Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

 

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Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

Anfimonio ed Anapia erano due fratelli che vivevano moltissimi anni fa, nei dintorni di Catania. Vivevano tranquilli e sereni nella loro bella casa e lavoravano volentieri e con gioia. Nel loro semplice cuore regnava l’amore e la venerazione per i genitori ed era bello vederli pieni di riguardi, sempre obbedienti, sempre pronti a far cosa gradita.

Avvenne un giorno, che l’Etna ebbe una terribile eruzione. Aveva incominciato con boati spaventosi e dal suo cratere erano usciti lapilli e un nero fumo denso che aveva coperto il cielo, oscurando perfino il sole. Poi, lungo i fianchi della montagna, era cominciato a colare un pauroso fiume di lava incandescente che lentamente, ma inesorabilmente, progrediva lungo le pendici, verso i campi rigogliosi di messi, verso le case degli uomini.

Ma gli abitanti della città non si decidevano a lasciarla; speravano sempre che l’Etna si calmasse, che la lava si arrestasse. Solo quando essa giunse alle prime case, che caddero con immenso fragore, tutti si decisero a raccogliere quanto di meglio possedevano e a fuggire davanti al pericolo.

Anche Anfimonio ed Anapia avevano atteso nella speranza che il pericolo scomparisse.

I due fratelli, invece di cercar di mettere in salvo i loro averi, si caricarono sulle spalle i loro genitori: uno il padre, l’altro la madre, che erano oramai vecchi ed infermi e non avrebbero potuto fuggire. Poi uscirono dalla loro casetta.

Ma non potevano correre, e il fiume di lava veniva giù più svelto di loro.  Ben presto li avrebbe raggiunti.
Allora il padre e la madre dissero: “Figlioli, noi siamo vecchi e infermi; abbiamo vissuto abbastanza; lasciateci qui, salvatevi; a voi sorride ancora la vita!”

Ma i due buoni fratelli non vollero abbandonare il loro prezioso peso e raddoppiarono le energie. Per un poco parve riuscissero a vincere in velocità la lava, poi, sfiniti, si fermarono. Abbracciarono stretti i loro cari e …attesero coraggiosamente la morte.

Ma, oh… miracolo! La lava si divise in due torrenti: uno a destra, l’altro a sinistra, lasciando libero lo spazio sul quale si trovavano i quattro abbracciati e un sentiero che permise ai due fratelli di porre in salvo i genitori e se stessi.

Il fatto miracoloso stupì i Catanesi che soprannominarono Anfimonio ed Anapia “Fratelli pii”, ed il luogo dove essi passarono fu chiamato “Campi pii”.

Quando, divenuti vecchi, i due fratelli morirono, i cittadini eressero loro un grande monumento.

E la loro memoria fu sempre venerata, come esempio di amor filiale, non solo dai Catanesi, ma dai Siciliani tutti e anche da altri popoli.

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

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Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

Lo Stromboli è quel vulcano che sorge dalle acque del mare, proprio dirimpetto alla costa tirrenica della Calabria, e dietro il quale, la sera, il sole si tuffa per andare a nanna, lasciandosi dietro un incendio di porpora e d’oro.

Ma forse non conosci la sua origine, non sai come sia stato collocato proprio lì, in quello specchio di azzurro mare. Ascolta allora cosa racconta il pescatore calabrese, mentre rattoppa le reti sulla spiaggia di Palmi.

Sul monte che domina la graziosa cittadina di Palmi, e che ha preso il nome del santo, sant’Elia stava un giorno in solitaria meditazione, quando gli si accostò un uomo con un gran sacco sulle spalle.

“Che cosa porti in quel sacco, e dove vai?” gli chiese sant’Elia.
L’uomo, che aveva il viso tutto sporco, aprì il sacco e ne cavò fuori un gran mucchio di monete d’argento.

“E’ una gran fortuna” egli disse. “L’ho scoperta in un casolare abbandonato e sono disposto a dividere con te. Prendine quante ne vuoi; sono anche tue!”

Il santo prese le monete e cominciò a lanciarle lungo la china. A mano a mano che rotolavano, esse si tramutavano in pietre nere, di quelle che si vedono ancor oggi sul luogo.

Contrariato, l’uomo (che era il diavolo) balzò in piedi. D’improvviso, alle sue spalle si aprirono due grandi ali nere di pipistrello, con le quali egli si alzò in volo, planò sul mare e vi si tuffò, sprofondando.

Le acque gorgogliarono e schiumarono, si elevò una nuvolaglia, e quando questa si fu dileguata, ecco che sul mare si delineava un isolotto a forma di cono, dal cui vertice incavato uscivano lingue di fuoco e fumo.

Era lo Stromboli, e sotto di esso c’era il demonio imprigionato, che soffiava fiamme e tuoni.

Il vecchio pescatore di Palmi, dopo aver narrato la leggenda, si segna devotamente per non cadere in tentazione del demonio, mentre lo Stromboli, nel velo del tramonto, fuma da sornione la sua antica pipa.

Sulla cima del Monte Sant’Elia, si trova ancora un macigno con alcune impronte di unghie lasciate dal diavolo, prima di spiccare il volo per inabissarsi nel Tirreno.

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

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IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

 Viveva un tempo, a Trani, un povero pescatore che, nonostante passasse lunghe ore in mare a pescare, riusciva a stento a provvedere alle necessità della sua numerosa famiglia.

Una notte, gettate le reti, il pescatore si adagiò nel fondo della barca lasciata in balia delle onde e, rimuginando i suoi tristi pensieri, a poco a poco finì per addormentarsi. Fu risvegliato bruscamente da un forte strappo alle reti. Che cosa succedeva? Forse era quella la volta buona?

Certo, a giudicare dal peso, il pesce incappato nella rete doveva essere enorme. Tira e tira, il brav’uomo, eccitato e felice, riuscì finalmente a rovesciare nella barca un pesce gigantesco. Ma, ahimè, si trattava di un pescecane.
La delusione del pescatore si tramutò in una grande meraviglia, quando il pescecane cominciò a parlare.

“Hai pescato il tuo genio” disse lo squalo. “Sono io che dirigo la tua vita, non lo sapevi? Ebbene, ascolta ora. Fa’ a pezzi il mio corpo poi, raccolti tutti i miei denti, seminali nel tuo orto. Vedrai cosa succederà tra un paio di mesi”.
Il pescatore obbedì.

Trascorsi i due mesi s’avvide che nel suo orta stava crescendo un albero. In poche settimane la pianta divenne alta e frondosa.

“E ora?” pensava il pescatore aggirandosi intorno all’albero che, a parte la grandezza, non aveva nulla di particolare.

La risposta alla sua ansioso attese venne, d’improvviso, una mattina. L’uomo stava contemplando l’albero, quando, in men che non si dica, lo vide sparire sottoterra, lasciando al suo posto un magnifico cavallo bianco con la sella preparata.

Anche il cavallo parlò. Disse: “Saltami in groppa, che faremo un lungo viaggio”.

Il viaggio, infatti, fu lunghissimo e pieno di incredibili avventure. Il pescatore, ormai divenuto cavaliere, ebbe la fortuna di conoscere tutti i paesi della terra e di compiervi azioni così valorose da meritarsi la stima di grandi e potenti signori, che fecero a gara per averlo loro ospite e per colmarlo di ricchezze.

Passarono in tal modo alcuni anni e il pescatore, un bel giorno, stanco di viaggiare, decise di tornare al proprio paese per godersi in santa pace, con la sua famiglia, le ricchezze accumulate.
Però, giunto che fu a Trani, ebbe la triste sorpresa di apprendere che la moglie, credutolo morto, si era rimaritata, creandosi un’altra famiglia.
Desolato, l’uomo tornò alla sua vecchia casupola. Entrò nell’orto e andò a sedersi sul luogo ove un tempo era cresciuto l’albero.
Che gli restava da fare? Se ne stava lì, pieno di amarezza, a contemplare quel po’ di terra smossa, allorchè qualcosa attirò la sua attenzione. Fra le zolle c’era un pesciolino. Era un piccolo pesce argenteo che guizzava, boccheggiando. Il pescatore si curvò, fece per prenderlo, ma ecco che al contatto delle sue dita il pesce cominciò a gonfiarsi raggiungendo in breve dimensioni colossali.

Ma guarda guarda! Era di nuovo il pescecane pescato tanti anni fa.

“Sei tu, dunque!” disse il pescatore, “E allora? Io ho fatto tutto ciò che mi hai ordinato. Ho raccolto i tuoi denti, li ho seminati, ho visto crescere il grande albero che poi si è trasformato in un cavallo. Ho viaggiato per anni e anni, ho compiuto ogni sorta di imprese ed ho guadagnato onori e ricchezze. Ma a che vale tutto ciò se ora ho perduto la mia famiglia?”

Rispose il pescecane: “Le tue avventure non sono terminate. Riportami in mare, mettimi tra le onde e montami in groppa”.

Poco dopo, il pescecane e il pescatore prendevano il largo e scomparivano verso l’alto mare.

Che ne fu di loro? Nessuno le seppe mai.

“Forse” commentano i pescatori di Trani, a conclusione della leggenda,”stanno ancora vagando laggiù, tra le onde”.

Quello che è certo è che il nostro pescatore in paese non lo si rivide più.

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

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Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

 Questa che leggiamo adesso è una leggenda solo per metà. Infatti Ronca Battista esistette davvero. E veri sono anche i fatti da lui compiuti, che ora narreremo. Assieme ai fatti, però, è mescolata anche un po’ di leggenda, suggerita dalla fantasia popolare.

Anzitutto Ronca Battista non era il vero nome del nostro personaggio. Si chiamava Giovan Battista Cerone. Il nome di “Ronca” glielo diedero i suoi concittadini di Melfi, perchè essendo bottaio di mestiere, egli usava una roncola per tagliare i rami che gli servivano per i cerchi alle botti.

Ogni giorno, di buon mattino, Battista usciva da Melfi con un pezzo di pane in tasca e si recava nei boschi di Vulture a far la sua provvista di rami. Sceglieva quelli di castagno, che sono i più flessibili, proprio adatti per far cerchi. E sapeva tagliarli con arte insuperabile: un colpo netto di roncola, tac, e il ramo era già nelle sue mani senza che l’albero se ne fosse accorto.

Mangiato il suo pane e bevuto un sorso d’acqua da una sorgente, Battista se ne tornava poi a Melfi a lavorare.
Fin qui, tu dirai, non c’è nulla di speciale nella vita di questo Battista.

E’ vero! Ma aspetta un po’. A proposito, dimenticavo di dirti che siamo nel secolo XVI. Agli inizi di quel secolo la città di Melfi era ancora un feudo della nobile famiglia dei Caracciolo, fedele agli Spagnoli. Ma già scorrazzavano per la regione bande di Francesi che assalivano ora un paese ora l’altro, saccheggiando la popolazione. Quando i Francesi si avvicinarono a Melfi, Gianni Caracciolo, signore della città, decise di resistere ad ogni costo. E i Melfitani furono d’accordo con lui.

Capo dei Francesi era il generale Lautrec, tipo crudele e senza scrupoli. Egli era convinto di prendere Melfi in quattro e quattr’otto, e perciò ci rimase molto male quando si accorse che i Melfitani, chiuse le porte delle mura, si apprestavano alla difesa.

La lotta durò a lungo, feroce da parte degli assedianti ed eroica da parte degli assediati. Sulle mura e davanti alle porte avvenivano spesso scontri sanguinosi. Per di più, i Melfitani comiciavano a soffrire la fame, così che nottentempo qualche cittadino doveva uscire di nascosto dalla città per procurarsi un po’ di cibo nelle campagne.

Anche il nostro Battista, una notte, riuscì a sfuggire alle sentinelle francesi ed a raggiungere il bosco. Più che cibo, però, lui cercava legni per le sue botti, perchè non avendo famiglia, di mangiare non gliene mancava. Quella notte, anzi, egli aveva in tasca, come al solito, il suo pezzo di pane. Attesa l’alba, per vederci meglio, Battista diede mano alla roncola e staccò alcuni rami. Si avviò quindi in fretta, e alle soglie del bosco incontrò una vecchia tremante di freddo che lo fermò.

“Bravo giovane” disse la poveretta, “i Francesi hanno distrutto la mia capanna e rubate le mie provviste. Aiutami tu!”

Impietosito, Ronca diede il proprio pane alla vecchia. Prese quindi i rami e, acceso un fuocherello, preparò un lettino di frasche alla donna, poi lo ricoprì col suo mantello.

“Va bene così, nonnina?” chiese alla fine.

“Sii benedetto, figliolo!” disse con gratitudine la vecchina. Poi, per ricompensarlo, volle dargli un bacio in fronte e toccargli la roncola.

“D’ora in avanti” aggiunse, “questa roncola compirà prodigi!”

Battista stava per sorridere, incredulo, quando d’improvviso la vecchia si trasformò in una fata splendente e sparì.

“Diamine!” esclamò Battista “Allora è vero!”
Volle provare la roncola magica colpendo un albero, e l’albero volò subito via come una pagliuzza.
Sbalordito e contento, Battista si avviò verso Menfi.

“Se qualche sentinella oserà fermarmi, guai a lei!” pensava, maneggiando la roncola.
Sì! Altro che sentinelle! C’erano tutti i Francesi attorno alla città, scatenati nel pieno di una battaglia e, a quanto pareva, le cose andavano piuttosto male per i Melfitani.

Senza esitare, Battista si slanciò allora nella mischia, mulinando a dritta e a manca la sua roncola magica.

I Francesi intorno a lui cominciarono a piombare a terra come nespole. Invano lo assalivano da ogni parte. Più ne venivano, più ne cadevano. Sembrava che invece di una sola roncola, Battista ne maneggiasse mille. Ad un certo punto, esasperati, i Francesi gli diedero tutti addosso. Ne caddero a decine. Ma ce ne fu uno, d’un tratto, che con un salto riuscì a raggiungerlo alle spalle e a colpirlo fortemente al capo con una mazza di ferro. Battista stramazzò al suolo.

La fine di Ronco Battista segnò la fine della resistenza di Melfi. La città, caduta in mano ai Francesi, fu saccheggiata e incendiata.
Era la Pasqua del 1528.

Oggi c’è una via, a Melfi, che è dedicata alla memoria di Ronca Battista. Ma anche senza questa via, i Melfitani non avrebbero certo dimenticato l’eroico bottaio. Da quel giorno, infatti, la storia di Battista è sempre stata raccontata, di padre in figlio. A un certo punto, è vero, ci fu qualche padre che inventò l’episodio della fata; qualche padre, forse, incapace di credere che solo il coraggio e l’amor patrio avessero potuto rendere prodigiosa la roncola di Battista. E fu così che la storia divenne per metà leggenda.

Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

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Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

Paolaccio era un vagabondo senza parenti, senza amici e senza neppure un angolo di casa. Ma se lo meritava, perchè voglia di lavorare non ne aveva e, per di più, non faceva che imprecare e dimostrarsi tanto malvagio da attirarsi solo l’antipatia e il disprezzo di tutti. Pareva che nei suoi occhi ardesse sempre una luce cattiva, e chi lo vedeva girava al largo.

Una notte, mentre dormiva in un campo, vicino a Termoli, Paolaccio venne svegliato da una voce che ripeteva il suo nome. Al che lo fissava curiosamente.

“Chi diavolo sei?” chiese.

“Lo hai detto, sono proprio il diavolo. Sono venuto a proporti un patto”.

Paolaccio non si impressionò.

“Di che si tratta?” chiese di malanimo.

“Vuoi diventare ricco?” chiese a sua volta il diavolo.

“Se lo voglio? Non chiedo di meglio. E che dovrei fare in cambio?”

“Non devi fare nulla. Devi darmi solo la tua anima”

“Per questo ci sto” disse Paolaccio “Che me ne faccio dell’anima? Ma dimmi: come avrò le ricchezze?”

“Prima firma il patto e poi te lo dirò” rispose Belzebù.

Paolaccio, che non sapeva scrivere, fece una crocetta sul foglio.

“Bene” gongolò il demonio, “Ed ora stai a sentire. La vedi quella rete? Ti servirà per pescare”

“Bella roba!” esclamò Paolaccio “Come se i pesci dessero la ricchezza!”

“I pesci che ti farò pescare io, sì” proseguì il diavolo “Sono pesci bianchi e rosei che hanno una specialità: quella di inghiottire i tesori accumulati nelle navi sommerse: gemme stupende, monete d’oro e altre rarità. Sono pesci che stanno al mio servizio, pronti a farsi pescare dai miei protetti. Tu ora lo sei e quindi puoi pescarne quanti ne vuoi. Dovrai soltanto dire, immergendo la rete:

“Fortuna, vieni su:
te l’ordino nel nome
del grande Belzebù”

Paolaccio non lasciò passare la notte. Subito si avviò verso gli scogli e trasse a riva con la rete un’infinità di quei pesci biancorosei. Erano tutti pesantissimi e Paolaccio, apertili uno ad uno, accumulò in un batter d’occhio smeraldi, rubini, brillanti ed oggetti d’oro che sfavillavano con mille luci al chiarore delle stelle.

“Questa sì che è una ricchezza!” gongolava Paolaccio, non stancandosi di immergere le mani in quel tesoro.

Da quel giorno ebbe inizio per Paolaccio un’altra vita. Si comprò un palazzo principesco, si vestì da gran signore e cominciò a dare feste sfarzose, circondandosi di ogni lusso. Inutile dire che in un lampo ebbe amici a non finire, gente che lo cercava, lo ossequiava, lo lodava. Paolaccio era generoso con tutti, spandeva doni a destra e a sinistra, e ad ogni elogio che riceveva era convinto di essere diventato un grand’uomo.

Tutto dunque procedeva a meraviglia, senonchè un giorno, un brutto giorno, capitò al palazzo, che era in piena festa, uno strano individuo. Era un essere macilento, vestito di stracci, proprio fuor di posto in mezzo a tanto splendore. Ma Paolaccio lo riconobbe subito, e fattosi largo tra la folla gli si avvicinò.

“Che sei venuto a fare, qui?” gli chiese con sgomento.

“Lo sai” rispose Belzebù, “Sono venuto per il nostro contratto che, per l’appunto, scade oggi…”

“Vattene” supplicò Paolaccio colmo di terrore, “Vattene via, lasciami!”

“Eh, caro mio! Non posso. I patti sono patti. Io ti ho dato la ricchezza, tu te la sei goduta, ed ora è tempo che tu mi dia la tua anima”.

In quello stesso istante un boato terribile fece tremare il palazzo e Paolaccio cadde morto.

Qualcuno dirà: ma quei pesci biancorosei esistono veramente? Pare di sì. Molti pescatori li hanno visti. Dicono, però, che bisogna accontentarsi di guardarli da lontano perchè sono creature del demonio e non portano che male. 

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE per bambini della scuola primaria.

 

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Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE

Questo mostro del mare era Landoro, una specie di enorme drago con due occhi grandi come carri che spadroneggiava sulla superficie del mare sibilando, stridendo ed emettendo vampe di fuoco. I pescatori lo udivano da molto lontano. Ma erano ancora i tempi in cui non esistevano le barche e quindi a nessuno era mai venuto in mente di affrontare il mostro e di liberare il mare dalla sua presenza.

Da Landoro, orribile, passiamo a una fanciulla bionda, con gli occhi sognanti che passava gran parte del suo tempo sul litorale marino, guardando con nostalgia verso l’orizzonte. Era Lada. Lada guardava i gabbiani che volteggiavano liberi sulle onde e pensava: “Potessi essere come loro…”.

Un giorno questo vivo desiderio le fece spuntare sulle spalle due candide ali. La gioia di Lada fu grande. Si rizzò sulla pianta dei piedi, spiccò un salto e subito si sentì librata in alto nell’azzurro del cielo. Che meraviglia! Ora le onde correvano sotto di lei e davanti si spalancava il mare come un invito senza fine. Volava così da qualche tempo cantando, allorchè volgendo lo sguardo in basso, Lada vide il mostro dagli occhi giganteschi. La fanciulla alata ebbe un brivido d’orrore, si sentì perduta, come attratta da quegli occhi terribili in cui fiammeggiava la luce del male.

Per fortuna Landoro  quel giorno non cercava vittime. Guardò Lada poi, d’improvviso, si inabissò nelle onde. Con un sospiro di sollievo la fanciulla volò verso la costa, discese sul lido e, a poco a poco, si liberò dall’orrore del mostro. Ma, ahimè, quelle ali erano ormai inutili. Ora Lada non avrebbe più osato sorvolare il mare e spingersi fino al lontano orizzonte.

La fanciulla piangeva disperata, allorchè sentì una voce vicina: “Che cos’hai? Perchè piangi?”

Lada si volse e vide un bellissimo giovane che la guardava con dolcezza. La fanciulla narrò allo sconosciuto la sua tremenda avventura.

Il giovane, dopo un istante di meditazione, così disse: “Queste ali, Lada, sono un dono degli dei. Esse devono rallegrarti e non affliggerti. E perchè la tua gioia continui, io ucciderò Landoro e ti riaprirò la strada lucente del cielo sopra il mare”

“Chi sei?” chiese Lada colpita da tanto coraggio.

“Sono Geri” rispose il giovane, “il figlio della Quercia e del Vento”.

Lada vide il giovane impugnare una spada fulgente e avviarsi verso il mare. Scendeva la notte. Qualche stella cominciava a spuntare nel cielo. Lada si addormentò con la visione di Geri che procedeva sulle sponde. Quando si svegliò era l’alba e il mare era rosso. E rossa era anche la sabbia, rosse erano le sue mani e le sue ali.

Davanti a lei, come uscente dalle onde, avanzava Geri con la spada rosseggiante che stillava gocce di sangue.

“Lada! Lada!” gridò il giovane, “Ho ucciso il mostro!”

Quando le fu vicino e le si sedette accanto narrò come aveva affrontato Landoro, come l’aveva trafitto fra le onde. I due giovani erano felici. Persino le onde parevano felici, sciogliendosi ai loro piedi con un canto di liberazione.
Ma a poco a poco, dallo stesso mare, giunsero sulla costa segni di sgomento. Turbini di gabbiani atterriti e volteggianti sulle onde parevano fuggire da qualcosa di tremendo. L’aria cominciò a diventare irrespirabile, densa di vapori ripugnanti. I pesci si riversavano a migliaia verso la spiaggia e morivano boccheggiando sulla rena. Ora il litorale era gremito di gente piena di smarrimento e in preda all’angoscia.

Che cosa mai succedeva?

Era la vendetta del mostro. Era la morte, lugubre amica di Landoro, che ora si diffondeva ovunque, fra terra, mare e cielo, abbattendosi spietata su ogni essere vivente.

In breve, sotto la sua furia, ogni vita scomparve.

Lada e Geri seguirono la sorte di tutti, e da quel giorno, per secoli, la terra, il mare e il cielo rimasero disabitati, squallidi e silenziosi.

Poi la vita tornò a sbocciare da un piccolo fiore incantevole sulla sponda di un fiume. Era un fiore a forma di stella, dai mille petali. Un giorno dopo l’altro, questi petali si trasformarono in esseri viventi. Uno in uomo, un altro in donna, un altro in rondine, un altro ancora in farfalla e così via.

La terra si ripopolò di creature, tornò a palpitare di speranza, di gioia, di bontà, di amore…

Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA

Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA per bambini della scuola primaria.

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Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA

Patrono di Castellammare di Stabia è San Catello, vescovo e martire, al quale i fedeli attribuiscono numerosi miracoli. Tra questi si  ricorda con commozione il miracolo del grano.

Un anno, a causa di una lunga e terribile siccità, tutti i paesi intorno al Vesuvio furono colpiti da una grave carestia: le bestie morivano perchè non avevano erba e gli uomini morivano anch’essi di fame e non sapevano che rimedio trovare. Si inginocchiavano davanti a San Catello e, piangendo, lo pregavano perchè avesse pietà della loro miseria.

Un giorno del mese di giugno, al largo della costa una nave, carica di grano, fu accostata da una barchetta sulla quale c’era un vecchio con la lunga barba e la figura solenne. Il vecchio salì sulla nave e riuscì a convincere il capitano della nave a portare il suo carico di grano a Castellammare, dove glielo avrebbero ben pagato. E, per essere sicuro che il capitano non cambiasse idea, il vecchio gli diede un anello con diamante che portava al dito.

Il capitano della nave acconsentì di buon grado e, arrivato a Castellammare, vendette molto bene tutta la sua merce. Contento degli affari fatti, si sentì naturalmente il dovere di ringraziare quel buon vecchio che lo aveva indirizzato là. Per cui descrivendone la figura, ne chiedeva notizie a tutti. Ma nessuno glielo sapeva indicare.

Alla fine un popolano lo portò nella chiesa dedicata a San Catello. Era forse il Santo patrono della città l’uomo descritto dal capitano?

Proprio così! Infatti, davanti alla statua del santo, il capitano, pieno di meraviglia, esclamò inginocchiandosi: “E’ proprio lui! E’ il venerando vecchio dalla barba, che mi venne incontro sul mare e mi convinse a portare il grano qui!”

La commozione e lo stupore dei fedeli raggiunsero il colmo quando videro che al dito del Santo mancava l’anello col diamante, lo stesso che il capitano della nave aveva ricevuto da quel vecchio dalla figura solenne che lo aveva avvicinato al largo della costa. 

La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio

La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio per bambini della scuola primaria.

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La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio

Un giovane alto e biondo si fermò improvvisamente sul declivio a guardare tra il folto dei pini dove occhieggiava il mare. Aveva visto dondolarsi nell’azzurro dell’acqua una piccola nave.

Stupito da quell’insolito approdo, discese dal colle e lanciò un richiamo: “Chi siete? Che cosa cercate nella terra di Evandro, re degli Arcadi?”.

Un guerriero, che procedeva dinanzi agli altri, fissò il giovinetto e sorridendo rispose: “Sono Enea, capo dei Troiani. Nella terra di Evandro vengo a cercare alleati ed armi contro i Rutuli ed il loro feroce re Turno”.

A queste parole il giovane, senza indugiare, corse incontro all’ospite, esclamando: “Benvenuto, illustre eroe! Io sono Pallante, unico figlio di Evandro. Anche se il nostro regno è povero, leali sono gli Arcadi e sacra l’ospitalità”.

Enea e il principe salirono insieme per il declivio, seguiti dai Troiani; oltrepassarono il crinale, scesero a valle fino in vista del Palatino, su cui sorgeva Pallantea, la città dei pastori.

Evandro distese le pelli più ricche perchè i Troiani potessero riposare, offrì pane buono e miele, ascoltò Enea, che gli chiedeva alleanza.

“Gli dei mi hanno indicato l’Italia ed hanno predetto che dalla mia gente sarà fondata una città potente, grande, dominatrice del mondo: perchè i destini si compiano anche il tuo aiuto è necessario”.

Allora Evandro fece suonare il rustico corno per riunire i pastori a parlamento e ordinò a quelli più giovane e più robusti di armarsi d’arco, di frecce, di lance, di corazze per scendere in campo armati.

Anche il giovane Pallante volle combattere per Enea.

E le schiere, in ordinanza, tra uno scintillio di lance, raggiunsero il Tevere, ne seguirono le sponde ed arrivarono in campo aperto di fronte ai Rutuli.

La battaglia si ingaggiò furiosa da ambo le parti.

Il principe si gettava nelle mischie più pericolose e non esitava ad accettare i corpo a corpo con i guerrieri nemici più anziani e poderosi.

Ad un tratto si trovò di fronte al gigante Turno, il re dei Rutuli.

“Fanciullo, è temerario provarsi con me”

“Il prode non si ritira anche se il pericolo è grande”

E con queste parole scagliò la sua asta di solido frassino, ferrata e tagliente alla cima. L’aste battè sullo scudo di Turno, ma fu rigettata all’indietro.

“Ora sostieni tu la forza del mio colpo!” gridò il re dei Rutuli. E scagliò con forza. L’asta terribile trapassò lo scudo del giovanetto, lacerò la corazza, e gli si confisse nel petto.

Quando il mesto corteo che portava le spoglie di Pallante fu in vista dei luoghi paterni, il vecchio re scese incontro al diletto figlio; si chinò su di lui, quasi a ricercarne il respiro e, sentendolo gelido, si accasciò giù come quercia colpita dal fulmine.

Pallante fu sepolto in una grotta, che si apriva nel Colle Palatino, e su di lui venne posta una lampada accesa; poi la tomba fu chiusa con sassi e terriccio.

Passarono gli anni e passarono i secoli…

Il Palatino vide dal solco di Romolo sorgere la Roma quadrata; la vide allargarsi, la vide dominare i popoli italici, la vide signora di popoli e di civiltà.

Ed altri secoli passarono…

Un giorno, come turbine di guerra, i barbari si gettarono sull’Urbe, la misero a ferro e a fuoco, rovistarono ovunque, avidi di bottino.

Alcuni, battendo con le aste dove il Palatino infoltiva di corbezzoli, sentirono la terra rimbombare come se dentro fosse vuota. Stupiti, svelsero gli arbusti, scavarono, scavarono fino a ritrovare una grotta: e in fondo videro scintillare un lume.

Avanzarono timorosi e sotto il luccicore d’una lampada scorsero un corpo grande e giovanile, intatto e chiuso nelle sue lucide armi.

Vinto lo sgomento, i barbari staccarono la lampada e vi soffiarono sopra: la fiamma si piegò, guizzò, ma non si spense.

Il prodigio li impaurì: compresero che qualcosa di misterioso proteggeva la piccola lingua di fuoco. Tornarono nella grotta, appesero la lampada accesa vicino a Pallante, mirarono per un attimo i bellissimi lineamenti del giovinetto, poi arretrarono fino all’aperto, accumularono nuovamente sassi e pietre all’entrata della tomba, quindi vi ripiantarono i corbezzoli estirpati. Poi si allontanarono, volgendosi di tratto in tratto a riguardare il colle, che chiudeva un mistero per essi insolubile: quello della lampada accesa, simbolo della luce di Roma che non può morire.

(O. Visentini)

IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra

IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra, per bambini della scuola primaria.

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IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra

 Come mai sullo stemma della città di Terni è raffigurato un drago?
Narra la leggenda che tanti e tanti anni fa, viveva nel territorio ternano un orribile drago che teneva in continuo terrore tutta la popolazione.

Ogni zona dei dintorni era infatti malsicura per la presenza del mostro, e ben pochi erano quelli che potevano avventurarsi in un viaggio senza correre il rischio di essere assaliti. Talvolta, poi, accadeva che il drago, spinto dalla fame, arrivasse addirittura fino alle porte della città, cosicchè la gente doveva rinserrarsi nelle case. Era, insomma, un vero flagello cui occorreva porre d’urgenza rimedio.

Fu così che un giorno il Consiglio degli Anziani della città si riunì e decise di risolvere a qualsiasi costo la terribile situazione. Vennero convocati al Palazzo del Comune alcuni cittadini che avevano fama di ardimentosi. Uno dopo l’altro, però, essi rifiutarono di affrontare la rischiosa impresa.

“Signori miei” diceva uno, “Io ho moglie e figli. Non posso mettere in pericolo la mia vita”.
E un altro: “Onorevoli Consiglieri, ho un lavoro importante da svolgere, come voi sapete. Come posso abbandonarlo così d’un tratto per cimentarmi con quella bestiaccia?”

E ci fu chi si lagnò di avere un braccio malato; e chi accampò la scusa di dover fare un viaggio d’affari; e chi, persino, si rammaricò di dover esimersi dall’impresa, avendo la nonna inferma.

Gli Anziani non sapevano più a che santo rivolgersi. E già stavano per rinunciare ad ogni cosa quando, un bel mattino, si presentò loro un giovane ternano della nobile famiglia dei Cittadini. Era rivestito di un’armatura lucidissima, baldanzoso e fiero, e pareva già pronto a misurarsi col drago. Infatti disse: “Signori, col vostro permesso, ci vado io a fare una visitina  a quel mostro. Che ne dite?”

Figurarsi gli Anziani! Dissero subito di sì, che andasse pure, con tutti i loro auguri e le loro benedizioni. 

Il drago era acquattato ai margini di un boschetto. Sembrava assopito e sarebbe stata una cosa facile balzargli addosso e trafiggerlo. Ma ecco che nel preciso momento in cui il giovane stava per scagliare la lancia, il drago si eresse in tutta la sua mole e avanzò fulmineo verso il temerario. Il giovane lo evitò per miracolo.

Gli attimi che seguirono furono spaventosi. Ben due volte il giovane trafisse la bestia, ma le ferite sembravano prodotte da uno spillo. Accadde invece che, a un certo momento, il sole si riflettè nell’armatura e i lampi di luce che ne scaturirono abbagliarono il mostro. Fu questione di un secondo. Il giovane saettò la lancia con tutta la sua forza e, finalmente, trafitto da parte a parte, il drago stramazzò e rimase immobile per sempre.

Qualche cittadino di Terni, che aveva osato assistere da lontano alla scena, corse subito in città a dare la strepitosa notizia. In breve tutta la popolazione, con alla testa gli Anziani, si radunò sul luogo della lotta per constatare coi propri occhi la fine del mostro. Inutile dire che il giovane venne festeggiato solennemente e che per parecchi giorni la città visse tutta in tripudio.

Probabilmente questa leggenda ebbe origine dal fatto che, un tempo, gran parte del territorio ternano era paludoso e che la malaria diffondeva tutt’intorno il suo pestifero alito di morte, specialmente nel rione “La Chiusa”.

Poi i terreni vennero prosciugati dalla bonifica (l’assalto del giovane cavaliere), e divennero fertili e belli. Così gli acquitrini e la malaria rimasero solo un lugubre ricordo e si identificarono, nella fantasia popolare, con la figura del drago.

LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche

LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche

 C’era un povero contadino della Valle del Tronto il quale altro non possedeva che un piccolo pezzo di terreno. Ma i miseri frutti di quel campicello non bastavano a sfamare la famiglia.

Per fortuna, sorgevano su quel terreno tre bei peri che, neri e rinsecchiti d’inverno, quando giungeva la primavera si rivestivano di teneri germogli. Spuntavano poi i  fiori bianchi e, infine, a suo tempo, ecco che facevano capolino tra il fogliame i grossi frutti succosi.

Erano proprio una meraviglia quelle pere! Il buon contadino, al momento giusto, le coglieva e le portava al mercato della città, guadagnando tanto denaro da poter acquistare il grano necessario per tutto l’inverno.

Un anno, al momento del raccolto, il contadino di accorse che qualcuno gli rubava i bei frutti. Ciò doveva accadere durante la notte, perchè solo al mattino constatava il furto, ora di dieci, ora di venti ed ora di cinquanta pere.

Il pover’uomo era disperato. Come avrebbe vissuto la famiglia il prossimo inverno?

A questo punto entrò in scena Pirillo, uno dei figli del contadino: un ragazzino agile e furbo di dieci anni. Pirillo, dunque, disse al padre: “Babbo, stanotte farò io la guardia. Vedrai che scoprirò il ladro”.

Scesa la sera, Pirillo prese pane e cacio, si armò di una roncola e, salito su uno degli alberi, si nascose fra i rami più alti. Passò un’ora e ne passarono due, e Pirillo, per vincere il sonno, diede fondo alle sue provviste.

Allorchè la campana del villaggio suonò la mezzanotte e la luna era alta nel cielo e ricamava la terra con arabeschi d’argento, d’improvviso, sgranando gli occhi, Pirillo vide avanzare una strega, un’orribile donna con la barba d’un caprone e le zanne di un cinghiale.

La vecchiaccia s’appressò all’albero e stava per cogliere una pera quando Pirillo con un gesto veloce le colpì la mano con la roncola. La strega lanciò un urlo di dolore, guardò in alto e scorse Pirillo fra i rami. Cominciò allora a lagnarsi: “Dammi una pera, ragazzino, una pera soltanto”.

E Pirillo, di rimando: “Ne hai già rubate tante, vattene!”

“Se non mi dai una pera” minacciò la strega, “scuoterò l’albero finchè non cadrai!”

Pirillo scoppiò in una risata: “Provaci, se sei capace!”

Allora la strega cominciò davvero a scuotere il pero e con tanta forza che Pirillo finì per piombare a terra ai piedi della vecchia. Questa, in un attimo, lo afferrò, lo legò stretto al suo grembiule e, montata a cavalcioni su una scopa, volò veloce fino a casa sua, in una capannuccia fra i boschi.

“Eccoci qua! Ora, invece delle pere, mangerò te!” esclamò la vecchia con voce stridula.

Così detto, accese il fuoco nel camino e vi mise sopra un enorme paiolo colmo d’acqua. Quando l’acqua bolliva, Pirillo disse alla strega: “Slegami, almeno, e fammi spogliare. Non vorrai mangiarmi con tutti i vestiti”.

La vecchia approvò, slegò il fanciullo, poi brontolò minacciosa: “Ora, spogliati, su, che l’acqua è già pronta”.

Mentre Pirillo fingeva di spogliarsi, si volse al paiolo e lo scoperchiò. Fu un attimo: Pirillo si lanciò sulla strega, la afferrò per i piedi e la capovolse nell’acqua bollente, nel paiolo dovere avrebbe dovuto finire lui.

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO – per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO

Ai tempi del Medioevo molti poggi ai confini della Maremma erano incoronati da mulini a vento che provvedevano a macinare il grano delle campagne circostanti. Qualcuno, ridotto in rovina, si vede ancora oggi. Uno di questi, eroso com’è da secoli, ha un aspetto così desolante, che sembra proprio un enorme spaventapasseri.

I contadini, se sono costretti a passarci sotto, si voltano dall’altra parte per non vederlo, e ricordano con un brivido la triste leggenda che si racconta intorno ad esso.

Devi sapere, dunque, che ci fu un tempo in cui questo mulino svettava superbo sul colle con le sue belle ali roteanti al minimo soffio di vento. Ne era padrone un mugnaio che, però, era una vera peste: crudele, egoista, avaro, maligno.

Questi difetti li riversava sui poverini obbligati a macinare il loro grano da lui perchè, nella zona, quel mulino era l’unico che esistesse a vista d’occhio.

Che faceva il mugnaio? Ecco qua: rubava sul peso della farina; esigeva, per consegnarla, prezzi esorbitanti; prestava denaro ai contadini bisognosi, ma solo per chiedere indietro una cifra doppia. E se qualcuno si ammalava o gli andava male il raccolto, non aveva pietà e gli portava via tutto: la casa, gli arnesi e le bestie.

Succedeva così che, mentre quei poverini diventavano sempre più poveri e timorosi, quel mugnaio diventava sempre più ricco e prepotente.

E nessuno poteva farci nulla.

Dicono che c’è una giustizia per tutti. Ed ecco che un’annata la carestia e la siccità ridussero a zero i raccolti. Furono guai per i contadini senza un chicco di grano, ma furono guai anche per il mugnaio che non ebbe più grano da macinare.

Venne l’inverno, un invernaccio per tutti. Il mugnaio, a dir la verità, se la passava ancora benino. Chiuso nella sua casa, pane e fuoco non gli mancavano ma, inutile dirlo, se li teneva per sè, sprangato dentro.

Del resto, chi mai avrebbe bussato a quella porta? Nessuno, neanche a morir di fame. Una sera, però, qualcuno bussò.

“Chi diavolo sarà!” mugugnò il mugnaio. E andò ad aprire.

Era una donna con una creaturina in braccio. Tutti e due con gli abiti stracciati, tremanti di freddo.

“Pietà signore!” implorò la donna, “Pietà di un po’ di fuoco e di un po’ di pane”

Chiunque si sarebbe sentito spezzare il cuore. Il mugnaio, no. Duro e sgarbato, rispose: “Via, via, andate a cercare in paese!”

E siccome la donna insisteva e supplicava, il malvagio esplose con un urlo: “Vattene, se non vuoi che ti bastoni!”
In quell’attimo, accadde qualcosa che fece indietreggiare il mugnaio, pieno di sgomento. La donna, d’improvviso, si era prodigiosamente trasformata; da una povera stracciona qual era, si era mutata in una signora avvolta di luce splendente. E diversa era anche la sua voce, mentre in tono ardente esclamava: “Guai a te, uomo senza cuore! D’ora in avanti il tuo mulino sarà per sempre maledetto. Le sue ali non si muoveranno più!”

E davvero, da quella notte, le ali del mulino più non si mossero. Nei giorni seguenti, invano il mugnaio si rivolse ai più abili meccanici perchè le facessero funzionare. Le ali, lassù, parevano inchiodate nel cielo. Neppure  i venti più impetuosi, neppure le bufere più violente, riuscirono a smuoverle. Ben presto, esse diventarono nidi di neri corvi che gracchiavano, volteggiando sul mulino maledetto.

Quanto al mugnaio, nessuno ne seppe più nulla. Forse, una notte, protetto dalle tenebre, era fuggito lontano dalla squallida dimora, portandosi con sè i rimorsi di tutte le sue cattive azioni. 

Leggenda di ALASSIO – Liguria

Leggenda di ALASSIO – una leggenda ligure per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Leggenda di ALASSIO – Liguria

Forse pochi sanno l’origine del nome della città di Alassio…

… mille anni fa, circa, viveva in Germania una bella e intelligente fanciulla, dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro: Alassia si chiamava, ed era figlia nientemeno che dell’imperatore di Germania, Ottone I.

Alassia amava e voleva sposare lo scudiero imperiale. Figuratevi un po’ se Ottone avrebbe permesso che sua figlia andasse sposa a uno scudiero! Egli aveva pensato per lei ben altre nozze!

Così, quando ella si presentò al padre per chiedere il consenso ne ebbe un deciso rifiuto.

I due giovani allora pensarono di fuggire. Difatti, pochi giorni dopo, quando l’alba non aveva ancora vinto le tenebre, essi lasciarono il palazzo reale e si diressero verso il sud, verso il sole.

Cammina e cammina, dopo lunghe peripezie e non poche sofferenze, essi arrivarono finalmente in una terra piena di luce e di fiori: la Liguria. Innamorati di tanta bellezza decisero di fermarsi in quel luogo incantevole. Si stabilirono, infatti, poco ad ovest di Albenga, e lì si sposarono.

Ma per vivere dovettero lavorare e lavorare: fecero i contadini, i pescatori, coltivarono i fiori. Infine lui si mise a fare il carbonaio e lei imparò a meraviglia a tessere i merletti.

Ma che importava? Vivevano contenti, mentre il loro figlio Aleramo cresceva bello, forte ed intelligente. Non poche prove di coraggio egli aveva saputo dare. Fra l’altro aveva tratto in salvo alcuni pescatori durante una furiosissima tempesta che aveva sorpreso piccole barche al largo della costa ligure.

Passarono così molti anni…

Un bel giorno, sul far della sera, arrivò nella vicina città di Albenga nientemeno che l’imperatore. Era invecchiato, molto invecchiato. Da quando la sua figliola era fuggita, preso dal rimorso, egli non aveva più conosciuto un momento di pace.

Aveva sì inviato messi a cercarla in tutte le parti dell’impero. Ogni città, ogni terra era stata frugata, ma sempre inutilmente, sicchè il povero sovrano aveva finito col perdere ogni speranza.

Ed ecco che ora viene a sapere che la sua figliola diletta vive lì vicino col marito e col figlio. L’imperatore non volle questa volta agire di propria testa. Si recò dal vescovo di Albenga e chiese a lui consiglio su quel che doveva fare: “Perdona!”, fu la risposta.

Non era il caso di dirlo, perchè questa volta l’imperatore andò anche più in là.

Non solo concesse all’amata figliola il suo paterno perdono, ma fece il nipote Aleramo marchese del Monferrato.

E quando la figlia dell’imperatore morì, la località dove ella era vissuta contenta e felice prese il suo bel nome: Alassio.

Leggenda del Lago Santo modenese

Leggenda del Lago Santo modenese – una leggenda dell’Emilia Romagna, per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Leggenda del Lago Santo modenese

“Va bene!” disse il gigante, con la sua voce di tuono, al ministro del re, “In cambio però voglio quindici paia di buoi, trenta mucche, centocinquanta pecore e cinquanta otri di vino!”

Il ministro del re, microscopico e tremante ai piedi della grotta, fece dietro front e corse a riferire. Il re accettò e subito, senza perdere un attimo, il gigante si tirò su le maniche e si mise al lavoro. E che lavoro! Si trattava, nientedimeno, di sollevare una montagna e precipitarla a valle, distruggendo così un‘intera città con tutti i suoi abitanti.

Non era, però, una gran fatica, per un gigante dalle braccia lunghe dodici miglia e le mani vaste come un paese…

“Che cos’è questa storia?” dirai tu.

E’ la storia di un lago, un lago chiamato Lago Santo, pittoresco specchio d’acqua dell’Appennino Modenese. Sta a sentire…

…Secoli e secoli or sono, un re malvagio valicò lunghe catene di monti per venire a conquistare una città. Già altre città, già altri paesi e villaggi aveva conquistato e distrutto, senza che la sua cattiveria fosse stata punita.

Questa volta, però, si trattava di una città che non meritava di essere asservita, perchè i suoi abitanti l’avevano edificata con amore, e l’avevano resa bella, ricca e fiorente.

Allorchè essi si accorsero del pericolo che stavano correndo, per notti e per giorni si misero a scavare un enorme vallone di dove, ben nascosti e protetti, al momento opportuno avrebbero potuto scacciare il nemico con una pioggia di frecce.

Venuto a conoscenza della cosa, il re chiamò il ministro e gli impose di trovare un rimedio alla situazione. Fu così che il ministro corse alla grotta del gigante e di laggiù, microscopico e tremante, gridò: “Ehi, tu! Che cosa chiedi in cambio, per darci una mano?”

“Quindici paia di buoi!” rispose il gigante, che dal suo antro seguiva e vedeva ogni cosa, “Trenta mucche…”

E intanto si stropicciava beato le mani, pensando che, con poca fatica, avrebbe avuto da mangiare e da bere per tutto l’inverno.

Ed eccolo al lavoro. Distese le braccia, lunghe dodici miglia ciascuna, roteò le mani grandi come paesi, e afferrata a caso una montagna per il cocuzzolo, se la pose sulla testa e si incamminò per raggiungere il punto giusto di dove, scagliandola, avrebbe in un batter d’occhio seppellito città e cittadini.

Ma che cosa avvenne, ad un tratto?

Avvenne questo: miliardi di formicuzze piccine e tenaci accorsero da ogni dove e cominciarono a scavare con tutte le loro energie la montagna che il gigante portava sulla testa. Scava e scava, ben presto esse l’attraversarono da un capo all’altro. Così il gigante, si ritrovò con la testa infilata nella galleria scavata dalle formiche e con la montagna tutta intorno al collo come… un collarino.

Ma che terribile collarino! Strozzato a quel modo, che poteva fare il povero gigante? Urlava, e le sue urla si perdevano in un gorgoglio. Cercava di scrollarsi di dosso la montagna, ma più scrollava e più essa gli si assestava intorno al collo…
Sbuffava e smaniava, ma tutti i suoi movimenti non producevano che un lieve rotolio di sassi e di terriccio… Era la fine. A poco a poco, infatti, le forze gli mancarono ed egli morì.

Intanto si era messo a piovere. Una pioggia abbondante, continua, che scrosciava dilagando per la campagna e per il vallone, dividendo inesorabilmente la città dai suoi nemici.

Piovve giorno e notte, per più giorni e più notti. Ormai la città era salva e i cittadini potevano guardare con gioioso sollievo quella pioggia benedetta che li aveva liberata dal pericolo.

Così, quando tornò il sole, raggiunto il luogo in cui il gigante era crollato, tutti videro che la pioggia aveva riempito fino all’orlo anche il buco scavato dalle brave formicuzze nella montagna, formando un grazioso laghetto.

A ricordo di quel gesto di bontà, lo chiamarono Lago Santo. 

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

LEGGENDE ITALIANE

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

C’era una volta un uomo che andava intorno con un carrettino sgangherato. Una notte d’estate giunse a Gemona. Non aveva il becco di un quattrino, e non sapendo dove andare a dormire, si distese sulle panchine che stanno sotto il Palazzo Comunale. Quando fu mezzanotte sentì una voce che lo chiamava. Egli si svegliò spaventato e chiese: “Chi è?”

“Costantino,” rispose una voce sommessa, “se tu hai coraggio, io posso darti la fortuna; domani sera, a quest’ora, fatti trovare qui. Io tornerò”.

Costantino, il giorno dopo, pensava impaurito che cosa avrebbe dovuto fare. Alla fine decise di tornare a dormire sotto il palazzo.

A mezzanotte precisa, l’anima ritornò.

“Costantino!” disse, “Armati di coraggio, e vieni con me sulla torre del castello. Tu non mi vedrai, ma io ti sarò sempre vicino. Appena entrato nella torre , lancia un sasso e subito dopo vedrai comparire una bestiaccia a cavallo di una gran cassa contenente un tesoro. Essa terrà una chiave in bocca. Tu non spaventarti, ma afferra la chiave e fa ogni  sforzo per levargliela di bocca. Se non ci riuscirai la prima volta, tenta la seconda ed anche una terza. Ricordati, però, che devi far questo prima che suoni il tocco.”

Costantino, tremando, salì la riva del castello ed appena entrato nella torre gettò un sasso. Immediatamente, tra tuoni e lampi, comparve la bestiaccia. Costantino le andò incontro per toglierle la chiave, ma prese a tremare per la grande paura, e la prima volta potè appena toccarla.

Provò la seconda e non riuscì a strappargliela. Provò anche la terza, ma, proprio quando stava compiendo il maggior sforzo, sentì battere l’una, e bestiaccia e cassa scomparirono tra le fiamme.

Costantino, sconvolto, uscì dalla torre, e a metà discesa ritrovò l’anima, che gli disse: “Costantino, io avevo sperato proprio che tu mi avresti liberata. Ora, purtroppo, deve ancora nascere l’albero, con cui sarà fatta la culla di colui che mi libererà”.

Sotto il Castello di Gemona dovrebbe essere sepolto un tesoro. Ci si può, dunque, spiegare perchè, come dicono, compare ogni tanto qua e là qualche buca scavata di fresco. Qualcuno, certamente, tenta nottetempo di scoprirlo.

(V. Ostermann)

CONTURINA Leggenda del Trentino Alto Adige

CONTURINA Leggenda del Trentino Alto Adige, per bambini della scuola primaria.

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CONTURINA

Leggenda del Trentino Alto Adige

Nella Valle di Contrin, adagiata ai piedi dell’immensa parete verticale della Marmolada, vive ancora il ricordo della leggenda di Conturina, la bellissima fanciulla vittima della propria bellezza e dell’odio della matrigna.

La matrigna di Conturina era una nobile e ricca signora, padrona di un castello e madre di due brutte ragazze.

Molti principi e giovani cavalieri venivano in visita al castello; tutti ammiravano Conturina e nessuno si occupava delle altre due.

La matrigna, alla quale ciò dispiaceva, un bel giorno ordinò a Conturina di non pronunciare una parola in presenza degli ospiti. E disse a tutti che la ragazza era stupida e muta.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

Allora la matrigna ordinò che, quando vi fossero ospiti in casa, Conturina restasse sempre perfettamente immobile. E disse a tutti che la figliastra era muta e paralitica.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

La matrigna, furente, mandò a chiamare una strega, la quale con un incantesimo trasformò Conturina in pietra.
Tutti si innamorarono della statua bellissima.
Allora la matrigna ordinò che la fanciulla impietrita venisse portata sopra un’altissima rupe, che domina il Passo di Ombretta, che venisse infitta nella roccia e abbandonata lassù.
E così fu fatto.
Mesi ed anni passarono senza che nessuno sapesse dove era andata a finire la povera Conturina.

Dopo alcuni anni, fra i pastori si cominciò a dire che nella solitudine della Val d’Ombretta, qualche volta si udiva cantare una voce di donna.

Una notte un giovane soldato, che era di sentinella sul passo, nel silenzio profondo riuscì a comprendere anche le parole del canto, nel quale Conturina raccontava la sua storia. Il soldato le gridò che allo spuntar del giorno si sarebbe arrampicato su quella rupe per liberarla. Ma Conturina gli rispose che era troppo tardi.

Nei primi sette anni sarebbe ancora stato possibile liberarla, ma alla fine del settimo anno l’incantesimo si era fatto insolubile e nessuna forza umana sarebbe valsa ormai a staccarla da quella rupe, dove ella era destinata a rimanere per sempre.

E così fu.

Qualche volta, chi passa per quel deserto di rocce che è la Valle Ombretta, specialmente di sera, ode ancora il mesto canto della povera Conturina.

(C. F. Wolf)

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta

 C’erano una volta un papà e una bambina. La bimba si chiamava Misurina e Sorapis il papà. Papà era un gigante, e Misurina una bimba piccina piccina, che poteva benissimo stargli nel taschino del panciotto. Eppure, quella piccina piccina poteva a suo agio prendere in giro quel papà grande come una montagna.

E’ la sorte che tocca ai papà troppo buoni con le bambine che non meritano nessuna bontà. E Misurina intanto cresceva stizzosa ed insolente.

Al castello di babbo Sorapis tutti la fuggivano come la peste, uomini di corte e valletti di camera, dame di compagnia e donne di cucina.

“Signori miei”, gemeva Sorapis, “lo so, lo so. Misurina è un po’ monella, ma è tanto una cara bambina! Rimedieremo… rimedieremo…”.

Ma non rimediava, pover’uomo. Anzi, la piccola, crescendo, diventava sempre più insopportabile. Il suo difetto più grande, però, era la curiosità. Una bimba così curiosa non la si sarebbe incontrata in tutto il mondo. Voleva sapere tutto, voleva vedere tutto.

Un giorno la nutrice le disse: “Una signorina come te, dovrebbe possedere lo specchio Tuttosò”

“E che cos’è questo specchio?” esclamò la bimba, facendosi rossi per l’emozione.

“Uno specchio dove basta specchiarcisi per saper tutto quanto si vuol sapere”.

“Oh” mormorò Misurina, “E come posso averlo?”

“Domandalo al tuo papà, che sa tutto”.

Misurina andò dal babbo, saltellando come un passero.

“Papà,” cominciò a gridare prima di giungergli accanto, “devi farmi un regalo!”.

“Se posso, gioietta”

“Sì che puoi”

“E allora sentiamo”

“Prima giura che me lo farai”

“Non posso giurare se non so di che regalo si tratta”

“Voglio lo specchio Tuttosò”

Sorapis impallidì. “Tu non sai ciò che mi chiedi, figliola”

“Sì che lo so!”

“Ma non sai che lo specchio appartiene alla fata del Monte Cristallo?”

“E che mi importa? Lo comprerai!”

Il povero Sorapis sospirò…

“O glielo ruberai.”

“Senti… Misurina…”

“L’hai promesso, papà!”

E quel demonio di figliola si mise a piangere e a sospirare e a rotolarsi per terra. “E se non mi porterai quello specchio, io morirò”.

Il povero papà si mise in testa la corona, vestì il mantello di ermellino, prese lo scettro a mo’ di bastone, e si avviò dalla fata che abitava a pochi passi da lui. Non appena giunse al castello, bussò.

“Avanti” disse la fata, che sedeva nella sala del trono, insieme con due damigelle. “Chi sei e cosa vuoi?”

“Sono Sorapis, e voglio lo specchio Tuttosò”

“Corbezzoli!” rise la fata, “Solamente? Come se si trattasse di fragole!”

“Oh, fata, fatina, non ridere… se tu non me lo dai, la mia bambina morirà”

“La tua bambina? E che ne sa dello specchio Tuttosò? A che le serve? Come si chiama questa bambina?”

“Misurina”

“Ah, ah!” disse la fata, “La conosco di fama. Le sue grida giungono fino a me quando fa i capricci, e questo è un capriccio ben degno di lei. Va bene, io ti darò lo specchio, ma a un patto”

“Sentiamo” accondiscese il re.

“Vedi quanto sole batte da mattina a sera sopra il mio giardino?”

“Vedo” rispose Sorapis.

“Mi brucia tutti i fiori e mi dà noia. Mi ci vorrebbe una montagna a gettarmi un po’ d’ombra. Ecco, bisognerebbe che tu, grande e grosso come sei, ti contentassi di trasformarti in una bella montagna. A questo patto ti darei lo specchio Tuttosò”.

“Oh… oh…” disse Sorapis, grattandosi un orecchio e sudando freddo.

“Prendere o lasciare” disse la fata.

“Va bene! Dammi lo specchio”, sospirò il poverino.

La fata trasse da uno scrigno, che aveva a portata di mano, un grande specchio verde e glielo porse, ma poichè si accorse che il povero Sorapis era diventato smorto, ebbe pietà di lui, e gli disse:

“Facciamo una cosa; capisco che tu non hai troppo desiderio di trasformarti in una montagna, ed è naturale, ma, d’altra parte, hai paura che la tua bimba muoia se non mantieni la promessa che le hai fatto. Ritorna al tuo castello e di’ alla bimba la condizione per cui può venire in possesso dello specchio; se ella ti vuol bene rinuncerà a possederlo per non perdere il suo papà, e tu mi rimandi lo specchio, e se no, se no… io non ne ho colpa”.

“Sta bene” rispose il re, e ripartì.

Misurina lo aspettava seduta sullo spalto più alto del castello e non appena lo vide, gli gridò: “Ebbene, me l’hai portato?”

“Eh, sì, te l’ho portato”, ansimò il poverino. E presala in mano per parlarle meglio, le riferì l’ambasciata della fata del Monte Cristallo. Misurina battè le mani.

“Tutto qui?” disse, “Dammi pure lo specchio, papà, e non pensarci. Diventare una montagna deve essere una bellissima cosa. Anzitutto non morirai più, poi ti coprirai di prati e di boschi ed io mi ci divertirò.

Il poveretto impallidì, ma tanto valeva; la sua condanna era stata decretata. Non appena Misurina ebbe afferrato lo specchio, Sorapis si ampliò, si ampliò, si gonfiò, parve lievitasse nel sole, si impietrì, e in un attimo diventò la montagna che ancora oggi si erge di fronte al Monte Cristallo.

Misurina, trovatasi innalzata a quell’altezza prodigiosa sulla cresta di una montagna bianca e nuda, dove a poco a poco gli occhi di suo padre morivano, gettò un grido terribile e, presa da un capogiro, col suo specchio verde precipitò giù.

Allora dagli occhi semispenti di Sorapis, incominciarono a scendere lacrime e lacrime, fino a che gli occhi si spensero e le lacrime non piovvero più.

Con quelle lacrime si è formato il lago sotto cui giacciono Misurina e lo specchio, e in quel lago il Sorapis si riflette e cerca con gli occhi morti la sua bimba morta.

(P. Ballario)

Leggenda del MONTE DISGRAZIA – Lombardia

Leggenda del MONTE DISGRAZIA – una leggenda della Lombardia, per bambini della scuola primaria.

Leggenda del MONTE DISGRAZIA

Il Monte Disgrazia, in fondo alla val Malenco, nella provincia di Sondrio, è oggi aspro, roccioso e brullo. Ma non è sempre stato così.

Molti secoli fa, quella montagna era ammantata di incantevoli pascoli verdi. Era un luogo talmente meraviglioso che aveva meritato il nome di Monte Bello.

A primavera i pastori risalivano verso la cima e sui pascoli erbosi si fermavano fino all’autunno coi loro greggi.
Così per molti secoli.

Un giorno comparve, presso le baite situate più in alto, un vecchio uomo sfinito dal caldo e dal digiuno. I pastori, in quel momento, stavano consumando il loro frugale pasto: pane duro e formaggio.

Il povero viandante chiese, umilmente, un po’ di cibo e il permesso di riposarsi fra loro un giorno o due, dicendo che si sentiva sfinito e febbricitante. Ma i pastori lo derisero e risposero che non avevano nessuna voglia di ospitare vagabondi malati.

“Va’ a morire altrove. Qui non c’è posto per un vagabondo come te!”

Scacciato così crudelmente, il povero vecchio seguitò in silenzio il suo cammino più a valle e si fermò solo davanti all’ultima baita, la più bassa, la più piccola e, dall’aspetto, la più povera.

Qui, all’ombra di una grande quercia sedeva tutto solo un giovane e robusto pastore. Il pellegrino gli si accostò e gli si sedette a fianco senza dir nulla. Le gambe non lo reggevano più e la vista gli si annebbiava. Il giovane pastore capì quegli occhi che piangevano e che imploravano; si alzò, gli porse l’acqua fresca della sua borraccia, poi un po’ di pane e un po’ di formaggio. Quindi lo invitò a riposare nella sua baita dicendo: “Seguiterai il cammino fra qualche giorno. Io sono solo e la tua compagnia mi farà felice”.

Il vecchio lo guardò con profonda riconoscenza. “Grazie, buon pastore” gli rispose, “Ma devo arrivare al paese prima di sera. Per raggiungerlo ci vuole qualche ora di cammino ed io sono vecchio. Accompagnami, piuttosto, fino a quelle case laggiù!”

“Se proprio vuoi proseguire, ti accompagnerò volentieri. Aspetta un momento perchè io raduni il mio gregge.” disse il pastore.

“Non occorre, lascialo pure così”, rispose il pellegrino.

Ed il vecchio, appoggiandosi al giovane, fece con lui, in silenzio, un buon tratto di cammino. All’improvviso il cielo si oscurò in modo pauroso. Non erano nuvole, ma caligine, a tratti squarciata da immense vampate di fuoco.

“Non voltarti indietro” raccomandò il pellegrino. Ma il pastore si volse lo stesso. Il monte ardeva in un gigantesco rogo. Le fiamme mandavano così vivida luce che gli occhi del pastore non la potevano sostenere e rimasero ciechi. Il giovane allora, pieno di terrore, si gettò a terra piangendo e pregando: “Dio misericordioso, ti supplico, perdona la mia disobbedienza  e toglimi da questa notte!”

“Allunga la mano” disse allora il pellegrino ” e lavati con l’acqua del fiume; poi torna presso il tuo gregge,  che è  salvo nel tuo pascolo. Abbi fede!”

Appena il pastore ebbe raccolta, con le mani tremanti, un po’ d’acqua e se ne fu bagnati gli occhi, riacquistò la vista e si guardò intorno pieno di stupore. Il cielo era ritornato sereno e tutto era pace e silenzio.

Ma il monte… il bel monte prima ravvolto di boschi e di verdi pascoli era divenuto bruno, roccioso e aspro e si ergeva coi suoi aguzzi picchi e fianchi solcati da crepacci minacciosi.

Il Monte Bello si era tramutato nel Monte Disgrazia.

LEGGENDE ITALIANE I laghi di Avigliana

LEGGENDE ITALIANE I laghi di Avigliana – una leggenda del Piemonte per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

I laghi di Avigliana

C’era una volta in Piemonte, là dove ora sorgono i due laghi di Avigliana, un grosso borgo florido e ricco. Disgraziatamente la fortuna e gli agi avevano indurito e inasprito il cuore degli abitanti: essi erano così egoisti, avari e crudeli che non facevano neppure la più piccola elemosina, e vivevano pensando solo a se stessi e al proprio benessere.

Ora avvenne che una sera d’inverno, in cui infuriava una gelida tempesta di neve, un pellegrino vestito di bianco giunse alla borgata. Appariva sfinito dal lungo cammino e si trascinava a stento nella tormenta che gli sferzava il volto pallido ed emaciato, contratto dalla fatica e dalla pena.

Bussò alla porta di una casa, le cui finestre dai vetri appannati rivelavano come nell’interno vi fosse un buon tepore, e chiese per carità un po’ di pane, una ciotola di latte caldo, un ricovero per la notte: era un pellegrino, un fedele di Dio, e Dio avrebbe ricompensato chi lo avesse ospitato.

Ma vane furono le richieste e le preghiere del bianco viandante.

Tutti gli chiusero la porta in faccia con mala grazia, rifiutandogli ogni soccorso.

Ormai egli aveva percorso tutte le vie, picchiato a tutti gli usci. Restava ancora solo una misera casupola sperduta, che sporgeva su una piccola altura, un po’ fuori del paese. Dietro i vetri della minuscola finestrella si scorgeva oscillare una fioca fiammella di candela.

Il pellegrino bussò  anche a quest’ultima porta, con un ultimo barlume di speranza. Una vecchiarella tremula, poveramente vestita, gli aprì e lo invitò premurosamente ad entrare.

Lo fece accomodare accanto al camino ed accese un fuoco di sterpi e di rami secchi, raccolti pazientemente, un po’ alla volta, nei boschi, durante l’autunno. Poi gli scaldò una tazza di brodo e gli diede una fetta di pane nero, tutto ciò che le restava nella madia.

“Poverino, sei tutto fradicio!” gli disse, aiutandolo a togliersi il bianco mantello inzuppato di acqua e di neve.

Gli porse una coperta ed il pellegrino si ravvolse in essa e si stese vicino al focolare, accanto alle braci calde, per dormire. La vecchietta voleva cedergli il suo lettuccio, in una stanzetta al piano superiore, ma egli rifiutò, dicendo che questo non poteva assolutamente accettarlo. Allora la vecchina gli augurò la buona notte e andò di sopra a coricarsi.

La mattina seguente, quando ella scese in cucina, il bianco pellegrino era scomparso.

“Strano…” pensò, “… chissà perchè se ne sarà andato senza salutarmi. Forse aveva fretta di riprendere il cammino interrotto e di arrivare a destinazione…”.

Aprì la porta e si affacciò sulla soglia, per vedere se le riusciva di scorgerlo lungo la strada maestra. La tormenta era passata e splendeva il sole. Guardando il paesaggio all’intorno, la vecchiarella mandò un’esclamazione di stupore…

Il villaggio non c’era più… Nessuna traccia delle case, ai lati della strada… Al loro posto si stendevano due laghi, uno più grande e uno più piccolo, dalle cerule onde increspate dalla brezza e scintillanti nel sole, fra rive bianche di neve.

Solo la casetta della povera vecchia si era salvata dalla distruzione: così il divino viandante dal candido mantello aveva premiato il buon cuore di lei e punito la malvagità dei suoi compaesani.

LEGGENDE ITALIANE Il giovane conte cambiato in lupo

LEGGENDE ITALIANE Il giovane conte cambiato in lupo – una leggenda della Valle d’Aosta per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Valle d’Aosta

Il giovane conte cambiato in lupo

Era inverno. La neve copriva abbondantemente le falde dei monti. Anche il fondo valle era coperto di neve.

I contadini stavano rintanati nelle stalle, per ripararsi dalle intemperie. Il sepolcrale silenzio del luogo era rotto soltanto dallo scrosciare delle acque del Lys e dal fragore delle valanghe che precipitavano dai monti vicini, con grande fragore.

Paolo, un giovanotto di Lillianes, la sera della festa patronale, il 22 gennaio, si recò presso Geltrude, la sua fidanzata. Voleva avvisarla che per alcuni giorni non l’avrebbe vista, perchè doveva recarsi al villaggio di Moller per cuocervi il pane per l’estate successiva.

Il giorno seguente, prima che il sole sorgesse all’orizzonte, egli aveva già fatto ben due ore di cammino sulla neve immacolata ed era giunto lassù dove la bianca farina di segale lo attendeva per essere trasformata in pane saporito.

Gli annosi abeti della foresta vicina protendevano lunghi rami verso il suolo, stanchi della pesante stretta che dava loro la neve.

Paolo, però, non si fermò a contemplare il quadro che gli si spiegava dinnanzi; e tanto meno sentì il minimo sgomento di trovarsi in un luogo tanto selvaggio. Cominciò a togliere con il badile la neve che ingombrava l’entrata di casa, poi accese il fuoco nel forno e, sempre canterellando allegramente, pulì la madia, preparò la pasta, formò i pani e li mise a cuocere.

Poco dopo dal forno usciva un buon odore di pane e quell’odore appetitoso stuzzicò la fame del giovane montanaro.

Ma quale non fu il suo stupore, quando, voltandosi verso la porta,  vide un grosso lupo che lo stava guardando, con la lingua ciondoloni e il respiro grosso e affannato.

Non avendo alla mano altra arma di difesa, Paolo prese una palata di brace e la scaraventò sulla belva, la quale se ne andò mandando gemiti e ululati spaventosi.

Il giovanotto credette di essersi liberato della bestia importuna, ma così non fu. Il lupo, dopo una ventina di minuti, tornò a presentarsi alla capanna. Scacciato una seconda volta, tornò una terza e poi ancora, finchè a Paolo venne l’idea di gettargli un pane caldo. Allora la belva, quasi non avesse aspettato altro, addentò con avidità il pane e, questa volta, non fece più ritorno.

Quando Paolo discese a valle, raccontò ai familiari ed agli amici la storia del lupo, ma nessuno ci fece gran caso, forse perchè in quei tempi i lupi erano assai comuni nelle nostre vallate alpine.

Nell’estate seguente, Paolo volle realizzare il suo sogno di sposare la bella Geltrude.

Valicati i monti di Carisey e del Mucrone, e salutata di passaggio la Madonna nera del Santuario d’Oropa, si recò a Biella con l’intenzione di comprare l’abito nuziale per sè e per la sposa.

La cittadina era molto movimentata, a motivo della fiera.

Paolo, abituato alla semplicità del suo villaggio natio, si fermava estasiato a contemplare le vetrine dei vari negozi. Ed in mezzo a tanto trambusto era quasi sbalordito.

Ad un tratto sentì che qualcuno gli toccava la spalla. Si voltò e vide un signore alto, distinto ed elegante, che lo guardava con aria amichevole. Paolo rimase perplesso, con gli occhi fissi  in quelli dello sconosciuto.

Poi questi prese le mani del montanaro, gliele strinse con affetto e lo invitò a seguirlo nel suo castello, dove lo trattenne a pranzo.

Il povero montanaro, seduto al posto d’onore, aveva la mente tanto confusa che non osava proferir parola. A un certo punto, con evidente commozione, il padrone di casa gli richiamò alla mente quel tale lupo della montagna di Moller. Poi, dopo una lunga esitazione, aggiunse: “Quel lupo ero io!”

E continuò: “Ero un giovanotto spensierato e mi divertivo a fare escursioni sui nostri monti. Quattro anni fa ero di passaggio al Lago di Mucrone, quando una malvagia strega mi si avvicinò. Mi toccò con una bacchetta incantata e da quel momento fui mutato in lupo famelico e fui condannato a rimanere tale finchè non avessi trovato un’anima pietosa che mi regalasse un pane. Passarono i giorni, passarono i mesi, e quattro tormentose annate… Nella dolorosa attesa morì di dolore una bella castellana di Pont Saint Martin, mia fidanzata, e morì, pure di dolore, la mia povera madre. Quanto a me, per ben quattro anni dovetti percorrere monti e valli, ululando, con la morte nel cuore, aspettando che qualcuno mi ridonasse la felicità perduta”.

Allorchè Paolo ebbe udita la commovente narrazione, si gettò tra le braccia del conte e scoppiò in lacrime.

Grande fu la commozione di entrambi.

Si racconta che il conte biellese non dimenticò mai il suo benefattore.

Paolo e Geltrude, col denaro ricevuto dal conte, qualche anno dopo il loro matrimonio, fecero edificare una bella villa sul poggio che si eleva tra i villaggi Barbià e Salè, sulla strada che da Lillianes conduce a Santa Margherita, e di là  ad Oropa.

Ancora oggi se ne scorgono i ruderi e la località viene chiamata Courtil del Conte.

(C. Vercellin)

Racconti e leggende sulla Luna

Racconti e leggende sulla Luna – una raccolta di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Racconti e leggende sulla Luna – Perchè la Luna ha le macchie

Quando il mondo fu creato, narra un’antica leggenda dell’Estonia, di giorno splendeva chiaro il Sole e di notte faceva buio buio. Il dio Ilmarinen pensò: “Bisogna trovare il mezzo di rischiarare un po’ le notti, altrimenti non è possibile vedere se succede qualcosa di brutto…”

Ilmarinen salì su una montagna, che sorgeva sotto la volta metallica del cielo, e fabbricò la Luna: una grande palla d’argento coperta d’oro, con una lampada nell’interno, e la appese sulla volta del cielo. Poi fabbricò anche le stelle d’argento lucente e le mise accanto alla Luna, come damigelle di corte.

Così, quando a sera il Sole si coricava, la Luna e le stelle illuminavano la notte fino all’alba. La Luna era chiara e  luminosa come il Sole, soltanto i suoi raggi non erano caldi, ma freddi.

Gli uomini erano molto contenti: ma il diavolo non era soddisfatto, perchè, ora che la Luna rischiarava la notte, egli non poteva compiere le sue malefatte, come prima, nel buio fitto. Se lo vedevano, doveva scappare a gambe levate!

Meditò profondamente: “E ora, come fare?”. Chiamò tutti i diavoli a consiglio, ma nessuno seppe suggerirgli una buona idea. Trascorsero sette giorni magri, e i diavoli non potevano più rubare nulla e non avevano più nulla da mangiare.

“Qui bisogna scacciare la Luna!” esclamò il capo diavolo, “Altrimenti guai a noi! Tutt’al più potremo sopportare le stelle, che non ci disturbano…”

Ma come fare a sbarazzarsi della Luna?

“Bisogna coprirla di catrame e annerirla tutta!” disse il capo diavolo “Così non ci darà più noia”:

Tutto il giorno i demoni si diedero un gran da fare a preparare un enorme barile di catrame e a fabbricare una scala lunga lunga, fatta di sette pezzi, che si potevano sovrapporre, in modo da arrivare alla volta del cielo.

Quando a notte la Luna comparve, il diavolo capo prese la scala sulle spalle e disse ai suoi servi di seguirlo, portando una secchia di catrame misto con fuliggine e un grosso pennello.

Giunti che furono sotto la Luna, il diavolo capo preparò la scala, sovrapponendo l’un l’altro i sette pezzi, e ordinò a un diavolino: “Prendi il pennello e il secchio di catrame, e sali in cima alla scala.”. Il diavolino obbedì, ma quando fu quasi in cima, il diavolo capo per il frescolino notturno starnutì, la scala traballò, il diavolino perse l’equilibrio e precipitò giù: Psssccct! Tutto il secchio di catrame e di fuliggine si rovesciò sulla testa del diavolo capo, e questi lasciò andare la scala, che cadde e si fracassò in mille pezzi.

“Corpo della Luna!” urlò il diavolo capo furibondo “Sono io adesso, che ho la faccia incatramata!”

Provò a togliersi il catrame e la fuliggine, ma ebbe un bel provare e riprovare: non riuscì a nulla! E da quel giorno il diavolo è rimasto nero nero come la fuliggine. Non abbandonò tuttavia l’idea di annerire anche la Luna. Fece fabbricare dai diavoli un’altra scala e la piantò al limitare del bosco, dove la Luna sorge più vicina alla Terra. Appena essa si levò, il diavolo capo ordinò a un diavolino: “Presto, arrampicati su su fino all’ultimo gradino e tingile il muso!”. Il diavolino obbedì: la scala arrivava, in alto in alto, proprio vicino alla Luna, ma era un affare serio mantenersi in equilibrio lassù e spennellare… E la Luna non stava ferma, continuava a salire in cielo…

Il diavolino gettò una corda come un laccio e attaccò la scala alla Luna, continuando ad annerirle la faccia col pennello incatramato.  Sudava per la fatica, e dopo molte ore, non era riuscito che ad annerire una parte della Luna.

Di sotto, il diavolo capo stava a guardare, col viso all’insù e la bocca spalancata, il lavoro del suo valletto. “Ah, ora sì che si comincia ad andar bene!” gridò, quando vide che l’operazione procedeva, e fece un balletto di gioia.

In quel momento il dio Ilmarinen si svegliò e guardando il cielo esclamò stupefatto: “Come? Non c’è una nube, eppure la Terra è per metà immersa nel buio? Che succede?”

Aguzzò lo sguardo e vide il diavolino all’opera in cima alla scala, intento ad intingere il suo pennello nel secchio di catrame, e giù, sul limitare del bosco, il diavolo capo, che saltava come un caprone.

“Ah, birbaccioni!” gridò Ilmarinen, “Credevate di farla franca mentre dormivo, eh? Ma ora vi accomodo io! Tu, diavolino, resterai per l’eternità col tuo secchio sulla Luna, e tu, diavolo capo, precipiterai per l’eternità sottoterra!”.

E fu così. Se guardate bene, dicono gli Estoni, vedrete infatti nella luna il diavolino con il suo secchio e col pennello. Quanto alla Luna, da allora ogni tanto si tuffa nel mare e tenta di lavar via le macchie nere sul suo viso… ma non ci riesce mai!

(Leggenda estone)

Racconti e leggende sulla Luna – Il quarto di Luna e le lucciole

Paigar, il signore del cielo, disse a sua moglie: “Su, donna, prepara una gran torta. Le stelle, nostre figlie, hanno appetito, vogliono mangiare”.

La massaia, manipolando uova, farina e miele, preparò la torta: una torta immensa, soffice, con una crosta lucida e dorata. Figurarsi le stelle, quando la videro! Non aspettarono che la mamma facesse loro le parti. Si gettarono avide sul pasticcio, e una tirava di qua, una pizzicava di là, un’altra affondava nella pasta dolcissima i denti e le unghie, altre ancora, non riuscendo a servirsi, si attaccavano alle trecce e alle orecchie delle sorelline. Una parte di torta, ridotta in briciole, cadde sulla terra.

La massaia scoppiò a piangere: “Povera mia fatica!”

Paigar prese il pasticcio, ridotto ormai a un solo quarto, e lo appuntò al bruno velluto del cielo; poi scese nel mondo e animò, trasformandole in insettini luminosi, le briciole cadute.

Disse alle figlie: “O golosacce, non mangerete dolci per otto secoli!”, e confortò la moglie: “Non disperarti. Vedi come risplende, in alto, lo spicchio di torta? Resterà sempre così, luminoso e bello, e nessuno riuscirà mai a mangiarselo. Guarda giù: un poco di firmamento sfavilla nell’ombra delle notti terrestri, palpita tra l’erba, i fiori e le siepi.  Sono le lucciole, sono le briciole che tu piangevi perdute”.

(Leggenda estone)

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Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO
Paese

Non c’è paese più piccolo del mio. Basta l’ala di una colomba per fargli ombra. Di notte basta una stella per fargli luce.
Quando Caterina munge la mucca, tutto il paese sa  di latte.
Quando Lena canta per far dormire il suo bambino, di quel canto si addormentano tutti i bambini del paese. Se una ha un dolore, tutti ne soffrono.
I vicini si prestano volentieri l’olio e il sale. Tutti prendono l’acqua allo stesso pozzo, cuociono il pane nello stesso forno. E tra loro, uomini, donne, bambini, si chiamano fratelli e sorelle e si vogliono bene. (R. Pezzani)

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO
Cittadina di provincia

Ci sono qui delle piazzette fuori mano dove i camion non passano: e ai lati sorgono certe anziane case piene di  dignità con festoni di rampicanti. Pende, a fianco della porta, il tirante del campanello, il quale si ode risuonare di là dalla porta destando lunghi echi negli androni. (D. Buzzati)

Villaggio alpino

Poche, rustiche casette: le basi di pietra, le pareti di legno, i tetti di ardesia; brevi le finestre, fiorite di rossi gerani… Una chiesetta, un campanile. Null’altro. Sulle vie deserte qualche vecchia dalla gonna rossa e nera che fila e ricama; due o tre caprette e nidiate di bimbi rosei e biondi, che guardano curiosi, ma poi con i piedini nudi fuggono, pieni di vergogna. Chioccolio di fontane, qualche ragazza che lava. E un silenzio, una pace tale sotto quel sole diffuso, in quella pura aria frizzante, che tutto lo spirito ne gioisce. (R. Bacchelli)

Città

Vi sono foreste d’alberi e foreste di case: le città. La loro storia è antica come l’uomo, perchè l’uomo le ha costruite, nei giorni e nei secoli, con le pietre e col cuore: le ha difese col sangue, le ha amate come si amano le cose vive.
E nessun paese al mondo ne ha di splendide come l’Italia.
Tutta la storia è passata dalle loro strade; tutti gli eroi hanno bevuto alle loro fontane; tutte le civiltà sono venute a prendervi luce di verità e di bellezza.
La più umile nostra contrada ha una chiesa, un monumento, che basterebbe da sè a inorgoglire una metropoli d’oltremare. (R. Pezzani)

La mia città

E’ una città grande, bella, con ampie strade, con piazze vaste, piene di gente e di veicoli, con palazzi superbi, belle chiese e fontane e monumenti. Io vivo volentieri nella mia città perchè vi sono nato, perchè vi abitano i miei genitori, i miei amici. Se un giorno andrò lontano, non dimenticherò la mia bella città. (M. Menicucci)

Il tram

E’ un mezzo di trasporto urbano abbastanza comodo, ma rumoroso ed obbligato a seguire i binari senza potersi spostare quando occorra. Per questo è stato gradualmente sostituito dal filobus e dall’autobus.

Il filobus

In città, essendo notevoli le distanze tra un posto e l’altro, c’è un servizio pubblico per il trasporto delle persone. Ogni filobus ha un percorso stabilito illustrato su tabelle apposite, ed un numero. Chi viaggia deve conoscere il numero del filobus che passa per la via che lo interessa. Salendo paga il biglietto, che poi conserva per un eventuale controllo. Può scender a qualsiasi fermata. Le fermate sono segnate con dei cartelli: solo lì le persone possono scendere o salire. Si sale dalla parte posteriore, durante il tragitto ci si sposta in avanti per lasciare il posto agli ultimi e si scende dalla parte anteriore. (E. Refatti)

La metropolitana

Il tram, l’autobus e il filobus, ingombranti come sono, creano un grosso intralcio per la circolazione, specialmente nelle vie centrali della città. Per questo, nelle più grandi città si usano, come mezzi di trasporto pubblici, treni elettrici che corrono in gallerie sotterranee: la metropolitana. Questi veicoli hanno tutti i vantaggi sugli altri: non intralciano il traffico, non sono costretti a procedere lentamente nelle affollatissime vie centrali, non producono rumore all’esterno e trasportano un numero di passeggeri molto maggiore degli altri veicoli pubblici. Oltre a ciò, sono molto veloci.

L’autobus

E’ il mezzo di trasporto ideale, perchè è veloce ed autonomo, cioè non deve seguire nè binari nè fili elettrici. Però è più rumoroso del filobus, emette gas di scarico e consuma carburante che è più costoso della corrente elettrica.

La corriera

Una corriera fa spesso servizio fra il comune ed il capoluogo di provincia. Molti sono gli operai che si recano al lavoro nei grandi stabilimenti della città. Un tempo si recavano in bicicletta, oggi si servono della corriera. Essa si trova puntuale, ogni mattina sulla piazza del paese e parte affollatissima. La sera riappare nella piazza, riportando coloro che in città hanno trascorso una intensa giornata di lavoro.

Il Comune

I cittadini, con le libere elezioni amministrative, eleggono il Consiglio Comunale, il quale è formato da un numero di membri proporzionato alla popolazione del Comune.
I Consiglieri Comunali, a loro volta, fra i propri membri eleggono il Sindaco ed alcuni Assessori. Assessori e Sindaco costutuiscono la Giunta Comunale. Sindaco, Assessori e Consiglieri Comunali durano in carica quattro anni.
Compito degli Amministratori del Comune è quello di provvedere a tutti i servizi pubblici: l’illuminazione delle strade, la manutenzione degli edifici pubblici, il funzionamento delle scuole, la tutela della salute pubblica, ecc…

Il paese

Nel paese ci si conosce tutti, si dividono le gioie e le afflizioni, ci si aiuta.
Le donne si incontrano sulle soglie di casa intente agli stessi lavori, o nei negozi, o alla fontana; gli uomini nella piazzetta, durante le soste del lavoro; i ragazzi, attratti dagli stessi giochi, nei cortili, per le strade, nella scuola, nell’oratorio.
Tutti gli abitanti del paese si trovano poi riuniti nella stessa Chiesa e allora sono proprio fratelli e pregano con le stesse parole, per gli stessi bisogni.
Fratelli ancora,  solleciti e generosi, nel dare aiuto in casi di necessità.

La nostra città

Quasi tutte le nostre città hanno una loro storia particolare, che risale al tempo degli antichi Romani.
La nostra città, come la vediamo noi, ci è venuta in eredità dai nostri antichi padri, ed è testimone di un lavoro secolare.
Noi giovani abitatori della città dovremmo essere grati a coloro che ce la tramandarono così nobile e grandiosa, e dovremmo fare del nostro meglio per ingrandirla ed abbellirla sempre più al fine di consegnarla, fra mezzo secolo, ai nostri figli, più bella e più gloriosa.
I fondatori delle nostre città si ispirarono tutti ad un criterio pratico:  o le fondarono in riva ai fiumi, come ad esempio Torino sul Po, Firenze sull’Arno, Roma sul Tevere; o le fondarono in riva ad un lago, come ad esempio Como e Lecco; o in riva al mare, come ad esempio Genova, Palermo, Napoli, Venezia. Questo criterio, comune a tutti i fondatori di città, sta ad indicare che i nostri antenati consideravano le vie d’acqua come la più facile via per le comunicazioni e per i trasporti.

Un paese

Un paese è caratterizzato da vari aspetti. Primo, l’aspetto naturale e geografico. Infatti, un paese di montagna avrà caratteristiche diverse da un paese di pianura. Un paese ammantato di boschi sarà ben diverso da quello che si adagia nel verde della campagna. Ma quello che lo caratterizza più profondamente è l’opera dell’uomo. Vogliamo dire la costruzione delle case, le strade, i ponti, le coltivazioni e infine le industrie e i commerci. Non c’è un paese uguale all’altro, perchè in ognuno di essi c’è, evidente e differente, l’opera della natura e l’opera dell’uomo. (Mimì Menicucci)

Amo il mio paese

Io amo il mio paese perchè vi sono nato, perchè vi abitano i miei genitori, i miei parenti. E’ un paese piccolo, senza grandi palazzi, senza grandi strade, senza superbi monumenti, ma lo amo ugualmente per il silenzio, per il verde che lo circonda, per il suo cielo azzurro, per l’aria buona che vi si respira. Anche se un giorno andrò lontano, non dimenticherò mai il paese dove ho trascorso la mia infanzia. (Mimì Menicucci)

I servizi pubblici

Una casa sempre sporca, buia, disordinata non merita questo nome, e in una casa simile ci si vivrebbe proprio male. Ma perchè la nostra casa sia accogliente, la mamma ed il papà ci lavorano lunghe ore e guadagnano il danaro necessario a comperare tutto quello che occorre per renderla sempre più comoda.
Anche la nostra città ha bisogno del lavoro di molti per dare a tutti tante cose utili, che si chiamano servizi pubblici.
Prima di tutto si devono costruire le strade che uniscono una casa all’altra e la nostra città ai centri vicini. E non basta costruirle; bisogna tenerle in buono stato e pulite, illuminarle, renderle belle con piante e aiuole e, se il traffico è intenso, provvedere a regolarlo con vigili e semafori. Poi bisogna provvedere alla distribuzione dell’acqua e controllare che sia potabile; costruire i canali sotterranei delle fognature e, nei centri più grandi, distribuire il gas o il metano. Ancora, bisogna provvedere alla costruzione e alla manutenzione degli edifici scolastici, perchè tutti i ragazzi fino a sedici anni hanno l’obbligo di frequentare la scuola. Bisogna anche pensare all’assistenza dei poveri, dei bambini e dei vecchi abbandonati, nonchè degli ammalati che vengono curati dal medico di famiglia. In ogni città e paese bisogna provvedere anche al servizio postale. I servizi pubblici sono di competenza del Comune.

Persone che lavorano per te

Hai mai pensato a tutte le persone che lavorano per te? Ecco, squilla il telefono. E’ un tuo compagno che ti chiama: vuole chiederti notizie sul compito per domani. Una telefonata: una cosa da nulla, come vedi: eppure hai potuto farla perchè al centralino telefonico c’è un operaio che vigila perchè tutto funzioni a dovere.
Accendi la luce, la mamma apre il rubinetto del gas per far da mangiare… e intanto sulla montagna alcuni elettricisti montano la guardia agli enormi macchinari della centrale; altri operai al gassometro, vigilano agli apparecchi.
Domani il portalettere ti recherà la posta, il netturbino pulirà la strada che percorri per andare a scuola, lo stradino colmerà le buche con ghiaia e catrame…
Potrei continuare, ricordandoti l’operato del vigile, del tranviere, e dei vari commercianti. Tutta gente che lavora per te, per tutti.

Viabilità

Le strade che attraversano la nostra città sono state tracciate, costruite, riparate ad opera del Comune. Il Comune ha provvisto a disporre le segnalazioni stradali e ha incaricato persone particolari, i vigili urbani, di sorvegliare e di dirigere il movimento delle automobili e dei pedoni. Altre persone, gli spazzini, provvedono alla pulizia di vie e piazze; altre ancora, i giardinieri, curano le aiuole dei giardini pubblici e gli alberi dei viali. Nelle ore buie, ogni strada è illuminata; un gruppo di elettricisti provvede ai nuovi impianti ed alle riparazioni.

Trasporti

Nelle grandi città, gli abitanti devono percorrere chilometri e chilometri per recarsi al lavoro o alla scuola. Il Comune organizza servizi di trasporto con tram, filobus ed autobus.

Impianti sportivi

Molti Comuni curano anche la costruzione e l’attrezzatura di impianti sportivi nei quali si possono esercitare gli atleti e dove si svolgono gare; sono gli stadi, le palestre, le piscine.

Servizio sanitario

Il Comune si preoccupa della salute dei cittadini ed interviene per evitare o combattere malattie infettive. Le vaccinazioni sono praticate a tutti  i ragazzi, gratuitamente a cura del Comune.

Il Comune e l’Amministrazione Comunale

Parlando dei servizi pubblici abbiamo imparato che ad essi provvede il Comune. Ma che cos’è il Comune? Esso è l’insieme di tante famiglie che vivono in uno stesso luogo, delle loro abitazioni e del territorio sul quale sono state costruite. Più semplicemente il Comune è come una grande famiglia, di cui fate parte anche voi, a capo della quale c’è il Sindaco.
Come il babbo provvede ai bisogni di tutti i membri della sua famiglia, così il Sindaco provvede, con i servizi pubblici, a rendere più agevole ed ordinata la vita collettiva di tutti i membri del suo Comune.
Ma il Sindaco, da solo, non può pensare a tutto ed è giusto che sia aiutato da alcuni amministratori.
L’Amministrazione comunale è elettiva. Tutti i cittadini del Comune, uomini e donne, al compimento del diciottesimo anno d’età, hanno diritto al voto per eleggere i Consiglieri comunali che durano in carica cinque anni.
I Consiglieri comunali eleggono, tra i propri membri, oltre al Sindaco, alcuni Assessori, i quali, con il Sindaco, formano la Giunta Comunale. Alla Giunta spetta di provvedere alla diretta amministrazione del Comune ed ai servizi pubblici. Per far fronte alle spese necessarie, il Comune impone ai cittadini delle imposte.
I Comuni in Italia sono circa ottomila. Ogni Comune ha i suoi uffici nella sede del municipio. Il capo ufficio è il Segretario comunale.

L’asino del Comune (racconto)

Il Comune di un paesetto di montagna per facilitare gli abitanti di tre frazioni, mise a loro disposizione un asino.
Un giorno, un contadino della prima frazione prese l’asino del Comune, lo caricò di grano e andò al mulino. Quando il grano fu macinato, ricaricò l’asino e tornò a casa.
S’era fatta sera, e l’asino avrebbe voluto mangiare. Ma il contadino disse: “Ci sono gli abitanti delle altre due frazioni: gli daranno loro da mangiare!”, e lasciò l’asino a digiuno.
Il giorno seguente, un contadino della seconda frazione prese l’asino del Comune, ci montò in groppa e si fece condurre in paese per sbrigare delle faccende.
Alla sera, riportò l’asino pensando: “Ci sono gli abitanti delle altre due frazioni, gli daranno loro da mangiare”.
Il terzo giorno, l’asino fu preso da un contadino della terza frazione, che lo adoperò tutta la giornata e a sera fece il discorso che avevano fatto gli altri. E  l’asino digiunò anche quel giorno.
La mattina seguente, tornò il contadino della prima frazione e caricò l’asino. Ma la bestia era molto debole e camminava a stento. L’uomo, afferrato un bastone, cominciò a batterlo gridando: “Che vergogna! E questo è l’asino che il Comune ci offre per i servizi! Bel Sindaco che abbiamo! Non pensa che a sè, e a noi poveretti dà questa bestiaccia, che non si tiene in piedi!”
Il quinto giorno l’asino morì; e gli abitanti delle tre frazioni si recarono nella sede del Comune a protestare. (A. Manzi)

L’anagrafe e lo Stato Civile

Il Comune iscrive tutti i suoi abitanti in registri che vengono ordinati negli uffici dell’Anagrafe e dello Stato Civile.
L’Anagrafe iscrive il cognome e il nome di ogni cittadino, la composizione della sua famiglia, il suo indirizzo, la sua professione.
Lo Stato Civile registra le nascite, le morti, i matrimoni che vengono celebrati nel Comune.
Ogni cittadino ha il dovere di dichiararsi a questi uffici ed ha il diritto di ricevere da essi i documenti che gli sono necessari: atti di nascita, stati di famiglia, certificati di residenza, ecc…

Le tasse

Il Comune offre gratuitamente molti servizi; essendo servizi costosi, il Comune deve trovare il denaro necessario per pagarli. Sono i cittadini stessi che, secondo le loro possibilità, contribuiscono al loro mantenimento versando, ogni anno, una certa somma all’Ufficio Comunale delle Tasse.
Il denaro pagato per le tasse, dunque, va a vantaggio di tutti i cittadini.

Stemmi e gonfaloni

Ogni Comune grande o piccolo possiede il suo stemma; un tempo il gonfalone rappresentò il simbolo dell’autonomia comunale. Gli stemmi comunali risalgono all’epoca medioevale, quando ogni Comune combatteva per conquistare e per difendere la propria libertà.

Un piccolo villaggio di tanto tempo fa

Una strada carrozzabile congiunge il villaggio alla vicina borgata, nella valle. Le strade sono acciottolate e non hanno marciapiede, perchè non c’è traffico di veicoli; quelle in pendio, durante le piogge, si trasformano in veri ruscelli.
Attorno al villaggio non esiste una periferia; le case sono tutte costruite con pietre del luogo: è il materiale più economico. Quando nei pressi si trova una cava di ardesia, i tetti vengono coperti con questo materiale.
In un unico edificio si trovano gli uffici comunali e la scuola elementare. I primi comprendono solo un paio di locali di cui uno serve per le adunanze dei consiglieri, l’altro per ricevere il pubblico. La scuola è formata da un’aula sola; gli alunni non sono che qualche decina; tutte le classi sono affidate a un solo insegnante.
Accanto alla scuola c’è l’asilo, tenuto da suore che sono anche delle buone infermiere.
Ecco la chiesetta parrocchiale e la casa del parroco, il paziente pastore di questo piccolo gregge di anime. Ecco la sede della cooperativa casearia dove gli agricoltori portano ogni giorno il latte prodotto dalle loro mucche; qui vi sono le attrezzature di comune proprietà per la produzione di burro e formaggi. A fine d’anno, gli utili ricavati dalla vendita di questi prodotti vengono ripartiti in proporzione al latte portato da ognuno.
In un luogo di facile accesso si trovano il lavatoio pubblico e l’abbeveratoio per il bestiame.
Alle fontane pubbliche gli abitanti si recano a prendere l’acqua con i secchi; le sorgenti sono numerose e l’acqua non manca.
L’unico negozio del villaggio detto “posteria” vende tutti i generi necessari agli abitanti. Per gli acquisti più importanti essi si recano alla borgata vicina, specialmente nei giorni di mercato.
Una piccola locanda offre alloggio ai rari viaggiatori: sono per lo più commercianti, che vengono per acquistare prodotti agricoli (latticini, castagne, legname) o bestiame. La sala della locanda è anche l’unico luogo di ritrova per gli uomini del villaggio; qui, in mancanza di cinema, si può assistere agli spettacoli televisivi.
Fra le case, nei piccoli cortili, c’è spazio per qualche minuscolo orto. Quasi tutte le case hanno accanto il pollaio e la stalla. Durante la buona stagione, però, mucche e pecore vengono condotte ai pascoli alti.

L’insediamento

Esaminiamo le cause che possono avere spinto i nostri progenitori a scegliere proprio quella determinata località (che oggi ha un nome) come sede delle proprie dimore e ad adottare determinati criteri nella costruzione del paese o della città.
Le cause che possono determinare l’insediamento umano, sparso o agglomerato, sono di varia natura. Possono cioè essere cause di ordine naturale, come la presenza dell’acqua, la morfologia del terreno, le risorse naturali del suolo o del sottosuolo; possono essere cause di ordine economico, come la necessità di controllare un passaggio obbligato o un importante nodo stradale, come determinati regimi di proprietà terriera; possono essere cause di ordine storico, come esigenze di difesa e di sicurezza, come rispetto di tradizioni precedenti, ecc…
Quali fra queste cause possono aver determinato l’insediamento nel vostro ambiente? Per facilitarvi il compito, proverò ad illustrarvi i vari tipi.

L’insediamento sparso prevale nelle regioni agricole dove sussiste  la piccola proprietà. In questi casi le abitazioni sono al centro del podere: sul versante esposto al sole nelle regioni collinari (colline piemontesi, toscane, laziali, ecc…), vicino al pozzo nelle regioni pianeggianti.
Possiamo riscontrare altri tipi di insediamento sparso là dove ci sono conventi, case cantoniere o doganali, rifugi alpini, torri di vedetta, fari, ecc… In questo caso, è evidente, prevale la finalità specifica sulle cause di ordine economico o naturale o storico.
Gli insediamenti sparsi si chiamano casali.

L’insediamento accentrato rurale è il villaggio, il paese e la borgata. Si tratta di raggruppamenti di case attorno alla chiesa, alla farmacia, alle botteghe. In genere tale tipo di insediamento può essere determinato dalla necessità di collaborazione contro le forze fisiche dell’ambiente (ad esempio in alta montagna il bisogno di aiuto reciproco nel tracciare strade, nello sgombero della neve, nel soccorso, e così via) oppure può essere determinato dalla natura e dall’estensione del territorio coltivato (tipico è l’esempio dell’allineamento di villaggi lungo l’orlo superiore della fascia che intercorre fra l’arida pianura friulana alta e la bassa paludosa).
In ogni caso, comunque, si ricercano le zone solatie e si rifuggono i fondi valle umidi ed ombrosi o i canaloni percorsi dalle valanche o le strette in cui si incanalano i venti.
Infine, l’insediamento accentrato rurale può essere determinato da ragioni storiche (ad esempio rivalità con i villaggi vicini, necessità di stringersi attorno al castello feudale, simbolo di sicurezza, e quindi allineamento sul crinale del colle) o ancora da ragioni di igiene (per sfuggire ad esempio a zone infestate dalla malaria).
La forma topografica di un paese risente naturalmente della morfologia del terreno e si adatta a questa. Si hanno così, in alta montagna i villaggi di pendio o di costa, con le case tutte rivolte verso il versante soleggiato, le strade parallele, disposte a gradinata, ed invece a fondo valle i paesini a cavallo del torrente che dà forza motrice a tutta la zona.
Nelle zone collinari (Toscana, Emilia, Piemonte) si hanno i paesi di cresta, che seguono l’andamento della linea di vetta, per evitare i dirupi dei versanti argillosi ed instabili che sono soggetti a frane.
Nelle pianure si trovano i borghi di tipica fattura medioevale, con case agglomerate nelle strette vie che vanno a sfociare sulla piazza centrale ed una cinta di mura, ora diroccata e fuori uso, che ricorda le origini del borgo fortificato; oppure si vedono i centri con piano a graticolato, che denunciano con altrettanta evidenza la loro origine. Si tratta, in questi casi, delle terre suddivise dai romani in appezzamenti regolari per essere donate ai veterani, dopo le guerre di conquista. Sono centri ordinati e regolari costruiti secondo la pianta dell’accampamento romano, con le due strade principali perpendicolari fra di loro e le strade secondarie parallele a queste.

I centri urbani, cioè le città, sono l’espressione più alta e più complessa dell’insediamento umano. La città è tale non solo perchè ha raggiunto un determinato numero di abitanti, ma perchè è il fulcro, il cuore pulsante di una località di cui assomma le caratteristiche più spiccate e si fa interprete.
La città è l’espressione più completa dei rapporti umani nei suoi vari aspetti: culturale, politico ed economico.
Storicamente le origini delle città possono essere individuate in quattro periodi principali: il periodo della colonizzazione greca, il periodo della colonizzazione romana, il periodo medioevale e il periodo moderno.
Fra i fattori determinanti della localizzazione di una città possiamo elencare: i punti di convergenza delle vie naturali di traffico, la forte posizione difensiva o di dominio, ed i normali fattori di ordine naturale che ne hanno promosse le origini. Abbiamo così:
– le città di rilievo, sorte su dossi sopraelevati (Arezzo)
– le città di valle, sorte al punto di convergenza di valli montane (Aosta)
– le città di fiume, sorte lungo il corso dei fiumi a scopo di controllo del traffico fluviale o in funzione militare di difesa (Torino)
– le città di ponte, sorte all’incrocio obbligato di vie di transito (Roma)
– le città di delta, sorte sulla foce di un fiume (Pisa)
– le città di laguna, sorte sulla laguna come centri pescherecci (Venezia)
– le città di stretto, sorte a guardia di uno stretto (Messina).
Una città consta generalmente di tre parti: la città antica (nucleo primitivo), la città vecchia (aggregazione di sobborghi) e la città nuova (espansione recente a pianta regolare).
In riferimento alle origini possiamo distinguere:
– la città greca, raggruppata attorno all’acropoli;
– la città romana, città a scacchiera, con pianta regolare come l’accampamento romano, con vie diritte e parallele;
– la città medioevale, città cinta da mura, con pianta concentrica o bicentrica attorno al castello o alla cattedrale, con groviglio di strade strette e lunghe;
– la città moderna, costruita con criteri diversi rispetto al passato: al centro il quartiere degli affari ed il quartiere amministrativo, in periferia gli ospedali e le ferrovie, separati e distinti i quartieri residenziali.

Rispetta il tuo paese

 Un uomo percorreva la strada di un paese a passo svelto.
“Perchè non si ferma un po’?” gli chiese un paesano. “Vede che bel panorama, che bel cielo? Sente che aria fine e profumata?”
“Sono gli abitanti di questo paese che non mi piacciono” disse l’uomo senza fermarsi.
“Ma se non ne conosce nemmeno uno…” si stupì l’altro.
“Invece li conosco tutti” rispose l’uomo.
“E dove li ha conosciuti?”
“Per la strada; e so che sono sciocchi, ignoranti e sudici”. Nel dire così, l’uomo mostrò col dito i fregacci e le scritte che insudiciavano i muri; indicò le carte e i rifiuti gettati sulla via.
“Questi fregacci e questi rifiuti parlano chiaramente. Gli abitanti del paese hanno scritto sulla strada il grado della loro cattiva educazione. Non vedo l’ora di allontanarmi da qui”.
E l’uomo allungò il passo, mentre l’altro rimaneva tutto mortificato. Chi insudicia i muri imbratta il volto del proprio paese.
(P. Bargellini)

Le tasse

Il signor Venanzio sale le scale del Municipio col viso rannuvolato.
“Ciao Venanzio! Dove vai?” gli chiede un amico.
“Vado… vado… Mi sentiranno!”
“Ma dove?”
“All’ufficio delle tasse per protestare!”
“Va là! Tutti avremmo da protestare…”
“Sì, ma nessuno come me. Troppo, te lo giuro, mi hanno assegnato come quota da pagare. Troppo, troppo!”
“Fai presto, allora, che io ti aspetto qui. Torneremo a casa insieme.”
“Sì, ma se accetti un consiglio, non mi aspettare sotto la torre”
“Perchè?”
“Perchè se si rifiutano di diminuirmi le tasse, griderò così forte che la torre, per lo spostamento d’aria, cadrà di schianto”
“Bum!” fa l’amico, e scuote il capo.
Dopo un quarto d’ora, ecco uscire dal Muncipio il signor Venanzio.
“Allora Venanzio, com’è andata?” gli chiede l’amico “Bene, eh? Vedo che la torre è rimasta in piedi e tu ti sei rasserenato”
“Sì… ma…”
“Su, su, dì la verità! Di quanto ti hanno diminuito la quota delle tasse da pagare?”
“Ecco… per dir la verità… ti dirò… Ebbene: di zero! Sì, proprio di nulla!”
“Come? Spiegati…”
“Vedi, in fondo, in Municipio non hanno tutti i torti. Sapessi! Gli impiegati dell’ufficio sanno tutto. Sanno, per esempio, che in casa mia lavoriamo e guadagniamo in tre, sanno che sono proprietario di una casa… E il Comune, mamma mia, quante spese ha! Spese per la luce delle strade, la nettezza urbana, le aiuole, i vigili, l’ospedale, le condutture dell’acqua, la fognatura… E sembra che il Comune sia povero, molto povero. Insomma, è andata a finire che mi sono quasi commosso. Io ho il cuore tenero. Non sei fatto per protestare, povero cuore mio!” (R. Botticelli)

La strada in città

La strada passa dritta dritta fra le case altissime. Nel mezzo corrono i tram scampanellando. Nel mezzo corrono i tram, vi passano le automobili, le moto, le biciclette.
Ai lati, sui marciapiedi, vanno e vengono le persone frettolose; entrano, escono dalle porte delle case e delle botteghe.
Vi è un rumore confuso di passi, di ruote, di voci, di clacson.
La notte, i grandi globi della luce elettrica brillano in alto. Molta gente cammina ancora. La città di notte non dorme mai.

Ora  di punta

Le strade della città sono affollatissime: sui marciapiedi una moltitudine di persone si urtano e si spingono: nel centro della via una colonna ininterrotta di macchine cercano di sorpassarsi a vicenda.
I tram rigurgitano di viaggiatori pigiati come le sardine in un barile.
Un ronzio continuo e fastidioso riempie le vie, assorda, stordisce, domina ogni altro rumore.
E’ l’ora di punta: dalle fabbriche e dagli uffici escono operai e impiegati a frotte; i fanciulli si precipitano fuori dalle scuole; le donne si affrettano verso casa con la borsa colma delle ultime spese; è l’ora più pericolosa della giornata: tutti hanno fretta; tutti hanno fame; tutti sono stanchi dopo il lavoro; è l’ora in cui per guadagnare un paio di secondi o un metro,  molti compiono gravi imprudenze o diventano maleducati ed  intolleranti.
In tanto trambusto, i pochi agenti di servizio sugli incroci fanno miracoli di prontezza nel regolare il traffico, ma è necessario che tutti gli utenti si comportino spontaneamente secondo le norme della circolazione e siano più educati.

La bicicletta

La chiamano il cavallo d’acciaio, e come il cavallo divora i chilometri.
E’ l’amica fedele delle nostre passeggiate; silenziosa e leggera ci porta lontano dal tumulto della città, nelle campagne assolate, fino all’ombra ristoratrice dei grandi alberi stormenti.
Ci dà la gioia della sana fatica, ci fa scoprire i più suggestivi paesaggi di questa nostra terra, ci è utile nel nostro lavoro: l’usa l’operaio per recarsi alla fabbrica, la massaia per le sue spese, il fanciullo per andare a scuola, la giovane mamma per portare a spasso il figlioletto.
Ma nel vorticoso traffico di oggi, anche per andare in bicicletta occorre prudenza e occorre conoscere le regole della circolazione.
Siamo prudenti, dunque, e disciplinati; facciamo che lo svago non si tramuti in dolore; che uno strumento dato all’uomo per alleviare le sue fatiche e ricrearlo non divenga occasione di pianto.

Strade
Vie ammattonate, rapidissime, su cui si cammina dolcemente come sull’erba. Tale saporosa comodità, ricercata in un suolo così arduo, ci rammenta che siamo dopo tutto in un paese di contadini. Queste vie sono ammattonate per rendere agevole il passaggio dei buoi, il cui piede fesso e molle, non sopporterebbe in siffatti dislivelli una pavimentazione più dura. Hanno inoltre il pregio, naturale o artificiale che sia, di vincere l’eccessiva pendenza inarcandosi smisuratamente come il dorso di una balena a fior d’acqua. (V. Cardarelli)

Strade
La parte superiore di Fontamara è dominata dalla chiesa col campanile e da una piazzetta a terrazzo, alla quale si arriva per una via ripida che attraversa l’intero abitato e che è l’unica via dove possano transitare i carri. Ai fianchi di quest sono stretti vicoli laterali, per lo più a scale, scoscesi, brevi, con i tetti delle case che quasi si toccano e lasciano appena scorgere il cielo. (I. Silone)

Strade
Uscii dalla folla e presi una stradetta in salita. La stradetta si stacca dal viale litoraneo e si alza subito assai ripida sull’antico bastione ove sorge il rudere del castello: sul muro a scarpa, sotto una delle torricelle di scolta, un cartiglio porta la scritta: Sacrario dei Caduti. La stradina gira sotto il torrione e si biforca: a destra si interna fra casupole di pescatori e rasenta il muro di cinta di una storica villa e del suo parco stupendo, a sinistra riesce subito allo scoperto, rivede il mare e il porto, raggiunge il sagrato di una chiesetta: la chiesetta dei cappuccini. (S. Gotta)

Strade
Ed eccoci ingaggiati su per una strada, che è quasi una mulattiera, tra due muretti stretti e tortuosi che la macchina sfiora rischiosamente ogni metro, ora con il fianco destro ora con il sinistro, rombante, lanciata in prima per superare la ripidissima salita e per vincere il fondo, grossi ciottoli viscidi, tutti sparsi d’erba, su cui l’acqua corre come un grosso ruscello. (M. Soldati)

Strade
Serrata tra le precipiti gradazioni dei cento contrafforti appenninici e lo scosceso lido del mare, la grande strada della Cornice procede tutta a zig zag in continui serpeggiamenti, in irte rampe e in chine precipitose. Talvolta si apre il passo a livello del mare fra spalliere di tamarischi, di oleandri e di agavi; tal altra si inerpica sul dirupato fianco del monte in mezzo a cupe foreste di felci e di pini; poi una fantastica discesa a spirale fra aridi massi calcarei mal coperti di pallide ginestre, vi porta in seno d’una florida pianura tutta vigneti, ortaglie e giardini di cedri, di aranci e di limoni. Qua nascosta dentro a vaste gallerie scavate nella pietra arsa; là coperta in una immensa estensione di orizzonte, col monte a picco a destra, col mare a picco a sinistra. (G. Cappi)

Strada di montagna
Sono le sei del mattino e l’autobus ha imboccato una grande strada di montagna.
Attraversiamo il primo grosso paese. All’uscita della piazza dobbiamo arrestarci, il semaforo è rosso.. Ecco, giallo… verde. Si riparte e comincia a piovere. La strada è liscia, compatta, ma l’autista preferisce andare piano.  A cinque metri prima della curva uno strano segnale ci ha ammonito: strada sdrucciolevole con pioggia e gelo.
La strada sale, le curve si fanno più frequenti e più strette, diventano tornanti. Gli autisti fanno più che mai attenzione a viaggiare rigorosamente alla destra.  Non c’è pericolo di scivolare: il fondo dei tornanti è ruvido e le gomme delle macchine fanno buona presa.

Una strada moderna
Il modo di vivere di una strada è quanto mai aspro e travagliato. A servirsi della strada c’è infatti, oltre al pedone, anche il ciclista e il motociclista, l’automobile, l’autocarro e l’autotreno; la strada deve soddisfare tutti. Ma poi, sulla strada ora piove e ora dardeggia il sole, ora infieriscono la nebbia, la neve, il gelo ed ora spirano i venti e insistono le siccità; ed anche a tutti questi fattori di volubile aspetto la moderna strada deve ugualmente resistere, onde mantenersi sempre la stessa, senza fango nè polvere e sempre percorribile con comodità e sicurezza, qualunque sia la velocità. La strada quindi vive una vita insonne, agitata, multiforme. Se non fosse più robusta, rapidamente si dissolverebbe, trasformandosi in nubi di polvere. (B. Bolis)

La poesia della strada
La strada ha la sua poesia. L’ha la strada grande e la piccola, la modernissima autostrada e il secolare viottolo alpestre dove passano a stento il mulo e il boscaiolo; l’ha la vasta via nazionale che si perde diritta e interminabile nella pianura polverosa, che valica fiumi e colline, e attraversa campagne e congiunge città e paesi e si dirama e si intreccia in ogni direzione a formare come le maglie di una fittissima rete; e l’ha, più intima e più dolce, la strada che risale le vallate, che si inerpica sulle montagne e scavalca i grandi passi e ridiscende tortuosa e capricciosa come un nastro enorme verso altre vallate, altri moti, altre contrade. La poesia della strada è anche nella sua stessa missione di avvicinare gli uomini agli uomini e di rendere meno estranee fra loro le regioni e le nazioni. (G. Silvestri)

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO

IL FIUME materiale didattico vario

IL FIUME materiale didattico vario – una raccolta di dettati ortografici, letture, poesie e filastrocche sul fiume, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Le acque prodotte dallo sciogliersi delle nevi e dei ghiacciai scorrono in disordine fra i massi dell’alta montagna, poi si raccolgono a formare il torrente: un corso d’acqua impetuoso, ora abbondante ora povero d’acqua, interrotto da macigni e da salti improvvisi.
Il torrente scende al piede del monte e imbocca, ancora turbinoso e violento, la valle. Altri torrenti scendono da altri nevai e ghiacciai e si uniscono al primo.
Nella pianura le acque rallentano la loro corsa, si allargano in un solco (letto) più ampio. I cento torrenti sono diventati un unico fiume.
Il fiume è un corso d’acqua perenne. Esso scorre in un letto limitato da due sponde o argini. Il fiume può portare le sue acque ad un altro fiume: si dice allora che ne è l’affluente; può alimentare un lago: si dice allora che ne è l’immissario; può scaricarne le acque: si dice che ne è l’emissario; può infine portare le sue acque al mare. Il luogo ove le acque del fiume si mescolano con quelle del mare è detto foce.
Gli uomini costruirono le loro città presso i fiumi, per difendersi dietro una barriera scura e per sfruttarne le acque.
Il fiume favorisce l’agricoltura, offrendo acque per l’irrigazione. Sui fiumi navigabili si sviluppa un movimento di chiatte e di battelli per il trasporto delle merci e delle persone. Dal letto del fiume gli uomini estraggono con speciali macchie, le draghe, ghiaia e sabbia per la costruzione di case. Le grandi città scaricano nel fiume tutte le acque portate dai canali delle fognature.
Molti fiumi sono pescosi, offrono cioè quantità di buon pesce.

Il fiume

Va il fiume per la grande pianura e le sue onde mormorano sommesse: “Sono il fiume maestoso che irriga campagne, che inverdisce terre riarse, che dà moto e lavoro agli opifici, ai paesi, a città intere. Sono il fiume maestoso e calmo, rifletto il sole e la nuvola, il roseo dell’alba e l’oro del tramonto, l’alto pioppo e il piccolo cespuglio. Sulla mia riva cantano gli uomini, gorgheggiano gli uccelli, trillano i bimbi tuffandosi lieti nelle mie onde, si dondolano liete le barche. Sono il fiume e vado al mare”. (Hedda)

La sorgente

Nella primissima luce dell’alba, solamente la sorgente volubile parlava… L’acqua veniva dalle interne, misteriose vie dalla montagna, si affacciava ad uno spacco della roccia, balzava in una coppa di pietra larga, un po’ verde e un po’ violacea, tremava in giri aperti intorno al ribollire del mezzo, straripava dall’orlo e si perdeva fra i muschi e le felci. (G. Fanciulli)

La foce

Il luogo ove le acque del fiume sboccano nel mare si chiama foce. A volte la foce si apre a ventaglio ed è detta estuario. Quando invece la foce si dirama in diversi corsi d’acqua simili alle dita di una mano, si chiama delta. Quando un fiume alimenta un lago si dice che ne è l’immissario. L’emissario, invece, è un fiume che scarica le acque di un lago.

Il lavoro dell’uomo

Sulla riva del torrente l’uomo costruisce mulini, segherie, piccole officine. In capo alle valli egli innalza dighe per produrre elettricità o per irrigare la terra. Più in basso, quando l’acqua sembra stendersi pacifica nel letto del grande fiume, ecco le prime imbarcazioni: sono battelli per il trasporto di materiali o di persone, sono chiatte, adibite al traghetto dei veicoli, sono leggere barche per la pesca. I pesci di fiume sono gustosissimi: trote, anguille, carpe ed altri esemplari vengono catturati per mezzo di reti o di lenze. Neppure la sua ghiaia e la sua sabbia sono da disprezzare. I muratori ne fanno largo uso.

Il fiume è utile

Dove scorre un fiume la terra si fa rigogliosa. Aria e sole non bastano a rendere fertili i campi, è necessaria anche l’acqua, per nutrire le piante e dissetarle nei mesi più caldi. Per questo l’acqua del fiume viene incanalata e usata per irrigare vaste campagne. Alcuni fiumi sono per un buon tratto navigabili e sono solcati da barconi da trasporto; dal letto dei fiumi si ricavano ghiaia e sabbia. Il più grande fiume d’Italia è il Po, navigabile per buona parte del suo corso. Ma l’opera dell’uomo non si è fermata qui, e il Po è stato unito, per mezzo di un canale, alla laguna di Venezia.

Animali e piante nelle acque dolci e lungo le rive

I ranuncoli d’acqua fioriscono nelle zone d’acqua ferma, vicino alle sponde. Le ninfee aprono le bianche corolle nelle zone dove l’acqua è più tranquilla. Molto spesso le rive sono verdeggianti di giunchi e di canne palustri.
Nelle acque dei fiumi vivono la trota, ricercata per la squisitezza della sua carne, e il luccio che è munito di denti robustissimi. La carpa preferisce le acque poco correnti, dove abbonda la vegetazione.
Numerosi sono gli insetti che vivono vicino alle acque dolci. La libellula è uno dei più conosciuti e più belli. Le zanzare popolano soprattutto le zone di acqua stagnante.
Ci sono anche uccelli che vivono presso le acque dei fiumi. Durante l’inverno, qualche volta, nelle paludi e nei campi che costeggiano i fiumi si incontrano le anatre selvatiche. Il falco pescatore e il martin pescatore sono veloci ed instancabili nel catturare i pesci.

La piena

Quando piove troppo a lungo, il livello delle acque del fiume cresce e si innalza talvolta fino a superare e a travolgere gli argini: il fiume è in piena. Acqua torbida e fangosa invade la pianura, distruggendo le coltivazioni e danneggiando case e strade. L’uomo cerca in vari modi di prevenire le alluvioni: rimbosca le montagne, per impedire che il terreno frani e i torrenti portino a valle fango e sassi; pianta filari di alberi lungo il fiume e scava canali di scarico. Egli innalza argini e li protegge con grandi gabbie di rete metallica, piene di sassi.

La cascata

Dalla destra e dalla sinistra del fiume giungono gli affluenti frettolosi e uniscono le loro acque a quelle del compagno maggiore. E tutti insieme vanno lietamente verso il piano. Non sempre la strada è agevole e priva di ostacoli. In certi punti le pareti dei monti, entro cui scorre il fiume, si avvicinano tanto che tra l’una e l’altra rimane appena un piccolo spazio. Questo stretto passaggio si chiama gola. Altrove il terreno cede tutto d’un tratto e il fiume deve spiccare un salto più o meno alto. Si ha, così, una cascata.
Per il turista la cascata è uno dei più attraenti spettacoli che presenti la montagna. L’acqua balza dall’alto impetuosa, rivestendo di minute e luccicanti goccioline le piante, gli arbusti e le erbe che il vento del salto ha piegato verso il basso. Da punto dove la colonna d’acqua batte, cadendo, si solleva una nebbiolina, formata da piccolissime gocce frantumate dal balzo e sulla nebbiolina risplende, in graziosi colori, la luce del sole.
Per l’ingegnere la cascata è una preziosa fonte di energia elettrica. Veramente prima dell’ingegnere, ha pensato l’umile mugnaio a sfruttare il lavoro che l’acqua fa cadendo. E’ bastato mettere una ruota a pale sotto la colonna d’acqua e trasmettere, con una cinghia, il movimento della ruota alle macine che trasformano il grano in farina.
Dal primitivo impianto del mugnaio è nata la turbina, che riceve la spinta della cascata e la comunica alle macchine incaricate di produrre energia elettrica.
Così il giovane fiume balzante dalla rupe mette la sua forza a servizio dell’uomo, per illuminare le case e le strade, per animare le macchine degli opifici, per la cura dei malati, per il trasporto da luogo a luogo delle merci e delle persone.

Il fiume

Scende il fiume dalle montagne. Viaggia notte e giorno. La sera l’acqua arriva tiepida, perchè ha viaggiato tutto il giorno. La mattina arriva ghiacciata, perchè ha camminato tutta la notte. Cammina, cammina senza sapere dove va. Traversa le valli, scende lenta verso il piano, passa fra distese brulle e attraversa paesi. Improvvisamente si sente stretto tra due muraglioni. E’ arrivato in città. (A. Campanile)

La cascata

Là dove c’è la cascata, l’acqua del fiume precipita, balza, spumeggia, si gira in gorghi e in vortici. Una bambina guarda, ammirata. Il babbo prende un ramo grosso, nodoso e lo getta dove l’acqua comincia a precipitare verso la cascata. Appena tocca l’acqua, il ramo balza verso il cielo, rotola, precipita. Si agita nei gorghi. Pare che l’acqua si diverta, ferocemente, con lui. “Ecco perchè” dice il babbo alla figlia, “la cascata è pericolosa”. (M. L. Magni)

Gli scavatori di sabbia

Da giovane il fiume è impetuoso torrente dopo essere stato ruscello canterino. Scende lungo i fianchi della montagna, schiuma contro le rocce, straripa facilmente. Giunto in pianura si stende placido e silenzioso. Il suo canto diventa sussurro. Lungo le sue rive diventate calme vi sono le cave di sabbia. E gli scavatori lavorano ogni giorno per noi, per portarci quella sabbia che servirà poi per la costruzione delle nostre case.

La foce

Eccolo il nostro fiume sempre più maestoso avviarsi rapido verso il mare. Si è fatto ora silenzioso. Ha accolto lungo la sua via, a destra e a sinistra, gli omaggi degli altri fiumi; ha bagnato città e villaggi; ha specchiato nelle sue acque rosse torri, castelli solitari, umili casolari, fronde tremule d’alberi, giardini in fiore, nere ciminiere. Ha accolto bonario i ponti creati dalla mano dell’uomo; ha trasportato barche e battelli; ha diffuso da per tutto la sua forza; ha donato la prosperità.

Il ruscello

Lungo le rive muscose e verdeggianti canta allegro il ruscello, mentre l’acqua limpida saltella di sasso in sasso. Occhieggiano al suo passaggio fiorellini dallo stelo corto, dalla corolla bianca a forma di stella: i ranuncoli dell’acqua. Più in basso, il ruscello rallenta la sua corsa. E’ arrivato in un’ampia zona pianeggiante ed ora si allarga fino a formare un piccolo lago dalle acque tranquille. Eccoci davanti a un placido stagno. E’ azzurro d’acque e verde d’erbe, che sfidano anche i rigori invernali, perchè le loro radici sono protette dall’acqua profonda, che non gela mai.

Vita nello stagno

L’anitra selvatica si alza improvvisamente in volo dalle acque dove ha cercato il suo nutrimento. Ha udito qualche rumore sospetto, e cerca scampo nella fuga, ignorando che, forse, il cacciatore è in agguato. Un grazioso martin pescatore è aggrappato a una canna palustre e la fa dondolare lentamente. Scruta attento le acque in cerca di pesciolini o insetti, che sa acchiappare con grande bravura.

Lungo la strada dell’acqua

Senza un tonfo, come adagiato sull’acqua, lo scuro e pesante barcone avanza. E’ colmo di ghiaia. Davanti gli si stende, fino a smarrirsi tra i pioppi e la foschia, la verde strada del canale. Come questo, due, tre, dieci, cento altri barconi seguono il lento cammino dell’acqua. Portano rena, sabbia, ghiaia, pietre alla città che ha fretta di crescere. Vanno, portati dall’acqua. E non cambiano mai. Scuri e tranquilli, lavorano in pace, lungo la verde strada d’acqua. (M. L. Magni)

L’uomo e il fiume

Tutte le grandi civiltà sono sorte vicino ai fiumi. Infatti tra il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro è nata la civiltà cinese; sul Gange la civiltà indiana; sul Tigri e sull’Eufrate quella babilonese; sul Nilo quella egiziana; sul Tevere quella latina. Perchè accade questo? I motivi dipendono dalla presenza del fiume: le pianure in cui si stabilirono le prime genti erano state create dal fiume stesso ed erano perciò fertilissime; inoltre il fiume era una comoda via di comunicazione, forniva l’acqua per irrigare i campi e per bere, ed era una difesa naturale contro gli assalti dei nemici.
Per questi motivi nell’antichità i fiumi importanti venivano considerati sacri. Alcuni conservano ancor oggi il loro significato religioso, come il fiume Gange dove gli indiani si bagnano per purificarsi e dove gettano, dopo la morte, le loro ceneri.
Un fiume sacro alla memoria dei cristiani è il Giordano, in Terra Santa; con l’acqua di questo fiume Gesù fu battezzato.
La tecnica moderna ha consentito di realizzare lungo il percorso di molti fiumi, opere veramente considerevoli: industrie, officine e centrali idroelettriche sfruttano l’energia delle acque, e porti di notevole importanza commerciale sorgono lungo le rive dei grandi corsi d’acqua.
Spesso questi fiumi, lungo le rive dei quali sorgono ricche città portuali, sono collegati con altri centri mediante una rete di canali navigabili, in modo da favorire e agevolare lo sviluppo del commercio e dell’industria.

Vocabolario

Fiumana, rivo, riviera, affluente, immissario , emissario, tributario, torrente;

guadabile, ghiaioso, impetuoso, navigabile, perenne, profondo, rapinoso, tortuoso, vivo, morto, sinuoso;

anse, alveo, argine, bocche, bacino, banchina, braccio, chiusa, cascata, cateratta, confluente, corrente, corso, direzione, diga, delta, estuario, foce, ghiareto, greto, guado, letto, livello, meandro, pescaia, pelo, proda, ripa, sorgente, sponda o margine, tonfano, vortice o gorgo, magra, piena, rapida, risucchio, alluvione, illuvione, inondazione;

immettere, sboccare, nascere, finire, sfociare, versarsi, fluire, diramarsi, bagnare, correre, gonfiarsi, esalveare, irrigare, scaturire, sgorgare, inalveare;

fluviale, ponte, traghetto, alzaia, ciottolo, navalestro, frontista o rivierasco, portata.

 Il ruscello
C’era una volta un giovane ruscello
color di perla, che alla vecchia valle
tra molti giunchi e pratelline gialle
correva snello;
e c’era un bimbo, e gli tendea le mani
dicendo: “A che tutto codesto fuoco?
Posa un po’ qui. Si gioca un caro gioco,
se tu rimani.
Se tu rimani, e muovi adagio i passi,
un lago nasce, e nell’argento fresco
della bell’acqua io con le mani pesco
gemme di sassi:
fermati dunque, non fuggir così!
L’uccello che cinguetta ora sul ramo
ancor cinguetterà, se noi giochiamo
taciti qui”.
Rise il ruscello, e tremolò commosso
al cenno delle amiche mani tese;
e con un tono di voce cortese
disse: “Non posso!
Vorrei: non posso! Il cuor mi vola: ho fretta!
In mezzo al piano, a leghe di cammino,
la sollecita ruota del mulino
c’è che mi aspetta;
e c’è la vispa e provvida massaia
che risciacquar la nuova tela deve,
e sciorinarla, sì che al sole neve
candida paia;
e il gregge c’è, che a sera porge il muso
avido a bere di quest’onda chiara,
e gode s’io la sazio, e poi ripara
contento al chiuso…
Lasciami dunque”, terminò il ruscello,
“correre dove il mio dover mi vuole.”.
E giù nel piano, luccicando al sole,
disparve snello.

Il ruscello
Oh, piccolo ruscello argenteo e chiaro,
che in avanti ti affretti senza posa,
alla tua riva me ne sto pensoso.
Da dove vieni tu? Dove te ne vai?
Vengo dal buio seno della roccia;
il mio corso se ne va tra muschio e fiori
e sul mio specchio dolcemente freme
l’azzurra amica immagine del cielo. (W. Goethe)

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Numeri romani – esercizi per la terza classe

Numeri romani – esercizi per la terza classe scaricabili e stampabili in formato pdf, nella versione semplice e in forma di scheda autocorrettiva.

scarica e stampa le schede qui:

Istruzioni per le schede autocorrettive: ritagliare lungo le linee orizzontali, quindi piegare ognuno dei foglietti ricavati lungo la metà verticale. In questo modo otterrete delle schede fronte-retro.

Il bambino può svolgere l’esercizio sulla scheda, quindi aprirla per correggersi.

Gli esercizi sono quelli comunemente utilizzati in terza classe, come vedete. Ho sempre però difficoltà a trovare materiali che offrano ai bambini anche la possibilità dell’autocontrollo e dell’autocorrezione (per gli esercizi per i quali si può fare, naturalmente…).

Utilizzo delle schede autocorrettive: bambini hanno a disposizione in classe una scatola-schedario di esercizi vari per ogni materia, da scegliere liberamente, che è uno per tutti: abbiamo uno schedario per la Matematica, uno per l’Italiano, uno per l’Inglese, ecc…

Ogni bambino ha poi una scatola-schedario individuale, col suo nome, dove conserva i cartellini che ha usato per i suoi esercizi. E’ assurdo incollare fotocopie su fotocopie sui quaderni! Questa modalità favorisce il lavoro individuale e individualizzato, ma anche l’aiuto reciproco e la collaborazione: se un bambino ha già provato un dato esercizio, può dare una mano al compagno che lo sta facendo; poi ci sono anche schede per lavorare in coppia, ad esempio quelle dei dettati che prevedono che un bambino legga al bambino che scrive.

E’ naturalmente sempre il bambino a scegliere; se lo desidera può portare anche il lavoro a casa: vi sembrerà assurdo, ma a me che non uso dare compiti, i bambini li chiedono…

A differenza degli eserciziari “a libro”, lo schedario mi permette di aggiornare l’offerta di esercizi in base agli interessi dei bambini, o alle difficoltà che mostrano, e inoltre si integra benissimo coi materiali montessoriani già a disposizione.

Merenda merendine ed educazione alimentare

Merenda merendine ed educazione alimentare

Come va 

Del cibo che mi mettono nel piatto
sempre ne do una parte al mio gattino
e come va che in lui diventa gatto
mentre dentro di me divien bambino?

Lina Schwarz

Merenda merendine ed educazione alimentare. Alimentazione ed educazione alimentare sono di centrale importanza in pedagogia. Soprattutto l’argomento merenda e merendine, poi, è fonte di grande dibattito tra educatori e tra genitori, e naturalmente anche il web offre i più svariati punti di vista, che vanno dalle posizioni più intransigenti a quelle più aperte a mediazioni consapevoli. Certo che, per le innumerevoli implicazioni emotive che ha il “dar da mangiare al proprio bambino”, nessuno affronta la questione con superficialità.

La mia personale posizione in tema di alimentazione si può riassumere nel motto: ” educazione, non privazione”.

Da genitore prima che da insegnante, poi, credo non porti bene sentirsi in colpa (anche) per non essere la mamma capace di sfornare una torta casalinga al giorno. E che quando è possibile è meraviglioso cucinare biscottini coi bambini e preparare insieme una buona macedonia, la marmellata fatta in casa  e altre squisitezze, ma è anche possibile offrire, all’interno di una vasta varietà, anche una merendina confezionata. Magari ci dà il tempo per una passeggiata all’aperto, o per far visita a un amico, o per ascoltare una fiaba.

L’educazione alimentare dovrebbe essere tutt’altra cosa che creare divieti, proibizioni e sensi di colpa.

Rispetto al tema dell’educazione alimentare, mi sento molto vicina alle considerazioni che provengono dall’ambito montessoriano:

– non è possibile forzare un bambino a mangiare, così come non lo si può costringere a parlare o camminare. Ogni bambino si sviluppa al suo ritmo e se si segue questo ritmo, potrà collezionare solo esperienze positive che saranno la base del suo apprendimento.

– il bambino è un naturale imitatore, e sappiamo quanto la cura dell’ambiente sia importante nella pedagogia montessoriana. Per quanto riguarda l’alimentazione, i consigli sono sempre: creare un ambiente tranquillo e armonioso (quando tutta la famiglia va a tavola è un momento speciale). Se il bambino sta mangiando, non è necessario complimentarsi con lui (soprattutto se sta mangiando una cosa che noi consideriamo particolarmente “sana” o particolarmente buona perchè fatta dalle nostre manine…), nè incoraggiarlo a mangiare di più. E questo vale anche se il bambino non mangia.  E’ abbastanza normale essere orgogliosi del proprio bambino che impara l’arte di mangiare, ma è importante evitare di creare l’associazione mangiare=compiacere i genitori.

– a seconda dell’età del bambino, l’attenzione dovrebbe essere posta su ciò che si mangia e non su quanto mangia, ad esempio prendiamo l’abitudine di dire sempre al bambino  quello che mangerà, da dove viene il cibo, in quale stagione si trova il tal prodotto in natura, e poi via via aggiungiamo a questo anche nozioni scientifiche sulla sua composizione, ecc… Possiamo parlare dei nutrienti anche ai bambini più piccoli; ad esempio, a tavola possiamo chiedere: “Mi passi il prosciutto?” e poi dire ” Il prosciutto ha tantissime proteine, che servono ai nostri muscoli per diventare forti”, “Tu hai bisogno di muscoli forti?”, “Perchè?”, ecc…

– non dovrebbe esserci alcuna posizione definitiva su ciò che i bambini dovrebbero mangiare o non mangiare, ma piuttosto dovremmo tenere presenti alcuni principi base:

  • siccome crediamo nel diritto del bambino a sviluppare il suo massimo potenziale, lo facciamo anche in relazione al cibo e al suo valore nutrizionale.  Incoraggiamo il bambino a consumare, accanto agli alimenti trasformati, alimenti che siano il più vicino possibile al loro stato naturale.
  • inseriamo l’educazione alimentare nell’ampio ambito dell’educazione alla salute e dell’  “Educazione Cosmica”. Maria Montessori credeva che mente corpo e spirito sani sono gli elementi essenziali per il successo sulla via universale del progresso e dello sviluppo. Se corpo mente e spirito sono sani, un essere umano ha una maggiore possibilità di dare il suo contributo positivo al mondo.
  • un ambiente preparato significa che prendiamo in considerazione tutto ciò che il bambino incontra, compresi i cibi che mangia. Assicuriamoci di fornire il più possibile cibi di qualità; in altri termini, quando insegniamo ai bambini a rispettare se stessi, dobbiamo includere in questo rispetto la scelta del cibo.
  • coinvolgere il bambino nelle attività di cucina, nella preparazione dei cibi e della tavola, è fondamentale. Le attività manuali e di vita pratica relative alla cucina e al pasto permettono ai bambini di imparare a conoscere  i nutrienti presenti nel cibo e il loro rapporto con la sana alimentazione.
  • per un sano sviluppo sensoriale, offriamo una vasta gamma di cibi, diversificati per colore, consistenza, odore, sapore. E parliamone coi bambini: che aspetto ha? che odore ha? cosa sentiamo nella nostra bocca e nella pancia?

Come genitori vorremmo avere il controllo su ciò che i nostri bambini mangiano, ma ciò che essi realmente immettono nel proprio corpo rappresenta, se ci pensiamo, una delle poche aree nelle quali invece è il bambino ad avere il controllo: è piuttosto difficile, infatti, costringere qualcuno a mangiare.

E’ facile incolpare il bambino per le sue scelte alimentari, ma in realtà la vera responsabilità risiede nel modo di comunicargli il cibo, e le opzioni che offriamo: è questo a determinare la relazione del bambino con il cibo.

Cerchiamo quindi di comunicare al bambino che il cibo è qualcosa che nutre il nostro corpo; che serve a darci l’energia che ci serve per correre, giocare, studiare; che serve a far crescere il corpo; che ce n’è sempre quando ce n’è bisogno; che ci insegna ad ascoltare il nostro corpo, perchè infatti è lui a sapere quando abbiamo bisogno di cibo; che esiste cibo di tutte le forme, dimensioni, colori, sapori…

Ricordiamo a noi stessi, e i nostri bambini lo impareranno, che non si mangia quando non se ne sente il bisogno; che il cibo non è una ricompensa e non è una punizione; non è una lotta di potere; non è amore.

Aiutare i bambini a sviluppare un sano rapporto con il cibo è semplice. Il primo passo, forse,  è quello di capire il rapporto che noi stessi abbiamo col cibo.

Il problema dei disturbi alimentari è estremamente serio e complesso; le cause sono innumerevoli, ma tra queste ci sono anche da citare le esperienze avute col cibo durante l’infanzia: modelli di adulti ossessionati dalla dieta, il peso e il conteggio di calorie; il cibo usato come ricompensa o come punizione o come strumento di manipolazione emotiva in genere; divieto estremo ed assoluto di intere categorie di alimenti (ad esempio, assoluto no ai dolci, sempre, indipendentemente dagli ingredienti contenuti o dalla frequenza di assunzione).

Una corretta educazione alimentare dovrebbe essere fatta di scelte razionali e ragionate sugli alimenti; dovrebbe portare alla consapevolezza  di come queste scelte influenzano il nostro corpo; dovrebbe portare i bambini a sviluppare il pensiero critico e non a sottostare a divieti e proibizioni.

Non proibiamo o demonizziamo intere categorie di alimenti, piuttosto cerchiamo di scegliere sulla base degli ingredienti che li compongono, sul loro gusto, e su come ci fanno sentire. Alcuni cibi sono “cattivi”? Il dolce è il male? No, non è il tal cibo ad essere cattivo in sé, quanto gli ingredienti di cui è fatto.

Ci sono eccezioni? Certo. E ci sono gli estremi, anche.

Vulcano in eruzione

Il vulcano è davvero un classico tra le attività scientifiche proposte ai bambini della scuola d’infanzia e primaria. Nelle vacanze estive è anche un ottimo gioco da fare all’aperto, o in cucina…

Vulcano in eruzione: Versione 1

Materiale occorrente:

  • carta di recupero
  • una bottiglia di plastica
  • un tubo di plastica
  • colla a caldo
  • una pasta di sale fatta al momento e lasciata molto morbida
  • sassi e muschio
  • aceto, bicarbonato e ketchup
  • un imbuto per il cratere e uno per il tubo

Preparazione:

1. forare un lato della bottiglia, in basso, inserire il tubo e sigillare con la colla a caldo

2. modellare il vulcano con palle di carta di recupero e pasta di sale

3. colorare il vulcano e decorare con sassi e muschio

4. in una brocca miscelare aceto e ketchup (nella proporzione che volete)

Attività:

1. i bambini, a turno, versano del bicarbonato nella bocca del vulcano

2. i bambini, a turno, versano nel tubo la miscela di ketchup ed aceto

Vulcano in eruzione: Versione 2

 … per realizzare il vulcano basta nascondere una bottiglia di plastica all’interno di una montagna che può essere fatta con sabbia, terra, pasta da modellare, carta pesta… noi l’abbiamo preparato così:

materiale occorrente:

– un contenitore poco profondo di legno, plastica, o cartone

– una o due bottiglie di plastica

– cartoni da pizza da asporto

– vecchi quotidiani

– carta da cucina

– colori a tempera

– carta verde (velina, oleata, cartoncino)

– una colla artigianale preparata con farina bianca, acqua e aceto balsamico

– stecchini da spiedino

– sabbia, terra, sassolini (o farina gialla)

– nastro adesivo

Procedimento

Preparata la colla artigianale, noi abbiamo incollato le due bottiglie tra loro con la colla a caldo, per poter eventualmente caricare il vulcano dal basso, e anche per lo svuotamento, ma non è indispensabile. Potete tranquillamente usare una bottiglia sola.

 

poi abbiamo iniziato a modellare la montagna attorno alla bottiglia coi cartoni da pizza, fissandoli col nastro adesivo:

 

e con la nostra colla artigianale data col pennello, versata con un bicchierino, o anche preparando delle pezze di carta da cucina imbevute della nostra colla e poi appoggiate al cartone (così si fa anche pulizia senza sprecare nulla):

 

continuiamo a modellare, aggiungendo anche fogli di giornale:

 

 

rivestiamo con abbondante colla artigianale, quindi mettiamo ad  asciugare.

 

Quando è asciutto, possiamo modellare il cratere tagliando un po’ la bottiglia, e quindi passiamo alla decorazione:

 

Per la scenografia noi abbiamo usato ghiaia e farina gialla, poi abbiamo strappato la carta verde (strappare la carta è un’attività molto interessante per i bambini più piccoli, ed un ottimo esercizio di motricità fine):

 

Il nostro vulcano ha anche una bella grotta, dove può abitare ad esempio, una famiglia di orsi… ma potrebbero essere uomini preistorici,  o altri personaggi.

 

 

 

 

 

 

 

Veniamo all’eruzione; noi giochiamo spesso con le pozioni magiche, questi sono alcuni nostri esperimenti con succo di cavolo rosso, bicarbonato ed aceto, e può essere una prima buona idea per il nostro vulcano. La reazione funziona sempre, non servono dosi e i bambini si divertono molto a sperimentare le variabili di consistenza e colore:

 

 

Al posto del succo di cavolo rosso,  possiamo invece usare del colorante alimentare rosso, e sempre bicarbonato ed aceto (caricando il vulcano dall’alto o dal basso, come volete):

 

 

 

Ecco l’eruzione:

 

 

 

 

 

Un’altra possibilità è utilizzare la ricetta del “dentifricio degli elefanti”, che crea una schiuma molto densa e di grande effetto; servono:

10 cucchiai di acqua ossigenata a 20 volumi (si compra dal parrucchiere)

una o due bustine di lievito per dolci

un cucchiaio di detersivo per piatti

colorante alimentare

tre cucchiai di acqua calda per sciogliere il lievito.

Mettete nel vulcano l’acqua ossigenata, il detersivo e il colorante. A parte sciogliete il lievito e versatelo velocemente nel vulcano.

 

 

 

 

per ravvivare la reazione potete aggiungere poi aceto bianco:

 

 

La terza possibilità è versare nel vulcano della diet coke, e aggiungere alcune caramelle mentos (si crea un getto alto di schiuma marrone che non ho fatto in tempo a fotografare, poi continua per qualche secondo la fuoriuscita di schiuma)…

Giochi col ghiaccio – 50+ idee

Giochi col ghiaccio – 50+ idee:- una collezione di giochi, attività, esperimenti scientifici col ghiaccio, per bambini della scuola d’infanzia e primaria, molto adatti al periodo estivo…

1. fate tanti cubetti di ghiaccio utilizzando una miscela di poca acqua, bicarbonato di sodio e aceto, colorando con l’aggiunta di coloranti alimentari vari. Mettete nel congelatore, quindi metteteli un una bacinella di plastica, mettendo a disposizione dei bambini vari utensili di cucina, siringhe senza ago o pompette, e ciotoline con vari elementi che possono divertire i bambini: aceto, sale, bicarbonato, sapone liquido, ecc… Di http://fun-a-day.com/

2. per un bel gioco sensoriale utilizzate i palloncini per creare tante palline di ghiaccio colorato, di http://sunnydaytodaymama.

3. questa prima versione di barchetta di ghiaccio è realizzata usato come forma i bicchieri di plastica. Si riempie d’acqua il bicchiere, e si fissa al centro del bicchiere una cannuccia da bibita. Tolto dal congelatore, si fissano alla cannuccia vele e bandiera. Di http://homeschooljournal-bergblog

4. un’idea semplicissima e un po’ magica per la merenda dei bambini. Mettete qualche goccia di colorante alimentare diverso sul fondo di ogni bicchiere. Quando sarà il momento di offrire ai bambini l’acqua (o qualsiasi altra bevanda di colore chiaro) nascondete il colorante con dei cubetti di ghiaccio, e versate. Sorpresa! Ogni bicchiere conterrà una “bibita” di colore diverso. Di http://homeschooljournal-bergblog.blogspot.

5. naturalmente con cubetti di ghiaccio, acqua, giocattoli e altri piccoli elementi si possono inventare tantissime vaschette sensoriali; questa è di http://wemadethat.blogspot.co.uk/

6. e per i più piccoli bastano cubetti di ghiaccio colorati con coloranti alimentari ed acqua. Di http://www.plainvanillamom.com/

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7. vaschetta sensoriale di ghiaccio fluorescente (ottenuto riciclando evidenziatori scarichi) anche per light box, qui 

8. una vaschetta sensoriale (anche per light box) realizzata con ghiaccio colorato e braccialetti fluorescenti, qui 

9. la mia versione di caccia al tesoro nel ghiaccio, qui 

10. altra sensory tub, tutta di ghiaccio colorato, di http://mamaofmanyblessings.com/ (ottima anche per giocare ai travasi corredata da cucchiai o pinze da ghiaccio o da insalata)

11. gioco del bowling con bottiglie di plastica e palle di ghiaccio colorato (si preparano riempendo d’acqua e colori alimentari dei palloncini), si  http://alittlelearningfortwo.blogspot.com.au/

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12. ricetta per realizzare gessetti da asfalto di ghiaccio: miscelate amido di mais ed acqua in parti uguali, ed aggiungete coloranti alimentari. Versate negli stampini da ghiaccio e congelate. Aggiungendo polvere di gesso bianca, avrete dei gessetti marmorizzati. Di http://www.readingconfetti.com/

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13. altre barchette di ghiaccio, tutorial di http://www.readingconfetti.com/

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14. diluite i colori a tempera con poca acqua, versate negli stampini da ghiaccio in colori singoli o anche a più strati di colore diverso e ghiacciate. I cubetti ottenuti si usano all’aperto per dipingere su carta o tessuto, di http://www.learnplayimagine.com/

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15. ghiacciando invece i colori ad acquarello diluiti, otterrete un materiale che consente meravigliose esperienze di colore, su carta. Di http://www.learnplayimagine.com/

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16. sculture di ghiaccio e sale. Bellissima attività anche per i più piccoli. Preparate un blocco di ghiaccio abbastanza grande utilizzando un contenitore da cucina o anche un grande palloncino. Ponete il blocco su un vassoio. Il bambino cosparge il blocco di sale grosso, poi utilizzando siringhe, pipette, spruzzini o anche pennelli, colora con acquarelli (o anche con coloranti alimentari) creando effetti spettacolari. Di http://artfulparent.typepad.com/

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17. tunnel colorati nel ghiaccio di http://artandcreativity.blogspot.it/. E’ un’attività artistica adatta anche ai più piccoli, e insieme un divertente esperimento scientifico. Preparate vari blocchi di ghiaccio di varie dimensioni, utilizzando sacchetti di plastica o contenitori da cucina. Quando i blocchi sono pronti, preparate i barattoli di colore ad acquarello (o colorante alimentare) aggiungendo ad ognuno un abbondante cucchiaio di sale fino. Utilizzando una pipetta o una siringa senza ago, versate un colore in un punto del blocco di ghiaccio: vedrete il liquido colorato scavare un tunnel all’interno del blocco. Infatti il sale ha la proprietà di ridurre il punto di congelamento dell’acqua.

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18. bellissimo gioco di caccia al tesoro frizzante di http://fun-a-day.com/. Preparate una soluzione con 3 parti di bicarbonato di sodio, 1 parte di acqua, e colorante alimentare. Mettete sul fondo degli stampini da ghiaccio dei piccoli tesori (monete, perline, ecc…) quindi versate la soluzione e ghiacciate. Quando i cubetti saranno pronti, i bambini potranno divertirsi a trovare i tesori utilizzando aceto e acqua.

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19. Collane e gioielli di ghiaccio: metti alcuni cubetti di ghiaccio in un bicchiere d’acqua. Bagna il filo di cotone, poi posalo sui cubetti che galleggiano nel bicchiere. Cospargi di sale per tutta la lunghezza del filo e aspetta circa 10 secondi. Solleva il filo: avrai tra le mani la tua collana di ghiaccio… ancora più bello utilizzando formine a stella o cuore e coloranti alimentari. Qui: https://www.lapappadolce.net/59-esperimenti-scientifici-una-collana-di-ghiaccio/

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20. per creare la pioggia in vaso servono un barattolo di vetro con coperchio metallico, acqua bollente , cubetti di ghiaccio, torcia elettrica… Qui: https://www.lapappadolce.net/30-esperimenti-scientifici-creare-la-pioggia-in-un-vaso/

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21. per ottenere un buonissimo gelato senza gelatiera, inseriamo la busta col composto in una seconda busta di plastica un po’ più grande, riempita per un terzo circa di cubetti di ghiaccio al quale aggiungeremo una tazza abbondante di sale da cucina. Qui https://www.lapappadolce.net/22-esperimenti-scientifici-ghiaccio-e-sale-il-gelato-senza-gelatiera/

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22. per creare la nebbia in un vaso possiamo riempire un vaso di vetro con acqua calda, immergervi un fiammifero acceso dopo averlo tenuto qualche secondo all’interno, quindi coprire il vaso con un sacchetto di ghiaccio. Qui https://www.lapappadolce.net/13-esperimenti-scientifici-la-nebbia-in-vaso/

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23. gioco sensoriale con ghiaccio colorato e schiuma da barba, di http://www.growingajeweledrose.com

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24. tempera ghiacciata per dipingere. Versare la tempera non diluita negli stampini da ghiaccio e mettere in congelatore per circa 20 minuti, quindi inserire i bastoncini in posizione verticale e lasciare congelare completamente. Possono essere usati come pennelli, su carta.  Di http://www.momto2poshlildivas.com/

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25. mostriciattoli di ghiaccio e spaghetti colorati con coloranti alimentari, per il gioco sensoriale, di http://www.growingajeweledrose.com/

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26. bellissima idea adatta anche ai più piccoli per imparare a conoscere i colori primari e secondari, di http://thepreschoolexperiment. Preparate tanti cubetti di ghiaccio nei colori primari utilizzando acquarelli o coloranti alimentari. Mettete i cubetti in bicchieri trasparenti per vederli miscelare tra loro sciogliendosi.

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27. architetture di ghiaccio di http://www.pbs.org/. Dopo aver preparato vari blocchi di ghiaccio di varie forme, dimensioni e colori si possono realizzare costruzioni come queste. Per far aderire i blocchi tra loro basta aggiungere un po’ di sale fino, ma questo accorgimento non funziona se l’esterno del ghiaccio non è asciutto. (Il sale porta la superficie del ghiaccio a sciogliersi, poi quando si posiziona il secondo blocco di ghiaccio su di esso, l’acqua che si è formata grazie al sale congela di nuovo.)

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28. congeliamo negli stampini da ghiaccio aceto colorato con coloranti alimentari. Quando è pronto prepariamo una soluzione di acqua e bicarbonato di sodio per giocare. Di http://inspirationlaboratories.com/

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29. dinosauri imprigionati nel ghiaccio di http://happyhooligans.ca/. Preparate un grande blocco di ghiaccio a più strati, inserendo via via dinosauri giocattolo, pietre, conchiglie, ecc… Possono servire più giorni. Quando il blocco è pronto mettere a disposizione dei bambini vari attrezzi e materiali (ciotoline di sale fino colorato con coloranti alimentari, saliera da tavola, siringhe, provette, martelli, bastoncini, acqua calda)

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30. uova di ghiaccio colorato con sorpresa di http://sassyssanity.blogspot.it/

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31. travasi di ghiaccio, attività montessoriana per i più piccoli, di http://www.toddlerapproved.com/

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32. ghiaccioli alla frutta, di http://www.toddlerapproved.com/

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33. ghiaccio tritato (o in cubetti), coloranti alimentari e light box, di http://www.ottawavalleymoms.com/

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34. cubetti di ghiaccio colorato con coloranti alimentari nella vasca da bagno, per giocare durante il bagnetto, di http://www.ottawavalleymoms.com/

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35. bolle di sapone ghiacciate di http://www.wikihow.com/. Bellissima attività, che richiede una certa pazienza. Per prima cosa rovesciate il vostro liquido per bolle di sapone in un piatto, quindi con una cannuccia cercate di creare una grande bolla alla volta sulla superficie del liquido. Preparate un secondo piatto con una leggera pellicola di liquido per bolle, e cercate di trasferire su di esso la bolla, avvicinando i due piatti e soffiando per spostarla. Mettete la bolla nel congelatore per circa 20 minuti.

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36. ciotoline di ghiaccio, di http://www.wikihow.com/. E’ davvero molto semplice: basta riempire un palloncino di acqua, chiuderlo e metterlo nel congelatore per circa 2 o tre ore, cioè per il tempo necessario a far congelare l’acqua lungo le pareti del palloncino, e a mantenere allo stato liquido l’interno. Togliete il palloncino dal congelatore e scuotetelo per sentire se c’è acqua all’interno, quindi tagliare il bordo del palloncino e staccarlo dalla parete di ghiaccio che si è formata, quindi svuotare l’acqua. Modellate l’apertura della vostra ciotola di ghiaccio col coltello, a vostro gusto. La ciotola può contenere macedonia o altro…

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37. ciotole di ghiaccio decorate con fiori e frutti, di http://www.wikihow.com. Preparate fettine di frutta e fiori commestibili. Scegliere due ciotole possibilmente della stessa forma ma di due misure differenti, in modo tale che possano stare l’una nell’altra creando uno spazio di qualche centimetro tra di loro. Riempite di ghiaccio la ciotola più piccola, in modo che sia pesante, e se serve fissatela anche ai bordi della più grande con del nastro adesivo. Riempite lo spazio con fiori e frutta, e versate l’acqua che serve a riempire tutto lo spazio, quindi mettete a congelare.

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38. mini hockey, di http://www.toddlerapproved.com/

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39. barchette di ghiaccio, versione tutta natura, di http://www.readingconfetti.com/

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40. merenda sana, fresca e scientifica: congelate negli stampi da ghiaccio succhi di frutta di vari gusti e colori: quando si sciolgono nel bicchiere si può osservare la formazione dei colori secondari. Di http://www.science-sparks.com/

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41. gioielli di ghiaccio colorato, di http://www.blogmemom.com/

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42. slittino di ghiaccio per scivolare lungo le discese erbose, di http://www.playathomemomllc.com/

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43. di http://alittlelearningfortwo.blogspot.it queste uova di ghiaccio con sorprese. Utilizzate del palloncini, inserite i giocattolini e riempite d’acqua. Congelate ma non completamente, in modo che l’interno dell’uovo risulti ancora un po’ liquido.

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44. pittura su stoffa con i cubetti di ghiaccio colorati con coloranti alimentari,  di http://www.praisesofawifeandmommy.com

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45. pupazzo di ghiaccio; per far aderire le tre palle tra loro basta un po’ di sale fino; di http://www.momto2poshlildivas

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46. costruzioni di ghiaccio colorato di http://www.creativefamilyfun.net/

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47. bellissimo gioco “Sciogli il ghiaccio”.  Servono un cubetto di ghiaccio per ogni giocatore, una ciotola d’acqua, sale, un dado, una tabella per le istruzioni. Ad ogni valore del dado corrisponde un’azione; ad esempio:
1. tenere il cubetto in mano 10 secondi; 2. infilare il cubetto nella maglietta e farlo scivolare giù; 3. soffiarci sopra per 10 secondi; 4. mettere un cucchiaino di sale sul cubetto; 5. far cadere il cubetto sul tavolo; 6. metterlo a galleggiare nell’acqua per 10 secondi. Vince chi riesce a sciogliere il cubetto di ghiaccio per primo.

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48. tintura di filato con cubetti di ghiaccio colorati con coloranti alimentari, di http://maiyamayhem.tumblr.com/

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49. Ghiaccio colorato messo su un vassoio di olio trasparente; di http://www.growingajeweledrose.

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50. travasi di ghiaccio, di http://www.sugaraunts.com/

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51. pesca di cubetti di ghiaccio con sorpresa (cospargere il blocco con del sale per far aderire il filo). Di http://www.howdoesshe.com

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53. ghiaccio colorato e uno scivolo… di http://www.puttisworld.com/

Pesca di lettere magnetiche

Pesca di lettere magnetiche – un gioco semplice semplice, molto adatto al periodo estivo… serve solo un bastone, un filo, una graffetta metallica e le lettere della lavagna magnetica, e un secchio d’acqua.

applicate il filo ad una bacchetta di legno, quindi all’estremità del filo fissate una graffetta metallica. Riempite una bacinella d’acqua e mettete a galleggiare lettere e numeri magnetici, possibilmente con la parte contenente la calamita rivolta verso l’alto

e il gioco è fatto

coi bambini più piccoli si può giocare a pescare i pesciolini per colore; coi più grandi si può giocare a comporre parole con le lettere pescate, oppure numeri, oppure si possono esercitare piccole operazioni…

IL CRISANTEMO leggenda giapponese

IL CRISANTEMO leggenda giapponese

C’è, in Giappone, un luogo dove il crisantemo non è coltivato perchè ricorda una storia troppo triste.

Una volta, in un castello dalle trenta torri, nella graziosa città di Himeji, abitava un ricchissimo signore. Egli prese al suo servizio una fanciulla di buona famiglia, chiamata O-Kitu, il che, in giapponese, significa appunto “fior di crisantemo”. O-Kitu doveva aver cura di molti oggetti preziosi e, fra l’altro, di dieci piatti d’oro.

Un giorno, uno dei piatti scomparve e la ragazza, per dimostrare la propria innocenza, si annegò in un pozzo. Il suo spirito tormentato, la notte, tornava al castello e singhiozzando cantava: “Ichi-mai, ni-mai, san-mai, yo-mai, go-mai, ro-ku-mai, shichi-mai, bachi-mai, ku-mai”. “Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove!”

Il decimo piatto non c’era e la povera servetta non trovava pace: finchè si trasformò in un insetto che somiglia a uno spirito coi capelli scompigliati e che fu chiamato la “mosca crisantemo”.

L’immagine di una chioma spettinata, che richiama alla mente i petali frastagliati del crisantemo, ha dato origine sempre in Giappone, a un’altra leggenda.

Una musmè aveva sposato  un giovane, che amava teneramente. Egli era mercante e spesso doveva allontanarsi per lunghi viaggi sul mare. Una fosca sera di novembre la moglie lo aspettava, ritta su uno scoglio. La nave apparve, ma una tempesta terribile si scatenò. La povera musmè, coi capelli ondeggianti al vento, assistette inorridita al dramma: il bastimento fu inghiottito dai flutti furibondi. Disperata, la sposa si gettò anch’essa nelle onde e morì. Il giorno dopo, sul luogo dove aveva atteso il suo sposo, sbocciarono i fiori del crisantemo, e i loro petali fluttuavano al vento come i capelli della musmè.

Un’altra commovente leggenda giapponese è questa. Due giovani sposi vivevano tranquilli e felici. Purtroppo scoppiò la guerra e il marito dovette partire. Dopo lunghi mesi di dolorosa separazione gli fu dato un congedo ed egli potè tornare alla sua casetta. La moglie gli chiese: – Quanti giorni resterai? –

– Quanti petali ha quel fiore – rispose il marito, indicando un fiore in un vaso.

I petali erano pochi: di notte la sposa si levò, prese un paio di forbici e li frastagliò in tanti minutissimi frammenti. E il marito rimase con lei molti giorni, assai più di quanto non gli fosse stato concesso…

Tornato al campo, fu giudicato e condannato a morte come disertore. E la sposa, per il rimorso e per il dolore, morì.

Ma il ricordo del suo grande, sebbene così tragico amore, le sopravvisse in un modo strano e poetico. Sulla sua tomba nacquero bellissimi fiori mai visti prima: erano i crisantemi dai petali innumerevoli, simili a quelli del fiore che la donna aveva frastagliato con le sue incaute forbicine.

La pianura – materiale didattico vario

La pianura – materiale didattico vario: dettati ortografici, racconti, testi brevi, di autori vari, per la scuola primaria.

La pianura

La pianura è un’estensione di terreno piatto o leggermente ondulato che, di solito, non supera i 200 metri di altitudine, misurando dal livello del mare.

Nei tempi antichissimi scorrevano sulla Terra fiumi giganteschi: le loro acque trascinavano con sè, strappandoli dalla montagna, frammenti di roccia e terriccio. Questo materiale, accumulandosi per millenni e millenni, formò le pianure.

Anche oggi, nelle pianure, scorrono i grandi fiumi. Gli uomini devono costruire argini potenti per trattenerne le acque e ponti di cemento e di ferro per scavalcarne le correnti.

Centinaia di anni fa,   gli uomini non si fermavano volentieri nella pianura a costruire case e città. Temevano gli assalti dei nemici e il pericolo delle paludi. Nei tempi moderni, invece, la pianura è il luogo preferito per la costruzione delle grandi città, centri di industrie e di commerci. Nella pianura è possibile tracciare strade, autostrade, ferrovie ed aeroporti senza troppi impedimenti di salite, discese e curve.

Le pianure, bene irrigate dai fiumi e dai canali scavati dall’uomo, sono coltivate intensamente. Negli ampi terreni pianeggianti è possibile l’uso dei trattori e delle altre macchine agricole. Nelle pianure si coltivano i foraggi (erbe di cui si ciba il bestiame), cereali (grano, granoturco, riso), tabacco, barbabietole da zucchero, alberi per legname (pioppi, faggi) e alberi da frutto.

Nasce una pianura

Molti e molti secoli fa, la grande valle del Po era occupata dal mare e le sue onde si frangevano ai piedi delle Prealpi. Ma poi, dalle gole nascoste delle Alpi, discesero i ghiacciai, i quali colmarono i fiumi e i torrenti che portavano tonnellate di detriti.

Questa terra, strappata alle acque, si coprì di immense foreste e qua e là, nelle grandi radure che si aprivano nell’intrico della vegetazione, sorsero miseri villaggi di capanne, circondati da brevi campi coltivati a cerali o a viti.

Furono i Romani che, dopo molti secoli, cominciarono per primi ad abbattere le dense boscaglie per farvi passare le larghe strade che dovevano congiungere i paesi conquistati. Più avanti nel tempo, specialmente per opera dei monaci, altre vastissime zone furono diboscate; si prosciugarono plaghe paludose, si costruirono canali di irrigazione.

La pianura era ormai nata e l’intensa opera dell’uomo la rendeva di anno in anno più fertile; eppure ancora oggi il vomere del contadino affonda nei resti delle antiche vette demolite dal gelo, e qualche volta appare, tra i sassi, il fossile di qualche antica spiaggia dalle onde che flagellavano le scogliere di ghiaccio. (A. Stoppani)

Flora e fauna 

Nei campi della pianura vivono i lombrichi e moltissimi insetti di ogni specie. Ci sono i ricci, voraci insettivori, e i timidi conigli selvatici.

Gli uccelli sono numerosi: il cardellino, la tortora, la quaglia e l’allodola amano le ampie distese della pianura. In alcune zone della Maremma e della Sardegna si trova ancora il cinghiale, che è un maiale selvatico. Ma anche gli animali selvatici, come le piante spontanee, vanno scomparendo dalla pianura.

Anche la pianura ha le sue piante. Nella zona di alta pianura crescono platani, robinie, betulle, pini silvestri, sambuchi, ginestre e brughi. Dai cespugli di brugo, certe zone di alta pianura hanno preso il nome di brughiere.

Nella bassa pianura troviamo pioppi, salici e numerosissimi tipi di erbe.

Ora le brughiere e le zone non coltivate della pianura vanno scomparendo perchè l’uomo, mediante imponenti lavori di bonifica e di irrigazione, cerca di sfruttare ogni zona di terreno.

Le comunicazioni

In pianura le comunicazioni sono facili e dirette: anche per questo la vita tende ad accentrarsi nelle pianure. Qui sorgono grandi città, centri industriali e commerciali dove le merci e i prodotti possono rapidamente giungere e partire per le varie destinazioni.

Il traffico maggiore è svolto per mezzo delle ferrovie e degli automezzi. Veloci automobili e autotreni col loro rimorchio corrono sulle autostrade. Queste sono grandi e moderne strade riservate agli automezzi: pedoni e ciclisti non possono percorrerle. Esse congiungono direttamente le grandi città, sono abbastanza larghe e ben pavimentate e non sono mai tagliate di strade trasversali.

Così i veicoli possono viaggiare a grande velocità senza pericolo. Agli incroci spesso una strada scavalca l’altra come un ponte: si ha così un cavalcavia. Anche i fiumi talvolta vengono usati in pianura come vere e proprie vie d’acqua. Per mezzo di barconi e chiatte, molte merci vengono trasportate lungo i fiumi e i grandi canali.

Il lavoro industriale

Le facili comunicazioni permettono il rapido trasporto delle materie prime che le industrie lavorano e trasformano in utili prodotti. Per questo i più grandi stabilimenti industriali sorgono più numerosi in pianura che altrove. Quante industrie sono necessarie per rifornirci di tutto quello che ci serve per vivere! Gli stabilimenti tessili ci forniscono i vestiti che indossiamo, i calzaturifici ci preparano le scarpe, le cartiere fabbricano i nostri quaderni, i mobilifici arredano di mobilio le nostre case, gli stabilimenti  meccanici ci donano utensili e macchine di ogni tipo, necessari per il nostro lavoro, per i nostri trasporti e per rendere la nostra casa più comoda. Ma ad essi occorrono ferro, acciaio ed altri metalli che sono lavorati negli stabilimenti siderurgici e metallurgici.

Paludi e stagni

Non tutte le zone di pianura sono abitate e coltivate. Vi sono dei luoghi dove l’acqua, non  assorbita dal terreno, si ferma e ristagna, formando le paludi. Molte di esse, separate da sottili lingue di terra, si trovano lungo le coste dei mari: sono le lagune.

Quando l’acqua si raccoglie in piccole conche del terreno, forma gli stagni, acquitrini melmosi, ricchi di erbe acquatiche, di arbusti intricati e di canneti. In questi luoghi, che rappresentano il paradiso dei cacciatori per i molti uccelli acquatici che vi si possono trovare, l’aria è malsana, densa di moscerini e di zanzare.

In alcune regioni d’Italia sono state compiute opere di bonifica, per prosciugare e rendere produttivi molti terreni paludosi.

Nelle marcite, tipi particolari di campi in cui l’acqua circola tra le piantine e le mantiene umide, si possono fare anche otto tagli di erba all’anno.

Il riso

Il riso è una pianta che cresce solo nell’acqua: viene perciò coltivata  nei terreni paludosi o appositamente allagati. In marzo i contadini preparano i piccoli appezzamenti destinati alla semina del riso, zappano la terra a mano, lavorando nel fango, e sminuzzano le zolle con l’erpice tirato da due robusti cavalli. Prima della semina, che di solito si effettua in aprile, immettono l’acqua nei campi.

Dopo due mesi le piantine verdi, cresciute fitte fitte nel campo, sono pronte per il trapianto. Le mondine scavano un piccolo buco nella melma e vi affondano ad una ad una le radici dei cespi di riso. In giugno o in luglio procedono a varie mondature, cioè strappano le erbacce dalla risaia.

In settembre le pianticelle si incurvano sotto il peso dei chicchi maturi: è l’ora della mietitura. Le risaie vengono prosciugate e le pianticelle falciate a mano. Quindi il riso viene trebbiato con la macchina trebbiatrice e portato sull’aia ad essiccare.

Infine passa nelle riserie, dove altre macchine trasformano i chicchi scuri, violacei, rossastri, in granelli bianchi e brillanti. La sua lunga storia è finita: il riso è pronto per apparire nelle nostre cucine.

In campagna

Dalla casa colonica lo sguardo spazia, al di sopra della pianura, per un vasto orizzonte; sono lontani i monti che appaiono di un azzurro più scuro nell’azzurro vivo del cielo.

Attorno alla casa, prati e campi di frumento, di granoturco, di avena. Da campo a campo, lunghe file di pioppi fanno alta siepe di verde; le foglie tremano al vento leggero.

Nelle belle, calde sere di giugno, dai prati rigogliosi, dai campi dove già le messi cominciano a biondeggiare, si levano a mille le lucciole. Sembrano stelline vaganti che si agitano per rispondere, con la loro minuscola lucetta, allo scintillio delle grandi stelle nei cielo.

Nel silenzio si leva il canto dei grilli.

Le grandi fattorie

In pianura sorgono numerose fattorie. Visitiamone una. Appena entrati ci troviamo in un ampio cortile cinto da un alto porticato. Nel mezzo si trova l’aia, sulla quale si stendono le biade ad essiccare. Intorno si affacciano le stanze di abitazione, le stalle e i ripostigli. Sotto il portico è ammucchiato il fieno, vicino a cataste di legna da ardere e a balle di paglia. Qua e là si scorgono diverse macchine agricole. Tutt’intorno è un brulicare di galline, di anatre, di oche, e non mancano mai cani fedeli che fanno la guardia e agili gatti a dar la caccia ai topi.

Perchè il fiume è chiuso fra due argini?

In pianura i fiumi non hanno forte corrente, dato che la pendenza del terreno è minima. I barconi e le chiatte cariche di merci possono così risalire facilmente i grandi fiumi placidi della pianura. Ci sono anche i canali scavati dagli uomini per irrigare i campi o per impedire che in certe zone l’acqua del fiume ristagni a formare le paludi. I canali, togliendo molta acqua ai fiumi, impediscono anche che essi inondino la campagna durante le piene. Servono perciò a regolare il corso dei fiumi. In certe zone però ciò non basta. Il fiume, che in pianura scorre lento, deposita sul fondo tutti  i detriti che le sue acque portano via dalla montagna. Il solco del suo letto si riempie e il fiume viene poco per volta ad essere più alto del terreno che sta intorno e minaccia di straripare. Per impedirlo, l’uomo ha dovuto costruire dei robusti argini di terra lungo le sponde. Per costruire questi argini, gli uomini adoperano la terra che tolgono dallo stesso letto del fiume con le draghe. Le draghe che scavano il fondo del fiume servono a rendere navigabili tutte le sue parti anche ad imbarcazioni piuttosto grosse. Inoltre contribuiscono ad impedire che il fondo del fiume si alzi troppo.

(in costruzione)

La pianura –  dettati ortografici e letture – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Tavola con asticine dell’addizione e tavole di controllo ESERCIZI

Tavola con asticine dell’addizione e tavole di controllo ESERCIZI. Una raccolta di presentazioni, giochi ed esercizi per l’addizione secondo la psicoaritmetica Montessori.

Tutto il materiale stampabile illustrato in questo articolo si trova qui:

Tavola dell’addizione e asticine – Esercizi

Scopo: aiutare il bambino a conoscere e memorizzare tutte le possibili combinazioni dell’addizione di numeri da 1 a 9, per facilitare la comprensione delle operazioni e il calcolo mentale.

La linea rossa che divide verticalmente la tavola dell’addizione ci dice, per ogni numero che eccede il 10, di quante unità oltre la decina è composto il numero stesso.  Mostra cioè al bambino che i numeri sono divisi in due parti: una parte rappresenta una decina completa, l’altra parte è il resto di unità che non hanno raggiunto una decina. Questo è il meccanismo generale dell’addizione che  vogliamo sia appreso dai bambini.

Controllo dell’errore: Il bambino controlla il lavoro sulle tavole di controllo Tavola I e Tavola II.
Età: 5 anni e 1/2 – 6 anni

Presentazione 1

Per prima cosa illustriamo al bambino la Tavola con asticine, mostrando bene la linea rossa che scorre in verticale tra i numeri 10 e 11; indicargli i numeri che si trovano nella parte superiore della tavola e dirgli che è li che troverà la risposta che cerca.

Prendere tutte le asticine blu e metterle in ordine decrescente; fare la stessa cosa con le asticine rosse.

Chiedete al bambino di scegliere un’asticina blu e posizionarla sulla prima riga della tavola. (Ad esempio l’asticina del 6). Scegliamo un’asticina rossa, cercando di evitare che la somma superi il 10 (ad esempio l’asticina del 3) e posizioniamola a destra della striscia blu.

Mostriamo quindi al bambino che 6 più 3 è uguale a 9

Ripetiamo l’esercizio, ma questa volta facendo in modo che la somma superi la decina, e mostrare chiaramente al bambino la linea rossa verticale che indica che il numero ottenuto è maggiore di 10.

Presentazione 2

L’insegnante invita il bambino ad unirsi a lei in questo esercizio, insieme portano al tavolo tutto il materiale necessario, poi si siede accanto a lui, dal suo lato non dominante; il bambino sceglie un cartellino delle addizioni da svolgere, legge a voce alta, poi posa il cartellino sul tavolo.

Per esempio, se si tratta di 9 +5= , l’insegnante prende  l’asticina blu del 9 e la mette sulla tavola dell’addizione, poi prende l’asticina rossa del 5 e la mette alla fine dell’asticina blu, quindi fa notare al bambino che le due asticine insieme terminano sulla casella 13.

Il bambino prende il cartoncino dei risultati corrispondente, lo pone a destra di quello dell’operazione, poi scrive sul foglio a quadretti l’operazione ed il suo risultato.

Presentazione 3

Mostriamo al bambino il primo modulo per l’addizione scritta, quello dell’1. La prima operazione è 1 + 1 =

Il bambino metterà sulla tavola dell’addizione un’asticina blu dell’1 e un’asticina rossa dell’1.

Mostriamo al bambino che il risultato dell’operazione è 2:

Il bambino scrive il risultato sul modulo, quindi prosegue completando, anche nei giorni seguenti, tutti i moduli.

Una volta che ha completato i moduli da 1 a 9, possiamo introdurre la Tavola I di controllo, e aiutare il bambino a verificare la correttezza del lavoro svolto sui moduli.

Presentazione 4

Chiediamo al bambino di mettere sulla Tavola dell’Addizione, ad esempio, un’asticina blu del 5 e una rossa del 3. La somma sarà 8.

Poi chiediamogli di mettere un’asticina del 3 blu e un’asticina 5 rossa. La somma sarà ancora 8.

Osserviamo col bambino come nelle due operazioni i colori appaiano in ordine differente, e che comunque il risultato finale è identico.

Fare molti esercizi di questo genere.

Presentazione 5

Il bambino posiziona, ad esempio, l’asticina blu dell’8 sulla Tavola dell’addizione. Poi prende un pezzetto di carta a quadretti e scrive 8. Chiediamo al bambino: “Cosa fa 8?”

Partendo dall’asticina blu dell’1, il bambino aggiunge l’asticina rossa che serve a raggiungere l’8, quindi trascrive l’operazione sul suo foglietto; in questo modo:

Per le operazioni identiche (ad esempio 7+1 e 1+7) possiamo spiegare al bambino come eliminare una delle due, che rappresenta un duplicato, e come cancellarle (tirando una riga) anche dal foglietto.

Il bambino può poi controllare il suo lavoro sulla Tavola II di  controllo.

Esercizi con la TAVOLA III

Il bambino farà scorrere la mano destra lungo le linee orizzontali, e la mano sinistra lungo le linee verticali per trovare la somma.

Materiale necessario:  Tavola III dell’addizione; moduli delle addizioni;  cartellini degli esercizi per l’addizione; tavola di controllo (Tavola I) dei risultati.

Presentazione 1: l’insegnante  invita il bambino ad unirsi a lei nell’esercizio,  porta quindi al tavolo del bambino il materiale, e il bambino sceglie un cartellino dell’addizione.

L’insegnante chiede al bambino di  leggere ad alta voce l’operazione, ad esempio: “Due più sei uguale…” e pone il cartellino scelto sul tavolo

quindi gli mostra come trovare il risultato sulla tavola dell’addizione, facendo scorrere la mano destra lungo la linea blu fino ad arrivare al 2, e ripetendo a voce alta: “Due”, e la mano sinistra lungo la linea rossa fino al 6, ripetendo a voce alta: “Sei”.

Muovendo poi le mani insieme, e ripetendo “Due più sei uguale”, arrivata al risultato legge il numero: “Otto”.

Chiede quindi al bambino di cercare il cartellino dell’otto nella scatola dei risultati, e di posizionarlo a destra del cartellino dell’operazione, dopo il segno di uguale.

Quando il bambino è pronto a lavorare autonomamente, dopo il numero di esempi necessari, insegnante e bambino si scambiano i ruoli per qualche altra operazione, quindi il bambino può lavorare da solo e scegliere nei giorni successivi questo materiale ogni volta che lo desidera.

Presentazione 2

Presentiamo la Tavola al bambino, mostrandogli i numeri blu sull’asse orizzontale e i numeri rossi sull’asse verticale. Chiedere quindi al bambino di scegliere un cartellino dal cesto delle operazioni, e chiedergli di leggerlo a voce alta; ad esempio: “9 + 5=”

Mostrare al bambino come posizionare un dito sul 9 rosso (sull’asse verticale) e un altro dito sul blu 5 blu (sull’asse orizzontale). Far scorrere le dita fino a quando si incontrano, per ottenere la risposta. Dire ad alta voce, “9 + 5 = 14” .

Far ripetere al bambino. Fare un paio di esempi.

Una volta che il bambino capisce che cosa fare con le dita, gli insegneremo a prendere il cartellino del risultato da abbinare a quello dell’operazione, ed a registrare il risultato sui moduli.

Nei giorni seguenti il bambino può lavorare da solo, o con un compagno.

Esercizi con la TAVOLA IV

Per prima cosa esaminiamo la tavola col bambino: notiamo che essa è per dimensione solo la metà rispetto alla Tavola III. Non vi è alcuna riga superiore blu. Eppure ha lo stesso numero di operazioni.

I movimenti della mano sono leggermente diverse rispetto a quelli necessari per l’uso della Tavola III.

Il bambino sceglie un’addizione, ad esempio 8 + 4 =

Per trovare il risultato sulla Tavola, bisognerà posizionare  un dito sull’ 8 rosso, e un dito sul 4 rosso. I consiglio è quello di posizionare sempre l’indice sinistro sul numero più grande dell’operazione (in questo caso l’8)

Poi bisogna far scorrere le due dita verso destra, parallelamente, finché una delle due non può più andare avanti.

A questo punto scendere col dito arrivato allo “stop” fino ad incontrare l’altro dito (in questo caso nella casella del 12)

Dire, “8 + 4 = 12” Chiedete al bambino di fare un paio di prove, fino a capire  i movimenti della mano che vanno eseguiti, quindi chiedere al bambino di registrare l’operazione e la risposta.

Esercizi con la TAVOLA V

Il bambino sceglie un cartellino delle operazioni, ad esempio 6 + 2 = Posiziona l’indice sinistro sul 6 rosso e il destro sul 2 rosso.

Fa poi scorrere le dita verso destra, ciascun dito fino al “capolinea”: in questo caso il dito destro si fermerà sul 4 e il sinistro sul 12.

Ora fate incontrare le due dita tra loro, una salendo e l’altra scendendo le scale:

si incontreranno sull’8:

dire quindi ad alta voce:  “6 + 2 = 8”

Esercizi con la TAVOLA VI (Tombola dell’addizione)

Chiedete al bambino di prendere i tombolini e di metterli in ordine crescente a sinistra della Tavola.

Il bambino sceglie un’operazione tra i cartellini delle addizioni e la legge a voce alta, ad esempio: “7 + 4 =”

Il bambino dovrebbe conoscere la risposta, e prendere il tombolino corrispondente al risultato.

Quindi posizionerà un dito sul 7 blu e uno sul 4 rosso, e posizionerà il tombolino del risultato nel punto di incontro.

Tavola con asticine dell’addizione e tavole di controllo stampabili

Tavola con asticine dell’addizione e tavole di controllo stampabili. Il lavoro necessario a calcolare qualsiasi addizione si incentra sempre intorno al 10. Le addizioni parziali dei gruppi possono rimanere al di sotto della decina, raggiungerla o superarla. Per completare l’esercizio col tavoliere delle asticine, si offre un materiale scritto che conduce il bambino alla memorizzazione necessaria per il calcolo rapido.

In questo articolo trovi la descrizione dettagliata di tutte le tavole per l’addizione predisposte dalla Montessori, la tombola delle addizioni, i cartellini ed i moduli da compilare;  mentre trovi tutto il materiale pronto per la stampa qui:

Il tavoliere delle asticine è in due versioni:
– piccola
– grande.

Oltre al tavoliere il materiale comprende tutte le tavole di controllo previste da Maria Montessori, compresa la tombola dell’addizione:

– moduli per l’esercizio scritto
– cartelli delle operazioni per le addizioni
– tavola I: questa tavola rappresenta tutte le combinazioni che si possono effettuare con i moduli per l’esercizio scritto
– tavola per il passaggio dalla Tavola I alla Tavola II
– tavola II: in questa tavola dell’addizione i riquadri sono disposti in modo che tutti i 10 risultino sulla stessa linea
– tavola per il passaggio dalla Tavola II alla tavola III
– tavola III, che si legge come la tavola pitagorica. Le due linee direttrici della cornice ricalcano la successione della serie naturale dei numeri da 0 a 9
– tavola IV
– tavola V
– tavola VI: la tombola dell’addizione.

Questa è la tavola con asticine per l’addizione:

Moduli per l’esercizio scritto

Nei moduli per l’esercizio scritto avremo sulla colonna di sinistra (primo addendo) sempre lo stesso numero (da 1 a 9), che viene sommato successivamente coi numeri da 1 a 9 (secondo addendo, nella colonna centrale). A destra si scrivono i numeri che rappresentano i totali. Dopo la stampa ritagliate i moduli lungo le linee verticali.

Questo materiale per gli esercizi scritti conduce il bambino ad impadronirsi di tutte le possibili combinazioni intorno al 10, necessarie e sufficienti da memorizzare. Stampatene tutte le copie che il bambino desidera.

Esercizi per l’addizione

Questi cartellini contengono tutte le combinazioni possibili, che rientrano nelle tavole dell’addizione, ed a parte, tutti i risultati corrispondenti:

cartelli delle operazioni 

Prima tavola dell’addizione – Tavola I

Questa tavola rappresenta tutte le combinazioni che si possono effettuare con i moduli per l’esercizio scritto.

In essa ogni numero da 1 a 9 risulta addizionato con la serie dei numeri da 1 a 9.

Osservando la tavola, si vede che in ogni colonna è sempre presente un 10 come totale. Nella prima colonna (quella dell’1) il 10 è l’ultimo totale ottenuto, il penultimo nella colonna del 2, il terzultimo nella colonna del 3 ecc.. , mentre occupa la prima posizione nella colonna del 9.

Passaggio dalla tavola I alla tavola II

Il 10, nella tavola I, risulta sempre composto dall’unione di quegli stessi gruppi che il bambino ha avuto modo di conoscere fin da quando lavorava con le aste numeriche, quando, attraverso vari spostamenti, formava aste tutte di lunghezza 10 così:

9+1=10

 8+2=10

7+3=10

6+4=10.

Sappiamo che 5+5=10 non è possibile con le aste numeriche per la presenza nella serie di una sola asta del 5: in realtà potremmo eseguire l’operazione 5×2, facendo ruotare l’asta di 180° gradi.

Le rimanenti combinazioni

4+6=10

3+7=10

2+8=10

1+9=10

sono semplicemente l’inverso delle combinazioni precedenti.

Disporre di aste rigide che si possono spostare per formare aste di valore 10 chiarisce il fatto che le successive combinazioni si rifanno alle precedenti e fa risaltare la differenza che esiste tra le nove combinazioni considerate nel loro complesso e la necessità di dislocare gli elementi che costituiscono le prime quattro combinazioni per poter concretizzare le ultime quattro.

Le combinazioni rappresentano il fatto più importante. Prendiamo ad esempio la combinazione 3+7=10. Se su questa combinazione si interviene con il dislocamento dei pezzi componenti cambiandoli in 7+3=10, risulta sempre la stessa combinazione, anche se sotto un altro aspetto, quasi come succede per una stessa moneta vista nel suo dritto e nel suo rovescio.

Ciò che occorre memorizzare, quindi, è la combinazione, ed ogni combinazione di gruppi diseguali di presenta doppia, dal punto di vista della posizione dei termini che la compone. Questo “duplicato inverso” può essere eliminato in una tavola semplificata, nella quale siano presenti tutte le possibili combinazioni, dove il necessario è ciò che è sufficiente:

Per il passaggio dalla Tavola I alla Tavola II nelle scuole Montessori si utilizzano oggi dei rettangoli di cartoncino che vengono utilizzati per coprire via via le combinazioni ripetute sulla Tavola I: ne risulta che la tavola si presenta suddivisa in due parti triangolari. Soltanto in quella in basso a sinistra si possono leggere le 45 combinazioni rimaste. Tuttavia, per ottenere la Tavola II, dovremo idealmente tagliare in strisce verticali le combinazioni rimaste, per riallinearle in modo che tutte le addizioni con 10 per totale si trovino sulla stessa riga.

Seconda tavola dell’addizione – Tavola II

Nella seconda tavola dell’addizione i riquadri sono disposti in modo che tutti i 10 risultino sulla stessa linea.

In questa tavola si trovano tutte le combinazioni dei gruppi che non raggiungono la decina, che si trovano al di sopra della linea in cui i risultati sono uguali a 10;  tutte le combinazioni dei gruppi che superano la decina si trovano invece al di sotto della linea.

Nella Tavola II i riquadri organizzati secondo la linea del 10  offrono questo schema generale: in ogni riga sono presenti le combinazioni i cui totali risultano uguali.

Possiamo contrassegnare con colori meno accesi o con un carattere tipografico più piccolo, i duplicati delle combinazioni che è possibile eliminare alla scopo di ottenere quelle fondamentali. Le scomposizioni si verificano  più volte ripetute con termini invertiti e, siccome si distinguono le ripetizioni, contrassegnandole con un colore più chiaro (ad esempio), si vede che esse vanno aumentando di numero dalla seconda colonna in avanti; vale a dire che ci si imbatte in un doppione nella colonna del 2, in due in quella del 3, ecc… e in otto nella colonna del 9.

Nella Tavola II, ogni colonna ha inizio con la combinazione in cui i due addendi sono fra loro uguali: 1+1 2+2 3+3 ecc…, e le altre combinazioni si svolgono  (ma il 9+9 inizia e conclude la colonna) verso il basso.

Tutte le combinazioni della Tavola I si trovano nella Tavola II, procedendo a ritroso obliquamente e passando, in tal modo, attraverso tutte le colonne, fino alla prima.

Al di sopra della diagonale, cioè sopra la linea degli addendi uguali, si ritroverebbero le combinazioni ripetute in senso inverso (contrassegnate con colore pallido).

Se dalla Tavola I si eliminano dunque i duplicati, otteniamo una tavola semplificata contenente tutte le possibili combinazioni: questa Tavola II si può leggere e studiare come la tavola pitagorica per la moltiplicazione.

Leggendo le addizioni rimaste in ciascuna colonna, si vede che esse cominciano sempre con un numero addizionato a se stesso.

C0sì, ad esempio, considerando la colonna col 4+4:

– troviamo poi 3+4=7 (che si può leggere anche 4+3=7) nella colonna precedente e nella sua riga immediatamente superiore (salendo di una posizione in diagonale, insomma)

– nella colonna ancora più a sinistra (quella del 2) e nella riga ancora più in alto (salendo cioè in diagonale di un’altra posizione), troviamo 2+4=6 (che si può leggere anche 4+2=6).

– avvalendosi della proprietà commutativa dell’addizione, il bambino che lavora alle combinazioni del 4 troverà quelle non presenti (perchè già eliminate) rispettivamente nelle colonne del 3 del 2 e dell’1, dove il 4 è presente come secondo addendo.

La stessa cosa si osserva per tutti i numeri, procedendo obliquamente da destra a sinistra.

Per eseguire tutte le combinazioni di un dato numero partendo dalla minore, ad esempio tutte le addizioni relative al 3:

– partiamo da 1+3 della prima colonna

– proseguiamo in obliquo verso destra, di colonna in colonna, scendendo sempre di una riga: 2+3 3+3

– giunti a 3+3 si prosegue verticalmente sulla stessa colonna.

Terza tavola dell’addizione – Tavola III

Trascriviamo, uno sotto l’altro, colonna dopo colonna, i totali delle addizioni presenti nella Tavola I:

Costruiamo poi una cornice contenente la serie dei numeri da 1 a 9, prendendo lo zero per angolo. Si ottiene così questa tavola:

La Tavola III si legge come la tavola pitagorica: per esempio 8+5=13. Le due linee direttrici della cornice ricalcano la successione della serie naturale dei numeri da 0 a 9.

Lungo la diagonale si incontrano via via i doppi dei numeri presenti nella cornice, e fuori della diagonale non c’è altro che la ripetizione simmetrica delle addizioni presenti in ciascuna delle due metà. Per questo motivo basta imparare a memoria soltanto metà della tavola, cioè 45 combinazioni.

Quarta tavola dell’addizione – Tavola IV

Possiamo ridurre la Tavola III in questo modo:

– nella tavola, ogni numero da 1 a 9 si conclude, al termine  delle rispettive righe, con il suo doppio.

– si vedono inoltre i numeri uguali incasellati in allineamenti ascendenti e discendenti tra loro paralleli e perpendicolari alla diagonale principale

Per poter leggere la Tavola IV si procede verso destra fino a raggiungere il doppio del numero di partenza; se il totale dell’addizione è superiore a quel doppio (e questo accade quando il secondo addendo è maggiore del primo), si scende verticalmente fino alla riga che indica il livello del secondo addendo.

Prendiamo ad esempio l’addizione 4+7:

– si procede fino al doppio del 4 (4 x 2=8)

– si scende verticalmente fino alla riga del 7: il totale è 11.

Se desideriamo addizionare 5+8, partiamo allo stesso modo dal doppio del 5 (10) e poi scendiamo verticalmente fino alla riga dell’8, e troveremo il 13.

E’ evidente che, per eseguire ad esempio la somma 8+5, per la proprietà commutativa, opereremo in maniera che il primo addendo sia quello minore, cioè il 5.

Bisogna però dire che il bambino trova molto facilmente il totale in questo modo: punta i due addendi sulla striscia verticale, sposta poi le due dita orizzontalmente verso destra finchè un dito raggiunge la diagonale che limita la tavola, e a questo punto scende verticalmente fino ad incontrare la riga orizzontale indicata dall’altro dito.

Quinta tavola dell’addizione – Tavola V

Eseguendo parecchie di queste addizioni sulla Tavola IV si osserva che i risultati incontrati lungo la diagonale principale sono sempre numeri pari, e che quelli lungo la diagonale immediatamente al di sotto e parallela sono dispari. Perciò, queste due serie di numeri bastano ad indicare ogni possibile totale di addizioni entro il 18. Possiamo quindi ridurre la Tavola IV in questo modo:

ottenendo la Tavola V.

Prendiamo come esempio l’addizione 5+8

– si procede orizzontalmente fino ad incontrare i rispettivi doppi, cioè 10 e 16

– si percorre la diagonale con direzione convergente, raggiungendo il 12 nello scendere, e il 14 nel salire

– il risultato si trova nella casella che sta tra il 12 ed il 14, sulla diagonale dei numeri dispari: 13

Prendiamo ora ad esempio l’addizione 3+7:

– arrivati al doppio 6+14 si procede in senso contrario

– sulla diagonale troviamo la casella del 10: questa volta il totale, essendo pari, si trova proprio sulla diagonale principale.

Prendiamo poi ad esempio l’addizione 3+9:

– avanziamo tra il 6 e il 18

– le dita si incontrano su un numero comune che si trova sulla diagonale: 12.

 L’uso di due bastoncini per parte, che vengono opportunamente separati, dà a questo esercizio l’aspetto di gioco.

Dopo molti  esercizi, il bambino potrà arrivare ad alcuni interessanti punti di coscienza:

– la somma di due numeri pari è un numero pari

– la somma di un numero pari e di un numero dispari è un numero dispari

– la somma di due numeri dispari è un numero pari.

Inoltre, la somma di due numeri è uguale alla media dei loro doppi. Infatti, intendendo per media aritmetica “la somma di due o più numeri divisa per il numero di essi” avremo ad esempio:

4+6= (4×2) + (6×2) x 1/2 = [2 x (4+6)] :2 = 10

Tavola dell’Addizione VI – Tombola dell’addizione (o Tavola con tombolini)

Oltre a queste cinque tavole di confronto, viene usata poi una sesta tavola con 81 totali mobili: è la Tombola dell’addizione.

Il tavoliere delle asticine Montessori per l’addizione

Il tavoliere delle asticine Montessori per l’addizione – La tavola dell’addizione con le asticine serve a introdurre le addizioni oltre il dieci. Si tratta di un materiale che permette di studiare, analizzandoli nei loro particolari, i passaggi già esaminati attraverso il serpente dell’addizione.

Qui il post:

Il tavoliere delle asticine Montessori per l’addizione è una tavola suddivisa in 18 colonne e 10 righe, che formano una quadrettatura di 2 x 2 cm, nella versione originale. Una grossa linea verticale rossa situata fra la decima e l’undicesima (cioè dopo il numero 10) divide in due parti la tavola. Il materiale è completato da 9 asticine blu e nove asticine rosse, numerate entrambe da 1 a 9. Le asticine blu sono lisce, mentre quelle rosse sono quadrettate.

Le suddivisioni sono contrassegnate da numeri posti nella parte superiore che, in corrispondenza dei quadretti sottostanti, vanno da 1 a 10 alla sinistra della linea divisoria, e da 11 a 18 alla sua destra. I numeri da 1 a 10 sono scritti in rosso, mentre quelli da 11 a 18 in blu o nero. Sotto la striscia orizzontale che reca i numeri, sono presenti altre 10 strisce orizzontali: ne risulta una scacchiera rettangolare di 18 quadretti vuoti di base e di 10 di altezza.

Lo scopo del tavoliere delle asticine Montessori per l’addizione è quello di mostrare chiaramente il passaggio attraverso il 10. Accompagnano il materiale due serie di asticine di legno della stessa altezza dei quadretti e di lunghezza variabile da 1 a 9 quadretti:

– nella prima serie le asticine sono blu e non risultano suddivise in quadretti; alla fine portano il numero che corrisponde alla quantità che rappresentano

– nella seconda serie, di colore rosso, le asticine risultano suddivise in tanti quadretti quante sono le unità di ciascun gruppo da esse rappresentato. Inoltre, nell’ultimo quadretto di ogni asticina, è presente il numero corrispondente alle unità che compongono il gruppo.

Ho preparato una versione piccola del tavoliere (che sta in un foglio a4 orizzontale) e una versione un po’ più grande (occorre unire tra loro due fogli a4 per ottenere il tavoliere completo):

Oltre al tavoliere il materiale comprende tutte le tavole di controllo previste da Maria Montessori, compresa la tombola dell’addizione:

– moduli per l’esercizio scritto


– cartelli delle operazioni per le addizioni


– tavola I: questa tavola rappresenta tutte le combinazioni che si possono effettuare con i moduli per l’esercizio scritto


– tavola per il passaggio dalla Tavola I alla Tavola II


– tavola II: in questa tavola dell’addizione i riquadri sono disposti in modo che tutti i 10 risultino sulla stessa linea


– tavola per il passaggio dalla Tavola II alla tavola III


– tavola III, che si legge come la tavola pitagorica. Le due linee direttrici della cornice ricalcano la successione della serie naturale dei numeri da 0 a 9


– tavola IV


– tavola V


– tavola VI: la tombola dell’addizione.

Per utilizzare il materiale il bambino colloca sul tavoliere un’asticina blu, quella del 7 ad esempio, in alto a sinistra, subito al di sotto dei numeri;

pone poi accanto ad essa un’asticina rossa, ad esempio quella del 5.

Vede così che le due asticine insieme oltrepassano la linea rossa e arrivano al quadretto del 12, che rappresenta il totale dell’addizione considerata: 7+5=12.

L’asticina del 5 risulta a cavallo della linea rossa: 3 quadretti sulla sinistra e 2 sulla destra. Il 5 ha ceduto cioè 3 unità per completare il 10, e soltanto 2 hanno sconfinato nella seconda decina.

Esempi di addizione:

7+5=12

8+8=16

6+9=15

9+2=11

5+6=11

In questo stesso modo, si possono ripetere tutte le possibili combinazioni; ai bambini tra i 5 e i 6 anni piace molto elencare queste combinazioni una ad una.

Il tavoliere delle asticine Montessori per l’addizione, che serve ad esercitarsi sull’addizione parziale di gruppi entro la decina (serpente dell’addizione e tavoliere delle asticine), si completa con una serie di tavole di controllo per l’addizione ed esercizi scritti, che accompagnano il bambino nella memorizzazione necessaria per il calcolo veloce.

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Il tavoliere delle asticine Montessori per l’addizione

Insegnare l’igiene orale – una raccolta di 40 e più idee ed attività sul tema

Insegnare l’igiene orale – una raccolta di 40 e più idee ed attività sul tema: pittura, modellaggio, collage, esperimenti scientifici e molto altro ancora.

Questa è una serie di attività ed idee legate all’insegnamento dell’igiene orale, già pubblicate sul sito, o provenienti dal web:

1. presentazione delle attività legate all’insegnamento dell’igiene orale ai bambini, in chiave montessoriana, qui: 

2

2. modello della struttura del dente in cartoncino, con cartellini delle nomenclature, qui: 

3

3. un esperimento scientifico per imparare a distinguere tra cibi sani e cibi che possono creare problemi ai denti, qui: 

4

4. carte delle nomenclature montessoriane in tre parti sulla struttura del dente, qui: 

5

5. una clessidra da costruire coi bambini e tenere in bagno per ricordarsi di lavare sempre i denti almeno al mattino e la sera prima di andare a dormire, e che tiene il conto dei tre minuti di spazzolamento consigliati per una corretta igiene orale

6

6. attività adatta anche ai bambini piccoli, che consiste nel dipingere di bianco il dente giallo, utilizzando uno spazzolino da denti; se usate uno spazzolino elettrico è anche più divertente… qui: 

7

7. lavare una sagoma plastificata di dente, sporcato con colori a tempera o acquarelli, utilizzando acqua, spazzolino e dentifricio, qui: 

8

8. rimuovere il cibo dagli spazi con il filo interdentale, dopo aver costruito il modello in cartoncino e cartoni delle uova, qui: 

9

9. il semplicissimo, ma sempre d’effetto, esperimento della mela cariata, qui: 

10

10. un libro – spazzolino che riassume tutti i punti fondamentali relativi alla corretta igiene orale, qui: 

11

11. lavare un dentone costruito con un fondo di bottiglia di plastica, qui: 

12

12. lavare un modello di dentatura realizzata coi bicchierini di plastica, qui: 

13

13. modellare un esempio di struttura del dente con il play dough, qui: 

14

14. costruire e lavare correttamente un modello di dentatura con apparecchio ortodontico, qui: 

15

15. un gioco di dadi per contare i dentini, realizzato col play dough, qui: 

16. il dente triste (giallo) e il dente felice (bianco) con collage rispettivamente di cibi che danneggiano  i denti, e di cibi sani, di http://mamabeefromthehive.blogspot.it/2011/03/dental-health.html

17

17. rimuovere il cibo (play dough) dagli spazi interdentali (spazi tra gli incasti dei mattoncini da costruzione) utilizzando il filo interdentale (un filo di lana), di http://mamabeefromthehive.blogspot.it/2011/03/dental-health.html

18

18. attività artistica: collage di sorrisi, di http://familythemedays.ca/Themes/Teeth.htm

19

19. vario materiale stampabile gratuitamente, anche se in Inglese facilmente utilizzabile, di http://www.colgate.com/app/

20

20. una notevole raccolta di giochi interattivi online sul tema dell’igiene orale, di http://www.colgate.com/app/Kids-World/US/Games-And-Activities.cvsp (in Inglese)

21

21. Altra versione della pittura bianca su denti gialli, di http://thepreschoolexperiment.blogspot.ca/2012/02/tot-school-dental-health.html

22

22. vario materiale stampabile gratuitamente sul tema igiene orale, per semplici attività matematiche, di http://www.makinglearningfun.com/themepages/DentalMathIdeas.htm

23

23. gioco stampabile gratuitamente per contare i denti ed abbinarli allo spazzolino giusto, di http://bitsycreations.blogspot.it/2012/01/free-preschool-tooth-counting-game.html

24

24. spazzolino di carta. Il manico è dipinto utilizzando uno spazzolino da denti, e la preparazione delle setole è una buona attività con le forbici da proporre anche ai più piccoli, di http://www.preschoolplaybook.com/search/label/dental%20health

25

http://thenatureofgrace.blogspot.it/2012/05/homeschool-theme-of-week-dentist-and.html

26

26. simpatici personaggi da realizzare con cartoncino colorato, di http://acupcakefortheteacher.blogspot.it/2012/02/sweet-tooth-dental-health.html

27

27. materiale stampabile gratuitamente sul tema, di http://printables.atozteacherstuff.com/1385/teeth-printables-for-lets-talk-teeth-unit/

28

28. un bel gioco da fare a scuola, meglio se con tanti bambini. Si fotografa il sorriso di ognuno, poi si ritaglia e si applica sulla sagoma di un dente. I bambini devono indovinare a chi appartiene. Di http://www.prekfun.com/THEMES/PREKthemes/A-F/Dental_Hygiene/Dental_Hygiene__Games.htm

29

29. labirinti sul tema dell’igiene orale ed altri giochi stampabili gratuitamente di http://www.kidssoup.com/dental_health/dentalhealth_activities.html#freedentalactivities

30

30. la bocca dell’ippopotamo, di http://pattiesclassroom.blogspot.it/search/label/Dental%20Health

31

31. disegni da colorare sul tema, stampabili gratuitamente, di http://www.apples4theteacher.com/coloring-pages/dental-health/

32

32. gioco della fatina dei denti per contare da 1 a 20, stampabile gratuitamente, di http://candokinders.blogspot.it/2012/02/im-back-with-freebie.html

33

33. altra versione del dente sano e del dente felice, stampa gratuita dei modelli, via http://storytimewithmissmollie.blogspot.it/2011/04/flannel-friday-teeth.html

34

34. simpatico dentino con spazzolino, di http://creativeteaching-kimberly.blogspot.it/2012/01/dental-health-fun.html

35

35. gli attrezzi del dentista realizzabili facilmente con scovolini, pannolenci o feltro e un tappo a corona, di http://luckykitty.typepad.com/lucky_kitty/2011/06/junior-hygienist-tool-kit.html

36

36. un simpatico dentista, di http://www.flickr.com/photos/pil_mupa/4865291546/in/pool-fingers

37

37. attività dentro fuori attorno alla sagoma di un dentino, di http://thekidsplacehomedaycareandpreschool.blogspot.it/2012/03/learning-activity-boxes-last-week-in.html

38

38. bocca con denti di marshmallows, di http://www.themotherhuddle.com/marshmallow-teeth/

39

39. gioco del tris a forma di dente, di http://mrswilliamsonskinders.blogspot.it/2011/02/toothy-tic-tac-toe.html

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40. altro spazzolino di cartoncino con varie decorazioni, e proposte di canzoncine in Inglese sul tema dell’igiene orale, di http://kiboomukidscrafts.com/dental-health-toothbrush-craft/

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41. dente “colorato” coi batuffoli di cotone bianco, di http://kiboomukidscrafts.com/dental-health-tooth-craft-and-song/

Gioco di lettura – Il tesoro dello gnomo Ghioffo

Può essere un ottimo stimolo alla lettura per bambini poco motivati, ma si rivela un gioco divertente anche come racconto per i più piccoli, che ancora non sanno leggere,  e come gioco di “caccia al numero”.

Avevo ricevuto tempo fa un bellissimo racconto di pirati preparato in questo modo, da Sybille di Buntmond; qui propongo un racconto di Gnomi ed altri esseri magici, sempre alla ricerca di un tesoro.

Ho preparato le carte in varie versioni. Per le versioni con disegni da colorare ho utilizzato il materiale offerto dal sito: http://www.midisegni.it/disegni.html

Il materiale comprende:
– corsivo con disegni
– corsivo senza disegni
– stampato maiuscolo  con disegni
– stampato maiuscolo senza disegni.

Il tesoro dello Gnomo Ghioffo – stampato maiuscolo con disegni





Giochi coi numeri da 1 a 10

Giochi coi numeri da 1 a 10: sono giochi che si possono fare con i bambini per allenare la conoscenza delle cifre da 1 a 10 e le quantità corrispondenti. Sono adatti ad essere proposti nel periodo in cui i bambini si dedicano alle aste numeriche,

ai numeri tattili

e al casellario dei fuselli…

E’ importante che i bambini si divertano con questi giochi, che provino piacere nel mostrare quello che hanno imparato e che ognuno sperimenti il successo: tutti i bambini devono brillare.

Gioco 1
Si invitano i bambini a dare diverse cose per un certo numero di volte. Ad esempio:
“Giovanni, vuoi battere tre volte i piedi?”
“Anna, vuoi battere 6 volte le mani?”
“Carlo, vuoi battere sul tavolo 4 volte?”
“Elisa, vieni a darmi 2 baci?”
“Luca, batti le mani zero volte?”

Gioco 2
Si mettono 55 oggetti identici sul tavolo (biglie, conchiglie, pietre, frutta secca,…).

Poi si scrivono i numeri da 0 a 10 su foglietti rettangolari piegati a metà, e si mettono in una scatolina.

Ogni bambino estrae un foglietto dalla scatola, lo apre e legge il suo numero senza dirlo agli altri. Poi passa alla tavola e prende il numero di oggetti corrispondente al numero, infine consegna il foglietto e gli oggetti al maestro.

Gioco 3
Gli oggetti possono anche essere non identici.

Un bambino prende un messaggio segreto e lo pone richiuso sul tavolo. Poi prende il numero di oggetti corrispondente, e lascia che un altro bambino indovini il messaggio segreto.

Gioco 4
Scopo: esercitare la memoria ricordando un numero per un certo periodo di tempo, mostrare che tutti gli oggetti possono essere contati.

Si invitano al gioco 11 bambini.

Ogni bambino, uno alla volta, prende un messaggio segreto, lo guarda attentamente, poi lo pone chiuso sul tappeto verde, va a prendere il numero di oggetti corrispondente e lo pone vicino al messaggio.

Quando tutti i bambini lo hanno fatto, si chiede individualmente ad ogni bambino di identificare il suo numero e di contare i suoi oggetti.

Quando tocca al bambino con lo zero, l’insegnante sottolinea il concetto: “Non ha portato oggetti, deve avere lo zero!”

orario scolastico originale proposto da Maria Montessori per la Casa dei Bambini

L’orario scolastico originale proposto da Maria Montessori per la Casa dei Bambini è una lettura molto interessante. L’apertura era prevista per le ore 09.00 e la chiusura per le 16.00.
Orario  scolastico

dalle 9 alle 10 accoglienza e saluto. Attività di pulizia personale ed altri esercizi di vita pratica: i bambini si aiutano reciprocamente a togliere e mettere il grembiule, ecc…  Si entra poi in classe, verificando che tutto sia pulito, spolverato ed in ordine. Lingua: conversazione; i bambini raccontano gli avvenimenti del giorno precedente.

dalle 10 alle 11 esercizi intellettuali, con lezioni interrotte da bravi periodi di riposo, esercizi di nomenclatura ed esercizi sensoriali.

dalle 11 alle 11:30 esercizi di movimento: muoversi con garbo, la posizione normale del corpo ferma,  camminare in fila, salutare, prendere gli oggetti con grazia.

dalle11:30 alle 12. Pranzo

dalle 12 alle 13 gioco libero

dalle 13 alle 14.00 giochi con regole, se possibile all’aria aperta, per i bambini piccoli e medi. I bambini più grandi si dedicano invece ad esercizi di vita pratica quali  la pulizia dell’aula (spolverare, mettere il materiale in ordine, ecc…  Conversazione.

dalle 14 alle15 lavoro manuale, modellaggio, disegno, ecc

dalle 15 alle 16  giochi di gruppo e canzoni,   se possibile all’aria aperta. Cura delle piante e degli animali.

Secondo Maria Montessori, la questione del programma è un problema inevitabile all’interno di qualsiasi scuola. Esso deve prendere in considerazione due aspetti fondamentali che sono la durata della giornata scolastica, e la distribuzione del tempo tra attività di studio ed attività di vita pratica.

Nelle “case dei bambini” l’orario può anche essere molto lungo, ed occupare l’intera giornata. Nei quartieri poveri dove le prime case dei bambini sono sorte, secondo la Montessori l’orario scolastico si doveva sviluppare dalle nove del mattino alle cinque di sera in inverno, e dalle otto del mattino alle sei di sera in estate. Queste ore erano considerate come necessarie per poter seguire una linea diretta di azione che potesse essere realmente utile alla crescita del bambino. Va da sé che, nel caso di bambini piccoli, un orario scolastico tanto protratto dovrebbe essere interrotto da almeno un’ora di sonno, idealmente in una stanza buia dotata di amache basse o ancora meglio all’aria aperta.

Naturalmente la giornata non include soltanto il pisolino, ma anche il pranzo, che deve essere considerato un momento fondamentale nelle Case dei Bambini, il cui scopo fondamentale  è aiutare e indirizzare la crescita dei bambini in quell’importantissimo periodo di sviluppo che va dai tre ai sei anni di età.

Il primo passo che dobbiamo fare nel nostro metodo è quello di coltivare nei bambini la capacità di attenzione: attenzione alle parole, alla propria vita interiore, alla vita in comune con gli altri. In un certo senso, dopo aver preparato lo strumento (nel nostro caso l’ambiente preparato) prepariamo i bambini a viverlo e condividerlo. Considerando il metodo nel suo insieme, dobbiamo cominciare il nostro lavoro con la preparazione del bambino per le forme della vita sociale, ed attirare la sua attenzione a queste forme.

Nel programma che abbiamo delineato, ma che non deve mai essere seguito integralmente, (la pianificazione  non si adatta al regime di libertà), si comincia la giornata con una serie di esercizi di vita pratica, e forse questi esercizi sono  l’unica parte che tende a restare fissa.

Nelle prime case dei bambini, appena arrivati a scuola si faceva con loro un’osservazione della pulizia personale, se possibile in presenza delle madri ma senza rivolgersi mai direttamente a loro.  Si esaminavano insieme le mani, le unghie, il collo, le orecchie, la faccia, i denti, e la cura e l’ordine dei capelli.  In questo modo, i bambini si abituavano ad osservare se stessi ed a sviluppare interesse per il proprio aspetto.

Nelle prime case dei bambini c’era la possibilità per i bambini di fare un bagno completo, ma naturalmente non tutti i giorni.  Nella classe, tuttavia, utilizzando un piccolo lavabo con piccole brocche e catini, i bambini ancora oggi imparano guidati dall’insegnante  a lavarsi le mani e pulire le unghie, fare un pediluvio,  lavare le orecchie e gli occhi con grande cura. Viene loro insegnato a lavarsi i denti e sciacquare la bocca con attenzione. Tutto questo sviluppa la loro attenzione alle diverse parti del corpo e  insegna ai più grandi come aiutare i piccoli, che saranno sostenuti ed incoraggiati ad imparare  a prendersi cura di se stessi.

Terminate le attività di cura personale, i bambini autonomamente o aiutandosi l’un l’altro indossano i grembiuli, ed ha inizio la visita dell’aula scolastica.  Osserviamo insieme a loro se tutti i vari materiali sono in ordine e se sono puliti. L’insegnante mostra ai bambini come pulire la stanza e mostra  come utilizzare i vari strumenti necessari per la pulizia: spugne, stracci, spazzole, scope ecc… Quando i bambini diventano autonomi, è  un’attività che si svolge molto velocemente.

Poi i bambini vanno ciascuno al proprio posto, e l’insegnante guida i bambini ad imparare a farlo in silenzio, con i piedi uniti sul pavimento, le mani appoggiate sul tavolo, e la testa eretta. In questo modo si insegnano compostezza ed equilibrio. Poi ci si alza in piedi a cantare, e i bambini imparano che anche per alzarsi e sedersi non è necessario essere rumorosi ed i bambini imparano a spostare i mobili con equilibrio e con cura. Dopo questa attività si propongono una serie di esercizi in cui i bambini imparano a muoversi con grazia, a salutarsi l’un l’altro, a sollevare oggetti con accuratezza, a ricevere e scambiare oggetti  educatamente.

Da un tale punto di partenza si procede per l’insegnamento libero, cioè  l’insegnante non orienta più i bambini sul come muoversi nella classe, ma si limita a correggere i movimenti disordinati.

A questa attività segue la conversazione: l’insegnante invita i  bambini a raccontare fatti che li riguardano e che si sono svolti il giorno prima, ponendo domande che non portino mai i bambini a riferire  le vicende intime della famiglia, ma solo i  loro comportamenti individuali, i loro giochi, il loro atteggiamento verso i genitori, ecc… Chiederà se sono stati in grado di salire le scale senza sporcarle di fango, se ha parlato gentilmente agli amici dei suoi genitori, se li hanno aiutati nelle faccende domestiche, se hanno mostrato in famiglia ciò che hanno imparato a scuola, ecc… Le conversazioni, naturalmente, sono più intense il lunedì, dopo la festa: in quel giorno i bambini sono invitati a raccontare quello che hanno fatto con la famiglia, se sono andati via da casa, se hanno mangiato cose diverse dal solito, ecc… Conversazioni come queste incoraggiano lo sviluppo del linguaggio e sono di grande valore educativo, dal momento che l’insegnante ha sempre cura di scegliere argomenti che si adattano ad una piacevole conversazione, e in questo modo insegna ai bambini di quali cose è opportuno parlare e incoraggia i bambini a descrivere, ed a parlare di se stessi.

Dopo la conversazione si passa alle lezioni ed al lavoro col materiale, che dura solo un’ora prima della mezz’ora di esercizi di  movimento di gruppo. Ad esempio i bambini camminano lungo un grande cerchio disegnato sul pavimento, esercizio che combina lo sviluppo delle capacità motorie con lo sviluppo di abilità sociali,

Al pranzo è spesso unita una breve conversazione. Seguono giochi di gruppo guidati dall’insegnante. Si noti che la classe è nuovamente ispezionata dai bambini, non l’insegnante: questo li aiuta a sviluppare un senso di responsabilità e consapevolezza del loro ambiente. Non è l’insegnante che indica una sedia fuori posto o una macchia su un tavolo, ma sono i bambini stessi che con entusiasmo se ne accorgono e si occupano di risolvere il problema.

Un’ora importante è dedicata al lavoro manuale, con progetti che includono argilla, arte, lavorazione del legno, o qualsiasi altra attività  che sviluppi le capacità motorie.

I bambini terminano la giornata all’aria aperta facendo esercizi  e partecipando a progetti di gruppo, come la cura delle piante e la cura degli animali.

Il serpente dell’addizione Montessori

Il serpente dell’addizione è un esercizio che si può introdurre parallelamente a quello delle catene di 100

e delle catene di 1000,

e che ha lo scopo di far eseguire quasi meccanicamente piccole addizioni di unità, introducendo i bambini al calcolo mentale.

Per giocare al serpente dell’addizione occorrono semplicemente le barrette di perle colorate e quelle di perle dorate (per il 10).

Se non vuoi acquistarle, trovi il tutorial per realizzarle in proprio qui: 

Se non ti è possibile, puoi anche pensare di stampare la versione virtuale, che trovi qui: 

E’ necessario disporre di una certa quantità di barrette. Il numero rappresentato da ciascuna di esse si conosce contando le perle che la compongono. A poco a poco, però, il colore aiuterà a riconoscere la quantità ed eliminerà l’impegno di dover contare una perla alla volta.

Si comincia l’esercizio disponendo in riga una certa quantità di bastoncini, scegliendoli a caso. Almeno in un primo momento, però, sarà meglio disporre i bastoncini in modo tale che i bastoncini-addendi in gioco (due o più) non diano come somma oltre la decina.  Questi bastoncini andranno allineati su un lungo tavolo o sul pavimento. Per fare in modo che non risulti troppo lunga, la linea non è diritta ma sinuosa, e ricorda un serpente.

Si inizia il conteggio e non appena si giunge a 10 unità, si isolano i bastoncini sommati, sostituendoli con un bastoncino dorato della decina. Quindi, a partire dalla decina, si riprende a contare fino a raggruppare altre dieci unità e, ancora, un bastoncino dorato va a sostituire quelli sommati, che si tolgono dal  serpente. E così si procede fino ad esaurire il conteggio.

Assistiamo a questa trasformazione: il serpente muta pelle e diventa via via tutto d’oro ,  e bastoncini di uguale lunghezza  vanno via via ad occupare il posto di quelli di lunghezza diversa. Il conteggio è servito a trasformare in decine quantità minori, destinate a fondersi nel dieci, base del sistema decimale.

L’esercizio offre la possibilità di eseguire semplici addizioni nel limite del dieci, dal momento che ogni volta si comincia daccapo, senza tener conto di quei bastoncini delle decine che si vanno allineando lungo il cammino. E’ un’attività sempre uniforme che va ripetendosi e che finisce col rendere facile, rapida e meccanica l’addizione di numeri inferiori al dieci.

In realtà si tratta di un grande lavoro di conteggio delle unità, che costringe a riflettere e ad eseguire un certo numero di sottrazioni contemporaneamente alle addizioni, per calcolare la quantità eccedente la decina, dopo che essa è stata formata.

Su questa particolarità si sviluppa l’esercizio con tutte le sue varietà, risultanti dai possibili accostamenti, nella formazione del serpente, di bastoncini differenti.

Poniamo il caso che il serpente cominci coi numeri 6 e 5:

la loro somma dà 11. Si isolano i due bastoncini, sostituendoli con un altro dorato, ma c’è ancora una perla (l’ultima del bastoncino marrone) che completa la quantità espressa dalla somma 5+6, cioè 5+6 è uguale a 10+1.

Questo uno appartiene al 6 che è stato isolato insieme al bastoncino del 5, infatti 6 = 5+1. Questo 1 che rimane è ancora da contare.

Proseguendo, supponiamo che gli altri bastoncini che seguono siano 8 e 6. L’addizione che si presenta per prima è 1+8=9, quindi si continua a sommare 9+6 =  15 = 10+5. Si isolano perciò i bastoncini 1, 8 e 6, sostituendoli con un bastoncino del 10 e uno del 5. Questo 5 è ciò che è rimasto del 6.

Questi resti di cui abbiamo parlato  devono potersi distinguere dai bastoncini colorati che costituiscono il serpente. Questi resti rappresentano la quantità che si è dovuta mettere da parte, poichè il bastoncino colorato conteggiato solo parzialmente non può essere spezzato. Però bisogna ricordarsi di tenerne conto nell’addizione successiva. Per rappresentare questi resti, c’è un materiale complementare che elimina ogni possibile confusione: i bastoncini per i cambi:

1 – un bastoncino di 1 perla nera

2- un bastoncino di 2 perle nere

3 – un bastoncino di 3 perle nere

4 – un bastoncino di 4 perle nere

5 – un bastoncino di 5 perle nere

6 – un bastoncino di 5 perle nere e 1 bianca

7 – un bastoncino di 5 perle nere e 2 bianche

8 – un bastoncino di 5 perle nere e 3 bianche

9 – un bastoncino di 5 perle nere e 4 bianche

L’uso di nero e bianco e la loro particolare disposizione facilitano la scelta dei pezzi, che si riconoscono a prima vista.

Se non avete la possibilità di utilizzare perle vere per il gioco del serpente dell’addizione, ho preparato anche i bastoncini dei cambi in versione stampabile:

Esempi pratici

Facciamo degli esempi pratici. Componiamo questo serpente:

1 + 4 + 9 + 2 + 6 + 9 + 2 + 4 +8 + 6 + 3 + 7 + 5 + 3 + 4 +2

Il bambino comincia a contare le perle, e arrivato a 10 mette un segno a dividere la decina dal “resto”

Stacchiamo le barrette interessate al conteggio, e prendiamo la barretta della decina che abbiamo ottenuto, e la barretta del cambio relativa alla parte restante  (in questo caso 1+4+9= 10 e 4):

Mettiamo da una parte la decina, ed attacchiamo al serpente la barretta nera del cambio:

Conserviamo quindi a parte le perle colorate che abbiamo tolto al serpente, e che ci serviranno per la prova:

Continuiamo il gioco addizionando la barretta del cambio al serpente, fino a raggiungere una nuova decina. Nell’esempio dovremo sommare 4 + 2 + 6

Otterremo una seconda barretta della decina, e avremo bisogno di una barretta dei cambi da 2 da attaccare al serpente:

Eliminiamo da ogni conteggio la barretta da 4 del cambio precedente:

quindi attacchiamo il nuovo cambio ottenuto (due) al serpente, e conserviamo da una parte le decine ottenute, a dall’altra le barrette colorate tolte al serpente:

Ora dunque dobbiamo sommare 2 e 9; avremo una nuova decina e un cambio da 1:

Poi avremo 1+2+4+8, ed otterremo una decina e una perla del cambio da 5:

poi 5+ 6; avremo una decina ed un resto di 1:

poi 1+3+7, ed avremo 1 decina e un cambio da 1:

poi 1+5+3+4, ottenendo una decina e un cambio di 3:

la barretta del cambio da 3 si attacca alla parte terminale del serpente, che è 2:

non arriviamo a comporre una decina nuova, quindi l’operazione si conclude conteggiando un avanzo di 5, cioè una barretta dei cambi da 5:

Eliminiamo dal conteggio il vecchio cambio (quello di 3 perle) e poniamo il cambio da 5 insieme alle decine, e la barretta del 2 insieme alle altre barrette colorate tolte via via dal serpente.

Il risultato dell’addizione 1 + 4 + 9 + 2 + 6 + 9 + 2 + 4 +8 + 6 + 3 + 7 + 5 + 3 + 4 +2 è 75:

cioè 10 10 10 10 10 10 10 10 5. Ma come possiamo sapere se è corretto? Basterà contare tutte le perle colorate che formavano il serpente in origine, sempre raggruppando tra loro le barrette a formare decine colorate. Se ci occorre spezzettare le barrette, potremo sostituirle con un equivalente di perle nere dei cambi. Nel nostro esempio dovremo sostituire la barretta dei due con due barrette da uno:

ed avremo:

9+1=10,  9+1=10,  8+2=10,  7+3=10, 6+4=10, 6+4=10, 5+4+1=10, e 3+2=5; cioè 10 10 10 10 10 10 10 10 5

l’operazione è corretta. Il risultato è 75.

Torniamo ora all’immagine del serpente già presentato più sopra:

L’immagine rappresenta i cambi avvenuti per formare le decine. Le quantità originarie incolonnate a sinistra sono state via via sostituite, dando luogo alla disposizione rappresentata nella linea di perle a destra. Fra le due disposizioni  possiamo vedere ciò che rimaneva dei bastoncini che nel corso dell’operazione risultavano eccedere la decina: resti che vennero via via sommati con i bastoncini che li seguivano. Il risultato del serpente è 62, ossia: 10 10 10 10 10 10 2

A volte i bambini costruiscono un serpente molto lungo, che assomma a molte centinaia. A esercizio concluso, si contano i bastoncini delle decine disponendoli uno accanto all’altro, verticalmente: appena riuniti 10 bastoncini, si sostituiscono con un quadrato del centinaio, e così si prosegue coi cambi, fino alla fine. Il totale risalta facilmente, proprio per la differente forma dei risultanti gruppi del sistema decimale ( quadrato per le centinaia, linea per la decina, punto per le unità).

La verifica dell’operazione eseguita si effettua raccogliendo tutti i bastoncini via via usciti dal gioco e riunendoli a due a due (se possibile), in modo che ogni coppia costituisca una decina. Nel caso del serpente 5 6 8 6 2 5 1 4 9 3 4 7 9 si raggrupperanno così:

9+ 1

8+2

7+3

6+4

6+4

5+5

9

e si verificherà che ogni gruppo possa sostituirsi con una decina del risultato. In questo caso c’è perfetta corrispondenza:

L’esercizio del serpente fissa l’attenzione del bambino sulla difficoltà di contare per dieci. Questa difficoltà, ripetendosi costantemente, porta il bambino a procedere in modo esatto, dal momento che non lo preoccupa la serie di decine che via via si lascia indietro.

Nei metodi comuni, quando si addizionano gruppi di unità che formano più decine, questo accumulo gravoso e molesto si trascina, rendendo faticoso l’andare avanti. Invece la difficoltà di calcolo è unica ed è sempre la stessa, per quanto grande sia l’ampiezza dei conti da eseguire, e risiede in quel salto attraverso il 10 che presuppone un’attività mentale, esige cioè piccole addizioni e sottrazioni per arrivare a completare le decine, e il calcolo dei resti che devono essere aggiunti ai gruppi successivi.

Gli esercizi col serpente, ripetuti per lungo tempo, finiscono per rendere meccanico il lavoro della mente intorno al 10: a poco a poco sparisce la lenta attività di ragionamento, e si sostituisce con un meccanismo mentale. Le leggi che regolano le attività razionali affidano al deposito della memoria le conoscenze acquisite, per fare in modo che ci siano sempre energie disponibili da dedicare a lavori successivi. Questo deposito della memoria è un grande tesoro che permette di avanzare.

Si tratta della teoria montessoriana del “valore del subconscio”. Secondo la Montessori il subconscio è deposito e riserva di impressioni assorbite e di conoscenze acquisite. Il subconscio è paragonabile a una grande stanza buia nella quale sono immagazzinate le esperienze attraverso cui l’individuo è passato nel corso della sua vita. La stanza non è arredata: i mobili non vi sono disposti con una funzione, ma sono ammassati come in un magazzino. La mente che cerca una soluzione è simile a una torcia nelle mani di un ladro che sceglie la cosa per lui più preziosa in quel momento. Il fascio di luce si arresta: ha trovato quello che cercava, e questo cercare e trovare è ciò che chiamiamo “portare alla luce della coscienza”.

Le nuove acquisizioni, poi, devono prima essere filtrate dal ragionamento, e non si dirigono mai direttamente alla memoria ed ai suoi meccanismi.

Così, quando il bambino ha raggiunto un certo grado di maturità meccanica nel calcolo relativo ai passaggi attraverso il 10, i gruppi di decine già accumulati e lasciati indietro potranno venir trasportati di volta in volta nel posto che compete loro attraverso la memoria, grazie a passaggi che in sè non presentano ormai nessuna difficoltà.

Nell’esercizio del serpente, i due diversi lavori risultano separati, e questo permette un procedere rapido e senza fatica, consentendo il raggiungimento di risultati apprezzabili. Le decine che si accumulano si contano a parte, in una seconda fase, e i bambini lo fanno con grande piacere, provando la soddisfazione di chi si rende conto della propria ricchezza dopo aver fatto la fatica di “risparmiarla”.

La catena del 100 e la scomposizione lineare del quadrato dei numeri

La catena del 100 e la scomposizione lineare del quadrato dei numeri. Contare secondo la serie naturale dei numeri risulta interessante soltanto per una mente che già possiede il principio organizzatore degli ordini della numerazione decimale.

Per questo motivo, con i bambini, è molto importante partire dai punti fondamentali delle gerarchie, considerando le unità che guidano gli ordini del sistema: uno, dieci, cento, mille.

Per l’1 abbiamo una delle perle dorate:

per il 10 un bastoncino di perle:

per il 100 un quadrato costruito con 10 bastoncini di perle:

per il 1000 un cubo costruito con 10 quadrati:

Se invece di tenere le decine unite in forma di  quadrato, le “sleghiamo”, mantenendole unite soltanto per le estremità, otterremo una catena di cento perle raggruppate in decine, ossia in bastoncini che si susseguono:

La catena del 100 impressiona per la sua lunghezza, più di quanto non lo faccia il quadrato per la sua superficie. La catena rappresenta il cammino delle unità che, attraverso le decine, vanno a formare il centinaio. Possiamo contare le unità a una a una, effettuando in tal modo la numerazione progressiva: uno, due, tre….nove, dieci, undici… trentotto, trentanove… novantanove, cento.

E’ evidente che, una volta conosciuta la chiave dei “passaggi”, non esiste maggior difficoltà nel contare fra novanta e cento che fra trenta e quaranta.

Questa è la catena del 100 in versione stampabile:

e questa con le perle vere:

Il bambino conta le perle una ad una, ed utilizza le frecce per tenere il conto.

Come già spiegato qui 

per le catene potete agganciare le barrette tra loro attraverso i ganci terminali, oppure congiungere le barrette tra loro con degli anellini fatti arrotolando il fil di ferro attorno alla pinza.

Trovi il tutorial per realizzare in proprio la catena del 100 e le altre catene dei quadrati dei numeri, e la versione stampabile delle catene qui:

Catene di perle Montessori TUTORIAL E DOWNLOAD

Catene di perle Montessori TUTORIAL E DOWNLOAD.

Le catene di perle sono serie di barrette (di perle colorate per i numeri da 1 a 9) e di perle dorate per la decina, che rappresentano in forma lineare il quadrato ed il cubo di ogni numero. Coi bambini più piccoli si prestano ad esercizi legati al contare ed all’esplorazione del numero e del sistema decimale, coi più grandi supporta lo studio delle potenze e dell’algebra.

Qui trovi qualche suggerimento per la costruzione in proprio del materiale, o in alternativa la versione stampabile.

Catene di perle Montessori TUTORIAL E DOWNLOAD

Partiamo dalla costruzione della catena del 100 e delle altre catene del quadrato dei numeri.

Questa è la catena del 100, cioè del quadrato di 10 (da realizzare naturalmente con le perle dorate)

Se desiderate realizzare il materiale con perle vere, dopo aver preparato le 10 barrette da dieci perle, congiungetele tra loro preparando degli anellini  di fil di ferro:

Se non avete la possibilità di realizzare il materiale con perle vere, potete considerare l’idea di stampare e comporre sempre con anellini di fil di ferro o graffette queste catene pronte per la stampa:

Sia che usiate perle vere, sia che vogliate ricorrere alla versione stampabile, completano il materiale le frecce per contare (blu per le decine, rosse per le centinaia):

Catene di perle Montessori TUTORIAL E DOWNLOAD

Le altre catene dei quadrati, oltre a quella del 100 (quadrato del 10) si preparano allo stesso modo, utilizzando le barrette di perle colorate

per i numeri da 2 a 9 (il quadrato di 1 è 1), congiungendo attraverso gli anellini di fil di ferro (o le graffette):
– 2 barrette del 2
– 3 barrette del 3
– 4 barrette del 4
– 5 barrette del 5
– 6 barrette del 6
– 7 barrette del 7
– 8 barrette dell’8
– 9 barrette del 9

è un materiale che, una volta preparato, si presta poi ad essere utilizzato anche per giochi con le tabelline e successivamente allo studio delle potenze dei numeri.

Questa è, se può essere utile, la versione stampabile:

E anche in questo caso, completano il materiale le frecce per contare.

Ho preparato una versione colorata (nei colori utilizzati per preparare il materiale stampabile) e una versione bianco e nero se utilizzate barrette di colori diversi (da colorare o da stampare su fogli colorati):

Catene di perle Montessori TUTORIAL E DOWNLOAD

La catena del 1000 e le altre catene dei cubi dei numeri

Per la catena del 1000, dopo aver preparato le 10 catene del 100 necessarie, congiungetele tra loro con un ulteriore anellino, in modo tale che la catena presenti un anello a congiungere le decine tra loro, e due anelli a congiungere tra loro le centinaia.

Allo stesso modo potete congiungere tra loro, se preferite, il materiale stampabile proposto più sopra, insieme alla catena del 100.

Sia che usiate perle vere sia che usiate il materiale stampabile, completano il materiale le frecce per contare.

Catene di perle Montessori TUTORIAL E DOWNLOAD

Per i cubi dei numeri da 1 a 9 congiungete tra loro:

– 4 barrette del 2

– 9 barrette del 3

– 16 barrette del 4

– 25 barrette del 5

– 36 barrette del 6

– 49 barrette del 7

– 64 barrette dell’8

– 81 barrette del 9

Questo è il materiale in versione stampabile:

Anche in questo caso, il materiale è completato dalle frecce per contare, compreso nelle frecce per contare le catene delle potenze:

Catene di perle Montessori TUTORIAL E DOWNLOAD

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