Racconti per la primavera

Racconti per la primavera – una collezione di racconti, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria…

Racconti per la primavera – Storia del bruco Morbidone
C’era una volta una farfallina azzurra, molto graziosa nel suo vestito di seta celeste. Volava insieme a tante altre farfalline azzurre. Disse: “Conosco un magnifico posto per deporre le uova. I nostri piccini avranno una culla da re”.
Questo magnifico posto era un melo in fiore e le farfalline deposero un piccolo uovo in ogni fiore, poi morirono, perchè le farfalle, quando hanno pensato ai piccolini che debbono nascere, non hanno più nulla da fare.
I fiori del melo perdettero i petali e pian piano si trasformarono in frutti. Ma in ognuna di quelle piccole mele che il sole coloriva e faceva diventare sempre più grosse, c’era un bacolino appena nato dall’uovo deposto dalle farfalline azzurre, un bacolino che aveva trovato la casa e insieme la polpa saporita da mangiare.

Il bruco Morbidone era uno di questi bacolini, e poichè era dotato di grandissimo appetito, in breve era diventato grasso e ben pasciuto. Anche la mela diventava grossa e si coloriva al sole, ma non era allegra perchè non aveva nessun piacere di sentirsi divorare tutta la polpa da quel ghiottone di bruco.
Morbidone si era aperta una finestrina nella buccia della mela e ogni mattina vi si affacciava per prendere il fresco e per scambiare qualche chiacchiera con i suoi compagni. Ma un giorno sentì uno strattone che lo mandò a ruzzolare in fondo alla casetta.
“Che maniera!” strillò. Ma non aveva finito di gridare che sentì dei denti entrare profondamente nella mela e mancò poco che venisse schiacciato.
“Puah, c’è il verme!” disse una voce e la mela venne scagliata lontano.
Il bruco Morbidone, non appena si fu riavuto dal colpo, si affacciò alla finestrina e con voce soffocata dall’indignazione, si mise a strillare: “Chi è questo ignorante che mi chiama verme? Verme sarà lui e tutti i suoi discendenti! Non lo sa che io appartengo alla specie dei bruchi e con i vermi non ho proprio nulla in comune?”.
“Ah, non sei un verme?” disse una coccinella che si lustrava la corazza. “Ma gli somigli!”.
“Non gli somiglio nient’affatto!” gridò il bruco Morbidone, che aveva un carattere piuttosto irascibile. “Il verme ha forse le zampe? Non hai mai visto un lombrico? Quello sì che è il campione di tutti i vermi! E ti pare che abbia le zampe? Io, invece, ne ho ben cinque paia, anche se due paia le perderò strada facendo”.

“Uh, perdi le zampe!” sghignazzò la coccinella, “E quando succederà?”
Ma il bruco Morbidone, indignato, aveva sbattuto la finestrina borbottando: “Che razza d’ignorante!”.
Si guardò intorno e si sentì improvvisamente molto triste e malinconico. Neppure la polpa della mela gli piaceva più.
“Forse ho fatto indigestione”, pensò. “E’ meglio che vada a fare una passeggiata”.
Si attaccò a un filo di seta, finissima produzione propria, e si calò dalla finestrina. Un soffio d’aria lo fece dondolare dolcemente, e i fiori gli mandarono un’ondata di profumo.
“Come è bello il mondo!”, mormorò il bruco Morbidone, e si addormentò.
Quando si destò, era primavera. Le violette odoravano dolcemente fra l’erba novella.
“Buongiorno, farfallina azzurra!” disse una lumachina che si arrampicava sullo stelo di un rosaio.
“Dici a me? Ma io sono il bruco Morbidone!”
“Forse lo eri”, disse la lumachina ritirando maliziosamente un cornino. “Ma ora sei una bella farfallina vestita di velo celeste. Puoi specchiarti in una goccia di rugiada”.
“E’ vero, è vero!” esclamò il bruco Morbidone diventato farfallina, dopo esseri specchiato. “Questa è una bellissima sorpresa”.
Pazza di gioia, la farfallina si mise a volare nell’aria tranquilla e si mescolò a uno sciame di farfalline simili a lei, che svolazzavano sopra i fiori. E allora, un ricordo lontano affiorò nella sua piccola mente, il ricordo di un buon sapore di mela…
“Conosco un posto” disse alle compagne, “un magnifico posto per deporre le uova…”
E la storia ricominciò.
(Mimì Menicucci)

Racconti per la primavera – La rosa più bella del mondo

Quando la Rosa Bella aprì gli occhi alla luce del mattino, fu molto contenta di essere sbocciata.
“Buongiorno!” le disse un petulante Garofano Rosso. “Sei la Rosa Bella?”
“Sì, ma non mi basta. Voglio essere la rosa più bella del mondo.”.
Il Garofano la guardò stupefatto.
“Accipicchia!” esclamò “Accipicchia!” e non seppe aggiungere altro.
Lo Gnomo Puc, che si era svegliato di ottimo umore perchè aveva dormito sotto una pianta di papavero che gli aveva conciliato il sonno, finì di pettinarsi la barba, poi disse: “E’ facile. E’ una cosa facilissima”.
Subito la rosa diventò tutta d’oro, petali, foglie, tutto, e si ritrovò fra le mani del re, perchè soltanto i re posso avere delle rose d’oro.

“E’ una rosa bellissima” disse il re contemplandola “un vero capolavoro. Ma io, oltre a essere re sono anche poeta e preferisco le rose dai petali di velluto”.
“Gnomo Puc!” chiamò la Rosa Bella, e lo gnomo Puc venne subito, a cavalcioni della sua pipa.
“Che c’è?”
“Credevo che la rosa d’oro fosse la rosa più bella del mondo. Invece non è vero. Voglio essere una rosa di velluto”.
Lo gnomo Puc la toccò con la cannuccia della sua pipa e subito la Rosa d’oro divenne di velluto e si trovò appuntata sulla pelliccia di una signora.
“Bellissima questa rosa di velluto!” disse qualcuno toccandola con un dito.
“Sì” rispose la signora “ma, come tutte le rose di velluto, non ha odore. Il più umile fiorellino di campo odora più di questa rosa artificiale. E perciò non ha nessun valore.”
“Gnomo Puc!” gridò la rosa di velluto.
“Che cosa succede?” chiese questi, accorrendo.

“Mi hanno chiamato una rosa artificiale e hanno detto che non ho nessun valore. Che cos’è che ha più valore di tutto, per gli uomini?”
“Lasciami pensare cinque minuti” disse lo gnomo Puc. Si mise a pensare con la testa tra le mani, poi guardò l’orologio e disse: “Ecco fatto. Più valore di tutto, per gli uomini, ce l’ha il diamante.”.
“Bene!” esclamò la Rosa “Fammi diventare una rosa di diamanti”.
Lo gnomo Puc la contentò. La Rosa sfolgorò e mandò sprazzi di luce dalle gemme di cui era composta. Un uomo la guardava attentamente con la lente nell’occhio.
“Perfetta…” mormorò “un valore inestimabile.”
Poi la mise in un astuccio di raso e la ripose nella cassaforte.
La Rosa si trovò al buio.
“Dove sono?” gridò.
Le rispose un tintinnio che sembrò una risata beffarda.
“Sei nella cassaforte di un avaro” disse una voce sottile.
“Chi ha parlato?”
“Siamo delle monete d’oro, condannate, come te, a un brutto destino: non vedere mai il sole”.
“Gnomo Puc!” gridò la Rosa “Vieni subito d’urgenza!”.
“Eccomi!” disse lo gnomo Puc, che poteva entrare anche nelle casseforti. “Com’è, non sei contenta?”
“Nient’affatto!” disse la Rosa “Voglio ritornare dov’ero quando sono nata”.
E subito tornò ad essere la Rosa Bella del giardino.

Tutti le fecero festa e la riempirono di complimenti.
Poi scesero in giardino due bambine e si misero a cogliere i fiori. Colsero molti fiori, anche il Garofano Rosso e la Rosa Bella che misero proprio al centro del mazzo. Poi andarono dalla mamma e glielo regalarono.
“Oh, come sono brave le mie bambine!” esclamò la mamma” Mi hanno regalato un mazzolino stupendo. Questa rosa, poi, è certo la più bella rosa del mondo”.
Lo gnomo Puc, che ascoltava dietro la porta, si stropicciò le mani, soddisfatto.
Mimì Menicucci

Racconti per la primavera – Il pettirosso di mamma Orsa

Un giorno di primavera, quando mamma Orsa era piccola, trovò un piccolo pettirosso in giardino, troppo piccolo per volare.
“Oh, come sei carino” disse, “Da dove vieni?”
“Dal mio nido” rispose il pettirosso.
“E dov’è il tuo nido, piccolo pettirosso?”, domandò mamma Orsa.
“Credo che sia lassù” rispose il pettirosso.
“No, quello era il nido del passerotto”
“Forse è più in là” disse il pettirosso.
“No, quello era il nido del merlo”.
Mamma Orsa guardò da tutte le parti, ma non riuscì a trovare il nido del pettirosso.
“Puoi vivere con me” disse, “sarai il mio pettirosso”.
Portò il pettirosso a casa e gli preparò un nido.
“Mettimi vicino alla finestra, per favore” disse il pettirosso. “Mi piace guardar fuori e vedere gli alberi e il cielo”
Mamma Orsa lo mise vicino alla finestra.

“Oh” disse il pettirosso “dev’essere divertente volare lì fuori”
“Sarà divertente anche volare qui dentro” rispose mamma Orsa.
Il pettirosso mangiava, cresceva, cantava. Presto imparò a volare. Volava in giro per la casa e si divertiva, proprio come mamma Orsa aveva detto.
Ma un giorno che era triste, mamma Orsa gli domandò: “Perchè sei triste, piccolo pettirosso?”
“Non lo so” rispose il pettirosso, “il mio cuore è triste”.
“Prova a cantare una canzone” disse mamma Orsa.
“Non posso” rispose il pettirosso.
Gli occhi di mamma Orsa si riempirono di lacrime. Portò il pettirosso in giardino.
“Ti voglio bene, piccolo pettirosso” disse “e voglio che tu sia felice. Vola via, se vuoi. Sei libero”.
Il pettirosso si alzò alto in volo nel cielo azzurro.
Cantò una canzone dolce e acuta.
Poi tornò giù, dritto verso mamma Orsa.
“Non essere triste” disse il pettirosso, “anch’io ti voglio bene. Devo volare per il mondo, ma ritornerò. Ogni anno, ritornerò”.
Allora mamma Orsa gli dette un bacio, e il pettirosso volò via.
(Else Holmelund Binarik)

Racconti per la primavera – La rondine
Il primo stormo di rondinelle arriva fra le vecchie case del borgo. Ciascuna cerca il suo nido, e se lo trova sciupato dal vento, dalla pioggia, dalla neve, la rondine va in cerca di fuscelli, di bioccoli sulla siepe, per ripararlo.
C’è una rondinella che arriva un po’ in ritardo.
Alcune compagne curiose e pettegole le volano incontro, la circondano:
“Sai, il tuo nido è occupato”
“C’è dentro una pesseretta”
“Quando ci ha viste s’è avventata col becco spalancato”
“Non vuole uscire”
“Dobbiamo scacciarla”
“E’ una prepotente”
“E’ un’intrusa”
“Andiamo a vedere” fa la rondine, già sdegnata, perchè è stato occupato il suo nido.”Vedrete, ci penso io!”
E vola verso il campanile.

Eccolo il suo nido, sotto l’arcata.
La rondinella si lancia a volo presa dall’ira… ed ecco, trova tre testoline ancora implumi, tre beccucci spalancati, tre passerini affamati.
“Andiamo” dice la rondine alle compagne “Mi aiuterete a costruirmi un nido nuovo”
“Come? Come? Vorresti…”
“Poveri passerotti, sono tanto piccini…” dice la rondine con un cinguettio commosso.
(Eugenia Graziani Camillucci)

Racconti per la primavera – Marzo e il pastore
Una mattina, sul cominciare della primavera, un pastore uscì con le pecore e incontrò Marzo per la via. Disse Marzo: “Buongiorno, pastore, dove le porti oggi le pecore?”
“Eh, Marzo, oggi vado al monte!”
“Bravo pastore, fai bene, buon viaggio!” E fra sè disse “Lascia fare a me; oggi i innaffio io per bene!”
Il pastore, però, che l’aveva squadrato ben bene in viso, aveva fatto tutto il contrario. La sera, nel tornare a casa, incontrò di nuovo Marzo.

“Ehi, pastore, com’è andata oggi?”
“E’ andata benone. Sono stato al piano: una bellissima giornata, un sole che scottava.”
“Ah, sì? Ci ho gusto!” (e intanto si morse un labbro) “E domani dove andrai?”
“Domani tornerò al piano. Con questo bel tempo…”
“Bravo, addio!”
E partirono. Ma il pastore, invece di andare al piano, andò al monte; e Marzo giù acqua e vento e grandine al piano. La sera trovò il pastore.
“Oh pastore, buonasera! E oggi com’è andata?”
“Benone! Sai, sono andato al monte. E’ stata una giornata d’incanto. Che cielo! Che sole!”
“Bravo pastore… e domani dove andrai?”
“Eh, domani andrò al piano!”
Insomma, per farla corta, il pastore gli disse sempre il contrario, e Marzo non ce lo potè mai beccare. Si arrivò così alla fine del mese.

L’ultimo giorno Marzo disse al pastore: “Eh beh pastore, come va?”
“Va bene,ormai è finito Marzo e sono a cavallo. Non c’è più paura e posso star tranquillo…”
“Dici bene,e domani dove andrai?”
“Domani vado al piano, faccio più presto”
“Bravo, addio!”
Allora Marzo in fretta e furia andò da Aprile, gli raccontò la cosa e, infine, gli disse: “Ora avrei bisogno che tu mi prestassi un giorno”.
Aprile, senza farsi pregare, gli prestò un giorno.
La mattina dopo, il pastore fece uscire le pecore e andò al piano come aveva detto. Ma, quando fu una certa ora e il gregge era sparso per i prati, cominciò una ventipiova da fare spavento; acqua a ciel rotto, vento e neve e grandine. Il pastore ebbe da fare e da dire a riportare le pecore all’ovile.
La sera Marzo andò a trovare il pastore, che era là nel canto del fuoco, senza parole, tutto malconcio, e gli chiese ironico: “Oh pastore, buona serata! Oggi com’è andata?”
“Ah, Marzo mio, sta’ zitto, sta’ zitto, per carità! Oggi è stata proprio nera. Peggio di così neanche a mezzo gennaio; si sono scatenati per aria tutti i diavoli dell’inferno.”
E’ per questo che marzo ha trentun giorni; perchè ne ha preso in prestito uno da aprile.
(I. Neri)

Racconti per la primavera – La leggenda del tuono
Una mattina, Nube Bianca, una graziosa bimba pellirossa, mentre si chinava al allacciare un sandalo, notò ai suoi piedi una lumaca.
Infastidita, con un calcio la buttò lontano e riprese il suo cammino. Passarono molte ore e Nube Bianca non fece ritorno a casa.
I fratelli l’attesero a lungo; poi, preoccupati, incominciarono a chiamarla: “Nube Bianca, dove sei? Nube Bianca, rispondi!”
Corsero a destra e a sinistra, e finalmente la videro. Stava immobile sulla cima di una rupe.
“Scendi, Nube Bianca! Cosa fai lassù?”
“Non posso muovermi” rispose tristemente la sorellina “sono stata punita per aver maltrattato una lumaca. Potrò scendere solo se venite a prendermi”.

“Proviamo a salire” propose il maggiore dei fratelli “dobbiamo salvarla”.
Purtroppo la roccia era troppo ripida e i quattro ragazzi, ad ogni tentativo di arrampicarsi non facevano che scivolare indietro.
“E se ci costruissimo delle ali con il legno di quel cedro laggiù?” propose il fratello maggiore.
Corsero a staccare i rami, li intrecciarono, e se li legarono sulle spalle. Ma fecero solo qualche metro e ripiombarono a terra.
“Proviamo a costruirle più leggere” disse uno dei fratelli.
Tornarono tutti e quattro di corsa al villaggio, raccolsero le lische dei salmoni lasciate sulla riva da alcuni pescatori e le legarono con striscioline di pelle.

“Facciamo presto! Tu lega le ali alle mie spalle. Io aiuto Freccia Rossa, che è troppo piccolo per arrangiarsi da solo. Siamo pronti? Alziamoci in volo insieme!”
Il vento che vide i loro sforzi, si commosse e soffiò forte. I ragazzi non fecero che un lieve movimento. Esso li sollevò e li accompagnò fino alla capanna.
Ma appena i quattro fratelli ebbero deposto Nube Bianca a terra, un nuovo colpo di vento li alzò e li portò lontano nel cielo.
“Addio… addio…” ripeterono a lungo, finché svanirono per sempre. Ammirato dal loro coraggio, il vento li aveva trasformati in tuoni.
Da allora i pellirosse della costa del Pacifico, quando si scatenano grossi temporali, riconoscono nei tuoni i quattro fratelli coraggiosi.

Racconti per la primavera – Marzo irrequieto
Tre erano i figlioli della Primavera: Marzo, Aprile e Maggio. A questi tre ragazzi la Primavera delegava, per un mese ciascuno, il governo dei venti e, quando le cose erano nella mani di Marzo, la prima a tremare era la madre.
Delle cose del cielo in quel mese non se ne capiva nulla: ora il cielo scottava come in giugno, ora una tramontana gelata scendeva dai monti e faceva rabbrividire i germogli; ora il cielo si copriva di nubi come in gennaio e quel pazzo monello, dopo aver raccolto sulle montagne burrasche di neve e di tempesta, le scagliava per la campagna, facendo strage di fiori e di gemme.

Un giorno sua madre gli disse: “Senti, Marzolino mio, tu sai: in tutto l’inverno ho accumulato un subisso di nuvole sporche che ora vorrei lavare. Ti prego di farmi qualche giorno di bel tempo, con un bel sole forte, perchè voglio fare il bucato di tutto ed asciugarlo il più rapidamente possibile”.
Marzo, naturalmente, si diede a rassicurare compiutamente la madre e l’indomani la Primavera, in gran faccende, a mezzogiorno aveva già steso al sole, che splendeva magnifico in cielo, una gran quantità di panni candidi.

Tutto andava per il meglio, quando Marzo, affacciatosi da un angolo dell’orizzonte, vedendo quel candido bucato disteso sui monti e la mamma tutta intenta a sciabordare nelle acque profonde, fu preso da uno di quegli irresistibili impeti di monelleria che sono il meglio e il peggio del suo carattere.
“Che bella cosa” disse tra sè “portare un po’ in giro tutto quel bucato! Mia madre è tanto, tanto carina quando corre qua e là, coi capelli in aria, a raccattare i suoi panni!”

Detto fatto, apre l’otre dei venti ed ecco un furioso maestrale mettersi a correre come un matto verso la pianura. Solleva nuvole di polvere, scavezza ramoscelli, sbatacchia rabbiosamente le chiome degli alberi e finalmente si precipita sul bucato: lenzuoli, tovaglie, camicie, tutto all’aria! Qualche lenzuolo si straccia sui cespugli della montagna, altri vengono sollevati e trasportati a precipizio nell’azzurro e sul mare: il cielo è tutto pieno di stracci variopinti, sbattuti qua e là dalla furia del vento.

La povera Primavera, disperata, coi capelli all’aria, corre per i campi cercando di agguantare a volo quei panni volanti, e grida e chiama e si aggrappa agli alberi per non essere sbattuta via anche lei dalla tempesta.
E intanto uno squillo di risa argentine risuona per le campagne: ridono rombando gli alberi dei boschi, ridono le fontane, e ride pazzamente Marzo, con i grandi occhi azzurri spalancati dietro le cime dei monti.
(M. Spano)

Racconti per la primavera – Gli uomini di burro

Giovannino Perdigiorno, gran viaggiatore e famoso esploratore, capitò una volta nel paese degli uomini di burro. A stare al sole si squagliavano, dovevano vivere sempre al fresco, e abitavano in una città dove al posto delle case c’erano tanti frigoriferi. Giovannino passava per le strade e li vedeva affacciati ai finestrini dei loro frigoriferi, con una borsa del ghiaccio in testa. Sullo sportello di ogni frigorifero c’era un telefono per parlare con l’inquilino.
“Pronto”
“Pronto”
“Chi parla?”
“Sono il re degli uomini di burro. Tutta panna di prima qualità. Latte di mucca svizzera. Ha guardato bene il mio frigorifero?”
“Perbacco è d’oro massiccio. Ma non esce mai di lì?”
“D’inverno, se fa abbastanza freddo, in un’automobile di ghiaccio.”
“E se per caso il sole sbuca d’improvviso dalle nuvole mentre la vostra maestà fa la sua passeggiatina?”
“Non può, non è permesso. Lo farei mettere in prigione dai miei soldati”.
“Bum” disse Giovannino. E se ne andò in un altro paese.
(G. Rodari)

Racconti per la primavera – Il fiore
C’era un bocciolo che faticava ad aprirsi. Era duro, piccolo, verde e pareva che non dovesse sbocciare mai. Allora disse alla pianta: “Succhia forte il buon nutrimento dalla terra, così io potrò diventare più grosso”.
La pianta succhiò con tutte le sue radici e il bocciolo ingrossò, ma rimaneva verde e duro. Allora disse alle nuvole:”Mandate giù una pioggerella, ma non tanto forte, altrimenti mi sciupate”.
E le nuvole mandarono giù una spruzzatina sulla terra, ma con molta educazione.

Poi il bocciolo disse al sole: “Per piacere, riscaldami coi tuoi raggi, ma non mi bruciare, sarebbe un peccato”. E il sole lo accarezzò col suo tepore.
Finalmente in una bella mattina di primavera, il bocciolo si aprì e ne venne fuori un magnifico fiore rosso che pareva di seta.
Una farfalla disse: “Che bellezza! Un fiore così bello non si è mai visto in questo giardino!”. E vi si posò sopra con delicatezza.

La terra, le nuvole, il sole ne furono molto orgogliosi. Le campanelle bianche, screziate di rosa, si misero a suonare a festa.
Verso sera arrivò un bambino. Vide il bellissimo fiore rosso e lo colse. Poi lo strappò.
Le campanelle smisero di dondolarsi e chinarono le corolle con molta malinconia.
Il giardino pianse per tutta la notte.
(Mimì Menicucci)

Racconti per la primavera – La cameriera della Primavera
C’era una donnina che si chiamava Sigismonda e stava al servizio della Primavera. Qualche giorno prima che questa scendesse sulla terra per il solito viaggio, Sigismonda si metteva a cavalcioni della scopa e si calava giù per le azzurre vie del cielo. Veniva a vedere se, sulla terra, tutto era in ordine.
“Benvenuta, Sigismonda!” gridavano i merli che la vedevano per primi dall’alto degli alberi.
“Come va, come va?” chiedeva Sigismonda, soddisfatta di quella festosa accoglienza, “Avete preparato la nuova canzone?”
“Si capisce”, dicevano i merli, “La vuoi sentire?”
“Grazie, no, io non me ne intendo!” rispondeva Sigismonda. Era un po’ sorda e si vergognava a dirlo. Ma i merli erano così impazienti di cantare la loro nuova canzone che chiudevano gli occhi e si mettevano a fischiettare. Sigismonda approfittava della loro distrazione e scendeva sui teti a salutare i passeri.

“Sigismonda, abbiamo già fatto i nidi!” gridavano quelli, tutti insieme, con gran baccano.
“Mi compiaccio! Primavera sarà molto contenta!”
“Quando arriverà, troverà già i piccini”.
E i passeri, dalla gioia, si buttavano giù a precipizio, poi tornavano su velocissimi e Sigismonda doveva andarsene perchè le veniva il capogiro.
Le campanelle azzurre cominciavano a suonare dolcemente non appena la vedevano. Gli uomini non sentivano nulla, ma i grilli e gli insetti del prato godevano molto di quella musica e la stavano ad ascoltare estasiati.

“Sigismonda, un concerto così, Primavera non l’ha mai sentito!”
“Oh, che piacere sarà per lei! Ha sempre tanta voglia di ballare!”
“Io le ho preparato una serenata coi fiocchi. La vuoi sentire, Sigismonda?”
E il grillo cominciava a suonare e Sigismonda si addormentava e faceva dei bellissimi sogni. Quando la serenata era finita, il grillo la pizzicava dolcemente sotto la pianta dei piedi e Sigismonda si svegliava.

“E’ bellissima questa serenata! Beata Primavera che potrà sentirla tutte le sere!”
E poichè si faceva tardi, la donnina si affrettava a guardare se tutto era in ordine. Ma tutto era in ordine, sempre. Nessuno mancava mai all’appello della Primavera e tutti erano puntuali come orologi di precisione. I bocciolini si tenevano pronti ad aprirsi tutti insieme non appena Primavera li avessi sfiorati col piede, le erbette erano nuove e lustre, i ruscelletti ridevano sommessamente, correndo tra i sassi puliti.
“Mi pare che tutto sia pronto!” diceva finalmente Sigismonda, e rideva anche lei, giocondamente, perchè era sempre allegra come si conviene alla cameriera della stagione più bella dell’anno.

Poi diceva agli scoiattoli che si spazzolassero bene la coda, cosa che questi facevano con grande piacere, dava un ultimo colpo di scopa ai mucchi di neve rimasti nei crepacci, pettinava i prati che il vento si era divertito a scapigliare e infine, guardandosi intorno diceva:”Che bellezza!”.

Si metteva di nuovo a cavalcioni della scopa e, dopo aver salutati tutti festosamente, tornava per le azzurre vie del cielo e le stelle le facevano l’occhiolino, molto contente di rivederla.
Mimì Menicucci

Racconti per la primavera – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Recite per bambini e racconti sulla Festa del lavoro e i mestieri

Recite per bambini e racconti sulla Festa del lavoro  e i mestieri – una raccolta di testi di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Tutti lavorano
Per non studiare le sue lezioni, per non fare i compiti, per non aiutare i grandi, Silvio è scappato via di casa, solo soletto, e corre come un capriolo via per i campi e per i boschi, mentre la sua povera mamma si affligge e lo cerca da tutte le parti.
Silvietto è felice di essere libero, di non far nulla, e parla con tutto ciò che gli sta intorno.
“Oh piccola ape, color dell’oro, dove corri così frettolosa?” chide Silvietto, “Fermati un po’; sii buona; scherza e ridi con me.”
“Non posso, piccino”, risponde l’ape color dell’oro, “Bisogna ch’io succhi il nettare dei fiori, per farne del miele e della cera”.
Silvietto, si da pensoso per un istante; poi ripiglia la corsa e dice all’asinello bigio macchiato di bianco, che pascola nel prato: “Pigliami in groppa, asinello grazioso, e fammi fare una bella trottata!”
“Non posso, bimbo caro” risponde l’asinello, “Ora che ho mangiato, il mio padrone mi carica di erbe e di frutta, e andremo insieme in città”.
Silvietto fa una smorfia di dispetto. Si china sul ruscello limpido, vivace, rapido e gli mormora: “Ruscelletto, ruscelletto mio, te ne prego: arrestati un po’ e divertiti con me che sono solo solo e mi annoio”.
“Non posso, piccino mio: devo correre verso il mulino di Tonio, per far girare la macina; se no, il grano non si cambia in farina”.
E Silvietto è stupito e indispettito. Ma come? Hanno tutti qualcosa da fare? Un dovere da compiere, un lavoro da eseguire?
Una povera vecchia appare da un bosco lontano; è curva sotto un fascio di legna secca e cammina adagio adagio, ansimando.
“Che cosa fate, cara vecchietta?”, domanda il bambino.
“Eh, figliolo mio, ho raccolto con grande stento questa legna in montagna; ora la porto in paese e la vendo al fornaio per un po’ di pane. Così potrò mangiare per qualche giorno.
“Datemi il vostro fascio, lo porterò io”, dice Silvietto a un tratto.
E passo passo la vecchia e il bimbo ritornano al villaggio.
M. Serao

Recite per bambini e racconti sulla Festa del lavoro  e i mestieri – Storia di un passerotto e di una formica
C’era un passerotto molto sfaccendato e prepotente. Un giorno trovò un chicco di grano. Stava per ingoiarlo, quando una formica gli disse: “Per piacere, passerotto, regalami quel chicco”
“Che discorsi!” esclamò il passero, “Ho trovato un chicco di grano e questa formica lo vuole. C’è della gente sfacciata a questo mondo!”

“Non lo voglio gratis”, disse la formica “Quest’estate vieni a trovarmi e, invece di un chicco, te ne darò cinque”.
Il passero ci pensò sopra per qualche minuto, poi disse: “Mi conviene. Vorrei solo sapere come farai”.
“Pianterò questo chicco in terra”, spiegò la formica, “A primavera spunterà una piantina. La piantina crescerà e metterà la spiga. Il sole la maturerà e, se tu conosci le spighe, e io so che le conosci, saprai che di chicchi ne contengono tanti. Così io potrò darti cinque granelli e il resto lo metterò in magazzino”.
“Mi fai sudare solo a sentirti parlare”, disse il passero sfaccendato, “Eccoti il chicco di grano ed arrivederci a quest’estate”.
Venne il mese di giugno e tutti i campi erano d’oro. Il passero si ricordò del granello che aveva dato in prestito e andò a trovare la formica.
Vide la spiga di grano, piena di chicchi, che dondolava al vento, davanti al formicaio.
“Questa è la mia spiga!” disse, “Ora la beccherò”
“Piano, piano!” replicò la formica, “Questa non è la tua spiga. Tuoi sono soltanto cinque granelli”.
“Chi è questa formica importuna?” gridò il passero, “Qui c’è una spiga nata da un chicco di grano che io trovai un giorno”.

“Ah, la pensi così?” disse la formica. Chiamò in aiuto le sue compagne, le quali dettero tutte addosso al passero che, con quelle formiche infuriate attorno, non trovò di meglio che volarsene via.
“Ho conosciuto, una volta, una formica sfacciata!” gridò da lontano.
“E io un passero prepotente e poltrone!” rispose la formica e, svelta svelta, si dette da fare per portare i chicchi nel formicaio, al sicuro dal becco del passero.
Ma, poichè era anche una formica onesta, i suoi cinque granelli glieli lasciò.

Recite per bambini e racconti sulla Festa del lavoro  e i mestieri – Il bambino e la formica
C’erano una volta un bambino e una formica. Disse il bambino: “Come sei piccola, formichina nera! Sta tutta sulla mia unghietta e io ti posso schiacciare col dito!”
“Non lo fare,” rispose la formichina “ammazzeresti una grande lavoratrice!”.
“Ma che sai fare tu di tanto importante?” domandò incuriosito il bimbo.
“Saresti capace di portare sulle tue spalle un grosso albero?”, chiese la formica.
“Non ancora” rispose il bimbo.
“Questa foglia che io porto nella mia tana pesa per me quanto un albero per te”.
“Oh!”, fece il bimbo.
“E saresti capace di trascinarti dietro un elefante per la coda?”
“Davvero no, non ci riuscirebbe nemmeno il mio papà!”
“Quel bruco morto, che io mi tiro nella mia dispensa, pesa per me quanto un elefante per te!”
“Uh!” disse il bimbo, “Meriti davvero una medaglia!”
“Io ho più che una medaglia,” rispose la formichina, “perchè in tutti i libri di scuola insegno ai bambini l’amore per il lavoro”.

Recite per bambini e racconti sulla Festa del lavoro  e i mestieri – L’amico
Un uomo era sempre sereno, sempre contento. Lavorava e cantava.
“Beato lui!” diceva la gente, “E’ sempre allegro”.
“E’ il mio amico che mi tiene allegro”, rispondeva l’uomo.
Non andava quasi mai all’osteria e a chi gli chiedeva il perchè, rispondeva: “Il mio amico mi tiene abbastanza compagnia”.
Raramente era malato e a chi se ne meravigliava, diceva:”Il mio amico mi tiene in salute”.
Sempre metteva avanti questo suo amico, che nessuno aveva mai visto.
Ma dov’è questo vostro amico?” chiedevano all’uomo.
“Come? Non lo vedete? Dalla mattina alla sera è con me!”
“Ma gli volete tanto bene?”
“Che volete! L’ho conosciuto da bambino e mi è stato subito simpatico. In sua compagnia sono stato sempre bene”.
“Ma chi è, dunque?”
“Non lo vedete? Siete proprio ciechi? E’ il lavoro.
(da Gira gira mondo, Vallecchi)

Il figlio dotto
Il figlio giunse dalla città a far visita al padre in campagna. Il padre gli disse: “Oggi si falcia: prendi il rastrello e vieni ad aiutarmi!”
Ma il figlio non aveva voglia di lavorare e rispose: “Io ho studiato le scienze e ho dimenticato tutte le parole dei contadini: che cos’è un rastrello?”
Non appena uscì in cortile, inciampò in un rastrello e il manico lo colpì in testa. Allora si ricordò che cos’era un rastrello, si premette una mano sulla fronte e disse:”Chi è quell’imbecille che ha lasciato qui il rastrello?”
L. Tolstoj

Recite per bambini e racconti sulla Festa del lavoro  e i mestieri

Lavori in fattoria e ciclo dell’anno

Gennaio.
Il pastore è ora molto occupato perchè cominciano ad arrivare gli agnellini e deve badare a loro ed alle loro madri.
All’aperto, quando è bel tempo, gli uomini tagliano le siepi, potano gli alberi da frutta e puliscono i fossati.
Forse le patate sono state accatastate e ora il contadino vuole venderne un po’: così bisogna aprire la catasta e suddividere le patate secondo la grandezza.Poi vengono messe nei sacchi, pesate e mandate al mercato o dal compratore.
C’è molto più lavoro con gli animali, d’inverno, perchè bisogna portare loro il cibo e portar fuori il letame col carro (molto diverso da quando erano all’aperto).
Questo è anche il momento di revisionare le macchine, aggiustare gli attrezzi, riparare steccati e cancelli, le costruzioni, e fare tutte quelle manutenzioni che non si ha tempo di fare durante l’estate.

Febbraio
Il lavoro di questo mese è molto simile a quello di gennaio. Se non piove molto, forse, è possibile coltivare un po’ verso la fine del mese.
Il terreno deve essere preparato per i nuovi prodotti.
Il contadino ha tanti lavori diversi da fare durante l’inverno. Oltre ad organizzare tutto il lavoro della fattoria, deve decidere che cosa far crescere e dove, e quali sementi comprare.
E’ anche molto importante che egli fatta tutto il suo lavoro d’ufficio. Ha tante carte da riempire per l’amministrazione e le tasse.

Marzo
In marzo è freddo, ma la primavera non è molto lontana.
Il frumento invernale comincia appena a mostrarsi attraverso il terreno, ma la superficie della terra si è fatta un po’ troppo compata e bisogna smuoverla. A questo scopo il contadino manda i suoi uomini a smuovere un po’ il terreno con gli erpici, attrezzi che hanno tantissime piccole punte. Gli erpici vengono trascinati sopra le piante o con i trattori o con i cavalli, ne sradicano alcune, senza tuttavia danneggiare il raccolto e al tempo stesso estirpano le erbacce.
Se ora il terreno è a blocchi, si usa il rullo, purchè il tempo sia asciutto.
Se il tempo è buono, il campo delle patate può esser preparato, anche se per la semina sarebbe ancora un po’ presto. Si usa un attrezzo che è come un doppio aratro. e che quando viene spinto attraverso il terreno, butta la terra sui due lati facendo un solco profondo. Questo solco è necessario per piantare le patate. Si fa poi passare il doppio aratro sui bordi del solco e così le patate vengono ricoperte. Il gelo uccide le patate, perciò devono essere piantate in modo che quando i germogli sbucano dal suolo non ci sia più pericolo di gelate.
I contadini amano un marzo asciutto.
Verso la fine del mese possono essere seminati avena, orzo e frumento primaverile.

Aprile
E’ un mese delizioso. Nella natura tutto comincia ad apparire nuovamente fresco.
Nella fattoria i campi sono di varie sfumature di verse, a seconda dei prodotti che vi stanno crescendo, o di marrone, dove la terra è ancora nuda.
Questo è un grande mese per seminare.
La seminatrice è probabilmente l’attrezzo più usato di questo mese. Essa sparge i semi di barbabietola da zucchero, di foraggio, di rapa, di verza e di fagioli nei vari campi.
Alcuni prodotti, come i cavoletti, vengono prima seminati in piccole cassette o terrari, e poi trapiantati.
Le mucche possono uscire dalle stalle per un’ora o due al giorno, ma non devono restare fuori troppo a lungo perchè altrimenti mangerebbero troppa erba fresca e si ammalerebbero.
Agli agnelli viene tosata la coda per evitare che si sporchino e si infestino di mosche.
Per la famiglia si piantano nell’orto un po’ di carote, cipolle ed altri ortaggi.

Maggio
In questo mese le mucche possono lasciare le stalle ed andare nei campi.
Per le pecore è tempo di essere tosate.
Nei campi tutto cresce in fretta, comprese le erbacce. I contadini escono con gli estirpatori tirati dai trattori o dai cavalli e vanno su e giù per i filari per diserbare. Le erbacce che non possono essere rimosse con mezzi meccanici, vengono estirpate con la zappa.
Le patate crescono molto velocemente, e devono essere ricoperte con altra terra, perchè se le nuove vengono in superficie diventano verdi e non sono buone da mangiare.
I cavoli vengono ora piantati in piazzole, in modo che il terreno tra l’uno e l’altro possa esser coltivato.
Se le pecore sono state tenute nell’ovile, bisogna portare il letame nei campi col carro.

Giugno
E’ un buon mese per far fieno. L’erba che si lasciata crescere per questo, e per far riposare la terra, viene ora tagliata e poi stesa al suolo per asciugarsi bene. Se il tempo è buono, in pochi giorni è pronta per essere raccolta ed ammucchiata, ma per asciugarsi bene ha bisogno di essere rivoltata prima più volte. Qualche volta piove e così si deve ricominciare daccapo. Può succedere qualche volta che piova così tanto che il fieno si rovini, e questa è una grande perdita. Per stabilire se il fieno è abbastanza asciutto per essere ammucchiato, il contadino ne torce tra le mani una manciata: se scricchiola e si rompe, vuol dire che è pronto.
Naturalmente il lavoro con gli animali continua ininterrotamente. Due volte al giorno le mucche devono essere riportate nelle stalle per la mungitura. Le galline probabilmente stanno ora facendo grandi quantità di uova.
Nel frutteto la frutta comincia a svilupparsi e maturare.

Luglio
Un giorno, di buon mattino, il contadino si mette il suo vestito migliore, tira fuori l’automobile, e va nella città più vicina.
Al mercato del bestiame ci sono mucche, pecore, maiali e galline. Lì incontra molti suoi amici e se la passa con loro chiacchierando e discutendo di animali, battendo i fianchi alle mucche, e strofinando il dorso dei maiali. Se poi trova qualche animale che gli va a genio, lo compera.
Naturalmente i mercati agricoli vengono organizzati in tutti i periodi dell’anno, ma di solito è a luglio che si svolgono le fiere agricole più importanti. In queste occasioni si possono vedere gli animali di razza più pregiata, e le macchine agricole più moderne. Contadini, commercianti,allevatori ed esperti di una cosa o dell’altra si incontrano qui e possono parlare dei loro problemi.
Alla fattoria il lavoro continua come al solito.
Le barbabietole da zucchero e da foraggio e le rape sono diventati così grandi che le loro foglie si toccano l’una con l’altra.
Le patate hanno foglie fresche verde scuro alte circa trenta centimetri. I cavoli ed i fagioli sono alti circa sessanta centimetri.
I cereali cominciano a formare le spighe.
Se i covoni di fieno sono all’aperto, devono essere coperti. Il vecchio modo di farlo è procurarsi della paglia e rimboccarli. La paglia di frumento è la migliore per questo scopo.

Agosto
Questo è il mese della mietitura del grano. Un giorno il contadino esamina il suo frumento e trova i grani non più lattiginosi, ma compatti: significa per lui che è ora di tagliarlo. Manda fuori la mietitrice, che è una macchina che taglia il grano e lo lega in fasci. I fasci vengono poi messi in biche, cioè otto o dieci fascine vengono messe in piedi e appoggiate l’una verso l’altra. Vengono lasciate così un po’ di giorni e poi raccolte e immagazzinate.
Una macchina più complicata potrebbe fare il lavoro più velocemente, ma ad alcuni contadini le macchine complicate non piacciono. Essi pensano che sia meglio mietere il grano e poi lasciarlo a maturare ancora un po’ al sole, prima di immagazzinarlo.
L’avena è pronta per la mietitura quando il campo è di colore biondo cenere, o quando l’aveva “mostra i suoi denti”.
I grani dell’orzo hanno piccoli filetti color porpora che scompaiono quando sono maturi.
Nel frutteto le prugne sono ora gonfie e succose e alcune mele sono pronte per essere raccolte.

Settembre
Settembre è un mese pieno di colori. Gli alberi diventano rossi, gialli e marroni. Il sole brilla attraverso una leggera bruma. La maggior parte delle piante ha completato il suo ciclo di crescita e c’è intorno una sensazione di compiutezza. Questo è il mese del raccolto. Le forze che hanno fatto uscire le piante dalla terra non sono più attive.

Ottobre
Tutto il terreno che è stato spogliato dal raccolto deve ora essere nuovamente preparato. I campi che sono rimasti a riposo negli anni precedenti devono ora essere concimati ed arati.
Alcuni prodotti non sono stati ancora raccolti, ma ora finalmente la barbabietola da zucchero può essere spedita alla fabbrica e le rape e le barbabietole da foraggio vengono portate nei magazzini e conservate per quando serviranno. Per conservarle al meglio il contadino ne fa delle cataste coperte di paglia e terra: i tuberi, con questa antica tecnica, possono conservarsi per mesi e mesi.
Le mucche devono essere nutrite e munte, le loro stalle devono essere ripulite e provviste di paglia sempre fresca.
I maiali devono essere nutriti e ripuliti.
Anche il pollame deve essere accudito, ma questo è spesso compito della moglie del contadino.
Qualcuno deve badare anche alla pecore.

Novembre
Il lavoro di aratura continua. Continua anche la raccolta degli ultimi prodotti.
Se il contadino decide di seminare il grano invernale, il terreno deve essere preparato e seminato.
Le pecore vengono portate nei campi dove si sono raccolti i tuberi, per mangiare tutte le foglie verdi che sono rimaste nel campo, e anche per concimare il terreno.
E’ anche tempo di portare le mucche nelle stalle per l’inverno, dove saranno foraggiate con fieno, tuberi, cavoli, pastone e un particolare impasto che deve essere comperato: si tratta di un cibo speciale che le aiuta a produrre più latte.
Il contadino terrà d’occhio il giornale per vedere i prezzi sul mercato dei prodotti che ha da vendere. Se pensa che il prezzo sia giusto, manda alcuni dei suoi uomini a prendere cavoletti e verze, o anche qualche animale, e li manderà al mercato.

Dicembre
Le giornate sono fredde e corte. Quando il tempo è adatto, forse è possibile arare ancora un po’, e c’è sempre il lavoro da fare con gli animali.
Una giornata di gelo è buona per portare nei campi il concime col carro, perchè il terreno è duro.
Il pastore è ora occupato a costruire piccoli ricoveri di paglia nel campo, perchè presto nasceranno gli agnellini. Egli ora deve stare quasi sempre col gregge.
Se non è stata usata una macchina agricola di quelle che fanno tutto, ora è il momento di sgranare il grano. Di solito questo si fa in un grande granaio, ed è un lavoro che si può fare con la pioggia ed anche con la neve.

La prima giornata di lavoro del giovane emigrato

Paolo arrivò primo al lavoro. Studiò la facciata, osservò le impalcature, passò la mano sui mattoni e sulle pietre del muro. Severo era il job nel suo odore fresco e pungente di calce, legna spaccata, vernice e rugiada. Nel mattino rigido il sole s’alzava in una gloria di toni fulvi che promettevano una calda giornata di lavoro.
Santo, il manovale, aprì il ripostiglio degli attrezzi, si levò il giacchettone di pelle, rimboccò le maniche fin sopra i gomiti e preparò il necessario per la calce.

“Mattinieri siamo, eh, mastro Paolì?” disse, e tirò fuori dal ripostiglio i tubi dell’acqua, la pala, la marra, la carriola. Aggiustandosi i risvolti delle maniche studiò il sole.
“Oggi farà caldo. Non levarti troppa roba di dosso; i primi caldi portano la polmonite”.
Poi, come uno che ha un’eternità di strada da percorrere e se la prende calma, tirò fuori adagio, uno dopo l’altro, i sacchi di cemento e li pose ritti presso il recinto della calce.

Gli uomini arrivavano e Paolo era pronto con la mestola. Il fischio scatenò il concerto delle mestole sonanti, raspanti, picchiettanti sui mattoni.
Giuseppe Febbregialla, uno della corporazione, piccolo, itterico, dalle mascelle quadrate, chiamò Paolo: “Neh, Filippo, chiammo a tte!”
Paolo accorse e l’altro gli mostrò dove doveva riempire di calce e mattoni gli interstizi tra le stecche parallele che poggiavano sul piano di cemento. Quando Paolo gli disse che il suo nome era Paolo, Febbregialla fece: “Va bbuò, Filippo, tira avanti!”
E Paolo lavorò per ore e ore, solo, in ginocchio, chino sulle stecche. Ogni volta che piegava la schiena, sentiva una fitta acuta ai lombi. Il manico della mestola cominciò a sembrargli di pietra, la polvere di mattone gli escoriava le dita, la calce gli scottava le mani. Si Alzava, di quando in quando, in piedi per distendere i muscoli della schiena e, una volta, alzandosi, posò il piede su stecche malferme, scivolò e cadde, battendo su una pietra aguzza. Il dolore gli mozzò il fiato e gli riempì di lacrime gli occhi. Dio che male, ma non voglio che nessuno se ne accorga, devo lavorare, si disse. Si morse la lingua e si rimise in piedi e si sentiva gonfiare la botta, che gli faceva male. Appoggiò una mano in terra e lavorò con l’altra sola. Per posare un mattone deponeva la mestola, e se doveva rompere un mattone in due per riempire un mezzo vuoto, doveva ogni volta sedersi sui talloni. Tra le lacrime vedeva male, e una volta, rompendo un mattone, si picchiò sul pollice, e il dolore fu tale che si portò il pollice alla bocca per non gridare. Non è niente, non è niente, devo finire questo lavoro. Il pollice pulsava forte, si gonfiava, diventava livido, ma lui non voleva mollare.

Quando fischiò l’ora del pranzo i ginocchi raggranchiti non furono in grado, lì per lì, di sollevarlo in piedi.
Pietro Di Donato

L’oste che non voleva lavorare
Personaggi: oste, la moglie, un dottore e un notaio.

(La scena si svolge nella stanza da letto dell’oste)

Moglie: Sono le undici, l’osteria è piena di gente e tu te ne stai a letto come se non fosse affar tuo
Oste: Che affare e non affare! Se tu ti sentissi male come mi sento io, non parleresti a questo modo, te l’assicuro.
Moglie: Ma a chi vuoi darla a bere? A sentir te, da quando siamo sposati non sei stato bene nemmeno un giorno. Se fosse vero, carino mio, a quest’ora saresti morto e seppellito.
Oste: Eh, già! Per te fingo, vero? E tutta la camomilla che bevo e non mi piace?
Moglie: Già. E tutto il vino che ti piace e che bevi quando vengono quei bricconi dei tuoi amici a farti visita?
Oste: Quale vino?
Moglie: Lasciamo andare, altrimenti si rischia di non finirla più. Ma sta’ sicuro che una volta o l’altra te la faccio passare io la voglia di darti malato per startene comodamente a letto quanto ti pare!

(La moglie esce e il sipario si chiude per due minuti. All’apertura nella stessa stanza, accanto al letto dell’oste, si trovano il dottore e il notaio)

Dottore: (parla nell’orecchio al notaio, ma in modo che l’oste lo senta) Ormai non c’è più nulla da fare. E’ spacciato…
Notaio: (con meraviglia)Ma è possibile?
Oste: (in tono lamentoso) Ahi, ahi! Dottore, sto male!
Dottore: Eh! Via, non vi disperate. Vedrete che con queste gocce vi passerà tutto.
Oste: (piangendo) Signor notaio, chi l’avrebbe mai detto che anche per me sarebbe arrivato il gran giorno?
Notaio: Ma perchè piangete! Il dottore mi ha detto che non siete grave. Vero dottore?
Dottore: Certo… certo… (Poi parla nell’orecchio del notaio) E’ solo … ps… ps… ps…
Notaio: (rivolgendosi all’oste) Avete sentito? Niente di grave. Piuttosto perchè non pensate a regolare i vostri conti con gli uomini e con Dio?
Oste: (disperato) Come?
Notaio: Sì, insomma… cosa fatta capo ha.
Oste: Mi dica un po’, signor notaio, perchè lei che ha sempre tanto da fare, si è scomodato a venirmi a trovare?
Notaio: Son passato dall’osteria e vostra moglie mi ha detto che stavate male. Allora son salito: ecco tutto.
Oste: Ah, è così, vero? Dottore, datemi un bicchiere di vino, perchè malato o no, io mi voglio alzare e dire alla mia donna due parole!
Notaio: e questo che c’entra?
Oste: Che c’entra, eh? Crede che non abbia capito? Mi manda il notaio per farmi credere di essere moribondo. Glielo do il testamento! (Fa per alzarsi, molto arrabbiato)
Dottore: Ma che fate, state sotto!
Oste: Stia tranquillo, dottore. So io come curarmi. Quanto a lei, caro signor notaio, se ha voluto guadagnare qualche soldo con me, ha sbagliato porta. Lei, con me, dovrà sempre pagare se vorrà bere un bicchiere di buon vino! E ora vada pure a dirglielo a mia moglie!

(Il notaio si allontana)

Dottore: ma voi state male… non potete!
Oste: La ringrazio per le sue cure, caro dottore! Ma creda a me, a morire c’è sempre tempo!

(Anche il dottore esce e l’oste resta solo)

Oste: M’hanno fatto prendere una bella paura, quei due! E io che quasi non mi ero accorto dell’inganno. Spacciato, capisci? Io… certo… quella povera donna… lavora tutto il giorno come una bestia e io me ne sto qui a letto a far niente. Ha ragione.
In fondo in fondo, il padrone dell’osteria sono io. Certo!

(Affacciandosi alla porta)
Pietrooo! Attacca la mula. Andiamo a caricare il vino dal fattore.

Recite per bambini e racconti sulla Festa del lavoro  e i mestieri – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconto IL NUMERO PIU’ RICCO

Racconto IL NUMERO PIU’ RICCO – Un racconto che ho riscritto seguendo una traccia in uso nelle scuole Waldorf , da utilizzare in prima classe per esplorare le qualità dei numeri da uno a tredici ed avere una prima impressione visiva in merito al ritmo delle numerazioni, ed ai concetti di numeri pari e numeri dispari, ma anche di divisibilità…

Tantissimo tempo fa, non si sa dove e non si sa quando, i numeri da 1 a 13 si misero a viaggiare per il mondo a caccia di avventure, e un giorno, non si sa dove e non si sa quando, si trovarono nel loro viaggiare davanti ad un castello di straordinaria bellezza. Il portone era aperto, ma bussarono comunque per cortesia. Nessuno veniva e così decisero di entrare. Il castello  era una vera meraviglia: bagni, cucine, biblioteca, salone per le feste, stanze per stare da soli e stanze per stare in compagnia, e poi orti, giardini, pozzi e fontane, colori allegri alle pareti e strumenti musicali e giochi e… e insomma non mancava proprio nulla! Anzi, qualcosa mancava, una sola: mancavano gli abitanti. Sembrava proprio che una mano magica e buona avesse preparato tutti questi tesori proprio per loro.

Esplorarono tutto il castello stanza per stanza. Dal centro del salone delle feste partiva una lunga scala d’oro che saliva, saliva, saliva… piena di meraviglie. La percorsero e si trovarono in una stanza che per ricchezza e bellezza superava tutte le altre: al centro della stanza c’era un grande trono tutto d’oro, ma con cuscini morbidissimi per sedersi…

A quella vista ogni numero, naturalmente, desiderò accomodarsi regalmente su quel trono… essere re… il numero più importante… quello che comanda su tutti.

Uno prese a dire: “Io sono il primo, vedete bene che sto davanti a tutti voi. E quando si conta, tutti voi venite dopo di me!”

Due rispose: “Io non sono d’accordo, perchè io valgo il doppio di te!”

Tre urlò stizzito: “No, io!”

E Quattro non si tirò indietro: “Ah, beh! Allora il re sono io, perchè valgo più di Uno, di Due e anche di Tre!”

Non passò molto tempo che tutti urlavano insieme e non si capiva più nè chi parlava nè cosa stava dicendo, e avevano tutti ragione, e non aveva ragione nessuno…

Solo Dodici se ne stava in disparte, e mentre osservava i suoi cari amici, pensava a come si potesse risolvere la situazione facendo felici tutti. Aspettò… i numeri si stancarono di urlare, e così potè fare la sua proposta: “Facciamo una gara”, disse, ” il re sarà il numero più ricco… il più colorato… quello che dentro di sè può contenere più numeri. Se infatti è il più colorato e il più ricco e ha dentro tanti numeri, potrà governare con giustizia e staremo tutti benone.”

Dopo qualche istante di silenzio, Tredici disse: “E’ chiaro che il re sono io, sono il più grande di tutti! Però possiamo anche provare a fare questa gara, e poi vediamo…”. E tutti si dissero d’accordo.

Si disposero bene in fila e la gara cominciò.

Fu molto divertente. Ad ogni numero venne assegnato un colore diverso in cui star dentro, e giocando si  vide che:

Il numero 1 era presente in tutti i numeri

Il numero 2 era presente nei numeri 2, 4, 6, 8, 10 e 12,

Il numero 3 era presente nei numeri 3, 6, 9 e 12

Il numero 4 era presente nei numeri 4, 8 e 12

Il numero 5 era presente nei numeri 5 e 10

Il numero 6 era presente nei numeri 6 e 12

Il numero 7 era presente solo nel numero 7

Il numero 8 era presente solo nel numero 8

Il numero 9 era presente solo nel numero 9

Il numero 10 era presente solo nel numero 10

il numero 11 era presente solo nel numero 11

il numero 12 era presente solo nel numero 12

Il numero 13 era presente solo nel numero 13.

Oh,  che meraviglia guardarlo! Dodici era ricchissimo e coloratissimo con tutti quei numeri dentro, il più colorato di tutti! Era davvero molto bello e tutti erano felici e gli battevano le mani. Fu così che divenne re.

Da buon sovrano si dedicò da subito ad organizzare il lavoro nel castello; la cosa più importante per lui era rendere felici tutti i suoi numeri, senza far preferenze. Certo il regno era grande e lavorare bisognava, ma si poteva fare così: lui poteva lavorare da re e  i dodici numeri potevano lavorare da sudditi per sei giorni alla settimana, e la domenica festa per tutti!

Pensò quindi che per ogni ora del giorno una sentinella diversa si sarebbe data il cambio sulla torre principale del castello, pronta ad avvisare tutti dell’arrivo di nuovi amici; infatti:

Decise poi, senza far preferenze, che a turno, due al giorno, avrebbero avuto il comando come capi del governo, perchè infatti:

Poi, sempre senza far preferenze, li divise in due eserciti: l’esercito del giorno, e l’esercito della notte; infatti:

Quindi li divise in tre gruppi specializzati: un gruppo per leggere i libri dei racconti, un gruppo per cantare e suonare, e un gruppo per preparare i pasticcini per la domenica; infatti:

Infine, li divise in quattro gruppi per sbrigare tutte le faccende quotidiane: lavorare la terra, accendere i fuochi, portare l’acqua e arieggiare le stanze del palazzo; infatti:

E così vissero in armonia, felici e contenti, domenica dopo domenica, non si da dove non si sa quando…

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Racconti – Le buone maniere…

Una raccolta di racconti per bambini sul tema buone maniere e gentilezza, di autori vari, per la scuola d’infanzia e primaria.

La strada della cortesia
C’era una volta un principino superbo e maleducato. Non chiedeva ma le cose per piacere.
Un giorno si perse in un bosco. Incontrò una vecchina curva sotto il peso di un sacco e le gridò sgarbatamente: “Vecchia, qual è la strada della reggia?”
La vecchina si strinse nelle spalle, allungò il mento, socchiuse gli occhi e rispose: “Non saprei. Chiedilo al gatto, che sa tutto”.

“Gatto” disse il principino “Voglio tornare alla reggia. Insegnami la strada!”
“Domandalo al cane, che ha girato tanto.”
“Cane, qual è la strada della reggia?”
“Domandalo allo scoiattolo, ce vede tutto”
“Scoiattolo, voglio sapere la strada della reggia”
“Chiedilo allo scricciolo, che ode tutto”
“Scricciolo, insegnami la strada della reggia”
Lo scricciolo volò sulla spalla del principe e gli sussurrò all’orecchio: “Principe, se vuoi ritrovare la reggia, prendi la strada della cortesia e comincia col domandare le cose -per piacere-“.

Il principe capì la lezione e subito disse: “Per piacere, mi potresti insegnare la via?”
Lo scoiattolo scese dall’albero e lo accompagnò fino a una radura dov’era il cane.
“Cane, per piacere mi accompagni verso la reggia?”
Il cane lo guidò fino al bivio dov’era il gatto.

“Gatto, per favore, mi dici dov’è la reggia?”
Il gatto, scodinzolando, lo condusse fino la limite del bosco. Qui era ad aspettarlo la vecchina.
“Nonnina, per gentilezza, mi dite dov’è la reggia?”
La vecchina lo prese per mano e lo condusse fino alla porta del palazzo reale.

“Entrate, per favore” disse il principino cortesemente.
“Grazie, caro. Sono contenta, perchè vedo che hai imparato la strada della gentilezza. D’ora in poi non ti perderai più”.
(P. Bargellini)

La camicia dell’uomo felice
Un re non era affatto contento e un giorno andò da un Mago.
“Io non sono felice” disse. “Sono ricco, potente, ho un regno grande pieno di belle cose. Ma non sono contento. Dimmi cosa devo fare per avere la felicità.”
Il mago guardò dentro una caldaia dove bolliva un liquido nero come la pece, v’introdusse la sua bacchetta magica, l’annusò e disse: “Ho trovato. Ti occorre la camicia dell’uomo felice. Quando la indosserai sarai finalmente contento”.

Il re, allora, mandò i suoi soldati alla ricerca dell’uomo felice, con l’ordine di levargli subito la camicia e portarla a lui. I soldati si misero a girare per città e campagne e quando vedevano un uomo dalla faccia contenta, gli chiedevano: “Sei felice?”
“Niente affatto!” rispondeva quell’uomo. “Mi manca questo, mi manca quest’altro”. E i soldati riprendevano le ricerche.

Dopo un anno, un mese, un giorno, non avevano trovato ancora quello che cercavano e tornarono al castello a mani vuote. Il re si infuriò moltissimo e disse: “Verrò con voi e vedremo se riuscirò a trovare l’uomo felice”. Con i suoi soldati percorse mezzo regno, ma non trovava ciò che voleva, tanto che si era deciso a tornare a casa, sempre più malinconico e adirato. Una mattina sentì il suono di uno zufolo di canna. Era un’arietta allegra che metteva la gioia nel cuore soltanto a sentirla. “Andiamo a vedere chi suona” disse il re.

Trovarono un pastorello che suonava in mezzo alle sue pecorelle.
“Chi sei?” gli chiese il re.
Il pastorello lo guardò, poi si mise a ridere e disse: “Che vi importa il mio nome? Sono un pastorello felice…”
Allora il re dette ordine ai suoi soldati che levassero la camicia all’uomo felice. Ma il pastorello era così povero che non aveva neppure la camicia.
Mimì Menicucci

L’anello incantato
In una piccola casa sperduta nel bosco, vivevano un vecchietto e una vecchietta. Lui era ancor buono a intrecciare panieri, lei raccoglieva, nella buona stagione, bacche e frutti e così vivevano alla meglio, in pace e in tranquillità. E se il lavoro, talvolta, mancava, se la prendevano con pazienza e non si lagnavano mai.
Un giorno, il vecchietto dovette andare a far legna nel bosco. L’inverno era duro e la provvista era finita. Non c’era nemmeno un fuscello per scaldare la minestra. Fuori c’era la neve alta e faceva freddo. “Copriti bene” disse la vecchietta. “Prendi la sciarpa di lana e non ti scordare il fazzoletto da naso”.

Il vecchietto prese l’accetta, si mise il cappelluccio e andò nel bosco. La neve cedeva sotto i suoi piedi ed egli faticava molto a fare il suo fastello. Quando l’ebbe finito tirò un sospiro di soddisfazione. Mentre stava per caricarsi sulle spalle il fascio di legna, vide qualcosa luccicare in mezzo alla neve. Era un anellino di ferro senza nessun valore. “Lo porterò alla mia vecchia” disse. “Gli anelli fanno sempre piacere alle donne”. Se lo infilò al dito per non perderlo ma, appena ebbe fatto questo gesto, sentì una vocina che diceva: “Esprimi il tuo desiderio e qualunque esso sia sarà soddisfatto”.
“Corbezzoli!” esclamò il vecchietto. “E’ un anello incantato”.

Lo guardò, poi lo levò dal dito e lo mise in tasca. “Meglio sentire il consiglio della mia vecchietta”. E si diresse verso casa.
“Vecchietta mia, ho trovato un anello fatato. Sta a sentire”. Lo infilò al dito e subito si sentì la vocina. La vecchietta fece un fischio per la sorpresa. “Questo vuol dire che se chiedessimo un sacco d’oro, potremmo averlo?”
“Certo, ma in fondo, che cosa ne faremmo di un sacco d’oro? Abbiamo così poche necessità”.
“Certo, certo!” Si affrettò a dire la vecchietta. “Dicevo così per dire. Quattrini sono pensieri”.
“Forse, potremmo chiedere un palazzo”.
“Un palazzo?” La vecchietta si guardò attorno sbigottita. “Ho vissuto quarant’anni in questa capanna. In un palazzo non mi ci troverei bene”.

“Senti” disse allora il vecchietto con voce decisa “chiediamogli che non ci manchi mai il lavoro. E’ l’unica cosa che ci porterebbe vantaggio.
“Bravo vecchietto! Hai avuto proprio una bella idea”.
E così chiesero all’anello che non mancasse mai il lavoro.
Da quel giorno una quantità di gente ebbe bisogno di panieri e tutti li volevano dal vecchietto, il quale, tutto allegro, intrecciava vimini dalla mattina alla sera e diceva: “Ma che bel paniere, vecchietta mia, e che anello benedetto!”
Così, non mancando mai il lavoro, in quella capanna entrò una discreta agiatezza e ai due vecchietti non mancò mai nulla.

Un giorno che erano in vena di chiacchierare, raccontarono la storia dell’anello incantato a un vicino che era andato a trovarli.
“Come? Avete un anello così e non ve ne servite per chiedere ricchezze su ricchezze?”
“Noi siamo due vecchietti che hanno bisogno di poco, ma poichè voi, vicino, avete dei desideri, prendetevi pure l’anello e buona fortuna”.
Il vicino quasi non credeva a tanta generosità. Prese l’anello e scappò via per paura che quelli si pentissero.
Arrivato a casa, , salì nel granaio e infilò l’anello al dito. Subito, la solita vocina disse: “Che cosa vuoi?”.
“Monete d’oro. Ma tante come se piovesse”.
E allora, dal soffitto, cominciarono a cadere monete d’oro come se davvero piovesse a dirotto. L’uomo, che le riceveva tutte in testa, cominciò a gridare: “Basta! Basta!”. Ma la pioggia non smise finchè quello non cadde giù tramortito.

Mentre stava lì a smaltire la batosta, senza vedere nè sentire niente, arrivò una gazza. attratta dal luccichio dell’oro. Prese una moneta nel becco e volò via dall’abbaino, e poco dopo, tornò con uno stormo di compagne. Tutte presero una moneta e se ne volarono via. L’ultima, che era arrivata in ritardo, non trovò più monete, ma vide l’anellino e prese quello, tanto per non tornare a becco vuoto.
Così l’uomo che non aveva saputo mettere un limite ai suoi desideri, ebbe soltanto la testa piena di bernoccoli e una gran rabbia in corpo.
Mimì Menicucci

Chi è il più forte?
Il re è forte e potente: nessuno sfugge al suo potere. Forse il ladro? No, perché il re lo fa acchiappare e mettere in prigione. Il ladro però è forte da parte sua: se ruba un pollo, con due sole dita gli torce il collo. Il pollo è abbastanza forte anche lui: se vede un tarlo con un solo colpo di becco ne fa un boccone. Ma il tarlo, il piccolo tarlo, si insinua nel trono del re e comincia a rosicchiare il legno: rosicchia, rosicchia, il trono vacilla, va in polvere e il re si ritrova seduto per terra. Chi è il più forte di tutti?
Il re, il ladro, il pollo o il tarlo?
(Fiaba vietnamita)

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Dettati ortografici e racconti PASQUA

Dettati ortografici e racconti PASQUA – Una raccolta di dettati ortografici e racconti sulla Pasqua per la scuola primaria.

 Le uova di Pasqua del coniglietto

La notte di Pasqua, al chiaro di luna, un coniglietto cercava un posto per nascondere le uova di cioccolato, vicino alla casa di due bambini. Come sarebbero stati contenti i bambini, di trovare piccole uova colorate nascoste dappertutto! Però il coniglietto non riusciva a trovare il posto adatto. L’erba era troppo bassa e non le avrebbe nascoste, i cespugli avevano i rami troppo in alto, gli alberi non avevano fessure abbastanza grandi. Infine, il coniglietto rinunciò a nasconderle fuori casa. “Lascerò il cestino e le uova in salotto” decise, “dal momento che fuori non le posso nascondere. Ormai è l’alba e devo sbrigarmi…”.

Mentre stava per entrare in casa, la luna tramontò e il sole spuntò. Allora il coniglietto vide quello che non aveva notato al chiaro di luna. Il prato era tutto coperto di fiori di croco, bianchi, gialli e azzurri, che rassomigliavano a tante uova colorate. Era proprio un posto meraviglioso per nascondere le uova di Pasqua! Il coniglietto felice cominciò a disporre le sue uova fra l’erba, in mezzo ai fiori, ed esse non si distinguevano per niente dai fiori di croco. Sembrava che d’improvviso i fiori sul prato si fossero moltiplicati.

“Che sorpresa per i bambini, quando troveranno le uova!”, pensò il coniglietto soddisfatto, contemplando il prato. A piccoli salti corse nella sua tana a dormire, stanco e contento, mentre il sole saliva alto nel cielo e i bambini, sbadigliando, si svegliavano nel lieto giorno di Pasqua. (K. Jackson)

La terribile Pasqua di Topo Gigio

Il mattino di Pasqua, Ino si svegliò alle 11, di buon umore, perchè c’era il sole nel cielo e un’aria di festa in casa. Sbadigliò, si stiracchiò, poi saltò dal letto e si mise a girellare per la casa. Diede un’occhiatina ai fiori sul balcone, raddrizzò il ritratto del nonno Teodoro che, come al solito, era appeso storto alla parete, infine, fischettando “I tre corsari”, entrò in cucina dove Rosy stava mettendo in forno degli squisiti pasticcini all’anice. Ino tentò invano di rubarne uno.

“Ancora sono crudi, ti faranno male!” Lo ammonì Rosy e gli diede una cucchiaiata sulla mano ladruncola.
“Fa più male una cucchiaiata!” rispose Ino, “Perchè mi tratti così?”
“Su, su, poche storie, io ho da fare! Va a svegliare quel dormiglione di Gigio”.
Ino si diresse verso la camera dell’amico, urlando: “Gigio, Gigione, Gigetto, Gigiaccio, svegliaaaa!”
Quelle grida avrebbero svegliato la bella addormentata nel bosco, ma Gigio non diede nessun segno di vita. Ino entrò nella stanza come un carro armato, aprì con un fracasso d’inferno le finestre, e… restò con un palmo di naso! Il letto di Gigio era vuoto. Sul comodino spiccava un biglietto che diceva: “Impegni urgenti mi chiamano fuori casa. Ma tornerò all’ora di colazione. Bacioni, Gigio”.

“Antipatico!” mormorò Ino. “Scompare proprio stamattina che dovevano andare sull’otto volante!”
Vediamo ora quali sono gli “impegni urgenti” di Gigio. Un affare? Un amico malato? Una multa da pagare?  Nossignori, una pasticceria. E che fa in quella pasticceria, nota in tutta la città come la miglior produttrice di uova di Pasqua? Niente, sta aspettando. Sono già due ore che aspetta e a un certo punto si spazientisce.
“Ehi, pasticcere” grida, “c’è ancora molto?”
“Un momentino” risponde il pasticcere, “vedrà, vedrà che lavoro”.
Dopo un’oretta, il lavoro è finito. Si tratta di un enorme uovo di cioccolata ancora diviso in due parti, come le valve di una conchiglia.
“Mamma, com’è bello!” gongola Gigio. Poi, entra in uno dei due mezzi gusci dell’uovo, come una culla, si sistema bene e dice: “Ecco, io sono pronto”.

Allora il pasticcere e il suo aiutante prendono l’altro mezzo guscio e con molta cura lo sovrappongono al prima, come un coperchio. Gigio si trova improvvisamente avvolto da un buio profumato di cioccolata. Ma, perbacco, non c’è aria! Allora batte contro il guscio, e grida: “Aprite! Aprite!”
Il pasticcere solleva il coperchio: “Che c’è?” chiede.
“Gnocco!” risponde Gigio, “C’è che qui si soffoca!”
“Oh, che distratto” si scusa il pasticcere “provvedo subito a fare un buchino nell’uovo!”
Ecco, Gigio può respirare. Poi l’uovo viene avvolto in una grande carta stagnola con un buchino; sopra la carta stagnola viene posto un foglio crocchiante di cellophane, con un buchino, sopra il cellophane viene sistemato un artistico nastrone rosso senza buchino e sul nastrone rosso viene attaccato un biglietto, senza buchino, che dice: “Uomo con sorpresa per Rosy e Ino. Con i migliori auguri di Gigio”.
L’uovo viene quindi caricato sul portapacchi di una bicicletta e il pasticcere dice al garzone: “Senza perdere tempo, porta quest’uovo a Ino e Rosy!”
“Sissignore” risponde il garzone e se ne va.

Dentro l’uovo Gigio è tutto contento. Dagli ondeggiamenti che subisce, comprende che il garzone sta pedalando di buona lena. Gli giungono anche, remoti e ovattati, i rumori della stradaa, lo scampanellio dei tram, i clacson delle auto, le parolacce che si scambiano automobilisti e pedoni. La corsa cessa di colpo: Gigio, sbatte col naso contro la parete dell’uovo ma si consola leccandosi i baffi che sanno di cioccolata.
“Mamma che frenata!” esclama.
L’immobilità continua.
“Saremo fermi a un semaforo” pensa Gigio, “ma quanto dura il rosso?”
Ahimè, il povero Gigio non sa che il garzone si è fermato per vedere uno spettacolo di burattini all’aperto. Stanno rappresentando, con grande spreco di bastonate, “Pulcinella maestro di piano della figlia di Alì, sultano delle isole Mammalucche”.
A un tratto la bicicletta si muove.

“Oh, meno male!” si rallegra Gigio che comincia a sudare nell’uovo, “Ci muoviamo!”
Ahimè, il povero Gigio non sa che un ladro si è impadronito della bicicletta e ora sta pedalando come un fulmine, verso il suo rifugio. Il ladro è il famoso gatto Renatone, ricercato dalle polizie di 42 stati, noto per la straordinaria abilità nel rubare biciclette, figurine di calciatori e palline di vetro colorato. Questa volta però Renatone, che è padre di 12 figli, ha mirato soprattutto all’uovo: pensa alla felicità dei suoi gattini e della sua sposa quando vedranno quel meraviglioso ovone. Infatti l’ingresso del papà nella stamberga è accolto da un coro di miagolii di sorpresa e di esultanza.
Quei miagolii però giungono anche all’orecchio di Gigio, che dapprima non si raccapezza ma poi, quando intuisce di essere capitato per sbaglio in un covo di gatti, si fa piccino piccino, nella vana speranza che, una volta aperto l’uovo, non si accorgano di lui.

Figurarsi! I gattini smaniano per aprire l’uovo e vedere la sorpresa!
“Pensa, mamman, se ci fosse dentro un topo!” esclama Eberardo, il più grandicello.
“Macchè topo” lo sgrida la mamma, “Non metterti in testa idee balorde! I topi costano! Ci sarà dentro il solito portachiavi!”
“Dai, dai, papà, aprilo!” gridano in coro i gattini.
Renatone, felice e paterno, alza la zampa per spaccare l’uovo, quando, zac, dall’uovo stesso spuntano due gambette (le gambette un po’ stortine di Gigio) e l’uovo si mette a correre qua e là alla cieca, urtando contro spigoli e mobili.

“Acchiappalo! Acchiappalo!” gridano i gattini eccitati. Ma l’uovo è più svelto di loro, infila la porta, rotola per le scale, e scappa lungo la via, fra le grida dei pedoni e le frenate degli automobilisti.
Renatone, sua moglie, i dodici gattini, seguono in una corsa pazza quell’uovo con le gambe. La circolazione si ferma, la gente si affaccia alle finestre, le guardie fischiano. E al fischio delle guardie Renatone ordina il dietro front: meglio una Pasqua senza uovo, che in prigione.
Il corteo dei gattini ritorna mestamente verso casa proprio mentre due guardie riescono ad arrestare l’uovo. Vorrebbero multarlo, ma nel codice stradale non si parla di uova con le gambe e la voce. E allora, per non avere grane, decidono di portare l’uovo al comando di polizia: deciderà il generale delle guardie. Ma il generale delle guardie ha altro a cui pensare: deve organizzare le ricerche per un certo topo Gigio scomparso da casa. Davanti a lui, infatti, Ino e Rosy stanno piangendo e implorando che si faccia qualcosa, perchè sono già le 14.00 e Gigio non è ancora tornato a casa.

“Scusi, generale” dicono le guardie, “Abbiamo arrestato un uovo con le gambe”.
“Macchè uovo con le gambe, sono Gigio!” geme una vocetta soffocata.
“Non ho tempo di sentire queste storie!” urla il generale.
“Ma signor generale, l’uovo è Gigio. E’ lui! L’abbiamo riconosciuto dalla voce e dalle gambe un po’ stortine!” urlano Ino e Rosy.
Volete sapere come è andata a finire questa storia?
Beh, è facile: è finita con un bel pranzetto pasquale, presenti Gigio, Rosy, Ino, e il generale delle guardie invitato per l’occasione e rivelatosi ospite amabile e compitissimo.
(Da “Corriere dei Piccoli)

Dettati ortografici e racconti PASQUA

 Usanze pasquali

In tutte le Regioni d’Italia si usa far benedire le uova sode e il salame che di mangiano a colazione il giorno di Pasqua.
In Toscana è usanza andare per i campi e piantare in terra piccole croci fatte con ramoscelli d’olivo.
In Calabria si preparano, in occasione della festività, colombe di pasta dolce in mezzo alle quali si pone un uovo sodo. Questa usanza è favorevolmente accolta in particolare dai bambini.
A Firenze, celebre lo “scoppio del carro”: in piazza, di fronte alla cattedrale, è innalzata una costruzione, il “carro”, a cui viene comunicato il fuoco per mezzo di una “colombina”. Il fuoco è portato da carboni accesi alla scintilla di due pietre del Santo Sepolcro, recate in città dai Crociati. La “colombina” corre su un filo che, partendo dall’altar maggiore della chiesa, giunge fuori fino al carro; dal modo come va e dalla rapidità con cui i petardi si accendono si traggono auspici sull’annata e sul raccolto.
Nel bergamasco, i contadini, al suono delle campane di Pasqua, vanno ad abbracciare gli alberi da frutta, per augurio di buon raccolto.

All’estero

In America, Texas, il giorno di Pasqua, prima che sorga il sole, gli agricoltori mettono in bocca ai loro figli l’uomo più grosso fatto dalle galline il venerdì santo; dopo di che i ragazzi partono di corsa per fare il giro della fattoria (sempre con l’uovo in bocca). Se riescono a compiere tutto il percorso prima che si levi il sole, secondo la credenza popolare, la prosperità sarà assicurata per tutto l’anno.

Campane a festa

Un’ondata di suono metallico, seguita come da un lungo ululo, si rovesciò sui tetti, si propagò col vento per tutto il piano. E i rintocchi s’incalzavano: il bronzo pareva animato, pareva un mostro pazzo di collera, oscillava spaventosamente affacciandosi a destra e a sinistra, fra un’apertura e l’altra, gettando due note cupe, ampie, legate da un rimbombo continuo, rompendo il ritmo a un tratto, accelerando il moto, allargandosi a distesa solenne. I campi sotto si svegliarono. (G. D’Annunzio)

I fidanzati olandesi invece sono soliti fare tre giri di danza su un terreno cosparso di uova. Se sono tanto abili da non romperne nessuno, il matrimonio sarà felice (almeno così dicono loro!).

Un’usanza del Montenegro è il “bacio dell’uovo”. Ciascuno invita una persona qualunque, che non può rifiutare anche se l’invito fosse stato fatto dal suo peggior nemico. L’invitato prende un uovo e lo fa urtare contro l’uovo che l’altro tiene in mano. La rottura dell’uovo è simbolo di pace e di riconciliazione.

Perchè a Pasqua si regalano le uova

Anticamente, le uova erano proibite durante la quaresima. Esse ricomparivano sulla mensa insieme con il salame, il latte, il cacio, l’agnello, il capretto, e le focacce a forma di agnello o di colomba, il giorno di Pasqua.

L’uso di regalare uova dipinte, sostituite poi da uova di porcellana, o di zucchero e di cioccolata, sorse appunto dal fatto che le massaie, non potendo consumare tutte le uova accumulate durante la quaresima, incominciarono a regalarle ai bambini e a dipingerle, perchè fossero più gradite.

Tutto risorge

La festa pasquale coincide con il periodo in cui tutto risorge: i prati si coprono di erba nuova, gli alberi fioriscono, il sole riscalda la terra, nascono gli agnelli, si schiudono le uova… Risorge la natura dopo il letargo invernale e risorgono la vivacità e l’energia degli uomini. E’ una vera resurrezione della natura che ci accompagna come un grande concerto d’organo accompagna un rito. Già la primavera è avanzata, tutto è in fiore, le piante germogliano vigorosamente, la terra sembra scoppiare di umore fecondo, il sole brilla e riscalda. Anche il nostro cuore si sente gonfio di pace, grazia e bontà.

La domenica delle Palme

La domenica delle Palme si annunciava a mezzogiorno di sabato con una gran festa di campane. Cominciava il campanone della parrocchia che suonava in tre riprese lasciando ogni volta nell’aria un vasto ronzio bronzeo che si sperdeva sulle case e sugli orti. Questo concerto di campane durava quasi un’ora e lo chiudeva il campanone, con lenti rintocchi scanditi e solenni. Nel silenzio ogni cosa pareva che ascoltasse immota: gli alberi e le case, nella luce, stavano come in una vuota attesa. (G. Titta Rosa)

La settimana santa

Cominciava la settimana santa. I giorni erano lucenti, asciutte le strade, nitidi gli orli dei monti. Fino a giovedì i contadini andavano ai campi, a seminare o a potare; e per tutto il giorno, dalle colline coltivate a frutteti e dalle vigne, si udivano i colpi secchi e brevi dei potatori. S’udiva anche qualche raro canto. Le donne pulivano le case. Lavavano i pavimenti, i vetri delle finestre, le porte. Negli orti erano stese le biancherie lavate e abbagliavano; e fra il canto dei galli e i rumori diversi del paese, squillava la voce di qualche ragazza che cantava, in cucina o nell’orto, una strofa lenta e dolce. Ma era bello vedere le ragazze che tornavano dal fiume con conche di rame sul capo, lustre e balenanti di barbigli d’oro. Conche, cuccume, casseruole, coperchi: non v’era oggetto di rame che esse non avessero reso splendente come la rena del fiume; e ora, riappesi nelle nere cucine, lucevano con un’aria di nuova letizia. (G. Titta Rosa)

La natura è risorta

E’ Pasqua. Siamo in primavera. La terra si è risvegliata dal lungo sonno invernale. I prati si sono rivestiti di tenero verde, smaltati di fiori; i bucaneve sulle vette ancora nevose, han gettato fuori le bianche corolle, e gli alberi si sono vestiti festosi di verde come i campi, come i colli ed i giardini. Mandorli, peschi, meli, peri sono completamente fioriti. Le bimbe e i bimbi sono giulivi, corrono per i prati come capretti, trillano come uccellini. E’ Pasqua! Udite? Le campane suonano a festa! E’ Pasqua: la natura è risorta. (G. Ferrara)

Le uova di Pasqua

Quanto alle uova di Pasqua, nelle vetrine ce n’è per tutti i gusti, di zucchero e di cioccolata, di vetro e di seta, di tutte le dimensioni e a sorpresa. In campagna si tingono specialmente in rosso le uova naturali, e  si usa scambiarsele fra parenti e amici in segno d’augurio. Le uova di cioccolata hanno origine abbastanza recente, poichè le prime furono fabbricate nel secolo scorso, in Olanda, con una pasta ottenuta mescolando in giusta dose il cacao con lo zucchero. A chi non piace l’uovo nero? Chi non vorrebbe un uovo a sorpresa, di quelli nel cui interno si racchiudono ninnoli, piccoli fantocci, anellini e porta fortuna? (G. Fanelli)

Pulizie di Pasqua

Da forse due settimane biancheggiano sventolando per le siepi, sui terrazzi, ai balconi, i bucati. E’ una bianca fioritura che fa sparire l’aspetto secco, senza colori, senza vita, proprio dell’inverno. Per le case è un affaccendarsi di massaie e di ragazze a spazzare, a spolverare, a lucidare vetri, a forbire metalli, togliendo o spostando casse, armadi, comodini; mettendo fuori seggiole, sgabelli e panchetti… Polvere e canti; frastuono di oggetti rimossi, di materassi sbattuti, e allegria di comari. Pasqua è vicina. (T. Casini)

La Pasqua ebraica

Il nome “Pasqua” significa “passaggio”. Il Faraone, che impediva agli Ebrei, fermatisi in Egitto, di ripartirne, non era rimasto scosso dalle calamità mandate dal Dio degli Ebrei sul paese: la verga di Mosè tramutata in serpente, acqua del Nilo tramutata in sangue, invasione di rane, invasione di zanzare, mosche, mortalità di armenti, grandine devastatrice, invasione di locuste, oscurità. Per costringerlo a dare il suo assenso, il Dio degli Ebrei, per mezzo di Mosè, provocò l’ultima piaga che si rivelò la più terribile: la morte di ogni primogenito. Per evitare che anche gli Ebrei fossero colpiti da questa sciagura, egli ordinò che, da ogni famiglia ebrea, fosse immolato un agnello maschio, senza macchia e nato nell’anno e che il suo sangue fosse sparso sugli stipiti delle porte, mentre la carne dell’animale doveva essere arrostita e consumata in fretta, in piedi, con l’aggiunta di pane non lievitato (azimo). Il sangue sparso sugli stipiti delle porte degli ebrei doveva far sì che Dio, passando, risparmiasse la vita dei primogeniti ebrei. E così avvenne. Mentre perirono, colpiti dalla mano di Dio tutti i primogeniti egiziani, quelli ebrei furono salvi, e da allora fu celebrata la Pasqua ebraica.

Simbolo di vita

La festa di Pasqua è, anche, la festa delle uova, che sono simbolo di vita, poichè ognuna di esse nasconde un nuovo essere invisibile e misterioso, che si sviluppa nel suo segreto, si accresce e trionfa. E’ la vita che sempre si rinnova. E’ la stagione delle uova. A Pasqua si consumano per tradizione e si offrono abitualmente in dono, perchè simboleggiano anche la resurrezione, la rinascita dell’uomo a una vita nuova. (G. Fanelli)

Tempo pasquale

Il cielo è tutto azzurro e soltanto qualche bianca nuvola vaga qua e là velando appena il sole. Le rondini girano intorno al campanile gridando e cercando il cibo. Le donne  puliscono le case e le fanno tutte lucide e belle. Gli alberi sono in fiore e gli uccelli preparano i nidi. Le api volano sui fiori a succhiare il nettare. Tutto si rinnova.

Campane di Pasqua

Tutte le campane che hanno taciuto nei giorni scorsi ora suonano a distesa: sono migliaia di note che partono da tutti i campanili, che inondano la città di un’armonia fragorosa, solenne come il risveglio alla vita, come un fremito di esultanza. Chi non si commuove a questa voce possente che scende dal cielo, che sale dalla terra, che si spande e penetra nei cuori?

Mattinata di Pasqua

E’ Pasqua, anche il sole stamane è arrivato per tempo; anzi, con un leggero anticipo. Anch’io mi sento buono, più buono del solito. Siamo tutti un po’ angeli, oggi. Mi pare quasi di volare, leggero come sono. Esco di casa canticchiando. Voglio bene a tutti. Distribuisco saluti a destra e a sinistra. Vorrei compiere una buona azione e tutti, lo si vede dai volti raggianti, hanno questo segreto proposito.  Anche i ladri stanno a casa a pitturare le uova per i loro bambini. Le galline razzolano nell’aia con visibile orgoglio: è un po’ la loro festa. Ma il sole non tramonta ancora e la massaia le chiude nel pollaio. “E’ un sopruso”, pensano, “almeno oggi un’oretta in più”. La chioccia dice: “Ahimè! I bambini preferiscono le uova a sorpresa…” . Si addormentano pensando a queste strane uova. Chissà, col tempo, riusciranno a farle  anche loro. (C. Zavattini)

Alleluia

Le campane hanno spezzato le funi che le tenevano legate. La terra ha sobbalzato, s’è aperta e versa fiori. E i fiori vanno in processione, si affollano per le valli, strisciano per i muri, si annidano nei crepacci, si arrampicano sulle pergole, si affacciano agli orli dei sentieri. Le farfalle sciamano, volano, ruotano, prese nel gaio vortice. Gli uccelli si sono ridestati tutti insieme battendo le ali. Alleluia! Le campane suonano a festa, a gran voce. Valli e monti si rimandano gli echi festosi. Alleluia! (A. S. Novaro)

Pasqua

A Pasqua, le campane suonano dolcemente e l’aria è tutta piena dei loro rintocchi festosi. Il cielo è azzurro e le rondini volano allegre e gridano forte. I mandorli e i  peschi sono tutti fioriti e anche il grano è spuntato. I prati sono verdi. A Pasqua tutti sono in festa. Quelli che sono in collera tra loro, si abbracciano e fanno la pace.

Quand’è Pasqua tutti sono contenti. La stagione è bella, il cielo è sempre azzurro e nei prati ci sono i fiori. Son tornate le rondini che girano in tondo sopra i tetti delle case; gli uccellini preparano il nido per i piccini che verranno. Pasqua è la festa della pace e gli uomini si sentono più buoni ed hanno desiderio di riconciliarsi con coloro che li offesero. In questo giorno le campane squillano giocondamente e tutti sorridono e si fanno gli auguri.

La settimana santa

A poco a poco il rigido si stempera e cede; il sole effonde una calura languida: odore, lontano, di fiori che nascono. Ma ecco che il cielo si copre nuovamente di nuvole, scroscia daccapo il diluvio: chicchi di grandine balzano sul lastricato, picchiano sui vetri: nel cielo, squarci di azzurro e groppe di nuvole in fuga. Tale mi pare sia sempre stata la stagione dell’avvicinarsi e durante la settimana santa. (B. Cicognani)

Dolci pasquali

Quando ero piccolo s’andava sotto Pasqua nella casa di campagna di certe zie per farsi dare le ciambelle di pane messe nel forno con una corona di uova incastrate sopra. Ricordo ancora l’odore e il sapore di quelle uova, talvolta chiuse in una specie di gabbia di pane infornato, con i gusci abbrustoliti che rompendo le ciambelle rimanevano qua e là attaccati al pane scoprendo l’uovo sodo fitto e gustoso. (E. Patti)

La tradizione dell’uovo pasquale

La tradizione dell’uovo di Pasqua ha origini molto antiche. Già tremila anni fa, presso i Cinesi, le uova di gallina dipinte a vivaci colori rappresentavano il simbolo della rinascita primaverile, della speranza della fecondità. I Romani invece usavano regalare uova rosse per ricordare la leggenda secondo la quale, nel giorno della nascita dell’imperatore Alessandro Severo, una gallina aveva fatto un uovo rosso. Gli antichi Ebrei tenevano l’uovo come cosa sacra e se ne servivano nei riti di espiazione, donavano uova colorate nella festività che ricorda la fuga dall’Egitto. L’usanza passò così ai cristiani e divenne una delle principali tradizioni pasquali.

Un’usanza pasquale bolognese

In molti luoghi, il giorno di Pasquetta o lunedì dell’Angelo, si usa fare allegre scampagnate nei dintorni della città. Per i bolognesi la meta caratteristica è il vicino colle della Guardia, sul quale sorge la chiesa di San Luca. Sotto il porticato, frotte di uomini, di donne, di bambini, salgono faticosamente la lunga scalinata, soffermandosi, di tanto in tanto, davanti alle immagini che adornano le pareti del portico. Giunti in cima, si recano in chiesa e, infine, colmi di gustosi cibi locali e di dolci, fra i quali primeggiano le uova di cioccolato. Poi si scende verso Casalecchio, lungo una stradicciola impervia e sassosa, detta, con termine non traducibile esattametente, “i brègnal”.

Come nacque la colomba di Pasqua

Racconta la leggenda che il truce re longobardo Agilulfo, sposo di Teodolinda, prima di convertirsi al cristianesimo, abbia voluto invitare a banchetto, nel giorno di venerdì santo, il vescovo San Colombano e gli abbia fatto portare in tavola una schidionata di colombe. La confusione del santo fu grande: avrebbe voluto rispettare il precetto cristiano di non mangiare carne il venerdì e, nello stesso tempo, non voleva offendere l’irascibile sovrano.  Ma. con l’aiuto di Dio, avvenne il prodigio: improvvisamente tutte le colombe ripresero vita e spiccarono il volo. Il miracolo commosse talmente Agilulfo che, nel giorno di pasqua, fece confezionare e offrì a tutti grandi colombre di pane.

Pulizie pasquali

Da una settimana era dietro le pulizie pasquali. Dalla mattina presto al pomeriggio tardi era un continuo lavare, strofinare e  lustrare. Le braccia se le stancava a pulire i soffitti. Erano talmente alti che bisognava legare il piumino a una canna. I vetri andavano prima lavati e poi insaponati. Per pulire gli ottoni bisognava infilarsi nella mano una vecchia calza di lana. Bisognava spolverare i soprammobili e tirare fuori, uno alla volta, gli oggetti chiusi nella credenza, che ora ingombravano il piano del tavolo (C. Cassola)

Che cos’è la Pasqua

La Pasqua è la festa della pace, è la festa del perdono, e tutti, in questo giorno lieto, debbono essere in pace tra loro. Se nel tuo cuore hai rancore verso un compagno che ti ha offeso, perdona e sarai anche tu perdonato.
E’ Pasqua di Resurrezione! Fai del bene in questi giorni di festa! Aiuta chi ha bisogno, consola chi soffre. Soltanto così potrai celebrare felicemente la Pasqua. (M. Menicucci)

Dettati ortografici e racconti PASQUA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconto per introdurre la geografia La casa giusta

Racconto per introdurre la geografia La casa giusta – Elaborato a partire da una traccia in uso nella scuola steineriana, questo racconto è un piccolo viaggio attraverso i climi e le abitazioni tradizionali di alcuni popoli della terra. Se proposto a blocchi, un po’ al giorno, si può esercitare il disegno copiato dalla lavagna e la scrittura; consigliate anche le cornicette… Ho inserito nel testo degli esempi. Se disegnate per i bambini alla lavagna partite creando un bello sfondo (sole, aria, prato…), poi passate alla cornicetta, e quindi al disegno, cercando di evitare prospettive troppo complicate per loro e troppi particolari che renderebbero noioso guardarvi. Non importa tanto il prodotto finito, quanto il processo.

C’erano una volta, tanto tempo fa, due fratellini, un bambino e una bambina, che abitavo su su in alto, nel cielo. Lassù c’era sempre qualche gioco nuovo da fare: saltare sulle nuvole bianche e gonfie come la panna montata, scivolare sul dorso della luna, fare le pernacchie ai raggi del sole, sedersi sulle stelle e giocare a nascondino…

Un giorno, il tempo era passato e loro erano un po’ cresciuti, il loro sguardo andò a posarsi sulla terra: com’era piccola rispetto a tutto il cielo, e com’era buia rispetto alle stelle, e com’era chiassosa rispetto alla luna silenziosa, e com’era fredda rispetto al sole! Ma com’era bello guardare i suoi alberi, i fiori che sbucavano dalla scura terra,  gli animali che correvano, i fiumi  e i monti, le montagne imponenti, e gli uomini, poi, che si muovevano, parlavano, ridevano… Da quando avevano scoperto la terra, i due bambini rimanevano ore ed ore a guardarla, seduti su una nuvola, e non avevano più voglia di giocare con la luna e con le stelle. Solo quando sulla terra gli uomini interrompevano le loro varie occupazioni e andavano a dormire, i bambini tornavano ai loro giochi.

Guardando e riguardando la terra, i bambini cominciarono a desiderare di scendere laggiù, ma avevano molta paura a fare un viaggio del genere da soli. Una volta arrivati, come sarebbero stati accolti? Qualcuno avrebbe avuto cura di loro? Com’erano gli uomini, buoni o cattivi? A vederli da lassù, sembravano certamente buoni, ma era proprio così? Presi da tanti dubbi, e divisi a metà tra cielo e terra, i due bambini cominciavano a sentirsi tristi.

Le stelle del cielo se ne accorsero e dissero: “Non abbiate paura… anche se scenderete sulla terra noi resteremo con voi, e potrete sempre vederci anche da laggiù”.
I due bambini, a questo punto, erano determinati a partire, ma prima di farlo decisero che era meglio chiedere un consiglio al grande mago che muoveva i venti e le correnti, faceva nascere le tempeste, scatenava i fulmini, faceva rimbombare i tuoni e  radunava tutte le nuvole trasformandole in animali dei più vari, come elefanti leoni aquile tori o pesci…

“Di cosa avremo bisogno una volta scesi sulla terra?”, gli chiesero.
“Oh, beh, di una cosa avrete bisogno di certo” rispose il mago, “Una volta sulla terra, il cielo ce lo avrete sulla testa, e le nuvole rovesciano acqua, il sole brucia e la luna è fredda… vi occorrerà un riparo dal freddo e dal caldo, dalla pioggia e dal vento, dalla grandine e dalla neve…”
“Una casa?” chiesero i bambini, “ma noi non sappiamo nulla di case…”

“Voglio aiutarvi!” , rispose il mago dopo aver riflettuto un istante, perchè quei due bambini gli erano proprio simpatici, “Venite giù con me! Io vi darò una casa sulla terra. Come la volete? Triste o allegra? Fredda o calda? Chiusa o aperta?”
“Bella!” risposero in coro i bambini.
“Bene”, disse il mago, “Venite allora sotto il mio mantello, e tenetevi forte!”

I due bambini si attaccarono stretti alle gambe del mago, sotto il suo mantello, e volarono giù tra le grida di meraviglia degli uccelli…

Volando, erano passati vicino al sole, che li aveva quasi scottati; allora il mago li portò subito nella zona più fredda che si possa trovare sulla terra. Lì atterrò, e  i bambini uscirono da sotto il suo mantello e si guardarono attorno; erano arrivati al Polo Nord, dove la terra non germoglia  e non fiorisce: vento gelido e lastre di ghiaccio  luccicante dappertutto, e un gran silenzio, interrotto soltanto dallo scricchiolare del ghiaccio, dal grido di grandi uccelli bianchi e dal verso delle foche e degli orsi. Gli uomini che vivono in questa terra sono pochi.

Il mago disse: “Ah, che bel frescuccio da queste parti, eh! Proprio quello che ci voleva! Ed ora, vediamo un po’ in che casa potreste abitare…”

Il mago fece un cenno verso qualcosa che sporgeva dalla neve, a forma di cupola, e tutti e tre si avviarono da quella parte. Seminterrata nella neve, c’era una casetta rotonda, tutta ricoperta di ghiaccio, senza porte nè finestre: l’igloo. Il mago e i due bambini entrarono, abbassando la testa, in un tunnel di ghiaccio che era accanto alla casa. Percorrendo il tunnel videro numerosi cani sdraiati e mezzo addormentati. Il tunnel finì ed essi sbucarono all’interno della casa. Lì dentro non faceva più così freddo, ma c’era un fortissimo odore di grasso e di pesce.  Tutta la casa era ricoperta di pelli, muschi e licheni.I due bambini esclamarono: “Oh, che bella questa casa!”.

Lì dentro ci si sentiva proprio bene e la cupola che faceva da tetto somigliava al cielo. Gli uomini che entravano nella casa si toglievano i grossi guanti e i giacconi foderati di pelliccia, e sorridevano. I loro occhi erano di forma allungata, avevano zigomi pronunciati e la pelle del viso spalmata di grasso. Il mago salutò i due bambini, e scomparve.

Fu un grande divertimento per loro vivere in una casa di ghiaccio. Parte del giorno la trascorrevano all’aperto giocando con le foche e coi cani, poi rientravano nell’igloo e si sdraiavano  tra le pelli di foca, addormentandosi. Se capitava che si svegliassero durante la notte, vedevano sempre la stessa pallida luce solare, che ininterrottamente, per tutte le 24 ore di ogni giornata, era sempre la stessa: il giorno non finiva mai.
Ma il tempo passò e il sole invece di esserci sempre, tramontò e l’alba non arrivava. Allora cominciarono a sentire davvero freddo! Il vento del nord cominciò a soffiare, arrivarono le tempeste di neve, le onde dell’oceano si impennarono come cavalli selvaggi. Tutti gli uomini si rintanarono negli igloo, e chiusero i cani al sicuro nel tunnel. Il maltempo durò molti, molti giorni, e la luce del sole non ricomparve: un’eterna notte si era distesa su quella strana terra  e le ore passavano sempre uguali. I due bambini avevano freddo e cominciarono ad annoiarsi. Nell’igloo c’era ben poco da fare, e non si poteva neanche star dietro a una finestra a guardare il cielo nero, la furia dell’oceano o la terra battuta dal vento. Quella casa ora sembrava loro una prigione di gelo.
“Che noia!” disse la bambina,  “potessimo chiamare in nostro amico mago…”.
“Lui ci aiuterebbe!”, rispose il bambino.

E non avevano finito di scambiarsi queste parole, che il mago apparve davanti a loro: “Cosa volete? Non siete soddisfatti della vostra casa?”
“No!” rispose il bambino, “Abbiamo freddo e qui è sempre notte! Ci annoiamo!”
“Questa terra non è adatta a noi”, continuò la bambina, “e poi… la casa non ha nemmeno una finestra per guardar fuori e vedere le stelle…”
“Bene,” disse il Mago, “allora lasciamo questo posto! Venite sotto il mio mantello!”
“Dove ci porterai?”
“Dove regna il sole, venite!”
I due bambini non si fecero certo pregare, e si infilarono zitti zitti sotto il grande mantello. Il mago uscì dall’igloo e si alzò in volo, incurante della bufera.

Viaggiarono per molto, molto tempo e, mentre volavano, l’aria di faceva sempre più calda, finchè i due bambini cominciarono a sudare sotto il mantello del mago. Per fortuna erano arrivati!
“Eccoci a terra” disse il mago.

I due bambini uscirono da sotto il mantello e si guardarono intorno meravigliati. Erano atterrati in un posto che era in tutto e per tutto l’opposto del primo: si trovavano nell’emisfero sud! Qui la pioggia poteva cadere torrenziale per giorni e giorni, il sole era splendente, e l’aria umida e calda faceva nascere dalla terra ogni genere di pianta e alberi altissimi, col tronco liscio liscio e la chioma rigogliosa molto sopra. Al polo i colori erano bianco, grigio e azzurro pallido; qui era il regno del verde e del giallo in tutte le loro possibili gradazioni e sfumature. Tanto era ricca la vegetazione, altrettanto ricca era la varietà di animali: leoni, leopardi, pantere, iene, gazzelle, antilopi, giraffe, zebre, elefanti, scimmie, uccelli d’ogni genere. Gli uomini, a differenza degli abitanti del nord, avevano la pelle scura.

“Ah, che bel calduccio fa da queste parti, vero?” disse il mago, soddisfatto, “Credo proprio che ora sarete contenti… ieri al polo e oggi qui! Adesso non ci resta che andare a cercare la vostra casa!”.
Seguito dai due bambini, il mago si inoltrò nel folto della foresta. Camminare era molto difficile, ma con un mago al proprio fianco non c’era nulla da temere, e alla fine si ritrovarono in una piccola radura circondata da alberi altissimi.

“Ecco la vostra casa!” disse il mago, indicando una costruzione rotonda come un igloo, ma tutta verde e leggera. Era una capanna fatta di rami d’albero sottili e flessibili, legati gli uni agli altri con delle liane. Al centro, un’apertura tra i tronchi indicava l’entrata. I bambini erano felici: quella sì che era una bella casa! Entrarono: il sole filtrava tra le fessure delle pareti, e l’aria profumata della foresta penetrava ovunque.
“Ah, qui staremo proprio bene!” dissero, ” e stanotte finalmente riusciremo a rivedere le stelle!”.
“Sono contento che vi piaccia” disse il mago, e scomparve.

Fu così che i due bambini si ritrovarono a vivere le loro meravigliose avventure nella foresta. Il più divertente dei giochi era lanciarsi la frutta addosso, loro e le scimmie. Ma era bello anche seguire il corso del fiume, naturalmente stando molto attenti ai coccodrilli… e ai leoni!

Eppure i bambini non erano del tutto felici, e continuavano a sentire la stessa nostalgia che avevano provato prima di scendere sulla terra.
“Se almeno non vedessimo tutto quel buio là fuori! Se la casa fosse più… più protetta, più chiusa…”, dicevano.
E la sera anche le stelle sembravano così lontane.
Passò del tempo, e anche il caldo si fece insopportabile: un’aria umida e appiccicosa saliva dalla terra, arrivò un vento caldo e gli animali si nascosero nella foresta. Gli uomini si ritirarono nelle loro capanne, chiudendosi dentro con tronchi e pelli. Cadde su tutto un cupo silenzio, una calma irreale e minacciosa si stese su uomini, alberi, animali. Il sole scomparve e si scatenò una terribile tempesta; l’acqua scendeva violentissima dal cielo e ai due bambini sembrava di essere su di una barchetta leggera in balia di un mare tempestoso.
“Oh, se almeno non fossimo soli, se ci fosse il mago qui con noi!” dissero.
“Mi avete chiamato?” disse il mago, apparendo improvvisamente davanti a loro. “Non siete più contenti neanche di questa casa?” Eppure, vi piaceva tanto…”
“Oh, sì, è bella… ma non è sicura! Noi vorremmo una casa solida che sappia resistere al vento e alla pioggia; che ci faccia sentire protetti…”

“Ho capito. Ed ora so quello che ci vuole per voi. Ritornate in fretta sotto il mantello, e partiamo!”
I bambini non se lo fecero certo ripetere, si aggrapparono alle gambe del mago, e volarono via.

Viaggiarono a lungo, verso ovest, sorvolando l’oceano immenso, finchè per la terza volta si ritrovarono a terra. Erano in un paese vasto e aperto come il respiro di un gigante: l’America! Da una parte si stendevano verdi praterie sterminate, solcate da fiumi e interrotte qua e là da grandi pinete; dall’altra una catena di monti rocciosi si elevavano in picchi frastagliati verso il cielo. In quel momento il sole stava tramontando e tutto era tinto di arancione e rosso. Quanta luce!

“Venite!” disse il mago “Vi aspetta la casa dei vostri sogni!”
E li portò su un picco roccioso, sovrastato da uno strano spettacolo: scavate nella roccia viva, una accanto all’altra e una sopra l’altra, c’erano case di pietra.
“Questa sì che è una casa!” esclamarono i bambini, “Qui dentro non ci bagneremo, nè vedremo lampi paurosi!”
“E da queste finestre potremo anche guardare le stelle.” disse la bambina.
E il bambino aggiunse: “Sembra una fortezza! E possiamo giocare ai soldati!”
“Bene!” disse allora il mago, “Sono proprio felice di avervi accontentati…”
E sparì.

I due bambini cominciarono una nuova vita. Intorno a loro vivevano uomini forti e coraggiosi, alti e dalla pelle del colore del tramonto, con lunghi capelli lisci e neri, spesso adornati di piume. Questi uomini maneggiavano armi e attrezzi, e avevano costruito loro quelle case, scavandole nella roccia, e le avevamo chiamate “pueblo”. Erano un popolo saggio e generoso, ma anche bellicoso. Coltivavano le praterie e vivevano dei prodotti della terra e di caccia. Il bambino li seguiva spesso nel loro vagabondare e aveva imparato ad andare a cavallo e rincorrere immense mandrie di bufali e bisonti selvaggi; alci, salmoni e castori erano altri animali che si incontravano facilmente in quella zona. La bambina, invece, restava al villaggio con le donne, e con loro lavorava a fare cesti e ritagliare le pelli dei bisonti per fare coperte e vestiti.
A lungo andare la bambina si stancò di vivere così.

“Le finestre qui sono buchi, vanno bene per lanciare frecce contro i nemici, ma non per ammirare il mondo!” disse un giorno.
“E se anche fosse?” rispose il bambino, “a me piace sentirmi al sicuro quando arriva il nemico!”
“Ma non si può vivere sempre con l’idea di doversi difendere! Io vorrei una casa delicata, dolce, con una bella finestra da cui guardare i fiori del giardino, un terrazzo…Vorrei vicini gentili che ti sorridono quando ti vedono…”
“Tutte cose da femmina!” disse il bambino facendo una smorfia.
“Proprio così! Questa è una casa per maschi! Un buco nella roccia per giocare alla guerra!”
I due bambini cominciarono a litigare, finchè la bambina afferrò il bambino per i capelli gridando: “Vuoi la guerra? Eccotela!”
E cominciarono a darsele di santa ragione.
“Ah, così proprio non va!” dissero in coro le stelle del cielo, “Mago, corri dai bambini!”
Ed il mago apparve tuonando: “Cosa state combinando?”
“Niente…” dissero i bambini.
“No, no! Questo posto proprio non va bene per voi! Vi porterò nel paese della grazia e della delicatezza, e lì sicuramente starete bene…”

I bambini si nascosero sotto il mantello del mago e volarono via dal selvaggio ovest.
Viaggiarono a lungo verso est, sorvolando mari e terre, poi il mago cominciò a volare più basso e i bambini videro sotto di loro tantissima acqua, l’oceano, e in mezzo all’acqua una grande terra che si stendeva meravigliosa, ricca di verde e di montagne ricoperte di neve, e di alti monti con la cima simile ad una bocca spalancata, i vulcani. Videro sciogliersi le nevi in cascate pittoresche e laghi da sogno circondati da boschi di aceri, betulle, castagni, magnolie e salici… Quella terra era molto popolata: videro città e paesi, uomini donne e bambini.

Il mago atterrò, e i bambini con lui.
Che meraviglia! Conifere di ogni specie si alternavano a magnolie, camelie, orchidee, glicini, bambù… un dolce lago azzurro, solcato da silenziose imbarcazioni, era immerso nel verde, e il verde vi si rifletteva dentro. Sulla sponda del lago, tra delicati alberelli nani, sorgeva la più deliziosa casa che i bambini avessero mai visto: col tetto a forma di pagoda, aveva le pareti di legno leggerissimo e di carta, in cui s’aprivano grandi finestre. All’interno della casa ogni cosa era delicata e leggera: c’erano piccolissimi mobili di legno laccato, tavolini bassi bassi, composizioni di fiori variopinti insieme a rami di bambù e foglie, pareti scorrevoli di carta e legno al posto delle porte. La bambina era estasiata, mentre il bambino si guardava attorno curioso. Gli uomini che le avevano costruite erano a prima vista gentili e delicati proprio come le loro case: piccoli di statura, occhi e capelli scuri, la loro legge era la cortesia.

“Qui di certo non vi verrà voglia di prendervi per i capelli” disse il mago, e come al solito scomparve.
I due bambini non osarono nemmeno salutarlo, perchè sembrava che ogni voce fosse troppo forte in quel dolce paese…
Così cominciò la loro vita nell’est, nel paese del Sol Levante.
In questa terra l’attività più strana per i bambini era prendere il tè: solo per prepararlo ci si metteva una gran quantità di tempo, poi lo si versava in delicatissime tazzine di porcellana e lo si beveva con grande serietà. Con la stessa cura dei gesti si svolgevano quasi tutti i lavori, anche coltivare il riso, l’alimento principale di quel popolo. E la stessa cura veniva messa in tutte le arti: la lavorazione della carta e del legno, l’arte della seta, la calligrafia, la ceramica, la danza, la musica e il teatro.

Un giorno i bambini andarono ad assistere ad uno spettacolo e per la prima volta videro rappresentata la lotta tra due samurai. Gli attori erano coperti dalla testa ai piedi e portavano spada ed elmo: avevano un aspetto davvero feroce. Dopo qualche minuto di calma assoluta in cui i due guerrieri erano rimasti uno di fronte all’altro immobili come statue, si sentì un fortissimo grido e cominciò la lotta: non c’era traccia di cortesia e delicatezza!
I bambini naturalmente furono molto impressionati, e tornati a casa il bambino disse: “In questo paese tutto è bello e sembra fatto di porcellana; a volte ho perfino paura a camminare perchè temo di poter rompere qualcosa o di dare fastidio…ma c’è anche qualcosa di violento e terribile… oggi quei due samurai mi hanno proprio fatto paura!”

La bambina non disse nulla.
D’improvviso la terra cominciò a tremare, sembrava stesse spaccandosi in due, ci fu un terribile rombo, e la casa si piegò e finì col disfarsi, proprio come un castello di carte. Per fortuna, essendo così leggera, non fece loro alcun male.

“Ho paura!” dicevano i bambini, “Vieni qui da noi, mago!”
E il mago comparve.
“Presto, sotto il mantello! Scappiamo!”
Si alzarono in volo e la terra divenne un’altra volta piccola piccola e lontana, in mezzo al mare…

Dopo un po’ che volavano, il mago si fermò. I due bambini sbirciarono da sotto il mantello per vedere dove erano capitati questa volta… ma si accorsero di essere ancora in alto nel cielo. Il mago era molto pensieroso.
“Caro mago, cos’hai?” chiesero.

“Vi ho portati in giro per il mondo: dalle nevi del nord, alle zone tropicali del sud, dalle vaste praterie dell’ovest, fino alle belle terre dell’est. In tutti questi posti avete conosciuto gioia, sorpresa, felicità, meraviglia, ma anche tristezza, noia, paura. Soprattutto, la vostra nostalgia non vi ha mai lasciati, in nessuno di questi luoghi. Avete abitato in case di ghiaccio, di piante, di roccia, di carta, ma niente è stato adatto a voi. Non avete ancora trovato la vostra terra, la vostra casa…”
“Non ti scoraggiare, caro mago” dissero i bambini.

“Non ti scoraggiare, caro mago” ripeterono in coro le stelle, “Tu li hai portati dal cielo alla terra, ma la casa giusta per loro può trovarla soltanto la grande maga misteriosa… portali da lei”.
Il mago accettò il consiglio delle stelle, prese i bambini sotto il mantello e insieme volarono incontro alla terra, allontanandosi dalle nuvole e via via immergendosi nel verde e nell’azzurro, finchè arrivarono davanti alla grande maga misteriosa.

Il mago baciò i bambini, li salutò e scomparve.
“Perchè siete venuti da me?” chiese la maga.
“Per avere la casa sulla terra giusta per noi. Il mago non è riuscita a trovarla…” dissero i bambini.

“Certo cari bambini, la casa giusta per voi è dove c’è chi vi sta aspettando, il vostro papà e la vostra mamma. Loro, sapete, stanno preparando per voi due casette, non una soltanto! Una casetta è piccola piccola, che ci sta dentro giusto il cuore, e l’altra è grande grande. Vedete: ogni luogo della terra è meraviglioso, come è meraviglioso ogni popolo della terra ed ogni uomo, e ogni casa è la casa migliore che per quel luogo possa esistere.   Ma casa è dove ci sono la mamma e il papà, e i vostri non erano in nessuno dei luoghi dove il mago vi ha portati, per questo non vi ci siete trovate bene…”
“E dove sono, dove sono?”, chiesero i bambini.

“Oh”, disse la maga, “vivono in un luogo della terra non troppo a nord, nè troppo a sud; non troppo ad ovest nè troppo ad est; lì non fa troppo freddo e nemmeno troppo caldo; il sole splende ma può anche cadere la neve. E’ una bella terra, il clima è temperato, è contornata da un mare azzurro e splendente sotto i raggi del sole, ma non mancano le alte vette innevate, le colline e le pianure. Anche in questa terra esistono come nelle altre che avete visitato cose brutte, ma è la vostra casa. Era lì che spingeva la vostra nostalgia…”

Il ciclo dell’acqua La storia di Diamantina

Il ciclo dell’acqua La storia di Diamantina – Questo racconto è utile sia per illustrare il ciclo dell’acqua, sia per introdurre in geografia gli ambienti naturali montagna, collina e pianura. Andrebbe proposto a blocchi, ed ogni blocco illustrato dai bambini con matite, cerette, acquarello, ecc…  (anche copiando dalla lavagna). Questo solo a titolo di esempio:

C’era una volta, molto ma molto tempo fa, un regno immenso fatto di acqua, dove tutto era pace e armonia. Era il regno di Oceano. Custodiva tante e tante meraviglie: negli abissi più profondi e inesplorati, si nascondevano grotte misteriose e montagne di sabbia e roccia rivestite di un  mantello verde evanescente che danzava all’ondeggiare dell’acqua. C’erano giardini incantati, pieni di fiori e coralli dai colori più sgargianti, e piante grandi e piccole, alcune delle quali aprivano e richiudevano le loro chiome per mangiare e riposare.

Piccole e grandi creature si muovevano senza sosta tra quelle meraviglie. La loro pelle era simile al colore delle piante e dei fiori che le circondavano, e  lucente, e piante e creature si confondevano tra loro.

Ogni creatura aveva un nome. C’era ad esempio il polipo, con la sua grande testa allungata dalla quale spuntavano lunghi tentacoli che si muovevano in tutte le direzioni. C’era poi la medusa, leggiadra e trasparente, che si muoveva così leggera e sinuosa da sembrare una ballerina sulle punte, in perfetta sintonia coi movimenti dell’acqua. La conchiglia dell’ostrica sembrava un ventaglio colorato e custodiva al suo interno una magnifica, perfetta perla splendente. La balena era la più grande creatura del regno. Un gigante buono. Quando nuotava, attorno a lei c’erano tanti pesciolini che le tenevano compagnia. Per respirare la balena doveva, di tanto in tanto, uscire dall’acqua, ed in quel momento spruzzava dal suo dorso una gorgogliante fontana che saliva verso il cielo e poi ricadeva su se stessa aprendosi come un fiore. C’era poi il delfino, l’acrobata di quel regno. I delfini nuotavano sempre in gruppo, ed il loro gioco preferito consisteva nel balzare fuori dall’acqua, il più alto possibile, per poi rituffarsi in acqua disegnando  nell’aria archi d’argento e allegri spruzzi d’acqua.

Il colore verdazzurro del regno di Oceano gli donava un’atmosfera di sogno e di pace. In superficie tutto era un luccichio, grazie alla luce del sole:  milioni di piccole stelline sembravano posarsi a danzare sul pelo dell’acqua.

Oceano aveva moltissime figlie: le gocce d’acqua, che vivevano felici nel suo regno. Oceano si occupava amorevolmente di loro e provvedeva a tutti i loro bisogni: le nutriva, le cullava cantando per loro, le proteggeva dai pericoli. Le gocce amavano Oceano, e gli erano grate e riconoscenti per quella vita così felice e spensierata.

Un giorno, mentre tutte le piccole gocce erano impegnate a giocare tra loro, si spinsero fino alla cresta delle onde, pericolosamente troppo vicino alla superficie, e lontane dal palazzo verdazzurro di Oceano. Lì udirono una misteriosissima voce chiamarle: “Goccioline! Fatevi riscaldare dai miei raggi, vi prometto che conoscerete cose fantastiche… vi farò vedere tutte le meraviglie che esistono oltre al vostro regno…”

Le gocce si spaventarono e fuggirono via. Non appena furono di nuovo a palazzo si sentirono al sicuro, ma non riuscivano a smettere di pensare a quello che era successo, e non riuscivano a darsi una spiegazione. Di chi era quella voce? Chi le aveva chiamate? Era il caso di tornare vicine alla superficie e cercare di scoprirlo, o era meglio dimenticare tutto e lasciar perdere?

Una piccola goccia parlò: “Oh, io sono così stanca di tutta questa pace, ogni giorno uguale all’altro, ogni giorno sempre più noioso di quello prima… Questo regno lo conosco ormai fino al più piccolo granello di sabbia che contiene. Basta! Voglio qualcosa di nuovo! Voglio avventura! Voi fate come volete: io salgo!”.

A parlare era Diamantina, la più curiosa e irrequieta goccia che ci fosse mai vista nel vasto oceano. Senza esitazione, dunque, si diresse verso la superficie, e molte delle sue sorelle decisero di seguirla…

… un brivido misterioso percorse le acque, e giunse fin negli abissi più profondi dell’oceano.

Appena giunte in superficie, le piccole avventuriere si sentirono avvolte da un piacevole tepore: un raggio di sole le aveva infatti accarezzate e le stava attirando a sè con forza sempre maggiore. Diamantina e le sue compagne si lasciano andare e, piano piano, con grande gioia, si arrampicarono sul raggio di sole, lasciando sotto di sè il regno di Oceano. Man mano che salivano diventavano sempre più leggere: fluttuavano nell’aria più leggere di trasparenti farfalle, e salivano sempre più in alto, sempre più su… per la prima volta in tutta la sua vita Diamantina, fuori dal regno di Oceano, vide tutti i colori del mondo.

(disegno)

Diamantina e le sue sorelle erano così felici! Ed ecco, videro comparire mago Vento: un gigante buono che se ne stava là nell’aria e  sembrava divertirsi come un matto a gonfiare le sue guance a più non posso. Quando aprì la bocca, ne uscì una bella folata fresca che investì tutte le gocce, allora loro si diedero la mano e si strinsero, per evitare di venire sparpagliate chissà dove.  Così unite , formarono una bella nuvola bianchissima nell’azzurro del cielo, e mago Vento continuò a soffiare, spingendo la nuvola fino alla cima di un’alta montagna rocciosa.

Lassù faceva molto freddo, non si vedevano nè erba nè alberi, ma solo rocce gigantesche, immobili e solenni. Per proteggersi dal gran freddo, ed estasiate dalla bellezza di ciò che vedevano, Diamantina e le altre gocce si strinsero ancoro  più forte le une alle altre: erano nel regno di mago Gelo. Divennero per opera sua sempre più consistenti e solide e bianche, e scesero lievemente sulle montagne, trasformate in meravigliosi cristalli stellati. Si adagiarono con dolcezza al suolo formando un mantello soffice soffice e bianco bianco, e caddero in un piacevolissimo sonno che per lungo tempo le cullò su quelle alte vette.

Finalmente, un mattino, un lieve tepore le svegliò dal loro sonno, e le gocce ad una ad una si accorsero che potevano nuovamente muoversi: era arrivata la primavera.

(disegno)

Scivolarono lungo il pendio della montagna verso la valle, lungo il percorso cantavano e saltellavano e giocavano a rincorrersi, riprendendo  via via la loro trasparenza. Scorrevano sempre più veloci, e ridevano, ridevano… L’eco delle loro risa risuonava tutto intorno, e improvvisamente ebbero come l’impressione di prendere velocità e di volare nel vuoto: l’emozione le fece ridere ancora più forte! E il loro salto aveva formato un’incantevole cascata.

Lungo il percorso capitava che alcune gocce scegliessero altre strade, ma sempre accadeva che un po’ più a valle si ricongiungessero. Ritrovarono perfino le sorelle che avevano scelto per un po’ di scorrere sottoterra, per poi riaffiorare dalla roccia e riunirsi a loro come acqua di sorgente.  Quando furono di nuovo tutte insieme,  i loro mille rigagnoli erano diventati un bel torrente limpido e lastricato di sassi grandi e piccoli.

Diamantina e le altre gocce si scambiarono i loro racconti di viaggio: c’era chi aveva conosciuto la regina Stella Alpina, chi aveva spiato una cordata di coraggiosi alpinisti, chi era passata vicino a paurosissimi burroni… un profumo molto intenso le avvolgeva e felici più che mai contemplavano il verde giovane della primavera.

Diamantina per prima si fece coraggio, e chiese: “Chi siete? Perchè ve ne state lì fermi e non venite con noi?”. “Noi siamo l’erba”, risposero in coro, “non potremmo vivere separati dalla terra, che ci nutre, ci protegge, ha cura di noi. Tappezziamo la montagna formando i pascoli, e la facciamo soffice e morbida… su di noi giocano i bambini, e senza di noi mucche, pecore, caprette, morirebbero di fame”. Diamantina e le sue compagne domandarono perplesse: “Mucche? Pecore? Caprette? E che cosa sono?” . “Sono quegli animali laggiù, vedete? Quelli a quattro zampe!”.

Le gocce conobbero così gli animali, strani esseri che, a differenza dell’erba, possono correre, saltare, galoppare…

“Anche tu ti chiami Erba?”, chiese Diamantina ad un bel fiore. “Beh, non proprio… il mio nome è Calendula, anch’io appartengo alla famiglia dell’Erba, ma a me aria e luce hanno dipinto un bel fiore con i raggi del sole…”. Mentre Calendula parlava, Diamantina si accorse di un piccolo essere simile a un fiore, ma che volteggiava nell’aria. Quando lo vide posarsi su una dolce margherita, urlò: “Attento bel fiore bianco e giallo, quella cosa ti farà male!”. “Mia cara Diamantina,” rispose Margherita, “questa è nostra sorella, la Farfalla. Non vedi come somiglia a noi fiori? Le sue ali sono come i nostri petali, ma sono petali speciali perchè possono prendere la strada del cielo. La farfalla, sai, volando qua e là per il prato, raccoglie tutte le storie che racconta la natura e le passa di fiore in fiore. Ora è a me che vuole raccontare qualcosa…”

Dopo aver salutato tutti i nuovi amici conosciuti nel pascolo montano, Diamantina e le sue compagne ripresero il loro viaggio. Ad un tratto sentirono un brivido di freddo e di paura: videro attorno a loro non più il verde dei pascoli, ma una miriade di giganti maestosi ed immobili che, nascondendo la luce del sole, creavano un’atmosfera cupa e misteriosa.  Le gocce, unite nel torrente, stavano infatti attraversando un fitto bosco di pini, abeti e larici.

La luce tornò e le gocce tirarono un bel sospiro di sollievo. Avevano ripreso il loro corso naturale, quando questa volta fu un grosso sasso a sbarrar loro la strada. Alcune gocce riuscirono ad aggirarlo, passare oltre e proseguire il loro cammino; altre si fermarono a discutere a lungo davanti al masso, presero a litigare, e così divennero ben presto acqua stagnante, e il fango le imprigionò.

(disegno: montagna)

Le altre, passate il grande sasso, decisero di rallentare un po’ la loro corsa per ammirare il meraviglioso paesaggio che andava cambiando. Via via la pendenza si faceva più dolce e cominciavano ad apparire verdeggianti colline, che si susseguivano simili alle onde di un mare incantato, pronto ad offrire nuovi tesori e nuove bellezze: argentei ulivi dal tronco contorto, filari di viti, frutteti, tappeti di terra coltivata, boschetti di castagni e querce, fiori variopinti. Tante casette colorate erano sparse qua e là tra il verde. Le gocce si beavano di tutte queste meraviglie.

Diamantina e le sue compagne di viaggio si guardavano intorno felici, e la loro attenzione presto si concentrò su una specie di prato verde sospeso in alto. “Forse è un prato che vola, una specie di grande farfalla…” disse Diamantina a voce alta.  “Ma che sospeso! Ma che farfalla!” disse un grosso vocione da contrabbasso, “Sono la Quercia. Le mie radici affondano nella terra, e la terra mi ha nutrita e fatta crescere così alta e maestosa perchè desiderava guardare il cielo da vicino. I miei rami servono da riparo per gli uccelli: loro cantano e volano, mentre io sto immobile a custodire la loro casa. Solo mago Vento viene ogni tanto a scuotermi un po’ le fronde: lui è mio grande amico. “

Un canto improvviso distrasse presto Diamantina: nascosto tra i fili d’erba c’era un piccolo cosino nero, ed era lui a cantare. “E tu chi sei?”, chiese Diamantina, “una capretta nana?”. “No, no!”, rispose quello. “Allora sei una mucca piccola!”. “Ma no! Sono un insetto, un grillo canterino, per la precisione, e mentre mi occupo di pulire e riordinare la tana, canto”.

“E quei fili d’erba che saltano, cosa sono?” chiese ancora Diamantina al grillo. “Sono cavallette! Non sono fili d’erba, sono insetti come me. Non stanno mai ferme, saltano, saltano… mi fanno girare la testa!”. Detto questo il grillo riprese le sue faccende e il suo canto.

(disegno: collina)

Le gocce, intanto, cominciavano a sentirsi molto stanche, dopo quel lunghissimo viaggio, ed erano confuse e stordite per la quantità di cose nuove che avevano visto lontane da casa. Rallentarono l’andatura e udirono un ronzio insistente provenire dalla riva, da un bel prato fiorito. Videro tanti piccoli esserini gialli e neri: volavano di fiore in fiore producendo il ronzio che aveva attirato la loro attenzione.

“Quelle non sono certo farfalle” pensò Diamantina, che proprio per colpa delle farfalle aveva già fatto tante brutte figure. Si avvicinò e chiese: “E voi chi siete?”. “Noi siamo le api” risposero loro, “e ci posiamo sui fiori per raccogliere il dolce nettare. Loro ce lo danno molto volentieri, perchè sanno che così noi potremo preparare la pappa reale per la nostra regina e il miele per tutti.”

Diamantina non sapeva proprio cosa fosse il miele, ma era troppo stanca per fare altre domande, così, insieme alle sue compagne, riprese il suo viaggio, muovendosi sempre più lentamente.

Il letto sul quale Diamantina e le altre gocce scorrevano non era più così ripido, ed era anche diventato molto più largo. Le gocce ora non avevano più quella voce sonora e squillante di una volta, non saltellavano, non guizzavano: scivolavano pacatamente e via via perdevano la loro limpidezza di acqua di montagna, per diventare acqua di fiume. Il fiume si allargava sempre più. Diamantina e le sue compagne si sentivano ora pesanti e stanche e provavano una grande nostalgia per il regno verdazzurro di Oceano. Attorno a loro c’erano tante cose meravigliose: le barche, le case, la vasta pianura verdeggiante, i campi dorati di grano, i filari di vite… ma Diamantina aveva perso ogni curiosità.

(disegno: pianura)

Ora le gocce scorrevano così lentamente che il tempo sembrava non passare mai…ma ecco che, in lontananza, scorsero il regno di Oceano, la loro casa. Ma come era possibile?

“Ogni fiume porta al mare, ragazze mie!” diceva Oceano, “Forza, correte, fatevi abbracciare!”

E tornate finalmente nel regno di Oceano, Diamantina potè raccontare a tutti gli abitanti del mare com’è fatta la terra: montagna, collina e pianura.

(adattamento da un racconto in uso nelle scuole steineriane)

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Il passaggio dal minuscolo al corsivo come trasformazione della forma. Una storia tutta da disegnare.

Il passaggio dal minuscolo al corsivo come trasformazione della forma. Una storia tutta da disegnare. L’anno scorso abbiamo imparato un nuovo alfabeto: lo stampato minuscolo. Vi ricordate quante avventure avevano vissuto precipitando dalla montagna? Ora vi voglio raccontare cosa è successo alle nostre letterine maiuscole e minuscole quest’estate, durante una meravigliosa notte di luna piena…

Il sole, come accade di solito in questa stagione, era andato a dormire molto tardi ed aveva lasciato il posto alla luna e alle stelle. Nell’aria calda e profumata si stagliava il canto felice dei grilli e il gracchiare delle ranocchie, che si erano messe in attività tra le ninfee dello stagno.

Le letterine maiuscole e minuscole, quella sera, erano andate a dormire prima del solito, stanche morte. Erano state tutta la giornata a prendere il sole e a fare il bagno. Qualcuna aveva anche schiacciato un pisolino pomeridiano all’ombra di un papavero. Sul far della sera erano ritornate a casa. Il sole quel giorno le aveva ben ben cucinate e si sentivano molto molto stanche e spossate. Per questo andarono a dormire prima del solito.

Le minuscole diedero il bacio della buonanotte alle sorelle maggiori, poi andarono in camera loro, si misero la camicia da notte, si tolsero le ciabatte, ed oplà, con un bel saltello eccole tutte  a letto sotto le lenzuola: ventisei lettini ben allineati l’uno accanto all’altro. Bastarono pochi minuti, ed erano tutte addormentate. Alcune sognavano beatamente, altre russavano…

…ad  un tratto, nel cuore della notte, una calda brezza estiva invase la stanza. L’aria entrava dalla finestra ed arrivava fino ai lettini, accarezzando dolcemente le letterine. Si svegliarono.

L’aria era calda. Il canto dei grilli e delle ranocchie era così allegro e distinto, che sembrava invitarle ad uscire.

Saltarono giù dal letto, si tolsero la camicia da notte, si vestirono, e in pochi minuti erano già tutte in giardino. La piccola z fu l’ultima ad uscire… chiuse piano la porta di casa, col cuore che batteva forte in gola:  temeva che le sorelle più grandi, le maiuscole, potessero svegliarsi e non dar loro il permesso di uscire: la notte, si sa, porta con sè molti pericoli… Ma le maiuscole non si accorsero di nulla.

E già le loro sorelline minuscole vagavano per il mondo, lontane da casa.

Il firmamento luccicava: c’erano molte stelle e la luna era piena. Le letterine si distesero sull’erba alta del prato e si misero ad ammirare il cielo e a contare le stelle. Erano così vicine che quasi si potevano toccare.

Poi si arrampicarono su un albero per ammirare gli uccellini che dormivano. Poi si misero a correre, ad arrivarono nei pressi di una stalla. Vi entrarono. Tutti gli animali stavano dormendo.

Entrarono poi nella casa del contadino, in punta di piedi salirono le scale fino al primo piano, si infilarono curiose nella serratura di una porta, ed in un attimo furono nella cameretta dei bambini.

Salirono sul trenino, giocarono a palla e con le costruzioni, e così fecero un bel po’ di rumore, tanto che la mamma dei bambini si svegliò. Corsa in cameretta non vide nessuno, per fortuna, perchè le letterine si erano nascoste tutte sotto i letti. Scampato il pericolo, corsero nel pollaio.

Le galline continuarono a dormire tranquillamente, ma il gallo si svegliò di soprassalto e urlò: “Chicchirichì!”

Tutte le luci di casa si accesero e le  letterine se la diedero a gambe levate!

Corsero, corsero e corsero, così tanto che arrivarono senza nemmeno rendersene conto nel bosco. Esauste e senza fiato, si fermarono a riposare.

Ed ecco, sentirono un canto. Era il canto degli gnomi che si recavano al lavoro, con le loro lanternine e i loro sacchi. Nascondendosi di tronco in tronco, presero a seguirli.

Davanti alla porta della loro caverna, gli gnomi si misero in cerchio ed accesero un bel fuoco, e proprio a causa della luce della fiamma rossa e gialla, si accorsero che qualcuno le stava spiando: le letterine erano state scoperte!

“Chi è là?” borbottarono in coro. Le poverine si misero a correre, i nani dietro… Correndo a più non posso giunsero ad un laghetto. La a, che correva avanti a tutte, si arrestò bruscamente per non cadere in acqua… ma non servì a nulla: il resto della fila non riuscì a fermarsi in tempo. L’una addosso all’altra caddero tutte nel lago.

Stavano quasi per annegare, quando a, che sapeva nuotare un po’ meglio delle altre, disse: “Non abbiate paura, teniamoci tutte per mano, e vi porterò tutte fuori…”

E così, mano nella mano, risalirono in superficie.

A causa di quel bagno fuori programma erano diventate tutte molli, ed anche per questo non smisero mai più di tenersi per mano.

Quando tornarono a casa, sempre per mano, era già mattino, e le sorelle grandi erano in giardino a bagnare i fiori: non si erano ancora accorte della loro sparizione.

Al vederle arrivare, così tutte molli e per mano, invece di arrabbiarsi cominciarono a ridere come delle matte, e non riuscivano proprio a fermarsi!

Allora la piccola a, infuriata e offesa, strappo’ la canna e innaffiò per bene tutte le sorelle maiuscole.

Poverine, adesso anche loro erano diventate molli, anche più molli delle minuscole: quasi distrutte.

La piccola a si pentì molto… Per consolare le sorelle maggiori, le minuscole le asciugarono, le coccolarono, le pettinarono ben bene una ad una, misero loro i bigodini, fecero riccioli e boccoli ad ognuna…

(adattamento da un racconto in uso nelle scuole steineriane)

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Racconto La Befana torna indietro

Racconto La Befana torna indietro – Ai tempi antichi la Befana fabbricava da sè i giocattoli, che erano fatti di legno e di maglia. Ma i bambini nuovi vedevano solamente il legno e torcevano la bocca. Perciò la Befana comprava i giocattoli di lusso nelle grandi fabbriche e i suoi rimanevano sempre in fondo al sacco, perchè non piacevano a nessuno…

La Befana, stanca stanca, tornava verso la sua casa, che è lontana, tanto lontana che, fra andare e tornare, ci vuole un anno.

Ai tempi antichi la Befana fabbricava da sè i giocattoli, che erano fatti di legno e di maglia. Ma i bambini nuovi vedevano solamente il legno e torcevano la bocca. Perciò la Befana comprava i giocattoli di lusso nelle grandi fabbriche e i suoi rimanevano sempre in fondo al sacco, perchè non piacevano a nessuno.

La Befana camminava in silenzio nel lume di luna. Ad un tratto inciampò e si fermò. Che cos’era? Un filo di pianto teso fin lassù.

“Un bambino che piange? A quest’ora?” borbottò. E riprese a camminare.

Quel filo però la tirava e non si spezzava. Allora la Befana tornò indietro. Arrivò ad un comignolo alto: due voci si distinguevano legate a quel filo di pianto. Una diceva: “Nemmeno oggi me l’hai portato il giocattolo!”. E quell’altra rispondeva: “Come potevo fare, amore mio, se non m’avanzava nemmeno un soldo!”.

La Befana, appoggiata al camino, aveva già aperto il sacco e frugava nel fondo. Tirò su due manciate di quei giocattoli che faceva lei e che ora nessuno voleva più, poi avvicinò la bocca del sacco a quella del camino e adagio adagio vuotò ogni cosa.

Allora il filo di pianto si spezzò e la sua voce si tramutò in una risatina lunga lunga che, arrivata fuori del camino, si sparpagliò nel cielo come una fioritura di stelle piccine.

La Befana, stanca stanca, riprese a camminare, ma quelle stelline sbocciate dalle risa del bambino la inseguivano come lucciole. Finchè ne prese una manciata  e le mise nel sacco.

“Farò gli occhi alle bamboline per quest’altro anno!”.

Ed era contenta.

(G. Fanciulli)

Racconto Scaramacai e la Befana

Racconto Scaramacai e la Befana  –  avevo attaccato la mia calza sotto la finestra perchè il camino nella mia capanna non c’è e tutta la notte ero stato sveglio, sperando che arrivasse la Befana. Invece, niente. Quando mi accorsi che fra poco sarebbe spuntato il giorno, pensai di farmi la Befana da solo. In un cassetto avevo quattro palline di vetro che mi erano state regalate da un bambino al quale avevo raccontato una barzelletta…

Avevo attaccato la mia calza sotto la finestra perchè il camino nella mia capanna non c’è e tutta la notte ero stato sveglio, sperando che arrivasse la Befana. Invece, niente. Quando mi accorsi che fra poco sarebbe spuntato il giorno, pensai di farmi la Befana da solo. In un cassetto avevo quattro palline di vetro che mi erano state regalate da un bambino al quale avevo raccontato una barzelletta.

Erano quattro palline con centro dei fili colorati, molto preziose. Le presi e le infilai nella calza, senza ricordarmi che nella calza c’era un buco, e così tin tin tin, le quattro palline caddero sul pavimento. Mi ero appena messo carponi per cercarle, quando la porta si aprì e, oh meraviglia delle più meravigliose meraviglie, entrò la Befana.

La riconobbi subito per il sacco che portava sulle spalle stanche, per il gran naso che le si incurvava sulla bocca, per la neve che aveva sui capelli e per gli occhi, due occhi strani e dolci che invece di sembrare da vecchia erano da bimba: ecco, due occhi di bimba in mezzo a mille rughe di vecchia.

Io ero rimasto lì, come un tonto, senza riuscire a parlare, ma lei non ci fece caso e disse: “Scaramacai, per favore aiutami…”

“In che cosa posso servirla, signora Befana?”, chiesi educatamente senza far vedere che avevo il cuore che correva come un cavallo matto perchè pensavo che lei avesse bisogno del mio aiuto per levare dal sacco un regalo grossissimo e tutto per me.

Invece la Befana disse: “Manca poco, ormai, all’alba e devo ancora fare due consegne, aiutami, sennò, da sola non ce la faccio…”

“Ma io non ho la bicicletta!” osservai senza far vedere che ero molto deluso.

“Macchè bicicletta!”, si spazientì la Befana,  “Fuori ho la scopa, avanti, sali!”

“Per far che?”, chiesi.

“Ma per volare sulle case! Su, muoviti!”

Sentii una gran tremarella scuotermi le gambe, ma come si fa a dire no alla Befana? Così, salii a cavalcioni sulla scopa, dietro di lei, chiusi gli occhi, la abbracciai forte forte, e via!

Mi sentii sollevare da terra, come una foglia secca portata dal vento, e quando riaprii gli occhi, li richiusi subito perchè vidi sotto di me la città che girava come una giostra.

Ma la Befana mi riscosse (forse aveva sentito che io mi ero stretto più forte a lei) e mi chiese: “Riesci a vedere su che strada siamo?”

Dovetti per forza riaprire gli occhi e mi accorsi che ora volavamo basso, rasente ai comignoli. Lessi chiaramente la targa della via: via della Gallina Rossa e lo dissi alla Befana.

“Bene” commentò lei, “quando passiamo sul comignolo del numero 7, sgancia il sacchetto di carbone, che c’è nel sacco…”

“Per chi è, se è lecito?” , chiesi.

“E’ per Luigino, un bimbo capriccioso”, rispose la Befana.

“Non  si potrebbe perdonargli?”

“Fa come ti dico! Conosco il mio mestiere!”

Mogio mogio, allungai la mano per prendere il carbone dal sacco, ma invece, forse per sbaglio, forse no, trovai un trenino… Lo lasciai cadere in fretta e lo vidi infilare prodigiosamente il comignolo, come guidato da un filo.

Un attimo dopo, una finestra si illuminò, si aprì, un bimbo, proprio Luigino in camicia da notte, si affacciò e lo sentimmo gridare: “Grazie Befanina!”

“Che strano…” commentò la Befana, mentre faceva compiere alla scopa una larga virata, “mi ringrazia del carbone…”

Io stavo per confessare la verità, ma lei non me ne lasciò il tempo, dicendo: “Controlla se siamo su corso Pomponio. Queste nuove targhe stradali io,  quando viene l’alba, non riesco più a leggerle…”

“Sì, ci siamo” , risposi.

“Allora, sul numero 21 sgancia un trenino elettrico…”

“E’ per un bimbo buono?”

“No, è per un vecchietto buono”

“Un trenino a un vecchietto?”

“Fa come ti dico, impertinente!”

Allungai la mano per prendere il trenino dal sacco ma, invece, forse per sbaglio, forse no, trovai il sacchetto di carbone… Con un lieve sibilo il sacchetto cadde e si infilò nel comignolo del vecchietto.

Un attimo dopo, una finestra si illuminò, si aprì, un vecchietto con la papalina in testa si affacciò, e lo sentimmo gridare: “Grazie, Befana! Avevo tanto freddo!”

“Che c’entra il freddo col treno?” borbottò la Befana, “Ma, deve essere un po’ matto…”

Non potevo più tacere: “Ecco, veramente…” mormorai, “mi sono sbagliato”

“Cos’hai fatto?” chiese la Befana con un tono di voce che non vi auguro mai di sentire.

Risposi in fretta: “Senza volere apposta, ho dato il trenino a Luigino, che sono sicuro che diventa buono, e il carbone al vecchietto che tanto lui non sa cosa farsene, invece del carbone sì, perchè i vecchi hanno sempre freddo…”

Mi aspettavo che la Befana si mettesse a urlare con la voce della tempesta, invece non disse niente.

“Peggio” pensai, “è tanto arrabbiata che adesso mi butta di sotto… addio Scaramacai…”

Invece dopo un po’ disse (ma con una voce dolce, un po’ roca): “In fondo, Scaramacai, sei un bravo pagliaccio… E io sto diventando vecchia…”

Il cielo era ormai color del latte annacquato. Si volava rapidi e in silenzio: sentivo il vento frusciare vicino alle orecchie…

“Ecco, sei arrivato” disse a un tratto la Befana e dolcemente mi atterrò davanti alla mia capanna, “Ciao, Scaramacai, scendi adesso”.

“Aspetti, signora Befana” dissi scendendo dalla scopa.

Macchè, quella era già ripartita e ormai era diventata piccola piccola e nera nera sullo sfondo del cielo biancastro.

Spinsi l’uscio della capanna. Ero un po’ triste. Che cosa ci avevo guadagnato dall’avere aiutato la Befana? Un certo indolenzimento alle gambe (é scomodo cavalcare una scopa) e forse un bel raffreddore. Entrai a capo chino e le mie orecchie furono colpite da un rumore quasi di cascata, ma non di acqua tenera, di roba dura…

Alzai il capo e guardai. Oh, che prodigio di dolcezza! Dal buco della mia calza appesa, usciva uno  zampillo colorato di caramelle, cioccolatini, torroncini, fichi secchi, castagne, confetti… Il pavimento ne era già tutto pieno, e il meraviglioso zampillo continuava, continuava, continuava…

(da “Il Corriere dei Piccoli”)

Racconto per presentare la grammatica Misbrigo, Preciso e Giulivo

Racconto per presentare la grammatica Misbrigo, Preciso e GiulivoUn racconto per introdurre nome, verbo ed aggettivo, molto utilizzato nelle scuole steineriane.  Misbrigo è il verbo, Preciso il nome e infine Giulivo l’aggettivo…

C’erano una volta tre fratelli. Uno si chiamava Preciso, un altro Giulivo e il terzo Misbrigo. I tre fratelli vivevano in una casetta al limitare del bosco, ai margini della città, con papà Grammaticale e mamma Analisi. Ora, pur stando sempre insieme, i tre fratelli erano molto diversi tra loro.

Misbrigo era il maggiore dei tre; era forte, alto e muscoloso, e girava sempre con un martello in mano, o con altri attrezzi. Ovunque andasse, lui era di poche parole. Amava dire: “Poche chiacchiere, e lavorare!”.

Il fatto però era che lui faceva e faceva, ma non avendo un piano, un progetto, non avendo compreso bene ciò che doveva fare, e spesso faceva cose brutte e sbilenche che facevano fatica a stare in piedi.

Il più piccolo dei tre era Preciso. Lui, al contrario di Misbrigo, se ne stava sempre a fare progetti, e sapeva i nomi di tutte le cose, anche i più difficili. Era un vero vocabolario vivente. Però, stando sempre al tavolo, seduto, a fare progetti, non gli veniva mai in mente di alzarsi e mettere in pratica quello che progettava. E così rimaneva tutto nella sua testa.
Il fratello mediano, Giulivo, era ancora diverso dagli altri due. Lui non faceva, non brigava, non si dava sempre da fare come Misbrigo. Però nemmeno stava seduto a far progetti e a leggere libri come Preciso. Lui suonava strumenti musicali, dipingeva, scriveva poesie e racconti. Faceva passeggiate nel bosco e incontrava fiori e piante di cui non conosceva il nome, e li guardava, e li descriveva: “Oh, che graziosi fiorellini che pendono dallo stelo come tanti piccoli calici bianchi!”.

“Si chiamano mughetti!” diceva allora Preciso, e intanto Misbrigo si era già allontanato da loro per raccogliere legna per il fuoco.

Oppure succedeva che Giulivo vedeva un albero e diceva “Oh, che forte quest’albero! Come appare nobile e potente! E che piccoli frutti ovali con un cappuccetto buffo!”.

“Ma è una quercia!” diceva preciso. E intanto Misbrigo raccoglieva le ghiande in un sacco per portarle ai maialini.

Un giorno arrivò in casa dei tre fratelli un amico del padre, il signor Bellalingua, che desiderava costruirsi una casa accanto a quella della famiglia del signor Grammaticale, e cercava per questo degli operai.

“Ah…” disse, “che bello sarebbe trovare qualche operaio davvero capace cui affidare la costruzione della nuova casa mentre io resto in città a sbrigare i miei affari!”

Il signor Grammaticale rispose: “Ma questa è una cosa che possono benissimo fare i miei figlioli!”

E così fu deciso che i tre fratelli avrebbero costruito una bella casa al signor Bellalingua, che disse: “Bene, ragazzi! Tra un mese tornerò a vedere cosa siete riusciti a fare. Se avrete fatto un buon lavoro, riceverete una grossa ricompensa.”
E fu così che Misbrigo, Preciso e Giulivo si misero all’opera per costruire la casa.

Non appena il signor Bellalingua si fu congedato, Misbrigo partì in quarta e andò sul posto dove sarebbe dovuta sorgere la casa, e cominciò a trivellare, spianare, estirpare, e tanta era la terra che spostava, scavava, accumulava, appianava, che sembrava una talpa al lavoro. S’era creato tutto attorno un nuvolone di polvere e terra, e Misbrigo stava là in mezzo che spingeva la carriola, la vuotava, correva e brigava.

Quando ebbe scavato profonde fondamenta, cominciò ad accumulare mattoni e cemento e a metterli uno sull’altro.
Preciso gli diceva: “Aspetta a cominciare! Prima bisogna fare un progetto sulla carta. Bisogna fare un disegno, pensare bene a dove mettere le sale, la camera da letto, la cantina…”. E si mise così a disegnare il progetto della casa su un grande foglio di carta.

 Ma Misbrigo non lo stava quasi a sentire e borbottava: “Tu parli, parli… ma per fare una casa bisogna lavorare, faticare, altro che far progetti!” e mentre lavorava prese a cantilenare:
“Certo a scriver tu lo sai
non succedon certo guai!
Tu sei molto intelligente
ma non si scava con la mente!
I progetti tu sai fare
io però so lavorare:
misurare, scavare, impastare,
non mi pesa dover sudare.
Inchiodare, avvitare, pestare,
livellare, segare, stuccare.
Sali, scendi, controlla tutto:
della fatica vedrai il frutto!”
Così, in quattro e quattr’otto, Misbrigo aveva scavato le fondamenta, tirato su i muri, messo il tetto, fissato le finestre.

Alla fine di tutto questo lavoro, guardò la casa: certo l’aveva fatta velocemente, e non mancava nulla, ma era tutta sbilenca, i muri erano storti, le finestre una più alta e una più bassa, gli scalini diseguali, addirittura in una stanza si era dimenticato di mettere la porta, e non si poteva proprio entrare, se non dalla finestra, che però era troppo alta.
Quando Preciso arrivò col suo progetto e vide la casa, scoppiò a ridere. Misbrigo ci rimase così male che sbattè una porta con tanta violenza che la casa crollò!

Allora Misbrigo disse a Preciso: “Non voglio più saperne di questa casa! Falla tu se sei capace, visto che sei tanto intelligente!”

Visto che Misbrigo non voleva più saperne di costruire la casa, Preciso disse: “Bene, allora mi ci proverò io.”
Così andò a prendere il suo bel progetto, lo mirò e lo rimirò, e poi disse fra sè e sè: “Bene… bene…, da dove cominciare ora? Dovrei scavare nuove fondamenta, ma come? Non sono mica una talpa, io!”.

Guardò gli attrezzi che intanto Misbrigo andava riordinando, e di ognuno conosceva alla perfezione il nome: “Ah, ecco, questo è un piccone, qui abbiamo una vanga, e questo è un martello pneumatico”. Ma gli sembravano tanto pesanti, e non aveva nessuna voglia di raccoglierli. Prese giusto in mano un piccone, ma si chiese: “Come si userà mai questo coso?”. Insomma, alla fine gli pareva talmente difficile e faticoso imparare a maneggiare tutti gli attrezzi, che ben presto rinunciò e si disse: “Forse per riuscire a maneggiare gli attrezzi ho bisogno di un progetto ancora più preciso!”.

 E così se ne andò verso casa cantilenando:
“Voglio fare un bel progetto
fondamenta muri e tetto.
Porte, finestre, poggioli e scale
tutte a ovest voglio le sale
poi le camere da letto
il salotto dirimpetto.
A nor metto la cucina
e vicino la cantina…
Si può fare a sud la stalla
per poi metter la cavalla.
Mattoni, cemento, di legno i tasselli,
calce, carriola, chiodi e martelli,
viti, chiodi, travi, bulloni,
acqua, ghiaia, sabbia e mattoni”

Intanto Giulivo arrivò da quelle parti, correndo dietro a una farfalla, e dicendo: “Che bella, che leggera, che aggraziata! Com’è vispa, colorata, dolce, delicata, tenera, svolazzante…”, e avanti così, quasi senza prendere fiato, tanto da far girare la testa. Ma quando incontrò Misbrigo, tutto rabbuiato, si fermò di colpo. Si dimenticò improvvisamente della farfalla, e disse al fratello: “Come mai sei così triste, sconsolato, rabbuiato, irritato, pensieroso? Sei forse stanco, depresso, sfinito, esausto, sfiduciato,…” e via di questo passo.

Ma prima che Misbrigo, che non ce la faceva più, potesse interromperlo, subito fu distrato da una brezza leggera, chiuse gli occhi e disse: “Ah, che brezza leggera, rinfrescante, serena, mite, carezzevole, confortante,…”
Allora Misbrigo lo interruppe dicendogli: “Ehi, Giulivo! Perchè non provi un po’ tu a costruire la casa del signor Bellalingua? Io e Preciso non ci siamo riusciti!”

“Oh, certo!”, disse Giulivo, “Posso certo fare io. Farò una casa bella, luminosa, ampia, spaziosa…”, e cominciò così a lavorare cantilenando:
“Bella, lucente, ampia, spaziosa,
profumata, pulita, odorosa,
così dev’essere questa dimora,
linda e radiosa ad ogni ora!
Soleggiata e risplendente,
confortevole e accogliente,
armoniosa nei colori,
ai balconi tanti fiori!
Rossi, verdi, gialli e bianchi,
che a guardarli non ti stanchi.”

Giulivo si mise dunque all’opera cantando. In quel mentre arrivò anche Preciso, con un suo nuovo progetto. Così, mentre Misbrigo tutto rosso in faccia, se ne stava corrucciato a guardare, e mentre Preciso cercava di dargli consigli su come mettere in pratica il suo progetto, Giulivo cominciò a costruire.

Il fatto è che non riusciva a fare granchè: prendeva un piccone per fare le fondamenta, e si fermava dicendo: “Oh! Com’è pesante, com’è appuntito, com’è lucente!”, e stava ad ammirarlo come una cosa straordinaria.

Poi doveva appoggiare i mattoni e quando ne prendeva uno se ne stava a dire: “Oh! Che solido, che squadrato, e com’è rosso, liscio, esatto, rettangolare,…” e di nuovo continuava quasi fino a restare senza fiato.

Suo fratello Preciso, calmo e tranquillo, gli diceva: “E’ semplicemente un mattone, e quello è un piccone, niente di più”.

Però con Giulivo che continuava a fermarsi, e con Preciso che non faceva altro che dare direttive e nomi alle cose, la casa proprio non procedeva. Bastava poi che passasse una formica e Giulivo si fermava e esclamava: “Oh, tu, animaletto carino, nero, infaticabile, antennuto, forzuto, svelto, leggero, agile, coraggioso, piccolino, tenero,…” e di nuovo si perdeva, senza fermarsi più.

Preciso si sistemava gli occhiali e guardava l’animaletto, e diceva: “E’ semplicemente una formica. Anzi, il suo vero nome è formiculus vulgaris, che è il suo nome in latino.”, e Giulivo ribatteva: “Ohi, che nome difficile, misterioso, latinoso, affascinante, simpatico, esatto, scientifico, ricercato, scioglilinguoso, …”.

Al vedere i due che tanto chiacchieravano e nulla facevano, Misbrigo era diventato rosso di impazienza e sembrava un peperone sul punto di esplodere. E infatti esplose: “Insomma, voi due! La volete smettere di guardare le formiche e i mattoni? I mattoni non si guardano, si prendono e si cementano in un muro… così!”.
E in tal modo cominciò a tirare su un muro.

Intanto però Preciso gli dava indicazioni su dove mettere i muri, le varie stanze, prendeva le misure delle finestre e così la casa veniva su solida e ben piantata. Giulivo poi, tutto sorridente, aggiungeva sempre un tocco di bellezza e di armonia dicendo ad esempio: “Questo balcone è troppo squadrato, spigoloso, angoloso, incassato, duro… facciamolo più arrotondato, armonioso, proporzionato, leggero, panoramico, grazioso,…” e di nuovo fino a perdere il fiato.

E insomma, lavorando di lena e collaborando tra loro, Misbrigo a faticare, Preciso a dirigere e Giulivo a far belle e varie le cose, la casa cominciò a venir sù, e talmente solida, ordinata e graziosa che raramente se n’era vista una simile.

La casa dunque era costruita. Dopo un mese tornò il signor Bellalingua, per andare ad abitarvi. Quando arrivò e vide la casa restò a bocca aperta: “Oh, ragazzi, ma avete fatto un lavoro a dir poco straordinario!”.

“Beh… modestamente…” disse sorridendo felice Giulivo, “…è effettivamente un lavoro straordinario, notevole, stupendo, bellissimo, eccezionale, fantastico, insuperabile,…” e chissà quanto sarebbe andato avanti se Misbrigo non gli avesse dato uno strattone per farlo tacere, e Preciso non gli avesse detto: “Beh, adesso non esagerare. E’ semplicemente un lavoro, niente di più e niente di meno.”

Poi Misbrigo disse: “Ma insomma, perchè ce ne stiamo qui fuori? Andiamo dentro, facciamo vedere le stanze al signor Bellalingua, cuciniamo qualcosa, accendiamo il fuoco nel camino, sistemiamo la legna…”, e nemmeno aveva finito di parlare che già era sparito dentro in casa per mettersi a fare tutte queste cose. Poi entrarono anche gli altri.
Preciso cominciò a mostrare le stanze al signor Bellalingua: “Ecco, vede, questa è la cucina. Ci sono il forno, il frigorifero, un tavolo, quattro sedie, le stoviglie, le posate, il caminetto, il forno, gli stracci, i barattoli, i fiammiferi, gli stuzzicadenti, i tappi, i centrini,…” e sarebbe andato avanti a nominare tutte le piccole e le grandi cose che stavano in casa, persino i granelli di polvere, se non fosse inciampato in Giulivo, che si era chinato per guardare un grillo che camminava sul pavimento: “Che animaletto strano, buffo, verdino, scattante, saltellante, veloce, rotondo, antennuto, simpatico, piccolino,…”. Preciso diete un’occhiata, e con molta calma disse: “E’ un semplice grillo, anzi un grillus piagnucolosus, che sarebbe il suo vero nome.”

Ma intanto Giulivo si era fatto prendere da un ragno che penzolava dal soffitto: “Oh, che leggero, penzolante, acrobatico, coraggioso, dondolante, veloce, forzuto,…”.

In quel mentre arrivò Misbrigo con una montagna di legna, accese il fuoco, pulì il tavolo, apparecchiò, cucinò, stappò le bottiglie, versò da bere, e non stava fermo un minuto.

Alla fine, quando tutti erano a tavola e finalmente ci fu un po’ di tranquillità, il signor Bellalingua riuscì a parlare. “Cari ragazzi” disse, “devo dire che non potevo proprio sperare in una casa più bella. E vorrei farvi una proposta: poichè io da solo non sarei in grado di occuparmi dell’ordine e della manutenzione della casa, perchè non ci abitate voi? Potrete prendervi una stanza a testa, e quando io verrò troverò sempre la casa in ordine, e mi sentirò sempre tranquillo e a mio agio con voi”.

Giulivo era entusiasta: “Oh, che proposta bella, interessante, avvincente, affascinante, promettente, brillante, convincente,…”. Vedendo tanto entusiasmo, il signor Bellalingua era contento, e visto che anche Misbrigo e Preciso erano d’accordo, la proposta fu accettata.

Così i tre fratelli vissero per sempre nella casa del signor Bellalingua, ognuno facendo bene quello che meglio sapeva fare, e collaborando tra loro, perchè solo grazie a questo le cose riuscivano bene e davano gioia a tutti quanti.

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Acquarello steineriano – Racconto: “I colori”

Acquarello steineriano – Racconto: “I colori”. Un adattamento di una storia  di ispirazione steineriana per presentare i colori…  purtroppo non conosco la fonte originale. La storia si presta ad essere illustrata con l’acquarello, o raccontata utilizzando fazzoletti o fatine colorate o pupette in lana cardata, o fogli di carta colorata trasparente da sovrapporre tra loro…

Foglio Bianco si trovava tutto spiegazzato e abbandonato in fondo ad un cassetto, da tanto tanto tempo. Era per lui una vita molto noiosa e monotona, quella. Ma un giorno, finalmente, si sentì afferrare da due piccole mani, e si ritrovò sopra ad un tavolo.

Foglio pensò: “Mi sembra un bel posto, davvero… però anche qui, mai nessuno che mi faccia compagnia!”

Proprio mentre lo pensava, si sentì cadere addosso delle gocce, e si disse: “Ecco, adesso anche la pioggia!”. Si guardò attorno, e così si accorse che, proprio lì, vicino a lui, c’era un povero triste pennello che stava piangendo… le gocce non erano di pioggia! “Cosa fai?” chiese. E Pennello gli raccontò la sua storia. Anche lui si sentiva solo, ed era davvero molto triste perchè non aveva mai nessuno con cui giocare, da tanto tanto tempo.

“Perchè non giochi c0n me?” disse Foglio a Pennello, ma questi rispose: “Come lo vorrei, ma non mi posso muovere! Sono vittima di un incantesimo. Solo il giorno in cui qualcuno riuscirà a bagnarmi i piedi potrò tornare me stesso, e se non succederà mi toccherà restarmene immobile e secco qui dentro…”

Mentre Foglio e Pennello si raccontavano i loro guai, apparve alla finestra una bellissima farfalla: si trattava della fata Fantasia, che avendo ascoltato tutto, aveva deciso di aiutare i due poveri amici. Fantasia, senza dir nulla, prese il pennello e lo immerse in un vasetto pieno d’acqua.

“Evviva! Evviva!” si mise a gridare Pennello, sul punto di impazzire dalla gioia, “Posso muovermi! Foglio, aspettami qui. Ho un’idea meravigliosa. Corro a chiamare un po’ di amici e poi è fatta… Farfallina, puoi per caso portarmi fino al sole?”

“Sì” rispose la fata Fantasia, “aggrappati alle mie ali e andiamo!”.

Il viaggio cominciò, ma giunto vicino al sole la luce era così accecante che non si potè proprio andare oltre. Allora Pennello, da una certa distanza,  gridò: “Sole! Mandami qualcuno che non posso venirti più vicino di così! Devo aiutare il mio amico Foglio!”

Il sole era ben lieto di poter aiutare i due amici, e mandò su di un carro tutto d’oro un luminosissimo folletto. “Ciao Pennello! Mi chiamo Gialloluce e sono proprio felice di venire con te sulla terra!”, disse.

tutorial:

Sulle ali di Fantasia i due tornarono da Foglio, che aspettava con ansia, e dalla gioia cominciarono a saltellare tutti insieme: Gialloluce si espandeva di qua e di là, e sprizzava felice luce da tutte le parti… nessuno era più solo!

Nella stanza dove si trovavano i tre amici, proprio vicino al tavolo, c’era un caminetto nel quale scoppiettava un bel fuoco. E, come risvegliato dal gioco di Pennello Foglio e Gialloluce, dalle mille scintille del fuoco uscì con un balzo un folletto tutto rosso, molto molto chiassoso, che con salti e capriole si avvicinò all’allegra compagnia dicendo: “Ciao! Finalmente! Io sono Rossobrucio, mi fate giocare con voi?”

 

“Vieni!” gli rispose Gialloluce, “diventeremo amici!”

tutorial:

Come se si conoscessero da sempre, Rossobrucio e Gialloluce cominciarono a cantare e ballare con Foglio e Pennello, ed ora Foglio non aveva proprio più niente dell’aspetto triste e solitario che aveva all’inizio… anzi, ad un certo punto cominciò a sentirsi fin troppo allegro: “Brucio! Scotto!” cominciò a gridare, “Fate qualcosa!”

E improvvisamente apparve una nuova amica. “Ciao Foglio!” disse, “Mi chiamo Fatarancio e compaio ogni volta che Gialloluce e Rossobrucio si incontrano. Non resisto, non c’è niente da fare! Quando li vedo insieme, devo fare anch’io i miei saltelli con loro!”

tutorial:

“Ciao Fatarancio!” dissero tutti gli amici in coro, “Benvenuta!”. E Pennello, un po’ preoccupato per l’amico Foglio che continuava a sentirsi scottare, chiese: “Tu che sei nuova, non sai mica se esiste qualcuno che possa portare un po’ di fresco?”

“Mmh…” rispose Fatarancio, “qui ci sarebbe bisogno di qualche spiritello lunare di mia conoscenza… Gialloluce, mi presteresti il tuo carro?”

E Fatarancio si mise in viaggio. Arrivata sulla luna, cercando di sopportare meglio che si poteva il gran freddo che regnava là intorno, chiese con gentilezza: “Dolce Luna, mi manderesti una delle tue ragazze sulla terra? Rosso e giallo si sono incontrati, e se non dai una mano, un caro amico passerà dei guai…”

 

Alla luna piaceva poter dare una mano, quando si presentava l’occasione, e mandò in missione Fatacielo: una fatina tutta vestita di blu leggero e pietre preziose e cristalli, che portava sempre nella sua borsetta un soffio di gelo.

tutorial:

Arrivate da Foglio, Fatacielo si mise a ballare con gli altri, e mentre ballava aprì la sua borsetta e i veli del suo vestito si gonfiarono a onde facendo mille giochi… piano piano le fiamme si calmarono e come per magia comparve un nuovo amico:  il folletto Violabenedetto! Amicizia e gratitudine erano ovunque.

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Una storia per il compleanno

Una storia per il compleanno – Un adattamento (molto alleggerito) di una storia  di ispirazione steineriana per il compleanno…  purtroppo non conosco la fonte originale. 

Giovanni abitava in una casa tutta luce: una stella. Viveva là con molti altri bambini, e insieme giocavano mille giochi sulle nuvole. La sera, stanchi, rientravano nella Casa d’Oro e mangiavano il pane delle stelle, e non serviva dormire perchè quel pane era il miglior riposo che si possa immaginare.
Tutti i giorni erano belli lassù, ma tra tutti uno fu per Giovanni davvero speciale: il giorno in cui incontrò il suo angelo. Era bellissimo. Quel giorno Giovanni aveva visto una nuvola molto diversa da tutte le altre avvicinarsi alla Casa d’Oro, e su quella nuvola c’era proprio lui. Era ancora lontano, ma già Giovanni pensava: “Che bello che è, e mi vuole bene…”
Quel giorno così si incontrarono e si riconobbero, e da allora i giochi sulle nuvole diventarono anche più divertenti.

Quando era il momento il Signore della Casa d’Oro chiamava uno dei bambini e lo faceva entrare nella stanza del trono, e così anche Giovanni un giorno si trovò davanti al Signore, che gli disse: “Caro Giovanni, è già da un bel po’ che sei qui con me nella Casa d’Oro. Ora mi piacerebbe mandarti sulla Terra, cosa ne pensi?”
“Oh, no!” disse Giovanni, “Io sto bene qui, e mi diverto un sacco col mio angelo e con tutti i miei amici… voglio restare sempre qui!”
“Lo so, Giovanni,” disse sorridendo il Signore, “ma vedi, laggiù sulla terra ci sono delle persone che ti stanno aspettando e che hanno davvero molto bisogno di te. Vorrei mandarti da loro, e mi piacerebbe che laggiù tu raccontassi di noi, della Casa d’Oro, dei giochi sulle nuvole e del pane delle stelle. Ascolteranno solo te, e solo tu puoi farlo…”
“D’accordo… va bene…” rispose allora Giovanni, “io ci andrò, ma soltanto se il mio angelo potrà venire con me!”
Molti altri giorni trascorsero tra i mille giochi sulle nuvole, infine una mattina l’angelo si avvicinò a Giovanni su di una nuvola più grande e densa delle solite, con un piccolo carretto dorato al suo fianco, dicendo: “Ora ti farò visitare tutti quei regni che fino ad ora hai visto solo da lontano, e riceverai tantissimi regali. Ecco a cosa serve il carretto!”
Ed insieme partirono per il loro lungo viaggio verso la terra.

La nuvola speciale si avvicinò al primo regno, tutto profumi e trasparenze blu. Giovanni in questo regno camminava senza nessuna fatica, come spinto gentilmente da un venticello azzurro e leggero, e presto si trovò davanti al signor Saturno, seduto sul suo trono blu e avvolto in una bellissima luce blu e nel suo meraviglioso mantello, naturalmente blu, e trapuntato di stelle. Quando il signor Saturno lo vide, aprì le braccia sorridendo, e lo invitò ad avvicinarsi.
“Caro Giovanni” disse, “benvenuto! So che stai andando sulla terra, e mi piacerebbe darti qualcosa che possa aiutarti a non dimenticare mai che sei luce di stella”. Così dicendo, tagliò un lembo del suo mantello, quel che serviva a farne uno per Giovanni, e glielo mise sulle spalle.
E gli regalò anche un piccolo scettro da re, tutto d’oro, dicendo: “Questo ti aiuterà a dare la giusta misura ad ogni cosa, e vedrai! Ti servirà molto, una volta sulla terra…”

La nuvola poi si avvicinò al secondo regno, che sembrava fatto di fiori arancioni piccoli come calendule. Il signore di questo regno, Giove, sedeva su un trono arancione e aveva una lunga barba bianca e in testa una corona a dodici punte. Sembrava molto serio e pensieroso, ma accolse comunque Giovanni con gioia e calore.
“Caro Giovanni, che piacere vederti!” disse, “stai andando sulla terra, vero? Sarà bene darti un po’ di saggezza prima che tu arrivi laggiù, perchè sai essere figlio degli uomini può essere più complicato che essere luce di stella!”
Il signor Giove mise allora sulla testina di Giovanni una piccola corona d’oro, e aggiunse: “Se laggiù ti dovessi trovare in difficoltà, pensami e io ti darò la saggezza che ti serve: brillerà sul tuo capo come una corona, e tu saprai cosa fare…”

Il terzo era un regno tutto rosso, e a differenza del regno blu e del regno arancione, non era fatto solo di trasparenza e profumo, ma ci si poteva anche camminare sopra. Il signore di questo regno, Marte, indossava una bellissima armatura e aveva al suo fianco una pesante spada di ferro. Giovanni lo vide avvicinarsi a lui sorridente, e lo trovò bellissimo.
“Ciao, Giovanni!” disse Marte, “Ma, …come farai ad arrivare sulla terra leggerino come sei? Avvicinati…”
Il cavaliere lo abbracciò e, subito Giovanni si sentì forte, molto forte. Poi gli regalò una piccola spada di ferro, simile alla sua.

Ripreso il viaggio sulla nuvola, con l’angelo sempre con lui e tutti i doni ricevuti, i due videro davanti a loro il quarto regno, ma non poterono avvicinarsi troppo. Era un regno troppo luminoso e caldo per loro.
Il signore di questo regno, che si chiamava Sole, mandò presto a Giovanni un suo messaggero, un angelo imponente e tutto vestito d’oro. Il messaggero gli diede il dono scelto per lui dal signor Sole: una spilla d’oro. Quando la indossò, per la prima volta potè sentire il battito del suo cuore.

Il quinto regno era di soffice verde, così calmo e accogliente che veniva voglia di tuffarcisi dentro e starsene lì a farsi coccolare. Venere, la regina di questo regno, fu davvero felice di vedere Giovanni. “Che piacere averti qui, caro!” disse, “Sento il tuo cuoricino battere, devi già essere stato dal signor Sole! Voglio proprio aggiungere il mio piccolo regalino al suo!”.
E così dicendo diede a Giovanni una scatolina, che conteneva tantissime piccole boccettine, tutte diverse tra loro per forma e colore. Una meraviglia!
“Prendi!” disse “dal tuo cuore alle tue mani! Con queste potrai regalare agli uomini che incontrerai sulla terra il tuo aiuto. Possono aiutare chi è triste, chi è sfortunato, chi ha paura… insomma ce n’è per ogni guaio e per ogni disgrazia, se vorrai…”

Il sesto era un regno tutto giallo, e prima di scendere dalla nuvola l’angelo disse: “Speriamo bene! Qui il signore è un certo Mercurio, e capirai! Ha l’incarico di fare il messaggero di tutto il cielo, e trovarlo in casa è un miracolo!”
Infatti dovettero aspettare un bel po’, ma quando finalmente fece ritorno, anche lui diede a Giovanni il suo dono, anzi gliene diede addirittura tre.
“Giovanni, eccoti finalmente!” disse, “Vedi? Io ho queste ali sulle spalle, sono il messaggero e mi servono a fare tutte le mie consegne, ovunque e a tutta velocità… così ho pensato che anche tu potrai fare come me, una volta sulla terra.”
Il signor Mercurio diede un piccolo bacio a Giovanni: “Ora hai Parola e Pensieri…ma prendi anche questa, ti sarà indispensabile”, e mise tra le sue mani una piccola bilancia. E subito ripartì per altre consegne.

Lasciando il regno giallo del signor Mercurio, il cielo cominciò a scurirsi e la nuvola li portò nel settimo regno, il regno della signora Luna.
Questa misteriosa e bellissima regina stava seduta sul suo trono e sembrava proprio lì ad aspettarli. Era tutta bianca e argento splendente, aveva un sorriso buono e luminoso, e teneva tra le mani uno stranissimo oggetto, che Giovanni non aveva mai visto prima.
“Ma che bello che sei!” disse “Col tuo mantello, la corona, la spada e tutto il resto … dovresti proprio vederti!”
“Ma io so chi sono, signora” disse Giovanni senza capire.
“Oh, certo…” rispose dolcemente la signora Luna “…sei Giovanni. Ma non ti sei mai visto… avvicinati ancora un po’, guardati…”, e così dicendo porse a Giovanni l’oggetto misterioso e sconosciuto che teneva tra le mani: un piccolo specchio.
Giovanni era estasiato, non riusciva a distogliere lo sguardo dallo specchio, e finì con l’addormentarsi placidamente tra le braccia della signora Luna.
L’angelo, che si trovava a pochi passi da lui, sorrise amorevolmente e insieme alla signora Luna portò sulla terra tutti i doni che Giovanni aveva ricevuto lungo il viaggio, perchè sapeva che lui da solo non avrebbe potuto farcela. Lì sulla terra li avrebbe ritrovati tutti.
Poi prese Giovanni in braccio e insieme tornarono sulla loro nuvola, per proseguire il loro viaggio.

Quando Giovanni si svegliò sulla sua nuvola, si sentiva benissimo. Sapeva che tutti i suoi doni lo stavano aspettando sulla terra, e che una meravigliosa avventura stava per cominciare. Sentiva di essere atteso e desiderato, ed era solo impaziente di arrivare.
La nuvola si fermò davanti ad una grande porta, Giovanni la aprì, e vide davanti a sè un lunghissimo ponte. Scese dalla nuvola e cominciò a camminare; il suo angelo era sempre un passo dietro di lui, anche se ora non poteva vederlo. Lontana brillava una piccola luce, e Giovanni cominciò a correrle incontro, e la luce diventava sempre più grande. Era felice.
Si accorse di essere arrivato quando la luce lo avvolse completamente e si ritrovò in una casetta piccola piccola, sì, ma con due graziose finestrelle da cui guardare il mondo. Mamma Claudia e papà Paolo l’avevano preparata per lui, proprio per lui, con tanto amore.
Si era sul finire dell’estate e in quella giornata di settembre stavano lì a guardarlo ammirati, insieme al piccolo Giacomo e alla piccola Sara, i suoi fratellini.
Da quel giorno sette anni sono trascorsi…
… felice compleanno, Giovanni!

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Racconti per Capodanno

Racconti per Capodanno – una raccolta di racconti, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

L’aeroplano sconosciuto

-Comandante, un aeroplano sconosciuto chiede di atterrare.-
-Un aeroplano sconosciuto? E come è arrivato fin qui?-
-Non so, comandante. Noi non abbiamo avuto alcuna comunicazione. Dice che sta per finire il carburante e che atterrerà anche se non glielo permettiamo. Uno strano personaggio, comandante.-
-Strano?-
-Un po’ pazzo direi. Un momento fa lo sentivo ridacchiare nella radio: “Tanto, nessuno mi può fermare…”
-Ad ogni modo facciamolo scendere, prima che combini qualche guaio.-
L’apparecchio atterrò sul piccolo campo d’aviazione, alla periferia della capitale, alle ventitrè e ventisette precise. Mancavano trentatre minuti alla mezzanotte. Già, ma non a una mezzanotte qualunque, bensì alla mezzanotte più importante dell’anno. Era la sera del 31 dicembre e in tutto il mondo milioni di persone vegliavano in attesa dell’anno nuovo.

L’aviatore sconosciuto balzò a terra agilmente e subito cominciò a dare ordini: -Scaricate i miei bauli. Sono dodici, fate attenzione. Mi occorreranno tre tassì per trasportarli. Qualcuno può fare una telefonata per me?-
-Forse sì o forse no- rispose per tutti il comandante del campo, -Prima si dovranno chiarire alcune cosette, non le pare?-
-Non ne vedo la necessità- disse l’aviatore, sorridendo.
-Io però la vedo- ribattè il comandante, -La prego, intanto, di mostrarmi i suoi documenti personali e le carte di bordo.-
-Mi dispiace ma non farò nulla del genere-. Il suo tono era così deciso che il comandante fu lì lì per perdere la calma.
-Come vuole- disse poi, -ma intanto abbia la cortesia di seguirmi-.
L’aviatore si inchinò. Al comandante parve che l’inchino fosse piuttosto esagerato. “Che voglia prendermi in giro?” pensò, “Ad ogni buon conto, dal mio aeroporto non uscirà con quelle arie da padrone del vapore”.
-Guardi- diceva intanto il misterioso viaggiatore, -che sono atteso. Molto, molto atteso.-
-Per la festa di mezzanotte, immagino?-
-Appunto, comandante carissimo-
-Io invece, come vede, sono di servizio e passerò la notte di Capodanno all’aeroporto. Se lei insisterà a non volermi mostrare i documenti, mi terrà compagnia.-
Lo sconosciuto (erano intanto entrati insieme in una saletta del campo), si accomodò in una poltrona, si accese la pipa e rivolgeva intorno occhiate curiose e divertite.

-I miei, documenti? Ma lei ne è già in possesso, comandante-
-Davvero? Me li ha infilati in tasca con un giochetto di prestigio? E adesso mi caverà un uovo dal naso e un orologio da un orecchio?-
Per tutta risposta lo sconosciuto indicò il calendario dell’anno nuovo, che pendeva dalla parete dietro una scrivania, aperto alla prima pagina.
-Ecco i miei documenti, prego. Sono il Tempo. Nei miei dodici bauli ci sono i dodici mesi che dovrebbero avere inizio tra… vediamo un po’… tra ventinove minuti precisi.-
Il comandante non si scompose.
-Se lei è il Tempo- disse -io sono un aviogetto. Vedo che le va di scherzare. Benissimo, mi terrà allegro. Le dispiace se accendo il televisore? Non vorrei perdermi l’annuncio della mezzanotte.-
-Accenda, accenda. Ma non ci sarà nessun annuncio, fin che lei mi trattiene.-
Sul teleschermo era in corso uno spettacolo di canzoni e arte varia. Di quando in quando una graziosa presentatrice consultava un grande orologio appeso dietro l’orchestra, proprio sulla testa del batterista, e annunciava: “Mancano ventidue minuti…”
L’aviatore sconosciuto pareva divertirsi un mondo allo spettacolo. Canterellava, batteva il piede a tempo con l’orchestra, rideva di cuore alle battute dei comici…
-Un minuto a mezzanotte- sorrise il comandante, -mi dispiace di non poterle offrire lo spumante. In servizio io non bevo mai.-
-Grazie, ma lo spumante non serve. Da questo momento il tempo cesserà di scorrere. Dia un’occhiata al suo orologio-
Il comandante obbedì meccanicamente. Guardò il quadrante, si accostò il polso all’orecchio. “Strano” pensò, “l’orologio cammina, ma la sfera dei secondi si è guastata e non gira più…”
Egli cominciò mentalmente a contare i secondi. Ne contò sessanta, poi tornò a guardare l’orologio: le sfere erano sempre ferme sulla mezzanotte meno un minuto. Anche sul grande orologio del teleschermo le sfere erano immobili. L’annunciatrice, con un sorriso un po’ imbarazzato, stava dicendo: “Sembra che ci sia un piccolo guasto…”
Musicisti, cantanti, comici, spettatori, come per un segnale, cominciarono a scrutare i loro orologi, a scuoterli, ad accostarseli all’orecchio, con aria sorpresa. In breve tutti si convinsero che le sfere non si muovevano più.
-Il tempo si è fermato- gridò qualcuno, scherzando. -Forse ha bevuto troppo spumante e si è addormentato prima della mezzanotte.-

Il comandante dell’aeroporto gettò uno sguardo allarmato sullo strano forestiero, il quale, dal canto suo, gli sorrise educatamente.
-Ha visto? Colpa sua.-
-Come sarebbe… colpa mia…- balbettò il comandante.
-Non è ancora convinto che io sia il Tempo? Guardi quella rosa- (ce n’era una sulla scrivania, freschissima. Al comandante piaceva tenere qualche fiore in ufficio) -Vuol vedere che cosa le succede, se la tocco?-
Lo sconosciuto si avvicinò alla scrivania, soffiò delicatamente sulla rosa: i petali caddero tutti insieme, avvizziti, secchi, si sbriciolarono, non furono più che un mucchietto di polvere…
Il comandante balzò in piedi e si attaccò al telefono…

Pochi minuti dopo la telefonata del comandante al ministro, già tutti sapevano, in America come a Singapore, in Tanzania come a Novosibirsk, che il Tempo era stato fermato in un piccolo aeroporto, perchè privo di documenti. Milioni di persone che aspettavano la mezzanotte per stappare lo spumante ruppero il collo delle bottiglie per fare prima, e si scambiarono brindisi entusiastici. Cortei festosi percorrevano le strade di Milano, Parigi, Ginevra, Varsavia, Londra, Eccetera: scrivendo Eccetera con la maiuscola vogliamo indicare tutte le città che non ci sarebbe possibile nominare una per una.

-Evviva!- gridava la gente, in tutte le lingue.
-Il tempo si è fermato! Non invecchieremo più! Non moriremo più!-
Il comandante dell’aeroporto passava il tempo al telefono. Lo chiamavano da ogni parte del mondo per dirgli:
-Lo tenga stretto!-
-Gli metta le manette!-
-Gli tiri il collo!-
-Gli metta un sonnifero nel bicchiere!-
-Macchè sonnifero: veleno per i topi, di deve mettere!-

Il ministro aveva avvertito i suoi colleghi. Una riunione del consiglio dei ministri era in corso. L’ordine del giorno: “Misure da prendere. Bisogna tramutare il fermo del Tempo in arresto o liberarlo?”
Il ministro dell’Interno tuonava: -Liberarlo? Mai non sia! Se cominciamo a lasciare andare in giro la gente senza documenti, siamo fritti in padella. Questo signore ci deve dire nome, cognome, paternità, luogo di nascita, domicilio, residenza, nazionalità, numero di passaporto, numero delle scarpe, numero del cappello; ci deve mostrare il certificato di vaccinazione, quello di buona condotta, il diploma di quinta elementare, la ricevuta delle tasse. E poi, ha ben dodici bauli: ha pagato dogana? Si rifiuta di aprirli: e se ci avesse dentro delle bombe?-
Il ministro aveva settantadue anni: capirete che aveva ogni interesse a tener fermo l’orologio…
I ministri decisero di chiedere il parere alle Nazioni Unite. Alle Nazioni Unite, a quell’ora, c’era soltanto il portiere: tutti i delegati erano in giro a far festa.

-Quanto ci vorrà per riunire l’assemblea?-
-Una quindicina di giorni. Però, se il tempo non passa, non passano neanche i quindici giorni e l’assemblea non si può riunire.-
Anche questa notizia fece il giro del mondo, contribuendo ad accrescere l’allegria generale.
Dopo un po’…
Ecco, veramente questa frase non si potrebbe scrivere: se il tempo era fermo, la parola “dopo” non aveva più senso.
Diciamo che un bambino, svegliato dal fracasso e messo al corrente dell’accaduto, sommò due più due e cominciò a protestare: -Cosa? Sarà sempre adesso? Allora io non diventerò più grande? Devo prendere per tutta la vita gli scapaccioni del babbo? Devo continuare a risolvere problemi di pizzicagnoli che comprano l’olio e si fanno calcolare dai bambini delle scuole la spesa e il ricavo? Ah, no, grazie tante! Io non lo accetto!-
Anche lui si attaccò al telefono, per dare l’allarme ai suoi amici.
I bambini non vollero sentir parole. Si infilarono il cappotto sul pigiama e scesero anche loro per le strade a fare il corteo. Ma le loro grida e i loro cartelli erano ben diversi da quelli degli altri cortei:
-Liberate il tempo!- dicevano.
-Non vogliamo restare sempre dei marmocchi!-
-Vogliamo crescere!-
-Io voglio diventare ingegnere!-
-Io voglio l’estate per andare al mare!-
-Incoscienti!- commentava un passante, -in un momento storico come questo pensano ai bagni di mare.-
-Però- riflettè un altro passante, -su un punto almeno hanno ragione: se il tempo non passa più, sarà sempre il trentun dicembre…-
-Sarà sempre inverno…-

-Sarà sempre mezzanotte meno un minuto! Non vedremo più spuntare il sole!-
-Mio marito è in viaggio- sospirò una signora, -come farà a tornare a casa, se il tempo non passa?-
Un malato nel suo letto si lamentava: -Ahi, ahi! Doveva fermarsi il tempo proprio mentre avevo il mal di testa?-
Un carcerato, aggrappato alle sbarre della sua prigione, si domandava accorato: -Non riavrò più la mia libertà?-
I contadini borbottavano: -Qua, col raccolto, si mette male… Se non passa il tempo, se non torna la primavera, gelerà tutto… Non avremo niente da mangiare-
Insomma, il comandante dell’aeroporto cominciò a ricevere telefonate allarmate:
-Beh, lo lasciate andare sì o no? Io aspetto un vaglia, me lo manda lei, se il tempo non può passare?-
-Comandante, per favore, liberi il Tempo: abbiamo un rubinetto che perde, e se non viene domattina non possiamo chiamare l’idraulico-
Il Tempo, allungato sulla sua poltrona, continuava a fumare la sua pipa, sorridendo.
-Cosa devo fare?- protestava il comandante, -Uno la vuole bianca, l’altro la vuole nera… Io me ne lavo le mani. Io la lascio andar via…-
-Bravo, grazie.-

-Ma così, senza ordini superiori… Capisce che ci rimetto il posto?-
-E allora mi tenga qui. Io ci sto benissimo.-
Un’altra telefonata:
-E’ scoppiato un incendio! Se non passa il tempo non arrivano i pompieri! Brucerà tutto! Bruceremo tutti! Abbiamo in casa vecchi e bambini… non può fare niente, comandante?-
Il comandante, a questo punto, picchiò un pugno sulla scrivania.

-Bene, succeda quel che vuol succedere. Mi prenderò questa responsabilità. Se ne vada, lei è libero.-
Il Tempo balzò in piedi: -Permetta che le stringa la mano, comandante. Conoscerla è stato un vero piacere-.
Il comandante aprì la porta: -Se ne vada, presto, prima che io cambi idea!-
Il Tempo uscì dalla porta. Le sfere degli orologi ricominciarono a muoversi. Sessanta secondi più tardi scoccò la mezzanotte, scoppiarono i fuochi artificiali. Il nuovo anno era cominciato.

G. Rodari

Racconti per Capodanno

Capodanno

Nelle vallate del comasco usavano, una volta, la notte di Capodanno, appendere alla porta dei casolari un bastone, un sacco e un tozzo di pane.
Ecco il perchè.

Molti anni fa, al tempo dei tempi, e precisamente nella notte di San Silvestro, padron Tobia stava contando il proprio gruzzolo in un angolo della sua capanna, quando bussarono alla porta. L’avaro coprì con un gabbano i suoi ducati e andò ad aprire.
Una folata d’aria gelida e di neve lo colpì in viso. Era una notte d’inverno.
Sotto la tormenta, nel nevischio, egli vide un pover’uomo che si reggeva a stento e che non aveva neppure un cencio per mantello. Padron Tobia fu molto contrariato da quella visita e domandò bruscamente allo sconosciuto: -Che fate qui? Che volete? Chi siete?-
-Sono un povero viandante sperduto e sorpreso dalla bufera, e vi chiedo in carità di poter dormire nel vostro fienile-

-Io non lascio dormire nessuno nel mio fienile. Andate, andate. Non posso far nulla per voi!-
-Datemi almeno un tozzo di pane-
-Non ho pane, andate!-
-Datemi un sacco, un cencio da mettermi al collo, che muoio di freddo!-
-Non ho sacchi! Non ho cenci!-
-Almeno una fiaccola per ritrovare il sentiero… un bastone per appoggiarmi…-
-Non ho fiaccole e non ho bastoni!-
E, chiuso l’uscio in faccia all’infelice, Tobia ritornò al suo gruzzolo, ma… sotto il gabbano, invece dei ducati, trovò un pugno di foglie secche…
Padron Tobia impazzì e terminò i suoi giorni vagando per le vallate natie e raccontando a tutti la sua disgrazia. Da allora in poi la notte di Capodanno tutti appesero alla porta del proprio casolare un bastone, un sacco e un tozzo di pane.
(leggenda comasca)

Racconti per Capodanno 

Il castello dei dodici mesi

C’era una volta un omino gentile ed educato che si chiamava Faustino. Tanto lui era perbene, quanto suo fratello era sgraziato e villano, tanto che la gente lo chiamava Rusticone.
Un giorno Faustino andò a cercar fortuna, e si mise per il mondo. Una volta, però, perse la strada e si trovò in un bosco fitto. Era buio e Faustino non si sentiva affatto tranquillo. Vide tra gli alberi un castello illuminato e pensò di chiedere ospitalità.

Bussò e un servitore lo fece entrare. Il castello era abitato da dodici signori, che accolsero gentilmente Faustino e lo fecero accomodare. I dodici signori appartenevano tutti alla stessa famiglia, ma non si somigliavano affatto. Poichè era l’ora di cena invitarono Faustino alla loro tavola.
Mentre mangiavano, uno di questi signori, guardando la pioggia che cadeva a dirotto disse: “Che brutto mese dicembre!”
“No, perchè?” replicò Faustino, “Anche l’acqua ci vuole e bisogna pure che la terra beva in inverno se vuole fiorire in estate…”

“Non dirai però che sia bello anche gennaio?” disse un signore che aveva una lunga barba bianca.
“Sotto la neve pane, signore mio! Non lo sapete?”
“Ma… febbraietto… corto e maledetto?” replicò un omino piccino che non arrivava nemmeno alla tavola, “Lo dice anche il proverbio!”
Seguì un coro di voci: tutti avevano la loro da dire. Marzo e aprile erano matti; maggio, il pane era scarso perchè la campagna ancora non dava frutto; giugno, mosche a pugno; luglio, dava fastidio per via del caldo; agosto poi meglio non parlarne, un’afa da non poter respirare; anche settembre aveva i sui difetti per le variazioni del clima ora caldo ora freddo, e Dio ci guardi da ottobre novembre e dicembre: pioggia, neve e gelo e chi più ne ha, più ne metta.

Ma, neanche a farlo apposta, Faustino pareva l’avvocato difensore di tutti i mesi dell’anno. Per lui, febbraio era quello che preparava le sorprese sotto terra; marzo il gentile portatore della primavera; aprile maggio e giugno i più bei mesi dell’anno; per non parlare del luglio che riempiva i granai. Agosto e settembre davano frutta in abbondanza; ottobre riempiva i tini; novembre era un mese benedetto per le semine. Dicembre poi, il mese più felice dell’anno per i doni che portava in occasione delle feste. Tutti, per Faustino, avevano il loro lato bello.
“Se la provvidenza li ha fatti così, vuol dire che così dev’essere!”
E quei signori sembrarono proprio contenti delle parole di Faustino che gli regalarono una bisaccia dicendo: “Ogni volta che l’aprirai, ne uscirà tutto quello che desideri!”

Figuratevi la rabbia di Rusticone, quando vide la fortuna capitata al fratello… Si fece raccontare tutto per filo e per segno, poi si mise in cammino verso il castello dei dodici signori.
Fu ricevuto gentilmente, ma quando cominciò a parlare di mesi, apriti cielo! Rusticone diceva male di tutti. Gennaio faceva morire di freddo i poveretti, febbraio faceva tremare, marzo era il mese dei raffreddori, aprile ogni giorno un barile… trovò persino il coraggio di dir male di maggio e giugno! Di luglio e agosto si lamentò per il caldo, settembre gli dava noia per via delle zanzare, rimproverò a ottobre di favorire gli ubriachi come se fosse colpa sua se gli uomini bevevano troppo; novembre era il peggiore di tutti i mesi perchè lui soffriva di reumatismi e quel mese glieli peggiorava, e infine dicembre era un mesaccio per la nebbia e per il gelo.
“Dunque, non ti piace nessun mese dell’anno?” chiese il signore più vecchio.
“Per me non ce n’è uno che faccia il suo dovere!”

“Bene!” dissero, e gli regalarono un nodoso bastone dicendo: “Battilo contro una pietra quando ti occorrerà qualcosa, e vedrai…”
Rusticone, tutto contento, se ne andò senza neppure ringraziare. Appena fuori battè il bastone sopra una pietra e questo cominciò a dargli tante botte fino a fargli gridare: “Mi piace gennaio! Mi piace febbraio!” e giù fino in fondo all’anno…
… e soltanto allora il bastone si fermò.

Mimì Menicucci

 

Racconti per Capodanno

La diligenza dei dodici mesi

C’era un freddo secco, pungente: la neve scricchiolava sotto i piedi, tutto il cielo risplendeva di stelle. Una diligenza si arrestò alla porta della città, e i viaggiatori si presentarono alla dogana.
-Io mi chiamo Gennaio- disse il primo: era rosso in viso e lieto, con una bella barba bianca, -Buon anno a voi! Venite da me domani, avrete un bel regalo e poi faremo festa. Io amo le feste, le mance e i doni, e per questo molti sperano in me: buona fortuna a tutti voi!-
Il secondo viaggiatore pareva un buontempone, e per bagaglio aveva un grosso barile: -Quando c’è questo- diceva, -non c’è pericolo che manchi l’allegria. Voglio che il prossimo si diverta e mi piace divertirmi anch’io, visto che ho poco tempo: solo ventotto giorni. Ma non m’importa, evviva!-
-Non faccia chiasso, per favore!- disse il doganiere.

-Badi a come parla!- gridò il vaggiatore, -Io sono il principe Carnevale, e viaggio in incognito col nome di Febbraio.-
Scese allora il terzo viaggiatore. Era magro quanto la quaresima, poverino, ma si dava un sacco di arie, forse perchè era astrologo e sapeva predire il tempo: portava all’occhiello un mazzolino di violette, piccole piccole e pallidine.
-Ehilà, professor Marzo!- gridò il viaggiatore che era sceso dopo di lui, -Di là c’è uno scatolone per te, credo che sia un uovo di Pasqua.-

Però non era vero niente: il quarto viaggiatore era un gran burlone, ecco tutto. Chi sia, lo potete immaginare.
Portava a spasso mezza dozzina di pesci in carta d’argento: il suo nome era Aprile. Era un tipo strano: un po’ si comportava da allegrone come vi ho detto, ma poi si metteva a piangere senza una ragione al mondo: un po’ sole, e po’ pioggia.
-In questa valigia- diceva, -ho i miei vestiti d’estate, ma non sono tanto sciocco da mettermeli, gente. Una bella sciarpa di lana, ecco quel che mi ci vuole, ma più di tutto un buon ombrello; l’ho inventato io, l’ombrello…-
Dopo di lui scese una ragazza, si chiamava Maggio, e aveva un vestito leggero, verde pastello, con le maniche corte. Al braccio, però, portava un impermeabile. Maggio aveva nei capelli un mazzolino di fiori. Come le stava bene, e com’era carina!
-Dio vi benedica- disse al doganiere, e poi si mise a cantare a mezzavoce. Era molto brava, per quanto non avesse molta scuola; usava cantare per suo piacere, confessò, mentre andava a spasso nei boschi al tempo di primavera.

-Fate largo alla signora Giugno!- disse l’uomo della diligenza. Era una giovane dama, bella e un po’ altera. Era molto ricca, e dava una gran festa nel giorno più lungo dell’anno, in modo che gli ospiti potessero gustare tutti i piatti della sua fornitissima tavola. Da vera gentildonna, aveva una carrozza tutta sua; ma viaggiava in diligenza con gli altri, perchè non dicessero che si dava delle arie. Usava il ventaglio con gran distinzione, e aveva con sè un fratello minore.
Costui era un giovanotto grassottello, in abito estivo e con un gran cappello di panama. Bagaglio ne aveva pochino, in tutto e per tutto un paio di mutande da bagno, che certo non gli erano di ingombro. Appena arrivato andò a sedersi in poltrona, e si tolse la giubba senza nemmeno chiedere permesso alle signore; rimasto in maniche di camicia, trasse un fazzolettone e se lo annodò intorno al collo. Infatti sudava molto, nonostante il freddo.

Mamma Agosto vendeva frutta all’ingrosso, ed era proprietaria di molti ettari di terreno. Grassoccia com’era e per giunta sempre accaldata, sapeva lavorare con le sue mani, quanto e più dei contadini; lei stessa andava nei campi, a mezzogiorno, per mescere ai lavoratori il vino fresco.
Dopo di lei, scese dalla diligenza un noto pittore, Settembre di nome. Tutti lo conoscono, ma i boschi più di ogni altro: sotto il suo pennello le foglie cambiano colore, si tingono di paonazzo e di terra di Siena, che sono i toni che il Professor Settembre predilige. Lui dipinge sul tralcio i grappoli d’uva, e prima di andarsene spreme nel suo boccale il vino nuovo. Quando se ne va, a braccetto con le vacanze, tutti i ragazzi lo rimpiangono.
Lo seguiva un anziano gentiluomo di campagna, il conte Ottobre, robusto nella persona e ben portante. Ottobre è sempre molto occupato con le sue terre, ma ha la passione della caccia. Se ne esce al mattino col suo cane e col fucile, e camminando per i boschi riempie il suo carniere di noci e di castagne. Se sia un buon tiratore non lo so, ma a sentir lui non c’è nessuno che lo superi. Può darsi che le sballi un po’ grosse, da buon cacciatore!

L’undicesimo viaggiatore tossiva da far pietà. Parola mia, non ho mai incontrato nessuno più raffreddato di lui! In altri tempi era assai impegnato a fornir legna per i camini e le stufe; ora, col diffondersi del riscaldamento centrale, un po’ meno. Lui naturalmente se ne lamentava, tra uno starnuto e l’altro. Novembre, così si chiamava, mi parve un buon diavolaccio, ma un tipo allegro no di certo; intorno a sè aveva un alone di nebbia.
Finalmente la diligenza sbarcò l’ultimo viaggiatore, il vecchio nonno Dicembre. Aveva in mano lo scaldino e pareva tutto infreddolito; ma gli occhi gli brillavano come due stelle e recava in mano un vasetto con un minuscolo abete.
-Crescerò questo abete- disse, -perchè il prossimo Natale tocchi con la vetta il soffitto, e l’angelo di carta che sta sulla cima voli giù, e vi si accosti all’orecchio per darvi la buona novella. Arrivederci, e siate buoni!-

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Racconti per l’inverno

Racconti per l’inverno – una raccolta di racconti, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

La signorina formica Bruna

La signorina formica Bruna è stanca di starsene a dormire tutto il giorno al caldo e al buio sotto terra. “Forse è già primavera… forse c’è già un bel sole tiepido…” ha detto alla vicina formica Rossa, svegliatasi per caso, fra un sonnellino e l’altro. “Ma no!” ha replicato quest’ultima. “Non senti che si bene ancora a dormire sotto terra? La piccola radice piantata proprio nel corridoio d’uscita non ha ancora messo i primi germogli; guarda anche il chicco verde del pisello; proprio ieri è piombato su di noi ed è lì, tutto infreddolito, raggrinzito: quando scoppierà e getterà fuori il suo germoglio, allora sarà tempo di uscire anche per noi.” Ma la signorina formica Bruna non se la sente: scrolla con disprezzo le piccole antenne frementi e si incammina con passo ancora indeciso. “Porta un po’ di sole anche a me!” ha sghignazzato formica Rossa, fra uno sbadiglio e l’altro. C’è freddo, oltre la tana, nella terra nera. Formica Bruna passa sul dorso, morbido come un tappeto, di un talpa in letargo sgattaiola fra un chicco e l’altro, e saluta il pisello raggrinzito; poi si inerpica lungo lo stelo verde di una pianta di grano. Ma man mano che sale sente più freddo. Formica Bruna batte le sei zampette per riscaldarsi, agita le antenne e seguita a salire. Alla fine sbuca fuori. Di sole nemmeno un filo; il cielo è grigio e, miracolo, la terra è tutta bianca e fredda. Bianchi sono i rami nudi degli alberi, e il tetto della casa vicina, e i monti lontani. Tutto questo, veramente, formica Bruna non lo vede, perchè per quanto abbia migliaia di occhi piantati sul capo, è molto miope e non vede che da vicino; ma glielo dice un passero affamato che saltella sul tappeto bianco e che, per amicizia, rinuncia a mangiarsela. Che sospirone di conforto tira fuori la signorina Bruna! Saluta il passero, poi scivola lesta lesta lungo lo stelo verde del grano, non guarda neanche il pisello grinzoso, ripassa a precipizio sul dorso della talpa, s’imbuca nella terra calda, e piano piano, si corica fra le sorelline che dormono buone buone; sbircia la formica Rossa, sbadiglia due volte, poi s’addormenta di colpo.

Nerina Oddi Azzanesi

L’albero addormentato

Un albero si addormentò. Tutti gli alberi s’addormentano quando perdono le foglie e il freddo viene. Ma in genere non sognano mai. Dormono per tutto l’inverno, e a primavera si svegliano. Invece quell’albero, sognò. Gli pareva che nel cielo volassero, lenti, tanti angeli e dalle ali di quegli angeli cadevano le penne. Erano penne bianche e leggere che si posavano sui rami, sulla terra, e sulle siepi. Era un sogno così bello che l’albero si svegliò. Si guardò intorno stupito e vide tutto bianco. Il sogno non era un sogno. Dal cielo continuavano a cadere le penne degli angeli. L’albero rabbrividì di gioia e di freddo. Poi, di colpo, si riaddormentò. A primavera, quando si destò, raccontò il suo sogno a un merlo col becco giallo. Il merlo si mise a ridere. “Sei un vecchio albero, ma sei anche sciocco. Quelle non erano le penne degli angeli, era la neve, una cosa fredda che cade dal cielo!” “Non è vero!” gridò l’albero. Ma poi, quando anche una lucertola gli disse la stessa cosa, dovette crederci. “Va bene” disse al merlo dal becco giallo “Non erano le penne degli angeli, ma tu puoi trovarti un altro albero per fare il nido. Io non ti ci voglio più”. E quell’anno ospitò una coppia di cardellini.

Mimì Menicucci

C’era una volta un omino di neve

C’era una volta un omino di neve. Era venuto su panciuto e candido con un taralluccio per naso, due bottoni per occhi e una pipa in bocca. Quando poi gli misero un cappello tutto sbertucciato in testa, il pupazzo si guardò intorno con arroganza come se fosse il padrone del quartiere. I ragazzi ci giocarono intorno fino a sera e questo lo insuperbì ancora di più, tanto che quando se ne furono andati via, si rivolse al monumento di marmo che sorgeva in mezzo alla piazza e gli disse: “Non crederai mica di essere più bello di me. Io ho perfino la pipa!” La statua, che era quella di un grand’uomo, rise silenziosamente senza provare nemmeno a discutere le sciocchezze che l’omino di neve diceva; ma un passero che, si sa, è un uccellino impertinente, andò a posarsi proprio sul cappello dell’omino e gli pizzicò il naso. “Non mancarmi di rispetto!” strillò il pupazzo “e vattene subito di qui!” Ma il passero non l’ascoltò neppure e invece si accomodò meglio sul cappello dove aveva deciso di passare la notte che si annunciava fredda e rigida. Intanto si era levata la luna e l’omino, per consolarsi, le rivolse la parola dicendo: “Non pare anche a te che io sia una persona importante?” La luna rise col suo faccione largo e splendente e l’omino, imbronciato, decise di non parlare più con nessuno. La notte passò gelida e silenziosa, e poichè la neve a quel freddo rassodava, la superbia dell’omino cresceva. Ma venne la mattina, e con la mattina il bel sole tiepido che usciva fuori dopo tante giornate di cattivo tempo, e voleva rifarsi delle ore perdute. Avvolse il pupazzo di neve con la sua luce d’oro e gli fece scintillare i bottoni degli occhi. In principio, l’omino ebbe quasi piacere di sentirsi invadere da quel bel calore, ma poi si accorse che si indeboliva sempre più: grossi rigagnoli gli corsero per tutto il corpo e capì che si sarebbe infine sciolto. L’ultimo sguardo fu per il monumento che se ne stava immobile in mezzo alla piazza, illuminato dal sole che con lui non ce la faceva. Quando i ragazzi tornarono, non trovarono più l’omino di neve. Della sua superbia era rimasta soltanto una pozza d’acqua sporca nella quale galleggiava una vecchia pipa.

Mimì Menicucci

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Racconto su San Nicola – 6 dicembre

Racconto su San Nicola – 6 dicembre. Questa festa si ricollega alla figura storica di Nicola, che visse nel VI secolo.

Anche se è spesso vestito di rosso, San Nicola nella tradizione indossa una tunica bianca e blu e ha un mantello azzurro stellato.

Sappiamo tutti che Babbo Natale è diventato rosso perchè ha bevuto la Cocacola, e a maggior ragione immaginare San Nicola azzurro aiuta i bambini a distinguere tra i due personaggi.

In testa porta la mitra, ha solidi stivali perchè deve camminare molto, e in una mano tiene un bel bastone da vescovo (la pastorale con la spirale avvolta), nell’altra dovrebbe tenere un grande libro d’oro, dove sono scritte tutte le azioni degli uomini, ma coi bambini tralascio sempre questi aspetti troppo moraleggianti e un po’ da “partita doppia” (aspetti in alcune tradizioni addirittura caricati dalla presenza accanto a Nicola di un antagonista malvagio, il Krampus…)

photo credit http://www.ripleys.com/

Siccome San Nicola deve camminare molto, indossa grossi stivali, e come richiamo al suo tanto camminare, è tradizione che al suo passaggio gli stivali e le pantofole dei bambini si riempiano di cose buone da mangiare, soprattutto mele, noci, pane bianco (o farina bianca,  o dolcetti al miele).

Altri doni ne falsificano un po’ l’immagine e fanno di San Nicola un Babbo Natale fuori tempo.

photo credit http://www.sensationalcolor.com

E’ inoltre preferibile non far venire San Nicola a scuola o a casa, ma far trovare i doni ai bambini al mattino presto o al ritorno da una breve passeggiata.

Magari il giorno prima si puliscono per bene le pantofole insieme ai bambini, con una spazzolina e un panno morbido, e si sistemano insieme a loro con gran cura prima di lasciare la scuola.

A casa questo si può fare la sera prima di andare a dormire, oppure al mattino presto, prima di uscire…

Racconto su San Nicola – 6 dicembre

Ecco un piccolo racconto che si può leggere ai bambini, anche il giorno prima:

“Nel lontano oriente viveva un uomo molto buono, il vescovo Nicola. Un giorno sentì dire che lontano lontano, in occidente, c’era una grande città dove tutti gli uomini pativano la fame, perfino i bambini piccoli.

Chiamò allora tutti gli abitanti della città e chiese loro di portargli  i migliori frutti dei loro orti e dei loro campi. Questi tornarono poco dopo con grossi cesti pieni di mele e di noci, sacchi di grano dorato per fare la farina, pane bianco e dolcetti al miele.

Il vescovo Nicola fece caricare tutto su una nave. Era una nave imponente e maestosa, blu come il cielo, ed aveva una grande vela bianchissima che splendeva sotto i raggi del sole.

Iniziarono il viaggio verso occidente, e il vento si mise subito ad aiutarli, soffiando sempre nella direzione giusta. Ci impiegarono sette giorni e sette notti, e quando giunsero alle porte della città stava calando la sera. Per le strade non si vedeva anima viva, ma qua e là brillava qualche lucetta alle finestre.

Il vescovo Nicola bussò ad una di esse. In quella povera casetta viveva una mamma coi suoi cinque bambini. La donna, sentendo bussare, disse ai figlioletti di andare ad aprire la porta, pensando si trattasse di qualche poverello bisognoso di ospitalità. I bambini obbedirono, ma non trovarono nessuno; anche la mamma venne a controllare, e poi tornarono tutti insieme a casa.

Vicino alla stufa a legna la mamma aveva messo le scarpine dei suoi bimbi ad asciugare, perchè nel pomeriggio erano andati a far legna nel bosco.

Rientrando in casa, sentirono tutti un delizioso profumino provenire proprio dalla stufa, si avvicinarono e trovarono le loro scarpe traboccanti di noci, mele rosse, mandarini, pane e dolcetti al miele. E lì vicino c’era anche un grande sacco pieno di chicchi di grano. Tutti poterono finalmente mangiare, ed i bimbi crebbero sani e vivaci.

Così San Nicola ogni anno, nel giorno del suo compleanno, si mette in viaggio per venire da noi. Monta sul suo cavallo bianco e cavalca di stella in stella, e porta ogni anno i suoi doni per ricordare ai bambini che presto sarà Natale”.

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Racconti natalizi

Racconti natalizi – una raccolta di racconti di autori vari sul Natale, per bambini del nido, della scuola d’infanzia e primaria.

Racconti natalizi
La leggenda dell’abete (G. Benzoni)

S’approssimava l’inverno di tanti e tanti anni fa. Un uccellino, che aveva un’ala spezzata, non sapeva dove ripararsi dal freddo e dalla neve. Si guardò intorno per cercare un asilo e vide i begli alberi di una grande foresta. A piccoli passi si portò faticosamente al limitare del bosco. Il primo albero che vide fu una betulla dal manto d’argento.

– Graziosa betulla, vuoi ospitarmi fra le tue fronde fino alla buona stagione?-
– Che curiosa idea! Ne ho abbastanza di custodire le mie foglie!-
L’uccelletto saltellò fino all’albero vicino. Era una quercia dalla fitta chioma.
– Grande quercia, vuoi tenermi al riparo fino a primavera?-
– Che domanda! Se io ti riparassi mi beccheresti tutte le ghiande!-
L’uccellino volò alla meglio fino a un grosso salice che sorgeva sulla riva di un fiume.
– Bel salice, mi dai ricovero fino a che dura il freddo?-
– No davvero! Va’, va’ lontano da me!-

Il povero uccellino non sapeva più a chi rivolgersi, ma continuò a saltellare… Lo vide un abete e gli chiese:
– Dove vai, uccellino?-
– Non lo so. Nessuno mi vuole ospitare e io non posso volare tanto lontano, con questa ala spezzata.-
– Vieni qui da me, poverino. Riparati sul ramo che più ri piace-
– Oh, grazie. E potrò restare qui tutto l’inverno?-
– Certamente, mi terrai compagnia.-

Una notte il vento gelido sferzò le foglie, che caddero a terra mulinando. La betulla, la quercia, il salice, in breve tempo si trovarono nudi e intirizziti. L’abete invece conservò le sue foglie, e le conserva tuttora.
Sapete perchè? Perchè Dio volle premiarlo della sua bontà.

Racconti natalizi
Storia del piccolo abete

Era autunno e gli alberi del bosco perdevano le foglie. E non erano affatto contenti di rimanere nudi e spogli, coi rami stecchiti. Per questo non badavano al pianto di un uccellino che si trascinava per terra perchè aveva un’ala spezzata. L’uccellino si fermò al piede della quercia e le disse: “Oh quercia grande e potente, fammi  rifugiare tra i tuoi rami! Ho un’ala spezzata e il freddo che sta per arrivare può farmi morire”.

“Non ho voglia di essere buona!” rispose la quercia. “Quando perdo le foglie sono di cattivo umore”.
L’uccellino si trascinò allora ai piedi di un castagno: “Oh, signore del bosco” cinguettò “fammi rifugiare in un buco del tuo tronco! Ho un’ala spezzata e non so dove passare l’inverno”.

Il castagno fu scosso da un forte soffio di vento e molte foglie caddero. “Non sono il signore del bosco” disse “Se lo fossi, proibirei al vento di strapparmi le foglie, ma non ho tempo di occuparmi di una creaturina piccola come te!”.
L’uccellino, sospirando, chiese aiuto a un altro albero, poi ad un altro ancora, ma tutti gli risposero di no, perchè perdevano le foglie e si sentivano cattivi. Allora, il povero uccellino si accucciò per terra e, se avesse saputo farlo, avrebbe pianto.

“Dove vai, povero uccellino dall’ala spezzata?” chiese un piccolo abete che ancora aveva tutti i suoi aghi verdi.
“Non vado in nessun posto” rispose l’uccellino, “nessun albero ha voluto darmi rifugio per quest’inverno”.
“Te lo darò io” disse il piccolo abete. “Quando avrò perdute le foglie, stringerò più forte i rami per ripararti. Speriamo di farcela”.
In quel momento apparve un grande angelo bianco. Disse: “Il Signore ti ha benedetto, piccolo albero. Tu non perderai la tua veste verde nemmeno in inverno. Dio premia tutti gli atti di bontà”.
Venne l’inverno, e il bosco era silenzioso e ammantato di neve. Gli alberi erano immobili e stecchiti come se fossero morti. Ma il piccolo abete non aveva perduto le foglie. Era rimasto col suo vestito verde ed era il solo in  tutto il bosco.

Un giorno passò il vecchio Dicembre. Cercava un albero per appendervi i doni che ogni anno portava alle famiglie. Ma quegli alberi così spogli gli mettevano la la tristezza nel cuore.
“Non posso attaccare i lumini e i doni a un albero dai rami stecchiti” diceva, e sospirava. Stava per andarsene, quando vide un alberello tutto verde.  Era il piccolo abete che aveva dato rifugio all’uccellino.
“Oh” esclamò gioiosamente il vecchio Dicembre “Ho trovato finalmente l’albero che ci vuole!”
Da allora l’abete, che resta sempre verde, anche d’inverno, fu scelto per appendervi i lumini e i doni ed è accolto con gioia da tutte le famiglie. (M. Menicucci)

Racconti natalizi
L’oste

… Sì, ora ricordo, ma vi ripeto, non è facile tenere a mente i clienti. E poi, i clienti di quei giorni! Che trambusto! Che via vai!
Augusto, il grande imperatore romano, aveva emanato un editto per il censimento. Voleva sapere quanti cittadini popolassero il suo grandissimo Impero.  Anche la Palestina si trovava sotto il suo dominio. Noi Ebrei avevamo, è vero, un re nostro. Si chiamava Erode, e risiedeva a Gerusalemme, la capitale del Regno. Ma sopra di lui c’era l’imperatore romano, che contava più di lui. Bisognava obbedire.  Perciò tutti tornavano al paese d’origine per farsi segnare sulle liste della propria tribù.

Ve l’ho detto, furono giorni di grande affluenza, di grande confusione, e devo ammetterlo, di grande guadagno. Il cortile era pieno di animali e di gente. I servi non ce la facevano a servire tutti. Si era giunti alle ultime forcate di fieno, e quanto alla paglia, lo dico con vergogna, molte volte fui costretto a ridistribuire quella già usata. Una sconvenienza, lo so, ma come volete che facessi?

Fu una sera, sull’ora della notte. I servi vennero a dirmi che alla porta si erano presentati due nuovi clienti.  Detti in giro un’occhiata. Sotto il portico, la gente si pesticciava. Chiesi ai servi: “Che gente è? Persone di riguardo?”
Scrollarono il capo.

“Poveri” mi dissero “un operaio e una donna sopra un asino”.
“Se vogliono buttarsi in un canto…” dissi, indicando i portici affollati.
“Chiedono una camera particolare” mi fu risposto.
“Allora mandateli con Dio. Bella pretesa; una camera particolare in questi momenti, e per gente povera”.
“La donna è stanca del viaggio” mi disse un vecchio servo.
“E che cosa ci posso fare io? Anch’io sono stanco! Non ne posso più. Se fossero stati clienti buoni… ma con certa gente spesso ci si rimette anche la paglia”.

I servi erano incerti. Allora mi feci io sulla porta.
“Mi dispiace” dissi col migliore dei modi, “mi dispiace, ma non c’è posto. Con questo benedetto censimento! Anche voi siete qui per l’editto?”
“Sì” rispose l’uomo, un tipo di operaio.
“Di che famiglia siete?”
“Della famiglia di David”.

Lo guardai sorpreso. La famiglia dell’antico profeta era famiglia reale.
“E non avete parenti in città?”
L’uomo abbassò gli occhi. Guardai la donna raccolta sull’asino. Che viso pallido e bello! Sotto la coperta che le ricadeva sulle spalle, nella semioscurità, sembrava che facesse luce.
“Sono dolente” dissi ancora “ma non c’è posto. Neppure nel cortile; una camera particolare mi è impossibile”.
“Questa donna è stanca” disse sommessamente l’uomo.
La riguardai. Ella abbassò le ciglia.
“Sentite” dissi loro “se volete restare soli e passare una notte al coperto, vi consiglio una cosa. Sul fianco del colle ci sono alcune grotte che servono da stalla. In mancanza di meglio, possono servire come camere particolari. Non ve ne offendete. Così risparmierete anche quei pochi denari”.
I due non fiatarono. L’uomo tirò la cavezza dell’asino che si mosse zoppicando. Il lume di quel volto di donna affaticata sparve nel buio.

Rimasi sulla porta, ascoltando lo zoccolo dell’asino che si allontanava. Mi invase una grande tristezza. Li avrei voluti richiamare. Ma come era possibile ospitarli? Vi assicuro che non c’era più posto sotto il portico, e di camere particolari, neppure parlarne.
Con tutto ciò ero triste. Rientrai. Avevo una pietra sul cuore. (P. Bargellini)

 

Racconti natalizi
Un mantello speciale (S. Lagerloff)

C’era una volta un uomo che uscì fuori nella notte per cercare del fuoco. Andò di casa in casa e picchiava: -Oh, buona gente, apritemi! Ho un bambinello appena nato e cerco del fuoco per riscaldare il mio bambino e la sua mamma.-

Era una notte profonda: tutti dormivano. L’uomo camminò ancora finchè, lontano, scorse un chiarore: si avvicinò e vide nell’aperta campagna un bel fuoco che ardeva, e intorno molte pecore, che dormivano vigilate da un pastore e dai cani. Quando l’uomo si avvicinò alle pecore, tre grossi cani si destarono e spalancarono le bocche per abbaiare, ma non poterono; allora mostrarono i denti e fecero per slanciarsi su di lui, ma i loro denti non poterono morderlo. L’uomo voleva avvicinarsi al fuoco, ma le pecore erano così fitte che tra loro non si poteva passare e l’uomo passò sopra di loro, senza che  nessuna si svegliasse o si muovesse, e giunse vicino al fuoco. Allora il pastore si svegliò; era un vecchio severo e violento.

Vedendo quell’uomo vicino al suo gregge, prese un lungo bastone e glielo lanciò contro, ma il bastone cadde proprio ai suoi piedi senza toccarlo. Lo straniero si fece allora vicino al pastore e gli disse: -Dammi un po’ di fuoco che riscaldi il mio bambino appena nato e la sua mamma.-
-Prendine quanto ne vuoi- rispose il pastore, ma intanto pensava “Costui non potrà prenderne nemmeno un poco, perchè non ha con sè una pala, nè un recipiente per portare i tizzi accesi”.
Ma l’uomo si chinò, prese con le mani alcuni carboni accesi, e li mise nel mantello. Il pastore meravigliato pensava: “Che nottata è questa, che i cani non mordono, e il fuoco non brucia?”. E, pieno di curiosità, seguì l’uomo che aveva già preso la via del ritorno.
Vide che lo straniero non aveva una casa: si era fermato davanti a una grotta, nella quale erano una donna e un bimbo. Il pastore allora ebbe pietà del bambino tremante nella notte fredda, e dal sacco che aveva sulle spalle trasse fuori una morbida e bianca pelle di pecora, e la offrì all’uomo per il bambino.

In quel momento, proprio quando il suo cuore diventava buono, vide intorno a sè una fitta schiera di angeli dalle grandi ali d’argento. Tutti insieme cantavano che nella notte era nato il Redentore.
Allora il pastore capì perchè in quella notte tutto era così buono e nessuna cosa faceva del male.

Racconti natalizi
Il pastorello povero (G. E. Nuccio)

Quando gli angeli del cielo annunciarono per valli e per monti ch’era nato Gesù, tutti si misero in cammino per andarlo a visitare. E chi gli portava pane e frumento, chi cacio e ricotta, chi miele e latte, chi capretti o conigli.
Venne anche un garzoncello di pastori; ma si sentiva umiliato, e quasi si vergognava, perchè non possedeva nulla da donare a Gesù Bambino. E come entrò, si stette in un angolo della grotta; e stringeva sul petto il suo zufolo, l’unica cosa che avesse.

Ma lo vide la Madonna, e venne a prenderlo per una mano, e gli fece coraggio col suo dolce sorriso. Allora il pastorello si fece animo e disse: -Non ho niente da donare a Gesù Bambino. Solo vorrei offrirgli una sonatina con questo mio zufolo-.

-Sì, figlio mio- disse la Madonna, sorridendogli amorosa. Ma proprio in quel momento, entrarono i tre Re Magi, tutti vestiti di porpora e  d’oro, con largo seguito di servitori carichi di ricchissimi doni. Allora il pastorello tornò a mettersi in un angolo della grotta, ma la Madonna lo cercò con gli occhi amorosi, lo scorse e venne di nuovo a prenderlo per mano.

E, facendolo passare tra i magnifici Magi vestiti di porpora e d’oro, lo guidò fin presso la culla di Gesù. Allora il pastorello, voltosi dalla parte del bambino, intonò col suo zufolo la più dolce canzone.
Nella grotta si fece un silenzio grande: tutti, Magi e pastori, cacciatori  e contadini, donne e ragazzi, tacquero; e le pecore e i colombi e gli uccelli, che stavano dentro e fuori della grotta, tacquero anch’essi; e lo stesso il ruscello, che scorreva lì presso; e il mulino si fermò per non fare rumore.
La voce dello zufolo era dolce e soave, come quella di tutte le madri della terra, messe ginocchioni per adorare il Figliolo divino. E Gesù Bambino stava ad ascoltare e guardava, con i suoi occhi dolci di luce, negli occhi del pastorello. E il pastorello si sentiva tanta dolcezza nel cuore; proprio gli pareva di essere tutto solo con Gesù e la Madonna.

Allorchè il suono dello zufolo si tacque, la santa Vergine venne accanto al pastorello, e gli fece una carezza sul capo. E Gesù Bambino, levando la sua bianca manina, lo benedisse. E quando il pastorello passò in mezzo alla folla, tra pastori e contadini, fra servi e Magi, tutti si chinarono al suo passaggio, quasi fosse il re più ricco. Perchè egli aveva offerto il dono più prezioso a Gesù: la musica sgorgata dal suo cuore.

Racconti natalizi
Il pastorello
Il bambino Gesù era nato nel presepe. Era un bambino piccolo e povero, avvolto in poche fasce e messo a giacere sulla paglia, ma era il Signore del mondo. Questo aveva detto l’angelo ai pastori meravigliati.
Quando l’angelo ebbe annunciato la nascita di Gesù, i pastori si levarono, abbandonarono le greggi e si avviarono per visitare il piccolino che era nato.

Ma non si va a mani vuote da un bambino nato da poco, e ogni pastore prese qualche cosa, chi un agnello candido e ricciuto, chi una forma di formaggio, chi una fiasca di latte. Solo un povero pastorello non aveva niente, perchè era molto povero. Povero quasi come il bambino Gesù. Ma anche il pastorello volle andare a visitare quel piccino che era nato.

Si avviò insieme agli altri. La strada era lunga e faticosa, e il pastorello restò indietro. Mentre si affrettava, solo solo, sentì nel buio un lamento.
“Chi è?” chiese, e aguzzò gli occhi nella notte.
Seduto sul margine della strada, vide un bambino che si stringeva fra la mani un piedino, e piangeva.
“Ti fa molto male?” chiese il pastorello.
“Sì” rispose singhiozzando il bambino. “Mi sono punto con uno spino e ora non posso camminare”
“Dove abiti?”
“Lassù” e indicò la cima della montagna.
“Io dovrei andare da tutt’altra parte” sospirò il pastorello “ma non posso lasciarti qui solo e ferito. Ti porterò fino a casa tua”.

Prese in braccio il bambino e cominciò a salire. Che fatica! Invece di un bambino, pareva che portasse un macigno!
Finalmente, tutto sudato e trafelato, arrivò in vetta al monte e depose il bambino davanti all’uscio di una capanna, sopra un po’ di paglia. Ed ecco che una stella si staccò dal cielo e venne a posarsi sul tetto; e il povero giaciglio splendette come se la paglia fosse diventata d’oro. In mezzo a una gran luce, il pastorello vide, invece del piccolo ferito, un bambino di grande bellezza che dolcemente gli sorrideva.

“Io sono il bambino che è nato stanotte” disse “Il salvatore del mondo annunciato dagli angeli. Tu credevi di allontanarti da me e invece ti ero tanto vicino. Chi aiuta gli altri è vicino a Dio”.
Il pastorello si inginocchiò guardando il bambino con occhi pieni di meraviglia e stupore. Poi si ricordò di qualcosa e, mortificato, disse: “Signore, non ho nulla da offrirti…”

“Mi hai già dato molto, perchè mi hai dato la tua bontà” rispose il bambino, e con la piccola mano raggiante, benedisse l’umile pastorello della montagna. (M. Menicucci)

 

Racconti natalizi
Il pastore

Che freddo quella notte! Le stelle bucavano il cielo come punte di diamante. Il gelo induriva la terra.  Sulla collina di Betlemme tutte le luci erano spente, ma nella vallata ardevano, rossi, i nostri fuochi.
Le pecore, ammassate dentro gli stazzi, si addossavano le une sulle altre col muso nascosto nei velli.
Noi di guardia invidiavamo le bestie che potevano difendersi così bene dal freddo. Si stava attorno ai fuochi che ci cuocevano da una parte, mentre dall’altra si gelava.

Sulla mezzanotte il fuoco cominciò a crepitare come se qualcuno vi avesse gettato un fascio di pruni secchi.
Nello stazzo, le pecore si misero a tremare. Levavano i musi in aria e belavano.
“Sentono il lupo” pensai.
Cercai a tastoni il bastone e mi alzai. I cani giravano su se stessi e uggiolavano. “Hanno paura anche loro”, pensai.

Intanto, anche i compagni si erano alzati da terra. Facevano gruppo scrutando la campagna.
Non era più freddo. Il cuore, invece di battere per la paura, sussultava quasi di gioia. Era di notte e si vedeva luce come di giorno.
Sembrava che l’aria fosse diventata polvere luminosa. E in quella polvere, a un tratto, prese figura una creatura così bella che ne provammo sgomento.
“Non temete” disse l’apparizione “io vi annunzio una grande gioia destinata a tutto il popolo. Oggi vi è nato un salvatore, nella città di David. E questo sia per voi il segnale: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia”.

Non aveva finito di parlare, e da ogni parte del cielo apparvero angeli luminosi, e cantavano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”.
Poi tornò la notte e noi restammo come ciechi nella valle piena di oscurità. I fuochi si erano spenti. Le pecore tacevano. I cani si erano acciambellati per terra.

“Abbiamo sognato!” pensammo. Ma eravamo stati in troppi a fare lo stesso sogno.
Lì vicino, sulla costa della collina, erano scavate alcune grotte, che servivano da stalla. Avevano una mangiatoia formata di terra dura. Se il salvatore si trovava in una mangiatoia, voleva dire che era nato in una di quelle grotte.
Infatti trovammo, come ci aveva detto l’angelo, un bambino fasciato, in mezzo a due animali, un bue ed un asino. Il bue era quello che dimorava nella stalla. L’asino vi era giunto coi genitori del bambino.
Sul basto sedeva il padre, pensieroso; presso la mangiatoia si trovava inginocchiata la madre, in adorazione del suo nato.
Guardai quel bambino e il mio cuore si intenerì.
Sono un povero pastore, ma ogni volta che vedo un agnellino mi commuovo. E quel bambino mi parve il più tenero, il più innocente degli agnelli.
Non so dire altro. Posso aggiungere che non ho più trovato in vita mia una dolcezza simile a quella provata davanti a quel bambino. Anche ora che ci ripenso, mi torna la tenerezza per quell’agnello innocente e gentile.
Sono un povero pastore. Perdonatemi se lo chiamo così: è per me il nome più dolce e più caro. (P. Bargellini)

Racconti natalizi
Dell’abete solitario

Nel Vosgi, molto vicino a Strasburgo, c’è lo Schneeberg. Fra la sua cima e quella del Donon vi sono  diversi gruppi di rocce sugli altopiani o nelle gole delle valli, dove una volta stavano i sacerdoti dei celti e dove guardavano al di là di Stasburgo il levar del sole.

La leggenda contava dodici alte rocce che, nelle sante notti dopo la nascita di Gesù, si mettono in cammino e, ognuna per la sua strada ed ognuna nella sua notte particolare, si affretta ad andare sullo Schneeberg per inchinarsi, da lassù, al sole che sorge.

Su una si queste alte rocce stava, nella dodicesima notte al tempo del compimento dei tempi, un abete solitario sotto il cielo pieno di neve. Per tutta la notte aveva sognato della stalla di Betlemme. Sul far del giorno arrivarono tre carovane con i Re che avevano adorato il bambino a Betlemme ed ora con il loro seguito e con gli animali cercavano il centro del mondo per dirigersi verso oriente, occidente e sud.

Davanti all’abete solitario si fermarono, pensando che proprio qui fosse il centro del mondo. Mentre pensavano questo, divamparono dodici fiamme sopra alle cime ed alle rocce del circondario, fin giù nella pianura dell’Alsazia.
I Re si abbracciarono e gli animali delle tre carovane parlarono ancora una volta gli uni con gli altri.
Ma l’abete si inchinò profondamente davanti ai tre re venuti dall’Oriente e davanti ad ognuno degli animali, perchè nella sua nostalgia sapeva che questi avevano visto il Signore del mondo nella stalla  e vedeva la luce che albergava ancora nei loro cuori.
Allora i tre Re benedissero l’abete solitario ed ognuno di loro ne staccò un ramo, per portarlo con sè, finchè l’abete tremò di gioia.

Prima di separarsi i Re predissero solennemente all’abete che un giorno, in un lontano futuro, esso sarebbe sceso dall’altura del Vosgi verso Strasgurgo e poi, da qui, in tutte le valli ed i paesi e le città del mondo e che sarebbe diventato l’albero di Natale, un simbolo della luce nella stalla di Betlemme, che come un sole dei mondi guarda ancor oggi sulla terra addormentata.
(Camille Schneider)

Leggenda dei pastori
C’era una volta, in un fredda e gelida notte invernale, un povero pastore che svegliandosi spaventato contò le pecore del suo gregge. Mancava una mamma pecora: la pecora migliore che aveva. Il pastore si mise alla sua ricerca, camminava per prati e campi cercando ovunque, sui picchi e in fondo ai burroni. Ascoltava sperando di sentire qualche belato spaventato, ma tutto era silenzioso. Camminò a lungo senza trovare la pecora e si meravigliò del fatto che non era per niente stanco. Un morbido tappeto di fiori stava sotto ai suoi piedi e un soffio tiepido di primavera alitava sul suo viso, eppure si era nel mezzo dell’inverno…

Le gemme si schiusero e il suo cuore stesso fioriva come un bocciolo. Cosa c’era? Tutto era così trasformato!
Solo quando pensava alla sua pecora lo riprendeva la tristezza. Mai più avrebbe avuto una simile bella mamma pecora nel suo gregge, con un vello così morbido e bianco! Egli l’amava molto, più di tutte le altre pecore. Oh, se potesse ritrovarla!

Mancava poco e gli  avrebbe dato un agnellino, e lui durante la notte l’avrebbe scaldato avvolgendolo nel suo mantello, e di giorno l’avrebbe portato sulle spalle nel cammino verso i pascoli alti del monte, a primavera.
Alzando lo sguardo verso i monti lontani vide salire una grande stella lucente come un brillante. “Che stella sarà mai?” si chiese. Non aveva mai visto una stella simile. La stella del mattino non poteva essere, era ancora notte piena. La stella saliva, saliva, e la sua luce era così potente che tutt’attorno cominciò a luccicare.

Il cuore del giovane pastore era pieno di meraviglia, e lui camminava proprio seguendo la direzione della stella. Da quanto tempo camminava, non lo sapeva. Andò avanti finchè arrivò ad una capanna bassa, una misera stalla irradiata dall’oro della stella. Alle sue orecchie arrivò un canto dolcissimo… e quando arrivò vicino dovette coprirsi con la mano gli occhi, tanto era lo splendore che irraggiava da un piccolo bimbo appena nato. Il bimbo giaceva sulla paglia dura e la madre lo cullava cantando dolcemente. Poi lei prese delicatamente un po’ di paglia d sotto ai suoi piedini e la diede al bue e all’asinello che stavano accanto alla greppia.

Il pastore non sapeva di stare davanti a Maria che in quella povera stalla aveva fatto nascere il bimbo celeste. Come si meravigliò il pastore quando il bambino Gesù allungò le sue manine verso una pecora bianca che fiduciosamente posò il muso sulla greppia. Come gioiva il bambino toccando la morbida lana bianca e quando lo sfiorò il tiepido alito dell’animale. Il giovane pastore riconobbe la pecora che aveva cercato tutta la notte.

Maria sorrise, accennò con la testa al pastore e lui potè vedere un po’ dello splendore della stella nei suoi occhi. La madre gli disse, passando le dita tra i morbidi fiocchi della pecora: “La stella l’ha guidata, essa ci ha dato da bere, grazie buon pastore!”.

Il pastore si inchinò davanti al bambino. Nella sua povertà non sapeva cosa donargli. Tagliò un angolo della pelliccia che portava sulle spalle e la stese sulle delicate gambine del bimbo, così che nessun soffio gelido di vento lo sfiorasse. Dalla sua borsa prese l’ultimo pezzetto di pane e lo offrì a Maria.

Un uccellino volò leggero sul palmo della mano di Maria a beccare alcune briciole e trillò.  Dal bambino irraggiò una luce che arrivò sul petto dell’uccellino e le sue piume si colorarono d’oro. L’uccellino col petto d’oro passò sopra la greppia e volò via gioioso.

S’era silenzio nella stalla, gli animali respiravano calmi. La pecora si avvicinò al pastore e si inginocchiò accanto a lui, che la accarezzò. Com’era bianca e morbida la sua lana, poteva essere un morbido e caldo lettino per il bambinello.

“Caro bambinello, io ti ringrazio e ti voglio regalare la mia pecora. La lana morbida ti riscalderà nella notte, e il suo latte ti darà forza e farà bene anche a tua madre!”
Come in sogno il pastore camminò per prati e campi per raggiungere il suo gregge, il cielo sopra di lui era pieno di migliaia di stelle che illuminavano la sua via. Dopo un pezzetto di strada incontrò Giuseppe, che come Maria aveva negli occhi lo splendore della stella. Giuseppe gli disse: “Il mio bambino ti dona la pace”. Come campane risuonarono queste parole nel cuore del pastore. Oh, notte meravigliosa!

Il pastore contò le sue pecore. Si sbagliava? Si stropicciò gli occhi e ricontò di nuovo. Ma per quanto ricontasse il numero era sempre lo stesso: le pecore erano tre volte di più. I suoi occhi increduli guardarono il gregge diventato così numeroso e grande.
Un raggio della stella toccò il suo cuore e il pastore andò con il pensiero al cammino appena fatto, e rivide il bambino giacere nella greppia, pieno di luce celeste. La madre lo cullava e da così lontano sorrise al pastore: “Molte meraviglie accadono in questa notte, tutti saranno benedetti!”.
Vicino a lui sentì un lieve belare. Un agnellino appena nato, con la pelliccia candida come la neve, giaceva  sulla tera. Egli lo raccolse e l’agnellino si strinse a lui.
Il cuore del giovane pastore voleva saltare dalla gioia. Vide il cielo aprirsi sopra di lui e un fermento riempì l’aria, tutte le stelle brillavano e in file lucenti apparvero le schiere celesti.
Gli Angeli cantavano, volarono in basso e benedissero la terra e tutto ciò che c’era su di essa.

 

Racconti natalizi
La leggenda del Re segreto

Non tanto tempo fa c’era un paese che era il più grande del mondo perchè aveva sottomesso quasi tutti gli altri paesi. Aveva raggiunto non soltanto grande fama, ma anche ricchezze straordinari e i suoi abitanti dovevano confessarsi che alla loro fortuna non mancava quasi nulla.

Un giorno scoppiò in questo paese una strana malattia. Essa colpì dapprima poche persone, poi sempre di più, ed infine divenne un’epidemia. Si manifestò dapprima con strane forme di paralisi, non solo esterne ma anche interne. Le persone colpite non potevano più muoversi, dopo un po’ non riuscivano più a parlare, e infine nemmeno a pensare.

Gli abitanti del paese si disperarono per questa calamità, scoppiata proprio nel loro periodo più felice. Quando la malattia si dilatò  e colpì anche le persone più importanti, il re convocò i suoi consiglieri e li interrogò sul da farsi in questa situazione di emergenza.  Ma i consiglieri non sapevo dire nulla  di più di quanto i medici avevano stabilito. L’unica cosa che consigliavano al re era di far spargere la voce nel regno che chiunque conoscesse un rimedio si presentasse senza indugio. Così fece il re, e dopo un po’ di tempo si presentò al castello un anziano pastore. Esso diede al re un consiglio inaspettato. Disse: “In questa emergenza ti può aiutare una sola cosa. Manda tua figlia al re segreto. Esso ti darà ciò di cui hai bisogno”.

Sentendo queste parole, il re non fu molto felice. Mandare sua figlia, da sola, presso un re sconosciuto, che inoltre era anche segreto: questo non gli garbò per nulla. Ma quando poco dopo fu lui stesso colpito dalla malattia, si decise a seguire il consiglio.

Così la giovane figlia del re se ne andò e cominciò a cercare il re segreto. Non sapeva in quale luogo abitasse, non conosceva nemmeno la strada per arrivarci, era solo piena di un desiderio profondo di trovarlo e di aiutare gli uomini. Camminò dal mattino alla sera e non trovò niente.  E quando alla fine della giornata non aveva ancora concluso nulla, decise di non entrare nell’osteria, ma di passare la notte all’aria aperta, per cogliere eventualmente un segno. Così scalò una collina e lì si fermò. Un cielo infinito, di un blu profondo, si stendeva sopra di lei. Mai prima aveva visto un cielo così. A lungo contemplò quella vista e si lasciò trasportare dallo sguardo in quelle lontananze. Si sentì sempre più libera e le sembrava di comprendere molti segreti del mondo. Poi si addormentò profondamente. Quando la mattina dopo si destò, si accorse con grande meraviglia di essere avvolta in un mantello stupendo, blu scuro. Il giorno dopo proseguì la sua marcia. Incontrò numerose persone che le chiedevano aiuto, certe volte anche con malagrazia, con parole sgarbate e cattive.

La figlia del re li ascoltò tutti senza protestare nè arrabbiarsi, e li aiutò tutti, come potè. Infine le venne incontro un uom o che era ormai quasi nudo. Egli le domandò di dargli qualche indumento caldo. Allora lei gli donò il suo vestito perchè, si disse, in fondo lei aveva il mantello. Appena ebbe dato il suo vestito si accorse di indossare un nuovo abito che brillava del rosso più meraviglioso.

Quando il giorno seguente proseguì per la sua strada, le si presentarono molti ostacoli. I sentieri diventavano sempre più difficili e le sue forze stavano per abbandonarla. Solo la sua volontà di raggiungere la meta restò ferma.

Arrivò su un prato che era ornato da splendidi alberi con molto fogliame e frutti luminosi. Si sedette sotto l’albero più grande; le sue forze erano finite. Seduta così, pensò tra sè: “Se solo avessi oltre alla volontà anche la forza!”. In quel momento l’albero potente cominciò a muoversi. Si scosse, si spostò, e un paio di splendide scarpine caddero a terra: erano fatte di oro lucido e caldo. Quando la figlia del re indossò le scarpine, le sue membra furono pervase da una forza che mai aveva sentito prima. Ora poteva riprendere il cammino.

Il quarto giorno il sentiero si inabissò piano verso l’interno della terra. Dapprima la principessa fu circondata da un buio angosciante, poi divenne sempre più chiaro, ed infine arrivò una luce di un’incredibile morbidezza. Le sembrò di entrare nella camera più intima della terra. Nel centro della sala si trovava un trono sul quale era seduto un giovane re che era illuminato come da un sole dolce. Era circondato dagli spiriti della natura, dalle guide degli uomini e dai capi degli angeli. Ora la figlia del re seppe di essere arrivata alla meta.

Il giovane sul trono guardò la principessa e vide ciò che indossava: il mantello blu che aveva sulle spalle, l’abito rosso e le scarpine dorate. Allora disse: “Meriti di ricevere il bene per aiutare gli uomini”, e le porse una coppa d’oro, riempita di acqua limpidissima. La invitò a bere. Poi le diede l’incarico di portare quest’acqua agli uomini e di dare loro la notizia dell’esistenza del re segreto. Quelli che avrebbero creduto al suo messaggio, avrebbero potuto bere e sarebbero stati salvati dalla loro malattia.

In questo modo molti già hanno ricevuto una nuova vita, ma ci saranno ancora molti altri che apriranno i loro cuori al messaggio che esiste un re segreto che è il guardiano e il donatore dell’acqua della vita. Egli abita tra noi e protegge gli uomini.
(Eberhard Kurras)

Racconti natalizi
Il pastore Giona nella stalla
Giona il pastore giaceva avvolto stretto nella sua coperta nella paglia, e dormiva. L’estate era passata da un bel po’. I pascoli erano brulli; già nell’autunno, quando le tempeste spazzavano sopra i campi arati, aveva raccolto le sue pecore e trovato un rifugio  insieme a loro dall’oste dell’osteria Corona.  Esso aveva dietro l’osteria una grotta stretta dove teneva la sua mucca e d’inverno potevano alloggiare lì tutti quanti, Giona, la mucca e le pecore. Spazio non ne aveva più nessuno, ma il pastore non ci faceva caso e non aveva niente in contrario a  dormire con le sue care pecore.

La mucca era mite, sognava forse della primavera prossima, quando avrebbe avuto di nuovo tutta la grotta per sè. Ma nel frattempo godeva del calore che emanava dai lanosi coinquilini.

Il vento d’inverno soffiava rigido attraverso le aperture tra le travi, ma perdeva quasi subito la sua potenza fredda in questo povero rifugio abitato da uomo e animali.

Improvvisamente il pastore si destò, si strofinò gli occhi e si guardò intorno tutto stranito. Osservò con cura ogni dettaglio del vano che già conosceva tanto bene, come se durante il sonno esso gli fosse diventato estraneo.  Le mura di roccia, irregolari, che limitavano la grotta su tre lati e formavano anche il soffitto, erano neri dei fuochi che si accendevano lì un tempo. La porta era di legno grezzo, attaccata su dei cardini poco stabili, e aveva delle fessure così larghe che anche senza finestra si poteva osservare tutto ciò che si svolgeva nel cortile.

Giona tastò la paglia che copriva appena la terra nuda, toccò la mangiatoia che conteneva il fieno per la mucca e per le pecore come se la volesse esaminare: “Sì, sì…” mormorò finalmente, “si tratta solo della nostra stalla!”. Però nel frattempo scosse la testa, ancora incredulo.

Dove credeva di essersi svegliato? Il pastore pose una mano sul capo di una pecora e cominciò a raccontare… alcuni pensano che sia stupido parlare agli animali, perchè non capiscono una parola, ma Giona ne sapeva di più, e naturalmente anche le sue pecore ne sapevano di più! Girarono tranquillamente le teste verso di lui e ascoltarono  il suono della sua voce calda e profonda che diede loro una sensazione di sicurezza e di protezione.

– Pensate un po’…” raccontò Giona, “ero in un castello, in un palazzo dorato, lì c’era una sala così meravigliosa, che non ho mai visto nulla di simile prima. I muri erano d’oro puro e il soffitto era come un cielo stellato, il tappeto come un giardino fiorito di rose e di gigli. Inoltre lì veniva suonata la musica più deliziosa da musicisti ineguagliabili. Nel bel mezzo della sala si trovava un letto a baldacchino con dei cuscini di piuma soffice. E pensate un po’, in questo letto di piume dormivo io, così morbidamente come sulle ali di un angelo.

Ma improvvisamente si sentì un richiamo forte: “Il re viene, fate posto per il re!”. Un servitore venne correndo e mi disse, anzi mi pregò di far posto nel castello per il re.  “Vero che lo fai per il re?” mi disse. Allora io mi alzai, ma quando i miei piedi toccarono terra mi svegliai, ed ora il castello è scomparso e mi trovo di nuovo qui da voi nella stalla-.

Le pecore continuarono a guardare il pastore con i loro occhi tranquilli e scuri. Avevano capito, potevano immaginarsi la bella sala nel castello dorato. Ancora una volta Giona si strofinò con mani forti gli occhi, ma il sogno non si lasciò cacciare. Restò lì e questa era anche la sua intenzione, perchè era stato un angelo a far sognare così il pastore, con una buona ragione.

Fuori il vento soffiò la sua canzone gelata. Giona tirò su la coperta più stretta intorno alle spalle. “No… di sicuro questa è una grotta e non un castello… ma fa un bel calduccio qui, vicino alle pecore dal folto vello! Siamo proprio fortunati!”, constatò Giona “Siamo proprio fortunati a poter essere qui, tutti insieme. L’inverno è  un pastore crudele, è meglio evitarlo!”.

Poi sbirciò curioso attraverso le fessure della porta, perchè dal cortile si sentivano delle voci. La voce dell’oste un po’ tonante ma non sgradevole, e la stanca voce di un uomo. Giona non poteva vedere i due, perchè il sole era già tramontato e il mondo era grigio e senza contorni. Improvvisamente però vide avvicinarsi una luce: era l’oste che bussava alla porta tenendo una lanterna: “Giona… Ehi, Giona… sei sveglio?, disse l’oste a voce bassa. “Ma sì, certo” rispose il pastore, ed aprì la porta.

L’aria fredda che entrò lo fece rabbrividire.
“Ah, Giona, mio buon amico,” disse l’oste “pensa un po’… è venuta ancora gente, non riescono a trovare un alloggio perchè tutte le case sono piene. Sono talmente stanchi e deboli che proprio non riesco a mandarli via. Giona, per una notte sola, conduci le tue pecore di nuovo sul pascolo. Hanno in fondo una pelliccia calda e non patiranno il freddo. Fai posto per questa brava gente…”

Il pastore non sentì nemmeno più l’aria fredda dell’inverno. Aveva ascoltato l’oste con meraviglia. Il sogno che aveva avuto si ripresentò di nuovo luminoso davanti a lui.
“Oste” disse finalmente in tono mite “è il re che cerca alloggio?”

L’oste lo guardò meravigliato, scosse la testa e disse: “Che strane cose dici certe volte, Giona.  Il re nella mia stalla? No, no, è gente poverissima. Un uomo e una giovane donna che porta un bambino sotto il cuore. Vero Giona che lo fai, per questa povera gente?”

Così, esattamente così, aveva chiesto anche il servitore nel sogno, pensò improvvisamente il pastore. Ma all’oste disse semplicemente: “Lo faccio”. Poi andò verso le sue pecore e chiamò: “Venite, venite mie care, dobbiamo uscire, il nostro palazzo viene usato da gente povera!”

Senza nessuna fretta, ma senza opporre alcuna resistenza, le pecore lo seguirono: Giona prese il lungo bastone da pastore e si mise davanti al gregge. Guardò gli stranieri molto intensamente quando passò accanto a loro. “Ma no, l’oste aveva ragione, non si trattava di un re che chiedeva alloggio…” Giona vide un uomo con la barba arruffata dal vento, le guance magre arrossate dal vento, e un po’ più in là, su un asino magrissimo, era seduta una giovane donna avvolta in un mantello blu col cappuccio, gli occhi stanchi e tristi, il viso pallido. “No, è semplicemente  povera gente che ha bisogno d’urgenza di un tetto…”

“Su… su… mie care… venite al pascolo” disse Giona alle sue pecore, e si incamminò con passo deciso. Il freddo non avrebbe avuto la meglio su di lui. Fuori dalla porta della città erano accesi dei fuochi: uno, due, tre, e lì erano seduti altri pastori che per far posto a tutta la gente che cercava alloggio avevano dovuto abbandonare stalle molto migliori di quella di Giona.

Si scaldarono accanto al fuoco, di buonumore e con qualche buon boccone portato dall’uno o dall’altro. Giona fu salutato cordialmente e tra canti e conversazioni presto dimenticò il suo sogno, la stalla e la povera gente.

Si fece tardi, e un profondo sonno si impadronì dei pastori, che non si accorsero della quiete infinita e piena di pace che improvvisamente scese sulla terra. Solo le pecore alzarono la testa per guardare il cielo, nel quale le stelle brillavano della loro luce più bella. Non c’era nulla in quella notte, in quel cielo, se non quella tranquillità meravigliosa e limpida.

Improvvisamente, poi, il cielo sembrò aprirsi e una luce dorata precipitò sulla terra. A questa luce dovette cedere ogni buio. Allo stesso tempo l’aria si era riempita delle melodie più dolci. I pastori ormai svegli, ma ancora intontiti dal sonno, guardarono la luce, ascoltarono il messaggio della nascita del bambino divino sulla terra e il canto “Osanna nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”.

Balzarono su, senza sentire freddo nè stanchezza. Volevano vedere il bambino al quale era dedicato tutto questo. La musica celeste indicò loro la strada verso la città, li accompagnò alla stalla.

Credete che Giona abbia riconosciuto la sua stalla, quella grotta dalle pareti nere e con la porticina di legno? Ma no, tutto sembrava così diverso, perchè tutto era stato trasformato dalla nascita del bambino divino. Non più nere erano le pareti della grotta, ma luminose d’oro, e il soffitto si era inarcato come un cielo stellato, il pavimento era un tappeto di rose e gigli, e lì in mezzo stava seduta la regina in un abito pieno di stelle, accanto ad una culla dorata; nella culla, su cuscini d’oro, un piccolo bambino che era così bello che i pastori sentirono una fitta di gioia nel cuore, forte quasi da sembrare un dolore.

Restarono inginocchiati a lungo davanti alla mangiatoia. All’inizio in silenzio, poi pregando e cantando le loro canzoni da pastori. Donarono al bambino celeste ciò che avevano con sè, e quando infine si alzarono e si congedarono, Giona non potè fare a meno di prendere la mano del bambino e baciarla. E allora sentì chiaramente che il bambino gli diceva: “Grazie caro Giona per avermi fatto posto”.

Confuso l’uomo si guardò intorno: aveva veramente sentito quelle parole, o aveva soltanto sognato? Non riusciva a rispondere a questa domanda, e non c’è nulla di cui meravigliarsi: quando i cieli scendono sulla terra e noi possiamo vederli con i nostri occhi, non siamo in grado di dire se siamo svegli o se si tratta di un sogno.

Alcuni giorni dopo l’oste mandò a chiamarlo per dirgli che la grotta era di nuovo libera, e Giona vi fece ritorno con le sue pecore. Benchè le pareti fossero nere come sempre, e la porta di legno sgangherata, nella mangiatoia il pastore vide un cuscino dorato. Confuso si strofinò gli occhi: un cuscino dorato… ma no… non era un cuscino… era la paglia che luccicava come oro, come se il bambino celeste avesse dormito proprio lì. Giona non parlò mai di questo evento a nessuno, e nessuno al di fuori di lui aveva visto l’oro: solo lui e forse le pecore. Ma esse conservarono il segreto proprio come fece il loro pastore. Qualche volta però, quando Giona avvolto nelle sue coperte dormiva sulla paglia, vedeva di nuovo il bambino e sentiva di nuovo la voce che gli diceva: “Grazie caro Giona per avermi fatto posto”.
(George Deissig)

Racconti natalizi
L’ultima visitatrice
Si era a Betlemme, allo spuntar del giorno. La stella stava sparendo e l’ultimo pellegrino aveva lasciato la stalla, Maria aveva rassettato la paglia ed il bimbo si era addormentato. Ma si dorme, il giorno di Natale?
Dolcemente la porta si aprì, spinta, si direbbe, da un soffio di vento più che da una mano, e una donna apparve sulla soglia, coperta di stracci, così vecchia e rugosa che nel suo viso color della terra la bocca sembrava soltanto una ruga in più.

Vedendola Maria si spaventò, quasi fosse entrata una fata cattiva. Fortunatamente il bambino dormiva!
L’asino e il bue masticavano pacificamente la loro paglia e guardavano avvicinarsi la donna senza alcuna meraviglia, quasi la conoscessero da sempre.

Maria, invece, non scattava gli occhi da lei.

Ogni passo che la donna faceva, sembrava lento come un secolo. La vecchia arrivò vicino alla mangiatoia, mentre il bambino continuava a dormire. Ma si dorme, il giorno di Natale?

Improvvisamente il bambino aprì gli occhi, e sua madre fu molto meravigliata, vedendo che gli occhi della vecchia e quelli del suo bambino, erano esattamente uguali, e brillavano della stessa luce di speranza.
La vecchia si chinò sulla paglia, mentre la sua mano cercava tra le pieghe dei suoi stracci qualcosa, che pareva ci volessero secoli a trovare.

Maria la guardava con la stessa inquietudine, le bestie la guardavano invece senza sorpresa, come se sapessero cosa stava succedendo.
Infine, dopo lungo tempo, la vecchia tirò fuori dai suoi panni un oggetto che, nascosto nella mano, diede al bambino.
Dopo i tesori dei Magi e i doni dei pastori, cos’era anche questo regalo? Da dove si trovava, Maria non poteva vederlo. Vedeva solamente la schiena della vecchia curva per l’età, che si piegava ancora di più per chinarsi sulla mangiatoia. Ma l’asino ed il bue la vedevano, e non si meravigliarono affatto.

Questo durò a lungo. Poi la donna si rialzò, come alleggerita da un peso così gravoso che la tirava verso la terra. Le sue spalle non erano più arcuate come prima, la sua testa toccava quasi il tetto di paglia, e il suo viso aveva ritrovato miracolosamente la sua giovinezza.  Quando si allontanò dalla culla per tornare verso la porta e sparire nella notte da dove era venuta, Maria potè finalmente vedere che cos’era quel misterioso dono.

Eva (poichè era lei) aveva appena dato al bambino una piccola mela. E questa piccola mela rossa brillava nelle mani del bambino come il globo del mondo nuovo che stava per nascere con lui.
(Jerome e Jean Tharaud)

Racconti natalizi – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Racconti natalizi

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Racconti per San Martino

Racconti per San Martino: racconti adatti a bambini della scuola d’infanzia e primaria su San Martino

San Martino
San Martino era un bel soldato, giovane e forte. Se ne andava, in un giorno di novembre, lungo una strada di campagna e si riparava dalla pioggia con un pesante martello che l’avvolgeva tutto.
“Che brutta stagione!” disse guardandoci attorno.

Gli alberi avevano perduto le loro foglie e alzavano i rami stecchiti e nudi verso il cielo grigio, tutto uguale, che prometteva pioggia per chissà quanto tempo. Non c’era un fiore nei prati; quella poca erba era tutta inzuppata d’acqua e in mezzo vi saltavano le rane e facevano gre gre.

La strada era deserta, tutti stavano riparati dentro le case. Soltanto un mendicante se ne stava seduto sopra un paracarro, al margine della strada e tremava sotto la pioggia, cercando di ripararsi sotto pochi cenci che ormai erano intrisi d’acqua e non servivano più a nulla.

“Poveretto!” disse Martino, fermandosi davanti a lui… “Vorrei tanto aiutarti, ma i soldati sono poveri e ti dico la verità che in tasca non ho neppure una moneta per farti bere qualcosa che ti scaldi”.
“Non importa” rispose il poveretto rannicchiato sotto l’acqua. “Mi hai detto una buona parola. Anche questa è carità. Non capita spesso…”

“Aspetta!” disse ad un tratto Martino “Qualcosa ce l’ho”. Trasse la spada e tagliò il mantello in due parti.
“Ecco qua” disse contento “Mezzo per uno e staremo abbastanza caldi tutti e due”. Posò il mantello sulle spalle del vecchio che lo guardava con riconoscenza e proseguì lietamente il suo cammino.

Poco dopo incontrò un altro mendicante, anche questi lacero e tremante sotto la pioggia gelida che veniva giù.
“Quanti poveri ci sono al mondo!” disse fra sè Martino e la sua bella contentezza era svanita. Lo spettacolo della miseria gli aveva rattristato il cuore. Senza neppure pensarci su un momento, si tolse la metà del mantello che si era gettato sulle spalle e lo regalò al mendicante.

Martino camminava e pregava Dio per la povera gente e si sentiva il cuore pieno di amore e di pietà. Era così assorto nei suoi pensieri che non si era neppure accorto che aveva smesso di piovere. Guardandosi attorno pensò di sognare. Il cielo si era schiarito e le pozzanghere erano piene di riflessi azzurri. All’orizzonte era apparso un bellissimo arcobaleno e il sole era caldo e luminoso. Le siepi erano tutte fiorite e gli uccellini, sugli alberi, cantavano lietamente. Non pareva più autunno, ma la dolce e tiepida primavera.

Dio aveva voluto ricompensare l’atto generoso di Martino e gli aveva mandato un segno della sua benevolenza.
Da allora, nel pieno dell’autunno, s’è sempre qualche giornata tiepida, il sole splende e i rami spogli provano anche a mettere qualche gemma. Gli uomini dicono che quella è l’estate di San Martino che il cielo, ogni anno, manda sulla terra per ricordare l’atto pietoso del Santo che regalò il suo mantello ai poveri.
M. Menicucci

Il cavaliere della luce
Questo è un racconto che si usa nelle scuole steineriane, che ho un po’ alleggerito (nei limiti del possibile) degli elementi che a mio parere calcano troppo la mano sulle simbologie religiose e morali. In effetti la storia di san Martino è un racconto semplice formato da due quadri soltanto: il taglio del mantello, e l’apparire del sole.

In un regno lontano lontano viveva tanto tempo fa un ragazzo, Martino. Questo ragazzo era molto stimato dal Re, per i suoi modi gentili e per il suo cuore coraggioso. Presto Martino imparò a cavalcare, a tirare di scherma e con la fionda. Non usciva mai dal castello, se non per qualche battuta di caccia, durante la quale il re lo voleva sempre al suo fianco. E Martino cresceva sempre più bello, e forte, e intelligente.

Così, quando venne il momento, il re lo mandò a chiamare, perchè già da tempo aveva pensato di fare di lui il suo consigliere. Quando Martino si trovò al cospetto del re, messo al corrente delle sue intenzioni (intenzioni che avrebbero certo lusingato cavalieri, nobili e principi di tutto il mondo), lui rimase un attimo in silenzio, poi chiese al re tre giorni di tempo per riflettere sulla proposta. Il re fu molto stupito, ma siccome aveva grande fiducia in Martino e lo stimava moltissimo, non si offese per nulla e accettò la sua richiesta.

Martino trascorse la prima notte nella torre del castello, e di notte, uscendo a guardare le stelle, sentì quanto piccolo era il regno in cui viveva e quanto grande era il cielo.

Il secondo giornò cavalcò a lungo, poi trascorse la notte in una grotta che conosceva bene, perchè era quella dove andava a giocare da bambino.

Lì fece un sogno: era a palazzo, durante una festa, al fianco del suo re. Tutti sorridevano, tutto era bello e ricco. Poi improvvisamente si alzava una nebbia grigia e lui si ritrovava solo, in una strada stretta mai vista prima. C’erano persone tristi, povere e affamate, e ogni volta che lui cercava di aiutarle, nel sogno rimaneva come immobilizzato. E più andava avanti per quella strada, più anche lui si trasformava: i suoi bei vestiti diventavano stracci, e lui sentiva fame e sete e freddo.

Si svegliò di colpo, senza sapere come finisse il sogno.

Il terzo giorno decise di andare in riva al mare, e la sera si addormentò su di una zattera ormeggiata agli scogli. E fu un sonno senza sogni. Quando si svegliò, si sentiva forte e sereno, e tornò dal  re, che lo stava aspettando. “Caro re, ho pensato a lungo e mi sento onorato dalla vostra proposta, ma sento che il mio destino non è quello di restare a palazzo. Datemi il permesso di partire. E vi prometto  che tornerò, non appena avrò trovato quello che cerco”. Di fronte a tanta fermezza, il re accettò la decisione di Martino, e sguainata la spada, lo nominò cavaliere dicendo: “Ora sei un cavaliere, avrai un cavallo, questo mantello rosso e la mia spada.”

Martino partì al galoppo su uno splendido cavallo bianco, col suo bellissimo mantello rosso  e la spada dono del re. Compì molti atti eroici lungo la sua strada, e con la sua spada combattè ingiustizie e bugie. E passarono molti anni. Un giorno, era autunno inoltrato, Martino cavalcava pensando a quanto tempo era passato da quando aveva lasciato il suo regno. Era novembre. Le giornate si facevano sempre più fredde, e una fittissima nebbia avvolgeva tutte le cose. Si strinse nel suo mantello rosso. L’umidità dell’aria si sentiva fin nelle ossa. Ad un certo punto il cavallo si fermò, come se avesse sentito qualcosa.

Allora Martino scese dalla sella e vide, seduto sul ciglio della strada, un povero mendicante. Il freddo era insopportabile. Martino guardò tra le sue cose se c’era qualcosa che poteva essere utile per soccorre l’uomo, ma non aveva nulla. Allora, senza nemmeno pensarci un attimo, si tolse il mantello, lo alzò in aria, e impugnata la sua spada lo divise in due parti uguali. Poi con una metà andò a coprire il mendicante, e lui si accontentò dell’altra metà.

Quindi, senza dire una parola, rimontò in sella e si allontanò nella nebbia, sotto lo sguardo riconoscente dell’uomo. Subito dopo avvenne una cosa davvero incredibile: la nebbia sparì di colpo per lasciar filtrare i raggi del sole, ed erano raggi caldi come in estate, capaci di scaldare tutto il paese. Martino si tolse anche il pezzo di mantello rimasto, tanto faceva caldo. E capì che era il momento di tornare nel suo regno.

San Martino

Nacque nel 316 in Ungheria. Suo padre era un ufficiale romano. Ancora ragazzo fu avviato alla carriera delle armi che più tardi, divenuto prete, abbandonò. Fu eletto vescovo di Tours. Morì nel 397. La leggenda narra che San Martino, il santo della carità, divise il proprio mantello con un povero incontrato in una rigida giornata autunnale. Come premio a questo suo atto generoso, Dio mutò la temperatura di quella giornata in un clima di primavera. Da quel giorno quel periodo venne chiamato “l’estate di San Martino”. San Martino è considerato anche il simbolo dell’abbondanza.

San Martino

Nacque in Pannonia. Suo padre, tribuno romano, fece di lui un soldato. Ebbe innato il senso della carità. E’ particolarmente noto l’episodio di cui fu protagonista in una fredda giornata di novembre. Mentre a cavallo percorreva un solitario sentiero, si imbatté in un poveretto tremante. Non esitò a dividere con lui il suo mantello. Nella notte, in sogno, gli apparve un giovane uomo rivestito del drappo che aveva donato al poveretto e lo ringraziò.
Commosso da questo strano sogno, non esitò a convertirsi al Cristianesimo. Fondò poi alcuni monasteri ed ebbe grande popolarità.
La sua tomba divenne meta di numerosi pellegrinaggi, cosicché in quel luogo sorse una stupenda Basilica.

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Racconti tratti dalle raccolte di Libri di lettura di Tolstoj per la lettura, il riassunto e l’analisi grammaticale

Libri di lettura di Tolstoj – Racconti tratti dalle raccolte di Libri di lettura di Tolstoj per la lettura, il riassunto e l’analisi grammaticale.

Sto utilizzando con successo queste brevi letture di Tolstoj coi bambini di seconda e terza. Ci esercitiamo nella lettura, ma anche i bambini si cimentano nei primi riassunti e nell’analisi grammaticale, sottolineando e classificando nomi, verbi, aggettivi. Iniziamo anche a cercare le prime parole sul vocabolario.

Tolstoj dedicò alla stesura dei suoi quattro Libri di lettura, che inizialmente appartenevano all’Abbecedario, circa 14 anni di lavoro, condotto in larga parte all’interno della sua scuola a diretto contatto coi bambini.

Mi sento davvero di consigliarli:

Le letture seguono un ordine di complessità progressiva, e si caratterizzano tutte da una rappresentazione positiva della realtà, dalla scelta di temi vicini alla sensibilità dei bambini e che suscitano il loro interesse, e da un linguaggio accuratamente scelto per loro dallo scrittore al fine di ottenere uno stile  conciso, semplice e soprattutto chiaro, senza per questo rinunciare alla bellezza della parola.

Ecco alcuni esempi di schede di lavoro.

Libri di lettura di Tolstoj

Leggi il seguente racconto, poi evidenzia i nomi, gli aggettivi qualificativi ed i verbi

I fili sottili
Un uomo chiese a una filatrice alcuni fili sottili.
La filatrice glieli preparò, ma l’uomo disse che non andavano bene, che gli occorrevano ancora più sottili.
La filatrice allora rispose: “Se questi fili non sono abbastanza sottili per te, eccone altri” e gli mostrò una scatola vuota.
L’uomo disse che non vedeva nulla; ma l’astuta filatrice rispose: “Appunto, sono tanto sottili che non si vedono. Non li vedo nemmeno io!”
Allora quello sciocco, tutto contento, fece una grande ordinazione di quei fili e li pagò a prezzo d’oro.

Autocontrollo e autocorrezione

Nomi: fili, uomo, filatrice, scatola, ordinazione, sciocco, prezzo, oro

Aggettivi: sottili, vuota, astuta, contento, grande

Verbi: chiese, preparò, disse, andavano, occorrevano, rispose, mostrò, vedeva, vedono, vedo, fece, pagò.

Libri di lettura di Tolstoj

Come imparai a cucire
Avevo sei anni quando chiesi a mia madre che mi insegnasse a cucire. Mia madre rispose: “Sei ancora troppo piccola. Non riusciresti che a pungerti le dita”.
Ma io insistetti. Allora mia madre tolse dal suo cestino un pezzo di panno rosso e me lo diede. Poi infilò un sottile filo rosso in un ago e mi insegnò come tenerlo.
Cominciai a cucire, ma non riuscii a fare i punti regolari: uno era troppo lungo, uno troppo corto, un altro finiva troppo vicino all’orlo, non prendeva la stoffa e lasciava aperto un grosso buco. Alla fine mi punsi un dito.
Non volevo piangere, ma storsi la bocca e la mamma se ne accorse.
“Ebbene? Che cos’hai?” mi chiese sorridendo.
Questo fu troppo per me, e scoppiai finalmente a piangere. Allora mia madre mi consolò e mi consigliò di andare a giocare.
La sera, quando mi coricai, i punti danzavano ancora davanti ai miei occhi. Mi domandavo come avrei fatto a imparare a cucire, e la cosa mi sembrava tanto difficile che dicevo scoraggiata tra me e me: “No, non imparerò mai!”.
Ora, divenuta grande, non mi ricordo neppure come feci ad imparare; e quando insegno a cucire a mia figlia, rimango sempre assai sorpresa nel constatare come faccia fatica a tener ben fermo l’ago tra le dita.

Libri di lettura di Tolstoj

La pietra
Un mendicante bussò alla porta di un ricco e chiese la carità. Ma il ricco non gli diede nulla e gli gridò con sgarbo: “Vattene! Vattene!”.
Il povero non si mosse. Allora il ricco andò in collera, raccattò una pietra e gliela scagliò contro.
Il povero raccolse la pietra, la mise nella sua bisaccia, e mormorò: “Porterò questa pietra fin quando non sarà giunta l’ora di vendicarmi e di lanciarla contro di lui”.
E infatti quell’ora giunse.
L’uomo ricco commise un delitto. Fu spogliato di tutti i suoi beni e venne condotto in prigione.
Mentre il ricco camminava lungo la strada, incatenato e deriso, il mendicante lo incontrò e lo riconobbe.
Si fece avanti, tolse la pietra dalla bisaccia e alzò il braccio. Ma, dopo aver riflettuto un attimo, lasciò cadere a terra la pietra, dicendo: “Perchè mai ho portato questa pietra per tanto tempo? Quando egli era ricco e potente suscitava la mia ira; ora mi fa pena…”

 

Libri di lettura di Tolstoj

Il cieco e il sordo
Un cieco e un sordo andarono a rubar piselli nel campo del vicino. Il sordo disse al cieco: “Tu ascolta bene e riferiscimi tutto. Da parte mia, terrò gli occhi aperti.”
Giunti nel campo, fecero bottino e sedettero. Il cieco tastò i piselli e disse: “Quanti! E’ andata bene…”
“Che dici? Chi viene?” chiese il sordo, che aveva capito male l’ultima parola. Il cieco, allarmato, cadde nel fosso che limitava il campo.
“Che fai?” chiese il sordo stizzito.
“Son caduto nel fosso. Che brutto incidente!”
“Come? Vien gente?” e il sordo si diede subito alla fuga, seguito a balzi dal cieco.

Libri di lettura di Tolstoj

Il bambino trovato
Una povera donna aveva una figlioletta che si chiamava Maria. Un giorno, di buon mattino, Maria uscì per attingere acqua dal pozzo e scorse sulla soglia della casa un piccolo involto.
Posò il secchio e si mise a disfare l’involto. A un tratto, da quel fagottino di vecchi panni uscì uno strillo e Maria vide un bel bambino appena nato, che agitava le manine e vagiva, vagiva…
Maria allora se lo prese in braccio, ritornò in casa e gli diede un po’ di latte.
“Che cosa hai trovato?” le domandò la madre, che entrava nella stanza in quel momento.
“Ho trovato un bel bambino. Era in un fagottino presso la porta” rispose Maria.
“Che cosa gli daremo da mangiare?” sospirò la madre. “Siamo già così poveri anche noi! Andrò dal sindaco del villaggio e lo pregherò di tenerlo con sè”.
A quelle parole, Maria si mise a piangere.
“Oh, mamma,” supplicava la bambina “è tanto piccolo! Mangerà così poco! Lascialo stare qui. Guarda com’è bello con le manine rosse e le piccole dita…”
La madre guardò il piccolo e ne fu commossa.
Tennero il bambino e lo crebbero con ogni cura. Maria lo nutriva, lo fasciava e lo sfasciava, lo metteva nella sua piccola culla e alla sera, per addormentarlo, gli cantava le più belle canzoni.

Libri di lettura di Tolstoj

Bob, il cane dei pompieri
Nelle città capita molto spesso che, quando le case bruciano, qualche bambino resti tra le fiamme. E non è facile salvarlo, perchè, pieno di paura, egli si nasconde in qualche angolo e il fumo impedisce di vederlo.
A Londra, la capitale dell’Inghilterra, si ammaestrano i cani affinchè salvino i bambini in caso di incendio. Questi cani sono gli amici fedeli dei pompieri e vivono con loro. Quando brucia una casa, essi si slanciano tra le fiamme e portano in salvo i bambini.
Un cane, di nome Bob, ne ha già salvati dodici.
Un giorno, il fuoco di appiccò a una casa, e, quando i pompieri giunsero sul luogo, una donna corse disperata incontro ad essi. Con voce rotta dai singhiozzi, ella disse che nella casa c’era la sua bambina, di soli due anni.
I pompieri mandarono subito Bob a cercarla.
Il cane si arrampicò su per la scala e scomparve nel fumo. Cinque minuti dopo ricomparve: in bocca, stretta nella piccola camicia, teneva la bambina.
La madre si precipitò verso la sua creatura, e quando la vide sana e salva scoppiò in un pianto di gioia.
I pompieri, intanto, accarezzavano il cane e guardavano se si era ferito. Ma Bob si agitava, si dimenava inquieto, finchè riuscì a sfuggire alle loro mani.
Il cane ritornò di corse nella casa in fiamme e i pompieri, per un attimo, pensarono che vi fosse rimasto qualche altro bambino.
Ma quando Bob ritornò fuori, tutti scoppiarono a ridere. Il cane teneva tra i denti una grossa bambola di pezza.

Libri di lettura di Tolstoj

Gli eschimesi
C’è sulla terra un paese dove la bella stagione dura solo tre mesi; per il resto dell’anno è inverno. D’inverno, le giornate sono tanto brevi che il sole, appena levato sull’orizzonte, si corica e tramonta. Anzi, per circa tre mesi il sole non si leva neppure, e c’è sempre buio.
Anche in queste regioni vi sono degli uomini: gli Eschimesi. Essi non escono mai dal loro territorio; hanno una lingua propria e non comprendono le altre lingue. Di statura sono piccoli, ma hanno la testa piuttosto grossa. La loro carnagione non è bianca, ma color caffelatte. Hanno occhi piccoli, capelli neri, naso poco sviluppato, zigomi larghi e sporgenti.
Gli Eschimesi vivono spesso in case di neve, che costruiscono in modo curioso: tagliano la neve dura in forma di mattoni, collocano questi blocchi l’uno sull’altro e così costruiscono i muri. Le finestre sono fatte con lastre di ghiaccio; le porte sono lunghe gallerie scavate nella neve. D’inverno, quando il vento fischia e copre le case di nevischio, in quelle case si sta bene e c’è caldo.
Gli Eschimesi di cibano di carne di renna, di lupo, di orso bianco. Oppure di carne di pesce, che essi pescano abilmente, col rampone o con le reti, nei mari polari. Cacciano gli animali con l’arco e ne mangiano la carne cruda. Non hanno nè lino, nè canapa, nè lana, ma si vestono con pelli e si servono dei nervi degli animali uccisi per fabbricare le corde. Essi non conoscono il ferro. Per fare gli spiedi e le frecce, usano ancora le ossa degli animali.
Donne e uomini, tutti vestiti allo stesso modo. Le donne, tuttavia, hanno stivali molto larghi, perchè vi mettono dentro i loro bambini.
D’inverno, per oltre tre mesi, c’è buio su tutto il paese. Ma d’estate il sole non tramonta mai, e non c’è notte.

 

Libri di lettura di Tolstoj

La scimmia e il boscaiolo
Un giorno un boscaiolo andò nella foresta, abbattè un albero e si accinse a tagliarlo.
Sollevò una estremità del tronco abbattuto, l’appoggiò su un ceppo, ci si mise a cavalcioni e cominciò a segare. Poi piantò un cuneo nel punto in cui era arrivato con la sega e gli fu facile staccare un ciocco. Proseguì allora così: segava, piantava il cuneo, staccava il ciocco.
Seduta sopra un albero, una scimmia lo stava a guardare con attenzione.
Quando il boscaiolo si sentì stanco, si coricò all’ombra di una pianta e subito si addormentò. Allora la scimmia discese in fretta dal suo albero, si mise a cavalcioni del tronco, proprio come aveva visto fare dall’uomo, e lo volle imitare in ogni suo gesto.
Fece per togliere il cuneo, piantato nel tronco dal boscaiolo, ma la spaccatura del legno si rinserrò e le prese dentro la coda.
La scimmia, con la coda schiacciata nella fessura, si dibatteva, strillando per il dolore. Allora il boscaiolo si svegliò, la stordì con un colpo e la fece prigioniera.
Tutto per colpa della coda! La scimmia infatti può ben tentare di copiare l’uomo, ma non può riuscirvi. Perchè la scimmia ha la coda, e l’uomo no…

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Il viaggio in città
Mio padre stava andando in città. Io gli dissi: “Papà, portami con te!”
“Che idea!” mi rispose “Tu moriresti di freddo lungo la strada!”
Io mi voltai dall’altra parte, scoppiai in lacrime e corsi a rinchiudermi nella mia camera. Piansi a lungo e alla fine mi addormentai.
Vidi in sogno un sentiero che usciva dal nostro villaggio e conduceva ad una cappella. Mio padre camminava su quel sentiero. Lo raggiunsi, e insieme ci avviammo verso la città. A un tratto, mentre camminavamo, vidi in lontananza il negozio di un fornaio.
“E’ questa la città?” chiesi allora a mio padre.
“Sì, è la città” rispose. Intanto eravamo giunti al negozio.
Nella vetrina vidi molti pasticcini appena sfornati e chiesi: “Papà, compramene uno!”
Mio padre mi accontentò: comprò un pasticcino e me lo diede.
Proprio in quel momento mi svegliai.
Mi alzai, mi vestii, infilai i guanti e uscii di casa. Nella strada c’erano ragazzi che scivolavano sul ghiaccio, che correvano e saltavano, e anch’io mi misi a giocare con essi, finchè fui tutto intirizzito dal freddo. Rientrai in casa per riscaldarmi, quando udii la voce di mio padre che era tornato in quel momento dalla città.
Gli corsi incontro tutto contento e gli chiesi: “Papà, me lo hai comprato un pasticcino?”
“Sì!” rispose; e mi porse proprio quel pasticcino che avevo visto in sogno.
Allora fui preso da una tale felicità che saltai sulla tavola e mi misi a cantare.

Libri di lettura di Tolstoj

La tempesta nel bosco
Un giorno, quand’ero ancora ragazzino, fui mandato nel bosco in cerca di funghi. Ne trovai in gran quantità e, dopo averne raccolti parecchi, pensai di fare ritorno a casa. Ma l’aria, quasi all’improvviso, si era fatta scura. Incominciò a piovere e a tempestare, mentre il tuono brontolava lontano.
Preso dalla paura, mi rannicchiai sotto un grande albero. A un tratto, un lampo saettò nell’aria così vicino e luminoso che chiusi gli occhi abbagliato. Nello stesso tempo qualcosa scricchiolò sul mio capo. Udii uno schianto, un forte colpo sulla testa e caddi a terra svenuto.
Rimasi così a lungo, immobile sotto l’acqua.
Quando rinvenni, tutti gli alberi del bosco scintillavano, gocciolavano, mentre il sole gettava sprazzi di luce tra i rami. Gli uccelli cantavano.
Ma il grande albero giaceva al suolo, schiantato e bruciacchiato; dal suo tronco si levavano ancora pennacchi di fumo. La terra, tutt’intorno, era cosparsa di schegge e frammenti di legno.
I miei abiti erano fradici; la testa mi faceva male. Raccolsi in fretta i funghi, raccattai il mio berretto e corsi a casa.
Non c’era nessuno. Presi un po’ di pane che stava sul tavolo, sedetti accanto alla stufa e mi addormentai.
Quando mi svegliai, vidi che i miei funghi erano già in tavola, cotti ben bene, e che i miei genitori si accingevano a mangiarli.
“Li mangerete così, senza di me?” gridai indispettito.
“E tu, perchè dormi?” risposero i miei “Vieni, c’è posto anche per te. Purchè tu venga subito”.

Racconti per l’autunno

Racconti per l’autunno – una raccolta di racconti per la scuola d’infanzia e primaria.

Racconti per l’autunno – La vite tagliata
C’era una volta un uomo, piccolo, magro, dispettoso come una scimmia, che possedeva un bellissimo orto,e, meraviglia di tutto il paese, una magnifica vite che a settembre maturava certi grappoli d’uva che erano una bellezza.
L’omino magro l’aveva avuta in cambio di una grossa somma di denaro, da un mercante di passaggio. Immaginate come restò quando seppe che il suo vicino aveva piantato anche lui una vite che si arrampicava sul muro che divideva i due orti. L’omino maligno, dalla rabbia, non poteva dormire la notte, e quando gli riusciva di appisolarsi un po’, sognava che la vite del vicino cresceva, cresceva, fino a soffocare la sua.
Un bel giorno, decise di andare a trovare il suo rivale. Il vicino lo accolse con grande cortesia, ma quando seppe il motivo della visita scrollò il capo.
“No, caro vicino, la vite non la vendo. Ho una bambina che gusta quei grappoli come se fossero di miele. Posso toglierle questa gioia? L’avete voi, la vite; posso averla anch’io.”
L’omino maligno, visto che non la spuntava con le buone, decise di ottenere il suo scopo con le cattive. Una sera, era d’inverno e la notte era buia, aspettò che tutti fossero andati a letto, poi uscì pian piano dalla sua casa, e nelle mani aveva un grosso paio di forbici da giardiniere. Scavalcò il muro e penetrò nell’orto del vicino come un ladro. Eccola, la pianta tanto invidiata! Era spoglia, tutta rami secchi e viticci spezzati. L’omino le si accostò pian piano e giù, grandi colpi di forbici, di diritto, di traverso, e i bei rami troncati caddero con un fruscio lieve come un sospiro. Della povera pianta non rimase che il tronco.
Compiuta la sua cattiva azione, il malvagio omino scavalcò di nuovo il muro e se ne ritornò, tutto contento, a casa. L’indomani mattina, quando il vicino vide quello scempio, restò male e la sua bambina pianse, pensando che in autunno non avrebbe più mangiato quei bei grappoli succosi che le piacevano tanto, ma poichè a tutto ci si rassegna, anche loro si rassegnarono alla loro bella pianta perduta e non dissero neppure niente al cattivo vicino per non guastarsi il sangue.
Invece la vite, a primavera, germogliò. E così mutilata e priva di rami, mise tutto il suo vigore nei nuovi germogli che crebbero con maggior forza e, quando fu autunno, maturò certi grappoli succosi e grossi come non se n’erano mai visti.
La vite dell’omino cattivo, invece, mise una gran quantità di foglie larghe come ombrelli, ma di grappoli nemmeno uno per cavarsi la voglia.
Così l’omino invidioso fu punito e gli uomini, da quella volta, potarono sempre la vite.
M. Menicucci

Racconti per l’autunno – L’albero dorme

Un bambino molto piccolo non aveva mai visto un albero perdere le foglie.
“Oh” esclamò, quando vide il bell’albero spogliato “mi dispiace che tu sia diventato così! Eri tanto bello!”.
“Non ti rammaricare!” rispose l’albero “Ho perduto la mia veste verde, ma non per sempre. A primavera le foglie ritorneranno e torneranno anche i fiori e i frutti. E tutto sarà come prima”.
“E durante l’inverno che cosa farai?” chiese il bambino.
“Nulla farò” rispose l’albero. “Mi addormenterò di un sonno lungo lungo e così non sentirò il freddo. Ma a primavera mi risveglierò e sarà una bellissima cosa”.
“Verrò a svegliarti io!” disse il bambino. “Ti assicuro che non me ne dimenticherò”.
“Non importa” replicò l’albero allegramente “Non importa che tu venga. Ci penserà il sole, ci penseranno gli uccellini a svegliarmi”.
“Bene” disse il bambino “ma io verrò lo stesso e batterò le mie manine sul tronco”.
L’albero rise dell’insistenza dolce del bambino, poi ebbe un lungo brivido e si addormentò.
M. Menicucci

Racconti per l’autunno – La castagna
C’era una castagna insieme ad altre due sorelline, dentro il suo astuccio spinoso. E stava molto calda e morbida perchè quell’astuccio di fuori aveva le spine, ma dentro aveva una bella pelliccetta soffice.
La castagna diventava sempre più grossa, finchè un giorno ruppe il riccio e si affacciò.
“Com’è bello il mondo!” disse. Forzò l’apertura e cadde per terra. Era una bellissima castagna lucida e grossa.
“Buongiorno, castagna!” disse la formichina che passava.
“Dove vai?” chiese la castagna che aveva voglia di chiacchierare.
“Vado a portare questo granellino al formicaio”
“Buon lavoro, formichina!”.
E la formichina se ne andò.
Venne un grillo.
“Buongiorno castagna!”
“Anche tu porti un granellino al formicaio?”
Il grillo si mise a ridere.
“Quelle son faccende da formica. Io suono il violino”. E si mise a suonare una bellissima melodia.
“Sei bravo” disse la castagna. “Ora ricordo di averti sentito suonare quando ero chiusa nel riccio”.
“Forse mi nomineranno re di tutti i grilli!” disse il grillo dandosi grande importanza.
Un fungo, che era nato nella notte, si mise a ridere.
“Forse ti nomineranno re di tutti gli sciocchini!” disse.
“E io cosa diventerò?” chiese la castagna. “Sono ancora nuova e non lo so”.
“Polenta” disse il fungo. “Oppure castagnaccio. Ma forse caldarrosta”.
Venne una bambina e raccolse la castagna.
“Com’è bella!” disse, e se la mise in tasca.
Quando arrivò a casa la dette al fratellino piccolo, perchè ci giocasse e quella castagna non diventò polenta e nemmeno castagnaccio. Non fu nemmeno caldarrosta; diventò un giocattolo per un bambino piccolo, e fu molto contenta lo stesso.
M. Menicucci

Storia di una foglia

Nacqui come foglia d’albero in mezzo a un bel campo. Il mio primo amore fu il sole, il mio primo gioco l’altalena col vento. Ma poi vidi sbocciare vicino a me, sui rami del mio albero, i fiori ed ebbi invidia dei fiori che erano più belli di me.
Ma vidi ingrossare, al posto dei fiori, i frutti colorati e polposi ed ebbi invidia dei frutti.
Ma trascorsero le settimane e molti di quei frutti furono colti e morsi e ingoiati dagli uomini; altri caddero a terra e marcirono e allora ebbi pietà anche dei frutti mentre io rimanevo fresca e verde nell’aria ancora tiepida in alto.
Ma venne il novembre e mi feci gialla e grinzosa; uno strappo rabbioso del vento mi divelse dal ramo e caddi anch’io sulla terra fradicia.
Ebbi pietà di me stessa e invidiai il maestoso tronco che rimaneva intatto e dritto a dispetto dell’inverno.
Ma prima ancora che mi disfacessi tutta vidi arrivare due uomini armati di ascia e di accetta che si avvicinarono all’albero mio padre e cominciarono a colpirlo barbaramente giù in basso per farlo cadere.
E seppi dai loro discorsi che era destinato al fuoco della famiglia.
E allora, sul punto di essere annientata, ebbi il tempo di sentire una immensa pietà per l’albero dove ero nata.

(Giovanni Papini)

Racconti per l’autunno – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconti sull’acqua

Racconti sull’acqua di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Storia di una goccia d’acqua

C’era una volta una goccia d’acqua che, con tante sorelline, se ne stava beata in fondo al mare. Un giorno salì alla superficie. In altro c’era un’immensa volta turchina su cui vagavano certe nuvole bianche, e in mezzo a tutto quell’azzurro, una gran palla d’oro mandava raggi infuocati.

“Com’è bello!” disse la gocciolina. “E come andrei volentieri fin lassù”.

Come se qualcuno l’avesse sentita e avesse potuto esaudire il suo desiderio, la gocciolina si sentì diventare leggera leggera, finchè si accorse che saliva verso il cielo.

“Che cosa succede?” disse spaventata.

“Nulla, sorellina!” rispose una goccia che saliva insieme a lei. “O almeno nulla di speciale. Io lo so perchè ho già fatto questo viaggio. Il sole ci ha scaldato e siamo diventate leggere leggere. Il fatto è” aggiunse “che non siamo più gocce d’acqua”.

“E cosa siamo, allora?” chiese la nostra gocciolina incuriosita.

“Siamo vapore, o meglio vapore acqueo. Una parola difficile, ma io sono una gocciolina istruita”.

“E cosa ci capiterà adesso? Mi piacerebbe saperlo!”.

“Ih, quanta fretta! Aspetta e lo saprai.”

Che viaggio meraviglioso! Dall’alto, la gocciolina, ormai non più gocciolina, poteva vedere i prati verdi, il mare spumeggiante, i ruscelli argentini, i grandi laghi. La gocciolina si divertì moltissimo a vedere tante belle cose, ma poi si guardò intorno e vide che con tante sorelline che erano salite insieme a lei, si era formata una nuvoletta bianca come quella che tante volte aveva visto quando era sperduta nel mare.

Il viaggio fu piuttosto lungo.

Intanto altre gocce, trasformate anch’esse in vapore acqueo, si erano unite a loro e avevano formato un nuvolone bianco che andava, andava, portato dal vento. E il vento lo portò vicino alle montagne che si levavano diritte, con le loro vette rocciose.

Non era più quel venticello scherzoso che aveva portato a spasso la nuvoletta bianca, era un vento gelido che stracciava la nuvola e la portava di qua e di là senza riguardo.

Quelle che erano state goccioline divennero tutte molto tristi e la nuvola prese il colore della loro tristezza e si fece grigia: e poichè chi è triste piange, anche la nuvola cominciò a far cadere sulla terra certi goccioloni grossi che parevano lacrime. Ma non si trattava di tristezza.

Glielo spiegò, alla nostra gocciolina, la goccia istruita che aveva viaggiato con lei. “Siamo diventate troppe” disse ” e poi non senti che freddo? Questo vento non ha proprio nessun riguardo. Io mi sento tutta rabbrividire. E non sono più vapore acqueo, ma sono di nuovo acqua, anzi, di nuovo una goccia d’acqua.”

Anche la nostra gocciolina dovette abbandonare il cielo. E, dopo aver attraversato un nembo tempestoso, si ritrovò sul petalo di un fiore dove brillò come un diamante. La gocciolina era di nuovo felice.

Il sole splendeva ed era proprio il sole che le dava dei colori così belli. Ma era tanto caldo, il fiore ebbe sete e bevve la gocciolina, che si trovò così sotto terra, al buio.

“Il buio non mi piace!” disse la gocciolina. “Se devo essere acqua, voglio tornare al mare!”

“Ci tornerai” disse una voce e la gocciolina si accorse di essere nuovamente accanto alla sorellina istruita “Ma prima dovrai viaggiare un bel po’. Ne so qualcosa io!” aggiunse, dandosi molta importanza.

La gocciolina cominciò a camminare, a infiltrarsi fra le zolle, e durante il suo cammino vide mille boccucce che volevano succhiarla. Erano le radici che avevano sete. Le goccioline erano tante e contentarono un po’ tutti, finchè a forza di camminare, si ritrovarono tutte all’aperto.

Era una bella sorgente di acqua pura e fresca e un uccellino vi volò sopra e bevve. Poi, molto soddisfatto, fece una cantatina e se ne andò.

“E’ finito?” chiese la gocciolina alla goccia istruita “Comincio a essere un po’ stanca”.

“Finito? Si può dire che il nostro viaggio comincia adesso!”

La sorgente si era trasformata in un ruscello che correva correva come sospinto da una forza misteriosa. Lungo il cammino si riunivano altri ruscelli e insieme formarono un bel fiume. Il fiume, scorrendo calmo e placido, faceva lungo il suo corso tante cose.

Muoveva le pale dei mulini, entrava in certi tubi lunghi per mettere in movimento grandi macchine che dovevano dare l’elettricità, alimentò le fontane, si precipitò nei laghi e non c’era pericolo che la nostra gocciolina, sballottata in quel modo, s’annoiasse.

Ma ormai era stanca e il ricordo della sua vita in quella bella distesa azzurra, si faceva sempre più vivo in lei. E arrivò finalmente il giorno in cui il fiume sboccò in mare e la gocciolina rivide di nuovo i suoi amici pesci e li salutò con affetto.

“Sapete” disse loro dandosi grande importanza “non mi chiamo più gocciolina. D’ora in poi mi chiamerete la grande viaggiatrice”. E quelli risero. Si capisce, come sanno ridere i pesci.

M. Menicucci

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ebook Favole e altre storie di animali, per la lettura e il riassunto

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ebook Favole e altre storie di animali, per la lettura e il riassunto

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Favole racconti e leggende sugli animali

[wpmoneyclick id=87865 /]Favole e leggende sugli animali – una raccolta di favole e leggende, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

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 Come nacquero il gatto e il topo

 Un giorno il leone incontrò un cinghiale. Il leone aveva una bella pelliccia rossastra e un paio di baffi che erano il suo orgoglio. Il cinghiale, invece, era scuro, di pelo corto; aveva il muso appuntito e due zanne bianche di cui andava molto fiero.

“Io sono molto più bello e più forte di te!” si vantò subito il leone, scuotendo la sua criniera.

Il cinghiale rise mostrando le sue zanne affilate. “Non ti consiglio di mettermi alla prova” disse, “ho la pelle dura io  e non temo i tuoi artigli.”

“Dunque non mi temi?” chiese sorpreso il leone abituato ad essere rispettato da tutti gli animali.

“Perchè dovrei temerti?” rispose il cinghiale, “Se starnutissi, dalle mie narici uscirebbe un animale che ti farebbe fuggire”.

“E allora starnutisci,” disse il leone, “e dopo starnutirò io”.

Il cinghiale puntò le zampette, inarcò la groppa, fece vibrare il suo codino, e finalmente starnutì. Dalle sue narici uscì un animaletto nericcio, col musino a punta e una codina fina fina. Era il topo, che gli somigliava.

Ed ecco il leone scuotere la criniera e starnutire impetuosamente. Dalle sue narici uscì fuori un animale peloso, ornato di artigli. Era il gatto, che gli somigliava.

Il topo a quella vista fuggì via, ma il gatto lo inseguì, fino a che il topo non sparì dentro un buco.

“Hai visto, presuntuoso?” disse il leone al cinghiale, “Il tuo starnuto si è dovuto nascondere per non essere divorato dal mio”. (Leggenda berbera)

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L’asino spaccone

Il leone volendo andare a caccia, chiamò l’asino, lo coprì di frasche e lo istruì perchè spaventasse, a forza di ragli, gli animali della foresta non abituati alla sua voce. Gli animali si sarebbero dati alla fuga, ed il leone li avrebbe aspettati al varco.
L’orecchiuto eseguì la consegna. Sotto la maschera verde, si mise a ragliare con quanto fiato aveva, spaventando con quell’insolito clamore gli animali rintanati nel folto. Trepidando, se la davano tutti a gambe verso il varco ove il leone in agguato balzava loro addosso e li atterrava a uno a uno.
Stanco alla fine, della carneficina, il leone chiamò l’asino e gli ordinò di tacere. Quegli, allora, con aria di gradasso: “Che potenza ha la mia voce!” disse “guarda quanti morti!”
“Straordinario!” rispose il leone “Anch’io sono stato lì lì per battermela, tanto la tua voce è terribile; ma per fortuna ti conoscevo bene e sapevo che tu, in fondo, non sei altro che un coniglio diventato grande:”

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La ranocchia e il bue

Una volta alcune rane stavano giocando sulla riva di un fosso; si gettavano nell’acqua, uscivano fuori, saltavano qua e là, piene d’allegria. Ma ecco un grosso bue che pascolava lì presso, si avvicina e scende alla riva per bere. Alcune delle rane impaurite si tuffano nell’acqua, le altre coraggiose stanno a guardare il pacifico animale. “Com’è bello! Com’è grosso!” dice una ranocchia giovinetta che non ha mai visto un bue. “Sarei proprio felice se potessi diventare come lui… sono così piccina…” E tutta presa da questa idea, la ranocchia comincia a gonfiarsi… Eh, ci vuole altro! Le altre rane la stanno a guardare con tanto d’occhi. “Cresco?” chiede sbuffando la ranocchia. “Un po’, un po’!”. E quella si gonfia ancora. “Cresco?”. Ma ad un tratto… altro che crescere! La povera ranocchia scoppia per lo sforzo e muore; e così non c’è più, nè piccola nè grossa. E’ ridicolo ed inutile l’affaticarsi a parere ciò che non si è. (M. Bersani)

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L’orsacchiotto troppo piccolo

L’orsacchiotto era il più piccolo di tutti.
Era più piccolo delle sue sorelle, molto più piccolo di suo fratello, molto molto più piccolo del suo babbo.
Molto spesso, perchè era troppo piccolo, era lasciato al di fuori di tutto quello che si faceva in casa.
Un giorno, il povero orsacchiotto si sentiva del tutto abbandonato.
Sua sorella era andata a raccogliere verdure nell’orto, e quando egli aveva chiesto di accompagnarla, aveva detto: “No, io sarò occupata e non potrò sorvegliarti; tu sei troppo piccolo e puoi perderti”.
Suo fratello stava andando a pescare. L’orsacchiotto gli domandò se poteva andare con lui, ma egli rispose: “No, io sarò occupato a pescare e non potrò sorvegliarti; tu sei troppo piccolo e potresti cadere nel lago”.
“Oh,” si lamentò l’orsacchiotto, triste e abbandonato sulla soglia di casa come un piccolo mucchietto di peli, “sono troppo piccolo per tutto…”
Proprio in quel momento, stava uscendo il suo grosso babbo, che udì il suo lamento. “Non direi, orsacchiotto” disse il babbo, “io sto andando a fare la spesa e tu sei della misura giusta per venire con me, seduto sulle mie spalle”.
L’orsacchiotto si asciugò le lacrime, e andò con il babbo.
Comprarono pane, burro, limoni, pesce, maionese, ed un grosso vaso di miele. Quando tornarono a casa il babbo disse: “Non avrei mai potuto portare a casa tutta questa roba senza l’aiuto del piccolo orsacchiotto”.
A queste parole, l’orsacchiotto si sentì forte, grande, allegro, orgoglioso di poter aiutare il babbo, come deve fare ogni bravo orsacchiotto.
(K. Jackson)

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La chiocciola, la formica e il gambero

Molto tempo fa, quando il mondo era giovane, una Chiocciola, una Formica e un Gambero decisero di coltivare insieme una risaia.

Bisogna però tenere presente che in quei giorni lontani questi tre animali erano molto diversi da come appaiono ora: la Chiocciola era completamente nascosta nel suo guscio, dal quale non usciva mai; il Gambero era incolore; e la Formica aveva il corpo grassoccio e a forma di salsiccia.

I tre amici discussero sulla distribuzione dei compiti.

“Dobbiamo dividere il lavoro in parti uguali” disse la Chiocciola.

“Nessuno deve faticare più degli altri” convenne la Formica.

“Penso che sarebbe meglio se voi due lavoraste nel campo ed io badassi alle faccende domestiche” disse il Gambero.

Così decisero. Il Gambero sarebbe rimasto in casa, mentre la Chiocciola e la Formica si sarebbero recate in risaia.

Il giorno dopo all’alba la Chiocciola e la Formica uscirono di casa portando con sé un po’ di cibo preparato dal Gambero. Era così presto che gli uccelli non erano ancora volati via dagli alberi. La Chiocciola e la formica lavorarono sodo per tutto il giorno, mondando il riso nel campo. Quando il sole cominciò a calare, si accorsero di avere una gran fame.

Nel frattempo, a casa, il Gambero era affaccendatissimo a preparare una bella cenetta. Dopo essere andato nella foresta a raccogliere la legna e un mazzo di barbabietole novelle, stava mescolando sul fuoco una bella zuppa. Ne assaggiò una cucchiaiata: deliziosa!

In quel momento sentì i suoi amici tornare dalla risaia. Si affrettò a togliere dal fuoco la pentola con la zuppa. Ma ahimè, nella fretta capitombolò nel liquido bollente.

“Aiuto, aiuto!” gridò il povero Gambero, “Ti prego, aiutami, Chiocciola!”

“Un attimo!” rispose la Chiocciola “lascia che mi soffi il naso!”.

Ma ahimè! La Chiocciola si soffiò il naso così forte che schizzò mezza fuori dal guscio.

“Un attimo” rispose la Formica “lasciami prima stringere la cintura attorno ai fianchi.”

Ma ahimè, la Formica tirò la cintura così forte che il suo corpo si divise quasi in due.

Così i tre amici incorsero tutti in un terribile destino: da quel giorno il Gambero, con la bollitura, diventò rosso vivo; la Chiocciola visse per metà fuori dal guscio e il corpo della Formica rimase pressoché diviso in due.

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Il topo, l’uccello e la salsiccia

Questa è la storia di un topo, un uccello e una salsiccia che decisero di vivere assieme. La loro casetta sorgeva, bianca, con un bel tetto di paglia, in una radura in mezzo alla foresta: tutt’intorno crescevano alti alberi e nel profondo della foresta tenebrosa si aggiravano orsi e lupi.
I tre amici si erano divisi i compiti: l’uccello doveva provvedere alla legna da ardere, il topo accendeva il fuoco, portava l’acqua dal pozzo e apparecchiava la tavola, e la salsiccia cucinava.
Tutto andò bene per un po’ e i tre vivevano felici e contenti. Ma un bel giorno, l’uccello, volando nella foresta in cerca di legna, incontrò un corvo e chiacchierando con lui cominciò a vantarsi della sua buona sorte e dell’eccellente accordo che aveva stretto col topo e con la salsiccia.
“Craa!” gracchiò il corvo. “E la chiami fortuna questa? Dammi retta, il grosso del lavoro lo hanno scaricato su di te: eccoti qua a faticare per raccogliere la legna, mentre il topo e la salsiccia se ne stanno tranquillamente a casa. Immagino che il topo possa concedersi un bel pisolino dopo aver acceso il fuoco, portato l’acqua e preparata la tavola. Quanto alla salsiccia, quella sì che può prendersela comoda! Non deve far altro che sorvegliare la pentola, e quando è ora di pranzo rotolarsi una o due volte nella verdura, ed ecco fatto: la verdura è condita, salata e pronta da mangiare! Ti sembra faticoso?”
L’uccello ascoltò attentamente il discorso del corvo, e cominciò a pensare che quel che aveva detto doveva essere vero. Così il giorno dopo, quando fu il momento di andare a raccogliere la legna, dichiarò al topo e alla salsiccia: “Ne ho abbastanza di fare i lavori più pesanti in questa casa! So benissimo come ve la prendete comoda mentre io volo nella foresta. Bisogna che stabiliamo un altro accordo: mi rifiuto di andare ancora a raccogliere la legna.”
Il topo e la salsiccia ci rimasero male. Era andato tutto così bene fino a quel momento: ognuno aveva fatto il suo dovere senza lamentarsi. Comunque, decisero di sorteggiare i compiti. L’uccello prese tre rametti: chi avesse estratto il più lungo avrebbe raccolto la legna, chi il più corto avrebbe cucinato, e chi quello di mezzo, avrebbe acceso il fuoco, preparato la tavola e preso l’acqua.
Fu così che alla salsiccia toccò raccogliere la legna, all’uccello accendere il fuoco, preparare la tavola e prendere l’acqua, e al topo cucinare.
La salsiccia andò dunque nella foresta: ahimè, non aveva fatto molta strada quando si imbattè in un lupo affamato, che la divorò in men che non si dica. Questa fu la fine della salsiccia.
L’uccello, nell frattempo, dopo aver acceso il fuoco, si era recato al pozzo per prendere l’acqua.
“Il topo non se la prendeva tanto comoda, dopotutto!” pensava affaticandosi a tirar su il pesante secchio. Ma ahimè, nel momento in cui il secchio stava per raggiungere l’orlo del pozzo, l’uccello perse la presa, e nel tentativo di riafferrarlo, cadde nell’acqua e affogò. Questa fu la fine dell’uccello.
E il topo? Ignaro della sorte toccata ai suoi amici, sorvegliava la pentola, mescolando la verdura. Quando fu ora di pranzo si ricordò che la salsiccia era solita rotolarsi nella verdura per condirla e salarla, e volle fare lo stesso. Ma ahimè! Buttarsi nella pentola e finire arrostito fu tutt’uno. Questa fu la fine del topo.
Così la casetta nella radura rimase vuota e abbandonata, ed è un peccato, perchè se l’uccello non avesse dato ascolto ai cattivi consigli del corvo, i tre amici sarebbero ancora là e vivrebbero felici e contenti.

Come l’anatra imparò a nuotare

Nel buon tempo antico, quando Adamo non aveva ancora la barba lunga,  e anche il cuculo non deponeva ancora le sue uova nel nido altrui, l’anatra non sapeva ancora nuotare. Però amava l’acqua e stava volentieri sulle sponde dei laghi e degli stagni. Lì incontrava talvolta l’airone.

Un giorno, mentre chiacchieravano, ebbero l’idea che avrebbero pur dovuto imparare a nuotare.

“Chissà se il creatore lo permette?”

“Si può chiedere”.

Dunque ci pensarono su.

“Certo” disse benevolo creatore “quello di voi che domattina salterà per primo fuori dal nido potrà nuotare.”

Alla sera andarono entrambi a dormire presto. L’anatra infilò come al solito il becco sotto le penne e si addormentò. Ma l’airone no. Si propose di star sveglio tutta la notte. Per tutto il tempo stette lì a pensare che cosa avrebbe gridato all’anatra quando al mattino avesse nuotato superbo nell’acqua. Finalmente, e già il sole appariva sui monti, l’aveva trovato: “Tutto il dì sullo stagno scintillante, l’airone nuota calmo ed elegante”. Ma quando scorse il giorno i suoi occhi si chiusero per la stanchezza. L’anitra invece aveva riposato bene, uscì lesta dal nido e si tuffò nelle onde. Era capace di nuotare! L’acqua fresca lambiva il suo petto.

“Tutto il dì nuoto sul lago e dico

addio, airone, mio caro amico”.

Il povero airone si destò, ma troppo tardi. Era capace soltanto di sguazzare un pochino nell’acqua. Lì si fermò, sulle sue lunghe gambe a trampolo e allungò il collo verso l’anatra. Lo si può vedere fermo così anche al giorno d’oggi.

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Il povero caprone

Era un caldo giorno d’estate. Il sole splendeva alto nel cielo azzurro, spandendo i suoi raggi sulla terra. Una volpe, attraversando di corsa un campo di grano, giunse presso una cisterna all’ombra di una siepe verdeggiante. Aveva sete, e decise di bere alla cisterna: ma quando dall’orlo si chinò per bere, scivolò sulla terra viscida e, perduto l’equilibrio… pluff! Cadde nell’acqua. Cominciò a sguazzare, agitando le zampe in tutti i versi, ma senza risultato: non riusciva a venir fuori. Era intrappolata nella cisterna! E sapeva benissimo che il contadino cui apparteneva il campo, se l’avesse trovata, non avrebbe avuto pietà di lei: non più tardi del giorno innanzi era entrata in mezzo al gregge e aveva ucciso un agnellino; e la settimana prima aveva rubato un bel pollastro. Ahimè! Se non riusciva a venir fuori da lì, le sue ore erano contate!
Poco dopo, giunse al campo di grano un caprone bianco, con la fronte ornata di credi corna e una serica barbetta sotto il mento. Anche lui moriva di sete, e decise di abbeverarsi alla cisterna. Quale fu la sua sorpresa quando, affacciatosi, vide la volpe che nuotava nell’acqua!
“Buongiorno amica volpe” disse il caprone “dì un po’, è buona da bere quest’acqua?”
La volpe sogghignò vedendo l’espressione ingenua del caprone. “Ottima, fratel caprone: anzi, la migliore che abbia mai bevuto. Infatti, come vedi, sono entrata addirittura nella cisterna per poterne gustare a mio piacimento; ma se vuoi venire anche tu, ce n’è per tutti e due.”

Senza starci a pensare su troppo, il caprone saltò dentro la cisterna, e cominciò a lambire l’acqua con gusto, senza sollevare la testa finchè non si fu dissetato.
“Avevi proprio ragione, amica volpe” belò, con la testa gocciolante, “non ho mai assaggiato un’acqua migliore!”
La volpe sorrise. “Ora, fratel caprone, dobbiamo trovare il modo di uscire da questa cisterna”.
“E’ vero!” esclamò il caprone, guardando preoccupato le alte, lisce pareti della cisterna.
“Ho un piano” disse la volpe “ma dobbiamo unire i nostri sforzi per portarlo a compimento.”
“Farò tutto ciò che posso” belò il caprone prontamente.
“In tal caso” disse la volpe “fammi il piacere di appoggiare le zampe davanti alla parete della cisterna e di tenere ben in alto le corna: io mi arrampicherò sopra di te, e quando sarò fuori tirerò su anche te.”
Il caprone, volenteroso, seguì le istruzioni e la volpe, arrampicandosi su pre i fianchi, le spalle e le corna del caprone, raggiunse l’orlo della cisterna e si trovò finalmente sana e salva all’asciutto. Si scosse via l’acqua in attimo.
Il caprone la chiamò dalla cisterna: ” E io, amica? Non dimenticare il patto: ti ho aiutata a uscire, ora devi tirarmi su!”
La volpe si affacciò alla cisterna lanciando uno sguardo di scherno al caprone. “Tu, fratel caprone, hai più peli nella barba che cervello in testa. E’ colpa tua se ora resti prigioniero nella cisterna: avresti dovuto fermarti a pensare come saresti uscito, prima di saltar dentro. Non ho alcuna intenzione di aiutarti!”
E mentre il caprone cominciava a belare piagnucoloso, la volpe trotterellò via attraverso il campo e fu presto lontana.

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Il leone e il cinghiale

In un caldissimo giorno d’estate, un leone e un cinghiale giunsero nella stessa pozza di acqua. Sul terreno intorno erano impresse le tracce di molti animali, cervi e capre, volpi e sciacalli, elefanti e rinoceronti, nessuno dei quali avrebbe mai osato abbeverarsi insieme al leone perché ne avevano troppa paura. Ma il feroce cinghiale con le sue zanne affilate era forte quanto il leone con i suoi crudeli artigli.

Il cinghiale si avvicinò alla pozza, ma prima che potesse bere, il leone, nell’impazienza di raggiungere l’acqua, lo spinse da parte.

“Sono arrivato prima di te” grugnì furiosamente il cinghiale “quindi ho diritto di bere per primo”

“Fuori dai piedi” ruggì il leone “berrai quando mi sarò dissetato io”

“Se non aspetti il tuo turno ti farò a pezzi con le mie zanne affilate” lo minacciò il cinghiale.

“Ti ridurrò a brandelli con gli artigli, se non ti levi di torno” replicò il leone.

E di colpo si lanciarono uno contro l’altro, decisi a battersi all’ultimo sangue. Il cinghiale assalì il leone lacerandogli i fianchi fino a farne sgorgare abbondantemente il sangue. Il leone balzò sul cinghiale e lo colpì con gli artigli al punto che il poveraccio si reggeva a malapena in piedi.

D’un tratto udirono un fruscio tra gli alberi, e guardando scorsero in su un gruppo di neri avvoltoi appollaiati sui rami sopra di loro, in attesa di divorare quello dei due che sarebbe morto.

Non ci volle altro per porre fine alla lite!

Il leone disse: “Veniamo ad una tregua: è meglio per noi essere amici, piuttosto che finire in pasto a quegli uccelli del malaugurio”

Il cinghiale accettò di cuore: così, leccandosi le ferite, bevvero a turno e si lasciarono da buoni amici.

Gallo, maiale e pecorone in alto mare
Una volta gallo, maiale e pecorone veleggiavano in alto mare. Il tempo era brutto e la barca piccola.
Già temevano di non giungere più a riva.
Il maiale reggeva il timone, il pecorone buttava fuori l’acqua, mentre il gallo stava sull’albero  di vedetta contro i cavalloni.
“Remi sottovento, remi sottovento!” cantava il gallo.
“Salveremo la beeh, beehlle? Salveremo la beeh, beehlle?” belava il pecorone.
“Luff, luff! Luff, luff!” grugniva il maiale, e il viaggio non gli sembrava più così eccitante.
Finalmente giunsero a terra sani e salvi. Il pecorone se ne andò subito nel prato, il gallo trovò le sue galline, ma al maiale tremava ancora il lardo per il freddo.
“Luff, luff! Meglio tra erbe amare, che stare in alto mare!”

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La volpe vedova

C’era una volta una volpe vedova. Viveva in un’ampia tana e si era presa come serva una gattina. Per un po’ di tempo la volpe pianse il marito morto, ma quando le settimane di lutto furono passate e venne il sabato sera, essa si ripulì il pelo, sedette per benino su di uno sgabello e aspettò che qualcuno apparisse alla porta. Poco dopo si udì bussare.

“Corri e guarda chi bussa” disse la volpe vedova alla serva. La gatta corse e sbirciò fuori. Vide un grosso orso. Tornò lesta indietro.

“Com’è il suo pelo?” chiese la volpe vedova.

“Bruno come la scorza del pinastro” disse la gatta.

“E le gambe?”

“Larghe come foglie di farfaro”

“E la coda?”

“Corta come le pigne”

“Questo non lo faccio entrare” disse la volpe vedova e saltò giù dal suo sgabello.

Dopo una settimana fu di nuovo sabato. La volpe vedova si pulì il pelo, sedette sullo sgabello e aspettò. Dopo un po’ si udì bussare alla porta.

“Corri lesta a guardare chi bussa” disse la volpe vedova alla serva. Questa volta alla  porta c’era un lupo.

“Com’è il suo pelo?” volle sapere la volpe.

“Grigio come corteccia di abete”

“E le sue gambe?”

“Lunghe come sbarre di recinto”

“E la sua coda?”

“Pendente come rami di abete” disse la gatta.

“A questo non apriamo la porta” disse la volpe vedova. Di nuovo passò una settimana, finchè venne il sabato sera. La volpe vedova si pulì la pelliccia, sedette e attese. Presto si udì battere all’uscio, questa volta leggermente.

“Corri e guarda” disse le volpe vedova alla serva. La gatta corse. Davanti all’uscio c’era un ermellino. Lesta tornò indietro a dare informazioni.

“Com’è il suo pelo?”

“Bianco come corteccia di betulla” rispose la gatta.

“E le sue gambe?”

“Sottili come steli d’erba”

“E la coda?”

“Ha la punta nera”

“Questo non lo facciamo entrare” disse la volpe vedova. Dopo una settimana fu di nuovo sabato sera. La volpe vedova si pulì la pelliccia e sedette a modino sullo sgabello ad aspettare. Anche questa volta qualcuno bussò. La serva corse a sbirciare, mentre la volpe vedova stava accovacciata sullo sgabello. Quando la gatta tornò, la volpe vedova chiese:

“Com’è il suo pelo?”

“Rosso e fine come quello della mia riverita padrona” disse la gatta.

“E le sue gambe?”

“Non più lunghe e non più corte di quelle della mia riverita padrona” disse la gatta.

“E la coda?”

“Ha la punta bianca come quella della mia riverita padrona”.

“Questo lo facciamo entrare!” gridò contenta la volpe vedova e saltò giù dal suo sedile, perché adesso davanti alla porta c’era il vero innamorato. Allora l’uscio venne aperto. Quella stessa sera si celebrarono le nozze nella tana della volpe.

Il pollo che voleva andare sul monte Dovrefjell perchè non finisse il mondo intero

Una sera un pollo si era accomodato su di una grande quercia. Durante la notte sognò che il mondo intero doveva finire se lui non arrivava sul monte Dovrefjell. Allora saltò lesto giù dalla quercia e si mise in cammino.
Aveva camminato un po’ quando incontrò un gallo.

“Buongiorno Gallo Ballo” disse il pollo.
“Buongiorno Pollo Bollo, dove vuoi andare così di buon mattino?” chiese il gallo.
“Ah, devo andare sul monte Dovrefjell, perchè non finisca il mondo intero.”
“Chi te l’ha detto, Pollo Bollo?”
“Questa notte ero sulla quercia e l’ho sognato.”
“Ma io vengo con te” disse il gallo.
Proseguirono un po’ e incontrarono un’anatra.
“Buongiorno Anatra Banatra”, salutò il gallo
“Buongiorno Gallo Ballo. Dove ti porta la strada così di buon mattino?” chiese l’anatra.
“Sul monte Dovrefjell, perchè non finisca il mondo intero.”
“Chi te l’ha detto, Gallo ballo?”
“Il pollo bollo”
“come fai a saperlo, pollo bollo?”
“Questa notte ero sulla quercia e l’ho sognato.”
“Vengo con voi” disse l’anatra.
Avevano camminato ancora un po’ quando incontrarono un’oca.
“Buongiorno oca poca” salutò l’anatra.
“Buongiorno anatra banatra” disse l’oca “Dove andate così di buon mattino?”
“Sul monte Dovrefjell, perchè non finisca il mondo intero.”
“Chi te l’ha detto, anatra banatra?”
“Il gallo ballo”
“E tu da chi lo sai, gallo ballo?”
“dal pollo bollo”
“E tu, pollo bollo?”
“Questa notte ero sulla quercia e l’ho sognato.”
“Allora devo venire con voi” disse oca poca.
Quando ebbero camminato per un bel po’, incontrarono una volpe.
“Buongiorno volpe golpe” salutò l’oca poca.
“Buongiorno cari amici, dove volete andare?” chiese la volpe.
“Sul monte Dovrefjell, perchè non finisca il mondo intero.” dissero i suoi cari amici.
“Da dove lo sapete?”
“Il gallo ballo”
“Il pollo bollo questa notte era sulla quercia e l’ha sognato.”
“Che discorsi!” disse la volpe. “Il mondo non finisce così presto! Venite con me nella mia tana, dove si sta caldi e comodi. E’ molto che siete per la via, penso. E voi lo sapete: il riposo alleggerisce il peso.”
Sì, a tutti quanti la proposta sembrò buona.

Arrivati alla tana della volpe, il padrone di casa incominciò ad accendere un bel fuoco, im modo che i suoi compagni furono presi dal sonno.

Anatra banatra e oca poca sedettero in un angolo, gallo ballo e pollo bollo volarono su una trave.
Non avevano dormito molto, che la volpe mise l’anatra banatra sulle braci per arrostirla. Pollo bollo però, nel dormiveglia, sentì l’odore e gridò: “Beh, qui c’è puzza!”
“Che discorsi!” disse la volpe “è soltanto il fumo che torna indietro dalla cappa. Va’ avanti a dormire.”
Quando ebbe mangiato l’anatra banatra, la volpe fece la stessa cosa con l’oca poca, e la mise sulla brace ad arrostire.

Di nuovo pollo bollo sentì l’odore, volò su una trave più alta e gridò: “Beh, qui c’è puzza!”
Anche gallo ballo aprì gli occhi , e videro rquello che era successo all’anatra banatra e all’oca poca. Allora entrambi volarono in alto, dove potevano sbirciare dal fumaiolo, e pollo bollo gridò: “Guarda che splendide oche laggiù!”.

La volpe non se lo fece ripetere due volte. Corse lesta fuori per acchiapparne un’altra.
E con questo gallo ballo e pollo bollo se ne uscirono entrambi per il fumaiolo.
E se non fossero finalmente arrivati al monte Dovrefjell, il mondo non ci sarebbe più.

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Tiro alla fune

La tartaruga era un piccolo animale che aveva una grande opinione di sè. Si trascinava lentamente attraverso la giungla vantandosi: “Guardatemi! Sono potente come l’elefante! Sono forte come l’ippopotamo!”.
Nella giungla le notizie si diffondono rapidamente: non ci sono giornali, ma gli animali sono molto chiacchieroni e in poco tempo ognuno sa tutto quello che c’è da sapere. Ben presto quindi l’elefante e l’ippopotamo vennero a conoscenza delle vanterie della tartaruga. Il grande elefante grigio sollevò la proboscide e barrì: “Quella stupida insulsa tartaruga! Chi le dà retta?”. L’ippopotamo spalancò le grandi mascelle e sghignazzò: “Già, chi dà retta  a quella stupida insignificante creatura?”.

Rapidamente questi commenti giunsero alla tartaruga che, indignata verso l’ippopotamo e l’elefante, disse: “Dunque sarei un’insulsa insignificante creatura! Glielo faccio vedere io che cosa sono!”.
E si mise in cammino finchè non giunse nel luogo dove l’elefante stava sdraiato all’ombra di un banano. Che potente animale, con la lunga proboscide, le forti zanne, i piedi enormi! La piccola tartaruga gli si piazzò davanti e gridò: “Ehi, elefante, eccomi qua! Alzati e salutami, amico!”.
L’elefante girò la testa per vedere chi lo aveva apostrofato così familiarmente, e con somma meraviglia scoprì la piccola tartaruga.

“Come osi chiamarmi amico, bruscolino?”, s’indignò.
“Ti chiamo amico perchè siamo pari di forza e potenza” rispose la tartaruga “tu credi che non sia possibile perchè tu sei grande e io sono piccola, ma hai torto, e te lo proverò! Ti sfido a una gara di tiro alla fune!”
“Che idea balorda, piccola tartaruga!” disse l’elefante.

“Io sono pronta a gareggiare, se lo sei anche tu.” disse la tartaruga “Chi dei due riuscirà a trascinare l’altro, si dimostrerà il più forte; ma se nessuno dei due vince, saremo pari e ci chiameremo amici.”
L’elefante sospirò con aria di condiscendenza. “E va bene, piccola tartaruga, gareggerò con te.”
Allora la tartaruga prese una lunga lunga liana e ne diede un’estremità all’elefante.
“Tieni questa” disse “io mi allontano finchè la liana non sia tesa; poi tireremo finchè uno dei due riuscirà a trascinare l’altro, o la liana si spezzerà.”

E lentamente si allontanò tenendo nel becco l’altro estremo della liana. Camminò fino al fiume melmoso dove trovò l’ippopotamo che sguazzava nel fango.
“Ehi, ippopotamo, eccomi qua!” gridò. “Alzati e salutami, amico!”
L’ippopotamo guardò in su per vedere chi lo aveva apostrofato così insolentemente, e con somma meraviglia vide la piccola tartaruga.

“Come osi chiamarmi amico, piccolo bruscolino?”, s’indignò.
“Ti chiamo amico perchè siamo pari di forza e di potenza” rispose la tartaruga “tu credi che non sia possibile, perchè tu sei grande e io sono piccola, ma hai torto e te lo dimostrerò! Ti sfido a una gara di tiro alla fune!”
“Che idea balorda, piccola tartaruga!” disse l’ippopotamo.
“Io sono pronta a gareggiare, se lo sei anche tu” disse la tartaruga.

E l’ippopotamo finì per accettare la sfida, proprio come l’elefante. Allora la tartaruga gli diede il capo della liana che teneva in bocca. “Prendi questo” gli disse “io vado a prendere l’altro estremo, poi tireremo finchè uno dei due trascinerà l’altro, o la liana si spezzerà.
Adesso è chiaro il piano della piccola tartaruga! A un estremo c’era l’elefante e all’altro l’ippopotamo! La tartaruga si portò a metà della liana e, senza lasciarsi scorgere, diede uno strattone.
Appena l’elefante e l’ippopotamo sentirono muoversi la liana, cominciarono a tirare con tutte le loro forze. Come tirava e grugniva l’elefante! Come sbuffava e tirava l’ippopotamo! La liana era tesa al massimo, ma nessuno riusciva ad avere la meglio.

“Oh, potentissima piccola tartaruga!” gemette l’elefante.
“Oh, fortissima piccola tartaruga!” esclamò l’ippopotamo.
La tartaruga diede uno sguardo alla liana che tremava, poi, lasciando i due tirare, andò tranquillamente a  fare un ottimo spuntino di funghi; schiacciò un pisolino, e quando si destò era ormai il tramonto.
“Farei bene ad andare a vedere come si sono messe le cose”, pensò.
Tornò al mezzo della liana: era ancora tesa al massimo. L’elefante e l’ippopotamo avevano continuato a tirare tutto il giorno, ma nessuno dei due aveva sopraffatto l’altro.

“Credo proprio che basti” pensò la tartaruga, e con un colpo di becco spezzò in due la liana.
Che poteva mai accadere? Allentatasi la liana, l’elefante e l’ippopotamo caddero all’indietro, uno di qua e l’altro di là, percuotendo il suolo con due colpi tremendi, che rimbombarono per tutta la giungla.
Allora la tartaruga si recò dall’elefante.

“Oh, tartaruga!” disse l’elefante “Non credevo che tu fossi così forte! Ora la liana si è spezzata, perciò siamo uguali. Avevi ragione, la taglia non conta. Ora ci chiameremo amici.”

La tartaruga era giubilante: aveva trionfato sul grande elefante grigio! Poi si recò dall’ippopotamo.
“Oh, tartaruga!” disse l’ippopotamo “Non pensavo che tu fossi così forte! La liana si è spezzata, perciò siamo uguali. Avevi ragione, la taglia non conta: ora ci chiameremo amici.”

La tartaruga era veramente al colmo della felicità: aveva trionfato anche sull’ippopotamo!
E da quel giorno in poi ogni volta che il potente elefante o il forte ippopotamo incontravano la tartaruga nella giungla, la chiamavano amica.

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La storia della banderuola

Nella soleggiata terra di Spagna, dove le arance crescono in abbondanza sugli alberi, una chioccia nera covava l’uovo che aveva deposto, aspettando che il guscio si schiudesse. Ed ecco che udì un pic-piccare, e il pulcino uscì dal guscio.

Ma che pulcino buffo! La chioccia, nel vederlo, gorgogliò di stupore: era come un mezzo pulcino, un pulcino tagliato in due per il lungo. Mezzopulcino saltò fuori dal guscio rotto sulla sua unica zampa, agitò la sua unica aluccia gialla e guardò la madre con il suo unico vispo occhietto.

Tuttavia la chioccia nera amava il suo Mezzopulcino nè più nè meno che i suoi fratelli e le sue sorelle, che erano tutti pulcini regolari.
Ma quando Mezzopulcino  crebbe e diventò Mezzogalletto, mostrò di essere un dispettoso guastafeste della forza di due galletti interi.
Si cacciava sempre nei guai per qualche marachella. Infastidiva il grande cane che faceva la guardia all’aia, era arrogante con quel bell’imbusto del gallo, e correva schiamazzando dietro alle altezzose oche grigie quando scendevano dondolandosi verso il ruscello.

Poi, un bel giorno, Mezzogalletto si presentò saltellando alla chioccia nera e disse: “Sono stufo di vivere qui, in questa stupida aia. Me ne vado a Madrid in cerca di fortuna.”
Come si agittò la chioccia nera nell’udire questa notizia! Madrid, la capitale di Spagna, distava molte e molte miglia!

“Perchè vuoi andare a Madrid?” chiese.
“Voglio vedere il re di Spagna” disse Mezzogalletto “e sono sicuro che il re di Spagna sarà lieto di vedere me”, soggiunse impudente.
“Madrid è molto lontana” lo ammonì la chioccia nera “è meglio che tu resti a casa tua, nella fattoria.”
“Vedrai che ci arriverò” la rassicurò Mezzogalletto.
E partì op-op-op, per la grande città.
Ben presto giunse ad un ruscelletto. Il ruscello era nei guai, perchè le erbacce avevano invaso le sue acque.
“Aiutami, Mezzogalletto!” gorgogliò il ruscello “Fai pulizia di queste erbacce, in modo che io possa tornare a scorrere libero!”

Ma Mezzogalletto non volle aiutare il ruscello.
“Non posso fermarmi ora!” gridò “Sto andando a Madrid per vedere il re di Spagna”.
E continuò per la sua strada.
Dopo un po’ giunse ad un bosco tenebroso e una radura vide un fuoco acceso dai taglialegna. Il fuoco era nei guai perchè, per mancanza di combustibile, si stava spegnendo.
“Aiutami, Mezzogalletto!”, crepitò il fuoco “Raccogli qualche ramoscello e gettalo su di me, in modo che io possa tornare a bruciare allegramente”.
Ma Mezzogalletto non volle aiutare il fuoco.

“Ho fretta” gridò “Sto andando a Madrid per vedere il re di Spagna”.
E continuò per la sua strada.
Dopo aver percorso molte miglia saltellando su di piede solo giunse finalmente alla grande città di Madrid. Alti edifici sorgevano ai lati delle strade affollate e caotiche. Mezzogalletto continuò a saltellare fino al palazzo reale. Vicino al cancello che dava accesso al palazzo cresceva un ippocastano in fiore. Mezzogalletto vide le sue foglie a cinque dita e le sue candele di fiori rosa oscillare su e giù e udì la voce del vento chiamarlo dall’intrico dei rami.
“Aiutami, Mezzogalletto!” gemeva il vento “Mi sono impigliato in quest’albero. Liberami, ti prego!”
Ma Mezzogalletto non volle aiutare il vento.

“Non ho tempo di ascoltarti!” gridò “Sono venuto per vedere il re!”.
Attraversò il cortile del palazzo, dove montavano la guardia dei soldati in lucenti armature d’argento; spiò per una porta aperta, e un attimo dopo era dentro. Si trovò in uno stanzone dove bruciava un gran fuoco, sul quale uno spiedo con della carne girava lentamente, manovrato da due sguatteri. Al centro della stanza c’era un tavolo carico di pentole, padelle e piatti. Era la cucina reale.

Mezzogalletto, naturalmente, non lo sapeva. “Che reggia!” pensò “Questa dev’essere la sala del trono!”.
Proprio in quel momento entrò un uomo che indossava un grembiule bianco e un alto cappello pieghettato. Era il cuoco reale. Mezzogalletto, naturalmente, non lo sapeva. “E questo deve essere il re di Spagna in persona” pensò “ecco com’è la corona reale!”.
Irrigiditosi sulla sua unica zampa, fece il saluto con la sua unica ala gialla.

Il cuoco diede uno sguardo a Mezzogalletto e disse allegramente: “Stasera brodo di pollo! Era proprio te che aspettavo!”.
E afferrato il misero tra pollice e indice, lo tuffò, piume e tutto, in un pentolone che gorgogliava sul fuoco.
“Oh, acqua! Come mi scotti!” strillò Mezzogalletto.
“Hai dunque dimenticato il ruscello invaso dalle erbacce e il tuo rifiuto di aiutarlo?”, chiese l’acqua, e continuò a bollire.
Allora Mezzogalletto invocò il fuoco: “Oh, fuoco! Come mi bruciano le tue fiamme!”
“Hai dunque dimenticato il nostro incontro nel bosco e il tuo rifiuto di gettarmi sopra una manciata di ramoscelli?” chiese il fuoco, e continuò ad ardere.

In quel momento Mezzogalletto udì un sibilo su per la cappa del camino e supplicò disperato: “Oh, vento! Spegni il fuoco e rovescia la pentola con l’acqua in modo che io possa sfuggire a questo terribile destino!”
“Tu non hai voluto aiutarmi quando io ero imbrigliato nell’ippocastano” sibilò il vento. “Ma non importa. Ho pietà di te.”
E il vento soffiò facendo schizzare Mezzogalletto fuori dal pentolone, e lo trascinò in alto sopra i tetti di Madrid.
“Fermati! Fermati!” gridava Mezzogalletto.
Ma il vento non si fermò finchè non ebbe trasportato mezzogalletto proprio in cima alla guglia della chiesa più alta di Madrid, così alta da toccare le nuvole del cielo.
“Eccoti arrivato”, disse il vento beffardo.
E da quel giorno Mezzogalletto è rimasto lassù. Ora è ricoperto di una vernice d’oro che il sole fa scintillare. Spesso i cittadini odono dal basso un cigolio. Allora guardano verso la guglia e dicono:
“Che rumore fa la banderuola oggi!”
Non sanno che il cigolio è il lamento di Mezzogalletto, che ripete instancabilmente: “Oh, se avessi dato retta a mia madre, e fossi rimasto nella fattoria con lei!”

Il gatto, il topo e il vaso di strutto

C’erano una volta un gatto e un topo che diventarono amici. Il topo viveva in una chiesa, e s’era fatto il nido nel cuscino di un inginocchiatoio. Senonchè il gatto lo convinse ad andare ad abitare con lui.

“Ti sono così affezionato, che non sopporto di starti lontano” disse al topo.

“D’accordo, amico”. Il topo accettò, e così i due misero su casa assieme. Sebbene fosse estate, il gatto, da previdente massaio che era, disse: “E’ bene che facciamo provviste per l’inverno,se non vogliamo soffrire la fame”.

Il topo fu d’accordo, perciò comprarono un vaso di strutto.

“Dove lo possiamo tenere?” chiese il topo “Non abbiamo dispensa”.

“Ho un’idea” rispose il gatto “teniamolo in un angolino fresco e buio della chiesa: sarà al sicuro, e quando verrà l’inverno andremo a riprenderlo.”

Così fecero. Passarono i giorni, ma, chissà come, il gatto non poteva fare a meno di pensare con desiderio al vaso di strutto. Oh, poterne leccare anche soltanto lo strato superiore!

Una mattina il gatto disse al suo caro amico topo: “Mio cugino mi ha chiesto di fare da padrino al battesimo del suo ultimo nato, perciò oggi devo andare in chiesa: starai tu a sorvegliare la casa.”

Il topo non ebbe alcun sospetto: “Ma certo, vai tranquillo, e auguri per il battesimo.”

Il gatto andò in chiesa. Naturalmente non c’erano nè cugini nè battesimi. Si avvicinò furtivamente all’angolo dove era nascosto il vaso dello strutto e cominciò a leccarne lo strato superiore. Delizioso! Il gatto faceva le fusa dal piacere.

Quando tornò a casa, il topo gli chiese: “Com’è andato il battesimo? Spero che tu abbia passato una buona giornata”.

“Tutto bene” rispose il gatto.

“Che nome hanno dato al piccolo?” s’informò il topo.

“Viasopra” rispose con freddezza il gatto. “E’ bianco come la neve, davvero carino.”

“Viasopra!” esclamò il topo “Che strano nome!”

“Non certo più strano di Magnabriciole, com’è stato chiamato, se ben ricordo, uno dei tuoi figliocci” replicò il gatto.

Poco tempo dopo il gatto fu di nuovo preso da una gran voglia di assaggiare lo strutto, così disse al topo: “Sono stato pregato di fare da padrino a un altro battesimo: devo di nuovo lasciarti a sorvegliare la casa”

“Non preoccuparti, farò da me” rispose il topo “spero che tutto vada bene come l’ultima volta.”

Il gatto tornò in chiesa e sgattaiolò nell’angolo buio. Si diede molto da fare attorno al vaso: lo strutto sembrava ancora più delizioso! Il gatto si leccò i baffi dalla soddisfazione.

Quando tornò a casa, il topo lo salutò: “Spero che tutto sia andato bene. E che nome hanno dato al piccolo?”

“Viamezzo”, rispose il gatto in tono indifferente “E’ color guscio di tartaruga, un bel piccino!”

“Viamezzo? E’ ancora più strano di Viasopra!”

“Non peggio di Magnacacio, come, se non sbaglio, hanno chiamato un altro tuo figlioccio” rispose il gatto.

Passato ancora un po’ di tempo il gatto si sentì l’acquolina in bocca al pensiero di quel delizioso strutto.

“Pensa un po’!” disse al topo “Mi hanno chiesto una terza volta di fare da padrino. Devo andare di nuovo in chiesa, tu resta qui a badare alla casa”.

Stavolta il topo sembrava pensieroso.

“Mi chiedo che razza di nome daranno a questo figlio!” disse “Viasopra, Viamezzo… qualche altra scemenza del genere, scommetto! Ma non ti trattengo, amico, e spero che tutto vada bene come le altre volte”.

Il gatto andò in chiesa… e questa volta leccò tutto lo strutto rimasto. Che buono! Passò bene la lingua attorno alle pareti, per essere sicuro che non ne restasse nemmeno un’ombra.

“Allora, come l’hanno chiamato?” chiese incuriosito il topo quando il gatto tornò a casa.

“Temo che ti sembrerà ancora più strano” rispose il gatto “Si chiama Viatutto. E’ proprio notevole, nero con le zampe bianche.”

“Viatutto…” ripetè il topo “Questo nome è molto sospetto”.

E aveva un’aria ancora più pensierosa di prima.

Comunque il resto dell’estate e l’autunno trascorsero serenamente. Strano a dirsi, il gatto non fu più invitato ad alcun battesimo.

Venne l’inverno. La neve copriva il terreno, il ghiaccio incrostava i vetri delle finestre ed era difficile trovare da mangiare. I due amici avevano fame. Allora il topo pensò alle provviste saggiamente messe da parte per i tempi duri, cioè al vaso di strutto nascosto in chiesa.

“Andiamo a prendere il vaso di strutto che avevamo messo da parte” disse al gatto.

Il gatto gli diede un’occhiata obliqua e rispose: “D’accordo, amico”.

Appena giunti in chiesa, il topo si affrettò verso l’angolo dov’era il vaso. Quale fu il suo disappunto quando trovò il vaso ripulito fino in fondo!

“Ahimè!” squittì “Ora so che i miei sospetti erano fondati: tu non sei mai stato ad alcun battesimo! Tu sei venuto tre volte in chiesa per mangiarti tutto lo strutto. La prima volta hai leccato via lo strato superiore, la seconda volta hai leccato via la metà, e la terza volta hai leccato…”

“Sta zitto!” gridò il gatto affamato “Se dici un’altra parola ti mangio!”

Ma ormai il topo l’aveva sulla punta della lingua, e così quel “Viatutto” venne fuori…

Con un balzo il gatto fu sul topo e lo divorò.

E così è finita anche la storia.

La divisione del formaggio
C’erano una volta due ladruncoli di gatti, che avevano rubato un grande formaggio giallo.
“Dividiamolo” disse il primo gatto, una bella bestia dal pelo tigrato e dai lunghi baffi, “Farò io le parti.”
“Andiamoci piano, amico.” disse il secondo gatto, che aveva il pelo nero lucido, tranne una zampa candida e un orecchio accartocciato come un cavolfiore.
“Mbeh?” chiese il primo gatto.
“Come posso esssere sicuro che tu lo divida equamente?” disse il secondo. “Potresti approfittarne per prenderti la fetta più grossa. Penso che dovremo trovare una terza persona che faccia le parti per noi.
“D’accordo”, acconsentì il primo gatto, “ma mi dispiace vedere che non ti fidi di me, amico.”
Così il gatto nero e il gatto tigrato si misero in cerca di una terza persona che dividesse il grande formaggio giallo, e subito trovarono una scimmia dagli occhi vivaci, che aveva ascoltato tutta la conversazione stando seduta su un banano proprio sopra di loro.
“Per piacere, scimmia, potresti essere così gentile da dividere questo formaggio in due parti uguali?” dissero i gatti.
La scimmia rise sotto i baffi, pensando che quella richiesta poteva volgersi a suo favore.
“Aspettate, vado a prendere un filo per tagliare il formaggio e una bilancia” disse “peserò i due pezzi per essere sicura che siano uguali.”
Poco dopo fu di ritorno col filo e con la bilancia e tagliò il formaggio in due pezzi, mentre il gatto nero e il gatto tigrato aspettavano ansiosi. Ma l’astuta scimmia tagliò un pezzo più grande dell’altro, sicchè quando li pose sui due piatti della bilancia, uno pendeva di più.
“Povera me!” disse la scimmia “Non sono stata molto abile, vero? Bisogna eguagliare.” E con ciò si mise a mangiare il pezzo più grosso.
“Ehi, scimmia! Che storie sono queste?” s’indignarono i gatti.
La scimmia li guardò con falsa meraviglia.
“Ma come?” disse “Sto alleggerendo questo pezzo di formaggio, così bilancerà quell’altro. Non volete che io sia rigorosamente giusta?”
“Ma sì, ma sì” risposero esitanti i gatti, e stettero a guardare ancor più ansiosi mentre la scimmia prsava di nuovo i due pezzi di formaggio.
Ma ahimè! La scimmia aveva dato un morso di troppo al pezzo più grosso, che ora pesava un po’ meno dell’altro.
La scimmia scosse la testa: “Povera me!” disse “Ne ho mangiato un po’ troppo, vero? Ma niente paura, correggo subito l’errore!” e cominciò a mangiare l’altro pezzo.
“Ma cosa ti salta in mente?” protestarono i gatti “Non penserai che ti abbiamo invitata a un banchetto!”
Il muso della scimmia si atteggiò alla più completa innocenza.
“Sto solo cercando di essere rigorosamente giusta.” rispose in tono risentito, “Mi avete chiesto di dividere equamente il formaggio, e io faccio del mio meglio!”
Pesò di nuovo i due pezzi, che a questo punto erano diventati molto piccoli, ma ancora non si equilibravano: stava quindi per mettersi di nuovo a mangiar via un pezzo da quello più pesante, quando i gatti, non resistendo più a vederla divorare il loro delizioso formaggio, gridarono: “Basta, basta! Lasciaci quel che è rimasto!”
L’astuta scimmia capì che la festa era finita.
“Come volete” disse “credo  che dopotutto non ci teniate veramente ad avere parti uguali: siete solo una coppia di vecchi ladruncoli ingordi!”.
Risalì con un salto sul suo banano e cominciò a tempestare i due gatti con una pioggia di piccole banane verdi.
Ma il gatto nero e il gatto tigrato pensavano solo al loro formaggio. Non si curavano più di sapre se un pezzo era più grande dell’altro! Senonchè, dopo tutta quella commedia, i due pessi erano diventati così piccoli, che ai gatti, temo, non resto granchè da gustare: l’astuta scimmia aveva finito col mangiarne la maggior parte!

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Il cavallo e la volpe

Il cavallo era invecchiato al servizio del suo padrone, e ormai non era più in grado di compiere una giornata intera di lavoro. Non ce la faceva più a stare tutto il giorno nei campi, aggiogato all’aratro, nè a tirare ogni settimana il carico fino al mercato. Ma il suo padrone era un uomo senza cuore e, visto che il fedele cavallo non poteva più fare il suo lavoro, gli negò cibo e tetto. Lo scacciò dalla stalla dicendo: “Qui non c’è posto per chi non si guadagna da vivere. Perciò fuori dai piedi, e che non ti  veda mai più!”
Poi aggiunse: “Potrai tornare a vivere nella mia stalla e a mangiare il mio fieno quando mi dimostrerai di essere forte come il leone!”, e proruppe in uno scoppio di risa beffarde.
Il povero vecchio cavallo si mise a vagare per la campagna. Teneva la testa bassa e si sentiva molto infelice. Infine giunse nella grande foresta dove vivavano le bestrie selvatiche. Qui si imbattè nella volpe dal pelo fulvo.
“Perchè te ne stai così triste a testa bass?” chiese la volpe al cavallo.
Il cavallo sospirò: “Non posso più lavorare per il mio padrone, così questi mi ha scacciato e non vuole più vedermi. Ha dimenticato quanti anni di fedele lavoro ho fatto per lui”.
“Ahimè!” disse la volpe “Gli uomini sono creature crudeli. Ma dimmi, non ti ha per caso offerto una possibilità di rimanere con lui?”
Il cavallo si ricordò allora della condizione postagli dal padrone nel mandarlo via: “Mi ha detto che potrò tornare alla stalla se dimostrerò di essere forte come il leone. Dunque mi ha chiesto l’impossibile, perchè sono debole e vecchio.”
La volpe, inclinando la testa da un lato, si mise a studiare il problema, poi disse: “Fai come ti dico, e finirà tutto bene. Devi solo stenderti per terra come se fossi morto e non muoverti. Io torno subito.”
Il cavallo obbedì e si stese a terra. Intanto la volpe trotterellò dino alla tana del leone nella foresta.
“Maestà” disse inchinandosi profondamente “C’è un cavallo morto poco lontano da qui. Seguimi, e avrai un lauto pranzetto.”
Il leone si alzò sollecito e speranzoso e seguì la volpe, la quale lo condusse nel luogo dove si trovava il cavallo. Come tremò il cavallo dentro di sè quando udì il leone che gli si aggirava intorno! Tuttavia non fece alcun movimento, anzi se ne stette immobile il più possibile, fidandosi della volpe.
Allora la volpe disse: “Non è degno di te banchettare in pubblico, maestà. Lascia che ti attacchi il cavallo alla coda, così potrai trascinarlo nella tua tana e lì divorarlo in pace.”
Il leone accettò di buon grado il suggerimento della volpe, e si distese a terra in modo che questa potesse attaccargli il cavallo alla coda. Fu allora che la volpe mise in opera la sua furberia: girò la coda del cavallo così saldamente intorno alle zampe del leone che nessuno avrebbe potuto staccarla.
“Adesso tira, vecchio cavallo, tira più che puoi!” grigò.
Il cavallo si rizzò sulle zampe e cominciò a tirare, e così si trascinò dietro il potente ma inerme leone. Il leone ruggiva e si divincolava, ma non riusciva a spezzare il nodo fatto dalla volpe. In tal modo il cavallo trascinò il leone fuori dalla foresta fino alla fattoria del suo padrone.
Potete immaginare quale fu lo stupore del padrone nel vedere il vecchio cavallo comparire alla porta della stalla trascinandosi dietro un leone!
“Dunque, vecchio mio, hai dimostrato di essere più forte di un leone!” gridò, “E’ più di quanto ti avevo messo come condizione. Benissimo! Torna pure alla tua stalla, ed io ti nutrirò e ti curerò, anche se ormai non puoi più lavorare.”
Mantenne la parola, e il cavallo trascorse il resto della sua vita in piacevole ozio.

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La volpe e l’uva

Un giorno una volpe affamata venne a passare accanto a una vigna e scorse alcuni bellissimi grappoli d’uva che pendevano da un pergolato. I dolci acini le fecero venire l’acquolina in bocca, ma non poteva arrivarci, perchè erano posti troppo in alto. La volpe allora se ne andò con aria dignitosa, dicendo: “Sono troppo verdi: la frutta acerba fa male…”

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Favole e altre storie di animali

Favole e altre storie di animali – una raccolta di favole adatte alla lettura e il riassunto per le classi prima e seconda della scuola primaria, disponibili anche in  scheda e stampabili gratuitamente in formato pdf.

Il picnic degli animali

Le orchidee erano in fiore nella giungla.
Per festeggiare la primavera gli animali avevano fatto un picnic. Alla fine…
“Brrr!” barrì l’elefante sollevando la proboscide. “Non si può lasciare così la radura: con tutti questi piatti e questi bicchieri di plastica sparsi, con le bottiglie vuote e le cartacce e gli avanzi di cibo… Qualcuno deve far pulizia!”
“Io non posso” disse l’ippopotamo. “Devo tornare subito al fiume.”
“Neppure io” disse l’airone rosa “ho paura di sporcarmi le piume.”
“Rrrr!” ruggì il leone “Neppure le grandi piogge potranno distruggere questi orribili rifiuti: la foresta intristirà con tanti pezzi di vetro, di plastica e di latta. Non ci sarà dunque nessuno che farà pulizia?”
“Lo farò io!” disse allora lo scimpanzé “ho le mani!”

Bra, il diverso
Bra il bradipo viveva nella giungla, sull’alto albero della gomma, penzoloni a trenta metri da terra.
Gli altri animali lo prendevano in giro: “Guarda quello: sta sempre aggrappato ad un ramo! Sta sempre capovolto! E’ diverso da noi!”
Ma un giorno le grandi ali spiegate dell’aquila rapace disegnarono nel cielo un’ombra scura.
Il tapiro dalla paura infilò il muso nell’ortica. Il formichiere dallo spavento si coprì la testa con la coda.
L’armadillo dal terrore cominciò a tremare.
Tutti gli animali tacquero agghiacciati. E Bra?
“Bra è stato l’unico a non aver avuto paura” dissero gli animali non appena l’aquila se ne fu andata.
“Nessun animale della foresta riesce a nascondersi meglio di lui. Chi volete che lo veda? Appeso a un ramo anche quando dorme, sembra una palla di muschio. E pensare che noi lo prendevamo in giro!”

L’uccellin del freddo
Viene l’inverno: e con gelide tramontane spazza ogni cosa e copre di neve e di silenzio la terra. L’inverno è lì che mette bianco sui campi, quando vede un uccellino che va volan-do da una siepe all’altra.
“O tu che fai?” domanda. “Da dove scappi?”
“Stavo su, nella boscaglia; e sono venuto al basso a far due chiacchiere col mio amico pettirosso”.
“Ah sì? E il tuo amico dov’è? Partito? E tu che fai qui? Perché non sei andato con lui?”
“Io non ho paura del freddo. Dopo di te tornerà la prima-vera; e sto ad aspettarla.  Trre trre terit!”
“Ora comando io; e non voglio che voli e canti, ma riposo e silenzio”: Ciò dicendo, l’inverno copre di neve anche le siepi degli orti e dei giardini. L’uccellino, che si era nascosto in una catasta di legna, si trova al mattino in mezzo alla neve, ma non si perde d’animo e ricomincia a cantare “Trre trre terit!” L’inverno apre il sacco dei venti e da uscire una tramontana così arrabbiata da far scappare anche i lupi.
L’uccellino, che si era nascosto in un tronco d’albero, trova al mattino tutto gelato, ma non si perde d’animo e ricomincia a cantare: “Trre trre terit!”
“Ma insomma, tu chi sei?”
“Io sono il Re di macchia, sono lo scricciolo, il reattino.”
“Ah! E ancora non senti freddo?”
“Lo sopporto. Sono abituato ai venti delle montagne.”
L’inverno rimane sopra pensiero; dice:
“Sei piccolo ma ardito. Mi piaci. Resta pure con me. Sarai il mio uccellino: l’uccellin del freddo.”

Il topino sapientone
C’era un bambino che non  studiava; il suo libro sempre lasciava di qua, di là.
Un topolino, per imparare, le lunghe pagine a rosicchiare incominciò. E rodi e rodi coi forti denti, lettere e sillabe, virgole e accenti, tutto mangiò. Credette allora d’esser sapiente; agli altri topi diceva: “Oh gente, v’insegnerò. “
Tutti li accolse nella sua scuola, ma aperto un libro… una parola non rivelò. Risero tanto tutti i topini e poi scapparono, quei birichini, gridando: “Oh! Oh! Rodere i libri non vuol dir niente, bisogna leggerli, signor sapiente!”

Chi troppo vuole…
C’era una volta una gallinella nera che faceva un uovo tutti i giorni. Figuratevi la contentezza della sua padrona! Appena sentiva il coccodè, correva al pollaio e beveva l’uovo fresco.
Ma quella donna, avendo osservato che la gallina era molto magra, pensò: “Se diventasse grassa, mi farebbe almeno due uova al giorno!”
E per questa speranza, incominciò a nutrire la gallina con bocconi ghiotti e abbondantissimi. La gallina cresceva a vista d’occhio. Ma quando davvero fu bella grassa, smise di fare le uova.

La rosa e il bruco
Un bruco verde disse a una rosa: “Tu sei bella e odorosa; ma che peccato! Il tuo gambo è pieno di spine!”
E la rosa rispose: “Caro mio, se non avessi le spine, a quest’ora tu saresti arrivato fin quassù e avresti mangiato il bocciolo mio fratello”.

Piccioncini
Nel nido nacquero due piccioncini. Non avevano penne, tenevano sempre gli occhi chiusi. Il babbo e la mamma li vegliavano continuamente. Li imbeccavano; li coprivano col loro corpo per tenerli caldi. E i piccioncini facevano:”Pio pio!”. Come per dire che erano contenti di essere nati, come per ringraziare il babbo e la mamma delle premure che avevano per loro.

La tartaruga
Una mattina la tartaruga si mise in cammino per sbrigare certi suoi affari piuttosto urgenti.
Doveva recarsi da un coniglio banchiere, che aveva il suo ufficio a due miglia di distanza. Cammina cammina, una fermatina qui, e una chiacchierata più là, in dieci ore e più fece appena cinquanta passi.
E allora dovette accorgersi che già faceva buio. Si guardò intorno, e disse con un sospiro: “Ah, come sono corte le giornate!”

La mosca e il moscerino
Due bovi aravano faticosamente il campo, spinti dal contadino. Una mosca volava intorno ai bovi e poi andava a posarsi sull’aratro, con un’aria di grande importanza; poi tornava a volare, a ronzare, a fermarsi sull’aratro: insomma, quanto daffare!
Un moscerino, intanto, passava di lì e le chiese: “Perché ti affatichi così? E che cosa fai?”
La mosca arrogante rispose: “Non lo vedi? E’ proprio necessario spiegarlo? Solamente tu non capisci; noi ariamo la terra.”
A questa risposta perfino il moscerino si mise a ridere.

Il gallo e il sole
Un gallo faceva chicchirichì tutte le mattine, prima che il sole si levasse. E ripeteva spesso con grande vanità: “Sono io che faccio levare il sole!”. Tutti i polli avevano un gran rispetto per il gallo perchè credevano che fosse davvero il padrone del sole.
Una mattina il gallo dormì più del solito, e quando si svegliò, si accorse che il sole era già alto.
Povero gallo, come rimase confuso e avvilito! Perfino le galline risero di lui.

Il corvo e la volpe
“Quanto sei bello!” diceva la volpe a un corvo, che se ne stava appollaiato sul ramo di un albero, e teneva nel becco un pezzo di cacio.
“Che belle piume nere! Se tu avessi una voce melodiosa, ognuno ti chiamerebbe il re degli uccelli!”.
Queste lodi fecero girar la testa al povero corvo, che aprì il becco per cantare.
Ma il cacio cadde in terra e fu subito addentato dalla volpe.

Il ghiro e il mastino
Dopo aver dormito cinque mesi interi, un ghiro usciva per la prima volta dalla sua tana, ancora tutto intorpidito. Ed ecco, appena arrivato all’orlo del bosco, vide passare un cerbiatto che correva come il vento. Il ghiro rimase sbalordito, impaurito, e subito tornò nella sua tana. Stando sull’uscio diceva: “Ma che stranezza! Che sciocchezza! La gente assennata non corre mai in quel modo!” Un vecchio mastino, che era lì fermo a godersi il sole, udì quelle parole e osservò: “Caro mio perché vuoi misurare gli altri, confrontandoli con te? Se la natura ha fatto tanto diversi il ghiro e il cervo, non devi meravigliarti se tu sei tanto lento e il cervo è tanto rapido.”

Tra i due litiganti il terzo gode
Un orso e un leone si litigavano tra di loro per un pezzo di carne.
“L’ho visto prima io!” esclamava l’orso.
“Ma io l’ho preso!”, ribatteva il leone.
“Dunque dividiamolo a metà!”
“No, perché è tutto mio!”
Dalle parole passarono ai fatti, e cominciarono a picchiarsi come disperati. Picchia picchia, si stancarono, e alla fine dovettero distendersi per riposare un poco. Così distesi, si addormentarono.
Intanto il pezzo di carne era rimasto in terra e ci camminavano sopra le formiche.
Una volpe sbucò dalla macchia, prese il pezzo di carne,  e se ne fece una bella scorpacciata con tutto il suo comodo.

La parola data
Un lupo affamato uscì dal bosco e arrivò fino alle case degli uomini. Dalla finestrina di una casuccia uscivano le grida di un bimbo imbizzito, e il lupo disse fra sé: “Come mi piacerebbe non far gridare più quel bambino!” e si leccava le labbra. Giusto in quel momento una vecchia, dentro la casuccia, diceva: “Bada, bambino, se non smetti di piangere ti darò al lupo!”.
“Benissimo” pensò il lupo “è proprio quello che cerco io”. E si mise a sedere, perché era inutile andare a cercare più lontano quello che orai era tanto vicino. Bastava solo aspettare.
Aspetta, aspetta, si fece notte e nessuno gli portava il bambino. Forse si erano tutti addormentati. Ma verso la metà della notte, si udì il bimbo piagnucolare, e la vecchia gli diceva: “Non piangere, bambino mio, tesorino mio. Non ti darò al lupo; anzi,  se viene lo ammazzeremo col fucile di tuo padre.” Il lupo brontolò:
“Che gente! Si vede che qui non usa mantenere la parola data.”

Il rondinino pigro
Le rondini insegnavano a volare ai rondinini, che lesti lesti facevano un giro in aria, e poi tornavano a riposarsi nel nido. Però un rondinino pigro e pauroso non voleva muoversi mai dal nido. Il suo babbo e la sua mamma non riuscivano a persuaderlo con il loro cinguettio. Il rondinino nascondeva perfino la testa dentro al nido. Finalmente il babbo e la mamma si stizzirono. E afferrato per le ali il rondinino pigro, lo trasportarono insieme con loro. Poi lo lasciarono andare nell’aria.
Il rondinino traballò, come se dovesse cadere; ma dopo un istante volò allegramente insieme con tutti gli altri.

Il topo e il leone
Un topo, senza volere, passò una volta sul corpo di un leone addormentato. Il leone si destò di soprassalto, e con una delle sue zampone afferrò il topo. “Per carità non mi ammazzi!” esclamò il povero animalino “Non volevo disturbarla e le prometto che ad ogni occasione l’aiuterò volentieri”…Il leone cominciò a ridere, nel sentir dire che un topo gli prometteva di aiutarlo. E tanto rise, che allargò la zampa, e il topolino potè fuggire tutto contento.
Passò del tempo, e una volta il leone restò impigliato in un laccio teso dai cacciatori. Si dibatteva furiosamente, ruggiva in modo da far tremare gli alberi, ma la fune non si spezzava perché era molto grossa e resistente. In quel momento arrivò di corsa il topolino. “Aspetti un poco” disse quando ebbe visto di che cosa si trattava, “Per me il rodere è un divertimento!”. In verità dovette rodere con molta fatica per più di un’ora. Ma alla fine la  corda si spezzò e il leone fu libero. “Vede?” disse il topo “Ora lei non ride più; e ha capito che anche un poveraccio come me può essere utile davvero al re degli animali.”

Il gatto e i topi
In una casa vivevano moltissimi topi. Un gatto riuscì ad entrare nella casa e cominciò a catturarli. Questi si accorsero che la faccenda si metteva male, e dissero: “Sapete che facciamo? Non scendiamo più dal soffitto, fin quassù il gatto non potrà certamente raggiungerci.
I topi smisero così di scendere in basso, ma il gatto cercò il modo di essere più furbo di loro. Si aggrappò con una zampa al soffitto e si lasciò penzolare, fingendo di essere morto. Uno dei topi lo vide in quella posizione, ma gli disse: “No, amico mio. Neppure se ti riducessi a sembrare un sacchetto, io ti avvicinerei!”

Gli uccelli nella rete
Un cacciatore tese la rete sulla riva di un lago. Vi rimasero prigionieri molti uccelli. Ma erano grossi: sollevarono la rete da terra e volarono via con essa. Il cacciatore si mise a rincorrerli.
Un contadino lo vide e gli disse: “Dove corri? Credi di poter raggiungere un uccello che vola?
Il cacciatore rispose: “Se fosse un uccello solo, non lo raggiungerei. Ma questi non mi sfuggiranno.”
E così avvenne. Al calar della sera, gli uccelli volevano ritornare al loro nido ciascuno in luoghi diversi: uno verso il bosco, un altro verso la palude, un terzo verso i campi. E finirono per cadere a terra insieme alla rete.
Così il cacciatore li catturò.

La coda della volpe
Un uomo aveva catturato una volpe e le domandò: “Chi ha in-segnato alle volpi ad ingannare i cani con le loro code?”
La volpe ribattè: “Ingannare i cani? Noi non li inganniamo; fuggiamo dinanzi a loro più in fretta che possiamo.”
L’uomo insistette: “No, voi li ingannate con la coda. Quando i cani stanno per raggiungervi e cercano di catturarvi, voi scuotete la coda da un lato; il cane si slancia sulla coda, e voi fuggite dal lato opposto.”
“Non lo facciamo per ingannarli,” spiegò la volpe sorridendo “ma per cambiare direzione. Quando il cane sta per raggiungerci e noi vediamo che non possiamo sfuggirgli, cerchiamo di cambiare direzione; ma per girarci in fretta, dobbiamo spingere la coda dal lato opposto, come fate voi uomini con le braccia, quando correte e fate una curva. Non è un inganno; ce lo ha insegnato la natura stessa quando ci ha create per impedire che i cani acchiappassero tutte le volpi, dalla prima all’ultima.”

Il cervo e la vigna
Un cervo, inseguito dai cacciatori, si nascose in una vigna. Appena i cacciatori si allontanarono, il cervo cominciò a brucare le foglie larghe della vite.
I cacciatori notarono le foglie muoversi, e pensarono: “Forse, laggiù si nasconde qualche animale selvaggio.”
Spararono e ferirono il cervo. E questi, già vicino alla morte, disse: “Me lo sono proprio meritato: ho voluto mangiare proprio ciò che mi aveva nascosto e salvato la vita.”

L’asino e il cavallo
Un uomo possedeva  un asino e un cavallo. Mentre percorrevano la stessa strada con il loro carico, l’asino disse al cavallo: “Che fatica! Non ho più le forze per portare tutto questo peso. Prendi tu qualcosa.”
Il cavallo rifiutò e l’asino, privo di forze, cadde a terra e morì.
Il padrone, allora, caricò tutta la roba sul dorso del cavallo, e per giunta, anche la pelle dell’asino. E il cavallo si lamentò: “Ahimè, come sono sfortunato! Poco fa non ho voluto dare un piccolo aiuto al mio compagno, ed ora devo portare tutto il suo carico e per di più anche la sua pelle.

La testa e la coda del serpente
Un giorno la coda del serpente attaccò lite con la  testa: si doveva stabilire quale delle due dovesse andare avanti per prima.
La testa diceva: “Tu non puoi andare avanti per prima; non hai occhi e non hai orecchi!”.
La coda rispondeva: “In compenso però, io ho la forza. Sono io che ti faccio muovere. Se per capriccio mi arrotolo intorno ad un albero, tu non ti puoi spostare più.
Propose la testa: “Allora, separiamoci.”
La coda si staccò dalla testa e cominciò a strisciare da sola. Ma poco dopo non vide un crepaccio e vi precipitò dentro.

La gru e la cicogna
Un contadino tese le reti e riuscì a catturare alcune gru che gli danneggiavano il raccolto. Fra di esse vi era anche una cicogna. Per salvarsi, disse al contadino: “Lasciami andare, io non sono una gru, ma una cicogna. Fra tutti gli uccelli, noi siamo la specie più rispettabile: io abito infatti sul tetto della casa di tuo padre. Se guardi le mie piume, ti accorgi che non sono una gru”.
Il contadino rispose: “In compagnia di gru ti ho acciuffato, in compagnia di gru ti mangerò”.

La formica e la colomba
Una formica era assetata e si avvicinò alla riva di un ruscello. Un’onda la investì e la fece cadere nell’acqua. Una colom-ba, che passava portando un ramoscello nel becco, vide la formica in pericolo e le lanciò il ramoscello. La formica vi si aggrappò e fu salva. Qualche tempo dopo, un cacciatore stava per catturare la colomba nella sua rete. La formica gli si accostò e gli morse una gamba. Il cacciatore sussultò e si lasciò sfuggire la rete dalle mani. La colomba aprì le ali e volò via.

La mucca da latte
Un uomo possedeva una mucca, che gli dava ogni giorno un secchio di latte. L’uomo invitò alcuni amici a casa sua e, per avere più latte da offrire loro, per dieci giorni non munse la mucca. Pensava che  il decimo giorno avrebbe potuto avere dieci secchi di latte. Invece, il latte si era fatto denso e acido; così quando il padrone munse la mucca, questa gli diede meno latte che le altre volte.

Il lupo nella polvere
Un lupo voleva catturare una pecora del gregge e si accostò sotto vento, in modo da restare nascosto nel polverone che il gregge si lasciava dietro.
Il cane del pastore lo vide e gli disse: “Sbagli, lupo mio, a camminare nella polvere: gli occhi ti si ammaleranno.”

I cani e il cuoco
Un cuoco preparava il pranzo e i cani stavano sdraiati davanti alla porta della cucina. Il cuoco uccise un vitello e gettò gli intestini in cortile. I cani mangiarono tutto allegramente e dissero: “Che bravo cuoco! Cucina benissimo!”
Poco dopo il cuoco cominciò a ripulire piselli, rape, cipolle, e gettò fuori ciò che scartava. I cani annusarono e dissero: “Come ha peggiorato il nostro cuoco! Prima faceva da mangiare così bene, ma ora non vale più nulla.
Il cuoco, però, non si curò dei cani e continuò a preparare il pranzo, che fu consumato e lodato dai clienti del ristorante.

Il lupo e i cacciatori
Un lupo aveva catturato una pecora e se l’era mangiata. Sopraggiunsero alcuni cacciatori, riuscirono a prenderlo e deci-sero di ucciderlo. Il lupo disse loro: “Voi volete uccidermi, ma non è giusto. Se io sono povero, non è colpa mia: la natura mi ha fatto così”.
I cacciatori risposero: “Noi ti uccidiamo, non perché sei povero, ma perché ti mangi tutte le pecore che ti capitano a tiro”.

Il cavallo e lo stalliere
Uno stalliere rubava l’avena al suo cavallo e la rivendeva. In compenso, ogni giorno lo strigliava ben bene per farlo apparire bello. Il cavallo gli disse: “Se vuoi davvero che  io sia bello, non rivendere la mia avena!”.

La chioccia e i suoi pulcini
Una chioccia aveva appena finito di covare: i pulcini erano usciti dalle uova, ma lei non sapeva come proteggerli dai pe-ricoli. Perciò disse loro: “Rientrate nei vostri gusci. Io mi accovaccerò sopra di voi come quando vi covavo, e così sarete al sicuro.”
I pulcini obbedirono, tentarono di rimettersi nei loro gusci, ma inutilmente. Allora il più piccolo disse alla madre: “Se pretendevi di farci stare sempre dentro il nostro guscio, avresti fatto meglio a non farci uscire.

Il leone, l’orso e la volpe
Un leone ed un orso trovarono un pezzo di carne e si misero a litigare. L’orso non voleva cedere  e il leone altrettanto. Lottarono a lungo e alla fine caddero a terra privi di forze. Una volpe, nascosta lì vicino, vide il pezzo di carne, lo addentò e fuggì via.

Il bugiardo
Un giovane pastore stava vigilando le sue pecore e, come se avesse visto il lupo, cominciò a gridare: “Al lupo! Al lupo!”.
I contadini accorsero per aiutarlo, ma il lupo non c’era e capirono che erano stati ingannati.
Il ragazzo ripetè lo scherzo una seconda e una terza volta, ma un giorno il lupo sbucò fuori per davvero. ll ragazzo si mise a gridare: “Presto, correte! C’è il lupo! C’è il lupo!”
I contadini pensarono che egli, ancora una volta, volesse far loro uno scherzo, e non gli diedero retta. Il lupo si accorse che non c’era nessun pericolo e, comodo comodo, si mangiò tutto il gregge.

L’anitra e la luna
Un’anitra andava a nuoto per il fiume in cerca di pesci: in tutta la giornata non ne aveva cattu-rato uno. Appena fece notte, l’anitra vide la luna riflessa nell’acqua, credette fosse un pesce e si immerse per acchiapparla. Le altre anitre la videro e si burlarono di lei.
Da quel giorno divenne tanto vergognosa e impacciata che, anche quando vedeva un pesce sott’acqua, aveva timore ad immergersi e non l’acchiapava. E così morì di fame.

L’asino selvatico e l’asino domestico
Un asino selvatico vide un asino domestico; gli si avvicinò e si complimentò della sua sorte felice: era ben nutrito e dall’aspetto pareva essere trattato assai bene dai padroni.
Ma poi, quando l’asino domestico fu caricato col basto e il conduttore lo faceva trottare a tutta forza, l’asino selvatico disse: “Ora, fratello, non ti invidio più: vedo che ti guadagni la vita col sudore e con le più dolorose umiliazioni.

Il topo sotto il granaio
Un topo viveva sotto un granaio. Nel pavimento vi era un piccolo foro che lasciava cadere il grano, chicco per chicco. Col cibo sempre a disposizione, il topo viveva tranquillo, ma non era soddisfatto e volle vantarsi delle sue comodità. Rosicchiò il pavimento, allargò il foro, e invitò altri topi a fargli visita.
“Venite a far festa a casa mia” disse “Ci sarà da mangiare per tutti”.
Ma quando condusse gli amici sul posto, si avvide che il foro non c’era più. Evidentemente il padrone di casa lo aveva notato e aveva provveduto a chiuderlo.

La rana e il leone
Un leone udì una rana gracidare a gran voce e si spaventò: pensò che fosse un animale molto grosso ad emettere quel grido così forte.
Si avvicinò pian piano per vedere di che si trattasse e vide una piccola rana uscire dal pantano.
Allora disse fra sé: “D’ora in poi, se prima non avrò visto coi miei occhi di che si tratta, non mi spaventerò più.”

La cornacchia e i piccioni
Una cornacchia osservò che i piccioni vivono comodamente e sono ben nutriti, perché l’uomo pensa a loro. Si tinse le penne di bianco e volò nella piccionaia. Dapprima i piccioni pensarono che fosse dei loro, e la lasciarono entrare. Ma la cornacchia si dimenticò per un attimo del suo travestimento e si mise a gracchiare come tutte le cornacchie. Allora i piccioni presero a canzonarla e la cacciarono fuori a beccate. La cornacchia ritornò fra le compagne, ma queste, spaventate dalle sue penne bianche, la cacciarono via come avevano fatto i piccioni.

Il gallo e le lavoranti
Una padrona svegliava di notte le donne al suo servizio e al primo canto del gallo le metteva al lavoro.
A queste la vita parve molto dura; tanto che decisero di uccidere il gallo perché non svegliasse più la padrona. Gli torsero il collo, ma la loro vita peggiorò.
La padrona, infatti, per timore di non svegliarsi a tempo, da quel giorno fece alzare le lavoranti ancora prima.

La cicala e le formiche
In autunno, nel formicaio, il grano si era un po’ inumidito; le formiche lo portarono fuori ad asciugare. Una cicala affamata chiese loro qualche cosa da mangiare. Le formiche dissero: “Perché, quando era estate, non hai provveduto a farti le provviste?”
Quella rispose: “Mi mancava il tempo, avevo le mie canzoni da cantare!”.
Le formiche risero e dissero: “Se in estate hai fatto musica, in inverno ballerai”.

La volpe dallo stomaco gonfio
Una volpe affamata riuscì a scovare nella cavità di una quercia pezzi di pane e di carne lasciati là dai pastori. Vinta dalla fame vi entrò e mangiò tutto. Ma il suo stomaco si gonfiò tanto che non poteva più uscire dall’albero. Prese allora a gemere. Di lì passò, per caso, un’altra volpe; udì i suoi lamenti, si avvicinò e gliene domandò la causa. Venuta a conoscenza dell’accaduto, “Ebbene” disse “resta lì fino a quando non ritorni ad essere magra, come quando sei entrata. Allora uscirai senza alcuna difficoltà.”

Il leone vecchio e la volpe
Un leone, ormai vecchio, era incapace di procurarsi il cibo con le proprie forze. Per poter sopravvivere, pensò di ricorrere all’astuzia. Si ritirò in una caverna e, sdraiatosi, finse di essere infermo. Così poteva assalire e divorare tutti  gli animali che andavano a fargli visita. Ne aveva già mangiato un buon numero, quando gli si presentò la volpe, che si fermò a distanza dalla caverna e prese a domandargli come stava di salute.
“Male!” rispose il leone e le chiese per quale motivo non entrava.
“Io entrerei” rispose la volpe “se non vedessi tante orme di animali che entrano e nessuna di animali che escono.”.

Il toro e la zanzara
Una zanzara andò a posarsi sul corno di un toro.
Vi rimase per lungo tempo e, quando fu per andarsene, chiese al forte animale se era soddisfatto di liberarsi del peso.
Il toro le rispose: “Ma io non mi sono accorto quando ti sei posata su di me, né mi accorgerò quando te ne andrai.”

La vipera e la lima
Una vipera si introdusse nell’officina di un fabbro e chiese ai diversi utensili di farle l’elemosina.
Dopo averla ricevuta dagli altri, si avvicinò alla lima e la pregò di darle anche lei qualche cosa.
La lima rispose: “Tu sei molto sciocca, se credi di ottenere anche una piccola cosa da me, che ho l’abitudine, non di dare, ma di prendere a chiunque mi capiti vicino.”.

Il lupo e la capra
Un lupo vide una capra che stava pascolando sulle rupi scoscese di un’alta montagna. Non poteva raggiungerla per catturarla; perciò la esortò a scendere, altrimenti, per inavvertenza, poteva cadere.
“Il prato” le diceva “dove io mi trovo, è meno pericoloso e l’erba è molto più alta.”
Ma la capra rispose: “Non è per me e per la mia salvezza che tu mi chiami al pascolo, ma per te, per procurarti da mangiare.”

Il leone chiuso a chiave e l’agricoltore
Un leone si introdusse nella fattoria di un agricoltore. Questi voleva catturarlo e chiuse a chiave il cancello del cortile. La belva, che non trovava via d’uscita, prese a sbranare le pecore e poi assalì persone e buoi. L’agricoltore, temendo anche per la sua vita, aprì il cancello. Dopo che il leone si era allontanato, il contadino prese a lamentarsi di quella disgrazia. E la moglie, vedendolo in lacrime: “Ben ti sta” gli disse “hai voluto rinchiudere in casa tua un animale, che persino da lontano devi fuggire!”.

La volpe e il cane
Una volpe si introdusse in un gregge di pecore, prese un agnello e finse di baciarselo. Il cane, custode delle pecore, le chiese per quale motivo si comportasse in quel modo.
“Lo accarezzo” rispose la volpe “e gioco con lui”.
“Se non lo lascia” ribattè ringhioso il cane “vengo io a farti carezze di cane.”

Il leone, il cinghiale e gli avvoltoi
Nella stagione estiva, quando l’afa ed il caldo opprimente generano la sete, un leone ed un cinghiale si trovarono con-temporaneamente vicino ad una piccola sorgente.
Presero subito a litigare, poiché entrambi volevano bere per primi. Dalle parole passarono ai fatti: iniziarono una lotta morta-le. I due contendenti erano già feriti e sanguinanti, quando, sollevando lo sguardo al cielo, scorsero uno stormo di avvoltoi, gli uccelli che si nutrono dei cadaveri. Questi volteggiavano sopra di loro, in attesa di divorare il primo che fosse caduto morto. Così interruppero la lotta e dissero: “Meglio essere amici fra di noi, che pasto per gli altri.”

L’orso e i pesci
Se talvolta nei boschi l’orso non riesce a procurarsi il cibo, corre alle scogliose rive del mare, si afferra ad una roccia e, lasciandosi penzolare, immerge pian piano le zampe pelose nell’acqua. Così, tra i ciuffi del pelo, i granchi e i pesci restano presi. Il furbo poi si arrampica, si scrolla di dosso le sue prede e, passo passo, se le mangia comodamente.
La fame aguzza l’ingegno.

Le lepri e le rane
Nel bosco un giorno le lepri presero a protestare con grande strepito: non volevano rassegnarsi a vivere nella continua paura. Così si diressero ad uno stagno, col proposito di buttarsi dentro e di morire. Al loro accorrere le rane, spaventate, balzarono in fuga e si acquattarono sotto le verdi alghe.
“Caspita!” disse una lepre “Ci sono altri presi dal panico e sempre timorosi del male. Fermiamoci e sopportiamo la vita come tanti.

La rana gonfiata e il bue
Una volta una rana vide un bue in un prato. Presa dall’invidia per quell’imponenza, prese a gonfiare la sua pelle rugosa. Chiese poi ai suoi piccoli se era diventata più grande del bue. Essi risposero di no.
Subito riprese a gonfiarsi con maggiore sforzo e di nuovo chiese chi fosse più grande.
Quelli risposero: “Il bue”.
Sdegnata, volendo gonfiarsi sempre più, scoppiò e morì.

La volpe e l’uva
Spinta dalla fame sotto un alto pergolato, una volpe cercava di afferrare l’uva, saltando con tutte le sue forze.
Visto che non riusciva neppure a toccarla, allontanandosi disse: “Non è ancora matura. Non voglio mangiarla acerba.”

Il lupo e la gru
Un lupo aveva inghiottito un osso che gli era rimasto in gola. Disperato, prese a vagare in cerca di qualcuno che lo liberasse dal male.
Incontrò una gru e la pregò di estrarglielo, dietro compenso. L’ingenua gru introdusse il capo nella gola del lupo, la liberò dell’osso e chiese il premio, secondo il patto. Ma il lupo rispose: “Non ti basta di aver ritirato sana e salva la testa dalla mia bocca? Chiedi anche una ricompensa?”

La mucca, la capra, la pecora e…
Una mucca, una capra e una debole pecora, rassegnata a tutte le ingiurie, fecero alleanza con un leone per andare a caccia. Riuscirono a catturare un magnifico cervo, ed il leone, fatte le parti, così ruggì: “Io mi prendo la prima poiché il mio nome è leone; la seconda dovete darla a me, perché sono socio; la terza mi spetta perché valgo di più; e se qualcuno osa toccare la quarta, finirà male”.
E così la prepotenza, da sola, si portò via tutta la preda.

La volpe e la maschera
Un giorno una volpe trovò una maschera, di quelle che si usano in teatro.
“Quant’è bella!” disse “Ma non ha cervello”

Il cane e il pezzo di carne
Un cane nuotava per il fiume, portando in bocca un pezzo di carne. Ad un tratto vide la sua immagine nello specchio delle acque e, credendo che un altro cane portasse una seconda preda, volle strappargliela.
Ma la sua avidità fu punita: lasciò cadere il cibo che teneva in bocca e non riuscì neppure a toccare quello che desiderava.

L’assemblea dei topi
Un gatto, chiamato Rodilardus, faceva un tale sfacelo di topi che non se ne vedevano quasi più, in giro, tanti ne aveva messi dentro… la sepoltura.
Ora, un giorno che il birbaccione era lontano, i topi sopravvissuti tennero assemblea. Un topo molto prudente sostenne che sarebbe stato necessario attaccare un bubbolo al collo di Rodilardus; così appena il gatto si metteva in caccia, tutti, avvertiti dei suoi movimenti, si sarebbero rifugiati sottoterra.
Tutti furono d’accordo con lui. La difficoltà fu di attaccare il sonaglio. Uno disse: “Io non ci vado, non sono mica così scemo!”
Un altro disse: “Io non sarei capace”.
Così, senza far niente, si lasciarono.

Il lupo e l’agnello
Un agnello si dissetava alla corrente di un ruscello purissimo. Sopraggiunse un lupo in caccia: era digiuno e la fame lo aveva attirato in quei luoghi. “Chi ti dà tanto coraggio da intorbidare l’acqua che bevo?” disse questi furioso.
“Sire…” rispose l’agnello “io sto dissetandomi nella corrente sotto di lei, perciò non posso intorbidare la sua acqua!”
“La sporchi” insistè la bestia crudele “E poi so che l’anno scorso hai detto male di me”.
“Io? Ma se non ero nato”, rispose l’agnello.“Se non sei stato tu, è stato tuo fratello”. “Non ho fratelli”. “Allora qualcuno dei tuoi; perché voi, i vostri pastori e i vostri cani ce l’avete con me. Me l’hanno detto: devo vendicarmi. Detto questo il lupo trascinò l’agnello nel fitto della foresta e se lo mangiò.

Pdf delle favole in formato scheda e in formato testo qui:

Il passaggio dal maiuscolo al minuscolo come trasformazione della forma. Una storia tutta da disegnare.

Il passaggio dal maiuscolo al minuscolo come trasformazione della forma. Una storia tutta da disegnare, in uso nelle scuole Waldorf, per presentare lo stampato minuscolo.

Il passaggio dal maiuscolo al minuscolo

Dopo essere state maltrattate per un anno intero, chiuse nei quaderni dei bambini della prima classe, le povere letterine tornarono a casa lamentandosi: la povera A aveva le gambe tutte larghe, la S non ne parliamo visto che ogni tanto i bambini la mettevano addirittura a testa in giù, poi c’era la D con la gobba, la T col tetto cadente, la R con una gamba rotta, la H zoppa, la P con la pancia che pendeva, la I col mal di schiena, la O piena di bitorzoli, la V che prendeva il volo… insomma non vedevano proprio l’ora di tornare a casa a riposare.

Ma non appena varcarono la soglia, quale sorpresa trovarono! Mentre loro erano state coi bambini di prima, le loro sorelline ne avevano approfittato per mettere tutta la casa sottosopra.
Le sorelle maiuscole, stanche e tutte ammaccate, non riuscivano proprio a riposare con tutta quella confusione, e per di più le minuscole facevano un sacco di capricci, e dicevano che anche loro volevano andare a scuola e conoscere i bambini della classe.

Dopo aver passato la notte in bianco, il mattino seguente le poverette stavano peggio di prima, e così decisero di andare tutte dal dottore. Visto che erano gravi, il dottore decise di ricoverarle tutte in ospedale. Ognuna venne curata, medicata, incerottata, ingessata e massaggiata, e dopo due settimane poterono tutte insieme lasciare l’ospedale. Erano tornate come nuove e si sentivano davvero bene, ma il dottore si raccomandò di non interrompere le cure, e consigliò loro di trascorrere un periodo di convalescenza in montagna. Nonostante le cure, infatti, erano ancora piuttosto deboli, e c’era il pericolo di ricadute. Così il dottore si fece promettere che sarebbero andate in montagna da sole, senza le sorelline minuscole.

E le maiuscole uscirono dall’ospedale in fila indiana, ed erano proprio belle: A B C D E F G H I L M N O P Q R S T U V Z.

Andarono a casa per preparare le valige e salutare le sorelline minuscole, ma quelle cominciarono a strillare e a far dispetti, e testarde e capricciose com’erano, non volevano sentir ragioni. Anche loro volevano andare in vacanza in montagna! Le povere sorelle maiuscole cercarono in ogni modo di convincerle, si spiegar loro che era stato il dottore a prescrivere il riposo assoluto, e che finchè non fossero completamente guarite, non avevano proprio le forze per occuparsi di loro in vacanza.

Ma non c’era niente da fare… Promisero allora che, non appena si fossero sentite un po’ meglio, le avrebbero chiamate, e così anche loro avrebbero fatto un po’ di vacanze in montagna, ma anche questa promessa non servì a nulla, se non a far aumentare le lagne e i capricci.

Allora si accordarono in segreto di far finta davanti alle piccole di aver cambiato idea e di aver rinunciato a partire, e si diedero appuntamento a mezzanotte nella stanza di A. Cenarono come se niente fosse, si lavarono, diedero il bacio della buonanotte alle sorelline e andarono a letto facendo finta di dormire. A mezzanotte, sicure che le piccole monelle fossero cadute nel tranello, si radunarono senza far nessun rumore e si prepararono alla fuga. Ma non si accorsero che due occhietti brillavano sotto il letto, e che una delle sorelline le aveva spiate ed era pronta a spifferare tutto alle altre.

Così, mentre le sorelle maiuscole preparavano i bagagli nella camera di A ed aspettavano l’alba per iniziare il loro viaggio, la sorellina piccola aveva già dato l’allarme alle altre, ed un’altra riunione segreta si stava tenendo al piano di sotto, in cucina…

Alle prime luci del mattino, le maiuscole uscirono in punta di piedi, coi loro zaini e le loro valige, e intrapresero il cammino verso la montagna… pensavano proprio di essere riuscite a farla franca. E non sospettarono mai di nulla, finchè non giunsero ad un’altura che dominava tutto il paesaggio sottostante: l’ampia vallata era disseminata di piccoli e graziosi paesini, ciascuno con la sua chiesetta e il suo alto campanile, c’era un magnifico laghetto che specchiava l’azzurro del cielo e il verde delle montagne, c’erano prati e covoni di fieno… e un po’ più in basso, dietro di loro, c’erano ahimè le sorelline minuscole…

-Aspettateci!-, gridavano quelle sciocchine, troppo piccole per avventurarsi da sole per quei ripidi sentieri -Vogliamo venire con voi!-

Le sorelle maiuscole erano più spaventate che meravigliate, e temendo ormai il peggio gridarono: -Tornate indietro! Potreste cadere da un momento all’altro! Non vedete? Per voi è troppo pericoloso salire fin quassù!-
E mentre le maggiori pensavano di averle finalmente convinte a si fermarono a fare un picnic prima di proseguire per la ripida salita, le piccole fecero finta di tornare indietro, ma approfittando della distrazione delle sorelle, si nascosero dietro ai sassi, agli alberi ed ai cespugli, e ripresero l’inseguimento.

Quando le grandi ripresero il cammino, le piccole fecero altrettanto… arrancavano a gran fatica, cercando di non farsi scoprire, in fila indiana, per mano una dietro l’altra, ma quella salita era davvero troppo per le loro piccole gambette. E successe l’irreparabile: la prima della fila perse l’equilibrio e gridando: -Aiutooooo!- cominciò a rotolare a valle lungo il pendio della montagna, trascinando con sè nella rovinosa caduta tutte le altre.

Di scatto le sorelle maggiori, giunte quasi in vetta, si voltarono e videro le piccole monelle rotolare come una valanga verso il basso, e sparire nell’ampia vallata sottostante. Non restava altro da fare che dire addio alla vacanza, e scendere a cercarle a valle, sperando per il meglio.

Con le orecchie ben aperte ridiscesero il sentiero, e stavano ormai disperando dopo ore ed ore di inutili ricerche.
Giunte a valle, sempre più preoccupate, decisero di dividersi per cercare meglio, ed ognuna prese una direzione diversa.

continua nelle pagine seguenti (segui i numeri delle pagine):

Una storia per presentare le vocali in prima classe

Una storia per presentare le vocali in prima classe – un racconto in uso nella scuola Waldorf per presentare ai bambini vocali dell’alfabeto maiuscolo.

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Una storia per presentare le vocali in prima classe

“La storia di Lauretta”

 

Molto, molto tempo fa, in un paese ai confini del mondo,viveva una bambina che si chiamava Lauretta. Quel paese era come un giardino, era un mare d’erba senza confini, i fiori erano i pesci, di mille colori e di mille specie. Se ne occupava un giardiniere, che conosceva tutti i segreti della vita, così quei fiori non appassivano mai, anzi diventavano sempre più belli, luminosi, profumati. Lauretta viveva proprio in quel giardino come un fiore tra i fiori. Ma proprio davanti alla sua casetta di fiori non ce n’erano. Anche lì l’erba era tenera e delicata, l’aria luminosa e tiepida come una carezza, ma non un fiore. E questa sua aiuola davanti casa le metteva malinconia.

Un giorno arrivarono nel paese un uomo e una donna: camminavano lentamente, con la schiena curva, sembravano molto stanchi. Andarono dal giardiniere e gli consegnarono due sacchettini. Poi si stesero sull’erba a riposare, e mentre dormivano il giardiniere aprì i due sacchetti e sparse i semi che contenevano nel prato. Magicamente apparvero nuovi meravigliosi fiori. Lauretta, che aveva osservato la scena da lontano, corse allora dal giardiniere per chiedergli una manciata di quei semi da spargere sulla sua aiuola senza fiori. Ma il giardiniere le disse che lui altri semi non li aveva, e che non ne esistevano nemmeno altri in tutto il loro paese: per procurarseli bisognava essere disposti a partire per un lungo viaggio.

 

Lauretta provava un desiderio fortissimo, che la spinse ai margini del giardino e senza che quasi se ne rendesse conto, si trovò a percorrere il sentiero del bosco, un sentiero che diventava sempre più ripido, stretto e buio. Lauretta aveva paura, ma proprio quando pensò di tornare indietro ricordò il giardiniere e il suo volto rassicurante e sereno, e si fece coraggio. Rialzando lo sguardo, vide sorgere davanti a sè, in fondo al sentiero, un grande arco luminoso. Lo oltrepassò, e si trovò in un’ampia sala circolare, al centro della quale splendeva una creatura incantevole. La sua veste era candida come neve, i suoi capelli una cascata d’argento fine, il suo volto pallido e luminoso come luna d’estate. La splendida creatura sedeva su un cuscino di seta finissima, e teneva fra le dita delicate un sottilissimo filo di luce, che avvolgeva lentamente, in silenzio, formando un gomitolo sempre più grande. Non guardò Lauretta, sembrò proprio non accorgersi nemmeno di lei, continuando ad avvolgere il gomitolo. Lauretta la guardava trasognata e col cuore in attesa.

 

La creatura finalmente si alzò, e fissandola negli occhi, le porse il gomitolo di luce. Lauretta se lo portò al cuore, chiuse gli occhi per un istante poi, raccogliendo tutto il suo coraggio, lo lanciò dietro di sè. Subito si sentì venir meno le forze, e cadde addormentata, mentre il filo magico, srotolandosi, disegnò un sentiero tortuoso, che si perdeva in lontananza, tra il verde. Lauretta si svegliò nell’ora magica dell’aurora, quando tutto è avvolto da pallida luce azzurra. Tutto era silenzio. La natura era immersa nel sonno. Dormivano gli uccelli nel nido con la testina sotto l’ala, dormivano gli scoiattoli raggomitolati nelle loro tane, dormivano le api nelle loro cellette, dormiva la coccinella dentro il calice del fiore bianco, dormiva la lucertola sotto il sasso, dormiva la lumaca sotto la foglia, perfino le mosche dormivano, e le zanzare, e le libellule e le farfalle. I fiori non mostravano i petali, perchè dormivano anche loro. Lauretta si sentiva smarrita, non ricordava nulla di ciò che le era accaduto fino a quel momento, ma lo spettacolo che le si presentò era così straordinario che la fece commuovere: il sole stava sorgendo lentamente all’orizzonte, e intorno a lui si spandeva una calda luce rosata. Le labbra di Lauretta si schiusero senza che se ne rendesse conto, e tutta la sua ammirazione e la sua devozione risuonarono come una lunga A. Dopo qualche istante il sole comparve rosso in tutta la sua maestosità, ed Lauretta fu quasi accecata da tanto splendore.

 

Così cominciò a percorrere il lungo sentiero che il gomitolo di luce aveva tracciato per lei. Il mondo era magnifico, Lauretta non sapeva da che parte voltarsi per ammirare tutto quello che aveva intorno. Era un mondo da scoprire e gustare: colori, suoni, e profumi ovunque. I fiori si erano svegliati e stiracchiavano al primo sole i loro petali, mentre l’erba sembrava un tappeto tessuto con tutte le sfumature di verde. L’aria vibrava del canto degli uccelli. Lauretta corse sui prati, si rotolò tra l’erba, ammirò i cespugli fioriti, vide alberi di ogni forma e grandezza e tra le frode vide fervere la vita: uccelli che costruivano il nido, scoiattoli che si rincorrevano saltando da un ramo all’altro, insetti che ronzavano leggeri nell’aria.”Chi sei?” chiese Lauretta a una creaturina col vestito giallo e nero, che volava di fiore in fiore. “Sono l’ape operosa, faccio visita agli amici fiori che mi danno il dolce nettare da portare nella mia casetta. Con quel succo farò il miele, che piace tanto agli uomini”. Ma ora cosa stava succendendo? Un fiorellino bianco si era messo a volare? Ma no, era una farfalla. “Non devi toccarmi, sulle mie ali c’è la polverina magica che mi fa volare, e se me la sciupi non potrò più visitare i fiori, che mi sono fratelli. Sai, loro hanno le radici e non possono volare, sono io che racconto loro i segreti del cielo, dell’aria e della luce.” La farfalla si posò tra i capelli di Lauretta, e subito altre se ne aggiunsero, a formare una corona. “Ma guardate, farfalline! Lì la terra si sta muovendo, chesuccede?” Un buffo musetto comparve davanti a lei, appuntito, con gli occhi chiusi. “E tu chi sei?”

“Sono la talpa, scavo gallerie sotterranee. Le mie zampette sono anche meglio delle pale che usano gli uomini nel loro lavoro. Piacere di averti conosciuta Lauretta, ma ora è meglio tornare a casa per me, questa luce mi dà fastidio e ho molto lavoro da sbrigare”.

Mentre la talpa ne ne andava, Lauretta sentì solletico a un piede e vide un cosino piccolo e nero camminare veloce veloce “Sono la formica, non farmi perdere tempo bimba. Devo raccogliere il chicco che ho perduto e correre dalle mie sorelle che mi stanno aspettando.””Posso vedere la tua casa?””Sì, ma promettimi di non toccarla, potresti rovinare il lavoro di ore solo muovendo un dito. Se hai pazienza e mi aspetti, ti indicherò la strada.”

continua nelle pagine seguenti (segui i numeri delle pagine):

Presentazione dello stampato maiuscolo e dei numeri in prima classe

Presentazione dello stampato maiuscolo e dei numeri in prima classe – un racconto in uso nella scuola Waldorf per presentare ai bambini le lettere dell’alfabeto ed i numeri.

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Presentazione dello stampato maiuscolo e dei numeri in prima classe

Tonino il pastorello

In un paese lontano lontano, ai piedi dei monti, c’era una volta un pastorello di nome Tonino. Viveva da solo in una casetta ai margini del bosco con il suo piccolo gregge di pecorelle. Era molto povero e possedeva soltanto un carrettino che gli serviva per raccogliere la legna per il fuoco e un flauto dal quale sapeva tirar fuori splendide melodie. Non sapeva leggere nè scrivere perchè non mai potuto frequentare la scuola, ma era molto saggio e aveva imparato a leggere nel grande libro della natura, che gli aveva rivelato molti segreti; conosceva i tesori racchiusi in ogni fronda, sapeva distinguere le varietà di minerali nascosti nella roccia, sapeva interpretare il linguaggio del vento, il formarsi delle nuvole, il suono della pioggia. Nel vicino villaggio tutti gli volevano bene perchè era buono e generoso e pur amando la vita solitaria era sempre pronto a rendersi utile, e quando c’era bisogno di lui non negava mai il suo aiuto a nessuno.

Durante l’estate lo si vedeva poco al villaggio, perchè portava le pecore al pascolo sugli alti monti e non tornava che di tanto in tanto. Trascorreva in quei luoghi dei lunghi periodi vivendo sempre all’aperto, parlando solo con le sue pecorelle a cui era molto affezionato, e che conosceva tutte per nome: Bianchina, Batuffolo, Berta, Gippetta… Loro amavano il loro padroncino e mentre brucavano ascoltavano liete il suono del flauto di Tonino che si diffondeva tra i monti, i boschi e le ampie vallate.Di notte il pastorello dormiva sotto le stelle accoccolato accanto al gregge, il buio non gli faceva paura: si sentiva protetto dalla volta stellata che lo avvolgeva come un magico manto.

 

Al sopraggiungere dell’inverno teneva le pecorelle al riparo nell’ovile, e trascorreva le sue giornate occupato in mille lavori che sapeva svolgere con bravura e precisione. Con le sue mani costruiva gli oggetti più svariati: dai cestini di vimini intrecciati che regalava al fornaio in cambio di qualche pagnotta, ai giocattoli per i bambini del villaggio che sapeva intagliare nel legno, dagli arnesi da lavoro per il contadino Virgilio, agli utensili più svariati che gli venivano richiesti. Era davvero bravo e pensava a tutti.

Un giorno, sul finire dell’estate, accadde un fatto molto strano. Il pastorello aveva portato le sue pecorelle a pascolare su un’altura dove l’erba era tenera e fresca. Stava ammirando lo splendido panorama quando, guardando verso il basso, vide un bambino e una bambina che giocavano. Come si divertivano! Il pastorello, dall’alto, poteva sentire le loro grida festose e dalle loro voci li riconobbe: erano Bianca e Berto, i figli del taglialegna; vide che Bianca teneva in braccio proprio quella bambolina che teneva tra le mani anche quando, tempo prima, era andata da lui per chiedergli se poteva farle una culletta di legno. Ma ecco, i bimbi prima gioiosi e tranquilli, cominciarono improvvisamente a litigare.

Tonino cercò di chiamarli, ma erano troppo lontani e non lo potevano sentire, impegnati com’erano a scambiarsi parole cattive. Il litigio si fece sempre più acceso, e i due bimbi finirono per picchiarsi. La bambolina era abbandonata lì, sull’erba. Mentre Tonino pensava al da farsi, vide spuntare dal folto del bosco un esserino con un buffo cappuccetto e un sacchettino sulle spalle. Si guardò intorno con aria furtiva, afferrò la bambolina dimenticata, e quella si rimpicciolì, tanto da poter entrare nel suo minuscolo sacchettino. Poi con la rapidità di un fulmine, sparì tra i cespugli. Per la prima volta il pastorello lasciò incustodite le sue pecorelle, e si precipitò lungo il pendio per inseguire il ladro. Ma le sue ricerche furono vane, sembrava proprio che fosse sparito nel nulla. Sconcertato di fronte a questo mistero, non riusciva a darsi pace, e il giorno dopo si recò a casa di Bianca per capirne qualcosa di più. La trovò molto triste. “Sai cos’è successo? Ho perduto la mia bambolina, proprio quella che mi aveva fatto la mamma. Adesso la cullina che mi avevi fatto per lei è vuota”. Tonino cercò di consolarla, poi la salutò senza dire nulla di ciò che aveva visto, convinto che nessuno gli avrebbe creduto.

Si incamminò verso casa, immerso nei suoi pensieri, quando passando accanto all’abitazione del contadino Virgilio, udì una gran confusione: tutta la famiglia era in agitazione e ognuno si affannava alla ricerca di qualcosa che era misteriosamente scomparso. Il pastorello si avvicinò a Virgilio, e gli chiese cosa stesse succedendo. “Stavo falciando l’erba del campo, quando ho sentito un caldo afoso e insopportabile, così sono entrato un momento in casa a bere e quando sono ritornato fuori la falce era sparita. Mentre andavano insieme a cercarla, in cuor suo Tonino temeva che la falce avesse fatto la stessa fine della bambola di Bianca. Iniziarono a cercare, e mentre Virgilio ispezionava una siepe, sentì dietro di sé una risatina. Si girò con aria minacciosa verso il povero Tonino “Cos’hai da ridere? Mi stai prendendo in giro? Tira subito fuori la mia falce. Adesso sono sicuro che me l’hai presa tu!”. Il pastorello cercò di spiegargli che non era colpevole e che anche lui aveva sentito quella risatina, ma siccome Virgilio invece di credergli si arrabbiava sempre più, non gli restò che andarsene via dispiaciuto, senza dir niente.

Arrivò a casa avvilito e sconsolato, e come se ancora non bastasse lo aspettava un’altra brutta sorpresa: era sparito il suo tavolino nuovo. L’aveva da poco finito di costruire e quella mattina, prima di andare da Bianca, gli aveva dato gli ultimi ritocchi, l’aveva levigato e, dopo averlo verniciato, l’aveva messo fuori perchè si asciugasse. E ora era sparito. Ma cosa stava succedendo? Per non farsi prendere dallo scoramento, decise di impegnare il tempo in qualcosa di utile. Aveva promesso a Bianca un lettino per la nuova bambola che la nonna le stava preparando. Così prese un pezzo di legno di abete e si mise all’opera. Ci mise tanta passione che dimenticò perfino di mangiare. Ma quale soddisfazione a lavoro finito… chissà come sarebbe stata contenta Bianca.

Proprio in quel momento bussarono alla porta, era Bianca che in lacrime diceva “Sei stato cattivo, perchè mi hai portato via la culla? Ho cercato dappertutto in casa, l’hai presa tu. E anche il nonno è arrabbiato e dice che gli ho nascosto la sua pipa, ma io non sono stata”.

Tonino cercò di calmare Bianca come poteva. “Non piangere, lo so che non hai nascosto tu la pipa. Succedono fatti inspiegabili in questi giorni, c’è sotto un mistero, credimi. Anche il mio tavolino è scomparso nel nulla. Ma guarda, ho un regalo per te…” e le mostrò il lettino per la bambola nuova. Bianca tornò a casa col lettino, e fece anche pace col nonno, ma non sapeva che presto anche il lettino sarebbe scomparso.

Nei giorni seguenti nel villaggio continuarono a verificarsi strane sparizioni, che provocarono litigi tra gli abitanti: mogli e mariti si incolpavano a vicenda di trascuratezza e distrazione, i genitori sgridavano i bambini pensando che si divertissero in brutti scherzi, i bimbi litigavano tra loro perchè perdevano i giocattoli… insomma in breve tempo quel paese era diventato il regno del discordia. Una sera gli abitanti decisero di riunirsi nella piazza per cercare insieme una spiegazione. Discussero animatamente per ore. Erano forse tutti vittime di qualche sconosciuta malattia che li aveva colpiti rendendoli disordinati e maldestri? C’era forse tra di loro un ladruncolo, che si divertiva alle loro spalle? Ma chi poteva essere, se tutti si conoscevano così bene e ciascuno godeva della piena fiducia di tutti?Il problema sembrava non aver soluzione, e alla fine ognuno tornò alla propria casa più triste e preoccupato di prima.

Anche Tonino non si dava pace, e una sera, all’imbrunire, mentre come al solito si trovava nel bosco col suo carrettino per raccogliere la legna per il fuoco, accadde un fatto nuovo e inaspettato. Il carrettino procedeva lungo il sentiero sassoso e accidentato, quando all’improvviso una ruota si staccò e cominciò a rotolare lungo il pendio, sempre più veloce. Tonino si mise a correre per cercare di recuperarla, mentre quella si allontanava sempre più lungo i sentieri scoscesi, passando tra cespugli e anfratti di rocce, inoltrandosi nel folto del bosco. Esausto per la lunga corsa, la vide infine fermarsi davanti a una grotta, e quando si avvicinò rimase sbalordito: chi l’aveva fermata? La ruota non poggiava su nessun ostacolo e appariva come trattenuta da una forza invisibile. Con molta cautela, e mantenendosi prudentemente a una certa distanza, scrutò all’interno della grotta e gli parve di distinguere, al debole chiarore di una lanterna, le sagome di alcuni degli oggetti che erano scomparsi nel villaggio. Si fece coraggio e si apprestò ad entrare nella grotta, ma una forza misteriosa lo respingeva, impedendogli di procedere.

Cercò allora di riprendersi almeno la ruota, ma fu inutile. Sembrava incollata al suolo. Tonino era molto spaventato, ma alla fine la curiosità vinse sulla paura e si avvicinò all’ingresso della grotta per cercare nuovamente di entrare. In quel momento sentì dal suo interno un rumore sordo e tonante che lo spaventò come non mai: qualcuno stava russando lì dentro. Terrorizzato Tonino fuggì via correndo come un matto. Percorse di volata la difficile salita e giunse in un’ampia radura erbosa. Si fermò a riprendere fiato, ma le ore erano passate, il sole stava tramontando e c’era solo la luce pallida della luna a illuminare il sentiero. Come trovare la via del ritorno?

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Presentazione delle lettere dell’alfabeto maiuscolo in prima classe

Presentazione delle lettere dell’alfabeto maiuscolo in prima classe – un racconto in uso nella scuola Waldorf per presentare ai bambini le lettere dell’alfabeto.

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Presentazione delle lettere dell’alfabeto maiuscolo in prima classe

 “In una ridente vallata ai confini del mondo…”

 

In una ridente vallata ai confini del mondo, c’era una volta un piccolo villaggio. Le case erano poche, soltanto undici, e c’era una sola stalla, sufficiente ad ospitare tutti gli animali del piccolo paese.

Gli abitanti della ridente vallata erano persone tranquille e felici. Ognuno di essi lavorava e svolgeva il proprio compito in modo da mantenere l’ordine e la prosperità del villaggio.

Le piccole, accoglienti case, erano tutte costruite col legno ricavato dai numerosi pini del bosco. Su ciascuna porta era intagliato il simbolo del mestiere svolto dal capofamiglia. Ciò era necessario in quanto le persone del paese non sapevano ne leggere ne scrivere.

Come dicevamo, ognuno lavorava sodo dalla mattina alla sera. Il contadino Virgilio, ad esempio, dissodava la terra, seminava il grano e gli ortaggi, curava gli alberi da frutto, e faceva tutto questo con tanto amore che i risultati erano sempre più che soddisfacenti. Nella stagione calda il grano era alto e dorato, gli ortaggi di un bel verde splendente e gli alberi davano frutti grossi e succosi. Virgilio contadino aveva il viso rugoso, cotto dal sole, ma sempre ridente, con le sue forti braccia e con l’unica falce esistente in paese manteneva l’erba sempre ben rasata, tanto da farla sembrare un soffice tappeto. Con l’erba tagliata formava dei bei covoni, e i suoi figli si divertivano a saltarci sopra, inventando sempre nuovi giochi, finchè il papà li richiamava all’ordine. Poi, quando il sole aveva asciugato  ben bene l’erba, facendola diventare fieno, i bambini avevano il compito di riporla nel fienile.

Vicino alla casa del contadino Virgilio abitava l’apicoltore, il signor Orazio. Orazio aveva costruito con le sue mani tante piccole casette affinchè le api potessero porvi il nettare che succhiavano dai fiori, dopo averlo trasformato in miele.

Orazio era amico delle api, enon aveva alcun timore di  avvicinarsi alle casette per raccogliere il miele, che distribuiva poi a tutti gli abitanti del villaggio.

Viveva da solo, non aveva ne moglie ne figli, e le sue uniche compagne erano le api. Queste gli raccontavano tante storie sulla vita dei fiori e degli esseri dell’aria.

Un altro abitante del villaggio era Bastiano, il pastore, che oltre alla sua casa aveva una grande stalla dove ogni sera riportava il bestiame al ritorno dal pascolo.

Il suo compito era piuttosto faticoso: partiva all’alba con pecore e le mucche, e anche qualche capretta, saliva per il monti e camminava e camminava, finchè trovava un bel prato verde dove gli animali avrebbero brucato della buona erba.

Bastiano aveva un cane di nome Fido, che lo aiutava nel suo lavoro. Era un cane da pastore, forte, coraggioso e fedele. Bastiano trascorreva molte ore a contatto con la natura, e così era diventato amico degli gnomi e delle ondine che vivevano lassù e cantavano e scherzavano con lui.

Il suo nanetto preferito era Dondolo, il più piccole e il più vivace di tutti. Poi, quando il sole tramontava e scendeva la sera, il pastore riportava il bestiame nella stalla.

Subito iniziava a mungere le mucche e le capre. Il buon latte serviva per fare il burro e il formaggio, oltre che essere bevuto al mattino con la polenta calda. Poi nella stagione giusta, tosava le pecore e portava la lana alle tre filatrici che abitavano nella casa accanto alla sua.

Le tre filatrici erano piuttosto vecchie. Si chiamavano Berta, Nena e Pia e brontolavano in continuazione perchè la lana o era troppo sporca, o troppo corta o troppo riccia, insomma Bastiano non riusciva mai ad accontentarle. Berta aveva un grosso labbrone a forza di leccare il filo di lana,  Nena aveva un pollicione a forza di torcere il filo, e Pia aveva un grosso piedone a forza di calcare il pedale della rocca.

Comunque le tre filatrici facevano bene il loro lavoro: tessevano la lana, la coloravano, poi confezionavano abiti, coperte ed altre cose utili per gli abitanti del villaggio.Nel paese naturalmente c’era anche bisogno di legna da ardere nei camini, o di qualche mobile ed utensile per la casa.

A tutto questo pensava Tobia, che era il boscaiolo. Si recava nel bosco tutti i giorni. Sempre allegro, cantando, con la sua grande scure e le sue forti braccia, abbatteva i pini, ne segava i tronchi, e li preparava per poterli trasportare a valle, nella sua casa. Qui poteva lavorare con gli arnesi adatti e costruiva ciò di cui c’era bisogno. Il suo vicino di casa era Martino, il fabbro.

Dalle sue finestre usciva sempre un gran rumore: infatti egli ferrava i cavalli, batteva sull’incudine e forgiava il ferro caldo per fare utensili per le massaie. I bambini del villaggio amavano molto la casa di Martino: restavano per ore affascinati ad osservarlo mentre svolgeva il suo lavoro.

Ciò che attirava soprattutto i bimbi era il gran fuoco che ardeva in continuazione e nel quale essi riuscivano a vedere gli spiritelli danzare.Il villaggio era attraversato da un torrente che scendeva gorgogliando dalla montagna; l’acqua era pura e cristallina.Sulle rive del torrente si affacciavano la casa del vasaio e il mulino del mugnaio.

Il vasaio si chiamava Domenico ed era abilissimo nel lavorare la creta. La impastava con l’acqua, e dalle sue mani uscivano le più belle ciotole ed i più bei vasi.

Il suo vicino, il mugnaio Giovanni, aveva invece un gran lavorare per preparare la farina. La ruota del mulino girava senza sosta, mossa dall’acqua del torrente, ed il grano posto all’interno del mulino, sulla pietra che la ruota faceva girare, si frantumava fino a diventare impalpabile farina.

Domenico viveva nel mulino che aveva costruito con l’aiuto del boscaiolo, e anche se non era una casa vera e propria, ci stava come un re.

Quando i bambini lo incontravano, si prendevano sempre gioco di lui perchè il suo aspetto era davvero buffo, tutto coperto di polvere bianca dalla testa ai piedi com’era. Giovanni non amava molto lavarsi e più di qualche volta i suoi amici erano costretti con la forza e con gran divertimento, ad immergerlo nel torrente per vederlo pulito.

Pietro era il calzolaio ed preparava e riparava le scarpe per tutti gli abitanti del villaggio. Lavorava molto: i piedi erano tanti! Inoltre doveva conciare le pelli degli animali, renderle morbide e colorarle.

Tutto il paese attendeva con gioia l’autunno: la stagione dell’uva matura e della vendemmia. Vi partecipava in allegria tutto il villaggio, cantando e ballando fino al calar della sera. C’era un gran viavai di gente dai vigneti alla casa di Giacomo il vinaio, che aveva il compito di preparare il vino e conservarlo nelle botti, al buio della sua cantina.

Quando il sole splendeva e dorava i prati, tutti potevano vedere Alchemio, il dottore del paese, che con la schiena ricurva dera e raccoglieva con pazienza erbe, piante e radici per preparare buoni sciroppi e medicamenti per gli ammalati.

Alchemio era molto vecchio e saggio; se qualcuno aveva un problema da risolvere, si consigliava con lui, che sapeva tante cose.

Nelle ora più calde del pomeriggio, i bambini si raccoglievano attorno al vecchio dottore e seduti all’ombra di una grande quercia, ascoltavano rapiti storie e leggende che il saggio conosceva, ma nessuno sapeva come.

Ed ecco, un giorno avvenne qualcosa di molto misterioso, che turbò la serenità del piccolo villaggio…

In una notte di luna piena, comparve nel paese uno strano vecchio tutto vestito di nero. Si guardò intorno con aria furtiva, poi si diresse senza esitare verso la prima casa: quella di Virgilio il contadino.

Bussò alla porta con insistenza. “Chi è a quest’ora di notte?” chiese Virgilio. “Sono un vecchio viandante, devo mangiare qualcosa, e riposare, fatemi entrare…”. Virgilio aprì la porta, un po’ titubante, e fece entrare lo strano vecchio. Lo fece sedere a tavola, e mentre gli preparava il piatto si accorse che la fiamma del camino si spegneva. Come poteva sapere che dove il vecchio passava, ogni fonte di calore si esauriva?

Il povero contadino ne fu molto imbarazzato; avrebbe voluto chiedere spiegazione per ciò che era successo, ma gliene mancò il coraggio. Il vecchio finì di mangiare in silenzio, come se non si fosse accorto di nulla, quindi si alzò, si riavvolse ben bene nel suo grande mantello nero, come per nascondere il suo vero essere, e chiese a Virgilio con tono di comando: “Dov’è lo stanzino degli attrezzi da lavoro?”.

Il contadino, sempre più impaurito, lo accompagnò, e non appena la porta si aprì, il vecchio prese a fissare la falce con i suoi occhi di ghiaccio, lanciando nell’aria il suono “Fffffffff!”. All’istante la bella lucente falce si trasformò in un rigido segno scolpito nell’aria.

Tutto avvenne così rapidamente che Virgilio, sbigottito più che mai, non si accorse neppure che il vecchio se ne era andato.

Poco dopo nell’umile cucina il fuoco riprese ad ardere e tutto tornò come prima. Il povero contadino però, quella notte non potè dormire ripensando all’accaduto, e rischiò più volte di svegliare la moglie che dormiva tranquilla e non si era accorta di nulla.

Ma nel piccolo villaggio c’era qualcun altro che non poteva dormire… era Pietro il calzolaio, che doveva finire di cucire gli stivaletti rossi per i nanetti del bosco, che dovevano essere pronti assolutamente per giorno dopo.

Dovete infatti sapere che Pietro aveva una figlia, unica consolazione della sua vita. Aveva cercato di farla crescere dandole tutto l’amore e le cure possibili perchè non sentisse troppo la mancanza della sua mamma. Ma la bimba si era ammalata gravemente e deperiva ogni giorno di più.

Invano il vecchio saggio dottor Alchemio aveva tentato di guarirla con le sue medicine, così il padre, disperato, un giorno l’aveva presa in braccio e, dopo averla avvolta in una bella coperta di lana, l’aveva portata nel bosco nella speranza che l’aria balsamica della pineta potesse giovarle.

La bimba si lamentava debolmente mentre Pietro piangendo, pregava il buon Dio di aiutarla. Fu così che gli gnomi del bosco, che udirono tutto, uscirono dalle loro case mossi a compassione, si riunirono, parlottarono tra loro, poi svelti svelti cominciarono a raccogliere radici, bacche e succhi della terra.

Si rivolsero quindi a Pietro dicendogli: “Non disperare buon uomo, la tua bimba guarirà se tu per sette giorni la nutrirai con questi prodotti speciali. In cambio però vogliamo qualcosa.”. “Dite pure, sono pronto a qualsiasi sacrificio”.

“Bene, entro sette giorni dovrai confezionare per noi sette paia di stivaletti rossi”. Pietro promise che avrebbe eseguito di certo il lavoro, e se ne tornò sereno a casa con la sua piccina. Fece tutto quello che le creature del bosco gli avevano ordinato e la piccola, un po’ alla volta, cominciò a stare meglio.

Riprese un bel colorito e presto smise di lamentarsi. Sicuramente sarebbe presto ritornata allegra e felice a correre e saltare per casa. Quella notte dunque, Pietro stava lavorando di buona lena per gli gnomi, quando senza farsi sentire anche in casa sua entrò il vecchio dal nero mantello. Il calzolaio sentì solo un brivido di freddo, e non si accorse d’altro.

Il vecchio intanto s’era avvicinato alla sedia dove stava posata la bambola della bimba, e dopo averla fissata coi suoi occhi di ghiaccio, aveva preso a lanciare nell’aria il suono “Bbbbbbb!”. All’istante al posto della bambola rimase nell’aria uno strano segno, ed il vecchio sparì, in silenzio così come era entrato.

Da qualche tempo nel villaggio fervevano i preparativi perchè si stava avvicinando il giorno delle nozze tra il pastore Bastiano e la figlia di Tobia il boscaiolo.

Il padre della sposa doveva procurarsi il legname per fare i mobili che servivano ad arredare la camera da letto degli sposi. Il pastore Bastiano infatti non aveva un letto a casa sua, perchè dormiva da sempre in un giaciglio, e spesso anche nella stalla, dove faceva più caldo, e dove gli animali gli tenevano compagnia.

Una mattina all’alba, il boscaiolo Tobia si avviò nel bosco per abbattere gli alberi che servivano a preparare il legno necessario per la costruzione del letto. Per fortuna era di buon umore, perchè proprio quel giorno i folletti, i nanetti e le altre creature del bosco erano in vena di scherzi, anche più del solito.

Tobia li conosceva bene, e quindi non si stupì quando vide il primo tronco abbattuto muoversi da solo. Quando poi era pronto ad abbattere un secondo albero, la sua scure era sparita, e solo dopo lunghe ricerche la trovò nascosta tra i rami di un pino.

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