I DUE CAMPETTI racconto

I DUE CAMPETTI racconto per bambini della scuola d’infanzia e primaria, sul tema della pigrizia e del lavoro.

Uno di qua, uno di là dal fiume si stendevano due piccoli campi. Due fratelli li coltivavano, uno sollecito e l’altro pigro.
Il fratello sollecito si alzava all’alba e si metteva subito a lavorare il suo campetto. Vangava, concimava, seminava. Poi, a suo tempo, ripuliva i solchi, annaffiava, rincalzava le piante, le curava.
L’altro fratello si levava sul mezzogiorno. Dava alla peggio poche zappate. Gli faceva fatica star curvo sui solchi, annaffiare, potare. Lasciava crescere le erbe selvatiche.

Di quando in quando, sbadigliando, dava un’occhiata al campetto del fratello e diceva: “Quella è terra migliore. Deve essere esposta meglio al sole, più umida e più grassa”.
Tanto fece e tanto disse che convinse il fratello a fare il cambio.

Il fratello sollecito ripulì il campo mezzo selvatico. Lo lavorò di lena. Piantò, sarchiò, potò.
Il pigro invece, sicuro di avere ora il campo migliore, dormì anche di più e lavorò di meno.

Non passò molto tempo e il campo peggiore diventò il migliore, mentre il migliore diventò uno sterpaio.
“Come sono sfortunato!” disse il fratello pigro, vedendo che le coltivazioni del suo campo andavano in rovina. “Proprio ora che il mio campo migliorava, l’ho ceduto…”.

Tanto fece e tanto disse che lo rivolle per sè.
Ma dopo poco tempo si fu alle solite.

Il campetto del fratello sollecito prosperava. Quello del fratello pigro invece inaridiva.

“Colpa del seme! Colpa del sole! Colpa della pioggia! Colpa dell’erbaccia! Colpa dei bruchi! Colpa di tutti e di tutto!” pensava il fratello pigro.

E non si avvedeva che la colpa era tutta e soltanto sua.

P. Bargellini

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

NUTRIZIONE E DIGESTIONE materiale didattico e letture

NUTRIZIONE E DIGESTIONE  materiale didattico e letture di autori vari, per bambini della scuola primaria.

La digestione

L’uomo, come tutti gli animali e le piante, per vivere e per crescere ha bisogno di nutrirsi, di introdurre cioè nell’organismo certe sostanze, dette alimenti.
La trasformazione degli alimenti in sostanze capaci di fornire energia e calore al nostro corpo si dice digestione. Ad essa provvedono gli organi che formano l’apparato digerente: la bocca, la faringe, l’esofago, lo stomaco, il fegato, il pancreas e l’intestino.

La bocca
Nella bocca il cibo viene masticato dai denti e impastato con la saliva. I denti sono 32: 8 incisivi a forma di scalpello, per tagliare; 4 canini appuntiti, per strappare; 8 premolari e 12 molari, larghi e piatti, per triturare.
La parte visibile dei denti è detta corona, la parte ricoperta dalla gengiva è detta colletto, e quella che li fissa alla mascella si chiama radice.
La saliva è una sostanza liquida che impasta i cibi; viene secreta da tre paia di ghiandole dette salivari. Nella bocca il cibo di trasforma in bolo.

Lo stomaco
Dalla bocca il bolo passa nello stomaco, attraverso un tubo detto esofago. Lo stomaco è come una borsa elastica che contraendosi e rilassandosi rimescola il cibo e lo innaffia con un liquido, detto succo gastrico, secreto da tante ghiandole disseminate nelle sue pareti.
Il cibo viene così trasformato in una poltiglia grigia, detta chimo. Questa trasformazione si chiama digestione.

L’intestino
Dallo stomaco il cibo, attraverso il piloro, passa nell’intestino, un tubo più volte ripiegato su se stesso, lungo circa 10 metri. Nell’intestino il chimo viene bagnato dal succo del pancreas e dalla bile del fegato e così nuovamente trasformato in un liquido biancastro, il chilo.
La parte buona e nutriente del chilo viene assorbita dai villi intestinali, attraverso i quali  passa nel sangue che la distribuisce a tutte le parti del corpo.
Così gli amidi, la carne, le uova, il formaggio ed i grassi sono trasformati in sostanze meno complesse, capaci di costituire materia vivente, ossia nuove cellule, e di fornire al corpo stesso energia.
La parte non assorbita viene espulsa.

Per il lavoro di ricerca
Perchè mangiamo? Perchè il nostro corpo può resistere solo 4 – 5 giorni senza nutrirsi?
Ordiniamo e raggruppiamo in tre categorie tutti gli alimenti: grassi, carboidrati e proteine. Perchè il nostro corpo soffrirebbe se noi ci nutrissimo solamente con una sola di queste categorie di alimenti?
Perchè è dannoso mangiare fuori pasto?
Perchè è bene non andare a dormire subito dopo i pasti? E nemmeno studiare?
Perchè se non mastichiamo bene avvertiamo dei dolori allo stomaco? Perchè questi dolori si avvertono anche se mangiamo troppo?
La bevanda migliore per l’uomo è l’acqua. Spiega il significato della parola ‘potabile’ e fai ricerche in merito.
Vai davanti allo specchio ed osserva attentamente come è fatta la tua bocca: lingua, palato, denti. A che cosa servono?
Non tutti i denti sono di uguale forma: disegnali, impara i loro nomi e cerca da solo di comprendere la particolare funzione che ognuno di essi ha.
Qual è la funzione della saliva? Che cosa la produce?
Ti lavi sempre i denti? Qual è la funzione dello spazzolino? E del dentifricio?

La nutrizione

Ogni essere vivente può essere paragonato ad una lampada che arde: la sua luce ed il suo calore si producono solo mediante la combustione dell’olio. E come la fiamma minaccia di spegnersi se la lampada non viene periodicamente rifornita di combustibile, così il corpo degli animali e delle piante deve venire costantemente rifornito di nuovi alimenti che sostituiscono la materia bruciata e rendono possibile lo sviluppo di nuove energie.
Come si manifesta in noi il bisogno di alimentarci? Si manifesta con due sensazioni caratteristiche che ben conosciamo, e cioè con la fame e con la sete.
Esse sono l’indicazione più evidente che il nostro corpo ha bisogno di ricostruire quelle energie che ha perduto attraverso il lavoro, la fatica e il movimento.
Il nostro corpo deve inoltre mantenere costante la propria temperatura; per servirci ancora una volta di un esempio, diremo che esso è come una stufa la quale, per mantenersi calda, ha bisogno di essere continuamente riempita di legna o di carbone.
La nutrizione si compie mediante tre funzioni strettamente collegate fra loro: la digestione, la circolazione e la respirazione.
Con la digestione gli alimenti che noi mangiamo vengono profondamente modificati; con la circolazione il sangue porta le sostanze nutritive elaborate a tutte le cellule; con la respirazione introduciamo nel nostro corpo l’ossigeno, un gas la cui presenza è indispensabile perchè nei vari tessuti avvenga la combustione delle sostanze alimentari.

La nutrizione

Ogni essere vivente può essere paragonato ad una lampada che arde: la sua luce ed il suo calore si producono solo mediante la combustione dell’olio. E come la fiamma minaccia di spegnersi se la lampada non viene periodicamente rifornita d combustibile, così il corpo degli animali e delle piante deve venire costantemente rifornito di nuovi alimenti che sostituiscono la materia bruciata e rendono possibile lo sviluppo di nuove energie.
Come si manifesta in poi il bisogno di alimentarci? Si manifesta con due sensazioni caratteristiche che ben conosciamo, e cioè con la fame e con la sete.
Esse sono l’indicazione più evidente che il nostro corpo ha bisogno di ricostruire quelle energie che ha perduto attraverso il lavoro, la fatica e il movimento.
Il nostro corpo deve inoltre mantenere costante la propria temperatura; per servirci ancora una volta di un esempio, diremo che esso è come una stufa che, per mantenersi calda, ha bisogno di essere continuamente riempita di legna o di carbone.
L’uomo prende i suoi alimenti dal mondo animale, dal mondo vegetale e dal mondo minerale. Il regno animale gli fornisce la carne, le uova, il latte, il burro, il formaggio, il lardo.
Il regno vegetale gli dà il pane, le paste alimentari, il riso, le farine (di frumento e di granoturco), i legumi, gli ortaggi, la frutta, gli oli.
La nutrizione si compie mediante tre funzioni strettamente collegate fra loro: la digestione, la circolazione e la respirazione.
Con la digestione gli alimenti che noi mangiamo vengono profondamente modificati; con la circolazione il sangue porta le sostanze nutritive elaborate a tutte le cellule; con la respirazione introduciamo nel nostro corpo l’ossigeno, un gas la cui presenza è indispensabile perchè nei vari tessuti avvenga la combustione delle sostanze alimentari.

La digestione

Il cibo masticato dai denti e abbondantemente inumidito dalla saliva che sgorga da tre paia di ghiandole (ghiandole salivari), i cui condotti si aprono nella cavità boccale, si trasforma in una poltiglia che, arrotolata dalla lingua sotto forma di una pallottola (bolo alimentare), viene spinta con l’atto meccanico della deglutizione (inghiottimento) nella faringe, il breve condotto a forma di imbuto che comunica con l’esofago; scende lungo questo tubo e cade nello stomaco. Qui si compie la digestione gastrica, ossia quel complesso di trasformazioni chimiche che una parte delle sostanze alimentari ingerite subisce per l’azione di speciali succhi prodotti da alcuni milioni di piccole ghiandole annidate nelle pareti dell’organo, le ghiandole gastriche.
Dallo stomaco, il cibo, ridotto in una massa semiliquida detta chimo, passa nell’intestino, che si divide in sue grandi tratti: intestino tenue, sottile e liscio, lungo otto metri circa, e intestino crasso, molto più corto (un metro e mezzo)., ma di diametro assai maggiore.
Nel tenue, il cibo riceve molti altri succhi tra i quali la bile prodotta dal fegato e il succo pancreatico elaborato dal pancreas, le due maggiori ghiandole del corpo, e si trasforma a poco a poco in un liquido lattiginoso, il chilo, destinato ad essere assorbito dalle pareti dell’intestino per passare nel torrente sanguigno. Quest’ultima importante funzione si chiama assorbimento intestinale.
Le materie ingerite formano le feci, che si accumulano nell’ultima porzione del crasso, detta retto, per essere poi espulse all’esterno con l’atto della defecazione.

La bocca

E’ la cavità limitata, anteriormente, dalle labbra, posteriormente, dal velo pendulo o palatino o palato molle, che la separa dal retrobocca o faringe, ai lati delle guance. Il velo pendulo o palato molle è fornito di un’appendice mediana detta ugola. Innalzandosi, il velo pendulo  chiude la comunicazione con le fosse nasali; abbassandosi tocca la lingua, interrompe la comunicazione con le fosse nasali; abbassandosi tocca la lingua, interrompe la comunicazione con la cavità della faringe e non permette che il cibo scappi giù durante la masticazione. Dai lati dell’ugola partono quattro ripiegature mucose (pilastri), due anteriori e due posteriori, tra le quali si trovano le tonsille, ghiandole che possono infiammarsi e restringere l’istmo delle fauci, cioè il passaggio dalla bocca al retrobocca. Allora sentiamo vivo dolore nel deglutire.

La lingua

Organo formato da fibre muscolari, mobilissimo, tappezzato da una mucosa ricca di ghiandole mucipare e di papille, giace, se possiamo esprimerci così, sul pavimento della bocca. E’ saldata posteriormente, all’osso ioide; rotto è tenuta da un filetto.
Oltre che sede dell’organo di senso del gusto, la lingua serve per parlare, per impastare il cibo, per inghiottire.

I denti

Nella bocca i denti masticano il cibo: usando uno specchietto ciascuno di noi può osservare come è composta la propria dentatura. Cominciando dal centro della mascella, superiormente, o dalla mandibola, inferiormente, verso sinistra o verso destra, dato che le due parti sono simmetriche, si notano due incisivi a forma di scalpello. Il loro nome indica la loro funzione: sono i denti che incidono i cibi.
Segue un canino un poco appuntito a piramide, che serve a strappare la carne. Poi vengono due premolari e due molari, larghi e quasi piatti superiormente, con piccoli rilievi utili per macinare il cibo, come la mola di un mulino. Gli adulti hanno tre molari invece di due: l’ultimo, detto dente del giudizio, spunta nell’età giovanile.
Allora voi avete complessivamente 28 denti; da adulti ne avrete 32. Ciascuno di voi ha cambiato alcuni denti all’età dai 6 agli 8 anni: erano i primi denti spuntati, detti anche denti di latte, ed erano incisivi, canini e premolari che, ad un certo momento, cominciarono a dondolare, sospinti fuori dai nuovi denti che già stavano spuntando, e caddero senza provocare alcun dolore.
Osserviamo la forma dei denti: gli incisivi, i canini e i premolari hanno una radice sola, i molari due, e ciascuno è infisso in una cavità, l’alveolo, nell’osso della mascella o della mandibola. La parte del dente che emerge dall’alveolo si chiama corona. Se potessimo segare un dente, vedremmo queste parti: all’esterno un rivestimento bianco lucido durissimo, lo smalto, che serve da protezione; la parte nell’alveolo è protetta dal cemento, meno duro, che fa aderire il dente all’osso. Più internamente c’è l’avorio, o dentina, una sostanza ossea compatta bianco giallastra, percorsa da una cavità riempita di polpa dentaria in cui giungono il sangue ed il nervo del dente collegato con il cervello.
Talvolta, per mancanza di un’accurata pulizia, i residui del cibo masticato fermentano fra i denti e producono la carie, che corrode prima lo smalto, poi l’avorio e giunge alla polpa, provocando ad un certo momento dolori notevoli e poi la caduta del dente.
Vedi anche:

Dentatura di latte e dentatura permanente

Il bambino nasce senza denti. Intorno ai sei o sette mesi cominciano a spuntare gli incisivi e, più tardi, i molari e i canini. Verso i due anni la dentatura consta di venti denti, così distribuiti: otto incisivi, quattro canini, otto piccoli molari. E’ questa la cosiddetta dentatura di latte, che permane fino all’età di sette anni. Poi, i denti di latte cominciano a cadere per riassorbimento della loro radice, e vengono sostituiti dai denti definitivi.
La dentatura si completa, poi, con la comparsa di sei grossi molari per mascella. Gli ultimi molari (due per mascella) spuntano soltanto verso il ventesimo anno e talora anche più tardi; sono perciò chiamati “denti del giudizio”.
La dentatura permanente è dunque composta di trentadue elementi, così distribuiti: otto incisivi, quattro canini, otto premolari, dodici grossi molari.

La saliva: a che cosa serve?
Nella bocca abbiamo la lingua, che ci fa sentire il sapore dei cibi e muovendosi sposta il boccone per sottoporlo ad una sistematica masticazione da parte dei denti.
Tre paia di ghiandole salivari comunicano con la bocca: due sono le parotidi che vanno soggette ad un’infiammazione provocata da una malattia, la parotite o orecchioni, che dà un notevole rigonfiamento vicino alle orecchie. Le ghiandole salivari emettono la saliva, che contiene una sostanza importante per la digestione: la ptialina.
Alla mattina prima di fare colazione provate a masticare lentamente un boccone di pane: lo sentirete sempre più dolce. Questa è l’azione della saliva: essa imbeve le sostanze che contengono l’amido e lentamente le trasforma con un’azione chimica in zuccheri solubili.
Un vecchio proverbio latino afferma che la prima digestione avviene nella bocca ed è vero, perchè qui avvengono le prime trasformazioni chimiche del cibo ingerito.

La faringe
E’ una cavità situata fra la bocca e l’esofago. E’ tappezzata da mucosa, comune all’apparato digerente e respiratorio. Il alto comunica con le fosse nasali e, lateralmente, con le trombe di Eustachio dell’orecchio; in avanti con la bocca, in basso con l’esofago e, anteriormente, con l’apertura della laringe.
L’epiglottide è la valvola  che, abbassandosi, chiude la comunicazione con la laringe, impedisce al cibo di penetrare in essa e lo costringe a infilarsi nell’esofago.

L’esofago
E’ un tubo a parete molle, lungo circa venticinque centimetri, molto elastico, che va dalla faringe allo stomaco, dietro alla trachea e parallelo alla colonna vertebrale. Il tubo dell’esofago è costituito da tre membrane. Internamente è di colore biancastro.

Lo stomaco
E’ un sacco della capacità di due litri circa, a forma di cornamusa, posto sulla sinistra della cavità addominale, sotto il diaframma. Comunica con l’esofago per mezzo del cardias e sbocca nell’intestino per il piloro.

L’intestino
Dopo essere stati nello stomaco, gli alimenti, trasformati in una poltiglia detta chimo, passano nell’intestino, lungo budello aggomitolato su se stesso.
L’intestino è lungo circa cinque volte la lunghezza del corpo. Si divide in tenue (lungo circa 6 m e largo cm 2,5), e crasso (lungo 1,5 m e largo cm 5). Il tenue si divide, a sua volta, in duodeno, digiuno ed ileo. Il crasso in cieco, colon (ascendente, traverso e discendente) e retto.

Intestino tenue
Presenta, a destra, una dilatazione a fondo cieco, che porta un’appendice vermiforme, lunga quasi un dito, la cui infiammazione può determinare la nota malattia detta appendicite.
Le sostanze passate dal tenue al crasso, vi permangono un certo tempo, per venire poi espulse attraverso il retto, che è la parte terminale dell’intestino.
L’intestino è sorretto dalla rete peritonea che lo avvolge tutto intorno, e che si attacca alla colonna vertebrale e alla parete addominale.
L’infiammazione del peritoneo causa la malattia che chiamiamo peritonite.

L’intestino tenue
L’intestino tenue è molto lungo e le sue pareti internamente sono tutte increspate in piccole appendici a forma di minuscole dita, aumentando così enormemente la superficie a contatto con il chilo. Ci sono qui delle cellule assorbenti, un poco come i peli assorbenti delle radici delle piante, che assorbono tutte le sostanze nutritive contenute nel chilo e le raccolgono nei vasi capillari del sangue per essere distribuite a tutte le parti del corpo.
La parte non utile viene scartata; passerà dall’intestino tenue all’intestino crasso, all’inizio del quale si trova una brevissima appendice cieca, quindi passerà all’intestino retto per essere espulsa all’esterno.

Il fegato
E’ la più grossa ghiandola del corpo. Ha color rosso bruno ed è posto nella parte destra della cavità addominale, subito sotto il diaframma. Secerne la bile, liquido giallo-bruno, fortemente amaro.
La cistifellea, o vescica biliare, è la vescichetta aderente al fegato, dove si raccolgono le secrezioni (bile) del fegato stesso. Per apposito condotto la bile sbocca nel duodeno. Se la bile entra nel sangue si ha l’itterizia; se nella bile si formano concrezioni solide si hanno i calcoli biliari.

Pancreas
Secerne un liquido incolore simile alla saliva, detto succo pancreatico.
La ghiandola, di forma allungata, è lunga da 15 a 20 centimetri. Nella sua linea mediana è percorsa da un condotto che porta il succo pancreatico nel duodeno. Questo succo si mescola col chimo e trasforma l’amido in zucchero, mentre nello stesso tempo la bile e i succhi intestinali dividono i grassi. Si ha così il chilo.

Alla fine di un percorso di otto metri
Della pasta, del pane, della carne, della verdura e della frutta che abbiamo mangiato, ormai non siamo più in grado di distinguere nulla; in mezzo a tutte le sostanze utili ve ne sono però alcune che rappresentano le scorie indigeribili che devono essere espulse. Esse proseguiranno il loro cammino, raggiungendo il colon, o intestino crasso, che è la parte terminale dell’apparato digerente.
Come il pancreas, anche l’intestino, ad esclusione del colon, secerne un succo che svolge, durante i processi digestivi, funzione analoga a quella del succo pancreatico.
A questo punto arrivano dei microbi che sono ospiti abituali del colon. Essi si trovano nelle scorie, in particolare in quelle della verdura e fabbricano la vitamina B1, che è indispensabile al lavoro delle cellule. Questi microbi sono, generalmente, dei collaboratori del nostro organismo: però in particolari condizioni possono diventare dei nemici, perchè in grado di provocare delle gravi infezioni.
Il percorso degli alimenti all’interno del nostro corpo si aggira normalmente sugli otto metri; pensate alla quantità di fenomeni che avviene in questo breve tragitto e resterete meravigliati della perfezione e delle mirabili capacità che possiede il nostro organismo.

La circolazione
La circolazione del sangue provvede a distribuire a tutte le cellule del corpo la parte del cibo assorbita dai villi intestinali (chilo). Il sangue circola continuamente in un sistema chiuso di vasi elastici che fanno capo ad un organo centrale: il cuore. I vasi sanguigni sono le arterie, le vene ed i capillari.

La respirazione
Come abbiamo già accennato, perchè nel nostro organismo ci sia sviluppo di calore e di energia non è sufficiente digerire i cibi, è necessario anche che essi brucino. Ciò è reso possibile grazie all’ossigeno che respiriamo.
Quando la nostra gabbia toracica si espande, cioè aumenta il suo volume, l’aria, attraverso le fosse nasali e la bocca penetra nella trachea, poi nei bronchi, i quali si ramificano in tubi sempre più piccoli e terminano negli alveoli polmonari, microscopiche vescichette che costituiscono la massa spugnosa dei polmoni.
Gli alveoli polmonari sono percorsi da una fittissima rete di capillari, ossia di vasi sanguigni. Quando noi respiriamo, l’ossigeno, attraverso le pareti degli alveoli polmonari, passa nei capillari, cioè nel sangue che, come abbiamo visto, provvede a trasportarlo nelle varie cellule del nostro corpo. Contemporaneamente l’anidride carbonica esistente nei capillari viene ceduta agli alveoli.
Quando la cassa toracica si riduce di ampiezza, cioè quando espiriamo, gli alveoli, quindi i polmoni, ci comprimono e l’aria impura, carica di anidride carbonica, viene espulsa dal nostro organismo.

Come deve essere il cibo?
Il cibo deve essere vario e contenere proteine (uova, latte, carne, pesce, formaggio, legumi), grassi (lardo, olio, burro), zuccheri (cereali, patate, bulbi, frutta, verdura, marmellata, miele), sostanze minerali (acqua, sali).
Tra i sali un vero e proprio alimento deve considerarsi il cloruro di sodio o sale da cucina, necessario per la formazione dell’acido cloridrico nel succo gastrico; condimenti (pepe, senape, anice,…), che stimolano la digestione, vitamine (la cui mancanza nell’organismo produce malattie gravi e anche mortali).

La nutrizione degli animali
Gli animali, secondo le specie a cui appartengono, si nutrono di cibi diversi. E’ quindi naturale che l’apparato digerente non sia lo stesso in tutti gli animali.
Tra i mammiferi, gli animali che si cibano di carne, cioè i carnivori come il cane e il gatto, hanno quattro canini lunghi e ricurvi, sporgenti dalle due file di denti, che servono a trattenere la preda.
Gli animali insettivori che, come il pipistrello, si cibano di insetti, hanno denti canini acuti e molari aguzzi, adatti a forare la dura corazza degli insetti.
I roditori, come il coniglio e il topo, hanno denti incisivi lunghi e affilati che ricrescono di continuo nonostante si logorino fortemente.
Gli erbivori ruminanti hanno lo stomaco formato da quattro cavità, poichè occorre molto lavoro per digerire i vegetali. L’erba introdotta nella bocca viene subito ingoiata nel rumine. Di lì risale nel reticolo e poi nuovamente in bocca, dove viene masticata e rinviata negli stomachi veri e propri: l’omaso e l’abomaso.
Gli uccelli granivori ingoiano i granelli che vanno a finire nel gozzo. Qui il cibo si inumidisce e poi passa nello stomaco che è diviso in due parti. La seconda, chiamata ventriglio, è come una macina che stritola tutto, anche oggetti durissimi.
I rettili ingoiano intera la preda. I denti hanno il compito di trattenere il cibo, non di masticarlo.
I pesci invece hanno diverse file di denti sottili e aguzzi che servono a stritolare i rivestimenti calcarei dei molluschi di cui si nutrono.

I cibi e le calorie
Il valore energetico degli alimenti si misura in calorie. Per piccola caloria si intende la quantità di calore necessaria per elevare da 14° a 15° centigradi la temperatura di un grammo d’acqua a pressione normale; la grande caloria è mille volte la più piccola, cioè la quantità di calore necessaria per aumentare da 14° a 15° centigradi la temperatura di un chilo d’acqua a pressione normale.
Ogni alimento ha un proprio valore calorico, fornisce cioè all’organismo un certo numero di calorie, che vengono utilizzate sia per mantenere la temperatura corporea costante intorno ai 36°-37°, qualunque sia la temperatura esterna, sia per fornire lavoro. Ad esempio cento grammi di carne magra di manzo forniscono 213 calorie, centro grammi di lardo affumicato 646 e cento grammi di pane biscottato 381.
Il nostro organismo, a seconda dell’età, dell’altezza, del peso e della superficie corporea, consuma giornalmente un certo numero di calorie, variabile secondo le stagioni (se calda meno, se fredda più), l’ambiente e il lavoro.
Un boscaiolo finlandese di trent’anni e corporatura media, che lavori in pieno inverno all’aria aperta, abbisogna di oltre 4600 calorie giornaliere e deve, perciò, introdurre una quantità di alimenti più abbondante di quella di cui necessita un impiegato della stessa età e corporatura, il quale lavori a Milano, nel pieno dell’inverno, ma in ambiente chiuso. Il nostro impiegato infatti raggiungerà in media un consumo di 2200-2500 calorie giornaliere; perciò potrà tenere un’alimentazione quantitativamente e qualitativamente inferiore a quella del boscaiolo.
Un bambino di un anno consuma una media di 800 calorie giornaliere ed il suo peso si aggira sui 10-12 chili, mentre un ragazzo di quattordici anni, nel nostro clima, necessita di 2800 calorie, con un peso di 45-55 chili; e il fabbisogno di un uomo di 70 chili, moderatamente attivo, è di circa 3000 calorie.
Come si vede, col passare degli anni, vi è una diminuzione proporzionale del fabbisogno calorico, perchè l’eccedenza di calorie, cioè l’eccedenza di alimentazione rispetto al peso, serve alla costruzione dell’organismo in fase di sviluppo. Sarebbe però un errore credere che basti somministrare dei cibi grassi, che forniscono un maggior numero di calorie, per ottenere lo scopo voluto: il corpo umano abbisogna di un’alimentazione varia che comprenda un po’ tutte le sostanze, alcune delle quali gli sono assolutamente indispensabili.
Il migliore tipo di alimentazione è quello che fornisce al corpo la maggiore varietà di alimenti, quando non esistono delle cause, malattie ecc., che suggeriscono la limitazione dei cibi, in modo che l’organismo possa usufruire di tutte le sostanze che gli sono necessarie. Senza esagerare con certi cibi che, se pur gustosi al palato, possono in quantità troppo grande danneggiare i tessuti.

NUTRIZIONE E DIGESTIONE  materiale didattico e letture – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Poesie e filastrocche ERBA E PRATO

Poesie e filastrocche ERBA E PRATO – una raccolta di poesie e filastrocche, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Un filo d’erba

Che cos’è un filo d’erba?
Un filo d’aria
che si sente e non si vede,
sperduto
affogato
nel mare del prato;
un filo di verde
che si perde
nell’azzurro,
tracciato da un pittore
di valore;
un filo di luce
come niente,
ma che non si pente
d’esser così poco,
quasi scintilla
di un grande fuoco,
un filo di profumo,
che in silenzio
dice: “Mi consumo
d’amore”,
un filo di voce,
che sussurra
bisbiglia
ci parla con cuore
puro.
Un filo d’erba
è una cosa da nulla
che si trastulla
col vento,
che gioca col sole
a nascondino
come un bambino
birichino;
che guarda con occhi sempre nuovi
la luna, falcata
o a frittata,
il pulviscolo d’oro e d’argento
delle stelle
ricamate nel firmamento;
che fa l’occhiolino
a un fiore
vicino;
che per nutrimento
si contenta
di un chicco di sale
e di una sola gocciolina
piovuta dal cielo
o scappata bel bello
al ruscello;
che si adorna
con una perlina
di brina
dai colori dell’arcobaleno,
tanto piccolina
e leggera
che appena si vede
e può volar via
così,
ma tanto grande
da contenere il sole,
tutto il sole
visto di qui.
Un filo d’erba
è proprio una cosa da niente:
c’è e non si scorge,
esiste e non si sente,
si sporge
dal balcone
e poi si pente,
ha la sua casa piccolina
sulla terra verdolina
accanto allo stelo
di un papavero,
ma cerca disperatamente
le vie del cielo
splendenti di luce. (M. Giusti)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Recita per la festa degli alberi – 21 novembre

Recite per la festa degli alberi – 21 novembre brevi recite sull’albero e il bosco per la scuola d’infanzia e primaria.

A colloquio con gli alberi

Narratore: Il bosco sembra dormire nel suo grande silenzio accarezzato dal vento.

Bambino: Quanti alberi uno vicino all’altro su questa montagna!

Abete: Siamo così fitti perchè formiamo un bosco

Bambino: Come ti chiami?

Abete: Io sono l’abete. Ci cono però qui altre conifere: i pini e i larici. Ci chiamano così perchè abbiamo la chioma a forma di cono.

Bambino: E dimmi, siete sempre così verdi?

Abete: Noi e i pini sì, perchè sopportiamo il freddo. Il larice invece in autunno resta nudo come la maggior parte degli alberi.

Bambino: Ci sono solamente boschi di conifere?

Abete: No, ci sono boschi di castagni, di faggi, di querce, di noci, di noccioli e di tante altre piante.

Pino: Noi siamo però i più belli: chiunque ci vede rimane incantato. Anche tu, ad ogni Natale, adoperi i nostri rami più piccoli o le nostre cime per fare l’albero tutto splendente di luci. Non è vero?

Bambino: Sì, è vero.

Narratore: Il bambino fa qualche passo, poi si avvicina a un pino e fa per appoggiare una mano al tronco.

Pino: Sta’ attento. Non mettere le dita sulla resina.

Bambino: A che cosa serve?

Pino: Difende il tronco ed è anche utile all’uomo. Ma l’utilità che vi diamo noi alberi non è tutta qui.

Abete: Il pino ha ragione. Sapessi, mio caro piccolo amico, quanto legname vi diamo continuamente noi alberi, e voi con esso costruite case, navi, ponti, mobili; cuocete i cibi e vi riscaldate durante l’inverno. Inoltre le nostre radici trattengono i terreni evitando molti disastri, inondazioni, frane, alluvioni.

Pino: Non ti sei ancora chinato ad osservare il soffice tappeto dove ora cammini? Ai nostri piedi nascono e maturano mirtilli, fragole, lamponi, e fioriscono ciclamini, ranuncoli, bucaneve…

Abete: E vi puoi trovare anche molti funghi.

Bambino: Che buoni!

Abete: Sì, ma devi stare attento a quelli velenosi, perchè un solo pezzettino potrebbe farti morire.

Bambino: Sì, lo so. Ora, purtroppo, devo andarmene. Mi piacerebbe riposare qui e respirare sempre quest’aria fresca, leggera, satura di profumi. In città l’aria non è affatto pura, nè sa di resina. D’estate poi si soffoca dal caldo! Vi prometto di risalire fin quassù il prossimo anno. Aspettatemi!

Narratore: L’abete si curvò, e il bosco ripiombò nella sua pace montana, rotta soltanto dalla voce del vento

(M. Zagaria)

Festa degli alberi

Gruppi di bambini: tutti agitano ramoscelli o presentano frutti della pianta che rappresentano.

Io sono la quercia robusta. Vivo anni e secoli. Resisto alla furia dei venti. Do il solido legno e il ceppo per le lunghe veglie. Evviva la quercia, regina delle alture!

Io sono il pino, re dei monti. Do legno alle navi che solcano i mari e do salute. Nereggio nella foresta, ma d’inverno mi vesto di candida neve.

Ed io sono l’ulivo, dalle pallide foglie argentate e dalle bacche che danno l’olio prezioso. Dico a tutti una parola di pace. Come la luce e le stelle serene, un po’ di pace ci fa tanto bene.

Sono il castagno. Scalco i vecchi stanchi, i bimbi buoni, bruciando nel focolare. Do travicelli e travi alla modesta casa che ripara dal freddo e brilla nella notte; il frutto saporito e nutriente ai piccoli e ai grandi; lo strame alla vaccherella ch’è la ricchezza del povero montanaro. Do tutto, mentre rabbrividisco al vento!

Io sono il melo. Mi adorno di candidi fiori a primavera, offro in autunno le mele saporite. Come altri alberi, dono frutta per la delizia dei bambini, legna nel crudo inverno, legname buono per molti lavori.

Ed io sono il pesco. Mi vesto di rosa in primavera, offro frutti squisiti in estate.

Ecco il ciliegio. Quanti mazzetti di corallo brillano tra il verde delle mie foglie, al finire di maggio! E che delizia per i bambini!

Io sono l’albero: pino o ciliegio, castagno od ulivo, platano o pioppo, gelso od ontano, pesco o rovere; io rappresento le buone piante che aiutano l’uomo a ripararsi dal freddo  e dalle intemperie, allietano le sue veglie, mitigano al lavoratore e al viandante il calore estivo, a tutti offrono doni! Non fateci male, bambini, strappando fronde e fiori, tormentando il tronco. In cambio dei nostri doni, noi non chiediamo che di essere rispettati e difesi nel nostro sviluppo: null’altro!

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

ITALIA materiale didattico

ITALIA materiale didattico – una raccolta di materiale didattico vario per iniziare lo studio della geografia italiana nella scuola primaria.

Come l’Italia sorse dal mare
Durante una gita in montagna, Roberto scoprì con sorpresa, nella parete rocciosa, l’impronta di una piccola conchiglia, e chiede al babbo come potesse quella conchiglia trovarsi lassù, a duemila metri sopra il livello del mare. Il babbo sorrise.
“La cosa è semplice” spiegò. “Milioni di anni fa, tutte queste montagne erano sepolte sotto il mare. Poi emersero, portando in alto dei fossili, cioè i resti pietrificati di pesci e di molluschi. Dove ora sorge la nostra bella penisola,una volta si stendevano e acque del Mediterraneo”.
“Ma come fece l’Italia a emergere dal mare?”
“Guarda” fece il babbo.
Prese il giornale, lo distese per terra, poi appoggiò le mani sui due lati e incominciò a premere verso il centro. Il foglio si accartocciò, si sollevò in tante pieghe.
“Vedi?” riprese il babbo, “Ecco come si sollevarono i monti. Fa’ conto  che la mano destra sia il continente africano e la mano sinistra sia il continente europeo. Ora devi sapere che  i continenti si muovono, come se fossero degli immensi zatteroni. I due continenti, accostandosi lentamente, fecero sollevare in tante pieghe il fondo del Mediterraneo, appunto come mi hai visto fare con il giornale. Così nacque la catena delle Alpi e la lunga, frastagliata catena degli Appennini…”.
Roberto ascoltava stupefatto.

“Hai presente la cartina geografica dell’Italia fisica? Sembra uno stivale proteso verso il mare. Ma guarda  bene: c’è tutta una struttura montagnosa che ne costituisce l’ossatura. A nord, come un grande arco, si stende la catena delle Alpi. Dalle Alpi Occidentali si dipartono gli Appennini che percorrono in lungo tutta l’Italia. Le stesse montagne della Sicilia sono un prolungamento degli Appennini, e perciò si chiamano Appennini Siculi”.
“E le pianure, come sono nate?”
“Dai depositi dei fiumi. Guarda la Pianura Padana. Dalle Alpi scendono molti fiumi che trasportano detriti e terriccio. Col passare dei secoli questi detriti hanno colmato il mare e così si sono formate le pianure. Non è chiaro?”
Roberto si fermò un attimo a guardare. All’orizzonte si estendeva la pianura sconfinata, velata da una leggera nebbiolina. Sembrava appena uscita dal mare, proprio come aveva detto il babbo.

Come si è formata l’Italia
Siamo nell’era terziaria (l’uomo apparirà soltanto nell’era successiva, la quaternaria). Le precedenti ere: primigenia, primaria e secondaria, avevano già visto alcune terre sprofondare lentamente nel mare ed altre emergere; ora un’altra grande vicenda, detta “corrugamento alpino” sta per cambiare volto all’Europa.
Una parte dell’Europa meridionale sprofonda nel mare, e nel Mediterraneo soltanto il massiccio Sardo-Corso continua a spuntare dalle acque, mentre comincia ad emergere, ciò che sarà il nostro suolo, una leggera falce di terra, costituita dalle maggiori creste alpine. Lentamente ecco affiorare poi, fra le spume del mare, il bruno dorso dell’Appennino nelle sue cime più alte, cosicchè l’Italia appare come una serie di isole. Continuando i movimenti corruganti per effetto delle immani forze endogene della terra, ecco man mano delinearsi l’alto e potente arco alpino e ad esso, e tra di loro, saldarsi le isole, che si spingono nel mare verso sud a formare un’unica lunga catena: l’Appennino.

Nel Pliocene, ultimo periodo dell’era terziaria, la cui durata si calcola dai sei ai dieci milioni di anni, l’Italia comincia a delinearsi nella sua struttura essenziale, caratteristica: c’è quantomeno lo scheletro, cui i successivi innalzamenti e  i depositi alluvionali dei fiumi aggiungeranno, poco per volta, la polpa delle pianure.
Nel passaggio dal Pliocene al Quaternario si ebbe un forte abbassamento della temperatura con relativo imponente sviluppo dei ghiacciai, e con un’intensa attività vulcanica.
Dell’epoca glaciale si calcola la durata in 600.000 anni. Tutti i più alti rilievi alpini erano coperti di ghiaccio; solo le cime più ripide e scoscese emergevano nude. I sistemi glaciali più estesi delle Alpi erano quelli della Dora Riparia, della Dora Baltea, del Ticino, dell’Adda, dell’Oglio, dell’Adige, del Piave e del Tagliamento.
I ghiacciai depositavano, ai margini e soprattutto alla fronte, i detriti di cui erano carichi: i depositi frontali si presentano tuttora come archi di colline disposte ad anfiteatro. Al ritirarsi dei ghiacciai, le conche situate a monte di tali sbarramenti morenici si colmarono d’acqua, a costituire gli odierni laghi d’Iseo, di Garda, Maggiore, di Como.

I ghiacciai hanno modellato anche le vallate sulle quali scorrevano, arrotondandone e lisciandone il fondo ed i fianchi (sezione a U), cosicchè la forma di queste valli si presenta oggi ben diversa da quella delle valli erose unicamente dai fiumi (che hanno una sezione a V).
Dai ghiacciai scendevano enormi fiumane, che divagavano capricciosamente, su letti larghissimi, per l’intera Pianura Padana, in più punti acquitrinosa e intransitabile.
Sull’Appennino, data la minore altezza dei rilievi e la diversa latitudine, non si ebbe un’espansione glaciale imponente come sulle Alpi; ma ghiacciai locali ebbero tutti i massicci più elevati, dal monte Antola nell’Appennino ligure, al monte Pollino in Calabria. I ghiacciai più estesi furono quelli del Cimone e della Cusna nell’Appennino toscano; nell’Appennino centrale quelli dei monti Sibillini, del Gran Sasso, del Velino-Sirente, della Maiella, del monte Marsicano, del monte Greco; nell’Appennino meridionale quelli dell’Alburno, del Matese, del Pollino e della Serra Dolcedorme; qualche ghiacciaio ebbe anche l’Etna.
Estesi invece furono i bacini lacustri appenninici, prosciugati poi in varie epoche, e di cui restano, comunque, cospicui residui.

Alla fine del Terziario l’Etna aveva iniziato la sua attività; attività endogena si era avuta nei monti Berici, nei Lessini, nei colli Euganei, nei monti Iblei in Sicilia, nel monte Ferru in Sardegna, e nell’interno di Alghero e di Bosa (dove si trovano colate laviche caratteristiche: le giare).
Il Pleistocene vide imponenti attività vulcaniche sul versante tirrenico: centri eruttivi si ebbero nella Toscana meridionale (Orciatico, Montecatini, Roccastrada, ecc…), nel monte Amiata, nel gruppo della Tolfa, dei monti Volsini, Cimini, Sabatini, dei Colli Laziali; più a sud furono attivi il vulcano di Roccamonfina, i Campi Flegrei, il Vesuvio, i vulcani delle isole Ponziane, di Ischia, il Vulture, e quelli delle Eolie e di Linosa.
Estintasi l’attività eruttiva, i crateri, in molti casi si trasformarono in laghi. Le ceneri e i lapilli eruttati si consolidarono in estesi depositi di tufo; Roma stessa è in parte costruita su rilievi tufacei provenienti dal Vulcano Laziale.

Il periodo che segue il ritiro dei ghiacciai è detto Olocene e risale al 20-25.000 anni fa.
E’ difficile farci un’idea dell’aspetto che presentava la nostra Italia. Sulle Alpi i ghiacciai si andavano ritirando verso le loro posizioni attuali: la montagna si copriva di boschi fittissimi, popolati da fiere, da mammiferi giganteschi, da uccelli.
Al ritiro  dei ghiacciai corrispondeva un maggior deflusso di acque che andavano ad innalzare il livello dei mari; l’Adriatico avanzava verso nord a sommergere lo spazio tra la Penisola Italiana e la Balcanica.
I grandi laghi si venivano colmando e al posto di essi subentravano pianure interne, spesso cosparse di bacini residui o di acquitrini. Frequente anche la formazione di torbiere. L’attività vulcanica si veniva a poco a poco spegnendo o attenuando. La rete idrografica si veniva stabilizzando con fenomeni di cattura, erosione regressiva, ecc…
L’Italia andava assumendo a poco a poco quella che è la sua attuale fisionomia; l’uomo vi si diffondeva, e con l’uomo iniziava anche l’intelligente opera trasformatrice del paesaggio naturale.

Come è nata l’Italia

L’Italia è una terra di incomparabile bellezza per i suoi stupendi paesaggi che vanno dalle alte vette nevose delle Alpi alle splendide coste, dai boschi alle fertili pianure.
E’ una penisola e cioè una terra circondata dal mare da tutte le parti meno una. Si stende nel Mar Mediterraneo ed è simile, per la sua forma, a uno stivale.
Ma un tempo non aveva questa forma, anzi, in tempi assai più remoti non esisteva affatto, come qualsiasi altra terra: è noto infatti che i continenti sono terre emerse.
Da un potente sconvolgimento della crosta terrestre era sorto dal mare un immenso fascio di catene che attraversava quasi tutto il globo. In questo fascio, c’erano anche le Alpi. E alla base delle Alpi, di frangevano, spumeggiando,  le onde.

In seguito, lentissimamente, il suolo cominciò a sollevarsi, a emergere dall’acqua ed ecco il dorso dell’Appennino nereggiare fra le spume del mare. A grado a grado, la catena appenninica si unisce a quella delle Alpi. Altre terre emergono qua e là come tante isole, e dopo milioni di anni, queste isole affioranti dal mare si saldano insieme. E’ lo scheletro montuoso dell’Italia. Intorno a questo scheletro, lentamente si vengono formando le pianure. Fra queste, la più vasta, la pianura del Po. Dove ora sono le fertili terre coltivate, una volta c’era il mare, e pertanto vi si rinvengono numerose conchiglie fossili, testimoni di un tempo in cui le acque si spingevano nelle gole alpine che allora erano insenature costiere, profonde e strette. Una parte delle Alpi, quella che si chiama Dolomiti, sorge addirittura su banchi di corallo.

A quest’epoca il globo era ricoperto, quasi interamente, dai ghiacci e, nella loro corsa al piano, le acque provenienti dai ghiacciai trasportavano ammassi di pietre, rocce e detriti di ogni genere, strappati ai versanti lungo i quali precipitavano.
I ghiacciai delle Alpi, nonostante la loro apparente immobilità, avevano invece un moto lento ma continuo, e per l’azione di questo movimento, nel corso dei secoli  il dorso dei monti si levigò, si abbassò, i crepacci si colmarono trasformandosi in ampie valli in fondo alle quali scorreva un fiume. I sassi e le rocce, trasportati dalle acque e trascinati dal movimento dei ghiacciai, formarono degli ammassi che oggi si chiamano morene.
Le morene, sempre nel corso dei secoli, si alzarono come barriere e le acque, arrestate da questi ostacoli, formarono i bellissimi laghi subalpini, gemme dell’Italia settentrionale.

Nel frattempo, il fondo del mare si andava sollevando e al posto delle acque si formava un’ampia e bassa pianura, attraverso la quale si convogliavano le acque provenienti da una parte dalle Alpi e dall’altra dagli Appennini. Queste acque infine si raccolsero in un ampio e maestoso fiume che un giorno si sarebbe chiamato Po.
Nel corso dei millenni l’Italia prese la forma attuale. Ma questa non sarà certo la sua forma definitiva. Se, fra migliaia e migliaia di anni gli uomini saranno ancora su questa terra, essi vedranno un’Italia ben diversa dall’Italia di oggi. Quelli che attualmente sono picchi altissimi, si saranno trasformati in vette arrotondate e in dolci pendii; le valli si saranno colmate e i fiumi avranno cambiato il loro corso. Dove oggi c’è una verde pianura, ci sarà forse una montagna di detriti rocciosi; nuove spaccature si saranno aperte e in fondo ad esse scorreranno le acque tumultuose di nuovi fiumi; dove oggi c’è un ghiacciaio forse ci sarà un lago azzurro, qualche isola sarà scomparsa nel mare e altre ne saranno emerse. Il delta del Po si sarà saldato all’opposta sponda adriatica, e Venezia, se ancora esisterà, sorgerà sulle rive di un lago…

Come potranno avvenire questi cambiamenti? Forse la nostra patria è davvero destinata ad essere vittima di paurosi sconvolgimenti e convulsioni della terra? Si tratterà sì anche di sconvolgimenti e convulsioni, ma soprattutto dell’azione secolare degli elementi. L’aria, l’acqua, il fioco sono le forze naturali che modificano incessantemente la forma della terra. Il vento che spazza, per migliaia e migliaia di anni, il crinale di una montagna, finisce con l’appiattirlo, col levigarlo; la pioggia che flagella il monte per secoli, scalza i massi di pietra e li fa rotolare lungo i pendii, approfondisce i crepacci, corrode le vette, trascina a valle i detriti. Il ghiaccio che si forma nelle fenditure, spacca le pietre più dure, le disgrega, le riduce in frammenti…

Nell’interno della terra il fuoco ancora rugge e divampa. Talvolta, questo fuoco trova una via d’uscita in una frattura della crosta terrestre e allora erompe all’esterno in un getto violento di fiamme, di cenere, di lave liquefatte.

E il fuoco? Con l’andar del tempo, dove prima c’era soltanto una spaccatura della roccia, eruttante fuoco, si forma un vulcano. In Italia abbiamo  ancora alcuni vulcani attivi: l’Etna, il Vesuvio, lo Stromboli. Ma un tempo i vulcani di questa nostra terra erano molto più numerosi e con le loro eruzioni coprirono intere regioni di alti strati di tufo, di cenere, di lava che si andarono solidificando. I sette colli su cui venne fondata Roma sono fatti di tufo, cioè di cenere vulcanica solidificata.

Passano mille e mille anni e il vulcano si esaurisce, si quieta, si spegne. Nel suo cratere, ormai inattivo, si raccolgono le acque formando un lago pittoresco. Tale è l’origine di alcuni laghi dell’Italia centrale, il lago di Vico, di Nemi, di Albano, ecc…

Ma il fuoco non scaturisce soltanto dalla terra, bensì anche dal fondo del mare. E col tempo si formano delle isole tutte di origine vulcanica, come Ischia, Procida, Capraia, Ponza, le Eolie, ecc… E, nell’andare dei secoli, così si formeranno anche isole che forse gli uomini un giorno abiteranno. Nel 1931 sorse, dal fondo del Mar Ionio, un’isola vulcanica che fu chiamata Fernandea e che dopo qualche settimana fu di nuovo inghiottita dalle acque.

Ecco come il paesaggio cambia, ecco come nel corso dei millenni cambia l’aspetto dei monti, delle pianure, dei mari, della costa.

Ma il paesaggio non cambia soltanto per opera degli elementi o degli sconvolgimenti o dei cataclismi. Cambia anche per l’opera dell’uomo che assoggetta la terra alla sua volontà, ai suoi bisogni, alle esigenze della sua vita. Prendiamo, come esempio, ancora una volta, la Pianura Padana. Oggi, questa terra è una delle più fertili d’Italia, ma un tempo, mille e mille anni fa, era una distesa arida e sassosa dalla parte dei monti, paludosa, cespugliosa e fangosa lungo il fiume. I fiumi che l ‘attraversavano spostavano continuamente il loro corso, lasciando ammassi di ghiaia e invadendo terre fino allora asciutte.

Com’è avvenuta la trasformazione che ha fatto, di questa regione ingrata e malsana, una delle più ricche e fertili terre d’Italia? E’ avvenuta per opera dell’uomo. L’uomo ha sistemato le acque costringendole entro il loro letto mediante l’erezione di argini e di muraglioni; le ha convogliate in canali, formando così un sistema di irrigazione che ha reso fertili le zone prima di allora malsane e paludose; ha costruito potenti dighe per costringere le acque a mettere in moto macchinari, opifici e, soprattutto, ha impiantato centrali elettriche per dare la forza motrice e la luce a città e paesi anche molto lontani.

Non contento di questo, l’uomo ha scavato il sottosuolo e ne ha tratto il gas metano che va ad alimentare impianti casalinghi, portando fiamma e calore da per tutto. Con il sorgere delle industrie, con l’incremento dell’agricoltura, con l’avanzare della civiltà, la regione si è popolata di grandi e attive città che l’uomo ha collegato fra loro con chilometri e chilometri di strade, creando una fitta rete di comunicazioni che ha favorito rapidi spostamenti da un paese all’altro. Ecco che cosa può mutare profondamente l’aspetto di un luogo.

(Mimì Menicucci)

era secondaria
era terziaria
era quaternaria
oggi

Il nome “Italia”

Molti furono i nomi usati nell’antichità per designare la nostra penisola. I Greci la chiamarono Esperia o “Terra del tramonto” per indicarne la posizione rispetto alla loro patria (l’Italia è a occidente della Grecia); altri la dissero Enotria o “Terra del  vino”; altri ancora Saturnia o “Terra di Saturno”, dio delle messi.
Prevalse infine il nome Italia, usato in un primo tempo per designare l’estrema punta della Calabria e poi dai Romani esteso a tutta la penisola.

E’ un nome bellissimo, ma purtroppo non se ne conosce l’esatta etimologia. Un tempo lo si faceva derivare da quello di un leggendario re Italo, più tardi lo si ritenne una derivazione dal termine osco Viteliu (o dalla voce latina vitulus) a indicare che l’Italia era una terra ricca di bovini. Oggi si è propensi a credere che esso derivi da Italoi che significa abitanti dei monti, quali infatti sarebbero stati i primi abitanti della montuosa Calabria.

Nel IV secolo aC il nome Italia era già esteso a tutto il territorio a sud dell’Arno; durante l’impero di Augusto comprendeva anche la Pianura Padana. Le tre grandi isole Sicilia, Sardegna e Corsica furono denominate Italia soltanto durante il regno di Diocleziano (IV secolo dC).

Dove l’Italia cresce di sette millimetri all’ora

Alle foci del Po la terra d’Italia avanza in mare di sessanta metri all’anno, che, se non sbaglio i conti, sono circa diciassette centimetri al giorno: qualcosa come sette millimetri all’ora. Possono sembrare pochi, perchè il mondo, in fatto di rapidità, si è fatto esigente; ma se si pensa che la marcia continua da decine di migliaia di anni e che a forza di millimetri l’instancabile fiume ha riempito tutto quello che era, un tempo, il golfo padano e che oggi è la Pianura Padana, il pensiero di questo lavoro, che si  svolge dalla preistoria e continuerà quando di noi non sarà più nemmeno un pizzico di polvere, fa venir voglia di levarsi il cappello. (O. Vergani)

L’azione modellatrice del mare
L’azione morfologica del mare, rispetto alle coste, si esercita attraverso le due forme fondamentali dell’abrasione e dell’alluvionamento, ciascuna della quali assume però diversi aspetti. Ci limiteremo a quelli che interessano le coste italiane.
Quando si affacciano sul mare rocce argillose o argillosabbiose di consistenza omogenea, l’abrasione genera delle ripe a picco (analoghe alle falaises francesi), di cui si hanno esempi sulle coste delle Marche; quando le rocce piombano a picco sul mare, l’abrasione crea, a livello del mare, una piattaforma costiera sulla quale poi si smorza il moto ondoso. Quando invece si affacciano al mare rocce con strati di diversa consistenza, si generano piccole insenature dove l’abrasione è più forte, alternate a piccoli promontori in corrispondenza degli strati più resistenti.
Il mare scava poi solchi di battente e grotte, frequentissime sulle coste alte italiane. La più celebre delle grotte erose dal mare è certamente la Grotta Azzurra di Capri, ma numerose altre ve ne sono nelle isole dell’Arcipelago napoletano, nella Penisola Sorrentina (Grotta Verde), al Capo Palinuro, sulla costa della Calabria tirrenica, lungo il Promontorio Circeo, nell’Argentario, nel Promontorio di Portovenere, sulla costa ligure di ponente e in Sardegna. Parecchie grotte si trovano a diverse altezze rispetto all’attuale livello marino: esse testimoniano antiche linee di spiaggia e spesso, come la grotta delle Arene Candide nella Riviera di Ponente, danno reperti preistorici.
Altra azione dell’abrasione marina è il distacco dalla terraferma di scogli, faraglioni, isolotti: ne sono esempi l’isola Palmaria (il cui distacco dalla costa di Portovenere fu però dovuto anche ad altre cause); l’isola di Dino presso la costa calabra; alcune isolette davanti alla costa occidentale e l’isolotto di Capo Passero all’estremità sud-est della Sicilia; l’isola Monica davanti alla costa di Santa Teresa di Gallura in Sardegna, ecc…
In senso opposto all’abrasione, e con effetti molto più rilevanti, agisce l’alluvionamento. I materiali erosi e quelli riversati dai fiumi, talora, dopo un più o meno lungo trasporto ad opera delle correnti e una elaborazione meccanica e chimica, vengono dal mare depositati a formare coste alluvionali piatte, sabbiose, normalmente strette (ad esempio in molte piccole insenature liguri, sulle coste calabresi, marchigiane, abruzzesi ecc…) accompagnate spesso, in quelle di maggior ampiezza, da dune accumulate dal vento in cordoni litorali, quali si trovano sulle coste toscane (dove vengono chiamati tomboli), laziali (dove vengono chiamati tumuleti), della Sicilia e della Sardegna.
I più vistosi effetti dell’alluvionamento si hanno alle foci dei fiumi, nei delta. Nei mari più riparati, come nell’Adriatico centrale e in fondo al golfo di Taranto, i materiali riversati dai fiumi formano cimose litoranee regolari; altrimenti si ha la formazione di veri e propri delta dalle complicate e irregolari ramificazioni, che in epoca storica, per effetto dell’azione abrasiva e delle correnti litoranee del mare, hanno subito alterne vicende di avanzamento, di stasi, di spostamenti che, complicati dall’intervento dell’uomo, ne hanno più volte mutato la configurazione: tali l’apparato deltizio Po – Adige, i delta della Magra, dell’Ombrone, del Garigliano, del Tagliamento, del Serchio – Arno, del Volturno, del Crati, del Simeto ecc…
Complessivamente la costa avanza a spese del mare: Adria e Ravenna, che nell’antichità erano città marine, ora distano dal mare rispettivamente 14 e 8 chilometri; Luni, da cui prende nome la Lunigiana, ora nell’interno, era anticamente un porto etrusco.

Il nostro paese

Vi sono paesi nel mondo, i quali, per la loro posizione geografica e configurazione, sono destinati a rappresentare sempre una delle prime parti della storia mondiale: fra questi vi è l’Italia. Pochi paesi nel mondo hanno confini così ben delimitati, come il nostro; pochi paesi hanno una posizione geografica così privilegiata come quella dell’Italia. Situata nel centro del più bel mare del mondo, esso riassunse in sè quella civiltà mediterranea, romana e cristiana, che oggi è la civiltà del mondo intero. (Gribaudi)

La forma dell’Italia

L’Italia è una penisola circondata da tre parti dal mare e a nord incoronata dalla fulgida catena delle Alpi. Ma un tempo non aveva questa forma. Una serie di paurosi e violenti sconvolgimenti fecero affiorare alcune terre e sprofondarne altre; il mare invase immensi territori e da altri si ritirò ruggendo. Il risultato di queste convulsioni di acqua e di terra fu la forma caratteristica di acqua e di terra fu la forma caratteristica delle Alpi, alle splendide marine, dai boschi selvosi alle fertili pianure.

La pianura Padana

Dove ora sono le fertili terre coltivate della pianura padana, una volta c’era il mare che si spingeva nelle gole alpine che allora erano insenature costiere. I ghiacciai che ammantavano le alte cime delle Alpi e che, apparentemente erano immobili, si muovevano, invece, con un moto lentissimo, ma continuo, trascinando ammassi di pietre, rocce e detriti di ogni genere, strappati dai versanti lungo i quali scendevano. Nel frattempo, il fondo del mare si andava sollevando e si formò così una vasta pianura attraverso la quale si convogliavano le acque irruenti dei fiumi. Fra questi, il più grande, il più ricco d’acqua, il Po.

L’azione degli elementi

Il vento che spazza, per migliaia e migliaia di anni, il crinale di una montagna, finisce per appiattirlo, per levigarlo. La pioggia che flagella il monte per secoli, scalza i massi pietrosi e li fa rotolare lungo i pendii, approfondisce i crepacci, corrode le vette, trascina a valle i detriti. E il fuoco? Nell’interno della terra il fuoco ancora rugge e divampa. Talvolta, questo fuoco trova una via di uscita in una frattura della crosta terrestre e allora erompe all’esterno in un getto violento di fiamme, di cenere, di lave liquefatte. Con l’andar del tempo, dove prima c’era soltanto una spaccatura della roccia eruttante fuoco, si forma un vulcano. La terra, insensibilmente, cambia forma e dimensione.

L’opera dell’uomo

Il paesaggio non cambia soltanto per opera degli elementi e dei cataclismi. Cambia anche per l’opera dell’uomo che assoggetta la terra alla sua volontà, ai suoi bisogni, alle esigenze della sua vita. Egli sistema le acque costringendole entro il loro letto, costruisce dighe e centrali elettriche che daranno vita ai suoi opifici ed energia elettrica alle sue città. Traccia chilometri e chilometri di strade, rende fertili zone un tempo paludose e malsane, costruisce case che formano paesi e città. Ecco che cosa può mutare profondamente l’aspetto di un luogo.

Come si è formata l’Italia

La penisola italiana è emersa dal mare. Per secoli e secoli dalle azzurre onde di un mare sconvolto, affiorano punte, scogli, terre che a settentrione si disposero a semicerchio, le Alpi. E si formarono montagne, colline, pianure; i fiumi precipitarono nelle valli e dove le acque passavano crescevano le erbe e le piante, sbocciavano i fiori. Presto la terra fu tutta un verdeggiare di floridi campi. Nelle selve cinguettarono gli uccelli, per le pianure corsero, code e criniere al vento, torme di cavalli selvaggi; dalle macchie folte uscirono grandi buoi che giravano intorno i grandi occhi stupiti. Poi nei campi, presso i fiumi, apparvero uomini alti e forti, dallo sguardo fiero, che impugnavano rami nodosi e schegge di selce.

I primi abitatori dell’Italia

Chi furono i primi abitatori dell’Italia? Oggi ci soni i Veneti, i Liguri, i Romani, i Piemontesi, tutti Italiani dalle Alpi alla Sicilia, ma migliaia e migliaia di anni fa gli abitanti erano ben diversi e anche l’Italia presentava un aspetto del tutto differente da quello di oggi. Una regione coperta di fittissime foreste, senza abitazioni, senza coltivazioni, senza alcun segno di civiltà. E su questa terra, lussureggiante di boschi, ancora scossa dalle convulsioni di decine e decine di vulcani, gruppi di uomini irsuti, dalle grosse teste e dalle lunghe braccia, vagavano fra gli alberi in cerca di cibo.

I primi abitatori dell’Italia

Nelle grotte del monte Circeo si sono trovati resti di uomini vissuti in Italia migliaia e migliaia di anni fa, razze del tutto scomparse. Ma la civiltà non è avanzata con lo stesso passo in tutte le regioni del mondo. Le migrazioni portarono ondate di popoli più civili di quelli che abitavano la penisola.

Popoli d’Italia

 Col passare del tempo, ondate di uomini migrarono nella penisola; erano popoli provenienti dalle città del Mediterraneo, che avevano imparato a costruire le navi, che conoscevano il commercio e sapevano fare i calcoli; erano Etruschi, che sapevano fabbricare bellissimi vasi di terracotta e avevano una forma di avanzata civiltà, erano i Galli che provenivano dal nord, erano i Cartaginesi che venivano dall’Africa. Tanti popoli, tante razze, che si mescolarono fra loro, costruirono le abitazioni, diffusero le loro scoperte. Uomini dai capelli biondi o bruni, ma tutti di carnagione chiara, forti, intelligenti, industriosi: gli antenati dei futuri Italiani.

Le morene

Nell’antichità tutta la pianura dell’Italia settentrionale formava un vasto golfo. Le pittoresche gole alpine erano, allora, altrettante anguste insenature costiere che servivano di afflusso alle acque scendenti dai ghiacciai che in quel tempo coprivano la maggior parte dell’Europa. Nella loro corsa al piano, i ghiacciai convogliavano macigni rocce detriti che strappavano ai versanti tra i quali precipitavano: a questo materiale si dava il nome di morena. Le morene ostruivano così le vallate e all’atto dello scioglimento dei ghiacciai trattenevano l’acqua formando così un lago.

Regioni d’Italia

Vorrei cantarvi tante canzoni,
o dell’Italia dolci regioni:
Piemonte, Veneto e Lombardia,
Liguria, Emilia, Toscana mia!
Le Marche e l’Umbria vorrei vedere,
l’Abruzzo, il Lazio e le costiere
della Campania, tutto un giardino,
ricche di frutta, di grano e vino.
Puglia, Calabria, Basilicata,
Sicilia bella, terra incantata,
Sardegna bruna di là dal mare,
oh, vi potessi tutte ammirare! (A. Cuman Pertile)

Lo stivale

Io non son della solita vacchetta
nè sono uno stival da contadino,
e se paio tagliato con l’accetta
chi lavorò non era un ciabattino;
mi fece a doppia suola e alla scudiera
e per servir da bosco e da riviera.
Dalla coscia in giù fino al tallone
sempre all’umido sto senza marcire,
son buon da caccia e per menar di sprone.
I molti ciuchi ve lo posson dire:
tacconato di solida impuntura
ho l’orlo in cima e in mezzo la costura. (G. Giusti)

Italia
Quando nomino “Italia” voglio dire
questa terra divina
su cui si corica e cammina
il mio povero corpo
e mi fa piangere e soffrire:
questo azzurro che riempie le pupille
dei miei bambini,
quest’aria che respiriamo;
questi campi, questi giardini
pieni di fiori
così belli e perfetti
che sembrano fatti con gli stampi.
Quando nomino “Italia” voglio dire
questa pianura, questi monti,
che sono solo italiani
perchè non sono così belli in nessun altro luogo;
questo mare ch’è tutto mio
perchè l’ho accarezzato con le mani,
queste città serene e soleggiate. (C. Govoni)

Italia
Italia:
parola azzurra
bisbigliata sull’infinito
da questa razza adolescente
ch’ha sempre
una poesia nuova da costruire
una gloria nuova da conquistare.
Italia:
primavera di sillabe
fiorite come le rose dei giardini
peninsulari,
stellata come i firmamenti del Sud
fatti con immense arcate blu.
Italia:
nome nostro e dei nostri figli,
via maestra del nostro amore,
rifugio odoroso dei nostri pensieri,
ultimo bacio sulle nostre palpebre
nel giorno che la morte
serenamente verrà.

Osservando la carta geografica troveremo la spiegazione dei versi “Dalla coscia in giù fino al tallone sempre all’umido sto senza marcire”. L’Italia, infatti, è circondata per tre parti dal Mar Mediterraneo che, in vicinanza delle coste, prende diversi nomi: Mar Ligure, Mar Tirreno, Mar Ionio, Mare Adriatico, facilmente rilevabili sempre dall’osservazione della carta.  E ci sarà facile anche spiegare il significato dell’ “orlo in cima e in mezzo la costura“, osservando la catena delle Alpi che a nord costituisce una potente frontiera naturale, e quella degli Appennini che si stende per tutta la lunghezza della penisola.

La felice posizione che l’Italia occupa nel Mediterraneo, ne fa il centro delle comunicazioni fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Anche per tale motivo, nel passato Roma potè divenire caput mundi, il centro del mondo conosciuto allora. La scoperta dell’America, spostando questo centro dal Mediterraneo all’Atlantico, dette un duro colpo alla supremazia commerciale dell’Italia; tuttavia, la sua posizione geografica continua ancor oggi ad essere molto importante, in quanto la nostra penisola fa da tramite tra l’Europa centrale, l’Africa ed i paesi del Medio Oriente.

L’Italia
Quando gli antichi Greci sbarcarono in quella regione dell’Italia che oggi chiamiamo Calabria, vi trovarono un popolo che portava il nome di Vituli. Quel nome significava “popolo di vitello” perchè era, per quella gente, un animale sacro.
La pronuncia greca cambiò in Itali la parola Vituli, perciò quella reglione fu chiamata Italia.
Più tardi, con la venuta dei Romani e con l’espansione del loro dominio, il nome venne a designare tutta la Penisola, oltre il Po fino ai piedi delle Alpi.
La nostra Penisola, che si protende per più di mille chilometri al centro del Mar Mediterraneo, ha la forma di un ampio stivale, con un tacco un po’ alto, sormontato da un robusto sperone.
Essa è come un gigantesco ponte gettato a congiungere l’Europa con l’Africa.
Per questa sua particolare posizione l’Italia subì dapprima l’influenza di alcune civiltà sorte lungo le coste del Mediterraneo, e divenne poi essa stessa sede si una grande civiltà, quella di Roma, che si diffuse in tutto il mondo antico.

La natura ha dato all’Italia confini ben definiti. A nord la grande cerchia delle Alpi la separa dall’Europa. Attraverso facili valichi e numerose gallerie, sono possibili le comunicazioni con la Francia, la Svizzera, l’Austria, la Slovenia.
Scendendo verso sud, l’Italia è lambita dal Mar Mediterraneo, che ad est prende in nome di Mare Adriatico, a sud di Ionio, ad ovest di Tirreno e Ligure.
Dai mari italiani emergono numerose isole, spesso raggruppate in arcipelaghi. Le più vaste sono la Sicilia e la Sardegna.
Le isole minori, sparse un po’ in tutti i mari, sono raggruppate in arcipelaghi. L’arcipelago Toscano comprende la ferrigna isola d’Elba, attorno alla quale sono disseminate Gorgona, Capraia, Pianosa e l’isola del Giglio. Dell’Arcipelago delle Ponziane fanno parte le isole di Ponza, Palmarola, Ventotene e Santo Stefano. L’Arcipelago Campano è costituito dalle isole napoletane di Ischia, Procida, Capri e Nisida. L’Arcipelago delle Eolie o Lipari, di fronte alle coste settentrionali della Sicilia, comprende Salina, Filicudi, Alicudi e i grandi crateri attivi di Vulcano e Stromboli. Al largo di Palermo emerge, solitaria, Ustica. L’Arcipelago delle Egadi, ad ovest della Sicilia, comprende le isole di Favignana, di Marettino e di Levanzo. Pantelleria, famosa per i suoi vini, fa parte della provincia di Trapani. Le Pelagie sono situate presso le coste dell’Africa. Fra esse abbiamo Lampedusa, Linosa e Lampione. Le Tremiti emergono nell’Adriatico, a nord del Gargano, con le isolette di Caprara e San Domino. Altre isole, sparse attorno alle coste della Sardegna, sono San Pietro, Sant’Antioco, Asinara, Caprera, La Maddalena.

Per il lavoro di ricerca
Come è nato il nome della nostra Patria?
Che forma ha l’Italia?
Ha sempre avuto la forma attuale, l’Italia, oppure, come tutte le terre emerse, ha subito numerose trasformazioni?
I confini dello Stato Italiano, retto oggi a Repubblica, coincidono sempre con i confini naturali della regione?
Quali territori restano esclusi?
Quanti abitanti conta l’Italia? Che cos’è il censimento?
Da quali mari è bagnata la penisola italiana?
Dove sono situati tali mari?
Qual è la massima profondità del mar Ligure? E del mar Tirreno? Del mar Ionio? Del mar Adriatico? Del mare di Sicilia? Del mare di Sardegna?
Quali tipi di coste conosci?
Com’è il clima d’Italia?
Quali sono i principali golfi della costa ligure, tirrenica, ionica e adriatica?
Quali sono le principali penisole italiane?
Quali sono le due maggiori isole?
Quali altre isole conosci?
Sai dire il nome dello stretto che separa le coste calabresi dalla Sicilia?
Come si chiamano i punti estremi dell’Italia?

Osserviamo la carta geografica (località marine)
Qual è il mare che bagna la spiaggia di Ancona?
E la spiaggia di Napoli?
Pensate che i mari siano tutti uguali? Chissà quale sarà il più profondo… il più salato… il più pescoso…
Sapete nominare ed indicare sulla carta il nome dei mari italiani e distinguere, dall’intensità del colore blu, il più profondo?

Lo Stato italiano
Perchè una nazione diventi Stato occorre che vi sia un ben determinato confine (detto confine politico) il quale può identificarsi con quello naturale, che segna i limiti della regione; e poi occorre anche che entro questo territorio circoscritto vi sia un governo, con proprie leggi, con un proprio esercito, una propria bandiera, insomma che la nazione costituisca un’entità politica differenziata dalle altre.
Nella nostra regione fisica si è formato lo Stato Italiano, retto oggi a Repubblica, i cui confini però, per quanto ottimi, non coincidono sempre con i confini naturali della regione. Restano infatti esclusi circa 21.000 km2 corrispondenti al 7% del territorio totale della regione fisica. E precisamente:
– l’isola di Corsica (Francia)
– il Nizzardo
– il monte Chaberton, la valle stretta di Bardonecchia, il Passo del Moncenisio, tre piccoli lembi sulle Alpi Occidentali (alla Francia)
– il Canton Ticino (alla Svizzera)
– la Venezia Giulia e l’Istria (all’ex Jugoslavia)
– l’isola di Malta e Gozo (Stato indipendente)
– il Principato di Monaco (Stato indipendente)
– la Repubblica di San Marino (Stato indipendente)
– la Città del Vaticano (Stato indipendente).
Solo modestissimi lembi di terre al di là dello spartiacque alpino sono stati incorporati nello Stato Italiano:
– la valle del Reno di Lei
– la valle di Livigno
– il passo di Dobbiaco
– il passo di Tarvisio
Pure le Isole Pelagie, nel mar Ionio, fanno parte dello Stato Italiano (Lampedusa, Lampione, Linosa). Esse fisicamente sono isole africane.
Questi lembi, sommati assieme, danno una superficie di appena 684 km2.

Il clima d’Italia
Possiamo suddividere il territorio italiano, per caratteri climatici, in sei regioni:
1. regione alpina. Temperatura decrescente con l’altitudine; inverni lunghi e nevosi, estati brevi e fresche. Piogge abbondanti soprattutto verso est. Clima mite nella zona dei laghi e delle valli ben riparate.
2. regione padano-veneta. Clima continentale. Minime invernali che scendono a  15° – 17° sotto zero; massime estive fino a 36° – 38° sopra lo zero.
3. regione ligure-tirrenica. Clima mite, piogge autunnali, cielo prevalentemente sereno; neve rara.
4. regione adriatica. Maggiori contrasti fra estate e inverno quanto a temperatura, e minore piovosità rispetto alla regione ligure-tirrenica.
5. regione peninsulare interna. Formata dagli altipiani e dalle conche dell’Umbria e dell’Abruzzo, dalle alte terre del Sannio, dell’Irpinia, della Basilicata e della Calabria. Temperatura decrescente con l’altitudine; inverni rigidissimi, neve copiosa; estati molto calde. Piovosità variabile da zona a zona.
6. regione insulare. Clima mite ed uniforme; inverni temperati, estati lunghe e calde. Piogge scarse, soprattutto invernali; neve soltanto sulle cime più alte.

Le isole
La Sicilia è la più grande isola italiana e di tutto il Mediterraneo; dagli antichi era detta Trinacria per la sua forma a tre punte. Misura 25.000 km2 di superficie; i vertici del triangolo sono costituiti da Capo Faro, da Capo Passero e da Capo Boeo. Il lato maggiore, verso il Tirreno, ha coste alte e rocciose; notevoli la  penisoletta di Milazzo, i golfi di Termini, di Palermo e di Trapani.
Fronteggiano questa cosa le isole di Lipari o Eolie (tra le quali la maggiore è appunto Lipari; tuttavia molto note sono anche Stromboli, per il suo vulcano, e Ustica) e il gruppo delle Egadi.
Il lato medio, verso il canale di Sicilia, ha coste prevalentemente basse e unite; sporge appena Capo Granatola e molto falcata è l’insenatura di Terranova; porti artificiali sono Marsala e Porto Empedocle. Fronteggiano queste coste, a notevole distanza, l’isola di Pantelleria e il gruppo delle Pelagie (Linosa e Lampedusa). Il lato più breve, rivolto verso il mar Ionio, ha coste frastagliate e basse nel tratto meridionale, unite a quelle settentrionali. Molto ampia e aperta è l’insenatura del golfo di Catania; dei tre porti (Messina, Siracusa e Augusta) il più importante è certamente il primo, per le comunicazioni col continente.
I monti della Sicilia sono una continuazione dell’Appennino. A nord, lungo la costa, si elevano i monti Peloritani, i Nebrodi, le Madonie, a sudest si stendono gli altipiani collinosi, come i monti Erei e i monti Iblei. Isolato sorge l’Etna o Mongibello (m 3279), il più imponente vulcano attivo d’Europa. Ai piedi dell’Etna si stende la piana di Catania. Ad ovest l’isola è occupata da una serie di altipiani, da groppe collinose e da piccoli massicci.

La Sardegna è la seconda isola dell’Italia e del Mediterraneo, coi suoi 24.000 km2 di superficie. Sulla costa settentrionale notevoli sono il golfo dell’Asinara, delimitato a ovest dall’isola omonima, e le Bocche di Bonifacio, che dividono la Sardegna dalla Corsica; Porto Torres è lo scalo di Sassari.
La costa verso il Tirreno, nel tratto rivolto a nordest, è incisa da rias e forma i golfi degli Aranci, o di Terranova, e di Orosei; è fronteggiata da numerose isolette tra cui Caprera, Tavolara e La Maddalena. La costa meridionale, verso il canale di Sardegna, sporge coi capi di Carbonara e di Spartivento, che racchiudono il golfo di Cagliari. La costa che guarda il mar Esperico si sviluppa sinuosa, coi golfi di Alghero a nord e di Oristano al centro, e a sud con le isole di San Pietro e di Sant’Antioco, la quale ultima forma il golfo di Palmas.
In Sardegna, più che vere e proprie catene montuose, vi sono altipiani e massicci separati da pianure o da larghi avvallamenti.
Il massiccio più aspro è il Gennargentu, che tocca i 1834 metri; da ricordare per la loro ricchezza di minerali, nell’angolo sudovest dell’isola, i monti di Iglesias.
L’unica pianura di una certa estensione è quella del Campidano, tra i golfi di Oristano e di Cagliari.

Delle isole minori italiane meritano di essere ricordate, nel Tirreno, l’arcipelago toscano formato dall’Isola d’Elba e dalle più piccole Gorgona, Capraia, Pianosa, Montecristo, Giglio, Giannutri; le Pontine, di fronte al golfo di Gaeta, formate dalle isole di Ponza, Zannone, Palmarola, Ventotene e Santo Stefano; le Napoletane, cioè Ischia, Procida, Vivara e Capri. Nell’Adriatico ricordiamo le Tremiti e Pelagosa.

Principali isole italiane (superficie in km2)
Sicilia…………….. 25.426,2
Sardegna………… 23.812,6
Elba…………………….223,5
Sant’Antioco…………108,9
Pantelleria……………..82,9
San Pietro………………51,3
Asinara………………….50,9
Ischia…………………….46,4
Lipari…………………….37,3
Salina…………………….26,4
Giglio…………………….21,2
Vulcano…………………20.9
Lampedusa…………….20,2
La Maddalena…………20,1
Favignana………………19,8
Capraia………………….19,5
Caprera………………….15,8
Marettimo………………12,3
Stromboli……………….12,2
Capri……………………..10,4
Montecristo……………10,4
Pianosa………………….10,3
Filicudi…………………….9,5
Ustica………………………8,3
Ponza………………………7,5
Tavolara………………….5,9
Levanzo…………………..5,6
Linosa……………………..5,4
Stagnone………………….5,4
Alicudi……………………..5,1
Spargi………………………4,2
Procida…………………….3,9
Molara……………………..3,4
Panaria…………………….3,3
Santo Stefano…………….3,1
Giannutri…………………..2,3
Gorgona……………………2,0
San Domino……………….2,0

I fiumi

Per l’abbondanza delle piogge e per la presenza delle due catene montuose delle Alpi e degli Appennini, i fiumi che scorrono in Italia sono numerosi. Essi, però, a causa della forma stretta e allungata della Penisola, hanno in gran parte corso breve.
Per le loro particolari caratteristiche possiamo distinguerli in fiumi alpini e fiumi appenninici.
I fiumi alpini sono di origine glaciale, hanno cioè origine dai ghiacciai, nascono dalle Alpi e sono soggetti a piene primaverili ed estive, causate dallo scioglimento delle nevi. I principali hanno corso lungo e sono ricchi di acque.
I fiumi appenninici, mancando sull’Appennino i nevai e i ghiacciai, sono alimentati quasi esclusivamente dall’acqua piovana. Essi hanno corso breve, e sono soggetti a improvvise e talvolta rovinose piene primaverili ed autunnali, e a secche estive quasi assolute. Sono quindi fiumi a carattere torrentizio.

Il Po è il più grande fiume d’Italia. Nasce dal Monviso, nelle Alpi occidentali, e percorre tutta la Pianura Padana fino all’Adriatico, nel quale si getta con foce a delta.
Durante il suo corso di 652 chilometri, riceve e numerosi affluenti che discendono in parte dal versante meridionale della catena alpina (affluenti di sinistra) e in parte dal versante settentrionale della catena appenninica (affluenti di destra). Bagna le città di Saluzzo, Torino, Casale Monferrato, Piacenza, Cremona.
Gli affluenti di sinistra del Po sono la Dora Riparia e la Dora Baltea, la Sesia, il Ticino, l’Adda, l’Oglio e il Mincio.
Gli affluenti di destra sono il Tanaro (l’unico che nasce dalle Alpi Marittime, presso il Col di Tenda), la Scrivia, la Trebbia, la Secchia, il Panaro.

Gettano le loro acque nell’Adriatico, oltre il Po, i seguenti fiumi alpini: l’Adige, il Brenta, il Piave, la Livenza, il Tagliamento e l’Isonzo.
Dagli Appennini scendono il Reno, la Marecchia, il Foglia, il Metauro, l’Esino, il Tronto, la Pescara, il Sangro, il Biferno, il Fortone e l’Ofanto.
Nel mar Ionio sfociano, con abbondanza di acque in primavera ed in autunno, il Bradano, il Basento, l’Agri, il Sinni e il Crati.
Nel Tirreno si gettano la Roia, la Polcevera, la Lavagna, l’Arno, l’Ombrone, il Tevere, il Garigliano, il Volturno e il Sele.
I fiumi delle isole sono di scarsa importanza ed hanno un regime di acque incostante; assomigliano più a grossi torrenti che a veri e propri fiumi. In Sicilia scorrono l’Alcantara, il Simeto, il Salso, il Belice e il Platani. In Sardegna i fiumi più importanti sono il Coghinas, il Triso, il Flumini Mannu e il Flumendosa.

I laghi

L’Italia è, tra i paesi dell’Europa, uno dei più ricchi di laghi. Sparsi un po’ in tutte le regioni della Penisola, se ne contano 4100. Essi danno una nota di bellezza a molti paesaggi.
Possiamo distinguerli in laghi alpini, laghi prealpini, laghi vulcanici, laghi appenninici e laghi costieri.
I laghi alpini, piccoli e sparsi in tutta la catena alpina, abbelliscono il paesaggio d’alta montagna. Nelle loro acque fredde e limpide si specchiano spesso le alte cime rocciose, il verde cupo degli alberi e il cielo azzurro. I più pittoreschi sono i laghi di Ledro, di Carezza, di Caldonazzo, di Braies, di Misurina.
Allo sbocco delle valli prealpine si stendono i laghi più importanti della Penisola. Solitamente sono di forma irregolare, e le loro acque riempiono il fondo di lunghe valli scavate dai ghiacciai, che un tempo scendevano fino ai margini della Pianura Padana. Sono tutti alimentati da un fiume e circondati da monti che si specchiano a picco nelle acque azzurre, o discendono con dolci declivi e a balze verdeggianti verso le rive popolate di ville e di giardini.

I laghi prealpini esercitano una benefica influenza sul clima e sulla vegetazione. Infatti sulle loro sponde prosperano piante proprie dei paesi caldi, quali il limone, il cedro, l’ulivo. La suggestiva bellezza del paesaggio, inoltre, è motivo di richiamo per numerosi turisti italiani e stranieri.
I principali laghi prealpini sono:
– il Lago Maggiore o Verbano, che ha per immissario e per emissario il fiume Ticino. La parte settentrionale del bacino appartiene alla Svizzera. Dallo specchio delle sue acque emergono le meravigliose Isole Borromee: Isola Madre, Isola Bella, Isola dei Pescatori.
– il Lago di Como o Lario, che è formato dall’Adda e si biforca in due rami: di Como e di Lecco. E’ il più profondo fra i laghi prealpini (m 410).
– il Lago d’Iseo o Sebino, che riceve le acque del fiume Oglio. In esso sorge l’isola più vasta dei laghi prealpini: Montisola.

– il lago di  Garda o Benaco, che è il più esteso d’Italia. Per la sua posizione, che è la più meridionale tra quelle dei laghi prealpini, gode di un clima particolarmente mite, che favorisce una vegetazione di tipo mediterraneo: ulivi, viti, agrumi. E’ formato dal fiume Sarca il quale, uscendone, prende il nome di Mincio.
I laghi vulcanici sono situati nella fascia antiappenninica del Lazio, della Campania e della Basilicata, e riempiono con le loro acque il cratere di antichi vulcani spenti. Perciò la loro forma è generalmente circolare.
I principali sono i laghi di Bolsena, di Bracciano, di Albano e di Nemi, nel Lazio; il lago d’Averno, nei Campi Flegrei, in Campania; i laghi di Monticcchio, in Basilicata.
Anticamente molti laghi, ora prosciugati e scomparsi, occupavano vaste conche dell’Appennino. Fra quelli rimasti i più notevoli sono il lago Trasimeno, in Umbria; il lago di Scanno, nell’Abruzzo; il lago del Matese, in Campania.
Lungo le coste della penisola vi sono dei laghi che si sono formati a causa del moto ondoso del mare, il quale ha accumulato cordoni sabbiosi dinanzi alle insenature chiudendole. Tali laghi sono i laghi di Lesina, di Varano, di Salpi, in Puglia; il lago di Fusaro in Campania; i laghi di Fondi, di Fogliano, di Sabaudia, nel Lazio; i laghi di Massaciuccoli, di Burano, di Orbetello in Toscana; i laghi di Elmas, di Cabras, di Sassu in Sardegna.

Il suolo d’Italia
Veramente meravigliosa è la varietà delle terre e delle coste d’Italia. Qui sono monti giganteschi, avvolte da nubi le cime nevose e scintillanti al sole, dirupi solcati da ghiacciai e flagellati dalla tempesta, balze scoscese, cupi burroni precipitosi, massi erranti per la pianura, e sassi e ciottoli e ghiaie alle falde. Foreste di castagni, di faggi, di larici e di pini fanno veste  a quei monti, poi cespiti di rododendri ed erbe dal cortissimo stelo, e muschi e licheni, che di varie tinte, brue, argentine, dorate, coronano le rocce. Urla il lupo fra quelle foreste, e balza la lince, s’appiatta l’orso e corre presso la neve, nel suo manto invernale, il candidissimo ermellino, e ronzano insetti. E alle cime, ai pendii, alle nevi, alle foreste, ai vaganti nuvoloni, fanno specchio nella valli romite le onde limpidissime degli incantevoli laghi. Costà son valli di soavissime chine, sparse d’ulivi, echeggianti, d’autunno, delle grida festose delle vendemmiatrici, e fertili piani sparsi e biondeggianti messi, solcati da fiumi maestosi o da fecondi canali; e colà vaste, malinconiche pianure, e terre scaldate da un ardentissimo sole, dove allignano piante e volano e corrono e strisciano animali dell’Africa vicina.

Cinta dal mare per sì gran parte, s’allunga l’Italia in una distesa di svariatissime coste; qua con dolce pendio lentamente digradanti, là scosse e  percosse dalle onde; ora  selvose, ora nude, ora coronate da ridenti colline, che si protendono in lunghi promontori e capi, e file di scogli, o scavate in vasti golfi, o seni o porti amplissimi e contro ogni mare sicuri.
Invero, se la varietà e la bellezza della terra opera in bene sull’uomo, gli Italiani dovrebbero essere i primi del mondo. (M. Lessona)

Grotte d’Italia
Nel Carso Triestino abbiamo le grotte di Trebiciano, dei Serpenti, dei Morti e le cavità di San Canziano, percorse dal Timavo nella parte sotterranea del suo corso; in quello della Cicceria, l’Abisso Bertarelli, profondo 450 metri; in quello carniolino le Grotte di Postumia col Piuca sotterraneo; presso la Selva di Tarnova l’Abisso Montenero di 480 metri; sulla Bainsizza quello di Verco di 518 metri.
Ma la massima profondità, d’Italia e del mondo, è data alla Pluga della Preta nei Lessini con 637 metri; sul monte Campo dei Fiori presso Varese abbiamo la Grotta abisso Guglielmo di 350 metri; nelle Alpi Apuane la Tana dell’uomo selvatico di 318 metri.
Migliaia sono le grotte italiane che sono state regolarmente esplorate con successo, molte infatti hanno permesso di ritrovare e riportare alla luce manufatti appartenenti alle diverse epoche preistoriche. Numerose sono quelle situate in terreno calcareo, come quelle dei già nominati altipiani carsici: del Cansiglio, di Asiago, dei Tredici Comuni, di Serle nel bresciano, oppure quelle dei diversi tratti dei monti lombardi, laziali, campani, e delle Murge pugliesi.
Fra le grotte più famose citiamo quelle di Castellana; le più vaste quelle di Postumia e San Canziano; quelle di Grimaldi (Liguria); delle Scalucce di Breonio nel veronese; del Diavolo e ROmanelli nella Terra d’Otranto; di Pertosa nel salernitano; di Pastena (Frosinone); di Capri; di Sant’Angelo nel ternano. Quelle dell’isola di Levanzo, nelle Egadi, hanno rivelato graffiti che si avvicinano alla famosa arte paleolitica delle caverne franco-cantabriche, e figure dipinte.

Il clima italiano

La temperatura
La nostra penisola è tanto allungata che necessariamente i paesi del nord hanno temperature più basse dei paesi del sud. Infatti i paesi del sud sono più vicini all’Equatore, mentre quelli del nord sono  più vicini al Polo Nord.
Per l’influenza benefica, poi, dell’ampio Tirreno, le spiagge tirreniche sono più calde di quelle adriatiche, essendo queste bagnate da un mare più ristretto, quasi interno e poco profondo.
Inoltre le zone montane hanno temperature più basse delle zone di pianura.
E questo perchè l’umidità della pianura conserva meglio il calore, e perchè le parti più basse sono più estese e perciò rimandano all’aria molti più raggi caldi ricevuti dal sole.
Questo valga per la temperatura media dell’anno.

Inoltre, mentre nelle zone marittime non vi è molta differenza tra estate e inverno, nelle zone di pianura non marine, come la Pianura Padana, la differenza è enorme.
Infatti il calore viene conservato meglio dalle acque che non dalle terre, le quali rapidamente lo rimbalzano e lo disperdono.
Invece nelle zone di montagna, come ad esempio sulle Alpi, vi è enorme differenza tra le calde giornate (calde anche d’inverno, quando c’è il sole e non c’è troppo vento) e le rigide nottate (rigide anche d’estate, specialmente nelle notti serene).

La piovosità
Le regioni più piovose in Italia sono quelle montuose. Questo perchè i monti, essendo più freddi, condensano l’umidità più delle pianure; si producono così le nubi e dalle nubi le piogge.
Sui monti del Lago Maggiore, sui monti della Carnia e dell’Istria, sull’Appennino Ligure alle spalle di Genova, si possono avere anche tre metri d’altezza  di acqua all’anno; cioè se avessimo un recipiente aperto alto tre metri, all’aria libera, in un anno si riempirebbe totalmente (purchè naturalmente impedissimo l’evaporazione).
Le zone meno piovose sono le pianure molto basse, come il Ferrarese e il Tavoliere della Puglia, in cui a mala pena si raggiunge il mezzo metro.

Ed è poco perchè la vegetazione possa crescere bene, a meno che come a Ferrara non vi passino molti fiumi o, come nelle Puglie, non siano stati costruiti molti canali di irrigazione.
Ma che importa se in posto piove anche molto, ma solo nel periodo in cui le piante non ne hanno bisogno? Le zone più fertili sono quelle in cui piove tra la primavera e l’autunno, cioè quando la vegetazione vive attivamente o sta per mettersi a riposo.
In Italia si hanno a questo riguardo tre caratteristici regimi.

Sulle coste della Sicilia, della Sardegna e di altre terre meridionali, piove specialmente d’inverno. Il perchè è semplice. D’inverno il mare è più caldo della terraferma, quindi si formano dei venti che dalle fredde terre circostanti vanno verso il più tiepido mare sulle cui isole convergeranno i venti umidi, saliranno e determineranno perciò le piogge. D’estate, siccità quasi assoluta. E’ il clima chiamato mediterraneo. Peccato che piova solo d’inverno, perchè è d’estate che le piante volentieri si inebrierebbero di acqua! Però debbo dirvi che in queste regioni, sempre tiepide e calde, anche d’inverno, vi sono piante caratteristiche che possono sopportare la siccità estiva: pini mediterranei dalla chioma a ombrello, olivi, querce da sughero, fichi d’india, agavi, ginepri, mirti, lauri, ginestre, eriche, pistacchi, capperi e altro ancora.

Sulle Alpi e sui monti in generale piove o nevica specialmente d’estate. Infatti è d’estate che i monti, ben riscaldati dal sole, richiamano i venti dai mari attorno; e i venti umidi incontrandosi o condensando l’umidità a contatto dei monti, producono nubi e poi piogge. E’ il clima chiamato continentale. I pini e gli abeti d’alta montagna molto opportunamente non perdono le foglie, perchè non potrebbero nei tiepidi ma brevi tre mesi estivi rifarsele e lavorare per fabbricarsi il cibo. Fanno eccezione i larici, che perdono le foglie anche se sono conifere come i pini e gli abeti e anche se, come questi, crescono sulle montagne.
Duvunque altrove piove di primavera e d’autunno con grande vantaggio della vegetazione.
In conclusione in Italia vi sono quattro tipi di clima:
– il clima alpino, con molto basse temperature notturne e invernali, e con piovosità abbondante estiva: le Alpi e parte dell’Appennino settentrionale e centrale;
– quello mediterraneo, con temperature miti  per tutto l’anno e con piovosità invernale e non troppo abbondante, anzi talora scarsa: le isole e la penisola a sud di Salerno;
-quello peninsulare con temperature miti lungo la costa, mediocri nell’interno e con piovosità primaverile e autunnale: tutta la parte rimanente della Penisola;
– quello della Pianura Padana, con temperature elevate d’estate e basse d’inverno, piovosità primaverile e autunnale.

Elementi del clima
Il clima è composto di più elementi e le sue caratteristiche sono influenzate in modo determinante da numerosi fattori.
Per stabilire lo stato del tempo si prendono in considerazione la temperatura dell’aria (misurata con il termometro), la pressione atmosferica (misurata con il barometro) ed i venti (la cui velocità è misurata con l’anemometro), la nebulosità del cielo (stimata in decimi), l’umidità dell’aria (misurata con l’igrometro) e le precipitazioni (misurate col pluviometro).

L’osservazione metodica, giorno per giorno, delle condizioni meteorologiche nel loro diverso combinarsi e manifestarsi e la registrazione dei relativi dati, condotta per più anni di seguito, permettono non solo di seguire il loro andamento nel corso delle quattro stagioni, ma anche di identificarne le caratteristiche medie e di stabilire così il tipo di clima di una certa regione, vasta o ristretta che sia.

La previsione del tempo in montagna
Sono i grandi moti atmosferici che determinano le condizioni meteorologiche generali; e sono le diverse condizioni meteorologiche generali; e sono le diverse condizioni della superficie terrestre che reagiscono diversamente, a seconda della reazione particolare che le terre, le acque, le foreste, le paludi, i deserti, e soprattutto le montagne, esercitando sui venti, la temperatura e l’umidità delle correnti aeree.

Specialmente e in maniera rilevantissima sono le catene montuose, e fra queste naturalmente le Alpi, che modificano potentemente l’andamento generale del tempo, determinando così fenomeni locali, i quali sono spesso in aperta contraddizione con le previsioni fatte dai centri meteorologici, che occorre ripeterlo, si limitano a riferire sulle condizioni generali generali del tempo, dipendenti nell’immediato futuro dalle leggi generali di successione dei grandi fenomeni atmosferici.

Per il tempo locale occorre possedere quella lunga precisa conoscenza della regione per cui si può tentare di prevedere il tempo che farà, cercando di concordare le segnalazioni dei bollettini meteorologici con i pronostici eminentemente locali, ma fidandosi soprattutto di questi ultimi.
E’ indubbio che la meteorologia ha fatto grandissimi progressi, ma è altrettanto vero che nulla di assolutamente definitivo è stato raggiunto. Meno che meno, in materia di previsioni in montagna, problema questo quanto mai arduo e forse insolubile per la scienza stessa.

In montagna si possono ascoltare tutti i bollettini di questo mondo; si possono avere a disposizione barometri e termometri e fare le più accurate osservazioni, e confrontarle e studiarle: tutto ciò, diciamolo francamente, servirà certamente, ma non c’è da fidarsi troppo.
Questo ben tenga presente chi frequenta la montagna e soprattutto chi fa dell’alpinismo: nulla trascurino di quanto può insegnar loro la scienza, anzi ne facciano pure tesoro; ma si valgano soprattutto dell’esperienza dei montanari e della loro personale esperienza. E più di tutto, gli alpinisti, quando si mettono sull’alta montagna, siano ben certi della loro robustezza, del loro allenamento e della loro capacità, e si affidano fiduciosi alla buona fortuna. (A. Sanmarchi)

Un lembo d’Italia in territorio straniero
Sulla sponda orientale del Lago di Lugano sorge Campione d’Italia, piccolo Comune che occupa un’area di soli 2,6 kmq, ed è abitato da poco più di mille persone. E’ grazioso, ma non varrebbe la pena di segnalarlo se non rappresentasse una vera e propria curiosità storica. Esso, infatti, pur essendo in territorio svizzero, appartiene all’Italia e precisamente alla provincia di Como, città dalla quale dista solo 25 km. La sua posizione, unica al mondo, trova origine nel lontano secolo VIII, quando l’allora signore di Campione fece dono dei propri beni agli Abati di Sant’Ambrogio. Alla fine del secolo XVIII fu assegnato alla Lombardia e, con la Lombardia, passò poi all’Italia.

Il posto di frontiera più alto d’Italia
Da Courmayeur, nelle notti serene, guardando verso il Monte Bianco, sulla sinistra del Dente del Gigante, si scorge un lumicino che sembra sospeso nel vuoto. E’ la casermetta di Punta Helbronnen, situata a quota  3462, sede del più alto presidio di frontiera d’Italia, anzi d’Europa. Cinque carabinieri italiani e altrettanti gendarmi francesi controllano qui i passaporti dei passeggeri della Funivia dei Ghiacciai, che dal dicembre del 1957 unisce l’Italia alla Francia sorvolando il massiccio del Bianco.

La traversata, lunga 15 km, ha inizio a La Palud, piccola frazione di Courmayeur, in territorio italiano, e termina a Chamonix, capitale dell’alpinismo francese, dopo aver raggiunto la massima altitudine di  3842 m a l’Auguille du Midi. E’ un volo entusiasmante durante il quale si può ammirare ciò che di più sublime hanno le Alpi. Da Punta Helbronner all’Aiguille du Midi, per un tratto di cinque chilometri, si sorvola uno dei massimi ghiacciai alpini e la formidabile cupola del Bianco sembra così vicina che si è tentati di allungare la mano per accarezzarla.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Recite sull’autunno

Recite sull’autunno per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Piccola accademia

Ecco un dialogo molto vivace tra un gruppo di bambini e l’autunno, rappresentato come un ometto brontolone, mezzo contento e mezzo rabbuiato. 

La voce: Non avete mai visto un ometto sbarbato, giallo, raffreddato, un po’ contento e un po’ rabbuiato?

Bambini: Signor Autunno, aspetti un momentino! O, ma che fretta! Sieda! Si riposi! Lo vuole aprire dunque il suo sacchettino? Uh, che provvista…

Autunno: Ditemi, noiosi, e il vostro naso dove lo metto?

Un bambino: Via, via, sia buono! Dica, che cosa se ne fa di questo mare di fogliacce gialle?  E’ forse uno spazzino?

Autunno: Ma… chissà… Non bastano le foglie e le farfalle, i fiori e gli uccellini: tutto prendo! Sapeste come pesa sulle spalle il mio sacchetto, ma a nessuno lo vendo!

Un bambino: Le rondinelle hai fatto scappare, solo a vederti sono scappate via…

Autunno: Oh, mi dispiace, ma che posso fare? Credete, bimbi, non è colpa mia! Io faccio come tutti il mio dovere; per questo ho fretta e ne me devo andare, le castagne sono pronte da bacchiare: queste, credete, vi faran piacere e darà gioia alla gente il vino buono, che nel tino ribolle, e alla terra il nuovo seme che nel cuor rinserra. Vedete, dunque, lascio anch’io il mio dono…

Un bambino: Ma quel velo di nebbia, perchè mai stendi suoi campi e sopra la città? Sapessi quante noie e quanti guai combina. Oh, proprio, credi, non ci va!

Autunno: (in tono scherzoso e leggermente ironico) Eh, cari bimbi, a certe cose strane non saprei dar che una risposta sola… vi do un consiglio buono come il pane: se volete saper correte a scuola! Là imparerete tutto e, al mio ritorno, potrete darmi qualche spiegazione… Ora vi lascio, amici miei, buongiorno!

Bambini in coro: Caro Autunno, sei proprio un gran briccone!

(L. Nason)

Buon viaggio, rondine

Rondine: Addio, addio, amico mio.

Bambino: Perchè parti?

Rondine: Comincia ad esser freddo.

Bambino: Rintanati nel tuo nido.

Rondine: Il mio nido di fango non è troppo caldo.

Bambino: Mettici un po’ di lana.

Rondine: E per mangiare come faccio?

Bambino: Ti darò briciole di pane.

Rondine: Grazie, ma io mi nutro di insetti e, durante l’inverno, gli insetti spariscono. Bisogna che parta!

Bambino: Dunque vuoi proprio lasciarmi! E dove andrai?

Rondine: Andrò di là dal mare, dov’è ancora caldo e ci sono tanti insetti nell’aria.

Bambino: Mi dispiace non vederti più…

Rondine: Tornerò, non dubitare.

Bambino: Quando tornerai?

Rondine: Tornerò a primavera.

Bambino: Ci diamo un appuntamento?

Rondine: Volentieri. Il 21 marzo sarò di nuovo qui.

Bambino: Va bene, lo segno sul calendario.

Rondine: Prima di partire, ho da chiederti un piacere.

Bambino: Di’ pure…

Rondine: Ti prego di guardare il mio nido: che nessuno rovini la mia casa.

Bambino: Sta’ tranquilla, rondinella; farò buona guardia.

Rondine: Grazie, amico mio.

Bambino: Buon viaggio, rondinella bella.

P. Bargellini

Cadono le foglie

Era un gigantesco platano e stava ritto in mezzo al prato come un signore del paese. Le foglie cominciavano a cadere.

Foglie: Noi ti lasciamo, babbo.

Albero: (come ridestandosi da un sopore) Come, come? E’ già tempo di distaccarsi, figliole care?

Foglie: Tu lo vedi, non abbiamo più linfa, siamo secche e inaridite. E stamani, per giunta, sono arrivate nebbia e brina che ci hanno tolto gli ultimi resti di vigore.

Albero: (implorando) Oh, restate ancora un poco… Guardate che cielo delizioso abbiamo oggi. Restate ancora un poco a godere quest’ultima soavità dell’anno.

Foglie: Babbo, la nostra ora è suonata. Ce ne andiamo.

Albero: Ingrate! Voi dimenticate che io vi ho nutrite col suo sangue, che vi ho dato voce, splendore e bellezza per sei mesi di seguito.

Un gruppo di foglie: Noi formeremo sotto di te un vasto letto, o babbo grande, dove, riposando insieme, ragioneremo delle tue grandi virtù.

Altro gruppo: Rievocheremo le gioie che abbiamo godute con te, o babbo grande, i piccoli nostri passatempi estivi.

Altro gruppo: Ricorderemo gli scrosci gloriosi dietro le orchestre dei venti, quando tutte insieme ci scagliavamo e tu scricchiolavi come un vascello in burrasca.

Primo gruppo: Tempi allegri e beati!

Secondo gruppo: Bei rischi e splendori!

Terzo gruppo: Magnifiche avventure estive!

Tutte: Finchè, ohimè, la neve ci coprirà.

L’albero, a sentir parlare di neve, ha un lungo brivido per tutti i rami. Altre foglie cadono e i rami si scoprono sempre più lividi e nudi tra gli squarci della veste.

Albero: Ahimè, tutte se ne vanno, tutte se ne vanno… Quanta malinconia in questi distacchi! E tutti gli anni è la stessa pena, tutti gli anni le stesse lacrime.

Foglie: (in coro) Non ti disperare, babbo grande! Tu devi sopravviverci e riavere altre figliole che vestiranno a festa le tue braccia forti. Il nostro turno è finito. Addio… Addio…

E ad una ad una cadevano sul prato. Ma tutte a dire il vero, avevano un modo così delicato di lasciare l’albero! Lo lasciavano pian piano, alla chetichella, quasi direi in punta di piedi, come si lascia la camera di un malato grave. Brave figliole! E le più brave stavano con lui finchè potevano, finchè erano quasi secche, quasi bruciate; poi sfinite si lasciavano andare perdutamente, gettando un piccolo grido d’angoscia quando passavano in mezzo ai rami.
Frrrsch… crè… crè…
Era come l’addio di tutte le cose che se ne vanno, la tristezza infinita delle separazioni.
Frrrsch… crè… crè…

(Carlo Linati)

Recite sull’autunno Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA

Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA per bambini della scuola primaria

LEGGENDE ITALIANE

Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA

 In Sardegna, nel Logudoro, si racconta questa bella leggenda:

Una volta, al mondo, non c’era il fuoco. Gli uomini avevano freddo ed andarono da Sant’Antonio, che stava nel deserto, a pregarlo che facesse qualcosa per loro. Sant’Antonio ebbe compassione e siccome il fuoco era all’inferno, decise di andare a prenderlo.

Col suo porchetto e col suo bastone di ferula, Sant’Antonio si presentò, dunque, alla porta dell’inferno e bussò:
“Apritemi! Ho freddo e mi voglio riscaldare!”

I diavoli alla porta videro subito che quello non era un peccatore, ma un Santo, e dissero:
“No! No! Ti abbiamo riconosciuto! Non ti apriamo. Se vuoi lasciamo entrare il porchetto, ma te no!”

E così il porchetto entrò. Cari miei, appena dentro si mise a scorrazzare con una tale furia da mettere lo scompiglio ovunque, tanto che i diavoli, ad un certo punto, non ne poterono proprio più.
Finirono perciò per rivolgersi al Santo, che era rimasto fuori dalla porta.

“Quel tuo porco maledetto ci mette tutto in disordine! Vientelo a riprendere!”
Sant’Antonio entrò nell’inferno, toccò il porchetto col suo bastone e quello se ne stette subito quieto.
“Visto che ci sono” disse Sant’Antonio, “mi siedo un momento per scaldarmi”.

E si sedette su un sacco di sughero, proprio sul passaggio dei diavoli.
Infatti, ogni tanto, davanti a lui passava un diavolo di corsa. E Sant’Antonio, col suo bastone di ferula, giù una legnata sulla schiena.

Ad un certo punto i diavoli, arrabbiati, esclamarono:
“Questi scherzi non ci piacciono. Adesso ti bruciamo il bastone.”
Infatti lo presero e ne ficcarono la punta tra le fiamme.

Il porco, in quel momento, ricominciò a buttare all’aria tutto: cataste di legna, uncini, torce e tridenti. E i diavoli avevano un bel da fare a mettere a posto. Non ci riuscivano e non riuscivano neppure ad acchiappare quel… diavolo di porchetto.

“Se volete che lo faccia star buono” disse Sant’Antonio, “dovete ridarmi il mio bastone”.
Glielo diedero ed il porchetto stette subito buono.
Ma il bastone era di ferula ed il legno di ferula ha il midollo spugnoso. Se una scintilla entra nel midollo continua a bruciare di nascosto, senza che di fuori si veda.

Così i diavoli non si accorsero che Sant’Antonio aveva il fuoco nel bastone. Il Santo col suo bastone se ne uscì ed i diavoli tirarono un sospiro di sollievo.

Appena fu fuori, Sant’Antonio alzò il bastone con la punta infuocata e la girò intorno, facendo volare le scintille, come dando la benedizione, e cantò:
“Fuoco, fuoco,
per ogni loco;
per tutto il mondo
fuoco giocondo!”

Da quel momento, con grande contentezza degli uomini, ci fu il fuoco sulla terra. E Sant’Antonio tornò nel deserto a pregare.

Italo Calvino

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

 

LEGGENDE ITALIANE

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

Anfimonio ed Anapia erano due fratelli che vivevano moltissimi anni fa, nei dintorni di Catania. Vivevano tranquilli e sereni nella loro bella casa e lavoravano volentieri e con gioia. Nel loro semplice cuore regnava l’amore e la venerazione per i genitori ed era bello vederli pieni di riguardi, sempre obbedienti, sempre pronti a far cosa gradita.

Avvenne un giorno, che l’Etna ebbe una terribile eruzione. Aveva incominciato con boati spaventosi e dal suo cratere erano usciti lapilli e un nero fumo denso che aveva coperto il cielo, oscurando perfino il sole. Poi, lungo i fianchi della montagna, era cominciato a colare un pauroso fiume di lava incandescente che lentamente, ma inesorabilmente, progrediva lungo le pendici, verso i campi rigogliosi di messi, verso le case degli uomini.

Ma gli abitanti della città non si decidevano a lasciarla; speravano sempre che l’Etna si calmasse, che la lava si arrestasse. Solo quando essa giunse alle prime case, che caddero con immenso fragore, tutti si decisero a raccogliere quanto di meglio possedevano e a fuggire davanti al pericolo.

Anche Anfimonio ed Anapia avevano atteso nella speranza che il pericolo scomparisse.

I due fratelli, invece di cercar di mettere in salvo i loro averi, si caricarono sulle spalle i loro genitori: uno il padre, l’altro la madre, che erano oramai vecchi ed infermi e non avrebbero potuto fuggire. Poi uscirono dalla loro casetta.

Ma non potevano correre, e il fiume di lava veniva giù più svelto di loro.  Ben presto li avrebbe raggiunti.
Allora il padre e la madre dissero: “Figlioli, noi siamo vecchi e infermi; abbiamo vissuto abbastanza; lasciateci qui, salvatevi; a voi sorride ancora la vita!”

Ma i due buoni fratelli non vollero abbandonare il loro prezioso peso e raddoppiarono le energie. Per un poco parve riuscissero a vincere in velocità la lava, poi, sfiniti, si fermarono. Abbracciarono stretti i loro cari e …attesero coraggiosamente la morte.

Ma, oh… miracolo! La lava si divise in due torrenti: uno a destra, l’altro a sinistra, lasciando libero lo spazio sul quale si trovavano i quattro abbracciati e un sentiero che permise ai due fratelli di porre in salvo i genitori e se stessi.

Il fatto miracoloso stupì i Catanesi che soprannominarono Anfimonio ed Anapia “Fratelli pii”, ed il luogo dove essi passarono fu chiamato “Campi pii”.

Quando, divenuti vecchi, i due fratelli morirono, i cittadini eressero loro un grande monumento.

E la loro memoria fu sempre venerata, come esempio di amor filiale, non solo dai Catanesi, ma dai Siciliani tutti e anche da altri popoli.

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

LEGGENDE ITALIANE

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

Lo Stromboli è quel vulcano che sorge dalle acque del mare, proprio dirimpetto alla costa tirrenica della Calabria, e dietro il quale, la sera, il sole si tuffa per andare a nanna, lasciandosi dietro un incendio di porpora e d’oro.

Ma forse non conosci la sua origine, non sai come sia stato collocato proprio lì, in quello specchio di azzurro mare. Ascolta allora cosa racconta il pescatore calabrese, mentre rattoppa le reti sulla spiaggia di Palmi.

Sul monte che domina la graziosa cittadina di Palmi, e che ha preso il nome del santo, sant’Elia stava un giorno in solitaria meditazione, quando gli si accostò un uomo con un gran sacco sulle spalle.

“Che cosa porti in quel sacco, e dove vai?” gli chiese sant’Elia.
L’uomo, che aveva il viso tutto sporco, aprì il sacco e ne cavò fuori un gran mucchio di monete d’argento.

“E’ una gran fortuna” egli disse. “L’ho scoperta in un casolare abbandonato e sono disposto a dividere con te. Prendine quante ne vuoi; sono anche tue!”

Il santo prese le monete e cominciò a lanciarle lungo la china. A mano a mano che rotolavano, esse si tramutavano in pietre nere, di quelle che si vedono ancor oggi sul luogo.

Contrariato, l’uomo (che era il diavolo) balzò in piedi. D’improvviso, alle sue spalle si aprirono due grandi ali nere di pipistrello, con le quali egli si alzò in volo, planò sul mare e vi si tuffò, sprofondando.

Le acque gorgogliarono e schiumarono, si elevò una nuvolaglia, e quando questa si fu dileguata, ecco che sul mare si delineava un isolotto a forma di cono, dal cui vertice incavato uscivano lingue di fuoco e fumo.

Era lo Stromboli, e sotto di esso c’era il demonio imprigionato, che soffiava fiamme e tuoni.

Il vecchio pescatore di Palmi, dopo aver narrato la leggenda, si segna devotamente per non cadere in tentazione del demonio, mentre lo Stromboli, nel velo del tramonto, fuma da sornione la sua antica pipa.

Sulla cima del Monte Sant’Elia, si trova ancora un macigno con alcune impronte di unghie lasciate dal diavolo, prima di spiccare il volo per inabissarsi nel Tirreno.

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

LEGGENDE ITALIANE

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

 Viveva un tempo, a Trani, un povero pescatore che, nonostante passasse lunghe ore in mare a pescare, riusciva a stento a provvedere alle necessità della sua numerosa famiglia.

Una notte, gettate le reti, il pescatore si adagiò nel fondo della barca lasciata in balia delle onde e, rimuginando i suoi tristi pensieri, a poco a poco finì per addormentarsi. Fu risvegliato bruscamente da un forte strappo alle reti. Che cosa succedeva? Forse era quella la volta buona?

Certo, a giudicare dal peso, il pesce incappato nella rete doveva essere enorme. Tira e tira, il brav’uomo, eccitato e felice, riuscì finalmente a rovesciare nella barca un pesce gigantesco. Ma, ahimè, si trattava di un pescecane.
La delusione del pescatore si tramutò in una grande meraviglia, quando il pescecane cominciò a parlare.

“Hai pescato il tuo genio” disse lo squalo. “Sono io che dirigo la tua vita, non lo sapevi? Ebbene, ascolta ora. Fa’ a pezzi il mio corpo poi, raccolti tutti i miei denti, seminali nel tuo orto. Vedrai cosa succederà tra un paio di mesi”.
Il pescatore obbedì.

Trascorsi i due mesi s’avvide che nel suo orta stava crescendo un albero. In poche settimane la pianta divenne alta e frondosa.

“E ora?” pensava il pescatore aggirandosi intorno all’albero che, a parte la grandezza, non aveva nulla di particolare.

La risposta alla sua ansioso attese venne, d’improvviso, una mattina. L’uomo stava contemplando l’albero, quando, in men che non si dica, lo vide sparire sottoterra, lasciando al suo posto un magnifico cavallo bianco con la sella preparata.

Anche il cavallo parlò. Disse: “Saltami in groppa, che faremo un lungo viaggio”.

Il viaggio, infatti, fu lunghissimo e pieno di incredibili avventure. Il pescatore, ormai divenuto cavaliere, ebbe la fortuna di conoscere tutti i paesi della terra e di compiervi azioni così valorose da meritarsi la stima di grandi e potenti signori, che fecero a gara per averlo loro ospite e per colmarlo di ricchezze.

Passarono in tal modo alcuni anni e il pescatore, un bel giorno, stanco di viaggiare, decise di tornare al proprio paese per godersi in santa pace, con la sua famiglia, le ricchezze accumulate.
Però, giunto che fu a Trani, ebbe la triste sorpresa di apprendere che la moglie, credutolo morto, si era rimaritata, creandosi un’altra famiglia.
Desolato, l’uomo tornò alla sua vecchia casupola. Entrò nell’orto e andò a sedersi sul luogo ove un tempo era cresciuto l’albero.
Che gli restava da fare? Se ne stava lì, pieno di amarezza, a contemplare quel po’ di terra smossa, allorchè qualcosa attirò la sua attenzione. Fra le zolle c’era un pesciolino. Era un piccolo pesce argenteo che guizzava, boccheggiando. Il pescatore si curvò, fece per prenderlo, ma ecco che al contatto delle sue dita il pesce cominciò a gonfiarsi raggiungendo in breve dimensioni colossali.

Ma guarda guarda! Era di nuovo il pescecane pescato tanti anni fa.

“Sei tu, dunque!” disse il pescatore, “E allora? Io ho fatto tutto ciò che mi hai ordinato. Ho raccolto i tuoi denti, li ho seminati, ho visto crescere il grande albero che poi si è trasformato in un cavallo. Ho viaggiato per anni e anni, ho compiuto ogni sorta di imprese ed ho guadagnato onori e ricchezze. Ma a che vale tutto ciò se ora ho perduto la mia famiglia?”

Rispose il pescecane: “Le tue avventure non sono terminate. Riportami in mare, mettimi tra le onde e montami in groppa”.

Poco dopo, il pescecane e il pescatore prendevano il largo e scomparivano verso l’alto mare.

Che ne fu di loro? Nessuno le seppe mai.

“Forse” commentano i pescatori di Trani, a conclusione della leggenda,”stanno ancora vagando laggiù, tra le onde”.

Quello che è certo è che il nostro pescatore in paese non lo si rivide più.

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

LEGGENDE ITALIANE

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

 Questa che leggiamo adesso è una leggenda solo per metà. Infatti Ronca Battista esistette davvero. E veri sono anche i fatti da lui compiuti, che ora narreremo. Assieme ai fatti, però, è mescolata anche un po’ di leggenda, suggerita dalla fantasia popolare.

Anzitutto Ronca Battista non era il vero nome del nostro personaggio. Si chiamava Giovan Battista Cerone. Il nome di “Ronca” glielo diedero i suoi concittadini di Melfi, perchè essendo bottaio di mestiere, egli usava una roncola per tagliare i rami che gli servivano per i cerchi alle botti.

Ogni giorno, di buon mattino, Battista usciva da Melfi con un pezzo di pane in tasca e si recava nei boschi di Vulture a far la sua provvista di rami. Sceglieva quelli di castagno, che sono i più flessibili, proprio adatti per far cerchi. E sapeva tagliarli con arte insuperabile: un colpo netto di roncola, tac, e il ramo era già nelle sue mani senza che l’albero se ne fosse accorto.

Mangiato il suo pane e bevuto un sorso d’acqua da una sorgente, Battista se ne tornava poi a Melfi a lavorare.
Fin qui, tu dirai, non c’è nulla di speciale nella vita di questo Battista.

E’ vero! Ma aspetta un po’. A proposito, dimenticavo di dirti che siamo nel secolo XVI. Agli inizi di quel secolo la città di Melfi era ancora un feudo della nobile famiglia dei Caracciolo, fedele agli Spagnoli. Ma già scorrazzavano per la regione bande di Francesi che assalivano ora un paese ora l’altro, saccheggiando la popolazione. Quando i Francesi si avvicinarono a Melfi, Gianni Caracciolo, signore della città, decise di resistere ad ogni costo. E i Melfitani furono d’accordo con lui.

Capo dei Francesi era il generale Lautrec, tipo crudele e senza scrupoli. Egli era convinto di prendere Melfi in quattro e quattr’otto, e perciò ci rimase molto male quando si accorse che i Melfitani, chiuse le porte delle mura, si apprestavano alla difesa.

La lotta durò a lungo, feroce da parte degli assedianti ed eroica da parte degli assediati. Sulle mura e davanti alle porte avvenivano spesso scontri sanguinosi. Per di più, i Melfitani comiciavano a soffrire la fame, così che nottentempo qualche cittadino doveva uscire di nascosto dalla città per procurarsi un po’ di cibo nelle campagne.

Anche il nostro Battista, una notte, riuscì a sfuggire alle sentinelle francesi ed a raggiungere il bosco. Più che cibo, però, lui cercava legni per le sue botti, perchè non avendo famiglia, di mangiare non gliene mancava. Quella notte, anzi, egli aveva in tasca, come al solito, il suo pezzo di pane. Attesa l’alba, per vederci meglio, Battista diede mano alla roncola e staccò alcuni rami. Si avviò quindi in fretta, e alle soglie del bosco incontrò una vecchia tremante di freddo che lo fermò.

“Bravo giovane” disse la poveretta, “i Francesi hanno distrutto la mia capanna e rubate le mie provviste. Aiutami tu!”

Impietosito, Ronca diede il proprio pane alla vecchia. Prese quindi i rami e, acceso un fuocherello, preparò un lettino di frasche alla donna, poi lo ricoprì col suo mantello.

“Va bene così, nonnina?” chiese alla fine.

“Sii benedetto, figliolo!” disse con gratitudine la vecchina. Poi, per ricompensarlo, volle dargli un bacio in fronte e toccargli la roncola.

“D’ora in avanti” aggiunse, “questa roncola compirà prodigi!”

Battista stava per sorridere, incredulo, quando d’improvviso la vecchia si trasformò in una fata splendente e sparì.

“Diamine!” esclamò Battista “Allora è vero!”
Volle provare la roncola magica colpendo un albero, e l’albero volò subito via come una pagliuzza.
Sbalordito e contento, Battista si avviò verso Menfi.

“Se qualche sentinella oserà fermarmi, guai a lei!” pensava, maneggiando la roncola.
Sì! Altro che sentinelle! C’erano tutti i Francesi attorno alla città, scatenati nel pieno di una battaglia e, a quanto pareva, le cose andavano piuttosto male per i Melfitani.

Senza esitare, Battista si slanciò allora nella mischia, mulinando a dritta e a manca la sua roncola magica.

I Francesi intorno a lui cominciarono a piombare a terra come nespole. Invano lo assalivano da ogni parte. Più ne venivano, più ne cadevano. Sembrava che invece di una sola roncola, Battista ne maneggiasse mille. Ad un certo punto, esasperati, i Francesi gli diedero tutti addosso. Ne caddero a decine. Ma ce ne fu uno, d’un tratto, che con un salto riuscì a raggiungerlo alle spalle e a colpirlo fortemente al capo con una mazza di ferro. Battista stramazzò al suolo.

La fine di Ronco Battista segnò la fine della resistenza di Melfi. La città, caduta in mano ai Francesi, fu saccheggiata e incendiata.
Era la Pasqua del 1528.

Oggi c’è una via, a Melfi, che è dedicata alla memoria di Ronca Battista. Ma anche senza questa via, i Melfitani non avrebbero certo dimenticato l’eroico bottaio. Da quel giorno, infatti, la storia di Battista è sempre stata raccontata, di padre in figlio. A un certo punto, è vero, ci fu qualche padre che inventò l’episodio della fata; qualche padre, forse, incapace di credere che solo il coraggio e l’amor patrio avessero potuto rendere prodigiosa la roncola di Battista. E fu così che la storia divenne per metà leggenda.

Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

LEGGENDE ITALIANE

Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

Paolaccio era un vagabondo senza parenti, senza amici e senza neppure un angolo di casa. Ma se lo meritava, perchè voglia di lavorare non ne aveva e, per di più, non faceva che imprecare e dimostrarsi tanto malvagio da attirarsi solo l’antipatia e il disprezzo di tutti. Pareva che nei suoi occhi ardesse sempre una luce cattiva, e chi lo vedeva girava al largo.

Una notte, mentre dormiva in un campo, vicino a Termoli, Paolaccio venne svegliato da una voce che ripeteva il suo nome. Al che lo fissava curiosamente.

“Chi diavolo sei?” chiese.

“Lo hai detto, sono proprio il diavolo. Sono venuto a proporti un patto”.

Paolaccio non si impressionò.

“Di che si tratta?” chiese di malanimo.

“Vuoi diventare ricco?” chiese a sua volta il diavolo.

“Se lo voglio? Non chiedo di meglio. E che dovrei fare in cambio?”

“Non devi fare nulla. Devi darmi solo la tua anima”

“Per questo ci sto” disse Paolaccio “Che me ne faccio dell’anima? Ma dimmi: come avrò le ricchezze?”

“Prima firma il patto e poi te lo dirò” rispose Belzebù.

Paolaccio, che non sapeva scrivere, fece una crocetta sul foglio.

“Bene” gongolò il demonio, “Ed ora stai a sentire. La vedi quella rete? Ti servirà per pescare”

“Bella roba!” esclamò Paolaccio “Come se i pesci dessero la ricchezza!”

“I pesci che ti farò pescare io, sì” proseguì il diavolo “Sono pesci bianchi e rosei che hanno una specialità: quella di inghiottire i tesori accumulati nelle navi sommerse: gemme stupende, monete d’oro e altre rarità. Sono pesci che stanno al mio servizio, pronti a farsi pescare dai miei protetti. Tu ora lo sei e quindi puoi pescarne quanti ne vuoi. Dovrai soltanto dire, immergendo la rete:

“Fortuna, vieni su:
te l’ordino nel nome
del grande Belzebù”

Paolaccio non lasciò passare la notte. Subito si avviò verso gli scogli e trasse a riva con la rete un’infinità di quei pesci biancorosei. Erano tutti pesantissimi e Paolaccio, apertili uno ad uno, accumulò in un batter d’occhio smeraldi, rubini, brillanti ed oggetti d’oro che sfavillavano con mille luci al chiarore delle stelle.

“Questa sì che è una ricchezza!” gongolava Paolaccio, non stancandosi di immergere le mani in quel tesoro.

Da quel giorno ebbe inizio per Paolaccio un’altra vita. Si comprò un palazzo principesco, si vestì da gran signore e cominciò a dare feste sfarzose, circondandosi di ogni lusso. Inutile dire che in un lampo ebbe amici a non finire, gente che lo cercava, lo ossequiava, lo lodava. Paolaccio era generoso con tutti, spandeva doni a destra e a sinistra, e ad ogni elogio che riceveva era convinto di essere diventato un grand’uomo.

Tutto dunque procedeva a meraviglia, senonchè un giorno, un brutto giorno, capitò al palazzo, che era in piena festa, uno strano individuo. Era un essere macilento, vestito di stracci, proprio fuor di posto in mezzo a tanto splendore. Ma Paolaccio lo riconobbe subito, e fattosi largo tra la folla gli si avvicinò.

“Che sei venuto a fare, qui?” gli chiese con sgomento.

“Lo sai” rispose Belzebù, “Sono venuto per il nostro contratto che, per l’appunto, scade oggi…”

“Vattene” supplicò Paolaccio colmo di terrore, “Vattene via, lasciami!”

“Eh, caro mio! Non posso. I patti sono patti. Io ti ho dato la ricchezza, tu te la sei goduta, ed ora è tempo che tu mi dia la tua anima”.

In quello stesso istante un boato terribile fece tremare il palazzo e Paolaccio cadde morto.

Qualcuno dirà: ma quei pesci biancorosei esistono veramente? Pare di sì. Molti pescatori li hanno visti. Dicono, però, che bisogna accontentarsi di guardarli da lontano perchè sono creature del demonio e non portano che male. 

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE per bambini della scuola primaria.

 

LEGGENDE ITALIANE

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE

Questo mostro del mare era Landoro, una specie di enorme drago con due occhi grandi come carri che spadroneggiava sulla superficie del mare sibilando, stridendo ed emettendo vampe di fuoco. I pescatori lo udivano da molto lontano. Ma erano ancora i tempi in cui non esistevano le barche e quindi a nessuno era mai venuto in mente di affrontare il mostro e di liberare il mare dalla sua presenza.

Da Landoro, orribile, passiamo a una fanciulla bionda, con gli occhi sognanti che passava gran parte del suo tempo sul litorale marino, guardando con nostalgia verso l’orizzonte. Era Lada. Lada guardava i gabbiani che volteggiavano liberi sulle onde e pensava: “Potessi essere come loro…”.

Un giorno questo vivo desiderio le fece spuntare sulle spalle due candide ali. La gioia di Lada fu grande. Si rizzò sulla pianta dei piedi, spiccò un salto e subito si sentì librata in alto nell’azzurro del cielo. Che meraviglia! Ora le onde correvano sotto di lei e davanti si spalancava il mare come un invito senza fine. Volava così da qualche tempo cantando, allorchè volgendo lo sguardo in basso, Lada vide il mostro dagli occhi giganteschi. La fanciulla alata ebbe un brivido d’orrore, si sentì perduta, come attratta da quegli occhi terribili in cui fiammeggiava la luce del male.

Per fortuna Landoro  quel giorno non cercava vittime. Guardò Lada poi, d’improvviso, si inabissò nelle onde. Con un sospiro di sollievo la fanciulla volò verso la costa, discese sul lido e, a poco a poco, si liberò dall’orrore del mostro. Ma, ahimè, quelle ali erano ormai inutili. Ora Lada non avrebbe più osato sorvolare il mare e spingersi fino al lontano orizzonte.

La fanciulla piangeva disperata, allorchè sentì una voce vicina: “Che cos’hai? Perchè piangi?”

Lada si volse e vide un bellissimo giovane che la guardava con dolcezza. La fanciulla narrò allo sconosciuto la sua tremenda avventura.

Il giovane, dopo un istante di meditazione, così disse: “Queste ali, Lada, sono un dono degli dei. Esse devono rallegrarti e non affliggerti. E perchè la tua gioia continui, io ucciderò Landoro e ti riaprirò la strada lucente del cielo sopra il mare”

“Chi sei?” chiese Lada colpita da tanto coraggio.

“Sono Geri” rispose il giovane, “il figlio della Quercia e del Vento”.

Lada vide il giovane impugnare una spada fulgente e avviarsi verso il mare. Scendeva la notte. Qualche stella cominciava a spuntare nel cielo. Lada si addormentò con la visione di Geri che procedeva sulle sponde. Quando si svegliò era l’alba e il mare era rosso. E rossa era anche la sabbia, rosse erano le sue mani e le sue ali.

Davanti a lei, come uscente dalle onde, avanzava Geri con la spada rosseggiante che stillava gocce di sangue.

“Lada! Lada!” gridò il giovane, “Ho ucciso il mostro!”

Quando le fu vicino e le si sedette accanto narrò come aveva affrontato Landoro, come l’aveva trafitto fra le onde. I due giovani erano felici. Persino le onde parevano felici, sciogliendosi ai loro piedi con un canto di liberazione.
Ma a poco a poco, dallo stesso mare, giunsero sulla costa segni di sgomento. Turbini di gabbiani atterriti e volteggianti sulle onde parevano fuggire da qualcosa di tremendo. L’aria cominciò a diventare irrespirabile, densa di vapori ripugnanti. I pesci si riversavano a migliaia verso la spiaggia e morivano boccheggiando sulla rena. Ora il litorale era gremito di gente piena di smarrimento e in preda all’angoscia.

Che cosa mai succedeva?

Era la vendetta del mostro. Era la morte, lugubre amica di Landoro, che ora si diffondeva ovunque, fra terra, mare e cielo, abbattendosi spietata su ogni essere vivente.

In breve, sotto la sua furia, ogni vita scomparve.

Lada e Geri seguirono la sorte di tutti, e da quel giorno, per secoli, la terra, il mare e il cielo rimasero disabitati, squallidi e silenziosi.

Poi la vita tornò a sbocciare da un piccolo fiore incantevole sulla sponda di un fiume. Era un fiore a forma di stella, dai mille petali. Un giorno dopo l’altro, questi petali si trasformarono in esseri viventi. Uno in uomo, un altro in donna, un altro in rondine, un altro ancora in farfalla e così via.

La terra si ripopolò di creature, tornò a palpitare di speranza, di gioia, di bontà, di amore…

Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA

Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA

Patrono di Castellammare di Stabia è San Catello, vescovo e martire, al quale i fedeli attribuiscono numerosi miracoli. Tra questi si  ricorda con commozione il miracolo del grano.

Un anno, a causa di una lunga e terribile siccità, tutti i paesi intorno al Vesuvio furono colpiti da una grave carestia: le bestie morivano perchè non avevano erba e gli uomini morivano anch’essi di fame e non sapevano che rimedio trovare. Si inginocchiavano davanti a San Catello e, piangendo, lo pregavano perchè avesse pietà della loro miseria.

Un giorno del mese di giugno, al largo della costa una nave, carica di grano, fu accostata da una barchetta sulla quale c’era un vecchio con la lunga barba e la figura solenne. Il vecchio salì sulla nave e riuscì a convincere il capitano della nave a portare il suo carico di grano a Castellammare, dove glielo avrebbero ben pagato. E, per essere sicuro che il capitano non cambiasse idea, il vecchio gli diede un anello con diamante che portava al dito.

Il capitano della nave acconsentì di buon grado e, arrivato a Castellammare, vendette molto bene tutta la sua merce. Contento degli affari fatti, si sentì naturalmente il dovere di ringraziare quel buon vecchio che lo aveva indirizzato là. Per cui descrivendone la figura, ne chiedeva notizie a tutti. Ma nessuno glielo sapeva indicare.

Alla fine un popolano lo portò nella chiesa dedicata a San Catello. Era forse il Santo patrono della città l’uomo descritto dal capitano?

Proprio così! Infatti, davanti alla statua del santo, il capitano, pieno di meraviglia, esclamò inginocchiandosi: “E’ proprio lui! E’ il venerando vecchio dalla barba, che mi venne incontro sul mare e mi convinse a portare il grano qui!”

La commozione e lo stupore dei fedeli raggiunsero il colmo quando videro che al dito del Santo mancava l’anello col diamante, lo stesso che il capitano della nave aveva ricevuto da quel vecchio dalla figura solenne che lo aveva avvicinato al largo della costa. 

La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio

La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio

Un giovane alto e biondo si fermò improvvisamente sul declivio a guardare tra il folto dei pini dove occhieggiava il mare. Aveva visto dondolarsi nell’azzurro dell’acqua una piccola nave.

Stupito da quell’insolito approdo, discese dal colle e lanciò un richiamo: “Chi siete? Che cosa cercate nella terra di Evandro, re degli Arcadi?”.

Un guerriero, che procedeva dinanzi agli altri, fissò il giovinetto e sorridendo rispose: “Sono Enea, capo dei Troiani. Nella terra di Evandro vengo a cercare alleati ed armi contro i Rutuli ed il loro feroce re Turno”.

A queste parole il giovane, senza indugiare, corse incontro all’ospite, esclamando: “Benvenuto, illustre eroe! Io sono Pallante, unico figlio di Evandro. Anche se il nostro regno è povero, leali sono gli Arcadi e sacra l’ospitalità”.

Enea e il principe salirono insieme per il declivio, seguiti dai Troiani; oltrepassarono il crinale, scesero a valle fino in vista del Palatino, su cui sorgeva Pallantea, la città dei pastori.

Evandro distese le pelli più ricche perchè i Troiani potessero riposare, offrì pane buono e miele, ascoltò Enea, che gli chiedeva alleanza.

“Gli dei mi hanno indicato l’Italia ed hanno predetto che dalla mia gente sarà fondata una città potente, grande, dominatrice del mondo: perchè i destini si compiano anche il tuo aiuto è necessario”.

Allora Evandro fece suonare il rustico corno per riunire i pastori a parlamento e ordinò a quelli più giovane e più robusti di armarsi d’arco, di frecce, di lance, di corazze per scendere in campo armati.

Anche il giovane Pallante volle combattere per Enea.

E le schiere, in ordinanza, tra uno scintillio di lance, raggiunsero il Tevere, ne seguirono le sponde ed arrivarono in campo aperto di fronte ai Rutuli.

La battaglia si ingaggiò furiosa da ambo le parti.

Il principe si gettava nelle mischie più pericolose e non esitava ad accettare i corpo a corpo con i guerrieri nemici più anziani e poderosi.

Ad un tratto si trovò di fronte al gigante Turno, il re dei Rutuli.

“Fanciullo, è temerario provarsi con me”

“Il prode non si ritira anche se il pericolo è grande”

E con queste parole scagliò la sua asta di solido frassino, ferrata e tagliente alla cima. L’aste battè sullo scudo di Turno, ma fu rigettata all’indietro.

“Ora sostieni tu la forza del mio colpo!” gridò il re dei Rutuli. E scagliò con forza. L’asta terribile trapassò lo scudo del giovanetto, lacerò la corazza, e gli si confisse nel petto.

Quando il mesto corteo che portava le spoglie di Pallante fu in vista dei luoghi paterni, il vecchio re scese incontro al diletto figlio; si chinò su di lui, quasi a ricercarne il respiro e, sentendolo gelido, si accasciò giù come quercia colpita dal fulmine.

Pallante fu sepolto in una grotta, che si apriva nel Colle Palatino, e su di lui venne posta una lampada accesa; poi la tomba fu chiusa con sassi e terriccio.

Passarono gli anni e passarono i secoli…

Il Palatino vide dal solco di Romolo sorgere la Roma quadrata; la vide allargarsi, la vide dominare i popoli italici, la vide signora di popoli e di civiltà.

Ed altri secoli passarono…

Un giorno, come turbine di guerra, i barbari si gettarono sull’Urbe, la misero a ferro e a fuoco, rovistarono ovunque, avidi di bottino.

Alcuni, battendo con le aste dove il Palatino infoltiva di corbezzoli, sentirono la terra rimbombare come se dentro fosse vuota. Stupiti, svelsero gli arbusti, scavarono, scavarono fino a ritrovare una grotta: e in fondo videro scintillare un lume.

Avanzarono timorosi e sotto il luccicore d’una lampada scorsero un corpo grande e giovanile, intatto e chiuso nelle sue lucide armi.

Vinto lo sgomento, i barbari staccarono la lampada e vi soffiarono sopra: la fiamma si piegò, guizzò, ma non si spense.

Il prodigio li impaurì: compresero che qualcosa di misterioso proteggeva la piccola lingua di fuoco. Tornarono nella grotta, appesero la lampada accesa vicino a Pallante, mirarono per un attimo i bellissimi lineamenti del giovinetto, poi arretrarono fino all’aperto, accumularono nuovamente sassi e pietre all’entrata della tomba, quindi vi ripiantarono i corbezzoli estirpati. Poi si allontanarono, volgendosi di tratto in tratto a riguardare il colle, che chiudeva un mistero per essi insolubile: quello della lampada accesa, simbolo della luce di Roma che non può morire.

(O. Visentini)

IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra

IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra, per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra

 Come mai sullo stemma della città di Terni è raffigurato un drago?
Narra la leggenda che tanti e tanti anni fa, viveva nel territorio ternano un orribile drago che teneva in continuo terrore tutta la popolazione.

Ogni zona dei dintorni era infatti malsicura per la presenza del mostro, e ben pochi erano quelli che potevano avventurarsi in un viaggio senza correre il rischio di essere assaliti. Talvolta, poi, accadeva che il drago, spinto dalla fame, arrivasse addirittura fino alle porte della città, cosicchè la gente doveva rinserrarsi nelle case. Era, insomma, un vero flagello cui occorreva porre d’urgenza rimedio.

Fu così che un giorno il Consiglio degli Anziani della città si riunì e decise di risolvere a qualsiasi costo la terribile situazione. Vennero convocati al Palazzo del Comune alcuni cittadini che avevano fama di ardimentosi. Uno dopo l’altro, però, essi rifiutarono di affrontare la rischiosa impresa.

“Signori miei” diceva uno, “Io ho moglie e figli. Non posso mettere in pericolo la mia vita”.
E un altro: “Onorevoli Consiglieri, ho un lavoro importante da svolgere, come voi sapete. Come posso abbandonarlo così d’un tratto per cimentarmi con quella bestiaccia?”

E ci fu chi si lagnò di avere un braccio malato; e chi accampò la scusa di dover fare un viaggio d’affari; e chi, persino, si rammaricò di dover esimersi dall’impresa, avendo la nonna inferma.

Gli Anziani non sapevano più a che santo rivolgersi. E già stavano per rinunciare ad ogni cosa quando, un bel mattino, si presentò loro un giovane ternano della nobile famiglia dei Cittadini. Era rivestito di un’armatura lucidissima, baldanzoso e fiero, e pareva già pronto a misurarsi col drago. Infatti disse: “Signori, col vostro permesso, ci vado io a fare una visitina  a quel mostro. Che ne dite?”

Figurarsi gli Anziani! Dissero subito di sì, che andasse pure, con tutti i loro auguri e le loro benedizioni. 

Il drago era acquattato ai margini di un boschetto. Sembrava assopito e sarebbe stata una cosa facile balzargli addosso e trafiggerlo. Ma ecco che nel preciso momento in cui il giovane stava per scagliare la lancia, il drago si eresse in tutta la sua mole e avanzò fulmineo verso il temerario. Il giovane lo evitò per miracolo.

Gli attimi che seguirono furono spaventosi. Ben due volte il giovane trafisse la bestia, ma le ferite sembravano prodotte da uno spillo. Accadde invece che, a un certo momento, il sole si riflettè nell’armatura e i lampi di luce che ne scaturirono abbagliarono il mostro. Fu questione di un secondo. Il giovane saettò la lancia con tutta la sua forza e, finalmente, trafitto da parte a parte, il drago stramazzò e rimase immobile per sempre.

Qualche cittadino di Terni, che aveva osato assistere da lontano alla scena, corse subito in città a dare la strepitosa notizia. In breve tutta la popolazione, con alla testa gli Anziani, si radunò sul luogo della lotta per constatare coi propri occhi la fine del mostro. Inutile dire che il giovane venne festeggiato solennemente e che per parecchi giorni la città visse tutta in tripudio.

Probabilmente questa leggenda ebbe origine dal fatto che, un tempo, gran parte del territorio ternano era paludoso e che la malaria diffondeva tutt’intorno il suo pestifero alito di morte, specialmente nel rione “La Chiusa”.

Poi i terreni vennero prosciugati dalla bonifica (l’assalto del giovane cavaliere), e divennero fertili e belli. Così gli acquitrini e la malaria rimasero solo un lugubre ricordo e si identificarono, nella fantasia popolare, con la figura del drago.

LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche

LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche

 C’era un povero contadino della Valle del Tronto il quale altro non possedeva che un piccolo pezzo di terreno. Ma i miseri frutti di quel campicello non bastavano a sfamare la famiglia.

Per fortuna, sorgevano su quel terreno tre bei peri che, neri e rinsecchiti d’inverno, quando giungeva la primavera si rivestivano di teneri germogli. Spuntavano poi i  fiori bianchi e, infine, a suo tempo, ecco che facevano capolino tra il fogliame i grossi frutti succosi.

Erano proprio una meraviglia quelle pere! Il buon contadino, al momento giusto, le coglieva e le portava al mercato della città, guadagnando tanto denaro da poter acquistare il grano necessario per tutto l’inverno.

Un anno, al momento del raccolto, il contadino di accorse che qualcuno gli rubava i bei frutti. Ciò doveva accadere durante la notte, perchè solo al mattino constatava il furto, ora di dieci, ora di venti ed ora di cinquanta pere.

Il pover’uomo era disperato. Come avrebbe vissuto la famiglia il prossimo inverno?

A questo punto entrò in scena Pirillo, uno dei figli del contadino: un ragazzino agile e furbo di dieci anni. Pirillo, dunque, disse al padre: “Babbo, stanotte farò io la guardia. Vedrai che scoprirò il ladro”.

Scesa la sera, Pirillo prese pane e cacio, si armò di una roncola e, salito su uno degli alberi, si nascose fra i rami più alti. Passò un’ora e ne passarono due, e Pirillo, per vincere il sonno, diede fondo alle sue provviste.

Allorchè la campana del villaggio suonò la mezzanotte e la luna era alta nel cielo e ricamava la terra con arabeschi d’argento, d’improvviso, sgranando gli occhi, Pirillo vide avanzare una strega, un’orribile donna con la barba d’un caprone e le zanne di un cinghiale.

La vecchiaccia s’appressò all’albero e stava per cogliere una pera quando Pirillo con un gesto veloce le colpì la mano con la roncola. La strega lanciò un urlo di dolore, guardò in alto e scorse Pirillo fra i rami. Cominciò allora a lagnarsi: “Dammi una pera, ragazzino, una pera soltanto”.

E Pirillo, di rimando: “Ne hai già rubate tante, vattene!”

“Se non mi dai una pera” minacciò la strega, “scuoterò l’albero finchè non cadrai!”

Pirillo scoppiò in una risata: “Provaci, se sei capace!”

Allora la strega cominciò davvero a scuotere il pero e con tanta forza che Pirillo finì per piombare a terra ai piedi della vecchia. Questa, in un attimo, lo afferrò, lo legò stretto al suo grembiule e, montata a cavalcioni su una scopa, volò veloce fino a casa sua, in una capannuccia fra i boschi.

“Eccoci qua! Ora, invece delle pere, mangerò te!” esclamò la vecchia con voce stridula.

Così detto, accese il fuoco nel camino e vi mise sopra un enorme paiolo colmo d’acqua. Quando l’acqua bolliva, Pirillo disse alla strega: “Slegami, almeno, e fammi spogliare. Non vorrai mangiarmi con tutti i vestiti”.

La vecchia approvò, slegò il fanciullo, poi brontolò minacciosa: “Ora, spogliati, su, che l’acqua è già pronta”.

Mentre Pirillo fingeva di spogliarsi, si volse al paiolo e lo scoperchiò. Fu un attimo: Pirillo si lanciò sulla strega, la afferrò per i piedi e la capovolse nell’acqua bollente, nel paiolo dovere avrebbe dovuto finire lui.

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO – per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO

Ai tempi del Medioevo molti poggi ai confini della Maremma erano incoronati da mulini a vento che provvedevano a macinare il grano delle campagne circostanti. Qualcuno, ridotto in rovina, si vede ancora oggi. Uno di questi, eroso com’è da secoli, ha un aspetto così desolante, che sembra proprio un enorme spaventapasseri.

I contadini, se sono costretti a passarci sotto, si voltano dall’altra parte per non vederlo, e ricordano con un brivido la triste leggenda che si racconta intorno ad esso.

Devi sapere, dunque, che ci fu un tempo in cui questo mulino svettava superbo sul colle con le sue belle ali roteanti al minimo soffio di vento. Ne era padrone un mugnaio che, però, era una vera peste: crudele, egoista, avaro, maligno.

Questi difetti li riversava sui poverini obbligati a macinare il loro grano da lui perchè, nella zona, quel mulino era l’unico che esistesse a vista d’occhio.

Che faceva il mugnaio? Ecco qua: rubava sul peso della farina; esigeva, per consegnarla, prezzi esorbitanti; prestava denaro ai contadini bisognosi, ma solo per chiedere indietro una cifra doppia. E se qualcuno si ammalava o gli andava male il raccolto, non aveva pietà e gli portava via tutto: la casa, gli arnesi e le bestie.

Succedeva così che, mentre quei poverini diventavano sempre più poveri e timorosi, quel mugnaio diventava sempre più ricco e prepotente.

E nessuno poteva farci nulla.

Dicono che c’è una giustizia per tutti. Ed ecco che un’annata la carestia e la siccità ridussero a zero i raccolti. Furono guai per i contadini senza un chicco di grano, ma furono guai anche per il mugnaio che non ebbe più grano da macinare.

Venne l’inverno, un invernaccio per tutti. Il mugnaio, a dir la verità, se la passava ancora benino. Chiuso nella sua casa, pane e fuoco non gli mancavano ma, inutile dirlo, se li teneva per sè, sprangato dentro.

Del resto, chi mai avrebbe bussato a quella porta? Nessuno, neanche a morir di fame. Una sera, però, qualcuno bussò.

“Chi diavolo sarà!” mugugnò il mugnaio. E andò ad aprire.

Era una donna con una creaturina in braccio. Tutti e due con gli abiti stracciati, tremanti di freddo.

“Pietà signore!” implorò la donna, “Pietà di un po’ di fuoco e di un po’ di pane”

Chiunque si sarebbe sentito spezzare il cuore. Il mugnaio, no. Duro e sgarbato, rispose: “Via, via, andate a cercare in paese!”

E siccome la donna insisteva e supplicava, il malvagio esplose con un urlo: “Vattene, se non vuoi che ti bastoni!”
In quell’attimo, accadde qualcosa che fece indietreggiare il mugnaio, pieno di sgomento. La donna, d’improvviso, si era prodigiosamente trasformata; da una povera stracciona qual era, si era mutata in una signora avvolta di luce splendente. E diversa era anche la sua voce, mentre in tono ardente esclamava: “Guai a te, uomo senza cuore! D’ora in avanti il tuo mulino sarà per sempre maledetto. Le sue ali non si muoveranno più!”

E davvero, da quella notte, le ali del mulino più non si mossero. Nei giorni seguenti, invano il mugnaio si rivolse ai più abili meccanici perchè le facessero funzionare. Le ali, lassù, parevano inchiodate nel cielo. Neppure  i venti più impetuosi, neppure le bufere più violente, riuscirono a smuoverle. Ben presto, esse diventarono nidi di neri corvi che gracchiavano, volteggiando sul mulino maledetto.

Quanto al mugnaio, nessuno ne seppe più nulla. Forse, una notte, protetto dalle tenebre, era fuggito lontano dalla squallida dimora, portandosi con sè i rimorsi di tutte le sue cattive azioni. 

Leggenda di ALASSIO – Liguria

Leggenda di ALASSIO – una leggenda ligure per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Leggenda di ALASSIO – Liguria

Forse pochi sanno l’origine del nome della città di Alassio…

… mille anni fa, circa, viveva in Germania una bella e intelligente fanciulla, dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro: Alassia si chiamava, ed era figlia nientemeno che dell’imperatore di Germania, Ottone I.

Alassia amava e voleva sposare lo scudiero imperiale. Figuratevi un po’ se Ottone avrebbe permesso che sua figlia andasse sposa a uno scudiero! Egli aveva pensato per lei ben altre nozze!

Così, quando ella si presentò al padre per chiedere il consenso ne ebbe un deciso rifiuto.

I due giovani allora pensarono di fuggire. Difatti, pochi giorni dopo, quando l’alba non aveva ancora vinto le tenebre, essi lasciarono il palazzo reale e si diressero verso il sud, verso il sole.

Cammina e cammina, dopo lunghe peripezie e non poche sofferenze, essi arrivarono finalmente in una terra piena di luce e di fiori: la Liguria. Innamorati di tanta bellezza decisero di fermarsi in quel luogo incantevole. Si stabilirono, infatti, poco ad ovest di Albenga, e lì si sposarono.

Ma per vivere dovettero lavorare e lavorare: fecero i contadini, i pescatori, coltivarono i fiori. Infine lui si mise a fare il carbonaio e lei imparò a meraviglia a tessere i merletti.

Ma che importava? Vivevano contenti, mentre il loro figlio Aleramo cresceva bello, forte ed intelligente. Non poche prove di coraggio egli aveva saputo dare. Fra l’altro aveva tratto in salvo alcuni pescatori durante una furiosissima tempesta che aveva sorpreso piccole barche al largo della costa ligure.

Passarono così molti anni…

Un bel giorno, sul far della sera, arrivò nella vicina città di Albenga nientemeno che l’imperatore. Era invecchiato, molto invecchiato. Da quando la sua figliola era fuggita, preso dal rimorso, egli non aveva più conosciuto un momento di pace.

Aveva sì inviato messi a cercarla in tutte le parti dell’impero. Ogni città, ogni terra era stata frugata, ma sempre inutilmente, sicchè il povero sovrano aveva finito col perdere ogni speranza.

Ed ecco che ora viene a sapere che la sua figliola diletta vive lì vicino col marito e col figlio. L’imperatore non volle questa volta agire di propria testa. Si recò dal vescovo di Albenga e chiese a lui consiglio su quel che doveva fare: “Perdona!”, fu la risposta.

Non era il caso di dirlo, perchè questa volta l’imperatore andò anche più in là.

Non solo concesse all’amata figliola il suo paterno perdono, ma fece il nipote Aleramo marchese del Monferrato.

E quando la figlia dell’imperatore morì, la località dove ella era vissuta contenta e felice prese il suo bel nome: Alassio.

Leggenda del Lago Santo modenese

Leggenda del Lago Santo modenese – una leggenda dell’Emilia Romagna, per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Leggenda del Lago Santo modenese

“Va bene!” disse il gigante, con la sua voce di tuono, al ministro del re, “In cambio però voglio quindici paia di buoi, trenta mucche, centocinquanta pecore e cinquanta otri di vino!”

Il ministro del re, microscopico e tremante ai piedi della grotta, fece dietro front e corse a riferire. Il re accettò e subito, senza perdere un attimo, il gigante si tirò su le maniche e si mise al lavoro. E che lavoro! Si trattava, nientedimeno, di sollevare una montagna e precipitarla a valle, distruggendo così un‘intera città con tutti i suoi abitanti.

Non era, però, una gran fatica, per un gigante dalle braccia lunghe dodici miglia e le mani vaste come un paese…

“Che cos’è questa storia?” dirai tu.

E’ la storia di un lago, un lago chiamato Lago Santo, pittoresco specchio d’acqua dell’Appennino Modenese. Sta a sentire…

…Secoli e secoli or sono, un re malvagio valicò lunghe catene di monti per venire a conquistare una città. Già altre città, già altri paesi e villaggi aveva conquistato e distrutto, senza che la sua cattiveria fosse stata punita.

Questa volta, però, si trattava di una città che non meritava di essere asservita, perchè i suoi abitanti l’avevano edificata con amore, e l’avevano resa bella, ricca e fiorente.

Allorchè essi si accorsero del pericolo che stavano correndo, per notti e per giorni si misero a scavare un enorme vallone di dove, ben nascosti e protetti, al momento opportuno avrebbero potuto scacciare il nemico con una pioggia di frecce.

Venuto a conoscenza della cosa, il re chiamò il ministro e gli impose di trovare un rimedio alla situazione. Fu così che il ministro corse alla grotta del gigante e di laggiù, microscopico e tremante, gridò: “Ehi, tu! Che cosa chiedi in cambio, per darci una mano?”

“Quindici paia di buoi!” rispose il gigante, che dal suo antro seguiva e vedeva ogni cosa, “Trenta mucche…”

E intanto si stropicciava beato le mani, pensando che, con poca fatica, avrebbe avuto da mangiare e da bere per tutto l’inverno.

Ed eccolo al lavoro. Distese le braccia, lunghe dodici miglia ciascuna, roteò le mani grandi come paesi, e afferrata a caso una montagna per il cocuzzolo, se la pose sulla testa e si incamminò per raggiungere il punto giusto di dove, scagliandola, avrebbe in un batter d’occhio seppellito città e cittadini.

Ma che cosa avvenne, ad un tratto?

Avvenne questo: miliardi di formicuzze piccine e tenaci accorsero da ogni dove e cominciarono a scavare con tutte le loro energie la montagna che il gigante portava sulla testa. Scava e scava, ben presto esse l’attraversarono da un capo all’altro. Così il gigante, si ritrovò con la testa infilata nella galleria scavata dalle formiche e con la montagna tutta intorno al collo come… un collarino.

Ma che terribile collarino! Strozzato a quel modo, che poteva fare il povero gigante? Urlava, e le sue urla si perdevano in un gorgoglio. Cercava di scrollarsi di dosso la montagna, ma più scrollava e più essa gli si assestava intorno al collo…
Sbuffava e smaniava, ma tutti i suoi movimenti non producevano che un lieve rotolio di sassi e di terriccio… Era la fine. A poco a poco, infatti, le forze gli mancarono ed egli morì.

Intanto si era messo a piovere. Una pioggia abbondante, continua, che scrosciava dilagando per la campagna e per il vallone, dividendo inesorabilmente la città dai suoi nemici.

Piovve giorno e notte, per più giorni e più notti. Ormai la città era salva e i cittadini potevano guardare con gioioso sollievo quella pioggia benedetta che li aveva liberata dal pericolo.

Così, quando tornò il sole, raggiunto il luogo in cui il gigante era crollato, tutti videro che la pioggia aveva riempito fino all’orlo anche il buco scavato dalle brave formicuzze nella montagna, formando un grazioso laghetto.

A ricordo di quel gesto di bontà, lo chiamarono Lago Santo. 

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

LEGGENDE ITALIANE

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

C’era una volta un uomo che andava intorno con un carrettino sgangherato. Una notte d’estate giunse a Gemona. Non aveva il becco di un quattrino, e non sapendo dove andare a dormire, si distese sulle panchine che stanno sotto il Palazzo Comunale. Quando fu mezzanotte sentì una voce che lo chiamava. Egli si svegliò spaventato e chiese: “Chi è?”

“Costantino,” rispose una voce sommessa, “se tu hai coraggio, io posso darti la fortuna; domani sera, a quest’ora, fatti trovare qui. Io tornerò”.

Costantino, il giorno dopo, pensava impaurito che cosa avrebbe dovuto fare. Alla fine decise di tornare a dormire sotto il palazzo.

A mezzanotte precisa, l’anima ritornò.

“Costantino!” disse, “Armati di coraggio, e vieni con me sulla torre del castello. Tu non mi vedrai, ma io ti sarò sempre vicino. Appena entrato nella torre , lancia un sasso e subito dopo vedrai comparire una bestiaccia a cavallo di una gran cassa contenente un tesoro. Essa terrà una chiave in bocca. Tu non spaventarti, ma afferra la chiave e fa ogni  sforzo per levargliela di bocca. Se non ci riuscirai la prima volta, tenta la seconda ed anche una terza. Ricordati, però, che devi far questo prima che suoni il tocco.”

Costantino, tremando, salì la riva del castello ed appena entrato nella torre gettò un sasso. Immediatamente, tra tuoni e lampi, comparve la bestiaccia. Costantino le andò incontro per toglierle la chiave, ma prese a tremare per la grande paura, e la prima volta potè appena toccarla.

Provò la seconda e non riuscì a strappargliela. Provò anche la terza, ma, proprio quando stava compiendo il maggior sforzo, sentì battere l’una, e bestiaccia e cassa scomparirono tra le fiamme.

Costantino, sconvolto, uscì dalla torre, e a metà discesa ritrovò l’anima, che gli disse: “Costantino, io avevo sperato proprio che tu mi avresti liberata. Ora, purtroppo, deve ancora nascere l’albero, con cui sarà fatta la culla di colui che mi libererà”.

Sotto il Castello di Gemona dovrebbe essere sepolto un tesoro. Ci si può, dunque, spiegare perchè, come dicono, compare ogni tanto qua e là qualche buca scavata di fresco. Qualcuno, certamente, tenta nottetempo di scoprirlo.

(V. Ostermann)

CONTURINA Leggenda del Trentino Alto Adige

CONTURINA Leggenda del Trentino Alto Adige, per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

CONTURINA

Leggenda del Trentino Alto Adige

Nella Valle di Contrin, adagiata ai piedi dell’immensa parete verticale della Marmolada, vive ancora il ricordo della leggenda di Conturina, la bellissima fanciulla vittima della propria bellezza e dell’odio della matrigna.

La matrigna di Conturina era una nobile e ricca signora, padrona di un castello e madre di due brutte ragazze.

Molti principi e giovani cavalieri venivano in visita al castello; tutti ammiravano Conturina e nessuno si occupava delle altre due.

La matrigna, alla quale ciò dispiaceva, un bel giorno ordinò a Conturina di non pronunciare una parola in presenza degli ospiti. E disse a tutti che la ragazza era stupida e muta.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

Allora la matrigna ordinò che, quando vi fossero ospiti in casa, Conturina restasse sempre perfettamente immobile. E disse a tutti che la figliastra era muta e paralitica.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

La matrigna, furente, mandò a chiamare una strega, la quale con un incantesimo trasformò Conturina in pietra.
Tutti si innamorarono della statua bellissima.
Allora la matrigna ordinò che la fanciulla impietrita venisse portata sopra un’altissima rupe, che domina il Passo di Ombretta, che venisse infitta nella roccia e abbandonata lassù.
E così fu fatto.
Mesi ed anni passarono senza che nessuno sapesse dove era andata a finire la povera Conturina.

Dopo alcuni anni, fra i pastori si cominciò a dire che nella solitudine della Val d’Ombretta, qualche volta si udiva cantare una voce di donna.

Una notte un giovane soldato, che era di sentinella sul passo, nel silenzio profondo riuscì a comprendere anche le parole del canto, nel quale Conturina raccontava la sua storia. Il soldato le gridò che allo spuntar del giorno si sarebbe arrampicato su quella rupe per liberarla. Ma Conturina gli rispose che era troppo tardi.

Nei primi sette anni sarebbe ancora stato possibile liberarla, ma alla fine del settimo anno l’incantesimo si era fatto insolubile e nessuna forza umana sarebbe valsa ormai a staccarla da quella rupe, dove ella era destinata a rimanere per sempre.

E così fu.

Qualche volta, chi passa per quel deserto di rocce che è la Valle Ombretta, specialmente di sera, ode ancora il mesto canto della povera Conturina.

(C. F. Wolf)

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta

 C’erano una volta un papà e una bambina. La bimba si chiamava Misurina e Sorapis il papà. Papà era un gigante, e Misurina una bimba piccina piccina, che poteva benissimo stargli nel taschino del panciotto. Eppure, quella piccina piccina poteva a suo agio prendere in giro quel papà grande come una montagna.

E’ la sorte che tocca ai papà troppo buoni con le bambine che non meritano nessuna bontà. E Misurina intanto cresceva stizzosa ed insolente.

Al castello di babbo Sorapis tutti la fuggivano come la peste, uomini di corte e valletti di camera, dame di compagnia e donne di cucina.

“Signori miei”, gemeva Sorapis, “lo so, lo so. Misurina è un po’ monella, ma è tanto una cara bambina! Rimedieremo… rimedieremo…”.

Ma non rimediava, pover’uomo. Anzi, la piccola, crescendo, diventava sempre più insopportabile. Il suo difetto più grande, però, era la curiosità. Una bimba così curiosa non la si sarebbe incontrata in tutto il mondo. Voleva sapere tutto, voleva vedere tutto.

Un giorno la nutrice le disse: “Una signorina come te, dovrebbe possedere lo specchio Tuttosò”

“E che cos’è questo specchio?” esclamò la bimba, facendosi rossi per l’emozione.

“Uno specchio dove basta specchiarcisi per saper tutto quanto si vuol sapere”.

“Oh” mormorò Misurina, “E come posso averlo?”

“Domandalo al tuo papà, che sa tutto”.

Misurina andò dal babbo, saltellando come un passero.

“Papà,” cominciò a gridare prima di giungergli accanto, “devi farmi un regalo!”.

“Se posso, gioietta”

“Sì che puoi”

“E allora sentiamo”

“Prima giura che me lo farai”

“Non posso giurare se non so di che regalo si tratta”

“Voglio lo specchio Tuttosò”

Sorapis impallidì. “Tu non sai ciò che mi chiedi, figliola”

“Sì che lo so!”

“Ma non sai che lo specchio appartiene alla fata del Monte Cristallo?”

“E che mi importa? Lo comprerai!”

Il povero Sorapis sospirò…

“O glielo ruberai.”

“Senti… Misurina…”

“L’hai promesso, papà!”

E quel demonio di figliola si mise a piangere e a sospirare e a rotolarsi per terra. “E se non mi porterai quello specchio, io morirò”.

Il povero papà si mise in testa la corona, vestì il mantello di ermellino, prese lo scettro a mo’ di bastone, e si avviò dalla fata che abitava a pochi passi da lui. Non appena giunse al castello, bussò.

“Avanti” disse la fata, che sedeva nella sala del trono, insieme con due damigelle. “Chi sei e cosa vuoi?”

“Sono Sorapis, e voglio lo specchio Tuttosò”

“Corbezzoli!” rise la fata, “Solamente? Come se si trattasse di fragole!”

“Oh, fata, fatina, non ridere… se tu non me lo dai, la mia bambina morirà”

“La tua bambina? E che ne sa dello specchio Tuttosò? A che le serve? Come si chiama questa bambina?”

“Misurina”

“Ah, ah!” disse la fata, “La conosco di fama. Le sue grida giungono fino a me quando fa i capricci, e questo è un capriccio ben degno di lei. Va bene, io ti darò lo specchio, ma a un patto”

“Sentiamo” accondiscese il re.

“Vedi quanto sole batte da mattina a sera sopra il mio giardino?”

“Vedo” rispose Sorapis.

“Mi brucia tutti i fiori e mi dà noia. Mi ci vorrebbe una montagna a gettarmi un po’ d’ombra. Ecco, bisognerebbe che tu, grande e grosso come sei, ti contentassi di trasformarti in una bella montagna. A questo patto ti darei lo specchio Tuttosò”.

“Oh… oh…” disse Sorapis, grattandosi un orecchio e sudando freddo.

“Prendere o lasciare” disse la fata.

“Va bene! Dammi lo specchio”, sospirò il poverino.

La fata trasse da uno scrigno, che aveva a portata di mano, un grande specchio verde e glielo porse, ma poichè si accorse che il povero Sorapis era diventato smorto, ebbe pietà di lui, e gli disse:

“Facciamo una cosa; capisco che tu non hai troppo desiderio di trasformarti in una montagna, ed è naturale, ma, d’altra parte, hai paura che la tua bimba muoia se non mantieni la promessa che le hai fatto. Ritorna al tuo castello e di’ alla bimba la condizione per cui può venire in possesso dello specchio; se ella ti vuol bene rinuncerà a possederlo per non perdere il suo papà, e tu mi rimandi lo specchio, e se no, se no… io non ne ho colpa”.

“Sta bene” rispose il re, e ripartì.

Misurina lo aspettava seduta sullo spalto più alto del castello e non appena lo vide, gli gridò: “Ebbene, me l’hai portato?”

“Eh, sì, te l’ho portato”, ansimò il poverino. E presala in mano per parlarle meglio, le riferì l’ambasciata della fata del Monte Cristallo. Misurina battè le mani.

“Tutto qui?” disse, “Dammi pure lo specchio, papà, e non pensarci. Diventare una montagna deve essere una bellissima cosa. Anzitutto non morirai più, poi ti coprirai di prati e di boschi ed io mi ci divertirò.

Il poveretto impallidì, ma tanto valeva; la sua condanna era stata decretata. Non appena Misurina ebbe afferrato lo specchio, Sorapis si ampliò, si ampliò, si gonfiò, parve lievitasse nel sole, si impietrì, e in un attimo diventò la montagna che ancora oggi si erge di fronte al Monte Cristallo.

Misurina, trovatasi innalzata a quell’altezza prodigiosa sulla cresta di una montagna bianca e nuda, dove a poco a poco gli occhi di suo padre morivano, gettò un grido terribile e, presa da un capogiro, col suo specchio verde precipitò giù.

Allora dagli occhi semispenti di Sorapis, incominciarono a scendere lacrime e lacrime, fino a che gli occhi si spensero e le lacrime non piovvero più.

Con quelle lacrime si è formato il lago sotto cui giacciono Misurina e lo specchio, e in quel lago il Sorapis si riflette e cerca con gli occhi morti la sua bimba morta.

(P. Ballario)

Leggenda del MONTE DISGRAZIA – Lombardia

Leggenda del MONTE DISGRAZIA – una leggenda della Lombardia, per bambini della scuola primaria.

Leggenda del MONTE DISGRAZIA

Il Monte Disgrazia, in fondo alla val Malenco, nella provincia di Sondrio, è oggi aspro, roccioso e brullo. Ma non è sempre stato così.

Molti secoli fa, quella montagna era ammantata di incantevoli pascoli verdi. Era un luogo talmente meraviglioso che aveva meritato il nome di Monte Bello.

A primavera i pastori risalivano verso la cima e sui pascoli erbosi si fermavano fino all’autunno coi loro greggi.
Così per molti secoli.

Un giorno comparve, presso le baite situate più in alto, un vecchio uomo sfinito dal caldo e dal digiuno. I pastori, in quel momento, stavano consumando il loro frugale pasto: pane duro e formaggio.

Il povero viandante chiese, umilmente, un po’ di cibo e il permesso di riposarsi fra loro un giorno o due, dicendo che si sentiva sfinito e febbricitante. Ma i pastori lo derisero e risposero che non avevano nessuna voglia di ospitare vagabondi malati.

“Va’ a morire altrove. Qui non c’è posto per un vagabondo come te!”

Scacciato così crudelmente, il povero vecchio seguitò in silenzio il suo cammino più a valle e si fermò solo davanti all’ultima baita, la più bassa, la più piccola e, dall’aspetto, la più povera.

Qui, all’ombra di una grande quercia sedeva tutto solo un giovane e robusto pastore. Il pellegrino gli si accostò e gli si sedette a fianco senza dir nulla. Le gambe non lo reggevano più e la vista gli si annebbiava. Il giovane pastore capì quegli occhi che piangevano e che imploravano; si alzò, gli porse l’acqua fresca della sua borraccia, poi un po’ di pane e un po’ di formaggio. Quindi lo invitò a riposare nella sua baita dicendo: “Seguiterai il cammino fra qualche giorno. Io sono solo e la tua compagnia mi farà felice”.

Il vecchio lo guardò con profonda riconoscenza. “Grazie, buon pastore” gli rispose, “Ma devo arrivare al paese prima di sera. Per raggiungerlo ci vuole qualche ora di cammino ed io sono vecchio. Accompagnami, piuttosto, fino a quelle case laggiù!”

“Se proprio vuoi proseguire, ti accompagnerò volentieri. Aspetta un momento perchè io raduni il mio gregge.” disse il pastore.

“Non occorre, lascialo pure così”, rispose il pellegrino.

Ed il vecchio, appoggiandosi al giovane, fece con lui, in silenzio, un buon tratto di cammino. All’improvviso il cielo si oscurò in modo pauroso. Non erano nuvole, ma caligine, a tratti squarciata da immense vampate di fuoco.

“Non voltarti indietro” raccomandò il pellegrino. Ma il pastore si volse lo stesso. Il monte ardeva in un gigantesco rogo. Le fiamme mandavano così vivida luce che gli occhi del pastore non la potevano sostenere e rimasero ciechi. Il giovane allora, pieno di terrore, si gettò a terra piangendo e pregando: “Dio misericordioso, ti supplico, perdona la mia disobbedienza  e toglimi da questa notte!”

“Allunga la mano” disse allora il pellegrino ” e lavati con l’acqua del fiume; poi torna presso il tuo gregge,  che è  salvo nel tuo pascolo. Abbi fede!”

Appena il pastore ebbe raccolta, con le mani tremanti, un po’ d’acqua e se ne fu bagnati gli occhi, riacquistò la vista e si guardò intorno pieno di stupore. Il cielo era ritornato sereno e tutto era pace e silenzio.

Ma il monte… il bel monte prima ravvolto di boschi e di verdi pascoli era divenuto bruno, roccioso e aspro e si ergeva coi suoi aguzzi picchi e fianchi solcati da crepacci minacciosi.

Il Monte Bello si era tramutato nel Monte Disgrazia.

LEGGENDE ITALIANE I laghi di Avigliana

LEGGENDE ITALIANE I laghi di Avigliana – una leggenda del Piemonte per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

I laghi di Avigliana

C’era una volta in Piemonte, là dove ora sorgono i due laghi di Avigliana, un grosso borgo florido e ricco. Disgraziatamente la fortuna e gli agi avevano indurito e inasprito il cuore degli abitanti: essi erano così egoisti, avari e crudeli che non facevano neppure la più piccola elemosina, e vivevano pensando solo a se stessi e al proprio benessere.

Ora avvenne che una sera d’inverno, in cui infuriava una gelida tempesta di neve, un pellegrino vestito di bianco giunse alla borgata. Appariva sfinito dal lungo cammino e si trascinava a stento nella tormenta che gli sferzava il volto pallido ed emaciato, contratto dalla fatica e dalla pena.

Bussò alla porta di una casa, le cui finestre dai vetri appannati rivelavano come nell’interno vi fosse un buon tepore, e chiese per carità un po’ di pane, una ciotola di latte caldo, un ricovero per la notte: era un pellegrino, un fedele di Dio, e Dio avrebbe ricompensato chi lo avesse ospitato.

Ma vane furono le richieste e le preghiere del bianco viandante.

Tutti gli chiusero la porta in faccia con mala grazia, rifiutandogli ogni soccorso.

Ormai egli aveva percorso tutte le vie, picchiato a tutti gli usci. Restava ancora solo una misera casupola sperduta, che sporgeva su una piccola altura, un po’ fuori del paese. Dietro i vetri della minuscola finestrella si scorgeva oscillare una fioca fiammella di candela.

Il pellegrino bussò  anche a quest’ultima porta, con un ultimo barlume di speranza. Una vecchiarella tremula, poveramente vestita, gli aprì e lo invitò premurosamente ad entrare.

Lo fece accomodare accanto al camino ed accese un fuoco di sterpi e di rami secchi, raccolti pazientemente, un po’ alla volta, nei boschi, durante l’autunno. Poi gli scaldò una tazza di brodo e gli diede una fetta di pane nero, tutto ciò che le restava nella madia.

“Poverino, sei tutto fradicio!” gli disse, aiutandolo a togliersi il bianco mantello inzuppato di acqua e di neve.

Gli porse una coperta ed il pellegrino si ravvolse in essa e si stese vicino al focolare, accanto alle braci calde, per dormire. La vecchietta voleva cedergli il suo lettuccio, in una stanzetta al piano superiore, ma egli rifiutò, dicendo che questo non poteva assolutamente accettarlo. Allora la vecchina gli augurò la buona notte e andò di sopra a coricarsi.

La mattina seguente, quando ella scese in cucina, il bianco pellegrino era scomparso.

“Strano…” pensò, “… chissà perchè se ne sarà andato senza salutarmi. Forse aveva fretta di riprendere il cammino interrotto e di arrivare a destinazione…”.

Aprì la porta e si affacciò sulla soglia, per vedere se le riusciva di scorgerlo lungo la strada maestra. La tormenta era passata e splendeva il sole. Guardando il paesaggio all’intorno, la vecchiarella mandò un’esclamazione di stupore…

Il villaggio non c’era più… Nessuna traccia delle case, ai lati della strada… Al loro posto si stendevano due laghi, uno più grande e uno più piccolo, dalle cerule onde increspate dalla brezza e scintillanti nel sole, fra rive bianche di neve.

Solo la casetta della povera vecchia si era salvata dalla distruzione: così il divino viandante dal candido mantello aveva premiato il buon cuore di lei e punito la malvagità dei suoi compaesani.

LEGGENDE ITALIANE Il giovane conte cambiato in lupo

LEGGENDE ITALIANE Il giovane conte cambiato in lupo – una leggenda della Valle d’Aosta per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Valle d’Aosta

Il giovane conte cambiato in lupo

Era inverno. La neve copriva abbondantemente le falde dei monti. Anche il fondo valle era coperto di neve.

I contadini stavano rintanati nelle stalle, per ripararsi dalle intemperie. Il sepolcrale silenzio del luogo era rotto soltanto dallo scrosciare delle acque del Lys e dal fragore delle valanghe che precipitavano dai monti vicini, con grande fragore.

Paolo, un giovanotto di Lillianes, la sera della festa patronale, il 22 gennaio, si recò presso Geltrude, la sua fidanzata. Voleva avvisarla che per alcuni giorni non l’avrebbe vista, perchè doveva recarsi al villaggio di Moller per cuocervi il pane per l’estate successiva.

Il giorno seguente, prima che il sole sorgesse all’orizzonte, egli aveva già fatto ben due ore di cammino sulla neve immacolata ed era giunto lassù dove la bianca farina di segale lo attendeva per essere trasformata in pane saporito.

Gli annosi abeti della foresta vicina protendevano lunghi rami verso il suolo, stanchi della pesante stretta che dava loro la neve.

Paolo, però, non si fermò a contemplare il quadro che gli si spiegava dinnanzi; e tanto meno sentì il minimo sgomento di trovarsi in un luogo tanto selvaggio. Cominciò a togliere con il badile la neve che ingombrava l’entrata di casa, poi accese il fuoco nel forno e, sempre canterellando allegramente, pulì la madia, preparò la pasta, formò i pani e li mise a cuocere.

Poco dopo dal forno usciva un buon odore di pane e quell’odore appetitoso stuzzicò la fame del giovane montanaro.

Ma quale non fu il suo stupore, quando, voltandosi verso la porta,  vide un grosso lupo che lo stava guardando, con la lingua ciondoloni e il respiro grosso e affannato.

Non avendo alla mano altra arma di difesa, Paolo prese una palata di brace e la scaraventò sulla belva, la quale se ne andò mandando gemiti e ululati spaventosi.

Il giovanotto credette di essersi liberato della bestia importuna, ma così non fu. Il lupo, dopo una ventina di minuti, tornò a presentarsi alla capanna. Scacciato una seconda volta, tornò una terza e poi ancora, finchè a Paolo venne l’idea di gettargli un pane caldo. Allora la belva, quasi non avesse aspettato altro, addentò con avidità il pane e, questa volta, non fece più ritorno.

Quando Paolo discese a valle, raccontò ai familiari ed agli amici la storia del lupo, ma nessuno ci fece gran caso, forse perchè in quei tempi i lupi erano assai comuni nelle nostre vallate alpine.

Nell’estate seguente, Paolo volle realizzare il suo sogno di sposare la bella Geltrude.

Valicati i monti di Carisey e del Mucrone, e salutata di passaggio la Madonna nera del Santuario d’Oropa, si recò a Biella con l’intenzione di comprare l’abito nuziale per sè e per la sposa.

La cittadina era molto movimentata, a motivo della fiera.

Paolo, abituato alla semplicità del suo villaggio natio, si fermava estasiato a contemplare le vetrine dei vari negozi. Ed in mezzo a tanto trambusto era quasi sbalordito.

Ad un tratto sentì che qualcuno gli toccava la spalla. Si voltò e vide un signore alto, distinto ed elegante, che lo guardava con aria amichevole. Paolo rimase perplesso, con gli occhi fissi  in quelli dello sconosciuto.

Poi questi prese le mani del montanaro, gliele strinse con affetto e lo invitò a seguirlo nel suo castello, dove lo trattenne a pranzo.

Il povero montanaro, seduto al posto d’onore, aveva la mente tanto confusa che non osava proferir parola. A un certo punto, con evidente commozione, il padrone di casa gli richiamò alla mente quel tale lupo della montagna di Moller. Poi, dopo una lunga esitazione, aggiunse: “Quel lupo ero io!”

E continuò: “Ero un giovanotto spensierato e mi divertivo a fare escursioni sui nostri monti. Quattro anni fa ero di passaggio al Lago di Mucrone, quando una malvagia strega mi si avvicinò. Mi toccò con una bacchetta incantata e da quel momento fui mutato in lupo famelico e fui condannato a rimanere tale finchè non avessi trovato un’anima pietosa che mi regalasse un pane. Passarono i giorni, passarono i mesi, e quattro tormentose annate… Nella dolorosa attesa morì di dolore una bella castellana di Pont Saint Martin, mia fidanzata, e morì, pure di dolore, la mia povera madre. Quanto a me, per ben quattro anni dovetti percorrere monti e valli, ululando, con la morte nel cuore, aspettando che qualcuno mi ridonasse la felicità perduta”.

Allorchè Paolo ebbe udita la commovente narrazione, si gettò tra le braccia del conte e scoppiò in lacrime.

Grande fu la commozione di entrambi.

Si racconta che il conte biellese non dimenticò mai il suo benefattore.

Paolo e Geltrude, col denaro ricevuto dal conte, qualche anno dopo il loro matrimonio, fecero edificare una bella villa sul poggio che si eleva tra i villaggi Barbià e Salè, sulla strada che da Lillianes conduce a Santa Margherita, e di là  ad Oropa.

Ancora oggi se ne scorgono i ruderi e la località viene chiamata Courtil del Conte.

(C. Vercellin)

Favola Il concorso

Favola Il concorso

Una volta il re degli animali bandì un concorso che diceva: “L’animale che avrà saputo costruirsi la miglior casa, sarà nominato architetto e dichiarato vincitore del grande concorso”.

I galli dalla gran voce, le scimmie urlatrici, gli asini dai ragli sonori, gli elefanti coi loro potenti barriti si fecero banditori e portarono l’annuncio in ogni parte della terra: fra le foreste vergini dei paesi caldissimi, fra i ghiacci del polo, nelle terre selvagge  e nelle zone popolate anche dagli uomini.

Così, nel giorno fissato, tutti gli animali si riunirono in una vastissima pianura e lottarono fra di loro per prendersi un posto in prima fila.

Finalmente giunse il venerabile vecchio leone, re degli animali. Tutti fecero silenzio, per rispetto, pur continuando a sospingersi, come certi scolaretti  davanti al maestro.

“Eccovi qui” egli disse lento e grave, “tutti radunati davanti a me. Mi compiaccio; fra di voi vi è certo colui che sarà proclamato vincitore, colui che ha dimostrato più intelligenza e operosità nella costruzione della sua casa. Certo non è tra gli animali domestici; anzi, mi stupisce di vederli qui”.

Un mormorio di vittoria e di scherno corse tra i selvatici: “Visto? L’avevamo detto, noi! Fuori i venduti! Non li vogliamo!”
“Essi hanno intelligenza e virtù, miei cari” aggiunse il leone, “Ma non possono concorrere. Quel cavallino morello ha una scuderia tutta per sè, fatta in legno e muratura, più bella di tante case degli uomini…”
“Oh…”
“E vive come se fosse un signore, nutrito e strigliato… Ma la scuderia non l’ha fatta lui! Così quella mucca grassa, potrà vantarsi della sua stalla moderna, ma lei non ha fatto che la fatica di occuparla… Il signor Crestarossa col suo corteo di galline e lo stuolo delle amiche oche e anitre, ha un pollaio modello. Ma chi l’ha costruito?”

“L’uomo!” urlano i selvatici.

“No no, miei cari domestici! Noi non prendiamo in considerazione che il lavoro fatto con le proprie zampe. Si facciano avanti i veri concorrenti!”

Tutti lasciarono il passo alle belve. Si fecero innanzi la tigre, la pantera, il leopardo, il giaguaro, il lupo; a quattro passi di distanza li seguivano la iena e lo sciacallo, umili, a coda bassa, pronti a fuggire al primo ringhio. Presentarono modelli di covili, fra alte erbe secche e rocce. Non erano molto belli, parevano piuttosto scuri e puzzavano di selvatico.

“Fratelli”, disse il leone, “I nostri covili di belve saranno sicuri, ma non sono modelli di bellezza e comodità. Lasciate avanzare gli altri”.

Si presentarono cervi, elefanti, gazzelle, zebre, giraffe, coi modelli delle loro case nei boschi. Il re scuoteva la testa.

Si udirono alcuni potenti sibili: giungevano i serpenti.

“Ammirate le nostre case ben nascoste nella terra, sotto le pietre calde!” disse uno di essi fissando il popolo delle bestie, che non osava tirare il fiato.

Il vocione del coccodrillo si levò di fianco: “I miei cugini serpenti avrebbero delle buone tane, se fossero un po’ più umide. Venite a provare la mia nel letto fangoso del fiume!”

“No, no!” brontolarono divertiti gli altri, “Noi stiamo meglio all’asciutto!”.

Avanzarono le scimmie coi loro alberi, disponendovisi in mille modi: appese per la coda, per una mano, per un piede, dondolandosi, sedendosi, sdraiandosi sui rami per dimostrare la bellezza e l’utilità della loro casa.
Ma il pubblico le beffava, rifacendo i loro versi.

Vennne la volta degli animali più piccoli, che erano stati ricacciati indietro dagli altri.

La lepre, la volpe mostrarono i loro modelli di tane profonde e asciutte, con lettini di fieno e di pelo morbido. Ma la marmotta e il tasso le superarono con le loro case sotterranee, a più piani e con le dispense.

Le creature più piccole si dimostrarono le più industriose.

Gli uccelli, infatti, portarono a vedere le più varie e graziose specie di nidi: da quelli fatti a scodella, a barchetta, a vaschetta, a panierino, ad altalena, tutti intrecciati meravigliosamente, a quelli impastati con tanta bravura.

Tutti erano davvero ammirati… Si pensava che fra gli uccelli ci fosse il vincitore; e il re degli animali stava per scegliere uno di essi, quando arrivò affannato il castoro, chiedendo scusa del ritardo, poichè giungeva da lontano: nientedimeno che dal Canada.
Oh, la meravigliosa casetta che presentò! Tutta rotonda, a cupola, posata sulle palafitte, con uscita sotterranea di sicurezza, stanza delle provviste, camera da letto e piattaforma per il passeggio. Che cosa ci poteva essere di meglio?
“Diamo il premio al castoro! Viva il castoro, vero architetto!” gridava la folla.
“Adagio… adagio… c’è ancora qualcuno” avvertirono le aquile, che coi loro occhi acuti avevano visto una cosina bruna farsi largo verso il leone. Era una formica.
“Peuh! Una formica!”. Uno scoiattolino la spazzò on una zampata, facendola volare per aria. La formica ricadde a terra, riprese pazientemente la sua via e giunse davanti al giudice. La sua casetta piccola era un paesello, con strade, gallerie, camere, saloni, granai, cellette…

“Come fai a costruirtela?” comandò un animale, guardandola come un fenomeno.

“Con l’aiuto di tutte le mie compagne. Noi siamo migliaia e migliaia; ci aiutiamo sempre e andiamo perfettamente d’accordo”.

“Ha vinto la formica!” gridò la solita voce.

Ma nel sole luminoso s’avvicinava ronzando un puntolino d’oro: una piccola ape. Giungeva ben ultima; ma quale mirabile lavoro essa portava al giudizio di tutti gli animali! Il leone, che era passato di meraviglia in meraviglia, volle vedere per primo.

“Questo è un vero palazzo!” esclamò. “Neanche l’uomo sa fare tanto! Osservate le centinaia di stanzette perfettamente regolari, fatte di pura cera! Ammirate l’appartamento della regina, quello delle operaie, l’altro dei fuchi. E che dire dell’entrata e dei magazzini colmi di dolcissimo miele dorato?”
L’orso approvava calorosamente, leccandosi i baffi.

“La formica scava da perfetta minatrice” continuò il leone, “Ma l’ape costruisce con sostanze che ricava dal suo corpicino e la sua costruzione è sempre preziosa e perfetta.”

Qui il giudice tacque un momento: si alzò dal seggio e disse con ruggito solenne: “Proclamo l’ape vincitrice del grande concorso e sono sicuro che tutti i presenti sono del mio parere”.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

FAVOLA Rambè e Ambè

FAVOLA Rambè e Ambè

Nella lontana misteriosa terra del Tibet c’era una volta un gatto che viveva in un tempio infestato dai topi. Per molti anni il gatto aveva potuto catturare topi a volontà, conducendo una vita beata e tranquilla.

Ma col passare del tempo diventò vecchio e torpido e si accorse che non riusciva più a catturare i topi con tanta facilità. Non era più abbastanza veloce, e i topi si dileguavano prima che egli saltasse loro addosso.

Il gatto tuttavia era una creatura astuta, e pensò: “Se non posso più procurarmi la preda con la prontezza dei movimenti, lo farò con la prontezza dell’ingegno”.

Un giorno convocò tutti i topi per un colloquio.  I topi uscirono prudenti dai loro buchi, naso e coda vibranti, perchè non si fidavano del gatto. Ma il gatto promise di non far loro alcun male.

Poi disse: “Vi ho tutti convocati qui perchè ho qualcosa di importante da comunicarvi. Fino ad oggi ho condotto una vita poco lodevole, ma ora che sono vecchio mi pento dei danni e dei guai che vi ho arrecato. D’ora in poi tutto cambierà: ho deciso di dedicarmi alla meditazione religiosa e non vi darò più fastidio. Potete girare liberamente senza alcun timore” e fece una pausa.

“Tutto ciò che vi chiedo” soggiunse, “è che due volte al giorno voi passiate in fila davanti a me e vi prostriate in segno di gratitudine per il mio buon cuore”.

All’udire un simile discorso da parte del vecchio nemico, i topi furono sopraffatti dalla felicità, e promisero prontamente di fare come egli chiedeva. Caspita! Valeva ben la pena di umiliarsi davanti al gatto per potersi muovere liberamente!

Secondo gli accordi, quella sera il gatto venne a mettersi su un cuscino a un estremo della più grande stanza del tempio, e i topi, che avevano passato la giornata correndo liberamente attorno, cominciarono a sfilargli davanti uno dopo l’altro, inchinandosi profondamente.

Bene, ascoltate adesso qual era il piano del gatto: lasciò passare tutta la processione, ma quando fu il turno dell’ultimo topolino, fece un balzo e, afferrandolo tra le zampe, lo divorò. Nessuno di quelli che erano già passati se ne accorse.

Così andò avanti per qualche tempo. Due volte al giorno i topi passavano in fila davanti al gatto per attestare la loro riconoscenza, e due volte al giorno il gatto saltava sull’ultimo della fila e lo mangiava.

“E’ molto più facile che andare a caccia!” sogghignava il gatto pieno di sè.

Ora fra i topi che vivevano al tempio c’erano due fratelli di nome Ambè e Rambè, che erano più intelligenti degli altri. Ben presto essi si accorsero che il numero di topi nel tempio sembrava diminuire sensibilmente, sebbene il gatto avesse promesso di non molestarli più, e cominciarono a sospettare che il gatto facesse un gioco sleale. Così architettarono un piano astuto: decisero che nei giorni successivi Rambè avrebbe sempre marciato in testa alla processione dei topi, e Ambè in coda. Durante tutta la processione, Rambè avrebbe chiamato Ambè, e Ambè avrebbe risposto: così sarebbero stati certi che il numero di topi rimaneva invariato.

La sera dopo, dunque, la processione si incamminò con Rambè in testa e Ambè in coda. Subito dopo la genuflessione Rambè squittì sonoramente: “Sei ancora lì, fratello Ambè?”

E dal fondo della processione Ambè squittì di rimando: “Ci sono ancora, fratello Rambè!”

Così continuarono a chiamarsi l’un l’altro finchè Ambè non fu passato sano e salvo davanti al gatto… il quale non aveva osato saltare su di lui mentre il fratello continuava a chiamarlo.

Il gatto rimase molto male per aver mancato la solita cena: tuttavia pensò che solo per caso i due fratelli si fossero messi in testa e in coda alla processione, e sperò che la mattina dopo le cose avrebbero ripreso l’ordine consueto. Quale fu la sua rabbia quando dovette constatare invece che Rambè e Ambè si erano messi come la sera prima! Rambè chiamò Ambè finchè ogni topo fu passato, e di nuovo il gatto rimase a pancia vuota.

Questa volta il gatto cominciò a sospettare che i due topi intendessero sventare il suo astuto piano: comunque decise di fare una terza prova. Perciò quella sera si sistemò come al solito sul cuscino e attese la venuta dei topi.

Nel frattempo Rambè e Ambè avevano avvertito gli altri topi di tenersi pronti alla fuga nel caso che il gatto desse segni di rabbia. Poi la processione si incamminò con Rambè in testa e Ambè in coda.

Appena Rambè si fu inchinato davanti al gatto, squittì sonoramente: “Ci sei fratello Ambè?”

“Ci sono ancora, fratello Rambè!” venne in risposta l’acuto squittio dal fondo.

Questo era il colmo! Il gatto soffiò di rabbia e, non più trattenendosi, balzò in mezzo alla processione; ma i topi, preavvisati, si dileguarono verso i loro buchi prima che egli potesse afferrarne uno. In meno di un secondo non v’era più traccia di topi.

Dopo questa dimostrazione, i topi non prestarono più fede al gatto imbroglione, e si tennero prudentemente fuori tiro. Il gatto, privato del suo nutrimento, diventò sempre più magro e alla fine morì di fame.

Quanto a Rambè ed Ambè, furono colmati di ringraziamenti da parte degli altri topi per la saggezza con cui avevano sventato il malvagio piano del gatto.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Il leone e il topo

Il leone e il topo

Una volta un leone si era addormentato pesantemente, oppresso dalla calura di un giorno d’estate. Un topolino scervellato si mise a corrergli su e giù per il muso, facendogli il solletico con le zampine. Il leone si svegliò di soprassalto e ruggì terribilmente: levò la zampa e fece per uccidere il sorcetto. Questo allora, atterrito, implorò:
“Oh generoso re degli animali, abbi pietà di  me, lasciami la vita! Un giorno io ti ripagherò della tua bontà”.

L’idea che una creatura minuscola come il topolino potesse essergli utile divertì tanto il leone che esso si mise a ridere forte e, ormai di buon umore, lasciò andare il sorcetto.

Passò qualche tempo e una sera il leone, attraversando la foresta nell’incerta penombra del crepuscolo, cadde in una rete tesa dai cacciatori, si impigliò nelle maglie e rimase prigioniero. Si mise a ruggire disperatamente e il topo, riconoscendo la voce di lui, accorse.

Senza por tempo in mezzo, coi suoi dentini aguzzi si mise a rosicchiare le maglie di corda della rete e lavorando pazientemente e indefessamente tutta la notte, all’alba riuscì a liberare il leone.

“Ecco!” gli disse gioiosamente, “Tu hai riso quando ti promisi di ricambiare un giorno la tua generosità: ma ora vedi che anche un topolino a volte può aiutare un leone!”

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

La leggenda della mammola

La leggenda della mammola

C’era stato un inverno rigido e triste. La gente era stanca di soffrire il freddo, desiderava la primavera. Ma era soltanto febbraio! Però il Signore voleva consolare gli uomini con una lieta sorpresa. Adunò tutti i fiori del giardino celeste.

Domandò: “Chi di voi vuole scendere sulla terra a portarvi un po’ di conforto? E’ ancora freddo, ma la vista di un fiore fa bene al cuore”.

Tutti i fiori tentennavano le corolle, incerti di poter sfidare i rigori di febbraio.

“Andrò io” disse la brava mammola.

E la mammola scese sulla terra mentre ancora durava la stagione invernale; il Signore per aiutarla la collocò nelle siepi, fra l’erba appassita e le foglie secche, al riparo dal vento.

Si stentava a vederla da quanto era nascosta!

Però il suo profumo si spandeva intorno nei campi; il vento lo portava perfino in città.

E gli uomini dicevano: “Sia ringraziato Dio! Profumo di mammole: promessa di sole, di tepore, di primavera vicina!”

E. Graziani Camillucci

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

FAVOLA L’asino e il ghiaccio

FAVOLA L’asino e il ghiaccio

Era d’inverno e faceva un gran freddo. La neve si stendeva, alta e soffice sulla terra, mentre l’acqua dei fiumi e dei laghi si era mutata in una dura lastra di ghiaccio.

Un asino aveva smarrito la via della stalla, e cammina cammina, si trovò molto stanco sulla riva di un laghetto.

Vide lo strato lucido del ghiaccio e pensò di sdraiarsi sopra. Il ghiaccio era freddo, ma il corpo dell’asino era caldo per il lungo e faticoso cammino.

L’asino si sdraiò di fianco, distese le zampe, abbandonò il muso sul ghiaccio e finì con l’addormentarsi.

Era un povero ciuco ignorante e non sapeva che il ghiaccio col calore si scioglie.

Infatti, durante il sonno, al calore del corpo, il ghiaccio cominciò a sciogliersi lentamente.

L’asino aveva il sonno duro come la pelle.

Continuò a dormire e il ghiaccio continuò a sciogliersi.

Si fece tanto sottile da non sopportare più il peso dell’animale, che ad un certo momento sprofondò nell’acqua.

Era un povero asino ignorante e non aveva previsto ciò che gli sarebbe accaduto.

Leonardo da Vinci

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

RACCONTO La vera ricchezza

RACCONTO La vera ricchezza

Un giovane si lagnava perchè era povero.

“Iddio non mi ha dato nulla!” diceva, “Non oro, non terre, non palazzi. Si è dimenticato di me. E’ stato avaro”.

L’udì un vecchio saggio.

“Sei proprio sicuro che Iddio non ti abbia donato nessuna ricchezza?”

“Come no!” rispose sicuro il giovane, “Vedi? Io non ho nulla!”

Il vecchio sorrise:

“Tu hai due splendidi occhi” disse al giovane, “li cederesti per avere un palazzo?”

“No davvero”, rispose il giovane.

“E una mano la daresti per un pugno d’oro?”

“No”

“E una gamba per un campo?”

“No”

“E l’udito per un mobile?”

“No”

“E il tuo stomaco per un gioiello?”

“No”

“E il tuo fegato per un podere?”

“No”

“E il tuo cuore per una carrozza?”

“No, e poi no!”

“E allora non ti lagnare. Vedi che Iddio ti ha fatto più ricco di quel che credi. Tu hai tanti tesori e non te ne accorgi. Se però venissero a mancare, ti accorgeresti a un tratto quale sia la vera ricchezza. “

L. Tolstoj

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

RACCONTO Giufrà e le mosche

RACCONTO Giufrà e le mosche

Giufrà era un giovane che sembrava stupido ma aveva la mente fina. Eccovene una prova.

Un giorno Giufrà comprò un pezzo di carne. Entrò in casa e lo lasciò sul tavolo incustodito, a portata delle mosche. Poi uscì. Quando rientrò, sul tavolo la carne non c’era più.

Giufrà decise subito di incolpare le mosche e andò dal giudice per sporgere querela. Disse: “Le mosche mi hanno mangiato un chilo di carne”.

Il giudice volle canzonarlo, e sentenziò: “D’ora in poi potrai uccidere tutte le mosche che vedrai”.

Proprio in quell’istante una mosca si posò sulla testa pelata del giudice. Giufrà alzò la mano e, abbassatala, in un baleno spappolò l’insetto sulla testa del magistrato burlone.

Questi balzò dal seggiolone presidenziale, e gridò: “Screanzato! Offendesti la giustizia. Ti punirò”

Giufrà non si scompose. Rispose soltanto: “Punirmi? E perchè? Ho fatto come mi disse lei!”

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

FAVOLA Il leone e la mosca

FAVOLA Il leone e la mosca

Una volta una mosca si azzardò a sfidare un leone.
Gli disse: “Mi fai ridere tu che ti credi il più potente degli animali. Hai le unghie per graffiare, i denti per mordere: ma queste tue armi non valgono nulla contro di me. Vogliamo provare?”
Il leone accettò la sfida; e la mosca cominciò a ronzargli  attorno e a molestarlo, posandoglisi sulla testa e sul naso.
Il leone aveva un gran da fare a liberarsene e, muovendo le zampe e le unghie sul proprio corpo, finì per ferirsi e insanguinarsi in più parti. Da ultimo restò senza fiato e si lasciò cadere al suolo scoraggiato.
Allora la mosca, superba di aver vinto il re degli animali, si allontanò ronzando ai quattro venti la sua vittoria.
E tanto era inebriata di gioia, che non badò più a dove andava e incappò in una ragnatela.
Il ragno la prese e la succhiò senza pietà.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

RACCONTO I tre ladri

RACCONTO I tre ladri

Tre ladri erano amici per la pelle. Un giorno, uno di loro disse alla moglie: -Devo andare a trovare mio fratello, che è malato. Se intanto venissero i miei amici, trattali bene: da’ loro da bere e da mangiare.-

-Va tranquillo- rispose la moglie; e il ladro partì.

Verso mezzogiorno arrivarono i due amici e subito chiesero dove egli fosse.

-E’ andato da suo fratello, che è malato; tornerà stasera- rispose la moglie, apparecchiando la tavola. I due bricconi sedettero e videro, appesi a una trave del soffitto, dei bellissimi salami.

-Che bella barba!- esclamò uno, indicandoli furbescamente.

-Gliela faremo, gliela faremo!-  disse subito l’altro.

Quando ebbero mangiato e bevuto se ne andarono. Strada facendo, pensarono di fare uno scherzo all’amico, e decisero di tornare la notte per prendergli i salami.
Quando quello tornò, la moglie gli disse che i due erano venuti a cercarlo.

-Che ti hanno detto?- domandò il ladro.

-Nulla di speciale… però, guardarono in alto e uno disse “che bella barba” e l’altro “gliela faremo, gliela faremo”… ma non ho capito che cosa intendessero-

-Ho capito io!- rispose il marito; e subito staccò i salami e li nascose nella stalla, sotto la paglia. Poi i due sposi cenarono e andarono a letto. A mezzanotte, quando dormivano come ghiri, arrivarono i due ladri coi grimaldelli: aprirono la porta di casa ed entrarono zitti zitti… ma i salami non c’erano più.

-Scommetto che li ha nascosti, quel furbone!- disse uno. Allora, in punta di piedi, si avvicinò al letto, scosse l’amico che dormiva e gli domandò facendo la voce sottile: -Marito caro, dove li hai nascosti i salami?-

-Nella stalla. Ma lasciami dormire!- brontolò quello, rigirandosi nel letto.

Allora i due, di corsa, scesero nella stalla, si presero i salami, e via!

Poco dopo, però, il ladro si svegliò del tutto e chiamò la moglie.

-Perchè mi disturbi, quando dormo?- le disse. -Lo sapevi già dov’erano i salami!-

-Disturbarti? Salami? Ma io dormivo e non ti ho chiesto nulla!-

Egli comprese di essere stato ingannato: corse al nascondiglio: i salami erano scomparsi. Allora si vestì in fretta, uscì di corsa e cercò di raggiungere i due soci. Infatti li scorse, poco dopo, che gli camminavano innanzi, nella notte buia. Uno reggeva i salami. Il nostro amico gli si avvicinò e gli disse: -Sarai stanco, adesso: dammi i salami, così riposerai un poco.-

L’altro, senza sospettare nulla, glieli diede, e il furbone, quatto quatto, se ne tornò a casa.

Alle prime luci dell’alba, quello che aveva portato i salami si rivolse al compagno: -Ridammeli, che li porto un po’ io!-

-Ma non li hai tu?-

-Ma come? Se me li hai chiesti un’ora fa?-

-Io? Tu sei matto!-

Cominciarono così a litigare e poi se le dettero di santa ragione. E quando entrambi furono ben pesti, capirono che l’amico li aveva gabbati.

L’indomani passarono, ancora indolenziti, davanti alla casa dell’amico: i salami penzolavano tranquilli dal soffitto e sembravano canzonare i due birboni.

-Guarda là!- disse uno – E… vedi come siamo ridotti…-

-Colpa nostra, caro mio, chi la fa, l’aspetti!-

(racconto popolare)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

FAVOLA La pelle dell’orso

FAVOLA La pelle dell’orso

La gente del villaggio era tutta impaurita, perchè nel bosco vicino era apparso un orso terribile, e nessuno si arrischiava più ad uscire dall’abitato.

Un giorno capitarono alla locanda due giovanotti forestieri, cacciatori di professione: e, udito di quell’orso, franchi e sicuri dissero all’oste: -Lasciate fare a noi! Gli faremo noi la festa in quattro e quattr’otto.-

Si fecero dire il punto preciso del bosco dove l’orso era stato veduto, la parte ove si credeva che fosse, le macchie ove se n’era riscontrata la traccia.

-Lasciate fare a noi! Domattina ci apposteremo lì!-

E la mattina, puntuali, andarono al bosco. Batterono i sentieri indicati, frugarono la macchia: ma di orso nemmeno l’ombra.

-Non si è lasciato vedere: ha paura di noi. Ma non ci sfuggirà.-

Intanto, sebbene non avessero il becco di un quattrino, ogni sera ordinavano all’oste un fiasco del migliore, e mangiavano e bevevano allegramente.

-Lo scotto- dicevano -lo pagherà l’orso con la sua pelle!-

Ma un giorno, che percorrevano di nuovo, per la centesima volta, i sentieri del bosco, eccoti l’orso per davvero: un orso nero, enorme, che si avanzava brontolando minacciosamente.

Uno dei due giovanotti puntò subito il fucile e fece fuoco; ma per la paura, il braccio gli tremava, e il colpo andò fallito. Egli non stette lì ad aspettare che impressione avesse fatto all’orso lo sparo: si arrampicò lesto come uno scoiattolo sull’albero più alto che si trovò vicino, e vi si appollaiò tutto ansante.

L’altro aveva fatto anch’egli per sparare, ma, fosse paura, fosse disgrazia, il fucile gli fece cilecca e il colpo non partì. L’orso sempre più infuriato si avvicinava, senza lasciargli il tempo di salire, come il compagno, su di un albero; e allora, vedendosi spacciato, il nostro giovanotto ebbe un’idea.

Sapeva che gli orsi non toccano i morti, ed egli si buttò a terra lungo, disteso, trattenendo perfino il respiro, per fingersi morto.

L’orso gli fu subito sopra. Gli annusò la bocca, gli occhi, gli orecchi, sempre sbuffando e brontolando, poi, come sdegnoso, si allontanò e si perdette tra gli alberi.

Per un po’ di tempo, ne l’uno ne l’altro dei due cacciatori si arrischiò a fiatare. Poi, il primo si lasciò scivolare piano piano dall’albero e si avvicinò al compagno, il quale stava sempre disteo a terra, chè per poco dallo spavento non era morto davvero.

A vedergli quella cera livida, gli venne quasi da ridere: -Ohè, biondino!- chiamò, -L’orso ti ha parlato all’orecchio, eh? Che ti ha detto di bello?-

L’altro levò il capo prima, guardò fra mezzo agli alberi se proprio l’orso non si vedesse più, poi cominciò a levarsi, a fatica, come lo avessero bastonato.

-L’orso mi ha detto- rispose -che non bisogna vendere la sua pelle prima d’averla nelle mani!-

E tutti e due dettero in una risata amara, pensando alle passate vanterie ed al conto dell’oste che rimaneva da pagare.

(C. Schmid)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

La volpe il lupo e l’orso – Favola

La volpe il lupo e l’orso – Favola

In una lontana terra del nord vivevano Mekko il volpone, Pekka il lupo e Osmo l’orso.

Un giorno di sole Mekko propose a Pekka di mettersi in società con lui, e Pekka accettò.

“La prima cosa da fare sarebbe di creare una radura nella foresta per piantarvi dell’orzo”, propose Mekko.

Così andarono nella tenebrosa foresta di abeti e cominciarono ad abbattere alberi. Ma era un lavoro faticoso e ben presto Mekko ne ebbe abbastanza. Così, quando Pekka cominciò ad ammucchiare i ramoscelli sparsi per bruciarli, il volpone sgattaiolò via e andò a stendersi un po’ più in là.

“Ahimè, come sono stanco!”, sbadigliò. “Perchè dovrei continuare a lavorare? Faccia pur tutto quello stupido di Pekka!”

“Mekko, Mekko!”, chiamò il lupo. “Non mi aiuti a bruciare le fascine?”

“Tu accendi il fuoco”, gridò il volpone di rimando, “io starò qui a controllare che non schizzino via scintille: non vogliamo mica mandare a fuoco tutta la foresta!”

Pekka obbediente fece come gli era stato detto, mentre quell’imbroglione di Mekko si concedeva un bel sonnellino. Quando tutta la legna fu bruciata, Pekka disse: “Ora dobbiamo piantare le sementi di orzo in questa ricca cenere di legna; vieni ad aiutarmi, Mekko.”

Ma Mekko rispose: “Tu fa la semina, Pekka. Io starò qui a spaventare gli uccelli, o altrimenti verranno a beccare tutti i semi!”

“Come vuoi, Mekko” accettò Pekka; e seminò l’orzo nella radura. Mekko naturalmente non aveva la minima intenzione di spaventare gli uccelli; si rimise giù e si addormentò.

Passò un anno, e venne il tempo del raccolto. Il campo d’orzo che il lupo aveva creato e seminato era pronto a dare la sua messe. Mekko aiutava Pekka a falciare l’orzo e a portare le spighe nel granaio, dove le tenevano a seccare.

“Ho un’idea!” disse Pekka, “Chiediamo a Osmo l’orso di aiutarci nella trebbiatura; molte braccia alleggeriscono il lavoro”.

“D’accordo”, disse Mekko.

Trovarono l’orso bruno nel cuore della foresta e gli fecero la proposta.

“Vi aiuto volentieri” disse Osmo.

Quando le spighe furono secche, i tre amici cominciarono la trebbiatura.

“Ora dobbiamo dividere il lavoro” disse Pekka.

Subito Mekko si arrampicò sulle travi del granaio: “Io starò qui a sostenere le travi” gridò giù “altrimenti potrebbero cadervi addosso: così starete tranquilli finchè avrete finito di lavorare”.

Gli altri due furono grati al volpone di tanta premura. Osmo cominciò a battere l’orzo col carreggiato e Pekka a separare la pula dai chicchi.

Ogni tanto l’astuto Mekko lasciava cadere giù un pezzo di legno. “Sapeste che fatica sto facendo quassù, a sostenere queste travi!” esclamò, “Grazie al cielo sono abbastanza robusto”.

Bene, l’orso e il lupo continuarono a lavorare tutto il giorno, mentre quel pigraccio del volpone se la prendeva comoda sul tetto. E finalmente la trebbiatura fu finita: sul pavimento del granaio stavano ben divisi un gran fascio di paglia, un cumulo di pula e un  mucchietto di chicchi dorati e mondi.

Allora Mekko saltò giù dal tetto. “Meno male che è finita” dichiarò. “Non ce l’avrei più fatta a sostenere le travi!”

“Come dividiremo l’orzo fra noi?” chiese Pekka.

“Semplicissimo”, rispose Mekko, “Siamo in tre, e il raccolto è già diviso in tre. Il mucchio più grosso andrà naturalmente a Osmo l’orso, che è il più grande; quello medio a te, Pekka, e a me,  che sono il più piccolo, il minore.”

Lo sciocco lupo e lo stupido orso accettarono. Osmo prese il fascio di paglia, Pekka il cumulo di pula, e Mekko si portò via il mucchietto di chicchi dorati e mondi. Tutti assieme si recarono al mulino per macinare la loro parte. Quando la macina passò sull’orzo di Mekko produsse un rumore scrosciante.

“Che strano” disse Osmo, “il tuo orzo ha un suono diverso dal mio e da quello di Pekka!”

“Mescolateci un po’ di sabbia” disse Mekko, “e sentirete che avrà lo stesso rumore”.

Così Osmo e Pekka mescolarono sabbia alla paglia e alla pula e, rimessa in moto la macina, sentirono anch’essi un rumore scrosciante. Soddisfatti se ne tornarono a casa, convinti di avere per il lungo e freddo inverno una provvista d’orzo buona come quella di Mekko.

Il primo giorno d’inverno, ciascuno dei tre amici decise di prepararsi una calda e nutriente zuppa d’orzo.

Osmo mise sul fuoco paglia e sabbia: ma tutto quello che ne ricavò su un miscuglio nerastro dal sapore orribile. “Puah!” disse fra sè, “C’è qualcosa che non funziona!”. E andò alla tana di Mekko per chiedergli consiglio.

Trovò Mekko che mescolava una pentola di bianca e cremosa zuppa d’orzo, che mandava un profumino delizioso.

“Cos’ha la mia zuppa?” chiese Osmo. “La tua è bianca e cremosa, mentre la mia è nera e orribile”.

“Hai lavato l’orzo prima di metterlo in pentola?” s’informò Mekko.

Osmo scosse la testa arruffata. “Avrei dovuto farlo?” chiese.

“Ma certo!” disse Mekko. “Porta l’orzo al fiume e buttalo nell’acqua. Quando vedi che è pulito, tiralo fuori”.

Osmo se ne andò ringraziando Mekko per il consiglio. Raccolta la paglia, la portò al fiume e la fece cadere in acqua. Ma che accadde? Ogni filo di paglia fu trascinato via dalla corrente veloce e sparì lontano. Questa fu la fine del raccolto di Osmo. L’orso se ne tornò a casa lemme lemme sentendosi molto infelice. E quell’inverno ci fu poco da mangiare per lui.

Pekka, il lupo, mise sul fuoco pula e sabbia, ma tutto ciò che ottenne fu un miscuglio grigiastro dal sapore orribile. Così andò anche lui da Mekko per chiedergli consiglio. “Cos’ha la mia zuppa?” chiese al volpone, “La tua è bianca e cremosa, la mia è grigia e nauseante. Spiegami dove ho sbagliato.”.

“Con piacere” rispose Mekko, “ecco, appendi la tua pentola a questa catena, vicino alla mia; io, vedi, prima di mescolare, mi sono arrampicato sulla catena, tenendomi appeso sopra la pentola. Il calore del fuoco ha disciolto il grasso della mia coda, che è gocciolato nella pentola: è il grasso che rende bianca la mia zuppa”.

“Ah, è così!” esclamò Pekka, e subito si arrampicò sulla catena, tenendosi appeso sopra la pentola. Ma non resistette a  lungo: il fuoco lo scottò così forte che egli saltò giù ululando di dolore. Ripresosi, assaggiò di nuovo la sua zuppa, per sentire se era migliorata: ma aveva lo stesso sapore di prima.

“Non sento alcuna differenza” si lamentò; poi soggiunse: “Lasciami provare la tua, per sentire se è uguale”.

Non visto, Mekko aveva intinto il mestolo nella zuppa di Pekka e ne aveva versato un po’ nella propria. Perciò disse: “Serviti, senza complimenti! Prendine in quel punto lì, sembra particolarmente buona”, e indicò il punto dove aveva versato la zuppa di Pekka.

Così il povero lupo assaggiò di nuovo il proprio orribile miscuglio, credendolo la zuppa di Mekko.

“Che strano” disse poi “Non mi piace neanche il sapore della tua zuppa! Sai cosa ti dico? La faccenda è che forse non mi piace proprio la zuppa d’orzo!”

Tristemente se ne andò scuotendo la testa, e quell’inverno fu duro per lui.

Quanto a Mekko il volpone, sogghignava sorbendo la sua bianca e cremosa zuppa di orzo: “Non capisco come a Pekka possa non piacere” disse fra sè, “Io la trovo deliziosa”.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconti e leggende sulla Luna

Racconti e leggende sulla Luna – una raccolta di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Racconti e leggende sulla Luna – Perchè la Luna ha le macchie

Quando il mondo fu creato, narra un’antica leggenda dell’Estonia, di giorno splendeva chiaro il Sole e di notte faceva buio buio. Il dio Ilmarinen pensò: “Bisogna trovare il mezzo di rischiarare un po’ le notti, altrimenti non è possibile vedere se succede qualcosa di brutto…”

Ilmarinen salì su una montagna, che sorgeva sotto la volta metallica del cielo, e fabbricò la Luna: una grande palla d’argento coperta d’oro, con una lampada nell’interno, e la appese sulla volta del cielo. Poi fabbricò anche le stelle d’argento lucente e le mise accanto alla Luna, come damigelle di corte.

Così, quando a sera il Sole si coricava, la Luna e le stelle illuminavano la notte fino all’alba. La Luna era chiara e  luminosa come il Sole, soltanto i suoi raggi non erano caldi, ma freddi.

Gli uomini erano molto contenti: ma il diavolo non era soddisfatto, perchè, ora che la Luna rischiarava la notte, egli non poteva compiere le sue malefatte, come prima, nel buio fitto. Se lo vedevano, doveva scappare a gambe levate!

Meditò profondamente: “E ora, come fare?”. Chiamò tutti i diavoli a consiglio, ma nessuno seppe suggerirgli una buona idea. Trascorsero sette giorni magri, e i diavoli non potevano più rubare nulla e non avevano più nulla da mangiare.

“Qui bisogna scacciare la Luna!” esclamò il capo diavolo, “Altrimenti guai a noi! Tutt’al più potremo sopportare le stelle, che non ci disturbano…”

Ma come fare a sbarazzarsi della Luna?

“Bisogna coprirla di catrame e annerirla tutta!” disse il capo diavolo “Così non ci darà più noia”:

Tutto il giorno i demoni si diedero un gran da fare a preparare un enorme barile di catrame e a fabbricare una scala lunga lunga, fatta di sette pezzi, che si potevano sovrapporre, in modo da arrivare alla volta del cielo.

Quando a notte la Luna comparve, il diavolo capo prese la scala sulle spalle e disse ai suoi servi di seguirlo, portando una secchia di catrame misto con fuliggine e un grosso pennello.

Giunti che furono sotto la Luna, il diavolo capo preparò la scala, sovrapponendo l’un l’altro i sette pezzi, e ordinò a un diavolino: “Prendi il pennello e il secchio di catrame, e sali in cima alla scala.”. Il diavolino obbedì, ma quando fu quasi in cima, il diavolo capo per il frescolino notturno starnutì, la scala traballò, il diavolino perse l’equilibrio e precipitò giù: Psssccct! Tutto il secchio di catrame e di fuliggine si rovesciò sulla testa del diavolo capo, e questi lasciò andare la scala, che cadde e si fracassò in mille pezzi.

“Corpo della Luna!” urlò il diavolo capo furibondo “Sono io adesso, che ho la faccia incatramata!”

Provò a togliersi il catrame e la fuliggine, ma ebbe un bel provare e riprovare: non riuscì a nulla! E da quel giorno il diavolo è rimasto nero nero come la fuliggine. Non abbandonò tuttavia l’idea di annerire anche la Luna. Fece fabbricare dai diavoli un’altra scala e la piantò al limitare del bosco, dove la Luna sorge più vicina alla Terra. Appena essa si levò, il diavolo capo ordinò a un diavolino: “Presto, arrampicati su su fino all’ultimo gradino e tingile il muso!”. Il diavolino obbedì: la scala arrivava, in alto in alto, proprio vicino alla Luna, ma era un affare serio mantenersi in equilibrio lassù e spennellare… E la Luna non stava ferma, continuava a salire in cielo…

Il diavolino gettò una corda come un laccio e attaccò la scala alla Luna, continuando ad annerirle la faccia col pennello incatramato.  Sudava per la fatica, e dopo molte ore, non era riuscito che ad annerire una parte della Luna.

Di sotto, il diavolo capo stava a guardare, col viso all’insù e la bocca spalancata, il lavoro del suo valletto. “Ah, ora sì che si comincia ad andar bene!” gridò, quando vide che l’operazione procedeva, e fece un balletto di gioia.

In quel momento il dio Ilmarinen si svegliò e guardando il cielo esclamò stupefatto: “Come? Non c’è una nube, eppure la Terra è per metà immersa nel buio? Che succede?”

Aguzzò lo sguardo e vide il diavolino all’opera in cima alla scala, intento ad intingere il suo pennello nel secchio di catrame, e giù, sul limitare del bosco, il diavolo capo, che saltava come un caprone.

“Ah, birbaccioni!” gridò Ilmarinen, “Credevate di farla franca mentre dormivo, eh? Ma ora vi accomodo io! Tu, diavolino, resterai per l’eternità col tuo secchio sulla Luna, e tu, diavolo capo, precipiterai per l’eternità sottoterra!”.

E fu così. Se guardate bene, dicono gli Estoni, vedrete infatti nella luna il diavolino con il suo secchio e col pennello. Quanto alla Luna, da allora ogni tanto si tuffa nel mare e tenta di lavar via le macchie nere sul suo viso… ma non ci riesce mai!

(Leggenda estone)

Racconti e leggende sulla Luna – Il quarto di Luna e le lucciole

Paigar, il signore del cielo, disse a sua moglie: “Su, donna, prepara una gran torta. Le stelle, nostre figlie, hanno appetito, vogliono mangiare”.

La massaia, manipolando uova, farina e miele, preparò la torta: una torta immensa, soffice, con una crosta lucida e dorata. Figurarsi le stelle, quando la videro! Non aspettarono che la mamma facesse loro le parti. Si gettarono avide sul pasticcio, e una tirava di qua, una pizzicava di là, un’altra affondava nella pasta dolcissima i denti e le unghie, altre ancora, non riuscendo a servirsi, si attaccavano alle trecce e alle orecchie delle sorelline. Una parte di torta, ridotta in briciole, cadde sulla terra.

La massaia scoppiò a piangere: “Povera mia fatica!”

Paigar prese il pasticcio, ridotto ormai a un solo quarto, e lo appuntò al bruno velluto del cielo; poi scese nel mondo e animò, trasformandole in insettini luminosi, le briciole cadute.

Disse alle figlie: “O golosacce, non mangerete dolci per otto secoli!”, e confortò la moglie: “Non disperarti. Vedi come risplende, in alto, lo spicchio di torta? Resterà sempre così, luminoso e bello, e nessuno riuscirà mai a mangiarselo. Guarda giù: un poco di firmamento sfavilla nell’ombra delle notti terrestri, palpita tra l’erba, i fiori e le siepi.  Sono le lucciole, sono le briciole che tu piangevi perdute”.

(Leggenda estone)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Musica Waldorf – La casina dei suoni: racconto per introdurre lo studio del flauto pentatonico

Musica Waldorf – La casina dei suoni – racconto per introdurre lo studio del flauto pentatonico per bambini della classe prima della scuola primaria.

 

C’era una volta un pastorello, che viveva felice sulle montagne col suo gregge di pecorelle. La notte dormiva sotto le stelle, e di giorno radunava le bestiole e le conduceva al pascolo.

Una sera, mentre stava riportando come al solito le pecore all’ovile, contandole, si accorse che una di loro era sfuggita alla sua sorveglianza. Dopo aver chiuso bene l’ovile, ritornò nel prato, dove poco prima le pecore erano state a pascolare, ma non la trovò.

Continuando a cercarla entrò nel bosco, e lì la vide, mentre si abbeverava ad un torrentello. La bestiola sembrava attratta da qualcosa, che si muoveva vicino alla riva.

Il pastore prese in braccio la sua pecorella e gettò un sassolino  nell’acqua. Con sua grande sorpresa,  vide uscire dal torrentello una fatina vestita di giallo, che disse meravigliata quanto lui: “Chi mi disturba mentre faccio il bagno?”

Il pastorello, spaventato per una cosa tanto insolita, si nascose con la sua pecorella dietro ad un cespuglio e rimase lì ad osservare in silenzio ciò che accadeva.

Dopo un po’ udì una voce bellissima e melodiosa, ed un coro di altre voci che si aggiunse alla prima.

“Chi sono?” si chiedeva il pastore, “Non ho mai sentito in vita mia una cosa così dolce! Come vorrei poter cantare così anch’io…” E vide altre quattro fatine che danzavano insieme: i suoni che producevano non avevano nulla della voce umana.

Il pastorello se ne stava nascosto dietro al cespuglio, con la sua pecorella in braccio, ma la bestiola cominciò a belare e a dare segni di impazienza. E fu così che le fatine si accorsero della presenza del pastorello.

“Chi sei?” chiesero, “Esci dal tuo nascondiglio, non ti faremo male!”

Il pastorello si fece coraggio, uscì allo scoperto e andò incontro alle cinque fate. Erano piccole e trasparenti, avvolte in veli di diversi colori. Ognuna di esse si presentò cantando:

“Mi chiamo Si” disse la prima, vestita di giallo.

“Il mio nome è La” disse la seconda, agitando il suo velo arancione.

“Io sono la fata Sol, e mi sento un po’ la regina, perchè il mio nome ricorda quello del sole” disse la terza, vestita di rosso.

“Io mi chiamo Mi” disse la quarta, vestita di verde.

L’ultima, che indossava un velo blu, si presentò come fata Re.

Il pastore, che era sempre vissuto da solo sulle montagne, fu felice di aver trovato delle amiche con le quali giocare, ma ciò che lo affascinava di più, era il loro canto, che non si sarebbe mai stancato di ascoltare.

“Insegnatemi il vostro canto ” disse il pastorello, “io so soltanto fischiettare…”

“Oh, ma non si può, ci dispiace. Non è un canto che si può imparare qui sulla terra. Noi l’abbiamo imparato nel nostro regno, che si trova lassù tra le stelle. Anzi, si è anche fatto tardi, il sole sta tramontando…” risposero le fate, “ti dobbiamo proprio lasciare!”

Il pastorello cercò di trattenerle: “Non andatevene!” disse “Ora che vi ho ascoltate, non posso più rimanere senza la vostra musica!”

“Ma dobbiamo andare” dissero loro “altrimenti ci dissolveremmo nell’aria e per noi sarebbe la fine. Entro mezzanotte dobbiamo assolutamente essere a casa”.

Il pastorello si mise a piangere e, implorando, chiese loro di rimanere, ma non c’era proprio nulla da fare. Si sentiva infinitamente triste. Allora, scomparse le fatine, dal folto del bosco apparve una creatura bellissima e luminosa che gli disse: “Io sono Musica, ho sentito la tua tristezza e voglio aiutarti. Vedi quel pero abbattuto? Intaglia da un suo ramo una bella casa per le tue amiche fatine, così potranno essere al sicuro, anche dopo la mezzanotte, e tu potrai sempre portarle sempre con te…”

La creatura scomparve, il pastorello scelse un bel ramo dall’albero di pero, e il giorno dopo si mise al lavoro. Con un coltellino scolpì per le sue fatine una casetta due porticine e sei finestrelle. Quando la casetta fu pronta, chiamò le sue amiche, e le invitò a visitarla. Ma qualcosa non funzionava… le fatine entravano cantando, ma non appena si sistemavano all’interno della bella casina, il loro canta cessava. Il pastorello provava a chiamarle sbirciando dalle porticine e dalle finestrelle, ma niente. Provava a bussare, ma le fatine non rispondevano.

Fu il vento che venne allora in suo aiuto, e soffiando sfiorò la porticina di ingresso della casetta: subito la fatina gialla potè uscire intonando la sua melodia. Il pastore capì che doveva chiamarle attraverso la porticina, aprendo e chiudendo le loro finestrelle. E cominciò a chiamare anche le altre, che felici rispondevano ad suo cenno delle dita.

Così, da quel giorno,  il pastore e le fatine vissero insieme felici e contenti.

Exit mobile version

E' pronto il nuovo sito per abbonati: la versione Lapappadolce che offre tutti i materiali stampabili scaricabili immediatamente e gratuitamente e contenuti esclusivi. Non sei ancora abbonato e vuoi saperne di più? Vai qui!

Abbonati!