo era il colmo! Il gatto soffiò di rabbia e, non più trattenendosi, balzò in mezzo alla processione; ma i topi, preavvisati, si dileguarono verso i loro buchi prima che egli potesse afferrarne uno. In meno di un secondo non v’era più traccia di topi.

Dopo questa dimostrazione, i topi non prestarono più fede al gatto imbroglione, e si tennero prudentemente fuori tiro. Il gatto, privato del suo nutrimento, diventò sempre più magro e alla fine morì di fame.

Quanto a Rambè ed Ambè, furono colmati di ringraziamenti da parte degli altri topi per la saggezza con cui avevano sventato il malvagio piano del gatto.

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Il leone e il topo

Il leone e il topo

Una volta un leone si era addormentato pesantemente, oppresso dalla calura di un giorno d’estate. Un topolino scervellato si mise a corrergli su e giù per il muso, facendogli il solletico con le zampine. Il leone si svegliò di soprassalto e ruggì terribilmente: levò la zampa e fece per uccidere il sorcetto. Questo allora, atterrito, implorò:
“Oh generoso re degli animali, abbi pietà di  me, lasciami la vita! Un giorno io ti ripagherò della tua bontà”.

L’idea che una creatura minuscola come il topolino potesse essergli utile divertì tanto il leone che esso si mise a ridere forte e, ormai di buon umore, lasciò andare il sorcetto.

Passò qualche tempo e una sera il leone, attraversando la foresta nell’incerta penombra del crepuscolo, cadde in una rete tesa dai cacciatori, si impigliò nelle maglie e rimase prigioniero. Si mise a ruggire disperatamente e il topo, riconoscendo la voce di lui, accorse.

Senza por tempo in mezzo, coi suoi dentini aguzzi si mise a rosicchiare le maglie di corda della rete e lavorando pazientemente e indefessamente tutta la notte, all’alba riuscì a liberare il leone.

“Ecco!” gli disse gioiosamente, “Tu hai riso quando ti promisi di ricambiare un giorno la tua generosità: ma ora vedi che anche un topolino a volte può aiutare un leone!”

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La leggenda della mammola

La leggenda della mammola

C’era stato un inverno rigido e triste. La gente era stanca di soffrire il freddo, desiderava la primavera. Ma era soltanto febbraio! Però il Signore voleva consolare gli uomini con una lieta sorpresa. Adunò tutti i fiori del giardino celeste.

Domandò: “Chi di voi vuole scendere sulla terra a portarvi un po’ di conforto? E’ ancora freddo, ma la vista di un fiore fa bene al cuore”.

Tutti i fiori tentennavano le corolle, incerti di poter sfidare i rigori di febbraio.

“Andrò io” disse la brava mammola.

E la mammola scese sulla terra mentre ancora durava la stagione invernale; il Signore per aiutarla la collocò nelle siepi, fra l’erba appassita e le foglie secche, al riparo dal vento.

Si stentava a vederla da quanto era nascosta!

Però il suo profumo si spandeva intorno nei campi; il vento lo portava perfino in città.

E gli uomini dicevano: “Sia ringraziato Dio! Profumo di mammole: promessa di sole, di tepore, di primavera vicina!”

E. Graziani Camillucci

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FAVOLA L’asino e il ghiaccio

FAVOLA L’asino e il ghiaccio

Era d’inverno e faceva un gran freddo. La neve si stendeva, alta e soffice sulla terra, mentre l’acqua dei fiumi e dei laghi si era mutata in una dura lastra di ghiaccio.

Un asino aveva smarrito la via della stalla, e cammina cammina, si trovò molto stanco sulla riva di un laghetto.

Vide lo strato lucido del ghiaccio e pensò di sdraiarsi sopra. Il ghiaccio era freddo, ma il corpo dell’asino era caldo per il lungo e faticoso cammino.

L’asino si sdraiò di fianco, distese le zampe, abbandonò il muso sul ghiaccio e finì con l’addormentarsi.

Era un povero ciuco ignorante e non sapeva che il ghiaccio col calore si scioglie.

Infatti, durante il sonno, al calore del corpo, il ghiaccio cominciò a sciogliersi lentamente.

L’asino aveva il sonno duro come la pelle.

Continuò a dormire e il ghiaccio continuò a sciogliersi.

Si fece tanto sottile da non sopportare più il peso dell’animale, che ad un certo momento sprofondò nell’acqua.

Era un povero asino ignorante e non aveva previsto ciò che gli sarebbe accaduto.

Leonardo da Vinci

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RACCONTO La vera ricchezza

RACCONTO La vera ricchezza

Un giovane si lagnava perchè era povero.

“Iddio non mi ha dato nulla!” diceva, “Non oro, non terre, non palazzi. Si è dimenticato di me. E’ stato avaro”.

L’udì un vecchio saggio.

“Sei proprio sicuro che Iddio non ti abbia donato nessuna ricchezza?”

“Come no!” rispose sicuro il giovane, “Vedi? Io non ho nulla!”

Il vecchio sorrise:

“Tu hai due splendidi occhi” disse al giovane, “li cederesti per avere un palazzo?”

“No davvero”, rispose il giovane.

“E una mano la daresti per un pugno d’oro?”

“No”

“E una gamba per un campo?”

“No”

“E l’udito per un mobile?”

“No”

“E il tuo stomaco per un gioiello?”

“No”

“E il tuo fegato per un podere?”

“No”

“E il tuo cuore per una carrozza?”

“No, e poi no!”

“E allora non ti lagnare. Vedi che Iddio ti ha fatto più ricco di quel che credi. Tu hai tanti tesori e non te ne accorgi. Se però venissero a mancare, ti accorgeresti a un tratto quale sia la vera ricchezza. “

L. Tolstoj

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RACCONTO Giufrà e le mosche

RACCONTO Giufrà e le mosche

Giufrà era un giovane che sembrava stupido ma aveva la mente fina. Eccovene una prova.

Un giorno Giufrà comprò un pezzo di carne. Entrò in casa e lo lasciò sul tavolo incustodito, a portata delle mosche. Poi uscì. Quando rientrò, sul tavolo la carne non c’era più.

Giufrà decise subito di incolpare le mosche e andò dal giudice per sporgere querela. Disse: “Le mosche mi hanno mangiato un chilo di carne”.

Il giudice volle canzonarlo, e sentenziò: “D’ora in poi potrai uccidere tutte le mosche che vedrai”.

Proprio in quell’istante una mosca si posò sulla testa pelata del giudice. Giufrà alzò la mano e, abbassatala, in un baleno spappolò l’insetto sulla testa del magistrato burlone.

Questi balzò dal seggiolone presidenziale, e gridò: “Screanzato! Offendesti la giustizia. Ti punirò”

Giufrà non si scompose. Rispose soltanto: “Punirmi? E perchè? Ho fatto come mi disse lei!”

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FAVOLA Il leone e la mosca

FAVOLA Il leone e la mosca

Una volta una mosca si azzardò a sfidare un leone.
Gli disse: “Mi fai ridere tu che ti credi il più potente degli animali. Hai le unghie per graffiare, i denti per mordere: ma queste tue armi non valgono nulla contro di me. Vogliamo provare?”
Il leone accettò la sfida; e la mosca cominciò a ronzargli  attorno e a molestarlo, posandoglisi sulla testa e sul naso.
Il leone aveva un gran da fare a liberarsene e, muovendo le zampe e le unghie sul proprio corpo, finì per ferirsi e insanguinarsi in più parti. Da ultimo restò senza fiato e si lasciò cadere al suolo scoraggiato.
Allora la mosca, superba di aver vinto il re degli animali, si allontanò ronzando ai quattro venti la sua vittoria.
E tanto era inebriata di gioia, che non badò più a dove andava e incappò in una ragnatela.
Il ragno la prese e la succhiò senza pietà.

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RACCONTO I tre ladri

RACCONTO I tre ladri

Tre ladri erano amici per la pelle. Un giorno, uno di loro disse alla moglie: -Devo andare a trovare mio fratello, che è malato. Se intanto venissero i miei amici, trattali bene: da’ loro da bere e da mangiare.-

-Va tranquillo- rispose la moglie; e il ladro partì.

Verso mezzogiorno arrivarono i due amici e subito chiesero dove egli fosse.

-E’ andato da suo fratello, che è malato; tornerà stasera- rispose la moglie, apparecchiando la tavola. I due bricconi sedettero e videro, appesi a una trave del soffitto, dei bellissimi salami.

-Che bella barba!- esclamò uno, indicandoli furbescamente.

-Gliela faremo, gliela faremo!-  disse subito l’altro.

Quando ebbero mangiato e bevuto se ne andarono. Strada facendo, pensarono di fare uno scherzo all’amico, e decisero di tornare la notte per prendergli i salami.
Quando quello tornò, la moglie gli disse che i due erano venuti a cercarlo.

-Che ti hanno detto?- domandò il ladro.

-Nulla di speciale… però, guardarono in alto e uno disse “che bella barba” e l’altro “gliela faremo, gliela faremo”… ma non ho capito che cosa intendessero-

-Ho capito io!- rispose il marito; e subito staccò i salami e li nascose nella stalla, sotto la paglia. Poi i due sposi cenarono e andarono a letto. A mezzanotte, quando dormivano come ghiri, arrivarono i due ladri coi grimaldelli: aprirono la porta di casa ed entrarono zitti zitti… ma i salami non c’erano più.

-Scommetto che li ha nascosti, quel furbone!- disse uno. Allora, in punta di piedi, si avvicinò al letto, scosse l’amico che dormiva e gli domandò facendo la voce sottile: -Marito caro, dove li hai nascosti i salami?-

-Nella stalla. Ma lasciami dormire!- brontolò quello, rigirandosi nel letto.

Allora i due, di corsa, scesero nella stalla, si presero i salami, e via!

Poco dopo, però, il ladro si svegliò del tutto e chiamò la moglie.

-Perchè mi disturbi, quando dormo?- le disse. -Lo sapevi già dov’erano i salami!-

-Disturbarti? Salami? Ma io dormivo e non ti ho chiesto nulla!-

Egli comprese di essere stato ingannato: corse al nascondiglio: i salami erano scomparsi. Allora si vestì in fretta, uscì di corsa e cercò di raggiungere i due soci. Infatti li scorse, poco dopo, che gli camminavano innanzi, nella notte buia. Uno reggeva i salami. Il nostro amico gli si avvicinò e gli disse: -Sarai stanco, adesso: dammi i salami, così riposerai un poco.-

L’altro, senza sospettare nulla, glieli diede, e il furbone, quatto quatto, se ne tornò a casa.

Alle prime luci dell’alba, quello che aveva portato i salami si rivolse al compagno: -Ridammeli, che li porto un po’ io!-

-Ma non li hai tu?-

-Ma come? Se me li hai chiesti un’ora fa?-

-Io? Tu sei matto!-

Cominciarono così a litigare e poi se le dettero di santa ragione. E quando entrambi furono ben pesti, capirono che l’amico li aveva gabbati.

L’indomani passarono, ancora indolenziti, davanti alla casa dell’amico: i salami penzolavano tranquilli dal soffitto e sembravano canzonare i due birboni.

-Guarda là!- disse uno – E… vedi come siamo ridotti…-

-Colpa nostra, caro mio, chi la fa, l’aspetti!-

(racconto popolare)

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FAVOLA La pelle dell’orso

FAVOLA La pelle dell’orso

La gente del villaggio era tutta impaurita, perchè nel bosco vicino era apparso un orso terribile, e nessuno si arrischiava più ad uscire dall’abitato.

Un giorno capitarono alla locanda due giovanotti forestieri, cacciatori di professione: e, udito di quell’orso, franchi e sicuri dissero all’oste: -Lasciate fare a noi! Gli faremo noi la festa in quattro e quattr’otto.-

Si fecero dire il punto preciso del bosco dove l’orso era stato veduto, la parte ove si credeva che fosse, le macchie ove se n’era riscontrata la traccia.

-Lasciate fare a noi! Domattina ci apposteremo lì!-

E la mattina, puntuali, andarono al bosco. Batterono i sentieri indicati, frugarono la macchia: ma di orso nemmeno l’ombra.

-Non si è lasciato vedere: ha paura di noi. Ma non ci sfuggirà.-

Intanto, sebbene non avessero il becco di un quattrino, ogni sera ordinavano all’oste un fiasco del migliore, e mangiavano e bevevano allegramente.

-Lo scotto- dicevano -lo pagherà l’orso con la sua pelle!-

Ma un giorno, che percorrevano di nuovo, per la centesima volta, i sentieri del bosco, eccoti l’orso per davvero: un orso nero, enorme, che si avanzava brontolando minacciosamente.

Uno dei due giovanotti puntò subito il fucile e fece fuoco; ma per la paura, il braccio gli tremava, e il colpo andò fallito. Egli non stette lì ad aspettare che impressione avesse fatto all’orso lo sparo: si arrampicò lesto come uno scoiattolo sull’albero più alto che si trovò vicino, e vi si appollaiò tutto ansante.

L’altro aveva fatto anch’egli per sparare, ma, fosse paura, fosse disgrazia, il fucile gli fece cilecca e il colpo non partì. L’orso sempre più infuriato si avvicinava, senza lasciargli il tempo di salire, come il compagno, su di un albero; e allora, vedendosi spacciato, il nostro giovanotto ebbe un’idea.

Sapeva che gli orsi non toccano i morti, ed egli si buttò a terra lungo, disteso, trattenendo perfino il respiro, per fingersi morto.

L’orso gli fu subito sopra. Gli annusò la bocca, gli occhi, gli orecchi, sempre sbuffando e brontolando, poi, come sdegnoso, si allontanò e si perdette tra gli alberi.

Per un po’ di tempo, ne l’uno ne l’altro dei due cacciatori si arrischiò a fiatare. Poi, il primo si lasciò scivolare piano piano dall’albero e si avvicinò al compagno, il quale stava sempre disteo a terra, chè per poco dallo spavento non era morto davvero.

A vedergli quella cera livida, gli venne quasi da ridere: -Ohè, biondino!- chiamò, -L’orso ti ha parlato all’orecchio, eh? Che ti ha detto di bello?-

L’altro levò il capo prima, guardò fra mezzo agli alberi se proprio l’orso non si vedesse più, poi cominciò a levarsi, a fatica, come lo avessero bastonato.

-L’orso mi ha detto- rispose -che non bisogna vendere la sua pelle prima d’averla nelle mani!-

E tutti e due dettero in una risata amara, pensando alle passate vanterie ed al conto dell’oste che rimaneva da pagare.

(C. Schmid)

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La volpe il lupo e l’orso – Favola

La volpe il lupo e l’orso – Favola

In una lontana terra del nord vivevano Mekko il volpone, Pekka il lupo e Osmo l’orso.

Un giorno di sole Mekko propose a Pekka di mettersi in società con lui, e Pekka accettò.

“La prima cosa da fare sarebbe di creare una radura nella foresta per piantarvi dell’orzo”, propose Mekko.

Così andarono nella tenebrosa foresta di abeti e cominciarono ad abbattere alberi. Ma era un lavoro faticoso e ben presto Mekko ne ebbe abbastanza. Così, quando Pekka cominciò ad ammucchiare i ramoscelli sparsi per bruciarli, il volpone sgattaiolò via e andò a stendersi un po’ più in là.

“Ahimè, come sono stanco!”, sbadigliò. “Perchè dovrei continuare a lavorare? Faccia pur tutto quello stupido di Pekka!”

“Mekko, Mekko!”, chiamò il lupo. “Non mi aiuti a bruciare le fascine?”

“Tu accendi il fuoco”, gridò il volpone di rimando, “io starò qui a controllare che non schizzino via scintille: non vogliamo mica mandare a fuoco tutta la foresta!”

Pekka obbediente fece come gli era stato detto, mentre quell’imbroglione di Mekko si concedeva un bel sonnellino. Quando tutta la legna fu bruciata, Pekka disse: “Ora dobbiamo piantare le sementi di orzo in questa ricca cenere di legna; vieni ad aiutarmi, Mekko.”

Ma Mekko rispose: “Tu fa la semina, Pekka. Io starò qui a spaventare gli uccelli, o altrimenti verranno a beccare tutti i semi!”

“Come vuoi, Mekko” accettò Pekka; e seminò l’orzo nella radura. Mekko naturalmente non aveva la minima intenzione di spaventare gli uccelli; si rimise giù e si addormentò.

Passò un anno, e venne il tempo del raccolto. Il campo d’orzo che il lupo aveva creato e seminato era pronto a dare la sua messe. Mekko aiutava Pekka a falciare l’orzo e a portare le spighe nel granaio, dove le tenevano a seccare.

“Ho un’idea!” disse Pekka, “Chiediamo a Osmo l’orso di aiutarci nella trebbiatura; molte braccia alleggeriscono il lavoro”.

“D’accordo”, disse Mekko.

Trovarono l’orso bruno nel cuore della foresta e gli fecero la proposta.

“Vi aiuto volentieri” disse Osmo.

Quando le spighe furono secche, i tre amici cominciarono la trebbiatura.

“Ora dobbiamo dividere il lavoro” disse Pekka.

Subito Mekko si arrampicò sulle travi del granaio: “Io starò qui a sostenere le travi” gridò giù “altrimenti potrebbero cadervi addosso: così starete tranquilli finchè avrete finito di lavorare”.

Gli altri due furono grati al volpone di tanta premura. Osmo cominciò a battere l’orzo col carreggiato e Pekka a separare la pula dai chicchi.

Ogni tanto l’astuto Mekko lasciava cadere giù un pezzo di legno. “Sapeste che fatica sto facendo quassù, a sostenere queste travi!” esclamò, “Grazie al cielo sono abbastanza robusto”.

Bene, l’orso e il lupo continuarono a lavorare tutto il giorno, mentre quel pigraccio del volpone se la prendeva comoda sul tetto. E finalmente la trebbiatura fu finita: sul pavimento del granaio stavano ben divisi un gran fascio di paglia, un cumulo di pula e un  mucchietto di chicchi dorati e mondi.

Allora Mekko saltò giù dal tetto. “Meno male che è finita” dichiarò. “Non ce l’avrei più fatta a sostenere le travi!”

“Come dividiremo l’orzo fra noi?” chiese Pekka.

“Semplicissimo”, rispose Mekko, “Siamo in tre, e il raccolto è già diviso in tre. Il mucchio più grosso andrà naturalmente a Osmo l’orso, che è il più grande; quello medio a te, Pekka, e a me,  che sono il più piccolo, il minore.”

Lo sciocco lupo e lo stupido orso accettarono. Osmo prese il fascio di paglia, Pekka il cumulo di pula, e Mekko si portò via il mucchietto di chicchi dorati e mondi. Tutti assieme si recarono al mulino per macinare la loro parte. Quando la macina passò sull’orzo di Mekko produsse un rumore scrosciante.

“Che strano” disse Osmo, “il tuo orzo ha un suono diverso dal mio e da quello di Pekka!”

“Mescolateci un po’ di sabbia” disse Mekko, “e sentirete che avrà lo stesso rumore”.

Così Osmo e Pekka mescolarono sabbia alla paglia e alla pula e, rimessa in moto la macina, sentirono anch’essi un rumore scrosciante. Soddisfatti se ne tornarono a casa, convinti di avere per il lungo e freddo inverno una provvista d’orzo buona come quella di Mekko.

Il primo giorno d’inverno, ciascuno dei tre amici decise di prepararsi una calda e nutriente zuppa d’orzo.

Osmo mise sul fuoco paglia e sabbia: ma tutto quello che ne ricavò su un miscuglio nerastro dal sapore orribile. “Puah!” disse fra sè, “C’è qualcosa che non funziona!”. E andò alla tana di Mekko per chiedergli consiglio.

Trovò Mekko che mescolava una pentola di bianca e cremosa zuppa d’orzo, che mandava un profumino delizioso.

“Cos’ha la mia zuppa?” chiese Osmo. “La tua è bianca e cremosa, mentre la mia è nera e orribile”.

“Hai lavato l’orzo prima di metterlo in pentola?” s’informò Mekko.

Osmo scosse la testa arruffata. “Avrei dovuto farlo?” chiese.

“Ma certo!” disse Mekko. “Porta l’orzo al fiume e buttalo nell’acqua. Quando vedi che è pulito, tiralo fuori”.

Osmo se ne andò ringraziando Mekko per il consiglio. Raccolta la paglia, la portò al fiume e la fece cadere in acqua. Ma che accadde? Ogni filo di paglia fu trascinato via dalla corrente veloce e sparì lontano. Questa fu la fine del raccolto di Osmo. L’orso se ne tornò a casa lemme lemme sentendosi molto infelice. E quell’inverno ci fu poco da mangiare per lui.

Pekka, il lupo, mise sul fuoco pula e sabbia, ma tutto ciò che ottenne fu un miscuglio grigiastro dal sapore orribile. Così andò anche lui da Mekko per chiedergli consiglio. “Cos’ha la mia zuppa?” chiese al volpone, “La tua è bianca e cremosa, la mia è grigia e nauseante. Spiegami dove ho sbagliato.”.

“Con piacere” rispose Mekko, “ecco, appendi la tua pentola a questa catena, vicino alla mia; io, vedi, prima di mescolare, mi sono arrampicato sulla catena, tenendomi appeso sopra la pentola. Il calore del fuoco ha disciolto il grasso della mia coda, che è gocciolato nella pentola: è il grasso che rende bianca la mia zuppa”.

“Ah, è così!” esclamò Pekka, e subito si arrampicò sulla catena, tenendosi appeso sopra la pentola. Ma non resistette a  lungo: il fuoco lo scottò così forte che egli saltò giù ululando di dolore. Ripresosi, assaggiò di nuovo la sua zuppa, per sentire se era migliorata: ma aveva lo stesso sapore di prima.

“Non sento alcuna differenza” si lamentò; poi soggiunse: “Lasciami provare la tua, per sentire se è uguale”.

Non visto, Mekko aveva intinto il mestolo nella zuppa di Pekka e ne aveva versato un po’ nella propria. Perciò disse: “Serviti, senza complimenti! Prendine in quel punto lì, sembra particolarmente buona”, e indicò il punto dove aveva versato la zuppa di Pekka.

Così il povero lupo assaggiò di nuovo il proprio orribile miscuglio, credendolo la zuppa di Mekko.

“Che strano” disse poi “Non mi piace neanche il sapore della tua zuppa! Sai cosa ti dico? La faccenda è che forse non mi piace proprio la zuppa d’orzo!”

Tristemente se ne andò scuotendo la testa, e quell’inverno fu duro per lui.

Quanto a Mekko il volpone, sogghignava sorbendo la sua bianca e cremosa zuppa di orzo: “Non capisco come a Pekka possa non piacere” disse fra sè, “Io la trovo deliziosa”.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconti e leggende sulla Luna

Racconti e leggende sulla Luna – una raccolta di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Racconti e leggende sulla Luna – Perchè la Luna ha le macchie

Quando il mondo fu creato, narra un’antica leggenda dell’Estonia, di giorno splendeva chiaro il Sole e di notte faceva buio buio. Il dio Ilmarinen pensò: “Bisogna trovare il mezzo di rischiarare un po’ le notti, altrimenti non è possibile vedere se succede qualcosa di brutto…”

Ilmarinen salì su una montagna, che sorgeva sotto la volta metallica del cielo, e fabbricò la Luna: una grande palla d’argento coperta d’oro, con una lampada nell’interno, e la appese sulla volta del cielo. Poi fabbricò anche le stelle d’argento lucente e le mise accanto alla Luna, come damigelle di corte.

Così, quando a sera il Sole si coricava, la Luna e le stelle illuminavano la notte fino all’alba. La Luna era chiara e  luminosa come il Sole, soltanto i suoi raggi non erano caldi, ma freddi.

Gli uomini erano molto contenti: ma il diavolo non era soddisfatto, perchè, ora che la Luna rischiarava la notte, egli non poteva compiere le sue malefatte, come prima, nel buio fitto. Se lo vedevano, doveva scappare a gambe levate!

Meditò profondamente: “E ora, come fare?”. Chiamò tutti i diavoli a consiglio, ma nessuno seppe suggerirgli una buona idea. Trascorsero sette giorni magri, e i diavoli non potevano più rubare nulla e non avevano più nulla da mangiare.

“Qui bisogna scacciare la Luna!” esclamò il capo diavolo, “Altrimenti guai a noi! Tutt’al più potremo sopportare le stelle, che non ci disturbano…”

Ma come fare a sbarazzarsi della Luna?

“Bisogna coprirla di catrame e annerirla tutta!” disse il capo diavolo “Così non ci darà più noia”:

Tutto il giorno i demoni si diedero un gran da fare a preparare un enorme barile di catrame e a fabbricare una scala lunga lunga, fatta di sette pezzi, che si potevano sovrapporre, in modo da arrivare alla volta del cielo.

Quando a notte la Luna comparve, il diavolo capo prese la scala sulle spalle e disse ai suoi servi di seguirlo, portando una secchia di catrame misto con fuliggine e un grosso pennello.

Giunti che furono sotto la Luna, il diavolo capo preparò la scala, sovrapponendo l’un l’altro i sette pezzi, e ordinò a un diavolino: “Prendi il pennello e il secchio di catrame, e sali in cima alla scala.”. Il diavolino obbedì, ma quando fu quasi in cima, il diavolo capo per il frescolino notturno starnutì, la scala traballò, il diavolino perse l’equilibrio e precipitò giù: Psssccct! Tutto il secchio di catrame e di fuliggine si rovesciò sulla testa del diavolo capo, e questi lasciò andare la scala, che cadde e si fracassò in mille pezzi.

“Corpo della Luna!” urlò il diavolo capo furibondo “Sono io adesso, che ho la faccia incatramata!”

Provò a togliersi il catrame e la fuliggine, ma ebbe un bel provare e riprovare: non riuscì a nulla! E da quel giorno il diavolo è rimasto nero nero come la fuliggine. Non abbandonò tuttavia l’idea di annerire anche la Luna. Fece fabbricare dai diavoli un’altra scala e la piantò al limitare del bosco, dove la Luna sorge più vicina alla Terra. Appena essa si levò, il diavolo capo ordinò a un diavolino: “Presto, arrampicati su su fino all’ultimo gradino e tingile il muso!”. Il diavolino obbedì: la scala arrivava, in alto in alto, proprio vicino alla Luna, ma era un affare serio mantenersi in equilibrio lassù e spennellare… E la Luna non stava ferma, continuava a salire in cielo…

Il diavolino gettò una corda come un laccio e attaccò la scala alla Luna, continuando ad annerirle la faccia col pennello incatramato.  Sudava per la fatica, e dopo molte ore, non era riuscito che ad annerire una parte della Luna.

Di sotto, il diavolo capo stava a guardare, col viso all’insù e la bocca spalancata, il lavoro del suo valletto. “Ah, ora sì che si comincia ad andar bene!” gridò, quando vide che l’operazione procedeva, e fece un balletto di gioia.

In quel momento il dio Ilmarinen si svegliò e guardando il cielo esclamò stupefatto: “Come? Non c’è una nube, eppure la Terra è per metà immersa nel buio? Che succede?”

Aguzzò lo sguardo e vide il diavolino all’opera in cima alla scala, intento ad intingere il suo pennello nel secchio di catrame, e giù, sul limitare del bosco, il diavolo capo, che saltava come un caprone.

“Ah, birbaccioni!” gridò Ilmarinen, “Credevate di farla franca mentre dormivo, eh? Ma ora vi accomodo io! Tu, diavolino, resterai per l’eternità col tuo secchio sulla Luna, e tu, diavolo capo, precipiterai per l’eternità sottoterra!”.

E fu così. Se guardate bene, dicono gli Estoni, vedrete infatti nella luna il diavolino con il suo secchio e col pennello. Quanto alla Luna, da allora ogni tanto si tuffa nel mare e tenta di lavar via le macchie nere sul suo viso… ma non ci riesce mai!

(Leggenda estone)

Racconti e leggende sulla Luna – Il quarto di Luna e le lucciole

Paigar, il signore del cielo, disse a sua moglie: “Su, donna, prepara una gran torta. Le stelle, nostre figlie, hanno appetito, vogliono mangiare”.

La massaia, manipolando uova, farina e miele, preparò la torta: una torta immensa, soffice, con una crosta lucida e dorata. Figurarsi le stelle, quando la videro! Non aspettarono che la mamma facesse loro le parti. Si gettarono avide sul pasticcio, e una tirava di qua, una pizzicava di là, un’altra affondava nella pasta dolcissima i denti e le unghie, altre ancora, non riuscendo a servirsi, si attaccavano alle trecce e alle orecchie delle sorelline. Una parte di torta, ridotta in briciole, cadde sulla terra.

La massaia scoppiò a piangere: “Povera mia fatica!”

Paigar prese il pasticcio, ridotto ormai a un solo quarto, e lo appuntò al bruno velluto del cielo; poi scese nel mondo e animò, trasformandole in insettini luminosi, le briciole cadute.

Disse alle figlie: “O golosacce, non mangerete dolci per otto secoli!”, e confortò la moglie: “Non disperarti. Vedi come risplende, in alto, lo spicchio di torta? Resterà sempre così, luminoso e bello, e nessuno riuscirà mai a mangiarselo. Guarda giù: un poco di firmamento sfavilla nell’ombra delle notti terrestri, palpita tra l’erba, i fiori e le siepi.  Sono le lucciole, sono le briciole che tu piangevi perdute”.

(Leggenda estone)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Musica Waldorf – La casina dei suoni: racconto per introdurre lo studio del flauto pentatonico

Musica Waldorf – La casina dei suoni – racconto per introdurre lo studio del flauto pentatonico per bambini della classe prima della scuola primaria.

 

C’era una volta un pastorello, che viveva felice sulle montagne col suo gregge di pecorelle. La notte dormiva sotto le stelle, e di giorno radunava le bestiole e le conduceva al pascolo.

Una sera, mentre stava riportando come al solito le pecore all’ovile, contandole, si accorse che una di loro era sfuggita alla sua sorveglianza. Dopo aver chiuso bene l’ovile, ritornò nel prato, dove poco prima le pecore erano state a pascolare, ma non la trovò.

Continuando a cercarla entrò nel bosco, e lì la vide, mentre si abbeverava ad un torrentello. La bestiola sembrava attratta da qualcosa, che si muoveva vicino alla riva.

Il pastore prese in braccio la sua pecorella e gettò un sassolino  nell’acqua. Con sua grande sorpresa,  vide uscire dal torrentello una fatina vestita di giallo, che disse meravigliata quanto lui: “Chi mi disturba mentre faccio il bagno?”

Il pastorello, spaventato per una cosa tanto insolita, si nascose con la sua pecorella dietro ad un cespuglio e rimase lì ad osservare in silenzio ciò che accadeva.

Dopo un po’ udì una voce bellissima e melodiosa, ed un coro di altre voci che si aggiunse alla prima.

“Chi sono?” si chiedeva il pastore, “Non ho mai sentito in vita mia una cosa così dolce! Come vorrei poter cantare così anch’io…” E vide altre quattro fatine che danzavano insieme: i suoni che producevano non avevano nulla della voce umana.

Il pastorello se ne stava nascosto dietro al cespuglio, con la sua pecorella in braccio, ma la bestiola cominciò a belare e a dare segni di impazienza. E fu così che le fatine si accorsero della presenza del pastorello.

“Chi sei?” chiesero, “Esci dal tuo nascondiglio, non ti faremo male!”

Il pastorello si fece coraggio, uscì allo scoperto e andò incontro alle cinque fate. Erano piccole e trasparenti, avvolte in veli di diversi colori. Ognuna di esse si presentò cantando:

“Mi chiamo Si” disse la prima, vestita di giallo.

“Il mio nome è La” disse la seconda, agitando il suo velo arancione.

“Io sono la fata Sol, e mi sento un po’ la regina, perchè il mio nome ricorda quello del sole” disse la terza, vestita di rosso.

“Io mi chiamo Mi” disse la quarta, vestita di verde.

L’ultima, che indossava un velo blu, si presentò come fata Re.

Il pastore, che era sempre vissuto da solo sulle montagne, fu felice di aver trovato delle amiche con le quali giocare, ma ciò che lo affascinava di più, era il loro canto, che non si sarebbe mai stancato di ascoltare.

“Insegnatemi il vostro canto ” disse il pastorello, “io so soltanto fischiettare…”

“Oh, ma non si può, ci dispiace. Non è un canto che si può imparare qui sulla terra. Noi l’abbiamo imparato nel nostro regno, che si trova lassù tra le stelle. Anzi, si è anche fatto tardi, il sole sta tramontando…” risposero le fate, “ti dobbiamo proprio lasciare!”

Il pastorello cercò di trattenerle: “Non andatevene!” disse “Ora che vi ho ascoltate, non posso più rimanere senza la vostra musica!”

“Ma dobbiamo andare” dissero loro “altrimenti ci dissolveremmo nell’aria e per noi sarebbe la fine. Entro mezzanotte dobbiamo assolutamente essere a casa”.

Il pastorello si mise a piangere e, implorando, chiese loro di rimanere, ma non c’era proprio nulla da fare. Si sentiva infinitamente triste. Allora, scomparse le fatine, dal folto del bosco apparve una creatura bellissima e luminosa che gli disse: “Io sono Musica, ho sentito la tua tristezza e voglio aiutarti. Vedi quel pero abbattuto? Intaglia da un suo ramo una bella casa per le tue amiche fatine, così potranno essere al sicuro, anche dopo la mezzanotte, e tu potrai sempre portarle sempre con te…”

La creatura scomparve, il pastorello scelse un bel ramo dall’albero di pero, e il giorno dopo si mise al lavoro. Con un coltellino scolpì per le sue fatine una casetta due porticine e sei finestrelle. Quando la casetta fu pronta, chiamò le sue amiche, e le invitò a visitarla. Ma qualcosa non funzionava… le fatine entravano cantando, ma non appena si sistemavano all’interno della bella casina, il loro canta cessava. Il pastorello provava a chiamarle sbirciando dalle porticine e dalle finestrelle, ma niente. Provava a bussare, ma le fatine non rispondevano.

Fu il vento che venne allora in suo aiuto, e soffiando sfiorò la porticina di ingresso della casetta: subito la fatina gialla potè uscire intonando la sua melodia. Il pastore capì che doveva chiamarle attraverso la porticina, aprendo e chiudendo le loro finestrelle. E cominciò a chiamare anche le altre, che felici rispondevano ad suo cenno delle dita.

Così, da quel giorno,  il pastore e le fatine vissero insieme felici e contenti.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Guerre contro i Sanniti

I Sanniti abitavano le montagne boscose di quella regione che ora si chiama Abruzzo. La via dura tra rocce e foreste li aveva resi forti e coraggiosi. Roma, che continuava ad estendere il suo dominio, giunse ai loro confini e incontrò una resistenza tenacissima. Per venti anni vi furono battaglie. I Sanniti riportarono una vittoria a Caudio, tra Capua  e Benevento, e costrinsero i prigionieri romani a passare chinati sotto un giogo (forche caudine). La guerra continuò incerta per altri trent’anni, finchè i Sanniti furono sottomessi ed altre terre si aggiunsero al dominio di Roma.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Taranto

Una città tutta distesa lungo il mare tentò di opporsi alla potenza di Roma: Taranto, un’antica colonia greca. Quando una piccola flotta mercantile romana apparve in vista della città, i Tarantini, per intimorire gli avversari, affondarono tre navi. Subito Roma si mosse per vendicare l’affronto. Taranto, temendo la minaccia delle legioni ormai vicine, invocò l’aiuto di Pirro, un sovrano greco avventuroso.
Egli aveva un esercito disciplinato e ben armato e lo metteva al servizio di chi lo compensava riccamente. Possedeva inoltre un’arma nuova e potente: un buon numero di elefanti, addestrati a lanciarsi nella mischia con una torre sulla groppa, dalla quale gli arcieri fulminavano con le frecce i nemici. Due volte Pirro riuscì a sconfiggere i Romani, ma pagò il successo a caro prezzo.
Superato lo sgomento, i Romani impararono a combattere contro gli elefanti: li atterrivano lanciando contro di essi dardi infuocati: così i pachidermi volgevano in fuga disordinata scompigliando le schiere di Pirro. I nemici furono travolti a Malavento (poi chiamata Benevento) nell’anno 275 prima della nascita di Cristo. L’ultimo ostacolo nella penisola era superato. Roma, padrona di mezza Italia, guardava oltre il mare: all’orizzonte appariva, come un invito, l’azzurro profilo della Sicilia.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le forche caudine

Per raggiungere l’Africa, la strada più breve passava fra i monti per una stretta gola, vicino a Caudio. I Romani si inoltrarono disavvedutamente per questo passaggio, senza l’aiuto di guide o di esploratori. Giunti alla gola Caudina trovarono il passaggio ostruito da massi e da alberi. Improvvisamente sbucarono da ogni roccia, da ogni nascondiglio, i Sanniti, fieri abitanti della regione.
Invano i Romani, combattendo con valore disperato, tentarono di spezzare il cerchio d’uomini e di ferro che li stringeva. Dopo inutili tentativi, stremati di forze, scoraggiati, ogni giorno più mancanti di viveri, essi deliberarono e iniziarono trattative con il nemico, che li costrinse a sottomettersi all’umiliazione più atroce.
Tutta l’armata preceduta dal console, al quale furono tolte le insegne ed il rosso mantello, passò sotto il giogo e subì la derisione dei Sanniti, i quali non esitarono a percuotere con le loro armi i legionari nell’atto in cui si chinavano, curvando la testa, per passare sotto le lance incrociate e conficcate a terra.
Infine, il generalissimo sannita, Caio Ponzio Telesino, rimandò tutti, soldati e ufficiali, in patria, salvo poche centinaia di nobili cavalieri, che furono trattenuti in ostaggio.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le forche caudine

Tanto i Romani che i Sanniti non avevano abbandonato il proposito di conquistare la Campania. I primi ad agire sono  i Romani: nel 327 aC, essi occupano la città di Partenope (l’odierna Napoli). La reazione dei Sanniti è però immediata: affidato il comando dell’esercito a un grande condottiero, Caio Ponzio, lo inviano in Campania contro le truppe romane.
I primi cinque anni di guerra sono favorevoli per i Romani: essi riescono persino ad occupare buona parte del Sannio.
Vista l’impossibilità di sconfiggere i Romani in battaglia, Caio Ponzio tenta allora di vincerli con l’astuzia. Fatte ritirare le sue truppe sui monti, presso Caudio, egli fa spargere la notizia che si è portato ad assediare Lucera (nell’Apulia), una città alleata di Roma. Non sospettando l’inganno, i Romani accorrono immediatamente in aiuto della città minacciata e, per giungere più presto, decidono di prendere la strada più breve che passa per Caudio.
Errore gravissimo! Presso Caudio, questa strada entra in una valle stretta e profonda, i cui monti formano all’entrata e all’uscita di essa due gole strettissime, dette Forche Caudine.
Tra quei monti e all’uscita della valle, Caio Ponzio aveva nascosto i suoi soldati. Ed ecco infatti il disastro. Attraversata la prima gola e percorsa la valle, i soldati romani trovano l’uscita bloccata da macigni.
S’accorgono allora dell’agguato, retrocedono,  tentano di ripassare da dove sono entrati; inutilmente; i Sanniti hanno occupato nel frattempo anche quella gola. Circondati da ogni parte, i soldati romani tentano con disperato valore di aprirsi un varco, ma invano. Dopo aver perduto parecchi soldati, essi sono costretti alla resa. Ben quarantamila Romani cadono prigionieri nelle mani dei Sanniti! (anno 321 aC)
Dopo la grande vittoria sui Romani, Caio Ponzio scrisse al padre ( uomo allora molto celebre tra i Sanniti per la sua grande saggezza) per chiedergli come avrebbe dovuto trattare i nemici caduti in suo potere.
Il vecchio saggio rispose: “O ucciderli tutti o rimandarli tutti salvi a Roma. Nel primo caso, prima che i nemicii abbiano ricostituito un esercito ci vorrà tempo, e ci lasceranno perciò in pace; nel secondo caso avremo per sempre la loro gratitudine”.
Ponzio decise allora di rimandarli tutti salvi a Roma, ma volle prima che si sottoponessero a una grande umiliazione. Li costrinse a passare curvi e disarmati sotto il giogo, ossia sotto una lancia legata trasversalmente ad altre due piantate nel terreno.
Il Senato Romano volle riparare immediatamente ad una sconfitta così indegna e inviò subito un nuovo esercito contro i Sanniti. La lotta fu ripresa con grande accanimento e solo nel 304 i Romani riuscirono ad ottenere presso la città di Boviano una grande vittoria sul nemico. Nella pace che ne seguì, i Sanniti dovettero riconoscere ai Romani il possesso della Campania.
Ma anche i Sanniti non sono un popolo da arrendersi facilmente. Eccoli infatti prepararsi immediatamente alla riscossa.
Quando nel 298 aC Etruschi, Umbri e Galli, desiderosi di abbattere la potenza romana, si riuniscono in una lega per combattere contro Roma, i Sanniti si affrettano ad allearsi con loro. Con l’aiuto di questi popoli, i Sanniti sperano di poter piegare per sempre i loro grandi rivali.
I  Romani non si perdono d’animo: a così grande pericolo, rispondono con fulminea rapidità. Formati tre eserciti, ne mandano uno in Etruria (l’attuale Toscana) contro gli Etruschi; il più numeroso in Umbria, dove si è concentrato il maggior numero di nemici; e lasciano il terzo a difesa di  Roma.
Tale strategia si mostra subito indovinatissima: gli Etruschi abbandonano gli alleati e accorrono a difendere la loro terra. Lo scontro decisivo, che vede impegnati trentacinquemila Romani contro cinquantamila alleati, ha luogo a Sentino (nell’Umbria). La battaglia infuria per tre giorni consecutivi: alla fine, i Sanniti vengono pienamente sconfitti.
Impressionati dalla schiacciante vittoria romana, gli Etruschi, gli Umbri ed i Galli depongono le armi e trattano la pace con Roma; ma i Sanniti non si arrendono ancora: affidano un nuovo esercito a Caio Ponzio, tentano nel 292 una nuova riscossa. In meno di due anni devono però mettere da parte ogni speranza di rivincita: il loro esercito viene annientato e lo stesso Ponzio viene fatto prigioniero.
Questa volta è veramente la fine: dopo mezzo secolo di durissime lotte, il valoroso popolo Sannita è costretto a sottomettersi alla potenza di Roma. Anche i popoli dell’Italia centrale, che si sono schierati dalla parte dei Sanniti, devono seguire la medesima sorte.
Così, al termine delle lunghe guerre sannitiche (anno 290 aC), il dominio di Roma comprende parte dell’Etruria, l’Umbria, la Sabina, il Sannio e la Campania.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Roma e Taranto

I Romani dopo aver sconfitto i Sanniti, possedevano ormai, oltre il Lazio, gran parte della Toscana e dell’Umbria, le Marche e la Campania.
Sulle coste dell’Italia meridionale sorgevano le città della Magna Grecia; esse controllavano la zona del Mediterraneo, dove le loro navi svolgevano il traffico commerciale. Queste città cominciarono a sentirsi minacciate dalla rapida avanzata di Roma.
Tra loro, Taranto era la più ricca e potente. Quando il pericolo romano si fece più vicino, i Tarantini non si sentirono però abbastanza forti per sostenere l’attacco e chiesero aiuto a Pirro, re dell’Epiro, l’odierna Albania.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Fango e sangue sulle toghe degli ambasciatori romani

I Tarantini avevano affondato alcune navi dei Romani. Roma mandò a Taranto alcuni ambasciatori che, invece di ricevere scuse, furono gravemente offesi. Ecco come si svolse l’episodio.
Gli animi dei Tarantini sono colmi d’ira: i Romani hanno osato attraversare con le loro triremi quel mare che avevano promesso di non solcare mai, ed ora mandano gli ambasciatori a protestare perchè quattro navi sono state affondate?
Passano gli ambasciatori per le strade bagnate dalla pioggia, e guardano con occhi alteri i volti dei Tarantini, che si assiepano lungo il passaggio.
Ora si fermano davanti ai capi della città e il più anziano di essi comincia a parlare.
Parla della gloria di Roma, della forza di Roma, della potenza di Roma…
Ed ecco uno della folla chinarsi, prendere una manciata di fango e gettarla sulla toga immacolata dell’ambasciatore che continua a parlare di Roma!
L’ambasciatore ammutolisce. Tra i Tarantini serpeggia il riso.
Qualcun altro, seguendo l’esempio del primo, prende di mira la toga con nuove manciate di fango.
Allora l’ambasciatore dice con voce ben chiara: “Leverete col vostro sangue questa toga, che avete macchiato col vostro fango!”
Troppo tardi nel cuore dei Tarantini trema lo sgomento: ci sarà la guerra!

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le vittorie di Pirro

Pirro, re dell’Epiro, faceva paura, anche perchè nel suo esercito marciavano animali stranissimi, fortissimi e non mai visti dai Romani.
Questi spaventosi animali erano gli elefanti.
I Romani se li videro davanti, per la prima volta, in Lucania. Perciò li chiamarono buoi lucani.
Tutti fuggivano alla vista di quei colossi, con le gambe che sembravano colonne e con le proboscidi che lanciavano gli uomini lontano.
Ma i Romani, dopo il primo momento di paura, si cacciarono sotto la pancia degli elefanti, squarciarono loro il ventre con la corta spada.
Nel vedere molti dei suoi elefanti riversi a terra e immobili come montagne, Pirro ebbe a dire: “Un’altra vittoria come questa e sono rovinato!” (P. Bargellini)

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – La spedizione di Pirro

L’Italia Meridionale era abitata in parte da popolazioni italiche, in parte da Italioti, Greci stabiliti nelle città della costa del golfo di Napoli, fino allo Ionio e all’Adriatico:
Le città greche più importanti erano Taranto e Turio. Turio, assalita dai Lucani, chiese aiuto a Roma, e per soccorrere questa città, i Romani si trovarono in guerra aperta con la potente Taranto.
I Tarantini si accorsero ben presto di aver commesso un grave errore stuzzicando i Romani, e non volendo restarne schiacciati, ricorsero ad un sovrano balcanico, Pirro. Pirro, re dell’Epiro, apparteneva come razza al gruppo illirico della famiglia indoeuropea, lo stesso che attualmente è rappresentato dagli Albanesi; era giovane, ardito e ambizioso. In tutta la sua vita aveva cercato le avventure, e l’avventura a cui lo invitavano i Tarantini gli pareva la più bella e la più promettente. Non poteva egli, introdotto in Italia dai Tarantini, diventare, vincendo i Roman, il signore dell’Italia, un paese che la voce dei mercanti gli dipingeva più bello del suo selvaggio e sterile Epiro? Pirro accettò la proposta dei Tarantini, e sbarcò a Taranto con ventitremila uomini e venti animali da cui forse il suolo d’Italia non era stato mai calcato. I Romani certo non li conoscevano e, prima di apprendere dai Greci che quegli animali si chiamavano elefanti, li chiamarono ingenuamente, dalla terra d’Italia in cui la prima volta li avevano incontrati, “bovi di Lucania”.
Il primo scontro tra Pirro e i Romani si ebbe presso una città sul golfo di Taranto chiamata Eraclea, nel 280 aC. I “bovi di Lucania”, lanciati abilmente in mezzo alle file dei combattenti, spaventarono talmente i fanti romani che, pur avendo causato tra le file degli Epiroti perdite gravissime, essi dovettero volgere in fuga alla fine della battaglia.
“Un’altra di queste vittorie, e dovrò tornare in Epiro senza un soldato”, disse allora tristemente il valoroso re balcanico, e da quel momento si chiamò “vittoria di Pirro” ogni vittoria ottenuta a troppo caro prezzo.
Il Re, invece di sfruttare il suo successo, cerca di trattare la pace con Roma, e solo quando il Senato gli impone per questa condizioni troppo gravose, si risolve a riprendere la guerra.
Caio Fabrizio e Manlio Curio Dentato sono i comandanti degli eserciti che Roma manda contro il pericoloso intruso. Pur combattendo valorosamente e vittoriosamente ad Ascoli di Puglia e a Benevento, i due forse non insegnano nel campo militare nulla di nuovo al bellicoso sovrano, ma, a stare a quanto raccontano gli storici, essi fecero sì che il Re ripassasse l’Adriatico col ricordo incancellabile della grande onestà dei magistrati romani che non solo, poveri, non si lasciarono corrompere dalle offerte di denaro, ma sapevano essere leali col nemico contro i loro interessi.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Onestà di Fabrizio

Dopo la battaglia di Eraclea, in cui i Romani furono gravemente sconfitti, giunsero ambasciatori a Pirro per trattare la restituzione dei prigionieri di guerra. Fra gli ambasciatori romani era Caio Fabrizio, noto per il suo valore e per la sua onestà. Pirro, sapendo che Fabrizio era anche molto povero, cercò di corromperlo, offrendogli una considerevole somma, come segno di amicizia. Fabrizio rispose sorridendo a Pirro che la sua povertà gli era cara quanto la libertà personale e rifiutò il  dono.
Il giorno seguente Pirro cercò di spaventare l’onesto ambasciatore facendo entrare nella tenda in cui si trattava la resa dei prigionieri un elefante (animale che Fabrizio non aveva mai veduto). Ancora una volta Fabrizio sorridendo disse che l’elefante non lo aveva spaventato più di quanto lo avesse persuaso l’offerta dell’oro.
Pirro cominciò a stimare fortemente Fabrizio e la stima accrebbe in altra occasione. Il medico personale del re aveva inviato una lettera a Fabrizio, promettendogli che se avesse avvelenato Pirro sarebbe stato ampiamente ricompensato. Per tutta risposta Fabrizio rivelò a Pirro ogni cosa, avvisandolo del tradimento e del pericolo che incombeva su di lui.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le ambizioni di Pirro e la saggezza del suo ministro

Pirro, il famoso re dell’Epiro, s’apparecchiava con grande entusiasmo alla sua spedizione in Italia, chiamato dai Tarantini contro i Romani. Non mai il suo amico e consigliere Cinea l’aveva visto così allegro.
“Vedi?” gli diceva enfaticamente il re, mettendolo a parte dei suoi progetti, delle sue ambizioni e delle sue speranze, “Adesso noi conquisteremo l’Italia.”
“E poi?”, gli rispondeva Cinea, conservando tutta la propria calma.
“Dopo l’Italia”, proseguiva Pirro, “abbatteremo Cartagine e conquisteremo l’Africa”
“E poi?”
“Poi conquisteremo la Macedonia, la Grecia e gli altri Paesi del mondo”.
“E quando avremo conquistato tutto il mondo?”
“Oh! Allora” esclamò Pirro “noi ritorneremo nel nostro regno e godremo una continua pace….”
“E perchè” l’interruppe Cinea “non cominciamo subito da questo? Perchè lasciare in ultimo quel che si può avere in principio?”
Se Pirro avesse dato ascolto al suo ministro, non gli sarebbero toccate le batoste che ebbe dai Romani a Benevento.

Nonostante le sue smodata ambizioni, il re Pirro fu uomo generoso, oltre che gran capitano. Una volta, gli fu riferito che alcuni giovani, in un banchetto, si erano scagliati a dir corna di lui. Egli li fece subito imprigionare, e condotti alla sua presenza, domandò loro se fosse vero.
“Altro che vero!” rispose uno, “E se non fosse stato che sul più bello ci mancò il vino, a parole, ti avremmo anche ammazzato!”
Rise il re Pirro, e cavallerescamente li rimandò a casa, raccomandando loro di non bere più tanto vino un’altra volta.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma IMPERIALE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma IMPERIALE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Storia di Roma IMPERIALE – Augusto

Alla morte di Cesare, tutta Roma insorse contro gli uccisori: Cesare era stato il grande conquistatore della Gallia. Egli era stato amico del popolo e il popolo voleva vendetta. I congiurati fuggirono e, a Roma, pretese il potere Marco Antonio, luogotenente di Cesare durante le guerre vittoriose. Molti temevano la prepotenza di Antonio, e i Senatori gli erano avversari accaniti.
A Marco Antonio si affiancò, intanto, un giovane di vent’anni, Cesare Ottaviano, parente ed erede di Cesare. Dapprima i due furono d’accordo e si divisero il potere dello Stato: Antonio ebbe le terre d’Oriente, Ottaviano quelle d’Occidente. Ottaviano, però, era ambizioso e sicuro di sè ed aveva l’appoggio e l’amicizia del Senato. Appena Antonio, con i suoi errori, gliene diede l’occasione, mosse guerra contro di lui e lo sconfisse nella battaglia di Azio (Grecia). Antonio si uccise. Ottaviano rimase solo al potere.
Egli ottenne, allora, ogni autorità; fu, nello stesso tempo, console, dittatore, pontefice; ebbe i titoli di Augusto, che vuol dire “grande”, “divino”, e di Imperatore, che vuol dire “comandante supremo” delle legioni.
Con Cesare Ottaviano Augusto , nell’anno 27 aC finiva la Repubblica e cominciava l’Impero.
Augusto governò saggiamente lo stato e, dopo tante lotte, garantì ai Romani un lungo periodo di tranquillità. In Roma sorse un tempio dedicato alla Pace dove l’Imperatore stesso compiva le cerimonie dei sacrifici.
Trascorsero 27 anni e, in una lontana provincia dell’Impero, la Palestina, nacque Gesù.

Storia di Roma IMPERIALE – Ottaviano, Antonio e Cleopatra

Gli uccisori di Cesare fuggirono in tutta fretta per non essere massacrati dal popolo. La repubblica fu ancora sconvolta da sanguinose guerre civili che si conclusero con la vittoria di Caio Giulio Cesare Ottaviano, nipote del morto dittatore.
L’ultimo suo rivale fu Marco Antonio, un eccellente uomo di guerra che aveva avuto dal Senato il governo delle province d’Oriente.
Laggiù aveva sposato Cleopatra, regina d’Egitto, e s’era messo, lui, governatore romano, a regalare alla moglie regina, territori che appartenevano a Roma.
Ottaviano non poteva permetterlo e perciò gli mosse guerra. La guerra fra i due rivali fu decisa da una battaglia navale, ad Azio, nel mar Ionio, 15 anni prima che nascesse Gesù.
Antonio e Cleopatra avevano una flotta di grosse navi; le navi di Ottaviano erano invece piccole, ma agilissime, ed ebbero la meglio.
Ottaviano inseguì i vinti fino in Egitto. Là, i due si uccisero: Antonio con la propria spada; Cleopatra facendosi mordere da un aspide… e anche l’Egitto cadde in potere di Roma.

Storia di Roma IMPERIALE – La battaglia di Azio

La battaglia di Azio  fu combattuta il 2 settembre del 31 aC, tra le 250 navi leggere di Ottaviano e le 500 navi pesanti di Antonio: tra queste ultimi figurano 60 vascelli egizi, uno dei quali, riconoscibile dalla vela rossa, portava Cleopatra, regina d’Egitto. Lo scontro avvenne al largo del promontorio di Azio, sulla costa occidentale della Grecia. Su quella punta sorgeva un tempio dedicato ad Apollo, e i soliti bene informati, a Roma, andavano dicendo che Ottaviano  era figlio del dio… quindi un presagio era chiaro!
Non si capisce come mai Antonio, uno dei più bravi comandanti di cavalleria di Roma, abbia preferito dar battaglia per mare. Senza dubbio fu per accontentare Cleopatra, la quale invece aveva fiducia solo nella flotta. Imbarcò dunque 2.000 legionari e 3.000 arcieri. I marinai, in queste battaglie navali, avevano solo il compito di manovrare e di accostare le navi a fianco a fianco di quelle nemiche. La battaglia era allora affidata ai fanti, i quali combattevano sui ponti delle navi come a terra. I veterani di Antonio avevano protestato: ma Antonio aveva deciso che avrebbe giocato sul mare la sua sorte.
Un debole vento spinse la sua squadra verso quella di Ottaviano, il quale attendeva al largo e per un po’, allo scopo di allontanarsi bene da terra e trovarsi in acque libere rifiutò battaglia. Poi Agrippa diede l’ordine d’attacco. Arrivate in vicinanza delle pesanti navi nemiche, i suoi soldati cercarono di raggiungerle con giavellotti incendiari. La linea di Antonio si ritirò al centro e Agrippa si infiltrò subito nella breccia aperta. Nulla certo era ancora perduto ma Cleopatra, trovandosi al centro della terribile mischia, perse la testa. In pieno combattimento ruppe il contatto col resto della sua flotta e la sua vela purpurea, immediatamente seguita da tutte le vele egizie, s’allontanò verso l’Egitto. A questo punto anche Antonio perse il controllo: abbandonando la sua squadra, che cadeva sotto i colpi nemici, raggiunse la nave regale e si accasciò affranto sul castello della nave con la testa tra le mani.
Meno di un anno dopo la regina e il comandante fuggiasco si diedero la morte: Antonio, trafiggendosi con la propria spada, Cleopatra facendosi mordere da un serpente velenoso. Tutto, anche il suicidio, gli era sembrato preferibile alla vergogna di comparire come prigioniero nel trionfo di Ottaviano.
A Roma la notizia della vittoria di Azio fece tirare al popolo un sospiro di sollievo. Tutti avevano tremato prima che la sorte delle armi avesse deciso la contesa. Roma, come ben si sapeva, aveva vinto l’Oriente solo grazie alla sua disciplina e ai suoi metodi di guerra. Se ora generali romani, come Antonio, avessero tentato di organizzare quelle masse, che cosa sarebbe accaduto?
Cessò dunque la paura, si tirarono fuori dalle cantine le anfore di vino invecchiato nell’attesa del gran giorno: finalmente cominciava un’epoca di pace! E un piccolo uomo grassoccio, fino a poco prima ufficiale assai poco valoroso tra le file di Bruto, il buon poeta Orazio, versando nella sua coppa il vino migliore, esclamava: “Nunc est bibendum!” (si beva, orsù!).
Il sole di Azio rischiarava un mondo nuovo. Difatti, seguirà un lungo periodo di pace interna, operosa, che farà dimenticare un triste passato di sangue.

Storia di Roma IMPERIALE – Ritratto di Augusto

Bello di aspetto, il volto sempre calmo e sereno, anche nei momenti più difficili, Augusto sapeva infondere rispetto e quasi venerazione in chiunque. Un capo dei Galli, che aveva deciso di ucciderlo durante un colloquio, confessò poi di essere stato trattenuto, proprio per la serena maestà del suo volto.
Aveva abitudini e gusti semplici, non amava mostrarsi in pubblico per ricevere onori; spesso anzi entrava ed usciva dalla città solo di notte perchè nessuno lo vedesse e gli rendesse gli onori. Cortese con tutti, amato dal popolo, si meritò giustamente il titoli di Padre della Patria.
Quando Ottaviano ritornò a Roma vincitore, il Senato gli conferì tutte le cariche e tutti gli onori: nessuno, prima di lui, era stato tanto esaltato! Ma egli non si insuperbì.
Il senatore Valerio Messala a nome di tutti così lo salutò: “Salute a te e alla tua casa, Cesare Augusto; noi pregando gli dei per te, preghiamo felicità perpetua e lieti destini alla Repubblica; il Senato, d’accordo col popolo romano, ti acclama Padre della Patria.”
Augusto, con le lacrime agli occhi, rispose: “Ed io pregherò gli dei perchè mi concedano di godere del favore del Senato e del popolo romano fino all’estremo giorno della mia vita”.

Storia di Roma IMPERIALE – Carattere di Augusto

Nei giorni di udienza ammetteva perfino i plebei, alla rinfusa, e con tanta benignità accoglieva i desideri di chi andava da lui, che un giorno, vedendo l’esitazione di uno che non sapeva come porgergli la sua supplica, gli disse scherzando se aveva paura di lui come di un elefante dalla minacciosa proboscide.
Nei giorni in cui teneva seduta in Senato, entrava, e quando tutti erano seduti, salutava cordialmente per nome i singoli senatori, senza che alcuno gliene ricordasse il nome.
Usava modi cortesi con tutti e non mancava mai alle solennità dei suoi amici. Egli rispettò la libertà di tutti. Era senza dubbio molto amato.
I cavalieri tutti gli ani celebravano per due giorni di seguito il suo giorno natale; gli altri ordini gettavano ogni anno nel Foro una moneta rituale per la sua salute, e per capodanno gli offrivano la strenna in Campidoglio. Quando riedificò la sua casa sul Palatino dopo l’incendio che l’aveva distrutta, i veterani e tutte le classi cittadine gli offrirono grosse somme di denaro; ed egli non levò da quelle somme che un solo denaro per ciascuna.

Storia di Roma IMPERIALE – La pace romana

Dopo tanti anni di guerre, i popoli dell’Impero accettarono ben volentieri il governo di Augusto, che assicurava a tutti di poter vivere in pace sotto il segno di un’unica legge: quella romana.
Durante il suo lungo e pacifico regno, Roma divenne bella e bene organizzata città. Furono restaurati templi ed edifici, vennero demolite numerose vecchie case, si provvide a rafforzare gli argini del Tevere, si costruirono nuovi ponti ed acquedotti.
La città si arricchì di bellissimi palazzi e ville, di giardini , fontane di marmo, statue, portici per le passeggiate, di teatri, di fastosi templi, di meravigliosi monumenti, come l’Ara Pacis, e di una grandiosa piazza, chiamata Foro di Augusto.
Molte opere furono eseguite o abbellite col denaro dello stesso Imperatore; per questo il Senato conferì ad Augusto il titolo di Restauratore degli edifici sacri e delle opere pubbliche.
L’aspetto di Roma mutò tanto che Augusto ebbe a dire: “Ho trovato una città di mattoni e la lascio di marmo”.
Anche gli scrittori ed i poeti del tempo, nominando Roma, la chiamarono grande, bellissima, aurea, eterna.

Storia di Roma IMPERIALE – Il governo di Augusto

Nella sua bella casa privata sul Palatino, Augusto diresse l’amministrazione del vasto stato. Con alcune guerre di carattere difensivo allargò i confini a nord e ad est delle Alpi, portandoli al Danubio. L’impero si estendeva ora dalle coste dell’Atlantico all’Eufrate e al Mar Rosso, dalla Manica, dal Reno, dal Danubio e dal Mar Nero alle sabbie del deserto africano, per una superficie doppia di quella dell’impero di Alessandro Magno.
Ottaviano si propose di renderlo omogeneo con leggi ed ordinamenti uguali, di migliorarne l’amministrazione, di difenderne la sicurezza, di rinnovarlo moralmente. Per poter compiere questa grande opera, fu amante della pace; tornato a Roma dall’Egitto, chiuse le porte del tempio di Giano a significare che si inaugurava per tutto l’impero la Pax Romana.
Augusto riformò anche l’amministrazione delle province antiche e nuove; anzitutto divise l’impero in 25 province distinte in senatorie ed imperiali.
Erano senatorie, cioè governate da proconsoli eletti dal Senato, quelle (12 in tutto) di più antica conquista e quindi di pacifico dominio; imperiali quelle di recente conquista e poste nelle zone di confine, facili perciò a pericoli interni ed esterni: erano governate dall’imperatore per mezzo dei suoi luogotenenti o prefetti.
A tutti i funzionari delle province assegnò un regolare stipendio. Così si cominciò a formare una classe di impiegati statali, quella che noi chiamiamo burocrazia.
Riordinò anche l’esercito. Siccome il reclutamento obbligatorio non era più gradito ai Romani, organizzò un esercito permanente, formato di volontari stipendiati che prestavano servizio per vent’anni, e poi venivano congedati, ricevendo un premio in denaro o un pezzo di terra da coltivare.
Augusto curò anche la flotta e pose basi navali, una a Ravenna e l’altra a Miseno, una terza nel Mediterraneo occidentale per sorvegliare le coste galliche e spagnole, una quarta nel Ponto Eusino per il confine orientale.
Per la protezione della sua persona, istituì nuove coorti di soldati speciali detti pretoriani, dal nome del palazzo imperiale Praetorium.
Compì grandi lavori pubblici di abbellimento e di utilità: templi, archi, acquedotti, vie.
Augusto cercò anche di ravvivare il sentimento religioso, la moralità nei costumi, l’amore all’agricoltura, il patriottismo dei cittadini, che si erano rilassati per lo smodato desiderio delle ricchezze, del lusso, dei piaceri materiali; ma queste riforme ebbero scarso risultato.
Insieme con i suoi consiglieri, Mecenate ed Agrippa, incoraggiò la letteratura e l’arte che raggiunsero allora il massimo splendore.

Storia di Roma IMPERIALE – Augusto e il centurione

Un giorno l’imperatore Cesare Ottaviano Augusto se ne stava tra i suoi amici, quando seppe che un centurione chiedeva con insistenza d essere ricevuto. Ordinò che fosse fatto passare.
Appena vide il centurione, Augusto sorrise: riconosceva in lui uno dei suoi più fedeli soldati. Gli chiese che cosa volesse.
“Il tuo aiuto, Cesare. Un nemico invidioso delle terre che mi hai regalato, come a tutti i tuoi soldati, ha presentato in tribunale una grave accusa contro di me. Io so di avere il giusto diritto dalla mia parte; egli ha una grande autorità presso  i giudici che dovranno dare la sentenza; perciò sono venuto a chiederti di difendere la mia causa”.
I presenti si guardarono tra loro sbalorditi. Come osava, un modesto centurione, parlare così al signore di Roma?
Ma Augusto ben conosceva quel soldato; sapeva che veramente era stato fedele e valoroso. Gli additò allora una persona che gli sedeva accanto, e che era un famoso avvocato.
“Ecco, questo mio amico ti difenderà davanti ai giudici perchè il tuo buon diritto trionfi. Va’ pure tranquillo”.
Ma il centurione non si mosse. Poi alzò fieramente il capo e, aprendo la veste sul petto, mostrò le ferite che lo solcavano.
“Cesare, quando nella battaglia di Azio la tua fortuna e la tua vita erano in pericolo, io non incaricai nessuno di difenderti, ma lo feci io stesso”.
Augusto tacque, colpito; poi, guardando il soldato: “Hai ragione!” disse, “Va’ senza paura: verrò io stesso in tribunale a difendere la tua causa”. (C. Lorenzoni)

Storia di Roma IMPERIALE – Ave, o Cesare

L’imperatore Cesare Augusto tornava a Roma dopo aver vinto una grande battaglia. Un popolano gli andò arditamente incontro e gli presentò un corvo, al quale egli aveva insegnato a dire: “Ave, o Cesare, vittorioso imperatore!”.
Augusto, sorpreso e lusingato, volle l’uccello e diede in cambio una forte somma di denaro.
Un povero ciabattino, che aveva assistito alla scena, con i pochi suoi risparmi comperò subito un bel pappagallo e cominciò ad ammaestrarlo,  perchè salutasse l’imperatore con le stesse parole del corvo. Ma il pappagallo stentava ad imparare e il povero ciabattino, sfiduciato, dopo ogni prova ripeteva: “Oh povero me, ho sciupato tempo e denaro!”.
Finalmente il pappagallo riuscì a ripetere le parole del saluto ed il ciabattino, contento e pieno di speranza, si presentò ad Augusto. L’uccello, sollecitato, disse con bella voce e molta sicurezza: “Ave, o Cesare, vittorioso imperatore!”.
Ma Augusto, udito il saluto, rispose disgustato: “Via! Via! Ho pieni gli orecchi di questi saluti!”.
Il povero ciabattino stava per andarsene mortificato, quando all’improvviso il pappagallo, con sfacciata petulanza, si mise ad urlare: “Oh povero me, ho sciupato tempo e denaro!”.
Augusto rise a quelle parole, richiamò il ciabattino e comprò il pappagallo a caro prezzo.

Storia di Roma IMPERIALE – L’Altare della Pace

In onore dell’Imperatore un mese dell’anno prese il nome di Agosto, che vuol dire mese di Augusto. Gli avrebbero voluto innalzare anche un tempio, ma egli non volle. Preferì che, nel cuore di Roma, sorgesse un nuovo monumento, chiamato l’ “Altare della Pace”.
Aveva forma quasi quadrata ed era costruito tutto in marmo, con due fronti e una porta per ogni fronte; internamente vi era l’altare o ara. Il monumento, privo di colonne, era percorso da magnifici bassorilievi, dove erano sculture rappresentanti una solenne processione: la processione di uomini, donne e bambini, che portavano i loro voti all’altare della pace, promettendo di essere sempre pacifici e concordi.
Nel periodo della pace di Augusto progredirono gli studi e la cultura. Visse allora il poeta Virgilio, il più grande poeta latino e uno dei più grandi dell’umanità.
Inoltre vanno ricordati Orazio, Tibullo, Ovidio, anch’essi poeti, e il grande Tito Livio.

Augusto

Augusto fu l’ultimo console e il primo imperatore romano. Il destino gli aveva preparato un grande avvenire. Non per nulla, mentre, ancora fanciullo, aveva chiesto ad un indovino che cosa li prediceva per il futuro, l’indovino stesso gli si era inginocchiato davanti. Tuttavia egli era di animo mite e giusto e benevolo.
Ad un soldato che gli diceva di difenderlo davanti ai giudici rispondeva dapprima: “Ti manderò in difes il mio migliore avvocato”.
Ma siccome il soldato insisteva dicendo: “Quando mi chiamasti per la guerra io stesso venni e non mandai altri!”, Augusto aggiunse pronto: “Hai ragione! Verrò io stesso!”.

Storia di Roma IMPERIALE – Virgilio

A Roma si diceva “Virgilio consuma più olio che vino”. Ciò voleva dire che Virgilio studiava, anche di notte, al lume della lucerna e che era sobrio, cioè mangiava poco e beveva meno.
Egli diceva di sè “Sono nato in un solco di campo, presso Mantova”. Infatti era nato da famiglia contadina, a Pietole. Si narrava che, appena nato, trovandosi in una culla, n mezzo al campo, uno sciame di api si erano posate sui rosi labbruzzi. Da grande divenne poeta dolcissimo. Le sue parole sembravano davvero di miele.
A Roma fu molto stimato dall’Imperatore Augusto e protetto da un ricco patrizio di nome Mecenate.
Egli scrisse, tra l’altro, un grande poema, nel quale narrò la storia di Enea e la fondazione di Roma. Perciò quel poema fu intitolato Eneide.
I versi dei poeti, allora, venivano cantati, con l’accompagnamento della lira, strumento musicale con cinque corde di metallo.
Nei suoi versi, Virgilio annunciava tempi nuovi, di pace e di bontà, nei quali non avrebbe più contato la forza, ma la dolcezza e la mansuetudine.
Il grande poeta morì a Brindisi nel 19 aC  e fu sepolto a Napoli, in faccia al mare da cui era venuto l’eroe del suo poema.

Virgilio

Virgilio fu un grande poeta vissuto durante l’impero di Augusto. Egli amava la natura, gli animali e le piante; preferiva la vita campestre e si affliggeva che l’agricoltura fosse, ai suoi tempi, in abbandono. La sua opera più importante fu l’Eneide, dove volle celebrare la sua patria dalle origini fino ai tempi di Augusto. Secondo le ultime volontà di Virgilio, questo poema doveva essere distrutto, ma dobbiamo ad Augusto se ancora possiamo leggere i versi armoniosi dell’Eneide.

Storia di Roma IMPERIALE – Quanti erano i cittadini romani

“Nel mio sesto consolato feci il censimento del popolo… Risultarono allora censiti 4.063.000 cittadini romani. E poi di nuovo ripetei la stessa cerimonia da solo col potere consolare, durante il consolato di Caio Censorino e Gaio Asinio. E furono in questo lustro censiti 4.233.000 cittadini romani. Per la terza volta, rivestito del potere consolare, feci il censimento avendo collega il mio figliolo Tiberio Cesare, quand’erano consoli Sesto Pompeo e Sesto Apulio; e risultarono allora cittadini romani 4.037.000” (da Res gestae divi Augusti)

Storia di Roma IMPERIALE – Roma grande emporio della terra

Il mar Mediterraneo come una cintura cinge il centro del mondo e il centro del vostro dominio; e intorno al mare si stendono i continenti colmi di ricchezze sempre a vostra disposizione. Qui affluisce, da ogni parte della terra e del mare, quello che producono le varie stagioni, le singole regioni, industrie di Greci e di barbari: per vedere tutte queste diverse cose, bisognerebbe viaggiare per tutta la terra, ma basta venire nell’Urbe. Tutto quello che si produce e si fabbrica nei singoli paesi, qui si trova. E così numerose approdano qui le navi mercantili in tutte le stagioni ad ogni mutare di costellazione, cariche di ogni sorta di mercanzie, che l’Urbe si può paragonare al grande emporio generale della terra.
E così forti carichi di vedono arrivare dall’India e perfino dall’Arabia felice da far venire il dubbio che in quei paesi siano rimasti spogli gli alberi, e gli abitanti debbano venir qui a domandare i loro prodotti quando ne hanno bisogno; e le stoffe di Babilonia e gli altri generi di lusso di quelle lontane terre barbare si vedono arrivare con molta maggiore frequenza e facilità delle mercanzie inviate da Cidno ad Atene in altri tempi.
Sono vostri granai l’Egitto, la Sicilia e la Libia nella parte abitata. (Elio Aristide)

Storia di Roma IMPERIALE – L’impero di Augusto

L’Impero Romano si stendeva ormai, con Augusto, dal Reno al Danubio, a nord, fino al deserto dell’Africa ed alle montagne dell’Atlante, a sud; dall’Atlantico, ad ovest, fino al Mar Nero, al Ponto, alla Siria, al Mar Rosso, ad est.
“Allargai i confini di tutte le province del popolo romano, alle quali erano confinanti popolazioni che non obbedivano al nostro dominio. Sottomisi le province delle Gallie e delle Spagne, e similmente la Germania, seguendo il confine dell’Oceano, da Cadice alla foce dell’Elba. Assoggettai le Alpi, dalla regione prossima al mare Adriatico fino al Tirreno, a nessuna gente recando guerra ingiustamente” (da Res gestae divi Augusti)

Storia di Roma IMPERIALE – Giustizia e generosità di Augusto

Un giorno un suo parente gli propose di mandare gli eserciti di Roma contro un piccolo popolo africano che nulla aveva fatto per meritarsi un sì tremendo castigo. Il cattivo consigliere diceva all’Imperatore: “In pochi giorni i nostri soldati conquisteranno un regno; quel popolo non si aspetta la nostra aggressione e certamente cederà senza combattere”.
Ebbene, sai come rispose Augusto? Augusto rispose così: “I Romani non si macchieranno mai di un tale delitto; la nostra forza sta nella giustizia e non nelle armi”.
Un’altra volta l’imperatore Augusto si trovò  a dover giudicare un povero colto nell’atto di rubare un pezzo di pane. Il reo si scusò in questo modo: “Rubai perchè avevo fame. Sono disoccupato”.
Pronto l’imperatore rispose: “Il furto è furto e ti condanno. Tuttavia eccoti una moneta d’oro. Espiata la condanna potrai andare avanti finchè non avrai trovato lavoro”

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Storia di Roma IMPERIALE – Altri imperatori della famiglia Giulio – Claudia

Storia di Roma IMPERIALE – Tiberio (14 – 37 dC)

Negli ultimi anni della sua vita Augusto aveva adottato e designato come erede il figliastro Tiberio, nato da Livia, sua terza moglie, appartenente all’antica e orgogliosa gens Claudia. Tiberio fu accettato tanto dal Senato che dall’esercito e con lui l’impero si trasmise per 54 anni alla famiglia Giulio – Claudia.
Nel primo anno governò saggiamente e riportò anche successi militari contro i Germani del Reno, che avevano distrutto un esercito romano. Ma negli ultimi anni Tiberio, divenuto sospettoso e crudele, si macchiò di numerosi delitti.
Ritiratosi a cercare sicurezza e pace nell’incantevole isola di Capri, lasciò il governo di Roma in mano del suo ministro Elio Seiano, che commise ogni sorta di prepotenze, finchè fu fatto uccidere dallo stesso imperatore.
Tiberio morì nel 37 dC, lasciando cattiva memoria di sè.
Negli ultimi anni del suo regno, a Gerusalemme, era stato crocefisso Gesù e i suoi discepoli si erano sparsi nelle regioni mediterranee  a diffondervi la sua dottrina: nascela così il cristianesimo.

Storia di Roma IMPERIALE – Tiberio

Ad Augusto, morto nel 14 dC, successe il figliastro Tiberio. Costui, in principio, governò saggiamente e vinse i Germani, che avevano distrutto un esercito romano. In seguito, però, divenne crudele e commise numerosi delitti. Resse l’impero non più da Roma, ma da Capri. Durane il suo regno fu crocefisso Gesù.  A Tiberio successero parenti deboli, o pazzi e crudeli.

Storia di Roma IMPERIALE – Caligola (37 – 41 dC)

Verso la fine del suo principato, Tiberio aveva dimostrato benevolenza verso un nipote, Caio, soprannominato Caligola perchè fin da bambino soleva portare le calzature militari dette caliga. Il Senato lo accolse come successore. Aveva 24 anni.
Al principio del suo regno si mostrò mite e deferente verso il Senato, ma presto, o per disposizione naturale o per una malattia che ne alterò profondamente la ragione, cominciò a commette atti folli e crudeli, sperperando ricchezze, condannando a morte i cittadini più ricchi, per confiscare i loro beni.
Fu ucciso da una congiura di pretoriani in un corridoio del palazzo.

Storia di Roma IMPERIALE – Claudio (41 – 54 dC)

Dopo questa terribile esperienza, il Senato avrebbe voluto un ritorno della repubblica. Ma i pretoriani acclamarono imperatore uno zio di Caligola, Claudio. Aveva 50 anni: uomo più di studio che d’azione, era d’animo mite e debole, inesperto di politica.
Restaurò con saggia amministrazione le finanze, rovinate dalle spese pazze di Caligola, tanto che potè costruire opere pubbliche di grande utilità: un nuovo acquedotto, che si considera uno delle più grandiose opere dell’ingegneria romana; un canale emissario del lago Fucino; l’allargamento del porto di Ostia, perchè potessero approdare le grandi navi da carico.
Con una fortunata spedizione militare fu conquistata la parte meridionale della Britannia.
Ma, vittima della sua debolezza, si lasciò raggirare dagli scaltri liberti, che divennero potenti alla sua corte, e dalla moglie ambiziosa e corrotta, Messalina.
Non migliore fu la seconda moglie di Claudio, Agrippina, già vedova, con un figlio dodicenne, Lucio Domizio Nerone. Questa donna ambiziosa, volendo assicurare l’impero al proprio figlio, circuì così abilmente il debole marito, da fargli diseredare Britannico, figlio di Claudio e di Messalina.
Poco dopo Claudio morì improvvisamente. Corse voce che Agrippina lo avesse avvelenato. I pretoriani, addomesticati e corrotti, acclamarono Nerone, e il Senato, sempre arrendevole, ne confermò l’elezione.

Storia di Roma IMPERIALE – Nerone

L’ultimo imperatore della famiglia di Tiberio fu Nerone. Egli ben presto iniziò una lunga serie di delitti. Il popolo lo accusò anche dell’incendio di Roma, che nell’anno 64 distrusse i quartieri più popolari della città. Temendo l’ira del popolo, Nerone gettò la colpa sui cristiani. Cominciò così la prima grande persecuzione, nella quale molti martiri morirono tra i più atroci tormenti.
Il malcontento contro Nerone dilagò ugualmente: la Giudea, la Gallia e la Spagna si ribellarono.
Nerone fuggì da Roma e, per non cadere vivo in mano nemica, si fece uccidere da uno schiavo. Alla sua morte scoppiarono feroci lotte per la conquista del potere.

Storia di Roma IMPERIALE – Nerone (54 – 68 dC)

Nerone saliva al trono a 17 anni. I primi cinque anni del suo governo, nei quali si lasciò guidare dai due precettori, il generale Burro e il filosofo Seneca, furono felici.
Poi i cattivi istinti ereditati dalla famiglia Claudia degeneraa, esplosero in lui sotto forma di viltà e ferocia e, cominciò l’orrenda serie dei suoi delitti.
Temendo che gli fosse contrapposto il fratellastro Britannico, lo fece avvelenare; al fratricidio seguì presto l’uccisione della madre.
Essendosi scoperta una congiura contro di lui, fu preso dal terrore e mandò a morte un grandissimo numero di persone, anche innocenti. Tra le vittime più famose furono il poeta Lucano, il suo maestro Seneca e lo scrittore Petronio, che era stato fino al giorno prima suo amico.
Ma il più grande delitto che la voce pubblica attribuì a Nerone fu l’incendio di Roma, che nel 64 distrusse vari quartieri della città. Forse l’incidente era casuale, ma il popolo esasperato minacciava vendetta: si diceva che l’imperatore volesse distruggere la città per ricostruirla più bella sulle sue rovine, oppure che volesse esaltarsi alla vista di un colossale incendio per trarre ispirazione a un poema sulla caduta di Troia.
Per discolparsi, Nerone accusò a sua volta i cristiani. L’accusa di Nerone trovò facilmente credito negli animi esasperati che esigevano la punizione dei colpevoli. Parecchi cristiani, arrestati, sotto le torture cedettero e si confessarono rei. Cominciò allora la prima grande persecuzione: molti cristiani furono condannati al rogo o dati in pasto alle belve. In questa persecuzione fu crocefisso l’apostolo Pietro e poi decapitato Paolo.
Ma il malcontento dilagava da per tutto, fra gli stessi pretoriani; la Giudea insorse e Nerone fu costretto a mandarvi contro il generale Vespasiano. Insorsero la Gallia e la Spagna, e le legioni colà stanziate proclamarono decaduto Nerone ed elessero il generale Galba, il quale marciò su Roma. Nerone, spaventato, fuggì nella sua villa, sulla via Nomentana, e per non cadere vivo nelle mani degli inseguitori, si fece uccidere da uno schiavo.
Con lui si spense la funesta dinastia dei Claudi. Le legioni più forti decidono ora la scelta dell’imperatore.
Dopo due anni di anarchia militare, durante i quali si succedettero tre imperatori (Galba, Ottone e Vitellio), che si combatterono tra di loro e morirono tutti violentemente, la pace e l’ordine furono restaurati per opera di Tito Flavio Vespasiano, fondatore della dinastia dei Flavi.

Storia di Roma IMPERIALE – Le torce viventi

La notte non era ancora discesa, e già la folla si riversava nei giardini cesarei, per assistere allo spettacolo. Roma conosceva già lo spettacolo dei roghi, non mai però s’era veduto un così gran numero di condannati. Nerone e Tigellino avevano deciso di farla finita con i cristiani, ed avevano perciò ordinato che si sbarazzassero tutti i sotterranei, non lasciandovi che un piccolo numero di vittime da servire agli spettacoli di chiusura.
La folla, entrando nei giardini, si faceva muta di meraviglia. In tutti i viali si ergevano pali spalmati di ragia, ai quali erano legati i cristiani. Dai punti più alti, dove gli alberi non impedivano la vista, si scorgevano interminabili file di pali e di condannati, cinti di fiori, d’edera e di mirto. Il numero delle vittime era più grande di ogni immaginazione.
Intorno a ciascun palo sostavano persone a gruppi, e un dubbio si manifestava in molti con la domanda: “Possibile che vi siano tanti colpevoli?”. Oppure: “Come possono aver incendiato Roma questi bambini, che ancora non si reggono da sè?”. Al dubbio e allo stupore succedeva il turbamento.
Scese la notte, e nel cielo brillarono le prime stelle. Ad ogni condannato si avvicinò uno schiavo, provvisto di fiaccola: e, quando lo squillo delle trombe risuonò da più punti del giardino ad annunciare che lo spettacolo cominciava, ciascuno depose la torcia ai piedi di un rogo.
La folla tacque; un alto gemito si levò nei giardini, e poi non si udirono che grida strazianti. Alcune vittime, però, fissando gli occhi al cielo scintillante di stelle, intonarono inni di gloria a dio. Lo spettacolo era appena cominciato, quando Nerone apparve in una magnifica quadriga circense, tirata da cavalli bianchi. Tratto tratto si arrestava per meglio godersi lo spettacolo di qualche vittima, poi proseguiva, seguito dal suo corteo. Giunto infine alla gran fontana, scese dalla quadriga e si confuse tra il popolo. Evviva e battimani lo accolsero; senatori, sacerdoti e soldati lo circondarono, ed egli, con ai lati Tigellino e Chilone, fece il giro della fontana, intorno alla quale ardevano più di dieci vittime.
I pali erano già quasi tutti arsi ovunque, e cadevano attraverso i viali, diffondendo intorno scintille, fumo, odore di legno e carne bruciata. Poi i fuochi man mano si spensero e sul giardino dominarono le tenebre della notte. La folla faceva ressa alle uscite. Cominciavano a udirsi voci di compassione per i cristiani: “Se non è vero che hanno incendiato Roma, perchè tanto sangue? Perchè tante torture e tante ingiustizie? E i numi non vendicheranno quegli innocenti? Come placare il loro sdegno?”.
Si udivano sempre più frequenti le parole “vittime innocenti”. Le donne piangevano la morte dei bambini gettati alle belve, crocefissi e bruciati vivi in quei maledetti giardini. Il sentimento di pietà traeva dai cuori maledizioni a Nerone e Tigellino.
Molti chiedevano a se stessi e agli altri: “Ma che dio è il loro che dà tanta forza di sopportare il martirio?”. E rientravano pensosi nelle loro case. (E. Sienkiewicz, da Quo vadis?)

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Storia di Roma IMPERIALE – La dinastia dei Flavi (69 – 96)

Storia di Roma IMPERIALE – Vespasiano

Nell’Impero tornò la pace con Tito Flavio Vespasiano. Egli governò ottimamente. Aprì le scuole con maestri pagati dallo stato, fece costruire grandi edifici pubblici, fra i quali l’anfiteatro Flavio, detto Colosseo.

Storia di Roma IMPERIALE – Tito Flavio Vespasiano

Fu acclamato imperatore, alla fine del 69, dalle sue legioni stanziate in Oriente per la guerra giudaica. Lasciata al figlio Tito la direzione della guerra, egli venne a Roma, dove fu accolto come un pacificatore e fu riconosciuto dal Senato.
In 10 anni di ottimo governo, riparò a tutte le sciagure che dai tempi di Nerone avevano afflitto l’impero.
Creò delle scuole con maestri stipendiati dallo stato e compì grandi opere pubbiche, fra le quali l’anfiteatro Flavio, chiamato poi Colosseo, capace di contenere 50.000 spettatori.

Storia di Roma IMPERIALE – Tito

A Vespasiano successe il figlio Tito, detto delizia del genere umano per la sua bontà. Se non compiva qualche buona azione in una giornata diceva: “Ecco un giorno perduto!”. Governò solamente tre anni. Ebbe il dolore di vedere la città di Pompei, Stabia ed Ercolano distrutte e sepolte da una tremenda eruzione del Vesuvio (79 dC).

Storia di Roma IMPERIALE – Tito

A Vespasiano successe il figlio Tito, che aveva condotto a termine felicemente la guerra giudaica, espugnando Gerusalemme. In suo onore fu costruito l’Arco Trionfale.
Per la mitezza e la generosità che lo distinguevano, meritò di essere chiamato “delizia del genere umano”.
Durante il suo breve e pacifico regno una violenta eruzione del Vesuvio, nell’anno 79, seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia.

Storia di Roma IMPERIALE – La distruzione di Pompei

Da parecchi giorni la terra era scossa da un lieve terremoto; a un tratto le scosse divennero più violente. Una grossa nuvola nera di cenere, interrotta da lingue di fuoco, usciva dal cratere del Vesuvio e si ingrandiva sempre più: discese dal monte, coprì i campi e giunse fino al mare.
La terra sprofondò. Donne, uomini, bambini, fuggirono terrorizzati dalle loro case, urlando, piangendo, invocando gli dei. Non si vedeva nulla: i fanciulli chiamavano la mamma,  le mamme i figli, i mariti le spose. Sembrava giunta la fine del mondo.
Anche a Pompei si udì un terribile boato e sulla città sembrò scendere la notte. Moltissimi si trovavano nell’anfiteatro ad assistere ad uno spettacolo di gladiatori. I cittadini, impazziti di terrore, si riversarono sulla strada che conduceva al mare. Alcuni riuscirono a salvarsi, altri si attardarono nelle loro case per prendere i gioielli e i denaro. Di questi ultimi nessuno si salvò: morirono asfissiati dalle ceneri e dai vapori ardenti. Pompei fu sepolta e così Ercolano e Stabia.

Storia di Roma IMPERIALE – La famosa eruzione del Vesuvio del 79

Lo scrittore romano Plinio il Giovane ci ha lasciato in una sua lettera questa viva e impressionante descrizione dell’eruzione del Vesuvio che nel 79 seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia. Lo zio dello scrittore, Plinio il Vecchio, considerato il più grande naturalista romano e autore di una Storia Naturale, spinto dall’amore della scienza, accorse, incurante del pericolo, per osservare da vicino il fenomeno, ma trovò la morte.
“La nube, che da lontano era difficile capire da qual monte sorgesse (solo più tardi si seppe che proveniva dal Vesuvio), somigliava per la sua forma ad un albero, più precisamente ad un pino, poichè, dopo essersi levata assai in alto, come un tronco altissimo, si ramificava intorno e appariva ora bianca, ora nerastra, secondo che era più carica di terra o di cenere.
Come era naturale, dato il suo amore alla scienza, mio zio credette che quel grandioso fenomeno fosse degno di essere esaminato più da vicino.
Ordinò dunque che gli si apparecchiasse la sua lancia (egli si trovava a Miseno, al comando della flotta romana) e stava già per uscire di casa, quando ricevette un biglietto di Rectina, moglie di Casco, atterrita dall’imminente pericolo, poichè la sua villa stava ai piedi del Vesuvio, nè altro scampo vi era se non per mare, e pregava affinchè egli volesse salvarsi da sì grande catastrofe.
Allora mio zio mutò consiglio e si accinse ad affrontare col più grande coraggio ciò che prima pensava di osservare con interesse di studioso.
Fece venire delle quadriremi, vi montò sopra egli stesso e partì per portare soccorso, non solo a Rectina, ma a molti altri, poichè la spiaggia bellissima assai era popolata.
A mano a mano che le navi si avvicinavano, una cenere più spessa e più calda pioveva su di esse; già cadevano tutt’intorno lapilli e scorie ardenti, già si era formata una improvvisa laguna, profotta dal sollevamento del fondo del mare, e il lido era reso inaccessibile peri cumuli di lapilli.
Allora, dopo essersi fermato, alquanto incerto se tornare indietro o procedere oltre, mio zio disse al pilota, che gli consigliava appunto di guadagnare l’alto mare: “La fortuna aiuta i forti: drizza la prua verso la villa di Pomponiano”.
Pomponiano si trovava a Stabia… Mio zio, portato là dal vento assai favorevole alla sua navigazione, abbraccia il suo amico tutto tremante, lo rincuora, lo esorta a farsi coraggio…
Frattanto dal Vesuvio, in più punti, si vedevano rilucere vasti incendi, il cui fulgore era accresciuto e fatto più palese dalle tenebre della notte…
Si consultarono fra loro se chiudersi dentro o se fuggire per l’aperta campagna; poichè, da un lato, le case ondeggiavano per i frequenti terremoti e sembrava che, schiantate dalle fondamenta, fossero gettate ora su un fianco ora su un altro e poi rimesse a posto; dall’altro lato, all’aperto, la pioggia delle pomici, sebbene leggere e porose, non incuteva minor paura. Tuttavia il confronto fra i due pericoli fece scegliere quest’ultimo partito: si scelse dunque l’aperta campagna…
Essi escono e si proteggono il capo, coprendosi con dei guanciali, che legano mediante lenzuoli, precauzione necessaria contro la tremenda pioggia che veniva dall’alto.
Altrove era giorno, ma là dove essi erano perdurava la notte, la più nera ed orribile fra tutte le notti, squarciata solo da un gran numero di fiaccole e da lumi d’altro genere.
Si credette bene accostarsi alla riva e vedere da vicino quello che il mare permettesse di tentare. Ma le onde erano sempre grosse e agitate da un vento contrario.
Qui, sdraiato sopra un lenzuolo che aveva fatto distendere per terra, mio zio chiede e bevve due volte dell’acqua fresca. Poi le fiamme e l’odor di zolfo, che le preannunciava, fecero fuggire tutti gli altri e costrinsero mio zio a levarsi in piedi. Si rizzò, appoggiandosi  a due schiavi, ma cadde immediatamente, come fulminato.” (Plinio il Giovane)

Storia di Roma IMPERIALE – Gli scavi di Pompei

Dopo diciassette secoli, furono iniziati gli scavi per riportare alla luce Pompei. Chi si reca oggi a visitarla, vede com’era una città al tempo di Roma antica: lunghe vie lastricate, il Foro, le terme, i templi, le case adorne di statue e affreschi, i colonnati, i giardini.
La vita a Pompei si è fermata, ma le rovine della città ci parlano ancora di quel tempo antico.

Storia di Roma IMPERIALE – La morte di Plinio

Plinio il Vecchio era un illustre scienziato. Durante l’eruzione del Vesuvio volle studiare da vicino il fenomeno e nello stesso tempo portare aiuto all’amico Pompeiano che si trovava a Stabia. Fece allestire alcune navi e partì.
Nonostante la pioggia di pietre e di ceneri ardenti, egli riuscì a giungere a Stabia.
L’indomani Plinio, Pompeiano e altri tentarono di avviarsi a piedi verso la spiaggia, ma lungo la strada l’aria, mista a vapori di zolfo, si faceva sempre più irrespirabile e Plinio morì soffocato, vittima della sua generosità.

Storia di Roma IMPERIALE – Domiziano (81 – 96)

Successe al  fratello Tito. Domiziano era avido di ricchezze  e feroce. Volendo trasformare l’impero in una monarchia assoluta, lottò contro il Senato, che fu decimato.
Si circondò di delatori e, abusando della legge di lesa maestà, processò ed uccise i cittadini più ricchi, per impadronirsi dei loro beni. Finì pugnalato.
Il Senato ne condannò la memoria e cancellò il suo nome dai monumenti pubblici.

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Storia di Roma IMPERIALE – Gli imperatori d’adozione

Storia di Roma IMPERIALE – Nerva (96 – 98)

Dopo l’assassinio di Domiziano, il Senato per impedire che l’esercito o i pretoriani acclamassero il nuovo imperatore, scelse prontamente uno dei suoi membri: il vecchio e stimato Cocceio Nerva. Con Nerva comincia un nuovo sistema di successione, cioè l’adozione.
Il nuovo eletto si associò come collega un giovane e valoroso generale, Ulpio Traiano, e lo designò come successore alla propria morte.
Gli imperatori d’adozione furono Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio.
Furono tutti uomini saggi ed illuminati, oltre che uomini d’azione e di pensiero. La loro età fu la più felice dell’impero.

Storia di Roma IMPERIALE – Traiano

Dopo qualche anno di pessimo governo, l’Impero Romano fu retto da alcuni saggi imperatori. Fra essi grande e valoroso fu Traiano. Intrepido soldato ampliò l’impero, conquistando la provincia della Dacia (l’attuale Romania) e la provincia dell’Arabia. Diminuì le tasse, ebbe a cuore i poveri e gli orfani.

Storia di Roma IMPERIALE – Traiano (98 – 117)

Nativo della Spagna, fu il primo imperatore non italiano. Valoroso soldato, moralmente onesto e giusto, egli ampliò al massimo i confini dell’impero, diminuì le imposte, amministrò la giustizia con mitezza, creò istituti di beneficenza a favore dei poveri e degli orfani.
Combattè i Daci, che si erano stabiliti a nord del Danubio inferiore, dov’è l’attuale Romania, e li sottomise, creando la nuova provincia della Dacia. Ivi pose un forte presidio e numerose colonie; edificò città, ponti e monumenti dov’era prima il deserto.
La moderna Romania conserva nel nome, come pure nella lingua, il ricordo della dominazione romana.
Per celebrare questa vittoria, fu elevata in mezzo al Foro Traiano la magnifica Colonna, alta 43 m, rivestita esternamente da una fascia di bassorilievi, che rappresentano episodi della guerra dacica. In alto vi era la statua di Traiano in bronzo.
Traiano combattè anche contro i Parti, spingendosi fino al Golfo Persico, e creò la nuova provincia dell’Arabia (Arabia del nord – ovest e penisola del Sinai).
Dal Reno al Danubio costruì una serie di fortificazioni a catena: il limes germanicus. Morì nel 117, mentre tornava dall’Oriente, e fu sepolto ai piedi della Colonna Traiana.

Storia di Roma IMPERIALE – L’imperatore Traiano e la vecchietta

Traiano fu un uomo alla buona con tutti. Un giorno, mentre partiva per una spedizione militare, gli si fece incontro una vecchietta.
“Che vuoi?” le chiese Traiano.
“Voglio giustizia, perchè hanno ammazzato il mio figliolo”.
“Ma non lo vedi che parto per la guerra? Ne parleremo al mio ritorno”.
“E se tu non tornassi?”
“Ti renderà giustizia il mio successore”
“Ma allora il merito non sarà tuo!”
“Hai ragione” disse l’imperatore.
E prima di partire per la guerra fece punire gli assassini, rendendo giustizia alla vecchia.

Storia di Roma IMPERIALE – Adriano

A Traiano successe il pacifico Adriano. Egli si dedicò ad opere di pace e visitò ogni regione facendovi costruire strade, ponti, acquedotti, templi. Fondò numerose città ed emanò sagge leggi per promuovere il benessere comune.
Inoltre Adriano si preoccupò di consolidare i confini dell’Impero, che ormai aveva raggiunto la massima espansione; fece costruire sui confini solide opere di fortificazione per tenere lontani i barbari ed assicurare così a tutti i cittadini la pace e la tranquillità.

Storia di Roma IMPERIALE – Adriano (117 – 138)

Spagnolo anche lui, ma dedito più alle opere di pace che alle conquiste, passò gran parte della sua vita viaggiando attraverso ogni regione dell’Impero e da per tutto fondando città, facendo costruire acquedotti, templi, strade, ponti.
Assicurò i confini contro le invasioni barbariche: in Bretannia, ad esempio, innalzò il famoso Vallo di Adriano, per difendere il paese dagli Scoti, una muraglia lunga 117 km, guarnita ad intervalli da 300 torri.
Ritiratosi a vivere in una magnifica villa che si era fatto costruire a Tivoli, Adriano vi morì nel 138, dopo aver adottato Antonino Pio. Fu sepolto nel grandioso mausoleo che si era fatto innalzare a Roma, sulla riva destra del Tevere: la Mole Adriana, oggi chiamata Castel Sant’Angelo.

Storia di Roma IMPERIALE – L’imperatore Adriano e il signore scortese

Adriano, prima di diventare imperatore, durante un viaggio in Asia aveva chiesto ospitalità ad un signore di Smirne.
“Non alloggio stranieri!” s’era sentito rispondere seccamente.
Adriano avrebbe anche potuto entrare con la forza, ma preferì andarsene all’albergo.
Qualche tempo dopo quel signore ebbe occasione di venire a Roma per chiedere non so quale grazia all’imperatore, che per l’appunto era Adriano.
Immaginate come rimase, quando si vide davanti l’uomo che non aveva voluto in casa sua.
Ma l’imperatore lo tolse subito dall’impaccio. “Venite,” disse sorridendo, “state tranquillo: io alloggio anche i forestieri”.
E non solo lo esaudì in tutte le sue richieste, ma finchè quel signore si trattenne a Roma, l’imperatore lo volle avere ospite, come un vecchio amico, nel palazzo imperiale.

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Storia di Roma IMPERIALE – Gli Antonini

Storia di Roma IMPERIALE – Antonino Pio (138 – 161)

Fu uno degli imperatori più saggi. Mite e buono, proibì per primo le persecuzioni dei cristiani ed i maltrattamenti degli schiavi, soccorrendo con elargizioni quanti soffrivano. Per queste virtù ebbe il soprannome di Pio.

Storia di Roma IMPERIALE – Marco Aurelio (161 – 180)

Era un austero filosofo e ci lasciò raccolti i suoi alti pensieri in un libro: Ricordi. Apparteneva anch’egli alla casa degli Antonini. Il suo regno fu turbato da uno sconfinamento dei popoli germanici, abitanti a nord del Danubio, che giunsero fino alle Alpi. Egli li sconfisse, ma poi nel trattato di pace concedette loro di stabilirsi entro il territorio dell’impero, purchè prestassero servizio militare a Roma.
Era un pericoloso espediente col quale l’imperatore sperava di evitare altre invasioni, ma avrebbe avuto gravi conseguenze: il progressivo imbarbarimento dell’esercito e le prime infiltrazioni fra i Romani dei barbari, che prepararono la rovina dell’impero.
Anche le gesta di Marco Aurelio furono celebrate nei bassorilievi di una colonna, che sorge ancora a Roma, in piazza Colonna (Colonna Antonina). Inoltre, in piazza del Campidoglio, è tuttora eretta la sua statua equestre.

Storia di Roma IMPERIALE – Commodo (180 – 192)

Questa bella serie di imperatori si chiuse tristemente con Commodo, crudele e vizioso. Era figlio di Marco Aurelio, ma profondamente diverso dal padre; finì assassinato nel 192.

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Storia di Roma IMPERIALE – Decadenza dell’impero nel III secolo

Alla morte di Commodo cominciò un periodo di anarchia militare. Le legioni dislocate nelle province pretesero di eleggere imperatori i loro generali: i pretoriani misero l’impero all’incanto, si dichiararono pronti ad acclamare colui che pagasse di più. Dopo 4 anni di disordini e di violenze, fu innalzato un generale valoroso, Settimio Severo.
Appoggiato dall’esercito, mirò a creare una monarchia assoluta e dinastica. Vinse i Parti, togliendo loro la Mesopotamia settentrionale, e combattè i Caledoni, a nord della Britannia, ove ricostruì il Vallo di Adriano. A ricordo di queste vittorie gli fu eretto nel Foro un grandioso Arco di Trionfo.

Triste inizio ebbe il regno del figlio e successore, Caracalla, così soprannominato per la foggia gallica del suo mantello, che per non dividere il trono con il fratello Geta, lo pugnalò fra le braccia della madre. Egli è famoso per l’editto del 212, col quale estese il diritto di cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero.
In Roma eresse le grandiose terme, che portano il suo nome e di cui restano imponenti ruderi. Caracalla fu ucciso.

L’esercito, di nuovo in rivolta, creò ed uccise gli imperatori. Per 50 anni questi si succedettero l’uno all’altro e scomparvero rapidamente, fra congiure e guerre civili, saccheggiando e depredando le province: tra queste, molte tentarono di tenersi indipendenti.
L’impero sembrava avviarsi fatalmente alla rovina, ma nella seconda metà del secolo fu salvato da una serie di imperatori di nazionalità illirica, che furono detti restauratori.

Il primo di essi fu Claudio Gotico, così soprannominato per la grande vittoria riportata sui Goti, i quali dal Mar Nero erano scesi verso il Mediterraneo, invadendo l’Asia minore e la Grecia.

Più grande ancora fu Aureliano, che in 5 anni di guerra domò le province insorte e consolidò le frontiere. Sconfisse i Vandali e gli Alemanni che erano penetrati in Italia, e cinse Roma di una nuova e possente cerchia di mura (mura Aureliane) che esistono ancora in gran parte. Ma dovette abbandonare la Dacia ai Goti, per accorciare i confini dell’impero e poterli meglio difenderli. Morì nel 275.

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Storia di Roma IMPERIALE – Diocleziano e la tetrarchia (285 – 305)

Dieci anni dopo si iniziava un nuovo periodo nella storia dell’Impero, per opera di Diocleziano, anch’egli di stirpe illirica e valoroso soldato. Egli fece dell’impero una vera e propria monarchia assoluta, circondandola di un fastoso cerimoniale, che ricordava quello delle corti orientali.
Convinto che un solo imperatore non bastasse più ad amministrare il vasto impero, si associò al governo l’antico suo compagno d’armi Massimiano col titolo di Augusto: questi governava la parte occidentale dell’impero, stando a Milano.
Diocleziano governava l’Oriente, da Nicomedia, una città dell’Asia Minore.
Roma, troppo lontana dal Danubio e dall’Asia, non poteva più essere la capitale dell’impero.
Successivamente i due Augusti si scelsero ognuno un collaboratore, o Cesare, designandolo come successore.
Questa partizione del potere si chiamò Tetrarchia, dal greco “comando di quattro”.
L’impero restò uno dal punto di vista giuridico, ma amministrativamente fu diviso in 4 parti dette Prefetture: ogni prefettura era divisa in diocesi, ogni diocesi in province.
Il potere civile fu separato da quello militare: l’impero diventò un complesso ingranaggio burocratico. Fu necessaria una riforma tributaria, che accrescesse il gettito delle imposte, per stipendiare questo esercito di impiegati civili e le truppe necessarie alla difesa dei confini.
Per frenare la speculazione, Diocleziano fissò con un calmiere il prezzo massimo delle merci di più largo consumo.
Convinto che, per mantenere l’unità dello stato, fosse necessaria l’unità del culto, ordinò nel 303 una persecuzione contro i cristiani, che fu la più violenta e la più lunga di tutte (303 – 311), tanto che questo periodo si chiamò l’era dei martiri. Ma il cristianesimo non fu estirpato, anzi, la chiesa si ricostituì più forte di prima.
Nel 305, dopo 20 anni di governo, volendo assistere al funzionamento del sistema che aveva creato, Diocleziano abdicò e si ritirò a Salona, presso l’odierna Spalato, nella nativa Dalmazia, dopo aver indotto il suo collega Massimiano a fare altrettanto.
I due Cesari divennero Augusti e adottarono due nuovi Cesari.
Ma il sistema non fece buona prova. Presto scoppiarono tumulti e lotte civili fra Augusti e Cesari, finchè sui vari competitori trionfò Costantino, figlio di Costanzo Cloro, il Cesare dell’Occidente.

Diocleziano

Tra i numerosi imperatori che succedettero a Adriano è da ricordare Diocleziano, feroce e sanguinario. Sotto il suo governo i Cristiani subirono la più tremenda persecuzione (303 – 311). Questo periodo fu chiamato era dei martiri.

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Storia di Roma IMPERIALE – Costantino e l’Editto di Milano

Storia di Roma IMPERIALE – Costantino

Nel 312 divenne imperatore Costantino. Si narra che, durante la guerra contro il suo rivale Massenzio, gli fosse apparsa in cielo una croce luminosa con il motto “In hoc signo vinces” e che subito avesse fatto applicare una croce sugli stendardi delle sue legioni, convinto di vincere la battaglia. Massenzio fu infatti sconfitto a Roma presso il Ponte Milvio.
Nel 313, a Milano, Costantino emanò il famoso Editto con il quale veniva permesso ai Cristiani di professare liberamente il proprio credo religioso. Durante il suo regno la capitale dell’Impero venne spostata da Roma a Bisanzio, in Oriente, che da lui prese il nome di Costantinopoli.

Storia di Roma IMPERIALE – Costantino

Egli era stato acclamato Cesare nel 306, dalle regioni della Britannia, mentre infieriva ancora la persecuzione contro i cristiani ordinata da Diocleziano. Ma Costantino aveva compreso che il cristianesimo era ormai una grande forza e, invece di perseguitare la chiesa, si appoggiò ad essa.
Venuto in Italia nel 312, si liberò dell’ultimo rivale, Massenzio, con la battaglia combattuta ai Saxa Rubra, sulla riva del Tevere, nei pressi dell’attuale ponte Milvio.
L’anno seguente, da Milano, Costantino emanò il famoso Editto di Tolleranza, con il quale pose termine alle persecuzioni e concesse ai cristiani, in tutto il territorio dell’impero, piena libertà di culto. La religione ufficiale dello stato continuava però ad essere il paganesimo.
Egli, mantenendo la divisione fatta da Diocleziano, regnava in quel tempo col collega Licinio, imperatore dell’Oriente.
Nel 324, rotti i buoni rapporti con Licinio, lo sconfisse e riunì nelle sue mani l’Oriente e l’Occidente.
L’anno seguente, nel 325, Costantino convocò a Nicea un concilio di vescovi per reprimere una dottrina sulla natura di Cristo, diffusa dal vescovo di Alessandria, Ario, e perciò detta Arianesimo. Ario sosteneva che Cristo non era dio fattosi uomo, ma creatura umana perfetta e perciò divinizzata. Molti vescovi condannarono come eretica, e cioè erronea, questa dottrina, ma essa si diffondeva pericolosamente. Nel concilio di Nicea l’arianesimo fu condannato.
Nel 330 Costantino trasferì la capitale a Bisanzio, sul Bosforo, che da lui prese il nome di Costantinopoli.
Roma però continuò ad essere la capitale morale dell’impero, anche se gli imperatori non vi risiedevano più: tanti secoli di storia gloriosa le avevano conferito un prestigio sacro.
Costantino morì nel 337.

L’impero romano-cristiano
Nel decennio successivo alla battaglia di Ponte Milvio, Costantino assunse un atteggiamento sempre più favorevole ai cristiani e giunse infine al riconoscimento del cristianesimo come religione ufficiale dell’impero. Da una minoranza eroica di perseguitati, esso si trasformava così in religione di massa, aumentando immensamente il numero dei propri aderenti ed inserendosi nella compagine statale dell’impero romano.
Fra le altre conseguenze, ciò portò ad una crescente diversificazione fra la massa dei semplici fedeli o laici (dal greco laos = popolo), spesso convertiti di fresco ed ignoranti delle dottrine cristiane, e la parte eletta dei ministri del culto o clero (dal greco kleros = scelto). In seno a quest’ultimo, sull’esempio della burocrazia imperiale, si delineò una gerarchia sempre più precisa, facente capo ai vescovi. Costantino incoraggiò questa evoluzione della Chiesa cristiana, consentendo alle comunità non solo di recuperare ciò che avevano perduto nelle persecuzioni, ma altresì di aumentare il proprio patrimonio in misura cospicua, grazie ai lasciti ed alle donazioni. Concesse al clero privilegi importanti, tra cui l’esenzione o immunità dalle prestazioni d’opera (munera). Concesse inoltre che i vescovi assumessero attribuzioni giudiziarie verso coloro che volessero ricorrere alle loro sentenze.
Il monogramma di Cristo fu posto sulle monete. Fu riconosciuta la domenica come festività ufficiale. L’imperatore inoltre pose tutta la propria energia nel rafforzare e difendere l’unità della Chiesa, in quanto organismo universale (Ecclesia Catholica) contro ogni  scissione interna. Si operava infatti, in seno al cristianesimo, una sistemazione dottrinale, in cui si precisavano a mano a mano le dottrine che tutti i fedeli dovevano accettare, respingendo quelle deviazioni o eresie, che eventualmente sorgessero. Il IV secolo, anzi, fu un’età di controversie teologiche particolarmente importanti, specie intorno alla natura ed agli attributi di Cristo. Tra esse fondamentale fu quella fra i seguaci di Atanasio, assertori del dogma della trinità, e i seguaci di Ario, il quale assimilava la natura di Cristo a quella di un uomo, negando così in sostanza il dogma trinitario.
Infine Costantino dovette affrontare l’ultimo dei suoi rivali nell’impero, cioè Licinio, dominatore dell’Oriente. Poichè quest’ultimo favoriva i pagani, la lotta assunse il carattere di un duello fra cristianesimo e paganesimo: la vittoria su Licinio (324) e quindi l’annessione anche dell’Oriente ai domini di Costantino apparvero così una vittoria cristiana.
Alla ricostituita unità dell’impero, sotto la monarchia di Costantino, corrispose altresì il ristabilimento dell’unità della chiesa, travagliata dalla controversia ariana. Si riunì pertanto il Concilio Ecumenico, cioè l’assemblea di tutti i vescovi crisitani, a Nicea (325), dietro convocazione dell’imperatore, e lì la dottrina atanasiana fu riconosciuta come la sola valida. Il concilio di Nicea fissò inoltre in modo definitivo la dottrina cristiana con una dichiarazione di fede o simbolo niceno. Attribuì infine particolare autorità sugli ecclesiastici nelle rispettive zone ai metropoliti di Roma, Alessandria ed Antiochia; pari dignità venne attribuita più tardi anche al metropolita di Bisanzio.
All’indomani della sua vittoria su Licinio, Costantino decise di creare una nuova capitale, interamente legata alla fede cristiana, trasportando la residenza imperiale a Bisanzio, che da allora assunse il nome di Costantinopoli. Alla vecchia Roma del paganesimo, si contrapponeva così la nuova Roma del cristianesimo. L’impero, sino a ieri persecutore del cristianesimo, diventava Impero Romano Cristiano.
Da allora in poi, la dignità imperiale ed il concetto stesso di Impero non dovevano più dissociarsi dall’idea cristiana e dalla funzione di sommo protettore e regolatore della cristianità. (G. Spini)

Grandezze e meschinità di Costantino
L’imperatore Costantino, passato alla storia con il nome di Grande, non fu tuttavia immune da debolezze umane; molte sue opere ce lo confermano, ed anche i suoi biografi. Secondo Eutropio, storico attendibile sia per essere vissuto in tempi abbastanza vicini, sia per essere un sommarista delle opinioni altrui, Costantino era degno di essere paragonato ai più grandi imperatori per i suoi primi anni di regno, ma per gli ultimi anni, ai più meschini. In lui rifulsero comunque moltissime virtù di animo e di corpo. Assai avido di gloria militare, ebbe favorevole la fortuna in guerra, ma non al punto da superare la sua stessa abilità. Infatti, anche dopo la guerra civile, sconfisse più volte i Goti e, in ultimo, stringendo la pace con loro, lasciò grata memoria di sè presso i barbari. Amava le belle arti e gli studi liberali; poichè desiderava la considerazione del popolo, ma voleva ben meritarsela, egli riuscì ad ottenerla con la munificenza e l’affabilità. Fu indifferente verso alcuni amici, ma caldo verso altri, e non si lasciava sfuggire occasione alcuna per beneficarli di ricchezze e di onori.
Promulgò molte leggi, alcune buone e giuste, molte però superflue, e altre severe più del dovuto. Mentre preparava la guerra contro i Parti che già premevano ai confini della Mesopotamia, morì a Nicodemia, in un  palazzo dello stato. Aveva 66 anni e il popolo disse che la sua morte fu preannunciata da una vistosa cometa che solcò il cielo per un certo tempo. (M. Bini)

Bisanzio
Bisanzio sorse nel VII secolo aC come colonia greca; nel 201 aC divenne romana.
Era una solida cittadella che, affacciata sullo stretto, poteva controllare il passaggio delle navi dal Mediterraneo al mar Nero e quindi la via verso l’Asia.
La sua posizione era quindi ideale, oltre a ciò Bisanzio era straordinariamente bella: su una penisola collinosa, circondata dalle acque azzurre del Mar di Marmara, del Bosforo e del Corno d’Oro.
Quando Costantino il Grande,  imperatore romano dal 306 al 337 dC, realizzando un progetto già caro ad Augusto, diede all’impero una capitale orientale (le province orientali superavano ormai di gran lunga per forza economica e popolazione quelle d’Occidente), le località tra cui ritenne di dover scegliere erano Troia, Bisanzio ed Alessandria.
Troia, secondo la leggenda, era la madre di Roma; Alessandria era la seconda metropoli dell’Impero. Ma la scelta cadde su Bisanzio, sia per necessità pratica sia per la bellezza della sua posizione.
Nel 330, ribattezzata Costantinopoli, fu proclamata capitale dell’Impero. (W. Schneider)

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Storia di Roma I GRACCHI – dettati ortografici e letture

Storia di Roma  I GRACCHI – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Storia di Roma I GRACCHI

Dopo la vittoria su Cartagine, Roma divenne ricca e potente, ma i benefici di tale ricchezza e potenza non erano equamente distribuiti fra tutti i cittadini. Molti fra coloro che avevano lungamente combattuto, trascurando lavoro e interessi, erano caduti in miseria.
Le terre di conquista erano distribuite ai cittadini, ma gran parte di esse toccavano a pochi patrizi che aumentavano i loro possedimenti. Essi avevano campagne estese (latifondi) a perdita d’occhio e sovente ne trascuravano la buona coltivazione.
Il numero dei poveri aumentava ogni giorno. Essi abbandonavano le loro case e i loro campicelli, e si riversavano nelle città. Era una situazione molto grave, e due nobili fratelli romani, Tiberio e Caio Gracco, cercarono con tutte le loro forze di porvi rimedio. Nominati tribuni, proposero la “legge agraria”. Essa stabiliva che molte terre fossero distribuite ai contadini più bisognosi.
I patrizi, aiutati degli amici del Senato, combatterono con ogni mezzo la legge agraria che li danneggiava.
Tanto fecero che Tiberio fu assassinato in un tumulto, e il fratello Caio, abbandonato anche dagli amici e dai beneficati, si fece uccidere da uno schiavo.

Storia di Roma I GRACCHI – I Romani diventano ricchi, ma non tutti

Roma aveva conquistato immensi territori. Divenuti ricchi, i cittadini presero ad amare il lusso, gli oggetti preziosi, i banchetti, i divertimenti. Gli schiavi lavoravano per loro.
Naturalmente, non tutti i cittadini romani erano diventati ricchi. Anzi, la maggior parte di essi era rimasta povera, più povera di prima! Solo i proprietari di vaste terre (i latifondi) ammassavano facilmente le ricchezze, facendo lavorare gli schiavi e trasformando i campi in pascoli per le greggi e gli armenti.
Infatti, siccome il grano arrivava in abbondanza dall’Africa e dall’Asia Minore, non era più necessario coltivarlo in Italia. Questo sistema riduceva in miseria i piccoli proprietari che abbandonavano i loro campicelli e si trasferivano a Roma, a vivere come oziosi mendicanti.
Due uomini vollero porre riparo a tanta miseria,  realizzando le prime riforme a favore degli operai e dei contadini: Tiberio e Caio Gracco.

Storia di Roma I GRACCHI – Tiberio e Caio Gracco

Tiberio e Caio, per l’indole egregia e per il grande studio che Cornelia mise nell’educarli, divennero i più disciplinati di quanti Romani allora vivevano; e dall’esempio loro si dimostrò che l’educazione è ottima guida per condurre gli uomini a virtù. Tiberio e Caio furono somiglianti nella forza, nella temperanza, nella liberalità, nella grandezza d’animo e nell’eloquenza; ma grandemente differivano in altre cose. Tiberio nell’aria del volto, nello sguardo e nel portamento era mite e composto. Caio, invece, era impetuoso e pieno di forza; cosicchè quando arringava il popolo, egli non si teneva già modestamente fermo al suo posto, come il fratello; anzi fu il primo dei Romani a passeggiare qua e là per la ringhiera (il palco da dove parlavano gli oratori) ed a tirarsi la toga giù dalle spalle. Se poi era preso dall’ira, s’infiammava e strillava sino a prorompere in contumelie e a confondersi nel discorso. Venendo a parlare dei costumi e della maniera di vivere, si lodavano in Tiberio la frugalità e la semplicità; mentre Caio, sebbene temperato ed austero in confronto agli altri, si poteva dire largo e magnifico rispetto al fratello. (da Plutarco)

Storia di Roma I GRACCHI – I veri gioielli

Le ricche signore romane si chiamavano matrone. Andavano coperte di ampie vesti e portavano indosso ornamenti d’oro. Molte si facevano accompagnare da uno schiavo, con un cofanetto pieno di gioielli che mostravano alle amiche.
Ma una di loro non faceva così. Si chiamava Cornelia. Si era sposata con Sempronio Gracco ed era rimasta presto vedova, con due figli, Tiberio e Caio, che allevava teneramente. Quei due ragazzi, che a Roma chiamavano i fratelli Gracchi, le davano molte soddisfazioni, perchè erano seri, buoni, studiosi. Cornelia, per quanto vedova, si sentiva contenta di loro.
Un giorno si recò a farle visita un’altra matrona, diversa da lei. Era una donna ambiziosa e vanitosa, piena di ornamenti. La seguiva uno dei soliti schiavi, col cofano dei gioielli. La matrona lo aprì dinanzi a Cornelia. Trasse fuori collane d’oro, con la bulla che era una specie di medaglia. Sollevò fili di perle opaline. Si infilò alle dita anelli gemmati. Mostrò braccialetti larghissimi, d’oro sbalzato. Eppoi, filigrane e fibule, che erano fatte come i nostri spilli di sicurezza, ma più ricchi e lavorati.
E mentre si passava, da una mano all’altra, tutti quei gioielli preziosi, i suoi occhi brillavano più che i diamanti sfaccettati.
Cornelia sorrideva per cortesia, ma in cuor suo compativa quella donna che, per darsi importanza, aveva bisogno di tutte quelle cose inutili.
A un certo momento, la matrona vanitosa chiese a Cornelia che le mostrasse i suoi gioielli. Forse la voleva umiliare. Ma Cornelia, com’era una donna di giudizio, era anche una donna di spirito. Invece di aprire un cofano o di frugare in un cassetto, chiamò presso di sè i suoi due bravi figlioli.
Prese Tiberio da una parte, Caio dall’altra. Passò sulle loro spalle le sue materne braccia, poi disse, modesta e insieme orgogliosa: “Ecco i miei gioielli!”
La sciocca matrona, a quella bellissima risposta, rimase confusa.
Abbassò gli occhi sui suoi gioielli. Le sembrò che non sfavillassero più. Anche nei suoi occhi si era spenta la luce della gioia. Richiuse il cofano. Ma ora erano gli occhi di Cornelia e dei suoi cari figlioli che riempivano di luce la casa. (P. Bargellini)

Storia di Roma I GRACCHI – Discorso di Tiberio Gracco

Tiberio Gracco, divenuto tribuno della plebe, propose nel 133 aC, una legge, per la quale la grande proprietà terriera, o latifondo, doveva essere frazionata in modo tale che nessun cittadino potesse possedere più di 1.000 giornate di demanio pubblico. Il resto doveva essere confiscato e diviso in piccoli poderi da 30 iugeri, da distribuirsi fra i cittadini nullatenenti.
Ecco il discorso con cui Tiberio arringò la folla in tale occasione:
“Le belve che vivono allo stato selvaggio hanno le loro tane, ma quelli che muoiono per l’Italia non sono padroni che dell’aria che respirano. Essi devono andare raminghi, con la moglie e con i figli, senza casa, senza tetto.
Quando i loro comandanti, prima della battaglia, li incitano a combattere per le loro tombe e per i loro Lari, mentono e sanno di mentire, perchè nessuno dei soldati possiede tali cose. I loro combattimenti, i loro morti, non servono che ad accrescere il lusso dei ricchi.
Si ha il coraggio di chiamare padroni del mondo questi disgraziati che non posseggono neppure una zolla di terra!”
(da Plutarco)

Storia di Roma I GRACCHI – Tiberio Gracco

Tiberio fu eletto Tribuno della Plebe e fece approvare una legge che vietava ai cittadini di possedere latifondi troppo estesi e imponeva ai proprietari terrieri di assumere un certo numero di contadini liberi, da far lavorare nei campi oltre agli schiavi, mentre a tutti i cittadini poveri lo Stato avrebbe assegnato un piccolo terreno. Questa legge non poteva piacere ai grandi proprietari… Non potendo privare Tiberio del potere, i patrizi provocarono aspri disordini durante le elezioni dell’anno 133 aC; Tiberio fu assalito e ucciso.

Storia di Roma I GRACCHI – Caio Gracco

Nove anni dopo, Caio Gracco, fratello minore di Tiberio, fu eletto a sua volta Tribuno della Plebe. Per favorire i poveri, Caio fece approvare una legge perchè fossero ricostruite alcune famose città: Taranto, Capua, Cartagine. Per salvare i plebei dalla fame, Caio mise in opera la legge frumentaria, che impegnava lo Stato a vendere ad ogni cittadino cinquanta chili di grano al mese, a bassissimo prezzo. Neppure queste leggi poterono essere gradite ai profittatori.
Per attaccare Caio Gracco fu trovata una scusa: Caio aveva guidato tremila coloni in Africa, perchè ricostruissero Cartagine. Ma, al termine della terza guerra punica, il territorio di Cartagine era stato dedicato alle divinità infernali. Caio Gracco fu accusato di sacrilegio e perseguitato. Morì ucciso nel 121 aC.

Storia di Roma I GRACCHI – Vicino al popolo

Caio Gracco abbandonò la propria ricca casa patrizia per andare ad abitare in una catapecchia di un quartiere popolare, e ciò per essere maggiormente vicino al popolo e vederne così con i propri occhi i bisogni.

Storia di Roma I GRACCHI – Le guerre civili

La miseria, le ingiustizie, l’inimicizia tra i pochi ricchissimi ed i molti poveri continuarono dopo la morte dei Gracchi. All’improvviso scoppiò una vera guerra fra gruppi di cittadini romani. Si disse “guerra civile” perchè era combattuta da uomini appartenenti alla stessa patria. Gli interessi della plebe erano difesi da Caio Mario, un popolano che, per il suo coraggio, era giunto ai più alti gradi militari.
Il suo avversario era il nobile Lucio Silla, intelligente e ambizioso. La lotta durò molti anni: se trionfavano gli uomini di Mario, la vendetta colpiva i “sillani”; se invece era vittorioso Silla, tutti gli amici di Mario erano perseguitati ed uccisi.
Quando Mario morì, Silla si fece nominare dittatore e governò lo stato con grande durezza fino all’anno 79 aC.

Storia di Roma I GRACCHI – Mario

Era nato da contadini. Aveva combattuto con Scipione nella Spagna, e ben presto era divenuto generale. Coraggioso, forte, abile, resisteva a qualsiasi fatica. Viveva la vita dei suoi soldati: mangiava il loro pane e, come loro, riposava sulla nuda terra. Durante le soste, metteva anch’egli mano al lavoro per scavare una fossa o un vallo (trincea). I soldati lo ammiravano e lo amavano, pronti a compiere con lui le più audaci imprese.

Storia di Roma I GRACCHI – Caio Mario, il salvatore della Patria

Mentre a Roma la plebe era in fermento, scoppiò una guerra contro Giugurta, re della Numidia. Essa fu conclusa vittoriosamente dal console Caio Mario, di umili origini. La gloria di Mario si accrebbe pochi anni dopo, quando salvò Roma dalla terribile invasione dei Cimbri e dei Teutoni, bellicosi popoli germanici. Il console fu acclamato “salvatore della patria” e “terzo Romolo”.
Caio Mario riorganizzò l’esercito. I soldati furono equipaggiati a spese dello stato e ricevettero una paga.

Storia di Roma I GRACCHI – Eroico modo di attingere acqua

I soldati di Mario, assetati, protestavano con il condottiero perchè volevano acqua. “Il campo nemico ne abbonda” disse Mario “andate a prenderla!”. E li guidò alla battaglia.

Storia di Roma I GRACCHI – Silla

Era di ricca famiglia patrizia. Aveva occhi azzurri e aspetto fiero. La sua faccia era di colore scuro, qua e là pezzato di bianco. In lui c’era un impasto di virtù e di vizi. Forte e valoroso in guerra, era poi prodigo, spavaldo, ambizioso e vendicativo. I nemici lo temevano; lo sapevano uomo senza pietà. Gli amici lo adoravano, perchè lo sapevano pronto a qualsiasi aiuto.

Storia di Roma I GRACCHI – Lucio Cornelio Silla

Nonostante le vittorie conseguite, Roma covava dentro di sè continue discordie, alimentate ora dai patrizi, ora dai plebei.
Per alcuni anni prevalse il partito dei plebei, capeggiato da Mario, che fece strage dei suoi nemici. Quando morì, si disse: “Non fu amato da nessuno, fu odiato da molti”.
Poi prevalse il partito dei patrizi, capeggiato da Silla. Ma anche di lui si disse: “Nessuno fece tanto bene ai suoi amici e tanto male ai suoi nemici”. Raggiunto il pieno potere, infatti, Silla riempì Roma di stragi senza fine e senza limite.
Molte conquiste della plebe furono distrutte: i tributi non poterono esercitare il diritto di veto e proporre le leggi. Dopo quattro anni di dittatura Silla si ritirò a vita privata.
“C’é qualcuno” domandò al popolo convocato in piazza “che voglia chiedermi conto di quello che ho fatto?” Nessuno aprì bocca.

Storia di Roma I GRACCHI – La battaglia di Aquae Sextiae

Quando tutto fu pronto, Mario col grosso delle forze si accampò verso le foci del Rodano, in luogo forte, cinto di staccati e di fosso. Ecco arrivare finalmente i nemici, in numero quasi infinito
Mario ordinò che i legionari dall’alto dei terrapieni, a turno stessero ad osservare i nemici, in modo da assuefarsi al loro aspetto strano, alle loro voci spaventose: ottenne così che i Romani non soltanto temessero più d’attaccare battaglia, ma ogni giorno chiedessero ad alte grida che il console desse il segnale. Ed egli, impassibile, li frenava. Alfine i Teutoni s’impazientirono e da ogni parte, alla rinfusa, assalirono il campo romano, quasi per provare la forza d’animo dei difensori. Respinti dalla pioggia di saette, senza ritentar la prova e quasi disprezzando quel nemico trincerato, decisero di muovere senz’altro verso i passi delle Alpi, per ricongiungersi coi Cimbri e insieme passare in Italia. Levate le tende, i barbari si avviarono, sfilando, per derisione, lungo il campo di Mario.
Solo quando le retroguardie del nemico furono scomparse, verso oriente, Mario levò il campo e li seguì cautamente. Pensava non senza ragione, che durante la marcia il disordine sarebbe entrato più facilmente in quelle enormi masse indisciplinate. Quasi ogni giorno egli faceva prigionieri gruppi di ritardatari e di sbandati. Vicino ad Aquae Sextiae potè finalmente coglierne all’improvviso una grossa schiera di trentamila, separati da un canale e, con abile manovra, parte cacciarli giù nell’acqua, parte uccidere, parte inseguire fino al campo.
Il terzo giorno la tensione degli animi era diventata tale, che Mario ritenne miglior consiglio affrontare la prova. Trasse le legioni dagli steccati e le schierò su un pendio. L’ordine dato ai soldati era semplice: mantenere ad ogni costo l’ordinanza, aspettare i nemici a piè fermo e scagliare i giavellotti a giusta distanza; Mario, come sempre, combattè in prima fila, per dare esempio e coraggio.
Dopo una lunga lotta, i barbari si ritirarono per riprendere fiato; ma ecco, in quel mentre Claudio Marcello assalirli alle spalle. Alla inattesa vicenda, i Teutoni restarono un momento incerti; combattere su due fronti non era loro costume; credettero ad un tradimento, ad un  prodigio; la confusione entrò nelle loro file. Molti corsero verso il campo, ove avevano lasciato le mogli, i vecchi, i bambini.
Le legioni allora presero l’offensiva e si slanciarono con alte grida giù dal pendio. Nella battaglia all’arma bianca, come erano quelle dell’antichità, non vi era quasi scampo per gli sconfitti; quando incominciava la ritirata, era quasi la strage sicura. Più di centomila Teutoni furono distrutti in poche ore; in parte uccisi, in parte fatti prigionieri;  tutte le loro cose divennero bottino di guerra. (A. Valori)

Storia di Roma I GRACCHI – Le proscrizioni di Silla

Silla riempì Roma di stragi senza fine e senza limite. Molti che non avevano mai avuto nulla a che fare con lui, furono fatti mandare a morte per odi personali: egli lasciava fare per compiacere i suoi amici.

Silla proscrisse dapprima ottanta cittadini senza dare alcuna comunicazione ai magistrati: ciò provocò generale indignazione. Lasciò allora passare un giorno, ma poi ne proscrisse duecentoventi altri e il terzo giorno altrettanti. Parlando al pubblico, disse che aveva proscritto chi gli era venuto in mente e che in seguito avrebbe preso la medesima misura contro altri che gli fossero venuti a memoria.

Stabilì la pena di morte per chiunque avesse dato ospitalità o salvato un proscritto, anche se fosse stato fratello, figlio, genitore, e fissò un premio di due talenti per chi avesse ucciso uno posto al bando, fosse anche il servo a uccidere il padrone o il figlio a uccidere il padre.
Ciò che parve ingiusto al massimo fu l’avere Silla stabilito la perdita di ogni diritto e la confisca dei beni anche a danno dei figli o dei nipoti dei proscritti.
Le proscrizioni non furono limitate a Roma, ma furono estese a tutte le città d’Italia. Non vi fu tempio di divinità, focolare domestico o casa paterna rimasta monda dal sangue degli uccisi: erano trucidati i mariti accanto alle mogli, i figli presso le madri.

Il numero delle vittime per rancori e odi personali fu lungi dall’eguagliare quello degli uccisi a causa delle loro ricchezze. Gli assassinati avrebbero potuto ben dire che l’uno doveva la morte alla sontuosa abitazione, l’altro al suo giardino, l’altro ancora alle sue stanze. Quinto Aurelio, uomo inoffensivo e che non partecipava a tante calamità se non con il sentire compassione per le sventure altrui, recatosi al Foro vide il suo nome nella lista dei proscritti.

“Misero me” disse “è il mio podere l’Albano che mi perseguita”. Fece qualche passo, e fu assassinato da uno che si era messo a seguirlo. (Plutarco)

Storia di Roma I GRACCHI – Il dono di Caio Mario

Caio Mario si trovava presso Vercelli, quando gli si presentò un uomo ancora giovane, sano e robusto, ma lacero e sudicio. “Salve, illustre console!”, lo salutò il mendicante.
Mario rispose con rude cenno: “Che cosa vuoi?”.

L’uomo fu un po’ turbato da quel modo aspro di trattare; pure si fece coraggio e disse: “Vorrei chiederti aiuto. Tu vedi, o console, come sono povero”.
Mario corrugò la fronte, incrociò le braccia sul petto e, dopo averlo osservato attentamente, domandò: “Quanti anni hai?”
“Ne ho compiuti trenta un mese fa”
“Va bene. Torna domani  e ti darò un dono degno di me”.
Il mendicante si chinò davanti al capitano e gli volle baciare la mano, ma fu respinto: “Ricordati che le adulazioni non mi piacciono”.

Il misero se ne andò confuso. Il giorno dopo, di buon mattino, si presentò alla tenda del console. Mario, appena lo scorse, gli disse: “L’ora è assai propizia per il dono che ti faccio”, e gli mostrò un aratro dalla lama lucidissima e ricurva, che scintillava al sole. “Adoperalo dal biancheggiare dell’alba fino al rosso del crepuscolo, e ti assicuro che non sarai più povero”. (G. Visentini)

Storia di Roma I GRACCHI – Le province

I Paesi conquistati fuori dell’Italia peninsulare ebbero il nome di province. La prima fu la Sicilia.
A capo di ogni provincia vi era un governatore romano, proconsole e propretore, cioè console o pretore uscito di carica, che governava per un anno. Costoro, pur rispettando le usanze, i costumi, la religione degli indigeni, esigevano il pagamento dei tribuni imposti ad ogni provincia, comandavano le forze armate, facevano le leve e le requisizioni, giudicavano le cause civili e penali e sorvegliavano l’amministrazione regionale e locale. Naturalmente, per disimpegnare tutte queste funzioni, erano assistiti da un numeroso stuolo di funzionari.
Il governo romano fu in generale benefico: nei paesi quasi barbari dell’Europa occidentale (Gallia e Spagna) portò la sua civiltà; nelle province del Mediterraneo orientale pose fine alle lotte che rovinavano quei popoli.

Storia di Roma I GRACCHI – Le colonie

Nelle terre di recente conquista i Romani fondavano colonie. Era scelto un luogo che fosse ben difeso per natura: alla confluenza di fiumi o su alture che dominassero vaste regioni. I coloni erano quasi tutti soldati romani che si trasferivano con le loro famiglie nel luogo prescelto. Ognuno di essi aveva in proprietà un pezzo di terra. I coloni continuavano ad essere soldati, cittadini di Roma. Potevano andare a Roma ad esercitare i loro diritti; accorrevano alla chiamata nell’esercito di Roma.
Erano dunque ben diverse queste colonie da quelle fenicie e greche, che erano indipendenti dalla Madre Patria. I diritti di cittadinanza romana, di cui godevano i coloni, erano incitamento ai vicini per meditare anch’essi quei diritti con la fedeltà e la devozione a Roma.

Storia di Roma I GRACCHI – Come i Romani fondavano una colonia

La fondazione delle colonie romane si facevano tracciando due strade principali in croce, da nord a sud l’una e da est a ovest l’altra.
Parallelamente a queste si tracciavano le altre strade. Molte nostre città conservano in modo evidente ancor oggi questa impostazione, che risale alla fondazione di una colonia romana. Torino con la sua pianta quasi geometrica si può considerare come un modello di colonia romana, con le sue ampie strade, rettilinee, che si incrociano tutte ad angolo retto. Del resto nella fondazione di una colonia i Romani rispettavano le stesse norme che essi usavano nel porre un accampamento, e molto spesso l’accampamento, e molto spesso l’accampamento a carattere permanente si trasformava col tempo in un vero e proprio villaggio, poi in città.

Storia di Roma I GRACCHI – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA – dettati ortografici e letture

Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici su Roma Rebubblicana, di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

La presa di Veio

Per impadronirsi di Veio, M. Furio Camillo fece scavare una galleria sotterranea che dall’accampamento romano conducesse alla cittadella nemica; senza interruzione fu continuata l’incessante fatica sottoterra, giorno e notte.

Quando il lavoro fu compiuto e solo un sottile diaframma mancava da abbattere, Camillo ordinò di prendere le armi e pregò: “Oh Apollo Delfico, da te ispirato, mi accingo a distruggere la città di Veio; tua sia la decima parte delle prede. E te, Giunone Regina, patrona di Veio, prego di seguirci nella nostra città, che fra poco sarà anche tua; lì avrai per dimora un bellissimo tempio”.

Dopo avere così pregato, fece assaltare la città da tutte le parti per sviare l’attenzione di Veienti dalla cittadella, dove si erano frattanto ammassati i soldati romani.

Lontani erano i Veienti dal sospettare che la cittadella fosse già piena di nemici pronti ad assalirla dal di dentro, e grandemente si meravigliarono che i Romani, come presi da improvviso furore, corressero all’impazzata verso le mura, mentre i giorni prima nessuno di essi si era mosso dai corpi di guardia.

Si racconta che mentre il re di Veio faceva il sacrificio, i Romani appostati nella galleria udissero l’augure dire che vittorioso sarebbe stato chi, primo, avesse tagliato le interiora della vittima, e che allora essi infrangessero l’ultimo diaframma del cunicolo e s’impadronissero delle interiora dell’animale sacrificato, per portarle al loro comandante.

Dalla galleria i soldati romani irruppero nel tempio di Giunone, posto nella cittadella; quindi, divelte le porte, si rovesciarono nella città, corsero sulle mura e, sbarazzatele dei difensori, sfondarono le porte. Come fiumana entrarono gli assedianti e in breve Veio fu piena di nemici. Lotta accanita e immensa strage di armati e di inermi fu in ogni strada. Poi si sedò il furore del combattimento e Camillo, per mezzo degli araldi, dette ordine di risparmiare gli inermi.

Alla vittoria seguì il saccheggio della fiorentissima Veio. Anche le ricchezze degli dei fecero parte del bottino e le stesse divinità, sebbene di esse si impadronissero i Romani più come adoratori che come saccheggiatori. Giovani romani, dal corpo mondo, bianco vestiti, entrarono riverenti nel tempio di Giunone Regina: “Vuoi venire a Roma?” le chiese uno di essi. E la dea, così videro e gridarono gli altri, fece cenno di consentire e docile seguì i movimenti di coloro che la portavano. Ad essa fu data dimora nell’Aventino, dove i voti del duce romano l’avevano chiamata.

Ebbe così fine Veio, la più fiorente città degli Etruschi, grande anche nella rovina. Per dieci estati e dieci inverni aveva retto ad ininterrotto assedio e inflitte più perdite di quante ne avesse subite. Alla fine piegava al destino, più che alla possanza degli uomini; all’astuzia, più che alla forza. (Tito Livio)

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Culto e sacerdozio presso i Romani

A capo del culto era il Collegio dei Pontefici, eletti dal Re, in seguito dai Comizi: compilavano il calendario, stabilendo i giorni consacrati al culto (dies festi) e quelli concessi agli uomini per il disbrigo dei loro affari o ai giudici per l’amministrazione della giustizia (dies fasti). Erano i depositari dei libri sacri e registravano in una specie di cronaca gli avvenimenJti più importanti (Annales Pontificum). Questo collegio era presieduto dal Pontefice Massimo, il capo della religione romana.

Gli Auguri interpretavano la volontà degli dei dai segni celesti (lampo, tuono, fulmine), dal volo o dal canto degli ucceli e dal modo come i polli ingozzavano il becchime. Essi erano consultati negli atti più importanti della vita pubblica, specialmente in caso di guerra.

L’arte degli Auguri era detta divinazione. Quella parte della divinazione che riguardava l’esame delle viscere degli animali sacrificati e l’interpretazione dei sogni, spettava ad altri sacerdoti detti Aruspici, quasi tutti di nazionalità etrusca.

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Ingiustizie contro i plebei

Alle guerre combattute da Roma prendevano parte tutti i cittadini, fossero essi patrizi o plebei. In caso di vittoria, però, il bottino veniva diviso solo tra i ricchi. Così, mentre i patrizi vedevano aumentare le loro ricchezze, i plebei, già poveri, cadevano sempre più in miseria. Essi avevano dovuto lasciare il loro piccolo campo. Se la guerra scoppiava quando era tempo di seminare, l’aratro restava nei solchi, la semente nei sacchi e in breve ogni sorta di erbacce cresceva al posto del buon grano. Se la guerra scoppiava quando era tempo di raccogliere, le spighe aspettavano invano la falce del mietitore. Quando i plebei tornavano alle loro case, la madia era vuota e il fuoco spento. Molti di essi, che avevano speso tutto il loro denaro per acquistare le armi, non avevano di che comprare un asinello o un bue che li aiutasse nel lavoro, e talvolta, nell’impossibilità di pagare i debiti, diventavano schiavi dei patrizi.

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La secessione della plebe

Uno stato così ingiusto di cose non poteva durare a lungo. I plebei andavano chiedendo una riforma delle leggi sui debiti e sulle distribuzioni dell’Agro pubblico, ma le promesse ripetute alla vigilia di una guerra, quando occorreva il braccio dei plebei, non erano poi mantenute alla fine della guerra stessa. Indignata, la plebe nel 494 decise di abbandonare il lavoro e il servizio militare; si stabilì su una collina distante pochi chilometri dalla città, che prese poi il nome di Monte Sacro, per fondarvi una nuova città. Dal verbo secedere (appartarsi), questo atto fu detto secessione. I patrizi furono quasi contenti della partenza dei plebei, ma presto si accorsero che essi erano indispensabili, perchè sapevano cuocere il pane, coltivare i campi, fabbricare armi, costruire le case e le strade. Del resto la secessione era un’arma a doppio taglio che, provocando la rovina della città, avrebbe travolto anche la plebe. Perciò il Senato decise di mandare, per intavolare trattative, un patrizio onesto ed amato dai plebei, Menenio Agrippa, che con la sua autorità ed eloquenza riuscì a placare i ribelli. Si venne ad un accordo. I plebei ottennero migliori condizioni e, cosa molto importante, potrono nominare due loro rappresentanti: i tribuni della plebe, che avevano grande autorità e difendevano, in ogni occasione, gli interessi del popolo.

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I Tribuni della plebe

I Tribuni, due da principio, ma poi accresciuti fino a dieci, e sempre plebei, avevano il compito di difendere la plebe da ogni violenza dei patrizi. Essi avevano infatti due diritti: il diritto di aiuto (ius auxiliii), per cui soccorrevano ogni plebeo che ne facesse richiesta, e il diritto di veto (ius intercedendi), per cui potevano impedire l’esecuzione di qualunque legge che ritenessero nociva ai plebei, solo pronunciando la parola veto (impedisco).

I nuovi magistrati, dichiarati inviolabili, avevano un’autorità morale grandissima e la plebe era pronta a difenderli con ogni mezzo.

Nei due secoli successivi (493-300 aC) i Tribuni, persistendo nel loro programma di rivendicazioni, vincendo l’ostilità e le resistenze del patriziato, riuscirono ad ottenere i desiderati miglioramenti economici e la completa uguaglianza politica, senza atti rivoluzionari violenti, restando sempre nel campo della legalità.

Il Senato era indignatissimo contro questa istituzione: avverso era soprattutto l’arrogante patrizio Coriolano che, non volendo sottostare al giudizio dei Tribuni, dovette lasciare Roma. Assetato di vendetta, si rifugiò presso i Volsci, che erano allora in guerra con Roma, e si pose a capo del loro esercito, guidandolo contro la sua stessa patria. Solo le preghiere della madre lo fecero desistere dalla sua scellerata impresa. I Volsci, come traditori, lo uccisero.

I Tribuni della plebe erano eletti nei primi tempi nei Comizi Centuriati, nei quali la maggioranza dei voti era assicurata ai più ricchi. Dal 471 i Tribuni si cominciarono ad eleggere nei Comizi Tributi. Questi erano formati da rappresentanti delle varie tribù, che erano partizioni territoriali della città abitate insieme da patrizi e da plebei, ma dove i plebei prevalevano numericamente. I patrizi, in principio, benchè invitati, non vollero parteciparvi, ma finirono poi col riconoscere la legalità dei Comizi stessi.

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I ragazzi dell’antica Roma

I ragazzi aiutavano i padri perchè il lavoro dei campi era la loro unica e vera scuola, il loro unico e vero sport. I padri approfittavano dell’occasione per insegnare loro che il seme dava buon frutto solo quando il cielo mandava acqua e sole; e che il cielo mandava acqua e sole quando gli dei lo volevano e che gli dei lo volevano solo quando gli uomini avevano compiuto il loro dovere verso di essi. E che il primo dovere consisteva nell’obbedienza, dei giovani ai vecchi. (I. Montanelli)

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Roma: storia e leggenda

Dopo la cacciata dei re etruschi sembrò che Roma dovesse scomparire perchè fu assalita da tutti i popoli vicini. Ma proprio in questo momento la storia di Roma racconta le più belle imprese dei suoi soldati. Si tratta di uomini coraggiosi, che amano la loro città e sono molto tenaci, cioè non si scoraggiano se subiscono una sconfitta, ma tornano a combattere ancora fino alla vittoria. In questo periodo i Romani furono veramente sconfitti molte volte, ma alla fine furono loro i vincitori. Le imprese dei loro migliori soldati e cittadini, abbellite, per l’ammirazione che esse avevano destato, furono raccontate dai padri ai figli, ai nipoti, finchè divennero racconti in cui è difficile distinguere ciò che è vero da ciò che solo inventato.

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La Repubblica romana

L’ultimo dei sette re, Tarquinio, meritava davvero i soprannome di Superbo. Era anzi peggio che superbo: era crudele, ingrato e prepotente. I Romani lo sopportarono per un po’ di tempo, ma poi, stanchi dei continui soprusi, lo cacciarono dal trono instaurando la Repubblica. A capo di Roma repubblicana c’erano due magistrati, chiamati consoli, i quali venivano eletti dal popolo. I Consoli duravano in carica un anno: essi comandavano gli eserciti ed amministravano la giustizia. Ad assistere i Consoli c’era il Senato. Quando lo Stato era in pericolo per un’invasione esterna o per torbidi interni, il Senato nominava un dittatore, che però durava in carica soli sei mesi. Il dittatore era padrone assoluto durante quei sei mesi, ma alla fine di essi doveva rendere contro al Senato delle sue azioni.

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Guerre contro gli Etruschi, i Latini, i Volsci e gli Equi

I primi anni della Repubblica furono funestati da continue guerre. La prima fu quella di Tarquinio, che per riprendere il trono si alleò col re etrusco Porsenna. I Romani, dapprima sconfitti, riuscirono a riportare finalmente una vittoria decisiva, che costrinse gli Etruschi ad abbandonare l’impresa. I Romani dovettero combattere anche contro i Latini e contro i Volsci e gli Equi, popolazioni del Lazio. Solo dopo lunghe e sanguinose lotte riuscirono a vincerli e a sottometterli. Durante la guerra contro gli Equi si distinse il dittatore Lucio Quinzio Cincinnato il quale, sconfitto il nemico, rifiutò la gloria e gli onori e ritornò a lavorare il suo campicello.

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I consoli

Il governo della Repubblica romana fu affidato a due consoli. I consoli erano eletti dai Comizi Centuriati, e duravano in carica un anno; conducevano l’esercito in guerra, convocavano i comizi per l’approvazione delle leggi che essi stessi avevano proposto, ed esercitavano anche il potere giudiziario, punendo i trasgressori. Erano preceduti dai littori, sei per ciascuno, che portavano i fasci, l’insegna del loro comando, formati di verghe strette insieme a cui era unito il manico di una scure: in guerra e fuori della città i consoli potevano condannare a morte i soldati e per questo sui fasci era infissa la scure, ma in città essa era tolta perchè la condanna non spettava ai consoli.

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Altri magistrati di Roma repubblicana

Altri magistrati erano: i questori, o tesorieri dello Stato, che riscuotevano i tributi e pagavano, secondo gli ordini dei consoli; i pretori, che giudicavano le cause civili; i censori, incaricati di eseguire ogni 5 anni il censimento e di vigilare sui costumi; gli edili, che sovraintendevano ai mercati, ai giochi pubblici, alla pulizia, ecc… In caso di pericolo dello Stato, o per una guerra esterna o per una rivolta, si nominava, in luogo dei consoli, un dittatore, che aveva pieni poteri, ma durava in carica poco tempo, al massimo sei mesi.

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Cincinnato, il vincitore degli Equi

Un messaggero arriva coperto di polvere e si dirige a spron battuto verso la Curia, dove sono riuniti i Senatori di Roma. Egli reca gravi notizie: gli Equi hanno battuto l’esercito romano e lo hanno circondato sul monte Algido. Il console potrà resistere solo per alcune ore. I Padri si consultano brevemente; poi decidono: Cincinnato è eletto dittatore. Egli è al di là del Tevere, intento ad arare con due magri buoi il suo campicello. Cincinnato accetta la carica suprema; indossa la toga bianca, corre a Roma ed ordina: “Tutti gli uomini validi si presentino armati al Campo Marzio ed ognuno porti tre pali lunghi nove piedi”. A notte l’esercito si mette in marcia verso il monte. Il campo nemico viene circondato ed ogni soldato pianta in terra i suoi pali, formando rapidamente una immensa palizzata, dentro la quale sono chiusi gli Equi. Al mattino le trombe annunciano ai soldati del console che i soccorsi sono giunti ed una pioggia di frecce provenienti da due direzioni si abbatte sugli incauti nemici. La vittoria è completa. Gli Equi si arrendono. Cincinnato ha salvato Roma e torna a seminare il grano nei solchi aperti dai due magri buoi. (da Tito Livio)

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Orazio Coclite

Tarquinio il Superbo, fuggito da Roma, si rifugiò presso il suo amico etrusco Porsenna e lo convinse a far guerra alla città che lo aveva cacciato. Porsenna marciò con un grande esercito contro Roma. Egli arrivò d’improvviso con i suoi cavalieri alla riva del Tevere, oltre il quale si estendeva Roma con le sue piccole case, i suoi templi, le sue mura. Pareva una città facile ad essere conquistata. Sul Tevere c’era un ponte di legno che univa le due rive del fiume e portava in città. Porsenna stava per attraversarlo con i suoi soldati, quando un giovane di nome Orazio Coclite si lanciò sul ponte e cominciò a combattere con terribili colpi di spada. Gli Etruschi, che non s’aspettavano tanta resistenza da un uomo solo, ripiegarono un poco. Intanto, alle spalle di Orazio Coclite, alcuni suoi compagni tagliarono con le asce il ponte Sublicio fino a che esso crollò. Orazio Coclite si gettò allora nel fiume e raggiunse a nuoto la riva. Roma era salva per il valore del giovane eroe.

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Muzio Scevola

Il re Porsenna allora decise di assediare Roma. Mise perciò i suoi soldati attorno alla città per impedire che vi arrivassero degli aiuti. In Roma scarseggiava, ormai, il frumento per gli abitanti, gli animali morivano per mancanza di erba. L’acqua dei pozzi era poca e guasta. Un altro giovane, Gaio Muzio, offerse la propria vita per la città. Egli lasciò i suoi cari e gli amici e tutto solo si diresse verso gli accampamenti degli Etruschi per uccidere il loro re. Entrato nella tenda di Porsenna, vide molti guerrieri che stavano parlando con un uomo che indossava ricche vesti. Gaio Muzio credette fosse il re e lo uccise. Egli fu subito arrestato e condotto davanti a Porsenna. Quando Gaio Muzio s’accorse di aver sbagliato, stese il braccio destro su un braciere che ardeva nella tenda e disse: “O re, punisco il mio braccio perchè ha sbagliato, ma sappi che trecento giovani romani hanno giurato, come me, di ucciderti”. Il re, ammirato, lasciò libero Gaio Muzio il quale tornò a Roma ed ebbe grandi onori. Egli fu, da allora, chiamato Scevola, cioè mancino.

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Clelia

Tra gli ostaggi che i Romani avevano dovuto consegnare a Porsenna c’era Clelia, una fanciulla di nobile famiglia. Ella riuscì a fuggire a cavallo dal campo etrusco e, passato a nuoto il Tevere, giunse a Roma. I Romani, anche se a malincuore, la rimandarono da Porsenna perchè volevano rispettare i patti. Il re etrusco, meravigliato per la lealtà dei suoi nemici, tolse l’assedio e ritornò nel suo regno.

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La vittoria del lago Regillo

Dopo che Roma ebbe concluso la pace con Porsenna, le città latine, istigate da Tarquinio il Superbo, si unirono fra di loro e le dichiararono guerra. Tuttavia, presso il lago Regillo, vennero sconfitte e le loro terre divennero dominio di Roma.

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Coriolano

Un nobile generale romano, Caio Muzio detto Coriolano perchè aveva conquistato la città di Corioli, per un grave dissenso con la plebe e col Senato fu costretto a lasciare Roma. Rifugiatosi presso il popolo dei Volsci, che erano nemici dei Romani, Coriolano, vendicativo e fiero, li incitò contro la sua città e marciò egli stesso in testa al loro esercito verso Roma. Quando il Senato seppe che i Volsci erano accampati a poche miglia dalla città, mandò degli ambasciatori per placare Coriolano; ma non ottennero nulla. Andarono poi dei Sacerdoti: inutilmente. Allora s’avviò verso il campo dei Volsci Volumnia, la madre, con la sposa ed i figlioletti di Coriolano che, quando vide sua madre, le andò incontro per abbracciarla. La madre, invece, lo fermò con un gesto e con queste parole: “Dimmi prima se sei mio figlio o il nemico della mia patria”. Coriolano abbassò il capo, si commosse, poi, abbracciando la mamma esclamò: “Madre mia, tu salvi Roma, ma perdi tuo figlio”. Difatti Coriolano fece subito cessare l’avanzata dell’esercito verso Roma, ma fu per questo ucciso dai Volsci.

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La casa romana

Le modeste abitazioni romane dei primi tempi divennero ville e palazzi eleganti. Le case furono lussuosamente ammobiliate con mobili ornati di bronzo e provvisti di coperte. I treppiedi, i bracieri, gli scaffali, le anfore abbellivano ogni stanza, ogni angolo. Ecco la casa di una ricca famiglia romana. Entriamo nell’atrio: aria e luce arrivano da un’apertura sul tetto; se piove l’acqua si raccoglie nell’impluvio. Il padrone e gli ospiti escono dal triclinio, dove hanno banchettato, e si recano nel peristilio, un cortile luminoso e verde come un giardino.

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I patrizi e i plebei

Fin dai tempi di Romolo, la cittadinanza romana fu divisa in patrizi e plebei, cioè in ricchi e poveri. I patrizi, divisi in dieci curie, avevano tutti i privilegi: soltanto essi potevano diventare senatori e occupare le massime cariche dello stato. E sempre ai patrizi spettava amministrare la giustizia, dichiarare la guerra e comandare i soldati. I plebei dovevano solo ubbidire e lavorare il loro campicello, che spesso erano costretti a vendere per pagare i debiti. Se non bastavano i pochi averi per pagare i debiti, divenivano schiavi dei patrizi.

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Come vivevano i patrizi

Il patrizio romano si alzava al mattino presto. Dopo essersi abbigliato, usciva dalla sua stanza e si recava nel vestibolo, dove stavano ad attenderlo i clienti. Questi erano cittadini devoti alla sua famiglia, che gli prestavano dei piccoli servigi e gli tenevano compagnia, ricevendo in cambio un obolo quotidiano. Seguito dai clienti il patrizio usciva per recarsi a far visite o per passeggiare. Si recava al Foro, per discutere di politica e per ascoltare gli oratori o i pubblici lettori. A mezzogiorno il patrizio rientrava in casa per consumare una colazione leggera, alla quale seguiva un breve riposo. Si recava quindi al bagno nella pubblica piscina, e verso le tre del pomeriggio era di nuovo in casa per il pasto principale della giornata. Dopo il pranzo il patrizio si fermava a tavola per conversare con gli ospiti o per giocare a dadi. Usciva quindi per l’ultima passeggiata o per recarsi al “Campo di Marte” per gli esercizi ginnastici o agli spettacoli nei teatri o nei circhi. Alla sera c’era un altro pasto, che spesso si prolungava fino a notte inoltrata.

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Come vivevano i plebei

I plebei abitavano in case comuni, altre quattro o cinque piani ed anche più; spesso il loro alloggio consisteva in un solo locale arredato modestamente: pagliericci per dormire, mensole per le stoviglie, una tavola e alcuni sgabelli. Anche le loro vesti erano modeste: normalmente indossavano un semplice mantello senza maniche, di lana o di pelle, oppure la “lacerna”, una specie di tunica, con cappuccio. Ai piedi portavano i sandali con la suola di cuoio o gli zoccoli. I plebei si dedicavano a qualche lavoro di artigianato o servivano nelle botteghe. La maggioranza dei plebei però conduceva una vita oziosa e passava gran parte della giornata a vagabondare per le strade o a giocare ai dadi nelle osterie. I plebei possedevano pochissimo denaro, ma in compenso la vita a Roma costava poco, inoltre spesso i patrizi facevano distribuzioni gratuite di grano: questo avveniva soprattutto alla vigilia delle elezioni, allo scopo di attirarsi le simpatie dei plebei ed averne il voto.

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Gli schiavi

Dapprima Roma aveva soltanto pochi schiavi, quasi tutti prigionieri di guerra impiegati nei lavori agricoli. Ma con le conquiste e l’arricchimento dei cittadini, Roma vide affluire dentro le sue mura immense schiere di schiavi e i mercanti specializzati ne conducevano sempre di nuovi. Gli schiavi venivano venduti in un mercato vicino al Foro. Li presentavano in piedi su un palco, con un cartello appeso al collo, in cui era scritto il nome, l’origine e le capacità di ognuno. La gente girava intorno, saggiava i loro muscoli, li interrogava per capire se erano intelligenti o tonti, mentre il mercante si dava da fare per vantare immaginarie virtù e per nascondere difetti. Gli schiavi non avevano alcun diritto: erano considerati come cose e si potevano comprare, vendere, picchiare, mutilare, uccidere senza che nessuno lo potesse impedire. Non potevano sposarsi e le schiave che avevano dei figli non avevano il diritto di allevarli: il padrone glieli poteva togliere quando voleva, perchè anch’essi erano schiavi e dunque appartenevano al padrone. Gli schiavi erano utilizzati per ogni genere di lavoro: vi erano schiavi zappaterra, ma anche schiavi medici. I padroni potevano trattarli duramente. Potevano punirli con severi castighi, quali la fustigazione e la condanna a girare, incatenati, con la ruota del mulino. Agli schiavi fuggitivi venivano impresse in fronte le ttere FUG con un marchio infuocato. Le mancanze più gravi erano punite con la morte.

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L’apologo di Menenio Agrippa

Dopo una campagna di guerra particolarmente gravosa, i plebei, visto che i patrizi non avevano cuore per loro, stabilirono di allontanarsi in massa da Roma e si ritirarono sul monte oltre l’Aniene, che oggi si chiama Monte Sacro. I patrizi li lasciarono partire quasi contenti, ma subito si accorsero che senza i plebei, molti dei quali esercitavano le più utili tra le professioni manuali, la città non poteva vivere. Mandarono perciò sul Monte Sacro un’ambasceria capeggiata da Menenio Agrippa, il quale, visto che i plebei non volevano ascoltar ragione, narrò loro l’istruttivo apologo delle membra del corpo umano e dello stomaco. “Le varie membra del corpo umano” disse Menenio, “erano stanche di affaticarsi a beneficio esclusivo dello stomaco. Quell’antipatico sacco, esse pensavano, non fa altro che ricevere i cibi che noi gli forniamo in mille modi, e si ingrassa sulla nostra stanchezza. La nostra sorte è quella di lavorare, la sua quella di godersi in pace il frutto delle nostre fatiche. Dichiariamo guerra a quell’egoista! Voi gambe state ferme, braccia incrociatevi, labbra state chiuse, denti non masticate… Vedremo che farà lo stomaco senza di noi. Così dissero e così fecero; ma, di lì a poco, ogni membro del corpo si sentì stanco, sfinito più di quanto doveva lavorare per lo stomaco. Lo stomaco non riceveva più cibi ma, col suo sfinimento, provocava quello di tutte le altre membra.” I plebei capirono la lezione e tornarono in Roma, dopo essersi fatti concedere dai patrizi una speciale magistratura, quella dei tribuni della plebe, destinata a proteggere i plebei.

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Leggi scritte per una sicura giustizia

I plebei ottennero anche che le leggi fossero messe per iscritto e fossero uguali per tutti. Sino a quel tempo, a Roma le leggi si tramandavano oralmente; così i patrizi, che avevano in mano le cariche più importanti dello stato, potevano interpretare le leggi in loro favore, a danno dei plebei. Ora, il Senato diede l’incarico a dieci magistrati di mettere per iscritto delle leggi che riconoscessero un giusto e uguale trattamento a tutti i cittadini. Si volle inoltre che le leggi potessero essere conosciute da tutti, e che tutti potessero, in ogni occasione, consultarle liberamente: così si pensò di esporle in un luogo pubblico. A Roma c’era una grande piazza dove si tenevano i mercati e si riuniva il popolo in assemblea. Era una zona piana che si apriva tra il Palatino e il Campidoglio; il terreno, un tempo paludoso, era stato prosciugato con la costruzione della Cloaca Massima ed era diventato poi il Foro, cioè la piazza più importante della città. Le nuove leggi furono esposte nel Foro, incise su dodici tavole di bronzo: nessuno, neanche il tempo, avrebbe potuto cancellarle.

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Alcune leggi delle dodici tavole

Se uno rompe un braccio a un altro e non fa pace con lui riceverà lo stesso danno. Se uno con la mano o con un bastone rompe un osso ad un uomo libero, deve pagare 300 assi di multa, se sfregia uno schiavo paga 150 assi. Chi fa ingiuria a qualcuno paga 25 assi. Se qualcuno ruba o compie qualche delitto di notte può essere ucciso.

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La famiglia romana antica

La famiglia romana era ben diversa dalla famiglia moderna. Essa era un organismo politico e religioso. A capo vi era il pater familias, che aveva il potere assoluto, detto patria potestas, su tutti i membri: moglie, figli, nuore, fratelli minori, nipoti, ecc… Egli era il sacerdote del culto domestico, il giudice che poteva punire con la prigionia, le pene corporali e la morte i membri della famiglia, ed era il solo padrone dei beni domestici. Morto il padre, il figlio primogenito diveniva pater familias e la madre rimasta vedova veniva sottoposta alla sua autorità. Però, benchè sempre soggetta all’autorità prima del padre, poi del marito, poi del figlio, la donna era la vera regina della casa, ed era circondata di grande rispetto: sorvegliava il lavoro degli schiavi, educava i figli, tesseva e filava. Il focolare domestico, posto nel centro della casa, era l’altare del culto familiare, di cui il padre era appunto il sacerdote. Gli dei custodi della casa erano le anime degli avi: i Lari e i Penati. L’antica famiglia romana, laboriosa, frugale, disciplinata, ligia al dovere, fu una palestra di virtù: in essa si formarono quei cittadini e quei soldati che portarono poi nell’attività politica e militare le sane energie acquistate nella casa.

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La giornata di un Romano

Gli antichi Romani erano assai mattinieri. Al sorgere del sole s’apre la porta di casa e l’atrio si riempie di numerosi visitatori. Sono gli amici di casa, i clienti: persone con pochi quattrini, di regola ben vestite ma con la pancia vuota, che si fanno un obbligo di venire a rendere omaggio al padrone anche quando il tempo è brutto. Il padrone li riceve seduto, sopra una sedia a braccioli simile a quelle dei vescovi, scambia con essi strette di mano e ne invita un certo numero a mensa; gli altri possono andare a prendere il cibo in cucina. E l’orologio? Un avvisatore annuncia l’ora nella casa. Erano noti soltanto gli orologi a sole o ad acqua. Così d’estate come d’inverno il giorno era diviso in dodici ore e altrettante la notte. All’ora terza del giorno, verso le nove, il padrone di casa esce per andare ad attendere agli affari, ai quali è dedicato il tempo che precede il mezzogiorno: in tutto il pomeriggio è libero di darsi al riposo, allo svago. Nel frattempo la donna domina la casa. I ragazzi più grandi sono a scuola con il loro custode. I più piccoli giocano nel giardino, nel porticato, insieme con i bambini degli schiavi allevati con essi. I servi sono al mercato e fanno la spesa. Le ancelle filano e tessono per i bisogni della famiglia. S’ode risuonare il canto della nutrice che allatta il più piccolo. Quindi è annunciata l’ora settima, cioè quella del mezzogiorno. Giunge il padrone per la colazione. Poi viene il più bello, la dormita del mezzogiorno, che nessuno tralascia di fare, specialmente d’estate. Quindi gran movimento nella cucina e nella sala da pranzo. La servitù prepara il desinare, che ha luogo verso le sei pomeridiane. Durante questi preparativi i signori della casa pensano alla ginnastica e al bagno. In seguito quelli di casa si raccolgono nella sala da pranzo vestiti leggermente e con libertà, nella bella stagione. Ogni commensale ha un servo per sè. La padrona, che è presente, non giace, ma siede. Il pranzo, tra conversazioni, concerti, passatempi e sorprese, si protrae fino a tarda notte. (T. Birt)

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L’abbigliamento maschile

Per un Romano vestirsi è un’operazione abbastanza semplice e rapida. Su di una specie di camicia di lino piuttosto corta ed in diretto contatto con la pelle, egli infila la tunica, ossia una veste di lana formata da due pezzi di stoffa cuciti insieme e tenuta stretta intorno al corpo da una cintura piuttosto bassa sui fianchi: la tunica cade in modo ineguale: fin sul ginocchio davanti, un po’ più lunga di dietro. Le maniche, o mancano del tutto, o non arrivano all’altezza del gomito. La tunica è la veste che porta la gente che lavora perchè è semplice e pratica. Il cittadino romano non si presenta mai in pubblico vestito della sola tunica: prima di uscire di casa egli si avvolge nella toga: essa è un manto di lana bianca pesante tutto di un pezzo. Ai piedi il Romano in casa usa i sandali, ma uscendo infila degli stivaletti di pelle fino al polpaccio e l’unico ornamento è costituito dall’anello che porta sull’anulare della mano sinistra e di cui si serve come sigillo ed ha la stessa funzione della firma per noi moderni.

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L’abbigliamento femminile

Anche le donne indossavano la tunica, differenziata da quella maschile solo per la maggior lunghezza. Sopra la tunica le matrone dovevano indossare la stola: quest’uso era stato imposto dal Senato perchè le matrone si distinguessero dalle donne di bassa condizione e dalle schiave. La stola era una veste lunga e ricca, stretta alla vita e ornata, in basso, sa una balza color porpora. Per uscire in pubblico le donne coprivano la stola con la palla, una specie di toga rettangolare che si avvolgeva intorno al corpo e di cui un lembo poteva essere portato sul capo. Se celebravano sacrifici o se prendevano parte a cerimonie religiose, coprivano la testa con un fazzoletto quadrato di stoffa purpurea o azzurra, ornato di frangia (rica).

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I vestiti nella Roma antica

Tre schiave, Ata, Mira e Dora, nell’ampia camera, le cui pareti erano rivestite di marmi preziosi, aiutavano la loro padrona, una dama della Roma antica, a vestirsi per uscire. Com’erano svelte ed abili, le schiave! La dama, bella con i capelli bruni e gli occhi neri, si mostrava piuttosto esigente e la sua voce imperiosa risuonava nella stanza: “Presto, datemi la stola!” La stola era un abito simile ad una lunga camicia di candida lana con le maniche corte, guarnito sul fondo da una frangia. Inchinandosi, Ata e Mira presentarono l’indumento alla bruna signora, e con i movimenti precisi glielo fecero indossare. Dora cinse la vita della donna con una cintura finemente lavorata. “La palla!” ordinò la dama. La palla era una specie di scialle, lungo e morbido. Mira e Dora lo sollevarono ed Ata le aiutò a farlo scendere, dal capo della loro padrona, sulle sue spalle, avvolgendolo poi con grazia intorno al suo corpo. Vanitosa, la dama non si saziava di ritoccarsi la veste, di drappeggiarsela intorno alle braccia, di aggiustarsi le pieghe dello scialle. Dora portò un paio di calzature, e inginocchiandosi Mira le infilò ai minuscoli piedi della dama. “La lettiga aspetta” disse Ata. Le tre schiave s’inchinarono profondamente, sorridendo alla loro padrona che usciva, maestosa e fiera. Nella strada, vestiti di una tunica scarlatta, immobili nell’attesa, diversi schiavi fiancheggiavano la lettiga sulla quale la dama prese il posto. Che frastuono, che vocio nelle vie della Roma antica! Bottegai, fabbri, barbieri, usciti dai loro bugigattoli senza luce, lavoravano e vendevano la propria merce nella strada. Grida, richiami s’intrecciavano nell’aria, la gente andava a veniva indaffarata. Strillando a perdifiato, bimbi piccini si rincorrevano: i più grandicelli erano andati alla scuola sin dall’alba, quando ancora la città era immersa nel sonno. Ora, sotto il sole, come cresceva l’animazione della città! Seguiti dai propri schiavi passavano uomini severi, consoli, senatori avvolti nella toga, un mantello che scendeva fino ai piedi passando con una delle sue parti sopra la spalla sinistra per lasciare libero il braccio destro. Portavano scarpe alte, chiamate calcei, il cui colore variava, rosso, nero, azzurro, secondo la dignità della persona. Passavano gli schiavi diretti al mercato e gruppi di forestieri il cui abito, nel tessuto e nella foggia, rivelava il paese da cui provenivano. La dama sorrideva, dalla sua lettiga, bella ed elegante…

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Un sontuoso pranzo

Proprio oggi si saranno molti ospiti di importanza. Ce lo dice uno schiavo che corre affannato verso il triclinio, cioè verso la sala da pranzo. Egli ha preparato ogni cosa: il pavimento riluce come uno specchio, gli stucchi delle pareti e delle colonne mostrano tutta la loro bellezza. Ascoltiamo cosa ci dice il bravo schiavo: “All’ora nona (cioè alle tre del pomeriggio) verranno dei senatori, dei generali, un grande avvocato e un poeta. Essi indosseranno la toga conviviale, si cingeranno il capo con una corona di edera o di alloro o di rose. Io ho preparato per loro tre lettucci con dei materassi: non sono letti per dormirci, ma per sdraiarcisi durante il pranzo. La padrona di casa siederà al centro dei lettucci. Un tempo invece le donne mangiavano da sole.” Ad un cenno del padrone lo schiavo servirà l’antipasto durante il quale si berrà del vino misto a miele, poi servirà le varie specie di carne e infine la frutta e i dolci. Si useranno piatti e vassoi d’argento, cucchiai e coltelli, ma le carni si porteranno alla bocca con le mani. Finito il pranzo sarà eletto il re del convito e si aspetterà l’alba fra canti di musici e brindisi.

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La scuola

L’anno scolastico aveva inizio nel mese di marzo. Nei giorni festivi e ogni nove giorni era vacanza. Le scuole non avevano banchi. Gli scolari sedevano su sgabelli e scrivevano su tavolette spalmate di cera usando una cannuccia detta stilo, un bastoncello appuntito, si legno o di metallo. Quando la tavoletta era scritta, si voltava lo stilo, che all’altra estremità era piatto, e si cancellava tutto. La carta di papiro e la pergamena costavano molto. Erano riservate agli scolari più grandi che vi scrivevano con la penna d’oca.

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Un sontuoso pranzo

Proprio oggi ci saranno molti ospiti di importanza. Ce lo dice uno schiavo che corre affannato verso il triclinio, cioè verso la sala da pranzo. Egli ha preparato ogni cosa: il pavimento riluce come uno specchio, gli stucchi della pareti e delle colonne mostrano tutta la loro bellezza. Ascoltiamo che cosa ci dice il bravo schiavo: “All’ora nona, cioè alle tre del pomeriggio, verranno dei senatori, dei generali, un grande avvocato e un poeta. Essi indosseranno la toga conviviale, si cingeranno il capo con una corona di edera o di alloro o di rose. Io ho preparato per loro tre lettucci con dei materassi: non sono letti per dormirci, ma per sdraiarcisi durante il pranzo. La padrona di casa siederà al centro dei lettucci. Un tempo invece le donne mangiavano da sole”. Ad un cenno del padrone lo schiavo servirà l’antipasto durante il quale si berrà del vino misto a miele, poi servirà le varie specie di carne e infine la frutta e i dolci. Si useranno piatti e vassoi d’argento, cucchiai e coltelli, ma le carni si porteranno alla bocca con le mani. Finito il pranzo sarà eletto il re del convito e si aspetterà l’alba fra canti di musici e brindisi.

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I giochi dei bambini

I bambini si dedicavano a un piacevole divertimento: attaccavano i topi a un carrettino di legno e poi li incitavano alla corsa. Gli altri giochi erano simili a quelli di oggi. Si giocava a pari e dispari tenendo chiusi nel pugno noci o sassolini e invitando il compagno a indovinare se erano in numero pari o dispari. Ci si divertiva pure a gettare in aria una moneta, cercando di indovinare quale sarebbe stata la parte rimasta scoperta. Avevano anche dei cerchi ornati di sonagli, trottole, barchette, bambole di terracotta.

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Gli edifici di spettacolo

I Romani preferivano le gare sportive e i combattimenti di belve e di gladiatori. Essi accorrevano ad assistervi nell’anfiteatro, una costruzione di forma ovale. Nel mezzo stava uno spazio libero, l’arena, per i lottatori; attorno, erano le gradinate per gli spettatori; sopra l’ingresso, un’alta balconata era riservata agli imperatori. Il più grande degli anfiteatri fu il Colosseo. I gladiatori erano schiavi o prigionieri di guerra istruiti in scuole speciali, al combattimento nell’arena.

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Il circo

Ecco una biga, cioè un carro velocissimo trainato da due focosi cavalli e guidato da un bravissimo auriga. A che cosa serve? La biga serve per i giochi del circo. Quando sono annunciate le corse delle bighe o anche delle quadrighe, cioè dei carri a quattro cavalli, una folla sterminata corre al circo e si dispone sulle gradinate lasciando i posti migliori ai senatori, ai consoli, ai patrizi. Ad un segnale, le bighe si lanciano a corsa pazza. Alcuni aurighi indossano una veste verde, altri azzurra, altri bianca e altri ancora rossa. I colori indicano, possiamo dire così, le squadre. Le bighe devono fare sette volte il giro di un muro che attraversa per lungo il circo. Alle estremità del muro ci sono tre colonne attorno alle quali i carri devono svoltare velocemente senza rovesciarsi. La folla grida, si entusiasma per un auriga o per un altro. Il vincitore avrà dei premi e potrà passare sotto la porta trionfale in segno di onore.

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L’anfiteatro

Nell’anfiteatro si svolgono invece altri giochi. L’arena dell’anfiteatro è trasformata ora in uno specchio d’acqua. E’ stato costruito anche un piccolo porto, davanti al quale combattono navi armate di rostro e navi armate di falci per tagliare le vele delle navi nemiche. Da un palco assiste allo spettacolo l’imperatore con la sua famiglia. Migliaia di persone accompagnano con urla l’affondamento di una nave. Se fosse invece il giorno dei combattimenti degli schiavi gladiatori, vedremmo terribili scene di paurosi duelli tra uomini e belve e tra schiavi e schiavi armati di spade, di reti e di lacci.

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Il trionfo

Il trionfo è uno spettacolo indimenticabile. Il generale vittorioso ha lasciato i suoi soldati fuori delle mura di Roma. Quando il Senato avrà decretato il trionfo, allora egli entrerà in città attraverso la porta trionfale, e su un cocchio d’oro trainato da quattro cavalli bianchi, percorrerà la via Sacra che porta al Campidoglio, fra un’immensa folla acclamante. Ecco, il trionfatore ha indossato la toga di porpora, nella mano destra tiene un ramo di alloro, sul capo ha una corona pure d’alloro. Vicino alla quadriga ci sono i trombettieri, gli aquiliferi, i re e i capitani nemici, vinti e incatenati, poi avanza l’esercito romano. Il corteo è chiuso dai senatori e da altri cittadini importanti. Dalle porte spalancate dei templi esce odore d’incenso. Dalle case si gettano rose sul vincitore. Arrivato al Campidoglio il trionfatore offrirà sacrifici agli dei.

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Abili costruttori

I Romani furono provetti costruttori di case, di acquedotti, di edifici pubblici, di templi. La casa di una famiglia ricca occupava solo il pianterreno. All’esterno essa presentava muri intonacati, senza finestre, aperti solo per la porta di ingresso e per le vetrine dei negozi che si affacciavano sulla via. L’interno era molto elegante. Molte famiglie povere abitavano in modesti alloggi di affitto entro grosse case di quattro, cinque e anche sei piani.

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Gli edifici pubblici

Attorno alla piazza principale, il Foro, i Romani costruivano gli edifici pubblici più importanti: il tempio, la basilica, nella quale sedevano i tribunali e si trattavano gli affari; le terme, stabilimenti di bagni pubblici con sale di lettura, di conversazione, per la ginnastica; la curia, dove si tenevano le riunioni dei patrizi e del Senato.

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Il Foro

A Roma il Foro era la parte più importante della città. Lì si amministrava la giustizia, lì avvenivano le sfilate dei soldati, lì si vendevano e si compravano le merci, lì erano anche templi dedicati agli dei.
Fino alle undici del mattino, il Foro era pieno di gente che acquistava e vendeva, parlava, gridava, di ragazzi che correvano, di carri e di cocchi.

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La strada romana

I Romani furono abilissimi costruttori di strade e le tracciarono in ogni periodo della loro storia. Furono anche i primi che, con potenti opere di muratura, tagliarono le vie sui fianchi dei monti.
Nei primi secoli le strade di Roma furono costruite per la guerra; poi, a mano a mano che le popolazioni sottomesse vennero pacificate, diventarono strade del lavoro e dei commerci.
Stabilito accuratamente il percorso, si scavava fino a trovare il terreno solido e lo si rafforzava validamente; su questo si sovrapponevano allora quattro strati: il primo era composto di sassi misti ad argilla, il secondo di pietre e frammenti di mattone e sabbia misti con calce, il terzo di pietrisco con frammenti di mattoni fortemente battuti, l’ultimo di lastre di pietra dura (basalto) poligonali, bene levigate e ben combacianti. Al centro, per permettere lo scolo delle acque, la strada era leggermente convessa.
Questa strada, che è la via consolare o la via pubblica, solitamente partiva da Roma col nome del personaggio che ne aveva iniziato i lavori, e, di preferenza, si snodava lungo un percorso rettilineo: infatti per ottenere tale percorso si scavavano gallerie, si rinforzavano i fianchi delle montagne, si gettavano ponti grandiosi e si costruivano solide palizzate, quando ci si trovava in presenza di terreni paludosi. A partire dal Foro, di miglio in miglio, dei cippi, le pietre miliari, indicavano la distanza dall’Urbe. La prima grande strada fu la via Appia da Roma a Capua, in seguito per Benevento fino a Brindisi.

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Gli acquedotti

I Romani furono grandi costruttori di ponti, di strade, di terme e di acquedotti. Questi ultimi erano davvero stupefacenti. Alcuni studiosi pensano che i Romani preferissero l’acquedotto su archi a quello con tubature sotterranee perchè non conoscevano il sistema dei vasi comunicanti. Ma ormai è stabilito che essi erano invece a conoscenza delle leggi fisiche dell’idraulica. Preferirono quasi sempre il sistema ad archi per comodità ed economia: infatti disponevano in abbondanza di travertino, mattoni, cemento, tutto materiale di facile impiego.
Le tubature metalliche, invece, sarebbero riuscite costose e malsicure. I Romani non sapevano lavorare con facilità la ghisa; il bronzo costava troppo; il piombo non poteva servire per una tubatura lunga anche molti chilometri, continua e di grande calibro. La lunghezza degli acquedotti romani (che non correvano sospesi per tutta la loro lunghezza, e in taluni tratti erano interrati) variava da dieci a ottanta – ottantacinque chilometri. L’altezza massima superava persino i sessanta metri.
Gli undici acquedotti esistenti nella Roma imperiale conducevano nella città circa sette milioni di ettolitri d’acqua al giorno. La cifra è alta, ma occorre tenere presente lo sciupio dovuto al sistema di far correre continuamente l’acqua, non esistendo allora i rubinetti.
Il primo acquedotto romano fu l’Appio, costruito da Appio Claudio, censore nel 312 aC. Il primo acquedotto su archi fu quello dell’Acqua Marcia (146 aC) lungo circa ottantuno chilometri.

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I fabbricatori di ponti

Costruire un ponte su un fiume abbastanza largo è un’impresa molto difficile. Gli Egiziani e i Babilonesi, per esempio, che pure sapevano costruire grandi edifici, non erano riusciti a costruire ponti sul Nilo, sul Tigri, sull’Eufrate. Per traversare i fiumi essi si servivano di zattere o di altre imbarcazioni. Costruire un ponte su un fiume non troppo largo è più semplice.
I fiumi dell’Italia non sono tanto larghi. Gli Etruschi furono capaci di costruire ponti sui fiumi e insegnarono la loro arte ai Romani. I primi ponti erano di legno.
L’arte di costruire ponti era conosciuta solo da pochi uomini. Gli uomini che costruivano ponti si chiamavano pontefici, cioè fabbricanti di ponti. Il capo di questi uomini si chiamava Pontefice Massimo.
I primi ponti costruiti sembravano agli uomini comuni opera di magia. I Romani pensavano che un ponte non potesse stare in piedi senza l’aiuto degli dei. Per questo il Pontefice Massimo, cioè l’ingegnere capo, era anche il capo di tutti i sacerdoti che pregavano gli dei.
Quando poi l’arte di costruire i ponti fu conosciuta da un maggior numero di persone e non sembrò più magia, la parola pontefice restò ad indicare solo il capo della religione di Roma. Anche oggi il capo della Chiesa si chiama Pontefice.

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Il lavoro della giornata e la cena presso i Romani

Il lavoro della giornata si concentra tutto nella mattinata e nelle prime ore del pomeriggio. Il padre di famiglia esce al mattino per le sue occupazioni. La donna si cura invece della casa. Dopo la colazione, verso il mezzogiorno, ci sarà il pranzo, un pasto leggero consistente in un piatto di pesce, legumi e frutta. Non occorre, dice uno scrittore, nè apparecchiare la tavola nè lavarsi le mani. E’ solo un rapido spuntino. Nel pomeriggio invece il Romano si mette a tavola. Sono circa le tre. Alcune cene si prolungano fino a tarda sera, altre sono più brevi.

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La posta romana

La storia ci parla di un servizio postale abbastanza organizzato in Roma. Ma non bisogna credere che si trattasse di un’istituzione a favore della popolazione. Era servizio statale di regolari comunicazioni fra capitale e provincia, necessario per l’andamento del governo. Lungo le strade, ogni tanti chilometri, v’era la “posta”, cioè una specie di stazione dove il corriere poteva rifocillarsi, cambiare il cavallo o i cavalli, e proseguire il suo viaggio.

Le insegne romane

Ciò che è per noi la bandiera, era per i Romani l’insegna. Da principio era semplicemente una lancia che portava in alto un pezzo quadrato di stoffa per la cavalleria e portava, invece, la raffigurazione di un animale, come la lupa, il cavallo, per le coorti di fanti. Le aquile d’oro o d’argento erano le insegne riservate alle legioni.
Tra i soldati più valorosi si sceglievano quelli a cui si affidavano le insegne ed essi, allora, venivano chiamati antesignani.

Istruzione dei giovani Romani

Semplice era l’insegnamento che s’impartiva nei primi tempi; l’antico Romano ne aveva abbastanza degli studi quando sapeva leggere, scrivere e far di conto. Ma negli ultimi anni della Repubblica e durante l’Impero, l’istruzione del giovane, fattasi più complessa, passava per tre gradi; le lezioni elementari si facevano nella scuola, dove i ragazzi, dopo aver imparato a leggere e a scrivere alla meglio, imparavano a far di conto e a stenografare. Si faceva lezione in qualche stanzuccia d’affitto o anche all’aperto. L’anno scolastico cominciava di marzo dopo la festa in onore di Minerva, cara soprattutto agli scolari; vi erano delle vacanze nei giorni festivi e ogni nove giorni. Che fosse stabilito un periodo estivo di vacanze non risulta chiaro; ma vi era l’uso di far riposare i ragazzi durante la calda estate. L’orario scolastico era di sei ore: le lezioni cominciavano di buon mattino; venivano interrotte verso mezzogiorno, quando gli scolari tornavano a casa per la colazione, e riprese nel pomeriggio.
L’arredamento della scuola era semplice. Solo in qualche scuola e in certi casi, gli scolari si riunivano col maestro intorno a un tavolo; di regola non vi era il banco nè per il maestro nè per gli scolari; il maestro stava seduto su di una seggiola, gli scolari su sgabelli, tenendo sulle ginocchia la tavola su cui scrivevano e che portavano con sè, insieme con la penna, la carta, l’inchiostro.
Terminati gli studi elementari, cominciavano sotto la guida del maestro di grammatica l’insegnamento medio. Anche questo, secondo l’uso e le possibilità delle famiglie, veniva impartito in casa o in una scuola pubblica tenuta da un privato.
Dalla scuola del maestro di grammatica si usciva conoscendo alla perfezione il latino e il greco, cioè le due lingue che una persona colta doveva necessariamente parlare. Anche le donne conoscevano il greco. (U. E. Paoli)

Tavole cerate, penne e inchiostro

Per scrivere gli alunni avevano le tavolette, dette cerae o tabulae ceratae, che erano usate da tutti i Romani per appunti, lettere e annotazioni brevi: erano tavolette di legno rettangolari dagli orli rilevati, entro in quali si stendeva uno strato di cera molle. Si scriveva incidendo i caratteri sulla cera mediante un cannello di avorio o di metallo (stilus) appuntito ad una estremità e incurvato e appiattito dall’altra per poter cancellare i segni tracciati e rendere di nuovo uniforme lo strato di cera. Portare questi lunghi stili, spesso pericolosi, era alquanto scomodo: si ricorreva ad un astuccio (graphiarium o graphiaria theca), che scolari, scribi e copisti avevano sempre con sè.
Sul margine delle tabulae ceratae erano praticati dei fori, attraverso i quali passava una cordicella che legava tra loro due o più tavolette, in modo da formare una specie di piccolo libro dalle pagine di legno cosparse di cera su entrambe le facciate, eccezion fatta per le tavolette estreme, che fungevano da copertina e avevano la cera solo internamente.
Per scrivere sulla carta (papiro o pergamena) si ricorreva invece all’inchiostro nero (atramentum): un miscuglio ottenuto con fuliggine, pece, liquido di seppia e feccia di vino diluito in acqua. Il calamaio (atramentarium) era formato da uno o due recipienti cilindrici uniti insieme. Per i titoli dei libri esisteva uno speciale inchiostro rosso; c’erano anche vari tipi di inchiostri “simpatici” che comparivano e scomparivano se trattati con speciali accorgimenti.
Lo stilo in questi casi era sostituito da una penna di uccello o da una cannuccia (calamus), appuntite con un coltellino (scalprum) o anche, più raramente, da una penna di bronzo.

Il gran pranzo di un arricchito

C’era gente sobria che si contentava di pan d’orzo, di legumi, un pollo o un pesce, olive e noci, un frutto e uno spicchio di cacio. C’era chi ogni tanto offriva una cena modesta ai parenti e agli amici con qualche coppia di piccioni immersi in un intingolo elaborato, con pepe, olio, aceto, vino, miele, datteri e senape; con funghi cotti nel miele e spezzatino di maiale con cavoli e lenticchie.
Ma c’era anche chi, per mostrare la sua ricchezza e sbalordire gli amici, non si peritava a far mostra della più goffa pacchianeria. Uno stuolo di schiavi accoglie gli ospiti sull’uscio di casa, li accompagna al bagno o porge l’acqua per lavarsi le mani in preziosi bacili.
Poi i servi fanno strada nel triclinio e assegnano i posti alle tavole. Gli ospiti si distendono sui sofà e vedono in bella mostra un originale vassoio per le gustationes: cominciano le meraviglie con questo asinello di bronzo che porta due bisacce, una con olive nere e una con olive verdi. Sui piatti d’argento che l’asinello sostiene, oltre al nome del padrone è inciso il loro peso perchè tutti lo possano vedere e così valutare la ricchezza dell’ospite.
Sui piatti, ghiri conditi con miele e papavero, e salsicce fumanti distese su una gratella d’argento, sotto la quale, per imitare le braci, sono state poste prugne secche, nere, cosparse di rossi chicchi di melograno.
Si dà inizio al banchetto e mentre i sonatori strimpellano una musichetta allegra, entrano altri schiavi portando un gran vassoio sul quale giace una gallina di legno intenta a covare uova che sembrano di pavone. Il padrone fa finta di diffidare della loro freschezza e si viene così a scoprire che il guscio è di farina impastata e che dentro c’è un beccafico bello grasso che nuota in un rosso d’uovo pepato.
Se un vassoio d’argento pesante mezzo quintale cade dalle mani di uno schiavo, il padrone lo fa gettare via insieme ai rifiuti. Poi altri schiavi passano per la lavanda delle mani e adoperano vino puro e non del peggiore. Il vino che vien posto sulla tavola, in anfore sigillate di grosso vetro, è Falerno di cento ani fa. Ed ecco che arriva il primo piatto forte della serata, una specie di trofeo coi dodici segni dello zodiaco e ogni segno è rappresentato da una ghiottoneria particolare: i Pesci due triglie; il Granchio un grosso gambero di mare; il Toro una braciola di manzo; e così via.
Quando tutti hanno osservato ed hanno espresso la loro ammirazione, a un cenno del padrone quattro schiavi entrano a passo di danza e sollevano la parte superiore del trofeo: sotto c’è un immenso vassoio colmo di pollastre grasse e di ventresche lardose che incorniciano una lepre alata, con la quale il cuoco ha voluto raffigurare Pegaso. Quattro satiretti versano intanto da piccoli otri una salsa piccante su certi pesci delicati che sembrano nuotare nel guazzo.
La conversazione si fa sempre più spiritosa, anche se non è tra le più fini, considerando il genere dei convitati, quasi tutti liberti arricchiti. Ed ecco altre sorprese: dopo che i servi hanno disteso nuove coperte sui letti, dipinte con reti e cacciatori, e dopo che una muta di vivacissimi cani da caccia è entrata di corsa nella stanza, arrivano dei servi portando un gigantesco cinghiale disteso su un vassoio, e alle cui zanne sono appesi due cestelli intrecciati con foglie di palma e ricolmi l’uno di datteri carioti, l’altro di datteri tebaici.
Tra le esagerate esclamazioni di meraviglia degli ospiti, si fa avanti allora una specie di barbuto cacciatore con le gambe attorte di cinghie e con una mantellina di damasco; brandito un coltello mena un gran colpo nel fianco del cinghiale, e dallo squarcio si alza a volo uno stormo di tordi. Gli uccellatori stavano pronti all’intorno, con le canne cosparse di vischio e in un attimo riacchiappano tutti gli uccellini che svolazzano come impazziti per il triclinio. Allora il padrone di casa ordina che ne venga servito uno per ciascun commensale. Intanto che gli uccelli cuociono i servi si accostano ai canestri che sono appesi alle zanne del cinghiale, e distribuiscono in egual misura tra i convitati i dolcissimi datteri delle due diverse qualità.
E il banchetto a questo punto è appena a mezzo: il padrone vuol divertirsi ancora a sbalordire gli ospiti, che in cuor loro lo mandano a quel paese, ma che, per essere venuti, sono costretti ormai a stare al gioco.
Ecco, adesso i servi portano in tavola un maiale di rispettabili dimensioni che il cuoco finge di non aver per la troppa fretta sventrato. E proprio mentre sta per essere punito della dimenticanza imperdonabile, il padrone, fingendo di cedere alle preghiere degli invitati, glielo fa aprire lì per lì, e dal ventre del porco escono salsicce e sanguinacci caldi.
Poi mettono in tavola un trionfale trofeo di dolci e di frutta che schizzano giallo zafferano addosso agli ospiti come fontane burlesche; e poi ancora galline ingrassate da rivoltar lo stomaco, con contorno di uova d’oca incappucciate e tordi di fior di farina riempiti riempiti di uvetta e di noci, e mele cotogne irte di spini per figurare dei ricci, e un’oca ingrassata circondata da pesci e da uccelli d’ogni tipo, che il cuoco con abilità da scultore ha foggiato con carne di maiale. E ancora ostriche e lumache.
Ma qualcuno scivola sotto la tavola, altri, più saggi, fanno chiamare i loro schiavi ai quali sottovoce ordinano di preparare la lettiga e le torce, poi, senza parere, tagliano la corda: il padrone è diventato triste e malinconico a causa del troppo vino che ha bevuto e comincia a parlare della morte… (Petronio, Arbitro, Satiricon)

Le grandi strade romane

La prima delle grandi strade fu, tre secoli prima di Cristo, l’Appia. Costruita per iniziativa di Appio Claudio il Cieco, censore, questa via unì Roma a Capua secondo un itinerario razionale, e in seguito fu prolungata fino a Brindisi, estremo lembo d’Italia, passando da Benevento e da Taranto.
Le altre seguirono nei secoli successivi e collegarono dapprima i luoghi vicini a Roma, come la via Clodia che portava in Etruria, la Cassia che attraverso l’Etruria portava in Emilia, l’Aurelia che menava in Liguria, la Postumia che partendo da Genova, attraverso la valle padana e il Veneto, giungeva ad Aquileia e oltre fino a Concordia sull’Adriatico, la Flaminia che arrivava a Rimini, la Salaria che congiungeva Roma all’Adriatico, l’Emilia che attraverso la pianura padana da Rimini raggiungeva Piacenza, la Latina che scavalcava l’Appennino e giungeva in Campania, la Valeria che prolungava la Triburtina da Tivoli fino a Corfinio, la Popilia che distaccandosi dall’Appia giungeva fino a Reggio Calabria attraversando la Lucania. Poi le nuove strade si protesero nelle province conquistate, come l’Egnatia in Balcania, il prolungamento dell’Aurelia in Gallia che, dalla Provenza, di cui seguiva la costa, arrivava fino a Lione seguendo la valle del Rodano, e le altre tante che si diramavano verso il confine del Reno.
Le strade, la cui larghezza massima si aggirava sui cinque metri, erano pavimentate con ghiaia o erano, come la via Appia, selciate con grossi ciottoli o con blocchi di pietra basaltica squadrati a forma di poligoni regolari.

La donna romana fa toilette

Se nei primi tempi di Roma le donne non curavano molto il loro viso e il loro abbigliamento, nell’età repubblicana, per influenza dei costumi orientali, la donna acquisì il gusto delle vesti raffinate, degli ornamenti preziosi e delle cure di bellezza. Come prima cosa il mattino, appena alzata, si lava accuratamente il viso, poi lo ammorbidisce con un unguento oleoso. Passa quindi alla pulizia dei denti e in tutte queste occupazioni è attorniata da due o più schiave che le presentano lo specchio e che sono adibite soprattutto alla sua pettinatura. Essa non ignora poi l’uso del trucco per gli occhi e il rosso per le labbra.

I teatri

Erano formati da una gradinata a semicerchio detta cavea che andava restringendosi verso il centro. Nel mezzo era l’orchestra e lì eran poste sedie riservate ai senatori. Di fronte stava la scena dietro e ai lati da muri variamente ornati. Gli attori portavano sul volto una maschera e quando recitavano le tragedie indossavano abiti pomposi e calzavano alti coturni; per le commedie e per le farse portavano abiti comuni, di colori vivaci, e ai piedi scarpe basse, dette socchi.

Gli anfiteatri

Possono considerarsi formati dall’unione di sue teatri e quindi avevano la forma quasi circolare o meglio ellittica. La gradinata girava tutt’attorno e nel mezzo c’era una spianata pure di forma ellittica in cui si svolgevano gli spettacoli. Questi consistevano in lotte fatte combattere da gladiatori fra di loro o contro bestie feroci. I primi teatri e anfiteatri romani furono costruiti in legno; soltanto nel primo secolo avanti Cristo se ne costruirono in muratura, alcuni di grandissime dimensioni, capaci di parecchie decine di migliaia di persone. In qualche luogo dove il terreno era roccioso e in forte pendio o faceva una curva quasi semicircolare, la gradinata dei teatri si costruiva sulla roccia stessa.

Le terme

Le Terme erano edifici destinati ai bagni, i quali erano molto in uso presso i Romani a causa del clima caldo e per ragioni igieniche. Queste costruzioni, prima semplici, furono più tardi grandiose e piene di lusso. Vi si potevano fare bagni freddi o tiepidi o caldi dentro ad ampie vasche dette piscine o dentro a tinozze. Oltre alla conduttura dell’acqua v’erano anche tubi attraverso cui l’aria alquanto riscaldata era trasportata in apposita stanza detta tepidario dove si raccoglievano quelli che avevano bisogno di sudare. Più tardi si introdusse l’abitudine del bagno a vapore, fatto mediante aria molto calda. Oltre alle stanze per i vari bagni, le Terme contenevano spogliatoi per bagnanti, stanze dove essi si fregavano e si ungevano il corpo dopo il bagno, locali destinati agli esercizi ginnici, al passeggio, alla conversazione.
Le Terme fatte costruire dall’imperatore Caracalla, delle quali ci restano tuttora degli avanzi notevoli, erano veramente magnifiche per grandiosità ed eleganza di costruzione architettonica, per ornamenti di colonne, di statue e di quadri, per la bellezza dei marmi che rivestivano le pareti e dei mosaici che formavano l’impiantito.

Il Carnevale dei Romani

Il giorno decimoquarto avanti le calende di gennaio, ossia per noi il 19 dicembre, a Roma avevano inizio le feste di Saturno, o Saturnalia.
Le vie erano affollate di gente in preda alla più sfrenata allegria. Particolarmente lieti erano gli schiavi, i quali, per tre giorni, erano liberi di fare ciò che volevano, come fossero i padroni. Alla festa intervenivano cantanti e suonatori che inneggiavano a Saturno con il suono acuto dei flauti e con quello più dolce della lira; giocolieri improvvisati; comitive di buffoni con il volto coperto di maschere, i quali saltavano al suono delle tibie e delle chitarre. Ad accrescere il frastuono si univano le voci dei venditori di giocattoli, di cibi e di merce varia.
A un certo punto la folla, che gremiva di continuo il tempio di Saturno, poteva assistere a uno strano spettacolo: l’ingresso del Pretore urbano, portato in trionfo da un gruppo di individui sparuti che avevano in mano una catena di ferro: erano i prigionieri del carcere Mamertino, che venivano graziati in onore del dio e che a lui portavano le loro pesanti catene. (P. Piccoli Allodoli)

Un nuovo cittadino romano

Il 17 marzo in molte case dell’antica Roma c’era festa perchè i giovinetti, che avevano compiuto i diciassette anni, vestivano la toga virile facendosi veri cittadini romani.
Anche in casa dell’avvocato Lucio Emilio Sullo erano convenuti parenti, amici e clienti per festeggiare il figlio Marco, che da poco tempo aveva passato il diciassettesimo anno. All’apparire del giovinetto, tutti esclamarono: “Gli dei ti proteggano, Marco!”
Marco rispose con un sorriso e poi si avvicinò all’altarino degli dei Lari, protettori della casa.
Davanti all’altarino si trovavano già il babbo, la mamma e i fratelli minori. Il padre, sacerdote della famiglia, si accostò a Marco e gli sganciò dal collo la catenina della bulla, una specie di medaglione, che i Romani credevano portasse fortuna.
“Ora”, gli disse il padre, “hai forze sufficienti per sorreggerti da te e non ne hai più bisogno”.
A un cenno del padre, uno schiavo aiutò Marco a togliersi la toga con la balza porpora e quindi porse una candida toga nuova fiammante, senza alcun orlo, proprio come quella che tutti gli adulti Romani indossavano sulla tunica.
La mamma stessa, con le lacrime agli occhi per la commozione, lo aiutò ad indossare l’abito che lo faceva un nuovo cittadino romano.
Quando il giovinetto apparve vestito da uomo, suo padre gli sorrise contento, sua madre lo abbracciò e tutti i presenti si congratularono con lui, ripetendo questo augurio: “Che gli dei ti conservino sano per molti anni!”
Finita la piccola cerimonia, si formò il corteo per accompagnare solennemente il giovinetto fino al Foro.
Il corteo si apriva con alcuni schiavi che avevano trombe d’argento, seguiti da fanciulli e fanciulle. Poi veniva il festeggiato con i parenti, e quindi seguivano gli amici e i conoscenti.
Giunti nel Foro, Marco si presentò davanti al Pretore, il quale scrisse su una pergamena il suo nome e lo salutò con queste parole: “Stai sano, Marco Emilio Sullo! Da oggi sei un nuovo cittadino romano!”
Il corteo proseguì verso il tempio della dea Gioventù e quindi salì il Campidoglio, il colle sul quale si ergeva il tempio di Giove, il più importante di Roma.
Qui il nuovo cittadino offrì agli dei un bianco torello, che venne ucciso davanti all’altare. Salì al cielo il fumo, mentre la sua tenera carne fu poi usata per il banchetto.
Usciti dal tempio, il padre di Marco mostrò al figliolo la città che si stendeva ai piedi del Campidoglio, bellissima coi suoi infiniti marmi bianchi, che rilucevano al sole.
“Marco”, gli disse “da oggi anche tu puoi essere utile alla regina del mondo”.
“Cercherò di esserlo” rispose Marco.
Prima di tornare a casa, il giovanetto sostò nella bottega di un barbiere. Davanti alla bottega gli invitati formarono dei gruppi in attesa. Anche i curiosi si fermavano quando sentivano dire: “C’è un giovinetto che si taglia la prima barba!”
In un recipiente speciale, la barba fu poi offerta in un tempio agli dei, e all’uscita nuovi abbracci, nuovi auguri e anche molti regali al nuovo e fortunato cittadino romano. (R. Botticelli)

Nelle terme

Lucio Valerio attraversò il vasto atrio delle terme, seguito dal corteo dei suoi schiavi. Erano le due del pomeriggio, e i saloni delle terme erano affollati.
Lucio Valerio entrò anzitutto nella palestra, dove fece alcuni esercizi ginnici che gli sciolsero le membra e gli riscaldarono il corpo, poi lasciò le vesti nello spogliatoio (uno schiavo ne rimase a guardia) e si diresse verso la grande piscina fredda: il frigidario. Si tuffò e nuotò nell’acqua gelida per diversi minuti. Quindi si recò nel tepidario, dove sedette su una delle panchine di marmo per ristorarsi con un soffio di aria tiepida… Rimaneva da fare il bagno caldo. Valerio passò nel calidario e si immerse nella vasca.
Subito gli schiavi si misero all’opera: uno gli strofinò le membra con soda per pulirgli la pelle, un altro lo massaggiò con cura, un terzo lo unse con un olio profumato, un quarto gli porse i panni per asciugarsi. Il servo rimasto nello spogliatoio arrivò con le vesti. E, per ultimo, il coppiere gli porse una tazza di vino caldo e fragrante, addolcito con miele.

Uno spettacolo nel Colosseo

Ecco l’Imperatore: il popolo, sempre in solluchero alle feste, e in specie a feste di sangue, gli batte le mani. I sacerdoti e le vestali consacrano sacrifici agli dei protettori di Roma: il sangue corre, le viscere delle vittime ardono, si consumano nel fuoco sacro; risuonano i cori e la musica; e la moltitudine schiamazza di nuovo.
Al segno di comando compaiono i gladiatori che salutano tutti col sorriso sulle labbra, come se li aspettasse uno squisito festino e non l’inesorabile morte.
Sono nati sulle montagne, nei deserti, hanno respirato l’aria pura dei campi e goduto della sacra libertà. La guerra, soltanto la guerra, ha potuto strapparli alla loro patria. In Roma li hanno ben nutriti perchè facessero buon sangue, sangue dolce da offrire in olocausto al popolo romano. Forse molti di essi, or ora, si feriranno, si uccideranno fra di loro; molti si vogliono bene, si sentono fratelli, eppure dovranno ferirsi, immolarsi.
Eccoli, già si guardano, si minacciano, si avviluppano, si gettano contro a barbara lotta. Se qualcuno, preso da paura per sè, o da compassione per il suo avversario, si tira in disparte, il maestro del circo gli conficca nelle carni nude un bottone di ferro rovente. Il sangue rosseggia, inzuppa la terra.

Lotte di gladiatori
Squillarono le trombe e vi fu un profondo silenzio; migliaia di sguardi si diressero sulla porta verso la quale un uomo, vestito da Caronte, avanzava, battendo su questa tre colpi di martello, quasi invitasse alla morte coloro che si trovavano al di là. Aperti lentamente i battenti, lasciando scorgere una cupa voragine, entrarono nel Circo i gladiatori. Avanzarono a schiere di venticinque: Traci, Mirmilloni, Sanniti, Galli; tutti armati pesantemente. Seguivano i retiarii, con la rete in una mano e nell’altra il tridente.

Furono accolti da applausi che divennero fragorosi. In tutto l’anfiteatro si vedevano facce accese, mani alzate, bocche aperte. E intanto i gladiatori, fatto il giro dell’arena con passo fermo, scintillanti nelle ricche armature, si fermarono davanti alla loggia cesarea, superbi e tranquilli. Uno squillo di tromba acuto interruppe i battimani, i gladiatori alzarono le braccia, e rivolgendosi a Cesare, intonarono lentamente: “Salve, Cesare imperatore! Coloro che sono per morire ti salutano!”.

Dopo, presero posto nell’arena.

Dovevano cozzare schiera contro schiera, ma ai più famosi fu comandato di battersi singolarmente, perchè potessero meglio dar prova di sveltezza e di coraggio. Dal gruppo dei lottatori ne uscì uno ben conosciuto, di nome Macellaio (Lanio), famoso vincitore. Con l’enorme elmo e la corazza che fasciava la schiena poderosa, spiccava sulla gialla arena come un immane scarabeo. Il non meno celebre retiario Calendio gli andò incontro.
Cominciarono le scommesse.

“Cinquecento sesterzi per il Gallo!”

“Cinquecento per Calendio!”

“Per Ercole, ne scommetto mille!”

“Duemila!”

Intanto il Gallo, giunto nel mezzo, cominciava a retrocedere; protendendo la spada, e piegando il capo da una parte, seguiva attentamente l’avversario, e il retiario, svelto, nudo, di forme scultoree, coperte di una sciarpa, rapidamente gli girava intorno, agitando con arte la rete, ora abbassando ora rialzando il tridente…

Ma il Gallo non fuggiva; piantandosi saldo, faceva in modo da avere sempre di fronte l’avversario. C’era qualcosa di pauroso nella sua grossa testa mostruosa in in tutta la sua persona. Gli spettatori sapevano che egli si preparava ad un balzo improvviso che avrebbe potuto decidere della lotta. E il retiario ora gli correva incontro, ora dava un balzo indietro con tale rapidità, che non era possibile seguirlo con lo sguardo.

Più volte il colpo del tridente risuonò sulla corazza, ma il Gallo rimase saldo, dando prova così della sua forza inverosimile. La sua attenzione si concentrava non sul tridente ma sulla rete che gli girava attorno come un uccello di cattivo augurio.

Gli spettatori, trattenendo il fiato, seguivano attentamente il gioco dei lottatori. Lanio, al momento opportuno, balzò alla fine sull’avversario, ma questi, rapidissimo, gli sfuggì di mano, si raddrizzò e scagliò la rete. Il Gallo, con un giro, la respinse con lo scudo, quindi, indietreggiarono ambedue. L’anfiteatro echeggiò delle grida di “Macte!” (ammazzalo!). Nelle prime file si impegnarono nuove scommesse.

E i gladiatori ricominciarono a lottare con arte, con precisione di movimenti, da far pensare che non si trattasse di una lotta di vita o di morte, ma di una gara di destrezza. Lanio cercava di evitare la rete, retrocedendo. Allora coloro che scommettevano cominciarono a gridare: “Dagli addosso!”, eccitandolo a non riposarsi.
Il Gallo obbedì, e si slanciò sull’avversario. Il braccio del retiario si coprì di sangue e la rete gli pendette dalla mano. Lanio si raccolse e spiccò un salto per vibrare l’ultimo colpo. Ma in quel punto, Calendio, che aveva finto di non poter reggere la rete, scansò il colpo e, conficcando il tridente nelle ginocchia dell’avversario, lo fece stramazzare a terra.
Lanio, sempre più avviluppato nella rete fatale, cercava invano di rialzarsi, sempre più imbrogliandosi. Intanto altri colpi lo inchiodavano a terra; puntò la mano, raccolse le forze ma invano: portò alla testa la mano che non reggeva più la spada, e cadde. Il Circo tremò dagli applausi, dalle grida. Il pubblico era diviso in due parti. Chi gridava morte, chi grazia. Ma il retiario non guardava che Cesare e le Vestali e aspettava la loro sentenza.

Per sventura, l’imperatore non amava Lanio, perchè aveva scommesso per lui una volta ed aveva perduto, perciò, sporgendo la mano, abbassò il pollice.

Il segno fu ripetuto dalle Vestali. (E. Sienkiewicz)

Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture

Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Le oche del Campidoglio

I Galli erano un popolo ancora selvaggio che viveva di là delle Alpi; erano alti, biondi, forti e si muovevano di terra in terra in cerca di preda. Un giorno scesero in Italia, travolsero la debole difesa degli Etruschi, penetrarono nel Lazio ed entrarono in Roma, incendiando, rubando e distruggendo ogni cosa.
I Romani, per tentare l’estrema difesa, si asserragliarono sul Campidoglio, dove erano custodite le oche, sacre alla dea Giunone. Una notte, mentre le sentinelle, stanche di vegliare, si erano addormentate, i Galli si avvicinarono silenziosi alla fortezza e ne tentarono la scalata. I Romani stavano per essere sorpresi nel sonno e uccisi, quando le oche si misero a starnazzare svegliando i difensori, che corsero alle armi e ricacciarono i nemici.

La spada di Brenno

Nella rocca scarseggiavano i viveri e i Romani furono costretti a chiedere la pace a Brenno, il capo dei Galli, che volle in cambio mille libbre d’oro.
Portata la bilancia, si cominciò a pesare l’oro, ma questo non bastava mai, perchè la bilancia dei Galli era falsa. I Romani protestarono, ma Brenno buttò la sua pesante spada sulla bilancia e disse: “Guai ai vinti! Voglio ancora tanto oro quanto pesa alla mia spada!”
In quel momento terribile, Furio Camillo, radunò i Romani timorosi e dispersi e li guidò ad un assalto improvviso. I Galli non si aspettavano certo l’attacco e furono travolti. Rapidi come erano venuti, si ritirarono nelle loro terre, incalzati dall’esercito di Camillo. Il valoroso generale romano fu chiamato il secondo fondatore di Roma.

L’invasione dei Galli

I Galli erano popoli che abitavano nella regione che oggi si chiama Francia e che anticamente era denominata Gallia. Essi passarono le Alpi e scesero in Italia in cerca di nuove terre. Dopo aver occupato gran parte dell’Italia Settentrionale, attraversarono l’Etruria (così era chiamata in quel tempo la Toscana) e penetrarono nel Lazio. I Romani si prepararono a difendere il loro paese minacciato e dettero battaglia presso l’Allia, un piccolo affluente del Tevere, a soli 16 km dalla città, contro un nemico agguerrito e triplo di numero. Le legioni romane furono travolte, e la via della città aperta al nemico (390 aC).
La popolazione, atterrita, fuggì ma gli uomini atti alle armi si raccolsero a Veio, preparandosi a continuare la resistenza. Solo per patriottismo e per attaccamento al suolo nativo, rimase a Roma un piccolo numero di vecchi, in gran parte patrizi. Un manipolo di giovani animosi si asserragliarono nella fortezza del Campidoglio da dove respinsero l’uno dopo l’altro i ripetuti attacchi del nemico.

Papirio e i Galli

Quando i Galli entrarono in Roma solo i vecchi si rifiutarono di abbandonare le loro case e rimasero in città. Quelli che avevano occupato alte cariche, indossarono la loro toga di cerimonia ed attesero, seduti sul loro scanno d’avorio.
Quando i Galli, avidi di bottino, entrarono nella indifesa città trovarono le case dei plebei sbarrate e vuote, quelle dei patrizi spalancate.
Esitanti si affacciarono dentro l’atrio delle dimore patrizie e la vista di quei vecchi maestosi, immobili come statue, solenni come divinità, li intimorì.
Si racconta che un Gallo volle lisciare la barba a uno di essi: quel gesto ruppe ogni incantesimo. Marco Papilio, tale era il nome del vecchio, colpì con lo scettro che teneva in mano il rozzo soldato e questo segnò l’inizio della strage.
Tutti i vecchi furono trucidati, tutte le case furono saccheggiate e incendiate.

Le oche salvano il Campidoglio

I Galli decidono di approfittare del favore delle tenebre per tentare l’assalto al Campidoglio; con  passo felpato e circondati da un silenzio così profondo da ingannare non solo le sentinelle ma gli stessi cani da guardia, si fanno sotto la rocca.  Non un ramo spezzato, non un bisbiglio: pare che trattengano perfino il respiro. E così cominciano la scalata. Ma non possono sfuggire alle oche sacre a Giunone, quelle oche che i Romani, malgrado la carestia dell’assedio, avevano risparmiato per ossequio alla dea. E le oche salvarono il Campidoglio, salvarono Roma. Intuita la presenza degli estranei, cominciarono a gridare, sbattendo gran colpi d’ali. Il fracasso sveglia M. Manlio che, chiamando all’armi i compagni, corre sugli spalti della rocca: un Gallo è già giunto lì sopra, pronto a scavalcare, ed egli lo precipita giù, facendogli trascinare nella caduta quelli che lo seguivano più vicini. Intanto tutti i Romani subito riuniti assaltano il nemico con ogni sorta di proiettili, specie con macigni che li schiacciano e li fanno rotolare in basso.

Il secondo fondatore di Roma

Purtroppo, costretti dalla fame, dopo pochi giorni, i coraggiosi difensori della rocca capitolina dovettero venire a patti coi Galli. E venne stabilito che il nemico avrebbe abbandonato Roma solo dietro compenso di una grande quantità d’oro.
Mentre si pesava questo oro, Brenno, il capo dei Galli, gettò sulla bilancia, dalla parte dei pesi, la sua pesante spada, per aumentare la taglia; e alle proteste dei Romani arrogantemente rispose: “Guai ai vinti!”
Proprio in quel momento rientrava in Roma Furio Camillo, valoroso generale che aveva raccolto e radunato i guerrieri fuggiaschi. Come una furia giunse sulla piazza; si arrestò di fronte a Brenno dicendo: “Non con l’oro, ma col ferro si libera Roma!”
I Romani, rianimati da tanto coraggio, ripresero la lotta, e i Galli, con enormi perdite, furono cacciati dalla città e costretti alla fuga. Roma era salva.
La città, quasi totalmente distrutta, per volere di Camillo venne ricostruita più bella e più grande.

Camillo

Camillo era un grande generale romano. Egli viveva in esilio, essendo stato accusato di essersi appropriato dei bottini di guerra. Quando apprese che i Galli stavano contrattando la resa di Roma, formò un piccolo esercito di soldati fuggiaschi, arrivò in Campidoglio e provocò la fuga dei barbari e di Brenno, il loro capo.

Furio Camillo

Nel 389 aC Roma attraversò uno dei più critici momenti della sua storia. Un’irruzione di Galli cisalpini, popolo barbaro e indubbiamente assai inferiore ai Romani in virtù militare, invase l’Etruria, minacciando il territorio della stessa Repubblica. Roma mandò loro incontro le sue milizie, ma, orgogliosamente svalutando la potenza di quelle avversarie, le affidò a sei tribuni militari, per giunta fra loro discordi. Sul piccolo fiume Allia, a nord est di Roma, avvenne lo scontro: l’esercito romano fu letteralmente distrutto.

I Galli proseguirono quindi la marcia verso l’Urbe, nella quale entrarono tre giorni dopo la battaglia: furono stupiti di trovarla indifesa e con le porte aperte. Se ne impadronirono quindi senza colpo ferire, e la saccheggiarono e incendiarono facendovi grosso bottino, ma non poterono occupare la rocca del Campidoglio, dove le forze romane superstiti si erano fortificate, pronte a sostenervi un lungo assedio. Allora i Romani pensarono di richiamare al comando dell’esercito un grande capitano che, nonostante le sue mirabili gesta in una precedente guerra contro gli Etruschi, essi avevano mandato in esilio: Marco Furio Camillo.

Camillo giunse a Roma, alla testa di un esercito proprio mentre gli assediati nel Campidoglio stavano patteggiando la resa coi Galli: questi erano comandati da Brenno.

Si era convenuto che, dietro il pagamento di mille libbre d’oro, i Galli avrebbero sgomberato la città; e già si stava pesando il prezioso metallo. Senonché quei barbari usavano inganno nel peso, prima nascostamente, poi anche in palese, come scrive Plutarco, facendo piegare la bilancia dalla loro parte.

E alle lagnanze dei Romani, Brenno aveva risposto con le arroganti parole: “Guai ai vinti!”, e, ciòò dicendo, si era slacciato la spada e insieme col pendaglio, l’aveva aggiunta ai pesi.

A questo punto si ode clamore alle porte della città: sono le avanguardie di Camillo.

E il dittatore, a gran passi, si avvicina; eccolo, è giunto sul colle Capitolino, mentre i Galli, esterrefatti, lo guardavano senza osare fermarlo.

Camillo toglie dalla bilancia l’oro, lo dà ai littori, impone ai Galli di prendere la bilancia e i pesi e di andarsene, e aggiunse che i Romani avevano per loro antica usanza di salvare la patria non con l’oro, ma col ferro.

Nacque subito una zuffa, e sarebbe degenerata in battaglia, se Brenno, con assennata prudenza, non avesse, di nottetempo, abbandonato Roma, ritirandosi a molte miglia da essa.

Ma il giorno seguente, allo spuntare del sole, quei barberi si videro davanti, sorto come per miracolo durante la notte, un esercito ordinato e scintillante di armi e di corazze: lo comandava Camillo. Questa volta furono i Romani ad attaccar battaglia, e non desistessero dal combattere finchè l’ultimo Gallo non fu trucidato o messo in fuga. Ciò fu nel febbraio del 388, essendo l’occupazione di Roma per opera di Brenno durata sette mesi.

Si può immaginare come fosse stata ridotta la città di Romolo; tanto che una corrente di cittadini e di capi fra essi, propendeva per l’abbandono dell’Urbe, e il trasferimento della capitale nella città di Veio. Camillo era di contraria opinione, ma, rispettoso delle leggi, chiede che la cosa venisse deliberata in Senato. Ora, mentre i senatori stavano parlamentando, un centurione, che si trovava a passare presso la Curia, chiamò a gran voce l’alfiere, e gli ordinò di fermarsi e di piantare l’insegna nel luogo dove si trovavano.

“Qui” soggiunse, “resteremo ottimamente”. La voce entrò come un comando e un vaticinio nell’aula senatoria, e parve lo stesso comando di un Dio. E così Roma fu salva, e a Camillo fu attribuito il titolo, mai dato ad altri, di “secondo fondatore di Roma”.

Molte altre gloriose imprese compì ancora questo magnifico condottiero e uomo politico. Basterà dire che per sei volte fu tribuno militare, per cinque dittatore, ed ebbe quattro volte gli onori del trionfo.

Ma non potè concludere, come forse avrebbe desiderato, la sua vita magnanima nell’ardore della battaglia, perchè nel 366 aC morì di pesta. A perenne ricordo gli venne eretta una statua nel Foro, ultima e postuma onoranza fra le tante che questo grande Romano ebbe dalla sua città.

Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Il primo triumvirato

Dopo la morte di Mario e Silla si costituì in Roma il primo triumvirato, cioè il primo governo di tre persone; in tal modo il Senato perdette gran parte della sua autorità e del suo potere e la Repubblica si avviò verso il tramonto.
Questo primo triumvirato era formato da Gneo Pompeo, un abile generale che aveva occupato la Palestina e vinto i Pirati; da Licinio Crasso, noto per le sue sterminate ricchezze; e da Giulio Cesare, un abile generale parenti di Mario e caro ai plebei.
A Crasso fu affidato il comando della guerra contro un popolo asiatico e vi trovò la morte. Pompeo rimase in Roma e Cesare fu inviato a combattere nella Gallia.

Crasso

Ai nostri tempi Crasso sarebbe stato un grande capitalista, un grande uomo d’affari. Aveva una maestranza specializzata di cinquecento schiavi ed ogni volta che Roma era colpita da uno dei soliti incendi o disastri edilizi (le case erano quasi tutte di legno, anche se rivestite di laterizi) egli comprava macerie e terreni e ricostruiva o restaurava.
I suoi schiavi non erano solo specializzati in costruzioni, ma molti erano istruiti e sapevano fare gli scrivani, gli amministratori, i dispensieri, i saggiatori d’argento. Una vera e propria organizzazione industriale!
Ma questo finanziere faceva anche della politica attiva e sempre in prima linea, senza interposta persona. E’ lui l’organizzatore ed il selezionatore di schiavi che, riunito un esercito, vince la battaglia alle sorgenti del Silaro, in cui Spartaco (capo di un gruppo di gladiatore rivoltosi) fu sconfitto ed ucciso.
Crasso cadde in uno sfortunato tentativo di conquista del regno dei Parti.
(F. Arnaldi)

Pompeo

Ufficiale di Silla, diviene ben presto un prode generale. E’ un uomo audace, deciso a tutto. Una volta, mentre stava per salpare  da un porto si levò un vento fortissimo e i piloti decisero di rimandare la partenza. Ma Pompeo saltò sulla nave e ordinò a gran voce che si salpasse ugualmente dicendo: “Ora è necessario navigare, e non vivere”.

Cesare

Lavorava instancabilmente: dormiva  per lo più in lettiga, per continuare la marcia anche di notte. Del cavallo era padrone assoluto, poichè, fin da ragazzo, si era abituato a montarlo e a farlo galoppare tenendo le mani incrociate sul dorso. Divenuto generale, mentre cavalcava, si teneva vicino due o tre scrivani ai quali dettava nello stesso tempo lettere su argomenti diversi.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
Giulio Cesare

Dopo gli anni delle guerre civili, la pace ritornò tra i cittadini romani. Un patrizio abile e ambizioso, Cneo Pompeo, spense le ultime resistenze del partito di Mario e si conquistò molta stima lottando vittoriosamente contro i pirati che minacciavano la navigazione nel Mediterraneo.
Con Pompeo, un altro personaggio si metteva in luce a Roma: Caio Giulio Cesare, di nobile origine, ma amico del popolo. Cesare e Pompeo si accordarono per dividersi il potere e, per alcuni anni, non si ebbero contrasti.
Un grande progetto maturava intanto nella mente di Cesare: l’Italia era tutta romana, ma di là dalle Alpi, c’erano altre terre e altri popoli da conquistare. Cesare mosse con le sue legioni verso la Gallia, la regione che oggi chiamiamo Francia. Fu una guerra lunga e difficile. Le tribù dei Galli si difesero con molto coraggio. Infine Cesare fu padrone di tutta la Gallia: una nuova terra, una provincia, si aggiungeva al dominio di Roma.
Cesare continuò la sua impresa: in dieci giorni gettò un ponte sul fiume Reno, assalì i Germani che abitavano sull’altra sponda e conquistò un tratto delle loro terre. Poi, giunto alla riva dell’oceano Atlantico, preparò una flotta, sbarcò in Britannia, la grande isola che oggi si chiama Inghilterra, e ne sottomise una parte.
Le imprese compiute da Cesare erano straordinarie e tutto il popolo seguiva con entusiasmo gli avvenimenti. Pompeo ebbe timore che la fama di Cesare oscurasse la sua e convinse il Senato a richiamare il generale vittorioso; giunto ai confini dello stato romano egli doveva congedare i legionari e presentarsi a Roma, solo.
Cesare capì che lo si voleva privare del comando. Tornò in Italia con tutto il suo esercito ed entrò in armi nello stato romano, il confine del quale era segnato, allora, dal breve corso del fiume Rubicone (nella pianura romagnola). Cesare si fermò presso il fiume un istante: valicarlo con le legioni voleva dire ribellarsi all’ordine del Senato. Poi si decise e spinse il cavallo nell’acqua esclamando: “Il dado è tratto”.
Cesare entrò in Roma accolto come un trionfatore. Pompeo e gli altri Senatori erano fuggiti dalla città. Pompeo si era rifugiato in Grecia, dove stava raccogliendo le forze rimategli fedeli per preparare la rivincita. Cesare non gliene diede il tempo: lo raggiunse e lo sconfisse in una dura battaglia a Farsalo. Pompeo fuggì in Egitto, stato amico e protetto da Roma. Il re egiziano Tolomeo capì che le sorti dello scontro volgevano a favore di Cesare; catturò Pompeo, lo fece uccidere, ne mozzò il capo e lo presentò al generale vittorioso. Cesare, davanti al nemico ucciso a tradimento, pianse: Pompeo non meritava una morte senza gloria.
Ormai Cesare non aveva più avversari in grado di contrastarlo. Tornato a Roma, fu eletto Dittatore a vita.
Egli aveva un animo grande e generoso e non abusò mai del suo potere, eppure nel cuore di molti nacque il timore che Cesare volesse sopprimere la Repubblica e farsi nuovo re di Roma. Un gruppo di suoi avversari più accaniti lo attese in Senato e lo colpì a pugnalate. Tra gli assalitori, Cesare vide anche Bruto, un giovane che egli aveva protetto e beneficato. Allora non volle più difendersi; si coprì il volto con la toga e cadde trafitto dai pugnali. Era l’anno 44 aC.

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La conquista della Gallia

La più grande impresa di Cesare fu la conquista della Gallia, che egli stesso narrò nelle bellissime pagine dei suoi Commentari. Questi famosi libri di ricordi non ci descrivono soltanto le battaglie combattute da Cesare contro i popoli che abitavano oltre le Alpi, ma ci parlano anche dei loro costumi, del loro modo di vita, delle loro credenze religiose.
I Commentari sono anche un prezioso “atlante” di geografia. Cesare, infatti, fece conoscere agli uomini del suo tempo nuove terre e descrisse i fiumi, le montagne, le città e i villaggi, attraverso i quali passava con i suoi soldati.
La Gallia era abitata da popoli quasi barbari. All’inizio delle guerre galliche, nell’accampamento romano circolavano strane voci: si diceva che i Galli erano guerrieri altissimi di statura, assai feroci, e moti soldati avevano paura.
Non appena Cesare fu a conoscenza di questo, radunò i suoi soldati e disse loro: “Ho sentito che qualcuno di voi ha paura di questi Galli, come se in guerra contasse di più la statura e l’aspetto terribile del valore e della disciplina. Chi non vuole venire con me, domani, o quando darò il segnale della marcia, rimanga pure nelle tende”.
A quelle parole i soldati gridarono: “Verremo tutti con te!”
L’indomani nell’accampamento suonarono le trombe e iniziò la marcia vittoriosa.
In meno di otto anni Giulio Cesare espugnò ottocento città. Tutta la Gallia, corrispondente più o meno alla Francia, al Belgio, all’Olanda e alla Svizzera di oggi, diventò dominio romano.

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In Britannia

Conquistate le Gallie, Cesaer superò la Manica e sbarcò in Britannia. Questa impresa d’oltremare ebbe il valore di un’esplorazione. “Cesare” scrisse lo storico Plutarco, “fu il primo a guidare una flotta romana nell’Oceano Occidentale (Atlantico). Con il suo sbarco allargò le cognizioni dei Romani al di là dei limiti del mondo conosciuto”.
Cesare raggiunse l’isola con ottocento vascelli. Non potè però portare a termine la conquista di quel paese perchè ebbe notizia di una sollevazione della Gallia.
Infatti il capo dei Galli ribelli, il principe Vercingetorige, si era posto a capo di numerose tribù per scacciare le legioni romane. Cesare lo assediò nella roccaforte di Alesia e lo costrinse alla resa. Così la Gallia divenne definitivamente una provincia romana (52 aC).

Il dado è tratto

Secondo le tradizioni, un generale vittorioso aveva il diritto di rientrare a Roma da trionfatore. Al trionfo di Cesare si oppose l’ambizioso Pompeo che, in realtà, voleva diventare il solo padrone della Repubblica. Cesare, allora, rischiò tutto per tutto e rientrò in Italia alla testa delle legioni.
Giunto al Rubicone, Giulio Cesare si fermò perplesso. Egli aveva superato ben altri fiumi, larghissimi e impetuosi. Anzi, con grande stupore dei suoi militi, si era improvvisato ingegnere, costruendo rapidamente grandi ponti di legno. Ma davanti al Rubicone si arrestò, col cavallo fermo, le zampe puntate nella riva ghiaiosa.
Il Rubicone era il confine segnato dal Senato. Egli non lo poteva attraversare senza il permesso dei Senatori romani. Attraversarlo voleva dire farsi ribelle l’autorità di Roma.
Giulio Cesare rimase un istante incerto. Una ruga gli si disegnò sulla fronte, che portava sempre scoperta, senza l’elmo. Poi, risolutamente, spinse il cavallo facendo cenno ai portatori delle Aquile di seguirlo.
Il cavallo, con un balzo, lo portò sull’altra riva. Allora il volto di Giulio Cesare si rischiarò. “Il dado è tratto!” disse. La cosa è fatta.
Avrebbe marciato su Roma e sarebbe diventato il capo, non soltanto del suo esercito, ma di tutti i Romani.

Cesare dittatore

Tornato a Roma, Cesare venne onorato con 4 grandiosi trionfi e dal Senato ricevette il titolo di dittatore a vita. Cesare seppe governare nell’interesse del popolo: distribuì terre ai poveri e ai veterani dell’esercito, scacciò i funzionari disonesti e obbligò i grandi proprietari terrieri a far coltivare le loro terre non dagli schiavi, ma da liberi cittadini: in questo modo sarebbe scomparsa la disoccupazione.

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Le idi di marzo

Più volte il Senato offrì a Cesare la corona di imperatore; ma egli sempre rifiutò, perchè credeva che ancora vosse viva la libertà della Repubblica. Tuttavia alcuni patrizi videro in lui il tiranno e decisero di ucciderlo. Fra i congiurati era persino Giunio Bruto, che Cesare amava come un figlio. Fu deciso di ucciderlo in Senato, nel giorno delle idi di marzo (cioè il 15 marzo) del 44 aC.
Pareva che il cielo si opponesse a questa infamia. Un sogno avvertì la moglie di Cesare che il marito correva un grave pericolo; ed elle cercò di trattenerlo a casa, ma invano. Poi, lungo la strada, un indovino avvertì il dittatore e un altro cercò di trattenerlo sulla porta del Senato. Ma sempre invano.
Appena entrò nel Senato, i congiurati gli si gettarono addosso coi pugnali alzati. Cesare cercò di ripararsi con la toga, ma quando vide che tra gli assalitori c’era Bruto, esclamò: “Anche tu, Bruto, figlio mio?”. Rattristato si coprì il volto con la toga per non vedere e cadde morto ai piedi della statua del suo antico avversario Pompeo.

Il calendario giuliano

Il nostro calendario si basa sul Sole, cioè sul movimento di rivoluzione della Terra che gira intorno al Sole. Gli antichi popoli, invece, avevano un calendario basato sulle fasi della Luna.
Anche il calendario romano si basava sulla Luna, e aveva causato grande confusione, tanto è vero che le feste della mietitura non capitavano più in estate, nè quelle della vendemmia in autunno.
Fu Giulio Cesare a far adottare il calendario solare, che fissava la durata dell’anno in 365 giorni e un quarto: lo stesso calendario che usiamo noi, sia pure con qualche modifica. Forse ti chiedi perchè proprio Giulio Cesare volle riformare il calendrio: perchè era Pontefice Massimo, e il calendario era un aspetto della religione. Infatti nell’Antica Roma, il sacerdote e il magistrato erano la stessa persona.

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Ritratto di Cesare

Fu di alta statura, di carnagione bianchissima, occhi neri e fulminei, salute d’acciaio, eccetto negli ultimi tempi, molto accurato nella persona e nelle vesti.
Molto sobrio nel bere, poco curante dei cibi.
Nell’eloquenza e nell’arte della guerra uguagliò se forse non superò tutti i più famosi. Cicerone scriveva di lui: “Quale oratore, anche di coloro che non hanno mai atteso ad altro, si può anteporre a Cesare? Chi più acuto e più ricco di idee? Chi più ornato ed elegante nella forma?”
Nell’uso delle armi e nel cavalcare fu abilissimo, resistente oltre dire alla fatica. Durante la marcia era sempre in testa alle truppe, qualche volta a cavallo, più spesso a piede, e a capo scoperto sia che piovesse, sia fosse bel tempo.
Faceva viaggi lunghissimi con incredibile rapidità, giungendo a percorrere cento miglia al giorno; se un fiume gli impediva di proseguire, lo attraversava a nuoto o tenendosi a galla con otri gonfiati. Nelle spedizioni guidava il suo esercito con audacia pari alla prudenza. Se doveva attraversare zone pericolose non faceva avanzare i suoi uomini se prima non aveva esaminato attentamente la natura del luogo.
Molti sono gli episodi che testimoniano il coraggio di Cesare. Una volta, per rientrare nel proprio accampamento cinto d’assedio dai Germani, si travestì da guerriero gallo ed attraversò indisturbato le linee ed i posti di guardia nemici.
Una notte tentò la traversata dell’Adriatico affidandosi da solo ad una piccola imbarcazione, senza rivelare la propria identità al barcaiolo. Solo quando la tempesta minacciò di travolgere l’imbarcazione, Cesare permise al barcaiolo di tornare indietro.
Amava i suoi soldati e ne era riamato: li giudicava infatti in base al loro valore e li trattava con grande severità o indulgenza a seconda delle necessità. Quando il nemico era vicino, esigeva nell’accampamento una disciplina ferrea e non ammetteva che si chiedesse l’ora ed il luogo del combattimento. Tutti dovevano essere pronti per attaccare o per marciare al momento che lui riteneva opportuno. Con questi metodi Cesare si assicurò la devozione dei suoi uomini e ne fece dei soldati coraggiosissimi (rid. da Svetonio, “Le vite di dodici Cesari”)

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Cesare, uomo di attività

Il dinamismo di Cesare era leggendario e famosissimo quando ancora egli era in vita. Divenne poi quasi un esempio costante, dopo la morte del dittatore, nè alcuno storico benevolo o malevolo che fosse, si dimenticò di parlarne. Anche Plutarco fa un ritratto di Cesare in cui sottolinea il dinamismo di quel condottiero; dice, lo storico greco, che Cesare era gracile e pallido e soggetto a continue emicranie. Ma da questa debolezza del corpo egli, invece che farne una scusa per vivere in modo tranquillo con abitudini molli, trasse motivo di esercitare il corpo in continue marce, mangiando frugalmente e dimorando il più possibile all’aria aperta. Per lo più dormiva su di un carro o su di una lettiga, accoppiando così il riposo con l’azione. Durante il giorno si recava con il cocchio a visitare accampamenti, città e fortificazioni, tenendosi sempre al fianco un giovanetto esperto nello scrivere strada facendo quel che egli dettava. Lo seguiva un soldato con la spada. Viaggiava inoltre con tanta rapidità che la prima volta che partì da Roma giunse al Rodano in otto giorni. Il cavalcare gli riusciva facile perchè vi si era addestrato sin da fanciullo e sapeva stare, con le mani sul dorso, sul cavallo spinto al galoppo. E fu proprio durante quella sua prima campagna che si abituò a dettare lettere cavalcando a due scrivani contemporaneamente; anzi, secondo quel che riferisce Oppio, anche a più di due alla volta.
Era poi molto resistente alle fatiche del nuoto, cosa che lo salvò durante la battaglia di Alessandria contro Tolomeo.

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La ricognizione di Cesare in Britannia

Nel quarto anno della guerra gallica (55 aC) Cesare conduce due ardite spedizioni: una contro i Germani d’oltre Reno, che avevano oltrepassato il fiume e inflitto uno scacco alla cavalleria romano-gallica; l’altra in Britannia, sul finire dell’estate. In dieci giorni getta sul Reno un ponte magnifico e passa con tutto l’esercito. Devasta il territorio dei Sugambri e li costringe a rifugiarsi nelle selve, semina il panico fra gli stessi Suebi che pure  si occultano nelle foreste; e dopo aver fatto un soggiorno di 18 giorni sulla riva germanica, ripassa il Reno e distrugge il ponte. Evidentemente il momento non gli parve opportuno per una guerra germanica fra le selve e le paludi, con la Gallia irrequieta alle spalle: nei Commentari egli afferma che le sue intenzioni non andavano oltre una ricognizione.
E come ricognizione egli intraprese pure la sua prima spedizione in Britannia sulla fine dell’estate.
L’estate volgeva al termine, e per quanto nella Gallia settentrionale l’inverno sia precoce, Cesare iniziò i preparativi di una spedizione in Bretagna, dove sapeva che i Galli avevano ricevuto aiuti in tutte le loro guerre. Se la stagione non fosse stata sufficiente, considerata già un risultato apprezzabile riuscire a sbarcare nell’isola e osservare direttamente gli abitanti, i luoghi, i porti, le vie d’accesso, di cui i Galli non avevano quasi notizia. E’ raro infatti che qualcuno si diriga in quella regione, ad eccezione dei mercanti; del resto anche questi non conoscono altro che la zona costiera e il paese che sta di fronte alla Gallia.
Cesare chiamò a sè i mercanti da ogni dove, ma non gli fu possibile venire a conoscere ne l’estensione dell’isola, ne il numero e la natura degli abitanti, ne la loro pratica militare, ne le loro istituzioni. Oscuro parimenti gli restava quali fossero i porti adatti per un gran numero di navi grandi.
Per raccogliere le informazioni necessarie prima di affrontare la prova, mandò con una nave da guerra Voluseno, uomo di fiducia, con l’ordine di compiere un’attenta esplorazione e di tornare al più presto. A sua volta si reca fra i Morini, di dove il passaggio in Bretagna era brevissimo, e dispone che si radunino là molte navi e la flotta che l’estate precedente aveva sostenuto la campagna contro i Veneti.
Frattanto il disegno di Cesare si era divulgato e i Britanni ne erano venuti a conoscenza per mezzo dei mercanti. Alcune città dell’isola mandarono legati a lui, promettendo ostaggi e dichiarandosi pronti a obbedire agli ordini di Roma. Cesare li ascoltò con molta cordialità e li esortò a tener fede alle promesse, quindi li rimandò ai loro paesi, in compagnia di Commio, un capo che Cesare aveva fatto re degli Atrebati, dopo la vittoria riportata su di essi. Il generale romano ne conosceva molto bene il valore e l’intelligenza, lo riteneva uomo fidato, e sapeva che godeva grande prestigio in quelle regioni. Gli ordina dunque di recarsi in quante più città può, di persuaderle ad accogliere il dominio di Roma e di annunciare la sua prossima venuta. Voluseno intanto, dopo aver osservato tutte le regioni dalle navi (egli diffidava dei barbari e perciò aveva creduto bene non sbarcare), tornò cinque giorni dopo da Cesare e gli comunicò il risultato delle sue osservazioni.
Mentre Cesare indugia in questa regione per allestire la flotta, la maggior parte dei Morini mandarono legati per scusarsi della condotta tenuta in precedenza verso di lui, cioè che, barbari e ignari com’erano della consuetudine, avessero osato far guerra ai Romani, e per promettere obbedienza. Questa ambasceria parve oltremodo opportuna a Cesare, il quale non voleva lasciarsi un nemico alle spalle, nè poteva, data la stagione, fare una guerra; d’altra parte non gli era possibile anteporre alla spedizione in Bretagna questioni di sì piccola importanza. Pertanto impose loro gran numero di ostaggi. Questi furono consegnati e la loro sottomissione fu accolta.
Radunate e allestite circa ottanta navi da carico, quante gli parevano necessarie per il trasporto di due legioni, le distribuì, insieme con le navi da guerra che aveva, al questore, ai legati e ai prefetti. Cesare disponeva inoltre di diciotto navi da carico, che si trovavano a otto miglia di distanza, alle quali i venti impedivano di raggiungere il porto di concentramento; e queste le assegnò ai cavalieri. Il rimanente dell’esercito lo affidò  ai legati Quinto Titurio Sabino e Lucio Auruncueleio Cotta, perchè lo conducessero fra i Menapii e nei paesi dei Morini, che non avevano mandato legati a presentarsi. Infine ordinò al legato Sulpicio Rufo di presidiare il porto Izio con un conveniente nucleo di forze.
Appena ebbe compiuti questi preparativi e si presentò il tempo propizio alla navigazione, dopo la mezzanotte levò le ancore, ordinando in pari tempo alla cavalleria di raggiungere l’altro porto, imbarcarsi e mettersi sulla sua rotta. L’ordine fu eseguito con una certa lentezza, mentre Cesare all’ora quarta toccava la Bretagna con le prime navi. Su tutti i colli lo aspettavano schierate le forze nemiche. Il terreno presentava una serie di alture che dominavano il mare e dall’alto permettevano di lanciare dardi sulla spiaggia. Lo sbarco in quel luogo non era facile, pertanto Cesare calò le ancore e aspettò che arrivassero le rimanenti navi.
Intanto, convocati i legati e i tribuni, e messili al corrente delle informazioni avute da Voluseno, espose loro i suoi intendimenti, e raccomandò di eseguire ogni atto, al cenno del comandante e al momento opportuno, secondo le regole dell’arte militare e soprattutto della marina. Sciolta la riunione, per buona combinazione venti e marea erano propizi. Allora diede il segnale; si levarono le ancore ed egli condusse le navi ad ancorarsi a circa sette miglia da quel luogo, in una spiaggia aperta e piana. I barbari, quando videro le intenzioni dei Romani, mandarono avanti la cavalleria; fatti poi seguire i carri, con cui più di frequente combattono, e le altre forze, cercavano di impedire ai nostri di sbarcare.
Lo sbarco era oltremodo difficile per diverse ragioni. Le navi, data la loro grandezza, dovevano fermarsi al largo; i soldati, ingari dei luoghi, con le mani impegnate, gravati dal peso non indifferente delle armi, dovevano saltare dalle navi, resistere nell’acqua e dall’acqua combattere contro i nemici. Questi invece, dalla spiaggia o avanzandosi di poco in mare, liberi nella persona, lanciavano dardi e spingevano avanti i loro cavalli assuefatti a tali prove. I nostri, atterriti, non avvezzi a tale genere di combattimento, non dimostravano lo slancio e l’entusiasmo che erano loro familiari nelle battaglie di terra.
Si combattè accanitamente da ambe le parti. I nostri però non potendo ne mantenersi ordinati, ne tener fermo il piede, ne restare nei propri manipoli, si ammassarono confusamente, chi da una nave chi da un’altra, dietro le prime insegne che trovavano, provocando grande disordine. I nemici, al contrario, che conoscevano tutti gli approdi, quando dalla spiaggia vedevano qualcuno dei nostri sbarcare isolatamente, davano di sproni al cavallo e l’assalivano nel momento dello sbarco; circondavano i nostri con forze superiori, altri lanciavano dardi al fianco scoperto, prendendo di mira il grosso.  Come si rese conto della tattica del nemico, Cesare calò molti uomini in lance e altre imbarcazioni da esplorazione, e li mandò prontamente in aiuto a coloro che vedeva in situazione critica.
Quando i nostri riuscirono a raggiungere la riva e poterono riunirsi, si slanciarono contro il nemico volgendolo in fuga; ma non poterono spingersi decisamente all’inseguimento, perchè la cavalleria non era riuscita a tenere la rotta e ad approdare all’isola. Fu questa l’unica contrarietà che nella fortunata operazione Cesare dovette incontrare. I nemici furono tuttavia sconfitti, e quando si riebbero dalla fuga mandarono tosto legati a Cesare, dichiarandosi pronti a dare ostaggi e ad eseguire gli ordini che volesse dare. (Cesare, da “Commentari della Guerra Gallica”, libro IV)

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Cesare al Rubicone

Al campo di Ravenna è di stanza la Decimaterza legione, una forza di cinquemila fanti e di trecento cavalieri. Le altre legioni sono tarde a giungere a causa delle strade impraticabili, i valichi nevosi e le strade ghiacciate. E’ il gennaio del 49 aC.
Cesare chiama alla spicciolata i centurioni e comunica in segreto, quasi uno per uno, l’obiettivo di marcia e la condotta dell’impresa: senza carico d’armi, veramente in leggerissima, puntare su Rimini, prima città della Repubblica. Occupandola di eviti il più possibile le rapine, le stragi, i tumulti del popolo.
Uscito dai quartieri militari, lasciando il comando delle truppe al suo luogotenente, Cesare passa tutto il giorno in pubblico, assistendo allo spettacolo dei gladiatori.
Sull’imbrunire presiede un banchetto perchè tutti lo vedano. Più tardi, con indifferenza studiata e con modi di affettuosità e di sorriso, chiede di allontanarsi; ritornerà a momenti; prega gli ospiti di aspettarlo.
Appena fuori della sala Cesare allungò il passo per le vie della campagna. In luogo solitario l’aspettava un gruppo di amici, al corrente del suo proposito. Ripresero il cammino. A mezza strada, nel cuore della notte, il vento alzò la nebbia e spense le fiaccole. L’oscurità smarrì i viandanti nella rete delle strade campagnole; essi battevano a tastoni i cespugli e le stoppie alla ricerca del sentiero. Sull’alba trovarono una guida del luogo che li portò a piedi per lo stretto viottolo che era la buona via.
Le coorti bivaccavano lungo gli argini del fiume Rubicone. Sulla testata del ponte spiccava la lapide terminale della Repubblica che imponeva il disarmo dei cittadini prima di passare nel territorio di Roma. Il fiume era in magra. I legionari guardavano sull’altra riva: attendevano il cenno d’avanzata.
E Cesare comanda: “Si vada dove ci invocano i prodigi degli dei e l’iniquità dei nemici. Il dado è tratto”.
Col suo cavallo guadò il Rubicone e avanzò nel territorio della Repubblica a redini abbandonate, col seguito dei cavalleggeri.
Prima di giorno, investì e prese Rimini senza colpo ferire.
(A. Foschini)

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Presagi delle idi di marzo

Tutti i biografi di Cesare concordano nel riferire alcuni episodi, casuali certo ma pieni di fascino in anni così carichi di superstizione; pareva che tutto concordasse nel dissuadere Cesare dall’andare verso il suo fatale destino. Anche Svetonio, che fra gli storici è il meno sensibile al fascino del mito, raccolse questi episodi e li riferì; il che ci conferma la loro autenticità.
Apparvero infatti strani segni a preannunciare la morte di Cesare. Un aruspice già lo aveva messo in guardia di un grave pericolo che gli incombeva entro i primi quindici giorni di marzo. E Cesare stesso, la notte prima degli idi, sognò di librarsi tra le nuvole, mentre la moglie Calpurnia sognava che il tetto della casa era crollato e Cesare ne era rimasto ferito. Per tali motivi, e anche perchè non si sentiva troppo bene, la mattina delle idi Cesare era perplesso e pensava quasi di restarsene a casa rimandando al altra data le faccende che doveva sbrigare in Senato. Ma poi, in ultimo, decise di uscire. Erano le 11 del mattino.
Sulla porta di casa si imbattè in un uomo che gli porse un messaggio con cui lo informava della congiura tramata a suo danno; Cesare non lo lesse e lo ripose fra le altre carte che portava con sè, pensando di leggerlo più tardi.
Sulla soglia della Curia si imbattè nell’aruspice: “Non hai indovinato”, gli disse scherzando, “sono trascorsi i primi quindici giorni di marzo, e non mi è capitato niente!”. Rispose l’aruspice: “Le idi di marzo non sono ancora trascorse del tutto!”.
Entrato in Senato, i congiurati gli si assieparono intorno e uno di essi, Tullio Cimbro, fece l’atto di porgergli una supplica, che Cesare rifiutò con un cenno, facendo intendere di rimandare a momento migliore. Cimbro lo afferrò per i lembi della toga e Cesare protestò: in quell’istante Casca, un altro congiurato, gli vibrò il primo colpo di pugnale alla gola. Cesare cercò di difendersi con uno stilo per scrivere, chè altro non aveva tra le mani, ma fu colpito ancora. Come si accorse che i congiurati lo stringevano da ogni lato, armati con il pugnale, si avvolse nella veste sul capo, lasciò cadere la toga sino ai piedi, per non giacere con il corpo scoperto quando fosse caduto. Ventitrè colpi lo trafissero, nè lui emise grido o sospiro.
(A. Foschini)

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Cesare e il giovane Gallo

Caio Giulio Cesare fu il conquistatore della Gallia. La guerra durò quasi dieci anni, e fu spesso dura e sanguinosa.
Cesare aveva un animo nobile e non mai crudele e vendicativo contro i nemici; anzi apprezzava il loro eroismo e la loro generosità. Puniva però severamente tutti coloro che si erano mostrati crudeli, traditori e vili.
Accadde che un gruppo di otto soldati romani fu fatto prigioniero dai Galli e trascinato in un loro villaggio fortificato. Il capo del villaggio mandò a dire a Cesare che avrebbe liberato i prigionieri se dai Romani avesse avuto un eguale peso di argento. Mentre si trattava la questione, i poveri prigionieri erano sottoposti ad inauditi tormenti, così che, appena liberati e portati davanti a Cesare, questi si indignò e diede ordine al suo luogotenente di assalire il villaggio dei Galli, di incendiarlo e di far prigionieri tutti gli abitanti, cercando di recuperare l’argento versato per il riscatto.
I Galli furono facilmente sbaragliati e il loro villaggio dato alle fiamme; tutti gli abitanti vennero fatti prigionieri e portati davanti a Cesare per il giudizio di condanna.
Il generale romano ordinò che venissero uccisi i capi e tutti coloro che avevano martoriato i prigionieri romani; gli altri si dovevano vendere come schiavi.
Un prigioniero romano, a cui i barbari avevano tagliato le mani e bruciato i piedi, disse: “Cesare, fra i Galli si trova un fanciullo che non merita condanna: egli mi portò da bere ogni giorno, medicò come potè le mie ferite, mi portò dei cibi e delle vesti: io ti chiedo di consegnarlo a me: lo tratterò come fosse mio figlio.”
Cesare fece venire il fanciullo e lo consegnò al soldato, dicendogli: “Un solo atto di pietà merita la più alta riconoscenza. E tu, fanciullo, cerca di riscattare, con l’affetto verso questo soldato, tutta l’inutile crudeltà che il tuo popolo usa coi prigionieri”.
Il fanciullo venne portato a Roma, dove imparò a vivere secondo le leggi della civiltà e della giustizia.
(C. Del Grosso)

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IL CRISANTEMO leggenda giapponese

IL CRISANTEMO leggenda giapponese

C’è, in Giappone, un luogo dove il crisantemo non è coltivato perchè ricorda una storia troppo triste.

Una volta, in un castello dalle trenta torri, nella graziosa città di Himeji, abitava un ricchissimo signore. Egli prese al suo servizio una fanciulla di buona famiglia, chiamata O-Kitu, il che, in giapponese, significa appunto “fior di crisantemo”. O-Kitu doveva aver cura di molti oggetti preziosi e, fra l’altro, di dieci piatti d’oro.

Un giorno, uno dei piatti scomparve e la ragazza, per dimostrare la propria innocenza, si annegò in un pozzo. Il suo spirito tormentato, la notte, tornava al castello e singhiozzando cantava: “Ichi-mai, ni-mai, san-mai, yo-mai, go-mai, ro-ku-mai, shichi-mai, bachi-mai, ku-mai”. “Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove!”

Il decimo piatto non c’era e la povera servetta non trovava pace: finchè si trasformò in un insetto che somiglia a uno spirito coi capelli scompigliati e che fu chiamato la “mosca crisantemo”.

L’immagine di una chioma spettinata, che richiama alla mente i petali frastagliati del crisantemo, ha dato origine sempre in Giappone, a un’altra leggenda.

Una musmè aveva sposato  un giovane, che amava teneramente. Egli era mercante e spesso doveva allontanarsi per lunghi viaggi sul mare. Una fosca sera di novembre la moglie lo aspettava, ritta su uno scoglio. La nave apparve, ma una tempesta terribile si scatenò. La povera musmè, coi capelli ondeggianti al vento, assistette inorridita al dramma: il bastimento fu inghiottito dai flutti furibondi. Disperata, la sposa si gettò anch’essa nelle onde e morì. Il giorno dopo, sul luogo dove aveva atteso il suo sposo, sbocciarono i fiori del crisantemo, e i loro petali fluttuavano al vento come i capelli della musmè.

Un’altra commovente leggenda giapponese è questa. Due giovani sposi vivevano tranquilli e felici. Purtroppo scoppiò la guerra e il marito dovette partire. Dopo lunghi mesi di dolorosa separazione gli fu dato un congedo ed egli potè tornare alla sua casetta. La moglie gli chiese: – Quanti giorni resterai? –

– Quanti petali ha quel fiore – rispose il marito, indicando un fiore in un vaso.

I petali erano pochi: di notte la sposa si levò, prese un paio di forbici e li frastagliò in tanti minutissimi frammenti. E il marito rimase con lei molti giorni, assai più di quanto non gli fosse stato concesso…

Tornato al campo, fu giudicato e condannato a morte come disertore. E la sposa, per il rimorso e per il dolore, morì.

Ma il ricordo del suo grande, sebbene così tragico amore, le sopravvisse in un modo strano e poetico. Sulla sua tomba nacquero bellissimi fiori mai visti prima: erano i crisantemi dai petali innumerevoli, simili a quelli del fiore che la donna aveva frastagliato con le sue incaute forbicine.

Storia di Roma – FONDAZIONE E I SETTE RE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici sull’antica Roma, dalla fondazione a tutto il periodo regio, di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Nasce Roma

Secondo gli studiosi, verso la metà dell’ottavo secolo a.C. quando la potenza etrusca si estendeva dalle Alpi fin presso il Tevere, sorse nel cuore dell’Italia un umile villaggio di Latini, destinato a diventare il dominatore del mondo: Roma.

I Latini si erano stabiliti nella vasta pianura ondulata che è tra il basso Tevere, i colli Albani ed il mare. Il nome Lazio, dato alla regione, significa “luogo largo ed aperto”.

Il suolo era adatto alla pastorizia ed all’agricoltura ed infatti i Latini furono pastori ed agricoltori. Vivevano in capanne sparse per la campagna o si raggruppavano in villaggi detti vici ed oppida, che servivano da rifugio anche alla popolazione sparsa per la campagna, quando vi fosse qualche pericolo.

I villaggi erano fondati sulle alture sia per ragioni di sicurezza, sia per igiene: infatti i popoli delle vicine montagne (Sabini, Marsi), facevano frequenti scorrerie nella pianura per saccheggiare i raccolti, e le acque dei fiumi, impaludando, provocavano la malaria.

Il villaggio sul colle Palatino fu il primo nucleo di Roma, la Roma quadrata. Coi Latini del Palatino si fusero ben presto i Sabini del Quirinale.

Questo gli studiosi hanno potuto sicuramente stabilire attraverso i ritrovamenti archeologici e l’interpretazione di essi, liberando il vero dalle molte leggende che avvolgono le origini di Roma.

Secondo la leggenda

Quando i Romani furono i signori del mondo, vollero nobilitare le loro origini ed elaborarono una vasta leggenda che li diceva discendenti dall’eroe troiano Enea, figlio di Venere, scampato dalla distruzione della sua patria. Narra il mito che Enea, sbarcato dopo lunga navigazione nel Lazio, ebbe ospitalità ed amicizia dal re del luogo, Latino, che gli diede in sposa la figlia Lavinia, in onore della quale Enea fondò la città di Lavinio. Suo figlio Ascanio o Julo fondò Albalonga, e tra i suoi discendenti fu Romolo, il mitico fondatore di Roma.

Dopo una lunga serie di re albani discendenti da Enea, il trono passò a Proca, che ebbe due figli: Numitore e Amulio. Quest’ultimo spodestò il fratello e costrinse la figlia di lui, Rea Silvia, a farsi sacerdotessa di Vesta, per impedire ogni pericolo di restaurazione da parte dei suoi discendenti. Le vestali non potevano sposarsi, nè avere figli sotto pena di essere sepolte vive.

Ma Rea Silvia ebbe dal dio Marte due gemelli e Amulio li fece esporre in una cesta, sulla riva del Tevere, ai piedi del Palatino. Una lupa, prodigiosamente, li nutrì del suo latte; un pastore di  nome Faustolo li raccolse e li allevò, chiamandoli Romolo e Remo. Divenuti forti ed animosi giovani, i due fratelli vollero fondare una città presso il luogo dove erano stati raccolti.

Il rito della fondazione di una nuova città, che i Latini avevano appreso dagli Etruschi, consisteva nel tracciare anzitutto, col vomere, un solco di forma quadrata, che ne era il perimetro. Per stabilire chi dei due dovesse tracciarlo ed essere re, i due fratelli consultarono il volere degli dei, cioè presero gli auspici.

Remo dal colle Aventino vide sei avvoltoi, Romolo dall’alto del Palatino ne scorse dodici. Gli dei avevano favorito Romolo. Egli, aggiogati un bianco vitello e una vacca bianca, tracciò sul Palatino il solco quadrato, lungo il quale dovevano essere erette le mura, sollevando il vomere alla metà di ogni lato, per le porte. Il solco era sacro e nessuno poteva violarlo. Remo, deluso, per scherno lo saltò, e Romolo, accecato dall’ira, lo uccise.

Così rimase re della città e le impose il proprio nome: Roma. Secondo la tradizione la fondazione avvenne il 21 aprile del 753 aC. Da quel giorno i Romani computarono il tempo ab urbe condita e, a ricordo dell’avvenimento ogni anno, il 21 aprile celebrarono delle feste campestri.

La Roma quadrata fu un piccolo villaggio di pastori e di agricoltori, non diverso dagli altri che già sorgevano nel Lazio. I suoi abitanti si vestivano di pelli, perchè scarsa era ancora la lana, abitavano in capanne di forma circolare a tetto spiovente, coperte di canne, con le pareti fatte di legname dei vicini boschi e rinforzate da pezzi di tufo.

21 aprile: Natale di Roma

In un lontano giorno di primavera, nell’anno 753 aC, due giovani fratelli, Romolo e Remo, tracciarono un solco con l’aratro sulla sinistra del Tevere, e segnarono il posto dove volevano fondare una città.
Era il 21 aprile, e la città che sorse in quel solco fu Roma.
Roma diventò grande e potente, conquistò tutti i Paesi intorno al Mediterraneo e fu la capitale di un vasto impero, a cui diede le sue leggi e la sua civiltà.
Dopo la caduta dell’Impero romano, Roma, divenuta la sede del papato, fu il centro del mondo cristiano e cattolico. Roma è la capitale d’Italia.

Nascita di Roma

Qualche colle selvaggio. Una conca di valle, acquitrinosa. Un mattino d’aprile. Pochi, rudi uomini (pastori? guerrieri?) intorno a un rude capo, sulla sommità di un colle. Un volo augurale passa nel cielo. Il capo ha aggiogato all’aratro un bue e una giovenca: guida con mano ferma e il vomere traccia un solco quadrato. Guai a chi, nemico, varcherà quel solco! Roma.

Roma antica

Augusti quartieri di capanne di fango; ecco che cos’era la Roma di allora. Ogni abituro era coperto con tetto di paglia e destinato ad una sola famiglia. Il tetto faceva da granaio. Il fumo del focolare usciva dalla porta. La casa era circondata da stalle, il bestiame correva per le vie.
Nell’inverno il romano primitivo abitava sul Palatino e sul Quirinale, e nell’estate scendeva giù al piano per attendere ai lavori del campo. Anche il cittadino più ragguardevole si metteva dietro l’aratro. Vie non lastricate, ripide scale conducevano alla città da colle a colle. (T. Birth)

Roma

Sulla collina più vicina al guado del fiume, alcuni Latini costruirono le loro capanne. Il posto era comodo per commerciare. Infatti tutti i Latini che volevano commerciare con gli Etruschi dovevano passare da quel guado.

Quel colle si chiamava Palatino; il villaggio costruito sul colle fu chiamato Roma, che, a quel che sembra, vuol dire “città del fiume”.

Roma era una città per modo di dire Era un villaggio di capanne rotonde, col tetto aperto nel mezzo per fare uscire il fumo del focolare. Tutto intorno al villaggio c’era un muro di grosse pietre. Nel muro c’era una porta che si apriva sul viottolo che portava verso la pianura e il fiume. Di qui passavano i mercanti che andavano a commerciare, i contadini che andavano nel loro campo, i pastori che portavano le pecore e le mucche al pascolo. La mattina, appena era sorto il sole, tutta la città risuonava dei muggiti del bestiame che andava al pascolo. Per questo la porta era chiamata Mugonia.

I Latini

Tra le popolazioni italiche, una delle più importanti era quella dei Latini. Essi occupavano i colli e le pianure del Lazio ed erano circondati da altre popolazioni: i Sabini, assai vicini, i Campani, i Sanniti, i Marsi. A nord, appena varcato il Tevere, cominciava il territorio degli Etruschi.

Un giorno un gruppo di pastori latini si portò su un colle che sorgeva in vista delle rive del Tevere e vi fondò un villaggio.

La località era propizia al pascolo e alla difesa. Poichè la dea di questi pastori si chiamava Pale, intitolarono ad essa il colle, che si chiamò, perciò, Palatino.

Il Palatino era di difficile accesso e quindi si prestava ad essere ben difeso dai nemici; altra difesa naturale era il Tevere, il quale, inoltre, con le sue frequenti inondazioni, rendeva fertili i campi circostanti e serviva molto bene come mezzo di comunicazione per i trasporti.

Anche il mare non era troppo lontano e permetteva il commercio con l’Etruria, con la Grecia, con la Fenicia. V’era, infine, abbondanza di acqua potabile e i terreni, parte in pianura, parte in collina, si prestavano a ogni sorta di coltivazioni. (F. Palazzi)

Romolo e Remo

Non  lontano dalle rive del Tevere, in una povera capanna, abitavano Faustolo, un vecchio pastore, e sua moglie Laurenzia.

Una sera Faustolo sedeva stanco sulla porta della capanna. Il sole era tramontato lontano nel mare, verso la foce del fiume Tevere, ed il silenzio era grande.

Nell’interno dell’umile capanna, Laurenzia, la buona moglie di Faustolo, preparava lo scarso cibo serale.

All’improvviso, dal bosco, si intese un fruscio, e laggiù, verso il fiume un’ombra scura scivolò alla riva…

“Sarà bene andare a vedere” , mormorò Faustolo fra sè. Disse alla moglie di aspettarlo ed avanzò cauto verso la riva del Tevere. Era tutto un pantano. Per le piogge recenti, il fiume aveva allagato i campi ed il terreno era cosparso di larghe pozze di acqua. In una di quelle pozze, ai piedi di un albero, Faustolo vide una lupa enorme, col dorso appoggiato al tronco della pianta. Era sdraiata e due bambini si nutrivano del suo latte.

Credeva di sognare. Si ritirò piano piano, rifece la strada percorsa e tornò alla capanna. Giunto sulla soglia gridò: “Laurenzia, ho visto una lupa che allatta due gemelli…”

“Saranno lupacchiotti”, rispose tranquillamente la donna.

“Ma no, ma no: due bambini, ti dico. Vieni, vieni subito a vedere!”

E prima che ella potesse rifiutarsi, l’afferrò per un braccio e la trascinò verso il fiume. Poco dopo, i due trovatelli riposavano al caldo, nella capanna di Faustolo. Laurenzia aveva acceso un gran fuoco e si affannava intorno alla culla sorridendo fra le lacrime: “Gli dei”, mormorava “ne fanno delle belle: mi mandano due bambini adesso che sono vecchia e stanca! Ma non temete, poveri piccoli, Laurenzia è vecchia, ma la nonna ve la saprà fare”.

I trovatelli crebbero presto. In pochi anni, furono due ragazzi grandi e forti, un po’ selvaggi, ma buoni. Faustolo li aveva chiamati Romolo e Remo; ed essi lo rispettavano come un padre. Correvano a perdifiato il monte e il piano, come due puledri. Tornavano, a sera, stanchi e felici, per ricominciare il giorno dopo. E ogni giorno si spingevano più lontano, in cerca di nuove avventure… (G. Brigante Colonna)

La fondazione di Roma

Cominciò la cerimonia. Le vestali, tutte candide, portarono nei vasi sacri il fuoco, e lo deposero sugli altari. Aggiunsero piccoli pezzi di legna secca, arida, e svilupparono la fiamma: poi i sacerdoti giovani scannarono le vittime per i sacrifici; e i vecchi ne esaminarono le viscere per dare responsi.

“Gli dei accettano i sacrifici!”

“Proteggeranno la città nuova!”

“La renderanno grande e forte!”

“Vogliamo che si chiami Roma!”

“Roma durerà in eterno!”

“A Roma verranno le genti di ogni parte d’Italia e del mondo!”

Così dissero i sacerdoti esaminando le viscere delle vittime mentre i fuochi scoppiettavano sugli altari. Da quel popolo radunato si alzò allora un altissimo grido: “Roma, Roma, Roma! Viva Roma, ora e sempre!”

Due uomini portarono al principe Romolo un aratro grande, di bronzo, trascinato da un toro bianco e da una vacca bianca. E il principe lo guidò nel solco, cantando preghiere, seguito dai compagni silenziosi. (L. Orvieto)

I patrizi, i plebei, gli schiavi

Le famiglie dei primi abitatori dei colli, che avevano occupato il territorio, erano raggruppate in “genti”. La gente era l’insieme delle famiglie che discendevano dallo stesso antenato, legate fra loro oltre che da vincoli di sangue e d’affetto, anche dal culto dei propri dèi gentili. Tutti i componenti la gente portavano lo stesso nome gentilizio, avevano gli stessi altari familiari, la tomba e la proprietà fondiaria in comune. Essi si chiamavano patrizi, ossia discendenti da un medesimo pater. La plebe era una moltitudine varia e sempre più numerosa, formata dagli abitanti delle città vinte costretti a stabilirsi in Roma, da commercianti ed artigiani venuti ad esercitare la loro attività, da clienti di cui si erano estinti i patroni. Erano liberi della propria persona, ma esclusi dalla vita politica e dalle cerimonie religiose (perchè religione e stato formavano una cosa sola), nè potevano contrarre matrimonio con i patrizi.

Il governo di Romolo

Romolo fu dunque il primo re e i primi abitanti furono i compagni di lui, umili pastori, che lo avevano seguito da Alba. Per popolare la città, Romolo la offerse come asilo a schiavi fuggiaschi e a liberi perseguitati. Vi affluì una turba di uomini di infima condizione, banditi, avventurieri. Mancavano le donne e non era facile, per tale gente, ottenerle pacificamente dai popoli vicini. Allora Romolo ricorse allo stratagemma del ratto delle Sabine.

Invitò i popoli vicini ad una grande festa, e quelli accorsero numerosi, specialmente i Sabini. Ma a metà della festa, a un segnale convenuto, molti Romani armati si gettarono sulle donne e le rapirono.

Da ciò nacque una guerra fra i due popoli. I Sabini superarono le difese, erette da Romolo sul Campidoglio, per il tradimento di una giovane romana, Tarpea,  figlia del guardiano della rocca, che fu dallo stesso nemico gettata da una rupe (Rupe Tarpea). Di là furono, in seguito, gettati i traditori della patria.

Ma le donne sabine si interposero poi fra Romani e Sabini e la pace fu fatta. Romani e Sabini formarono un popolo solo e Romolo regnò su tutti. Egli organizzò il primo esercito e si circondò d’un consiglio, il Senato, composto di uomini anziani e saggi, detti senatori.

Dopo trentotto anni di regno (753-715 aC) Romolo scomparve misteriosamente durante un uragano, mentre passava in rivista l’esercito. Si disse che era stato assunto in cielo da suo padre, Marte, e più tardi venne onorato come dio col nome di Quirinio.

Numa Pompilio

Dopo la morte di Romolo fu eletto re il sabino Numa Pompilio, uomo pacifico e pio. Egli fece innalzare un tempio alla dea Vesta ed uno a Giano, dio della pace e della guerra, e pose a capo della religione un pontefice massimo.

Tullo Ostilio

Alla morte di Numa divenne re Tullo Ostilio. Era un re guerriero e tosto venne a battaglia con gli Albani, che abitavano sui colli vicini ed avevano come capitale Albalonga. Per evitare troppi lutti e rovine,  ci si accordò perchè tutto fosse deciso dallo scontro di tre soldati romani e di tre soldati albani. Scesero in campo tre fratelli romani, gli Orazi, e tre fratelli albani, i Curiazi. In breve due Orazi furono colpiti a morte; il terzo si diede alla fuga, incalzato dagli avversari. All’improvviso si fermò, si volse e uccise l’inseguitore più vicino, e così fece con il secondo, poi con l’ultimo. La vittoria toccò a Roma che si impadronì di Albalonga ed estese maggiormente il suo territorio.

Anco Marzio

Tullio Ostilio fu ucciso e fu creato re Anco Marzio, nipote di Numa e, come il nonno, uomo pacifico. Egli fece costruire un ponte, detto Sublicio (ponte di travi) sul Tevere e un porto sulla marina di Ostia.

Tarquinio Prisco

Alla reggia di Anco Marzio era giunto un nobile forestiero, Tarquinio Prisco. Egli apparteneva al vicino e civilissimo popolo degli Etruschi. Tarquinio s’era conquistata la stima del re romano e ne era diventato il consigliere e l’amico. Alla morte di Anco, Tarquinio ne divenne il successore. Il nuovo re portò tra i Romani le abitudini raffinate degli Etruschi. In Roma furono costruiti nuovi templi, fu tracciata una grande piazza, il Foro, per il mercato e le riunioni pubbliche. La città ebbe, con la cloaca massima, il primo impianto di fognature.

Servio Tullio

Il figlio di Tarquinio, Servio Tullio, ebbe in eredità dal padre una città ricca e potente. Seppe ordinarla ed organizzarla così bene, che i sudditi lo chiamarono “secondo fondatore di Roma”. La città si estendeva ormai su sette colli e Servio Tullio la circondò di mura robuste. Egli divise il popolo in classi e centurie e stabilì che i cittadini pagassero tasse secondo la loro ricchezza.

Lucio Tarquinio

Servio Tullio fu assassinato per iniziativa di Lucio Tarquinio, il quale diventò re. Subito, si dimostrò ingiusto e violento a tal segno che il popolo insorse e cacciò il tiranno. Lucio Tarquinio, detto il Superbo, si rifugiò presso gli amici Etruschi a preparare la rivincita.

Roma al tempo dei re

Al tempo dei re, la città di Roma non era certo bella come Atene. Essa era una città di capanne rotonde col tetto aperto nel centro perchè il fumo del focolare potesse uscire.

I suoi abitanti vivevano poveramente, ma amavano molto la terra che avevano scelto come loro dimora.

Assai più belle invece erano le case degli dei, cioè i templi.

Accanto al re, c’era il Senato, cioè un’assemblea di uomini saggi che lo aiutavano a dettare le leggi e lo consigliavano se doveva fare guerra o stringere amicizia con i popoli vicini.

La religione romana

I Romani adoravano press’a poco gli stessi déi dei Greci: Giove, Giunone, Minerva, Apollo, Diana, Nettuno, ma specialmente Marte, il dio della guerra e Vesta, la dea del fuoco sacro e protettrice della città.

Le sacerdotesse di Vesta, chiamate Vestali, avevano speciali onori, un posto riservato in tutti gli spettacoli pubblici, e il privilegio di graziare il condannato a morte che le incontrasse per strada, mentre lo conducevano al patibolo.

Un dio tutto romano e solamente romano era Giano, il dio delle porte. Il suo tempio restava sempre chiuso in tempo di pace; si apriva soltanto quando il paese era in guerra.

Accanto a queste divinità che erano adorate da tutto il popolo, ogni famiglia aveva i suoi dei particolari, protettori del focolare domestico, i Lari e i Penati. E questi erano adorati soltanto dai membri della famiglia.

A tutti questi dei venivano offerti sacrifici: si uccideva cioè sull’altare, in loro onore, qualche animale, scelto specialmente tra i tori, le pecore, i maiali. Agli dei si offrivano anche le primizie agricole e i profumi.

Tra i vari sacerdoti, avevano una speciale importanza gli Auguri, i quali, dal volo degli uccelli e da altri segni celesti, pretendevano interpretare la volontà degli dei e prevedere perfino il futuro.

I Romani erano molto religiosi. Non intraprendevano alcuna azione importante senza prima aver fatto un sacrificio agli dei e interrogato gli Auguri. La religione dei Romani era assai più austera di quella greca.

Un sacrificio agli dei

Una processione di uomini dall’aspetto grave e solenne avanza lentamente. Che è mai? Se guardiamo bene, vediamo le colonne di alcuni templi e un’ara, cioè un altare verso il quale quei personaggi si dirigono.

Essi stanno offrendo un sacrificio agli dei. In loro onore si offrono di solito frutti, si bruciano nei tripodi i profumi, si immolano animali. Questo è un sacrificio solenne e verranno uccisi un maiale, una pecora e un toro.

Tra poco il sacerdote sacrificatore salirà il gradino dell’ara e la toccherà con la mano per invocare l’aiuto della divinità a cui si sacrifica.

Poi metterà un poco di farina cotta e di sale sul capo dell’animale, vi verserà del vino e infine lo ucciderà. Il sangue della vittima verrà raccolto in grandi vasi chiamati patere.

Sull’ara arde il fuoco che brucerà le carni dei tre animali. I sacerdoti ne osserveranno bene le viscere, guarderanno come si agitano le fiamme e come si alza il fumo dell’incenso per capire ciò che gli dei vogliono.

Il territorio su cui sorse Roma

L’aspetto di Roma, al tempo in cui sorse sul Palatino, era ben diverso da quello di oggi. Regnava allora una squallida solitudine intorno a quei colli selvaggi rivestiti di querce, di faggi, di lauri e incisi da valli poderose, solcate da fiumi la cui piena riempiva di acquitrini e di paludi tutta la zona.

Qui vivevano genti primitive, fiere e rozze, che erano tutte dedite all’agricoltura ed alla pastorizia. Era logico che i Latini si stabilissero sui colli. Essi erano un ottimo presidio per resistere agli assalti dei nemici interni e di quelli che si fossero avventurati a risalire il Tevere. Attraverso il fiume poi si potevano allacciare relazioni con i navigatori greci ed etruschi. Il Tevere era anche una via naturale per il commercio del sale, che divenne in breve importantissimo.

Roma. infatti, dovette al sale la sua prima ricchezza ed al sale dedicò un’arteria importante: la via Salaria.

Perciò i Latini non trascurarono neppure la pianura sia per rendere più facile la navigazione del fiume, sia per poterla coltivare. Si misero a bonificare il terreno paludoso, a prosciugare le valli, a regolare il corso del Tevere.

Fondazione di una città

Il rito che i Latini compivano per la fondazione di una città non era molto semplice e sembra che essi lo abbiano appreso dagli Etruschi. Con molta probabilità Roma fu fondata secondo quel rito.

Ecco: un gruppo di pastori e di contadini è giunto sul colle dove dovrà sorgere la nuova città. Viene acceso un fuoco di sterpi e ciascuno di essi salta attraverso la fiamma per purificarsi da ogni peccato.

Quello che sarà il fondatore della città scava una fossa profonda e ciascuno dei presenti vi getta un po’ di terra dei villaggi da cui proviene. Ora il fondatore indossa le vesti sacerdotali; aggioga un toro e una mucca all’aratro ed egli stesso lo guida per tracciare il solco. Lungo quel solco saranno tracciate le mura della città; dove si apriranno le porte, il fondatore solleva l’aratro e interrompe per un breve tratto il solco. Il recinto tracciato è sacro: nè gli stranieri nè i cittadini hanno il permesso di oltrepassarlo senza il permesso del fondatore. Saltare al di là del piccolo solco è un atto empio che viene punito con la morte.

La tradizione sull’età regia (753-510 aC)

Roma ebbe per lungo tempo un governo monarchico: la tradizione ci ha conservato i nomi di sette re, ma probabilmente  furono di più: Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo.

I primi quattro furono alternativamente latini e sabini, gli ultimi tre etruschi: i latini furono guerrieri, i sabini pacifici, gli etruschi costruttori e organizzatori.

Evidentemente gli Etruschi, stabiliti anche nella Campania, si impadronirono un certo momento di Roma, testa di ponte sul Tevere, importante per le comunicazioni terrestri tra l’Etruria ed i nuovi acquisti campani. Ai primi due elementi etnici, Latini e Sabini, se ne aggiunse così un terzo: l’etrusco.

Le notizie tramandate di questo primo periodo sono in gran parte leggendarie. I Latini fra l’VIII e il VI secolo non conoscevano ancora la scrittura o la usavano pochissimo: i fatti affidati al puro racconto orale, passando di generazione in generazione, furono in parte dimenticati, travisati e abbelliti dall’orgoglio civile di quel popolo così fervidamente partecipe della storia della sua città, che volle illuminata di gloria anche nelle ore della sconfitta.

Tuttavia, attraverso i ritrovamenti archeologici e la critica della tradizione, i caratteri complessivi dell’età regia sono sufficientemente netti.

Il re mite

Numa fu, fra i Re di Roma, il più mite e saggio. Si racconta che una volta chiese a Giove che cosa dovesse fare per scongiurare il pericolo del fiume. Dal folto del bosco uscì una voce che disse: “Taglia un capo!”. Numa ne fu inorridito, ma bisognava che obbedisse. Pensò un poco, poi si fece portare il capo d’aglio. Prese la spada e lo tagliò. Così aveva obbedito a Giove e non aveva fatto male a nessuno!

Romolo Quirino

Stava Romolo parlando ai soldati che passava in rassegna, quando un temporale, sorto all’improvviso con gran rumore di tuoni, lo circondò di una nuvola così densa da toglierlo alla vista dei soldati. La gioventù romana, quando, cessata la paura e tornato il cielo sereno, vide vuoto il trono, prestò fede ai senatori, che erano stati più vicini al re, i quali affermavano che la violenza del temporale lo aveva portato in alto, e quasi sbigottita stesse per qualche tempo in doloroso silenzio. Quindi decretarono che Romolo, dio nato da un dio, dovesse venire onorato come Re e padre della città di Roma, e gli rivolsero preghiere affinchè concedesse pace alla sua stirpe.

Un tale di nome Giulio Proculo, vedendo il popolo agitato per la scomparsa del Re lo rianimò dicendo: “O Quiriti, stamane all’alba, sceso improvvisamente dall’alto, mi venne incontro, e mentre io lo guardavo pieno di terrore e di venerazione: -Va’-, mi disse – e annuncia ai Romani che gli dei vogliono che la mia Roma sia capo del mondo; perciò curino l’arte militare, e sappiano e tramandino ai posteri che nessuna forza umana potrà resistere alle armi di Roma-. Ciò detto, l’apparizione si innalzò in cielo”. (Tito Livio)

Monelli dell’antica Roma

– Ave, maestro -, con questo saluto i ragazzi entrarono nella scuola, una povera stanza presa in affitto dal maestro. Questo sedeva su una sedia con spalliera, che si chiamava cattedra.

– Salve, miei discepoli – rispose il maestro. – Minerva vi protegga. Sedete e aspettate in silenzio -.

Non c’erano i banchi. I ragazzi sedettero, alcuni su una piccola panca, altri su sgabelli, tenendo sulle ginocchia la loro tavoletta di legno spalmata di cera e l’occorrente per scrivere.

– Vediamo -, riprese il maestro – ci siete tutti? Aulo, Marzio, Gaio, Licio, Tullio, Terenzio… Bene, prendete ora il vostro sacchettino dei calcoli e venga qui, vicino a me, il piccolo Aulo –

Aulo, tenendo in mano il suo sacchettino, si avvicinò al  maestro, che gli disse: – Tira su dieci calcoli –

Aulo introdusse la mano nel sacchetto, ma la tirò subito indietro, tutta sporca.

– Che hai lì dentro? – strillò il maestro, – Fammi vedere! – .  Frugò nel sacchettino di Aulo. – Frutta fradicia! – esclamò sbalordito, tirando fuori un pugno di susine andate a male.

Una gran risata accolse quel gesto.

Aulo, balbettando, provò a scusarsi, dicendo che un compagno doveva certo avergli combinato un brutto scherzo, ma il maestro non intese regioni.

Era stato l’amico Terenzio a fare ad Aulo il brutto scherzo. E non era il primo che combinava!

Una volta gli aveva forato con un punteruolo la tavoletta cerata; una seconda volta gli aveva nascosto lo stilo, e una terza volta, oh che brutta idea! Gli aveva bagnato il libro di papiro, facendo sbiadire una buona parte delle lettere.  Aulo aveva provato a protestare, ma neppure gli altri compagni lo avevano spalleggiato, perchè dicevano: “Si tratta di scherzi. Non devi prendertela!”. Ma quel giorno Aulo era rimasto proprio mortificato.

– Cosa ti è successo?- gli chiese il pedagogo, che era lo schiavo accompagnatore, perchè bisogna sapere che tutte le famiglie patrizie tenevano in casa uno schiavo che aveva il compito di badare ai fanciulli. Aulo raccontò la sua disavventura e il pedagogo, mentre passavano per il Foro, gli dette un consiglio per fare cessare quei brutti scherzi.

– Buona idea! – esclamò Aulo. – Ti ringrazio, mio buon pedagogo -.

Il giorno dopo, Aulo mostrò ai compagni, sotto il portico della scuola, un bel carrettino: uno di quei carrettini che i ragazzi romani amavano attaccare a un cane o a una capretta, immaginando di far le corse nel Circo. Era così perfetto, che i compagni glielo invidiarono. Allora Aulo, volgendosi a Terenzio, gli disse: – Sarà tuo se, in presenza di tutti, ti farai dare da me dieci colpi di mano sul polpaccio della gamba -.

Terenzio, vinto dalla tentazione, gli disse: – Va bene, accetto. –

– Giuralo –

– Per Giove e per Giunone, giuro che prenderò il carretto solo dopo il decimo colpo –

Gli altri ragazzi si strinsero attorno in cerchio; Terenzio offrì ad Aulo il polpaccio della gamba destra, e questi, giù un bel colpo con tutta la forza del braccio!

– Ahi! – strillò Terenzio

– E uno! E due! E tre! – ma arrivato al nono, Aulo si arrestò.

– Perchè aspetti? – chiese impaziente Terenzio.

– Non ne ho più voglia – rispose Aulo con calma.

– Allora il carretto è mio –

– Niente affatto. Hai giurato che l’avresti preso dopo il decimo colpo. Non vorrai certo attirarti le vendette di Giove! –

– Allora dammi il decimo colpo – disse Terenzio, offrendo di nuovo il polpaccio.

– No, no – rispose fermo Aulo – Tu tieni i nove colpi ricevuti, e io mi terrò il carretto. –

Risero i compagni, risero i pedagoghi presenti. Terenzio andò a casa arrabbiatissimo, ma il giorno dopo sembrava un altro. Piano piano, i due piccoli Romani divennero amici per la pelle. (R. Botticelli)

Le oche dei tre Romani

Nell’antica Roma c’erano gli schiavi. Ma non tutti i padroni erano esosi tiranni. Ascoltate. Il patrizio Marco Licio Petronio andò al mercato degli  schiavi. C’erano, sui palchi girevoli, giovinetti da vendere in serie, buffoni che facevano boccacce, muscolosi giganti adatti per i lavori di fatica, agili portatori di lettighe… I poveretti, come ogni merce, portavano un cartello con l’indicazione del prezzo, del luogo d’origine, dei pregi.

Marco Licio Petronio cercava un precettore, cioè un insegnante privato che facesse scuola al figlio, il quale aveva finito i ludi letterari, ossia la scuola elementare. Non c’è da ridere! Anche gli insegnanti venivano venduti e comprati. Marco Licio Petronio trovò un Greco dottissimo, ma lo pagò a caro prezzo, tanto caro che, quando fu a casa, chiamò a sè tutti gli altri servi e disse: – Il grammatico mi costa fior di sesterzi. State attenti alla sua salute. Che non prenda neppure un raffreddore! -.

In quel tempo Marco Licio Petronio era tormentato da tre clienti, che non lo lasciavano mai in pace. I clienti, al tempo di Roma antica, erano degli sfaccendati che vivevano alle spalle di un patrizio: la mattina correvano a dargli il buon giorno, lo lodavano, gli battevano le mani quando parlava, cercando in ogni modo di fargli piacere.  Tutti i patrizi avevano i loro clienti: anche Marco Licio Petronio ne aveva molti, ma i tre erano troppo fastidiosi.

Un giorno, per levarseli di torno, Marco Licio Petronio regalò loro undici oche vive e disse: – Tu, o Sestilio, prendine la metà. Tu, o Vitulio, la quarta parte. Tu, o Renzio, la sesta parte -.

I tre clienti si trovarono nei guai: come fare la metà di undici oche? E come farne la quarta parte? E come la sesta?

I tre, dopo aver bisticciato, si recarono dal grammatico: – O precettore, illuminaci su questa difficoltà!-

Il precettore chiese un giorno per pensarci. Il giorno dopo mostrò ai tre litiganti una piccola oca di legno e disse: – Immaginiamola vera. Quante oche avete ora? –

– Dodici – risposero in coro i tre clienti.

– Bene – disse il grammatico – a te, Sestilio, spettano sei oche, cioè la metà; a te, Vitulio, tre oche, cioè la quarta parte. E a te, Renzio, due oche, cioè la sesta parte. In tutto sono undici. A me restituite quella di legno -.

I tre si presero, tutti contenti, le oche così distribuite.

Quando Marco Licio Petronio venne a conoscere l’ingegnosità del precettore lo chiamò a sè e gli disse: – Ti ho pagato carissimo, ma apprezzo il tuo ingegno e ti rendo libero. Come liberto, spero che resterai qui, ad istruire mio figlio, ma riceverai una ricompensa e potrai lasciarci quando vorrai -. (R. Botticelli)

I primi quattro re

Gli abitanti della città quadrata erano pochi e, per popolarla, Romolo la offerse come asilo a schiavi fuggitivi e a liberi perseguitati. Poichè questi banditi non avevano diritto di connubio, cioè di nozze, coi popoli vicini, Romolo si procurò le donne per creare le famiglie, facendo rapire, durante una festa religiosa, quelle dei Sabini intervenuti.

Ne derivò una guerra, presto finita per l’interposizione delle stesse donne rapite, divenute spose dei Romani, e i due popoli si fusero.

Da questa fusione la tradizione fa derivare il doppio nome del popolo: Romani, nome di guerra, Quiriti (da Curi, capitale dei Sabini) nome religioso e civile.

Romolo regnò per qualche tempo insieme al re sabino Tito Tazio, poi da solo, e a lui sono attribuiti i primi ordinamenti civili e militari: il Senato di 100 membri, la divisione del popolo in tre tribù, Tizii, Ramnensi, Luceri, ed in trenta curie, l’ordinamento dell’esercito nella legione (leva) di 3000 fanti e 300 cavalieri (costituzione romulea).

I Ramnensi erano i Latini, compagni di Romolo; i Tizii, i Sabini venuti con Tito Tazio; i Luceri, erano stranieri di cui è dubbia l’origine (chi dice etrusca, e chi latina), stabiliti sul colle Celio.

Dopo 37 anni di regno, Romolo scomparve misteriosamente durante un uragano, assunto si disse in cielo dal padre Marte; e fu venerato anche lui come dio col nome di Quirino.

La tradizione fa seguire a Romolo il lungo e pacifico regno di Numa Pompilio, sabino. E come a Romolo furono attribuite tutte le prime istituzioni politiche e militari, così ai sabini Numa Pompilio e Anco Marzio sono riferite quelle religiose e pacifiche.

Ispirato dalla ninfa Egeria, Numa intese a mitigare con le istituzioni religiose e col sentimento della giustizia gli spiriti fieri del popolo incline alla violenza. Edificò templi, fra cui quello di Giano, le cui porte erano chiuse in tempo di pace, aperte in tempo di  guerra, perchè Giano, dio della porta (ianua) seguiva l’esercito in campo. Istituì i grandi ordini sacerdotali: i Pontefici, le Vestali, gli Auguri, gli Aruspici, i Saliari, i Fratelli Arvali, i Flamini. Dette impulso all’agricoltura e, per regolarne i lavori, riformò il calendario, premettendo all’anno, che prima era di dieci mesi e cominciava il primo marzo, gennaio e febbraio.

Tullio Ostilio, romano, rispecchia l’ardore guerriero della sua stirpe. Delle imprese militari che condusse, la più importante fu quella contro Alba, decisa, per evitare spargimento di sangue, da un combattimento fra i trigemini Orazi romani e i trigemini Curiazi albani, finito vittoriosamente per i primi. Alba dovette sottomettersi a Roma. In seguito, avendo il dittatore albano Mezio Fuffezio tenuto un contegno ambiguo durante una guerra di Roma contro l’etrusca Veio, Tullio Ostilio lo mise a morte, facendolo dilacerare da due quadriglie lanciate in opposta direzione. Alba fu distrutta, la sua popolazione dedotta a forza a Roma, il territorio annesso. Roma divenne così la prima città del Lazio.

Anco Marzio, sabino, fu pari a Numa per spirito pacifico e religioso, ma costretto anche a combattere, per la sicurezza di Roma, contro i Latini.  Alcune città latine furono prese e così il territorio romano si estese fino al mare ed alla foce del Tevere, dove Anco Marzio fondò il porto di Ostia (nome che significa “le bocche del fiume”), e Roma divenne padrona del commercio del sale, che si svolgeva per la via detta poi Salaria, la quale dal mare raggiungeva il paese dei Sabini e degli Umbri. Tuttavia l’antico popolo romano non sentì nessuna attrazione per il mare, dove per lungo tempo non contese il commercio ai Tirreni, ai Cartaginesi, ai Greci.

Anco Marzio estese la città dalla parte dell’Aventino, ed edificò una fortezza sul Gianicolo, il colle che, essendo sulla destra del Tevere, costituiva un baluardo verso l’Etruria; a lui sono attribuiti anche il primo ponte di legno sul fiume, il ponte Sublicio, e il carcere Tulliano ai piedi del Campidoglio, detto più tardi Carcere Mamertino, di cui ancora si ammirano i resti.

Coi Latini, Anco Marzio concluse un trattato con il quale si affermava la supremazia di Roma sul Lazio. Tale trattato era custodito nel tempio federale dedicato a Diana sull’Aventino, dove i rappresentanti delle città alleate si riunivano per celebrare le feriae latinae, come un tempo di faceva in Alba.

L’età dei Tarquini e la fine della monarchia

Mentre i primi quattro re erano stati eletti dalle Curie, ora o per successione ereditaria o per violenza, i re si fanno da se stessi. Il fatto è significativo, perchè denota la tendenza della monarchia a passare dalle forme costituzionali al dispotismo.

Con Tarquinio Prisco comincia la serie dei re etruschi.

La leggenda dice che era figlio di un ricco mercante greco di Corinto, stabilitosi a Tarquinia. Avido di gloria, venne a Roma, dove seppe acquistarsi larga popolarità e la fiducia di Anco Marzio che, morendo, lo nominò tutore dei figli ancora giovani. Ma Tarquinio si impossessò del trono.

Egli ampliò il territorio con guerre fortunate contro i Sabini ed i Latini, ma soprattutto fu imponente l’impulso da lui dato alle costruzioni pubbliche.

Spianò il Foro, che divenne la piazza principale di Roma, edificò fuori della città il  Circo Massimo, per i giochi pubblici, prosciugò la parte bassa della città con un sistema di fognature o cloache confluenti in un canale più grande, la Cloaca Massima, che sbocca nel Tevere. A lui è attribuita l’introduzione di istituzioni e costumi etruschi; i ludi del circo, la pretesta (toga orlata tutto intorno di porpora, portata dai magistrati), i littori, la sedia curule, l’arte della divinazione.

Tarquinio Prisco morì ucciso dai figli di Anco Marzio, ma il trono non passò a loro, perchè la vedova di Tarquinio, la scaltra Tanaquilla, dalla leggenda presentata come una profetessa ispirata, favorì la successione di un suo fedele, allevato a corte, anch’egli etrusco e genero, pare, del morto re: Servio Tullio.

A questi la tradizione attribuisce la costruzione di una nuova cerchia di mura in sasso (mura serviane), delle quali rimangono ancor oggi alcuni tratti, includente tutti i sette colli; e un nuovo ordinamento civile e militare che va sotto il nome di riforma serviana, ma appartiene invece ad un’età più tarda. Così Roma divenne il septimontium, la città dei sette colli, avendo come centro il Palatino. I colli Capitolino, Aventino e Gianicolo non si abitavano, ma rimasero per uso militare.

Anche il regno di Servio Tullio finì tragicamente. La tradizione narra che egli fu ucciso da un figlio o nipote di Tarquinio, Lucio Tarquinio, al quale aveva data in sposa una sua figlia, Tullia, e narra anche la scelleratezza di questa che, per giungere più presto ad essere acclamata regina, passò con il cocchio sul cadavere del padre. La monarchia degenerava in tirannide.

Tarquinio il Superbo governò dispoticamente, perseguitando l’aristocrazia. Molti nobili  condannò a morte o all’esilio, per impadronirsi delle loro ricchezze; guerra, pace, alleanze trattò da solo senza consultare nè il popolo nè il Senato. Condusse molte guerre con esito fortunato, sottomettendo fra le altre la città di Ardea e, a tradimento, Gabii. L’oltraggio fatto da suo figlio Sesto alla matrona Lucrezia esasperò gli animi, incitandoli alla rivoluzione. A capo di questa furono Collatino, il marito di Lucrezia, e un suo parente, Giunio Bruto.

I Tarquini, cacciati da Roma, ripararono in Etruria: la monarchia fu abolita e vi subentrò una repubblica aristocratica (510 aC).

Storia di Roma – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Creare libri per i bambini – libretti nella noce – LO SPOSALIZIO DEL TOPO

Creare libri per i bambini: questo libretto nella noce racconta la favola classica “Lo sposalizio del topo”. Per le illustrazioni ho usato la tecnica del collage con carta strappata (non tagliata con le forbici).

Materiale occorrente
due gusci di noce
trapano
filo di cotone
ago
carta bianca
colla a caldo (o da carta o legno)
un assortimento di carta colorata
un assortimento di fili di cotone colorati (vanno benissimo le trecce di filo da rammendo)
per la scatola due fogli di carta riciclata (io ho usato le Pagine Bianche)
per la topolina poca lana cardata grigia, filo rosa, azzurro e grigio, aghetto da feltro

Come si fa

Forate i gusci di noce e rilegateli tra loro aggiungendo i foglietti, come spiegato qui:

Nel guscio che fa da copertina anteriore io ho nascosto un campanellino, prima di chiudere con la prima pagina del libretto:

Ho invece ritagliato l’interno del foglietto che copre il guscio che fa da copertina posteriore del libro:

ho modellato un pezzetto di pannolenci rosso su un guscio di noce (basta tirare seguendo il guscio in tutte le direzioni):

e l’ho incollato:

Ho poi preparato con poca lana cardata grigia una topolina; è molto semplice: per la testa fate un nodino al centro di una faldina di lana e dividete in due parti uguali il ciuffo superiore:

con l’aghetto da feltro modellate le orecchie:

e con la lana che avanza sotto la testa modellate il corpo della topolina, lavorando sempre con l’aghetto da feltro:

aggiungete i baffi:

e la codina rosa; se fate uscire l’ago in corrispondenza del nasino, potete con lo stesso filo della coda ricamare il musetto:

ricamate infine gli occhietti:

e sistemate la topolina nel suo lettino rosso:

Lo sposalizio del topo

Questo è il testo della favola

In una fattoria viveva, molto tempo fa, una famiglia di topi: padre, madre e figlia. I due genitori volevano un gran bene alla figlia, tanto da giudicarla la più bella topolina del mondo, con quel suo morbido pelo bruno, quella codina rosa lunga lunga e quei baffi sottili.

Nella fattoria c’era un altro topo, che viveva nella stalla: era un attraente giovane scapolo, e voleva sposare la bella Signorina Topo. Ma i genitori non lo consideravano un buon partito: volevano che la loro figlia sposasse l’essere più potente del mondo, e perciò dissero al giovane Signor Topo di andarsene.

La Signorina Topo in cuor suo si rattristò molto, perchè si era innamorata del giovane topo della stalla: il manto bruno perdette la sua lucentezza e i baffi sottili cominciarono a pendere in giù.

“Il sole è sicuramente l’essere più potente del mondo” disse Papà Topo, “Spande i suoi raggi sulla terra e fa maturare il grano nei campi. Chiediamo a lui di sposare nostra figlia”.

Così i due genitori si misero in mezzo al campo di grano e chiesero al giallo sole fulgido se voleva in sposa la loro figliola. Quale fu la loro felicità quando il sole accettò! Ma non aveva ancora finito di dire “Sì”, che mamma topo fu colta da un dubbio ed esortò il marito: “Domandagli se è lui l’essere più potente del mondo”.

Papà topo chiese al sole: “Sei davvero tu l’essere più potente del mondo?” “No” rispose il sole “Il nembo tempestoso è più potente di me, perchè quando mi si para davanti ne sono completamente oscurato”.

In quello stesso momento infatti un nembo tempestoso si stese davanti alla faccia del sole, nascondendolo alla vista. “In tal caso sono spiacente, ma non puoi più sposare nostra figlia!” gridò papà topo prima che il sole sparisse.

Poi si rivolse al nembo tempestoso: “Dimmi, nembo tempestoso, sei tu l’essere più potente del mondo?” Il nembo tempestoso gettò uno sguardo corrucciato ai due topi nel campo. “No!” rispose, “Il vento è più potente di me: quando soffia, mi lacera in brandelli, che poi sparpaglia nel cielo”. “In tal caso sono spiacente, ma neanche tu puoi sposare nostra figlia”.

In quel momento il vento cominciò a soffiare e spazzò il cielo lacerando il nembo. “Oh vento”, gridò papà topo “E’ vero che tu sei l’essere più potente del mondo?” “Non io!” sibilò il vento, “Vedi quel grande masso grigio all’angolo del campo? Quello è più potente di me: per quanto soffi, non riesco a smuoverlo.”

Allora i due topi andarono dal grande masso grigio che stava nell’angolo del campo. “Sei tu l’essere più potente del mondo?” chiese papà topo. “No davvero” rispose il masso, “più potente è il toro rosso, che ogni giorno viene ad aguzzarsi le corna su di me, facendo schizzar via schegge di roccia.

“In tal caso sono spiacente,  ma neanche tu puoi sposare nostra figlia”, disse papà topo. E i due topi andarono a trovare il toro rosso, che stava impastoiato nella stalla. “Credo che tu sia l’essere più potente del mondo” disse papà topo “e sono venuto a offrirti in sposa nostra figlia”. “Ti sbagli!” muggì il toro, “Questo collare di corda che m’impastoia è più potente di me”.

“In tal caso sono spiacente, ma neanche tu puoi sposare nostra figlia” disse papà topo, e si rivolse al robusto collare. “Così sei tu  l’essere più potente del mondo!” squittì, “Vuoi sposare nostra figlia?” “Ne sarei molto onorato” rispose il collare di corda, “Ma devo ammettere che c’è un essere ancora più potente di  me, ed è il giovane topo che vive nella stalla. Ogni notte, quando il toro è impastoiato, il topo viene a rodermi coi suoi denti aguzzi: tra poco mi roderà del tutto e io mi spezzerò”.

“Senti, senti, senti!” disse mamma topo. E si guardarono l’un l’altra vergognandosi.

Poi cercarono l’attraente giovane scapolo che viveva nella stalla e gli chiesero di sposare la loro figliola. Il giovane Signor Topo si sentì invadere dallo stupore e naturalmente anche dalla gioia. Quanto alla Signorina Topo, non appena apprese la lieta notizia di essere stata promessa proprio allo sposo da lei scelto in cuor suo, riacquistò tutto il suo splendore: il pelo ridivenne lucido e i baffi si raddrizzarono.

Così  i due giovani topi si sposarono e vissero a lungo felici e contenti.

Questo è il libretto illustrato:

L’idea è di caratterizzare ogni personaggio della favola con una macchia di colore diverso:

mamma e papà topo sono una macchia grigia con due codini rosa

la Signorina Topo è una macchia rosa con un codino lilla

il Signor Topo è una macchia viola con un codino blu

il sole è una macchia gialla

il nembo tempestoso una macchia nera

il vento una macchia celeste

il masso una macchia verde scuro

il toro una macchia rossa

la corda una macchia blu.

Pagina per pagina

In una fattoria viveva, molto tempo fa, una famiglia di topi: padre, madre e figlia. I due genitori volevano un gran bene alla figlia, tanto da giudicarla la più bella topolina del mondo, con quel suo morbido pelo

bruno, quella codina rosa lunga lunga e quei baffi sottili.

Nella fattoria c’era un altro topo, che viveva nella stalla: era un attraente giovane scapolo, e voleva sposare la bella Signorina Topo. Ma i genitori non lo consideravano un buon partito: volevano che la loro figlia sposasse l’essere più potente

del mondo, e perciò dissero al giovane Signor Topo di andarsene. La Signorina Topo in cuor suo si rattristò molto, perchè si era innamorata del giovane topo della stalla: il manto bruno perdette la sua lucentezza e i baffi sottili cominciarono a pendere in giù.

“Il sole è sicuramente l’essere più potente del mondo” disse Papà Topo, “Spande i suoi raggi sulla terra e fa maturare il grano

nei campi. Chiediamo a lui di sposare nostra figlia”. Così i due genitori si misero in mezzo al campo di grano e chiesero al giallo sole fulgido se voleva in sposa la loro figliola. Quale fu la loro felicità quando il sole accettò! Ma non aveva ancora finito di dire “Sì”, che

mamma topo fu colta da un dubbio ed esortò il marito: “Domandagli se è lui l’essere più potente del mondo”. Papà topo chiese al sole:

“Sei davvero tu l’essere più potente del mondo?” “No” rispose il sole “Il nembo tempestoso è più potente di me, perchè quando mi si

para davanti ne sono completamente oscurato”. In quello stesso momento infatti un nembo tempestoso si stese davanti alla faccia del sole, nascondendolo alla vista. “In tal caso sono spiacente, ma non puoi più sposare nostra figlia!” gridò papà topo prima che il sole sparisse. Poi si

rivolse al nembo tempestoso: “Dimmi, nembo tempestoso, sei tu l’essere più potente del mondo?” Il nembo tempestoso gettò uno

sguardo corrucciato ai due topi nel campo. “No!” rispose, “Il vento è più potente di me: quando soffia, mi lacera in brandelli, che poi sparpaglia nel cielo”.

“In tal caso sono spiacente, ma neanche tu puoi sposare nostra figlia”. In quel momento il vento cominciò a soffiare e spazzò il cielo lacerando il nembo.

“Oh vento”, gridò papà topo “E’ vero che tu sei l’essere più potente del mondo?” . “Non io!” sibilò il vento, “Vedi quel grande masso grigio all’angolo del campo? Quello è più potente di me: per quanto soffi, non riesco a smuoverlo.”

Allora i due topi andarono dal grande masso grigio che stava nell’angolo del campo. “Sei tu l’essere più potente

del mondo?” chiese papà topo. “No davvero” rispose il masso, “più potente è il toro rosso, che ogni giorno viene ad aguzzarsi le corna su di me, facendo schizzar via schegge di roccia. “In tal caso sono spiacente,  ma neanche tu puoi sposare nostra

figlia”, disse papà topo. E i due topi andarono a trovare il toro rosso, che stava impastoiato nella stalla. “Credo che tu sia l’essere

 più potente del mondo” disse papà topo “e sono venuto a offrirti in sposa nostra figlia”. “Ti sbagli!” muggì il toro, “Questo collare di corda che m’impastoia è più potente di me”. “In tal caso sono spiacente, ma neanche tu puoi sposare nostra figlia” disse papà

topo, e si rivolse al robusto collare. “Così sei tu  l’essere più potente del mondo!” squittì, “Vuoi sposare nostra figlia?”

“Ne sarei molto onorato” rispose il collare di corda, “Ma devo ammettere che c’è un essere ancora più potente di  me, ed è il giovane topo che vive nella stalla. Ogni notte, quando il toro è impastoiato,

il topo viene a rodermi coi suoi denti aguzzi: tra poco mi roderà del tutto e io mi spezzerò”. “Senti, senti, senti!” disse mamma topo. E si guardarono l’un l’altra vergognandosi.

Poi cercarono l’attraente giovane scapolo che viveva nella stalla

e gli chiesero di sposare la loro figliola.

Il giovane Signor Topo si sentì invadere dallo stupore e naturalmente anche dalla gioia.

Quanto alla Signorina Topo,

non appena apprese la lieta notizia di essere stata promessa proprio allo sposo da lei scelto in cuor suo, riacquistò tutto il suo splendore:

il pelo ridivenne lucido e i baffi si raddrizzarono.

Così  i due giovani topi si sposarono

e vissero a lungo felici e contenti.


Se volete realizzare la scatola origami con coperchio, trovate il tutorial qui:

Copioni per recite – La bambina con la lanterna

Copioni per recite – La bambina con la lanterna: si tratta della mia elaborazione di un testo molto usato nelle scuole Waldorf, adatto ai bambini della scuola d’infanzia e dei primi anni di scuola primaria. E’ indicato come recita natalizia, ma anche per celebrare la stagione invernale.

Copioni per recite – La bambina con la lanterna

Narratore: C’era una volta una bambina che possedeva una piccola chiara lanterna, e la portava sempre con sè lungo la via. Camminava la bambina, ed era sempre contenta…

Coro: Forte e freddo soffia il vento, la lanterna adesso ha spento!

Bambina con la lanterna: Oh, no! Ora chi mi aiuterà a riaccendere la mia bella lanterna?

Narratore: Si guardò attorno… ma non c’era nessuno.

Coro: Si sentono le fronde frusciare, chi sarà mai che sta per arrivare? Chi scivola sotto il castagno? Uno spinoso compagno!

Bambina con la lanterna: Oh, caro amico! Il vento ha spento la mia lanterna, chi accenderà di nuovo il mio lumino?

Riccio: Io proprio non so cosa fare, non è a me che devi domandare. Poi è tardi, non posso restare: dai miei piccoli devo tornare.

Coro: Ma chi borbotta, che non vediamo nessuno? Ah,  ma è l’orso bruno!

Bambina con la lanterna: Ciao caro orso, il vento ha spento la mia lanterna, guarda! Tu sai chi potrà accendere di nuovo il mio lume?

Narratore: scuote l’orso il grosso capo e il lungo pelo

Orso: Io proprio non so cosa fare, non è a me che devi domandare. Sonno ho, a dormire devo andare.

Coro: Chi striscia silenzioso dietro al pino e annusa l’aria con il suo musino?

Volpe: Ma che ci fai nel bosco tutta sola? Vattene, presto, corri a casa, vola! Io sto cacciando, e mi farai scappar la cena, se non la smetti con questa cantilena!

Narratore: La bambina sedette allora su una pietra, e comincio a piangere…

Bambina con la lanterna: Nessuno mi vuole aiutare?

Narratore: Le stelle sentirono il suo pianto…

Stelle: Il caro sole devi interrogare, lui certamente ti saprà aiutare…

Narratore: La bambina si fece nuovamente coraggio e proseguì il suo cammino. Finalmente giunse a una casetta. Dentro sedeva una vecchietta che filava la lana.

Bambina con la lanterna: Conosci la via che conduce al sole? Vorresti venire con me?

Vecchietta: Io la ruota devo dar girare, la lana bianca filare e filare. Ma riposati qui da me almeno un pochino, è ancora molto lungo il tuo cammino.

Narratore: La bambina entrò, e dopo che si fu riposata prese la sua lanterna e proseguì il suo viaggio. Di nuovo giunse ad una casetta. Dentro sedeva un vecchio calzolaio, che batteva il martello sul cuoio che stava lavorando.

Bambina con la lanterna: Buongiorno signor calzolaio, tu conosci la via che conduce al sole? Vorresti venire con me?

Calzolaio: Ho ancora molte scarpe non finite, che aspettano di esser ricucite. Ma riposati un po’ accanto al camino, è ancora molto lungo il tuo cammino.

Narratore: Dopo che si fu riposata, la bambina prese la sua lanterna e proseguì… Finalmente vide in lontananza un’alta montagna, e si mise a correre come un cerbiatto.

Bambina con la lanterna: Lassù di certo abita il sole!

Narratore: Incontrò salendo un bambino che giocava con la sua palla.

Bambina con la lanterna: Vieni con me! Andiamo alla casa del sole!

Narratore: Ma il bambino preferiva giocare con la sua palla, e corse via saltellando sui prati.

Bambino: Io mi diverto a stare qui a giocare, vacci da sola, ho altro da fare!

Narratore: La bambina con la lanterna proseguì così tutta sola, e salì, salì… sempre più in alto sulla montagna. E arrivata alla cima, però, si accorse che il sole non c’era.

Bambina con la lanterna: Lo aspetterò qui. Sono sicura che verrà…

Narratore: Sedette sulla cima della montagna, e siccome era molto stanca dopo aver camminato così a lungo, chiuse gli occhi e si addormentò…

… ma il sole si era accorto della bambina già da molto tempo. E quando calò la sera, prima di scomparire, si chinò sul monte ed accese la piccola lanterna.

Bambina con la lanterna: (si sveglia) La mia lanterna! Splende di nuovo!

Narratore: E con la sua lanterna finalmente accesa, discese il monte. Incontrò di nuovo il bambino, che piangeva…

Bambina con la lanterna: Perchè piangi?

Bambino: Ho perso la mia palla, non riesco più a trovarla!

Bambina con la lanterna: Ti farò luce io…

Bambino: Eccola qua!

Narratore: La bambina corse giù verso la valle, fino alla casa del calzolaio. L’uomo sedeva triste nella sua stanzina…

Calzolaio: Ieri si è spento il fuoco nel camino , non posso lavorare, me tapino! Dita ghiacciate, freddo, ed allo scuro, le scarpe non finisco di sicuro!

Bambina con la lanterna: Riaccenderò io il tuo fuoco!

Narratore: il calzolaio si riscaldò le mani e potè di nuovo martellare e cucire le sue scarpe, mentre la bambina proseguì il suo cammino, e si inoltrò nuovamente nel bosco. Giunse alla capanna della vecchietta, ma nella sua stanzina era buio pesto.

Vacchietta: il mio lume si è spento,  consumato; restano fermi la ruota ed il filato. Da quando il lume ha smesso di brillare, io non ho potuto più filare.

Bambina con la lanterna: Ti accenderò io un nuovo lume!

Narratore: La vecchietta sedette di nuovo al filatoio e si mise felice a far girare la ruota, mentre la bambina si rimise in cammino. Giunse ad un verde prato nel cuore del bosco, e tutti gli animali si svegliarono al chiarore della sua lanterna. La volpe fiutò l’aria col suo musetto e strizzò gli occhi davanti al lume. L’orso bruno si mise a brontolare e si ritirò in un punto ancora più profondo della sua caverna tornando al suo letargo invernale. Il riccio strisciò curioso tra l’erba, e da dietro un cespuglio ammirò lo spettacolo

Riccio: Credevo in vita mia di averne viste tante, ma da dove viene questa lucciola gigante?

Narratore: E la bambina, felice, tornò a casa.


La struttura circolare della trama rende il copione particolarmente adatto ai bambini più piccoli. Oltre che usarla per una recita, la possiamo leggere ai bambini in forma di racconto.


 Racconto

La bambina con la lanterna

 

C’era una volta una bambina che possedeva una piccola chiara lanterna, e la portava sempre con sè lungo la via. Camminava la bambina, ed era sempre contenta… Ma un giorno, mentre si trovava in un bel prato nel cuore del bosco, un vento forte e freddo, e dispettoso, soffiò tanto da spegnerla. La bambina si fece subito triste, ma non perse il suo coraggio.

Si guardò attorno nella speranza di trovare qualcuno che potesse aiutarla, quando sentì un fruscio di foglie sotto ad un castagno. Era un riccio, e subito gli chiese: “Puoi aiutarmi a riaccendere la mia lanterna che il vento ha spento?”. Ma il riccio non poteva fare nulla per lei, ed inoltre doveva correre al più presto nella tana, dai suoi cuccioli.

Il loro chiacchierare svegliò l’orso bruno, che si stava godendo il suo letargo invernale in una profonda caverna lì vicino. Uscì subito fuori brontolando, e anche a lui la bambina provò a chiedere aiuto, ma naturalmente l’orso non poteva fare nulla per lei, ed inoltre aveva sonno e non era per niente contento di essere stato svegliato.

E l’orso non era l’unico a non gradire la presenza della bambina nel prato; poco dopo anche una volpe uscì dal suo nascondiglio, e annusando l’aria si avvicinò alla bambina. Lei chiese aiuto anche alla volpe, ma quella non solo non poteva aiutarla, ma le chiese di andarsene via perchè stava disturbando la sua caccia.

E così la bambina, ancora senza perdere speranza nè coraggio, riprese a camminare inoltrandosi nel bosco. Camminò e camminò, finchè non si sentì davvero molto stanca. Vide una grossa pietra che sembrava proprio una seggiolina, sedette, e una piccola lacrima le scivolò sul viso. Allora le stelle videro quella lacrima e con una voce dolcissima, sussurrando, la consolarono e le dissero: “Cara bambina, vai dal sole… lui ti può aiutare…”

Così il suo viaggio riprese. Nel bosco vide una casetta. Spiò dalla finestrella e vide una vecchietta seduta accanto alla ruota, che filava la lana. La vecchietta fece entrare la bimba, e lei chiese: “Cara vecchina, conosci la strada che conduce al sole? Vorresti venire con me?”. Ma la vecchina non conosceva la strada, e inoltre aveva molto da fare e non poteva proprio accompagnarla. Però le offrì la sua ospitalità, e la bambina potè riposare un po’ nella casetta e ammirare la vecchietta che stava filando un filo di lana lunghissimo e sottile.

Riprese poi il suo viaggio, e giunse ad una valle.  C’era una casetta, e dentro sedeva un vecchio calzolaio che batteva con grande impegno il martello sul cuoio. La bambina chiese anche all’uomo indicazioni per arrivare al sole, ma anche lui rispose che non ne sapeva nulla, e che inoltre non poteva andare con lei perchè aveva molto lavoro da fare. Anche lui offrì alla bambina la sua ospitalità.

Dopo che si fu riposata, la bambina prese la sua lanterna e proseguì… Vide le montagne, e correndo felice come un cerbiatto si diresse verso la più alta, certa che fosse proprio quella la strada per il sole.

Salendo incontrò un bambino che giocava con la sua palla. “Vieni con me! Andiamo alla casa del sole!” disse felice la bambina, ma il bambino preferiva giocare con la sua palla, e corse via.

La bambina con la lanterna proseguì così tutta sola, e salì, salì… sempre più in alto. Arrivata alla vetta, però, si accorse che il sole non c’era. Per nulla scoraggiata, sedette sulla cima della montagna ad aspettarlo, e siccome era davvero molto stanca, presto gli occhi le si chiusero e si addormentò.

La bambina non poteva saperlo, ma il sole era da un po’ che si era accorto di lei e dall’alto la accompagnava nel suo viaggio. Così, quando calò la sera, prima di scomparire, si chinò sul monte ed accese la piccola lanterna.

Potete immaginare la gioia della bambina quando, svegliandosi, vide che la sua lanterna illuminata!

Scendendo incontrò di nuovo il bambino, che piangeva disperato perchè aveva perso la sua palla e non riusciva a ritovarla. “Ti farò luce io!” disse la bambina con la lanterna, e così la palla fu ritrovata.

Giunta a valle vide di nuovo la casa del calzolaio. L’uomo sedeva triste nella sua stanzina, senza fare nulla… Il giorno prima il fuoco del suo camino si era spento, e lui non poteva più lavorare perchè era troppo buio e faceva così freddo che le sue mani erano ghiacciate e non riusciva a muoverle. “Riaccenderò io il tuo fuoco!” disse la bambina con la lanterna. Presto il camino tornò a scaldare e illuminare la casa e il calzolaio potè di nuovo martellare e cucire le sue scarpe, mentre la bambina proseguì il suo cammino.

Si inoltrò nuovamente nel bosco e giunse alla capanna della vecchietta, ma nella sua stanzina era buio pesto. Il suo lume si era consumato e lei aveva dovuto smettere di filare. “Ti accenderò io un nuovo lume!” disse la bambina. Così la vecchietta potè sedere di nuovo al filatoio e si mise felice far girare la ruota.

Intanto la bambina si ritrovò di nuovo nel verde prato nel cuore del bosco, e tutti gli animali si svegliarono al chiarore della sua lanterna. La volpe fiutò l’aria col suo musetto e strizzò gli occhi davanti al lume. L’orso bruno si mise a brontolare e si ritirò in un punto ancora più profondo della sua caverna tornando al suo letargo invernale. Il riccio strisciò curioso tra l’erba, e da dietro un cespuglio ammirò incredulo lo spettacolo pensando: “Ma da dove viene questa lucciola gigante?”

E la bambina con la lanterna, felice, tornò a casa.

Le stelle marine carte delle nomenclature Montessori

Le stelle marine

Le stelle marine – materiale didattico e curiosità sulle stelle marine, un racconto adatto anche ai bambini più piccoli, e le carte delle nomenclature, utili dopo la presentazione della linea del tempo per la comparsa dei viventi 

( seconda lezione cosmica montessoriana)

e per la Biologia, pronte per il download e la stampa… 

pdf qui:

Le stelle marine sono tra gli organismi acquatici più conosciuti. Il loro aspetto così caratteristico, la loro simmetria, il numero e la disposizione dei loro organi sono legati in modo indissolubile al numero cinque, come del resto avviene in tutti gli echinodermi.

Il rispetto di questa regola ha avuto come conseguenza la trasformazione di certi esemplari in perfetti pentagoni, e spiega come mai le più comune stelle marine abbiano cinque braccia o almeno cinque punte. Ma ogni regola ha le sue eccezioni, e così, viaggiando di stella in stella, è possibile imbattersi in specie con quattro braccia (come la Culcita tetragona) o dodici , come la stella sole europea. Altre ne posseggono 15, 20, 25, fino ad arrivare alle 45 e più della stella antartica (Labidiaster annalatus); inoltre esistono stelle marine che si presentano con un numero di braccia diverso da esemplare ad esemplare, come avviene per la stella rossa del Mediterraneo (Echinaster sepositus) che può avere da cinque a sette braccia.

Nelle stelle marine non è possibile distinguere una destra e una sinistra, ma è possibile riconoscere un lato ventrale e un lato dorsale, che vengono chiamati lato orale e lato aborale. Lungo le braccia, in posizione ventrale, troviamo infiniti pedicelli simili a ventose che permettono alle stelle marine di camminare  e di aprire i molluschi bivalvi di cui si nutre. Un numero così elevato di pedicelli sembrerebbe poco adatto a movimenti rapidi, e infatti la maggior parte delle stelle marine ha abitudini sedentarie: alcune si muovono di non più di dieci metri in un anno, ma ci sono anche specie che raggiungono l’incredibile velocità di due metri al minuto.

Sempre dal lato ventrale, al centro del disco da cui si dipartono le braccia si trova la bocca: una stretta fessura da cui al momento del pasto viene estroflesso lo stomaco.

Il lato rivolto verso l’alto appare più uniforme, anche se sotto la sottile epidermide sono spesso visibili le placche calcaree che formano lo scheletro delle stelle marine (asteroidei). Questo scheletro è molto flessibile, perchè i tessuti che lo circondano possono essere contratti e rilasciati. Questo sistema è molto vantaggioso per le stelle marine perchè da un lato possono irrigidirsi in caso di necessità o di pericolo, e dall’altro possono deformare ed adattare il loro corpo alle irregolarità del terreno e rivoltarsi quando si rovesciano accidentalmente. Questo genere di incidente è molto comune tra le stelle marine, e sono frequenti anche le cadute: basta un’onda un po’ più impetuosa per perdere l’appiglio e ritrovarsi “a pancia in su”.

Le diverse specie hanno messo a punto tecniche diverse per rimettersi in posizione. Alcune piegano tutte le braccia verso l’altro, assumendo l’aspetto di un tulipano; in questo modo riescono a spostare il baricentro di quel tanto che serve a perdere l’equilibrio e portare una o più braccia vicino al fondale: i pedicelli allora fanno presa sul terreno e l’animale passo a passo riprende la sua posizione normale. Altre specie usano la tecnica del “tulipano rovesciato”, cioè si sollevano sulle punte delle braccia per poi ricadere su un fianco e quindi compiere le manovre spiegate prima.  Ci sono anche stelle in grado di ruotare le braccia di 180 gradi, in modo da riportare i pedicelli a contatto col terreno; una volta che si sono assicurate l’appoggio di almeno due braccia, queste stelle scivolano sotto se stesse fino a girarsi completamente. Alcune stelle impiegano per rigirarsi meno di un minuto, mentre altre possono aver bisogno di parecchie ore per riacquistare la loro posizione normale.

Ogni braccio della stella marina non è soltanto un organo locomotore, ma anche un efficiente organo di senso, capace di riconoscere il cibo al tatto e di captare la più sottile traccia odorosa lasciata da una preda. E più braccia ci sono, maggiore è la superficie che può essere esplorata.

Alimenti preferiti delle stelle marine sono i molluschi bivalvi, come mitili, telline, vongole, ecc…, con una predilezione per le ostriche. Gli allevatori di ostriche, per i quali gli asteroidei sono da sempre un vero flagello, erano convinti che le stelle marine avessero la diabolica capacità di sorprendere i loro pregiati molluschi e di essere addirittura capaci di ipnotizzarli, ma questo è impossibile perchè anche se è vero che le stelle marine hanno degli occhi molto rudimentali posti sulla punta delle braccia, che si presentano come macchioline di colore rosso vivo, le ostriche sono completamente cieche.

In realtà le stelle marine si procurano il pasto ricorrendo ad una tecnica molto faticosa e per nulla misteriosa. Una volta individuata la preda, la stella la avvolge con le sue braccia facendo aderire i pedicelli alle valve chiuse, che cominciano ad essere sottoposte ad una forza  di trazione che raggiunge anche i 4 chili. Con questa tecnica una comune stella rossa riesce ad aprire e mangiare una vongola in poco meno di 30 minuti; il termine “aprire” però non è del tutto esatto: alla stella infatti non serve divaricare di molto le valve del mollusco, ma bastano pochi millimetri perchè il suo stomaco estroflesso venga fatto scivolare all’interno della conchiglia e cominci a digerire la saporita polpa del mollusco.

Il processo di digestione richiede otto ore, ma alcune specie hanno una digestione che può durare anche quindici giorni.

Ci sono anche stelle marine che si accontentano di succhiare i polipi dei coralli o di filtrare il plancton, ed altre ancora che inghiottono il cibo con la bocca: alcune sono in grado di mangiare i ricci di mare interi senza preoccuparsi delle spine, e in alcuni casi la preda ingerita intera forma una protuberanza visibile attraverso l’epidermide, e può anche succedere che qualche pasto possa risultare fatale alla stella, che finisce con l’essere perforata da cibi troppo appuntiti.

Tra i nemici naturali delle stelle marine c’è il tritone di mare. E meno male, altrimenti le stelle marine rischierebbero di diventare infestanti, anche grazie alla loro straordinaria capacità rigenerativa. Se una stella perde un braccio o si rompe a metà, non c’è da preoccuparsi: dopo qualche tempo avrete di fronte a voi una stella identica all’originale,  e forse anche più di una, visto che questo sistema viene usato, da alcune specie, per riprodursi.

Anche se la riproduzione può avvenire in questo modo, normalmente avviene con l’incontro tra uova e spermatozoi che femmine e maschi emettono contemporaneamente, per far sì che la fecondazione abbia la massima possibilità di successo.  Ci sono però specie che depongono le uova in luoghi riparati sotto le pietre, e altre che addirittura covano le uova ospitandole in cavità particolari del loro corpo, o anche del proprio stomaco, rimanendo nascoste fino alla schiusa e portando poi i cuccioli appena nati con sè per un certo periodo di tempo.

L’autotomia, cioè l’amputazione volontaria di un arto (come accade ad esempio per la coda della lucertola), può essere provocata da una forte eccitazione, da una ferita, dall’esposizione all’aria (molte stelle portate in superficie perdono in breve le braccia), o dalla necessità di sfuggire a un assalitore. La rottura avviene in un punto preciso, detto di minima resistenza, e comporta la fuoriuscita di parte degli organi interni e dei liquidi organici che viene subito arrestata dalla rapida chiusura dei lembi della ferita.

La stella, inchiodato al substrato con i pedicelli l’arto di cui si vuole separare, si muove in direzione opposta fino a quando l’arto si stacca. Può sembrare orribile, ma non dimentichiamo che per l’animale spesso significa la salvezza. La ricostruzione del braccio mancante inizia dopo pochi giorni, in alcune specie dopo sei – sette settimane. La prima parte che viene ricostruita è la punta dell’arto, con le cellule visive, cui fanno seguito i primi pedicelli.

Internamente le parti mancanti si formano a partire dai residui degli organi strappati; così l’apparato digerente ricostruirà se stesso e l’apparato acquifero non sarà da meno. In questo modo, piano piano, (può occorrere più di un anno perchè un arto raggiunga le dimensioni originarie) il nuovo braccio germoglierà esattamente come accade tra le piante.

Si conoscono circa 1600 specie diverse di stella marina, suddivise in 300 generi, sparpagliate in tutti i mari e in tutti gli oceani, dalle acque fredde dell’Artide e dell’Antartide a quelle calde dei mari tropicali. Esistono anche stelle marine che vivono a grande profondità (anche 7000 metri), ed anche se le condizioni che si trovano in questo ambiente richiedono particolari adattamenti, queste stelle marine non cambiano di molto nel loro aspetto in cui compare sempre la simmetria e il numero cinque.


RACCONTO

Quando le stelle caddero dal cielo

All’inizio dei tempi, quando non tutto era come adesso, le stelle marine non esistevano. Esistevano soltanto delle piccole stelle in cielo, ma molto vicine alla terra.

Tutti sanno che con il sorgere dell’alba gli astri scompaiono e si ritirano nei loro appartamenti, ma una mattina le piccole stelline, abbagliate da un sole più radioso del solito, si sbagliarono e finirono in mare.

Il mare era quel giorno blu come il cielo dei giorni più belli: qui le stelline incontrarono un re buonissimo, Nettuno, re del mare appunto che, accettando la loro supplica le trasformò in esseri viventi.

Da allora si chiamano stelle marine, perchè rappresentano l’immenso cielo nel grande mare.


Fonte consultata: rivista AQVA numero 46 – maggio 1990

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria: una raccolta di racconti, dialoghi e piccole recite sulla Preistoria, di autori vari, per la scuola primaria.

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Dialogo

– E’ permesso? Posso entrare? Sono venuto ad ammirare le tue nuove armi. Desidero molto vederle?-

– Entra, entra pure! Ti farò vedere anche alcuni monili che ho perfezionato ieri! Intanto, vedi questo? E’ un pugnale di ferro, ti piace?-

– Oh, com’è appuntito! Questa sì che è un’arma!-

– Non siamo più nell’età della pietra, mio caro! Con la scoperta dei metalli, è finita! –

– Osserva, ti prego, queste frecce con la punta di ferro.

– Come sono acuminate! E questi monili sono di rame? –

-No, sono di bronzo. Ho impiegato un po’ di tempo a fondere insieme rame e stagno. Ma guarda, che bel lavoro ho fatto! –

-Sei bravo davvero! Ti ringrazio di avermi mostrato i tuoi lavoretti e ti attendo presto a vedere l’imbarcazione che ho costruito. E’ molto più comoda e più solida di quella che avevo prima. –


Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Il primo amore per gli animali

Al tempo dei tempi, quando gli uomini abitavano le caverne e si vestivano di pelli, un uomo, Grog, ebbe l’idea geniale di scavare il primo trabocchetto per gli animali.

Che barriti lanciava il grosso mammut quando vi cadeva dentro! Come grugniva il cinghiale! Grog, tutto contento, accorreva al trabocchetto con gli altri uomini della tribù, e tutti insieme, servendosi di sassi, di pali appuntiti e di accette di pietra, uccidevano la bestia.

Grog aveva un bambino e una bambina. Un giorno i due fratelli ebbero l’idea di fare come il babbo. Dove la terra era più tenera, scavarono una buca coprendola di rami e frasche. La mattina dopo vi trovarono una pecorella che belava pietosamente. Anche le pecore, si intende, erano allora animali selvaggi. Tutti e due si dettero a raccogliere pietre per ucciderla, ma quando il bambino fu pronto per scagliarle, la sorella gli fermò il braccio: “Sarek, fermati!”, gli gridò.

“Che c’è, Mughi?” chiese il bambino.

Mughi fissò la pecora che chiedeva pietà. “Non voglio ucciderla!” gridò, e con un salto si calò nel trabocchetto, andando a finire accanto alla pecorella.

Sarek, a salti, come un cerbiatto, tornò alla caverna dai suoi genitori.

“Papà!” disse Sarek, “Mughi ed io abbiamo preso in trappola un animale bianco, ma Mughi non vuole ucciderlo!”

Il padre si alzò. “Andiamo”, disse a Sarek.

Quando padre e figlio giunsero al luogo del trabocchetto, non vi trovarono più nessuno. Ma, più in là, lungo un ruscello, Mughi stava accarezzando la pecorella. All’arrivo dell’uomo, l’animale fece un balzo e tentò di fuggire, ma Mughi lo calmò accarezzandolo.

“Papà”, disse Sarek, “ecco l’animale che Mughi non vuole uccidere”.

L’uomo osservò con meraviglia la pecorella che si lasciava accarezzare. Allora, dentro di sè, fece questa riflessione: “Se esistono degli animali che si lasciano ammansire dalle carezze, perchè non catturarli ed allevarli? Così a nessun uomo mancherà mai più il cibo, neppure nei periodi più tristi dell’inverno, quando la neve  rende pericolosa la caccia”.

Grog, allora, suscitando la sorpresa di suo figlio, gridò: “Non  si deve uccidere un animale così buono!”

R. Botticelli

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Come il cane divenne domestico

Quel che vi racconto accadde quando gli animali domestici erano ancora selvatici.

Naturalmente era selvatico anche l’uomo, e soltanto quando la donna gli fece capire che così non le piaceva, cominciò a perdere la sua selvaticità. Ella preparò una graziosa caverna asciutta; per non dormire su un mucchio di foglie umide, sparse sul suolo un po’ di sabbia chiara e fine e accese un bel fuoco di legna, poi mise una pelle di cavallo all’ingresso della caverna e disse all’uomo: “Quando entri, asciugati i piedi”.

La sera, a cena, mangiavano un po’ di montone cotto su pietre calde e condito con aglio e pepe selvatici, dell’anatra selvatica ripiena di riso, del midollo di ossa di toro e delle ciliegie di bosco.

Mentre l’uomo si addormentava contento vicino al fuoco, laggiù, nel bosco umido,  tutti gli animali selvatici si riunirono in un luogo da cui potevano vedere la luce della fiamma e si domandarono che cosa stesse succedendo.

Il cavallo scalpitò e disse: “Animali amici e nemici, mi sapete dire perchè l’uomo e la donna hanno fatto nella caverna quella gran luce? Che ci preparino qualche tranello?”

Il cane alzò il muso, fiutò l’odore di montone cotto e dichiarò: “Andrò io a vedere. Credo però che non preparino niente di male”.

E il cane se ne andò di buon passo. Quando giunse sulla soglia della caverna, alzò il muso e annusò l’odore del montone cotto; la donna lo sentì, rise e domandò: “Selvatico figlio dei boschi, che vuoi?”

Il cane rispose: “Mia nemica e moglie del mio nemico, che cos’è questo buon odore che si spande per i boschi?”

La donna prese un osso di  montone e glielo gettò, dicendo: “Assaggialo e lo saprai”.

Il cane rosicchiò l’osso, lo trovò migliore di tutte le cose che aveva fino ad allora mangiato e dichiarò: “Dammene un altro”.

Disse la donna: “Se tu aiuterai l’uomo durante il giorno nella caccia e se custodirai di notte questa caverna, io ti darò tutti gli ossi che vuoi”.

Il cane entrò strisciando nella caverna, mise la testa sulle ginocchia della donna e disse: “Amica e moglie del mio amico, io aiuterò l’uomo nella caccia e custodirò la caverna”.

Quando l’uomo si svegliò e vide il cane, disse: “Che fa qui il cane?”

La donna rispose: “Non si chiama più cane selvatico, ma Primo Amico. Egli sarà nostro amico per sempre e ti aiuterà nella caccia.

R. Kipling

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Il gatto

Migliaia e migliaia di anni fa, quando l’uomo abitava nelle caverne, il gatto era il più selvatico degli animali. Un giorno si avvicinò alla caverna dell’uomo. Sentì il buon calore del fuoco, il buon odore del latte che la donna aveva appena munto dalla mucca.

“Che vuoi?” gli chiese la donna, “Tu non sei ne un’amico ne un aiuto per l’uomo. Vattene!”

“Lasciami entrare nella tua casa, la sera, perchè mi riscaldi al tuo fianco e beva un po’ di latte”.

“Potrei entrare solo quando dirò una parola in tua lode; se ne dirò due ti riscalderai al fuoco; se ne dirò tre berrai il latte”.

“Va bene!” disse il gatto e si accovacciò al sole, fuori della caverna.

La donna mise fuori il suo bambino. Il bambino a star da solo di annoiava e si mise a piangere.  Il gatto gli si accovacciò, strofinò il suo pelo morbido contro le gambette del bimbo e gli fece il solletico sotto il mento, con la coda. Il bimbo rise.

“Bravo micio!” disse la donna che preparava il pranzo. Pronto il gatto entrò nella caverna: la donna aveva detto una parola di lode. Il bimbo, fuori, si mise di nuovo a piangere e a strillare. Il gatto tornò vicino a lui e si mise a fare mille moine. Il bimbo cominciò a ridere forte, poi si addormentò.

“Caro gatto, sei molto abile!” disse la donna. Subito il gatto si accovacciò vicino al fuoco e fece le fusa. Tutto era tranquillo, quando un topolino attraversò la caverna.

“Aiuto! Aiuto!” gridò la donna, saltando qua e là. Il gatto, con un balzo, afferrò il topolino.

“Grazie, grazie! Sei più bravo del cane!” disse la donna.

“Questa è la terza volta che tu mi lodi. Ora posso bere il latte ogni giorno”, disse il gatto.

Così il gatto rimase nella caverna.

R. Kipling

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Una lotta mortale nella preistoria

I terribili tori selvaggi detti uri, dalla testa crespa e barbuta, dalle corna arcuate e fangose, stavano avvicinandosi alla riva del fiume, quando un alto clamore si levò dalla foresta: arrivavano i mammut.

La schiera dei mammut sbucò dalla foresta e si precipitò verso la riva del fiume, arrivandovi contemporaneamente alla schiera degli uri.  I mammut, secondo le loro abitudini, pretesero di passare per primi: qualcuno tra gli uri si irritò. Gli otto tori giganteschi che guidavano il branco, vedendo che i mammut volevano passare avanti, emisero un lungo grido di guerra, col muso in alto e la gola gonfia.

 I mammut barrirono.

Gli uri scossero le criniere grasse: il più forte, il capo dei capi, abbassò la fronte grave, le corna lucenti, e, slanciandosi come un enorme proiettile, balzò addosso al mammut più vicino. Ferito alla spalla, benchè  avesse attutito il colpo sferzando con la proboscide l’avversario, il colosso cadde sulle ginocchia. L’uro proseguì il combattimento con l’ostinazione della sua razza. Ebbe la meglio.

Da principio, il combattimento aveva sorpreso gli altri maschi. I quattro mammut e i sette tori stavano faccia a faccia, in una formidabile attesa. Nessuno fece l’atto di intervenire; ma tutti si sentivano minacciati. I mammut furono i primi a dar segni di impazienza. Il più alto, soffiando, agitò le orecchie membranose, simili a giganteschi pipistrelli, e avanzò.

Si scagliavano gli uni contro gli altri in un combattimento cieco; il ruggito profondo dei tori cozzava col barrito stridente dei mammut.

I capi maschi incarnavano la guerra; i loro corpi si mescolavano in un groviglio informe, in un immenso stritolio di ossa e di carne. Al primo urto i mammut avevano avuto la peggio; ma poi, avventatisi insieme sugli avversari, li avevano colpiti, soffocati, feriti. Infine un toro incominciò ad arretrare, poi si volse e fuggì, e la sua fuga provocò quella dei tori che combattevano ancora e che conobbero l’infinito contagio del terrore. Allora la colonna dei giganti color d’argilla si schierò sulla riva e si mise a bere in pace.

J. H. Rosny Aine

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
La scoperta del fuoco

Al piccolo coro parlato possono partecipare diversi bambini, anche tutta la classe. E’ consigliabile preparare piccoli gruppetti. Potete far osservare ai bambini che il linguaggio degli uomini primitivi doveva essere probabilmente molto povero, e che essi comunicavano più a gesti e a monosillabi, che non con un vero e proprio linguaggio.

Personaggi: Narratore, Primo uomo preistorico, Secondo uomo preistorico, Terzo uomo preistorico,  Uomini,  Bambini.

Narratore: Gli uomini preistorici abitavano nelle grotte e nelle caverne, cacciavano gli animali, si coprivano con le pelli degli animali uccisi e ne mangiavano le carni crude. Per armi avevano soltanto pietre. Ma infine conobbero il fuoco e la loro vita cambiò. Era una serata tremenda. L’immensa foresta era scossa da un terribile temporale…

Primo uomo preistorico: Ah!… Ah!… Là!

Secondo uomo preistorico: Cosa dire?

Primo uomo preistorico: Là! Luce alta! Muovere! Vivere!

Altri uomini: Oh, oh, spavento! Spavento!

Parecchi uomini: Terribile!

Terzo uomo preistorico: Io vedere! Luce cadere da cielo, poi luce salire da terra!

Bambini: Paura!

Uomini: Morire! Finito! Morire tutti!

Narratore: Sì, la prima impressione del fuoco fu di gran terrore,  finchè, dopo un altro temporale…

Primo uomo preistorico: Fuoco fare giorno notte!

Secondo uomo preistorico: Fuoco fare caldo!

Parecchi uomini: Fuoco fare bene noi!

Primo uomo preistorico: Ma Fuoco lasciare noi. Fuoco lasciare! Diventare piccolo!

Parecchi uomini: Fuoco abbandonare noi!

Alcuni uomini: Andare chiedere luce a Fuoco, andare a chiedere calore noi!

Altri uomini: No! No! Morire!

Bambini: Oh, oh,  freddo noi morire! Freddo morire!

Narratore: Fu l’amore per i bambini che spinse l’uomo a vincere la paura.

Primo uomo preistorico: Io andare Fuoco: no paura bestie, no paura grande luce. Fuoco salvare bambini!

Narratore: E l’uomo andò nella foresta e tornò con un ramo infuocato. Alla sua vista, gli altri si spaventarono nuovamente.

Uomini: Fuggire! Noi morire!

Primo uomo preistorico: Fermare! Fuoco di noi! Fuoco dare luce! Fuoco dare caldo!

(R. Botticelli, adattamento Lapappadolce)

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
L’uomo impara a domare il fuoco

Personaggi: Narratore, Mig (guardiano del fuoco), Zug (secondo uomo preistorico), Grog (capo tribù), Slug (bambino), Uomini.

Narratore: Una volta scoperto il fuoco, gli uomini preistorici furono presi dalla preoccupazione di conservarlo. C’era sempre chi lo vegliava e lo alimentava, perchè non si spegnesse. Ma un giorno, in una tribù…

Mig: (disperato) Ah!… Ah!,,, Fuoco spegnere! Fuoco morire! Fuoco più! Tornare Fuoco, tornare! Io dorme, io colpa! Fuggire! Fuggire! (Fa l’atto di scappare)

Zug: Mig! Mig! Dove andare?

Mig: Guardare. Fuoco più…

Zug: Ah! Tu colpa! Tu dormire, tu no cura Fuoco. Tu morire fuoco. Oh… oh… oh… Venire! Venire! Fuoco noi no! (Accorrono tutti)

Grog: Cosa essere?

Zug: Vedere Grog. Mig morire Fuoco, dormire, Fuoco andare via noi!

Uomini: Noi notte no luce!

Altri uomini: Noi no caldo!

Tutti: Mig colpa!

Grog: Mig andare foresta! Più torna! Mig via! (Mig viene preso a forza)

Uomini: Mig morire. Noi più fuoco colpa Mig!

Grog: Tu solo foresta. Tu di bestie. Tu di cielo nero. Fuoco torna e te uccide. Fuoco te uccide e noi torna!

Slug: Grog, no!

Grog: Chi osare?

Slug: io, figlio Mig…

Grog: tu zitto, figlio Mig. Mig dormire, noi più fuoco!

Slug: Grog, no! Vedere Grog, vedere! Legni secchi qui, io chiamare Fuoco

Grog: Chiamare fuoco? No! Fuoco foresta!

Slug: Grog, Grog, sentire me! Io vedere caverna di uomo nemico, io vedere Fuoco morire loro, io  vedere loro fare Fuoco no foresta!

Uomini: No! Mentire! Fuoco foresta!

Slug: Grog no! Sentire! Io vedere loro! Io fare!

Grog: Tu fare!

Slug: Vedere Grog, vedere! (Strofina le pietre per far sprizzare la scintilla, ma gli arbusti non si accendono)

Uomini: Fuoco foresta! Fuoco foresta! Slug bugiardo!

Slug: (Strofina ancora le pietre e finalmente il fuoco si accende). Vedere Grog! Fuoco Grog!

Uomini: Fuoco! Fuoco! Fuoco tornare noi!

Slug: (Si muove verso il suo papà, che viene lasciato libero) Papà! Papà!

Mig: Slug!

(R. Botticelli, adattamento Lapappadolce)

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Le palafitte

Personaggi: Narratore, Sarik (giovane uomo preistorico). Zala (sua moglie), Bambini, Grog (capo tribù)

Narratore: L’uomo aveva il fuoco. Ora non viveva più nelle caverne, ma all’interno di capanne. Tuttavia non si sentiva affatto al sicuro. Una grande paura lo assillava continuamente. Ed ecco che da tribù a tribù passò la voce di una geniale idea….

Grog: Sarik, tu cercavi me?

Sarik: Sì, Grog. Cosa importante! Cosa importante!

Grog: Ah ah ah ah! Fai ridere! Zala con te, bambini con te, vuoi anche mia compagnia?

Sarik: Grande Grog, cosa importante! Cosa importante!

Grog: Grog ha orecchie. Non ripetere. Parla.

Sarik: Dietro montagna qui c’è lago. Lago è calmo come faccia di luna.

Grog: Grog sa questo.

Sarik: Grog sa anche che tribù di stranieri conficcato grandi pali su fondo di lago? Poi steso legni, tanti legni  e su legni su lago stranieri costruito loro capanne! Capanne come nostre!

Grog: Stranieri sono pericolo per noi come bestie?

Sarik: No, Grog

Grog: allora perchè Sarik dice questo a Grog?

Sarik: Grog… capanne straniere sono su acqua!

Grog: Sarik ha già detto. Grog ha sentito.

Sarik: Oh, grande Grog! Scendi anche noi su lago, anche noi capanne su lago!

Grog: No!

Sarik: Noi più forti con capanne su acqua…

Grog: Noi essere forti! Nostre pietre uccidono bestie! No. Grog dice no!

Zala: Oh grande Grog…

Grog: Basta!

Sarik: Grog senti Zala, Sarik  prega Grog…

Grog: Zala parlare.

Zala: mio piccolo bimbo aveva pelle chiara come ruscello, occhi di luce come stelle, e belve sbranato di notte. Con capanna su lago, niente bestie! Pietà Grog per Zala… pietà Grog… Zala altri bimbi, loro diventare forti e aiutare sempre Grog!

Grog: Grog andare a vedere con Sarik e Zala. Grog vuole vedere tribù stranieri e capanne su lago.

Narratore: Andarono infatti al lago: e anche la tribù di Grog decise di costruire abitazioni su palafitte.

(R. Botticelli adattamento Lapappadolce)


Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria: tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria

Guest post: La festa di Tanabata e l’albero dei desideri

Ho letto della festa di Tanabata e mi ha molto colpita, così ho chiesto a Junko di raccontarcela…

 … anche se il 7 luglio è già passato, come leggerete poi in alcune regioni del Giappone Tanabata si festeggia anche durante il mese di agosto, e così spero che molti bambini possano realizzare coi loro genitori un “albero dei desideri”, magari ascoltando la leggenda e avendo un’occasione in più per ammirare il cielo stellato dell’estate…

La leggenda di Orihime e Hikoboshi

Ogni anno, la notte del 7 luglio, si scrivono i propri desideri su delle strisce di carta di vari colori (tanzaku), che si appendono a un ramoscello di bambù (L’albero dei desideri). Poi si pregano le stelle affinchè questi desideri possano realizzarsi.

Ci sono diverse teorie sull’origine di questa tradizione, ma una delle teorie popolari e’ quella che la lega alla leggenda cinese delle due stelle Orihime (Vega) e  Hikoboshi (Altair).

Grazie a questa leggenda ogni anno molti giapponesi alzano gli occhi al cielo nella speranza di poter vedere Altair e Vega abbracciarsi ancora una volta. La leggenda del loro amore eterno narra così:

Prima versione:

“Un tempo il dio dell’universo scelse Hikoboshi (la stella dell’agricoltura) come marito di sua figlia Orihime (la stella del cucito). Hikoboshi ed Orihime si sposarono e insieme furono molto felici. Giocavano sempre tra loro, ma purtroppo così facendo dimenticarono il loro lavoro…

Il dio dell’universo si arrabbiò e decise di separarli ponendoli uno ad est e l’altra ad ovest della galassia. Ora Orihime si trovava ad ovest e Hikoboshi si trovava a est. Non potevano incontrarsi e neanche vedersi perche’ la galassia vastissima esisteva tra loro.

Questo li rese tristissimi, e di nuovo non furono in grado di svolgere il loro lavoro, perchè non potevano far altro che piangere e piangere.

Vedendo questa situazione, il dio dell’universo permise loro di incontrarsi di nuovo, ma soltanto una volta all’anno e soltanto a condizione che ogni giorno lavorassero seriamente.

Orihime e Hikoboshi obbedirono. Da allora tutti i giorni svolgono i loro compiti nell’attesa del loro incontro, il 7 di luglio.

E la notte di Tanabata, notte del 7 luglio (Tanabata Matsuri o Festa delle stelle innamorate), queste due stelle brillano di piu’ perche’ sorridono di gioia e felicita”

In  forma estesa:

“Anticamente, sulle sponde del Fiume Celeste (la Via Lattea) viveva Tentei, l’imperatore del Cielo. Tentei aveva  una figlia, Orihime (Vega). 

Orihime era un’abile sarta e tessitrice, e lavorava senza sosta per confezionare stoffe e vestiti per le divinità, realizzando abiti sempre più splendidi. Lavorava talmente tanto che non aveva neppure il tempo di pensare a sè stessa e ai propri interessi.

Così, giunta all’età adulta, il padre le scelse un marito: un giovane mandriano di nome Hikoboshi (Altair). L’occupazione di Hikoboshi era quella di far pascolare i buoi e far attraversare loro le sponde del Fiume Celeste. Era un grande lavoratore e anche lui non pensava ad altro che a svolgere il suo lavoro.

Trattandosi di un matrimonio combinato, i due si conobbero solo il giorno delle nozze, ma questo non fu un male   perchè non appena si incontrarono si innamorarono follemente l’uno dell’altro.

Furono talmente presi dal profondo sentimento che provavano, che dimenticarono completamente i loro doveri, il loro lavoro e gli altri Dei. La loro unica ragione di vita era il loro amore e la loro passione. Così la mandria di buoi finì per essere abbandonata a se stessa e agli dei cominciarono a mancare gli abiti fino ad ora confezionati da Orihime.

A questo punto il sovrano degli dei non potè trattenere la rabbia e li punì severamente: i due innamorati, che fino a quel momento erano inseparabili, avrebbero dovuto vivere le loro vite separatamente. Per evitare che i due potessero incontrarsi, rischiando così di abbandonare nuovamente i loro doveri, l’Imperatore del Cielo creò due sponde separate dal fiume Ama no Gawa (la Via Lattea), e rendendolo impetuoso e privo di ponti, fece si che i due non potessero mai più incontrarsi.

Il risultato non fu però quello sperato: il pastore sognando e pensando sempre alla sua innamorata non accudiva ugualmente le bestie e neppure la dolce fanciulla, pensando continuamente al suo amore cuciva più i vestiti agli dei.

Il sovrano allora, disperato e mosso da pietà e commozione, con il consenso anche degli altri dei altrettanto commossi, emise questa sentenza: “Se deciderete di ritornare ad occuparvi delle vostre attività come un tempo rispettando i vostri doveri, rimarrete divisi dalle sponde del Fiume Celeste per un anno intero però, vi sarà consentito di potervi incontrare una volta soltanto nella notte del settimo giorno del settimo mese dell’anno.”

A queste parole, i due giovani innamorati, pensando all’idea di potersi incontrare di nuovo ripresero di buona lena a lavorare sodo con la speranza di potersi presto riabbracciare. Da quel momento in poi infatti, dopo un anno di lavoro e fatica i due ogni 7 luglio attraversano il Fiume Celeste e nel cielo stellato si incontrano.”

Seconda versione:

“Un tempo nel cielo vivevano a Ovest gli uomini, e a Est le divinità.

Il pastore Hikoboshi (la stella Altair) e la dea Orihime (la stella Vega) si innamorarono e si sposarono in gran segreto, contro la volontà del padre della dea. Andarono a vivere ad Ovest, ed ebbero anche due figli, un maschio e una femmina.

Quando il padre lo venne a sapere, però, saparò i due sposi, riconducendo la figlia nella terra degli dei, e per evitare il  suo ricongiungimento con Hikoboshi, mise tra loro un fiume, la Via Lattea.

I due ne soffrirono moltissimo e alla fine il padre di Orihime finì col commuoversi per le tante lacrime versate dai due sposi; così acconsentì a che potessero incontrarsi di  nuovo, ma solamente una volta l’anno: la settima notte del settimo mese.”

Terza versione:

“C’era una volta in Cina, una bella tessitrice di nome Shokujo. La ragazza era la figlia di un re, e suo padre era molto orgoglioso di lei.

Giunta ad una certa età, il padre cominciò a pensare che per lei fosse giunto il momento di sposarsi, e scelse per lei un giovane agricoltore di nome Kengyu. Dopo essersi sposata, però,  Shokujo cominciò a trascurare il suo lavoro di tessitura.

Suo padre reagì cacciando il marito e decise che d’ora in avanti le sarebbe stato consentito incontrarlo soltanto una volta l’anno,  il 7 luglio. 
Quando il tempo per incontrare Shokujo si avvicina, gli uccelli vanno da Kengyu e costruiscono un  ponte, in modo che lui possa andare da sua moglie.”

Quarta versione

“C’era una volta una stella eccezionalmente bella e saggia, la Principessa Shokujo (Vega) , che oltre ad essere  la figlia del re, era anche un’abilissima tessitrice, ed era responsabile di tutti i tessuti reali. Un giorno Kengyu (Altair), il pastore celeste, si trovò a passare col suo gregge sulla collina vicina al palazzo, proprio mentre Shokujo era affacciata alla finestra.  I loro sguardi si incrociarono e fu amore a prima vista. Si corsero incontro e, dopo un breve fidanzamento, Shokujo e Kengyu chiesero al re la sua benedizione, che lui concesse senza problemi.

Sfortunatamente, però,  i problemi arrivarono presto. I due erano così follemente innamorati che lei trascurò la tessitura, e lui il gregge. Il re intervenne e ordinò che i due sposi fossero separati per sempre da un fiume di stelle (la Via Lattea), fatta eccezione per un solo giorno all’anno,  in cui possono ancor oggi far visita l’uno all’altro.

Quel giorno è il giorno di Tanabata, il giorno in cui Shokujo la principessa e Kengyu il pastore si incontrano, attraversando la Via Lattea con l’aiuto di un ponte formato da uno stormo di passeri, loro fedeli amici.”

Non dimenticarti della leggenda che potra’ darti un grande sogno. (Questa foto e ‘ stata fatta la notte del 7 luglio all’asilo di Ginga).

Questa è la foto di una via del centro di Marugame. Come vi ho detto, per la festa di Tanabata si appendono tante strisce di carta che portano scritte i desideri di ognuno. In questa foto, le decorazioni di bambu che vedete sono state realizzate da una ventina di scuole materne di Marugame.

Quando ero piccola, il giorno seguente , cioe’ l’8 luglio, di mattina molto presto, noi bambini andavamo al fiume con i nostri genitori facendo strisciare per terra i grandi rami di bambu decorati. Al fiume li mettevamo sulla corrente e loro scorrevano fino al mare, con i nostri desideri.
Adesso non si puo’ più fare perche’ si teme che sporchino i fiumi e il mare. Quindi, i rami di bambù decorati ora rimangono appesi per tutto il mese di luglio.

In Giappone, in quasi tutti gli ospedali, si festeggiano tutte le feste annuali per consolare i pazienti. All’ingresso dell’ospedale dove vado, c’è in questi giorni un ramo di  bambu di Tanabata. Un giorno ho letto quello che c’e’ scritto sulle strisce di carta. Tante frasi mi hanno commossa. Ricordo la frase che ha scritto una donna:  ” Spero di poter scrivere per Tanabata anche l’anno prossimo”… 

Nell’epoca Heian (dal 794 AD~al 1192 AD) solo le persone nella corte imperiale festeggiavano Tanabata. Facevano offerte di frutta, verdure e pesci alle stelle e le guardavano, bruciando incenso, e suonando il Koto (la  lira orizzontale giapponese con 13 corde) o il Biwa (il liuto giapponese) e componendo delle poesie. Consideravano la rugiada della notte precedente una goccia di Amanogawa ( il fiume del cielo, la Via Lattea) e la mattina del 7 luglio raccoglievano la rugiada sulle foglie del taro d’Egitto, ci preparavano l’inchiostro e scrivevano i  loro desideri sulle foglie di un albero speciale che si chiama Kaji, un albero sacro usato nei templi.

Dopo l’epoca Heian, questa festa si diffuse tra il popolo e si iniziarono ad usare le strisce di carta al posto delle foglie di Kaji, e i rami di bambù per appenderle.

Fortunatamente ho avuto un’occasione di festeggiare Tanabata come se fossi una persona nell’epoca di Heian, quando ho ballato la danza classica giapponese in un parco a Takamatsu ( la capitale della provincia di Kagawa). Era uno spettacolo molto elegante, che si è tenuto la mattina del 7 luglio nel 2007. Questa foto e’ stata fatta in quel momento.

Junko  N.

 

Tanabata (Settima notte) è una tradizionale festa giapponese, che cade il 7 luglio di ogni anno, quando le stelle Vega e Altair si incrociano nel cielo. In qualche località si festeggia invece il 7 agosto.

La più famosa festa di Tanabata del Giappone si tiene a Sendai dal 6 all’8 agosto. Nel Kanto, la più grande festa di Tanabata si tiene a Hiratsuka, Kanagawa, il 7 luglio. Un’importante festa di Tanabata si svolge anche a São Paulo, in Brasile, alla fine della prima settimana di luglio.

La data originale di Tanabata si basa sul calendario lunisolare giapponese, che è circa un mese indietro rispetto al calendario gregoriano. Come risultato di ciò, la maggior parte delle feste di Tanabata si svolgono il 7 luglio, mentre in alcune località si tengono il 7 agosto, e in alcune altre vengono invece organizzate ancora  il settimo giorno del settimo mese lunare del calendario giapponese tradizionale lunisolare, che di solito cade nel mese di agosto del Calendario Gregoriano.
Le date del calendario gregoriano corrispondenti al settimo giorno del settimo mese lunare del calendario lunisolare giapponese per i prossimi anni sono:
6 agosto 2011
24 agosto 2012
13 agosto 2013
2 agosto 2014
20 agosto 2015
9 agosto 2016
28 agosto 2017
17 agosto 2018
7 agosto 2019
25 agosto 2020

La fanciulla tessitrice della leggenda viene identificata con Vega perchè secondo i popoli orientali Vega, appartenente per noi alla costellazione della Lira, è, secondo gli orientali appartenente alla costellazione della Tessitrice. Allo stesso modo il giovane mandriano viene identificato con Altair della costellazione dell’Aquila, perchè per gli orientali la costellazione di Altair equivale a quella del Mandriano.

La scelta del settimo giorno del settimo mese dell’anno, oltre ad avere una valenza sacra in quanto è un ripetersi del numero 7, dipende dal fatto che, secondo gli studiosi, è questo il periodo di massima luminosità delle stelle e soprattutto nei primi giorni del mese di luglio si nota anche una grande vicinanza tra Altair e Vega rispetto a tutti gli altri giorni.

Sebbene le feste di Tanabata varino da regione a regione, l’usanza è quella di rivolgere preghiere ai due astri, e soprattutto i giovani chiedono protezione per i loro sentimenti e aiuto per poter migliorare le loro abilità e lo studio. Tanabata oggi è una grande festa popolare caratterizzata da vistose e colorate decorazioni, foglietti di carta con preghiere e desideri appesi ai rami degli alberi, sfilate, parate e cibi tipici.

Tanabata è anche un’importante festa per i bambini, e gli alberi dei desideri vengono preparati in tutte le scuole giapponesi, decorati dai bambini con poesie, preghiere e desideri che si vogliono vedere avverati e che possono andare dal miglioramento negli studi a desideri più frivoli…  In ogni caso, desideri e poesie sono ancora oggi le offerte chiave per questa festa, e le famiglie  si riuniscono per scriverle su strisce di carta colorata e per legarle ai rami di bambù. Oltre che in famiglia, alberi dei desideri “pubblici” con pennarelli e strisce di carta pronte si trovano ovunque, anche nelle stazioni ferroviarie, ed ognuno è libero di esprimere i propri desideri e legarli all’albero.

Tradizionalmente sono previsti sette diversi tipi di decorazioni per l’albero dei desideri, ognuna delle quali ha significati diversi:

photo credit: http://en.wikipedia.org

Tanzaku: sono le strisce di carta colorata delle quali abbiamo già parlato,  dove scrivere poesie e desideri da appendere sugli alberi.

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Kamigoromo.jpg

Kamigoromo: in passato servivano per chiedere di migliorare nell’arte del cucito, ora hanno il significato di scongiurare incidenti e malattie.

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:TanabataOrizuru.jpg

 Senbazuru: file di origami (soprattutto gru), per chiedere salute alla famiglia e lunga vita. Per ogni persona anziana della famiglia si piega una gru da appendere all’albero dei desideri.  

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Kinchaku.jpg

Kinchaku: borsettine di carta, per chiedere lavoro, prosperità, e per mettere in guardia contro lo spreco di denaro .

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Toami.jpg

Toami: reti da pesca per varie decorazioni, per chiedere buona pesca e buoni raccolti.

 http://en.wikipedia.org/wiki/File:Kuzukago.jpg

Kuzukago: la carta avanzata dalla preparazione delle altre decorazioni viene raccolta e messa in un “sacco della spazzatura” di carta, a simboleggiare il risparmio e  l’importanza di risparmiare.

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:TanabataStreamer.jpg

Fukinagashi: strisce decorative di carta colorata, che simboleggiano le fibre che Orihime  utilizza per tessere.

Altre fonti:
http://it.wikipedia.org/wiki/Tanabata

http://en.wikipedia.org/wiki/Tanabata

http://sakuramagazine.com/tanabata-matsuri-festa-delle-stelle-innamorate/

http://www.psychicsophia.com/aion/chap7.html

http://gojapan.about.com/cs/japanesefestivals/a/tanabata.htm

http://web.mit.edu/jpnet/holidays/Jul/song-tanabata.shtml

http://web-jpn.org/kidsweb/explore/calendar/july/tanabata.html

http://www.astroarts.co.jp/special/2012tanabata/legend-j.shtml

http://www.sendaitanabata.com/en/rekisi.html

Geometria Waldorf: Le due forme – racconto per quadrato e cerchio

…introduzione alla geometria Waldorf, attraverso un racconto che fa fare ai bambini l’esperienza artistica delle diverse qualità del cerchio e del quadrato…

C’erano una volta due forme a questo mondo, che erano diverse da ogni altra. Un giorno si incontrarono, divennero amiche, e cominciarono a raccontarsi i loro guai.

La prima disse: “Quando mi metto in piedi, non posso mai stare tranquilla. Devo subito muovermi, e mi arrabbio tanto perchè non riesco mai a stare ferma, nemmeno un attimo”.

L’altra rispose: “Ah, questo non è niente. Quando mi alzo in piedi io,  non posso mai andare da nessuna parte. Io provo con tutte le mie forze, ma non appena ci provo resto incollata lì, e non ci riesco!”

“Bene” disse allora la prima, “Sarebbe bello per me essere capace di stare in piedi ferma, almeno per un momento. Sarebbe un bel cambiamento per me!”

La seconda rispose: “Io darei qualunque cosa per essere capace di alzarmi e fare un giretto!”

Come credete che fossero queste due forme? Provate ad immaginarvele.

(Diamo ai bambini carta  e colori).

Molti di voi hanno avuto l’idea giusta!

(Alcuni bambini possono aver disegnato il triangolo invece del quadrato, quindi l’insegnante mostra un cerchio di cartoncino rosso che rotola, e un quadrato di cartoncino verde che non può correre e rotolare, e non riuscendoci si arrabbia).

Bene, sapete come va a finire la storia?

Il cerchio invita il quadrato ad entrare nella sua forma a fare una passeggiata.

(Mostriamo un cerchio con un quadrato incollato all’interno)

“Oh!”, disse il cerchio, dopo aver rotolato per un bel po’ “Ora sono stanco di girare, e vorrei tanto potermi fermare, almeno un momento!”

“Ma è facile, ti aiuterò io!” disse il quadrato, “Mi farò più grande, così tu potrai starmi dentro”.

Così il quadrato si allargò abbastanza da poter contenere in sè il cerchio, che finalmente potè stare un po’ fermo, senza dover sempre rotolare.

“Che bello!” disse il cerchio “Chiamami ogni volta che vorrai andare a fare un giretto!”

“Grazie!” disse il quadrato “Chiamami ogni volta che ti vorrai riposare!”

Waldorf geometry: The two forms (story for square and circle). Introduction to Waldorf geometry, through a story making do children the artistic experience of the different qualities of the circle and square.

Once there were two forms in this world, which were different from each other. One day they met, became friends, and they began to tell about their troubles.

The first said: “When I am standing, I can never be calm. I have to move right away, and so I get angry because I can never sit still, even for a moment.”

The other replied: “Ah, this is nothing. When I stand up I, I can not ever go anywhere. I try with all my strength, but as soon as I try rest glued there, and I can not! “

“Well,” said then the first form, “It would be nice for me to be able to stand up and not moving, at least for a time. It would be a nice change for me!”

The second replied, “I’d give anything to be able to get up and take a ride!”

How do you think they were these two forms? Try to imagine them.

(We give the children paper and colors).

In Waldorf schools we use the Stockmar beeswax crayons, but they are not essential:

Many of you have had the right idea!

(Some children may have drawn the triangle instead of a square, then the teacher shows a circle of red construction paper which rolls, and a square of green construction paper that can not run and roll, and failing gets angry).

Well, you know how it ends the history?

The circle invites the square to enter in its form for a walk.

(We show a circle with a square inside)

“Oh!” Said the circle, after  It rolled for a while ” Now I’m tired of turn, and I would stop, at least for a moment!”

“But it’s easy, I’ll help you!” the square said, “I’ll do bigger, so you can stay inside of me.”

So the square widened enough to contain within itself the circle, which eventually could be a bit quiet, without always having to roll.

“How beautiful!” said circle “Call me any time you want to go for a ride!”

“Thank you!” said the square “Call me whenever you want to rest!”

I libri del Dr Seuss

I libri del Dr Seuss. Theodor Seuss Geisel (1904 – 1991),  scrittore  poeta  illustratore e vignettista americano, è noto in tutto il mondo per i suoi libri per bambini, caratterizzati dalla presenza di personaggi fantastici e testi in rima, scritti sotto lo pseudonimo di Dr. Seuss. Ve ne sono molti altri, per i quali Seuss ha curato solo i testi o solo le illustrazioni firmandosi con lo pseudonimo Theo LeSieg (“LeSieg” è “Geisel” scritto al contrario), e, in un caso, Rosetta Stone.

I suoi libri più celebri sono disponibili in italiano nella collana “I libri del Dr Seuss” di Giunti Editore, tradotti da Anna Sarfatti; sempre dell’editore  Giunti, “A scuola con il Dr. Seuss”. Mondadori ha pubblicato nel 2000 “Il Grinch“, traduzione di Ilva Tron e Fiamma Izzo:

 Il Grinch
Regia di Ron Howard – Universal Pictures

Seuss nacque nel 1904 a Springfield nel Massachusetts, da una famiglia di immigrati tedeschi. Lasciati gli studi universitari prima del conseguimento della laurea, iniziò la sua carriera scrivendo e disegnando vignette umoristiche per vari giornali e riviste e divenne famoso grazie alla pubblicità di Flit , un insetticida comune a quel tempo; durante la grande depressione disegno per varie altre campagne pubblicitarie.

Il suo primo libro per bambini pubblicato a fatica, ma che riscosse grande successo,  fu “L’uovo di Ortone“.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, si dedicò alla satira politica, disegnando oltre 400 vignette in due anni, poi pubblicate in “Il Dr. Seuss va alla guerra”. Dal 1942 rivolse tutte le sue energie per sostenere lo sforzo bellico degli Stati Uniti. Assegnato alla “Divisione di Informazione ed Educazione” a Hollywood, sotto la direzione di Frank Capra, si occupò di film educativi per i soldati.

Durante la sua attività in ambito cinematografico vinse due Oscar ed ottenne altri numerosi successi, ma nonostante ciò, lasciò presto il cinema per tornare ai libri.

Nel maggio del 1954, la rivista Life pubblicò un rapporto sull’analfabetismo tra i bambini in età scolare, che si concludeva con l’affermazione che i bambini non imparavano a leggere perché i loro libri erano inadeguati e noiosi. Di conseguenza, William E. Spaulding, editore di libri per l’infanzia, compilò una lista di 348 parole base da saper riconoscere in prima elementare, e Seuss gli rispose promettendo che sarebbe riuscito a scrivere un libro utilizzando tali parole, ma riducendole a 250; nove mesi più tardi, con 236 delle parole stabilite, completò Il gatto e il cappello matto” , primo titolo della collana  “Beginner Books”, di cui poi Seuss assunse la presidenza. Il gatto e il cappello matto centrò l’obiettivo e in tre anni ne furono vendute quasi un milione di copie.

I libri della sezione “Beginner books” dovevano rispondere a criteri fissi, tra i quali:

– dovevano essere costruiti con le 225 parole che rappresentano il vocabolario base;

– ogni facciata non poteva contenere più di un’illustrazione;

– le illustrazioni delle facciate destra e sinistra dovevano formare insieme un’unità artistica;

– il testo poteva contenere solo i particolari presenti anche nelle immagini, e non altri.

A titolo di curiosità, c’è da riportare che Prosciutto e uova verdi , meraviglioso libretto del 1960, è scritto con sole 50 parole (a, am, and, anywhere, are, be, boat, box, car, could, dark, do, eat, eggs, fox, goat, good, green, ham, here, house, I, if, in, let, like, may, me, mouse, not, on, or, rain, Sam, say, see, so, thank, that, the, them, there, they, train, tree, try, will, with, would, you), ed è forse il suo libro più bello. E’ nato da una scommessa tra Seuss e il suo editore (Bennett Cerf) che, dopo la pubblicazione di The Cat in the Hat , affermò che non era possibile realizzare un libro con così poche parole. 

Ma il valore dei libri del Dr Seuss non consiste solo in questa ricerca di “leggibilità”;  per l’autore infatti non c’è tema che non possa essere affrontato dai bambini: la diversità, la difesa dell’ambiente, l’adozione, la guerra, la minaccia del nucleare, il consumismo e il materialismo, l’uguaglianza razziale …

Nel 1984 Seuss fu insignito del Premio Pulitzer “per il suo contributo di quasi mezzo secolo all’educazione e al divertimento dei bambini americani e dei loro genitori“.

Morì all’età di 87 anni; nel corso della sua vita si sposò due volte, e pur avendo dedicato gran parte della sua vita a scrivere libri per bambini, non ebbe figli.

Negli USA il 2 marzo, data di nascita del Dr Seuss,  è la data adottata dalla National Education Association come giornata della promozione della lettura: il “Read across America day”.

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Di seguito i libri del Dr Seuss disponibili nella nostra lingua. Trattandosi di testi in rima, a dire la verità, varrebbe la pena considerare anche la lettura dei testi originali in Inglese. Per quanto riguarda l’età consigliata, rientrano nella fascia di ascolto  a partire dai quattro anni, ma possono sicuramente essere apprezzati anche dai bambini più piccoli, ad esempio, L’uovo di Ortone e Prosciutto e uova verdi. Piacciono poi a tutte le età, sia da leggere, sia da ascoltare.

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 L’uovo di Ortone – Horton hatches the egg

“Lo penso e lo dico, lo dico e lo penso, onor di elefante, al cento per cento!”

Questo racconto in versi ha al centro un elefante generoso e fedele che si prende l’impegno di covare l’uovo di un’allodola alquanto irresponsabile: alla fine l’amore vincerà anche le leggi di natura…

Un tipo affidabile e leale, Ortone l’elefante: la sua parola d’onore vale tanto oro quanto (lui) pesa. Una volta che ha promesso di badare all’uovo della signora Giodola, un’allodola, niente può schiodarlo dal nido. Neanche se il nido è su un albero, neanche se l’uovo dovrà covarselo tutto da solo per un sacco di tempo, a costo di fare figuracce, buscarsi raffreddori sotto la pioggia o vedersela con tre cacciatori armati fino ai denti. E quando, finalmente, il pulcino si decide a nascere…

E’ una storia che insegna ad essere tenaci e a mantenere le promesse. Piace anche ai bambini più piccoli grazie alle belle illustrazioni ed al testo in rima, ma è consigliato in particolare dai cinque agli otto anni.

Giodola (Mayzie) l’allodola è stanca di covare e vorrebbe prendersi una vacanza alle Canarie (Palm Beach), così chiede ad Ortone l’elefante di sostituirla perchè lei possa fare una “breve pausa”, che in realtà finisce col diventare un trasferimento permanente… Ortone all’inizio rifiuta, ma poi si presta ad aiutare la sua amica. Il tempo passa, e l’elefante resiste, continuando a covare il suo uovo… Lo spettacolo di un elefante seduto su un albero non passa inosservato nella giungla, e il povero Ortone viene deriso dagli amici, preso di mira dal cattivo tempo e dai cacciatori, e molto altro, ma non abbandona mai il piccolo uovo che gli è stato affidato.

Nonostante le difficoltà e anche quando è chiaro che Giodola non farà mai ritorno, Ortone continua a ripetere : “Lo penso e lo dico, lo dico e lo penso, onor di elefante, al cento per cento!” ed insiste a mantenere la sua parola.

Quando finalmente l’uovo si schiude, la creatura che ne esce è un’incrocio tra allodola ed elefante. Il nuovo nato e Ortone fanno felicemente ritorno nella giungla, e Giodola rimane sola.

L’uovo di Ortone è, tra quelli del Dr Seuss,  uno dei più amati, e rappresenta un classico della letteratura per l’infanzia. E’ una delicata favola sull’adozione raccontata con umorismo e leggerezza, attraverso rime ripetizioni e nonsense, e le illustrazioni che accompagnano il testo aiutano a sorridere mentre ci parlano di impegno, integrità e perseveranza.

Il gatto e il cappello matto – The Cat in the Hat” 

Il gatto
Regia di Bo Welch – Universal Pictures

“The Cat in the Hat” è, come già detto, il libro che ha inaugurato la collana “Beginner Books”, dedicata alla causa dell’alfabetizzazione di base negli USA. Il protagonista è un gatto antropomorfo che porta un grande cappello a strisce bianche e rosse sulla testa e un grande papillon rosso legato al collo. Il personaggio comparirà in altri cinque libri successivi: The Cat in the Hat Comes Back, The Cat in the Hat Song Book, The Cat’s Quizzer, I Can Read with My Eyes Shut! Daisy-Head Mayzie, e diventerà il logo dei libri del Dr Seuss.

La vicenda inizia col gatto matto che irrompe nella casa di due bambini (Sally e suo fratello) che se stanno seduti davanti alla finestra in un noioso giorno di pioggia,  portando allegria, esuberanza, trasgressione e caos, mentre la mamma è uscita.  Il gatto si lancia in ogni genere di acrobazia per divertire i due bambini, ad un certo punto arriva a tenere un numero impressionante di oggetti in equilibrio mentre sta in bilico su una palla. Poi prova portando in casa una grande scatola che contiene due strane creature: I Cosi (Thing One e Thing Two), che cominciano a far volare gli oggetti di casa come aquiloni. Le pazzie del gatto sono invano osteggiate dall’animale domestico di casa: un pesce molto saggio.

I bambini riescono alla fine a riprendere il controllo della situazione, catturano gli oggetti volanti con una rete e tranquillizzano il gatto, che, per rimediare ai guai procurati, ripulisce tutta alla casa alla perfezione e sparisce proprio un attimo prima del ritorno della mamma. La madre chiede ai bambini cosa hanno fatto mentre lei era fuori, ma la loro risposta  non si sa…

Da un punto di vista letterario, Il gatto e il cappello matto è una prodezza di abilità, dal momento che, utilizzando un vocabolario elementare e ridotto, riesce a raccontare in rima una storia ricca e divertente.

E’ un libro adattissimo alla lettura ad alta voce: i bambini ascolteranno rapiti e presto impareranno a memoria le brillanti rime che contiene.

Le immagini poi, si sposano meravigliosamente col testo. E’ consigliato a partire dai quattro anni, ma può essere presentato anche prima, e naturalmente poi a lettori, adulti e bambini di qualsiasi età,  che amino le rime e i racconti surreali.

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Ortone i e piccoli Chi – Horton hears a Who!” 

Ortone e il mondo dei Chi
Regia di Jimmy Hayward, Steve Martino – 20th Century Fox Home Entertainment

“”Io devo salvarlo, perché questo penso : ognuno è importante, sia piccolo o immenso.”

Seuss scrisse questa nuova avventura di Ortone nel 1954, e il ritornello che la caratterizza portò da subito a definirla come una lezione in rima a tutela delle minoranze e dei loro diritti.

La città dei piccolissimi Chi corre il rischio di essere distrutta e l’elefante Ortone, che ha sentito il grido d’aiuto dei suoi piccoli abitanti,  cerca in tutti i modi di difenderli. La città dei Chi è davvero piccolissima: sta tutta intera in un granello di polvere. Ortone decide di chiedere aiuto ai suoi amici della giungla, ma le scimmie, i canguri e tutti gli altri animali non gli credono, lo prendono in giro e cercano di fargli credere che è diventato matto.

Ortone non si scoraggia,  trova un modo molto rumoroso per dimostrare a tutti l’esistenza dei suoi nuovi minuscoli amici, e facendosi aiutare proprio da loro, fa capire a tutti gli animali della giungla che ogni essere, seppur minuscolo e invisibile, va rispettato e aiutato. E tutti, Ortone, i suoi amici più piccoli e i suoi amici più grandi, imparano l’importanza del lavorare insieme per il bene comune.

Per molti è, insieme a Prosciutto e uova verdi, tra i più bei libri del Dr Seuss, per la sua comicità surreale e per la capacità dell’autore di trattare temi universali come l’uguaglianza in modo spontaneo e sincero, senza retorica e in un modo che parla davvero al cuore dei piccoli (e grandi) lettori.

E’ consigliato a partire dai cinque anni d’età, ma vale quanto detto per i libri precedenti.

Il ritorno del gatto col cappello – The Cat in the Hat Comes Back

“…anche io per fortuna, ho un esperto aiutante!”

Ancora una volta, la mamma ha lasciato Sally e suo fratello soli a casa, ma questa volta dando loro l’incarico di sgombrare il giardino dalla gran quantità di neve che è caduta in quei giorni, mentre lei è via.

I due fratellini si mettono all’opera, quando all’improvviso riappare il gatto matto, e ricominciano i guai…

Come se non bastasse, questa volta è accompagnato da tanti piccoli amici. 26, per la precisione e ciascuno chiamato a suo modo: A, B, C, D, E, F, G, H,…

… una prima introduzione alle lettere dell’alfabeto.

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Gli Snicci e altre storie – The Sneetches and Other Stories

Gli Snicci sono dei simpatici animaletti che si dividono in due categorie: quelli con una stellina verde sulla pancia e quelli senza.

I primi si sentono superiori, finché nel loro mondo non si presenta uno strano personaggio capace di mettere e togliere le stelle a piacere…

Che paura! e Troppi Cicci sono le altre due storie in rima contenute in questo libro dove, fra l’altro, ci capita anche di vedere un paio di pantaloni andare in giro da soli! 

Fu allora che si mossero. Quei pantaloni vuoti!
Sembrava che saltassero, così, senza piloti!

Tre storie in un solo libro, tanti personaggi per ridere e riflettere…

Gli Snicci (Sneetches)  è un racconto pensato dal Dr Seuss come satira della discriminazione tra razze e culture, ispirato in particolare dalla sua opposizione all’antisemitismo .

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Prosciutto e uova verdi –  Green eggs and ham

“Sono Nando, sono Nando detto Ferdi… vuoi prosciutto e uova verdi?”

“I am Sam, Sam I a m… do you want green eggs and ham?”

Una delle opere più conosciute del Dr. Seuss, sia per la vivacità delle immagini, sia per la simpatia del testo, che verte attorno a un vassoio contenente un insolito cibo colorato…

“No al prosciutto e uova verdi, non li voglio, detto Ferdi!”

Un personaggio noto come “detto Ferdi” (Sam I Am) assilla un altro personaggio per convincerlo ad assaggiare un piatto dall’aspetto molto bizzarro: prosciutto e uova verdi.

Lui rifiuta, ma “detto Ferdi” non demorde, lo segue e gli chiede se vuole assaggiarli magari in un posticino speciale oppure in compagnia di qualcuno in particolare, proponendogli un alto ramo, un’auto, una galleria, una cassa, un topino, una capretta, una volpe, un tavolino…

Alla fine, pur di liberarsi dallo scocciatore, la vittima accetta di assaggiare la pietanza e scopre che gli piace, ma così tanto da dichiarare di volerne mangiare ancora ” in barchetta! Anche insieme alla capretta…E anche sotto l’acquazzone. E sul treno. E in galleria. E sull’auto. E sul ramo. Che delizia, mamma mia!”.

Uno dei libri più belli e divertenti del Dr Seuss, consigliato da Nati per leggere a partire dai tre anni d’età. Può essere utile per vincere la diffidenza dei bambini nei confronti dei cibi nuovi.  

L’ottima traduzione italiana restituisce, dell’originale, la vivacità e la bizzarria delle scelte lessicali, la rima e il gioco della ripetizione e dell’accumulo.” 

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 C’è un mostrino nel taschino – There’s a wocket in my pocket!

Simpatici o antipatici, gentili o dispettosi, tanto piccoli da entrare nel taschino o grandi a tal punto da riempire il divano, questi mostri e mostrini sono proprio dappertutto!… ma non si sta poi tanto male in una casa così! 

I mostrini sono dappertutto: Basetto nel cassetto, Cavello nel lavello, Ploccia nella doccia, Uvano sul divano, Famino nel camino, Sottiglia nella bottiglia…

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La battaglia del burroThe butter battle book

Gli Zighi e gli Zaghi (Yooks e Zooks) sono due popolazioni tra loro in lotta per uno strano motivo: gli uni imburrano le fette di pane nella parte superiore, gli altri inferiore.

Da questa insignificante (ma per loro importantissima) diversità scaturisce un conflitto destinato sempre più a inasprirsi, con l’uso di tante e strampalate armi, fino a quando…

Il libro contiene anche la storia dei Rax, due esseri scorbutici e litigiosi, che si accapigliano per un diritto di precedenza.

”La battaglia del burro” è stato per sei mesi nella classifica del New York Times dei libri più venduti al pubblico adulto, unico libro per ragazzi cui sia toccato un così prestigioso e prolungato riconoscimento.

E correndo arruffato, fui da un grido gelato:

“Se tu spruzzi noi Zaghi, tu sarai rispruzzato!”

La follia della guerra, la corsa agli armamenti e l’odio razziale…

Questo libro è stato scritto durante la Guerra Fredda, e riflette le preoccupazioni del tempo, in particolare la percezione della possibilità della fine della vita a causa di  una guerra nucleare.

Zighi e Zaghi vivono su lati opposti di una lunga parete curva, abbastanza simile al Muro di Berlino . Il conflitto tra le due parti porta ad una corsa agli armamenti , e i due popoli cominciano a competere tra loro per chi realizza armi più grandi ed efficienti dell’altro.

Nessuna soluzione viene raggiunta alla fine del libro, che si chiude con i generali di entrambe le fazioni sul muro, pronti entrambi  a far cadere le loro bombe, e in attesa di vedere chi lo farà per primo.

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Il paese di Solla Sulla – I had a trouble in getting to Solla Sollew

Uno strampalato e avventuroso viaggio in rima verso il paese di Solla Sulla sulle acque del fiume Trastulla, laddove ”soffre poco chi è là, quasi nulla”.

Nel consueto ritmo e umorismo, proprio dei libri del Dr. Seuss, anche questa volta la voce narrante si trova coinvolta in molteplici incontri/scontri con problemi, personaggi, ambienti che divertono il lettore.

Un libro che insegna a non scappare dai guai, ma ad affrontarli. Il protagonista si avvia alla ricerca di Solla Sulla, città dove si soffre poco o quasi nulla, per evitare i suoi guai.

Per raggiungerla ne passa di tutti i colori, e quando arriva scopre che un piccolo, piccolissimo guaio, rende la città inagibile. Che fare? andarsene a Bao Baba Ballero, dove non soffre nessuno davvero? oppure….. tornarsene a casa e affrontare i propri guai?

Da oggi in poi sono pronto.
I miei guai si preparino…
io NON TEMO lo scontro!”

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Il LoraxThe Lorax

Lorax. Il guardiano della foresta
Regia di Chris Renaud, Kyle Balda – Universal Pictures

Il Lorax è un ometto un po’ scontroso, una piccola sentinella che difende gli alberi e gli animali della felice foresta dei Lecci Lanicci.

Un giorno, però, in quel paradiso giunge l’intraprendente Chi-Fu e le cose cominciano a cambiare…

Una storia divertente e bizzarra, scritta nel 1971 dal grande Theodor Geisel, in arte Dr. Seuss, che ci ricorda che in ogni angolo del mondo rischiamo di perdere le nostre risorse naturali. A meno che… 

 “Sono il Lorax. E per gli alberi parlo. Io parlo per gli alberi perché voce non hanno.” 

Riferimenti nel web:

http://en.wikipedia.org/wiki/Dr._Seuss

http://www.seussville.com/

http://www.annasarfatti.it/css/home_static.htm

Anna Sarfatti, Il Dr. Seuss, lo scrittore per bambini che inventò l’alfabeto oltre la Z

http://www.giuntistore.it/customer/search.php?in_id_collana=473

http://www.lafeltrinelli.it/catalogo/aut/214917.html

Naturalmente nel web ci sono moltissimi spunti di lavoro che hanno come base di partenza la lettura dei libri del Dr Seuss; sto raccogliendo il materiale qui:

Gnometti sabbiolini TUTORIAL e RACCONTO

Gnometti sabbiolini TUTORIAL con cartamodello stampabile gratuitamente in formato pdf e RACCONTO. Il tutorial può essere utile anche per realizzare gli Gnomi della Matematica Waldorf (verde, rosso, giallo e blu).

L’omino del sonno
C’è un omino piccino piccino
che va in giro soltanto di sera
e cammina pianino pianino
con un sacco di polvere nera.
E’ l’omino inventor del dormire
che nel lungo serale cammino
senza farsi veder ne’ sentire
porta il sonno per ogni bambino.
Non si sa se sia bello o sia brutto
se sia vecchio più o meno del nonno
si sa solo che va dappertutto
e che lascia, passando, un gran sonno.
Quando stanchi si senton gli occhietti
è perché sta passando l’omino
ed è l’ora in cui tutti i bimbetti
fan la nanna nel loro lettino!
(J. Colombini Monti)

Materiale occorrente:

– tessuto (io ho usato la manica di una vecchia maglia)
– maglina per bambole
– lana bianca per imbottire e per barba e capelli
– ago, filo, forbici
– semi di lino e fiori di lavanda

Come si fa:
Riportate il cartamodello sul tessuto e tagliate:

(il cartamodello è questo):

Poi fate la prima cucitura così (a mano o con la macchina da cucire):

Sovrapponete così il dietro (quello che avete parzialmente cucito) al davanti e cucite; cucite anche il berretto:

Quindi rivoltate sul dritto:

Ora prepariamo la testina. Facciamo un nodo, poi usiamo i ciuffi che avanzano per formare una pallina, tipo gomitolo:

Rivestiamo la pallina con una falda di lana, chiudiamo sul collo, poi facciamo una legatura per dividere volto da cranio, e sul volto passiamo lungo la metà un filo, tiriamolo bene e fermiamo, per formare la linea degli occhi:

Arrotoliamo del filo intorno al collo:

Rivestiamo con la maglina e aggiungiamo una pallina per il naso:

Con un cucchiaino riempiamo il corpo dello gnomo di semi di lino e fiori di lavanda:

Quindi cuciamo intorno al collo, ricamiamo occhi e bocca, aggiungiamo barba e capelli, e se vogliamo un sacchettino di stoffa pieno di semini, e lo Gnomo Sabbiolino è pronto:

Ma chi è lo Gnomo Sabbiolino?

Si tratta di un personaggio che fa parte della cultura popolare di molti paesi; presente anche in alcune regioni italiane,  è molto celebrato in particolare in Germania come “Sandmann” .

L’omino del sonno
Ha un lume sul cuore,
ma fioco fioco,
Appena un chiarore.
L’omino del sonno
Ha scarpe di panno,
Quando cammina
Rumore non fanno.
L’omino del sonno
Ha in testa un berretto,
Di lana calda,
Per stare a letto.
L’omino del sonno
Va in giro in vestaglia,
Tutta rossa,
Fatta a maglia.
L’omino del sonno
Ha in mano un sacchetto
Con due cordelle
Legato stretto.
Dentro il sacchetto
Ha una polverina
Che non si vede, leggera fina
Butta la polvere lesto l’omino:
Già dorme il bimbo, lui spegne il lumino.
(M.Martini)

Ha molti nomi, è anche Mago Sabbiolino e Orco Sabbiolino (se porta sogni brutti), Ole-Luk-Oie, Sandmann, Ole Chiudigliocchi, Serralocchi, ecc…

La storia tradizionale è all’incirca questa:

“Sabbiolino è un nano che porta un grosso sacco sulle spalle. Tutte le  sere, al crepuscolo, si toglie le scarpe per non fare rumore e viene da noi, nel mondo degli umani. E ‘così piccolo e così bravo a nascondersi, che nessuno riesce a vederlo e nessuno saprebbe riconoscerlo. Questo è un gran bene, perchè se per disgrazia capitasse ad un umano di vederlo, il povero Sabbiolino svanirebbe nel nulla…

Sabbiolino ha molto, molto lavoro da fare ogni sera! Deve far visita a tutti i bambini che devono addormentarsi nei loro caldi lettini…  e così saltella e svolazza per tutta la notte. Prima va dai bambini più piccoli.  Aspetta che nelle camerette ci sia buio, per non farsi vedere, si mette davanti al lettino, apre il suo sacco e prende due chicchi di sabbia.

Appena il bambino chiude gli occhi,  posa delicatamente i granelli uno sull’occhio destro e uno sull’occhio sinistro, e comincia a raccontare una storia nell’orecchio del piccolo: “C’era una volta un bambino che partì per  il deserto, in cerca di fiabe. Il suo villaggio le aveva perse tutte, insieme alla fantasia, e il bambino, anche se piccolo, era determinato e coraggioso, e voleva ritrovarle e riportarle al villaggio. Cammina cammina, arrivò ad una foresta di pietra, e lì trovò uno scrigno con scritto il suo nome. Meravigliato lo aprì e vi trovò…”

Arrivato a questo punto della storia Sabbiolino si ferma, il bambino si è ormai addormentato dolcemente, a volte ha anche iniziato a russare, e può sognare il seguito della storia. Silenziosamente il nano esce dalla cameretta e va a trovare un altro bambino.

Quando ha terminato il suo lavoro coi più piccoli, Sabbiolino va a far visita anche ai bambini più grandi, ma per farli addormentare invece della sabbia, usa chicchi di mais, che soffia sui loro occhi, e anche loro si addormentano felici.

Il suo è un lavoro molto importante, perchè se per caso si dimenticasse di un bambino, il poverino non potrebbe dormire per tutta la notte…

Nessuno, nemmeno i bambini possono vedere Sabbiolino, ma almeno i bambini possono vedere, al mattino, una piccola traccia che il nano lascia per loro: la sabbiolina negli occhi…”

Esistono innumerevoli varianti, a volte Sabbiolino si serve di un’asina per compiere il suo lavoro, altre volte spruzza latte negli occhi, o polvere di stelle, ecc…

Dalla tradizione alla letteratura, esistono due famosi racconti che hanno per protagonista Sabbiolino.
Il primo é Ole-Luk-Oie, di Hans Christian Andersen:

“In tutto il mondo non c’è nessuno che sappia tante storie quante ne sa Ole Chiudigliocchi. E come le sa raccontare! Verso sera, quando i bambini sono ancora seduti a tavola, o sulle loro seggiole, arriva Ole Chiudigliocchi, sale le scale silenziosamente, perché cammina senza scarpe, apre lentamente la porta e plaff! spruzza un po’ di latte negli occhietti dei bambini, poco, poco, ma comunque abbastanza perché loro non riescano più a tenere gli occhi aperti e perciò non lo vedano; sguscia dietro di loro, gli soffia dolcemente sul collo e subito sentono la testa pesante, ma non tanto da far male; perché Ole Chiudigliocchi vuole il bene dei bambini, desidera soltanto che stiano tranquilli, e loro sono davvero tranquilli solo quando finalmente vanno a letto e devono stare zitti perché lui possa raccontare le sue storie. Quando i bambini finalmente dormono, Ole Chiudigliocchi si siede sul loro letto; ha un bel vestito, un mantello di seta, ma è impossibile dire di che colore è perché a ogni suo movimento ha riflessi ora verdi, ora rossi, ora blu. Tiene sotto le braccia due ombrelli, uno pieno di figure, e lo apre sopra i bambini buoni che così sognano per tutta la notte le storie più belle, l’altro invece non ha niente e viene aperto sui bambini cattivi che così dormono in modo strano e quando si svegliano la mattina, non hanno sognato niente. Ora ascoltiamo come Ole Chiudigliocchi per tutta una settimana si è recato da un bambino di nome Hjalmar, e sentiamo che cosa gli ha raccontato. Sono sette storie in tutto, perché ci sono sette giorni in una settimana…”

Puoi leggere il seguito qui:
http://www.paroledautore.net/fiabe/classiche/andersen/ole.htm
http://www.softwareparadiso.it/studio/letteratura/40_novelle/il_folletto_serralocchi.html

Il secondo è Der Sandmann, L’Uomo della Sabbia,  di E.T.A. Hoffmann, che se volete potete leggere qui. In questo caso l’uomo di sabbia è una sorta di uomo nero, inserito in un racconto gotico che ha avuto grande successo, e che è stato anche analizzato da Freud.

Sulla storia Der Sandmann è basato anche il balletto  Coppelia.

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